Un uomo che dorme 9788874622429

«Hai venticinque anni e ventinove denti, tre camicie e otto calzini, qualche libro che non leggi più e qualche disco che

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Un uomo che dorme
 9788874622429

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Georges Perec Un uomo che dorme

Compagnia Extra

Hai venticinque anni e ventinove denti, tre camicie e otto calzini, qualche libro che non leggi più e qualche disco che non ascolti più. Sei seduto e vuoi soltanto aspettare.

ISBN

978-88-7462-242-9

12,50 euro

Terzo romanzo di Georges Perec, Un uomo che dorme è la storia di uno studente che la mattina dell’esame, invece di alzarsi, lascia suonare la sveglia e richiude gli occhi. Segue il racconto della sua vita ordinaria, in cui giorno dopo giorno si educa all’indifferenza per tutto: non voler più niente, vagare, dormire, perdere tempo; tenersi lontano da ogni progetto e da ogni smania; essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione; leggere «le Monde» dall’inizio alla fine, senza saltare una riga, annunci matrimoniali e necrologi compresi. Un uomo che dorme è un romanzo in cui chiunque, leggendolo, riconosce quell’oscuro desiderio di ritirarsi dal mondo senza scomparire del tutto; e fa spavento quanto sia facile e a portata di mano diventare indifferente a ogni cosa, un fantasma trasparente che, come il protagonista del libro, vaga per Parigi senza aprire bocca, senza desiderare più nulla, tra la folla dei Grands Boulevards, per i caffè, le panchine dei giardinetti, i lungosenna, i musei, i monumenti, sonnambulo turista in casa propria.

Postfazione di Gianni Celati Traduzione di Jean Talon

Georges Perec (1936-1982), è una delle maggiori glorie della letteratura francese contemporanea. Venuto giovanissimo agli onori letterari con il suo romanzo d’esordio, Le cose (1965), dal 1967 membro dell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle), è autore, tra gli altri, de La scomparsa (1969), W 0 il ricordo d’infanzia (197s), Mi ricordo (1978); il suo romanzo più celebre, La vita istruzioni per l’uso (1978) è stato tradotto in tutto il mondo. Nato e vissuto a Parigi, figlio di ebrei polacchi, Georges Perec aveva un’inconfondibile barbetta crespa e molta passione per l’enigmistica.

Compagnia Extra

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Georges Perec Un uomo che dorme

Postfazione di Gianni Celati Traduzione di Jean Talon

Quodlibet

Compagnia Extra è a cura di Jean Talon e Ermanno Cavazzoni

Titolo originale Un homme qui dort © Editions Denoël, 1967, 1987

Opera pubblicata con il contributo del Ministero degli Affari Esteri francese © 2009 Quodlibet Macerata, via S. Maria della Porta, 43 www.quodlibet.it ISBN

978-88-7462-242-9

Un uomo che dorme

a Paulette In tnemoriam J.P.

Non c’è bisogno che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare nem­ meno, aspetta soltanto. Non aspettar nep­ pure, resta lì tutto solo e in assoluto silen­ zio. Il mondo verrà ad offrirsi a te perché lo smascheri, non può fare altrimenti, si voltolerà estasiato ai tuoi piedi.

Franz Kafka, Meditazioni sul peccato, la sofferenza, la speranza e la vera via

Non appena chiudi gli occhi comincia l’av­ ventura del sonno. Al posto della solita penom­ bra nella stanza, volume oscuro che si interrom­ pe qua e là, dove la memoria identifica senza sforzo le vie percorse mille volte, rievocandole a partire dal quadrato opaco della finestra, resu­ scitando il lavabo a partire da un riflesso, e lo scaffale grazie all’ombra un po’ più chiara d’un libro, delineando la massa più buia degli abiti appesi, dopo un po’ subentra uno spazio bidi­ mensionale, come un quadro dai limiti incerti che formi un angolo col piano dei tuoi occhi, quasi poggiasse non del tutto perpendicolarmen­ te sul colmo del tuo naso; ed è un quadro che, all’inizio, può sembrarti uniformemente grigio, anzi neutro, senza colori né forme, ma che con ogni probabilità, di lì a poco, risulta possedere almeno due caratteristiche: la prima è che si inscurisce più o meno secondo che tu stringa più o meno forte le palpebre, o più precisamente: come se la contrazione esercitata sull’arco delle 13

sopracciglia quando chiudi gli occhi ottenesse l’effetto di modificare l’inclinazione dell’inqua­ dratura rispetto al tuo corpo, quasi che l’arco delle sopracciglia funzionasse da cerniera, e di conseguenza, benché questa conseguenza non sembri dimostrabile se non con l’evidenza, modi­ ficasse la densità o la qualità dell’oscurità da te percepita; la seconda caratteristica è che la su­ perficie di tale spazio non è affatto regolare, o, più precisamente, che la distribuzione o diffusio­ ne dell’oscurità non si dà in modo omogeneo: la zona superiore è palesemente più buia; mentre la zona inferiore, quella che ti sembra più vicina, benché sia ovvio che le nozioni di vicino e lonta­ no, alto e basso, davanti e dietro, hanno ormai smesso di aver un senso preciso, per un verso è decisamente più grigia, ossia non tanto più neu­ tra, come credi in un primo momento, ma pro­ prio più bianca, e per l’altro verso contiene o sorregge una, due o più specie di sacche, di cap­ sule, un po’ come l’idea che ti fai, per esempio, di una ghiandola lacrimale, con gli orli sottili e ciliati, sacche al cui interno si agitano, tremola­ no e si contorcono dei lampi bianchissimi, tal­ volta molto sottili, come finissime striature, tal­ volta molto più grossi, quasi grassi, come vermi. Questi lampi, benché lampo sia un termine del

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tutto inappropriato, hanno la strana virtù di non poter essere guardati. Appena ti fissi un po’ trop­ po su di loro, ed è quasi impossibile non farlo, perché insomma ti ballano davanti, e tutto il resto finisce per esistere a malapena, e in effetti non c’è molto che sia davvero percepibile, oltre alla cerniera sulle tue sopracciglia e quel vago spazio bidimensionale più o meno distinguibile dove l’oscurità si dispiega in modo irregolare; ma appena li guardi, sebbene questa parola ormai non voglia dire più niente, è chiaro, appena tenti, poniamo, di farti una qualche idea sulla loro forma, sulla loro sostanza o su un loro partico­ lare, puoi star sicuro di ritrovarti con gli occhi spalancati davanti alla finestra, rettangolo opaco ridiventato quadrato, benché quella o quelle sac­ che non gli somiglino per niente. Ma poi, dopo un po’ che hai richiuso gli occhi, quelle riappaio­ no e con loro lo spazio più o meno inclinato che si dispiega sopra le tue sopracciglia, e c’è da sup­ porre che non siano cambiate tra una volta e l’al­ tra. Tuttavia, non puoi essere del tutto sicuro su quest’ultimo punto, poiché in un arco di tempo difficile da valutare, e benché ancora niente ti permetta di dichiarare con certezza la loro spari­ zione, puoi ben constatare che si sono sbiadite un bel po’. Adesso hai a che fare con una specie 15

di grisaglia striata, sempre appartenente a questo spazio che più o meno è un prolungamento dalle tue sopracciglia, ma, si direbbe, così deformato da essere come tirato in continuazione verso sini­ stra; puoi guardarlo, esplorarlo, senza perturba­ re l’insieme, senza provocare un immediato ri­ sveglio, ma tutto questo alla fine non ha il mi­ nimo interesse. È sulla destra che succede qual­ cosa, nella fattispecie si tratta di un’asse, più o meno dietro di te, più o meno sopra, più o meno a destra. L’asse, ovviamente, non si vede. Sai sol­ tanto che è dura, anche se non ci sei sopra, poi­ ché sei, appunto, su qualcosa di molle che è il tuo stesso corpo. Si verifica, allora, un fenomeno davvero strano: dapprima ci sono tre spazi che niente ti darebbe agio di confondere, il tuo corpo-letto, che è molle, bianco e orizzontale, poi l’arco delle tue sopracciglia, che domina uno spazio grigio, intermedio e obliquo, e infine l’as­ se, che è immobile, molto dura sopra, in paralle­ lo con te, e forse accessibile. È in effetti chiaro, anche se di chiaro ormai c’è solo questo, che se sali sull’asse, dormi, e che l’asse è il sonno. Il principio di quest’operazione non potrebbe esse­ re più semplice, anche se tutto ti fa pensare che ti ci vorrà un bel po’ di tempo: perché bisogne­ rebbe radunare il letto e il corpo, finché non 16

siano nient’altro che un punto, una biglia, oppu­ re, che è la stessa cosa, ridurre tutto il flaccido del corpo concentrandolo in un unico posto, tipo, ad esempio, una vertebra lombare. Ma il corpo a questo punto non ha più quella bella compattezza di poco fa, infatti si sparpaglia in tutti i sensi. Tenti allora di riportare verso il cen­ tro un dito del piede, un pollice, o la coscia, ma ogni volta c’è una regola che dimentichi, cioè che non bisogna mai perdere di vista la durezza del­ l’asse, che bisogna procedere con astuzia, radu­ nare il corpo senza che se ne accorga, senza che tu stesso lo sappia con certezza; ma ora è troppo tardi; ogni volta, da molto tempo ormai è già troppo tardi, e, strana conseguenza, l’arco delle sopracciglia si spacca in due, sicché al centro, tra i tuoi occhi, come se la cerniera avesse tenuto l’insieme, e tutta la forza di questa cerniera si concentrasse in quel punto, ora sopraggiunge d’un sol tratto un dolore preciso, indubbiamente cosciente, e che subito riconosci come il più banale dei mal di testa.

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Sei seduto a torso nudo, con indosso i soli pantaloni del pigiama, sulla stretta panca che ti fa da letto, nella tua stanza sotto i tetti*, e con un libro, le Lezioni sulla società industriale di Ray­ mond Aron, aperto a pagina centododici, posato sulle ginocchia. All’inizio è solamente una specie di spossatez­ za, di fatica, come se d’un tratto ti rendessi conto che da parecchio tempo, da varie ore, sei in balia d’un malessere insidioso che t’intorpidisce, un dolore che s’accenna appena e tuttavia è insop­ portabile, con la sensazione dolciastra e oppri­ mente di essere privo di muscoli e ossa, di essere come un sacco di gesso in mezzo a sacchi di gesso. Il sole picchia sulle lastre zincate del tetto. Di fronte a te, su una mensola di legno bianco all’altezza dei tuoi occhi, una tazza di Nescafé mezza vuota e un po’ sporca, un pacco di zucche­ ro ormai quasi finito, una sigaretta che si consu­ * Chambre de bonne, stanza dove nei palazzi parigini ottocente­ schi alloggiava la servitù, ora spesso affittata a studenti (N.d.t). I?

ma in un portacenere pubblicitario di finta opali­ na biancastra. Qualcuno nella stanza accanto va avanti e indietro, strascica i piedi, tossisce, sposta mobili, apre cassetti. Il rubinetto dell’acquaio nel piane­ rottolo sgocciola con insistenza. Salgono dal basso i rumori della rue Saint-Honoré. Il campanile di Saint-Roch suona le due. Sol­ levi gli occhi, smetti di leggere, ma era già un bel pezzo che non leggevi più. Posi accanto a te il libro aperto, sulla panca. Allunghi una mano, spegni la sigaretta fumante nel portacenere, fini­ sci la tazza di Nescafe: è appena tiepido, troppo zuccherato, amarognolo. Sei fradicio di sudore. Ti alzi e vai verso la fine­ stra, che chiudi. Apri il rubinetto del minuscolo lavabo, ti passi un guanto da toeletta inumidito sulla fronte, dietro la nuca, sulle spalle. Con le braccia e le gambe ripiegate, ti stendi su un fianco sulla stretta panca. Chiudi gli occhi, la testa è pesante, le gambe intorpidite.

Poi, il giorno dell’esame arriva, e tu non ti alzi. Non è un gesto premeditato, d’altronde non è neanche un gesto, bensì un’assenza di gesto, un gesto che non fai, dei gesti che eviti di fare. Sei 2.0

andato a letto presto, hai fatto un bel sonno tran­ quillo, avevi messo la sveglia, l’hai sentita suona­ re, hai aspettato suonasse, per almeno parecchi minuti, già sveglio per il caldo, o per la luce, per il rumore dei lattai, della nettezza urbana, o per l’attesa. La sveglia suona e tu non ti muovi di un centimetro, continui a stare a letto e richiudi gli occhi. Nelle stanze vicine altre sveglie si mettono a suo­ nare. Senti rumori d’acqua, porte che si chiudo­ no, passi che si precipitano giù per le scale; la rue Saint-Honoré comincia a riempirsi del rumore delle automobili: stridio di pneumatici, accelera­ te, brevi colpi di clacson. Delle persiane sbattono, i negozianti tiran su le serrande. Tu non ti muovi, e non ti muoverai. Un altro, un sosia, un doppio fantomatico e meticoloso, fa forse al tuo posto, uno a uno, tutti quei gesti che tu hai smesso di fare: si alza, si lava, si rade, si veste, se ne va. Lasci che si precipiti giù per le scale, corra in strada, prenda l’autobus al volo e arrivi, col fiatone e l’aria trionfante, sulla porta dell’aula all’ora fissata. Diploma di Studi Supe­ riori di Sociologia Generale. Prima prova scritta. Tu ti alzi troppo tardi. Là facce studiose o annoiate si chinano pensose sui banchi. Gli sguar­ di forse preoccupati dei tuoi amici convergono 21

sul tuo posto rimasto libero. Non dirai in quat­ tro, otto o dodici fogli protocollo quello che sai, quello che pensi, quello che sai che bisogna pen­ sare sull’alienazione, sugli operai, sulla moderni­ tà e il tempo libero, sui colletti bianchi o l’auto­ mazione, sulla conoscenza degli altri, su Marx rivale di Tocqueville e Weber nemico di Lukàcs. In ogni caso non avresti detto niente, dato che non sai granché e non pensi niente. Il tuo posto rimane deserto. Non prenderai mai la laurea, non comincerai mai la specializzazione. Non conti­ nuerai gli studi. Ti prepari, come tutti i giorni, una tazza di Ne­ scafe, aggiungendovi, come tutti i giorni, qualche goccia di latte condensato con lo zucchero. Non ti lavi, a malapena ti vesti. In una bacinella di pla­ stica rosa metti in ammollo tre paia di calzini.

Non vai fuori dall’aula a informarti su quali argomenti sono stati proposti alla perspicacia dei candidati. Non vai al caffè dove come tutti i gior­ ni, e a maggior ragione in questo giorno di ecce­ zionale gravità, eri solito ritrovarti con gli amici. L’indomani mattina uno di loro salirà a piedi i sei piani che portano alla tua stanza. Ne riconoscerai i passi sulle scale. Lo lascerai bussare alla porta, 22

aspettare, bussare di nuovo, un po’ più forte, cer­ care la chiave sulla cornice della porta, dove sei solito lasciarla quando scendi per qualche minuto a prendere il pane, il caffè, le sigarette, il giornale o la posta, quindi, aspettare ancora un po’, bus­ sare piano, chiamarti sottovoce, esitare, riscende­ re pesantemente le scale. Più tardi è tornato e ha fatto scivolare un bi­ glietto sotto la porta. Altri sono venuti l’indomani e il giorno dopo ancora, hanno bussato, cercato la chiave, chiamato, fatto scivolare messaggi. Tu leggi i biglietti, poi li appallottoli. Ti fissa­ no appuntamenti a cui non ti rechi. Resti disteso sulla tua panca stretta, le mani dietro la nuca e le ginocchia sollevate. Guardi il soffitto e ne scopri le crepe, le screpolature, le macchie, i rilievi. Non hai voglia di vedere nessuno, né di parlare, né di pensare, né di uscire, né di muoverti.

Poi in un giorno del genere, un po’ più tardi, o un po’ più presto, scopri senza sorpresa che c’è qualcosa che non va, che, per dirla senza tanti giri di parole, tu non sai vivere, e mai ne sarai capace. Il sole picchia sulle lamiere del tetto. Nella tua stanzetta il caldo è insopportabile. Sei seduto, incastrato tra la panca e lo scaffale, con un libro 2-3

aperto sulle ginocchia. È da un po’ che hai smes­ so di leggere. Il tuo sguardo resta fisso su una mensola di legno bianco, su una bacinella di pla­ stica rosa in cui marciscono sei calzini. Il fumo della sigaretta abbandonata nel portacenere sale quasi in linea retta, stendendo una coltre instabi­ le sul soffitto segnato da minuscole crepe. Qualcosa si stava rompendo, qualcosa s’è rotto. Non ti senti più - come dire? - sorretto: qualcosa che ti sembrava, e ti sembra, t’avesse finora con­ fortato, scaldato il cuore, restituito il sentimento della tua esistenza, quasi della tua stessa impor­ tanza, dandoti l’impressione di aderire al mondo e di esservi come immerso, comincia ora a venir meno. Eppure, tu non sei uno di quelli che passa le ore di veglia a chiedersi se esiste davvero e perché, chi è, da dove viene e dove va. Tu sei uno che non si è mai posto seriamente la questione se viene prima l’uovo o la gallina. I crucci metafisici non hanno mai segnato i nobili tratti del tuo viso. E tuttavia niente resta di quella traiettoria saettan­ te, di quel movimento proiettato in avanti che da sempre sei stato portato a identificare con la tua vita, cioè con il suo senso, la sua verità e la sua tensione: un passato ricco di esperienze feconde, di lezioni ben assimilate, di radiosi ricordi d’in­ 2-4

fanzia, di luminose felicità campagnole, di sfer­ zanti venti dal largo, un presente denso, compat­ to e caricato a molla, un futuro generoso, verdeg­ giante e arioso. Il passato, il presente e il futuro ora si confondono: si confondono in un’unica pesantezza delle tue membra, nella fastidiosa emi­ crania, nella spossatezza, la calura, l’amaro e in­ tiepidito sapore del Nescafé. E se occorre uno scenario per la tua vita, questo non sarà la mae­ stosa spianata (in genere, nient’altro che una spet­ tacolare illusione prospettica) su cui scorrazzano e spiccano il volo i pargoli paffuti di un’umanità conquistatrice, bensì, qualsiasi sforzo tu possa ancora fare, qualsiasi illusione tu possa ancora cullare, questo pertugio nel sottotetto che ti fa da stanza, questa stamberga di due metri e novantadue di lunghezza e un metro e settantatré di lar­ ghezza, cioè poco più di cinque metri quadrati, questa mansarda da cui non ti sei più mosso da molte ore e da molti giorni: sei seduto su questa panca così corta che di notte non ti puoi stendere completamente, e così stretta che non ti puoi gi­ rare senza prendere le dovute cautele. Con espres­ sione ora quasi affascinata guardi una bacinella di plastica rosa con dentro almeno sei calzini. Resti nella tua stanza, senza mangiare, senza leggere, quasi senza muoverti. Guardi la bacinel­ 2-5

la, lo scaffale, le ginocchia, il tuo sguardo nello specchio incrinato, la tazza, l’interruttore. Ascolti i rumori della strada, la goccia del rubinetto nel pianerottolo, i rumori del tuo vicino, i suoi ra­ schiamenti di gola, i cassetti che apre e chiude, i suoi accessi di tosse, il sibilo del suo bollitore. Segui la linea sinuosa di una minuscola crepa sul soffitto, il vano tragitto d’una mosca, il percepibi­ le e progressivo aumentare delle ombre. Questa è la tua vita. Questi i tuoi averi. Puoi fare l’esatto inventario del tuo magro capitale, il preciso bilancio del tuo primo quarto di secolo. Hai venticinque anni e ventinove denti, tre cami­ cie e otto calzini, qualche libro che non leggi più, qualche disco che non ascolti più. Non hai voglia di ricordarti di nient’altro, né della tua famiglia, né dei tuoi studi, né dei tuoi amori, né dei tuoi amici, né delle tue vacanze, né dei tuoi progetti. Hai viaggiato, e dei viaggi non ti resta nulla. Sei seduto e vuoi soltanto aspettare, aspettare sola­ mente finché non ci sia più niente da aspettare: che venga la notte, che suonino le ore, che i giorni fuggano, che sfumino i ricordi. Non rivedi i tuoi amici. Non apri la porta. Non scendi a prendere la posta. Non restituisci i libri che hai preso in prestito alla biblioteca dell’Istitu­ to di pedagogia. Non scrivi ai tuoi genitori. 2.6

Esci solo a notte fonda, come i topi, i gatti e i mostri. Vaghi per le strade, ti infili nei luridi pic­ coli cinema dei Grands Boulevards. A volte cam­ mini tutta la notte; a volte dormi tutto il giorno.

Sei un pigro, un sonnambulo, un’ostrica. Le de­ finizioni variano a seconda delle ore e dei giorni, ma il senso resta sempre più o meno lo stesso: non ti senti fatto per vivere, agire, lavorare; vuoi soltan­ to durare, vuoi soltanto aspettare e dimenticare. La vita moderna, generalmente, non è che ap­ prezzi molto atteggiamenti di tal fatta: intorno a te, da sempre, hai visto privilegiare l’azione, i gran­ di progetti, l’entusiasmo: l’uomo proteso in avan­ ti, l’uomo con lo sguardo fisso all’orizzonte, l’uo­ mo che guarda dritto davanti a sé. Sguardo limpi­ do, mento volitivo, andatura sicura, pancia in den­ tro. Tenacia, iniziativa, gesta clamorose e trionfi tracciano il cammino troppo limpido di una vita troppo esemplare, disegnando le immagini sacro­ sante della lotta per la vita. Le pietose menzogne che cullano i sogni di quelli che si sono impanta­ nati e girano a vuoto, le illusioni smarrite dei mi­ lioni di reietti, quelli che sono arrivati troppo tardi, quelli che hanno poggiato la valigia sul mar­ ciapiede e ci si sono seduti sopra ad asciugarsi la 2-7

fronte. Ma tu non hai più bisogno di scuse, né di rimpianti, né di nostalgie. Tu non respingi niente, non rifiuti niente. Tu hai smesso la marcia in avanti, ma già da prima avevi smesso di andare avanti, ora non ti rimetti in moto semplicemente perché sei arrivato a destinazione, e non vedi pro­ prio cosa ci andresti a fare più avanti: è bastata, o quasi, in un giorno di maggio in cui faceva trop­ po caldo, l’inopportuna congiunzione tra un testo di cui avevi perso il filo, una tazza di Nescafé dal­ l’improvviso gusto troppo amaro, e una bacinella di plastica rosa piena di acqua nerastra al cui interno galleggiavano sei calzini, perché qualcosa si rompesse, si alterasse, si disfacesse; perché ve­ nisse alla splendente luce del sole - ma la luce del sole non splende mai nella soffitta di rue SaintHonoré - questa verità deludente, triste e ridico­ la come un cappello da asino, pesante come un dizionario Gaffiot: tu non hai più voglia di pro­ seguire, né di difenderti, né di attaccare. I tuoi amici si sono stancati e non vengono più a bussare alla tua porta. Tu hai smesso di cammi­ nare per le strade dove potresti incontrarli. Eviti le domande e lo sguardo di colui che il caso mette talvolta sulla tua strada, rifiuti la birra o il caffè che costui ti offre. Soltanto la notte e la tua stan­ za ti proteggono: la stretta panca su cui resti sdra-

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iato, il soffitto che non cessi di riscoprire ad ogni istante; la notte, quando, da solo in mezzo alla folla dei Grands Boulevards, ti succede quasi di avere una specie di felicità per il rumore, le luci e l’oblio. Non hai bisogno di parlare, né di volere. Non fai che seguire il flusso che va e viene, dalla République alla Madeleine, dalla Madeleine alla République.

