Vagabonda per il Signore
 9788880773559

Table of contents :
IL MONDO È LA MIA SCUOLA......Page 4
UNO STRANO POSTO PER SPERARE......Page 8
MIEI TESTIMONI......Page 10
LIBERAZIONE!......Page 13
UNA CANZONE NELLA NOTTE......Page 19
UNA GRANDE SCOPERTA......Page 22
MUSICA DA CORDE SPEZZATE......Page 30
AMA IL TUO NEMICO......Page 36
NEL POTERE DELLO SPIRITO......Page 39
CONNY......Page 42
L’AUTORITÀ SUI DEMONI......Page 46
LUCI DALL’AFRICA PIÙ NERA......Page 52
DIO PROVVEDERÀ......Page 59
UN POSTO IN CUI STARE......Page 67
UBBIDIENZA......Page 69
LA VERA CORRIE TEN BOOM......Page 74
POSTO DI CONTROLLO “CHARLIE”......Page 76
DINANZI ALLA MORTE......Page 81
SALVATI DA UN NEONATO......Page 85
OGNI GIORNO UN MIRACOLO......Page 87
LA PAROLA DI DIO, LA SPADA... L’ARMA PERFETTA DI DIO......Page 91
DOV’È IL CIELO?......Page 95
QUANDO SIETE TENTATI DI ARRENDERVI......Page 97
A TUTTO IL MONDO... COMINCIANDO CON UNO......Page 102
DOV’È IL MIO PRIMO AMORE?......Page 104
CAMMINARE NELLA LUCE......Page 107
SICURI IN GESÙ......Page 110
IO HO UN GRAN POPOLO IN QUESTA CITTÀ......Page 113
IL BARATTOLO DELLE BENEDIZIONI......Page 116
SI CHIUDE IL CERCHIO......Page 118
UN DITO PER LA SUA GLORIA......Page 122
IL PRINCIPIO DEL DIN-DON......Page 125
NERO SU BIANCO E IL PERDONO......Page 127
PREPARARSI ALLA FINE......Page 129
PICCOLA TESTIMONE DI CRISTO......Page 132

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Titolo originale Tramp far the Lord Published by Christian Literature Crusade & Fleming H. Revill Co. Traduzione Riccardo Degli Uberti Revisione Germano Giuliani

3° Edizione italiana novembre 2010 Edizione a cura di Giuseppe E. Laiso © Copyright by EUN

Editrice Uomini Nuovi srl Casella Postale 38 21030 Marchirolo (Varese) Italia Telefono (0332) 723.007 - Fax (0332) 99.80.80 [email protected] - www.eun.ch

PREFAZIONE

Mia moglie Jackie ed io incontrammo zia Corrie e la sua graziosa e bionda segretaria Ellen de Kroon all’aeroporto di Melbourne in Florida. Ellen aveva telefonato la sera prima dicendo che sarebbero arrivate in volo, ma che Corrie aveva molto sofferto di cuore: un cuore di ottant’anni è un affare serio. Le incontrammo all’arrivo dell’aereo e le conducemmo a casa nostra, lontana pochi minuti dall’aeroporto. “Sono molto stanca”, ci disse zia Corrie. “Vorrei riposarmi un po’”. Qualche minuto più tardi era distesa sulla coperta color lavanda del letto di nostra figlia. Aprii la finestra in modo che la dolce brezza che saliva dal lago potesse entrare. Chiudendo delicatamente la porta, avvertii i bambini di parlare sottovoce e in punta di piedi tomai in cucina da Jackie ed Ellen. Ellen ci aveva portato del formaggio Gouda e lo affettammo ricordando il mio primo pasto a casa di Corrie, in Olanda. Ellen non riuscì a trattenersi dal descrivere a Jackie l’espressione del mio viso quando Corrie mi aveva informato che potevo scegliere per colazione fra due piatti: muggine crudo con cipolle o anguilla affumicata. Parlando sottovoce e sgranocchiando crackers e formaggio, mi girai e vidi zia Corrie scendere in anticamera con gli occhi scintillanti. “Non vuoi riposarti?” chiesi. “Oh, ho già fatto un bel sonnellino”, rispose con marcato accento olandese. “Dieci minuti bastano se è Dio che ti dà il sonno”. È questa notevole capacità di recupero che ha consentito a zia Come, che ormai ha più di ottant’anni, di vagabondare per il mondo per conto di Dio. La vidi all’opera, con quella stessa capacità, un anno più tardi a Pittsburgh. Eravamo entrambi in scaletta per una conferenza sulla Bibbia al Seminario Teologico di Pittsburgh. Quel giorno aveva parlato tre volte a

una congregazione piuttosto eterogenea composta di giovani capelloni barbuti e professori d’università. Ero rimasto fuori fino a tardi quella sera e quando ritornai al dormitorio, vidi Ellen che scendeva di corsa nell'atrio: “Zia Corrie ha una attacco cardiaco!” Corsi nella camera di Corrie. Era distesa sul letto, il volto terreo per la sofferenza. “Dio mi ha detto che non è ancora giunta la mia ora”, sussurrò. “Ho mandato a chiamare un ministro per pregare che io possa essere guarita”. Qualche minuto più tardi, quando arrivò il giovane ministro che le impose le mani, vidi i suoi lineamenti rilassarsi e ritornarle il colore alle guance. “Signore, ti ringrazio”, disse dolcemente, “per avermi tolto la sofferenza”. Quindi, facendoci cenno di andarcene, disse: “Ora dormo”. La mattina successiva alle otto era dietro il pulpito e parlava a mille persone nel grande auditorio, come se nulla fosse accaduto. Sono convinto che il segreto della grande capacità di recupero di zia Corrie, come pure quello della sua popolarità come oratrice, stia nella sua infantile semplicità. Come una bambina crede che suo padre possa fare qualsiasi cosa, così Corrie ten Boom confida in Dio... anzi, ancora di più. E' la prova vivente di ciò che accade quando una donna, o una persona qualsiasi, è ripiena di Spirito Santo. Jamie Buckingham

INTRODUZIONE

Io ti ammaestrerò e ti insegnerò la via per la quale devi camminare; io ti consiglierò e avrò gli occhi su te. (Salmo 32:8)

IL MONDO È LA MIA SCUOLA La scuola della vita offre qualche corso difficile, ma è appunto nella classe difficile che si impara di più, soprattutto quando il vostro insegnante è il Signore Gesù stesso. Le lezioni più dure per me furono quelle private, impartite in una cella della prigione di Scheveningen, in Olanda, che misurava sei passi di lunghezza per due di larghezza, con una porta che poteva essere aperta soltanto dall’esterno. Più tardi mi trovai tra quattro siepi di filo spinato percorso da elettricità, che cingevano un campo di concentramento in Germania. I cancelli erano sorvegliati da guardiani armati di mitragliatrici. Proprio lì, a Ravensbruck, morirono più di 96.000 donne. Dopo il tempo trascorso in prigione, l’intero mondo divenne la mia aula scolastica. Dopo la seconda guerra mondiale ho fatto due volte il giro del mondo, parlando in più di sessanta Paesi di tutti i continenti. In trent’anni, tutti gli aeroporti, le stazioni di autobus e gli uffici doganali mi sono divenuti familiari. Sotto di me si sono trovate ruote di ogni tipo: ruote di automobili, di treni, di risciò, di carri trainati da cavalli e di carrelli di aeroplani. Ruote, ruote, ruote! Anche le ruote di carrozzelle per infermi. Ho goduto dell’ospitalità di un gran numero di case e ho dormito in più di mille letti. Tante volte ho dormito in letti comodi con materassi di gommapiuma. negli Stati Uniti, e qualche volta su stuoie di paglia stese sul pavimento di terra, in India. In camere pulite e in camere sporche.

A Hollywood ho fatto il bagno in una vasca romana incassata nel pavimento e ornata di piante e fiori esotici; mentre nel Borneo lo feci in una semplice capanna di fango provvista di null’altro che di una botte piena di acqua fredda. Una volta, mentre ero ospite di un gruppo di ragazze ebree in Israele, dovetti arrampicarmi su una montagna di materiale da costruzione e attraversare un campo pieno di rottami per raggiungere un piccolo gabinetto esterno che non era nulla di più di un buco nel terreno. Sarebbe stato impossibile trovare un posto simile di notte. Nei miei viaggi, anche adesso che sono entrata nel mio nono decennio di vita, ho sempre portato in mano e nel mio cuore la Bibbia: la vera Parola di vita traboccante di buone notizie. E ne ha ancora molte per tutti. Spesso mi sento come i discepoli quando nutrirono più di cinquemila persone con cinque pani e due pesci! Il segreto di quel successo stava nell’aver ricevuto il cibo dalle mani benedette del Maestro. Vi fu abbondanza per tutti, e ne avanzarono dodici ceste. Vi fu una parola abbondante di vita anche per coloro che morirono nei campi di concentramento, e per le migliaia di persone raccolte nelle università, nelle sale municipali e nelle chiese di tutto il mondo. Talvolta ho parlato a persone che stavano dietro le sbarre ed ascoltavano avidamente. Una volta parlai ad un gruppo di sei missionari, in Giappone, che mi offrirono ospitalità durante un nubifragio durato ventotto ore in cui perirono più di mille persone. Gruppi di centinaia di persone e folle di migliaia mi hanno ascoltato sotto i pendei (tettoie) in India e nei teatri dell’America del Sud. Ho parlato a decine di migliaia di persone riunite negli stadi giganteschi d’America e ho trascorso periodi di riposo nella Carolina del Nord in compagnia di un piccolo gruppo di ragazze in un campeggio estivo. “Poiché Dio ha tanto amato il mondo...” (Giovanni 3:16), disse Gesù. Ed ecco perché io continuo ad andare avanti, anche a più di ottant’anni: perché abbiamo una storia da raccontare alle nazioni, una storia d’amore e di luce. Dio ha progetti - non problemi - per la nostra vita. Prima di morire nel campo di concentramento di Ravensbruck, mia sorella Betsie mi disse: “Corrie, tutta la tua vita è stata un addestramento per l’opera che stai compiendo qui in prigione e per quello che farai dopo”. La vita di un cristiano è tutta una preparazione per un servizio più elevato. Nessun atleta si lamenta quando l’allenamento è duro. Egli pensa alla gara e alla vittoria. L’apostolo Paolo scrisse: “Infatti io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano

paragonabili alla gloria che dev’essere manifestata a nostro riguardo. Poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l'ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. Sappiamo infatti che fino ad ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo” (Romani 8:18-23). Ripensando agli anni della mia vita, posso vedere che le vie dei figli di Dio confluiscono in un piano divino. Quando ero nel campo di concentramento in Olanda, durante la guerra, spesso pregavo: “Signore, non permettere che il nemico mi metta in un campo di concentramento tedesco”. Dio rispose negativamente a quella preghiera. Eppure, fu nel campo tedesco, con tutto il suo orrore, che trovai molti prigionieri che non avevano mai udito parlare di Gesù Cristo. Se Dio non avesse mandato mia sorella Betsie e me da loro, essi non avrebbero mai udito parlare di lui. Molti morirono o furono uccisi, ma molti morirono con il nome di Gesù sulle labbra. Ciò meritava certamente tutte le nostre sofferenze. La fede è come un radar che vede attraverso la nebbia la realtà delle cose che sono ad una distanza che l’occhio umano non può coprire. La mia vita non è che un tessuto. lo non scelgo i colori, Dio lavora alacremente. Spesso intesse il dolore e io, in stupido orgoglio, Dimentico che egli vede la parte superiore, io quella inferiore. Solo quando il telaio è fermo e le spole cessano di girare, Dio svolgerà la tela e ne spiegherà le ragioni. I fili neri sono necessari nell’ abile mano del Tessitore E i fili d’oro e d’argento nello schema che egli ha disegnato. Anonimo

Sebbene i fili della mia vita siano sovente apparsi ingarbugliati, lo so per fede che dall’altra parte del ricamo c’è una corona. Mentre camminavo per il mondo - vagabonda per il Signore - ho imparato qualche lezione nella grande scuola di Dio. E mentre condivido quante cose con coloro che leggeranno questo libro, prego che lo Spirito Santo riveli parte dei disegni divini che Dio ha ancora in progetto per loro. Corrie ten Boom

8

Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate, sapendo che la prova della vostra fede produce costanza. (Giacomo 1:2-3)

UNO STRANO POSTO PER SPERARE In quella calda mattina di settembre del 1944, più di mille donne stavano schierate, una fila dopo l’altra, lungo la linea ferroviaria, con un solo pensiero inespresso: non in Germania! Al mio fianco mia sorella Betsie vacillava. Avevo cinquantadue anni, Betsie cinquantanove. Quei sette anni vissuti in prigione e in campo di concentramento, da quando eravamo state sorprese mentre nascondevamo ebrei nella nostra casa, per lei erano stati più duri. Ma, sebbene prigioniere, almeno fino ad allora eravamo rimaste in Olanda. Ed ora, quando da un giorno all’altro avrebbe potuto avvenire la liberazione, dove ci portavano? Dietro di noi i guardiani urlavano, pungolandoci con i loro fucili. Istintivamente la mia mano andò allo spago che avevo intorno al collo. Da questo pendeva sulla mia schiena, fra le scapole, la piccola borsa di tela che conteneva la nostra Bibbia, quel libro vietato che aveva non soltanto sorretto Betsie e me attraverso quei mesi, ma aveva dato forza anche ai nostri compagni di prigionia. Fino a quel momento l’avevamo tenuta nascosta: ma se ci portavano in Germania... Avevamo udito racconti allarmanti sulle ispezioni che si svolgevano nelle prigioni tedesche. Una lunga fila di carri merci sfilava lentamente. Quando si fermò, le porte dei carri furono aperte davanti a noi. Aiutai Betsie ad arrampicarsi sull’erta fiancata. Nel buio del carro, ben presto, le persone si affollarono e venimmo spinte contro la parete. Era un piccolo carro europeo: trenta o quaranta persone lo riempivano già. Tuttavia, le guardie spingevano dentro ancora altre donne, urtandole con i loro fucili. Solo quando ottanta donne furono ammassate là dentro, la pesante porta scivolò, chiudendosi, e udimmo il rumore delle chiavarde di ferro con cui le porte furono sbarrate. Alcune donne singhiozzavano e molte svennero, mantenute in piedi dalla gente ammassata. Il sole colpiva il treno ancora immobile e la temperatura del carro salì paurosamente. Passarono ore prima che il treno, con un improvviso sobbalzo, incominciasse a muoversi. Quasi subito si fermò nuovamente, quindi riprese lentamente a strisciare in avanti. Per il resto di quella giornata e per tutta la notte fu sempre la stessa cosa: ci si fermava, si sentivano sbattere le porte, si ripartiva di scatto. Una volta, attraverso una fessura della fiancata del vagone, vidi dei ferrovieri che trasportavano uno spezzone di rotaia contorto.

Forse i binari erano stati distrutti più avanti, forse ci saremmo trovati ancora in Olanda al momento della liberazione. Ma all’alba riprendemmo la marcia e oltrepassammo Emmerich, la città di confine olandese. Eravamo in Germania. Per due giorni e due notti, in condizioni incredibili, ci inoltrammo sempre più nella terra delle nostre paure. Peggio ancora dell’accalcarsi dei corpi e della sporcizia era il tormento della sete. Due o tre volte, quando il treno si fermò, la porta venne tirata perché da un angusto spiraglio potesse passare un secchio d’acqua. Eravamo ormai più animali che persone: un minimo di ordine era inattuabile. Le donne vicino alla porta consumavano tutta l’acqua lasciando le altre più assetate che mai. Finalmente, la mattina del terzo giorno, la porta fu aperta del tutto. C’era ad attenderci un pugno di soldati molto giovani, che ci fece uscire e ci ordinò di incamminarci. Non ne occorrevano di più. A mala pena potevamo camminare, altro che opporre resistenza! Dalla cresta di una piccola collina vedemmo, giù nella valle, la meta del nostro viaggio: una vasta città di baracche grigie circondata da doppie mura di cemento. “Ravensbruck!” Come una bestemmia sussurrata, la parola giunse all’orecchio di tutte. Si trattava proprio del noto campo di sterminio femminile, il simbolo del male per tutti gli olandesi. Mentre incespicavamo scendendo giù per la collina, sentii che la piccola Bibbia mi sbatteva sulla schiena. Finché l’avessimo avuta con noi, pensavo, avremmo potuto affrontare anche l’inferno. Ma come potevamo sottrarla alle ispezioni che, come sapevo, ci aspettavano? Era mezzanotte quando Betsie ed io raggiungemmo le baracche dei controlli. E lì, sotto le crude luci del soffitto, vedemmo uno spettacolo desolante. Ogni donna, giunta in testa alla fila, doveva togliersi le vesti fino all’ultimo brandello, buttarle su una pila sorvegliata da soldati e incamminarsi nuda, sotto gli sguardi di una dozzina di guardiani, verso le docce. Uscendo dalla doccia indossava soltanto una sottile veste regolamentare e un paio di scarpe. La nostra Bibbia! Come potevamo farla passare inosservata sotto tanti occhi attenti? “Oh, Betsie!” incominciai, e quindi mi fermai nel vedere il suo volto sbiancato dal dolore. Quando un guardiano ci passò vicino, lo pregai in tedesco di indicarci i gabinetti. Egli indicò con un movi- mento della testa in direzione della camera delle docce: “Adoperate i fori di scolo!” gridò. Timidamente, Betsie ed io uscimmo dalla fila e andammo avanti verso l’enorme camera con le file di annaffiatoi. Era vuota, in attesa del nuovo gruppo di cinquanta donne nude e tremanti. Pochi minuti dopo saremmo ritornate lì spogliate di tutto quel che

possedevamo. Quindi vedemmo, ammucchiata in un angolo, una catasta di vecchie panche di legno formicolanti di cimici, ma che a noi parevano mandate dal cielo. In un istante avevo fatto passare sulla mia testa la piccola borsa insieme con le mie magliette di lana, l’avevo infilata tra le panche, Fu così che, quando venimmo spinte in quella camera dieci minuti più tardi, non eravamo povere ma ricche: ricche, grazie alle cure di colui che era Dio anche a Ravensbruck. Naturalmente, quando infilai la sottile veste della prigione, la Bibbia formava un rilievo. Ma questo era affar suo, non mio. All’uscita le guardie tastavano ogni prigioniera davanti, dietro e sui fianchi. Pregai: “Signore, manda i tuoi angeli a circondarci”. Ma poi ricordai che gli angeli sono spiriti e quindi invisibili. Quello che mi occorreva era un angelo che mi facesse da scudo in modo che le guardie non mi vedessero. “Signore”, pregai ancora, “fà che i tuoi angeli non siano trasparenti”. Come si può pregare in modo ortodosso quando si è in grande necessità? Ma Dio non andò per il sottile e mi esaudì. La donna che stava davanti a me fu perquisita. Dopo di lei perquisirono Betsie che mi stava dietro. Quanto a me, non mi toccarono e nemmeno mi guardarono. Fu come se fossi stata messa fuori dalla loro vista. Fuori dall’edificio ci attendeva una seconda tortura: un’altra fila di guardiani esaminava di nuovo ogni prigioniera. Rallentai quando fui di fronte a loro, ma il capitano mi spinse violentemente in avanti urlando: “Muoviti! Stai bloccando la fila!” Così Betsie ed io arrivammo alla nostra baracca. Non passò molto tempo che tenevamo lezioni clandestine di studio biblico per un gruppo sempre più grande di credenti, e la baracca 28 divenne nota in tutto il campo come “quel posto di matti, dove sperano ancora”. Sì, speravamo, nonostante tutto quello che l’umana follia ci poteva fare. Avevamo imparato che, anche lì, un potere superiore aveva l’ultima parola. ...e mi sarete testimoni in Gerusalemme e in tutta la Giudea e Samaria... (Atti:8)

MIEI TESTIMONI Una gelida mattina, molto presto, una settimana dopo la morte di Betsie, presi posto nel gruppo delle prigioniere che, come al solito, si riunivano fuori dalla baracca. “66730” “Questo è il mio numero”, dissi debolmente, mentre prendevamo i nostri posti per l’appello. “ten Boom, Cornelia”.

“Questo è il mio nome”, pensai. Era strano che mi chiamassero per nome, quando si rivolgevano a noi sempre con il numero! “Venga avanti”. Stavamo mettendoci in fila per l’appello. Dieci per riga, ogni cento donne un passo avanti. Le mie amiche mi guardarono con tristezza. “Che cosa significa?” mi chiesi. “Punizione... liberazione... la camera a gas... inviata ad un altro campo di concentramento?” C’era soltanto un pensiero che mi confortava: “Che gioia che Betsie sia in cielo. Qualunque cosa terribile mi capiti oggi, non dovrà sopportarla”. La guardiana, una giovane ragazza tedesca, mi gridò: “Numero 66730!” Andai avanti, mi misi sull’attenti e ripetei le parole d’uso: “Schutzhaftling ten Boom Cornelia meldet sich”. (La prigioniera ten Boom Cornelia si presenta). “Si metta al numero uno dell’appello”. Andai a prendere il posto all’estrema destra, dove potevo osservare l’intero quadrato dello squallido campo. In piedi tra la folla non avevo avvertito troppo il freddo, ma ora il vento filtrava attraverso la mia veste lacera. Un’altra ragazza, giovane e spaventata, fu spedita accanto a me. L’appello durava tre ore, ed eravamo quasi congelate. La ragazza notò che ero infreddolita e mi massaggiò la schiena in un momento in cui le sentinelle non guardavano. “Perché debbo rimanere qui?” chiesi battendo i denti. La risposta venne dalle sue labbra livide in maniera quasi impercettibile: “Una condanna a morte”. Mi rivolsi al Signore: “Forse ora ti vedrò faccia a faccia, come Betsie, Signore. Fa’ che non sia un’esecuzione troppo crudele. Non gas, Signore, e neppure impiccagione. Preferisco essere fucilata, è più rapido. Vedi, senti, ed è bell’e finito”. Mi voltai a guardare la giovane accanto a me. “Signore, questa è forse l’ultima possibilità che avrò di portare qualcuno a te prima che io arrivi in cielo. Serviti di me, Signore. Dammi tutto l’amore e tutta la sapienza di cui ho bisogno”. “Come ti chiami?” le chiesi dolcemente, sempre sbirciando per vedere se le guardiane ci stessero osservando. “Tiny”. “Io sono Corrie”, sussurrai. “Da quanto tempo sei qui?” “Due anni”. “Non hai mai letto la Bibbia?” “No, mai”. “Credi nell’esistenza di Dio?” “Sì. Vorrei sapere qualcosa di più su di lui. Tu lo conosci?”

“Sì. Gesù, suo figlio, è venuto in questo mondo a prendere su di sé le nostre pene. È morto sulla croce, ma è risorto dai morti e ha promesso di essere sempre con noi. Mia sorella è morta qui. Ha sofferto tanto. Anch'io ho sofferto, ma Gesù è sempre con noi. Ha fatto un miracolo togliendomi tutto l’odio e l’amarezza che provavo per i miei nemici. Gesù è disposto a mettere nel nostro cuore l’amore di Dio attraverso lo Spirito Santo”. Tiny ascoltava. Parlammo per tre ore, mentre le guardie completavano l'appello. Fu un miracolo, perché così ebbi la possibilità di spiegare a Tiny molte cose a proposito di Gesù. Le prigioniere dietro di noi ascoltavano anch’esse. Mi sentivo felice. Forse questa era l’ultima possibilità della mia vita, ma quale gioia! Continuai: “Gesù vuole vivere nel tuo cuore. ‘Ecco, io sto alla porta e picchio’, dice. ‘Se qualcuno apre la porta, entrerò’. Aprirai la porta del tuo cuore e lo lascerai entrare per trasformarti?” “Sì”, rispose. “E allora parlagli. Digli qualunque cosa pensi. Ora hai un amico che non ti lascerà mai sola”. La sirena suonò e le guardie gridarono alle prigioniere: “Al lavoro!” Migliaia di prigioniere corsero al loro posto di lavoro. Tiny scomparve dalla mia vista. Solo io rimasi ferma al mio posto, perché mi era stato ordinato di non muovermi. Non sapevo ancora quale destino mi attendesse. Sapevo ad ogni modo che Dio, il quale non sonnecchia e non dorme mai, era ora con Tiny, e Tiny lo sapeva anch’essa. Nessuna di noi due sapeva in quel momento quanto ciò dovesse essere importante per il futuro di entrambe. Al disopra del frastuono del campo di concentramento mi parve di udire un canto di angeli. Quindi sentii gridare il mio nome. Era forse la morte? Oh Dio, ti ringrazio, no. Era la vita. Venivo rilasciata. Più tardi seppi che la mia liberazione avvenne per un errore amministrativo. Ma per me non fu la fine di un’era, semplicemente l’inizio. Dinnanzi a me stava di nuovo il mondo.

Tu hai mutato il mio duolo in danza; hai sciolto il mio cilicio e mi hai cinto di allegrezza. (Salmo 30:11)

LIBERAZIONE! Quando stai morendo, quando sei alla porta dell’eternità, vedi le cose da una prospettiva diversa di quando pensi di poter vivere a lungo. Ero stata davanti a quel cancello per molti mesi, e vivevo nella baracca 28 all’ombra del crematorio. Ogni volta che vedevo il fumo salire dagli orribili camini, sapevo che erano gli ultimi resti di qualche povera donna vissuta con me a Ravensbruck. Spesso mi domandavo: “Quando sarà il mio turno?” Ma non avevo paura. Dopo la morte di Betsie, la presenza di Dio era sempre più reale. Sebbene guardassi nella “valle dell’ombra della morte”, non avevo paura. E lì che Gesù viene più vicino, ci prende per mano e ci guida. Una settimana prima che venisse l’ordine di uccidere tutte le donne della mia età, io ero libera. Ancora non conosco tutti i particolari del mio rilascio da Ravensbruck. Tutto quello che so è che fu un miracolo di Dio. Stavo in piedi nel cortile della prigione, in attesa dell’ordine finale di rilascio. Oltre le mura con le loro trecce di filo spinato stavano gli alberi silenziosi della foresta tedesca, tanto simili alle quinte grigioverdi di uno dei nostri teatri in Olanda. Mimi, una delle compagne di prigione, mi passò accanto per dirmi con un sussurro: “Tiny è morta questa mattina, e anche Marie”. Tiny! “Oh Signore, ti ringrazio per avermi consentito di indicarle Gesù, che ora l’ha guidata a salvezza nella tua presenza”. E Marie. La conoscevo bene. Viveva nella mia baracca ed aveva assistito ai miei discorsi sulla Bibbia. Come Tiny, Marie aveva anche lei accettato Gesù come suo Signore. Mi volsi a guardare le lunghe file di baracche: “Signore, anche se sono stata portata qui solo per Tiny e per Marie, perché potessero conoscerti prima di morire, ne è valsa la pena”. Un guardiano ordinò brutalmente a Mimi di lasciare il cortile. Poi mi disse: “Fronte al cancello! Non si giri!” Il cancello si aprì e osservai il lago di fronte al campo. Potevo sentire l’odore della libertà. “Mi segua!”, mi disse una giovane in uniforme da ufficiale. Varcai lentamente il cancello, senza mai volgermi indietro. Dietro di me udii il

cigolio del cancello che si richiudeva. Ero libera, e nella mia mente scorrevano le parole di Gesù alla chiesa di Filadelfia: “Ecco, io ti ho posta dinnanzi ad una porta aperta, che nessuno può chiudere..” (Apocalisse 3:8). Dapprima questa porta si aprì sul mio ritorno in Olanda. Il viaggio in treno durò tre giorni. Un’altra prigioniera, Claire Prins, era stata rilasciata con me: una sua gamba era gonfia in modo allarmante e naturalmente entrambe eravamo soltanto pelle e ossa. Ma eravamo libere! Giunte a Groningen, ci dirigemmo verso un ospedale cristiano diretto da diaconesse, dove chiesi di parlare alla sovrintendente. Forse mi avrebbero aiutata fino a che non avessi potuto ritornare a Haarlem, pensavo. “Sorella Tavenier non può venire in questo momento”, disse l’assistente. “È occupata in una funzione religiosa in una delle corsie. Temo che dovrà aspettare”. “Le dispiacerebbe”, dissi guardando l’assistente, “se anch’io partecipassi al servizio?” Mi guardò affettuosamente, avvertendo forse parte delle mie sofferenze. “Ma certo, naturalmente. Può riposarsi nella sala d’aspetto fino a quando non comincia. Verrò a prenderla”. “Sorella...”, esitavo a chiedere. “Mi può dare qualcosa da bere?” Lo sguardo compassionevole attraversò di nuovo il suo volto. “Le porterò un po’ di tè”, disse gentilmente. Pochi minuti più tardi me lo pose davanti dicendo: “Non ho messo burro sul toast perché vedo che è malata. Il toast asciutto e il tè le faranno bene”. Ero profondamente commossa da questa piccola dimostrazione di considerazione. Un momento più tardi ero sdraiata su una comoda poltrona, con le gambe distese su una panca. Mi invase una meravigliosa sensazione di riposo. Ero in Olanda, fra brava gente. Le mie sofferenze erano finite. Un’infermiera venne a prendermi per accompagnarmi nella corsia in cui si teneva la funzione. Erano state disposte delle seggiole in semicerchio tra i letti, fronteggiate da un tavolo. Entrò un anziano ministro e mi fu consegnato un innario. Potevo vedere le infermiere e le pazienti sbirciarmi di nascosto. Le mie vesti erano lacere e sudice, appese al mio corpo come stracci su uno spaventapasseri. Tuttavia, ero così felice di essere libera che non me ne importava affatto. Il ministro parlò con una voce ben modulata, quindi ci mettemmo a cantare insieme. Non potevo non fare confronti: il lurido dormitorio della prigione, infetto e sudicio, i letti pieni di pidocchi, ed ora questo: lenzuola e federe pulite, e un pavimento immacolato. Le voci rauche delle carcerate e

la voce matura, melodiosa del ministro. Solo il canto era lo stesso, perché cantavamo anche a Ravensbruck. Il canto era uno dei modi per infonderci coraggio. Dopo la funzione l’infermiera mi portò nell’ufficio della sovrintendente. “Ci siamo già occupati della signorina Prins”, disse, “che è già in un letto pulito. Dovete aver vissuto un’orribile esperienza. Ma che cosa possiamo fare per lei?” Sedevo davanti alla sua scrivania. Per più di un anno non mi era stato consentito di prendere decisioni; tutto quello che avevo potuto fare era stato eseguire degli ordini. Era finanche difficile pensare. “Non so, sorella”, dissi. Mi bastava sentirmi circondata da persone che non erano adirate con me. “Ecco”, disse, e suonò un campanello, “innanzitutto le daremo una cena calda”. Comparve una giovane infermiera che mi prese per il braccio e mi guidò attraverso l’atrio fino alla sala da pranzo. “Ho sentito che è stata appena rilasciata da Ravensbruck”, disse. “Dove va adesso? Dov’è la sua casa?” “Vado a Haarlem”, risposi. “Oh, Haarlem”, disse con eccitazione. “Conosce Corrie ten Boom che vive lì?” La guardai. Era una delle dirigenti della YWCA con le quali avevo lavorato prima della guerra. “Truus Benes!” esclamai deliziata. “Ma sì, questo è il mio nome”, disse stupita. “Ma non mi pare di conoscerla”. “Io sono Corrie ten Boom”. L’infermiera si fermò di colpo nell’atrio fissandomi. “Oh no, questo è impossibile. Conosco Corrie ten Boom molto bene. Sono stata con lei molte volte nei campeggi per ragazze. È molto più giovane di lei”. “Ma sono veramente Corrie ten Boom”, ribattei. Poi pensai a come dovevo apparire. Il mio volto era scavato e pallido, la mia bocca larga, la pelle aderiva direttamente alle ossa. I capelli cadevano alla rinfusa intorno al viso, gli occhi erano infossati. Il mantello era sudicio, perché in certi momenti avevo dormito in esso sul pavimento del treno che mi aveva portato fuori dalla Germania. La cintura pendeva dalla veste, perché non avevo avuto la forza di annodarla. L’infermiera stese la mano e teneramente toccò la mia mano ruvida. “Sì... sì... è lei. È lei!” E quindi scoppiammo entrambe a ridere. Nella sala da pranzo sedemmo ad un tavolino, una di fronte all’altra, ed io le chiesi delle nostre conoscenze comuni. Viveva ancora Mary Barger? Jeanne Blooker e...? Era ridicolo rivolgere queste domande, ma volevo sapere tutto. Per me il mondo si era fermato quando mi trovavo nel campo

di concentramento. Ora ricominciava a muoversi e dovevo riprendere contatto con tante cose. Quindi mi misi a mangiare. Patate, cavolini di Bruxelles, carne e sugo, e, per dessert, un budino con sciroppo di more e una mela! “Non ho mai visto nessuno mangiare così avidamente”, commentò una delle infermiere ad un tavolo vicino. Non mi importava. Ad ogni boccone sentivo nuova vita fluire nel mio corpo. Avevo detto a Betsie una volta, nel campo : “Quando torneremo a casa dovremmo mangiare con cura, prendendo soltanto piccoli quantitativi di cibo per volta, fino a che il nostro stomaco non si sarà riabituato a pasti normali”. “No”, aveva detto Betsie, “Dio farà in modo che saremo in condizione di assumere subito qualsiasi cibo”. Aveva ragione. Com’era buono, meravigliosamente buono quel cibo! Ricorderò questo pasto finché vivrò. Quindi potei fare un bagno caldo. Avrei voluto non finisse mai. La mia povera pelle malata, sciupata dai parassiti, sembrava farsi più morbida fin dal momento in cui scivolai in quella piacevole vasca. Più tardi mi vestirono. Fra le infermiere vi erano parecchie ex dirigenti del Circolo Femminile Olandese: ragazze che conoscevo fin da prima della guerra. Mi rivestirono come se fossi stata una bambola. Una di loro portò delle sottovesti, un’altra scarpe, una terza un vestito e forcine per capelli. Ero così felice che ridevo per pura gioia. Com’erano carine con me! Queste giovani donne erano state educate alla gentilezza. Come era diverso dai campi di concentramento, dove la gente era stata addestrata alla crudeltà. Fui quindi portata in una comoda camera da letto perché potessi riposare. Com’era graziosa la combinazione dei colori! Avevo fame di colori. Nel campo di concentramento tutto era grigio, ma qui in Olanda i colori erano di nuovo vivaci. Sembrava che i miei occhi non ne avessero mai abbastanza. E il letto! Era deliziosamente morbido e pulito, con spesse coperte di lana. Una delle giovani infermiere portò un cuscino in più e lo sistemò sotto i miei piedi gonfi. Volevo ridere e piangere al tempo stesso. Su uno scaffale vi era una fila di libri. Udivo la sirena di un battello e le allegre voci di bambini che si chiamavano l’un l’altro rincorrendosi nella via. Da lontano mi giungevano le voci di un coro e quindi - oh, gioia! - lo scampanio di un carillon. Chiusi gli occhi e le lacrime bagnarono il cuscino. Solo per chi è stato in prigione la libertà ha un significato così grande. Più tardi quel pomeriggio, una delle infermiere mi portò nella propria stanza dove, per la prima volta dopo molti mesi, udii il suono di una radio. Gunther Ramin stava suonando un brano di Bach. Le note dell’organo

fluivano intorno e mi avviluppavano. Sedetti sul pavimento, accanto ad una seggiola, singhiozzando senza vergogna. La gioia era troppa. Raramente avevo pianto durante tutti quei mesi di sofferenza; ora non potevo più controllarmi. La vita mi era stata restituita come un dono. Amore, bellezza, colori e musica. Solo coloro che hanno sofferto come me e sono ritornati possono capire appieno quello che intendo dire. Sapevo che la vita mi era stata restituita per uno scopo. Non appartenevo più a me stessa. Questa volta ero stata riscattata e rilasciata; sapevo che Dio ben presto mi avrebbe mandata fuori nel mondo come una vagabonda per il Signore, ma per ora mi concedeva di godere il lusso della gratitudine. Stavo bevendo ad una sorgente che sapevo non si sarebbe mai inaridita: la sorgente della lode. Uno dei primi luoghi che visitai dopo il mio rilascio dal campo di concentramento fu la Grote Kerk di Haarlem. Giacché era così vicina a dove ero cresciuta, nella Beje, la consideravo come una vecchia amica, alla stessa stregua del negozio di orologeria. “Posso accompagnarla?” chiese il vecchio usciere che mi venne incontro sulla porta. “Se è possibile”, risposi, “desidererei star da sola”. Annuì comprensivo e sparì nell’ombra del santuario. Camminai sulle pietre tombali che formavano il pavimento dell’antico edificio. Le mie scarpe facevano un rumore strano, stridente, che provocava un’eco nella cattedrale vuota. Ricordavo le molte occasioni in cui avevo giocato lì da bambina. Mia cugina Dot era la mia amica più cara. Era la figlia più giovane di mio zio Arnold che era stato custode della Grote Kerk. Dot ed io facevamo tutto insieme, e il nostro passatempo preferito era quello di giocare a nascondino nella grande chiesa. Vi erano tanti posti meravigliosi dove nascondersi: pulpiti, vecchie porte che davano accesso a scale a chiocciola, e molti armadi. C’era un organo famoso nella cattedrale, e talvolta, quando c’era un concerto, zio Arnold consentiva ai membri della sua famiglia di entrare nella chiesa e sedere su una panca di legno senza schienale, appoggiandosi contro la fredda ed umida parete di pietra, per ascoltare la magnifica musica. La cattedrale, durante il giorno, era una sinfonia di grigi, tanto all’interno quanto all’esterno. La sera, quando nei transetti laterali venivano accese le lampade a gas, potevamo vedere i pilastri e i soffitti che puntavano verso l’alto, mentre le ombre danzavano intorno in uno splendore misterioso. Solo un luogo ci era assolutamente vietato quando giocavamo a nascondino. Era il vecchio pulpito. Non vi andammo mai, ma per il resto, che luogo di giochi era quell’antica chiesa! Quando gridavamo, l’eco risuonava da transetto a transetto e le nostre risate non apparivano mai

sacrileghe. A differenza di alcuni rigidi adulti che talvolta aggrottavano le sopracciglia a causa dei nostri giochi, avevo sempre pensato che il riso dei bambini in una cattedrale vuota fosse il più bello di tutti gli inni di lode. E così crescemmo, conoscendo soltanto un Dio che godeva della nostra presenza mentre saltavamo, correvamo e giocavamo in questo edificio che era stato costruito per la sua gloria. Un pomeriggio giocammo fino a tarda ora, e prima che ce ne rendessimo conto le tenebre della cattedrale ci avevano inghiottite. Guardai in giro attraverso le belle vetrate, vidi un po’ di luce che veniva dalle strade circostanti. Solo i profili dei pilastri gotici si stagliavano nell’oscurità, sempre più in alto. “Andiamo a casa”, sussurrò Dot. “Ho paura”. Io no. Lentamente mi diressi alla porta che si apriva sull’abitazione dello zio Arnold. C’era una presenza che mi confortava, che portava una profonda pace nel mio cuore. Anche nell’oscurità, con l’odore di polvere e di umidità presente nell’edificio, sapevo che la “Luce del mondo” era presente. Forse il Signore mi stava preparando per un tempo in cui avrei avuto bisogno di sapere che la sua luce è vittoriosa su tutte le tenebre? Ciò avvenne quarantacinque anni più tardi. Betsie ed io camminavamo verso il piazzale del campo di concentramento dove si faceva l’appello. Era ancora presto, prima dell’aurora. La capoguardiana della nostra baracca era così crudele da mandarci fuori al gran freddo un’ora prima del tempo. La mano di Betsie era nella mia. Andammo al piazzale prendendo una via diversa da quella presa dalle nostre compagne di baracca. Eravamo in tre mentre camminavamo con il Signore e parlavamo con lui. Betsie parlò. Quindi parlai io. Poi parlò il Signore. Come? Non lo so. Ma entrambe capimmo. Era la stessa presenza che avevo avvertito anni prima nell’antica cattedrale di Haarlem. Le stelle brillanti della prima mattina erano la nostra sola luce. La fredda aria invernale era così limpida. Potevamo appena vedere i profili delle baracche, del crematorio, della camera a gas e delle torri dove i guardiani stavano con le mitragliatrici spianate. “Non è un piccolo pezzo di cielo?” aveva detto Betsie. “E, Signore, questo è solo un piccolo assaggio. Un giorno ti vedremo faccia a faccia, ma grazie perché anche ora ci stai dando la gioia di camminare e parlare con te”. Il cielo nel mezzo dell’inferno. Luce nel mezzo delle tenebre. Quale sicurezza!

