«Hai venticinque anni e ventinove denti, tre camicie e otto calzini, qualche libro che non leggi più e qualche disco che
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Italian Pages 178 Year 2009
Georges Perec Un uomo che dorme
Compagnia Extra
Hai venticinque anni e ventinove denti, tre camicie e otto calzini, qualche libro che non leggi più e qualche disco che non ascolti più. Sei seduto e vuoi soltanto aspettare.
ISBN
978-88-7462-242-9
12,50 euro
Terzo romanzo di Georges Perec, Un uomo che dorme è la storia di uno studente che la mattina dell’esame, invece di alzarsi, lascia suonare la sveglia e richiude gli occhi. Segue il racconto della sua vita ordinaria, in cui giorno dopo giorno si educa all’indifferenza per tutto: non voler più niente, vagare, dormire, perdere tempo; tenersi lontano da ogni progetto e da ogni smania; essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione; leggere «le Monde» dall’inizio alla fine, senza saltare una riga, annunci matrimoniali e necrologi compresi. Un uomo che dorme è un romanzo in cui chiunque, leggendolo, riconosce quell’oscuro desiderio di ritirarsi dal mondo senza scomparire del tutto; e fa spavento quanto sia facile e a portata di mano diventare indifferente a ogni cosa, un fantasma trasparente che, come il protagonista del libro, vaga per Parigi senza aprire bocca, senza desiderare più nulla, tra la folla dei Grands Boulevards, per i caffè, le panchine dei giardinetti, i lungosenna, i musei, i monumenti, sonnambulo turista in casa propria.
Postfazione di Gianni Celati Traduzione di Jean Talon
Georges Perec (1936-1982), è una delle maggiori glorie della letteratura francese contemporanea. Venuto giovanissimo agli onori letterari con il suo romanzo d’esordio, Le cose (1965), dal 1967 membro dell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle), è autore, tra gli altri, de La scomparsa (1969), W 0 il ricordo d’infanzia (197s), Mi ricordo (1978); il suo romanzo più celebre, La vita istruzioni per l’uso (1978) è stato tradotto in tutto il mondo. Nato e vissuto a Parigi, figlio di ebrei polacchi, Georges Perec aveva un’inconfondibile barbetta crespa e molta passione per l’enigmistica.
Compagnia Extra
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Georges Perec Un uomo che dorme
Postfazione di Gianni Celati Traduzione di Jean Talon
Quodlibet
Compagnia Extra è a cura di Jean Talon e Ermanno Cavazzoni
Titolo originale Un homme qui dort © Editions Denoël, 1967, 1987
Opera pubblicata con il contributo del Ministero degli Affari Esteri francese © 2009 Quodlibet Macerata, via S. Maria della Porta, 43 www.quodlibet.it ISBN
978-88-7462-242-9
Un uomo che dorme
a Paulette In tnemoriam J.P.
Non c’è bisogno che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare nem meno, aspetta soltanto. Non aspettar nep pure, resta lì tutto solo e in assoluto silen zio. Il mondo verrà ad offrirsi a te perché lo smascheri, non può fare altrimenti, si voltolerà estasiato ai tuoi piedi.
Franz Kafka, Meditazioni sul peccato, la sofferenza, la speranza e la vera via
Non appena chiudi gli occhi comincia l’av ventura del sonno. Al posto della solita penom bra nella stanza, volume oscuro che si interrom pe qua e là, dove la memoria identifica senza sforzo le vie percorse mille volte, rievocandole a partire dal quadrato opaco della finestra, resu scitando il lavabo a partire da un riflesso, e lo scaffale grazie all’ombra un po’ più chiara d’un libro, delineando la massa più buia degli abiti appesi, dopo un po’ subentra uno spazio bidi mensionale, come un quadro dai limiti incerti che formi un angolo col piano dei tuoi occhi, quasi poggiasse non del tutto perpendicolarmen te sul colmo del tuo naso; ed è un quadro che, all’inizio, può sembrarti uniformemente grigio, anzi neutro, senza colori né forme, ma che con ogni probabilità, di lì a poco, risulta possedere almeno due caratteristiche: la prima è che si inscurisce più o meno secondo che tu stringa più o meno forte le palpebre, o più precisamente: come se la contrazione esercitata sull’arco delle 13
sopracciglia quando chiudi gli occhi ottenesse l’effetto di modificare l’inclinazione dell’inqua dratura rispetto al tuo corpo, quasi che l’arco delle sopracciglia funzionasse da cerniera, e di conseguenza, benché questa conseguenza non sembri dimostrabile se non con l’evidenza, modi ficasse la densità o la qualità dell’oscurità da te percepita; la seconda caratteristica è che la su perficie di tale spazio non è affatto regolare, o, più precisamente, che la distribuzione o diffusio ne dell’oscurità non si dà in modo omogeneo: la zona superiore è palesemente più buia; mentre la zona inferiore, quella che ti sembra più vicina, benché sia ovvio che le nozioni di vicino e lonta no, alto e basso, davanti e dietro, hanno ormai smesso di aver un senso preciso, per un verso è decisamente più grigia, ossia non tanto più neu tra, come credi in un primo momento, ma pro prio più bianca, e per l’altro verso contiene o sorregge una, due o più specie di sacche, di cap sule, un po’ come l’idea che ti fai, per esempio, di una ghiandola lacrimale, con gli orli sottili e ciliati, sacche al cui interno si agitano, tremola no e si contorcono dei lampi bianchissimi, tal volta molto sottili, come finissime striature, tal volta molto più grossi, quasi grassi, come vermi. Questi lampi, benché lampo sia un termine del
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tutto inappropriato, hanno la strana virtù di non poter essere guardati. Appena ti fissi un po’ trop po su di loro, ed è quasi impossibile non farlo, perché insomma ti ballano davanti, e tutto il resto finisce per esistere a malapena, e in effetti non c’è molto che sia davvero percepibile, oltre alla cerniera sulle tue sopracciglia e quel vago spazio bidimensionale più o meno distinguibile dove l’oscurità si dispiega in modo irregolare; ma appena li guardi, sebbene questa parola ormai non voglia dire più niente, è chiaro, appena tenti, poniamo, di farti una qualche idea sulla loro forma, sulla loro sostanza o su un loro partico lare, puoi star sicuro di ritrovarti con gli occhi spalancati davanti alla finestra, rettangolo opaco ridiventato quadrato, benché quella o quelle sac che non gli somiglino per niente. Ma poi, dopo un po’ che hai richiuso gli occhi, quelle riappaio no e con loro lo spazio più o meno inclinato che si dispiega sopra le tue sopracciglia, e c’è da sup porre che non siano cambiate tra una volta e l’al tra. Tuttavia, non puoi essere del tutto sicuro su quest’ultimo punto, poiché in un arco di tempo difficile da valutare, e benché ancora niente ti permetta di dichiarare con certezza la loro spari zione, puoi ben constatare che si sono sbiadite un bel po’. Adesso hai a che fare con una specie 15
di grisaglia striata, sempre appartenente a questo spazio che più o meno è un prolungamento dalle tue sopracciglia, ma, si direbbe, così deformato da essere come tirato in continuazione verso sini stra; puoi guardarlo, esplorarlo, senza perturba re l’insieme, senza provocare un immediato ri sveglio, ma tutto questo alla fine non ha il mi nimo interesse. È sulla destra che succede qual cosa, nella fattispecie si tratta di un’asse, più o meno dietro di te, più o meno sopra, più o meno a destra. L’asse, ovviamente, non si vede. Sai sol tanto che è dura, anche se non ci sei sopra, poi ché sei, appunto, su qualcosa di molle che è il tuo stesso corpo. Si verifica, allora, un fenomeno davvero strano: dapprima ci sono tre spazi che niente ti darebbe agio di confondere, il tuo corpo-letto, che è molle, bianco e orizzontale, poi l’arco delle tue sopracciglia, che domina uno spazio grigio, intermedio e obliquo, e infine l’as se, che è immobile, molto dura sopra, in paralle lo con te, e forse accessibile. È in effetti chiaro, anche se di chiaro ormai c’è solo questo, che se sali sull’asse, dormi, e che l’asse è il sonno. Il principio di quest’operazione non potrebbe esse re più semplice, anche se tutto ti fa pensare che ti ci vorrà un bel po’ di tempo: perché bisogne rebbe radunare il letto e il corpo, finché non 16
siano nient’altro che un punto, una biglia, oppu re, che è la stessa cosa, ridurre tutto il flaccido del corpo concentrandolo in un unico posto, tipo, ad esempio, una vertebra lombare. Ma il corpo a questo punto non ha più quella bella compattezza di poco fa, infatti si sparpaglia in tutti i sensi. Tenti allora di riportare verso il cen tro un dito del piede, un pollice, o la coscia, ma ogni volta c’è una regola che dimentichi, cioè che non bisogna mai perdere di vista la durezza del l’asse, che bisogna procedere con astuzia, radu nare il corpo senza che se ne accorga, senza che tu stesso lo sappia con certezza; ma ora è troppo tardi; ogni volta, da molto tempo ormai è già troppo tardi, e, strana conseguenza, l’arco delle sopracciglia si spacca in due, sicché al centro, tra i tuoi occhi, come se la cerniera avesse tenuto l’insieme, e tutta la forza di questa cerniera si concentrasse in quel punto, ora sopraggiunge d’un sol tratto un dolore preciso, indubbiamente cosciente, e che subito riconosci come il più banale dei mal di testa.
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Sei seduto a torso nudo, con indosso i soli pantaloni del pigiama, sulla stretta panca che ti fa da letto, nella tua stanza sotto i tetti*, e con un libro, le Lezioni sulla società industriale di Ray mond Aron, aperto a pagina centododici, posato sulle ginocchia. All’inizio è solamente una specie di spossatez za, di fatica, come se d’un tratto ti rendessi conto che da parecchio tempo, da varie ore, sei in balia d’un malessere insidioso che t’intorpidisce, un dolore che s’accenna appena e tuttavia è insop portabile, con la sensazione dolciastra e oppri mente di essere privo di muscoli e ossa, di essere come un sacco di gesso in mezzo a sacchi di gesso. Il sole picchia sulle lastre zincate del tetto. Di fronte a te, su una mensola di legno bianco all’altezza dei tuoi occhi, una tazza di Nescafé mezza vuota e un po’ sporca, un pacco di zucche ro ormai quasi finito, una sigaretta che si consu * Chambre de bonne, stanza dove nei palazzi parigini ottocente schi alloggiava la servitù, ora spesso affittata a studenti (N.d.t). I?
ma in un portacenere pubblicitario di finta opali na biancastra. Qualcuno nella stanza accanto va avanti e indietro, strascica i piedi, tossisce, sposta mobili, apre cassetti. Il rubinetto dell’acquaio nel piane rottolo sgocciola con insistenza. Salgono dal basso i rumori della rue Saint-Honoré. Il campanile di Saint-Roch suona le due. Sol levi gli occhi, smetti di leggere, ma era già un bel pezzo che non leggevi più. Posi accanto a te il libro aperto, sulla panca. Allunghi una mano, spegni la sigaretta fumante nel portacenere, fini sci la tazza di Nescafe: è appena tiepido, troppo zuccherato, amarognolo. Sei fradicio di sudore. Ti alzi e vai verso la fine stra, che chiudi. Apri il rubinetto del minuscolo lavabo, ti passi un guanto da toeletta inumidito sulla fronte, dietro la nuca, sulle spalle. Con le braccia e le gambe ripiegate, ti stendi su un fianco sulla stretta panca. Chiudi gli occhi, la testa è pesante, le gambe intorpidite.
Poi, il giorno dell’esame arriva, e tu non ti alzi. Non è un gesto premeditato, d’altronde non è neanche un gesto, bensì un’assenza di gesto, un gesto che non fai, dei gesti che eviti di fare. Sei 2.0
andato a letto presto, hai fatto un bel sonno tran quillo, avevi messo la sveglia, l’hai sentita suona re, hai aspettato suonasse, per almeno parecchi minuti, già sveglio per il caldo, o per la luce, per il rumore dei lattai, della nettezza urbana, o per l’attesa. La sveglia suona e tu non ti muovi di un centimetro, continui a stare a letto e richiudi gli occhi. Nelle stanze vicine altre sveglie si mettono a suo nare. Senti rumori d’acqua, porte che si chiudo no, passi che si precipitano giù per le scale; la rue Saint-Honoré comincia a riempirsi del rumore delle automobili: stridio di pneumatici, accelera te, brevi colpi di clacson. Delle persiane sbattono, i negozianti tiran su le serrande. Tu non ti muovi, e non ti muoverai. Un altro, un sosia, un doppio fantomatico e meticoloso, fa forse al tuo posto, uno a uno, tutti quei gesti che tu hai smesso di fare: si alza, si lava, si rade, si veste, se ne va. Lasci che si precipiti giù per le scale, corra in strada, prenda l’autobus al volo e arrivi, col fiatone e l’aria trionfante, sulla porta dell’aula all’ora fissata. Diploma di Studi Supe riori di Sociologia Generale. Prima prova scritta. Tu ti alzi troppo tardi. Là facce studiose o annoiate si chinano pensose sui banchi. Gli sguar di forse preoccupati dei tuoi amici convergono 21
sul tuo posto rimasto libero. Non dirai in quat tro, otto o dodici fogli protocollo quello che sai, quello che pensi, quello che sai che bisogna pen sare sull’alienazione, sugli operai, sulla moderni tà e il tempo libero, sui colletti bianchi o l’auto mazione, sulla conoscenza degli altri, su Marx rivale di Tocqueville e Weber nemico di Lukàcs. In ogni caso non avresti detto niente, dato che non sai granché e non pensi niente. Il tuo posto rimane deserto. Non prenderai mai la laurea, non comincerai mai la specializzazione. Non conti nuerai gli studi. Ti prepari, come tutti i giorni, una tazza di Ne scafe, aggiungendovi, come tutti i giorni, qualche goccia di latte condensato con lo zucchero. Non ti lavi, a malapena ti vesti. In una bacinella di pla stica rosa metti in ammollo tre paia di calzini.
Non vai fuori dall’aula a informarti su quali argomenti sono stati proposti alla perspicacia dei candidati. Non vai al caffè dove come tutti i gior ni, e a maggior ragione in questo giorno di ecce zionale gravità, eri solito ritrovarti con gli amici. L’indomani mattina uno di loro salirà a piedi i sei piani che portano alla tua stanza. Ne riconoscerai i passi sulle scale. Lo lascerai bussare alla porta, 22
aspettare, bussare di nuovo, un po’ più forte, cer care la chiave sulla cornice della porta, dove sei solito lasciarla quando scendi per qualche minuto a prendere il pane, il caffè, le sigarette, il giornale o la posta, quindi, aspettare ancora un po’, bus sare piano, chiamarti sottovoce, esitare, riscende re pesantemente le scale. Più tardi è tornato e ha fatto scivolare un bi glietto sotto la porta. Altri sono venuti l’indomani e il giorno dopo ancora, hanno bussato, cercato la chiave, chiamato, fatto scivolare messaggi. Tu leggi i biglietti, poi li appallottoli. Ti fissa no appuntamenti a cui non ti rechi. Resti disteso sulla tua panca stretta, le mani dietro la nuca e le ginocchia sollevate. Guardi il soffitto e ne scopri le crepe, le screpolature, le macchie, i rilievi. Non hai voglia di vedere nessuno, né di parlare, né di pensare, né di uscire, né di muoverti.
Poi in un giorno del genere, un po’ più tardi, o un po’ più presto, scopri senza sorpresa che c’è qualcosa che non va, che, per dirla senza tanti giri di parole, tu non sai vivere, e mai ne sarai capace. Il sole picchia sulle lamiere del tetto. Nella tua stanzetta il caldo è insopportabile. Sei seduto, incastrato tra la panca e lo scaffale, con un libro 2-3
aperto sulle ginocchia. È da un po’ che hai smes so di leggere. Il tuo sguardo resta fisso su una mensola di legno bianco, su una bacinella di pla stica rosa in cui marciscono sei calzini. Il fumo della sigaretta abbandonata nel portacenere sale quasi in linea retta, stendendo una coltre instabi le sul soffitto segnato da minuscole crepe. Qualcosa si stava rompendo, qualcosa s’è rotto. Non ti senti più - come dire? - sorretto: qualcosa che ti sembrava, e ti sembra, t’avesse finora con fortato, scaldato il cuore, restituito il sentimento della tua esistenza, quasi della tua stessa impor tanza, dandoti l’impressione di aderire al mondo e di esservi come immerso, comincia ora a venir meno. Eppure, tu non sei uno di quelli che passa le ore di veglia a chiedersi se esiste davvero e perché, chi è, da dove viene e dove va. Tu sei uno che non si è mai posto seriamente la questione se viene prima l’uovo o la gallina. I crucci metafisici non hanno mai segnato i nobili tratti del tuo viso. E tuttavia niente resta di quella traiettoria saettan te, di quel movimento proiettato in avanti che da sempre sei stato portato a identificare con la tua vita, cioè con il suo senso, la sua verità e la sua tensione: un passato ricco di esperienze feconde, di lezioni ben assimilate, di radiosi ricordi d’in 2-4
fanzia, di luminose felicità campagnole, di sfer zanti venti dal largo, un presente denso, compat to e caricato a molla, un futuro generoso, verdeg giante e arioso. Il passato, il presente e il futuro ora si confondono: si confondono in un’unica pesantezza delle tue membra, nella fastidiosa emi crania, nella spossatezza, la calura, l’amaro e in tiepidito sapore del Nescafé. E se occorre uno scenario per la tua vita, questo non sarà la mae stosa spianata (in genere, nient’altro che una spet tacolare illusione prospettica) su cui scorrazzano e spiccano il volo i pargoli paffuti di un’umanità conquistatrice, bensì, qualsiasi sforzo tu possa ancora fare, qualsiasi illusione tu possa ancora cullare, questo pertugio nel sottotetto che ti fa da stanza, questa stamberga di due metri e novantadue di lunghezza e un metro e settantatré di lar ghezza, cioè poco più di cinque metri quadrati, questa mansarda da cui non ti sei più mosso da molte ore e da molti giorni: sei seduto su questa panca così corta che di notte non ti puoi stendere completamente, e così stretta che non ti puoi gi rare senza prendere le dovute cautele. Con espres sione ora quasi affascinata guardi una bacinella di plastica rosa con dentro almeno sei calzini. Resti nella tua stanza, senza mangiare, senza leggere, quasi senza muoverti. Guardi la bacinel 2-5
la, lo scaffale, le ginocchia, il tuo sguardo nello specchio incrinato, la tazza, l’interruttore. Ascolti i rumori della strada, la goccia del rubinetto nel pianerottolo, i rumori del tuo vicino, i suoi ra schiamenti di gola, i cassetti che apre e chiude, i suoi accessi di tosse, il sibilo del suo bollitore. Segui la linea sinuosa di una minuscola crepa sul soffitto, il vano tragitto d’una mosca, il percepibi le e progressivo aumentare delle ombre. Questa è la tua vita. Questi i tuoi averi. Puoi fare l’esatto inventario del tuo magro capitale, il preciso bilancio del tuo primo quarto di secolo. Hai venticinque anni e ventinove denti, tre cami cie e otto calzini, qualche libro che non leggi più, qualche disco che non ascolti più. Non hai voglia di ricordarti di nient’altro, né della tua famiglia, né dei tuoi studi, né dei tuoi amori, né dei tuoi amici, né delle tue vacanze, né dei tuoi progetti. Hai viaggiato, e dei viaggi non ti resta nulla. Sei seduto e vuoi soltanto aspettare, aspettare sola mente finché non ci sia più niente da aspettare: che venga la notte, che suonino le ore, che i giorni fuggano, che sfumino i ricordi. Non rivedi i tuoi amici. Non apri la porta. Non scendi a prendere la posta. Non restituisci i libri che hai preso in prestito alla biblioteca dell’Istitu to di pedagogia. Non scrivi ai tuoi genitori. 2.6
Esci solo a notte fonda, come i topi, i gatti e i mostri. Vaghi per le strade, ti infili nei luridi pic coli cinema dei Grands Boulevards. A volte cam mini tutta la notte; a volte dormi tutto il giorno.
Sei un pigro, un sonnambulo, un’ostrica. Le de finizioni variano a seconda delle ore e dei giorni, ma il senso resta sempre più o meno lo stesso: non ti senti fatto per vivere, agire, lavorare; vuoi soltan to durare, vuoi soltanto aspettare e dimenticare. La vita moderna, generalmente, non è che ap prezzi molto atteggiamenti di tal fatta: intorno a te, da sempre, hai visto privilegiare l’azione, i gran di progetti, l’entusiasmo: l’uomo proteso in avan ti, l’uomo con lo sguardo fisso all’orizzonte, l’uo mo che guarda dritto davanti a sé. Sguardo limpi do, mento volitivo, andatura sicura, pancia in den tro. Tenacia, iniziativa, gesta clamorose e trionfi tracciano il cammino troppo limpido di una vita troppo esemplare, disegnando le immagini sacro sante della lotta per la vita. Le pietose menzogne che cullano i sogni di quelli che si sono impanta nati e girano a vuoto, le illusioni smarrite dei mi lioni di reietti, quelli che sono arrivati troppo tardi, quelli che hanno poggiato la valigia sul mar ciapiede e ci si sono seduti sopra ad asciugarsi la 2-7
fronte. Ma tu non hai più bisogno di scuse, né di rimpianti, né di nostalgie. Tu non respingi niente, non rifiuti niente. Tu hai smesso la marcia in avanti, ma già da prima avevi smesso di andare avanti, ora non ti rimetti in moto semplicemente perché sei arrivato a destinazione, e non vedi pro prio cosa ci andresti a fare più avanti: è bastata, o quasi, in un giorno di maggio in cui faceva trop po caldo, l’inopportuna congiunzione tra un testo di cui avevi perso il filo, una tazza di Nescafé dal l’improvviso gusto troppo amaro, e una bacinella di plastica rosa piena di acqua nerastra al cui interno galleggiavano sei calzini, perché qualcosa si rompesse, si alterasse, si disfacesse; perché ve nisse alla splendente luce del sole - ma la luce del sole non splende mai nella soffitta di rue SaintHonoré - questa verità deludente, triste e ridico la come un cappello da asino, pesante come un dizionario Gaffiot: tu non hai più voglia di pro seguire, né di difenderti, né di attaccare. I tuoi amici si sono stancati e non vengono più a bussare alla tua porta. Tu hai smesso di cammi nare per le strade dove potresti incontrarli. Eviti le domande e lo sguardo di colui che il caso mette talvolta sulla tua strada, rifiuti la birra o il caffè che costui ti offre. Soltanto la notte e la tua stan za ti proteggono: la stretta panca su cui resti sdra-
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iato, il soffitto che non cessi di riscoprire ad ogni istante; la notte, quando, da solo in mezzo alla folla dei Grands Boulevards, ti succede quasi di avere una specie di felicità per il rumore, le luci e l’oblio. Non hai bisogno di parlare, né di volere. Non fai che seguire il flusso che va e viene, dalla République alla Madeleine, dalla Madeleine alla République.
