Ungaretti. Un ritratto e cinque studi
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Marie TI © Ungaretti Un ritratto e cinque studi mucchi editore

Mario Barenghi 2

Ungaretti Un ritratto e cinque studi

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Nu A ig: mucchi editore

ISBN 88-7000-319-1

289 © Enrico Mucchi Editore s.r.]. Via Emilia Est, 1527 - 41100 Modena

Pubblicato in Modena nel mese di Gennaio 1999

Questo volume è stato pubblicato con il contributo dell’Università

degli Studi di Udine

Introduzione SFR

Nell'immagine della poesia novecentesca elaborata dalla critica più autorevole durante l’ultimo ventennio,

la figura di Ungaretti appare ridimensionata. In certa misura, questo era inevitabile: una volta affermatasi la nozione di un Novecento lirico multiforme, complesso, plurivoco, articolato in una grande varietà di esperienze e di orientamenti, l’asse portante della ricerca ungarettiana — cioè il primo ventennio della sua attività, dalla metà degli anni Dieci alla metà degli anni Trenta, che culmina nelle ravvicinate e stabilizzate (se non definiti-

ve) edizioni dell’A//egria e di Sentimento del Tempo — era destinato a perdere buona parte del suo valore paradigmatico. Di fatto, caduta l’idea d’un secolo imperniato

sugli sviluppi della tradizione simbolistica e «novecentista», la posizione storica di Ungaretti sembra prestarsi a due fondamentali interpretazioni. La prima, che potremmo definire tardo- (o neo-) ermetica, consiste nel ribadire la necessità del nesso Allegria-Sentimento, e più in generale, nel difendere l’organicità complessiva della lirica ungarettiana, che viene a costituire così un ramo autonomo dell’albero poetico novecentesco, qualunque sia l’importanza relativa che poi le si intenda attribuire. La seconda ravvisa invece nell’A/legria (o comunque nella stagione d’esordio, con una tendenza a privilegiare l’invenzione originaria) la fase dell’opera di Ungaretti di gran lunga più incisiva e pregnante nel contesto della lirica contemporanea; quanto alle raccolte successive, ne vengono in linea di massima revocate in dubbio sia la

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coerenza, sia la conciliabilità entro un disegno unitario (la «vita d’un uomo»), sì che, di ciascuna, risulta valo-

rizzata piuttosto l'inquietudine sperimentale che non la compiutezza dei risultati, ovvero la felice riuscita di singoli componimenti, piuttosto che la saldezza d’impianto dell’insieme. La prima ipotesi lascia ancora aperta la via di interpretare Ungaretti attraverso Ungaretti: cioè, in buona

sostanza,

di dare del poeta

un’immagine

nella

quale egli stesso avrebbe potuto riconoscersi. La seconda porta di necessità a rilevare alcuni limiti dell’autocoscienza critica ungarettiana (il che si riverbera in qualche modo anche sulla valutazione generale dell'autore). La mia idea di Ungaretti, lo preciso subito, rientra in

questo secondo orientamento interpretativo. Ungaretti è senza dubbio uno dei massimi poeti del Novecento, ma la sua grandezza è frutto di talento istintivo, di capacità d’intuizione e di perizia tecnica (nonché, volendo avventurarsi in un terreno criticamente infido e poco raccomandabile, di ricchezza umana): ma quanto a coscienza storica, a lucidità critica e autocritica, a solidità cultu-

rale, le ragioni di perplessità a volte prevalgono su quelle di ammirazione e di consenso. Di conseguenza, l’importanza della sua poesia mi pare si valuti meglio cogliendone gli aspetti irrisolti e contraddittori, le esitazioni, perfino le aporie, piuttosto che le sicure acquisizioni. Su tale orizzonte, la principale proposta contenuta in queste pagine — svolta in maniera più diffusa nel terzo capitolo — consiste nell’arretramento nel cuore stesso della prima raccolta ungarettiana di una sostanziale duplicità d'intenti: la quale, se non incrina la formidabile

coesione stilistica dell’opera, la vincola a circostanze (biografiche e storiche) sostanzialmente irripetibili. Non

mi riferisco solo alla condizione — pur decisiva — della

vita in trincea, quanto dell’opportunità che essa gli offrì di catalizzare quella sintesi estetica fra primitivismo e modernità che già suggerivano'i dati fondamentali della sua esperienza precedente, dal paésaggio desertico (che poteva indurre a rivivere le poetiche della veggenza o dell’ineffabilità in termini di concreta immediatezza sensoriale) alla frequentazione delle avanguardie artistiche parigine (modelli d’una raffinata ricerca formale perseguita attraverso forme di radicale semplificazione e scarnificazione espressiva). Gli sviluppi successivi alla folgorante invenzione del Porto Sepolto — si tratti di elaborazioni variantistiche, della composizione di testi nuovi, dell’organizzazione interna di una raccolta — mi paiono invece contraddistinti soprattutto dall’esigenza di temperare istanze diverse e non di rado fra loro poco compatibili. Se si eccettua il primo, dedicato a una presentazione panoramica, gli studi qui raccolti affrontano da vari punti di vista la prima fase dell’attività di Ungaretti, dalla plaquette udinese del ‘16 all’A//egria, con un’isolata incursione nella stagione del Sentimento attraverso Il Capitano (una poesia che peraltro affonda le sue radici in un’idea della fine del ’17). La varietà delle considerazioni dipende, come di norma accade, dalla varietà

degli approcci. Pure, ritengo che ne emerga un’interpretazione complessiva abbastanza coerente e non del tutto priva di elementi di novità. A caratterizzarla sono, in particolare, l'individuazione nell’A/legria di due maniere opposte di ridurre la parola poetica all’essenzialità, con la conseguente rivendicazione di un ruolo non secondario di Ungaretti nella linea novecentesca della «poesia dell’oggetto», e l’insistenza sulla difficoltà con la quale, dopo il secondo Porto, matura la decisione —

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assolutamente cruciale — di porsi come autore di due libri, anziché di uno: cui fanno riscontro da un lato l’incertezza circa la titolazione del primo libro, dall’altro i

mutamenti di «dizione» (nel senso scenico della parola) che presiedono a certe vicende variantistiche. Non più che un cenno è dedicato invece a una questione che, licenziando questo volume, mi sembra meritevole di approfondimenti ulteriori, cioè l’analogia con certi aspetti della personalità del Foscolo. Benché devoto studioso di Leopardi e (alla luce degli ultimi reperti archivistici) non distratto lettore di Manzoni, Ungaretti,

da un certo punto in poi, condivide con l’autore delle Grazie un rapporto quanto mai controverso con la modernità, sul quale l’istanza classicista esercita una fun-

zione ora moderatrice e propulsiva, ora evasiva o inibitoria: e non poco avrà contato, per entrambi, l’identificazione di una classicità come patria ideale, in reversi-

bile relazione con i luoghi di nascita e di origine (laddove il punto di partenza di Leopardi era proprio il riconoscimento di una sopravvenuta discontinuità, insieme sto-

rica e simbolica, rispetto alla tradizione). Certo, nel sistema di antinomie che caratterizza la fi-

gura di Ungaretti — frutto sia di oggettivi riscontri biografici, sia di un’accorta mitografia personale — è natu-

rale che, non da oggi, la componente centrifuga ci attragga maggiormente di quella centripeta. L’africano, l’egiziano, il nomade affascinano di più dell’emigrante rimpatriato, dell’italiano dedito all’agnizione dei propri spirituali padri, del petrarchista. Ma il principio si applica anche ai valori stilistici. Fatta salva l’eccellenza della stagione allegresca — e non in antitesi con tale ricono-

scimento — l’Ungaretti che tuttora ha più da dirci è quello dell’involontaria e irriducibile incongruenza fra

9 vita e poesia; è (nei limiti in cui li si può distinguere), l’espressionista più dell’orfico, il barocco e non il neoclassico; né andrà dimenticato-il poeta che occasionalmente si cimentazeon cadenze di prosa (dal Monolo-

ghetto alle «illuminazioni» di viaggio del Deserto) senza ripudiare la sua vocazione di lirico puro.

L’origine remota del capitolo III risale a un contributo apparso su «Acme», settembre-dicembre 1981 (La pietra del S. Michele. Studio sugli stili del primo Ungaretti). Il capitolo IV amplia e rielabora il testo di un saggio pubblicato su «Belfagor», 31 marzo 1998 (Di porto in porto con Ungaretti 1923). Il capitolo VI riprende con alcune modifiche il testo che accompagna una riproduzione anastatica, edita su licenza della casa editri-

ce Arnoldo Mondadori in 750 esemplari numerati fuori commercio, per celebrare l’ottantesimo anniversario della prima edizione: /! Porto Sepolto 1916-1996, ristampa anastatica a cura di Mario Barenghi, Comune di Udine — Comune di Tolmezzo, 1996. I capitoli I, II e IV

sono inediti.

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Profilo di un poeta ERE?

La vita di Ungaretti, al pari della sua poesia, può essere scandita in periodi piuttosto ben individuati. I primi 24 anni in Egitto; poi gli studi a Parigi, la guerra sul Carso, Parigi di nuovo; solo a 34 anni, nel ’22, il trasfe-

rimento in Italia; il soggiorno in Brasile fra il ’36 e il ’42, quindi il definitivo rimpatrio, con l’insegnamento universitario a Roma e la lunga, attiva vecchiaia. Analogamente, sul versante dell’opera si distinguono con chiarezza una fase preparatoria, fino al 1915; una prima grande stagione, che va — attraverso integrazioni, tagli e varianti — dal Porto Sepolto (1916) all’Allegria (1931), su cui è embricata la seconda, che s’identifica con Sentimento del Tempo (1919-1936); una terza fase caratterizzata, oltre che dalle traduzioni, dalla lunga gestazione

della Terra Promessa (1950), interrotta però dal Dolore (che reca le date 1937-46) e protratta fino al Taccuino del Vecchio (1960); quindi le ultime sparse poesie e traduzioni, fino alla vigilia della morte. Il titolo Vita d’un

uomo, scelto da Ungaretti per l’edizione complessiva della sua opera, postula due impegnativi assunti: una sostanziale congruenza dell’attività poetica con l’esperienza biografica, e una intrinseca organicità nello sviluppo di entrambe. Sulla fondatezza di tali idee dovremo ritornare più avanti; precisiamo solo che il giudizio critico sul titolo — introdotto con la definitiva Allegria mondadoriana del ’42, ma inaugurato tre anni prima per un’edizione francese curata da Jean Chuzeville — ha importanti conseguenze nell’interpretazione dell’in-

12 tera opera ungarettiana, specie riguardo alle raccolte successive all’ Allegria. Giuseppe Ungaretti era nato ad Alessandria d'Egitto 18 febbraio 1888 (la registrazione all'anagrafe avvenne due giorni dopo), nel popolare e cosmopolita quartiere di Moharrem Bey, a un passo dal mare e dal deserto. Entrambi i genitori provenivano dai contorni di Lucca. Il padre Antonio, di San Concordio, morì nel 1890 a seguito dell’idropisia contratta lavorando come sterratore agli scavi del Canale di Suez. Già da tempo la tranquillità economica della famiglia era assicurata dai proventi di un forno, che la madre Maria Lunardini, rimasta ve-

dova, seppe gestire con oculatezza, consentendo ad entrambi i figli (il maggiore, Costantino, era nato nell’80) di compiere studi superiori. Devota credente, ma di aperte e tolleranti vedute — la casa era aperta a tutti i connazionali in difficoltà, inclusi atei e anarchici — avrà una grande autorità morale su Ungaretti, che la ricorderà non solo nella famosa poesia di Sentimento del Tempo che annuncia

la conversione

religiosa,

ma

anche

nel

progetto d’una personale ricerca delle radici, di cui dà notizia in varie lettere (cito da quella inviata a Prezzolini il 10 gennaio 1918): «/ miei antenati, biografie liriche di Villon, Elskamp, Keats, Leopardi, Mallarmé, Maurice de Guérin, Papini, Benvenuto Cellini, Dostoieschi, Ma-

ria Lunardini mia madre». Tra i ricordi d’infanzia vanno menzionate altre due figure femminili: la balia sudanese, che compare in uno dei primi componimenti (Le Suppliche), e un’anziana dalmata delle Bocche di Cattaro, accolta in casa come aiuto domestico, che narra storie avvincenti e favolose: «fu la mia tenerissima, espertissima fata» (Croazia segreta, 1969). Da bambino Ungaretti

13 soffre di una forma di tracoma che lo costringe tempo al buio, senza però lasciare conseguenze. Fino a quindici anni studia all'Istituto Don quindi entra nella;zinomata École Suisse Jacot, lega con l’arabo di origine libanese Mohammed

qualche

Bosco, dove si Shehab (l’amico suicida di /n memoria) e matura l’interesse per la poesia. Si appassiona a Leopardi e Mallarmé, legge

Baudelaire, Nietzsche, il «Mercure de France»; frequenta caffè letterari (dove incontra, fra gli altri, Kon-

stantîinos Kavèfis e il gruppo di «Grimmata»); stringe un importante sodalizio politico-letterario con il versiliese Enrico Pea (il futuro autore di Moscardino), animatore

del colorito gruppo di anarchici che si riunisce nella cosiddetta Baracca Rossa; si abbona alla «Voce», entrando in contatto epistolare con Prezzolini e Jahier; scrive arti-

coli e recensioni per vari giornali, fra cui «Il Messaggero Egiziano» (notevoli gli elogi rivolti a Revolverate di Lucini e al Martyre de Saint-Sébastien di D° Annunzio). Decisiva è l’amicizia con i fratelli Jean e Henri Thuile, ingegneri e letterati, la cui casa al Mex, sulla riviera alessandrina di ponente, ospita una ricca biblioteca («la scoperta di questa Mecca del libro fu per me una gioia che solo può immaginare chi, cresciuto per forza di circostanze lontano dal centro intellettuale ch'egli ritiene proprio, si sia abituato a vederlo come un miraggio»). Dopo qualche poco soddisfacente esperienza di lavoro e alcuni affari sballati (nonché ardenti quanto fugaci avventure amorose, rievocate in varie poesie), Ungaretti

decide di proseguire gli studi a Parigi. Sbarcato a Brindisi, ne approfitta per trascorrere in Italia un paio di settimane: visita Roma, Firenze (dove prende contatto con i vociani) e Milano (dove incontra Carlo Carrà). Iscritto alla Facoltà di lettere, frequenta i corsi di Lanson e

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Bédier, e le lezioni di Bergson al Collège de France; alla Sorbona discute con Fortunat Strowski una tesi sul poemetto in prosa Centaure di Maurice de Guérin (un romantico minore che conosceva in quegli anni una certa fortuna critica, attestata fra l’altro da una traduzione di

Rilke). Ma soprattutto si inserisce nell’ambiente dell’avanguardia artistica internazionale, attivissima in quegli anni. Conosce Picasso, Max Jacob, Derain, Braque, Sa-

vinio, De Chirico, Léger, Modigliani; frequenta i caffè di Montparnasse e del Faubourg Saint-Germain, come la Closerie des Lilas, sede dei famosi martedì di Paul Fort, e il Café de Flore, dove l’amico Apollinaire raduna i re-

dattori delle «Soirées de Paris». Nella redazione dei «Cahiers de la Quinzaine» incontra Péguy, Sorel; a casa di Bourges vede Proust. Nel mezzo d’una vita culturale eccezionalmente intensa, il suicidio di Shehab — avvenuto nel modesto albergo dove insieme risedevano, l’Hòtel d'Orléans, al n. 5 di Rue des Carmes — lo segna profondamente. Nel 1914, in occasione d’una riunione a Parigi dei futuristi italiani, conosce Palazzeschi, Papini e Soffici

(non è però escluso un incontro precedente a Firenze), che lo invitano a collaborare a «Lacerba». Poco dopo, nel clima d’incertezza dei mesi che precedono l’ingresso dell’Italia in guerra,

si trasferisce

in Versilia, dove

è

rientrato anche l’amico Pea. Prepara l’esame di abilitazione all’insegnamento del francese (che sosterrà a Torino), e intanto prende parte alle iniziative degli anarchici interventisti, insieme allo stesso Pea e a Lorenzo Viani; più d’una volta finisce agli arresti. A Milano, dove insegna francese, scrive — secondo la sua testimonianza — le prime poesie, uscite su «Lacerba» nella primavera del 1915. Nella redazione del «Popolo d’Italia» conosce

15 Mussolini. Arruolato, trascorre qualche tempo in Piemonte; all’inizio di dicembre è assegnato al 19° Reggi-

mento Fanteria, di stanza sul Carso. Durante i duri mesi della guerra di tringea scrive /! Porto Sepolto, che vede la luce alla fine del "16 per le cure del «tenentino» Ettore Serra, un giovane ligure appassionato di poesia. In occasione d’una licenza si reca a Napoli, dove incontra il promotore della rivista «Diana», Gherardo Marone.

Dopo il disastro di Caporetto è assegnato ad un corso allievi ufficiali, ma viene giudicato inetto al comando e rispedito in prima linea. Nel ’18 il suo reggimento è trasferito sul fronte francese, nella Champagne; in una Parigi festante per la vittoriosa conclusione della guerra apprende della morte di Apollinaire, ferito qualche tempo prima. Dopo l’armistizio lavora come corrispondente parigino del «Popolo d’Italia», quindi come addetto allo spoglio dei periodici all'Ufficio stampa dell’ Ambasciata italiana; e intanto riallaccia i contatti con i principali esponenti della vita culturale francese, fra cui Aragon, Breton, André Salmon, Soupault, e collabora a riviste letterarie («L’Esprit Nouveau», «Littérature») e al quoti-

diano «Don Quichotte». All’inizio del ’19 esce la plaquette francese La Guerre; qualche mese dopo Vallecchi pubblica Allegria di Naufragi. Il 3 giugno 1920 sposa Jeanne Dupoix; dal matrimonio nasceranno due figli, Anna Maria, detta Ninon (1925) e Antonietto (1930),

che morirà ad appena nove anni in Brasile, a causa di un’appendicite non diagnosticata. Nel 1922 si trasferisce in Italia: prima a Roma, dove cambia vari alloggi, poi più stabilmente a Marino, sui Castelli. Nel ’23 esce a La

Spezia la seconda, lussuosa edizione del Porto Sepolto (in realtà una rielaborazione di Allegria di Naufragi),

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nota soprattutto per la famigerata ma sostanzialmente distratta prefazione di Mussolini. La precoce adesione al fascismo — sull’onda d’un patriottismo generoso, confusamente antiborghese e populista, alimentato dalla nostalgia e dal bisogno di identità d’un figlio d’emigranti sensibile all'appello d’un capo carismatico — non comporta vantaggi concreti: Ungaretti vive d’un magro impiego al Ministero degli Esteri, che abbandona nel ’30 per intensificare le collaborazioni a riviste letterarie e quotidiani. In qualità di inviato della «Gazzetta del Popolo» ritorna in Egitto, viaggia in Corsica, in Olanda, nell’Italia meridionale. Nel 1931 esce, presso l’editore milanese Giulio Preda, una nuova versione di Allegria di Naufragi, ormai prossima all’editio ne varietur (che sarà la mondadoriana del ’42), con il titolo scorciato L’Allegria. Nel ’33 Vallecchi pubblica Sentimento del Tempo, cui fa seguito nel ’36 l’edizione ampliata della romana Novissima, accanto alle prime Traduzioni (Saint-John Perse, Blake, G6ngora, Esenin, Paulhan).

Alcuni componimenti della nuova raccolta (La pietà, La madre) testimoniano del riavvicinamento alla fede cattolica, maturato in occasione d’una visita al monastero benedettino di Subiaco. Ungaretti è pienamente inserito nell’ambiente letterario e artistico romano (il gruppo della «Ronda», Barilli, Cardarelli, Cecchi, Gargiulo; ma anche Rosai, Carrà,

De Chirico, il gruppo di «Valori plastici»), e seguita a intrattenere importanti contatti con la cultura d'oltralpe. Scrive su «Mesures»,

«Commerce»,

«La Nouvelle Re-

vue Frangaise» (che sarà diretta per 15 anni dall’amico fraterno Jean Paulhan); corrisponde con Gide, Larbaud,

Valéry; tiene conferenze in vari paesi d'Europa. Nel ’32 riceve a Venezia il Premio del Gondoliere; la migliore

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critica militante lo consacra come uno dei massimi poeti contemporanei, e di lì a poco gli ermetici lo riconosceranno come anticipatore e maestro della nuova lirica. Ma nel frattempa,zte precarie condizioni economiche lo avevano indotto ad emigrare di nuovo. Nel ’36, in occasione di un congresso del Pen Club argentino, si reca in

Sud America; l’Università di San Paolo gli offre la cattedra di lingua e letteratura italiana. Ungaretti accetta; si ristabilirà in Italia sei anni più tardi, quando, entrato il Brasile in guerra a fianco degli alleati, sarà costretto a

scegliere tra il rimpatrio e il campo di prigionia. La sua ormai consolidata fama gli vale la nomina ad Accademico d’Italia e l’invito a ricoprire a Roma l’insegnamento di Letteratura italiana moderna e contemporanea, incarico che manterrà — salvo un intervallo di qualche mese dopo la Liberazione, in cui viene sospeso dal ruolo — fino alla pensione. A Roma abita in piazza Remuria, sull’ Aventino, in una casa che abbandonerà solo dopo la scomparsa della moglie Jeanne (1958). Chiusa la parentesi sudamericana, gli anni Quaranta sono segnati da un’intensa attività compositiva e editoriale. Escono le edizioni definitive dell’Allegria (1942)

e di Sentimento del Tempo (1943); le varianti e i testi rifiutati delle Poesie disperse, a cura di Giuseppe De Robertis (1945); la sezione francese di Allegria di Naufragi, Derniers Jours, nella collana garzantiana «Opera prima», diretta da Enrico Falqui (1947); le nuove raccolte Frammenti per la Terra Promessa (1945) e Il Dolore (1947); il volume di prose // povero nella città

(1949); il saggio Ragioni di una poesia; molte traduzioni, fra cui i quaranta sonetti di Shakespeare. Nel 1950 escono la versione della Fedra di Racine e, in edizione ampliata, La Terra Promessa. La raccolta Un Grido e

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Paesaggi, del *52, comprende anche l’unica poesia scritta in Brasile (Gridasti: Soffoco), sulla morte del figlioletto. Del ’60 è I! Taccuino del Vecchio; del ’61 le prose Il Deserto e dopo, che comprendono fra l’altro le corrispondenze di viaggio degli anni ‘30. Ultimate, dopo un lavoro durato decenni, le Visioni di William Blake (1965), l’alacre traduttore si cimenta con Saint-John Perse, con brani dell’Odissea; e ancora con Francis Ponge, Vinicius de Moraes, Ezra Pound, Lucrezio.

Circondato dall’affetto dei discepoli e di amici vecchi e nuovi, Ungaretti continua a viaggiare molto, in Europa e altrove (Stati Uniti, Giappone, Sud America, Unione Sovietica, Israele). Alcuni amori senili sono te-

stimoniati dalle poesie più tarde: la poetessa brasiliana Bruna Bianco di Dialogo, la giovane Dunja di Croazia segreta. In francese esce, nel ’69, la prima silloge saggistica, Innocence et mémoire (a cura di Philippe Jacottet); lo stesso anno, il volume

Vita d'un uomo.

Tutte le

poesie inaugura la collana «I Meridiani» di Mondadori. In occasione d’un viaggio oltre oceano, legato a uno dei tanti pubblici riconoscimenti degli ultimi anni, l’anziano poeta contrae una polmonite; si spegne qualche mese dopo a Milano, la notte fra il 1° e il 2 giugno 1970.

«La storia della poesia di Ungaretti» — scriveva Pasolini intorno al ‘50 — «si svolge per definizione al centro della storia della poesia del Novecento». Pur attraverso stagioni e climi culturali assai diversi l’uno dall’altro — dallo sperimentalismo vociano e lacerbiano agli anni del rappel à l’ordre, dal fiorire dell’ermetismo alle variegate esperienze del secondo dopoguerra — la sua posizione appare caratterizzata da una costante attualità, cui s’accompagna un’incrollabile fede nella

19 creazione poetica: «nessuno dei poeti contemporanei ha tanto creduto e crede nella poesia». A questo riguardo — potremmo aggiungere — è emblematico il titolo del celebre saggio ungarettiano di Carlo Bo, Dimora della poesia (1939). Ma la diagnosi di Pasolini conteneva anche una riserva. È possibile essere sempre «al centro» restando immuni dalla solennità della convenzione letteraria, dall’«astrazione dell’istituto»? Quale valore può avere un’imputazione di centralità, relativamente ad un secolo eteroclito e multiforme qual è stato, anche sul piano letterario, il nostro?

Ungaretti, scritto

ovvero

di recente

la poesia. O meglio,

Alfonso

Berardinelli

come

ha

(ed evidente-

mente non è la stessa cosa), l’idea di poesia: «La poesia di Ungaretti si spiega non in se stessa, nel tessuto del suo linguaggio, ma per la trascendenza di un senso o figura ulteriore, che è l’idea di poesia. Idea di poesia e linguaggio della poesia sono entità allusivamente unite dalla loro invalicabile separazione. Ogni poesia singola di Ungaretti, e tutta la sua opera poetica, infine, è fondata e giustificata dalla certezza di quell’idea. Proprio il poeta che era sembrato partire dall’azzeramento della tradizione poetica, per ritrovare semplicemente la poesia come linguaggio d’emergenza (linguaggio di trincea), in realtà poteva toccare questo limite estremo solo grazie ad una fede nella poesia come idea e assoluto, per definizione, o per essenza, al riparo dagli accidenti della storia e della biografia». La conclusione è impietosa: «La poesia di Ungaretti, come molta poesia d’avanguardia, si regge non sulla forza di un artigianato stilistico, ma sulla forza dell’idea (dell’ideologia). E difatti si è sbiadita e allontanata

da noi, con

quella fede estetica».

lo sbiadirsi

e allontanarsi

di

20 Beninteso, questa poesia assoluta, iperurania (per dir così), questa poesia che racchiude sempre in sé un «miracolo» — non ci può essere poesia senza miracolo, scriveva Ungaretti nel 749 — non è a portata di mano; ci mancherebbe.

Sovente anzi si nega, si nasconde, come

una divinità corrucciata. Ma Ungaretti non dubita mai che esista. È qualche cosa di già dato, che si può solo riscoprire; ovvero (secondo la dottrina platonica) rime-

morare, richiamare in vita per forza di memoria. «Poesia» è un luogo — una dimensione, uno spazio — suscettibile di rinvenimento, piuttosto che di reinvenzione. Nella storia possono mutare i contesti, e con essi i percorsi, gli approcci, le strategie di avvicinamento: non però la meta, che rimane identica a se stessa, immune dagli accidenti del divenire. In questione non sono, crediamo, né la grandezza di

Ungaretti — che resta uno dei massimi poeti non solo italiani del 900 — né il significato storico della sua opera. Semplicemente, se Ungaretti è al centro dell’esperienza poetica novecentesca, noi abbiamo la sensazione

di trovarci, e non da oggi, in un secolo diverso: una certa quasi religiosa concezione della poesia, un’idea mistica e iniziatica dell’arte, non ci appartengono più, se non come eredità d’un illustre passato. Un lascito prezioso, se vogliamo, ma inattuale, cioè non fruibile senza importanti mediazioni.

Le prime, in verità, è lo stesso

Ungaretti a indicarle. Rileggiamo due fra i suoi più citati autocommenti. Uno è tratto dalla nota che correda l’Allegria, a partire dall'edizione Preda del 1931: «Que-

sto vecchio libro è un diario. L’autore non ha altra ambizione, e crede che anche i grandi poeti non ne avessero altre, se non quella di lasciare una sua bella biografia. Le sue poesie rappresentano dunque i suoi tormenti for-

541 mali, ma vorrebbe si riconoscesse una buona volta che la forma lo tormenta solo perché la esige aderente alle variazioni del suo animo, e se qualche progresso ha fatto come artista, vorrebbe che indicasse anche qualche per-

fezione raggiunta come uomo». L’altro si legge nell'introduzione alle Visioni di William Blake: «È nel miracolo della parola che non è facile trovare il rivale di Blake. È quel miracolo che m’indusse verso il °30 a tradurre Blake. M’accinsi alla traduzione non a caso, come non m’accingo mai a simili lavori a caso. William Blake è l’ ‘ispirato’, se mai ce ne fu uno — or ora ci veniva due volte alle labbra il sostantivo: miracolo — e l’affrontai per reagire a me stesso in un periodo nel quale mi pareva d’essermi ingolfato troppo in problemi di tecnica. Era un fare male i calcoli, e anche il tradurre canti di Blake fu per me fonte di nuove difficoltà tecniche da superare». In sostanza, in Ungaretti convivono tre immagini della poesia: poesia come assoluto, poesia come biografia, poesia come fatto tecnico. Ai suoi occhi si tratta di idee strettamente, indissolubilmente intrecciate: mentre a noi, lettori di una ulteriore e mal decifrabile fin de siècle, la sintesi risulta ardua. Le difficoltà maggiori non sono poste dal nesso fra la prima e la terza (sacralità della poesia e poesia come mestiere), quanto dal rapporto tra le prime due, che ipotizza una convergenza, e fors’anche una composizione, fra il piano dell’esperienza esistenziale e il piano d’una superiore verità, non riducibile a discorso logico, cui la parola poetica può attingere (s’intende, al culmine d’una macerante

elabo-

razione stilistica) solo per rivelazioni balenanti e desultorie. L’intersezione fra l’assoluto che la poesia è chiamata a rivelare e l’inevitabile contingenza della realtà

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umana genera infatti bagliori splendidi, ma intermittenti: non garantisce la continuità di svolgimento che la biografia esige. In gioco è essenzialmente la definizione del tempo, inteso non come «sentimento», né come bergsoniana intuizione della durata, e ovviamente neppure come semplice estensione cronologica, ma come qualificazione storica del destino individuale: cosa tanto più necessaria, in un’epoca contraddittoria e travagliata come la nostra. Alla poesia di Ungaretti, pur così mirabile nelle singole fasi, manca insomma il senso di una «durata» biografica, ritagliata in un tempo determinato (che ebbe invece acutissimo, e quasi ma/gré lui, il suo Leopardi), anche se in certa misura tale lacuna poté esser dissimulata — specie agli occhi di chi lo conobbe di persona — da una esuberanza vitale e da un calore umano che furono, anche negli anni tardi, straordinari. Del re-

sto, nella definizione della propria identità Ungaretti oscilla fra una visione, per dir così, centripeta e omologante — la nostalgica ricerca e quindi la progressiva conquista dell’italianità, solo in parte complicata dall’educazione

francese



e

una

mescidante,

centrifuga



l’origine africana, le suggestioni orientali, l’immagine del nomade, del perpetuo girovago che s’adatta al clima brasiliano (sono versi del Monologhetto) «più che mai facendosi / il suo sangue meticcio». «Nomadismo» e «unanimismo» (vocazioni egualmente profonde nella sensibilità ungarettiana) non sono insomma i termini d’una relazione dialettica, bensì i poli di un’antinomia mai davvero tematizzata: due stati d’animo che s’avvicendano, secondo gli urti d’un destino vissuto intensamente, ma assai più subìto che compreso. Severa ma non priva di fondamento, dunque, la sen-

tenza emessa nel ’77 da Franco Fortini: «nonostante le

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intenzioni dell’autore, quell’opera non fu la ‘vita d’un uomo’, non ebbe cioè quella unità autobiografica che si era proposta, proprio perché quella vita — e il suo rapporto con la poesia— si svolsero entro una realtà disorganica e spezzata, che la coscienza intellettuale di Ungaretti non giunse mai a riconoscere come tale, interpretandola invece (almeno a partire dalla fine della guerra mondiale) come il luogo di una umana tragedia eterna, non storica. In questo senso la sua visione del mondo non poteva non essere tutta fittizia e retorica». Posto ad epigrafe dell’intera sua produzione, il titolo Vita d’un uomo appare così il segno di un’aspirazione irrisolta, ben più che il sigillo di una conquista. E tuttavia proprio questa incongruenza racchiude un elemento di bruciante modernità. L'amico di Mohammed Shehab — emigrato, sradicato, esule volontario, incapace di salvarsi nella

parola, privo di nome — trova, grazie alla poesia, identità, patria, luoghi eletti, antenati, maestri ideali, archetipi: ma fra l’esperienza storica e il mito personale resiste un divario che la letteratura non colma, alimentando la tensione fra ordine e avventura, armonia e dissonanza, rivolta e abbandono, che caratterizza fin dall’inizio, senza

mai definitivamente estinguersi, il lungo itinerario poetico ungarettiano. D'altro canto, l’insegna Vita d’un uomo, rivendicata anche per le traduzioni, e perfino per le poesie «disperse» (cioè, in buona sostanza, per testi rifiutati), potrebbe implicare anche l’accettazione di un’imperfezione irrimediabile, d’un estremo scacco. In-

somma, la prospettiva dell’autobiografia — come ha scritto Andrea Zanzotto — era «forse impossibile, ma certo necessaria»: tanto più necessaria, anzi, quanto me-

no possibile. E questo potrebbe restituire all’onnicom-

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prensivo titolo ungarettiano un’intrinseca (ancorché non intenzionale, né del tutto consapevole) validità.

«Chi legga le mie poesie, dico chi legga le prime e chi legga anche quelle recentissime [...] s'accorgerà che c’è al principio un’aridità, un’aridità bruciata, e una luce che provoca tale aridità allucinante, carica d’abbagli. Non so se lo sentano tutti questo, ma. certo questo è l’effetto che io provo tutte le volte che incontro la Musa. Sono nato al limite del deserto e il miraggio del deserto è il primo stimolo della mia poesia. È lo stimolo d’origine». Sulla scorta di questa dichiarazione (tratta da un testo radiofonico del 63) prenderemo le mosse dalle pagine egiziane di Ungaretti: non dagli sparsi incunaboli dei primi del secolo — alcuni dei quali riesumati, dopo pazienti ricerche, da Luciano Rebay — bensì dagli articoli scritti nel 31 per la «Gazzetta del Popolo», parzialmente ripresi nel volume // povero nella città e quindi definitivamente consegnati alla raccolta /! Deserto e dopo. Svariati sono i motivi di interesse che essi presentano. La suggestione del paesaggio sahariano, potente e duratura; i brevi ma significativi accenni alla mentalità e alla cultura araba; gli stessi connotati stilistici di questa prosa, dalla sintassi affettiva, costellata di esclamazioni, iterazioni, incisi e frasi ellittiche, all’anda-

mento assorto e frastagliato, che sciorina una sequenza d’impressioni ora dilatate in locuzioni appositive, ora contratte in accensioni metaforiche, e sempre imperniate su robusti deittici e su un’aggettivazione immaginosa e commossa. L'effetto è un’animazione paesistica che evoca e immediatamente trascende i dati della realtà:

25 Ora, silenzio! Le alture dell’Agami colle loro piante di fichi si velano; il dattereto, sotto, del Dehela, si vela. 1 trenini, laggiù, delle saline si sono fermati, e un colore di lutto si muove sulla gran tazza di sale, e riempie gli occhi come con tele di ragno. E «efnie geme, di qua, l’insensibile mare. S'è alzato un cricrìo di grilli. La gerboa mette fuori il suo musetto dalla buca, e salta, regina del chiaro di luna (// Deserto, p. 71).

Alla luce di questo che più d’un libro di appunti di viaggio è un «taccuino d’apparizioni» (Ossola), la matrice «africana» della formazione di Ungaretti sembra comprendere due elementi principali. Uno tematico, l’opposizione tra aridità (siccità, prosciugamento, pietrificazione) e liquidità (freschezza, fecondità), con le relative connotazioni di sofferenza, annichilimento o strazio, e di felice espansione vitale. Un paradigma figurale su cui è costruita l’intera Allegria (come ha mostrato Oreste Macrì), ma che rimane ben attivo anche in seguito: L’ombra, e l’acqua, è il motivo della poesia araba. Popoli sempre in marcia, frustati dalla sete e dal sole, per essi l’amore è, tra gli oleandri, una gola serale di sorgente tubante.

Oh!

come brucianti o urlanti per una gocciola d’oblio. Ommiadi 0 Abbassidi, quando si fermarono inventarono i profondi giardini lungo i fiumi, mutarono l’ira del sole in blandizie lunari, lo

schietto morso della sabbia in filtri funesti (pp. 66-67).

L’altro consiste in una disposizione

visionaria, che

tende a far coincidere l’intuizione del reale con l’esperienza del miraggio («noi orientali si vive di miraggi» confida Ungaretti a Soffici nel dicembre ’17), oscillante tra illusione e prodigio, tra inganno dei sensi e rivelazione. A impersonare questo misticismo istintivo è

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il fachir, figura che riunisce in sé i caratteri del povero, del vagabondo, del matto e del santo, inerme in apparenza eppure dotato di risorse sovrannaturali: Il fachir è anche l’uomo che è forte, l’uomo che testimonia che solo vive chi vede l'Angelo: non si sa che cosa vogliano significare i suoi gesti e le sue parole, e potrebbe darsi che siano semplicemente manie. Ma gli Arabi sono sempre in attesa d’un miracolo, il cui presagio potrebbe nascondersi in quei gesti e parole oscuri e non normali. Non ho trovato un popolo che credesse di più nella veggenza, nella veggenza dell’invisibile [...] il fachirè per lui il segno vivente del sacro, uno che è libero perché è protetto da gesti e da parole strani, incomprensibili; di più: uno che è sorto a simbolo di libertà (p. 86).

Si potrebbero a questo punto esplorare analogie e differenze tra questa immagine del fachir e il tema del clown nella produzione artistica e letteraria del primo Novecento, illustrato da Starobinski in Portrait d’artiste

en saltimbanque, e attestato d’altronde nella stessa poesia di Ungaretti (dall’«acrobata» dei Fiumi al motivo del «girovago» che dà il titolo a una sezione dell’A/legria). Ma questa correlazione ha, credo, una valenza più generale. Alle origini della poesia di Ungaretti vi sono da un lato una formazione culturale che si svolge in seno ad una koiné simbolista internazionale, a inevitabile domi-

nante francese, poi consolidata dal soggiorno a Parigi (la quale non esclude affatto, come è stato dimostrato sulla base di precisi riscontri linguistici, ma di sicuro ha alquanto moderato l’influsso di modelli italiani); dall’altro, la familiarità con un paesaggio ed un clima che offrivano immediati corrispettivi sensoriali a temi e atteggiamenti propri di quella cultura. La ricerca dello jen-

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seits der Dinge, di un al di là rispetto all'apparenza fenomenica, assume per Ungaretti concretezza e immediatezza: nell’abbagliante luce. del deserto che preme Alessandria d’ Egitto, la rivelazione delle essenze (il do-

no della veggenza: e con esso, le correlate eventualità dell’accecamento e dell’oblio) non è un’astrazione mentale, e ancor meno il risultato dell’uso di allucino-

geni, bensì un’esperienza percettiva comune, un dato immediato dei sensi. L’epifania che la poesia persegue — il «miracolo» — si presenta, in primo luogo, nella forma naturale e portentosa insieme, da chiunque esperibile, del «miraggio». Poi, naturalmente, interverranno altre componenti, e

anche altri paesaggi (molta poesia contemporanea, afflitta o affrancata dall’indebolimento dei legami con la tradizione letteraria, si àncora a presupposti paesistici, usando lo spazio come compenso alle discontinuità temporali). Ci saranno città cariche di storia, la campagna laziale e le rovine del mondo antico, la rigogliosa foresta brasiliana. Ma l’impronta originaria rimarrà; così come rimarrà topica l’ora del mezzogiorno, il momento in cui la luminosità intollerabile si confonde con le tenebre (è un vero peccato, aggiungeremo per inciso, che Ungaretti non abbia portato a termine il lungo commento alla Primavera di Leopardi, sfumatogli strada facendo in un saggio-antologia sul tema del «demonio meridiano»: il materiale autografo è descritto in una nota a Saggi e interventi, pp. 966-968).

Prescindendo dai puerilia egiziani di cui c'è giunta indiretta notizia (come il sonetto scritto a quindici anni per il compleanno di un amico), ed evitando congetture su un più che probabile ma non documentato apprendi-

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e ae”. Iét ove

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stato parigino (con la sola eccezione di Roman-cinéma), l'esordio poetico di Ungaretti si colloca nella primavera del 1915, con i 16 componimenti pubblicati su «Lacer-

ba» tra il 7 febbraio e l’8 maggio. Alcuni non saranno mai raccolti in volume (usciranno solo nelle Disperse, trent'anni dopo); altri, profondamente revisionati e spesso mutati anche nel titolo, confluiranno nel ‘19 in Allegria di Naufragi, e quindi, dopo ulteriori vagli e modifiche, nell’edizione definitiva dell’A/legria. La fisionomia di questo primo Ungaretti è ancora incerta. Oltre ai residui crepuscolareggianti («Mughetto fiore piccino / calice di enorme candore...») e alle imitazioni palazzeschiane («Correte. Correte. / Pigliatemi.

/ Marameo!»),

il mo-

dello più attivo è il poème-conversation di Apollinaire, una tecnica di composizione diffusamente prosastica, «ispirata ad un tempo alla lanterna magica, al caleidoscopio e alla cinematografia» (Rebay). Meno accusati, ma forse solo perché assimilati abbastanza largamente dalla giovane poesia di quegli anni, gli elementi futuristi; decisivo sarà stato, di nuovo, il filtro di Palazzeschi,

alla cui scanzonata ed arguta leggerezza però nessuno (anche queste poesie lo dimostrano) riesce ad avvicinarsi. Ungaretti, come altri coetanei, tenta insomma diverse

corde, e si cimenta in misure ora lunghe ora brevi, oscillando fra il registro ironico-patetico, un gusto burlesco fin troppo scoperto, e una levigatezza un po’ trasognata, presaga di più mature prove («Ha un cesto di rugiada / il ciarlatano del cielo»). Evidente, al netto di echi sporadici, il rifiuto dell’eloquenza dispiegata, di stampo dannunziano; e altrettanto chiaro l’intento di fare poesia e basta, senza pagare scotti a presupposti programmatici o di scuola.

