Un solo corpo. Laicità e sacerdozio nel cristianesimo delle origini 8843098934, 9788843098934

La diversificazione laico-sacerdote, diventata corrente per designare i membri del nuovo movimento sorto nel nome di Ges

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Un solo corpo. Laicità e sacerdozio nel cristianesimo delle origini
 8843098934, 9788843098934

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Romano Penna

Un solo corpo Laicità e sacerdozio nel cristianesimo delle origini

Carocci editore

@, Frecce

1' edizione, gennaio 2.02.0 © copyright 2.02.0 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino Finito di stampare nel gennaio 2.02.0 da Eurolit, Roma

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Siamo su: www.carocci.it www.facebook.com/caroccieditore www.twiccer.com/caroccieditore

Indice

Per introdursi I.

Cristianesimo e religione

II

Appunti sul concetto di secolarizzazione

II

Religione e laicità

13

La voce «religione» in ebraico, greco, latino e il suo impiego cristiano in rapporto alla «fede»

2.

15

Note

22

Il sacerdozio in ambito greco-romano ed ebraico

33

Le società greca e romana

34

Il giudaismo

39

La storia/ Gerarchia e funzioni sacerdotali

Quale laicità in Grecia e in Israele Versante greco/ Versante ebraico

3.

9

43

Note

46

La laicità del cristianesimo nascente

53

La laicità di Gesù di Nazaret L'appartenenza etnica / L'importanza dell'anomalo sacerdote Giovanni in quanto "Battista" / Fattori vari / La distinzione tra Cesare e Dio / Il gesto profetico compiuto nel Tempio/ Conclusioni

Laicità dei ministeri ecclesiali Carismi e ministeri (diakonle) I La comunità di Gerusalemme/ La comunità di Antiochia/ La comunità di Tessalonica/ La comunità di Corinto/

55

61

8

UN SOLO CORPO

La/le comunità di Roma/ La comunità di Filippi / La comunità di Efeso/ Il ministero dei «dirigenti» nella Lettera agli Ebrei/ La struttura ministe­ riale della comunità secondo le Lettere pastorali / Conclusioni

Il culto domestico delle prime comunità cristiane

92

Inculturazione / Dissociazione dal linguaggio e dai luoghi di culto tradizionali / Il rito di iniziazione / Lo svolgimento delle riunioni conviviali / Conclusioni

Componenti "laiche" della morale paolina

110

Le�� e libertà / La coscienza / Il criterio del bene e del male / Vangelo e polinca

4.

L'uso cristiano del termine «laico»

118

Note

124

Il sacerdozio nel cristianesimo degli inizi

157

«Sacerdote», anzi «Sommo Sacerdote» è il solo Gesù Cristo

158

La Lettera agli Ebrei/ Accenni al sacerdozio in altri scritti neotestamentari/ L'eccezione del Paolo storico, che su Gesù evita ogni linguaggio cultuale

La dimensione comunitaria e individuale del nuovo sacerdozio

177

Sul piano oggettivo dell'essere: la comunità e i singoli / Sul piano attivo dell'esercizio

La successiva configurazione cristiana del «sacerdote»

200

L'utilizzo del vocabolo/ L'ordinazione con l'imposizione delle mani/ Il celibato / Il vestito

Note

208

Tirando le fila Note

237

Indice dei nomi

241

Per introdursi

Si racconta che l'antico generale spartano Lisandro (t 395 a.C.), quando gli venne richiesto da un sacerdote greco del tempo di confidare quale fos­ se stata l'azione più ingiusta compiuta nella sua vita, gli obiettò chiedendo se doveva dirlo per ordine suo o degli dèi; e poiché il sacerdote chiamò in causa gli dèi, quello rispose: «Tu allora levati dai piedi [ekpodon moi metdstethi], io risponderò a loro se me lo chiederanno» (così si legge in Plutarco, Mor. 2.2.9D; cfr. anche 2.36D); ma va detto che almeno secondo l'epicureismo gli dèi non si interessano affatto delle cose umane. Come si vede, già qui si pone con sufficiente chiarezza e persino in termini bru­ schi la questione se la mediazione sacerdotale vada ritenuta necessaria o superflua, quasi che importasse di più un rapporto diretto, si potrebbe dire «laico», con la divinità sulla sola base della propria coscienza. Il problema però si pone soprattutto in ambito cristiano, appena ci ren­ diamo conto che la diversificazione tra «laico» e «sacerdote», diventata corrente per designare i membri del nuovo movimento religioso sorto nel nome di Gesù di Nazaret, Cristo e Signore, non compare nei testi più anti­ chi, che pur sono addirittura canonici cioè normativi. In essi emerge piutto­ sto l'idea di una paritaria convergenza dei cristiani nel costituire tutti insie­ me una nuova realtà comunitaria definita con varie metafore, tra cui quella di corpo, che è propria delle lettere paoline (in Rom 12.,5; 1Cor 10,16-17; 12.,2.7; Ef 4,4; 5,30; Col 1,18) e che caratterizza il titolo paradossale di questo volume. Infatti i membri della nuova comunità, come risulta dall'insieme di quei testi, comprendono congiuntamente non solo giudei e greci, schiavi e liberi, uomini e donne, ma anche imprevedibilmente i ministri ecclesiali (mai chiamati sacerdoti) insieme a tutti gli altri membri della comunità (mai chiamati laici) senza antagonismi se non con mere funzioni differenziate. È importante, dunque, riandare alle origini e scandagliare gli scritti cri­ stiani fondativi, comparandoli con l'ambiente religioso del tempo, greco

IO

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ed ebraico, per prendere atto, magari con sorpresa, di quale sia l 'auten­ tico DNA del fenomeno storico-comunitario noto come "cristianesimo" o addirittura come "chiesa". È ciò che si propongono queste pagine con un'indagine storica che giunge appena ad affacciarsi sul IV secolo, pren­ dendo comunque le mosse dall'ampio e dibattuto concetto di religione. Sono pagine che hanno il doppio scopo di informare rispettosamente gli estranei alla fede cristiana su come stanno veramente le cose e di rinverdire ai cristiani stessi almeno la memoria di quali siano stati gli effettivi lumi­ nosi inizi storici della loro speciale identità.

I

Cristianesimo e religione

I due concetti di laicità e sacerdozio, che sono maceria della nostra indagine, appartengono entrambi all'idea più ampia di religione. Ma, poiché oggi que­ sta è oggetto di discussione critica, conviene partire da una sua possibile de­ finizione, cominciando con una valutazione dell'ambiguità a cui è esposta.

Appunti sul concetto di secolarizzazione Oggigiorno si fa un gran parlare di "secolarizzazione" come fenomeno complesso di corrosione del senso religioso tradizionale, interpretato, a seconda dei punti di vista, come processo di decadimento o di emancipa­ zione. In proposito può essere chiarificatrice la semplice distinzione lessi­ cale tra secolarizzazione (che può anche valere come legittima e reciproca distinzione della sfera politica da quella religiosa), secolarismo (che im­ plica la dimensione piuttosto negativa di una pubblica rinuncia al divino) e secolarità (che riconosce oggettivamente al mondo e alla società la sua propria dimensione terrena). Il concetto è comunque oggetto di ripensamento critico, anche per il facto che si tratta di un dato caratteristico della cosiddetta "civiltà occi­ dentale", che non va generalizzato perché continuamente esposto a cam­ biamento e ibridazione'. In effetti, un sociologo come Zygmunt Bauman, notissimo per la sua teoria sulla modernità liquida, si rifà alle frasi ricor­ renti come "Non c'è più religione" e "Dio è morto" per bollarle addirittura come un «pregiudizio dogmatico» che tende a rifiutare l'argomentazione e per sostenere che, «ove mai "Dio morisse", ciò accadrebbe solo insieme con la morte dell'umanicà» 1 • In queste pagine intendiamo il vocabolo nel senso più comune, defi­ nito dalla Enciclopedia Treccani come «sinonimo di laicizzazione, per

12.

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significare assunzione accentuata di caratteri laici o profani, perdita di carattere religioso, confessionale». Infatti se ne parla perlopiù per indi­ care una progressiva autonomia delle persone e delle istituzioni politico­ sociali e culturali dall'influenza della religione in genere e della chiesa in specie. In questo senso, ecco come si esprimeva il noto scrittore porto­ ghese premio Nobel José Saramago (192.2.-2.010) nel suo Ultimo quader­ no: «Ci sarebbe da essere grati se la Chiesa Cattolica Apostolica Romana smettesse di intromettersi in quello che non la riguarda, cioè, la vita civile e la vita privata delle persone»1• Eppure fa impressione notare il contrasto tra queste parole e un inaspettato, forse ignorato, discorso pronunciato nientemeno che dal Papa Pio XII nel lontano 2.3 marzo 1958, in cui egli ebbe a dire: «V i è in Italia chi si agita, perché teme che il cristianesimo colga a Cesare quel che è di Cesare. Come se dare a Cesare quello che gli appartiene, non fosse comando di Gesù, come se la legittima sana laici­ tà dello Stato non fosse uno dei principi della dottrina cattolica» 4 • Più recentemente Papa Francesco giunge persino a denunciare i pericoli del clericalismo, che «genera una scissione nel corpo ecclesiale e fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali d'oggi»1• Certo, non dovrebbe trattarsi soltanto di parole! Bisogna comunque riconoscere che la secolarizzazione, intesa almeno come affievolimento dell'interesse religioso, era anche un fenomeno del!'an­ tico mondo pagano. Già nel I secolo a.C. l'erudito romano Varrone paven­ tava che gli dèi fossero destinati a perire «non per un attacco dall'esterno, ma per l'indifferenza dei cittadini»6, e il poeta Giovenale sul finire del I secolo d.C. sosteneva che ormai ai racconti su Caronte, traghettatore dei defunti sul fiume Stige, «non ci crede più nessuno, nemmeno i bambini»7, mentre il suo contemporaneo scrittore greco Plutarco lamentava che nel santuario di Apollo a Delfi gli oracoli non fossero più frequentati come una volta (Mor. 409E-438D). Inoltre, il caustico scrittore Luciano di Samosata (12.0-192.) giunse a definire «sciocchi» (mdtaioi) quanti fanno sacrifici di cui invece non c'è che da «ridere», poiché «hanno della divinità [to theion] un'idea tanto bassa e vile da credere che essa abbia bisogno degli uomini, che si compiaccia di essere adulata, e si sdegni se è trascurata» (Sacr. 1)8• Come base del nostro discorso poniamo la precisazione secondo cui il termine in questione ha la sua etimologia nel latino saeculum (corrisponden­ te al greco aion) che può implicare due significati diversi e complementari: da una parte può occasionare l'esortazione a una presa di distanza per non svendersi a ciò che è puramente passeggero (cfr. la paolina Rom 12.,2.: «non

CRISTIANESIMO E RELIGIONE

conformatevi a questo secolo/mondo»), ma può anche intendere il sempli­ ce ambito cosmico e storico nel quale trascorrere intelligentemente la vita (cfr. la paolina Tic 2,12: «vivere in questo secolo/mondo in modo accorto/ saggio/misurato [siji-onos] » ), sapendo che l'accortezza o senso della misura è virtù filosofica "laicà' tra quelle raccomandate da Socrate9• Il doppio signi­ ficato può averlo anche il concetto di laicità, contrapponibile a quello di sa­ cerdozio o sacerdotalità. In effetti, come vedremo, dal punto di vista sociore­ ligioso Gesù era un laico come lo erano pure tutti gli apostoli e i responsabili delle prime comunità cristiane. E se nei secoli successivi le cose presero una piega diversa, non solo a livello semantico, ciò è dipeso da altri fattori che, almeno sul piano linguistico, andarono oltre l'impianto originario.