Non hai l’abitudine né la voglia di metterti a far delle diagnosi. Ciò che ti turba, che ti scuote e spaventa, ma a volte ti esalta, non è tanto il carat­ tere repentino della tua metamorfosi, quanto la sensazione vaga e pesante che le cose non stiano così. Visto che tu, per l’appunto, sei così da sem­ pre e non è cambiato nulla, anche se te ne rendi conto soltanto adesso: questo nello specchio incri­ nato non è il tuo nuovo volto, sono le maschere a essere cadute, il calore della tua stanza le ha fatte sciogliere, il torpore le ha scollate. Le maschere della retta via e delle magnifiche certezze. In que­ sti venticinque anni non hai mai visto niente di ciò che oggi è già l’inesorabile? Non hai mai notato le falle, in quel surrettizio brano di storia che ti rap­ presenta? I tempi morti, i passaggi a vuoto. Il cocente e fuggevole desiderio di non più voler sen29

tire, di non più voler vedere, di restartene immobi­ le e silenzioso. I sogni insensati di solitudine. Sme­ morato ramingo nel Paese dei Ciechi: vie ampie e deserte, luci fredde, facce mute su cui scivolereb­ be il tuo sguardo. Non saresti mai colpito.

Come se sotto la tua storia tranquilla e rassi­ curante di bravo ragazzo, scolaro diligente, leale compagno di scuola, sotto tutti quei segni eviden­ ti, anche troppo, di crescita e maturazione - le tacche tracciate a matita sulla cornice della porta del gabinetto, i diplomi, i pantaloni lunghi, le prime sigarette, il bruciore della rasatura, l’alcol, la chiave sotto lo zerbino per le uscite del sabato sera, lo sverginamento, il battesimo dell’aria, il battesimo del fuoco - corresse da sempre un altro filo, sempre presente e sempre tenuto a distanza, che adesso tesse la trama famigliare di questa vita ritrovata, il vuoto scenario della tua vita diserta­ ta, ricordi risuscitati, immagini in filigrana di questa verità svelata, di questa dimissione così a lungo sospesa, di questa vocazione alla calma, immagini inerti e sfumate, fotografie sovraesposte, quasi bianche, quasi morte, come già fossiliz­ zate: una strada di provincia, persiane sprangate, ombre plumbee, mosche che ronzano in un loca­

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le militare, un salotto rivestito di fodere grigie, pulviscolo sospeso in un raggio di luce, campagne brulle, cimiteri domenicali, gite in automobile. Uomo seduto su una stretta panca, un giovedì pomeriggio, un libro aperto sulle ginocchia, lo sguardo assente.

Non sei che un’ombra torbida, un duro noccio­ lo d’indifferenza, uno sguardo neutro che fugge gli altrui sguardi. Con labbra mute e occhi spenti scorgerai ormai soltanto nelle pozzanghere, nei finestrini e nelle luccicanti carrozzerie delle auto­ mobili i fugaci riflessi della tua vita rallentata. La tua mano scivola distrattamente lungo lo scaffale di legno bianco. Sgocciola il rubinetto nel pianerottolo. Il tuo vicino dorme. Il debole an­ simare di un taxi-diesel in sosta sottolinea, più di quanto non interrompa, il silenzio della strada. La dimenticanza si infiltra nella tua memoria. Niente è accaduto. Niente accadrà più. Sul soffit­ to le crepe formano un improbabile labirinto.

Ci furono queste giornate vuote, il caldo nella stanza come in una caldaia, come in una fornace, e i sei calzini, sfatti pescecani, balene addormen­ 31

tate, dentro il catino di plastica rosa. La sveglia che non ha suonato, che non suona, e non suo­ nerà l’ora del tuo risveglio. Posi il libro aperto accanto a te sulla panca. Ti stendi. Tutto è pesan­ tezza, ronzio, torpore. Ti abbandoni. Sprofondi nel sonno.

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All’inizio ci sono immagini famigliari od osses­ sive; una distesa di carte che prendi e riprendi senza sosta, incapace di riuscire a disporle nell’or­ dine che vorresti tu, con la sgradevole sensazione di dover finire, di dover riuscire a metterle in ordine, come se da ciò dipendesse lo svelarsi di una qualche verità essenziale, poi però ti accorgi che la carta che ininterrottamente prendi e ripren­ di, metti e rimetti, classifichi e riclassifichi, è sem­ pre la stessa carta; una folla che va su e giù, avan­ ti e indietro; muri che ti circondano e di cui cerchi il passaggio segreto, il pulsante nascosto che fac­ cia ribaltare le pareti e volar via il soffitto; abboz­ zi di forme che se la squagliano, ritornano, spari­ scono, si avvicinano e sfumano, fiamme o figure femminili danzanti, giochi di ombre.

Poi dei ricordi che non riescono più ad aprirsi un varco, prove che non provano più niente, se non che un Osservatorio ad Aberdeen, a Inverness, 33

è forse effettivamente riuscito a captare certi se­ gnali provenienti da costellazioni lontane: era la Nebulosa di Andromeda? O la Costellazione di Goll e Burdach? Oppure la Lamina Quadrigemi­ na? Quindi la soluzione immediata, ovvia, di quel problema su cui non avevi mai smesso di scervel­ larti: il cavallo non prende a cuori se il fossato non l’ha scartato. Parole sconnesse, dal senso aggrovi­ gliato, ti ronzano attorno. Quale uomo è rinchiuso in quale castello di carte? Che filo! Quale Legge? Bisogna essere precisi, logici. Agire con meto­ do. Ad un certo punto, bisogna a tutti i costi sa­ persi fermare, riflettere, ben soppesare la situazio­ ne. Se al centro della tua testa c’è un lago, cosa che non solo è verosimile, ma anche normale, anche se non la si può affermare senza prendere precau­ zioni, ti ci vorrà un po’ di tempo per raggiunger­ lo. Non ci sono sentieri, non ci sono mai sentieri, e sulle sponde dovrai fare attenzione alle erbacce, sempre pericolose in questo periodo dell’anno. Non ci potranno essere neanche delle barche, ovviamente, dato che le barche non ci sono quasi mai, puoi però attraversarlo a nuoto.

Poi, ovviamente, non c’è mai stato nessun lago. Ricordi perfettamente che non c’è mai stato

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nessun lago. Eppure è già un bel pezzo che hai il sonno di fronte, vicino come non lo è mai stato prima d’ora. Ha la sua solita forma: la palla, anzi la bolla, la grande, immensa bolla; trasparente, certo, ma che a vedere non si direbbe di vetro quanto piuttosto di sapone, un sapone durissi­ mo, per niente grasso e poco friabile, o come una pelle estremamente sottile e tiratissima. Tutte le sue caratteristiche ti stanno di fronte e non hai nemmeno bisogno di andarle a cercare per saper­ lo, è normale, basta enumerarle: in alto tende al rosa, di fronte si squama, di fianco cerca di re­ spirare debolmente; il resto fa parte del cuscino a cui sei avvinghiato, e a cui resti agganciato gra­ zie alla pressione che, senza forzare, imprimi all’anello formato dal tuo pollice e indice destro.

Adesso il tutto si fa molto più difficile. Innan­ zitutto comincia a farsi evidente che la bolla ha barato; infatti non è per niente sferica, bensì pisciforme e fucilinea; poi ha una trasparenza di qualità assolutamente mediocre, di poco superio­ re a quella del cuscino; in ultimo, e soprattutto, in alto non sta affatto diventando rosa. Forse le uniche cose certe erano le sue desquamazioni, che in poco tempo si sono moltiplicate, e la respira35

zione che da debole si' è fatta ampia. Ma a provo­ carti il maggior disagio è la temperatura dell’in­ sieme, la quale è aumentata con tal rapidità che di lì a poco raggiungerà una soglia critica, cosa di cui le esfoliazioni sempre più numerose rap­ presentano certamente il segno precursore.

La situazione è ora alquanto scomoda. Hai sba­ gliato ad andar dietro a tutti quei particolari, che tra l’altro non erano nemmeno veri; non erano, con tutta evidenza, che trappole; e adesso ti ritrovi imprigionato nel cuscino, dove fa così buio e tal­ mente caldo che ti chiedi, non senza una punta di preoccupazione, come farai a uscirne fuori. Fortu­ natamente, non è la prima volta che ti trovi in una situazione del genere, sai che ti basterà trovare un’asperità nel terreno che si protende all’oriz­ zonte, o una luce fioca nell’oscurità, un lago o un luogo fresco dove inabissarti, e guarda caso ora ti senti una strana tendenza all’inabissamento. Ma hai un bel cercare, davanti a te non c’è proprio niente, nessun orizzonte, nessuna luce fioca, nes­ sun lago, niente di niente, soltanto il cuscino nero, spesso, opprimente. Non ne resti sorpreso, un po’ te l’aspettavi. Cerchi dietro di te e immediatamen­ te, ma certo, ti accorgi che non eri nemmeno ve36

ramente imprigionato, che il sonno, il vero sonno, durante tutto questo tempo ti stava alle spalle, non davanti, alle spalle, e così riconoscibile con le sue lunghe spiagge grigie, l’orizzonte gelato e il cielo nero percorso da bagliori bianchi o grigi. Tutto a un tratto te ne accorgi, e subito lo riconosci, ma anche stavolta, come sempre, è ormai troppo tardi per poterlo raggiungere; sarà per un’altra volta. Inoltre, c’è una cosa che già sapevi, e che anzi avre­ sti dovuto prevedere: non bisogna mai girarsi, e comunque non così bruscamente, altrimenti tutto va in pezzi, e in una grandissima confusione, il cuscino casca portandosi via guancia, avambraccio e pollice, i piedi dondolano l’uno sull’altro: il gri­ gio abbaino ritrova il proprio posto non lontano da te, la tua cella mansardata riprende la propria forma e si richiude, sei seduto sulla panca.

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Poi lasci Parigi, non parti alla ventura, vai dai tuoi genitori, in campagna, nei pressi di Auxerre. È un borgo un po’ spento dove loro si sono ritira­ ti in pensione. Vi hai trascorso qualche anno da bambino, qualche vacanza. I resti di un castello fortificato dominano una collina, ai cui piedi si estende il paese. Pare che un santo, non lontano di lì, abbia vissuto in una grotta, che adesso si può visitare. Sulla piazza, vicino alla chiesa, c’è un albero che dicono plurisecolare. Ti trattieni lì parecchi mesi. A tavola ascoltate le notizie e i quiz alla radio. La sera giochi a carte con tuo padre, che vince. Vai a letto molto presto, prima dei tuoi genitori, allo scoccare delle nove. A volte leggi tutta la notte. Hai ritro­ vato, nella tua stanza, nel granaio, in fondo all’armadio della biancheria, tutti i libri dei tuoi quindici anni, Alexandre Dumas, Jules Verne, Jack London, nonché i mucchi di romanzi polizie­ schi che ti eri portato dietro in ogni tuo soggiorno passato. Li rileggi accuratamente, senza saltare

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una riga, come se li avessi completamente dimen­ ticati, come se non li avessi mai letti veramente. Coi tuoi genitori parli appena. Li vedi solo all’ora dei pasti. Alla mattina te ne resti lì a pol­ trire nel letto. Li senti andare avanti e indietro in casa, salire e scendere le scale, tossire, aprire cas­ setti. Tuo padre sega del legno. Un pizzicagnolo ambulante suona il clacson vicino al portone di casa. Un cane abbaia, gli uccelli cantano, suona­ no le campane della chiesa. Sdraiato sul letto, il piumino tirato su fino al mento, osservi i travetti del soffitto. Un ragno minuscolo, con l’addome grigio, quasi bianco, tesse la ragnatela all’angolo di una trave. Ti siedi al tavolo coperto da un’incerata in cu­ cina. Tua madre ti versa una tazza di caffelatte, ti allunga il pane, la marmellata, il burro. Mangi in silenzio. Lei ti parla dei suoi reni, di tuo padre, dei vicini, del villaggio. Madame Theveneau ha ceduto la fattoria per un vitalizio. È morto il cane dei Moreau. I lavori dell’autostrada sono già co­ minciati. Scendi in paese a far la spesa per tua madre, a comprare il tabacco per tuo padre, le sigarette per te. Gli agricoltori sono scappati da quello che una volta era un grande paese, si fermava la ferrovia, c’era un notaio, un mercato. Soltanto due aziende 40

agricole esistono ancora. Il paese è adesso popo­ lato da pensionati e cittadini che ci vengono nei week-end e per un mese d’estate, raddoppiando o triplicando la popolazione invernale. Costeggi le case ristrutturate: persiane ridipin­ te di verde mela, placcate con fiordalisi di ferro battuto, lanterne d’antiquariato, giardini orna­ mentali, grotte in rocaille dove non abita nessu­ na divinità. Paradiso dei villeggianti. Avvocati, droghieri e impiegati potano i bossi, rastrellano la ghiaia, spazzano le aiuole, danno da mangiare ai pesci rossi. In piazza si accalcano le motociclette e gli scooter dei più giovani. Il bartabacchi è affollato.

Tutti i pomeriggi esci a fare una passeggiata. All’inizio segui la strada, poi, dopo una cava ab­ bandonata, ti inoltri nella foresta. Raccogli da terra un ramo che sfrondi alla bell’e meglio. Co­ steggi campi di grano maturo, col bastone decapi­ ti malamente le erbacce a gran colpi. Non conosci il nome degli alberi e dei fiori, né quello delle piante e delle nuvole. Ti siedi in cima a una collina da cui ti appare l’intero paese: la casa dei tuoi ge­ nitori, un po’ defilata, coi suoi tre tetti di diverso colore, la chiesa, il castello, quasi alla stessa altez41

za degli occhi, il viadotto dove un tempo passava la ferrovia, il lavatoio, le poste. Giù in basso, sulla strada bianca, simile a un galeone che esce dal porto, un enorme camion si sta allontanando. Un contadino solo in mezzo al suo campo guida l’ara­ tro trainato da un cavallo pomellato.

Uccelli emettono il loro verso, cinguettìi, trilli, rochi richiami. Gli alberi d’alto fusto stormiscono al vento. La natura è lì davanti a te, invitante e amorevole. Mastichi e subito risputi fili d’erba: il paesaggio t’ispira il giusto, la pace dei campi non ti commuove, il silenzio della campagna non ti snerva né ti placa. Soltanto un insetto, una pietra, una foglia caduta o un albero talvolta ti incanta­ no; a volte stai delle ore a guardare un albero, a descriverlo e a sezionarlo: le radici, il tronco, i rami, le foglie, ogni foglia, ogni nervatura, e anco­ ra ogni ramo, il gioco infinito delle forme più varie che il tuo avido sguardo suscita o elemosina: viso, città, dedalo, sentiero, oppure cavalcate e blasoni. Man mano che la tua percezione si affi­ na, diventa più duttile e paziente, l’albero esplode per poi rinascere con mille sfumature di verde, mille foglie identiche eppure differenti. Hai come l’impressione che potresti rimanere tutta la vita 42.

davanti a un albero senza poterlo esaurire, senza poterlo capire, dato che non c’è niente da capire, c’è soltanto da guardare: in fin dei conti tutto ciò che puoi dire di quest’albero è che è un albero; tutto ciò che quest’albero può dirti è che è un albero: radice, tronco, rami, foglie. Da lui non puoi aspettarti nessun’altra verità. L’albero non ha nessuna morale da proporti, nessun messaggio da consegnarti. La sua forza, la sua maestà, la sua vita - se davvero speri ancora di trarre un senso, un po’ di coraggio da queste antiche metafore non sono altro, in definitiva, che immagini e titoli di merito, vani quanto la pace dei campi, la perfi­ dia dell’acqua cheta, l’ardire dei piccoli sentieri che non salgono troppo in alto ma lo fanno in solitudine, i ridenti declivi collinari dove i grappo­ li maturano al sole. Per questo l’albero ti incanta, ti stupisce o riap­ pacifica, per questa inattesa e inimmaginabile evi­ denza della sua corteccia, dei suoi rami e delle sue foglie. E forse è per questo che non vai mai a pas­ seggio con un cane, perché il cane ti guarda, ti supplica, ti parla. Con quelle sue occhiate umide di riconoscenza, la sua aria da cane bastonato, i salti da cane festoso, ti obbliga continuamente a conferirgli l’ignobile statuto di animale domestico. Non puoi rimanere neutro di fronte a un cane,

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non più di quanto lo puoi rimanere di fronte a un uomo. Con l’albero, invece, non avrai mai nessun dialogo. Non puoi vivere di fronte a un cane per­ ché il cane, in ogni momento, ti chiederà di farlo vivere, di nutrirlo e accarezzarlo, di essere cioè un uomo proprio per lui, di essere il suo padrone, il dio che tuonando il suo nome lo fa subito accucciare. L’albero, invece, non ti chiede niente. Puoi essere il Dio dei cani, il Dio dei gatti, il Dio dei poveri, e per questo ti bastano un guinzaglio, un brandello di polmone, qualche spicciolo, ma non potrai mai essere padrone dell’albero. Potrai solo, a tua volta, voler essere albero.

Non è che detesti gli uomini, per quale motivo dovresti detestarli? Per quale motivo dovresti dete­ starti? Se solo l’appartenenza alla specie umana non fosse accompagnata da quest’insopportabile frastuono, se solo i pochi, ridicoli passi avanti compiuti nel regno animale non si dovessero paga­ re con questa perpetua indigestione di parole, pro­ getti, grandi partenze! Ma il prezzo è troppo sala­ to per due pollici opponibili, una stazione eretta e una non completa rotazione della testa sulle spalle: questo gran calderone, questa fornace, questa gra­ ticola che chiamiamo vita, questi miliardi di inti44

mazioni, incitamenti, moniti, esaltazioni e dispera­ zioni, questo mare di obblighi a non finire, quest’eterna macchina per produrre, macinare, scia­ lacquare, trionfare su ogni insidia e ricominciare da capo, questo dolce terrore che vuole regolare ogni giorno e ogni ora della tua esile esistenza!

Non hai vissuto granché, eppure tutto è già de­ ciso e definito. Hai solo venticinque anni, ma la tua strada è tracciata. Tutti i ruoli sono pronti, e così le etichette: dal vasino della prima infanzia alla sedia a rotelle della vecchiaia tutti i sedili sono lì che aspettano il loro turno. Le tue avventure così ben dettagliate che anche davanti alla più violenta delle ribellioni nessuno batterebbe ciglio. Hai un bel scendere in istrada e sbatter per terra il cappel­ lo alla gente, cospargerti il capo di spazzatura, andar scalzo, pubblicare manifesti politici e spara­ re revolverate all’usurpatore di turno, non servirà a niente: hai già un letto fatto nel dormitorio del­ l’ospizio, un posto apparecchiato alla tavola dei poeti maledetti. Battello ebbro, miserabile miraco­ lo: lo Harar* è soltanto un parco divertimenti, un * Regione dell’Etiopia orientale; Arthur Rimbaud si stabilì, a partire dal 1880, nella capitale Harar Jugol facendo il commer­ ciante e trafficante d’armi (N.d.t).

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viaggio organizzato. Tutto è previsto, preparato nei minimi particolari: i grandi slanci del cuore, la fredda ironia, la lacerazione, la pienezza, l’esoti­ smo, la grande avventura, la disperazione. Non venderai l’anima al diavolo, non andrai a gettarti nell’Etna coi sandali ai piedi, non distruggerai la settima meraviglia del mondo. Tutto è già pronto per la tua morte: il proiettile che ti porterà via è già stato fuso da un pezzo, le prefiche per seguire la tua bara sono già state designate. Perché dovresti arrampicarti in cima alle mon­ tagne più elevate, quando poi un giorno ti tocche­ rebbe dover scendere giù? e poi, una volta risceso, come evitare di passar la vita a raccontare di come ti eri dato da fare per salirvi? perché dovresti far finta di vivere? perché dovresti proseguire? sai o non sai già tutto quello che ti succederà nella vita? Sei o non sei già stato tutto ciò che dovevi essere: il degno figlio di tuo padre e di tua madre, il bravo piccolo scout, il bravo scolaro che avrebbe potuto far meglio, l’amico d’infanzia, il cugino lontano, il bel militare, il giovane squattrinato? Ancora qual­ che sforzo, oppure neanche quello, ancora qualche anno, e diventerai il funzionario zelante, il collega leale. Buon marito, buon padre, buon cittadino. Anziano combattente. Uno dopo l’altro zomperai come una rana sui gradini dell’affermazione socia46

le. Potrai scegliere, in un’ampia e assortita gamma, la personalità che più corrisponde ai tuoi desideri, la quale sarà tagliata su misura per te: pluridecora­ to? colto? fine buongustaio? sondatore di cuori e reni? amico degli animali? dedicherai il tuo tempo libero a massacrare su un pianoforte scordato delle sonate che non ti hanno fatto niente? o te ne starai a fumare la pipa su una sedia a dondolo, ripetendo a te stesso che in fondo c’è del buono nella vita? No. Preferisci essere il pezzo mancante del puz­ zle. Te la cavi lasciando il banco e il beneficio. Non fai carte false, non ti giochi il tutto per tutto. Metti il carro davanti ai buoi, getti il manico dietro la scure, vendi la pelle dell’orso, ti mangi il grano in erba, ti mangi tutto, chiudi bottega e parti alla che­ tichella, te ne vai senza voltarti. Non ascolterai più i buoni consigli. Non chie­ derai più un rimedio. Passerai oltre, guarderai gli alberi, l’acqua, le pietre, il cielo, il tuo viso, le nu­ vole, i soffitti, il vuoto. Resti vicino all’albero. E non chiedi nemmeno al rumore del vento tra le foglie di farsi oracolo.

