Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956)

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Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956)

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Storia e Società

L’ITALIA DI PIERO CALAMANDREI a cura di Sergio Luzzatto

Piero Calamandrei Uomini e città della Resistenza a cura di Sergio Luzzatto

Piero Calamandrei Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato

Piero e Franco Calamandrei Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) a cura di Alessandro Casellato

Mario Isnenghi Dalla Resistenza alla desistenza. L’Italia del «Ponte» (1945-1947) a cura di Mimmo Franzinelli Oltre la guerra fredda. L’Italia del «Ponte» (1948-1953) a cura di Sergio Luzzatto Questa nostra repubblica. L’Italia del «Ponte» (1954-1956)

Piero e Franco Calamandrei

Una famiglia in guerra Lettere e scritti (1939-1956) a cura di Alessandro Casellato

Editori Laterza

© 2008, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2008 Le figg. 1-5 e 7-11 provengono dall’Archivio della famiglia Calamandrei. La fig. 6 proviene dall’Archivio Spini. Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-7910-1

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

A sentire da certi giovani che ieri si credevano ragazzi enunciare certe loro idee che ti percuotono come uno schiaffo si prova noi vecchi lo stesso senso di dispetto che provo quando vedo in un campo, all’improvviso fiorito ai primi di febbraio, il primo mandorlo. Quasi si vorrebbe noi anziani che i mandorli per fiorire prendessero prima con noi l’appuntamento: e così ce la prendiamo coi giovani che fioriscono per loro conto, senza chiederci il permesso e senza aver preso le preventive istruzioni. Piero Calamandrei manoscritto inedito, 1938

«I figli devono educare i genitori» - Marx secondo Lafargue Franco Calamandrei pagina di diario, ottobre 1943

Introduzione IL FIGLIO COMUNISTA* di Alessandro Casellato 1. Saldi di memorie A volte gli incontri importanti capitano per caso. Per caso ho incontrato il libro di Franco Calamandrei, Le occasioni di vivere. Diari e scritti 1975-19821, in una libreria in liquidazione, all’ultimo giorno di apertura, prezzo ribassato a 1 euro. Come lasciarselo sfuggire? Ero alla ricerca di memorie dei “rivoluzionari disciplinati” – cioè quelli passati attraverso la macchina disciplinare del Partito comunista, rivoluzionari che invecchiano e che si sono lasciati la rivoluzione dietro le spalle, rivoluzionari che si sono fatti uomini d’ordine2 – e lui, dal risvolto di copertina, sembrava proprio il tipo giusto:

* Una prima versione di questo saggio è stata presentata col titolo Le rivoluzioni sono periodi in cui ci si innamora al convegno Le rotte dell’io. Itinerari individuali e collettivi nelle svolte della storia d’Italia (Università di Venezia, 7-8 aprile 2005), i cui atti sono in corso di pubblicazione. Fasi successive della ricerca sono state discusse con Mario Isnenghi, Piero Brunello, Sergio Luzzatto e soprattutto con Filippo Benfante: li ringrazio per tutti i suggerimenti di cui sono stati prodighi, anche per quelli che non ho ritenuto di far miei. Silvia e Gemma Calamandrei, Franca Gigliani e Piero Battaglia, Paolo Regard mi hanno accolto nelle loro case e lasciato che razzolassi nei ricordi personali e negli archivi di famiglia. Spero di non averne abusato. A tutti loro, e agli altri che mi hanno accompagnato, va la mia gratitudine. Infine, forse pleonastico è il rimando – che è un tributo di lettore – al libro aureo e terribile di Giovanni Ferrara, Il fratello comunista (Milano, Garzanti, 2007), che è arrivato proprio mentre questo saggio era in scrittura e ha finito per influenzarne, probabilmente, non solo il titolo.

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Introduzione. Il figlio comunista

Franco Calamandrei, nato a Firenze nel 1917, laureato in diritto internazionale nel 1939, si trasferisce a Roma nel ’40. Autore di racconti brevi e traduttore di Diderot, Nerval e Proust, dopo un impiego all’Archivio di Stato a Napoli e poi a Venezia, abbandonato l’8 settembre 1943, partecipa alla Resistenza romana aderendo al Partito comunista. Nel dopoguerra è alla redazione milanese dell’Unità e dal 1950 corrispondente a Londra e poi a Pechino. Rientra in Italia nel ’56 e, dopo una serie di incarichi di partito, nel 1968 viene eletto senatore nel collegio di Pistoia. Vicepresidente della Commissione esteri e poi della Commissione di indagine sulla Loggia P2, è altresì membro della delegazione italiana all’Ueo e al Consiglio d’Europa. Muore a Roma nel settembre del 1982.

Qui forse non viene fuori granché del rivoluzionario. Ma Franco è conosciuto agli storici soprattutto per due cose: per essere il figlio di Piero Calamandrei e per essere l’autore di un altro diario, più celebre di questo che ne copre l’ultimo periodo di vita. Scritto a cavallo della seconda guerra mondiale, negli anni in cui il giovane Franco passa dall’adesione a un certo fascismo alla militanza comunista, La vita indivisibile. Diario 1941-19473 – questo è il titolo – è un documento eccezionale soprattutto perché è il diario di un gappista, la registrazione quasi quotidiana dei pensieri e delle azioni di colui che comandò l’operazione più controversa della Resistenza italiana, ovvero il gruppo di fuoco che fece scoppiare la bomba in via Rasella, a Roma, il 23 marzo 1944. Negli anni della piena maturità di vita, Calamandrei continua ad essere visitato dal ricordo di quella stagione. Almeno in privato lo è. Almeno nei diari in cui cento volte comincia a scrivere quello che sente essere il suo vero libro e che mai concluderà. Ma in pubblico nulla traspare. Franco Calamandrei è un uomo importante, fa cose importanti, frequenta i piani alti della politica. Eppure non è soddisfatto. Indossa una maschera di pietra, da uomo di Stato e di partito, che lo ingabbia e lo comprime, ma insieme gli consente di fissare la propria precarietà, di arginare l’irrequietezza esistenziale che si porta dietro sin da giovane e che la grande scuola del Partito comunista gli ha insegnato a controllare e a nascondere. Al culmine della carriera, Franco Calamandrei si vede vivere. Sente di partecipare a una recita, a una «grande commedia». Descrive un teatro in disfacimento, con gli attori principali che esco-

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no di scena, uno dopo l’altro, e le quinte che si sfaldano e sembrano sul punto di crollare. Il diario è un’autoriflessione, complicata e raffinatissima, su questo stato d’animo. Sono gli anni di piombo e del compromesso storico; il Pci, dopo una lunghissima attesa, si sta avvicinando al governo nella peggiore delle condizioni possibili. Il partito della rivoluzione promessa si è fatto Stato; i partigiani sono i custodi del nuovo ordine costituito; Franco, che appartiene all’ala “migliorista” del Pci, è tra gli interpreti più rigorosi di questa linea. Le occasioni di vivere restituisce l’immagine di un’Italia allo sfascio: Seveso, Lockheed, la fuga di Kappler, il ’77 a Roma e Bologna visto come un’eruzione barbarica. Si respira un’atmosfera da fine repubblica, con padri della patria ormai sfatti, quasi cadaverici: Nenni, prima ritratto con «occhi rossi e acquosi di morte dietro gli occhiali, mano tremante che regge i fogli», poi, al momento del suo funerale, accompagnato da «l’orazione di Craxi (nero africano, retour de Kenia), da cui la storia è latitante, tutta e solo nella bara di Nenni. Davanti, glacializzati, su seggiolette da fucilazione alla schiena, Pertini, Jotti, Fanfani»4; poi il rapimento e l’uccisione di Moro; e ancora altri funerali nel giro di pochi mesi, quelli di La Malfa, di Amendola, di Longo. Non è solo una questione politica. Franco fa i conti con il proprio invecchiare e lo proietta nel paesaggio che descrive. La sua senilità esce amplificata dal confronto con due figlie giovani, impegnate nel “movimento”, felicemente immerse in una stagione che vivono non come un tramonto, ma come promessa di una rivoluzione: Il dramma del politico invecchiato con una figlia militante giovane, «nata tardi». Il suo sforzo di dissimulazione, per nascondere lo scetticismo e la sfiducia che lo invadono e lo permeano, per non turbare e inquinare l’entusiasmo e la fede di lei. Le parole e le domande di lei, le sue esperienze di milizia, a volte come colpi di manovella sul motore ormai arrugginito e impannato di lui, che riprende faticosamente a fare qualche giro, ma poi torna ad arrestarsi5.

Una di queste figlie sono andato a cercarla. Sapevo che si chiamava Silvia, che era la curatrice del libro che avevo tra le mani (insieme ad Alessandro Galante Garrone) e che da poco aveva cura-

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to anche l’edizione di un altro scritto di famiglia – questa volta del nonno Piero6 – di cui avevano parlato i giornali. Ci scambiammo alcune e-mail; le chiesi se ci fossero in casa altri diari di suo padre, altre testimonianze di questo scavo nell’interiorità che mi sembrava così inconsueto per un uomo politico, a maggior ragione per un comunista. Silvia mi spedì, praticamente “al buio”, sulla fiducia, sempre via e-mail, la trascrizione dell’epistolario di Franco con i genitori nei primi anni quaranta, e una memoria scritta da Maria Teresa Regard – moglie di Franco, madre di Silvia – sui suoi anni giovanili, fino al ’48. Mi invitò a Bruxelles, e ci andai. Silvia mi parlò a lungo di sua madre e di suo padre, dei conflitti tra genitori e figli che di generazione in generazione avevano attraversato la sua famiglia, del lavoro che stava portando avanti sulle carte dei suoi. Mi raccontò soprattutto degli ultimi anni di Teresa, di come visse il processo a Priebke, di quanto intensamente avesse voluto comparirvi come testimone d’accusa, di cosa quell’evento avesse scatenato in lei, facendola ripiombare nel clima della clandestinità7. Anche Teresa era stata nei Gap, a Roma. In quel frangente aveva conosciuto Franco. Branda a branda, in uno dei covi. Da allora non si erano più separati. Non so quanto possiamo immedesimarci, noi oggi, con quello che loro avevano vissuto a Roma nell’inverno del ’44. Non era poi tanto chiaro, standoci dentro, quale fosse la cosa giusta da fare. Mettere bombe e sparare a bruciapelo doveva fare una certa impressione, anche se lo si faceva in mezzo a una guerra. I Gap, piccolo gruppo di fuoco, quasi tutti giovanissimi, quasi tutti sino allora completamente digiuni di violenza, si improvvisarono giustizieri sulla base di un mandato politico che allora non era certo una garanzia. Era una scommessa, sul futuro e sul presente: ancor prima che gli esiti della guerra avessero stabilito da che parte fosse la ragione e da quale il torto – a Teresa e a Franco la Repubblica avrebbe conferito una medaglia d’argento – la partita si giocava giorno dopo giorno avendo per posta la sopravvivenza quotidiana: arrivare alla sera senza essere presi e ammazzati, vivendo in un labirinto, esposti alla massima precarietà, ma allo stesso tempo assaporando la massima intensità di vita, il cui gusto risaltava quando si sentiva così prossima la morte. Era necessario avere una fiducia totale nei compagni, anche se si sapeva che da tutte le parti c’era chi faceva il doppio, se non il triplo gioco. Spie che finge-

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vano di essere spie al servizio di coloro che spiavano, e magari tradivano prima gli uni e poi gli altri. Il tema delle identità multiple, qui, non era un gioco post-moderno, ma una questione molto concreta di vita e di morte8. Proprio nel clou della guerra civile i confini tra i nemici per la pelle erano quanto mai sfumati, labili e mobili. Non si scioglieva mai del tutto il dubbio su chi fosse veramente la persona a cui si aveva consegnato la propria vita. Teresa scrisse le sue memorie di getto, come un precipitato del tumulto interiore che si era risollevato quando Priebke riapparve dopo cinquant’anni, proprio mentre gli eredi della Rsi a Roma tornavano ad occupare i palazzi del potere. La sua amica più cara, Franca Gigliani9, mi confidò che c’era stato un lungo lavoro di ripulitura sul primo testo che era uscito. Quel tumulto era stato assestato, messo in ordine cronologico, scandito in paragrafi, modellato come il racconto di una educazione politica, alla maniera di tante memorie di comunisti abituati a raccontarsi al cospetto del partito, o almeno a edificazione del partito. Insomma, quel dattiloscritto era una pallida versione di ciò che lei aveva scritto in prima battuta. Teresa aveva una memoria attiva, una personalità straripante; scriveva e parlava con grande facilità. Aveva fatto la corrispondente per «Il Nuovo Corriere» di Romano Bilenchi quando, nei primi anni cinquanta, aveva soggiornato in Cina insieme a Franco. Dopo la morte di lui aveva riprovato a scrivere per i giornali: era tornata in Tibet, pubblicando un reportage su «Avvenimenti»10. Le piaceva conoscere gente e posti nuovi. Quando Alessandro Portelli la intervistò per la sua ricerca sulla Resistenza romana, lei lo travolse di parole, divagando sul prima e sul dopo, come se nella sua memoria ogni passato le fosse sempre contemporaneo11. Quell’intervista forse ci consegna una Teresa prima maniera, simile a ciò che doveva essere stato il racconto di sé prima di ripassare al vaglio dell’autocontrollo e dell’autocensura che la pratica della scrittura autobiografica mette in moto. Silvia rivelava un certo disagio per queste componenti della personalità di sua madre, insieme a un grande affetto per suo padre e a una straordinaria ammirazione per suo nonno. Ma mi accorsi che anche lei stava cercando e voleva capire. E con questo rischiava qualcosa. Perché ci vuole un certo coraggio ad aprire gli archivi di famiglia: non sai in anticipo quello che troverai, o quello che altri vorranno leggervi dentro.

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Mi ero avvicinato a una vicenda privata ma anche profondamente politica. Che era per di più un dossier storiografico consolidato12 che io, senza averne ben chiara la portata, avevo aperto e cominciato a sfogliare dalla parte opposta a come si fa di solito. E dentro vi avevo intravisto un viluppo di documenti soggettivi di cui non avevo immaginato la ricchezza: Franco, Teresa e Piero, lettere, diari e memorie, punti di vista tanto diversificati e stratificati che aprivano triangolazioni affascinanti. Al termine del viaggio mi ero ormai persuaso che tutte queste “fonti” non erano solo dei testimoni del tempo trascorso, ma facevano in realtà il mio stesso mestiere, cioè erano storiografi in proprio; avevano lavorato o lavoravano a collocare se stessi sullo sfondo del passato. Mi potevano consegnare non solo una miniera di informazioni, ma anche le chiavi con cui interpretarle.

2. Un libro mai scritto A differenza di sua moglie, Franco Calamandrei non riuscì a scrivere il libro che aveva tanto a cuore. Ci aveva provato varie volte. La prima subito dopo la guerra, quando sentì il bisogno di fare il punto sulla sua vita. Disseminò in molte riviste dell’epoca i frammenti di una riflessione che era certo personale, ma si interrogava anche sul destino di un’intera generazione transitata repentinamente, attraverso un cataclisma epocale, dal fascismo all’antifascismo. Era la storia di una trasformazione, di una rinascita. Franco e i suoi coetanei si sentivano usciti da un bozzolo, diventati di colpo e dolorosamente adulti. Adesso quasi li si prende in giro e gli si fa le pulci, a tutti questi redenti13, ma i primi a essersi sentiti a disagio erano stati proprio loro, catapultati in un paesaggio terremotato e ribaltato rispetto a quello in cui erano cresciuti. «Torna a scrivermi ed io ti risponderò. Così il nostro discorso si articolerà. Abbiamo per ora tutti la lingua troppo grossa di fatti, inceppata, e terribilmente restia a concludere. Bisogna sciogliersela»14, scriveva Franco nella prima lettera inviata a Romano Bilenchi dopo la liberazione di Firenze, nel settembre 1944, per riallacciare il filo di un dialogo che la guerra aveva per qualche

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mese interrotto. Scrivere e leggere, da soli e per sé, rispondeva a un bisogno primario di ritrovarsi, «quasi come una necessità di ricostituzione fisica, di quelle che si impongono nei casi di crescita troppo rapida»15, diceva Franco. Scriversi e leggersi gli uni con gli altri non era meno urgente: in fin dei conti era un altro riconoscersi, come gruppo. Serviva a fare la conta dei compagni sopravvissuti, verificare il percorso di ognuno, capire chi si fosse perso e chi fosse possibile, invece, ritrovare dall’altra parte dell’abisso. «Con Vasco [Pratolini] siamo stati molto vicini e uniti, in questo periodo», scriveva ancora a Bilenchi, «abbiamo assaporato insieme la gioia di sentirci conquistare una compiuta misura di verità. Ma ci turbava spesso il pensiero che non con tutti gli amici di prima avremmo potuto ormai riconoscerci»16. A Milano, nel gruppo di lavoro riunito attorno al «Politecnico», il giovane Calamandrei avrebbe trovato di lì a poco uno dei luoghi più vivaci dove proseguire quell’esame di coscienza collettivo che Elio Vittorini aveva avviato già prima della guerra – con Il garofano rosso17 – e che molti ritenevano di dover finalmente portare a termine. Franco – che dal suo “prima” si era portato dietro un’intatta vocazione letteraria – era convinto che la narrativa potesse essere l’unico mezzo capace di dare un senso compiuto ad un vissuto tanto confuso e tumultuoso. Raccontare significa chiarire a noi stessi la vita, aveva scritto alla fine del ’45, presentando la rinascita della novella in Italia dopo il Medioevo, ma alludendo a un altro e ben più prossimo Rinascimento seguito ad anni bui: Ormai, la coscienza degli uomini voleva bene alla vita, e che essa fosse tanto stravagante e intricata, tanto gratuita e folle nelle sue determinazioni, era cosa che a loro piaceva, che li metteva in allegria, li attraeva e li appassionava. Era una bella avventura, nella quale si gettavano volentieri, con tutta la fame che avevano di sentirsi vivi e reali18.

Franco ha urgenza in quegli stessi mesi di scrivere per sé, in prima persona, il romanzo della sua vita. Ma non riesce a dargli forma. Non riesce a sollevarsi dalla frammentarietà delle sue rapsodiche annotazioni diaristiche che fissano brandelli di esistenza. Ne pubblica degli stralci: i primi documenti sulla Resistenza, scritti dal basso e da dentro19. Ma la cronaca non gli basta. Pensa che i fatti da soli non parlino, che ci sia bisogno di un disegno in

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cui inserirli affinché diventino significativi. Questo dovrebbe essere, infatti, il compito del narratore: Egli ricerca l’origine delle vicende individuali, le segue attentamente nel loro errabondo cammino una per una, una per una le libera da quanto le altre hanno in loro intromesso di superfluo, di occasionale e di estraneo, ricostruisce di ognuna l’autonomia e la ragione, e dove ognuna abbia mancato al suo senso e abbia deviato. I malintesi, gli equivoci, i contrattempi, le interferenze, le reticenze, le menzogne, gli inganni di cui la cronaca è disseminata, si sciolgono sotto l’esame del narratore e le storie degli uomini ricuperano i loro contorni precisi e i loro volti sinceri.

Di più: Il suo esame deve appuntarsi su quelle che si potrebbero chiamare le cerniere nelle esistenze; sui momenti cioè in cui le esistenze passano da una situazione in un’altra, scelgono fra due alternative, accettano o rifiutano un’offerta che la vita ponga loro dinnanzi20.

Il lavoro su di sé si svolge per via indiretta, specchiandosi su libri altrui. È nel frammento e nel commento che la scrittura e l’autoanalisi di Franco danno il meglio di sé. «Il romanzo Rancore di Stefano Terra, dove la generazione italiana che ha avuto venti anni al tempo delle imprese di Etiopia e di Spagna comincia finalmente a narrare il motivo profondo della propria esperienza, appare nello stato attuale della nostra narrativa più giovane come un’eccezione sorprendente e felice»21. Così cominciava, nel giugno 1946, la lunga recensione a un libro che era uscito per la prima volta quattro anni prima, al Cairo, nelle edizioni di Giustizia e Libertà, con un titolo ancora più esplicito: La generazione che non perdona. Ora, a Liberazione avvenuta, Einaudi lo aveva proposto al grande pubblico in Italia, Franco Fortini lo aveva ribattezzato Rancore e Calamandrei lo presentava sul «Politecnico» di Vittorini22. Terra, Fortini, Calamandrei: tre redattori che lavorano gomito a gomito e che trasferiscono nella rivista gli argomenti delle loro discussioni quotidiane, tre coetanei – classe 1917 – che possono ben riconoscersi in una «storia di piccoli borghesi negli anni fascisti, giovani studenti da un’infanzia e un’adole-

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scenza di consuetudini spente e meschine usciti alla ricerca ansiosa di qualcosa in cui confortarsi e in cui credere». Trovano in questo libro nato significativamente a ridosso di El Alamein – uno dei crinali decisivi per la storia e per l’autocoscienza della loro generazione – il punto alto, di non ritorno, da cui guardare indietro e avanti. Per certi aspetti, i pezzi che Franco scrive in questi mesi sono tutte variazioni su uno stesso tema: quello della linea d’ombra, mito moderno creato da Conrad all’indomani dell’altra Grande Guerra e offerto ora, nel 1947, da Cesare Pavese ai tanti giovani passati attraverso una lunga, mortifera bonaccia e infine scossi da un formidabile temporale rinnovatore23. Ma attraverso le parole del gappista Calamandrei, che ne firma una recensione, la «storia di un giovane capitano alla sua prima esperienza di comando» ha un’eco del tutto particolare. Il diapason interiore di Franco sembra sintonizzato, ancor prima che sul significato del racconto, sulla nota segreta che da esso sprigiona: vi riconosce il ritmo delle attese e dei silenzi, il respiro della tragedia, la terribile seduzione delle ombre. Tutto, nel racconto, sembra sospeso e macchinale, la natura indifferente, finché la torbida peripezia della nave culmina in una coltre temporalesca di nubi che le si cala sopra e la inghiotte in una tenebra così completa da far sembrare il resto del mondo per sempre annullato. Attraversata quella «linea d’ombra» il vento si leva, il capitano può riparare nel porto più prossimo, sbarcarvi i marinai, finiti dal morbo. Ormai la sua coscienza si è fatta matura: lasciandosi alle spalle il «giardino incantato» della giovinezza, questo compito che continuamente si rinnova, «senza un attimo di riposo, per nessuno»24.

La Resistenza è stata un rito di passaggio all’età adulta. Ma ha segnato anche una rinascita. Franco è convinto di esserne uscito non solo cresciuto, ma radicalmente trasformato. Durante la guerra e la lotta armata ha subìto una sorta di conversione: lui non usa questa parola, ma ne parla come se lo fosse. Aveva trovato una ragione di vita e di impegno. Aveva conosciuto alcune persone che gli avevano rivelato un altro modo di essere. Francesco era di tutti noi il compagno più anziano. Aveva quarant’anni, e sopra la faccia legnosa da pastore sardo i capelli a spazzo-

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la già un po’ brizzolati. Durante le riunioni ascoltava con le mani intrecciate nel grembo, girando l’uno intorno all’altro i pollici grossi e callosi25.

Francesco Curreli era uno dei rivoluzionari professionali arrivati – segnati da mille cicatrici – alla fine del tunnel, puntuali all’appuntamento con l’insurrezione. Agli occhi dei ragazzi che gli stavano intorno, quell’uomo di mezza età, che aveva conosciuto la vita, «grondava gloria e tristezza»26. La sera, a Roma, nei mesi della lotta clandestina, nella camera dove erano alloggiati Franco Calamandrei e Giorgio Labò – che non avrebbe visto la fine: catturato, torturato e ucciso a 24 anni, dopo una giovinezza dedicata allo studio e gli ultimi mesi a confezionare bombe27 –, Curreli raccontava la sua storia: «Sedevamo sui nostri letti, Francesco arrotolava per noi e per sé una sigaretta, io lo interrogavo, e la sua memoria, ritrosa ed un poco lenta, ma gremita e precisa, si dipanava» a rievocare storie d’emigrazione e di lavoro duro, la sua Francia, l’Algeria e la Spagna della guerra civile, scioperi risolti a bastonate, scorrerie, imboscate, esecuzioni di spie, di nemici e di crumiri. È stato detto che i gappisti erano i «cenobiti»28 della Resistenza: vivevano in comunità austere e appartate. Ma non meno della banda partigiana di montagna, con i suoi raduni serali intorno al fuoco per scaldarsi, mangiare e parlare, anche la guerriglia urbana metteva in circolo storie, riattivava memorie, produceva pause e incontri che consentivano di condividere racconti ed esperienze. E poi c’erano riunioni, scambi di libri, conversazioni teoriche: forme embrionali di trasmissione culturale e di apprendistato politico in cui i vecchi proletari comunisti avevano tante cose da insegnare ai giovani intellettuali ex fascisti, assetati di quella cultura altra che aveva ripreso a sgorgare dopo un lungo inabissamento. «Francesco raccontava», scriveva Franco nel ritratto dell’amico, «e negli occhi di Giorgio io vedevo la mia stessa sorpresa, sorpresa felice e invidiosa, dinanzi a quell’esistenza così guadagnata, così differente dalle nostre povere vite di intellettuali borghesi, per tanto tempo rinchiuse in vani dibattiti. E sentivamo che la via sulla quale ci era dato incontrare compagni come Francesco non poteva non esser la buona». Per Franco – questo è un altro luogo comune generazionale e politico – l’incontro col Pci aveva conferito un senso alla sua vita

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(o almeno al racconto della sua vita): un principio di unità, di chiarezza, di completezza. Il compagno Francesco era la parte per il tutto: la promessa realizzata e vivente del comunismo; la sintesi di una rivoluzione vittoriosa, anch’essa parte per il tutto, prefigurazione sul piano individuale di ciò che ci si attendeva di compiere su quello collettivo. Poi il clima cambiò, rapidamente, anche nel Pci. Poco dopo la Liberazione Francesco Curreli sparì dalla circolazione. Attraverso un giro di parenti e compaesani si seppe che era tornato ad Austis, in Sardegna, a lavorare in miniera, e che era malato. Quando ebbero bisogno della sua testimonianza al primo processo per via Rasella, Antonello Trombadori e Franco Calamandrei andarono a riprenderselo e lo riportarono a Roma «ancora sporco di carbone»29. Ma non poterono far di meglio che metterlo nel servizio di vigilanza alle Botteghe Oscure: garantirgli uno stipendio sicuro, fino alla pensione. Sarebbe stata l’arteriosclerosi a condurre il vecchio combattente alla morte, nel 197230. La riconversione del compagno Francesco da rivoluzionario internazionalista a poliziotto di partito è il segno di una stagione che si chiude. Questo coinvolge tutti, anche chi – come il giovane Calamandrei – era arrivato alla politica solo da poco. Nel giro di pochi anni l’idea di scrivere di sé venne abbandonata, le ambizioni di scrittore messe da parte, l’urgenza di un bilancio generazionale accantonata. Non era più il tempo del dubbio e della ricerca: le risposte erano già date, andavano solo messe in pratica. Franco si buttò tutto nella politica, si fece ingranaggio della macchina del partito; vi si annullò, per certi aspetti. Chiuso «Il Politecnico», passò a dirigere la terza pagina milanese dell’«Unità». Nel ’50 fu mandato a Londra, come corrispondente del giornale; poi in Cina, fino al 1956. Quando tornò fece la vita del funzionario. Ricordo di avere trovato le tracce di quando fu a Padova, nel 1962, nelle vesti dell’inquisitore inviato da Roma a reprimere la prima rivolta contro la socialdemocratizzazione del partito, condotta nel nome del leninismo, del maoismo e della fedeltà alla rivoluzione31. Secondo la liturgia del tempo, a sedare le velleità dei primissimi “cinesi” era stato mandato uno che la Cina l’aveva conosciuta per davvero. Amendoliano di ferro, Calamandrei fece la sua parte. Per le stesse ragioni avversò il ’68 e i movimenti. Il resto è facile immaginarlo, conoscendo la traiettoria vissuta dal Pci in quegli an-

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ni: progressivo avvicinamento al potere e allo Stato, e parallelo allontanamento della possibilità di farne qualcosa di nuovo. È un processo di cui gli ultimi diari di Franco fanno conoscere lo stadio estremo: quello della nausea e della disillusione. Per molti anni quella promessa di vita nuova intravista a Roma durante la guerra gli era bastata, ma si era via via svuotata di significato. Tra i suoi ultimi appunti ci sono i foglietti che raccoglie in una cartellina dal titolo Galateo della politica: una rappresentazione grottesca della politica, declinata a prontuario di buone maniere per stare in società. Franco confida a se stesso la propria diversità, la sua irriducibilità a quella recita nella quale tuttavia non vuole perdere una battuta e non intende rinunciare alla sua parte. Cerca ancora una volta nella scrittura la sua personale uscita di sicurezza. Sente la morte avvicinarsi, e anche ne percepisce la voluttà, pregusta il sollievo di poter uscire finalmente dalla storia. Franco negli ultimi anni è alla ricerca di un bandolo, lo cerca nella dimensione aurorale della lotta partigiana. Vorrebbe scrivere per poter lasciare qualcosa che rimane; sente la lacerazione forte tra il suo pubblico e il suo privato, tra ciò che si dice e ciò che si fa. La recita gli pesa sempre più. Tenta di scrivere un romanzo, il libro della sua vita. Lo cerca nella Resistenza. Quello che io sento il bisogno di fare è di tracciare un bilancio della mia vita, per capire in che cosa sia consistita, che cosa l’abbia guidata o sviata, dove essa tenda oggi che sta per terminare, oltre che verso la morte. E non ho altro modo per farlo, non trovo altro modo, che allineare, mettere in colonna gli addendi di questa totale incognita che mi balzano nella memoria come più significativi32.

«Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo», diceva Calvino chinandosi indietro a commentare con rimpianto, tanti anni dopo, il suo esordio letterario – Il sentiero dei nidi di ragno – nel quale aveva trasfigurato il suo vissuto partigiano: «quell’esperienza che custodita per gli anni della vita mi sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non mi è bastata che a scrivere il primo»33. Franco, invece, conservò intatto fino alla fine il suo tesoro di memoria senza che un testo fosse riuscito a interporsi tra sé e l’esperienza. In tal modo non lasciò che quella fonte si inaridisse. Ma gli rimase il desiderio del racconto, che

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solo postumo qualcuno avrebbe esaudito. È un lavoro di cura, che spesso passa per mani femminili, quello di custodire e restituire le storie altrui34. Così fu anche questa volta. La figlia Silvia, dopo la morte del padre, si sarebbe incaricata di raccoglierne i frammenti e pubblicarne il diario, rivelando che il suo vero libro, insieme il primo e l’ultimo, Franco l’aveva sempre avuto tra le mani.

3. Primavera non bussa Anche per Teresa i mesi di lotta partigiana erano stati il “momento alto”. Nata nel 1924 in una famiglia di piccola borghesia – il padre ufficiale dell’esercito, direttore della farmacia dell’Ospedale militare di Napoli, la madre ragioniera, uno zio prefetto, un altro avvocato – Maria Teresa Regard aveva avuto un’educazione libera ed emancipata, non comune per le ragazze del tempo, e una storia familiare complicata, specie sul lato femminile. Il segreto di famiglia era la vicenda della nonna materna, che poco dopo il matrimonio era misteriosamente sparita di casa, forse fuggita, forse cacciata: ragazza troppo orgogliosa per reggere un marito che l’aveva costretta a fare tre figli prima dei vent’anni. O forse, come si sussurrava, «troppo bella per essere una brava moglie»35. Fu ritrovata quarant’anni più tardi, sposata con un altro e proprietaria di uno dei maggiori caffè della capitale. Teresa aveva sei anni quando la vide la prima volta: «quando arrivammo, mia nonna, che mi colpì per la sua bellezza, sedeva in una poltrona in salotto, avvolta in una pelliccia petit-gris e tutta ingioiellata»36. Quella signora dall’aria vagamente esotica, così diversa dalle altre donne frugali e rassegnate che popolavano il suo ambiente, sarebbe rimasta scolpita nella memoria di Teresa come una figura perturbante, ma affascinante, che le avrebbe consentito – a gradi diversi, in momenti diversi – possibili genealogie alternative e immedesimazioni femminili non convenzionali. In casa, infatti, con i genitori trovava poche soddisfazioni: un padre assente, tormentato e instabile, prematuramente messo in pensione dal suo posto di lavoro, e una madre molto cattolica, «poco espansiva e poco pratica, ma dotata di un grande equilibrio»37. Al contrario, Teresa Regard era una ragazza affascinante, ef-

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fervescente, aperta alla vita, curiosa delle cose del mondo. Nelle sue memorie si presenta dicendo che la prima cosa che ricorda di sé è quando, a tre anni, si perse per le vie di Napoli: sfuggì al controllo dei genitori e, camminando camminando, arrivò fino al porto. Fu ritrovata dopo alcune ore. «Tra la sorpresa di tutti non piangevo, non cercavo conforto, anzi ero felice dell’avventura. Dopodiché mia madre diceva a tutti che ero una bambina speciale che non aveva paura di nulla, e non si perdeva mai d’animo»38. Un aneddoto rivelatore: in nuce voleva condensare un intero destino. Il suo libro preferito era Anna Karenina, storia di amori travolgenti, donne affascinanti e famiglie infelici. Sapeva di piacere ai ragazzi, si beava dei loro sguardi. Si compiaceva delle sue «conquiste fulmine»39, durate magari lo spazio di un viaggio in treno, ma concluse talvolta da brucianti e istantanee dichiarazioni d’amore. Aveva avuto sin dall’infanzia un’amicizia speciale con Giorgio Formiggini, che sarebbe stato innamorato di lei per tutta la vita. Giorgetto era un tipo «svelto, brioso, incalzante»40, con un gran ciuffo di capelli ricci che gli arrivavano sulla fronte, piccolo di statura, ebreo. Lo aveva conosciuto sui banchi di scuola, alle elementari. Le rispettive famiglie avevano cominciato a frequentarsi e i due ragazzi crebbero insieme. Giorgio la introdusse alla politica: libri, amicizie, discussioni. Professarsi trotzkisti, a sedici anni, nell’Italia del tempo, più che un’opzione politica era forse un modo per manifestare il proprio sentirsi diversi, trasgressivi. Teresa racconta che quando nel 1937 si trasferì a Roma, al liceo Mamiani, gli incontri decisivi li ebbe con Pierina Pizzuti, «una ragazza piacente, con poca voglia di studiare»41, che divenne la sua amica del cuore, e con il professor Gaetano Giafaglione, che la convertì al comunismo ortodosso. Con Giorgio, invece, sull’abbandono del trotzkismo furono grandi litigi. Nel novembre del 1940 il padre di Teresa morì, improvvisamente. La madre fu costretta a trovare un’occupazione, impiegata in un ente pubblico. Teresa la seguì l’anno dopo, a cavallo della maturità. Nonostante il lavoro non cessò di frequentare i suoi coetanei: si era iscritta a Lettere, seguiva i cineclub, partecipava allo scambio di libri proibiti, continuava a scriversi e a vedersi con Giorgio. La guerra stava consegnando a queste ragazze una vita più difficile, ma anche più libera. Teresa visse il giorno che seguì all’8 set-

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tembre sulla canna della bicicletta di Giorgetto: vagarono insieme per trenta ore, giorno e notte, nei pressi di Porta San Paolo, cercando la battaglia senza mai trovarla. Era un clima di tragedia, ma anche di orgasmo e promiscuità. Le persone arrivavano alla spicciolata, non sapendo bene cosa fare. Molti si guardavano intorno, si fermavano per qualche ora e poi tornavano a casa. Gente strana, ricorda Teresa. Ebbe qui – o almeno questo le rimase nella memoria, come un mito di fondazione della propria identità politica – il suo primo incontro con Giorgio Amendola, che come un grande capo le diede una sorta di investitura: «Ma non ti disperare, compagna, vedrai adesso comincia la resis... la lotta insomma. Adesso ci saranno tante altre cose da fare»42. Non sarà forse andata proprio così, ma certo dopo di allora Teresa si avvicinò per davvero alla Resistenza: amiche, amici e compagni di scuola da un pezzo facevano gruppo, e il gruppo passò a fare politica43. Teresa aveva scoperto nei primi anni di guerra che alcuni fidanzati delle sue amiche – Antonello Trombadori, Fabrizio Onofri – erano già comunisti. Comunisti per davvero, cioè in contatto col partito e non solo, come a volte capitava, autoproclamatisi tali. All’inizio i ragazzi non volevano saperne di lei: troppo chiacchierona, troppo poco attenta al rispetto delle regole del lavoro clandestino. Le cose cambiarono dopo l’8 settembre: fu il tempo della rivincita per le ragazze, che ora potevano muoversi nella città occupata con più facilità rispetto ai loro compagni maschi. Cominciarono con i comizi volanti nei quartieri, finirono col dare la caccia ai fascisti e mettere le bombe. È in questo frangente che Maria Teresa Regard conobbe Franco Calamandrei, appena arrivato a Roma da Venezia. C’è chi lo ricorda in quel tempo come «uno spilungone con una strana faccia da uccello notturno, un vocione e un marcato accento fiorentino. È gentile, allegro, pieno di humour»44. Al primo incontro – nella casa di Cecilia e Vasco Pratolini, amici comuni, diventati pure loro comunisti – a Teresa non dovette fare nessuna particolare impressione: neppure il cognome la colpì, non sapendo affatto chi fosse suo padre. Se lo ritrovò davanti alcune settimane più tardi, a capo del Gap cui era stata assegnata. Si promisero di scordarsi i loro nomi veri e di chiamarsi solo con quelli di battaglia: “Cola” lui, “Piera” lei. La prima azione cui Teresa partecipò fu l’uccisione per strada

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di un fascista, il 16 novembre 1943. «Fu Pasquale [Balsamo] a sparare. Vedendo il fascista accasciarsi sul marciapiede, e accorgendosi che si trattava di un giovane più o meno della nostra età, invece di allontanarsi Pasquale restò immobile, scosso da un tremito convulso e da conati di vomito». Toccò a Teresa e al terzo uomo – Francesco Curreli – «prenderlo sottobraccio e trascinarlo via»45. Tre giorni dopo, con “Cola” ed “Ernesto” (Ernesto Borghesi), “Piera” mise la sua prima bomba: all’Hotel Flora di via Veneto, sede del Tribunale di guerra tedesco. Dei tre ordigni – uno per ciascuno, da attivare nello stesso momento – il suo non si accendeva. Ci provò fino all’ultimo istante, poi scappò, evitando l’esplosione per un soffio. Così ne avrebbe scritto, a caldo, Franco nel suo diario. A destra, Piera, che ancora non era riuscita ad accendere la sua, non accennava a muoversi. Ma non mi importò nulla di quello che poteva succederle: corsi via, disperatamente, convinto che i venti secondi fossero per scadere, che dopo pochi metri lo scoppio dovesse raggiungermi. Invece, solo quando fui arrivato all’estremità della strada, e attraversata la breccia che si apre lì nelle mura mi ritrovai davanti alla Villa [Borghese], prima l’una, poi l’altra, ma quasi simultanee le due esplosioni avvennero. Il loro fragore si dilatò nella notte, senza nulla però di brutale e di aspro, come un respiro enorme che si fosse improvvisamente levato ad animare quella buia immobilità. Ed io mi sentii pieno di una gioia elementare, infantile46.

Poi subentrarono l’attesa e la preoccupazione. Fino a quando la ragazza telefonò rivelandosi sana e salva, delusa per la sua bomba non esplosa, ma anche intimamente fiera di essersi dimostrata coraggiosa, affidabile e ferma fino all’ultimo momento. Seguirono, come dopo ogni azione, alcune giornate di bonaccia: a spasso per la città in cerca di obiettivi, ma soprattutto chiusi in casa a distendere i nervi, «in un’aria di vacanza», «sdraiati sui letti, fumando, conversando e leggendo»47. Teresa, nella lunga intervista resa a Portelli, rivelò che in quei momenti, per fare ciò che si faceva, era necessario staccare il cervello: bisognava non pensare. Avevano poco da dire le sue figlie quando le rimproveravano il fatto che le cose che fino allora aveva scritto sulla sua esperien-

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za partigiana erano povere di riflessioni e mancavano di soggettività. Per tutta la vita i gappisti avrebbero dovuto difendersi dal loro passato. Pasquale Balsamo, che in quei momenti raccontava addirittura le barzellette per rompere la tensione e l’atmosfera lugubre che schiacciava tutti, dopo la guerra avrebbe sempre rifiutato di raccontare le cose che sapeva, rifiutato persino di rendere pubblico il diario (bellissimo, dice Teresa) che aveva scritto. «Eravamo un po’ come se avessimo uno scudo intorno, quasi ci volessimo difendere da questa cosa, perché era una cosa talmente anormale per una persona come noi...»48. «Succede sempre, – ha scritto Luciano Bianciardi – in tempi di guerre, di rivoluzioni, che un uomo e una donna si amino subito»49. Fu proprio in un clima di guerra e di rivoluzione insieme che Franco e Teresa si innamorarono. A Roma in quei giorni c’era un’«aria tiepida e lieve, luminosa di sole e di verzura nuova», che penetrava nei covi e richiamava i pensieri alla vita «con tutti i suoi doni, intatta, di là dalle sbarre di questa prigione dove ci dibattiamo»50. Entrò come sempre senza bussare51, e lo «scudo intorno» non valse a trattenerla. All’inizio fu la ragazza, pur essendo più giovane, che condusse le danze: esperta nelle faccende di cuore, aveva una sua storia più lunga anche in politica, addirittura con un turbinoso e quindi fascinoso passato trotzkista alle spalle. Durante gli ultimi mesi, alla prova del fuoco, Teresa aveva dimostrato di non esser da meno di qualsiasi uomo; aveva mostrato coraggio e sangue freddo, aveva conosciuto il carcere di via Tasso e trovato persino il modo di sostenere la madre e il fratello più piccolo, cercando cibo al mercato nero, fuori città, e cavandosela avventurosamente in situazioni estreme. «Contegno virile ed esemplare», scrissero di lei nella motivazione alla medaglia d’argento al valor partigiano; Teresa gradì ma allo stesso tempo si risentì: «“Virile” l’ho cancellato; gli ho detto, sentite, levate “virile” perché proprio non lo reggo»52. Franco ne fu incantato. La volle per sé, forse per domarla oltre che per amarla. Ancor prima che Roma fosse liberata le chiese di sposarlo. «Perché a un certo punto lui ha deciso così», spiega Teresa a Sandro Portelli: «M’ha talmente frastornata che a un certo punto ha detto: “ah, no, io mi posso sposare solo una che ha fatto la gappista, non c’è altra scelta”, e poi è curioso perché questo attaccamento così forte che c’era fra di noi è resistito nel tem-

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po, questa è la cosa più strana, perché uno che se sposa così un po’ all’avventura, me sembrava un po’ strano...»53. La cerimonia fu celebrata in Campidoglio, il 13 giugno 1944; Teresa era vestita con un tailleur turchino di shantung di seta, ai piedi due sandali di pezza che si ruppero al primo scalino. Per pranzo di nozze, un piatto di fagioli. La fine della guerra coincise per entrambi con la fine della giovinezza. Franco Calamandrei poté sentirsi finalmente uomo compiuto, non più ragazzo in cerca della propria strada. Teresa Regard si ritrovò sposa, presto anche madre. Fu una strana Liberazione per lei. Segnò la fine della lunga trasgressione che la guerra le aveva concesso54. Le sarebbe rimasto per sempre dentro il rimpianto con cui era stata costretta a consegnare la sua Beretta 7,65, simbolo ambiguo ma potente di una stagione che le aveva concesso una libertà che mai più avrebbe ritrovato. Il matrimonio fu un altro sigillo, altrettanto ambivalente: Franco lo visse come un nuovo inizio, lei come una chiusura. «La convivenza con Franco non era priva di attriti», scrisse Teresa nelle sue memorie: Litigavamo di solito per futili motivi, troppo diverse erano le nostre abitudini di vita. Franco era avvezzo ad essere servito di tutto punto in casa sua, anche se si era poi adattato, abbandonando la famiglia ordinata che era la sua, ad arrangiarsi da solo. Si lamentava, per esempio, che non gli lavassi e stirassi la biancheria. [...] Alla fine di gennaio fui costretta a licenziarmi. Franco era infastidito dai miei risvegli di prima mattina per rispettare l’orario d’ufficio, e minacciò di lasciarmi se non rinunciavo al lavoro. Non avevo intenzione di cedere, e cercai l’appoggio del partito. [...] Mi consigliò di seguire il volere di mio marito, perché un matrimonio felice era più importante dei soldi che guadagnavo55.

Era difficile la convivenza nelle case con altre coppie, più anziane, che la precarietà dei mezzi e lo stile politico comunista imponevano. Teresa, poi, in cuor suo soffriva la maggiore visibilità del marito: c’erano cose che a lui erano concesse e che per lei erano invece frutto di una conquista faticosa. Avrebbe voluto scrivere, lavorare, partecipare alla vita politica e al lavoro culturale allo stesso modo del suo uomo. Nel 1946 rimase incinta.

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La cosa non mi piacque affatto, mentre fece felice Franco che molto desiderava un figlio. Ero giovane, avevo ventidue anni, e non avevo ancora chiaro cosa volessi fare nella vita. Non ero ambiziosa, ma soffrivo di svolgere un ruolo così marginale rispetto agli anni della clandestinità56.

Diventata madre, si ritrovò nel ruolo di casalinga-traduttrice. Nel novembre 1947, Franco, nel suo diario, ne riportò le parole di un momento di confidenza, che suonano come malinconico commiato da una fase della propria vita. Ora, diversamente da prima, non mi sfiora più l’idea di conoscere qualche altro uomo, per sperimentare altri aspetti della vita. Ti amo in modo esclusivo, sento che non potrei accostarmi ad altri che a te. Questo mi dà commozione e tenerezza, ma anche un po’ di tristezza. Perché penso che significa che sono invecchiata, che le mie energie sono diminuite, se si è spento in me questo desiderio capriccioso di avventura, di novità, di sorprese57.

4. Matrimoni del dopoguerra Carlo Cassola ha scritto alcuni dei suoi racconti più belli ambientandoli in questa fase di trapasso sentimentale e politico58. La guerra è stata una tragedia che ha avuto il suo lato erotico. La seconda guerra mondiale – ha scritto Ernesto Galli Della Loggia – creò un clima straordinariamente propizio alla promiscuità, agli incontri, all’innamoramento, per tutti gli strati della popolazione femminile. L’incontro erotico fu spesso l’incontro con uno straniero, ed in tale incontro – altro fatto di non piccolo rilievo – le donne si trovarono più di una volta a svolgere un ruolo, sessuale e non, di tipo attivo, per esempio provvedendo esse alla salvezza del partner59.

Dopo la guerra c’è una corsa a sposarsi che contagia anche partigiani e partigiane. «Tra il 15 giugno e la fine del mese – ricordava Laura Lombardo Radice, moglie di Pietro Ingrao – ci siamo sposati in tantissimi, del giovane gruppo dirigente romano»60. Nel gruppo dei gappisti romani, sono almeno cinque le coppie che nel fuoco della lotta si formano o si consolidano fino al matrimonio.

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La Liberazione fu «una stagione di matrimoni», ha scritto una di loro, Marisa Musu: il mio con Valentino [Gerratana], in luglio, quelli di Antonello Trombadori con Fulvia Trozzi, sua fidanzata da tempo, di Calamandrei con Maria Teresa Regard, di Rosario Bentivegna con Carla Capponi, di Mario Fiorentini con Lucia Ottobrini, per parlare solo di noi gappisti. Era la normale conclusione di storie che avevano dovuto per lungo tempo sottostare ai condizionamenti innaturali della lotta armata61.

Il matrimonio segna un ritorno all’ordine dopo il disordine della guerra civile. Regolarizzare le coppie di fatto che la guerra aveva prodotto risponde all’esigenza dei partigiani di abbandonare la loro condizione di “fuori legge” per essere reintegrati nella società, accettandone norme e consuetudini. Ma nelle intenzioni di chi si sposa l’ordine cui si chiede di partecipare è quello di un mondo profondamente rinnovato. Questo – ha scritto a ridosso della sua Liberazione Roberto Battaglia, cugino di Teresa, a sua volta partigiano e futuro storico della Resistenza italiana – sarebbe infatti il senso ultimo dell’esperienza partigiana: un rito di rinascita individuale e collettiva, «l’impulso di mettersi fuori legge, per farla finita con un vecchio mondo che era crollato o stava crollando intorno a noi, e il desiderio, nel tempo stesso, di ricostruirne uno nuovo»62. Nel clima del momento, proclamare pubblicamente il proprio amore è un modo per partecipare e per contribuire alla felicità del nuovo mondo che la Liberazione ha dischiuso. «Esiste una molteplicità di connessioni imprevedibili tra stati mentali privati ed eventi pubblici che rappresenta un terreno storico di grande fascino, da esplorare in tutte le sue sfaccettature», ha scritto Paul Ginsborg riflettendo sul rapporto tra felicità pubblica e privata in relazione a un’altra coppia di partigiani63. A guardar bene, ci sono molte storie che ci restituiscono una Resistenza vissuta come un periodo rivoluzionario: rivoluzione praticata e desiderata nell’ordine sociale e politico, ma anche rivoluzione interiore, rapida trasformazione di identità, idee, sentimenti. Per cogliere questi aspetti dovremmo seguire la strada di Fenoglio: togliere dalla nostra precomprensione della Resistenza il significato politico che vi si è depositato e guardare ad essa come

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una questione privata, come un romanzo di formazione generazionale. O per lo meno dovremmo ripensare, allargare, rendere più duttile e più sottile la nostra idea di politica. Intenderla – almeno per quella fase “rivoluzionaria” – come esperienza di massa, come pratica quotidiana, non come tecnica riservata a esperti, non solo come processo per la conquista del potere. Romanzi, memorie, testimonianze orali, nonché la nuova storiografia più sensibile a queste fonti ci mostrano che per la gran parte dei giovani che si scoprono partigiani l’incontro con la politica si fonda innanzi tutto su relazioni tra amici, tra vicini di casa, tra compagni di scuola, su pomeriggi passati insieme a leggere, chiacchierare, ascoltare musica e ballare, su gite in bicicletta e passeggiate in montagna64. Alla Resistenza si arriva quasi per caso, e quasi sempre impreparati. La guerra irrompe in un mondo di ragazze e ragazzi che fino ad allora hanno fatto altro, impegnati come sono a crescere e cercare la loro strada, e li trasforma ulteriormente. Aveva cercato di dirlo tante volte Franco Calamandrei, senza trovare le parole giuste nel suo vocabolario di intellettuale laico. Lo esprimeranno con più facilità le donne, dotate di un bagaglio culturale forse più adatto a dar conto di ciò che avevano vissuto. Come le partigiane cattoliche, che solo negli ultimi anni ci si è presi la briga di ascoltare65. Hanno raccontato che per loro la Resistenza è stata un periodo rivoluzionario innanzi tutto perché esse per prime sono cambiate, rapidamente e intimamente. Fu un periodo – questa è la parola chiave – di conversioni66, oltre che di innamoramenti. Quasi tutte lo vissero non solo in gruppo, ma soprattutto in coppia, coppie che si erano formate all’ombra delle parrocchie. Perché per loro la Chiesa – paradossalmente, proprio la Chiesa reazionaria e integralista di Pio XII – era l’unica alternativa agli spazi di regime, l’unica agenzia in grado di proporre delle occasioni di autonomia e di crescita personale. Ma anche perché esse vedevano nel messaggio forte ed esigente di quel cattolicesimo militante un elemento di rottura radicale, esistenziale, rispetto al clima fascista, rispetto al conformismo e al moderatismo della piccola borghesia da cui provenivano. Talvolta anche rispetto all’antifascismo rassegnato, stanco e silenzioso di tanti padri, molti dei quali erano socialisti e antifascisti, comunque laici se non anticlericali, ma ormai invecchiati, sconfitti dentro, senza più carica. L’innamorarsi e scegliere un altro uomo, o nessun uomo, ma co-

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munque un’altra storia e una vita propria, era stato per quelle ragazze un modo per separarsi dal padre, e diventare adulte. Conversioni, innamoramenti, e quindi tradimenti. Sono variazioni sul piano individuale del medesimo atto, politico e collettivo, che si consuma in quei mesi: riverberano e diffondono l’8 settembre della nazione in una dimensione privata e familiare. I primi a essere traditi sono naturalmente i padri, che sono visti a loro volta dai figli come dei traditori. Perché hanno consentito il fascismo, hanno accettato la guerra, hanno consegnato loro un paese malato, una cultura bacata, una caterva di disgrazie67. Come in tutte le storie del mondo, i genitori hanno accompagnato i figli nel bosco, e poi li hanno lasciati soli68. I giovani italiani cresciuti durante il fascismo sono stati condotti addirittura nelle spire di una guerra mondiale. Non seguendo a ritroso i passi dei loro padri essi potranno ora tornare a casa. Devono orientarsi e camminare da soli lungo strade sconosciute. I vecchi sono scomparsi, annichiliti anche moralmente, perché l’8 settembre li ha squalificati, resi impresentabili. Ha coperto irrimediabilmente di discredito, tutta intera, la generazione e persino la funzione dei padri. Ma altri tradimenti, meno evolutivi, si consumano nel fuoco della lotta. Per una coppia che si forma altre – potenziali o reali – si disfano. Se Roberto Battaglia ha scelto di lasciarsi alle spalle una moglie e due figli piccini per cercare oltre le linee nemiche l’ebbrezza di una «vita nuova, tutta aperta, senza più legami, nitida come quel chiaror di luna»69, come fare i conti con la delusione di Giorgio Formiggini di fronte al repentino matrimonio di Teresa? Le era stato a fianco anche nei Gap a Roma. Ma ad un certo punto le regole misteriose della clandestinità li avevano separati, assegnati a zone diverse, nella stessa città, ma con il vincolo della segretezza e dei compartimenti stagni. Giorgio aveva tentato in tutti i modi di non rompere quel filo. Aveva vissuto col cuore in gola i giorni dell’arresto di Teresa, sentendosi responsabile della scelta di militanza cui lui l’aveva introdotta. Paolo Regard, ragazzino all’epoca in cui la sorella faceva la partigiana, ricorda le visite di Giorgio – braccato e terrorizzato perché doppiamente clandestino, come gappista e come ebreo – che rischiava la vita per cercare notizie di Teresa70. E in quel momento, proprio in quel momento che segnava il culmine tanto atteso di una lunga, condivisa preparazione politica, lui l’aveva persa per sempre. All’u-

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scita dal tunnel della guerra, nei giorni della Liberazione di Roma, se l’era ritrovata sposata con un altro. Giorgio tornò a Napoli da solo. Questa volta non occorre scomodare Fenoglio per entrare nella parte che fu del partigiano Milton e di chissà quanti altri, prima e dopo di lui. Quel suo viaggio di ritorno l’ha scritto (forse) Formiggini di suo pugno: Da Roma a Napoli: un viaggio di ritorno senza nessuna allegria, senza neanche voglia di tornare, senza il desiderio di ricominciare e questa volta sulla linea di un discorso certamente diverso, ora che c’era la pace, la pace cioè la lotta di classe, lo scontro sempiterno, notte e giorno, per il quale l’unica è trovare il posto più adatto per difendersi e colpire, l’unica è trovare la posizione migliore per finire vincente e alla fine fare i conti e scegliersi la posizione giusta dato quello che è successo: il nemico è fuggito verso il Nord e a noi resta un distintivo nel petto con una stella rossa, la ragazza – la ragazza che sembrava essere tutto con noi e che pensasse in accordo con noi, ecco che aveva dato la sua vita a un altro che ne aveva – come no? qualcuno così diceva – che ne aveva più bisogno di noi. Comunque gli aveva dato il suo corpo perché lui se lo tenesse appiccicato addosso e gli tenesse caldo d’inverno, e lo difendesse d’estate e ogni volta che a lui sembrasse necessario71.

5. I conti col padre Nelle scelte decisive – quelle che ti cambiano la vita – le idee e la volontà contano fino a un certo punto. Le affinità elettive scoccano su altri piani. In guerra come in amore contano soprattutto le occasioni, il contesto, la compagnia, il temperamento. Il vecchio Croce, a guerra ancora in corso, se la prendeva con i suoi “giovani” allievi, figli spirituali, che lo tradivano e sceglievano il Partito d’Azione invece del Partito liberale; si esacerbava ancor di più di fronte a coloro che gli spiegavano che i nuovi partiti si formavano non tanto sulle «idee direttive», ma sulla base del sentirsi in buona compagnia, sulle affinità di temperamento72. Anche alla Resistenza si era arrivati più sull’onda del piacere di stare insieme – quello stesso sentimento che avrebbe poi regolato la vita quotidiana dei partigiani: dove andare, con chi andare, fino a quando stare – che al seguito di idee e programmi. Non

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si era operata quasi mai una scelta unica, lacerante e irreversibile. Si facevano invece tante piccole scelte quotidiane – spesso al buio, talvolta in solitudine, talaltra all’interno di un gruppo ristretto – che solo alla fine avrebbero dato il senso di un percorso compiuto73. Era stato così per Maria Teresa Regard. Ma senza dubbio anche Franco Calamandrei era giunto alla Resistenza sospinto da quell’onda, che era nata solo pochi anni prima come una piccola increspatura quasi insignificante. Quando partì da Venezia, dopo l’8 settembre, Franco non aveva ancora le idee chiare e non sapeva bene che cosa avrebbe fatto. Probabilmente conosceva i comunisti solo per sentito dire, anche se alcuni dei suoi amici – a Firenze, a Venezia – già lo erano. Emilio Vedova, il pittore, che era con lui in quei momenti, se lo ricorda addirittura «repubblicano»74. È comunque con loro, con il gruppo dei pari, che Franco in quei giorni fa le sue scelte. Con il padre, invece, su questo piano non c’è dialogo. C’erano stati, anzi, nel recente passato, solo frizioni e contrasti. Piero Calamandrei era un genitore importante, fin troppo ingombrante: antifascista, ma ottimamente inserito nei gangli della società che conta: accademico, avvocato di grido, consulente del ministro di Grazia e Giustizia per la riforma dei codici. Franco non faceva mistero di disprezzare la fronda inconcludente e un po’ opportunista degli antifascisti liberali che lo frequentavano: Pietro Pancrazi, Luigi Russo, Sandrino Levi, Benedetto Croce, suo padre stesso gli sembravano dei sopravvissuti di un mondo sconfitto, vecchi scontenti incapaci di incidere nella realtà, arroccati nei loro privilegi di casta, senza neppure il coraggio di portare fino in fondo la loro opposizione al regime, osando, rischiando, mettendosi in gioco. Loro stavano con i piedi piantati nell’Ottocento, mentre lui e i suoi coetanei guardavano al secolo nuovo, il secolo delle masse e della modernità di cui il fascismo era il vero interprete. All’altezza dei suoi vent’anni, Franco aveva accolto addirittura con tripudio la sconfitta dei repubblicani a Barcellona: «Chi vince, vince perché ha ragione»75, diceva a chi lo interrogava, rivelando quanto in profondità avesse scavato la cultura del regime. Loro, i “vecchi”, ricambiavano i giovani dello stesso disprezzo: «Merda, gioventù di merda»76, scriverà Piero Calamandrei nei giorni in cui la guerra cominciava a dilagare in Europa, mentre Franco e i suoi amici pareva si dilettassero a non far altro che

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disquisizioni letterarie nei giornali del regime. L’unico con meno di trent’anni ammesso alla cerchia dei professori peripatetici – protagonisti di quella specie di «fuoriuscitismo domenicale»77 che li portava a spasso per la Toscana a cercar respiro dalle angustie del regime – era Leone Ginzburg: redattore di Casa Einaudi, due anni di carcere sulle spalle per antifascismo, sposato e con figli, Leone poteva ben apparire agli occhi di Piero un «uomo solido e pieno di fede confortante»78. Eppure nemmeno lui taceva la propria sfiducia verso molti antifascisti di lungo corso («sono gente stupida e inetta, di cui bisogna diffidare», aveva riferito a Pancrazi durante una passeggiata), seminando così in chi ascoltava qualche dubbio, «se anche noi non si appartenga a questa genia, e non si dia ai giovani, anche contrari al regime, l’impressione di questi innocui democratici brontoloni, superati dal tempo che cammina»79. Ma a parte rari momenti come questo, la nota dominante nel diario tenuto da Piero Calamandrei dal 1939 al 1945 è la disperazione, la solitudine, l’astio nei confronti dei giovani, e di suo figlio in particolare: sentimenti che rivelano la distanza culturale dalla generazione cresciuta nel fascismo, ma anche la sofferenza di un padre che non si sente amato, apprezzato, riconosciuto. Ieri sera – scriveva Piero il 30 maggio 1939, in uno dei tanti sfoghi – con [Arturo Loria] ho parlato lungamente dello stato d’animo dei giovani: mi ha detto, per esperienza propria, cose sensatissime sulla cattiveria dei figli contro i padri, sul timore dei figli che i padri impediscano loro di compiere tutte quelle bellissime cose per cui pensano di essere chiamati80.

Franco, d’altra parte, sembrava far di tutto per tenersi lontano dal suo babbo. Ne rifiutava le idee politiche, i gusti letterari, il modo stesso di intendere la cultura come impegno etico e civile. Si era anche rifiutato di seguirne le orme professionali, dopo una pur promettente laurea in giurisprudenza, ripudiando così in un sol colpo – lui, ultimo rampollo di una famiglia di uomini di legge – l’eredità culturale e morale di generazioni di giudici e di avvocati. Diceva ora di voler diventare scrittore, si esprimeva con i moduli dell’ermetismo, pubblicava racconti su riviste, frequentava artisti dalla sensibilità esasperata. C’è un ritratto di gruppo, conservato da Giorgio

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Spini, che vede riuniti in un’unica caricatura Gli amici della “Conchiglia”: Franco Calamandrei, Piero Bartolini, Valentino Bucchi, Giorgio Spini, Giacomo Diridetti, Paolo Cavallina, Franco Lattes, Giancarlo Bartolini Salimbeni e Piero Santi. «La compattezza del gruppo», scrisse anni dopo, a commento, Spini, «fu come una sorta di conchiglia che ci protesse dal sudiciume esterno in mezzo a cui ci toccava di vivere»81. In realtà ognuna di quelle persone faceva parte di più gruppi contemporaneamente, anche contraddittori e rivali tra loro, e li metteva in comunicazione, mescolando istanze, valori e linguaggi82. Ma il sentimento esclusivista della “conchiglia” doveva essere stato vero e diffuso: al riparo dell’appartenenza di gruppo e di generazione, spesso al riparo delle stesse riviste e organizzazioni universitarie fasciste, si svolgeva un processo molecolare di fermentazione di umori e di idee. Lo ha ricordato alcuni anni fa uno di loro, cresciuto negli stessi ambienti, negli stessi anni, frequentando le stesse persone: Oggi – riferiva Giampiero Carocci – si tende a dividere in modo un po’ rigido e schematico tra chi era fascista e chi era antifascista, mentre allora fascisti e antifascisti vivevano insieme. Non solo, ma c’era dentro di noi, di noi diciamo antifascisti, anche qualcosa di fascista. Io per esempio ho scritto a diciannove anni un articoletto sulla «Riforma letteraria» in cui dicevo che il fascismo era un progresso sul liberalismo. Perché c’erano le masse. C’era in noi un certo disprezzo per l’antifascismo crociano, che consideravamo l’Italietta umbertina, liberale, che il fascismo aveva superato83.

Piero Calamandrei si accorge che dentro quegli ambienti sta succedendo qualcosa quando la polizia comincia a interessarsi degli amici di Franco; alcuni li arresta, altri li malmena. «Così la polizia dà peso a un pazzoide come è certo costui!»84, scrive Piero, non riuscendo ancora a prendere bene le misure, dopo aver saputo per bocca di suo figlio dell’arresto di Giacomo Ca’ Zorzi (Noventa). Pochi mesi più tardi, non potrà che registrare il diverso spirito con cui Franco accoglie ora il crollo militare della Francia («qui non si tratta di politica, ma di civiltà»85), rispetto all’esultanza che aveva avuto per l’ingresso dei fascisti a Barcellona. Segno che qualcosa, tra i giovani, si sta muovendo.

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All’affacciarsi della guerra Franco Calamandrei sentiva di aver maturato un bisogno di uscire, di andare, di fare da sé. Il primo strappo lo diede lasciando la casa paterna. «Oggi Franco parte per Roma» commentava il padre nel suo Diario, nel novembre 1939 «a studiare lettere. Anche a Firenze c’è la facoltà di lettere, come tutti sanno; ma Franco non può più vivere tranquillamente nella sua famiglia»86. E lui, di rimando, a tentare di spiegare al padre le ragioni della propria insoddisfazione per la carriera giuridica, il bisogno di ritagliarsi «questo silenzio romano» e la ricerca di una strada autonoma negli studi letterari come «condizione di conoscenza e di espressione di me stesso»87. Da Roma Franco non perse però i contatti con i suoi amici letterati fiorentini: continuava a scriversi, e a vedersi quando poteva, con Franco Lattes (Fortini), con Romano Bilenchi, con Piero Santi, con Giampiero Carocci88. Dopo due anni abbandonò anche la tesi di laurea che aveva avviato – su André Gide, relatore Pietro Paolo Trompeo – e si mise a cercare un lavoro: uno qualsiasi, purché gli consentisse di vivere da solo, lontano da Firenze, e di continuare le traduzioni dal francese che aveva cominciato a fare e che Einaudi – tramite Carlo Muscetta – sembrava apprezzare. Su consiglio di Fortunato Pintor tentò un concorso negli Archivi di Stato: un posto tranquillo, «senza sbalzi né urgenze»89, con lo stipendio sicuro e molto tempo per leggere. A Napoli, dove fu destinato per il primo impiego, Franco aveva ritrovato un ambiente congeniale. «Questa è la città dove si vive senza memoria, dove si ignora l’indomani: ognuno è in ogni istante e in ogni luogo quello che è e dove è»90. Durante il tempo libero frequentava pittori e scrittori, come Vasco Pratolini e Carlo Bernari91, e in ufficio il lavoro non lo assillava. Del suo primo giorno in Archivio – il 18 aprile 1942 – fece ai genitori questo racconto: Stamani io mi sono recato là puntualmente alle 8: l’ufficio – un enorme edificio di molti piani – era deserto, e lo è stato fin dopo le 9; non c’era che un vecchio usciere che facendomi gran festa mi diceva che bisogna “arrangiarsi” in questo mondo, e che gli impiegati dell’A. si arrangiano; non c’è che un punto sul quale i superiori non transigono, quello del fumo: fumare è assolutamente vietato; ma per il resto... laissez faire, laissez passer. Più tardi, verso le nove e mezzo, è arrivato uno dei direttori: anche lui gran festa, invito ad andarmene subito, sen-

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za neppure aspettare il Capo, e a prendermi qualche giorno libero per sistemarmi con calma […]. Così alle 10 sono uscito dalla mia prima giornata di lavoro, benedicendo questa civilissima città che riesce ad annientare anche il mostro Burocrazia92.

Poi a Venezia, dal giugno ’43. Qui possiamo seguire le sue giornate in stereoscopia, attraverso il diario e attraverso le lettere ai genitori. Franco sembra vivere l’ultima estate del fascismo come in una bolla: blando lavoro ai Frari, bagni di sole e di mare al Lido, concerti alla Fenice, conversazioni letterarie nei caffè delle Zattere. Legge l’Education sentimentale di Flaubert, Fede e bellezza di Tommaseo, Il diario di un seduttore di Kierkegaard. «Qui la vita procede in una morbida tranquillità», scrive alla madre il 25 giugno, «tutto sembra così lontano, e bisogna farsi forza per non cadere in un egoistico oblio»93. Gli scambi epistolari con la madre sono quelli di un giovane borghese abituato fin lì a vivere in famiglia: rassicurazioni sul mangiare e sul dormire, descrizione dell’alloggio, richieste di vestiti, ringraziamenti per i pacchi dono. Un mese dopo, il 25 luglio introduce Franco in un tempo diverso. Tutto, dentro e fuori di lui, comincia a muoversi sempre più in fretta. «Ho visto spettacoli per i miei occhi venticinquenni veramente nuovi», scrive ai genitori, commentando la presa di parola collettiva seguita al crollo del fascismo, che rappresenta una cosa sconvolgente per chi non ha conosciuto altro che la dittatura: «Tutti parlano – e finalmente forte – negano o affermano, approvano, condannano, tutti si riscoprono o si improvvisano un’opinione»94. Scopre che le persone che ogni giorno frequentava hanno alle spalle storie interessanti, fin lì taciute o solo sussurrate. Fili sospesi si riannodano, memorie interrotte riprendono a scorrere: «I proprietari della trattoria che io frequento sono veterani di carcere e di confino politico – padre, madre e figlia, tutti in blocco. Furono compagni di Rosselli, al tempo della sua fuga, e raccontano tante cose»95. Si complimenta garbatamente con il padre, ne segue da lontano le mosse politiche, la nomina a rettore dell’Università di Firenze, i passaggi istituzionali nel governo Badoglio – «ma com’è, il babbo, e gli altri amici: collaborazionisti o attendisti?»96 – estremo tentativo di uscita legalitaria dal fascismo. Non smette di cercare una sistemazione lavorativa soddisfacente. Spera che il nuo-

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vo corso politico gli apra delle possibilità. Si rivolge a Muscetta chiedendo un «lavoro fisso» presso Einaudi. Quasi una supplica che si conclude con queste parole: E spero tu mi conosca ormai abbastanza per capire che il mio cognome non può risolvermi l’esistenza, che ho bisogno seriamente – anche se per ragioni spirituali prima che strettamente pratiche – di uno «stipendio». Fammi sapere, te ne prego, qualcosa, e presto, salutami di cuore Trombadori, Alicata, Ginzburg che non dubito siano tornati a casa97.

Gli arriva in cambio l’incarico di tradurre «con giudiziosa rapidità» All’ombra delle fanciulle in fiore di Proust: mille lire al mese, per dodici mesi, consegna dopo un anno esatto98. L’avrebbe concluso nel 1949, in ritardo di cinque. Con l’8 settembre tutto si accartoccia. Le traduzioni rallentano e le comunicazioni epistolari con la famiglia si diradano. Ormai c’è solo un pugno di amici con i quali Franco orienta le sue scelte. Parte da Venezia con l’intenzione di andare a sud e raggiungere l’Italia liberata. Ma il 12 settembre, di sosta a Roma, annota nel suo diario: Ho ritrovato qui V.[asco Pratolini], L.[izzani], P.[andolfi] e molti altri, che un anno fa avevo lasciati nella mia assenza angosciosa, e tutti siamo d’accordo che questa estrema occasione di intervenire, di farci una buona volta partecipi, non ci deve sfuggire. V. e P. sono inquadrati in un nucleo di simpatizzanti della organizzazione comunista. Non hanno durato fatica a persuadermi che il nostro posto di lotta è di qua, non di là delle linee99.

Di seguito ricopia alcuni versi dell’Antologia di Spoon River, appena uscita da Einaudi per le cure di Fernanda Pivano e Cesare Pavese, a dare parole ad un’inquietudine che è esistenziale ancor prima che politica: E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino, / dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre alla follia, / ma una vita senza senso è una tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio – / è una barca che anela al mare eppure teme100.

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C’è un reticolo di letture che tiene insieme questi giovani. Anch’esse sono parte dell’onda che li sospinge. «Il Testamento politico di Pisacane mi rinfranca», annoterà qualche mese più tardi Franco, dialogando questa volta con Giaime Pintor, prefatore del testo e ideale capogenerazione postumo, immolatosi proprio in quei giorni, mentre cercava attraverso la guerra la via di un riscatto personale e collettivo101. Quel sentimento ancora informe di «rivolta morale o religiosa» – come scriverà Fortini nel ’48, recensendo Il lungo viaggio attraverso il fascismo di Ruggero Zangrandi –, che alla fine degli anni trenta cominciava a montare tra i giovani, trova ora un suo sbocco politico. Sono la sconfitta militare e il tracollo del fascismo che lo chiariscono e ne risolvono le ambivalenze. L’antifascismo resistenziale della «generazione di mezzo» è, comunque, ancora un’altra cosa rispetto a quello dei vecchi liberali. È fatto con i materiali psicologici, culturali e linguistici che per gran parte i giovani avevano trovato nel fascismo e che essi ora assemblano per costruire il proprio discorso contro il fascismo: l’incontro voluto con le masse, il senso di missione generazionale, l’accettazione della violenza come levatrice della storia, lo spirito di militanza integrale, senza distinzione «fra vita privata e pubblica, fra poesia e politica, tra cultura e politica»102 sono transitati quasi intatti al di là del guado, hanno solo cambiato di segno politico. Con il padre, con i padri, c’è una distanza incolmabile di sensibilità e di prospettive, prima ancora che di idee. Per Piero l’8 settembre è una fine, per suo figlio un inizio. Uno è risucchiato sempre più nella piccola patria, sempre più piccola fin quasi a coincidere con la propria famiglia. L’altro esce dal buco esistenziale in cui aveva sempre guardato e scopre orizzonti molto più vasti, un’altra dimensione del mondo e della vita. «Ieri mattina è venuto Franco da Firenze», scrive il padre nel Diario, il 16 settembre: «visita che credevo piena di dolcezza, come il ritrovarsi di persone che si vogliono bene nel momento della sventura, e che invece è stata di angoscia e di amarezza»103. Fa di tutto per trattenerlo dal proposito di andare a sud, verso il fronte di guerra; gioca la carta del ricatto affettivo; chiede ambiguamente a lui, figlio, di farsi padre dei suoi vecchi, di non negar loro la propria protezione e insieme di preservare attraverso la propria sopravvivenza la con-

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tinuità della famiglia e delle generazioni. «Ci fu un tempo che pensai di sfuggirti» scrive Piero in un frammento, pensando a suo padre ma immaginando di dar voce a suo figlio: «la mia strada, farmi da me. Stolto, non m’ero accorto che tu eri in me, nascosto nel mio sangue, chiuso nei miei nervi, presente nei miei sogni. [...] Quest’uomo che è in me è mio padre. Tutto si capovolge, tutto si confonde»104. Il congedo di Franco dai genitori è una pagina drammatica, racconto di una separazione dolorosa e non risolta, scritta e riscritta tante volte, quasi a esorcizzarla105. È una storia privata ed è la storia di tutti. «Dino era un grumo di ricordi che accettavo, che volevo, lui solo poteva salvarmi, e non gli ero bastato»106, avrebbe scritto Cesare Pavese nella sua meditazione più sofferta su quegli anni, dando voce ai pensieri di un altro padre sfollato e smarrito in collina di fronte al figlio che si svincola dalla sua inibente tutela e se ne va per la sua strada, verso la medesima guerra107. Tempo di tradimenti e di risentimenti, si è detto, fin dentro le famiglie. Ancora nei mesi in cui suo figlio sta combattendo in clandestinità a Roma contro tedeschi e fascisti, mentre lui è nascosto a Colcello, nelle colline umbre, in casa di amici, Piero Calamandrei gli riserva giudizi taglienti e ingenerosi. «Allora i figlioli pensavano alle pene dei padri e si sacrificavano per loro»108, scrive nel gennaio ’44, ripensando al suo Risorgimento – quanto mai lontano dallo spirito di Pisacane – per stigmatizzare l’estraneità spirituale che suo figlio continuamente gli manifesta. Ora addirittura Franco rifiuta i soldi che il padre gli invia a Roma, tramite amici comuni, e anzi di risposta gli manda a dire, come mai prima aveva fatto, che quanto guadagna gli basta per vivere (è la paga da gappista, ma questo non lo può ancora svelare). Piero commenta tra sé: Franco di questo mondo famigliare è assolutamente ignaro e noncurante: non lo riguarda, non lo interessa. Nelle lettere che scrive ad Ada fa ogni tanto quelle domandine di etichetta familiare che non aspettano risposta (state bene? avete freddo?), ma una frase, una sola frase che mostri di avere considerato un istante solo questa rovina mia, il pericolo in cui io sono, la possibilità che abbia bisogno di lui, non c’è109.

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Secondo Alessandro Galante Garrone – primo biografo di Piero e Franco, allievo spirituale del primo, sorta di fratello maggiore del secondo – la Resistenza avrebbe compiuto il «miracolo» di avvicinare finalmente le generazioni in un concorde sentire all’insegna dell’antifascismo110. In realtà, l’antifascismo dei padri e quello dei figli continuano a essere due cose diverse e non comunicanti. Mentre gli eventi si svolgono, Piero Calamandrei sembra quanto mai lontano dal comprendere suo figlio e dal comprendere lo spirito stesso della guerra partigiana. Confida a se stesso la delusione per la «tristezza di retrovia»111 in cui si trova a vivere a Colcello. Da Roma, l’avvocato Gino Pecorella, che divide con lui lo studio nella capitale per le cause in Cassazione, gli scrive, il 6 ottobre 1943: Carissimo, scusami se la mia insistenza ti apparirà molesta, ma a me sembra che il rimaner lontano da qui in questo momento, per un uomo della tua autorità, possa essere un errore e un danno per il nostro disgraziato Paese. Se negli eventi dei giorni, ormai prossimi, tu non ci sarai, non sarà possibile che tu presti il tuo consiglio e certamente la tua opera per le migliori soluzioni, mentre è stato dichiarato e riaffermato che, proprio con la liberazione di Roma tali soluzioni saranno subito adottate112.

Piero riceve negli stessi giorni dai fascisti profferte a collaborare – «come l’altra volta»113, annota nel Diario – alla Repubblica sociale, che tenta di pescare consensi anche tra le file degli antifascisti in nome del patriottismo e del mazzinianesimo. Lui risponde, tra sé, con sommo sdegno. Ma resta passivo. Non ha lo scatto morale, né forse il retroterra culturale che gli consentano di riconoscere la Resistenza che pur gli sta crescendo intorno. Anche se il dubbio lo roderà, sempre più fastidioso col passare dei mesi e col prolungarsi della sua lontananza dalla scena pubblica, di essere giudicato alla fine della guerra un disertore «per fuga e viltà»114. È la sua stessa formazione giuridica – che era stata un baluardo di resistenza culturale al totalitarismo fascista, con la difesa del principio di legalità – che gli impedisce ora di far proprie le ragioni di una guerra irregolare, che è innanzi tutto una rivolta contro l’ordine costituito. Piero Calamandrei la sua guerra l’aveva fatta trent’anni prima, avendo l’intero paese dietro di sé (o figuran-

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dosi di averlo), sentendosi in continuità con il Risorgimento e con cent’anni di storia d’Italia, ricevendo la benedizione di tutte le istituzioni e, non ultimo, di suo padre, che aveva chiesto a sua volta di partire per il fronte. Adesso interpreta il presente con gli stessi schemi di allora: una guerra tra eserciti legittimi, gli italiani contro i tedeschi, per la liberazione del territorio nazionale. Così, non può far altro che aspettare che la libertà arrivi da sud, al seguito delle truppe alleate e di ciò che rimane dell’esercito italiano. Fa fatica a concepire la moralità di una guerra civile, condotta da combattenti senza divisa, inquietanti “stranieri interni” che non fronteggiano il nemico ma si annidano nel suo seno per colpirlo di sorpresa. Ancora a metà del ’44, quando avrà già saputo del ruolo svolto da suo figlio a via Rasella, riporterà nel diario l’opinione (o almeno il dubbio, fatto pronunciare all’amico Pancrazi) che il coraggio per compiere gli attentati contro tedeschi e fascisti «è molto simile a quello dei criminali, non dei soldati in campo»: un coraggio da deboli – come quello di Lafcadio, il personaggio di Gide – che non rivela altro che il «disprezzo dell’individuo, proprio dei partiti di massa»115. Dei «ribelli» in fondo diffida: ha notizie che siano tipi poco raccomandabili, che portino berretti con la falce e martello e che vogliano regolare i conti con i signori, oltre che con tedeschi e fascisti. Il comunismo che sente arrivare dietro di loro gli pare fratello siamese del fascismo appena lasciato alle spalle. E già l’8 settembre ha prodotto un rovesciamento di ruoli sociali che assomiglia a una rivoluzione, perché sono i campagnoli a comandare sui signori di città. «Qui nessuno sa chi io sia, qual è il mio mestiere», scrive nell’aprile 1944: c’è chi mi chiama avvocato, chi mi chiama professore, chi ingegnere. Ma i colcellesi mi chiamano il sor Piero: o anche il Mosca: oppure «quello lungo». Sono uno sfollato, rientrato in questa situazione di uguaglianza umana, al livello di tutti. Si va in giro con un senso di mortificazione, guardando nei campi i privilegiati, i contadini che lavorano, e quasi si sente il bisogno, salutandoli per primi, di farsi perdonare la nostra inutilità, il nostro ozio, la nostra petulanza di mendicanti vestiti da città116.

Dimesso e sbalestrato, sfollato e impoverito, precario e in tutto dipendente dal mondo contadino in cui è costretto a vivere e

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che lo osserva con curiosità e un briciolo di fastidio, il “vecchio” Calamandrei guarda con poca fiducia al presente che ha di fronte e al futuro che si profila. Rivive sensazioni già conosciute nel corso dell’altra guerra – i primi anni della sua Grande Guerra vissuti nel grigiore delle retrovie117 – come chi si trovi senz’arte né parte, in balìa degli altri e degli eventi. «Ah veramente solo i morti ci sono fedeli», annota nel Diario. Le sue meditazioni negli ultimi anni sono quasi tutte imperniate sul passato, sempre più remoto, sempre più simile al mito: le voci degli antenati, la continuità dei paesaggi, la nostalgia dell’infanzia, i sepolcri degli etruschi, il desiderio di fuggire dal presente, di uscire dalla storia118. «Fuggire, fuggire, dileguare», scrive dopo essere scappato dalla casa al Poveromo in Versilia, «arrivare a questi boschi della mia infanzia e perdermici, come in sogno, dopo una corsa affannosa in cui si cerca di sfuggire al mostro che ci insegue». Calamandrei descrive il paesaggio mammelluto della Toscana collinare intorno a Treggiaia – tra Pisa e Firenze, dove s’era inizialmente rifugiato – come il grembo protettivo della terra madre. Le passeggiate che vi conduce insistentemente – qui, come a Colcello nei mesi seguenti – hanno una funzione terapeutica: sono percorsi circolari, lungo strade secondarie, che dal rifugio riportano al rifugio; un camminare in tondo, tecnica antica per controllare la tensione, per trovare il ritmo, per rimettersi insieme. «Girare in tondo mi dava una meta – il ritorno»119, ha scritto un celebre girovago americano con sangue Sioux nelle vene, lui pure impegnato a ritrovarsi dopo un crollo. Piero sciamano, che danza per un disperato tentativo di resurrezione dei morti? Non sarebbe la prima volta che gli capita di farlo, in tempo di guerra120, né di proporsi come laico mediatore con l’aldilà121. E non è neppure il solo, in quei mesi, a recuperare dai propri precordi questa via d’uscita. Le sue passeggiate inconcludenti assomigliano troppo a quelle di Corrado intorno a La casa in collina per non richiamare ancora l’analogia tra il vissuto e il narrato di Piero Calamandrei e quello di Cesare Pavese. Entrambi, negli anni di guerra, si trovano «in limine»122, nella terra di nessuno tra fascismo e antifascismo; sentono il richiamo del mito e del rito, il fascino del tempo ciclico e dell’andare circolare di fronte alla crisi dell’idea di progresso lineare e unidirezionale che lo storicismo aveva promesso e la realtà sembrava confutare. La

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sintonia tra i due è profonda, anche se mai si conobbero di persona. Si riconobbero invece, «con crescente comprensione», attraverso i reciproci scritti, dopo la guerra. Piero sarà folgorato – «più che ammirato, turbato»123 – dall’ultimo libro di Pavese, La luna e i falò, un’altra variazione a ridosso della guerra civile sul tema del ritorno, delle radici, della continuità dei luoghi da percorrere camminando attraverso i segni e i fantasmi del passato. Calamandrei gli esprimerà con una lettera la sua gratitudine di lettore, «come dopo un lungo viaggio fatto insieme, che si sente il bisogno di mandare subito un saluto all’amico da cui con pena ci siamo appena separati». E Pavese risponderà con uno dei suoi ultimi scritti, sei giorni prima di togliersi la vita124. La Liberazione – prima di Roma, poi di Colcello – non basterà a portar pace in famiglia. Aprirà anzi nuove ferite. Troppo diverso era stato, nei mesi precedenti, il passo del gappista in città da quello dello sfollato in collina. La notizia che suo figlio si è sposato arriva a Piero come una stilettata. A caldo la commenta così: Il matrimonio è avvenuto il 13 giugno: in quella notte Ada e io correvamo per la strada sotto l’inferno delle munizioni che scoppiavano. Auguri a Franco di volersi bene con la sua compagna come ci siamo voluti bene e ci vogliamo bene Ada e io: e anche gli auguro di avere figli che gli vogliano più bene di quanto non ne vuole lui a me125.

In casa Calamandrei ci vorranno anni per riconciliare il mondo degli affetti tra padre e figlio. Più rapida, invece, sarà la riconversione politica di Piero alle ragioni della guerra partigiana. Già al suo ritorno a Firenze potrà godere del rinnovamento generazionale che la Resistenza aveva messo in moto. Saranno i suoi allievi – Enzo Enriques Agnoletti, Tristano Codignola, Carlo Furno, protagonisti della lotta clandestina – a riconfermargli il credito appannato dagli ultimi mesi di latitanza126. «I figli devono educare i genitori», si era annotato Franco nel suo diario, dopo il drammatico congedo dal suo babbo. Per una volta sarà così, anche se per interposta persona. Piero Calamandrei ha il merito di lasciarsi cambiare, sollecitare, arricchire dai suoi figlioli spirituali. Il rapporto con loro, soprattutto con Enriques Agnoletti, com-

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penserà sul piano politico quello mancato con il figliolo carnale: «Caro Enriques, vorrei abbracciarLa come un babbo»127, gli scrive il 20 agosto, mentre a Firenze ancora si combatte, dopo aver letto il suo nome tra i membri del Cln. E un mese dopo, ritornato alla testa della sua Università, esplicita con parole gravi e affettuose tutta la riconoscenza verso l’allievo che con la sua azione ha salvato l’onore di tutti: Mio caro Enzo – gli scrive il 17 settembre 1944 – ti mando una copia del discorso inaugurale della nostra Università: nel pronunciarlo ho pensato spesso, con fraterna gratitudine, a te a e voi. Avrei voluto vedere anche te tra gli amici convenuti a riconsacrare l’aula magna: tu sei, tra tutti voi, il più degno. E sentiamo tanto, in questo periodo così grave e difficile per il futuro dell’Italia, la tua assenza. Ma facciamo del nostro meglio per supplirti: e tu devi pensare soltanto a rimetterti e non affaticarti e non preoccuparti. Proprio per questo non son venuto e non verrò per ora a trovarti; ma voglio che tu sappia che ti sono vicino con affettuosa amicizia augurale. Ricordami, con devoto affetto, alla tua Mamma128.

Enzo è convalescente, ha alle spalle un arresto, il confino (nel ’42) e un duro inverno di lotta clandestina che gli ha regalato un’infezione tubercolotica e portato via una sorella, Anna Maria, torturata e uccisa dai nazisti129. In Firenze liberata prende il via un processo di radicalizzazione del pensiero politico di Piero Calamandrei, che si svolgerà sulle pagine del «Ponte», nel dibattito pubblico, anche nell’elaborazione giuridica. Il confronto, spesso silenzioso ma incisivo, con i giovani – con amici, conoscenti, confidenti postumi, tornati o non tornati da una guerra a cui non erano stati obbligati ma che avevano scelto nel nome di un «alto e strano senso del dovere»130 – è decisivo nella scoperta delle leggi non scritte, le leggi di Antigone che parlano alla coscienza, anche fuori e contro le leggi degli Stati131. Sarà per lui una seconda giovinezza. E sul tradimento dei giovani tornerà a riflettere negli anni successivi con toni via via più distesi, con gradi crescenti di fiducia ed empatia, riconvertendo opportunamente il significato della formula e del suo sentire: da giovani che hanno tradito a giovani che sono stati traditi132. Franco, invece, avrà bisogno di molto più tempo per risolvere

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le pendenze interiori con suo padre. Attraverso la partecipazione alla Resistenza ha trovato la strada per affrancarsi e insieme affermarsi su di lui. Ma chiuderà definitivamente la partita solo molti anni dopo, quando porterà a compimento una sofferta introduzione al famoso e tanto spinoso Diario di Piero, che da quasi trent’anni aspettava di essere pubblicato: «Finito Piero Calamandrei mio padre, con un senso di conto finalmente saldato con me stesso. È un punto importante del mio bilancio esistenziale. Mi sono messo in regola con mio padre, mi sento liberato dalla sua ombra, proprio perché le ho reso l’onore dovuto»133. Due settimane dopo questa annotazione, come sciolto da un peso che ancora lo tratteneva, Franco se ne sarebbe andato.

6. Vita agra a Milano Piero Calamandrei avrebbe passato il resto della sua vita a celebrare la Resistenza. Franco e Teresa invece se ne dimenticarono presto e per lungo tempo non ne parlarono più neppure tra loro. «C’era proprio una rimozione totale a casa mia. Anche mio marito non è che fosse uno che parlava della Resistenza», disse Teresa a Sandro Portelli, che era venuto da lei per sapere proprio di questo: «sai, ci sono persone come Livio Bianco, Galante Garrone, tutti questi del Partito d’Azione che non ci si poteva neanche sta’ insieme perché si parlava soltanto e sempre soltanto di Resistenza. È una cosa da impazzire. Ci sono persone che hanno fatto il centro della loro vita questa cosa qua. Ecco, noi, non so per quale motivo, questa cosa una volta chiusa, basta»134. Anche in questo padre e figlio (e nuora) presero strade diverse. Questione di temperamento individuale e generazionale. Ai confini, però, del costume politico. Il Partito d’Azione fece la fine di tanti matrimoni partigiani: con il cadere della tensione, venne meno anche il gusto di stare insieme, e il vascello che aveva spavaldamente attraversato la tempesta naufragò proprio all’ingresso in porto. I comunisti invece non persero lo slancio: l’attesa di una rivoluzione ancora da fare non li bloccò – almeno per qualche anno ancora – nel rimpianto dell’occasione perduta. Finirono così per essere più in sintonia con il sentire della gente, che dopo la

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guerra aveva fretta di ricominciare, di guardare avanti, di mettersi alle spalle lutti e distruzioni. E comunque alla Liberazione tutti tornano a muoversi. Piero, portato da Colcello a Roma in un’automobile del Vaticano, riprende i contatti con la politica. Franco, inviato dal partito a Napoli a «organizzare qualcosa che potrebbe essere utile ed appassionante», scrive alla moglie rimasta a casa di aver conosciuto Togliatti, di averlo ascoltato parlare a lungo «di cose importanti» e di averne tratto «un senso di grande fiducia»135. Poi viene inserito, a Roma, nella Commissione nazionale di propaganda del Pci insieme a Carlo Salinari, Fabrizio Onofri, Mario Spinella e Valentino Gerratana: a dirigere il gruppo di giovani intellettuali, due dirigenti piemontesi di lunga militanza e provata fede come Celeste Negarville e Francesco Leone136. Ora le due coppie – Piero e Ada, Franco e Teresa – possono finalmente incontrarsi, riconoscersi, parlarsi. Piero ne scrive alla sorella Egidia: Quando ci rivedremo avrò tanto da raccontarvi sulla confusione, il disorientamento, il polverizzamento di questa vita romana. Ma c’è anche qualche aspetto confortante: fra cui l’atteggiamento moderato e patriottico del partito comunista, almeno al centro: e l’entusiasmo, un po’ ingenuo e dogmatico, dei giovani. Di Franco e di Maria Teresa vi avrà scritto Ada: Franco è salvo per un vero miracolo: la mogliettina è carina e buona137.