Religione e laicità È comunque indispensabile affrontare il concetto sostanzialmente moder­ no di laicità10, che appartiene soprattutto all'identità culturale della civil­ tà europea. Esso è frutto di vari fattori storici, quali l'Umanesimo rina­ scimentale, il Protestantesimo, l'Illuminismo settecentesco, compresa la Rivoluzione francese, e l'affermarsi dell'indipendentismo nazionale, oltre alle utopie futuristiche anche se biblicamente fondate". Ma è pure univer­ salmente riconosciuto che nel mondo occidentale un'operazione di ideale differenziamento è già stata realizzata alla radice dallo stesso cristianesimo, il quale, secondo i recenti titoli di interessanti studi di un paio di profes­ sori di filosofia in Francia e in Italia, «ha cambiato il mondo» tanto che proprio a esso appartiene «l'invenzione della laicità»". Del resto, analo­ gamente si esprimeva persino il pur agnostico filosofo Benedetto Croce nel suo celebre saggio del 1942, Perché non possiamo non dirci ''cristiani", facendo riferimento a ogni ambito di vita non solo religioso, ma anche sociale, economico, politico: Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiu­ ta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall'alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane [ ... ]. Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, paren­ do rispetto a lei particolari e limitate''.

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Infatti ci sono almeno tre caratteristiche della fede cristiana che contribu­ iscono all'affermazione della laicità: il concetto di creazione che desacra­ lizza il mondo, quello di incarnazione che sostituisce la discriminazione con la solidarietà e quello di futuro escatologico che relativizza la storia escludendone ogni assolucizzazione' 4• In più va precisato che il significato del vocabolo «laicità», detto ali'ingrosso, si declina secondo almeno due significati diversi benché par­ zialmente complementari, a seconda del!'ambito a cui esso si riferisce: po­ litico o religioso. Il discorso prevalente in materia, a quanto pare, riguarda anzitutto la dimensione politica dell'uomo in quanto cittadino di uno Stato; quindi il termine verte sulla qualità istituzionale e aconfessionale della polis o della società in cui si vive. In questo senso cale dimensione ha il sinonimo più ricorrente nell'idea di liberalismo, secondo cui tanto la natura quanto il potere politico vengono desacralizzati e perciò relativizzati, perdendo ogni pretesa di assoluto, pur comprendendo anche l'affermazione del pluralismo religioso' 1• Certo va puntualizzato che il liberalismo politico­ culturale comporta come essenziale il dato della tolleranza, sapendo che questa non equivale ad assenza di fede religiosa' 6• Leggermente diverso è il concetto di secolarizzazione, che peraltro conosce una pluralità di impieghi, convergenti però su quello che è stato chiamato «disincanto del mondo» mediato dallo sviluppo della scienza e della tecnologia, con ricadute sul piano della morale incesa come autonoma affermazione della coscienza a prescindere da ogni condizionamento di eventuali riferimenti religiosi' 7• C'è però un alcro significato assai attestato, secondo cui la laicità va pensata in rapporto non alla politica, ma alla religione, specialmente cri­ stiana. Da questo punto di vista il termine può acquistare una valenza negativa nella misura in cui lo si identifica con il laicismo, inteso preva­ lentemente come tendenza a conferire al pensiero e all'agire sociale una propria autonomia, magari in termini polemici, rispetto alle pretese dei precetti religiosi, cercando dunque di limitare l'intromissione dell 'autori­ tà religiosa nella vita dell'individuo e della società. Il linguaggio comune e l'uso improprio di questo secondo termine l'hanno portato a essere usato addirittura come sinonimo di ateismo, ma erroneamente, poiché anche il religioso, se ben inceso, può essere laico allo stesso tempo' 8• Il vero guaio, in ambito cristiano, è che la fede (da non identificare con la religione, come diremo ancora) può essere ridotta a mera ideologia, nella misura in cui

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la si riduce a una dimensione intellettuale come insieme di informazioni sulla realtà metafisica' 9• In ogni caso, se la religiosità è un impulso naturale, paragonabile all'impulso della fame o al bisogno di autoconservazione, esso va comunque monitorato, e si può giungere al punto di affermare che «chiesa e religione sono due realtà incompatibili e inconciliabili [ ...]. La religione è innata ricerca del proprio interesse egoistico, la chiesa impe­ gno di libertà dalla ricerca del proprio interesse egoistico» delimitato da contorni storici, pur sapendo che «ogni tentativo di "purificazione" corre il pericolo di sradicare anche il grano insieme alla zizzania»'0• Proprio la possibile dimensione egoistica distingue la naturalità della religione, come subordinazione generalmente interessata di fronte al divino, dalla fede cri­ stiana basata e incentrata invece sulla gratuità dell'amore". In termini più specifici si può poi parlare di laicità non in rapporto alla religione in generale, ma come semplice distinzione intracomunitaria rispetto alla funzione tipica dei "sacerdoti" quali componenti di una cate­ goria ecclesiale a sé stante, quindi nel senso di laicato. Proprio su questa semantica insisteremo in seguito, essendo essa diventata una peculiarità "problematica" della tradizione cristiana, specialmente cattolica.

La voce «religione» in ebraico, greco, latino e il suo impiego cristiano in rapporto alla «fede» Intendiamo anzitutto parlare di laicità in rapporto, anzi all'interno stesso del mondo connotato da tradizioni e strutture religiose. Detto fuori dai denti, l'interrogativo è questo: che rapporto c'è tra cristianesimo (anzi, tra chiesa) e laicità? Il discorso suppone evidentemente a monte una chiarifi­ cazione sul concetto stesso di religione, che dovrà essere compreso e spie­ gato nel suo esatto significato di base. L'unico ma scarso dato sicuro è che il vocabolo «religione» è un latinismo e non ha alcun esatto corrispettivo letterale né in ebraico né in greco. Per quanto riguarda la lingua ebraica, il vocabolario italiano-ebraico consultabile sul web traduce «religione» con il vocabolo ddt che signifi­ ca semplicemente «ordine, decreto, legge»". Ciò implica un inevitabile riferimento alla Torah come insegnamento/legge, non soltanto cultuale, la quale sovrintende e a cui si rapporta l'insieme della vita dell'ebreo in quanto dipendente dalla volontà di Dio. Ed è come dire che c'è religione solo come ordinamento istituzionalizzato e globale dell'intera esisten-

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za, sulla base di un condiviso monoteismo e di comuni vincoli di sangue (con in più l'accesso di proseliti); sicché proprio la Legge «diventa la più forte espressione del sentimento religioso, che non si ferma nell'ambito del pensiero, bensì in una pratica nazionale, sociale, razionalmente signi­ ficativa» 11• Più complesso è l'ambito greco, che conosce almeno due termini per indicare il rapporto con il divino. Uno è threskeia, che indica l'aspetto cul­ tuale della religione, con cui si esprime l'idea non di una credenza, ma di un'osservanza rituale. Scopo del culto religioso greco era infatti quello di mantenere la concordia con gli dèi, sicché non celebrare il loro culto pote­ va provocarne l'ira, e da qui la preoccupazione di restare fedeli alle regole della pratica religiosa14• L'altro termine è eusébeia (con il suo composto theo-sébeia), più vicino al concetto di religione in quanto esprime la pietà/ devozione come rispetto e venerazione sia verso gli dèi sia anche verso de­ terminati valori positivi come quelli connessi con la famiglia, con il culto dei morti e in generale con il diritto, così come con i governanti quale l'imperatore; e perciò essa può essere computata come una virtù insieme ad altre11 • La prospettiva religiosa acquistò un rilievo particolare in ambi­ to filosofico, come in Aristotele che parla di una tradizione ricevuta dagli antichi secondo cui gli astri sono i veri dèi e «il divino circonda l'intera natura» 16 ; in età ellenistica si noterà una particolare carica religiosa nel bell'Inno a Zeus di Cleante (ca. 330-2.32 a.C.; cfr. vv. 7-8: «A te questo co­ smo tutto[ ... ] obbedisce ovunque tu lo conduca»); in più si distinguerà tra la religione pubblica della polis e i diffusi culti misterici di derivazione in parte orientale e comunque di impronta esoterica17• Fu però nel mondo latino che prese forma appunto il termine religio, il quale conobbe due spiegazioni diverse. La sua prima e fondamentale de­ finizione la troviamo in Cicerone (106-43 a.C.): «Religio è tutto ciò che riguarda la cura e la venerazione rivolti a un essere superiore, la cui natura definiamo divina» 18 ; altrove egli spiega più specificamente l'etimologia dell'aggettivo religiosus facendolo derivare dal verbo relegere nel senso di «ripassare, ripercorrere, riandare, raccogliere di nuovo» in quanto si ri­ prende e si osserva fedelmente il mos maiorum, cioè la tradizione cultuale delle usanze antiche19• Un'altra spiegazione del termine religio sarà quella proposta nel IV se­ colo dal cristiano Lattanzio ( t 32.0 ), che parlerà invece di una derivazio­ ne dal verbo religare, così da esprimere il legame tra l'uomo e la divinità: «Con questo vincolo di pietà siamo stretti e legati a Dio [vinculo pietatis

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obstricti Deo et religati sumus] : da ciò prese nome religio, e non secondo l'interpretazione di Cicerone da relegendo » (Divinae institutiones IV,2.8). Tuttavia Agostino d' lppona preferirà chiaramente riprendere la spiegazio­ ne di Cicerone: Dio è il principio della nostra felicità [ ... ]. Scegliendolo [hunc eligentes], anzi sce­ gliendolo di nuovo [ve/ potius religentes] (poiché l'avevamo perduto scartandolo dalla scelta [neglegentes]), scegliendolo dunque di nuovo [hunc ergo religentes] , pro­ prio da questo si fa derivare religione [unde et religio dieta] (De civitate Dei 10,3,2.).

In più, si rivela interessante la triplice distinzione operata dall'erudito ro­ mano Marco Terenzio Varrone (116-2.7 a.C.) tra religione o teologia miti­ ca, naturale/fisica e civica: la prima è di genere favolistico ed è propria dei poeti, la terza è quella pubblica della città e appartiene alla massa incolta, la seconda invece è quella che ragiona sulla natura delle cose ed è propria dei filosofi. A questa seconda, forse inaspettatamente, viene data la prefe­ renza da parte di un cristiano come Agostino, a cui spetta anche il merito di averci trasmesso l'opera varroniana30. In ogni caso, però, con l'epicureo Lucrezio (98-55 a.C.), dopo un cer­ to agnosticismo proprio già di Socrate che riduceva la religione a filoso­ fia3 ', si affaccia una prima critica alla nozione di religione intesa come un fattore che sottomette l'uomo per mezzo della paura e da cui il filosofo deve liberarsi: «La vita umana giaceva sulla terra alla vista di tutti turpe­ mente schiacciata dall'opprimente religione [oppressa gravi sub religione], che mostrava il capo dalle regioni celesti, con orribile faccia incombendo dall'alto sui mortali [terribili super aspectu mortalibus instans] » Jl. E a pro­ posito di Ifigenia sacrificata dal padre Agamennone per propiziarsi gli dèi in vista del viaggio a Troia ( tematizzato dalla tragedia di Euripide, Ifige­ nia in Aulide), Lucrezio formula un duro giudizio divenuto tradizionale come condanna dell 'oscurantismo religioso: Tantum religio potuit suadere malorum, «A misfatti tanto gravi poté indurre la religione » 33• A questa interpretazione riduttiva, e volendo salvaguardare la giustizia divina, il cri­ stiano Laccanzio preciserà polemicamente: Con opinioni del genere Epicuro scalza la religione dalla sua radice e, tolta di mezzo la religione, ne consegue lo sbandamento e il dissesto della vita umana [ ... ] . Non si può eliminare la religione senza rinunciare a quella razionalità che ci di­ stingue dalle bestie, senza perdere quella rettitudine che dà sicurezza alla convi­ venza umana (De ira Dei 8,6-7 ).