Non hai l’abitudine né la voglia di metterti a far delle diagnosi. Ciò che ti turba, che ti scuote e spaventa, ma a volte ti esalta, non è tanto il carat tere repentino della tua metamorfosi, quanto la sensazione vaga e pesante che le cose non stiano così. Visto che tu, per l’appunto, sei così da sem pre e non è cambiato nulla, anche se te ne rendi conto soltanto adesso: questo nello specchio incri nato non è il tuo nuovo volto, sono le maschere a essere cadute, il calore della tua stanza le ha fatte sciogliere, il torpore le ha scollate. Le maschere della retta via e delle magnifiche certezze. In que sti venticinque anni non hai mai visto niente di ciò che oggi è già l’inesorabile? Non hai mai notato le falle, in quel surrettizio brano di storia che ti rap presenta? I tempi morti, i passaggi a vuoto. Il cocente e fuggevole desiderio di non più voler sen29
tire, di non più voler vedere, di restartene immobi le e silenzioso. I sogni insensati di solitudine. Sme morato ramingo nel Paese dei Ciechi: vie ampie e deserte, luci fredde, facce mute su cui scivolereb be il tuo sguardo. Non saresti mai colpito.
Come se sotto la tua storia tranquilla e rassi curante di bravo ragazzo, scolaro diligente, leale compagno di scuola, sotto tutti quei segni eviden ti, anche troppo, di crescita e maturazione - le tacche tracciate a matita sulla cornice della porta del gabinetto, i diplomi, i pantaloni lunghi, le prime sigarette, il bruciore della rasatura, l’alcol, la chiave sotto lo zerbino per le uscite del sabato sera, lo sverginamento, il battesimo dell’aria, il battesimo del fuoco - corresse da sempre un altro filo, sempre presente e sempre tenuto a distanza, che adesso tesse la trama famigliare di questa vita ritrovata, il vuoto scenario della tua vita diserta ta, ricordi risuscitati, immagini in filigrana di questa verità svelata, di questa dimissione così a lungo sospesa, di questa vocazione alla calma, immagini inerti e sfumate, fotografie sovraesposte, quasi bianche, quasi morte, come già fossiliz zate: una strada di provincia, persiane sprangate, ombre plumbee, mosche che ronzano in un loca
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le militare, un salotto rivestito di fodere grigie, pulviscolo sospeso in un raggio di luce, campagne brulle, cimiteri domenicali, gite in automobile. Uomo seduto su una stretta panca, un giovedì pomeriggio, un libro aperto sulle ginocchia, lo sguardo assente.
Non sei che un’ombra torbida, un duro noccio lo d’indifferenza, uno sguardo neutro che fugge gli altrui sguardi. Con labbra mute e occhi spenti scorgerai ormai soltanto nelle pozzanghere, nei finestrini e nelle luccicanti carrozzerie delle auto mobili i fugaci riflessi della tua vita rallentata. La tua mano scivola distrattamente lungo lo scaffale di legno bianco. Sgocciola il rubinetto nel pianerottolo. Il tuo vicino dorme. Il debole an simare di un taxi-diesel in sosta sottolinea, più di quanto non interrompa, il silenzio della strada. La dimenticanza si infiltra nella tua memoria. Niente è accaduto. Niente accadrà più. Sul soffit to le crepe formano un improbabile labirinto.
Ci furono queste giornate vuote, il caldo nella stanza come in una caldaia, come in una fornace, e i sei calzini, sfatti pescecani, balene addormen 31
tate, dentro il catino di plastica rosa. La sveglia che non ha suonato, che non suona, e non suo nerà l’ora del tuo risveglio. Posi il libro aperto accanto a te sulla panca. Ti stendi. Tutto è pesan tezza, ronzio, torpore. Ti abbandoni. Sprofondi nel sonno.
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All’inizio ci sono immagini famigliari od osses sive; una distesa di carte che prendi e riprendi senza sosta, incapace di riuscire a disporle nell’or dine che vorresti tu, con la sgradevole sensazione di dover finire, di dover riuscire a metterle in ordine, come se da ciò dipendesse lo svelarsi di una qualche verità essenziale, poi però ti accorgi che la carta che ininterrottamente prendi e ripren di, metti e rimetti, classifichi e riclassifichi, è sem pre la stessa carta; una folla che va su e giù, avan ti e indietro; muri che ti circondano e di cui cerchi il passaggio segreto, il pulsante nascosto che fac cia ribaltare le pareti e volar via il soffitto; abboz zi di forme che se la squagliano, ritornano, spari scono, si avvicinano e sfumano, fiamme o figure femminili danzanti, giochi di ombre.
Poi dei ricordi che non riescono più ad aprirsi un varco, prove che non provano più niente, se non che un Osservatorio ad Aberdeen, a Inverness, 33
è forse effettivamente riuscito a captare certi se gnali provenienti da costellazioni lontane: era la Nebulosa di Andromeda? O la Costellazione di Goll e Burdach? Oppure la Lamina Quadrigemi na? Quindi la soluzione immediata, ovvia, di quel problema su cui non avevi mai smesso di scervel larti: il cavallo non prende a cuori se il fossato non l’ha scartato. Parole sconnesse, dal senso aggrovi gliato, ti ronzano attorno. Quale uomo è rinchiuso in quale castello di carte? Che filo! Quale Legge? Bisogna essere precisi, logici. Agire con meto do. Ad un certo punto, bisogna a tutti i costi sa persi fermare, riflettere, ben soppesare la situazio ne. Se al centro della tua testa c’è un lago, cosa che non solo è verosimile, ma anche normale, anche se non la si può affermare senza prendere precau zioni, ti ci vorrà un po’ di tempo per raggiunger lo. Non ci sono sentieri, non ci sono mai sentieri, e sulle sponde dovrai fare attenzione alle erbacce, sempre pericolose in questo periodo dell’anno. Non ci potranno essere neanche delle barche, ovviamente, dato che le barche non ci sono quasi mai, puoi però attraversarlo a nuoto.
Poi, ovviamente, non c’è mai stato nessun lago. Ricordi perfettamente che non c’è mai stato
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nessun lago. Eppure è già un bel pezzo che hai il sonno di fronte, vicino come non lo è mai stato prima d’ora. Ha la sua solita forma: la palla, anzi la bolla, la grande, immensa bolla; trasparente, certo, ma che a vedere non si direbbe di vetro quanto piuttosto di sapone, un sapone durissi mo, per niente grasso e poco friabile, o come una pelle estremamente sottile e tiratissima. Tutte le sue caratteristiche ti stanno di fronte e non hai nemmeno bisogno di andarle a cercare per saper lo, è normale, basta enumerarle: in alto tende al rosa, di fronte si squama, di fianco cerca di re spirare debolmente; il resto fa parte del cuscino a cui sei avvinghiato, e a cui resti agganciato gra zie alla pressione che, senza forzare, imprimi all’anello formato dal tuo pollice e indice destro.
Adesso il tutto si fa molto più difficile. Innan zitutto comincia a farsi evidente che la bolla ha barato; infatti non è per niente sferica, bensì pisciforme e fucilinea; poi ha una trasparenza di qualità assolutamente mediocre, di poco superio re a quella del cuscino; in ultimo, e soprattutto, in alto non sta affatto diventando rosa. Forse le uniche cose certe erano le sue desquamazioni, che in poco tempo si sono moltiplicate, e la respira35
zione che da debole si' è fatta ampia. Ma a provo carti il maggior disagio è la temperatura dell’in sieme, la quale è aumentata con tal rapidità che di lì a poco raggiungerà una soglia critica, cosa di cui le esfoliazioni sempre più numerose rap presentano certamente il segno precursore.
La situazione è ora alquanto scomoda. Hai sba gliato ad andar dietro a tutti quei particolari, che tra l’altro non erano nemmeno veri; non erano, con tutta evidenza, che trappole; e adesso ti ritrovi imprigionato nel cuscino, dove fa così buio e tal mente caldo che ti chiedi, non senza una punta di preoccupazione, come farai a uscirne fuori. Fortu natamente, non è la prima volta che ti trovi in una situazione del genere, sai che ti basterà trovare un’asperità nel terreno che si protende all’oriz zonte, o una luce fioca nell’oscurità, un lago o un luogo fresco dove inabissarti, e guarda caso ora ti senti una strana tendenza all’inabissamento. Ma hai un bel cercare, davanti a te non c’è proprio niente, nessun orizzonte, nessuna luce fioca, nes sun lago, niente di niente, soltanto il cuscino nero, spesso, opprimente. Non ne resti sorpreso, un po’ te l’aspettavi. Cerchi dietro di te e immediatamen te, ma certo, ti accorgi che non eri nemmeno ve36
ramente imprigionato, che il sonno, il vero sonno, durante tutto questo tempo ti stava alle spalle, non davanti, alle spalle, e così riconoscibile con le sue lunghe spiagge grigie, l’orizzonte gelato e il cielo nero percorso da bagliori bianchi o grigi. Tutto a un tratto te ne accorgi, e subito lo riconosci, ma anche stavolta, come sempre, è ormai troppo tardi per poterlo raggiungere; sarà per un’altra volta. Inoltre, c’è una cosa che già sapevi, e che anzi avre sti dovuto prevedere: non bisogna mai girarsi, e comunque non così bruscamente, altrimenti tutto va in pezzi, e in una grandissima confusione, il cuscino casca portandosi via guancia, avambraccio e pollice, i piedi dondolano l’uno sull’altro: il gri gio abbaino ritrova il proprio posto non lontano da te, la tua cella mansardata riprende la propria forma e si richiude, sei seduto sulla panca.
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Poi lasci Parigi, non parti alla ventura, vai dai tuoi genitori, in campagna, nei pressi di Auxerre. È un borgo un po’ spento dove loro si sono ritira ti in pensione. Vi hai trascorso qualche anno da bambino, qualche vacanza. I resti di un castello fortificato dominano una collina, ai cui piedi si estende il paese. Pare che un santo, non lontano di lì, abbia vissuto in una grotta, che adesso si può visitare. Sulla piazza, vicino alla chiesa, c’è un albero che dicono plurisecolare. Ti trattieni lì parecchi mesi. A tavola ascoltate le notizie e i quiz alla radio. La sera giochi a carte con tuo padre, che vince. Vai a letto molto presto, prima dei tuoi genitori, allo scoccare delle nove. A volte leggi tutta la notte. Hai ritro vato, nella tua stanza, nel granaio, in fondo all’armadio della biancheria, tutti i libri dei tuoi quindici anni, Alexandre Dumas, Jules Verne, Jack London, nonché i mucchi di romanzi polizie schi che ti eri portato dietro in ogni tuo soggiorno passato. Li rileggi accuratamente, senza saltare
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una riga, come se li avessi completamente dimen ticati, come se non li avessi mai letti veramente. Coi tuoi genitori parli appena. Li vedi solo all’ora dei pasti. Alla mattina te ne resti lì a pol trire nel letto. Li senti andare avanti e indietro in casa, salire e scendere le scale, tossire, aprire cas setti. Tuo padre sega del legno. Un pizzicagnolo ambulante suona il clacson vicino al portone di casa. Un cane abbaia, gli uccelli cantano, suona no le campane della chiesa. Sdraiato sul letto, il piumino tirato su fino al mento, osservi i travetti del soffitto. Un ragno minuscolo, con l’addome grigio, quasi bianco, tesse la ragnatela all’angolo di una trave. Ti siedi al tavolo coperto da un’incerata in cu cina. Tua madre ti versa una tazza di caffelatte, ti allunga il pane, la marmellata, il burro. Mangi in silenzio. Lei ti parla dei suoi reni, di tuo padre, dei vicini, del villaggio. Madame Theveneau ha ceduto la fattoria per un vitalizio. È morto il cane dei Moreau. I lavori dell’autostrada sono già co minciati. Scendi in paese a far la spesa per tua madre, a comprare il tabacco per tuo padre, le sigarette per te. Gli agricoltori sono scappati da quello che una volta era un grande paese, si fermava la ferrovia, c’era un notaio, un mercato. Soltanto due aziende 40
agricole esistono ancora. Il paese è adesso popo lato da pensionati e cittadini che ci vengono nei week-end e per un mese d’estate, raddoppiando o triplicando la popolazione invernale. Costeggi le case ristrutturate: persiane ridipin te di verde mela, placcate con fiordalisi di ferro battuto, lanterne d’antiquariato, giardini orna mentali, grotte in rocaille dove non abita nessu na divinità. Paradiso dei villeggianti. Avvocati, droghieri e impiegati potano i bossi, rastrellano la ghiaia, spazzano le aiuole, danno da mangiare ai pesci rossi. In piazza si accalcano le motociclette e gli scooter dei più giovani. Il bartabacchi è affollato.
Tutti i pomeriggi esci a fare una passeggiata. All’inizio segui la strada, poi, dopo una cava ab bandonata, ti inoltri nella foresta. Raccogli da terra un ramo che sfrondi alla bell’e meglio. Co steggi campi di grano maturo, col bastone decapi ti malamente le erbacce a gran colpi. Non conosci il nome degli alberi e dei fiori, né quello delle piante e delle nuvole. Ti siedi in cima a una collina da cui ti appare l’intero paese: la casa dei tuoi ge nitori, un po’ defilata, coi suoi tre tetti di diverso colore, la chiesa, il castello, quasi alla stessa altez41
za degli occhi, il viadotto dove un tempo passava la ferrovia, il lavatoio, le poste. Giù in basso, sulla strada bianca, simile a un galeone che esce dal porto, un enorme camion si sta allontanando. Un contadino solo in mezzo al suo campo guida l’ara tro trainato da un cavallo pomellato.
Uccelli emettono il loro verso, cinguettìi, trilli, rochi richiami. Gli alberi d’alto fusto stormiscono al vento. La natura è lì davanti a te, invitante e amorevole. Mastichi e subito risputi fili d’erba: il paesaggio t’ispira il giusto, la pace dei campi non ti commuove, il silenzio della campagna non ti snerva né ti placa. Soltanto un insetto, una pietra, una foglia caduta o un albero talvolta ti incanta no; a volte stai delle ore a guardare un albero, a descriverlo e a sezionarlo: le radici, il tronco, i rami, le foglie, ogni foglia, ogni nervatura, e anco ra ogni ramo, il gioco infinito delle forme più varie che il tuo avido sguardo suscita o elemosina: viso, città, dedalo, sentiero, oppure cavalcate e blasoni. Man mano che la tua percezione si affi na, diventa più duttile e paziente, l’albero esplode per poi rinascere con mille sfumature di verde, mille foglie identiche eppure differenti. Hai come l’impressione che potresti rimanere tutta la vita 42.
davanti a un albero senza poterlo esaurire, senza poterlo capire, dato che non c’è niente da capire, c’è soltanto da guardare: in fin dei conti tutto ciò che puoi dire di quest’albero è che è un albero; tutto ciò che quest’albero può dirti è che è un albero: radice, tronco, rami, foglie. Da lui non puoi aspettarti nessun’altra verità. L’albero non ha nessuna morale da proporti, nessun messaggio da consegnarti. La sua forza, la sua maestà, la sua vita - se davvero speri ancora di trarre un senso, un po’ di coraggio da queste antiche metafore non sono altro, in definitiva, che immagini e titoli di merito, vani quanto la pace dei campi, la perfi dia dell’acqua cheta, l’ardire dei piccoli sentieri che non salgono troppo in alto ma lo fanno in solitudine, i ridenti declivi collinari dove i grappo li maturano al sole. Per questo l’albero ti incanta, ti stupisce o riap pacifica, per questa inattesa e inimmaginabile evi denza della sua corteccia, dei suoi rami e delle sue foglie. E forse è per questo che non vai mai a pas seggio con un cane, perché il cane ti guarda, ti supplica, ti parla. Con quelle sue occhiate umide di riconoscenza, la sua aria da cane bastonato, i salti da cane festoso, ti obbliga continuamente a conferirgli l’ignobile statuto di animale domestico. Non puoi rimanere neutro di fronte a un cane,
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non più di quanto lo puoi rimanere di fronte a un uomo. Con l’albero, invece, non avrai mai nessun dialogo. Non puoi vivere di fronte a un cane per ché il cane, in ogni momento, ti chiederà di farlo vivere, di nutrirlo e accarezzarlo, di essere cioè un uomo proprio per lui, di essere il suo padrone, il dio che tuonando il suo nome lo fa subito accucciare. L’albero, invece, non ti chiede niente. Puoi essere il Dio dei cani, il Dio dei gatti, il Dio dei poveri, e per questo ti bastano un guinzaglio, un brandello di polmone, qualche spicciolo, ma non potrai mai essere padrone dell’albero. Potrai solo, a tua volta, voler essere albero.
Non è che detesti gli uomini, per quale motivo dovresti detestarli? Per quale motivo dovresti dete starti? Se solo l’appartenenza alla specie umana non fosse accompagnata da quest’insopportabile frastuono, se solo i pochi, ridicoli passi avanti compiuti nel regno animale non si dovessero paga re con questa perpetua indigestione di parole, pro getti, grandi partenze! Ma il prezzo è troppo sala to per due pollici opponibili, una stazione eretta e una non completa rotazione della testa sulle spalle: questo gran calderone, questa fornace, questa gra ticola che chiamiamo vita, questi miliardi di inti44
mazioni, incitamenti, moniti, esaltazioni e dispera zioni, questo mare di obblighi a non finire, quest’eterna macchina per produrre, macinare, scia lacquare, trionfare su ogni insidia e ricominciare da capo, questo dolce terrore che vuole regolare ogni giorno e ogni ora della tua esile esistenza!
Non hai vissuto granché, eppure tutto è già de ciso e definito. Hai solo venticinque anni, ma la tua strada è tracciata. Tutti i ruoli sono pronti, e così le etichette: dal vasino della prima infanzia alla sedia a rotelle della vecchiaia tutti i sedili sono lì che aspettano il loro turno. Le tue avventure così ben dettagliate che anche davanti alla più violenta delle ribellioni nessuno batterebbe ciglio. Hai un bel scendere in istrada e sbatter per terra il cappel lo alla gente, cospargerti il capo di spazzatura, andar scalzo, pubblicare manifesti politici e spara re revolverate all’usurpatore di turno, non servirà a niente: hai già un letto fatto nel dormitorio del l’ospizio, un posto apparecchiato alla tavola dei poeti maledetti. Battello ebbro, miserabile miraco lo: lo Harar* è soltanto un parco divertimenti, un * Regione dell’Etiopia orientale; Arthur Rimbaud si stabilì, a partire dal 1880, nella capitale Harar Jugol facendo il commer ciante e trafficante d’armi (N.d.t).
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viaggio organizzato. Tutto è previsto, preparato nei minimi particolari: i grandi slanci del cuore, la fredda ironia, la lacerazione, la pienezza, l’esoti smo, la grande avventura, la disperazione. Non venderai l’anima al diavolo, non andrai a gettarti nell’Etna coi sandali ai piedi, non distruggerai la settima meraviglia del mondo. Tutto è già pronto per la tua morte: il proiettile che ti porterà via è già stato fuso da un pezzo, le prefiche per seguire la tua bara sono già state designate. Perché dovresti arrampicarti in cima alle mon tagne più elevate, quando poi un giorno ti tocche rebbe dover scendere giù? e poi, una volta risceso, come evitare di passar la vita a raccontare di come ti eri dato da fare per salirvi? perché dovresti far finta di vivere? perché dovresti proseguire? sai o non sai già tutto quello che ti succederà nella vita? Sei o non sei già stato tutto ciò che dovevi essere: il degno figlio di tuo padre e di tua madre, il bravo piccolo scout, il bravo scolaro che avrebbe potuto far meglio, l’amico d’infanzia, il cugino lontano, il bel militare, il giovane squattrinato? Ancora qual che sforzo, oppure neanche quello, ancora qualche anno, e diventerai il funzionario zelante, il collega leale. Buon marito, buon padre, buon cittadino. Anziano combattente. Uno dopo l’altro zomperai come una rana sui gradini dell’affermazione socia46
le. Potrai scegliere, in un’ampia e assortita gamma, la personalità che più corrisponde ai tuoi desideri, la quale sarà tagliata su misura per te: pluridecora to? colto? fine buongustaio? sondatore di cuori e reni? amico degli animali? dedicherai il tuo tempo libero a massacrare su un pianoforte scordato delle sonate che non ti hanno fatto niente? o te ne starai a fumare la pipa su una sedia a dondolo, ripetendo a te stesso che in fondo c’è del buono nella vita? No. Preferisci essere il pezzo mancante del puz zle. Te la cavi lasciando il banco e il beneficio. Non fai carte false, non ti giochi il tutto per tutto. Metti il carro davanti ai buoi, getti il manico dietro la scure, vendi la pelle dell’orso, ti mangi il grano in erba, ti mangi tutto, chiudi bottega e parti alla che tichella, te ne vai senza voltarti. Non ascolterai più i buoni consigli. Non chie derai più un rimedio. Passerai oltre, guarderai gli alberi, l’acqua, le pietre, il cielo, il tuo viso, le nu vole, i soffitti, il vuoto. Resti vicino all’albero. E non chiedi nemmeno al rumore del vento tra le foglie di farsi oracolo.