Ecco, Dio è la mia salvezza; io avrò fiducia, e non avrò paura di nulla; poiché il Signore, il Signore è la mia forza e il mio cantico... (Isaia 12:2)

UNA CANZONE NELLA NOTTE La guerra era finita. Ancor prima di lasciare il campo di concentramento sapevo che sarei stata occupata nell’aiutare coloro che dovevano ricominciare a vivere. Mi trovai ad iniziare proprio un lavoro di questo genere a Bloemendaal. Era più che una casa per i senza patria: era un rifugio per coloro che erano distrutti sia spiritualmente che fisicamente. Tuttavia, avendo vissuto così vicino alla morte, avendola guardata in faccia un giorno dopo l’altro, sovente mi sentivo come una straniera fra la mia gente, fra i molti che consideravano il denaro, l’onore degli uomini e il successo come elementi essenziali della vita. Il trovarsi di fronte ad un crematorio, il sapere che un giorno qualsiasi poteva essere l’ultimo, dava una diversa prospettiva alla vita. Continuavano a venirmi in mente le parole di un antico proverbio tedesco: “Ciò che ho speso, l’avevo; ciò che ho risparmiato, l’ho perduto; quello che ho dato, lo posseggo”. Come capivo bene i sentimenti dell’artista che dipinse l’immagine del cadavere di un uomo, un tempo ricco, e la intitolò: “Sic transit gloria mundi”: così passa la gloria di questo mondo. Le cose materiali di questo mondo non mi eccitavano più, né mi avrebbero eccitata mai più. In seguito visitai Haarlem, la città dove avevo trascorso più di cinquant’anni della mia vita. Era sera tarda quando ne percorsi alcune strade. Attendendo di fronte ad un semaforo, ebbi la strana sensazione che la gente dovesse mettersi in fila per cinque, come nel campo di concentramento. Invece chiacchieravano di cose insignificanti, e quando scattò il verde, si misero in marcia senza che nessuno avesse urlato loro un comando. Camminando per le strade quella notte, ad ogni modo, sentii crescere in me un tremendo desiderio di raccontare a tutti gli uomini, specialmente a coloro che sono prigionieri del materialismo, dell’unico che possa liberarci da tutte le prigioni: Gesù. Quando finalmente mi diressi verso la Barteljorisstraat, la mez- zanotte era passata. C’erano poche luci nella strada, ma la luna e molte stelle erano visibili al disopra degli antichi tetti delle case familiari. Mi fermai di fronte alla Beje, all’angolo del piccolo vico- lo che si apriva a metà della via. Feci

scorrere la punta delle dita sulla porta del negozio d’orologeria. Anche se la Beje non era più la mia casa, era tuttavia parte del mio cuore. Non potevo neppure sognare che un giorno sarebbe diventata un museo a ricordo della mia famiglia e del nascondiglio offerto a quei preziosi ebrei che essa aveva così salvato da morte certa, per mano di nazisti. Stavo lì, sola nell’oscurità, consentendomi il dolce piacere del ricordo. Quante volte avevo chiuse le imposte davanti alla vetrina! Da quella porta ero uscita il mio primo giorno di scuola, circa cinquanta anni prima. Oh, che scolara ritrosa ero stata, piangente, spaventata di dover lasciare la cara vecchia casa il cui calore mi aveva protetta d’inverno, le cui finestre avevano tenuto fuori la piog- gia e la nebbia, il cui allegro fuoco aveva accolto me e gli altri familiari, ogni sera, dopo che erano stati messi a posto i piatti usati per la cena. Però mio padre, sapendo della mia paura, mi aveva presa per mano e mi aveva accompagnata fuori, verso la cultura, in un mondo sconosciuto fatto di insegnanti e di aule scolastiche. Mio padre era morto. Mi rimaneva ora soltanto il mio Padre Celeste. Passai dunque la mano sulla porta, lasciando che le mie dita ne esplorassero le spaccature. Non era più il mio nascondiglio. Altre persone vivevano lì ed ora il mondo intero mi fungeva da aula scolastica, mentre la mia sola sicurezza veniva dall’essere sostenuta da “braccia eterne”. Com’ero grata al Padre Celeste per la sua forte mano intorno alla mia. Guardai nel piccolo vicolo. Era quasi buio pesto. Tesi l’orecchio e nei lontani meandri del mio cuore potevo risentire le voci di papà, di Betsie e degli altri. Era stato soltanto un anno prima? Sembravano secoli. “Che onore”, aveva detto papà, “dare la mia vita per il popolo prescelto di Dio, gli ebrei”. Tastai il muro con le mani, quindi premetti dolcemente il volto contro le fredde pietre. No, non stavo sognando. Era realtà. Ma la vecchia Beje, il vecchio nascondiglio, non era più mio. Ravensbruck mi aveva insegnato molte cose che avevo giusto avuto bisogno di imparare. Il mio rifugio era ormai soltanto Gesù. Vagando per le strade di una città che era stata la mia patria, a mezzanotte, sentivo la presenza del Padre Celeste. Improvvisamente dalla cattedrale cominciarono a venire i nostalgici rintocchi della campana. Per giorni e notti, durante la mia vita, avevo udito la bella musica della Grote Kerk. Non era il sogno che spesso avevo fatto nel campo di concentramento. Era realtà. Uscii dalle ombre del vicolo e camminai lungo la Barteljorisstraat fino al Grotemarkt. Mi fermai a guardare la cattedrale stagliarsi contro il cielo scuro, incorniciata da un milione di stelle scintillanti. “Gesù, ti ringrazio di essere viva”, dissi. Nel mio cuore lo udii rispondere: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine dell’età presente” (Matteo 28:20).

Rimasi lì per diversi minuti, mentre le lancette del grande orologio si muovevano verso l’ora. Quindi i rintocchi del campanile della cattedrale risuonarono ancora una volta, ora con le note del famoso inno di Lutero: “Forte rocca è il nostro Dio”. Ascoltai, e mi sorpresi a cantare l’inno, ma non in olandese, bensì in tedesco: “Ein’ feste Burg ist unser Gott”. “Sei tu, Signore”, mormorai, “che mi ricordi la tua grazia facendomi cantare un inno in tedesco!” Un poliziotto passò, mi guardò ed ebbe una parola di saluto. Io dissi: “Buonanotte, poliziotto. Il nostro Dio è una forte rocca!” Ero libera.

Per fede Abramo, quando fu chiamato, ubbidì, per andarsene in un luogo che egli doveva ricevere in eredità; e partì senza sapere dove andava. (Ebrei 11:8)

UNA GRANDE SCOPERTA Quando i miei genitori si sposarono, molti anni fa, dichiararono il Salmo 32:8 come il “verso chiave” della loro vita, la promessa che Dio era la loro sicurezza. "Io ti ammaestrerò e ti insegnerò la vìa per la quale devi camminare; io ti consiglierò e avrò gli occhi su di te." Dopo che mamma e papà se n’erano andati, la promessa divenne una direttiva speciale per la mia vita: l’impegno di Dio a guidarmi in tutti i miei viaggi. Mi fu particolarmente necessaria quando partii per il mio primo viaggio in America. La guerra era finita da poco tempo e molti europei volevano trasferirsi in America. Ma pochi ci volevano andare per la stessa mia ragione: portare il Vangelo agli americani. Per tutti, ad ogni modo, si presentava la stessa difficoltà quando si chiedeva l’espatrio per l’America: “È impossibile ottenere il visto”. Pregai: “Signore, se è la tua volontà che io vada in America, allora mi devi provvedere i documenti necessari”. Ben presto scoprii che l’impossibilità dell’uomo è un’opportunità per Dio. Egli impiega i nostri problemi come materiale di costruzione per i suoi miracoli. Incominciai a capire che questa era la mia prima lezione per imparare a confidare completamente in lui; erano i miei primi passi sul sentiero dell’ubbidienza alla sua guida e del mio abbandono ad essa. Quanto avevo da imparare! Finalmente tutti i miei documenti furono approvati, eccetto il più importante. Sedevo sola su una dura panca di legno nell’atrio dell’ufficio Immigrazioni dell’Aia. Tutti quelli che uscivano dall’ufficio avvisavano coloro che attendevano nell’atrio: “Quel tipo lì dentro è duro come una pietra. Non lascia passare nessuno”. “Signore”, pregai in silenzio, “io sono disposta ad andare o a rimanere. Dipende da te”. “Salve! Non ci conosciamo?” Era la voce di una signora di mezza età che stava davanti a me. Guardai il suo viso, tentando inutilmente di riconoscerla. “Tu sei Come ten Boom”, disse ridendo. “Io sono una delle tue cugine e questo è Jan, mio marito. Non ti ho visto per anni e naturalmente Jan non ti ha mai conosciuta, dato che ci siamo sposati solo sei anni fa”.

“Stai cercando di andare in America?” chiesi. “Oh, no”, rise. “Faccio visita a Jan. Ha il suo ufficio in questo edificio”. “Allora forse mi puoi aiutare”, dissi stringendo la mano a Jan. E gli raccontai la mia storia. Fu cortese, ma disse: “Mi farebbe piacere poter aiutare la mia cugina nuova di zecca, ma non è il mio ramo. Ad ogni modo, se incontri difficoltà, telefonami”. Mi dette il suo numero di telefono, ci stringemmo di nuovo la mano e se ne andarono. Io continuavo ad aspettare. L’ “uomo di pietra” lasciò l’ufficio per andare a prendere un caffè e un giovane impiegato prese il suo posto. Era giunto il mio turno. “Sarebbe meglio che aspettasse il ritorno del mio capo”, disse l’impiegato quando gli spiegai dove volevo andare e perché. Mi sentii cadere le braccia. “Non posso aspettare di più. Per piacere, vuole chiamare questo numero?” Gli porsi il cartoncino che Jan mi aveva dato poco prima. Mentre telefonava, pregavo. Qualche momento più tardi riappese il ricevitore e disse: “Tutto a posto. Sto vistando il suo passaporto. Può andare in America”. Di lì mi recai ad Amsterdam per cercare di ottenere un passaggio su una nave di linea per l’America. Ma una nuova montagna si ergeva dinnanzi a me. L’agente mi disse che avrebbe potuto soltanto mettere il mio nome sulla lista d’attesa. “Le notificheremo la partenza fra un anno circa”, disse. “Un anno! Ma io debbo andare adesso!” L’agente si strinse nelle spalle e ritornò al suo lavoro. Delusa, ritornai nella piazza del centro della città. Dio mi aveva detto di andare in America: di questo ero certa. Tutte le mie carte erano in ordine. Dio aveva visto anche questo. Ora toccava a lui spostare quella montagna. Guardando dall’altra parte della strada osservai un cartello: AMERICAN EXPRESS COMPANY. Entrando nell’ufficio domandai: “Avete sistemazioni per passeggeri su uno qualsiasi dei vostri piroscafi da carico per l’America?” Il vecchio impiegato mi guardò al di sopra degli occhiali e disse: “Può partire domani, signora, se i suoi documenti sono in regola”. “Oh, domani è troppo presto”, replicai, credendo a mala pena a quello che udivo. “Perché non la settimana prossima?” “Anche questo è possibile”, disse. “Non ci sono molte donne alla sua età che si imbarcano su piroscafi da carico. Ma se lei è disposta, lo siamo anche noi”. Parecchie settimane prima avevo conosciuto un uomo d’affari americano che era in visita da parenti in Olanda. Quando gli avevo detto dei miei progetti di visitare l’America, aveva tentato di Scoraggiarmi. “Non è facile aprirsi una strada in America”, aveva detto. “Lo credo”, avevo risposto. “Ma Dio mi ha dato quest’ordine e io devo ubbidire”.

Quindi mi aveva dato due assegni, uno piccolo e uno più grosso. “Se ne ha bisogno, faccia uso di questi”, aveva detto. “Potrà restituirmeli più tardi”. Li avevo messi da parté come riserva. Così arrivai a New York come missionaria per l'America. Mi fu consentito di portare solo cinquanta dollari, e naturalmente non conoscevo nessuno. Ad ogni modo, cercai la sede della YWCA, dove trovai una camera e un posto per lasciare le mie valigie. Avevo l’indirizzo di un gruppo di immigrati ebrei-cristiani, che si riunivano a New York. Feci una telefonata ed essi mi invitarono per un colloquio. Dato che erano tedeschi, non potevo fare uso dei discorsi in inglese che avevo preparato sulla nave, ma dovevo parlare loro nella loro lingua originaria. Forse era meglio, perché il mio inglese era difficile da capire. Alla fine della settimana, dopo aver vagabondato per la città in una specie di sbalordimento impotente, andai alla YWCA a pagare il mio conto. L’impiegata mi guardò con comprensione: “Mi dispiace, ma le nostre sistemazioni sono limitate ad una settimana e non possiamo consentirle di rimanere qui più a lungo. Ha un indirizzo al quale inviare la sua corrispondenza?” “Sì, ma non so ancora quale sia”. “Non capisco”, disse perplessa. “Dio ha un’altra camera per me”, spiegai. “Semplicemente, non mi ha ancora detto quale sia l’indirizzo. Ma non sono preoccupata. Mi ha guidata attraverso Ravensbruck e certamente mi guiderà anche attraverso l’America”. Improvvisamente l’impiegata ricordò qualcosa: “A proposito, è arrivata una lettera per lei”. Strano, pensavo, mentre mi consegnava una busta. Come ho potuto ricevere una lettera? Nessuno sa dove alloggio. Ma la lettera era lì. La lessi in fretta e quindi mi rivolsi all’impiegata: “Il mio nuovo indirizzo sarà a questa casa, nella 19ma strada”. “Ma perché non me l’ha detto prima?” chiese. “Non lo sapevo. Era in questa lettera. Una donna che non conosco mi scrive: ‘L’ho sentita parlare alla congregazione ebraica. So bene che è quasi impossibile ricevere una camera nel centro di New York. Per caso, mio figlio si trova in Europa, così ben volentieri metterò a sua disposizione la sua camera fintanto che sarà qui’”. L’impiegata alla scrivania era più sbalordita di me. Forse, ragionai, non le era mai capitato di assistere ad un miracolo. Andai con la metropolitana alla 19ma strada. La casa all’indirizzo datomi era un grande edificio di diversi piani occupato da molte famiglie. Trovai l’appartamento in fondo ad un atrio, ma non c’era nessuno in casa. Certamente la mia ospite non si aspettava che il suo invito fosse una risposta da “ventitreesima ora” al mio problema. Mi sistemai sul pavimento

con le mie valigie e, appoggiata contro la parete, scivolai nel sonno. Pochi istanti prima che il sonno si impadronisse di me, la mia mente vagò indietro nel tempo fino a Ravensbruck. Mi sembrava di sentire la mano ossuta di Betsie toccarmi il volto. Nella baracca 28, dove dormivano altre settecento prigioniere, era buio pesto. Ogni giorno centinaia di donne morivano e i loro corpi venivano infilati nei forni. Betsie era diventata tanto debole ed entrambe sapevamo che la morte era vicinissima. “Sei sveglia Corrie?” La sua voce debole suonava tanto lontana. “Si, mi hai svegliata”. “Dovevo svegliarti. Ho bisogno di dirti quello che mi ha detto Dio”. “Shhhh. Disturbiamo il sonno delle ragazze intorno a noi. Rimaniamo sdraiate faccia a faccia”. Il giaciglio era molto stretto. Potevamo soltanto distenderci come i cucchiai in una scatola, le ginocchia dell’una che urtavano le ginocchia dell’altra. Adoperavamo i nostri due mantelli come coperte aggiuntive alla sottile coperta nera provvista dal campo. Tirai il mantello sulle nostre teste in modo da poter sussurrare senza essere udite. “Dio mi ha indicato”, disse Betsie, “che dopo la guerra dovremo dare ai tedeschi ciò che ora essi tentano di togliere a noi: il nostro amore per Gesù”. Il respiro di Betsie era accompagnato da brevi rantoli. Era tanto debole. Il suo corpo distrutto non presentava altro che la pelle sottile distesa su fragili ossa. “Oh, Betsie!” esclamai. “Intendi dire che se vivremo dovremo tornare in Germania?” Betsie accarezzò la mia mano sotto la coperta. “Come, c’è tanta amarezza. Dobbiamo dir loro che lo Spirito Santo riempirà i loro cuori con l’amore di Dio”. Ricordai Romani 5:5. Proprio quella mattina alcune donne della baracca si erano strette intorno a noi nell’angolo dove leggevo la nostra preziosa Bibbia. Ma rabbrividii. La Germania! Se mai fossi uscita viva da quel luogo orribile, come sarei potuta ritoma- re in Germania? La debole voce di Betsie continuò a sussurrare: “Questo campo di concentramento qui a Ravensbruck è stato impiegato per distruggere molte, molte vite. Vi sono molti altri campi simili in tutta la Germania. Dopo la guerra non sapranno che cosa fame. Ho pregato che il Signore ce ne dia uno in Germania: lo adopereremo per costruire esistenze”. No, pensai, ritornerò al mio semplice lavoro di orologiaio in Olanda e non metterò mai più piede oltre confine. La voce di Betsie tremolava tanto che potevo capirla a fatica. "I tedeschi sono i più colpiti di tutta la gente del mondo. Pensa a quella giovane guardia che bestemmiava ieri e si esprimeva con parole volgari. Ha soltanto diciassette o diciotto anni, ma hai visto come picchiava quella povera vecchia con la frusta? Che lavoro di ricostruzione morale ci sarà da fare lì dopo la guerra”.

Trovai un posto dove sistemare la mano. Era un problema così stupido, pensavo, tuttavia in una cuccetta così piccola era difficile sistemare le mani e le braccia. La mia mano poggiava sul fianco sinistro di Betsie, proprio sul cuore. Sentivo le sue costole; erano solo pelle ed ossa: per quanto tempo ancora avrebbe potuto vivere? Il cuore le palpitava nella cassa toracica come un uccellino morente: sembrava dovesse fermarsi da un momento all’altro. Riposavo e pensavo. Com’era vicina Betsie al cuore di Dio! Solo Dio poteva far vedere in simili circostanze la possibilità di un futuro ministero spirituale, un ministero fra coloro che proprio in quel momento stavano preparandosi ad ucciderci. Soprattutto, far vedere in un posto come Ravensbruck la possibilità di benedire e ricostruire le esistenze dei nostri nemici. Sì, soltanto il Signore Gesù poteva aver dato a Betsie una simile visione. “Dobbiamo vivere con loro in Germania?” sussurrai. “Per un certo tempo”, rispose Betsie. “Poi viaggeremo per tutto il mondo portando il Vangelo a tutti, ai nostri amici come ai nostri nemici”. “A tutto il mondo? Ma questo richiederà molto denaro”. “Sì, ma Dio provvederà”, disse Betsie. “Non dobbiamo fare altro che portare il Vangelo ed egli avrà cura di noi. Dopo tutto, è lui il padrone delle mandrie su mille colline. Se avremo bisogno di denaro, chiederemo semplicemente al Padre di vendere alcune mucche”. Stavo cominciando ad afferrare la visione. “Che privilegio”, dissi dolcemente, “viaggiare per il mondo ed essere impiegate dal Signore Gesù”. Ma Betsie non rispose. Si era addormentata. Tre giorni dopo era morta. Andare a letto la notte dopo la morte di Betsie fu uno dei più difficili compiti della mia vita. L’unica lampadina elettrica appesa al soffitto illuminava solo la parte anteriore della stanza e solo un debole raggio di luce raggiungeva la mia angusta cuccetta. Giacevo nella semioscurità pensando, ricordando, tentando di ricostruire la visione di Betsie. Vi fu un semplice scalpitio di piedi vicino al mio letto e alzai lo sguardo. Una donna russa, magra e sottile, stava camminando lungo il corridoio fra i letti in cerca di un posto per dormire. Le russe non erano ben viste, e tutte si voltavano dall’altra parte. Quando si avvicinò a me, vidi nei suoi occhi lo sguardo di un animale braccato. Come dev’essere terribile trovarsi in prigione e non avere neanche un posto per dormire. Il posto di Betsie accanto a me era vacante. Feci cenno alla donna e sollevai le coperte perché potesse entrare. Si infilò, grata, e si distese al mio fianco. Dividevamo lo stesso cuscino e, essendo i nostri volti molto vicini, volevo parlare. Ma non conoscevo la sua lingua. “Jesoes Christoes?” chiesi sottovoce. “Oh!” esclamò. Si fece rapidamente il segno della croce, mi gettò le braccia al collo e mi baciò. Colei che era stata mia sorella per cinquantadue anni, con la quale avevo

diviso tante gioie e tanti dolori, mi aveva lasciato. Ora una donna russa chiedeva il mio affetto. E vi sarebbero stati tanti altri che sarebbero stati miei fratelli e mie sorelle in Cristo in tutto il mondo. Fui svegliata da una mano gentile che mi scuoteva la spalla. La mezzanotte era passata e mi resi conto che ero caduta addormentata in mezzo alle mie valigie, seduta sul pavimento, appoggiata alla parete dell’atrio. “Venga”, disse dolcemente la mia nuova amica aprendo la porta, “il pavimento non è luogo confacente ad una figlia del Re”. Mi alzai dalla mia posizione scomoda e contratta ed entrai nel suo appartamento. Fui sua ospite per le successive cinque settimane. A mano a mano che le settimane passavano, tuttavia, mi resi conto che stavo esaurendo il denaro. Jan ten Have, l’editore del mio libercolo pubblicato in Olanda, stava visitando New York. Mi aiutò per quanto gli fu possibile e trascorsi la maggior parte del mio tempo a presentarmi agli indirizzi che mi erano stati dati in Olanda. Gli americani erano gentili con me ed alcuni erano anche interessati, ma nessuno mi chiese di andare a parlare. Erano tutti occupati con le loro proprie cose. Taluni dissero che sarei dovuta rimanere in Olanda. Con il passare delle settimane incontrai sempre maggior resistenza al mio ministero. Nessuno era interessato ad una zitella di mezza età proveniente dall’Olanda che desiderava predicare. “Perché è venuta in America?” cominciò a chiedere la gente. “È Dio che mi ha indirizzata qui. Tutto ciò che potevo fare era ubbidire”. “Ma questo non ha senso”, rispondevano. “La guida diretta di Dio non esiste. L’esperienza dimostra che dobbiamo adoperare il nostro buonsenso. Se lei è qui ed ha finito i soldi, è colpa sua, non di Dio”. Tentavo di ribattere in difesa di Dio: “Ma la guida di Dio è ancora più importante del buonsenso. Sono certa che egli mi abbia detto di portare il suo messaggio in America. Posso affermare che le tenebre più profonde sono illuminate dalla luce di Gesù”. “Ma abbiamo i ministri di culto che ci dicono cose simili”, era la risposta. “Certo, e posso dire, per l’esperienza avuta nel campo di concentramento, che ciò che dicono i pastori è vero”. “Sarebbe stato meglio se fosse rimasta in Olanda. Non abbiamo bisogno di altri predicatori. Troppi sono gli europei che vengono in America. Dovrebbero essere fermati”. Mi scoraggiavo sempre di più. Forse gli americani avevano ragione. Forse sarei dovuta tornare in Olanda al mio lavoro di orologiaia. I miei denari se ne erano andati, e tutto quello che mi rimaneva era il secondo assegno datomi dall’uomo d’affari americano. Tuttavia, esitavo ad incassarlo senza la sua approvazione. Cercai il suo indirizzo e mi trovai in

un imponente ufficio commerciale di Manhattan. Solo che questa volta la sua espressione non era amichevole come lo era stata in Olanda. “Le dispiace se incasso il suo secondo assegno?” domandai. “Come faccio a sapere che mi restituirà i soldi?” chiese. “È stata in America cinque settimane ed ha constatato che qui non c’è lavoro. Penso che sarebbe meglio se mi restituisse l’assegno”. Raccogliendo tutto il mio coraggio dissi: “Sono sicura che Dio ha del lavoro per me qui. Sono nella sua volontà, e in un modo o nell’altro le restituirò tutti i suoi denari”. Sbuffò, strappò l’assegno e ne scrisse un altro per un importo molto inferiore. Ero imbarazzata ed umiliata. Avevo del denaro in Olanda, un residuo del l’incasso del mio primo libro e una piccola rendita proveniente dalla vendita della ditta. Ma questi fondi non potevano essere trasferiti in America. Ritornai nella mia camera e chiusi la porta. Era il momento per una lunga consultazione con il mio Padre Celeste. Mi inginocchiai a fianco del letto e pregai: “Padre, devi aiutarmi ad uscirne. Se devo chiedere in prestito del denaro per ritornare in Olanda, la gente dirà: ‘Ecco, vedete, le promesse della Bibbia non sono vere. La guida diretta non esiste. Padre, per difendere il tuo onore, devi aiutarmi ad uscirne”. Mi buttai piangendo sul letto. Quindi lentamente, come una realizzazione che sorge dal profondo del cuore, arrivò la risposta: “Non ti preoccupare del mio onore, a quello ci penso io. In avvenire mi ringrazierai per questi giorni vissuti a New York”. Un grande oceano mi separava dalla mia patria. Non avevo denaro. Nessuno voleva ascoltare le mie conferenze. Tutto quel che possedevo era l’intima convinzione che Dio mi stesse guidando. Era abbastanza? Tutto quello che potevo fare era insistere ed insistere, per il suo nome. Prima di addormentarmi aprii la Bibbia, la mia costante compagna. Gli occhi mi caddero su un versetto dei Salmi: “Il Signore si compiace di quelli che lo temono, di quelli che sperano nella sua bontà” (Salmo 147:11). Era un filo sottile - un sottilissimo filamento - che si stendeva dal cielo fino alla mia piccola stanza nella 19ma strada a New York. Mi addormentai aggrappandomi con tutta la mia forza a questa speranza. Il giorno successivo assistetti in una chiesa di New York ad una funzione in olandese. L’oratore era il dottor Barkay Wolf. Erano presenti molti olandesi che si incontrarono poi per prendere il caffè nella sagrestia. Mi fu presentato il reverendo Burggraaff, che aveva battezzato la nostra principessa nata in Canada. “ten Boom”, ripetè, udendo il mio nome. “Spesso racconto la storia di un’infermiera con questo nome. In un campo di concentramento essa sperimentò un miracolo con un flacone di compresse di vitamine che non finivano mai. Lo racconto per dimostrare che Dio fa miracoli ancora oggi, come ai tempi della Bibbia. Lei conosce questa infermiera? È sua parente?”

Sentii la gioia sgorgare nel mio cuore. “Non è un’infermiera”, risposi. “È un’orologiaia. E le sta di fronte. Ho avuto io quella esperienza nel 1944”. “Allora deve venire con me a Staten Island a raccontare la sua storia alla mia congregazione”, esclamò. Trascorsi i successivi cinque giorni nella sua parrocchia, con lui sua moglie. Che gioia mangiare di nuovo buoni pranzi olandesi! Avevo tentato di scoprire per quanto tempo si potesse sopravvivere con uno spuntino da dieci cents: una tazza di caffè, un panino e un bicchiere di succo d’arancia, il tutto consumato in piedi al banco. Ora Dio mi riforniva non soltanto di cibo, ma una nuova speranza. Potevo vedere che il Signore effettivamente prende piacere in colo- ro che sperano nella sua benignità. Una settimana più tardi ritornai a Manhattan. Camminando lun- go la strada vidi una chiesa con un avviso sulla porta. Avvicinandomi, scoprii che era un invito a prendere parte alla Cena del Signore la domenica successiva: il giorno di Pasqua. Dopo la funzione il ministro mi diede l’indirizzo di Irving Harris, il redattore della rivista cristiana The Evangel e mi incoraggiò ad andarlo a trovare. In effetti, lo feci proprio la mattina successiva. Mi recai nel suo ufficio a parlare con lui. “So che sto andando nella direzione nella quale Dio mi ha guidato”, gli dissi, “ma sono in tanti ad affermare che non esiste la guida diretta”. “Non badi a loro”, suggerì Harris. “La Bibbia promette che Dio guiderà coloro che gli ubbidiscono. Ha mai sentito parlare di un buon pastore che non guida le sue pecore?” Harris mi chiese se avessi del materiale da poter adoperare nel suo periodico. Gli detti una copia di uno dei miei discorsi e gli dissi di adoperarne quanto più poteva. “C’è soltanto un inconveniente”, spiegò. “Non possiamo pagare. Questo giornale esiste solo per diffondere il Vangelo, non per profitti finanziari”. “Magnifico!” esclamai. “Sono in presenza di un americano che vede il denaro nella giusta prospettiva”. Harris mi diede un nome e un indirizzo di Washington D.C. Mi suggerì con insistenza di fissare un appuntamento e di andare a trovare Abraham Vereide. Allora non sapevo nulla di Vereide, sebbene più tardi scoprissi che era uno dei maggiori dirigenti cristiani d’America. Ero perplessa, temendo d’incontrare un altro rifiuto, ma sentivo di potermi fidare di Harris e seguii il suo suggerimento: feci una telefonata a Washington. Vereide mi rispose gentilmente e mi invitò a Washington come sua ospite. A pranzo c’erano altri tre ospiti, tutti professori che mi rivolsero domande per tutta la sera. Mi sentivo come una scolaretta interrogata dalla direttrice della scuola. Il mio inglese era rozzo e i miei

errori sembravano più evidenti del solito. Come potevo competere con persone così colte? Il pomeriggio successivo, però, mi fu chiesto di parlare ad un gruppo di donne. Chiesero specificamente che raccontassi loro le mie esperienze di prigionia. Questa volta mi sentivo a casa mia. Potevo finalmente dir loro ciò che il Signore aveva fatto nella mia vita. Mi ricevettero con calore, anzi, con entusiasmo. “Corrie”, disse più tardi una delle signore, “questo è il tuo messaggio. Comunicalo dovunque tu vada”. Quindi mi consegnò un assegno che mi consentì di restituire tutto il denaro che mi ero fatto prestare a New York. Improvvisamente la situazione era cambiata. Invece di essere disoccupata, dovevo fare attenzione agli eccessi di lavoro. La raccomandazione di Abraham Vereide mi procurò inviti da ogni parte. Gli inviti venivano tanto dai villaggi, tanto dalle grandi città. Parlai in chiese, prigioni, università, scuole e circoli. Per quasi dieci mesi viaggiai in America, raccontando ovunque che Gesù Cristo è reale oggi, anche nei momenti più bui. Dissi loro che egli è la risposta a tutti i problemi presenti nel cuore di uomini e nazioni. Io sapevo che era così, per quello che egli aveva fatto per me. Quando l’anno stava per finire, incominciai a rendermi conto che Dio voleva che ritornassi in Europa. Avevo nostalgia dell’Olanda, ma questa volta avvertivo che egli mi spingeva in un’altra direzione: verso la Germania. Il solo paese di cui avessi paura. Quando avevo lasciato il campo di concentramento tedesco, avevo detto: “Andrò dovunque Dio mi manderà ma, spero, mai in Germania”. Ora capisco che era un’affermazione di disubbidienza. F.B. Meyer disse: “Dio non riempie con il suo Spirito Santo coloro che credono nella pienezza dello Spirito o coloro che lo desiderano, ma coloro che gli ubbidiscono”. Più che mai desideravo essere riempita con lo Spirito di Dio. Sapevo che non avevo altra scelta che di andare in Germania. Io canterò per sempre la bontà del Signore; la mia bocca annuncerà la tua fedeltà di generazione in generazione. (Salmo 89:1)

MUSICA DA CORDE SPEZZATE Nella sconfitta, i tedeschi avevano perduto la faccia. Le loro cose erano state distrutte e quando udirono l’enormità dei delitti di Hitler (di cui molti tedeschi erano all’oscuro) furono presi dalla disperazione. Allorché molti militari ritornarono in patria, sentirono di non aver nulla per cui vivere. Alcuni amici di Darmstadt mi aiutarono ad affittare un antico campo di concentramento da impiegare come asilo per profughi. Non era grande, ma c’era spazio sufficiente per circa 160 profughi e presto fu pieno, con una

lunga lista di prenotati. Lavoravo a stretto contatto con il programma di aiuto ai profughi della chiesa luterana (“dal Evangelische Hilfswerk”), nel campo di Darmstadt. Il filo spinato scomparve. Fiori, vernici a colori chiari e l’amore di Dio nel cuore della gente cambiarono un campo crudele in un rifugio dove la gente avrebbe trovato la via del ritorno alla vita. Le Marienschwestern (Sorelle di Maria), che avevano dedicato la loro esistenza a servire il Signore e persone spiritualmente affamate, assistevano con il loro lavoro donne e bambini. Pastori e membri di diverse chiese aiutavano invece a costruire case. Io viaggiavo e aiutavo a raccogliere fondi per il lavoro. Il campo era affollato. Alcune camere erano zeppe di famiglie. Chiasso e rumore regnavano ovunque. Le famiglie, molte prive del capofamiglia caduto in guerra, tentavano di svolgere le occupazioni più elementari della vita. Spesso camminavo nel campo e parlavo con gente sola, sconfitta e tentavo di portar loro speranza e gioia. Un pomeriggio osservai una donna anziana accoccolata nell’angolo di una grande stanza. Era ovviamente nuova nel campo. Era stata posta nella grande camera con altre tre famiglie e le era stato detto che poteva sistemarsi in quell’angolo. Vi si era rannicchiata, come un bambino picchiato, la veste sgualcita, consunta, stretta intorno al suo corpo fragile e sciupato. Potevo rendermi conto che era disturbata dal chiasso di tutti i bambini piangenti, ma soprattutto disfatta dalle vicissitudini. Mi avvicinai, sedetti al suo fianco sul pavimento e le chiesi chi fosse. Venni a sapere che era stata professoressa di musica al conservatorio di Dresda prima della guerra. Ora non aveva più nulla. Le chiesi di parlarmi della sua vita, sapendo che talvolta è di aiuto aver semplicemente qualcuno disposto ad ascoltare. Mi disse che un pastore di una città vicina le aveva messo a disposizione il proprio pianoforte. Aveva anche saputo che diversi bambini, figli di agricoltori del vicinato, desideravano ricevere lezioni di musica. Ma la casa del ministro era molto lontana e il solo modo di raggiungerla era a piedi. Tutto sembrava così difficile! “E stata professoressa di pianoforte?”, chiesi eccitata. “Io sono appassionata del massimo musicista tedesco, Johann Sebastian Bach”. Per un attimo i suoi occhi brillarono. “Le farebbe piacere accompagnarmi a casa del ministro?” chiese con grande dignità. “Sarei molto lieta di suonare per lei”. Era un grande privilegio, e sebbene dovessimo camminare per molti chilometri, mi rendevo conto che Dio stava facendo qualcosa di speciale. Sedette ad un piano sconquassato. Osservai lo strumento: sebbene fosse stato salvato dalle bombe, non era stato protetto dalla pioggia. Le corde, visibili attraverso l’intelaiatura deformata, erano arrugginite. Alcune erano saltate e si erano aggrovigliate alle altre. I pedali erano rotti da un pezzo e la

tastiera era quasi completamente priva della copertura d’avorio. Se anche una sola delle note avesse suonato, sarebbe stato un miracolo. Guardandomi, la vecchia signora chiese: “Che cosa desidera che suoni?” Pregai in silenzio, sapendo che un insuccesso in questo momento avrebbe potuto schiacciarla per sempre. Quindi, con mio stesso stupore, mi sentii chiedere: “Vuole per piacere suonarmi la Fantasia cromatica di Bach?” Ero esterrefatta. Perché avevo scelto proprio uno dei pezzi più difficili da suonare su quel piano sconquassato? Ma non avevo ancora finito di fare la mia richiesta, che notai una luce negli occhi della vecchia signora, e un lieve sorriso si delineò sul suo viso stanco. Annuì, e appoggiò le dita con grande maestria sulla tastiera in rovina. Potevo a fatica credere alle mie orecchie. Da quello strumento fradicio e sgangherato, al tocco delle sue agili dita sgorgava la meravigliosa musica di Bach. Mi vennero le lacrime agli occhi mentre pensavo alla Germania ferita, cui rimanevano soltanto i residui del passato, ma ancora capace di suonare bella musica. Una simile nazione, pensai, sopravvivrà per creare ancora. Mentre le note di Bach si alzavano nell’aria, mi ritornarono alla mente le parole di un antico canto evangelico scritto dalla compositrice cieca Fanny J. Crosby: Nel profondo del cuore umano, schiacciati dal tentatore, Giacciono sepolti sentimenti che la grazia può rinvigorire; Toccate da un cuore amorevole, risvegliate da mano gentile Vibreranno di nuovo le corde che erano spezzate. Mentre ritornavamo all’ex campo di concentramento, la mia compagna camminava con nuovo slancio. “Erano molti anni che non suonavo la Fantasia cromatica”, disse. “Un tempo ero pianista concertista e molti dei miei allievi sono oggi noti musicisti. Avevo a Dresda una bella casa che fu distrutta dalle bombe. Dovetti fuggire senza poter portare nulla con me”. “Oh no, lei sbaglia”, dissi. “Ha portato con lei la sua proprietà di maggior pregio”. “E quale sarebbe?” chiese turbata. “La sua musica. Perché ciò che è nel suo cuore non potrà mai esserle tolto”. Quindi raccontai ciò che avevo imparato a Ravensbruck, le parlai della visione di Betsie, e le dissi che l’amore di Dio esiste ancora, anche quando tutto il resto è crollato. “Nel campo di concentramento presero tutto ciò che avevamo, ci fecero stare nude e senza riposo per ore intere, ma non poterono togliere Gesù dalla mia testa. Chieda a Gesù di entrare nella sua vita: le darà ricchezze che nessun uomo potrà toglierle”. Ritornammo al campo in silenzio, ma sapevo che lo Spirito Santo stava