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In conclusione, è comunque difficile dare una definizione esatta di «reli­ gione»: il suo significato infatti resta discusso14• Si può comunque soste­ nere che «etimologicamente religio non deriva da religare ("legarsi faccia a faccia con gli dèi"): questa interpretazione, di fonte cristiana, fu attribuita agli antichi, ma sulla base del nuovo culto monoteistico [ ... ]. Più attendi­ bile appare la derivazione da un arcaico religere, "scegliere di nuovo"»11• Dal punto di vista semantico, la si può semplicemente definire in breve come «insieme di credenze e di riti che collegano uno o più individui con uno o più esseri extraumani»1 6 ; naturalmente essa comporta una partico­ lare dimensione antropologica e anche una tipica categoria del sacro attri­ buito a persone, tempi, luoghi e azioni (oltre a tipologie diverse come il politeismo, il monoteismo e il dualismo bene-male). Se poi vogliamo applicare il termine e il concetto di religione al cri­ stianesimo, allora occorrono alcune precisazioni e chiarificazioni. Già va osservato che la qualifica di «cristianesimo» non si trova mai negli scrit­ ti del Nuovo Testamento, mentre invece vi si trova documentata la voce «giudaismo» (in Gal 1,13.14). Questo secondo termine, del resto, era già tradizionale almeno a partire dall'epoca maccabaica del II secolo a.C. (cfr. 2.Mac 2.,2.1; 8,1; 14,38)37, mentre l'altro sarà coniato solo all'inizio del II se­ colo d.C. da Ignazio di Antiochia con riferimento molto marcato alla per­ sona di Gesù Cristo, « senza il quale non potremmo vivere»: Perciò, divenuti suoi discepoli, abbracciamo la vita secondo il cristianesimo [katà christianismon] . Chi è chiamato con un nome diverso da questo, non è di Dio. Gettate via il cattivo fermento, vecchio e acido e trasformatevi in un lievito nuovo che è Gesù Cristo [ ... ]. È stoico parlare di Gesù Cristo e continuare nel giudaismo. Non il cristianesimo ha creduto nel giudaismo, ma il giudaismo nel cristianesimo, in cui si è riunita ogni lingua che crede in Dio (Ad Magn. 10 ).

Questa osservazione, non esente da polemica, conduce pure a un orizzon­ te religioso quanto mai ampio, come poi asserisce Giustino avvalendosi del concetto di Logos divino: Coloro che hanno vissuto secondo il Logos sono cristiani [hoi metà logou biosantes christianoi eisi] , anche se sono stati considerati atei, come, tra i Greci, Socrate ed Eradico, e altri simili, e tra i barbari, Abramo, Anania, Azaria, Misael, Elia, e molti altri ancora, dei quali ora non elenchiamo le opere e i nomi, sapendo che sarebbe troppo lungo. Di conseguenza coloro che hanno vissuto prima di Cristo, ma non secondo il Logos, sono stati malvagi, nemici di Cristo e assassini di quelli che vi-

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vevano secondo il Logos; al contrario coloro che hanno vissuto e vivono secondo il Logos sono cristiani, non soggetti a paure e turbamenti (1 Apologia 46,3-4) 18•

In questo senso leggiamo anche in Tertulliano che, ammettendo la verità cristiana come « una sorta di filosofia che inculca le stesse virtù come 1' in­ nocenza, la giustizia, la pazienza, la sobrietà, il pudore » , i cristiani dovreb­ bero essere equiparati ai filosofi e godere della stessa «libertà e immunità della dottrina » (Apologetico 46,3)i9_ Ma rifacendoci ali' ambito della lingua greca, e volendo richiamarsi a un gruppo sociale di osservanti, non si può certo parlare del cristianesimo come "religione". Al più, da questo punto di vista, lo si potrebbe qualificare come hairesis (da cui «eresia»), con cui il riferimento a una certa dottrina va di pari passo con 1' idea di un gruppo concreto che la professa, come del resto leggiamo in At 24,5 dove Paolo viene accusato di essere «una peste che fomenta disordini fra tutti i Giudei ed è un capo della setta/fazione dei Nazorei [tes ton Nazoraion heiréseos] » 40• Il vocabolo greco di per sé si­ gnifica «scelta, preferenza, fazione, scuola filosofica, partito» e altrove nel Nuovo Testamento ha il valore negativo di scomposizione della comunità cristiana (così in 1 Cor I I,19; Gal 5,20; 2Pt 2,1). Ma con questa designazio­ ne pure lo storico ebreo Flavio Giuseppe identifica i tre gruppi dei Fari­ sei, dei Sadducei e degli Esseni all'interno del giudaismo come «tre sette [treis hairéseis] » (Ant. 13,171; cfr. anche Guerra 2,200), anche se altrove le chiama «filosofie » ( Guerra 18,II :.filosoflai treis). Sicché dal punto di vista giudaico il cristianesimo poté essere computato come una suddivisione del giudaismo stesso, visto che comunque nasce al suo interno4 1• Ma la designazione del cristianesimo come religio, a parte qualche piccola anticipazione4 ', non poteva ovviamente avvenire se non in scrit­ ti di composizione latina. Così infatti per primo si esprime Tertulliano nell'Apologetico (sul finire del II secolo), che è uno scritto insieme di difesa dei cristiani e di accusa ai pagani di Roma sulla discutibile divinità dei loro idoli e sulla inconsistenza della loro religione: La confessione, con cui gli idoli ammettono di non essere dèi e attestano che non vi è altro Dio all'infuori dell'unico a cui noi serviamo, è bastevole e adatta a ero­ gare l'accusa di lesa religione soprattutto romana [crimen laesae maxime roma­ nae religionis]. Se infatti non sono con sicurezza dèi, la loro religione non è con sicurezza religione [Si enim non sunt dei pro certo, nec religio pro certo est] ; e se non è religione, poiché essi non sono dèi, è certo che neanche noi siamo rei di

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lesa religione [si religio non est, quia nec dei pro certo, nec nos pro certo rei sumus laesae religionis]. Al contrario, codesto rimprovero rimbalzerà su voi, che adorate la menzogna e trascurate, anzi combattete la vera religione del vero Dio e così per­ petrate un crimine di vera irreligiosità [ veram religionem veri Dei, non modo negli­ gendo quin insuper expugnando in verum committitis crimen verae irreligiositatis] . [ ... ]. Ma state attenti che non concorra a stabilire la rubrica di reato d'irreligione anche questa vostra soppressione della libertà religiosa e codesto vostro divieto di scelta della divinità, impedendomi di adorare chi voglio e costringendomi ad adorare chi non voglio [ Videte enim ne et hoc ad inreligiositatis elogium concurrat, adimere libertatem religionis et interdicere optionem divinitatis, ut non liceat mihi colere quem velim, sed cogar colere quem nolim] (2.4,2.-3).

Dopo che il fenomeno cristiano era stato percepito e dichiarato come super­ stitio da autori quali Tacito, Plinio il Giovane e Svetonio43, il cristianesimo di lingua latina fa proprio, in prima battuta, un atteggiamento che diventa difensivo nella misura in cui cerca anche di confutare le accuse di cui era oggetto. Il vocabolo latino superstitio sta a significare una devianza dalla re­ ligione ufficiale e Plutarco la colloca appunto in una posizione intermedia tra religione e ateismo44 • Da parte sua, Tertulliano capovolge i termini della questione: nella riportata citazione dell'Apologetico, che è la sua opera più fa­ mosa, non solo dimostra che il cristianesimo non può essere descritto come superstizione, ma addirittura rivendica per primo la «libertà religiosa» e, grazie a un ribaltamento semantico e concettuale, dichiara che il movimen­ to cristiano può legittimamente essere definito religio, anzi vera religio, con­ trapposta quindi alla religione romana (paradossalmente considerata essa come superstitio ) 41• Comunque il termine «religione» qui sta a indicare unitariamente un fatto di conoscenza intellettiva e di venerazione cultuale. La specifica dizione religio christiana si troverà poi per la prima vol­ ta agli inizi del IV secolo nel letterato cristiano Arnobio (ca. 2.55-32.7 ), di provenienza pagana e di origine africana, in una domanda rivolta ai suoi interlocutori pagani: Domandiamo loro [ ... ] : da quando si è cominciato a parlare su questa terra della religione cristiana [christianae religionis] come fenomeno insolito [inusitatum ], che cosa di inaudito, che cosa di contrario alle leggi fondamentali (della natu­ ra) avvertì o subì quello che viene chiamato e designato come ordine naturale dell'universo? [ ... ]. Si accusa dunque di aver estinto la religione e di aver dato inizio all'empietà proprio chi introdusse nel mondo la religione vera [veram re­ ligionem] ? [ ... ] . Esiste forse una pratica religiosa [religio] più vera, più degna, più efficace, più santa? [ ... ]. Voi credete a Platone, a Cronio, a Numenio, o a chi vi

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piace - noi crediamo e abbiamo serena fiducia in Cristo [nos credimus et adquie­ scimus Christo] [ ... ] . Il confronto tra le persone non va fatto in rapporto alle loro capacità oratorie, ma in base alla forza potente delle loro opere e delle loro azioni (Difesa della vera religione contro i pagani 1,2.,3; 2.,2.,4; 2.,11,2..8).

Dobbiamo comunque ribadire che il nostro discorso verte non sulla socie­ tà attuale, ma sull'antichità cristiana e in specie sui suoi primordi, non per fare dell'archeologia letteraria, ma perché là si trovano i fondamenti dell' i­ dentità cristiana ed ecclesiale che dovrebbero costituirne il DNA perenne­ mente valido. Certo dobbiamo ammettere che «il netto rifiuto del poli­ teismo e delle sue manifestazioni non impedì che si sviluppasse a differenti livelli un' interpretazione della fede in termini di religione » 46• Ma se ciò comportò un cambiamento nel corso del tempo, c'è da chiedersi se non sia il caso di riandare alle prime esperienze per riscoprire e forse recuperare la freschezza e la bellezza di quella novità. Il caso è formalmente simile a quello della questione posta a Gesù da alcuni Farisei, che patrocinavano il divorzio sulla base della legge mosaica; ma Gesù, rimandandoli alle parole della Genesi sugli sposi che diventano «una sola carne » (2.,2.4), rispose loro risolutamente: «All'inizio però non fu così » (Mt 19,8) 47• Forse che una risposta del genere non si può dare anche a proposito di una certa clericalizzazione della chiesa ? Infatti, come vedremo, all'inizio essa non faceva parte né dei fatti né delle previsioni. Anzi, il cristianesimo propriamente non è neanche nato come una re­ ligione. Lo ha detto chiaramente nientemeno che il cardinale Ratzinger, futuro Papa Benedetto XVI : Il cristianesimo primitivo ha operato con coraggio la sua scelta e compiuto la sua purificazione, optando per il Dio dei filosofi, contro gli dèi delle religioni. Quando la gente incominciò a chiedere a quale dio corrispondesse il Dio cristiano - se a Zeus, o a Ermes, o a Dioniso, o a qualche altro ancora - la risposta fu la seguente: a nessuno di essi. Il cristianesimo non adora nessuno degli dèi che voi pregate, ma quell' Unico e solo che voi non pregate: quell'Altissimo di cui parlano anche i vo­ stri filosofi. Così facendo, la chiesa primitiva ha messo decisamente da parte I' inte­ ro cosmo delle antiche religioni, considerandole complessivamente un imbroglio e un abbaglio [ ... ]. La scelta così compiuta comportò l'opzione per il logos contro ogni sorta di mythos, la definitiva demitizzazione del mondo e della religione48•

In effetti lo stesso Gesù, facendo parte del giudaismo pur in forma critica, non intese fondare una nuova religione. E tale il cristianesimo in realtà non è, poiché formalmente esso consiste nella fede in Dio che si rivela