29 Vediamo un esempio. Sbadiglio — da cui la più breve Noia di Allegria di Naufragi, a sua volta drasticamente ridotta a soli 7 versi nell’A//egria — si presenta come una sorta di fantasmaggria lirica, che contamina frammenti

di realtà metropolitana e trasfigurazioni immaginose, in un clima di divagante e preziosa accidia. Persuasivi i raffronti con Zone, una delle più note e discusse poesie

di Apollinaire (l’uscita sulle «Soirées de Paris» nel ’12 aveva provocato una vivace discussione con Cendrars): A chi regalare un gocciolo di pianto d’infingarda umanità Fa sereno quanta gente attorno La luna piena Il cielo mette il livido delle stoviglie di smalto dei calamai agli occhi degli adolescenti la litania ai numeri degli usci serrati che seguo per accompagnarmi

Cencio buttato nel Naviglio Alla mercé della vita Le case si schivano

per non disturbarmi filo d’afa al collo Occhi di odalische a zonzo coll’ombrellino

calmati dalle palpebre bistrate da sapore di panna vainiglia di titillo alabastrino di mussoline beduini

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caligine si dirada nel cielo unico confine della desolazione Tramvai Eliopoli sfuma Milano Com'è immobile l’aria

Anche questa notte passerà Passerà

Questa vita in giro titubante ombra dei fili tramviari sulla siccità del nebuloso asfalto

Luna gioviale perché s’è scomodata Guardo i faccioni dei brumisti tentennare Sono stanco Babau insinuato nella stanza

Mi comprimo in te mi abbandono il sonno arriva così prudente a portarmi un po’ via mi riprenderò più in là

Il vero Ungaretti, si sa, nasce poco dopo, e quasi repentinamente, durante la prima guerra mondiale. La genesi del Porto Sepelto, uscito a Udine nel dicembre 1916 in appena 80 esemplari, è stata narrata sia dall’autore sia dall’editore Ettore Serra, in testimonianze

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preziose ma da accogliere con beneficio d’inventario. Soprattutto, converrà non prender troppo alla lettera l’immagine del quasi leggendario tascapane, dove il poeta raccoglievazi suoi versi, annotati sui più umili e occasionali supporti cartacei. Non solo perché probabilmente disponeva (certo, non sempre) di carta migliore, né per una svista riguardo alla cronologia (la gestazione del libro non durò più di un anno: le date in calce ai testi vanno dal 22 dicembre 1915 di Lindoro di deserto al 2 ottobre 1916 di Poesia, poi Commiato), quanto per il presunto disinteresse verso il pubblico, in nome di un culto dell’anonimato che è da considerarsi elaborazione retrospettiva di un autore ormai celebre. Questo ricordo è del 1936: [...] un giorno lasciai che fosse data alle stampe la mia prima raccolta di poesie, e la colpa fu tutta di Ettore Serra. A dire il vero, quei foglietti: cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute, ... — sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, portandoli a vivere con me nel fango della trincea o facendomene capezzale nei rari riposi, non erano destinati a nessun

pubblico. [...] M’ero fatto un’idea così rigorosa, e forse assurda, dell’anonimato in una guerra destinata a concludersi, nelle mie speranze, colla vittoria del popolo, che qualsiasi cosa m’avesse minimamente distinto da un altro fante, mi sarebbe sembrata un odioso privilegio (Saggi e interventi, p. 281).

A smentire tanto catoniana austerità provvede la richiesta di preventivo spedita da Ungaretti al direttore della «Diana» di Napoli, Gherardo Marone, in una cartolina timbrata il 14 luglio del ’16. Ma in verità un documento così esplicito è perfino superfluo. L'interesse, 0

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meglio la passione per la letteratura e l’arte in genere, è attestata da tutte le lettere di quei mesi: s'intende, tutte

quelle che ci sono pervenute (fra i nomi dei destinatari mancano Soffici, fino alla fine del

’17, e Pea). Ungaretti,

che parla di rado di politica, non rimpiange mai le scelte compiute, e nemmeno contrappone ideologicamente le brutture della realtà all’ideale della poesia; eppure la poesia gli appare sempre come una consolazione, un refrigerio, che aiuta a sopportare (non a dimenticare, che sarebbe altra cosa) le durezze della guerra. Soldato fra i soldati, non cessa mai di sentirsi anche partecipe d’un vivo commercio intellettuale, e in alcuni casi d’una sorta

di spirituale sodalizio, con gli amici e i corrispondenti: e infatti tra i motivi che ricorrono più spesso è il dolore, o il timore (a volte quasi ossessivo) di rimanerne escluso. Leggiamo ad esempio la lettera a Papini del 2 settembre 1916,

dove

fra l’altro

torna

l’antinomia

figurale

ac-

qua/aridità: Caro Papini, non lasciarmi tanto tempo solo: sono qui come al solito; dimmi qualche parola; ho bisogno di andare con qualcuno vicino; ho bisogno di tuffarmi in un po’ di poesia e ripulirmi; se mi dici qualche cosa, te che sei il poeta schietto e gentile e amaro che amo, — il poeta dei giorni nostri, — mi ritrovo sulla via maestra della poesia, e credo di dover dare qualche amore a questa mia poesia anemica, che mi gocciola da queste mie vene tagliate, per quella sete avvelenata che mi rode come se fossi colpito, come una femmina sterile, da una maledizione biblica — quelle voluminose tremende maledizioni! (Lettere a Papini, p. 69)

Su questo brano dovremo brevemente tornare in seguito; per inciso, ricordiamo che Papini è agli occhi del giovane Ungaretti l’interlocutore più autorevole (espres-

33 sioni di vera e propria venerazione si leggono anche in lettere inviate a terzi), mentre a Soffici lo lega un’amicizia più confidenziale e disinvolta, che ammette anche allocutivi scherzosi come il «mio Sofficiaccio»

d’una cartolina del ‘19. Il titolo della raccolta allude a un porto sommerso di età pretolemaica, scoperto dal padre dei fratelli Thuile al largo di Alessandria, presso l’antica isola di Faros. Ungaretti ne fa il simbolo d’una poesia intesa come miracolosa e labile rivelazione d’un mistero profondo: Vi arriva il poeta e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde Di questa poesia mi resta quel nulla d’inesauribile segreto (Tutte le poesie, p. 23) Questa illuminazione è propiziata, paradossalmente,

proprio dalle circostanze singolarissime in cui il poeta si trova. La guerra, se da un lato conculca il soggetto stringendolo in uno stato di passività ed inerzia, riducendone l’umanità ad una mera, stentata sopravvivenza, dall’altro

gli apre la possibilità di sentirsi inopinatamente, assolutamente partecipe della realtà naturale, al di là delle contingenze storiche. Umiliato, deietto, ridotto a «cosa», egli scopre un’intima solidarietà con quanto lo circonda: il che gli consente di prendere coscienza, ad un tempo medesimo, di sé e dell’aspetto del reale in cui volta per volta si identifica. L’immedesimazione può avere carat-

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tere euforico o disforico: ai momenti di oppressione angosciosa si succedono fasi di estenuato abbandono, di languida dolcezza, e addirittura di esultazione

panica,

che sovente trascolora in un senso di oblioso dissolvimento: Ora sono delicato Sono ubriaco d’universo

Col mare mi son fatto una bara di freschezza

(La notte bella, vv. 18-23: Tutte le poesie, p. 48)

L’alternanza fra «sistoli» e «diastoli» dell’io (Cambon), solitamente giocata in una rapida sequenza di evocazioni o di immagini, viene trasposta su un piano di superiore consapevolezza nel testo-chiave della raccolta, I fiumi. Il processo di auto-riconoscimento tocca qui il suo culmine: la sovrapposizione simbolica delle acque dell’Isonzo con quelle del Serchio, del Nilo e della Senna disegna un’ideale autobiografia, nella quale ricordi personali e origini avite confluiscono in una ritrovata, vitale identità. L'Egitto dell’infanzia, la Parigi della giovinezza, la Toscana del passato familiare, il Friuli para-

gone dell’Italia presente formano i luoghi d’un mitico ritorno in patria, che scongiura l’infausta sorte dell’amico arabo (In memoria, testo liminare, funge da dedica dell’intera raccolta). Ma il finale introduce una nota am-

biguamente malinconica. La «corolla di tenebre» dell’ultimo verso stende un velo sull’avvenuta presa di coscienza di sé. Sentirsi «docile fibra dell’universo» è

35 esperienza comunque effimera, che si può rinnovare, non protrarre; la maturazione umana non preserva dal «supplizio» della disarmonia, tanto più che nell’ebbrezza della fusione cop il.tutto l'identità personale non può, di nuovo, che andare perduta. Così, il congedo della raccolta ribadisce una visione della poesia come avventurosa discesa agli inferi, in un regime di intuizionismo irrazionale e discontinuo: Gentile Ettore Serra poesia è il mondo l’umanità la propria vita fioriti dalla parola è la limpida meraviglia di un delirante fermento Quando io trovo

in questo mio silenzio una parola scavata è nella mia vita come un abisso (Tutte le poesie, p. 58)

Poesia insomma come pura illuminazione lirica, che

«brucia» concomitanze accessorie e legamenti discorsivi: «l’esatto rovescio della strategia crepuscolare» (Mengaldo). E insieme, come atto magico-salvifico, che

consente un’identificazione immediata e assoluta con l’altro da sé, tramite la parola: e nella parola si consuma e si esaurisce. Il cuore dell’operazione avviata con il Porto Sepolto, e giunta a compimento con l’Allegria, consiste appunto in una riscoperta della parola, vera e propria «monade lirica» (Contini) precedente il discorso,

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e sillabata con inaudita forza evocativa e impressiva. Il nome, che erompe improvviso da una coltre di silenzio, aspira alla solennità d’una formula sacrale: e ciò non soltanto annulla le differenze fra i termini di origine letteraria e il lessico dell’uso, ma avvolge d’un alone nu-

minoso elementi grammaticali come i dimostrativi, gli avverbi di luogo, i pronomi personali (in genere tutti i deittici, cioè gli indicatori spazio-temporali), e perfino le parti semanticamente vuote del discorso (come articoli e preposizioni). Marcata risulta invece la distinzione fra un’essenzialità verbale che sortisce effetti di suggestiva indeterminatezza e un’essenzialità verbale attuata attraverso un’estrema concentrazione sull’/ic et nunc. Da un lato la parola poetica si svincola dalla contingenza, dissolvendo i contorni degli oggetti; dall’altro vi sì immerge, cercando lo scatto simbolico proprio in uno sforzo di determinazione. L’ambivalenza si riflette nel larghissimo e quanto mai vario ricorso ai procedimenti analogici: dalla similitudine, a volte ribattuta e martellante («Come

questa pietra / del S. Michele / così fredda / così dura / così prosciugata / così refrattaria...»), alle pure traslazioni di significato («Il carnato del cielo / sveglia oasi / al nomade d’amore»), fino alle più ardite trame metaforiche («Si dilatano le montagne / in sorsi d’ombra lilla/ e vogano col cielo»). Ma l’obiettivo dell’essenzialità verbale viene perse-

guito soprattutto attraverso una sorta di rivoluzione metrica. Alle estrose e dinoccolate sequenze del /yrisme ambiant apollinairiano, alle cadenze ora strascicate ora saltellanti del versoliberismo secondo Palazzeschi, succede una frantumazione delle misure che promuove a verso sintagmi brevi o brevissimi, non di rado singoli vocaboli (donde la dicitura corrente di «versicoli»).

Sa L’apparente esiguità dei componimenti viene compensata da una singolare dilatazione delle pause, sulle quali cade una nuovissima enfasi. La-voce dell’io poetico deve emergere assortae subitanea da‘impregiudicati intervalli di silenzio, quasi creando — o forse spezzando — un incantesimo (Mengaldo, ancora: «parola e silenzio stanno l’una all’altra come rivelazione ed attesa di rivelazione»). Inevitabile, a questo proposito, il richiamo alla maniera in cui Ungaretti leggeva le proprie poesie: una dizione di eccezionale

drammaticità,

sibilante e digri-

gnata, scevra da qualsiasi assaporamento prezioso della parola, e protesa appunto a «scavarne» la forza semantica in virtù d’una tragica sillabazione, che tramutava ogni nesso consonantico in un corpo a corpo con la materia sonora. I carteggi ci informano che dopo il Porto Sepolto Ungaretti programma varie opere in prosa. Un romanzo dal titolo L’Arsellaia o La Tellinaia (forse d’ambiente marino, o versiliese); una serie di testimonianze e corrispondenze dal fronte (I! popolo d’Italia soldato), legate al trauma di Caporetto; la raccolta di saggi o biografie sugli autori prediletti, cui s’è già fatto cenno (/ miei antenati); un racconto di taglio autobiografico, ma forse non ignaro del gusto fumistico del Perelà palazzeschiano, dal titolo Le avventure di Turlurù, già avviato prima

della guerra (un capitolo era uscito sul foglio sovversivo «Critica Magistrale» nel marzo 1915). Turlurù a parte, nessuno di tali progetti superò lo stadio dell’abbozzo; e per altri trent'anni Ungaretti pubblicherà soltanto libri di Versi. Fra il 17 e il ’19, nuove poesie appaiono in varie sedi: «La Diana», l’Antologia della Diana, «La Riviera

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Ligure» di Oneglia, «La Raccolta» di Bologna. Il volumetto La Guerre dimostra, accanto alla padronanza che Ungaretti ha della lingua francese, il carattere squisitamente italiano della sua lirica: «come

giungere, infatti,

all’assoluto ed elementare isolamento verbale in una tradizione linguistica che soppianta la parola a pro del discorso?» (Contini). Di qui una maggiore scioltezza sintattica, sistematicamente scontata da una perdita di incisività espressiva: «m0us sommes telle en automne sur l’arbre la feuille» (Militaires) è tutt'altra cosa rispetto al sillabato drammatico di «Si sta / come d’autunno / sugli alberi / le foglie» di Militari — poi, dal °42, Soldati, con

il prezioso ritocco metrico «Si sta come / d’autunno», eccetera (e anche il testo francese verrà nel ’47 corretto in «nous sommes tels qu’en automne...»). Nel 1919 esce Allegria di Naufragi. La raccolta vallecchiana, articolata in 9 sezioni, fra cui // Porto Sepolto

— più le due francesi La Guerre e P-L-M, unite sotto il titolo Derniers Jours — aggiunge una cinquantina di componimenti ai 32 della plaguette udinese; l’edizione definitiva dell’A/legria si attesterà a 72 (di contro ai 112 complessivamente pubblicati fra il °15 e il ’19), suddivisi in S sezioni: Ultime, Il Porto Sepolto, Naufragi, Giro-

vago, Prime. Il primitivo titolo, strano, dicono, era Allegria di Naufragi. Strano se tutto non fosse naufragio, se tutto non fosse travolto, soffocato, consumato dal tempo. Esultanza che l’attimo, avvenendo, dà perché fuggitivo, attimo che soltanto amore può strappare al tempo, l’amore più forte che non possa essere la morte. È il punto dal quale scatta l’esultanza d’un attimo,

quell’allegria che, quale fonte, non avrà mai se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare (Tutte le poe-

sie, p.517).

39 Questa spiegazione non è però esauriente. Uno dei testi principali del volume, La filosofia del poeta (datato Versa 14 febbraio 1917, e ribattezzato proprio Allegria di naufragi a parpire dall’edizione Preda), allude a una vitalità sopravvissuta alla catastrofe, in grado di imprimere rinnovato slancio all’avventura dell’esistenza: una sorta di forza proiettata verso il futuro, più che una scintilla che scocca nel presente. E subito riprende il viaggio come dopo il naufragio un superstite lupo di mare (Tutte le poesie, p. 61)

D'altro canto, gli ultimi versi di Preghiera — poi destinata a diventare l’ultima poesia della raccolta — identificano il «naufragio» con un senso di abbandono, di smemoramento, di immedesimazione nel tutto attraverso

il ritorno ad uno stadio prenatale, aurorale o edenico (l’eco del «naufragare» leopardiano, ancorché indiscutibile e certo intenzionale, è meno pertinente di quanto sembra). Riportiamo sia la versione del ’19 sia la redazione ne varietur, che risolve la quartina originaria in un distico di endecasillabi già presago dello stile di Sentimento del Tempo: Concedimi Signore di naufragare a quel bacio troppo forte del giovine giorno

Il naufragio concedimi Signore di quel giovane giorno al primo grido

(Tutte le poesie, pp. 97 e 668)

40 In realtà il titolo Allegria di Naufragi, istanza appare semplicemente antinomico naufragio), si fonda su un nesso genitivale condo l’uso della poesia simbolista: è un tipo di locuzione prepositiva metaforica Raymond,

rifacendosi

a un

che in prima (allegria vs ambiguo, seesempio del che Marcel

titolo di Maeterlinck,

ha

battezzato «immagine di serra calda» (image de serre chaude). Il senso rimane così in bilico fra un rapporto causale e uno concessivo, rinviando a un’allegria che può sorgere sia a malgrado, sia a causa della condizione di naufrago (né è escluso un sovrasenso palazzeschiano, o magari picassiano, all’insegna della già ricordata figura del girovago-saltimbanco). Ma il sintagma è notevole anche per i valori propriamente fonici. Senza insistere sulla sottile eco anagrammatica (AlleGRIA / nAufRAGI), va rilevato che la cellula iniziale a/- suscita in Ungaretti un’attrazione particolare. Lo testimoniano svariate tessiture paronomastiche, evocanti immagini di altezza, albore, aleggio: «Allibisco all’alba» (Lindoro di deserto), «Dall’ala alabastrina» (Silenzio in Liguria), «Dall’ampia ansia dell’alba / svelata alberatura» (O Notte). Ed è stato

giustamente messo in luce il valore tematico del verbo allibire, da intendersi non come spavento, ma come «ra-

pito stupore», manifestazione di «una tensione vitale sorpresa di se stessa, sbalordita di poter esistere» (Fortini). Quanto alla forma abbreviata L’Allegria, invalsa dal 1931, vale la pena di ricordare che si tratta appunto di un’abbreviazione,

come

ha dichiarato lo stesso autore:

«L’Allegria è la parte di un titolo [...] La notorietà del libro mi autorizzava forse a mutilare, come

ho fatto, il

titolo originario» (Saggi e interventi, p. 815). Le oscillazioni fra i titoli — ricordiamo che fra A/legria di Naufragi e L’Allegria intercorre il nuovo Porto

n Sepolto del ’23 — sono sintomo d’un atteggiamento più generale. La storia della poesia ungarettiana è anche la storia di un incessante, quasi maniacale lavorìo di revisione sui testi già,editi; e l'accumulo di varianti comporta non piccole complicazioni interpretative, visto che quello che s’usa chiamare il «primo» Ungaretti acquista di fatto la sua fisionomia definitiva soltanto nel 1942. Di qui le discussioni sorte fra gli specialisti in merito alla decisione di assumere come testo-base dell’edizione critica (allestita da Cristiana Maggi Romano) il volume vallecchiano del ’19: al quale invece Ossola ha attribuito, non senza ragioni, «carattere, anche affannoso, di raccolta, e non di opera, di ansioso étalage e non di meditata disposizione» (la questione potrà essere peraltro risolta definitivamente per via informatica, con un'edizione ipertestuale). Dal punto di vista storico, un momento

decisivo è

rappresentato però proprio dal secondo Porto, edito di nuovo da Ettore Serra, questa volta in una veste di lusso, con fregi e incisioni di Francesco Gamba. Solitamente,

quest'edizione viene menzionata per la breve prefazione di Benito Mussolini, una paginetta piuttosto insignificante, in verità perentoriamente, lapidariamente evasiva: mentre interesse molto maggiore presentano altri dati, come ad esempio l’eccezionale frequenza delle dediche, a volte due per lirica (per un totale di 35 dedicatari, fra cui 8 francesi), o le xilografie, assai eleganti ma d’un

gusto che parrebbe più appropriato alla decorazione d’un volume di D'Annunzio. A differenza del Porto originario, che viveva nel segno della tensione all’identificazione, il Porto del ’23 si presenta come la consacra-

zione, fin troppo solenne, di un riconoscimento avvenuto: Ungaretti sembra sentirsi compiutamente, organi-

42

camente inserito in una «patria». Ma si tratterà di un episodio transitorio. Il confronto delle varianti dimostra con chiarezza che il Porto spezzino si situa a mezza via tra l’Allegria e Sentimento del Tempo: sia perché alcune importanti poesie (fra cui le già citate O Notte e Silenzio in Liguria), apparse per la prima volta nella raccolta del ’23, vengono dirottate nella sezione Prime di Sentimento del Tempo, sia perché non poche innovazioni rispetto al testo di Allegria di Naufragi non trovano seguito nelle redazioni seguenti. La differenza di atmosfera rispetto alle raccolte precedenti è palese fin dalla poesia d’apertura, Sirene: Spirto funesto che intorbidi amore e, affine io risalga senza requie, le nobili parvenze, pria ch’io giunga, muti, ecco già, non anco deluso, m’avvinci ad altro sogno. Pari a quel mare, procelloso e blando, che l’isola insidiosa porge e cela, perchè ti prendi gioco di chi vuole, volte le spalle al nulla, andare incontro alla morte, sperando?

Ungaretti in sostanza, dopo il secondo Porto, si rende conto che il suo stile si sta evolvendo. Perciò, pur senza nascondersi l’esistenza di una zona di transizione o di trapasso — donde il titolo-cerniera Prime che unisce la sezione conclusiva dell’Allegria a quella iniziale del Sentimento — decide di diventare autore di due libri, anziché d’uno solo (la svolta più importante, forse, dell’intera sua carriera poetica). Così prende a lavorare

43 contemporaneamente su due tavoli: sull’uno raffina e perfeziona la sua prima maniera, sull’altro lavora ai testi nuovi, cioè alle liriche successive alla raccolta del ’19. Gli esiti non sono univoci. Di norma, il labor limae esalta l’essenziaNità allegresca, accentuando l’assolutez-

za della dizione: Ci spossiamo in una vendemmia di sole Ci culliamo in orditi infiniti di promesse impregnati di sole

Ci vendemmia il sole Chiudiamo gli occhi per vedere nuotare in un lago infinite promesse

Si chiudono gli occhi per guardare nuotare in un lago le dolcezze del tempo svanito

(Fase d’oriente, vv. 4-7, pp. 27 e 610-611)

E nella trasparenza dell’acqua la tua pelle d’europea gentile come le ali delle farfalle si brinerà di moro

Nella trasparenza dell’acqua l’oro velino della tua pelle si brinerà di moro

(Giugno, vv. 21-25, pp. 73 e 644-645)

Ma l’accentuata intensità icastica della parolaimmagine isolata provoca anche effetti di astrazione, di sublimazione, che riducono il carattere espressionisticoesistenziale dell’Ungaretti originario. Se si esclude il Porto Sepolto — in cui il riferimento al vissuto ha un’urgenza e una drammaticità incancellabili — L’Allegria

dH

viene così ad assumere connotati di classico, e staremmo per dire già petrarchesco, nitore formale. D'altro canto, non è nemmeno del tutto vero che sia il gusto della seconda raccolta a guidare la revisione della prima. Piuttosto, diremo che delle due «anime» dell’A/legria: l’adesione alla contingenza, con tutto quanto essa ha di fra-

gile, di casuale e precario, e l’aspirazione all’assoluto, che alimenta lo slancio trascendente e metafisico — due facce della stessa medaglia, finché dura il tempo apocalittico della guerra — una si adatta meglio dell’altra alla stagione successiva: ragion per cui risulterà più direttamente

e immediatamente

produttiva,

anche

nell’alacre

officina correttoria dell’ Ungaretti maturo. Nell'insieme, l’A/legria appare come una sintesi irripetibile di istanze contrastanti: violenza e purezza, concretezza e trasfigurazione, grido e musica. Da un lato l’alchimia verbale appresa dalla lirica simbolista, depurata però dalle scorie del preziosismo estetizzante, e praticata con l’urgente, assorto raccoglimento di chi affida alla riuscita d’un esperimento sulla parola la propria salvezza interiore; dall’altra, quella ricerca di semplicità primordiale e di riduzione all’essenzialità espressiva che aveva dato i suoi migliori frutti nell’avanguardia pittorica del primo ’900. A questo proposito occorre una breve precisazione. Non ci risulta che Ungaretti abbia mai riconosciuto debiti verso il primitivismo artistico d’anteguerra; anzi, gli esegeti a lui più vicini, anche biograficamente (come Leone Piccioni), hanno sempre respinto

ogni rapporto con l’«art nègre» (o con il «japonisme», reso attuale dalla pubblicazione

sulla «Diana»

di una

serie di haiku). Non crediamo tuttavia che questo sia un argomento probante. Anche Carrà ha sempre rifiutato in maniera sdegnosa, per quanto lo riguardava (oltre che

45 condannato in linea generale), i modelli dell’arte africana e oceanica, cui andavano

ispirandosi i cubisti; ma lì

interveniva appunto la polemica, non solo teorica, tra cubisti e futuristi; e fermo restando che sul cubismo altri

la pensava diversamente, anche sul versante lacerbiano (Soffici in primis), le proteste di estraneità al primitivismo sono smentite dall’analisi concreta delle opere. Con Ungaretti avviene, a distanza di tempo, qualcosa di si-

mile. Non un’applicazione programmatica di soluzioni desunte dall’esterno, bensì un’assimilazione profonda di orientamenti di gusto circolanti intensamente nella Parigi degli anni Dieci: che vengono ripensati, riscoperti, staremmo

per dire rivissuti, alla luce di un’esperienza

esistenziale traumatica come quella della trincea. Non diversamente, in precedenza, certi atteggiamenti e motivi della poesia decadente erano stati da Ungaretti tanto più risolutamente acquisiti, in quanto la suggestione dell’ambiente africano (il deserto, il nulla, i miraggi, la veggenza) gli offriva un concreto, immediato riscontro in termini sensoriali e paesistici. Certo, la lettera a Papi-

ni citata sopra — con l’imputazione di «anemia» alla propria vena poetica, e il connesso timore della sterilità — dimostra che l’esasperata laconicità del dettato allegresco fu la risultante interna d’una ricerca espressiva autonoma. Ma ciò non fa che avvalorare la convergenza con alcune tra le più significative esperienze artistiche europee di quegli anni, che il sodale di Apollinaire, l’amico di Picasso, aveva ben conosciuto, da vicino.

Dopo la guerra il clima si presenta completamente mutato, anche sul piano culturale. È l’epoca del rappel à l’ordre: e Ungaretti, consumata la rottura avanguardisti-

ca, si dispone a riannodare i legami con il passato. Dopo

46 essere stato il miglior interprete delle esigenze innovative, s'impone come il più autorevole esponente del recupero delle istituzioni letterarie tradizionali. Ma anche in questo caso, bisogna guardarsi dalle semplificazioni eccessive. Il desiderio di ordine non soffoca del tutto l’inquietudine vitalistica, la tensione sperimentale, la spinta all’avventura (elementi irriducibili ad un neoclassicismo compassato e normativo, di stampo rondesco): «come nell’Ungaretti più espressionista e rivoluzionario è presente

una tendenza classica e conservatrice,

così

anche in quello più restauratore seguita a fermentare una ricerca di autenticità e di rivolta» (Luperini). L’elemento di discontinuità più forte rispetto all’A/legria è la drastica riduzione della componente biografica. Beninteso, la qualifica di «diario» stava molto stretta

al Porto Sepolto; e anche le poesie degli anni Venti hanno comunque per presupposto esperienze personali e paesaggi familiari (la Roma barocca, la Villa Gregoriana di Tivoli, il lago di Albano). Ma è l’assetto del discorso poetico che muta; e con esso, l’implicita fisionomia dei

destinatari elettivi. Anziché un «io» teso a confrontarsi con una determinata contingenza vissuta, troviamo una

serie di evocazioni favolose e leggendarie, di apparizioni mitiche, di emblemi

arcani, d’inni. I riferimenti

al

presente si sfumano, e non di rado scompaiono del tutto; la storia — ben percepibile nell’Allegria, ancorché mai tematizzata — sembra sospesa, o meglio, abolita. Il passato con il quale Ungaretti fa ora i conti ha connotati prevalentemente letterari, formali: è la lingua della tradizione poetica a porsi come interlocutrice, non un’eredità o una vicenda storica concreta. Resta bensì un’esigenza di «unanimità» («Sono un poeta / un grido unanime», cominciava /talia), ma all’uniforme di soldato (in

adv

i.

gi

cui il poeta poteva riposarsi «come fosse la culla / di mio padre») sono subentrate vesti curiali e solenni. Le ardite soluzioni stilistiche dell’Allegria non escludevano una componente di popolarità sostanziale: ancorché teso e concentrato, if ‘discorso poetico non sfidava l’intellegibilità, ed anzi si prestava a una dizione di tipo sceni-

co, che ne valorizzasse la vocazione intimamente spettacolare, teatrale, o (comeè stato detto) giullaresca. Ora invece s'impone un regime stilistico ben più ermetico ed esclusivo, incompatibile con una larga comunicazione. Il destinatario a cui Ungaretti si rivolge è ormai decisamente un pubblico di é/ite: la dimensione collettiva della

quale brama divenire partecipe è quella d’uno spirito nazionale pressoché risolto nell’istituzione letteraria. Non cercavo il verso di Jacopone o quello di Dante, o quello di Petrarca, o quello di Guittone, o quello del Tasso, o quello del Cavalcanti, o quello del Leopardi: cercavo in loro il canto. Non era l’endecasillabo del tale, non il novenario, non il settenario del talaltro che cercavo: era l’endecasillabo, era il novenario, era il settenario, era il canto italiano, era il canto della lingua italiana che cercavo nella sua costanza attraverso i secoli, attraverso voci così numerose e così diverse di timbro e così gelose della propria novità e così singolari ciascuna nell’esprimere pensieri e sentimenti: era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori di questa terra disperatamente amata (Riflessioni sulla letteratura, 1935: Saggi e interventi, p. 274). Analogamente,

resta

l’aspirazione

all’innocenza:

«Cerco un paese / innocente» recitava Girovago. Ma ora che l’eternità non coincide più con l’attimo — l’attimo supremo dell’imminenza della morte — l'innocenza viene perseguita attraverso la memoria (/nnocenza e memoria

48

i, ——T—_——————@—@—@é@@;::ii.-i[{>PFzzzowm TI fici

suona appunto il titolo d’un importante saggio del °29 pubblicato in varie versioni, in francese e in italiano), protesa alla ricerca — in chiave cristiano-platonica — di una purezza edenica perduta. E poiché la rimemorazione più concretamente esperibile s’identifica con il recupero della tradizione letteraria, ecco come Ungaretti s’ingegna di combinare i principî del classicismo estetico e dell’intuizionismo decadente con il mito novecentesco del ritorno alle origini, in nome della ritrovata italianità: Noi Italiani siamo figli della misura. Noi, e in questo vediamo riconciliabile la memoria coll’innocenza, torniamo a credere che la luce del mistero scatta ogni volta che nell’opera è raggiunto l’equilibrio (Naufragio senza fine, 1931: Saggi e interventi, pp. 265-266).

Di fatto, però, nessuna di queste categorie sembra adeguata a definire la nuova maniera ungarettiana. Molto più appropriati sono i riferimenti al petrarchismo e al barocco (la Nota dell’autore al Sentimento chiama ripetutamente

in causa

l’aspetto

barocco

di Roma,

il

modello dell’arte di Michelangelo), che non a caso rinviano a un’idea di saturazione culturale, di consumata perizia tecnica, e insieme

di crisi nella raffigurazione

della realtà, suscettibile di tradursi in effetti ora di tensione spasimante, ora di estenuata rarefazione. Sul piano stilistico, la nuova raccolta si contrappone all’Allegria per molteplici aspetti. Alla metrica «franta» subentrano scansioni più distese, che spesso riprendono misure tradizionali (ma con originali combinazioni strofiche e modulazioni ritmiche inattese, che dettano endecasillabi quali «ogni grigio si gingilla sui duomi» o «le braccia ti sanno leggera, vieni»); il lessico scabro e con-

49 creto è per lo più abbandonato, mentre subiscono un forte incremento le voci desuete ed auliche; viene ripristinata la punteggiatura; alla linearità paratattica succede un periodare che alterna struttàre complesse — ricche di subordinazioni,.dàinversioni,

di iricisi — e frasi brevi —

enunciati lapidari, esclamazioni repentine, ma anche allusioni ellittiche, sfumanti in puntini di sospensione. Venuto

meno

l’io personale, empirico

e biografico,

e

con esso l’urgenza di render presente attraverso la «nominazione delle essenze» (Sanguineti) una realtà circostante e determinata, il discorso si coniuga di preferenza

secondo il duplice modulo distanziante della terza persona e del tempo passato (per lo più un suggestivo, evocativo imperfetto). Sempre molto frequenti sono i procedimenti analogici, che però registrano, oltre alla larga prevalenza delle forme implicite, un proliferare di metafore appositive (cioè d’un modulo amplificante incompatibile con l’essenzialità allegresca) e un singolare addensarsi di effetti sinestetici. Gran parte della raccolta è composta da conturbanti apparizioni di immagini mitiche, ora corrucciate e sinistre, ora seducenti e sensuali. Impressionanti le personificazioni dell’estate, assimilata ad una furia distruttrice (Di luglio, D’agosto), mentre ai temi dell’ombra, della

notte, della luce lunare seguitano ad associarsi moti di sollievo, o almeno di languido sfinimento. A volte, la poesia inscena arcani dialoghi tra voci diverse (Contini ha parlato d’una «natura intimamente alterna e amebea» del Sentimento); spesso, l’evocazione trascolora nell’invocazione, scavando nel discorso poetico — pur tanto più continuo e fluido, rispetto all’A/legria — drammatiche

pause di silenzio.

50 Tra i risultati più persuasivi vanno annoverate le poesie che hanno per oggetto il trascorrere del tempo, nelle varie dimensioni delle epoche, delle stagioni dell’anno, o anche delle ore del giorno: come ad esem-

pio Lago Luna Alba Notte (1927), che sullo sfondo d’un sognante scenario lacustre disegna un’esile vicenda temporale, costellata di ricami musicali e metaforici, in

un’atmosfera di enigmatico smarrimento esistenziale: Gracili arbusti, ciglia Di celato bisbiglio... Impallidito livore rovina... Un uomo, solo, passa Col suo sgomento muto...

Conca lucente, Trasporti alla foce del sole! Torni ricolma di riflessi, anima, E ritrovi ridente L’oscuro...

Tempo, fuggitivo tremito...

(Tutte le poesie, p. 115)

Anche certe poesie brevi, che sembrano discendere direttamente dalla vena più levigata e idillica dell’A/legria, si proiettano sempre oltre i limiti della contingenza. In Stelle, dello stesso anno, il presente indicativo del primo verso (uno dei più memorabili endecasillabi ungarettiani) è subito rilevato dal futuro, a cui s’aggiunge — con ulteriore scarto — un congiuntivo fra ipotetico, esortativo ed augurale:

.

DI Tornano in alto ad ardere le favole. Cadranno colle foglie al primo vento.

Ma venga un altro soffio, . — Ritornerà sciptillamento nuovo. -

(p. 142)

A questi modi scorciati ed allusivi fa riscontro l’eloquenza dispiegata di altri componimenti. Un buon esempio è la prima strofa di /nno alla Morte (1925): Amore, mio giovane emblema, Tornato a dorare la terra, Diffuso entro il giorno rupestre,

È l’ultima volta che miro (Appiè del botro, d’irruenti Acque sontuoso, d’antri Funesto) la scia di luce

Che pari alla tortora lamentosa Sull’erba svagata si turba i

(vv. 1-9, pp. 117)

Propri del Sentimento sono poi i moduli dell’inno e della preghiera, come le anafore e le sequenze appositive. Spesso le figure di accumulazione sono deputate ad esprimere la palpitante vitalità che contrasta l’aspirazione alla purezza: Silenzi trepidi, infiniti slanci, Corsa, gelose arsure, titubanze, E strazi, risa, inquiete labbra, fremito, E delirio clamante E abbandono schiumante E gloria intollerante E numerosa solitudine,

52 La vostra, lo so, non è vera’luce,

Ma avremmo vita senza il tuo variare,

Felice colpa? (Danni con fantasia, vv. 15-24, p. 168)

Dopo la poesia dedicata alla memoria della madre, scomparsa nel ’26 (La madre, appunto) e dopo l’interludio narrativo e autobiografico di /9/4-/9/5 («Ti vidi, Alessandria, / Friabile sulle tue basi spettrali / Diventarmi ricordo / In un abbraccio sospeso di lumi»), quasi presago del Monologhetto, il motivo religioso prende quota, ma il recupero dell’io personale resta intermittente. Accenti di liturgica solennità echeggiano sia nei versi più impalpabili e rarefatti, sia in quelli più turgidi e pervasi da un titanismo michelangiolesco,

espressivi discontinui (la seconda si regge su un precario equilibrio visitato in chiave biblica e un esclusivo). Nel finale, l'alternanza

con risultati

parte del Sentimento tra un unanimismo riclassicismo arduo ed tra moti di sgomento,

di desiderio, di rimorso, di rivolta, tende a placarsi. Dal

contrasto tra l’imperfetta felicità terrena e la beatitudine di un irraggiungibile Eden traggono alimento le visioni del nulla e della morte: che però non spengono l’inquietudine dei sensi (e infatti l’ultima sezione è intitolata L'Amore). Rivedo la tua bocca lenta (Il mare le va incontro nelle notti) E la cavalla delle reni

In agonia caderti Nelle mie braccia che cantavano, E riportarti un sonno AI colorito e a nuove morti.

33 E la crudele solitudine Che in sé ciascuno scopre, se ama, Ora tomba infinita, Da te mi divide per sempre. Re

Cara, lontana come in uno specchio... (Canto, p. 190)

Sul piano strutturale, Sentimento del Tempo acquista la sua fisionomia stabile nel 1936, con l’aggiunta di sette nuove poesie. Quanto alle varianti, va registrato rispetto alla precedente stagione un sintomatico mutamento di rotta: «La rielaborazione delle liriche del Sentimento si presenta molto più tormentata e complessa che nell’Allegria, perché non si basa, come

là, su una conden-

sazione progressiva delle immagini, ma piuttosto, abbastanza frequentemente, su un’oscillazione pendolare e sinusoidale fra le fasi espressive iniziali e e quelle successive, con riprese e abbandoni intermedi» (Spezzani). Accompagnato fin dalla prima edizione da una premessa di Alfredo Gargiulo, Sentimento del Tempo inaugura la serie di edizioni ungarettiane corredate da studi critici. Seguiranno le Disperse prefate da Giuseppe De Robertis, la Terra Promessa con il saggio di Leone Piccioni, Un Grido e Paesaggi con l’analisi di Piero Bi-

gongiari sugli autografi del Monologhetto. Al centro dell’attenzione di questi lavori è il travaglio variantistico, che Ungaretti, anziché tener nascosto, sembra perfi-

no esibire: il culmine è rappresentato dall’alternativa «a scelta»

inclusa

una

poesia

del

’61, Apocalissi

(«Se

d’improvviso l’urlo squarcia unico» vs «Se unico subitaneo l’urlo squarcia»). E tuttavia tra le varianti delle raccolte tarde non si registrano modifiche strutturali di

54

grande respiro, come nel caso dell’A/legria o del Sentimento. Proprio Piccioni ha sottolineato che La Terra Promessa e Il Taccuino del Vecchio — in gran parte composto dagli Ultimi Cori per la Terra Promessa — sono lo stesso libro: «sono il terzo tempo della ricerca ungarettiana, che in una rara edizione

(Fògola

1967)

avevano trovato perfino un unico titolo riassuntivo con Morte delle stagioni». E mentre le prime due raccolte,

omologhe anche per dimensioni, tendevano (almeno nelle intenzioni dell’autore) a fare «dittico», la struttura delle successive appare affatto diversa. La Terra Promessa nasce peraltro con l’intento di proseguire lungo un cammino già intrapreso. Dopo la rivoluzionaria riscoperta della parola e l’azzeramento metrico dell’A/legria, dopo la ricostruzione del discorso e la regolarizzata versificazione del Sentimento, la nuova raccolta ha per obiettivo le misure dell’epos e il recupero integrale della tradizione letteraria, come dimostrano da una parte i riferimenti alle Sacre Scritture e al poema virgiliano — in evidenza la figura di Didone, «ipostasi ultima della memoria africana di Ungaretti» (Petrucciani) — dall’altra l’adozione, nel Recitativo di Palinuro, di un metro desueto come la sestina provenzale. Più d’ogni considerazione critica, a denunciare le contraddizioni di questo progetto è la stessa incompiutezza dei risultati, sottesa anche al sottotitolo Frammen-

ti, per un lavoro durato circa un ventennio (1935-1953). Ma sul piano storico, la questione cruciale rimane il rapporto fra la prima raccolta e la seconda, che il poeta (e vari studiosi con lui) volle interpretare in termini di linearità evolutiva: laddove tra il «sentimento dello spazio» (Bigongiari) dell’Allegria e Sentimento del Tempo intercorre una discontinuità, consistente nella traslazione

da del dramma esistenziale dal piano della concretezza biografica (0, come è stato detto, biologica) a quello dell’astrazione metafisica, in patente contraddizione con il professato populismo che costituisce la base della visione ungarettiaià” del mondo. E ciò comporta un impoverimento di significato, che la suprema sapienza retorica ungarettiana poté dissimulare o compensare in parte, ma mai colmare del tutto. La Canzone che apre la Terra Promessa «descrive» (così annuncia il sottotitolo) lo stato d’animo del poeta. Si tratta di un congedo dalle ultime tracce (o illusioni) di giovinezza, svolto in una sequenza di raffinate immagini che fluidamente trascorrono, secondo moduli già esperi, dal concreto all’astratto, dal piano dei sensi a quello mentale, con movenze scopertamente, squisitamente pe-

trarchesche:

Nulla è muto più della strana strada Dove foglia non nasce o cade o sverna, Dove nessuna cosa pena o aggrada, Dove la veglia mai, mai il sonno alterna.

(vv. 5-8, p. 241)

I diciannove Cori descrittivi dello stato d’animo di Didone declinano variamente il tema dell’assenza, del

distacco, della perdita; agli accorati accenti dell’eroina tradita sarebbero dovuti seguire i Cori d’Enea, che però

non videro mai la luce. Le parole-rima del già citato Recitativo di Palinuro — furia, sonno, mortale, emblema, onde, pace — compendiano l’atmosfera della raccolta (e

di buona parte dell’intuizione ungarettiana del mondo): un’esperienza

di insidie

e di burrasche,

la coscienza

56

Cee, Pr—rrr—_———T—_———r@——@—@—@—@—@—@—@—@t@Pmt@t@@ css

della propria limitatezza, il desiderio di riposo che si confonde con l’abbandono al nulla e l'oblio, la sovrapposizione tra realtà e simbolo. Il modulo dell’iterazione lessicale torna anche in componimenti successivi. Le tre quartine di Variazioni su nulla ruotano intorno a poche parole: sabbia, clessidra, nube, nonnulla, tacito (silente, muto); il Finale è una sorta di salmodia sul mare (paro-

la-chiave ed insistita epifora).