toccando il suo cuore, ricordandole cose che l’uomo non può strapparci. Ben presto dovetti lasciare il campo e spostarmi altrove. Il giorno che partii, sedeva ancora in quello stesso angolo della camera. Un ragazzo stava suonando la sua armonica a bocca, un bambino piangeva e si sentivano grida e il picchiare di un martello contro una cassa di legno. La camera era piena di rumori e non di suoni, ma i suoi occhi erano chiusi e aleggiava sul suo volto un leggero sorriso. Sapevo che Dio le aveva dato qualcosa che nessuno avrebbe mai potuto toglierle, mai più. Dopo la guerra, la Germania si ritrovò piena di ferite e di cicatrici, ma non tutte evidenti. In un angusto cubicolo del campo di Darmstadt incontrai un avvocato tedesco. Sedeva miserabilmente su una sedia a rotelle e i moncherini delle sue gambe uscivano da sotto una coperta distesa sul grembo. Era pieno di amarezza, di odio e di pietà per se stesso. Mi disse che una volta era stato membro attivo della chiesa luterana e che da ragazzo aveva suonato la campana della chiesa del villaggio dove viveva. Ora l'orribile ingiustizia della guerra gli aveva preso le gambe, ed egli era amareggiato contro Dio e contro gli uomini. Mi sentii attratta da lui, dato che alcune delle sue esperienze erano simili alle mie. Una mattina mi recai quasi di corsa nella sua camera per raccontargli qualcosa della mia vita. Lo trovai seduto sulla solita sedia a fissare una parete vuota. Il suo volto era terreo, i suoi occhi senza vita. Non sono mai stata capace di fare preamboli, così venni direttamente al motivo della mia visita. “La sola maniera di liberarsi dell’amarezza è di cederla”, dissi. Egli si volse lentamente e mi guardò. “Che cosa ne sa lei dell’amarezza?” chiese. “Lei ha ancora le sue gambe”. “Lasci che le racconti qualcosa”, gli dissi. “In Olanda, durante la guerra, un uomo venne a chiedermi di aiutarlo a liberare la moglie. Provai compassione e gli detti tutto il mio denaro. Convinsi anche i miei amici a fare lo stesso. Ma l’uomo era un traditore. La sola ragione per la quale era venuto da me era di farmi cadere in trappola, in modo da farmi arrestare. Non soltanto tradì me, ma l’intera famiglia e i miei amici. Fummo tutti mandati in prigione, dove tre membri della mia famiglia morirono. Mi parla di amarezza e odio. Lei odia soltanto le circostanze, ma io odiavo un uomo. Seduta in prigione nella mia patria, in attesa di essere trasportata in un campo di concentramento in Germania, l’odio e l’amarezza riempivano il mio cuore. Volevo che quell’uomo morisse. So che cosa significhi odiare. Ecco perché posso capirla”. L’avvocato girò la sua sedia per starmi di fronte. Ascoltava. Poi disse: “Così, anche lei ha odiato. Che cosa pensa debba fare con il mio odio?” “Quel che io posso dirle non ha importanza. Mi lasci dire piuttosto quel

che ha da dire il Figlio di Dio: ‘Poiché se voi perdonate agli uomini i loro falli, il Padre vostro Celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà i vostri falli’ (Matteo 14:15). Se perdoniamo le altre persone, il nostro cuore è reso adatto a ricevere il perdono”. L’avvocato si agitò sulla sedia a rotelle. Potevo vedere i muscoli del suo collo tendersi mentre si appoggiava alle mani per cambiare posizione. “Quando ci pentiamo”, continuai, “Dio ci perdona e ci purifica. Questo è ciò che io ho fatto, pensando che, se avessi confessato il mio peccato, Dio sarebbe stato fedele e giusto da purificarmi dal peccato e perdonarmi tutta la mia ingiustizia”. L’avvocato mi guardò scuotendo il capo: “È facile a dirsi questo, ma il mio odio è troppo profondo perché possa esser lavato “Non più profondo del mio”, replicai. “Tuttavia, quando lo confessai, non solo Gesù lo portò via, ma mi riempì di amore, fino al punto da poter amare il mio nemico”. “Vuol dire che ha effettivamente amato l’uomo che l’aveva tradita e che era responsabile della fine della sua famiglia?” Annuii. “Dopo la guerra, quando quell’uomo fu condannato a morte, ebbi uno scambio di corrispondenza con lui e Dio mi impiegò per mostrargli la via della salvezza prima che la sua condanna fosse eseguita”. L’avvocato scosse il capo: “Che miracolo! Che miracolo! Vuol dire che Gesù può fare questo a una persona? Dovrò riflettere molto su questo argomento”. Dato che ho imparato a non spingere una persona oltre il punto in cui Dio la lascia, salutai il mio amico e ritornai nella mia stanza. Un anno più tardi ero di nuovo a Darmstadt. I miei amici avevano dato a quest’uomo un’automobile con una speciale attrezzatura che gli permetteva di guidare senza gambe. Mi venne incontro alla stazione ferroviaria per portarmi al campo. Quando entrai nell’automobile, rise davanti al mio sguardo stupito. “Lei mi ha insegnato che Gesù è vittorioso”, disse. “Certamente non avrà paura ad andare in macchina con un uomo senza gambe”. “Ha ragione”, risposi. “Non avrò paura. Sono tanto felice di rivederla. Come sta?” “Bene, ma debbo dirle fin dall’inizio che ho ceduto a Dio la mia amarezza. Mi sono pentito e il Signore ha fatto proprio come aveva detto lei. Mi ha perdonato e ha riempito il mio cuore con il suo amore. Ora lavoro nel campo profughi e lodo il Signore perché può adoperare anche un uomo senza gambe, quando questi si arrende a lui”. Si fermò e quindi continuò: “Ma c’è qualcosa che devo sapere. Dopo che ha perdonato i suoi nemici, è finita una volta per tutte?” “Oh no”, risposi. “Proprio questo mese ho avuto una triste esperienza

con degli amici che si sono comportati da nemici. Avevano promesso qualche cosa, ma non hanno mantenuto la promessa. In effetti, hanno abusato molto della mia bontà. Ad ogni modo, ho passato la mia amarezza al Signore, ho chiesto perdono ed egli l’ha portata via”. Stavamo sobbalzando su una strada irregolare, ma l’avvocato faceva più attenzione a me che non alla sua guida. “E allora l’amarezza se ne è andata del tutto?” “No, proprio la notte successiva, alle quattro, mi sono svegliata e il mio cuore era nuovamente pieno di amarezza. Pensavo: come possono essersi comportati così male con me? E presentai di nuovo la cosa al Signore. Egli riempì di nuovo il mio cuore con il suo amore. Ma la notte successiva accadde lo stesso. Ero tanto scoraggiata. Dio mi aveva adoperata tante volte per aiutare la gente ad amare i propri nemici, ma ora mi sentivo sconfitta. “Quindi ricordai Efesini 6:10-20, dove Paolo descrive l’armatura di Dio. Egli dice che, anche se si è arrivati ad un punto morto, bisogna tener duro sul proprio terreno. Io ero ad un punto morto, così decisi di tenermi ferma sul mio terreno e l’amarezza e il risentimento caddero dinnanzi a me. “Senza il Signore Gesù, Corrie ten Boom non può essere vittoriosa. Io ho bisogno del Signore in ogni momento. Ed ho imparato che dipendo assolutamente da lui e per questo egli mi ha fatto ricca”. Eravamo proprio arrivati al campo profughi e il mio amico avvocato si fermò davanti all’edificio. Spense il motore e mi guardò con un sorriso. “Sono lieto di sentire ciò”, disse. “Perché qualche volta la mia antica amarezza ritorna. Ora però starò fermo sul mio terreno, esalterò la vittoria di Gesù sulla paura e sul risentimento, e amerò anche quando non voglio”. Il mio amico aveva imparato bene il segreto della vittoria: l’ubbidienza.

...perché l’amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato. (Romani 5:5)

AMA IL TUO NEMICO Lo avevo incontrato in una chiesa di Monaco: un uomo tarchiato, con un soprabito grigio, i capelli radi e un cappello di feltro marrone stretto fra le mani. La gente stava uscendo dal seminterrato dove avevo appena finito di parlare, spostandosi lungo le file di seggiole verso la porta posteriore. Si era nel 1947, ed ero venuta dall’Olanda nella Germania disfatta con il messaggio di un Dio che perdona. Era la verità che più avevano bisogno di sentire in quel Paese amaro, distrutto dalle bombe, e io, nel corso della conferenza, avevo presentato loro la mia immagine preferita. Forse perché il mare non è mai lontano dalla mente di un olandese, amavo pensare che proprio lì venissero gettati i peccati perdonati. “Quando confessiamo i nostri peccati”, avevo detto, “Dio li getta nel più profondo degli oceani, e spariscono per sempre. E sebbene io non riesca a trovare nella Scrittura un verso che lo affermi, credo che Dio ponga sulle rive un cartello che dice. Vietato pescare”. Volti solenni mi fissavano, senza osare credermi del tutto. Dopo un qualunque discorso fatto nella Germania del 1947, non c’erano mai domande. La gente si alzava in silenzio, in silenzio raccoglieva i soprabiti, in silenzio lasciava la stanza. E fu lì che io lo vidi, mentre si apriva una strada fra gli altri. Per un momento lo vidi con il soprabito e il cappello marrone; ma un momento dopo lo rividi in un’uniforme azzurra, con il berretto a visiera e l’insegna del teschio con le ossa incrociate. Rividi di colpo il grandissimo locale con le sue luci violente che piovevano dall’alto; il patetico mucchio di vestiti e scarpe al centro del pavimento; la vergogna di passare nuda davanti a quest’uomo. Potevo vedere davanti a me la fragile figura di mia sorella, con le costole che sporgevano sotto la pelle incartapecorita. Betsie, come eri magra! Il luogo era Ravensbruck, e l’uomo che ora si apriva la strada era un guardiano. Uno dei guardiani più crudeli. Ora stava davanti a me e mi porgeva la mano: “Un bellissimo messaggio, Fraulein! Come è bello sapere che, come lei dice, tutti i nostri peccati sono nel fondo del mare!” E io, io che avevo parlato così teneramente di perdono, piuttosto che

stringere quella mano frugai nella mia borsetta. Certamente non poteva ricordarsi di me; come poteva ricordare una prigioniera fra quelle migliaia di donne? Ma io lo ricordavo bene e ricordavo la frusta di cuoio appesa alla sua cintura. Mi trovavo faccia a faccia con uno dei miei aguzzini e il mio sangue sembrava raggelarsi. “Nel suo discorso ha citato Ravensbruck”; stava dicendo: “Io vi sono stato come guardiano”. No, non si ricordava di me. “Ma dopo”, proseguì, “sono diventato cristiano. So che Dio mi ha perdonato le cose crudeli che feci allora, ma vorrei udirlo anche dalle sue labbra. Fraulein,” e di nuovo mi tese la mano, “mi può perdonare?” E io stavo lì; io, i cui peccati devono essere continuamente perdonati, e non potevo perdonare. Betsie era morta in quel posto; poteva egli cancellare la sua lenta terribile agonia soltanto chiedendolo? Non potevano essere stati molti i secondi in cui egli stette lì con la mano tesa, ma a me sembrarono ore mentre lottavo con la cosa più difficile che mai avessi dovuto fare. Perché dovevo farlo, lo sapevo. Il messaggio secondo il quale Dio perdona ha una condizione preventiva: che noi perdoniamo coloro che ci hanno offeso. “Se non perdoni agli uomini i loro errori”, dice Gesù, “neanche il tuo Padre Celeste perdonerà i tuoi”. Conoscevo ciò non soltanto quale comandamento di Dio, ma anche come esperienza quotidiana. Dopo la fine della guerra avevo aperto una casa in Olanda per le vittime della brutalità nazista. Quelli che erano in grado di perdonare i loro antichi nemici erano anche capaci di ritornare nel mondo e ricostruire la loro esistenza, quali che fossero le cicatrici fisiche. Quelli invece che alimentavano la loro amarezza rimanevano invalidi. Era una cosa così semplice e così terribile. Ed io stavo ancora lì, con il freddo che mi stringeva il cuore. Ma il perdono non è un’emozione, sapevo anche quello. Il perdono è un atto di volontà, e la volontà può funzionare indipendentemente dalla temperatura del cuore. “Gesù, aiutami!” pregai silenziosamente. “Posso alzare la mia mano. Questo posso ancora farlo. Tu fammi avere il sentimento”. E così, in modo asettico, meccanico, posi la mia mano in quella tesa verso di me. E quando lo feci avvenne una cosa incredibile. Una corrente partì dalla mia spalla, scese lungo il braccio e balzò nelle nostre mani congiunte. E quindi questo calore risanante sembrò scorrere attraverso tutto il mio essere, facendo sgorgare le lacrime nei miei occhi. “Ti perdono, fratello!” gridai. “Con tutto il mio cuore!” Per un lungo istante ci stringemmo le mani, l’ex guardiano e l'ex prigioniera. Non avevo mai conosciuto l’amore di Dio in modo così intenso come allora. Ma anche così mi rendevo conto che non era il mio amore. Avevo tentato e non avevo avuto la forza. Era la forza dello Spirito

Santo, come è riportato in Romani 5:5: “...perché l'amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci è stato dato”.

Gesù, ripieno di Spirito Santo, ritornò dal Giordano, e fu condotto dallo Spirito nel deserto.... Gesù, nella potenza dello Spirito, se ne tornò in Galilea; e la sua fama si sparse per tutta la regione. (Luca 4:1,14)

NEL POTERE DELLO SPIRITO Mentre nella stazione ferroviaria di Basilea attendevo i miei bagagli, mi resi improvvisamente conto che non sapevo dove fossi diretta. Per dieci anni, dopo il mio rilascio dalla prigione, ero andata in giro per tutto il mondo secondo le istruzioni di Dio. Molte volte non sapevo perché dovessi andare in un certo posto, finché non vi arrivavo. Era diventata quasi una mia seconda natura non fare progetti per chiedere poi l’approvazione del Signore. Piuttosto, avevo imparato ad aspettare le direttive di Dio e quindi iscrivere il mio nome sulla tabella di marcia. Ma questa volta era diverso. Improvvisamente mi trovavo a Basilea e non avevo nessuna idea del come e del perché o con chi dovessi prendere contatto. Oltre a ciò ero stanca. Dormire ogni notte in un letto diverso, vivere con il materiale contenuto in una valigia, mi aveva esaurita. Avvertii nel mio cuore una sensazione di panico e sedetti tentando di ricordare da chi dovessi andare. A sessantatre anni poteva accadermi di essere così sovraccarica di lavoro da perdere la memoria? O peggio ancora: Dio poteva aver ritirato da me la sua convincente presenza per lasciarmi camminare da sola per una stagione? Nella mia valigia trovai un indirizzo. Per me non aveva un significato particolare, ma era tutto ciò che avevo per proseguire. Presi un taxi, ma la gente di quel posto mi era completamente estranea e sicuramente non aveva mai sentito parlare di me. Ero piuttosto disperata e spaventata. La gente mi parlò di un uomo con il quale potevo prendere contatto. Forse avrebbe saputo chi ero e perché fossi venuta a Basilea. Presi un altro taxi:, ma anche questo signore risultò estraneo al mio lavoro. Per dieci anni il Signore mi aveva guidata un passo dopo l’altro. Mai ero stata confusa o spaventata. Ora ero incapace di riconoscere la presenza di Dio. Certo, mi stava ancora guidando, ma, come il pilota che vola fra le nuvole, dovevo ormai basarmi sugli strumenti piuttosto che su quel che vedevo. Decisi di tornare a casa, in Olanda, per attendervi ulteriori ordini. A causa di una forte tempesta gli aerei non decollavano. Dovetti viaggiare in treno. Arrivata alla stazione di Haarlem, mi recai al più vicino telefono per chiamare Zonneduin, dove alloggiavo, alla periferia della città

di Bloemendaal. Ma andando verso la cabina telefonica scivolai sul marciapiede bagnato e in men che non si dica mi trovai lunga distesa sulla Strada. Un acuto dolore mi percorse l’anca e non riuscii a rimettermi in piedi. “Oh Signore”, pregai, “poni la tua mano sulla mia anca e toglimi questo orribile dolore”. Istantaneamente il dolore scomparve, ma ero ancora incapace di alzarmi. Gente cortese mi aiutò a salire su un taxi e un poliziotto domandò se poteva essermi di aiuto. “Come si chiama?” chiese. “Corrie ten Boom”. Apparve sorpreso e mi rivolse ulteriori domande. “È un membro della famiglia che arrestammo circa dieci anni fa?” “Proprio così”. Durante la guerra molti dei bravi poliziotti olandesi erano stati al servizio della Gestapo, con lo scopo preciso di aiutare i prigionieri politici. Quell’uomo era di servizio il giorno in cui la mia famiglia venne arrestata. “Mi dispiace molto per il suo incidente”, disse con comprensione, “ma sono lieto di rivederla. Non dimenticherò mai quella notte nella stazione di polizia. Eravate tutti seduti o sdraiati sul pavimento del comando. C’era il suo vecchio padre con tutti i suoi figliuoli e molti dei suoi amici. Ho spesso detto ai miei colleghi che c’era un’atmosfera di pace e di gioia quella notte al nostro comando, come se steste andando ad una festa e non alla prigione e alla morte”. Tacque un momento e mi guardò con bontà, come se tentasse di ricordare il mio volto. “Suo padre disse: ‘Prima di tentare di dormire, preghiamo tutti insieme e poi lesse il Salmo 91”. “Se ne ricorda!” esclamai. Dopo dieci anni quel poliziotto ricordava ancora quale Salmo avesse letto mio padre. Per un fugace momento, seduta in quel vecchio taxi su una strada di Haarlem, mentre la pioggia batteva violentemente sul tetto, mi concessi la sofferenza di guardare indietro. In quella stessa città eravamo stati arrestati; in effetti, la prigione era a breve distanza dal punto in cui stavo seduta. Quella era stata l’ultima volta che la nostra famiglia si era ritrovata tutta riunita. Dieci giorni più tardi era morto papà, più tardi Betsie; infine tutti se ne erano andati. Ora, dopo dieci anni, questo poliziotto ricordava ancora. “Chi dimora nel ritiro dell’Altissimo alberga all’ombra dell’Onnipotente’’ (Salmo 91:1). Ora il messaggio era chiaro. Sebbene non vi fosse luce a guidarmi, ero ancora nella volontà di Dio. In realtà, quando uno vive all’ombra dell’onnipotente, sembrerebbe che non abbia luce; ma questo è soltanto perché Dio stesso è vicinissimo. Mi appoggiai all’indietro sul sedile. “Dio caro, quando quest’ombra venne su di me pensavo che tu fossi andato via. Ora capisco che era perché

tu ti avvicinavi di più. Attendo ansiosa qualunque cosa tu abbia progettato per me”. Una radiografia mostrò che la mia anca non era fratturata, solo malamente lussata. Il dottore disse che sarei dovuta rimanere a letto per diverse settimane perché guarisse. Venni accolta nella clinica di Zonneduin, dove fui messa a letto, incapace di muovermi e di rigirarmi senza l’aiuto di un’infermiera. Ero una paziente molto impaziente. Entro cinque giorni mi sarei dovuta recare ad una conferenza studentesca in Germania, e a mano a mano che i giorni scivolavano via e mi rendevo conto che la mia anca non guariva abbastanza in fretta da permettermi di arrivare in tempo alla conferenza, diventavo irritabile. “Non vi è neanche un cristiano in tutta Haarlem che possa pregare per la mia guarigione?” I miei amici mandarono a chiamare un particolare ministro della città, che si sapeva aveva imposto le mani sui malati per guarirli. Quello stesso pomeriggio egli venne nella mia camera. In piedi vicino al mio letto disse: “C’è qualche peccato non confessato nella sua vita?” Che strana domanda, pensai. Sapevo che aveva accettato di venire a pregare per la mia guarigione, ma era compito suo divenire così personale circa i miei peccati e i miei atteggiamenti? Ad ogni modo, non dovevo cercare troppo. La mia impazienza e certe mie pretese nei riguardi della mia infermiera erano stati veri e propri sbagli. Chiesi all’infermiera di venire nella mia camera e, penten- domi del mio peccato, chiesi a lei e a Dio di perdonarmi. Soddisfatto, quell’uomo gentile tese quindi le mani e le pose sul mio capo. Mia sorella Nollie era morta appena un anno prima. Da allora il mio cuore era stato spezzato dal lutto. Avevo la sensazione di essere stata lasciata completamente sola e sapevo che l’insicurezza che avevo acquisito aveva contribuito al fatto che mi trovassi in quel letto, piuttosto che in Germania con gli studenti. Tuttavia, allorchè quell’uomo distinto e alto pose le mani su di me e pregò, avvertii una grande gioia! Il lutto mi lasciò e volli cantare con Davide: “Tu hai mutato il mio dolore in danza; hai sciolto il mio cilicio e mi hai rivestito di gioia” (Salmo 30:11). Avvertivo tutto intorno a me la presenza del Signore Gesù e sentivo che il suo amore scorreva attraverso di me e sopra di me come se venissi immersa in un oceano di grazia. La mia gioia diventò così intensa che infine pregai: “Basta, Signore, basta!” Il mio cuore stava per scoppiare, tanto grande era la gioia. Sapevo che si trattava di quella meravigliosa esperienza promessa da Gesù: il battesimo nello Spirito Santo. Guardai l’uomo che aveva pregato per me. “Posso camminare, adesso?”

chiesi. Egli sorrise. “Non lo so. Tutto ciò che so è che aveva chiesto una tazza e Dio le ha dato un oceano”. Dieci giorni più tardi ero in cammino verso la Germania, in ritardo, ma ancora piena di gioia traboccante. Solo dopo il mio arrivo mi resi conto del perché Dio avesse scelto quel particolare momento per riempirmi con il suo Santo Spirito: perché in Germania, per la prima volta, mi trovai faccia a faccia con molte persone indemoniate. Se io fossi andata con le mie forze, sarei stata consumata. Ma andando nel potere dello Spirito Santo, Dio potè operare molte liberazioni attraverso di me, allorché imposi ai demoni di andarsene dalle persone nel nome del Signore Gesù Cristo. Gesù aveva specificamente avvertito i suoi seguaci di non tentare di operare nel suo nome senza il suo potere. Come io stessa scopersi con la mia esperienza di Basilea, tentare di svolgere il lavoro del Signore con le proprie forze è un’impresa tale da confondere ed esaurire, ed è il più faticoso dei lavori. Ma quando siamo ripieni dello Spirito Santo, allora Gesù può operare facilmente attraverso di noi. Fu l’inizio di una nuova benedizione spirituale che ogni giorno mi porta a camminare sempre più vicino al Signore Gesù. Ora, sia che io stia camminando nella viva luce della sua presenza, o mi nasconda sotto l’ombra dell’Onnipotente, so che egli non soltanto è con me, ma anche in me. “Colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo’’ (1 Giovanni 4:4). “Quand’anche camminassi nella valle...” (Salmo 23:4)

CONNY Dopo aver viaggiato da sola per dodici anni, qualcuno si unì a me nei miei viaggi intorno al mondo. Il Signore vide e venne incontro alla mia necessità nella persona di Conny van Hoogstraten, una bella giovane donna olandese, che diventò la mia prima costante compagna di viaggio. La conobbi in occasione di una delle mie visite in Inghilterra. Lavoravamo bene insieme (non voglio dire che non avessimo difficoltà: capita sempre quando delle persone lavorano così strettamente collegate). Ad ogni modo, i momenti difficili venivano usati per portarci più vicino a Gesù e quindi imparavamo a camminare nella luce Luna con l’altra. Sì, 1 Giovanni 1:7-9 divenne una realtà, e il Signore usò Conny per innumerevoli persone in tutto il mondo, allo scopo di mostrare e insegnare loro la gioia del camminare nella luce.

Ridevamo molto insieme, perché il Signore aveva dato a Conny un’allegria contagiosa e un riso felice. Uno degli speciali doni di Conny era l’abilità di trasformare un alloggio in una casa. Le persone trovavano sempre una porta aperta e diventavano rapidamente amiche. Eravamo tanto differenti, ma il Signore ci plasmò insieme in un’unità adatta a svolgere il suo lavoro. Non dimenticherò mai il giorno - ora sono quasi otto anni - in cui Conny mi disse che qualcun altro era entrato nella sua vita e che avremmo dovuto pregare per un nuovo partner. Questo fu uno di quei giorni molto difficili, e la cosa migliore che potevo fare era uscire a fare una lunga passeggiata. Mi rendevo conto, più che mai, che Conny mi era tanto necessaria e che le volevo bene come ad una sorella. Non potevo capire il piano del Signore, ma durante quella passeggiata cedetti Conny al Signore, e così cedetti me stessa in un modo nuovo e affidai tutto il mio essere a lui che sapeva tutto meglio. Conny era in buone mani; perciò, perché non affidarmi a lui per il futuro? Quegli ultimi anni insieme erano stati tanto diversi da tutti gli altri anni. Nell’ultimo anno trascorso insieme il Signore mi indicò chiaramente di recarmi in Vietnam. Conny ed io ne parlammo insieme ed essa mi comunicò che il suo fidanzato non era favorevole alla sua andata laggiù. Così dovemmo guardarci intorno in cerca di qualcun altro. Era primavera, e mi capitò di conoscere un caro fratello nel Signore che mi comunicò di essere stato chiamato anche lui ad andare nel Vietnam. Me ne rallegrai e ringraziai il Signore mentre facevamo progetti per partire insieme. Il giovanotto era il Fratello Andrea, che si rivelò un ottimo compagno di viaggio. Nel Vietnam il Signore unì a noi un’infermiera molto brava che lavorava con il WEC. Essa si prese cura di me sia quando viaggiavamo che quando il fratello Andrea svolgeva da solo la sua missione in località molto pericolose. Non dimenticherò mai le tremende necessità negli ospedali e negli altri posti che visitai. Ma invece di segnalare tutte queste necessità a Gesù, le trattenni nel mio cuore pesante e sovraccarico. Come potevo essere ancora tanto sciocca! Con il cuore aggravato e il corpo dolorante, dovevo ancora andare in Indonesia. Oh, il Signore operò nonostante tutto, e la gente fu molto gentile con me e mi aiutò in molte maniere, ma il momento più felice fu quando sbarcammo ad Amsterdam. Ci recammo subito a Soestdijk, dove un’amica molto cara, Elisabeth van Heemstra (che a quel tempo stava a Gerusalemme), mi aveva messo a disposizione il suo appartamento. Questo era un grande dono da parte dei Signore! Non avevo più avuto nessun luogo che potessi realmente chiamare casa mia, ma ora lo avevo, e che rifugio era! Si trovava in un quartiere tranquillo della città. Qui Conny ed io trascorremmo i nostri ultimi mesi insieme e fu un periodo prezioso. Conny era indaffarata con i preparativi per il matrimonio e per la nuova casa nella quale sarebbero andati a vivere lei e suo marito. Molti amici di altri tempi venivano a salutarmi. Parlavamo e pregavamo molto, fiduciosi che il Signore

mi avrebbe dato una nuova compagna prima del matrimonio di Conny. Come sono meravigliose le sue vie! Il Signore rispose alle nostre preghiere e mi dette un’altra accompagnatrice olandese. Si chiamava Ellen de Kroon, era infermiera diplomata e amava molto il Signore. Non dimenticherò mai la prima volta che Ellen mi visitò. Erano presenti anche Conny e il suo fidanzato. Era una bella giornata di giugno e decidemmo di sedere fuori sul balcone. Dopo aver chiacchierato per qualche tempo, Ellen notò che mi stava venendo freddo; così si alzò, mi chiese dove potesse trovare uno scialle e me lo mise intorno alle spalle. Osservai il volto di Conny: era semplicemente radioso e gli occhi sembravano dirmi: “Guarda! Tu hai pregato per qualcuno che si prendesse cura di te e ti amasse, ed eccola qui”. Questa era una conferma anche per Conny, sapendo che Ellen avrebbe preso il suo posto. Il giorno del matrimonio di Conny, 1’1 settembre 1967, il Signore riempì il posto lasciato vuoto da Conny con Ellen, l'alta e bionda infermiera. Conny e suo marito non vivevano lontano da noi e Conny dedicò molto del suo tempo ad aiutare Ellen nel lavoro. Quasi un anno dopo il matrimonio, il marito dovette recarsi in India per diverse settimane. In quel periodo Conny mi accompagnò negli Stati Uniti per incominciare la stesura del libro Il nascondiglio, mentre Ellen badava al lavoro in Olanda. Sì, fu Conny che cominciò a scrivere a macchina quel libro che ha già benedetto tante vite in tutto il mondo. Sapevo che amava il lavoro che stava facendo, ma sentiva anche la mancanza di suo marito. Era cosa buona ricordarlo ogni giorno davanti al Signore. Le nostre preghiere ebbero risposta e il marito di Conny ritornò sano e salvo in Olanda. Io, invece, continuai i miei viaggi con la mia nuova accompagnatrice, Ellen. Erano passati appena due anni quando venimmo a sapere che Conny si era ammalata gravemente. Ritornammo in Olanda e ci recammo subito all'ospedale per visitarla. Sapevo che era molto malata perché era stata sottoposta a terapie tali da indicare una malattia mortale se il Signore non avesse fatto un miracolo. Quando entrammo nella camera di Conny, fu come entrare in un giardino fiorito, e nel mezzo di esso c’era Conny, quasi addormentata. Suo marito le sedeva vicino. Quel giorno lo specialista l’aveva informata circa la sua malattia e le aveva detto che non c’era speranza. Conny era preparata ad andarsene e ad essere con il suo Signore e Salvatore; ma fare quel lungo viaggio da sola era difficile per lei. Gesù le avrebbe chiesto questo? Lentamente disse: “Ho fatto molti viaggi durante la mia vita, ma c’era sempre qualcuno con me. Quando ero piccola c’era la mamma, in molti viaggi c’era con me Corrie e ora è qui mio marito. Ma chi sarà con me in questo viaggio?” Suo marito le prese gentilmente una mano e disse: “Conny, ecco la mia mano e appena Gesù verrà a prenderti poserà la tua mano nella sua!” Conny non rispose, ma dall’espressione del suo volto sembrava soddisfatta.

Improvvisamente si volse verso di noi e ci chiese di cantare per lei il Salmo 23. Inghiottii il nodo che avevo in gola e chiesi al Signore di aiutarmi ad unirmi agli altri nel canto. Ma omettemmo il verso che dice: “Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte...” Quando arrivammo alla fine, Conny disse: “Avete dimenticato una strofa; per favore, cantatela!” Così la cantammo, mentre le lacrime scorrevano sulle nostre guance. Poi Conny ricordò tutti gli amici in tutto il mondo che avevamo conosciuto ed amavamo e mi chiese di salutarli per lei. Ricominciammo a pregare e Conny pose le mani sul capo di Ellen dicendo: “Sii fedele fino alla morte e io ti darà la corona della vita” (Apocalisse 2:10). Conny morì di una morte vittoriosa. La sua vita aveva dato molto frutto perché aveva preparato molte persone ad incontrare il Padre. Il nostro Signore Gesù Cristo venne a chiamarla perché tornasse a casa a stare con lui per sempre.

“Questi sono i segni che accompagneranno coloro che avranno creduto: nel nome mio scacceranno i demoni...” (Marco 16:17)

L’AUTORITÀ SUI DEMONI Per settimane avevo viaggiato attraverso l’Europa orientale: Russia, Polonia, Cecoslovacchia, e avevo parlato in molti gruppi e nelle case e anche, occasionalmente, nelle chiese. Molte chiese erano ancora aperte in Europa orientale, sebbene i comunisti fossero molto rigidi circa chi dovesse predicare e che cosa si sarebbe dovuto dire. Ad ogni modo, in quanto ero una vecchia olandese, mi fu consentito qualche volta di parlare in una chiesa. Poi, come per un miracolo, fui invitata a parlare in una serie di riunioni tenute in una grande cattedrale di una grossa città comunista. Notai che i pastori amavano il Signore e avevano una grande passione per le anime perdute. Le prime sere parlai della vita abbondante in Gesù Cristo: della gioia, dell’amore indicibile, della pace che supera ogni comprensione. Fu come se venissi gioiosamente trasportata dallo Spirito Santo attraverso il grande magazzino di ricchezze che possediamo quando conosciamo Gesù. Descrissi con grandi particolari le preziose promesse a nostra disposizione in Cristo. Ma c’era qualche cosa che non andava. Sebbene alcuni gioissero, la maggior parte degli astanti sedeva semplicemente come radicata ai banchi. Erano come animali incatenati, che morivano di fame perché incapaci di raggiungere il cibo. E più io tentavo di dame loro, più mi rendevo conto che i loro cuori erano inceppati al punto da impedir loro di gustare il cibo che stavo offrendo. Ogni sera ritornavo nella mia camera con il cuore pesante perché sapevo che, sebbene questa cara gente volesse ricevere ciò che io stavo dando loro, non poteva. “E come se il diavolo avesse disposto una siepe intorno a questa gente, così che non la si possa raggiungere”, disse la mia compagna di viaggio. “Possibile che siano tenuti in schiavitù dai demoni?” mi chiesi. Aprii la Bibbia e lessi: “Nel mio nome scacceranno i demoni”. “Signore, che cosa debbo fare?” “Ubbidirmi!”fu la risposta. “Ma come, Signore? Sono in tanti a trovarsi sotto il potere dei demoni, e non posso conoscere ciascuno individualmente”. “Quando mai ho detto che puoi trattare solo con individui?” mi chiese.

Ero confusa, e ritornai alla sua Parola. Era evidente che il Signore voleva che io scacciassi tutti gli spiriti maligni nel suo nome. Tuttavia, sapevo che questo tipo di ministero era vietato nei Paesi comunisti. Quella sera doveva esserci l’ultima riunione. La grande cattedrale era affollata di gente, ma era la stessa di tutte le altre sere. Non erano in condizione di ricevere ciò che io stavo dando loro. Parlai di nuovo di Gesù vincitore. “Nel mondo avrete tribolazione; ma fatevi animo, io ho vinto il mondo" (Giovanni 16:33). Stavano lì seduti come statue di pietra, incapaci di afferrare la gioia del Signore. Sapevo che Dio mi imponeva di agire. Tremavo, ma non avevo scelta. “Devo interrompere il mio messaggio per un momento, amici”, dissi. “Molti di voi non possono afferrare le ricchezze che il Signore ci offre questa sera. I servi di Satana vi stanno tenendo sotto schiavitù”. Quindi ubbidii. Inspirai profondamente, innalzai un’ultima rapida preghiera e dissi a voce alta: “Nel nome di Gesù io ordino a tutte le potenze delle tenebre, che trattengono il popolo dalle benedizioni di Dio, di scomparire. Andate via! Uscite dal cuore di questa gente. Uscite da questa chiesa. Andate nei luoghi dove Dio vi manda”. Poi chiusi gli occhi, levai le mani in alto e pregai: “Signore, proteggici ora con il tuo prezioso sangue. Amen”. Ero spaventata, ma mi sentivo sicura. Sapevo che Dio mi aveva detto di farlo. Quindi aprii gli occhi e, osservando l’enorme congregazione, vidi accadere un miracolo. Le persone che prima erano come soggiogate, si ravvivarono. Incominciarono a rallegrarsi e, mentre continuavo il mio messaggio, sapevo che i loro cuori ansiosi bevevano ora l’acqua viva che versavo davanti a loro. Dopo la funzione dovevo incontrarmi con un grande gruppo di pastori locali che avevano assistito alla riunione. Allorché riuscii a liberarmi dalla folla di persone che venivano avanti per parlarmi, i pastori erano già riuniti. La loro conversazione era molto seria. “Come ha potuto farlo”, chiese un pastore, appena entrai nella stanza. “I comunisti non consentono alla gente di parlare dei demoni!” “Ho dovuto ubbidire a Dio”, fu la mia sola risposta. I pastori ripresero la loro discussione sulla riunione. Anche loro avevano notato che la gente era come legata. Avevano anche avvertito il rilassamento generale quando i demoni erano stati scacciati, ma ce n’erano alcuni che avevano studiato psicologia e altri che avevano studiato demonologia. Entrarono in una accalorata discussione sull’argomento. Io non avevo studiato né l'una né l’altra cosa; tutto ciò che sapevo era che Dio mi aveva detto di fare uso della mia autorità nel nome di Gesù. Così rimasi seduta mentre la discussione turbinava intorno a me. Finalmente uno dei pastori disse: “Conosciamo le promesse di Dio e i

comandamenti di Dio, ma chi fra di noi è mai stato disposto ad ubbidire, ad esempio, a Marco 16:17? Or questi sono i segni che accompagneranno coloro che avranno creduto: nel nome mio cac- ceranno i demoni”. Vi fu un lungo silenzio, in cui si avvertiva il disagio. Quando la Bibbia viene messa a confronto con la teologia dell’uomo, si originano sempre delle tensioni. Il pastore continuò: “Questa sera Dio ha dato a Corrie la grazia di assumere l’autorità di Gesù per cacciare i diavoli nel suo nome. Dovremmo essere grati anziché fare tante discussioni”. Questa fu la fine della discussione dei pastori, ma quale lezione imparai quella sera! È tragico stare con gente, specialmente uomini di Dio, che non riconoscono il fatto che siamo circondati non soltanto dagli angeli ma anche dalle forze delle tenebre. Qualcuno una volta chiese la mia opinione sui missionari di un certo paese. La mia risposta fu: “Essi hanno dato tutto, ma non hanno preso tutto. Hanno dato il paese natio, il loro tempo, il loro denaro, lussi e comodità; ma non si sono appropriati di tutte le sconfinate risorse delle promesse di Dio. Molti non conoscono le due preziose armi: il potere del sangue di Gesù e il diritto legale di ogni cristiano di far uso del nome meraviglioso di Gesù per cacciare i demoni”. Quando l’esistenza degli spiriti maligni è riconosciuta dai pagani, è generalmente considerata dal missionario superstizione e ignoranza; mentre l’ignoranza sovente è da parte del missionario che, accecato dal Principe delle potenze dell’aria, non riconosce la rivelazione data nelle Scritture circa i poteri di satana. Abbiamo bisogno di riconoscere il nemico allo scopo di sopraffarlo. Ma facciamo attenzione agli errori che C.S. Lewis descrisse nelle Lettere di Berlicche. Egli dice: “Vi sono due errori eguali e opposti in cui l’umanità può cadere a proposito dei diavoli. Uno è di non credere nella loro esistenza; l’altro è di credere e di avvertire un malsano interesse per loro! Gli stessi diavoli sono egualmente compiaciuti di entrambi gli errori ed accolgono con la stessa delizia un materialista o un mago”. Noi abbiamo una buona difesa e una buona guida: la Bibbia, la Parola di Dio. Ivi troviamo non soltanto le necessarie informazioni su satana e sui demoni, ma anche la descrizione delle armi e dell’armatura di cui abbiamo bisogno per combattere la battaglia spirituale. Dio vuole e si aspetta che noi siamo vincitori sulle forze delle tenebre: non soltanto per una vittoria personale e per la liberazione di altre anime, ma per la sua gloria, così che il suo trionfo e la sua vittoria sui nemici siano dimostrati. Vediamo quindi innanzitutto che cosa dice la Bibbia sulle forze delle tenebre. Il diavolo (o satana) ci viene presentato come una persona che si oppone a Dio e alla sua opera. È il “dio di questo mondo” che acceca la mente delle persone circa la verità della Parola di Dio. Essendosi ribellato

contro Dio, è stato espulso dal cielo; quindi ha provocato la cacciata dell’uomo dal paradiso terrestre. Gesù lo chiama “il padre della menzogna, un mentitore, un assassino” (Giovanni 8:44); egli opera sovente come “angelo di luce”, cercando la rovina degli eletti. Ma è stato maledetto da Dio. Gesù trionfò su lui sulla croce del Calvario e nella sua risurrezione. È stato ormai condannato e sarà infine distrutto. Vi sono diversi tipi di demoni che affliggono le persone in vari modi. Divulgano false dottrine, tentano di sedurre gli eletti opprimendoli, ossessionandoli, possedendoli. Essi conoscono Gesù, riconoscono il suo potere su di loro. Per loro l’inferno è la destinazione definitiva, come lo è per satana. In secondo luogo la Bibbia ci dà istruzioni a proposito della posizione che dobbiamo assumere di fronte a questi poteri. E quanto mai importante renderci conto che la nostra posizione deve essere in Cristo. Siamo chiamati a resistere al diavolo nella “completa armatura di Dio”, per virtù del sangue di Gesù, con la fede, la preghiera, e il digiuno. Ricordo per esempio che a Ravensbruck, quando avevamo così poco da mangiare, mia sorella Betsie disse: “Dedichiamo questo involontario digiuno al Signore, in modo che possa diventare una benedizione”. Quasi immediatamente scoprimmo che avevamo potere sui demoni che ci tormentavano e fummo in grado di esercitare quel potere cacciandoli fuori dalla nostra baracca. Ricordiamo che la Parola di Dio è per sempre e che i suoi comandamenti hanno per noi esattamente lo stesso significato che avevano per i discepoli venti secoli fa. Coloro che agiscono secondo questi comandamenti, in ubbidienza, dimostreranno l’onnipotenza di Dio. Sì, Gesù ha detto: “Nel mio nome essi cacceranno i demoni”; essi significa noi, oggi. La nostra lotta non è contro un esercito fisico, un partito politico, un’organizzazione ateistica... o qualcosa di simile. La nostra lotta è contro organizzazioni e forze spirituali. I demoni possono manifestarsi come risultato di peccati occulti, anche se commessi molti anni prima. Questi comprendono esperienze con l’ipnotismo, l’astrologia, la divinazione e altre forme di occultismo, alle quali talvolta ci dedichiamo “solo per divertimento”; questi demoni rimarranno in noi fino a che non saranno scacciati nel nome di Gesù. Dobbiamo fronteggiare il potere invisibile che controlla questo mondo oscuro e gli agenti spirituali che provengono da un autentico quartier generale del male. Perciò dobbiamo indossare l’intera “armatura di Dio”, in modo da essere in grado di resistere al male e, dopo aver combattuto fino alla vittoria, mantenere la nostra posizione di fede. Conny ed io stavamo visitando la Polonia. Conny era allora la mia

compagna costante. Facemmo la conoscenza di molti meravigliosi cristiani in quel Paese al di là della Cortina di Ferro. Ci incoraggiò sapere che Dio ci utilizzava per portare conforto e forza agli uomini e alle donne di Dio. Ad ogni modo, più si prolungava il nostro soggiorno, più ci sentivamo esauste. “Proprio non capisco”, disse Conny un mattino mentre ci alzavamo. “Mi sono appena svegliata da un’intera notte di sonno, ma sono già debole e stanca”. Anch’io avevo la stessa impressione. Pensavamo si trattasse di una qualche malattia che avevamo preso; tuttavia, nessuna di noi due sembrava veramente malata. Quindi un giorno, a Varsavia, incontrammo un vecchio amico olandese che era in Polonia con sua moglie, in viaggio con la loro roulotte. “Che gioia incontrarvi”, disse. “Come vanno le cose?” Guardai Conny ed essa guardò me. “Sa, Kees, entrambe ci sentiamo tanto stanche. Le nostre gambe sono pesanti, come quando si ha l’influenza. Tuttavia, non siamo affatto ammalate, solo stanche”. Kees ci guardò attentamente. “È la prima volta che lavorate in Polonia?” “Sì”, risposi. “Ma questo cosa c’entra?” “Adesso ve lo spiego”, disse Kees. “La vostra stanchezza non è nient’altro che un attacco del diavolo. Non gli piace il vostro lavoro in Polonia, perché qui è all’opera l’anticristo, che predispone il suo esercito”. Stese la mano e la pose sul mio braccio. “Corrie e Conny, dovete ricordarvi la protezione del sangue di Gesù. Dovunque voi dobbiate subire questi attacchi delle forze occulte, potete respingerle nel nome di Gesù”. Sapevo che quanto Kees stava dicendo era giusto. Sedevamo nella sua macchina mentre egli leggeva dei passi biblici. "Ma essi lo hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello e con la parola della loro testimonianza; e non hanno amato la loro vita, anzi l’hanno esposta alla morte” (Apocalisse 12:11). Quindi Kees pregò con noi, imponendo le sue mani su di noi nel nome di Gesù e respingendo le forze occulte che ci attaccavano. Mentre egli stava ancora pregando, avvertii che l’oscurità ci lasciava. Quando la preghiera terminò, ci sentimmo entrambe protette dal sangue dell’Agnello e tutta la nostra stanchezza era scomparsa. Dio ci aveva insegnato una pregevole lezione che avremmo ricordato in molte altre zone del mondo. L’avevamo imparata in un Paese dove regna una filosofia che nega Dio: solo facendo appello al sangue di Gesù si può rimanere in piedi e non cadere vittima del male. La stessa cosa è vera in qualunque città, scuola o edificio religioso. Se Gesù Cristo non è riconosciuto come Supremo, imperano le tenebre. Da allora in poi abbiamo viaggiato in parecchi paesi e sentito questa

stessa stanchezza venire su di noi. Sovente l’ho sentita nelle città americane. Ora so che significa semplicemente che mi trovo in un posto dove domina Satana; ma sia lodato il Signore! Io posso superarla quando confido nel potere del sangue dell’Agnello.

“Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”. (Matteo 5:44)

LUCI DALL’AFRICA PIÙ NERA Thomas era un negro d’alta statura, che viveva in una capanna rotonda insieme alla sua famiglia nel centro dell'Africa. Amava il Signore e amava la gente: una combinazione imbattibile. Il vicino di Thomas, che viveva dall’altra parte della strada polverosa, odiava Dio e odiava gli uomini che come Thomas amavano Dio. L’odio divenne sempre più forte finché, strisciando furtivamente di notte dall’altra parte della strada, quell’uomo diede fuoco al tetto di paglia della capanna di Thomas, mettendo in pericolo la vita di tutti. Ciò accadde per tre notti di seguito e ogni volta Thomas riuscì a balzare fuori dalla capanna e spegnere le fiamme prima che distruggessero il tetto e le pareti. Il fatto che non dicesse mai una parola scortese al suo vicino, dimostrandogli solo amore e perdono, fece sì che il suo vicino lo odiasse ancora di più. Una notte il vicino diede di nuovo fuoco al tetto di Thomas. Quella notte c’era un forte vento e mentre Thomas correva fuori per spegnere il fuoco, le scintille attraversarono la strada e incendiarono la casa del vicino. Thomas finì di spegnere il fuoco del suo tetto e quindi corse dall’altra parte della strada per spegnere quello del tetto del suo vicino. Riuscì a domare le fiamme, ma nel farlo si ustionò gravemente le mani e le braccia. Altri vicini riferirono al capo della tribù ciò che era accaduto. Il capo andò talmente sulle furie che mandò le sue guardie ad arrestare il vicino per metterlo in prigione. Quella sera Thomas venne alla riunione dove stavo parlando (come aveva fatto ogni sera). Osservai le sue mani gravemente ustionate e gli chiesi che cosa fosse accaduto. Con riluttanza mi raccontò la storia. “È bene che quest’uomo ora sia in prigione”, dissi, “così i suoi bambini non saranno più in pericolo ed egli non potrà tentare di nuovo di dar fuoco alla sua casa”. “Questo è vero”, ammise, “ma mi dispiace tanto per quell’uomo. E' un uomo eccezionalmente dotato e ora deve vivere insieme a tutti quei criminali in un’orribile prigione”. “E allora preghiamo per lui”, dissi. Thomas cadde in ginocchio e, sollevando le sue mani ustionate e bendate, cominciò a pregare: “Signore, io desidero che questo mio vicino ti

appartenga. Signore, ridagli la libertà e compi il miracolo che in futuro lui ed io diventiamo una forza attiva per portare il Vangelo alla nostra tribù. Amen”. Non avevo mai udito una simile preghiera. Due giorni più tardi potei recarmi alla prigione. Parlai ai prigionieri della gioia e dell'amore di Dio. Nel gruppo che ascoltava attentamente c’era il vicino di Thomas. Quando chiesi chi volesse ricevere Gesù nel proprio cuore, egli fu il primo ad alzare la mano. Dopo la riunione gli dissi che Thomas lo amava, che si era bruciate le mani nel tentativo di spegnere il fuoco per salvare la sua casa e che aveva pregato perché insieme potessero diffondere il Vangelo. L’uomo pianse a calde lacrime e annuì con il capo dicendo: “Sì, sì, sarà così”. Il giorno successivo lo dissi a Thomas. Egli lodò il Signore e disse: “Vede, Dio ha compiuto un miracolo. Non è mai troppo quello che possiamo attenderci da lui”. Mi lasciò, e corse lungo il sentiero con il volto splendente di gioia. Mi trovavo in Africa da tre settimane quando finalmente riuscii a visitare la prigione situata alla periferia della città. Chiesi al direttore se potevo parlare ai prigionieri. “Impossibile”, disse. “I prigionieri sono in punizione per tutto il mese in seguito ad una sommossa scoppiata in mezzo a loro. A nessuno è consentito vederli, tanto meno per fare loro un sermone”. Ero scoraggiata, ma sapevo che Dio mi aveva portata in quel luogo per qualche ragione. Così rimasi in piedi a guardare il direttore. Cominciò a sentirsi a disagio vedendomi lì ferma a fissarlo. Infine disse: “Vi sono alcuni prigionieri politici che sono stati condannati a morte. Vuole forse parlare con loro?” “Certamente”, dissi. Il direttore chiamò tre soldati armati fino ai denti che mi scortarono lungo un corridoio con porte munite di sbarre. In una cella c’era un uomo solo, seduto su una bassa panchina che gli fungeva anche da letto. Nella cella non vi era nient’altro. La luce entrava da una finestrella posta molto in alto, che lasciava filtrare solo una piccola macchia di sole che si rifletteva sul pavimento di terra battuta di quel luogo sinistro. Mi appoggiai al muro. Era un giovanotto dalla pelle nera e da denti molto bianchi. Sollevò il capo e apparvero due occhi pieni d tristezza. Che cosa potevo dirgli? “Signore, dammi un po’ di luce da passare a quest’uomo che vive in tenebre così fitte”. Finalmente gli rivolsi una domanda: “Hai sentito parlare di Gesù?” “Sì”, disse lentamente, “ho una Bibbia a casa. So che Gesù è morto sulla croce per i peccati del mondo. Molti anni fa lo avevo accettato come mio Salvatore e lo avevo seguito per qualche tempo fino a che le attività

politiche non mi assorbirono del tutto. Ora vorrei poter ricominciare di nuovo e vivere una vita consacrata a lui, ma è troppo tardi. Questa settimana morirò!” “Non è troppo tardi, amico mio”, dissi. “Sai chi ha causato la tua condanna a morte?” “Potrei darle l’intera lista di coloro che mi hanno messo qui”, rispose, digrignando i denti. “Conosco tutti i loro nomi e li odio”. Aprii la mia Bibbia e lessi: “Ma se non perdoni agli uomini i loro falli, neanche il Padre tuo perdonerà i falli da te commessi”. Chiusi la Bibbia e lo guardai: “Vuoi che tuo Padre ti perdoni prima che tu muoia?” “Certo che lo voglio”, disse. “Più di qualunque altra cosa al mondo. Ma non posso attenermi alle condizioni poste da lui. Non sono capace di perdonare. Sono giovane e forte e sano. Ho moglie e bambini. Questi uomini mi hanno fatto torto e ora proprio questa settimana si prenderanno la mia vita. Come posso perdonare tutto ciò?” L’uomo mi guardò con occhi pieni di disperazione. Avevo nel cuore una compassione così grande, tuttavia sapevo che dovevo essere dura, perché da ciò dipendeva il suo destino eterno. “Lascia che io ti racconti una storia”, dissi. E quindi gli parlai della mia esperienza nella chiesa di Monaco, dove il mio ex guardiano del campo di concentramento mi aveva chiesto di perdonarlo. “In quel momento sentii una grande amarezza gonfiarmi il cuore”, dissi. “Ricordai le sofferenze della mia sorella morente, ma sapevo che il mancato perdono mi avrebbe fatto più male che non le frustate del guardiano. Così gridai a gran voce al Signore: ‘Signore, ti ringrazio per quanto mi dici in Romani 5:5: L’amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci è stato dato. Ti ringrazio, ti ringrazio Signore, che il tuo amore in me può fare ciò che io non sono capace di fare’. In quel momento una grande corrente di amore mi attraversò e io dissi: ‘Fratello, dammi la tua mano: ti perdono tutto’”. Guardai l’africano seduto sulla panca. “Non potevo farlo da me stessa”, continuai. “Non ne ero capace. Gesù in me riuscì a farlo. Vedi, non tocchi mai tanto l’oceano dell’amore di Dio come quando ami i tuoi nemici”. L’uomo ascoltava mentre gli parlavo di Gesù. Quindi pregai con lui e me ne andai, con la certezza di incontrarlo nell’aldilà. Il giorno successivo un amico missionario venne a trovarmi. Mi disse che appena avevo lasciato la prigione il prigioniero aveva mandato un messaggio a sua moglie in cui diceva: “Non odiare coloro che mi hanno portato qui e che sono causa della mia morte. Amali. Perdonali. Io non ne sono capace e neanche tu lo sarai, ma Gesù in noi potrà farlo”. Quella notte dormii bene: sapevo perché Dio mi aveva mandato in Africa.

Avevo parlato in molte prigioni durante i miei viaggi attraverso il mondo, ma la prigione di Ruanda, in Africa, era la prigione più sinistra, più tetra che avessi mai veduto. Gli uomini erano tutti negri, le loro uniformi erano nere e sedevano sul terreno infangato. Avevo appena varcato il cancello della prigione con la mia interprete, una missionaria. Il vapore si sollevava dal fango, come avviene dopo una forte pioggia tropicale. Gli uomini sedevano su pezzi di carta, rami, foglie di banano, le gambe impiastrate di fango fino alle ginocchia. “Perché non entriamo nell’edificio?”, chiesi alla mia interprete. “Impossibile”, disse sottovoce, ovviamente intimorita dagli uomini. “Vi sono talmente tanti prigionieri che anche durante la notte solo metà può alloggiarvi”. Osservai i loro volti, i loro occhi neri come la loro pelle. Era lo sguardo che avevo visto tante volte a Ravensbruck: lo sguardo di coloro la cui speranza è morta. Infelicità. Disperazione. Ira. Come potevo parlare loro? Che cosa potevo dire io, una vecchia donna olandese, a questi disgraziati, per aiutarli a vivere? “Signore”, pregai, “non posso superare questa oscurità”. “Prendi la mia promessa: Galati 5:22”, mi rispose una voce interiore. Rapidamente presi la mia Bibbia e la aprii a quel passo: “Il frutto dello Spirito, invece, è amore..”. “Signore, ti ringrazio”, sussurrai. “Ma ho già un grande amore per questi uomini, altrimenti non sarei qui”. Proseguii nella lettura: “Il frutto dello Spirito, invece, è amore, allegrezza..”. “Allegrezza?” chiesi. “In questo ambiente?” Quindi ricordai quello che diceva Nehemia: “La gioia dell'Eterno è la mia forza”. “Si, Signore!” esclamai. “Ecco quello che mi occorre. Ecco quello che io richiedo: reclamo la tua promessa di allegrezza”. E mentre pronunciavo quelle parole, avvertii nel mio cuore una esaltante e meravigliosa sensazione. Era gioia, un’allegrezza maggiore di quanto avessi mai provato. Sgorgava dal mio intimo come un fiume, come una marea che salendo copriva le pianure salate della mia depressione e trasformava la triste fanghiglia della disperazione in una scintillante laguna di benedizione. Qualche momento più tardi fui presentata ai prigionieri che mi fissavano con odio. Dappertutto saliva il vapore e insetti pungenti ronzavano intorno alle loro caviglie e alle loro gambe incrostate di fango. Incominciai a parlare dell’allegrezza che noi proviamo quando conosciamo Gesù. Quale amico abbiamo in lui! Egli è sempre con noi. Quando siamo depressi, ci dà allegrezza. Quando sbagliamo, ci dà la forza di essere buoni. Quando odiamo, ci riempie con il suo perdono. Quando abbiamo paura, ci invita ad amare.

Molti volti mutarono e vidi che parte della mia allegrezza li stava contagiando. Ma sapevo bene quello che pensavano gli altri. Dopo il suo discorso potrai tornare a casa, lontano da questa puzzolente e fangosa prigione. E' facile parlare di allegrezza quando si è liberi. Ma noi dobbiamo rimanere qui. Quindi raccontai loro il seguente episodio. “L’appello del mattino a Ravensbruck era spesso il momento più duro della giornata. Alle quattro e mezza del mattino dovevamo stare in piedi, fuori delle nostre baracche, nel freddo gelido, nell’oscurità che precede l’alba, in gruppi di cento donne in fila per dieci. “In quel campo di concentramento non si usavano mai i nomi. Faceva parte del programma di disumanizzazione dei prigionieri. Bisognava togliere loro la dignità di persona, il proprio valore dinnanzi a Dio e agli uomini. Io ero nota semplicemente come la prigioniera 66730. “Tante volte l’appello durava fino a tre ore e ogni giorno il sole sorgeva un po’ più tardi e il vento gelido soffiava un po’ più forte. In piedi, lì nel grigiore dell’alba, tentavo di ripetere, con labbra tremanti, quel verso della Scrittura che è giunto a significare tanto per me: ‘Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Sarà forse la tribolazione, o la distretta, o la persecuzione, o la fame, o la nudità, o il pericolo, o la spada? Come è scritto: Per amor di te noi siamo tutti i giorni messi a morte; siamo stati considerati come pecore da macello’ (Romani 8:35-36). In tutto ciò c’era il potere della straordinaria vittoria riportata da Gesù che aveva dimostrato il suo amore per me morendo sulla croce. “Ma venne un giorno in cui ripetere quelle parole non mi servì. Avevo bisogno di qualcosa di più. ‘Oh Dio’, pregai, ‘rivelati in qualche modo’. “Quindi una mattina la donna che stava proprio di fronte a me cadde a terra. In un attimo una giovane guardiana piombò su di lei con la frusta in mano. ‘Alzati!’ gridò furibonda. ‘Come puoi pensare di star sdraiata quando tutte sono in piedi!’ “Era intollerabile. Non potevo stare a guardare. Certamente questa è la fine di tutti noi, pensai. Quindi, improvvisamente, un’allodola incominciò a cantare alta nel cielo. Le dolci, pure note dell’uccellino sorsero nell’aria calma e gelida. Ogni testa si volse verso l’alto, lontano dalle crudeltà intorno a noi, ad ascoltare il canto dell’allodola che si diffondeva sopra il crematorio. Le parole del Salmista mi attraversarono la mente: ‘Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così è grande la sua bontà verso quelli che lo temono’ (Salmo 103:11)”. Osservai gli uomini che sedevano di fronte a me. I loro volti non erano più pieni di oscurità e di ira. Stavano ascoltando intentamente, perché avevano davanti qualcuno che aveva camminato dove essi stavano camminando ora.

Continuai: “Là, in quella prigione, vidi le cose dal punto di vista di Dio. La realtà dell’amore di Dio era altrettanto certa quanto la crudeltà degli uomini. Oh, amore di Dio, quanto profondo e grande, Tanto più profondo del più profondo odio dell’uomo. “Ogni mattina, per le tre settimane successive, l’allodola apparve durante l’appello. Nella sua dolce canzone udii l’invito di Dio a distogliere i miei occhi dalla crudeltà degli uomini, per elevarli all’oceano dell’amore di Dio. “Un medico ebreo, Viktor Frankl, che nei campi di concentramento subì sofferenze molto maggiori delle mie, ha scritto un libro. Egli lo conclude con queste parole: ‘...dobbiamo riconoscere che l’uomo è quell’essere che ha inventato le camere a gas di Auschwitz; ma è anche quell’essere che è entrato in quelle camere a gas a testa alta, con la preghiera del Signore o lo Shema Yisroel sulle labbra’”. Sebbene stessi parlando con l’aiuto di un’interprete, lo Spirito di Dio operava attraverso noi due. Vidi apparire l’allegrezza sui volti di quasi tutti gli uomini seduti di fronte a me. “Ditemi”, li interpellai. “Sapete che Gesù è disposto a vivere nel vostro cuore? Egli dice: ‘Io sto alla porta e busso. Se uno ode la mia voce, e apre la porta, io entrerò’. Gesù vi ama e vivrà nel vostro cuore e vi darà allegrezza in mezzo a tutto questo fango. Chi lo desidera, alzi la mano”. Mi guardai intorno. Tutti gli uomini, compresi i guardiani, avevano sollevato le mani. Era incredibile, ma i loro volti rivelavano un’allegrezza che solo lo Spirito Santo poteva aver prodotto. Quando lasciai la prigione e ritornai alla macchina, tutti gli uomini mi accompagnarono. I guardiani non sembravano più preoccupati o ansiosi di scortarmi. In effetti, non impedirono neppure che i prigionieri uscissero dai cancelli e stessero intorno alla macchina. Quando aprii la portiera ed entrai, gli uomini cominciarono a gridare e a cantare qualche cosa, ripetendo sempre le stesse parole. “Che cosa gridano?”, chiesi alla mia interprete. Essa sorrise e disse: “Gridano: ‘Vecchia donna, ritorna. Vecchia donna, ritorna e raccontaci ancora di Gesù’”. La missionaria si volse verso di me mentre ci allontanavamo: “Debbo confessarle che pensavo quanto questo posto fosse impenetrabile per la luce del Vangelo. Ero stata qui già una volta e avevo preso tanta paura che mi ero ripromessa di non tornarci più. Ora, dato che

dovevo farle da interprete, ho visto che cosa può operare lo Spirito Santo. La gioia del Signore è anche per un posto come questo. D’ora in poi tornerò ogni settimana a parlare loro di Gesù”. Qualche mese dopo ricevetti da lei una lettera in cui diceva: “La paura se ne è andata. La gioia rimane”.

“Non portate né borsa, né sacca, né calzari, e non salutate alcuno per via... Rimanete in quella stessa casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno del suo salario...” (Luca 10:4,7)

DIO PROVVEDERÀ A quanto pare, in America la gente pensa che io non dovrei esitare a chiedere denaro per il mio ministero. Con esso si sostengono altre attività, come la traduzione della Bibbia e dei libri da mandare in molte parti del mondo. Ad ogni modo, fin dall’inizio del mio ministero, ho sentito che non era giusto chiedere denaro, neanche chiedere il rimborso delle spese di viaggio. Non volevo essere pagata per “servizi prestati”. Io volevo semplice- mente predicare il Vangelo e lasciare che il Signore provvedesse per me. Avevo imparato questa lezione molto presto nel mio ministero itinerante. Mi trovavo in Inghilterra e parlavo fra le altre cose dell’ex campo di concentramento in cui i profughi tedeschi erano da me aiutati. I miei ospiti mi avevano chiesto di farlo, dicendo di sapere che gli americani sarebbero stati pronti ad aiutarmi a mantenerlo. Dopo la riunione, una robusta signora ben vestita venne a porgermi un assegno bancario per un importo piuttosto alto. Era destinato al mio lavoro in Europa. “È stato molto interessante udire del suo lavoro”, disse. “E che cosa pensa delle altre cose che ho detto?” chiesi. “Le ha anche trovate interessanti?” Mi fissò con uno sguardo curioso. Io continuai: “Certo, è una cosa molto buona dare del denaro per l’attività evangelistica, ma oggi ho parlato anche della conversione. Dio non le chiede del denaro, vuole tutto il suo cuore. Vuole possederla interamente. Dio non vuole che io prenda il suo assegno”. Glielo restituii. Mentre parlavo osservai in lei uno sguardo altezzoso, orgoglioso. Con molta decisione essa si avvolse intorno al collo la cappa di pelliccia quindi, senza rispondere affatto, si allontanò con arroganza. Quando ritornai nella mia stanza guardai con tristezza gli altri assegni che mi erano stati dati. Dio mi stava forse parlando? Era un errore parlare del mio lavoro e incitare allo stesso tempo la gente a convertirsi o a perdonare i propri nemici? Era un errore ascoltare questi americani che mi facevano premura perché accettassi collette per il mio ministero? Caddi in ginocchio in preghiera. Dio conosceva le mie necessità. La risposta del Signore fu molto chiara: “D’ora in poi non devi mai più chiedere denaro”.

Una grande gioia invase il mio cuore e pregai: “Padre Celeste, tu sai che ho bisogno di denaro, ora più che mai. Ma d’ora in poi non chiederò più neanche un centesimo. Non vorrò nessuna garanzia prima che io vada a parlare di te. Nessuna copertura per le spese di viaggio. Neanche un posto dove sostare. Voglio confidare in te, certa che non mi abbandonerai mai”. Quello stesso giorno ricevetti due lettere. Una era di una donna svizzera. Scriveva: “Corrie, Dio mi ha detto che d’ora in poi non devi più chiedere denaro”. L’altra era di una mia sorella in Olanda che scriveva: “Questa mattina, mentre pregavo per il tuo lavoro, Dio mi ha detto chiaramente che non devi chiedere a nessuno appoggi finanziari. Provve- derà lui a tutto”. Pensai a quella notte nel campo di concentramento, quando mia sorella Betsie aveva parlato con me circa i nostri progetti per il futuro. “Come”, aveva detto, “non dovremmo mai preoccuparci del denaro. Dio è disposto a far fronte a tutte le nostre necessità”. Molti anni più tardi, di fronte a gravi ristrettezze, fui costretta a ricordare questo principio. Avevo ricevuto un ordine diretto dal Signore di andare in Russia. Il costo dei nostri biglietti e le spese sarebbero stati di cinquemila guilders. Ma quando guardai il mio libretto degli assegni, scoprii che avevamo solo tremila guilders in banca. “Signore”, pregai, “che cosa devo fare? Mi hai comandato di andare in Russia, ma io ho bisogno di altri duemila guilders”. Pensavo che questa volta Dio mi avrebbe consentito di scrivere ad alcuni amici facoltosi, per parlare loro delle mie necessità e chiedere loro di mandarmi il denaro per il viaggio in aereo. Udii invece una direttiva molto chiara da Dio: “Dà via duemila guilders”. “Oh no, Signore”, dissi, mentre sedevo a tavola nel mio appartamento a Baarn, in Olanda. “Tu non hai capito. Io non ho detto che voglio dare via duemila guilders; ho detto che mi occorre quella somma per andare in Russia”. È raro che Dio ascolti le mie considerazioni. Attese che io avessi finito con le mie obiezioni, e quindi ripetè il suo ordine originale. Questa volta però il suo ordine era ancora più specifico. Dovevo dare duemila guilders ad un certo gruppo missionario che ne aveva una necessità immediata. Non riuscivo a capire come le necessità di qualcuno potessero essere più immediate delle mie; ma passando sopra alla “saggezza del saggio”, sedetti e compilai l’assegno per quel gruppo missionario riducendo il mio conto in banca a mille guilders. Più tardi, lo stesso giorno, andai di nuovo a vedere se avessi ricevuto posta. Fra le lettere ce n’era una di una casa editrice americana che doveva stampare Il nascondiglio. Per qualche mese ci eravamo scritti e riscritti e finalmente, ma solo da due settimane, avevo firmato il contratto. Portai la

lettera in casa e l’aprii. Mentre la estraevo, un assegno volò sul pavimento. Era un anticipo dell’editore, denaro che non mi aspettavo di ricevere fino a che il manoscritto non fosse completato. Guardai la cifra: era più di quanto mi occorresse! Dio prende molto seriamente il suo divieto di chiedere denaro, così come parla molto sul serio quando dice che si prenderà cura di noi e ci proteggerà. Se cerchiamo di aumentare il nostro denaro, Dio ci lascerà fare, ma dovremo dipendere da noi stessi. Molte volte saremmo in grado di raccogliere un grande quantitativo di denaro con la nostra forza di persuasione o con insistenti e dirette richieste. Ma ci verrebbe meno la benedizione assai più grande che riceviamo quando permettiamo a Dio di far fronte a tutte le nostre necessità, secondo le sue ricchezze. E, come scoprii nel caso dei guilders occorrenti per il viaggio in Russia, Dio ha sempre per noi più di quanto pensiamo di chiedere. Preferisco essere il figliolo fiducioso di un Padre ricco che un mendicante alla porta degli uomini. Sì, il Signore non è soltanto il mio Pastore; è il mio tesoriere. È molto ricco. Tante volte mette alla prova la mia fede, ma quando sono ubbidiente, il denaro arriva sempre, proprio in tempo. L’ultima tappa del mio primo viaggio in Oriente fu Formosa. Era tempo per me di proseguire, quindi mi recai all’agenzia viaggi di Tai-Pei e diedi alla signorina un elenco di tutti i posti nei quali dovevo fermarmi nelle successive tappe del mio viaggio. Hong- Kong, Sydney, Auckland, quindi di nuovo Sydney, poi Città del Capo, Tel Aviv e infine Amsterdam. L’agente di viaggio prese nota di tutto e quindi chiese: “Qual è la sua destinazione finale?” “Il cielo”, risposi semplicemente. Mi scrutò perplessa. “Scritto come?” domandò. “C-I-E-L-O”, compitai assai lentamente. Dopo che l’ebbe scritto, rimase a guardare il pezzo di carta. Finalmente alzò gli occhi. “Oh, ora ho capito”, disse sorridendo. “Ma non intendevo questo”. “Ma io sì”, dissi. “E non ha bisogno di scriverlo perché ho già il mio biglietto”. “Lei ha un biglietto per il cielo?” chiese sorpresa. “Come lo ha ricevuto?” “Circa duemila anni fa”, risposi, notando il suo sincero interessamento, “vi fu Uno che acquistò il biglietto per me. E io dovevo soltanto accettarlo da lui. Il suo nome è Gesù ed ha pagato il prezzo del mio viaggio quando è morto sulla croce per i miei peccati”. Un impiegato cinese che lavorava alla scrivania accanto udì la nostra conversazione e si inserì. “Ciò che dice la vecchia signora è vero”, disse alla sua collega. Mi rivolsi al cinese. “E lei ha una prenotazione per il cielo?” gli chiesi.

Il suo volto si illuminò in un sorriso. “Sì, ce l’ho”, disse annuendo energicamente. “Molti anni fa, da bambino, ho ricevuto Gesù come mio Salvatore. Questo fa di me un figlio di Dio con un posto riservato nella casa del Padre”. “Allora è anche mio fratello”, dissi stringendogli la mano. Rivolgendomi all’impiegata dissi: “Se lei non dispone di una prenotazione per un posto su un aereo e tenta di salire a bordo, si trova di fronte a difficoltà. Ma se non ha un posto riservato per lei in cielo ed è giunto per lei il momento di andarsene, si troverà in difficoltà ancora maggiori. Spero che il mio giovane fratello qui non si darà pace finché non avrà fatto la sua prenotazione per il cielo”. L’impiegato cinese sorrise e annuì. Ero sicura che avrebbe continuato a testimoniare alla sua collega, ora che io gli avevo aperto la strada. Lasciai l’agenzia di viaggi con un buon sentimento nel cuore. Certo Dio avrebbe benedetto questo viaggio, dato che ero già partita con un così buon inizio. Però, quando arrivai nella mia camera e controllai il biglietto, scoprii che la signorina aveva fatto un errore nel percorso. Invece di mandarmi a Sydney, Città del Capo e Tel Aviv come avevo chiesto, mi aveva instradato da Sydney a Tel Aviv e quindi a Città del Capo. Presi immediatamente il telefono e la chiamai. “Perché ha cambiato il mio programma?” chiesi. “Il mio Principale mi ha detto che debbo andare prima a Città del Capo e poi a Tel Aviv. E lei ha invertito l’ordine. Dio è il mio Padrone, e io devo ubbidire a lui”. “Allora Dio ha commesso un errore”, disse un po’ seria e un po’ scherzosa. “Non c’è nessun volo diretto dall’Australia all'Africa dato che non c’è nessuna isola nell’Oceano Indiano sulla quale l’aereo possa fare scalo per rifornimento. Ecco perché deve prima andare a Tel Aviv e poi a Città del Capo”. “Ma no”, protestai. “Non posso seguire questo percorso. Debbo fare quello che il mio Principale mi ha ordinato. Dovrò pregare perché si trovi un’isola nell’Oceano Indiano”. Ridemmo tutt’e due e chiudemmo la conversazione. “Signore”, pregai, “se ho fatto un errore ascoltando le tue direttive, ti prego di mostrarmelo. Ma se ho udito correttamente, aprimi la strada”. Un’ora più tardi la signorina mi richiamò. “Ha veramente pregato per un’isola nell’Oceano Indiano?” chiese incredula. Prima che potessi rispondere continuò: “Ho ricevuto or ora un telegramma dalla linea aerea australiana Qantas. Proprio adesso hanno incominciato a far uso delle Isole Cocos come stazione di rifornimento e da domani avranno una linea diretta da Sydney a Città del Capo”. La ringraziai e riattaccai la cornetta. Era bello sapere che Dio non sbaglia nei suoi progetti. Ad ogni modo, sono testarda, e sembra che non impari mai bene le mie

lezioni. Proprio pochi giorni più tardi, dopo essere giunta a Sydney e mentre stavo per iniziare un breve viaggio ad Auckland, in Nuova Zelanda, mi trovai in un’altra situazione che sarebbe stata più semplice se avessi ricordato la lezione che mi era stata impartita a Formosa. Dato che dovevo rimanere ad Aukland soltanto per quattro giorni, prima di ritornare a Sydney e proseguire quindi per Città del Capo, raccolsi le mie cose essenziali in una sola valigia. Lasciai presso i miei amici a Sydney le altre valige, con l’intenzione di riprenderle quando sarei ritornata indietro per mettermi poi in cammino per l’Africa. Oltre al vestiario essenziale presi con me anche i miei taccuini, Bibbie, opuscoli e diapositive. Le mie diapositive, scattate in molti paesi, e i manoscritti dei miei sermoni mi sono molto preziosi. Sebbene raramente legga mentre parlo, mi sento più tranquilla quando ho le mie annotazioni davanti a me. Sono stata accusata dai miei amici di salire sul podio con tre Bibbie e cinque taccuini. Non mi pare che sia così, ma ho incontrato tanta gente e annotato tante idee che non posso ricordarmele tutte. Così cerco di portare tutte le annotazioni con me. Mentre stavo per lasciare la sala d’attesa dell’aeroporto di Sydney per dirigermi verso l’aereo, uno dei piloti mi osservò procedere faticosamente con la mia pesante valigia. Si offri di aiutarmi. “Devo fermarmi nella sala radio, prima”, disse, “ma poi porterò la sua valigia direttamente al suo posto”. Comunque sia, esitavo a lasciare la mia valigia, dato che era piena di tutto ciò che mi occorreva per il viaggio, a prescindere dai tesori di tutta un’esistenza. “Può fidarsi di me”, insistette il pilota. “Arriverò all’aereo prima di lei e lascerò la valigia sul suo sedile”. Con riluttanza mi separai dalla mia valigia e osservai il pilota uscire dalla porta. Pochi minuti più tardi salimmo sull’aereo e io mi affrettai al mio posto. La valigia non c’era. Allarmata, chiamai la hostess. Mi assicurò che la valigia era stata sistemata con il resto dei bagagli e che era perfettamente al sicuro. Tentai di rilassarmi sulla mia poltrona, quando decollammo, ma dentro di me avevo una spiacevole sensazione. L’aereo faceva sosta a Melbourne prima di dirigersi verso la Nuova Zelanda, oltre il Mare di Tasmania. Quando sbarcammo a Melbourne, c’era un messaggio radio ad attendermi. Come capitò a Giobbe, la cosa che più temevo mi era accaduta. Il messaggio veniva da Sydney. Una valigia, appartenente a Corrie ten Boom, era stata dimenticata nella sala radio. Ero frustrata e adirata. “Possono mandarmela?” chiesi all’impiegato della biglietteria. “Mi dispiace”, disse scuotendo il capo. “Il solo modo che abbiamo per potergliela far avere è di mandargliela con il nostro prossimo aereo per

Londra. Di lì andrà a Roma quindi a Tel Aviv e quindi..”. “Ohi, ohi, ohi”, borbottai facendogli segno di star zitto. “Non mi arriverà mai. Contiene tutti i miei tesori terreni e non è neanche chiusa. Dica loro di trattenerla a Sydney. La riprenderò quando ritornerà fra quattro giorni. Però intanto non ho niente con me, neanche uno spazzolino da denti”. Mi imbarcai sull’aereo e mi buttai sulla mia poltrona, delusa, adirata e piena di risentimento. Nel volo da Sydney a Melbourne avevo testimoniato alla hostess della mia fede in Gesù Cristo. Le avevo detto che Gesù è vincitore in ogni situazione e che ci dà la forza di lodarlo in ogni circostanza. Ora, ad ogni modo, non mi sentivo molto portata a lodarlo. Sollevai lo sguardo e notai che la hostess stava curvandosi su di me. “Che cosa meravigliosa è essere cristiani in un momento come questo”, disse. “La maggior parte della gente sarebbe piena d’ira e di risentimento”. Mi sforzai di sorridere e dissi: “Beh, dev’esserci qualche ragione: niente accade per caso ai figli di Dio”. Anche se stavo dicendo il vero, non stavo marciando verso la vittoria. La vittoria deve essere accompagnata da un’assoluta mancanza di risentimento, ma in quel momento invece ne traboccavo. Era sera tarda quando l’aereo decollò da Melbourne. Sarebbe stato un volo notturno per Aukland e io cercai di sistemarmi comodamente. Sotto di noi c’era il mare, e soltanto i motori dell’aereo ci tenevano sospesi in cielo. Sonnecchiai nervosamente e quindi fui svegliata da un odore di fumo proveniente dalla cabina di comando. Anche gli altri passeggeri si erano svegliati, ed alcuni di essi erano in piedi nel corridoio, allarmati. Qualche momento più tardi la hostess si avvicinò alla mia poltrona. “Ho buone notizie per lei”, disse sottovoce. “Stiamo ritornando a Sydney a riprendere la sua valigia”. “Sì, sono proprio buone notizie per me”, dissi. “Mi dica piuttosto se siamo in grave pericolo”. “No”, rispose sorridendo dolcemente e sprimacciando il mio cuscino: “abbiamo semplicemente qualche difficoltà all’apparato idraulico. Non c’è pericolo”. La seguii con gli occhi mentre andava da posto a posto, assicurando a tutti i passeggeri che non c’era alcun pericolo. Mi sporsi attraverso la corsia e domandai all’uomo della poltrona vicina che cosa significassero quelle difficoltà idrauliche. “Sono cattive notizie”, disse. “Tutti i meccanismi dell’aereo dipendono dal sistema idraulico. Gli alettoni delle ali, il meccanismo di guida e anche rimpianto d’atterraggio sono controllati da quello idraulico. Dato che il fuoco interessa quel sistema, significa che in qualsiasi momento il pilota potrebbe perdere il controllo dell’aereo”. Mi riappoggiai allo schienale del mio sedile e tentai di guardare fuori

dal finestrino. Al di sotto c’era l’oscurità del Mare di Tasman. L’odore di fumo era sempre molto forte nella cabina. Non avevo paura della morte. Spesso me la son trovata davanti da prigioniera. Ricordavo le parole di Dwight Moody: “La valle dell’ombra della morte non ha tenebre per il figlio di Dio. Ci deve essere luce, altrimenti non vi potrebbe essere ombra. Gesù è la luce. Egli ha vinto la morte”. Tuttavia, sapevo che non ero a posto con Dio perché non ero a posto con l’uomo. Avevo ancora risentimento nel cuore e sapevo che esso doveva essere rimosso prima che potessi pregare. Mi adagiai meglio nella mia poltrona e aprii il mio cuore a Dio, confessando il mio risentimento circa la mia valigia (che ora non aveva per me più nessun valore, dato che da un momento all’altro potevamo precipitare in mare) e gli chiesi di perdonarmi. Poi pregai ancora: “Signore, forse ti vedrò molto presto. Ti ringrazio che tutti i miei peccati sono stati cancellati dal sangue dell’Agnello”. Aprii gli occhi e mi guardai intorno. “E gli altri?”, mi domandai. “Sono preparati a morire?” Nessuno stava pregando. Tutti erano seduti e tesi ai loro posti. Osservai una donna indaffarata a mettersi il rossetto e scossi il capo. Come è stupido pensare di dover entrare nell’eternità con le labbra dipinte! Sentivo un forte impulso ad alzarmi in piedi per dire alla gente che mi stava intorno: “Amici, forse tra pochi minuti entreremo tutti nell’eternità. Sapete dove state andando? Siete pronti a comparire dinnanzi a Dio? C’è giusto il tempo per accettare il Signore Gesù”. Ma non riuscii a dire nulla. Volevo alzarmi in piedi per far loro premura a venire a Gesù, ma non potevo alzarmi. Avevo vergogna del Vangelo del nostro Signore Gesù Cristo. E non soltanto questo, ma nel mio cuore c’era la paura. Finalmente atterrammo: fu un buon atterraggio sicuro a Sydney. Mi fu restituita la mia valigia, ma non c’era gioia nel mio cuore. Anche se ero stata perdonata per il mio risentimento, avevo avuto vergogna del Signore Gesù. Trovai un posto nella sala d’aspetto e sedetti con la testa china e gli occhi chiusi. “Signore mio caro, non sono adatta ad essere una missionaria. Stavo per trovarmi alle porte dell’eternità e non ho avvisato nessuno”. Aprii uno dei miei taccuini e lessi sul margine di una pagina un’annotazione che avevo fatto molti anni prima: “Viaggiare con altri attraverso il deserto, soffrire la sete, trovare da sola una fonte e bere da questa, senza dirlo agli altri ed evitare loro atroci sofferenze, è esattamente come godere di Cristo e non dire agli altri di lui”. “Oh Signore”, gemetti, “rimandami a casa. Lascia che io tomi a riparare orologi. Non sono degna di essere una tua evangelista”. Mentre stavo seduta lì, abbattuta come Geremia, e tentavo di di-

mettermi dal mio incarico, vidi un uomo venire verso di me. Si presentò come un medico ebreo che aveva viaggiato con il mio stesso volo. “L’ho osservata durante queste ore nell’aereo, mentre la nostra vita era in grave pericolo”, disse. “Lei non mostrava né paura né ansietà. Qual è il suo segreto?” Un raggio di luce. Forse Dio mi dava un’altra occasione. “Io sono cristiana”, dissi allegramente. “Conosco il Messia, Gesù, il figlio di Dio. Egli è morto sulla croce per i miei peccati e anche per i suoi. Se anche il nostro aereo incendiato fosse caduto in mare, avevo la certezza di andare in cielo”. Sedemmo e chiacchierammo per molto tempo prima che egli si congedasse. Ma pochi minuti più tardi tornò. “Bisogna che sappia qualche cosa di più su questo Gesù che le dà tanta pace”, disse. Per quattro volte si alzò e se ne andò e continuò a tornare indietro. Ogni volta la sua richiesta era la stessa: “Mi parli ancora di Gesù”. Gli dissi che Gesù ci dà autorità su satana. Che Gesù ci ha promesso un posto in cielo. Che egli dà a tutti quelli che credono in lui il diritto di diventare figli di Dio. Il medico ebreo ascoltò tutto e finalmente se ne andò dicendo che gli avevo dato molto da pensare. Rimasi sola al mio posto. Il Signore, il mio tesoriere, mi aveva dato abbastanza della sua ricchezza perché io potessi condividerla con uno dei suoi figli affamati. Ero stata trovata idonea a evangelizzare, dopotutto. E nella scuola della vita avevo imparato un’altra pregevole lezione: “Quando sono debole, allora sono forte” (2 Corinzi 12:10).