Viene la pioggia. Non esci più di casa, a mala pena esci dalla tua stanza. Leggi tutto il giorno, ad alta voce, seguendo col dito le righe del testo, 47
come fanno i bambini, come fanno i vecchi, fino a quando le parole perdono il loro senso, e anche la frase più semplice diventa claudicante, caotica. Viene la sera. Non accendi la luce e resti immobi le, seduto al tavolino vicino alla finestra, con il libro in mano, ma senza più leggere, ascoltando appena i rumori in casa: lo scricchiolio delle travi sul solaio, tuo padre che tossisce, i cerchi di ghisa che vengono sistemati sulla cucina economica, il rumore della pioggia che batte sulle grondaie di zinco, un’automobile che lontanissimo passa sulla strada, il pullman delle sette che suona il clacson sul tornante vicino alla collina.
I vacanzieri sono partiti. Le case di villeggiatu ra sono chiuse. Quando attraversi il paese, i cani che abbaiano al tuo passaggio si fanno rari. Qual che manifesto giallo, ormai ridotto a brandelli, sulla piazza della chiesa, di fianco al municipio, alle poste e al lavatoio, ancora pubblicizza vendi te all’asta, balli e feste già trascorse.
Ogni tanto fai ancora delle passeggiate. Riper corri gli stessi sentieri. Attraversi campi arati che ti lasciano sotto gli scarponi spesse suole d’argil-
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la. Ti impantani nelle buche dei sentieri. Il cielo è grigio, coltri di nebbia nascondono il paesaggio. Sale il fumo dai camini. Nonostante il giubbotto imbottito, le scarpe e i guanti, hai freddo; tenti goffamente di accenderti una sigaretta.
Nelle tue passeggiate ti spingi sempre più lon tano, attraverso campi e boschi, verso altri paesi. Ti siedi al lungo tavolo di legno di un bar droghe ria, di cui sei l’unico cliente. Ti servono una tazza di viandox*, o del caffè insipido. Decine di mosche si ammassano sulla carta moschicida che pende a spirale da un paralume di metallo smaltato, un gatto se ne sta indifferente a scaldarsi vicino alla stufa di ghisa. Guardi i barattoli di conserva, i car toni di detersivo, i grembiuli, i quaderni di scuola, i giornali già vecchi, le cartoline rosa confetto in cui soldati di aspetto florido intonano in versi i bei sentimenti loro ispirati da una bionda fidanzata, poi l’orario dei pullman, i numeri della tris, i risul tati delle partite domenicali.
Stormi di uccelli passano altissimi in cielo. Sul canale dell’Yonne scivola una lunga chiatta dallo * Brodo a base di estratto di carne (N.d.t).
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scafo blu metallico, trainata da due grandi cavalli grigi. Ritorni indietro di notte, lungo la strada nazionale, con macchine urlanti che ti superano e ti vengono incontro, abbacinato dai fari che dal basso dei pendìi sembrano per un attimo voler illuminare il cielo prima di piombarti addosso.
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Torni a Parigi e ritrovi la tua stanza, il silenzio. La goccia d’acqua, le folle, le vie, i ponti; il soffitto, la bacinella di plastica rosa; la stretta panca. Lo specchio incrinato che riflette i tratti del tuo viso.
La tua stanza è il centro del mondo. Quest’an tro, questa stamberga nel sottotetto impregnata per sempre del tuo odore, il letto in cui ti infili da solo, lo scaffale, il linoleum; il soffitto di cui hai contato centomila volte le crepe, le screpolature, le macchie e i rilievi; il lavabo così piccolo da sembrare un mobile di bambola; la bacinella, la finestra, la carta di cui conosci ogni fiore, ogni stelo, ogni intreccio, e di cui sei il solo a poter affermare che, malgrado la perfezione quasi infal libile dei procedimenti di stampa, non sono mai del tutto identici; i giornali che hai letto e riletto, che leggerai e rileggerai ancora; lo specchio incri nato che non ha mai riflesso altro che il tuo viso spezzettato in tre porzioni di superficie disuguali, 51
leggermente sovrapponibili, e che l’abitudine ti permette quasi di ignorare, tralasciando l’accen no di un occhio frontale, il naso spezzato, la bocca perennemente storta, e di considerare sol tanto una striatura a forma di Y, come il marchio dimenticato e ormai cancellato di un’antica feri ta, colpo di sciabola o frusta; i libri allineati, il radiatore ad alette, la valigia-giradischi rivestita di pegamoide color granata: qui comincia e qui finisce il tuo regno, che i rumori, amici o nemici, ma comunque costante presenza e unico tuo collegamento al mondo esterno, circondano a cerchi concentrici: la goccia d’acqua che stilla nel piane rottolo, i rumori del tuo vicino, i suoi raschiamenti di gola, i cassetti che apre e chiude, i suoi accessi di tosse, il sibilo del suo bollitore, il tram busto della rue Saint-Honoré, il mormorio inces sante della città. Da lontanissimo, la sirena di una vettura dei pompieri sembra venirti addosso, poi si allontana, ritorna di nuovo. All’incrocio tra rue Saint-Honoré e rue des Pyramides, il regolare alternarsi di frenate, soste, riprese e accelerate, scandisce lo scorrere del tempo con la stessa pre cisione dell’instancabile goccia nell’acquaio o del campanile di Saint-Roch. La sveglia da un pezzo segna le cinque e un quarto. Forse si è fermata durante la tua assenza e 52·
hai trascurato di rimetterla in funzione. Il tempo non penetra più nel silenzio della tua stanza, è tutto intorno, immersione permanente, ancor più presente e ossessivo delle lancette d’una sveglia che volendo potresti anche fare a meno di guar dare, è però un tempo leggermente storpiato, fal sato e un po’ ambiguo: il tempo scorre ma tu non sai mai che ore sono, il campanile di Saint-Roch non distingue i quarti, né la mezz’ora e i tre quar ti, i semafori all’incrocio tra rue Saint-Honoré e rue des Pyramides non si alternano scattando ogni minuto esatto, la goccia d’acqua non cade ogni secondo. Sono le dieci, oppure forse le undici, poiché come poter esser certi di aver sentito bene, è tardi, è presto, spunta il giorno, cala la notte, i rumori non cessano mai del tutto, il tempo non si ferma mai completamente, anche se divenuto ormai impercettibile: minuscola breccia nel muro del silenzio, mormorio rallentato, dimenticato, di goccia in goccia, quasi confuso col battito del cuore.
La tua stanza è la più bella delle isole deserte, e Parigi è un deserto che nessuno ha mai attraver sato. Non hai bisogno di nient’altro che di questa pace, di questo sonno, di questo silenzio, di que
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sto torpore. Che i giorni comincino e che i giorni finiscano, che il tempo scorra, che la bocca si chiuda, che i muscoli della nuca, della mascella, del mento si rilassino completamente, che soltan to il sollevarsi della cassa toracica e il battito del cuore testimonino ancora del tuo paziente resta re in vita.
Non voler più niente. Aspettare finché non ci sia più nulla da aspettare. Vagare, dormire. La sciarsi portare dalla folla, dalle vie. Seguire i ca naletti di scolo, le inferriate, l’acqua lungo le spon de. Camminare lungo il fiume, rasente ai muri. Perdere tempo. Tenersi lontano da ogni progetto, da ogni smania. Essere senza desideri, senza risen timenti, senza ribellione. Davanti a te, nel corso del tempo, una vita im mobile, senza crisi e senza disordine: nessuna asperità e nessuno squilibrio. Un minuto dopo l’altro, un’ora dopo l’altra, un giorno dopo l’al tro, una stagione dopo l’altra, qualcosa comincerà che non avrà mai fine: la tua vita vegetale, la tua vita azzerata.
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Qui tu impari a durare. A volte, come un pic colo ragno attento al centro della sua tela, pa drone del tempo, padrone del mondo, regni su tutta Parigi: governi il nord da rue de l’Opera, il sud dai porticati del Louvre, l’est e l’ovest da rue Saint-Honoré. A volte cerchi di risolvere l’enigma di un ipote tico viso abbozzato dal complesso gioco di ombre e screpolature su un frammento di soffitto, due occhi e un naso, o un naso e una bocca, o una fronte che nessuna capigliatura contorna, o anco ra il disegno preciso dell’orlo di un orecchio, l’ac cenno di una spalla e di un collo.
Ci sono mille modi di ammazzare il tempo, e nessuno che si somigli, però tutti si equivalgono, mille maniere di non aspettare niente, mille giochi che si possono inventare e subito abbandonare. Hai tutto da imparare, tutto quello che non si può imparare: la solitudine, l’indifferenza, la
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pazienza, il silenzio. Devi disabituarti a tutto: a incontrare coloro che per così tanto tempo hai frequentato, a consumare i tuoi pasti, o prendere il caffè nel posto che altri, come ogni giorno, hanno tenuto e talvolta difeso per te, disabituarti a tirar per le lunghe la scialba complicità delle amicizie che non cessano mai di sopravvivere a se stesse, nel vile e opportunista rancore dei legami che si sfilacciano. Sei solo, e siccome sei solo occorre che tu smet ta di guardare l’ora e di contare i minuti. Non devi più aprire freneticamente la posta, non devi più restare deluso se ci trovi dentro soltanto un volan tino pubblicitario che ti invita ad acquistare, per la modica somma di settantasette franchi, un ser vizio da dessert con incise le tue iniziali o il tesoro dell’arte occidentale. Devi dimenticarti di sperare, di intraprendere, di riuscire, di perseverare. Ti lasci andare, cosa questa che ti viene quasi facile. Eviti le strade che hai percorso da troppo tempo. Lasci che il tempo cancelli il ricordo dei visi, dei numeri di telefono, degli indirizzi, dei sor risi, delle voci. Dimentichi che hai imparato a dimenticare, che un giorno ti sei costretto alla dimenticanza. Cion doli sul boulevard Saint-Michel senza più ricono-
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scere niente, ignorando le vetrine, ignorato dalla fiumana di studenti che va su e giù. Smetti di entra re nei bar, smetti di farci un giro con aria preoc cupata, spingendoti nelle sale più interne alla ricerca di non sai più chi. Smetti di cercare qual cuno nelle code che ogni due ore si formano da vanti ai sette cinema di rue Champollion. Smetti di errare come un’anima in pena nel grande cortile della Sorbona, e di misurarne a grandi passi i lunghi corridoi nel guadagnare l’uscita delle aule, non vai più in biblioteca a ele mosinare un saluto, un sorriso, un cenno di rico noscimento.
Sei solo. Impari a camminare da uomo solo, ad andare a zonzo, a tirar tardi, a vedere senza guar dare e a guardare senza vedere. Impari la traspa renza, l’immobilità, l’inesistenza. Impari a essere un’ombra e a guardare gli uomini come se fossero pietre. Impari a restare seduto, a restare coricato, a restare in piedi. Impari a masticare ogni bocco ne, a trovare in ogni briciola di cibo che porti alla bocca lo stesso identico neutro sapore. Impari a guardare i quadri esposti nelle gallerie come se fossero pezzi di muro, di soffitto, e i muri e i sof fitti come se fossero tele di cui segui senza sforzo i
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dieci, mille sentieri, sempre ricominciati, labirinti inesorabili, testi che nessuno mai potrebbe deci frare, volti in decomposizione.
Ti inoltri nell’isola di Saint-Louis, prendi rue Vaugirard, vai verso Pereire, verso Château-Landon. Cammini lentamente, ritorni sui tuoi passi, guardi le vetrine. Banconi di droghieri, elettricisti, mereiai e rigattieri. Vai a sederti sul parapetto del ponte Louis-Philippe e osservi il continuo farsi e disfarsi di un mulinello sotto gli archi, l’avvalla mento a imbuto che incessantemente si scava e si colma davanti agli speroni. Più lontano passano chiatte e imbarcazioni da fiume che alla lunga stravolgono gli effetti dell’acqua contro i piloni. Lungo le sponde alcuni pescatori, seduti immobi li, seguono con lo sguardo l’inflessibile deriva dei galleggianti.
Seduto al tavolino di un caffè all’aperto, di fronte a una birra media o a un caffè, te ne stai lì a guardare la strada. Auto private, taxi, furgon cini, autobus, motociclette e ciclomotori passano formando solidi gruppi compatti, solo spezzati dai rari e brevi intervalli dei semafori che in lon58
tananza regolano il traffico. Su entrambi i mar ciapiedi scorrono i passanti, a flussi continui, ma in questo caso molto più fluidi. Due uomini si incrociano con la stessa cartella in finto cuoio e lo stesso passo affaticato; una madre con la figlia, dei bambini, alcune donne anziane cariche di sporte per la spesa, un militare, un uomo con le braccia inzavorrate da due grosse valigie, e altri ancora, con pacchi, giornali, pipe, ombrelli, cani, pance, cappelli, carrozzine, uniformi, certuni quasi correndo, altri trascinando i piedi, fermandosi davanti alle vetrine, salutandosi, separandosi, incrociandosi, giovani e vecchi, uomini e donne, contenti e scontenti. Gruppi che incessantemente si formano e disfano, si accalcano vicino a una fermata degli autobus. Un uomo-sandwich distri buisce opuscoli. Una donna fa invano ampi gesti ai taxi che passano. La sirena di una vettura dei pompieri, o della polizia, ti viene incontro ampli ficandosi. Carri attrezzi partono in tromba, chiamati per chissà quale urgenza. Tu non sai niente delle leggi che portano a concentrarsi così tante persone, tra loro sconosciute, e che tu non conosci, in questa via dove vieni per la prima volta in vita tua, e dove non hai nient’altro da fare che guardare la folla che va e che viene, di fretta, fermandosi: 59
cosa ci fanno tutti quei piedi sui marciapiedi, e tutte quelle ruote sulle carreggiate? Dove vanno tutti quanti? Chi è che li chiama? Chi è che li fa tornare? Quale forza o mistero fa sì che mettano sul marciapiede prima il piede destro, poi il piede sinistro, o viceversa, e con una coordinazione che difficilmente potrebbe essere più efficace? Mille azioni inutili si concentrano contemporaneamen te nel campo visivo troppo limitato del tuo sguar do più o meno neutro. Si danno la mano destra contemporaneamente, stringendosela come se vo lessero stritolarsela, con la bocca emettono se gnali che parrebbero provvisti di senso, e nell’accompagnare i loro discorsi con mimiche espressi ve storcono di qua e di là guance, nasi, sopracci glia, labbra e mani; tirano fuori le agende, si superano, si salutano, si lanciano invettive, si congratulano, si strattonano; poi si incamminano senza vederti, eppure ti trovi solo a qualche centimetro da loro, seduto in un caffè all’aperto, e non smetti più di guardarli.
Vai girovagando per le strade. Immagini una classificazione delle vie, dei quartieri e degli edifi ci: i quartieri folli, i quartieri morti, le vie-merca to, le vie-dormitorio, le vie-cimitero, le facciate 60
crepate, le facciate sgretolate, le facciate arruggi nite, le facciate occultate. Costeggi i giardinetti, coi bambini che ti supe rano di corsa, facendo scorrere un righello di ferro, o di legno, sulle sbarre delle inferriate. Ti siedi sulle tavole di legno verde delle panchine coi piedi di ghisa scolpiti a zampa di leone. Guardia ni vecchi e infermi discutono con bambinaie d’al tri tempi. Con la punta della scarpa tracci dei tondi sulla terra leggermente sabbiosa, dei qua drati, un occhio, le tue iniziali. Scopri strade dove non passa mai una macchi na, dove sembra quasi non abiti nessuno, e dove i soli negozi sono una bottega fantasma, una sar toria con la vetrina tappezzata da veli, in cui si direbbe che siano esposti da un’eternità sempre gli stessi smorti manichini, scoloriti dal sole, le stesse serie di bottoni fantasia, gli stessi figurini, che pure portano la data dell’anno, oppure un materassaio che propone le sue molle, i piedi del letto a forma di palla, ovali, affusolati, e le diffe renti qualità di crine e traliccio, o ancora un cal zolaio nell’anfratto che gli fa da negozietto, con la porta fatta di variopinti tappi di plastica piatti, infilati a fili di nylon. Scopri i passaggi parigini: Passage Choiseul, Passage des Panoramas, Passage Jouffroy, Passage 61
Verdeau, con i loro venditori di modellini, di pipe, di gioielli in strass, di francobolli, i lucida scarpe e i banchi di hot dog. Leggi, uno alla volta, tutti i cartelli sbiaditi esposti nella vetrina di un incisore: Docteur Raphaël Crubellier, stomatologo, Diplo ma della facoltà di medicina di Parigi, solo su ap puntamento, Marcel-Émile Burnachs s.a.r.l. Tutto per il tappeto, Monsieur et Madame Serge Valène, ir rue Lagarde, 214 07 35; Riunione degli Amici degli Ex alunni del Collège Geoffroy Saint-Hilai re, Menù: Leccornie di mare su letto di ghiaccio, «Bloc du Périgord» alle perle nere, «Belle argen tee» di lago. Ai giardini del Luxembourg guardi i pensiona ti che giocano a bridge, alla belote o ai tarocchi. Su una panchina, non lontano da te, un vecchio mummificato, immobile, coi piedi uniti, il mento appoggiato sul pomello del bastone cui si tiene aggrappato con tutte e due le mani, guarda per ore davanti a sé, nel vuoto. Lo ammiri. Ne cerchi il segreto, la debolezza. Ma lui sembra inattacca bile. Deve essere sordo come una campana, mezzo cieco e un po’ paralitico. Però non sbava, la bocca non gli trema, a malapena sbatte gli occhi. Il sole gli gira intorno: la sua unica vigilanza consiste forse nel seguire la propria ombra; deve avere tracciato dei punti di riferimento già da molto 62
tempo; forse la sua pazzia, se pazzo è, sta nel cre dersi una meridiana. Somiglia a una statua, ma rispetto alle statue ha il vantaggio che se lui lo desidera può alzarsi e mettersi a camminare. So miglia a un essere umano, anche, malgrado la fac cia, che è piuttosto quella di un uccello, i pantalo ni che gli salgono su fino alle ascelle, e il fiocco da poeta parnassiano da scuola elementare, però ha questo privilegio sugli altri esseri umani di poter restare immobile come una statua, per ore e ore, e senza nessuno sforzo apparente. Anche tu ci vor resti riuscire, ma per effetto forse dell’estrema gio vinezza che accompagna questa tua vocazione di vegliardo, ti innervosisci troppo presto: il piede, tuo malgrado, si muove sulla sabbia, gli occhi vagano a destra e a manca, le dita si intrecciano e sciolgono continuamente.
Continui a camminare, a caso, perdendoti, gi rando a vuoto. Talvolta ti prefiggi mete risibili: Daumesnil, Clignancourt, boulevard Gouvion Saint-Cyr, il museo Postale. Entri nelle librerie e sfogli i libri senza leggerli. Entri nelle gallerie d’ar te, e ne fai scrupolosamente il giro, fermandoti davanti a ogni dipinto, reclinando il capo un po’ a destra, socchiudendo gli occhi, avvicinandoti per 63
leggere il titolo, la data o il nome del pittore, in dietreggiando per vedere meglio. Uscendo firmi con una gran paraffa illeggibile accompagnata da un falso indirizzo.
Ti siedi in fondo a un caffè e leggi «le Monde», riga per riga, sistematicamente. Eccellente eserci zio. Leggi i titoli in prima pagina, la rubrica «gior no per giorno», gli esteri, la cronaca nera in ulti ma pagina, gli annunci: offerte d’impiego, doman de d’impiego, rappresentanze, annunci commer ciali, proprietà, tenute, terreni, appartamenti (ven dita), appartamenti (in costruzione), appartamen ti (acquisto), locali commerciali, affitti, fondi finanziari, capitali, associazioni, corsi e lezioni, vitalizi, auto, box, animali, occasioni, varie; i rice vimenti, le nascite, i fidanzamenti, i matrimoni, i necrologi, i ringraziamenti, le aste all’Hotel Drou ot, le visite guidate e le conferenze, le tesi di lau rea; le parole crociate che quasi completi a mente (battezzarlo è poco ortodosso: vino; articolo di fede: la; una pianta che cammina: piede; amava troppo il parmigiano: Sanseverina; quando tira non fuma: camino), le previsioni del tempo, i pro grammi della radio, della televisione, dei teatri e dei cinema, le quotazioni in borsa; le pagine turi64
Stiche, sociali, economiche, gastronomiche, lette rarie, sportive, scientifiche, drammatiche, univer sitarie, mediche, femminili, pedagogiche, religiose, provinciali, aeronautiche, urbanistiche, marittime, giudiziarie, sindacali; la politica mondiale, le noti zie dall’estero, la politica francese, la cronaca na zionale, le notizie brevi, le grandi inchieste che si protraggono per tre o quattro numeri, i supple menti dedicati a un paese, a una regione, a un pro dotto, le inserzioni pubblicitarie. Cinquecento, mille informazioni sono passate davanti ai tuoi occhi, talmente attenti e scrupolo si che hai perfino voluto sapere in quante copie quel numero è stato stampato, e una volta di più verificare che è stato fabbricato da operai sinda calizzati, e controllato dal bvp e I’ojd. Ma la tua memoria si è messa d’impegno a non trattenerne neanche una: è con la stessa mancanza di interes se che hai letto che Pont-à-Mousson era debole, l’acciaio in flessione, New York sostenuta, che bisogna avere fiducia nell’esperienza della più antica banca di credito immobiliare di Francia, e nella sua rete di specialisti, che ci sono tre miliar di di danni in Florida in seguito al passaggio del tifone Barbara, che Jean-Paul e Lucas sono orgo gliosi di annunciare la venuta al mondo della sorellina Lucie: leggere «le Monde» è soltanto un 65
modo di perdere, o guadagnare, una o due ore; leggere «le Monde» è misurare una volta di più quanto tutto ti sia indifferente. Occorre che ogni gerarchia e ogni preferenza crollino. Puoi ancora meravigliarti del fatto che la combinazione di una trentina di segni tipografici sia in grado di creare, ogni giorno, e seguendo regole tutto sommato molto semplici, una tal miriade di messaggi. Ma per quale motivo te ne dovresti pascere, per quale motivo dovresti metterti lì a decifrarli tutti? La sola cosa che a te importa, è che il tempo scorra, e che nulla possa colpirti: i tuoi occhi leggono ogni riga, compostamente, una dopo l’altra.