Piero Calamandrei farebbe ormai carte false per tornare a Firenze, insorta e liberata a metà. Vi giunge appena in tempo per pronunciare da rettore dell’Università il discorso di inaugurazione del nuovo anno accademico. Nel trasmetterne una copia all’amico Salvemini, che si trovava esule in America, accenna anche all’incontro con Franco a Roma: «io ho riassunto in questa formula la nostra situazione attuale: “liberi, poveri, e suoceri”. Tre qualità consolanti, anche la seconda»138. Ma in realtà, i dissapori familiari non si placano. In casa Calamandrei la politica sembra uno schermo dove si proiettano tensioni che hanno tutt’altra natura. Le lettere di quegli anni parlano chiaro. Quelle di Franco al padre sono improntate a grande compostezza, come un dialogo tra pari: gli dà consigli di lettura quando viene interpellato, gli spiega le ragioni del

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voto dei comunisti a favore dell’articolo 7 della Costituzione, ma anche lo attacca a testa bassa quando, alla vigilia delle elezioni del ’48, Piero si schiera dall’altra parte, con Saragat: «da figlio a padre non da militante del Pci», gli comunica enfaticamente, «mi addolora di vederti sbagliare»139. Franco soffre di essere ancora, per molti, fin dentro il suo partito, soprattutto il figlio di Piero Calamandrei. Lui ci scherza, ma in fondo mastica amaro. Come quando riferisce al suo babbo quel che era successo a Canneto sull’Olio, a una festa campestre dell’«Unità», allorché, annunciato l’oratore col solo cognome, tutti «i compagni, assidui lettori delle cronache parlamentari e pieni di fiducia nella potenza del partito, non avevano esitato a convincersi che si trattava dell’on. Pietro Calamandrei, già azionista ed ora, evidentemente passato alla fede più vera»140. L’unico iscritto al Partito d’Azione del paese – «un avvocato anziano e dabbene» – alla notizia era quasi schiattato dalla rabbia e per tutta la giornata non s’era fatto vedere. «Divertente, no?», e con un sorriso chiudeva la sua garbata cronaca il Calamandrei sbagliato. Ma sono gli scambi tra i giovani sposi – soprattutto quelli scritti dalla mano femminile – che restituiscono senza filtri i precari equilibri tra opzioni politiche e stili di vita difficilmente conciliabili che dividono vecchi e giovani. È ormai evidente, ad esempio, che tra suocera e nuora il rapporto non funziona: sono due tipi di donna troppo diversi. Ada è una signora elegante che fa di mestiere la moglie di Piero. Ne cura il côté privato, che pure è parte integrante del suo ruolo pubblico. Segue le relazioni con gli amici, amministra le cene nella casa fiorentina, si occupa degli ospiti nella casa al mare al Poveromo: tutte varianti di un “fare salotto” in cui la mondanità e la convivialità trascolorano senza scarti nella politica. «La signora è una soave donna di una fine bellezza», ha scritto di lei un’amica di famiglia e collaboratrice del «Ponte» come Bice Rizzi, ospite occasionale a Firenze: «potrebbe essere l’eroina di un romanziere dell’Ottocento»141. E come faceva dieci anni prima, in simili circostanze Piero non nascondeva ai più intimi la delusione e il dispiacere per quel figliolo passato dal fascismo al comunismo quasi per far dispetto a lui: Con un velo di tristezza mi raccontò i suoi rapporti con il figlio comunista le vicende di questi, l’urto che già era sorto tra lui e il figlio ar-

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dente fascista quando quest’ultimo aveva diciottanni, il suo passaggio al comunismo militante (è direttore a Milano dell’Unità). Accennò alla vicenda drammatica di Roma del ’44 e le lettere anonime e firmate di anatema che egli padre ricevette e riceve di riflesso. V’era nella sua voce e in un suo gesto il pudore di un dolore profondo.

Teresa è ammessa a fatica a partecipare al quadretto familiare. Piero la guarda con sufficienza, con fastidio quando si fa troppo invadente. Con lei non parla mai di politica, perché non è abituato a farlo con le donne di casa. La considera un po’ invasata, umorale, «beghina marxista»142. Quando entra in scena anche Paolo – il fratello di Teresa, ventenne e comunista sfegatato – e la discussione politica si impone, ne vengono fuori litigi paurosi: «Sta succedendo una litigata tra tuo padre e Paolo e me sulla negata ammissione dell’Italia all’Onu per colpa della Russia. Dio mio che pena!»143. Teresa di tutto ciò si sfoga col marito. Sottolinea con precisione e risentimento di giovane sposa tutti i dettagli che marcano la rivalità e le distanze tra sé e la suocera: I Calamandrei partono domani in littorina, ma, capirai, per me è troppo cara, dice tua madre. Non credevo fosse così, chissà forse anch’io sono un po’ sgarbata con lei, ma certo bisogna non chiedere mai niente a nessuno, mimmino mio, e starsene per conto nostro. Loro sono d’un altro mondo. E pensare che ti ha fatto fare un vestito nuovo di lana e il sarto l’ha già tagliato. Almeno ti saresti potuto scegliere il modello. Ma che vuoi fare? Io sono un po’ aspra magari, ma certe cose non le sopporto. Tu però non t’arrabbiare, non ci devono niente e fanno bene a comportarsi così. Certo bisogna lavorare di più e bastare completamente a noi stessi144.

In realtà Piero Calamandrei non sarà mai avaro di aiuti al suo unico figliolo: un bonifico, una bicicletta, un appartamento a Milano scandiranno i compleanni di Franco. Lui e Teresa si erano trasferiti al Nord poco dopo la Liberazione, muovendo al seguito della redazione della «Settimana», la rivista fondata a Roma alla fine del ’44 e trasmigrata poi a Milano in cerca del “vento del Nord”. Il viaggio era stato un’epopea. Carlo Lizzani – che lo fece insieme a loro – ne ha dato di recente una descrizione degna di Ombre rosse: una compagnia di registi e di scrittori con le loro

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donne, stipati per quarantott’ore su una camionetta traballante e condotti da un autista armato di rivoltella attraverso i monti d’Abruzzo e poi lungo l’Adriatica, schivando i posti di blocco degli Alleati e le turbe degli sbandati e dei banditi, toccando i paesi di un’Italia «semidistrutta ma piena di vita», dove la gente smaltiva ancora la sbornia della Liberazione ballando nelle piazze e dando l’assalto alla diligenza145. A Milano Franco e Teresa avrebbero peregrinato di qua e di là, arrivando infine a dividere con Vasco e Cecilia Pratolini un appartamento che era stato un covo fascista, con le pareti ancora schizzate del sangue dei partigiani che vi erano stati torturati. Chi veniva da Roma – scriverà Franco Fortini pochi anni dopo, quasi dando voce alle impressioni dell’amico con cui condivideva le giornate in redazione – già avvezzo ad un dopoguerra diverso, faceva fatica a capire come si potesse vivere in quella città di macerie e fango dove, sul far della sera, le strade si spopolavano, dove si leggeva e si scriveva a lume di candela con guanti, cappotto e passamontagna, dove la gente faceva ancora la coda per il pane e il riso e tutte le notti suonavano colpi di mitra e di rivoltella degli «spiombatori» e dei banditi, da scali merci, depositi ferroviari, fabbriche146.

Milano aveva il fascino della grande città operaia, dove ancora pulsava lo spirito della Resistenza. E i due giovani sposi vi si immersero con voluttà di conoscenza e di esperienza, dividendosi durante il giorno per ritrovarsi la sera – spesso solo la notte – sotto lo stesso tetto. Franco, prima cooptato da Vittorini nella redazione del «Politecnico», a metà del ’46 era stato spostato alla terza pagina dell’«Unità», nella redazione milanese di piazza Cavour. Oltre al lavoro giornalistico, verso il quale era pignolo e quasi maniacale, gli era stato chiesto di fare da guardia del corpo al nuovo direttore, Renato Mieli, appena arrivato da Roma e subito minacciato di morte dai neofascisti locali: nelle ore notturne, alla chiusura del giornale, Franco lo scortava fino a casa, armato della sua vecchia pistola di gappista147. Ma durante il giorno, nel tempo libero, bazzicava con maggior profitto la bohème di via Brera, la trattoria Pirovini – che anche Luciano Bianciardi avrebbe frequentato un decennio più tardi148 – e la Casa della Cultura: luoghi diversi dove scrittori, artisti, musicisti, filosofi sperimentava-

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no un effervescente dopoguerra fatto di vita agra, pochi soldi e grandi attese. Teresa invece conosceva meglio l’altra Milano, periferica e proletaria, provata dalla grande ondata di licenziamenti nelle fabbriche che aveva messo fine alle speranze della Liberazione: si era inserita come attivista nella sezione di Corvetto, il quartiere operaio dove aveva la casa, popolato da quelle donne milanesi sempre in movimento – «dal volto grigio, i lineamenti tirati e la permanente ferrosa»149 – che sarebbero rimaste impresse nella memoria di Rossana Rossanda, lei pure impegnata in quegli anni a rincorrerle, per organizzarle, o per catechizzarle, fin dentro i cortili e gli scantinati delle loro case popolari. Forte di questa gavetta, Teresa sarebbe stata promossa a tempo pieno nel partito, responsabile dei giovani e, nel novembre ’47, eletta nel Comitato federale150. Gli impegni erano tanti, i soldi pochi, il ménage faticoso, anche se una signora li aiutava in casa. Le lettere che i due sposi si scambiavano, originate da brevi separazioni, erano il prolungamento delle conversazioni quotidiane. Naturalmente parlavano anche di politica. Franco era più allineato sulle posizioni ufficiali, più pronto a recepire gli inviti alla moderazione che venivano dal vertice, e anche in privato aveva una scrittura sorvegliata; Teresa invece esprimeva una maggiore autonomia di giudizio – come di fronte alla spiegazione di Togliatti riguardo all’amnistia: «ma io sono irrimediabilmente troschista e rimasi ugualmente insoddisfatta»151, comunicava al marito – e le regole della “vigilanza rivoluzionaria” non riuscivano a contenere certe sue opinioni in libertà su persone e situazioni. Ma è proprio per questo che nelle sue lettere alcuni passaggi al limite del pettegolezzo risaltano ancor oggi con grande freschezza, offrendoci un punto di vista inconsueto sul mondo dei comunisti, capace di restituirci il tono – più prezioso ancora che i singoli dettagli – di quella stagione in cui la vita ricominciava a scorrere. «Ho saputo molte notizie dei clandestini romani», scrive a Franco da Roma all’indomani delle elezioni del 1946, facendo il punto sul giro di amici rimasti laggiù: ma non ho visto nessuno dei Gap del gruppo nostro. Mario Socrate sposa a giorni M. Felice. E lo stesso fa Franco F. con Giuliana. Mi han detto tutti che F. è un fesso presuntuoso. G. è proprio a terra e fa im-

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pressione. Forse lo vedrai è venuto [a Milano] per il famoso processo [alla «Banda Koch»]. È meglio però che non gliene parli. Rossana che è diventata bellissima e provocantissima, la più bella donna di Roma, pare, vuol divorziare ed è rientrata al P. e lavora moltissimo (!). Elena invece ha sposato un monarchico e lavora per l’U.Q. Giulio e Laura Cortini che lavorano ambedue molto per il P. hanno già due bambini di diversa età. Carla e Corrado vanno poco d’accordo e così Fulvia e Antonello. M., che è bravissima pare, sposa a giorni quell’eunuco di M. Simona è grassa, Estella la considera la migliore compagna che abbiamo, ormai ha incarichi importantissimi. L. è felice e ha sposato quel fesso di S. E così via. C’è da divertirsi e ho altrettante notizie da darti a voce!152

Giorgio Formiggini, intanto, non ha mollato la presa. Con le sue antenne sensibili di innamorato respinto intuisce che qualcosa non va. O forse dà la possibilità a Teresa di esprimere l’insoddisfazione che le preme dentro: «è innamorato di me fino alla disperazione», riferisce al marito, con un velo di tristezza, la notte dell’epifania del ’47: Giorgio è convinto che noi, né io, né te ci amiamo davvero. Perché per lui amarsi vuol dire arrivare bene o male a una sistemazione sotto tutti i punti di vista e particolarmente per me, ma anche per te, per quel poco che ti conosce, non gli pare che questa sistemazione abbia avuto luogo. Ora non è lui che può giudicare, ma in realtà almeno in me c’è qualcosa ancora che stride.

Su Giorgetto dovette intervenire il partito: troppo depresso, troppo disperato. Non rendeva al meglio, e il suo superiore Salvatore Cacciapuoti, da Napoli dove stava, ne fece una questione. Fece convocare Teresa da Gerardo Chiaromonte – “Il Cardinale”, così lo chiamavano – e lui le disse: «Ah, questo ragazzo, lascialo perdere, non rispondere quando ti scrive!»; lei abbozzò, ma questa volta non obbedì153. E la sua presenza tutelare le rimase accanto ancora per un po’. Era «un compagno e un amico e anche un fratello per me», e poteva permettersi di dar voce, senza far troppo danno, alle ombre del suo cuore. L’arrivo di un figlio, che si vien profilando dalla fine del ’46, è scrutato da Teresa con una certa apprensione: «nel pomeriggio andai all’Udi», scrive a Franco il 22 gennaio 1947, «e poi in Fe-

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derazione, dove una compagna fece molti calcoli matematici con le lune e i giorni e risultò che avrei avuto una femmina, il che mi abbatté molto. Bisogna che tenti col pendolo!». Le sue frequentazioni negli ambienti femminili e operai del partito le avevano confermato che la fatica di vivere gravava in primo luogo sulle donne, soprattutto se erano madri, subordinate ai loro mariti, impossibilitate a controllare le nascite se non ricorrendo all’aborto clandestino. La compagna che le era stata più vicina in quei mesi, dirigente delle donne comuniste di Corvetto, aveva avuto un fratello ucciso alle Fosse Ardeatine, ma si era trovata per marito un poliziotto; quando Teresa la andò a cercare al tempo dell’occupazione della Prefettura di Milano, cioè nei giorni in cui il “momento buono” sembrava alle porte, scoprì che era stata chiusa in casa dal marito, costretta a rimandare l’appuntamento con la rivoluzione.

7. Rivivere a Londra e a Pechino La nascita di Silvia complicò la vita quotidiana già piuttosto movimentata di Franco e Teresa, ma ebbe l’effetto di favorire il riavvicinamento con Piero e Ada, che venivano sempre più spesso in soccorso a figlio e nuora offrendo sostegno economico e affettuosa accoglienza alla bambina. Anche qui, dinamiche tutte private finirono per accompagnare sviluppi politici. Dopo la vittoria di De Gasperi alle elezioni del ’48 le posizioni di Piero Calamandrei e dei comunisti erano meno lontane: il pericolo clericale consentiva quanto meno qualche alleanza tattica. In Parlamento la voce di Piero si era smarcata da quella del governo su temi importanti di politica estera, a difesa della pace, dei diritti civili, della Costituzione; negli stessi anni «Il Ponte» esprimeva le ragioni della “terza Italia” laica e antifascista, certo ben distinta ma non equidistante rispetto ai due grandi schieramenti figli della guerra fredda. «Carissimo babbo, immagini quanto piacere mi abbia fatto il tuo voto contro il Patto Atlantico e la dichiarazione con cui lo hai accompagnato», scrive Franco il 9 marzo 1949154. Ma la lettera contiene una comunicazione ben più impegnativa: annuncia una

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citazione in tribunale per i fatti di via Rasella – in compagnia di Pertini, Bauer, Amendola, Salinari e Bentivegna – da parte di un gruppetto di familiari di fucilati alle Fosse Ardeatine («povera gente che è certo stata istigata da persone nascoste dietro di loro»). È un attacco politico alla Resistenza. Piero Calamandrei ora reagisce diversamente rispetto a quanto aveva fatto cinque anni prima, a ridosso dell’evento: a questo punto la difesa della guerra partigiana è un terreno che unisce padre e figlio, ma anche comunisti e azionisti. Piero si coordina subito con il gruppo degli amici torinesi. Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco scattano immediatamente e preparano una strategia processuale come fosse un’azione di guerriglia: Caro Calamandrei – scrive Agosti il 22 marzo – Livio mi ha messo al corrente della Tua lettera per la causa di via Rasella. Sono assolutamente d’accordo con lui sulla necessità di effettuare uno spiegamento di forze imponente e di contrattaccare con ogni veemenza, senza risparmio di mezzi e di colpi. L’azione più ci penso e più mi pare giuridicamente sballata; ma appunto per questo bisogna approfittarne per dare una meritata lezione a quelle canaglie fasciste. Cerchiamo, una volta tanto, di non dormire sugli allori: come è pessima abitudine di molti di noi dal ’45 in avanti155.

E Livio, l’avvocato Dante Livio Bianco, accettando di far parte del collegio di difesa, risponde lo stesso giorno con lo stesso spirito, lanciando in più un garbato invito all’amico a tener d’occhio le mosse di suo figlio: bisognerà darsi d’attorno immediatamente, senza perder tempo. Tu sai quanto poco certuni fanno conto di queste faccende giudiziarie, che sottovalutano come futilità o imbrogli borghesi o piccolo-borghesi: è il caso, secondo la mia esperienza, di molti compagni garibaldini. Perciò bisognerebbe evitare che la cosa ristagni, e sia presa alla leggera: ossia, bisognerebbe svolgere, anche nella preparazione della difesa, a cominciare dall’arruolamento dei difensori, un’azione organica, alacre, precisa, guidata da idee ben chiare. Oltre tutto, non si tratta soltanto di far assolvere i convenuti, ma di non lasciar fare il processo alla Resistenza: ed a questo può giovare assai più un «grand arrêt», che non una manifestazione di piazza156.

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Piero Calamandrei non può partecipare ufficialmente al collegio degli avvocati, ma fa il regista dietro le quinte, mettendo a frutto tutta la sua competenza di processualista e le sue reti di relazioni. La linea difensiva, politica ancor prima che giuridica, è netta e condivisa da tutti, e Piero la definisce con chiarezza: «nessuna differenza sarà fatta fra chi ordinò e chi eseguì»157. Ormai l’offensiva giudiziaria contro i partigiani è dispiegata, esiste una giurisprudenza in materia, sono state condotte ricerche per dimostrare la legittimità istituzionale e non solo morale della Resistenza158. Su questo piano anche qualche magistrato – come Carlo Galante Garrone, «intelligentissimo e pazientissimo collezionista e maneggiatore di stampe e archivi» – può dare una mano. È dunque, su più versanti, la «minuscola, ma immarcescibile organizzazione (sempre questi maledetti ex azionisti!)» – scrive Bianco con orgoglio – che si rimette in moto159. E il fatto che dietro la vicenda giudiziaria si senta anche «battere il cuore paterno»160 d’un amico non fa che riconfermare la cifra di una comunità che a fatica distingue etica, politica e sentimenti. Il processo sarebbe stato vinto in primo grado nel giugno 1950 – con la motivazione che l’attentato era stato un legittimo atto di guerra – in appello nel ’54, in Cassazione nel ’57161. Nel frattempo, dopo l’estate del ’48, Teresa si è ritirata a vita privata: si occupa della bambina, attende alle traduzioni, cerca di riprendere l’università. Ogni tanto va a Roma per fare esami e di passaggio a Firenze lascia Silvia ai nonni. Roma è cambiata, o forse è cambiata Teresa: «È proprio un’antipatica città», scrive il 28 febbraio 1949, «gli intellettuali sono sempre peggio. Passano da feste a feste, da osteria a osteria, da ubriacatura ad ubriacatura. Anche il P.[artito] dà sempre più sui nervi, non c’è molto di nuovo, ma piccole cose spiacevoli. Per fortuna io non c’entro più». Franco invece dentro il partito c’è rimasto: in redazione all’«Unità» durante la settimana, in giro per le cascine a fare strillonaggio la domenica, e poi altro “lavoro culturale” nel tempo libero. Milano intanto è scossa dalle azioni della Volante Rossa, operai ex partigiani che regolano i conti con i fascisti non epurati e tornati alla ribalta162: «È una cosa molto oscura, della quale la Polizia sta facendo pretesto per mettere a soqquadro le sezioni, scassinando

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e devastando, per perquisire perfino la Casa della Cultura, e addirittura la camera di Teresa Noce»163. Quando a Franco arriva la proposta di trasferirsi a Londra, per fare il corrispondente dell’«Unità», lui e Teresa la prendono al volo: è un modo per uscire dalla cappa da guerra fredda in cui l’Italia è piombata. Sarà uno dei periodi più belli della loro vita: Teresa è invitata a scrivere per «Il Nuovo Corriere» di Firenze, per «Paese Sera» di Roma e per «Milano Sera». Scopre così una vocazione che non conosceva. Trova anche un nuovo modo per stare vicino a suo marito e collaborare con lui senza sacrificare la propria autonomia. E poi la lontananza dal partito consente ai coniugi Calamandrei di vivere con più serenità certi piaceri della vita che la moralità comunista imponeva di controllare: «qui c’è una grande abitudine di farsi visita, di riunirsi, di passare le serate in compagnia bevendo tè e speluzzicando indefinibili panini»164, riferisce Franco ai suoi. Più diretta come al solito Teresa, al marito, durante un breve rientro a Milano: «Io mi sento tornata come una volta. L’Inghilterra mi fa rientrare tutte le voglie»165. Scopre che in Inghilterra la vita mondana può essere interessante, che i laburisti sono più divertenti dei comunisti, che lassù l’assistenza sanitaria è gratuita e addirittura efficiente. L’Italia, già pochi mesi dopo la partenza, le sembra un altro pianeta. Tra gli intellettuali sinistrorsi c’è una situazione catastrofica, ho visto i Fortini, Vittorini, Gatto. Hanno tutti una paura maledetta della guerra, sono completamente senza prospettiva. Tutti dicono «Pavese che esempio! Purtroppo in noi esistono ancora ragioni viscerali (ripeto testualmente, avrò sentito usare questa parola almeno 10 volte) che ci tengono ancora in vita». [...] Io sono considerata un’insensibile, mi guardano con stupefazione. «Ma come puoi essere così calma!»166.

Anche l’attribuzione della medaglia d’argento per meriti partigiani viene accolta con nonchalance: «Hai visto sull’Unità di ieri venerdì la tua motivazione. Bello quel “nelle vie e nelle piazze dell’Urbe”. E “l’indefessa attività”»167, scrive Teresa divertita più che inorgoglita. E Franco, l’anno dopo, a parti invertite: «Brava per la medaglia d’argento. Mi racconterai com’è andata che te l’hanno data. Saremo ora una famiglia pluridecorata, e dovremo portare la decorazione a turno per non farci prendere per matti»168.

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Piero e Ada soffrono soprattutto la lontananza dalla nipotina, ma trovano ora più occasioni di scambio sereno con il figlio. L’orizzonte politico si muove, da entrambe le parti, e aiuta a trovare nuovi terreni di incontro. La preparazione di un fascicolo speciale dedicato al laburismo inglese dà a Piero Calamandrei l’occasione di programmare un soggiorno a Londra. Il suo diario di viaggio – nove paginette di appunti – si apre con queste parole: «Londra. 21 marzo 1951. Arrivo ore 10.30. Delusione alla stazione per non veder Silvia dietro il cancello»169. Un anno dopo uscirà il numero del «Ponte» tutto dedicato a L’esperienza socialista in Inghilterra170: in copertina, un minatore con l’elmetto sovrasta una litografia di Westminster. Gli interessi sociali della rivista e del suo direttore si fanno più marcati: «Il Ponte» esplora in giro per l’Europa le esperienze di socialismo e democrazia radicale praticate al di fuori dell’orbita sovietica (Paesi scandinavi, Olanda, Jugoslavia)171. Contemporaneamente si apre un dibattito tra gli intellettuali di “terza forza” sulla possibile apertura ai comunisti per difendere insieme a loro la libertà di espressione minacciata dal maccartismo nostrano: Piero Calamandrei si differenzia da amici di vecchia data come Ernesto Rossi, scommettendo sulla possibile funzione liberale del Pci nell’Italia di Scelba e Pio XII172. Un’oggettiva alleanza tra laici di sinistra e comunisti si sta intanto realizzando nella comune battaglia contro la “legge truffa”, quando Parri e Calamandrei lasciano i loro partiti (il repubblicano e il socialdemocratico, fermi nell’alleanza con la Dc) per fondarne uno nuovo – Unità Popolare – che risulterà decisivo per far perdere le elezioni al blocco centrista. Ormai, da un bel po’, sono quasi più le notizie che riceviamo di voi attraverso i giornali italiani che non quelle che ci portano le tue lettere – scrive Franco alla madre il 20 febbraio 1953 –, vediamo che state bene in salute, e vediamo, dagli scritti del babbo, che state bene di spirito, che avete fiducia. In quello che il babbo è andato dicendo e scrivendo negli ultimi mesi, dalle critiche alla legge elettorale a certi passaggi dell’articolo sul «Mondo», all’intervista sul diritto di sciopero comparsa sull’Unità, alla polemica antifascista del «Ponte», alle lapidi dettate contro Kesselring e per Gianfranco Mattei, c’è una coerenza con i suoi principii ed una fermezza delle quali non può che sentirsi soddisfatto173.

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Nell’autunno del ’52 Franco era stato mandato dall’«Unità» a Pechino per seguire i lavori della Conferenza per la pace dei paesi dell’Asia e del Pacifico. La Cina era da poco passata nel campo socialista – la Repubblica popolare era stata proclamata da Mao Zedong il 1° ottobre 1949 – e rappresentava una finestra aperta su un Terzo mondo che cominciava a svincolarsi dalle tutele coloniali. Era come se un gigante si stesse svegliando: «una cosa enorme», scriveva Franco a Teresa, «una vitalità, una forza, una ricchezza di energie e di sentimenti, in questo paese, che solo degli ignoranti o dei visionari possono pensare di arrestare e di far tornare indietro». E concludeva con parole che erano già un invito: «mi manchi proprio anche per questo: come ti scrivevo da Mosca, perché vorrei dividere l’interesse con te e così arricchirlo, renderlo più sensibile. Dobbiamo stare insieme e lavorare insieme»174. Poco dopo chiese al suo direttore – e alla sua compagna – l’autorizzazione a trasferirsi come corrispondente fisso a Pechino. Vi ritornò, infatti, con moglie e figlia, nell’autunno del ’53, sbarcando dalla Transiberiana appena in tempo per assistere, il 1° ottobre, ai festeggiamenti per il quarto anniversario della Repubblica popolare. Si apriva così un altro periodo straordinario, di apprendimento, di passioni, di avventura. Franco e Teresa rivissero emozioni che avevano sperimentato dieci anni prima e che erano alla radice del loro stesso rapporto di coppia. «Io ho fatto una vita molto avventurosa», riferiva Teresa a Portelli a proposito della parentesi vissuta in Vietnam nel ’54, durante la guerra contro i francesi, insieme a Ho Chi Min, il generale Giap e i vietcong: «sai, se uno è coraggioso è coraggioso sempre. Guarda la guerra è brutta, perché la guerra è diversa da fare gli attentati in città. La guerra è molto peggio. Ho fatto il giornalista, però eravamo nella giungla con loro e poi quando era stata liberata Hanoi siamo avanzati su Hanoi sulle jeep loro»175. Ne trassero un libro. E un altro l’avrebbero scritto di ritorno da un lungo viaggio in Tibet nel corso del ’55176. Nell’autunno dello stesso anno Piero e Ada si recarono a loro volta in Cina a ricomporre per qualche settimana il quadro familiare. Anche allora mozioni d’affetto e ragioni politiche si intrecciavano177. Da quasi due anni erano cominciati i preparativi per realizzare un numero speciale del «Ponte» sulla Cina. Il tema era

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più delicato di altri. Piero Calamandrei ne aveva discusso per lettera con suo figlio: avrebbe voluto che esso «ponesse dinanzi all’opinione pubblica italiana il problema della necessità e del dovere dell’Italia di non ignorare la nuova Cina»178, ma senza correre il rischio di essere accusato di fare il gioco dei comunisti. Salvemini, con il quale si era consultato, lo aveva messo in guardia. Alla vigilia del viaggio il grande patriarca del socialismo liberale avrebbe espresso riservatamente ma con maggiore chiarezza le sue preoccupazioni per le derive politiche dell’amico: «mi rincresce molto che Calamandrei vada in Cina. Vedrà solo quello che suo figlio gli farà vedere», aveva scritto a Ernesto Rossi: «Temo assai che presto Calamandrei farà il salto mortale [coi comunisti]. E speriamo non lo faccia anche Parri»179. Piero vedeva nella Cina un’alternativa possibile al comunismo sovietico, nella Rivoluzione una guerra di popolo andata a buon fine, in Mao una versione moderna e orientale di Mazzini. A quanti stigmatizzavano le vittime lasciate sul terreno dal grande scossone, lui era pronto a rispondere giacobinamente che «le rivoluzioni sono rivoluzioni, come le guerre»180. Questa prossimità di idee e di sentimenti che il soggiorno in loco fece precipitare favorì un incontro con suo figlio quale mai prima era stato possibile. Questa lettera deve partire subito – gli scrisse Franco alla fine del viaggio – e non c’è tempo di dirvi come vorrei, meglio che a Sciangai, quanto siamo stati contenti della vostra venuta qua, dispiaciuti che le circostanze abbiano permesso solo a me e per così poco tempo di stare insieme a voi, e tuttavia di nuovo contenti che, attraverso il vostro viaggio, tanto più numerose siano le immagini e tanto più vasti e profondi i sentimenti che – come ho potuto avvertire conversando con voi – ci uniscono nel vostro affetto181.

Alla redazione del volume speciale che da quel viaggio sarebbe scaturito partecipò anche Teresa, che venne così accolta da pari a pari non solo in famiglia, ma fin nell’atelier del «Ponte». L’inconsueta e affettuosa triangolazione degli scambi epistolari di quei mesi sta lì a dimostrare la definitiva promozione della giovane donna, ormai pratica di scrittura e giornalismo, agli occhi di un suocero tanto esigente. Il numero uscì nell’estate del ’56, nel pieno del terremoto che

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stava scuotendo il mondo comunista. Suscitò reazioni non benevole. Nicola Chiaromonte, un collaboratore del «Ponte», nella rivista «Tempo Presente» che dirigeva con Silone attaccò pesantemente Calamandrei accusandolo di aver pubblicato «resocontini di visite ufficiali a istituti modello» e di essersi prestato a una commedia. Piero gli rispose sul «Ponte», ma tra i due l’amicizia si ruppe182. Ancora anni dopo, la cerchia più prossima dei suoi amici liberaldemocratici avrebbe preferito espungere l’ultima fase dello spostamento a sinistra di Calamandrei. Nel corso della preparazione del volume degli Scritti politici, sarebbe stato suo figlio Franco a chiedere – a fronte del piano dell’opera previsto inizialmente dal curatore, Norberto Bobbio – che fossero compresi anche alcuni degli scritti di viaggio, come quello sulla visita all’Inghilterra laburista («espressione di un momento di quella ricerca di soluzioni democratiche e socialiste che fu al centro del travaglio e della speranza del nostro caro») e soprattutto quelle sulla Cina: un’esperienza che il babbo visse con profonda passione intellettuale e ideale e che segnò un punto nella sua ricerca. (Personalmente, non dimenticherò mai le lunghe ore di conversazione che ebbi con il babbo nel mio incontro con lui a Sciangai, non solo perché furono quelli gli ultimi colloqui che ebbi la ventura di avere con lui, ma per la vivacità, la lucidità e, direi, la felicità con cui egli mi parlò delle cose che in quel viaggio aveva trovato. Forse, se fosse vissuto, certi successivi sviluppi cinesi lo avrebbero deluso. Ma ciò non toglie che quanto egli aveva visto allora in Cina fosse reale, che il suo giudizio avesse còlto un indirizzo che nella Cina di quelli anni era in atto e che era l’indirizzo giusto per la Cina. Né, comunque, meno valido oggi di allora può apparire il suo apprezzamento della fondamentale qualità liberatrice della rivoluzione cinese)183.

Dalla Cina Calamandrei tornò effettivamente segnato. Teresa racconta che vendette le proprietà che aveva ereditato dai suoi avi, conservando solo un appezzamento intorno al villino di Montepulciano, non volendo più far la parte di chi sfruttava il lavoro dei contadini. Ebbe anche l’imbarazzo su come investire i proventi delle vendite, giacché comprare le azioni in borsa gli sembrava altrettanto «immorale»184. Aiutò qualche parente a mettere su casa.

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Quando lei lo rivide in Italia, nell’estate del ’56, ne scrisse a Franco entusiasta: Tuo padre è meraviglioso. Vorrebbe iscriversi al P., ma dice che non lo fa perché ormai è troppo vecchio. È assolutamente con noi. Ma quando gli scrivi naturalmente non parlare di questo. Ci sarà tempo a voce. Se accettasse lo farebbero sindaco, anche i liberali sono disposti a votare per lui. Ma la salute non è un gran ché, purtroppo, ed è molto incerto, anche perché la giunta non avrebbe una posizione solida185.

Probabilmente non sarebbe arrivato a fare per davvero «il salto mortale» che già Salvemini aveva temuto (non dimentichiamo, però, che Ferruccio Parri – con il quale Calamandrei aveva condiviso le più recenti prese di posizione – avrebbe concluso il suo percorso politico non lontano dal Pci, tra le file della Sinistra indipendente). Ma di lui si continuò a parlare per quasi tutta l’estate come possibile sindaco “ciellenistico” di Firenze, finché fu egli stesso a rinunciare, per motivi di salute, sgombrando la strada a Giorgio La Pira.

8. I rovesci del ’56 «Sono disperato», scriveva il 28 settembre 1956 nel suo diario Giorgio Agosti, accorso a Firenze alla notizia del decesso dell’amico Piero dopo che un susseguirsi di telefonate lo aveva avvisato del precipitare del suo stato di salute: Arrivano alla Clinica, e poi all’Università dove nel pomeriggio è stata trasportata la salma, amici da ogni parte e su tutti i volti si legge l’uguale smarrimento. Il posto tenuto da Piero nella vita italiana di questi anni era unico – nel foro, nella politica, nell’attività culturale. È impossibile trovare ancora riunite le sue doti di cuore e di ingegno e insieme le sue altissime capacità di oratore, e il suo stile, e persino la larga indipendenza economica che gli consentiva una libertà unica di movimento186.

Piero Calamandrei se ne era andato il 27 settembre 1956, a sessantasette anni. Fu una morte inattesa, che concluse nel peggiore

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dei modi un intervento chirurgico programmato. Franco era lontano, ancora in Cina per seguire i lavori dell’VIII Congresso del Pcc. Teresa era tornata in Italia da poco più di due mesi e lo teneva informato come poteva, per lettera. Aveva trovato il suocero un po’ malandato, affaticato. Ma il vecchio Piero aveva passato senza scosse l’estate al Poveromo, a Forte dei Marmi, facendo le cose di sempre: lavoro, mare, cene con gli amici. In più quest’anno aveva la compagnia della nipotina appena rientrata dalla Cina e bisognosa di rimettersi a pari con la preparazione scolastica. «Per la preparazione degli esami io volevo prendere una maestra», scrive Teresa al marito, «ma non è stato possibile perché tuo padre desiderava dare lezione alla Silvia e tanto ci teneva che si è quasi offeso quando io ho parlato di cercare una maestra. Però tuo padre è bravo, riesce a farle capire molte cose astruse senza difficoltà e senza annoiarla»187. Lui e Ada avrebbero voluto tenere per un po’ la bambina a Firenze e iscriverla alla Scuola-Città “Pestalozzi” di Ernesto Codignola – fiore all’occhiello della pedagogia laica e progressista – almeno finché Franco non fosse tornato e avesse deciso che fare. Ma dopo l’operazione Calamandrei non riuscì a riprendersi più: crisi di vomito continue, un singhiozzo ininterrotto che gli impediva il riposo, due lavande gastriche e neppure più la morfina che riuscisse ad alleviare il dolore. Quando spirò, suo figlio era partito da pochi giorni per rientrare in Italia. Ma non fece in tempo a vederlo, né a partecipare ai funerali. Ada ne fu tramortita; Teresa si trovò ad affrontare da sola la situazione; Franco, l’unico uomo rimasto in famiglia, in quel momento non c’era, e mancò così l’ultimo incontro con suo padre. Si chiudeva significativamente con un lutto la strana estate del ’56, uno di quei momenti in cui si sente che qualcosa finisce e le ruote della storia sembrano sospese, come tra il giorno e la notte, e tutte le soluzioni ancora possibili, per sé e per il mondo. Franco e Teresa vissero quei mesi ancor più sottosopra, fisicamente agli antipodi, lui in Cina, lei in Italia. È proprio questa distanza che ci consente oggi di seguire i loro pensieri e sentimenti, fissati nella fitta corrispondenza che per oltre due mesi si sono scambiati. In realtà, tutte le lettere che ci sono rimaste, tranne una, sono di Teresa. La prima fu spedita da Roma, il 14 luglio, dopo un viaggio strampalato e interminabile attraverso la metà “rossa” del

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mondo – da Pechino a Mosca a Belgrado – che aveva rivelato crepe sempre più grandi, contraddizioni una dopo l’altra. A Roma la sera stessa aveva trovato Giorgetto – sì, Giorgio Formiggini, più tenace di tutte le delusioni, che faceva così una delle sue ultime comparse nella vita di Teresa prima che il ciclone del ’56 spazzasse via anche lui188 – a darle le prime notizie. Il 4 giugno il «New York Times» aveva pubblicato il rapporto segreto di Khrusˇcˇëv sui crimini di Stalin, subito ripreso anche dai giornali italiani. Togliatti, costretto a intervenire apertamente, in una intervista aveva riconosciuto e insieme tentato di contenere la portata delle rivelazioni. Ma gli intellettuali, soprattutto a Roma, si stavano agitando: c’era aria di insubordinazione, si tenevano riunioni e volavano parole grosse. Alla fine del mese a Poznan´, in Polonia, una rivolta operaia era stata repressa nel sangue, e Togliatti sull’«Unità» aveva approvato189. Quando Teresa sbarcò a Roma, il 13 luglio 1956, trovò un partito in subbuglio sia al vertice che alla base, dibattuto tra grandi delusioni – per il gran capo simbolicamente detronizzato e bruciato in effigie, quasi si fosse in un gigantesco carnevale – e altrettante speranze di rinnovamento: «Tutti parlano in una maniera spregiudicata»190, scriveva a Franco, stupita da una libertà di parola che non conosceva nel Pci. Lei e il marito erano stati sei anni lontani dall’Italia; gli ultimi tre avevano vissuto praticamente in una bolla artificiale, ospiti di riguardo in un paese amico ma straniero. Avevano viaggiato, cercato di familiarizzare con la gente del posto, ma la lingua era rimasta uno scoglio troppo grande per entrare davvero in contatto, senza filtri, con il popolo cinese. Le loro frequentazioni ruotavano intorno agli ambienti ufficiali del Pcc e al Club Internazionale, cerchia ristretta di giornalisti e traduttori occidentali con cui condividevano gran parte del tempo libero. Avevano anche viaggiato e fatto il possibile per non essere prigionieri della loro condizione privilegiata. Ad esempio, erano riusciti a spuntare che Silvia non frequentasse – come gli altri figli di giornalisti e diplomatici europei – l’istituto delle monache francesi e potesse studiare in una scuola cinese. Ma anche quella era pur sempre un scuola d’élite, riservata ai figli dei dirigenti del partito. Dell’Italia sapevano solo quello che scriveva «l’Unità», e con un mese di ritardo sull’uscita del giornale. Quando Teresa tornò, si trovò davanti non solo un partito, ma anche un paese trasformato.

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«L’Italia fa un’impressione sgradevole», era stato il suo commento a caldo: «un lusso pauroso, è molto cambiata»191. Teresa registra con la sua prosa prensile e immediata gli inizi del miracolo economico, colti a un primo sguardo già solo osservando le strade di Roma: Non si vede più in giro non solo nemmeno più una bicicletta, ma già nemmeno più una vespa, tutti hanno la Topolino, ora ne sta uscendo un tipo che costa 250.000 lire, la benzina non costa molto e anche i garage sono molto diminuiti. Qualsiasi impiegato può permettersi la macchina. Attraversare le strade è però diventato un problema. Non direi proprio che le cose costino molto di più, è solo che le esigenze sono maggiori perché il livello di vita è aumentato. La piccola e media borghesia si sono ritirate su e anche gli operai non stanno male, 100.000 lire di stipendio sono le 40 di una volta. Ma noi si prende ancora 60192.

Anche Firenze le conferma l’impressione iniziale: una certa qual sgradevolezza, ma alto tenore di vita, benessere e molte automobili: 94 mila in città, una ogni quattro abitanti; rivede gli amici, gli Enriques, Nanda Russo, i Pratolini: «tutti se la passano molto bene, è diverso da una volta. L’Italia è molto, molto cambiata. La gente pensa solo a mangiare e a viver bene. C’è una terribile indifferenza per tutto il resto»193, e ormai neppure i comunisti fanno più paura. Persino la Cina è di moda e suscita simpatia, non solo tra la gente di sinistra: il film dell’anno è L’amore è una cosa meravigliosa, dove «lei porta dei cipao splendidi che tutte le signore italiane si sono copiate e poi c’è la Cina. Tutto sommato vista in maniera abbastanza progressiva»194. È quasi un anticipo di dolce vita. «Se tu vedessi gli stranieri che ci sono in Italia dappertutto! A Roma si vedono più stranieri che italiani. E anche qui [in Versilia] è pieno di campeggi e la spiaggia sembra quella di Ostia. Tutti tedeschi»195. Non passa molto tempo e l’effervescenza nell’aria contagia anche Teresa. A Ferragosto, al Poveromo, si è già ben acclimatata, si è comprata una nuova Olivetti, più moderna di quella che ha Franco, e guarda indietro senza troppi rimpianti alla vita passata a Pechino: Vedessi come sono dimagrita e ringiovanita! Ho smesso di fare cure dimagranti perché ho perduto già sette chili e anche mangiando

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normalmente continuo a dimagrire lo stesso. Mi sento tornare normale e ne sono proprio contenta. Quando mi vedrai probabilmente ti rinnamorerai di me come ai tempi della nostra giovinezza. Non per abitudine...196

Il problema ora è il lavoro. Che manca. Franco e Teresa si erano aspettati che il partito avrebbe pensato a loro al momento del ritorno. Si sentono scaricati mentre tutti intorno corrono e si fanno ricchi. «Ho visto un momento Ulisse [Davide Lajolo] che fa tutto meno che il giornale. Guadagna da Dio. Tutti fanno qualche altra cosa»197. I colleghi hanno una casa e una macchina, quasi tutti «i benestanti del giornale» hanno acquistato una delle abitazioni costruite da una cooperativa di giornalisti, sulla via Cassia: Si paga un milione e poi 22 mila lire di affitto mensili per 5 o 6 stanze. Dopo 25 anni la casa è tua. Ma ci vuole la macchina, i Ferrara ne hanno due. Maurizio mi ha accolto freddamente, domani ho però intenzione di vedere Marcella per dirle quanto mi hai annotato per Rinascita. L’impressione generale è che tutti si erano scordati completamente che c’eravamo anche noi198.

Teresa, a Roma, fa il giro degli amici, dei conoscenti, dei dirigenti del partito per cercare di capirci qualcosa. Va a parlare con Amerigo Terenzi, l’eminenza grigia del Pci, l’uomo dei soldi e degli affari. Ma non ne cava nulla. Questa volta i frati sono ricchi ma il convento è povero, anzi sull’orlo del tracollo. «Trovare lavoro per me oggi nel P. è quasi impossibile», informa il marito: la stampa comunista è in crisi, «Il Nuovo Corriere» messo in liquidazione dopo aver difeso gli operai di Poznan´, Romano Bilenchi «è ridotto uno straccio e i redattori imprecano»199. Anche «l’Unità» va male, «perché è fatto in maniera pietosa in confronto agli altri. Dopo il XX [congresso] si è screditato non pubblicando nulla o pubblicando notizie inesatte (vedi per esempio Poznan´). Hanno chiuso tutte le scuole e l’apparato è stato ridotto al minimo»200. A «Vie Nuove» Teresa aveva inseguito e alla fine intercettato Saverio Tutino: freddissimo, pieno d’arie e «assai peggio di prima», del tutto negativo rispetto agli articoli che Franco gli aveva mandato dalla Cina: «Avete perso le proporzioni»201, le aveva detto senza giri di parole; persino le fotografie – tutte in bianco e ne-

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ro – risultavano superate e inutilizzabili in un giornale che si faceva ormai completamente a colori. C’è una girandola di ipotesi su dove collocare i coniugi Calamandrei: si parla di spedirli a Mosca, ma Teresa non ne vuol sentir parlare; si ventila per lei una collocazione a «Noi Donne», poi al Centro Cina; Pietro Ingrao – che dirige «l’Unità» – vorrebbe tenere Franco a Pechino, o quanto meno in India, dove qualcosa di importante sta crescendo attorno allo strano “socialismo” di Nehru. Gli amici più fidati – Formiggini, Pajetta, Trombadori – spingono invece perché anche Franco rientri quanto prima: c’è una strana aria nel partito e questa volta è importante partecipare al dibattito congressuale. Siamo in una grande confusione – commenta Teresa con Franco –. Ho visto Fabrizio [Onofri] e la Lù che sono stati molto affettuosi e anche Salinari, ma certo sono su posizioni arrischiate. C’è un gran fermento. Come puoi dire che il dibattito ti soddisfa, quando non piace a nessuno, nemmeno ai più moderati. Io non mi pronunzio, ascolto ma soltanto quello che dico sulla Cina mi classifica già, come i tuoi pezzi ultimi ti hanno bello che classificato. Qui siamo in un certo senso molto più indietro che a Pechino, perché il p. era completamente impreparato e rimontare non è facile202.

Il giorno dopo, primo di agosto, si verifica un altro colpo di scena: «Rinascita» pubblica – con un titolo redazionale infamante e una durissima replica di Togliatti203 – un intervento di Fabrizio Onofri che critica in blocco la linea del partito dal 1947 in avanti. Nessuno aveva osato tanto, e così apertamente, dall’interno del Pci: viene messo in discussione il rapporto con l’Urss, viene contestato l’abbandono della via italiana – intesa come democratica – al socialismo. Onofri è un vecchio amico di Teresa, fin dai tempi della scuola, e poi nei Gap e nel partito. È un intellettuale di riferimento soprattutto per le nuove leve arrivate al “partito nuovo” attraverso la Resistenza. La sua uscita fa esplodere un dibattito che almeno da due mesi serpeggia nelle sezioni, nelle redazioni e soprattutto nei corridoi204; dà voce a sentimenti diffusi particolarmente tra i più giovani e tra gli intellettuali che pensano sia arrivato il momento di fare pulizia dei residui di stalinismo anche in casa propria. Ma si capisce subito che la battaglia è diffici-

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le, quasi disperata, e che Togliatti è riuscito a impostarla come a lui viene più utile: «Fabrizio in parte sbaglia», scrive Teresa, «probabilmente anche per impreparazione. D’altra parte la nostra impreparazione a chi la dobbiamo? Non sappiamo più parlare, balbettiamo. Tranne l’unico che ha pensato per tutti e si è tenuto in esercizio»205. Teresa esprime certo convinzioni personali, ma allo stesso tempo raccoglie e rilancia il tam tam di voci, opinioni e dicerie che circolavano negli ambienti del partito, nei reticoli amicali, nei piccoli e grandi clan familiari di cui si componevano i piani alti del Pci206. Quando passa a Colcello – in casa Polidori, che era stata il rifugio di Piero durante la guerra – incontra Serenella e Giuliano Procacci: «Con Giuliano si amano alla follia e insomma sono tutti contenti» – non manca di informare – ma Giuliano ce l’ha su con tutti, ma dice almeno che K.[hrusˇcˇëv] gli è simpatico e che Togliatti è ancora in Italia il più intelligente. Le due cose invece sono messe in dubbio da molti. Ho assistito a una riunione di cellula e c’era un dibattito accanitissimo. Dal baffone siamo passati all’ubriacone, i nomignoli piacciono agli italiani. L’altra sera a Colcello ho letto il rapporto segreto che è in tutte le edicole e dopo non riuscivo più a prendere sonno. Te lo volevo mandare, ma forse l’hai già avuto207.

Il rovesciamento di atteggiamenti e di convinzioni che era cominciato con Stalin si rivolge ora contro la nomenclatura interna. Lo spirito di insubordinazione sembra diffondersi come un contagio. Il P. da vicino fa un’impressione piuttosto triste. Ha certo avuto un colpo grave. Tutti parlano di lotta per la successione. L.[ongo] non capisce, S.[ecchia] è in ripresa. Ma il forte è A.[mendola] e in buona posizione P.[ajetta] Ma secondo Giorgio [Formiggini], Giuliano [Procacci], Romano [Bilenchi] e altri amici T.[ogliatti] è ancora l’unico. Salgono anche Pietro [Ingrao], Natoli, Alicata che in questa nuova situazione mostrano di avere delle idee proprie. Di altri non ti saprei dire. È ritornata fuori la questione dei prigionieri in Russia e d’O.[nofrio] per esempio tra la base ha ormai poco seguito. Questo è il momento che si affermano i giovani, i vecchi sono ormai troppo vecchi, mi sembra208.

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Riferisce del dibattito precongressuale, come al solito non lesinando dettagli e giudizi personali. Nessun verbale d’archivio e nessuna memoria scritta a posteriori riusciranno a raccontare con la stessa aderenza i giorni e le ore di quell’indimenticabile 1956209 quanto l’involontaria cronaca che Maria Teresa Regard ne faceva, a tamburo battente, per il marito lontano. «Manchiamo di prospettive», commentava il 4 agosto dal Poveromo, nella stessa lettera con cui aveva annunciato a Franco l’elezione di La Pira a sindaco di Firenze, dopo la rinuncia di Piero, che Teresa vedeva anche come una sconfitta del Pci: mi fanno ridere i Salinari che sono un torrente di parole di recriminazione. E oggi, e domani? Largo ai giovani. Ma quali giovani? Noi, si dice, eravamo le speranze dell’Università, ed ecco come siamo ridotti. Ma forse Carlo [Salinari] sarebbe meglio di Mario [Alicata]? Questo io non lo credo. Mario è più politico, più intelligente e soprattutto più responsabile. Ant.[onello Trombadori] è in crisi, non sa che fare, la sua tradizionale fedeltà lo tiene legato ed è un bene in quell’ambiente. Fab.[rizio Onofri] invece si è bruciato, ma è evidente che non si fa così, anche se non ha torto completamente.

E concludeva con un ritratto di gruppo davvero rivelatore di un clima che già stava cambiando, alla base come al vertice: Prendi ad esempio Roma nelle sezioni, in principio era considerevolmente aumentata la partecipazione alle riunioni, il guaio era però che la gente piangeva, ma non era capace di fare un discorso filato con idee proprie. Ora siamo scesi di nuovo, ci sono le ferie dirai, ma i nostri non vanno in villeggiatura. Dove andrà a finire tutta questa gente? Bisogna dare delle prospettive chiare perché fermi non si può restare, in questa situazione o si va avanti o si va indietro210.

Franco chiede a sua moglie una maggiore cautela: non si fida della corrispondenza che gli viene spedita in Cina; si è accorto che le lettere dall’Italia gli arrivano con un ritardo inspiegabile. Nel dialogo sui temi politici le sue posizioni si intuiscono implicitamente dalle risposte di Teresa: ne modera i toni, fa appello al senso di responsabilità. Su Fabrizio Onofri, ad esempio, la posizione di Franco è molto più netta rispetto a quella di Teresa: lei lo ha sempre in simpatia, riconosce nella sua esternazione un errore più

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di forma che di sostanza («mi trovo d’accordo con F. che l’inizio di una certa crisi risale già al 47-48»211) e soprattutto non le è piaciuta affatto la risposta di Togliatti, aggressiva, liquidatrice. Invece l’unica lettera di Franco che ci è rimasta, spedita da Xian (Sian) il 19 agosto, contiene un giudizio di sconfessione delle ragioni dell’amico e di pieno appoggio alla linea e ai toni di Togliatti. Tutto sommato, ritengo che l’unica cosa positiva che Fabrizio ha ottenuto è stato di isolarsi come un esempio negativo, l’esempio di ciò che le persone della nostra origine e della nostra formazione devono con tutta la loro coscienza guardarsi dal fare. Credo che il metodo più saggio sia che ciascuno cerchi di veder chiaro prima di tutto nei limiti del proprio lavoro, risalire da esso ai problemi generali, ma con molta cautela e molta modestia, guardandosi bene dal lasciare risvegliare in noi delle voci estranee alla classe operaia, come sarebbe quella che dicesse, anche implicitamente e tra le righe, «Sono venuto a voi, ho rinunciato a tanto, ed ecco come mi avete ingannato!»: che era, ho paura, la voce in fondo allo scoppio di Fabrizio212.

Negli stessi giorni, e proprio sugli stessi temi, Piero Calamandrei stava scrivendo quello che sarebbe diventato il suo ultimo intervento per «Il Ponte». Si chiedeva perché «Il Nuovo Corriere» – voce libera di Firenze, nato dalla Resistenza e finanziato dal Pci – fosse stato d’improvviso messo a tacere, il 7 di agosto, quasi alla chetichella, nel bel mezzo dell’estate. Non volle darsi fino in fondo la risposta che conosceva. Preferì non rinunciare alla speranza che il Pci potesse cogliere l’occasione del ’56 per rinnovarsi, grazie ai giovani, «dai quali soltanto c’è da attendersi che il partito trovi la forza per aprirsi, per trasformarsi, per liberarsi dal peso del conformismo, per inserirsi come fattore positivo e indipendente nella politica nazionale e europea»213. Fabrizio Onofri, nel memoriale pubblicato nel ’57 all’indomani dell’espulsione dal partito, riportò per intero queste parole di Piero Calamandrei che gli furono – scrisse – «di grande conforto» nel momento in cui tutti gli amici e i compagni gli davano addosso in Comitato centrale, al cospetto di Togliatti. Onofri conosceva di persona il babbo del suo amico Franco, e ora poteva immaginarlo anche per sé come un padre possibile, dalla «voce dolce e pacata» e dallo «sguardo penetrante e indulgente»214, tanto diverso nel tratto umano dal

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padre-padrone – o dal patrigno – che invece Togliatti nell’ultimo faccia a faccia si era rivelato. E a sua volta Piero certo pensava anche al suo figliolo quando lanciò, senza saperlo, il suo estremo messaggio: Nel partito comunista in questi ultimi anni sono confluiti molti tra i migliori giovani di tutte le classi sociali, attratti da quella intransigenza di impegno nella lotta politica che è stata anche in Italia (sarebbe da ciechi negarlo) una delle caratteristiche di questo partito. Quella durezza, quella chiusura, quel dogmatismo, che erano forse indispensabili per resistere durante la lotta clandestina, sono stati per molti giovani una attrattiva: quasi una garanzia di certezza e di serietà215.

I fatti degli ultimi mesi avevano ingenerato delusione e screditato i dirigenti del partito, ma poi sembrava avessero anche dischiuso la strada per una possibile riforma democratica del comunismo. Da principio – proseguiva Calamandrei – nel modo con cui finalmente il dibattito si è aperto, con quel senso di gioiosa scoperta con cui i giovani comunisti si sono affacciati alla libertà di discussione, è sembrato che una trasformazione profonda del partito fosse avviata; la delusione è sembrata l’avvio a un nuovo e più spontaneo fervore. Ma poi dure parole hanno messo al silenzio i più audaci. Tutto dunque si dovrà concludere con nuove deliberazioni all’unanimità, con un nuovo catechismo suggerito e controllato dai vertici interni ed esterni?216

Non fu necessario aspettare novembre e i carri armati nelle strade di Budapest per capire da che parte il vento avesse ricominciato a soffiare. L’estate era bastata a Togliatti per chiudere la partita. Si era confermato “il Migliore”, inattaccabile. Non aveva neppure avuto bisogno di imporre il silenzio per dimostrare la sua forza. Aveva anzi utilizzato il caso Onofri affinché tutti parlassero, tutti si esprimessero217. Chiamando i dirigenti alla conta aveva imposto loro – e soprattutto ai comunisti di nuova generazione, che non avevano ancora dato piena prova di avere «senso di partito»218, ovvero fedeltà alla linea, quale che fosse – di schierarsi, di dichiararsi, e quindi di compromettersi. Rendendoli pubblicamente complici della sua politica in uno dei momenti di massi-

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ma esposizione e minima presentabilità, li aveva legati indissolubilmente a sé. Chi non andò via dopo il ’56 sarebbe rimasto per sempre (o quasi), portandosi dietro un senso di colpa che avrebbe agito come vaccino per successive, eventuali tentazioni di disobbedienza, o di autonomia. Le vicende e ora le memorie di chi attraversò quella fase – e magari proseguì la militanza nel Pci su fronti opposti, come Pietro Ingrao e Giorgio Napolitano – sui rimorsi per l’errore originario, per il peccato originale del ’56 sono significativamente concordanti219. Anche Franco Calamandrei fece la sua scelta, più irreversibile di quella compiuta durante la Resistenza. Alla morte del padre da cui tanto aveva fatto in passato per svincolarsi si ritrovò in un’altra famiglia patriarcale, nel ruolo di figlio cui era richiesto di imparare, pazientare e rispettare gli anziani. La sua fedeltà sarebbe stata premiata, ponendolo nel novero dei beneficiati dallo strano rinnovamento del Pci che seguì la “svolta del ’56”: un ricambio generazionale pilotato da Togliatti, a garanzia della continuità antropologica dei gruppi dirigenti, che ai suoi occhi rappresentava la vera ricchezza del partito. Non era precisamente questo lo spirito della «trasformazione profonda» che Piero Calamandrei aveva sperato per il Pci, e per Franco, nel suo ultimo scritto. Nel corso del ’57 Franco lasciò il lavoro all’«Unità», fu chiamato in Direzione, alla sezione “Stampa e propaganda”. Poi venne eletto nel Comitato centrale. Finì per occuparsi di politica estera220 e soprattutto delle scuole di partito, luogo cruciale di riproduzione dei quadri comunisti. C’è ancora chi lo ricorda, intorno al ’68, a capo della Sezione ideologica e della Scuola centrale “Palmiro Togliatti”: alto, dinoccolato, grande ascoltatore, e con braccia lunghe come proboscidi disponibili all’abbraccio221. Rimase nel Comitato centrale fino al 1967, quando venne collocato nella Commissione centrale di controllo, il “cimitero degli elefanti”. Stavolta ebbe un moto di rifiuto, sentendosi scaricato. Amendola, che gli era amico, lo rimproverò di aver perso le staffe, di aver infranto un costume politico, essersi bruciato e aver indebolito la propria corrente. Per punizione – così funzionavano a quel tempo le cose nel Pci, e queste erano le gerarchie degli incarichi – fu presentato alle elezioni per il Senato nel collegio di Firenze-Pi-

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stoia. Anche grazie al cognome che portava non fece fatica a essere eletto e cominciò così la sua carriera nelle istituzioni. Teresa invece per un po’ lavorò al Centro Cina, fino alla fine del ’56. Poi, su pressioni del marito, rinunciò all’idea di fare la giornalista e si decise a riprendere il vecchio posto all’Istituto nazionale per l’assicurazione contro le malattie (Inam), dove anche sua madre aveva lavorato fino alla pensione. Si tenne lontana dalla politica. Nel ’60 nacque Gemma: fu una maternità più matura, accettata, pacificata rispetto alla precedente. Ma di nuovo, come tredici anni prima, l’arrivo di una figlia segnalava una discontinuità nella vita di Teresa. Così pare spesso capiti alle donne, capaci di trovare – ma anche costrette a trovare – nel privato le risorse e le risposte che la sfera pubblica aveva loro negato222.

9. Scialuppe di salvataggio Quando nel 1984, cioè due anni dopo la morte di Franco, gli Editori Riuniti pubblicarono il suo diario di guerra, fu Romano Bilenchi a imporre il titolo La vita indivisibile. Bilenchi, l’ex direttore disarcionato del «Nuovo Corriere», era stato vicinissimo a Franco negli anni giovanili, ne aveva di poco preceduto l’approdo nel Pci durante la guerra; poi, con il ’56, era uscito in un colpo solo dal partito e dalla vita dell’amico. Con entrambi aveva ripreso i rapporti sedici anni più tardi, nel 1972, quando aveva scritto un libro riparatore – Il bottone di Stalingrado – e chiesto di rientrare nel grembo del Pci con una lunga lettera aperta pubblicata sull’«Unità»223. Nella prefazione al diario dell’amico, Bilenchi scrisse che Franco Calamandrei aveva trovato nel Partito comunista la «tavola di salvataggio nel nero mare della [sua] disperazione borghese». La collocazione editoriale, il titolo, la prefazione: il lettore era portato a leggere quelle pagine attraverso una chiave di lettura ortodossa: come il racconto di una vocazione politica, come la riprova della salvezza, della pienezza, della felicità che la militanza politica può dare, ricomponendo individuale e collettivo, pensiero e azione, pubblico e privato. La politica – viene fatto dire al diario di Franco Calamandrei – è la chiave capace di inseri-

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re l’individuo nella storia, di dare coerenza e unitarietà alle tante facce dell’esistenza. Ma con questo importante corollario: che solo il partito detiene quella chiave, e la consegna esclusivamente a chi a esso si affida224. L’immagine della scialuppa di salvataggio condensa una sapienza antica, che risale agli albori della tradizione rivoluzionaria: il partito ha una funzione salvifica per coloro che lo abbracciano. Come nel romanzo di Gorkij – La madre – chi diventa militante politico cambia la propria vita. La madre è il libro forse più letto, certo il più importante per coloro che si avvicinarono al Pci durante e subito dopo il fascismo. Anche Franco – pur conoscitore profondo e raffinato di ben altra letteratura – ne aveva subìto la presa. A un collega dell’«Unità», che in un colloquio a tu per tu aveva osato dubitare dello spessore letterario dell’opera, lui aveva risposto con un sorriso di compatimento, mettendolo in guardia dai residui di decadentismo che ne permeavano i giudizi225. Più di qualsiasi testo teorico, quel mediocre romanzo era riuscito a permeare l’immaginario dei suoi lettori più politicizzati: aveva fornito la trama narrativa su cui si erano modellate le autobiografie – cioè il modo di pensarsi – di tantissimi militanti. Quelle edite e quelle inedite, dagli anni trenta agli anni settanta, sono tutte diverse ma tutte raccontano la stessa storia: di un cammino che conduce dalla perdizione alla rinascita, che innalza dalla caduta alla salvezza. Al centro, la “scelta di vita”, cioè l’incontro con l’organizzazione comunista226. Franco aveva tante cose da farsi perdonare agli occhi del partito in cui era approdato: il privilegio di classe, le comodità, le frequentazioni fasciste, la dissipazione di sé, l’individualismo, il suo essere intellettuale. L’incontro con il compagno Francesco aveva portato un senso di scoperta, ma anche di inadeguatezza. Gli aveva messo davanti, come pietra di paragone inarrivabile, l’esempio di abnegazione, sofferenza e dedizione totale di cui avevano dato prova i rivoluzionari professionali che avevano conosciuto le persecuzioni, i processi, il carcere, il confino o l’esilio proprio negli anni in cui lui viveva la sua giovinezza dorata. Quando nell’agosto del ’48 fu inviato a seguire i lavori del Congresso mondiale degli intellettuali per la pace in una Varsavia ancora devastata dalla guerra, scrisse a Teresa queste impressioni:

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è uno spettacolo che tutti codesti vermi borghesi dovrebbero vedere per imprimersi bene in mente che cosa sia la guerra, e il fascismo, e quanto questi popoli tengano alla pace. Anche per noi, credi, è inimmaginabile, e vederlo stabilisce un termine di confronto concreto, una prospettiva reale che nessuna convinzione ideologica può dare altrettanto. Su questo sfondo le nostre responsabilità, il nostro impegno nel partito, la subordinazione ad esso di ogni altro interesse acquistano una precisione ed una urgenza più chiare227.

Dal momento in cui entrò nell’orbita del Pci, Franco prese a guardare alla sua vita di prima come a un passato da espiare. Cominciò un lavoro su di sé per correggere i suoi errori, per tenere sotto controllo la sua “natura”, per adeguarla a ciò che il modello di militanza proponeva. Non visse questi passaggi come una privazione o come una rinuncia. Il partito, ai suoi militanti, non chiedeva, ma dava. Nel suo caso dava risposta al bisogno di prendere le distanze dal padre e di trovare al tempo stesso un posto stabile nel mondo. Completava la sua esigenza – che già il fascismo aveva solleticato e da cui molti giovani erano stati suggestionati – di stare dentro la storia, di avere una direzione di marcia, di non essere solo ma in un gruppo numeroso e variegato. Offriva delle motivazioni, un ruolo, una missione, un riconoscimento sociale, persino una teoria capace di legare la propria vita ai destini dell’umanità. E oltre a questo garantiva i vantaggi materiali e psicologici di una grande famiglia, che mai avrebbe abbandonato i suoi figli ma anzi avrebbe dato loro protezione, sicurezza, fiducia in cambio di rispetto, obbedienza e deferenza. L’endogamia – comunisti che si sposano tra loro – che caratterizza molti percorsi individuali come quello di Franco e Teresa non fa che rinforzare la sensazione di un universo di relazioni chiuso, compatto e autosufficiente. Il modo in cui loro due nel ’56 avrebbero affrontato il difficile reinserimento in Italia, dopo i sei anni all’estero, ne è una conferma: Teresa cerca e trova un lavoro per conto suo, ma Franco non esce mai dall’orbita del partito, mai perde la fiducia che qualcuno alla fine avrebbe pensato a lui e alla sua collocazione lavorativa. In fin dei conti, era stata la stessa esperienza partigiana ad avere dato l’imprinting al suo modo di relazionarsi col partito. Il gap-

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pista è un partigiano particolare: in lui la ribellione all’ordine costituito convive con l’obbedienza verso una diversa e superiore autorità. I Gap dipendono direttamente ed esclusivamente dal Partito comunista. Non solo si pongono nell’illegalità rispetto alla Repubblica sociale italiana, ma non hanno che labili legami con lo stesso Comitato di liberazione nazionale, cioè con l’organo politico, di coalizione, che rappresenta l’“altra Italia”. Allo stesso tempo i Gap sono i più esposti, compiono le azioni più radicali, bruciano tutti i ponti alle loro spalle. Il caso di via Rasella è esemplare: l’azione fu fatta all’insaputa del Cln, e produsse effetti tali da lasciare i suoi autori con un carico di responsabilità che per parecchi anni solo il Pci li avrebbe aiutati a portare, dando loro copertura politica e insieme legittimazione morale. Il mestiere di gappista aveva predisposto anche psicologicamente Franco ad affidarsi al partito nei momenti di massima esposizione: solo riponendo una fiducia totale nell’organizzazione, più che nei singoli, era possibile sperare di cavarsela in una situazione di clandestinità e precarietà estrema. Ne aveva avuto una prova quando era stato tradito da Guglielmo Blasi, l’unico proletario del gruppo che, caduto nelle mani dei fascisti, aveva denunciato i suoi compagni: Franco, preso e portato in un carcere allestito dalla “Banda Koch” nella pensione Jaccarino, era riuscito fortunosamente a fuggire da una finestra del bagno lasciata aperta e incustodita, e poi aveva trovato accoglienza in un convento fino alla fine della guerra228. Aveva così sperimentato la «rete di protezione»229 che il Pci aveva tessuto con la Questura romana e con il Vaticano per garantire la salvezza ai propri uomini, forse offrendo in cambio altre contropartite in vista della Liberazione. Qualcosa di simile succedeva persino nei campi di concentramento nazisti, dove era l’organizzazione interna del partito che aveva il potere di intervenire nelle liste che distinguevano i sommersi e i salvati. A Mauthausen essa faceva capo a Giuliano Pajetta. Era un modo per preservare la classe dirigente di domani, ma costituiva nei beneficiati un carico di riconoscenza pressoché inestinguibile230. L’incontro ravvicinato con la propria morte, scampata, e con quella, orribile, a cui altri amici carissimi – Giorgio Labò, Gianfranco Mattei231 – non erano potuti sfuggire produsse in Franco un forte senso di immedesimazione con i compagni caduti e con la comunità politica che li aveva ascritti a sé: un sentimento, proietta-

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to nel passato, più tenace e meno negoziabile di quello, rivolto al futuro, che guardava alle lotte che ancora lo attendevano. La storia degli altri gappisti romani fu del tutto simile a quella di Franco Calamandrei. Altrove a fare il “lavoro sporco” erano stati soprattutto operai e sottoproletari232. A Roma furono invece per la gran parte studenti, giovani borghesi che spesso erano stati fascisti e che la lotta armata aveva convertito al comunismo. Onofri, Trombadori, Reichlin, Gerratana, Ferri, Savioli, Salinari, Natoli, Mafai, Musu, Toti, Socrate, Bentivegna, Amendola, Ingrao, Ferrara, Pintor – ovvero i personaggi che popolano la corrispondenza di Teresa e Franco – proprio durante la Resistenza avevano ricevuto quell’impronta comune che ne avrebbe fatto un gruppo, coeso e ben riconoscibile per quanto percorso da mille rivalità, e capace di sopravvivere ben oltre la stagione in cui era nato. Su di essi, dopo la Liberazione, Togliatti avrebbe investito per costruire a livello locale e nazionale il “partito nuovo”, consapevole che una classe dirigente non si improvvisa e che un patrimonio di cultura e buone relazioni poteva essere messo a frutto piuttosto che liquidato. Ma su di essi “il Migliore” avrebbe contemporaneamente esercitato con più assiduità la sua vigile tutela, per scongiurare che il gruppo potesse diventare “frazione” e sfuggire alla catena di comando che da lui derivava e che rappresentava l’ossatura e l’identità del partito. Sin dall’inizio quello che aveva parlato per tutti – e pagato per tutti il prezzo più alto del corso accelerato di educazione politica che Togliatti impartiva ai suoi giovani virgulti – era stato Fabrizio Onofri. Nel 1948 aveva scritto un celebre Esame di coscienza di un comunista233, che già nel titolo richiamava – per meglio prenderne le distanze – l’Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra, ovvero il testo che trentatré anni prima aveva dato voce ai dilemmi di un’altra generazione di giovani intellettuali alla prova della Grande Guerra234. Pubblicato con prefazione di Giancarlo Pajetta, il libro di Onofri viene ora proposto ai lettori come la storia esemplare di uno scrittore che attraverso prove impegnative e duro lavoro su di sé supera e rovescia il vecchio modello, tanto diffuso nella tradizione nazionale, di letterato umanistico, solitario e impolitico à la Serra, per diventare un vero e proprio “rivoluzionario professionale”.

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L’autore vi svolge una pubblica confessione: racconta di essere transitato dal cattolicesimo familiare all’idealismo di Croce e poi all’attualismo di Gentile, e di essere approdato alla lotta antifascista con una forte vocazione di scrittore. Parla di sé ma si riferisce spesso apertamente al «gruppo di intellettuali romani cui appartenevo» e alle loro vocazioni sbagliate, tutte rivolte alle lettere e alle arti, gli unici ambiti in cui sotto il fascismo poteva incanalarsi «quel tanto di Sturm und Drang e di scapigliatura, quel tanto di innovamento e di protesta che ogni nuova generazione porta con sé affacciandosi alla ribalta»235. Racconta della distanza che sentiva verso il vecchio antifascismo: «Libertà, democrazia, regime parlamentare, erano parole vuote di echi diretti, per noi, parole che trovavamo nei libri e sulla bocca dei più anziani e che non riuscivano ad avere un significato vitale, d’esperienza, più di quanto l’avessero altre parole che si riferivano a un più lontano passato»236. Onofri arriva al Partito comunista impregnato di «brandelli di ideologie ricevute disordinatamente» nel corso della sua vita precedente, e cerca disperatamente di mettere ordine. La lotta armata gli fa fare il salto di qualità: «Per un intellettuale che ha ancora una concezione individualistica della vita, e di sé stesso nella vita, non bisogna credere che sia un affare semplice affrontare ogni giorno, in piena coscienza, il rischio di morire»237. Il giovane studente ritrovatosi guerrigliero in quei frangenti ricorre allo strumento di chiarificazione interiore che meglio conosce: comincia a scrivere, tiene un diario, apre uno spazio di dialogo con se stesso su quanto gli sta accadendo. Cerca un punto fermo in cui ritrovarsi ogni sera al termine di giornate di sangue e di fuoco. Il libro a questo punto si fa più allusivo, introduce riferimenti che solo ad alcuni sono trasparenti. Ma proprio qui si cela la ragione profonda di quell’Esame di coscienza. Fabrizio Onofri, infatti, pochi mesi prima aveva pubblicato sotto pseudonimo una rielaborazione letteraria del diario della clandestinità, e aveva scatenato l’iradiddìo dentro il partito238. Manoscritto239 – così l’aveva intitolato – metteva in scena una ben strana Resistenza: la guerra, la politica, il partito non c’erano, o stavano sullo sfondo, lontanissimi; in primo piano, prepotentemente, le pause, gli incontri, la vita quotidiana del gappista e, soprattutto, un turbinio di storie d’amore e di sesso, in un tutt’uno con le confidenze, le meditazioni e le allucinazioni che fare il ter-

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rorista produceva in chi vi non era abituato240. Onofri s’era reso conto dei rischi cui andava incontro con questo libro, infatti l’aveva pubblicato sotto falso nome, e aveva cercato di cautelarsi. «Molti diranno di certo che questo non è un libro come può scriverlo un comunista», aveva precisato in una nota iniziale: «Non è certo il libro di un comunista di vent’anni or sono, o russo, o francese. Ma è certo il libro del comunista che ero io quando lo scrissi: ossia un italiano di ventisei anni, cresciuto in venti anni di fascismo, e intellettuale per giunta»241. Queste giustificazioni non erano bastate. Il “caso Onofri” era stato affrontato in Comitato centrale nel settembre 1948, l’autore del libro era stato attaccato con durezza da Luigi Longo e gli era stata chiesta, come si usava all’epoca, una pubblica autocritica242. Onofri la fece scrivendo il suo Esame di coscienza, ripetendo e facendo sue, parola per parola, le critiche di Longo, richiamando – come la liturgia prevedeva – gli scritti di Togliatti, di Gramsci, di Lenin e di Marx, arrivando a dirsi convinto che «la miglior cura dall’individualismo e dalle tradizioni piccolo-borghesi e anarchicheggianti proprie di quasi tutti gli intellettuali, fu per noi il Partito, la vita di partito, la disciplina di partito»243. Non da soli ci si salva, concludeva. E la cura del partito aveva infatti prodotto su di lui un risultato «miracoloso»: «a un certo punto, il mio cervello si sbloccò». Onofri arrivò d’un tratto a capire certi libri di Lenin e di Stalin che gli erano rimasti oscuri ancora durante l’occupazione tedesca di Roma e, soprattutto, giunse alla conclusione che un rivoluzionario di professione non poteva essere uno “scrittore”: e così spezzò la penna, rinunciò alla sua vocazione letteraria, avendo terminato il suo «processo di conquista di una nuova coscienza di classe e di una nuova concezione del mondo»244. Non è certo un caso se il sommesso esplodere del primo “caso Onofri” sia coinciso con il momento in cui Franco Calamandrei mise sotto chiave il suo diario e abbandonò l’idea di diventare a sua volta uno scrittore. Funzionava benissimo la pratica del colpirne uno per educarne cento. D’altra parte, il clima che seguì la nascita del Cominform nel 1947 e che introduceva alla guerra fredda aveva già lasciato molte vittime lungo la strada. Pochi mesi prima «Il Politecnico» era stato soffocato, dopo un vano tentativo di Vittorini di tutelare l’autonomia degli scrittori dal controllo politico245. Inevitabilmente anche questa vicenda non poté non avere riper-

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cussioni su Franco Calamandrei, che all’impresa di Vittorini tanto era legato. Le sue lettere di allora alla moglie conservano gli schizzi di quella sorda battaglia che solo in minima parte si svolse per iscritto, in pubblico, sulle pagine della rivista, ma che agì molto più profondamente – come riconobbe Fortini – nelle conversazioni e nei rapporti personali246. La resa dei conti nei confronti della cultura della crisi, contro l’esistenzialismo e l’individualismo, contro Sartre e Camus, contro Reed e Hemingway, era in corso senza esclusione di colpi dentro e attorno al Pci. Luigi Longo, nello stesso intervento in Comitato centrale in cui aveva castigato Onofri, se l’era presa anche con quei filosofi milanesi – pur vicini al partito, allievi di Antonio Banfi – che si erano permessi di mettere alla berlina i compagni francesi del Pcf che avevano attaccato la filosofia esistenzialista247. E di lì a poco Togliatti avrebbe liquidato come un degenerato André Gide («vien voglia di invitarlo ad occuparsi di pederastia, dov’è specialista»248) colpevole non solo di essere tornato anticomunista dall’Unione Sovietica, ma anche di proporre un’arte immorale, decadente e quindi controrivoluzionaria. Franco Calamandrei, con fortunata lungimiranza, aveva scritto in anticipo il suo Congedo da Gide, cioè da colui che prima della svolta degli anni quaranta era stato il suo alter ego letterario, l’autore in cui più si era rispecchiato e a cui avrebbe voluto dedicare la tesi di laurea. Forse, a suo tempo, era stato proprio l’esempio del grande immoraliste francese a suggerire a lui – come a Fabrizio Onofri e a chissà quanti altri – la strada della scrittura intima e quotidiana come strumento di autoanalisi. Certamente aveva dato più di qualche spunto ai suoi interrogativi sulla vita, quando essa si presentava nelle vesti più cerebrali e letterarie. Ma già al termine della guerra Franco era stato pronto a riconoscere che quella strada era senza sbocco e che sotto altre guide egli avrebbe continuato il proprio cammino. Non fu neppure necessario pubblicare quel pezzo a lungo meditato e tante volte riscritto per farne un autentico bilancio personale e generazionale «delle colpe e dei vizi di quella cultura borghese che ha trovato in questa guerra la sua crisi»249. E ormai, comunque, a guerra fredda cominciata, non era più tempo di bilanci e di esami di coscienza. Onofri aveva parlato per tutti. E Togliatti aveva ribadito il concetto, ammonendo i suoi ragazzi che «un comunista non tiene un diario»250: non tanto per riservatezza – come scrive Miriam Mafai riferendo-

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si alle cautele che erano state necessarie nella lotta clandestina – ma piuttosto per il contrario, per togliere uno spazio interiore ai singoli, per non consentire separatezze e angoli bui al cospetto del collettivo, per richiamare ciascuno «a quella unità della coscienza e della vita»251 dentro i cui cardini anche Bilenchi, tanti anni dopo, avrebbe collocato La vita indivisibile di Franco Calamandrei.

10. Scricchiolii, smottamenti, frane A questa sua autobiografia ufficiale lo stesso Franco rimase fedele per quasi tutta la vita, fino agli anni estremi della stanchezza e del disinganno. Solo allora riprese a scrivere di sé, a tenere un diario. Ma non è difficile cogliere da altri indizi che il processo di rieducazione non era stato liscio e pacifico. L’accanimento e la cattiveria con cui Franco aveva accolto le incertezze di Giansiro Ferrata nel ’49252 o le «esibizioni più o meno autobiografiche» di Onofri nel ’56253, non erano che la proiezione di un dissidio interiore, della vigilanza che era chiamato a svolgere per contenere e riportare nell’alveo del lavoro di partito «le voci estranee alla classe operaia» che tendevano a ripullulare dentro di lui. Alla lunga, però, qualcosa si sciolse, complice l’età e complice il contesto. Il sospetto che una stagione si stesse chiudendo lo attraversò prima di altri, con qualche anno di anticipo rispetto alla sconfitta conclamata. Poi il fallimento del compromesso storico lo fece deflagrare. A quel punto Franco si sentì personalmente messo da parte, doppiamente invecchiato, e inutile, come se perdendo la fiducia del partito avesse perso anche la propria autostima. Non era solo un’autoauscultazione. La sua condizione lo aveva reso più sensibile nel cogliere i segni del tempo che stava maturando ben oltre la sua persona. Nell’agosto dell’82, un mese prima di morire, registrò nel diario una scena memorabile: due muratori nel giardino della casa di Montepulciano, attivisti comunisti, uno giovane e uno vecchio, gli avevano rivelato quello che lui non riusciva a dire: «Tanto il socialismo non viene più», né per i padri, né per i figli, neppure per i figli dei figli. E Franco, a commento silenzioso: «Questa perdita grave, quasi assoluta, di prospettiva, di “speranza”, questa parabola percorsa dalla mia generazione»254.

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Aveva capito che anche l’altra partita – quella grande, la promessa del sol dell’avvenire – era perduta per sempre. Fu in questi anni di naufragio individuale e politico che Franco sembrò tornare al punto da cui era partito all’indomani della guerra, quasi cercando gli stessi interlocutori che aveva avuto prima di intraprendere il suo lungo viaggio dentro il Pci: suo padre, sua moglie, i suoi amici. Cercò Romano Bilenchi, riallacciò i rapporti dopo il lungo gelo, gli confidò il desiderio crescente di tornare a scrivere, di mettere su, insieme a lui, una rivista letteraria o una casa editrice255. Riprese il dialogo anche con Stefano Terra dove lo aveva interrotto più di trent’anni prima, quando l’amico era stato allontanato dai sospetti d’essere un anarchico-trotzkista256. Nel 1979, alla terza edizione de La generazione che non perdona, Franco Calamandrei ammise il rimpianto di non aver osato di più in quella fase di trapasso e rigenerazione; di non aver condotto fino in fondo, come generazione, l’esame di coscienza e la resa dei conti con se stessi e con i propri padri che pure in tanti sentivano necessaria; di non aver colto l’occasione per proporre una soluzione narrativa capace di rendere con verità e immediatezza il senso del farsi della storia come una continua trama di biografie individuali e di eventi collettivi, un incessante svolgersi del passato nel presente, dove il passato sopravvive sempre tutto nel presente per il bene e per il male, e il presente dunque – ecco il punto – rimane indecifrabile se non si è decifrato il passato257.

Nello stesso anno morì Giorgio Formiggini. Circolò la voce che si fosse suicidato, come il suo celebre avo – l’editore modenese Angelo Fortunato Formiggini – ai tempi delle leggi razziali. Certo Giorgetto ebbe un destino non troppo diverso se davvero trovò la morte come estrema forma di protesta contro un sistema che l’aveva stritolato. Da vent’anni era isolato, fuori dal partito e ormai anche dalla vita di Teresa. Aveva pagato il “rinnovamento” del ’56: proprio lui, giovane trotzkista ai tempi della lotta clandestina, era stato accusato di essere l’ultimo degli stalinisti, e quindi demolito moralmente, messo ai margini, indotto a mollare. E Giorgio aveva mollato, tutto, trovando un lavoro nella scuola, una moglie e tre figli, in Sicilia, fino alla morte nel ’79258. L’«Unità» diede un parco comunicato della sua scomparsa e delle esequie.

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Ma di lui non si trova traccia, in quei giorni e mai più, nelle pagine di Franco Calamandrei, pure attento in ogni momento a cogliere tutti i segnali di dissociazione, disincanto e crepuscolo che il procedere degli anni settanta fa emergere, e che il suo stato d’animo tende ad amplificare. Quando Franco cominciò il nuovo diario, a metà del decennio, Elsa Morante aveva appena pubblicato La Storia: una controstoria in realtà, tutta dalla parte dei “piccoli” e delle vittime, ovvero di tutti quei soggetti che la memoria ufficiale della seconda guerra mondiale aveva fin lì confinato in un cono d’ombra. Negli stessi mesi un film dei fratelli Taviani – Allonsanfàn – stava circolando nei cinema e minava altre rappresentazioni consolidate del passato, e quindi del futuro: era una storia di rivoluzionari delusi, ideali traditi e compagni venduti, ambientata nell’Ottocento ma palesemente volta all’oggi, in consonanza con la sfiducia ormai serpeggiante verso la politica e le sue promesse di palingenesi, o anche solo di trasformazione della realtà259. E di lì a poco, all’indomani delle elezioni del 1975 che avevano dato l’ultima illusione di una grande svolta finalmente possibile, proprio un ex comunista, uscito vent’anni prima dal partito, pubblicava una Intervista sul fascismo260 in cui parlava di consenso, di regime moderno e di ceti medi emergenti. Fulminato da molti a sinistra, Renzo De Felice era stato invece difeso da Giorgio Amendola sull’«Unità», e Franco se n’era compiaciuto, annotandosi l’Intervista come lettura in parte discutibile ma «assai stimolante»261. L’anno seguente lo stesso Amendola avrebbe ripreso e innovato il genere delle autobiografie comuniste con Una scelta di vita: l’iscrizione al partito vi veniva rappresentata secondo il solito cliché, come la conclusione della giovinezza e quindi una seconda nascita, ma il libro era scritto in modo brillante, concedeva molto al privato, e si poteva leggere anche come l’omaggio di un figlio al padre – il grande Giovanni Amendola, il liberale protagonista dell’Aventino, ucciso dai fascisti nel 1926 – dalla cui orbita Giorgio s’era molto allontanato ma che sentiva ora arrivato il momento di rivalutare, certo affettivamente, forse anche politicamente262. I complimenti che Franco Calamandrei gli fece di persona, annotati parcamente sul diario, dovettero essere alimentati da un comune sentire, da un vissuto condiviso, dalla memoria risorgente di un altro grande padre e del suo modo di fare i conti col fascismo263.

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Erano questi, come s’è detto, i segni dei tempi che si accumulavano via via più frequenti col procedere degli anni settanta. Nei libri e nei film, così come nelle strade e nelle piazze, le tradizionali gerarchie di rilevanza politica e storiografica si allentavano. Le grandi narrazioni del secolo sembravano invecchiate, venivano criticate, sovvertite e capovolte: Bernardo Bertolucci virava l’epopea vittoriosa del socialismo emiliano in un’elegia decadente sul Novecento al tramonto264; i cortei delle femministe urlavano che il privato era politico; il terrorismo tentava di appropriarsi delle mitologie resistenziali, minandone il carattere fondativo, nazionale ed ecumenico; le controculture giovanili si beffavano della storia del movimento operaio, irridendo a tutte le retoriche. All’inizio del nuovo decennio sarà un film ungherese a dare a Franco l’occasione per un nuovo bilancio. È la storia di Angi Vera265, una giovane infermiera che, nell’Ungheria del 1948, viene iscritta a una Scuola di partito e avviata a una promettente carriera di funzionaria, finché si innamora di un insegnante – già sposato – e passa una notte con lui. Durante una pubblica seduta di critica e autocritica la ragazza viene indotta a denunciare se stessa e il suo amante. Lui viene licenziato mentre lei, premiata, diventa redattrice del giornale del partito. «Distruzione profonda, implacabile, di ogni immagine di costume comunista che possiamo aver idealizzato negli anni in cui credevamo. L’atmosfera squallida, senza scampo, tra il meschino e il volgare, della Scuola di Partito. Il trionfo dell’ipocrisia, della vessazione, della delazione»266: con queste sensazioni Franco esce dalla sala, il 21 dicembre 1980. Troppi dettagli gli ricordavano cose viste e vissute di persona: ora le rivedeva sotto una luce nuova, diversa da quella che le aveva illuminate nel loro svolgersi, una luce plumbea che le rendeva grottesche e insopportabili. Cerco di difendermi sostenendo con Teresa che il film è disonesto e unilaterale. Ma T.[eresa] non mi lascia scampo, dicendo che invece è tutto vero. Che resta dunque a questa nostra generazione? Quant’altro si dovrà ancora incenerire dentro di noi, di illusioni nutrite, fiducie date, speranze coltivate? Dovremo concludere che la fortuna maggiore che abbiamo avuta è stata che qui in Italia, in Occidente, il partito comunista non sia riuscito a andare al potere? E ai figli che diremo?267

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Erano gli anni in cui Franco riprendeva in mano il Diario di suo padre, per farne un libro, e riallacciava altri fili di pensieri e ricordi rimasti sospesi. Nel presentarlo, qualche tempo dopo, avrebbe espresso il bisogno di superare la visione teleologica della storia, i manicheismi, le rappresentazioni stentoree dell’antifascismo. Finché l’antifascismo è in tempo – scrisse – bisogna dunque che la sua autobiografia si addentri in quel chiaroscuro morale finora rimasto ai margini, nella interiorità che il disegno dei moventi politici e sociali ha lasciato in ombra, e perciò anche nel rapporto di contrasto oppure di intreccio, di osmosi, tra quei moventi, le loro regole e scadenze, il loro percorso, legati a una battaglia collettiva, ed il sentimento individuale, le vicissitudini private dell’animo, gli alti e bassi quotidiani del cuore268.