Alla faticosa composizione della Terra Promessa si frappone il «libro non previsto» (Guglielmi) del Dolore. La raccolta è segnata dal nuovo irrompere nella lirica ungarettiana d’una straziante materia biografica: la morte del fratello Costantino, avvenuta nel 1937 («Tutto ho perduto dell’infanzia / E non potrò mai più / Smemorarmi in un grido») e soprattutto la scomparsa del figlio Antonietto. Nei 17 frammenti della sezione Giorno per giorno lo stato d’animo del poeta oscilla fra una sofferenza immedicabile («E t'amo, e t'amo, ed è continuo schianto!») e attimi d’una consolazione struggente, che

sfida la comunicabilità: Mai, non saprete mai come m’illumina L’ombra che mi si pone a lato, timida, Quando non spero più... (p. 205)

A volte, l’ombra prende anche la parola. E la serie di «albe» ungarettiane s’arricchisce di una nuova immagine di luminosità sorgiva: più pura dei bagliori lividi che manda

il concreto

ma contaminato

presente,

più com-

mossa e viva rispetto all’idea d’un remoto, ipotetico inizio dei tempi.

ST Fa dolce e forse qui vicino passi Dicendo: «Questo sole e tanto spazio Ti calmino. Nel puro vento udire Puoi il tempo camminare e la-mia voce. Ho in me racgglto a poco a poco e chiuso Lo slancio muto della tua speranza. Sono per te l’aurora e intatto giorno». (pp. 208-209)

Alcuni dei risultati più alti della raccolta si nella sezione // tempo è muto, che fra l’altro l’impennarsi di una tesa, sovrana eloquenza. Si ad esempio i vertiginosi iperbati, la drammatica

trovano registra vedano aggetti-

vazione, l’intensissima partitura fonica di Tu ti spezzasti

(uno dei vertici del barocco ungarettiano): E la recline, che s’apriva all’unico Raccogliersi dell’ombra nella valle,

Araucaria, anelando ingigantita, Volta nell’ardua selce d’erme fibre Più delle altre dannata refrattaria, Fresca la bocca di farfalle e d’erbe Dove dalle radici si tagliava, - Non la rammenti muta Sopra tre palmi d’un rotondo ciottolo In un perfetto bilico Magicamente apparsa? (vv. 8-18, p. 215)

Alle sofferenze private Ungaretti associa la tragedia collettiva della guerra. Le poesie di Roma occupata evocano stragi, distruzioni, deportazioni; lo sguardo smarrito del poeta se ne distoglie però presto, cercando conforto

nella preghiera

(«Ecco,

Santo, Santo che soffri»). Non

Ti chiamo,

manca

Santo,

/

un’aggiunta al

58 personale mito dei fiumi, con il «Tevere fatale» di Mio fiume anche tu; ma nell’insieme l’ispirazione ungarettiana sembra affievolirsi, man mano che s’allontana dalla dimensione dell’esperienza privata. Fra le poesie

tarde,

merita

un’attenzione

speciale

Monologhetto, composto alla fine del 1951 su richiesta della RAI, e pubblicato l’anno successivo in Un Grido e Paesaggi

(Milano,

Schwarz),

volume

impreziosito

da

cinque disegni di Giorgio Morandi. Libera rievocazione autobiografica dall’andamento insolitamente prosastico (e infatti concepito in origine come un testo in prosa), il Monologhetto segue il filo conduttore del mese di febbraio: mese «corto e lunatico», il mese degli innesti, in

cui appunto cade il compleanno del poeta.

Il ricordare è di vecchiaia il segno, Ed oggi alcune soste ho ricordate Del mio lungo soggiorno sulla terra, Successe di Febbraio, Perché sto, di Febbraio, alla vicenda Più che negli altri mesi vigile. (vv. 130-135, p. 260)

Per oltre 200 versi si susseguono immagini di luoghi svariati, della Toscana avita, del Mezzogiorno italiano e della Corsica, dell’Egitto, del Brasile; e la voce del

poeta, per lo più scandita da misure regolari (con alta percentuale di endecasillabi), è intercalata da inserti di discorsi allotri, linguisticamente autonomi. Troviamo così proverbi lucchesi («Se di Febbraio corrono i ciottoli /Empie di vino e olio tutti i ciottoli»), detti e canzo-

59 ni in còrso («Tantu lieta è la sua sorte / Quantu torbida è la mia») o in portoghese («/ronia, ironia / Era sé che dizia»). Il poemetto si chiude su una nota di vitalità indomita, che ribadisce insieme la follia e la necessità delle illusioni sempre rinascenti. Un motivo che potremmo chiamare leopardiano, fatta salva l’avvertenza che il leopardismo di Ungaretti ha connotati non dissimili dal petrarchismo del Boiardo lirico: una sorta di derivazione, di filiazione ideale, frenata tuttavia e alme-

no in parte contraddetta da un’irriducibile diversità di temperamento. Solo ai fanciulli i sogni s’addirebbero: Posseggono la grazia del candore Che da ogni guasto sana, se rinnova O se le voci in sé, svaria d’un soffio. Ma perché fanciullezza È subito ricordo? Non c’è, altro non c’è su questa terra Che un barlume di vero E il nulla della polvere, Anche se, matto incorreggibile, Incontro al lampo dei miraggi Nell’intimo e nei gesti, il vivo Tendersi sembra sempre. (vv. 190-202, p. 262)

AI Monologhetto segue Gridasti: soffoco, i versi più accorati mai scritti da Ungaretti («Sconto, sopravviven-

doti, l’orrore / Degli anni che t’usurpo...»). Completano la raccolta un Esercizio di metrica e alcuni testi legati ad occasioni di viaggio, preceduti da spiegazioni in prosa e accomunati sotto il titolo Svaghi; nonché la scanzonata, bizzarra Semantica,

che discorre di vegetazione amaz-

60 zonica e terminologia botanica portoghese. Quasi un riecheggiamento (al limite della parodia) della illustre tradizione della poesia didascalica, e insieme un ulteriore

omaggio tributato alla disposizione prosastica di tanta lirica del secondo Novecento:

I tronchi ne feriscono e, col succo, Zufoli ed otri plasmano quegli Indi; Oggetti il cui destino conviviale Nel Settecento nominare fa A Portoghesi lepidi Seringueira, l’appiccicosa pianta, E dirne la sostanza, Arcadi cocciuti, seringa, Chi la va raccogliendo, seringueiro,

L’irrequieto boschetto, seringal, Con suoni ormai solo da clinica.

(vv. 20-31, p. 269)

AI già citato Taccuino del Vecchio (che reca le date 1952-60) fanno seguito sparsi componimenti, fra cui Apocalissi, i sei brevi Proverbi («S’incomincia per cantare / E si canta per finire»), Dialogo (che comprende le «repliche» della giovane scrittrice brasiliana Bruna Bianco), Croazia segreta. L’ultima poesia composta da Ungaretti è L’impietrito e il velluto, datata «Roma, notte del 31 dicembre 1969 — mattina del 1° gennaio 1970», che rientra nel breve ciclo dedicato a Dunja («universo» in croato): estrema apparizione d’una figura femminile in grado di opporsi, con il suo sguardo morbido e pietoso, alla realtà disseccata e minerale che fa da contorno

all’ «alambiccare / del vecchissimo ossesso».

61 La vasta opera dell’Ungaretti traduttore, che svaria dall’antichità più illustre (i Frammenti dell’Odissea, brani da Lucrezio) ad una curiosa, varia contemporaneità (Pound, Saint- John Perse, Esenin, fino a Ponge e Vinicius de Moîaes), conosce i suoi momenti essenziali in Géngora, Shakespeare, Racine, Blake e Mallarmé. Nomi, questi, idealmente connessi in un percorso di recupero e nello stesso tempo di rielaborazione originale della tradizione lirica, nel segno d’un classicismo eclettico e impaziente. Di fatto, chiusa la stagione dell’espressionismo e dell’avanguardia, Ungaretti si indirizza, anche (soprattutto?) tramite le traduzioni, verso forme

pregresse, «altre», di modernità: e così perlustra i discrimini fra il petrarchismo e il barocco, le inquietudini e la crisi del classicismo rinascimentale e settecentesco,

il transito dal parnassianesimo all’orfismo nella poesia contemporanea. Le traduzioni ungarettiane, oltre a segnare uno dei vertici del nostro secolo in questo delicato e tuttora poco studiato terreno d’incontro fra le diverse culture letterarie, offrono quindi importante materia di riflessione sia sulla ricezione novecentesca del Seicento europeo, sia sull’interpretazione della tradizione simbolista: a tacere di più specifici problemi di tecnica traduttoria, per i quali escogitano soluzioni di efficacia spesso notevolissima. Valga per tutti l’esempio del blank verse shakespeariano, reso con un verso lungo, per lo più di sedici sillabe (un endecasillabo e un quinario, un settenario e un novenario).

Un profilo di Ungaretti non può però dirsi completo senza un richiamo non soltanto strumentale o documentario ai carteggi, restituiti dagli archivi negli ultimi anni. Spiccano su tutte le quasi 300 lettere al «fratello maggiore» Giovanni Papini, comprese tra il 1915 e il 1920

62 (salvo una ventina, diluite lungo i tre decenni successivi), che propongono, oltre ad un ritratto umano di grande vivacità e immediatezza — e ovviamente ad una ricca messe di informazioni — molte pagine di straordinaria efficacia espressiva. A cominciare dalla prima — «il più bell’accessus che si possa immaginare per un epistolario» (De Robertis) — databile all’inizio del 1915: Caro Papini, si ricorda di me? Quel tale con un po” di barba bionda, incontrato in un caffè, una sera, a Parigi (Lettere a Papini, p. 3).

Notevoli, in particolare, certi sparsi accenni al rapporto con i commilitoni, che restituiscono la radice profonda dell’ «unanimismo» ungarettiano: Caro Papini, l’altra notte mi son fatto una marcia di una

diecina di chilometri, sotto una pioggia torrenziale; mi sono sfogato a cantare cogli altri soldati; non mi ricordavo più di me; era una felicità (lett. 49, timbro postale 29 giugno 1916, p. 48).

O certe riflessioni, intrecciate a momenti contemplativi che si direbbero già predisposti a una distillazione lirica: Amo le mie ore d’allucinazione; quando sento di dovermi inginocchiare davanti a un idolo, perché in lui sento come la salvezza di tutto e la mia; e mi si gonfia davvero il cuore di una speranza insensata. Anche le mie ore di randagio, d’immaginario perseguitato in esodo verso una terra promessa fuori d’umanità colla nausea alla gola, mi fanno bene; in fin

dei conti son di ripulitura, e ne esco fresco. Ma le serate come questa; questo nulla; questo chiaro al cuore di questo nulla; questo chiaro che mi sgomenta; e mi

lascia così isolato; così solo; povero me; staccato proprio da

63 ogni bene e da ogni male; staccato proprio dalla vita; solo (lett. 64, t.p. 25 luglio 1916, p. 64).

E ancora, più d’ogni altra Cosa, gli squarci paesistici, che a volte non4inno nulla da invidiare ai petits poèmes en prose inseriti nelle raccolte di poesie: Caro Papini, aspetto le sue parole. Solo, con serenità, ma solo. Mi venga incontro — Nebbia. Ma oggi s’è alzato uno splendore. Si vedono alleggerirsi quei monti. Una tenuità di cielo, ma così uguale quest’azzurro slavato, così uguali questi nostri attimi che ci svanisce la nozione del tempo. Proviamo l’avversione della terra, oggi mi alletta quella confetteria di monti. Così uguale anche la speranza (lett. 14, t.p. 16 dicemLIEVE NEI

Ma il lettore appassionato di Ungaretti proverà forse la tentazione d’inventarsi perfino una scansione metrica per la cartolina spedita, sempre dalla zona di guerra, 111 settembre 1917 (n. 141 della raccolta, p. 145). E lo studioso non potrà riprovarlo, se non per obbligo professionale. Mio Papini, un azzurrello cielo, il solito malaticcio sulla truce sassaia.

64

Nota bibliografica

Le citazioni che compaiono nel testo in forma abbreviata sono riferite ai seguenti volumi (tutti editi da Mondadori):

//

deserto e dopo. Prose di viaggio e saggi (1961); Vita d’un uomo. Tutte le poesie (1970); Vita d'un uomo. Saggi e interventi (1974); Lettere a Giovanni

Papini 1915-1948

(1988).

Ricordiamo le principali edizioni delle opere di Ungaretti in successione cronologica.

Poesia: /l Porto Sepolto, Udine, Stabilimento Tipografico Friulano 1916; La Guerre, Paris, Etablissements Lux 1919; Allegria di Naufragi, Firenze, Vallecchi 1919; /{ Porto Sepolto, La Spezia, Stamperia Apuana 1923; L’Allegria, Milano, Preda 1931; Sentimento del Tempo (con un saggio di Alfredo Gargiulo), Firenze, Vallecchi 1933, poi Novissima, Roma 1936; Vita d’un uomo: L’Allegria, Milano, Mondadori 1942;

Vita d’un uomo: Sentimento del Tempo, ivi, 1943; Vita d’un uomo: Poesie disperse (con l’apparato critico delle varianti e uno studio di Giuseppe De Robertis), ivi, 1945; Frammenti per la Terra Promessa (con una litografia di Pericle Fazzini), Roma, Concilium Lithographicum 1945; Derniers Jours. 1919 (a cura di Enrico Falqui), Milano, Garzanti (coll. «Opera prima») 1947; Vita d’un uomo: Il Dolore (1937-1946), Milano, Mondadori 1947; La Terra Promessa. Frammenti (con

l’apparato critico delle varianti e uno studio di Leone Piccioni), Ivi, 1950; Un Grido e Paesaggi (con uno studio di Piero Bigongiari e cinque disegni di Giorgio Morandi), Milano, Schwarz 1952; Vita d’un uomo: La Terra Promessa, Milano, Mondadori 1954; Il Taccuino del Vecchio (con testimonianze di amici stranieri del poeta raccolte a cura di Leone Piccioni, e uno scritto introduttivo di Jean Paulhan), ivi, 1960: Vita d’un uomo: Il Taccuino del Vecchio, ivi, 1961; Morte delle stagio-

65 ni: La Terra Promessa, Il Taccuino del Vecchio, Apocalissi, a

cura di Leone Piccioni, Torino, Fògola 1967. Prosa: /! povero nella città, Milano, Edizioni della Meridiana 1949; /l Desezto e dopo. Prose di viaggio e saggi, Milano, Mondadori 1961; Viaggetto in Etruria, Roma, ALUT 1965. Traduzioni: Traduzioni (Saint-John Perse, William Blake, G6ngora, Essenin, Jean Paulhan), Roma, Novissima 1936; XXII Sonetti di Shakespeare, Roma, Documento 1944; Vita d’un uomo: 40 sonetti di Shakespeare tradotti, Milano, Mon-

dadori 1946; L’Après-Midi et le Monologue d’un Faune di Mallarmé (con litografie originali di Carlo Carrà), Milano, Il Balcone 1947; Vira d’un uomo: Da G6ngora e da Mallarmé, Milano, Mondadori 1948; Vita d’un uomo: Fedra di Jean Racine, ivi, 1950; Vita d’un uomo: Visioni di William Blake, ivi, 1965. Tra le uscite in rivista, si ricordino almeno: Frammenti dall’Odissea di Omero, «L’ Approdo Letterario» n.s., n. 42,

1968; I! prato e Nuove note su Fautrier di Francis Ponge, «L’ Approdo Letterario» n.s., n. 43, 1968. L’edizione complessiva dell’opera di Ungaretti conta finora due fondamentali sillogi: Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a

cura di Leone Piccioni, Milano, Mondadori (coll. «I Meridiani») 1969, 1970”, e Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, ivi, 1974. Altri testi di riferimento sono le edizioni critiche delle prime due raccolte, apparse presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori: L’Allegria, a cura di Cristiana Maggi Romano (1982), e Sentimento del Tempo, a cura di Rosanna Angelica e Cristiana Maggi Romano (1988); in preparazione è anche l’edizione critica del Dolore (su cui si veda Domenico

De Robertis in

«Studi di Filologia Italiana», XXXVIII, 1980). Ricordiamo inoltre l’edizione del Porto Sepolto attentamente commentata da Carlo Ossola (Milano, Il Saggiatore 1981, poi Venezia, Marsilio 1990). Lo stesso Ossola ha curato una ristampa del Povero nella città (Milano, Studio Editoriale 1993) e una rac-

colta di scritti giornalistici, apparsa col titolo Filosofia fanta-

66 stica. Prose di meditazione e d'intervento (1926-1929), Tori-

no, Utet 1997. Un'ottima antologia è Per conoscere U., a cura 7

SRI

el

2

di Leone Piccioni, ivi, 1993".

In attesa che venga pubblicato un «Meridiano» apposito, le lezioni universitarie di Ungaretti raccolte finora si leggono in due volumi: Invenzione della poesia moderna. Lezioni brasiliane di letteratura (1937-1942), a cura di Paola Montefoschi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1984; Lezioni su Giacomo Leopardi, a cura di Mario Diacono e Paola Montefoschi, saggio introduttivo di L. Piccioni, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri 1989. La tesina di laurea su Guérin è stata pubblicata in «Revue d’Histoire Littéraire de la France», n. 2, 1987. Grande interesse presentano i carteggi, pubblicati a partire dagli anni Settanta. I più importanti sono: Lettere dal fronte a Gherardo Marone (1916-1918), a cura di Armando Marone, introduzione di L. Piccioni, Milano, Mondadori 1978; Cin-

quantatre lettere a Carlo Carrà, a cura di Piero Bigongiari e M. Carrà, «Paradigma», III (1980), pp. 415-447; Lettere a Soffici. 1917-1930, a cura di Paola Montefoschi e L. Piccioni, Firenze, Sansoni

1981; Lettere a Enrico Pea, a cura di Jole

Soldateschi, Milano, Scheiwiller 1983; Epistolario U. — De Robertis 1931-1962, a cura di Domenico De Robertis, Milano, Il Saggiatore 1984; Lettere a Giovanni Papini 1915-1948, a cura di Maria Antonietta Terzoli, introduzione di L. Piccioni, Milano, Mondadori 1988. Ma si ricordino anche: Lettere a un fenomenologo, con un saggio di Enzo Paci, Milano 1972; U., Pea e gli altri. Lettere agli amici egiziani, a cura di Frangois Livi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1988; Vincenzo Cardarelli e G.U., Lettere a Corrado Pavolini, a cura di Francesca Bernardini Napoletano e Marinella Mascia Galateria, Roma, Bulzoni 1989; Jean Paulhan - G.U., Correspondance (1921-1968), a cura di Jacqueline Paulhan, Paris, Gallimard 1989; Guillaume Apollinaire, 202, Bd. Saint Germain, Paris.

67 Parte 2, a cura di Franca Bruera, Roma, Bulzoni 1992 (pp. 217-238); Alessandro Parronchi — G.U., Carteggio, a cura di A. Parronchi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1992. Altri materiali epistolari sono apparsi in periodici e studi critici: Lettere a Mario, Novaro, «Otto-Novecento»,

III (1979), 3-4,

pp. 286-292; Luciano Rebay, U. a Valéry: dodici lettere inedite (1924-1936), «Italica», 1981, n. 4, pp. 312-323; Ventitré

lettere inedite a Giacinto Spagnoletti in Paola Montefoschi, U. Le eclissi della memoria, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1989; Anna Vergelli, «Un uomo di prim'ordine».

(documenti e altra corrispondenza

inedita), Roma,

G.U.

Bulzoni

1990. Dalle lettere inviate a Papini fra il °15 e il ’20 Cristiana Maggi Romano e Maria Antonietta Terzoli hanno ricavato una serie di testi e varianti, editi col titolo Poesie e prose liriche (con un’introduzione di Domenico De Robertis), Milano, Mondadori 1989. Altri testi del ’15 (fra cui un frammento della Storia di Turlurù) sono stati pubblicati da Umberto Se-

reni e Carlo Ossola in «L’atro di Lucifero»: U. apuano, «Lettere italiane», XLII, 3, luglio settembre 1990. Nuovi reperti autografi relativi alla prima fase dell’attività dello scrittore sono emersi di recente dagli archivi; e lo studio sistematico della biblioteca dell’autore promette ulteriori scoperte (si vedano in proposito le segnalazioni di Annamaria Andreoli sul «Corriere della Sera», 21 dicembre 1997).

La principale biografia di Ungaretti è Leone Piccioni, Vita di un poeta: G.U., Milano, Rizzoli 1970, a cui si è aggiunta la recente

Vita di G.U. di Walter Mauro (Milano, Camunia 1990). AI fedele Piccioni si devono anche Ungarettiana. Let-

tura della poesia, aneddoti, epistolari inediti, Firenze, Vallec-

chi 1980, e il saggio biografico che accompagna l’iconografia allestita da Paola Montefoschi Album Ungaretti, Milano, Mondadori («I Meridiani») 1989. Preziose informazioni si trovano in Ettore Serra, // tascapane di Ungaretti, Il mio vero Saba e altri saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Barile e Tallone, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1983.

68 Per gli studi critici su Ungaretti si veda innanzi tutto il repertorio di Renzo Frattarolo, Lungo tempo ungarettiano. Materiali di studio, Roma, Palombi 1989, che amplia le rassegne bibliografiche apparse in precedenza in rivista («La Fiera letteraria»

1953, «Letteratura»

1958) e in volume

(1973).

Sulla

storia della critica sono tuttora utili l’antologia di G Faso La critica e U., Bologna, Cappelli 1977, e soprattutto Gaetano Mariani, Per una storia della critica ungarettiana: i primi giudizi sul poeta (1958), ora in Poesia e tecnica nella lirica

del Novecento, Padova, Liviana 1983°. Un aggiornamento sistematico degli studi su Ungaretti è pubblicato a partire dal 1977 dalla Rassegna Bibliografica di «Studi novecenteschi». Ricordiamo inoltre, fra gli strumenti generali di consultazione, l’annuario L./.A.B. (Letteratura italiana. Aggiornamento bibliografico), che esce dal 1990 presso la casa editrice Alcione di Trieste, e, di imminente pubblicazione, il repertorio auto-

matizzato in CD-Rom L./.R.A. (frutto dell’iniziativa congiunta dello stesso L./.A.B. e del Bollettino di Italianistica dell’ Università «La Sapienza» di Roma), che coprirà il decennio 1986-

Ji99SÌ Ungaretti ha avuto la ventura di essere seguito, almeno da un certo punto in poi, dai critici più accreditati ed autorevoli del Novecento. Le prime recensioni del Porto Sepolto sono degli amici Giovanni Papini «Il Resto del Carlino», 4 febbraio 1917 (poi in Testimonianze. Saggi non critici, Milano, Studio

Editoriale Lombardo 1918, e quindi nelle edizioni complessive dell’opera papiniana) e Giuseppe Prezzolini («Il Popolo d’Italia», 19 maggio 1918). Diversi interventi seguono l’uscita di Allegria di Naufragi: dal non entusiasta Aurelio E. Saffi («La Ronda», novembre 1919) a un ancor poco convinto Giuseppe De Robertis («Il Progresso», novembre 1919), dal devoto Gherardo Marone (Difesa di Dulcinea, Napoli 1920) a Enrico Thovez (L’arco di Ulisse. Prose di combattimento, Napoli, Ricciardi 1921). La fortuna di Ungaretti prende decisamente quota negli anni Venti, dopo // Porto Sepolto spezzino — su cui scrivono Emilio Cecchi («La Tribuna», 25 luglio

69 1923, ora in Letteratura del Novecento, Milano, Mondadori 1972), Lorenzo Montano («Corriere Italiano», 10 agosto 1923), Giacomo Debenedetti («Orizzonte Italico», gennaio

1924) — e soprattutto dopo l’edizione Preda dell’Allegria. ero

Îé

I principali interventi degli anni Trenta e Quaranta, poi entrati nelle sillogi dei vari studiosi, costituiscono tuttora un riferimento essenziale per ogni lavoro su Ungaretti. Si ricordino in primo luogo gli scritti di Gianfranco Contini (Esercizî di lettura, Firenze, Parenti 1939, quindi Torino, Einaudi 1974, e Altri esercizî, ivi, 1972); ma anche Giuseppe De Robertis (Scrittori del Novecento, Firenze, Le Monnier 1940; Altro No-

vecento, ivi, 1962), Alfredo Gargiulo (Letteratura italiana del Novecento,

Firenze,

Le

Monnier

1940),

Pietro

Pancrazi

(Scrittori italiani del "900, Bari, Laterza 1934), Sergio Solmi

(Scrittori negli anni, Milano, Il Saggiatore 1963), Enrico Falqui (Novecento letterario. II, Firenze, Vallecchi 1940), Carlo Bo (Otto studi, Firenze, Vallecchi 1939). Radicali riserve sulla

poesia di ungarettiana, dopo una valutazione iniziale positiva, espresse Francesco

Flora (La poesia ermetica,

Bari, Laterza

1939). Già cospicua, la bibliografia critica ungarettiana diviene imponente nel secondo dopoguerra, specie a partire dagli anni Cinquanta, quando cominciano a uscire anche numeri speciali di riviste e monografie. Attualmente, il più ampio e approfondito studio su Ungaretti è Carlo Ossola, G.U., Milano, Mursia 1982? [1975]; una monografia è anche l’organica raccolta di saggi di Glauco Cambon La poesia di U., Torino, Einaudi 1975. Ma per alcuni aspetti meritano tuttora di essere ricordati anche i volumi di Gigi Cavalli (U., Milano, Fabbri 1958) e Folco Portinari (G.U., Torino, Borla 1967, poi Torino, Stampatori 1975). Un apprezzabile strumento didattico è Giorgio Luti, /nvito alla lettura di U., Milano, Mursia 1974.

Sulla formazione di Ungaretti rimane assai utile Luciano Rebay, Le origini della poesia di U., Roma, Edizioni di Storia

70 e Letteratura

1962. Al primo Ungaretti è dedicata l’analisi

strutturale di Gérard Genot, Sémantique du discontinu dans l’Allegria d’U. (Paris, Klincksieck 1972); sulle raccolte tarde si sofferma invece Mario Petrucciani, // condizionale di Didone. Studi su U., Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1985 (ma si veda anche il recente Poesia come inizio. Altri studi su U., ivi, 1993). Il confronto con le poetiche avanguardiste e

moderniste è al centro del volume di Guido Guglielmi, /nterpretazione di U., Bologna, Il Mulino 1989. Altri volumi monografici: Paola Montefoschi,

U. Le eclissi della memoria,

cit.; l’affettuoso Nostro U. di Emerico Giachery, Roma, Studium 1988; dello stesso Giachery, l’agile Vita d’un uomo: itinerario di G.U., Modena, Mucchi 1990; Marco Forti, U. girovago e classico, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro 1991. Fra i numeri monografici di periodici italiani il più importante rimane «Letteratura», VI, n. 35-36, settembre-dicembre 1958 (a cura di Alessandro Bonsanti); ma si ricordino anche «La Fiera Letteraria», 1° novembre 1953; «Galleria», lu-

glio-dicembre 1968 (a cura di Ornella Sobrero); «L’ Approdo Letterario» (a cura di Mario Luzi), n.s., XVIII, marzo 1972; «Letteratura italiana contemporanea», 8 (1987), n. 20-21, e 11 (1990), n. 31. Fra i periodici stranieri segnaliamo «L’Herne», Paris 1969; «Forum Italicum», VI (1972), 2; «Books Abroad» (Oklahoma), n. 44 (1970); «Revue des Etudes Italiennes», XXXV (1989), n. 14. Una data importante nella storia della

critica ungarettiana ha segnato l’imponente convegno urbinate dell’ottobre 1979: Atti del Convegno Internazionale su G.U. (a cura di Carlo Bo e Mario Petrucciani), 2 voll., Urbino, Quattroventi 1981. Tra i convegni recenti, segnaliamo U. e i classici (a cura di Marta Bruscia et al.), Roma, Studium 1993; G.U. 1888-1970 (a cura di Alexandra Zingone), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1995.

Particolarmente consigliabili per incisività interpretativa e piglio sintetico le pagine dedicate a Ungaretti in alcune storie e antologie letterarie: Gianfranco Contini, Letteratura dell’Ita-

71 lia unita (1861-1968), Firenze, Sansoni 1968; Franco Fortini. I poeti del Novecento, Bari, Laterza 1977 (anche nel vol. IX di Letteratura italiana. Storia e testi, dir. Carlo Muscetta, ivi 1970-80); Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, M®ndadori 1978; Romano Luperini, /! Novecento, t. I, Torino, Loescher 1981; Andrea Battistini-Ezio Raimondi, Retoriche e poetiche dominanti, in AAVV., Letteratura italiana (dir. Alberto Asor Rosa), vol. III, Le forme del testo, t. Il, Teoria e poesia, Torino, Einaudi 1984; Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana, vol. IV, Milano, Einaudi Scuola 1991. Un efficace profilo è anche il recente Mario Allegri, «Vita d’un Uomo» di G.U., in Letteratura italiana (dir. Alberto Asor Rosa), Le Opere, vol. IV, t. 1 (7l Novecento. L’età della crisi), Torino, Einaudi 1995.

Un posto eminente è riservato a Ungaretti in tutti i bilanci critici sulla lirica novecentesca, specie se imperniati sull’esperienza ermetica. Si vedano ad esempio Mario Petrucciani, La poetica dell’ermetismo italiano, Torino, Loescher 1955; Gianni Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Torino, Einaudi 1965; Silvio Ramat, L’ermetismo, Firenze, La Nuova Italia 1968. Le pagine più significative di Luciano Anceschi si leggono nei volumi Barocco e Novecento, Milano, Rusconi e Paolazzi 1960, e Le poetiche del Novecento in Italia, Milano, Marzorati 1962 (ora Venezia, Marsilio 1990). Tra i numerosi interventi ungarettiani di Piero Bigongiari si ricordino almeno quelli raccolti in Poesia italiana del Novecento, Milano, Il Saggiatore 1980.

Il saggio di Pier Paolo Pasolini da cui abbiamo preso le mosse è Un poeta e Dio [1951], in Passione e ideologia, Milano, Garzanti

1960 (poi Torino, Einaudi

1985), acutamente

riletto da Alfonso Berardinelli in La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Torino, Bollati Boringhieri 1994 (Quando nascono i poeti moderni in Italia, 1992). Altri momenti fondamentali della critica ungarettiana degli ultimi decenni sono: Franco Fortini, La terra promessa [1950] e Due

42 poesie contemporanee [1954], in Saggi italiani Bari, De Donato 1974 (poi Milano, Garzanti 1987); Edoardo Sanguineti, Documenti per «L’allegria» [1955] e Per il terzo atto di «An-

dromaca» [1958] in Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia 1961, 1990”; Oreste Macrì, Aspetti esistenziali e retorici dell’Allegria [1958], in Realtà del simbolo, Firenze, Vallecchi 1968); Giorgio Bàrberi-Squarotti, Alcune premesse per una descrizione del linguaggio ungarettiano [1958], in Astrazione e realtà, Milano, Rusconi e Paolazzi 1960; id., Per una rilettura di U. [1972], in Gli inferi e il labirinto. Da Pascoli a Montale, Bologna, Cappelli 1974; Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del Novecento. Quaderni inediti, Milano, Garzanti 1974; Domenico De Robertis, G.U., in Un'idea del Novecen-

to. Dieci poeti e dieci narratori, Roma, Salerno 1984; Gianni Scalia, U.: l’Allegria tra avanguardia e restaurazione [1979] in A conti fatti. Avanguardie, marxismi, letteratura, Padova, Il Poligrafo 1992. Un discorso a retti di altri poeti. Fortini, si vedano Eugenio Montale,

parte meriterebbero gli interventi su UngaOltre ai già citati interventi di Sanguineti e almeno le parche ma acute osservazioni di ora in Sulla poesia (a cura di Giorgio Zam-

pa, Milano, Mondadori

1976), di Vittorio Sereni (Gli imme-

diati dintorni, Milano, Il Saggiatore 1983) e soprattutto le pagine di Andrea Zanzotto, ora in Fantasie di avvicinamento. Le letture di un poeta, Milano, Mondadori 1991. Ricordiamo che Zanzotto ha firmato anche la voce G.U. nel Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di Vittore Branca, Torino, UTET 19:78! Analisi specifiche sullo stile e la metrica si trovano — oltre che negli studi già citati, e segnatamente in quelli di Contini, Fortini, Genot e Ossola — in loan Gutia, /! linguaggio di U., Le Monnier, Firenze 1959 (da integrare però con la recensione

di P.V. Mengaldo in «Lettere italiane», XII, 3, lugliosettembre 1960); Pietro Spezzani, Per una storia del linguag-

gio di U. fino al «Sentimento del tempo», in AAVV, Ricerche

73 sulla lingua poetica contemporanea, Padova, Liviana 1966; Giuliana Petrucci, Sulle varianti dell’Allegria, «Studi novecenteschi», VI, 16, marzo 1977; Edoardo Esposito, Metrica e poesia del Novecento, Milano, Franco Angeli 1992; Paolo Giovannetti, Megkéica ‘del verso libèro italiano (1888-1916),

Milano, Marcos y Marcos 1994. Un prezioso strumento di lavoro è Giuseppe Savoca, Concordanza delle poesie di U. Testo, concordanza, liste di frequenza, indici (premessa di Mario

Petrucciani), Firenze, Olschki 1993. Su altri aspetti particolari dell’opera ungarettiana: José Pascual Bux6, U. traductor de Gongora, Maracaibo 1968; Luciano Rebay, U.: gli scritti egiziani 1909-1912, «Forum Italicum»,

XIV,

1980, n. 1; M. A. Terzoli, Reticenza e memoria

allusiva nella “Guerre” di U., in Studi di letteratura italiana offerti a Dante Isella, Napoli, Bibliopolis 1893; Gemma Antonia Dadour, U. et la France (2 voll.), Paris, Aux Amateurs

de Livres 1988; Iginio De Luca, Tre poeti traduttori. Monti, Nievo,

U., Firenze, Olschki

1988

(riguardo alle versioni

da

Esenin); Beatrice Stasi, U. critico di Leopardi, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», s. 3, 20 (1990), n. 2-3.

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Le varianti invisibili (due versioni di una lirica dell’ Allegria) era

Soldato

Fratelli

Di che reggimento siete fratelli?

Di che reggimento siete fratelli?

Fratello tremante parola nella notte come una fogliolina appena nata saluto accorato nell’aria spasimante implorazione sussurrata di soccorso all’uomo presente alla sua fragilità

Parola tremante nella notte Foglia appena nata i Nell'aria spasimante involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità

Fratelli

Prima di affrontare la lettura comparativa di queste due stesure

del componimento,

uno

dei più noti del-

l’Allegria (datato Mariano il 15 luglio 1916) riascoltiamo il precetto di un grande maestro della variantistica, Gianfranco Contini: «gli spostamenti sono spostamenti in un sistema, e perciò involgono una moltitudine di nessi con gli altri elementi del sistema e con l’intera

cultura linguistica del correttore». È un brano di /mpli-

76 cazioni leopardiane, del ’46 (poi in Varianti e altra lin-

guistica), una lettera a Giuseppe De Robertis nella quale D'Arco Silvio Avalle ha ravvisato un episodio decisivo per il chiarimento metodologico dello studio delle varianti d’autore. Ecco il suo commento: «Le varianti d’autore potranno essere intese nel loro giusto valore, vale a dire correttamente motivate, solo nella misura in

cui verranno rapportate alla struttura reale del componimento in cui si trovano». In un testo letterario, come si

usa dire, tout se tient. Ma se ogni variante va commisurata alla struttura complessiva (al testo come sistema), allora la stessa distinzione fra varianti e invarianti può essere revocata in dubbio. O per meglio dire: che cosa garantisce che i mutamenti d’assetto di un sistema dipendono più da ciò che varia, che non da ciò che rimane invariato? Una breve analisi di Soldato / Fratelli offre l’opportunità di verificare un caso che forse è meno raro di quanto si pensi. La prima delle due stesure è quella originaria del Porto Sepolto (1916); la seconda è la redazione ne varietur, quale si legge nel «Meridiano» del 1969 Tutte le poesie. Fra l’una e l’altra intercorrono cinque lezioni provvisorie, rispettivamente attestate da Allegria di Naufragi (1919), dal Porto spezzino del ’23, e da tre edizioni dell’Al/legria: Preda 1931, Novissima 1936, Mondadori 1942. Se però si eccettuano due ritocchi di punteggiatura — dei quali diremo più avanti — il testo raggiunge la sua fisionomia definitiva nel ’36, al culmine della elaborazione di Sentimento del Tempo. D’acchito la superiorità della seconda stesura sembra

evidente, e non solo perché è quella a cui siamo più abituati. La «fogliolina» del v. 6 è debitrice di un gusto vagamente crepuscolare, disposto all’intenerimento

FI («Mughetto fiore piccino / calice di enorme candore...»), da cui Ungaretti si staccherà ben presto; l’accoramento del saluto è attributo piuttosto debole di fronte allo spasimare dell’aria, e rischia di investire la parola «fratelli»

di una lamentosa“tenuità. Le due contigue apposizioni, costruite simmetricamente secondo lo schema nome + participio in rejet («saluto / accorato [...] implorazione/ sussurrata»), hanno qualcosa di prolisso ed ingombrante; e la elementare allitterazione «sussurrata / di soccorso» suona poco efficace rispetto alla succedanea permutazione timbrica, prossima all’anagramma, «involontaria rivolta» (dove il significante dell’epiteto sembra inverare il significato del sostantivo). Già sulla base di questi semplici riscontri si avverte fra le due stesure un mutamento di tono, che non consente di giudicare l’iniziale sommesso mormorìo, in bi-

lico fra preghiera e bisbiglio, un mero abbozzo del testo definitivo. Non

si ha, insomma,

solo una diversa resa

poetica: differiscono anche gli stati d’animo espressi. Ungaretti acuisce l'intensità del moto affettivo, lo rende più brusco, penetrante e breve: abbandona un andamento pausato e analitico e opta per una dizione più sintetica e netta. Ma non siamo ancora entrati nel vivo della questione. Gli interventi di maggior peso consistono nell’espunzione del v. 3, che ripete la parola-chiave «fratello» (cambiata di numero, e non senza ragione, vedremo), nello smembramento della sequenza

come

analogica successiva, ridotta a una coppia di metafore appositive disgiunte dalla spaziatura (e dalla maiuscola che ne segue), e in un passaggio dativo-genitivo («all’uomo > dell’uomo»). L’omissione di «Fratello» risale all’Allegria del ’31, che contestualmente introduce il titolo definitivo Fratel-

78 li; originario Soldato, mantenuto

nel ’19, era già ca-

duto nella stesura del ‘23 (che rende anepigrafi parecchi testi brevi del Porto Sepolto). La commutazione di caso è invece precoce: già in Allegria di Naufragi |’ «uomo» non designa più il destinatario dell’«implorazione di soccorso» (nonché del «saluto accorato» che la precede),

bensì la persona che saluta ed implora, cioè il poeta. In questo apparentemente modesto ritocco si rivela l’indirizzo generale del processo correttorio, inteso ad una graduale interiorizzazione: a una progressiva concentrazione del discorso nella dimensione soggettiva, e in un parallelo indebolimento della polarità dialogica. Nella versione definitiva, i «fratelli» evocati in apertura saran-

no ridotti al rango di presenze quasi fantasmatiche. Più vistoso, e frutto di un più complesso travaglio variantistico, è il riassetto della parte centrale della poesia, che nel suo insieme si presenta come «glossa — monologo interiore» (Ossola) alla battuta d’apertura. Il Porto del °23 promuove la «fogliolina» a «foglia», e inserisce un interlinea prima di Saluto (quindi maiuscolo). L’edizione Preda rielabora energicamente il testo: taglia (come già abbiamo detto) il «Fratello» del v. 3, inverte una coppia aggettivo-sostantivo («tremante parola» > «Parola tremante»), sopprime il «saluto» e sostituisce all’«implorazione» la «rivolta». L’edizione Novissima porta a compimento l’opera, cassando il come («come una foglia > Foglia»). All’altezza del 1936, la poesia ha assunto così praticamente la sua fisionomia definitiva. Le due successive redazioni mondadoriane si limiteranno a ripristinare la punteggiatura originaria dei vv. 1-2 (per la precisione, nel ’42 torna il punto interrogativo dopo «fratelli» e viene collocata dopo «siete» una virgola, poi tolta nel ’69).

79 Se consideriamo

l’esito complessivo

delle varianti,

abbiamo un’impressione piuttosto precisa. La poesia conserva il carattere di commento-interpretazione alla frase iniziale; ma ad un discorso continuato subentra una

successione di'èrlunciati frammentari. La sintassi di fatto non muta molto, ma le pause metriche impongono una dizione nettamente diversa. Soldato/Fratelli è uno dei casi in cui la stratigrafia delle correzioni rivela più chiaramente un mutamento di gusto. Se la frantumazione del periodo, di per sé, non risponde agli orientamenti formali di Sentimento del Tempo — dove la ricerca di una ricostruzione sintattica (oltre che metrica) si traduce in

un più largo uso della subordinazione — perfettamente consona allo spirito della «seconda stagione» è l’aura di indeterminatezza che attorno alle parole così si crea, il tentativo di sottrarre l’enunciato al legame con una situazione precisa, orientandolo nel senso di un’irrelata evocatività. Ed è topica, circa il metaforizzare ungarettiano, la distinzione

fra analogia

esplicita, dominante

nella prima raccolta, e il fitto ricorso a sintagmi appositivi (stilema poi notoriamente in auge in ambito ermetico).