L’indifferente non ignora il mondo, né nutre nei suoi confronti ostilità. Quello che ti proponi non è di riscoprire le sane gioie dell’analfabeti smo, bensì di leggere senza dare alle tue letture nessuna importanza particolare. Quello che ti proponi non è di andare nudo, bensì di vestirti senza che ciò debba implicare ricercatezza o tra scuratezza; quello che ti proponi non è di lasciar ti morire di fame, bensì di unicamente nutrirti. Non che tu voglia compiere tali atti in uno stato di totale innocenza, che innocenza è parola trop po grossa: vuoi solamente, semplicemente fam66
messo che questo «semplicemente» possa avere un senso) lasciarli in un terreno sgombro da ogni valore, un terreno neutro, evidente, palese, fat tuale e non riconducibile a nient’altro, ma so prattutto non funzionale, poiché il funzionale è il peggiore di tutti i valori, il più subdolo e il più compromettente; che quindi non ci sia altro da dire se non: leggi, sei vestito, mangi, dormi, cam mini, e che queste siano azioni, gesti, ma non prove e non monete di scambio: il tuo abbiglia mento, il tuo cibo e le tue letture non parleranno più al tuo posto, non te ne servirai più per fare il furbo. Non gli affiderai più l’estenuante, impos sibile, mortale compito di rappresentarti.
Ormai, quando mangi al bancone della Petite Source, alla Bière o da Roger la Frite, è un po’ come quella che gli psicofisiologi chiamano una «dose di nutrimento»: una o due volte al giorno, raramente di più, ingerisci un composto di protidi e glicidi, abbastanza rigorosamente calcolabi le, sotto forma di una porzione di carne di manzo ai ferri, di patate tagliate a lamelle e affogate nel l’olio bollente e di un bicchiere di vino rosso. Si tratta di una bistecca, certo non di un tournedos, ili patate fritte che nessuno si sognerebbe di pro67
clamare «pommes-paille», di un bicchiere di vino rosso di cui sarebbe impensabile controllare la denominazione di origine o classificazione di qualità*. Ma il tuo stomaco, se mai l’ha fatta, non fa più differenza, e il palato nemmeno. Il lin guaggio, invece, ha opposto più resistenza: ti ci è voluto un po’ di tempo perché la carne cessasse di essere stopposa, coriacea e filamentosa, le patate fritte unte e mollicce, il vino acido o sciropposo, e perché tutti questi epiteti eminentemente spregia tivi - che subito veicolano tristi significati, evo cando pasti da poveri, cibi da barboni, minestre popolari e fiere di periferia - perdessero un po’ alla volta la loro sostanza, e perché la tristezza, la povertà, la penuria, il bisogno e la vergogna che vi erano inesorabilmente incollate - il grasso diventato patatina fritta, la durezza diventata carne, l’acidità fattasi vino - cessassero di impres sionarti e di segnarti; così come, viceversa, ti ci è voluto un po’ di tempo perché cessassero di con vincerti gli opposti nobili segni dell’abbondanza, della gozzoviglia e della festa: la consistenza tene ra e succulenta dei tagli di cbarolais**, dei tour nedos, dei pavés, dei bocconcini di filetto, delle * In Francia i vini pregiati hanno sull’etichetta, oltre alla denominazione di origine, una classificazione qualitativa (N.d.t). ** Pregiata razza bovina dell’omonima regione (N.d.t).
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entrecôtes «forts des Halles»*, il croccante dorato delle «pommes-paille» o «allumette», dei soufflé di patate e delle patate alla Dauphine, il bouquet del vino pregiato nella sua cesta. Nessuna sacra energia e nessun divino nettare riempiono più il tuo piatto e il tuo bicchiere. Nessun punto escla mativo accompagna i tuoi pasti. Mangi carne e patatine fritte, bevi del vino. L’incolmabile di stanza che separa la costata di manzo della Villet te dal «menù completo» che quasi tutti i giorni, appena entrato, ordini al cameriere dietro al banco della Petite Source, non ha più potere su di te.
* Letteralmente «entrecote dei facchini delle Halles», rinoma te per la loro carne appena macellata, si mangiavano nelle trat torie attorno ai vecchi mercati generali di Parigi «les Halles» (N.d.t).
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Che faccia bello, che faccia brutto, che cada la pioggia o che splenda il sole, che il vento soffi a raffiche o che non si muova neanche una foglia, che l’alba spenga i lampioni o che il crepuscolo li riaccenda, che tu sia perso nella folla o solo in una piazza deserta, continui a scarpinare, continui a girovagare. Escogiti peripli complicati, irti di divieti che ti obbligano a lunghe deviazioni. Vai a vedere i mo numenti. Passi in rassegna le chiese, le statue eque stri, i vespasiani, i ristoranti russi. Vai a vedere i grandi lavori lungo le sponde del fiume, vicino alle porte, le vie sventrate simili a campi arati, le canalizzazioni, l’abbattimento degli edifici. Torni nella tua stanza e ti accasci sulla panca troppo stretta. Dormi con gli occhi spalancati, come gli idioti. Passi in rassegna e organizzi le crepe sul soffitto. La congiunzione tra le ombre e le macchie da una parte, e le variazioni di adatta mento e orientamento del tuo sguardo dall’altra, producono senza sforzo, lentamente, decine di 71
forme nascenti, fragili organizzazioni che puoi co gliere solo un istante fissandole a un nome: vigna, virus, villaggio, viso, prima che si scompongano e tutto ricominci: l’apparizione di un gesto, di un movimento, di una silhouette, accenno di segno vuoto che tu lasci ingrandire, casualità che va deli neandosi: un occhio che ti fissa, un uomo che dorme, un mulinello, un leggero dondolio di velie ri, un pezzo d’albero, ramo esploso, preservato, ritrovato, dal cui interno emerge ancora, precisan dosi di tratto in tratto, l’abbozzo di un viso, simi le a quello di poco fa, forse più cupo, o più atten to, un viso sospeso di cui cerchi di vedere, senza riuscirci, orecchie, occhi, collo, fronte, ma di cui riesci a tenere in mente, ritrovare, e subito smarri re, solo l’impronta di un sorriso ambiguo, l’ombra di una narice, che forse prolunga la traccia - infa mante o gloriosa, chissà? - di una cicatrice.
Spesso giochi a carte da solo. Distribuisci le carte per una mano di bridge, cerchi di risolve re i problemi pubblicati ogni settimana da «le Monde», ma sei un giocatore mediocre e le tue giocate sono prive di eleganza: nessun’arte della compressione, dello scarto e della messa in mano. Un giorno hai immaginato una distribuzione ec72-
cezionale, in cui una coppia con in mano solo due onori, un asso e un fante, grazie a una magnifica ripartizione di vuoti e lunghe, poteva ottenere un grande slam contro ogni difesa; poi, messo a fuoco il problema, una volta constatato che lo slam in questione non era poi così interessante in quanto non dichiarabile, e che quindi non si prestava ad alcuna finezza, non ti sei più aspettato granché dal bridge. Ti sei lasciato prendere dalla malia del solita rio. Disponi sulla panca quattro file da tredici carte, tiri via i quattro assi. Il gioco consiste nell’ordinare le quarantotto carte rimanenti utiliz zando le caselle lasciate libere dall’eliminazione degli assi; se una delle caselle è la prima della fila, hai diritto di metterci un due; ma poniamo che segua un sei, puoi metterci un sette dello stesso colore, se segue un sette puoi mettere l’otto, un otto il nove, un jack la regina, eccetera; se invece la casella segue un re, non puoi metterci niente, è una casella persa. In questo solitario la fortuna non gioca alcun ruolo. Puoi prevedere con largo anticipo il mo mento in cui le quattro caselle liberate ti faranno cadere sui re, quindi fallire, sempre che tu le gio cassi nell’ordine; ma puoi, appunto, servirti prima di una casella, poi di un’altra, quindi tornare alla 73
prima, prendere la terza, la quarta, e nuovamen te la seconda. Nondimeno, è piuttosto raro che il solitario ti venga: arriva sempre un momento in cui il gioco si blocca, quando, per esempio, avendo già incasellato un terzo o metà delle carte, non rie sci più a riempire una casella senza inevitabilmen te scoprire un re. In teoria avresti diritto a due ulte riori tentativi: basta lasciare al loro posto le carte già incasellate e calare le altre dopo averle mesco late e alzate quattro volte. Ma raramente utilizzi queste due ulteriori possibilità concesse; non appe na hai l’impressione che il gioco sia compromesso raccogli le carte, le mescoli due o tre volte, e le disponi nuovamente per un altro tentativo. Mescoli le carte, le disponi, tiri via gli assi, os servi il gioco. Cominci un po’ a casaccio, ba dando solamente a non scoprire un re troppo presto. Carta dopo carta, il gioco comincia a or ganizzarsi, emergono vincoli, si aprono possibili tà: qui una carta è già al suo posto, lì lo sposta mento di una sola permetterà di sistemarne cin que o sei in un sol colpo, là un re che dà fastidio non potrà più muoversi. Non riesci quasi mai a finirlo. A volte bari, solo un po’, raramente, sempre più di rado. Non è la vittoria che ti interessa, tanto cosa starebbe a si gnificare la tua vittoria, e se si trattasse di avere gli 74
dèi dalla propria parte, ci sono tanti altri modi più semplici di ingraziarseli. Ma giochi sempre più spesso, sempre più a lungo, talvolta tutto il pome riggio, o appena alzato, o fino al mattino, e nean che tanto, neanche più per ammazzare il tempo. C’è qualcosa in questo gioco che ti affascina, forse ancor più che nei giochi d’acqua vicino ai ponti, che nei labirinti sul soffitto, che le pagliuz ze appena opache che scarrocciano sulla superfi cie della tua cornea. Secondo la posizione, secon do il momento, ogni carta acquista una densità quasi commovente. Proteggi, distruggi, costruisci, componi, almanacchi mille scappatoie: esercizio a fin di niente, pericolo che niente sancisce, futile ordinamento: quarantotto carte ti incatenano alla tua stanza, e ti senti quasi felice che un dieci si ritrovi al suo posto, un re non possa più ribellar si, oppure quasi infelice che tutti i tuoi laboriosi calcoli confluiscano nello stesso impossibile risul tato. Come se questa strategia muta e solitaria costituisse la tua unica via e fosse diventata la tua ragion d’essere.
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Si fa notte. Sfreccia raramente qualche auto mobile. La goccia d’acqua stilla dal rubinetto nel pianerottolo. Il tuo vicino è silenzioso, forse as sente, oppure già morto. Sei disteso sulla panca tutto vestito, le mani incrociate dietro la nuca e le ginocchia sollevate. Chiudi gli occhi, li apri. All’interno dell’occhio, o sulla superficie della cornea, forme virali, microbiche, scarrocciano dall’alto in basso, spariscono, e ritornano repen tinamente al centro leggermente modificate: sem brano dischi, bolle, pagliuzze, filamenti ritorti il cui assemblaggio disegna i vaghi tratti di un ani male mitologico. Ne perdi le tracce, li ritrovi; ti sfreghi gli occhi e i filamenti esplodono, moltipli candosi.
Passa il tempo, sonnecchi. Posi il libro aperto accanto a te, sulla panca. Tutto è vago, ronzante. 11 respiro è straordinariamente regolare. Una bestiolina nera, verosimilmente irreale, apre una
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breccia insospettata nel labirinto delle crepe sul soffitto.
Ciondoli per le strade giorno e notte. Entri nei cinema di quartiere, dove aleggia insistente l’odo re dei disinfettanti, mangi panini in piedi al ban cone, cartocci di patatine fritte, attraversi lunapark, giochi a flipper, vai nei musei, nei mercati, nelle stazioni, nelle sale di lettura delle biblioteche, guardi le vetrine degli antiquari di rue Jacob, delle cristallerie di rue de Paradis, dei negozi di mobili in faubourg Saint-Antoine.
Lungo il corso delle ore, dei giorni, delle setti mane e delle stagioni ti disamori di tutto, ti distac chi da tutto. Con quasi una sorta di ebbrezza, sco pri che sei libero, che non c’è niente che ti pesi, che ti piaccia o che ti spiaccia. In questa vita senza usura e senza altri fremiti degli istanti sospesi che ti procurano le carte, certi rumori, e certi spetta coli che ti dai, trovi una felicità quasi perfetta, ammaliante, talvolta gravida di nuove emozioni. Conosci un riposo totale, sei, in ogni momento, come risparmiato, protetto. Vivi una parentesi felice, un vuoto pieno di promesse e da cui non ti
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aspetti niente. Sei invisibile, limpido, trasparente. Non esisti più: il susseguirsi delle ore, il susseguir si dei giorni, il passare delle stagioni, lo scorrere del tempo, sopravvivi, senza allegria e senza tri stezza, senza futuro e senza passato, così, sempli cemente, in modo evidente, come una goccia d’ac qua che stilla da un acquaio su un pianerottolo, come sei calze in ammollo dentro una bacinella di plastica rosa, come una mosca, come un’ostrica, come una mucca, come una lumaca, come un bambino o come un vecchio, come un topo.
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A volte, il buio disegna all’inizio la forma im precisa di un asso di picche: da un punto davanti a te fuggono due linee che si divaricano e ti tor nano incontro dopo una lunga curva. Poi, un oceano, un mare nero su cui navighi, quasi che il tuo naso fosse lo spigolo della prua, o meglio, il dritto di prua di un gigantesco traghet to di linea. Tutto è nero. Non è notte né buio, è il mondo intero a essere nero, naturalmente nero, come sul negativo di una fotografia, e sole a esse re bianche, o forse grigie, sono le onde che il tuo passaggio solleva su entrambi i lati del naso, lungo gli occhi, che forse sono le fiancate della nave, proprio lì nel punto dove prima si inscrive va l’asso di picche, quasi fosse una specie di pre ludio a questo solco, a questa scia biancastra e ondulata che scavi davanti scivolando sull’acqua nera. Sei ovunque circondato dall’acqua, mare nero, immobile, straordinariamente piatto, e, benché non sia fosforescente, hai come l’impres sione che potresti scorgere ogni particolare, che
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se ci fosse il cielo scorgeresti ogni minima nuvola, che se ci fosse l’orizzonte scorgeresti il più picco lo lembo di terra. Ma c’è soltanto il mare, e tu sei una prua che senza sforzo, senza rumore e senza vibrazioni, scava solchi bianchi e profondi al suo passaggio, come il vomere di un aratro che rivol ta un campo. Tuttavia, di lì a poco, da qualche parte sopra di te, quasi spuntasse uno schermo e vi si proiet tasse un negativo di pellicola cinematografica, come in un cartiglio, c’è la stessa nave di prima, ma stavolta vista dall’alto, per intero, e tu sei sul ponte appoggiato coi gomiti al parapetto, o piut tosto al capodibanda, in una posizione sul ro mantico. Questa sensazione d’uno sdoppiamento rimane a lungo, assolutamente netta, e anzi, se c’è una cosa che ti irrita e assilla, è il fatto di non riu scire più a sapere se sei prima la sola prua che sci vola sul mare, sollevando onde bianche, e solo dopo, anche se quasi allo stesso tempo, qualcosa come la coscienza di essere questa prua, cioè la nave intera al di sopra, di cui tu sei il passeggero immobile, appoggiato ai gomiti sul ponte, in una postura vagamente romantica, oppure se, vice versa, c’è prima la nave intera che scivola sul mare nero con te unico passeggero appoggiato coi gomiti alla passerella, e poi l’unico dettaglio
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di questa nave smisuratamente ingrandito, cioè la prua, che fendendo i flutti solleva sui lati due onde bianche e spesse, le quali onde forse sono un po’ troppo ben disegnate per essere davvero delle onde, si direbbero piuttosto pieghe, drappeggi, con un che di maestoso e quasi di rallentato. Le due navi, la parte e il tutto, il tuo naso-prua e il tuo corpo-traghetto, navigano a lungo di con serva, senza che niente ti permetta di dissociarle: sei nello stesso tempo la prua, la nave, e te stesso sulla nave. Poi, una prima contraddizione viene alla luce, ma che forse è solo un’illusione ottica imputabile alle differenze di scala e di prospettiva: la nave ti sembra proceda lentamente, sempre più lentamente, come se la vedessi sempre di più in dietreggiando, sempre più dall’alto, ma tu invece, appoggiato coi gomiti al parapetto, non ti rimpic ciolisci affatto, resti sempre ugualmente visibile, e la prua va sempre più veloce, tanto che non scivo la più, semmai fila sull’acqua nera come una motovedetta, o anche come un fuoribordo, asso lutamente non più come un traghetto di linea. Allora, ed è subito molto più grave, come se tu già sapessi, forse per esperienza, che ciò che sta per cominciare è l’inizio della fine, dato che non potrai sopportare più di qualche istante, o di qualche secondo, l’intensità di ciò che si annun83
cia, benché niente si sia ancora rivelato, se non, tutt’al più, un segno forse premonitore, un indi zio il cui senso non è nemmeno certo, di cui ora attendi il chiarimento, con la vana speranza che tutto resti sfumato il più a lungo possibile, dato che, lo sai, il risveglio è lì in agguato, è proprio la tua impazienza ad averlo appena innescato, e tutti i tuoi sforzi per ritardarlo non fanno che anticiparlo; allora emerge, come sempre, lenta mente ma non abbastanza, una sensazione an gosciosa ed eccitante al tempo stesso, meraviglio sa e disperante, da subito troppo precisa, molto presto lancinante e quasi dolorosa: la certezza assurda, o piuttosto, non ancora del tutto assur da ma certamente votata all’assurdo, che hai già vissuto quest’immagine, che si tratta di un ri cordo reale, preciso in tutti i suoi particolari: il mare era nero, la nave procedeva lentamente nello stretto, facendo zampillare sulle fiancate schizzi di schiuma bianca, tu eri appoggiato coi gomiti alla passerella del ponte di passeggiata, in quella posizione vagamente romantica che hanno i passeggeri di tutte le navi quando prendono l’aria guardando i gabbiani, e provavi esattamen te la stessa sensazione che provi adesso, e tuttavia adesso non provi nessuna sensazione, se non quella, pericolosa, sempre più pericolosa, di sa
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pere l’impossibilità e, al tempo stesso, il suo non essere riconducibile a nulla, di un tale ricordo.
Più tardi, molto più tardi, forse ti sei svegliato e riassopito più volte, ti sei girato sul fianco destro, sul fianco sinistro, ti sei messo di schiena, sulla pancia, forse hai anche acceso la luce, forse hai fumato una sigaretta, più tardi, molto più tardi, il sonno diventa un bersaglio, anzi no, il contrario, tu diventi il bersaglio del sonno. È un focolaio irradiante, intermittente. Di fronte a te, o più precisamente, davanti ai tuoi occhi, talvolta un po’ sulla sinistra, talvolta un po’ sulla destra, mai al centro, una miriade di puntini bianchi si va organizzando, disegnando nel tempo un qual cosa di aspetto felino, forse una testa di pantera vista di profilo, che ti viene incontro, che ingran dendosi scopre due lunghe zanne affilate, scom pare e lascia il posto a un punto luminoso che si ingrossa, diventa losanga, stella, e si scaglia su di te a gran velocità, schivandoti a destra solo all’ul timo. Il fenomeno si riproduce parecchie volte, con regolarità: dapprima niente, poi dei punti ap pena luminosi, una testa di pantera che si abboz za, si precisa, si ingrandisce ruggendo, mostran do due zanne affilate, quindi un punto scintillan85
te, quasi eclatante, che si gonfia a losanga, a stel la, e diventa una palla di luce che ti viene addos so, ti evita per un pelo, passandoti talmente vici no che quasi ti sembra di toccarla, sentirla e udir la, poi di nuovo niente per un bel pezzo, poi i punti bianchi, la testa di pantera, la stella che si ingrandisce e ti sfiora. Poi niente, per un bel po’, anzi, più tardi, qual che volta, da qualche parte, qualcosa come un astro bianco che esplode...
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Col tempo, la tua freddezza diventa leggenda ria. Gli occhi hanno perso ogni espressività, la figura è ora perfettamente cascante. Una serenità senza tedio, senza amarezza, si è inscritta agli angoli della tua bocca. Vai per le strade come sci volando, intoccabile, protetto dall’usura modera ta dei tuoi vestiti, dalla neutralità della tua cam minata. Ormai hai solo gesti automatici. Pronun ci solo le parole necessarie. Chiedi: - un caffè, - un posto davanti, - un menù e un rosso, - una birra, - uno spazzolino da denti, - un taccuino. Paghi, intaschi, prendi posto, consumi. Prendi «le Monde» in cima alla pila, metti due monete da venti centesimi nella ciotola dell’edicolante. Non dici mai per favore, buongiorno, grazie, ar rivederci. Non ti scusi. Non chiedi mai indicazio ni stradali.
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Vaghi, ciondoli, vaghi. Cammini. Tutti i mo menti si equivalgono, tutti gli spazi si somiglia no. Non hai mai fretta, non ti perdi mai. Non guardi mai l’ora negli orologi. Non hai sonno. Non hai fame. Non sbadigli mai. Non scoppi mai a ridere. Non vai neanche più a zonzo, perché i soli che possono andare a zonzo sono quelli che rubano il tempo di farlo, che si ingegnano per strappare minuti preziosi ai loro orari. All’inizio ti sceglievi gli itinerari, ti prefiggevi delle mete, immaginavi peripli complicatissimi che prendevano tuo mal grado l’aria di viaggi di Ulisse. Hai fatto, fra gli altri, un pellegrinaggio a Saint-Julien le Pauvre, ti sei aggirato vicino all’ingresso delle catacombe, ti sei piantato sotto la Tour Eiffel, sei salito in cima a vari monumenti, hai attraversato ogni ponte, costeggiato ogni sponda, visitato tutti i musei, Guimet, Cernuschi, Carnavalet, Bourdelle, Dela croix, Nissim de Camondo, il Palais de la Décou verte, l’Acquarium del Trocadero, hai visto le rose di Bagatelle, Montmartre di sera, le Halles sul far del giorno, la stazione Saint-Lazare all’ora di punta, la Concorde il 15 agosto a mezzogior no. Ma che una meta fosse turistica, culturale, o delusoria, insulsa o anche provocatoria (rue de la Pompe, rue des Saussaies, place Beauvau, quai
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des Orfèvres*), restava pur sempre una meta, cioè una tensione, una volontà, un’emozione. Anche se disincantato e risibile, malgrado il re moto ricordo dei Surrealisti, il tuo turismo rima neva fonte di vigilanza, utilizzo di tempo, misura zione dello spazio. Così come non scegli più i film che vai a vede re, entrando indifferentemente nella prima sala che capita verso le otto, le nove o le dieci di sera, non essendo tu ormai, nel buio della sala, che l’ombra d’uno spettatore, l’ombra di un’ombra che guarda in un rettangolo oblungo farsi e disfarsi svariate combinazioni di ombre e di luce, le quali ininterrottamente imbastiscono la stessa avventura: musica, incantamento, attesa; così come al banco della Petite Source non scegli più i tuoi pasti, non cerchi più di variarli, esaurendo le circa trecento combinazioni offerte dalle cinque monete da un franco, un terzo del tuo peculio quotidiano, in fondo alla tua tasca; così come non scegli più le ore in cui dormire, né le tue let ture, né i tuoi vestiti... Ti lasci andare, ti lasci trascinare: basta che la folla risalga o scenda gli Champs-Elysées, basta che una schiena grigia che ti precede di qualche * Rispettivamente quartier generale e sedi della Gestapo durante l’occupazione nazista di Parigi, tra il 1940 e il 1944 (N.d.t). 89
metro svolti in una strada grigia; oppure una luce o un’assenza di luce, un rumore o un’assenza di rumore, un muro, un gruppo, un albero, dell’ac qua, un androne, inferriate, manifesti, lastricati, strisce pedonali, una vetrina, un’insegna lumino sa, la targa di una strada, la T di un tabaccaio, il bancone di un mereiaio, una scala, una rotonda...