Erano parole che significavano anche il recupero di suo padre quale si era espresso attraverso il Diario, della sua cultura politica e del suo stesso percorso esistenziale: non più giudicati dall’alto di una verità rivelata, di un preteso punto di arrivo univoco o di un modello prescrittivo di militanza. Prima di morire Franco aveva deciso di ritirarsi dalla politica e mettersi finalmente a scrivere il romanzo della sua vita. Riprese in mano i vecchi appunti, ma ne rimase intrappolato, incapace di trasformarli in materia narrativa: «La memoria come nemica della fantasia»269, scrisse nel diario con un moto di stizza. Aveva il titolo – Le occasioni di vivere – e il canovaccio: la vicenda di un uomo e una donna, Lorenzo ed Emilia, incontratisi durante la lotta partigiana e vissuti insieme attraversando altri luoghi e stagioni della storia. Quando Teresa, dopo la morte di Franco, mise gli occhi sui brogliacci del marito non rimase del tutto soddisfatta. Forse non lo riconosceva (come non lo riconosceranno tanti amici e compagni di partito, stupiti dai meandri interiori di un uomo apparentemente vitale, allegro e positivo che solo il diario avrebbe rivelato nella sua complessità). Certo Teresa si sentiva, nella trasfigurazione letteraria quanto negli appunti diaristici, un po’ diminuita, non compresa né pienamente rappresentata; insomma, quasi tra-

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dita. Cominciò così ad aver voglia anche lei di scrivere. Di raccontare l’altra metà della storia. C’è una parte delle memorie di Maria Teresa Regard che è rimasta nascosta più a lungo dell’altra negli archivi della famiglia e che non coincide con la versione ripulita e addomesticata dell’autobiografia del periodo giovanile che avevamo conosciuto. Sono 44 fogli quasi interamente dattiloscritti, non titolati né paragrafati, che cominciano dove quella si era interrotta – il dopoguerra – e si concludono con il presente della scrittura, alla fine degli anni ottanta. La storia si apre e si chiude con il ricordo di un uomo, che non è suo marito. Giacomo270 era stato l’alternativa possibile, intravista e appena assaporata per la prima volta a Milano tra il ’47 e il ’48 – proprio nel momento in cui Teresa si era sentita con le spalle al muro, schiacciata nel ruolo di madre, trascurata dal marito per il lavoro – e poi riemersa in alcuni momenti decisivi della sua vita, quasi a mostrare i margini di una felicità diversa, possibile in un mondo parallelo a quello reale in cui lei aveva scelto di vivere e nel quale pur volle restare ben piantata. Con Giacomo era bello parlare; attraverso il suo ascolto lei ritrovava il filo e il valore della propria vita. Seguiva i miei racconti – scrive Teresa – spesso interrompendomi in cerca di altri particolari quando qualcosa non gli era chiaro, con una curiosità che mi inorgogliva. Del periodo della Resistenza tra noi comunisti non si parlava mai, immersi come eravamo in un presente difficile che occupava tutte le nostre energie, continuamente frustrandole. Mi accorgevo che, spinta da lui, per la prima volta ricapitolavo episodi della mia vita di un tempo e che, sorprendentemente, ricordavo nei minimi particolari. Ridotti all’essenziale i fatti che raccontavo acquistavano in drammaticità. E finalmente superavo quel senso d’inferiorità che provavo nei confronti dei compagni del Nord, verso i quali per la presenza forte della classe operaia nutrivo un rispetto e una considerazione quasi reverenziali. Senza saperlo Giacomo aveva scelto l’argomento giusto per questo nostro primo, lungo colloquio. I ricordi facevano rinascere in me quella vitalità, che in passato era stata una mia caratteristica e che, negli ultimi anni, si era affievolita dentro di me. Ma forse non era un caso che mi avesse portato a parlare della Resistenza. Forse intuiva che, per uscire da una condizione attuale insoddisfacente, mi occorreva riandare indietro nel tempo, e ritrovare fiducia in me stessa. E del resto non erano proprio le nostre analoghe

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esperienze di gappisti – sapevo che anche lui lo era stato – a stabilire una più stretta connessione tra noi due?271

Giacomo era colto, benestante, e in più giovane; con lui Teresa si sentiva alla pari, senza soggezione. Avevano la stessa età, gli stessi gusti e gli stessi dubbi segreti sulla politica del partito. La loro relazione clandestina divampò nei giorni dell’occupazione della Prefettura di Milano, nel novembre del ’47, ultima occasione “rivoluzionaria” vissuta insieme a lui, mentre Franco era lontano. Nel giro di alcuni mesi essa si interruppe e riprese più volte, finché arrivò alle orecchie di Giuseppe Alberganti, il compagno “Cristallo” messo da Secchia a capo della federazione milanese, che all’indomani delle grandi manifestazioni seguite all’attentato a Togliatti la convocò nel suo ufficio e le ordinò di non farsi più vedere nelle sedi del partito. «Ero sconvolta», ricorda Teresa: Il colpo che mi avevano assestato era duro da sopportare. Venivo cacciata io che avevo fatto parte dei Gap centrali e che poi per anni avevo dato l’anima per il partito, incurante degli orari, dei disagi, dello stipendio quasi inesistente. Ero indignata. Come potevano mettere alla porta una compagna che era stata eletta in un Congresso nel Comitato federale? Ma stranamente ero incapace di difendermi perché troppo intrisa del costume del partito. Avevo commesso una infrazione e dovevo pagare272.

Teresa ne parlò con Franco, e insieme decisero di andarsene appena possibile per provare a ricominciare altrove. Quando arrivò l’opportunità di trasferirsi a Londra non ebbero remore. La crisi del comunismo si legge anche in questo smottamento delle memorie, che si rimettono in movimento non appena la griglia che le aveva contenute comincia ad allentarsi273. Teresa ha ora la possibilità – e il bisogno – di rileggere la propria storia da un altro punto di vista, ribaltando gli schemi e le gerarchie cui era abituata. Mette in primo piano la vicenda di un amore trasgressivo e svela i retroscena della vita di partito. Non è un semplice “rifiuto della politica”. Giacomo rappresenta piuttosto la possibilità di una politica diversa, non solo perché dopo qualche anno lui stesso sceglie di lasciare il Pci, ma perché condensa quel «diritto a un po’ di felicità»274 che Teresa rivendica per sé e, implicitamente,

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per tutti. Giacomo dà corpo alle insofferenze a lungo covate in silenzio da Teresa verso la doppia famiglia – quella privata e quella politica – in cui pur aveva scelto di vivere. «Il passato non è mai morto, non è neanche passato», diceva Faulkner275. La memoria è il giacimento di tutte le storie possibili, anche di quelle che non si sono inverate. Difendendo il ricordo di quell’amore sbagliato e senza futuro come «qualcosa che anche il tempo non avrebbe potuto distruggere, perché era una delle cose belle che la vita mi aveva regalato»276, Teresa suggerisce anche una possibilità per salvare il significato di una militanza e di una storia politica altrettanto “sbagliate” e senza futuro. Siamo alla fine degli anni ottanta, o poco dopo; tempo di bilanci difficili per i comunisti italiani. Maria Teresa Regard chiude il suo con queste parole: «Gli sconvolgimenti politici di quest’ultimo periodo mi hanno fatto perdere l’attaccamento alla politica che era stata la nota dominante della mia vita. La mia infelicità è grande, tuttavia per ora non posso lamentarmi perché sono in buona salute, i mezzi per vivere non mi mancano, e non sono ancora rimbambita»277. Anche in questo si potrebbe leggere il riflesso dell’antica saggezza femminile, che privilegia la vita, il privato, di fronte alle tragedie della storia. Ma non si può eludere ciò che Teresa dice a chiare lettere: il velo d’infelicità che l’eclissi della politica – almeno nella forma a cui era abituata – ha depositato sulla sua vita. Non a caso il suo impegno in prima persona sarebbe ripreso, in altre forme, proprio dopo la scomparsa del Pci: nell’Anpi, nel Museo di via Tasso, nel processo a Priebke, cioè contro la mistificazione del passato e il ribaltamento dei segni di valore che gli anni novanta sembravano voler realizzare. I libri, come le frane, quando si mettono in moto non si sa che cosa si possano trascinare e che cosa possano scoperchiare. Era capitato con un romanzo non concluso, lasciato sopra una scrivania. A maggior ragione poteva succedere con un libro stampato, arrivato in mille mani. La vita indivisibile – documento più unico che raro nella letteratura resistenziale – suscitò grande interesse quando uscì, nel 1984. Ma non convinse qualcuno, che pure a Franco Calamandrei era stato vicino negli anni della giovinezza. Poco dopo la sua pubblicazione si fece vivo con Teresa Piero Santi, scrittore fiorentino defilato ma raffinato, insoddisfatto del

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ritratto dell’amico che Bilenchi aveva tratteggiato nell’introduzione e disponibile a svelare, per amor di verità, quale fosse stato il “vero Franco” che lui aveva conosciuto e che la milizia comunista non poteva aver del tutto seppellito. Tirò fuori dai cassetti sei lunghe lettere e un racconto scritti da Franco tra il ’36 e il ’38, li mise insieme e propose di farne un libro. Li fece precedere da una sua introduzione, che rievocava il clima d’allora e il gruppo di amici che erano stati: noi, giovani sui venti-venticinque anni, io meno giovane, Franco Calamandrei (con Giorgio Baccetti e qualche altro) il più giovane: il nostro «gruppo», che non era poi un gruppo «teorico», piuttosto un insieme di amici più o meno presi dalla letteratura (meno Valentino Bucchi, musicista), ma immersi nel gioco a volte misero a volte eccitato e sconvolto dell’esistenza278.

La scoperta di Verlaine e Rimbaud, di Proust e Gide, era avvenuta in una cerchia di giovani maschi che non voleva porre confini tra l’arte e la vita, che chiedeva una dedizione totale alla scoperta di sé, oltre i conformismi della cultura borghese dei padri. Era anche questa, a suo modo, una forma di milizia, radicata nelle tradizioni di cameratismo aristocratico maschile presenti in certo fascismo rivoluzionario e scapigliato, non solo toscano, di cui Ottone Rosai era un punto di riferimento279. E la presenza di «Ottone e qualche sua amorosa lotta»280 fa capolino infatti, tra le altre, nella corrispondenza di Franco all’altezza del 1936, a confermare la peculiare e paradossale – ai nostri occhi – mescolanza di sensibilità artistiche e opzioni politiche che il gruppo praticava. «Mia mamma», scriveva Franco in un passaggio ancora più esplicito, tre mesi dopo, «mi ha portato per mio incarico “Frontespizio” e puoi immaginare che la prima cosa che vi ho letta, dopo l’articolo di Papini (tra parentesi, della Spagna e di quei porci di ammazzapreti poteva dir parecchio di più e parecchio meglio, giacché era in ballo) è stato “Wilde moralista” di cui poi tu stamani mi informavi»281. Le vicende di quel gruppo di amici che si scambiavano prove di scrittura, confidenze e consigli di lettura Piero Santi le aveva narrate – fin dagli esordi all’ombra del Guf fiorentino282 – in alcuni racconti, romanzi e memorie, opere tra le più

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delicate ma non troppo reticenti nell’affrontare un tema che per molto tempo era stato tabù, come quello dell’omosessualità283. Che le relazioni amicali di Franco, negli anni giovanili, fossero state almeno in parte relazioni omoerotiche oltre che fasciste non era certo un segreto, tanto meno per Teresa. Le voci sull’omosessualità del giovane Calamandrei erano state usate già contro suo padre, il cui risentimento per quel figlio troppo diverso da sé anche da queste pieghe aveva preso risalto, negli anni del regime in cui le pratiche omoerotiche erano ufficialmente bandite e potevano diventare pretesto per persecuzioni e ricatti284. Ancora nel dopoguerra Piero Calamandrei sarebbe stato colpito dai pettegolezzi sul passato di suo figlio a fini di rivalità interne alla stessa cultura laica e liberalsocialista che nel piccolo ambiente fiorentino non disdegnava simili mezzucci. E la voce era circolata naturalmente anche all’interno del Pci, che tutto voleva sapere dei propri quadri dirigenti, e che attraverso di essa rafforzava la sua presa sul giovane intellettuale chiamato a marcare le distanze dal proprio passato, dalle ambigue vocazioni letterarie, dalla cultura decadente di cui era stato preda. Certo era ben nota a Romano Bilenchi – che quel giro di Amici 285 aveva conosciuto, frequentato e narrato in pagine memorabili – quando scrisse, introducendo La vita indivisibile, del Partito comunista che era stato per Franco «tavola di salvataggio nel nero mare della [sua] disperazione borghese».

11. La felicità è su questa terra A guardar bene, però, il sintagma della vita indivisibile estrapolato da Bilenchi rimanda ad un passaggio ben differente all’interno del diario di Franco Calamandrei, che risolve in altro modo la tensione tra pubblico e privato. «È nell’amore», scrive Franco il 1° giugno 1946, «che gli uomini più compiutamente realizzano l’indivisibilità e ne avvertono il sentimento. Tutto ciò che nelle coscienze e nelle società tende a far quagliare, a irrigidire, a immobilizzare l’esistenza, rallentandone il ricambio, tutto ciò è immorale e va combattuto»286. E pochi mesi dopo, nel gennaio ’47: «Il grave pericolo è che il dualismo esistente nell’individuo borghese fra uomo privato e cittadino, si riproduca nell’individuo comuni-

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sta fra uomo privato e compagno. Che il partito sia come lo stato una proiezione dell’uomo al di fuori di se stesso»287. Per Franco dunque, ancora nel 1947, la vita indivisibile non ha fondamento nel partito, ma nell’amore. Non un amore generico, astratto, “politico”: l’amore per una donna. Le lettere che Franco scrive a Teresa nelle settimane in cui è costretto a starle lontano – fuggito fortunosamente dal carcere, nascosto a San Giovanni in Laterano, ricercato dai tedeschi e dalla polizia fascista – pur non facendo parte del diario, sono state pubblicate al suo interno come se lo fossero. Sembra che nessuno se ne sia accorto. Sono lettere da innamorato, cariche di una grande passione, ma anche estremamente precise, capaci di trovare le parole all’altezza della novità e della grandiosità di quanto stava accadendo nel suo animo. Leggiamone un brano. Mi sembra da quando ti ho avuta con me, che si sia levato il sole sulla mia vita. E questa non è retorica, credimi, ma l’unica similitudine che possa esprimere in qualche modo quello che sento. Sai, come avviene nei paesaggi, che tutto sul fare dell’alba vi appare distinto sì, ma quasi raggelato e rigido, le varie parti tra loro divise e incoerenti, ogni cosa reale ma disanimata. E poi, appena si affaccia un raggio di sole, tutto, ad un tratto, si unisce e si fonde, acquista un senso vivo, una continuità e un avvenire. Così mi sta accadendo. Dalla tua persona si diffonde in tutto il mio essere un calore, che finalmente mi colloca in mezzo agli uomini, mi mette in contatto con loro, libera i miei pensieri, i miei sentimenti, i miei gesti. In questi mesi più di una volta ho dubitato che la strada in cui mi ero messo non avesse uscita per me. Tremavo di avere chiesto troppo alle mie forze, che gli errori di cui mi volevo purgare fossero senza rimedio, e l’esperienza che avevo assunto per castigarli dovesse invece a un certo punto riuscirmi troppo gravosa e schiacciarmi del tutto. E, hai visto, sono stato lì lì. Ma tu eri già intervenuta sul mio cammino; e qualcosa di me, pure nella mia assenza, doveva essersene accorto, se quel giorno ho improvvisamente ritrovato tanta energia, tanta decisione di vivere, mentre pochi minuti prima mi ero sentito rassegnato e finito. Senza ch’io ne avessi coscienza, tu avevi già insinuato nella mia vita qualcosa che la giustificava, una legittimazione di quella cruda esperienza, una possibilità di ricupero, ed è certo lì che io ho attinto per riuscire a salvarmi288.

Franco, insomma, lo dice chiaramente: è Teresa, e non il partito, che lo “salva”. È lei la sua rivelazione e la sua rivoluzione. Pri-

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ma, per gli amici più intimi e sensibili che l’avevano conosciuto e gli avevano voluto bene, Franco era stato un uomo tutto di testa: «non si lasciava mai andare a un gesto comprensivo e affettuoso e la sua mente regolava ogni piccolo particolare della sua vita»289. Durante la lotta partigiana conosce Teresa e conosce attraverso di lei l’amore, l’amore fisico pieno e soddisfacente. Sperimenta per la prima volta – sono ancora parole sue – uno di quei «momenti intensi in cui la politica viene vissuta in una piena organicità di sentimenti e propositi razionali, di emozione e ragione»290. Non sono cose da relegare nel “privato”. «Le rivoluzioni sono qualcosa in più che insurrezioni riuscite»291, diceva Hannah Arendt, spiegando che la repentina apertura di spazi di azione pubblica e collettiva porta con sé un piacere inaspettato e un pathos travolgente, in grado di smuovere e rinnovare anche se stessi292. «Non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento»293, aveva scritto nella sua ultima lettera Giaime Pintor, capace come pochi di dar voce alla trasformazione degli animi seguita al crollo dello Stato e del regime fascista. E sul dramma dell’attesismo era tornato a riflettere, qualche anno dopo, lo stesso Calamandrei, col pretesto di una recensione, ma avendo in mente l’esperienza dei tanti che gli erano stati intorno, a Roma e non solo, rincantucciati al riparo dalla guerra e dalla storia, «incerti e passivi, in balia degli eventi, chiusi nelle case, aggrappati agli affetti e alle piccole consuetudini familiari, ascoltando da dietro le persiane il passo delle pattuglie sopra i selciati e il fragore delle bombe fatte esplodere dai partigiani»294. Avevano avuto una vita forse più sicura, ma dimezzata. Franco Calamandrei passerà gli anni successivi a cercare altre occasioni di vivere analoghe a quelle sperimentate allora. La guerra gli aveva fatto conoscere una «“quarta dimensione” dell’esistenza» che è – sono parole di Franco – «l’indivisibilità della vita di ognuno dalla vita degli altri»295. Alla radice del suo desiderio di viaggiare, di essere presente là dove la storia passava con più vigore, c’era la nostalgia di quei momenti. Persino la sua militanza nel Pci era stata un modo per conservare l’eco della rivoluzione, ovvero il piacere dell’azione collettiva, il gusto del fare, insieme ad altri, guardando verso il futuro. Non gli era stato difficile dare il nome di comunismo a quella speranza di felicità. Era un “comunismo esistenziale” che precedeva quello politico: quest’ultimo gli

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avrebbe dato una teoria, un programma, addirittura un’organizzazione, che avrebbe dovuto consentirgli di durare ma che invece lo avrebbe a un certo punto imbrigliato e soffocato. Quando, nell’agosto 1944, aveva incontrato di nuovo suo padre – ancora una volta deluso dal comportamento del figlio, risentito per la sua scelta di diventare comunista e soprattutto per quel matrimonio affrettato, celebrato senza alcun riguardo mentre lui e Ada erano ancora in zona occupata e sotto minaccia tedesca – Franco aveva cercato di raccontargli qualcosa di sé e di spiegargli la sua idea di comunismo; un’idea che aveva a che fare con la felicità da perseguire qui e ora, per nulla con il comunismo realizzato altrove. Ieri sera a cena Franco – scrive suo padre il 5 agosto – ci ha detto il suo credo: bisogna assolutamente credere che la felicità è di questa terra e operare di conseguenza. [...] E lo dice in tono assertivo, autoritario, come cinque anni fa parlava dell’ermetismo. Ora capisco che se cinque anni fa l’ermetismo avesse richiesto ai suoi seguaci di esporre la vita, l’avrebbe fatto come l’ha fatto per il comunismo. Non fede, ma volontà di fede, volontà di credere. La felicità è su questa terra: raccontatelo a Leopardi, o a Manzoni o a Dante296.

Come ormai sappiamo, Piero Calamandrei in quel momento attinge a un’altra saggezza, cosmica ma disperata, quella che è «virtù della vecchiaia, e sembra giungere solo a coloro che da giovani non sono stati né saggi né prudenti»297. Forse il vecchio Piero, se avesse ripensato alle sensazioni con cui era uscito, alla stessa età di Franco, dall’altra guerra, la sua guerra, alla volata in sidecar verso Trento liberata e festante, alla «gioia provata in quelli istanti da noi [che] non si può ridire»298, avrebbe avuto qualche chance in più per capire suo figlio e capire la stessa Resistenza. Anche Franco, col passare degli anni e col procedere del cursus honorum dentro il partito, finirà per allentare la tensione di quei giorni. Anzi, dopo trent’anni e più, si troverà a parti rovesciate in veste di padre di fronte alle figlie che vivono la stagione dei movimenti degli anni settanta e chiedono a loro volta di mettere all’ordine del giorno la questione della felicità. In pubblico farà la parte del normalizzatore, dell’uomo d’ordine, amendolia-

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no fino in fondo. In segreto si lascerà scalfire da quelle richieste che lo riportano a un sé lontano e non del tutto sepolto. Sarebbe appassionante uno studio sul rapporto fra pubblico e privato in altri momenti critici, rivoluzionari, della storia degli uomini. V. nella Education sentimentale di Flaubert il vagabondaggio amoroso del protagonista attraverso Parigi dove sorgono e sparano le barricate del 1830 – o 1848? – la sua divina indifferenza verso quella cronaca politica, il suo abbandono all’eternità del sentimento amoroso. Ma oggi sarebbe possibile per un innamorato fare lo stesso? Io non credo (!). E non è perché il sentimento d’amore non potrebbe oggi essere altrettanto intenso. La questione è un’altra. Ed è proprio questo che io voglio capire in me stesso, se davvero la questione sia un’altra e quale sia. I giovani questo si chiedono, mia figlia Gemma se lo chiede299.

Franco, anche in età avanzata, ritrova nel rapporto fisico con Teresa un ricordo di quella pienezza di vita vissuta per la prima volta a Roma nel ’44, rivissuta quasi con la stessa intensità all’altro capo del mondo, ad Hanoi liberata, dieci anni più tardi, e poi rimasta come una risonanza interiore: «ancora una volta stamane ho sperimentato come unica dimensione di esistenza totale, totalmente riassorbita in se stessa, appagata, autoidentificata, la dimensione dell’amore, del sesso»300, scriverà due anni prima di morire. Uno come lui, che ha tradotto Proust, sa bene che il corpo ricorda più intensamente della mente, e che la memoria può essere involontaria, incontrollabile, sovversiva. Il suo diario più tardo ci dice che, sotto le sembianze di un rigido funzionario di partito, sopravvisse un Franco Calamandrei giovane e innamorato, inquieto e sensibile, molto distante dall’immagine pubblica attraverso cui era conosciuto. Nell’ultimo messaggio, a cui tanto teneva e che non riuscì a concludere, quest’uomo ha tentato di consegnarci qualcosa di intimo, oltre la maschera che era abituato a indossare; mostrare il punto di partenza, la radice eversiva di quello che poi è diventato. Una dimensione aurorale, a cui egli è voluto tornare nel momento del suo tramonto. È una componente che spesso non si ricorda dell’esperienza dei comunisti italiani (anche perché essi stessi l’hanno rimossa e hanno fatto di tutto per tenercene lontani301): l’intreccio inestricabile di pubblico e privato alla base della loro scelta di vi-

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ta, i risvolti individuali e concreti del loro incontro con il “comunismo”, che per Franco sarebbe stato per sempre legato al ricordo della sua personalissima rivoluzione (il primo grande amore, la scoperta di sé come uomo, la fuoriuscita dal ruolo di figlio), alle fughe disperate e ai momenti sospesi tra la vita e la morte, all’incontro che ci fu il giorno della Liberazione, nel momento in cui, dopo la separazione forzata, lui e Teresa «si erano abbracciati stretti, fondendo le loro reciproche attese in un sentimento di libertà straordinariamente felice in quella città uscita dall’incubo, sicuri del loro amore recente come non lo erano ancora stati»302.

Note 1 Franco Calamandrei, Le occasioni di vivere. Diari e scritti 1975-1982, a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Galante Garrone, Firenze, La Nuova Italia, 1995. 2 Ne avevo appena studiato, per così dire, un prototipo (vedi Alessandro Casellato, Giuseppe Gaddi. Storia di un rivoluzionario disciplinato, Verona, Cierre, 2004); ma il grande modello è stato Il gioco dei regni di Clara Sereni (Firenze, Giunti, 1993). 3 Franco Calamandrei, La vita indivisibile. Diario 1941-1947, a cura di Romano Bilenchi e Ottavio Cecchi, Roma, Editori Riuniti, 1984 (seconda edizione integrata, con nota introduttiva di Silvia Calamandrei, Firenze, Giunti, 1998, alla quale si farà riferimento per le citazioni successive). 4 F. Calamandrei, Le occasioni di vivere cit., p. 162 (4 gennaio 1980). 5 Ivi, p. 36 (s.d.). 6 Piero Calamandrei, Futuro postumo. Testi inediti 1950, a cura di Silvia Calamandrei, illustrazioni di Salvatore Puglia, Montepulciano, Le Balze, 2004. 7 Ho potuto ascoltare la testimonianza di Maria Teresa Regard al processo contro Erich Priebke, in data 22 maggio 1996, registrata da Annabella Gioia, presso l’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza (Roma). 8 Vedi i percorsi di doppiogiochisti, infiltrati e spie nella Resistenza romana in Massimiliano Griner, La «Banda Koch». Il reparto speciale di polizia. 1943-44, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 244 sgg. 9 Testimonianza orale di Franca Gigliani e Piero Battaglia all’autore, Roma, 5 aprile 2005. 10 Maria Teresa Regard, Reportage dal Tibet, «Avvenimenti», 15 gennaio 1997. 11 La ricerca di Portelli è quella preparatoria al libro L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria (1999), Roma, Donzelli, 2001. Il nastro e la trascrizione dell’intervista a Maria Teresa Regard, svoltasi il 20 aprile 1998, sono conservati nell’archivio del Circolo Gianni Bosio (Roma). Una rielaborazione della testimonianza orale, dal titolo La mia vita di parte, è consultabi-

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le nel sito web dell’Associazione nazionale partigiani di Roma, http://www.romacivica.net/anpiroma/Resistenza/resistenza2c17.html. 12 Alessandro Galante Garrone, Padri e figli. Piero e Franco Calamandrei, «Il Ponte», a. XLII, n. 2, marzo-aprile 1986, p. 69. Vedi anche Gianfranco Petrillo, Figli e padri. Dodici figure del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 93107. 13 Mirella Serri, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, Milano, Corbaccio, 2005. 14 Lettera di Franco Calamandrei a Romano Bilenchi, Roma, 29 settembre 1944, citata in Dodici lettere inedite di Franco Calamandrei a Romano Bilenchi, a cura di Cristina Nesi, «Autografo», a. XVII, n. 42, gennaio-giugno 2001, p. 131. 15 Ivi, p. 130. 16 Ibidem. 17 Il garofano rosso uscì tra il 1933 e il ’34 su «Solaria» e in volume nel 1948. Vedi Luisa Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 426-430. 18 Franco Calamandrei, Raccontare significa chiarire a noi stessi la vita, «Il Politecnico», n. 13-14, 22-29 dicembre 1945, p. 8. 19 Franco Calamandrei, Il compagno Francesco, «Mercurio», a. I, n. 4, dicembre 1944, pp. 311-313; Cola [Franco Calamandrei], Chi erano e cosa fecero i gappisti romani, «La Settimana», a. II, n. 8, 1° marzo 1945, pp. 5-6; Sandro Picci [Franco Calamandrei], 8 settembre 1943, ivi, a. II, n. 19, 17 maggio 1945, p. 4; Franco Calamandrei, Pagine di diario (1941-1944), «Risorgimento», a. I, n. 4, 25 luglio 1945, pp. 354-370. Vedi Silvia Acocella, «La Settimana». Rinnovamento culturale e tendenze neoespressionistiche nell’Italia della Liberazione, Roma, Editori Associati, 1999, pp. 22-26. 20 Franco Calamandrei, Narrativa vince cronaca, «Il Politecnico», n. 26, 23 marzo 1946, p. 3. 21 Id., Una generazione e un suo narratore, ivi, n. 30, giugno 1946, pp. 35-36. 22 Stefano Terra, Rancore, Torino, Einaudi, 1946. Su Terra – pseudonimo di Giulio Tavernari – al Cairo vedi Aldo Garosci, Linee per una microstoria, in Il Partito d’Azione dalle origini all’inizio della Resistenza armata, Archivio trimestrale, Roma 1985, p. 253. 23 Vedi Cesare Pavese, Nota introduttiva a Joseph Conrad, La linea d’ombra. Una confessione (1917), Torino, Einaudi, 1947. 24 Franco Calamandrei, recensione a La linea d’ombra, dattiloscritto, conservata nell’archivio di famiglia. 25 Id., Il compagno Francesco cit., pp. 311-313. 26 Rubo qui le parole a Luigi Meneghello (I piccoli maestri, in Id., Opere scelte, Milano, Mondadori, 2007, p. 374), che racconta la stessa scena, vissuta in un’altra parte d’Italia. 27 Franco Calamandrei, Le bombe della Resistenza. Ricordo di Giorgio Labò, «l’Unità», 7 marzo 1969. 28 Gabriele Pedullà, Introduzione a Racconti della Resistenza, Torino, Einaudi, 2005, p. XV. 29 Marisa Musu, La ragazza di via Orazio. Vita di una comunista irrequieta, a cura di Ennio Polito, Milano, Mursia, 1997, p. 189. 30 Un piccolo dossier su Francesco Curreli mi è stato fornito da Agnese Pi-

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sano, bibliotecaria di Austis, che ringrazio per la cortesia. Sul processo a Franco Calamandrei e agli altri responsabili dell’attentato di via Rasella, vedi più avanti, pp. L-LII. 31 Casellato, Giuseppe Gaddi cit., pp. 144-145. 32 F. Calamandrei, Le occasioni di vivere cit., p. 155. 33 Italo Calvino, Presentazione (1964) a Il sentiero dei nidi di ragno (1947), Milano, Mondadori, 1993, p. XXV. 34 Vedi Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 74-88. 35 Maria Teresa Regard, Una bambina speciale..., memoria inedita, conservata nell’archivio di famiglia. 36 Ibidem. 37 Ibidem. 38 Ibidem. 39 Lettera di Maria Teresa Regard a Franco Calamandrei, Firenze, 5 gennaio 1947, conservata nell’archivio di famiglia. 40 Parole di Mario Socrate, citate in Aldo De Jaco, Fine di un gappista. Giorgio Formiggini e lo stalinismo partenopeo, Venezia, Marsilio, 1999, p. 112. 41 Regard, Una bambina speciale... cit. 42 Intervista a Maria Teresa Regard pubblicata in De Jaco, Fine di un gappista cit., p. 87. 43 Sul passaggio degli studenti romani dal giovanilismo alla goliardia, all’antifascismo, vedi Carlo Felice Casula, Mondo studentesco e crisi di regime: il caso di Roma, «Quaderni della Resistenza laziale», n. 8, 1978, pp. 141-221. 44 Musu, La ragazza di via Orazio cit., p. 64. 45 Regard, Una bambina speciale... cit. 46 F. Calamandrei, La vita indivisibile cit., p. 157 (20 dicembre 1944). 47 Ivi, p. 158 (21 dicembre 1944). 48 Intervista a Maria Teresa Regard di Alessandro Portelli, cit. supra, nota 11. 49 Luciano Bianciardi, La vita agra, in Id., L’antimeridiano, vol. I: Saggi e romanzi, racconti, diari giovanili, a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Coppola e Alberto Piccinini, Milano, Isbn-Ex Cogita, 2005, p. 613. 50 F. Calamandrei, La vita indivisibile cit., p. 201 (29 marzo 1944). 51 «Primavera non bussa, lei entra sicura, come il fumo lei penetra in ogni fessura», così Fabrizio De André in Un chimico, nell’album Non al denaro non all’amore né al cielo (1971). 52 Intervista a Maria Teresa Regard di Alessandro Portelli, cit. supra, nota 11. 53 Citato in Portelli, L’ordine è già stato eseguito cit., pp. 165-166. 54 Vedi Marisa Ombra, Fine di una trasgressione, «DWF», n. 1, primavera 1986, pp. 47-51. 55 Regard, Una bambina speciale... cit. 56 Ibidem. 57 F. Calamandrei, La vita indivisibile cit., p. 290 (novembre 1947). 58 Carlo Cassola, Fausto e Anna (1952), Un matrimonio del dopoguerra (1957), La ragazza di Bube (1960). 59 Ernesto Galli Della Loggia, Una guerra «femminile»? Ipotesi sul mutamento dell’ideologia e dell’immaginario occidentali tra il 1939 e il 1945, in Donne e uomini nelle guerre mondiali, a cura di Anna Bravo, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 15.

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60 Laura Lombardo Radice, Viaggio di nozze in tram, «Paese Sera», 23 maggio 1981. 61 Musu, La ragazza di via Orazio cit., p. 86. 62 Roberto Battaglia, Un uomo un partigiano (1945), Bologna, Il Mulino, 2004, p. 127. 63 Paul Ginsborg, Presentazione a Marta Bonsanti, Giorgio e Silvia. Due vite a Torino tra antifascismo e Resistenza, Firenze, Sansoni, 2004, p. VIII. 64 Vedi Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco, Un’amicizia partigiana. Lettere 1943-1945, saggio introduttivo e cura di Giovanni De Luna, Torino, Bollati Boringhieri, 2007. 65 Tra la città di Dio e la città dell’uomo. Donne cattoliche nella Resistenza veneta, a cura di Luisa Bellina e Maria Teresa Sega, Venezia-Treviso, Iveser-Istresco, 2004. 66 Di «rapidissima conversione» e «miracoloso semestre» scriverà anche Francesco Berti Arnoaldi per spiegare la trasformazione interiore nell’estate-autunno 1943 del suo amico più caro, Giuliano Benassi: Viaggio con l’amico. Morte e vita di Giuliano Benassi (1990), Palermo, Sellerio, 2007, pp. 35 e 29. 67 Vedi Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 553. 68 Giacomo Magrini, Introduzione a Natalia Ginzburg, Tutti i nostri ieri, Torino, Einaudi, s.d. [1996], p. 5. 69 Battaglia, Un uomo un partigiano cit., p. 60. 70 Testimonianza orale di Paolo Regard all’autore, Ravenna, 10 febbraio 2005. 71 Citato in De Jaco, Fine di un gappista cit., p. 144. Il brano, ritrovato dall’autore tra le carte di Formiggini, risulta di incerta attribuzione. 72 Luigi Russo, Benedetto Croce, Carteggio 1912-1948, 2 voll., a cura di Emanuele Cutinelli-Rendina, Pisa, Edizioni della Normale, 2006, vol. II, pp. 576-579. 73 Vedi Manlio Calegari, Comunisti e partigiani. Genova 1942-1945, Milano, Selene, 2001; Id., La sega di Hitler, Milano, Selene, 2004. 74 Emilio Vedova, Pagine di diario, Milano, Galleria Blu, s.d. [1960], p. 24. Vedi anche una testimonianza dell’incontro a Firenze, all’indomani dell’8 settembre, tra Franco Calamandrei ed Emilio Vedova con Romano Bilenchi e Bruno Schacherl in Bruno Schacherl, Come se, Firenze, Cadmo, 2002, pp. 36-37. 75 Romano Bilenchi, Franco e Giorgio, in Amici, in Id., Opere, a cura di Benedetta Centovalli, Massimo De Paoli e Cristina Nesi, Milano, Rizzoli, 1997, p. 940. 76 Piero Calamandrei, Diario 1939-1945, a cura di Giorgio Agosti, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1997, vol. I, p. 153 (27 aprile 1940). 77 Id., Passeggiate con Pancrazi, «Il Ponte», a. VIII, n. 4, aprile 1953, pp. 468474. Vedi Mario Isnenghi, Dalla Resistenza alla desistenza. L’Italia del “Ponte” (1945-1947), Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 38-41, e Silvia Calamandrei, Album della memoria, in Dolce patria nostra. La Toscana di Piero Calamandrei, a cura di Roberto Barzanti e Silvia Calamandrei, Montepulciano, Le Balze, 2003, pp. 189218. 78 P. Calamandrei, Diario cit., vol. I, p. 60 (13 agosto 1939). 79 Ivi, p. 37 (15 maggio 1939). 80 Ivi, p. 43 (30 maggio 1939).

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81 Giorgio Spini, La strada della Liberazione. Dalla riscoperta di Calvino al Fronte della VIII Armata, a cura e con prefazione di Valdo Spini, Torino, Claudiana, 2002, p. 61. 82 Lo ha ricordato, ad esempio, Franco Fortini nell’intervista ad Aldo Grandi in I giovani di Mussolini. Fascisti convinti, fascisti pentiti, antifascisti, Milano, Baldini & Castoldi, 2001, pp. 284-295. 83 L’antifascista, lo storico, l’osservatore. Conversazione con Giampiero Carocci, a cura di Giovanni Contini e Gianpasquale Santomassimo, «Passato e presente», a. XIX, n. 53, 2001, pp. 95 e 96. 84 P. Calamandrei, Diario cit., vol. I, p. 120 (25 dicembre 1939). 85 Ivi, p. 172 (24 maggio 1940). 86 Ivi, p. 109 (14 novembre 1939). 87 Lettera di Franco Calamandrei al padre, Roma, 21 febbraio 1940, conservata nell’archivio di famiglia. 88 Vedi i riferimenti nelle cinque lettere di Franco Calamandrei a Franco Fortini, dal 3 aprile al 26 settembre 1940, e in quella di Fortini del 25 agosto 1940, conservate nell’Archivio Franco Fortini (Siena). 89 Lettera di Franco Calamandrei ai genitori, Roma, 21 ottobre 1941, conservata nell’archivio di famiglia. 90 Franco Calamandrei, La vita indivisibile cit., p. 19 (24 febbraio 1941). 91 Carlo Bernari, Bibbia napoletana, Firenze, Vallecchi, 1961, p. 132; la citazione mi è stata cortesemente segnalata da Angelo Tonnellato, autore del saggio Una “gita al Vesuvio” nel “journal” di Franco Calamandrei, in corso di stampa nella rivista «Quaderni vesuviani». 92 Lettera di Franco Calamandrei ai genitori, Napoli, 18 aprile 1942, conservata nell’archivio di famiglia. 93 Lettera di Franco Calamandrei alla madre, Venezia, 25 giugno 1943, ivi. 94 Lettera di Franco Calamandrei ai genitori, Venezia, 2 agosto 1943, ivi. 95 Si tratta della famiglia Spina – Attilio, sua figlia Libertà, il marito di lei, Alfredo Michelagnoli: tutti ex confinati a Lipari; mentre Ribelle, l’altro figlio del capostipite, già emigrato in Unione Sovietica, si trova ora in Francia, dopo essere sfuggito per poco alle purghe staliniane – che dall’inizio del secolo gestisce a San Vio il “Cantinone”, punto di ritrovo, più o meno coperto a seconda delle fasi, di operai del porto, artisti e vari “sovversivi”. Vedi Giuseppe Turcato, Gli Spina (storia di una famiglia durante il fascismo), in 1943-1945. Venezia nella Resistenza, a cura di Giuseppe Turcato e Agostino Zanon Dal Bo, Venezia, Comune di Venezia, 1976, pp. 339-344; Alessandro Casellato, I sestieri popolari, in Storia di Venezia. L’Ottocento e il Novecento, a cura di Stuart Woolf e Mario Isnenghi, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2002, pp. 1605-1607; Irene Rosati, Venezia-Mosca, andata e ritorno. Vita di Ribelle Spina, tesi di laurea in Storia, Università di Venezia, a.a. 2003-2004. 96 Lettera di Franco Calamandrei alla madre, Venezia, 6 agosto 1943, conservata nell’archivio di famiglia. 97 Lettera di Franco Calamandrei a Carlo Muscetta, Venezia, 2 agosto 1943, in Archivio Einaudi (Torino), cartella 32, fasc. 523, Franco Calamandrei. 98 Lettera della Casa editrice Einaudi a Franco Calamandrei, Torino, 19 agosto 1943, ivi. 99 F. Calamandrei, La vita indivisibile cit., p. 143 (12 settembre 1943). 100 Ibidem.

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101 Vedi Gianpasquale Santomassimo, Giaime Pintor nel viaggio della generazione perduta, in Giaime Pintor e la sua generazione, a cura di Giovanni Falaschi, Roma, Manifestolibri, 2005, p. 137 e Maria Cecilia Calabri, Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor, Torino, Utet, 2007, pp. 434-440. 102 Franco Fortini, Un viaggio non finito, «Avanti!», 13 gennaio 1948, citato in Luca La Rovere, Un «viaggio non finito». Giaime Pintor e il postfascismo: un’ipotesi interpretativa, in Giaime Pintor cit., pp. 258-259. 103 P. Calamandrei, Diario cit., vol. II, p. 198 (16 settembre 1943). 104 Id., Niente di mio, in Numero straordinario dedicato a Piero Calamandrei, «Il Ponte», a. XIV, supplemento al numero di novembre 1958, p. IV. Il testo, ritrovato inedito tra le carte di Calamandrei dopo la sua morte, è datato «Firenze, 1944». 105 Vedi infra, pp. 192-197. 106 Cesare Pavese, La casa in collina, in Prima che il gallo canti, Torino, Einaudi, 1968, p. 196. 107 Vedi Lorenzo Mondo, Quell’antico ragazzo. Vita di Cesare Pavese, Milano, Rizzoli, 2006, p. 159. 108 P. Calamandrei, Diario cit., vol. II, p. 316 (16 gennaio 1944). 109 Ibidem. 110 Galante Garrone, Padri e figli cit. 111 P. Calamandrei, Diario cit., vol. II, p. 389 (29 marzo 1944). 112 Lettera di Gino Pecorella a Piero Calamandrei, Roma, 6 ottobre 1943, in Archivio Piero Calamandrei (Firenze), filza XXIV, f. 4, Camillo Gino Pecorella. 113 P. Calamandrei, Diario cit., vol. II, p. 221 (9 ottobre 1943). 114 Ivi, p. 358 (7 marzo 1944). 115 Ivi, pp. 513-514 (31 luglio 1944). 116 Ivi, pp. 415-416 (24 aprile 1944). 117 Vedi Piero Calamandrei, Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (19151924), a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato, Roma-Bari, Laterza, 2006. 118 Sono i temi ricorrenti nell’Inventario della casa di campagna, Firenze, Le Monnier, 1941. Vedi ora la nuova edizione con appendice di lettere, Montepulciano, Le Balze, 2002. 119 William Least Heat-Moon, Strade blu. Un viaggio dentro l’America (1983), Torino, Einaudi, 1988, p. 7. 120 Sulla funzione terapeutica del passeggiare durante la prima fase della Grande Guerra, vedi P. Calamandrei, Zona di guerra cit., p. XV. 121 Ivi, pp. X-XI e XLVII. 122 Pier Giorgio Zunino, La Repubblica e il suo passato. Il fascismo dopo il fascismo, il comunismo, la democrazia: le origini dell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 133. 123 Lettera di Piero Calamandrei a Cesare Pavese, Marina di Poveromo, 14 agosto 1950, in Lettere 1915-1956, a cura di Giorgio Agosti e Alessandro Galante Garrone, Firenze, La Nuova Italia, 1968, t. II, p. 249, già edita in Cesare Pavese, Lettere 1945-1950, Torino, Einaudi, 1966, p. 564. 124 Piero Calamandrei, Una lettera di Cesare Pavese, «Il Ponte», a. VI, n. 11, novembre 1950, p. 1417. 125 Id., Diario cit., pp. 499-500 (1° luglio 1944). 126 Così lascia intendere Vittore Branca, Ponte Santa Trinita, Venezia, Mar-

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silio, 1987, pp. 47-49, dicendo che all’origine del «Ponte» c’erano due progetti distinti, poi fusi per riuscire ad avere dagli Alleati le autorizzazioni alla pubblicazione: «l’uno più giovanile e figliato più direttamente dalla Resistenza», nato nella primavera del ’44 quando Piero Calamandrei era allora «lontano», «l’altro più autorevole e che si riattaccava alla resistenza morale di uomini del prefascismo come Pancrazi, Momigliano, Tumiati» (p. 48). (Cfr. P. Calamandrei, Lettere cit., t. II, pp. 35 sgg. e 114 sgg.). Alla fine «per la sua eminente posizione culturale-politica di Rettore della nuova Università e per il suo ruolo determinante di garante finanziario-amministrativo emerse Piero Calamandrei come il naturale direttore della rivista» (p. 49). 127 P. Calamandrei, Lettere cit., t. II, p. 10. 128 Ivi, p. 26. 129 Giuseppe Sircana, Enzo Enriques Agnoletti, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1993, p. 796. 130 Piero Calamandrei, recensione a Giuliana Gadola Beltrami, Il Capitano (Milano, Gentile, 1946), «Il Ponte», a. II, n. 9, settembre 1946, p. 832. 131 Vedi Piero Calamandrei, Costituzione e leggi di Antigone. Scritti e discorsi politici, introduzione di Corrado Stajano, con un saggio di Alessandro Galante Garrone, Firenze, Sansoni, 2004 e Isnenghi, Dalla Resistenza alla desistenza cit. 132 Vedi infra, pp. 171-176. 133 F. Calamandrei, Le occasioni di vivere cit., p. 310 (27 agosto 1982). 134 Intervista a Maria Teresa Regard di Alessandro Portelli, cit. supra, nota 11. 135 Lettera di Franco Calamandrei alla moglie, Napoli, mercoledì [luglio 1944], conservata nell’archivio di famiglia. 136 Simona Mafai, Un lungo incantesimo. Storie private di una comunista raccontate a Giovanna Fiume, Palermo, Gelka, p. 57. Simona Mafai era la dattilografa della Commissione. 137 Lettera di Piero Calamandrei a Egidia e Ciro Polidori, Roma, 28 luglio 1944, in P. Calamandrei, Lettere cit., t. I, p. 351. 138 Lettera di Piero Calamandrei a Gaetano Salvemini, Firenze, 9 ottobre 1944, ivi, t. II, p. 28. 139 Lettera di Franco Calamandrei al padre, Milano, 6 marzo 1948, conservata nell’archivio di famiglia. 140 Lettera di Franco Calamandrei al padre, [Milano] 22 settembre 1947, ivi. 141 Bice Rizzi, Cronache dal 1949... 1957, diario inedito, conservato presso i nipoti dell’autrice – Alberto ed Elena Rivaira – e in copia digitale presso il Museo Storico in Trento, p. 35. Una trascrizione del documento mi è stata cortesemente messa a disposizione da Paola Antolini, autrice della biografia di Bice Rizzi: Vivere per la Patria. Bice Rizzi (1894-1982), con un intervento di Mario Isnenghi, Trento, Museo Storico in Trento, 2006. 142 P. Calamandrei, Diario cit., vol. II, p. 516 (5 agosto 1944). 143 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, senza data [Poveromo, agosto 1947], conservata nell’archivio di famiglia. 144 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Roma, 29 giugno 1946, ivi. 145 Carlo Lizzani, Il mio lungo viaggio nel secolo breve, Torino, Einaudi, 2007, p. 57. 146 Franco Fortini, Che cosa è stato il «Politecnico» (1953), in Dieci inverni 1947-1957 (1957), Bari, De Donato, 1973, p. 65.

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147 Renato Mieli, Deserto rosso. Un decennio da comunista, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 50. 148 Vedi Luciano Bianciardi, La vita agra, Milano, Rizzoli, 1962 e Pino Corrias, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano (1993), Milano, Baldini & Castoldi, 1996, pp. 124-125. 149 Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Torino, Einaudi, 2005, p. 116. 150 Vedi I congressi dei comunisti milanesi. 1921-1983, a cura di Gianfranco Petrillo, Milano, Franco Angeli, 1986, vol. I, p. 231. 151 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Roma, 29 giugno 1946, conservata nell’archivio di famiglia. 152 Ibidem. Rispetto all’originale, alcuni nomi sono stati qui riportati con le sole iniziali. 153 De Jaco, Fine di un gappista cit., pp. 94-95. Sui rapporti interni alla federazione comunista napoletana, vedi Ermanno Rea, Mistero napoletano. Vita e passione di una comunista negli anni della guerra fredda, Torino, Einaudi, 1995. 154 Lettera di Franco Calamandrei al padre, Milano, 9 marzo 1949, conservata nell’archivio di famiglia. 155 Lettera di Giorgio Agosti a Piero Calamandrei, Torino, 22 marzo 1949, ivi. 156 Lettera di Dante Livio Bianco a Piero Calamandrei, Torino, 22 marzo 1949, ivi. 157 Lettera di Piero Calamandrei a Dante Livio Bianco, Firenze, 7 maggio 1949, ivi. 158 Vedi le lettere con Dante Livio Bianco e Carlo Galante Garrone del 1947, ivi, e «Il Ponte», a. III, n. 11-12, novembre-dicembre 1947 dedicato a La crisi della Resistenza. 159 Lettera di Dante Livio Bianco a Federico Comandini, Torino, 24 maggio 1949, conservata nell’archivio di famiglia. L’avvocato Comandini è il coordinatore del collegio di difesa. 160 Lettera di Dante Livio Bianco a Piero Calamandrei, Torino, 10 maggio 1949, conservata nell’archivio di famiglia. 161 Joachin Staron, Fosse Ardeatine e Marzabotto. Storia e memoria di due stragi tedesche (2002), Bologna, Il Mulino, 2007, p. 174. 162 Vedi Cesare Bermani, Mito e storia della Volante Rossa, Milano, Nuove edizioni internazionali, 1996 e Carlo Guerriero e Fausto Rondinelli, La Volante Rossa, Roma, Datanews, 1996. 163 Lettera di Franco Calamandrei alla moglie, Milano, 29 gennaio 1949, conservata nell’archivio di famiglia. 164 Lettera di Franco Calamandrei ai genitori, Londra, 23 agosto 1950, ivi. 165 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Milano, venerdì [settembre 1950], ivi. 166 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Milano, 15 settembre 1950, ivi. 167 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Roma, sabato [luglio 1951], ivi. 168 Lettera di Franco Calamandrei alla moglie, Londra, 16 luglio 1952, ivi. 169 Piero Calamandrei, Diario del viaggio a Londra, in Istituto toscano per la storia della Resistenza (Firenze), Archivio Piero Calamandrei, filza VII, f. 5, Viaggio a Londra. Conferenza sulle opere d’arte in Italia e la guerra (marzo 1951).

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Una rielaborazione in Id., Cose intraviste a Londra, «Il Ponte», a. VII, n. 8, agosto 1951, pp. 821-836. 170 «Il Ponte», a. VIII, n. 5-6, maggio giugno 1952. 171 Luca Polese Remaggi, «Il Ponte» di Calamandrei. 1945-1956, Firenze, Olschki, 2001, pp. 325-336. 172 Nello Ajello, Intellettuali e Pci. 1944-1958, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 277-279. 173 Lettera di Franco Calamandrei alla madre, Londra 20 febbraio 1953, conservata nell’archivio di famiglia. 174 Lettera di Franco Calamandrei alla moglie, Pechino, 2 ottobre 1952, ivi. 175 Intervista a Maria Teresa Regard di Alessandro Portelli, cit. supra, nota 11. 176 Franco Calamandrei, Guerra e pace nel Viet-Nam, Firenze, Parenti, 1956; Franco Calamandrei e Teresa Regard, Rompicapo tibetano, Firenze, Parenti, 1959. 177 «Il curioso (per così dire) di questa avventura è che, venuti qui soprattutto per vedere il figlio, non ce lo abbiamo trovato: perché Franco è nel Tibet, insieme alla moglie, a una ventina di giorni di viaggio da Pechino: ed è bloccato a Lassa di dove non può partire fino a che non parte la delegazione in cui egli deve viaggiare» (Lettera di Piero Calamandrei a Paolo Barile, Pechino, 3 ottobre 1955, in P. Calamandrei, Lettere cit., t. II, p. 470). 178 Lettera di Piero Calamandrei al figlio, Firenze, 19 giugno 1954, in P. Calamandrei, Lettere cit., t. II, p. 406. 179 Lettera di Gaetano Salvemini a Ernesto Rossi, Sorrento, 30 agosto 1955, in Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini, Dall’esilio alla Repubblica. Lettere 19441957, a cura di Mimmo Franzinelli, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 828. 180 Lettera di Piero Calamandrei al figlio, Firenze, 27 gennaio 1956, conservata nell’archivio di famiglia. 181 Lettera di Franco Calamandrei ai genitori, Pechino, 22 ottobre 1955, ivi. 182 L’articolo di Chiaromonte, Viaggi in Cina, uscì su «Tempo Presente», a. I, n. 4, luglio 1956; la replica di Calamandrei, Il tempo della malafede, su «Il Ponte», a. XII, n. 8-9, agosto-settembre 1956. Vedi ora Cina, viaggiatori al tempo di Mao, «Lo straniero», n. 78/79, dicembre 2006/gennaio 2007, pp. 67-72 e una replica di Silvia Calamandrei, Viaggiatori italiani nel ’55, ivi, n. 83, maggio 2007, pp. 60-68. 183 Lettera di Franco Calamandrei a Norberto Bobbio, Roma, 26 giugno 1962, in Istituto Universitario Europeo (Firenze), Archivio Enzo Enriques Agnoletti, b. 196, Corrispondenza per edizioni opere di Piero Calamandrei. 184 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Roma, 30 agosto 1956, conservata nell’archivio di famiglia. 185 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Roma, 26 luglio 1956, ivi. 186 Giorgio Agosti, Dopo il tempo del furore. Diario 1946-1988, a cura di Aldo Agosti, Torino, Einaudi, 2006, p. 80. 187 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Poveromo, 11 agosto 1956, conservata nell’archivio di famiglia. 188 De Jaco, Fine di un gappista cit., p. 75. 189 Ajello, Intellettuali e Pci cit., pp. 387-388. 190 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Roma, 14 luglio 1956, conservata nell’archivio di famiglia.

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Ibidem. Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Roma, 17 luglio 1956, ivi. 193 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Roma, 26 luglio 1956, ivi. 194 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Firenze, Roma, 3 settembre 1956, ivi. 195 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Poveromo, 15 agosto 1956, ivi. 196 Ibidem. 197 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Roma, 26 luglio 1956, ivi. 198 Ibidem. 199 Ibidem. Vedi Autobiografia di un giornale. «Il Nuovo Corriere» di Firenze 1947-1956, a cura di Fabrizio Bagatti, Ottavio Cecchi e Giorgio van Straten, prefazione di Romano Bilenchi, Roma, Editori Riuniti, 1989, pp. 9-29, e ora Romano Bilenchi, I fatti di Poznan. A cinquant’anni dalla fine del “Nuovo corriere”, a cura di Benedetta Centovalli, Padova, Alet, 2006. 200 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Poveromo, domenica [agosto 1956], conservata nell’archivio di famiglia. 201 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Roma, 26 luglio 1956, ivi. 202 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Roma, 31 luglio 1956, ivi. 203 Un inammissibile attacco alla politica del Partito comunista italiano, «Rinascita», a. XIII, n. 7, 1956, p. 365. 204 Pietro Ingrao, Sognavo la luna, Torino, Einaudi, 2006, pp. 230-244. 205 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Roma, 31 agosto 1956, conservata nell’archivio di famiglia. 206 Per un sondaggio sulla memoria e sulla storiografia vedi Aldo Agosti, Il ’56, in I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, a cura di Mario Isnenghi, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 345-358. 207 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Poveromo, domenica sera [agosto 1956], conservata nell’archivio di famiglia. 208 Ibidem. 209 Pietro Ingrao, L’indimenticabile 1956 (1971), in Id., Masse e potere, Roma, Editori Riuniti, 1977. 210 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Poveromo, 4 agosto 1956, conservata nell’archivio di famiglia. 211 Lettera di Maria Teresa Regard al marito, Poveromo, 11 agosto 1956, ivi. 212 Franco Calamandrei alla moglie, Sian, 19 agosto 1956, ivi. 213 Piero Calamandrei, Autolesionismo?, «Il Ponte», a. XII, n. 8-9, agostosettembre 1956, pp. 1313-1317. 214 Fabrizio Onofri, Classe operaia e partito, Bari, Laterza, 1957, pp. 146147. 215 P. Calamandrei, Autolesionismo? cit. 216 Ibidem. 217 Un’analisi retrospettiva di quei momenti è stata fatta dallo stesso Onofri in Classe operaia e partito cit. Vedi anche Marcello Flores, Nicola Gallerano, Sul Pci. Un’interpretazione storica, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 113-114. 218 Vedi le lettere di Togliatti a Paolo Spriano e Antonello Trombadori in Paolo Spriano, Le passioni di un decennio (1946-1956), Milano, Garzanti, 1986, pp. 212-213, 217-220. 219 Vedi Pietro Ingrao, Volevo la luna, Torino, Einaudi, 2006, pp. 243-244; Giorgio Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica, Ro191 192

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ma-Bari, Laterza, 2005, pp. 39-41, e soprattutto i discorsi e gli atti compiuti da Napolitano in veste di presidente della Repubblica in occasione della visita a Budapest, il 26 novembre 2006. 220 Giuseppe Boffa, Memorie dal comunismo. Storia confidenziale di quarant’anni che hanno cambiato volto all’Europa, Firenze, Ponte alle Grazie, 1998, pp. 127 e 133. 221 Testimonianza orale di Paolo Gorghetto all’autore, Treviso, 18 maggio 2007. 222 Vedi, in un’altra fase ma con molte analogie, la scelta di maternità fatta da molte donne di Lotta Continua: Stefania Voli, Quando il privato divenne pubblico. Lotta Continua 1968-1976, in Nicoletta Bigatti, Stefania Voli, Donne: lavoro e politica, Milano, Guerini & Associati, 2006, p. 96. 223 Romano Bilenchi, Perché ho deciso di rientrare nel PCI. Una lettera di Romano Bilenchi a Mario Fagiani, «l’Unità», 9 aprile 1972, e la lettera di Franco Calamandrei a Romano Bilenchi, Roma, 10 aprile 1972, in Dodici lettere inedite cit., pp. 140-141. 224 Così scrive, ad esempio, Carlo Pinzani introducendo la raccolta dei Discorsi parlamentari di Franco (pubblicati nel 1984 dal Gruppo dei senatori comunisti): «la “letteratura” è necessariamente isolamento, solitudine e elaborazione individuale: solo nella rinuncia all’io, nella solidarietà tra gli uomini, nell’essere parte di un organismo onnicomprensivo e onnipervadente come erano i partiti comunisti della III Internazionale e come continuerà ad essere a lungo il Partito Comunista Italiano, l’intellettuale borghese può trovare la sua salvezza» (p. 21). 225 Marcello Venturi, Sdraiati sulla linea. Come si viveva nel PCI di Togliatti, Milano, Mondadori, 1991, p. 124. 226 L’Autobiografia del compagno Franco Calamandrei (Milano, 18 gennaio 1950) è qui pubblicata alle pp. 202-207. Sulla disciplina autobiografica all’interno del Pci vedi Mauro Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956), Milano, Feltrinelli, 2007. 227 Lettera di Franco Calamandrei alla moglie, Varsavia, 30 agosto 1948, conservata nell’archivio di famiglia. 228 Griner, La «Banda Koch» cit., pp. 151-159. 229 Alberto ed Elisa Benzoni, Attentato e rappresaglia. Il PCI e via Rasella, Venezia, Marsilio, 1999, p. 95; vedi anche Enzo Forcella, La Resistenza in convento, Torino, Einaudi, 1999, pp. 173-177. Un destino analogo ebbe, ad esempio, anche Antonello Trombadori, già comandante dei Gap centrali a Roma, imprigionato a via Tasso e poi trasferito nel braccio tedesco di Regina Coeli, sfuggì all’eccidio delle Fosse Ardeatine grazie alla complicità del medico del carcere che lo dichiarò malato «intrasportabile»; poco dopo riuscì ad evadere. 230 Franco Busetto, Tracce di memoria. Dall’università a Mauthausen, Padova, Il Poligrafo, 1997, p. 38. Franco Busetto, laureato in ingegneria, rampollo di una famiglia della borghesia padovana di tradizione risorgimentale, il padre docente universitario e amico di Benedetto Croce, sarebbe stato segretario della federazione comunista di Padova negli anni cinquanta e poi deputato per più legislature. Ne ho scritto in La trilogia autobiografica di Franco Busetto, in Comunisti! Autobiografie e memorie dei “rossi” in una regione “bianca”, «Venetica», 2000, pp. 217-221. 231 Vedi Un sabotatore: Giorgio Labò, testimonianze di suo padre [Mario

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Introduzione. Il figlio comunista

Labò], Giulio Carlo Argan, Franco Calamandrei, Alberto Lattuada, Antonello Trombadori, prefazione di Lionello Venturi, Milano, La Stampa Moderna, 1946, e F. Calamandrei, Ricordo di Giorgio Labò cit. 232 Vedi Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, Einaudi, 2005, p. 261, e Id., “Rendere il colpo”. Osservazioni su novità e difficoltà della violenza partigiana, in La Resistenza difficile, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 104120. 233 Milano, Milano-sera editrice, 1949. 234 Vedi Mario Isnenghi, Il mito della Grande Guerra (1970), Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 140-141. 235 Onofri, Esame di coscienza di un comunista cit., p. 41. 236 Ivi, p. 59. 237 Ivi, p. 91. 238 Vedi Sergio Bertelli, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del Pci 1936-1948, Milano, Rizzoli, 1980, pp. 392-393. 239 Sebastiano Carpi, Manoscritto, Torino, Einaudi, 1948. 240 «È molto difficile, a un uomo, ogni volta salutarsi, uscire da sé, nella gran notte. E, ogni volta, rientrare. È molto difficile a un uomo, essere pronto – ogni volta – ad uscire. E a rientrare – ogni volta. Molti son quelli che si buttano, e girano poi la sera con facce allucinate, con occhi di follia, perché non sanno più ricordare, non riescono a ritrovarsi. Molti son quelli che, rientrati, dopo la prima volta, stanno con visi contorti, con occhi bianchi di terrore, e non arrivano a decidersi, ad arrischiare di nuovo. Terribile è, ogni volta, farsi un ordine dentro. Terribile, ogni volta, buttarsi e dimenticare. Allora un uomo ha Daniela, ha madre e padre e fratelli, ha donne e notti d’amore, e un passato da ricordare, una sua intimità. E, ogni volta, sempre, un amore alle moltitudini», ivi, p. 52. Ma già in un articolo pubblicato su «Rinascita» nell’aprile del 1945 – G.A.P. di Zona (Roma, settembre ’43 - giugno ’44), a. II, n. 4, pp. 117-119 – Onofri aveva aperto e chiuso la sua prima testimonianza da ex gappista con una ammissione di ineffabilità: «Bisogna aver provato, e nemmeno così è facile capire. Anche quelli che ne hanno scritto si sono lasciati andare, si sono fatti prendere la mano. Uno dice: gappisti, partigiani, e pensa – chissà che cosa, pensa a uomini speciali, anzi neppure uomini: strani individui, con braccia e gambe che scattano, e facce ossessionate. Non se li sa immaginare mentre mangiano o dormono, mentre si pettinano o mentre fanno all’amore; Uno dice: gappisti, e magari gli passano in mente gli eroi leggendari d’una volta, Achille, Ercole, David; e i cavalieri di ventura, o anche i tre moschettieri: eroi e spadaccini d’ogni tempo; qualcuno pensa ai dinamitardi, ai nichilisti, ai briganti, e forse anche un po’ a delinquenti, rapinatori e fuorilegge: individui anormali. Invece non è così» (p. 117). 241 Carpi, Manoscritto cit., p. 8. 242 Ne scrive Luisa Mangoni in Pensare i libri cit., p. 417. 243 Onofri, Esame di coscienza di un comunista cit., p. 110. 244 Ivi, p. 112. 245 Renzo Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. Il «Partito nuovo» dalla Liberazione al 18 aprile, Torino, Einaudi, 1995, pp. 289-296. 246 Fortini, Che cosa è stato «Il Politecnico» cit., p. 70. 247 Ajello, Intellettuali e Pci cit., p. 291. 248 Roderigo di Castiglia [alias Palmiro Togliatti], I sei che sono falliti, «Rinascita», a. VII, n. 5, maggio 1950, pp. 242-243.

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249 Lettera di Franco Calamandrei a Romano Bilenchi, Roma, 9 maggio 1945, in Dodici lettere inedite cit., p. 135. 250 Miriam Mafai, Botteghe Oscure addio. Com’eravamo comunisti (1996), Milano, Mondadori, 1997, p. 54. 251 Palmiro Togliatti, Tre minacce alla democrazia italiana, Rapporto al VI Congresso del Pci, gennaio 1948, pp. 79-81, citato in Onofri, Esame di coscienza di un comunista cit., p. 86. 252 Franco Calamandrei, Nota su Giansiro Ferrata (1° febbraio 1949), dattiloscritto conservato nell’archivio di famiglia (vedi infra, pp. 200-202). 253 Lettera di Franco Calamandrei alla moglie, Sian, 19 agosto 1956, cit. 254 F. Calamandrei, Le occasioni di vivere cit., p. 308 (9 agosto 1982). 255 Così scrisse Franco al compagno ritrovato, in un biglietto spedito da Roma il 26 febbraio 1981: «Carissimo Romano, ormai – e mi fa un grande piacere – ti leggo quasi ogni giorno: interviste di qui, interviste di là, sul “privato” ma anche sul “politico” (come va di moda dire), e l’inizio con un bel racconto della collaborazione al «Corriere» che sarà permanente. Questa tua ripresa piena di presenza, con la tua parola pulita e rigorosa, proprio quando la cosa “misteriosa e disperata” in cui siamo coinvolti si fa ogni giorno più disperata e misteriosa, è un segno di coraggio e di tenacia che mi viene da te, per cui mi sento più che mai amico tuo. Grazie della “Rosa” [Romano Bilenchi, La rosa non finita, Firenze, Pananti, 1980], vedi che ne ho assimilata la “filosofia”. Ma perché non ti vengo a trovare? Perché Firenze, anche se ci capito spesso, è sempre un passaggio rapido, senza soggiorni, e non voglio venire da te per mezz’ora. Ma un giorno, presto, mi vedrai arrivare, con il tempo necessario. E sono certo che mi riconoscerai» (in Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia, Fondo Romano Bilenchi, f. 566). 256 Vedi Stefano Terra, L’Avventuriero timido. Poesie 1937-1968, Parma, Guanda, 1969, pp. 169-170. 257 La generazione che non perdona, dialogo tra Franco Calamandrei e Stefano Terra, «Il Ponte», a. XXXIV, 1979, n. 4, pp. 466-467. 258 Aldo De Jaco, nelle ultime pagine del suo libro Fine di un gappista cit., sembra invece mettere in dubbio che si fosse trattato di un suicidio. 259 Vedi Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma, Donzelli, 2003, pp. 442-443. 260 Renzo De Felice, Intervista sul fascismo (1975), a cura di Michael A. Ledeen, Roma-Bari, Laterza, 20044. 261 F. Calamandrei, Le occasioni di vivere cit., p. 15 (30 luglio 1975). 262 Ancor più innovativo rispetto alla tradizione fu il secondo capitolo dell’autobiografia di Giorgio Amendola, pubblicato nell’anno della sua morte (Un’isola, Milano, Rizzoli, 1980): un libro che generò qualche fastidio dentro il partito per le sue concessioni al privato, all’amore, persino alla sessualità. 263 F. Calamandrei, Le occasioni di vivere cit., p. 47 (5 luglio 1976). 264 Ivi, p. 57 (9 ottobre 1976). 265 Un film di Pál Gábor, uscito in versione originale nel 1978. 266 F. Calamandrei, La vita indivisibile cit., p. 179 (21 dicembre 1980). 267 Ivi, p. 180. 268 Franco Calamandrei, Piero Calamandrei mio padre, in P. Calamandrei, Diario cit., p. XII. 269 F. Calamandrei, La vita indivisibile cit., p. 286 (18 aprile 1982).

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Introduzione. Il figlio comunista

270 Maria Teresa Regard, Con Giacomo ci conoscemmo..., memoria inedita, conservata nell’archivio di famiglia. Rispetto all’originale, qui è stato utilizzato uno pseudonimo (Giacomo) per ragioni di riservatezza. 271 Ibidem. 272 Ibidem. 273 Vedi Patrizia Gabrielli, Mondi di carta. Lettere, autobiografie, memorie, Siena, Protagon, 2000, pp. 199-200. 274 Regard, Con Giacomo ci conoscemmo... cit. 275 Citato in Introduzione ad Alain Brossat et alii, A Est, la memoria ritrovata (1990), prefazione di Jacques Le Goff, Torino, Einaudi, 1991, p. XXI. 276 Regard, Con Giacomo ci conoscemmo... cit. 277 Ibidem. 278 Il libro non si fece. Una copia del dattiloscritto è depositata presso l’archivio della famiglia Calamandrei. La citazione è tratta dalla introduzione che Piero Santi ne aveva scritto. 279 Vedi Romano Bilenchi, I silenzi di Rosai, in Amici cit., pp. 725-787, e Piero Santi, Ritratto di Rosai, Bari, De Donato, 1966. 280 Lettera di Franco Calamandrei a Piero Santi, Poveromo, 3 luglio [1936 o 1937], conservata in copia nell’archivio di famiglia. 281 Lettera di Franco Calamandrei a Piero Santi, Montepulciano, 2 ottobre 1936, ivi. 282 Piero Santi era uno dei collaboratori letterari di «Rivoluzione», il quindicinale di politica, letteratura e arte del Guf di Firenze, che iniziò le sue pubblicazioni nel gennaio 1940. Per le Edizioni di Rivoluzione sarebbe uscito, nel 1942, il suo secondo libro, Avventure nel parco. 283 Amici per le vie, Roma, Circoli, 1939; Diario (1943-1946), Vicenza, Neri Pozza, 1950; Ombre rosse, Firenze, Vallecchi, 1954; Il sapore della menta, Firenze, Vallecchi, 1963. Piero Santi negli ultimi anni è diventato un punto di riferimento della comunità gay: vedi Giovanni Dall’Orto, Amico e amante: Piero Santi (1912-1990), «Babilonia», n. 79, giugno 1990, pp. 46-47 e Id., La pagina strappata. Interviste di cultura e omosessualità, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1987, pp. 49-65; Francesco Gnerre, L’eroe negato. Omosessualità e letteratura nel Novecento italiano (1980), Milano, Baldini & Castoldi, 2000, pp. 189-212. 284 Vedi Lorenzo Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 178-179. 285 Bilenchi, Amici cit. 286 F. Calamandrei, La vita indivisibile cit., p. 275 (1° giugno 1946). 287 Ivi, p. 280 (gennaio 1947). 288 Ivi, p. 225 (21 maggio 1944). 289 Bilenchi, Franco e Giorgio cit., p. 937. 290 F. Calamandrei, Le occasioni di vivere cit., p. 255 (s.d.). 291 Hannah Arendt, Sulla rivoluzione (1963), Torino, Einaudi, 2006, p. 31. 292 Su questi temi, affrontati in chiave memorialistica e narrativa, si veda ora Clara Sereni, Il lupo mercante, Milano, Rizzoli, 2007. 293 Giaime Pintor, L’ultima lettera (28 novembre 1943), in Il sangue d’Europa (1939-1943), a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1966, p. 186. 294 Franco Calamandrei, Un romanzo dell’attesismo, «Il Settimanale», 31 maggio 1947 (recensione a Casa in Atene di Glenway Wescott).

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295 Franco Calamandrei, Congedo da Gide, dattiloscritto conservato nell’archivio di famiglia (vedi infra, pp. 192-197). 296 P. Calamandrei, Diario cit., vol. II, pp. 516-517 (5 agosto 1944). 297 Hannah Arendt, Isak Dinesen (1885-1962), «Aut aut», n. 239-240, settembre-dicembre 1990, p. 173. 298 Lettera di Piero Calamandrei alla moglie, Trento-Bolzano, novembre 1918, in P. Calamandrei, Zona di guerra cit., p. 212. 299 F. Calamandrei, Le occasioni di vivere cit., p. 155 (s.d.). 300 Ivi, p. 164 (20 gennaio 1980). 301 Persino Togliatti non ne era immune, se poté scrivere queste parole alla sua compagna, Nilde Iotti: «Nel legame che mi unisce a te risento l’ispirazione più profonda della mia vita, quella di essere un ribelle in cerca di libertà» (lettera senza data, pubblicata nell’«Unità» del 26 marzo 1993, citata in Aldo Agosti, Palmiro Togliatti, Torino, Utet, 1996, p. 320). 302 F. Calamandrei, Le occasioni di vivere cit., pp. 192-193 (21 marzo 1980).

NOTA AI TESTI

Questa edizione si fonda sulla trascrizione fedele di documenti conservati per la maggior parte nell’Archivio della famiglia Calamandrei, a Roma e a Montepulciano, e – in soli due casi, segnalati in nota – nel Fondo Piero Calamandrei depositato presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, con sede a Firenze. L’archivio di famiglia non è ordinato né inventariato, anche se più mani sono intervenute a raggruppare i materiali nel succedersi delle generazioni: quelle di Ada Cocci, moglie di Piero, e quelle di Franco Calamandrei e di sua moglie Maria Teresa Regard, ereditando da Ada le carte private non depositate presso il fondo fiorentino e unendole alle proprie. L’archivio contiene gli originali dei diari di Piero e di Franco Calamandrei, le memorie scritte nei primi anni novanta da Maria Teresa Regard, diversi appunti su fogli sparsi sia di Piero che di Franco, le prove letterarie – edite e inedite – di Franco negli anni trenta e quaranta, centinaia di fotografie, e il carteggio familiare, ovvero il reticolo di corrispondenza in cui autori e destinatari sono prevalentemente Piero, Ada, Franco e Maria Teresa. Dell’archivio di casa Calamandrei si occupa Silvia, nipote di Piero e figlia di Franco: è attraverso la sua cortesia e la sua mediazione che gli originali sono stati messi a disposizione del curatore. Di questo corpus multiforme si propone qui una selezione di testi, tutti inediti. L’epistolario intercorso tra Franco e i genitori dall’estate 1943 all’estate 1944 è riportato nella sua interezza, mentre è stato necessario operare una scelta rispetto all’ampia mole di lettere relative agli anni precedenti e successivi. Non sono state pubblicate le lettere di Piero Calamandrei al figlio già presenti nel doppio volume di Lettere curato da Giorgio Agosti e Alessandro Galante Garrone nel 1968 presso La Nuova Italia. Rispetto al ma-

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Nota ai testi

teriale documentario a disposizione non è stato possibile valorizzare appieno l’apporto di Maria Teresa Regard, autrice anche di due memorie molto rilevanti che sono state ampiamente utilizzate nell’Introduzione a questo volume, pur non potendo trovare autonoma pubblicazione in questa sede. I documenti collocati nella Parte seconda sono stati scelti per la loro spiccata soggettività: appartengono a generi letterari diversi, ma sono quasi tutti scritti in prima persona, quindi rappresentano un complemento e per certi aspetti un controcanto rispetto alla corrispondenza e ai diari. A parte la correzione di poche sviste ortografiche, i documenti sono riprodotti conformemente all’originale, conservando le abitudini di scrittura degli autori, con le seguenti eccezioni. Ogni missiva è stata fatta precedere dall’indicazione del mittente e del destinatario e dalla data allineata a destra, uniformando le indicazioni di luogo, mese e anno dal punto di vista tipografico; talvolta il luogo o la data sono stati ricavati dal timbro postale o dal testo stesso. I titoli attribuiti ai testi della Parte seconda sono redazionali, salvo diversa indicazione. Sono stati uniformati al corsivo i titoli di libri, articoli e saggi; al tondo tra virgolette basse le testate dei periodici. In corsivo si è resa anche la sottolineatura degli scriventi. Tra parentesi quadre sono stati posti gli interventi del curatore volti a completare le abbreviazioni, le sigle e gli acronimi che risultassero di non immediata comprensione. In nota, invece, sono riportate brevi notizie utili a chiarire e contestualizzare – quando possibile – personaggi e fatti citati nei testi, oltre ai rimandi bibliografici essenziali. Silvia Calamandrei ha curato la trascrizione delle lettere degli anni 1939-1944 e degli scritti di Piero Calamandrei che compaiono qui sotto il titolo Storie naturali, e ha collaborato alla stesura delle note.

UNA FAMIGLIA IN GUERRA LETTERE E SCRITTI (1939-1956)

Parte prima LETTERE

PIERO, ADA E FRANCO (1939-1944)

Piero a Franco Firenze, 28 agosto 1939

Caro Franco, ti ringrazio della lettera che mi hai scritto: in argomenti così turbati dal sentimento, lo scritto è il mezzo migliore per chiarire le proprie idee, per farle intendere a chi legge senza equivoci, e per evitare i risentimenti e le digressioni polemiche della discussione. Con questo tuo “messaggio” mi hai prevenuto: perché fino dall’inizio delle vacanze avevo sentito la necessità di informarti del mio punto di vista sul tuo avvenire; e m’ero riservato di farlo alla fine dell’estate, per non turbare con discussioni appassionanti il tuo riposo, il nostro riposo. E poi io stesso desideravo, come desidero, documentare le mie opinioni su di te, affinché tu possa, se vorrai, averle presenti anche senza la presenza di chi le ha enunciate: se in qualche punto vi è divergenza tra quello che io penso e quello che tu preferiresti che io pensassi, lo scritto ti servirà di memoria per confrontare a suo tempo chi in questo dissidio aveva veduto più giusto: e se ti accorgerai, come ti auguro, di aver avuto ragione, questa potrà essere una non piccola soddisfazione per il tuo amor proprio. Ti ringrazio anche del tono affettuoso col quale mi hai scritto: esso ormai è diventato inconsueto tra noi, come se tra noi due, non so per causa (non dico per colpa) di chi si fosse inalzata una parete di indifferenza e forse, a credere a certi indizi, di ostilità. Ma questo non toglie che io, quando penso a te con animo pacato, non ti chiamo ancora con quei nomi di tenerezza con cui ti chiamavo quando eri piccino: quando sei stato malato, nei giorni

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Parte prima. Lettere

di più grave apprensione, ho passato ore e ore che nessuno, neanche la mamma, ha saputo, non riuscendo a far altro che a pronunciare il tuo nome con quei diminutivi e quei vezzeggiativi che non sono più del tuo tempo. Ti dico questo affinché tu non pensi che, se in questa mia lettera mi sfuggirà qualche frase cruda o qualche giudizio duro, ciò derivi da mancanza di amore: anzi, proprio perché ti voglio bene come i babbi vogliono bene ai figliuoli, mi pare che sia mio dovere di parlarti con tutta sincerità, anche se col non blandirti ti potrò addolorare. In quanto al tuo affetto per me, di cui in più punti della tua lettera ho letto espressioni che mi hanno commosso, non dubito ch’esso sia quale tu affermi. Ma ormai la mia esperienza di figliuolo e di babbo, che mi consente il paragone, mi permette di concludere che l’affetto dei figli per i padri è ben diverso da quello che i genitori hanno per i figli: soltanto colla maturità e coll’approssimarsi della vecchiaia tu sentirai giungere il tempo in cui i figli si accorgono dell’importanza che nella loro vita può aver avuto il babbo: solamente allora, quando io mi sarò fermato, tu comincerai a vedermi in faccia, come ora io vedo in faccia il mio babbo, al quale forse negli stessi anni che tu ora traversi, ho dato, senza rendermene conto, tanti dolori di cui ora, coll’esperienza che tu mi offri, posso chiedergli perdono. Certo è che, se invece che alle parole che leggo nella tua lettera, io dovessi credere all’atteggiamento che tu hai tenuto verso di me in questi ultimi anni, difficilmente potrei convincermi che proprio io sia per te la persona che tu (come scrivi) stimi “più di ogni altra al mondo”. Da quando tu, a metà del terzo anno universitario mi significasti bruscamente la tua repugnanza per gli studi giuridici, tu non hai mai mancato, in due o tre incresciose occasioni che non posso dimenticare, di accentuare energicamente il tuo distacco spirituale da tutto quello che costituisce la mia vita professionale e morale, e su cui può essere fondata la stima o disistima che si abbia di me. Cominciasti col dirmi (con una sincerità affannosa che considero come una delle virtù che più amo e più mi inteneriscono in te) che non amavi la giurisprudenza, né come materia di studio, né come professione pratica: mi facesti capire senza possibilità di dubbio che tutto quello che in me era attività di insegnante o di avvocato, non ti riguardava più, “non ti interessava”. Più avanti, quando ti facevo riflettere che l’avvocatura, con tutti i suoi difetti, può ave-

Piero, Ada e Franco (1939-1944)

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re però, come credo sia avvenuto per me, la impagabile virtù, preziosa in questi tempi di diffusa viltà, di assicurare la indipendenza economica senza gravi rinuncie morali, ossia, in sostanza, di assicurar la salvezza dello spirito, tu candidamente mi dichiarasti che avresti preferito esser figlio di un padre povero, perché la miseria familiare ti avrebbe permesso di costruir colle tue forze la tua vita: il che può essere anche, da parte tua, un pensiero suggerito da profonda probità (ma anche, un pochino, da orgoglio), ma non è certo, tu lo capisci, una carezza per un babbo, il quale ha pensato e pensa che il figlio dovrebbe esser lieto, anziché sdegnato, di questa situazione di famiglia che è stata creata con mezzi puri proprio per render più agevole a lui figlio la conquista e l’affermazione della sua personalità. E ancor più di recente (giacché ci siamo, è bene vuotare tutto il sacco!) in una discussione su argomento politico in cui io (ingenuamente) mi meravigliavo di vedere che tu, nel giudicare uomini ed eventi, non tieni alcun conto del giudizio del tuo babbo, che pur dovrebbe valere per te qualche cosa se hai stima di lui, tu mi dicesti molto crudamente che l’affetto per i genitori non ha niente a che vedere colla stima: il che, mio caro Franco, non mi sembra che fosse proprio un attestato di stima per me, verso il quale la tua stima si è manifestata finora, praticamente, nel prediligere nel campo degli studi, nel campo professionale, nel campo politico (che vuol dire nel campo morale) proprio tutto il contrario di quello che tu hai visto preferito da me! E poi, vedi, quando si parla di affetto, io penso che il vero affetto non possa consistere che nella intenzione di sacrificarsi per far piacere ad altri: di rinunciare a qualche sodisfazione di amor proprio, per far contenta la persona a cui si vuol bene. Ora vorrei che tu lealmente domandassi a te stesso, quando parli di affetto, se mai una volta sei stato disposto a rinunciare a una sodisfazione tua, anche piccola, per far piacere a me. Io non posso dimenticare, e non sarei sincero se non te lo dicessi, quel tuo rifiuto di attenderci in Olanda, quando la mamma ed io ci eravamo ripromessi di passare con te, che pensavamo ci avresti servito da guida, qualche giorno ad ammirare la pittura fiamminga, che probabilmente, passata quella occasione, non vedremo più: e non posso dimenticare (anche perché mi ha turbato in un modo così profondo che tu non immagini) la tua inesplicabile ostinazione, basata soltanto su ragioni di piccolo amor proprio e di piccola comodità

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Parte prima. Lettere

personale, a voler venire a Firenze in automobile proprio nel giorno che tu avevi stabilito, senza accorgerti che in questa tua ostinazione mi ferivi e mi offendevi, e senza neanche pensare un momento che, quand’anche io nel pregarti di differir la gita avessi preso una cantonata, ti sarebbe costato così poco sacrificio indulgere a quella mia stortura e fare, per una volta tanto, a modo mio! Si tratta di piccole cose, lo so: e infatti io non le ricordo per fartene un rimprovero. Anzi il fatto che io mi immalinconisca su questi episodi minimi, dimostra come in realtà io non abbia nulla da rimproverarti in quello che più conta. Ma ti ricordo questi piccoli episodi, per farti intuire le ragioni per le quali qualche volta mi è venuto in mente che il tuo affetto per me non sia così profondo come l’avevo sperato: il che, se fosse vero, non sarebbe colpa tua: sarebbe unicamente colpa mia che, si vede, non avrei saputo meritarmelo. Ma veniamo a qualcosa di più concreto e più pratico: il problema del tuo avvenire immediato. Ti dico subito che il proposito espresso nella tua lettera di andare all’estero, per completare lontano dall’ambiente familiare la tua maturazione spirituale, non mi ha sorpreso: da tempo avevo previsto questa tua determinazione, perfino nei particolari. La tua furia nel volere il passaporto, e l’esperienza di qualche giovane appartenente al tuo gruppo che è stato all’estero per qualche tempo con uffici tra scientifici e propagandistici, per poi rimettere alle competenti autorità qualche scritto intitolato “rapporto sulla Lituania” o qualcosa di simile, mi avevano fatto prevedere che in quella stessa direzione avresti voluto anche tu tentare il tuo noviziato. La tua lettera, dunque, non è stata per me un colpo di scena: essa non è stata che la conferma di ciò che pensavo da anni. Prima di dirti che cosa io penso di questo proposito, vorrei che le tue idee fossero chiare a proposito di quella che tu chiami la mia “volontà” sul tuo avvenire: là dove, per esempio, tu mi prometti che, se tra due anni l’esperimento che vuoi tentare non sarà riuscito, “farai quello che io vorrò”. Ma io, caro figliuolo, non “voglio” niente: voglio soltanto che tu segua la tua strada, e che tu affermi come meriti la tua personalità, e che tu sia felice, nei limiti molto ristretti in cui gli uomini possono essere felici. Io non ho un programma da importi: posso soltanto esporti delle opinioni, basate sulla esperienza che ho e sul bene che ti voglio; ma tu rimani

Piero, Ada e Franco (1939-1944)

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assolutamente libero di conformarti o no a queste opinioni, senza curarti del dolore che io possa risentire quando ti vedessi scegliere una strada che a me sembri sbagliata. Vorrei anche che fosse sfatata la leggenda, che forse si viene formando in te, che io ti abbia costretto a iscriverti a legge o che tu ti sia iscritto a legge per far piacere a me. Tu ti sei iscritto a legge, penso, come avvenne che mi ci iscrivessi io: che pur non avendo alcuna spiccata simpatia per gli studi giuridici e pur avendo forse qualche velleità letteraria, trovai naturale e quasi direi tacitamente convenuto, finito il liceo, di mettermi sulla strada che costituiva una lunga e onorata tradizione familiare. Io non mi sono mai accorto, quando tu ti iscrivesti al primo anno dell’Università, che tu avessi l’atteggiamento della vittima portata a forza al patibolo: anzi mi pareva che da principio tu ti interessassi alle cose dell’avvocatura e già riscontravo in te con gioia attitudini alla professione penale. Fu a metà del terz’anno che improvvisamente la tua nausea degli studi giuridici si rivelò: la comunicazione che mi facesti allora ebbe la energia battagliera di una vera e propria “dichiarazione di diritti” che lì per lì mi sorprese. Ma fino da allora io ti dissi che se tu avessi voluto immediatamente cambiar facoltà, io non te lo avrei impedito: ma ti dissi anche che, se tu consentivi a continuare gli studi giuridici fino alla laurea, ti chiedevo la promessa di studiare diritto lealmente, cercando di interessartici, di impegnare nella tesi le migliori forze del tuo intelletto, di astenerti fino alla laurea da altri impegni di carattere letterario che naturalmente, se tu li avessi continuati, ti avrebbero impedito di prender sul serio il lavoro giuridico, di cercare nel lavoro giuridico la affermazione della tua personalità. In verità, io non posso dire che questa promessa sia stata da te adempiuta a pieno: tu, pur continuando formalmente a superare gli esami in modo che più brillante non si sarebbe potuto desiderare, hai continuato sempre più a considerare il diritto come materia repugnante, che si ingoia senza smorfie per rispetto della tavola. Non c’è stato un momento in cui tu abbia cercato, tanto per provare, di fare da te qualche lettura, qualche ricerca per renderti conto se proprio è vero che nelle scienze giuridiche non sia possibile trovare, o mettere, un po’ di calore umano. Non credo che ti sia mai venuto in mente di leggere quello che ho scritto io, di considerare il mio lavoro di studioso non dico con amore, ma con interesse. Hai voluto, deliberatamente, mancar di

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ogni simpatia e di ogni curiosità verso gli studi che continuavi per impegno: hai fatto bravamente la tesi, come si fa un giuoco di destrezza, tanto per far vedere ai competenti che una tesi in legge, anche degna di stampa, qualsiasi persona è capace di farla senza fatica. È naturale che un lavoro fatto con questo spirito non t’abbia dato nessuna gioia, non abbia lasciato in te alcuna traccia. Mentr’io ti avevo mandato all’Aia perché quelle tue ricerche fossero il punto di partenza di una più vasta comprensione del fenomeno giuridico, tu hai fatto il tuo lavoro senza chiedermi consiglio neanche una volta, senza farmi vedere il sommario, senza che io abbia avuto l’onore di vedere una copia, almeno dopo la discussione. Calogero, che ha avuto notizia della tua laurea “brillante”, mi ha scritto una lettera per domandarmi schiarimenti sul contenuto del tuo lavoro, per pregarmi di mandarglielo. Che cosa rispondergli? Credo che tu capisca da te che tutto questo non era precisamente fatto per tenermi tranquillo e sereno. Ma la mia serenità conta poco. E quindi, quando tu hai deciso di non seguire gli studi giuridici, io non ho messo sulla bilancia, per valutare il pregio di questa tua determinazione, il dispiacere egoistico che potrà derivarmi dal non vederti continuare sulla mia stessa strada. Certo, può esser malinconico il pensare che quando io morirò, il mio Studio, lo Studio del mio babbo e del mio nonno, si chiuderà o anderà in mani di estranei: e può esser triste pensare alla tradizione familiare che si spezzerà, alla biblioteca che andrà dispersa. Ma questi sono sentimentalismi che si scacciano con un’alzata di spalle: tutte le tradizioni a un certo punto si rompono, e le case che si costruiscono per noi son destinate ad essere, prima o poi, abitate da estranei. Dunque tutto questo non deve entrare in alcun modo nelle tue decisioni: e son sicuro che non vi entra. Piuttosto, più che il piacere mio, mi pareva che potesse consigliarti a seguir la professione forense il vantaggio tuo proprio: anche volendo, come tu vuoi, coltivare attività artistiche, mi pareva che la base professionale costituita dal mio Studio e da una lunga tradizione di onestà e serietà, potesse agevolarti proprio per render più facilmente attuabili i tuoi più secreti propositi. E poi su un altro punto è bene, per la storia, avere idee chiare: io non ho mai pensato, come qualche frase della tua lettera mi fa credere che tu pensi, a offrirti nel mio Studio un posto di praticante, di aiuto, di collaboratore in sottordine. Ho troppa stima del tuo im-

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pegno per pensare di far di te un mio subordinato. Io pensavo invece che tu potessi ripetere per tuo conto, sia pure in altri campi e per altre vie, quel programma di studi che a me aveva dato buoni frutti. Dopo la laurea, se tu avessi fatto un lavoro degno di stampa, avresti potuto metterti a rielaborarlo, per ottenere con esso una borsa di perfezionamento, all’interno o all’estero, nella materia giuridica da te prescelta; avresti potuto avere, ancor prima della libera docenza un incarico in qualche piccola Università; non avresti dovuto molto faticare per arrivare alla cattedra, coll’ingegno e le doti di facile e chiara espressione che hai. Poi, una volta professore, avresti potuto avere, nel mio Studio, un posto tuo, accanto a me, con affari tuoi: come io feci col babbo: oppure se la professione non ti avesse attirato, avresti trovato, in quel larghissimo margine di tempo che può lasciare l’insegnamento universitario, il modo di dedicarti, con una base economica ormai assicurata, alla tua arte. Ma tutto questo appartiene ormai alla storia antica: anzi alla storia delle antiche ipotesi. Guardiamo invece quelli che sono i propositi tuoi. Intanto sul lato negativo dei tuoi propositi mi par che le idee siano chiare. Tu non vuoi continuare né negli studi giuridici, né nella pratica professionale: non vuoi metterti a fare il tirocinio in uno Studio (che naturalmente, se tu avessi seguito la via dell’avvocatura, non avrebbe potuto essere il mio), non vuoi prender sul serio la tesi che hai fatta, nonostante che la facoltà te l’abbia dichiarata “degna di stampa”. Tu forse non hai la coscienza esatta del valore pratico di tutto quello a cui, con tanta disinvoltura, dai una pedata: credo che vi sarebbero centinaia di giovani, valorosi come te, ai quali questo tuo gesto sembrerebbe una pazzia. E forse tu stesso, se tu non fossi mio figliuolo, stimeresti pazzesco il gesto di chi, avendo le possibilità che hai tu in questi duri momenti in cui il problema della vita angustia i giovani migliori, respingesse colla tua noncuranza possibilità di tanto valore. Ma, insomma, su questo è ormai inutile discutere. Meno chiaro mi sembra l’aspetto positivo dei tuoi propositi. E quello che ora ti dirò non vuol avere alcun intento polemico, ma vuol soltanto offrirti materia di meditazione allo scopo di chiarire a te stesso, nel tuo intimo e senza dare a me una qualsiasi risposta, le tue idee.