Come un buon pastore, egli pascerà il suo gregge: raccoglierà gli agnelli in braccio, li porterà sul petto... (Isaia 40:11)

UN POSTO IN CUI STARE Ciascuno ha bisogno di un posto in cui stare. Una delle grandi gioie del cielo è che vi è un posto, un posto preparato. Io sono grata, perché vi sarà una casa speciale riservata proprio per me. Quando nacqui, mamma e papà vivevano sulla Korte Prinsegracht, un tipico canale di Amsterdam. Ero nata prematura e la mia pelle era cianotica. Zio Hendrik, il marito della zia Jans, mi aveva guardato ed aveva esclamato: “Spero che il Signore prenderà via presto questa povera piccola creatura, nella sua casa in cielo”. Ma i miei genitori e zia Anna non erano d’accordo con lui. Mi circondarono di amore e di cure. Dato che in quei giorni lontani non c’erano ancora incubatrici, piangevo molto per il freddo. Zia Anna, sapendo che mi mancava il calore di quel posto speciale che si trovava sotto il cuore di mia madre e dal quale ero venuta, mi arrotolava nel suo grembiule e mi serrava contro il suo petto. Lì ero calda e tranquilla. Molti anni più tardi mi trovavo in una casa primitiva in Africa. La vasca da bagno era costituita da un vecchio bidone che aveva contenuto del petrolio e che era stato segato a metà. Nel villaggio vivevano alcuni missionari che mi invitarono a pranzo da loro. Vidi una donna attraversare la cucina con la bambina di una missionaria bianca legata strettamente sulla sua schiena. “Oh! come tiene bene la sua bambina sulle spalle!” dissi alla mamma missionaria. La madre bianca sorrise e disse: “Questa mattina la mia piccola era spaurita, non faceva altro che piangere. Quando venne a casa la cuoca africana, dette uno sguardo alla bambina e disse: ‘Ah miss, mi dia la bambina, la terrò tranquilla io!’ Così se l’è legata sulla schiena e la bambina ha dormito tutta la mattina mentre la cuoca era indaffarata in cucina”. Potevo capire la piacevole sensazione di avere un posto, di “far parte”. Da piccola avevo spesso paura. Dormivo vicino a mia sorella Nollie, che aveva un anno e mezzo più di me e la pregavo di poterle tenere la mano. Essa rifiutava e mi dava invece da tenere il bordo della sua camicia da notte. Di tanto in tanto non le piaceva neppure che io mi attaccassi a quella, ma mi diceva di stringere l’orlo della camiciola della mia bambola.

Quindi, quando ebbi cinque anni, il Signore Gesù diventò per me una grande realtà. Mia madre mi disse che egli amava i bambini piccoli e che era disposto a vivere nel mio cuore se io glielo avessi chiesto. Lo feci, e una sensazione di pace e di sicurezza prese il posto della paura che avevo così sovente provata. Da allora in poi andai a dormire tutte le notti senza avere paura. Da bambina pronunciavo la seguente preghiera: Vado a dormire, sono stanca; chiudo entrambi i miei piccoli occhi. Signore, veglia ancora su di me, per tutta la notte. In tutti gli anni in cui sono stata una “vagabonda per il Signore”, ho avuto spesso paura. Ma nei momenti di paura ho sempre raggiunto e toccato l’orlo della tunica di Gesù. Egli non ha mai mancato di tenermi stretta a sé. Tuttavia, io attendo sempre il momento in cui avrò una casa in cielo. Qui, su questa terra, all’età di settantasette anni, per la prima volta ho trovato un posto tutto mio: un bell’appartamentino in Olanda, a Baarn. Anche se ci sto di rado (perché intendo continuare a viaggiare fino a che non morirò), è un posto dove posso appendere i miei quadri e tenere quei pochi mobili che ho recuperato dai miei giorni alla Beje. Tuttavia, anche con una “casa mia” qui sulla terra, si fa sempre più vivo in me il desiderio della mia dimora celeste. Quando ero bambina, zia Jans aveva composto una canzone per bambini. Ne ricordo due versi: Vorrei proprio venir su, Salvatore, in quella bella casa paterna. Da bambina facevo sempre confusione quando cantavo quella canzone. Invece di cantare “venir su”, cantavo “guardar su”. Gli adulti ridevano di questo mio errore, ma io pensavo che fossero molto stupidi. Con tutto il mio cuore intendevo quello che stavo cantando. Da bambina non desideravo andare in cielo, volevo soltanto guardar su. Ora però che i miei giorni sono diventati più lunghi, non canto più come quando ero bambina. Ora il mio desiderio più grande è di andare su, per tutta l’eternità, nella bella casa patema. L’ubbidire è meglio del sacrificio... (1 Samuele 15:22)

UBBIDIENZA L’ubbidienza è facile quando sai di essere guidato da un Dio che non fa mai errori. Conny ed io eravamo in Africa e un giorno, durante un momento di tranquillità, incominciai a rendermi conto che Dio mi spingeva a lasciare l’Africa. “Signore, dove vuoi che andiamo?”, chiesi. “In Argentina”, venne la risposta dal profondo del mio cuore. Argentina? Non ero mai stata in Argentina. Non conoscevo una parola di spagnolo. In quei giorni la navigazione aerea era piuttosto scadente in Africa e attraversare l’Atlantico fino a Buenos Aires sarebbe stata una specie di tortura. Tuttavia, mentre stavo dinnanzi al Signore, la parola Argentina diventò ancora più forte. “Sì, ma...”, incominciai a replicare. Poi ricordai che l’ubbidienza non conosce le parole “sì, ma...”, piuttosto, dice sempre: “Sì, Signore!” Qualche mese prima un missionario di nome Breson mi aveva scritto chiedendomi se ero disposta a parlare nella sua chiesa qualora fossi andata in Argentina. Non conoscevo molto bene Breson, quindi non avevo pensato molto a quell’invito. Ora, ad ogni modo, con Dio che mi parlava così chiaramente, mi sedetti allo scrittoio e scrissi una lettera a Breson, chiedendogli di venirci incontro a Buenos Aires e di organizzare qualche riunione per le mie conferenze evangelistiche. Aspettammo quasi un mese, ma non ottenemmo risposta. “Sei sicura che rientri nel programma del Signore andare in Argentina?” mi chiese Conny. “Forse questo Breson non sta più a Buenos Aires. Che succede se andiamo e non c’è nessuno ad incontrarci? Che cosa faremo?” Sporsi la mano e toccai quella di Conny: “Sì, io so che è la volontà di Dio che noi andiamo in Argentina. Qualche anno fa Dio mi parlò e mi disse di andare in Giappone. Non avevo soldi. Non conoscevo la lingua. Tuttavia, sapevo che Dio mi stava guidando. Finalmente misi da parte abbastanza denaro per il volo fino a Tokyo. Sbarcai dall’aereo in una notte scura e piovosa in quel paese straniero e dissi: ‘Signore, eccomi qui. Allora?’ Mi ricordai che David Morken era lì con il gruppo ‘Gioventù per Cristo’. Mi trovò una camera e a causa della mia ubbidienza Dio mi aprì molte porte per il ministero. Ero sola in quel viaggio, ma questa volta ho te. No, so che dovremo andare in Argentina”. Il volo aereo fu molto più lungo di quanto ci potessimo aspettare. Le coincidenze erano cattive e dovemmo passare un giorno intero in un lurido e caldo aeroporto africano in attesa di una coincidenza di volo che ci portasse in Africa Occidentale per il nostro volo transoceanico. Era quasi mezzanotte quando prendemmo il nostro ultimo aereo e potevo avvertire

l’ansietà di Conny. Ad ogni modo, ero sicura della guida di Dio. Arrivammo finalmente nell’affollato aeroporto di Buenos Aires. Mi guardai intorno fra le centinaia di persone frettolose, nella speranza di poter scorgere il viso di Breson, ma non lo trovai. Conny ed io lottammo con i nostri bagagli e alla biglietteria un uomo ci chiese, in cattivo inglese, se poteva mandare le nostre valigie al nostro indirizzo. “Non so ancora il mio indirizzo”, dissi. Conny appariva preoccupata. Indovinavo i suoi pensieri: Sei proprio sicura che l’Argentina sia il luogo dove il Signore vuole che tu lavori? Eravamo entrambe esauste per i voli notturni che si erano aggiunti alla fatica dell’attesa in tutti quegli aeroporti africani. Portammo le nostre valigie sul marciapiede e io mi sedetti. “Vedi se puoi trovare un taxi”, dissi a Conny. “Forse c’è un albergo della YMCA qui vicino”. Ma non c’erano taxi. L’aria era pesante e calda. Infine chiesi ad un uomo: “Sa dove c’è un albergo dell’YMCA?” L’uomo mi guardò con espressione vuota e proseguì il suo cammino. Sapevo parlare olandese, tedesco e inglese, ma nessuna di queste lingue mi serviva in quel momento. Sedemmo sulle nostre valigie e guardammo la corrente di traffico davanti a noi. “Zietta, zia Corrie, sei sicura che sia stata la guida di Dio a portarci in Argentina?” Guardai Conny. Il suo volto era sudicio e marcato da rughe di stanchezza. Anch’io avevo caldo ed ero stanca e infelice. Ma ero anche sicura della guida di Dio. “Sì”, dissi stancamente, “ne sono sicura”. “Non mi piacciono le zanzare argentine”, disse Conny schiaffeggiandosi un braccio. “Sono crudeli come le zanzare africane”. Ci guardammo ridendo. Ecco che ci trovavamo in un paese dal linguaggio a noi estraneo; l’Olanda era lontana lontana, e tuttavia stavamo ridendo. Quindi udii la voce di un uomo dall’altra parte della strada che gridava: “Bent u Corrie ten Boom?” “È Corrie ten Boom?” Il mio nome, la mia lingua! Che gioia! Riuscivo a mala pena a vedere l’uomo dall’altro lato della strada. Finalmente, dopo aver evitato diverse auto, salì sul marciapiede. “Sono il reverendo Mees”, disse porgendomi la mano. “Non pensavo che sarebbe venuta, ma sentivo che dovevo venire a controllare”. “Conosce il signor Breson?” chiesi. “Avevo sperato che ci venisse incontro”. “Non ha ricevuto la lettera di Breson?” chiese il reverendo Mees. C’era un’espressione preoccupata sul suo volto. “No, non abbiamo avuto notizie da lui”. Il reverendo Mees si battè la fronte con una mano e alzò lo sguardo al

cielo: “Oh, che guaio! Le aveva scritto una lettera per dire di non venire. Non è riuscito a organizzare nessuna riunione e ora è in un giro di missione nella giungla. Non sarà di ritorno che fra due mesi”. Mi rimisi a sedere sulle mie valigie, ancora più stanca di prima. “Sa se c’è un albergo dell’YMCA in città?” chiesi, come se questo potesse risolvere tutti i nostri problemi. Il reverendo Mees sorrise: “No, non mi risulta che ci sia un albergo dell’YMCA, ma una mia cara amica, una dottoressa, sapeva della vostra eventuale venuta. Mi ha chiesto di portarvi al suo ospedale e da lì lei stessa vi porterà a casa sua. Ha una camera disponibile in un piccolo appartamento dove potrete stare molto comodamente”. La dottoressa Gwen Shepherd ci ricevette cortesemente all’ospedale. Mi resi conto che era una preziosa figliola di Dio e perciò anche mia sorella. Ci condusse alla sua macchina e per la prima volta mi resi conto di quello che è il traffico a Buenos Aires; viaggiare nella giungla africana è più agevole. Non c’erano semafori. Ad ogni incrocio le macchine arrivavano di corsa insieme, su quattro file. Le prime a raggiungerlo erano le prime a passare. Non vidi mai un incidente (ma forse perché, per la maggior parte del tempo, tenevo gli occhi chiusi). Comunque, dopo essere andate un po’ balzellando e un po’ correndo per molte vie, raggiungemmo finalmente la casa dove ricevemmo una meravigliosa ospitalità. Quella sera la dottoressa invitò a casa sua un certo numero di dirigenti di gruppi giovanili ed ebbi la possibilità di testimoniare dinnanzi a loro. Il giorno successivo arrivò per me un altro invito a parlare e dopo poco tempo mi ritrovai più occupata di quanto non lo fossi mai stata in qualsiasi altro posto della terra. La dottoressa Shepherd aveva meravigliose capacità amministrative ed organizzò il lavoro per me. Era stata veramente la guida di Dio a mandarmi in Argentina. Quanta gioia avrei perso se avessi disubbidito. Ma forse la gioia più grande dell’intero viaggio l’avemmo un pomeriggio all’ospedale della dottoressa Shepherd. Mi fu consentito di entrare in una corsia dove venivano curati i pazienti affetti da poliomielite. Una camera era piena di gente imprigionata in polmoni d’acciaio. Non avevo mai visto prima quegli apparecchi ansimanti e rantolanti, e mi fecero paura. “Vuole parlare a qualcuno dei pazienti?” mi chiese una gentile infermiera. Mi guardai intorno e dissi: “No, credo di non essere in grado di parlare. Voglio semplicemente andare da qualche parte a piangere”. Tutte le volte che dico di non essere capace, ricevo dal Signore la stessa risposta. Egli dice: “Lo so che non sei capace. Lo so già da parecchio tempo. Sono lieto adesso che anche tu lo sappia, perché ora puoi lasciar fare a me”.

“Sì, Signore, fa tu”, dissi. E naturalmente il Signore agì. Andai da un polmone d’acciaio all’altro dicendo a uomini e donne che il Signore Gesù Cristo soffia in ciascuno di noi il suo Spirito Santo. Quindi giunsi ad un uomo su un letto a dondolo. Aveva un diverso tipo di poliomielite e invece di essere rinchiuso in un polmone d’acciaio, era steso su un letto che dondolava su e giù. Quando la sua testa si trovava in alto, poteva inspirare. Quando la sua testa si trovava in basso, espirava. L’infermiera mi disse che era ebreo. “Ah”, dissi, “sono felice di incontrare uno del popolo eletto di Dio. Il mio vecchio padre, la mia cara sorella e alcuni altri della mia famiglia sono morti nel campo di concentramento perché amavano gli ebrei. Anch’io sono stata in prigione per aver aiutato gli ebrei. Ma mi dica, conosce l’ebreo Gesù come suo personale Messia?” Il letto ondeggiò su e giù ed egli scosse il capo, perché non poteva parlare. Aveva un tubo nel naso e poteva soltanto muovere leggermente la mano per scrivere dei bigliettini. “Posso allora parlarle di lui?” chiesi. Prese il suo mozzicone di matita e scrisse su un piccolo taccuino a fianco del suo letto mobile: “L’ascolto”. Rimasi a fianco di quel letto e raccontai al mio amico ebreo del grande Messia, quello che il profeta chiamò: “Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre eterno, Principe della pace” (Isaia 9:5). Smisi di parlare e dalla mia borsa estrassi un piccolo ricamo. Da un lato era ricamata una bella corona. Sul rovescio il disegno era piuttosto confuso. “Vedendola su questo letto”, dissi: “in silenzio, immobile, penso a questo ricamo”. Presentai la parte posteriore del ricamo. “La nostra vita è così: vede com’è indecifrabile; vede come i fili sono annodati e aggrovigliati, confusi. Ma quando si volta il ricamo, può vedere che Dio sta effettivamente intessendo una corona per la sua vita. Dio ha un progetto per la sua vita e lo sta elaborando in bellezza”. Egli afferrò la matita e scrisse di nuovo: “Grazie a Dio sto già vedendo la parte bella”. Che miracolo! Capiva che Dio lo accettava come giudeo, così com’era. Pregai e ringraziai il Signore con lui. Quindi era tempo di andar via e la dottoressa Shepherd mi riportò alla sua bella casa. Il giorno successivo ritornai nella corsia dei poliomielitici e chiesi all’infermiera se potevo parlare con il mio amico ebreo. “Mi dispiace”, rispose, “ma il suo amico ebreo sul letto a dondolo non è più con noi. Proprio cinque minuti dopo che lei se ne è andata, mi ha fatto cenno di venire al suo fianco. C’era una meravigliosa luce nei suoi occhi. Scrisse su un pezzetto di carta: ‘Per la prima volta ho pregato nel nome di Gesù, poi chiuse gli occhi e spirò”. “Allora io non ne sono rattristata”, dissi. “Sono lieta. So che ha la sua corona di vita. Sia lodato il Signore!”

Dio ha uno schema divino per ciascuno dei suoi figli. Sebbene i fili possano sembrare aggrovigliati - come ci sembravano quando eravamo sedute fuori l’aeroporto di Buenos Aires - dall’altra parte c’è una corona.

Infatti i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie, dice il Signore. (Isaia 55:8)

LA VERA CORRIE TEN BOOM Mentre ero a L’Avana, mi fu chiesto di parlare ad un raduno di giovani nella sala dell’Esercito della Salvezza. Naturalmente ciò avveniva prima della presa di potere comunista; così c’era ancora libertà di parlare apertamente del Signore Gesù Cristo. Era una calda serata di giugno e il salone era piccolo e soffocan te. La riunione era prevista per le sette, ma un sempre maggior numero di gruppi giovanili giungeva gradatamente da diverse parti della città, cosicché sembrava che nessuno avesse fretta di incominciare. Come nella maggior parte dei Paesi latino-americani, tutto andava secondo il manana, manana, anche le funzioni religiose. Finalmente mi trovai seduta sul podio fra due uomini muniti di giganteschi tamburi. Uno di loro, un vecchio negro dai capelli bianchi, tentava di dimostrare il suo amore per il Signore picchiando vigorosamente sul suo tamburo. Il suono era quasi intollerabile. Il capitano dell’Esercito della Salvezza aveva una voce molto tagliente e dirigeva il canto con urli, agitando le mani e continuando a battere il ritmo sul pulpito. I giovani cubani cantavano a squarciagola battendo le mani e i piedi. Alle nove ero già sfinita, e non avevo fatto altro che starmene seduta ad ascoltare. C’era un tremendo frastuono nelle mie orecchie e la testa sembrava mi si spaccasse, tanto mi doleva. Finalmente fui invitata a parlare e la sala tacque. Fui grata per i pochi minuti di pace. Dopo che ebbi parlato, il capitano presentò un missionario che aveva portato con sé le sue diapositive. Si spensero le luci e tutti sedemmo, immersi in un tremendo calore, mentre il missionario incominciava la sua lunga serie di diapositive. Come molti missionari, era stato chiamato a svolgere anche un lavoro medico sul campo di missione; così molte diapositive riguardavano questo argomento. Scorreva una dopo l’altra le fotografie di droghe e di medicine che gli erano state date da diversi medici. “Questa particolare bottiglia di pillole mi fu donata dal dottor Smith!” tuonava. Quindi, passando alla successiva diapositiva, diceva: “E questa scatola di medicine mi fu mandata dal dottor Jones”. I giovani nella sala non erano per nulla interessati a quelle scatole, bottiglie e recipienti vari e iniziarono a brontolare. Il mormorio divenne

così forte, sempre più crescente, che il missionario dovette urlare per farsi sentire. Erano le dieci e mezzo quando finalmente la proiezione finì e le luci si riaccesero. Ora il locale era pieno di insetti volanti, falene, coleotteri e un certo tipo di scarafaggi volanti che ronzavano intorno alle lampadine nude e poi precipitavano giù sul pavimento o in grembo alle persone. I giovani cominciarono ad appollaiarsi sugli schienali delle panche, dei bambini dormivano sul pavimento e tutti sudavano profusamente. Pensai che non avrei più potuto resistere ancora per molto. Quindi il capitano salì di nuovo sul palco e incominciò a predicare. Un insetto volante mi entrò in un orecchio e un altro rimase impigliato nei miei capelli. Mi guardai in giro in cerca di una possibilità di fuga, ma ero bloccata dai giganteschi tamburi. Finalmente il capitano invitò la gente a venire avanti in segno di accettazione della salvezza da lui predicata. “Sicuramente nessuno è in condizioni di spirito tali da fare qualcos’altro oltre a tornare a casa”, mi dissi. Poi pensai: “Spero che nessuno venga avanti. Io ho un grande desiderio di uscire di qui e andare a letto”. Tuttavia, con mia grande sorpresa, la gente cominciò ad alzarsi dai posti e a venire avanti. Si inginocchiarono intorno alla transenna dell’altare. Erano venti persone. Vidi le lacrime negli occhi di alcuni giovani cubani e sentii, mentre il capitano parlava con grande persuasione, una voce piena d’amore. Allora realizzai un vergognoso stato d’animo: ero egoista. Avevo sperato che nessuno venisse salvato, a causa della mia personale stanchezza. Il mio sonno risultava più importante della salvezza dei peccatori. Oh, che terribile egoista ero! Improvvisamente il mio letto perse la sua importanza. Ero disposta a vegliare tutta la notte se Dio stava operando. Ma che cosa potevo fare con la mia opprimente sensazione di colpa derivatami dall’essere stata così egoista? Allora incominciai a lodare Dio, perché sapevo che cosa dovevo fare con il mio peccato. Lo confessai nel nome di Gesù al Padre Celeste e implorai il suo perdono. Con gioia fui in grado di alzarmi per pregare con i venti giovani che avevano preso l’importante decisione di donare la loro vita a Gesù Cristo. Quando la riunione giunse infine al termine, erano le undici e mezzo. La mattina successiva, domenica, dovevo parlare in una bella chiesa alla presenza delle più eminenti persone di L’Avana. Quando entrai nell’imponente edificio mi fu data una copia della rivista della parrocchia che era stata consegnata anche a tutte le altre persone. In essa lessi un articolo di presentazione del mio ministero. Diceva: “Corrie ten Boom è una celebre evangelista mondiale... È instancabile e completamente disinteressata nella sua assoluta dedizione alla causa del

Vangelo..”. “Oh Signore”, pensai, “se solo questa gente sapesse chi è la vera Corrie ten Boom, questa mattina non sarebbe venuta qui ad ascoltarmi”. “Diglielo”, mi rispose immediatamente il Signore. Ero seduta sul podio e osservavo il mare di facce che mi stava di fronte. “Ma Signore, se glielo dico mi respingeranno”. “Posso forse benedire una menzogna?” mi chiese il Signore, proprio dentro il cuore. “Posso soltanto benedire la verità. Tu vuoi la mia benedizione, vero?” Era giunto per me il momento di parlare. Il cortese ministro pronunciò una fiorita presentazione e mi chiese di accedere al pulpito. Prima di dare il mio messaggio, però, sapevo quel che dovevo fare. Lessi innanzitutto l'articolo su di me della rivista della parrocchia e poi dissi: “Qualche volta mi viene il mal di capo per l’aureola di gloria che la gente mette intorno alla mia testa. Volete veramente sapere com’è la vera Corrie ten Boom?” Quindi raccontai loro che cosa era accaduto la sera precedente: come il mio sonno fosse stato ai miei occhi più importante della salvezza dei giovani. “Questa”, dissi, “è Corrie ten Boom. Che egoismo! Che egocentrismo! Ma il bello è che Corrie ten Boom sapeva che cosa fare dei propri peccati. Li ha confessati al Padre e Gesù Cristo li ha lavati con il suo sangue. Sono stati gettati nel più profondo del mare e vi è stato posto sopra un cartello che dice: Vietato pescare. Corrie ten Boom è pigra, piena di sé. Gesù in Corrie ten Boom è esattamente il contrario di queste cose”. Quindi attesi. Ora che la congregazione sapeva che razza di persona io fossi, non avrebbe certamente più voluto ascoltarmi. Invece mi accorsi che tutti si sporgevano in avanti, ansiosi di ascoltare che cosa avrei detto. Invece di respingermi, mi accettavano. Invece di una bella chiesa composta di membri eminenti e una evangelista celebre in tutto il mondo, ci ritrovammo tutti peccatori, consapevoli però del fatto che Gesù è morto per sollevarci dal circolo vizioso dell’egoismo fino alla luce del suo amore. Dio aveva benedetto la verità! Perché il Figlio dell’uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto. (Luca 19:10)

POSTO DI CONTROLLO “CHARLIE” Conny ed io facevamo la fila con altra gente, fuori dal Checkpoint Charlie, il posto di controllo “Charlie”, la dogana per gli stranieri che volevano entrare a Berlino Est. Molti di quelli che erano in fila erano

olandesi, e notai che li facevano passare senza difficoltà. Tutto sembrava ordinaria amministrazione: consegnare il passaporto ad una guardia, camminare in fila, ricevere indietro il passaporto con un visto che consentiva di trascorrere solo una giornata a Berlino Est. Speravo che sarebbe stato altrettanto facile per noi quando fosse venuto il nostro turno. Finalmente fummo davanti allo sportello. La guardia controllò i nostri passaporti, consultò un libro e quindi si voltò e disse qualcosa ad un altro uomo dietro di lui. “C’è qualche difficoltà?” chiesi all’uomo. Si voltò e mi dette un’occhiata severa. “Venite con me”, disse facendo segno a Conny e a me di seguirlo in una cameretta. Ci interrogarono, quindi aprirono la mia borsa. Vi trovarono due libri. Uno di essi era uno dei miei libri che era stato pubblicato nella Germania Orientale. L’altro era una copia di Pace con Dio* di Billy Graham, anche in tedesco. Il funzionario prese il libro di Billy Graham ed esclamò: “Come? Un libro della ‘mitragliatrice di Dio!” Risi. “Mi piace l’appellativo che dà a Billy Graham. La prossima volta che lo vedrò gli dirò come l’ha chiamato: la mitragliatrice di Dio! Ad ogni modo, se non mi è consentito portare libri a Berlino Est, glieli lascerò e potrà farci passare”. “Oh no”, disse severamente. “Non è così facile. Prima di tutto dobbiamo avere una sua deposizione”. Prima di cominciare il suo interrogatorio mi perquisì per vedere se avessi altri libri nascosti. I suoi modi rozzi e bruschi non mi piacevano e glielo feci notare. “Mi sento veramente come se fossi di nuovo nelle mani della Gestapo”, dissi. “No”, disse sbalordito. “Io non sono della Gestapo”. “Certo, però ha gli stessi modi”, dissi francamente. Egli addolcì il suo comportamento, ma ci interrogò per più di tre ore. Una dattilografa stenografò tutto quello che dissi e lo trascrisse su un “Protocollo”. Venni a sapere che il mio nome era sulla lista nera della Germania Orientale, e questa era la ragione per la quale venivo interrogata così a fondo. Ero irritata, soprattutto perché avevamo solo poche ore per visitare i cristiani di Berlino Est e il nostro tempo veniva sprecato così nella stazione di guardia. “Signore”, mi lamentai silenziosamente, “perché ci stai trattenendo qui quando dovremmo essere per le tue cose a Berlino Est?” Quindi, a poco a poco, cominciò a farsi strada nella mia testarda mente olandese l’idea che Dio ci tratteneva nell’ufficio del corpo di guardia per uno scopo preciso. Egli non amava soltanto i cristiani di Berlino Est, ma

amava anche la polizia comunista di quell’ufficio e la dattilografa in uniforme. Che triste errore facciamo a volte quando crediamo che Dio si interessi soltanto dei cristiani. Sebbene Dio desideri che tutte le persone siano salvate, non ama gli uni più degli altri. In effetti, fu per il mondo intero che Dio dette il Figlio da lui generato, e lo stesso Figlio disse che non era venuto a chiamare a pentimento i giusti, ma i peccatori (Matteo 9: 13). Ricordai le parole di Gesù quando disse: “E sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per servire di testimonianza davanti a loro e ai pagani. Ma quando vi metteranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come parlerete o di quello che dovrete dire; perché in quel momento stesso vi sarà dato ciò che dovrete dire” (Matteo 10:18-19). Improvvisamente il mio atteggiamento nei confronti dell’ufficiale cambiò. Invece di un nemico, vidi in lui uno di coloro per i quali Cristo è morto. Allora risposi ad ogni domanda testimoniando della mia fede in Gesù. Diventò quasi una specie di gioco. Chiesi all’ufficiale: “Legge mai la Bibbia?” “No, io sono marxista”, disse caparbiamente. “La Bibbia è stata scritta anche per i marxisti”, dissi. “Dice che Dio amava tanto i marxisti che dette loro il suo Figlio unigenito in modo che ogni marxista che crede in lui non perisca ma abbia vita eterna”. Tanto l’ufficiale quanto la dattilografa stavano ascoltando attentamente. Proseguii parlando dei due problemi che affliggono la razza umana: il peccato e la morte; e affermai che la Bibbia ci dà la soluzione a questi problemi presentandoci Gesù. “Perché non tiene i miei libri e li legge?” chiesi. “Sarei lieta di mettere un autografo sul mio libro per lei e il volume di Billy Graham risponderà a molte sue domande”. “Debbo leggerlo?” chiese l’ufficiale. “Non le farà nessun male”, risposi ridendo. Anche l’ufficiale rise, ma poi, riprendendosi, divenne di nuovo molto serio e formale. “Vedo, Fraulein, che ha con sé della cioccolata. Per quale motivo?” “La porto ai figli del pastore che voglio visitare a Berlino Est. Lei non porta mai cioccolatini con sé quando va a trovare una famiglia con dei bambini?” “No, io porto fiori”, disse seriamente. “I fiori vanno bene per i genitori, ma i bambini preferiscono la cioccolata. Oltretutto, nelle mie prediche parlo spesso di cioccolata”. “Che gente originale abbiamo qui oggi!” disse l’ufficiale. “Porta con sé i libri di un uomo che parla come una mitragliatrice e poi mi dice che predica usando la cioccolata. Mi dica un po’, ma che razza di sermoni cava fuori da una tavoletta di cioccolata, mia vecchia signora?”

“Parecchi anni fa”, risposi: “parlai ad un gruppo di tedesche che si vantavano di essere intellettuali. Non volevano ricevermi perché credevano di essere più approfondite nella teologia di quanto non lo fossi io. Così l’ultima volta che andai da loro portai a tutte un po’ di cioccolata olandese. Dato che la cioccolata era molto rara dopo la guerra, accettarono avidamente il mio dono. Più tardi, quando mi alzai per parlare loro, dissi: ‘Nessuna mi ha detto nulla della cioccolata’. Negarono, dicendomi che mi avevano tutte ringraziato per essa. ‘Non intendevo dire questo’, dissi. ‘Intendevo dire che nessuna mi ha chiesto nulla di essa. Nessuna si è preoccupata di domandare se era stata fabbricata in Olanda o in Germania, la quantità di cacao, di latte, di zucchero e vitamine in essa contenute. Invece di analizzarla, l’avete semplicemente mangiata’. Quindi presi la mia Bibbia e dissi: ‘La stessa cosa deve accadere con questo libro. Se tentate di analizzarlo come un libro di scienza o anche come un libro di teologia, non potrete esserne nutrite. Come il cioccolato, deve essere mangiato e goduto, non smontato pezzo per pezzo’”. Smisi di parlare e mi accorsi ancora una volta che l’ufficiale e la dattilografa erano profondamente interessati a quello che stavo dicendo. Quindi l’ufficiale si irrigidì, si schiarì la voce e disse alla dattilografa: “Per piacere, batta a macchina il protocollo della signorina ten Boom e lasciamola passare”. Con ciò si alzò e lasciò la stanza senza voltarsi indietro. Sedevo tranquilla mentre la dattilografa finiva di battere la relazione. Qualche momento più tardi l’ufficiale fu di ritorno. Estrasse il foglio dalla macchina da scrivere e lesse ad alta voce: “Quando si trovava in prigione, Corrie ten Boom ricevette da Dio l’incarico di portare il Vangelo di Gesù Cristo in tutto il mondo. La sua chiesa le ha insegnato a portare la cioccolata quando visita famiglie con bambini”. L’ufficiale annuì e si congedò dicendo che doveva farlo leggere al suo superiore, prima di poter autorizzare il mio ingresso a Berlino Est. Mentre era fuori, parlai con la dattilografa, incoraggiandola ad accettare Gesù come suo Signore. Essa ascoltò attenta e sfogliò alcune pagine del mio libro. Ma quando l’ufficiale tornò, si irrigidì e ritornò alla sua macchina da scrivere. Consegnai il libro di Billy Graham all’ufficiale: “Signore, porti a casa questo libro della mitragliatrice di Dio. Cambierà la sua vita”. Tentò di fare un viso severo, ma nei suoi occhi potevo notare la sua fame e la sua sete per quelle cose. Senza una parola prese il libro e lo fece scivolare nella sua borsa. Consegnò il mio libro alla dattilografa e le fece cenno di metterlo nella sua borsa. Quindi aprì la porta e mi indicò la direzione di Berlino Est. “Mi dispiace di averla trattenuta così a lungo, Fraulein”, disse. “Ma ciò che abbiamo fatto qui è assai più importante

della visita che intende fare ai suoi amici”. Gli strinsi la mano e Conny ed io entrammo nella città comunista, domandandoci se l’ufficiale si rendesse veramente conto della verità della sua ultima affermazione. Ciò che dovevamo fare a Berlino Est era importante, ma ancor più importante era stato portare la buona novella di Gesù a coloro che camminano nelle tenebre.

Se siete insultati per il nome di Cristo, beati voi! Perché lo Spirito di gloria, lo Spirito di Dio, riposa su voi. (1 Pietro 4:14)

DINANZI ALLA MORTE Watchman Nee disse una volta: “Quando i miei piedi vengono frustati, anche le mie mani sentono il dolore”. I cristiani di tutto il mondo sono legati insieme in quanto Corpo di Cristo. Ma molti non si rendono conto che una parte del Corpo sta soffrendo la più terribile persecuzione e tribolazione della storia dell’umanità. Se siamo membri dello stesso Corpo - come effettivamente siamo - dobbiamo soffrire con loro, pregare per loro e, dove è possibile, aiutarli. Ricordo di aver udito di una missionaria, una donna nubile, che abbandonò tutto ciò che aveva in patria per andare in Cina. “Non hai paura?” le chiese un’amica mentre si preparava a salire a bordo della nave. “Ho paura di una cosa soltanto”, rispose, “che io diventi un granello di frumento che non vuole morire”. Molti anni fa mi trovavo in Africa, in un piccolo Paese dove il nemico aveva avuto la meglio sul governo. Era in corso una grande oppressione contro i cristiani da parte dei nuovi governanti. La prima sera che mi trovavo lì, alcuni degli indigeni cristiani ebbero l’ordine di presentarsi alla stazione di polizia per essere registrati. Quando vi giunsero furono arrestati e durante la notte vennero uccisi segretamente. Il giorno successivo la stessa cosa accadde con altri cristiani. Il terzo giorno fu lo stesso. Ma a quel punto l’intero distretto si rese conto che i cristiani venivano sistematicamente assassinati. Era intenzione dei nuovi governanti di sradicarli tutti - uomini, donne e bambini - pressappoco come Hitler tentò di fare con gli ebrei. Dovevo parlare in una piccola chiesa la domenica mattina. La gente venne, ma potevo vedere stampate su ogni volto la paura e la tensione. Durante la funzione si guardavano l’un l’altro e i loro occhi esprimevano la stessa domanda: “La persona accanto a me sarà forse la prossima vittima? O sarà il mio turno?” Guardai quella congregazione di volti bianchi e neri. Il locale era caldo e soffocante. Farfalline e altri insetti entravano dalle finestre prive di zanzariere e svolazzavano intorno alle lampadine sospese sui banchi di legno sui quali sedevano gli indigeni. Guardavano tutti me, in attesa, con la speranza che io potessi portar loro una parola da parte di Dio per quell’ora tragica.