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agli uomini attraverso l'incarnazione di Suo Figlio e la sua autodonazione amorevole per tutti gli uomini. Le religioni, invece, sono tentativi degli uomini di rappresentarsi Dio o il Divino, di entrare forzosamente in con­ tatto con Lui, e magari di tenerlo a distanza di sicurezza per poi placarselo e ingraziarselo con l'instaurazione di culti vari. Questa infatti è la diffe­ renza tra la semplice religione naturale e la fede cristiana che poggia e si incentra sulla storia di un Uomo. L'una rappresenta un tentativo di ascesa verso Dio, che si ritiene di incontrare mediante un'autonoma realizzazio­ ne complessa di gesti, riti, momenti, formule, costruiti tutti dal basso. L'al­ tra invece è la semplice e personale adesione a un'iniziativa proveniente dall'alto, da Dio stesso, che bypassando le costruzioni cerimoniali umane si rivela inopinatamente nella modesta vicenda del nazareno Gesù, al quale va il medesimo atto di adesione fiduciale. Che poi il cristianesimo si sia dotato di componenti cultuali di genere religioso è un fatto che appartiene piuttosto alla storia successiva (soprattutto a partire dal IV secolo) più che alle sue origini. Va comunque riconosciuto che la religione, come pure la ragione, può fungere da contenitore o anche da supporto della fede, pur­ ché non la oscuri o la soffochi con i propri autonomi devozionalismi49• Infatti una religiosità senza fede, ossia una vita etica e una celebrazione rituale autoreferenziali, sarebbe come un corpo senza anima, un forma­ lismo senza sostanza. Ma, a ben vedere, anche una fede senza religione rischierebbe di diventare disincarnata o rinchiusa in una sfera meramente privata e intimistica e quindi sterile e insignificante. In breve, si può dire che la religione può essere materia di insegnamento, mentre la fede è essen­ zialmente atto e oggetto di testimonianza. E poiché nelle religioni del nostro mondo mediterraneo è stata o conti­ nua a essere importante la figura del sacerdote, in rapporto al quale si delinea la posizione del laico, dobbiamo cominciare dal tema del sacerdozio presen­ te in campo extracristiano, e precisamente nella società greco-romana e in quella giudaica1 0, alle quali il cristianesimo non si omologò ma fin dai suoi inizi si configurò nei loro confronti con una propria originale identità.

Note 1. Per un'analisi dell'odierno dibattito in proposito cfr. soprattutto P. Costa, La città post-secolare. Il nuovo dibattito sulla secolarizzazione, Queriniana, Brescia 2.019, secondo cui comunque «i dubbi circa la solidità e la residua fecondità del concet-

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to sono giustificati » (ivi, p. 2.11). Interessante è il quadro tracciato da chi parla di quattro successive forme di secolarizzazione: l'antico spostamento dal Mito al Logos (cioè dalla religione mitologica alla razionalità della filosofia greca), il passaggio dal­ la dimensione cosmica del divino alla persona storica di Gesù come Messia (con l'accentuazione della fede oltre la ragione), la moderna affermazione delle scienze (tale da rendere la società autonoma e indipendente dal tradizionale sistema reli­ gioso) e infine l'attuale pluralistico imporsi di vari stili di vita con diverse spiritua­ lità scelte dai singoli e contrastanti con un monolite comunitario (così L. Berzano, Quarta secolarizzazione. Autonomia degli stili, Mimesis, Sesto San Giovanni, MI, 2.017 ). In effetti, oltre a G. Harvey, Credenti della nuova era. Ipagani contemporanei, Feltrinelli, Milano 2.000 (che celebra il possibilismo del paganesimo, analizzando 13 tipologie religiose diverse, comunque invitate al dialogo), il libro di G. Grazia­ ni, Catalogo delle religioni nuovissime, Quodlibet, Macerata 2.018, pur prescindendo da New Age e Scientology, enumera ben 42. cosiddette "religioni nuove", tra serie (come il cosmismo o la vera luce interiore) e meno serie (come il googleismo o la religione raeliana/ufologica), le quali portano a riflettere sul persistere del fenome­ no religioso in un mondo dominato da scienza e tecnica; del resto, l 'autore pone in esergo del suo libro queste parole di Gilbert Keith Chesterton : « Quando la gente smette di credere in Dio, non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto» . 2. . Z . Bauman, Non c 'epiù religione, i n A . Agnolini et al., Ilpregiudizio universale. Un catalogo d'autore di pregiudizi e luoghi comuni, Laterza, Roma-Bari 2.016, pp. 2.98-301; cfr. pure S. Givone, Quant 'e vero Dio. Perché non possiamofare a meno della religione, Solferino, Milano 2.01 8 (il laico è uno che prende la religione sul serio). Di una « se­ colarizzazione controversa» parla anche P. Grassi, Religione e Polis. Un archivio del Novecento, QuattroVenti, Urbino (Pu) 2.016, pp. 161-79; cfr. pure A. Aguti (a cura di), Religione, secolarizzazione, politica. Studi in onore di Piergiorgio Grassi, Morcelliana, Brescia 2.009. Più in generale, cfr. H. Liibbe, La secolarizzazione. Storia e analisi di un concetto, il Mulino, Bologna 1970 (a partire dal suo primo uso nel 1 648 con la pace di Westfalia); Id., La religione dopo l'Illuminismo, Morcelliana, Brescia 2.010 (la religio­ ne come superamento o padroneggiamento della contingenza); J. L. Schellenberg, Lo scetticismo come inizio della religione, ETS, Pisa 2.010 (il dubbio è apertura a uno stadio più maturo); P. Gisel, Che cosa e una religione?, Queriniana, Brescia 2.01 1 (tenere aper­ to il dibattito sull'uomo così da "sim-boleggiare" cioè unificare in una sola relazione l'individuo, la società, il trascendente); R. Kearney, Ana-teismo. Tornare a Dio dopo Dio, Fazi, Roma 2.012. (una terza via fra teismo e ateismo come incontro con un to­ tale Estraneo); R. Cipriani, Religione e secolarizzazione, in "Religioni e Società", 32., 2.016, pp. 102.-33 (la secolarizzazione ha comportato una purificazione del concetto di religione). Cfr. anche A. Aguti, Sull'ambigua eredità cristiana della secolarizzazione, in "Segni e Comprensione", XXXII, 95, 2.018, pp. 1 1-2.6, che evidenzia il passaggio da un'interpretazione negativa a una di tipo positivo; V. Rosito, Postsecolarismo. Passaggi eprovocazioni del religioso nel mondo contemporaneo, EDB, Bologna 2.017, secondo cui,

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più che di una « rivincita di Dio», si deve prendere atto di un'atmosfera di pluralismo che dobbiamo ancora imparare ad abitare. 3. J. Saramago, L'ultimo quaderno, Feltrinelli, Milano 2.010, p. 82.. Cfr. pure N. Colaian­ ni, La lotta per la laicità. Stato e Chiesa netl'età dei diritti, Cacucci, Bari 2.017; C. Sciuto, Non c fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo, Feltrinelli, Milano 2.018 (che parla di prestare attenzione ai diritti degli individui più che a quelli dei gruppi). 4. In Discorsi e radiomessaggi di sua santità Pio XII, voi. xx: Dal 2 marzo al 9 ottobre I95S nel ventesimo anno di pontificato, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1959, pp. 2.9-34. 5. Lettera al popolo di Dio, 2.0 agosto 2.018. Lo stesso Papa Francesco, in una lettera del 19 marzo 2.016 al cardinale Mare Ouellet, scriveva con sorprendente franchezza: «Tutti facciamo il nostro ingresso nella Chiesa come laici [ ... ]. Nessuno è stato bat­ tezzato prete né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare. La Chiesa non è una élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei ve­ scovi [ ... ]. Il clericalismo va spegnendo poco a poco il fuoco profetico [ ... ]. Lo Spirito Santo non è solo "proprietà" della gerarchia ecclesiale » . 6 . Citato d a Agostino, De civitate Dei 6,2.: Ne pereant non incursu hostili, sed civium neglegentia. 7. Giovenale, Satire 2.,152.: Necpueri credunt. 8. In più, Luciano immaginava che un filosofo cinico chiedesse a Giove perché a volte viene fulminato un uomo dabbene mentre vengono lasciati in vita molti malavitosi, e di fronte al silenzio di Giove il filosofo insisteva: «Perché non rispondi ? [ti siopai5] » ( Giove confutato 16). 9. « Quando l'opinione con la ragione fa da guida al sommo bene e prevale [sui pia­ ceri], allora si chiama sofrosjni [moderazione/senno/accortezza] » (in Platone, Fe­ dro 2.37e). Già prima Cleobulo sentenziava che «la misura è la cosa migliore [métron driston] » (in Diogene Laerzio 1,93); per Aristotele essa è il giusto mezzo tra eccesso e difetto (cfr. Etica Eud. 12.2.ob; Etica Nicom. 1106a-b), ed Euripide la definisce « il dono più bello degli dèi» (Medea 635). 10. Cfr. in merito gli studi di P. Siniscalco. Laici elaicità. Un profilo storico, AVE, Roma 1986; Id., Postfazione. Alte radici dell'essere e de/t'agire del laico, in E. Dal Covalo (a cura di), Laici e laicità nei primi secoli della Chiesa, Paoline, Milano 1995, pp. 401-8; Id., Laikos-laicus: semantica dei termini, in G. Dalla Torre (a cura di), Lessico delta laicità, Studium, Roma 2.007, pp. 13-2.2.. Una certa ambiguità del concetto è eviden­ ziata da L. Diotallevi, Una alternativa alla laicità, Rubbettino, Saveria Mannelli ( cz) 2.010, che preferisce parlare semplicemente di libertà di religione. 11. Su quest'ultimo argomento, cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L'uomo nell'età delta tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, specie pp. 507-16, secondo cui la progettualità sul futuro assume i caratteri di un'attesa dell' éschaton. Così già E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo. Per la religione dell'Esodo e del Regno, Feltrinelli, Milano 1972.', p. 161: «Nel mondo vi è sempre un nuovo esodo ed una speranza fondata sulle possibilità di un nuovo essere » . Ma è anche vero che «il pensiero moderno ha secolarizzato il