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Dunque tu vuoi esser lasciato per due anni libero di dedicarti per conto tuo a quello che nella tua lettera chiami, senza meglio specificare, il tuo “lavoro”. È sulla natura di questo tuo lavoro che io vorrei chiarir le tue idee, sottoponendole alle reazioni di una mentalità, dirai tu, ottocentesca e borghese com’è ormai la mia, in questi tempi dinamici e volitivi. Se il lavoro a cui vuoi dedicarti è la “letteratura” che si insegna e si studia nelle Università, e che si può chiamare filologia, storia letteraria, critica letteraria, letterature straniere e così via, niente da obiettare. Se le mie condizioni familiari non mi avessero naturalmente instradato, come t’ho detto, allo studio del diritto, probabilmente io avrei fatto o lo storico dell’arte o l’archeologo o il letterato, – nel senso burocratico e borghese, ma solido ed onesto, di professore di lettere, che studia ed insegna letteratura: e se tu, come programma professionale, hai il proposito di dedicarti, come si dice, alla “carriera universitaria” in qualche materia letteraria, io non ho niente da obiettare a questa tua intenzione, e sono pronto a darti il mio appoggio, materiale e morale, affinché tu possa raggiungere il tuo intento nelle vie che seguono gli studiosi. Su questo ritorneremo tra poco; ma intanto voglio fare l’altra ipotesi, alla quale mi pare che dia adito qualche altra frase della tua lettera: che tu sotto la frase “il mio lavoro” intenda la tua arte, i tuoi progetti di poesia, novelle, romanzi, fantasticherie: che tu insomma adopri la frase “il mio lavoro” in quel senso assolutamente speciale in cui lo adoprano i letterati puri, che credono con quella frase di giustificare e di nobilitare la loro inconcludenza. Se questa ipotesi è giusta, allora io ti dico, mio caro Franco, che su questa strada io non posso seguirti e che sento il dovere di metterti energicamente in guardia contro questa infatuazione che è non soltanto praticamente ingenua, ma è anche, a ben pensarci, moralmente indegna di te e di quell’altissima concezione che giustamente dici di avere della tua attività spirituale. Partire nella vita colla intenzione di mettersi a fare, di professione, il poeta, cioè risolvere il proprio problema professionale, che è prima di tutto un problema pratico ed economico, col dedicarsi per partito preso a far della poesia, che vuol dire distacco dalla pratica e dall’economia e riflessione disinteressata in un campo puramente spirituale, – è, prima di tutto, ridicolo. Solamente a un ragazzo di diciotto anni come eri tu quando mi venisti a dire, nel mio studio di

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Via Robbia, che avevi deciso di giuocare il tuo avvenire sul “terno al lotto” (la frase fu tua) della poesia, e che il tuo ideale nella vita erano Cicognani (prima del “lei”) e Palazzeschi1, si possono perdonare queste infatuazioni; ma se tu oggi, a ventidue anni, continuassi ad avere siffatti propositi puerili, allora io avrei il dovere di richiamarti alla realtà con ogni mezzo, e di impedirti di giuocarti in questo modo, per una cantonata di cui fra qualche anno non potrai non vedere da te tutta l’enormità, un avvenire che, senza questi isterismi e senza queste precipitazioni romantiche, ti darà certo grandi sodisfazioni, anche nel campo dell’arte pura, purché tu sappia aspettare come hanno saputo aspettare tutti gli artisti veri. Mio caro Franco, io non vorrei ferirti: ma proprio sento il dovere paterno di dirti che in quello che hai scritto finora, nei tuoi articoli di critica letteraria o nelle tue novelle, io non sono riuscito a trovare quel “colpo d’ala” che possa fin d’ora far prevedere con qualche probabilità che tu, tra dieci anni o tra venti, sarai un grande poeta o un grande romanziere: – grande anche soltanto come è grande Palazzeschi o (anzi meno) Cicognani. Tu dirai che io sono un incompetente: e forse hai ragione. In ogni modo, poiché penso che di giudizi favorevoli tu debba averne ricevuti tanti dai competenti tuoi coetanei, lascia che ti dica le sue impressioni anche un onesto e affettuoso analfabeta, il quale, nel leggere la Memoria per Corazzini2 (anch’io, qualche anno fa, scrissi una Memoria per il barone De Franceschi) è rimasto sbalordito nel vedere come tu sia riuscito a nascondere entro due colonne di ingegnosi crittogrammi tre o quattro idee sensate ed oneste, che il Manzoni o il Carducci3 avrebbero espresso chiaramente in dieci intellegibili proposizioni. Ma la cosa che ancor più mi ha sorpreso è stata la lettura di quel frammento di novella che hai pubblicato sul numero di luglio del «Frontespizio»4: scritta con uno stile scorrevole e nitido, diffuso e chiaro, nel quale anche i non ini1 Bruno Cicognani (1879-1971) e Aldo Palazzeschi (1885-1974), narratori toscani, entrambi maestri nella scrittura di racconti. Nel 1938 Cicognani aveva scritto sul «Corriere della Sera» un elzeviro per L’abolizione del ‘lei’. 2 Franco Calamandrei, Memoria per Corazzini, «Campo di Marte», fasc. 78, 15 aprile 1939. 3 «o forse anche semplicemente il Garfagnini, che scrive chiaro e pulito come tutti i toscani!» [nota di Piero Calamandrei]. 4 Franco Calamandrei, L’orfano, «Frontespizio», fasc. 7, luglio 1939, p. 449.

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ziati penetrano senza fatica alla prima lettura. Questa lettura mi ha fatto piacere, perché mi è sembrata in te un ritorno all’onestà: ma quello che non sono riuscito a spiegarmi è come tu, quasi nello stesso tempo, abbia potuto scrivere quella prosa sibillina sulla poesia di Corazzini e questa prosa chiara fino alla diluizione pubblicata dal «Frontespizio». Ho parlato di questo enigma a persone più competenti di me: e tutte mi hanno dato la stessa risposta: “immaturità”. E credo che abbiano detto bene: poiché è proprio indizio di immaturità artistica questa facilità di imitare e di travestirsi nei più vari stili e di essere ermetico agli ermetici e chiaro con chi nell’arte pregia la chiarezza: tentativi di un ingegno che è ancora in cerca di sè stesso, che ancora non ha trovato la sua via, che forse la troverà ma potrebbe anche non trovarla mai. Perché vedi, caro Franco, tu parti dalla premessa, chiaramente ricostruibile attraverso un dilemma che mi poni nella tua lettera, che un giovane non possa rientrare che in una di queste due categorie: o è un artista, o è (come dici tu) un “bischero”. Se tu non mi giudichi un “bischero” (mi dici) mi devi lasciar fare l’artista. Ma così il problema è mal posto. Tu non sei un “bischero”: hai anzi, com’è dimostrato dalla facilità con cui riesci in tutto quello che ti metti a fare, qualità intellettuali di prim’ordine. Ma questo non significa che tu sia, che tu sia già, un grande poeta, un grande scrittore: o semplicemente uno scrittore. Di tentativi letterari in prosa e in poesia chi verso i vent’anni, non ha riempito le cassette? Credo che se tu ti metti a intervistare ad uno ad uno gli amici, vecchi e giovani, che ci attorniano, troverai che non uno di essi è stato immune, nella stessa età che tu attraversi, da questi peccati letterari, che probabilmente, se li metti in relazione coi gusti prevalenti tra i giovani di quel tempo, non erano peggiori dei tuoi... Ma con un bagaglio di un articolo ermetico e di due novelle non ci si avventura verso l’oceano della gloria: anche perché la gloria viene quando meno si cerca, e non si consegue a scadenza fissa, dopo due anni di tirocinio, come una abilitazione professionale. E poi, anche se si potesse fin d’ora prevedere con qualche sicurezza che tu abbia buone probabilità di riuscir vincitore in quel “terno al lotto” che sarebbe la fama letteraria, mi pare che ragioni di dignità personale, di quella dignità personale alla quale tieni tanto fino al punto di farti apparire sgradevole e quasi offensivo ogni appoggio che ti venga dal tuo babbo, ti dovrebbero energicamente scon-

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sigliare di dare a questa tua attività un carattere premeditatamente professionale. Se c’è, ai miei occhi di uomo superato dai tempi, un mestiere moralmente e socialmente spregevole, questo è il mestiere del cosiddetto letterato puro: che mentre gli uomini comuni vivono normalmente e oscuramente compiendo quei lavori prosaici che servono da millenni a mandare avanti il mondo, come sarebbero per esempio gli spazzini o ricevitori del registro, credono di poter fare la loro parte soltanto col raccontare e cantare quello che gli uomini oscuri fanno, e credono di avere diritto così non solo a tutta la gloria, ma anche ad uno stipendio più lauto di quello che tocca agli uomini che lavorano sul serio. Non credo che tu, che conosci i miei gusti artistici, possa pensare che queste mie parole derivino da una incomprensione costituzionale dell’importanza umana e sociale dell’arte; ma appunto perché io ho dell’arte un altissimo concetto e stimo la poesia come una delle poche preziose consolazioni che possa aver la nostra dura vita, provo verso il letterato puro, che organizza a professione questo ch’io considero come un incantesimo, lo stesso senso di commiserazione che proverei verso chi desse carattere e finalità professionali all’amore. Tutti i grandi artisti, se tu ci pensi, almeno nei tempi moderni, hanno cercato la soluzione del loro problema pratico fuori dell’arte: l’arte è stata un di più, un lusso, un secreto, un rifugio, una evasione. Domanda a Cicognani, tanto per scendere ai tuoi modelli, come avrebbe fatto a campare fino a quest’età, se alla meglio non avesse fatto l’avvocato nei giorni della settimana, per poi la domenica andare in campagna a scrivere il “pezzo”; domanda a Palazzeschi come avrebbe potuto serbare quella indipendenza artistica che fa dell’opera sua una espressione sincera di poesia non inquinata da viltà giornalistiche o da calcoli accademici, se il suo babbo non gli avesse assicurato l’esistenza vendendo onoratamente le cravatte! Questa specie di rifiuto dei valori pratici della vita, in cui si ritirano coloro che invece di vivere preferiscono ispirarsi a veder vivere gli altri, si risolve in realtà in una corruzione pratica, in un asservimento a fini bassamente economici anche di quelle attività che dovrebbero per definizione rimanere disinteressate: chi crede di poter guardare tutta la vita da artista, finisce col perdere la nozione dei valori morali, perché il bene e il male, la giustizia e l’arbitrio, la libertà e la schiavitù gli appaiono, sotto il punto di vista

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estetico, ugualmente “interessanti”. Questa indifferenza morale, questo voler rimanere beatamente alla finestra per osservare senza prender partito i gesti del boia e i sussulti della vittima considerati ugualmente come materia d’arte, – tutto questo mi fa orrore: e proprio non posso pensare che questo sia il tuo ideale di vita. Come non posso pensare che tu ti senta offeso quando ti si parla, non come di una colpa ma come di una virtù, della tua immaturità: quanti sono i grandi artisti, gli artisti “riusciti”, dei quali si poteva sicuramente preveder la riuscita dai primi tentativi dei vent’anni? Forse D’Annunzio sta a sé; ma l’arte, la grande arte, vuole una esperienza di vita che i vent’anni, se non sia l’amore, non possono dare. Anche per scriver romanzi bisogna aver vissuto le vicende che poi si trasfigurano e si ricompongono nel ricordo: e tu, ti si può dire senza offenderti, questa esperienza non la hai, perché, fortunato te, hai ancora vissuto poco e hai davanti a te l’avvenire. Fra i tuoi atteggiamenti che più mi infastidiscono (e forse tu non ti sei mai accorto del mio fastidio) vi sono certe tue frasi colle quali vuoi rappresentarti come un uomo molto esperto della vita, come un uomo fatto e strafatto, che ha navigato in tutti i meandri del cuore umano e che può quindi dare lezioni di psicologia e di morale a noi ingenui vecchi: “questa è la vita... tutti sanno che la vita è questa... purtroppo questa è la vita e non c’è altro da fare”. Anch’io ho passato da ragazzo un periodo simile: quando alla licenza liceale andai a fare, con un biglietto premio, una crociera a Tunisi, e appena tornato mi riuscì di tenere in una società fiorentina una conferenza sul mio viaggio che oggi non potrei rileggere senza arrossire, ero ormai convinto di aver conosciuto nel mondo tutto quello che la vita poteva offrire, e di avere degli uomini quella meditata esperienza che lascia secco il cuore. Per fortuna m’innamorai... Ma forse ho perso troppo tempo in questa digressione: perché proprio, a rifletterci bene, mi pare impossibile che tutte queste considerazioni di modesto buon senso che ti ho fatto finora non ti siano già venute in mente senza bisogno del mio suggerimento. In conclusione: se tu, tra dieci o tra vent’anni, sarai diventato, obbedendo al tuo genio che quando c’è sa trovare da sé la sua via, uno scrittore, un grande scrittore, capace di trarre dalla propria arte anche i mezzi economici per vivere, tanto meglio. Questa sarà certo per te una gran gioia: e anch’io, se sarò sempre vivo, ne

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gioirò profondamente, perché tu sei il mio figliuolo, ossia sei me stesso. Ma per ora il problema professionale è un altro: e va dunque trattato nel campo che gli compete. Sgombrato così il terreno dall’equivoco dell’arte come mezzo pratico di vita, la tua posizione mi pare molto semplice: tu vuoi dedicarti alla “carriera universitaria” in qualche materia letteraria, che ti permetta di non rompere i ponti, di mantenere una certa vicinanza spirituale con quella arte pura, alla quale, quando ti sarai fatta, come si deve, una “posizione”, hai intenzione di dedicare il meglio delle tue forze. Benissimo: in questo tuo proposito io non vedo niente che non rientri nelle mie concezioni. Se vuoi far questo, ti dico senz’altro che fai bene. Si tratta di scegliere i mezzi per arrivare a quello scopo. E qui io attendo dalla tua costituzionale onestà e serietà che, per arrivare a quello scopo, tu scelga, giacché lo puoi, la via maestra: la vecchia via maestra degli studi regolari. Se tu, invece di iscriverti a legge, ti fossi iscritto a lettere, e avessi fatto la tesi in qualche materia letteraria, oggi il problema sarebbe per te molto semplificato: potresti concorrere a qualche borsa di perfezionamento, scegliere il maestro che meglio potesse consigliarti nel perfezionare in qualche specializzazione i tuoi studi, preparare e pubblicare quel primo lavoro “scientifico” che potesse servirti a farti conoscere tra gli studiosi e ad avvicinarti alla libera docenza. Siccome però, invece che in lettere, sei laureato in legge, bisogna che tu rimedi ripercorrendo una parte della strada che non hai percorso: colla laurea in legge vi sono università che consentono di laurearsi in lettere in due anni o anche in uno, come riuscì a Giorgio Vigni. E nel frattempo tu non saresti uno studente come gli altri: saresti già, sostanzialmente se non formalmente, per la cultura che ti sei già fatta per conto tuo, un perfezionando, che potrebbe fare il lavoro di laurea con intenti molto più alti e più seri di quelli del comune laureando. Tu potresti, insomma, metterti tranquillamente a scrivere un libro, che potesse servirti prima per la laurea e poi per la libera docenza. E se questo libro fosse su un argomento che potesse essere studiato all’estero meglio che in Italia, tu potresti, mentre tu fossi iscritto a qualche università italiana, andare per tuo conto a studiare presso qualche centro straniero, come io avevo cercato di farti fare, con quel bel risultato che si è

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visto, col tuo soggiorno all’Aia (ma qui le cose andrebbero diversamente, perché saresti tu a scegliere). In tutto questo, come tu vedi, non c’è molta immaginazione. Io ti suggerisco di fare quello che hanno fatto tutti i giovani che poi sono diventati grandi filologi, grandi critici e magari, se la Musa li ha assistiti, grandi scrittori d’arte: Carducci, Pascoli, Panzini hanno fatto così. Ma se ti dico delle cose così semplici, è perché mi par di aver capito che tu (proprio per quell’orgoglio che sinceramente mi confessi in vari punti della tua lettera e che, se fino a un certo grado può essere una forza, rischia di diventare la tua più grave debolezza) ti lasci sedurre dal gusto dell’“irregolare”: e che il continuare a seguire, come fanno tutte le persone semplici che vogliono imparare, dei corsi regolari di studio ti appaia come una menomazione della tua individualità, che non ha più bisogno di maestri, e che è ormai in grado di insegnare, soltanto di insegnare. Anche contro questo gusto ti metto in guardia: proprio qui forse, leggendo queste mie idee, tu scrollerai la testa compatendo (?) chi coltiva ancora queste idee di un altro secolo; ma proprio quel che ti dico qui potrebbe apparirti troppo esatto tra qualche anno. Tu insomma ti duoli, e quasi per questo te la pigli contro di me, perché la tua posizione familiare non ti mette abbastanza in grado di essere uno “spostato” come vorresti essere: il seguire studi regolari, sulla via tradizionale dei figli “di buona famiglia”, ti sembra una menomazione: vuoi darti a un lavoro che esca dai consueti clichés, in cui vi sia qualcosa di improvvisato, di dilettantesco, di sfida alla tradizione borghese e filistea. Letteratura: proprio letteratura nel senso deteriore della parola! Che sia così, me lo ha confermato un certo timido accenno che si legge nella tua lettera a sboccare...“nel giornalismo”. Che proprio tu, con tutta la tua sincera fede nelle tue forze spirituali, con questa specie di religione che ti porta lontano dalla tua casa e dalle persone che ti vogliono bene, finisca, gira e rigira, a andare a sboccare “nel giornalismo”, no questo proprio non la so buttare giù! Quando ero studente io, per arrivare, come allora si diceva, a farsi “una posizione”, ossia per riuscire ad essere presi sul serio dalla gente che contava, non c’era altra strada che quella di studiare: c’erano regolari concorsi ai quali ci si presentava con regolari domande in carta da bollo, c’erano graduatorie di merito, in cui si guardava al valore personale senza distinzioni di partito o di razza. Questo era un

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sistema nel quale i giovani che valevano dovevano pazientare prima di giungere, ma erano certi di poter giungere con mezzi onesti. Oggi c’è tutto un altro sistema: si può arrivare a insegnare senza aver imparato, a dirigere un giornale senza saper scrivere, a fare il regista con una preparazione di diritto corporativo, a insegnare mistica fascista colla laurea in medicina. Anche questo è un sistema per arrivare: ma proprio non vorrei che tu, il mio Franco, il mio figliuolo che non può non essere un galantuomo, scegliessi per arrivar nella vita questo sistema. Qualunque sforzo tu faccia, tu non riuscirai mai ad essere un furbo, nel senso deteriore della parola: sarai sempre, con tutte le arie di uomo esperto che ti dai e ti darai: un ingenuo, un uomo di fede. E quando ti troverai in gara coi mille cialtroni che hanno invaso la piazza e che a colpi di artiglio si contendono i posti ai quali un tempo si giungeva colla selezione onesta dei concorsi, non potrai non ritirarti indietro, nauseato e vinto, accorgendoti che la tua intelligenza e la tua fede non sono le qualità che prevalgono in queste gare. Giornalista? E vorrai andarti a raccomandare, perché pubblichi un tuo articoletto, a direttori tipo Interlandi? E ti troverai a contatto di gomito, senza travaglio allo stomaco, con un Malaparte e con un Ansaldo? Tu che ti senti menomato all’idea di ricevere un aiuto da me, dal tuo babbo, e ti pare che il pane della mia tavola abbia per te il sapore salato del pane altrui, – saresti disposto a cercare la tua vita nella benevolenza di uno qualunque di questi avventurieri che comandano, nella raccomandazione, nell’intrigo, nella viltà sistematica? Ma prima di raffigurarti il giornalismo come la meta vagheggiata dei tuoi sogni, parla con qualche giornalista, con quei pochissimi giornalisti onesti che ancora sono rimasti in circolazione: e domanda a loro, tu che cerchi nello scrivere la liberazione da tutti i vincoli pratici, a quali rinuncie, a quali compromessi, a quali imposizioni sono oggi assoggettati coloro che scrivono sui giornali e che, per veder pubblicato un loro articolo, devono prima eseguire a comando varie capriole come i pagliacci da circo! Il giornalismo può essere, certo, anche oggi uno sbocco; ma per chi abbia conseguito fuori del giornalismo, nel campo degli studi regolari, un’autorità ed una fama che basti essa sola, senza bisogno di sgambetti da giullare o di inchini da lacchè, a render ben accetti i suoi scritti. Ma insomma, anche per queste persone rare, il giornalismo rappresenta una discesa, non un’ascesa: e pare poi che su

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chi consente a adattar la sua arte alle esigenze pratiche del giornalismo pesi una specie di maledizione artistica, per cui le sue virtù più pure si corrompono trasferite sulle colonne della terza pagina. Pensa a che cosa è diventato Soffici, a come è ridotto Cecchi: anche Cicognani, se non fosse stato spinto da velleità giornalistiche, non avrebbe commesso la scempiaggine del lei e del voi. Io ti esorto dunque a cercare la tua sistemazione in una professione “regolare”: di quelle che restano anche quando cambiano i regimi, di quelle che sono consacrate in un titolo che ha una forza di resistenza superiore a quella che può avere la benevolenza di un gerarca o i gusti di un direttore di giornale. Di tutte le professioni “regolari” quella dell’insegnamento universitario in qualche disciplina letteraria mi sembra la più adatta alla tua serietà, alla tua dignità, ai tuoi gusti. Ma c’è la questione del “lettorato”: quella che, a quanto ho capito, ti ha talmente eccitato da metterti nella necessità, in questi giorni in cui tutti noi siamo ansiosi per la vita stessa, individuale e collettiva, della nostra civiltà, di prospettarmi come urgente il tuo problema professionale. Io sono recisamente contrario al “lettorato”: perché mi sembra che non possa servirti in alcun modo al raggiungimento dei tuoi scopi. Anche tu mi dici che il lettorato è una carriera senza sfondo, che può costituire una specie di piede a terra per chi rimanga in attesa di raggiungere altre sistemazioni più solide: un piede a terra per non morire di fame e per poter nel frattempo continuare a studiare. Ma tu non sei alla vigilia di morire di fame: tu non hai niente che ti impedisca di continuare a studiare. L’accettare un lettorato in qualche Università straniera (posto che vi fosse qualcuno che fosse disposto ad offrirtelo5) potrebbe avere per te, però, due vantaggi ai quali mi pare che tu tenga molto: primo quello di andartene da Firenze, secondo quello di darti la sensazione di mantenerti da te, coi proventi del tuo lavoro. In quanto a andartene da Firenze, lodo incondizionatamente questa tua risoluzione. Tu hai avuto la disgrazia di fare gli studi universitari nella stessa città ove risiede la tua famiglia: nonostante la libertà che si è cercato di lasciarti, hai dovuto soffrire il peso, che per un giovane dell’età tua può anche diventare simbolico, di 5

«per quali titoli?» [nota di Piero Calamandrei].

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dover tornare a pranzo a quell’ora, di incontrare alla tavola familiare persone non scelte da te. Che tu desideri di andartene, per non sentire tutti i giorni gli stessi discorsi, per non respirare tutti i giorni la stessa aria, è più che naturale: lo sciamare dei figli deve essere salutato come una felicità: più felice io sarei se domani sapessi che tu avessi una casa tua, una tua famiglia: allora forse potresti cominciare a considerarmi, invece che il babbo, un uomo: e potremmo fare i nostri conti in condizioni di parità, morale e sentimentale. Anche ho piacere che tu ti allontani da Firenze per rompere una catena di gretterie in cui ti sei da te imprigionato: Firenze è, in certi suoi aspetti, anche nel campo spirituale, la città del “centesimino”. Certa tendenza intellettualistica a disprezzare negli uomini le qualità più solide e a fermarsi al ridicolo di certe apparenze, ha in Firenze il suo tipico ambiente: che è fatto per scoraggiare e per inaridire. Dunque la tua idea di cambiare aria mi pare saggia. Ma per attuarla c’è proprio bisogno di pensare a un lettorato in Ungheria? Qui, caro Franco, bisogna che tu consideri anche senza farti illusioni la tua salute fisica. Tu sei guarito, e mi pare che ogni mese che passa la tua guarigione si consolidi. Ma sei guarito da troppo poco tempo per poter abbandonare ogni preoccupazione sul pericolo di ricadute. Se tu pensi che fino a pochi mesi fa sono stati necessari interventi per accelerare il riassorbimento, capisci da te che il rimetterti a fare a così breve distanza una vita di strapazzi come sarebbe quella che ti sembra ora tanto desiderabile, sarebbe semplicemente una pazzia. Mi diceva Giovanni che la gente del popolo, di pleuriti come quelle che tu hai avuto guarisce più completamente che le persone di buona condizione, perché gli ammalati poveri vengono messi a guarire in un sanatorio senza far niente, in riposo, per tre anni: con tre anni di vita tranquilla, questa gente che non ha problemi spirituali e che accetta volentieri di esser mantenuta gratuitamente senza lavorare, non solo guarisce ma si ritempra in modo da poter poi sfidare senza timori la ripresa del lavoro. A te nessuno ha chiesto di stare tre anni in ozio; ma ti si chiede soltanto, per la pace nostra e per la salute tua, di continuare almeno un altro anno a fare una vita riguardata quale non potresti fare gettandoti così allo sbaraglio all’estero, senza quelle cure di vitto che sono così essenziali per mantenersi in forma, in un clima nordico che sarebbe pericoloso anche per una persona

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assolutamente sana. Il tuo soggiorno all’Aia, quel vitto un po’ zingaresco che vi facesti per un mese hanno concorso certo (e ne ho provato il rimorso) a predisporti alla malattia dell’inverno. Rifare la stessa esperienza su più vasta scala, in una città straniera soggetta probabilmente a restrizioni alimentari, con una cucina che ti guasterebbe lo stomaco, colla fatica del lettorato che, come dici, sarebbe un sovrappiù oltre il tuo vero lavoro, tutto questo sarebbe indubbiamente, dal lato medico, una pazzia: riflettici bene, e non insistere. All’estero, anche quest’anno, potrai andare alla fine dell’inverno, possibilmente in un centro non molto nordico, con tutti i tuoi agi. Se tu ti iscrivessi a lettere in una Università di tua scelta, magari a Roma o a Napoli, potresti all’inizio dell’anno scolastico trasferirti lì, scegliere lì un maestro di tua fiducia6 e cominciare a lavorare su un argomento di tua scelta concordato con lui. Se ti attirano le letterature straniere credo che ti sarebbe facile cominciare il lavoro in biblioteche italiane a Roma o a Napoli: e poi, quando tu avessi esaurito quella parte di ricerche che puoi fare in Italia, potresti andare all’estero nei mesi primaverili, per continuare colle fonti straniere. Se dunque tu pensi al lettorato come al mezzo che ti darà la scusa per andartene da Firenze e dall’Italia, mi pare che per conseguire questo scopo non ci sia bisogno di ricorrere a questi mezzi disperati. Ma c’è l’altro aspetto: quello della tua dignità personale, la quale non ti consente di continuare a vivere “alle mie spalle”. Ebbene, caro Franco, io debbo dirti qui chiaramente che quella che tu chiami “dignità personale” non è in questa sua manifestazione, altro che orgoglio e presunzione: orgoglio cattivo e presunzione stolta. Che i padri diano ai figli i mezzi per studiare tutto il tempo che occorre per dar tempo ai figli di affermare la loro personalità, è non solo doveroso, ma naturale: i padri ci sono per questo, e non per altro. Quello che io guadagno è fatto per servire a questo, non ad altro: e se tu facessi consistere la tua “dignità personale” nel trovare altrove che nella tua famiglia i pochi soldi che ti occorrono per vivere mentre studi, per poter avere la piccola sodisfazione di dire a me, quando mi arrischiassi a darti qualche consiglio: 6 «È possibile che tra tutti i professori delle Facoltà italiane neanche uno tu ne trovi che ti possa insegnare qualcosa?» [nota di Piero Calamandrei].

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“Io non vivo alle tue spalle, dunque tu non hai diritto di metter bocca nelle cose mie”, – chiameresti dignità personale quello che non sarebbe altro che il tuo presuntuoso egoismo. Considera che tu hai ventidue anni: che io mi laureai a ventitre e diventai professore a ventisei. Fino a quell’età io vissi a carico del mio babbo, che pure era assai più povero di quello che io ora non sia. E non m’è mai venuto in mente, in quegli anni, che il pane che egli mi dava costituisse per me una menomazione; e che, per sentirmi uomo, per aprirmi le vie dell’avvenire, dovessi cominciare col gettargli in faccia quel poco che egli mi dava! Certo, tu devi aspirare a crearti al più presto una indipendenza economica, che è prima condizione di dignità di vita; ma finché sono vivo io e tu puoi contar su di me, devi cercare di crearti una indipendenza economica solida e seria, non con improvvisazioni e colpi di testa che probabilmente, tra qualche anno, ti costringerebbero a ritornare a me con tutto lo sconforto e la umiliazione di un vinto! Tu hai la possibilità, se il programma che ti espongo potrà realizzarsi, di aver fra tre o quattro anni una situazione che ti permetterà davvero di sentirti svincolato con dignità da ogni aiuto materiale della tua famiglia: che ti permetterà di crearti davvero il tuo avvenire. Il primo impiego che capita, questi ripieghi di fortuna come sarebbe il famoso lettorato, li agguantano i disperati, coloro che non hanno idee chiare sul loro avvenire o a cui mancano i mezzi per prepararselo: ma tu, che non sei spinto a queste risoluzioni improvvisate da vere necessità economiche e familiari, non potresti risolverti a ciò se non per un certo gusto romantico e romanzesco che ti porta a darti delle arie di “giovane povero”: arie di cui penso che debbano sorridere anche i più sensati e più solidi dei tuoi amici. Ecco, mi par di aver vuotato il sacco: ed è proprio singolare, e forse anche un pochino buffo, che io da tre mattine passi le ore a farti questi ragionamenti, mentre forse da un momento all’altro sta per accadere nel mondo qualcosa che potrebbe capovolgere tutte le premesse, generali e personali, di questo mio discorso. Ma insomma questa lettera non vuole avere una portata pratica immediata: né chiede risposta, orale o scritta. Pensa a quello che ti ho esposto: ripensaci. Non giudicare con animo polemico le mie considerazioni: persuaditi che vi è al di sotto di esse assai più tenerezza, assai più pena di quanto di fuori traspaia. E considera anche che io sono stato giovane come tu sei, mentre tu non sei stato

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vecchio come son io: in modo che tra noi due è più facile che io sia in grado, per la doppia esperienza che ho, di comprendere te, più di quanto sia possibile il contrario. La preoccupazione prima ed urgente, oggi, è ancora la tua salute fisica. Poi viene subito dopo, poiché è condizionata da quella, la tua salute morale: vorrei che questa mia lettera ti aiutasse a riacquistare la serenità, a liberarti da quella specie di ossessione per cui da qualche mese o da qualche anno la tua casa ti dà l’impressione di essere per te una terra di esilio. Se tu porti veramente in te qualche messaggio da rivelare, se tu potrai nell’avvenire essere qualcosa di più e di meglio che uno scartabellatore di codici come sono stato io, stai sicuro, mio caro Franco, che la mamma ed io non desideriamo altro che di aiutarti ad essere quello che ti senti di poter essere, a diventare quello che sogni. Noi non siamo i tuoi nemici: noi non siamo genitori che per il loro egoismo animale vogliono impedirti i voli o invidiar la tua gloria. Ma noi, con tutto il bene che ti vogliamo, abbiamo, purtroppo, più esperienza di te: vediamo tante cose che tu non vedi: abbiamo, per così dire, maggior “senso storico” di te. Tu mi chiedi nella tua lettera di aver fiducia in te, “un po’ di fiducia”; ma è la stessa domanda che io rivolgo a te. Un po’ di fiducia nell’affetto del tuo babbo.

Franco a Piero Roma, 21 febbraio 1940

Caro babbo, il mio nome annunciato sulla «Nazione» è stato per me una sorpresa: non so di dove si siano cavati fuori che io farò una conferenza per loro: né ho idea su che cosa dovrei farla. Non ci sarà dunque nessuna mia conferenza: prima perché, suppongo, dovrei trattare di qualche argomento che non mi preme affatto; e poi perché penso che, anche se l’argomento mi premesse, in quella sede sarebbe maggiore la parte della vanità di quella del profitto. Vorrei convincerti di questo: che oggi l’unico nemico della mia “serietà”, della fondatezza del mio lavoro, potrebbe essere appunto la vanità: e in questo silenzio romano, mi pare di sentirmi abbastanza forte per vincerne la tentazione: anche se ciò deve costar-

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mi ancora fatica. Ma ho detto l’unico nemico: scansato il suo pericolo (ma ormai lo avverto con piena coscienza, ogni volta che si avvicina, e se mai mi avviene ancora di cedergli è in piena coscienza, con dolore, con un immediato rimorso) ogni parola ch’io dica o che scriva è sulla linea del mio più sincero lavoro: non è detto che il progresso sia continuo: ci sono passi avanti ed indietro, ed errori: ma tutto è per un unico risultato (l’unico, mi pare, per cui ci sia data la vita, per il quale il nostro amore ed il nostro odio non vadano perduti), conoscere limpidamente, crudelmente me stesso, dentro i miei limiti precisi, ed esprimere, nei limiti che gli anni e la capacità mi concederanno, me stesso. L’unico nemico; non credere dunque che nella letteratura io trovi ormai, anche in minima parte, uno svago, un diletto: non c’è divertimento in quello che faccio: è piuttosto una fatica, che vorrei rendere sempre più dura, e da cui ho bandito e bandisco ferocemente ogni più piccola traccia di dilettantismo: è infine il mio lavoro: tu sai bene che cosa significhi questa parola, e concedimi ormai tanta stima da ritenermene, anch’io, consapevole. Tu non devi essere di quelli che giudicano la letteratura un ozio, magari anche dolce: quelli che anche Montaigne avrebbero chiamato ozioso. Non prendermi per megalomane! So bene chi sono io, e chi era Montaigne: ma anche l’ultimo dei francescani, il più debole, perché sincero, cammina sulla strada di San Francesco. Tutto questo per dirti che se hai ragione in questo caso, quanto alla conferenza, non avresti egualmente ragione se ogni volta che tu vedessi il mio nome, per il futuro, in giornali o riviste, te ne affliggessi come di un tradimento da parte mia al patto, così chiaro, che facemmo tra noi. Io ti dissi: – Non c’è per me possibilità di sincerità, di utilità, al di fuori della letteratura –. Tu mi rispondesti: – Va bene, purché tu studi, tu lavori, seriamente, e la letteratura non significhi per te perdita di tempo, vagabondaggio, sogno, tavolo del caffè –. Questo fu il nostro patto: ed io lo rispetto scrupolosamente: perché oltretutto è un patto di me con me stesso, l’unico ed inevitabile mio programma. Potei pensare anche, per un momento, che la laurea in lettere, la possibile “cattedra” futura, fosse la soluzione pratica della mia vita, il punto di appoggio da cui sentirmi protetto per attendere tranquillamente ad un mio lavoro, alla ricerca continua di me. Ma sbagliavo: mi accorgo ora quanto fosse impossibile, oltre che immorale, un simile sdoppiamento di sincerità, di lavori:

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il mio lavoro, il mio impegno non può essere che unico, unica la mia sincerità, come è unica questa mia persona di cui devo venire a capo. Per questo lo studio, la conoscenza incessante e accurata di autori e di libri, il lavorio critico insomma, mi è condizione vitale per conoscermi ed esprimermi, per “vivere”, quanto il lavoro creativo, quanto il racconto, quanto, in un domani forse ancora lontano, il romanzo od altro: da quello passo a questo, accresciuto di mezzi e di coscienza: da questo ritorno a quello, più liberato e risolto, per una maggiore comprensione della parola degli altri. Non giudicare presuntuoso il tono di queste affermazioni: è solo fierezza di veder chiaro quel che mi aspetta e mi spetta, il mio destino: il risultato, poi, è anche sulle ginocchia di Giove... Per concludere, un saggio su Gide, per esempio, o su altri autori, mi sarà indispensabile quanto (né meno né più) le pagine narrative che potrò scrivere via via, come altrettanti problemi risolti: e se recensirò, per esempio, un libro nuovo, vorrà dire che al suo proposito mi sarò scoperto un dubbio che bisognava risolvessi, scrivendone. Non sarà mai ozio, ma necessità. Soltanto la vanità, ti ripeto, potrebbe farmi indugiare intorno a punti presso i quali la mia anima rimanga in ozio: allora potresti rimproverarmi: ma il tuo rimprovero mi troverebbe già mortificato del mio proprio rimprovero. E quella nemica, ti ripeto ancora, la conosco ormai così bene che non mi fa più paura, o quasi. Non credevo di scriverti così a lungo, quando ho cominciato: né con tanto calore, né con tanto abbandono, che a momenti può avermi trasportato la penna fino a farla apparire ingenua. Un anno fa mi sarebbe sembrato impossibile di parlarti così: e del resto non avrei avuto idee così chiare da manifestarti. Tutto questo, questa aumentata conoscenza di me, questa maggiore fede che ho, in me stesso e nella mia esistenza, e la maggiore confidenza che son portato, di conseguenza, ad avere verso di te, mi riprova di essere sulla buona strada. Vorrei che anche tu te ne convincessi, senza più riluttanze: vorrei tutta la tua fiducia. Ma col tempo verrà: non dipende forse che da me. Affettuosamente ti abbraccio il tuo Franco

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Franco a Piero Roma, 23 febbraio 1940

Caro babbo, la tua risposta è stata per me sorprendente, molto più del mio nome stampato sulla «Nazione», che non capivo di dove venisse fuori. La maggior parte delle affermazioni che hai ricavato dalla mia lettera, le più essenziali, non solo non le ho minimamente pensate, scrivendoti, ma ho pensato proprio le loro contrarie: e se avessi pensato e poi formulato per iscritto propositi come quelli che mi attribuisci, mi stimerei un irresponsabile, irrimediabilmente ingenuo, e forse imbecille. Ma prevedevo che quella lettera sarebbe stata fraintesa: o trovata incomprensibile, o fraintesa: mi dispiace che in certi punti, forse i più importanti, tu abbia addirittura capito il contrario di quello che volevo dirti: la colpa è mia, che ho voluto mettere sulla carta proprio la mia più immediata sincerità, direi il fondo della mia fede, quella che bisogna lasciar raffreddare, e contenere, lasciar diventare cioè meno sincera, prima di mostrarla agli altri; se non si vuol passare da esaltati e se si vuol essere almeno un poco intesi: la colpa è mia, che ho creduto di poter pronunciare parole insolitamente aperte tra un figlio ed un padre (parole che si dicono ai coetanei e agli amici) colla speranza, colla fiducia di esser capito. Tuttavia lascia che di questo equivoco rimproveri un poco anche te: io sarò stato poco chiaro, certe frasi della mia lettera si prestavano a dubbii: ma se tu non ti fossi avvicinato a quella lettera in uno stato d’animo prevenuto, avresti attribuito ad ogni frase oscura proprio il significato che disapprovavi, proprio quello che non volevi da me, in contraddizione con i tuoi desideri? È questa prevenzione (reciproca, indubbiamente, ma più forte ed esasperata da parte tua) che rende difficili i nostri rapporti, la nostra comprensione: tu cerchi in me non tanto quello che ci accomuna, che ci avvicina, che ci rende fratelli, oltre che padre e figlio, ma quello che ci mette in contraddizione, che ci oppone, che ci separa: lo fai per un’abitudine, inizialmente giustificata da certi miei atteggiamenti e forse anche da certi miei sentimenti, ma ormai quasi del tutto infondata ed anacronistica. È questa prevenzione che ti ha fatto riprovare la mia lettera, poco chiara ad una prima lettura proprio perché mi

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ero lasciato andare alla gioia di constatare e di provarti che ciò che tu desideravi da me finisce per coincidere con una parte almeno di ciò che io stesso esigo da me, te l’ha fatta riprovare come una mia pazzesca dichiarazione di aperta opposizione ai tuoi desideri. Ma lasciamo stare di chi sia la colpa: quel che è importante ora è di rassicurarti: e vorrei che questa lettera partisse e giungesse come il lampo a convincerti che non hai nulla da temere per me. Io ti ho scritto all’incirca così: – Potei pensare per un istante che la laurea in lettere, la possibile “cattedra” (e scusami, non si mette tra virgolette soltanto ciò che è buffo, ma anche ciò che si pronuncia con un certo pudore, come una cosa di cui sembrerebbe presuntuoso, pretenzioso parlare con troppa certezza. Cosa poteva significare da parte mia mettere “cattedra” tra virgolette come una cosa buffa, se non una prova di idiozia? Vedi che la tua prevenzione ti porta anche a far torto al mio minimo buon senso!) futura non rappresentassero per me che la soluzione pratica della mia esistenza: una posizione professionale su cui appoggiarmi, per attendere con sicurezza, con tranquillità al mio più profondo lavoro; mi accorgo ora quanto fosse impossibile, oltre che immorale, un simile sdoppiamento di sincerità –. Queste parole ti sono sembrate inaudite: e sì che, al Poveromo, io ti scrissi: – Potrei laurearmi in lettere, lavorare per una cattedra di letteratura straniera, e intanto parallelamente attendere al mio lavoro – e tu mi rispondesti: – Questo non va: perché tu non devi dare allo studio, alla laurea, soltanto quel tanto di energia e di interesse che basti per conseguire una posizione professionale, e riserbare il meglio delle tue energie e del tuo interesse per quello che tu chiami il tuo lavoro: tu devi dare allo studio, alla laurea, alla conoscenza critica di questa letteratura e di questi autori a cui ti avvicini, il meglio della tua energia e del tuo interesse, la tua passione. Cosa mi dicevi tu, rispondendo così, se non proprio quello che io ti ho scritto, che una cosa simile sarebbe stata uno sdoppiamento di sincerità immorale? Io aggiungo impossibile: impossibile per la mia natura, per le mie esigenze, che si sono fatte carne, per ora almeno nelle intenzioni, nelle aspirazioni, di questo principio morale di un’unica sincerità. Che cosa insomma volevo dire l’altro giorno (perché mi accorgo che rischio di nuovo di divagare e di farmi fraintendere)? Volevo dire che ormai la laurea in lettere, il lavoro di studio, di lettura, di critica che essa mi impone

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rappresentano per me assai più di un curricolo universitario: rappresentano una attività essenziale, vitale (ho scritto questa parola), indispensabile, una condizione di conoscenza e di espressione di me stesso (mi stupisce che tu abbia trovato originale, singolare, magari ingenuo questo “conoscere ed esprimere se stessi” che mi sembra un postulato morale, il più fondamentale, il più evidente, il più pacifico. Narcisismo, dici. Ma non è un nirvana, mi pare: è la vita. Tutti gli uomini vivono in quanto si conoscono e si esprimono nei limiti e nelle possibilità che si sono conosciute. Anche il pugile che vive di cazzotti, dà la riprova di questa regola morale: non conosce di sé che i muscoli, quelli sono i suoi limiti, e in quelli si esprime. E così su su fino ai limiti dello spirito e alla loro espressione. Dì piuttosto che la maggioranza degli uomini non hanno né la forza né il coraggio di conoscersi: sostituiscono alla conoscenza sincera di sé, una sincerità presa a prestito, fornita dagli altri, dall’ambiente: e quello esprimono, convinti di esprimere se stessi: questa è la maggioranza evidentemente inutile degli uomini, quella che non aiuta la società a andare avanti, a progredire, dato che esprime soltanto ciò che già è stato espresso: è la maggioranza che segna il passo. Ma questo è un altro discorso, che non riguarda la questione particolare aperta tra noi). Più di questa incondizionata dichiarazione di fede, che cosa vuoi da me? E la “cattedra”, domani, sarà assai più che una soluzione pratica, per me: potrà essere il luogo dove questa conoscenza e questa espressione di me, meritata e da meritare giorno per giorno per tutta la vita nei contatti cogli altri uomini vivi, colle loro opere, col loro lavoro, coi loro libri, colla loro storia, acquisterà una utilità sociale immediata e quotidiana, e giustificherà la mia esistenza tra gli uomini, come uomo che collabori con tutti gli altri al moto grandioso della società. Così la professione sarà non un secondo volto per me, un peso, un di più, un appoggio, ma con tutta la mia persona sarà il mio volto, senza compromessi, senza sdoppiamenti di sincerità. Mi sono spiegato meglio, ora? Eppure dicevo chiaramente che uno studio su Gide, e su altri autori, un lavorio critico, è per me ormai qualcosa di essenziale, di vitale: è assurdo pensare ch’io faccia tutto questo contro voglia, per sacrificio (!): è talmente lontano dal mio pensiero, una cosa simile, che mi pare impossibile che altri possano supporlo. Posso a questo punto, senza il pericolo di essere capito a rovescio, ripetere che se tu vedrai il mio nome su qualche giornale o su qualche rivista (ma non temere di

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vederlo spesso, per ora!) non dovrai affliggertene come se io mancassi al nostro patto e perdessi il mio tempo? È chiaro che studiando, leggendo, incontrando questo e quel libro, e non a caso, ma secondo una necessità, e la più interna che esista, mi vengono dei dubbi, mi si pongono dei problemi che non potrò non tentare di risolvere: di qui appunti, annotazioni, e di tanto in tanto qualche risultato critico: se il risultato, per quanto particolare e provvisorio esso sia, sembrerà a me e ad altri abbastanza preciso da esser pubblicato, perché non dovrei farlo, perché facendolo dovrei essere accusato di perder tempo? Altri giovani che tu stimi fanno questo come me: altri uomini della tua età che tu conosci hanno fatto così, e non sono oggi degli imbecilli né dei falliti. Lasciamo stare i racconti: se non riesco a convincerti che neanche essi sono per me delle perdite di tempo, dei momenti di ozio, ma un modo di perseguire, come tutto il resto, quello scopo vitale di conoscenza, considerali pure degli svaghi, dei passatempi e non tenerne alcun conto: concedimeli come delle domeniche, nelle mie settimane di lavoro: sarai ingiusto verso di me e soprattutto ti priverai di un elemento, prezioso quanto gli altri, per la valutazione del mio lavoro: ma concedimeli pure soltanto come ozî, purché tu non dubiti che tutto il resto è lavoro, e lavoro serio. Eppure ad altri che a me è concesso: ci sono stati e ci sono dei giovani che hanno scritto e pubblicato racconti, e tu li hai letti e li leggi rispettando la serietà delle loro intenzioni, prendendoli sul serio, anche se criticandoli, non chiamandoli perdigiorno: a me invece tu neghi questo rispetto: ma non importa, purché tu ti avvicini senza diffidenza, e come cosa fatta sul serio al resto del mio lavoro, a quello che solo ti sembra il mio studio, che non mancherò di offrirti. Spero ora di averti rassicurato. Ci sarebbe da ridere, se la cosa non avesse dato dolore a te e di riflesso a me, a pensare che proprio la lettera che voleva provarti, con entusiasmo, le mie buone intenzioni, ti è sembrata riportare la nostra polemica indietro di mesi, se non di anni. Se hai tempo da perdere, ti prego, rileggila e vedi se, alla luce di questa, ti sembrerà meno equivoca. E lascia stare, per piacere, Cicognani e Palazzeschi, e soprattutto il primo, che sono nomi che risalgono, senza possibilità di aggiornamento, a tre, o quattro anni fa, a un tempo superato della mia storia. Perdonami se ti ho dato di nuovo delle ore di inquietudine e prenditi un abbraccio dal tuo Franco.

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Franco ad Ada Roma, 15 maggio 1940

Cara mammina, la tua telefonata stamani è stata una cara sorpresa: sentivo la tua voce, commossa, e sentirla un poco turbata e tremula me la faceva sembrare più vicina. Capisco la tua tristezza: anch’io, lo sai, sono triste e abbattuto, in questi giorni7, da un pezzo e Dio solo sa ancora per quanto; ogni persona sensibile e intelligente lo è, e gli amici nella cui compagnia vivo qua non possono fare altro che unire la loro tristezza alla mia. Veramente non c’è nulla, nulla, per quanto si cerchi, che possa davvero, definitivamente, assolutamente consolare: altro che le piccole consolazioni provvisorie che improvvisano per noi i giorni, ed il rifugio dei nostri affetti. Pensavo, uno di questi giorni, se mi avrebbe giovato, in un simile periodo, la solitudine, la quiete del Poveromo, lontano dalle voci, dalle manifestazioni moleste, dalle continue esacerbanti prove della imbecillità e della bestialità degli uomini; ma poi mi son detto e convinto che ormai, tanto questa inquietudine è radicata in noi, non è più possibile isolarci; le nostre apprensioni, il nostro dolore ci inseguirebbe dovunque, e allora meglio soffrirlo dove ci sia qualcuno con cui spiegarsi, intendersi, affratellarsi. Ennio8 è un caro amico, e il nostro accordo, anche in questo momento, non può che essere completo: anche Pratolini9, che tu non conosci, è un caro e bravo ragazzo: è venuto a stare alla [pensione] White, come ti dissi: siamo al tavolo insieme e ci facciamo spesso visita nelle nostre camere, durante il giorno, quando non è in ufficio: è innamorato di una dolce ragazzina, pianista, che si perfeziona qua a Roma con Casella10, e viene spesso a trovarlo, e qualche volta anche a pranzo. Oggi, per esempio, quando hai telefonato, eravamo tutti e tre a tavola, quasi alla frutta. Tutto que7 L’esercito tedesco ha invaso il Belgio e l’Olanda e sta marciando verso Parigi; nelle piazze italiane dimostrazioni contro la Francia e l’Inghilterra. 8 Ennio Lauricella, amico di Franco Calamandrei sin dagli anni della giovinezza a Firenze. 9 Vasco Pratolini (1913-1991), fiorentino, narratore, era stato con Alfonso Gatto il fondatore della rivista letteraria «Campo di Marte» nel 1938; sarà, dopo la guerra, uno dei maggiori esponenti del neorealismo in letteratura. 10 Alfredo Casella (1883-1947), compositore e pianista.

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Parte prima. Lettere

sto aiuta un po’ a andare avanti: e i giorni passano. Stasera saprò dal babbo qualcosa di più sul vostro stato d’animo: ma del resto me lo immagino tutto. Cara mammina, cerca di distrarti e di non essere troppo triste. Un abbraccio stretto dal tuo Franco.

Franco ad Ada Napoli, 31 ottobre 1942

Mia cara mammina, ancora altri due pacchetti, ieri! E poi il tuo primo saluto da Firenze, Firenze autunnale e piovosa. Qui invece continua il sereno ed il sole, ininterrottamente, e se viene qualche pioggia notturna è solo per rendere più terso il cielo e più trasparente l’aria la mattina dopo. E il mio fedele ombrello (come hai potuto dimenticare il suo manico di celluloide e confonderlo con quello di legno dell’ombrello lasciato costà?) per ora non serve, e rimane inteccherito nel suo angolo. Così i disastri di Milano e di Genova hanno sfiorato o colpito amici e persone di conoscenza... È terribile che un domani migliore debba essere pagato a questo prezzo. Ma il bene non può uscire che dal dolore; e, se non potesse sembrare crudele, direi che dobbiamo soffrire ancora di più, molto di più, per meritare questo migliore domani. Basterà aver forza e fede fino all’ultimo. A domani, mammina cara. Ma sei ancora a Firenze? O già in viaggio per Ramiola11? Nella lettera non fai cenno ai tuoi propositi. Vi abbraccia con tutto il cuore il vostro Franco.

Franco a Piero Napoli, 12 novembre 1942

Caro babbo ti immagino contento del ritorno ormai imminente della mamma, e del suo soggiorno – mi sembra dalle sue lettere – tranquillo 11

Località termale della Val di Taro, in provincia di Parma.

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e soddisfatto a Ramiola. Le darai un bacio anche per me, quando rientrerà in casa. Io sto bene. C’è una bella estate di San Martino, qui, ventilata dal mare e piena di sole. Non altrettanto radiosi i volti degli uomini. Penso con quale interesse appassionato tu debba seguire questi momenti cruciali12. Stà bene, caro babbo, e un abbraccio forte di cuore dal tuo Franco Franco ad Ada Napoli, 2 dicembre 1942

Cara mammina ho avuto ieri il tuo saluto affidato alle parole e alla calligrafia della Lea, e autenticato dallo “sgorbietto” finale. Ringrazia la affettuosa scrivana! Mi domandavi l’altro giorno che ne è di Lauricella. È a Spoleto, povero Ennio, ormai prossimo al termine dei molti mesi, e annichilito. Giovannini13, che è per avere un bambino, è stato richiamato, e per ora si trova a Civitavecchia. Pratolini purtroppo è con la moglie a Torino. Ebbe un incarico dal Ministero, e si trasferì là un mese fa, contento di poter finalmente lavorare con più libertà e con maggiore stipendio. Poi gli è piovuta addosso tutta quella bufera. Le notizie che ho sono anteriori all’ultimo più grave bombardamento, e ne aspetto con impazienza delle più recenti. Così siamo tutti sparpagliati, ma spiritualmente più uniti che mai. Verranno i Polidori14 al Poveruomo? Vorrei proprio fare un regalino a Serenella, e ti prego di sondare i suoi desideri: senti un po’ cosa manca al suo corredo di bella e lieta ragazzona, che cosa le potrei fornire. A domani, cari. Vi abbraccia con tutto il cuore il vostro Franco. 12 Le truppe dell’Asse sono sconfitte nelle battaglie di Stalingrado ed El Alamein; le sorti della guerra si spostano a favore degli Alleati. 13 Romeo Giovannini (1913-2005), poeta, giornalista e letterato. 14 Ciro Polidori, la moglie Egidia – che è sorella di Piero Calamandrei – e la loro figlia Serenella.

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Parte prima. Lettere

Franco ad Ada e Piero Venezia, 15 giugno 1943

Carissimi, certo, Venezia è preferibile ad Aquila15. Qui davvero sembra di vivere in un altro mondo. Stasera a San Marco c’era la banda in piazza, al chiaro di luna, che suonava il Minuetto di Boccherini come nulla fosse. E per le strade, anzi per le calli, tutti cantano, fisarmoniche suonano dalle finestre, le vetrine dei negozi, così fitte e festose, ancora sanno di abbondanza. Tutto sta, ora, di fare di questa vacanza una residenza, e trarne profitto. Per ora alloggio al Paganelli, una locanda16. La classica locanda veneziana con trattoria al terreno – sulla riva degli Schiavoni. Ho una cameretta che guarda in una calle interna. E intanto cerco altra stanza, o appartamentino, da fittare al mese. Mi aiuta con tutta la sua cortesia veneziana la casiera della Casetta Rossa17, come merita un raccomandato da Giorgio18. Mi aiutano amici pittori. E mi aiuta perfino il portiere del teatro La Fenice a cui mi ha raccomandato Gui19, che era per concerti, che ho incontrato stamani, e con il quale e con la signora Elda e loro amici ho preso oggi il tè al loro albergo. In trattoria iersera conobbi Diego Valeri20, che saluta il babbo. In Arch.[ivio] anderò domattina. Tornerò a scrivervi più a lungo. Frattanto state tranquilli e credetemi soddisfatto. Salutate tutti. Vi abbraccio con tutto il cuore il vostro Franco

15 Franco Calamandrei nel giugno 1943 era stato trasferito per pochi giorni presso l’Archivio di Stato dell’Aquila. 16 L’Hotel Paganelli, in Riva degli Schiavoni. 17 Dimora veneziana di Gabriele d’Annunzio durante la prima guerra mondiale. 18 Giorgio Ciompi (1905-1956), violinista, amico di famiglia. 19 Vittorio Gui (1885-1975), musicista, direttore d’orchestra e compositore. 20 Diego Valeri (1887-1976), letterato, antifascista, dopo il 25 luglio 1943 sarà nominato direttore del «Gazzettino», carica che ricoprirà fino all’8 settembre, quando sarà costretto a rifugiarsi in Svizzera.

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Piero, Ada e Franco (1939-1944)

Franco ad Ada Venezia, 19 giugno 1943

Cara mammina, ho ricevuto i tuoi biglietti del 16 e del 17, e sono contento che a te siano giunte le mie buone notizie. Per ora continuo ad alloggiare al Paganelli, dove oggi sono passato in una stanza più spaziosa e ospitale. Non è facile, in questi giorni in cui Venezia è stipata, oltre che di sfollati, di studenti venuti qui per esami, non è facile trovare una camera come io vorrei. Bisogna pazientare qualche giorno, fin verso la fine del mese. La Maria della Casetta Rossa continua intanto a cercare premurosamente per me, risparmiandomi il fastidio di andare in giro. Ogni mattina le telefono, ed essa mi rende conto delle novità. (Fa’ il piacere, a proposito, di dire a Giorgio Ciompi che gli scriverò, ma che si abbia subito per tramite tuo i miei ringraziamenti per avermi indirizzato a Maria, che è una donna impagabile. Chiedigli anzi come potrò compensarla, alla fine. Non mi par tipo da accettare una mancia, infatti.) Del resto, al Paganelli non si sta affatto male, e mi ci potrò trattenere comodamente qualche tempo. La mia vita a Venezia va pian piano sistemandosi e assumendo un corso normale. Imparo le calli, i campi, i traghetti, i non facili itinerari di questa città per giuoco. Vado in su ed in giù per il Canale, sul morbido ritmo del vaporetto. Cerco di rendermi abituale questo scenario di paradosso. Ieri sera ero alla Fenice, a sentire la prima parte di un concerto diretto da Marinuzzi21: la Sinfonia Jupiter di Mozart, e il Manfredi di Schumann. La seconda parte – un concerto di Marinuzzi – la lasciai ai volenterosi. Domani domenica, se la giornata sarà serena e calda, anderò forse al Lido. Ma l’estate ancora non grava la mano. Il mio indirizzo, qualsiasi cosa tu voglia spedirmi, resta per ora quello dell’Archivio. Saluti a tutti dal vostro Franco

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Gino Marinuzzi (1882-1945), direttore d’orchestra e compositore.

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Parte prima. Lettere

Franco ad Ada Venezia, 21 giugno 1943

Cara mammina ti mando qui insieme una lista speditami dalla signora Foà degli indumenti e degli altri oggetti contenuti dalle tre valige che già – mi dice la signora – sono partite da Napoli per Roma: la valigia piccola e la media per mezzo dello spedizioniere Dini, insieme alla cassa dei libri; la valigia grande per mezzo del corriere che l’aveva portata vuota da Firenze a Napoli. Mandala, se vuoi, a zia Lidia22, e disponi tu come meglio ti sembra quanto alla sorte ulteriore di quella roba. Non mi dispiacerebbe che i libri potessero arrivare a Firenze: ma non vorrei rischiassero di andare perduti. Io sono ancora al Paganelli. La nuova camera è piena di luce; si affaccia, al di sopra di un tettuccio, sulla dirittura di una lunga calle in fondo alla quale si leva il sole. Intanto, Maria e gli amici continuano le ricerche: stasera avrò notizia di un’altra stanza. A mangiare vado da “Spina”23, vicino all’Accademia, un corrispettivo veneziano dell’Emanuele di Napoli. Ho trovato, qui, un ambiente cordiale, festoso, accogliente, come non avrei immaginato. Ieri mattina andai al Lido: stetti un’oretta al sole, per un poco in compagnia di Valeri, e poi feci un breve bagno. La spiaggia non era molto affollata e si stava bene. Vi trattenete a Firenze? Questa, in ogni modo, la spedisco a via Robbia24. Vi abbraccio con tutto il cuore il vostro Franco Franco ad Ada Venezia, 23 giugno 1943

Cara mammina, i tuoi pacchetti mi sono stati portati ieri sera nella mia stanza Lidia Cocci, cugina di Ada. Al “Cantinone” di Attilio Spina, in Campo San Vio (vedi supra, Introduzione, p. XXXIV). 24 Sede dell’abitazione dei Calamandrei a Firenze. 22 23

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da un vecchio usciere che sembrava babbo Natale. Grazie per il loro contenuto. Ma stai tranquilla che niente di quel che essi contengono mi mancherebbe qui. Quanto all’alloggio, nessuna novità ancora. Ma, come vi ho già detto, aspettando, al Paganelli posso stare benissimo, senza impazienze. Nella cartina che ti mando vedrai, come desideri, dove sia il Paganelli, dove l’Archivio, dove la trattoria Spina che mi rifocilla. Si capisce che è il vaporetto del Canal Grande a trasportarmi da un punto all’altro. In Archivio ho una stanza da solo, sì. E le mie mansioni sono imprecisate: stare lì ad aspettare che ci sia qualcosa da fare. Non è molto. Domani, San Giovanni, ho tutta la giornata libera. E la domenica sempre. Stasera anderò probabilmente alla Fenice, a sentire un commento di musiche monteverdiane. E voi? Quando tornate al Poveruomo? Che aria spira? Siete tranquilli? È vero che le batterie antiaeree hanno sparato, a Firenze? Vi abbraccia con tutto il cuore il vostro Franco. Mandatemi la nuova tessera, per favore, appena ve la consegnano.

Franco ad Ada Venezia, 25 giugno 1943

Cara mammina ogni giorno, regolarmente, trovo la tua posta ad aspettarmi sul banco, collocata dall’usciere con precisione in mezzo al fermacarte. Dunque domani sabato tornate al Poveromo. Spero che ora vi ci fermerete, e finirà il tuo andirivieni che dura ormai da troppo tempo. Vi accompagneranno i Polidori? E Serenella, a proposito,

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ha finito con i suoi esami, si è levata di torno Pasquali25, ha riacquistato la sua bella libertà? Mi scriverai dal Poveromo se ci state quieti. Le incursioni sopra la Spezia non si fanno sentire fin lì? Qui la vita procede in una morbida tranquillità. Tutto sembra così lontano, e bisogna farsi forza per non cadere in un egoistico oblio. Stasera, per esempio, un altro concerto alla Fenice (potete sentirli per radio, se volete): Pilati, Haydn, Brahms, diretti da Molinari Pradelli con il violoncellista Mainardi. Monteverdi, l’altra sera, fu naturalmente molto bello. Ierisera, alla ormai consueta trattoria, eravamo una lunga tavolata, in onore di un Giovanni, ed avemmo imbandita una cena di cui non sto a dirti la minuta. Ognuno di noi aveva contribuito in qualche modo: io, con uova e formaggio. Per l’alloggio, sono ancora allo stesso punto. Ma, pazientando, qualcosa verrà. Addio, mammina. Ti abbraccio insieme al babbo con tutto il cuore. E la Lea26 è ancora con voi? vostro Franco I pantaloni corti non servono. Per la borsa, fai tu, grazie. Ma mette conto spedirla? Ma Tonino l’Africano27 è tornato? Come sta? E che racconta?

Franco ad Ada e Piero Venezia, giugno 1943

Carissimi vi scrivo dall’Archivio, dalla mia stanza, una stanza particola25 Giorgio Pasquali (1885-1952), docente di Letteratura greca all’Università di Firenze. 26 Lea Pimpinelli, cugina di Piero. 27 Si tratta forse di un membro della famiglia dei casieri del Poveromo, reduce dall’Africa.

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re, silenziosa, con una grande finestra, mobili scuri stile rinascimento, sopra un tavolo spazioso e lucido, in una poltrona ricoperta di pelle. Una bella stanza, insomma, piena di decoro, e tranquilla, dove credo mi riuscirà facile lavorare anche per mio conto. L’ambiente – i colleghi, i capi – molto civile, quasi raffinato, moderno – il direttore tiene moltissimo agli impianti igienici, tutti cromati e in mattonelle di maiolica! – Una bella biblioteca, fornita di molti libri che mi serviranno. Il lavoro di ufficio, pare, minimo; oggi intanto non ho fatto nulla altro che per me. L’orario purtroppo è spezzato: 9-12, 3-6; ma la quiete del luogo compenserà il fatto di dovervi trascorrere tanto tempo. Per l’alloggio non ho ancora nulla di definitivo da dirvi. Non che mi manchino le offerte: ma voglio scegliere bene, qualcosa che mi vada veramente a genio. Intanto continuo a stare al Paganelli, sulla Riva. Mangio o allo stesso Paganelli, o da “Spina”, vicino all’Accademia, dove vanno gli amici. Venezia è bella, ed è bella soprattutto quest’aria di pace. Sembra che un filtro protegga la città e che tutti i veleni e le inquietudini ne rimangano fuori. Vi indirizzo questa a Firenze dove, mi sembra tornate uno di questi giorni. Vi abbraccio con tutto il cuore il vostro Franco Non c’è fretta per gli indumenti estivi, l’aria qui è ancora fresca.

Franco ad Ada e Piero Venezia, 28 giugno 1943

Carissimi stasera, dunque, mi trasferirò dal Paganelli in una bella stanzetta che ho trovato finalmente là dove più desideravo, a due passi dall’Accademia, a due minuti dalla trattoria, a dieci dall’Archivio. È a un ultimo piano, con una spaziosa veduta del Canal Gran-

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de, della Salute e della Laguna. Ha termosifone, bagno, perfino il telefono, in casa della padrona. Spero di trovarmici benissimo, e nei prossimi giorni ve ne scriverò particolari. L’indirizzo è Accademia 1018 B presso Porta; ma finché non abbia accertato come funziona l’arrivo della posta, continuate a indirizzare in Archivio. Ho ricevuto il nuovo pacchetto. Grazie. Domani è di nuovo festa; così avrò tempo ed agio di prendere familiarità con il nuovo alloggio. Che si fa al Poveromo? Ho avuto la vostra ultima cartolina da Firenze, e poi niente altro ancora. Qui, dopo due giorni di scirocco opprimente, è tornata una bell’aria vibrata, che nelle ore della mattina e del crepuscolo solleva la fantasia. State bene, cari, e un abbraccio di tutto il cuore dal vostro Franco.

Franco ad Ada e Piero Venezia, 30 giugno 1943

Carissimi ormai da lunedì sera, come vi avevo annunciato, mi sono trasferito nella stanza all’Accademia. Essa è comoda e tranquilla quanto speravo, a poca distanza dall’Archivio, che raggiungo a piedi in dieci minuti, e a pochissima dalla trattoria. Eccovi una pianta sommaria della camera e dei suoi dintorni [disegno nell’originale, NdC]: Come vedete è abbastanza appartata dal resto della casa per godere di libertà e di silenzio, e abbastanza vicina d’altronde per usufruire di tutti i necessari servizi. La signora sembra molto servizievole e ben disposta. Ci sono bambini in casa, ma sembrano ben educati e quieti, e in ogni modo giocano in una grande stanza lontana dai miei paraggi. Così, credo, mi sono sistemato per il meglio. Anche in Arch.[ivio] va per il meglio. Da domani infatti faremo l’orario unico, dalle 8 alle 14.

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Magari andasse per il meglio tutto, come queste mie faccende private. Invece aumentano dovunque la desolazione e le rovine, ed è una gran pena a pensarci. Di nuovo Livorno, dunque, e in modo che dev’essere stato tremendo. Voi ne avete risentito? State tranquilli? Non temete? Ma non ho ancora ricevuto nulla dal Poveromo. Vi abbraccio con tutto il cuore vostro Franco Ho avuto il pacchetto delle camicie. Grazie.

Franco ad Ada Venezia, 3 luglio 1943

Cara mammina dopo la raccomandata che mi portava la tessera del pane – datata del 28 – non ho più avuto nulla di vostro. Perché tanto silenzio? Ma certo, è la posta che non funziona. Vorrei sapere se state tranquilli, se avete spesso allarmi e passaggio di aerei, e chi è con voi. Qui, le giornate passano quiete, e neppure l’estate fa sentire il suo peso. La sera, l’aria è così calma e leggera che non ci si alzerebbe più dalle seggiole dei caffè sulla Giudecca, il canale dietro l’Accademia. Della mia camera sono soddisfatto. La signora è una brava donna, piena di attenzioni. Figurati che sono metodisti, una setta protestante! Ora è l’una e mezza, e tra poco mi alzerò da questo tavolo d’Arch.[ivio] e per calli, callette, ponticelli me ne anderò fino da Spina, dove la Signora Libertà28, che già mi vuol bene, mi darà da pranzare. Addio, cara. Ti abbraccio insieme al babbo con tutto il cuore. vostro Franco 28

Libertà Spina (1911-2004), figlia di Attilio Spina.

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Franco ad Ada e Piero Venezia, 6 luglio 1943

Carissimi sicché, un’altra volta a Firenze? (E a proposito di Firenze, è stato richiamato Toto della Minucci29? La lasciai così sconsolata, così insolitamente triste, al mio ultimo passaggio di costà, che ora mi piacerebbe saperla più tranquilla. Saluti affettuosi per lei). Le vostre notizie dal Poveromo hanno stimolato la mia curiosità e messo in moto la mia immaginazione, per quel che vagamente mi accennate della pineta. Presso a poco capisco di che si tratti. Ma nulla che possa mettervi in pericolo? Per conto mio, l’alloggio dell’Accademia mi contenta ogni giorno di più. La signora è molto compresa dei miei libri e del mio lavoro, e tiene chiusa “l’infanzia” in una stanza molto lontana, di dove non mi giungono se non di tanto in tanto flebili echi di strilli e di lacrime. Il Nerval30 dovrebbe arrivare alle librerie in questi giorni. Almeno, così mi dice Einaudi. Ora, ho cominciato a tradurre per lui un’altra cosa, un romanzo francese dell’800, Dominique31. Ma dei miei libri spediti da Napoli si hanno notizie? Ho avuto la raccomandata con l’assegno. Grazie. Ma perché tanto? Non mi occorrono, ne ho in sovrabbondanza. Ho avuto, stamani, anche i due nuovi pacchetti. Che notizie di Carlo? E di Marcello Ciompi? E per la Maria della Casetta rossa che dice Giorgio? Saluti alla Lea. Perché non adopera il Sansovino per scrivere a me? Vi abbraccio con tutto il cuore. il vostro Franco

Figlio di un’amica di gioventù di Ada. Gérard de Nerval, Il sogno e la vita, a cura di Franco Calamandrei, Torino, Einaudi, 1943. 31 Eugène Fromentin, Dominique, Paris, L. Hachette, 1863. Un dattiloscritto inedito di Franco Calamandrei con l’Introduzione a Domenico è conservato nell’archivio di famiglia. 29 30

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Franco ad Ada Venezia, 7 luglio 1943

Cara mammina ho avuto stamani la tua lettera da Firenze, e sono così aggiornato sulle varie vicende, più o meno liete, dei vari amici fiorentini. Io sto bene, e la mia vita ha ormai ripreso, in questo nuovo ambiente, il suo solito ritmo, con un di più di quiete e di distensione, di cui sono grato a Venezia ed alla brava gente cordiale che vi ho trovato. Mi preoccupa un poco il fatto che non si sappia ancora nulla delle valige e delle casse spedite da Napoli; Scriverò magari un rigo a zia Lidia, perché mi informi direttamente appena arriveranno. Cosa significa “scope nuove”?, che mi scrivi a proposito del mio alloggio. È un modo di dire che non conosco. Perché non ho capito la timidezza di Lea? Ho detto, scherzando, che adoperi le formule consigliate dal Sansovino nel suo Segretario32, se non se la sa cavare da sola. È chiaro, no? Ricambia i saluti alla Dadina, e salutami l’incomparabile libraio. Non ha detto frasi lapidarie, ancora? Sul matrimonio, o su altro? Salutami di cuore i Polidori, che sono contento di sapere insieme a voi. E Serenella, è bellina? Come è pettinata? Addio, mammina. Ti abbraccio insieme al babbo con tutto il mio affetto vostro Franco

32 Francesco Sansovino (1521-1583), letterato e poligrafo, pubblicò nel 1565 a Venezia il trattato Del Segretario, sull’arte di scrivere lettere. Piero Calamandrei ne curò nel 1942 un’edizione per la collezione in ventiquattresimo di Le Monnier diretta da Pancrazi, col titolo L’avvocato e il segretario: da segnalare la prefazione per una riflessione sugli intellettuali italiani.

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Parte prima. Lettere

Franco ad Ada Venezia, 12 luglio 1943

Carissimi immaginate come mi abbiano turbato e rattristato fino in fondo all’animo gli avvenimenti degli ultimi giorni33. La guerra, ora, l’abbiamo dentro la carne viva, ed è imperdonabile chi non ne sente tutta l’angoscia. Del vostro ritorno al Poveromo non ho avuto ancora notizia. Qui, nell’aria, la solita pace paradossale, la stessa letizia, che a volta a volta offende il cuore e lo blandisce. Perfino l’estate continua a risparmiare questo clima. La laguna è sempre ventilata e fresca, e la gente che, al tramonto della domenica, i vaporetti riportano dal Lido avvampata dal sole, sembra venire da qualche tropico lontano. Salutate chi è con voi. Vi abbraccio con tutto il cuore il vostro Franco

Franco ad Ada Venezia, 15 luglio 1943

Carissimi ho avuto ieri la vostra cartolina di domenica dal Poveromo, e sono contento di sapervi insieme ai Polidori, e di sapere ancora con voi la brava Lea. Mi dà ombra però quel “nuovo” che vi persiste d’intorno, e che non riesco a definire bene. Qui la solita vita tranquilla, in quest’aria miracolosamente intatta. Ma nell’animo l’inquietudine è fonda, e grande la confusione dei sentimenti. Oggi, osservando nel giornale una cartina, ho letto il nome di Delia34, prossima ad essere raggiunta dalla guerra. Ho pensato a Russo, alla sua angoscia doppiamente giustificata. Salutatelo e ditegli che gli scriverò. Il 10 luglio 1943 erano cominciati gli sbarchi anglo-americani in Sicilia. Delia, in provincia di Caltanissetta, paese natale di Luigi Russo (18921961), docente di Letteratura italiana all’Università di Pisa e amico di Piero Calamandrei. 33 34

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State bene, cari, e se potete fatemi capire qualcosa di più di costà. Vi abbraccio con tutto il cuore il vostro Franco

Franco ad Ada Venezia, 19 luglio 1943

Cara mammina eccoti qui, come appoggio alla tua immaginazione, un orario approssimativo delle mie giornate. Ore 7. Sveglia ore 8. Esco di casa e in dieci minuti di calli, callette, ponticelli, incontrando ormai sempre le stesse facce, con differenze di metri da mattina a mattina quanto al punto dell’incontro, arrivo in Arch.[ivio]. Che cosa vi ho fatto nelle sei ore intercorse? Qualche ricerca ogni tanto. Qualche indagine per mio piacere in cerca di antiche curiosità veneziane. In questi giorni poi dobbiamo, a turno, sopraintendere all’incassatura dei documenti che “sfollano” alla volta di un convento di terraferma; prendere nota cioè dei volumi via via incassati. Mi domandi dei colleghi. Sono simpatiche e discrete persone, due signorine, una signora, e due uomini, ciascuno occupato per sé nella propria stanza, se non è per riunirsi a fumare in un apposito corridoio. In più, un esercito di quattro usceri, uno più comico dell’altro. Dunque, dicevo, ore 1 e mezza circa, esco di Arch.[ivio] e lungo lo stesso itinerario che ho fatto venendo, torno all’Accademia, e vado a mangiare da Spina. Dopo, surrogato e breve sosta al caffè sulle Zattere, davanti alla Giudecca. Ore 15 circa. A casa. La casa è silenziosa, tutti sono a letto, o se no si redarguiscono l’un l’altro a bassa voce per il più piccolo rumore. Così posso dormire e poi lavorare in sufficiente tranquillità. La signora Porta è una donnetta piccola sui trentacinque, con i capelli color stoppa e gli occhiali; in compenso le sopracciglia pelate e le labbra tinte. Somiglia un poco all’Armida, anche per una certa esuberanza verbale, che non è facile arrestare una volta che ha avuto la stura – ma da me non l’ha di frequente –. Il marito c’è: è impiegato a Mestre e sta fuori tutto il giorno. C’è poi anche un

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cane – molto educato –, un altro cane impagliato entro teca di vetro, e due pappagalli, pure impagliati e sotto campana. Ore 8 circa. A cena. E dopo al caffè delle Zattere, o verso San Marco. Questi sono i giorni veneziani. Al Lido, dopo quella volta che vi scrissi, non sono più stato. Mi ha trattenuto un poco la distanza, l’affollamento dei vaporetti, e soprattutto la mitezza della temperatura. Ma ora che il caldo comincia a farsi sentire, vi tornerò, oppure mi bagnerò alle Zattere, o alla Giudecca, dove sono stabilimenti. Grazie dei pacchetti, che sono arrivati benissimo. Non potresti mandarmi una o due di quelle magliette più scollate – le canottiere, voglio dire – che devono essere costà? (una ne ho già con me: ma vorrei avere il cambio). E magari anche quella maglia con il colletto che era grigia a righe rosse incrociate e che fu tinta di blu? Saluti a tutti. Un abbraccio con tutto il cuore dal vostro Franco

Franco ad Ada Venezia, 22 luglio 1943

Cara mammina hai avuto notizie da Roma, di zia Lidia e degli altri, dopo il bombardamento? E così, lo strazio dilaga. Ormai, dunque, i Polidori vi avranno lasciato. E, quanto alla richiesta di San Lazzaro35 per gli sfollati, non pensate di offrire in cambio il palazzo36? Lassù – non è forse sfitto? – posto ce ne sarebbe. E mi sembra che al punto in cui siamo il contribuire come si possa ad alleviare la pena comune sia un dovere da cui non ci si può esimere. Non pare anche a voi? Son contento di sentire dalle tue lettere come nonostante tutto riuscite a vivere costì in relativa quiete e riposo. La casa di campagna a Montepulciano. Palazzo Nobili-Tarugi, in Piazza Grande a Montepulciano, a quel tempo proprietà dei Calamandrei. 35 36

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Io continuo a star bene. Ora, quasi ogni giorno, faccio il bagno o prendo almeno un poco di sole in uno stabilimento vicino a casa, sul canale della Giudecca. È comparso Cazorzi37, a Venezia, con moglie e figliolame, sicuro di sé malgrado tutto, della sua perspicacia ed avvedutezza. Salutatemi la Lea, e tutti gli amici costà. A te e al babbo l’abbraccio di tutto il mio cuore vostro Franco È arrivato un altro pacchetto. Grazie. Ho paura che i miei bagagli napoletani, se erano arrivati in stazione a Roma, vi abbiano fatto una brutta fine.

Franco ad Ada e Piero Venezia, 24 luglio 1943

Carissimi ho avuto stamani la vostra raccomandata, con le rassicuranti notizie da Roma. Quanto a voi, davvero, guardate di non farvi sorprendere dagli avvenimenti. Ma io spero che codesta zona rimanga per ora tranquilla. Va bene e grazie per l’assegno. Lo depositerò alla Commerciale, secondo mi scrive il babbo. Fatemi il piacere di dire alla signorina Concetta che mi spedisca raccomandati i miei documenti militari – quelli che sono, se ben ricordo, nella cassaforte dello studio –; infatti è bene che li abbia con me per poterli mostrare ad ogni richiesta. Qui nulla di nuovo. La temperatura è sempre mite, e tuttavia calda abbastanza per poter fare quasi ogni giorno il bagno alle Zattere. Così, e cercando di lavorare, si cerca di passare questa triste stagione. 37 Giacomo Ca’ Zorzi (1898-1960), poeta e saggista, nel 1936 aveva fondato a Firenze con Alberto Carocci la rivista «La Riforma letteraria»; subì diversi provvedimenti di polizia per antifascismo. Nativo di Noventa di Piave (Venezia), assunse per questo lo pseudonimo di Giacomo Noventa.

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Parte prima. Lettere

Vi abbraccio con tutto il cuore il vostro Franco

Franco ad Ada e Piero Venezia, 26 luglio 194338 CON VOI CON TUTTO IL CUORE ABBRACCIOVI FRANCO CALAMANDREI

Franco ad Ada e Piero Venezia, 27 luglio 1943

Carissimi pensai spesso a voi, ieri, nella insperata sorpresa degli avvenimenti, e sentii il bisogno di telegrafarvi il mio saluto. Avrei tante cose da raccontarvi, e voi certo ne avrete almeno altrettante per me. Ce le scriveremo poco alla volta, e molte più ne avremo da scriverci nei prossimi tempi, di giorno in giorno. C’era ieri qui, come certo dovunque, un grande entusiasmo, un senso di liberazione, una spontanea letizia. Ho visto spettacoli per i miei occhi venticinquenni radicalmente nuovi. Poi, calmato il primo slancio, è rimasto naturalmente nell’animo un sentimento grave di responsabilità, la tristezza dei rischi che incombono, il dirsi che questo è appena il principio della ricostruzione necessaria. Carlo F.[urno]39 non è stato liberato? Qui, ieri stesso, i detenuti politici furono rilasciati. Voi che fate? Non vi muovete, immagino, per ora. Telegramma lampo. Carlo Furno (1913-1970), avvocato e professore di Diritto processuale civile all’Università di Firenze, allievo di Piero Calamandrei, militò in Giustizia e Libertà e poi nel Partito d’Azione. 38 39

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Addio, cari. Vi abbraccio con tutto il cuore il vostro Franco È arrivato il pacchetto della biancheria. Grazie.

Franco ad Ada e Piero Venezia, 30 luglio 1943

Carissimi ho avuto stamani i vostri espressi di lunedì e di martedì, dai quali sento voi come me e come tutti, in questi giorni, pieni insieme di gioia e sollievo, e di ansiosa perplessità. Ma per quanto difficile sia il cammino che ancora resta da percorrere, e per quanto forse ci aspettino prove più dure di quelle passate, il cammino è finalmente quello giusto, e porterà al meglio. Vedete i giornali? Il «Corriere» di Sacchi40, con le candide ferite infertegli dalla censura? Ma che scarsezza di notizie, e come siamo all’oscuro di tutto! Così, corrono le voci più sensazionali, mutando di giorno in giorno. Ieri, ne correvano di fin troppo belle; oggi, ve ne sono in giro di fin troppo cupe. Speriamo. Da gente venuta su da Roma, mi è stato accennato che a Firenze sono accaduti fatti gravi. Se sapete e potete comunicatemene qualcosa. E costà, nessun disordine? Salutatemi tutti. Un abbraccio con tutto il cuore vostro Franco

Franco ad Ada e Piero Venezia, 2 agosto 1943

Carissimi ho ricevuto oggi il vostro espresso del 28, dove vi sento più sol40 Filippo Sacchi (1887-1970), giornalista, dopo il 25 luglio era stato nominato direttore del «Corriere della Sera»; mantenne la carica fino all’indomani dell’8 settembre 1943, poi riparò in Svizzera per non sottostare alle direttive della Repubblica sociale italiana.

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levati e fiduciosi negli avvenimenti. Ma certo il cammino è lungo ancora, e ancora forse ci riserba qualche svolta improvvisa, prima di arrivare al fine. Qui, il carattere tiepido e noncurante di questa gente reagisce alle novità come può. Ma reagisce... Tutti parlano – e finalmente forte – negano o affermano, approvano, condannano, tutti si riscoprono o si improvvisano un’opinione. Molte chiacchiere, ed anche qualche voce assennata che è edificante ascoltare. I proprietari della trattoria che io frequento sono veterani di carcere e di confino politico – padre, madre e figlia, tutti in blocco41. Furono compagni di Rosselli42, al tempo della sua fuga, e raccontano tante cose. Son contento che gli amici siano stati liberati. Ed anche che voi restiate costì, nella quiete, lontani dagli ancora in gran parte inutili rovelli cittadini. Statemi bene, cari, salutate tutti da parte mia, e un abbraccio di cuore dal vostro Franco Ho ricevuto i due pacchetti. Grazie. Le cravatte vanno benissimo, mammina, e le adopero, quanto almeno lo consente la temperatura.

Franco ad Ada Venezia, 4 agosto 1943

Cara mammina sarai più tranquilla, ora, spero. Si trattava, pare proprio vero, di voci senza fondamento. Tutto ha l’aria di voler andare ancora per le lunghe, e l’euforia dei primissimi giorni si dimostra ogni giorno meno giustificata. Comunque, qualcosa è cominciato, e il resto verrà. Sulla famiglia Spina, vedi supra, Introduzione, p. XXXIV. Carlo Rosselli (1899-1937), antifascista, tra i fondatori a Firenze del Circolo di cultura e del foglio clandestino «Non Mollare», poi del movimento Giustizia e Libertà. Fu confinato a Lipari nel 1927; due anni dopo riuscì ad evadere con Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti. Morirà in Francia, ucciso da sicari fascisti. 41 42

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Immagino che il babbo sia tornato da Roma carico di notizie. Ma era già prima in programma il suo viaggio? E di Firenze non avete saputo nulla? Voglio dire, nomi di persone, protagonisti o vittime delle giornate. «La Nazione» non arriva più qui: ho visto su altri giornali che ci ha scritto La Pira43; avete il numero? Le mie abitudini non hanno subito grandi modifiche per il coprifuoco. È bastato accorciare di un poco la sosta serale al caffè, dopo la cena. E certo, la clausura forzata dopo le dieci fa guadagnare del tempo alle letture e al lavoro. Si suda un poco, in casa; ma a parte il sudore, il caldo non mi dà fastidio e lo sopporto benissimo. Lo stabilimento dove faccio i bagni alle Zattere è una specie di pontone galleggiante sul canale, fornito di spogliatoi, docce, e tavolati per prendere il sole. Siamo una compagnia cordiale e simpatica, e la veduta della Giudecca tutto intorno è bellissima. Dì alla Lea che le scriverò: la sua lettera è compilata in modo encomiabile e merita risposta. Intanto le manderò, nella scatoletta metallica, insieme alla maglia del babbo, le sigarette che vi troveranno posto. State bene, cari, e abbiate l’abbraccio con tutto il cuore del vostro Franco Nessuna notizia più dei miei bagagli a Roma?

Franco ad Ada Venezia, 6 agosto 1943

Cara mammina non rimproverarmi se non so soddisfare il tuo desiderio ch’io ti scriva ogni giorno. Già una volta ti spiegai perché non mi riesce: perché mi dispiace di ridurre un compito in fondo così intimo come quello di darvi notizie della mia vita a una specie di meccanica incombenza giornaliera. Per scrivervi qualcosa ogni giorno 43 Giorgio La Pira (1904-1977), professore di Istituzioni di diritto romano all’Università di Firenze, cattolico democratico, dopo la Liberazione fu eletto deputato nelle file della Dc e poi sindaco di Firenze.

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finirei per non scrivervi più nulla che meritasse di essere scritto o letto. Perciò abbi pazienza e contentati: ti deve bastare la certezza che per quanto non quotidiane siano le mie missive esse vi recheranno sempre sul mio conto tutte le nuove importanti, e ve le recheranno appena esse si presentino. Immaginavo che il viaggio a Roma non avrebbe mancato di peripezie, né di episodi ufficiali. Scrivetemi, se ne avete e se potete, notizie sulla situazione. La quale, certo, continua ad essere tragica e penosissima, e paradossale. Pensare che cosa accade nel mezzogiorno, lo scempio di Napoli44... Ho visto il nome del babbo sui giornali, a proposito della Conf.[erenza] avvocati e procuratori, in una notizia poi smentita45. Che c’era di vero? Ma com’è, il babbo, e gli altri amici: collaborazionisti o attendisti? Mi domandi dei bagagli. Che cosa posso risponderti io, mammina? Fatemi saper voi, se è possibile, quale è la loro sorte. Assicurati non erano: almeno credo. Da Napoli non ho più avuto risposta, alla mia richiesta di conti, ecc. Scriverò a zia Lidia. E zia Clelia dov’è? E di zio Giovanni hai notizie recenti? E da Milano, di Beno46 e degli altri? La zanzariera ce l’ho, stai tranquilla: un bel padiglione! Ed ora addio, cara la mia mammina sempre trepida ed allarmata. Stai quieta, e prenditi insieme con il babbo l’abbraccio di tutto il mio cuore vostro Franco

Franco ad Ada Venezia, 9 agosto 1943

Cara mammina ho avuto i tuoi espressi di giovedì e venerdì, gremiti di notizie, 44 Il bombardamento del 4 agosto 1944 su Napoli, uno dei più violenti di tutta la guerra. 45 A Piero Calamandrei era stato proposto di presiedere il Sindacato nazionale degli avvocati; accettò, ma si dimise pochi giorni dopo, seguendo la linea del Partito d’Azione di opposizione al governo Badoglio. 46 Beno Cocci, nipote di Ada.