Non basta. Nell’analisi delle varianti occorre includere anche quello che non varia, giusta l’istanza sistematico-funzionale ricordata all’inizio. La decisione di non alterare una componente del testo può non solo rivestire un interesse specifico, ma addirittura adombrare

il significato profondo della correzione, e quindi l’effettivo discrimine fra le due stesure di un testo. Poiché un medesimo elemento è suscettibile di svolgere in diversi contesti funzioni diverse, può darsi il caso che proprio la modificazione funzionale di un’invariante costituisca il nocciolo della distinzione fra due sistemi. E il

80 fine primario delle varianti’ (delle varianti letterali, di superficie) potrebbe essere proprio quello di render possibile il mutamento

di funzione dell’invariante, cioè la

generazione di una variante profonda. Così è in Fratelli. Interpunzione a parte, l’unica frase che non viene rimaneggiata è l’attacco, «Di che reggimento siete / fratelli?». Ma si rileggano i testi per intero. Nella versione del 1916 si giustappongono due piani distinti: da un lato la domanda iniziale, che resta senza una risposta ma che effettivamente si appella a un destinatario, diverso dal parlante; dall’altro il discorso interiore,

destinato a protrarsi fino al termine. Spartiacque, l’iterazione del v. 3 («Fratello»), che segna il ripiegarsi su di sé dell’io poetico e l’abbandono del virtuale colloquio per un assorto, intenso monologo. Il singolare, da

intendersi come forma «non marcata», si spiega appunto con il passaggio dalla designazione della realtà presente alla riflessione sulla parola. Tale duplicità di registro scompare in seguito completamente. Nella nuova versione l’interrogativo d’apertura non rimanda ad alcun interlocutore, nemmeno potenziale, ma è tutto racchiuso nella sfera della soggettività, fino a sfumare in una sorta di esclamazione sommessa, di considerazione sillabata e ponderata fra sé e sé (il che spiega l’oscillazione della punteggiatura): e, in sintonia con questa mutata valenza pragmatica, l’affievolito vocativo «fratelli» assume immediatamente il carattere di un’assoluta «parola» (si noti l’accostamento

diretto,

reso

possibile

dall’inversione

con l’aggettivo «tremante»), virtualmente vincolo di un referente esterno.

sottratta

al

Il risultato è che l’intero incipit — dapprima contrapposto al seguito della lirica, e vocalmente differenziato — si colloca ora sul medesimo piano, tra evocativo e me-

81 ditativo, delle strofe seguenti. E lo spostamento dell’interesse dal piano della realtà al piano mentale-verbale trova conferma nella serratissima clausola, di sapore vagamente paronomastico, «Fragilità // Fratelli», per parte sua non ignara della lezione mallarmeana sulle etimologie fonetiche o initiales patronymiques (sulle quali si è soffermato a lungo Carlo Ossola). Per inciso, si noterà come la parentela semantica non vada interpretata in modo univoco: se da una parte ad «affratellare» è la comune condizione di precarietà e vulnerabilità, dall’altro lo stesso senso di fratellanza appare intrinsecamente provvisorio, legato com’è ad uno spazio di concentrazione meditativa che il contesto biografico (0, come ha

ben detto Fortini, «biologico») della guerra concede di rado, e per poco. Solo in apparenza, dunque, la frase iniziale rimane identica. In realtà va letta (recitata: eseguita) nelle due versioni, in modo diverso, perché diverso è il tono di un

soldato che si rivolge ai compagni dall’intimo colloquio dell’io lirico con se stesso. A questo riguardo va sottolineata l’importanza del cambiamento del titolo. Al di là della differente scelta lessicale, la variante implica una

diversa formulazione del rapporto fra titolo e testo, cioè un mutamento dello statuto testuale della titolazione. Soldato è un titolo «esterno»: definisce un attributo del soggetto, e quindi è riferito ad una situazione di enunciazione. Fratelli preannuncia l’idea cardinale del componimento: è un prelievo dal discorso che segue, anzi, ne è parte integrante. La stesura finale, dove la parola tematica viene ripetuta, sempre da sola, tre volte (e soltanto i vv. 2 e 10 sono appunto formati da unico vocabolo), risulta così nell’insieme caratterizzata da una fi-

gura d’insistenza: che se da un lato recupera all’idea di

82

Ze,

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«rivolta» qualcosa della soppressa implorazione della lezione originaria, dall’altro accresce la compattezza drammatica del discorso, risolvendolo interamente nella pronuncia replicata di una «parola» aspirante al rango di formula salvifica. Nel complesso, non c’è dubbio, la versione finale è

più bella. Eppure qualcosa nel processo correttorio va perduto: l’incremento di concentrazione (di «purezza», se vogliamo) è scontato da una spinta all’astrazione, da

una semplificazione che sacrifica il senso della contingenza. La stessa parola fratelli, in quanto anticipata nel titolo, è scandita sì con più riflessiva solennità, ma perde qualcosa in immediatezza, suona meno spontanea e repentina. Il testo del °19 contiene — ma meglio sarebbe dire: inscena — una scoperta, la rivelazione inopinata di una creaturale fraternità; il testo del 31 svolge una meditazione lirica più intensa e nello stesso tempo più monocorde, rinunciando a contrapporre due momenti e due stati (l’interrogativo e la riflessione, la solitudine del soldato e il nuovo senso di solidale comunione con gli altri). Una sia pur brevissima vicenda viene in tal modo compressa,

condensata,

proiettata nell’istante

fuori dal

tempo di una illuminazione assoluta. Sul numero monografico di «Letteratura» dedicato a Ungaretti in occasione del suo settantesimo anniversario (settembre-dicembre 1958), Montale così scriveva: [...] la raccolta delle sue poesie rifiutate e delle varianti

conserverà per il lettore di domani l’insieme degli stampini da lui rotti e buttati via, ciò che resta dei cartoni e delle approssimazioni del suo lavoro. Ma forse è meglio sorprendere questi segreti della sua fucina nella prima edizione di Allegria di Naufragi, dove la poesia ungarettiana è colta e sorpresa in at-

83 to, con quel tanto di più o di meno, di estraneo o di diverso che la fa sentire in movimento, alla frontiera di due tempi, due gusti e persino due lingue diverse. In genere, un lettore attento farà bene a seguire le varie stesure di Ungaretti (che spesso non sono variantigma altre poesie o altre ipotesi di poesie) nelle diverse edizioni, e non in quadri schematici dove giacciono inerti, chiavi d’accesso a quel «testo definitivo» che le sue liriche quasi rifiutano.

Seguiva una postilla stringata e un po’ burbera, se possibile ancora più chiara: Questa breve nota — che riguarda un lato solo dell’opera di Ungaretti — fu scritta dieci anni fa, quando il Poeta toccava i sessant'anni. Ora che i 60 sono diventati 70 mi augurerei che un editore ristampasse l’edizione vallecchiana dell’A//egria di Naufragi (1919) e magari quella del Porto Sepolto uscita a La Spezia nel 1923. Le edizioni successive saranno anche migliori, ma non dicono tutto di Ungaretti e della sua poesia. In anni più recenti, il problema è stato riformulato da Andrea Zanzotto: [...] non importa che le varianti possano costituire i vari gradus ad Parnassum, che corrispondano al decorso di una riuscita: importa il loro non-nascondimento, la loro accettazione, anzi, come sfondo del testo [...] Si ha così da Ungaretti non un’opera aperta, in progresso, ma piuttosto un’opera che si pone come tendenzialmente definitiva in ogni suo momento, pur alludendo contemporaneamente al progresso e al ritorno.

La vitalità della lirica ungarettiana appare oggi in gran parte legata a quel tanto di spurio ed irrisolto che la sua opera contiene: come l’imperfetta correlazione vitapoesia, o appunto l’interminabile accumularsi delle cor-

84

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lic.

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rezioni e la virtuale impossibilità di considerare le stesure ultime a pieno titolo definitive: donde la sollecitazione a percorrere a ritroso il tortuoso cammino variantistico. Per un poeta che è stato a lungo identificato con la linea novecentesca della poesia pura potrà sembrare forse paradossale; ma è dei paradossi la facoltà di riuscire,

spesso, singolarmente istruttivi.

Note Traggo il testo di Soldato e Fratelli rispettivamente dall’edizione critica dell’A/legria curata da Cristiana Maggi Romano, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori 1982, pp. 134-35, e da Vita d'un uomo. Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Milano, Mondadori 1970, p. 39. La postilla di Avalle alle parole di Contini L’analisi letteraria in Italia. Formalismo,

si trova in

strutturalismo,

se-

miologia, Milano-Napoli, Ricciardi 1970, pp. 63-64. Il passo di Eugenio Montale, con relativa nota, si legge nella raccolta Sulla poesia, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori 1976, pp. 306-7. Il brano di Zanzotto è tratto da un intervento su «Paragone» n. 254, marzo 1971, p. 32, poi rifuso in Fantasie di avvicinamento, Milano, Mondadori 1991.

La pietra del San Michele RE.

$ 1. L’Allegria: l’essenzialità lirica in due versioni Il componimento che apre la sezione eponima di Ossi di seppia («Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe...») non racchiude solo un embrione di ars poética, ma anche un giudizio

storico acuto e tempestivo. La «parola» che tentava di definire una condizione esistenziale in positivo, in modo univoco e una volta per sempre, ha fallito il suo compito: occorre cambiare strada. Per Montale si tratterà di muovere dal versante opposto, quello della negazione; Ungaretti, com’è noto, compie una scelta diversa. E appunto un riferimento a Ungaretti sembra lecito scorgere in questa poesia: la parola che deve aprire interi mondi, che risalta nella frase con il maggior possibile spicco («a lettere di fuoco») come un fiore in un prato polveroso, o come l’intera immagine del croco nel tessuto ragionativo e ammonitorio della strofe montaliana, non può non alludere in primis all’orfica «parola» di Commiato, rinvenuta nel silenzio, e capace di scavare, nell’animo del poeta, abissi.

Non c’è dubbio che la parola sia la protagonista della prima grande stagione di Ungaretti; ma il problema è se lo sia sempre nello stesso modo, e per gli stessi motivi. E questo non solo nelle varie redazioni dell’A/legria — dal Porto Sepolto del ° 16 o da Allegria di Naufragi fino all’edizione mondadoriana del 1942 — ma in poesie diverse d’una medesima raccolta. Se il proposito di isolare l’unità minima del discorso, di spogliarla da

86

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ogni scoria e paludamento superfluo, di renderla il più

possibile schietta ed essenziale risulta solo troppo evidente, implicanze e motivazioni del sillabato allegresco sono poi meno omogenee di quanto appare d’acchito, anche a prescindere dagli svolgimenti diacronici e dalla stratificazione delle varianti. L’Allegria, o della parola. Di quale parola si tratta? Non certo della Parola in assoluto (qualunque fosse la persuasione dell’autore), bensì di un tipo particolare di parola, di una parola determinata da precise caratteristiche. E nel nudo vocabolo attorniato da lunghe pause, nei vasti spazi bianchi, nella frase netta, solitaria e breve si celano in realtà valori disparati: orientamenti formali differenti, che denunciano diverse attitudini dell’io poe-

tico di contro al mondo esterno. La cosiddetta essenzialità della parola viene realizzata in due forme diverse, consone a due tendenze opposte tipiche di Ungaretti. La prima, che potremmo definire simbolistica, si palesa nel gusto del vago, dell’allusivo, dell’indeterminato: il discorso lirico si circonda di un alone di echi e di risonanze, la musicalità del verso si

esalta, l’atmosfera complessiva tende a rarefarsi in un’estatica indefinitezza. La seconda, al contrario, mira ad

una forte determinazione delle persone e degli oggetti nominati, sì che l’intensità del tono si affida principalmente alia fermezza dei gesti con cui l’io poetico designa le realtà presenti ed instanti che l’urgono dappresso. In tale acutissimo sentirsi «in situazione» consiste quello che chiameremo, con qualche approssimazione, l’immanentismo allegresco. Nel primo caso «essenzialità» significa purificazione dal concreto e dal determinato spazio-temporale. La parola è pura in ciò, che non la racchiudono confini distin-

87 ti; e il «bianco» diviene il luogo di espansione e di propagazione dello sfumato mormorìo che da essa procede. Lo strumento linguistico cui ilpoeta fa ricorso in proposito è la metafora, in tutte le sue forme. Nel secondo si verifica invece*‘éna marcata concentrazione verbale: l’essenzialità che ne segue ha perciò il carattere d’una vera e propria rigenerazione semantica, resa possibile da un atteggiamento meno edonistico, più assorto e pensoso, e più sensitivo che sensuale. Siffatto incremento della tensione conoscitiva è spesso segnato da un uso singolarmente intenso della similitudine, nonché delle componenti del linguaggio deputate a esprimere fattori di deissi (aggettivi e pronomi dimostrativi, possessivi, avverbi e di tempo e luogo, pronomi personali). La distinzione di due diversi registri nell’A/legria (s’intenda: nel cuore dell’Al//egria, a prescindere dalle due fasi di trapasso rappresentate da Ultime e Prime) comporta varie conseguenze in sede di giudizio storico sull’opera di Ungaretti. Innanzi tutto appare chiaro che è il filone immanentistico a caratterizzare la prima stagione ungarettiana, sia per la sua preminenza quantitativa, sia per il superiore vigore poetico. La vena simbolistica, che tende a farsi luce soprattutto nelle sezioni successive al Porto Sepolto (Naufragi e Girovago) prevale sia nell’ispirazione di Sentimento del Tempo, sia nello spirito con il quale Ungaretti corregge la prima raccolta. Se in generale l’evoluzione dell’opera ungarettiana tende a descrivere, nell’ambito della tradizione lirica che fa ca-

po a Baudelaire, uno spostamento dall’asse RimbaudApollinaire-avanguardie all’asse Mallarmé-Valéry, 1°A/legria presenta però una ricchezza di suggestioni‘e di proposte che le successive prove di Ungaretti sono lungi dall’esaurire.

88 La riscoperta dell’essenzialità della parola è un fenomeno che interessa larga parte delle esperienze seguenti, non solo quella linea ermetica di cui Ungaretti stesso fu, con Sentimento del Tempo, l’indiscusso capostipite. Secondo Luciano Anceschi, nella lirica contem-

poranea il simbolo si istituisce in due principali modi: come «allusione analogica» e come «oggettività emblematica». Ebbene, l’A/legria svolge un ruolo decisivo rispetto a entrambi (non solo rispetto al primo, come vorrebbe lo stesso Anceschi): in quanto individuazione di un oggetto e arresto su di esso, l'isolamento ungarettiano della parola contribuisce infatti in maniera decisiva a quel processo di concentrazione simbolica da cui scaturiranno gli emblemi di Montale. La via della musicalità allusiva e del rinvio di significati (così come la ripresa massiccia di moduli dannunziani) è invece imboccata decisamente da Ungaretti con il Sentimento. Ma il Sentimento appunto, come la lirica ermetica in generale, non sviluppa se non una parte della suggestioni stilistiche dell’A/legria. In altri termini, mentre occorre da un lato insistere

sull’importanza fondamentale che l’Allegria ha avuto per la lirica del nostro secolo, dall’altro è bene sottolineare i motivi di discontinuità fra il primo e il secondo Ungaretti: non tanto per esaltare l’uno a scapito dell’altro, quanto per rilevare fra i due l’esistenza di al-

cune opzioni precise, necessarie in sé, ma per nulla scontate e pacifiche quanto al loro effettivo indirizzo. Erra chi vede un processo lineare e continuo fra il sillabato allegresco e i più diffusi metri successivi: primo, perché tende a ridurre l’insegnamento dell’A/legria a prefigurazione dell’Ungaretti ermetico; secondo, perché disconosce la portata dell’operazione che con l’Allegria

89 Ungaretti compie quanto all’aspetto conoscitivo del linguaggio lirico. Su questo punto conviene soffermarsi un poco, anticipando qualche conclusione. L’immanentismo dell’ Allegria — ovverossia la ricerca dell’essenziàfità della parola in una situazione concretamente presente e determinata — costituisce la formulazione più rigorosa di un atteggiamento dell’io verso la realtà inteso a risolvere la separazione fra soggettività e oggettività attraverso un atto di pura intuizione. La parola è lo strumento con il quale l’io individua immediatamente

un elemento

della realtà esterna, hic et nunc,

facendone così un mezzo per auto-riconoscersi: fine supremo, l’identificazione dell’io stesso in un oggetto entro un quadro di universale armonia. Di contro all’ambiguo oggettivismo di Pascoli e al cattivo soggettivismo di D'Annunzio, in Ungaretti il rapporto soggetto-oggetto è posto, al di fuori di ogni semplificazione mistificante o elusiva — cioè senza che uno dei due termini sia indebitamente abolito. La soluzione che egli avanza, più per istinto che per via d’analisi — è questo l’unico caso in cui il suo «animus retorico» (Antonielli)

indovina un primum non formale — consiste in un tentativo di identificazione immediata dei due poli, in un regime di duplice assenza di mediazione: sul piano concettuale, per il ricorso all’intuizione, e sul piano linguistico, per la scelta della parola isolata e la supremazia assegnata al verbum sull’oratio. La rilevanza storica di questa proposta è evidente. Altrettanto evidenti dovrebbero essere due corollari: primo, che la salvezza affidata al nome è per sua natura effimera, e destinata a esaurirsi nell’attimo stesso in cui il nome viene pronunciato; secondo, che tale procedura

esclude comunque la possibilità di sviluppi ulteriori, e

90 perciò rimanda a una serie di scelte. Ungaretti, esperita fino in fondo la ricerca di un assoluto nell’immanenza,

rinuncerà all’immanenza e ricercherà un assoluto attraverso la memoria, in una dimensione mitica di figurazioni senza tempo, estranee per natura alla contingenza del reale. $2.

Unasimilitudine e molte metafore Prendiamo

in esame, a titolo di campioni, due testi

del Porto Sepolto. Il primo è La notte bella, datato Devetachi il 24 agosto 1916: Quale canto s’è levato stanotte che intesse di cristallina eco del cuore le stelle

Quale festa sorgiva di cuore a nozze Sono stato uno stagno di buio Ora mordo come un bambino la mammella

lo spazio Ora sono ubriaco d’universo

(Tutte le poesie, p. 48)

I tredici versi sono suddivisi in cinque gruppi, ciascuno comprendente un periodo. Solo il primo e il quarto contengono una proposizione subordinata: rispettivamente, una relativa completa e una comparativa

SI

ellittica del predicato. Ellissi analoga nel secondo periodo; in ambedue i casi, la giustificazione risiede nell’op-

portunità di non ripetere lo stesso verbo. Il testo presenta una notevole simmetria: alle due domande iniziali corrispondono due affermazioni conclusive, e il parallelismo è sottolineato dalle due epanafore. Si riscontra anche una certa propensione all’effetto-eco nelle riprese anaforiche (l’apertura vocalica si riduce in entrambi i casi di un grado): Quale cànto... Quale fèsta, Ora mòrdo... Ora sono. Inoltre si ha una coincidenza di tempi: il passato prossimo del v. 1 indica l’inizio istantaneo di un’azione che ancora

dura, come

conferma

il presente

della subordinata (s’è levato, intesse); non così per il sono stato del periodo centrale, contrapposto a Ora, e

quindi riferito a un passato reale, a un momento effettivamente trascorso. Si crea in tal modo una sorta di struttura a V: dalle domande iniziali, poste nel presente,

si passa alla rievocazione di uno stato soggettivo passato, e- di qui alla pseudo-azione mordo... lo spazio, di nuovo presente. (Si noti che anche nella prima parte si allude al soggetto, tramite il sostantivo cuore, sebbene solo il successivo ripiegamento generi completa attualizzazione). Tutto il componimento inclina verso l’estatico finale, che prende slancio dal punto più basso (buio, l’unica u fra tante toniche aperte), per poi risolvere nell’ebbrezza panica la sospensione dei primi versi. L’estasi è raffigurata attraverso una specie di dilatazione all’infinito dell’elemento liquido (e dell’oscurità). All’estrema semplicità della sintassi fa riscontro un lessico costantemente

metaforico,

dal primo all’ultimo

verso. Si consideri l’inizio (l’unica sezione in cui si potrebbe ravvisare un abbozzo di strofe, una quartina ad assonanze alterne di versi lunghi e ternari). Canto va

92 inteso in senso letterale; ma' i versi che seguono presentano una struttura metaforica densissima, divisibile in due sintagmi: un canto intesse le stelle — di cristallina eco del cuore. L'immagine a cui il poeta allude è abbastanza chiara: la luce delle stelle sembra sorgere (0 rav-

vivarsi) grazie all’inopinato suono di una voce ignota, che esprime e/o ispira un improvviso, gioioso moto di beatitudine, di cui gli astri paiono perciò riflesso. Un’interpretazione leggermente diversa, ma solo parzialmente

alternativa,

potrebbe

invece

ravvisare

nella

voce la causa, se non proprio del risveglio del poeta, del suo sollevare lo sguardo verso l’alto: riscosso da quell’inatteso canto notturno, egli s’accorge improvvisamente del cielo stellato. Identiche comunque le conseguenze emotive, cioè l’impulso d’affetti che induce a godere dell’aspetto dolcemente benigno di una natura infinitamente limpida e materna. Intessere è forse suggerito dalla logora locuzione «cielo trapunto di stelle», così risorta a nuova vita. Eco del cuore rientra in quelle che Marcel Raymond ha battezzato, da un titolo di Maeterlinck, «immagini di serra

calda», cioè locuzioni metaforiche preposizionali formate da due sostantivi connessi dalla particella di. Si tratta di uno stilema caro ai simbolisti, che nell’ Allegria ricorre di frequente. In questo stesso testo si trovano stagno di buio al v. 8 e (più complesso, con due nessi prepositivi) festa di cuore a nozze (vv. 5-6). L'aggettivo sinestetico cristallina, sebbene riferito a eco (secondo l’usata condensazione suono-vista) connette idealmente i due sintagmi, giacché è legato a stelle dalla connotazione di «trasparenza, luminosità»: tanto che nelle «stelle intessute di eco cristallina» si può riconoscere una sorta di ipallage. Nei rimanenti versi, oltre al traslato mordo...

93 lo spazio, in cui è incastonata l’analogia esplicita del v. 10 (come un bambino la mammella), sono da notare l’identificazione pura sono stato / uno stagno di buio (vv.7--8) e il genitivo metaforico ubriaco / d’universo (vv. 12-13), retto” ‘da un attributo inteso di per sé in senso abbastanza lato. Dunque, in questa breve lirica è raccolta un’estesa campionatura di costruzioni metaforiche, applicate a nomi, aggettivi e verbi; sostituzioni, identificazioni, locuzioni

prepositive,

similitudini,

sinestesie,

con

una

spiccata tendenza a concentrare diversi tipi in un solo, elementare periodo (soltanto il distico finale non presenta complessità). L’unico deficit è dato dalla metafora appositiva: ma il tessuto ritmico del componimento non sopporterebbe la pausazione, l’indugio definitorio che l'apposizione richiede; non ne rifiuta insomma l’indole evocativa, quanto piuttosto la staticità. Prima di passare oltre, è opportuno dare un’occhiata alle precedenti stesure. Basterà prendere in esame la versione del ’19 (quasi identica a quella originaria del Mi): Quale canto s’è levato stanotte che intesse di cristallina eco del cuore l'illuminazione del cielo?

Quale festa sorgiva di cuore a nozze?

D'ora in poi confidenziale mi genera ogni attimo d’universo

94 Sono stato

uno stagno di buio

Comparso allo spazio l’ho morso come un neonato la mammella Ora sono delicato Sono ubriaco d’universo

Col mare mi sono fatto una bara di freschezza

(L’Allegria, pp. 151-51)

La maggior parte delle correzioni, come si vede, consistono in tagli. L'intera quartina finale, più la parola universo, viene a costituire una lirica a sé (Universo ap-

punto), anch'essa datata 24 agosto 1916 (e andrà sottolineata, per inciso, la stretta connessione

funzionale

ti-

tolo-testo). Drastica l’espunzione dei vv. 14 e 18. Inoltre si notano due sostituzioni (illuminazione del cielo > stelle e neonato > bambino), e lievi ritocchi metrici (bipartizione del v. 19, fusione dei vv. 12-13). Le acquisi-

zioni estetiche così ottenute sono indubbie e notevoli. La versione originaria appare al confronto copiosa e dispersiva: troppi particolari, troppi indugi, come l’ingombrante v. 4, o l’effusione quasi narrativa con cui sono descritti il sorgere e il conclusivo imporsi del senso di beatitudine (vv. 7-10 e 14-23). Paradigma eloquente dei criteri che hanno ispirato la revisione del testo sono i vv.

95 14-17. La stesura primitiva procede adagio, per gradi; distingue addirittura tre fasi diverse, lentamente scandite — l’apparizione, l’azione, la pausata similitudine che questa a posteriori suggerisce. Nella versione finale, invece, è scomparso ogni riferimento a un processo graduale di nascita (neonato > bambino) e sviluppo: il brano è tutto calato in un presente istantaneo, e l’analogia non subentra come un chiarimento successivo al gesto verbale, ma sgorga compiuta con esso (anzi, sembra che proprio la voracità dell'immagine generi l’oggetto iperbolico dell’azione). Ma se la poesia del ’19 appare meno riuscita della succedanea non sarebbe tuttavia corretto considerarla alla stregua di una semplice brutta copia di quest’ultima. In realtà l’atmosfera subisce un mutamento abbastanza profondo: l’«ubriachezza» che leggiamo 0ggi è un vero e proprio rapimento, un’improvvisa e travolgente rivelazione dell’armonia universale che suscita un

intenso

moto

d’entusiasmo;

quella del

aveva un che di languido, di smussato confidenziale),

e certo

durava

meno:

’19 invece

(cfr. delicato, subito

infatti

la

soppiantava un disfatto abbandono, a mezza strada fra la pienezza vitale e il nulla, mistione ambigua di sicurezza prenatale e di requie post mortem: «Col mare / mi sono fatto / una bara / di freschezza». Consideriamo ora un secondo e più famoso specimine del Porto, Sono una creatura Quattro il 5 agosto 1916). Anche mina senza contrasto; ma anziché teplicità di costrutti metaforici, in

(Valloncello di Cima qui l’analogia predoin una variegata mol-

questo caso si manife-

sta attraverso un’unica, insistita similitudine che abbrac-

cia quasi l’intero componimento (sfugge solo la breve terzina finale, sia per il tono gnomico, sia per il ritmo, da cadenzato anapesto). L'abolizione dei verbi, fatta ec-

96 cezione per un’unica solenne imputazione di esistenza (è), esalta drammaticamente

la fenomenologia

dell’og-

getto, fino alla conclusione, che stringe i due termini di paragone (pietra / pianto) in un forte nesso paronomastico. La lirica si gioca in massima parte sullo sviluppo del secondo termine (prolettico, poi ripetuto al v. 9): dopo la scansione martellata dei primi bisillabi (Come quésta piètra), che suggerisce fin dal primo verso una lettura «lenta e accanita» (Fortini), forti accenti cadono

ripetutamente sull’avverbio così, del quale viene in tal modo esaltato il duplice valore di correlativo e di modalizzatore. Come questa pietra del S. Michele così fredda così dura

così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata

Come questa pietra è il mio pianto che non si vede La morte

si sconta vivendo

(Tutte le poesie, p. 41)

Una gradazione sapiente governa la sequenza degli epiteti. Nel passaggio da così fredda a così dura è implicita un’intensificazione del contatto fisico: per accorgersi che un oggetto è freddo basta sfiorarlo, ma per sa-

97 pere se è duro occorre premerlo. E, come se tale pressione potesse accentuarsi fino al punto di strizzare la roccia, di questa si scopre l’aridità: non semplice assenza d’acqua, ma prosciugamento, estrazione brutale

dell’elemento Hqliido che equivale a una perdita di soffio vitale, alla morte per dissanguamento. Questa condizione di non-vita viene raffigurata poi quasi fosse prodotto (anche) di un’ostinata inerzia, di un’ermetica chiu-

sura su di sé: l’esatto contrario della pienezza di vita, che per Ungaretti si esprime in un indefinito superamento dei limiti dell’io. E si noti la progressione ritmico-timbrica: dopo i quadrisillabi prosciugata e refrattaria, l'incremento di asperità è confermato dalla posticipazione dell’ultimo aggettivo della serie, che segue un sordo avverbio (anch’esso quadrisillabo) ed un fortissimo enjambement. Con totalmente / disanimata, la lirica raggiunge il climax; alla ripresa del primo verso la similitudine si risolve con l’esplicitazione del soggetto. «Il mio pianto è come la pietra» condensa il più stridente e sofferto contrasto che l’universo simbolico ungarettiano sappia esprimere. Non è il caso di ripercorrere il lungo elenco di immagini di pietrificazione che inizia con la plaquette udinese del °16 e si spinge fino all’estrema prova, L’impietrito e il velluto, scritta la notte di San

Silvestro del

1969.

Basterà ripetere l’indimenticabile

finale di Tutto ho perduto (1937) del Dolore: Disperazione che incessante aumenta La vita non mi è più, Arrestata in fondo alla gola, Che una roccia di gridi. (Tutte le poesie, p. 201)

98

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Il testo presenta dunque una struttura rigorosamente lineare: un unico motivo, espresso in un semplicissimo periodo e tutto raccolto entro il giro di una comparazione, cui fa seguito solo l’eco interiore della clausola.

Il contrasto fra le due poesie esaminate non potrebbe essere più radicale. Nella prima non compaiono o quasi realtà concrete e presenti. La referenza che può vantare il maggior grado di attualità concerne le stelle del v. 4, che però sono immerse in una fitta trama di metafore; e se è legittimo figurarsi effettivamente un cielo sereno e stellato (notte bella, cristallina eco), tuttavia nella fatti-

specie potrebbero valere anche come metonimia di «spazio». In modo analogo, non si allude a precisi avvenimenti esterni: il canto di apertura, sia pure inteso nel

senso letterale, subito perde consistenza correlandosi a una vaghissima festa sorgiva / di cuore a nozze. Insomma,

il tema

della

lirica —

l’indicazione

di uno

stato

d’animo che subentra improvviso ad un altro, precedente e opposto — si svolge attraverso una vertiginosa sequenza di costrutti metaforici che dissolvono completamente i confini delle cose: non compaiono oggetti, quanto allusioni a entità astratte, o indeterminate e lontane, poste a una distanza «assoluta» perché, essenzial-

mente, linguistica. Sebbene l’aspetto complessivo del testo risulti tipicamente ungarettiano (per il tono sensuale ed assorto, per la nettezza del dettato e della scan-

sione), non v’è dubbio che il poeta si avvalga qui largamente della lezione simbolista, e soprattutto dell’esem-

pio-principe di Mallarmé: distacco dalla concretezza, alchimia della parola, predilezione per il vago, l’allusivo, l’in(de)finito.

Nulla di tutto questo in Sono una creatura. Se il fine espressivo, come sempre nell’A/legria, rimane quello di

99 dar voce ad un moto dell’animo, a un modo di essere della coscienza di fronte alla realtà, il procedimento scelto è pressoché opposto. L'attenzione dell’io poetico si concentra tutta su un oggetto singolo, concreto, contingente, che eglitenta con ogni mezzo di circoscrivere, cioè — etimologicamente — di definire: e lo svolgimento del testo non consiste in altro che nell’esplicarsi di tale sforzo. Al culmine della tensione così generata si produce

lo scatto

lirico,

grazie

all’identificazione

tra

un

frammento di materia e l’invisibile piangere dell’ «uomo di pena».

In altri

termini,

il sentimento

individuale,

proiettandosi sulla realtà e chiamandola a fungere da proprio tramite comunicativo, non ne cancella i contor, non pretende di ridurla al ruolo di mera cassa armonica, ma ne esalta proprio il carattere determinato, immergendosi interamente nell’hic et nunc. Presupposto fondamentale di simile operazione è il riconoscimento dell’autonomia e della rilevanza del reale, presente e concreto, rispetto al desiderio di fuga nel sogno o nell’ebbrezza dei sensi. Qua

e

là, nel

Porto

Sepolto,

si delinea

anche

un’antitesi figurale tra i due poli della gravità e dell’ékstasis: come nel manierato ossimoro di Malinconia (vv. 8-9: «Abbandono dolce di corpi / pesanti d’amaro») o con epigrammatica eleganza, nelle due strofette di Peso:

Quel contadino si affida alla medaglia di Sant’ Antonio e va leggero

100 Ma ben sola e ben nuda senza miraggio porto la mia anima. (Tutte le poesie, p. 34)

E soprattutto in Fase d’Oriente, dove un senso languido di fusione nel tutto svanisce d’improvviso, a contatto con una realtà che si riscopre ostile, urgente, inevadibile:

Nel molle giro di un sorriso ci sentiamo legare da un turbine di germogli di desiderio Ci vendemmia il sole

Chiudiamo gli occhi per vedere nuotare in un lago infinite promesse Ci rinveniamo a marcare la terra con questo corpo che ora troppo ci pesa (Tutte le poesie, p. 27)

Il doppio movimento della poesia — estasi e risveglio, effuso godimento e dolorosa contrazione — è sotto-

lineato dalla commutazione timbrica: alla partitura sonora della prima terzina subentra nell’ultima un’insistita allitterazione di /r/e /kK/ (e in genere, un martellìo di occlusive sorde).

101

$3.

Il Naviglio, «fiume» mancato

Volgiamoci ora brevemente agli antefatti dell’A/legria, ossia agli esperimenti poetici apparsi su «Lacer-

ba» nel 1915. Geîto Ungaretti nonè diventato un grande poeta per caso; ma è difficile negare che, giunta l’ora sua, lo divenne quasi di colpo, bruciando le tappe. I suoi esordi pullulano di suggestioni disparate, mal conciliabili fra loro. Privo ancora di un timbro suo, il poeta saggia varie strade alla ricerca di un’identità stilistica. Quindi i diversi toni e modi: l’audacia futuristica, l’intenerimento crepuscolare, un’ironia ora languida ora beffarda, il ghiribizzo palazzeschiano. Molti di questi incontreranno precoci ripudi; ma occorre subito rilevare che siffatto eclettico sperimentalismo denuncia già di per

sé l’individuazione

di un

modello,

naturalmente

l’Apollinaire di A/cools. Più in particolare, Luciano Rebay ha riscontrato persuasive analogie tra Sbadiglio (l’opera di maggior peso e pregio dell’Ungaretti preallegresco) e il capostipite dei poèmes-conversation di Apollinaire, Zone: i versi lunghi, le cadenze prosastiche, la tecnica compositiva «cinematografica», con effetti di simultaneità e rapidi trapassi da un'immagine all’altra; il clima psicologico di rilassamento, torpore, abbandono alle fantasticherie e al ricordo; lo svolgimento generale del testo, con l’insorgere di un caleidoscopio di visioni tra due momenti di noia, dal desiderio di sfogo iniziale

all’estenuazione conclusiva. La poesia è scritta e ambientata a Milano, dove Ungaretti soggiorna qualche tempo prima di partire per il fronte (ed è curioso notare che il Naviglio verrà menzionato anche in un abbozzo dei Fiumi).

102 A chi regalare un gocciolo di pianto d’infingarda umanità Fa sereno quanta gente attorno La luna piena Il cielo mette il livido delle stoviglie di smalto dei calamai agli occhi degli adolescenti la litania ai numeri degli usci serrati che seguo per accompagnarmi Cencio buttato nel Naviglio Alla mercé della vita Le case si schivano

per non disturbarmi filo d’afa al collo Occhi di odalische a zonzo coll’ombrellino

calmati dalle palpebre bistrate dal sapore di panna vainiglia di titillo alabastrino di mussoline beduini caligine si dirada nel cielo unico confine della desolazione Tramvai

Eliopoli sfuma Milano Com'è immobile l’aria

Anche questa notte passerà Passerà Questa vita in giro titubante ombra dei fili tramviari sulla siccità del nebuloso asfalto

103 Luna gioviale perché s’è scomodata Guardo i faccioni dei brumisti tentennare Sono stanco

ehe

9,

Babau insinuato nella stanza

Mi comprimo in te mi abbandono il sonno arriva così prudente a portarmi un po’ via mi riprenderò più in là

(L’Allegria, pp. 190-91)

Nell’Allegria, come abbiamo si rapporta all’altro da sé in due e accusata determinazione della immersione in un’atmosfera di suale. Evidentemente Sbadiglio

visto, il soggetto lirico differenti modi: precisa realtà presente, ovvero vaga indefinitezza sennon è riducibile a nes-

suno di questi casi, ma, da un certo punto di vista, co-

stituisce la matrice di entrambi. L’io risulta saldamente accampato al centro della trama poetica: come in tutti i casi di /yrisme-ambiant, è pertinente il richiamo a quella che Hugo Friedrich ha chiamato «fantasia dittatoriale». L’ordine naturale della realtà è sconvolto; il poeta inventa nuovi legami fra le cose, abolisce i vecchi, deforma, cancella, ricrea. Non c’è limite al suo potere di sov-

vertire le apparenze: il mondo esterno, forzato a svelare le verità nuove che si vogliono nascoste sotto la crosta della normalità, si risolve in un turbinìo di immagini fantastiche, di gesti sorprendenti, di inusitate visioni: in cui tuttavia trovano posto situazioni e cose comuni, fa-

104 miliari, designati semplicemiente, con spoglia immediatezza. Secondo i termini usati da Solmi per Apollinaire, il discorso poetico si gioca su due distinti livelli di realtà: un «piano realistico, documentario, circostanziato», e

un «piano complesso di correlazioni metaforiche e mitiche». Tutto ciò poggia su un fondamentale presupposto, il predominio della fantasia creatrice, il distacco fra soggettività e oggettività: l’io che parla non solo è al centro della situazione,

ma

in assoluto

si trova su un

piano superiore. La sua parola smuove gli edifici, fa rinascere l'Egitto, il deserto, i beduini; non diversamente,

il poeta di Zone

si sposta fulmineo

da Marsiglia a

Coblenza a Amsterdam, vede Gesù Cristo nei panni d’un

pilota, forgia lungo la Senna irrequiete greggi di ponti: «Bergère 6 Tour Eiffel / le troupeau des ponts bèle ce matin». Con la guerra le cose mutano profondamente; Ungaretti trova la sua vera voce nell’aderenza al vissuto. Lo spazio che separava il soggetto poetico dalla realtà esterna, consentendogli di guardarla dall’alto e di rimanipolarla secondo il suo capriccio, è scomparso di colpo. Il non-io preme, opprime, sovrasta: se non schiaccia con il suo peso, sgomenta per il suo vuoto. Dato ineluttabile il contatto diretto, la contingenza. A questo punto l’alternativa è radicale: o porsi risolutamente dal lato dell’oggetto, che diverrà allora questo oggetto, questo e qui: o rinunciarvi del tutto, ricercando maggior libertà espressiva nell’indeterminatezza. Scegliere per l’alchimia verbale implica porre la realtà immediata fra parentesi, dissimularla,

sospenderla;

aderire alle cose

si-

gnifica invece limitare la creatività della parola alla riscoperta del suo valore semantico primario. Images de serre chaude, o sillabazione di parole ingenue: se Sba-

105 diglio era un sogno fatto di cose, ora sogni e cose debbono scindersi. La spola fra gli uni e le altre è la storia del Porto Sepolto: da una parte estasi intense ma effimere, e minacciate da amari disinganni, dall’altra la sofferenza acuta dell’«esserci». Per questa seconda via,

Ungaretti approderà a una matura coscienza di sé. / fiumi costituiranno il culmine di una lunga serie di tentativi di sentirsi in armonia con una realtà dura ed estranea. Ciò che viene meno nel Porto Sepolto non è insomma la duplicità di piani, bensì la volontà di fonderli in un medesimo discorso; o meglio, viene abolito — sospeso — il discorso che dovrebbe presiedere alla loro fusione, e gestirne lo svolgimento lirico. La causa scatenante è ovviamente d’ordine biografico: la necessità di adeguare la lingua della lirica alla condizione esistenziale della trincea.

Questo

nuovo,

inatteso,

incredibilmente

disumano stato esige un radicale mutamento espressivo. Con risolutezza, Ungaretti abbandona il discorso per ricercare la parola nella sua primitiva essenzialità. Dallo smembramento di un discorso a due facce era però inevitabile nascesse un bicipite verbum: che per un verso risale ad una delle ascendenze dello stesso Apollinaire (la koiné simbolista), e per l’altro scopre una capacità intensissima di aderire alla determinatezza del reale. Non di meno, // Porto Sepolto presenta nell’insieme una straordinaria compattezza stilistica. Questo è dovuto alla ben nota rivoluzione metrica ungarettiana, che sug-

gerisce una nuova maniera di pronunciare — di eseguire — il testo. Si potrebbe dire, con qualche approssimazione, che il tessuto connettivo del discorso viene soppiantato dal codice binario dell’alternanza voce / silenzio. E l’uso enfatico delle pause si traduce in una forzatura espressionistica

di

vocaboli

non

(necessariamente)

106 espressionistici: trasferisce la carica espressionistica dal piano del lessico a quello del metro, o se si vuole — data la forte dimensione teatrale della poesia ungarettiana — dall’elocutio all’actio. Di qui la perentorietà, l’incisività, la forza della poesia del Porto, di contro alla relativa svagatezza e gratuità di Sbadiglio (e di tutti i componimenti milanesi e lacerbiani). Un altro elemento merita poi un certo rilievo. Dal Porto Sepolto in poi (cioè fino a Prime escluse) ogni poesia reca il giorno e il luogo della composizione. Di più: in origine tali indicazioni erano situate addirittura dopo il testo, non prima. Può apparire una minuzia; ma Ungaretti è poeta attento come nessun altro ai valori fonici, e passerà tutta la vita a (ri-)auscultare la lunghezza d’ogni pausa, la scansione d’ogni verso, il timbro d’ogni sillaba (a tacere degli esperimenti «calligrammatici» di P-L-M, condotti proprio negli anni di Allegria di Naufragi): lo spostamento della data implica dunque anche un cambiamento di accento, di pronuncia. Insediata alla fine del testo, la data lo conchiude, lo suggella: costitui-

sce una sorta di ormeggio che, qualunque sia il tono dell’ultimo rigo, lo riàncora con forza alla contingenza. Né per questo lo spazio libero della pagina sottostante perde la sua funzione di cassa sonora: anzi, così esprime in modo ancor più chiaro il carattere del «bianco» ungarettiano, un silenzio solenne dal quale la parola — nitida, improvvisa — emerge: non un enigmatico vuoto nel quale la voce impercettibilmente sfumi e si confonda (come nel sussurrìo sommesso di Mallarmé). Con la data in clausola, nulla resta sospeso a mezz'aria: perfino Mattina non è un semplice «M?°illumino / d’immenso», bensì un «M’illumino / d’immenso» seguito da tanto di «Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917»: non perciò

|

meno

wvwvwvMo-E-

107

ETRE

rarefatto, ma

certo

propria rarefazione quanto sionalità dell’origine.

tanto più consapevole

meglio 23

della

ne risalta l’occa-

dere

$ 4.