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modello escatologico con l' idea del progresso» (A. Sabetta, Teologia della modernita. Percorsi efigure, San Paolo, Ciniselllo Balsamo, MI, 2.002., p. 37 ). 12.. Così rispettivamente M. Sachot, Quando il cristianesimo ha cambiato il mondo, vol. 1: Il sovvertimento cristiano del mondo antico, Paideia, Brescia 2.016, e D. Anti­ seri, L'invenzione cristiana della laicita, Rubbettino, Soveria Mannelli (cz) 2.017, di cui cfr. in particolare p. 44: «Con il messaggio cristiano aveva fatto irruzione nella storia degli uomini l'idea che il potere politico non è il padrone della coscienza degli individui, ma che è la coscienza di ogni uomo e di ogni donna a giudicare il pote­ re politico » ; inoltre cita un' intervista del 2.003 al cardinale Ratzinger, secondo cui fino a Cristo dominò l' identificazione di religione e Stato, ripresa poi dall' Islam con la convinzione che solo con il potere politico si può moralizzare l'umanità, mentre Cristo prospetta la posizione contraria (cfr. ivi, pp. 45-6). Di « vocazione laica » del cristianesimo parla pure G. Vattimo, Dopo la cristianita. Per un cristianesimo non re­ ligioso, Garzanti, Milano 2.002., secondo cui addirittura « l'Occidente è cristianesimo secolarizzato e nient'altro» (ivi, pp. 79 e 105). Cfr. anche G. Reale, Radici culturali e spirituali dell'Europa. Per una rinascita dell'"uomo europeo", Raffaello Cortina Edi­ tore, Milano 2.003, pp. 99-108 (Il Cristianesimo come base della spiritualita europea). 13. B. Croce, Perché non possiamo non dirci "cristiani", Centro Pannunzio, Torino 2.008, p. 15. Sachot, Quando il cristianesimo ha cambiato il mondo, cit., vol. I, pp. 2.3-33, parla della cristianità come « archetipo storico della civiltà occidentale » . Cfr. anche U. Galimberti, Omie del sacro. Il cristianesimo e la desacralizzazione del sacro, Feltri­ nelli, Milano 2.000, specie pp. 95-136 (cfr. p. 2.3: «La morte di Dio non ha lasciato solo orfani, ma anche eredi » !). 14. Così G. Barbaglio, La laicita del credente. Interpretazione biblica, Cittadella, Assisi 1987. Peraltro, «la secolarizzazione ha profondamente modificato lo statuto sociale stesso del credere, trasformandolo da un atteggiamento di ovvietà [ ... ] ad una scelta libera e problematica personale » (così G. Ferretti in C. Canullo, a cura di, Dif ferenze e relazioni, vol. 111 : Le religioni nello spazio pubblico, Aracne, Ariccia, RM, 2.015, p. 19). In specie sull'importanza dell'incarnazione per un'antropologia relazionale, cfr. P. Sguazzardo, Incarnazione, Cittadella, Assisi 2.013. 15. Sulla necessità del confronto in una società multiculturale, oltre a Berzano, Quarta secolarizzazione, cit., cfr. anche G. Lorizio, Il sapere dellafede nel villaggio globale, in A. Autiero (a cura di), Teologia nella citta, teologia per la citta. La dimensione secolare delle scienze teologiche, Atti del Convegno (Trento, 2.6-2.8 maggio 2.004), EDB, Bologna 2.005, pp. 2.7-54, secondo cui un certo ritorno del sacro viene a contestare il tema della secolarizzazione e a richiedere una maggiore attenzione alla diacronia della fede. Inol­ tre, cfr. F. Cambi (a cura di), Laicita, religioni efamiazione: una sfida epocale, Carocci, Roma 2.007 (la laicità come capacità di affrontare il pluralismo); C. Dotolo, Teologia e postcristianesimo. Un percorso interdisciplinare, Queriniana, Brescia 2.017 (che tra l'al­ tro parla della universalità dialogica del cristianesimo); R. Dworkin, Religione senza Dio, il Mulino, Bologna 2.014 (che però secondo alcuni confonderebbe il concetto di religione con quello più soggettivo di religiosità). Lo stesso Albert Einstein si profes-

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sava «un non credente profondamente religioso» (A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, Mondadori, Milano 1997, p. 119 ). 1 6. Cfr. in merito il classico scritto di John Locke (1632.-1704), A Letter Concerning Toleration, pubblicato a Londra nel 1689 (trad. it. Lettera sulla tolleranza, a cura di C. A. Viano, Laterza, Roma-Bari 2.01 1), che sostiene la tolleranza per le diverse confessioni cristiane eccetto quella cattolica (oltre ai mussulmani e agli atei). Anche S. Levi Della Torre, Laicità, grazie a Dio, Einaudi, Torino 2.012., sostiene che la critica della religione non significa di per sé critica della fede. 17. L'espressione «disincanto del mondo» (Entzauberung der Mlèlt) è di M. Weber, La scienza come professione, testo tedesco a fronte, Rusconi, Milano 1997, p. 88 (ed. or. Miinchen 1919). Essa ha pure dato il titolo al libro del filosofo francese Marce! Gau­ chet (n. 194), Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Einaudi, Tori­ no 1992., che definisce il cristianesimo come «la religione dell'uscita dalla religione» e «per questa ragione rimane la possibile religione di una società postreligiosa » (ivi, p. vm). D'altronde, «cacciare il religioso può forse finire per farne preda dei bracco­ nieri del fondamentalismo» (O. Roy, Siamo oltre il cristianesimo secolarizzato, in "Vita e Pensiero� 102., 2.019, pp. 69-77 ). Per un approfondimento, cfr. Grassi, Religione e Polis, cit., p. 2.03: «Lo stato laico non nega l'esistenza di una verità, ma afferma di non essere competente ad attestarla » . Inoltre: Id., Figure della religione nella modernità, Quattro­ Venti, Urbino (Pu) 2.001, secondo cui il cristianesimo può rappresentare un contributo efficace per l'umanesimo dell'uomo adulto; Id., Trascendenza.fra i tempi. Dimensioni dell'esperienza religiosa, Morcelliana, Brescia 2.011; C. Dotolo, Una religione "disincan­ tata''. Il cristianesimo oltre la modernità, Messaggero, Padova 2.012., che evidenzia la pos­ sibilità di un'osmosi positiva tra fede e modernità. 18. Cfr. in merito L. Alici, Laicità e bene comune nell'epoca delle idolatrie, in M. Si­ gnore, L. Cucurachi (a cura di), Libertà e laicità, CLEUP, Padova 2.011, pp. 35-63, che per esempio lamenta l'incapacità di una laicità agnostica di articolare etica pubblica (come la severità circa l 'ecologismo) ed etica privata (come la soggettività nella bio­ etica). Inoltre cfr. R. Schroder, Liquidazione della religione? Ilfanatismo scientifico e le sue conseguenze, Queriniana, Brescia 2.011, che polemizza contro R. Dawkins, L'illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori, Milano 2.007 (contrad­ detto anche da J.-L. Marion, Credere per vedere. Riflessioni sulla razionalità della Rivelazione e l'irrazionalità di alcuni credenti, Lindau, Torino 2.012.). Pure il Dalai Lama, Lafelicità al di là della religione, Sperling & Kupfer, Segrate (MI) 2.012., inten­ de riformulare il laicismo proponendo un'etica naturale più radicata della religione in quanto « predisposizione innata ali' amore, alla gentilezza e ali' affetto» ( ivi, p. 2.0; ma non vedo in che cosa essa si differenzi dalla « religione nei limiti della ragione» di Immanuel Kant). 19. Così Ch. Yannaras, Contro la religione, Qiqajon, Magnano (BI) 2.012., che ad­ dirittura parla non solo di « ideologizzazione» della fede ma anche di una certa « idolizzazione » della tradizione come « garanzia di corazzamento dell' individuo» con formulazioni definitive che bypassano la viva attestazione esperienziale (cfr. ivi,

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pp. 79-89). Tuttavia va tenuta in conto la messa in guardia di Lorizio, Il sapere della fede nel villaggio globale, cit., p. 52., secondo cui il concetto di tradizione (dal latino tradere, «consegnare » ) « se correttamente interpretato alla luce della "consegna" cri­ stologica fa riferimento alla kenosi, al nascondimento e alla passione piuttosto che a una marcia trionfale attraverso la storia» e « aiuta a escludere ogni eventuale o pre­ sunto senso "tribale" della comunità credente » . Semmai, contro la riduzione di Dio a idolo metafisico, cfr. J.-L. Marion, Dio senza essere, Jaca Book, Milano 2.008. 2.0. Yannaras, Contro la religione, cit., pp. 2.81-2.. Sulla storia della ricerca, cfr. G. Filo­ ramo, Religione e religioni nella ricerca storica, in G. Lorizio (a cura di), Religione e reli­ gioni. Metodologia eprospettive ermeneutiche, Messaggero, Padova 1998, pp. 39-56. Ac­ cenniamo appena a Friedrich Schleiermacher ( 1768-1834), che considera la religione come puro sentimento dell'infinito (cfr. Sulla religione. Discorsi a quegli intellettuali che la disprezzano, a cura di S. Spera, Queriniana, Brescia 1989 ), e a Ludwig Feuerbach (1804-1872.), che la ritiene una creazione dell'uomo in quanto questi si fa altro da sé (cfr. Essenza della religione, a cura di C. Ascheri e C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 2.00 6). 2.1. Cfr. in merito Benedetto XVI (J. Ratzinger), Liberare la libertà. Fede e politica nel III millennio, prefazione di Sua Santità Papa Francesco, Cantagalli, Siena 2.018. Giustamente, secondo Jacques Derrida, il rapporto della religione con la fede « non è ovvio» (J. Derrida, G. Vattimo, a cura di, La religione. Annuariofilosofico europeo, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 36). Inoltre: R. Penna, Amore sconfinato. Il Nuovo Testa­ mento sullo sfondo ebraico e cristiano, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2.019. 2.2.. I dizionari a stampa di ebraico biblico (cfr. W. Gesenius, F. Buhl, W. Baumgart­ ner, Ph. Reymond) rimandano soltanto ai seguenti testi di Ester (di cui diamo il corrispettivo greco della Settanta): 1,8 (nomos, legge); 2.,8 (prostagma, comando); 3,8 (nomos).14 (prostagma, decreto).15 (prdgma, ordine); 4,3 (.grdmmata, rescritti).8 (antigrafan, copia deil'editto).16 (nomos); 8,13-14 (antigrafan,prostagma).17 (prostag­ ma); 9,1 (.grdmmata).14 (epitrépo, concedere); inoltre Dt 33,2. (dggeloi). 2.3. E. Fromm, La legge degli ebrei. Sociologia della diaspora ebraica, Rusconi, Mila­ no 1993, p. 17. Ricordiamo che la Legge ebraica comprende 613 precetti (di cui 365 proibizioni enumerate secondo i giorni dell'anno e 2.48 obblighi calcolati secondo le parti del corpo umano), a cui fece singolarmente un commento Mosè Maimonide (1135-12.04), !!libro dei Precetti, a cura di E. Artom, Carucci, Roma 1980. Suil' identità etnica dei proseliti, cfr. J. M. G. Barclay, Diaspora. Igiudei nella diaspora mediterranea da Alessandro a Traiano (323 a.C.-u7 d.C.), Paideia, Brescia 2.004, pp. 378-88. 2.4. Cfr. É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, voi. II: Potere, di­ ritto, religione, Einaudi, Torino 1976, pp. 486-7. Nel Nuovo Testamento il vocabolo si trova solo quattro volte: in At 2.6,5 Paolo ammette di avere vissuto come fariseo « se­ condo la setta più rigida della nostra thriskela » - le varie versioni odierne rendono appunto con « religione », mentre la versione ebraica curata da Franz Delitzsch ( 18131890) ripubblicata a Londra nel 1954 rende con 'abodd, lett. « servizio» in senso cul­ tuale come in Gs 2.2.,2.7; così anche il commento di R. I. Pervo, Minneapolis (MN) 2.009, traduce con « our way of worship» -; inoltre il vocabolo si trova in Col 2.,18