Aprii la mia Bibbia e lessi in i Pietro 4:12-14: “Carissimi, non vi stupite per l’incendio che divampa in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Anzi, rallegratevi in quanto partecipate alle sofferenze di Cristo, perché anche al momento della rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Se siete insultati per il nome di Cristo, beati voi! Perché lo Spirito di gloria, lo Spirito di Dio, riposa su di voi”. Chiusi il libro e incominciai a parlare semplicemente, come farebbe una zia con i suoi nipotini. “Quando ero bambina”, dissi, “andai da mio padre e gli dissi: ‘Papà, ho paura che non sarò mai abbastanza forte per essere una martire per Gesù Cristo’. ‘Dimmi’, rispose papà, ‘quando fai un viaggio in treno da Haarlem ad Amsterdam, ti do forse il denaro per il biglietto tre settimane prima?’ ‘No papà, mi dai il denaro per il biglietto proprio davanti alla biglietteria’. ‘E questo è giusto’, disse mio padre, ‘e così accade quando ci occorre la forza di Dio. Il nostro saggio Padre che è nei cieli saprà sempre quando avrai bisogno di qualche cosa. Oggi non hai bisogno della forza per essere una martire; ma appena sarai chiamata ad affrontare onorevolmente la morte per Gesù, egli ti fornirà la forza di cui avrai bisogno: proprio al momento giusto’”. Guardai i miei amici africani. Molti di loro avevano già perduto persone care dinnanzi al plotone di esecuzione o al carnefice. Sapevo che altri sarebbero certamente morti quella settimana. Stavano ascoltando attentamente. “Il suggerimento di mio padre mi fu di grande conforto”, dissi. “Più tardi dovetti soffrire per Gesù nel campo di concentramento. Effettivamente, egli mi diede tutto il coraggio e tutta la forza di cui avevo bisogno”. I miei amici africani annuivano con serietà. Anche loro credevano che Dio li avrebbe fomiti di tutto quello che occorreva, anche del potere di far fronte coraggiosamente alla morte. “Racconta ancora, zia Corrie”, disse un vecchio brizzolato. Era come se stessero facendo tesoro di quanta più verità possibile in modo da potersene avvalere nel giorno della prova. Raccontai loro un episodio che aveva avuto luogo nel campo di concentramento di Ravensbruck. “Un gruppo di mie compagne di prigione aveva preso contatto con me, chiedendomi di raccontare loro qualche storia della Bibbia. Nel campo di concentramento i guardiani chiamavano la Bibbia das Liigenbuch (il libro delle bugie). Per ogni prigioniero che fosse stato trovato in possesso di una Bibbia o scoperto a parlare del Signore, era stata sentenziata una morte crudele. Ad ogni modo, andai alla mia cuccetta, presi la mia Bibbia e ritornai al gruppo di prigioniere.

“Improvvisamente fui consapevole di una figura dietro di me. Una delle prigioniere formò con le labbra le parole: ‘Nascondi la tua Bibbia, è Lony’. Conoscevo bene Lony. Era una delle più crudeli Aufseherinnen, le guardiane. Sapevo di dover ubbidire a Dio che mi aveva guidato in modo così chiaro affinché portassi il messaggio della Bibbia alle prigioniere quella mattina. Lony rimase immobile dietro di me mentre finivo la mia lezione e quindi dissi: ‘Cantiamo un bel inno di lode’. “Potevo vedere sul volto delle prigioniere la preoccupazione e l’ansia. Prima ero stata io sola a parlare, ora anche loro dovevano adoperare la bocca per cantare. Ma sentii che Dio voleva che noi fossimo ardimentose, anche di fronte al nemico; così cantammo. “Quando l’inno terminò, udii una voce dietro di me: ‘Un’altra canzone come questa’. Era Lony. Il canto le era piaciuto e voleva ascoltarne ancora. Le prigioniere si rincuorarono e cantammo ancora e ancora. Dopo andai da Lony e le parlai del Signore Gesù Cristo. Stranamente, il suo comportamento incominciò a cambiare, finché, anche se conservò le sue maniere brusche, diventò un’amica”. Finii la mia storia e attesi in silenzio che le parole facessero il loro effetto sui miei amici africani. “Lasciate che vi dica ciò che ho imparato da quell’esperienza”, dissi loro. “Io sapevo che ogni parola che dicevo poteva significare la morte. Tuttavia, mai prima di allora avevo provato tanta pace e gioia nel cuore come quando detti il messaggio biblico alla presenza della mia nemica. Dio mi dette la grazia e la forza di cui avevo bisogno. Il denaro per il biglietto arrivò proprio nel momento in cui dovevo intraprendere il viaggio, non prima”. I volti dinanzi a me si aprirono in larghi sorrisi. Le rughe della paura e dell’ansia se ne erano andate. Ancora una volta i loro occhi scintillavano di gioia e i loro cuori erano pieni di pace. Terminai leggendo una poesia di Amy Carmichael. Seguiamo un Capitano dalle molte cicatrici; Dovremmo forse non averne noi? Sotto i suoi ordini perfetti Lo seguiamo nelle guerre. Affinché non dimentichiamo, Signore, quando ci incontreremo, Mostraci le tue mani e i tuoi piedi martoriati. La riunione era finita e gli africani si alzarono per andarsene. Quindi dolcemente, dal fondo della sala, qualcuno cominciò a cantare un'antica canzone evangelica. V’è una patria più bella del sole, E da lungi la veggo per fé.

Ivi il Padre mi attende e mi vuole, Ivi un posto Ei prepara per me. Là fra breve noi sarem, Ivi tutti incontrarci potrem; Là fra breve noi sarem, Ivi tutti incontrarci potrem. Non so quanti di loro furono uccisi quella settimana, ma qualcuno mi disse più tardi che più della metà di coloro che èrano stati presenti a quella funzione incontrarono la morte dei martiri e ricevettero così la corona del martirio. Ma io so che lo Spirito della gloria di Dio è disceso su di loro (1 Pietro 4:14).

...e un bambino li condurrà. (Isaia 11:6)

SALVATI DA UN NEONATO Uno dei miei più grandi privilegi è il visitare missionari in tutto il mondo. Noi che viviamo nelle comodità e nella sicurezza delle nostre case non possiamo neanche tentare di immaginare che cosa sia la vita di un missionario. Molti di loro sono privi di acqua potabile e si cibano molto semplicemente. Devono costantemente fronteggiare malattie e infezioni. Alcuni vivono in località primitive dove la loro stessa vita è costantemente in pericolo. Con mia grande tristezza, tuttavia per la gloria di Dio, ogni giorno cresce l’elenco di uomini e donne che immolano letteralmente la loro vita per Gesù sul campo di missione. Questi uomini e queste donne sono in prima linea, spesso in luoghi solitari, ma sanno che il loro Padrone, che li ha posti li, è con loro. Una volta, in una località primitiva dell’Africa, visitai una coppia di missionari. La loro piccola casa era situata in un angolino delizioso da cui si godeva una bellissima e invidiabile vista su laghi e montagne. Erano poveri dei beni di questo mondo, ma erano ricchi della grazia di Dio. Ammassati in quella piccola capanna c’erano sei bambini, l’ultimo dei quali aveva appena pochi mesi. “Venga con me”, disse la moglie del missionario prendendo in braccio il suo piccino e uscendo fuori. “Voglio raccontarle una storia”. Sedemmo su una panca dalla quale si godeva un panorama grandioso: una distesa di montagne, vallate tappezzate da una fitta giungla, laghetti e cascate. “Avere molti bambini piccoli può essere un peso per un missionario”, disse. “Viene sempre il momento in cui devi mandarli in Patria perché qui non ci sono buone scuole. Quando sono ancora piccoli i genitori possono goderseli”. Tacque un momento e guardò la graziosa creatura che dormiva fra le sue braccia. La sua voce era incrinata dall’emozione mentre continuava: “Quando seppi che stavo per avere un altro bambino, mi ribellai contro Dio. Avevamo già cinque piccoli e non mi sembrava giusto che dovessimo occuparci di un altro. La mia salute non era buona ed ero molto triste e infelice all’idea di ricevere un’altra creatura”. Le lacrime scorrevano sul suo viso mentre parlava. “Non bastava dunque avere cinque bambini? Oh, come piangeva il mio cuore davanti a Dio! Ci furono momenti in cui desideravo che si portasse via il bambino.

“Era giunto il momento della nascita. Ero molto debole e non c’erano medici nelle vicinanze. Non avevamo nessuno cui affidare gli altri bambini, così mio marito ci caricò tutti nella macchina e ci portò in città dove c’era un buon ospedale missionario. Rimanemmo lì finché nacque il bambino”. La minuscola creatura si agitò, distese le piccole braccia e sbadigliò. Come sembrava preziosa. La voce della madre divenne più dolce. “Quando ritornammo alla nostra casa con il neonato, venimmo a sapere che durante i pochi giorni in cui eravamo stati lontani, erano venuti i temuti Mau-Mau. Avevano assassinato tutti i bianchi dell’intera zona. Se fossimo stati a casa saremmo stati uccisi tutti”. Strinse al petto la creaturina, mentre le lacrime le scorrevano sulle guance. “Questo piccolo tesoro era stato mandato da Dio per salvare la nostra vita. Non mi ribellerò mai più contro il potere di Dio di darci e di toglierci la vita”.

I miei giorni sono nelle tue mani... (Salmo 31:15)

OGNI GIORNO UN MIRACOLO Erano i primi tempi della mia permanenza in India e dovevo parlare a un congresso missionario a Vellore. Quando arrivai a Bangkok mi dissero che il primo aereo per Vellore sarebbe partito solo dopo tre giorni. “Ma questo significa che dovrò perdere i primi tre giorni del congresso”, dissi. “Ci dispiace, ma non ci sono altre possibilità”, disse l’impiegato della biglietteria. Le linee aeree diedero disposizioni perché io potessi rimanere in un albergo fino alla partenza del primo aereo. Giunta all’albergo, domandai al cortese indiano che si occupava della mia sistemazione: “Non vi è proprio nessuna possibilità che io possa trovare un altro aereo per Vellore?” “La linea aerea sta facendo il possibile”, mi assicurò. “Quindi dobbiamo pregare che Dio l’aiuti”, dissi. “Lei è cristiana?” chiese sorpreso. “Si, certo”, risposi. “E lei?” Chinò il capo. “Lo sono stato, ma ora sono quello che chiamerebbe una pecorella smarrita”. “Alleluia!” dissi. “Allora è proprio l’unica pecorella per salvare la quale il pastore abbandonò le altre novantanove!” Avemmo una lunga conversazione nell’ingresso dell’albergo. Finalmente chiesi all’uomo se era disposto a ritornare a Gesù. “Oh sì”, disse. “Perché credo che Dio l’abbia trattenuta qui proprio per questa ragione”. Pregammo insieme nell’albergo e poi gli dissi: “Ora che Dio mi ha usato per compiere questo miracolo, vuole pregare con me per un altro miracolo, affinché io possa arrivare a Vellore in tempo per il congresso?” L’uomo balzò in piedi: “Mentre lei prega io debbo sbrigare di corsa un incarico. Ma tornerò presto”. Con questo uscì dalla porta, lasciandomi seduta fra le mie valigie. Mezz’ora più tardi era di ritorno. “Si prepari rapidamente a partire”, disse. “Credo che Dio abbia compiuto il miracolo. Abbiamo scoperto un aereo che va a Vellore seguendo una diversa rotta”. “È lei che ha provveduto a ciò?”, chiesi. “Certo”, sorrise, mentre si caricava le mie valigie sulle spalle. “Ma non

ringrazi me. Sono io che debbo ringraziare lei per avermi riportato al Pastore”. Corremmo come matti fino all’aeroporto e scoprii che l’aereo sarebbe dovuto essere in volo già da un pezzo e che lo stavano trattenendo proprio per me. Ansimando, mi arrampicai sulla scaletta. “Ah, professoressa”, disse la hostess chiudendo il portello dietro di me: “avevamo paura di doverla lasciare a terra”. “Professoressa?” chiesi. “Che cosa vuoi dire?” “Oh”, sorrise dolcemente, “sappiamo tutto di lei. Il nostro agente dell’albergo ci ha detto che lei è un’importante professoressa proveniente dall’Olanda che deve fare importanti discorsi a Vellore. Ecco perché abbiamo trattenuto a terra l’aereo fino al suo arrivo”. Presi posto vicino ad un finestrino. Fuori, la pecorella una volta smarrita sorrideva e faceva cenni di saluto. Agitai la mano in risposta. Certamente, pensai, Dio non soltanto aveva una ragione speciale per trattenermi a Bangkok, ma deve avere una ragione egualmente importante per volere che io vada a Vellore. Era proprio così. Tenni il mio primo discorso al congresso missionario di Vellore il mattino successivo. Parlai sulla realtà delle promesse di Dio contenute nella Bibbia. Dopo la funzione mi allontanai dalla folla e camminai nel bel giardino del centro congressuale. Era tutto una festa di colori: i croton verdi e rossi mescolavano i loro ricchi toni con l’arancione scuro dei faggi e le gradazioni ad arcobaleno dei cespugli fioriti. Che cosa meravigliosa, pensai, trovarsi al centro della volontà di Dio. “Mi scusi”, disse dietro di me una timida voce. Mi voltai e riconobbi una delle missionarie inglesi. Sembrava stanca e debole. Esitò a parlare, ma infine disse: “Crede veramente nelle promesse di Dio?” “Sì, certamente”, dissi. “Crede che Dio guarisca ancora gli ammalati?” “Certamente”, dissi. Le feci segno di sedersi accanto a me su una panchina di pietra vicino ad un ibisco in fiore. Dapprima le lessi alcuni passi della Bibbia dove Gesù dice che i credenti avrebbero imposto le mani sui malati ed essi sarebbero guariti (Marco 16:18-20). Poi le raccontai una recente esperienza fatta in Indonesia. “Abitavo in casa di un caro pastore cinese e di sua moglie”, dissi. “Dato che eravamo molto occupati, la moglie non aveva tempo per cucinare, così ogni giorno veniva in risciò un’altra donna che mi preparava un buon pranzo cinese. “Una mattina sedevo in casa guardando fuori dalla finestra. Vidi quella cara donna incedere barcollando sul sentiero. La testa sanguinava e il vestito era tutto strappato. Corsi fuori per andarle incontro e l’aiutai ad

entrare in casa. Il suo risciò aveva avuto una collisione con un altro ed essa aveva battuto la testa contro la parte metallica di quel veicolo primitivo. Dato che a quel tempo i cinesi non erano ben visti in Indonesia, nessun medico l’aveva voluta soccorrere. L’avevano semplicemente portata davanti a casa sua. “Sapevo che le sue condizioni erano gravi e sapevo anche che il medico non sarebbe mai venuto nella casa del pastore cinese. Perciò imposi semplicemente le mani su di lei e pregai nel nome di Gesù perché la guarisse. Essa guarì immediatamente”. La missionaria mi aveva ascoltata attentamente. “Deve conoscere il tipo di malattia di una persona prima di pregare per essa?”, chiese. “No, io non sono un medico. Io non guarisco, è il Signore che guarisce”. “Io sono molto malata”, disse tranquillamente. “Vuole imporre le sue mani su di me e pregare?” “Lo farò”, dissi. Essa scivolò lentamente giù dalla panca e si inginocchiò in quel bel giardino e io imposi le mani sulla sua testa e pregai che fosse guarita nel nome di Gesù Cristo. Si alzò lentamente in piedi. “Adesso le dirò qual è la mia malattia”, disse. “Sono lebbrosa”. Ero stata in colonie di lebbrosi e immediatamente fui presa da una grande paura. Oh, pensai, questo é troppo difficile per il Signore. Vorrei che mi avesse detto prima di che si trattava, così avrei saputo che non era il caso di pregare per lei. Ma poi mi sentii sommersa dalla vergogna e chiesi perdono a Dio per la mia poca fede e per la mia incredulità. Dopotutto, non me l’ero inventato io che egli avrebbe guarito gli ammalati, ma lo aveva detto proprio lui. Passarono alcuni anni e io perdetti nome e indirizzo della missionaria, sebbene molte volte ricordassi quel momento nel giardino e continuassi a pregare per lei. Cinque anni più tardi ero di nuovo in India e soggiornavo presso alcuni amici della Lega del Testamento Tascabile. Un pomeriggio qualcuno bussò alla porta della mia stanza. “Si ricorda di me?” chiese una bella signora. La guardai e dissi: “L’ho già vista, ma non ricordo di preciso chi lei sia”. “Si ricorda quando a Vellore ha imposto le mani su una malata di lebbra e ha pregato per lei nel nome di Gesù perché guarisse?” “Oh sì”, esclamai. “Certo che mi ricordo di lei. Ma ora è una persona completamente diversa”. Sorrise: “Il Signore mi ha guarito meravigliosamente. I medici dicono che sono completamente guarita dalla lebbra”. “Signore, ti ringrazio”, dissi ad alta voce. “Sia glorificato il tuo nome!

Tu sei pronto a venire incontro alle nostre necessità, anche quando la nostra fede è poca”.

L’erba si secca, il fiore appassisce, ma la parola del nostro Dio dura per sempre. (Isaia 40:8)

LA PAROLA DI DIO, LA SPADA... L’ARMA PERFETTA DI DIO Era stato un semestre di lavoro intenso. Ero andata dalla Nuova Zelanda in Corea dove avevo parlato in più di duecentocinquanta posti durante un periodo di tre mesi. Ritornai quindi a Hamilton in Nuova Zelanda per una breve visita prima di proseguire per l’India. In Nuova Zelanda avevo abitato presso una famiglia che imparava a memoria interi brani della Scrittura. Dato che conoscevo meno brani della Scrittura a memoria in inglese di quanti ne conoscessi in tedesco, decisi di incominciare anch’io a imparare a memoria la Scrittura. Sapevo che una volta che la Parola di Gesù fosse nascosta nel mio cuore, sarebbe rimasta con me per sempre. Lasciata la Nuova Zelanda, piena di fervore, arrivai nello Stato di Kerala, in India, per parlare a tutta una serie di piccoli gruppi di cristiani disseminati nella giungla. Il mio accompagnatore indiano mi venne incontro all’aeroporto e mi guidò verso un piccolo paese situato sul fiume dove ci aspettava una canoa. Vi entrammo e incominciammo il nostro lento viaggio discendendo il pacifico corso d’acqua. La nostra piccola imbarcazione scivolava lentamente sulle acque poco profonde. Tranne che per il rumore ritmico della pagaia e l’occasionale mormorio di un tenue vento tra gli alberi, il silenzio intorno a noi era profondo. Il mio accompagnatore indiano era a capo di un gruppo cristiano. Due volte l’anno i gruppi di una zona si riunivano in congresso per studiare la Bibbia, pregare e invocare il risveglio religioso. Avrei dovuto parlare tre volte al giorno in riunioni che si tenevano sotto un pandal: un’ampia tettoia che serve a proteggere la congregazione dal sole cocente, priva di pareti, così che la brezza può ristorare la gente seduta sul terreno erboso. Mentre il coolie spingeva la canoa lungo il fiume, il mio accompagnatore mi parlò del grande desiderio del suo cuore di conquistare anime a Gesù Cristo. “Finora non ho avuto successo”, disse. “Do sempre la mia testimonianza, ma non riesco a convincere la gente a prendere una decisione”. “Adopera la spada dello Spirito, la Parola del Signore?”, chiesi. “Temo

di non essere molto adatto a maneggiare quella spada”, ammise. “Proprio nel momento critico non riesco a trovare un testo che si adatti alla situazione”. “Sì, posso capirla”, confessai. “Talvolta mi trovo con lo stesso problema. Ora sto imparando a memoria certi versi delle Scritture che io chiamo il mio corso di pronto soccorso. Si tratta di Scritture di emergenza, che applico sulle ferite dell’anima fino a che non posso riferirmi al resto delle Scritture che porteranno un’ulteriore guarigione”. Il mio compagno di viaggio indiano si illuminò in viso e quindi gli raccontai una recente esperienza avuta in Canada, dove avevo imparato che non ero io, ma la Parola di Dio attraverso di me, quella che guadagnava la gente a Cristo. “Avevo appena finito di parlare ad un gruppo di studenti universitari”, gli raccontai mentre la canoa scivolava lungo il fiume. “Stavo rilassandomi sulla veranda di uno dei dormitori quando una donna molto colta che aveva assistito alle mie lezioni si sedette accanto a me. ‘Ciò che ha detto agli studenti è molto interessante’, disse. ‘Ma lei ha idee troppo ristrette. Io sono un’esperta delle religioni del mondo, ho viaggiato in molti Paesi e ho avuto molte discussioni con i capi di molti gruppi religiosi. Ho discusso la via della vita attraverso il tempo e l’etemità con musulmani, bramini, scintoisti e molti altri. Tutti loro conoscono Dio, sebbene non credano in Gesù Cristo. Mi dispiace di non poter essere d’accordo con il suo discorso di questo pomeriggio; ma lei dà troppo peso a Gesù Cristo e non ammette che le altre religioni siano altrettanto buone quanto il cristianesimo’. “Ero imbarazzata”, dissi al mio accompagnatore indiano. “Poi ricordai qualche cosa che un amico aveva detto una volta: ‘Non sei chiamata a convincere nessuno, aveva detto. ‘Sei semplicemente chiamata ad essere un canale aperto attraverso il quale scorre lo Spirito di Dio. Non puoi essere nient’altro, anche se certe volte credi di esserlo. Segui il sentiero dell’ubbidienza, lascia che la Parola di Dio faccia il suo lavoro e sarai impiegata da Dio molto al di là di ogni tuo potere. “Perciò dissi alla donna: ‘Lei non sta discutendo con me, ma con la Bibbia. Non sono io che dico queste cose, è la Parola di Dio. Gesù ha detto che nessuno può giungere al Padre se non attraverso di lui (Giovanni 14:6). Se vuole discutere con qualcuno, discuta con lui’”. Guardai il mio amico indiano. I suoi occhi erano fissi sul mio viso e sembrava bere quello che stavo dicendo. Continuai la mia storia: “Qualche tempo più tardi fu tenuto un ricevimento a Ottawa, in Canada, per tutti coloro che desideravano conoscere il Principe Bernardo d’Olanda. Era un piacere vedere tanti olandesi insieme. Il principe sembrava stanco, ma era allegro e cortese con tutti. Incontrai molte vecchie conoscenze e quindi improvvisamente mi trovai faccia a faccia con la

stessa signora che qualche tempo prima mi aveva criticato così aspramente. ‘Sono lieta di vederla’, disse con sincerità. ‘Non sono mai riuscita a dimenticare quello che ha detto alla nostra università citando Gesù: Nessuno giunge al Padre se non per mezzo di me. Ho tentato di confutare questa affermazione da qualsiasi punto di vista, ma devo riconoscere che l’ha fatta Gesù. Con lei posso discuterla, ma mi risulta particolarmente difficile discuterla con lui’. ‘Che meraviglia’, le dissi. ‘Ora sta ascoltando la voce di Dio. Continui ad ascoltare. Ha molto di più da dirle’. ‘Sì’, disse, ‘certamente’. “Ci separammo, e da allora non l’ho mai più rivista, ma so che la spada dello Spirito sta ancora operando nella sua vita”. Mi voltai a guardare il mio amico indiano. Stava annuendo, in segno di comprensione. “Se leggessimo la Bibbia con diligenza, lo Spirito Santo ci suggerirebbe le parole opportune in tutte le situazioni”, dissi. “Se ci basiamo su di lui, saremo come rami di vigna che portano frutto. Ma se i rami si spezzano, non comparirà nessun frutto.” Frattanto la foresta si era assottigliata sui margini del fiume. Potevamo scorgere angusti sentieri che consentivano alla gente di camminare in fila indiana fra gli alberi. Era scesa l’oscurità e vidi, lungo i sentieri, file di indiani che portavano fra le mani a mo’ di torce delle foglie di palma ardenti. Le vesti bianche che indossavano davano alla scena un aspetto strano, fantastico, come se si trattasse di pellegrini in cammino verso il cielo. Molti si erano già riuniti sotto il pandal, e cantavano una canzone evangelica con tono uniforme, continuando a cantarla a mano a mano che i pellegrini vestiti di bianco giungevano sul posto della riunione. Dopo la riunione, quella notte, mi ritirai in una capanna dal tetto di paglia, lodando Dio per il potere della sua Parola che non soltanto aveva riunito così tante persone, ma le aveva anche conquistate al Signore Gesù Cristo. Nella mia mente elencai cinque motivi che mi inducono a credere che la Bibbia sia ispirata: • essa dice “degli uomini che hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo” (2 Pietro 1:21); • l’effetto che essa ha su tutti coloro che credono e che la seguono; • sebbene parte di essa sia stata scritta più di duemila anni prima che Gesù arrivasse sulla terra, tutti i suoi scrittori concordano; • gli autori non adducono scuse per le loro colpe o i loro peccati; • gli scrittori ricordano alcune delle scene più strazianti che li commossero fortemente, tuttavia non esprimono mai una parola di emozione. Lo Spirito Santo ha voluto che venissero registrati i fatti, non i sentimenti personali degli scrittori.

Molte persone commettono l’errore di basare la certezza della loro salvezza sui loro propri sentimenti. È la Parola di Dio il fondamento della loro fede e perciò è essenziale che il neoconvertito a Cristo abbia una conoscenza pratica della Bibbia. Più di chiunque altro il neoconvertito viene sottoposto al fuoco del nemico. Egli ha bisogno dunque di possedere e usare la spada dello Spirito che è la Parola di Dio. Il Signore Gesù fece uso di questa spada per sottomettere il maligno nei suoi tentativi di sedurlo; allo stesso modo noi dobbiamo imparare a difenderci contro qualsiasi suo attacco.

Ma fatevi tesori in cielo... perché dov’è il tuo tesoro lì sarà anche il tuo cuore. (Matteo 6:20 e 21)

DOV’È IL CIELO? La felicità non dipende dagli eventi, ma dall’atteggiamento che noi conserviamo davanti ad essi. Mio padre mi insegnò questa verità quando ero ancora una bambina. Sovente mi raccontava dei primi giorni del suo matrimonio. Aveva aperto un piccolo negozio di orologeria in un’angusta casa nel cuore del settore ebraico di Amsterdam. Povera mamma! Aveva sperato in una casa con un piccolo giardino. Amava le cose belle e le viste spaziose. “Amo vedere il cielo”, diceva spesso. Invece si trovò in una strada stretta, in una vecchia casa (del tipo composto di una sola camera su ogni piano), con mobili usati che avevano ereditato dalla nonna. Tuttavia erano felici, non per le circostanze, ma per l’atteggiamento che conservavano in quelle circostanze. Ad Amsterdam, in quella strada del ghetto, conobbero molte persone meravigliose fra gli ebrei. Fu consentito loro di partecipare ai loro sabbath e alle loro feste. Studiavano insieme l'Àntico Testamento e, occasionalmente, anche il Nuovo Testamento. Ho molte volte ricordato le lezioni che imparai da mio padre circa la felicità e gli avvenimenti. Ma non furono mai così chiare come quando mi trovai in Corea, molti anni più tardi. Ero in Oriente da tre mesi, e stavo trascorrendo in Corea gran parte del mio tempo. Mentre ero lì, parlai in molte riunioni tenute in scuole, orfanotrofi, asili d’infanzia e chiese. Un giorno, dopo aver parlato in un’università, uno studente di teologia venne da me. Non avevo mai visto tanta tristezza sul volto di un uomo che diceva di voler diventare un ministro del Cristo risorto. “Perché sei così infelice?” gli domandai. “Ho perduto la mia strada”, rispose tristemente. “Quando diventai cristiano, il mio pastore mi insegnò che la Bibbia è vera. In quei giorni ero felice. Ma ora sto studiando il famoso teologo Rudolph Bultmann, il quale dice che la nostra Bibbia è una raccolta di miti e di favole. Ho perduto la mia via e non so più dove si trovi il cielo”. Ero adirata. Non mi pareva giusto che questi semplici ragazzi coreani dovessero lottare con quella terribile teologia. Essi studiavano molte ore all’università, andavano a scuola due volte più degli studenti d’America. Tuttavia, a causa di quel che studiavano, spesso perdevano la fede. Risposi alla sua domanda a proposito del cielo raccontandogli che cosa avevo visto e udito il giorno prima, mentre in macchina attraversavo il suo Paese.

Avevo scorto la più misera capanna che avessi mai visto. Era un piccolo riparo fatto con materiali di fortuna raccolti tra le immondizie: pezzi di cartone, bidoni appiattiti, vecchie tavole di legno... Mentre andavo oltre, udii una bella voce di donna che cantava. Raramente, neanche nelle sale da concerto d’Europa, avevo sentito una voce così dolce. Fermammo la macchina e ascoltammo, perché era come il canto di un’allodola. Chiesi alla missionaria che mi accompagnava: “Conosci questa canzone?” “Sì”, disse. “Dove è Gesù, ivi è il cielo”. Oh, come era balzato dalla gioia il mio cuore nell’udire questa bella canzone proveniente da un luogo così misero! Una cosa è udire una canzone simile in una bella chiesa o sentirla dall’altoparlante di un costoso impianto stereo; ma udirla venire dal più misero tugurio, da tanta povertà, significa tutt’altra cosa. Guardai il giovane studente di teologia che mi stava davanti. “Gesù disse: ‘Ecco, il Regno di Dio è dentro di voi’ (Luca 17:21). Bultmann è in errore e Gesù ha ragione. Il cielo non è un mito o una favola: il cielo è un posto preparato per gente preparata. La teologia nelle mani dello Spirito Santo è una bella scienza, ma in quelle dei miscredenti è morte. Se vuoi scoprire dove sia il cielo, esci dalla tua uggiosa aula scolastica, toma ad ascoltare la semplice fede di coloro che leggono solo la Bibbia e confidano solo in Dio, non nelle cose materiali. Che importa loro se qualche teologo dice che il cielo è una favola? Essi hanno trovato Gesù, e dove è Gesù, ivi è il cielo”.

E come annunceranno se non sono mandati? (Romani 10:15)

QUANDO SIETE TENTATI DI ARRENDERVI Il nemico tenta di far andare tutto di male in peggio. Generalmente non sono i grandi problemi che mi deprimono, ma la quantità di piccoli problemi che si ammassano come i sassolini per formare una montagna inamovibile. Recentemente una serie di simili piccoli incidenti quasi mi indusse a dimettermi dall’incarico ricevuto dal Signore. Nei miei viaggi devo spesso attraversare dei posti di dogana. Sapendo che il contrabbando è un peccato, non lo commetto. Fui molto irritata una volta da un incontro con un funzionario di dogana. “Ha qualcosa da dichiarare?”, mi chiese con malagrazia. “Sì”, risposi, “calze di nylon”. Le avevo messe sopra tutti i miei bagagli per mostrargliele, perché sapevo che a quel tempo era necessario pagare un dazio su simili capi. “Ce ne sono quattro paia qui”, disse. “Mi ha detto un paio”. “No, non l’ho detto!” risposi. Ma egli non mi credette. Durante l’ora che seguì frugò in tutto il mio bagaglio. Aprì tutte le scatole per vedere se vi fossero dei doppi fondi. Spremette il mio tubo di dentifricio per vedere se conteneva diamanti. Controllò le mie scarpe, nel caso avessero falsi tacchi che potessero contenere droghe. Tastò gli orli delle mie gonne per vedere se vi avessi cucito dentro delle perle. Poco mancò che non strappasse la fodera delle mie valigie. Naturalmente non trovò proprio nulla e finalmente mi consentì di passare, dopo aver pagato alla dogana i diritti per quattro paia di calze. Ero offesa e infelice al tempo stesso. Più tardi capii perché questo incidente mi avesse tanto sconcertata. Non avevo abbandonato la mia convinzione di essere dalla parte della giustizia. Ero così sicura della mia umana onestà che soffrivo ogni volta che il mio orgoglio veniva ferito. È più facile abbandonare i propri peccati che le proprie “virtù”. Ancora inconsapevole del vero motivo che mi aveva depressa, scoprii di aver perduto l’aereo a causa del ritardo riportato nell’ufficio doganale. Fui costretta a dormire su un divano dell’aeroporto. Nonostante tutto, dormii tranquillamente e godetti un buon riposo. Quando mi svegliai, la sbalordita donna delle pulizie (che stava pulendo il pavimento intorno al mio divano) disse con ammirazione: “Che meraviglia riuscire a dormire così

profondamente con tanto rumore intorno!” Poi l’aereo sul quale viaggiavo incontrò una tempesta e stetti male. Quindi la notte che seguì il mio arrivo a destinazione ci fu un terremoto. Odio i terremoti, perché mi ricordano le bombe che cadevano durante la guerra. Infine le cortesi persone che avrebbero dovuto organizzare le mie riunioni, all'arrivo mi salutarono dicendo: “Pensavamo che avrebbe avuto bisogno di una vacanza e di un po’ di riposo, così non abbiamo organizzato nulla”. Talvolta questo è un piano di Dio, ma più sovente è semplicemente un segno della pigrizia della gente. Così non apprezzai il fatto che non avessero predisposto nessuna riunione per me. L’inconveniente conclusivo - quello che quasi mi spinse ad abbandonare completamente la partita - riguardava la mia camera. I miei ospiti mi misero in una camera piccola, senza scrivania. Generalmente questo non mi disturba, perché sono abituata a scrivere sulle ginocchia, ma insieme a tutto quello che era già accaduto, mi fece crollare come un cammello stracarico. Scoppiai letteralmente. La ragione non era difficile da trovare. L’autocommiserazione era entrata nel mio cuore. L’autocommiserazione è un brutto peccato e il diavolo ne fa uso e incomincia i suoi discorsi sempre con “povera Corrie!” Questa volta incominciò con il dire: “Perché devi sempre vivere in valigia? Rimani a casa e non avrai fastidi di dogane, passaporti, bagagli, coincidenze di aerei e altro. Ogni notte potrai dormire nello stesso comodo letto, e in Olanda non subirai terremoti. Dopotutto, non sei più giovane. Hai vissuto come una vagabonda per tanti, tanti anni. È tempo di appendere il cappello al chiodo e di ritirarsi in un bel pascolo verde. Lascia che qualcun altro faccia il tuo lavoro, ti sei guadagnata il tuo premio”. A questo punto stavo già annuendo. “Sì, sì, satana, hai ragione”. Così, avendo ascoltato i suoi suggerimenti, scrissi a un amico in Olanda che dirigeva una pensione intemazionale in cui a suo tempo avevo affittato una camera per depositarvi i miei pochi mobili. “Credo che sia ora che lavori in Olanda”, scrissi. “Sono stanca di tutto questo viaggiare e non posso più sopportare di sentire delle ruote muoversi sotto di me. Per piacere, metti davanti alla finestra della mia camera uno scrittoio molto grande; e a destra una poltrona, una poltrona molto comoda...”. Nella mia fantasia avevo elaborato il gradevole sogno di un paradiso terrestre con me nel suo mezzo! Quel pomeriggio imbucai la lettera e quindi ritornai in camera a consultare il calendario. Elencai i nomi della gente cui avrei dovuto scrivere per annullare i miei appuntamenti. Tutti avrebbero capito. Non erano stati in molti a dire: “Alla sua età dovrebbe essere stanca”?

Tutto sarebbe andato molto bene (oppure dovrei essere sincera e dire: molto male), se non avessi preso in mano la mia Bibbia. Questa vecchia Bibbia nera è stata la mia guida in tempi di luce e in tempi di ombra. Chiesi: “Signore, che cosa vorresti tu che io faccia?” Aprii la Bibbia alla lettera ai Romani, capitolo dieci: “Ora come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? E come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? E come come potranno sentirne parlare, se non c’è chi lo annunci?... Com’è scritto: Quanto sono belli i piedi di quelli che annunciano buone notizie” (versetti 14,15). Ricordai le parole di un istruttore di paracadutisti. Egli diceva che quando i suoi uomini erano sull’aereo e si trovavano sul campo di battaglia, dava quattro ordini. Primo: Attenti! Levate gli occhi (Giovanni :35). Secondo: In piedi sulla porta! Mirate le campagne come sono già bianche da mietere (Giovanni 4:35). Terzo: Agganciate! Ricevete lo Spirito Santo (Giovanni 20:22). Quarto: Seguitemi! Farò di voi dei pescatori di uomini (Marco 1:17). Mi fermai a pensare per lungo tempo. Non è compito nostro dare istruzioni a Dio. Dobbiamo semplicemente presentarci al servizio. Deposi la mia Bibbia sul letto e presi carta e penna. Tenendo il blocco maldestramente su un ginocchio, scrissi al mio amico in Olanda: “Dimentica l’ultima lettera che ti ho scritto. Non ritorno a casa in Olanda. Mi rifiuto di trascorrere il resto della mia vita in un pascolo, quando vi sono tanti campi da mietere. Spero di morire sotto il basto”. Vi esorto dunque, fratelli..., a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, (a Dio). (Romani 12:1)

ANDRÒ DOVUNQUE TU VUOI CHE IO VADA, SIGNORE, MA NON FARMI FARE DIECI RAMPE DI SCALE A PIEDI! Avevo parlato, quella domenica mattina, in una chiesa di Copenhagen, sollecitando la gente a presentare i propri corpi in sacrificio vivente al Signore. Avevo anche detto che, pur essendo una vecchia donna, volevo darmi completamente a Gesù e fare ciò che egli voleva, andare dovunque egli volesse, anche se ciò poteva significare la morte.

Alla fine della funzione, due giovani infermiere mi si avvicinarono. Mi invitarono a prendere una tazza di caffè nel loro appartamento. Ero molto stanca. A quasi ottant’anni trovavo che lo stare in piedi per molto tempo incominciava ad essere molto faticoso. L’invito per la tazza di caffè era allettante, quindi lo accettai. Ma non ero preparata ad arrampicarmi fino al loro appartamento. Molte vecchie case di Copenhagen sono alte e senza ascensore. Le infermiere vivevano al decimo piano di una casa di quel genere e dovevamo salire a piedi tutti i gradini. “Oh Signore”, mi lamentai guardando l’alto edificio, “non so se ce la farò”. Ma le infermiere desideravano tanto che io andassi su, e allora tentai. Quando raggiungemmo il quinto piano, il mio cuore batteva all’impazzata e le gambe erano tanto stanche da farmi pensare che non avrei potuto fare un sol passo in più. Sul pianerottolo del quinto piano scorsi una seggiola e implorai il Signore: “Signore, permettimi di sostare qui per un certo tempo mentre le infermiere salgono le scale. Il mio cuore è così infelice”. Le infermiere attesero pazientemente mentre io mi abbandonavo sulla seggiola per riposarmi. “Perché, Signore, dopo questa giornata che mi ha visto così indaffarata nel parlare, debbo fare questa arrampicata?” Quindi udii la voce di Dio ancora più forte del battito del mio cuore. “Perché ti attende una grande felicità, un lavoro che darà gioia agli angeli”. Guardai su per i gradini che incombevano su di me e sembravano perdersi nelle nuvole. Forse sto lasciando la terra per salire in cielo, pensai. Certo, questo recherà gioia agli angeli. Tentai di contare i gradini, ma sembrava che ve ne fossero almeno altri cento da scalare. Ad ogni modo, Dio aveva detto che il lavoro avrebbe dato gioia agli angeli; allora dovevo andare. Mi alzai dalla sedia e ancora una volta ripresi ad arrampicarmi faticosamente su per la lunga sequenza di scale, un’infermiera davanti, l’altra dietro di me. Raggiungemmo finalmente l’appartamento al decimo piano ed entrammo in una camera con una semplice colazione già pronta sulla tavola. A servire la colazione erano la madre e il padre di una delle due ragazze. Sapevo che c’era solo poco tempo e sapevo anche che ci stava attendendo una qualche benedizione. Così, senza molti preamboli, incominciai a rivolgere delle domande dirette. “Mi dica”, chiesi alla madre dell’infermiera, “è molto tempo che ha incontrato Gesù come suo Salvatore?” “Io non l’ho mai conosciuto”, rispose sorpresa alla mia domanda. “E' disposta a venire a lui? Egli l’ama. Ho viaggiato in più di sessanta Paesi e non ho mai incontrato nessuno che rimpiangesse di aver dato il suo cuore a Gesù. Non ne sarà rattristata neanche lei”. Poi aprii la mia Bibbia e indicai i versetti che riguardano la salvezza.