Una contingenza provvisoria

Nell’Allegria si svolge un’implicita (e forse non del tutto consapevole) dialettica fra due diverse attitudini che l’io poetico assume nei confronti della realtà: l'una intesa ad accentuare il carattere contingente e determinato della situazione attuale, l’altra ad eluderlo. Si noti

che l’attualità è propria di tutta l’Allegria, e la distingue in blocco rispetto al Sentimento o alla Terra Promessa: ciò che conta è la qualificazione di tale attualità, che può dar luogo a un reale concretamente definito in ordine al tempo e allo spazio, ovvero a una sorta di presente assoluto, astratto ed in potenza mitico. Ora, in linea di principio questa distinzione non riguarda il contenuto sentimentale del testo: da un lato la fatica, il dolore, l’angoscia della vita in trincea, dall’altro i momenti di tregua e di felice abbandono nel materno grembo della natura. Non riguarda cioè due serie di stati d’animo — le «sistoli» e le «diastoli» dell’io (Cam-

bon) — quanto due procedimenti stilistici. Tuttavia, dato il carattere eccezionalmente drammatico della situazione in cui Ungaretti scrive il Porto, di solito godimento e serenità subentrano quando nell’animo del poeta prevale un senso di distacco dalla materialità e dalla contingenza. E viceversa: la diretta adesione all'immediata realtà ravviva innanzi tutto la coscienza della precarietà dell’esistere. Non di rado l’espressione della disarmonia, dell’estraneità, della frustrazione è affidata ai moduli sim-

108 bolistici. Così A riposo, scritta lo stesso giorno di Fase

d’oriente (Versa, il 27 aprile 1916), presenta — sia pure a tinte più sfumate — un analogo ripiegamento su di sé: prima una fantasticheria distesa, svagata, placidamente e

voluttuosamente contemplativa, poi il risveglio doloroso a una realtà dalla quale occorre difendersi. Qui però il contrasto fra due stati d’animo non produce alcun mutamento di registro: anche nella «sistole» conclusiva predominano

i costrutti

metaforizzanti,

senza

richiami

alla fisicità o alla determinazione spazio-temporale: Chi mi accompagnerà per campi Il sole si semina in diamanti

di gocciole d’acqua sull’erba flessuosa Resto docile all’inclinazione dell’universo sereno

Si dilatano le montagne in sorsi d’ombra lilla e vogano col cielo Su alla volta lieve l’incanto s’è troncato

E piombo in me E m’oscuro in un mio nido

(Tutte le poesie, p. 26)

Questo ovviamente non comporta un giudizio estetico negativo sulla conclusione del testo. Se qualche incertezza si avverte, è soprattutto per via dell’iterazione

109 di E, che dilata i tempi attenuando l’incisività dell’immagine; è questo uno dei casi in cui la variante definiti-

va non dà del tutto ragione a Ungaretti, poiché nella redazione originaria. il finale suonava «e piombo in me // Mi oscuro in uffîio nido». Proprio la soppressione di una e iniziale risulta invece assai redditizia in Solitudine, che approda a uno svolgimento perentorio, perfettamente verticale: «Ma le mie urla / feriscono / come fulmini / la campana fioca del cielo // Sprofondano impaurite» («E sprofondano» fino al 1931). «I all alone beweep my outcast state, / and trouble deaf heaven with my bootless cries», come recita un sonetto shakespeariano, il XXIX, che Ungaretti non mancherà di tradurre. Il caso opposto e complementare — «diastole» dell’io entro un definito hic et nunc — è decisamente più raro. Però coincide con il vertice auto-conoscitivo della raccolta: / fiumi. Questo è l’Isonzo e qui meglio mi sono riconosciuto una docile fibra dell’universo

In un saggio del ’56, imperniato appunto sull’analisi dei Fiumi, Sanguineti ha insistito sull’importanza dei dimostrativi, strumenti privilegiati di «presentificazione» dell’oggetto. Più in generale, Macrì ha chiamato in causa il concetto linguistico di deissi, eletto al rango di «puntuale segnaletica di una guerriglia con l'assoluto implorato». È qui che l’esperienza dell’Ungaretti allegresco può con ragione fregiarsi della qualifica, coniata da Andrea Zanzotto, di «conquista del dire»: un dire che

110 - risalendo i meandri dell’etimologia — è veramente dicere nel senso di «indicare, segnare a dito» (index, digitus), cioè deiknynai — donde, appunto, deixis.

I fiumi segnano un vertice: un centro. Che però non è affatto un punto d’arrivo. Non tanto rispetto al Porto del "16, quanto nel contesto di una raccolta più lunga e articolata, quali saranno sia Allegria di Naufragi sia L’allegria, nelle sue varie redazioni. In verità, fra la se-

zione Il Porto Sepolto e Naufragi/Girovago si registra un mutamento di tono abbastanza sensibile, che tende a configurarsi come passaggio da un tipo di essenzialità verbale all’altro. L’immanentismo predomina durante la stagione carsica, segnando un decisivo distacco dalle ancora immature esperienze futuristico-lacerbiane; il re-

gistro simbolistico risulta meno rilevante, e incapace di produrre un climax auto-conoscitivo paragonabile ai Fiumi. Poi questa situazione si capovolge. La contingenza si stempera; il «qui e ora» diviene astratto, sfumato. Domina, sempre, il presente; ma altro è un presente determinato da una fitta trama di coordinate spazio-temporali, e altro l’attualità sospesa e vaga che un manierato flusso di stilemi metaforici rende pressoché impalpabile. Gli stessi dimostrativi attenuano la loro carica designativa: anziché «precipitare» (come è loro natura) sul sostantivo, cioè su una data «sostanza» esterna,

tendono a significare l’azione stessa, un assoluto «dimostrare».

La parola che evoca, la parola «vaga» tende a soppiantare quella che designa — «la parola della pietra» di cui ha parlato (ancora) Zanzotto. Grande allievo dei maestri del decadentismo, Ungaretti non è sordo al fascino della musicalità dannunziana, emula le raffinate evanescenze di Mallarmé, e pare scordarsi delle vigoro-

Ill se suggestioni esistenzialistiche dei mesi precedenti. Più tardi, recisi i legami non solo con l’hic et nunc, ma con lo stesso «io» dominante nelle poesie di guerra, muoverà

verso l’oggettivisitto mitico di Sentimento del Tempo. E — come è stato ampiamente dimostrato — correggerà le poesie della sua prima raccolta secondo il gusto della seconda, cioè riproduce a un livello inferiore di organiz-

zazione del linguaggio (il verbum all’oratio),

realtà:

un medesimo

un astratto ed evocativo

un’astratta

ed evocativa

appunto di contro

atteggiamento oratio,

verbum ambedue

di fronte alla

di contro

a

frutto della

medesima rinuncia alla determinatezza. La «nominazione delle essenze» (Sanguineti) che nei Fiumi o in Sono una creatura si afferma attraverso il gesto verbale che «presentifica» frammenti del reale, tende a farsi irrelata

pronuncia di entità astratte: come recita la clausola di una delle Leggende (Memoria d’Ofelia d’Alba) «emblemi eterni, nomi / evocazioni pure».

$ 5. Poetica della parola, poetica dell’oggetto Possiamo ora avanzare alcune considerazioni sul ruolo dell’opera di Ungaretti nel nostro Novecento letterario. Dove deve essere collocata l’esperienza dell’A/legria nel quadro della poesia novecentesca? Anceschi ragiona in termini di procedimenti simbolici: [...] nella poesia italiana dopo Pascoli i modi di trattare il

simbolo furono prevalentemente due: o il simbolo si è manifestato come una maniera di allusione analogica, di rinvio dei significati in cui la parola si fa mezzo di suggestioni, di incanto, di musica, e allarga la propria forza semantica con gesto rivelatore; oppure come una maniera di forzare gli oggetti, di caricarli intensamente di emozioni, una maniera di servirsi degli oggetti come equivalenti di determinate emozioni, di

112 intensificare e trasportare ad altro ordine i significati attraverso associazioni dirette o indirette, inconscie e ideali.

Allusione analogica e oggettività emblematica formano i due modi più rilevanti in cui si istituisce la parola poetica novecentesca: sono i sistemi operativi di un rinnovamento del linguaggio lirico inteso a dar voce «ad un mutato sentimento generale dell’uomo, ad una mutata

situazione morale». In tale quadro, l’esperienza ungarettiana viene situata su un versante ben preciso, quello dell’analogia: con l’inevitabile conseguenza di instaurare una sorta di opposizione virtuale fra la «poetica della parola» e la «poetica dell’oggetto». Certo, non mancano dichiarazioni di Ungaretti che suffragano questa ipotesi nel modo più esplicito, a cominciare dall’intervista che

G.B. Angioletti curò nel 1929 per l’«Italia Letteraria»: Effetti notevoli si sono ottenuti facendo sì, per esempio, che il senso delle parole non accompagnasse che come un’eco la loro sonorità, o viceversa. Oppure ricorrendo a qualche discordanza di ritmo. La grammatica stessa può offrire il desto a trovate opportune: trapassi bruschi dalla realtà al sogno; uso ambiguo di parole, nel loro senso concreto e astratto; trasporto inopinato d’un soggetto alla funzione di oggetto, e viceversa; scambio costante e fulmineo di proprietà tra le diverse parti del discorso. Non ricordo più chi, uno diceva, e diceva bene,

che la poesia moderna si propone di mettere in contatto ciò che più è distante. Maggiore è la distanza, superiore è la poesia. In breve, uso, e forse abuso, di forme ellittiche (Saggi e interventi, p. 191).

A buon diritto, viste le premesse, Anceschi può così concludere:

113 Con la sua teoria metafisica e tecnica sintattica della e/lissi analogica Ungaretti porta ad una sorta di musicale emblematica con un alto grado di efficacia una tradizione che [...] è stata fin qui delineata come una delle strutture fondamentali della operatività poetica,1di.ciò che chiamiamo ‘lirica del Novecento”, appunto, l’istituto dell’analogia [...] La poetica di Ungaretti è stata la meditazione più intensa, certo, sugli aspetti allusivi e analogici della poesia.

Ma Ungaretti non è tutto qui, e il primo Ungaretti non c’è poi quasi per nulla. Indicazioni in tal senso si ricavano perfino dagli autocommenti. Leggiamo uno stralcio di /nnocenza e memoria, pubblicato sull’«Italiano» di Bologna il 7 ottobre 1926. L’innocenza, abbiamo saputo com°è fatta. Ci è apparsa, e ci ha tenuto sotto le sue ali più grandi, nei rivolgimenti di questi anni. La memoria poteva dirsi abolita. Persino la nozione del tempo era nuova. Il tempo pareva eterno, non per modo di dire. Non ci è stato nascosto l’orrore dell’eternità. Non contava più che l’istinto. Si era in tale dimestichezza con la morte, che il naufragio era senza fine. Non c’era oggetto che non ce lo riflettesse; era la nostra vita, da capo a fondo, l’oggetto qualsiasi sul quale cadeva a caso il nostro sguardo. Non era la nostra, in realtà, vita più che oggettiva, il primo oggetto venuto. Quel concentrarsi nell’attimo d’un oggetto non aveva misura. L’eternità annuvolava l’attimo. L’oggetto s’alzava alle proporzioni d’una figura divina. Non conoscerò più tanta soggezione, né quella libertà ferma, ch’è la vera, d’uno specchio perenne. In quel frangente, ho capito perché il Negro fa gli occhi all’idolo con pezzetti di specchio (Saggi e interventi, pp. 133-34).

Nelle cose

l’io si colloca,

si riflette, si riconosce.

Egli stesso non è più che una cosa, e perciò sa affermare il proprio esistere solo nella parola che con la cosa coin-

114 cide — nel senso esatto di cum + incidere, cioè «cadere sopra» (e, detto di evento non casuale, «gettarsi sopra, precipitarsi verso»). La riscoperta della parola come cellula primitiva del linguaggio, nella sua spoglia e schietta essenzialità, consiste in ultima analisi nella sua

capacità di aderire alle cose formandosi su di esse, costringendole a rapprendersi, a condensarsi, a conglutinarsi fino al punto in cui lo scatto simbolico le trasfigura e le redime. E allora l’aforisma finale di Sono una creatura, lungi dall’esser superfluo, sarà proprio il segno di questa redenzione, della conquista, entro la contingenza, di una verità assoluta. Sono una creatura è appunto il paradigma del connubio allegresco fra poetica della parola e poetica dell’oggetto, nel quale la scansione attentissima d’ogni sillaba e d’ogni silenzio non ha altra funzione che di intensificare la capacità designativa del linguaggio. «Questo, qui, ora» sono i segni d’una proiezione dell’io verso le cose che costituisce l’essenziale presupposto della ricerca di un’identità — giacché quelle cose, adeguatamente individuate e nominate, consentiranno la decisiva

agnizione lirica, «io sono come», «io mi sono riconosciuto in». Se per gli emblemi montaliani è d’uso rifarsi al pensiero critico di Eliot, per Sono una creatura dovremo parlare di confezione in vitro di un «correlativo oggettivo»: Ungaretti ci fa assistere, quasi fase per fase, al procedimento che sintetizza l’oggetto-simbolo, cioè alla concrezione di una «parola» nuova ed essenziale. Merita almeno un cenno una frase di Verso un’arte nuova classica (Prefazione alla seconda edizione del «Porto Sepolto»): «poesia è quella prodigiosa facoltà concessa a taluni uomini di usare gli oggetti del mondo esterno come immanenti specchi della loro vita morale».

DES Anche se si tratta solo di un episodio particolare, con tutto il carattere di accidentalità che (solo sul piano teorico!) gli compete, queste parole non sfigurerebbero troppo accanto alle celebri e citatissime di Hamlet and

his problems:

©"

The only way of expressing emotion in the form of art is by finding and ‘objective correlative’; in other words, a set of objects, a situation, a chain of events which shall be the formula of that particular emotion, such that when the external facts, which must terminate in sensory experience, are given, the emotion is immediately evoked.

Inserire l’esperienza del Porto Sepolto nella linea novecentesca della poesia dell’oggetto equivale in sostanza a rivendicare ad Ungaretti un ruolo di primo piano nella congiuntura Pascoli-Montale, per la quale finora sono state invocate principalmente le mediazioni dei crepuscolari e dei «liguri» — che è come dire, in primo luogo, di Sbarbaro e Gozzano.

Si potrà colmare

in tal

modo (almeno in parte) il divario ideale che separa Ossi di seppia da Myricae, e che appare tanto più cospicuo, quanto più numerosi risultano i riscontri testuali. Le idee di Pascoli sulla poesia sono consegnate alle più note fra le sue prose: il Fanciullino, la Ginestra, il Sabato. Ma per una volta non guasterà citare un breve componimento in versi, di squisita grazia davvero pascoliana, il cui programma è già tutto nel titolo: Contrasto.

Io prendo un po” di silice e di quarzo: lo fondo, aspiro e soffio poi di lena:

116

IS e e

ve’ la fiala, come un dì di azzurra e grigia, torbida e Un cielo io faccio con un e un po’ di fiato: ammira:

eezo]e““

marzo, serena! po’ di rena io son l’artista.

II lo vo per via guardando e riguardando, solo, soletto, muto, a capo chino: prendo un sasso tra mille, a quando a quando lo netto, arroto, taglio, lustro, affino; chi mi sia, non importa: ecco un rubino; vedi un topazio; prendi un’ametista.

Non si saprebbe immaginare più netto distacco dall’Artifex gloriosus dannunziano, dalla poetica delle Stirpi canore e dell’Onda («Musa, cantai le lodi / della mia Strofe Lunga»); e in effetti è notevole che nei due

massimi poeti del decadentismo italiano si sia espressa in modo così radicale — s’intende, soprattutto a livello di

enunciazioni e di programmi — l’opposizione endemica nella cultura post-romantica fra due idee del fare letterario, l’una centrata sul soggetto creatore, l’altra sull’oggetto rappresentato. Pascoli si pone risolutamente sul versante naturalistico; non manca nemmeno un’allusione a un principio di impersonalità («chi mi sia, non importa»). Il poeta non crea, scopre: scopre le cose che sono poetiche in sé. E se le deve

scoprire, è perché sono

comuni,

sì, ma

«particolari»: perciò solo chi le osservi con attenzione assidua può discernerle dal resto. Vedere e udire: altro non deve il poeta. Il poeta è l’arpa che un soffio anima, è la lastra che un raggio dipinge. La poe-

117 sia è nelle cose: un certo etere che si trova, in questa più, in quella meno, in alcune sì, in altre no.

Tale

dottrina (schiettamente. sostanzialistica)

della

poesia come «vistbne del particolare inavvertito» è troppo nota perché occorra insistervi. Conviene invece soffermarsi sulla natura di questo particolare pascoliano; con la premessa, scontata in un clima culturale pregno di (paleo-)positivismo, che se la poesia coincide con alcuni settori specifici e ben delimitati («oggettivi») del mondo, a sua volta il mondo è tutto ciò che è, non tutto ciò

che accade — cioè un insieme di cose e non di fatti. L’oggetto pascoliano presenta dunque principali caratteristiche: a) è determinato, ma di una determinatezza generica: è

determinato solo quanto alla specie (alla famiglia, al genere), vale a dire relativamente a un tabula classificatoria, ma è del tutto privo, in quanto singolo, di una pro-

pria individualità (il fanciullino, che dovrebbe tenere Omero per mano, si direbbe a sua volta guidato da un romagnolo o garfagnino Linneo); b) è estraneo a ogni possibile qualificazione temporale che non riguardi i cicli delle stagioni: nell’universo pascoliano non si danno eventi irripetibili, che sottraggano l’istante all’eterno e omogeneo fluire del tempo: attraverso la metafora del fanciullino, che identifica la poesia con un’emotività elementare e sorgiva («egli è |’Adamo...»), la realtà intera si colloca in uno stato del tutto anteriore alla storia, e perciò ignaro di avvenimenti singoli, cui solo un divenire reale può dar luogo (anche la storia personale, del resto, si riduce al distacco dall’età

privilegiata dell’infanzia, e al tentativo di recuperarla).

118 Si potrebbe anche aggiungere che i «particolari» pascoliani fanno parte tutti dello stesso mondo, paesano e rurale (rubini, topazi e ametiste si trovano per strada solo nelle miniere); ma questo tratto potrebbe opporsi solo al Montale successivo a Ossi di seppia. Sempre, invece, in Montale gli oggetti sono determinati quanto alla specie solo in funzione della loro individuale singolarità; e la loro realtà empirica è pienamente colta solo nella contingenza di un «caso». Così scrive Pietro Bonfiglioli: Il Pascoli non può concepire quella che Montale chiama una «verità puntuale», cioè la verità unica e momentanea dell’evento. Per il Pascoli la verità non si riassume in un 0ggetto, ma è sempre il particolare di una realtà inesauribile, un elemento moltiplicabile per mille altri, ripetibile all’infinito attraverso variazioni minime. Mentre il nome montaliano segna l’individuo, e perciò ha qualcosa di fermo e definitivo, il nome pascoliano indica soltanto la varietà di una specie, il termine di una classificazione minuziosa.

Insomma, mentre i particolari di Pascoli detengono un valore

innato,

una

vis naturale

congenita

(come

le

pietre preziose, appunto), l'oggetto di Montale acquista significato solo nell’evento, per nulla necessario e prestabilito, che ne rivela l’assoluto concentrarsi su di sé, il

radicale coincidere con la propria finitezza: il suo divenire, in quanto esser-ci singolo, «tutta la realtà come attimo, lacerto, fenomeno sciolto fra i disguidi del possi-

bile». Nell'intervallo

fra questi due estremi, il contributo

maggiore di Gozzano oggetti il segno della portante elemento di Sbarbaro sarà di averli

consiste nell’aver impresso sugli storia, aggiungendo così un imindividuazione; mentre quello di resi più ruvidi e aspri, e spogli di

119

paludamenti affettivi. L'intero problema di qualificare la realtà oggettuale sfugge invece del tutto a D'Annunzio, novello e impenitente Re Mida (con quel che segue, nella fiaba e nella morale). In questo panorama, l’esperienza del Porto Sepolto è da ritenersi senza dubbio decisiva. Nessun’altra opera, agli inizi del Novecento, è permeata da un senso così vivo della contingenza, dell’immediatezza, dell’istantaneità. L’effettiva presenza in atto delle cose è percepita con un’intensità straordinaria. Ciò che conta delle cose è che siano queste cose, qui e ora: insistere su altre determinazioni sarebbe inutile e dispersivo. Non le particolarità, ma l’intero in-situazione occorre cogliere (donde la scarsità di epiteti e l'abbondanza di participi), giacché il significato degli oggetti non dipende dalla loro

natura,

ma

dal

loro

essere

qui, dal

loro

esser-ci

nell’istante che racchiude l’intera realtà, perché può essere ogni volta l’ultimo. «Quel concentrarsi nell’attimo d’un oggetto non aveva misura». «L’oggetto s’alzava alle proporzioni d’una figura divina». Un oggetto, è la vita stessa: e l’essere nell’istante si fa parte del divenire, poiché avvertire la propria riduzione a cosa, riconoscersi come essere-cosa nell’universale reificazione è un evento che accade, non un dato naturale puro e semplice. L’uomo che non vuole altro per sé se non rapporti con l’assoluto cerca l’assoluto, in primo luogo, nell’immanenza del reale. Il contributo di Ungaretti alla formazione degli emblemi montaliani è dunque duplice. Se Pascoli, in polemica con la tradizione classicista, aveva posto al centro del suo mondo innumerevoli (e potenzialmente infinite) categorie di oggetti particolari, Ungaretti dà il massimo risalto all’individualità delle cose che nomina, indican-

120 dole con estrema nitidezza non in ragione del loro genere, ma della loro contingente attualità. L'oggetto singolo, così distinto e isolato, è reso capace di sopportare, non malgrado la sua finitezza, bensì proprio grazie ad essa, un decisivo

investimento

simbolico.

In secondo

luogo, se nell’universo pascoliano tutto era ordine e indefinita ripetibilità, in Ungaretti il tempo si contrae, fino alla misura dell’attimo in cui i realia si palesano nel loro singolo emergere all’esistenza: ciò che presuppone quella stessa non-uniformità qualitativa del tempo richiesta dal contingentismo montaliano. Ora, il fulcro della posizione di Ungaretti rinvia sempre alla «parola»: alla parola isolata, staccata da lunghi silenzi, spoglia, primitiva ed essenziale, riscoperta e per di così rivissuta sillaba per sillaba, pausa dopo pausa. Ma l’isolamento della parola, in sé solo, non basta a definire l’operazione che Ungaretti compie con l’Allegria: giacché in secondo luogo occorre pur sempre specificare che cosa venga effettivamente isolato, cioè di quale parola (o di quali parole) si tratta. Il sillabato allegresco contribuisce in modo decisivo all’istituzione del simbolo come oggettività emblematica in quanto la parola utilizza la forza dell’isolamento per potenziare la sua densità semantica: non per suggerire indefinite trame musicali, ma per indicare con maggior decisione una determinata realtà: non per dissolversi in un alone di echi, ma per mettere a fuoco, per intuire l'oggetto. $ 6.

La parola, l’istante, la «durée»

Il pensiero di Bergson viene di solito chiamato in causa a proposito di Sentimento del Tempo e del motivo della memoria, ma l’aspetto che riguarda più da vicino il

121 primo Ungaretti è senza dubbio il concetto di intuizione. L’intuizionismo costituisce il cardine della filosofia bergsoniana: la stessa nozione: di «durata reale», che ne rappresenta permolti versi il motivo più tipico, si caratterizza innanzi tutto come intuizione della durata reale (o meglio, come intuizione del durare della coscienza). Leggiamo dunque le prime righe dell’/ntroduction à la métaphisique, che riassumono con chiarezza la posizione di Bergson circa il problema della conoscenza: Si l’on compare entre elles les définitions de la métaphisique et les conceptions de l’absolu, on s’apergoit que les philosophes s’accordent, en dépit de leurs divergences apparentes, à distinguer deux manières profondément différentes de connaître une chose. La première implique qu’on tourne autour de cette chose; la seconde, qu’on entre en elle. La première dépend du point de vue où l’on se place et des symboles par lesquels on s’exprime. La seconde ne se prend d’aucun point de vue et ne s’appuie sur aucun symbole. De la première connaissance on dira qu'elle s’arréte au re/atif, de la seconde, là où elle est possible, qu’elle atteint l’absolu.

Bergson contrappone il modo di conoscere analitico, proprio dell’intelligenza (che è organo della filosofia positiva) al modo di conoscere sintetico, proprio dell’intuizione e della filosofia. Mentre l’analisi, che rimane estranea all’oggetto, non fa che scomporlo rapportandolo ad altri, senza mai coglierne la vera natura,

l’intuizione è «investigation métaphysique de l’objet dans ce qu’il a d’essentiel et de propre», cioè comprensione dall’interno, semplice, totale e immediata: [...] un absolu ne serait étre donné que dans une intuition, tandis que tout le reste relève de l’analyse. Nous appelons ici intuition la sympathie par laquelle on se transporte è l’in-

122 térieur d’un objet pour coincider avec ce qu’il a d’unique et par conséquent d’inexprimable. [...] Dans son désir éternellement inassouvi d’embrasser l’objet autour duquel elle est condamnée à tourner, l’analyse multiplie sans fin les points de vue pour compléter la représentation toujours incomplète, varie sans relche les symboles pour parfaire la traduction toux jours imparfaite. Elle se continue donc è l’infini. Mais l’intuition, si elle est possible, est un acte simple.

La metafisica stessa consiste in questo «atto semplice» che permette di «possedere una realtà assolutamente anziché conoscerla relativamente». Tale è appunto la poesia per Ungaretti. Poesia è la parola capace di cogliere in maniera immediata, con la sola forza della propria intensità — cioè prima che nasca il discorso — la natura profonda della realtà; e, ciò facendo, di attingere a un

assoluto. Per riprendere le espressioni usate da Sanguineti, «le cose sono afferrate saldamente, in nominazione», perché la loro presenza stessa costituisce in sé una

«rivelazione»: la «presentificazione dell’oggetto» coincide con la «pronunzia delle essenze». La parola è isolata, e tendenzialmente svincolata da subordinazioni metriche e sintattiche, perché l’intuizione è un atto semplice, indivisibile, immediatamente sintetico. La lentezza con cui la parola è scandita, i silenzi che la circondano, esprimono lo sforzo che l’operazione richiede: uno

sforzo che mira non a superare la concretezza presente o assurgere ad un sovrannaturale quid che la trascenda, bensì a scoprire nella realtà il segno di un assoluto che la sottragga — con l’io che ne ha pronunziato, come una formula magica, il nome — all’universale naufragio. E questo, in effetti, è il nucleo del problema: giacché secondo Bergson l’intuizione non riguarda direttamente la realtà esterna, quanto piuttosto l’interiorità individuale:

23 Il y a une réalité au moins que nous saisissons tous du dedans, par intuition et non par analyse. C'est notre propre personne dans son écoulement à travers le temps. C'est notre moi qui dure. Nous pouvons ne sympathiser intellectuellement, ou plutòt spirituellement, avec aucune autre chose. Mais nos sympathisons sùrement avec nous mémes.

Solo in un momento successivo l’intuizione del durare dell’io diviene intuizione generale del mondo, coinci-

denza piena con l’élan vital — cioè comprensione del mondo nell’io, e viceversa. Ma qui, per Ungaretti, entra

in campo un fattore decisivo: la guerra. Il tempo è abolito: esiste solo l’istante. Nell’attimo (paradossalmente privilegiato) dell'imminente annichilimento, il soggetto, ridotto a cosa, prende coscienza di sé nelle cose. L’in-

tuizione dell’identità individuale e della realtà esterna coincidono: la consapevolezza della deiezione si ribalta nella rivelazione dell’armonia, del tutto nel quale ogni entità singola è immersa. In termini bergsoniani, la parola dell’ Allegria è un colpo di sonda nella durata pura. La ricorrenza, nei luoghi decisivi dell’opera, di mo-

duli del tipo «io sono come (questo)», oppure «io mi + verbo + in (questo)» attesta il carattere di intenzionalità

che il soggetto tende ad assumere. Una volta esperita la vulnerabilità e la precarietà del proprio essere, egli cerca di superarla «protendendosi verso» le cose, per trovarvi il segno di una totalità organica della quale scoprirsi docile fibra: e in tal modo, salvarsi dalla pietrificazione e

dall’annichilimento. Questa speranza (questa scommessa) viene tutta giocata sulla parola singola: è una «soluzione definitoria ‘nominale’«, una «riscoperta del nome come fatto religioso» (Contini) che sul piano gnoseologico equivale a un atto puramente intuitivo, precedente

124

la formazione di una ragione discorsiva, e perciò mediatrice. All’immediatezza dell’intuizione corrisponde l’immediatezza della nominazione: la pronunzia del nome coincide con la scoperta dell’essenza. Senonché la salvezza nella parola risulta per sua natura effimera, poiché si esaurisce nella parola stessa. Non si dà luogo a un processo, a uno sviluppo: la fusione dell’io nel tutto è un evento istantaneo e irrelato, privo di una fase preparatoria della quale possa dirsi esito e incapace di promuovere svolgimenti ulteriori — né l’ostile alterità del mondo si lascia mettere troppo a lungo fra parentesi. La parola ungarettiana risulta così sospesa fra due silenzi: quello del nulla, da cui faticosamente emerge, e quello del tuttoin cui immediatamente si risolve. Dall’aporia non si esce. Nel suo complesso, la ricerca di un assoluto nell’immanenza determinata ottiene risultati parziali, oltre i quali è difficile andare;

anzi,

presenta il rischio di continuare a ripetere uno stesso percorso, trovandosi ogni volta al punto di partenza. Una scelta, di conseguenza, s'impone. È bene ribadire che fu non piccolo merito da parte di Ungaretti averlo compreso,

e non

essere

divenuto,

all’indomani

della

prima guerra mondiale, semplice manierista e rifacitore di se stesso. Proprio perché la sua prima, altissima stagione era nata (anche) grazie a una serie di circostanze esterne eccezionali, era difficile che ne nascesse una seconda comparabile alla precedente per originalità e pregnanza storica (se non per pura altezza espressiva). Le scelte compiute con Sentimento del Tempo sono abbastanza chiare. Ungaretti rinuncia in modo radicale alla determinatezza; la consunzione del divenire non viene combattuta nell’intensità emblematica dell’istante,

125 ma attraverso l’evocazione di figure e dimensioni eterne, creature dell’immaginazione e della memoria («Tutto, tutto, tutto è memoria»

dichiarerà nel 1937). Nel frat-

tempo, le varianti dell’A/legria mostrano un’attenuazione dell’immangntismo e un ripiegamento in senso soggettivistico. I pronomi personali, i dimostrativi, il «come» delle analogie esplicite tendono a assolutizzarsi, più che termini di un rapporto diventano entità autonome; l’atto soggettivo predomina sull’oggetto dell’azione, e si fa irrelata («pura») intenzionalità; il proiettarsi dell’io verso le cose si riduce a un’assoluta proiezione. Tra le cose e le parole si interpone il diaframma di un linguaggio che si riflette sempre più in sé medesimo. Certo,

il senso

di vuoto, di solitudine,

di lacerazione

potrà insorgere di nuovo; e — come negli accorati citatissimi versi della Pietà — la stessa parola potrà paventare la propria intrinseca inanità: Ho popolato di nomi il silenzio.

Ho fatto a pezzi cuore e mente Per cadere in servitù di parole?

Regno sopra fantasmi. (Tutte le poesie, p. 168)

Ma tutto questo avverrà nel regime di una restaurata istituzione letteraria, mobilitata a esorcizzare — per quanto possibile — gli urti della contingenza. Se resiste un’antinomia voce/silenzio, ormai il silenzio da cui la voce (tuttavia drammatica) erompe, anziché un dato esi-

stenziale o una condizione pragmatica del discorso, sarà un tépos retorico. Come il tema del nulla nella poesia barocca, verso la quale Ungaretti s’avvia per un nuovo, più illustre, meno avventuroso viaggio.

126

Note

I riferimenti bibliografici che compaiono nel testo in forma abbreviata riguardano le seguenti edizioni ungarettiane: Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Milano, Mondadori 1970; Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, ivi, 1974; L’Allegria, a cura di Cristiana Maggi Romano, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori 1982. Le citazioni in intertesto sono tratte dalle seguenti opere: Luciano Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia, Milano, Marzorati 1962, pp. 87 e 208; T.S. Eliot, The Sacred Wood. Essays on Poetry and Criticism, London, Methuen & Co. 1976, p. 100; Giovanni Pascoli, Poesie, a cura di Augusto Vicinelli, Milano, Mondadori (coll. «I classici contemporanei italiani») 19509, pp. 59-60; id., Prose, vol. I, Pensieri di varia

umanità, ivi, 1946, p. 58; Pietro Bonfiglioli, Pascoli e Montale, in AAVV., Studi per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli pubblicati nel cinquantenario della morte, Bologna, Commissione per i testi di lingua 1962, pp. 233 e 219; Henri Bergson, La pensée et le mouvant, Paris, Altan 1934, pp. 205-6. Altri riferimenti bibliografici, relativi ad autori nominati nel testo: Sergio Antonielli, Giuseppe Ungaretti [1949], in Aspetti e figure del Novecento, Parma, Guanda 1955; Edoardo Sanguineti, Documenti per L’Allegria [1956], in Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia 1961; Glauco Cambon, La poesia di Ungaretti, Torino, Einaudi 1976; Andrea Zanzotto, La presenza delle varianti. Il mito dell’autobiografia, «Paragone Letteratura» n. 254, marzo 1971 (intervento poi rifuso nel terzo dei capitoli ungarettiani di Fantasie di avvicina-

127 mento, Milano, Mondadori 1991); Luciano Rebay, Le origini della poesia di Ungaretti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1962; Hugo Friedrich, La struttura della lirica moderna [1956], Milano, Garzanti 1958; Gianfranco Contini, Ungaretti

o dell’Allegria [1932], Materiali ‘sul secondo Ungaretti [1933], Ungaretti in francese [1939], in Esercizî di lettura, Torino, Einaudi 1974; Sergio Solmi, Apollinaire [1959], in La luna di Laforgue e altri scritti di letteratura francese, Milano, Mondadori 1976; Franco Fortini, / poeti del Novecento, Bari, Laterza 1977; Oreste Macrì, Aspetti esistenziali e retorici dell’Allegria [1958], in Realtà del simbolo, Firenze, Vallecchi 1968; Pietro Bonfiglioli, Dante-Pascoli-Montale,

in AAVV.,

Nuovi studi pascoliani, Bolzano-Cesena 1963. L’abbozzo dei Fiumi a cui si fa cenno a p. 101 è riprodotto in Poesie e prose liriche, a cura di Cristiana Maggi Romano e Maria Antonietta Terzoli, introduzione di Domenico De Robertis, Milano, Mondadori 1989, pp. 29-30: «I miei fiumi si mettono in fila / chilometri e chilometri passo a passo / in un batter d’occhi millanni / e li riconosco / a uno a uno / come un accorto comandante / quest'è il Nilo / e quest’è l'Arno / quest’è il Naviglio / e quest’è la Sesia / quest’è il Serchio / e quest’è il Po / e quest’è la Senna/ e quest’è la mia vita / che in ognuno vi traspare» (vv. 24-38). Impressionante, sia detto per inciso, la differenza rispetto al testo definitivo: come sovente

accade,

il

rinvenimento

(o

l’invenzione)

di

un’immagine poetica — qui la rassegna dei fiumi — precede il consolidarsi di un determinato sovrasenso simbolico.

Il primo a individuare due poli formali nell’Allegria è stato Gianfranco Contini, che nel suo fondamentale saggio del ’32 ha parlato di un’antinomia «linguaggio vago / linguaggio violento» — sia pure al fine di cogliere alcuni antefatti dell’essenzialità allegresca, piuttosto che di descriverne l’articolazione interna. In seguito le prospettive di lettura tendono a divaricarsi. Ad esempio, Macrì e Sanguineti hanno messo ben in luce la forte propensione di Ungaretti alla determinatezza

128 oggettuale, senza però rapportarla a una tendenza contrapposta tuttavia attiva nel suo stile. In modo specularmente unilaterale, altri hanno invece insistito sull’eredità simbolista, come lo studioso romeno loan Gutia (Linguaggio di Ungaretti, Firenze, Le Monnier 1959), che fra l’altro ha censito le locuzioni metaforiche genitivali (le images de serre chaude). In anni più vicini, Zanzotto ha tracciato l’affascinante immagine di un Ungaretti sospeso fra Mallarmé e Artaud: nell’uno la verbalizzazione dissolve la materia, nell’altro la esalta. Ma in causa viene chiamata qui non tanto la determinazione del reale, quanto la consistenza fisica del soggetto: un soggetto teatralmente vocato ad inscenare il rapporto fra la propria parola e il proprio corpo. «Nel momento Artaud si trova il rifiuto quasi di uscire dalla fisicità, dalla corporeità, cioè un continuo ricadere del dire/scrivere in se stesso, senza poter «uscire» veramente.

[...] Nulla in questo caso vale se non acquista quasi il peso. della presenza fisica, la consistenza di un corpo, di una matericità che

peraltro

tendono

ad abolirsi

continuamente

(per

confermare comunque un «ingombro» che rende impossibile l’uscita dall’involucro [...] Per Mallarmé esiste invece una spinta all’uscita totale, che sale dalla corporeità verso una scoperta sempre più precisa e trascinante della circolazione di una parola la quale dovrebbe essere il libro di cui ci si libera [...] In un certo senso, Mallarmé tende a cancellare la propria corporeità spostandola tutta sul lato della dissoluzione del corporeo nel verbale» (Fantasie di avvicinamento, cit., p. 88).

Senza soffermarsi sul valore simbolico del tema dell’acqua e sul nesso con l’archetipo materno (individuati da Macrì e quindi ripresi e sviluppati da altri), si può ricordare che a proposito del finale della Notte bella Glauco Cambon ha ravvisato una corrispondenza fra l’immagine del contatto orale con i ripetuti suoni labiali dei vv. 9-10 (mordo bambino mammella). Si noti inoltre l’affinità, non solo di contenuto, fra «sono ubriaco / d’universo» e «M'illumino / d’immenso» + in cui tornano i fonemi labiali; ma forse si potrebbe anche parlare — sulla scorta delle considerazioni altrove svolte da Stefano

129 Agosti (// resto poetico, Milano, Rizzoli 1972) — di dissemina-

zione fonetica del pronome personale. Il «proverbio eroico» che conclude Sono una creatura non è piaciuto a Franco,Rortini, che così commenta: «Il vero motivo di Sono una creatura è la disperazione della simultanea estraneità degli oggetti e della soggettività profonda, non già l’aspirazione al non-essere. Ecco perché ci sembra che il proverbio finale, con la sua apparenza impressionante, non solo non aggiunga nulla, ma tolga qualcosa a questa poesia» (Due letture di Ungaretti e Montale [1953], in Saggi italiani, Milano, Garzanti, p. 34). Beninteso, è anche questione di gusti. Però «La morte / si sconta /vivendo» non dovrebbe significare qualcosa del tipo «prima che giunga la liberazione della morte, è destino che si debba soffrire», come Fortini lascia intendere, quanto piuttosto «la morte è non solo un male, ma un male che si deve pagare poco alla volta», vivendo, appunto. In altre parole: non

un’identificazione

bene-morte,

male-vita (e quindi

un’aspirazione al non-essere), bensì la dolorosa scoperta che durante la vita stessa già comincia ad affermarsi la morte: che in certe condizioni vivere significa sentirsi «disanimare», cioè morire. Certo, nell’A//egria il termine «morte» si associa talvolta a valori positivi di riposo, abbandono (così ad esempio in Malinconia), ma ciò si verifica in un’atmosfera generale di ennui assai lontana dalla sofferta concentrazione di Sono una creatura.

Anche riguardo alla pratica della datazione dei singoli componimenti il Porto Sepolto occupa una posizione preminente. In primo luogo perché la inaugura, ponendosi come modello alle sezioni successive; inoltre perché in Naufragi e Girovago si registrano sintomi di indebolimento nell’uso di tale stilema, a volte al limite della zeppa. È il caso di Natale e Dolina notturna, datati «Napoli il 26 dicembre 1916» e di Si porta («Roma fine marzo

1918), dove i nomi delle località

presentano solo interesse biografico e documentario. Prive di data erano poi quattro brevi liriche rifiutate: Mattutino e not-

130 turno, L’illuminata rugiada, Melodia delle gole dell’orco, Convalescenza in gita in legno. Per motivi analoghi, appare significativa nelle opere posteriori all’Allegria l'adozione della maiuscola all’inizio del verso. Sugli effetti espressivi della separazione metrica fra dimostrativo e sostantivo ha scritto pagine illuminanti Carlo Ossola, sia nella sua fondamentale monografia Giuseppe Ungaretti (Milano,

Mursia

1975) sia nel commento

al Porto Sepolto

(Milano, Il Saggiatore 1981, poi Venezia, Marsilio 1990). Per quanto concerne l’importanza di Bergson nella formazione di Ungaretti, è notevole una dichiarazione rilasciata nel 1964 in occasione delle lezioni tenute alla Columbia University su Canzone della Terra Promessa: «tutta la mia poesia è un modo platonico di sentire le cose, ed essa ha del resto due maestri nel campo dello spirito, da una parte Platone e i Platonici, e dall’altra Bergson: sono i due maestri che mi hanno sempre accompagnato quando io ho dovuto pensare» (Tutte le poesie, pp. 560-61).

Da un Porto all’altro: Ungaretti 325, È

$ 1. Una presentazione troppo rumorosa

Nella storia della poesia di Ungaretti la seconda edizione del Porto Sepolto*, apparsa a La Spezia nel 1923 presso la Stamperia Apuana dell’amico Ettore Serra, è menzionata soprattutto, quando non esclusivamente, per la presentazione di Benito Mussolini: due paginette in verità piuttosto vaghe, da cui sarebbe azzardato evincere non solo un apprezzamento, ma a rigore anche una conoscenza non generica della lirica ungarettiana. In nota al «Meridiano»

Vita d’un uomo. Saggi e interventi, Lu-

ciano Rebay e Mario Diacono citano il testo d’una breve lettera di Mussolini a Ungaretti. Si tratta, con tutta evi-

denza, della risposta ad una garbata sollecitazione, presumibilmente mitigata da parole che minimizzavano l’impegno richiesto (all’autore, insomma, qualunque cosa Mussolini avesse scritto sarebbe andata bene). Il te-

nore della replica dimostra che Mussolini aveva, com’è naturale, la testa altrove; e possiamo supporre che al Porto in attesa di stampa abbia poi finito per dare poco più di un’occhiata. «Caro Ungaretti, sta bene; ma riusci-

rò mai ad avere il tempo necessario per leggere il vostro libro e parlarne quindi, con devota cognizione di causa? *

5

s

5

.

alte

RARSREO

Data l’oscillazione nella grafia ungarettiana dei titoli, indico con la maiuscola le raccolte (// Porto Sepolto, Allegria di Naufragi) e con la minuscola sezioni e poesie (// porto sepolto, Allegria di naufragi).

132 Lo spero, ma voi, forse, non potete attendere. Vi saluto con la vecchia cordialità» (p. 911). Di avviso diverso era Ettore Serra, che circa le com-

petenze letterarie di Mussolini (nonché sul rispetto delle scadenze pattuite) si è pronunciato in termini assai lusinghieri. Il suo giudizio va però preso con largo beneficio d’inventario, data la fervida ammirazione professata

verso l’allora presidente del consiglio, e futuro duce: della quale è documento inoppugnabile la pubblicazione, avvenuta nel ’35 presso il Regio Istituto d’arte per il libro di Urbino, d’un poemetto dal titolo, niente meno,

L’aratro e la spada. Ecco dunque la scena dell’incontro a Palazzo Chigi, quale è narrata da Serra in un testo degli anni ’70 che avremo più volte occasione di ricordare, Il tascapane di Ungaretti. Il colloquio, precisa Serra, era stato propiziato da Ardengo Soffici, che intratteneva con Mussolini rapporti molto amichevoli (i due si davano del tu): lo non avevo meno, gli avevo trovai magnifico pi, lampeggianti,

mai visto Mussolini così da vicino, né, tanto parlato, né scritto mai. Non nascondo che lo e che la sua fronte enorme e i suoi occhi cumi impressionarono.

Fu cordiale (confidenziale con Soffici); si compiacque con

Ungaretti, del quale dimostrò di conoscere e di apprezzare la poesia; incoraggiò l’editore (chiamiamolo pure così) al quale testualmente disse, mentre annotava in una agenda: «fra quindici giorni avrete la prefazione al vostro libro», e dopo quindici giorni, puntualmente, la ricevetti (p. 39).