Cammini o non cammini. Dormi o non dormi. Scendi dal tuo sesto piano, risali. Compri «le Monde» o non lo compri. Mangi o non mangi. Ti siedi, ti stendi, resti in piedi, ti infili nella sala buia d’un cinema. Ti accendi una sigaretta. Attra versi la strada, attraversi la Senna, ti fermi, ripar ti. Giochi a flipper o non ci giochi.
Qualche volta resti tre, quattro o anche cinque giorni in stanza, non sai. Dormi quasi ininterrot tamente, ti lavi i calzini, le tue due camicie. Rileg gi un romanzo poliziesco che hai già letto venti volte, e dimenticato venti volte. Fai le parole cro ciate su un vecchio «le Monde» che non ti decidi a buttar via. Disponi sulla panca quattro file da tredici carte, tiri via gli assi, metti il sette di cuori dopo il sei di cuori, l’otto di fiori dopo il sette di 90
fiori, il due di picche al suo posto, il re di picche dopo la dama di picche, il jack di cuori dopo il dieci di cuori.
Mangi marmellata spalmata sul pane finché hai del pane, poi sui biscotti, se ne hai, poi direttamente dal barattolo col cucchiaino.
Ti stendi sulla panca, con le mani incrociate dietro la nuca, le ginocchia sollevate. Chiudi gli occhi, li apri. Filamenti ritorti scarrocciano lenta mente dall’alto in basso sulla superficie della tua cornea. Passi in rassegna e organizzi le crepe, le scaglie e le scrostature del soffitto. Guardi il tuo volto nello specchio incrinato. Non parli da solo, non ancora. Non urli, no, questo no.
L’indifferenza non ha inizio né fine: è uno stato immutabile, un peso, un’inerzia che nulla potreb be far vacillare. Forse ancora pervengono ai tuoi centri nervosi messaggi del mondo esterno, però nessun genere di risposta globale, tale da coin-
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volgere la totalità dell’organismo, sembra poter si elaborare. Permangono solo i riflessi elementa ri: quando il semaforo è rosso non attraversi, ti ripari dal vento per accenderti una sigaretta, nelle mattine d’inverno ti copri di più, ti cambi la polo, le calze, le mutande e il maglione una volta alla settimana, le lenzuola un po’ meno di due volte al mese. L’indifferenza dissolve il linguaggio, imbroglia i segni. Sei paziente e non aspetti, sei libero e non scegli, sei disponibile e niente ti mobilita. Non chiedi niente, non esigi niente, non imponi niente. Senti senza mai ascoltare, vedi senza mai guarda re: le crepe nei soffitti, i listelli del parquet, il dise gno delle mattonelle, le rughe intorno agli occhi, gli alberi, l’acqua, le pietre, le automobili che pas sano, le nuvole che disegnano in cielo le loro forme di nuvole.
Ora vivi nell’inesauribile. Ogni giornata è fatta di silenzi e di rumori, di luci e di bui, di consisten ze, attese, fremiti. Non hai che da perderti, an cora una volta, nel tempo a venire, ogni volta di più, errare infinitamente, trovare il sonno e una certa pace del corpo: abbandono, sfinimento, de riva, assopimento. Sprofondi, ti lasci scivolare, 92
molli: cercare il vuoto, fuggirlo, camminare, fer marti, sederti, metterti a tavola, appoggiarti sui gomiti, sdraiarti. Gesti da automa: alzarti, lavarti, rasarti, ve stirti. Tappo di sughero sull’acqua: andare alla deriva, seguire il flusso, vagare: l’estate nel silen zio greve, persiane chiuse, strade morte, asfalto appiccicoso, verde quasi nero delle foglie immo bili; l’inverno nella luce fredda delle vetrine e dei lampioni, caffè coi vetri appannati, tronchi neri degli alberi morti. Entri in caffè miserabili, bar, osterie, rivendite di Vini e Carbone senza luce, maleodoranti di aceto e di sporco. Cammini nel viscidume di certi vicoli, lungo palizzate maculate di manifesti sbrindellati, verso Charles Michels oppure Chàteau-Landon. Ti siedi sulle panchine dei giardi netti e dei parchi, come un pensionato, come un vecchio, ma hai solo venticinque anni. Ti metti ad aspettare nelle hall degli alberghi, seduto su un divano in finta pelle, guardi la gente andare e venire, leggi i volantini, i cataloghi, i manifesti, i dépliant turistici, Parigi di notte, Crociera nelle Indie, le riviste lasciate lì, «L’Echo de l’Hôtellerie française», la «Revue du Touring-Club de Fran ce»; vai a leggere i giornali affissi davanti alle tipo grafie o alle redazioni: «le Monde», «le Figaro»,
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«le Capital», «la Vie française». Ti attardi nelle biblioteche municipali, riempi una scheda, leggi libri di storia, opere erudite, memorie di capi di Stato, di alpinisti, di preti. Cammini lungo i marciapiedi, guardi nei ca naletti di scolo, in quello spazio più o meno largo che separa le macchine parcheggiate dal bordo del marciapiede. Ci trovi biglie, piccole molle, anelli, monete, qualche volta dei guanti, un gior no un portafogli con dentro dei soldi, carte, lette re, e una volta delle foto che quasi ti strappavano una lacrima. Guardi i giocatori di carte ai giardini del Luxembourg, le grandi fontane del Palais de Chaillot, la domenica vai al Louvre, attraversi tutte le sale senza fermarti e vai a posizionarti davanti a un unico quadro o un unico oggetto: il ritratto incredibilmente energico di un uomo del Rinascimento con una piccola cicatrice sopra il labbro, a sinistra, cioè a sinistra per lui, a destra per te che guardi, oppure una pietra intagliata, un cucchiaino egiziano, davanti a cui resti per una o due ore, prima di andartene senza voltarti.
Camminata interminabile, instancabile. Cam mini come un uomo che porta valigie invisibili,
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cammini come un uomo che segue la propria ombra. Cammini come un cieco, come un son nambulo, incedi con passo meccanico, intermi nabilmente, fino a dimenticare che stai cammi nando. Flâneur minuzioso, nictòbata perfetto, ecto plasma che un lenzuolo svolazzante farebbe pas sare erroneamente per un fantasma, che non spa venterebbe neanche dei bambini piccoli. Camminatore infaticabile, attraversi Parigi da una parte all’altra, tutte le sere, emergendo dal nero buco della tua stanza, dalle scale fatiscenti, dal cortile silenzioso; oltre le vaste zone di luci e rumori: l’Opéra, i Boulevards, gli Champs-Elisées, Saint-Germain, Montparnasse, ti immergi nella città morta verso Pereire o Saint-Antoine, verso rue de Longchamp, boulevard de l’Hôpital, rue Oberkampf, rue Vercingétorix. Caffè aperti tutta la notte. Rimani in piedi, quasi immobile, con un gomito appoggiato al bancone di vetro, spessa lastra traslucida coi bordi arrotondati, fissata con bulloni di rame alla base in cemento, mezzo girato verso tre marinai che si accaniscono su un flipper. Bevi vino rosso o un espresso.
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Vita senza sorprese. Al riparo da tutto. Dormi, mangi, cammini, continui a vivere, come un topo di laboratorio dimenticato nel labirinto da un ricercatore sbadato, che dal mattino alla sera, senza mai sbagliare, senza mai esitare, dopo aver girato a sinistra, poi a destra, va verso la mangia toia e spinge due volte sul pedale cerchiato di rosso per ricevere la propria razione quotidiana di cibo in poltiglia. Nessuna gerarchia, nessuna preferenza. La tua indifferenza è piatta: uomo grigio per cui il grigio non evoca nessun grigiore. Non tanto insensibile, quanto piuttosto neutro. L’acqua ti attira, così come la pietra, l’oscurità al pari della luce, il caldo al pari del freddo. C’è solo la tua cammina ta, il tuo sguardo che si posa e scivola via, igno rando il bello e il brutto, il famigliare e il sorpren dente, non recependo che le combinazioni di forme e luci, che continuamente si fanno e disfa no dovunque, nell’occhio, sul soffitto, ai tuoi piedi, nel cielo, nello specchio incrinato, nell’ac qua, nella pietra, nella folla. Piazze, strade, giar dinetti e viali, alberi e inferriate, uomini e donne, cani e bambini, attese, ressa, veicoli e vetrine, edifici, facciate, colonne, capitelli, marciapiedi, canaletti di scolo, lastricati di arenaria resa luci da dalla pioggia sottile, grigi, o quasi rossi, o 96
quasi bianchi, o quasi neri, o quasi blu, silenzi, clamori, frastuoni, folla nelle stazioni, nei negozi, nei viali, strade brulicanti di gente, lungofiume brulicanti di gente, vie deserte delle domeniche d’agosto, mattine, sere, notti, albe e crepuscoli.
Adesso sei l’anonimo padrone del mondo, quello su cui la storia non ha più presa, quello che non sente più la pioggia cadere, che non vede più venire la notte. Conosci soltanto la tua propria evidenza: quel la della tua vita che continua, del tuo respiro, del tuo passo, del tuo invecchiamento. Vedi la gente andare e venire, la folla e le cose farsi e disfarsi. Vedi nella minuscola vetrina d’un mereiaio una guida per tende su cui subito si fissa il tuo sguar do: passi oltre: sei inaccessibile.
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L’incontro dell’occhio con il cuscino fa nascere una montagna, un pendio piuttosto morbido, un quarto, anzi un arco di cerchio che si staglia in primo piano, più scuro com’è dello spazio circo stante. Questa montagna non è tanto interessante; è normale. Per ora, la tua mente è concentrata su un compito che sai di dover portare a termine, ma che non ti riesce di definire con precisione; sembre rebbe, di per sé, un compito di poco conto, e ma gari è solo il pretesto, l’occasione per verificare la tua conoscenza del codice; supponi, per esempio (e questo lo si può verificare subito), che il compito consista nel riportare a sé il pollice, o l’intera mano, da sopra il cuscino: ma devi farlo proprio tu? Il posto da te occupato nella gerarchia, i tuoi anni di servizio, non dovrebbero forse dispensarti da questo compito ingrato? La questione è ovvia mente molto più importante del compito stesso, ma non hai niente in mano per poterla risolvere, e non pensavi che dopo così tanto tempo avresti dovuto ancora render conto di questioni del gene-
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re. Peraltro, riflettendoci un po’ meglio, ti accorgi che il problema è ancora più complicato: non si tratta di sapere se devi o non devi richiamare il pollice secondo funzione, grado e anzianità, bensì: occorre che riporti il pollice, in ogni modo, presto o tardi, ma da sopra se sei sufficientemente anzia no, da sotto se non lo sei, e ovviamente non hai la minima idea del tuo grado di anzianità, che ti sem bra sì considerevole, ma forse non abbastanza. Non è che hanno fatto apposta a scegliere questo esatto momento per porti questo problema, mo mento in cui nessuno, neanche il più integro dei giudici, può affermare con certezza se sei o non sei sufficientemente anziano?
La questione potrebbe porsi anche per i piedi o le cosce. Infatti, in sé, non significa niente: il vero problema è quello dei contatti. In linea di princi pio ci sono due tipi di contatti: quello del tuo corpo con le lenzuola, che coinvolge la coscia sini stra, il piede destro, l’avambraccio destro e una parte del ventre, che è un contatto di fusione, osmosi e diluizione; e quello del tuo corpo con se stesso, lì dove la tua carne incontra la tua carne, dove il piede sinistro passa sopra il piede destro, le ginocchia si incontrano, il gomito affronta lo ioo
stomaco: questi sono contatti appuntiti, caldi o freddi, o caldi e freddi. Ovviamente è possibile ribaltare il tutto senza alcun rischio, affermando il contrario, il piede sinistro sotto il piede destro, la coscia destra sotto la coscia sinistra. La cosa più chiara in tutto ciò è che ovviamen te non sei sdraiato, né sul fianco destro, né sul fianco sinistro, ma di fatto sei sospeso a testa in giù, con le gambe leggermente ripiegate e le brac cia a stringere il cuscino, come un pipistrello in letargo, o piuttosto come una pera troppo matu ra attaccata all’albero: questo a dire che puoi ca dere da un momento all’altro, cosa che peraltro non ti preoccupa più di tanto, essendo la tua testa perfettamente protetta dal cuscino, e però, hai il dovere di scongiurare questo pericolo, quand’an che minimo. Ma se passi in rassegna i mezzi che conosci per riuscirci, non tardi a renderti conto che la situazione è più grave di quanto avessi valutato, non fosse per il fatto che la perdita del l’orizzontalità raramente è propizia al sonno. Devi dunque risolverti a cadere, quantunque pre vedi che non sarà tanto piacevole, dato che nes suno può sapere quando cesserà la caduta, e so prattutto non sai come fare a cadere, visto che puoi cominciare a cadere soltanto quando non ci pensi, e come potresti non pensarci quando ap IOI
punto, ora, ci stai pensando? È una questione che nessuno ha mai seriamente affrontato, e che tutta via ha una sua importanza: dovrebbero esistere testi sull’argomento, testi certi e affidabili che per mettessero di far fronte a questo tipo di situazioni, che sono molto più frequenti di quanto general mente non si creda.
I tre quarti del tuo corpo si sono rifugiati nella testa; il cuore si è stabilito in un sopracciglio, dove, completamente acclimatato, batte come qualcosa di vivente, con forse solo un po’ troppa precipita zione. Occorre che tu faccia l’appello del corpo per verificare l’integrità di membra, organi, visce re, mucose. Ti piacerebbe cacciare via dalla testa tutti quei pezzi che l’ingombrano e appesantiscono, e allo stesso tempo ti congratuli con te stesso per avere salvato il salvabile, dato che il resto è andato perso, e non hai più né piedi né mani, e il polpaccio si è completamente liquefatto.
Il tutto si fa sempre più complicato: innanzi tutto occorrerebbe prelevare il gomito, in modo da poter mettere almeno una porzione di pancia nello spazio liberatosi, e così via di seguito, fino 102.
a ritrovarti ricostituito quasi per intero. Ma l’im presa è spaventosamente difficile: alcuni pezzi mancano, altri sono doppi, certi altri si sono nel frattempo smisuratamente ingranditi, altri anco ra avanzano pretese territoriali assolutamente folli: il gomito è più gomito che mai, ti eri dimen ticato quanto si potesse essere gomito, e c’è un’unghia che ha preso il posto della mano. E chiaramente sono sempre questi i momenti in cui gli aguzzini scelgono di intervenire. Uno di loro ti ficca in bocca una spugna imbevuta di gesso, un altro ti imbottisce le orecchie di cotone; un grup petto di segantini si è stabilito nei tuoi seni pa ranasali, un piromane ti incendia lo stomaco, dei sarti sadici ti comprimono i piedi, ti infilano un cappello troppo piccolo, ti infagottano in un cap potto troppo stretto, ti strozzano con una cra vatta; uno spazzacamino e il suo manutengolo hanno introdotto una corda piena di nodi nella tua trachea e, malgrado tutti i loro encomiabili sforzi, non riescono più a tirarla fuori. Vengono quasi sempre. Li conosci bene. La loro venuta quasi ti rassicura. La loro presenza signi fica che il sonno non è più tanto lontano. Ti fa ranno sì soffrire un po’, ma poi si stancheranno e ti lasceranno in pace. Ti faranno male, naturale, ma tu hai, nei confronti del dolore, così come nei 103
confronti di ogni sensazione percepita, di ogni pen siero che ti attraversa la testa, di ogni impressione avuta, un totale distacco. Ti vedi senza stupore essere stupito, senza sorpresa essere sorpreso, senza dolore essere assalito dagli aguzzini. Aspet ti che si calmino. Gli lasci volentieri tutti gli orga ni che vogliono. Li vedi da lontano contendersi la tua pancia, il tuo naso, la tua gola, i tuoi piedi.
Ma spesso, così spesso, proprio lì è l’estrema trappola. E allora nasce il peggio. Cresce lenta mente, impercettibilmente. Dapprima tutto è calmo, troppo calmo, e normale, troppo norma le. Sembra che nulla debba più muoversi. Ma sai, cominci a sapere, con certezza sempre più impla cabile, che hai perso il corpo, anzi no, per veder lo lo vedi, non lontano da dove sei, ma non lo potrai mai raggiungere. Ormai non sei che un occhio. Un immenso occhio fisso che tutto vede, il tuo corpo accascia to, e te stesso, osservato che osserva, come se la pupilla, completamente ribaltata, senza dir niente, stesse lì a contemplare te e il tuo interno, l’interno nero, vuoto, glauco, spaventato, impotente di te stesso. Ti guarda e ti inchioda. Non smetterai mai di vederti. Non puoi farci niente, non puoi sfug
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girti, non puoi sfuggire al tuo sguardo, non potrai mai: anche se riuscissi ad addormentarti così pro fondamente che nessuna scossa, nessuna chiama ta, nessuna bruciatura potrebbe svegliarti, ci sarebbe sempre quest’occhio, questo tuo occhio che non si richiude mai, che non si addormenta mai. Ti vedi, ti vedi vederti, ti guardi guardarti. Anche se riuscissi a risvegliarti, la tua visione rimarrebbe identica, immutabile. Anche se riuscis si a foderarti gli occhi con mille, un miliardo di palpebre, dietro ci sarebbe sempre quest’occhio per vederti. Non dormi, e il sonno non verrà. Non sei sveglio e non ti sveglierai mai. Non sei morto e neanche la morte potrebbe liberarti...
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Libero come una mucca, come un’ostrica, come un topo!
Ma i topi non passano ore a cercare di addor mentarsi. Ma i topi non si svegliano di sopras salto, in preda al panico, sudati fradici. Ma i topi non sognano, e tu contro i tuoi sogni cosa puoi fare?
Ma i topi non si rosicchiano le unghie, soprat tutto non metodicamente, per ore intere, fino a che le estremità degli artigli non diventano una piaga diffusa. Tu ti strappi il tessuto corneo fino a metà unghia, seviziando i punti in cui si attacca alla carne; strappi via le pellicine su quasi tutta la lun ghezza della falangetta, fino a farle sanguinare, fino a che le dita ti fanno così male che per parec chie ore ogni minimo contatto ti è a tal punto in sopportabile da non poter prendere niente in mano e dover immergere le mani nell’acqua bollita.
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Ma i topi, che tu sappia, non giocano a flipper. Tu t’incolli all’apparecchio per ore, per notti inte re, rabbiosamente, febbrilmente. Sbuffi dallo sfor zo, e abbarbicato alla macchinetta accompagni i rimbalzi della biglia d’acciaio con gran colpi di reni. Ti accanisci sulla molla di lancio, gli special, le cifre, i passaggi. Donne imbellettate con un occhio che si ac cende, un ventaglio che si abbassa. Non puoi lotta re contro un tilt. Puoi giocare o non giocare, ma non puoi metterti a dialogare, non puoi cioè fargli dire quello che non può dire. Hai un bel stringerlo, ansimargli sopra, il tilt resta insensibile alla tua amicizia, all’amore che stai cercando, al desiderio che ti lacera. Seimila punti, quando poi ne baste rebbero quattromila, non fanno che torturarti ulte riormente, non fanno che affondarti un po’ di più.
Vaghi per le strade, entri in un cinema; vaghi per le strade, entri in un caffè; vaghi per le strade, guardi la Senna, le macellerie, i treni, i manifesti, la gente. Vaghi per le strade, entri in un cinema dove vedi un film che assomiglia a quello che hai appena visto, la stessa storia beota raccontata da 108
un signore troppo intelligente, tutta musica e sdolcinature, poi l’intervallo, filmati pubblicitari che hai visto venti, cento volte, un cinegiornale che hai visto dieci, venti volte, un documentario sulle sardine, o sul sole, le Hawaii o la Biblioteca Na zionale, il provino di un film che hai già visto e che tornerai a vedere, il film appena visto che ricomincia, con i suoi titoli di testa spezzettati, la spiaggia d’Etretat, il mare, i gabbiani, i bambini che giocano sulla sabbia. Esci, vaghi nelle strade troppo illuminate. Ri torni su nella tua stanza, ti spogli, ti infili nelle len zuola, spegni la luce, chiudi gli occhi. È l’ora in cui donne da sogno troppo in fretta svestite ti si accal cano attorno, è l’ora in cui ti abbrutisci con libri letti cento volte, in cui ti rigiri nel letto cento volte senza prendere sonno. E l’ora in cui, gli occhi spalancati nel buio, tastando ai piedi della stretta panca in cerca di un portacenere, dei fiammiferi, o di un’ultima sigaretta, misuri con calma l’am piezza della tua infelicità.