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di cose belle e brutte, come lo sono, più che sempre la vita, questi giorni assurdi e insieme del tutto logici che viviamo. Immagino quale soddisfazione debbano essere per il babbo gli incarichi che gli vengono offerti, e come debba confortarlo, pur nel fastidio grave degli oneri, la speranza di poter fare qualcosa di buono là dove fu fatto tanto male, di poter mettere un poco d’ordine nel disordine. E immagino anche quanti interrogativi si sarà posti, prima di decidersi ad accettare, in questa ambiguità dove tutto dà insieme da confidare e da diffidare. Tu gli sarai ora più che mai indispensabile, e dovrai dargli più che mai segno di serenità e di coraggio. Per me non preoccupatevi. Dico per le mie condizioni materiali, di cui vi date pensiero esageratamente. Le condizioni alimentari sono qui ancora ottime, e le spese non sono aumentate. Del resto, nella trattoria dove vado a mangiare, e che vi ho detto da quale specie di brave persone sia tenuta, hanno per me mille riguardi: mi forniscono leccornie per la colazione mattutina, leccornie in regalo, e zucchero, e anche uova, qualche volta, quando le vostre mancano. Tu in ogni modo mandami quel che vuoi, purché non sia roba ingombrante e facile a guastarsi. Ma stai una volta per sempre sicura che, se per qualche ragione dovessi restare separato da voi – il che auguriamoci e procurerò non avvenga –, qui non mancherei di nulla, né di simpatia, né di aiuti d’ogni genere. Grazie per gli assegni: ma, come ho detto, la solita somma continua ad essere più che sufficiente. La biancheria che ho con me mi basta, e non importa tu mi mandi altro. Io ti spedirò domani la scatoletta con la maglia del babbo e qualcosa per la Lea. Fa caldo anche qui, sì. Ma sono giornate così aperte, luminose, trionfanti che non si paga malvolentieri il prezzo di un po’ di sudore. Il coprifuoco è stato prolungato fino alle 22.30. Addio, mammina. Abbiamo fiducia nelle nostre energie per superare le difficoltà dure che si preparano, e tutto quello che accade e che potrà accadere accettiamolo di buon animo come strada per un domani migliore. Saluta la Lea e tutti gli amici. A te e al babbo un abbraccio con tutto il cuore dal vostro Franco

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Parte prima. Lettere

Franco ad Ada e Piero Venezia, 12 agosto 1943

Carissimi vi mando il mio saluto da casa, alla fine d’un pomeriggio che si è improvvisamente scatenato in bufera. I chicchi della grandine saltano allegramente contro i vetri, le imposte cigolano, liete di questa violenza della natura che le libera per una mezz’ora dal controllo dell’uomo. Che fate? Non ho avuto più vostre notizie, dopo l’espresso di venerdì. Il babbo è costì o a Roma? E dei parenti di Milano avete buone nuove? E di Terni, che sapete? I Polidori di Mannuccio, spero, saranno stati a Colcello. E la loro casa? Che scompiglio, che pena! Ieri, come un frutto tardivo, fuori stagione, mi è arrivato il Nerval. Lo avete visto? Ve lo spedirei, se i privati potessero spedire libri. Ma lo troverete in libreria. Vi ho spedito il pacchetto con le magliette e il resto. Addio, cari. Saluti alla Lea e a voi un abbraccio di cuore dal vostro Franco

Franco ad Ada Venezia, 15 agosto 1943

Cara mammina la tua lettera di mercoledì, dove mi dici di aver parlato per telefono con il babbo a Roma e mi annunci per venerdì mattina il suo ritorno costà, mi fa sperare che egli sia potuto partire prima del bombardamento, evitando a sé rischio e impressione, ed a te chissà quali ansietà. Fammi sapere al più presto notizie di zia Lidia e degli altri romani. E da Milano, del cui stato ho avuto descrizioni terrificanti, da Milano sai nulla? Che rovina, tutto questo, che irreparabile disastro! Mi chiedi della lettera di Severi a Gentile47. Non mi è piaciu47 Leonardo Severi (1882-1958), ministro dell’Educazione nazionale nel governo Badoglio, il 4 agosto 1943 rispose sdegnosamente, a mezzo stampa, alle

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ta, nonostante le colpe indubitabili e gravi di Gentile: l’ho trovata nonostante tutto poco generosa e non so quanto disinteressata. È questa un’ora in cui è più facile di sempre confondere i buoni con i cattivi moventi, spacciare il fango per oro. Che bella lettera invece, che alto equilibrio, che saggezza, quella di Croce! Mi saprai dire poi che cosa il babbo abbia deciso per i suoi incarichi. Ti scrivo la mattina della domenica, poco dopo mezzogiorno, prima di andare a prendere un poco di sole e di bagno alle Zattere. Ringrazia la Lea della sua lettera e salutala con tutto il mio affetto. A te e al babbo il mio abbraccio di sempre vostro Franco Ho avuto i pacchetti. Grazie. Rimando la scatola. E dei bagagli a Roma, nessuna notizia?

Franco ad Ada e Piero Venezia, 18 agosto 1943

Carissimi grazie di avermi mandato «La Nazione» con il generoso e vivo ricordo che il babbo ha scritto per Paoli48. Immaginavo che, malgrado le difficoltà, egli avrebbe conservato il suo incarico. Tanto più dopo quella dichiarazione dei Commissari confederali, che è stata accolta con molta soddisfazione per la sua messa a punto politica. Tutto questo fervore di riordinamento e di giustizia – la completa liberazione dei detenuti politici, finalmente – allargherebbe l’animo, se non lo imprigionasse la morsa atroce della guerra, il persistere di tanta volontà di violenza e di distruzione. Ma andiaprofferte di Giovanni Gentile che gli chiedeva di attuare una politica di riconciliazione nazionale. 48 Piero Calamandrei, In memoria di Giulio Paoli, «La Nazione», 12 agosto 1943. Giulio Paoli (1879-1942), professore di Diritto penale nell’Università di Firenze, fu perseguitato dal fascismo.

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Parte prima. Lettere

mo avanti, e confidiamo nella inesauribilità della vita. Salutatemi tutti. Vi abbraccio con tutto il cuore vostro Franco Va bene per i bagagli alla fine in salvo. E ora che conti di fare, mammina? Farli proseguire per Firenze? Scrivimi, prima di decidere. Mi ha scritto la signorina Fabrello49, una cartolina di congratulazioni, particolari per la nomina del babbo, e generali per quanto è mutato nella situazione politica. Risponderò direttamente a Nanda50 per l’affare della camicia di seta.

Franco ad Ada Venezia, 21 agosto 1943

Mia cara mammina immaginavo che tu nutrissi una certa speranza di vedermi capitare costà negli scorsi giorni, e che della mia mancata venuta potessi provare una certa delusione. Ma devi avere pazienza. Non avevo voglia di muovermi: è un periodo di applicazione proficua, per me, e l’atmosfera della mia vita veneziana gli giova. Non mi sentivo perciò di interromperlo e di cambiare aria, sia pure per pochi giorni. Né, tu lo capisci, mi attirava molto codesta vita movimentata del Poveromo, il gran discorrere che si fa costà, il gran passaggio di gente. Ho preferito tenermi in serbo le ferie per spenderle più tardi, e puoi contare sopra la mia venuta costà da voi nella prima quindicina di settembre. Non dubitare intanto che sto benissimo, e sono in ottima forma fisica e spirituale. Nel pomeriggio di oggi sgombererò dalla camera “presso Porta” per passare in una camera migliore, a cui la solerte Maria aveva fatto la caccia per me, più spaziosa – due finestre –, più libera 49 50

Titolare dell’omonima pensione, a Roma. Nanda Russo, figlia di Luigi Russo.

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e silenziosa, esposta a mezzogiorno sopra una fondamenta tranquillissima, la Fondamenta delle Eremite – bel nome, no? –, sempre nei pressi dell’Accademia e delle Zattere, vicino a San Trovaso (chi è pratico di Venezia ti potrà dire come sia bella la zona). L’indirizzo è presso Prat, Fondamenta delle Eremite. Ti scriverò il numero. Si intende che per la posta l’indirizzo è sempre quello dell’Archivio. Ti manderò il Nerval, se mi dirai ancora di non averlo trovato. L’ho chiamato frutto fuori stagione per il motivo che tu hai capito, ed anche rispetto a me stesso, che me ne sono separato ormai da un anno. Salutami Cancogni51, se torna costà, e digli che mi scriva il suo presente indirizzo. E Cassola, se la caverà?52 Ma è libero? E tu, tu, come ti senti, dico fisicamente? E il babbo, non risente dei viaggi e della aumentata attività? La cassa dei libri lasciamola per ora da zia Lidia, in attesa di vedere più chiaro nella situazione – o più scuro. Addio, cara. Salutami la Lea. Un abbraccio con tutto il cuore a te e al babbo vostro Franco Se la Signorina Piani è tornata a Firenze fammi spedire i miei documenti militari, che è bene abbia presso di me. Grazie.

Franco ad Ada Venezia, 24 agosto 1943

Cara mammina ti scrivo dalla mia nuova camera di Fondamenta delle Eremite 1350 presso Fanti, e precisamente di qui [piantina della disposizione della stanza con indicato il tavolo, NdC], dal mio tavolo, dal 51 Manlio Cancogni (n. 1916), narratore e giornalista, fece i suoi esordi nelle riviste fiorentine degli anni trenta; sui giorni tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943 vedi il suo Gli scervellati. La seconda guerra mondiale nei ricordi di uno di loro, Reggio Emilia, Diabasis, 2003, pp. 183-192. 52 Carlo Cassola (1907-1987), narratore, romanziere, saggista, era stato denunciato al Tribunale militare.

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Parte prima. Lettere

quale allungando un poco il collo posso, attraverso l’una delle due finestre, vedere l’acqua del rio, nel quale passa di tanto in tanto qualche placida imbarcazione. Fondamenta – se tu non lo sapessi – vuol dire una doppia banchina, che segue di qua e di là un canale. Io abito appunto sulla parte della banchina che volge a mezzogiorno. La stanza, come ti mostra la pianta, è spaziosa e comoda, fornita di tutto il necessario. Non manca sopra il “sommier” una principesca zanzariera, proveniente – ma non si deve dire – dalla Casetta Rossa, per la buona grazia della servizievole Maria. Al muro ho attaccato riproduzioni, e pitture di amici veneziani. Ho una grande quiete, qui, e vi lavoro in pace. È una casetta a due piani: io abito al primo, la signora Fanti e sua figlia al secondo. La signora è vedova, ha un figlio disperso in Russia, e un altro in Grecia, ex-cacciatore in Africa, da cui ha riportato denti e cranii di molte dimensioni che ornano la scala ed i corridoi. Uscendo, sono in due o tre minuti sulle Zattere, in cinque alla trattoria. Ed eccoti così aggiornata. Ho avuto stamani la tua lunga lettera del 20, un nugolo di notizie davvero! Sono contento per Bibi Lombardi53: se le scrivi rallegrati anche da parte mia. Mi ha divertito molto quel breve spunto di cronaca fiorentina del 26: tipico della giornata, esemplare per i suoi interpreti; del resto, avevo immaginato qualcosa del genere. Ma è Raffaellino de Grada54 che è venuto da voi? Se è lui, non è un cattivo ragazzo, no; ma chiacchiera troppo, ha sempre chiacchierato troppo, e c’è molta vanità, molta improvvisazione nelle sue parole: non è da giovani come lui che potrà venire molto di bene all’Italia e agli uomini. Mi rattristano le notizie che mi dai di Arezzo. La Carla55, certo, ha tutto il diritto di rifarsi la vita e sarebbe crudele, ingiusto impedirglielo; ma deve avere il coraggio, allora, di distaccarsi del tutto dal passato, di non cercare nel passato una comoda attesa dell’avvenire, di non offendere con la sua impazienza di vita coloro per cui il passato rappresenta tanBibi Lombardi Garrone. Raffaele (Raffaellino) De Grada junior (n. 1916), critico d’arte e saggista, militante del Partito comunista italiano. 55 Carla Cocci, nuora del fratello di Ada, Giovanni Cocci. 53 54

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tissimo. Povero zio! Sento di volergli un gran bene per questo suo soffrire. Gli ho mandato una parola di saluto. Ringrazia la Lea per le minuziose istruzioni che mi dà in materia di pacchetti postali. Ho capito. Intanto cerco, nei ritagli di tempo, di imparare a memoria il suo prospetto delle affrancature. Lo so, per ora, fino ai grammi 350. Per i valori superiori mi impunto ancora un poco. Ma spero di arrivarci. Ho avuto i due nuovi pacchetti. Grazie. La soprass.[ata] ha dato al mio palato sensazioni squisite. È veramente prelibata. Qui ieri è piovuto, e l’estate ha ceduto, si è fatta più mite. Potessero anche gli uomini, le cose distendersi presto così! Saluta tutti. Un abbraccio a te e al babbo dal vostro Franco Fai tu come meglio credi per i bagagli romani, per gli indumenti, e se credi di potere anche per i libri. Da Napoli ho avuto oggi notizie: sono sbigottiti, affranti, in ansiosa attesa del meglio.

Franco ad Ada Venezia, 27 agosto 1943

Cara mammina ho avuto stamani la tua lettera di lunedì 23, piena di visite e di conversazioni, troppo più di quanto, anche in questi momenti in cui l’appetito di parole e di notizie è forte, può bastare a nutrire l’animo. Ho paura che ve ne sentiate ripieni, e che il Poveromo sia più di sempre, soprattutto per te, una corvée tutt’altro che riposante. Scrivimi, se Carlo Emilio Gadda56 – il Gadda vero – è venuto da voi, come si è comportato. È uomo, lo avrai visto, timidissimo e cerimonioso fino alla spasimo, e ne combina sempre qualcuna.

56 Carlo Emilio Gadda (1893-1973), narratore e saggista, negli anni trenta a Firenze fu tra gli animatori del gruppo della rivista «Solaria». Il riferimento successivo è probabilmente a Piero Gadda Conti (1902-1999) pure scrittore, cugino del primo.

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Parte prima. Lettere

È lui l’autore di quelle pagine arzigogolate che leggesti sulla «Ruota»57, – rammenti? – e che ti lasciarono perplessa. Ho visto sul «Corriere» l’articolo del babbo58, con quel suo bel tono sereno di impronta toscana. Ma quasi ogni giorno, ormai, il «Corriere» ha qualcosa di interessante e importante. Le sue pagine, con quegli articoli di fondo e quegli elzeviri accanto a quei bollettini e a quei notiziarii esteri, resteranno singolarissimo documento di questa cronaca paradossale. Paradossale e angosciosa. Ma il processo è in via di risoluzione: lunghissima, magari, ed estremamente penosa, ma risoluzione. Basta aver coraggio ed essere disposti a tutto, perché tutto sempre è per il meglio, in fine dei conti. Mi fa piacere che Cassola se la sia cavata. Hai più visto Cancogni? Gli hai detto di mandarmi il suo indirizzo? Addio, mammina. Salutami tutti: tutti gli amici, dico, non tutti i nasi che capitano fra codesti pini. Un abbraccio a te e al babbo dal vostro Franco ho avuto il pacco del pane. Grazie.

Franco ad Ada Venezia, 30 agosto 1943

Cara mammina non temere: il mio lavoro, le esigenze interne ed esterne della mia vita non mi impediranno di venire da voi in settembre, non pretenderanno da te il sacrificio che con la solita materna generosità mi offri. Spero solo di trovarvi meno assordati da estranei, come già ti ho detto, e di non vederti arrivare, come mi dici, sfinita alle nove di sera per i salamelecchi e le chiacchiere. Ho paura che il tuo malessere di testa e di stomaco si approfitti volentieri di co57 Carlo Emilio Gadda, Lingua letteraria e lingua dell’uso, «La Ruota», n. 34, 1942; Id., Quando il Girolamo ha smesso... (I e II), ivi, nn. 2 e 3, 1943. 58 Piero Calamandrei, Gli avvocati e la libertà, «Corriere della Sera», 25 agosto 1943.

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desta tua vita per aumentare la propria frequenza. Difenditi come puoi, e non spenderti troppo. Mi chiedi di completarti l’immagine della mia nuova dimora. In camera, dunque, non ho né lavandini né vecchie catinelle scrostate: l’acqua corrente è nel gabinetto, sul pianerottolo. Il resto del primo piano, poi, consiste in altre due stanze: un salottino, che ho intravisto dalle scale, tutto oro e rasi, dove credo che dorma la figlia della padrona, impiegata a Mestre e sempre fuori di casa: una camera, dove sono provvisoriamente alloggiate, in cerca d’altra camera, due studentesse, belle figliole, molto riserbate, tanto che ho potuto solo vederne, passando davanti alla porta socchiusa, qualche ciocca biondissima, e qualche lembo fiammante di vestaglia. Nient’altro, sul 1350 di Fondamenta delle Eremite. Sulla quale Fondamenta è ormai calata la sera, che mi spinge fuori, a cena. Perciò ti abbraccio insieme al babbo con tutto il cuore vostro Franco

Franco ad Ada e Piero Venezia, 2 settembre 1943

Carissimi anche Pisa59, dunque, povera incantata Pisa, avrà dovuto pagare il suo tributo per il riscatto dei nostri peccati! E Bocca d’Arno mitragliata, e la corrente dell’Arno seguita come una traccia dagli incursori! Ma già, questi miti sentimentali non valgono proprio nulla, è l’ora di sacrificarli, e il mondo è tutt’uno ed eguale, una sola grande possibilità di bene e una gran pena per conquistarlo. – Voi ne avete risentito, del bombardamento di Pisa? E nessun amico, venendo o andandosene di costà, vi si è trovato per disavventura implicato? C’è qui nelle Fondamenta una radio che all’ora dei notiziari urla a squarciagola, sicché la posso sentire dal mio tavolino senza scomodarmi. L’altro giorno mi ha salutato il nome del babbo, ben 59

Disastroso bombardamento di Pisa, il 31 agosto 1943.

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Parte prima. Lettere

scandito nella sua circolarità fiorentina, nell’elenco dei nuovi rettori60. Così le responsabilità crescono sopra di lui, e credo che non possa esserne in fin dei conti altro che contento. Ho visto che fa parte anche della Commissione per la Riforma universitaria, che mi sembra, dei tre incarichi che ha ricevuto, forse il più delicato e importante. Grazie del «Corriere» che mi avete mandato. Ma, come vi scrissi, già lo avevo visto, perché compro ormai il «Corriere» ogni giorno. Non ho visto invece «Tempo» di cui mi dite. Lo cercherò? Ma è Magini, Manlio Magini61 che ha scritto? Qui, da due o tre giorni, dopo una giornata di pioggia, l’afa estiva ha ceduto ad un’aria più lieve e trasparente. Si sta bene, Venezia è bellissima, e quando esco di casa e arrivo sulle Zattere lo spettacolo della Giudecca, con le sue casette variopinte e minute a specchio del canale, e la distesa nitida della laguna, e la pittoresca imponenza delle navi e degli stabilimenti industriali consola l’animo di molte angustie. Si potesse presto considerare il mondo più in pace! Vi abbraccio con tutto il cuore il vostro Franco

Franco ad Ada e Piero Venezia, 10 settembre 1943

Carissimi spero con tutto il cuore che i due “lampo” che vi ho fatto, ieri ed oggi, vi siano giunti e vi abbiano rassicurato nei limiti del possibile. Vorrei esser certo che anche questa vi arrivasse per rassicurarvi ulteriormente: ma non ci conto molto. In ogni modo sappia60 Piero Calamandrei fu nominato rettore dell’Università di Firenze dopo il 25 luglio 1943; diede le dimissioni il 2 ottobre dello stesso anno. 61 Manlio Magini (1913-2003), volontario per la guerra d’Africa, alla fine degli anni trenta aveva insegnato nell’Istituto italiano di cultura di Tallin; divenne antifascista durante la campagna di Russia; avrebbe poi partecipato alla Resistenza in Lombardia nelle brigate Giustizia e Libertà, subendo la deportazione a Mauthausen.

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te che partire non mi è stato possibile, perché subito si sono avute notizie che la linea era interrotta a Bologna e che tentare per altre vie era mettersi in avventure abbastanza rischiose. E sappiate soprattutto che qui per ora tutto è tranquillo, e per quanto giungano dal retroterra voci allarmanti esse non trovano conferma nei fatti, e sembra invece che altri fatti debbano giungere da un’ora all’altra dal mare a garantirci da occupazioni più esose. Certo, tutto quanto “sembra”, ed è questa incertezza la cosa più penosa, l’angoscia più profonda del nostro animo vergognoso e avvilito. Ma tutto ciò era necessario, inevitabile, è l’ultimo atto dello sfacelo che doveva accadere per rendere l’aria dell’Italia e del mondo un poco più respirabile. Dunque, pazienza e coraggio. Siate certi che, se anche dovessi per qualche tempo restare diviso da voi e senza potervi dare notizie, qui nulla mi mancherà: che sono in mezzo ad amici affezionati, a tutta una fraterna società che mi considera come uno dei suoi da sempre, e che se ce ne dovesse essere bisogno – ma ancora siamo lontani da ciò, ed è probabile che non ci arriveremo – ci aiuteremo l’un l’altro in ogni modo. Non pare in ogni modo che se un taglio ci dovesse essere fra il nord ed il centro esso potrebbe durare a lungo: un mese o due, e anche meno. Dunque lasciatemi confidare che non vi darete troppa pena. Ma voi? Siete a Firenze, al Poveromo? Avrete certo pensato a telegrafarmi o a scrivermi. E gli altri? I Polidori? E gli amici? Ancora una volta, vi prego, non temete per me. Cercherò comunque di farvi avere notizie. Ma la posta, per ora, pare che funzioni. Siate prudenti, e fatemi sapere dove siete e come state. Io sto bene, sono sereno e tranquillo. Saluti a tutti. Un abbraccio con tutto il cuore dal vostro Franco Ebbi l’assegno. Grazie.

Franco ad Ada e Piero Roma, 20 settembre 1943

Sto bene. Rimango a Roma. Vi ho mandato una lettera per mezzo di amici.

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Parte prima. Lettere

Vigni, zia Lidia, Policreti62, ecc. Tutti bene. Un abbraccio con tutto il cuore Franco Il mio indirizzo è presso Giovannini Corso Rinascimento 101

Franco ad Ada e Piero Roma, [senza data]

Carissimi sono qui allo studio Pecorella63, con zia Lidia, e Bibi Chiesa che mi ha portato le vostre notizie e la vostra lettera. Spero che abbiate ormai visto Vigni, e che egli, oltre che rassicurarvi sopra il mio conto, vi abbia detto quello che vi dicevo nella lettera che vi avevo mandato giorni fa per mezzo di amici e che temo non vi sia ancora giunta. Non so cosa deciderete, non so neppure cosa desiderare per voi. Da un lato vorrei vedervi qui, per la certezza che tutti ci conforta che qui saremo presto, forse prestissimo, liberati. Dall’altro temo che, una volta che siate venuti, possano riuscirvi gravi i disagi che forse toccheranno alla città al momento del trapasso. Aspetto con impazienza il ritorno di Vigni per sapere da lui i vostri propositi. Bibi mi dice che vorreste trasferirvi a Montepulciano: ma se dovete restare in Toscana, non è meglio Treggiaia64, dove siete ad un tempo più sconosciuti e meno isolati? Per me, cari, non temete. Sto benissimo, e le condizioni della 62 Giuseppe Vigni (1904-1950), avvocato, collega di studio di Piero Calamandrei; Alessandro Policreti, avvocato, compagno d’armi nella prima guerra mondiale e fraterno amico di Calamandrei. 63 Gino Pecorella, avvocato, collaborava con Piero Calamandrei per le cause in Cassazione. 64 Località della Toscana, in comune di Pontedera (Pisa). Calamandrei e la moglie, in fuga dal Poveromo, vi risiedettero dal 12 settembre al 1° ottobre 1943, nella villa dei cugini Pimpinelli, quindi si trasferirono a Montepulciano, nel villino di famiglia presso San Lazzaro, e dal 16 ottobre a Colcello, in Umbria, comune di Amelia, ospiti della famiglia Polidori.

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vita qui sono ancora incredibilmente normali. Vi farò avere sempre notizie; e voi scrivetemi più che potete presso la zia Lidia. Vi abbraccio con tutto il cuore il vostro Franco Avrei voluto scrivervi molto, molte cose: ma Bibi ha fretta.

Franco ad Ada e Piero Roma, 27 settembre 1943

Carissimi penso a voi ogni giorno, e vi sento continuamente vicini in questo tristissimo tempo di attesa. Vorrei sapere cosa avete deciso circa il luogo dove trascorrerlo. Da un lato desidererei moltissimo che foste qui anche voi, perché poteste godere prima della liberazione che aspettiamo. Dall’altro temo che dovreste qui, almeno per un poco, condurre una vita troppo lontana dalle vostre consuete abitudini. Ma forse a quest’ora già avrete risolto di andare o già addirittura sarete a San Lazzaro. E forse sarà stata la soluzione migliore. Per me, ve ne prego con tutto il cuore, non datevi troppa pena. Non corro nessun pericolo: purtroppo c’è ben poco da fare e da esporsi. Non c’è che inerzia e smarrimento, quasi dovunque. Non c’è che una viva speranza del domani che sembra qui imminente, e di essere utili in questo domani. Sono insieme a tutti i più cari amici: anche Lauricella, Pratolini e, anche Cancogni è qui. – I Policreti, Pecorella stanno bene. – Zia Lidia, molto stanca, rimane per ora qui e vi saluta con tutto il suo affetto. – I Lapponi65 sono qui, la zia Luigia è andata a Forano. E i Polidori? – Continuerò a farvi avere mie notizie allo studio. Voi scrivetemi presso la zia Lidia. Se il corriere può portare roba – ma non credo, e non mi fiderei – mandatemi per favore un’altra camicia di flanella, e una o due maglie da inverno, di quelle rigate. Ma non ne ho gran bisogno. Ho 65 Renzo Lapponi, nipote di Ada Calamandrei, medico, legato ad ambienti vaticani.

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Parte prima. Lettere

portato molto di che coprirmi, anche se venisse il freddo. Semmai, indirizzate lo stesso presso Barchi. Vi abbraccio con tutto il cuore il vostro Franco Franco ad Ada e Piero Roma, 30 settembre 1943

Carissimi ho avuto la cartolina in cui mi dite la vostra decisione di trasferirvi a San Lazzaro, e per mezzo di un Barsanti che domani o domani l’altro verrà costassù vi mando questa al villino. Ieri l’altro affidai a persona che andava a Firenze il mio saluto e alcune notizie circa provvedimenti in corso qui a Roma, da comunicare a voce alla Concetta, e che spero vi siano giunte prima di partire a codesta volta. Si tratta di una lista di mille intellettuali da arrestare, in cui pare che siano compresi i Commissarii, e, almeno per Roma, sono certamente compresi coloro che hanno pubblicato durante il governo Badoglio articoli antifascisti. Non credo che i provvedimenti polizieschi possano diramarsi in modo sistematico da Roma per le province – tanto più che la polizia presta la sua opera in modo molto tiepido – e che se il babbo dovesse essere ricercato a Firenze possano poi insistere nelle ricerche fino ad arrivare costà. Ma, in previsione del peggio non dubito che, se a Firenze dovessero essere fatte ricerche, abbiate provveduto a che qualcuno vi avverta, in modo che il babbo possa stare pronto a andarsene da San Lazzaro, magari a Colcello. Pare che questo Barsanti venga su da Roma ogni sabato: così io procurerò di mandarvi notizie per suo mezzo ogni volta, oltre a quello che potrò scrivervi per posta, nei limiti in cui funziona. Anche voi potete servirvi di lui per mandare notizie a me. Io sto bene, non preoccupatevi. Si spera che per Roma, e quindi anche per l’Umbria, e per codesta zona, i tedeschi debbano presto sloggiare. Coraggio e fiducia, e andiamo avanti! Vi salutano i Policreti e Pecorella. La zia Lidia sta meglio, zio Athos66 è a letto con un’ulcera allo stomaco, ma non cosa grave. 66

L’ingegnere Athos Barchi, marito di Lidia Cocci.

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Piero, Ada e Franco (1939-1944)

Se avrò bisogno di qualcosa da Firenze, scriverò alla Lea, non dubitate. Cercate di stare sereni. Vi abbraccio con tutto il cuore il vostro Franco

Franco ad Ada e Piero Roma, 16 ottobre 194367

Carissimi ho avuto il vostro espresso di venerdì 8, e voi forse quel giorno o il giorno dopo avrete ricevuto la cartolina che vi spedii la settimana scorsa. Son contento di sentire che San Lazzaro non delude le vostre speranze di quiete e che il vostro soggiorno non sia almeno in apparenza diverso dagli altri anni, in modo da farvi meno soffrire l’anormalità del momento. Vi siete premuniti contro l’autunno montepulcianese? Piove? Sentite freddo? Ma si può confidare che prima dell’inverno possiate muovervi di costà. Io sto bene: ancora una volta, non preoccupatevi più di sempre di me. Non mi manca nulla, e se qualcosa mai mi mancasse la solidarietà di tutti qui è grande. Ho visto di nuovo l’altro ieri i Policreti, che vi salutano con la solita premura. (Capitai che stavano mangiando un fagiano portato da Lodovici, e ne beneficiai). Zia Lidia vi deve aver scritto. Da Firenze ho avuto tutto quanto avevo richiesto. State di buon animo ed abbiate l’abbraccio di tutto il mio cuore vostro Franco

Franco ad Ada e Piero Roma, 24 ottobre 194368

Sto benissimo. Vi abbraccio con tutto il cuore vostro Franco 67 Cartolina postale indirizzata a Egidia Polidori, Villino San Lazzaro Montepulciano (Siena), correzione di indirizzo Amelia (Terni). 68 Cartolina postale a Egidia Polidori, Avigliano Umbro per Colcello (Terni).

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Parte prima. Lettere

Franco ad Ada e Piero Roma, 2 novembre 194369

Sto bene e vi abbraccio con tutto il cuore Franco Franco ad Ada e Piero Roma, 8 novembre 1943

Carissimi affido questo saluto al corriere di Amelia che tornerà costassù domani martedì. Vi ho spedito in questo tempo varie cartoline. Non ne avete ricevuta nessuna? Avrei un’infinità di cose da raccontarvi, e il bilancio ne sarebbe buono, pieno di fiducia e speranza, sia pure lontane, infine consolante. Io sto benissimo. Lavoro molto; e nulla mi manca, state tranquilli. Avendo denaro si trova tutto, qui. E il denaro non mi manca, perché anche guadagno. Perciò, vi raccomando, non preoccupatevi per me. Zia Lidia sta discretamente. Zio Athos è entrato da qualche giorno al Fatebenefratelli, per curarsi l’ulcera, la quale, da un certo punto di vista, è stata provvidenziale. Gli altri, tutti più o meno bene. Saluti a tutti costà, con tutto il cuore. A voi l’abbraccio affettuoso del vostro Franco. Grazie di quel che avete mandato. Franco ad Ada e Piero Roma, 25 novembre 194370

Sto bene e vi abbraccio con tutto il cuore vostro Franco 69 70

Cartolina postale a Egidia Polidori, Amelia (Terni). Cartolina postale a Egidia Polidori, Amelia (Terni).

Piero, Ada e Franco (1939-1944)

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Franco ad Ada e Piero Roma, 25 novembre 1943

Carissimi affido quest’altro saluto al corriere di Amelia, che mi ha portato il vostro pacchetto. Vi ho mandato in questo frattempo alcune cartoline, che avranno dovuto purtroppo fare i conti con i ritardi e le interruzioni ferroviarie. Io continuo a stare ottimamente. I tempi, certo, si prolungano; ma si cerca di non perdere lena. Abito insieme ad altri amici, in uno dei più bei quartieri di Roma, a Parioli: ci fa da cucina una “Giovanna”71 siciliana, rimasta senza il padrone, che si è ritirato in campagna. Chiedete notizie dei parenti e degli amici. Renzo sta bene: vedo di tanto in tanto lui e Caterina. Giuseppe non è più a Roma: è andato per lavoro in provincia. La zia Luigia, già ve lo scrissi, partì per Forano. Sandro invece, purtroppo, non va tanto bene: conseguenza del servizio militare, aggravata da una ingiusta diagnosi dei medici; ma, speriamo, nulla di irreparabile. State quanto più potete di buon animo; non temete per me, ve ne prego. Salutatemi tutti costà con affetto. A voi l’abbraccio di tutto cuore del vostro Franco.

Franco ad Ada e Piero Roma, 11 dicembre 194372

Sto benissimo. Vi ho mandato un’altra lettera a mezzo corriere di Via Veneto. Sandro si è completamente ristabilito. Vi abbraccio vostro Franco

71 Giovanna era stata la “tata” di Franco, in famiglia dagli anni venti fino alla morte negli anni settanta. 72 Cartolina postale a Egidia Polidori, Amelia (Terni).

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Parte prima. Lettere

Franco ad Ada e Piero Roma, 21 dicembre 194373

Carissimi spero di potervi fare avere prestissimo attraverso Emilia74 una mia lettera. Un’altra intanto ne porto al corriere. E questo saluto affido, ma con poca fiducia, alle accidentatissime poste. Grazie a voi e agli altri che ve l’hanno procurato di tutto quanto mi avete mandato. Ci aiuterà a far delle buone cene ora che il coprifuoco anticipato proibisce per la sera le trattorie. Ma non preoccupatevi di mandare ancora. Fra tutti la roba qui non ci manca e non c’è bisogno che voi ve ne priviate. Il morale è altissimo. Auguri e saluti affettuosi a tutti. A voi l’augurio e l’abbraccio del vostro Franco. Grazie dei guanti. Vanno benissimo. Li ho subito inaugurati, malgrado non faccia freddo. Franco ad Ada e Piero Roma, 21 dicembre 1943

Carissimi ieri sera sono stato da Emilia, ed ho ritirato una parte di tutto quel ben di Dio che mi avete mandato: le uova (nella cui compagnia ho trovato i bellissimi guanti, che ho subito inaugurato), la gigantesca pagnotta ancora morbida e fresca, e i fichi; e a casa ne ho arricchito la cena comune. Il resto anderò a prenderlo a poco per volta, e zia Lidia ne avrà la sua parte. Quel sacco, che Emilia vuotava con la sua dolce maniera, aveva nella sua abbondanza inesauribile qualcosa di prodigioso! E il dolce! Una fettina d’una composizione che lontanissimamente gli rassomiglia viene venduta come una squisitezza al prezzo di 7 lire nei bar meglio forniti di questa capitale... Ma d’ora in poi non preoccupatevi di spedire altro. Fra tutti siamo ben forniti: anche nel mercato alimentare abbiamo conoscenze solidali; e si va avanti, proprio, senza difficoltà. 73 74

Cartolina postale a Egidia Polidori, Amelia (Terni). Emilia Baroncelli, amica di famiglia.

Piero, Ada e Franco (1939-1944)

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Non c’è davvero bisogno, dunque, che vi priviate voi di qualcosa. Né dovete temere che mi manchino i fondi: mi continua ad arrivare lo stipendio da Venezia, e riscuoto anche da altre parti. Emilia mi ha fatto della vostra vita colcellese un quadro abbastanza consolante. Mi ha detto le premure di cui siete circondati, e la relativa serenità con cui vi adattate alle circostanze. Mi ha detto come la salute vi assista, come non vi turbino troppo le mutate abitudini. E poi, dalle vostre lettere, sento che non vi mancano notizie, sia pur rare, di quanti vi stanno a cuore, da Firenze e da Arezzo. Sul nostro conto questi cenni di tanto in tanto vi debbono rassicurare e tenere abbastanza tranquilli. E la faccenda di Sandro, già lo sapete da zia Lidia o dalla mia cartolina, si è fortunatamente risolta nel migliore dei modi. Perciò si può proprio dire, come anche voi scrivete, che siamo tra i più fortunati, in questo sfacelo di tutto. E mi fa grande piacere leggere nelle vostre righe uno stato d’animo d’accettazione, di comprensione di quanto accade. Io, vi ripeto, sto ottimamente. Nel fisico e nel morale. La vita che faccio, piena di attività e di contatti interessanti, mi dà, come non avevo mai provato così intensamente finora, il senso soddisfacente di essere “dentro” alla vita, di vivere solidalmente con gli altri uomini. Era un’esperienza che mi mancava, che mi occorreva, a cui non potevo a nessun costo rifiutarmi, e che mi era indispensabile per completarmi. Se potessi scrivervi più comodamente potrei dirvi di qua, di tutto ciò che avviene giorno per giorno, molte cose interessanti: e potrei mandarvi giornali che non credo arrivino fino costà, che vi informerebbero più a fondo. Comunque, l’ultima novità, lo sapete dalla radio, è il coprifuoco alle 19, il divieto di circolazione alle biciclette dalle 17 in poi, l’invito alla popolazione “a mantenersi calma e disciplinata”. Salutatemi gli zii. Ma non penseranno seriamente a muoversi di costì per tornare a Firenze? Sarebbe uno sbaglio grosso. E salutatemi Serenella, tutte le ragazze, che, mi ha detto Roberto, prendono codesto insolito svernamento con molta e lieta filosofia. Ed ora saluto anche voi, miei cari. Mi chiedete il Nerval, e procurerò di mandarvelo attraverso Emilia, se potrò avere, come spero, un’unica copia che ho qua e che ho dato a un amico. State bene, e non abbiate alcun timore per me. L’augurio e l’abbraccio di tutto il mio cuore vostro Franco

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Parte prima. Lettere

Franco ad Ada e Piero Roma, 8 gennaio 1944, ore 13

Carissimi sono passato da Emilia per sapere se ci fosse qualche mezzo per mandarvi un saluto, e ho trovato i due nuovi pacchetti e le vostre notizie. Sulla scrivania di Emilia vi scrivo ora queste righe che verranno su stasera stessa. Sono molto contento che abbiate ricevuto la mia lettera, che abbiate sentito un po’ meno frettolosamente delle altre volte la mia presenza tra voi. Credetemi, nulla mi manca, da tutto quanto occorre alla vita materiale a quanto sostiene l’equilibrio e la serenità dello spirito. Sono soddisfatto di essere qui, sento che non potevo, in questo momento, essere altrove, e confido che voi comprendiate questo che sento. Sono stato allo studio Pecorella e ho trovato l’assegno che il babbo ha pensato a mandarmi. Vi avevo scritto come non ce ne fosse bisogno, e non avrei voluto che mandaste lo stesso, in questo momento in cui i fondi sono per forza di cose limitati, e quel che non serve a me può servire a voi. Grazie: lo terrò come fondo di riserva. Ma, vi ripeto, non preoccupatevi della mia situazione finanziaria, che non lascia nulla a desiderare. Ed anche per tutto ciò che è indumenti invernali, ecc. non temete e non indaffaratevi per farmi giungere roba da Firenze. Ho qui infatti tutto l’occorrente. I calzini di lana li metterò oggi stesso, a far compagnia ai guanti. Anche qui, da qualche giorno, l’inverno si è fatto rigido. Ma non ingrato: sono bellissime giornate di sole, e bellissime notti. Ma penso, con una certa pena, a voi costassù, assediati forse dalla neve, e... a luce spenta. Ma vi difendete bene dal gelo? E la salute va bene davvero? Zia Lidia e tutti quanti stanno abbastanza bene. Ormai la pazienza è diventata l’abito comune. E del resto, sotto, quest’abito, cresce ormai – e sarebbe anche l’ora – un po’ di ottimismo. Salutate tutti con affetto. Ringraziateli anche a nome mio della cara ospitalità che vi danno. A voi l’abbraccio di tutto il cuore del vostro Franco. Grazie particolari alla donatrice dei fichi.

Piero, Ada e Franco (1939-1944)

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Franco ad Ada e Piero Roma, 20 febbraio 1944

Carissimi trovo qui da Emilia la vostra lettera del 10, insieme alle provviste. Mi dispiace che il 10 non aveste ancora ricevuto un mio saluto che vi mandai con una lettera di zia Lidia ai primi del mese. E fra quella e questa un’altra ve n’ho mandata, che accompagnava il libretto di Nerval. L’avete ricevuta? Questa corrispondenza fa dei giri lunghissimi prima di arrivare a destinazione, e se state talvolta a lungo senza mie notizie dirette non dovete credere che ogni volta che trovo il modo di passare da Emilia non mi curi di lasciarle un rigo per voi. Cercate di non prendere troppo alla lettera le notizie che vengono ufficialmente da Roma. Le proporzioni e soprattutto la prospettiva delle cose mutano a seconda che si guardino di lontano o ci si trovi in mezzo. Pensate ch’io vivo all’erta, e con un po’ d’attenzione non è difficile superare le difficoltà che indubbiamente non mancano ma non sono affatto senza rimedio. Zia Lidia e zio Athos vanno avanti abbastanza bene, senza troppe preoccupazioni private, oltre quelle generali. Sono stato due volte a pranzo da loro, nei giorni scorsi, quando, come vi scrissi, mi trovavo da quelle parti. Ora sono tornato di nuovo più vicino al centro. Sto bene in tutti i sensi, credetemi. Forza e coraggio, miei cari, che ormai non dovrebbe essere lontana l’uscita da questo tunnel angoscioso. Saluti affettuosi a tutti costà e grazie delle provviste. A voi l’abbraccio di tutto cuore del vostro Franco

Franco ad Ada e Piero Roma, 28 febbraio 1944

Carissimi ho ritirato da Emilia il pacchetto del prosciutto con il biglietto accompagnatorio, e stamani la lettera a casa di Milena. Final-

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Parte prima. Lettere

mente, dunque, vi sono giunte le notizie, e siete un poco più quieti. Meno male! Ora – dite – i bombardamenti frequenti su Roma vi tengono più che mai preoccupati. Ma ancora una volta vi raccomando di non prendere troppo alla lettera le nuove, i resoconti, le voci che vengono di qua. Queste incursioni sono limitate a determinati obiettivi militari nei dintorni della città, e non hanno per l’abitato civile e per la cittadinanza nulla non solo di disastroso ma di rilevante. Suona l’allarme anche cinque volte al giorno, ma gli apparecchi passano come viaggiatori pacifici ed attraversano per andare a sganciare il loro carico verso Ciampino, Centocelle, ed altre località suburbane. La città intanto continua la sua vita formicolante: nessuno infatti va nei ricoveri, e la circolazione prosegue. Non c’è nulla di vero in quello che avete sentito che anche il centro sia stato colpito. Fate sempre, in questa come in ogni altra informazione che vi pervenga, la classica metà della metà. Capite che la maggioranza di quanti scrivono o vengono di qua è portata, per un vizio diffusissimo tra gli uomini, ad esagerare, a drammatizzare, anche per un certo gusto di farsi belli, di rendersi interessanti. Zia Clelia scrive da Montepulciano a zia Lidia lettere nelle quali sembra che a Roma ci sia l’Apocalisse, la fame, la distruzione e la morte. Non esageriamo! C’è molta gente, è vero, che non ha soldi per comprarsi il pane a 6 lire lo sfilatino, molti sfollati che languono per le strade e dormono dove capita, e impossibilitati a nutrirsi per mancanza di tessere. Ma non sono certo loro che scrivono lettere a parenti fuori di Roma. Quelli che le scrivono mangiano e dormono ancora benone, e per loro, più o meno, c’è tutto. Da Alfredo, per chi non si vergogni di andarci, ci sono ancora tagliatelle come un tempo, e torte di cento colori, e carne in tutti gli intingoli. E in tutte le trattorie in generale la roba non manca. La borsa nera funziona in pieno ed è fornitissima. Insomma, bisogna mancar di pudore per parlare di fame, e direi anche per lamentarsi di irrimediabili difficoltà alimentari, quando ancora si va a teatro ed a spasso e in carrozza, si siede e conversa in comodi salotti, bevendo tè e fumando. Chi soffre c’è, ma purtroppo tace. E la cosa più triste di tutto quanto accade qui è il persistente trionfo dell’incoscienza, dell’egoismo, dell’immoralità. Mi chiedete dove abiti, e possibilmente un recapito telefonico. La casa dove sto ora è in Prati, all’estremità di Prati, vicino a quel-

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la via Monte Zebio dove – ricordate? – abitarono un tempo i Lapponi. Sono sistemato comodamente, insieme ad altri amici, presso una brava vecchietta che la sera ci fa da cucina. Per il recapito telefonico tenete comunque presente quello di zia Lidia, che saprà sempre rintracciarmi. Dove sono, non è possibile telefonare né scrivere direttamente a me, né io posso servirmi di quel telefono. D’altronde, quando dovessi non dormire lì, dormirei dai Barchi, come ho fatto per tre giorni, qualche giorno fa, maternamente ospitato da zia Lidia. La mia vita presente, cari, di cui vorreste dei particolari, è quella che più o meno tutte le persone di buona volontà e di coscienza fanno ora qui, per cercare di dare una forma ed un fulcro alle tante aspirazioni, inquietudini, sofferenze che occupano l’aria di questa disgraziatissima terra. La mattina esco di buon’ora ed ho da fare in un posto o in un altro per tutta la mattinata. Pranzo di solito in trattoria, e rincaso di solito verso la metà del pomeriggio, un’ora o due prima del coprifuoco, e cerco di attendere al mio lavoro più particolare, in una specie di studiolo che ho rimediato. Ora, appunto, sono le quattro e mezzo e uscendo da casa Baroncelli dove mi sono fermato a scrivervi questa, anderò a casa. Speriamo che questa vi arrivi fra pochi giorni. State di buon animo e tranquilli. Vi abbraccia con tutto il cuore il vostro Franco Ezio dice che se Terzilio non riesce ad organizzare la spedizione, cerchiate di mandare per il Corvi una lattina d’olio. Ieri fui a pranzo qui da Emilia. Un pranzo di cui, dati i tempi, c’è da avere rimorso. Emilia è una cuoca miracolosa! Salutatemi tutti con affetto.

Franco ad Ada e Piero Roma, 28 marzo 1944

Carissimi sono passato da Emilia, a vedere se fosse giunto nulla da voi. I Baroncelli aspettano un camion da un giorno all’altro, e forse porterà qualcosa.

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Parte prima. Lettere

Io sto bene, come al solito. Roma sarebbe tanto bella, con queste prime tiepide giornate di primavera. Penso che anche a voi, costà in mezzo alla natura, la nuova stagione debba portare nonostante tutto un po’ più di serenità e del conforto. Forza e coraggio, ché dovrà ben finire. Salutatemi tutti. Un abbraccio con tutto il cuore del vostro Franco

Franco ad Ada e Piero Roma, 14 aprile 1944

Carissimi ho avuto la busta contenente la vostra lettera del 15 e del 28 marzo e quelle del Giovedì Santo. Vi scrivo questa da casa, sperando che per mezzo di quel tal impresario dell’Eliseo, o di qualche altra persona, possa presto arrivarvi. Vorrei sentirvi più su di spirito, animati di maggior fiducia, di maggiore coraggio. Capisco che questa attesa, costà, in codesta aria immobile, in codesta inerzia forzata, debba riuscire cento volte più lunga e angosciosa che non qui, dove l’attività quotidiana degli eventi piccoli e grandi, tutto il frastuono delle cose, fa scorrere il tempo con una rapidità che in qualche modo ne compensa l’azione logoratrice. Ma dovrete farvi animo e reagire. In questa rovina i vincitori saranno quelli che l’avranno traversata con la certezza che essa non è una fine ma un principio, ed un principio proprio in quanto è la fine di tante cose che non potevano più essere, anche se alcune di loro in un modo o in un altro ci stavano a cuore. Bisogna esser disposti a ricominciare il cammino, costi quel che costi, e dominare ogni stanchezza. Ci sarà tanto da fare, domani! Qui si va avanti: col fiato grosso, ma si va avanti, ormai dall’abitudine resi quasi insensibili alla mostruosa assurdità di questa vita. Sono i soliti bombardamenti periferici – ora in verità un poco diradati ed allontanati –, il solito via vai di automezzi e di truppe, le solite voci, smentite, speranze; e in più, da qualche settimana, splendidi cieli primaverili, alberi fioriti, gente che prende il sole lungo il Tevere; e poi miseria, miseria. Ma si sa che c’è un senso in tutto questo, una ragione, un filo, ed è quello che basta.

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Di Leone G.[inzburg]75 ero naturalmente informato. Non ve ne scrissi per non amareggiarvi inutilmente. Per fortuna i particolari che in un primo momento rendevano tanto tragica la sua scomparsa sono risultati inesatti. Ma se non erano veri per lui, lo sono stati per tanti altri, purtroppo. Quello che gli uomini sono stati capaci di fare di vile, in questo tempo, riuscirà incredibile. Ho notizie di Firenze, indirette. Una Firenze supina, acquiescente, naufragata nel suo cinico scetticismo; che mi dà pena e risentimento. Mi chiedete del mio lavoro a tavolino. Avrei parecchio da fare, se non disponessi solo delle ore serali. Pullulano le case editrici, qui a Roma. C’è una vera corsa ad investire capitali in libri ed in traduzioni. Non vi sto a dire quanto vi sia di immorale, e disgustoso, in certi aspetti di ciò. Traduco un Diderot per un editore, un Flaubert per un altro, ed ho altre offerte. Il lavoro di cui vi accennai a Treggiaia, per il momento è fermo, perché le persone che se ne interessavano sono state gravemente colpite, la casa è crollata, ed esse per poco non ne sono rimaste schiacciate. Ma se la sono miracolosamente cavata, ed ora si riguardano. Di Nerval non ho altre copie. Con questa, se faccio in tempo a ritirarli da Zia Lidia, o con la prossima lettera, manderò al babbo certi libretti di Beaumarchais76 che potranno interessarlo e divertirlo, se già non li conosce. Sono le memorie che Beaumarchais scrisse da sé per difendersi in certe cause che ebbe, e sono giudicate dalla critica fra i suoi scritti migliori. Li trovai a Napoli, poco prima di venir via, e mi proponevo fino da allora di darli al babbo. Poi furono chiusi nella famosa cassa di libri, dalla quale solo ora sono tornati alla luce. E al babbo avrei voluto far avere, in questi mesi, tanta roba che certo lo avrebbe interessato. Ma c’erano difficoltà di spedizione, lo capite. In ogni modo, se qualcosa gli può servire, e se gli occorre qualche informazione, qualche libro, al di fuori dello studio, può rivolgersi a me, oltre che a Gino. Sarà un’occasione oltretutto per 75 Leone Ginzburg (1909-1944), studioso di letterature moderne, cofondatore e redattore della casa editrice Einaudi, militante di Giustizia e Libertà. Morì nel carcere di Regina Coeli, a Roma, il 5 febbraio 1944 per le torture subite dai nazisti. 76 Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais (1732-1799), drammaturgo e polemista francese, autore – tra l’altro – di quattro Memoires (1774-1775).

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Parte prima. Lettere

vedere un poco più a lungo la sua calligrafia... Ma mi rendo conto come possa non aver voglia di scrivere, e come le idee che gli potrebbero passar per la mente, le notizie da chiedere, debbano per forza restare nella penna. Pia e Sandro stanno bene. Dalla malattia che ebbe in autunno, Sandro è stato in buona salute, sempre, si capisce, con un certo riguardo. Zia Lidia e zio Athos sempre a Via Cassiodoro, dove si sono sistemati comodamente. Passerò domani dagli Onofri a prendere la roba. Grazie. Ed ora vi saluto, cari. È passata la mezzanotte, ho sonno, vado a letto. E se la lettera è sconclusionata, attribuitelo all’ora, dopo una giornata abbastanza laboriosa. Salutate tutti. A voi un abbraccio con tutto il cuore dal vostro Franco Non lasciatevi turbare dalle notizie sensazionali che possono giungere costassù: sul tipo di quella dei 20.000 morti. Andate cauti nell’accogliere le voci. E degli strascichi invernali, come state? La laringite?

Franco a Piero Roma, 21 aprile 1944

Caro babbo eccoti – questa volta per davvero – le Memorie di Beaumarchais. Non hanno un bell’aspetto, come vedi. Ma pagine non ce ne mancano. Ed il formato dei volumetti ti potrà consentire di portarteli comodamente in tasca, uno alla volta, quando non avrai altro da leggere lungo codesti sentieri, che ormai, con la bella stagione, sarà piacevolissimo percorrere. Il Rousseau non dev’essere difficile a trovarsi. E chissà che non riesca a mandarti anche lui con questa, se, come temo, tarderà un poco a partire. Capisco come ti debba pesare a giorni la tua clausura. Ma pensa che cosa avrei dovuto provare io, non avendo come te tutta una attività passata di cui confortare la coscienza, in codesta condizione. Quale segno di irrimediabile debolezza sarebbe stato per

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me astenermi, restare in disparte, rifiutare l’occasione che finalmente le circostanze mi offrivano per un giusto intervento, per salvarmi da quell’esasperato individualismo in cui la mia generazione rischiava di rimanere impigliata. Credo che ora giustificherai pienamente la ostinazione che opposi in settembre alle vostre preghiere, e quello che poté sembrarvi un capriccioso egoismo. Qui, insensibilmente, lentissimamente, ma la situazione si fa sempre più tesa. I romani si sono fregati di tutto finché hanno potuto, e finché hanno potuto non si sono nemmeno vergognati di mostrare risentimento verso quanti non se ne fregavano. Ma ora che comincia a essere in ballo lo stomaco, ora che il pane è ridotto a 100 grammi giornalieri, e un carciofo costa 18 lire, ora non lo possono più. Stamani ci sono stati dei tumulti per il pane. E si parla con insistenza di sciopero generale. La città è diventata come una stanza, così isolata, e fatta compatta dalla medesima attesa, dai comuni disagi. C’è ancora, al di fuori, un mondo di paesaggi, di strade, di colline e di monti, di pianure, di laghi, di mari, e ferrovie e navi che viaggino, un mondo aperto, infinito, un mondo di fantasia, di libertà? A momenti prende una gran nostalgia di tutto questo, tanto più in queste giornate di primavera, in cui il cielo presenta profondità e lontananze così suggestive, e tutte le facoltà sono deste, e la memoria irrequieta. Ma subito ci si dice che c’è prima di tutto questo orrendo episodio da consumare, questo maleficio da rompere. Da Firenze ho di tanto in tanto qualche notizia. Non sembra che ci siano state rappresaglie dopo l’uccisione di Gentile77. Solo un dilagare di spavento nell’uno e nell’altro campo. Ho saputo che [Giorgio] Pasquali è stato ricoverato in una clinica, pazzo. Lo ha preso una forma acutissima di mania di persecuzione. Fermava tutti i conoscenti per strada, diceva: – Tu non mi stimi più – e su a gridare. Che tristezza! Firenze dev’essere ben sinistra! A Sandro puoi scrivere: della pioggia e del bel tempo, s’intende; e magari indirizzando alla Pia. Dì alla mamma che da Firenze non mi occorre nulla. Semmai – ma posso farne a meno benissimo – qualche paio di pedalini leg77 Giovanni Gentile (1875-1944), filosofo, ministro della Pubblica istruzione durante il fascismo, poi dirigente della Rsi, fu ucciso dai Gap a Firenze il 14 aprile 1944.

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Parte prima. Lettere

geri. Dille che ho ritirato i pacchetti da Onofri, il vino e il salamino da Emilia. E grazie tante. Io sto ottimamente, c’è ancora bisogno che ve lo dica? E gli amici non si capacitano di come faccia a ingrassare. Salutatemi tutti. E Serenella? Si annoia? State bene, cari, e di buon animo. “L’ha a ffinire!” si dice a Firenze, no? Vi abbraccio con tutto il cuore il vostro Franco

Franco ad Ada e Piero Roma, 11 maggio 1944

Carissimi e ancora una volta nulla di mutato tra la vostra lettera e la mia risposta. I giorni si aggiungono ai giorni, sempre più aridi del bene di vivere, e sempre più intrisi di tetra, fina, implacabile attesa. È calato lo scirocco, annunciando l’estate, e gli uomini camminano per queste strade trascinando più che mai come automi la loro quotidiana vicenda. Eppure, non crediatemi per queste parole demoralizzato o stanco nell’animo: se non avessi tanti motivi di fiducia e di speranza, vecchi e nuovi, mi basterebbe la realtà, il senso di esistere che c’è comunque in questa angoscia, per condurmi volenterosamente in avanti. Roma, lo sentirete, immagino, dalla radio, è spesso all’ordine del giorno, ormai. C’è del vero e dell’esagerato nelle notizie ufficiali, del meritato e del meno meritato nei commenti encomiastici. Le esperienze recentissime, per chi ne aveva in un modo o in un altro vissuto la preparazione, sono state piene di delusione. Ma d’altra parte esperienze, lezioni. E indubbiamente, sotto il tallone della sofferenza, della desolazione, c’è qui una coscienza che si risveglia, e per quanto lentissima si fa. E poi, accanto alla tragedia, c’è la commedia, la farsa, insopprimibile come sempre. C’è, per esempio, l’Eccellenza Antonio B, l’amico di Pietrino, il quale, timoroso di persecuzioni da tutte le parti, se esce dal suo nascondiglio, ne esce travestito da cieco, con occhiali affumicati, passo traballante e bastone, grande cappel-

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laccio nero, e (udite, udite!) barba e grandi baffi impecettati con la punta all’insù. Appoggiato al braccio della consorte, povero Michelaccio, come ti sei avvilito! Il pacco che mi avete mandato viene utilizzato nel migliore dei modi. Serve per i pasti serali, cucinati in casa, in collaborazione. Con la farina gialla si fanno saporite polente, con la bianca pizzette arrostite sulla gratella da aggiungere alla modesta razione di pane, con le uova belle frittate condite di carciofi a 18 lire l’uno. Sto acquistando impensate capacità culinarie: so accendere il fuoco, ora, cuocere un tegamino di uova, giudicare della cottura del pane, lavare e asciugare stoviglie e posate. E poi spazzare, rifare un letto, battendo a gran colpi di palma il materasso (così si deve fare, no?). Insomma, tutto quel poco di buono che ancora può offrire questo vivere deforme, non manchiamo di coglierlo. E state tranquilli che nulla del necessario mi manca, né per l’animo né per il corpo, al di fuori di quella libertà, di quella apertura di cielo che fa difetto ad ognuno. Con Firenze posso comunicare solo irregolarmente e sempre meno. (I bombardamenti, a stare ai giornali, si sono intensificati, e chissà che disperazione per quelle povere strade, dietro la apparenza di quel falso trionfo, lo schifo di tanta prostituzione). Cercherò in ogni modo di scrivere io alla Lea. E del resto, come già vi scrissi, tutto l’indispensabile l’ho qui, anche la roba d’estate. E non preoccupatevi di queste cose, per carità, che ormai proprio non hanno più senso. Zia Lidia e zio Athos tirano avanti, e meglio di quanto si potrebbe credere. Stanno sempre in via Cassiodoro, sistemati comodamente. Da gente venuta di costà ho saputo che c’è un certo movimento, nel Ternano. Ne risentite conseguenze spiacevoli? Vi muovete il meno possibile, no? E quanto a Montepulciano, non ci tornate, non ci tornate: sarebbe un grosso sbaglio; ho motivi per sconsigliarvelo. Non temete per me, cari. Salutatemi tutti. Vi abbraccia con tutto il cuore il vostro Franco

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Parte prima. Lettere

Franco ad Ada e Piero Roma, 16 maggio 1944

Carissimi sto benissimo e perfettamente al sicuro. Non temete per me, badate a preservarvi, a mantenere costà l’incognito più stretto, e ad usare ogni cautela nei rapporti con San Lazzaro e Firenze. Questa pare davvero la volta buona, siamo alla fine, e bisogna uscirne intatti. A presto, speriamo. Vi abbraccio con tutto il cuore il vostro Franco

Franco ad Ada e Piero Roma, 27 maggio 1944

Miei cari l’attesa pare dunque, per davvero, alla fine. Si risente il cannone di là dai colli, e per tutto il giorno è un sorvolare di aereoplani che battono le vie di accesso alla città. In quest’aria radiosa di prima estate sembra di sentire fisicamente vibrare su dalle vie e dalle case il desiderio di liberazione degli uomini, i loro affetti compressi, la loro esistenza conculcata, nella impazienza degli ultimi giorni. Purtroppo, quanti non saranno arrivati! La bestia ha azzannato più che ha potuto, in questi ultimi tempi, ha fatto tanti altri vuoti, e tanti di noi hanno visto cadere persone vicine, vite giovani e promettenti troncate, felicità appena agli inizi distrutte. Eppure, quei volti crudelmente ammutoliti che quasi tutti porteremo nell’animo dovranno essere non pesi, ma altrettante eredità da impiegare, lasciti di energia e di fede che ci avranno resi più forti e capaci alla vita. Al termine di quest’incubo, se lo avremo accettato e sapremo non rinnegarlo, ci troveremo, con tanto lutto e tanta miseria, arricchiti forse come mai avremmo sperato. Ma oggi vi scrivo soprattutto per darvi una notizia che vi consolerà moltissimo, che vi compenserà di quanto avete potuto penare per me in questi mesi, così come quello che sto per dirvi compensa me ad usura infinita di certe ore angosciose di questo periodo. Finalmente ho con me una compagna, e appena qui sarà possibile presentare a un pubblico ufficiale i nostri due nomi, spe-

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riamo, se le cose continuano così, fra pochi giorni, ci sposeremo. Maria Teresa ha vent’anni, ed è disposta, aperta alla vita, dolcemente ansiosa di vivere come può esserlo una fanciulla. E insieme, esperienze amare, compiti duri assunti e adempiuti col più grande coraggio, l’hanno resa forte, perspicace, assennata, come non è facile trovare una donna. Dall’ottobre ad ora, l’attività che ci ha avvicinati è stata per noi così folta e così approfondita nell’animo, che è come avessimo in comune un passato molto più lungo. E da quando ci siamo uniti ci sentiamo così illuminati l’uno dell’altro, fatti tanto più liberi, fiduciosi, capaci, che al nostro amore non può esserci dubbio. Non gli manca oramai se non di uscire da questa stretta di spavento e di morte in cui tutto languisce, e rendere fruttuosa la propria presenza fra gli uomini. Lavoreremo, Maria Teresa mi aiuterà in tutti i modi, e ci meriteremo quella felicità che già i nostri cuori assaporano. Vorrei che questa lettera potesse giungervi subito, a farvi contenti. In ogni modo speriamo che vi pervenga prima che il succedersi degli avvenimenti ci impedisca, com’è purtroppo da prevedere, di comunicare per qualche tempo. Quello che vi ho detto non vi sarà allora, per quanto mi concerne, di sufficiente alimento a superare l’ultima attesa? I Barchi continuano a stare abbastanza bene, e come loro tutti quelli che conoscete. Non abbiate ora per me più alcuna apprensione. Pensatemi davvero sicuro e sereno, con una buona e brava e bella creatura vicino. Vi abbraccio con tutto il cuore vostro Franco

Franco ad Ada e Piero Roma, 29 maggio 1944

Babbo e mamma cari ho avuto le vostre notizie del 21, portate dal Salesiano, al quale Emilia non ha potuto dare nulla di mio, perché io giudicando più rapido il tramite di Spernanzoni avevo preferito lasciare la lettera a lui. Ma oggi gli ho telefonato e mi ha detto che la lettera è partita: così finalmente – ne ho tanto desiderio, potete crederlo –

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Parte prima. Lettere

avrete mie nuove e saprete come questo periodo non solo non mi abbia nuociuto ma mi abbia recato un bene grandissimo. Vi sento così impazienti, poveri cari di muovervi di costà, di rivedermi, di rivedere tutti coloro da cui siete stati separati. Qui non è cosa spiccia ottenere un permesso per voi lontani; e almeno che Pecorella – con cui ho cercato di comunicare tutt’oggi senza successo, al quale ritelefonerò domattina, e che comunque so che ha già affidato a Spernanzoni una lettera – non abbia potuto ottenere qualcosa per la sua via, credo possiate farvelo rilasciare molto prima costà, spiegando il vostro caso di persona. Già ogni giorno rincasando mi aspetto di trovare la telefonata che mi annunzi il vostro arrivo. Cercate di arrivar sani e non troppo stanchi, perché avrete qui da sentirne e da vederne un bel poco. Mi ha commosso la vostra ansia di tornare in su, in Toscana, verso i luoghi soliti e antichi. Ma temo che ci sia da aspettare... La guerra è lenta, ahimè, a paragone dei nostri desideri, e vuol essere scontata palmo per palmo. Tutti quei vecchi paesi, quelle borgate che non avevano da secoli altra storia se non di ozi e di fiere, portati ora alla ribalta del mondo, in una cronaca di distruzioni e di morte! Roma si sta acquietando dal fervore intemperante dei primi giorni. Le attività si organizzano, e passano a poco a poco dalla iniziale tensione a vuoto ad una tensione più interna e fattiva. Le condizioni generali della città, a parte i trasporti, la mancanza di luce e di telefoni, non sono cattive e non sono state disastrose neanche un giorno. Non fatevi, al solito, dei quadri catastrofici! Venite dunque, miei cari. Vi aspettiamo. Abbracciate tutti costà. A voi l’abbraccio di tutto cuore del vostro Franco I Policreti stanno bene. Ada a Franco Colcello, 3 giugno 1944

Francolino caro, sono ancora troppo commossa dopo le tue due ultime lettere scritte a distanza di un mese l’una dall’altra... e che portavano no-

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Piero, Ada e Franco (1939-1944)

tizie così importanti per la tua e la nostra vita, per riuscire a scriverti serenamente ed esprimerti i miei pensieri e sentimenti. In ogni modo quel che più conta e che prevale nella mia commozione è un senso grande e riposante di letizia nei tuoi riguardi. Caro Francolino, dopo il periodo tremendo che abbiamo attraversato e in cui molte volte ho creduto di non riuscire ad arrivare in fondo tanto ero in pena e mi consumavo... e insieme a questa letizia il desiderio più vivo di ritrovarti presto fra le mie braccia e di sentir battere sul mio cuore il tuo pieno di questa nuova felicità... Così, è anche grande e vivo il desiderio di conoscere al più presto Maria Teresa, la donatrice di questa felicità che saprà certo conservarti; e di abbracciarla con le mie più dolci tenerezze materne insieme a te Francolino caro Ada [sul retro del medesimo foglio] Colcello, 4 giugno 1944

Francolino caro, dopo averti scritto questa lettera abbiamo ricevuto anche la tua in risposta a quella portata da D. Minozzi78. Ne avrai avuta forse anche un’altra mia in cui ti rimproveravo... dolcemente – del tuo silenzio che il ritardo della tua lettera non aveva ancora interrotto e che ci tormentava assai assai. Nella lettera degli amici abbiamo avuto notizie tue presenti e passate... Caro Francolino quanto avevamo ragione di temere e tremare per te... quante cose avrai da raccontarci e se ci troverai non poco sconquassati fisicamente e spiritualmente non per questo dovrai essere meno esatto nei tuoi racconti della tua vita passata che ci ha fatto tanto penare. Ma da qui in avanti speriamo in un compenso a tutto questo tormento e sacrificio e a te e alla tua M. Teresa l’auguriamo con tutta la nostra grande e profonda tenerezza. Vi abbracciamo stretti Ada Ci hanno fatto sperare in una occasione prossima di un camion – speriamo bene. 78

Don Minozzi, direttore dei Salesiani di Amelia.

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Parte prima. Lettere

Franco ad Ada e Piero Roma, 24 giugno 1944

Carissimi ho avuto oggi da Emilia la vostra lettera del 15, finalmente traversata da un respiro di sollievo, ed essa mi ha tolto l’ombra che sospendeva ogni tanto la mia contentezza presente, se pensavo che la guerra potesse farvisi sentire troppo da vicino, e, dopo la liberazione di codesta zona, mi chiedevo perché in alcun modo non vi faceste vivi. Ma dunque, quando verrete? Tante persone vi aspettano, qui, e mi domandano di voi. Solo, siate prudenti ad avventurarvi in un viaggio che senza dubbio presenta grandi disagi ed anche dei rischi. Quanto a me... Ma prima leggete quest’altra mia lettera, che vi avevo scritto, vedete, il 27 maggio, e che non poté più partire. Avete letto? Ora, da dieci giorni, dal 13, Maria Teresa ed io siamo sposati. C’è bisogno vi dica quanto ci sentiamo felici, protetti l’uno dall’altro per questa più libera vita che ci si schiude? A voce vi racconteremo tante cose di noi, dei mesi passati, vi metteremo a parte della nostra storia. Abitiamo una simpatica, luminosa camera nel quartiere dei Prati, che stiamo sistemando un poco a nostro modo. Lavoriamo molto, e tiriamo avanti bene nelle non facili condizioni in cui Roma si trova. Ma speriamo che questa lettera vi incroci per la strada, che ci riabbracciamo prestissimo, e che possiate vedermi negli occhi come questi mesi e il mio amore mi abbiano accresciuto. Per colui che ha portato la vostra nulla è stato possibile mandarvi perché ha lasciato la busta alla portiera di Emilia ed è subito sparito. Vedrò, andando da Spernanzoni, di far partire questa quanto prima si può. Tutti coloro che vi premono stanno bene. I Barchi sono tornati nella loro casa di via Stamira. Io ho dato il mio indirizzo dovunque potrete far capo arrivando: a Pecorella, a zia Lidia, ai Baroncelli, ai Lapponi. Esso è: Piazza Bainsizza 2, ed il telefono – uno dei pochi che funzionino in Roma – 363161. Qui, lo immaginate, un gran tripudio, ed una confusione grandissima. Ma vedrete voi stessi.

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Piero, Ada e Franco (1939-1944)

Venite presto. Vi abbraccio con tutto il cuore vostro Franco Portatevi delle candele, se ne avete. Perché non c’è luce, e le candele costano 14 lire l’una. Vi ho scritto questo al lume d’un lucignolo tuffato in un dito d’olio sopra un bicchiere d’acqua.

Piero a Franco Colcello, 3 luglio 1944

Caro Franco, l’annuncio portatoci dalla tua ultima lettera ci ha riempito di turbamento: in mezzo al quale, quando abbiamo potuto fare un po’ di bilancio dei nostri disparati sentimenti, abbiamo trovato che prevaleva la gioia. Gioia per sentirti felice e sano, dopo un periodo in cui siamo stati tanto in pensiero per te, che seguivamo in mezzo ai disagi e ai pericoli, dei quali specialmente io misuravo tutta la gravità; gioia per poterti pensare d’ora in avanti accompagnato per la vita dal vigile amore di una creatura fidata; e gioia per sapere giunta anche per te (e così possa giungere per l’Italia!) l’età della consapevolezza, del senso di responsabilità e del virile equilibrio. Certo, saremmo stati più lieti, o per dir meglio la mestizia che ha accompagnato questa letizia sarebbe stata meno pungente, se di questo avvenimento che è il più importante della tua vita avessimo potuto essere informati prima che esso fosse un fatto compiuto: se nel giorno del tuo matrimonio avessimo potuto essere accanto a voi (senza dar troppo ingombro e senza offendere il buon gusto...) per darvi con la nostra presenza l’augurio all’inizio del vostro cammino; o almeno se, sapendo il giorno, avessimo potuto anche da lontano consolarci pensando alla vostra felicità (fu proprio in quella notte che la mamma ed io stemmo fino all’alba rannicchiati dietro un muretto in mezzo al bosco per ripararci dalle scheggie delle munizioni che esplodevano). Ma le circostanze ed il clima di questi mesi hanno voluto altrimenti: e tu hai fatto bene a far come hai fatto. In altro momento questa partecipazione posticipata avrebbe lasciato supporre un’intenzione che tu certo oggi non hai voluto metterci: quasi un’ostentazione

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Parte prima. Lettere

della tua indipendenza e una specie di simbolica “estromissione” di noi genitori da un evento che riguarda te solo. E questa sarebbe stata più che una cattiveria, una vana illusione; perché il matrimonio non è soltanto la consacrazione ufficiale di un amore, ma è anche la continuazione di una famiglia che necessariamente vi è partecipe: nei tuoi figliuoli ritroverai fatalmente, anche se tu non volessi, la nostra presenza. Auguro a te a Maria Teresa che i vostri figliuoli vivano in un’epoca in cui sia permesso ai genitori di assistere serenamente al matrimonio dei loro figli: e che voi possiate avere questa gioia che a noi, nella sua forma simbolica, è stata vietata. Ed auguro a te che Maria Teresa possa esser per te quello che per me è stata ed è la mamma. Nonostante che tu abbia segnato ora, anche sui registri dello stato civile, la cessazione del tuo stato di “figlio di famiglia”, credo che d’ora in avanti ti sentiremo più vicino a noi di quanto sei stato in questi ultimi anni; perché solo con l’amore, e più con la paternità, si comincia a volere bene agli altri: e a sentire che la vita non consiste in un gusto egoistico di “esperienze” intellettuali, ma in una scuola di sacrificio per gli altri. Sono moralità trite, che a sentirle dire fanno anche ridere; ma il matrimonio ti dimostrerà che, in fondo in fondo, sono una cosa seria. A Maria Teresa, che è già entrata nel cerchio dei nostri affetti, inviamo il primo saluto che speriamo di poterle dare in persona tra qualche giorno, appena una gita a Roma in queste strade ancora ingombre di truppe in movimento sarà possibile. Nella tua presentazione ella è per ora soltanto un nome, e un cenno delle qualità che te l’hanno fatta amare; ma è già abbastanza perché essa sia fin d’ora la nostra figliuola. Un abbraccio dal babbo. [Aggiunta di Egidia Calamandrei:] Francolino caro, finalmente possiamo, dopo tanto tremore e sgomento per te, pensarti sicuro e sereno. Bene! Ti abbraccio e abbraccio con te Maria Teresa, a cui do affettuosamente il benvenuto mio – di Ciro – di Serenella. tua Egidia

FRANCO, TERESA, PIERO E ADA (1944-1956)

Franco a Teresa Napoli, luglio 1944

Caro Amore, devo partire per Napoli immediatamente, e non è proprio possibile venirti a salutare. Spero di tornare prestissimo. Ti lascio i soldi che ho. Se arrivassero i miei genitori (e cerca per questo di stare in casa più che puoi, in modo da fartici trovare) vai tu ad incontrarli, e spiega loro la mia assenza. Sta’ bene, e sii contenta. Arrivederci. Ti abbraccio con tutto il mio amore tuo Franco Franco a Teresa Napoli, luglio 1944

Cara mimmina mia, Lucia1, che ho trovato qui, sola, e triste di aver perduto Mario senza sapere per quanto, ti porterà questa lettera. Io tornerò venerdì o al più tardi sabato. Dunque stai buona, e non farti saltare in mente di venirmi a raggiungere. Perché, oltretutto, potremmo incrociarci per strada. 1 Lucia Ottobrini, gappista romana; suo marito Mario Fiorentini, anche lui impegnato con i Gap della capitale, dopo la liberazione di Roma fu paracadutato al Nord per proseguire la Resistenza.

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Parte prima. Lettere

Qui sto tentando di organizzare qualcosa che potrebbe essere utile ed appassionante. Ho trovato uomini molto serii. Ho conosciuto Erc.[oli]2, l’ho ascoltato parlare abbastanza a lungo di cose importanti, e ne ho tratto un senso di grande fiducia. Sono ospite dell’americano che mi ha portato giù e con cui tornerò. Una bella casa ad un ultimo piano di Mergellina, con il golfo davanti. E tanta buona roba da mangiare negli armadi della cucina. Burro, uova, scatolami, frutta, caffè, e pane pane pane. Napoli è tanto più bella di Roma (credimi, non lo dico perché mi sento la pancia piena), tanto più trasparente e distesa. Bisogna proprio venirci a stare. Sono contento, riposato, ed assaporo sostanzioso il gusto di vivere. Vorrei solo che anche tu fossi qui, e vederti illuminata di quest’aria più libera. Ho pranzato su al Vomero con Lucia, Moravia3, e... Della Pergola4! Ho visto naturalmente Giorgetto5, e con lui Ennio Villone6, che ti saluta. Aspettami tranquilla, non ubriacarti di sole e di chiacchiere, stai in casa e accogli bene mia madre, se arrivasse. Arrivederci dunque a Venerdì o Sabato, amore. Un bacio, tanti baci.

Franco a Piero Roma, 27 settembre 1944

Caro babbo Ho ricevuto la «Nazione del Popolo» con il testo del tuo diErcole Ercoli, pseudonimo di Palmiro Togliatti. Alberto Moravia, pseudonimo di Alberto Pincherle (1907-1990), narratore e romanziere, negli ultimi anni del fascismo aveva vissuto a Capri per sfuggire alle persecuzioni del regime, in quanto ebreo e “sovversivo”. 4 Si tratta forse di Giorgio Della Pergola, avvocato, futuro collaboratore del «Ponte». 5 Giorgio Formiggini (1923-1979), amico d’infanzia di Teresa, dirigente comunista (vedi supra, Introduzione, passim). 6 Ennio Villone con il fratello Libero aveva dato vita negli anni trenta, a Napoli, a un gruppo comunista clandestino di ispirazione trotzkista, frequentato anche da Giorgio Formiggini e Teresa Regard. Dopo la Liberazione avrebbe partecipato alla ricostituzione della Cgil a Napoli, confluendo poi nel Pci. 2 3

Franco, Teresa, Piero e Ada (1944-1956)

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scorso7, e leggendolo ho pensato quale commossa soddisfazione tu debba aver provato nel pronunciarlo, nel reintraprendere così il tuo lavoro nella tua città, finalmente libera da quel senso di offesa che per tanti anni ti aveva afflitto. Sono contento di saperti di nuovo pienamente attivo, più attivo forse di sempre, e stretto con quanti ti circondano in una solidarietà viva. Di quello che tu hai trovato a Firenze dei parenti, degli amici, dei conoscenti, qualcosa mi ha scritto la mamma. Se avrai tempo di scrivermene direttamente di più, sai che mi farai piacere. Dalla mamma, da una diecina di giorni, dopo la lettera in cui mi annunciava la morte dello zio8, non ho saputo più nulla. Spero che tu sia già riuscito o ti riesca prestissimo andarla a prendere e portarla a Firenze con te. Maria Teresa ed io stiamo bene. Siamo per ora nella solita stanza di Corso Rinascimento; ma è probabile che presto ci trasferiamo in un alloggio migliore. Tra il lavoro per il partito ed il mio privato lavoro i giorni corrono, lungo questo lento e triste procedere della vicenda collettiva, che comunque va verso una sorte migliore. Ricordami costà a quanti si ricordano di me. Saluta Lea, Vigni, la Concetta, salutami Marcello9. Ti abbraccio con tutto il cuore. Il tuo Franco. [Aggiunta a matita di Maria Teresa:] Carissimo, ci ha fatto tanto piacere avere finalmente notizie dirette tue, che ci dicono che stai bene e sei contento. E molto piacere pure ci ha fatto il poter leggere il tuo discorso così pieno di commozione. Noi stiamo bene. Franco lavora, io per ora mi preparo a dare i miei ultimi esami a novembre. Scrivici, raccontaci le tue impressioni, che ci farai piacere. Ti abbraccio Mteresa 7 La coscienza civile della nuova Italia, discorso pronunciato da Piero Calamandrei, nell’Aula magna dell’Università di Firenze, in occasione della cerimonia per l’insediamento quale rettore, il 15 settembre 1944, e pubblicato in «La Nazione del Popolo», a. I, n. 19, 18-19 settembre 1944. 8 Giovanni Cocci, fratello di Ada, medico ad Arezzo. 9 Marcello Ciompi, amico di famiglia. Concetta è la segretaria dello studio Calamandrei, sposa dell’avvocato Vigni.

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Franco a Piero Milano, 22 novembre 1945

Carissimo babbo, grazie della nota alla Costituzione francese, che anderà nel prossimo numero o nell’altro, e che è politecnicamente perfetta10. Solo ci dovremo forse fare qualche taglietto qua e là, per la solita tirannia dello spazio. Ma non temere: me ne incaricherò io, e la voce del sangue mi darà discrezione. Grazie anche delle indicazioni che ci dai, per altri testi costituzionali da presentare ed illustrare. In particolare ci interessano la Costituzione di Weimar (per un numero che dedicheremo prima o poi alla Germania), la Costituzione francese del 1848 e quella romana del 1849. Se avessi tempo e voglia di occuparti tu, non dico di tutte e tre, ma almeno della prima, sarebbe una bella cosa. E ti chiederei inoltre di indicarci qualcuno (che non sia solo un giurista, ma anche un cervello politico ed umanistico, e che sappia scrivere facile) a cui possiamo rivolgerci per questi lavori, quando tu non avessi tempo. Anche un altro favore ti chiediamo. Vorremmo fare presto un numero dedicato alla Costituente. Puoi dirci come vedresti un tal numero? Con quale ossatura storica e giuridica? Tu capisci benissimo che cosa vorremmo fare con un numero del genere. Spiegare agli italiani in parole semplici che cos’è la Costituente, che cosa significa nella storia d’Italia ed in confronto alla storia di altri paesi, che cosa l’Italia deve chiedere ed aspettarsi dalla Costituente. Ci vuoi aiutare? Immagino tutto il daffare che hai, e penso che tu debba sentirti a volte molto stanco. So che se ti dico di non spenderti troppo tu sorriderai, ma te lo dico lo stesso. Certo, questa raccomandazione non va d’accordo con le mie precedenti richieste di collaborazione e di aiuto. Ma te le faccio lo stesso. 10 Nel numero del 20 ottobre 1945 era stata avviata la rubrica Documenti per la democrazia progressiva, «nella quale vorremmo mano a mano fornire ai lettori i testi antichi e recenti che abbiano rappresentato nel campo della legislazione costituzionale un contributo notevole alla democrazia» (Lettera di Franco Calamandrei al padre, Milano, 20 ottobre 1945). Non risulta che alcun testo di Piero Calamandrei sia stato pubblicato sul «Politecnico».

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Abbiamo letto e saputo di quel che è successo a San Marco il giorno dell’inaugurazione. Sono cose ignobili, manifestazioni di imbecillità prima ancora che di corruzione politica. Eppure non sono che aspetti minori di fenomeni molto più grossi, di imbecillità e di corruzione, che crescono minacciosamente sull’orizzonte dell’Italia e del mondo. Ora, di nuovo la crisi11! Quei porci ipocriti dei liberali... Alzerete la voce anche voi, alla Consulta, no? Non dirmi che sono ancora un “giovane del littorio” se per certe situazioni non vedo a momenti nessuna reale soluzione se non i plotoni di esecuzione. Son contento che tu segua il «Politecnico» ed in parte lo apprezzi. Io sono d’accordo con te su molti punti relativi all’impaginazione ed all’aspetto tipografico. E credi che mi batto ogni volta, in tipografia, per strappare qualche piccola concessione in materia a Vittorini12 ed al suo fedele impaginatore. Nella lettera alla mamma troverai le nostre notizie. Speriamo proprio di venire a Firenze alla fine di Dicembre. Tu intanto rispondimi, se puoi. Ti abbraccio tuo Franco

Teresa a Franco Firenze, 16 dicembre 1945

Caro mimmino mio, penso a te che chissà come sarai solo stasera e tutti questi giorni e domani che è domenica. Ho rimorso di essere andata via. Ho fatto un buonissimo viaggio, comodo e caldo. A Cadeo comprai del pane meraviglioso come non ne avevo mai mangiato, poi ci si fermò a Castelfranco dove mi toccò mangiare dato che lo facevan tutti e non sapevo dove andare (pastasciutta bianca alla bolognese, una gran fetta di maiale arrosto con cavolfiori 1/4 di vino = L. 225). Due o tre volte si corse proprio a un pelo sulla Porrettana La crisi del governo Parri nel novembre 1945. Elio Vittorini (1908-1966), scrittore, traduttore e dirigente di varie case editrici, fondò e diresse «Il Politecnico» dal 1945 fino alla sua chiusura nel 1947. 11 12

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dallo slittare perché la strada era tutta gelata. Davanti a noi a un metro di distanza, mentre si cercava di sorpassarlo, un autocarro girò 3 volte su se stesso andando a sbattere alla fine contro un muro di una casa mezza distrutta dalle bombe che crollò definitivamente con grande rumore. Non so proprio come ci siamo salvati. L’autista nostro era diventato tutto rosso dall’emozione e ci si dovette fermare. In viaggio mi fecero la corte in due: un elettricista di Firenze piuttosto grullo e un simpaticissimo tipo piuttosto chique [sic] e molto bello, uscito allora allora dal campo di concentramento di Coltano in breve licenza quale capitano delle SS italiane. Mi dispiacque quando me lo disse, cioè mi dispiacque di aver avuto così poco fiuto da trovarlo simpatico. La campagna lombarda ed emiliana era piuttosto squallida con grandi alberi spogli e terra gialla, in Toscana invece tornò il verde, un paesaggio nostro, conosciuto. La macchina arrivò prima delle 6 e mi toccò aspettare la mamma che per fortuna aveva telefonato e arrivò alle 6.10. Mi accolse piuttosto male, perché si aspettava di trovar te, ma poi fu contenta lo stesso. Si prese una carrozza e si andò a casa, dove trovai i termosifoni accesi in onor nostro e un letto matrimoniale fatto fare in camera tua apposta per noi. Il babbo fu contento di vedermi. Tutt’e due sono piuttosto magri e sciupati, specialmente la mamma. Ho trovato qui una vestaglia blu di lana, un altro pigiama e un golf celeste grosso, grosso. E la mamma mi vuole comprare pure un cappotto cammello per metterci sopra la famosa volpe. Sto insistendo perché non lo compri dato che viene a costare tanto. Stamane ho fatto un gran bel bagno e poi è venuta Serenella e son stata a parlare con lei. Oggi pomeriggio invece sono uscita con la mamma e ho fatto tutto il centro tutto illuminato. Ma l’eleganza, il lusso di Milano non c’è, tutto è più scadente e invece costa molto di più. Il mangiare pure costa quasi il doppio che da noi, anzi la mamma dice che tu le porti un kilo di burro che qui costa 130. Assaggialo prima per sentire se è buono e fresco, capito? Vai all’angolo o se vuoi da Salumi e Formaggi. Se vieni con l’Autostradale ti consiglio di non portarti niente da mangiare dietro e di comprar tutto in viaggio. Stasera ci son stati Calogero13 e la Lea a cena. Il babbo è pieno di affetto per te e vor13 Guido Calogero (1904-1986), filosofo e docente di Filosofia all’Università di Pisa; teorico e animatore del movimento liberalsocialista, aderì poi al Partito d’Azione.

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rebbe che tu non lavorassi al giornale, ma che scrivessi un libro in santa pace. Comincia a credere in te! Ieri sera ti telefonai alle 8 precise e non rispondesti, mi fece rabbia, perché pensavo tu stessi in casa prima della riunione di cellula. Almeno mi avevi detto così. Domani forse si andrà al concerto di Molinari. Mi sto facendo un cappello con della lana che è in casa e sta venendo bellino. Qui ne abbiamo trovato uno solo della migliore modista di Firenze, ma ancora non si vedono in giro. Io l’ho guardato ben bene e l’ho copiato preciso. Quante stupidaggini che ti ha raccontato la mimmina finora. Ma in fondo discorsi seri non mi sento di fartene, perché sono un tantino ringrullita a star qui. Non val proprio la pena a star lontani dato che la nostra cosa migliore che abbiamo è il nostro stare insieme. Tra l’altro sono continuamente in pena che ti possa succedere qualcosa. Vieni presto, presto, più ancora di quanto hai stabilito se possibile. Le persone e le cose mi paiono avvizzite senza di te. Ti do mille baci, bacetti, abbracci. Mteresa 1) Chiudi il gas la sera. 2) Apri la chiave della stufa prima di andare a letto. 3) Fai ritirare le calze da Angelina14. 4) Stai bene e non lavorare tanto. [Ada sulla stessa lettera con penna diversa:] Francolino caro, il telegramma vostro che ci arrivò al mio risveglio mattutino mi disse, pur con la tua firma ma col verbo al singolare che sarebbe arrivata soltanto la... metà di voi, per ora. Così che la sera all’arrivo del Torpedone non rimasi delusa e accolsi MT con gioia in attesa di completarlo al tuo arrivo che ti raccomando di non farci troppo desiderare. Ti chiamammo al telefono venerdì sera, ma alle 8 1/2 la casa era vuota e sola, peccato. Annunciandoti l’arrivo e il buon viaggio di MT ti avrei salutato di viva voce tanto volentieri e avrei così avuto un anticipo da te. Abbiamo trovato MT un pochino dimagrita ma se è vero che sta bene dai suoi disturbi meglio così. Speriamo che queste giornate 14 Angelina Pironato, amica e compagna di partito che aiutava nelle faccende domestiche.

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Parte prima. Lettere

tiepide continuino anche quando arriverai tu. Ti scrivo così malamente dal Comunale dove sono venuta con MT e la Lea al concerto di notte di Molinari. Ti abbraccio stretto con Piero e arrivederci a prestissimo. Ada

Franco a Piero e Ada Milano, 17 giugno 1946

Carissimi La Repubblica dunque è venuta. Così lentamente, così in punta di piedi che quasi non ci se ne è avvisti: non c’è stato quello strappo di gioia con il quale ognuno di noi aveva fatto conto e si era ripromesso di festeggiarne l’arrivo. Niente abbracci per le strade, niente carmagnole né altre danze all’aperto, niente o quasi bicchierate. Comunque la repubblica è venuta, e oggi effettivamente si sente come da questo enorme cumulo di macerie che il passato ci ha messo sullo stomaco qualcosina già sia stata tolta ed esso si sia un po’ alleggerito. Rallegramenti di cuore all’onorevole Calamandrei! Ed ora, che si riposi per qualche settimana, che arrivi fresco alla costituente. Là, passato questo momento di union sacrée, le contese politiche riprenderanno e bisognerà battersi per non avere una repubblica alla 1870, codina e conservatrice. Augurabile, perciò, che il gruppo parlamentare del PdA non si lasci sospingere, dagli energumeni del partito, ad una politica di intransigente opposizione e di isolamento, che servirebbe solo a renderlo impotente e a distogliere le sue forze da un eventuale blocco delle sinistre. In ogni modo, avanti per la Costituzione! Graditissimo il regalo per il 1315. Il servizio, con la sua fioritura primaverile, servirà per le occasioni grandi e medie, e intanto ha trovato il posto d’onore dentro alla cristalliera. Abbiamo firmato l’altro giorno il rinnovo del contratto, a nostro nome diretto, per la casa, e per questo secondo anno che di sicuro vi passe15

13 giugno 1946, secondo anniversario di nozze di Franco e Teresa.

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remo cerchiamo di sistemarla nel modo migliore. Perciò mandate pure quello che potete in fatto di mobili, e anche il quadro, e anche, se è possibile, la poltrona. Fateci sapere, come dice M[aria] T.[eresa], i vostri progetti per l’andata e la permanenza a Roma, e l’andata al Poveruomo. Così potremo regolarci e decidere il nostro programma. Del resto, qua non fa ancora caldo, e il lavoro, tranne la solita “follia” vittoriniana e qualche passeggera incertezza di Einaudi, procede senza difficoltà e senza fatica. A giorni vi spedirò il nuovo “Politecnico” mensile, assai migliore del primo. Scrivete subito. Salutate i Polidori. A voi un abbraccio dal vostro Franco Quando arriverà l’altro vestito d’estate? Per carità, che il sarto non lo ristringa, né lo allarghi! I pantaloni del vestito verde sono tornati talmente stretti e raccorciati che non li posso portare.

Franco a Teresa Milano, 23 giugno 1946

Mimmetta mia cara, ti scrivo (domenica pomeriggio) mentre per corso Lodi sfila sotto casa non so quale interminabile processione. L’ipocrita solennità della fanfara che la accompagna mi raggiunge fino di qua, nella camera sul cortile. Sono centinaia di uomini e donne, di giovani, di ragazze, di bambini: uno spettacolo che fa male al cuore, a pensare l’inganno su cui è fondato, e ti assicuro che affacciandomi al poggiolo a guardarlo mi è venuto a più riprese un nodo di pianto alla gola. Per l’occasione di “gigioni” si sono pavesati a festa con ogni specie di cenci: perfino la prostituta ha voluto partecipare all’addobbo, e dalla sua finestra socchiusa pende un lampioncino alla veneziana. Bisogna lavorare duro, mimmetta, perché questo miserando paese vada un pochino avanti...! Tu che farai quest’ora a Firenze, con madame Mère? L’altra sera non potevo adattarmi a prendere sonno senza il tuo braccio su cui posare la mano, e la casa è decisamente troppo grande per me solo, penso con orrore alla stupida, gelida vita degli scapoli, ai lo-

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ro cuori e corpi accartocciati senza una donna che li completi e che li giustifichi. Il mio amore per te credo ormai che sia penetrato in tutti i miei interstizi, a combattere la sua dolce e dura battaglia: se mi tagliassero con il tritatutto, in ogni pezzetto sono convinto potrebbero ritrovare qualcosa del tuo profumo e del tuo calore. (A proposito: non mi hai lasciato la pettorina di pizzo, ma mi hai lasciato, appeso all’attaccapanni del corridoio, il vestito rosso, e quando rientro in casa, in mancanza di te, gli avvicino la faccia e ne raccolgo il tuo afrore.) La tua fotografia di “fanciullina”, quella grande, è sul tavolino da notte, ed ha ancora lo stesso fascino che aveva a San Giovanni, di darmi una tenerezza profonda, un senso di acqua tiepida che mi scorre nell’animo, a cui non posso resistere a lungo. Amore mio, vedi che ti voglio bene. Ieri sera sono stato a cena dal Pirovino, insieme a Bucchi16. Lì abbiamo trovato la solita banda17, Ferrata, Pandolfi, ecc. Poi ci ha raggiunti Romeo. Siamo andati un po’ a spasso, una mezzora sulle poltrone della Casa della Cultura, quindi all’«Unità» dove Bucchi doveva vedere Rago18. Parlare con Bucchi mi ha fatto piacere: vede le cose molto chiaro, ha votato per noi, nonostante sia iscritto al P.S., e disapprova tutti i vari saragattiani. Parlerà con Fortini e gli farà una predica: ma temo che ci sia poco da fare. Romeo abbastanza squallido, senza un soldo in tasca peggio di me (Balestrieri batte sempre tutti!). Tra ieri e oggi ho lavorato ai due pezzi per la Radio, dai quali spero di raccapezzare almeno 2500 lire: Terra e una filastrocca sui «Temps Modernes»19. Ti avvertirò quando li trasmetteranno: forse li leggerò io stesso: mi divertirebbe; ma sarò radiogenico? Ora, sono quasi le sei, anderò da Vittorini, che ha manifestato il suo desiderio di avermi alla sua Arcadia domenicale. Poi, non 16 Valentino Bucchi (1916-1976), compositore, amico di Franco dagli anni trenta. 17 La redazione del «Politecnico»: Giansiro Ferrata (1907-1986), critico letterario e narratore; Vito Pandolfi (1917-1974), storico e critico teatrale; Franco Lattes (pseud. Franco Fortini, 1917-1994), poeta e critico letterario; Stefano Terra, giornalista e narratore (vedi supra, Introduzione, p. XIV). 18 Michele Rago, giornalista, studioso di letterature moderne e traduttore, all’epoca caporedattore dell’«Unità» a Milano. 19 «Les Temps Modernes» è la rivista politica, letteraria e filosofica fondata nel 1945 da Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir.