Il debole di Serra per Mussolini, così come la sua disponibilità a adattare i ricordi a seconda delle esigenze del momento, non è illazione gratuita o preconcetta. Nel

133 1933, poco dopo l’uscita di Sentimento del Tempo, Serra ripubblica, con leggere modifiche, un testo già apparso nel lussuoso quaderno La poesia di Giuseppe Ungaretti — coevo e graficamente omologo all’edizione spezzina del Porto — che conteneva una piccola antologia di giudizi critici (Papini, Marone, Soffici, Thovez, Saffi); il titolo originale suonava Come divenni editore del libro Il Porto Sepolto di Giuseppe Ungaretti. La nuova versione esce sul «Corriere Padano» di Ferrara del 4 ottobre e sul «Popolo del Friuli» del 12 novembre (ma non sono da escludere pubblicazioni su altri quotidiani locali). La principale differenza rispetto alla stesura del ’23 consiste nel taglio d’una prolissa divagazione centrale, una fantasticheria liricheggiante e svaporata, che paragona le liriche di Ungaretti a «una schiera di dolci e povere bambine fuggite dal buio dell’Isonzo». Ma interesse maggiore hanno altri due interventi. Il primo riguarda la rievocazione dell’incontro con il trasandato fantaccino del 19° Reggimento Fanteria, dove i nomi delle comuni conoscenze vengono cambiati e, per dir così, adattati ai tempi: la frase «Ma tu sei forse Ungaretti, l’amico di Papini, di Soffici, di Prezzolini?» è aggiustata in «Ma tu sei forse Ungaretti, l’amico di Soffici, di Cecchi, di De Robertis?» (forse gioverà ricordare che Prezzolini, antifascista di scarso nerbo ma antifascista tutta-

via, era nel frattempo emigrato, e nel °40 avrebbe preso la cittadinanza americana). In secondo luogo, nel finale

viene inserito un cerimonioso omaggio al duce:

Benito Mussolini — ecco una prova del suo intuito, della sua squisita sensibilità in materia di arte e di poesia — volle che al libro fosse premessa una sua incisiva prefazione.

134 Non è il caso, naturalmente, di scandalizzarsi. Però

resta il fatto che nel Tascapane, raccontando i dettagli dell’intera operazione editoriale del 23, Serra conferma a chiare lettere quello che ciascuno potrebbe a lume di buon senso sospettare, cioè che a Mussolini non risaliva iniziativa alcuna: semplicemente,

aveva accondisceso

a

una richiesta. Possiamo quindi tranquillamente fare la tara alle dichiarazioni del pur meritevole protoeditore di Giuseppe Ungaretti; e rimanere dell’avviso, primo, che la troppo citata premessa mussoliniana è un testo d’occasione, tanto perentorio nel tono quanto evasivo nella sostanza; secondo, che l’avverbio imminentemente,

agitato con burbanza all’inizio — «Io non saprei proprio dire in questo momento come Giuseppe Ungaretti sia entrato nel cerchio della mia vita. Deve essere stato durante la guerra o imminentemente dopo» — non nacque da un errore del tipografo (come insinua, con postuma littoria pietas, il Tascapane), bensì era uscito proprio della penna del duce. $ 2. Sulla soglia del «Sentimento»

Oltre che per la famigerata presentazione, il secondo Porto viene normalmente chiamato in causa nella storia della poesia ungarettiana per la sua posizione a mezza via tra l’Allegria e Sentimento del Tempo. La raccolta del ’23 introduce infatti, rispetto ad Allegria di Naufragi, alcune poesie composte dopo il ’19. Sei di queste, tutte nella sezione Elegie e madrigali, sono destinate a confluire nella sezione Prime del Sentimento: Le stagioni, Alla noia, Silenzio in Liguria, Paesaggio, O notte (nella quale sarà rifuso il frammento anepigrafo «oceanici silenzi»). Espunta invece, e recuperata solo nelle Disperse, è Trame lunari. Completano Elegie e madri-

135 gali quattro poesie già edite in Allegria di Naufragi: un testo «lacerbiano» precedentemente incluso nella sezione Babele (La galleria dopo mezzanotte, ribattezzato nel ‘42 In galleria), e.tre poesie tratteda Finali di commedia, poi definitivamente allogate nella sezione Prime che conclude l’Allegria: Lucca, Odo la Primavera

(già

Ironia di Dio, poi solo Ironia) e La donna scoperta (Scoperta della donna).

Tanto basterebbe per considerare il Porto spezzino una silloge-ponte fra la prima e la seconda stagione della poesia di Ungaretti; ma riscontri più stringenti emergono dall’analisi variantistica. In parecchi casi, le innovazioni del ‘23 — soppressione di titoli, smembramenti, ritocchi,

e soprattutto tagli, che colpiscono di preferenza i versi finali — vengono ignorate nelle redazioni successive, e perciò finiscono per costituire rami morti della tradizione. Gli esempi più vistosi sono Girovago, decurtato di una ventina di versi, e «Fermato a due sassi», ridotto ad

un quarto rispetto sia alla versione originaria (Paesaggio del ’19) sia alla succedanea (Monotonia del ’31). Ma anche interventi apparentemente più limitati stravolgono completamente la fisionomia primitiva dei testi. Si veda Un’altra notte (titolo poi conservato, rispetto al precedente Le ore della quiete): Confuso in quest’oscuro colle mani gelate mi distinguo il viso

Mi vedo abbandonato nell’infinito

In quest’oscuro colle mani gelate mi distinguo il viso

136 Un'altra poesia, senza «dubbio: una scheggia, un frammento (sia pur di squisita fattura) rispetto a una breve ma intensa meditazione

lirica, articolata in due

tempi distinti. La curatrice dell’edizione critica dell’Allegria, Cristiana Maggi Romano, ha giustamente indicato i due connotati distintivi del Porro spezzino nella «tendenza riduttiva» e nel «carattere provvisorio»: al suo lavoro (e segnatamente alle pp. XXV-XXXI dell’introduzione) rinviamo per più puntuali notizie. Tuttavia il giudizio complessivo — anche da un punto di vista strettamente testuale — va, se non corretto, in qualche misura precisato. La Maggi denuncia «una certa frettolosità e sommarietà», riecheggiando un giudizio formulato a suo tempo da Leone Piccioni in Vita di un poeta («un libro messo su forse un po’ frettolosamente», p. 95). Serra, a questo proposito, aveva ribattuto in tono perentorio: «il libro ’fu messo su’ con moltissima cura: scelta del formato, della carta, dei caratteri» (// tascapane, p. 42). Ma

il punto è un altro. A prescindere dai concreti tempi di rielaborazione,

non

necessariamente

la provvisorietà è

indizio di precipitazione o di trascuratezza: si possono meditare a lungo, o intensamente, anche scelte che poi si rivelano infelici. E questo è stato, credo, il caso del secondo Porto. Ungaretti, lo sappiamo, rivela fin dall’inizio un’irresistibile propensione a ritornare sui testi già editi. Come scrive ancora la Maggi, «già nel 1919 l’Allegria di Naufragi sarebbe potuta uscire corredata da un suo apparato di varianti: il labor limae ungarettiano nasce quasi assieme alla stessa espressione poetica» (p. XX). Ora, noi sappiamo che, correggendo, Ungaretti spesso si migliora. Tuttavia ogni nuova redazione, sia o no più efficace della precedente, risponde ad una determinata logi-

137 ca, che occorre illustrare di volta in volta. Qualunque intervento, pur limitato, modifica la fisionomia di un in-

sieme, e (come ci hanno insegnato i maestri della variantistica) è quella fisionomia complessiva che occorre descrivere, e valutare: è raro, per non dire impossibile, che il miglioramento dell’insieme non sia scontato da parziali rinunce. Arriva poi il momento che, di taglio in taglio, di aggiunta in aggiunta, di variante in variante, l’identità stessa del testo venga messa in discussione. E quel che vale per i testi singoli vale, a maggior ragione per i cosiddetti «macrotesti»: tipicamente, per le raccolte poetiche. Allora, una scelta risolutiva s'impone. Non si tratta più di stabilire la sorte di questo o quel vocabolo o giro di frase, di questa o quella immagine o cadenza, e nemmeno

di procedere

a inclusioni,

esclusioni,

smembra-

menti o accorpamenti di intere poesie: si tratta di decidere in merito alla natura intima di un’opera, che non

può rimanere indiscriminatamente in progress. Concepiamo pure l’attività creativa come un «limite», nel senso matematico della parola: come l’approssimazione asintotica, e perciò mai conclusa, a linee o piani intangi-

bili. Ma gli asintoti non possono moltiplicarsi a piacere. A un certo punto, da un’opera finisce per nascerne un’altra. Il Porto Sepolto del ’23 segna appunto, nello svolgimento della prima stagione di Ungaretti, questo cruciale punto di passaggio: la svolta più importante, forse, di tutta la storia della sua poesia. Dopo aver dato alle stampe la nuova raccolta, Ungaretti si rende conto che il suo Porto — o Allegria di Naufragi, o come altro si può chiamare questo suo primogenito libro — sta diventando una cosa diversa. E allora fa un passo indietro. Reintro-

138 duce titoli, ora ripescando i soppressi, ora escogitandone di nuovi; restaura versi amputati; ripristina lezioni primitive, versi, intere strofe. Non getta la lima, questo no:

ma depone le forbici, riservandosi di intervenire con maggior oculatezza e discrezione, conscio che lo spazio per le modifiche s’è ridotto. Soprattutto, fissa un limite

temporale: quelle poesie, pur indefinitamente perfettibili, appartengono a una stagione che s’è chiusa nel 1919 (l’unica novità dell’Allegria del °31 sarà Un sogno solito, peraltro certamente scritto parecchi anni prima). Da quel momento in poi lavorerà su due tavoli, cercando di dar vita, anziché a una silloge onnicomprensiva, a un secondo libro, la cui fisionomia si verrà precisando at-

traverso un confronto assiduo con il primo. E una certa qual affinità di gusto tra il processo correttorio della prima raccolta e il processo elaborativo della seguente (nel segno del distacco dalla concretezza un po’ spuria, dalla espressionistica matericità di molte stesure originarie) verrà compensata da un’opposizione consapevole e quasi puntigliosa di modi e stilemi. Così nascerà l’Ungaretti uno e bino canonizzato dalla critica negli anni Trenta, maestro degli ermetici, caposcuola della tradizione novecentista. Tutto questo è noto. Ma sulle ragioni di tale svolta, il Porto del ’23 ha qualcos’altro da rivelarci: purché lo consideriamo nel suo insieme, e non soltanto nella prospettiva — per certi versi abusata — della variantistica. Lasciamo dunque il piano dell’analisi testuale e dedichiamoci a quello che s’usa chiamare, con un fortunato neologismo messo in circolazione da Gérard Genette, il paratesto.

139 $ 3. Due titoli, anzi metà

Il primo aspetto da prendere in considerazione è na-

turalmente il titolo. Forse nonsi è abbastanza insistito sulle esitazioni e*sùi ripensamenti di Ungaretti riguardo al nome

del suo primo libro, e anche sulla precarietà

della scelta finale. /{ Porto Sepolto, di per sé, era perfetto; ma nasce come intestazione d’un volumetto esiguo. Una volta deciso di riproporre la plaquette udinese come sezione d’una raccolta più ampia, si poneva un’alternativa secca fra due soluzioni, egualmente legittime ma certo non equivalenti: o il medesimo

titolo, o

uno nuovo. Un anno dopo il Porto, Ungaretti sembra orientarsi verso quest’ultima ipotesi: lo attesta una lettera a Papini in cui avanza l’idea di unire al libro d’esordio le poesie uscite nel frattempo sull’Antologia della Diana

(Il ciclo delle 24 ore, dedicato allo stesso

Papini) e sulla «Riviera ligure» (Giugno e la serie di brevi testi che in Allegria di Naufragi comporrà la sezione /ntagli). A breve distanza dai drammatici giorni di Caporetto — il timbro postale reca la data 19 dicembre 1917 — l’adesione all’esperienza bellica, e anche l’attaccamento al reparto in cui aveva militato fino a quel punto, appaiono più forti che mai:

Che pensi di una raccolta di tutte le mie poesie che porterebbero per titolo Zona di guerra e nella quale comprenderei il Porto, il Ciclo, quelle della Riviera, e qualche prosa lirica? Ho l’intenzione di raccontare la storia del vecchio 19 impersonata in una gentilezza, svanita nel silenzio, laggiù; la figura splendente di umanità del Capitano Cremona, laggiù nel silenzio di questo mio cuore peso come una pietra (n. 167, pp. 16566).

140 Due anni più tardi, il progetto d’un nuovo libro ha preso forma; e riprende quota il titolo originario. Il 10 marzo 1919 esce sul «Popolo d’Italia» il saggio Verso un’arte nuova classica, con il sottotitolo Prefazione alla 24 edizione del Porto Sepolto; una nota recita: «a cura

degli Stabilimenti Editoriali Attilio Vallecchi, Firenze» (ora in Saggi e interventi, p. 13). Com'è noto, la raccolta verrà pubblicata alla fine di quell’anno, senza alcuna prefazione, e con un titolo diverso, escogitato dall’auto-

re dopo lunghe ricerche e discussioni nell’ambiente vallecchiano. Così almeno risulta da un'intervista del 63 (Ungaretti commenta Ungaretti): Come nacque questo titolo dell’ Allegria di Naufragi? Be”, si cercava a Firenze insieme a Papini, a Soffici, a Pancrazi e a Vallecchi stesso, con i quali si discorreva di questo libro e del titolo che avrebbe dovuto avere; si cercava un titolo ed era difficile trovarlo. Ne proponevo qualcuno, gli altri amici ne proponevano anche loro altri, ma non convenivano. Finalmente, tornato a Parigi, mi venne l’illuminazione: Allegria di Naufragi (Saggi e interventi, pp. 815-16).

Ricordiamo per inciso che Allegria di Naufragi non figura come titolo interno nel volume (né sulla costa, che reca la dicitura Poesie 1974/1919); verrà adottato invece nel Porto del ’23, con sintomatica dissimilazione

dal titolo generale. Quanto alla forma scorciata Naufragi, farà la sua comparsa solo nell’indice dell’A//egria CELESt: Nel ’23 esce la cosiddetta seconda edizione del Porto Sepolto, che ad onta dell’omonimia assomiglia molto di più ad Allegria di Naufragi che non alla raccolta del ’16. Le ragioni per le quali Ungaretti decide di nuovo

di cambiare

titolo possono

essere

varie; ma ne

14] basta una, la più ovvia. A una casa editrice nuova, qual era la Stamperia Apuana fondata dall’amico Serra, non

giova presentarsi pubblicando libri già noti: e le novità librarie si debbono annunciare fin dal titolo. Il recupero della denominazione 1! Porto Sepolto avviene però tardi, quasi in extremis. Lo testimonia una lettera di Ungaretti a Serra, datata 13 novembre 1922, parzialmente citata nel Tascapane, quindi riprodotta integralmente e attentamente commentata dalla Maggi in un saggio dell’84: Carissimo, ti ringrazio e ringrazio la tua famiglia dell’accoglienza tanto affettuosa. AI libro darei il titolo di POESIE

di Giuseppe Ungaretti con fregi di e prefazione di questo si vedrà poi come dovrà meglio dirsi.

Seguono indicazioni editoriali piuttosto precise relative alla tripartizione della raccolta e ad alcuni testi, più altre osservazioni, sulle quali torneremo in seguito. La lettera presenta a margine alcuni segni, di mano di Serra,

intesi — come spiega la Maggi — «a visualizzare e organizzare le istruzioni di Ungaretti: questo a testimonianza del suo effettivo carattere programmatico». In effetti, ci troviamo ad uno stadio piuttosto avanzato di elaborazione: mancano ancora Sirene (composta solo nell’aprile successivo) e il titolo della sezione Elegie e madrigali,

ma appaiono già definiti la struttura complessiva del li-

142 bro, i nomi e le dediche della seconda e della terza parte (Allegria di naufragi «per Giovanni Papini», /! porto sepolto «per Ardengo Soffici»), e anche la rispettiva consistenza, mediante il riferimento alla raccolta vallecchiana. Il titolo Poesie si richiamava probabilmente a un recente volume di Paul Valéry, che Ungaretti sceglie come modello per il progetto grafico. Citiamo ancora Serra: Per la nuova edizione del Porto Sepolto intendevo ispirarmi al Dante di Bodoni, quello del 1796 in-folio piccolo, che secondo me è il più bello dei suoi tre, e del quale possedevo un esemplare che non mi stancavo di ammirare; vorrei dire «ascoltare» come una musica. Ma in quel momento la N.R.F. aveva pubblicato (nel formato, quasi quadrotto, in-4° piccolo)

la raccolta di Paul Valéry Charmes ou Poèmes, con ornamenti del XVII secolo, e l’edizione piaceva molto a Ungaretti che mi distolse, ma mi arresi malvolentieri, dal mio prediletto Bodoni (Il tascapane, pp. 40-41).

Sta di fatto che a un certo punto Ungaretti scarta il generico titolo Poesie e recupera quello del suo libro d’esordio, anch’esso pubblicato (come tutti sanno) grazie all’iniziativa di Serra. Un omaggio, un gesto di riconoscenza nei confronti dell’amico? Può darsi; resterebbe

però della meno viata

da spiegare perché sopraggiunga solo alla vigilia stampa. L’idea d’un nuovo libro risaliva infatti ala cinque mesi prima, come attesta una lettera inda Roma a Enrico Pea in data 26 giugno 1922:

Un mio amico milionario ha intenzione di metter su una casa editrice. Alcuni libri in edizione di gran lusso, soltanto all’anno. Probabilmente l’inaugureremo quest'inverno con una raccolta di mie cose (Lettere a Enrico Pea, p. 62).

143 Di fatto, anche se il libro a cui assomiglia di più — o da cui s’allontana di meno — resta Allegria di Naufragi, la preziosa edizione del ’23 si chiamerà,

di nuovo,

//

Porto Sepolto. Per la precisione: «I! Porto Sepolto / Poesie di Giuseppe Ungaretti / presentate da Benito Mussolini | con fregi di Francesco Gamba Il MCMXXIII/ La Spezia / Stamperia Apuana / di Ettore Serra». Otto anni dopo, il pendolo torna ad oscillare verso il

titolo vallecchiano. Con una significativa variazione: anziché ripristinare semplicemente la dicitura del ’19, Ungaretti la abbrevia, la cita in forma scorciata, secondo

un procedimento seguito nella revisione di tante poesie. Così si legge nell’intervista del ’63 citata sopra: L’Allegria è la parte di un titolo. Come nacque questo titolo dell’ Allegria di Naufragi? La notorietà del libro mi autorizzava forse a mutilare, come ho fatto, il titolo originario (Saggi e interventi, p. 813).

Dunque, il titolo completo dovrebbe suonare ancora,

teoricamente, Allegria di Naufragi. Ma tale denominazione non verrà più adottata. Quello che già nel ’31 l’autore chiamava un «vecchio libro» («Questo vecchio libro è un diario»), e che perciò poteva essere indicato con un familiare ipocorismo, rimane, definitivamente, L’Allegria:

laddove

il titolo della «seconda»

raccolta,

Sentimento del Tempo, benché strutturalmente omologo — due sostantivi uniti da un polisemico nesso genitivale — viene mantenuto integro. La dicitura «Il Sentimento» ha corso largo, ma informale: nessun frontespizio le ha mai concesso cittadinanza nella bibliografia ungarettiana.

144 Riassumiamo.

Nel

battezzare

il suo

primo

libro,

Ungaretti oscilla fra due alternative: // Porto Sepolto e Allegria di Naufragi. Alla fine opta per quest'ultima dicitura — la più recente — ma in una veste abbreviata, quasi anteponendo alle esigenze intrinseche (la congruenza del titolo all’opera) un esteriore dato di fatto (la notorietà della redazione vallecchiana). Si direbbe che l’antinomia venga risolta smussandone i termini: gli anni sono passati, il libro ha ormai un suo nome, ragionarci ancora sopra non ha più senso. Del resto, la denomina-

zione più antica non viene abolita del tutto, ma rimane come titolo interno, per di più replicato (una sezione e una poesia). A proposito, la scelta dell’abbreviazione consente a Ungaretti di evitare la coincidenza fra il titolo generale e un titolo interno, sia esso di sezione (Naufragi) o di testo singolo (Allegria di naufragi, che in Allegria di Naufragi si chiamava La filosofia del poeta). Di conseguenza, fra tutte le redazioni del «primo libro» ungarettiano soltanto /! Porto Sepolto del ‘23 presenta una se-

zione ed una poesia eponime; e ciò a malgrado del fatto che, proprio in quanto presago del Sentimento, si distacchi dal Porto del ’ 16 molto più di Allegria di Naufragi o della stessa Allegria. Su questo argomento torneremo più avanti; per ora basti una considerazione. Le incertezze nella scelta del titolo riflettono, credo, una esitazione di fondo circa il

ruolo da assegnare al Porto Sepolto rispetto alle esperienze successive. Se è vero, come ha dimostrato Carlo

Ossola, che dal punto di vista variantistico quella trentina 0 poco più di liriche scritte sul fronte tra il 15 e il "16 costituisce la zona più stabile e compatta dell’A/legria, è vero altresì che Ungaretti mostra qualche rilut-

145 tanza a riservarle un ruolo privilegiato all’interno della sua prima stagione. La grande poesia ungarettiana nasce, inutile ripeterlo, con il Porto Sepolto; ma in seguito si svolge in un difficile, controverso rapporto con quella sorgente. Da unTato, il valore fondativo di quella prima esperienza non viene mai chiamato in causa: e basterebbe a dimostrarlo la suddivisione definitiva dell’A/legria, introdotta a partire dall’edizione Preda del ’31, che col-

loca in apertura una sezione denominata Ultime. Dall’altro, la fedeltà alla propria originale voce poetica si direbbe contrastata dal desiderio di affrancarla dall’ipoteca iniziale d’una contingenza biografica irripetibile. Di qui i tentennamenti fra l’uno e l’altro titolo. E di qui, forse, anche le due contraddittorie decisioni di

tornare al titolo primitivo proprio nel momento in cui si veniva profilando un’esperienza di segno ormai affatto diverso, e di lasciare poi come definitivo un titolo «mutilato»: l’evocazione d’un titolo, più che un titolo vero,

autonomo e stabilizzato.

$ 4. Xilografia del «rappel à l’ordre» Ma

torniamo

al Porto

del

’23.

Titolo

a parte,

l’elemento paratestuale più vistoso del volume (un formato piuttosto grande, mm. 350 x 245) è costituito senza dubbio dalle illustrazioni. «Fu proprio Ungaretti», ricorda Serra, «a desiderare che il volume uscisse decorato da xilografie, che furono eseguite da Francesco Gamba

col quale il poeta si intrattenne a lungo alla Spezia» (// tascapane, pp. 40-41). Copertina e frontespizio sono inscritti in una cornice, riccamente decorata da sinuose

linee fitomorfe, tra le quali compaiono alcune siringhe. Un’altra siringa si trova nello stemma della casa editrice (di chiara ispirazione aldina), che campeggia sotto l’in-

146 testazione: un’àncora intreceiata di gigli con appeso lo strumento di Pan, inserita in un cartiglio rettangolare che alle estremità inferiori presenta le cifre «E.S.». Incisioni elaborate contrassegnano anche i sei occhielli (Presentazione, Poesie, Elegie e madrigali, Allegria di naufra-

gi, Il porto sepolto, Indice), il colophon («Di questo libro / sono stampati soltanto 500 esem= / plari su carta appositamente fabbricata / a mano nella cartie= / ra Magnani di Pescia / Esemplare N° ...») e il cul-de-lampe («Questi / fregi sono / dedicati alla / nobile e gentile signora / Ida / Serra»). In ultima, di nuovo, lo stemma della casa editrice. Tutte le scritte sono incise in un alfabeto maiuscolo alla De Karolis, cioè in caratteri di grandezza e disegno variabile, con intrecci (ad esempio P e O, Pe P) e so-

vrapposizioni (E o L in corpo ridotto su L; I acquattata sotto la T che precede, e così via). Il primo componimento di ogni sezione (quattro, inclusa Sirene) sfoggia un vistoso capolettera. Inoltre, prima del frontespizio e delle sezioni più ampie vi sono quattro illustrazioni autonome. La prima — di forma quadrata, con una corni-

cetta decorata e una circonferenza inscritta che potrebbe alludere a una simbologia solare — raffigura una donna inginocchiata, con tunica, bastone pastorale e fiasca alla

cintura, che si disseta a una polla d’acqua. Le restanti tre sono rettangolari, a piena pagina, e presentano cornici più riccamente elaborate. Dopo l’occhiello di Elegie e madrigali (tre colombe in una fontanella), è ritratta una

figura femminile nuda, la veste pendente dalle braccia, che suona un flauto a due canne su uno sfondo di alberi e frutta; altre colombe fanno capolino tra le fronde delia

cornice. L’occhiello di Allegria di naufragi (in cui compare una conchiglia) è seguito dall'immagine di un’altra

147

—eeeeeeeeeeeeeeeeee———-—_eT__ _=_—qY9Y=TIN: _2= Eenm——

donna nuda eretta, questa volta immersa nell’acqua fino al ginocchio, nell’atto di sgocciolare la lunghissima chioma. /! porto sepolto è introdotto invece da un soldato dall’aria pensosa, con elmetto, tascapane e buffetteria; seduto su und Toccia; sullo sfondo, un paesaggio nudo e senz’alberi, solcato da un fiume. Tra gli ornamenti della cornice spiccano alcuni elementi figurativi inseriti alla metà di ciascun lato: un gladio in basso, fiamme a destra e sinistra, di nuovo due colombe in alto.

Tante colombe, asserisce Ettore Serra (e questa volta non c’è ragione di dubitare delle sue parole) era stato lo stesso Ungaretti, con insistenza, a richiederle: «e il buon

Gamba gliené fece annidare parecchie — troppe — tra i fogli della bellissima carta» (// tascapane, p. 41). Le apparizioni dei candidi volatili non sono rare nelle poesie di quegli anni. Fase, del giugno 1916: «Agli abbandonati giardini / approdava / come una colomba» (vv. 7-9). Una variazione francese è nella sesta parte di Roman Cinéma (datata 11 marzo 1914): «et le navire aride / comme une colombe s’apprivoise / aux jasmins / de ses jardins». E ancora Sera, edita sul «Convegno» nel marzo 1924: «Il battito d’ale d’una colomba / d’altri diluvi» (vv. 16-17), da cui derivano prima l’Usignolo di «Commerce» (1925) e quindi, nel Sentimento, l’isolato endecasillabo liminare della sezione Fine di Crono: «D’altri diluvi

una

colomba

ascolto»

(Una

colomba,

datata

1925). Simbolo di castità, di pacificazione, di calma susse-

guente a una catastrofe, ma anche di desiderio erotico («Il fellà canta / gorgoglio di piccione innamorato» si leggeva nel ’15 nel Paesaggio d’Alessandria d'Egitto; e in Levante: «il mare è cenerino / e trema dolce / gonfio d’onda amorosa / è inquieto come un piccione»), la co-

148 lomba s’associa in Ungaretti a un'idea di palpitante purezza, ambiguamente sospesa fra religiosità e abbandono sensuale. Un plesso metaforico non dissimile è sotteso del resto al tema dell’acqua, nelle sue varie connotazioni

di linfa vitale, fonte di refrigerio, sostanza purificatrice, elemento fecondo legato alla femminilità. L’intero sistema simbolico dell’A/legria, infine (lo ha dimostrato a

suo tempo Oreste Macrì) è imperniato sull’antitesi acqua / pietra. Ogni esemplificazione sarebbe superflua. Una corrispondenza tematica fra le decorazioni del volume e il testo, d’altronde, era il minimo che ci potes-

simo aspettare dalla collaborazione fra autore e incisore. Più interessante è prendere brevemente in esame — nei limiti delle modestissime competenze di chi scrive in materia di storia della grafica — lo stile di Francesco Gamba. Innanzi tutto, va rilevato che La Spezia gioca un

ruolo non piccolo nella rinascita novecentesca della xilografia. Nel 1911 Ettore Cozzani vi aveva fondato «L’Eroica»,

sontuosa

e pretenziosa

rassegna

d’arte

e

letteratura, ispirata a un misticismo estetico di inequivoco stampo dannunziano (fra i modelli, il romano «Convito» di De Bosis). Nume tutelare della parte grafica è il celebre Adolfo De Karolis (maestro dell’incisione a cavallo fra i due secoli e artefice di tanti volumi di Pascoli e D'Annunzio): grazie alla sua iniziativa, nasce la «bella scuola» di xilografia, consacrata da una mostra a Le-

vanto nel 1912. Un’indagine specifica potrebbe forse scoprire se esista qualche legame fra la Stamperia Apuana di Ettore Serra e l’Officina di Arti Grafiche che stampava l’«Eroica» (sede, apparecchiature, maestranze). Fatto si è che nel ’17 Cozzani trasferisce la sede della rivista a Milano, dove pubblica anche una collana di preziosi volumetti denominata «I gioielli dell’Eroica».

149 Nel frattempo s’era verificata una rottura con De Karolis, che andava rivolgendosi verso un calligrafismo sempre più sofisticato, mentre i più validi tra i suoi seguaci — primo frai quali un caro amico di Ungaretti, Lorenzo Viani — intraprendèévano percorsi autonomi. Sui motivi del dissenso dalla seconda maniera di De Karolis, Cozzani si sofferma tra l’altro in un testo che esce proprio l’anno prima del Porto spezzino. Ciò che egli rimprovera all’antico maestro è l’abbandono dei principi di semplicità, sobrietà e fermezza di tratto che dovrebbero contraddistinguere l’incisione xilografica, e l’adozione di modi e tecniche propri del rame: [...] bisogna che l’incisore in legno canti con la voce del legno l’anima del legno [...] Perciò è naturale che il legno sia tagliato con i larghi bulini a dente incisivo, con le lancette a due tagli, con le sgorbie a taglio semilunare; e scarti i bulini sottili ad ago, che son creati per incidere il metallo.

Analoga istanza esprimerà più tardi un altro protagonista della storia novecentesca dell’incisione, Luigi Servolini. Il problema è sempre il rapporto con l’ «antica implacabile rivale», la calcografia, che tende a degradare il legno a mezzo occasionale. I veri xilografi, invece, sono «i razionalisti del legno inciso, per i quali la materia è il principio informatore dell’opera». Tra questi s’annovera il nostro Francesco Gamba. Nato a La Spezia anch’egli, nel 1895 — poco più giovane quindi sia di Serra (1890) sia di Cozzani (1884) — cresciuto a Glasgow ma rientrato presto in patria, s'era aggregato fin dal 1914 all'impresa dell’«Eroica», e, più tardi, era stato fra i principali collaboratori dei «Gioielli». Fedele interprete del «retto cammino» della xilografia — cioè attento a perseguire valori essenzialmente grafici, e non allotri

150

effetti pittorici o chiaroscurali - Gamba si atteneva ad uno stile lineare, misurato, con netti contrasti fra bianchi e neri: lontano, dunque, dai calligrafismi estenuati e dai turgori michelangioleschi del De Karolis di quegli anni (a tacere leziosaggini del più corrivo déco). E lontano, inutile precisarlo, dalle ardite invenzioni d’un futurismo alla Depero; ma lontano, anche, dalla espressività drammatica d’un Viani, che per certi riguardi (impulsività, concentrazione esistenziale, piglio ribelle) parrebbe molto più affine allo spirito del primo Ungaretti. Dopodiché, ciascuno giudica secondo i propri gusti; e senza dubbio il lettore d’oggi può rimanere disorientato di fronte a un volume ungarettiano decorato secondo un gusto che d’acchito vorrebbe associare, piuttosto,

a un D'Annunzio (come del resto suggeriva Piccioni nella sua biografia), il D’ Annunzio più sobrio e idilliaco. Ad esempio, l’immagine della donna che beve starebbe a meraviglia nella Figlia di Jorio. E se nel suo genere questa incisione è, al pari delle due successive, oltremodo pregevole, niente può riscattare la goffaggine dell’ultima. Il ritratto del soldato, più che una decorazione, è un’illustrazione, nel senso deteriore della parola: una didascalia, afflitta da una pedante velleità descrittiva. Dal punto di vista critico, però, importa soprattutto sottolineare l’omologia fra l’operazione che Ungaretti sta compiendo sul piano letterario e l’orientamento estetico dell’incisore. Quello che Ungaretti va cercando, è un punto di equilibrio fra classicismo e modernità. Sono gli anni del rappel à l’ordre: non è più tempo di trasgressioni o di provocazioni, e nemmeno di sconsigliate audacie. D'altro canto, Ungaretti non è disponibile ad alcuna regressione pura e semplice verso il passato, o a

ISI una deriva estetizzante verso ricercatezze gratuite e compiaciute sofisticherie. Il suo obiettivo è una sintesi di eleganza ed energia, di semplicità e di nitore formale, di naturalezza e di forza rivelatrice. Citiamo ancora

dalla lettera a Serra del 13 novembre 1922: La mia poesia è una cosa della natura, non una cosa esoterica: una cosa che ha il mistero naturale delle cose naturali. La pagina del libro la concepisco come la facciata di un bel palazzo: e siccome sono un toscano mi piace l’architettura nobile, serena, semplice (// tascapane, p. 41). Con tutta la sua devozione verso Ungaretti, il vecchio Serra non reprime una rimostranza, da raffinato bi-

bliofilo quale indubbiamente era: Peccato che Ungaretti rinunciasse al mio Bodoni grazie al quale avremmo avuto un libro «nobile, sereno, semplice», e insistesse invece per il libro decorato (ibid.).

A questa altezza cronologica, prevale dunque in Ungaretti la preoccupazione di depurare le sue poesie dalla carica di violenza che spesso avevano in origine. E così

lavora

di sottrazione;

cerca

di esaltare

l’istanza

della castità (una castità riconquistata e seconda, non ingenua

o ignara);

s'incontra

con

l’incisore

su scelte

iconografiche di gusto spiritualeggiante, oltre che simbolista (non a caso

tre anni dopo, nel ‘26, Francesco

Gamba decorerà i Fioretti di San Francesco per i tipi della Società Editrice d’Arte Illustrata). E naturalmente, in sintonia con i tempi, si sente più che mai compreso della propria italianità: di più, di quella quintessenza del genio italiano che è data appunto dall’arte — dall’architettura — toscana.

122 Si potrebbe obiettare che nel non lontano novembre 1920, scrivendo per l’ «Esprit Nouveau» un articolo dal titolo La doctrine de «Lacerba», Ungaretti aveva dichiarato: Mes amis de cette revue me demandent de leur présenter les Italiens. Je suis un étranger en Italie, comme en France, aussi bien qu’ailleurs. Je ne présenterai pas de compatriotes, mais il y a, là-bas aussi, quelques compagnons de route (Saggi e interventi, p. 39).

Ma in due anni molte cose possono cambiare, tanto più che a Ungaretti gli sbalzi d'umore non erano estranei. Del resto, come sappiamo dagli epistolari, proprio in quel torno di tempo egli vive momenti di grande amarezza, che si ripercuotono anche nei rapporti con gli amici italiani. Tanto non basta, dunque, per inficiare il

patriottismo del poeta, non solo profondo e sincero, ma rafforzato dalle avversità. «Sono un italiano di nostalgia» scriveva a Papini nel novembre 1918 (lett. 224, pp. 224-25); e dell’Italia parla come della «patria d’origine e di speranza», distinta dalla «patria di educazione», la Francia (lett. 225, pp. 225-26). Più significativo mi pare invece il raffronto con un altra pagina del carteggio con Papini, una lettera timbrata 11 settembre 1917: Il popolo nostro è un popolo di fantastici; ha più d’ogni altro, anzi questo è il suo carattere, il potere di transmutare la realtà in ebrezza; neppure qui gli mancano momenti di slancio e di spasimo vitale, che lo risarciscono di mille secoli di patimento (lett. 141, p. 145).

Difficile conciliare una teoria siffatta con l’archetipo umanistico del palazzo toscano; e ancor più con la defi-

Rss nizione che troviamo nella risposta a un'inchiesta sulla poesia promossa nel ‘31 dalla «Gazzetta del Popolo» (edita col titolo Naufragio senza fine): Noi Italiani siamo figli della misura. Noi, e in questo vediamo riconciliabife”“Ta memoria coll’ innocenza, torniamo a credere che la luce del mistero scatta ogni volta che nell’opera è raggiunto l’equilibrio (Saggi e interventi, pp. 265-266).

Rinviando al canonico saggio di Giulio Bollati per una ricostruzione storica di come possa essere «inventato» un carattere nazionale, non possiamo esimerci dal notare en passant che Ungaretti si riconosce di volta in volta in questo o quell’aspetto dell’italianità, senza curarsi troppo delle contraddizioni. Prevale in lui, sulla coerenza concettuale, l’esigenza di «sentirsi in armonia»: il desiderio — che rimarrà vivo anche in seguito — di partecipare solidalmente d’una collettività, d’una cerchia di amici fedeli, d’un popolo. All’altezza del 1923, questo desiderio si direbbe appagato come mai prima d’allora: tanto da consentire, o perfino suggerire, una sorta di sanzione formale.

$ 5. Un poeta, 35 dediche Il paratesto del Porto spezzino comprende un altro elemento di grande rilievo: l'abbondanza, davvero eccezionale (oltre che insolita per Ungaretti) delle dediche. La raccolta è suddivisa, come abbiamo visto, in 4 sezioni. La prima conta una sola poesia, Sirene; la seconda, Elegie e madrigali, 11; la terza, Allegria di naufragi, 24; l’ultima, // porto sepolto, 31. In totale, 67 testi e 70

titoli interni, o meglio 70 voci di indice, giacché 18 poesie sono prive di titolo (sostituito, come

s’usa, dall’in-

154 cipit). Le dediche sono 35, distribuite su 28 titoli: 3 sezioni, inclusa la liminare Sirene, e 25 poesie, delle quali

7 con dedica doppia. Se poi consideriamo che i 18 testi anepigrafi sono tutti esclusi (evidentemente per principio) dalla dedicazione, il numero dei titoli interni dedicati supera la metà (28 su 52).

Riscontri interessanti emergono

dalla rassegna dei

dedicatari. Si tratta di 27 italiani (Bacchelli, Baldini, Barilli, Bastianelli, Cardarelli, Carrà, Casati, Cecchi, Cotti, De Chirico, De Robertis, Ferrara, Gargiulo, Marone, Montano, Papini, Pea, Previati, Prezzolini, Rebora, Saffi, Savinio, Serra, Soffici, Spadini, Thovez, Viani) e 8 francesi (Aragon, Bourges, Breton, Chuzeville, Paulhan, Henri e Jean-Léon Thuile, Valéry). La maggior parte di questi nomi non necessita di chiarimenti. Ci sono amicizie che risalgono agli anni egiziani (Pea, i fratelli Thuile); c'è buona parte del gruppo vociano-lacerbiano, ivi compresi alcuni dei tanti artisti conosciuti prima della guerra (Carrà, Soffici, Papini, Prezzolini, De Robertis, Rebora, De Chirico, Savinio); l’intera redazione della «Ronda» (Bacchelli, Baldini, Barilli, Cardarelli, Cecchi, Montano, Saffi); altri letterati di primo piano, come l’inatteso recensore di Allegria di Naufragi Enrico Tho-

vez e il futuro prefatore del Sentimento, Alfredo giulo; un pittore di vaglia, il divisionista Gaetano viati (che era morto poco tempo prima, in Liguria, vagna, nel 1920). I nomi meno noti sono quelli del

GarPrea Lacriti-

co musicale Giannotto Bastianelli (1883-1927), collaboratore di varie riviste di inizio secolo fra cui «La Voce», «Lacerba» e «La Diana», menzionato da Ungaretti in un

Ricordo di Barilli apparso su «Galleria» nel 63 («musicologo principe anche se non siamo ormai più di due o tre a ricordarcene, due o tre superstiti»); il pittore Ar-

155

mando Spadini (1883-1925), amico di Papini e Cecchi, elogiato proprio nel ’23 nel saggio Pittura cosmopolita («il magnifico

Spadini»); Mario Ferrara, ricordato più

tardi fra i promotori del periodico «Il Costume», insieme a Velso

Mucci; Nicola Ciarletta

e Leonardo

Sinisgalli

(Prefazione a «L’ospite dell’Hotel Roosevelt» di Giacomo Natta, 1953). I due rimanenti sono una figura di un certo spicco nella storia italiana, il letterato e uomo politico Alessandro Casati (1881-1955), dedicatario di

Kobilek (Ungaretti lo conosce appunto tramite Soffici, alla fine del ’17), e un amico degli anni parigini, Confucio Cotti, studioso di filosofia, allievo a Berlino di Simmel (nonché suo traduttore per Laterza), citato in varie

lettere. Così ad esempio è presentato a Pea in data 21 febbraio 1913: Anima bella d’artista. Fa il filosofo da artista. È musicista finito. E sognatore. E mio fratello di queste giornate parigine, e di notte diventiam matti (p. 49).

Per quanto riguarda le dediche doppie, il criterio degli abbinamenti prevede tre casi: un italiano e un francese (Bacchelli/Bourges, Cecchi/Valéry, Breton/Gargiulo),

un letterato e un pittore (Serra/Spadini,

Montano/De

Chirico, Pea/Viani), un letterato e un musicista (Baldini/Barilli). Volendo, naturalmente, si potrebbe fare qualche osservazione anche sulle esclusioni. Manca, ad esempio,

Apollinaire: che era sì defunto da ormai cinque anni, ma al quale Ungaretti non aveva esitato a dedicare La Guerre (1919). Mancano

Blaise Cendrars e André Salmon,

dedicatari di due brani di P-L-M (rispettivamente di Roman Cinéma e Calumet): mentre la dedica a Perfec-

156 tions du noir (sempre in P-L-M) non preclude un nuovo omaggio a Breton. Mancano anche Jacob e Reverdy, ma forse non è il caso di stupirsene: sul primo Ungaretti aveva maturato un giudizio limitativo, sul secondo scriverà nel ’24 un elogio alquanto condizionato (e prescindiamo dalla conversione religiosa di ambedue, che precede di alcuni anni quella del nostro). Tra i vociani non compare Jahier, a cui Ungaretti non aveva perdonato — pare — Con me e con gli alpini, probabile bersaglio del durissimo giudizio che si legge in una lettera a Soffici del 2 settembre 1919: [...] da Jahier io mi sono staccato senza avere mai avuto

uno sgarbo, neanche il minimo; dopo la lettura del suo libro, puerile come psicologia, imbecille come sintassi, ipocrita come morale, non superiore ai Panzacchi ai Bertacchi e ai De Amicis come poesia, — anzi di molto inferiore, — servile come carattere umano: e io non sono ebreo, ma cattolico; io sono popolo italiano (p. 64).