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( «venerazione degli angeli » ) e Gc 1,2.6.2.7 ( «culto senza macchia è visitare gli orfani e le vedove »). 2.5. Per esempio, Filone Alessandrino la computa insieme a «intelligenza, coraggio, giustizia » ( Cher. 96). Nel Nuovo Testamento il vocabolo è ben attestato ma soltanto in scritti della seconda generazione: At 3,12.; 1Tim 2.,2.; 3,16 (dove una confessione cri­ stologica è introdotta con l'espressione «grande è il mistero della nostra eusébeia» ); 4,7.8; 6,3-5.6.11; 2.Tim 3,5; Tit 1,1; 2.Pt 1,3.6.7; 3,11. 2.6. Metafisica Lambda 1074b3: periéchei tò theion tén holénfjsin. 2.7. Ma secondo Cicerone «nessuno deve avere dèi separati, né nuovi né stranieri, a meno che siano ufficialmente ammessi» (De legibus 11,19 ). In merito, oltre alla sintesi offerta da G. Reale, Storia della .filosofia antica, voi. v: Lessico, indici e bibliografia, Vita e Pensiero, Milano 1980, pp. 2.33-6, cfr. in generale L. B. Zaidman, P. S. Pante!, La religionegreca, Laterza, Roma-Bari 199 2.; e in specie R. Turcan, Les cultes orientaux dans le monde romain, Les Belles Lettres, Paris 1992.'. Sulla coesistenza della religio­ ne olimpica pubblica e dei culti misterici privati, cfr. R. Penna, Dimensioni religioso­ culturali dell'ambiente ellenistico, in Id. (a cura di), Le origini del cristianesimo. Una guida, Carocci, Roma 2.018, pp. 56-68. 2.8. De inventione 11,161: Religio est quae superioris naturae, quam divinam vocant, curam caerimoniamque effert. Tra questi esseri superiori in età imperiale fu compu­ tato l'imperatore stesso, a cui fu attribuito un culto proprio (cfr. I. Gradel, Emperor Worship and Roman Religion, Clarendon Press, Oxford 2.002.). 2.9. De natura deorum 11,2.8,72. (la derivazione lessicale viene spiegata con i lemmi pa­ ralleli elegantes da eligere [scegliere], diligentes da diligere [prendersi cura], intellegentes da intellegere [comprendere]). Cfr. pure Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni in­ doeuropee, cit., voi. II, pp. 487-91; cfr. pp. 491-6: il termine superstitio (corrispondente al greco deisidaimonia come timore dei daimones) viene fatto derivare da superstare, «tenersi al di là » , in quanto denominazione di una falsa religione. Sull'adesione ai valori tradizionali, il mos maiorum, questa è la definizione che ne dà Sesto Pompeo Festo (n secolo d.C.): «Il costume è l'usanza dei padri, ossia la memoria degli antichi relativa soprattutto a riti e cerimonie dell'antichità » (De verborum signi.ficatu 157: Mos est institutum patrium, id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum). 30. Cfr. Varrone, Antiquitatum rerum humanarum et divinarum libri XLI: l'opera è attestata e discussa da Agostino nel De civitate Dei 6,2.-12.. Questi però rimprovera Varrone di non aver messo più decisamente sullo stesso piano la religione mitica e quella civica, come invece ha fatto Seneca nel suo De superstitione rifiutando tanto la teologia urbana quanto quella theatrica (teatrale) (cfr. Agostino, De civitate Dei 6,10). Sul tema "Verità/razionalità del cristianesimo" basato sul rapporto tra Ago­ stino e Varrone, è interessante l'intervento tenuto da Joseph Ratzinger alla Sorbona di Parigi nel 1999 (cfr. il testo in "Il Regno. Documenti", XLV, 854, 2.000, pp. 190-5). 3 1• « Il dio mi comanda che devo vivere facendo filosofia ffilosofounta me dein zen J e cercando di conoscere me e gli altri [ ... ). Ubbidirò piuttosto al dio (peisomai mal/on

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to; theoJ che a voi e non cesserò mai di filosofare » (Platone, Apol. 2.8e.2.9d). Del resto,

già Senofane (ca. 570-475 a.C.) aveva aspramente criticato l'antropomorfismo degli dèi proprio della religione popolare (cfr. G. Reale, a cura di, /presocratici. Prima tra­ duzione integrale con testo afronte delle testimonianze e deiframmenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, Bompiani, Milano 2.006, pp. 303-6). 32.. Lucrezio, De rerum natura r,63; cfr. anche r,932.: « Anzitutto, insegnando grandi cose, tento di sciogliere l'animo dai nodi stretti delle superstizioni [artis religionum animum nodis exsolverepergo] ». 33. Lucrezio, De rerum natura 1,101. Cfr. anche il fr. 2.2. di Petronio Arbitro (se­

conda metà del I sec. d.C.): « Fu per prima la paura a creare gli dèi nel vedere i fulmini minacciosi cadere dal cielo [Primus in orbe deos fecit timor, ardua coelo fulmina cum caderent] ». Si spiega perciò anche l'ateismo proprio di alcuni filosofi greci del v secolo a.C. (come i sofisti Prodico e Crizia), secondo cui gli dèi furono inventati in base o ai vantaggi derivanti dalla natura o alla paura di castighi; invece per Evemero (330-2.50 a.C.) essi non sono altro che uomini deificati. Cfr. in gene­ rale G. Minois, Storia dell'ateismo, Editori Riuniti, Roma 2.000, la cui conclusione è che «l'ateismo e la fede si perpetueranno insieme, o periranno insieme » (ivi, p. 605). 34. Cfr. in breve i termini della discussione offerti da U. Berner, Religione, in H. Wal­ denfel (a cura di), Nuovo Dizionario delle Religioni, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mr) 1993, pp. 756-9. Secondo M. Vannini, La mistica dellegrandi religioni, Le Lette­ re, Firenze 2.010, la mistica oltrepassa la religione superando l'idea del['alterità di Dio. 35. E. Montanari, Roma, in G. Filoramo (a cura di), Dizionario delle religioni, Einau­ di, Torino 1993, p. 642.. 36. G. Filoramo, Religione, in Id., a cura di, Dizionario delle religioni, cit., p. 62.1; più ampi sviluppi si hanno in Id., Che cos 'e la religione. Temi, metodi, problemi, Einau­ di, Torino 2.004; inoltre P. Schebesta, Origine della religione. Risultati della ricerca preistorica ed etnologica, Paoline, Roma 1966, p. 64. Una sua collocazione intermedia tra magia e filosofia è proposta da M. Augé, Genio delpaganesimo, Bollati Boringhie­ ri, Torino 2.002., pp. 2.8-35. Per i rapporti con l'antropologia cfr. per esempio J. Ries, Opera omnia, voi. IV: Le costanti del sacro, t. II: Mito e rito, Jaca Book, Milano 2.008, pp. 543-63, con la distinzione tra l'uomo naturale e l'uomo storico. 37. Il termine indica le caratteristiche distintive dell' ethnos ebraico; esso fa riferimen­ to alla tribù di Giuda, a cui appartenne la dinastia regale davidica e nel cui territorio si trovava il Tempio di Gerusalemme, unico centro legittimo di culto dell'intero po­ polo, compresa la diaspora. 38. È comunque importante notare che, agganciandosi all'ambiente greco, Giustino « non ha preso come punto di contatto niente che fosse "religioso", basandosi sul filo­ sofico» (R. Brague, Sulla religione, EDB, Bologna 2.019, p. 83). Sull'insieme cfr. M. Pe­ sce, Come studiare la nascita del cristianesimo? Alcuni punti di vista, in D. Garribba, S. Tanzarella (a cura di), Giudei o cristiani? Quando nasce il cristianesimo?, li Pozzo di Giacobbe, Trapani 2.005, pp. 2.9-51.

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39. Analogamente Minucio Felice (più o meno contemporaneo) ribadisce: « Si po­ trebbe dire che i cristiani siano i filosofi attuali o che i filosofi siano stati i cristiani di allora » ( Ottavio 2.0,1). 40. Cfr. anche At 2.8,2.2. dove i Giudei di Roma dicono a Paolo: «Di questa setta [haire­ sis] sappiamo che ovunque essa trova opposizione» ; lo stesso vocabolo in At 5,17 e 15, indica rispettivamente il gruppo dei Sadducei e dei Farisei. Quanto ai Nazorei, questo è la prima volta che l'appellativo non è applicato a Gesù (come invece in At 2.,2.2.; 3,6; 4,10; 6,14; 2.2.,8; oltre a Mt 2.,2.3 con probabile riferimento a Nazaret) ma al suo movimento. 41. Sull'insieme della problematica storica, cfr. R. Perrotta, Hairéseis. Gruppi, movi­

menti efazioni delgiudaismo antico e del cristianesimo (da Filone Alessandrino a Ege­ sippo), EDB, Bologna 2.008. 42.. Curiosa infatti è la sinonimia suggerita dal testo greco della Lettera di Clemente ai Corinzi (su cui cfr. CAP. 3) tra fede e religiosità come pistis-eusébeia, quando a pro­ posito dell'ospitalità (filoxenia) praticata dalle figure bibliche di Abramo-Lot-Raab parla indifferentemente nei rispettivi casi di « fede e ospitalità» (10,7 ), « ospitalità e religiosità » (11,1), « fede e religiosità » (12.,1). 43. Tacito: Exitiabilis superstitio (Annali xv,44,2.); Plinio il Giovane: Superstitionem pravam et immodicam (Epist. 10,96,8); Svetonio: Superstitionis novae ac maleficae (Vita di Nerone 16,2.). 44. Cfr. Plutarco, De superst. 1 64E-171F: in entrambi i casi domina l'ignoranza sugli dèi, per cui l'ateismo porta alla loro negazione mentre la superstizione (deisidaimonia) ne travisa l' identità vera, tanto che non è l 'ateismo a condurre alla superstizione ma è la superstizione a condurre all'ateismo: « L'ateo non è in alcun modo responsabile della superstizione; la superstizione invece ha fornito all'ateismo lo spunto per na­ scere » (De superst. 171A). Da parte sua, invece, lo storico Polibio (ca. 2.06-12.4 a.C.) parlava della religione romana come collante della politica, riferendosi « alla super­ stizione religiosa, al terrore verso gli dèi» e questo per colpa della « massa volubile e capace di desideri sfrenati, di rabbia irrazionale, di spirito violento, sicché non resta che tenere a freno le masse con paure oscure » (4,56). 45. Maggiori sviluppi in Sachot, Quando il cristianesimo ha cambiato il mondo, cit., voi. I, pp. 93-109. 46. P. Stockmeier, Fede e religione nella Chiesa primitiva, Paideia, Brescia 1976, p. 138. 47. Per una ripresa di queste parole in rapporto alla politica, cfr. il lavoro dell'avvo­ cato L. Licitra, All'inizio nonfu cosi. Contributo per uno sguardo credente su politica e diritto, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2.015. 48. J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Que­ riniana, Brescia 2.005 1, pp. 1 2.8-9. Sulla rivalutazione cattolica delle religioni dopo il Concilio Vaticano Il, cfr. J. Dupuis, Il cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all'in­ contro, Queriniana, Brescia 2.001; P. Selvadagi, Teologia, religioni, dialogo, Lateran University Press, Roma 2.009. 49. Sorprendentemente infatti san Paolo nella Lettera ai Romani definisce «deboli nella fede », pur chiedendo di rispettarli, quei cristiani che non si accontentano della

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sola fede i n Gesù Cristo ma fanno distinzioni preferenziali tra alimenti, bevande e giorni particolari (cap. 14). Di una « fede laica » e non religiosa parla con passione G. Squizzato, Se ilcielo adesso e vuoto. Èpossibile credere in Gesu nell 'etapost-religiosa?, Gabrielli, San Pietro in Cariano (vR) 2.019: confrontando tra loro i tre monoteismi, egli pone l'accento sullo scandalo dell' Incarnazione e sostiene che il tipico Dio del Nazareno « ha perso la propria onnipotenza », cosicché importa « un totale affida­ mento all'uomo della croce » per « accettare come lui la condizione umana nella sua assoluta precarietà [ ... ] dove un uomo serve il fratello» (ivi, pp. 2.2.1-5). Sulla differen­ za tra religione e fede, cfr. anche G. Cirignano, Bellezza delgaudio evangelico. Al cen­ tro della vita cristiana, Mauro Pagliai, Firenze 2.017, pp. 44-5. Sul fatto che la fede sia comunque in rapporto con la ragione, in reciproca alterità, cfr. G. Lorizio, La logica dellafede. Itinerari di teologiafondamentale, San Paolo, Cinisello Balsamo (M1) 2.002., pp. 97-u7; Id., Fede e ragione. Due ali verso il Vero, Paoline, Milano 2.003. 50. Lasciamo da parte altre fenomenologie religiose (egiziana, assiro-babilonese, etrusca), con le quali il cristianesimo nascente non ebbe contatti, mentre solo in se­ guito si avvicinò a quella celtica o germanica. In proposito, cfr. J. Ries (a cura di), Trattato di antropologia del sacro, voi. III: Le civilta del Mediterraneo e il sacro, Jaca Book, Milano 1 992..