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so se finirò dal Pirovino (ma domani e dopodomani sarò a casa a pranzo ed a cena). Non preoccuparti per me: a parte quella metà di vuoto che ho dentro il cuore, mi mantengo benissimo e mi faccio delle pastasciutte e delle bistecche formidabili. L’idea di venire fino a Roma e poi di spingermi con te fino a Napoli mi lusinga sempre di più. Speriamo che mi possa liberare presto e che ci siano soldi. Tu intanto ricorda le mie raccomandazioni di non stancarti, svagati a conversare con i romani, e sta’ contenta. Saluta mamma e Paolo20. Ti abbraccio con tanti bacetti. Ciao, amore mio. Franco

Teresa a Franco Roma, 26 giugno 1946

Caro mimmino mio, ho avuto adesso la tua che mi ha fatto tanto piacere. Sai che un po’ mi ero dimenticata di te in questa bolgia di Roma? Non sempre però perché fin troppo spesso mi vien voglia di tornare a Milano da te. Ti voglio ancora bene molto, c’è da star tranquilli! Naturalmente appena arrivata qui, venni l’altro ieri nel pomeriggio, fui subito come travolta e dopo mezza giornata già ero morta di stanchezza. Ieri però mi sono abbastanza riposata. Il guaio è che vado a letto tardi e alle 6 la mamma si alza e gira per la casa sbattendo porte e aprendo tutte le finestre fino alle 8. insomma per ora mi son sempre alzata alle 7. cose da pazzi! Avrei tante cose da raccontarti da riempire 10 fogli, ma sento che non ce la faccio e allora ti dirò solo le più importanti. Il viaggio fu meraviglioso, venni in una macchina dell’Usis21 e si fece l’Aurelia. Il mare era bellissimo, verde chiaro sotto il cielo grigio e la pioggia. Vidi Livorno, Grosseto, Civitavecchia, perché si fecero molte tappe e allora io me ne andai in giro. Peccato che i miei compagni di viaggio compreso l’autista fossero odiosi, tutti monarchici sfegatati e fes20 21

Paolo Regard (n. 1926), fratello di Teresa. United States Information Service, Servizio di Informazioni degli Usa.

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si. Sempre meglio gli spacciatori di cocaina che gli abitanti dei Parioli! Anzi dovrei tornare indietro con la stessa macchina che parte il 30 mattina (non ci vado molto volentieri, ma potrei portar su molti libri e poi in 6 ore arrivo), ma tu mi dici che vuoi venire senza dirmi quando. Bisogna che tu mi risponda immediatamente perché altrimenti il 30 io torno a Firenze e vado direttamente al Forte. Sappimi dire subito anche perché io devo dare una risposta all’autista in tempo. Certo mi piacerebbe che tu venissi. Dunque Roma è asfissiante malgrado noi abbiamo avuto 89 mila voti. Si ha la netta impressione che siano i monarchici a dominare dato il coraggio che hanno ancora nel professare la loro idea e di girare ancora con il nastro sabaudo e la corona. Molti manifesti ancora delle elezioni che sbiadiscono sotto questo meraviglioso sole. Ci sono di nuovo i filobus e in generale c’è molto movimento. Dappertutto reclames di Tabarin e sale da giuoco. Si sente il dopoguerra più di un anno fa. Mia madre cammina malissimo, ma va all’ufficio altrimenti la mandano via. Paolo è sempre svogliato. Ho visto ieri sera Fabrizio22 che mi ha raccomandato di dirti di diffidare di Terra che poi mi spiegherà. Stasera ci si dovrebbe vedere con Fabrizio ed Antonello23. Le rispettive mogli sono al Forte in villeggiatura. E al Forte sono molti altri amici. Certo sarà da morire. Ma d’altra parte sarà anche più divertente. Anche Fabrizio e Antonello verranno in luglio. Son stata già all’università e ho messo tutto a posto. All’ufficio invece niente soldi e grande litigata. Hanno fatto sparire la mia pratica solo perché sono comunista. Me l’ha confessato un mio collega Dc convinto, ma onesto. Insomma mi è toccato ricominciare da capo. I Chilanti24 sono al22 Fabrizio Onofri (1917-1982), figlio del poeta Arturo Onofri, partecipò alla Resistenza nei Gap a Roma; dopo la Liberazione fu un dirigente del Pci, da cui venne espulso nel 1956; nel 1957 fondò la rivista «Tempi moderni», che tentò di raccogliere i comunisti dissidenti; fu poi sceneggiatore di diversi film: Tiro al piccione (1961) e Sacco e Vanzetti (1971) di Giuliano Montaldo, Galileo (1968) e I cannibali (1970) di Liliana Cavani. 23 Antonello Trombadori (1917-1993), critico d’arte e giornalista, legato al Partito comunista fin dagli anni trenta, nel 1941 viene condannato al confino dal Tribunale speciale. Organizzatore della Resistenza a Roma, comandante dei Gap centrali, viene rinchiuso nel carcere di via Tasso, sfuggendo fortunosamente all’eccidio delle Fosse Ardeatine. Nel dopoguerra sarà un autorevole dirigente del Pci, molto vicino a Togliatti, e più volte deputato. 24 Viviana e Felice Chilanti (1914-1982), militante del Movimento Comuni-

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la fame, pare. Ennio [Lauricella] ci ha litigato fortemente. Solo Ennio mi ha promesso le 400 lire. Tuo padre poi mi ha dato solo 3000 lire e io poi mi sono comperata le scarpe, così che ho molti pochi soldi. Ma non ti preoccupare, se mai me li presterà Ennio. Tua madre a Firenze fu piuttosto insopportabile e anche tuo padre che vidi appena di sfuggita era nervosissimo. Vanno in Svizzera in agosto ai primi, sarebbe bene essere al Forte in quel periodo altrimenti c’è da morire. Pensa che per le elezioni hanno dato 150 mila lire per i manifesti del P.[artito d’] A[zione]. L’ho saputo per un caso, ma non me l’han detto. I vestiti son venuti mediocremente, ma me ne son fatti altri due di bellissime stoffe con pezze che aveva tua madre dal 1925. Li ho inventati tutti io. Tua madre scoteva la testa disperata, ma io credo che saranno belli. In ogni modo non ne ho ancora nessuno fatto e vado in giro col solito blu. Se dovessi passare per Firenze e venire a Napoli cerca di fartene dare almeno uno. Mi ha telefonato adesso tuo padre che non si è affatto interessato di farmi avere il biglietto, né ieri, né per domani. È stato proprio un po’ sgarbato, perché l’ha dato invece a Lidia. Dunque ha mandato una macchina apposta al Forte per prendere tua madre e portarla qui per farla assistere domani. E nemmeno per domani ho il biglietto. Ma tanto me ne infischio. Andrò invece con Ennio a vedere la mostra della pittura francese a palazzo Venezia. Ieri ho visto Ennio e si è parlato molto. Anche lui lavora parecchio per il partito adesso. Dice che la mania della letteratura gli è passata del tutto e che non scriverà mai nulla. Dice anche che come scrivi tu gli fa paura e dice che se non cambi sarai fregato. Parla della sintassi che usi e non di quello che dici. Poi ti dirò a voce. A proposito ricordatevi che Russo ha votato per i comunisti e si iscriverà, prima di pubblicare25. C’è da ridere. Dunque ti ha scoraggiato la processione. Ma allora tu non vesta d’Italia a Roma, responsabile clandestino del giornale «Bandiera Rossa» durante la Resistenza, fu poi giornalista a «l’Unità», «Paese Sera» e «l’Ora». 25 Dopo la Liberazione Luigi Russo era stato nominato direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, aveva fondato la rivista «Belfagor» e si era avvicinato al Pci. Franco Calamandrei lo avrebbe fatto oggetto di un attacco politicoletterario in difesa di Natalino Sapegno, che Russo aveva a sua volta criticato per la sua conversione al marxismo anche in campo critico-letterario (Malebolge, «Il Politecnico», n. 30, giugno 1946, p. 38).

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desti quella di S. Rita immediatamente prima delle elezioni. Era una cosa preoccupante, ma poi hai visto i risultati. E sai che c’erano in prima fila la Ciavarella e tutte le nostre compagne? E le figlie della Ciavarella ad esempio erano perfino vestite da angeli. E tutti gli addobbi ai portoni e alle finestre ce li avevano tutte le case dei nostri migliori compagni. Che vuol dire. Scrivimi presto, presto e vieni. Perché non vieni domenica 30? Sappimi dire se ti devo aspettare. Stai tranquillo per me. Ti bacio. Mimma

Franco a Piero Roma, estate 1946

Caro babbo Non ti invidio molto le due conferenze sulla nostra letteratura della resistenza: la materia purtroppo è scarsa anche per una conferenza sola. Comunque, avrai il pretesto per sottolineare certi aspetti della nostra lotta contro il fascismo che all’estero sembrano voler dimenticare ancora più rapidamente che in Italia (ed è tutto dire!). Se vorrai potremo discorrere dell’argomento quando, tra sette o otto giorni, spero, verrò giù. Intanto eccoti qualche indicazione che ti aiuti a completare la esigua bibliografia. Ovviamente: Conversazione in Sicilia e Uomini e no di Vittorini: anche il secondo tradotto in Svizzera, con il titolo Les hommes et les autres. Stefano Terra: Morte di italiani (racconti) e Rancore (romanzo): due libri editi al Cairo, dove l’autore, un giovane torinese del 1917, si trovava prigioniero di guerra, nel 43 e 44. Anche questi possono in certo modo considerarsi letteratura della resistenza. Il romanzo è bello, lo ha ristampato ora Einaudi. Posso portarteli io o, se credi e ne scrivi, spedirteli subito. Poesia: qualche poesia di Gatto scritta durante l’occupazione e diffusa (una, per esempio, sui fucilati di Piazzale Loreto) in manifestini come propaganda. Una poesia di Quasimodo. Questi versi sono stati pubblicati su «Rinascita» e te li porterò. Memorie: Il mio granello di sabbia di Luciano Bolis, edito da

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Einaudi. Un breve resoconto di prigionia nelle mani delle Brigate Nere. Guerriglia nei Castelli Romani di Pino Levi, pure edito da Einaudi: resoconto della lotta partigiana nel Lazio. Posso, anche questi, portarteli io. Potrai inoltre sfogliare due numeri speciali di «Mercurio», uno sulla lotta clandestina a Roma, l’altro sulla resistenza nel Nord26. Dove però accanto a testimonianze di gente che ha fatto veramente ed è antifascista, si trovano molti alibi fatturati da gente che doveva farsi perdonare il proprio passato. Anche questi, in ogni modo, almeno il secondo, te li porterò. Per ora non mi viene altro in mente. Speriamo dunque di vederci tra una settimana o poco più, se tu non sarai tornato a Roma per la costituente. Stai tranquillo che se ho bisogno di soldi non faccio “il b...o”. La situazione della Casa editrice, per ora, continua ad essere esitante: ma non c’è motivo per credere che non debba migliorare. E comunque, è una situazione generale. Sta bene e buon lavoro. Un abbraccio dal tuo Franco.

Franco a Teresa Milano, 3 luglio 1946

Cara Mimmina amore, (ma sei a Firenze?) dunque: un sacco di cose da raccontarti, sono stati giorni pienissimi, di tensione e di daffare per diversi motivi che ora vedrai, e insieme un caldo terribile, massiccio, piombato sulla città di schianto; conclusione, sono un poco stanco, ed ho una gran voglia di venire da te e stare un poco tu e io tranquilli in panciolle, fuori dalle beghe e dalla gente. Con tutto questo, non sono di malumore... Prima novità: siamo tutti li-cen-zi-a-ti! Il 1° di luglio, invece

26 «Mercurio», a. I, n. 4, dicembre 1944, numero monografico dedicato alla Resistenza nell’Italia centro-meridionale; «Mercurio», a. II, n. 16, dicembre 1945, numero monografico dedicato alla Resistenza nell’Italia settentrionale.

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dello stipendio, ha portato a me, Fortini, Trevisani27 tre garbate letterine di Giulio [Einaudi] nelle quali si spiega chiaramente che la situazione della “Casa” non consente più di sostenere le spese del «Politecnico», e quindi ci si ringrazia della nostra opera e ci si manda a spasso con il 1° di luglio stesso. Si riconferma, bontà loro, il nostro diritto a liquidazione in base al contratto giornalistico, raccomandandoci però, su questo punto, di essere comprensivi della situazione in cui versa la casa. Infine si aggiunge che la “casa” intende rimanere con noi in rapporti di collaborazione attraverso contratti per traduzioni che assumano un ritmo continuativo. Ieri pomeriggio, con Vittorini muto come un pesce in testa, siamo andati tutti quanti a colloquio dalla Renata (Giulio si è eclissato). Essa ci ha ricevuti umilissima e con i capelli sparsi di cenere, si è impegnata a pagarci la liquidazione (parlava di circa 100.000 lire) per intero, sia pure a rateazioni mensili, ci ha assicurato per oggi il pagamento dello stipendio di giugno, e ha sollecitato la nostra collaborazione in forma di traduzioni. Noi siamo stati molto gentili ma molto fermi: che ci facesse avere lo stipendio entro oggi veramente, e quanto alla liquidazione mettesse il quanto e il quando per iscritto, e avremmo dato per iscritto la nostra risposta. Poi, tratti da parte Fortini e me, ci dette intanto, per tenerci buoni, qualche soldo (a me 3000, con le quali ho potuto pagare l’affitto). Oggi, invece dello stipendio intero – rimandato con mille assicurazioni a domani giovedì – altre 1500 lire a testa. E come proposta di liquidazione 2 mesi di preavviso più i tredicesimi (in tutto, per me, un 70.000 lire), mentre a noi risulta, per esserci informati, che dobbiamo avere 3 mesi come liquidazione e i tredicesimi come preavviso. Domattina ci informeremo di nuovo all’Associazione giornalisti, e replicheremo. E rimane in ogni modo da stabilire quando, in che rate, intendano pagarceli, e quali garanzie possono darci del pagamento (a questo proposito, fatti dire subito dal babbo quale mezzo mi suggerisce come garanzia: se chiedere loro delle cambiali o che altro; e scrivimi subito per espresso, o meglio telefoni giovedì o venerdì sera a mezzanotte). A questo punto: che fare? Io vorrei poter avere tutto o buona parte dello stipendio di giugno entro la settimana, ed entro la setti27 Giuseppe Trevisani (1924-1973), grafico e giornalista, collaborò al «Politecnico» succedendo ad Albe Steiner nella realizzazione grafica.

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mana accertare nella misura giusta la liquidazione e avere garantite le scadenze; quindi partire, venire costà, e andarcene per un bel po’ al mare. Avremo, con la liquidazione, un tre mesi comodamente assicurati, io potrei lavorare, mettere insieme qualche altro soldo con collaborazioni (Rai, con la quale farò forse un contratto fisso, giornali di Torino e di Milano), procurarmi intanto delle traduzioni (per le quali Vittorini mi ha detto di stare tranquillo, che penserà lui con editori sicuri), e poi quando ci saremo ben rimessi tornare a Milano per sistemare la nostra situazione. Io credo infatti che ci converrà, almeno per un anno ancora, rimanere a Milano, dove abbiamo tante vie aperte di lavoro più che dovunque (e inoltre Vittorini vuole riprendere «Politecnico» ad ogni costo in autunno). Ma di questo parleremo con calma quando saremo riuniti... Lo scopo immediato è di concludere la faccenda con Einaudi e venire da te. Ma chi sa se riuscirò entro sabato. Domani o dopodomani però spero di vedere le cose più chiare e ti avvertirò subito (se mi telefoni venerdì sera te lo dirò a voce). C’è poi un’altra questione: pare che il numero doppio di luglio-agosto si faccia lo stesso come ultimo numero: in questo caso io dovrei terminare il Gide (del quale avevo già scritto abbastanza bene, 5 cartelle28) prima di partire, perché non posso portarmi dietro i libri che occorrono. E non so se con un tour de force ce la faccio a terminarlo per sabato. Tu dimmi comunque che cosa preferisci fare: se aspettarmi a Firenze o aspettarmi al mare: non farti prendere dall’idea di tornare su, perché non serve, e fra pochi giorni in tutti i modi sarò da te. Cara Mimmina, nonostante questa sorpresa, torno a dirti, sono di ottimo umore: forse sarà la stanchezza e il nervoso trasformato in eccitazione, ma mi sembra che la situazione così si sia chiarita e che, se saprò lavorare, mi si apre l’occasione di tentare un lavoro più libero. Altra novità di questi giorni (avrei da riempire pagine e pagine, ma sono le sette e mezzo – mi trovo alla Casa della Cultura – e voglio imbucare alla Scala prima delle 8, ora in cui ritirano): la visita di Sartre e della Beauvoir29, che sono molto simpatici e in28

Sul Congedo da Gide scritto da Franco Calamandrei vedi infra, pp. 192-

197. 29

Jean-Paul Sartre (1905-1980), filosofo francese, nel 1945 aveva fondato

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telligenti. Conversazioni, progetto per numero di «Temps modernes» sull’Italia che cureremo noi30, e come condimento scandalistico un manifesto di quegli str...i di B., Emanuelli31 ecc. sul «[Corriere] Lombardo», con il rifiuto di dare ospitalità e di far festa ad intellettuali francesi dopo la faccenda di Briga e Tenda32; nostro contro-manifesto su «Milano-Sera», vergato da Gatto33 in un momento di trance lirica; conferenza alla Casa della Cultura rinviata, contrastata, e finalmente stabilita per stasera. Per ultimo: la mia deposizione al processo Koch stamattina, durata una quarantina di minuti, e che mi è riuscita nonostante l’orgasmo che mi era preso ieri sera, limpida ed esauriente. Blasi non ha quasi reagito, sciagurato. L’avvocato, una giovane canaglia, ha insistito sulla faccenda dell’ordine per via Rasella firmato da Togliatti, ma l’ho messo a tacere. Il pubblico abbastanza commosso (ho trovato il modo di fare una gran propaganda al Partito) gridava a Blasi34: traditore, rinnegato...!. Tutto sommato, un triste dovere compiuto. Ti mando, perché tu ti diverta, una oscena foto del «Lombardo» e la cronaca di «Milano Sera». Hai sentito la trasmissione alla Radio? Non leggerò mai più una cosa da me: mi mancava la voce, sudavo freddo! Comunque pagano abbastanza bene (ho avuto per le due cartelle di Terra 750 lire) e, ripeto, stabilirò una collaborazione continuativa. A proposito di Terra, per la recensione ho rimediato, aggiungendo il pezzo finale35. E però i compagni di Roma farebbero meglio a cocon la sua compagna Simone de Beauvoir (1908-1986), filosofa e scrittrice, esponente di spicco del femminismo, la rivista «Les Temps Modernes». 30 «Les Temps Modernes», a. II, n. 23-24, Août-Septembre 1947, numero monografico dedicato all’Italia (Franco Calamandrei vi contribuì con l’articolo non firmato La ville ne nous a fait peur, pp. 331-344). 31 Enrico Emanuelli (1909-1967), giornalista e narratore, già collaboratore di «Primato» negli anni trenta, avrebbe poi lavorato come inviato speciale alla «Stampa» e come redattore letterario al «Corriere della Sera». 32 Territori ceduti alla Francia nel quadro della Conferenza di pace. 33 Alfonso Gatto (1909-1976), poeta, arrestato nel 1934 per attività antifascista, aderì al Pci e partecipò alla Resistenza. A guerra finita fu direttore della «Settimana» e di «Milano-sera» e redattore dell’«Unità». Nel 1951 lasciò polemicamente il Partito comunista. 34 Guglielmo Blasi (1903-1964), artigiano romano, era stato il delatore che aveva condotto all’arresto di Calamandrei e di altri gappisti romani nella primavera del 1944. 35 F. Calamandrei, Una generazione e un suo narratore, «Il Politecnico», n. 30, giugno 1946, pp. 35-36.

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minciare a guardarsi d’intorno: stamani, tra le spie dell’Ovra, si legge il nome di Aldo Romano36, collaboratore assiduo di Gegè Reale37 e di «Rinascita»! In cellula, ieri sera, battaglia grossa fino a mezzanotte con i soliti estremisti e disfattisti tornati fuori in occasione dell’amnistia, di Briga e Tenda, Trieste, ecc. ecc. È un brutto momento, però, dentro il Partito: stanchezza, demoralizzazione, incertezza, sfiducia... Ma passerà, speriamo. Mimmina cara, sono quasi le 8, bisogna che corra. Scrivimi subito, allora, o meglio telefonami, ripeto, domani o venerdì sera a mezzanotte. Come stai? Mi vuoi bene? Tanti baci dal tuo Franco Teresa a Franco Milano, 22 gennaio 1947

Mio caro, poche cose da dirti, perché ho esaurito tutti gli argomenti nella telefonata di poco fa. Ieri mi svegliai alle 8, misi a posto la casa un po’ per bene con Angelina, poi nel pomeriggio andai all’Udi e poi in Federazione, dove una compagna fece molti calcoli matematici con le lune e i giorni e risultò che avrei avuto una femmina, il che mi abbatté molto. Bisogna proprio che tenti col pendolo! Poi la sera all’Udi Corvetto con la Paola ecct, parlai anche a lungo con la Tea. Oggi in piedi alle 8 e alle 8 1/2 è arrivato il materassaio e così ho perso tutta la mattina tra un gran polverone che mi ha peggiorato il raffreddore. Nel pomeriggio all’Udi, dove però non riesco 36 Aldo Romano (1909-1975), futuro storico del socialismo italiano, in giovane età si era legato a gruppi comunisti napoletani; arrestato e condannato al confino, aveva poi ceduto alle pressioni della polizia fornendo informazioni sugli intellettuali antifascisti che frequentava. Sulle sue vicende, anche successive, vedi Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 450-452. 37 Eugenio Reale (1905-1986), dirigente del Partito comunista dagli anni trenta, segretario della federazione campana del partito dopo la Liberazione, poi sottosegretario agli Esteri nei governi di Unità nazionale, deputato e senatore, fu espulso dal Pci nel 1956.

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a concludere niente. È il regno dell’improvvisazione e del disordine e poi c’è lotta tra la Carnevale e Vittoria e ognuno vuol fare a modo suo. Adesso mi devo interessare con Lidia di un numero unico e di allestire la Mostra, perché altrimenti la Lidia non ce la fa. Per il giornale sono io la responsabile e ho cercato Gatto dovunque, ma non l’ho trovato. Perfino il titolo devo inventare. C’è da impazzire con la mia poca fantasia. Stasera ho accompagnato Lidia a casa e poi ho finito col rimanere a cena con loro. La bambina è sempre malata, ma è fuori pericolo. Lidia è incinta di due mesi e domani va ad abortire. Lidia è una donna simpatica, ancora piena di entusiasmi infantili. È venuta poi la Luisa che mi ha confessato finalmente di essere incinta di 4 mesi e più. Fa spavento tanto enorme e imponente. Sembra più che mai un carabiniere burattinaio. Studio e leggo poco, ma domani mattina vorrei andare a leggere il Marchesi38 a Brera. Mi piacerebbe levarmi l’esame. Ma da Roma nessuna notizia malgrado io abbia scritto 3 volte. Anzi sono un pochino in pensiero. Domani sera forse andrò a cena con Gatto e la Graziella. Torna presto mi raccomando, perché non mi piace di stare da sola. Ti voglio tanto bene, amore mio, e ti bacio.

Franco a Teresa Modena, 22 gennaio 1947

Cara mimmetta, Modena è davvero la città più fredda d’Italia. Sono appena rientrato in Federazione (qui le stanze sono ben riscaldate da stufe cordiali) da un giretto per la città dopo pranzato, e le dita intirizzite dall’aria gelata faticano a scrivere. Da ieri non si vede il sole: un cielo carico di neve e di nebbia, e la città desolata, resa terribilmente squallida nel suo aspetto provinciale. In albergo, per 38 Un testo di Concetto Marchesi (1878-1957), latinista, docente di Letteratura latina all’Università di Padova; era stato tra i fondatori del Partito comunista d’Italia nel 1921, membro del Comitato centrale del Pci dal 1947 e deputato dal 1948 al 1953.

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fortuna, il termosifone funziona, e nonostante il clima di precarietà e da suicidio che alita nella camera, nei mobili, nello specchio, nel letto striminzito, stanotte sono riuscito a riposare bene. Il lavoro, come ti accennavo nella cartolina di ieri sera, è interessante e importante. C’è da prendere visione di una quantità di documenti, da parlare con un certo numero di persone, e da rendersi conto direttamente di una o due situazioni particolari. Stamani, per esempio, sarei dovuto andare a Fossoli, dove è un campo di concentramento di fascisti e di stranieri indesiderabili: ma la mancanza della macchina ha costretto a rinviare la visita a domani. C’è poi da vedere il campo profughi, qui a Modena, dove sono numerosi istriani, fra i quali i neofascisti, monarchici e democristiani stanno facendo una intensa e sporchissima propaganda anticomunista e antidemocratica. Non hai idea – come non l’avevo io prima di leggere certi documenti – del formicolare di criminalità politica e ordinaria, di fascismo, banditismo, borsanerismo, traffico di stupefacenti, ecc. ecc., tutti insieme intrecciati, che rode le fragili fondamenta della nostra democrazia. Spero, comunque, di poter esaurire il lavoro entro la settimana, e tornare a Milano senz’altro. Domani vedrò meglio come si mettono le cose e ti saprò dire. Aspettavo qualcosa di tuo, oggi, e invece sono rimasto senza. Che fai, piccinina? Hai freddo? L’Udi ti dà daffare? E la sera, sola nell’angolo del letto, non hai paura del tram che passa sotto la finestra col rimbombo del terremoto? Ciao, Mimmina. Scrivi per espresso, sta’ bene e contenta. Ti abbraccio stretta e ti bacio tuo Franco

Franco a Piero Milano, 23 [aprile?] 1947

Caro babbo, rispondere a quell’articolo di «Prisma»39, confutarlo, vorreb39 L’osservatore, Le due opposte Italie. Maria Pasquinelli. Franco Calamandrei, «Prisma» (Firenze), a. III (1947), n. 16 (ritaglio allegato alla lettera).

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be dire – a mio parere – fare il gioco di chi l’ha scritto e di chi paga chi l’ha scritto. Il gioco cioè che tende a ridurre la Resistenza a questione opinabile, argomento di discussione, terreno di accuse e di difese. Mentre, è chiaro, l’interesse della democrazia è di considerare la Resistenza una questione da prendere in blocco, da accettare in blocco se si è antifascisti, da respingere in blocco se si è ancora o nuovamente fascisti. Quindi lasciamo perdere «Prisma», con i suoi paradossali, comici quanto canaglieschi accostamenti di nomi. Cerca però di sapere chi dirige e chi redige quello sporco giornale, e in particolare chi si nasconde sotto lo pseudonimo di “osservatore”. Oltretutto l’articolo è un capolavoro di imbecillità, di inconsistenza mentale. Di quella inconsistenza mentale, miscuglio di luoghi comuni, di sentimentalismi e di romanticherie, di convenzioni e di miti, di istinti vili ed egoistici, che forma purtroppo il nebuloso nucleo della “coscienza qualunque” italiana. Ed è questa inconsistenza – lo sai bene – che i fascisti vecchi e nuovi cercano di sfruttare, è su di essa che si sforzano di far leva per mobilitare le centinaia di migliaia di uomini qualunque contro le necessità e le ragioni della democrazia. Tu dici che, “se si continua così”, saranno ancora una volta i Giannini e i Patrissi40, e i monarchici e le destre, e i fascisti più furbi della direzione democristiana, ad avere il sopravvento. Ma vedi – e qui vengo a risponderti a proposito dell’art. 7 –, perché questo non accada, oltre che attaccare senza compromessi sul terreno economico, oltre che adoprarsi risolutamente per tagliare alle radici i privilegi economici su cui il fascismo si fonda, bisogna che gli antifascisti non diano ai nemici le occasioni per ingannare e mobilitare la “coscienza qualunque” ai danni della democrazia. Non puoi negare che la “coscienza qualunque” italiana, allo stato attuale della nostra società, sia cattolica: con tutta l’incredulità sostanziale, l’indifferenza, lo scetticismo che è del cattolicesimo, ma anche con tutta l’affezione sentimentale, la consuetudine, l’ossequio formale al mito e all’apparato cattolico. Potevamo, noi comunisti, a cui tanti voti già furono sottratti il 2 giugno speculando sul cattolicesimo qualunque degli ita40 Guglielmo Giannini (1891-1960) ed Emilio Patrissi, dirigenti dell’Uomo Qualunque; Patrissi se ne allontanò “da destra” nel 1947, fondando il Movimento nazionalista per la democrazia sociale.

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liani, potevamo, con un voto contrario all’art. 7, fornire ai nostri avversari un argomento lampante e decisivo per unire al nostro nome l’attributo di anticattolici e antireligiosi e così suscitare contro di noi, molto più estesamente che non il 2 giugno, i cattolici qualunque? Potevamo, per difendere una causa che era già perduta – tu sai bene che l’art. 7 sarebbe passato anche se noi avessimo votato contro –, privarci di tanti voti che ci daranno la forza di condurre con successo la nostra lotta economica, di distruggere quei privilegi economici sui quali anche la Chiesa è fondata, e quindi di svuotare l’autorità della Chiesa molto più sostanzialmente di quanto avrebbe potuto farlo la non approvazione dell’art. 7? Tu dirai che questa è una maniera elettoralistica di considerare la costituzione. Io ti rispondo che per noi la costituzione ha una parte essenziale, quella relativa alle riforme economiche – agraria, industriale, tributaria – e su di essa non siamo minimamente disposti a transigere, ci batteremo e ci lasceremo anche mettere in minoranza. Ma subito dopo le riforme economiche viene per noi in ordine di importanza la questione di chi dovrà domani governare il paese. Perché da questo dipenderà se le riforme economiche sancite dalla costituzione verranno o no tradotte in leggi e poi in concrete realtà. A questa questione noi subordiniamo tutti o quasi tutti gli altri punti della costituzione, gli intenti democratici dei quali, del resto, crediamo che potranno egualmente risultare, sia pure in maniera indiretta, da una effettiva attuazione delle riforme economiche. Ne consegue logicamente che non potevamo, sull’art. 7, pregiudicare, con un voto contrario che avrebbe riempito di gioia i democristiani ed il Vaticano, la nostra partecipazione e la nostra forza nel governo di domani. Dovrei ora rispondere ad altri tuoi dubbi, ad altre tue obiezioni e rimproveri. Quelli, per esempio, relativi alla nostra “insincerità”, al nostro “opportunismo”, al nostro “doppio gioco diabolico”. Ma oggi non ho più tempo, tornerò a scriverti, tanto più se, come mi piacerebbe, tu troverai un’ora per rispondermi alla tua volta. Maria Teresa procede bene nella sua fatica. È un po’ stanca, ogni tanto, per il peso ormai sensibile di questo essere nuovo, che già scalcia a più non posso. Sai che un chiromante, leggendo la mano alla madre, ha detto che il figlio sarà maschio ed avrà una brillante carriera politica?

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Scriveremo nei prossimi giorni alla mamma. Dille che stia tranquilla. Dimenticavo di dirti che Michele Rago, il nostro caporedattore, che è stato a Roma fino a pochi giorni fa, ti ha sentito parlare sull’art. 7 all’Assemblea ed è rimasto ammirato dalla tua oratoria41. Dice che sei uno dei più brillanti “interventisti” di Montecitorio, e appena finisti di parlare ti voleva mandare un biglietto di congratulazioni firmato “il caporedattore di suo figlio”. Ciao, caro babbo, un abbraccio di cuore tuo Franco Prega studio Pecorella di farmi sapere qualcosa sui soldi del Distretto Militare. Intriglia sarà guarito, ormai, no? E grazie ancora del regalo pasquale.

Franco a Piero Milano, 22 settembre 1947

Carissimo babbo, grazie della tua cara lettera e scusami se non ti ho risposto subito ieri. Ma sono dovuto andare fuori Milano per tenere un discorsetto a Canneto sull’Olio, in provincia di Mantova, in occasione di una festa campestre dell’«Unità». Anzi, a questo proposito, ti racconterò poi un fatto buffo... La tua idea di regalarmi una bicicletta è ottima. Fra poco, quando le restrizioni per l’energia elettrica diraderanno i tram e li renderanno affollatissimi, una bicicletta per andare e venire dal giornale mi farà molto comodo. Anche Maria Teresa è entusiasta dell’idea, sebbene, dati i suoi precedenti (ginocchi sbucciati e grufoloni nella polvere del Poveruomo), non so con quanta fiducia potrò lasciarla circolare a due ruote. Credo sia meglio comprarla qua, sia per evitare il fastidio e le spese di spedizione, sia perché il mercato qui è migliore, e i consigli competenti di Orazio 41 Il 20 marzo 1947 Piero Calamandrei aveva pronunciato all’Assemblea costituente un celebre discorso Contro l’inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione, ora in Id., Costituzione e leggi di Antigone. Scritti e discorsi politici, Firenze, Sansoni, 2004, pp. 107-122.

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ci orienteranno bene. Credo che 25 mila lire potrebbero bastare per avere una buona macchina. Eccoti dunque il fatto di Canneto sull’Olio. Il mio cognome (non il nome) era stato telegrafato alla Sezione del paese da alcuni giorni, ed i compagni, assidui lettori delle cronache parlamentari e pieni di fiducia nella potenza del partito, non avevano esitato a convincersi che si trattava dell’on. Pietro Calamandrei, già azionista ed ora, evidentemente, passato alla fede più vera. Subito grandi manifesti per tutto il paese, annuncianti che il compagno on. Pietro ecc. parlerà domenica ai cittadini ecc. Di lì a mezzora ecco arrivare trafelato in Sezione l’unico azionista di Canneto, un avvocato anziano e dabbene, a chiedere spiegazioni. “Ma Calamandrei è passato al partito!” gli dicono i compagni. “Da quando?” “Oh, da qualche settimana...” L’avvocato si accascia su una sedia, per poco non si sente male. Poi, desolato, riprende la porta, mormorando: “Beh! sono contento per voi, vuol dire che il P.C. sta diventando davvero un partito democratico.”. E domenica si era allontanato insolitamente dal paese, per non sentirti parlare all’insegna della falce e martello. Divertente, no? Avrai saputo dalla mamma che, dopo molti ordini e contrordini, abbiamo finito per rimanere a Milano. In fondo ne siamo stati contenti, siamo ormai affezionati a questa città. Ed anche per il lavoro al giornale, non è difficile che possa aver presto la terza pagina qui, o almeno che possa veder aumentato il numero dei miei collaboratori agli Esteri, in modo da alleggerire il mio compito. La bambina cresce benissimo, è felice di vivere e di scoprire ogni giorno un bocconcino di mondo. Ora già non le basta più guardare, vuol toccare, stringere nelle mani, per essere certa che la cosa è lì per lei, che lei esiste. Ma non sa prender bene le misure per giungere con le manine agli oggetti, e allora si stizzisce un momento, poi subito dimentica e riprova. Maria Teresa sta bene, si stanca forse un po’ troppo intorno alla bimba, malgrado che la presenza della Giovanna le sia di grande aiuto. Ma insomma non ne risente. Per te ricomincerà ormai la corvée della Costituente. Mi spiace di non esser andato a Roma solo perché non potrò assistere a qualche seduta. Ma speriamo che questo regime parlamentare

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Parte prima. Lettere

continui per un pezzo, e ci sia tempo di vedere Montecitorio in funzione. Addio caro babbo, grazie ancora dei tuoi auguri e del regalo. Un abbraccio da me e da Maria Teresa, un bacetto da Silvia.

Franco a Piero Milano, 6 marzo 1948

Caro babbo Ho scritto direttamente a Salvemini che riprenda pure da «Temps Modernes» le pagine che lo interessano. Non credo che «Temps Modernes» possa piantare grane per i diritti, dato che io avevo dato loro il pezzo per la pubblicazione in francese. L’originale e la facoltà di farlo tradurre in altre lingue è rimasto a me, non ti pare? Speriamo che il buon Salvemini spedisca davvero qualche dollaro. Quel buffone di Sartre, dopo aver promesso grandi cose, ha pagato quelle collaborazioni italiane in modo irrisorio, duecento franchi a pagina... Grazie del tuo rifornimento alla Commerciale, di cui mi è arrivato ieri l’avviso. Per fortuna l’inverno è finito, la voragine delle sue spese (legna, luce elettrica, medicine per raffreddori e influenze) si sta ormai chiudendo, e questo nostro bilancio potrà andar meglio avanti con le sole sue forze. C’è bisogno che ti dica che sono rimasto molto deluso di vedere il tuo nome sbandierato da tutte le gazzette saragattiane? Quello che temevo è successo. L’Unione Socialista è stata solo una trappoletta per trarre in inganno la buona fede di galantuomini come te, e far scivolare inavvertitamente la loro candidatura accanto, a pochi pollici, da quella di Saragat e dei suoi. Come puoi ancora credere che si tratti di liste e di interessi distinti? Quando qui a Milano, per esempio, la lista è unica, e Lombardo e Collier vi figurano insieme a Saragat e Tremelloni42. Quando tu hai, a Fi-

42 Giuseppe Saragat (1898-1988) e Roberto Tremelloni (1900-1987), dirigenti del Partito socialista dei lavoratori italiani (poi Psdi).

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renze, Bianca Bianchi43, saragattiana notissima, come vicina. Quando, per darti un altro esempio, per la Lombardia, Psli, Unione socialista e Pri di Pacciardi44 hanno un’unica lista comune di candidati al Senato, con un unico simbolo composito in cui l’edera abbraccia il sole o viceversa. Del resto, quanto più la campagna elettorale andrà innanzi e le posizioni si faranno meglio definite, sempre più ti avvedrai come la tua persona serva solo a tirar voti a quella “terza forza” (che è prima di tutto Saragat e Pacciardi) la quale serve solo a toglier voti al fronte della sinistra. Gli ambiziosetti che ti stanno intorno hanno sfruttato i tuoi “eroici furori” di integrità per dar lustro alla lista che dovrebbe portar loro a mantenere il “cadreghino” deputatizio. Ed ora ti troverai sempre più a disagio ed in imbarazzo. Che farai, ad esempio, dopo il 18 aprile, quando la terza forza si coalizzerà con De Gasperi – com’è già annunciato – per ingrossare la sua scossa percentuale parlamentare contro quella del Fronte? E prima del 18, se come pare, la terza forza formulerà in coro con De Gasperi una specie di professione di solidarietà governativa, quali sottigliezze formali potranno far credere a te e a qualche altro onestuomo dell’Unione, che una simile professione non li coinvolge? Ma, a parte tutti gli altri argomenti, c’era quella promessa che mi facesti a Milano, di non mischiarti in alcun modo con Saragat, che ero sicuro tu avresti mantenuto. A uomini autorevoli del Pci che mi avevano chiesto, preoccupati, di te, io avevo riferito la conclusione di quel nostro colloquio come un fatto positivo, un “meglio che nulla”; ed ora forse pensano che tu abbia detto allora tanto per dire. Io, lo capisci bene, non lo penso. Penso che siano stati molto abili a ingannarti, oppure che tu abbia mutato parere su tutto il merito della questione. Ma se è così, allora ti prego di spiegarmi in che modo. Non supporre che io ti stia facendo un comizio, magari su ordinazione. Ti ho fatto questo discorso sul piano dell’affetto, non 43 Bianca Bianchi (1914-2000), attiva nella Resistenza a Firenze, nel 1946 fu eletta alla Costituente con il Psiup, seguendo poi Saragat nel Psdi. 44 Randolfo Pacciardi (1899-1991), dirigente del Partito repubblicano italiano, era stato un risoluto antifascista; fu vicepresidente del Consiglio nei governi De Gasperi e poi ministro della Difesa dal ’48 al ’53, su posizioni filo-atlantiche e anticomuniste.

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del lavoro politico: da figlio a padre non da militante del Pci. Mi addolora di vederti sbagliare. E ch’io ti dica così non ti deve offendere, se guardi con quanto disinteresse io tenga certe posizioni, e se in quel disinteresse riconosci molte cose che tu mi hai dato. Scrivo alla mamma le notizie di MT. E della bimba. Sappi comunque che stiamo bene, che ci ritroviamo sani e salvi al di là del tempestoso capo dell’inverno finalmente doppiato. Ciao, e un abbraccio dal tuo Franco

Franco a Teresa Milano, 29 gennaio 1949

Cara piccinina, ho avuto la tua cartolina, scritta – immagino dalla calligrafia – in filobus o contro qualche muro scalcinato dei corridoi dell’università. Fatta la debita tara su quello che mi racconti, ti compiango lo stesso per il viaggio (l’hai voluto tu! L’hai voluto tu!) e per l’attesa notturna sul pianerottolo. Aspetto ora di sapere se Donini45 ha veramente rinviato il suo appello e se quindi tornerai alla metà della settimana. È arrivata una lettera da Firenze, con notizie buone della bimba. Non sto a ripetertele, perché molto probabilmente mia madre, saputo che sei a Roma, ti avrà scritto direttamente. Le mie giornate qui, senza di te, nella monotonia opprimente del lavoro, si attaccano l’una all’altra senza soluzione di continuità, senza tregua. Trovarti a casa la sera, telefonarti, parlarti la mattina al risveglio, baciarti, tutte le ore consuete della nostra esistenza in comune, anche così consuete sono punti fermi nel correre via del resto dell’esistenza, un riferimento che mi trattiene dal sentirmi soffiar via come una piuma in un futuro che precipita. Forse sto facendo dell’esistenzialismo. Ma sono stanco, in questi giorni, ho voglia di sentirmi più spazio d’intorno, e ho bisogno di te perché tu mi aiuti. Ieri sera ho potuto vedere (gratis, grazie a 45 Ambrogio Donini (1903-1991), docente di Storia del cristianesimo all’Università di Roma e di Bari, dirigente del Pci, direttore dell’Istituto Gramsci, più volte eletto senatore.

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Casiraghi) la prima di “Amleto” di Laurence Olivier. (Non è bello, non è cinema, e non mi sembra neanche che sia Shakespeare. Lo rivedremo insieme, comunque). C’è una frase di Amleto che è molto attuale e dice presso a poco così: “C’è in quest’epoca qualcosa di strano. Ma che maledetto scherzo che sia toccato proprio a noi di doverlo capire...”. Che maledetto scherzo davvero! Eppure, bisogna stare allo scherzo, fare buon viso a cattivo gioco. Domattina domenica ancora strillonaggio. Anderò a Lodi e nei paesi circostanti... se è una bella giornata lo faccio volentieri, perché almeno si respira un po’ d’aria buona, e strillando non si pensa. (Caspita, faccio proprio schifo! Discorsi da Elena Monti...). Il pomeriggio, date le insistenze di Ettore e di Redaelli, dovrò passare dalla Corvetto a fare un discorsino per il tesseramento. Poi me ne starò a casa. Zazzeri ha telegrafato che lunedì subito si deve iniziare una ristampa di Cina rossa46 e vuole che io riveda un po’ la prima edizione per migliorarla. Sono pronte le bozze di Garaudy47: vedrò se si può aspettare fino al tuo ritorno, perché gli dia un’occhiata anche tu. Milano è in subbuglio per i “taxi della morte”, di cui avrai letto sui giornali di costà48. È una cosa molto oscura, della quale la Polizia sta facendo pretesto per mettere a soqquadro le sezioni, scassinando e devastando, per perquisire perfino la Casa della Cultura, e addirittura la camera di Teresa Noce49. Ciao, pipi. Ti saluto. Sono quasi le 23, e me ne vado dal giornale, per coricarmi presto ed essere su di buon’ora domani mattina quando verranno a prendermi. “Se vedemo”. Un bacio e poi tanti altri, vari Franco

Anna Luisa Strong, Cina rossa, Milano, Edizioni Sociali, 1949. Roger Garaudy, Il comunismo e la morale, traduzione dal francese di Maria Teresa Regard, Milano, Edizioni Sociali, 1949. 48 Vedi supra, Introduzione, p. LII. 49 Teresa Noce (1900-1980), fondatrice e dirigente del Partito comunista italiano, conosciuta con il nome di battaglia Estella, fu moglie di Luigi Longo. 46 47

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Teresa a Franco Roma, 28 febbraio 1949

Mio caro, ho avuto stamani il tuo espresso. Ho dato l’esame oggi lunedì. Sono stata sfortunata, perché il professore ha cominciato ad urlare contro di me. Ho avuto solo 24, ma certo non per colpa mia. Ma va benissimo lo stesso. Ieri nientemeno sono stata a Napoli e mi sono divertita parecchio. Ho visto Cecilia, ma Aurelia non c’era50. Giorgetto era a Roma da sabato per una riunione degli organizzativi e amministrativi. Quindi lo vidi qui sabato sera e poi venne a Napoli nel pomeriggio e così mi accompagnò solo al treno. Non vidi invece Mariano col quale ci eravamo dati appuntamento (andò anche lui a Napoli sabato). Mi doveva portare un suo libro su Mao molto interessante e alcuni articoli di Mao del ’36 che voleva proporci di pubblicare. Mi spiace, fu colpa mia, perché scesi a Mergellina e lui invece era alla Centrale. Ma a me interessava il mare. Andai a Posillipo in un posto bellissimo che probabilmente tu non conosci e cioè dalla parte di Coroglio fino ad arrivare alla spiaggia. L’Ilva sul mare dall’alto è grandiosa. Trovai nientemeno Grifone51 anche lui a spasso e mi tenne molta compagnia parlandomi perfino di alcuni scrittori interessanti popolari del mezzogiorno. Il mondo è proprio piccolo e comunisti se ne trovano dovunque. Mi dispiace molto facendo quella bella strada che tu non ci fossi. Sono proprio in amore! Sabato trovai il Distretto chiuso. Tenterò adesso. Preferisco partire domani a mezzogiorno perché voglio vedere Sasà52. Mercoledì però torniamo di certo alle 4 come al solito. Non ti riscriverò più se non c’è nulla in contrario. Ti aspettiamo dunque al treno. Qui piove e non vedo l’ora di andarmene. È proprio un’antipatica città. Gli intellettuali sempre peggio. Cecilia e Aurelia, rispettivamente moglie e figlia di Vasco Pratolini. Pietro Grifone (1908-1983), studioso di economia, condannato nel 1933 al carcere e al confino dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, sarebbe stato durante la Resistenza e dopo la Liberazione un dirigente del Pci. 52 Rosario Bentivegna (n. 1922), gappista romano, autore – tra l’altro – dell’attentato di via Rasella. 50 51

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Passano da feste a feste, da osteria a osteria, da ubriacatura a ubriacatura. Anche il P. dà sempre più sui nervi, non c’è molto di nuovo, ma sempre piccole cose spiacevoli. Per fortuna io non c’entro più. Vidi Alfonso e la Graziana53 impressionantemente smagrita. E nient’altro. Tanti bacetti MTeresa

Franco a Piero Milano, 19 marzo 1949

Carissimo babbo, immagini quanto piacere mi abbia fatto il tuo voto contro il Patto Atlantico e la dichiarazione con cui lo hai accompagnato. Ne ricevemmo il testo stenografico al giornale, per telescrivente, poco dopo che tu l’avevi pronunciata, ed i compagni degli Interni vennero subito nella mia stanza a farmela leggere e a congratularsi con me. Dal computo dei voti ho visto che hai anche votato in favore dell’emendamento Togliatti – e del resto, dato il tuo voto precedente, non poteva essere diversamente. Se ti può interessare – e forse l’avrai già visto tu stesso – ti dirò che l’“informatissimo” e “obiettivo” «Corriere della Sera» ignora il tuo nome, la tua dichiarazione, il tuo voto nel suo resoconto del dibattito parlamentare. “Je rodeva...”, dicono a Roma. Il numero del «Ponte», di cui mi hai annunciato l’arrivo, non mi è ancora giunto54. Ma appena arriverà lo lanceremo nel modo migliore: l’argomento si presta ad una presentazione giornalistica. Non so se tu abbia appreso, da qualche giornale che ne ha parlato, che un gruppetto di familiari di fucilati delle Fosse Ardeatine fanno causa per danni a Pertini, Bauer, Amendola, Salinari, Bentivegna55 e al sottoscritto, ritenuti responsabili della morte dei Alfonso Gatto e sua moglie, la pittrice triestina Graziana Pentich. «Il Ponte», a. V, n. 3, marzo 1949, numero monografico dedicato a Carceri: esperienze e documenti. 55 Alessandro Pertini (1896-1985), socialista, Riccardo Bauer (1896-1982), azionista, Giorgio Amendola (1907-1980), comunista, furono membri della 53 54

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loro congiunti. L’atto di citazione del Tribunale Civile di Roma – venti pagine dattiloscritte – mi è pervenuto a casa due giorni fa. Gli avvocati sono: Castellano Francesco, Paladini prof. Mario, Giulia Mario, Mundula Giuseppe, Schifone Salvatore. Il domicilio è eletto presso quest’ultimo, in via Napoli 65, Roma. Lo Schifone, mi dice Maria Teresa, che lo conosce come degno amico di suo zio Enzo Palermo, è un losco figuro, di noto passato fascista. Si tratta, è evidente, di una manovra politica, per far compiere un altro piccolo passo in avanti alla campagna di diffamazione contro la Resistenza. I congiunti dei fucilati (Lidomici, Sansolini, Cibei) sono certo povera gente che è stata istigata da persone nascoste dietro di loro. Sulla base della sentenza del Tribunale Militare nel processo contro Kappler, che ha dichiarato via Rasella “atto illegittimo di guerra”, e premesso che “sotto il profilo dell’illecito penale il fatto è coperto da amnistia”, si chiede al giudice civile di condannare Pertini, Amendola, Bauer (membri della Giunta Militare di Roma durante l’occupazione) e Salinari, Bentivegna, Calamandrei (esecutori materiali del fatto) al risarcimento dei danni “patrimoniali e non”, “operate le dovute detrazioni di legge e la rivalutazione monetaria, con gli interessi (!!!!!) dal giorno del sinistro (!) a titolo compensativo e col favore delle spese, competenze e onorari”. Era prevedibile che, prima o poi, a qualcosa del genere si dovesse arrivare. Provvederò subito a mettermi in rapporto con Amendola, e gli altri di Roma, e concordare il da farsi. Non credo che tu possa (data la parentela) essere il difensore, ed è un peccato. Comunque ci, o mi, darai tutti i consigli. Ti spedirò al più presto l’atto di citazione. Noi stiamo bene. La bimba è un po’ nervosa, in questi giorni, perché sta mettendo quattro nuovi dentini, i canini: tuttavia ha un formidabile appetito, vorrebbe sempre mangiare. Abbraccia la mamma, dille che stia tranquilla, e non se la prenda se sono “sotto processo”. Vi saluto insieme a Maria Teresa. Tutto il nostro affetto e bacetti dalla piccinina vostro Franco Giunta militare di Roma durante l’occupazione. Carlo Salinari (1919-1977) e Rosario Bentivegna furono tra gli autori dell’attentato di via Rasella.

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Franco a Piero Milano, 15 aprile 1949

Carissimo babbo, ti ringrazio tanto del regalo pasquale. Non prendetevela se non siamo costì, a passare la festa con voi: voglio poter avere un po’ di giorni liberi in maggio, per fare il breve viaggio a Parigi che abbiamo progettato, e quindi non era il caso che mi prendessi ora una vacanza. Il giorno di Pasqua, probabilmente, andremo fuori Milano, sul Lago di Como o sul Lago Maggiore, dalla mattina alla sera. La piccinina è ormai un personaggio capace di affrontare le escursioni e di dilettarsi di turismo, e credo che un viaggio in battello sull’“acca” del lago dovrà piacerle molto. (Particolari sui progressi della bimba li scrivo alla mamma che me li ha chiesti, nella lettera per lei qui unita.) La vostra gita a Pompei è un ottimo regalo che vi fate. Non hai visto mai la Villa dei Misteri? Mi pareva di averne parlato con te, qualche volta, come di cosa che tu conoscessi. A me, sebbene li abbia visti una volta sola, e neanche nel mio ultimo soggiorno a Napoli, le pitture della Villa sono rimaste impresse e sempre splendidamente evidenti, con i loro rossi caldi ed i loro incarnati così grassi e tiepidi. Ma vedrai: non c’è nulla in essi che disponga a pensieri di rinuncia, alla vecchiaia “et ultra”; sono pieni al contrario – se ben ricordo – di vita, del senso del continuo rinnovarsi della vita, di una sicurezza gioiosa. E ad accoglierli così aiuta tutto il verde delle viti e degli alberi che li circondano, la campagna luminosa, il sole. Proprio per questo dicevo che è un ottimo regalo che ti fai per il tuo compleanno. Ho ricevuto il numero del «Ponte» sulle prigioni, e ieri anche quello ultimo, con la tua dichiarazione di voto sul Patto. Il numero sulle prigioni è certo un buon risultato, ed un contributo importante. Ed è notevole il fatto che, di fronte a certi aspetti estremi, di violenza, dello stato borghese, sia venuta automaticamente a riformarsi, nei nomi dei collaboratori, la stessa unità dei tempi migliori della lotta antifascista. È una nuova prova – sia pure entro i suoi limiti, di semplice denuncia – di come, per la difesa della libertà e della dignità dell’uomo contro le forze che lo mortificano e opprimono, la borghesia illuminata e sinceramente demo-

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Parte prima. Lettere

cratica abbia bisogno dei comunisti, e viceversa. Del numero sulle prigioni abbiamo fatto fare una recensione piuttosto lunga per le quattro edizioni dell’«Unità», da Paolo Spriano56, quel giovane di Torino, autore di uno studio su Salvemini. «L’Unità» di Roma e quella di Torino l’hanno già pubblicata: noi – per ragioni di spazio abbiamo dovuto aspettare – la pubblicheremo domani o martedì. Ti manderò una copia del giornale e, se vuoi, anche i numeri delle altre edizioni che hanno pubblicato la recensione. Non so se tu abbia già, o se ti sia stato per lo meno segnalata, la traduzione inglese – uscita di recente in America – del volume di Viscinski57 sul diritto pubblico sovietico. È un grosso volume di oltre mille pagine, e costa – ahimè – oltre diecimilalire. Ma è un libro fondamentale per la conoscenza dei problemi giuridici sovietici, e penso che dovrebbe interessarti molto. Qui a Milano è in vendita in qualche libreria. Se vuoi posso comunicartene il titolo preciso, e gli argomenti principali, e il nome dell’editore: o addirittura procurartelo. Per quanto riguarda la causa intentata dalle famiglie dei “martiri”, seguendo le tue istruzioni io non ho preso alcuna iniziativa, e aspetto che provvedano i principali chiamati in causa, a Roma, con i quali mi sono già messo in rapporto. Per ora non mi hanno fatto sapere nulla. Mi risulta però che una delle famiglie si è pubblicamente ritirata dalla causa, dichiarando di non volersi prestare ad una speculazione politica, e di aver inizialmente ceduto a pressioni. C’è un’altra questione per la quale ti chiedo consiglio. Sul settimanale «Italia Monarchica» di Roma è stato pubblicato un articolo, che il «Meridiano d’Italia», giornale del Msi, ha ripreso qui a Milano, in cui un certo Massimo di Massimi, che io non ho mai visto né conosciuto, asserisce con abbondanza di particolari che io avrei dormito in casa sua la sera dell’attentato di via Rasella, letto a letto con lui, e gli avrei fatto ciniche dichiarazioni sulle possibili conseguenze dell’attentato (un esempio delle frasi attribuitemi 56 Paolo Spriano (1925-1988), storico del movimento operaio e autore di una celebre Storia del Partito comunista italiano (5 voll., Torino, Einaudi, 19671975), era stato partigiano combattente nelle formazioni di Giustizia e Libertà. Nel dopoguerra collaborò con «l’Unità» e nel 1946 si iscrisse al Pci. 57 Andrej Januar’evic ˇ Vysˇinskij (1883-1954), giurista e diplomatico sovietico, fu l’accusatore nei grandi processi staliniani di epurazione degli anni trenta.

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nell’articolo: “A la guerre comme à la guerre – motteggiò il giovanotto.”). I fatti, ripeto, sono inventati di sana pianta. Siccome questo Massimo di Massimi è uno dei testimoni chiamati a nostro carico nella causa di Roma, io penso che citarlo per diffamazione – gli estremi ci sono, per gli apprezzamenti da lui espressi nei miei confronti – sarebbe opportuno, non soltanto per dargli una lezione. Dimmi cosa ne pensi. Caro babbo, passate questi giorni di riposo tranquillamente. Ti auguro, per i tuoi sessant’anni, un buon lavoro lungo e sereno in un mondo di pace e di giustizia. Ti abbraccio con tutto il mio affetto Franco

Franco a Piero Milano, 10 maggio 1949

Caro babbo, ho ricevuto la tua lettera e ti ringrazio delle esaurienti informazioni che mi dai sulla preparazione della difesa nella causa civile di via Rasella. Vedo con piacere che i miei patroni sono due “cannoni” come Comandini e Iemolo58. Dimmi se è il caso che io scriva loro, per dichiarare la mia soddisfazione del fatto che abbiano accettato di difendermi: consigliami semmai sulla formula. Veniamo ora alla querela Di Massimi. Ti assicuro in maniera assoluta che il Di Massimi mi è sconosciuto, e che non ho mai messo piede in una sua casa né la sera dell’azione di Via Rasella né mai. Escludo che il suo possa essere uno pseudonimo sotto al quale altro nome, di persona a me nota, possa nascondersi. Ad escluderlo basterebbe il fatto che – come già ti ho scritto – il Di Massimi figura come Di Massimi nella lista dei testimoni che i vostri avversari hanno citato contro di noi nella causa civile: e non credo che si possa figurare in un atto giudiziario sotto pseudonimo. 58 Federico Comandini (1893-1967), avvocato, fu tra i fondatori del Partito d’Azione; Arturo Carlo Jemolo (1891-1981), giurista e storico, professore di Diritto ecclesiastico all’Università di Roma, studioso dei rapporti tra Stato e Chiesa, collaboratore del «Ponte» e delle più impegnate riviste della cultura laica.

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Parte prima. Lettere

Passiamo alla testimonianza che io posso addurre per dimostrare la totale falsità delle affermazioni del Di Massimi. Subito dopo, l’attentato io mi recai in casa di un compagno, Enrico [recte Ernesto] Borghesi59, in piazza di Spagna. Con il Borghesi andammo più tardi fino a piazza Vittorio, dove avevamo appuntamento con altri compagni, fra i quali Carlo Salinari, ora incaricato di Letteratura italiana all’Università di Roma. Da piazza Vittorio, verso le 18, io ridiscesi, solo, traversando il centro, e a piedi andai fino a piazza Bainsizza 2, dove al piano 2°, in casa della vecchia Marietta, ero alloggiato insieme con il compagno Francesco Curreli60. Lì rimasi fino al mattino dopo. Delle persone citate, Borghesi e Salinari, e altri di quelli che furono al convegno pomeridiano di piazza Vittorio, sono reperibili e certamente disposti a testimoniare. Ma credo che le sole testimonianze necessarie siano quelle del Curreli e della Marietta. Di Curreli ho perso le tracce da un pezzo: potremmo rintracciarlo attraverso il partito (credo sia in Sardegna), e provvedo stasera stessa a chiedere notizia a compagni di Roma. Marietta deve abitare ancora a Roma, in piazza Bainsizza 2. L’unico dubbio – che già ti accennavo – è che essa si dimostri restia a testimoniare, per timori politici o per ragioni confessionali. Ma spero di no: ci sono ragioni sentimentali (tra l’altro il ricordo di Giorgio Labò61 che fu in casa sua insieme a noi) che dovrebbero indurla a testimoniare. Scrivo subito a Emilia, che sta di casa a un passo da piazza Bainsizza, e che è la persona più adatta per andare a parlarle, e le do gli estremi della faccenda. Le dico però di andarci solo dopo che abbia ricevuto una tua telefonata che le farai lunedì, quando vai a Roma dandole i consigli tecnici che crederai opportuni. Io penso che se riuscissimo ad assicurarci anche solo la testimonianza di Marietta dovremmo dare la querela. Perché, vedi, sono convinto che il signor Di Massimi verrà alla causa civile a deporre le stesse favole che ha scritto nell’articolo, che proprio per 59 Ernesto Borghesi, nome di battaglia “Ernesto”, gappista romano, partecipò all’attentato di via Rasella. 60 Su Francesco Curreli, militante comunista, vedi supra, Introduzione, pp. XVI-XVII. 61 Giorgio Labò (1919-1944), studente di Architettura, artificiere dei Gap, fu catturato, torturato e fucilato a Roma il 7 marzo 1944.

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deporre quelle falsità è stato citato. Conviene forse di più contestargli il falso nel corso della causa, e farlo incriminare per falsa testimonianza, e provare allora la sua menzogna ? O non è meglio prevenirlo con la querela? Sabato o domenica spero proprio di poter partire con Maria Teresa per Parigi. Ci resteremo non più di una settimana, e domenica o lunedì 21-22 saremo di ritorno a Milano. Siamo contenti che la bambina non senta la nostra mancanza e non vi infastidisca con dei capriccetti. È vero che sta diventando un piccolo personaggio, e che ha preso forma, e tanto garbata ? Ciao, caro babbo, abbraccia la mamma, state bene. Un bacio a Silviolina. Ti abbraccio Franco Ti servono libri o altro da Parigi?

Franco a Piero Milano, 15 ottobre 1949

Carissimo babbo, con il tuo ultimo assegno di 75.000 ho potuto chiudere la partita delle cambiali per la casa nuova. Ti ringrazio tanto di questo aiuto fondamentale e decisivo che ci hai dato. La costruzione della casa procede speditamente: l’appartamento sarà pronto di sicuro per la fine di novembre; dipenderà poi da noi entrarci subito, o aspettare che l’umidità sia sparita con il riscaldamento. Comunque, ci siamo messi d’accordo con i padroni di casa di Corso Lodi, per quanto riguarda la possibilità di protrarre la nostra permanenza nella vecchia casa, nel modo per noi più vantaggioso. Silvia sta benone: è cresciuta ancora, dal suo ritorno, ed è ingrassata. Mangia moltissimo: forse risente ora il beneficio dell’estate al mare e delle iniezioni vitaminiche che le fece il Belli. Parla molto, fantastica, gioca. È entrata ora nella fase dello sfrenamento fisico, comincia cioè a sentirsi completamente sicura del suo corpo, delle sue gambette: salta, balla, fa capriole, corre a quattro zampe... Non si spaventi però la mamma: questo non toglie infatti che Silvia continui anche a dedicarsi ai suoi passatem-

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pi preferiti, lettura dei “librini”, lunghi geroglifici con la matita, discorsetti pieni di un misterioso senno con le tre o quattro bambole spennacchiate. Ho ricevuto oggi il numero del «Ponte» ed ho letto con vivo interesse lo scritto di Jemolo sulla scomunica62. Attenzione, però! A pagina 1241, la penultima dell’articolo, in fondo alla pagina, è scappato un errore al linotipista, e poi al correttore, che tradisce profondamente tutta la linea di Jemolo. Invece di dire che il comunismo “da marxismo è divenuto leninismo e stalinismo” si dice che il comunismo “da nazismo è diventato leninismo e stalinismo”. C’è una bella differenza, ma certo ve ne sarete già accorti, o avrà pensato l’autore a farvelo notare. Ti spedisco in un pacchetto il Fucik, Scritto sotto la forca63, da me curato per la Universale Economica, e La vita non muore di Melpo Axioti64, un romanzo sulla Resistenza in Grecia che Maria Teresa ha tradotto dal francese. Sabato e domenica scorsa sono stato a Trieste per il giornale. Non conoscevo Trieste, e i compagni me l’hanno fatta girare tutta in macchina, fino al confine jugoslavo, del resto molto a ridosso, e ormai divenuto una cupa barriera di disperazione. Il tempo fu bellissimo, e la città mi piacque molto, con quel suo calore, quella sua vitalità, quella sua inquietudine così discrete eppure così sensibili e attraenti. Voi avete ormai riportato le vostre tende a Firenze? La mamma ha tratto giovamento dalla sua cura-riposo a Chianciano? Maria Teresa ed io stiamo bene. Lo sciopero dei poligrafici mi ha fruttato alcuni giorni non previsti di vacanza. E del resto non risento alcuna stanchezza del mio lavoro. State tranquilli per noi, e contenti. Vi abbracciamo con tutto il nostro affetto. Silvietta vi bacia. vostro Franco 62 Arturo Carlo Jemolo, La scomunica dei comunisti, «Il Ponte», a. V, n. 10, ottobre 1949, pp. 1231-1242. 63 Julius Fucik, Scritto sotto la forca, a cura di Franco Calamandrei, Milano, Universale Economica, 1949. 64 Melpo Axioti, La vita non muore, traduzione di Maria Teresa Regard, Milano, Cultura Nuova, 1949.

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PS. Sull’ultimo numero di «Rinascita» hai visto l’articolo di Furio Diaz65 sopra La cultura in Toscana, dove si parla con simpatia anche del «Ponte»?

Franco a Piero e Ada Milano, 2 luglio 1950

Carissimi babbo e mamma, Maria Teresa mi ha detto che avete energicamente protestato perché io non l’ho accompagnata a San Lazzaro. Dovete capire che, dopo l’assenza di quasi un mese per il viaggio in Albania, mi era difficile, per il lavoro accumulato, lasciare di nuovo Milano per quarantott’ore. E poi, eravamo agli sgoccioli del bilancio mensile, un po’ troppo agli sgoccioli per affrontare il viaggio in due. Era giusto che venisse Maria Teresa, che non vedeva la bimba da più tempo di me. Comunque, le mondine non c’entravano affatto con la mia mancata venuta da voi... Maria Teresa mi ha raccontato con molto entusiasmo il suo viaggio a Montepulciano, e come il babbo le ha fatto da cicerone su su fino a Piazza Grande, lungo i bei palazzi e le chiese. Mi ha raccontato anche della disinvoltura con cui Silvietta gira per le Balze e sale sul poggio, e della sua teoria secondo cui i fiori bisogna coglierli e metterli nell’acqua perché se no, poveretti, soffrono per il sole ed il caldo. E mi ha raccontato, a proposito di sole e di caldo, l’infernale comizio tenuto dal babbo a Chiusi, dal balcone in pieno mezzogiorno, per i divieti prefettizi. Anche oggi, qui a Milano, la temperatura è tropicale. Ci difendiamo restandocene chiusi in casa, con gli indumenti ridotti al minimo. Usciremo quando sarà venuto sera, mangeremo in centro, e poi andremo a sentire la messa solenne di Bach alla Scala. L’aria è pesante non solo dal punto di vista climatico, in questi giorni. C’è chi vuol fare la guerra a tutti i costi, e in fretta. Ma non è detto che gli riesca. Maria Teresa vi ha già parlato della proposta che mi è stata fat65 Furio Diaz (n. 1916), storico, docente di Storia e storiografia dell’età moderna alla Scuola Normale Superiore di Pisa, sindaco di Livorno dal 1944 al 1954, uscì dal Pci all’indomani del 1956.

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ta di andare per un anno a Londra. Ci ho pensato un po’ su, e poi ho accettato. Sarà in ogni modo un’esperienza interessante: anche se l’Inghilterra mi si prospetta come un paese triste e stanco, e il mio lavoro là non sarà facilitato come potrebbe esserlo per esempio a Praga o a Budapest. Si tratta di fare il corrispondente per le quattro edizioni dell’«Unità»: mandare quotidiane corrispondenze politiche per la prima pagina e articoli per la terza pagina di tanto in tanto. Potrò scrivere articoli anche per altri giornali e riviste (come «Nuovo Corriere» o «Vie Nuove», per esempio) e questo servirà anche ad arrotondare lo stipendio. Il corrispondente che è stato a Londra finora, e che mi lascerà il posto, riceveva 60 sterline mensili, con le quali si vive abbastanza bene. Io cercherò di farmele portare a 70, con le quali si vive bene. Avremo assicurato un piccolo appartamento con il telefono, e la possibilità di telefonare gli articoli da casa, il che è molto comodo. Io sono contento di questo cambiamento nel lavoro, perché quello della terza pagina mi è venuto a noia, ed ha finito col legarmi a tanti altri incarichi che il tempo disponibile per studiare e scrivere si riduceva a nulla. Al mio ritorno dall’Albania avevo già chiesto di essere passato inviato speciale. La direzione mi ha accontentato proponendomi per questo incarico abbastanza importante a Londra. Il lavoro di corrispondente non solo mi lascerà, penso, molto più tempo libero, ma sarà esso stesso un’occasione per scrivere. Rimane ora da decidere solo la data della partenza: che, se non sopravvengono complicazioni internazionali (per es. indesiderabilità dei comunisti in Inghilterra), potrebbe essere anche presto, entro luglio. Appena la data sarà fissata, cercheremo di venire in ferie costà al Poveruomo, per il periodo che rimarrà prima della partenza. Penso che comincerò con l’andare io, a Londra, e Maria Teresa mi raggiungerà quando io mi sarò orientato. Il nostro desiderio è di portare anche la bambina su con noi (il corrispondente che era a Londra finora aveva con sé la moglie e un bambino piccolo), almeno a periodi. Vedremo se Maria Teresa la porterà su con sé addirittura o se tornerà a prenderla successivamente. Così la Silvietta imparerà l’inglese. E i nonni verranno a trovarla a Londra. Appena saprò qualcosa di più definitivo, vi scriveremo. Immagino che il babbo dovrà tornare a Roma nella settimana,

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per il dibattito alla Camera. Caso mai io dovessi capitare giù, lo cercherò alla Fabrello. Tanti bacetti alla piccinina, saluti alle tate, un abbraccio a voi dal vostro Franco P.S. Per la casa ho già detto stamani al telefono. Anche Maria Teresa si è persuasa che non è il caso, almeno per ora, di darla via. Stiamo cercando la persona più adatta a cui affittarla, con le debite garanzie per i mobili e i libri, e con la possibilità di riservarci una stanza.

Franco a Piero e Ada Londra, 23 agosto 1950

Carissimi, con la partenza dei De Cugis66 abbiamo preso oggi possesso del nostro “flat” (così si dice per “appartamento”) e stasera lo abbiamo cominciato a ripulire e a riordinare, con aspirapolvere prestatoci da amici, e al suono di un concerto bachiano trasmesso dalla radio che abbiamo in affitto. Il “flat” è abbastanza comodo e simpatico, con una certa aria di intimità famigliare non troppo invecchiata né polverosa. Questi quindici giorni sono stati sufficienti per orientarci, e tutto sommato siamo stati soddisfatti di questa residenza forestiera. I De Cugis ci hanno fraternamente introdotti presso tutti gli amici che si erano fatti in questi anni, tutti simpatici compagni, giornalisti, medici, artisti, i quali vivono nella maggioranza, con mogli più o meno bruttine, in questo stesso quartiere, in qualche caso a pochi passi di distanza. Li vedremo spesso, come li abbiamo visti in queste due settimane, perché qui c’è una grande abitudine di farsi visita, di riunirsi, di passare le serate in compagnia bevendo tè e spiluzzicando indefinibili panini. Londra non si può dire che sia una bella città: direi anzi che 66 Carlo De Cugis aveva partecipato alla Resistenza nelle file del Partito d’Azione; collaboratore del «Politecnico», poi corrispondente da Londra per «l’Unità».

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è una città mostruosa, l’opposto di metropoli come Parigi, una specie di gigantesca Milano; ma ha indubbiamente un fascino e un interesse vivissimo, con la sua umanità formicolante di 10 milioni. Anche al lavoro, che ho ormai iniziato da due giorni con telefonate al giornale, mi sto abbastanza orientando e lo trovo estremamente interessante. Siamo stati, con Maria Teresa, a trovare Salvemini, in una casetta all’estrema periferia londinese, dove lo abbiamo trovato sepolto in mezzo alle bozze del suo nuovo libro, e assistito da una specie di lungo e silenzioso fantasma che è miss Massey, detta anche Isabella67. Salvemini è stato molto cordiale, ci ha voluto regalare un provolone giuntogli dall’America, ci ha parlato del suo lavoro e con una certa amarezza dell’Italia. Con De Cugis sono stato a ossequiare Gallarati Scotti68, che si è profuso in parole di amicizia dichiarando che “se ho avuto qualche volta a lamentarmi della stampa italiana non è stato mai della stampa comunista” e che “le nostre strade confluiscono, ci incontreremo in cima alla montagna”. Maria Teresa partirà domenica, e sarà a Milano lunedì. Credo che dopo pochi giorni verrà da voi. Silvietta starà benissimo qui, vi assicuriamo, si divertirà un mondo. E poi, verrete a trovarla, proprio come venivate a Milano. L’albergo dove abbiamo alloggiato, a cinque minuti da casa, è comodissimo, sul tipo della pensione Fabrello, ed è lì pronto ad aspettarvi, anche se non gradirete i suoi “breakfast” a base di tè e salsiccine. Scusate se non vi ho scritto fino ad oggi, ma sono stato molto preso dalle pratiche, dalle visite, dalle conoscenze del noviziato. Maria Teresa vi fornirà abbondantemente tutti i particolari. State contenti e cominciate a studiare gli orari della Chiasso – Strasburgo – Calais – Dover – Londra. Baciatemi tanto la bimba. Saluti affettuosi alla tata Giovanna. A voi un abbraccio dal vostro Franco Maria Teresa raccomanda che la mamma le scriva a Milano. 67 Isabel Massey Mellis (1880-1966), docente al Bedford College for Women di Londra, amica e collaboratrice di Salvemini dalla seconda metà degli anni venti. 68 Tommaso Gallarati Scotti (1878-1966), liberale e antifascista, diplomatico e scrittore, ambasciatore a Londra dal 1947 al 1951.

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Teresa a Franco Poveromo, 3 settembre 1950

Carissimo, sono qui da ieri dove ho trovato Silvia ingrassatissima, somiglia quasi a un porcellino. Mangia mezzo etto di burro tranquillamente a colazione ed è sempre affamata. Le sono molto cresciuti i capelli e sembra più grande. È indubbiamente intelligente, più di qualsiasi altro bambino. In un giorno ha imparato più di metà dell’alfabeto. Fa dei discorsi che a volte mi stupiscono. Oggi ha detto improvvisamente “io ci vengo volentieri in Inghilterra, se ci sono molti libri, i libri per me sono la cosa più importante”. Di te ha chiesto subito e ha detto “chissà come si annoia il babbo solo, bisognerà andare a trovarlo”. Andare in Inghilterra per lei significa un viaggetto con immediato ritorno qui. Ma è curiosa di venire e si diverte a dire parole in inglese. Qui ho trovato Zanotti Bianco69 adoratore dell’Inghilterra e contro di noi in modo quasi provocante. Ma io ho evitato ogni discussione. Pavese aveva scritto al babbo tre giorni prima di suicidarsi una lettera tristissima70. Pancrazi71 sa quasi tutto e dice che è stato proprio per l’americana e che non si devono fare speculazioni politiche. Mia madre non mi ha ancora risposto, io le ho scritto, almeno vorrei sapere se la troverò a Roma dove forse andrò alla fine della settimana. Alla mia nota «Vie Nuove» non ha risposto affatto e se non avessi avuto le 10.000 della C.d.L. non so proprio come avrei fatto. Se vado a Roma ci passerò e andrò anche da Terenzi72. Oggi ho letto La luna e i falò che mi ha fatto una stranissima impressione. Decisamente 69 Umberto Zanotti Bianco (1889-1963), meridionalista e archeologo, amico di Salvemini, collaboratore del «Ponte», fu tra i fondatori di Italia Nostra nel 1955. 70 Cesare Pavese (1908-1950), narratore e poeta, si suicidò il 27 agosto 1950. La luna e i falò (Torino, Einaudi, 1950) fu il suo ultimo libro. Sullo scambio epistolare tra Pavese e Calamandrei, vedi supra, Introduzione, pp. XL-XLI. 71 Pietro Pancrazi (1893-1952), critico letterario e giornalista, fu a lungo collaboratore letterario del «Corriere della Sera», direttore di collane di letteratura presso le edizioni Le Monnier e Ricciardi, nonché grande amico e corrispondente di Piero Calamandrei. 72 Amerigo Terenzi, amministratore del Pci, dell’«Unità» e della stampa fiancheggiatrice.

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non mi piace. Guarda se puoi far lavare il pavimento. Tua madre diceva e anch’io sono d’accordo che si dovrebbe provare a staccare i tappeti. È meglio il legno grezzo che la sporcizia e il legno grezzo si può lavare ogni giorno. Insisti per il materasso altrimenti porto il nostro. Il crine fa un gran freddo l’inverno. Qui purtroppo fa quasi freddo, dopo il temporale di due giorni fa la temperatura è cambiata. A Milano si scese a 10 gradi da 30° in un’ora. E non accenna a rimettersi. Come vanno le faccende domestiche? Hai visto quanto sono pesanti e antipatiche? E quando uno è solo va già molto meglio. Scrivimi qui presto. Ti abbraccio e ti bacio. Mimma guarda se le tende sono montate con anelli e di quale grandezza. Non mi ricordo più con che sistema eran messe.

Franco a Piero Londra, 15 ottobre 1951

Carissimo babbo, ho ricevuto le tue 50 sterline, regalo per il mio trentaquattresimo 21 settembre. Te ne ringrazio tanto. Mi serviranno a comprare dei libri, forse qualche indumento, e a pagare le lezioni che sto prendendo in una scuola di guida qui vicino a casa, per ottenere la patente automobilistica in Inghilterra e, spero, internazionale. Utilizzerò la patente per prendere qualche volta, alla domenica una macchina a nolo (dato il costo della benzina, il noleggio è qui relativamente economico) e andare a scoprire l’Inghilterra fuori di Londra con Maria Teresa o addirittura con tutta la famiglia al completo. Ma non preoccupatevi: sarò prudentissimo, guidare, qui, con tutte le segnalazioni che si devono fare con le mani, diventa una specie di minuetto di cortesia; e poi Maria Teresa, già lo prevedo, mi starà addosso continuamente ammonendomi e consigliandomi. Aspettiamo ormai a gloria la bambina, e vorremmo che durasse questo tiepidissimo autunno londinese per non farle sentire il cambiamento di clima. Le foto che ci mandaste, ancora dal Pove-

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ruomo, non erano proprio una meraviglia, ma erano interessanti per lo studio dei caratteri fisionomici. In una di esse, infatti – quella dove sta in piedi, appoggiata alla spalliera del divano di legno – Silvia somiglia moltissimo a me, con quell’aria tra il mite e il melenso. In un’altra, quella di faccia, quasi a mezzo busto, è invece Teresa spiccicata, quando ride, con la bocca fino agli orecchi e gli occhi illuminati. La mamma ci ha scritto che ti sono ricominciate le stancate e le grane dell’attività politica. Leggendo il discorso di Togliatti in Parlamento, dopo il ritorno di De Gasperi dall’America, speravo che tu fossi stato lì a sentire, e pensavo che dovevi esserti trovato d’accordo su parecchi punti. Mi pare che l’ottusa intransigenza americana abbia dato prova così manifesta di sé negli ultimi mesi (il modo come ha impedito ogni normale discussione sul trattato e sul riarmo giapponesi; il modo come il governo tedesco di Bonn si rifiuta anche solo di abboccarsi con la Germania Orientale per studiare se la Germania possa essere unificata e il riarmo tedesco evitato; e infine le ultime vanterie di raffinatissime scoperte di armi atomiche “per tutti gli usi”) e d’altra parte l’Unione Sovietica si sia mostrata su tante questioni così conciliante e disposta a negoziare, che ogni persona onesta dovrebbe veder chiaro come il pericolo venga dagli Stati Uniti e non dall’Oriente. Il risultato delle elezioni inglesi sarà un fatto molto importante, forse anche decisivo per le prospettive future. Se vincono i conservatori il pericolo di guerra aumenterà molto. Se vincono i laburisti le probabilità della pace miglioreranno. Perché – e qui so che la mia analisi non ti troverà più consenziente – il governo laburista potrà essere indotto a distaccarsi progressivamente dalla politica americana, a darle un appoggio sempre più tiepido, in quanto all’interno del Labour Party la opposizione a fare la guerra dell’America diventa e diventerà sempre più forte. Alla conferenza di Scarborough73 questa tendenza è stata evidente, malgrado la brevità dei dibattiti e la preoccupazione che i delegati avevano di non lavare i panni del partito dinanzi agli occhi del nemico elettorale. Vedremo il 25 ottobre, mai un prognostico è stato 73 Il congresso del Partito laburista inglese che precedette le elezioni del 1951, nelle quali prevalse il Partito conservatore.

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così difficile. Ma io credo che il timore della guerra sia così forte che Churchill, sia pure forse di stretta misura, resterà battuto. Immagini che in questa vigilia elettorale abbiamo un gran daffare. Meno male che quando Silvia e Emilia74 arrivano saremo in un periodo di distensione, e potremo svagarci un poco con la bambina. Grazie anche per esserti occupato del suo passaporto, e per averglielo procurato con tanta facilità e con tanto risparmio di documenti, in virtù delle tue miracolose aderenze. Un abbraccio da Teresa e da me a te e alla mamma, e tanti baci alla bambina. Vostro Franco

Franco a Teresa Pechino, 2 ottobre 1952

Caro amore, c’è un’altra partenza per Londra che mi permette di mandarti notizie. Basil Davidson75, che venne qui alla fine di agosto con Silverman e gli altri inglesi, prende la via di casa domani, e gli do questa lettera perché la imposti al suo arrivo. Iersera finalmente, quando già cominciavo a sentirmi molto infelice per non sapere assolutamente nulla di te da quindici giorni, è venuto il tuo telegramma “Both London”. Non che mi dicano molto, quelle due parole, e possono avere le più svariate intonazioni. Significano, per esempio: “Stiamo tutte e due bene, tiro avanti senza troppa fatica, stai tranquillo”? Oppure: “Sono sola, con il lavoro da fare, la bambina da accudire, sono già stanca e stufa”? Chissà se hai con te anche la donna? E come te la cavi per «l’Unità» e il «Paese»? Insomma vorrei avere una lettera con tanti particolari: e siccome da Praga, dal Consiglio Mondiale, nulla di tuo mi è stato finora respinto ed ho l’impressione che si dimentichino di farlo, ti prego Emilia Leonini Regard, madre di Maria Teresa. Basil Davidson (n. 1914), giornalista inglese e storico africanista. Durante la seconda guerra mondiale era stato agente dei servizi segreti militari britannici e ufficiale di collegamento con le formazioni partigiane operanti in Liguria (Scene della guerra antifascista, Milano, Rizzoli, 1981). Sulla Cina scrisse nel 1953 il libro Daybreak in China. 74 75

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di spedirmi subito una lettera allo stesso indirizzo a cui hai telegrafato: Peace Hotel – Peking. Impiegherà una diecina di giorni, da quello che ho calcolato, e forse la riceverò soltanto alla vigilia della mia partenza da Pechino; ma saranno comunque notizie che dovrei altrimenti aspettare ad avere fino al mio ritorno costà. E se hai bisogno di comunicarmi qualcosa di urgente fallo per telegrafo qui. La Conferenza della Pace si apre oggi, e si prospetta estremamente interessante, più, credo, di altre conferenze del genere, perché la questione nazionale e coloniale sarà uno dei problemi centrali, qui, ed il dibattito approfondirà come essa sia strettissamente legata alla questione della pace. Come avrai visto dal giornale – se almeno i miei cabli sono arrivati in Italia e sono stati pubblicati – ho già cominciato a lavorare nei giorni scorsi, sulla preparazione della Conferenza e sulla festa nazionale cinese. La festa è stata ieri, come ho cercato di descriverla nella mia corrispondenza, e ierisera è continuata con fuochi artificiali durati ore e ore, che avrebbero mandato Silvietta in visibilio, e con centinaia di migliaia di persone a ballare per le strade fino a tarda notte. Una cosa enorme, una vitalità, una forza, una ricchezza di energie e di sentimenti, in questo paese, che solo degli ignoranti o dei visionari possono pensare di arrestare e di far tornare indietro. A tutto il resto si aggiunge il tempo splendido, da Napoli di autunno, se non da Sicilia. E penso per contrasto a voi che già sarete sprofondate nel primo inverno britannico, alle prese con le stufe e gli indumenti pesanti. Come te la cavi, anche per questa questione? Qui sono molte persone simpatiche e conosciute. Tumiati76, per l’«Avanti», che è un buon figliolo anche se non un’aquila; Courtade77, per «L’Humanité», spiritoso e cinico da buon francese (ma che succede, a proposito nel Pcf?); Monica Felton78, rin76 Gaetano Tumiati (n. 1918), partito volontario per la guerra in Africa, fu fatto prigioniero dagli anglo-americani e deportato nel campo di Hereford, in Texas, dove rimase fino al 1946. Cominciò la carriera di giornalista all’«Avanti!»; nel 1949 fu inviato in Cina come corrispondente. Lo zio paterno – Corrado Tumiati – era vicedirettore del «Ponte». 77 Pierre Courtade (1915-1963), giornalista francese, corrispondente del quotidiano del Partito comunista francese, «L’Humanité». 78 Monica Felton, scrittrice inglese, legata al Partito comunista.

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giovanita e, credo, notevolmente progredita; Burchett79, un tipo molto in gamba, che conosce la Cina a perfezione, compresi i ristoranti di Pechino. La cucina cinese ha cibi squisiti, e non è poi tanto difficile servirsi delle famose bacchettine. Ti racconterò la ricetta per l’anitra alla pechinese, a base di cipolla, salsa di marmellata, e sfoglie di farina. Molto più ostica della cucina cinese è la lingua cinese: sembra una dimensione completamente diversa, e per la prima volta in un paese straniero mi sento nella penosa condizione di non potere stabilire il minimo contatto verbale diretto con la gente comune. Di quello che succede in Europa non so quasi nulla. So solo che Tito è stato inviato in visita ufficiale a Londra. Per quando? E che succede alla conferenza di Morecambe? Che reazioni ci sono state al rapporto degli scienziati sulla guerra batteriologica? Da Praga spedii a mio padre una copia in francese del rapporto: ne hai sentito nulla da lui quando lo hai incontrato a Bruxelles? Se puoi, accennami qualcosa di tutto questo nella tua lettera. E naturalmente, come te la cavi per il lavoro, chi vedi, cosa fa Silvia, se va a scuola, e tutto quanto. Il viaggio da Praga a qui fu, tutto sommato, assai faticoso: i tragitti in aereo sempre tranquillissimi e perfetti, ma stancanti le frequenti salite e discese, i cambiamenti di pressione, di altitudine e di clima, di vitto, le ore di sonno perduto. Questo solo mi consola un poco del fatto che tu non sia venuta. Ed anche che nessuno degli altri inviati o corrispondenti ha potuto portare la moglie con sé. Terenzi non ha fatto certamente di testa sua. Ciao, caro amore. Scrivimi subito, e raccontami di te quanto più puoi. Questa volta mi manchi più di sempre quando siamo stati lontani, nonostante che le cose che vedo abbiano tanto interesse e tante attrattive e occupino tanto la mia attenzione. Ma mi manchi proprio anche per questo: come ti scrivevo da Mosca, perché vorrei dividere l’interesse con te e così arricchirlo, renderlo più sensibile. Dobbiamo stare insieme e lavorare insieme. A Silvia dì che i bambini e le bambine cinesi sono straordinari, che le piacerebbero molto; e forse le piaceranno se verremo a stare qua un 79

Wilfred Graham Burchett (1911-1983), giornalista australiano.