Adesso di notte torni ad alzarti. Vaghi per le strade, vai ad appollaiarti sugli sgabelli dei bar, al Rosebud, da Harry’s, oppure ti siedi al FrancoSuisse, in rue Saint-Honoré, quasi di fronte alla 109
tua stanza, o al tavolo di un caffè vicino alle Hal les, te ne resti lì per ore, fino alla fine, di fronte a una birra, un caffè, o un bicchiere di rosso. Guar di gli altri andare e venire, i garzoni delle macelle rie, i fiorai, gli strilloni, i gruppetti di festaioli, gli ubriaconi solitari, le ragazze. Sei solo e vai alla deriva. Cammini su viali de solati, lungo gli alberi rinsecchiti, le facciate scro state, gli androni neri. Vai nelle inesauribili brut ture di Batignolles e Pantin. Incontri solo fonta nelle Wallace* da un pezzo prosciugate, il colatic cio delle chiese, cantieri sventrati, muri smorti. I giardinetti con le inferriate che ti imprigionano, i pantani stagnanti agli sbocchi delle fogne, i mo struosi ingressi delle fabbriche. Sotto le passerelle metalliche del quartiere dell’Europe le locomoti ve a vapore emettono sbuffi di fumo bianco. Bou levard Barbès, place Clichy, una folla di gente impaziente alza gli occhi al cielo. Non spezzerai il cerchio magico della tua soli tudine. Sei solo e non conosci nessuno; non co nosci nessuno e sei solo. Vedi gli altri accalcarsi, stringersi, proteggersi, abbracciarsi. Tu invece, lo sguardo vitreo, non sei che un fantasma traspa* Sir Richard Wallace nel 1871 donò alla città di Parigi, i cui acquedotti erano stati in parte distrutti durante la Comune di quello stesso anno, 66 fontanelle, affinché costituissero un punto d’acqua gratuito per la popolazione parigina (N.d.t). no
rente, un cinereo lebbroso, una sagoma già resti tuita alla polvere, un posto occupato cui nessuno si avvicina. Ti sforzi di sperare in incontri impre visti. Ma non è certo per te che cuoio, rame e legno si metteranno a brillare, che le luci si abbas seranno, e che i rumori si attutiranno. Sei solo, nonostante il fumo che si appesantisce, nonostan te Lester Young o Coltrane, sei solo nel calore ovattato dei bar, nelle strade deserte in cui risuo nano i tuoi passi, nella complicità mezzo addor mentata degli unici pochi bar rimasti aperti. Ci sono nemici che affronterai soltanto una volta, il tempo di conoscere, di riconoscere, il fred do sibilo dei serpenti che pietrificano, il tempo di battere in ritirata giusto in tempo, nel gelo della tua solitudine e impazienza, perso, tradito dal tuo stesso sguardo, con la percezione sempre più acu ta e sempre più vana dei minimi particolari: una ciocca di capelli, l’ombra di un bicchiere, l’accen no fugace di una sigaretta abbandonata, il tremo lio finale di una porta a due battenti che si chiu de. Niente ti sfugge, ma tu non afferri niente, se non troppo tardi, sempre troppo tardi, le ombre, i riflessi, le falle, gli accenni, i sorrisi, gli sbadigli, la fatica o l’abbandono.
Ili
L’infelicità non ti è piombata addosso di colpo, non si è abbattuta su di te all’improvviso; si è piut tosto infiltrata, insinuata lentamente, quasi soave mente. Ha impregnato minuziosamente la tua vita, i tuoi gesti, le tue ore e la tua stanza, come una verità a lungo camuffata, come un’evidenza nega ta; tenace e paziente, tenue, accanita, si è impa dronita delle crepe sul soffitto, delle rughe sul tuo viso nello specchio incrinato, delle carte da gioco distese sulla panca; si è infilata nella goccia d’ac qua dell’acquaio sul pianerottolo, è risuonata ogni quarto d’ora al campanile di Saint-Roch. La trappola era questa sensazione, talvolta al limite dell’esaltante, quest’orgoglio, questa specie di ebbrezza; credevi di non aver bisogno che della città, delle pietre e delle strade, della folla che ti trascinava, soltanto di un pezzetto di bancone alla Petite Source, di un posto davanti in un cinema di quartiere; della tua stanza, il tuo antro, la tua gab bia, la tana in cui torni ogni giorno, e da cui esci di nuovo ogni giorno, questo luogo quasi magico dove ormai non si offre più niente alla tua pazien za, nemmeno una crepa sul soffitto, una venatura nel legno dello scaffale, un fiore dipinto sulla carta da parati. Disponi per l’ennesima volta le cinquantadue carte sulla panca; per l’ennesima volta cerchi l’improbabile soluzione di un labirinto informe. II2
Hai perso i tuoi poteri. Non sai più seguire la lenta deriva di bolle e pagliuzze sulla superficie della tua cornea. Nessun volto, nessuna cavalcata vittoriosa, nessuna città all’orizzonte si lascia più decifrare attraverso crepe e ombre. La trappola: quest’illusione pericolosa di essere - come dire? - inespugnabile, di non offrire alcuna presa al mondo esterno, di scivolare sulle cose, in toccabile, gli occhi sbarrati che guardano avanti, tutto percependo, fino ai minimi particolari, ma nulla conservando. Sonnambulo sveglio, cieco che può vedere. Essere senza memoria, senza spavento. Ma non ci sono vie di uscita, niente miracoli, nessuna verità. Armature, schermature. Da quel giorno afoso in cui tutto ha avuto inizio, in cui tutto s’è arrestato. Cammini lungo i muri sudici di strade buie, urtando con la mano destra le pietre dei gradini, i mattoni delle facciate. Ti siedi sulla Senna, con le gambe a penzoloni, stando per ore e ore a guardare l’impercettibile mulinello che si scava sotto l’arcata di un ponte. Tiri via i quattro assi dalla distesa di cinquantadue carte. Quante volte hai fatto gli stessi gesti monchi, gli stessi tra gitti che non portano mai da nessuna parte? Non hai altro sostegno che i tuoi rifugi da quattro soldi, che la tua pazienza imbecille, che le mille e una deviazioni che ti riportano ogni volta al punto 113
di partenza. Dai giardinetti ai musei, dai caffè ai cinema, dalle sponde del fiume ai parchi, le sale d’attesa delle stazioni, le hall dei grand hotel, i grandi magazzini Monoprix, le librerie, le gallerie dei musei, i corridoi della metropolitana. Gli albe ri, le pietre, l’acqua, le nuvole, la sabbia, il mat tone, la luce, il vento, la pioggia: solo conta la tua solitudine: qualsiasi cosa tu faccia, ovunque tu vada, quello che vedi è senza importanza, quello che fai è vano, quello che cerchi è falso. Sola, esi ste la tua solitudine, che prima o poi ti ritrovi di fronte, amichevole o funesta; ogni volta te la ritro vi davanti e sei solo, senza aiuti, sconcertato o stravolto, disperato o impaziente. Hai smesso di parlare, e solo il silenzio ti ha risposto. Ma tutte quelle parole, le migliaia, mi lioni di parole che ti si sono bloccate in gola, le parole slegate, le urla di gioia, le parole amorose, le risa idiote, quand’è che le ritroverai?
Adesso vivi nel terrore del silenzio. Ma non sei tu il più silenzioso di tutti?
I mostri sono entrati nella tua vita, i topi, i tuoi simili, i tuoi fratelli. Dieci, cento, mille mostri. Li individui, li riconosci da impercettibili segni, dai 114
loro silenzi, dalle loro partenze furtive, dal loro sguardo sfuggente, vacillante e spaventato, che appena incrocia il tuo sguardo si volge altrove. Risplende ancora la luce nella notte dagli abbaini delle loro sordide stanze. I loro passi risuonano nella notte. I topi non si parlano, e quando si incrociano non si guardano. Ma sai che quei volti senza età, quelle sagome gracili o flaccide, quelle schiene rotonde, grigie, ti sono accanto in ogni momento, ne segui l’ombra, sei la loro ombra, bazzichi le loro tane, i loro pertugi, hai i loro stessi rifugi, gli stessi asili, i cinema di quartiere che puzzano di disinfettante, i giardinetti, i musei, i caffè, le sta zioni, la metro, i mercati generali. Disperazioni come te sedute sulle panchine, disegnano e cancel lano ininterrottamente sulla sabbia polverosa lo stesso cerchio imperfetto, lettori di giornali raccat tati nei cestini dei rifiuti, erranti che nessuna intemperie può fermare. Hanno i tuoi stessi peri pli, altrettanto vani, altrettanto lenti, altrettanto disperatamente complicati. Come te, nelle stazioni sostano indecisi davanti alle piantine della metro politana, come te, si mangiano i loro panini al latte seduti sulle sponde del fiume. Messi al bando, paria, esclusi, portatori di invi sibili stelle. Camminano sfiorando i muri, con la 115
testa abbassata, le spalle spioventi, le mani con tratte, aggrappandosi alle pietre delle facciate, con gesti stanchi, da vinti, da mangiatori di polvere. Li segui, li spii, li odi: mostri rintanati nelle loro stanze di servizio sotto i tetti, mostri in pantofole che strascicano i piedi vicino a putridi mercati, mostri con occhi glauchi da lampreda, mostri dai gesti meccanici, mostri farneticanti. Gli passi accanto, li accompagni, ti fai strada tra di loro: i sonnambuli, i bruti, i vecchi, gli idio ti, i sordomuti col berretto tirato sugli occhi, gli ubriaconi, i rimbambiti che si raschiano la gola e cercano di trattenere il tremolio intermittente delle guance, delle palpebre; i provinciali persi nella grande città, le vedove, i furbastri, i vecchi decrepiti, i ficcanaso.
Ti sono venuti incontro, ti si sono aggrappati al braccio. Quasi che, sconosciuto perso nella tua città, tu non potessi incontrare che altri scono sciuti come te; quasi che, tu solitario, ti vedessi piombare addosso le altre solitudini. Quasi che, il tempo di un bicchiere di vino bevuto al banco, solo potessero incontrarsi quelli che non parlano mai, quelli che parlano da soli. I vecchi pazzi, le vecchie ubriacone, gli esaltati, gli esiliati. Ti si 116
aggrappano ai risvolti della giacca, alle falde, alle maniche, alitandoti in faccia. Ti vengono incontro, a piccoli passi, con quei loro sorrisi da buoni, i loro volantini, i loro gior nali, le loro bandiere, i miserabili combattenti delle grandi cause imbecilli, le maschere ossute che partono in guerra contro la poliomielite, il cancro, i tuguri, la miseria, l’emiplegia e la cecità, i canzonieri tristi che chiedono l’elemosina per i loro compagni, gli orfani maltrattati che vendo no centrini, le vedove rinsecchite che proteggono gli animali domestici. Tutti quelli che ti si acco stano, ti trattengono, ti manipolano, ti sputano in faccia le loro meschine verità, le loro eterne domande, le loro opere buone, il loro cammino autentico. Gli uomini sandwich della fede auten tica che salverà il mondo. Venite a Lui, voi che soffrite. Gesù ha detto Voi che non vedete pensa te a coloro che vedono. Le carnagioni giallognole, i colletti lisi, quelli che ti farfugliano la loro vita, le loro prigioni, i loro ricoveri, i loro viaggi di fantasia, i loro ospedali. I vecchi istitutori che vorrebbero rifor mare l’ortografia, i pensionati che credono di aver messo a punto un sistema infallibile per recuperare le cartacce, gli strateghi, gli astrolo gò gli stregoni, i guaritori, i testimoni, tutti quel117
li che vivono con un’idea fissa in testa; i rifiuti, i rottami, i mostri inoffensivi e senili con cui si divertono i proprietari dei bar, versandogli bic chieri troppo pieni che loro non riescono a por tare alla bocca, le tardone impellicciate che si scolano dei Marie Brizard, sforzandosi di resta re dignitose.
E poi tutti gli altri, i peggiori, i sempliciotti, i furbi, i contenti di sé, quelli che credono di sapere e sorridono con l’aria di chi se ne intende, gli obesi, i rimasti giovani, i formaggiai, i decorati; i festaioli un po’ alticci, gli impomatati di periferia, i benestanti, i coglioni. I mostri forti del loro buon diritto, che ti prendono a testimone, ti squadrano, t’interpellano. I mostri con famiglia numerosa, con i loro bambini mostri, i loro cani mostri; le migliaia di mostri bloccati ai semafori; le stridule femmine mostro; i mostri coi baffi, col panciotto, con le bretelle, i turisti mostri rovesciati a mucchi davanti agli orridi monumenti, i mostri della domenica, la folla mostruosa.
Vaghi qui e là, ma la folla non ti trascina più, la notte non ti protegge più. Cammini ancora, sem118
pre, camminatore infaticabile, immortale. Cerchi, aspetti. Vai scarpinando nella città fossile, con l’in tatta pietra bianca delle facciate restaurate, i bido ni della spazzatura pietrificati, le sedie ormai vuote dove un tempo si sedevano le portinaie; vai scarpi nando nella città morta, i ponteggi abbandonati accanto agli edifici sventrati, i ponti portati via dalle nebbie e dalla pioggia. Città putrida, città ignobile, orrenda. Città tri ste, luci tristi nelle strade tristi, clown tristi nei music-hall tristi, code tristi davanti a cinema tristi, mobili tristi in negozi tristi. Stazioni buie, caser me, capannoni. Le lugubri brasserie che si susse guono lungo i Grands Boulevards, le vetrine orri bili. Città rumorosa o deserta, livida o isterica, città sventrata, saccheggiata, maculata, città irta di divieti, di sbarre, di inferriate, di serrature. La città-carnaio: gli stantii mercati coperti, le barac copoli mascherate da grandi complessi urbani, i bassifondi nel cuore di Parigi, l’insopportabile orrore dei boulevard polizieschi: Haussmann, Magenta, Charonne*.
* Alcuni dei grandi assi stradali concepiti e realizzati in luogo di vecchi quartieri popolari dall’urbanista e prefetto di Parigi Georges Eugène Haussmann dal 1853 finalizzati anche al man tenimento dell’ordine pubblico (N.d.t.). II9
Digita qui il testo
Come un prigioniero, come un pazzo in cella. Come un topo che nel dedalo cerca una via di fuga, percorri Parigi in tutti i sensi. Come un affa mato, come un messaggero latore di una lettera senza indirizzo.
Aspetti, speri. I cani ti si sono affezionati, e pure le cameriere e i camerieri dei caffè, le ma schere, le cassiere dei cinema, i giornalai, i bigliet tai sugli autobus, gli invalidi che sorvegliano le sale deserte dei musei. Puoi parlargli senza timo re, loro ti risponderanno ogni volta con la stessa identica voce. I loro visi ti sono ora famigliari. Ti riconoscono, ti salutano. Certo non sanno che quei semplici saluti, quegli unici sorrisi, quegli indifferenti cenni del capo, sono tutto ciò che ogni giorno ti salva, che li hai aspettati per tutto il gior no, quasi fossero la ricompensa per un fatto glo rioso di cui non puoi parlare, ma che loro potreb bero anche indovinare. Allora, a volte, tenti disperatamente di impor re alla tua vita vacillante la gogna di una ferrea disciplina. Metti ordine, rassetti la stanza, stabi lisci un budget rigoroso: il tuo peculio è di 500 franchi al mese, cui vanno sottratti 50 franchi 12.0
per l’affitto della stanza, ti restano 15 franchi al giorno così suddivisi:
un pacchetto di gauloises una scatola di fiammiferi un pasto un cinema una mancia per la maschera «le Monde » un caffè
i,35 0,10 4,20 2,50 0,20 0,4° 1,00
Ti restano 5 franchi e 25 per un secondo pasto (di solito una brioche all’uvetta o una mezza ba guette), un altro caffè, la metro, l’autobus, il den tifricio, la lavanderia. Regoli la tua vita come un orologio, come se il dedicarti a futili scopi, decidendo tutto in antici po e non lasciando niente al caso, fosse l’unico modo per non perderti e non affondare del tutto. Sia dunque la tua vita chiusa, liscia e rotonda come un uovo, e i tuoi gesti fissati da questo ordi ne immutabile che decide tutto per te e che ti pro tegge tuo malgrado. Con rigore encomiabile programmi i tuoi iti nerari. Esplori tutta Parigi, strada dopo strada, dal parco Montsouris a quello delle Buttes-Chaumont, dal Palazzo della Difesa al Ministero della Guer ra, dalla Tour Eiffel alle Catacombe. Mangi ogni 121
giorno, alla stessa ora, lo stesso pasto. Visiti le sta zioni, i musei. Prendi il caffè sempre nello stesso caffè. Leggi «le Monde», dalle cinque alle sette.
Ti pieghi i vestiti prima di andare a letto. Puli sci la stanza a fondo ogni sabato mattina. Tutte le mattine ti rifai il letto, ti rasi, lavi i calzini in una bacinella di plastica rosa, lucidi le scarpe, ti lavi i denti, lavi la tazza, l’asciughi e la riponi sulla men sola, sempre nello stesso posto. Tutte le mattine, nello stesso minuto, nello stesso posto, allo stesso modo, strappi la striscia di carta gommata che chiude il tuo pacchetto quotidiano di gauloises. L’ordine della stanza. L’impiego del tempo. Ti imponi divieti puerili. Non calpestare l’intersezione del lastricato sul bordo del marciapiede. Rispettare i sensi giratori, i divieti di sosta. Non sopporti di essere in ritardo o in anticipo. Vorresti accenderti una sigaretta ogni quarantacinque minuti esatti. È come se, in ogni momento, ti aspettassi che un tuo minimo cedimento ti trascinasse troppo lontano. Come se, in ogni momento, avessi bisogno di dirti: è così perché io l’ho voluto così, l’ho volu to così o altrimenti sono morto.
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Qualche volta, per intere serate, semisdraiato sulla stretta panca, senz’altra luce del pallido e soffuso chiarore che entra dall’abbaino, che solo il fuoco rossastro della tua sigaretta ravviva a in tervalli regolari, ascolti il tuo vicino andare e ve nire. Il tramezzo che separa le vostre due stanze è così sottile che quasi ne senti il respiro, e lo senti anche quando gira in pantofole. Cerchi spesso di immaginare le sue movenze, il suo volto, le sue mani, quello che fa, la sua età, i suoi pensieri. Di lui non sai niente, non l’hai neanche mai visto, o tutt’al più, forse, l’hai incrociato un giorno per le scale, ti sei incollato alla parete per lasciarlo pas sare, senza però sapere, senza poter affermare che si trattava di lui. Non cerchi peraltro di vederlo, non socchiudi la porta quando lo senti uscire sul pianerottolo per riempire il bollitore al rubinetto dell’acquaio, preferisci ascoltarlo, e modellarlo a modo tuo. Sai solo che la sua stanza è molto più grande della tua, poiché può spostarvisi, e si spo sta per raggiungere la finestra o il letto, la porta o 123
l’armadio, mentre tu, dal centro della tua, a circa tre quarti della panca, stando a piedi uniti, puoi raggiungere con le mani ogni punto, la finestra, la porta, il piccolo lavabo, l’angolo-armadio, la bacinella di plastica rosa, lo scaffale. Deve essere vecchio, a giudicare dalla tosse un po’ roca, dai raschiamenti di gola e dai passi stra scicati, senza necessariamente dedurne la vecchia ia dalla solitudine, giacché anche lui, come te, non riceve mai nessuno in stanza (quasi che l’ultimo piano dell’edificio di cui siete, a tua conoscenza, gli unici occupanti, presentasse da qualche tempo un pericolo per la sicurezza di coloro che avessero la tentazione di accedervi), e nemmeno dall’impie go oltremodo rituale del tempo; quest’ultimo punto starebbe piuttosto a dimostrare che anche lui, di nuovo un po’ come te, è uomo di abitudini, ma allora, forse, nel suo caso un po’ più serene delle tue. Tutti i giorni, inclusa la domenica, lascia la stanza in tarda mattinata e torna regolarmente al calar della notte, come se la sua attività, lucrati va o meno, fosse regolata dalla luce del giorno e non tenesse conto dell’orario: fino a Natale è rien trato ogni giorno un po’ più presto, adesso invece rientra ogni giorno un po’ più tardi. Lo credi venditore ambulante, venditore di cra vatte esposte in un ombrello, anzi uno di quei ven-
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ditori che mostrano le proprietà miracolose di qualche prodotto per tirar via calli, macchie, ver ruche o vene varicose, o, meglio ancora, piccolo mereiaio la cui bancarella, costituita da una vali gia aperta su quattro piedi metallici a telescopio, offre alla folla di curiosi dei Grands Boulevards pettini, accendini, lime, occhiali da sole, custodie e portachiavi. Questa tua supposizione si fonda principalmente sul fatto che la sua attività essen ziale, quando è in stanza, sia al mattino che la sera, consiste nel chiudere e aprire cassetti, come se ogni mattina prima di uscire dovesse prendersi dietro una gran quantità di materiale, e ogni sera a fine giornata dovesse rimettere tutto a posto. Forse si serve della valigia aperta, usandola come comodino, o per scrivere, o per cenare: te lo immagini, un po’ cerimonioso e ridicolo, apparec chiare la tavola con una tovaglia ricamata, avanzo di un antico patrimonio di famiglia, un candeliere andante con candele di pessima qualità, un servi zio da tavola forse identico a quelli che vende, composto cioè da un bicchiere di metallo, un piat to di plastica rosa e un assortimento completo di posate in alluminio incastrate l’una sull’altra, il cucchiaio con la stessa incavatura della forchetta, la forchetta del coltello e i tre pezzi tenuti assieme da un rivetto a forma di bottone da solino fissato 12.5
al cucchiaio, che attraversa forchetta e coltello e si attacca a un anello di cuoio; è insomma come se, per una strana confusione della tua mente, quella valigia, la cui esistenza è ben lungi dall’esser certa, potesse essere una bancarella di mereiaio il giorno e una valigia da picnic la sera. Ma non è neanche certo che il tuo vicino ceni, non senti mai il rumo re né l’odore dello sfrigolare di frattaglie, di ro gnoni, che dovrebbero essere il suo cibo preferito. Sai soltanto, con qualche certezza, che va a riem pire il bollitore al rubinetto dell’acquaio sul piane rottolo (perché la sua camera, per quanto più grande della tua, è priva di acqua corrente) e lo mette su un fornello di cui ti è ignoto il modello, ma che quasi certamente è di tipo piuttosto primi tivo, a giudicare dal tempo che il bollitore impiega a fischiare, cioè l’acqua a bollire.