Viene la pioggia. Non esci più di casa, a mala­ pena esci dalla tua stanza. Leggi tutto il giorno, ad alta voce, seguendo col dito le righe del testo, 47

come fanno i bambini, come fanno i vecchi, fino a quando le parole perdono il loro senso, e anche la frase più semplice diventa claudicante, caotica. Viene la sera. Non accendi la luce e resti immobi­ le, seduto al tavolino vicino alla finestra, con il libro in mano, ma senza più leggere, ascoltando appena i rumori in casa: lo scricchiolio delle travi sul solaio, tuo padre che tossisce, i cerchi di ghisa che vengono sistemati sulla cucina economica, il rumore della pioggia che batte sulle grondaie di zinco, un’automobile che lontanissimo passa sulla strada, il pullman delle sette che suona il clacson sul tornante vicino alla collina.

I vacanzieri sono partiti. Le case di villeggiatu­ ra sono chiuse. Quando attraversi il paese, i cani che abbaiano al tuo passaggio si fanno rari. Qual­ che manifesto giallo, ormai ridotto a brandelli, sulla piazza della chiesa, di fianco al municipio, alle poste e al lavatoio, ancora pubblicizza vendi­ te all’asta, balli e feste già trascorse.

Ogni tanto fai ancora delle passeggiate. Riper­ corri gli stessi sentieri. Attraversi campi arati che ti lasciano sotto gli scarponi spesse suole d’argil-

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la. Ti impantani nelle buche dei sentieri. Il cielo è grigio, coltri di nebbia nascondono il paesaggio. Sale il fumo dai camini. Nonostante il giubbotto imbottito, le scarpe e i guanti, hai freddo; tenti goffamente di accenderti una sigaretta.

Nelle tue passeggiate ti spingi sempre più lon­ tano, attraverso campi e boschi, verso altri paesi. Ti siedi al lungo tavolo di legno di un bar droghe­ ria, di cui sei l’unico cliente. Ti servono una tazza di viandox*, o del caffè insipido. Decine di mosche si ammassano sulla carta moschicida che pende a spirale da un paralume di metallo smaltato, un gatto se ne sta indifferente a scaldarsi vicino alla stufa di ghisa. Guardi i barattoli di conserva, i car­ toni di detersivo, i grembiuli, i quaderni di scuola, i giornali già vecchi, le cartoline rosa confetto in cui soldati di aspetto florido intonano in versi i bei sentimenti loro ispirati da una bionda fidanzata, poi l’orario dei pullman, i numeri della tris, i risul­ tati delle partite domenicali.

Stormi di uccelli passano altissimi in cielo. Sul canale dell’Yonne scivola una lunga chiatta dallo * Brodo a base di estratto di carne (N.d.t).

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scafo blu metallico, trainata da due grandi cavalli grigi. Ritorni indietro di notte, lungo la strada nazionale, con macchine urlanti che ti superano e ti vengono incontro, abbacinato dai fari che dal basso dei pendìi sembrano per un attimo voler illuminare il cielo prima di piombarti addosso.



Torni a Parigi e ritrovi la tua stanza, il silenzio. La goccia d’acqua, le folle, le vie, i ponti; il soffitto, la bacinella di plastica rosa; la stretta panca. Lo specchio incrinato che riflette i tratti del tuo viso.

La tua stanza è il centro del mondo. Quest’an­ tro, questa stamberga nel sottotetto impregnata per sempre del tuo odore, il letto in cui ti infili da solo, lo scaffale, il linoleum; il soffitto di cui hai contato centomila volte le crepe, le screpolature, le macchie e i rilievi; il lavabo così piccolo da sembrare un mobile di bambola; la bacinella, la finestra, la carta di cui conosci ogni fiore, ogni stelo, ogni intreccio, e di cui sei il solo a poter affermare che, malgrado la perfezione quasi infal­ libile dei procedimenti di stampa, non sono mai del tutto identici; i giornali che hai letto e riletto, che leggerai e rileggerai ancora; lo specchio incri­ nato che non ha mai riflesso altro che il tuo viso spezzettato in tre porzioni di superficie disuguali, 51

leggermente sovrapponibili, e che l’abitudine ti permette quasi di ignorare, tralasciando l’accen­ no di un occhio frontale, il naso spezzato, la bocca perennemente storta, e di considerare sol­ tanto una striatura a forma di Y, come il marchio dimenticato e ormai cancellato di un’antica feri­ ta, colpo di sciabola o frusta; i libri allineati, il radiatore ad alette, la valigia-giradischi rivestita di pegamoide color granata: qui comincia e qui finisce il tuo regno, che i rumori, amici o nemici, ma comunque costante presenza e unico tuo collegamento al mondo esterno, circondano a cerchi concentrici: la goccia d’acqua che stilla nel piane­ rottolo, i rumori del tuo vicino, i suoi raschiamenti di gola, i cassetti che apre e chiude, i suoi accessi di tosse, il sibilo del suo bollitore, il tram­ busto della rue Saint-Honoré, il mormorio inces­ sante della città. Da lontanissimo, la sirena di una vettura dei pompieri sembra venirti addosso, poi si allontana, ritorna di nuovo. All’incrocio tra rue Saint-Honoré e rue des Pyramides, il regolare alternarsi di frenate, soste, riprese e accelerate, scandisce lo scorrere del tempo con la stessa pre­ cisione dell’instancabile goccia nell’acquaio o del campanile di Saint-Roch. La sveglia da un pezzo segna le cinque e un quarto. Forse si è fermata durante la tua assenza e 52·

hai trascurato di rimetterla in funzione. Il tempo non penetra più nel silenzio della tua stanza, è tutto intorno, immersione permanente, ancor più presente e ossessivo delle lancette d’una sveglia che volendo potresti anche fare a meno di guar­ dare, è però un tempo leggermente storpiato, fal­ sato e un po’ ambiguo: il tempo scorre ma tu non sai mai che ore sono, il campanile di Saint-Roch non distingue i quarti, né la mezz’ora e i tre quar­ ti, i semafori all’incrocio tra rue Saint-Honoré e rue des Pyramides non si alternano scattando ogni minuto esatto, la goccia d’acqua non cade ogni secondo. Sono le dieci, oppure forse le undici, poiché come poter esser certi di aver sentito bene, è tardi, è presto, spunta il giorno, cala la notte, i rumori non cessano mai del tutto, il tempo non si ferma mai completamente, anche se divenuto ormai impercettibile: minuscola breccia nel muro del silenzio, mormorio rallentato, dimenticato, di goccia in goccia, quasi confuso col battito del cuore.

La tua stanza è la più bella delle isole deserte, e Parigi è un deserto che nessuno ha mai attraver­ sato. Non hai bisogno di nient’altro che di questa pace, di questo sonno, di questo silenzio, di que­

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sto torpore. Che i giorni comincino e che i giorni finiscano, che il tempo scorra, che la bocca si chiuda, che i muscoli della nuca, della mascella, del mento si rilassino completamente, che soltan­ to il sollevarsi della cassa toracica e il battito del cuore testimonino ancora del tuo paziente resta­ re in vita.

Non voler più niente. Aspettare finché non ci sia più nulla da aspettare. Vagare, dormire. La­ sciarsi portare dalla folla, dalle vie. Seguire i ca­ naletti di scolo, le inferriate, l’acqua lungo le spon­ de. Camminare lungo il fiume, rasente ai muri. Perdere tempo. Tenersi lontano da ogni progetto, da ogni smania. Essere senza desideri, senza risen­ timenti, senza ribellione. Davanti a te, nel corso del tempo, una vita im­ mobile, senza crisi e senza disordine: nessuna asperità e nessuno squilibrio. Un minuto dopo l’altro, un’ora dopo l’altra, un giorno dopo l’al­ tro, una stagione dopo l’altra, qualcosa comincerà che non avrà mai fine: la tua vita vegetale, la tua vita azzerata.

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Qui tu impari a durare. A volte, come un pic­ colo ragno attento al centro della sua tela, pa­ drone del tempo, padrone del mondo, regni su tutta Parigi: governi il nord da rue de l’Opera, il sud dai porticati del Louvre, l’est e l’ovest da rue Saint-Honoré. A volte cerchi di risolvere l’enigma di un ipote­ tico viso abbozzato dal complesso gioco di ombre e screpolature su un frammento di soffitto, due occhi e un naso, o un naso e una bocca, o una fronte che nessuna capigliatura contorna, o anco­ ra il disegno preciso dell’orlo di un orecchio, l’ac­ cenno di una spalla e di un collo.

Ci sono mille modi di ammazzare il tempo, e nessuno che si somigli, però tutti si equivalgono, mille maniere di non aspettare niente, mille giochi che si possono inventare e subito abbandonare. Hai tutto da imparare, tutto quello che non si può imparare: la solitudine, l’indifferenza, la

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pazienza, il silenzio. Devi disabituarti a tutto: a incontrare coloro che per così tanto tempo hai frequentato, a consumare i tuoi pasti, o prendere il caffè nel posto che altri, come ogni giorno, hanno tenuto e talvolta difeso per te, disabituarti a tirar per le lunghe la scialba complicità delle amicizie che non cessano mai di sopravvivere a se stesse, nel vile e opportunista rancore dei legami che si sfilacciano. Sei solo, e siccome sei solo occorre che tu smet­ ta di guardare l’ora e di contare i minuti. Non devi più aprire freneticamente la posta, non devi più restare deluso se ci trovi dentro soltanto un volan­ tino pubblicitario che ti invita ad acquistare, per la modica somma di settantasette franchi, un ser­ vizio da dessert con incise le tue iniziali o il tesoro dell’arte occidentale. Devi dimenticarti di sperare, di intraprendere, di riuscire, di perseverare. Ti lasci andare, cosa questa che ti viene quasi facile. Eviti le strade che hai percorso da troppo tempo. Lasci che il tempo cancelli il ricordo dei visi, dei numeri di telefono, degli indirizzi, dei sor­ risi, delle voci. Dimentichi che hai imparato a dimenticare, che un giorno ti sei costretto alla dimenticanza. Cion­ doli sul boulevard Saint-Michel senza più ricono-

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scere niente, ignorando le vetrine, ignorato dalla fiumana di studenti che va su e giù. Smetti di entra­ re nei bar, smetti di farci un giro con aria preoc­ cupata, spingendoti nelle sale più interne alla ricerca di non sai più chi. Smetti di cercare qual­ cuno nelle code che ogni due ore si formano da­ vanti ai sette cinema di rue Champollion. Smetti di errare come un’anima in pena nel grande cortile della Sorbona, e di misurarne a grandi passi i lunghi corridoi nel guadagnare l’uscita delle aule, non vai più in biblioteca a ele­ mosinare un saluto, un sorriso, un cenno di rico­ noscimento.

Sei solo. Impari a camminare da uomo solo, ad andare a zonzo, a tirar tardi, a vedere senza guar­ dare e a guardare senza vedere. Impari la traspa­ renza, l’immobilità, l’inesistenza. Impari a essere un’ombra e a guardare gli uomini come se fossero pietre. Impari a restare seduto, a restare coricato, a restare in piedi. Impari a masticare ogni bocco­ ne, a trovare in ogni briciola di cibo che porti alla bocca lo stesso identico neutro sapore. Impari a guardare i quadri esposti nelle gallerie come se fossero pezzi di muro, di soffitto, e i muri e i sof­ fitti come se fossero tele di cui segui senza sforzo i

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dieci, mille sentieri, sempre ricominciati, labirinti inesorabili, testi che nessuno mai potrebbe deci­ frare, volti in decomposizione.

Ti inoltri nell’isola di Saint-Louis, prendi rue Vaugirard, vai verso Pereire, verso Château-Landon. Cammini lentamente, ritorni sui tuoi passi, guardi le vetrine. Banconi di droghieri, elettricisti, mereiai e rigattieri. Vai a sederti sul parapetto del ponte Louis-Philippe e osservi il continuo farsi e disfarsi di un mulinello sotto gli archi, l’avvalla­ mento a imbuto che incessantemente si scava e si colma davanti agli speroni. Più lontano passano chiatte e imbarcazioni da fiume che alla lunga stravolgono gli effetti dell’acqua contro i piloni. Lungo le sponde alcuni pescatori, seduti immobi­ li, seguono con lo sguardo l’inflessibile deriva dei galleggianti.

Seduto al tavolino di un caffè all’aperto, di fronte a una birra media o a un caffè, te ne stai lì a guardare la strada. Auto private, taxi, furgon­ cini, autobus, motociclette e ciclomotori passano formando solidi gruppi compatti, solo spezzati dai rari e brevi intervalli dei semafori che in lon58

tananza regolano il traffico. Su entrambi i mar­ ciapiedi scorrono i passanti, a flussi continui, ma in questo caso molto più fluidi. Due uomini si incrociano con la stessa cartella in finto cuoio e lo stesso passo affaticato; una madre con la figlia, dei bambini, alcune donne anziane cariche di sporte per la spesa, un militare, un uomo con le braccia inzavorrate da due grosse valigie, e altri ancora, con pacchi, giornali, pipe, ombrelli, cani, pance, cappelli, carrozzine, uniformi, certuni quasi correndo, altri trascinando i piedi, fermandosi davanti alle vetrine, salutandosi, separandosi, incrociandosi, giovani e vecchi, uomini e donne, contenti e scontenti. Gruppi che incessantemente si formano e disfano, si accalcano vicino a una fermata degli autobus. Un uomo-sandwich distri­ buisce opuscoli. Una donna fa invano ampi gesti ai taxi che passano. La sirena di una vettura dei pompieri, o della polizia, ti viene incontro ampli­ ficandosi. Carri attrezzi partono in tromba, chiamati per chissà quale urgenza. Tu non sai niente delle leggi che portano a concentrarsi così tante persone, tra loro sconosciute, e che tu non conosci, in questa via dove vieni per la prima volta in vita tua, e dove non hai nient’altro da fare che guardare la folla che va e che viene, di fretta, fermandosi: 59

cosa ci fanno tutti quei piedi sui marciapiedi, e tutte quelle ruote sulle carreggiate? Dove vanno tutti quanti? Chi è che li chiama? Chi è che li fa tornare? Quale forza o mistero fa sì che mettano sul marciapiede prima il piede destro, poi il piede sinistro, o viceversa, e con una coordinazione che difficilmente potrebbe essere più efficace? Mille azioni inutili si concentrano contemporaneamen­ te nel campo visivo troppo limitato del tuo sguar­ do più o meno neutro. Si danno la mano destra contemporaneamente, stringendosela come se vo­ lessero stritolarsela, con la bocca emettono se­ gnali che parrebbero provvisti di senso, e nell’accompagnare i loro discorsi con mimiche espressi­ ve storcono di qua e di là guance, nasi, sopracci­ glia, labbra e mani; tirano fuori le agende, si superano, si salutano, si lanciano invettive, si congratulano, si strattonano; poi si incamminano senza vederti, eppure ti trovi solo a qualche centimetro da loro, seduto in un caffè all’aperto, e non smetti più di guardarli.

Vai girovagando per le strade. Immagini una classificazione delle vie, dei quartieri e degli edifi­ ci: i quartieri folli, i quartieri morti, le vie-merca­ to, le vie-dormitorio, le vie-cimitero, le facciate 60

crepate, le facciate sgretolate, le facciate arruggi­ nite, le facciate occultate. Costeggi i giardinetti, coi bambini che ti supe­ rano di corsa, facendo scorrere un righello di ferro, o di legno, sulle sbarre delle inferriate. Ti siedi sulle tavole di legno verde delle panchine coi piedi di ghisa scolpiti a zampa di leone. Guardia­ ni vecchi e infermi discutono con bambinaie d’al­ tri tempi. Con la punta della scarpa tracci dei tondi sulla terra leggermente sabbiosa, dei qua­ drati, un occhio, le tue iniziali. Scopri strade dove non passa mai una macchi­ na, dove sembra quasi non abiti nessuno, e dove i soli negozi sono una bottega fantasma, una sar­ toria con la vetrina tappezzata da veli, in cui si direbbe che siano esposti da un’eternità sempre gli stessi smorti manichini, scoloriti dal sole, le stesse serie di bottoni fantasia, gli stessi figurini, che pure portano la data dell’anno, oppure un materassaio che propone le sue molle, i piedi del letto a forma di palla, ovali, affusolati, e le diffe­ renti qualità di crine e traliccio, o ancora un cal­ zolaio nell’anfratto che gli fa da negozietto, con la porta fatta di variopinti tappi di plastica piatti, infilati a fili di nylon. Scopri i passaggi parigini: Passage Choiseul, Passage des Panoramas, Passage Jouffroy, Passage 61

Verdeau, con i loro venditori di modellini, di pipe, di gioielli in strass, di francobolli, i lucida scarpe e i banchi di hot dog. Leggi, uno alla volta, tutti i cartelli sbiaditi esposti nella vetrina di un incisore: Docteur Raphaël Crubellier, stomatologo, Diplo­ ma della facoltà di medicina di Parigi, solo su ap­ puntamento, Marcel-Émile Burnachs s.a.r.l. Tutto per il tappeto, Monsieur et Madame Serge Valène, ir rue Lagarde, 214 07 35; Riunione degli Amici degli Ex alunni del Collège Geoffroy Saint-Hilai­ re, Menù: Leccornie di mare su letto di ghiaccio, «Bloc du Périgord» alle perle nere, «Belle argen­ tee» di lago. Ai giardini del Luxembourg guardi i pensiona­ ti che giocano a bridge, alla belote o ai tarocchi. Su una panchina, non lontano da te, un vecchio mummificato, immobile, coi piedi uniti, il mento appoggiato sul pomello del bastone cui si tiene aggrappato con tutte e due le mani, guarda per ore davanti a sé, nel vuoto. Lo ammiri. Ne cerchi il segreto, la debolezza. Ma lui sembra inattacca­ bile. Deve essere sordo come una campana, mezzo cieco e un po’ paralitico. Però non sbava, la bocca non gli trema, a malapena sbatte gli occhi. Il sole gli gira intorno: la sua unica vigilanza consiste forse nel seguire la propria ombra; deve avere tracciato dei punti di riferimento già da molto 62

tempo; forse la sua pazzia, se pazzo è, sta nel cre­ dersi una meridiana. Somiglia a una statua, ma rispetto alle statue ha il vantaggio che se lui lo desidera può alzarsi e mettersi a camminare. So­ miglia a un essere umano, anche, malgrado la fac­ cia, che è piuttosto quella di un uccello, i pantalo­ ni che gli salgono su fino alle ascelle, e il fiocco da poeta parnassiano da scuola elementare, però ha questo privilegio sugli altri esseri umani di poter restare immobile come una statua, per ore e ore, e senza nessuno sforzo apparente. Anche tu ci vor­ resti riuscire, ma per effetto forse dell’estrema gio­ vinezza che accompagna questa tua vocazione di vegliardo, ti innervosisci troppo presto: il piede, tuo malgrado, si muove sulla sabbia, gli occhi vagano a destra e a manca, le dita si intrecciano e sciolgono continuamente.

Continui a camminare, a caso, perdendoti, gi­ rando a vuoto. Talvolta ti prefiggi mete risibili: Daumesnil, Clignancourt, boulevard Gouvion Saint-Cyr, il museo Postale. Entri nelle librerie e sfogli i libri senza leggerli. Entri nelle gallerie d’ar­ te, e ne fai scrupolosamente il giro, fermandoti davanti a ogni dipinto, reclinando il capo un po’ a destra, socchiudendo gli occhi, avvicinandoti per 63

leggere il titolo, la data o il nome del pittore, in­ dietreggiando per vedere meglio. Uscendo firmi con una gran paraffa illeggibile accompagnata da un falso indirizzo.

Ti siedi in fondo a un caffè e leggi «le Monde», riga per riga, sistematicamente. Eccellente eserci­ zio. Leggi i titoli in prima pagina, la rubrica «gior­ no per giorno», gli esteri, la cronaca nera in ulti­ ma pagina, gli annunci: offerte d’impiego, doman­ de d’impiego, rappresentanze, annunci commer­ ciali, proprietà, tenute, terreni, appartamenti (ven­ dita), appartamenti (in costruzione), appartamen­ ti (acquisto), locali commerciali, affitti, fondi finanziari, capitali, associazioni, corsi e lezioni, vitalizi, auto, box, animali, occasioni, varie; i rice­ vimenti, le nascite, i fidanzamenti, i matrimoni, i necrologi, i ringraziamenti, le aste all’Hotel Drou­ ot, le visite guidate e le conferenze, le tesi di lau­ rea; le parole crociate che quasi completi a mente (battezzarlo è poco ortodosso: vino; articolo di fede: la; una pianta che cammina: piede; amava troppo il parmigiano: Sanseverina; quando tira non fuma: camino), le previsioni del tempo, i pro­ grammi della radio, della televisione, dei teatri e dei cinema, le quotazioni in borsa; le pagine turi64

Stiche, sociali, economiche, gastronomiche, lette­ rarie, sportive, scientifiche, drammatiche, univer­ sitarie, mediche, femminili, pedagogiche, religiose, provinciali, aeronautiche, urbanistiche, marittime, giudiziarie, sindacali; la politica mondiale, le noti­ zie dall’estero, la politica francese, la cronaca na­ zionale, le notizie brevi, le grandi inchieste che si protraggono per tre o quattro numeri, i supple­ menti dedicati a un paese, a una regione, a un pro­ dotto, le inserzioni pubblicitarie. Cinquecento, mille informazioni sono passate davanti ai tuoi occhi, talmente attenti e scrupolo­ si che hai perfino voluto sapere in quante copie quel numero è stato stampato, e una volta di più verificare che è stato fabbricato da operai sinda­ calizzati, e controllato dal bvp e I’ojd. Ma la tua memoria si è messa d’impegno a non trattenerne neanche una: è con la stessa mancanza di interes­ se che hai letto che Pont-à-Mousson era debole, l’acciaio in flessione, New York sostenuta, che bisogna avere fiducia nell’esperienza della più antica banca di credito immobiliare di Francia, e nella sua rete di specialisti, che ci sono tre miliar­ di di danni in Florida in seguito al passaggio del tifone Barbara, che Jean-Paul e Lucas sono orgo­ gliosi di annunciare la venuta al mondo della sorellina Lucie: leggere «le Monde» è soltanto un 65

modo di perdere, o guadagnare, una o due ore; leggere «le Monde» è misurare una volta di più quanto tutto ti sia indifferente. Occorre che ogni gerarchia e ogni preferenza crollino. Puoi ancora meravigliarti del fatto che la combinazione di una trentina di segni tipografici sia in grado di creare, ogni giorno, e seguendo regole tutto sommato molto semplici, una tal miriade di messaggi. Ma per quale motivo te ne dovresti pascere, per quale motivo dovresti metterti lì a decifrarli tutti? La sola cosa che a te importa, è che il tempo scorra, e che nulla possa colpirti: i tuoi occhi leggono ogni riga, compostamente, una dopo l’altra.