Essa ascoltò con molta attenzione. Quindi chiesi a entrambi i genitori. “Vogliamo ora parlare con il Signore?” Pregai; anche le due infermiere pregarono e infine la madre giunse le mani e disse: “Signore Gesù, io so già molto di te. Ho letto molto la Bibbia, ma ora ti prego di venire nel mio cuore: ho bisogno di purificazione e di salvezza. So che tu sei morto sulla croce per i peccati del mondo intero e anche per i miei peccati. Ti prego, Signore, entra nel mio cuore e fa’ di me una figlia di Dio. Amen”. Sollevai lo sguardo e vidi scorrere lacrime di gioia sul volto della giovane infermiera. Essa e la sua giovane amica avevano pregato tanto per i suoi genitori, e ora erano state esaudite. Mi volsi a guardare il padre che era rimasto tranquillamente seduto. “E lei?” chiesi. “Neanche io ho mai preso una simile decisione per Gesù Cristo”, disse seriamente. “Ma ho ascoltato tutto quello che ha detto a mia moglie e adesso conosco la via. Anch’io vorrei pregare perché Gesù mi salvi”. Chinò la testa e dalle sue labbra uscì una gioiosa e molto sincera preghiera con la quale offriva la sua vita a Gesù Cristo. Improvvisamente la stanza fu piena di una grande allegrezza e io mi resi conto che gli angeli erano scesi e cantavano intorno a noi le lodi a Dio. “Signore, ti ringrazio”, pregai scendendo le lunghe scale, “per avermi fatto salire tutte queste scale. E la prossima volta, Signore, aiuta Corrie ten Boom ad ascoltare il suo proprio sermone sull’essere disposti ad andare dovunque tu mi dica di andare, anche se dovrò affrontare dieci rampe di scale a piedi!”

Poiché la conoscenza della gloria del Signore riempirà la terra come le acque coprono il fondo del mare. (Abacuc 2:14)

A TUTTO IL MONDO... COMINCIANDO CON UNO Dare un volantino a qualcuno in Russia costituisce sempre un pericolo. Se la persona con la quale state parlando è sola, allora c’è un po’ più libertà. Ma se è presente una terza persona, entrambe saranno inquiete, ciascuna timorosa che l’altra la denunci alla polizia segreta. Conny ed io eravamo da circa una settimana in un albergo di Leningrado, quando una mattina, scendendo a colazione, detti un volantino ad una donna delle pulizie. Era un semplice volantino scritto in russo dal titolo: “La via della salvezza”. Conteneva soltanto versetti delle Scritture, senza commenti. Essa gli diede un’occhiata, quindi sbirciò l’altra donna che stava facendo pulizia nell’atrio. Poi mi restituì il volantino con un cenno della mano che voleva dire: “Questo non fa per me”. Fui rattristata per lei. Un rifiuto fa male quando vogliamo aiutare qualcuno. Conny ed io attraversammo l’atrio fino all’ascensore, dirette alla sala da pranzo per la colazione. Eravamo sole nell’ascensore e rimisi al Signore quest’ultimo peso: “Padre, non posso raggiungere questa donna. Mettila in contatto con qualcuno che possa presentarle il Vangelo nella sua lingua. Signore, io ti chiedo l’eternità per la sua anima”. Fui colpita dalla sfrontatezza della mia preghiera. In tutta la mia vita non avevo mai pregato in quel modo. Era giusto? Potevo effettivamente pretendere l’anima di qualcun altro? Come aggiungendo un poscritto, chiesi: “Signore, è giusto o è sbagliato? Posso fare una simile preghiera?” Quindi, prima ancora di ricevere la sua risposta, mi udii pronunciare una preghiera che mi spaventò ancora di più: “Signore Gesù, io pretendo tutta la Russia per te”. L’ascensore si fermò e Conny ed io percorremmo l’immenso corridoio fino alla sala da pranzo. Ero sbalordita; le mie guance erano rosse e scottavano. “Signore, è giusto questo? È troppo? Ma no, Signore, la tua Parola dice: ‘All’Eterno appartiene la terra e tutto ciò che è in essa, il mondo e i suoi abitanti’ (Salmo 24:1). Certamente vi è compresa anche la Russia”. Ancora confuse entrammo nella sala da pranzo. Era affollata e il

cameriere che ci venne incontro disse: “Siete soltanto in due, non potete fare colazione qui. Tutte le tavole sono riservate per comitive”. Ci guardammo intorno. Un giapponese aveva udito le parole del cameriere e ci fece cenno di venire al suo tavolo dove c’erano due posti liberi. “Venite”, disse, “faremo come se apparteneste al nostro gruppo”. Ma il cameriere vide ciò che era accaduto e si rifiutò di servirci. Mi sentivo infelice e male accolta. Rivolgendomi a Conny dissi: “Dopo il pranzo, ieri sera, ho portato alcuni di quei panini bianchi in camera mia, nella mia borsa. Sono ancora lì e abbiamo un po’ di caffè solubile. Perché dovremmo star sedute qui ad aspettare? Andiamo in camera”. Di sopra tutto era tranquillo e pacifico. La nostra colazione fu buona, sebbene consistesse solo in panini secchi e caffè senza latte. Improvvisamente qualcuno bussò alla porta. Conny andò ad aprire: sulla soglia stava la donna delle pulizie, quella che aveva rifiutato il volantino. Aveva i capelli tirati indietro in uno stretto chignon ed osservai che le sue pesanti scarpe di cuoio scricchiolavano quando camminava. Essa chiuse la porta dietro di sé. Dalle sue labbra sgorgò un fiume di parole russe che non riuscimmo a capire per niente. Quindi puntò un dito sulla mia borsa marrone. “Conny, vuole avere un volantino”, gridai quasi. Conny gliene diede uno, ma non era lo stesso che le avevamo voluto dare la prima volta. Lo guardò, scosse il capo e indicò di nuovo la borsa. “Conny, vuole avere ‘La via della salvezza’”. Mi alzai, frugai nella borsa e trovai il volantino originale. Sorrisi e glielo porsi. Essa lo guardò e il suo volto si aprì, si illuminò di grande gioia. Sorridendo e annuendo in segno di approvazione, si ritirò dalla camera. Anch’io ero illuminata di gioia, perché Dio aveva risposto alla mia preghiera. Dopotutto, non avevo preteso troppo. La prima preghiera aveva già avuto una risposta ed ero sicura che la seconda, quella che lo Spirito Santo aveva pronunciato attraverso di me, avrebbe ricevuto anch’essa una risposta affermativa. Conny, che era eccitata quanto me, prese la sua Bibbia e lesse: “Poiché la conoscenza della gloria del Signore riempirà la terra come le acque coprono il fondo del mare" (Abacuc 2:14). Quale promessa! Tutta la Russia sotto le acque della gloria di Dio! Bussarono ancora alla porta. Era di nuovo la nostra donna delle pulizie. Entrò e pose un lungo pezzo di pane bianco fresco sulla tavola. Il suo volto era ancora illuminato dal sorriso quando rifiutò il pagamento di esso. Era la sua offerta di gratitudine a Dio. Non avevo mai gustato in tutta la mia vita una colazione così buona. Ma ho questo contro dite: che hai lasciato il tuo primo amore.

(Apocalisse 2:4)

DOV’È IL MIO PRIMO AMORE? Dopo aver girato il mondo per venticinque anni come vagabonda per il Signore, mi ammalai. A settantatre anni il mio corpo si era stancato. Un medico mi esaminò e disse: “Signorina ten Boom, se continua di questo passo non potrà certamente lavorare molto a lungo. Ad ogni modo, se si prende un periodo di riposo di un anno, forse potrà lavorare ancora per altri anni”. Consultai il mio Signore. Egli mi disse molto chiaramente che questo suggerimento del medico era nei suoi progetti. Mi venne in mente che potevo trascorrere quell’anno di sabbath a Lweza, in una bella casa in Uganda, nell’Africa orientale. Parecchi anni prima avevo contribuito a fondare quel posto perché fosse adoperato come casa di riposo per missionari e altri operai del regno di Dio. Ora il pane che avevo gettato sulle acque mi tornava indietro. Feci i miei progetti e ben presto Conny ed io eravamo sistemate al sicuro in Africa. Lweza era un paradiso. Costruita su una collina nel mezzo di un giardino che doveva certamente somigliare all’Eden, a sud guardava sul lago Vittoria. Il clima era ideale. Dato che c’erano molte scuole, chiese, prigioni e gruppi cristiani a Rampala, la città più vicina, potevo parlare in due o tre riunioni ogni settimana. Così, mentre il mio corpo riposava, lo spirito rimaneva attivo. Il più grande piacere mi derivava dal dormire ogni notte nello stesso letto. Negli ultimi vent’anni avevo dormito in più di mille letti diversi, sempre servendomi solo del contenuto delle mie valigie. Quell’anno riposai. Misi le mie cose in un cassetto, appesi i vestiti in un armadio e, soprattutto, ogni notte poggiai il capo sullo stesso cuscino. A novembre, l’anno sabbatico finì. Conny ed io prendemmo una carta geografica del mondo e la distendemmo sul mio letto, seguendo un rituale ormai ventennale, per fare progetti per l’anno successivo. Dapprima ascoltammo i piani di Dio, quindi li controfirmammo. Ciò era diverso dal metodo che usavo una volta, quando elaboravo il mio proprio piano e quindi domandavo a Dio di approvarlo. Il nostro desiderio era di essere “programmate” dallo Spirito Santo. Il piano di Dio appariva molto buono a Conny. Avremmo trascorso tre mesi in diversi paesi dell’Africa, due mesi in America e tre in Europa orientale, oltre la Cortina di Ferro. “Gesù, ti ringrazio”, disse Conny. Ma nel mio intimo non ero troppo soddisfatta. Conny era giovane, molto più

giovane di me. Le piaceva viaggiare, ma io stavo diventando vecchia ed ero ancora piuttosto stanca. Appena Conny fu uscita, mi rivolsi al Signore. “Io preferirei restare qui”, dissi testarda. “C’è tanto da fare a Rampala e a Entebbe, le due città più vicine. Io lavorerò per te. Desidero tenere riunioni ogni giorno, dare consigli, scrivere libri; ma per piacere, lasciami dormire ogni notte nello stesso letto. Tutti comprenderanno che alla mia età devo assumere impegni più leggeri”. Mi alzai allegra. Questo mio nuovo piano mi rendeva veramente felice. Quindi tornò Conny. Un ministro africano del lontano Ruanda era venuto a visitarci. Incominciò subito con il darmi il benvenuto: “Siamo così lieti di sapere che è disposta a venire di nuovo in Ruanda. Cinque anni fa ci ha aiutato in modo così meraviglioso quando ci ha raccontato che cosa era stato per lei il Signore nelle sue grandi necessità. Lei ha detto che non era stata aiutata dalla sua fede durante la prigionia, perché la sua fede era debole e spesso vacillante. Ha detto che è stato il Signore stesso a sostenerla e lei sa per esperienza, che la luce di Gesù è più forte delle tenebre più profonde”. Il fratello africano continuò: “Cinque anni fa, comunque, ciò era per noi una semplice teoria. Nessuno di noi era mai stato in prigione. Ora invece c’è la guerra civile nel nostro paese. Molti di noi sono stati in prigione. Io stesso ho passato due anni in prigione. E stato allora che ho ricordato tutto quello che lei aveva detto. Io non avevo la fede di Come ten Boom, non avevo neppure fede per me stesso, ma sapevo di poter guardare allo stesso Gesù che ha dato a lei la fede. Egli l’ha data anche a me e per questo siamo tanto felici che lei ritorni di nuovo in Ruanda”. Ma io non ero affatto felice. Le sue parole erano diverse da quanto avrei desiderato udire. Sapevo che in una simile situazione potevo cam biare argomento facendo una domanda. Forse questo avrebbe indotto Dio a cessare di ricordarmi i suoi progetti per lasciarmi seguire i miei. “Come va la chiesa in Ruanda?” chiesi. “Di quale tipo di messaggio avete bisogno adesso?” Senza esitare neppure un istante, il fratello aprì la sua Bibbia e incominciò a leggere: “All’angelo della chiesa di Efeso scrivi: Queste cose dice colui che tiene le sette stelle nella sua destra e che cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro: Io conosco le tue opere, la tua fatica, la tua costanza... hai sopportato molte cose per amor del mio nome e non ti sei stancato. Ma ho questo contro di te: che hai abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei caduto...” (Apocalisse 2:1-

5). Questa freccia trapassò il mio cuore. Non solo il Ruanda aveva bisogno di quel messaggio, ma anche Corrie ten Boom. Avevo perduto il mio primo amore. Vent’anni prima ero uscita da un campo di concentramento affamata, debole, ma nel mio cuore c’era un amore cocente: un amore per il Signore che mi aveva così fedelmente assistito lungo il cammino; un amore per la gente che mi stava intorno; un desiderio bruciante di dir loro che Gesù è una realtà, che egli vive, che egli è vincitore. Lo sapevo per esperienza. Per questa ragione ero andata in Germania in mezzo alle rovine. Per questa ragione avevo vagabondato per il mondo per vent’anni. Volevo che tutti sapessero che per quanto in basso noi cadiamo, le braccia sempiterne sono sempre sotto di noi per sostenerci. E ora? Ora ero interessata al mio letto. Avevo perduto il mio primo amore. Chiesi al mio fratello africano di continuare a leggere. “Ravvediti e compi le opere di prima; altrimenti verrò presto da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto”. Improvvisamente la gioia entrò nel mio cuore. Potevo portare il mio peccato, il mio cuore freddo, il mio corpo stanco a colui che è fedele e giusto. Lo feci. Confessai i miei peccati e chiesi perdono. Mi accadde quello che mi accade sempre quando porto il mio peccato a Dio nel nome di Gesù: egli mi perdonò. Gesù purificò il mio cuore con il suo sangue e mi riempì di nuovo con lo Spirito Santo. Mentre l’amore di Dio - il frutto dello Spirito Santo - veniva versato nel mio cuore, ripartii per i miei viaggi... vagabonda per il Signore. Che grande gioia fu sperimentare l’amore di Dio, che mi dette fiumi di acqua viva per le moltitudini assetate dell'Africa, dell’Ame- rica e dell’Europa orientale. Certo, potrebbe essere la volontà di Dio che alcune persone anziane si ritirino dal lavoro. Con tanta gratitudine verso il Signore possono allora godersi la pensione. Ma per me, la via dell’ubbidienza è di continuare a viaggiare, ancor più di prima. Gesù ci avvertì in Matteo 24:12 che l’amore di molti uomini si sarebbe raffreddato, per l’iniquità costante. È molto facile appartenere a quella “maggior parte” di uomini. Ma la porta del ravvedimento è sempre spalancata. Alleluia! Ma se camminiamo nella luce, com’egli è nella luce, abbiamo comunione l’uno con l’altro, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato. (1 Giovanni 1:7)

CAMMINARE NELLA LUCE Le nostre ultime settimane a Lweza si dimostrarono le più fruttuose di tutto il tempo che vi avevamo trascorso, perché fu durante queste poche settimane che imparai un’altra preziosa lezione: la lezione di camminare nella luce. Un pomeriggio Conny ed io eravamo sedute in giardino e stavamo guardando le scimmie saltare da un albero all’altro. Gli alberi e i cespugli erano una massa di colori e di suoni che riempiva il mio cuore della gloria della grazia di Dio. Ma Conny era scoraggiata. Aveva dato inizio ad un circolo di ragazze a Rampala, e aveva trascorso molte ore a lavorare per esso. Ma le ragazze non sembravano interessate. Ero preoccupata per il suo scoraggiamento, in quanto avvertivo che era molto più profondo dei problemi che le dava la sua classe. Avevo incominciato a parlarle di ciò quando fummo interrotte da un uomo che stava risalendo la collina. Conny socchiuse gli occhi al sole e quindi esclamò: “È William Nagenda!” Che gioia incontrare di nuovo il caro santo africano. Non ho mai incontrato un africano con il quale sia possibile ridere e al tempo stesso imparare tanto. Dopo lo scambio dei saluti William disse: “Quando vi ho viste qua sedute insieme, mi si è presentata alla mente una domanda: Camminano nella luce insieme?” Rispondemmo quasi simultaneamente: “Oh sì, camminiamo nella luce insieme. Siamo una squadra”. Proprio in quel momento un ragazzo chiamò dalla casa: c’era un messaggio telefonico per me. Mi scusai, mentre Conny e William rimasero a chiacchierare. Conny sedeva in una poltrona di vimini e William si accoccolò sul sentiero, il mento appoggiato sulle ginocchia brune. “Ho qualcosa da confessarti”, disse Conny a William. “E di che cosa si tratta?” chiese gentilmente. “La tua domanda mi ha stretto il cuore. Debbo dirti che non cammino realmente nella luce con zia Corrie”. Il volto di Wihiam si apri in un largo sorriso e i suoi occhi incominciarono a scintillare. “Così, ecco perché Dio mi ha spinto a rivolgervi quella strana domanda”. Conny era seria. “Zia Corrie è molto più matura di me”, continuò. “Ha

camminato con Gesù per tanti anni. Ha sofferto molto per lui in molti modi, così quando io vedo delle cose nella sua vita che non sono giuste, esito a chiarirle apertamente con lei”. “Oh”, fece Wihiam sorpreso. “Ciò non è giusto. Il Signore vuole che tu sia molto onesta con zia Corrie. Questa è una delle ragioni per cui ti ha posta accanto a lei. Dato che essa cammina nella luce, se anche tu cammini nella luce vi aiuterete a vicenda ad illuminare il sentiero che dovete percorrere”. Quella sera, dopo che ci eravamo ritirate insieme nella nostra stanza, Conny sedette sul bordo del letto e disse: “Zia Corrie, quel che sto per dirti è molto difficile a dirsi, ma ora mi rendo conto che debbo camminare nella luce”. Mi voltai a guardarla. Il suo viso era tirato e aveva un’aria solenne. Una ad una incominciò ad elencare le cose della mia vita che la preoccupavano: cose che io facevo e che non credeva glorificassero Dio. Non era facile per me sentire parlare dei miei sbagli, udire cose che avevano provocato il sorgere di un’ombra nel cuore di Conny. Ma era meraviglioso che Conny fosse completamente onesta con me. Chiesi perdono per i miei falli che aveva elencato e poi la ringraziai per averli portati alla luce. “Camminiamo sempre insieme nella luce”, dissi seriamente. Ma era ancora molto difficile per Conny. Era molto più giovane di me e sapeva di dover imparare ancora molte cose. Nonostante avessi espresso il desiderio che lei continuasse a correggermi, lo trovò molto difficile. Lo scontro finale ebbe luogo allorché lasciammo l’Africa per andare in Brasile. Eravamo da poche settimane a Rio de Janeiro, una delle più belle città del mondo. Preparandoci a partire per Buenos Aires, scoprimmo che le nostre valigie superavano il peso. La brava gente di Rio ci aveva fatto tanti regali e le valigie superavano di venti chili il peso consentito. Andare in Argentina ci sarebbe costato tanti soldi in più. Disfeci i miei bagagli e ripartii la roba in tre mucchi: uno da mandare in Olanda via mare, uno da regalare ai poveri di Rio e il più piccolo da riporre nella mia valigia. Dopo aver finito di riordinare il mio bagaglio, mi affrettai ad entrare nella camera di Conny e disfeci anche la sua valigia. Seguii la stessa procedura, ripartendo la sua roba in tre mucchietti e reimballando soltanto le cose necessarie. Avevo troppa fretta per accorgermi del silenzio di Conny. Una settimana più tardi, dopo bellissimi giorni trascorsi a Buenos Aires, stavamo camminando lungo un tratto solitario di spiaggia. Stavo godendomi il panorama della baia, quando Conny cominciò a parlare. La sua voce suonava sforzata. “Ho promesso a Dio che avrei camminato nella luce”, disse, “e debbo chiarire qualche cosa con te. Quando hai rifatto il

mio bagaglio e hai deciso che cosa dovevo spedire in Olanda e che cosa potevo portare con me, non ne sono stata soddisfatta”. Com'ero stata stupida e priva di tatto interferendo nella vita di Conny! Stesi la mano per prendere la sua. “Sono stata proprio sciocca”, dissi. “Perdonami”. “Ti perdono”, disse Conny. Come me, aveva imparato a non prendere alla leggera il peccato, ma anche ad ascoltare le scuse dell’altra persona, a non trascurarle e a perdonare. Camminammo ancora per parecchio tempo in silenzio e quindi Conny parlò di nuovo. “Sei arrabbiata, zia Corrie? Sei così silenziosa”. Ora era il mio turno di camminare nella luce. “C’è qualche cosa che mi lascia perplessa”, dissi. “Perché non mi hai detto immediatamente che eri seccata? Le cose sarebbero state sistemate sul momento e non avresti dovuto trascinare con te questa oscurità per tutti questi giorni. D’ora in poi tutt’e due diremo la verità in amore e non lasceremo mai più calare il sole sulle nostre incomprensioni”. Fu una buona lezione. Da allora, finché Conny si sposò nel 1967 e andò a vivere con il marito, girammo tutto il mondo, cercando sempre di camminare nella luce.

Ai celibi e alle vedove, però, dico che è bene per loro che se ne stiano come sto anch ‘io. (1 Corinzi 7:8)

SICURI IN GESÙ Satana tenta in ogni modo di sciupare la pace e la gioia che i servi di Dio provano nel compimento del loro lavoro. Ellen, la mia nuova compagna di viaggio, era venuta con me in un solitario campo di missione in Messico. La nostra ospite era una missionaria nubile sui quarant’anni. Una sera, mentre eravamo sole nella sua piccola casa, confessò la sua amarezza, il suo disappunto per il fatto di essere nubile. “Perché mi sono stati negati l’amore di un marito, dei bambini, e una casa? Perché i soli uomini che mi abbiano mai dato uno sguardo erano sposati con un’altra?” Per tutta la serata essa diede sfogo al veleno della sua frustrazione. Infine mi chiese: “Perché lei non si è mai sposata?” “Perché”, risposi, “il Signore aveva per me altri progetti che non la vita matrimoniale”. “Si è mai innamorata di qualcuno e poi l’ha perso, come me?”, chiese con amarezza. “Sì”, dissi con tristezza, “conosco la sofferenza del cuore infranto”. “Ma è stata forte, vero?” chiese con voce tagliente. “Era disposta a lasciare che Dio disponesse della sua vita?” “Oh no, non al principio”, risposi. “Ho dovuto combattere la mia battaglia. Avevo ventitré anni. Amavo un ragazzo e credevo che anch’egli mi amasse. Ma non avevo soldi, ed egli sposò una ragazza ricca. Dopo che furono sposati egli me la presentò e, mettendo la mano della moglie nella mia, disse: ‘Spero che voi due sarete amiche. Io avrei voluto gridare. Era così carina, così tranquilla, così sicura del suo amore. “Ma io avevo Gesù, e alla fine andai a lui e pregai: ‘Signore Gesù, tu sai che io appartengo a te al cento per cento. Anche la mia vita affettiva è tua. Io non so quali progetti tu abbia per la mia vita, ma, Signore, quali che essi siano, adoperami perché io mi renda conto della tua vittoria in ogni particolare. Io credo che tu possa levare di mezzo tutte le mie frustrazioni e i miei sentimenti di infelicità. Io abbandono di nuovo a te tutta la mia vita’”. Guardai, attraverso il tavolino che ci separava, la donna amareggiata che mi stava di fronte. Il suo volto era solcato da rughe, lo sguardo indurito dal rancore. Compresi che stava tentando di sfuggire alle sue frustrazioni.

Forse era questa la ragione per cui era diventata missionaria. È triste, ma vi sono dei figli di Dio che partono per il campo missionario per il semplice fatto di non aver potuto trovare un consorte. Ne conosco altri, in patria, che trascorrono serate lontano dalla loro famiglia, partecipando a incontri cristiani, solo perché sono infelici e frustrati nel loro matrimonio. Il lavoro, anche il lavoro in terra di missione, può diventare un rifugio sbagliato. “Quelli che sono chiamati da Dio a vivere soli sono sempre felici del loro stato”, dissi. “Questa felicità, questa contentezza, è la prova della volontà di Dio”. “Ma lei ha amato e ha perduto”, esclamò. “Pensa che Dio abbia portato via il suo innamorato per far si che lei lo seguisse?” “Oh no”, sorrisi. “Dio non ci porta via nulla. Può chiederci però di voltare le spalle a qualche cosa o a qualcuno che non dobbiamo avere. Dio non porta mai via nulla; Dio dà. Se io stendo la mano per afferrare qualcuno per me e il Signore si mette in mezzo, ciò non significa che Dio vuol togliere, ma piuttosto che vuol proteggerci da qualcosa che non dovremmo avere, perché ha propositi molto più grandi per la nostra vita”. Sedemmo a lungo nella penombra della camera. Solo un piccolo lume a petrolio offriva un’esile luce che gettava leggere ombre sulle pareti e sui nostri volti. Ripensai al passato, ricordandomi che ero sempre stata soddisfatta nel Signore. Un tempo, quando avevo trent’anni, Dio mi aveva dato dei bambini, i bambini di alcuni missionari, che io allevai. Betsie, mia sorella, li nutriva e li vestiva, mentre io ero responsabile dei loro svaghi e della loro educazione musicale. Li ospitavamo nella nostra casa in Olanda e io provavo una profonda soddisfazione nel vederli crescere. Trascorrevo anche molto tempo a parlare e a testimoniare in diversi circoli di ragazze. Ma non era il lavoro che portava l’equilibrio nella mia vita, perché il lavoro non può equilibrare i nostri sentimenti. Io ero equilibrata perché la mia vita era concentrata sul Signore Gesù. Molte persone tentano di far tacere certi loro sentimenti buttandosi nel lavoro, negli sport, nella musica, o nelle arti; ma quei sentimenti ci sono sempre e alla fine, come accadde a quella missionaria, emergono alla superficie ribollendo, per esprimere ri sentimento e infelicità. Guardai Ellen, la mia accompagnatrice. Ellen è una bella ragazza olandese sui trent’anni, alta e bionda. È nubile, tuttavia ha imparato il segreto di una vita equilibrata. Io credo che Dio mi abbia destinata, prima ancora che io nascessi, ad una vita da nubile, ma per Ellen la cosa è diversa. Essa non crede che Dio l’abbia destinata a vivere da sola, ma piuttosto che un giorno, al tempo stabilito da Dio, si sposerà. Fino a quel momento, un anno o trent’anni, so che rimarrà sicura in Gesù, anche senza un marito e dei bambini. Mi rivolsi alla missionaria. “Vi sono alcuni come me, che sono

chiamati a rimanere nubili”, dissi sottovoce. “Per loro è sempre facile, perché sono soddisfatti per natura. Altri, come Ellen, sono chiamati a prepararsi per un matrimonio tardivo. Anch’essi sono benedetti, perché Dio adopera gli anni intermedi per insegnare loro che il matrimonio non è l’unico rimedio all’infelicità. La felicità sicura si trova soltanto in una relazione equilibrata con il Signore Gesù”. “Ma è così difficile”, disse con le lacrime agli occhi. “È vero”, ammisi. “La croce è sempre pesante da portare. ‘Poiché voi moriste, e la vita vostra è nascosta con Cristo in Dio’ (Colossesi 3:3). Mia cara figliola, non esiste maggior sicurezza. La parte di te che si legherebbe ad un marito va considerata morta. Ora con Cristo puoi vivere una vita in cui sarai felice con o senza marito: la tua sicurezza è soltanto in Gesù”. Non so se mi abbia veramente capito, perché spesso orientiamo i nostri pensieri su qualche cosa che pensiamo ci potrà rendere felici: un marito, dei bambini, un particolare tipo di lavoro o finanche un ministero, e ci rifiutiamo di aprire gli occhi su quanto ci suggerisce Dio. In effetti, alcuni credono così fortemente che solo le loro scelte possano renderli felici, che respingono lo stesso Signore Gesù. La felicita non si trova nel matrimonio, nel lavoro, nel ministero o nei bambini. La felicità si trova in Gesù.

Dopo queste cose, il Signore designò altri settanta discepoli e li mandò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo. (Luca 10:1)

IO HO UN GRAN POPOLO IN QUESTA CITTÀ Il mio secondo viaggio a Cuba fu molto diverso dal precedente, perché questa volta Cuba era nelle mani dei comunisti. Mi accompagnava Ellen, ed eravamo venute dal Messico con le nostre valigie piene di libri. Alcuni amici ci avevano detto che i comunisti a Cuba bruciavano le Bibbie e confiscavano la letteratura cristiana, così non ero del tutto sicura che ci sarebbe stato consentito di portare tutti quei libri con noi. Avevamo anche sentito dire che la maggior parte delle chiese erano state chiuse e che molti cristiani erano in prigione: alcuni di questi per aver fatto circolare della letteratura cristiana. Così cercammo di essere molto caute. Alla dogana, a L’Avana, il funzionario indicò le mie valigie. “Che cosa sono questi libri?” chiese. “Sono stati scritti da me”, risposi. “Li regalerò ai miei amici.” Il suo sguardo si rannuvolò e ne prese in mano uno. Il cuore incominciò a battermi furiosamente. “Oh Signore”, pregai fra me, “che cosa debbo fare?” Poi udii me stessa dire sfrontatamente: “Vuole uno dei miei libri? Ecco, le farò un autografo”. Il funzionario doganale alzò lo sguardo. Presi il volume dalla sua mano e scrissi il mio nome sul frontespizio, quindi glielo restituii. Sorrise e mi ringraziò. Diede ancora un’occhiata alla mia valigia piena di libri, annuì e ci fece segno di passare la linea di confine. Chiusi la valigia e uscii sulla strada. Alleluia! Il miracolo era accaduto. Ma perché eravamo lì? Che progetti aveva il Signore per noi su quell’isola? Erano stati messi in prigione tutti i nostri vecchi amici? C’era ancora qualche chiesa aperta? Queste e molte altre domande si affollavano nella mia mente entrando in città. Una limousine della Intourist ci portò nel cuore di L’Avana, dove affittammo una camera in un albergo. Dopo esserci rinfrescate, scendemmo in strada con la speranza di incontrare qualche cristiano. Ma come trovare dei cristiani in una città straniera quando non se ne conosce neanche la lingua? Passeggiammo avanti e indietro sperando che Dio ci indicasse qualcuno cui parlare, ma non ricevemmo nessun suggerimento.

Infine mi avvicinai ad un vecchio che stava appoggiato al muro di un edificio. Mi pareva avesse un volto gentile e gli chiesi se sapesse indicarci una chiesa. Si strinse nelle spalle poi, facendoci cenno di aspettare, si avviò verso un telefono pubblico lungo la strada. Ellen ed io rimanemmo ad aspettare in preghiera. Stava chiamando la polizia? Avevamo violato una legge e ci avrebbero messe in prigione? Quindi ci rendemmo conto che stava chiamando qualcuno dei suoi amici, per domandare se sapessero dove trovare una chiesa. Nessuno sapeva niente ed egli ritornò indietro a dirci che non poteva esserci d’aiuto. Eravamo scoraggiate e, per peggiorare le cose, incominciò a piovere. Né Ellen né io avevamo un impermeabile e ben presto eravamo bagnate fin sulla pelle. Avevamo camminato per delle ore ed ero esausta. “Ellen, prendiamo un taxi?”, chiesi. “Bene, zia Corrie, ci vuole un miracolo. Ad ogni modo, sappiamo che tutte le cose sono possibili a Dio”. Trovai una piccola panchina e mi sedetti, mentre Ellen proseguiva lungo la strada in cerca di un taxi. Guardai verso il mare: mi sentivo come se fossi appena uscita dalla risacca, tanto ero bagnata. Pensai alle parole dell’autista della macchina dell’Intourist che ci aveva prelevato all’aeroporto. “Questo è l’ospedale”, aveva detto mentre vi passavamo davanti. “Tutti coloro che sono ammalati possono andare lì e non costa un centesimo. Qui c’è un cimitero. Quando morite, vi seppelliamo, e anche questo non costa nulla ai vostri parenti”. Ero stata in molti paesi, ma questo era il primo dove mi era stato offerto di seppellirmi! Sapevamo che il Signore ci aveva mandato a Cuba, ma non avevamo idea di quale fosse la nostra missione. Dov’erano le chiese? Ne avevamo vista qualcuna, ma erano chiuse. C’erano addirittura cespugli ed erbacce davanti alle porte. Avevamo tentato di telefonare a qualche cristiano, ma quelli che conoscevamo avevano cambiato domicilio. Aspettavo seduta, mentre la pioggia scorreva sul mio viso. Quindi udii una macchina fermarsi dinnanzi a me. Scorsi il volto di Ellen al finestrino di un veicolo antiquato e arrugginito. “Zia Corrie”, gridò, superando il rumore della pioggia, “sono di ritorno”. Mi avvicinai zoppicando al taxi e mi sedetti sul sedile posteriore. “Attenzione a dove metti i piedi”, mi avverti Ellen ridendo. “Potresti toccare l’asfalto”. L’auto ci portò al nostro albergo, dove ben presto indossavamo degli abiti asciutti, mentre gli indumenti bagnati furono appesi nel bagno. Il loro sgocciolio ci ricordava il nostro insuccesso sulla strada. Adoro camminare con Gesù; è vita. Ma dopo otto decenni mi rendevo conto di non essere più

tanto giovane. E nei momenti di sconforto che incomincio a sentirmi vecchia. Ellen non potè dormire quella notte. Era previsto che rimanessimo a Cuba due settimane, ma se non riuscivamo a trovare nessun cristiano, che cosa avremmo fatto? Si alzò nel bel mezzo della notte e pregò: “Signore, dammi una parola, in modo che io possa sapere che non siamo venute in questo paese invano”. Seduta sul bordo del letto, prese la Bibbia che aveva appoggiato su un tavolino. Incominciò a leggere da dove si era fermata la sera precedente: aveva imparato che Dio non vuole che i suoi figli siano paurosi, e il miglior modo per superare la paura è affidarsi alla Parola di Dio. Lesse quindi Atti 18:9-10: Il Signore disse... a Paolo: “Non temere, ma continua a parlare e non tacere; perché io sono con te, e nessuno ti metterà le mani addosso per farti del male; perché io ho un popolo numeroso in questa città”. Che risposta! La mattina seguente Ellen era impaziente di incontrare quel “popolo”; anche io. Avevamo un indirizzo a cui non eravamo ancora ricorse. Era l’indirizzo di una piccola casa in una strada secondaria, dove una volta abitavano alcuni cristiani che conoscevamo. Partendo a piedi dall’albergo, Ellen trovò la strada e si fermò davanti a una squallida porticina, sciupata dalle intemperie, con molte crepe. Bussò coraggiosamente. Un omino molto abbronzato, con una fitta rete di rughe intorno agli occhi, aprì la porta con circospezione. Ellen non sapeva lo spagnolo, ma presentò la sua Bibbia e uno dei miei libri che era stato tradotto in spagnolo. L’uomo guardò i libri e quindi di nuovo Ellen. Ellen sorrise, indicò il mio nome sul libro, poi indicò verso la città. Improvvisamente il volto dell’uomo si rischiarò. Spalancò la porta e gridò: “Corrie! Corrie ten Boom està aqui. Ella està en Habana!” Ellen entrò e vide che la camera era piena di uomini inginocchiati sul pavimento. Erano pastori che si incontravano ogni settimana a pregare per ottenere l’aiuto di Dio nel loro difficile ministero. Ellen si affrettò a ritornare all’albergo e ben presto feci la conoscenza di questi meravigliosi uomini di Dio. Distribuimmo tutti i nostri libri e ci facemmo molti nuovi amici tra la gente di Dio. Davvero, Dio aveva un “gran popolo” in quella città. Getta il tuo pane sulle acque, perché dopo molto tempo lo ritroverai.