Hai un bell’ascoltare, tendere le orecchie e tenerle incollate al tramezzo, alla fin fine non sai quasi niente. Sembra che quanto più si precisa la tua percezione, tanto più le tue interpretazioni si fanno incerte. Forse davvero apre e chiude conti nuamente cassetti, ma neppure questo è dimostra bile; nulla vieterebbe, per esempio, che per motivi a te ignoti, o per il solo gusto di ingannarti, egli 12.6
sfreghi l’una contro l’altra due tavole, o che apra e chiuda effettivamente uno o più cassetti, ma così, senza motivo, senza cioè mettere o prendere nien te, soltanto per far rumore, o perché gli piace il rumore dei cassetti che si aprono e richiudono. Forse esce davvero tutti i giorni a fine mattinata, ma tu non sei lì tutti i giorni per poterlo verificare, così come a volte sei tu a uscire al calar della sera, prima che lui sia di ritorno; magari fa finta di usci re, scende qualche gradino, poi risale così piano che tu, pur sforzandoti, non puoi percepirne la presenza. Forse prende davvero l’acqua nel piane rottolo, e davvero il suo bollitore fischia quando l’acqua bolle: ma chissà, magari è lui a fischiare, chi lo può dire?
Tuttavia, a volte, la sua vita t’appartiene, i suoi rumori sono tuoi perché li ascolti, li aspetti, perché ti mantengono in vita, come la goccia d’acqua, le campane di Saint-Roch, i rumori della strada e della città. Ti interessa poco se ti sbagli, interpreti o inventi. Basta che tu l’abbia fatto mereiaio per ché lo sia, con la sua valigia pieghevole, i pettini, gli accendini e gli occhiali da sole. Lui vive l’esile vita che gli lasci vivere, svanendo appena esce dal campo della tua percezione, morto appena ti vince
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il sonno, e per tutto il resto del tempo condannato a riempire d’acqua il bollitore, tossire, strascicare i piedi, aprire e chiudere cassetti.
Magari però, senza saperlo, per una sorta di tacita simbiosi, anche tu gli appartieni. Forse, come tu aspetti con impazienza ogni suo colpo di tosse, i suoi fischi, il rumore dei cassetti, anche per lui il rumore della tazza che riponi sulla men sola, il fruscio dei giornali che continuamente prendi e riprendi, e delle carte che disponi sulla stretta panca, i rumori d’acqua, il tuo respiro, come la goccia d’acqua, il campanile, i rumori della strada e della città, formano la fitta trama del tempo che scorre, del persistere della vita. Forse anche lui tenta disperatamente di conoscer ti, facendo infinite interpretazioni su ogni segno percepito: chi sei, cosa fai? tu che sfogli i giorna li, tu che resti parecchi giorni senza uscire, o vari giorni senza tornare?
Ma tu fai così poco rumore! Lui riesce soltanto a rilevare la tua presenza, e se sta così attento è perché è impaurito, perché è angustiato da te: è come quel vecchio tasso che, nella sua tana mai
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protetta abbastanza, sente un rumore non troppo lontano che non riesce mai a localizzare veramen te, un rumore che non aumenta mai del tutto, ma che neppure diminuisce, che non cessa mai. Lui cerca di proteggersi, prova goffamente a tenderti qualche trappola, a farti credere che è potente, che non ti teme, che non sta tremando: ma è così vec chio! Gli resta soltanto la forza di contare e ricon tare senza posa il suo capitale, e di cambiargli in ogni momento nascondiglio.
A volte, povero imbecille, ti piace immaginar telo ammaliato da te, come davvero impaurito: allora ti sforzi di restare in silenzio il più a lungo possibile; oppure gratti con un pezzo di legno, una lima o una matita, la parte superiore del tramezzo che separa le vostre stanze, producendo un rumo rino sottile e snervante.
Oppure, viceversa, preso da un improvviso moto di simpatia, hai quasi voglia di inviargli mes saggi di saluto, batti col pugno contro il tramezzo, un colpo sta per A, due colpi per B...
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Ora non hai più rifugi. Hai paura, aspetti che tutto si fermi, la pioggia, le ore, il flusso delle automobili, la vita, gli uomini, il mondo, che tutto crolli, le muraglie, le torri, i pavimenti e i soffitti; che uomini e donne, vecchi e bambini, cani, cavalli, uccelli, uno a uno, cadano a terra, paralizzati, appestati, epilettici; che il marmo si sbricioli, che il legno si polverizzi, che le case cadano silenziosamente a pezzi, che piogge dilu viali dissolvano le tinteggiature, scardinino le caviglie degli armadi centenari, lacerino i tessuti, sciolgano l’inchiostro dei giornali; che un fuoco privo di fiamme consumi i gradini delle scale; che le strade sprofondino esattamente al centro, lasciando spalancato il labirinto delle fogne, che ruggine e nebbia invadano la città. Talvolta, sogni che il sonno è una morte che si impadronisce di te lentamente, un’anestesia dolce e terribile allo stesso tempo, una lieta necrosi: il freddo risale lungo le gambe, le braccia, lenta mente, intorpidendoti e annichilendoti. L’alluce è 131
una montagna lontana, la gamba un fiume, la guancia un cuscino, tu alloggi per intero nel pol lice, squagliandoti e scorrendo via come sabbia, come mercurio. Ormai non sei che un granello di sabbia, un omuncolo accartocciato, una piccola cosa inconsistente, senza muscoli, senza ossa, senza gambe, senza braccia, senza collo, con piedi e mani confuse, e immense labbra che ti inghiottono. Ti ingrandisci immensamente, esplodi, muori, pieno di crepe, pietrificato: le ginocchia sono pie tre dure, le tibie sbarre d’acciaio, il ventre una banchisa, il sesso una stufa, il cuore un caldero ne. La testa è una landa pervasa da nebbie, veli leggeri, fitte coltri, pesanti mantelli...
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Le sopracciglia si alzano e si tendono; la fronte si aggrotta, gli occhi ti fissano. La bocca si apre e si richiude.
Ti guardi attentamente allo specchio e, anche da vicino, trovi che alla fine il tuo viso è meglio di quanto ti risultasse (anche se è vero che la luce è quella della sera, e la sua fonte è dietro di te, sicché la peluria che copre l’orlo delle orecchie è la sola a essere davvero illuminata). È un viso puro, model lato armoniosamente, dai contorni quasi belli. Il nero dei capelli, delle sopracciglia e delle orbite spunta come qualcosa di vivo dalla massa del tuo viso in atteggiamento di attesa. L’espressione non ha nulla di devastato, di ciò non c’è traccia, ma non si può neanche dire che sia un’espressione infantile, quanto piuttosto un’espressione incredi bilmente energica, o forse semplicemente osserva trice, dato che stai appunto osservandoti e vorresti farti paura. 133
Che segreti vai cercando in quello specchio incrinato? Quale verità in quel viso? La faccia tonda, un po’ gonfia, quasi già imbolsita, le so pracciglia che si toccano, la minuscola cicatrice sul labbro, gli occhi un po’ globulosi, i denti irre golari, pieni di tartaro giallastro, le multiple escre scenze, i brufoli, i punti neri, le verruche, i come doni, i nei nerastri o brunastri da cui spunta qual che pelo, sotto gli occhi, sul naso, sotto le tempie. Avvicinandoti puoi constatare che hai la pelle sor prendentemente striata, rugosa e piena di impuri tà. Puoi vedere ogni tuo poro, ogni rigonfiamen to. Guardi, scruti le alette del naso, le screpolatu re delle labbra, la radice dei capelli, le venule esplose che striano di rosso il bianco degli occhi.
A volte somigli a una mucca. Gli occhi globu losi non manifestano nessun interesse per quello che incontrano. Ti vedi nello specchio e ciò non ti suscita nessun sentimento, neanche quello che potrebbe scaturire dalla semplice abitudine. Quel riflesso bovino nello specchio, che l’esperienza ti ha insegnato a identificare come l’immagine più sicura del tuo viso, sembra che non abbia nessuna 134
simpatia nei tuoi confronti, e nessuna riconoscen za, come se, appunto, non ti riconoscesse nean che, anzi piuttosto, come se riconoscendoti si met tesse d’impegno a manifestare nessuna sorpresa. Certo, non puoi pensare sul serio che ce l’abbia con te, e nemmeno che stia pensando ad altro. Semplicemente, come una mucca, una pietra, o come l’acqua, non ha niente da dirti di particola re. Ti guarda per educazione, solo perché lo stai guardando. Ti tiri gli angoli degli occhi, fai la faccia da cinese, provi qualche altra smorfia, gli occhi spa lancati: il guercio con la bocca storta, la scimmia con la lingua che scivola sotto il labbro superiore o sotto quello inferiore, le guance scavate, le guan ce gonfiate, ma comunque sia, cinese o con le smorfie, la mucca nello specchio incrinato si lascia fare senza reagire. La sua è una docilità così evi dente che in un primo momento ti rassicura, poi ti preoccupa, poiché alla fine diventa quasi fastidio sa. Puoi abbassare lo sguardo davanti a un uomo, o davanti a un gatto, dato che entrambi, l’uomo e il gatto, ti guardano, e il loro sguardo è un’arma (e la benevolenza d’uno sguardo è forse anche la peggiore di tutte le armi, quella che ti disarmerà laddove l’odio non avrebbe fatto niente) ma non c’è niente di più scortese che abbassare lo sguardo 135
davanti a un albero, davanti a una mucca, o al tuo viso riflesso nello specchio.
Vi fu un tempo in cui, a New York, a poche centinaia di metri dal frangersi delle ultime onde dell’Atlantico, un uomo si è lasciato morire. Faceva lo scrivano presso un uomo di legge. Nascosto dietro a un paravento, restava seduto allo scrittoio e non si muoveva mai di lì. Si nutri va di soli biscotti allo zenzero. Dalla finestra guardava un muro di mattoni anneriti che quasi poteva toccare con la mano. Inutile chiedergli alcunché, di rileggere un testo o andare all’uffi cio postale. Minacce e preghiere non avevano su di lui nessuna presa. Alla fine divenne quasi cieco. Lo si dovette cacciare. Lui si sistemò nelle scale dell’edificio. Lo si fece allora rinchiudere, ma si sedette nel cortile della prigione e rifiutò di nutrirsi.
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Non sei morto e non sei diventato più saggio. Non hai esposto gli occhi alle bruciature del sole. I due vecchi attori di second’ordine non sono venuti a prenderti, non ti si sono incollati for mando un blocco tale che sarebbe stato impossi bile schiacciare uno di voi senza annientare gli altri due. I vulcani misericordiosi non si sono sporti su di te.
Che invenzione meravigliosa, l’uomo! Può soffiarsi nelle mani per scaldarsele e sof fiare sulla minestra per raffreddarla. Può afferra re delicatamente un qualsiasi coleottero, quando non è troppo il disgusto, prendendolo tra il polli ce e l’indice. Può coltivare vegetali ricavandone il nutrimento, il vestiario, qualche droga, e persino dei profumi che gli serviranno a camuffare il pro prio odore sgradevole. Può battere i metalli e 137
farne delle pentole (cosa che una scimmia non può fare). Quante storie esemplari esaltano la tua gran dezza, la tua sofferenza! Quanti Robinson, Roquentin, Meursault, Leverkühn! I titoli di merito, le belle immagini, le menzogne: tutto falso. Non hai imparato niente, non potresti testimoniare. Non è vero, non crederci, non credere ai martiri, agli eroi, agli avventurieri! Soltanto gli imbecilli parlano ancora dell’Uo mo senza riderne, della Bestia, del Caos. Il più ri dicolo degli insetti spende per sopravvivere un’e nergia pari, se non superiore, a quella che occorse a non so più qual aviatore (caduto vittima degli orari forsennati imposti da una Compagnia a cui per giunta era fiero di appartenere) per traversare una montagna che era ben lungi dall’essere la più alta del pianeta.
Il topo nel suo labirinto è capace di compiere vere e proprie prodezze: collegando scrupolosa mente i pedali su cui deve spingere per ottenere il cibo alla tastiera di un piano, o di un organo, si può ottenere dall’animale un’esecuzione decente del «Gesù mia gioia», e nulla vieta di pensare che ci prenda un gran gusto.
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Ma tu, povero Dedalus, non c’era nessun labi rinto. Finto prigioniero, la porta era aperta. Nes suna guardia davanti, nessun capo guardie in fondo alla galleria, nessun Grande Inquisitore alla porticina del giardino.
Toccare il fondo, non significa niente. Né il fondo della disperazione, né il fondo dell’odio, né il fondo della decadenza etilica o della solitudine orgogliosa. L’immagine, fin troppo bella, di colui che dopo essersi immerso, con una vigorosa spin ta dei piedi riemerge in superficie, è lì a ricordar ti, casomai ce ne fosse bisogno, che chi è caduto ha diritto a tutti gli onori: la misericordia di Dio si estende a lui così come agli abitatori del regno dei cieli a cui Egli dona nutrimento. I peccatori, come coloro che sprofondano negli abissi, sono fatti per essere assolti.
Ma nessuna bordeggiarne Rachele ti ha rac colto dal relitto miracolosamente preservato del Pequod, perché tu, altro orfano, venga a tua volta a testimoniare.
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Tua madre non ti ha ricucito i vestiti. Non an drai, per la milionesima volta, in cerca della realtà dell’esperienza, né forgerai nella fucina della tua anima l’increata coscienza della tua razza. Nessun vecchio antenato, né vecchio artefice, ti farà buona guardia, né oggi né mai.
Non hai imparato niente, tranne che la solitu dine non insegna niente, che l’indifferenza non insegna niente: era un’impostura, una fascinosa e ingannevole illusione. Eri solo, tutto qui, e volevi proteggerti; volevi tagliare per sempre i ponti tra te e il mondo. Ma tu sei così poca cosa, e il mondo un tal parolone: alla fine, il tuo non è stato altro che un errare in una grande città, e costeggiare chilometri di facciate, vetrine, parchi e lungofiume.
L’indifferenza è inutile. Puoi volere o non vole re, che importanza ha? Fare o non fare una parti ta a flipper, ci sarà comunque un altro che infile rà una moneta da venti centesimi nella fessura della macchinetta. Puoi credere che consumando ogni giorno lo stesso identico pasto compi un atto risolutivo. Ma il tuo rifiuto è inutile. La tua 140
neutralità non significa niente. La tua inerzia è altrettanto vana della tua rabbia. Credi di passare, indifferente, lungo le strade principali, andando alla deriva nella città, se guendo la folla, penetrando i giochi delle ombre e delle crepe. Ma niente è accaduto: nessun miracolo, nessu na esplosione. Ogni giorno sgranato non ha fatto che erodere la tua pazienza, che mettere a nudo l’ipocrisia dei tuoi ridicoli sforzi. Bisognava che il tempo si fer masse completamente, ma niente e nessuno è così forte da poter lottare contro il tempo. Hai potuto barare, guadagnare qualche briciola, qualche secondo: ma le campane di Saint-Roch, l’alter narsi dei semafori all’incrocio tra la rue des Pyra mides e la rue Saint-Honoré, l’immancabile ca duta della goccia dal rubinetto dell’acquaio nel pianerottolo non hanno mai smesso di misurare le ore, i minuti, i giorni e le stagioni. Sei riuscito a far finta di dimenticartene, a camminare di notte e a dormire di giorno. Non l’hai mai ingannato del tutto.
Per molto tempo hai costruito e distrutto i tuoi rifugi: l’ordine o l’inazione, la deriva o il sonno, i 141
giri notturni, i momenti neutri, la fuga delle ombre e delle luci. Forse potresti anche continua re a mentirti, ad abbrutirti e a impegolarti. Ma il gioco è finito, il grande festeggiamento, l’ebbrez za fallace della vita sospesa. Il mondo non si è mosso e tu non sei cambiato. L’indifferenza non ti ha reso differente.
Non sei morto. Non sei impazzito.
I disastri non esistono, sono altrove. La più infima catastrofe avrebbe forse potuto salvarti: se avessi perso tutto, avresti almeno avuto qual cosa da difendere, delle parole da dire per con vincere e commuovere. Ma non sei neanche ma lato. I tuoi giorni e le tue notti non corrono peri coli. I tuoi occhi ci vedono, la tua mano non trema, il tuo polso è regolare, e il cuore continua a battere. Se fossi almeno brutto, la tua bruttez za potrebbe avere qualcosa di affascinante, ma non sei nemmeno brutto, né gobbo, né balbu ziente, né monco, né un troncone senza gambe, e nemmeno claudicante.
I4i
Nessuna maledizione grava sulle tue spalle. Forse sei un mostro, ma non un mostro degli Inferi. Non devi contorcerti né urlare. Nessuna prova ti attende, nessun masso di Sisifo, nessun calice ti verrà porto per il tuo rifiuto, nessun corvo mira ai tuoi globi oculari, nessun avvoltoio si è visto infliggere l’indigesto compito di man giarti il fegato, mattino, pomeriggio e sera. Non devi trascinarti davanti ai giudici, implorando la grazia, gridando pietà. Nessuno ti condanna e non hai nessuna colpa. Nessuno ti guarda per poi allontanarsi subito con orrore.
Il tempo, che su tutto veglia, ha trovato tuo malgrado la soluzione. Il tempo, che conosce la risposta, ha continua to a scorrere.
Poi in un giorno del genere, un po’ più tardi, o un po’ più presto, tutto ricomincia, tutto comin cia, tutto continua.
Smetti di parlare come un uomo che sogna.
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Guarda! Guardali! Migliaia e migliaia di sen tinelle silenziose, immobili genti di terra, pianta te lungo le banchine, le rive, lungo i marciapiedi allagati dalla pioggia di Place Clichy, sono lì per dute in fantasticherie oceaniche, aspettano i bru mosi spruzzi delle onde, l’infrangersi dei marosi, il rauco richiamo degli uccelli marini.
No. Non sei più il padrone anonimo del mondo, quello su cui la storia non aveva presa, quello che non sentiva cadere la pioggia, che non vedeva veni re la notte. Non sei più l’inaccessibile, il limpido, il trasparente. Hai paura e aspetti. Aspetti, in Place Clichy, che la pioggia cessi di cadere.
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Nota del traduttore
Per i passi in cui mi sono dovuto allontanare dalla let tera del testo francese riporto qui di seguito l’originale, con qualche spiegazione: A pagina 34, dove traduco «il cavallo non prende a cuori se il fossato non l’ha scartato», nell’originale c’è un non-sense che suona come una filastrocca: Le cavalier n’est jamais maître à cœur à moins que le fausset n’ait été défaus sé (il cavallo non prende mai a cuori a meno che il falsetto non sia stato scartato). Nella frase c’è assonanza tra fausset (falsetto) e défaussé (scartato, nei giochi di carte); ma essen doci anche assonanza tra fausset e un virtuale fossé (fossa to), défausser potrebbe avere un significato prossimo a «sca valcare il fossato»; restando sovrapposta l’area semantica dell’equitazione a quella del gioco a carte. A pagina 47 c’è una sfilza di nove frasi composte da proverbi, fraseologismi e modi di dire francesi, il cui senso esprime sempre il farsi da parte del protagonista nella grande corsa per diventare qualcuno nella vita. La frase «Te la cavi lasciando il banco e il beneficio» traduce Tu retires du jeu tes billes et tes épingles (tiri via dal gioco le biglie e le spille), che è l’unione di Retirer ses billes du jeu (togliere le proprie biglie dal gioco, ovvero smettere di gio care) e Retirer son épingle du jeu (togliere la propria spilla dal gioco, ovvero tirarsi fuori da un affare senza perdere soldi). Dove traduco «Non fai carte false, non ti giochi il tutto per tutto», nell’originale è Tu ne mets aucune chance
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de ton côté, aucun œuf dans nul panier che unisce Mettre toutes ses chances de son côté (mettere tutte le proprie pos sibilità dalla propria parte, ovvero fare di tutto per vince re od ottenere qualcosa) e Mettre tous ses œufs dans le même panier (mettere tutte le uova nella stessa cesta, ovve ro giocarsi tutto sullo stesso affare). Dove traduco «Chiu di bottega e parti alla chetichella», c’è Tu mets la clé sous la porte (mettere la chiave sotto la porta, che significa «traslocare, partire discretamente», e per estensione «ces sare i propri traffici e attività»). A pagina 64 Perec infila nel testo cinque cruciverba che il protagonista legge su «le Monde» (Perec era un grande appassionato di cruciverba e ne creava per «le Point» e altri giornali, tra cui proprio «le Monde», raccolti successiva mente in due libri di parole crociate). Le definizioni nei cru civerba a indovinello giocano su un doppio senso; dove tra duco «È poco ortodosso battezzarlo: vino», il francese ha Pas catholique quand on le baptise: vin (non è cattolico quando lo si battezza: vino, dove «battezzare» associato al vino, sia in francese che in italiano, vale per «annacquar lo»; e pas catholique significa cosa non ammessa o poco corretta, come il nostro «poco ortodosso»); «Articolo di fede: la», sta per L’article de la mort: la (l’articolo della morte: la) dove article indica la particella grammaticale, ma la frase intera viene dal latino in articulo mortis, in punto di morte. Gli ultimi tre, intraducibili anche solo parzialmente, sono stati sostituiti da cruciverba funzionalmente equiva lenti: «Le piaceva troppo il parmigiano: Sanseverina» (che viene dallo stesso Perec: Elle aimait trop le parmesan: San severina) qui al posto di Sont inséparables quand ils sont brouillés: œufs (sono inseparabili quando sono in litigio: uova, dove brouillés significa sia «in litigio» che «strapaz zate»); «Una pianta che cammina: piede», al posto di Som
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existence précède l’essence: Antar (la sua esistenza precede l’essenza: Antar; essence è «essenza» e «benzina», Antar è un’azienda petrolifera francese). «Quando tira non fuma: camino», per S’il est pour le vice c’est peut-être seulement parce qu’il est contre: amiral (se è a favore del vizio lo è sol tanto perché è contro: ammiraglio, vice è «vizio» e «vice», e il contrammiraglio è il secondo dell’ammiraglio). J-T.
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Georges Perec e l’uomo che dorme di Gianni Celati
«L’incondizionata democrazia di tutte le cose.» Herman melville, lettera del giu gno 1865.