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po’ di tempo (perché non corrispondenti da Pechino? Ti assicuro che ti ci troveresti benissimo!). Vi abbraccio e vi bacio strette e vi mando tutto il mio amore. Franco

Franco a Ada Londra, 20 febbraio 1953

Cara mammina, non sono molto soddisfatto del “regalo” che abbiamo pensato di mandarti. Speravo che l’amico Grant, che fa le fotografie di esterni e di bambini all’aperto, nelle strade e nei cortili di Londra, piuttosto belle e vive, fosse capace di fissare un’immagine di Silvietta non convenzionale. Invece, mi pare, non c’è riuscito: le foto sono tutte, tranne forse una o due di quelle piccole, abbastanza solluccherose, e quella ingrandita mi ricorda come tono la famosa mia con il pappagallo di coccio e la collana. Comunque le fotografie serviranno a te e al babbo per avere un’idea dei progressi che Silvia ha fatto da quando la lasciaste a Bruxelles. Sta proprio bene, la bambina, e nonostante l’inverno molto ingrato se l’è cavata finora solo con qualche lieve raffreddore, e con pochissima tosse che già da un pezzo le è passata. Dalla fotografia piccolina, fattaci dall’amico Masheder al parco di Hampstead Heath, tutti in gruppo, potrai farti un’idea, se ti interessano, anche dei “progressi” di Teresa e miei, del mio “abbottamento”. Ricevemmo la copia del «Mondo» con l’articolo del babbo, speditaci da te: l’avevamo già letto sulla copia arrivataci con l’abbonamento. Ormai, da un bel po’, sono quasi più le notizie che riceviamo di voi attraverso i giornali italiani che non quelle che ci portano le tue lettere. Delle une e delle altre siamo contenti: vediamo che state bene in salute, e vediamo, dagli scritti del babbo, che state bene di spirito, che avete fiducia. In quello che il babbo è andato dicendo e scrivendo negli ultimi mesi, dalle critiche alla legge elettorale a certi passaggi dell’articolo sul «Mondo», all’intervista sul diritto di sciopero comparsa sull’«Unità», alla polemi-

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ca antifascista del «Ponte», alle lapidi dettate contro Kesselring e per Gianfranco Mattei80, c’è una coerenza con i suoi principii ed una fermezza delle quali non può sentirsi soddisfatto. Anche tu dunque, che dividi con lui sentimenti e speranze, puoi ben sentirti soddisfatta di te, e passare questo tuo compleanno con serenità d’animo. Ti bacio con tanti auguri di pace e di bene, e ti abbraccio insieme con il babbo. Vostro Franco

Franco a Piero Pechino, 14 luglio 1954

Carissimo babbo, sono d’accordo con i criteri che tu indichi nella tua lettera del 19 giugno81 per il numero del «Ponte» dedicato alla Cina, criteri sui quali, del resto, ci eravamo già intesi fino dal nostro primo scambio di lettere in proposito qualche mese fa. Sono d’accordo cioè che il «Ponte» può assolvere una importante funzione in ordine al problema dei rapporti fra Italia e Cina pubblicando una documentazione informativa e non opinabile sulla cultura nella Cina d’oggi. Le ragioni per cui ritengo giusto tale criterio puoi ritrovarle appunto in quelle mie prime lettere e mi sembra che tutta quanta la questione delle fonti comuniste o non comuniste, della ortodossia e della eterodossia (sulla cui impostazione rischieremmo invece di opinare all’infinito) l’avevamo fin d’allora subito superata come assolutamente sterile nella circostanza. Anche mi trovo d’accordo, nel suo complesso, con l’abbozzo di piano che mi accludi. Trovo solo che l’elenco dei temi è un po’ disorganico e presenta delle lacune. Mi par chiaro, per esempio, 80 Vedi Piero Calamandrei, Uomini e città della Resistenza. Discorsi, scritti ed epigrafi, a cura di S. Luzzatto, prefazione di C.A. Ciampi, Roma-Bari, Laterza, 2006. 81 Lettera di Piero Calamandrei al figlio, Firenze, 19 giugno 1954, in Piero Calamandrei, Lettere 1915-1956, Firenze, La Nuova Italia, 1968, t. II, p. 406. Si veda anche la lettera precedente del 17 febbraio 1954, ivi, p. 397.

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che il tema del punto 12 (Influssi della guerra e della rivoluzione sulla letteratura e sulla cultura cinese), meglio che essere trattato separatamente, ricorrerà e sarà svolto concretamente nella trattazione degli altri temi. Ancora: l’elenco non prevede una informazione sulla lotta contro l’analfabetismo che è un aspetto importante del quadro culturale cinese, e che potrà essere data insieme a quella sulla riforma della scrittura, una riforma che è attivamente allo studio e su cui esiste materiale interessante. La preservazione e la riscoperta del folclore, e la ricerca archeologica – altri aspetti di notevole importanza – non figurano nell’elenco, ma ritengo siano impliciti nelle “forme in cui si è mantenuta o modificata una tradizione culturale più volte millenaria”, menzionate più sotto. Quel che propongo è di fondere insieme il vostro appunto con quello che io ti mandai in febbraio, di specificare meglio il contenuto dei varii temi e di meglio organizzarli. Ti farò presto avere questa traccia più elaborata, con l’indicazione dei punti per i quali il lavoro può essere avviato subito, e di quelli che prenderanno maggior tempo. Il materiale del numero è inteso – mi pare – che sarà di tre specie: 1) traduzioni di narrativa, di poesia, di documenti individuali (diari, cronache, ecc.) e ufficiali. 2) articoli di informazione di specialisti cinesi, se possibile scritti appositamente, o, se già editi in Cina, mai comparsi in Italia. 3) compilazioni, raccolte di statistiche, note biografiche, eventuali cronologie, che potremo preparare qui noi, da pubblicare anonimi o siglati. Per il materiale illustrativo credo anch’io che il dott. Segre82 del Centro Studi potrà esserti di grande aiuto per integrare il contributo che primaditutto cercheremo di dare noi di qua. Quando potrà uscire il numero? Un po’ per colpa dei mio viaggio nel Viet Nam, un po’ per gli altri due mesi che sono passati senza nessuna tua risposta dopo il mio ritorno, ho paura che è ormai impossibile essere pronti per quella metà di settembre che date come termine ultimo per la uscita del numero in novembre. Per 82 Sergio Segre (1922-2006), segretario del Centro Studi per le relazioni con la Cina presieduto da Ferruccio Parri.

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dicembre e gennaio sarebbe possibile, ma, visto che non ritenete opportuno dedicare quei mesi ad argomenti speciali, non rimane che prepararsi per tempo per febbraio. Non credo che il ritardo nuocerà all’attualità dell’argomento, perché il passare dei mesi e gli avvenimenti non fanno che accrescere nel pubblico l’interesse in materia. Né c’è da sperare, d’altra parte che la porta che il numero si propone di sfondare possa di qui ad allora esser diventata una porta aperta per l’Italia. Scrivimi appena puoi un rigo per dirmi se va bene, e io intanto preparerò la traccia di cui parlo sopra. Sulla base di essa potrò dirvi se le 80-90 facciate normali saranno sufficienti – cosa di cui già dubito – o se invece occorrerebbe più spazio. Dì alla mamma che sono ammirato del suo successo all’esame di guida – ricordo per contrasto le ripetute bocciature della buona Sarina Levi – tanto più con l’itinerario da lei descritto, che certo presenta difficoltà, se non proprio londinesi, tra le maggiori per Firenze. Ma ha provato a andar su per certe stradette intorno al Viale dei Colli, o per l’Erta Canina? E tu, le accordi ormai la fiducia riconosciutale dalle autorità competenti, ti fai trasportare? Scherzi a parte, dille che sono molto contento di questa sua prova di giovanilità, e che le scriverò per congratularmi. Noi stiamo tutti benone e vi abbracciamo stretti vostro Franco

Franco a Piero Pechino, 22 ottobre 1955

Carissimo babbo, è questa la lettera promessa a proposito di Lu Sciun (o Lo Hsun83). Teresa aveva iniziato la traduzione del La vera storia di Ah Q, il più lungo dei racconti di Lu Sciun, piuttosto un romanzo breve, che non può certo trovare posto in un numero di rivista. Degli altri racconti, di lunghezza normale, raccolti nel volume in traduzione inglese che ti è stato dato, Teresa non ha pronta alcu83 Lu Xun (1881-1936), narratore e poeta, saggista e critico letterario, è considerato il padre della letteratura cinese moderna.

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na traduzione italiana, e non rimane quindi che indicarti quelli che, secondo noi, sono i migliori e più rappresentativi, perché tu ne faccia tradurre uno costà. Eccoti il titolo di tre, e l’ordine in cui te li elenchiamo è nel nostro giudizio anche un ordine di valore: 1) Il sacrificio dell’Anno Nuovo (The New Year’s Sacrifice) pag. 95 della raccolta 2) La mia vecchia casa (My old home) pag. 67 della raccolta 3) Medicina (Medicine) pag. 39 della raccolta Ti consigliamo anche di farti tradurre la “Prefazione” di Lu Sciun, pubblicata all’inizio della raccolta (pag. 10): ci sono passaggi di essa che ti potrebbe interessare utilizzare come citazioni nella premessa tua che precederà la traduzione del racconto sul «Ponte». Questa lettera deve partire subito e non c’è tempo ora di dirvi come vorrei, meglio che a Sciangai, quanto siamo stati contenti della vostra venuta qua, dispiaciuti che le circostanze abbiano permesso solo a me e per così poco tempo di stare insieme a voi, e tuttavia di nuovo contenti che, attraverso il vostro viaggio, tanto più numerose siano le immagini e tanto più profondi i sentimenti che – come ho potuto avvertire conversando con voi – ci uniscono nel nostro affetto. Vi scriveremo ancora, più a lungo, appena avremo notizia del vostro ritorno in Italia. Intanto vi abbracciamo stretti, Teresa, Silvia ed io vostro Franco Naturalmente il piano di lavoro per il «Ponte» è qui sul tavolo, tra le questioni “da evadere”. Informaci subito se esso avesse subito qualche modifica o aggiunta. Epstein84 non è ancora rientrato dal Tibet: appena arriverà vedrò se e quale contributo possa dare. 84 Israel Epstein (1915-2005), giornalista nato a Varsavia, naturalizzato cinese. Presente in Cina dagli anni quaranta, a Yenan, autore di The Unfinished Revolution in China (1944), direttore del periodico in lingua inglese «China reconstructs», fu perseguitato e imprigionato all’epoca della Rivoluzione culturale e successivamente riabilitato. È tra i pochi stranieri seppelliti al cimitero di Babaoshan, riservato ai rivoluzionari illustri, assieme ad Agnes Smedley e Anne Louise Strong.

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Teresa a Piero Pechino, 30 dicembre 1955

Carissimo babbo, questo è il nostro ultimo plico per il «Ponte» che speriamo possa arrivarvi ancora in tempo. Siamo sorpresi di non aver ricevuto nessuna vostra lettera nell’ultimo periodo, ma forse è colpa della posta, anche i giornali ci arrivano ora con più di una settimana di ritardo sul normale e a volte vanno perduti. Ci farebbe piacere se tu ci scrivessi subito che hai ricevuto il materiale spedito. La settimana prossima comincio a dare lezione di italiano ai nostri due interpreti, in cambio loro mi daranno lezioni di cinese. Franco è partito stamani per Ulan Bator dove ieri facevano 37 gradi sotto zero. Dì alla mamma che ho messo nella valigia tutti gli innumerevoli calzettoni di lana che aveva portato per Franco. Ma non credo soffrirà veramente il freddo perché in Mongolia le case sono riscaldate a temperature equatoriali e di questa stagione non credo che andrà molto in giro. È andato lì solo per l’inaugurazione della ferrovia nel deserto di Gobi e tornerà mercoledì 4. Buon Anno! Vi abbracciamo Mteresa

Franco a Piero Pechino, 5 gennaio 1956

Carissimo babbo, eccoti il messaggio che Lao Sce85, noto romanziere e drammaturgo, e membro dirigente della Associazione degli Scrittori Cinesi, ha scritto per il «Ponte». Ti mando la traduzione francese, e l’autografo originale che potrai far riprodurre. Il messaggio mi sembra quanto di meglio si poteva desiderare, pieno di cordialità e di intelligenza. 85

Lao She (1899-1966), scrittore e drammaturgo cinese.

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Hong Sing mi ha promesso di consegnarmi entro la settimana, cioè entro il giorno 7, l’ultima cosa che rimanga da fare, la traduzione delle lettere di critica ai giornali. Ti ringrazia tanto della memoria affettuosa che mostri di avere di lui, e ti scriverà nei prossimi giorni per ringraziarti direttamente. Quanto a noi, siamo contenti che il nostro aiuto ti sia servito a qualcosa, e che, a quanto appare dalla tua lettera del 21, il materiale ti stia arrivando in tempo per la pubblicazione. Ti preghiamo di segnalarci subito, anche con poche righe, l’arrivo delle nostre successive spedizioni, tutte ormai completate (tranne le critiche ai giornali), in modo che possiamo avere la sicurezza che nulla è andato perduto. Io mi sforzerò di spedirti non più tardi del 10 le note di viaggio sul Tibet: e se arrivassero troppo tardi, potrai sempre utilizzarle in un altro numero. Sono tornato ieri a Pechino da un breve viaggio di cinque giorni in Mongolia, per l’inaugurazione della nuova ferrovia attraverso il deserto di Gobi (andata in aereo, ritorno col primo treno). Ci metteremo ora con Teresa al lavoro per raccogliere i nostri articoli sul Tibet e organizzarli in un libro che abbiamo offerto a Einaudi, e che Einaudi ha subito accettato telegraficamente. Ti ringrazio molto di esserti occupato con tanta premura del mio libretto sul Vietnam. Bonchio86 è veramente quello che in Italia si chiama un “lazzerone”, di quei “lazzeroni” che esistono in tutte le organizzazioni di questo mondo e specialmente, per storico privilegio, in tutte le organizzazioni della nostra Italia. Ora una sua lettera e un suo telegramma mi hanno confermato le tue informazioni e la proposta di passare il libro a De Vita per Parenti. Gli ho risposto accettando, e intanto ho scritto a Donini, che ha la responsabilità generale degli Editori Riuniti, dicendogli tutto il male che penso di questa faccenda. Aspetto un cenno diretto da De Vita e Parenti per mettermi in contatto con loro sugli eventuali ritocchi da apportare alla premessa che precede il libro: per il resto non credo che il libro abbia bisogno di aggiornamenti, perché, purtroppo, tutti i problemi che esso tocca sono tuttora aperti e destinati, temo, a riacutizzarsi abbastanza presto. Il libro è pieno di difetti, affrettato e superficiale in molte sue parti: ma tuttavia ha una certa 86

Roberto Bonchio, direttore degli Editori Riuniti.

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carica di simpatia umana per il Vietnam, la sua gente, la sua lunga lotta contro il colonialismo, alla quale sono tanto affezionato. Ciò che mi interessa perciò è che il libro venga pubblicato, e ben venga dunque Parenti, che è del resto un nome serio, anche se la sua cerchia di diffusione non è quella degli Editori Riuniti. Chiederò, se occorre, ancora il tuo aiuto per la revisione delle bozze e per sorvegliare che al testo siano apportati i pochi necessari ritocchi. Grazie dei vostri auguri di Natale e Capodanno. È stato, tutto sommato, il Capodanno con prospettive meno oscure da varii anni a questa parte. Noi lo abbiamo raggiunto contenti, con le nostre carte di lavoro relativamente in regola, in buona salute, sentendoci più che mai uniti con voi nei propositi e nelle speranze. Ti abbraccio con tutto l’affetto insieme alla mamma. vostro Franco

Piero a Franco e Teresa Firenze, 27 gennaio 1956

Carissimi, scusatemi se non ho risposto volta per volta alle vostre lettere. Ho ricevuto tutto regolarmente fino ai caratteri cinesi per la copertina contenuti in una lettera di M.T. giunta ieri. Il vostro materiale è ora completo e vi ringrazio: in gran parte è in tipografia. Il numero sarà in realtà un volume, che si venderà anche isolatamente. Nella parte letteraria ho incluso solo scritti da voi indicati o approvati: Lao-Sce sarà, col suo messaggio, in buona compagnia (vorrei personalmente ringraziarlo: dove devo scrivergli?). Il numero, come sapete, non deve avere scopo di propaganda, ma di conoscenza: vi saranno quindi anche scritti critici, ma di scrittori ben orientati: Lattimore87, americano, ha scritto un bell’articolo introduttivo; c’è per l’Inghilterra un redattore del «Manchester Guardian», per la Francia Ricoeur88, di «Esprit»; e un indiano. 87 Owen Lattimore (1900-1989), statunitense, è stato uno dei maggiori studiosi dell’Asia centrale e dell’Estremo Oriente; fu vittima del maccartismo negli anni cinquanta. 88 Paul Ricoer (1913-2005), filosofo francese, collaboratore della rivista

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Articoli di Bobbio, Parri, Musatti, Fortini, Antonicelli, Berlanda, Favilli89 ecc. e miei; Epstein, e Recoy ecc. Spero che verrà bene. Ma con tutte le cose che ho da fare, mi dà molto pensiero. Uscirà verso marzo. Ora vorrei una spiegazione da te, Franco, se puoi darmela. In un articolo su “La Cina vista dall’Inghilterra” del redattore del «Manchester Guardian» l’autore che rifà la storia di come si è arrivati alla Cina popolare, dice a un certo punto “C’è stato terrorismo politico: nel 1952 ministri del governo annunciarono che erano stati sterminati 2 milioni e 250 mila nemici di classe in un anno”. È esatta questa notizia? È controllabile? O è una invenzione? Non so se tu sei in grado di rispondermi: in caso negativo, sia per non detto. Ciò non avrebbe importanza sul giudizio positivo della Cina attuale: le rivoluzioni sono rivoluzioni, come le guerre. Ma se la notizia fosse falsa, vorrei ribatterla. Grazie dei bellissimi acquerelli di farfalle: andranno al Poveromo, che è il regno delle farfalle. Stiamo studiando con Ada il modo di incorniciarli. Poi mi farete il conto degli acquisti fatti per noi e di tutto il lavoro: e rispondimi su quella faccenda dell’apertura di credito bancario! Il tuo libro sul Vietnam è già stampato. Mi sono venute ieri le bozze, e stasera, andando a Roma le correggerò in treno. De Vita mi ha scritto domandandomi se non crederò opportuno di fare, magari nella prefazione, qualche aggiornamento: in caso positivo scrivigli direttamente per guadagnar tempo. Io correggo le bozze e gliele rimando; ma sulle condizioni del contratto io non so nulla: debbo occuparmene o vi hai pensato tu? Date un bacio per me alla Silvia: ditele che io sono ancora col«Esprit» fondata da Emmanuel Mounier, aveva fatto parte della delegazione culturale francese in Cina nell’ottobre 1955. 89 Norberto Bobbio (1909-2004), filosofo del diritto e storico del pensiero politico; Ferruccio Parri (1890-1981), massimo dirigente della Resistenza antifascista e primo presidente del Consiglio dopo la Liberazione, nel 1953 con Piero Calamandrei aveva dato vita al partito di Unità Popolare; Cesare Musatti (1897-1989), psicologo e psicoanalista; Franco Antonicelli (1902-1974), critico letterario ed editore, esponente di spicco dell’antifascismo e della Resistenza a Torino; Franco Berlanda (n. 1921), architetto e urbanista; Giovanni Favilli (1901-1989), docente di Patologia generale all’Università di Bologna.

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la curiosità di sapere qual è il saluto dei pionieri: finché non l’avrò saputo non sarò contento. Un abbraccio affettuoso dal Vostro P.S. Mandai libri e fotografie a Hong; lì ha ricevuti? Raccolgo per lui francobolli italiani. Salutatelo e ditegli che mi scriva: in francese non in cinese.

Teresa a Franco Roma, 26 luglio 1956

Caro babbino, sono qui di nuovo. Ho preferito tornar subito perché altrimenti in agosto a Roma non trovo più nessuno. Sono stata per due giorni a Firenze da sola per vedere Romano [Bilenchi90] ed andare in biblioteca. Il «N. Corriere» si chiude il 31 e non c’è più nulla da fare. Tuo padre ne era angosciato e ne chiedeva il perché. Ma la risposta è sempre quella: non ci sono soldi e il giornale costava quasi 20 milioni al mese. Romano ha chiesto di vedere T.[ogliatti], ma è in montagna molto esaurito e non è stato possibile. È proprio una cosa dolorosa. Romano è ridotto uno straccio e i redattori imprecano. Firenze soprattutto mi ha fatto una cattiva impressione. Ma il tenore di vita è uno dei più alti d’Italia... L’Italia è molto cambiata. La gente pensa solo a mangiare e a viver bene. C’è una terribile indifferenza per tutto il resto. Certo io ho vista tutta gente di piccola e media borghesia, ma in treno, in II [classe], ho parlato anche con degli operai e ho trovato che erano tutti d.c. Tuttavia si sente che i comunisti non fanno più timore, e questo è certo positivo. Silvia si è trovata bene al Poveromo, la Camilla le ha fatto gran festa e mi pare vadano d’accordo, perché Silvia la domina. Se non fosse per i casieri al Poveromo si starebbe benino. [...] Tuo padre 90 Romano Bilenchi (1909-1989), narratore, già collaboratore del «Selvaggio» di Mino Maccari e poi convertito al comunismo, fu direttore del «Nuovo Corriere» di Firenze dal 1948 al 1956, nonché amico di Franco Calamandrei sin dagli anni giovanili.

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è meraviglioso. Vorrebbe iscriversi al P., ma dice che non lo fa perché ormai è troppo vecchio. È assolutamente con noi. Ma quando gli scrivi naturalmente non parlare di questo. Ci sarà tempo a voce. Se accettasse lo farebbero sindaco, anche i liberali sono disposti a votare per lui. Ma la salute non è un gran ché, purtroppo, ed è molto incerto, anche perché la giunta non avrebbe una posizione solida. Un’altra cosa che mi ha detto Egidia. Hanno venduto tutte le terre, dopo la Cina (!). A Montepulciano è rimasto solo il villino e il palazzo. Il palazzo del resto conviene tenerlo perché è stato affittato ad uffici e pagano 20 mila lire il mese a noi e 20 all’Egidia. A soldi però li ho trovati maluccio, ma forse in questo periodo. Tua madre non mi ha comperato né un vestito, né un paio di scarpe, né una borsa, perché non ci sono soldi. Tuttavia ci sono ancora quelli delle terre con i quali, Giovanna mi ha detto, vorrebbero comprare una casa per noi. Ma se tardiamo a rientrare definitivamente temo che non ci saranno più. Del resto Terenzi mi ha parlato delle case dei giornalisti sulla via Cassia, dove sta Bernari91 e dove stanno quasi tutti i benestanti del giornale, Ferrara92 ecct. Si paga un milione e poi 22 mila di affitto mensili per 5 o 6 stanze. Dopo 25 anni la casa è tua. Maurizio mi ha accolto freddamente, domani ho però intenzione di vedere Marcella per dirle quanto mi hai annotato per «Rinascita». L’impressione generale è che tutti si siano scordati completamente che c’eravamo anche noi. Ma non si può protestare anche per il trattamento di Terenzi, perché i soldi non ci sono davvero. Oggi Terenzi mi ha promesso altre 50 che forse riuscirò a prendere prima di ripartire per il Poveromo. Vorrei tornarci verso i primi di agosto. Oggi ho visto anche Scocc.[imarro93] e gli ho 91 Carlo Bernari, pseudonimo di Carlo Bernard (1909-1992), narratore; il suo primo romanzo Tre operai (1934) è considerato un antecedente del neorealismo e gli procurò parecchie noie con la censura fascista. Dopo la Liberazione collaborò a molti quotidiani vicini al Pci. 92 Maurizio Ferrara (1921-2000), giornalista e dirigente comunista, e la moglie Marcella De Francesco (1920-2002), collaboratrice di Palmiro Togliatti, segretaria di redazione di «Rinascita» e scrittrice; nel 1953 avevano pubblicato a quattro mani il libro Conversando con Togliatti (Roma, Edizioni di cultura sociale). 93 Mauro Scoccimarro (1895-1972) fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia nel 1921, ridotto in carcere e al confino durante il fascismo, partecipò

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riferito il punto 3. È un uomo cupo, non mi ha nemmeno salutata. Si è informato poi con interesse se il viaggio era stato faticoso e se da Hong Kong è migliore. Tua madre dice che è decisamente migliore, in un giorno e mezzo si arriva e gli ho detto l’opinione di tua madre. Poi ho visto P.[ajetta94] accompagnandolo in giro nella sua automobile. È impossibile pescarlo. È diventato la persona più importante di tutte ed è veramente sfinito. Ho affrontato subito la questione lavoro e mi ha risposto che ha già provveduto a piazzarmi al Centro Cina. Io gli ho detto che non ci voglio andare, perché, se non scrivo più, perdo quel poco mestiere che ho. E poi a quali condizioni? Mi ha rimandato a Spano95 che però non c’è ancora, perché è a Ginevra a discutere con i c.[inesi] ma forse lo vedrò domani. P.[ajetta] mi ha consigliato di accettare per ora e poi quando torni tu si vedrà. Mi pare che avrebbe in mente di portarti via dal giornale. Visto come stanno le cose, mi pare, che la cosa migliore per te sarebbe di metterti a fare l’avvocato! Scherzo, ma un poco ne verrebbe la voglia davvero. Sempre più mi rammarico di non aver dato latino e di non essermi laureata. Perfino Giorgetto [Formiggini] si sta per laureare in legge e ha intenzione di mettersi a fare l’avvocato. Immaginati, Giorgetto! Ora Serenella [Polidori], dopo aver vinto il concorso, prende 90 mila lire il mese. Ma per me è ormai finita, sono ormai passati gli otto anni. Sono andata a parlare con i redattori della terza pagina sia dell’«Unità», sia del «Paese» e «Paese Sera» perché nessuna recensione al tuo libro96 è stata fatta coll’eccezione del «N. Corriere» e del «Contemporaneo». Mi hanno assicurato tutti che le faranno subito. Parenti ha mandato il tuo libro, ma si sono... scordati. Per fortuna che sono venuta io. «Vie Nuove» ha annunciato alla Resistenza e fu ministro delle Finanze nei primi governi dopo la Liberazione. 94 Giancarlo Pajetta (1911-1990) si iscrisse giovanissimo al Partito comunista, fece il carcere durante il fascismo e partecipò alla Resistenza. Nel dopoguerra fu un dirigente del partito e direttore dell’«Unità». 95 Velio Spano (1905-1964) durante il fascismo conobbe il carcere, poi fu impegnato nel movimento comunista internazionale e nella Resistenza; dopo la Liberazione ricoprì importanti incarichi nel suo partito; nel 1956 era responsabile della Sezione Esteri del Pci. 96 Franco Calamandrei, Guerra e pace nel Viet-Nam, Firenze, Parenti, 1956.

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il servizio della “Strada del Tibet”, ma Tutino97 non lo sono riuscito a vedere perché mi ha fatto rispondere che era occupato e che passassi sabato. Volevo chiedergli se volevano anche gli altri due. Le foto le ho io. Ma per il testo? Ti scriverò appena lo vedrò e se vuoi ti faccio fare un telegramma. Ora è arrivata la tua lettera in cui parli anche di cose d’amore. E mi ha fatto piacere. Io non sono ancora riuscita a farlo tanto sono stata travolta. Ma bene te ne voglio lo stesso. Forse sono stata sconsiderata a scrivere troppo apertamente alcune cose. D’ora in poi ci starò più attenta. Ma l’ho fatto soprattutto per te perché ti sapevo assetato di notizie fresche. Parecchie altre cose che avrei da dirti sono stata attenta a lasciarle nella penna. La posta non mi dà fiducia, lo sai, e del resto ho scritto né più né meno quello che puoi trovare su tutti i giornali borghesi. Ma forse ho già detto troppo. Questa lettera la darò alla delegazione sportiva. Ti ho mandato due Ectacrome98, uno però, se gli mancano, lo darai a Karel, perché anche al giornale Melillo mi ha promesso di mandartene altri. Ho parlato con lui che è un tipo simpatico per vedere di vendere le foto, ma dice che la Cina non interessa, perché la Hsinhua99 inonda tutto con le sue fotografie, ottime. Se mai interessa il colore. Ma gli Ectacrome sono cari anche qui, 1.950 lire l’uno. E lo sviluppo anche è caro. Ho portato a un buon fotografo i 5 films che mi avevi dato. Ma perché mi hai dato solo films? Io credevo ci fossero anche delle fotografie comuni. Ho scritto a De Vita per il libro del VietNam e ti farò avere la sua risposta. A Firenze c’è soltanto la tipografia e non riuscii a combinare nulla. Certo è stato lanciato male ed è capitato in un momento in cui tutti si interessano di tutt’altro. La recensione del «N. Corriere» non mi sembrava troppo male. Ma le prime mille copie si vendono di certo. Il partito però non ha fatto proprio nulla per popolarizzarlo. Chi l’ha letto ha trovato il libro buono. A Parigi tuo padre l’ha dato a Bourdet100, sai quello di cui parlava97 Saverio Tutino (n. 1923), giornalista e narratore, partigiano, nel dopoguerra ha lavorato nella stampa comunista come inviato e corrispondente in diversi paesi del mondo e in particolare in America Latina. 98 Pellicole fotografiche Ektachrome. 99 Agenzia Nuova Cina. 100 Claude Bourdet (1909-1996), scrittore, giornalista e militante politico

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no recentemente i giornali. Stanno traducendolo pare. Nessun giornale borghese l’ha recensito, ma è nella rosa del premio Viareggio, anche se non c’è speranza alcuna che lo prenda perché è troppo antifrancese. E veniamo al Tibet. Dunque bisogna finirlo presto perché interessa e molto. Ho visto quello che è uscito in questi ultimi anni. Poco e brutto. Il libro del Tucci A Lassa e oltre101 (1952, ristampa 1955) è mal scritto ed è chiaro che ha visto pochissimo, manca la descrizione del Giokang102 e perfino del Potala103 che evidentemente non riuscì a vedere. Lo stesso vale per molte altre cose. Il Dalai [Lama] lo vide in una udienza pubblica, gli offrì una busta che prese un servitore e non ebbe proprio nulla in cambio. Questo è tutto. Insomma più leggevo e più ero felice. Poi c’è il libro di successo di un certo Fosco Maraini104 che è uscito quest’anno e che è già alla V edizione. Nel Tibet ci andò come fotografo del Tucci nel 1937 e nel 1951 e qui ha raccolto i due viaggi. Le fotografie sono belle e moltissime. Soprattutto ha degli splendidi primi piani. Il libro è brutto, ma piace assai. È scritto in maniera assai retorica, ma problematica. Somiglia un poco al libro di Fortini sulla Cina105, di tutto si parla fuorché del Tibet. Con grande spudoratezza dice di essere stato a Lassa, ma poi Lassa nel libro non c’è. Però è un libro da tener presente, anzi sono quasi tentata di prenderlo (perché è dappertutto in vendita, perfino nelle stazioni) e di mandartelo per questa delegazione. Tenterò di darglie-

francese, partigiano e deportato politico durante la Resistenza; negli anni cinquanta e sessanta si distinse nella lotta contro il colonialismo. 101 Giuseppe Tucci, A Lhasa e oltre. Diario della spedizione nel Tibet. 1948, Roma, Libreria dello Stato, 1950 (seconda edizione 1952). Giuseppe Tucci (1894-1984), orientalista, durante il fascismo fondò con Giovanni Gentile l’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente (dal 1935 Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente). 102 Il tempio Jokhang, a Lhasa, era la struttura più venerata del paese. 103 Il palazzo del Potala, a Lhasa, era la residenza del Dalai Lama. 104 Fosco Maraini, Segreto Tibet, presentazione di Bernardo Berenson, Bari, Edizioni Leonardo da Vinci, 1950. Fosco Maraini (1912-2004), etnologo, orientalista, figlio dello scultore Antonio Maraini. 105 Franco Fortini, Asia Maggiore. Viaggio nella Cina, Torino, Einaudi, 1956 (ora ripubblicato col titolo Asia Maggiore. Viaggio nella Cina e altri scritti, introduzione di Donatello Santarone, postfazione di Edoarda Masi, Roma, Manifestolibri, 2007).

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lo ma sono già sovraccarichi. Lo Harrer106 è anche in giro, tradotto in italiano nel ’55. Come vedi siamo un tantino in ritardo. Ma il nostro materiale è infinitamente più ricco. Maraini è il figlio dello scultore e tuo padre lo conosce. Ora è annunciato un suo libro sul Giappone. Certo questo del Tibet è piaciuto a molti. È scritto mostrando grande simpatia e rispetto per i tibetani, ma contrapponendoli ai comunisti cinesi, barbari. Ho letto anche qualche altra opera, ma niente di veramente interessante. In ogni modo ho preso appunti e domenica butterò giù tutto ciò che ti potrà interessare e te lo manderò. Ora sto cercando, ma non l’ho trovato in biblioteca né a Firenze, né a Roma il libro del Petech uscito di recente sui rapporti tra Cina e Tibet107. Ho già trovato qualche articolo del Petech sul commercio tibetano ecct. che mi ha interessato. Anche la Treccani sul Tibet è molto ricca. Ora è venuto Giorgio [Formiggini] a salutarmi perché parte domattina per un giro di ispezioni. Lui mi consiglia di accettare il posto al Centro Cina data la situazione pesante nella stampa. E anche tenuto conto del fatto che lì andrei non in posizione di inferiorità, ma anzi in posizione di vantaggio. Non pagano male e per ora non c’è un lavoro terribile. Si tratta però certo di rimpostare il lavoro e presto, se mi ci metto, lavoro ci sarà. Certo non è un ambiente ideale. Resta aperta la questione «Noi Donne», farei l’inviata ma non fissa. Io ho bisogno di uno stipendio sicuro, ma non ho ancora definitivamente scartato questa possibilità. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi tu. 10 giorni + 10 giorni per avere una risposta sono lunghi a passare. È proprio orribile stare lontani. Io ti consiglierei di tornare prima che puoi. Loro vogliono assolutamente sostituirti e anche per questo ti consiglierei di scrivergli, perché il nuovo da preparare non ti impedisca di andartene. Tutti pensano che non possa essere qui prima di Natale. Sai bene che io ti aspetto parecchio prima e ti pregherei di non dimenticartelo. D’ora in poi scrivi al Poveromo perché vorrei starci almeno una ventina di giorni a partire dai primi. Ho comprato anche una Heinrich Harrer, Sette anni nel Tibet, Milano, Garzanti, 1953. Luciano Petech, China and Tibet in the early 18th century. History of the establishment of Chinese protectorate in Tibet, Leiden, Brill, 1950. 106 107

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seta per la Vlasta108 ma temo che non incontrerà il suo gusto, né il mio. È l’ultimo grido della moda come colori e disegno e l’ho comprata dal più chic di Firenze. Bernardini in piazza Tornabuoni. È seta selvaggia come si usa ora e siccome è selvaggia non costa molto cara. Ma non durerà nemmeno a lungo, temo. C’era roba anche molto più originale e vistosa che a me, ti dirò, piaceva anche di più, ma so che voleva ancora quella gradazione di rosa e poi che roba vivace non la porta. Se non le piace la può certo rivendere a qualcuno. Volevo prenderti una cravatta, ma dopo lunghe incertezze per scegliere l’imprimé della Vlasta ho preferito rinunciarci. Io non ho proprio gusto per queste cose. Tanti baci e bacetti Mteresa

Franco a Teresa Sian, 19 agosto 1956

Caro amore, ti scrivo da Sian, dove sono arrivato stamattina alle 4 e da dove ripartirò per Langiò stasera alle 19, per arrivarvi alle 19 di domani sera: viaggio più lungo del normale, perché le piogge hanno causato delle frane lungo la linea, in questa regione di loess friabilissimo. Ti scrivo da un albergo che cerca di fare la concorrenza a quello di Ciunchino, ma per fortuna senza raggiungerlo, nonostante accumuli pinnacoli e maozze a più non posso. La città, dove ho fatto un giro stamani e ne farò un altro nel pomeriggio, è molto gradevole con la sua geometria perfettamente quadrata, una specie di Pechino provinciale, con strade di innumerevoli botteghe artigiane, pagode a torre, antiche porte nello stile dei Ming, forse più fresca e verde di Pechino. Ma avevo promesso di scriverti per rispondere un poco a tutto quello che mi hai detto dell’Italia e del p. Ho letto in treno l’intervento di Alicata109 nel dibattito precongressuale, quello in ri108 Vlasta Bepa, moglie del corrispondente ceco a Pechino Karel Bepa, intimi amici di Teresa e Franco Calamandrei. 109 Mario Alicata (1918-1966) maturò negli anni trenta il distacco dal fasci-

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sposta a Terracini110. Sono pienamente d’accordo con lui, con il suo richiamo a non perdersi in astrazioni e disquisizioni bizantine, con il suo giudizio intorno a Stato e rivoluzione111. È un richiamo a orientare finalmente il dibattito verso la ricerca delle prospettive, quello di cui certo esso ha finora terribilmente mancato, e della cui mancanza nel p. tu ti lamenti come della cosa più preoccupante. Se avevo detto che il dibattito mi soddisfaceva, era stato riferendomi alle prime due o tre puntate di esso su «l’Unità», nelle quali trovavo positivo come avvio il tono spregiudicato, la franchezza delle critiche, garanzia che non c’è nessun tentativo di metterlo sui binari tipo... francese. Ma è evidente che ciò non può bastare se non come una impostazione di metodo, e il guaio è che, col succedersi degli interventi, il metodo è stato applicato a sviluppare elucubrazioni del tipo Terracini. Non penso che potremo uscire facilmente né presto da queste difficoltà. Dobbiamo scontare l’inerzia ideologica in cui siamo vissuti per tanti anni, lo stratificarsi che questo ha portato, non ai livelli più alti ma a quelli intermedi e a quelli di base, di quadri meccanici, cinici, “praticoni”, “furbi”, una stratificazione che ora non può non creare una specie di busto di gesso intorno al corpo del part., ritardare quella profonda ripresa di contatto e di circolazione tra i suoi organismi e la vita nazionale, che sola può dare al dibattito la necessaria apertura di concrete prospettive. Questo però non deve renderci pessimisti, perché è una questione naturale di fisiologia politica, e l’importante è che si siano scoperte le origini del male, che si voglia guarire. E non servono proprio a nulla le cure choc a vuoto del genere dell’intervento di Fabrizio [Onofri112], per quello almeno che posso giudicarne dal sunto smo, fino a iscriversi al Partito comunista clandestino nel 1940. Nel dopoguerra sarà uno dei più stretti collaboratori di Togliatti, responsabile della Commissione culturale del Pci dal 1955 al 1963. 110 Umberto Terracini (1895-1983), tra i fondatori del Pcd’I nel 1921, durante il fascismo subì il carcere e il confino. Nel 1939 venne espulso dal partito per le sue posizioni antistaliniste; liberato nel 1943, partecipò alla Resistenza e rientrò nel Pci. Fu presidente dell’Assemblea costituente e senatore dal 1948. 111 Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione, saggio scritto e pubblicato da Lenin durante la rivoluzione del 1917. 112 Sul ruolo di Onofri nella crisi del ’56, vedi supra, Introduzione, pp. LXVILXVII.

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dell’«Unità». Mi par chiaro che le premesse di politica internazionale da cui egli parte sono assolute corbellerie, concepibili solo sulla base di una grossa ignoranza dei fatti. Il guaio più grave, più imperdonabile – conoscendo un poco Fabrizio e il suo carattere – è che probabilmente si tratta di ignoranza deliberata, per poter costruire le premesse di una tesi a cui ci si è affezionati e che si vuole dimostrare vera a tutti i costi. Ed ancora più grave è che quella tesi è stata precostituita per dare un alibi “eroico” ad un fallimento personale dovuto a tutt’altre cause, ad erronee valutazioni di se stesso, ed è stata precostituita così clamorosamente negativa per dare un rilancio “eroico” e chiassoso alla sua vicenda personale. Può darsi che io sia troppo cattivo, ma temo che ci sia del vero nel mio giudizio. Perciò la asprezza di T.[ogliatti] mi pare del tutto meritata, e credo che T.[ogliatti] sapesse molto bene a chi parlava quando ha usato quel tono, volesse implicitamente ammonire che è uno scandalo giocare sulle circostanze attuali per delle esibizioni più o meno autobiografiche. Tutto sommato, ritengo che l’unica cosa positiva che Fabrizio ha ottenuto è stato di isolarsi come un esempio negativo, l’esempio di ciò che le persone della nostra origine e della nostra formazione devono con tutta la loro coscienza guardarsi dal fare. Credo che il metodo più saggio sia che ciascuno cerchi di veder chiaro prima di tutto nei limiti del proprio lavoro, risalire da esso ai problemi generali, ma con molta cautela e molta modestia, guardandosi bene dal lasciare risvegliare in noi delle voci estranee alla classe operaia, come sarebbe quella che dicesse, anche implicitamente e tra le righe, “Sono venuto a voi, ho rinunciato a tanto, ed ecco come mi avete ingannato!”: che era, ho paura, la voce in fondo allo scoppio di Fabrizio. Tutto questo è ancora molto confuso, e non serve a molto. Ma per oggi mi fermo qui, non ho molto tempo, e questa città nuova fuori dalle finestre mi distrae. Ti scriverò ancora da Langiò. A Sian, stamani, ho fatto anche qualche piccolo acquisto, per regali in Italia: due o tre “rubbings” assai belli, da bassorilievi di questa regione, e, in un negozietto di anticaglie, una cosa per te che forse troverai orribile ma che a me è sembrata almeno originale. Non ti dico di più, vedrai al mio ritorno. L’interprete è rimasto costernato dal mio cattivo gusto... Ciao amore. Saluta tutti. Tanti baci Franco

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Teresa a Franco Roma, 25 settembre 1956

Caro babbino, nessuna notizia tua, sono veramente furibonda! Eppure il Congresso non era incominciato quando tu avresti dovuto scrivere. Di tuo padre ho avuto notizie assai frammentarie. Tutto procede regolarmente, ma le condizioni generali sono di grande debolezza e soffre molto. Ho sbagliato a non andare a Firenze, ma l’ho fatto anche per non infastidirli, tua madre era così decisamente contraria. Dopo non mi sono potuta muovere perché nel frattempo Segre e Adriana erano andati via e io dovevo tenere aperto l’ufficio e seguire i cineasti. Dopodomani devo andare a prendere il filosofo Feng Yulan113 (quello importante) a Venezia e quindi domani passerò a Firenze e vedrò. Intanto mia madre riporterà qui sabato la bambina. Io cercherò di essere di ritorno domenica, perché ho appuntamento con Pietro [Ingrao] lunedì mattina. Pare deciso che mi prendono a «Paese Sera». Ti dirò che nei giorni scorsi ero tutta allegra, perché in mezzora avevo scritto un pezzetto discreto per il «Contemporaneo» sugli scienziati. Oggi invece sono ripiombata nel pessimismo, perché Verdini114 dice che non va perché è troppo da quotidiano. È vero che non mi sono molto sforzata anche perché gli scienziati parlavano pochissimo come già ti dissi. Sulle 100 scuole115 nulla ecct. Tuttavia c’erano dentro delle dichiarazioni molto interessanti e raccontate in maniera vivace. Certo ognuno sa scrivere come è abituata. Io poi ho creduto che fossero interessati alla notizia, non al pezzo di bella scrittura. Da Lizzani116 ancora nessuna novità. Ti saprò dire. Sto lottando per l’iscrizione all’Albo, ma le difficoltà aumentano ogni giorno. Tra l’altro non sono ancora riuscita ad avere i docu113 Feng Youlan (1895-1990), filosofo cinese, autore di una fortunata Storia della filosofia cinese (1934), più volte tradotta e ristampata in diversi paesi. 114 Raoul Verdini, all’epoca redattore di «Vie Nuove». 115 La campagna «che cento fiori fioriscano e cento scuole contendano», lanciata da Mao come risposta alla crisi del 1956. 116 Carlo Lizzani (n. 1922), regista, nella primavera del ’56 aveva compiuto un primo viaggio in Cina per realizzare un film (La muraglia cinese), ritrovando lì l’amico Calamandrei che aveva conosciuto nel 1943.

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menti perché noi non siamo più residenti in Italia, ci hanno scancellato. Bisogna fare una pratica di riscrizione attraverso il Min. degli Esteri. Una complicazione che non ci voleva davvero. Però sono ringrassata un chilo e mezzo, sono di nuovo quasi a 67. Temo che resterò ormai così. È arrivata ora una cartolina di Egidia che dice che tutto va regolarmente, però il vomito continua e la morfina è come acqua. Mi preoccupa soprattutto tua madre che soffrirà chissà quanto. Però dice che tuo padre non vuol vedere nessuno altro che tua madre e Egidia e quindi anche se fossi andata sarebbe stato inutile. Questo mi ha tranquillizzata un poco. L’operazione è stata laboriosa perché hanno trovato anche un’ernia e quindi sono state in realtà due operazioni. Io però credo che tutto andrà bene. Si capisce che uno stia malissimo dopo un’operazione di quel genere e poi tuo padre è molto esagerato, poveruomo! Ora mi metterò a studiare le dispense, tra pochi giorni ho l’esame. Ho telefonato ora a Egidia e mi ha ripetuto supergiù le stesse cose rassicuranti, ma tuttavia spiacevoli. Gli hanno fatto due lavande gastriche per tentare di fermare il vomito, ma non hanno dato alcun risultato. Oltre al vomito ha il singhiozzo continuamente che non lo lascia riposare un attimo. Io ero molto contraria a questa operazione, perché è piuttosto difficile, ma tuo padre era deciso e proprio non gli si è potuto far cambiare idea. Ormai però è passata e io credo davvero che non ci sia più alcun pericolo. Sarebbe potuta andare anche molto peggio. Stasera telefonerò a Terenzi per esser sicura che ha sistemato per i denari che ti occorrono. Ti aspettano tutti al più presto. C’è stata una generale tirata di freni. È questo il pericolo, non gli interventi come quelli di Fabrizio [Onofri] che purtroppo però la provocano. Siamo tutti scontenti. A Socr.[ate]117 ne hanno fatto una antipaticissima, così che non mangia più, non dorme più e non so come io farò a dare l’esame con lui. Tu non hai idea della burocratizzazione che c’è stata in questi 6 anni. È una vergogna! Tu non puoi nemmeno immaginare. Ho avuto finalmente la stoffa e ti ringrazio. È molto diversa da 117 Mario Socrate (n. 1920), gappista, scrittore, docente di Letteratura spagnola all’Università di Roma. Nel 1956, in dissenso rispetto alla linea del Pci, firmò il «Manifesto dei 101» che criticava l’intervento sovietico in Ungheria.

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quella che presi io a 2 e 3, chissà perché, ma non mi dispiace lo stesso. E lo so che il Magazzino di Stato è il posto più confusionario della terra. A soldi vado benino, non pensarci. Il premio S. Vincent mi ha fatto sapere che è arrivato tutto in ordine, ma le copie non corrette non le possono sostituire. Ora ti lascio e ti abbraccio e ti bacio, avvertendoti però che sono diventata un pezzo di ghiaccio. Questo te lo dico anche perché tu venga presto a fondermi. MTeresa

Parte seconda SCRITTI

STORIE NATURALI Meditazioni di Piero Calamandrei

TORMENTI DEI PINI*

Fuggire, fuggire, dileguare: non voglio più. Rivedo queste pinete, vedere queste strade dove passano queste milizie. Non voglio più incontrarmi dentro di me con queste faccie familiari il fragore dei carri armati, la faccia dei predoni biondi che vengono a l’umiliazione, la liquefazione. Fuggire: arrivare a questi boschi della mia infanzia e perdermici, come in sogno, dopo una corsa affannosa in cui si cerca di sfuggire al mostro che ci insegue. E toccare la terra collo stesso senso di liberazione e di tregua con cui dopo un lungo e travagliato peregrinare ci si riaffaccia in cerca di pace, alla soglia della casa materna. Al centro della Toscana, subito a sud di Firenze intorno alle valli della Pesa e della Greve, si estende una zona collinosa estesa da ogni lato una ventina di miglia, che è ancor ricoperta, come doveva essere prima che nascessero gli uomini, da un velluto quasi ininterrotto di pinete: colline tondeggianti che si susseguono come un seguito di grandi dune rivestite non di quegli aspri pini puntuti e contorti che si colluttano col libeccio lungo le spiaggie dei mari, ma di quei pini domestici che hanno la forma di un grande pacifico e simmetrico ombrello, ravviati e tondeggianti anch’essi, come dorsi di mandrie * Manoscritto inedito conservato nell’archivio di famiglia, scritto probabilmente a Treggiaia intorno al 20 settembre 1943: vedi Piero Calamandrei, Diario 1939-1945, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1997, vol. II, p. 201 (22 settembre 1943). Sulla cartellina che lo contiene, il racconto è indicato come Tristezze dei pini e sotto, cancellato, Pini alla tortura. Tra parentesi uncinate le varianti introdotte dall’autore.

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tranquillamente pascenti. Questa isola , che a contemplarla da qualche monte più alto si vede ben circoscritta nel paesaggio come una grande macchia polputa di un verde fondo in mezzo al biancore asciutto degli uliveti e al giallo dei sodi che la circonda da ogni parte, è il cuore della Toscana: il paesaggio tipico e simbolico, dove io trovo impressa dalla natura la misura di questa terra dove son nato e del quale mi par che i caratteri della civiltà toscana siano soltanto uno svolgimento e una conseguenza. Qui in queste pinete ho cercato scampo guarigione e salito fuori dalle vie battute, ove passano in questi giorni la invasione e il saccheggio, col raccapriccio/ribrezzo di una infezione oscura che si sente correre dentro le nostre vene; a questi pini, dove ritrovo colori e odori ben noti, fermentanti dalla borraccina a questo tepido sole di settembre, chiedo per qualche ora, se non dimenticanza, conforto di questa disperazione: testimonianza che almeno qui, in questi boschi, la patria è ancora pura e incorrotta; che quando il flagello sarà passato e torneremo negli abitati a contare i superstiti, a far l’inventario degli incendi e dei saccheggi, almeno qui, in questo verde, tutto sarà ancora intatto e vivente, noncurante dei transitori oltraggi che non scalfiscono la impassibile natura. In questo rifugio ospitale passo molte ore del giorno passeggiando solo per queste pinete: inerpicandomi, fuori dei sentieri sulla cima alcuna di queste colline, per arrivare a scoprire dal culmine un’altra collina uguale che si presenta al di là: accompagnato da questo fruscio di lontano mare che fanno questi pini alla carezza del vento e da questo aroma di resina che ribolle al sole; ritrovando la serenità nella complicità primordiale di queste presenze eterne. Prima mi accorgo degli incendi. Mentre mi avvio per salire in cima a un poggio, dal quale so che affacciandomi all’altro versante, mi si presenterà di fronte un altro poggio gemello anch’esso sormontato di pini, il contadino col quale ho attaccato discorso lungo la viottola mi avverte: “Di vetta potrà vedere il bruciamento del mese passato”. (Dicono “il bruciamento”, i contadini di qui, non l’incendio: e questa parola mi fa tornare in mente le paure provate da bambino a Montauto, in una villetta di queste stesse campagne, quando la notte tra il sonno sentivo una campana che batteva a martello in mezzo ai boschi e giù nell’aia voci con-

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citate degli uomini che si chiamavano: “Lesti, c’è il bruciamento nel bosco del Serristori!”). E mi spiega che quest’anno aggiunta ai flagelli della guerra e della fame, c’è stata anche in queste campagne la crudeltà dell’arsura: da sette mesi non cade una goccia e le pinete sono asciutte che a sfregar appena un tronco prende fuoco come un fiammifero. C’è chi dice che questi bruciamenti son causati dai fulmini: ma non è vero, perché si producono sempre in periodi di siccità, quando non c’è temporali. Basta che un barrocciaio distratto nell’accendere la pipa getti tra l’erba secca della proda uno zolfino non bene spento, perché di lì a mezz’ora tutto il bosco lungo la strada divampi: oppure può esserci anche in mezzo al bosco senza che ci abbia colpa nessuno un frammento di vetro, un pezzo di bottiglia, lasciato lì chissà quando da un boscaiolo o da un cacciatore: se ci batte il sole e ci passa attraverso come una lente fa da acciarino, gli aghi di pino e la borraccina che son lì sotto prendono fuoco come esca. E da questa piccolezza intere poggiate di bosco vanno distrutte. Dunque dalla cima vedrò la traccia lasciata dal bruciamento: e nel salire mi immagino che vedrò, là nella collina di faccia, come una gran cicatrice di tigna nascosta in mezzo alla chioma dei pini, una grande macchia di distruzione in cui in luogo del bosco scomparso si veda soltanto il nudo terreno ricoperto di ceneri. Ma quando arrivo sulla cima e guardo al di là nella collina di fronte, quella segnata dall’incendio, mi accorgo che l’incendio non ha distrutto la pineta come immaginavo, ma l’ha lasciata intatta, non un ago è distrutto, cambiandone soltanto là dove è passata la fiamma i colori. Ai due lati della collina i pini sono ancora verdissimi e quel loro cupo verde spicca sul giallastro del sottobosco; ma al centro, senza gradazioni senza sfumature, una grande screziatura, come la bizzarria di una ciocca canuta che si vede in una testa bruna, gli stessi pini, colla loro chioma intatta, coi loro rami simmetrici, sono diventati rossi, di un rosso fiammante di ruggine: e spiccano sul sottobosco che è diventato di un nero violaceo. Qua e là nel sottobosco cespiti di puro arancione. L’incendio, a vederne così gli effetti nel panorama, non ha distrutto nulla, ogni rametto, ogni fogliolina è rimasta al suo posto. Ha soltanto invertito i colori, come una reazione chimica che abbia magicamente fatto venir fuori i colori complementari: come una macchia d’acido caduta su un velluto, che ha lasciato una marezzatura di altro colo-

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re, ma non ha alterato il tessuto, la trama e la polpa. Appiccata in un fiato la fiamma è diventata un filo, si è snodata come un serpolino e divincolandosi è stata portata dal vento nella sua direzione verso le cime: troppo frettolosa per indugiarsi a consumare i tronchi, s’è appiccata su alle chiome dei pini accendendole una dopo l’altra a casaccio, avanzando senza indugiare a rifinire il lavoro, come la passata di un pettine, con uno scoppiettio di fucileria. È passata di pino in pino, senza una direzione precisa, cambiando bruscamente direzione, tornando indietro, come una bandiera stracciata, risalendo secondo i mulinelli dell’aria. Alla fine, capricciosamente come s’era accesa s’è spenta, lasciando solo in quella zona bruciata, un po’ di fumo. E ha lasciato soltanto nel bosco rimasto verde questa macchia irregolare di pini rossi come i capelli scarmigliati delle streghe, e subito ai margini ci sono i pini verdi. Rimasti verdi accanto a quelli seccati: uno colpito e l’altro salvato, a distanza di un metro senza perché: uno la fiamma l’ha rispettato, l’altro l’ha tinto di rosso. Capricci delle fiamme: come la casa sventrata accanto a quella rimasta intatta, senza neanche un vetro rotto: capriccio della bomba che cade dal cielo. Senza un perché: tutto senza un perché. Ma questo non è, in questi anni di generali tormenti, il solo tormento delle pinete: questo è naturale. Uno più atroce e più offensivo ne ho visto; salendo verso la Poggiona, che è il poggio più alto della zona dove la pineta è più folta e i pini più antichi, mi accorgo che molti di quei fusti son oggi alla tortura . Mai avevo visto una cosa simile quando qui ero bambino: i bruciamenti c’erano anche allora, ma questo tormento non c’era. A ciascuno di essi vedo in lontananza attaccato, a metà del fusto come un parassita infisso a succhiare nella corteccia, qualcosa di roseo, come un’escrescenza. Mi avvicino e vedo che si tratta di vasetti di terracotta, della stessa forma di quelli dei fiori, che fanno parte di un semplice sistema di tortura. Il tronco del pino, non lontano da terra a altezza d’uomo, è stato da una parte accuratamente raschiato della sua bruna rugosa corteccia, fino a trovare la polpa giallo-rosea del legno: e a perdita d’occhio nella pineta tutti i tronchi dei pini ap-

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paiono segnati da questa scorticatura rossastra, che mette a nudo la carne viva attraverso lo strappo della scorza. Ma il supplizio non è che al principio: al centro di questa abrasione a fior della quale par di vedere circolare per trasparenza il sangue, è scavata nella polpa del legno una profonda scanalatura verticale, lunga quasi un metro, e profonda tanto da potervi far entrare un dito. Dalle due parti di questa scanalatura, cominciando dall’estremità più alta, sono tracciate incisioni più strette, che convergono scendendo obliquamente nella scanalatura centrale, come affluenti di un fiume. Il tatuaggio inciso nel legno prende così la figura di una lisca di pesce, in cui le spine convergono scendendo verso la colonna centrale, o di una piuma, in cui le barboline si inseriscono nel fusto: queste incisioni laterali su alcuni pini sono soltanto due o tre per parte, in modo che fanno soltanto come la figura del pennacchio in cima alla freccia, mentre in altri sono assai più numerose, fino a inserirsi più in basso su tutta la lunghezza del canaletto centrale, che prende così la figura di una lisca di pesce o di una piuma con le barboline voltate all’insù. In basso, dove questa termina, incastrato nel legno un beccuccio di latta, come una docciolina: e aderente a questo, in modo che ci possa sgrondare, il vasetto di terracotta, aderente al tronco, fermato al disotto con un chiodo. A vederlo da lontano pare una escrescenza, un enorme insetto rossastro che succhi. Mi fermo a contemplare queste ferite: dai canali laterali la resina, sudata dalla carne viva defluisce lentamente, stilla trasparente e limpida come un olio, verso la scanalatura centrale: e di lì, dove trova tracciato il fosso verticale, ricco di tutti gli affluenti, defluisce in basso sgrondando fino ad arrivare al beccuccio di sgronda nel vasetto e vi si raccoglie e si rapprende in una sostanza quasi solida, opaca e malleabile come cera vergine. I vasetti sono coperti ognuno da un peso di terracotta: alzando vedo che nell’interno alcuni sono più pieni di ragia, altri ancora a metà. Tutto questo apparato chirurgico, che dà aria di sala operatoria, o di sala di tortura, e l’idea del drenaggio di una ferita aperta, mi riempie di disagio: questo bosco, dove cercavo la tranquillità, è diventato un campo di vivisezione. Domando informazioni a un boscaiolo che lì vicino ammucchia una catasta di legna: gli domando se è lui che si occupa di questa raccolta. Mi fa cenno di no: è un’impresa nuova, introdotta da una società che sta a Firenze,

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con propri lavoranti, per lo più son donne. Vengono ogni tre giorni a far il giro di tutti i pini; son loro che scorticano i pini, e vi fanno le incisioni verticali con una sgrebbia: e quelle laterali, una per parte, di capo. Dopo due o tre giorni le incisioni laterali non buttano più: e allora sotto a quelle ne fanno altre due, una per parte, e dopo altri tre giorni altre due e così di seguito. E così a poco a poco tutta la resina esce e il pino non muore (il tormento a dosi). Via via che son pieni, li vuotano in certi barili che sono da un lato del bosco, in attesa di esser portati via per la lavorazione. Son due anni, dice il boscaiolo, che questo “lavoro” è stato portato di fuori. Prima non c’era, è stata la guerra: pare che con questa ragia ci facciano qualcosa che serve alla guerra: bombe, esplosivi, non so... E poi, guardando anche lui i pini alla tortura: “Anche loro, come noi: gli prendono il sangue a goccia a goccia”. Ora questo bosco che mi pareva asilo e rifugio, mi appare come un popolo di creature torturate: anche loro come noi. Vivi e doloranti con questa grande ferita che mette a nudo la carne, con questa incisione tatuata nella carne: e il sangue che stilla giorno dopo giorno, ora per ora, con accorgimenti perché venga fuori tutto, ma il pino non muoia e resti vivo languente per ricominciare un altr’anno. Via via, fuggire fuggire anche di qui: anche qui è arrivato quest’incubo... Salgo in cima al monte affrettando il passo: mi pare di sentire dentro di me con raccapriccio la sgrebbia che scava la carne, il sangue che stilla. Anche a noi, o pino, ci hanno messo questo tormento: ogni anno una ferita: e quando quella è asciutta, un altro taglio perché ricominci a colare. Non è il colpo di scure che vi abbatte: non ci si pensa più, una volta per sempre: è questo stillicidio di una nuova incisione che si aggiunge appena quella comincia a rimarginarsi. Settimana per settimana, ancora una stilla, un altro tratto di corda, come nella tortura: strizzare fino in fondo l’ultima vena. Ma non tanto da morire. Quest’agonia che dura gli anni: e il nostro sangue raccolto e portato via e trasformato in esplosivo. In cima dove il bosco finisce c’è una specie di altipiano coltivato: come una calotta di campi isolata in mezzo alla boscaglia: in mezzo c’è un podere, isolato, fuori del mondo, con una grande aia. Sul più alto pagliaio svetta una bandiera tricolore. Rimango sorpreso dinanzi a quel segno: mai m’è accaduto di

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vedere una bandiera tricolore su un’aia: vent’anni fa c’eran le bandiere rosse... Con compiacimento dico a un vecchio contadino che fa piacere in questi tempi veder quel segno in mezzo alla campagna. E lui: “Per ora semo italiani. Vede?”. E mi indica su in mezzo alle nuvole un calabrone altissimo che passa ronzando: un aeroplano tedesco che sorvola come un calabrone queste pinete.

CALABRONI*

Anche in questi boschi, dove ho cercato scampo, non riesco, nel mondo che mi circonda, a dimenticare questi tedeschi predatori che corrono vestiti di giallastro, su quei loro autocarri pezzati di giallo e di verde come la pelle dei rospi, sulle nostre strade toscane. Così, mentre osservo questi insetti che ronzano sui fiori, non riesco a levarmi di testa che i calabroni siano i tedeschi, anzi i prussiani, degli insetti: come loro atletici, spavaldi e benpasciuti, a confronto alle api o anche alle piccole vespe che li imitano ma in scala tanto ridotta (anche tra gli insetti ci sono gli imitatori che si danno arie feroci; senza aver le armi); biondi, guerrieri, predatori, aggressivi come loro, superbi della loro razza; ed anche alla fine stupidi, come loro. Nei nidi dei calabroni, invece di quei favi di molle cera pingui di miele accumulato con onesto lavoro di tutto un popolo pacifico, non esistono che scabre e aride celle come prigioni o come fortilizi, fatte di cartone o di mica o di cartapesta indurita. I rifugi di predatori carnivori che vivono di rapina e che si lanciano di lì, da questi loro fortilizi aerei, come punti di ritrovo per altre aggressioni. I nidi dei calabroni sono per lo più nei tronchi degli alberi cavi: e quando vi s’è insediata una colonia bisogna girar largo: a passare a qualche decina di metri anche l’uomo che va per i * Manoscritto inedito conservato nell’archivio di famiglia, scritto probabilmente a Treggiaia intorno al 20 settembre 1943: vedi P. Calamandrei, Diario cit., vol. II, pp. 201-202 (22 settembre 1943). Tra parentesi uncinate le varianti introdotte dall’autore.

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fatti suoi è aggredito. Conosco strade da cui per qualche tempo un nido di calabroni annidato in una quercia è riuscito a impedire ai pacifici carri di buoi di passare: una puntura di due o più calabroni può essere anche mortale. Ma poi i contadini trovano sempre il modo di spergerli e di sterminarli. Ho visto io una grande quercia con un’enorme tana affumicata, come carbonizzata. Credevo che vi avessero acceso il fuoco i boscaioli per riscaldarsi d’inverno: ma mi fu spiegato che erano i calabroni, che erano stati distrutti. Così, col fuoco, la pulizia è completa; ma per poter adoperare un mezzo così risolutivo, che brucia tutta l’orda coi suoi nidi e i suoi allievi e le sue larve, occorre che il vuoto si trovi in un grande albero che non rischi di morire esso stesso per l’incendio. Quando i nidi dei calabroni sono appesi alle gronde delle finestre o in alberi più piccoli, allora invece del fuoco che rischierebbe di distruggere ogni cosa bisogna ricorrere all’astuzia; e i calabroni ci cascano, perché in fondo in fondo sono sì guerrieri ed aggressivi, ma sono anche stupidi. Il contadino che mi spiegava queste cose mi ha spiegato come si fa a pigliare i calabroni quando sono alti su qualche gronda, o sotto una tettoia. Si prepara una lunga canna che arrivi all’altezza del nido: in vetta ci si infila, come la punta di una freccia, un fuscello di legno secco, fino fino, tutto spalmato di pania, quelli che si chiamano “pannizzi” nel linguaggio dei cacciatori. Si va piano ai piedi del nido e poi piano piano si accosta la canna, levandola da basso, all’apertura del nido, in modo da presentare il fustellino impaniato proprio ivi, nelle vicinanze. Il calabrone che s’affaccia vede quell’oggetto che modifica il paesaggio: lo guarda con quei grandi occhi obliqui e tracotanti, e per rendersi conto ci vola sopra: perché i calabroni non son come gli altri insetti che vanno per il loro viaggio. Sono curiosi e ficcanaso: credono di esser loro i padroni del mondo degli insetti, e ogni novità che incontrano la vogliono controllare. Ecco che subito le zampe gli ci restano impigliate: cerca di sfuggire ma gli ci restano le altre, comincia a ronzare, a dibattersi, anche un’ala gli resta appiccicata... E quello stupido sfodera il pungiglione, e punge: punge la pania... e anche l’arma gli resta attaccata e lui, questo stupido tracotante, è prigioniero per il fondo dell’addome: preso per il didietro, povero guerriero... Ma non bisogna aver fretta di ritirare dopo questa

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chiappa la canna: bisogna lasciarla lì, perché ogni nuova vittima che arriva fa lo stesso verso... Alla fine se ne tira giù un grappolo che riveste tutto il fuscello: pare un’orchidea, di quelle coi fiorellini che sembrano calabroni... E il giuoco può ricominciare fino a che tutto il nido non sia vuotato. Ma la beffa più divertente è quella del fiasco. Questa l’ho vista coi miei occhi e la voglio raccontare. Il nido da sterminare era nel tronco di un nocione, un albero colle foglie che somiglia al noce, ma di statura assai più bassa, usato in Toscana, come i pioppi e i testucchi, per sostenere le viti nei campi. Il tronco del nocione era, per un albero di mezzo metro, cavo: e la cavità interna appariva di fuori da una specie di crepaccio della scorza, largo un dito, che correva per il lungo del tronco, per un mezzo metro: in basso questo crepaccio si allargava in un’apertura più larga, di cui si vedeva l’interno cavo. In questa cavità i calabroni avevano fatto il nido: tutto lungo il crepaccio si vedevano nell’interno apparire per il pertugio le fiale di cartapesta: e i calabroni che vi passavano. Ma il foro di uscita praticato era quell’apertura più bassa. Il nocione era lungo un viottolo: e il passar dal viottolo era diventato pericoloso. Bisognava dunque procedere all’operazione. Si aspetta l’imbrunire: si parte all’avventura con una lampadina elettrica, di quelle che ognuno ha per l’oscuramento, con un blocco di mota argillosa, appena levata dal fondo di un pozzetto, e con un fiasco vuoto, spogliato della veste: il solo vetro. Ci si avvicina cautamente all’albero: e i calabroni sono tutti in casa: si sente, nell’interno, ogni tanto un ronzio metallico. Nell’ombra, sul tronco si vede correre il nero del pertugio: per evitare il pericolo che i calabroni, nel pericolo, si mettano in salvo da quella via d’uscita inusitata, rapidamente, con un rapido lavoro di calatafaro, si intonaca tutto l’andamento esterno coll’argilla, in modo da chiuderla ermeticamente. Unica uscita è ormai quella di fondo. E allora lì, rapidamente, con destrezza, il contadino introduce il collo del fiasco dentro il nido: e subito con altra creta lo intonaca al di fuori, in modo che intorno non rimanga alcun spiraglio: così ormai l’unica uscita dal vespaio è l’entrata del fiasco: chi vuol uscire dal nido entra nel fiasco. Qui viene il momento più emozionante della partita. Finora si è operato nell’oscurità: quei bestioni, di dentro, non si sono accorti di nulla: sono stati imbottigliati senza accorgerse-

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ne. Tutt’al più quelli che dormivano proprio sull’orlo dell’entrata sono stati sorpresi di questo corpo estraneo introdotto nel loro domicilio: ma lì al buio non sono riusciti a raccapezzarsi. Ma ora si impugna la lampada, e all’improvviso si fa convergere la sua luce sulla pancia del fiasco vuoto, che appare illuminato a giorno, come una bolla di sapone fosforescente in quel nero. E contemporaneamente con una pietra si comincia a battere nel tronco, dalla parte contraria a quella dov’è il pertugio: – Sveglia, ragazzi, sveglia. Quelli si svegliano al rumore: il pertugio è chiuso, ma dalla apertura viene un gran chiarore come di giorno chiaro. Chi è l’imprudente dissennato che osa disturbare il sonno dei calabroni? Sia punito, l’ebreo ! E tutti fuori, irritatissimi, coi pungiglioni, in formazione di battaglia, per fargliela vedere a quel temerario. Al lume della lampada si vede a un tratto versarsi nel collo e riempire il fiasco uno sciame di gialli urlatori irritatissimi: che credono di potere uscire nell’aria per la spedizione punitiva. Imbecilli! Battono il capo contro il vetro del fiasco, rotolano, uno dopo l’altro, un addosso all’altro. Quelli che continuano ad entrare nel fiasco fanno calca... Si urtano, si azzuffano tra loro, dibattendosi contro il vetro, che invano cercano di pungere, abbacinati da quella luce accecante che li punta e li stordisce, senz’accorgersi che son prigionieri del vetro, ch’essi non vedono, ma contro il quale vanno inutilmente a spuntare i loro pungiglioni. Sia lodato Iddio: il tronco è purgato di tutti gli abitatori: si parte con questa fiascata di calabroni, col fiasco sigillato da una manciata di argilla, che domattina si laverà con un fiasco d’acqua bollente. E giustizia sarà fatta.

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Diavolo.

GENERAZIONI Discorsi di Piero Calamandrei

IL TRADIMENTO DEI GIOVANI*

Qui c’è un equivoco. Conversazione: si fa bene in 20, non in 200. Conversazione per giovani: qui vedo persone non più giovanissime, che probabilmente sono venute per darsi l’illusione di esserlo. Ma saranno amaramente puniti. Il tradimento ai giovani e dei giovani. Traditi i giovani, traditore il fascismo. L’inesplicabilità del fascismo. Fenomeno paradossale, di follia. Videbis fili mi quam parva sapientia regitur mundus: ma non che il mondo sia retto da una simile goffa, ridicola mistificazione. Il dittatore di Charlot: senso di delusione. È una caricatura; ma la caricatura è più seria, è meno sorprendente, meno goffa, meno ridicola della realtà. Quel Mussolini che si vede nel film pare il personaggio serio, di cui quello vero è la caricatura. Soltanto ora ci accorgiamo che nessuna caricatura può uguagliare la proiezione del film Luce in cui si vede Mussolini che ara, nuota e discorre. Ora che abbiamo riacquistato quel senso del ridicolo che avevamo perduto, si domanda perché un fantoccio di quella natura * Manoscritto inedito conservato nell’archivio dell’Istituto toscano per la storia della Resistenza (Firenze), Archivio Piero Calamandrei, filza XI, f. 2, in una cartellina intitolata «Conferenza tenuta da P.C. a Bologna, sul tradimento dei giovani, traditore il fascismo». In realtà è il testo della conferenza tenuta da Piero Calamandrei a Firenze, il 21 novembre 1944: vedi Piero Calamandrei, Diario 1939-1945, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1997, vol. II, p. 544 (21 novembre 1944): «Mio discorso al Pd’A sul “tradimento dei giovani”».

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abbia potuto esser preso sul serio da un popolo che ahimè dagli stranieri viene considerato non solo come intelligente ma come furbissimo. Uno degli aspetti che ci possono avvicinare a spiegarci il fascismo è quello che si potrebbe chiamare la speculazione sui sentimenti buoni delle persone perbene. Molte persone oneste e miti hanno preso sul serio il fascismo. Intelligenti – onesti – fascisti: trinomio impossibile? Non impossibile: gente onesta, intelligente nel suo campo, si è lasciata prendere dai buoni sentimenti che il fascismo blandiva: famiglia, lavoro, ordine, amor di patria. Tradimento ai buoni sentimenti è stato operato soprattutto ai giovani. PRIMO TRADIMENTO

Il primo tradimento dei giovani è stato proprio questo: sfruttare il loro irriflesso amor di patria per farne uno strumento di guerra civile, la loro generosità e il loro ardimento per lanciarli inconsapevoli al brigantaggio politico. Non è qui il luogo neanche per tentare un’analisi del sorgere del fascismo. Ma è certo che al suo trionfo contribuì per larga parte il favore dei giovani, specialmente degli studenti. «Giovinezza giovinezza» non fu soltanto un canto, fu una realtà. E non dobbiamo immaginarci gli squadristi come tutti sanguinari o criminali o dementi. Vi furono molti in buona fede che fecero le spedizioni punitive credendo di compiere opera di buoni italiani. Bisogna ricordare la psicologia del dopoguerra: i giovani che non erano arrivati a fare la guerra vedevano tornare a casa i padri, i fratelli maggiori avvolti in un’atmosfera di eroismo: la vittoria, il Piave, Vittorio Veneto. Avevano salvato la patria: l’umiliazione di esser nati troppo tardi per salvare la patria. Allora trovarono della gente che disse loro che c’era ancora da salvare la patria. Vedevano sommosse, gente che invadeva le fabbriche o le terre: qualcuno avrebbe dovuto insegnare ai giovani che quella gente erano lavoratori che cercavano di redimersi, di migliorarsi e avrebbe dovuto insegnar loro che per salvare la patria i giovani avrebbero fatto bene a mettersi dalla loro parte, aiutarli, affiancarsi ad essi. Invece trovarono il fascismo che insegnò loro il contrario: insegnò loro che erano i nemici della patria, e ci credettero. E i giovani in buona fe-

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de presero le armi contro i lavoratori e nella illusione di salvare la patria si trovarono a fare senza accorgersene le guardie nere di una plutocrazia che identificava la patria colle proprie ricchezze. Si vedevano così i giovani che la mattina andavano a lezione all’Università, tra i libri, la sera andare a far razzie di bandiere rosse o addirittura insanguinarsi le mani nelle stragi di contadini e operai. Primo tradimento: questo aver messo gli studenti, che sono il lavoro intellettuale di domani, in guerra contro gli operai e i contadini; questo aver messo il lavoro intellettuale contro il lavoro manuale; questo divorzio, questo conflitto tra due forze nella fraternità delle quali è l’avvenire. Questo è uno dei delitti più ripugnanti del fascismo: come la mezzana che sfrutta l’ingenuità di una giovinetta per prostituirla, il fascismo sfruttò la generosità dei giovani per assassinare il popolo italiano. E questo fu il primo tradimento. Macchiare la generosa gioventù, di delitti civili. SECONDO TRADIMENTO

Il primo tradimento ebbe carattere transitorio. Ma ci fu un secondo tradimento, continuativo, sistematico, che durò vent’anni. Blandire i giovani; contentarli; render loro la vita facile: contentare i giovani, a condizione che rinunciassero a occuparsi sul serio di cose serie, in tutte le loro ragazzate. È canone di pedagogia elementare che i genitori troppo indulgenti coi loro figli sono la loro sciagura: e che la individualità e il senso di responsabilità si acquista solo attraverso le difficoltà. Le ristrettezze, le opposizioni, di un’educazione che sia una opposizione e non un blandimento. Il problema dei giovani, ha detto giustamente Croce, è uno solo: invecchiare. Ossia diventare uomini, ossia maturarsi. I giovani bisogna aiutarli a diventare uomini, metterli a contatto colle difficoltà della vita, contrariarli, criticarli, non blandirli: lì per lì se ne avranno a male, poi capiranno quanto ciò ha giovato. Il fascismo ha assunto per venti anni la parte del padre indulgente, ha fatto di tutto per distrarre i giovani dalla serietà della vita, e ha figurato di prender sul serio le loro ragazzate. In tutti i tempi è usato che i ragazzi a una certa età, tra i quin-

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dici e i vent’anni, si accorgessero di essere scrittori, poeti, commediografi, grandi uomini, insomma. Ma un tempo, quando i figliuoli affacciavano queste velleità, i babbi li pigliavano in giro: e facevano bene. Chi di noi al liceo non ha avuto la voglia di fare un giornale? Ma si faceva a poligrafo. Chi non ha scritto una commedia? Ma si rappresentava in soffitta coi burattini. E poi l’effervescenza passava: e se nonostante le opposizioni e le canzonature del padre il figlio continuava a scrivere versi e durava dieci anni sotto la compressione, allora da questa persistenza si vedeva che c’era qualcosa di vero, e veniva un poeta. Ma sotto il fascismo tutte queste albagie dei ragazzi sono state blandite e sviluppate. I Guf, i giornali dei Guf, i teatri dei Guf, i littoriali, i prelittoriali erano tutti sistemi per dare apparenza di cose serie a imparaticci scolastici; e i ragazzi che si vedevano prender sul serio si mettevano in testa di essere grandi uomini: saggisti, giornalisti, critici, cineasti, poeti ermetici. Largo ai giovani, i giovani ai primi posti. Un tempo l’esser giovane era un titolo per studiare, sotto il fascismo diventò un titolo per insegnare. Gioventù, titolo per avere i primi posti, un titolo di preferenza. Gerontocrazia = Pedecrazia. Il governo dei giovani: uno aveva un posto perché era giovane: ma ogni giorno che passava era meno giovane, invecchiava. E bisognava che cedesse il posto ai più giovani, come nella ginnastica. Gara tra impreparati. Pedecrazia, regime atletico, regime ginnastico: si mandarono avanti quelli che sapevano meglio saltare. La prova di salto dei gerarchi. L’episodio Marpicati1. TERZO TRADIMENTO

Carattere professionale della politica. La politica come professione e le professioni come politica. La professione di gerarca. I giovani ai primi posti. La concezione che nello stato vi sia chi fa la professione di governante e chi fa il mestiere di governati. Uomini e superuomini. Questi giovani a scuo1 Arturo Marpicati (1891-1961), direttore dell’Istituto nazionale di cultura fascista. Sull’episodio, vedi P. Calamandrei, Diario cit., vol. I, pp. 57-58 (31 luglio 1939).

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la, nei Guf, nei giornali si accorgevano di esser nati governanti: destinati a avere una macchina, l’attrice cinematografica, il castello: andare tra le turbe a ispezionare fare l’adunata il saluto al duce. La facilità della carriera politica, e il disprezzo per gli studi. Quando si faceva la carriera scientifica: il compatimento. Naturalmente in questa gara di impreparazione venivano a galla i peggiori: il sacrificio dei valori veri. Disabituati al lavoro serio. La favola del cammello. LARGO AI GIOVANI GERARCHI QUARTO TRADIMENTO

Fabbrica di impreparati, di spostati, di immaturi, di superficiali buffoni e avventurieri. Ma il tradimento più grave era quello del corrispettivo che si esigeva dai giovani per blandirli così. La rinuncia a pensare colla propria testa. Ai giovani si davano onori, denari, il Guf, divise scintillanti; permesso divertirsi: però VIETATO PENSARE. Nella pedecrazia c’è una sola testa: quella pensa per tutti: M. ha sempre ragione. Si vedeva dai giornali fascisti giovanili: permesso scrivere memorie autobiografiche o versi ermetici. Ma se davano accenno di autonomia, venivano soppressi [come] «Rivoluzione». Togliere la libertà, disabituare alla libertà. Dare questo senso di pigrizia, di comodità, lasciare che altri pensi. Pensare è una fatica: non pensare è più comodo. Vedere quello che M. faceva vedere: vedere del mondo solo l’angolo che voleva M. Abitudine a considerare il fatto compiuto, i fatti maschi. Incapaci di collocare l’Italia nel mondo, si contentavano di vedere strade, stadi, edifici, cortei. Rinuncia alla libertà rinuncia alla moralità. Mancanza di critica e di autocritica. Il periodo dal 33 al 40. la sordità morale: perché la morale ci si può acquistare soltanto da sé nella lotta. Per dare il senso della libertà e della moralità il fascismo ha fatto qualcosa: coi confini e il Tribunale speciale. Per questo i giovani dovrebbero ringraziarlo! Tutto questo spiega perché i giovani in un primo tempo hanno subìto la guerra dissennata, e sono andati a battersi ed anche con valore in una guerra che doveva esser la rovina d’Italia. Hanno operato due tradimenti del fascismo: sfruttamento dei buoni sentimenti, incapacità di critica.

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I giovani caduti in Grecia, in Francia, caduti eroicamente, credendo di combattere per la patria, mentre cadevano come inconsci strumenti di una follia delittuosa, di cui la mancanza di libertà non aveva permesso di misurar la portata. Quanti di questi tradimenti rimangono ancora nei giovani? 1. Superata la inimicizia tra intellettuali e lavoratori manuali. Studenti e operai si sono trovati insieme nelle carceri o nelle formazioni clandestine: si troveranno domani accanto nella vita politica e nella libertà. 2. Disorientamento. Vertigini dell’aria fine. Anche questa incertezza è segno buono: è finita quella sprezzante sicurezza che avevano i giovani fascisti orientatissimi, che ridevano degli scrupoli dei vecchi. Questo cercare dei giovani è già importante: cercano una morale. La parola di Pascal: se tu mi cerchi vuol dire che mi hai già trovato. Sintomi meno confortanti di fascismo superstite. 3. La tendenza che dimostrano molti giovani verso soluzioni estremiste a tipo totalitario. Non vorrei che questo fosse la dimostrazione che ancora non si è capito tutto il valore della libertà: che vi è ancora quella certa atrofia morale, quella pigrizia mentale per cui si preferisce avere un regime in cui le iniziative vengono tutte dall’alto e in cui i cittadini sono dispensati dal pensare perché c’è chi pensa per tutti. 4. La tendenza all’indifferentismo politico: basta colla politica. Benissimo: le aule piene: senso di rinata responsabilità. Però, però questo potrebbe dare da pensare se fosse indifferenza a qualche altra cosa che avviene fuori dalle aule: quasi che gli alleati abbiano preso il posto di Mussolini. Permettetemi di finire con un ricordo personale. Che ci dà il senso della diversità di clima. La morte di Carducci - Semolino...2 Questo episodio mi torna in mente quando io entro a lezione, e vedo l’aula così piena... Come si può fare lezione tranquillamente, mentre a Bologna, a cento chilometri di qui c’è la guerra contro i tedeschi? Questo senso di responsabilità che dimostrano i giovani nel tornare ai lo2 Il riferimento è al giorno della morte di Carducci nel 1907 e alla reazione emotiva di Piero in classe, narrato in Scomparsa di un vecchio poeta, «Nuova Antologia», marzo 1945, pp. 189-196.

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ro studi non sarebbe per avventura dimenticanza e rassegnazione seminata dal tradimento fascista e desiderio di quieto vivere? Ma già... i vecchi sono incontentabili! TRE GENERAZIONI DI STUDENTI*

Che cosa hanno portato di nuovo nella vita cultura italiana questi ultimi dieci anni? Dei tanti aspetti della nostra vita nazionale che si potrebbero prendere in esame per rispondere a questa domanda, mi limito a qualche osservazione in quel campo degli studi universitari, del quale ho qualche personale esperienza; e più particolarmente del livello culturale della gioventù universitaria, dei suoi problemi e dei suoi orientamenti. L’indagine potrebb’essere particolarmente interessante mettendo a raffronto tre generazioni studentesche: gli studenti di cinquant’anni fa, arrivati all’Università alla vigilia della prima guerra mondiale; quelli di vent’anni fa, cresciuti col fascismo; e i più vicini di questi ultimi dieci anni, usciti dalle esperienze della seconda guerra mondiale e della Resistenza. Il raffronto, per essere esauriente, richiederebbe ben altra profondità di indagine e vastità di ricostruzione di quanto mi sia consentito in questa risposta ad una inchiesta: nella quale io debbo limitarmi ad alcune osservazioni e impressioni personali, che offro ai lettori, più che come conclusioni, come temi di discussione. Se ripenso agli studenti di cinquant’anni fa (parlo soprattutto degli studenti di legge, come fui io stesso a Pisa, tra il 1908 e il 1912) mi pare che essi, a paragone di quelli venuti dopo, dimostrassero una maggiore serietà e una maggiore diligenza nella ristretta cerchia dei propri studi, ma anche una maggiore indifferenza (si potrebbe dire totale) di fronte ai problemi culturali e sociali di ordine generale. Gli studenti universitari erano ancora in * Manoscritto inedito, dal titolo Tre generazioni di studenti, conservato nell’archivio dell’Istituto toscano per la storia della Resistenza (Firenze), Archivio Piero Calamandrei, filza XI, f. 2. La cartellina che lo contiene porta la seguente indicazione: «Discorso (o scritto?) di P.C. sulla Resistenza e sulla affluenza dei giovani alle urne». Non datato, ma collocabile nel 1955 o 1956.

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gran maggioranza figli di professionisti o di benestanti, mantenuti agli studi con prospettive professionali più chiaramente tracciate dalla tradizione familiare. I problemi di quei giovani (parlo della maggioranza) erano problemi limitati, di carattere grettamente pratico, scolastico e casalingo: passare agli esami, prender la laurea, entrare in uno studio o in un impiego per cominciare a guadagnare e farsi una famiglia. Le crisi di coscienza, la perplessità sulla vocazione, le angoscie «cosmiche» non si erano ancora affacciate sull’orizzonte di quella gioventù meno complicata e più fortunata delle generazioni tormentate che dovevano seguire nei decenni successivi. Erano i tempi in cui i padri, anche i più spregiudicati, ammonivano i figli col solito motto: – Per ora pensa a farti una posizione: la politica è un lusso che si può permettere solo chi ha una professione per mantenersi. – L’impegno serio, per i giovani migliori, era quello di studiare: la politica la consideravano affare di politicanti; l’idea di un comune destino e di una lotta comune che potesse unire intellettuali e lavoratori manuali, non li sfiorava; dei cataclismi che erano alle porte non c’era neanche il sospetto. Il senso della responsabilità politica fu ridestato in quei giovani dalla esperienza della prima guerra mondiale. La trincea avvicinò e accomunò in uno stesso destino i giovani usciti dalle Università con quelli chiamati dai campi e delle officine: per quattro anni ufficiali e soldati (le Università dettero di Ufficiali di complemento, che furono i veri artefici della vittoria) corsero gli stessi rischi, sopportarono le stesse pene. Quelli che sopravvissero e che solo dopo quattro anni poterono tornare agli studi da cui li aveva strappati all’improvviso una guerra di inaspettata vastità, riportarono con sé nella vita civile un variegato senso di protesta contro una società che permetteva siffatti sterminî: e insieme l’impegno (un periodico di giovani reduci dalla trincea si intitolò appunto «Volontà») di [non] rimanere più appartati da quei dibattiti politici dai quali si erano accorti che dipendeva la sorte individuale di ognuno. Ma questa nuova irrequietezza e curiosità politiche che le recriminazioni polemiche dell’immediato dopoguerra portarono anche nelle Università, contribuirono, per singolare contraddizione, ad accreditare il movimento fascista tra la gioventù universitaria: la quale, non più indifferente ai problemi politici, credet-

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te di dar prova di coscienza politica coll’aderire al fascismo. Questa adesione venne soprattutto da quelle generazioni di adolescenti nati dopo il 1900 che non erano arrivati in tempo a partire per la guerra e che, sentendosi quasi menomati e oscurati dalla gloria dei padri e dei fratelli maggiori, si erano illusi di poter rivendicare anche per sé una parte di gloria nell’atteggiarsi a vindici e a difensori della vittoria mutilata. Le ingiurie lanciate sulle piazze contro i reduci, la impresa fiumana, e quella divisa di generosi salvatori della patria in pericolo con cui si presentarono i primi squadristi, attrassero l’ingenuo massimalismo di molti studenti, che si prestarono senza accorgersene, quasi per giuoco sportivo, a diventare sicari dei padroni nelle spedizioni punitive contro gli operai e i contadini delle leghe e delle camere del lavoro. Considero tra i crimini più scellerati commessi dal fascismo tra il 1920 e il 1924 la frode del patriottismo che servì a scavare tra studenti e lavoratori quell’abisso di odio e di sangue che solo la Resistenza ha potuto colmare. Il fascismo, dopo il suo trionfo, cercò di blandire gli studenti; ma lo spirito caporalesco introdotto anche nella vita universitaria, il conformismo pianificato dei Guf e dei Littoriali portò fatalmente a un progressivo abbassamento della serietà degli studi. Non che mancassero, anche nel ventennio fascista, maestri animatori di libertà e studenti ansiosi che cercavano rifugio nella loro scuola; ma erano fuochi isolati e nascosti. La gran massa studentesca si abituava a marciare a passo romano e si disabituava dal pensare. Anche negli studi trionfava il Führerprinzip: c’era, per fortuna d’Italia, un cervello provvidenziale che pensava per tutti. La cultura ufficiale, non più nutrita di libertà, tagliata da ogni istanza sociale, chiusa alle correnti del mondo democratico, si riduceva a un conformismo provinciale comandato dall’alto, preordinato alla fabbricazione in serie di futuri gerarchi (questa fu la ragione per la quale fiorirono in quel tempo le facoltà di scienze politiche). Non direi che nei primi quindici anni del regime abbia fatto molta presa tra gli studenti universitari la propaganda antifascista. Negli anni dello squadrismo vi erano state generose resistenze anche fra gli studenti (qualche episodio si trova rievocato nel recente volume che fa la storia del «Non Mollare»3); ma poi, per un lun3

Non Mollare (1925), riproduzione fotografica dei numeri usciti con tre sag-

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go periodo, vi fu una generale apparente acquiescenza al regime: non entusiasmo, ma rassegnata e scettica indifferenza. Neanche il partito comunista, colla sua organizzazione clandestina, poté penetrare tra gli studenti: credo che facendo una statistica dei processati dinanzi al Tribunale speciale, si vedrebbe che gli studenti erano una esiguissima minoranza. Ma via via, coll’aggravarsi del clima di asfissia che i giovani migliori avvertivano sempre più pesante, l’insofferenza si affacciò e si maturò dal didentro. Non era ancora la insurrezione politica, ma erano i primi sintomi della ribellione contro il conformismo. Chi non visse in Italia in quegli anni non può intendere quale fermento fu, per quei giovani irreggimentati nella milizia universitaria, la presenza eretica, che si respirava nell’aria, di Benedetto Croce. Continuavano a dirsi fascisti, ma erano già, dentro di sé, in polemica contro quell’immobilismo opprimente: quelli che arrivarono nell’Università degli ultimi anni del fascismo furono una generazione di scontenti e di delusi, agitati da casi di coscienza, incerti dell’avvenire, in cerca di sé. Il problema della libertà rinasceva dalle cattedre, anche da quelle che parevano soltanto di storia antica o di filologia classica o di filosofia; il problema della giustizia sociale riaffiorava nelle correnti meno frondiste del corporativismo; proprio certi movimenti letterari erano espressione di inconfessate crisi morali. L’ermetismo fu per molti giovani un tentativo di evadere dalla piatta volgarità del conformismo fascista e di salvarsi dalla goffa retorica del regime cercando rifugio in una pulizia di stili che servisse quasi da parola d’ordine degli iniziati ad una setta eretica. L’impresa abissina, colle aquile imperiali che tornavano a volare sui colli fatali di Roma, fu l’ultima fiammata di giovanili illusioni; poi venne il razzismo, a aprire gli occhi anche agli ultimi ciechi. Così nacque tra i giovani universitari, per bisogno di coscienza prima che per propaganda di partiti, un nuovo antifascismo, più attivo e risoluto di quello dei loro padri, in gran parte oratorio ed elegiaco, che era stato facilmente debellato dagli squadristi: e quando venne il momento della riscossa, furono questi universitari che sentirono il bisogno di andarsi a riunire, per combattere insieme la lotta comune, coi loro coetanei operai e contadini. gi storici di Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei, Firenze, La Nuova Italia, 1955.