L’indifferente non ignora il mondo, né nutre nei suoi confronti ostilità. Quello che ti proponi non è di riscoprire le sane gioie dell’analfabeti­ smo, bensì di leggere senza dare alle tue letture nessuna importanza particolare. Quello che ti proponi non è di andare nudo, bensì di vestirti senza che ciò debba implicare ricercatezza o tra­ scuratezza; quello che ti proponi non è di lasciar­ ti morire di fame, bensì di unicamente nutrirti. Non che tu voglia compiere tali atti in uno stato di totale innocenza, che innocenza è parola trop­ po grossa: vuoi solamente, semplicemente fam66

messo che questo «semplicemente» possa avere un senso) lasciarli in un terreno sgombro da ogni valore, un terreno neutro, evidente, palese, fat­ tuale e non riconducibile a nient’altro, ma so­ prattutto non funzionale, poiché il funzionale è il peggiore di tutti i valori, il più subdolo e il più compromettente; che quindi non ci sia altro da dire se non: leggi, sei vestito, mangi, dormi, cam­ mini, e che queste siano azioni, gesti, ma non prove e non monete di scambio: il tuo abbiglia­ mento, il tuo cibo e le tue letture non parleranno più al tuo posto, non te ne servirai più per fare il furbo. Non gli affiderai più l’estenuante, impos­ sibile, mortale compito di rappresentarti.

Ormai, quando mangi al bancone della Petite Source, alla Bière o da Roger la Frite, è un po’ come quella che gli psicofisiologi chiamano una «dose di nutrimento»: una o due volte al giorno, raramente di più, ingerisci un composto di protidi e glicidi, abbastanza rigorosamente calcolabi­ le, sotto forma di una porzione di carne di manzo ai ferri, di patate tagliate a lamelle e affogate nel­ l’olio bollente e di un bicchiere di vino rosso. Si tratta di una bistecca, certo non di un tournedos, ili patate fritte che nessuno si sognerebbe di pro67

clamare «pommes-paille», di un bicchiere di vino rosso di cui sarebbe impensabile controllare la denominazione di origine o classificazione di qualità*. Ma il tuo stomaco, se mai l’ha fatta, non fa più differenza, e il palato nemmeno. Il lin­ guaggio, invece, ha opposto più resistenza: ti ci è voluto un po’ di tempo perché la carne cessasse di essere stopposa, coriacea e filamentosa, le patate fritte unte e mollicce, il vino acido o sciropposo, e perché tutti questi epiteti eminentemente spregia­ tivi - che subito veicolano tristi significati, evo­ cando pasti da poveri, cibi da barboni, minestre popolari e fiere di periferia - perdessero un po’ alla volta la loro sostanza, e perché la tristezza, la povertà, la penuria, il bisogno e la vergogna che vi erano inesorabilmente incollate - il grasso diventato patatina fritta, la durezza diventata carne, l’acidità fattasi vino - cessassero di impres­ sionarti e di segnarti; così come, viceversa, ti ci è voluto un po’ di tempo perché cessassero di con­ vincerti gli opposti nobili segni dell’abbondanza, della gozzoviglia e della festa: la consistenza tene­ ra e succulenta dei tagli di cbarolais**, dei tour­ nedos, dei pavés, dei bocconcini di filetto, delle * In Francia i vini pregiati hanno sull’etichetta, oltre alla denominazione di origine, una classificazione qualitativa (N.d.t). ** Pregiata razza bovina dell’omonima regione (N.d.t).

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entrecôtes «forts des Halles»*, il croccante dorato delle «pommes-paille» o «allumette», dei soufflé di patate e delle patate alla Dauphine, il bouquet del vino pregiato nella sua cesta. Nessuna sacra energia e nessun divino nettare riempiono più il tuo piatto e il tuo bicchiere. Nessun punto escla­ mativo accompagna i tuoi pasti. Mangi carne e patatine fritte, bevi del vino. L’incolmabile di­ stanza che separa la costata di manzo della Villet­ te dal «menù completo» che quasi tutti i giorni, appena entrato, ordini al cameriere dietro al banco della Petite Source, non ha più potere su di te.

* Letteralmente «entrecote dei facchini delle Halles», rinoma­ te per la loro carne appena macellata, si mangiavano nelle trat­ torie attorno ai vecchi mercati generali di Parigi «les Halles» (N.d.t).

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Che faccia bello, che faccia brutto, che cada la pioggia o che splenda il sole, che il vento soffi a raffiche o che non si muova neanche una foglia, che l’alba spenga i lampioni o che il crepuscolo li riaccenda, che tu sia perso nella folla o solo in una piazza deserta, continui a scarpinare, continui a girovagare. Escogiti peripli complicati, irti di divieti che ti obbligano a lunghe deviazioni. Vai a vedere i mo­ numenti. Passi in rassegna le chiese, le statue eque­ stri, i vespasiani, i ristoranti russi. Vai a vedere i grandi lavori lungo le sponde del fiume, vicino alle porte, le vie sventrate simili a campi arati, le canalizzazioni, l’abbattimento degli edifici. Torni nella tua stanza e ti accasci sulla panca troppo stretta. Dormi con gli occhi spalancati, come gli idioti. Passi in rassegna e organizzi le crepe sul soffitto. La congiunzione tra le ombre e le macchie da una parte, e le variazioni di adatta­ mento e orientamento del tuo sguardo dall’altra, producono senza sforzo, lentamente, decine di 71

forme nascenti, fragili organizzazioni che puoi co­ gliere solo un istante fissandole a un nome: vigna, virus, villaggio, viso, prima che si scompongano e tutto ricominci: l’apparizione di un gesto, di un movimento, di una silhouette, accenno di segno vuoto che tu lasci ingrandire, casualità che va deli­ neandosi: un occhio che ti fissa, un uomo che dorme, un mulinello, un leggero dondolio di velie­ ri, un pezzo d’albero, ramo esploso, preservato, ritrovato, dal cui interno emerge ancora, precisan­ dosi di tratto in tratto, l’abbozzo di un viso, simi­ le a quello di poco fa, forse più cupo, o più atten­ to, un viso sospeso di cui cerchi di vedere, senza riuscirci, orecchie, occhi, collo, fronte, ma di cui riesci a tenere in mente, ritrovare, e subito smarri­ re, solo l’impronta di un sorriso ambiguo, l’ombra di una narice, che forse prolunga la traccia - infa­ mante o gloriosa, chissà? - di una cicatrice.

Spesso giochi a carte da solo. Distribuisci le carte per una mano di bridge, cerchi di risolve­ re i problemi pubblicati ogni settimana da «le Monde», ma sei un giocatore mediocre e le tue giocate sono prive di eleganza: nessun’arte della compressione, dello scarto e della messa in mano. Un giorno hai immaginato una distribuzione ec72-

cezionale, in cui una coppia con in mano solo due onori, un asso e un fante, grazie a una magnifica ripartizione di vuoti e lunghe, poteva ottenere un grande slam contro ogni difesa; poi, messo a fuoco il problema, una volta constatato che lo slam in questione non era poi così interessante in quanto non dichiarabile, e che quindi non si prestava ad alcuna finezza, non ti sei più aspettato granché dal bridge. Ti sei lasciato prendere dalla malia del solita­ rio. Disponi sulla panca quattro file da tredici carte, tiri via i quattro assi. Il gioco consiste nell’ordinare le quarantotto carte rimanenti utiliz­ zando le caselle lasciate libere dall’eliminazione degli assi; se una delle caselle è la prima della fila, hai diritto di metterci un due; ma poniamo che segua un sei, puoi metterci un sette dello stesso colore, se segue un sette puoi mettere l’otto, un otto il nove, un jack la regina, eccetera; se invece la casella segue un re, non puoi metterci niente, è una casella persa. In questo solitario la fortuna non gioca alcun ruolo. Puoi prevedere con largo anticipo il mo­ mento in cui le quattro caselle liberate ti faranno cadere sui re, quindi fallire, sempre che tu le gio­ cassi nell’ordine; ma puoi, appunto, servirti prima di una casella, poi di un’altra, quindi tornare alla 73

prima, prendere la terza, la quarta, e nuovamen­ te la seconda. Nondimeno, è piuttosto raro che il solitario ti venga: arriva sempre un momento in cui il gioco si blocca, quando, per esempio, avendo già incasellato un terzo o metà delle carte, non rie­ sci più a riempire una casella senza inevitabilmen­ te scoprire un re. In teoria avresti diritto a due ulte­ riori tentativi: basta lasciare al loro posto le carte già incasellate e calare le altre dopo averle mesco­ late e alzate quattro volte. Ma raramente utilizzi queste due ulteriori possibilità concesse; non appe­ na hai l’impressione che il gioco sia compromesso raccogli le carte, le mescoli due o tre volte, e le disponi nuovamente per un altro tentativo. Mescoli le carte, le disponi, tiri via gli assi, os­ servi il gioco. Cominci un po’ a casaccio, ba­ dando solamente a non scoprire un re troppo presto. Carta dopo carta, il gioco comincia a or­ ganizzarsi, emergono vincoli, si aprono possibili­ tà: qui una carta è già al suo posto, lì lo sposta­ mento di una sola permetterà di sistemarne cin­ que o sei in un sol colpo, là un re che dà fastidio non potrà più muoversi. Non riesci quasi mai a finirlo. A volte bari, solo un po’, raramente, sempre più di rado. Non è la vittoria che ti interessa, tanto cosa starebbe a si­ gnificare la tua vittoria, e se si trattasse di avere gli 74

dèi dalla propria parte, ci sono tanti altri modi più semplici di ingraziarseli. Ma giochi sempre più spesso, sempre più a lungo, talvolta tutto il pome­ riggio, o appena alzato, o fino al mattino, e nean­ che tanto, neanche più per ammazzare il tempo. C’è qualcosa in questo gioco che ti affascina, forse ancor più che nei giochi d’acqua vicino ai ponti, che nei labirinti sul soffitto, che le pagliuz­ ze appena opache che scarrocciano sulla superfi­ cie della tua cornea. Secondo la posizione, secon­ do il momento, ogni carta acquista una densità quasi commovente. Proteggi, distruggi, costruisci, componi, almanacchi mille scappatoie: esercizio a fin di niente, pericolo che niente sancisce, futile ordinamento: quarantotto carte ti incatenano alla tua stanza, e ti senti quasi felice che un dieci si ritrovi al suo posto, un re non possa più ribellar­ si, oppure quasi infelice che tutti i tuoi laboriosi calcoli confluiscano nello stesso impossibile risul­ tato. Come se questa strategia muta e solitaria costituisse la tua unica via e fosse diventata la tua ragion d’essere.

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Si fa notte. Sfreccia raramente qualche auto­ mobile. La goccia d’acqua stilla dal rubinetto nel pianerottolo. Il tuo vicino è silenzioso, forse as­ sente, oppure già morto. Sei disteso sulla panca tutto vestito, le mani incrociate dietro la nuca e le ginocchia sollevate. Chiudi gli occhi, li apri. All’interno dell’occhio, o sulla superficie della cornea, forme virali, microbiche, scarrocciano dall’alto in basso, spariscono, e ritornano repen­ tinamente al centro leggermente modificate: sem­ brano dischi, bolle, pagliuzze, filamenti ritorti il cui assemblaggio disegna i vaghi tratti di un ani­ male mitologico. Ne perdi le tracce, li ritrovi; ti sfreghi gli occhi e i filamenti esplodono, moltipli­ candosi.

Passa il tempo, sonnecchi. Posi il libro aperto accanto a te, sulla panca. Tutto è vago, ronzante. 11 respiro è straordinariamente regolare. Una bestiolina nera, verosimilmente irreale, apre una

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breccia insospettata nel labirinto delle crepe sul soffitto.

Ciondoli per le strade giorno e notte. Entri nei cinema di quartiere, dove aleggia insistente l’odo­ re dei disinfettanti, mangi panini in piedi al ban­ cone, cartocci di patatine fritte, attraversi lunapark, giochi a flipper, vai nei musei, nei mercati, nelle stazioni, nelle sale di lettura delle biblioteche, guardi le vetrine degli antiquari di rue Jacob, delle cristallerie di rue de Paradis, dei negozi di mobili in faubourg Saint-Antoine.

Lungo il corso delle ore, dei giorni, delle setti­ mane e delle stagioni ti disamori di tutto, ti distac­ chi da tutto. Con quasi una sorta di ebbrezza, sco­ pri che sei libero, che non c’è niente che ti pesi, che ti piaccia o che ti spiaccia. In questa vita senza usura e senza altri fremiti degli istanti sospesi che ti procurano le carte, certi rumori, e certi spetta­ coli che ti dai, trovi una felicità quasi perfetta, ammaliante, talvolta gravida di nuove emozioni. Conosci un riposo totale, sei, in ogni momento, come risparmiato, protetto. Vivi una parentesi felice, un vuoto pieno di promesse e da cui non ti

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aspetti niente. Sei invisibile, limpido, trasparente. Non esisti più: il susseguirsi delle ore, il susseguir­ si dei giorni, il passare delle stagioni, lo scorrere del tempo, sopravvivi, senza allegria e senza tri­ stezza, senza futuro e senza passato, così, sempli­ cemente, in modo evidente, come una goccia d’ac­ qua che stilla da un acquaio su un pianerottolo, come sei calze in ammollo dentro una bacinella di plastica rosa, come una mosca, come un’ostrica, come una mucca, come una lumaca, come un bambino o come un vecchio, come un topo.

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A volte, il buio disegna all’inizio la forma im­ precisa di un asso di picche: da un punto davanti a te fuggono due linee che si divaricano e ti tor­ nano incontro dopo una lunga curva. Poi, un oceano, un mare nero su cui navighi, quasi che il tuo naso fosse lo spigolo della prua, o meglio, il dritto di prua di un gigantesco traghet­ to di linea. Tutto è nero. Non è notte né buio, è il mondo intero a essere nero, naturalmente nero, come sul negativo di una fotografia, e sole a esse­ re bianche, o forse grigie, sono le onde che il tuo passaggio solleva su entrambi i lati del naso, lungo gli occhi, che forse sono le fiancate della nave, proprio lì nel punto dove prima si inscrive­ va l’asso di picche, quasi fosse una specie di pre­ ludio a questo solco, a questa scia biancastra e ondulata che scavi davanti scivolando sull’acqua nera. Sei ovunque circondato dall’acqua, mare nero, immobile, straordinariamente piatto, e, benché non sia fosforescente, hai come l’impres­ sione che potresti scorgere ogni particolare, che

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se ci fosse il cielo scorgeresti ogni minima nuvola, che se ci fosse l’orizzonte scorgeresti il più picco­ lo lembo di terra. Ma c’è soltanto il mare, e tu sei una prua che senza sforzo, senza rumore e senza vibrazioni, scava solchi bianchi e profondi al suo passaggio, come il vomere di un aratro che rivol­ ta un campo. Tuttavia, di lì a poco, da qualche parte sopra di te, quasi spuntasse uno schermo e vi si proiet­ tasse un negativo di pellicola cinematografica, come in un cartiglio, c’è la stessa nave di prima, ma stavolta vista dall’alto, per intero, e tu sei sul ponte appoggiato coi gomiti al parapetto, o piut­ tosto al capodibanda, in una posizione sul ro­ mantico. Questa sensazione d’uno sdoppiamento rimane a lungo, assolutamente netta, e anzi, se c’è una cosa che ti irrita e assilla, è il fatto di non riu­ scire più a sapere se sei prima la sola prua che sci­ vola sul mare, sollevando onde bianche, e solo dopo, anche se quasi allo stesso tempo, qualcosa come la coscienza di essere questa prua, cioè la nave intera al di sopra, di cui tu sei il passeggero immobile, appoggiato ai gomiti sul ponte, in una postura vagamente romantica, oppure se, vice­ versa, c’è prima la nave intera che scivola sul mare nero con te unico passeggero appoggiato coi gomiti alla passerella, e poi l’unico dettaglio

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di questa nave smisuratamente ingrandito, cioè la prua, che fendendo i flutti solleva sui lati due onde bianche e spesse, le quali onde forse sono un po’ troppo ben disegnate per essere davvero delle onde, si direbbero piuttosto pieghe, drappeggi, con un che di maestoso e quasi di rallentato. Le due navi, la parte e il tutto, il tuo naso-prua e il tuo corpo-traghetto, navigano a lungo di con­ serva, senza che niente ti permetta di dissociarle: sei nello stesso tempo la prua, la nave, e te stesso sulla nave. Poi, una prima contraddizione viene alla luce, ma che forse è solo un’illusione ottica imputabile alle differenze di scala e di prospettiva: la nave ti sembra proceda lentamente, sempre più lentamente, come se la vedessi sempre di più in­ dietreggiando, sempre più dall’alto, ma tu invece, appoggiato coi gomiti al parapetto, non ti rimpic­ ciolisci affatto, resti sempre ugualmente visibile, e la prua va sempre più veloce, tanto che non scivo­ la più, semmai fila sull’acqua nera come una motovedetta, o anche come un fuoribordo, asso­ lutamente non più come un traghetto di linea. Allora, ed è subito molto più grave, come se tu già sapessi, forse per esperienza, che ciò che sta per cominciare è l’inizio della fine, dato che non potrai sopportare più di qualche istante, o di qualche secondo, l’intensità di ciò che si annun83

cia, benché niente si sia ancora rivelato, se non, tutt’al più, un segno forse premonitore, un indi­ zio il cui senso non è nemmeno certo, di cui ora attendi il chiarimento, con la vana speranza che tutto resti sfumato il più a lungo possibile, dato che, lo sai, il risveglio è lì in agguato, è proprio la tua impazienza ad averlo appena innescato, e tutti i tuoi sforzi per ritardarlo non fanno che anticiparlo; allora emerge, come sempre, lenta­ mente ma non abbastanza, una sensazione an­ gosciosa ed eccitante al tempo stesso, meraviglio­ sa e disperante, da subito troppo precisa, molto presto lancinante e quasi dolorosa: la certezza assurda, o piuttosto, non ancora del tutto assur­ da ma certamente votata all’assurdo, che hai già vissuto quest’immagine, che si tratta di un ri­ cordo reale, preciso in tutti i suoi particolari: il mare era nero, la nave procedeva lentamente nello stretto, facendo zampillare sulle fiancate schizzi di schiuma bianca, tu eri appoggiato coi gomiti alla passerella del ponte di passeggiata, in quella posizione vagamente romantica che hanno i passeggeri di tutte le navi quando prendono l’aria guardando i gabbiani, e provavi esattamen­ te la stessa sensazione che provi adesso, e tuttavia adesso non provi nessuna sensazione, se non quella, pericolosa, sempre più pericolosa, di sa­

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pere l’impossibilità e, al tempo stesso, il suo non essere riconducibile a nulla, di un tale ricordo.

Più tardi, molto più tardi, forse ti sei svegliato e riassopito più volte, ti sei girato sul fianco destro, sul fianco sinistro, ti sei messo di schiena, sulla pancia, forse hai anche acceso la luce, forse hai fumato una sigaretta, più tardi, molto più tardi, il sonno diventa un bersaglio, anzi no, il contrario, tu diventi il bersaglio del sonno. È un focolaio irradiante, intermittente. Di fronte a te, o più precisamente, davanti ai tuoi occhi, talvolta un po’ sulla sinistra, talvolta un po’ sulla destra, mai al centro, una miriade di puntini bianchi si va organizzando, disegnando nel tempo un qual­ cosa di aspetto felino, forse una testa di pantera vista di profilo, che ti viene incontro, che ingran­ dendosi scopre due lunghe zanne affilate, scom­ pare e lascia il posto a un punto luminoso che si ingrossa, diventa losanga, stella, e si scaglia su di te a gran velocità, schivandoti a destra solo all’ul­ timo. Il fenomeno si riproduce parecchie volte, con regolarità: dapprima niente, poi dei punti ap­ pena luminosi, una testa di pantera che si abboz­ za, si precisa, si ingrandisce ruggendo, mostran­ do due zanne affilate, quindi un punto scintillan85

te, quasi eclatante, che si gonfia a losanga, a stel­ la, e diventa una palla di luce che ti viene addos­ so, ti evita per un pelo, passandoti talmente vici­ no che quasi ti sembra di toccarla, sentirla e udir­ la, poi di nuovo niente per un bel pezzo, poi i punti bianchi, la testa di pantera, la stella che si ingrandisce e ti sfiora. Poi niente, per un bel po’, anzi, più tardi, qual­ che volta, da qualche parte, qualcosa come un astro bianco che esplode...

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Col tempo, la tua freddezza diventa leggenda­ ria. Gli occhi hanno perso ogni espressività, la figura è ora perfettamente cascante. Una serenità senza tedio, senza amarezza, si è inscritta agli angoli della tua bocca. Vai per le strade come sci­ volando, intoccabile, protetto dall’usura modera­ ta dei tuoi vestiti, dalla neutralità della tua cam­ minata. Ormai hai solo gesti automatici. Pronun­ ci solo le parole necessarie. Chiedi: - un caffè, - un posto davanti, - un menù e un rosso, - una birra, - uno spazzolino da denti, - un taccuino. Paghi, intaschi, prendi posto, consumi. Prendi «le Monde» in cima alla pila, metti due monete da venti centesimi nella ciotola dell’edicolante. Non dici mai per favore, buongiorno, grazie, ar­ rivederci. Non ti scusi. Non chiedi mai indicazio­ ni stradali.

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Vaghi, ciondoli, vaghi. Cammini. Tutti i mo­ menti si equivalgono, tutti gli spazi si somiglia­ no. Non hai mai fretta, non ti perdi mai. Non guardi mai l’ora negli orologi. Non hai sonno. Non hai fame. Non sbadigli mai. Non scoppi mai a ridere. Non vai neanche più a zonzo, perché i soli che possono andare a zonzo sono quelli che rubano il tempo di farlo, che si ingegnano per strappare minuti preziosi ai loro orari. All’inizio ti sceglievi gli itinerari, ti prefiggevi delle mete, immaginavi peripli complicatissimi che prendevano tuo mal­ grado l’aria di viaggi di Ulisse. Hai fatto, fra gli altri, un pellegrinaggio a Saint-Julien le Pauvre, ti sei aggirato vicino all’ingresso delle catacombe, ti sei piantato sotto la Tour Eiffel, sei salito in cima a vari monumenti, hai attraversato ogni ponte, costeggiato ogni sponda, visitato tutti i musei, Guimet, Cernuschi, Carnavalet, Bourdelle, Dela­ croix, Nissim de Camondo, il Palais de la Décou­ verte, l’Acquarium del Trocadero, hai visto le rose di Bagatelle, Montmartre di sera, le Halles sul far del giorno, la stazione Saint-Lazare all’ora di punta, la Concorde il 15 agosto a mezzogior­ no. Ma che una meta fosse turistica, culturale, o delusoria, insulsa o anche provocatoria (rue de la Pompe, rue des Saussaies, place Beauvau, quai

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des Orfèvres*), restava pur sempre una meta, cioè una tensione, una volontà, un’emozione. Anche se disincantato e risibile, malgrado il re­ moto ricordo dei Surrealisti, il tuo turismo rima­ neva fonte di vigilanza, utilizzo di tempo, misura­ zione dello spazio. Così come non scegli più i film che vai a vede­ re, entrando indifferentemente nella prima sala che capita verso le otto, le nove o le dieci di sera, non essendo tu ormai, nel buio della sala, che l’ombra d’uno spettatore, l’ombra di un’ombra che guarda in un rettangolo oblungo farsi e disfarsi svariate combinazioni di ombre e di luce, le quali ininterrottamente imbastiscono la stessa avventura: musica, incantamento, attesa; così come al banco della Petite Source non scegli più i tuoi pasti, non cerchi più di variarli, esaurendo le circa trecento combinazioni offerte dalle cinque monete da un franco, un terzo del tuo peculio quotidiano, in fondo alla tua tasca; così come non scegli più le ore in cui dormire, né le tue let­ ture, né i tuoi vestiti... Ti lasci andare, ti lasci trascinare: basta che la folla risalga o scenda gli Champs-Elysées, basta che una schiena grigia che ti precede di qualche * Rispettivamente quartier generale e sedi della Gestapo durante l’occupazione nazista di Parigi, tra il 1940 e il 1944 (N.d.t). 89

metro svolti in una strada grigia; oppure una luce o un’assenza di luce, un rumore o un’assenza di rumore, un muro, un gruppo, un albero, dell’ac­ qua, un androne, inferriate, manifesti, lastricati, strisce pedonali, una vetrina, un’insegna lumino­ sa, la targa di una strada, la T di un tabaccaio, il bancone di un mereiaio, una scala, una rotonda...