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Il sacerdozio in ambito greco-romano ed ebraico

Vocabolo e identità del «sacerdote» Il vocabolo italiano «sacerdote», volendo fare un po' di chiarezza sul­ la sua etimologia, proviene dal latino sacerdos, sacerdotis ed è composto dall'aggettivo sacer, «sacro», e da una radice verbale di origine indoeu­ ropea *dhe-, «porre, fare»; quindi è propriamente «colui che fa i riti sacri»'. Al solo concetto ristretto di sacralità è collegata l'etimologia del corrispondente sostantivo greco hiereus, detto di una persona che ha a che fare con ciò che semplicemente appartiene agli dèi e non agli uomini'. Non tutte le religioni comportano la figura del sacerdote. Per esempio l'Islam ne prescinde del tutto, ma anche alcune antiche religioni asiatiche come il confucianesimo, il buddismo primitivo e la più recente religione baha 'i di origine persiana (sorta nel XIX secolo, essa afferma una rivelazio­ ne divina ininterrotta e progressiva per l'unità del genere umano) ignora­ no la presenza specifica di qualcuno che al loro interno svolga un ruolo ufficialmente riconosciuto di collegamento era l'uomo e la/le divinità in termini rituali. Questo ruolo invece lo constatiamo ali' interno del mondo religioso mediterraneo antico, al quale ci limitiamo per evidenti motivi di relazione storica. La funzione del sacerdote consiste nella mediazione tra la divinità e i membri di una determinata comunità, individualmente o unitariamen­ te intesi. Questa mediazione viene svolta essenzialmente con l'offerta del sacrificio, anche se il sacerdote è specialista per tutto ciò che riguarda il culco3. In ogni caso il sacerdote è una figura istituzionale in quanto «è collegato a determinati tempi, luoghi, azioni e parole, mentre il profeta e il mago intervengono dove e quando lo spirito li spinge, dove e quando un bisogno si fa sentire» 4• Nell'esercizio della sua attività, considerata fuori del cristianesimo, egli non rappresenta nessuno, se non soltanto coloro nel nome dei quali agisce, per i quali afferma la propria personale autorevolez-

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za sacrale nello stabilire un contatto con il divino, peraltro sempre autono­ mamente rinnovabile.

Le società greca e romana Ciò che induce a esaminare insieme le due società è solo il fatto che esse sono accomunate dal politeismo, per di più antropomorfico, oltre che da una corrispondente pluralità di templi in cui esercitare il culto, quasi che le divinità fossero dei concittadini\, Ma le differenze sono comunque no­ tevoli, se non a livello di divinità, sicuramente a livello di organizzazione del culto. Nel mondo greco 6 bisognerebbe distinguere tra religione popolare, debi­ trice della mitologia propria dei poeti, e religione filosofica, che della mito­ logia invece è molto critica7• In Grecia, già in epoca classica e nella maggior parte dei casi, «i sacerdoti agiscono come una magistratura della città, dal momento che essi esercitano un'autorità liturgica parallela all'autorità legi­ slativa, giudiziaria, finanziaria o militare»8• Un testo di Platone ci informa sulla loro funzione, ponendo sullo stesso piano sacerdoti e sacerdotesse: Sacerdoti e sacerdotesse hanno insieme la responsabilità di custodire i templi degli dèi. In parte siano eleggibili, in parte sorteggiati, concedendo libera partecipazio­ ne alla scelta sia ai cittadini di un demo che agli altri, mescolandoli perché diven­ gano amici era di loro [ ... ]. Siano esaminaci sempre, quelli designaci a sorte prima di cucco per accertarsi che non abbiano mutilazione nel corpo e siano di famiglia onorata [ ... ] e che quanto all'eletto, il padre e la madre ugualmente siano vissuti senza macchia di omicidio o di tutte le altre colpe gravi contro gli dèi [ ... ]. L'uf­ ficio di ciascun sacerdote sia annuale e non più lungo e non deve avere meno di sessane 'anni. Le stesse regole valgono anche per le sacerdotesse (Leggi 75oa-760 )•.

Il loro ruolo specifico, oltre a quello di amministrare i beni di un santuario e curare la sua manutenzione compresa l'attenzione alla statua del dio, è di tipo liturgico e consiste essenzialmente nel compiere il sacrificio (thysia). L'etimo di questo termine è il verbo thjein che propriamente significa «bruciare, fare del fumo» (da cui il latino tus, turis, «incenso» = «turibo­ lo») in relazione all'animale sgozzato o bruciato come olocausto, anche se il riferimento può essere soltanto a semplici offerte incruente (cfr. Tucidide 1,126,6). Il sacrificio si effettua secondo varie tipologie, potendo avvenire

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o come puro omaggio agli dèi (cfr. Odissea 14,446), o per festeggiare una buona notizia (cfr. Aristofane, Cavalieri 656), o come propiziazione per ottenere buoni auspici in vista della realizzazione di qualche progetto (cfr. Erodoto 5,44,2.; 9,10,3; Senofonte,Anab. 7,6,44), o come espiazione per pla­ care l'ira di un dio o anche di Cesare (cfr. rispettivamente Iliade 1,100. 444, e Plutarco, Vita di Catone 61,7). Sacrificabili sono però soltanto gli animali domestici. Gli strumenti del sacrificio consistono in un canestro che con­ tiene il coltello per scannare, un vaso con l'acqua per aspergere la vittima e un vaso per raccogliere il sangue versatow . Al sacrificante, eccetto in caso di olocausto, spetta una parte del!'animale ucciso, mentre il resto viene posto in vendita sul mercato. Comunque non esiste un clero, cioè un ceto sacer­ dotale a sé stante come gruppo chiuso e autoritario con proprie tradizioni, così come nessuno è sacerdote in assoluto ma lo è in relazione a qualche di­ vinità specifica. In linea di principio si può dire che «presso i Greci sacrifica chiunque lo desideri e abbia i mezzi per farlo, anche casalinghe o schiavi»'\ anche se nelle occasioni ufficiali e pubbliche è un personaggio importante che dirige le cerimonie solenni. Un maestro stoico come Zenone arriva ad affermare che «sono i sapienti gli unici sacerdoti, perché hanno sottoposto a indagini i sacrifici, i templi, le purificazioni e tutto ciò che riguarda gli dèi»". Comunque la carica sacerdotale non è ereditaria, se non in rari casi come la famiglia degli Eumolpidi che gestiva l'antico culto dei "misteri" a Eleusi in onore di Demetra (cfr. Apollodoro, Biblioteca 2.,5,12.), corrispon­ dente alla dea romana Cerere, dea del grano e dell'agricoltura. Quanto poi ai luoghi dove esercitare il culto, nel mondo greco ogni luogo può diventare luogo di culto, un santuario o hieron [spazio sacro] . Ba­ sta che i Greci gli riconoscano un carattere sacro, carattere che deriva talvolta dalla maestà del paesaggio o dalla presenza di una tomba o di un qualunque altro segno della manifestazione del divino (rocce, un albero, una sorgente). Il terreno è allora delimitato: porta il nome di témenos, che significa "diviso" [sottinteso: dalla terra che non è sacra] . Numerosi santuari greci sono così semplicemente terreni circon­ dati da una recinzione''.

Quanto al tempio vero e proprio, se è vero che esso resta il segno architet­ tonicamente più spettacolare del mondo greco, dal punto di vista del culto invece non è un elemento indispensabile; infatti, avendo come funzione specifica solo quella di conservare la statua di un dio, i rituali si svolgono per lo più al di fuori e davanti a esso, o comunque all'aperto oppure in

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ambienti appositi come sale per banchetti'4• Sicché l'altare, che pure è un elemento essenziale del culto, può sussistere anche senza un tempio, e su di esso si compie il sacrificio all'esterno del tempio stesso, a meno che si tratti di un santuario oracolare per cui si entra al suo interno. Uno dei gesti cultuali più frequenti è l'offerta economica o anche votiva'I. Anche la casa privata in quanto semplice ambito familiare è un luogo di culto (addirittura Seneca la definiva pusilla res publica [ un piccolo Stato] : Epist. 47,14), e lo vedremo più avanti a proposito dei raduni delle asso­ ciazioni volontarie, a cui sono paragonabili le riunioni dei cristiani (cfr. CAP. 3, Dissociazione dal linguaggio e dai luoghi di culto tradizionali). Nel mondo romano, la religione andava di pari passo con la pietas intesa come legame sentimentale e affettivo verso gli dèi ma anche verso la patria e i genitori. Essa quindi comprendeva un senso di dovere morale e non solo la mera osservanza dei riti (detta cultus o semplicemente religio ). Ci­ cerone la definisce iustitia adversus deos (rendere agli dèi ciò che è giusto): essa va coltivata anche se da loro non hai ricevuto nulla, poiché la religione stessa è fatta di «una pia devozione [deorum cultu pio]» 16• A parte questa dimensione soggettiva di "religiosità", qui ci interessa piuttosto la struttura oggettiva della religione romana, che conosciamo soprattutto in rapporto alla città di Roma, maggiormente documentata. In questo senso, il sacer­ dozio conosce tipologie diverse. Infatti la religione romana prevedeva nu­ merose figure sacerdotali 7, riservate solo ai cittadini liberi che avevano tra l'altro alcuni privilegi come l'esonero dal servizio militare, posti riservati agli spettacoli pubblici e la possibilità di indossare la toga pretesta, cioè listata di porpora. Si possono distinguere tre collegi o gruppi maggiori, suddivisi anche in sottogruppi. I Pontifices, presieduti da un Pontifèx maximus, avevano la direzione, la sorveglianza e curavano la disciplina di tutta la vita religiosa dello Stato, compreso l'ordinamento del calendario con l'annotazione degli avveni­ menti più importanti negli Annali 8• Di essi facevano parte il Rex sacro­ rum, il quale compiva le cerimonie religiose che erano state competenza degli antichi re; seguivano i Flamines, addetti ognuno al culto di una sin­ gola divinità (distinti ancora tra maiores, scelti dal patriziato, e minores, scelti dalla plebe), di cui il più importante era il Flamen Dialis addetto al culto di Giove, che godeva di grande prestigio formale con il diritto di sedere in Senato' 9 ; c'erano poi le Vestales in numero di 6, sacerdotesse di Vesta (la greca Hestia, dea del focolare domestico e del fuoco), scelte dal Pontefice massimo tra le fanciulle dai 6 ai IO anni e che rimanevano in ca1