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Fu la Resistenza a sciogliere nelle coscienze dei giovani i nodi delle loro angoscie: a ridare ai loro studi apertura, respiro e letizia. La lotta partigiana, nella quale si trovarono accanto nelle stesse formazioni giovani di tutte le provenienze sociali, non servì soltanto, come la prima guerra, a ridestare tra essi quel senso di solidarietà umana che il fascismo aveva distrutto, ma servì anche a dimostrare agli intellettuali la fragilità illusoria di certe gerarchie fondate soltanto sulla erudizione libresca e la sterilità di una cultura che non sia prima di tutto umanità, cioè espressione degli ideali di civiltà di tutto un popolo. Nelle formazioni partigiane accadeva spesso che capo fosse un «uomo senza lettere», uscito dall’officina o dai campi, e che gli intellettuali stessero ai suoi ordini, senza sentirsi umiliati, tra i gregari. La Resistenza servì a stabilire la scala dei valori umani: si vide che lo spirito di sacrificio, la fedeltà alla propria idea, la fermezza dinanzi alla tortura ed alla morte non sono un privilegio della cultura. La ritrovata consapevolezza della sorte comune che unisce la gioventù studiosa alla gioventù lavoratrice, costituisce, se non erro, l’apporto più prezioso che la Resistenza ha dato alla nostra cultura; la quale, senza per questo perder di vista i propri specifici fini, si è arricchita, attraverso questa esperienza, di nuova serietà e di nuovo fervore. In quest’ultimo decennio si è andato facendo sempre più vivo tra gli studiosi il senso della loro responsabilità sociale, e la consapevolezza che in questo nuovo umanesimo i problemi di cultura sono prima di tutto problemi di emancipazione umana. La novità più evidente della cultura italiana in quest’ultimo decennio è la apertura degli studi a tutte le correnti del pensiero moderno, da qualunque parte vengano, da occidente o da oriente: prima delle cortine politiche, che anch’esse ormai vacillano, sono in via di crollare le cortine della cultura. Ormai gli atti di un governo che vuole impedire a un letterato di visitare la Cina o a tre patologi di andare a studiare nel Giappone gli effetti della bomba atomica sull’organismo umano, si giudicano, qui in Italia, più che tirannici arbitrî, fanciullesche stoltezze; ma affinché siffatte stoltezze non trovino qui più alcuna giustificazione, è augurabile che anche nei paesi che prima si chiamavano d’«oltrecortina» la cultura occidentale torni ad avere libero ingresso, senza limitazioni e senza discriminazioni.

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L’apertura è non soltanto di barriere politiche in senso orizzontale, ma anche di barriere sociali in senso verticale. Nella narrativa, nel cinematografo, nella storiografia, perfino nelle scienze fisiche entra sempre più questa visione integrale della società; basta guardare, per accorgersene, il fruttuoso fervore con cui in questi ultimi anni i nostri giovani storici si sono dedicati di preferenza allo studio dei movimenti operai. Anche nelle scienze giuridiche si nota questo allargamento di interessi: il fiorire di studi di diritto costituzionale al quale ha dato impulso da noi il ritorno alla democrazia, i nuovi angosciosi problemi di diritto internazionale suscitati dalle armi nucleari, dimostrano ogni giorno non diciamo la corrispondenza del diritto e della politica, ma il carattere strumentale del diritto al di là del quale il giurista non può più ignorare la realtà sociale che preme e travalica attraverso le maglie delle formule legali. La scienza pura del diritto, di cui il Kelsen è stato il grande profeta, non è più sugli altari. Anche nella gioventù universitaria mi pare che sia entrato uno spirito nuovo. Considero un sintomo confortante il fatto che gli studenti si vadano sempre meglio addestrando, attraverso le competizioni goliardiche a tipo democratico, alla libera discussione politica, al colloquio civile tra le diverse opinioni; e mi par di buon augurio il fatto che essi rivendichino la responsabilità di discutere tra loro i propri problemi scolastici e professionali, e possano accorgersi così che alla sorgente del loro disagio di laureati in cerca del primo impiego si trovano le stesse carenze sociali e politiche da cui hanno origine la miseria e la disoccupazione delle classi lavoratrici: la ingiustizia sofferta da un operaio che vien licenziato dalla fabbrica solo perché è iscritto ad un partito politico di sinistra, non ha infatti natura diversa da quella che può toccare a un laureato, quando per lo stesso motivo si veda escluso (ma in questi ultimi tempi è spesso accaduto) da un concorso a un pubblico impiego o alla magistratura. Anche il problema della Università italiana è un problema di disoccupazione: gli studenti, ai quali oggi è possibile discutere liberamente della loro condizione, si accorgono per diretta esperienza che vi è qualcosa di guasto in una società dove gli atenei continuano imperturbabili a sfornare ogni anno migliaia di laureati a vuoto, che vanno ad accrescere senza speranza il proletariato dei disoccupati intellettuali. Proprio per questo oggi è en-

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trata anche nelle Università (ove cominciano ad essere sempre più numerosi, coll’aiuto delle borse di studio, i figli dei poveri) questa consapevolezza sempre più chiara di una comunanza di destino che fa della gioventù studiosa una delle sezioni della gioventù lavoratrice (della gioventù che vuole lavoro, perché sa che nel lavoro è l’unico titolo di dignità sociale). Non vale rimproverare che l’uomo di cultura sia oggi scaduto nella considerazione pubblica e che un mediocre leader politico (al pari di un campione atletico) sia stimato nell’opinione popolare più di un romanziere o di un professore universitario: invece di recriminare, è più sensato domandarsi se questo non sia proprio l’effetto a scoppio ritardato di quel divario tra la cultura e la realtà sociale che fu tipico del periodo fascista. Non scandalizziamoci dunque quando vediamo che gli studenti si occupano sempre più alacremente di politica, e che molti di essi, ancor prima di aver terminato i loro studi, si iscrivono nei partiti con preferenze per quelli di estrema sinistra. Forse i partiti opererebbero saggiamente, nel loro stesso interesse, se non invogliassero gli studenti a trasformarsi in «attivisti» col pericolo di distrarli dai loro doveri scolastici e se piuttosto esigessero da essi, come primo impegno di partito, di primeggiare negli studi; ma è certo che per i giovani migliori l’impegno politico è soprattutto un impegno di serietà, che innalza e riscalda il valore dello studio, e che ne accresce la gioia e il sacrificio. Nelle giovani generazioni alle quali è affidato il compito di creare il mondo di domani, gli studenti rappresentano lo spirito critico che non si appaga delle verità acquisite, la opposizione rinnovatrice, la resistenza instancabile di ogni totalitarismo dogmatico. Per questo io non mi allarmo se vedo i giovani affluire numerosi nei partiti che hanno nella loro ideologia dogmi che si dicono inviolabili: la libertà, operando dentro i partiti, corrode il conformismo: la storia giorno per giorno fa giustizia dei miti, logora i totalitarismi, giustifica, e magari glorifica, i deviazionismi. Si condannerebbero al declino sicuro quei partiti che credessero di poter imporre ai loro giovani gregari che portano nella politica il gusto del libero esame dato dalla cultura, la cieca adorazione degli idoli che hanno sempre ragione: com’è stato dimostrato dalla fine miserevole del fascismo, il quale, ancor prima di essere spazzato via dalla Resistenza, era crollato nella coscienza dei giovani, fucina sempre accesa dell’eresia e dell’anticonformismo.

CONGEDI Racconti di Franco Calamandrei

CONGEDO DAI GENITORI*

Francesco scende dal treno e la prima cosa che vede sono i soldati italiani sbandati fatti prigionieri dai tedeschi e ammassati sotto la tettoia della stazione in attesa evidentemente di essere deportati in Germania. Sdraiati per terra, con le uniformi in disordine, le facce scure di barba, disfatti dalla stanchezza, fissano di là dalla fila delle sentinelle, i viaggiatori che si affrettano verso l’uscita, guardando appena e furtivamente dalla loro parte, timorosi di compromettersi e preoccupati di quello che può aspettarli alla porta, come gente di un mondo estraneo e lontano. Nell’animo di Francesco, di colpo, a quella vista, gli avvenimenti che viveva da tre giorni come un sogno affannoso ma tuttavia confuso ed inverosimile, fu come se di colpo divenissero una realtà senza scampo. La sera dell’armistizio, a Venezia dove si trovava, aveva veduto marinai e soldati ubriachi per le calli, gridare insensatamente: “Morte a Mussolini! Viva Badoglio!”. La mattina dipoi, sulle banchine del porto, aveva veduto i cittadini contemplare inerti ed in silenzio le lontane colonne di fumo che si levavano dai mercantili incendiati dagli aerei tedeschi. E durante il viaggio aveva veduto gli sbandati che volevano tornare alle proprie case prendere i * Dattiloscritto inedito, dal titolo Congedo dai genitori (abbozzo), conservato nell’archivio di famiglia. Tra parentesi uncinate le parole cancellate. Differenti versioni di questo episodio si trovano in Franco Calamandrei, La vita indivisibile. Diario 1941-1947, Firenze, Giunti, 1998, pp. 142-143, e in Id., Le occasioni di vivere. Diari e scritti 1975-1982, Firenze, La Nuova Italia, 1995, pp. 239-246.

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treni d’assalto, ammucchiarsi gli uni sugli altri sul tetto dei vagoni, nei carri bestiame, vestiti degli abiti più ridicoli, seminudi pur di liberarsi dell’uniforme. Ma nulla quanto ora quegli italiani divenuti proprietà dei tedeschi, rassegnati alla loro sorte, mentre intorno gli altri italiani non potevano fare nulla per aiutarli, gli aveva dato immediato ed esplicito il sentimento della rovina che si era abbattuta sulla sua terra. Ed i propositi che in quei giorni istintivamente gli si erano sollevati dentro e ancora incerti e confusi avevano disposto di lui ricevettero ora a quella vista un impulso definitivo . Anche in lui tuttavia la preoccupazione che i tedeschi potessero fermare all’uscita tutti i viaggiatori represse lì per lì ogni pensiero. Volse gli occhi dai prigionieri ed accelerò il passo, cercando di vedere al disopra degli altri se all’uscita fosse predisposto qualche controllo. Infatti, piantati dinanzi ai cancelli, graduati tedeschi richiedevano a tutti i giovani i documenti. Quando fu la sua volta, con una certa trepidazione, Francesco mostrò la carta d’identità e il foglio di riforma. Dopo averli esaminati, il sergente, in cattivo italiano, gli domandò che cosa venisse a fare a Firenze. “È la mia residenza.” rispose Francesco, indicando l’indirizzo segnato sopra la carta. Il tedesco lo squadrò, poi, con una smorfia di disprezzo, gli restituì i documenti. Raccolta la valigia che aveva posato, Francesco, con un senso di sollievo, oltrepassò i cancelli e fu sulla vasta piazza in declivio fuori della stazione. Riempiendolo di luce, il sole del pomeriggio ne faceva risplendere l’asfalto e l’aiuola erbosa che gli si stendeva nel mezzo. In fondo, contro il cielo ancora appannato di calura nonostante il settembre si profilavano geometrici e nitidi l’abside ed il campanile di S. Maria Novella. Un suono di campane indistinto e monotono era diffuso nell’aria. Quella era la città di Francesco, la città dove era nato e cresciuto e dove era vissuto fino ai vent’anni. Dal capolinea del tram, fatto un centinaio di metri sulla via provinciale, Francesco prese il sentiero che, attraverso la pineta, saliva lungo il fianco della collina. Per un poco egli continuò a vedere, giù in basso, la striscia asfaltata della strada, dove gli autocarri tedeschi passavano quasi ininterrottamente, alla volta della città, riempiendo la piccola valle del loro fragore. Poi il sentiero voltò oltre un poggio, la via provinciale scomparve, nell’aria ri-

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mase soltanto il ronzare delle cicale ed il picchiettio sottile degli spaccapietre da qualche cava vicina. Il cielo, al di sopra dei pini, era carico di luce e senza una nube. Nelle immobili macchie di sole che coprivano il sentiero, ogni tanto, un ramarro s’inoltrava con brevi scatti e lunghe soste tranquille. Sui cespugli farfalle bianche s’inseguivano in coppie, libellule rimanevano sospese vibrando impercettibilmente le ali. E Francesco ad un tratto sentì come tutto quanto aveva vissuto in quei giorni, tutti i suoi propositi, rischiassero di apparirgli distanti e assurdi in quella noncurante calma della natura. L’indifferenza che lo aveva per tanto tempo avviluppato, tutta la cedevole inerzia, la viltà del passato erano ancora lì, in fondo all’animo, pronta a cogliere ogni pretesto per riprendere il sopravvento ed inghiottire la sua decisione. Ansiosamente egli allora si ripeté i motivi che lo avevano spinto lassù, per accertarsi che non avessero perso nulla della loro forza. Si ripeté le parole che doveva dire al padre e alla madre, sforzandosi di sperare che essi le troverebbero persuasive, che se ne sarebbero lasciati convincere, che non gli sarebbe toccato resistere alle proteste aspre o imploranti del loro irragionevole affetto. Tuttavia, quando il sentiero in cima alla collina uscì dalla pineta nei campi e tra i filari comparvero le candide mura della villa, Francesco si sentì crescere in cuore la trepidazione, più forte d’ogni pensiero, quasi infantile. La viottola lo condusse lungo il muro di cinta: dall’interno non si udiva nessun rumore se non il verso chioccio delle galline, a tutte le finestre della facciata le imposte ancora erano chiuse . Trovato il cancello socchiuso, Francesco dolcemente lo spinse ed entrò nel giardino. Ai suoi passi esitanti sulla ghiaia una voce femminile chiese di tra le aiole: “Chi è?”, poi subito esclamò festante il suo nome. Era la cugina: posati per terra i fiori che stava cogliendo, corse incontro a Francesco e lo abbracciò. “Ti si aspettava già da cinque giorni.” – disse – “Menomale che sei arrivato... Da ieri si cominciava ad essere molto inquieti. È vero che fermano i treni e portano via tutti gli uomini?”. “Solo chi non ha i documenti militari in regola, per ora. Io ho mostrato il foglio di riforma, e mi hanno lasciato andare.” rispose Francesco, e domandò impaziente: “Il babbo e la mamma dormono ancora?” “Lo zio no.” – disse la cugina – “È sveglio da

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un pezzo. È in camera, credo che stia ascoltando la radio. Vieni” e lo accompagnò dentro la villa. La fresca penombra della casa, l’ordine e l’intimità dell’arredo, il discreto tic-tac della pendola in fondo all’ingresso rinnovarono in Francesco lo scoramento che poc’anzi gli aveva dato l’assolata quiete della campagna. Ma fu un attimo: il suo animo era troppo teso verso il colloquio ormai imminente col padre perché un qualsiasi sentimento potesse più che sfiorarlo. Seguendo la cugina egli traversò la stanza da pranzo, il passaggio addetto ad armeria, alle cui pareti due fucili da caccia pendevano insieme a vecchi archibugi, giunse alla scala. Un gatto, che dormiva sul primo gradino, si destò di soprassalto e fuggì via tra le loro gambe. Salirono quasi in punta di piedi e come furono ad una delle porte del pianerottolo, la cugina bussò . Dall’interno la voce del padre rispose “Avanti.”, e Francesco entrò. Seduto di fronte ad una piccola radio posata sul tavolino, con la cuffia alle orecchie, il padre volgeva verso la porta la sua faccia corrugata e scontrosa. Ma come vide Francesco, gli occhi gli si illuminarono di un vivo sorriso, si alzò togliendosi con un brusco gesto la cuffia e baciò il figlio sulle due guance. “Quando sei arrivato?” gli chiese rimettendosi a sedere e fissandolo con uno sguardo in cui l’affetto e la gioia ancora vincevano l’abituale ruvidezza. “Ierisera.” – rispose Francesco – “Immaginavo che dal mare foste venuti via e pensavo di trovarvi a casa... Poi il portiere mi ha detto che eravate quassù dalla zia.”. “È stato per il pericolo dei bombardamenti.” – disse il padre – “Ma tu” – aggiunse – “come hai viaggiato? Non hai avuto fastidi?” “A Bologna i tedeschi hanno circondato il treno ed hanno chiesto le carte a tutti, uno per uno. Cercavano i soldati sbandati... Solo nel mio compartimento ne hanno pescati tre. Uno, mentre lo portavano via, piangeva come un bambino. Pare che li mandino in Germania... È una cosa terribile.” “Che disastro” – fece il padre – “Povera Italia...”. Vi fu un breve silenzio. “Che dice la radio?” riprese Francesco. “Dice che gli alleati da Salerno si avvicinano a Napoli ... E che a Roma le truppe italiane hanno cessato la resistenza... Ma si riesce a capire pochissimo , il disturbo è continuo.” Di nuovo si trovarono in silenzio. Francesco si avvi-

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cinò alla finestra, guardò appena l’ondulato paesaggio delle colline, si rivolse a guardare intorno la stanza spaziosa, l’alto letto a baldacchino, il cassettone di mogano su cui erano stati posti libri e carte del padre. “Stai comodo qui” disse. “La zia ci ha dato le sue camere migliori.” – fece il padre – “Quella della mamma è di fronte. Ora andremo a svegliarla. Per te credo abbiano sistemato un letto giù in salottino...” ed alzatosi si avviò verso la porta. Francesco abbassò gli occhi. “Ma sai,” – disse, dopo un istante di esitazione non si mosse e: – “Io non rimango...” Il padre, che già stava per aprire la porta, si voltò con aria di sorpresa e di irritazione. “Ma come!” – fece – “Non ti sei messo d’accordo, all’ufficio prima di partire? Avrai chiesto un permesso, un’aspettativa...!” “Non è per l’ufficio.” – disse Francesco, cercando di parlare con il tono più naturale e pacato possibile – “Non rimango perché ho degli impegni per i quali devo subito ripartire per Roma.” “Degli impegni? Il padre era tornato in mezzo alla stanza e fissava il figliolo, senza più alcuna cordialità nel viso accigliato. “Che impegni?” insisté. “Devo incontrare a Roma degli amici e con loro decidere quel che c’è da fare.” – rispose Francesco – “Forse cercherò di passare la linea del fronte...” “Ma è una pazzia!” – scattò il padre, alzando le mani in un gesto di collera – “Passare le linee! E poi, con la tua salute! Voler rischiare la vita, così, a che scopo? I tedeschi sono i più forti, non c’è nulla da fare contro di loro. C’è solo da aspettare che arrivino gli altri. L’unico dovere, in questa sciagura, è di rimanere uniti, ognuno insieme ai propri cari, tu con me e con la mamma.” Parlando, gli era salito il sangue alla faccia, la sua voce gli era divenuta affannosa, carica di quella disperata ostinazione che Francesco vi aveva sentito tutte le volte che qualche suo proposito aveva minacciato le gelose consuetudini della famiglia, la tenace conservazione dei legami domestici. Era come l’accanita difesa di un ordine stabilito, una cieca paura di mutare e di soffrire, di fronte a cui in passato il figlio si era sempre perso d’animo ed aveva ceduto. “Mi dispiace” – ribatté Francesco, e una struggente fatica gli pesava sul cuore – “ma non sono d’accordo con te. Penso che il mio dovere, in questo momento, sia di fare qualcosa... Non credere, ho riflettuto molto prima di risolvermi a darvi questa pena. Ma non potevo proprio risparmiarvela... E ormai ho deciso.” “Ti

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rendi conto” – fece il padre –“che la mamma ne potrebbe anche morire?” La frase fu così melodrammatica che Francesco per poco non sorrise. Cercò tuttavia una risposta che non suonasse ironica e che riportasse il colloquio ad un tono ragionevole. Ma non trovò altre parole che queste: “Anche Cristo, quando si sentì chiamato, non si curò della madre.”, e già mentre le diceva, avvertendone tutto il ridicolo, se ne vergognò. Toccò al padre sorridere, con una espressione di superiorità e di sarcasmo. “Bravo!” – disse – “Una bella frase, una frase storica, davvero! Ma non vedi che hai perso la testa, che è solo tutta un’infatuazione? Una delle tue solite infatuazioni letterarie...”. Questo amaro richiamo del padre ai loro attriti passati ridestò in fondo all’animo di Francesco tutti i risentimenti. Ma egli riuscì a dominarli e, chinato il capo, fece due o tre passi per la stanza, in silenzio. “Ma perché non dobbiamo mai riuscire a capirci?” – riprese poi, con intonazione conciliante e accorata – “Perché non vuoi ammettere mai che quello che io penso e faccio abbia dei motivi serii, non sia solo un capriccio? Se potessi parlarti come a un amico, forse saprei spiegarti che cosa sia per me, per i giovani come me, per la mia generazione, quello che sta succedendo. È un’occasione che non tornerà più, che non possiamo lasciarci sfuggire ... Finora abbiamo vissuto senza credere in nulla, tutto quanto ci accadeva d’intorno ci rimaneva estraneo, il senso ce ne sfuggiva, sembrava che nessuno avesse bisogno di noi... Ora invece, ad un tratto, è come se per noi si fosse aperta una strada, ci viene posto dinanzi qualcosa che possiamo fare meglio di chiunque, possiamo essere utili ad altri uomini...” “È questa la tua ingenuità,” – interruppe il padre – “la tua illusione... Perché non c’è nulla da fare, tutto è inutile ormai. L’Italia è rovinata, è un campo di battaglia...” “Non è affatto un’illusione!” – replicò Francesco, sicuro di quel che diceva – “Ne ho già avuto la prova . Avresti dovuto vedere che cosa significava, per gli sbandati che arrivavano da Trieste e dal Friuli, il nostro aiuto: gli abiti civili che gli si procuravano, il nascondiglio che gli si dava la notte perché non incappassero nelle pattuglie tedesche, i pochi soldi che si erano raccolti per farli arrivare fino a casa... E i manifestini che abbiamo diffuso per la città, in risposta a quelli fascisti che annunciavano il ritorno di Mussolini... La gente li prendeva dalle nostre mani, li leggeva, ed erano idee che entravano nelle loro teste, a combattere con le falsità dei fascisti, a chiarire un poco la confusione...” “In-

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somma,” – fece il padre, con accento di nuovo sarcastico –“sei diventato un uomo politico.” Ma questa volta Francesco non gliene volle: capì che era solo un atteggiamento, che il padre in realtà, di fronte alla sua sicurezza, almeno momentaneamente si dava per vinto; e ne provò, sia pure fuggevole, un senso di pietà affettuosa. “Perché dici così?” – riprese – “Che c’entra uomo politico? Ciò che conta è che io mi senta la coscienza tranquilla come non era mai stato. Gli uomini che mi è capitato di avvicinare nelle ultime settimane, quelli che mi hanno aperto gli occhi e mi hanno fatto capire tante cose, sono così onesti ed interi come non ne avevo mai incontrati. Uomini che sono stati anni e anni in carcere per un’idea. Se tu li conoscessi saresti contento anche te che li abbia per amici...” Il padre si sedette, e si appoggiò alla spalliera con aria stanca. “Fai quel che ti pare. Hai ventiquattr’anni, sei maggiorenne, io non te lo posso impedire. Ricordati però che dai un grande dolore a me e alla mamma, un dolore che alla nostra età non ci meritavamo... Vai dalla mamma, ora, si sarà svegliata.” Francesco si incamminò verso la porta. “Non dirle che vuoi passare le linee.” – soggiunse il padre, senza voltarsi – “Dille semplicemente che vai a Roma.” “Si capisce.” Disse Francesco, ed uscì. Indugiò un momento sul pianerottolo, come riprendendo respiro. Del colloquio col padre, ora che era finito, gli rimaneva soltanto un senso di arrovellio, l’avvilente confusione delle parole superflue; e il dover ricominciare da capo con la madre, per quanto in modo diverso, gli costava un grande sforzo. Tuttavia si decise, e bussò leggermente alla porta. “Sì, avanti!” – rispose, limpida, la voce della madre. E siccome Francesco non riusciva a far funzionare la maniglia, si udì un passo rapido e soffice avvicinarsi alla porta, essa si aprì dall’interno, e la madre comparve sulla soglia. Aveva, come sempre usava al mattino, i grigi capelli avvolti in un fazzoletto di velo, ed un’ampia vestaglia scura a piccoli fiori bianchi le scendeva fino ai piedi. Esclamando con tenerezza il nome di Francesco lo abbracciò stretta e lo baciò più volte , e lo trasse verso la finestra, dove il sole splendeva attraverso le persiane socchiuse. “Ho indovinato che eri tu quando ho sentito bussare.” – disse – “Fatti un po’ vedere, caro figliolo mio... Beh, non sei tanto magro...” Carezzevolmente gli passò la mano sulla testa e sulla

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guancia, ed ancora una volta lo baciò. Francesco, impacciato, si sforzava di sorridere a quelle effusioni, e intanto uno sconforto profondo, un sentimento come di colpa gli affiorava nel cuore. C’era infatti nella madre, nel suo viso già segnato dalle prime pieghe della vecchiaia, nei suoi dolci gesti di affetto, qualcosa di così tanto indifeso ed ignaro che sembrava veramente ingiusto deludere la sua gioia ed addolorarla. Per prendere tempo, alle domande che essa gli fece circa il suo viaggio, preoccupata di capire se si fosse affaticato, se in treno avesse sofferto il caldo, se avesse mangiato abbastanza. Poi, a sua volta, Francesco le chiese come lei ed il padre avessero lasciato la villa al mare ed essa glielo raccontò con le lacrime agli occhi nel ricordare l’arroganza dei tedeschi quando avevano preso possesso della loro casa e li avevano cacciati. “Ma se Dio vuole” – concluse – “siamo sani e salvi, e ora siamo tutti uniti, questo è l’importante.” Si era seduta alla toilette, e toltasi il velo d’intorno ai capelli, cominciò a pettinarsi. Francesco le andò dietro la sedia, le mise le mani sulle spalle, la carezzò intorno al collo; fissando il muro, al di sopra dello specchio dove essa gli sorrideva compiaciuta, finalmente le disse: “Però, mamma, io debbo subito ripartire.” La madre, rapida, si girò desolata e supplichevole in viso: “Perché, Francesco mio?” – chiese “In questi momenti, c’è bisogno che tu torni in ufficio? Scrivi una lettera, trova una scusa qualsiasi ” “L’ufficio l’ho già lasciato” – disse Francesco, e provava acuto pungente il rimorso di parlarle così, in tono ostentatamente sereno e dissimulando, come ad una bambina – “Si tratta di un’altra cosa, Devo andare a Roma: un editore mi ha offerto un lavoro di traduzioni a stipendio... Da un pezzo era il mio desiderio, lo sai. Non posso rinunciare.” Per alcuni istanti la madre restò silenziosa: guardando triste e perplessa dinanzi a sé, con le mani, macchinalmente, si appuntava i capelli. “Il babbo che dice?” – domandò infine – “Gliene hai parlato?” “Anche lui, certo, non è stato contento...” – fece Francesco – “Ma si è rassegnato. Sarebbe sciocco rifiutare questa occasione...” “Io non dico che tu debba rifiutare...” – riprese la madre, esitante, e come se temesse di irritarlo – “Ma non potresti, almeno per ora, fare qui il tuo lavoro? Saresti tranquillo... avevamo già preparato il letto e il tavolo nel salotti-

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no... I libri che ti servono li manderemmo a prendere giù in città...” “No, mamma” – la interruppe in fretta Francesco, non è proprio possibile. È necessario che parta... Poi, lo sai, qui, lontano dalla gente, non resisterei, mi sentirei soffocare...” “Se fosse solo per questo” – disse la madre – “potresti anche un poco sacrificarti per noi... Tu sapessi che angoscia era diventata per me, negli ultimi giorni, non averti vicino. Non facevo che affannarmi ad immaginare che cosa potesse succederti in mezzo a questo sfacelo... Dovere stare di nuovo divisi, ora, sarà una gran pena...” e scosse sconsolata la testa. Francesco camminò su e in giù per la stanza, stringendosi le mani nervosamente: “Mamma” – fece – “per piacere, non insistere. Se fosse possibile, credi, ti accontenterei.” E non fu un modo di dire: alle preghiere della madre l’affetto gli andava di nuovo insinuando nell’animo la sua morbida soggezione, il suo senso antico di abbandono e di inerzia, e quasi egli si scopriva a rimpiangere di non poter rimanere. Ma in quel momento la porta venne d’improvviso spalancata e il padre entrò nella stanza. Il suo aspetto era così pieno d’ira e aggressivo che per un attimo il figlio ne fu spaventato. Evidentemente egli era stato in ascolto dietro alla porta: forse aveva sperato che la madre riuscisse a dissuadere Francesco e il fatto che questo non accadesse aveva esasperato di nuovo i suoi sentimenti spingendolo ad intervenire. “Vedi,” – disse, rivolgendosi al figlio, con voce che era tornata ostile ed ansimante – “tu sei soltanto un egoista, non sei mai stato nient’altro. L’unica cosa di cui tieni conto sono le tue ubbie, il tuo porco comodo. Di me e della mamma, dei nostri desiderii, delle nostre sofferenze per te, ti sei sempre infischiato”.

CONGEDO DA GIDE*

L’opera di André Gide ha avuto troppa parte nella formazione di più d’uno di noi, giovani letterati cresciuti sotto il fascismo, perché nell’esame di coscienza impostoci ora da tutto quanto è ac* Dattiloscritto inedito, dal titolo Congedo da Gide, conservato nell’archivio

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caduto all’Europa e all’Italia non le debba essere dedicato un capitolo. Direi di più: il capitolo sopra André Gide può finire per essere il capitolo fondamentale del nostro esame, quello nel quale si colga dei nostri errori passati la più profonda sostanza. Non per nulla della cultura europea che precedette questa guerra ed in [cui] essa ha trovato la sua crisi e la sua conclusione Gide veniva riconosciuto ed esaltato come il rappresentante maggiore. Vogliamo dunque qui accennare quali potrebbero essere i motivi di un discorso su di lui considerando brevemente che cosa la sua opera significò per noi e che cosa essa possa significare. L’esausta società borghese che ci aveva allevati non aveva saputo darci altra morale che un confuso groviglio di ambiguità, pregiudizi, falsi pudori, formule generiche e vuote. Non ci aveva dato una religione, perché credere in Dio, nell’aldilà, nel peccato, avrebbe voluto dire per lei accettare un codice ed un tribunale di cui la sua mancanza d’umiltà la rendeva sdegnosa; non ci aveva dato una fiducia nella vita come compiuta sorte dell’uomo, perché il suo ottuso raziocinio la rendeva incapace di intenderne la logica e la giustizia, e la sua pusillanimità di affrontarne i doveri più duri e più dolorosi; con il prossimo non ci aveva insegnato a comunicare su un terreno di istintività e naturalezza, ma attraverso vanità, reticenze, sospetti, secondo un calcolo ormai automatico di opportunità e convenienze; di tutti i sentimenti ci aveva podi famiglia. Una variante più lunga, dal titolo Commiato da Gide, è conservata nello stesso archivio e da essa è stata tratta la traduzione dei brani in francese. La prima elaborazione del Congedo da Gide è del marzo 1945: «Vi manderò prestissimo il Congedo da Gide», scrive Calamandrei a Romano Bilenchi il 28 marzo 1945; e il 10 aprile 1945 Franco rinnova la promessa – che resterà inevasa – di inviare l’articolo su Gide per il primo numero della rivista «Società»: «Mi dispiacerebbe arrivare in ritardo con il Gide: vorrei proprio che uscisse nel primo numero. È una presa di posizione a cui, entro i suoi limiti, tengo, e tengo venga letta a Firenze, da certi amici il cui linguaggio purtroppo, in qualche lettera che scrivono o articolo che pubblicano qua, sta diventando senza rimedio incompatibile con il nostro. Se già state impaginando, ed io non ce la facessi a spedirvi il Gide oggi, cercate di tenermi libero lo spazio. Calcolate per sei, sette cartelle dattiloscritte, della natura di un breve discorso su Gide in generale, più che di una recensione particolare al Journal» (in Dodici lettere inedite di Franco Calamandrei a Romano Bilenchi, «Autografo», a. XVII, n. 42, gennaio-giugno 2001, pp. 132-134). Pensò di riprenderlo per «Il Politecnico» nel 1946 – vedi la lettera di Franco Calamandrei alla moglie del 3 luglio 1946 – ma la rivista venne presto chiusa e il testo rimase inedito.

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sto innanzi un’immagine alterata, o nella migliore delle ipotesi sbiadita e consunta, come un oggetto trasmesso di mano in mano, di cui fossero andati perduti l’origine ed il valore. Quando, nelle prime inquietudini giovanili, cominciammo ad interrogarci sulla nostra condizione, ci avvedemmo perciò che la norma nella quale si era stati educati non era fondata in nulla di autentico e di reale, e non avrebbe potuto fornire alcun senso alla nostra esistenza. Fu una scoperta dell’intuito, molto più che della riflessione: avvertimmo indistintamente che la vita si svolgeva al di fuori di quel mondo immobile di abitudini a cui le pareti domestiche ci tenevano vincolati, e che tra essa e noi, come ci eravamo formati, nessuno scambio correva, nessuna armonia. Fu una scoperta ingenua ed irrazionale, tanto più penosa per questo, e per questo tanto più stringente destò in noi la necessità di trovare all’isolamento un’uscita. Sarebbe stato saggio cercarla pazientemente, aspettando di avere lucidi i termini del nostro disagio, in modo da sostituire alla morale fittizia che avevamo ricevuto l’ordine genuino della esistenza. Invece, così menzognera ed intollerabile ci appariva oramai la norma famigliare, così ansiosi eravamo di sentirci d’interno il calore del prossimo che ci convincemmo non poterci essere norma se non artefatta, e ci gettammo senz’altro e a casaccio in mezzo alla vita, decisi a prendere tutto quanto ci offrisse, e sicuri che fosse quello il modo migliore per divenire partecipi della sua verità e del suo moto. Su questa ingannevole strada Gide ci fece da guida e da esemplare maestro. «Que de fois, que de fois j’ai fait ce geste, comme en un cauchemar affreux où j’imaginais le ciel de mon lit, détaché, tomber, m’envelopper, peser sur ma poitrine – et presque debout, lorsque je me réveillais – pour repousser de moi, à bras tendus, quelques parois invisible – ce geste d’écarter quelqu’un dont je sentais trop près de mois l’impure haleine – de retenir à bras tendus des murs qui toujours se rapprochent, ou dont le pesante fragilité branle et chancelle au-dessus de nos têtes; ce geste aussi, de rejeter des vêtements trop lourds, des manteaux, de dessus nos épaules. Que de fois, cherchant un peu d’air, suffocant, j’ai connu le geste d’ouvrir des fenêtres – et je me suis arrêté, sans espoir parce qu’une fois, les ayant ouvertes... [...] j’ai vu qu’elles donnaient sur des cours – ou sur d’autres salles voûtées – sur des cours misérables, sans soleil er sans air – et qu’alors, ayant vu cela, par détresse, je

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criai de toutes mes forces: Seigneur! Seigneur! nous sommes terriblement enfermés! – et que ma voix me revint toute entière de la voûte»1. Con quale commozione, aperto il libriccino Paludes2, in questa ed in molte altre pagine trovammo espressa la pena che ci opprimeva, la nostra insofferenza, il nostro bisogno di raggiungere ad ogni costo l’aria libera ed una naturale convivenza con gli uomini! Ad alta voce rileggevamo il sonoro «Seigneur! Seigneur! nous sommes terriblement enfermés!», ripetendolo come una sfida alle candide mura della nostra camera, sulle quali si profilavano inerti le sagome consuete dei mobili, depositari della casalinga e gelosa quiete borghese. Poi, le Nourritures terrestres3 ci resero chiaro e evidente il cammino su cui ci eravamo avviati. “Ne souhaite pas, Nathanaël, trouver Dieu ailleurs que partout”. Ed ammirammo come l’insegnamento prendesse figura, in Lafcadio4, con il suo spigliato vagabondare, nell’Edouard dei Faux-Monnayeurs 5, con il suo sperimentare incessante e sagace; mentre sul loro esempio la nostra illusoria libertà imparava ad articolarsi ed a presumer di sé. Ma il testo a cui più volentieri si tornava era il Journal 6. Lo assaporammo da capo a fondo, nel suo mezzo secolo di estensione, appassionandoci allo spettacolo di quella vita di1 «Quante volte, quante volte ho fatto il gesto, come in un incubo orribile in cui immaginavo il cielo del mio letto, staccatosi, cadere, avvilupparmi, pesarmi sul petto – e quasi in piedi, quando mi svegliavo – per respingere da me, a braccia tese, qualche parete invisibile, il gesto di allontanare qualcuno di cui sentissi troppo vicino l’alito impuro – di trattenere a braccia tese dei muri che continuano ad avvicinarsi o con pesante fragilità tentennano e vacillano sopra le nostre teste; il gesto anche, di gettar via degli abiti troppo pesi, dei mantelli, di sopra alle nostre spalle. Quante volte, cercando un poco d’aria, soffocando, ho conosciuto il gesto di aprire delle finestre – e mi sono fermato, senza speranza, perché una volta, avendole aperte... ho visto che davano su dei cortili – o su altre sale a volta – su dei cortili miserabili, senza sole e senza aria – e allora, veduto ciò, per l’angoscia, gridai con tutte le mie forze: Signore! Signore! siamo terribilmente rinchiusi!». 2 Il libro – pubblicato nel 1895 – è una satira degli ambienti intellettuali parigini; si presenta come il diario di un letterato che vive in una palude, nutrendosi di vermi, incapace di uscire dalla sua situazione di passività. 3 Pubblicato nel 1897, è una raccolta di racconti, riflessioni ed esortazioni a gustare i piaceri della vita e liberarsi dalle costrizioni della morale e della società. 4 Lafcadio Wluiki è il protagonista del romanzo Les Caves du Vatican (1913). 5 Romanzo, fu pubblicato nel 1925. 6 André Gide, Journal 1989-1939, Paris, Editions de la Pléiade, 1939.

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Parte seconda. Scritti

sciplinatamente abbandonata alle occasioni, condotta in una avventura instancabile a saggiare con ogni pretesto le possibilità della coscienza. Rispondere a quel modo a tutti gli inviti, seguirli finché offrissero ai sensi ed alla ragione qualche sospetto di novità, ritrarsene non appena fossero per divenire una abitudine nota, e di tale peripezia tenere di continuo il lucido bilancio nell’intelletto, ci pareva non potesse darsi ad un uomo più consapevole impiego della propria energia, più generosa ed essenziale partecipazione alla realtà7. “Chiunque vorrà salvare la sua vita la perderà, e chiunque l’avrà perduta la rigenererà”: credevamo davvero che saper perdere la propria vita, saperla rigenerare, volesse dire quello che Gide ci proponeva, una premeditata ed attenta dissipazione. Così, non ci fu un richiamo che lasciammo inascoltato, purché permettesse di scoprirci in noi stessi o negli altri qualcosa; conoscemmo come una smania quella paura di scegliere che già il nostro maestro aveva dichiarato; rimbalzammo da un esperimento nell’altro, contenti solo se ci sentivamo l’animo segnato e pesante di cronaca. Tutto si equivaleva, per la nostra avidità: una donna, un colore del cielo, il primo annunciarsi delle stagioni, una strofa, il fragore della città e della gente, gli oscuri recessi del vizio; tutto importava egualmente, se serviva ad alimentare in noi l’inganno che non eravamo più soli, ma inseriti nella mobile vicenda del mondo. Anche il fascismo poté facilmente abbagliarci, per quello che la sua esteriorità presentava di avventuroso e di unanime. Non mancò tra noi chi andò volontario a combattere in Africa, chi applaudì alla guerra di Spagna, e con gli occhi luccicanti di gioia si mischiò alle folle durante le grandi adunate, persuaso e felice di

7 Così scriveva Franco Calamandrei a Franco Fortini, in una lettera da Roma, il 3 aprile 1940: «Carissimo Franco, ricevo, spedita dal custode della Nazionale Mario Bertelli che l’ha trovata sopra un tavolo della sala di consultazione, la tua cartolina dove mi chiedi qualche notizia circa l’atto gratuito gidiano. [parola illeggibile, foglio bucato, NdC], questo concetto rappresenta l’estrema ambizione di quello spirito d’avventura che mi sembra essenziale del personaggio Gide. Non solo trarre tutto il partito da tutti gli spunti che la vita offre all’azione, ma crearsi da sé degli spunti, esser capaci di iniziative assolute – nel senso in cui si dice “ablativo assoluto” – di azioni senza radici nella realtà che abbiamo traversato fino al momento di concepirle. Per il piacere della peripezia, per vedere fin dove si arriverà», in Archivio Franco Fortini (Siena).

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“essere in armonia”. Fummo veramente una “oisive jeunesse, a tout asservie”. Pur nondimeno Gide non ebbe in noi che dei mediocri discepoli. Quella sua prodigiosa abilità di non essere mai, come egli dice, dove lo si potrebbe cercare, quel suo sapersi distaccare dai propri oggetti prima che non siano più una sorpresa, rimase un’arte per noi inimitabile. Ed a ciò si dovette la nostra salvezza. Perché, se fossimo riusciti quanto lui agili “avventurieri”, se avessimo trascorso di occasione in occasione come lui con accorta prontezza, senza mai affondare il piede, molto probabilmente ci saremmo come lui appagati di quel miraggio di vita, senza mai avvederci della desolata cenere stesa sotto il nostro cammino. Invece, ogni nuova situazione perdurava per noi fino a trasformarsi in indugio, ci tratteneva e invischiava, ci consumava e disfaceva nell’animo, assumendo un sapore disgustoso di tedio. Allora, dinanzi alla coscienza in ritardo, prima che riprendesse il suo vagare frenetico, si aprivano dei vuoti di disperazione, dove inutilmente cercava un appiglio. Sempre più di frequente simili fratture incrinarono le nostre giornate, si allargarono, e venne il momento in cui, guardatici intorno, ci trovammo in mezzo a un deserto, e tutta la sovrabbondante realtà che ci era sembrato di accumulare ci apparve uno squallido pugno di incoerenti e colpevoli vicissitudini.

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IL MIO INGRESSO NEL PARTITO*

Ottobre 1943, a Roma. Da due o tre settimane ero riuscito a prendere un contatto periferico con l’organizzazione comunista. Con questo scopo ero venuto a Roma (abbandonando, senza neppure un cenno di saluto, un solitario impiego di archivista di Stato a Venezia che la drammatica rottura dell’8 settembre mi aveva fatto sentire per me definitivamente assurdo): perché amici che supponevo più vicini ai comunisti mi aiutassero a collegarmi con quel partito nel quale contavo di trovare la risposta più decisa alla mia richiesta ormai assillante di essere attivo, di fare e di lottare insieme agli altri, dopo troppi anni di antifascismo inerte, consumato dell’ironia intellettuale, soltanto negativo. La risposta, per tramiti che la mia impazienza avrebbe voluto molto più rapidi, era tuttavia venuta: lavorassi in un settore della città a cavallo tra i Parioli e il quartiere popolaresco intorno a Porta Pia, ai compiti che via via mi sarebbero stati indicati. Si era trattato di trasportare pacchi di stampa clandestina, di uscire in silenziose squadre con pennelli e barattoli di vernice a scrivere sui muri le parole d’ordine della Resistenza, e poi di ritirare da una cantina, gonfiandosene gli impermeabili, le prime armi per le azioni gappiste da iniziare nella città. Erano impegni ognuno dei quali già in se stessi mi si presentava con un senso definito ed una compiutezza, bastante a dare al mio bisogno ansioso ed elementare di attivismo * Dattiloscritto inedito, senza titolo, conservato nell’archivio di famiglia.

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come certezza pratica di partecipazione civile e patriottica, di scelta netta del giusto contro l’ingiusto, che non avevo mai provato. Ma un giorno, all’appuntamento consueto del mattino, mi venne affidato un compito che capii subito essere considerato più responsabile. Mi furono consegnate alcune pagine fittamente ciclostilate, che dovevo studiare per poi riferirne e farne discutere il contenuto ad una riunione quella sera. Gualcite e piene di segni a matita, si vedeva che erano già passate attraverso parecchie mani. Ricordo ancora l’avidità con cui le lessi e rilessi, e lo sforzo che feci per afferrare il significato di ciò che esse mi chiedevano di comprendere a fondo. Vi si spiegavano il senso e il valore della politica di unità nazionale antifascista, la linea unitaria che i comunisti italiani avevano elaborato e attuato senza posa e che ora giungeva con la Resistenza a un momento culminante di conferma e ad uno sviluppo decisivo. La lotta a cui ero stato ammesso a partecipare importava dunque non solo in quanto giorno per giorno infliggeva colpi al nemico ma in quanto, isolando il nemico, tendeva a raccogliere nel proprio alveo, sulla base dei comuni obiettivi antifascisti e nazionali, il più largo schieramento di forze politiche e sociali diverse. Il partito nel quale militavo non solo esprimeva la classe più risoluta a combattere e distruggere l’ingiustizia mostruosa del fascismo ma di quella classe rendeva consapevole la capacità storica di creare le condizioni per la ricostruzione e il rinnovamento nell’interesse di tutto il popolo e con tutte le forze del popolo italiano. La riunione, alla sera (nell’unica stanza di un artigiano di via Alessandria, lui e la moglie, altri artigiani, un tranviere, un bottegaio, cinque o sei compagni su due sedie e sul letto) fu lunga e animata. Non era facile per nessuno di noi portare al livello di quella visione unitaria, di quell’organico disegno politico e storico che il partito ci proponeva, i moventi istintivi che, in vario modo, da varie provenienze di classe, avevano sospinto la nostra rivolta. Fu solo un primo passo nell’acquisizione della linea che ci veniva chiarita. Ma quella riunione resta nondimeno nella mia esperienza politica un punto fermo, una tappa significativa, un esempio di come, fino dai primordi e nel vivo della Resistenza, il partito comunista chiedesse ai suoi militanti, al di là della quotidiana battaglia contro l’oppressore, un impegno democratico di discussione, di riflessione e di maturazione per gettare nelle proprie coscienze le fondamenta di una nuova Italia.

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Parte seconda. Scritti GIANSIRO FERRATA SE NE VA*

I° febbraio 1949. Ferrata è entrato ieri sera nella mia stanza al giornale, con un sorriso di estenuata cordialità. (Nel pomeriggio Ennio [Lauricella] mi aveva già avvertito della decisione di Ferrata di inviare a Alberganti1 la lettera di dimissioni). – Come va? – Ho passato un periodo duro e difficile. – Perché? Per il cambiamento di casa? – No, per i miei problemi... politici. È stato duro, ma finalmente ho risolto. – In che senso? – Uscendo dal Partito. Ah, veramente tu non puoi sapere che cosa voglia dire portare il lutto del partito comunista, essere un ex comunista. Ho sofferto molto, nella mia vita, ho rinunciato alla donna che amavo, ho avuto altre perdite, ma per nessun distacco ho sofferto quanto per questo. Ma ora mi sento meglio, mi sento finalmente semplice, naturale... – Per forza, è cessato in te ogni sforzo, ti sei riadagiato su quello che eri, per forza ti senti meglio, è il meglio della pigrizia, della rinunzia. A me la tua condizione, tutte queste tue tortuosità, questo chiamare semplicità ciò che è più lontano dalla semplicità (la “semplicità” gidiana!), mi sembra orribile. – Ecco! Che cosa non è orribile per te, per il Partito? Tutto quanto non è il Partito è orribile. È per questo che io ne sono uscito. Perché non posso sopportare questa posizione di continua lotta in cui vive il Partito, questo star sempre con le armi puntate contro l’avversario, questo insolentire tutti. Io sono diventato comunista nel 1936 (!?) quando il comunismo era una cosa larga, aperta, a cui potevano aderire Gide, Breton, Malraux, quando essere comunisti significava soprattutto essere antifascisti2. E poi, * Dattiloscritto inedito, senza titolo, conservato nell’archivio di famiglia. 1 Giuseppe Alberganti (1898-1975), ferroviere, aderì al Pci sin dalla fondazione, partecipò alla guerra di Spagna e alla Resistenza, fu il primo segretario della Camera del lavoro di Milano dopo la Liberazione; nel 1948 sostituì Giancarlo Pajetta come segretario regionale del Pci in Lombardia. 2 Il riferimento è all’esperienza dei governi di Fronte popolare, la coalizione di socialisti, comunisti e radicali, presieduta da Léon Blum, che governò la Fran-

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dopo il ’45, ho creduto nel partito di tipo nuovo, in Gramsci. E invece il partito mi ha deluso, con questa sua tensione continua. Dove vuole arrivare, a distruggere tutta l’umanità? La lotta va bene, ma ci devono essere dei momenti di remissione nella lotta... Ci sono anche i non comunisti, ci sono i cattolici, ci sono gli idealisti, ci sono anche i miliardari americani al mondo, perdio, ci sono anche le puttane, sono uomini anche loro, e bisogna tenerne conto, non si può sopprimere tutto... – Bene. Ma parliamo in concreto. Tu vuoi o no che gli operai abbiano la proprietà delle fabbriche e i contadini quella della terra? – Certo che lo voglio. Ma gli operai abbiano le fabbriche, i contadini la terra, e gli altri quello che spetta loro, gli intellettuali siano padroni di fare quello che vogliono con il loro lavoro. Gli operai e i contadini non sono tutta l’umanità. Io ho sempre pensato che la classe operaia dovesse essere lo strumento della liberazione degli altri uomini. (! evidentemente qui non si è espresso in modo felice...). – Ma insomma, vuoi il socialismo sì o no? – Certo che voglio il socialismo! Purché ci si arrivi paese per paese, ogni paese a suo modo, e soprattutto senza questa lotta continua, questa tensione che brucia tutto. E poi insomma, cosa sono queste domande da giudice? Allora anch’io potrei fartene di domande, e rimproverarti i tuoi torti, quello che c’è di sbagliato nella tua posizione. Ci lasciamo infuriati. In corridoio Ferrata incontra Ricò che gli offre la tessera 1950 con i bollini già attaccati. Ferrata non ha il coraggio di dir nulla e paga le 1000 lire della quota sostegno, più i bollini (! il colmo, la sua vigliaccheria vince la sua avarizia). Va nella stanza di Ulisse3 cia nel 1936 e ’37, godendo dell’appoggio di molti intellettuali antifascisti; in realtà André Breton (1898-1966), narratore e poeta francese, fondatore del surrealismo, aveva aderito al Partito comunista francese nel 1927 e alla metà degli anni trenta ne prese invece le distanze a causa dei legami del Pcf con l’Urss staliniana; anche André Gide (1869-1951), inizialmente simpatizzante del comunismo, se ne allontanò proprio nel 1936, all’indomani del suo viaggio in Urss; André Malraux (1901-1976), romanziere e uomo d’azione, lui pure partito da posizioni filo-comuniste (come tale combatté nella guerra di Spagna e nella Resistenza), dopo la guerra si sarebbe avvicinato alle posizioni del generale De Gaulle. 3 Pseudonimo di Davide Lajolo (1912-1984), uomo politico, giornalista e

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Parte seconda. Scritti

per consegnare la lettera per Alberganti. Ci trova Pajetta e Montanari. Consegna balbettando la lettera, dice che ha ritardato di un mese le dimissioni per non confondersi con Vercors e Cassou4 (a me aveva detto che l’aveva ritardata per non darla subito dopo i fatti di Modena5). Non osa consegnare anche la tessera. Ritorna alla mia stanza, bussa, mette la testa dentro (c’era la Viganò6), mi chiama fuori, livido. Io penso che abbia ancora voglia di litigare, che sia offeso. Invece mi prende sottobraccio, mi dice che Ricò ecc., che lui naturalmente ha pagato le 1000 lire, che non ha voluto darla a Ulisse in presenza di Pajetta perché gli sembrava “un gesto da Teano”, mi prega di restituirla io, e intanto me la infila in tasca con gesto semiclandestino da sagrestano. “Addio, caro Franco”, con un sorriso doloroso e molliccio.

AUTOBIOGRAFIA DI MILITANTE*

Sono nato a Firenze il 21 settembre del 1917. I miei genitori appartenevano alla piccola borghesia della città. Mio padre era

narratore; assunse il nome di Ulisse durante la Resistenza, quando fu comandante delle formazioni garibaldine che operavano tra Asti e Alessandria; dal 1948 al 1958 è stato direttore dell’«Unità» di Milano, poi deputato per tre legislature. 4 Vercors, pseudonimo di Jean Bruller (1902-1991), bandiera della Resistenza comunista, fondatore in clandestinità delle Editions de Minuit e autore del racconto Le silence de la mer; si allontanò dal Pcf dopo il 1956; Jean Cassou (1897-1986), scrittore e critico d’arte francese, esponente di spicco della Resistenza, nel 1949 era uscito dal Pcf criticandone l’allineamento alle direttive sovietiche nei confronti del titoismo. 5 Il 9 gennaio 1950, a Modena, la polizia sparò sulla folla durante una manifestazione, provocando sei morti e sollevando reazioni indignate soprattutto tra i partiti di opposizione. 6 Renata Viganò (1900-1976), narratrice e giornalista, si impose al grande pubblico con L’Agnese va a morire (Torino, Einaudi, 1949), romanzo autobiografico incentrato sulla sua esperienza partigiana; successivamente collaborò con «l’Unità» scrivendo racconti, interventi politici e corrispondenze anche dall’estero. * Dattiloscritto inedito, firmato, con data Milano, 18 gennaio 1950 e titolo Autobiografia del compagno Franco Calamandrei, conservato nell’archivio di famiglia; una copia venne consegnata alla Sezione Quadri della federazione milanese del Pci.

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professore universitario di materie giuridiche, mia madre maestra elementare. Negli anni della mia infanzia mio padre prese ad esercitare con successo, accanto all’insegnamento universitario, la professione di avvocato: il nostro tenore di vita migliorò notevolmente, fino ad innalzarci al livello della media borghesia agiata. Frequentai il ginnasio, il liceo classico, e mi iscrissi alla facoltà di Legge dell’Università, intenzionato a seguire mio padre nella professione forense. Mio padre era antifascista, di quell’antifascismo crociano e attendista, tipico di tanti intellettuali borghesi di allora. Era inoltre, per tradizione familiare, un laico, e non mi aveva battezzato. Non ero stato iscritto né ai “balilla” né agli “avanguardisti”. Giunto all’Università ed avendo cominciato a vivere più all’infuori dell’ambiente famigliare, fui influenzato dalla propaganda fascista. Credetti di vedere nel fascismo la possibilità di uno slancio collettivo ed unanime, di una solidarietà dell’entusiasmo, di una polemica contro la grettezza e l’egoismo borghese; d’altra parte, sempre di più mi irritò il carattere sterile ed inerte dell’antifascismo di mio padre e dei suoi amici. Mi iscrissi al Guf e partecipai ai Littoriali della cultura, per il concorso delle arti figurative e per quello della critica teatrale. Quando si trattò di fare il servizio premilitare, lo feci, come accadeva per tutti gli universitari iscritti al Guf, nella milizia universitaria. Ebbi con mio padre continue ed aspre polemiche, aggravate dalla circostanza che gli studi giuridici non mi interessavano ed avevo manifestato la mia volontà di dedicarmi agli studi letterari. Collaboravo al settimanale del Guf fiorentino ed a quello della federazione fascista con qualche scritto di contenuto letterario. Comunque, non avevo né nel Guf né nel partito fascista alcuna carica. Mi laureai nel 1939, in Diritto internazionale, con una tesi sulla “debellatio”, argomento che mi era stato suggerito dal professore di Diritto internazionale Giacinto Bosco, fascista di stretta osservanza: la “debellatio” era un istituto di diritto internazionale rispolverato dal fascismo in occasione dell’aggressione contro l’Etiopia, per sostenere che quando uno Stato è invaso e il suo governo messo in fuga esso cessa automaticamente di esistere. Laureatomi in Legge, mio padre consentì, sebbene a malincuore, a lasciarmi abbandonare la carriera giuridica, e mi mandò a Roma, perché mi laureassi in Lettere presso quella Università. Io fui contento di abbandonare Firenze e la casa paterna, perché l’attrito politico, di men-

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talità, di costume, tra me e mio padre era divenuto ormai per me intollerabile. Ma in un anno di soggiorno a Roma, in un ambiente diverso da quello che frequentavo a Firenze, di giovani meglio orientati, mi allontanai dal fascismo fino ad accogliere, nel giugno ’40, l’entrata in guerra dell’Italia con un sentimento di costernata riprovazione. Non avevo obblighi militari, essendo stato riformato in rassegna per una forma grave di pleurite con complicazioni polmonari. A Roma rimasi fino all’inverno ’41-’42. Nonostante avessi dato tutti gli esami di lettere, mi accorsi che non avrei mai potuto fare la carriera che mi aspettava, di assistente di Lettere all’Università, e poi magari di insegnante. Tutta la mia cultura era in crisi, non capivo più nulla, non credevo più in nulla. Decisi di impiegarmi, di guadagnarmi da vivere in un modo qualsiasi, pur di cessare l’esistenza parassitaria del figlio di famiglia e di potermi sottrarre alle condizioni postemi da mio padre. Concorsi agli Archivi di Stato e vinsi un posto di archivista nell’Archivio di Napoli. Mi recai a Napoli nel marzo del ’42 e rimasi in quell’Archivio fino al maggio del ’43. La vita a Napoli ebbe sullo sviluppo della mia coscienza un benefico influsso. Vivevo in grande solitudine e potevo perciò molto leggere e studiare. Lessi libri di storia, e soprattutto lessi il De Sanctis, che cominciò lontanamente ad orientarmi sulla funzione civile della letteratura, e fece da contravveleno a Gide, che negli anni precedenti aveva avuto su di me un influsso deleterio e con la sua concezione avventurieristica della vita aveva avuto notevole parte nella mia adesione al fascismo. D’altra parte lo spettacolo della miseria di Napoli, delle sofferenze del suo popolo sotto i bombardamenti aerei, e tuttavia della resistenza coraggiosa che quel popolo miserabile opponeva a tante sciagure, alla fame, alla morte, cominciava ad insinuare nella mia coscienza il presentimento, ancora lontano, che nelle masse popolari fosse una forza, una vitalità, una capacità, tutto ciò insomma che ormai sapevo che la mia classe borghese non aveva più. Tuttavia la mia posizione era ancora, in complesso, una posizione di pessimismo nichilistico: pensavo che il fascismo e la guerra non fossero legati a motivi di ordine economico, sociale, storico, ma che dipendessero da una crisi profonda ed irrimediabile dell’uomo. In queste condizioni mi sorprese il 25 luglio a Venezia, al cui Archivio ero stato trasferito da Napoli nel giugno del ’43. Esultai con gli altri, sinceramente, per la caduta di Mussolini, ma ciò che

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accadde nei 45 giorni non fu tale da chiarirmi le idee, e dopo il primo entusiasmo rientrai nel guscio, ricaddi nella sfiducia e nello scetticismo. Tuttavia, a Venezia, frequentavo persone che, come ho saputo dopo, erano in contatto con il Partito: conobbi nei 45 giorni compagni tornati dal confino; sentii insomma parlare un linguaggio nuovo, sentii nominare persone e cose che fino allora avevo completamente ignorato, e tutto ciò gettò in me dei semi. Essi germogliarono dopo l’8 settembre: allora, di fronte alla solidarietà che il popolo dimostrava verso i soldati sbandati, accogliendoli, rifornendoli di denaro e di abiti borghesi, sentii in me una scossa profonda, capii ormai chiaramente che nel popolo era una grande forza, l’avvenire, il movimento, e che in quella forza bisognava inserirsi se si voleva avere una ragione di vita. Decisi, ancora con prospettive molto confuse, di partire da Venezia per andare verso sud, “passare le linee” e tentare di arruolarmi dall’altra parte contro i tedeschi e i fascisti. Comunque, ero già orientato decisamente verso il Partito comunista, in cui vedevo la parte più decisa, più organizzata dello schieramento antifascista. Mi fermai a Roma, dove avevo amici che sapevo già, dai 45 giorni, in contatto con il Partito, Vito Pandolfi e Vasco Pratolini. Tramite loro riuscii a prendere contatti, sia pure molto periferici, con l’organizzazione clandestina del Partito. Erano gli ultimi giorni del settembre. Fui collegato per qualche giorno a Carlo Lizzani, dal quale ebbi compiti di trasporto e di diffusione della stampa. Poi, in seguito a mie insistenze, attraverso Alfredo Orecchio, che era capozona militare della III Zona della città, con l’approvazione di Antonello Trombadori, il quale mi conosceva dal mio soggiorno a Roma nel 39-40-41, fui aggregato, ai primi di ottobre, al Settore Salario della III Zona, in qualità di vice caposettore militare (il caposettore militare era Dario Puccini). Verso la fine di ottobre fui promosso caposettore. Intanto il compagno Vittorio Mallozzi, che era capozona politico, teneva a me e ad altri quadri una specie di piccola scuola di partito, nella quale apprendevo i primi elementi del marxismo-leninismo e della storia del movimento operaio. Lessi i Principi del leninismo e L’estremismo malattia infantile del comunismo, e fu come se una mano salda ed energica rimettesse in sesto le idee nel mio cervello. Il 28 ottobre organizzai con altri due compagni del settore un lancio di bombe a mano contro una sede fascista, e il 7 novembre tenni un comizio volante in piazza

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Fiume. Per questo, quando il Comitato militare decise di costituire i Gap centrali, alle sue dirette dipendenze, Trombadori mi propose per farne parte. Fui comandante di un Gap fino ai primi di gennaio. In gennaio, quando si ebbe lo sbarco alleato a Anzio, e parve imminente e possibile una insurrezione in Roma, il Partito sciolse i Gap centrali e destinò ciascuno di noi ad un settore periferico. Io fui destinato al comando militare di Tiburtino III, insieme con Mario Socrate. Fallito lo sbarco alleato e ristabilizzatasi la situazione per i tedeschi, i Gap centrali vennero ricostituiti, ed io ne fui nominato vice comandante, alle dipendenze di Carlo Salinari. Tenni quel posto fino al 28 aprile, quando, in seguito alla delazione di Guglielmo Blasi, venni arrestato insieme con Salinari dagli uomini della banda Kock. Portato alla Pensione Jaccarino, sede della banda Kock, riuscii a scappare dalla finestra di una latrina prima che avessero potuto interrogarmi. Ma i miei documenti con foto erano rimasti in mano ai fascisti: un volantino con la mia foto venne diramato a tutte le Questure della Repubblica Sociale. Il Partito decise allora di imbucarmi, e restai imbucato fino alla liberazione di Roma. Il 13 giugno 1944 mi sposai, con la compagna Maria Teresa Regard, che avevo conosciuto nei Gap. Il Partito mi dette per un breve periodo l’incarico di fare da tramite fra la Direzione e l’ufficio dello OSS americano che curava il lancio dei nostri paracadutisti nel Nord. Lavorai quindi, fino al settembre del ’44, alla Agitazione e Propaganda della Direzione, alle dipendenze di Negarville. Nell’ottobre chiesi e ottenni dal Partito di passare a lavorare nella redazione della «Settimana», un settimanale illustrato fiancheggiatore che sorgeva sotto la direzione di Carlo Bernari, per le edizioni della «Nuova Biblioteca», di Nicola Balestrieri. Con la redazione della «Settimana» mi trasferii a Milano, dopo la liberazione del Nord, nel luglio del ’45. A Milano, nel settembre, Vittorini mi propose di entrare a far parte della redazione del «Politecnico» e vi rimasi fino all’agosto del ’46, quando l’editore Einaudi mi liquidò insieme con gli altri redattori. Nel settembre del ’46 chiesi a Giansiro Ferrata se c’erano possibilità di entrare all’«Unità», ed entrai nella redazione del nostro giornale, con l’incarico di caposervizio della III pagina, responsabilità che ho ancora. Faccio parte, dal giugno ’49, della segreteria della Commissione per il lavoro culturale della Federa-

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zione di Milano. Nell’agosto del ’48 sono stato al Congresso di Wrooclaw in qualità di inviato delle quattro edizioni. Ho avuto, nel giugno ’47, una figlia. Mia moglie è iscritta al partito, è stata responsabile della Commissione ragazze dall’ottobre ’47 all’agosto ’48, ed ha lasciato quindi il lavoro di Partito dovendo occuparsi della bambina. Mio padre, Piero Calamandrei, risiede a Firenze. Insegna ancora all’Università ed esercita ancora la professione di avvocato. È stato nel Partito d’Azione, poi, dopo lo scioglimento del Partito d’Azione, è passato all’Unione Socialisti, e nella lista dell’Unione Socialisti è stato eletto deputato alla Camera. I miei rapporti con lui sono abbastanza buoni: ci troviamo d’accordo sul terreno del laicismo e su quello della legalità democratica; evitiamo di discutere, le rare volte che ci vediamo, sul Partito, i suoi rapporti con la “terza forza”, l’Unione Sovietica, perché una volta o due che questo è accaduto la discussione è degenerata in una litigata violenta. I testi marxisti leninisti che io conosco sono: i testi di Marx, Engels, Lenin, Stalin pubblicati dalle Edizioni Rinascita nella collezione «I classici del marxismo»; le opere di Lenin scelte in due volumi delle Edizioni in lingue estere di Mosca; i volumi di Gramsci finora pubblicati (non ho ancora letto il “Machiavelli”); Politica e ideologia di Zdanov; gli scritti di Dimitrov sulla III Internazionale. Conosco il francese, l’inglese e un poco il tedesco. Ho curato, prima del ’43: una traduzione per Einaudi de Il sogno e la vita ed altri scritti del romantico francese De Nerval; una traduzione del volume di Proust A l’ombre des jeunes filles en fleur. Dopo il ’43: una traduzione della Monaca di Diderot, per la Nuova Biblioteca e poi per l’Universale Economica; una traduzione di Scritto sotto la forca, del compagno cecoslovacco Julius Fucik, per la Universale Economica.

INDICI

INDICE DEI NOMI Acocella, Silvia, XCII. Agosti, Aldo, XCIX-C, CV. Agosti, Giorgio, LI, LVIII, XCIV, XCVI, XCVIII-XCIX, CVII. Ajello, Nello, XCIX, CII. Alberganti, Giuseppe, LXXIX, 200, 202. Alicata, Mario, XXXV, LXIV-LXV, 152. Amendola, Giorgio, IX, XXI, L, LXIV, LXVIII, LXXIII, LXXIX, CIII, 119120. Amendola, Giovanni, LXXIX. Ansaldo, Giovanni, 19. Antolini, Paola, XCVII. Antonicelli, Franco, 145. Arendt, Hannah, LXXXVIII, CIV-CV. Argan, Giulio Carlo, CII. Axioti, Melpo, 126. Baccetti, Giorgio, LXXXV. Bach, Johann Sebastian, 127. Badoglio, Pietro, XXXIII, 52, 54, 66, 184. Bagatti, Fabrizio, C. Balestrieri, Nicola, 98, 206. Balsamo, Pasquale, XXII-XXIII. Banfi, Antonio, LXXVI. Barchi, famiglia, 83, 86. Barchi, Athos, 66, 68, 73, 75, 78, 81. Barile, Paolo, XCIX. Baroncelli, Emilia, 70-73, 75, 80, 83. Barsanti, 66. Bartolini, Piero, XXXII.

Bartolini Salimbeni, Giancarlo, XXXII. Barzanti, Roberto, XCIV. Battaglia, Piero, VII, XCI. Battaglia, Roberto, XXVI, XXVIII, XCIV. Bauer, Riccardo, L, 119-120. Beaumarchais, Pierre-Augustin Caron de, 77-78. Beauvoir, Simone de, 98, 105. Belli, medico, 125. Bellina, Luisa, XCIV. Benadusi, Lorenzo, CIV. Benassi, Giuliano, XCIV. Benfante, Filippo, VII. Bentivegna, Rosario, XXVI, LI, LXXIII, 118-120. Benzoni, Alberto, CI. Benzoni, Elisa, CI. Bepa, Karel e Vlasta, 152. Berenson, Bernardo, 150. Bermani, Cesare, XCVIII. Bernari, Carlo (pseud. di Carlo Bernard), XXXIII, XCV, 147, 206. Bertelli, Mario, 196. Bertelli, Sergio, CII. Berti Arnoaldi, Francesco, XCIV. Bertolucci, Bernardo, LXXX. Bianchi, Bianca, 115. Bianciardi, Luciana, XCIII. Bianciardi, Luciano, XXIII, XLVII, XCIII, XCVIII. Bianco, Dante Livio, XLIII, LI-LII, XCIV, XCVIII. Bigatti, Nicoletta, CI.

212 Bilenchi, Romano, XI-XIII, XXXIII, LXII, LXIV, LXIX, LXXVII-LXXVIII, LXXXV-LXXXVI, XCI-XCII, XCIV, CCI, CIII-CIV, 146, 193. Blasi, Guglielmo, LXXII, 106, 206. Blum, Léon, 200. Boarelli, Mauro, CI. Bobbio, Norberto, LVII, XCIX, 145. Boccherini, Luigi, 34. Boffa, Giuseppe, CI. Bolis, Luciano, 102. Bonchio, Roberto, 143. Bonsanti, Marta, XCIV. Borghesi, Ernesto, XII, 124. Bosco, Giacinto, 203. Bourdet, Claude, 149. Brahms, Johannes, 38. Branca, Vittore, XCVI. Bravo, Anna, XCIII. Breton, André, 200-201. Brossat, Alain, CIV. Brunello, Piero, VII. Bucchi, Valentino, XXXII, LXXXV, 98. Burchett, Wilfred G., 136. Busetto, Franco, CI. Ca’ Zorzi, Giacomo (detto Giacomo Noventa), XXXII, 47. Cacciapuoti, Salvatore, XLIX. Calabri, Maria Cecilia, XCVI. Calamandrei, Egidia, XLIV, XCVII, 33, 67-70, 88, 147, 156. Calamandrei, Gemma, VII, LXIX, XC. Calamandrei, Silvia, VII, IX-XI, XIX, L, LII, LIV, LIX-LX, XCI, XCIV, XCVI, XCIX, CVII-CVIII, 114, 125, 127128, 130-131, 133-137, 141, 145. Calegari, Manlio, XCIV. Calogero, Guido, 10, 94. Calvino, Italo, XVIII, XCIII. Camus, Albert, LXXVI. Cancogni, Manlio, 57, 60, 65. Capponi, Carla, XXVI. Carducci, Giosue, 13, 18, 176.

Indice dei nomi

Carnevale, 108. Carocci, Alberto, 47. Carocci, Giampiero, XXXII-XXXIII, XCV. Carpi, Sebastiano, vedi Onofri, Fabrizio. Casella, Alfredo, 31. Casellato, Alessandro, XCI, XCIII, XCV-XCVI. Casiraghi, 117. Cassola, Carlo, XXV, XCIII, 57, 60. Cassou, Jean, 202. Castellano, Francesco, 120. Casula, Carlo Felice, XCIII. Cavallina, Paolo, XXXII. Cavani, Liliana, 100. Cavarero, Adriana, XCIII. Cecchi, Emilio, XCI, 20. Cecchi, Ottavio, C. Centovalli, Benedetta, XCIV, C. Charlot (Charlie Chaplin), 171. Chiaromonte, Gerardo, XLIX. Chiaromonte, Nicola, LVII, XCIX. Chiesa, Bibi, 64-65. Chilanti, Felice e Viviana, 100. Churchill, Winston, 134. Ciampi, Carlo Azeglio, 138. Ciavarella, 102. Cibei, 120. Cicognani, Bruno, 13, 15, 20, 30. Ciompi, Giorgio, 34-35, 42. Ciompi, Marcello, 42, 91. Cocci, Beno, 52. Cocci, Carlo, 58. Cocci, Clelia, 52, 74. Cocci, Giovanni, 21, 52, 58, 91. Cocci, Lidia, 36, 46, 52, 54, 64-68, 70-75, 77-78, 81, 86, 101. Codignola, Ernesto, LIX. Codignola, Tristano, XLI. Collier, 114. Comandini, Federico, XCVIII, 123. Conrad, Joseph, XV, XCII. Contini, Giovanni, XCV. Coppola, Massimo, XCIII.

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Indice dei nomi

Corazzini, Sergio, 13-14. Corrias, Pino, XCVIII. Cortini, Giulio, XLIX. Corvi, 75. Courtade, Pierre, 135. Crainz, Guido, CIII. Craxi, Bettino, IX. Croce, Benedetto, XXIX-XXX, LXXIV, XCIV, CI, 55, 173, 180. Curreli, Francesco, XV-XVII, LXX, XCII, 124. Cutinelli-Rendina, Emanuele, XCIV.

Emanuelli, Enrico, 106. Engels, Friedrich, 206. Enriques Agnoletti, famiglia, LXI. Enriques Agnoletti, Anna Maria, XLII. Enriques Agnoletti, Enzo, XLI-XLII, XCVII, XCIX. Epstein, Israel, 141, 145. Ercoli, vedi Togliatti, Palmiro.

D’Annunzio, Gabriele, 16, 34. D’Onofrio, Edoardo, LXIV. Dall’Orto, Giovanni, CIV. Dante Alighieri, XXXIX. Davidson, Basil, 134. De André, Fabrizio, XCIII. De Cugis, famiglia, 129-130. De Cugis, Carlo, 129. De Felice, Renzo, LXXIX, CIII. De Franceschi, Carlo, 13. De Francesco Ferrara, Marcella, LXII, 147. De Gasperi, Alcide, L, 115, 133. De Gaulle, Charles, 201. De Grada, Raffaellino, 58. De Jaco, Aldo, XCIII-XCIV, XCVIIIXCIX, CIII. De Luna, Giovanni, XCIV. De Paoli, Massimo, XCIV. De Sanctis, Francesco, 204. De Vita, 143, 145, 149. Della Pergola, Giorgio, 90. Di Massimi, Massimo, 122-124. Diaz, Furio, 127. Diderot, Denis, VIII, 77, 207. Dimitrov, Georgi, 207. Dinesen, Isak, CV. Dini, spedizioniere, 36. Diridetti, Giacomo, XXXII. Donini, Ambrogio, 116, 143.

Fabrello, signora, 56, 129. Falaschi, Giovanni, XCVI. Fanfani, Amintore, IX. Fanti, famiglia, 57-58. Faulkner, William, LXXXIV. Favilli, Giovanni, 145. Felton, Monica, 13. Fenoglio, Beppe, XXVI, XXIX. Ferrara, Giovanni, VII. Ferrara, Maurizio, LXII, LXXIII, 147. Ferrata, Giansiro, LXXVIII, CIII, 98, 200-201, 206. Ferri, Franco, LXXIII. Fiorentini, Mario, XXVI, 89. Fiume, Giovanna, XCVII. Flaubert, Gustave, XXXIV, XC, 77. Foà, signora, 36. Forcella, Enzo, CI. Forgiani, Mario, CI. Formiggini, Angelo Fortunato, LXXVIII. Formiggini, Giorgio, XX-XXI, XXVIIIXXIX, XLIX, LX, LXIII-LXIV, LXXVIII, XCIII-XCIV, 90, 118, 148, 151. Fortini, Franco (pseud. di Franco Lattes), XIV, XXXII-XXXIII, XXXVI, XLVII, LIII, LXXVI, XCV-XCVI, CII, 98, 104, 145, 150, 196. Francesco d’Assisi, santo, 25. Franzinelli, Mimmo, XCIX, 107. Fromentin, Eugène, 42. Fucik, Julius, 126, 207. Furno, Carlo, XLI, 48.

Einaudi, Giulio, XIV, 97, 102, 104-105.

Gábor, Pál, CIII. Gabrielli, Patrizia, CIV.

XXXIII, XXXV,

214 Gadda, Carlo Emilio, 59-60. Gadola Feltrami, Giuliana, XCVII. Galante Garrone, Alessandro, IX, XXXVIII, XLIII, XCI-XCIV, XCVII, CVII. Galante Garrone, Carlo, LII, XCVIII. Gallarati Scotti, Tommaso, 130. Gallerano, Nicola, C. Galli Della Loggia, Ernesto, XXV, XCIII. Garaudy, Roger, 117. Garfagnini, 13. Garosci, Aldo, XCII. Garroni, Laura, XLIX. Gatto, Alfonso, LIII, 31, 102, 106, 109, 119. Gentile, Giovanni, LXXIV, 54-55, 79, 150. Gerratana, Valentino, XXVI, XLIV, LXXIII, CIV. Giafaglione, Gaetano, XX. Giannini, Guglielmo, 110. Giap, Vo Nguyen, LV. Gide, André, XXXIII, XXXIX, LXXVI, CV, 26, 29, 105, 192-197, 200-201, 204. Gigliani Battaglia, Franca, VII, XI, XCI. Ginsborg, Paul, XXVI, XCIV. Ginzburg, Leone, XXXI, XXXV, 77. Ginzburg, Natalia, XCIV. Gioia, Annabella, XCI. Giovannini, famiglia, 64. Giovannini, Romeo, 33. Giulia, Mario, 120. Gnerre, Francesco, CIV. Gorghetto, Paolo, CI. Gorkij, Maksim, LXX. Gramsci, Antonio, LXXV, 201. Grandi, Aldo, XCV. Grant, 137. Grifone, Pietro, 118. Griner, Massimiliano, XCI, CI. Guerriero, Carlo, XCVIII. Gui, Vittorio ed Elda, 34.

Indice dei nomi

Harrer, Heinrich, 151. Haydn, Franz Joseph, 38. Hemingway, Ernest, LXXVI. Hitler, Adolf, XCIV. Ho Chi Min, LV. Ingrao, Pietro, XXV, LXVIII, LXXIII, C, 155. Interlandi, Telesio, 19. Iotti, Nilde, IX, CV. Isnenghi, Mario, VII, XCVII, C, CII.

LXIII-LXIV,

XCIV-XCV,

Jemolo, Arturo Carlo, 123-124. Kappler, Herbert, IX, 120. Kelsen, Hans, 182. Kesselring, Albert, LIV, 138. Khrusˇcˇëv, Nikita, LX, LXIV. Kierkegaard, Søren Aabye, XXXIII. Koch, Pietro, LXXII, XCI, CI, 106, 206. La Malfa, Ugo, IX. La Pira, Giorgio, LVIII, LXV, 51. La Rovere, Luca, XCVI. Labò, Giorgio, XVI, LXXII, XCII, CICII, 124. Labò, Mario, CI-CII. Lafargue, Paul, V. Lajolo, Davide (detto Ulisse), LXII, 201-202. Lapponi, famiglia, 86. Lapponi, Renzo, 65, 75. Lattes, Franco, vedi Fortini, Franco. Lattimore, Owen, 144. Lattuada, Alberto, CII. Lauricella, Ennio, 31, 33, 65, 101, 200. Le Goff, Jacques, CIV. Least Heat-Moon, William, XCVI. Leeden, Michael A., CIII. Lenin, Nikolaj (pseud. di Vladimir Ilicˇ Uljanov), LXXV, 153, 207. Leone, Francesco, XLIV. Leonini Regard, Emilia, 134.

Indice dei nomi

Leopardi, Giacomo, LXXXIX. Levi, Alessandro, XXX. Levi, Pino, 103. Levi, Sarina, 140. Lidomici, 120. Lizzani, Carlo, XXXV, XLVI, XCVII, 155, 205. Lodovici, 67. Lombardi Garrone, Bibi, 58. Lombardo, 114. Lombardo Radice, Laura, XXV, XCIV. Longo, Luigi, IX, LXIV, LXXV-LXXVI, 117. Loria, Arturo, XXXI. Lu Xun, 140. Lussu, Emilio, 50. Luzzatto, Sergio, VII, 138. Mafai, Miriam, LXXIII, LXXVI, CIII. Mafai, Simona, XCVII. Magini, Manlio, 62. Magrini, Giacomo, XCIV. Mainardi, violoncellista, 38. Malaparte, Curzio, 19. Mallozzi, Vittorio, 205. Malraux, André, 200-201. Mandula, Giuseppe, 120. Mangoni, Luisa, XCII, CII. Manzoni, Alessandro, LXXXIX, 13. Mao Zedong, LV-LVI, XCIX, 118. Maraini, Antonio, 150. Maraini, Fosco, 150-151. Marchesi, Concetto, 108. Marinuzzi, Gino, 35. Marpicati, Arturo, 174. Martinelli, Renzo, CII. Marx, Karl, V, LXXV, 207. Masi, Edoarda, 150. Massey Mellis, Isabel, 130. Mattei, Gianfranco, LIV, LXXII, 138. Mazzini, Giuseppe, LVI. Melillo, 149. Meneghello, Luigi, XCII. Michelagnoli, Alfredo, XCV.

215 Mieli, Renato, X, LVII, XCVIII. Minozzi, sacerdote, 85. Molinari Pradelli, Francesco, 38, 95-96. Momigliano, Attilio, XCVII. Mondo, Lorenzo, XCVI. Montaigne, Michel de, 25. Montaldo, Giuliano, 100. Monteverdi, Claudio, 38. Monti, Elena, 117. Morante, Elsa, LXXIX. Moravia, Alberto (pseud. di Alberto Pincherle), 90. Moro, Aldo, IX. Mozart, Wolfgang Amadeus, 35. Musatti, Cesare, 145. Muscetta, Carlo, XXXIII-XXXV. Mussolini, Benito, XCV, 171, 175176, 184, 189, 204. Musu, Marisa, XXVI, LXXIII, XCIIXCIV. Napolitano, Giorgio, LXVIII, C-CI. Natoli, Aldo, LXIV, LXXIII. Negarville, Celeste, XLIV, 206. Nenni, Pietro, IX. Nerval, Gérard de, 42, 57, 71, 77, 207. Nesi, Cristina, XCII, XCIV. Nitti, Francesco Fausto, 50. Noce, Teresa, LIII, 117. Olivier, Laurence, 117. Ombra, Marisa, XCIII. Onofri, famiglia, 78, 80. Onofri, Arturo, 100. Onofri, Fabrizio (detto Sebastiano Carpi), XXI, XLIV, LXIII-LXVII, LXXIII-LXXVII, C, CII-CIII, 100, 153-154, 156. Orecchio, Alfredo, 205. Ottobrini, Lucia, XXVI, 89-90. Pacciardi, Randolfo, 115. Pajetta, Giancarlo, LXIII-LXIV, LXXIII, 148, 200-201.

216 Pajetta, Giuliano, LXXII. Paladini, Mario, 120. Palazzeschi, Aldo, 13, 15, 30. Palermo, Enzo, 120. Pancrazi, Pietro, XXX-XXXI, XXXIX, XCIV, XCVII, 43, 131. Pandolci, Vito, XXXV, 98, 205. Panzini, Alfredo, 18. Paoli, Giulio, 55. Papini, Giovanni, LXXXV. Parri, Ferruccio, LIV, LVI, LVIII, 93, 139, 145. Pascal, Blaise, 176. Pascoli, Giovanni, 18. Pasquali, Giorgio, 38, 79. Pasquinelli, Maria, 109. Patrissi, Emilio, 110. Pavese, Cesare, XV, XXXV, XXXVII, XL-XLI, XLVII, LIII, XCII, XCIV, 131. Pavone, Claudio, XCIV. Pecorella, Gino, XXXVII, XCVI, 6466, 72, 77, 84, 86, 112. Pedullà, Gabriele, XCII. Peli, Santo, CII. Pentich, Graziana, 119. Pertini, Alessandro, IX, LI, 119-120. Petech, Luciano, 151. Petrillo, Gianfranco, XCII, XCVIII. Piani, signorina, 57. Piccinini, Alberto, XCIII. Pilati, Mario, 38. Pimpinelli, famiglia, 64. Pimpinelli, Lea, 33, 38, 42-44, 47, 51, 53-55, 57, 59, 67, 81, 91, 94, 96. Pintor, Fortunato, XXXIII. Pintor, Giaime, XXXVI, LXXXVIII, XCVI, CIV. Pintor, Pietro, LXXIII. Pinzani, Carlo, CI. Pio XII (Eugenio Pacelli), papa, LIV. Pironato, Angelina, 95, 107. Pirovini, famiglia, XLVII, 98-99. Pisacane, Carlo, XXXVI-XXXVII.

Indice dei nomi

Pisano, Agnese, XCII. Pivano, Fernanda, XXXV. Pizzuti, Pierina, XX. Polese Remaggi, Luca, XCIX. Policreti, famiglia, 65-67, 84. Policreti, Alessandro, 78. Polidori, famiglia, 37, 43-44, 46, 54, 63-65, 97. Polidori, Ciro, XCVII, 33. Polidori, Serenella, LXIV, 33, 43, 71, 80, 88, 148. Polito, Ennio, XCII. Porta, famiglia, 40, 45, 56. Portelli, Alessandro, XI, XXII-XXIII, XLIII, LV, XCI, XCIII, XCVII, XCIX. Pratolini, famiglia, LXI. Pratolini, Aurelia, 118. Pratolini, Cecilia, XXI, XLVII, 118. Pratolini, Vasco, XIII, XXI, XXXIII, XXXV, 31, 33, 65, 118, 205. Priebke, Erich, X-XI, LXXXIV, XCI. Procacci, Giuliano, LXIV. Proust, Marcel, VIII, XX, XXXV, LXXXV, XC, 207. Puccini, Dario, 205. Puglia, Salvatore, XCI. Quasimodo, Salvatore, 102. Rago, Michele, 98, 112. Rea, Ermanno, XCVIII. Reale, Eugenio, 107. Recoy, 145. Redaelli, 117. Reed, John, LXXVI. Regard, Paolo, VII, XXVIII, XLVII, XCIV, 99-100. Reichlin, Alfredo, LXXIII. Ricò, 201. Ricoeur, Paul, 144. Rimbaud, Arthur, LXXXV. Rivaira, Alberto ed Elena, XCVII. Rizzi, Bice, XLV, XCVII. Romano, Aldo, 107. Romeo, 98. Rondinelli, Fausto, XCVIII.

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Indice dei nomi

Rosai, Ottone, LXXXV, CIV. Rosati, Irene, XCV. Rossanda, Rossana, XLVIII, XCVIII. Rosselli, Carlo, XXXIII, 50. Rossi, Ernesto, LIV, LVI, XCIX, 180. Rousseau, Jean-Jacques, 78. Russo, Luigi, XXX, XCIV, 44, 56, 101. Russo, Nanda, LXI, 56. Sacchi, Filippo, 41. Salinari, Carlo, XLIV, L, LXV, LXXIII, 119-120, 124, 206. Salvemini, Gaetano, XLIV, XCVII, XCIX, 114, 122, 130, 180. Sansolini, 120. Sansovino, Francesco, 42-43. Santarone, Donatello, 150. Santi, Piero, XXXII-XXXIII, LXXXIVLXXXV, CIV. Santomassimo, Gianpasquale, XCVXCVI. Sapegno, Natalino, 101. Saragat, Giuseppe, XLV, 114-115. Sartre, Jean-Paul, LXXXVI, 98, 105, 114. Savioli, Arminio, LXXIII. Scelba, Mario, LIV. Schacherl, Bruno, XCIV. Schifone, Salvatore, 120. Schumann, Robert, 35. Scoccimarro, Mauro, 147. Secchia, Pietro, LXIV, LXXXIII. Sega, Maria Teresa, XCIV. Segre, Sergio, 139, 155. Sereni, Clara, XCI, CIV. Serra, Renato, LXXIII. Serri, Mirella, XCII. Severi, Leonardo, 54. Shakespeare, William, 117. She, Lao, 142, 144. Silone, Ignazio, LVII. Sing, Hong, 143. Sircana, Giuseppe, XCVII. Smedley, Agnes, 141.

Socrate, Mario, XLVIII, LXXIII, XCIII, 156, 206. Soffici, Ardengo, 20. Spano, Velio, 148. Spernanzoni, 83-84, 86. Spina, famiglia, 36-38, 41, 45, 50. Spina, Attilio, XCV, 36, 41. Spina, Libertà, XCV, 41. Spinella, Mario, XLIV. Spini, Giorgio, XXXI-XXXII, XCV. Spini, Valdo, XCV. Spriano, Paolo, C, 122. Stajano, Corrado, XCVII. Stalin (pseud. di Josif Vissarionovicˇ Dzˇugasˇvili), LX, LXIV, 207. Staron, Joachin, XCVIII. Steiner, Albe, 104. Straten, Giorgio van, C. Strong, Anne Luise, 117, 141. Taviani, fratelli, LXXIX. Terra, Stefano (pseud. di Giulio Tavernari), XIV, LXXVIII, XCII, CIII, 98, 100, 102, 106. Terracini, Umberto, 153. Terzilio, 75. Togliatti, Palmiro, XLVIII, LX, LXIIILXIV, LXVI, LXVIII, LXXIII, LXXVLXXVI, LXXXIII, C-CIII, CV, 90, 100, 106, 119, 133, 146-147, 153-154. Tommaseo, Niccolò, XXXIII. Tonnellato, Angelo, XCV. Toti, LXXIII. Tremelloni, Roberto, 114. Trevisani, Giuseppe, 104. Trombadori, Antonello, XVII, XXI, XXVI, XXXV, LXIII, LXV, LXXIII, CCII, 205-206. Trompeo, Pietro Paolo, XXXIII. Trozzi, Fulvia, XXVI. Tucci, Giuseppe, 150. Tumiati, Corrado, XCVII, 135. Tumiati, Gaetano, 135. Tutino, Saverio, LXII, 149. Valeri, Diego, 34, 36.

218 Vedova, Emilio, XXX, XCIV. Venturi, Lionello, CII. Venturi, Marcello, CI. Vercors (pseud. di Jean Bruller), 202. Verdini, Raoul, 155. Verlaine, Paul, LXXXV. Viganò, Renata, 202. Vigni, Giorgio, 17. Vigni, Giuseppe, 64, 91. Villone, Ennio, 90. Villone, Libero, 90. Vittorini, Elio, XIII-XIV, XLVII, LIII, LXXV-LXXVI, 93, 98, 102, 104105, 206.

Indice dei nomi

Voli, Stefania, CI. Vysˇinskij, Andrej Januar’evicˇ, 122. Wescott, Glenway, CIV. Wilde, Oscar, LXXXV. Woolf, Stuart J., XCV. Youlan, Feng, 155. Zangrandi, Ruggero, XXXVI. Zanon Dal Bo, Agostino, XCV. Zanotti Bianco, Umberto, 131. Zazzeri, 117. Zdanov, Andrej Aleksandrovicˇ, 207. Zunino, Pier Giorgio, XCVI.

INDICE DEL VOLUME

Introduzione. Il figlio comunista di Alessandro Casellato

VII

1. Saldi di memorie, p. VII - 2. Un libro mai scritto, p. XII - 3. Primavera non bussa, p. XIX - 4. Matrimoni del dopoguerra, p. XXV 5. I conti col padre, p. XXIX - 6. Vita agra a Milano, p. XLIII - 7. Rivivere a Londra e a Pechino, p. L - 8. I rovesci del ’56, p. LVIII 9. Scialuppe di salvataggio, p. LXIX - 10. Scricchiolii, smottamenti, frane, p. LXXVII - 11. La felicità è su questa terra, p. LXXXVI - Note, p. XCI

Nota ai testi

PARTE PRIMA

CVII

Lettere

Piero, Ada e Franco (1939-1944) Franco, Teresa, Piero e Ada (1944-1956)

PARTE SECONDA

5 89

Scritti

Storie naturali. Meditazioni di Piero Calamandrei

161

Tormenti dei pini, p. 161 - Calabroni, p. 167

Generazioni. Discorsi di Piero Calamandrei Il tradimento dei giovani, p. 171 - Tre generazioni di studenti, p. 177

171

220

Indice del volume

Congedi. Racconti di Franco Calamandrei

184

Congedo dai genitori, p. 184 - Congedo da Gide, p. 192

Disciplina. Esercizi di Franco Calamandrei

198

Il mio ingresso nel Partito, p. 198 - Giansiro Ferrata se ne va, p. 200 - Autobiografia di militante, p. 202

Indice dei nomi

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