Cammini o non cammini. Dormi o non dormi. Scendi dal tuo sesto piano, risali. Compri «le Monde» o non lo compri. Mangi o non mangi. Ti siedi, ti stendi, resti in piedi, ti infili nella sala buia d’un cinema. Ti accendi una sigaretta. Attra­ versi la strada, attraversi la Senna, ti fermi, ripar­ ti. Giochi a flipper o non ci giochi.

Qualche volta resti tre, quattro o anche cinque giorni in stanza, non sai. Dormi quasi ininterrot­ tamente, ti lavi i calzini, le tue due camicie. Rileg­ gi un romanzo poliziesco che hai già letto venti volte, e dimenticato venti volte. Fai le parole cro­ ciate su un vecchio «le Monde» che non ti decidi a buttar via. Disponi sulla panca quattro file da tredici carte, tiri via gli assi, metti il sette di cuori dopo il sei di cuori, l’otto di fiori dopo il sette di 90

fiori, il due di picche al suo posto, il re di picche dopo la dama di picche, il jack di cuori dopo il dieci di cuori.

Mangi marmellata spalmata sul pane finché hai del pane, poi sui biscotti, se ne hai, poi direttamente dal barattolo col cucchiaino.

Ti stendi sulla panca, con le mani incrociate dietro la nuca, le ginocchia sollevate. Chiudi gli occhi, li apri. Filamenti ritorti scarrocciano lenta­ mente dall’alto in basso sulla superficie della tua cornea. Passi in rassegna e organizzi le crepe, le scaglie e le scrostature del soffitto. Guardi il tuo volto nello specchio incrinato. Non parli da solo, non ancora. Non urli, no, questo no.

L’indifferenza non ha inizio né fine: è uno stato immutabile, un peso, un’inerzia che nulla potreb­ be far vacillare. Forse ancora pervengono ai tuoi centri nervosi messaggi del mondo esterno, però nessun genere di risposta globale, tale da coin-

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volgere la totalità dell’organismo, sembra poter­ si elaborare. Permangono solo i riflessi elementa­ ri: quando il semaforo è rosso non attraversi, ti ripari dal vento per accenderti una sigaretta, nelle mattine d’inverno ti copri di più, ti cambi la polo, le calze, le mutande e il maglione una volta alla settimana, le lenzuola un po’ meno di due volte al mese. L’indifferenza dissolve il linguaggio, imbroglia i segni. Sei paziente e non aspetti, sei libero e non scegli, sei disponibile e niente ti mobilita. Non chiedi niente, non esigi niente, non imponi niente. Senti senza mai ascoltare, vedi senza mai guarda­ re: le crepe nei soffitti, i listelli del parquet, il dise­ gno delle mattonelle, le rughe intorno agli occhi, gli alberi, l’acqua, le pietre, le automobili che pas­ sano, le nuvole che disegnano in cielo le loro forme di nuvole.

Ora vivi nell’inesauribile. Ogni giornata è fatta di silenzi e di rumori, di luci e di bui, di consisten­ ze, attese, fremiti. Non hai che da perderti, an­ cora una volta, nel tempo a venire, ogni volta di più, errare infinitamente, trovare il sonno e una certa pace del corpo: abbandono, sfinimento, de­ riva, assopimento. Sprofondi, ti lasci scivolare, 92

molli: cercare il vuoto, fuggirlo, camminare, fer­ marti, sederti, metterti a tavola, appoggiarti sui gomiti, sdraiarti. Gesti da automa: alzarti, lavarti, rasarti, ve­ stirti. Tappo di sughero sull’acqua: andare alla deriva, seguire il flusso, vagare: l’estate nel silen­ zio greve, persiane chiuse, strade morte, asfalto appiccicoso, verde quasi nero delle foglie immo­ bili; l’inverno nella luce fredda delle vetrine e dei lampioni, caffè coi vetri appannati, tronchi neri degli alberi morti. Entri in caffè miserabili, bar, osterie, rivendite di Vini e Carbone senza luce, maleodoranti di aceto e di sporco. Cammini nel viscidume di certi vicoli, lungo palizzate maculate di manifesti sbrindellati, verso Charles Michels oppure Chàteau-Landon. Ti siedi sulle panchine dei giardi­ netti e dei parchi, come un pensionato, come un vecchio, ma hai solo venticinque anni. Ti metti ad aspettare nelle hall degli alberghi, seduto su un divano in finta pelle, guardi la gente andare e venire, leggi i volantini, i cataloghi, i manifesti, i dépliant turistici, Parigi di notte, Crociera nelle Indie, le riviste lasciate lì, «L’Echo de l’Hôtellerie française», la «Revue du Touring-Club de Fran­ ce»; vai a leggere i giornali affissi davanti alle tipo­ grafie o alle redazioni: «le Monde», «le Figaro»,

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«le Capital», «la Vie française». Ti attardi nelle biblioteche municipali, riempi una scheda, leggi libri di storia, opere erudite, memorie di capi di Stato, di alpinisti, di preti. Cammini lungo i marciapiedi, guardi nei ca­ naletti di scolo, in quello spazio più o meno largo che separa le macchine parcheggiate dal bordo del marciapiede. Ci trovi biglie, piccole molle, anelli, monete, qualche volta dei guanti, un gior­ no un portafogli con dentro dei soldi, carte, lette­ re, e una volta delle foto che quasi ti strappavano una lacrima. Guardi i giocatori di carte ai giardini del Luxembourg, le grandi fontane del Palais de Chaillot, la domenica vai al Louvre, attraversi tutte le sale senza fermarti e vai a posizionarti davanti a un unico quadro o un unico oggetto: il ritratto incredibilmente energico di un uomo del Rinascimento con una piccola cicatrice sopra il labbro, a sinistra, cioè a sinistra per lui, a destra per te che guardi, oppure una pietra intagliata, un cucchiaino egiziano, davanti a cui resti per una o due ore, prima di andartene senza voltarti.

Camminata interminabile, instancabile. Cam­ mini come un uomo che porta valigie invisibili,

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cammini come un uomo che segue la propria ombra. Cammini come un cieco, come un son­ nambulo, incedi con passo meccanico, intermi­ nabilmente, fino a dimenticare che stai cammi­ nando. Flâneur minuzioso, nictòbata perfetto, ecto­ plasma che un lenzuolo svolazzante farebbe pas­ sare erroneamente per un fantasma, che non spa­ venterebbe neanche dei bambini piccoli. Camminatore infaticabile, attraversi Parigi da una parte all’altra, tutte le sere, emergendo dal nero buco della tua stanza, dalle scale fatiscenti, dal cortile silenzioso; oltre le vaste zone di luci e rumori: l’Opéra, i Boulevards, gli Champs-Elisées, Saint-Germain, Montparnasse, ti immergi nella città morta verso Pereire o Saint-Antoine, verso rue de Longchamp, boulevard de l’Hôpital, rue Oberkampf, rue Vercingétorix. Caffè aperti tutta la notte. Rimani in piedi, quasi immobile, con un gomito appoggiato al bancone di vetro, spessa lastra traslucida coi bordi arrotondati, fissata con bulloni di rame alla base in cemento, mezzo girato verso tre marinai che si accaniscono su un flipper. Bevi vino rosso o un espresso.

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Vita senza sorprese. Al riparo da tutto. Dormi, mangi, cammini, continui a vivere, come un topo di laboratorio dimenticato nel labirinto da un ricercatore sbadato, che dal mattino alla sera, senza mai sbagliare, senza mai esitare, dopo aver girato a sinistra, poi a destra, va verso la mangia­ toia e spinge due volte sul pedale cerchiato di rosso per ricevere la propria razione quotidiana di cibo in poltiglia. Nessuna gerarchia, nessuna preferenza. La tua indifferenza è piatta: uomo grigio per cui il grigio non evoca nessun grigiore. Non tanto insensibile, quanto piuttosto neutro. L’acqua ti attira, così come la pietra, l’oscurità al pari della luce, il caldo al pari del freddo. C’è solo la tua cammina­ ta, il tuo sguardo che si posa e scivola via, igno­ rando il bello e il brutto, il famigliare e il sorpren­ dente, non recependo che le combinazioni di forme e luci, che continuamente si fanno e disfa­ no dovunque, nell’occhio, sul soffitto, ai tuoi piedi, nel cielo, nello specchio incrinato, nell’ac­ qua, nella pietra, nella folla. Piazze, strade, giar­ dinetti e viali, alberi e inferriate, uomini e donne, cani e bambini, attese, ressa, veicoli e vetrine, edifici, facciate, colonne, capitelli, marciapiedi, canaletti di scolo, lastricati di arenaria resa luci­ da dalla pioggia sottile, grigi, o quasi rossi, o 96

quasi bianchi, o quasi neri, o quasi blu, silenzi, clamori, frastuoni, folla nelle stazioni, nei negozi, nei viali, strade brulicanti di gente, lungofiume brulicanti di gente, vie deserte delle domeniche d’agosto, mattine, sere, notti, albe e crepuscoli.

Adesso sei l’anonimo padrone del mondo, quello su cui la storia non ha più presa, quello che non sente più la pioggia cadere, che non vede più venire la notte. Conosci soltanto la tua propria evidenza: quel­ la della tua vita che continua, del tuo respiro, del tuo passo, del tuo invecchiamento. Vedi la gente andare e venire, la folla e le cose farsi e disfarsi. Vedi nella minuscola vetrina d’un mereiaio una guida per tende su cui subito si fissa il tuo sguar­ do: passi oltre: sei inaccessibile.

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L’incontro dell’occhio con il cuscino fa nascere una montagna, un pendio piuttosto morbido, un quarto, anzi un arco di cerchio che si staglia in primo piano, più scuro com’è dello spazio circo­ stante. Questa montagna non è tanto interessante; è normale. Per ora, la tua mente è concentrata su un compito che sai di dover portare a termine, ma che non ti riesce di definire con precisione; sembre­ rebbe, di per sé, un compito di poco conto, e ma­ gari è solo il pretesto, l’occasione per verificare la tua conoscenza del codice; supponi, per esempio (e questo lo si può verificare subito), che il compito consista nel riportare a sé il pollice, o l’intera mano, da sopra il cuscino: ma devi farlo proprio tu? Il posto da te occupato nella gerarchia, i tuoi anni di servizio, non dovrebbero forse dispensarti da questo compito ingrato? La questione è ovvia­ mente molto più importante del compito stesso, ma non hai niente in mano per poterla risolvere, e non pensavi che dopo così tanto tempo avresti dovuto ancora render conto di questioni del gene-

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re. Peraltro, riflettendoci un po’ meglio, ti accorgi che il problema è ancora più complicato: non si tratta di sapere se devi o non devi richiamare il pollice secondo funzione, grado e anzianità, bensì: occorre che riporti il pollice, in ogni modo, presto o tardi, ma da sopra se sei sufficientemente anzia­ no, da sotto se non lo sei, e ovviamente non hai la minima idea del tuo grado di anzianità, che ti sem­ bra sì considerevole, ma forse non abbastanza. Non è che hanno fatto apposta a scegliere questo esatto momento per porti questo problema, mo­ mento in cui nessuno, neanche il più integro dei giudici, può affermare con certezza se sei o non sei sufficientemente anziano?

La questione potrebbe porsi anche per i piedi o le cosce. Infatti, in sé, non significa niente: il vero problema è quello dei contatti. In linea di princi­ pio ci sono due tipi di contatti: quello del tuo corpo con le lenzuola, che coinvolge la coscia sini­ stra, il piede destro, l’avambraccio destro e una parte del ventre, che è un contatto di fusione, osmosi e diluizione; e quello del tuo corpo con se stesso, lì dove la tua carne incontra la tua carne, dove il piede sinistro passa sopra il piede destro, le ginocchia si incontrano, il gomito affronta lo ioo

stomaco: questi sono contatti appuntiti, caldi o freddi, o caldi e freddi. Ovviamente è possibile ribaltare il tutto senza alcun rischio, affermando il contrario, il piede sinistro sotto il piede destro, la coscia destra sotto la coscia sinistra. La cosa più chiara in tutto ciò è che ovviamen­ te non sei sdraiato, né sul fianco destro, né sul fianco sinistro, ma di fatto sei sospeso a testa in giù, con le gambe leggermente ripiegate e le brac­ cia a stringere il cuscino, come un pipistrello in letargo, o piuttosto come una pera troppo matu­ ra attaccata all’albero: questo a dire che puoi ca­ dere da un momento all’altro, cosa che peraltro non ti preoccupa più di tanto, essendo la tua testa perfettamente protetta dal cuscino, e però, hai il dovere di scongiurare questo pericolo, quand’an­ che minimo. Ma se passi in rassegna i mezzi che conosci per riuscirci, non tardi a renderti conto che la situazione è più grave di quanto avessi valutato, non fosse per il fatto che la perdita del­ l’orizzontalità raramente è propizia al sonno. Devi dunque risolverti a cadere, quantunque pre­ vedi che non sarà tanto piacevole, dato che nes­ suno può sapere quando cesserà la caduta, e so­ prattutto non sai come fare a cadere, visto che puoi cominciare a cadere soltanto quando non ci pensi, e come potresti non pensarci quando ap­ IOI

punto, ora, ci stai pensando? È una questione che nessuno ha mai seriamente affrontato, e che tutta­ via ha una sua importanza: dovrebbero esistere testi sull’argomento, testi certi e affidabili che per­ mettessero di far fronte a questo tipo di situazioni, che sono molto più frequenti di quanto general­ mente non si creda.

I tre quarti del tuo corpo si sono rifugiati nella testa; il cuore si è stabilito in un sopracciglio, dove, completamente acclimatato, batte come qualcosa di vivente, con forse solo un po’ troppa precipita­ zione. Occorre che tu faccia l’appello del corpo per verificare l’integrità di membra, organi, visce­ re, mucose. Ti piacerebbe cacciare via dalla testa tutti quei pezzi che l’ingombrano e appesantiscono, e allo stesso tempo ti congratuli con te stesso per avere salvato il salvabile, dato che il resto è andato perso, e non hai più né piedi né mani, e il polpaccio si è completamente liquefatto.

Il tutto si fa sempre più complicato: innanzi­ tutto occorrerebbe prelevare il gomito, in modo da poter mettere almeno una porzione di pancia nello spazio liberatosi, e così via di seguito, fino 102.

a ritrovarti ricostituito quasi per intero. Ma l’im­ presa è spaventosamente difficile: alcuni pezzi mancano, altri sono doppi, certi altri si sono nel frattempo smisuratamente ingranditi, altri anco­ ra avanzano pretese territoriali assolutamente folli: il gomito è più gomito che mai, ti eri dimen­ ticato quanto si potesse essere gomito, e c’è un’unghia che ha preso il posto della mano. E chiaramente sono sempre questi i momenti in cui gli aguzzini scelgono di intervenire. Uno di loro ti ficca in bocca una spugna imbevuta di gesso, un altro ti imbottisce le orecchie di cotone; un grup­ petto di segantini si è stabilito nei tuoi seni pa­ ranasali, un piromane ti incendia lo stomaco, dei sarti sadici ti comprimono i piedi, ti infilano un cappello troppo piccolo, ti infagottano in un cap­ potto troppo stretto, ti strozzano con una cra­ vatta; uno spazzacamino e il suo manutengolo hanno introdotto una corda piena di nodi nella tua trachea e, malgrado tutti i loro encomiabili sforzi, non riescono più a tirarla fuori. Vengono quasi sempre. Li conosci bene. La loro venuta quasi ti rassicura. La loro presenza signi­ fica che il sonno non è più tanto lontano. Ti fa­ ranno sì soffrire un po’, ma poi si stancheranno e ti lasceranno in pace. Ti faranno male, naturale, ma tu hai, nei confronti del dolore, così come nei 103

confronti di ogni sensazione percepita, di ogni pen­ siero che ti attraversa la testa, di ogni impressione avuta, un totale distacco. Ti vedi senza stupore essere stupito, senza sorpresa essere sorpreso, senza dolore essere assalito dagli aguzzini. Aspet­ ti che si calmino. Gli lasci volentieri tutti gli orga­ ni che vogliono. Li vedi da lontano contendersi la tua pancia, il tuo naso, la tua gola, i tuoi piedi.

Ma spesso, così spesso, proprio lì è l’estrema trappola. E allora nasce il peggio. Cresce lenta­ mente, impercettibilmente. Dapprima tutto è calmo, troppo calmo, e normale, troppo norma­ le. Sembra che nulla debba più muoversi. Ma sai, cominci a sapere, con certezza sempre più impla­ cabile, che hai perso il corpo, anzi no, per veder­ lo lo vedi, non lontano da dove sei, ma non lo potrai mai raggiungere. Ormai non sei che un occhio. Un immenso occhio fisso che tutto vede, il tuo corpo accascia­ to, e te stesso, osservato che osserva, come se la pupilla, completamente ribaltata, senza dir niente, stesse lì a contemplare te e il tuo interno, l’interno nero, vuoto, glauco, spaventato, impotente di te stesso. Ti guarda e ti inchioda. Non smetterai mai di vederti. Non puoi farci niente, non puoi sfug­

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girti, non puoi sfuggire al tuo sguardo, non potrai mai: anche se riuscissi ad addormentarti così pro­ fondamente che nessuna scossa, nessuna chiama­ ta, nessuna bruciatura potrebbe svegliarti, ci sarebbe sempre quest’occhio, questo tuo occhio che non si richiude mai, che non si addormenta mai. Ti vedi, ti vedi vederti, ti guardi guardarti. Anche se riuscissi a risvegliarti, la tua visione rimarrebbe identica, immutabile. Anche se riuscis­ si a foderarti gli occhi con mille, un miliardo di palpebre, dietro ci sarebbe sempre quest’occhio per vederti. Non dormi, e il sonno non verrà. Non sei sveglio e non ti sveglierai mai. Non sei morto e neanche la morte potrebbe liberarti...

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Libero come una mucca, come un’ostrica, come un topo!

Ma i topi non passano ore a cercare di addor­ mentarsi. Ma i topi non si svegliano di sopras­ salto, in preda al panico, sudati fradici. Ma i topi non sognano, e tu contro i tuoi sogni cosa puoi fare?

Ma i topi non si rosicchiano le unghie, soprat­ tutto non metodicamente, per ore intere, fino a che le estremità degli artigli non diventano una piaga diffusa. Tu ti strappi il tessuto corneo fino a metà unghia, seviziando i punti in cui si attacca alla carne; strappi via le pellicine su quasi tutta la lun­ ghezza della falangetta, fino a farle sanguinare, fino a che le dita ti fanno così male che per parec­ chie ore ogni minimo contatto ti è a tal punto in­ sopportabile da non poter prendere niente in mano e dover immergere le mani nell’acqua bollita.

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Ma i topi, che tu sappia, non giocano a flipper. Tu t’incolli all’apparecchio per ore, per notti inte­ re, rabbiosamente, febbrilmente. Sbuffi dallo sfor­ zo, e abbarbicato alla macchinetta accompagni i rimbalzi della biglia d’acciaio con gran colpi di reni. Ti accanisci sulla molla di lancio, gli special, le cifre, i passaggi. Donne imbellettate con un occhio che si ac­ cende, un ventaglio che si abbassa. Non puoi lotta­ re contro un tilt. Puoi giocare o non giocare, ma non puoi metterti a dialogare, non puoi cioè fargli dire quello che non può dire. Hai un bel stringerlo, ansimargli sopra, il tilt resta insensibile alla tua amicizia, all’amore che stai cercando, al desiderio che ti lacera. Seimila punti, quando poi ne baste­ rebbero quattromila, non fanno che torturarti ulte­ riormente, non fanno che affondarti un po’ di più.

Vaghi per le strade, entri in un cinema; vaghi per le strade, entri in un caffè; vaghi per le strade, guardi la Senna, le macellerie, i treni, i manifesti, la gente. Vaghi per le strade, entri in un cinema dove vedi un film che assomiglia a quello che hai appena visto, la stessa storia beota raccontata da 108

un signore troppo intelligente, tutta musica e sdolcinature, poi l’intervallo, filmati pubblicitari che hai visto venti, cento volte, un cinegiornale che hai visto dieci, venti volte, un documentario sulle sardine, o sul sole, le Hawaii o la Biblioteca Na­ zionale, il provino di un film che hai già visto e che tornerai a vedere, il film appena visto che ricomincia, con i suoi titoli di testa spezzettati, la spiaggia d’Etretat, il mare, i gabbiani, i bambini che giocano sulla sabbia. Esci, vaghi nelle strade troppo illuminate. Ri­ torni su nella tua stanza, ti spogli, ti infili nelle len­ zuola, spegni la luce, chiudi gli occhi. È l’ora in cui donne da sogno troppo in fretta svestite ti si accal­ cano attorno, è l’ora in cui ti abbrutisci con libri letti cento volte, in cui ti rigiri nel letto cento volte senza prendere sonno. E l’ora in cui, gli occhi spalancati nel buio, tastando ai piedi della stretta panca in cerca di un portacenere, dei fiammiferi, o di un’ultima sigaretta, misuri con calma l’am­ piezza della tua infelicità.