(Ecclesiaste 11:1)

IL BARATTOLO DELLE BENEDIZIONI Molte volte, nei miei viaggi intorno al mondo, ho dovuto ricorrere all’ospitalità dei cristiani. Dall’epoca del mio primo viaggio in America, quando fui accolta dalle persone di Dio a New York e più tardi da Abraham Vereide a Washington, ho sempre conosciuto l’affetto e la generosità del Corpo di Cristo. Fu durante uno di questi continui viaggi, quando la mia casa era costituita unicamente dalla mia grossa valigia, che fui invitata a fermarmi presso alcuni amici nel Colorado. Non mi sentivo bene, ed avevo bisogno di riposo. La mia ospite mi introdusse nella sua bella casa ornata da alte colonne bianche. Mi fece salire le scale coperte di tappeti e mi portò in una confortevole camera. Dalle finestre potevo vedere il cielo chiaro, azzurro, che incorniciava le Montagne Rocciose innevate. Essa quindi mi mise le braccia intorno al collo e disse: “Corrie, questa è la tua camera. Sarà sempre a tua disposizione”. “Questa camera? Per me?” Non riuscivo a crederci. Un posto nel quale poter vuotare la valigia, appendere gli abiti, tirar fuori le carte e mettere la Bibbia su uno scrittoio. Dopo i grigi tempi del campo di concentramento avevo sempre desiderato colori vivaci come un assetato desidera l’acqua. Questa camera e lo scenario esterno erano pieni di colore. Volevo piangere, come piange un bambino quando è felice. Ma ho imparato a controllare le mie lacrime e mi accontentai semplicemente di esternare al Signore la mia profonda gratitudine. Il Signore è tanto buono perché mi ha dato tanti amici, proprio così, sparsi in tutto il mondo. Fu durante uno dei miei soggiorni in questa casa nel Colorado che ricevetti una telefonata di prima mattina. Ero già sveglia, perché volevamo partire quel pomeriggio per Washington, dove avrei tenuto una serie di conferenze organizzate da Vereide. La telefonata era di Alicia Davidson, figlia di Vereide. “Oh Alicia, non vedo l’ora di incontrarti! Ci penso con tanto piacere, come penso alle riunioni che avremo nella tua comunità”. Vi fu una pausa, quindi Alicia disse: “Zia Corrie, papà è andato con il Signore”. “Oh Alicia...”, balbettai, ma non riuscii a dire altro. “Va bene, va bene, zia Corrie”, disse calma. “Ti ho chiamata proprio per chiederti di venire a stare con noi. Non avremo le riunioni, ma sta

arrivando tanta gente e desideriamo che tu sia con tutti noi”. “Sarò da te oggi pomeriggio”, dissi. Dopo una breve preghiera per telefono, riattaccai. Mi affrettai a sistemare i miei bagagli, ricordando tutte le cortesie che mi erano state usate da quella meravigliosa famiglia e dai loro molti amici. Molte volte mi sono trovata di fronte alla morte, ma resta sempre un vuoto nel mio cuore quando qualcuno che conosco ed amo parte per raggiungere il Signore. Né potevo pensare che appena due anni più tardi sarei andata di nuovo a Washington per sedere in quella stessa chiesa presbiteriana, non per assistere ad una commemorazione di Abraham Vereide, ma per partecipare alla riunione in onore di Alicia che, sebbene ancora giovane e bella, sarebbe morta a Hong Kong durante un giro missionario con suo marito Howard Davidson. Fui ricevuta affettuosamente dai miei amici di Washington. Sebbene tristi, si rallegravano nel Signore. Quella sera, dopo che mi fui ritirata nella mia camera, pregai. “Signore”, chiesi, “perché la gente è così gentile con me? Sono semplicemente una vecchia olandese. Perché vengo trattata così cortesemente e mi viene offerta tanta ospitalità?” Allora il Signore mi ricordò il barattolo delle benedizioni di mia madre. La nostra casa di Haarlem non era veramente grande, ma aveva grandi porte sempre aperte. Suppongo che molti degli ospiti che venivano alla Beje non si siano mai resi conto della nostra lotta per sbarcare il lunario. Tuttavia, molte persone sole trovavano, in casa nostra, un posto per fare musica, per essere allegre e per conversare su argomenti interessanti. C’era sempre un posto in più al tavolo da pranzo ovale, sebbene la minestra fosse un po’ acquosa quando si presentavano tanti ospiti inattesi. Tutta la nostra casa era concentrata sul ministero del Vangelo. Tutti coloro che venivano a trovarci erano o operai del regno di Dio o gente che aveva bisogno di aiuto. La mamma amava tutti i suoi ospiti. Quando giungevano, spesso dimostrava il suo affetto lasciando cadere una monetina nel “barattolo delle benedizioni”. Il barattolo delle benedizioni era una piccola scatola di metallo riposta sulla credenza vicino al tavolo da pranzo ovale. In essa si raccoglieva il denaro per le missioni tanto vicine ai nostri cuori. Ogni volta che la nostra famiglia veniva benedetta in modo particolare, mamma lasciava cadere del denaro nel barattolo, come offerta di ringraziamento al Signore. Ciò valeva in modo particolare quando papà vendeva un orologio costoso o riceveva del denaro extra per aver riparato un’antica pendola. Ogni volta che arrivavano dei visitatori, mamma apriva le braccia e dava loro il benvenuto; quindi, per dimostrare quanto effettivamente apprezzasse la loro presenza, diceva: “Una monetina nel barattolo delle benedizioni per la vostra venuta”. Se si trattava di un visitatore speciale, vi

metteva addirittura un ventino. Poi, a pranzo, papà benediceva sempre i visitatori ringraziando Dio perché la nostra casa era onorata dalla loro presenza. Era sempre un’occasione speciale per tutti noi. Ricordo bene la cognata di un ministro di culto che trascorse una notte da noi. La mattina successiva zia Anna andò nella sua camera e trovò il lenzuolo arrotolato come una corda e gettato di traverso sul letto. “Cos’è questo?” chiese zia Anna. La donna scoppiò in lacrime: “Debbo confessarle che la notte scorsa ho tentato di suicidarmi. Arrotolai il lenzuolo come una corda e me lo legai intorno al collo per saltare poi dalla finestra. Ma mi ricordai della preghiera fatta al tavolo da pranzo, quando il signor ten Boom ringraziò Dio per la mia venuta fra voi. Dio mi ha risparmiato la vita con quella preghiera”. Dopo i giorni di Washington continuai i miei viaggi di vagabonda per il Signore. Nella mia mente era fresco il ricordo dell’ospitalità dei miei cari amici e ricordavo il barattolo delle benedizioni di mamma e le preghiere di papà. Spesso debbo ricorrere all’ospitalità dei cristiani. La gente di Dio è così generosa da aprirmi le proprie case e molte volte, quando appoggio il capo su un cuscino estraneo che è stato benedetto dall’amore dei miei amici, mi rendo conto di godere la ricompensa per le porte aperte e i cuori aperti della Beje. Il cielo sarà meraviglioso, ma già qui sulla terra sto godendo una “casa con molte stanze”. Se confessiamo i nostri peccati, egli e fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. (1 Giovanni 1:9)

SI CHIUDE IL CERCHIO Sembrerebbe che, essendo stata cristiana per quasi ottant’anni ormai, io non debba più fare cose che richiedono il perdono. Tuttavia, faccio costantemente cose che spiacciono agli altri e che mi costringono a chiedere perdono. Talvolta si tratta di cose che compio effettivamente. Altre volte si tratta semplicemente di atteggiamenti mentali che però spezzano il cerchio perfetto dell’amore di Dio. Imparai per la prima volta il segreto per chiudere il cerchio da mio nipote, Peter van Woerden, che stava trascorrendo un fine settimana con me a Baarn, in Olanda. “Ricordi quel ragazzo, Jan, per il quale abbiamo pregato?” chiese Peter. Mi ricordavo bene di Jan. Avevamo pregato molte volte per lui. La sua vita era oscurata da un orribile demonio, e sebbene avessimo digiunato e

pregato e scacciato il demonio nel nome del Signore Gesù Cristo, le tenebre riapparivano sempre nella sua vita. Peter continuò: “So che Dio mi ha fatto incontrare questo ragazzo non soltanto perché potesse essere liberato, ma per impartire anche a me qualche lezione”. Guardai Peter. “E che cosa poteva insegnarti quel ragazzo così pieno di oscurità?” “Non ho imparato la lezione da Jan”, rispose Peter sorridendo, “ma da Dio. Una volta, mentre pregavo per Jan, il Signore mi disse di aprire la Bibbia in 1 Giovanni 1:7-9. Lessi quel passo che parla del confessare il nostro peccato e chiesi al Signore che cosa avesse a che vedere, questo, con le tenebre presenti nella vita di Jan”. Peter si alzò e camminò per la camera, tenendo in mano la Bibbia aperta. “Dio mi ha insegnato che se un cristiano cammina nella luce, allora il sangue di Gesù Cristo lo purifica da ogni peccato, facendo della sua vita un circolo chiuso che lo protegge da tutte le oscure potenze esterne. Ma”, si voltò e puntò enfaticamente il dito sulle pagine della Bibbia, “se vi è un peccato non confessato, il cerchio presenta un’apertura, una breccia, e questa consente alle potenze delle tenebre di ritornare dentro”. Ah, pensai, Peter ha davvero imparato una verità dal Signore. “Zia Corrie”, continuò Peter, “sebbene io fossi stato capace di cacciar via il demonio dalla vita di Jan, quello continuava a ritornare in lui attraverso la breccia aperta nel cerchio da un peccato non confessato. Ma quando indussi Jan a confessare questo peccato, il cerchio si chiuse e le potenze delle tenebre non lo possedettero più”. Quella stessa settimana la moglie di un mio buon amico venne da me per ricevere dei consigli. Dopo che le ebbi preparato una tazza di tè, incominciò a raccontarmi che tanta gente aveva pregato per lei, ma che tuttavia continuava ad avere orribili incubi notturni. La interruppi e disegnai un cerchio su un pezzo di carta. “Mary”, chiesi, “c’è nella tua vita un peccato non confessato? È questa la ragione per cui il cerchio è ancora aperto?” Mary taceva, seduta a capo chino, con le mani contratte in grembo, i piedi agitati nervosamente. Potevo vedere che in lei era in corso una grande battaglia; una battaglia tra forze spirituali. “Vuoi essere veramente libera?”, insistetti. “Oh sì”, disse. Improvvisamente incominciò a raccontarmi di un forte odio che provava per sua madre. Tutti credevano che amasse sua madre, ma dentro di lei c’erano cose che addirittura la spingevano a desiderare di ucciderla. Tuttavia, mentre parlava, vidi la libertà apparire nei suoi occhi.

Finì la sua confessione e chiese subito a Gesù di perdonarla e di purificarla con il suo sangue. La fissai negli occhi e ordinai al demonio dell’odio di andar via nel nome di Gesù. Che gioia! Che libertà! Mary levò le mani in segno di vittoria e incominciò a lodare il Signore, ringraziandolo per la liberazione e il perdono che le aveva concesso. Quindi si alzò e mi abbracciò così forte che pensavo mi avrebbe rotto le costole. “Signore mio caro”, pregò, “ti ringrazio per aver chiuso il cerchio con il tuo sangue”. Avendo così imparato a chiudere il cerchio confessando i miei peccati, vorrei poter dire che da allora in poi il cerchio è rimasto sempre chiuso nella mia vita. Ma non è così. Dal momento che satana ci attacca così spesso, è necessario confessare anche spesso i nostri peccati. Indipendentemente dall’età o dagli anni passati al servizio del Signore Gesù Cristo, tutti abbiamo bisogno di confessare ripetutamente i nostri peccati e di chiedere perdono. Questa verità mi è diventata penosamente chiara recentemente, quando sono stata invitata a Washington per parlare ad una colazione di donne e uomini d’affari. Mi piace parlare a gente d’affari ed ero molto eccitata per quella riunione. Quando giunsi sul luogo dell’incontro, mi trovai soltanto fra donne. Questo mi disturbò, perché sentivo che anche gli uomini avevano necessità di ascoltare il messaggio del perdono. Dopo l’incontro, una signora di bell’aspetto mi si avvicinò. “Ho l’incarico di preparare il programma per il congresso mondiale del nostro gruppo di signore”, mi disse. “Saranno presenti alcune delle donne più influenti del mondo. Vorrebbe venire a parlare per noi a San Francisco?” Ero ancora indispettita perché nessun uomo era stato presente alla riunione. Non che io disapprovi le riunioni di sole donne, ma sono preoccupata quando gli uomini lasciano alle donne l’attività spirituale. Dio chiama degli uomini. Per cui le diedi una risposta breve e scortese:”No, non voglio venire. Debbo parlare anche agli uomini. Non mi piace questa faccenda di sole donne”. Fu molto cortese. “Non le pare di essere lei la persona più adatta?” chiese. “No”, risposi, “io non sono la persona più adatta. Non mi piace questo sistema americano in cui gli uomini vanno in giro per i loro affari lasciando che siano le donne a comportarsi da cristiane. Non verrò”. Mi voltai e me ne andai. Più tardi, quel pomeriggio, ero nella mia camera a preparare i bagagli per prendere l’aereo. Il Signore incominciò a parlarmi. “Sei stata molto screanzata con quella signora”, mi fece notare gentilmente. Naturalmente aveva ragione. Ha sempre ragione. Avevo appena finito di parlare sul perdono, ma ero restia a chiedere perdono per i miei errori.

Sapevo che sarei potuta andare da quella gentile signora a chiederle scusa, a confessarle il mio peccato. Se non lo avessi fatto, il cerchio sarebbe rimasto aperto nella mia vita e satana vi avrebbe versato dentro molti altri pensieri oscuri. Guardai l’orologio e notai che avevo appena il tempo di finire di fare i bagagli e recarmi all’aeroporto. Ma ciò non era più tanto importante. Se lasciavo Washington senza chiudere il cerchio, non sarebbe andata bene da nessun’altra parte. Dovevo semplicemente lasciar partire l’aereo. Chiamai la segretaria e seppi in quale camera alloggiasse la signora. Mi recai da lei. “Debbo chiederle perdono”, dissi appena aprì la porta. “Le ho parlato in modo ineducato”. Era imbarazzata e tentò di sorvolare. “Oh no”, disse, “non è stata scortese. Capisco perfettamente anch’io che gli uomini, più che le donne, dovrebbero fungere da guida nelle cose spirituali”. Essa ricambiava la mia scortesia con la gentilezza, ma non era questo quello che mi occorreva. Mi occorreva che essa ammettesse che ero stata in errore per non aver voluto parlare alle donne e mi perdonasse. Io so che spesso è più difficile perdonare che chiedere di perdonare, ma è ugualmente importante. Rifiutare il perdono lascia spesso l’altra persona in schiavitù, incapace di chiudere il cerchio e così disponibile ad ulteriori attacchi di satana. È tanto importante perdonare quanto chiedere di perdonare. Era una donna sensibile e capì. Tese le mani per afferrare teneramente le mie e disse: “Capisco, zia Corrie. Io ti perdono per le tue osservazioni circa i ‘gruppi femminili’ e ti perdono per essere stata poco gentile con me”. Era ciò di cui avevo bisogno di udire. In futuro avrei senz’altro parlato ancora a “gruppi femminili”. Avrei anche fatto attenzione alle mie labbra, per non parlare più scortesemente. Perdetti l’aereo, ma il cerchio fu chiuso.

Venuta una povera vedova, vi mise due spiccioli... Gesù, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: In verità io vi dico che questa povera vedova ha messo nella cassa delle offerte più di tutti gli altri: poiché tutti vi hanno gettato del loro superfluo, ma lei, nella sua povertà, vi ha messo tutto ciò che possedeva, tutto quanto aveva per vivere. (Marco 12:42-44)

UN DITO PER LA SUA GLORIA Arrivammo al suo appartamento di notte, per sfuggire alla sorveglianza. Eravamo in Russia, precisamente in Lituania, sul Mar Baltico. Ellen ed io ci eravamo arrampicate su per scale ripide, dopo esser entrate nell’edificio attraverso una piccola porta posteriore, e giungemmo in un appartamento di una sola stanza. Era zeppo di mobili, prova, questa, che la vecchia coppia una volta viveva in una casa molto più grande e confortevole. La vecchia giaceva su un piccolo sofà, sostenuta da cuscini. Il suo corpo era curvo, contorto, quasi oltre ogni possibilità di riconoscimento, a motivo di quella terribile malattia detta sclerosi a placche. Il marito, assai vecchio, passava tutto il suo tempo ad occuparsi di lei, giacché era incapace di spostarsi dal sofà. Attraversai la stanza e baciai le sue guance avvizzite. Tentò di guardare in su, ma i muscoli del collo erano talmente atrofizzati, che poteva soltanto volgere verso l’alto gli occhi e sorridere. Sollevò la mano destra, lentamente, a scatti. Era la sola parte del corpo che potesse controllare e con le sue nocche nodose e deformate accarezzò il mio viso. Mi curvai e baciai il dito indice della sua mano, perché era con quell’unico dito che per tanto tempo aveva glorificato Dio. Accanto al suo giaciglio c’era una vecchia macchina da scrivere. Ogni mattina il suo fedele marito si alzava, lodando il Signore. Dopo essersi preso cura delle necessità della moglie e averle dato una semplice colazione, la sistemava a sedere sul divano, sostenendola tutt’intorno con dei cuscini in modo che non scivolasse giù. Quindi spostava quell’antiquata macchina da scrivere nera di fronte a lei su un tavolino. Da un vecchio armadio prendeva una pila di carta ingiallita da poco prezzo. Quindi, con quel benedetto unico dito, essa incominciava a scrivere.

Scriveva tutto il giorno, fino a notte inoltrata. Traduceva libri cristiani in russo, in lettone e nella lingua del suo popolo. Sempre adoperando soltanto quell’unico dito: tic... tic... tic...-, e batteva a macchina pagine e pagine. Brani della Bibbia, i libri di Billy Graham, di Watchman Nee e di Corrie ten Boom: uscivano tutti dalla sua macchina da scrivere. Ecco perché ero lì: per ringraziarla. Aveva un grande desiderio di sentire notizie di quegli uomini di Dio che non aveva mai conosciuto, i cui libri, tuttavia, aveva così fedelmente tradotto. Parlammo di Watchman Nee*, che era allora in prigione in Cina, e dissi tutto quello che sapevo della sua vita e del suo ministero. Le parlai anche del meraviglioso ministero di Billy Graham* e delle moltitudini di persone che davano la loro vita al Signore. “Non soltanto essa traduce i loro libri”, disse il marito che le stava accanto durante la nostra conversazione, “ma prega ogni giorno per questi uomini mentre scrive a macchina. Talvolta le occorre molto tempo perché il dito colpisca il tasto, o per infilare la carta nella macchina, ma essa prega sempre per coloro che hanno scritto i libri ai quali sta lavorando”. Guardai la sua forma disfatta sul sofà, la testa china, i piedi raccolti sotto il corpo. “O Signore, perché non la guarisci?”, gridai dentro di me. Il marito, che si era accorto della mia angoscia, diede la risposta: “Dio ha uno scopo ben preciso per lasciarla nella sua malattia. Ogni altro cristiano della città è controllato dalla polizia segreta, ma dato che lei è stata malata per tanto tempo, nessuno la viene mai a trovare. Ci lasciano soli, ed essa è la sola persona in tutta la città che possa scrivere a macchina tranquillamente, senza essere controllata dalla polizia”. Mi guardai intorno nella piccola camera, così stipata con i mobili di un tempo migliore. In un angolo c’era un fornello. Vicino all’armadio c’era “l’ufficio” di suo marito, una sconquassata scrivania dove egli ordinava le pagine che uscivano dalla sua macchina da scrivere per distribuirle ai cristiani. Pensai a Gesù, seduto lì vicino alla scrivania, e il mio cuore balzò di gioia nell’udire che Gesù benediceva questa vecchia donna malata la quale, come la vedova del Vangelo, aveva dato tutto ciò che possedeva. Che valoroso soldato! Quando entrerò nella bella città, I salvati si affolleranno intorno a lei, Molte persone le diranno: Sei stata tu che mi hai invitato qui. (Autore ignoto)

Ellen ed io ritornammo in Olanda, dove potemmo comprare una nuova macchina da scrivere e gliela spedimmo. Ora poteva fare anche delle copie carbone delle sue traduzioni. Abbiamo ricevuto oggi una lettera da suo marito. Nelle prime ore della scorsa settimana essa è partita, è andata a stare con il Signore. Ma, egli scrive, aveva lavorato fino a mezzanotte battendo sulla macchina con un sol dito, alla gloria di Dio.

Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi? Poiché siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo. (1 Corinzi 6:19-20)

IL PRINCIPIO DEL DIN-DON In Olanda abbiamo molte chiese con campanili. Le campane vengono azionate a mano mediante una corda che è tirata nella sacrestia della chiesa. Un giorno una giovane fiamminga, che si era ravveduta ed aveva ricevuto la liberazione dalla lussuria e dall’impurità, si avvicinò a me in una di queste chiese. “Sebbene io sia stata liberata”, disse, “la notte continuo ancora a sognare il mio antico modo di vivere. Temo che scivolerò di nuovo giù nella presa di satana”. “Su nel campanile di questa chiesa”, dissi indicando il campanile, “vi è una campana che viene suonata tirando una corda. Ma sai che cosa succede? Quando il campanaro lascia andare la corda, la campana continua a dondolare. Prima din, poi don. Sempre più lentamente, fino a che, dopo un don finale, si ferma. “Io credo che la stessa cosa possa dirsi della liberazione. Quando i demoni sono cacciati fuori nel nome del Signore Gesù Cristo, quando il peccato è stato confessato e si ha rinunciato ad esso, la mano di satana si distacca dalla corda. Ma se ci preoccupiamo della nostra passata schiavitù, egli adopererà quest’occasione per far continuare a risuonare l’eco del male nella nostra mente”. Sul volto della fanciulla si diffuse una dolce luce: “Lei pensa che, sebbene talvolta abbia delle tentazioni, sono sempre libera, che satana non tira più la corda che controlla la mia vita?” “La purezza della tua vita è la prova della tua liberazione”, dissi. “Non dovresti preoccuparti dei din e dei don; non sono altro che un’eco”. Raramente i demoni se ne vanno senza lasciare dietro di sé le loro vibrazioni: i din e i don. È come se dessero, uscendo, un forte strattone, spaventandoci e facendoci credere che siano ancora lì. Essi sanno bene che, sebbene debbano fuggire davanti al nome di Gesù, se continuiamo a spaventarci per gli echi rimasti, altri demoni potranno venire a prendere il loro posto. Lo stesso vale per il perdono. Quando perdoniamo qualcuno, leviamo

la nostra mano dalla corda. Ma se l’abbiamo tirata con le nostre lagnanze per molto tempo, non dobbiamo sorprenderci se gli antichi pensieri irosi continuano per un po’ a ritornare. Sono semplicemente i din e i don dell’antica campana che va però rallentando. La Bibbia promette che, se abbiamo ammesso e confessato i nostri peccati, Dio ci purifica da essi con il sangue di Gesù. In effetti, egli dice: “Non mi ricorderò più dei loro peccati” (Ebrei 8:12). Ma noi possiamo fare qualche cosa che Dio non può fare: possiamo ricordare i nostri vecchi peccati; questi sono i din e i don della nostra vita passata. Quando li udiamo, dobbiamo ricordare che mediante il sacrificio di Gesù sul Calvario Dio ha tagliato la corda del nostro peccato. Possiamo essere tentati. Possiamo anche occasionalmente ricadere. Ma siamo stati liberati dalla potenza del peccato che ci rendeva schiavi e, sebbene le vibrazioni possano ancora risuonare nella nostra vita, diventeranno sempre minori e infine cesseranno completamente. Una volta che satana è stato cacciato dalla casa della vostra vita, non può ritornarvi se camminerete in ubbidienza. Non permettetegli di rimettere la corda alla campana del peccato. Il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo. Ad ogni modo, ciò non impedisce che lui e i suoi demoni stiano fuori dalla casa e gridino dalle finestre dicendo: “Siamo ancora qui!” Ma - alleluia! - conosciamo satana per quello che è: il principe dei bugiardi. Egli non è più qui, è stato scacciato. Quindi ogni qualvolta udite uno dei vecchi echi nella vostra vita, uno dei din o dei don, dovete fermarvi di colpo e dire: “Grazie Gesù. Tu mi hai comprato con il tuo sangue e il peccato non ha più alcun diritto di risuonare nella mia vita”.

Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate; affinché il Padre vostro, che è nei cieli, vi perdoni le vostre colpe. (Marco 11:25)

NERO SU BIANCO E IL PERDONO Vorrei poter dire che dopo una lunga e fruttuosa esistenza, in viaggio per tutto il mondo, ho imparato a perdonare tutti i miei nemici. Vorrei poter dire che ho solo pensieri caritatevoli e misericordiosi per gli altri. Ma non è così. Se vi è una cosa che ho imparato dopo il mio ottantesimo compleanno, è che non posso accumulare in magazzino buoni sentimenti e buon comportamento da prelevare al momento giusto, ma che posso soltanto ottenerli freschi ogni giorno da Dio. Sono lieta che sia così, perché ogni volta che vado a lui, egli mi insegna qualcosa di nuovo. Ricordo - avevo quasi settantanni - quando alcuni amici cristiani, che amavo e dei quali mi fidavo, fecero qualche cosa che mi fece male. Potreste essere indotti a pensare che, essendo stata capace di perdonare le guardie di Ravensbruck, perdonare degli amici cristiani sia uno scherzo da bambini. Non è vero. Per settimane ribollivo internamente. Ma finalmente chiesi a Dio di operare ancora una volta il suo miracolo in me. E accadde di nuovo: prima la decisione a sangue freddo, quindi il flusso di allegrezza e pace. Avevo perdonato i miei amici; ero ritornata a posto con mio Padre. Ma... la notte successiva mi svegliai improvvisamente e rivangai di nuovo tutta la questione. I miei amici!, pensavo. Gente che amavo. Se fossero stati degli estranei non mi sarei preoccupata tanto. Sedetti sul letto e accesi la luce. “Padre, pensavo di aver perdonato tutto. Ti prego, aiutami a farlo”. La notte seguente mi svegliai di nuovo. Pensai: Avevano parlato così dolcemente, dopotutto! Mai un accenno a quello che progettavano di fare contro di me! “Padre!” gridai allarmata, “aiutami!” Fu allora che emerse un altro fattore di estrema importanza nella remissione. Non basta dire semplicemente “Ti perdono”, ma bisogna vivere il perdono concesso. E nel mio caso ciò significava agire come se i loro peccati fossero stati sepolti nelle profondità del più profondo dei mari. Se Dio poteva non ricordarsene più e ha potuto dire: “Non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro iniquità” (Ebrei 10.17), neanche io dovevo ricordarmene. La ragione per cui i pensieri continuavano a tormentarmi, dipendeva

dal fatto che io continuavo a rivangare il loro peccato nella mia mente. E così scoprii un altro dei principi di Dio: possiamo affidarci a Dio non soltanto per il controllo dei nostri sentimenti, ma anche per il controllo dei nostri pensieri, delle nostre convinzioni. Quando gli chiesi di rinnovare la mia mente, egli portò via anche i miei pensieri negativi. Ma Dio aveva ancora di più da insegnarmi con questo semplice singolo episodio. Molti anni più tardi, dopo il mio ottantesimo compleanno, un amico americano venne a trovarmi in Olanda. Eravamo nel mio piccolo appartamento a Baarn ed egli mi chiese notizie di quella gente che tanto tempo prima si era approfittata di me. “Non c’è stato più nulla”, dissi abbastanza compiaciuta. “È tutto dimenticato”. “Da parte tua, certo”, disse. “Ma da parte loro? Hanno accettato il tuo perdono?” “Dicono che non c’è niente da perdonare! Negano di avermi fatto del male. Ad ogni modo, non importa quel che dicono, io posso sempre dimostrare che erano in errore”. Andai alla mia scrivania. “Guarda! Ce l’ho qui, nero su bianco! Ho messo da parte tutte le loro lettere e posso mostrarti dove..”. “Corrie!” Il mio amico allungò il braccio e chiuse gentilmente il cassetto. “Non sei tu colei i cui peccati giacciono sul fondo del mare? Invece i peccati dei tuoi amici sono trattenuti nero su bianco nel tuo cassetto”. Fu una rivelazione stupefacente e rimasi senza parola. “Signore Gesù”, sussurrai alla fine, “tu che porti via tutti i miei peccati, perdonami per aver conservato per tutti questi anni la prova dei peccati di altre persone. Dammi la grazia di bruciare tutto questo nero su bianco in un sacrificio profumato alla tua gloria”. Non andai a dormire quella notte finché non ebbi tirato fuori dalla mia scrivania quelle lettere sgualcite dal tempo e le buttai nella mia piccola stufa a carbone. Le fiamme balzarono e splendettero e così fece il mio cuore. “Perdonaci i nostri peccati”, ci insegnò a pregare Gesù, “come noi perdoniamo a coloro che peccano contro di noi”. Nelle ceneri di quelle lettere vedevo ancora un altro aspetto della sua misericordia. Quanto egli mi avrebbe ancora insegnato circa il perdono non lo sapevo, ma quella notte la lezione fu eccellente. Il perdono è la chiave che chiude la porta al risentimento e mette le manette all’odio. Rompe le catene dell’amarezza e i ceppi dell’egoismo. Il perdono di Gesù non solo toglie via i nostri peccati, ma fa come se non fossero mai esistiti. Amen! Vieni Signore Gesù! (Apocalisse 22:20)

PREPARARSI ALLA FINE Qualche tempo fa mi trovavo con un gruppo di studenti nel Midwest. Alcuni di loro erano convertiti da poco, ma la maggior parte non conosceva il Signore. Erano interessati ad ogni sorta di cose e un professore cristiano aveva organizzato degli incontri settimanali per rispondere alle loro domande. Fu così che nel corso dell'ultima riunione serale di quel semestre il professore disse: “Ora potrete udire qualche cosa circa il cristianesimo pratico”. Mi rivolsi dapprima a coloro che erano già cristiani. “Da quanto tempo conoscete Gesù?” chiesi. Uno disse: “Da due settimane”. Un altro disse: “Da tre anni”. E un altro ancora disse: “L’ho conosciuto soltanto ieri”. Quindi dissi loro: “Benissimo, io ho buone notizie per voi. Lo conosco da settantacinque anni e posso dirvi, ragazzi, che egli non vi deluderà mai”. Quindi raccontai agli altri studenti di Gesù Cristo, di ciò che egli aveva fatto per me, dei suoi grandi miracoli. Dissi loro che quando egli ci dice di amare i nostri nemici, ci dà egli stesso l’amore che pretende da noi. Gli studenti ascoltavano attentamente, e fui indotta dallo Spirito Santo a non addentrarmi in qualsiasi dottrina o insegnamento all'infuori della realtà di Gesù Cristo. Parlai loro della gioia che mi derivava dall’avere Gesù con me, qualunque cosa accadesse, e di come io sapessi per esperienza che la luce di Gesù è più forte delle tenebre più profonde. Parlai loro dell’oscurità delle mie esperienze in prigione, pur rendendomi conto che soltanto quelli che erano stati in un campo di concentramento avrebbero potuto capirmi completamente. Ma volevo che questi studenti capissero che, sebbene vi fossero ogni giorno seicento persone che morivano di stenti o uccise, Gesù era con loro. Può accadere il peggio, ma è il meglio che rimane: la vita per l’eternità. Più tardi presi un caffè con gli studenti. Uno di loro mi disse: “Desidererei tanto chiedere a Gesù di entrare nel mio cuore, ma non posso. Sono ebreo”. Dissi: “Non puoi chiedere a Gesù di entrare nel tuo cuore perché sei ebreo? E allora non capisci che con l’ebreo Gesù nel tuo cuore tu saresti due volte ebreo!” Egli disse: “Oh, ma allora è possibile!” “Certo”, dissi. “Perché Gesù da un lato era figlio di Dio, e dal lato umano era ebreo. Quando lo accetti, diventi ancora più ebreo di prima. Sarai un ebreo compiuto”. Con grande gioia il ragazzo ricevette il Signore Gesù come suo Salvatore.

C’è una nuova ondata di interesse nel mondo per le cose spirituali. Molti sono interessati a Gesù Cristo, mentre prima non lo erano. Chiese che per secoli erano morte e fredde come mausolei, stanno ritornando in vita. In tutto il mondo persone vengono salvate e riempite dello Spirito Santo. Al tempo stesso, però, molti altri si stanno allontanando da Dio. Adorano apertamente satana. Molti che si definiscono cristiani sono coinvolti nella divinazione, nell’occultismo, nella magia, nell’astro- logia, in forme religiose di origine satanica. Vedo due colossali eserciti in marcia sul mondo: l’esercito dell’anticristo e quello di Gesù Cristo. Dalla Bibbia sappiamo che Gesù Cristo avrà la vittoria, ma ora l’anticristo sta preparandosi per il tempo che precede il ritorno di Gesù. Dice la Bibbia che vi sarà un tempo di tribolazioni e che l’anticristo si impadronirà del mondo intero. Sarà un uomo molto “colto e religioso” e creerà una sola religione per tutto il mondo. Dopo di ciò proclamerà se stesso Dio. La Bibbia profetizza che verrà il tempo in cui non si potrà comprare e vendere se non si possiede il segno dell’anticristo; ciò significa che nel mondo circolerà un’unica valuta. La gente sa queste cose, oggi. Se io non vi avessi creduto prima, leggendo la Bibbia, vi crederei adesso, perché ciò che è stato previsto in essa ora lo si può leggere sui giornali. Ad una riunione in California, uno studente in teologia mi si avvicinò dicendo: “Cos’è tutta questa storia del ritorno di Gesù? Non sa che gli uomini hanno profetizzato per anni che egli sarebbe venuto e non lo ha mai fatto? Già la Chiesa primitiva non poteva vivere concretamente la sua religione, perché era troppo occupata ad attendere il ritorno di Cristo. Non ritornerà. Sono tutte sciocchezze”. Osservai il giovanotto. Era così presuntuoso, così beffardo che mi rattristai per lui. “Davvero, Gesù ritornerà e ben presto”, dissi. “E tu me lo hai dimostrato or ora”. Spalancò gli occhi. “Come?!” “Lo afferma la Bibbia in 2 Pietro 3:3. Dice che negli ultimi giorni gireranno beffeggiatori alla ricerca del loro piacere, i quali diranno: ‘Dov’è la promessa della sua venuta? Fin dai primi tempi della Chiesa gli uomini lo hanno atteso ed egli non è venuto’. Così, vedi, mio giovane amico, tu sei uno dei segni della sua venuta”. Quando penso alla venuta del Signore Gesù non ho paura. Anzi, me ne rallegro. Io non so se sarebbe meglio per me morire ed essere in quella grande schiera di santi che ritorneranno con lui o se sarebbe meglio rimanere qui ad aspettare di essere trasformata improvvisamente al suono della tromba. In un modo o nell’altro, mi piacciono i versi che dicono: Dio elabora i suoi piani

Mentre un anno succede all’altro, Dio elabora i suoi piani E il tempo s’avvicina. Sempre più vicino è il momento, Il tempo sicuramente verrà, Che la terra sarà ripiena della gloria di Dio Come le acque coprono il fondo del mare. (A.C. Ainger)

Noto che quando i politici atei parlano del futuro del mondo mostrano uno schema per la pace basato sul loro programma. Ma quando chiedo loro: “E che cosa succederà alla vostra morte?”, dicono: “Allora sarà finito tutto. Non esiste vita dopo questa vita”. La Bibbia ci dice che l’anticristo può imitare molte cose, anche i doni dello Spirito. Ma vi è una sola cosa che non può imitare, e questa è la pace di Dio che supera ogni comprensione. Ma vi sono buone cose da dire circa il futuro dei mondo. Per esempio, la Bibbia dice che l’albero della vita sarà usato per guarire le nazioni. Questo vuol dire che ci saranno delle nazioni da guarire e che vi sarà guarigione. Sono tanto grata per il fatto che abbiamo la Bibbia e che possiamo conoscere i progetti di Dio per il futuro. Con 1’avvicinarsi dei tempi finali, il potere di Dio diventa sempre più grande. Un giorno, durante un viaggio in Russia, mi avvicinai ad un funzionario doganale con la valigia piena di Bibbie russe. Stavo in fila e notai con quanta cura il funzionario controllava ogni valigia. Improvvisamente mi prese una grande paura: “Che cosa farà quando troverà le mie Bibbie? Mi rimanderà in Olanda? Mi metterà in prigione?” Chiusi gli occhi per astrarmi dalla scena che mi circondava e dissi: “Signore, in Geremia è scritto che ‘Dio vigila sulla sua parola per mandarla ad effetto” (Geremia 1:12). Signore, le Bibbie nella mia valigia sono la tua parola. Ora, Dio, ti prego di vigilare sopra la tua parola - le mie Bibbie - in modo che possa portarla alla tua gente in Russia”. Naturalmente so che non è questo che Geremia intendeva, ma ho scoperto che, se prego con la mia mano sulle promesse della Bibbia, non debbo attendere di acquisire una posizione dottrinalmente certa: Dio vede soprattutto il mio cuore. Dopo aver pregato aprii gli occhi e vidi degli esseri muoversi leggeri intorno alla mia valigia. Erano angeli. Fu la prima e anche l’ultima volta nella mia vita che li vidi, sebbene molte e molte volte avessi saputo che erano presenti. Quella volta li vidi solo per un istante e quindi sparirono. Ma con loro se ne andò anche la mia paura. Avanzai lungo il banco della

dogana, facendo scivolare la mia valigia sul ripiano di acciaio inossidabile verso il funzionario che stava facendo un’ispezione molto accurata. Finalmente era il mio turno. “È questa la sua valigia?” chiese. “Sì signore”, risposi cortesemente. “Sembra molto pesante”, disse prendendola per la maniglia e sollevandola. “E' molto pesante”, ammisi. Sorrise: “Dato che è l’ultima della fila posso darle una mano. Se mi vuole seguire, la porterò al suo taxi”. Il mio cuore traboccava quasi di lodi, mentre lo seguivo oltre il cancello della dogana nella strada, dove mi aiutò a trovare un’auto per l’albergo. Così, anche se sta maturando rapidamente il tempo in cui l’anticristo tenterà di impadronirsi del mondo, non ho paura, perché ho con me la grandiosa promessa della presenza costante di Gesù, che mi immunizza da tutto il male che satana può tentare di farmi. L’apostolo Pietro disse: “Perciò, carissimi, aspettando queste cose, fate in modo di essere trovati da lui immacolati e irreprensibili nella pace” (2 Pietro 3: 14). L’arrendersi al Signore Gesù Cristo non deve essere parziale, ma totale. Soltanto quando ci pentiamo e ci allontaniamo dai nostri peccati (naturalmente grazie alla sua forza) egli ci riempie con il suo Spirito Santo. Il frutto dello Spirito Santo ci fa giusti per Dio e l’amore di Dio in noi ci fa giusti per gli uomini. Allora possiamo perdonare, addirittura amare i nostri amici. Gesù stesso ci prepara per la sua venuta. Lasciate i bambini, non impedite che vengano da me, perché il regno dei cieli è per chi assomiglia a loro. (Matteo 19:14)

PICCOLA TESTIMONE DI CRISTO Zia Jans perdette suo marito prima di aver compiuto quarant’an- ni. Egli era stato un ministro ben noto di Rotterdam ed essa aveva lavorato fedelmente al suo fianco nella chiesa. Non avevano figli, e quando egli morì, fu chiaro che la moglie dovesse abitare con noi nella nostra casa di Haarlem. Era poetessa, scrittrice ed organizzatrice; soprattutto organizzatrice! Poco dopo essersi trasferita nella Beje, aprì un circolo di ragazze del quale dirigeva le riunioni e cominciò a pubblicare un piccolo

mensile femminile. Molto prima che incominciasse la prima guerra mondiale, un reparto di soldati olandesi fu dislocato a Haarlem. Vedendo molti soldati sulle strade, zia Jans decise di aprire un circolo anche per loro. Prese contatto con persone facoltose e in breve tempo ebbe abbastanza denaro per costruire una “Casa del Soldato”. Due volte la settimana zia Jans andava in quella casa per tenervi uno studio biblico. Zia Jans invitava i soldati anche a venire a casa nostra. Dato che erano soli e non amavano la vita delle strade, molti di loro accettavano. Quasi ogni sera avevamo dei soldati in casa. Un certo sergente era un grande musicista e zia Jans gli chiese di insegnare a me e a mia sorella Nollie a suonare l’armonium: un vecchio organo a mantice. Dopo non molto tempo io fui in grado di andare con zia Jans alla Casa del Soldato per accompagnare il canto. Una sera - avevo undici anni - un folto gruppo di soldati si era riunito per lo studio biblico. Prima che io cominciassi a suonare, zia Jans mi fece cantare. Cantai la canzone che parla della pecorella smarrita ritrovata dal Pastore. La cantai lentamente e con enfasi, raggiungendo un grande effetto con l’ultimo verso: “E la pecorella smarrita ero io”. Quando ebbi finito di cantare, un ufficiale olandese alto e biondo tese le braccia e mi attirò a sé. Mi fece sedere sulle sue ginocchia e disse ridendo: “Dimmi, signorinella, com’è che ti sei smarrita?” Tutti i soldati risero e io diventai rossa per l’imbarazzo. Sembrava strano che una bambina si ritenesse già una pecorella smarrita. Dovetti confessare che il verso apparteneva semplicemente alla canzone e che io non ero mai, mai stata una pecorella smarrita. Quindi gli dissi che da bambina, ad appena cinque anni, avevo dato il mio cuore a Gesù Cristo e che non potevo ricordare un tempo in cui non gli fossi appartenuta. L’ufficiale si fece improvvisamente serio e i suoi occhi si riempirono di lacrime. “Ah, è così che dovrebbe essere, piccolo e dolce musetto”, disse teneramente. “Quanto è meglio andare a Gesù fin da bambini, che dover annaspare al buio, come me, alla ricerca del buon Pastore”. Quindi chiuse gli occhi e disse dolcemente: “Ma credo che questa sera smetterò di cercare e lascerò che sia lui, invece, a trovarmi”. Quella sera vi fu grande allegrezza nella riunione biblica. Il Signore mi aveva adoperata per guidare un uomo a Cristo. Era la prima volta nella mia vita, ed era accaduto non a causa di ciò che avevo detto, ma per lo Spirito Santo che era in me. Fu una rivelazione che portai con me segretamente per tutti gli anni della mia vita, mentre viaggiavo per il mondo, vagabonda per il Signore.