A proposito, dall’elenco dei dedicatari manca anche Mussolini, a cui era intitolata una poesia di Allegria di Naufragi non compresa nella raccolta, Popolo (senza dedica nella prima uscita su «Lacerba» nel ’15, nonché a

partire dall’edizione mondadoriana dell’Allegria del 1962). Probabilmente non ha senso interrogarsi sulle assenze di altri, come Attilio Vallecchi, Pietro Pancrazi, Mario Puccini; certo, fa specie non trovare il nome di

Palazzeschi. Qualche considerazione o ipotesi si potrebbe fare anche sulla distribuzione delle dediche. La più ovvia, una gerarchia d’importanza, che privilegia i dedicatari delle sezioni: Allegria di naufragi «per Giovanni Papini»; /{ porto sepolto «per Ardengo Soffici»; e l’incipit

iti Sirene «a Jean Paulhan», con notevolissima equiparazione del nuovo amico ai dioscuri fiorentini. Forse non ha torto Frangois Livi, quando suggerisce che Paulhan «prend, à certains égards, le relais de Papini dans l’univers culturet:4’ Ungaretti»: ferma restando l’irripetibilità della sconfinata devozione professata dal giovane poeta per l’autore dell’Uomo finito. Un accoppiamento di rilievo è quello fra Prezzolini e / fiumi; quasi altrettanto lusinghiera, per quegli anni, l'assegnazione di /talia a Casati. Quanto a Serra, Silenzio in Liguria è legato a un’occasione biografica (come Natale nel caso di Marone); va però rilevato che il nome dell’editore è l’unico nella raccolta a comparire due volte, grazie al testo con-

clusivo «Gentile Ettore Serra» (già Poesia, poi Commiato), considerando

il quale la somma

delle dediche

ammonterebbe a 36. Ma è soprattutto il fenomeno nel suo insieme che merita una riflessione. Nella raccolta precedente, A/l/egria di Naufragi, le dediche erano senza paragone meno numerose: tre sezioni su undici — Ultime e prime a Carlo Carrà, Il ciclo delle 24 ore a Giovanni Papini, /{ porto sepolto a (anzi, «per») Ardengo Soffici, Finali di commedia a Vincenzo Cardarelli — più le poesie già citate: Popolo a Benito Mussolini, e i quattro brani francesi a

Apollinaire, Breton, Salmon e Cendrars. Nulla di tutto questo rimarrà nella redazione ne varietur dell’Allegria (Derniers Jours fa naturalmente storia a sé). Compulsando l’edizione critica, si registrano poi alcune curiosità: ad esempio, che tra le carte di Ungaretti è conservato un autografo della Galleria dopo mezzanotte con dedica a Savinio, o che a Cardarelli è dedicata Parigi,

prima redazione del poemetto in prosa L’Affricano a Parigi (uscito sull’ «Ardita» di Milano nel 1919).

158 Il riferimento più interessante rimane però il primo Porto. Pur non presentando alcuna dedica paratestuale (cioè posta in esergo), la plaquette udinese del ’16 delineava un itinerario esattamente compreso fra due nomi: l’amico suicida di /n memoria e il «gentile Ettore Serra» di Poesia. Due amici, ma anche due immagini dalla forte valenza simbolica. Mohammed Shehab si toglie la vita perché non ha più patria, non è mai riuscito a conquistare la propria identità, ha rinunciato al proprio nome per assumerne uno falso («Marcel»), e non ha saputo fare della poesia uno strumento di vita (di sopravvivenza). A Serra, che ha reso possibile l’uscita del libro, è invece indirizzata una pregnante dichiarazione di poetica: «sciolto» il canto del suo abbandono, Ungaretti gli affida un’idea di poesia come coincidenza di individualità e di unanimità, di macerazione stilistica e di esultanza vi-

tale. Che cosa resta di tutto ciò nella raccolta del ’23? La nuova dislocazione delle sezioni, con il Porto sepolto alla fine, riporta il nome di Serra in posizione eminente: s'intende, salvo il ridotto peso relativo, visto che l’elenco dei dedicatari, già ammontato a 9 nel volume

vallecchiano, si quadruplica. /n memoria invece perde il titolo; nell’indice, la poesia è registrata con il nuovo at-

tacco «Si chiamava / Moammed

Sceab».

Vero è che

nemmeno nel Porto udinese aveva un titolo (l’indice recita In memoria di Moammed Sceab). Ma la mancata distinzione fra titolo e testo, in quel caso, consentiva alla poesia di presentarsi come una dedica dell’intera rac-

colta, come ha sottolineato Carlo Ossola nel suo accurato commento al Porto Sepolto. A questo proposito soccorre anche un prezioso documento, presentato e studiato da Francois Livi. Si tratta di una traduzione francese di /n memoria che lo stesso Ungaretti appronta

159 nel corso del 1918, e consegna a Apollinaire: nel manoscritto il titolo — tutt'altro che «trompeur», anzi rivelato-

re — suona Dédicace du «Port Enselevi». Una dedica, appunto: laddove «Si chiamava / Moammed Sceab» è soltanto una rievocazione, del tutto destituita di valore oblativo. Il mutamento funzionale (e l’impoverimento di significato che ne consegue) trova conferma nella dislocazione del testo in seconda sede, dopo la poesia eponima /! porto sepolto. È questo, occorre ricordarlo? uno dei rami secchi della variantistica allegresca: fin dall’edizione Preda del ’31 Ungaretti restaura l’ordinamento primitivo. Ma l’interposizione della data — «Locvizza il 30 settembre

1916» — fra il titolo (In me-

moria) e il primo verso, e la conseguente ratifica del nuovo incipit («Si chiamava / Moammed Sceab») rappresenterà in sostanza una scelta di compromesso: una mediazione «tra celebrazione epigrafica e attenuazione narrativa, tra volontà epica e memoria lirica» (Ossola). È giunto il momento di formulare qualche conclusione.I! Porto Sepolto era nato come una sfida alla desolazione, alla disperazione, alla solitudine, alla morte.

Finita la fase più difficile della guerra, e poi conclusa la guerra stessa, con il suo interminabile carico di orrori e lutti, le prospettive cambiano. Già Allegria di Naufragi testimonia d’un clima almeno in parte diverso; con la raccolta del ’23 Ungaretti si allontana ulteriormente dall’esperienza che aveva presieduto alla genesi del suo primo libro. Di lotta per la sopravvivenza — la sopravvivenza dell’uomo attraverso la poesia, e della poesia medesima — rimane, nel secondo

Porto, scarsa traccia. Il

testo iniziale, Sirene, è un esempio illustre del classicismo

ungarettiano,

ma

ci introduce

in un

mondo

che

certo non patisce minaccia di afasia: la morte evocata è

160

— rr—————__—_—_——_—_———_—_—_rr arr rr ___—r———__——_rrrreeaea'@r”@c@@o@

un'immagine

letteraria (sia pure nel senso più nobile

della parola) che lascia intatta, anzi, corrobora la lette-

ratura in quanto istituzione, e presuppone largamente la facoltà del poeta di sognare e di poetare: Spirto funesto che intorbidi amore e, affine io risalga senza requie,

le nobili parvenze, pria ch’io giunga, muti, ecco già, non anco deluso, m’avvinci ad altro sogno.

Pari a quel mare procelloso e blando, che l’isola insidiosa porge e cela, perché ti prendi gioco di chi vuole, volte le spalle al nulla, andare incontro

alla morte, sperando?

Di fatto, quando scrive e ancor più quando pubblica questi versi, Ungaretti non è più solo, e ha superato il bisogno di ricercare un'identità. Sulla propria vocazione di poeta, non può più avere dubbi. I riconoscimenti, pur non ancora adeguati al suo valore, non gli sono mancati; e fra i suoi amici ed estimatori si contano i più sensibili e competenti lettori dell’epoca. Una patria, l’ha trovata: è un italiano e un poeta. Un poeta italiano (il recupero di Derniers Jours non sembra mai in questione), convinto più che mai di appartenere al popolo, di «essere» popolo. Quanto all’educazione francese e alle tante amicizie d'oltralpe, sono avvertiti come elementi che arricchiscono l’identità italiana, senza contraddirla.

Ecco allora che, volendo dare alle stampe una versione rinnovata e ampliata delle sue poesie, Ungaretti è spinto a dare un segno tangibile del suo avvenuto «riconoscimento», nel duplice senso di agnizione di sé e di

161 integrazione tanto in una comunità nazionale, quanto in una cerchia culturale privilegiata. Di qui la decisione di corredare il secondo Porto di tante dediche. Un gesto che nasce dalla-gratitudine, certamente: dalla riconoscenza.

Ma

anche dalla volontà — dalla tentazione,

se

vogliamo — di celebrare il proprio nuovo status. In questa luce, la premessa richiesta a Mussolini acquista la sua esatta dimensione: un suggello politico-istituzionale alla consacrazione di un poeta che, senza dimenticare i

vecchi amici, dialoga con i migliori ingegni letterari in circolazione. E l’ufficialità dell’operazione giustifica una veste editoriale sontuosa. Anni dopo, Ungaretti definirà «orribile» la seconda edizione del Porto: «curata [...] in modo perfettamente cretino, illustrazioni, carta e prefazione». Ma sono parole d’una lettera, resa nota di recente da Leone Piccio-

ni, datata Harvard 8 maggio 1969 (la si legge ora negli atti del convegno Giuseppe Ungaretti 1988-1970, a cura di Alexandra

Zingone,

Napoli, ETS

1995, p. 165). E

mezzo secolo non passa invano. $ 6. Dal secondo «Porto» al secondo libro L’analisi del paratesto, di per sé, ha un valore relati-

vo, se non riceve qualche conforto dei testi veri e propri. In chiusura, occorre quindi varcare di nuovo la «soglia» testuale, e operare alcuni riscontri. Innanzi tutto, va pre-

sa in esame la tabella delle esclusioni; e il riferimento più utile mi pare, di nuovo, la raccolta del 1916. Il Porto

udinese contava 32 poesie. L’omonima sezione della raccolta spezzina ne ha 31; ma i testi comuni sono soltanto 29, giacché due (A riposo e La notte bella) sono smembrati in modo da costituire quattro poesie distinte (nelle raccolte successive, il frammento «L'incanto si

162 tronca» si salderà di nuovo con A riposo, mentre l’auto-

nomia di «Col mare / mi sono fatto» verrà sancita dal titolo Universo). Restano dunque fuori tre testi: Distacco, Risvegli, San Martino del Carso. L'ipotesi più plausibile è che questa scelta dipenda dal desiderio di moderare non solo certi effetti di violenza espressionistica (tendenza non smentita dalle varianti successive), ma,

più precisamente, di smorzare gli accenti esistenziali, decimando le immagini di sofferenza e distruzione. In questa prospettiva, San Martino del Carso risulta poco recuperabile (cito secondo la prima redazione): Di queste case non c’è rimasto che qualche brandello di muro esposto all’aria Di tanti

che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto nei cimiteri Ma nel cuore

nessuna croce manca Innalzata di sentinella a che?

Sono morti cuore malato

Perché io guardi al mio cuore come a uno straziato paese qualche volta

163 Anche Risvegli è caratterizzata dalla ricorrenza del motivo funerario: Sono lontano colla mia memoria

dietro a quell’alt#e vite perse

[ea Rincorro le nuvole che si sciolgono dolcemente cogli occhi attenti e mi rammento di qualche amico morto (vv. 6-7, 12-17)

Se l’espunzione di Distacco non fornisce particolare sostegno alla nostra ipotesi interpretativa, una conferma importante è offerta dalla revisione di /mmagini di guerra (poi In dormiveglia), che qui appare priva del titolo e

della seconda strofa: Assisto la notte violentata

Mi pare che un affannato

nugolo di scalpellini batta il lastricato

di pietra di lava delle mie strade e io l’ascolti non vedendo

in dormiveglia Un testo, come si vede, pressoché irriconoscibile ri-

spetto alla versione

originaria. E si noti che i versi

164

e ITteTtEIIEEIeI».—|ITì6:IISiIéImé—meSOEOTTTOO

espunti (anche questa volta, in via del tutto provvisoria), oltre a proporre il tema della natura straziata e dell’umanità oppressa, fornivano chiara spiegazione della fantasticheria sviluppata nella terza strofa (il lontano ricordo del martellìo degli scalpellini suscitato dalle detonazioni delle bocche da fuoco): L’aria è crivellata come una trina

dalle schioppettate degli uomini ritratti nelle trincee come le lumache

nel loro guscio

Uno dei testi più belli del Porto udinese risulta così astratto, depotenziato: depurato forse, ma a prezzo d’una

rarefazione che ne altera irrimediabilmente la fisionomia. Lungo questa strada, Ungaretti capisce che non conviene proseguire. Se non rinuncia a mitigare il còté espressionistico del suo primo libro nelle redazioni successive, opera però diversamente. Circoscrive le zone di violenza più accusata, senza abolirle; esaspera la concentrazione verbale, affila e distilla, senza mutilare. E soprattutto, come abbiamo visto, decide di non esser più

l’autore di un libro, bensì di due: risoluzione, per un poeta, di importanza eccezionale (che andrebbe accostata, sia pur con tutte le precauzioni e precisazioni del caso, all’opposta scelta di Saba di porsi come autore d’un libro solo). Le istanze non applicabili senza gravi perdite alle poesie degli anni Dieci verranno più liberamente espresse nei componimenti nuovi, che ne trarran-

165 no il vantaggio d’una migliore caratterizzazione. L’equilibrio tra «vita» e «letteratura» verrà definito diversamente nei due casi: più durezze e asperità, più concentrazione esistenziale nella prima raccolta, più levigatezza e ricercatezza*f6rmale nella seconda. Poi, com’è noto, un’imputazione autobiografica investirà l’intero corso della poesia ungarettiana. Entro l’onnicomprensiva, rassicurante cornice della «vita d’un uomo» (che recupera anche le poesie «disperse», cioè, in

buona sostanza, rifiutate) le esigenze compositive verranno ridimensionate radicalmente. Il respiro delle varianti s’accorcia, e forse per questo esse vengono, di contro, sempre più esibite. La scelta dei titoli si fa meno problematica, e così i rapporti fra i nomi delle diverse raccolte: I! Dolore — dizione in sé comprensibilissima, perfettamente consona allo spirito del libro — si trova così incongruamente a fungere da pendant a L’Allegria (che invece, come sappiamo, si dovrebbe chiamare per esteso Allegria di Naufragi). Cosa ancor più significativa, le raccolte denunciano un’incompiutezza strutturale che non aspira ad esser risarcita: La Terra Promessa, cuore della «terza stagione» ungarettiana, non si sbarazzerà mai del sottotitolo Frammenti, né andrà mai ad in-

corporare gli Ultimi cori, tenace appannaggio dell’autonomo Taccuino del Vecchio. Asimmetrie, irregolarità, imperfezioni sono legittimate dall’assiomatica congruenza di poesia e biografia. A garantire la quale provvede — tale, almeno, l'impressione d’un postero — la calda, esuberante, coinvolgente umanità dell’anziano e ce-

lebrato poeta, sopravvissuto a tanti deserti e a tanti naufragi.

166

Note

Ecco l’indicazione bibliografica completa dei testi citati in forma sintetica: Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, Milano, Mondadori 1974; Ettore Serra, // tascapane di Ungaretti. Il mio vero Saba e altri saggi su Cardarelli,

Sbarbaro,

Barile e Tallone, Roma,

Edizioni di Storia e Letteratura 1983; L’A/legria, edizione critica a cura di Cristiana Maggi Romano, Milano, Fondazione Alberto e Arnoldo Mondadori 1982, a cui va corredato il saggio Nuove carte per l’edizione critica dell’ Allegria: Ettore Serra e Il Porto Sepolto del ’23, «Studi di Filologia italiana», XLII, 1984; Leone Piccioni, Vita di un poeta, Milano, Rizzoli 1970; Lettere

a Giovanni Papini 1915-1948, a cura di Maria

Antonietta Terzoli, Milano, Mondadori 1988; Lettere a Enrico Pea, a cura di Jole Soldateschi, Milano, Scheiwiller 1983; Lettere a Soffici. 1917-1930, a cura di Paola Montefoschi e Leone Piccioni, Firenze, Sansoni 1981. I Porto Sepolto commentato da Carlo Ossola (Milano, Il Saggiatore 1981) si legge ora in edizione Marsilio (Venezia 1990).

Il cartiglio con le cifre di Ettore Serra è riprodotto anche nel volume /25 ex-libris di Francesco Gamba, edito a Bologna da Cesare Ratta (s.i.d.). Il brano citato di Ettore Cozzani è

tratto da Gli artisti italiani del libro. Armando Cermignani, Milano, Edizioni del Risorgimento Grafico 1922, p. 13; quello di Luigi Servolini dal volume La xilografia, Milano, Mondadori, 1950, p. 214. Il commento di Frangois Livi sul rapporto U. — Paulhan si legge in Ungarettiana. Notes bibliographiques, «Revue des Etudes Italiennes», XXXV, 1989, p. 150. Nello stesso numero si trova anche il saggio Ungaretti soldat-écrivain, dove Livi parla della traduzione in francese di In memoria.

rr

167

Tab. | Indice del Porto Sepolto (La Spezia 1923) con l’indicazione dei titoli definitivi dell’Allegria è.

Sirene

(Sentimento del Tempo)

Elegie e madrigali Le stagioni Alla noia Trame lunari Silenzio in Liguria Paesaggio O Notte «oceanici silenzi» Lucca La galleria dopo mezzanotte Odo la primavera La donna scoperta

(Sentimento del Tempo) (Sentimento del Tempo) (Poesie disperse) (Sentimento del Tempo)

(Sentimento del Tempo) (Sentimento del Tempo) (rifuso in O Notte)

id. = In galleria = Ironia (già Ironia di Dio) = Scoperta della donna

Allegria di naufragi Allegria di naufragi Natale «Sotto questa tenda» «La vita si vuota» «Lontano lontano» «Si porta» L’illuminata rugiada Militari Prato Sereno Transfigurazione «S’era assunto» «Mi sono curvato»

id. (già La filosofia del poeta) id. = Temporale = Inizio di sera = Nostalgia (già Lontano) = Si porta (già Fine marzo) (Poesie disperse) = Soldati id. id. (già Sera serena)

= Trasfigurazione = Vanità (prima strofa) = Vanità (seconda strofa)

168 Nostalgia Rosa fiammante

Godimento Dolina notturna Giugno Solitudine Un’altra notte Sempre notte Girovago Ritorno Preghiera

=,Sogno = Rose in fiamme

id. (già Le ore della quiete) id. (già Notte)

Il porto sepolto

Il porto sepolto «Si chiamava»

Lindoro di deserto A riposo «L'incanto si tronca» Veglia Annientamento «Balaustrata di brezza» Fase

Silenzio «Fermato a due sassi» Vendemmia «Chiuso fra cose mortali» Malinconia Peso Perché C’era una volta

«Volti al travaglio» Sono una creatura «Assisto...»

Ifiumi

id. In memoria id. id.

(poi rifuso in A riposo) id. id. = Stasera (già Finestra a mare, Sera)

id. id.

= Monotonia (già Paesaggio) = Fase d’oriente = Dannazione

= Destino

id. = In dormiveglia (già Immagini di guerra) id.

169 Pellegrinaggio «Col mare mi sono fatto» La notte bella Sonnolenza

rs2£

«Di che reggimento siete» «Con la mia fame di lupo» Nostalgia Italia «Il carnato del cielo» Gentile Ettore Serra

id. = Universo (già in La notte bella)

ida. id.

:

= Fratelli (già Soldato) = Attrito

id. id. = Tramonto = Commiato (già Poesia)

170 Tab. 2 Indice del Porto Sepolto (La Spezia 1923)

con l’elenco dei dedicatari delle singole sezioni e poesie

Sirene

a Jean Paulhan

Elegie e madrigali Le stagioni

a Riccardo Bacchelli / a Elémir

Alla noia

a Emilio Cecchi / a Paul

Bourges

Trame lunari

Silenzio in Liguria

Valéry a Aurelio E. Saffi a Ettore Serra / a Armando Spadini

Paesaggio

a Lorenzo Montano / a Giorgio

O Notte

a André Breton / a Alfredo Gargiulo

De Chirico

«oceanici silenzi» Lucca La galleria dopo mezzanotte Odo la primavera La donna scoperta

Allegria di naufragi

Allegria di naufragi Natale «Sotto questa tenda» «La vita si vuota» «Lontano lontano» «Si porta/un’infinita»

a Enrico Pea / a Lorenzo Viani a Alberto Savinio a Vincenzo Cardarelli

per Giovanni Papini

a Gherardo Marone

171 L’illuminata rugiada Militari Prato Sereno

Transfigurazione >; «S”era assunto/d’un tratto» «Mi sono curvato/sull’acqua» Nostalgia Rosa fiammante Godimento Dolina notturna Giugno Solitudine Un’altra notte Sempre notte Girovago Ritorno Preghiera Il porto sepolto

Da a Gaetano Previati Mie

a Jean Chuzeville

a a Henri Thuile a, a Antonio Baldini/ a Bruno Barilli a Giannotto Bastianelli da a Louis Aragon a Mario Ferrara a Carlo Carrà per Ardengo Soffici

Il porto sepolto «Si chiamava/Moammed Sceab»

Lindoro di deserto A riposo

7

a Giuseppe De Roberti[s]

«L'incanto si tronca»

Veglia Annientamento «Balaustrata di brezza»

Fase Silenzio «Fermato a due sassi» Vendemmia «Chiuso fra cose mortali» Malinconia Peso

= a Jean-Léon Thuile

172 Perchè

,

a Clemente Rebora

C'era una volta «Volti al travaglio» Sono una creatura «Assisto la notte violentata»

Ifiumi Pellegrinaggio «Col mare mi sono fatto» La notte bella Sonnolenza «Di che reggimento siete» «Con la mia fame di lupo» Nostalgia

a Giuseppe Prezzolini

Italia «Il carnato del cielo» Gentile Ettore Serra

al conte Alessandro Casati

2 a Enrico Thovez a Confucio Cotti

3,

Il «giorno triste» e la metamorfosi del Capitano ET

La Auflòsung der lyrischen Genera, cioè îa dissoluzione dei generi lirici, che tanta parte ha nella composizione del volume leopardiano dei Canti e quindi nell’intera storia della poesia moderna, non costituisce,

com'è noto, un evento del tutto irreversibile. I successivi sviluppi della poesia italiana comprendono fra l’altro una serie di spinte in senso contrario: numerosi sono gli autori che nell’articolazione delle singole raccolte o nella sistemazione complessiva della propria opera inclinano a reintrodurre distinzioni categoriali, adombrando recuperi (più o meno parziali, idiosincratici 0 provvisori) dei generi, e con essi una nozione di lirica — almeno certi aspetti — non indivisibile e unica, bensì plurima

e frastagliata. Le denominazioni potranno avere carattere letterale o metaforico; rifarsi alla tradizione letteraria,

o trarre ispirazione da altri ambiti artistici; suggerire l’idea di un modello suscettibile di imitazione, ovvero di

un unicum, non estrapolabile da un determinato contesto. Ne deriva così una variegata tipologia di titoli, sottotitoli e titoli interni, accomunati dalla tendenza a im-

plicare distinzioni tassonomiche. Le myricae e gli ossi di seppia; i poemetti, le laudi, le odi, gl’inni; i mottetti, le

canzonette, le fughe. Ovviamente, bisognerà poi distinguere caso per caso il significato di ciascuna di queste diciture, e valutarne intenti e portata in termini di rapporto fra tradizione e innovazione: o meglio — a Nove-

174 cento inoltrato, e ad avanguardie consunte — di rapporto fra distillazione e/o ibridazione di linee, filoni, vettori

tradizionali. Non di rado epigrafi canoniche sono chiamate a bilanciare e temperare, o comunque a contestualizzare secondo più familiari parametri, sperimentazioni ardite (si pensi alle Ecloghe di Andrea Zanzotto); un semplice aggettivo è suscettibile di incrinare la convenzionalità d’una terminologia (così i montaliani Madrigali privati); un abbinamento inconsueto può evocare — ma senza mai compromettersi fino in fondo — un effetto di endiadi, come (per rimanere alla Bufera) «Flashes» e

dediche — o Sogni e Accordi, in Sentimento del Tempo. Certo, nel caso di Ungaretti il ripristino di elementi «generici» si colloca in un momento storico ben preciso,

cioè dopo Allegria di Naufragi, che nella sua complessa suddivisione interna (undici sezioni, di cui due francesi) comprende solo titoli tematici; fa eccezione solamente la sezione iniziale, che rinvia a un criterio diacronico (Ul-

time e prime). L’indice definitivo dell’A//egria, introdotto nel

1931, esalta la diacronia.

Su cinque sezioni

rimaste, due rappresentano indicatori temporali: e un forte accento sul divenire è implicato sia dalla collocazione strategica (ad apertura

e chiusura

di libro), sia

dall’inversione d’ordine (in prima sede Ultime, in ultima Prime), che colloca idealmente la raccolta entro uno svolgimento aperto e ininterroito. Prime ritorna come denominazione della sezione liminare di Sentimento del Tempo, con pregnanza alquanto minore, e limitata ai rapporto con la raccolta precedente; mentre l’elemento più nuovo e notevole consiste nell’alternanza fra titoli tematici

(La

Fine

di

Crono,

La

morte

meditata,

L’amore) e titoli generici o para-generici quali Leggende e Inni, a cui si può aggiungere la già citata e compo-

175 sita dizione (quasi una sinestesia) Sogni e Accordi. Giusto a metà strada fra l’A/legria e il Sentimento troviamo il Porto Sepolto del 1923, che in sostanza rappresenta il tentativo — fallito — di acclimatare l’esperienza poetica del quinquennio 1845-19 nella temperie culturale degli anni Venti. La prassi di desumere i nomi delle partizioni interne d’una raccolta dalla tradizione metrica è inaugurata qui da Elegie e Madrigali, termini in seguito mai più ripresi da Ungaretti. Anche a questo livello compositivo, dunque, il rappel à l’ordre fa sentire i suoi effetti con tempestività. E i suoi

limiti, naturalmente:

basta scorrere

le successive

raccolte ungarettiane per verificare che nessuna stabile articolazione interna del (super-)genere lirico giungerà mai ad affermarsi. Nessuna autentica rinascita dei /yrische Genera, insomma: un rapsodismo di stampo pascoliano rimane estraneo a Ungaretti, come ai maggiori poeti del nostro secolo. Del resto, lo spazio della lirica è troppo esiguo per consentire una diversificazione funzionale tanto netta da assurgere al rango di istituto letterario. Il che beninteso non esclude varietà tonali anche grandissime; a tacere della perdurante vitalità di forme di poesia non lirica (dagli epigrammi di Fortini alla narrativa in versi di Bertolucci). Ma torniamo a Ungaretti. La prima poesia della sezione Leggende è Il Capitano, un componimento ispirato ad un personaggio che non solo era realmente esistito, ma che aveva acquisito una specialissima rilevanza simbolica a seguito del più drammatico episodio della recente storia d’Italia, la rotta di Caporetto. Ricapitoliamo brevemente alcuni dati. Nel carteggio con Papini (interlocutore privilegiato di Ungaretti durante l’intero corso della guerra) il capitano Nazzareno Cremona è

176 nominato per la prima volta in una lettera che reca il timbro postale del 24 aprile 1916: Caro Papini, oggi è Pasqua, una domenica banale, e piove. Ma tu avessi visto, stamani, i nostri soldati, i miei compagni, come fissavano il loro mondo custodito, con che smarrimento

si ritrovavano per le strade di questo villaggio «redento». Cari i miei compagni. Sfilavano ieri snelli alla cadenza dei loro passi risoluti, amabili. E hanno guardato in viso la morte, senza sapere perché, e hanno ripreso il monte «aspro», i più ingegnosi i più mansueti i più impetuosi i più generosi — non sanno perché — ricostruttori di questa terra, italiani. Come era bello il capitano di 23 anni, alto due metri, che, cavalcando, iniziava la marcia. Come era bello il capitano Cremona (Letterea Giovanni Papini, n. 27, pp. 26-27).

Sedici mesi dopo l’ufficiale viene ucciso. Ungaretti annuncia il mesto evento il 25 settembre 1917 (la data è sempre quella del timbro postale): Ho l’anima sciupata; il capitano di cui ti parlavo, è rimasto ucciso, come temevo a quella notizia, ricordi? Un uomo gentile in meno sulla terra, e sono così rari (lett. 147, p. 149).

la

Passano ancora due mesi, durante i quali si consuma tragedia della XII battaglia dell’Isonzo, con

l’inopinato collasso dell’esercito italiano e l’interminabile ritirata attraverso la pianura veneta. Ungaretti, che dopo l’uscita del Porto Sepolto udinese ha continuato a scrivere e pubblicare, medita una silloge complessiva delle sue liriche. Il suo pensiero si volge alla figura del giovane ufficiale caduto, nella quale gli sembra si compendino vicende e sventure dell’intero reggimento (il 19° Fanteria). Così scrive a Papini il 19 dicembre 1917:

177 Che pensi di una raccolta di tutte le mie poesie che porterebbero per titolo Zona di guerra e nella quale comprenderei il Porto, il Ciclo, quelle della Riviera, e qualche prosa lirica? Ho l’intenzione di raccontare la storia del vecchio 19 impersonata in una gentilezza, svanita nel silenzio, laggiù; la figura splendente di umafiîtà del Capitano Cremona, laggiù nel silenzio di questo mio cuore peso come una pietra (lett. 167, pp. 165-66).

Il progetto, in questi termini, non verrà mai realizzato. Vedranno però la luce, in tempi diversi, un articolo dal titolo Zona di guerra (Vivendo con il popolo), che esce sul «Tempo» di Roma il 4 gennaio 1918; la raccolta poetica corredata da alcuni poemetti in prosa, naturalmente Allegria di Naufragi (1919); e una poesia dedicata a Nazzareno Cremona, /! Capitano appunto, che avrà una gestazione lunghissima. Ungaretti comincia a lavorarvi nel 1920: l’autografo più antico, conservato fra le carte di Enrico Falqui e documentato nell’edizione critica di Sentimento del Tempo, riporta la data «Parigi febbraio 1920 — Roma 24 febbraio 1925». La prima versione a stampa appare nel 1927 su «Commerce» (la rivista di Fargue, Valéry e Larbaud), con testo francese a fronte dell’autore. Dopo varie stesure intermedie e profondi rimaneggiamenti, la poesia acquista una fisionomia definitiva

nella seconda

edizione del Sentimento,

che esce per i tipi della romana Novissima nel 1936. Il 16 agosto 1942 Ungaretti scrive a Giuseppe De Robertis, allora già impegnato ad allestire il volume delle Disperse, che Il Capitano è stata, insieme a Popolo, la poesia che gli è costata maggiore fatica. Le ragioni sono molteplici, anche (se vogliamo) di ordine prettamente tecnico. Ma la più importante consiste senza dubbio nell’incertezza sulla scelta del «genere» lirico.

178 Ungaretti desidera cantare la figura d’un giovane e sfortunato eroe. Ha in mente fin dall’inizio alcuni elementi compositivi — qualche parola, qualche immagine e cadenza ritmica — ma esita sull’impianto generale della composizione. Il proposito originario, direttamente scaturito dalle emozioni e dai traumi dell’autunno 1917, è di collegare la morte del Capitano alla tragedia di Caporetto, facendo di questo nesso il centro ideale di un’opera di testimonianza, intonata in chiave civile e patriottica. Il lessema gentilezza — che già abbiamo visto ripetutamente riferito alla figura del Capitano — torna a più riprese quando Ungaretti parla delle possibili conseguenze della disfatta: e va inteso essenzialmente come sinonimo di «civiltà». La civiltà, che un’inattesa e sconvolgente catastrofe

ha messo gravemente a repentaglio: ecco la posta in gioco. Vediamo ancora due lettere a Papini (la prima databile 2-5 novembre, la seconda 15 novembre

1917):

Mio Papini, avrai forse ricevuto la cartolina che in tutta

fretta ho potuto mandarti appena incontrata una buca postale, la prima dal giorno triste. Non ti posso dire nulla. Si soffre, e malgrado tutto si spera ancora. Grida agli italiani di aver forza d’animo, di resistere: coraggio, Papini; grida con tutta la tua forza al nostro popolo di avere coraggio; se la gentilezza deve scomparire dalla terra, la cederemo a caro prezzo: fino all’ultimo uomo siamo pronti (lett. 156, p. 159). Mio caro Papini, dove sono? non certo fra le rose. Ma questo è indifferente. Si potrà ancora salvare la civiltà che ci è cara? Del nostro soldato si può ancora fare quel che si vuole; una grandezza insuperabile o un’estrema abbiezione: un po’ di psicologia, un po’ di psicologia. Spero spero spero. [...] Presto ti manderò «Due anni di vita di popolo italiano vissuta» (lett. 158, p. 160).

179 Il motivo è ribadito il 16 novembre all’amico napoletano Gherardo Marone:

in una lettera

Mio caro Marone, da quel giorno triste, da più di 20 giorni

cioè, siamo sempre. stati in movimento. Sono sano e indifferente di quel che mi succederà; ho fede nella salvezza della civiltà alla quale ho dato poco, ma certo tutto il mio amore disinteressato (Lettere dal fronte a Gherardo Marone, p. 108).

Della civiltà, la «gentilezza» è il nucleo profondo, il

principio ispiratore. Ecco due stralci dall’articolo Zona di guerra (datato in calce 30 dicembre 1917), che per gran parte è una sorta di poemetto in prosa, ma che verso la conclusione assume un tono scopertamente parenetico: Chi parla di pace oggi è un delinquente. Oggi bisogna resistere; o uccidere la gentilezza. [...] L'Italia vuol essere più grande, non di territorio, ch'è secondario, ma d’anima, che se lo merita; [...] vuole essere elevata ai fasti che in duemil’anni, senza riposo, traccia nella storia della gentilezza (Vita d’un uomo. Saggi e interventi, p. 9).

A Zona di guerra allude una lettera a Papini di pochi giorni dopo (9 gennaio 1918), che giustifica l’enfasi esortativa dell’intervento giornalistico annunciando una ulteriore elaborazione letteraria. Mio caro Papini, oggi è venuto qui Soffici e sono stato un po’ bene. Il mio articolo pare gli sia piaciuto molto; anche qui ha fatto ottima impressione. Non era esclusivamente poesia; ma lo diverrà per il mio libro «Il popolo d’Italia soldato» che ho l’intenzione e il dovere di scrivere. Quelle cose d’indole pratica, programmatica, mi sembravano opportune, dato il

180

cre Le

momento, che richiede uno sforzo concorde di tutta la nazione

(lett. 173, p. 173).

Nessun documento riferibile al progetto di questo libro è emerso finora dagli archivi. Ai nostri fini basta tuttavia registrare quanto segue. Dopo Caporetto, Ungaretti avverte la necessità di concentrarsi su alcuni cruciali temi: la guerra, il popolo in armi, la difesa della ci-

viltà. In questa chiave vorrebbe ripresentare le poesie già edite; comporre opere nuove, in versi e in prosa; € utilizzare a tal fine, in modi ancora non l'emblema poetico del Capitano, vivente

ben definiti, incarnazione

dei valori per i quali i soldati combattono e muoiono. Beninteso, sulla visione che Ungaretti ha del popolo — generoso, plasmabile, ingenuo, tanto più eroico quanto più inconsapevole, e disposto a identificarsi nella figura carismatica di un capo — si potrebbero aggiungere molte considerazioni: le quali poi varrebbero fra l’altro a illustrare la tormentata gestazione di una poesia, Popolo appunto, che documenta il trascolorare del nazionalismo ungarettiano dalle inquietudini anarchiche e sovversive d’anteguerra fino alle tentazioni trionfalistiche degli anni Venti, appena arginate da una spasimante, convulsa densità metaforica che nella stratigrafia variantistica rimane la cifra distintiva del testo. Sta di fatto che il favorevole decorso della guerra durante l’anno 1918 attenua l'urgenza dei progetti di scrittura militante. Le idee politiche di Ungaretti non mutano, tant'è vero che quando le armi finalmente taceranno eserciterà la funzione di corrispondente da Parigi del «Popolo d’Italia» di Mussolini. Ma in quanto poeta depone abbastanza presto i propositi di impegno corale, testimoniale e celebrativo per tornare allo schietto ed eletto lirismo delle sue prove

181 migliori. Girovago, tanto per indicare un episodio emblematico, reca l’indicazione «Campo di Mailly maggio 1918». Insieme alle istanze più personali e soggettive, riprende lena quekmito del «nomade» che aveva presieduto alla nascita stessa del Porto Sepolto. Avviene così che quando // Capitano esce dalla preistoria delle enunciazioni programmatiche per entrare nella luce delle varianti documentate, all’immagine dell’ufficiale di un reparto di fanteria si è intrecciata — o forse sovrapposta — la figura del «lupo di mare», sopravvissuto alle tempesta e perennemente disposto a riprendere la navigazione. L'attacco della prima redazione del Capitano sembra riallacciarsi direttamente ad Allegria di naufragi, che fino al ’23 ha come titolo La filosofia del poeta («E subito riprende / il. viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare»). Ecco il testo uscito sul Ca-

hier XII di «Commerce» (Été 1927): Le stagioni passarono. Fui pronto a tutte le partenze. Quando ero bimbo e mi svegliavo di soprassalto, mi calmavo udendo urlanti nell’assente via, cani randagi. Mi parevano più del lumino alla Madonna che ardeva sempre in quella stanza, una mistica compagnia. Fui poi inseguito da un’eco accorsa d’oltre nascita. Quando la guerra m’ebbe ritessuto e non fui, coricato sul sasso,

182

o, ———————*==*=*-=«-=-=-*"* e_voooeo_o —

che una fibra della zona fangosa la notte perse ogni velo. Tutto era sterminato, l'umiltà nella notte senza luna e l’amore che nelle vene

quasi vuote, latrava. Ma il capitano era sereno. (Venne in cielo la falce) Il capitano era tanto alto, e mai non si chinava. (Andava su una nube)

Nel solco s’adagiò come uno stelo. (La falce è un velo)

Gli chiusi gli occhi. Parve di piume. (O cielo spento)

Con ogni evidenza, l’istanza del resoconto storico — già esitante fra encomio, cronaca e commemorazione — si è alquanto smorzata. Ungaretti opta per una forma di discorso lirico che finissimamente filtra una sequenza ordinata di spunti autobiografici: un po’ come nei Fiumi, in sostanza, fatte salve le variazioni di cadenza più marcate, e palesi soprattutto nel passaggio dall’andamento diffusamente narrativo della parte iniziale al ritmo franto e brachilogico della seconda, dove la voce si sdoppia.

183 Spicca la suggestione leopardiana dei vv. 3-9: il motivo del conforto suscitato da certi rumori nelle notti d'infanzia rinvia ad un celebre passo delle Ricordanze («Viene il vento recando il sùon dell’ora / Dalla torre del borgo. Era=c&nforto, / Questo suon, mi rimembra, alle mie notti, / Quando fanciullo, nella buia stanza, /

Per assidui terrori io vigilava, / Sospirando il mattin...»). In questa prima versione /! Capitano occupa il quinto posto entro una serie di sei componimenti (Sogno, La fine di Crono, L’isola, Colore; Aura), raggrup-

pati sotto il titolo complessivo Appunti per una poesia. Ne dobbiamo arguire che Ungaretti stava accarezzando l’idea di fonderli in un unico, lungo poemetto? Difficile a dirsi; tanto più che la dicitura Appunti per una poesia accomunava anche i sette testi editi su «Commerce» due anni prima (Cahier IV, Printemps 1925), e cioè Nascita d’aurora, Giugno, Roma, Sera, Usignolo, Lido, Inno

alla Morte, che non è facile includere in un disegno unitario. Sta di fatto che la successiva redazione del Capitano — datata Roma giugno 1927 e pubblicata sull’«Italia Letteraria» del 19 maggio 1929 — accentua l’aspetto memoriale e rievocativo. Espunti i due sintetici enunciati d’apertura, la prima parte della poesia allinea ora tre ricordi, disposti lungo le prime età della vita: fra il notturno

infantile

(privo del dettaglio del lumino

alla

Madonna) e il tempo di guerra viene infatti interposto un episodio della giovinezza, l’iniziazione erotica (che poi andrà a costituire un testo autonomo, leopardianamente denominato // primo amore). Quando ero bimbo e mi svegliavo di soprassalto, udendo

184

e

RS

I

____———___

i cani erranti per l’assente. via, incerta guida, mi calmavo.

E sopraggiunse un altro tempo. Era una notte urbana, afosa e strana, nella luce sulfurea e rosa, quando improvvise vidi inquiete zanne viola, nell’ascella mentre una pace oscura simulava e, nella sorta tenda riposavo, la pensierosa e trepida gazzella nella mano veniva a bere.

Ma quando, ritessuto dalla guerra, non fui più, coricato sopra il sasso, che una fibra della zona fangosa, la notte non ebbe più velo. Non più la notte lievito di sogni, d’oltre memoria l’eco vaga.

L’ora fu per natura sterminata.

Tutto era crudo, l’umiltà nella notte senza luna e l’amore che nelle vene quasi vuote, latrava.

Ma il Capitano era sereno. (Venne in cielo la falce)

Il Capitano era alto, non si chinava. (Andava su una nube)

_———r;î

185 (Un solco è pronto) (La morte è il velo)

Gli chiusi gli ocghi. Parve di piume.