Adesso di notte torni ad alzarti. Vaghi per le strade, vai ad appollaiarti sugli sgabelli dei bar, al Rosebud, da Harry’s, oppure ti siedi al FrancoSuisse, in rue Saint-Honoré, quasi di fronte alla 109

tua stanza, o al tavolo di un caffè vicino alle Hal­ les, te ne resti lì per ore, fino alla fine, di fronte a una birra, un caffè, o un bicchiere di rosso. Guar­ di gli altri andare e venire, i garzoni delle macelle­ rie, i fiorai, gli strilloni, i gruppetti di festaioli, gli ubriaconi solitari, le ragazze. Sei solo e vai alla deriva. Cammini su viali de­ solati, lungo gli alberi rinsecchiti, le facciate scro­ state, gli androni neri. Vai nelle inesauribili brut­ ture di Batignolles e Pantin. Incontri solo fonta­ nelle Wallace* da un pezzo prosciugate, il colatic­ cio delle chiese, cantieri sventrati, muri smorti. I giardinetti con le inferriate che ti imprigionano, i pantani stagnanti agli sbocchi delle fogne, i mo­ struosi ingressi delle fabbriche. Sotto le passerelle metalliche del quartiere dell’Europe le locomoti­ ve a vapore emettono sbuffi di fumo bianco. Bou­ levard Barbès, place Clichy, una folla di gente impaziente alza gli occhi al cielo. Non spezzerai il cerchio magico della tua soli­ tudine. Sei solo e non conosci nessuno; non co­ nosci nessuno e sei solo. Vedi gli altri accalcarsi, stringersi, proteggersi, abbracciarsi. Tu invece, lo sguardo vitreo, non sei che un fantasma traspa* Sir Richard Wallace nel 1871 donò alla città di Parigi, i cui acquedotti erano stati in parte distrutti durante la Comune di quello stesso anno, 66 fontanelle, affinché costituissero un punto d’acqua gratuito per la popolazione parigina (N.d.t). no

rente, un cinereo lebbroso, una sagoma già resti­ tuita alla polvere, un posto occupato cui nessuno si avvicina. Ti sforzi di sperare in incontri impre­ visti. Ma non è certo per te che cuoio, rame e legno si metteranno a brillare, che le luci si abbas­ seranno, e che i rumori si attutiranno. Sei solo, nonostante il fumo che si appesantisce, nonostan­ te Lester Young o Coltrane, sei solo nel calore ovattato dei bar, nelle strade deserte in cui risuo­ nano i tuoi passi, nella complicità mezzo addor­ mentata degli unici pochi bar rimasti aperti. Ci sono nemici che affronterai soltanto una volta, il tempo di conoscere, di riconoscere, il fred­ do sibilo dei serpenti che pietrificano, il tempo di battere in ritirata giusto in tempo, nel gelo della tua solitudine e impazienza, perso, tradito dal tuo stesso sguardo, con la percezione sempre più acu­ ta e sempre più vana dei minimi particolari: una ciocca di capelli, l’ombra di un bicchiere, l’accen­ no fugace di una sigaretta abbandonata, il tremo­ lio finale di una porta a due battenti che si chiu­ de. Niente ti sfugge, ma tu non afferri niente, se non troppo tardi, sempre troppo tardi, le ombre, i riflessi, le falle, gli accenni, i sorrisi, gli sbadigli, la fatica o l’abbandono.

Ili

L’infelicità non ti è piombata addosso di colpo, non si è abbattuta su di te all’improvviso; si è piut­ tosto infiltrata, insinuata lentamente, quasi soave­ mente. Ha impregnato minuziosamente la tua vita, i tuoi gesti, le tue ore e la tua stanza, come una verità a lungo camuffata, come un’evidenza nega­ ta; tenace e paziente, tenue, accanita, si è impa­ dronita delle crepe sul soffitto, delle rughe sul tuo viso nello specchio incrinato, delle carte da gioco distese sulla panca; si è infilata nella goccia d’ac­ qua dell’acquaio sul pianerottolo, è risuonata ogni quarto d’ora al campanile di Saint-Roch. La trappola era questa sensazione, talvolta al limite dell’esaltante, quest’orgoglio, questa specie di ebbrezza; credevi di non aver bisogno che della città, delle pietre e delle strade, della folla che ti trascinava, soltanto di un pezzetto di bancone alla Petite Source, di un posto davanti in un cinema di quartiere; della tua stanza, il tuo antro, la tua gab­ bia, la tana in cui torni ogni giorno, e da cui esci di nuovo ogni giorno, questo luogo quasi magico dove ormai non si offre più niente alla tua pazien­ za, nemmeno una crepa sul soffitto, una venatura nel legno dello scaffale, un fiore dipinto sulla carta da parati. Disponi per l’ennesima volta le cinquantadue carte sulla panca; per l’ennesima volta cerchi l’improbabile soluzione di un labirinto informe. II2

Hai perso i tuoi poteri. Non sai più seguire la lenta deriva di bolle e pagliuzze sulla superficie della tua cornea. Nessun volto, nessuna cavalcata vittoriosa, nessuna città all’orizzonte si lascia più decifrare attraverso crepe e ombre. La trappola: quest’illusione pericolosa di essere - come dire? - inespugnabile, di non offrire alcuna presa al mondo esterno, di scivolare sulle cose, in­ toccabile, gli occhi sbarrati che guardano avanti, tutto percependo, fino ai minimi particolari, ma nulla conservando. Sonnambulo sveglio, cieco che può vedere. Essere senza memoria, senza spavento. Ma non ci sono vie di uscita, niente miracoli, nessuna verità. Armature, schermature. Da quel giorno afoso in cui tutto ha avuto inizio, in cui tutto s’è arrestato. Cammini lungo i muri sudici di strade buie, urtando con la mano destra le pietre dei gradini, i mattoni delle facciate. Ti siedi sulla Senna, con le gambe a penzoloni, stando per ore e ore a guardare l’impercettibile mulinello che si scava sotto l’arcata di un ponte. Tiri via i quattro assi dalla distesa di cinquantadue carte. Quante volte hai fatto gli stessi gesti monchi, gli stessi tra­ gitti che non portano mai da nessuna parte? Non hai altro sostegno che i tuoi rifugi da quattro soldi, che la tua pazienza imbecille, che le mille e una deviazioni che ti riportano ogni volta al punto 113

di partenza. Dai giardinetti ai musei, dai caffè ai cinema, dalle sponde del fiume ai parchi, le sale d’attesa delle stazioni, le hall dei grand hotel, i grandi magazzini Monoprix, le librerie, le gallerie dei musei, i corridoi della metropolitana. Gli albe­ ri, le pietre, l’acqua, le nuvole, la sabbia, il mat­ tone, la luce, il vento, la pioggia: solo conta la tua solitudine: qualsiasi cosa tu faccia, ovunque tu vada, quello che vedi è senza importanza, quello che fai è vano, quello che cerchi è falso. Sola, esi­ ste la tua solitudine, che prima o poi ti ritrovi di fronte, amichevole o funesta; ogni volta te la ritro­ vi davanti e sei solo, senza aiuti, sconcertato o stravolto, disperato o impaziente. Hai smesso di parlare, e solo il silenzio ti ha risposto. Ma tutte quelle parole, le migliaia, mi­ lioni di parole che ti si sono bloccate in gola, le parole slegate, le urla di gioia, le parole amorose, le risa idiote, quand’è che le ritroverai?

Adesso vivi nel terrore del silenzio. Ma non sei tu il più silenzioso di tutti?

I mostri sono entrati nella tua vita, i topi, i tuoi simili, i tuoi fratelli. Dieci, cento, mille mostri. Li individui, li riconosci da impercettibili segni, dai 114

loro silenzi, dalle loro partenze furtive, dal loro sguardo sfuggente, vacillante e spaventato, che appena incrocia il tuo sguardo si volge altrove. Risplende ancora la luce nella notte dagli abbaini delle loro sordide stanze. I loro passi risuonano nella notte. I topi non si parlano, e quando si incrociano non si guardano. Ma sai che quei volti senza età, quelle sagome gracili o flaccide, quelle schiene rotonde, grigie, ti sono accanto in ogni momento, ne segui l’ombra, sei la loro ombra, bazzichi le loro tane, i loro pertugi, hai i loro stessi rifugi, gli stessi asili, i cinema di quartiere che puzzano di disinfettante, i giardinetti, i musei, i caffè, le sta­ zioni, la metro, i mercati generali. Disperazioni come te sedute sulle panchine, disegnano e cancel­ lano ininterrottamente sulla sabbia polverosa lo stesso cerchio imperfetto, lettori di giornali raccat­ tati nei cestini dei rifiuti, erranti che nessuna intemperie può fermare. Hanno i tuoi stessi peri­ pli, altrettanto vani, altrettanto lenti, altrettanto disperatamente complicati. Come te, nelle stazioni sostano indecisi davanti alle piantine della metro­ politana, come te, si mangiano i loro panini al latte seduti sulle sponde del fiume. Messi al bando, paria, esclusi, portatori di invi­ sibili stelle. Camminano sfiorando i muri, con la 115

testa abbassata, le spalle spioventi, le mani con­ tratte, aggrappandosi alle pietre delle facciate, con gesti stanchi, da vinti, da mangiatori di polvere. Li segui, li spii, li odi: mostri rintanati nelle loro stanze di servizio sotto i tetti, mostri in pantofole che strascicano i piedi vicino a putridi mercati, mostri con occhi glauchi da lampreda, mostri dai gesti meccanici, mostri farneticanti. Gli passi accanto, li accompagni, ti fai strada tra di loro: i sonnambuli, i bruti, i vecchi, gli idio­ ti, i sordomuti col berretto tirato sugli occhi, gli ubriaconi, i rimbambiti che si raschiano la gola e cercano di trattenere il tremolio intermittente delle guance, delle palpebre; i provinciali persi nella grande città, le vedove, i furbastri, i vecchi decrepiti, i ficcanaso.

Ti sono venuti incontro, ti si sono aggrappati al braccio. Quasi che, sconosciuto perso nella tua città, tu non potessi incontrare che altri scono­ sciuti come te; quasi che, tu solitario, ti vedessi piombare addosso le altre solitudini. Quasi che, il tempo di un bicchiere di vino bevuto al banco, solo potessero incontrarsi quelli che non parlano mai, quelli che parlano da soli. I vecchi pazzi, le vecchie ubriacone, gli esaltati, gli esiliati. Ti si 116

aggrappano ai risvolti della giacca, alle falde, alle maniche, alitandoti in faccia. Ti vengono incontro, a piccoli passi, con quei loro sorrisi da buoni, i loro volantini, i loro gior­ nali, le loro bandiere, i miserabili combattenti delle grandi cause imbecilli, le maschere ossute che partono in guerra contro la poliomielite, il cancro, i tuguri, la miseria, l’emiplegia e la cecità, i canzonieri tristi che chiedono l’elemosina per i loro compagni, gli orfani maltrattati che vendo­ no centrini, le vedove rinsecchite che proteggono gli animali domestici. Tutti quelli che ti si acco­ stano, ti trattengono, ti manipolano, ti sputano in faccia le loro meschine verità, le loro eterne domande, le loro opere buone, il loro cammino autentico. Gli uomini sandwich della fede auten­ tica che salverà il mondo. Venite a Lui, voi che soffrite. Gesù ha detto Voi che non vedete pensa­ te a coloro che vedono. Le carnagioni giallognole, i colletti lisi, quelli che ti farfugliano la loro vita, le loro prigioni, i loro ricoveri, i loro viaggi di fantasia, i loro ospedali. I vecchi istitutori che vorrebbero rifor­ mare l’ortografia, i pensionati che credono di aver messo a punto un sistema infallibile per recuperare le cartacce, gli strateghi, gli astrolo­ gò gli stregoni, i guaritori, i testimoni, tutti quel117

li che vivono con un’idea fissa in testa; i rifiuti, i rottami, i mostri inoffensivi e senili con cui si divertono i proprietari dei bar, versandogli bic­ chieri troppo pieni che loro non riescono a por­ tare alla bocca, le tardone impellicciate che si scolano dei Marie Brizard, sforzandosi di resta­ re dignitose.

E poi tutti gli altri, i peggiori, i sempliciotti, i furbi, i contenti di sé, quelli che credono di sapere e sorridono con l’aria di chi se ne intende, gli obesi, i rimasti giovani, i formaggiai, i decorati; i festaioli un po’ alticci, gli impomatati di periferia, i benestanti, i coglioni. I mostri forti del loro buon diritto, che ti prendono a testimone, ti squadrano, t’interpellano. I mostri con famiglia numerosa, con i loro bambini mostri, i loro cani mostri; le migliaia di mostri bloccati ai semafori; le stridule femmine mostro; i mostri coi baffi, col panciotto, con le bretelle, i turisti mostri rovesciati a mucchi davanti agli orridi monumenti, i mostri della domenica, la folla mostruosa.

Vaghi qui e là, ma la folla non ti trascina più, la notte non ti protegge più. Cammini ancora, sem118

pre, camminatore infaticabile, immortale. Cerchi, aspetti. Vai scarpinando nella città fossile, con l’in­ tatta pietra bianca delle facciate restaurate, i bido­ ni della spazzatura pietrificati, le sedie ormai vuote dove un tempo si sedevano le portinaie; vai scarpi­ nando nella città morta, i ponteggi abbandonati accanto agli edifici sventrati, i ponti portati via dalle nebbie e dalla pioggia. Città putrida, città ignobile, orrenda. Città tri­ ste, luci tristi nelle strade tristi, clown tristi nei music-hall tristi, code tristi davanti a cinema tristi, mobili tristi in negozi tristi. Stazioni buie, caser­ me, capannoni. Le lugubri brasserie che si susse­ guono lungo i Grands Boulevards, le vetrine orri­ bili. Città rumorosa o deserta, livida o isterica, città sventrata, saccheggiata, maculata, città irta di divieti, di sbarre, di inferriate, di serrature. La città-carnaio: gli stantii mercati coperti, le barac­ copoli mascherate da grandi complessi urbani, i bassifondi nel cuore di Parigi, l’insopportabile orrore dei boulevard polizieschi: Haussmann, Magenta, Charonne*.

* Alcuni dei grandi assi stradali concepiti e realizzati in luogo di vecchi quartieri popolari dall’urbanista e prefetto di Parigi Georges Eugène Haussmann dal 1853 finalizzati anche al man­ tenimento dell’ordine pubblico (N.d.t.). II9

Digita qui il testo

Come un prigioniero, come un pazzo in cella. Come un topo che nel dedalo cerca una via di fuga, percorri Parigi in tutti i sensi. Come un affa­ mato, come un messaggero latore di una lettera senza indirizzo.

Aspetti, speri. I cani ti si sono affezionati, e pure le cameriere e i camerieri dei caffè, le ma­ schere, le cassiere dei cinema, i giornalai, i bigliet­ tai sugli autobus, gli invalidi che sorvegliano le sale deserte dei musei. Puoi parlargli senza timo­ re, loro ti risponderanno ogni volta con la stessa identica voce. I loro visi ti sono ora famigliari. Ti riconoscono, ti salutano. Certo non sanno che quei semplici saluti, quegli unici sorrisi, quegli indifferenti cenni del capo, sono tutto ciò che ogni giorno ti salva, che li hai aspettati per tutto il gior­ no, quasi fossero la ricompensa per un fatto glo­ rioso di cui non puoi parlare, ma che loro potreb­ bero anche indovinare. Allora, a volte, tenti disperatamente di impor­ re alla tua vita vacillante la gogna di una ferrea disciplina. Metti ordine, rassetti la stanza, stabi­ lisci un budget rigoroso: il tuo peculio è di 500 franchi al mese, cui vanno sottratti 50 franchi 12.0

per l’affitto della stanza, ti restano 15 franchi al giorno così suddivisi:

un pacchetto di gauloises una scatola di fiammiferi un pasto un cinema una mancia per la maschera «le Monde » un caffè

i,35 0,10 4,20 2,50 0,20 0,4° 1,00

Ti restano 5 franchi e 25 per un secondo pasto (di solito una brioche all’uvetta o una mezza ba­ guette), un altro caffè, la metro, l’autobus, il den­ tifricio, la lavanderia. Regoli la tua vita come un orologio, come se il dedicarti a futili scopi, decidendo tutto in antici­ po e non lasciando niente al caso, fosse l’unico modo per non perderti e non affondare del tutto. Sia dunque la tua vita chiusa, liscia e rotonda come un uovo, e i tuoi gesti fissati da questo ordi­ ne immutabile che decide tutto per te e che ti pro­ tegge tuo malgrado. Con rigore encomiabile programmi i tuoi iti­ nerari. Esplori tutta Parigi, strada dopo strada, dal parco Montsouris a quello delle Buttes-Chaumont, dal Palazzo della Difesa al Ministero della Guer­ ra, dalla Tour Eiffel alle Catacombe. Mangi ogni 121

giorno, alla stessa ora, lo stesso pasto. Visiti le sta­ zioni, i musei. Prendi il caffè sempre nello stesso caffè. Leggi «le Monde», dalle cinque alle sette.

Ti pieghi i vestiti prima di andare a letto. Puli­ sci la stanza a fondo ogni sabato mattina. Tutte le mattine ti rifai il letto, ti rasi, lavi i calzini in una bacinella di plastica rosa, lucidi le scarpe, ti lavi i denti, lavi la tazza, l’asciughi e la riponi sulla men­ sola, sempre nello stesso posto. Tutte le mattine, nello stesso minuto, nello stesso posto, allo stesso modo, strappi la striscia di carta gommata che chiude il tuo pacchetto quotidiano di gauloises. L’ordine della stanza. L’impiego del tempo. Ti imponi divieti puerili. Non calpestare l’intersezione del lastricato sul bordo del marciapiede. Rispettare i sensi giratori, i divieti di sosta. Non sopporti di essere in ritardo o in anticipo. Vorresti accenderti una sigaretta ogni quarantacinque minuti esatti. È come se, in ogni momento, ti aspettassi che un tuo minimo cedimento ti trascinasse troppo lontano. Come se, in ogni momento, avessi bisogno di dirti: è così perché io l’ho voluto così, l’ho volu­ to così o altrimenti sono morto.

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Qualche volta, per intere serate, semisdraiato sulla stretta panca, senz’altra luce del pallido e soffuso chiarore che entra dall’abbaino, che solo il fuoco rossastro della tua sigaretta ravviva a in­ tervalli regolari, ascolti il tuo vicino andare e ve­ nire. Il tramezzo che separa le vostre due stanze è così sottile che quasi ne senti il respiro, e lo senti anche quando gira in pantofole. Cerchi spesso di immaginare le sue movenze, il suo volto, le sue mani, quello che fa, la sua età, i suoi pensieri. Di lui non sai niente, non l’hai neanche mai visto, o tutt’al più, forse, l’hai incrociato un giorno per le scale, ti sei incollato alla parete per lasciarlo pas­ sare, senza però sapere, senza poter affermare che si trattava di lui. Non cerchi peraltro di vederlo, non socchiudi la porta quando lo senti uscire sul pianerottolo per riempire il bollitore al rubinetto dell’acquaio, preferisci ascoltarlo, e modellarlo a modo tuo. Sai solo che la sua stanza è molto più grande della tua, poiché può spostarvisi, e si spo­ sta per raggiungere la finestra o il letto, la porta o 123

l’armadio, mentre tu, dal centro della tua, a circa tre quarti della panca, stando a piedi uniti, puoi raggiungere con le mani ogni punto, la finestra, la porta, il piccolo lavabo, l’angolo-armadio, la bacinella di plastica rosa, lo scaffale. Deve essere vecchio, a giudicare dalla tosse un po’ roca, dai raschiamenti di gola e dai passi stra­ scicati, senza necessariamente dedurne la vecchia­ ia dalla solitudine, giacché anche lui, come te, non riceve mai nessuno in stanza (quasi che l’ultimo piano dell’edificio di cui siete, a tua conoscenza, gli unici occupanti, presentasse da qualche tempo un pericolo per la sicurezza di coloro che avessero la tentazione di accedervi), e nemmeno dall’impie­ go oltremodo rituale del tempo; quest’ultimo punto starebbe piuttosto a dimostrare che anche lui, di nuovo un po’ come te, è uomo di abitudini, ma allora, forse, nel suo caso un po’ più serene delle tue. Tutti i giorni, inclusa la domenica, lascia la stanza in tarda mattinata e torna regolarmente al calar della notte, come se la sua attività, lucrati­ va o meno, fosse regolata dalla luce del giorno e non tenesse conto dell’orario: fino a Natale è rien­ trato ogni giorno un po’ più presto, adesso invece rientra ogni giorno un po’ più tardi. Lo credi venditore ambulante, venditore di cra­ vatte esposte in un ombrello, anzi uno di quei ven-

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ditori che mostrano le proprietà miracolose di qualche prodotto per tirar via calli, macchie, ver­ ruche o vene varicose, o, meglio ancora, piccolo mereiaio la cui bancarella, costituita da una vali­ gia aperta su quattro piedi metallici a telescopio, offre alla folla di curiosi dei Grands Boulevards pettini, accendini, lime, occhiali da sole, custodie e portachiavi. Questa tua supposizione si fonda principalmente sul fatto che la sua attività essen­ ziale, quando è in stanza, sia al mattino che la sera, consiste nel chiudere e aprire cassetti, come se ogni mattina prima di uscire dovesse prendersi dietro una gran quantità di materiale, e ogni sera a fine giornata dovesse rimettere tutto a posto. Forse si serve della valigia aperta, usandola come comodino, o per scrivere, o per cenare: te lo immagini, un po’ cerimonioso e ridicolo, apparec­ chiare la tavola con una tovaglia ricamata, avanzo di un antico patrimonio di famiglia, un candeliere andante con candele di pessima qualità, un servi­ zio da tavola forse identico a quelli che vende, composto cioè da un bicchiere di metallo, un piat­ to di plastica rosa e un assortimento completo di posate in alluminio incastrate l’una sull’altra, il cucchiaio con la stessa incavatura della forchetta, la forchetta del coltello e i tre pezzi tenuti assieme da un rivetto a forma di bottone da solino fissato 12.5

al cucchiaio, che attraversa forchetta e coltello e si attacca a un anello di cuoio; è insomma come se, per una strana confusione della tua mente, quella valigia, la cui esistenza è ben lungi dall’esser certa, potesse essere una bancarella di mereiaio il giorno e una valigia da picnic la sera. Ma non è neanche certo che il tuo vicino ceni, non senti mai il rumo­ re né l’odore dello sfrigolare di frattaglie, di ro­ gnoni, che dovrebbero essere il suo cibo preferito. Sai soltanto, con qualche certezza, che va a riem­ pire il bollitore al rubinetto dell’acquaio sul piane­ rottolo (perché la sua camera, per quanto più grande della tua, è priva di acqua corrente) e lo mette su un fornello di cui ti è ignoto il modello, ma che quasi certamente è di tipo piuttosto primi­ tivo, a giudicare dal tempo che il bollitore impiega a fischiare, cioè l’acqua a bollire.