Il primo libro di Georges Perec, Le cose (1965), è una cronaca degli anni ’60, quando si diffonde l’irresistibile passione degli acquisti, l’ossessio nante desiderio dei prodotti di moda e del com fort d’ordinanza. Il libro inizia con la descrizione della casa ideale, formata da oggetti di tentazio ne, visti nei cataloghi d’arredamento o nelle ve trine di Parigi. I giovani protagonisti, Jérôme e Sylvie, sognano la bella casa come Madame Bovary sognava l’amore da romanzo. Il tutto rac contato con leggerezza ironica, senza trame di richiamo, quasi sempre col passo svelto d’un rac conto quotidiano. Più d’una volta Perec ha fatto notare che Le cose non vuol essere una condanna della passione per gli oggetti, ma il resoconto d’una sua espe rienza fatta anni prima. È stato un modo di osser 153
vare il ruolo dominante che le cose hanno assun to nelle nostre vite, e di farne un uso letterario: «Le cose ci descrivono. Possiamo descrivere gli uomini attraverso gli oggetti, attraverso l’ambien te che li circonda e il modo in cui si spostano in questo ambiente» (intervista in «Littérature», n. 7, 1983)· Le cose prendono il posto della psicologia, ed è il segno d’una mutazione a largo raggio che negli stessi anni tocca filosofia, lettere, arti, cine ma. Invece dell’interno dell’uomo, della sua inte riorità o coscienza, viene in primo piano lo spa zio esterno: l’esteriorità in cui si colloca, con la sua casa, i suoi rituali, la sua lingua, e i processi ambientali in cui è coinvolto, cominciando dal fenomeno dalla vita quotidiana. Questa apertura di campo è la questione cen trale in Perec. Si tratta di andare verso le cose e interrogarle, accumulare descrizioni delle loro caratteristiche. Nei testi di Perec tutto diventa rilevante: mobili, utensili, spazi, cataloghi di acquisti per corrispondenza, prestiti da altri auto ri, una raccolta di cartoline, un elenco dei cibi mangiati in un anno, o diari come quello prepa ratorio per La vita istruzioni per l’uso - dove an notava qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani, da un mazzo di tuberose a una cartolina dal Massa 154
chusetts, che poi entravano pari pari nelle scene del libro. E l’idea d’un magazzino di roba qual siasi, dove anche gli oggetti immateriali, i ricordi e i pensieri e i sogni, sono trattati come cose ma teriali, nell’esteriorità di tutto.
L’esteriorità, sempre disprezzata dai signori dell’umanesimo, diventa l’essenza d’un modo di scrivere. Esteriorità vuol dire eterogeneità, spazio multiforme, mai riducibile a un’unità omogenea, anche se composto di elementi seriali. Con le idee si passa subito alle generalizzazioni, ma davanti alla moltitudine delle cose le generalizzazioni ci lasciano nel buio: per vedere qualcosa bisogna descrivere: «La prima cosa che si può fare è anda re a mettere alla prova la propria cecità, cioè la nostra incapacità di vedere. Vedere cosa? Perché all’inizio c’è solo opacità, nomi che non evocano niente», dice Perec in una conferenza (ora in Espace & Représentation, a cura di A. Renier, Paris 1982). La mossa successiva è inventariare quello che si è visto. Un inventario è un modo di mettere ogni cosa al suo posto; ed ecco perché Perec dice va che per parlare dei suoi libri bisogna partire dall’idea del puzzle - perché il puzzle è il gioco 155
con cui si mette in ordine un mucchio di ritagli sparsi, fino a ricomporre un’immagine coerente. Si può dire che il suo libro più importante, La vita istruzioni per l’uso (1978) sia un manuale di pro cedure per affrontare l’esteriorità e tradurla in immagini coerenti - trattando come un puzzle un cumulo di note raccolte nell’arco di dieci anni, su oggetti d’arredamento, utensili, prodotti d’ogni genere, linguaggi speciali, prestiti di storie o spun ti narrativi da altri autori, titoli di libri, stampe, varietà di caratteri tipografici, conformazioni delle stanze in un palazzo parigino, piano per piano, dall’atrio alle mansarde.
La vita istruzioni per l’uso mostra che l’apertu ra verso l’esteriorità non può darci una rappresen tazione lineare, come quella dei romanzi canonici, ma solo una descrizione puntiforme, sbriciolata in dettagli o lampi di visione. Paul Virilio vede in que sto un effetto dell’accelerazione di tutti i segnali: un modo di scrivere basato sull’inerzia dei momen ti, sull’urgenza di cogliere ciò che sta per essere cancellato o eroso dalla fuga del tempo («L’Arc», n. 76,1979). Ed è un modo di creare una memoria del mondo che abbraccia anche tutto ciò che è senza splendore: le pratiche di lavoro, le routine 156
quotidiane, i luoghi qualsiasi, l’ordinario, il banale, la «vita vuota», seguendo l’avviso di San Paolo: «Il mondo come lo conosciamo sta passando».
Un uomo che dorme terzo libro di Perec, è composto con procedure simili a quelle che ho detto, partendo da annotazioni varie, e affidato all’inerzia dei momenti. È una svolta nella produzione dell’autore, perché abbandona le forme narrative lineari e omogenee. E se Le cose era la cronaca d’una passione per la bella casa, il buon cibo e gli acquisti di lusso, Un uomo che dorme è il suo controcanto: storia d’un ano nimo studente che si educa all’indifferenza rispet to a tutto. «Non voler più niente. Aspettare fin ché non ci sia più nulla da aspettare. Vagare, dor mire. Lasciarsi portare dalla folla [...]. Perdere tempo. Tenersi lontano da ogni progetto, da ogni smania. Essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione. » Il libro è giocato sull’alternanza tra moduli diversi: le immersioni nel sonno e nelle visioni oni riche a cui lo studente s’abbandona, e le sue mosse quotidiane per far passare il tempo. E un insieme di brani discontinui che formano una specie di diario, in gran parte dedicato a luoghi parigini, e 157
alle abitudini di vita da vagante perpetuo, tra bistrò, ristoranti, cinema periferici e drugstore aperti tutta la notte.
Nella prima riga il sonno è definito un’avven tura. Poi inizia la descrizione d’uno stato onirico, dove il dormiente non riesce a distinguere l’esten sione dello spazio dai limiti del proprio corpo. In un’intervista Perec spiega che queste descrizioni di sogni derivano da appunti presi in stati di dormi veglia o sulla soglia del sonno, tenendo un taccui no a portata di mano, e annotando le immagini affiorate nella sua mente. L’altro modulo riguarda l’esperienza di vita in totale ozio e solitudine. L’anonimo studente con suma il tempo con lunghe camminate, andando al cinema, leggendo i giornali, o facendo giochi con le carte nella sua mansarda. Il tutto si traduce in momenti di vita ordinaria, vedute qualsiasi, la quotidianità della «vita vuota» - come quella dei pensionati che giocano a carte nei giardini del Luxembourg, o di quei vecchi seduti su una pan china come mummie per ore senza muoversi. Questo aspetto è una traccia degli interessi del primo Perec, già orientato verso una sociologia del quotidiano e dell’ordinario - argomento che
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tratterà sulla rivista «Cause commune», fondata da Jean Duvignaud con la sua collaborazione. Nell’intervista dove parlava dei sogni, Perec evoca la sua sociologia, che «non è un’analisi, ma solo un tentativo di descrizione, e più precisamente una descrizione di ciò che non si guarda mai per ché si è o si crede di esservi fin troppo abituati». Non è la sociologia delle tabelle statistiche, ma quella fenomenologica, che studia l’incerta par venza di un’esteriorità quasi mai osservata, perché ritenuta banale, scontata, evidente.
In un articolo su «Cause commune» del febbra io 1973 (poi confluito in L’infra-ordinaire, 1989), Perec dice che la prassi dei funzionari dell’informa zione sta nel cancellare le tracce delle «cose comu ni», della vita ordinaria, e sostituirle con lo straor dinario, il sorprendente, lo scandalo politico o i cataclismi naturali. «Dietro un avvenimento ci deve essere uno scandalo, un’incrinatura, un peri colo, come se la vita dovesse rivelarsi soltanto attraverso lo spettacolare: come se l’esemplare, il significativo fosse sempre anormale...». L’ovvietà quotidiana è intesa sempre come un déjà vu, che sarebbe il contrario di ciò che è «in teressante»; e questo significa che il quotidiano 159
resta una zona d’ombra, un margine senza interes se: «I giornali parlano di tutto, tranne del giorna liero [...]. Quello che succede ogni giorno e che si ripete ogni giorno, il banale, il quotidiano, l’evi dente, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, in che modo renderne conto, in che modo interrogarlo, in che modo descriverlo?». Un uomo che dorme, scritto sei anni prima, è una risposta a queste domande: come si interroga no le abitudini e il flusso ripetitivo degli atti quoti diani? È la questione posta dal nostro autore: «Si tratta d’un decondizionamento: non tentare di co gliere ciò che i discorsi ufficiali (istituzionali) chia mano l’evento, l’importante, ma cogliere ciò che è al di sotto, l’infra-ordinario, il rumore di fondo che costituisce ogni istante della nostra quotidianità» (Conversazione con J.-M. Le Sidaner, «L’Arc», n. 76, 1979).
Dopo la descrizione iniziale d’uno stato di dor miveglia che culmina con un mal di testa, c’è un altro punto d’avvio, più rilevante per la vicenda del nostro libro. Invece di presentarsi a un esame universitario, una mattina l’anonimo studente lascia che la sveglia suoni e continua a dormire.
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Basta questo per interrompere la linea del suo «do ver essere, dover fare». Di colpo le norme di vita basate sull’idea d’andare sempre avanti, privile giando l’azione e il successo, sono dimenticate - e «niente resta di quella traiettoria saettante, di quel movimento proiettato in avanti che da sempre sei stato portato a identificare con la tua vita, cioè con il suo senso...». Queste pagine hanno un’intonazione aspra, ma sono un’eccezionale risposta agli ideali dell’attivi smo moderno, come forma mentale dell’occiden te. Più avanti i tratti di fondo dell’attivismo ven gono sintetizzati così: «Le maschere della retta via e delle magnifiche certezze». Sono tratti che noi tutti impariamo presto a riconoscere come norme di vita, guardandoci attorno: «intorno a te, da sempre, hai visto privilegiare l’azione, i grandi progetti e l’entusiasmo: l’uomo proteso in avanti, l’uomo con lo sguardo fisso all’orizzonte [...]. Tenacia, iniziativa, gesta clamorose e trionfi trac ciano il cammino troppo limpido di una vita trop po esemplare...». L’attivismo è il denominatore comune delle utopie moderne, tutte aggrappate alla stessa idea l’idea d’un progresso illimitato, indiscutibile, e del successo come segno d’una vita esemplare. E la «spettacolare illusione prospettica» da cui «spic161
cano il volo i pargoli paffuti di un’umanità con quistatrice». Questo attacco a uno dei fondamen ti del «dover essere» occidentale crea tensione nel libro, annunciando la fine delle «magnifiche cer tezze» e l’avvento d’una atarassia già post-moder na, come indifferenza rispetto a tutti i successi e tutte le carriere possibili.
Prima dell’ultimo capitolo, in un brano isolato, troviamo riassunta la storia d’una figura cara a Perec: quella dello scrivano Bartleby, del racconto omonimo di Melville (racconto evocato senza far nomi). Bartleby è lo scrivano che non vuole più scrivere, indifferente a tutte le sollecitazioni, in sondabile nel suo silenzio e nella sua inerzia tota le. Questo richiamo sembra suggerire la centralità della sua figura nel libro, come ispiratore delle reazioni dello studente, e soprattutto ispiratore del tipo di atarassia che lo studente insegue, nella sua deriva verso l’indifferenza assoluta. Perec evoca Bartleby anche altrove (in W o il ricordo d’infanzia, 1975), come figura esemplare per la sua pazienza. La pazienza di Bartleby sta nell’aderire al passare del tempo senza attese né ribellioni, nell’assoluta povertà, ma anche nell’in differenza alla compassione che suscita. Nel rac 162
conto di Melville, l’avvocato che vuole «salvarlo» è l’immagine dell’attivismo come falsa positività: perché nel suo «voler far bene» è trascinato solo dall’ansia e dall’impazienza. L’epigrafe da Kafka all’inizio del nostro libro può essere associata alle reazioni di Bartleby e ai suoi effetti sull’avvocato. Perché dice: Non fare niente, non aspettare nien te, resta in ascolto, nella solitudine e nel silenzio, e il mondo verrà da te a farsi smascherare. Per Kafka l’unico peccato è l’impazienza; e di fronte alla pazienza silenziosa e senza attese, le magnifi che certezze dell’attivismo sono destinate a farsi smascherare, vittime della loro ansia.
Un uomo che dorme ha l’impostazione d’un diario, con sintomi d’un disagio che si sfoga nella scrittura. Ne nasce una prosa idiosincratica, piena di ripetizioni, riprese di parole, sequenze di frasi appese l’una all’altra semplicemente attraverso virgole. È un’accumulazione di fatti casuali, routi ne quotidiane, sfoghi d’umori momentanei, dove le parole sembrano far parte d’un fenomeno gene rale - come parte del tempo che passa, indici del passare del tempo, senza ideali e senza attese. «Nessuna gerarchia, nessuna preferenza [...]. C’è solo la tua camminata, il tuo sguardo che si
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posa e scivola via, ignorando il bello e il brutto, il famigliare e il sorprendente [...]. Piazze, strade, giardinetti e viali, alberi e inferriate, uomini e donne, cani e bambini, attese, resse, veicoli e vetri ne [...]. Conosci soltanto la tua propria evidenza: quella della tua vita che continua, del tuo respiro, del tuo passo, del tuo invecchiamento. Vedi la gente andare e venire, la folla e le cose farsi e disfarsi...». Questo brano parla della vita quotidiana come fenomeno, ma qui anche la scrittura ha preso l’aspetto dei fenomeni. Il fenomeno non riguarda il vero, il bello o altri tipi di valutazione, ma il come le cose si manifestano: come compare il sin tomo d’una malattia, come un’apparenza si tra sforma per effetto della luce. E quando la scrittu ra prende l’aspetto d’un fenomeno non può dirci altro che la discontinuità dei momenti, le memorie improvvise, i pensieri nati tra una parola e l’altra. Di qui la frammentarietà, i vuoti o salti d’argo mento, senza più le discriminazioni categoriche dei valori, senza più il peso d’una ideologia - «un terreno sgombro da ogni valore, un terreno neu tro, evidente, palese, fattuale e non riconducibile a nient’altro, ma soprattutto non funzionale, poi ché il funzionale è il peggiore di tutti i valori...».
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L’altra caratteristica di questa prosa è l’uso del «tu» al posto del pronome «io», come uno sdop piamento dove lo studente parla di sé a se stesso, alternando stati di esaltazione e momenti di aspra ironia. Questo crea una frequente ambiguità nei suoi discorsi, nei giochi di parole, battute o cita zioni da altri autori. Ma il «tu» funziona anche come un interlocutore che ci mostra un campo di tensioni dove ogni chimera soggettiva deve venire allo scoperto, deve piegarsi verso l’esterno. Piegarsi verso l’esterno significa aderire alla vita qualsiasi, ai cibi qualsiasi, alle chiacchiere da bar, alle visioni del banale quotidiano (come i cal zini messi a lavare in un catino di plastica). L’av ventura non può essere più quella per mettere le cose a posto, secondo le norme dell’ottimismo e del buon vivere. Ora sta nello scovare i luoghi della solitudine di massa, che ci separa e ci unisce tutti, nell’indifferenza o nei giri a vuoto - in luo ghi così abituali che ormai non vediamo più, nei cibi inghiottiti senza sentirne il sapore, nei gior nali letti senza badare a cosa dicono. Questo «tu» piegato verso l’esterno, parla d’una realtà sparsa e multiforme, di cui raccogliamo solo piccole tracce. E tutto il funzionamento night-andday della vita di massa è definibile soltanto attra verso apparizioni momentanee, una temporalità di
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scorcio, e l’imprevisto - «l’imprevisto che si pre senta, l’ignoto che passa», diceva Baudelaire. Ecco perché non può esserci una continuità sistematica nel fissare le tracce dell’esteriorità che ci guida per mezzo delle abitudini, ma solo frammenti, note occasionali: «Entri in caffè miserabili, bar, osterie [...]. Cammini nel viscidume di certi vicoli, [...] verso Charles Michels oppure Chàteau-Landon Ti metti ad aspettare nelle hall degli hotel, seduto su un divano in finta pelle, guardi la gente andare e venire, leggi i volantini, i cataloghi, i manifesti, i dépliant turistici...».
I sogni trascritti da Perec riflettono sempre incertezze angoscianti: l’alienità del nostro corpo, incontrollabile dal pensiero. Ad esempio: la visio ne del proprio corpo sparpagliato in tanti pezzi che si trasformano l’uno nell’altro, e infine si rag gruppano nella testa del dormiente. In un altro sogno, il corpo diventa un gigantesco traghetto di linea, che naviga in un mare nero; oppure la ca mera dello studente diventa una bolla che lo include, fatta di schiume o di una pelle sottile. In fine viene il sogno di essere diventato un occhio: «Un immenso occhio fisso che tutto vede». E l’in cubo d’essere sempre osservati da se stessi: «Non
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smetterai mai di vederti». Ed è la condanna ad essere paralizzati dalla propria autocoscienza per cui non si riesce più a fare nessun gesto sponta neo, vagheggiando un’immagine di sé dotata di certi valori, che però è soltanto un fantasma ansio geno e un fanatico controllore. Non è un caso se questi brani d’incertezza mas sima nelle visioni oniriche dello studente preludo no al suo riconoscimento d’una «verità a lungo camuffata, come un’evidenza negata». Quale veri tà? Quale evidenza? Si tratta di «quest’illusione pericolosa di essere - come dire? - inespugnabile, di non offrire alcuna presa al mondo esterno, di scivolare sulle cose, intoccabile, gli occhi sbarrati che guardano avanti, tutto percependo [...]. Son nambulo sveglio, cieco che può vedere». Arrivati qui, si ha l’impressione di un errore, d’un abbaglio, per cui quello che abbiamo letto deve essere ripensato in altri termini. Si potrebbe dire così: è un testo dove a un certo punto le con clusioni retroagiscono sulle premesse, dunque vediamo apparire un libro diverso, con una com pleta inversione di rotta nel finale. La solitaria deriva dello studente avrebbe dovu to portarlo all’indifferenza rispetto a qualsiasi valore, per vedere il cibo solo come cibo, un albe ro come un albero, e se stesso come uno dei tanti. 167
Stranamente invece la sua deriva va a parare in un miraggio dell’autocoscienza: la lusinga di un sé intoccabile, il sogno d’una soggettività autosuffi ciente, distaccata da tutto il resto. Stato d’esalta zione dove proclama d’aver raggiunto l’indifferen za assoluta e d’essere come «un anonimo padrone del mondo», su cui la storia non ha più presa, e che non sente più cadere la pioggia su di sé. È l’uomo che parla come in un sogno - «l’uomo che dorme» del titolo.
Ho cercato di spiegarmi l’inversione di rotta che troviamo nel finale. Questa si svela bene nelle ultime pagine, dove compaiono citazioni da altri autori, ma anonime e col senso delle parole ribal tato. Qui trascrivo le ultime due righe di Moby Dick, dove Melville dissolve le esaltazioni del titanismo romantico, per dare spazio a figure di distacco come Ishmael (e in seguito Bartleby). Testo di Melville: «Era Rachele [nome della nave che salva Ishmael dopo il disastro del Pequod] che andava bordeggiando, e che nel rifare la sua rotta in cerca di figli perduti [in cerca del figlio del capitano disperso in mare] trovò solo un altro or fano [Ishmael, unico superstite del Pequod e testi mone della sua vicenda]». Versione di Perec: «nes 168
suna bordeggiarne Rachele ti ha raccolto dal relit to miracolosamente preservato del Pequod, perché tu, altro orfano, venga a tua volta a testimoniare». Questa citazione ribaltata è la negazione delle parole con cui lo studente cantava vittoria. E ora tutto il libro sembra la storia d’una liberazione fal lita. Si può anche pensare che l’esaltazione dello studente sia l’eco di molti proclami rivoluzionari, l’inutile contestazione di tutto, il parlare da «uomo che dorme». Sarebbe il segno della svolta compiuta da Perec, ormai sciolto da tutti i canti di vittoria.
La citazione da Melville spiana la strada al mood conclusivo, dove alcune frasi mettono fine al miraggio d’una separazione dal mondo, coltiva to dallo studente: «Il gioco è finito, il grande festeggiamento, l’ebbrezza fallace della vita so spesa. [...] Smetti di parlare come un uomo che sogna». Seguono due richiami alla pagina d’aper tura in Moby Dick, mescolati a una visione di Place Clichy sotto la pioggia. Strano e straordinario finale, dove all’idea d’una soggettività autosufficiente subentra quella d’una esposizione generale ai fenomeni esterni: «Guar dali! Migliaia e migliaia di sentinelle silenziose [...] sono lì perdute in fantasticherie oceaniche, 169
aspettano i brumosi spruzzi delle onde, l’infran gersi dei marosi No. Non sei più il padrone anonimo del mondo, quello su cui la storia non aveva presa, quello che non sentiva cadere la pioggia, che non vedeva venire la notte. Non sei più l’inaccessibile, il limpido, il trasparente. Hai paura e aspetti. Aspetti in Place Clichy che la pioggia cessi di cadere».
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Indice
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Un uomo che dorme Nota del traduttore
Georges Perec e l’uomo che dorme di Gianni Celati
Compagnia Extra
I Federico Fellini, Il viaggio di G. Mastorna A cura di Ermanno Cavazzoni. Prefazione di Vincenzo Mollica
2. Ugo Cornia, Sulle tristezze e i ragionamenti 3 Gianni Celati, Un eroe moderno Costumi degli italiani i
4 Gianni Celati, Il benessere arriva in casa Pucci Costumi degli italiani z
5 Paolo Nori, Pubblici discorsi 6 Aleksandr Puškin, Eugenio Onegbin Traduzione di Ettore Lo Gatto
7 Georges Perec, Un uomo che dorme Traduzione di Jean Talon. Con un testo di Gianni Celati
8 Franz Kafka, Un artista del digiuno Traduzione di Gabriella de’ Grandi. Con un testo di Ermanno Cavazzoni
Finito di stampare nel marzo 2009 dalla Litografica Com di Capodarco di Fermo (Fermo)