Come si vede, rispetto alla prima stesura cade la desolata clausola «(O cielo spento)», che ribadiva il tema dell’oscurità, imprimendo con ciò alla poesia il suggello pessimistico di una privazione. Ora, invece, si profila un

esito differente. Se gli echi leopardiani restano, e divengono anzi più sensibili (si veda il v. 3, o l’incremento

degli endecasillabi a spese delle cadenze novenarie), il senso complessivo del messaggio muta, allontanandosi decisamente dallo spirito dei Canti. Viene sacrificata anche l’eco virgiliana «Nel solco s’adagiò come uno stelo», del resto già esclusa a suo tempo dalla traduzione francese («/! fut renversé, droit dans le sillon»): la quale, detto per inciso, più che una traduzione andrebbe considerata come una variante a sé, sia perché fino all’apparizione del Capitano è un testo in prosa, sia perché certi snodi cruciali sono resi in maniera affatto diversa. L'attacco, ad esempio, che introduceva

una nota di maggiore risolutezza («Tous les départs me virent prét; je sais le secret des saisons»); o l’ultimo di-

stico, che scioglieva un rapito quinario («Parve di piume») in una protratta, analitica similitudine («L’aile ne

fut jamais aussi légère / que ce grand corps étendu»). E all’accezione insolita del verbo tessere («Quando la guerra m’ebbe ritessuto»), forse suggerita dalla metafora della «fibra», a sua volta ripresa direttamente dal Porto

Sepolto (I fiumi, Destino), subentrava un più letterale

186

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pétrir, «plasmare» («Quand la guerre m’eut pétri»), figurativamente connesso al contiguo «fango» (la «zona fangosa», «zone fangeuse»). Certo, in tutte queste variazioni, un dato strutturale

viene confermato. // Capitano si presenta sempre come una poesia scandita in due tempi o movimenti (nel senso musicale della parola): dapprima una voce monologante richiama alcuni remoti ricordi personali, poi, dietro l’aspra sollecitazione di immagini di guerra, la memoria si muta in visione, oggettivandosi in una figura che fuoriesce dalla storia per proiettarsi nel mito. Allo scorrere del tempo autobiografico subentra una sorta di dramma liturgico a due voci (graficamente riprodotte dall’uso delle parentesi e dei corsivi), che annulla o neutralizza il divenire, e simultaneamente trascende il soggetto: da un lato le varie fasi dell’epifania del Capitano, dall’altra una serie di particolari paesistici, da intendersi in termini strettamente simbolici. Possiamo ora passare, saltando alcune stesure inter-

medie («Gazzetta del Popolo» 28 settembre 1932, Sentimento Vallecchi 1933) all’ultimo atto della vicenda variantistica, consegnato alle pagine dell’edizione Novissima. In sostanza, la versione ne varietur del Capita-

no nasce da una più accurata bilanciatura dei due tempi della poesia. Più che di correzioni formali, si tratta di una nuova e definitiva qualificazione di genere. Non l'autobiografia lirica, ma la trasfigurazione mitica: non l'avventura personale, diciamo pure la storia di un’anima, ma la «leggenda». Fui pronto a tutte le partenze.

Quando hai segreti, notte hai pietà.

187 Se bimbo mi svegliavo Di soprassalto, mi calmavo udendo Urlanti nell’assente via, > Cani randagi. Mi parevano

Più del luminò alla Madonna Che ardeva sempre in quella stanza, Mistica compagnia. E non ad un rincorrere Echi d’innanzi nascita,

Mi sorpresi con cuore, uomo? Ma quando, notte, il tuo viso fu nudo E buttato sul sasso Non fui che fibra d’elementi,

Pazza, palese in ogni oggetto, Era schiacciante l’umiltà.

Il Capitano era sereno. (Venne in cielo la luna)

Era alto e mai non si chinava. (Andava su una nube)

Nessuno lo vide cadere, Nessuno l’udì rantolare,

Riapparve adagiato in un solco, Teneva le mani sul petto.

Gli chiusi gli occhi. (La luna è un velo)

Parve di piume.

Fe

gh

Gli interventi più rilevanti rispondono alla necessità di movimentare la prima parte, sia sul piano sintattico sia sul piano figurale, sottraendola all’ipoteca della originaria linearità evocativa. Novità decisiva è la comparsa del «tu» rivolto alla personificazione della notte, che determina un riorientamento complessivo del discorso. Subito dopo l’incipit epigrafico in prima persona (ripreso dalla redazione di «Commerce»), un secondo asserto

generalizzante s' impernia sul vocativo («notte»). Un ulteriore appello alla notte si ha al v. 13, proprio dove s’apre lo squarcio del ricordo di guerra: la narrazione risulta così attenuata e filtrata dall’apostrofe. A_conferma dello slittamento di tono, viene variato l’uso della

congiunzione temporale «Quando» (di contro alla simmetria funzionale delle precedenti stesure): ora può assumere anche carattere iterativo, anziché storico (v. 2),

mentre a introdurre il ricordo infantile è deputato il nesso ipotetico «Se» (v. 3). Il sovvenire alla mente di echi prenatali — espresso su «Commerce» da una semplice affermazione e sull’«Italia Letteraria» da una frase negativa e ellittica — prende la forma di un’interrogazione retorica. Nell'insieme,

il resoconto

recede di fronte ai

modi allocutivi dell’invocazione: l’assetto narrativo, progressivo, viene abbandonato a favore di uno svolgimento più ondulato e vario, che attenua o dissimula la temporalità preparando la successiva impennata simbolica. A livello sintattico, la nuova impostazione declamatoria si ripercuote nel frequente ricorso a inversioni e iperbati, che fra l’altro consente la messa in rilievo della parola tematica «umiltà» (intesa nel senso di atterramento, avvilimento, mortificazione). Ad essa l’epifania del Capitano oppone uno slancio verso l’alto, destinato a risultare vittorioso.

189 In quest’ultima redazione, tutto gravita davvero sulla mirabile apparizione finale: un'immagine purificatrice, catartica, che indica la possibilità di una rigenerazione spirituale attraverso la fuga dal tempo e dalla storia. La quartina di novenari, quasi un frammento di litania, proclama una sorta di transustanziazione: anziché abbattere il Capitano, la morte sembra conferirgli una sovrumana levità. Il cielo non s’è affatto spento; al contrario, l’idealità sconfigge la materia. I limiti creaturali sono infranti; l’icona del martire — davvero

«Nazzareno»



aleggia sulle miserie della terra. Una leggenda, dicevamo. E qui la parabola si con‘ clude: la «storia del vecchio 19» diventa materia di poesia solamente quando viene proiettata sull’orizzonte del mito. Ma a ben vedere, rimane qualcosa del reparto di

Ungaretti? Una remotissima stesura conservata fra le carte Falqui prevedeva, alla morte del Capitano, un marziale saluto da parte dei caduti del reggimento (sono i vv. 30-31 dell’autografo più antico): Morti del 19 fanteria, folla, presentate le armi!

Ora i soldati non appaiono affatto, se non nella negazione di un doppio pronome indefinito («Nessuno lo vide cadere, / Nessuno l’udì rantolare...»). La truppa è svanita. In scena vediamo solo individui: il poeta, la notte personificata, e il Capitano,

«un po’ paterno, un

po’ alter ego» (Cambon). Il Capitano è senza dubbio una delle poesie più belle di Sentimento del Tempo. E anche una delle meglio studiate dalla critica, che non

ha mancato

di individuare

pe e

LI

nella struttura del testo un’antinomia di fondo tra la dimensione fenomenica e quella immaginativa. Da un lato la realtà cruda ed opprimente, dall’altro il segreto, il mistero, la divinazione: la capacità di elevarsi al di sopra delle cose e di risalire a uno stato edenico, sottraendosi all’usura del tempo. La memoria, come è stato detto, non serve a trattenere l'impronta degli eventi accaduti,

ma a recuperare uno stato primigenio di innocenza. In questa chiave va letta l’opposizione fra la nudità spietata della notte e la risorta luce lunare. A ben vedere, proprio «velo» è il termine chiave del testo. La perdita del velo da parte della notte (v. 13: ma quando ... il tuo viso fu nudo), che coincide con la momentanea invisibilità della luna, corrisponde a un massimo di reificazione e disumanizzazione; ad essa si contrappone vittoriosamente la

«falce», la luna ricomparsa, che pur al prezzo di una vita recisa riesce a distendere sulla terra un velo nuovo, se-

gno del trionfo della levità sul peso, dell’idea sulla materia: della «gentilezza» — cioè della civiltà. Anche se nelle pagine precedenti ci è uscito più riprese dalla penna il nome di Leopardi, non siamo troppo distanti dalle Grazie foscoliane. E infatti: devotissimo lettore di Leopardi, e da un certo punto in poi suo fedele, instancabile

esegeta,

Ungaretti

ha una

visione

del

mondo e della poesia che non potrebbe essere più lontana da quella dell’autore dei Canti. Detto un po’ all'ingrosso, Ungaretti è un idealista, un platonico; e come si può conciliare il platonismo con una filosofia fondata su presupposti rigorosamente materialistici? Se proprio vogliamo, del lungo itinerario percorso da Leopardi, Ungaretti s’arresta — o regredisce — all’altezza del 1822, nei dintorni della canzone Alla Primavera. Prima dell’Ultimo canto di Saffo; e (non sarà un caso) prima

191 della Auflòsung der lyrischen Genera, e della transizione da un classicismo ardito e sperimentale (assimilabile, cum grano salis, agli orientamenti estetici del Foscolo) ad una più ragigale e innovativa esperienza «postclassica» (Brioschi). All’origine di questa evoluzione, peraltro, stava la volontà di non distogliere lo sguardo dal «vero»: ciò che invece Ungaretti sente appunto il bisogno di fare. Trascendere la verità storica, tramutarla in

leggenda. Pur con tutte le attenuanti del caso — nessuna delle brutture che Leopardi può aver osservato o sperimentato nella sua infelice esistenza può essere paragonata alle trincee della Grande Guerra — a noi, oggi, questo appare inesorabilmente come un limite. Occorre precisare, del resto, che dalla storia Unga-

retti mira ad affrancarsi fin dall’inizio. // Porto Sepolto è un libro composto al fronte, giorno dopo giorno, su foglietti faticosamente rimediati — «cartoline in franchigia,

margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute...» — e ficcati poi alla rinfusa nel leggendario tascapane. Pure, /! Porto Sepolto è e nello stesso tempo non è un libro di guerra. Ci sono le detonazioni delle armi, le distruzioni, i morti, le macerie; non c’è la guerra

come evento, e perciò come fatto culturale. La guerra a Ungaretti si presenta come una condizione biografica, 0 — come ha suggerito Fortini — biologica. Gli manca, invece, il senso di un’esperienza collettiva complessa che includa di necessità anche la dimensione del conflitto: del conflitto fra uomini, nazionalità, istituzioni, poteri. Come

tutti sanno, di nemico o nemici // Porto Se-

polto non parla; e anche per questo è un grande libro di poesia (un libro di grande poesia). Per un breve tempo, il disastro di Caporetto sembra indurre Ungaretti a cambiare prospettiva. Occorre testimoniare, fare opera di

l92

Crea,

Tr PT oo_o

er_ooo oo o

o

Eo@g9t(s.@

battaglia. Fare anche i conti con la storia, dunque? Ma il

poeta, impulsivo ed ingenuo, si appaga di una visione semplificata, quasi manichea. Nessuna riflessione sulle cause del collasso del nostro esercito: solo l’angosciata percezione di una sciagura terribile, alla quale urge reagire rivendicando innanzi tutto le eroiche virtù del popolo italiano, chiamato a difendere la «gentilezza» contro i nemici della civiltà. Propaganda, in buona sostanza (nessuna meraviglia che Zona di guerra piacesse a Soffici). E, letterariamente parlando, materia prima — molto

«prima», da elaborare a lungo, depurare con cura — di un’astrazione mitologizzante: non certo tema di cronaca o di autobiografia. Ungaretti, insomma, può rimanere poeta solo a prezzo di staccarsi sempre più dalla contingenza dei fatti (in questo è stato senza dubbio il più foscoliano fra i grandi poeti del Novecento). Quanto più gli eventi sono drammatici, tanto più risolutamente dovranno essere trascesi. Nessun testo dell’A//egria allude all’evento della ritirata. E il «giorno triste», il «giorno della sventura», non verrà

nominato mai: nel vocabolario ungarettiano, la parola «Caporetto» non trova cittadinanza. Naturalmente lo stesso vale per la riscossa e per Vittorio Veneto. Su queste basi — su questa rinuncia — nascerà di lì a poco il «secondo» Ungaretti: assorto in pensieri contemplativi, disposto a riaccostarsi alla fede cristiana, e fervido adepto

di un’idea (anti-leopardiana quant’altre mai) della leiteratura come religione e divinazione metafisica. E se ci sarà un terzo Ungaretti, capace ancora di offrire molto

alla poesia del nostro secolo, sarà in virtù di una ulteriore divergenza da Leopardi. Il «dolore» — per Leopardi dato primitivo della coscienza, argomento di incessante riflessione filosofica, tema poetico assiduamente medi-

193 tato, distillato, decantato — avrà per Ungaretti il valore di un trauma imprevisto: di un macigno che crolla, sconvolgendo insieme la sua vita ela sua visione del mondo. Ecco allora il vel&-della luna lacerato, ecco il sole nudo

e ruggente di 7u ti spezzasti («Grazia felice, / Non avresti potuto non spezzarti / In una cecità tanto indurita / Tu semplice soffio e cristallo, // Troppo umano lampo per l’empio, / Selvoso,

accanito,

ronzante

/ Ruggito d’un

sole ignudo»). Un colpo mortale anche per ogni eventuale ripresa dei /yrische Genera. Segnato come il Foscolo da una fatale, insolubile tensione fra patriottismo

(geografico e simbolico) ed extraterritorialità, 1’ Ungaretti più classicista sarà l’autore di un’opera incompiuta. Ma se il destino del nomade esclude l’approdo a una terra promessa, sul piano dei miti personali, in definitiva, tout se tient. Quanto alla coralità, o all'unanimità — per

usare le parole del Porto Sepolto — era sepolta già da tanto tempo, presso una qualche trincea non lontana da Caporetto.

194

Note

Innanzi tutto, due riferimenti bibliografici leopardiani: Karl Maurer, Giacomo Leopardis «Canti» und die Auflòsung der lyrischen Genera, Frankfurt am Main, Klostermann

1957;

Franco Brioschi, La poesia senza nome. Saggio su Leopardi, Milano, Il Saggiatore 1980 (che propone l’illuminante definizione di Leopardi come «post-classico»).

I prelievi dai carteggi ungarettiani riguardano Lettere a Giovanni Papini 1915-1948, a cura di Maria Antonietta Terzoli, Milano, Mondadori 1988; Lettere dal fronte a Gherardo Marone

(1916-1918),

a cura di Armando

Marone,

Milano,

Mondadori 1978. Alla travagliata gestazione del Capitano e di Popolo accennano le lettere a Giuseppe De Robertis del 16 agosto e 4 settembre 1942: si veda Epistolario U.- De Robertis 1931-1962, a cura di Domenico De Robertis, Milano, Il Saggiatore 1984, pp. 23 e 27. Attente analisi del Capitano

si trovano

monografie su Ungaretti: Glauco Cambon,

nelle principali La poesia di U.,

Torino, Einaudi 1975, pp. 114-125; Carlo Ossola, G.U., Milano, Mursia 1982°, pp. 290-293. Per la genesi della poesia si veda l’Introduzione alla più volte citata edizione critica di Sentimento del Tempo (a cura di Rosanna Angelica e Cristiana Maggi Romano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano

1988), pp. XXÌx-XXXVII,

XLIV-XLVI.

Le varianti

del

Capitano e di Primo amore si trovano alle pp. 181-98; l’autotraduzione in francese a p. 329. Le poesie uscite su «Commerce» sono state ripubblicate dall’editore parigino Solin in una preziosa plaquette del 1980: G.U., Notes pour une poésie et autres textes franco-italiens (présentés par Jean-Charles Vegliante, préface de André Pieyre de Mandiargues).

195 Riproduco per intero Le Capitaine: «Tous les départs me virent prét; je sais le secret des saisons. // Quand j”étais enfant, la lumière de la Madone trembtotait jour et nuit dans ma chambre. Mais ce, qui me tenait compagnie, si je me réveillais en sursaut, c’était, dans la rue absente, les cris libres des chiens. // Plus tard je fus traqué par un écho, venu d’outrenaissance. // Quand la guerre m’eut pétri et que je ne fus plus qu’une fibre de la zone fangeuse, je vis sans voile la figure de la nuit. // Tout était démesuré: l’humilité dans la nuit sans lune, l’amour qui criait dans les veines vides. /// Mais le capitaine était calme. // (Une faux montait dans le ciel) // Le ca-

pitaine était grand, | Il ne se penchait pas. Il (Un nuage passait au ciel) // Il fut renversé, droit dans le sillon. Il (La faux était un voile) // J'ai fermé ses yeux // L’aile ne fut jamais aussi légère / que ce grand corps étendu. // (O ciel éteint)». Malgrado l’autorevole suggerimento di Giuseppe De Robertis che si legge nell’introduzione alle Disperse del ’47, i riferimenti a Foscolo non sono molto comuni nella critica ungarettiana, eccezion fatta per la Terra Promessa: d’obbligo i rinvii a Mario Petrucciani, // condizionale di Didone. Studi su U. (Napoli, Edizioni

Scientifiche

Italiane

1985) e Piero Bi-

gongiari, Poesia italiana del Novecento (Milano, Il Saggiatore 1980). Bigongiari ha però ricordato esplicitamente il velo delle Grazie a proposito dell’«ordito» delle Stagioni (1920) che nasconde il vero e traluce di verità «opposta» (op. cit., II, p. 178). Non a caso, anche qui i simboli del velo e della luna convergono: «Non ordirò le tue malinconie, / Ma sul fosso lunare sull’altura / l’ombra si desterà». Per parte sua, Ungaretti «non ama ricordare Foscolo»: lo conferma uno dei suoi studiosi più devoti, Emerico Giachery, il quale tuttavia sostiene che per l’autore di Sentimento del Tempo, come appunto per quello delle Grazie, la mitologia sembra rappresentare «non una convenzione, non un referente attinto alla cultura dei libri, ma il suo autentico linguaggio, il solo possibile in certi momenti di creatività mitopoietica»

196 (Suggestioni dell’antico Lazio nella poesia di U., in AAVV, U. e i classici, a cura di Marta Bruscia et al., Roma, Studium 1993, pp. 45-46).

Molto istruttivo, circa il diverso modo in cui gli scrittori al fronte concepiscono la guerra, è ovviamente il rapporto con il mondo normale da cui si sono distaccati. Ungaretti cerca di mantenere vivi i contatti culturali e letterari, attende con trepidazione notizie, novità, riviste. Ecco cosa scrive invece Giani Stuparich in un appunto datato 20 luglio 1915: «Mi sveglio all’arrivo della posta. Un nuovo numero de “La Voce”: un mese fa l’arrivo delle “Voci” mi faceva ancora piacere, sentivo questa rivista come l’espressione di qualche cosa che m’era vicina, ora invece la sento estranea, una rivista letteraria d’una città lontana; tutto mi par troppo lontano e inutile. Non ho voglia di leggere, ho una terribile sete» (Guerra del ’15, Torino, Einaudi 1978, p. 113).

Ottant’anni dopo (per una ristampa del Porto Sepolto 1916) SERE?

Da un punto di vista rigorosamente testuale, la ristampa anastatica dell’editio princeps non aggiunge nulla a un’opera: s'intende, quando già ne esistano buone edizioni, o — a maggior ragione — un'edizione critica. Vero è che Ungaretti potrebbe esser considerato un’eccezione: correttore assiduo e instancabile produttore di varianti, egli ha lasciato un corpus poetico che ha posto e continua a porre agli studiosi problemi filologici e editoriali quanto mai ardui. Ma dopo la raccolta complessiva Vita d’un uomo. Tutte le poesie, curata da Leone Piccioni, che aprì nel 1969 la collezione mondadoriana dei «Meridiani»;

dopo l’edizione

critica dell’A/-

legria, approntata nell’82 da Cristiana Maggi Romano per i tipi della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori (integrata, alla luce di recenti ritrovamenti, da un Ag-

giornamento apparso in «Studi di Filologia Italiana», 1990, n. 48); dopo l’edizione del Porto Sepolto del ’16, magistralmente commentata da Carlo Ossola (ora Venezia, Marsilio 1990) non si può certo sostenere che la prima grande stagione della poesia ungarettiana sia, editorialmente

parlando, un territorio da scoprire o ri-

scoprire. Fermo restando, beninteso, che precisazioni e accertamenti filologici sono sempre possibili; che sui criteri di edizione non è raro nascano fra gli specialisti divergenze di vedute; e che una nuova versione dell’opera poetica, alla luce dei ritrovamenti degli ultimi de-

198 RAMI > — i ______ cenni, sarebbe comunque auspicabile.

La questione è un’altra. Una ristampa anastatica non mira a migliorare la conoscenza del testo (di per sé autonomo dal supporto materiale che lo trasmette), quanto a ricollocare l’opera in un ambiente determinato. Nel caso di una prima edizione, a rievocare, a ridestare (tra i

significati del termine greco andstasis c'è anche quello di «resurrezione»), a restituire con evidenza immediata

il «luogo» — grafico, tipografico, e perciò culturale — in cui l’opera ha preso forma. Se la letteratura vive nel tempo, le sue concrete epifanie non possono prescindere dallo spazio: e un libro è appunto una porzione di spazio, nella quale è rappresa — anche nelle peculiarità compositive, negli accidenti della stampa — una porzione di storia. In un certo senso, una ristampa anastatica è un po’

come una fotografia dell’autore. Del testo che egli ha scritto non dice nulla; ma sul suo modo di essere, di por-

si — e perciò anche di scrivere — può insegnare molto. O, se si preferisce, come un’immagine dei luoghi dove egli viveva e operava: una casa, uno studio, un caffè (prezio-

so, a questo proposito, il «Meridiano» dell’Album Ungaretti, allestito da Paola Montefoschi). O come una registrazione della sua voce: le parole non cambiano, son sempre quelle, ma ci giungono rivestite del colore del tempo — cioè d’un tempo diverso dal presente. E perciò provviste d’una concretezza, di un’immediatezza

sensibile che, senza smentire l’immaterialità della creazione letteraria, ci rende persuasi della inesorabile contingenza della sua vita estetica effettiva: della sua natura di messaggio sociale, che può circolare fra i lettori solo in grazia d’una veste determinata, dettata — quale essa sia — da circostanze di cultura, di ambiente, di condizio-

199 namenti materiali, di gusto, che sarebbe incauto liquida-

re come indifferenti o allotrie. Anche in un’esperienza impalpabile come la lettura della poesia (che è sempre una sorta di autgerecitazione,

di-esecuzione

privata) i

legami tra orecchio e occhio, e fra occhio e tatto, non vengono mai meno. Ogni lettura, infine, è un evento, un’«occasione» sinestetica. Se mai ce ne dimenticassimo, un reprint d’epoca basta a metterci sull’avviso; specialmente se riguarda un’opera che appunto, secondo l’espressione consueta, ha fatto epoca. Come l’esile raccolta di liriche apparsa a Udine ottant'anni fa presso lo Stabilimento Tipografico Friulano, nel dicembre del 1916: uno smilzo libretto — 48 pagine, 32 componimenti, meno di 600 versi, per lo più brevi o brevissimi — destinato a imprimere un nuovo corso all’intera poesia italiana contemporanea.

Le circostanze della pubblicazione sono state ricordate più volte dai due protagonisti di quella piccola, memorabile impresa editoriale: l’autore naturalmente, il soldato semplice Giuseppe Ungaretti, in servizio presso il 19° Reggimento di Fanteria, e il promotore e curatore dell'edizione, Ettore Serra, tenente di grado, fervido appassionato di poesia e poeta egli stesso, sia pur non eccelso. Venticinquenne (era nato a La Spezia nel 1890),

Serra aveva pubblicato fino ad allora quattro volumi, tutti presso l’editore livornese Belforte: // fuoco all’alba (1906), A/ vento d’autunno (1908), Sogno simbolico (1910) e un racconto che pare non fosse dispiaciuto a

Papini, Vita di giovine artista (1911). Ma egli non ne andava fiero. Lo conferma una lettera che Ungaretti invia allo stesso Papini nel gennaio ’17: «l’amico di cui ti

TDI

toi

parlavo è un uomo profondamente fine; un uomo che somiglia tanto a Thuile; uno scontroso che non s’è mai visto sulle riviste, che ha scritto un libro tanti anni fa, di

cui ha vergogna oggi e non mi ha fatto leggere, — neppure a me che gli sono fraternamente legato, — che mi scrive delle lettere deliziose di sensibilità intensa e ha una conversazione più deliziosa ancora, che sa cogliermi un momento

di cielo, o un tratto di strada, o un brano di

campagna, 0 l’aspetto d’un uomo con una sobrietà vibrante e piena di colore; un uomo che ha discernimento come di rado da noi, e entusiasmo: Ettore Serra» (Lettere a Giovanni Papini 1915-1948, a cura di Maria Antonietta Terzoli, Milano, Mondadori

1988, p. 93).

Molti anni dopo, Serra dirà che di quei volumi, «per fortuna distrutti, non restano presso di me che le copertine»: così si legge nella raccolta, uscita postuma, // tascapane di Ungaretti, Roma, Edizioni di Storia e Lette-

ratura 1983, p. 22 (una precedente stesura era apparsa nel ’73 su «Resine»). In realtà alcune copie delle prove giovanili di Serra sono sopravvissute, sparse nelle biblioteche; e sono disponibili

ai curiosi, che volessero

indagare sul dannunzianesimo velleitario e goffo, e quindi sull’antidannunzianesimo languido e crepuscolareggiante, d’un aspirante poeta dei primi anni del secolo. Se, in seguito, Serra farà di meglio — si pensi soprattutto a La casa in mare, prefata nel °61 da Giorgio Caproni — il suo più grande contributo alla poesia contemporanea resta la decisione di diventare editore, il primo editore,

di Giuseppe Ungaretti. Certo, non v’ha dubbio che Ungaretti sarebbe stato Ungaretti anche senza l’intervento del «gentile Ettore Serra». Ma aver fissato, fer-

mato su carta l’inquietissima ricerca ungarettiana — destinata a snodarsi lungo itinerari testuali quant’altri mai

201 sinuosi e tormentati — all'altezza di quell’autunno 1916, avrà pur significato qualcosa, anche per le scelte future del poeta. Ungaretti sarebbe diventato Ungaretti comunque: ma sarebbe.stato un Ungaretti un pochino diverso da quello che conosciamo.

Le altre scarne notizie che abbiamo sulla genesi del Porto Sepolto derivano essenzialmente dall’epistolario ungarettiano; o per dir meglio, da quel che ce ne è pervenuto, visto che del carteggio con Enrico Pea nulla è rimasto degli anni di guerra, e che le prime lettere a Soffici a noi note risalgono alla fine del "17. Ungaretti comincia a scrivere dal primo giorno di trincea, sul Monte San Michele, poco prima del Natale 1915. Il componimento più antico della raccolta — che fa seguito alla dedica senza titolo «In memoria di Moammed Sceab» e alla dichiarazione di poetica // porto sepolto — è Lindoro di deserto, datato Cima 4, il 22 dicembre.

Veglia è del

giorno successivo, 23 dicembre; con A riposo si salta invece al 27 aprile 1916, cioè alla pausa di quindici giorni che il 19° Reggimento trascorre a Versa, e che propizia l’incontro con il «tenentino» Serra. Difficile credere che per quattro mesi Ungaretti non avesse fatto nulla; ma nemmeno

lo si può escludere a priori. Certo è

invece che non si sentiva ancora sulla buona strada. Il 14 aprile (data del timbro postale) scrive una cartolina a Carlo Carrà, che nello stesso numero della «Voce» su cui era uscita Lindoro di deserto (31 marzo) aveva pub-

blicato un lavoro su Giotto: la tua parlata su Giotto. Che approfondito anche il senso tuo linguaggio ch’è una vera

«Carissimo Carrà, ho letto cosa delicata e limpida. Hai di quella pittura, con quel transposizione di realtà. Ti

202

SOI rr ro ——r—P

sono riconoscente. E come ti è sembrata la mia poesia? Sono tormentato da un problema, che giudico il problema dei problemi, che credo anche il tuo caso di passione. Quello che ho fatto non mi serve che d’assaggio. Vorrei arrivare a realizzazioni assolute; a una unificazione dove fosse dato risalto — (intendo come essenza,

come una valutazione delle parole — sillabe immagini ritmo / materia spirito forma) — alla gravità e insieme alle vibrazioni, fino alle sfumature infinitesimali, di que-

sta nostra vita moderna» (Cinquantatré lettere a Carlo Carrà, «Paradigma» n. 3, gennaio 1980, p. 417).

I mesi seguenti sono invece contrassegnati da un grande fervore creativo, tant'è che nell’estate del ’16 Ungaretti accarezza l’idea di stampare un libro con le poesie composte fino a quel punto. Così scrive al direttore della «Diana», Gherardo Marone, per informarsi sui

costi di un’eventuale pubblicazione (la cartolina è timbrata il 14 luglio): «Caro Marone, mi potreste dire, voi

che vi intendete di cose tipografiche, il prezzo di un volume, formato della ‘Diana’, carta ordinaria, caratteri di questo corpo circa: IL PORTO SEPOLTO, un centinaio di copie numerate, un migliaio di versi. Sarebbe la raccolta delle mie cose che vorrei distribuire agli amici» (Lettere dal fronte a Gherardo Marone (1916-1918), Milano,

Mondadori 1978, p. 48). Un migliaio di versi: quasi il doppio, rispetto al volume che vedrà la luce alla fine dell’anno: che per di più è composto per una metà abbondante — stando alle date in calce — di liriche scritte dopo la metà di luglio. Una differenza che non colmerebbero neppure i testi usciti su «Lacerba» prima della

guerra, tra febbraio e maggio del ’15: nessuno dei quali entrerà però mai nel Porto Sepolto (alcuni, profondamente rimaneggiati e spesso mutati anche nel titolo, con-

203 fluiranno nel ’19 in Allegria di Naufragi; altri, sepolti davvero — e sono i più — rivedranno la luce solo trent'anni dopo, nelle Poesie disperse censite e illustrate da Giuseppe De Ra@bertis). Può darsi che Ungaretti sbagliasse i calcoli; e con ogni probabilità non pochi sono gli abbozzi andati perduti (sparse varianti e brani inediti sono riemersi dai carteggi). Sta di fatto che una revisione radicale intercorre nei due mesi e mezzo circa che separano il primo progetto — 1’Ur-Porto Sepolto annunciato a Marone — dalla consegna del manoscritto al tipografo. Lo confermano due lettere a Papini, spedite quando l’uscita del libro era ormai prossima. La prima (la n. 79 dell’epistolario) è databile fine novembre: «Carissimo Papini, non faccio più nulla; ultimamente ho ripreso tutte le mie cose del periodo di guerra, ne ho distrutte mezze, ho rifatto il resto, e ho richiuso, e mi pare che la

mia vena abbia dato anche l’ultima goccia del suo sangue anemico, e si sia dolcemente stagnata» (Lettere a Giovanni Papini 1915-1948, Milano, Mondadori 1988, p. 75). La seconda reca il timbro 5 dicembre 1916: «Forse presto esce il mio Porto Sepolto. Si sta stampando, pare,

a Udine, in edizione di 80 esemplari numerati.

Un mio amico ha voluto raccogliere le mie cose di quest'anno di guerra. Ho rifatto quasi tutto. Vedrai: è una cosa signorile: è certo il miglior libro: il più sincero: il più puro, di quest'anno: ne dicano pur male i grammatici: il primo esemplare sarà per te: in Francia l’ameranno» (n. 80, p. 76).

In questo rifacimento, è improbabile che Serra abbia giocato un ruolo significativo. Determinante risulta invece la sua sollecitazione a pubblicare quelle poesie così com'erano, vincendo il senso di inappagamento che ancora abitava il poeta. Ne è indizio l’aggettivo «anemi-

204

SR, __—rr—_——_————_——————— __ —

co», ricorrente anche in una lettera allo stesso Papini del 2 settembre 1916 (la data, eccezionalmente, è di pugno del mittente): «credo di dover dare qualche amore a questa mia poesia anemica, che mi gocciola da queste mie vene tagliate, per quella sete avvelenata che mi rode come fossi colpito, come una femmina maledizione biblica» (lett. 69, p. 69).

sterile, da una

Ecco, in breve, come possiamo figurarci quest’ultima fase della gestazione del Porto. Ungaretti scrive: e insieme scorcia, taglia, sfoltisce; rispetto alla sua prima maniera, più che limare, espelle e recide. Assottigliati, rastremati, scarniti fino ad una inusitata essenzialità,

i

nuovi versi non finiscono però di convincerlo. Sono il suo sangue, la sua poesia. Ma quanto valgono? Anche l’artista più grande attraversa momenti di esitazione, di stanchezza: di scoramento. Un sostegno esterno può essere, allora, prezioso. Gli amici più cari (Pea, Carrà, Soffici, Apollinaire) sono

lontani; dal venerato

Papini

non proviene, forse, l’incoraggiamento desiderato. Marone, al quale Ungaretti invia quattro testi che escono sulla «Diana» fra giugno e settembre (Fase, Malinconia, Paesaggio — poi Monotonia — e Nostalgia), è prodigo di elogi: fin troppo: del suo giudizio, non ci si può fidare più di tanto. Serra invece è lì, affettuoso e discreto: «gentile» non solo, ma — come qualcuno l’ha definito — felice rabdomante lirico. In un’altra testimonianza, edita

nel °68 nel numero speciale di «Galleria», Serra rifiutava questa definizione, che gli pareva troppo lusinghiera. Aveva, penso, torto. Tutte queste potrebbero sembrare minuzie biografiche, e in parte lo sono. Non manca però qualche implicazione d’ordine critico. Ad esempio, la convergenza della prima poesia ungarettiana con certe prestigiose

rr SAT

205

esperienze artistiche primonovecentesche, nel segno del «primitivismo» — cioè della ricerca di una studiata, primordiale semplicità espressiva — risulta in questa luce come il portato*càsuale no, ma in larga misura preterintenzionale, scevro da ogni intento programmatico (e quindi, a ben vedere, ancora più significativo), di un’e-

sperienza lirica che percorreva sentieri autonomi, senza ricercare soluzioni formali dall’esterno. Ungaretti insomma

non

imita, almeno

coscientemente,

l’art nègre

(così come non imita la poesia giapponese degli haikai, che la «Diana» presentava appunto in quei mesi ai lettori italiani). Eppure lo scavo nella propria condizione di aridità esistenziale conduce il sodale di Apollinaire, l’amico di Picasso, su vie omologhe a quelle per cui s’inerpicava la migliore avanguardia del Novecento. Diretti echi delle dispute che prima della guerra animavano i caffè del Faubourg Saint-Germain, nelle testimonianze di quei mesi di trincea, non mi pare ce ne siano. Ma nel

’26 Ungaretti

scriverà:

«Si era in tale dimestichezza

colla morte, che il naufragio era senza fine. Non c’era oggetto che non ce lo riflettesse; era, la nostra stessa vi-

ta, da capo a fondo, l’oggetto qualsiasi sul quale cadeva a caso il nostro sguardo. Non era la nostra, in realtà, vita più che oggettiva, il primo oggetto venuto. [...] Non conoscerò più tanta soggezione, né quella libertà ferma, ch’è la vera, d’uno specchio perenne. In quel frangente, ho capito perché il Negro fa gli occhi all’idolo con pezzetti di specchio» (/Innocenza e memoria, ora in Vita d’un uomo. Saggi e interventi, pp. 133-134). L’ultima poesia del Porto Sepolto, Poesia appunto (poi Commiato) è datata 2 ottobre. La stampa avviene,

come ricorda Serra, «fra i primi di ottobre e la metà di dicembre del 1916». Formato e caratteri (in-4° piccolo,

206 Bodoni, corpo 10), scelti dall’editore, riprendevano quelli di «un caro libro di Riccardo Pitteri intitolato Friuli, una serie di sonetti dedicati e letti a Gorizia», che lo

Stabilimento Tipografico Friulano aveva pubblicato due anni prima. Allo stampatore sfuggì un refuso, uno solo: come un scia = come una scia (p. 27): non a caso in Perché?, inserita in extremis, come dimostra la data

«Carsia giulia il 23 Novembre 1916» (poi ridotta alla sola indicazione di anno). «Perché solo 80 esemplari? Non certo per mio capriccio, ché anzi avevo pensato a due o trecento copie. Ma irremovibile su quel numero, né uno di più né uno di meno, fu proprio Ungaretti che era più tenace di un bimbo bizzoso quando s’impuntava, e per un nonnulla roteava la lama dei suoi occhi azzurri, e bofonchiava, o anche urlava, ripetendo le stesse parole non una ma cento volte. ‘Ottanta, più che sufficienti’, sentenziò: ‘Bastano ottanta’, ripeté, e io mi attenni alle

sue istruzioni» (// tascapane di Ungaretti, cit., p. 33). Il poeta vide il libro a Versa il 16 dicembre, poco prima di partire in licenza per Napoli, dove lo attendeva Marone. Curiosamente, sul modo in cui Ungaretti reagì alla vista del Porto fresco di stampa Serra ha fornito due versioni discordi. La più antica, e più plausibile, risale al brano del ’23 qui riprodotto, e parla d’una schietta, spontanea contentezza: «Quando Ungaretti vide il primo esemplare del libro, nitido e parco, esultò di gioia; né più lo vidi poi contento come quel giorno». Svariati anni dopo Serra si corregge. L’esultanza originaria, benché non smentita, si vela ora di imbarazzata, pudica malinconia, in nome dell’austero culto dell’«anonimato» retrospettivamente professato dal poeta ormai celebre. Così suona il ricordo serriano nella versione apparsa sul numero monografico di «Letteratura» del 1958: «Quan-

207 do Ungaretti vide il primo esemplare del libro, nitido e parco, ne fu contento, ma pure io gli vidi passare negli occhi un’ombra di tristezza. Nel suo pudore e nella sua

umiltà, certo noa%fensava che dalle petraie del Carso per lui era nata, alta umanissima

tersa, una poesia nuova»

(p.341). Che cosa era successo? Semplicemente che Serra, te-

stimone malleabile ma amico devoto, aveva nel frattempo aggiustato i propri ricordi personali alle idee espresse e maturate da Ungaretti: il quale per parte sua, dimentico del preventivo richiesto a Marone nell’estate del 1916, aveva perfezionato negli anni Trenta quell’immagine della propria poesia che verrà poi sintetizzata nel titolo complessivo Vita d’un uomo (dicitura inaugurata con l’Allegria mondadoriana del ’42, ma anticipata in un’edizione francese curata da Jean Chuzeville nel 1939). Rileggiamo il più celebre fra gli autocommenti ungarettiani, originariamente edito nella Premessa alla raccolta di Ettore Serra Stambul ed altri paesi (Genova,

Emiliano degli Orfini 1936), poi riprodotto prima in // Carso non è più un inferno (Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro 1966), rifuso nella Note all’Allegria di Tutte le poesie (p. 521), e quindi riprodotto in Saggi e interventi (pp. 281-82).

A dire il vero quei foglietti: cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute, ... — sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, portandoli a vivere con me nel fango della trincea o facendomene capezzale nei rari riposi, non erano destinati a nessun pubblico. Non avevo idea del pubblico, e non avevo voluto la guerra e non partecipavo alla guerra per ricevere applausi,

208

FFTIIIeemee.etl.et.-

avevo, ed ho oggi ancora, un rispetto tale d’un così grande sacrifizio com'è la guerra per un popolo, che ogni atto di vanità in simili circostanze mi sarebbe sembrato una profanazione — anche quello di chi, come noi, si fosse trovato in pieno nella mischia. Di più, m’ero fatto un’idea così rigorosa, e forse assurda, dell’anonimato in una guerra destinata a concludersi, nelle mie speranze, colla vittoria del popolo, che qualsiasi cosa m’avesse minimamente distinto da un altro fante, mi sareb-

be sembrata un odioso privilegio e un gesto offensivo verso il popolo al quale, accettando la guerra nello stato più umile, avevo inteso dare un segno di completa dedizione.

La memoria, ahimè, di rado è innocente; e infatti una

parte della critica ha parlato, non senza un pizzico di ingenerosità, di «retorica del tascapane». Ma non è il caso di scandalizzarsi, davvero. Dalla retorica, intesa nel

senso proprio del termine, non si può sfuggire, tanto più che ogni scritto autobiografico è sempre, per sua natura, una «finzione», cioè una costruzione a posteriori: la stessa coincidenza di arte e vita, di vita e letteratura, co-

stituisce, ci piaccia o no, un topos letterario. Ciò peraltro non significa che la poesia rifugga dall’esperienza vissuta, 0 che ad essa sia sostanzialmente impermeabile. Al contrario: proprio il folgorante esordio poetico ungarettiano, così elaborato sul piano formale e insieme

vibrante di autenticità umana,

lo dimostra.

così

Semplice-

mente, la poesia interviene — con i mezzi, le forme, gli

istituti che le sono propri — a mediare fra l’esperienza dell’autore e quella dei lettori, modellando il discorso secondo principî di intrinseca coerenza e necessità.

E così la poesia «comunica»: passa di generazione in generazione, di paese in paese: varca confini, decenni, secoli. Forte anche — s’intende — dei veicoli di volta in

209 volta approntati da editori e tipografi: anche il loro contributo, modesto ma indispensabile, merita d’essere ricordato. Per questo, celebrando con l’andstasis del

Porto Sepolto udigese la grandezza di un autore che è fra i «classici» per eccellenza della nostra epoca, rendiamo omaggio anche a quanti si adoperarono perché la sua voce, da allora in poi indimenticabile, cominciasse a

farsi sentire.

Indice

Introduzione

Profilo di un poeta Le varianti invisibili La pietra del San Michele

}31

Da un Porto all’altro: Ungaretti 1923

k75

Il «giorno triste» e la metamor. fosi del Capitano

1977

Ottant’anni dopo

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Percorsi 26 / Poetica

Il rigore con il quale Ungaretti persegue una nuova, inaudita forma di essenzialità verbale rende // Porto Sepolto un vero e proprio spartiacque nella, storia della poesia contemporanea. E tuttavia in quel folgorante esordio convivono modi e istanze espressive contrapposte: primitivismo

estetico e sottigliezze simboliste, concentrazione percettiva e rarefazione semantica, impulso all’astrazione e adesione sofferta all’ nic et nunc. Non a caso, le successive esperienze ungarettiane si svolgeranno in un controverso rapporto con l’irripetibile sintesi iniziale, fino a che l'imputazione unitaria verrà dislocata dal piano testuale a quello biografico (la “vita d’un uomo”). Questo libro presenta un’interpretazione complessiva dell’opera di Ungaretti, corredata da una serie di approfondimenti su aspetti specifici: le varie stesure dell’ A//egria, dove può accadere che le varianti più sostanziali consistano

nella mutata pronuncia di versi esteriormente intatti; il paratesto del Porto Sepolto del 1923, spia delle contraddizioni di un poeta che ha già cambiato voce, ma ancora non rinuncia

a presentarsi

come

autore

di una

sola, organica

raccolta; la travagliata gestazione della poesia // Capitano, concepita come testimonianza di una sciagura collettiva e ultimata in chiave di ellittica mitologia personale. Mario Barenghi (Milano 1956) è ricercatore di italianistica all’Università di Udine. Ha pubblicato un volume di argomento teorico (L'autorità dell'autore, Milella 1992), una raccolta:di studi manzoniani{Ragsonaze-alla carlona, Marcos y Marcos 1994) e svariati saggi, apparsi in periodici e opere collettive, su aspetti e movimenti della letteratura italiana moderna e contemporanea (Grossi, Verga, Pirandello, Palazzeschi, Calvino) e sulla memorialistica setteottocentesca. Ha curato l’edizione dei Saggidi Calvino nei “Meridiani” Mondadori (1995) e, insieme a Claudio Milanini e Bruno Falcetto, i tre volumi dei Romanzi e racconti

(1991-94). d'ombra”.

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