Hai un bell’ascoltare, tendere le orecchie e tenerle incollate al tramezzo, alla fin fine non sai quasi niente. Sembra che quanto più si precisa la tua percezione, tanto più le tue interpretazioni si fanno incerte. Forse davvero apre e chiude conti­ nuamente cassetti, ma neppure questo è dimostra­ bile; nulla vieterebbe, per esempio, che per motivi a te ignoti, o per il solo gusto di ingannarti, egli 12.6

sfreghi l’una contro l’altra due tavole, o che apra e chiuda effettivamente uno o più cassetti, ma così, senza motivo, senza cioè mettere o prendere nien­ te, soltanto per far rumore, o perché gli piace il rumore dei cassetti che si aprono e richiudono. Forse esce davvero tutti i giorni a fine mattinata, ma tu non sei lì tutti i giorni per poterlo verificare, così come a volte sei tu a uscire al calar della sera, prima che lui sia di ritorno; magari fa finta di usci­ re, scende qualche gradino, poi risale così piano che tu, pur sforzandoti, non puoi percepirne la presenza. Forse prende davvero l’acqua nel piane­ rottolo, e davvero il suo bollitore fischia quando l’acqua bolle: ma chissà, magari è lui a fischiare, chi lo può dire?

Tuttavia, a volte, la sua vita t’appartiene, i suoi rumori sono tuoi perché li ascolti, li aspetti, perché ti mantengono in vita, come la goccia d’acqua, le campane di Saint-Roch, i rumori della strada e della città. Ti interessa poco se ti sbagli, interpreti o inventi. Basta che tu l’abbia fatto mereiaio per­ ché lo sia, con la sua valigia pieghevole, i pettini, gli accendini e gli occhiali da sole. Lui vive l’esile vita che gli lasci vivere, svanendo appena esce dal campo della tua percezione, morto appena ti vince

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il sonno, e per tutto il resto del tempo condannato a riempire d’acqua il bollitore, tossire, strascicare i piedi, aprire e chiudere cassetti.

Magari però, senza saperlo, per una sorta di tacita simbiosi, anche tu gli appartieni. Forse, come tu aspetti con impazienza ogni suo colpo di tosse, i suoi fischi, il rumore dei cassetti, anche per lui il rumore della tazza che riponi sulla men­ sola, il fruscio dei giornali che continuamente prendi e riprendi, e delle carte che disponi sulla stretta panca, i rumori d’acqua, il tuo respiro, come la goccia d’acqua, il campanile, i rumori della strada e della città, formano la fitta trama del tempo che scorre, del persistere della vita. Forse anche lui tenta disperatamente di conoscer­ ti, facendo infinite interpretazioni su ogni segno percepito: chi sei, cosa fai? tu che sfogli i giorna­ li, tu che resti parecchi giorni senza uscire, o vari giorni senza tornare?

Ma tu fai così poco rumore! Lui riesce soltanto a rilevare la tua presenza, e se sta così attento è perché è impaurito, perché è angustiato da te: è come quel vecchio tasso che, nella sua tana mai

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protetta abbastanza, sente un rumore non troppo lontano che non riesce mai a localizzare veramen­ te, un rumore che non aumenta mai del tutto, ma che neppure diminuisce, che non cessa mai. Lui cerca di proteggersi, prova goffamente a tenderti qualche trappola, a farti credere che è potente, che non ti teme, che non sta tremando: ma è così vec­ chio! Gli resta soltanto la forza di contare e ricon­ tare senza posa il suo capitale, e di cambiargli in ogni momento nascondiglio.

A volte, povero imbecille, ti piace immaginar­ telo ammaliato da te, come davvero impaurito: allora ti sforzi di restare in silenzio il più a lungo possibile; oppure gratti con un pezzo di legno, una lima o una matita, la parte superiore del tramezzo che separa le vostre stanze, producendo un rumo­ rino sottile e snervante.

Oppure, viceversa, preso da un improvviso moto di simpatia, hai quasi voglia di inviargli mes­ saggi di saluto, batti col pugno contro il tramezzo, un colpo sta per A, due colpi per B...

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Ora non hai più rifugi. Hai paura, aspetti che tutto si fermi, la pioggia, le ore, il flusso delle automobili, la vita, gli uomini, il mondo, che tutto crolli, le muraglie, le torri, i pavimenti e i soffitti; che uomini e donne, vecchi e bambini, cani, cavalli, uccelli, uno a uno, cadano a terra, paralizzati, appestati, epilettici; che il marmo si sbricioli, che il legno si polverizzi, che le case cadano silenziosamente a pezzi, che piogge dilu­ viali dissolvano le tinteggiature, scardinino le caviglie degli armadi centenari, lacerino i tessuti, sciolgano l’inchiostro dei giornali; che un fuoco privo di fiamme consumi i gradini delle scale; che le strade sprofondino esattamente al centro, lasciando spalancato il labirinto delle fogne, che ruggine e nebbia invadano la città. Talvolta, sogni che il sonno è una morte che si impadronisce di te lentamente, un’anestesia dolce e terribile allo stesso tempo, una lieta necrosi: il freddo risale lungo le gambe, le braccia, lenta­ mente, intorpidendoti e annichilendoti. L’alluce è 131

una montagna lontana, la gamba un fiume, la guancia un cuscino, tu alloggi per intero nel pol­ lice, squagliandoti e scorrendo via come sabbia, come mercurio. Ormai non sei che un granello di sabbia, un omuncolo accartocciato, una piccola cosa inconsistente, senza muscoli, senza ossa, senza gambe, senza braccia, senza collo, con piedi e mani confuse, e immense labbra che ti inghiottono. Ti ingrandisci immensamente, esplodi, muori, pieno di crepe, pietrificato: le ginocchia sono pie­ tre dure, le tibie sbarre d’acciaio, il ventre una banchisa, il sesso una stufa, il cuore un caldero­ ne. La testa è una landa pervasa da nebbie, veli leggeri, fitte coltri, pesanti mantelli...

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Le sopracciglia si alzano e si tendono; la fronte si aggrotta, gli occhi ti fissano. La bocca si apre e si richiude.

Ti guardi attentamente allo specchio e, anche da vicino, trovi che alla fine il tuo viso è meglio di quanto ti risultasse (anche se è vero che la luce è quella della sera, e la sua fonte è dietro di te, sicché la peluria che copre l’orlo delle orecchie è la sola a essere davvero illuminata). È un viso puro, model­ lato armoniosamente, dai contorni quasi belli. Il nero dei capelli, delle sopracciglia e delle orbite spunta come qualcosa di vivo dalla massa del tuo viso in atteggiamento di attesa. L’espressione non ha nulla di devastato, di ciò non c’è traccia, ma non si può neanche dire che sia un’espressione infantile, quanto piuttosto un’espressione incredi­ bilmente energica, o forse semplicemente osserva­ trice, dato che stai appunto osservandoti e vorresti farti paura. 133

Che segreti vai cercando in quello specchio incrinato? Quale verità in quel viso? La faccia tonda, un po’ gonfia, quasi già imbolsita, le so­ pracciglia che si toccano, la minuscola cicatrice sul labbro, gli occhi un po’ globulosi, i denti irre­ golari, pieni di tartaro giallastro, le multiple escre­ scenze, i brufoli, i punti neri, le verruche, i come­ doni, i nei nerastri o brunastri da cui spunta qual­ che pelo, sotto gli occhi, sul naso, sotto le tempie. Avvicinandoti puoi constatare che hai la pelle sor­ prendentemente striata, rugosa e piena di impuri­ tà. Puoi vedere ogni tuo poro, ogni rigonfiamen­ to. Guardi, scruti le alette del naso, le screpolatu­ re delle labbra, la radice dei capelli, le venule esplose che striano di rosso il bianco degli occhi.

A volte somigli a una mucca. Gli occhi globu­ losi non manifestano nessun interesse per quello che incontrano. Ti vedi nello specchio e ciò non ti suscita nessun sentimento, neanche quello che potrebbe scaturire dalla semplice abitudine. Quel riflesso bovino nello specchio, che l’esperienza ti ha insegnato a identificare come l’immagine più sicura del tuo viso, sembra che non abbia nessuna 134

simpatia nei tuoi confronti, e nessuna riconoscen­ za, come se, appunto, non ti riconoscesse nean­ che, anzi piuttosto, come se riconoscendoti si met­ tesse d’impegno a manifestare nessuna sorpresa. Certo, non puoi pensare sul serio che ce l’abbia con te, e nemmeno che stia pensando ad altro. Semplicemente, come una mucca, una pietra, o come l’acqua, non ha niente da dirti di particola­ re. Ti guarda per educazione, solo perché lo stai guardando. Ti tiri gli angoli degli occhi, fai la faccia da cinese, provi qualche altra smorfia, gli occhi spa­ lancati: il guercio con la bocca storta, la scimmia con la lingua che scivola sotto il labbro superiore o sotto quello inferiore, le guance scavate, le guan­ ce gonfiate, ma comunque sia, cinese o con le smorfie, la mucca nello specchio incrinato si lascia fare senza reagire. La sua è una docilità così evi­ dente che in un primo momento ti rassicura, poi ti preoccupa, poiché alla fine diventa quasi fastidio­ sa. Puoi abbassare lo sguardo davanti a un uomo, o davanti a un gatto, dato che entrambi, l’uomo e il gatto, ti guardano, e il loro sguardo è un’arma (e la benevolenza d’uno sguardo è forse anche la peggiore di tutte le armi, quella che ti disarmerà laddove l’odio non avrebbe fatto niente) ma non c’è niente di più scortese che abbassare lo sguardo 135

davanti a un albero, davanti a una mucca, o al tuo viso riflesso nello specchio.

Vi fu un tempo in cui, a New York, a poche centinaia di metri dal frangersi delle ultime onde dell’Atlantico, un uomo si è lasciato morire. Faceva lo scrivano presso un uomo di legge. Nascosto dietro a un paravento, restava seduto allo scrittoio e non si muoveva mai di lì. Si nutri­ va di soli biscotti allo zenzero. Dalla finestra guardava un muro di mattoni anneriti che quasi poteva toccare con la mano. Inutile chiedergli alcunché, di rileggere un testo o andare all’uffi­ cio postale. Minacce e preghiere non avevano su di lui nessuna presa. Alla fine divenne quasi cieco. Lo si dovette cacciare. Lui si sistemò nelle scale dell’edificio. Lo si fece allora rinchiudere, ma si sedette nel cortile della prigione e rifiutò di nutrirsi.

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Non sei morto e non sei diventato più saggio. Non hai esposto gli occhi alle bruciature del sole. I due vecchi attori di second’ordine non sono venuti a prenderti, non ti si sono incollati for­ mando un blocco tale che sarebbe stato impossi­ bile schiacciare uno di voi senza annientare gli altri due. I vulcani misericordiosi non si sono sporti su di te.

Che invenzione meravigliosa, l’uomo! Può soffiarsi nelle mani per scaldarsele e sof­ fiare sulla minestra per raffreddarla. Può afferra­ re delicatamente un qualsiasi coleottero, quando non è troppo il disgusto, prendendolo tra il polli­ ce e l’indice. Può coltivare vegetali ricavandone il nutrimento, il vestiario, qualche droga, e persino dei profumi che gli serviranno a camuffare il pro­ prio odore sgradevole. Può battere i metalli e 137

farne delle pentole (cosa che una scimmia non può fare). Quante storie esemplari esaltano la tua gran­ dezza, la tua sofferenza! Quanti Robinson, Roquentin, Meursault, Leverkühn! I titoli di merito, le belle immagini, le menzogne: tutto falso. Non hai imparato niente, non potresti testimoniare. Non è vero, non crederci, non credere ai martiri, agli eroi, agli avventurieri! Soltanto gli imbecilli parlano ancora dell’Uo­ mo senza riderne, della Bestia, del Caos. Il più ri­ dicolo degli insetti spende per sopravvivere un’e­ nergia pari, se non superiore, a quella che occorse a non so più qual aviatore (caduto vittima degli orari forsennati imposti da una Compagnia a cui per giunta era fiero di appartenere) per traversare una montagna che era ben lungi dall’essere la più alta del pianeta.

Il topo nel suo labirinto è capace di compiere vere e proprie prodezze: collegando scrupolosa­ mente i pedali su cui deve spingere per ottenere il cibo alla tastiera di un piano, o di un organo, si può ottenere dall’animale un’esecuzione decente del «Gesù mia gioia», e nulla vieta di pensare che ci prenda un gran gusto.

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Ma tu, povero Dedalus, non c’era nessun labi­ rinto. Finto prigioniero, la porta era aperta. Nes­ suna guardia davanti, nessun capo guardie in fondo alla galleria, nessun Grande Inquisitore alla porticina del giardino.

Toccare il fondo, non significa niente. Né il fondo della disperazione, né il fondo dell’odio, né il fondo della decadenza etilica o della solitudine orgogliosa. L’immagine, fin troppo bella, di colui che dopo essersi immerso, con una vigorosa spin­ ta dei piedi riemerge in superficie, è lì a ricordar­ ti, casomai ce ne fosse bisogno, che chi è caduto ha diritto a tutti gli onori: la misericordia di Dio si estende a lui così come agli abitatori del regno dei cieli a cui Egli dona nutrimento. I peccatori, come coloro che sprofondano negli abissi, sono fatti per essere assolti.

Ma nessuna bordeggiarne Rachele ti ha rac­ colto dal relitto miracolosamente preservato del Pequod, perché tu, altro orfano, venga a tua volta a testimoniare.

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Tua madre non ti ha ricucito i vestiti. Non an­ drai, per la milionesima volta, in cerca della realtà dell’esperienza, né forgerai nella fucina della tua anima l’increata coscienza della tua razza. Nessun vecchio antenato, né vecchio artefice, ti farà buona guardia, né oggi né mai.

Non hai imparato niente, tranne che la solitu­ dine non insegna niente, che l’indifferenza non insegna niente: era un’impostura, una fascinosa e ingannevole illusione. Eri solo, tutto qui, e volevi proteggerti; volevi tagliare per sempre i ponti tra te e il mondo. Ma tu sei così poca cosa, e il mondo un tal parolone: alla fine, il tuo non è stato altro che un errare in una grande città, e costeggiare chilometri di facciate, vetrine, parchi e lungofiume.

L’indifferenza è inutile. Puoi volere o non vole­ re, che importanza ha? Fare o non fare una parti­ ta a flipper, ci sarà comunque un altro che infile­ rà una moneta da venti centesimi nella fessura della macchinetta. Puoi credere che consumando ogni giorno lo stesso identico pasto compi un atto risolutivo. Ma il tuo rifiuto è inutile. La tua 140

neutralità non significa niente. La tua inerzia è altrettanto vana della tua rabbia. Credi di passare, indifferente, lungo le strade principali, andando alla deriva nella città, se­ guendo la folla, penetrando i giochi delle ombre e delle crepe. Ma niente è accaduto: nessun miracolo, nessu­ na esplosione. Ogni giorno sgranato non ha fatto che erodere la tua pazienza, che mettere a nudo l’ipocrisia dei tuoi ridicoli sforzi. Bisognava che il tempo si fer­ masse completamente, ma niente e nessuno è così forte da poter lottare contro il tempo. Hai potuto barare, guadagnare qualche briciola, qualche secondo: ma le campane di Saint-Roch, l’alter­ narsi dei semafori all’incrocio tra la rue des Pyra­ mides e la rue Saint-Honoré, l’immancabile ca­ duta della goccia dal rubinetto dell’acquaio nel pianerottolo non hanno mai smesso di misurare le ore, i minuti, i giorni e le stagioni. Sei riuscito a far finta di dimenticartene, a camminare di notte e a dormire di giorno. Non l’hai mai ingannato del tutto.

Per molto tempo hai costruito e distrutto i tuoi rifugi: l’ordine o l’inazione, la deriva o il sonno, i 141

giri notturni, i momenti neutri, la fuga delle ombre e delle luci. Forse potresti anche continua­ re a mentirti, ad abbrutirti e a impegolarti. Ma il gioco è finito, il grande festeggiamento, l’ebbrez­ za fallace della vita sospesa. Il mondo non si è mosso e tu non sei cambiato. L’indifferenza non ti ha reso differente.

Non sei morto. Non sei impazzito.

I disastri non esistono, sono altrove. La più infima catastrofe avrebbe forse potuto salvarti: se avessi perso tutto, avresti almeno avuto qual­ cosa da difendere, delle parole da dire per con­ vincere e commuovere. Ma non sei neanche ma­ lato. I tuoi giorni e le tue notti non corrono peri­ coli. I tuoi occhi ci vedono, la tua mano non trema, il tuo polso è regolare, e il cuore continua a battere. Se fossi almeno brutto, la tua bruttez­ za potrebbe avere qualcosa di affascinante, ma non sei nemmeno brutto, né gobbo, né balbu­ ziente, né monco, né un troncone senza gambe, e nemmeno claudicante.

I4i

Nessuna maledizione grava sulle tue spalle. Forse sei un mostro, ma non un mostro degli Inferi. Non devi contorcerti né urlare. Nessuna prova ti attende, nessun masso di Sisifo, nessun calice ti verrà porto per il tuo rifiuto, nessun corvo mira ai tuoi globi oculari, nessun avvoltoio si è visto infliggere l’indigesto compito di man­ giarti il fegato, mattino, pomeriggio e sera. Non devi trascinarti davanti ai giudici, implorando la grazia, gridando pietà. Nessuno ti condanna e non hai nessuna colpa. Nessuno ti guarda per poi allontanarsi subito con orrore.

Il tempo, che su tutto veglia, ha trovato tuo malgrado la soluzione. Il tempo, che conosce la risposta, ha continua­ to a scorrere.

Poi in un giorno del genere, un po’ più tardi, o un po’ più presto, tutto ricomincia, tutto comin­ cia, tutto continua.

Smetti di parlare come un uomo che sogna.

M3

Guarda! Guardali! Migliaia e migliaia di sen­ tinelle silenziose, immobili genti di terra, pianta­ te lungo le banchine, le rive, lungo i marciapiedi allagati dalla pioggia di Place Clichy, sono lì per­ dute in fantasticherie oceaniche, aspettano i bru­ mosi spruzzi delle onde, l’infrangersi dei marosi, il rauco richiamo degli uccelli marini.

No. Non sei più il padrone anonimo del mondo, quello su cui la storia non aveva presa, quello che non sentiva cadere la pioggia, che non vedeva veni­ re la notte. Non sei più l’inaccessibile, il limpido, il trasparente. Hai paura e aspetti. Aspetti, in Place Clichy, che la pioggia cessi di cadere.

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Nota del traduttore

Per i passi in cui mi sono dovuto allontanare dalla let­ tera del testo francese riporto qui di seguito l’originale, con qualche spiegazione: A pagina 34, dove traduco «il cavallo non prende a cuori se il fossato non l’ha scartato», nell’originale c’è un non-sense che suona come una filastrocca: Le cavalier n’est jamais maître à cœur à moins que le fausset n’ait été défaus­ sé (il cavallo non prende mai a cuori a meno che il falsetto non sia stato scartato). Nella frase c’è assonanza tra fausset (falsetto) e défaussé (scartato, nei giochi di carte); ma essen­ doci anche assonanza tra fausset e un virtuale fossé (fossa­ to), défausser potrebbe avere un significato prossimo a «sca­ valcare il fossato»; restando sovrapposta l’area semantica dell’equitazione a quella del gioco a carte. A pagina 47 c’è una sfilza di nove frasi composte da proverbi, fraseologismi e modi di dire francesi, il cui senso esprime sempre il farsi da parte del protagonista nella grande corsa per diventare qualcuno nella vita. La frase «Te la cavi lasciando il banco e il beneficio» traduce Tu retires du jeu tes billes et tes épingles (tiri via dal gioco le biglie e le spille), che è l’unione di Retirer ses billes du jeu (togliere le proprie biglie dal gioco, ovvero smettere di gio­ care) e Retirer son épingle du jeu (togliere la propria spilla dal gioco, ovvero tirarsi fuori da un affare senza perdere soldi). Dove traduco «Non fai carte false, non ti giochi il tutto per tutto», nell’originale è Tu ne mets aucune chance

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de ton côté, aucun œuf dans nul panier che unisce Mettre toutes ses chances de son côté (mettere tutte le proprie pos­ sibilità dalla propria parte, ovvero fare di tutto per vince­ re od ottenere qualcosa) e Mettre tous ses œufs dans le même panier (mettere tutte le uova nella stessa cesta, ovve­ ro giocarsi tutto sullo stesso affare). Dove traduco «Chiu­ di bottega e parti alla chetichella», c’è Tu mets la clé sous la porte (mettere la chiave sotto la porta, che significa «traslocare, partire discretamente», e per estensione «ces­ sare i propri traffici e attività»). A pagina 64 Perec infila nel testo cinque cruciverba che il protagonista legge su «le Monde» (Perec era un grande appassionato di cruciverba e ne creava per «le Point» e altri giornali, tra cui proprio «le Monde», raccolti successiva­ mente in due libri di parole crociate). Le definizioni nei cru­ civerba a indovinello giocano su un doppio senso; dove tra­ duco «È poco ortodosso battezzarlo: vino», il francese ha Pas catholique quand on le baptise: vin (non è cattolico quando lo si battezza: vino, dove «battezzare» associato al vino, sia in francese che in italiano, vale per «annacquar­ lo»; e pas catholique significa cosa non ammessa o poco corretta, come il nostro «poco ortodosso»); «Articolo di fede: la», sta per L’article de la mort: la (l’articolo della morte: la) dove article indica la particella grammaticale, ma la frase intera viene dal latino in articulo mortis, in punto di morte. Gli ultimi tre, intraducibili anche solo parzialmente, sono stati sostituiti da cruciverba funzionalmente equiva­ lenti: «Le piaceva troppo il parmigiano: Sanseverina» (che viene dallo stesso Perec: Elle aimait trop le parmesan: San­ severina) qui al posto di Sont inséparables quand ils sont brouillés: œufs (sono inseparabili quando sono in litigio: uova, dove brouillés significa sia «in litigio» che «strapaz­ zate»); «Una pianta che cammina: piede», al posto di Som

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existence précède l’essence: Antar (la sua esistenza precede l’essenza: Antar; essence è «essenza» e «benzina», Antar è un’azienda petrolifera francese). «Quando tira non fuma: camino», per S’il est pour le vice c’est peut-être seulement parce qu’il est contre: amiral (se è a favore del vizio lo è sol­ tanto perché è contro: ammiraglio, vice è «vizio» e «vice», e il contrammiraglio è il secondo dell’ammiraglio). J-T.

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Georges Perec e l’uomo che dorme di Gianni Celati

«L’incondizionata democrazia di tutte le cose.» Herman melville, lettera del giu­ gno 1865.

Il primo libro di Georges Perec, Le cose (1965), è una cronaca degli anni ’60, quando si diffonde l’irresistibile passione degli acquisti, l’ossessio­ nante desiderio dei prodotti di moda e del com­ fort d’ordinanza. Il libro inizia con la descrizione della casa ideale, formata da oggetti di tentazio­ ne, visti nei cataloghi d’arredamento o nelle ve­ trine di Parigi. I giovani protagonisti, Jérôme e Sylvie, sognano la bella casa come Madame Bovary sognava l’amore da romanzo. Il tutto rac­ contato con leggerezza ironica, senza trame di richiamo, quasi sempre col passo svelto d’un rac­ conto quotidiano. Più d’una volta Perec ha fatto notare che Le cose non vuol essere una condanna della passione per gli oggetti, ma il resoconto d’una sua espe­ rienza fatta anni prima. È stato un modo di osser­ 153

vare il ruolo dominante che le cose hanno assun­ to nelle nostre vite, e di farne un uso letterario: «Le cose ci descrivono. Possiamo descrivere gli uomini attraverso gli oggetti, attraverso l’ambien­ te che li circonda e il modo in cui si spostano in questo ambiente» (intervista in «Littérature», n. 7, 1983)· Le cose prendono il posto della psicologia, ed è il segno d’una mutazione a largo raggio che negli stessi anni tocca filosofia, lettere, arti, cine­ ma. Invece dell’interno dell’uomo, della sua inte­ riorità o coscienza, viene in primo piano lo spa­ zio esterno: l’esteriorità in cui si colloca, con la sua casa, i suoi rituali, la sua lingua, e i processi ambientali in cui è coinvolto, cominciando dal fenomeno dalla vita quotidiana. Questa apertura di campo è la questione cen­ trale in Perec. Si tratta di andare verso le cose e interrogarle, accumulare descrizioni delle loro caratteristiche. Nei testi di Perec tutto diventa rilevante: mobili, utensili, spazi, cataloghi di acquisti per corrispondenza, prestiti da altri auto­ ri, una raccolta di cartoline, un elenco dei cibi mangiati in un anno, o diari come quello prepa­ ratorio per La vita istruzioni per l’uso - dove an­ notava qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani, da un mazzo di tuberose a una cartolina dal Massa­ 154

chusetts, che poi entravano pari pari nelle scene del libro. E l’idea d’un magazzino di roba qual­ siasi, dove anche gli oggetti immateriali, i ricordi e i pensieri e i sogni, sono trattati come cose ma­ teriali, nell’esteriorità di tutto.

L’esteriorità, sempre disprezzata dai signori dell’umanesimo, diventa l’essenza d’un modo di scrivere. Esteriorità vuol dire eterogeneità, spazio multiforme, mai riducibile a un’unità omogenea, anche se composto di elementi seriali. Con le idee si passa subito alle generalizzazioni, ma davanti alla moltitudine delle cose le generalizzazioni ci lasciano nel buio: per vedere qualcosa bisogna descrivere: «La prima cosa che si può fare è anda­ re a mettere alla prova la propria cecità, cioè la nostra incapacità di vedere. Vedere cosa? Perché all’inizio c’è solo opacità, nomi che non evocano niente», dice Perec in una conferenza (ora in Espace & Représentation, a cura di A. Renier, Paris 1982). La mossa successiva è inventariare quello che si è visto. Un inventario è un modo di mettere ogni cosa al suo posto; ed ecco perché Perec dice­ va che per parlare dei suoi libri bisogna partire dall’idea del puzzle - perché il puzzle è il gioco 155

con cui si mette in ordine un mucchio di ritagli sparsi, fino a ricomporre un’immagine coerente. Si può dire che il suo libro più importante, La vita istruzioni per l’uso (1978) sia un manuale di pro­ cedure per affrontare l’esteriorità e tradurla in immagini coerenti - trattando come un puzzle un cumulo di note raccolte nell’arco di dieci anni, su oggetti d’arredamento, utensili, prodotti d’ogni genere, linguaggi speciali, prestiti di storie o spun­ ti narrativi da altri autori, titoli di libri, stampe, varietà di caratteri tipografici, conformazioni delle stanze in un palazzo parigino, piano per piano, dall’atrio alle mansarde.

La vita istruzioni per l’uso mostra che l’apertu­ ra verso l’esteriorità non può darci una rappresen­ tazione lineare, come quella dei romanzi canonici, ma solo una descrizione puntiforme, sbriciolata in dettagli o lampi di visione. Paul Virilio vede in que­ sto un effetto dell’accelerazione di tutti i segnali: un modo di scrivere basato sull’inerzia dei momen­ ti, sull’urgenza di cogliere ciò che sta per essere cancellato o eroso dalla fuga del tempo («L’Arc», n. 76,1979). Ed è un modo di creare una memoria del mondo che abbraccia anche tutto ciò che è senza splendore: le pratiche di lavoro, le routine 156

quotidiane, i luoghi qualsiasi, l’ordinario, il banale, la «vita vuota», seguendo l’avviso di San Paolo: «Il mondo come lo conosciamo sta passando».

Un uomo che dorme terzo libro di Perec, è composto con procedure simili a quelle che ho detto, partendo da annotazioni varie, e affidato all’inerzia dei momenti. È una svolta nella produzione dell’autore, perché abbandona le forme narrative lineari e omogenee. E se Le cose era la cronaca d’una passione per la bella casa, il buon cibo e gli acquisti di lusso, Un uomo che dorme è il suo controcanto: storia d’un ano­ nimo studente che si educa all’indifferenza rispet­ to a tutto. «Non voler più niente. Aspettare fin­ ché non ci sia più nulla da aspettare. Vagare, dor­ mire. Lasciarsi portare dalla folla [...]. Perdere tempo. Tenersi lontano da ogni progetto, da ogni smania. Essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione. » Il libro è giocato sull’alternanza tra moduli diversi: le immersioni nel sonno e nelle visioni oni­ riche a cui lo studente s’abbandona, e le sue mosse quotidiane per far passare il tempo. E un insieme di brani discontinui che formano una specie di diario, in gran parte dedicato a luoghi parigini, e 157

alle abitudini di vita da vagante perpetuo, tra bistrò, ristoranti, cinema periferici e drugstore aperti tutta la notte.

Nella prima riga il sonno è definito un’avven­ tura. Poi inizia la descrizione d’uno stato onirico, dove il dormiente non riesce a distinguere l’esten­ sione dello spazio dai limiti del proprio corpo. In un’intervista Perec spiega che queste descrizioni di sogni derivano da appunti presi in stati di dormi­ veglia o sulla soglia del sonno, tenendo un taccui­ no a portata di mano, e annotando le immagini affiorate nella sua mente. L’altro modulo riguarda l’esperienza di vita in totale ozio e solitudine. L’anonimo studente con­ suma il tempo con lunghe camminate, andando al cinema, leggendo i giornali, o facendo giochi con le carte nella sua mansarda. Il tutto si traduce in momenti di vita ordinaria, vedute qualsiasi, la quotidianità della «vita vuota» - come quella dei pensionati che giocano a carte nei giardini del Luxembourg, o di quei vecchi seduti su una pan­ china come mummie per ore senza muoversi. Questo aspetto è una traccia degli interessi del primo Perec, già orientato verso una sociologia del quotidiano e dell’ordinario - argomento che

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tratterà sulla rivista «Cause commune», fondata da Jean Duvignaud con la sua collaborazione. Nell’intervista dove parlava dei sogni, Perec evoca la sua sociologia, che «non è un’analisi, ma solo un tentativo di descrizione, e più precisamente una descrizione di ciò che non si guarda mai per­ ché si è o si crede di esservi fin troppo abituati». Non è la sociologia delle tabelle statistiche, ma quella fenomenologica, che studia l’incerta par­ venza di un’esteriorità quasi mai osservata, perché ritenuta banale, scontata, evidente.

In un articolo su «Cause commune» del febbra­ io 1973 (poi confluito in L’infra-ordinaire, 1989), Perec dice che la prassi dei funzionari dell’informa­ zione sta nel cancellare le tracce delle «cose comu­ ni», della vita ordinaria, e sostituirle con lo straor­ dinario, il sorprendente, lo scandalo politico o i cataclismi naturali. «Dietro un avvenimento ci deve essere uno scandalo, un’incrinatura, un peri­ colo, come se la vita dovesse rivelarsi soltanto attraverso lo spettacolare: come se l’esemplare, il significativo fosse sempre anormale...». L’ovvietà quotidiana è intesa sempre come un déjà vu, che sarebbe il contrario di ciò che è «in­ teressante»; e questo significa che il quotidiano 159

resta una zona d’ombra, un margine senza interes­ se: «I giornali parlano di tutto, tranne del giorna­ liero [...]. Quello che succede ogni giorno e che si ripete ogni giorno, il banale, il quotidiano, l’evi­ dente, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, in che modo renderne conto, in che modo interrogarlo, in che modo descriverlo?». Un uomo che dorme, scritto sei anni prima, è una risposta a queste domande: come si interroga­ no le abitudini e il flusso ripetitivo degli atti quoti­ diani? È la questione posta dal nostro autore: «Si tratta d’un decondizionamento: non tentare di co­ gliere ciò che i discorsi ufficiali (istituzionali) chia­ mano l’evento, l’importante, ma cogliere ciò che è al di sotto, l’infra-ordinario, il rumore di fondo che costituisce ogni istante della nostra quotidianità» (Conversazione con J.-M. Le Sidaner, «L’Arc», n. 76, 1979).

Dopo la descrizione iniziale d’uno stato di dor­ miveglia che culmina con un mal di testa, c’è un altro punto d’avvio, più rilevante per la vicenda del nostro libro. Invece di presentarsi a un esame universitario, una mattina l’anonimo studente lascia che la sveglia suoni e continua a dormire.

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Basta questo per interrompere la linea del suo «do­ ver essere, dover fare». Di colpo le norme di vita basate sull’idea d’andare sempre avanti, privile­ giando l’azione e il successo, sono dimenticate - e «niente resta di quella traiettoria saettante, di quel movimento proiettato in avanti che da sempre sei stato portato a identificare con la tua vita, cioè con il suo senso...». Queste pagine hanno un’intonazione aspra, ma sono un’eccezionale risposta agli ideali dell’attivi­ smo moderno, come forma mentale dell’occiden­ te. Più avanti i tratti di fondo dell’attivismo ven­ gono sintetizzati così: «Le maschere della retta via e delle magnifiche certezze». Sono tratti che noi tutti impariamo presto a riconoscere come norme di vita, guardandoci attorno: «intorno a te, da sempre, hai visto privilegiare l’azione, i grandi progetti e l’entusiasmo: l’uomo proteso in avanti, l’uomo con lo sguardo fisso all’orizzonte [...]. Tenacia, iniziativa, gesta clamorose e trionfi trac­ ciano il cammino troppo limpido di una vita trop­ po esemplare...». L’attivismo è il denominatore comune delle utopie moderne, tutte aggrappate alla stessa idea l’idea d’un progresso illimitato, indiscutibile, e del successo come segno d’una vita esemplare. E la «spettacolare illusione prospettica» da cui «spic161

cano il volo i pargoli paffuti di un’umanità con­ quistatrice». Questo attacco a uno dei fondamen­ ti del «dover essere» occidentale crea tensione nel libro, annunciando la fine delle «magnifiche cer­ tezze» e l’avvento d’una atarassia già post-moder­ na, come indifferenza rispetto a tutti i successi e tutte le carriere possibili.

Prima dell’ultimo capitolo, in un brano isolato, troviamo riassunta la storia d’una figura cara a Perec: quella dello scrivano Bartleby, del racconto omonimo di Melville (racconto evocato senza far nomi). Bartleby è lo scrivano che non vuole più scrivere, indifferente a tutte le sollecitazioni, in­ sondabile nel suo silenzio e nella sua inerzia tota­ le. Questo richiamo sembra suggerire la centralità della sua figura nel libro, come ispiratore delle reazioni dello studente, e soprattutto ispiratore del tipo di atarassia che lo studente insegue, nella sua deriva verso l’indifferenza assoluta. Perec evoca Bartleby anche altrove (in W o il ricordo d’infanzia, 1975), come figura esemplare per la sua pazienza. La pazienza di Bartleby sta nell’aderire al passare del tempo senza attese né ribellioni, nell’assoluta povertà, ma anche nell’in­ differenza alla compassione che suscita. Nel rac­ 162

conto di Melville, l’avvocato che vuole «salvarlo» è l’immagine dell’attivismo come falsa positività: perché nel suo «voler far bene» è trascinato solo dall’ansia e dall’impazienza. L’epigrafe da Kafka all’inizio del nostro libro può essere associata alle reazioni di Bartleby e ai suoi effetti sull’avvocato. Perché dice: Non fare niente, non aspettare nien­ te, resta in ascolto, nella solitudine e nel silenzio, e il mondo verrà da te a farsi smascherare. Per Kafka l’unico peccato è l’impazienza; e di fronte alla pazienza silenziosa e senza attese, le magnifi­ che certezze dell’attivismo sono destinate a farsi smascherare, vittime della loro ansia.

Un uomo che dorme ha l’impostazione d’un diario, con sintomi d’un disagio che si sfoga nella scrittura. Ne nasce una prosa idiosincratica, piena di ripetizioni, riprese di parole, sequenze di frasi appese l’una all’altra semplicemente attraverso virgole. È un’accumulazione di fatti casuali, routi­ ne quotidiane, sfoghi d’umori momentanei, dove le parole sembrano far parte d’un fenomeno gene­ rale - come parte del tempo che passa, indici del passare del tempo, senza ideali e senza attese. «Nessuna gerarchia, nessuna preferenza [...]. C’è solo la tua camminata, il tuo sguardo che si

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posa e scivola via, ignorando il bello e il brutto, il famigliare e il sorprendente [...]. Piazze, strade, giardinetti e viali, alberi e inferriate, uomini e donne, cani e bambini, attese, resse, veicoli e vetri­ ne [...]. Conosci soltanto la tua propria evidenza: quella della tua vita che continua, del tuo respiro, del tuo passo, del tuo invecchiamento. Vedi la gente andare e venire, la folla e le cose farsi e disfarsi...». Questo brano parla della vita quotidiana come fenomeno, ma qui anche la scrittura ha preso l’aspetto dei fenomeni. Il fenomeno non riguarda il vero, il bello o altri tipi di valutazione, ma il come le cose si manifestano: come compare il sin­ tomo d’una malattia, come un’apparenza si tra­ sforma per effetto della luce. E quando la scrittu­ ra prende l’aspetto d’un fenomeno non può dirci altro che la discontinuità dei momenti, le memorie improvvise, i pensieri nati tra una parola e l’altra. Di qui la frammentarietà, i vuoti o salti d’argo­ mento, senza più le discriminazioni categoriche dei valori, senza più il peso d’una ideologia - «un terreno sgombro da ogni valore, un terreno neu­ tro, evidente, palese, fattuale e non riconducibile a nient’altro, ma soprattutto non funzionale, poi­ ché il funzionale è il peggiore di tutti i valori...».

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L’altra caratteristica di questa prosa è l’uso del «tu» al posto del pronome «io», come uno sdop­ piamento dove lo studente parla di sé a se stesso, alternando stati di esaltazione e momenti di aspra ironia. Questo crea una frequente ambiguità nei suoi discorsi, nei giochi di parole, battute o cita­ zioni da altri autori. Ma il «tu» funziona anche come un interlocutore che ci mostra un campo di tensioni dove ogni chimera soggettiva deve venire allo scoperto, deve piegarsi verso l’esterno. Piegarsi verso l’esterno significa aderire alla vita qualsiasi, ai cibi qualsiasi, alle chiacchiere da bar, alle visioni del banale quotidiano (come i cal­ zini messi a lavare in un catino di plastica). L’av­ ventura non può essere più quella per mettere le cose a posto, secondo le norme dell’ottimismo e del buon vivere. Ora sta nello scovare i luoghi della solitudine di massa, che ci separa e ci unisce tutti, nell’indifferenza o nei giri a vuoto - in luo­ ghi così abituali che ormai non vediamo più, nei cibi inghiottiti senza sentirne il sapore, nei gior­ nali letti senza badare a cosa dicono. Questo «tu» piegato verso l’esterno, parla d’una realtà sparsa e multiforme, di cui raccogliamo solo piccole tracce. E tutto il funzionamento night-andday della vita di massa è definibile soltanto attra­ verso apparizioni momentanee, una temporalità di

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scorcio, e l’imprevisto - «l’imprevisto che si pre­ senta, l’ignoto che passa», diceva Baudelaire. Ecco perché non può esserci una continuità sistematica nel fissare le tracce dell’esteriorità che ci guida per mezzo delle abitudini, ma solo frammenti, note occasionali: «Entri in caffè miserabili, bar, osterie [...]. Cammini nel viscidume di certi vicoli, [...] verso Charles Michels oppure Chàteau-Landon Ti metti ad aspettare nelle hall degli hotel, seduto su un divano in finta pelle, guardi la gente andare e venire, leggi i volantini, i cataloghi, i manifesti, i dépliant turistici...».

I sogni trascritti da Perec riflettono sempre incertezze angoscianti: l’alienità del nostro corpo, incontrollabile dal pensiero. Ad esempio: la visio­ ne del proprio corpo sparpagliato in tanti pezzi che si trasformano l’uno nell’altro, e infine si rag­ gruppano nella testa del dormiente. In un altro sogno, il corpo diventa un gigantesco traghetto di linea, che naviga in un mare nero; oppure la ca­ mera dello studente diventa una bolla che lo include, fatta di schiume o di una pelle sottile. In­ fine viene il sogno di essere diventato un occhio: «Un immenso occhio fisso che tutto vede». E l’in­ cubo d’essere sempre osservati da se stessi: «Non

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smetterai mai di vederti». Ed è la condanna ad essere paralizzati dalla propria autocoscienza per cui non si riesce più a fare nessun gesto sponta­ neo, vagheggiando un’immagine di sé dotata di certi valori, che però è soltanto un fantasma ansio­ geno e un fanatico controllore. Non è un caso se questi brani d’incertezza mas­ sima nelle visioni oniriche dello studente preludo­ no al suo riconoscimento d’una «verità a lungo camuffata, come un’evidenza negata». Quale veri­ tà? Quale evidenza? Si tratta di «quest’illusione pericolosa di essere - come dire? - inespugnabile, di non offrire alcuna presa al mondo esterno, di scivolare sulle cose, intoccabile, gli occhi sbarrati che guardano avanti, tutto percependo [...]. Son­ nambulo sveglio, cieco che può vedere». Arrivati qui, si ha l’impressione di un errore, d’un abbaglio, per cui quello che abbiamo letto deve essere ripensato in altri termini. Si potrebbe dire così: è un testo dove a un certo punto le con­ clusioni retroagiscono sulle premesse, dunque vediamo apparire un libro diverso, con una com­ pleta inversione di rotta nel finale. La solitaria deriva dello studente avrebbe dovu­ to portarlo all’indifferenza rispetto a qualsiasi valore, per vedere il cibo solo come cibo, un albe­ ro come un albero, e se stesso come uno dei tanti. 167

Stranamente invece la sua deriva va a parare in un miraggio dell’autocoscienza: la lusinga di un sé intoccabile, il sogno d’una soggettività autosuffi­ ciente, distaccata da tutto il resto. Stato d’esalta­ zione dove proclama d’aver raggiunto l’indifferen­ za assoluta e d’essere come «un anonimo padrone del mondo», su cui la storia non ha più presa, e che non sente più cadere la pioggia su di sé. È l’uomo che parla come in un sogno - «l’uomo che dorme» del titolo.

Ho cercato di spiegarmi l’inversione di rotta che troviamo nel finale. Questa si svela bene nelle ultime pagine, dove compaiono citazioni da altri autori, ma anonime e col senso delle parole ribal­ tato. Qui trascrivo le ultime due righe di Moby Dick, dove Melville dissolve le esaltazioni del titanismo romantico, per dare spazio a figure di distacco come Ishmael (e in seguito Bartleby). Testo di Melville: «Era Rachele [nome della nave che salva Ishmael dopo il disastro del Pequod] che andava bordeggiando, e che nel rifare la sua rotta in cerca di figli perduti [in cerca del figlio del capitano disperso in mare] trovò solo un altro or­ fano [Ishmael, unico superstite del Pequod e testi­ mone della sua vicenda]». Versione di Perec: «nes­ 168

suna bordeggiarne Rachele ti ha raccolto dal relit­ to miracolosamente preservato del Pequod, perché tu, altro orfano, venga a tua volta a testimoniare». Questa citazione ribaltata è la negazione delle parole con cui lo studente cantava vittoria. E ora tutto il libro sembra la storia d’una liberazione fal­ lita. Si può anche pensare che l’esaltazione dello studente sia l’eco di molti proclami rivoluzionari, l’inutile contestazione di tutto, il parlare da «uomo che dorme». Sarebbe il segno della svolta compiuta da Perec, ormai sciolto da tutti i canti di vittoria.

La citazione da Melville spiana la strada al mood conclusivo, dove alcune frasi mettono fine al miraggio d’una separazione dal mondo, coltiva­ to dallo studente: «Il gioco è finito, il grande festeggiamento, l’ebbrezza fallace della vita so­ spesa. [...] Smetti di parlare come un uomo che sogna». Seguono due richiami alla pagina d’aper­ tura in Moby Dick, mescolati a una visione di Place Clichy sotto la pioggia. Strano e straordinario finale, dove all’idea d’una soggettività autosufficiente subentra quella d’una esposizione generale ai fenomeni esterni: «Guar­ dali! Migliaia e migliaia di sentinelle silenziose [...] sono lì perdute in fantasticherie oceaniche, 169

aspettano i brumosi spruzzi delle onde, l’infran­ gersi dei marosi No. Non sei più il padrone anonimo del mondo, quello su cui la storia non aveva presa, quello che non sentiva cadere la pioggia, che non vedeva venire la notte. Non sei più l’inaccessibile, il limpido, il trasparente. Hai paura e aspetti. Aspetti in Place Clichy che la pioggia cessi di cadere».

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Indice

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Un uomo che dorme Nota del traduttore

Georges Perec e l’uomo che dorme di Gianni Celati

Compagnia Extra

I Federico Fellini, Il viaggio di G. Mastorna A cura di Ermanno Cavazzoni. Prefazione di Vincenzo Mollica

2. Ugo Cornia, Sulle tristezze e i ragionamenti 3 Gianni Celati, Un eroe moderno Costumi degli italiani i

4 Gianni Celati, Il benessere arriva in casa Pucci Costumi degli italiani z

5 Paolo Nori, Pubblici discorsi 6 Aleksandr Puškin, Eugenio Onegbin Traduzione di Ettore Lo Gatto

7 Georges Perec, Un uomo che dorme Traduzione di Jean Talon. Con un testo di Gianni Celati

8 Franz Kafka, Un artista del digiuno Traduzione di Gabriella de’ Grandi. Con un testo di Ermanno Cavazzoni

Finito di stampare nel marzo 2009 dalla Litografica Com di Capodarco di Fermo (Fermo)