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rica trent'anni, avendo come compito di custodire il fuoco sacro di Vesta che non doveva mai spegnersi, e dovendo osservare l'obbligo di assoluta castità (altrimenti si veniva sepolte vive). GliAugures non erano propriamente sacerdoti ma erano esperti nell'ar­ te di interpretare i segni celesti. La loro importanza era legata al fatto che i Romani non intraprendevano nessuna azione di una certa importanza senza aver preso gli auspicia o presagi (forniti dai fenomeni celesti, dagli uccelli, dai quadrupedi) per essere sicuri della loro approvazione, anche se i magistrati potevano prendere gli auspici da soli. I Quindecemviri sacrisfaciundis erano 15 sacrificatori, che in età repub­ blicana custodivano nel tempio di Giove Capitolino i Libri Sibillini, i quali venivano consultati per avere suggerimenti su come placare gli dèi e ristabilire la pax deorum. Inoltre c'erano i Septemviri epulones, un collegio di sette membri che aiutavano i Pontefici nell'organizzare i solenni ban­ chetti sacri in occasione di feste religiose' I sacerdoti romani venivano eletti a vita da un'assemblea speciale, prima applicata al solo Pontefice massimo e poi, dal 105/103 a.C., a tutti gli altri, eccetto i Flamini, il Rex sacrorum e le Vestali, che erano prescelti diretta­ mente dal Pontefice massimo". A differenza dei magistrati, essi potevano interpretare il diritto sacro e proporre soluzioni per risolvere i conflitti che opponevano gli dèi alla città, ma durante l'impero il magistrato supremo era diventato l'imperatore così da controllare l'insieme delle relazioni che costituivano il tessuto della vita cittadina. Il culmine di questa imposta­ zione fu rappresentato dall'imperatore Eliogabalo (218-2.2.2), di origine siriana, che sovvertì le tradizioni religiose romane, sostituendo a Giove, signore del pantheon romano, la nuova divinità solare del Sol Invictus, che aveva gli stessi attributi di Mitra, dio solare della città di Emesa, e in quali­ tà di gran sacerdote di questo dio contrasse anche un matrimonio con una vergine vestale, ma per le sue intemperanze venne poi ucciso". Un'attenzione particolare va data ai Flamini e in particolare al Fla­ mine di Giove, il Flamen Dialis (dal nome greco di Giove, Dios)'l, del quale ci sono giunte maggiori notizie, per la sua importanza rispetto agli altri. Persino il greco Plutarco vi dedica una lunga trattazione (Quaestio­ nes Romanae 109- u3 = Mor. 2.89E-2.91C) e lo definisce addirittura come «immagine animata e sacra del dio, a cui si può fuggire per rifugiarsi » (Quaestiones Romanae 111 = Mor. 2.90C); anche Aulo Gellio (12.5-180) sottolinea la particolarità di questo sacerdozio fortemente caratterizzato dall'osservanza di tutta una serie di doveri e di divieti (Noctes Atticae x,15) . 0



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Egli era l'unico tra i sacerdoti che poteva presenziare alle sedute del Senato con il diritto alla sella curulis e a vestire la toga praetexta, l'abito caratterizzato da un orlo con striscia di porpora indossato dai magistrati e dalle più alte cariche sacerdotali; poteva inoltre essere preceduto da un littore. Come gli altri Flamini anche quello di Giove indossava un parti­ colare copricapo chiamato apex. Per accedere alla carica bisognava essere patrizi e gli altri erano come i "figli" del Pontefice massimo e potevano essere puniti o addirittura fatti dimettere dallo stesso Pontefice in caso di condotta immorale. La moglie del Flamen Dialis doveva sempre indossare ilflammeum, una veste di colore rosso fuoco, colore del fulmine di Giove. La loro unione era talmente importante dal punto di vista religioso che non potevano divorziare e in caso di morte della sposa il Flamine doveva abbandonare la carica sacerdotale. Per avere un'idea di queste sacre impo­ sizioni a cui erano sottoposti i Flamini di Giove e le loro mogli riportiamo integralmente il brano di Aulo Gellio che li elenca: è divieto sacro per il Flamine di Giove viaggiare a cavallo; allo stesso modo gli è precluso il vedere le truppe schierate fuori dalpomerium [spazio consacrato], cioè l'esercito nello schieramento di battaglia; quindi il sacerdote di Giove è raramente fatto console, dal momento che le guerre sono state affidate ai consoli; allo stesso modo non è mai permesso al Diale il prestare giuramento ; allo stesso modo non è mai permesso di indossare un anello, a meno che non sia aperto e vuoto [senza gemma] . Non si può prelevare il fuoco dallaflaminia, cioè la casa del Flamine Dia­ le, a meno che non serva per usi sacri. Se una persona in catene entrava nella sua casa, doveva essere liberata e le catene dovevano essere portate sul tetto attraverso I' impluvium e quindi da lì gettate in strada. Non può avere un nodo nel coprica­ po, nella cintura, o in qualsiasi altra parte del suo vestito. Se qualcuno preso per essere frustato si sarà prostrato ai suoi piedi come un supplice, in quel giorno sarà proibito percuoterlo. I capelli del Diale non possono essere tagliati se non da un uomo libero. Non è consuetudine per i Diali toccare, o anche nominare la capra, la carne cruda, l'edera, e le fave [ ... ]. I piedi del letto su cui dorme devono essere spalmati con un sottile strato di argilla, e non deve dormire lontano da questo letto per tre notti consecutive, e nessun altro deve dormire in quel letto [ ... ]. Ogni giorno per il Diale è di festa. Non gli è consentito stare allo scoperto senza il co­ pricapo [apex] ; gli era consentito solo in casa [ ... ]. Non gli è permesso toccare la farina fermentata con il lievito. Non si poteva togliere la tunica intima se non in luoghi coperti, affinché non fosse nudo all'aperto e sotto gli occhi di Giove. A tavola nessuno altro poteva sedere in posizione più elevata del Flamine Diale, ad eccezione del Rex Sacrorum. Se perdeva la moglie, la carica di Flamine veniva riti­ rata. Non si può sciogliere il matrimonio del Flamine se non con la morte (Noctes Atticae x,15,1-32.).

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Altre notizie sul Flamen Dialis si possono ricavare in particolare da Tacito, che ricorda come il sacerdote di Giove non poteva abbandonare o lasciare l' Italia per qualsiasi motivo, e in un altro brano, che riporta il nome pro­ prio di un Flamen Dialis, Servio Maluginense, documenta la complessa procedura di selezione per il suo successore avvenuta alla sua morte nella prima età imperiale (Annali II,71; IV,16). Vi si evidenzia come la scelta dei pretendenti fosse molto limitata dalle rigidissime norme per la selezione dei candidati che, oltre a essere patrizi, dovevano essere nati da un ma­ trimonio celebrato con un rito particolare'4 e a loro volta sposati con lo stesso rituale. Soprattutto in età imperiale tale legame matrimoniale si era andato sempre più esaurendo vista la rigidità delle regole a cui era sotto­ posta soprattutto la sposa. Per questo motivo furono emanati provvedi­ menti da Augusto e Tiberio per mitigare, dove possibile, la rigidità sacrale e legislativa connessa a questa carica sacerdotale. Proprio per evidenziare queste caratteristiche Tacito altrove sottolinea come questo sacerdozio nel corso della storia romana sia stato vacante anche per lunghi periodi (An­ nali m,58). Va soltanto aggiunto che il titolo di Pontifex maximus/Summus ponti­ Jex, dopo che nel 12. a.C. fu fatto proprio da Ottaviano Augusto (Svetonio, Vita diAugusto 31), rimase agli imperatori romani fino al 376, quando Gra­ ziano vi rinunciò passandolo al Vescovo di Roma11•

Il giudaismo Il mondo giudaico, in campo religioso, si distingue nettamente dal mondo greco-romano almeno per due fattori: il monoteismo e l'unicità del Tem­ pio, oltre all'idea di popolo eletto dedito all'osservanza della Torah, una legge divina rivelata al Sinai. L'ambiente giudaico, e soprattutto quello preciso della terra d' Israele, è il più interessante e comunque il più impor­ tante da conoscere per quanto riguarda le origini del cristianesimo. Infatti Gesù appartenne a esso, non alla diaspora, e in esso operò suscitando en­ tusiasmi e opposizioni; inoltre, esattamente in quell'ambiente ebbe inizio anche il movimento dei credenti in lui. Ebbene, per quanto riguarda il sacerdozio, in Israele esso aveva una ca­ ratterizzazione e un' importanza di grande rilievo e molto diversa, certo molto più strutturata, di quello dell'ambito greco-romano 16• Il sacerdote, in ebraico kohen (pl. kohantm), è ovviamente la figura reli-

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giosa preposta ali'esercizio del culto (detto avodah) e alla mediazione dei rapporti con la divinità/Yhwh/Adonai, localmente limitata al servizio nel solo Tempio di Gerusalemme>7• Ma il vocabolo è generico e nell'Antico Testamento è usato per designare anche i sacerdoti che esercitano in tem­ pli di altri dèi'8 • La storia Nell'epoca dei patriarchi (ca. 2000-1700 a.C.) non esisteva un sacerdo­ zio ufficiale, e anche un capofamiglia come Giacobbe eseguiva sacrifici in luoghi occasionali (cfr. Gen 31,54: «sulle montagne»). Il sacerdozio cominciò verso il XIV secolo a.C. con Aronne che era il bisnipote di Levi e fratello di Mosè (cfr. Es 6,16-20) e rappresentava la qualità sacerdotale della sua tribù. La tradizione infatti riconosce che Mosè deputò l'intera tribù di Levi a compiere le specifiche funzioni sacerdotali, da cui risulta l'ereditarietà del sacerdozio'9 ; in Dt 33,8-11 si attribuiscono ai sacerdoti tre compiti: dare responsi in nome di Diol0, insegnare la Legge e compiere sa­ crifici anche con offerta dell'incenso. Anche dopo la conquista del Canaan (tra i secoli XIII e XII a.C.) era possibile per dei comuni israeliti compiere sacrifici su eventuali altari (cfr. Gdc 13,19-20) o comunque su generiche «alture» (1Re 3,3-4). I templi si moltiplicarono in tutta la terra d'Israele, da Dan fino a Bersabea, cioè da nord a sud (cfr. Am 8,14; 1Re 3,2). Fu poi il re Giosia ( 6 40-609 a.C.) a operare una centralizzazione del culto: egli ricondusse tutti i sacerdoti al servizio del solo Tempio di Gerusalemme e abolì tutti gli altri luoghi di culto (cfr. 2Re 23,8; Dt 12,2-12). Dopo l'esilio babilonese (586-539 a.C.), con la ricostruzione del Tem­ pio distrutto da Nabucodonosor e pur con l'assenza dell'arca dell'allean­ za, fu riorganizzato anche il sacerdozio. I suoi ranghi vennero aumentati (cfr. infra) anche se i tributi versati per il Tempio non erano sufficienti per mantenerli, così da dover istituire nuovi responsabili (cfr. Ne 12,44-47; 13,10-12). Probabilmente è a questo momento che risale la decisione di far officiare ciascun sacerdote a turno per un breve periodo di tempo così da dare a ogni famiglia l'opportunità di compiere il servizio cultuale (cfr. 1Cr 24,19; e ancora Le 1,8). Durante il periodo ellenistico-romano (333 a.C.-70 d.C.) la classe sa­ cerdotale esercitò un vero dominio sulla nazione, soprattutto durante l'epoca degli Asmonei (165-63 a.C.). In questo periodo, non solo si costi­ tuirono i gruppi di Farisei e di Esseni (cfr. Flavio Giuseppe, Ant. 13,172;

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18,11-15.18-21) che cominciarono a minare l'autorità dei sacerdoti quali guide spirituali del popolo, ma soprattutto vennero nominati dei Sommi Sacerdoti non appartenenti alla tradizionale discendenza di Sadoc stabi­ lita da Salomonel', così che un gruppo di sacerdoti abbandonò il Tempio di Gerusalemme e si stanziò a Qumran, costituendo una nuova comunità d'impronta sacerdotale contraria a quella ufficiale con tutta una propria produzione di manoscrittil1 ; essi tratteggiano una nuova escatologia che prevede anche un Messia sacerdotaleii . Nel periodo di Erode il Grande e poi dei prefetti-procuratori romani (37 a.C.-66 d.C.) erano questi a eleg­ gere i Sommi Sacerdoti, alcuni dei quali compravano la nomina così da costituire un'oligarchia molto potente. Gerarchia e funzioni sacerdotali Prima di scendere nel dettaglio occorre considerare l'affermazione di Es 19,6: «Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (cfr. Is 61,6: «Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore»). Sembra che qui le funzioni del sacerdozio siano attribuite ai singoli membri di tutto il po­ polo d'Israele; ma con ogni probabilità si intende soltanto attribuire un carattere sacerdotale all'intera comunità israelitica con puro riferimento alla sua particolare relazione con Dio, del tutto analoga a quella dei sacer­ doti che sono a lui più vicini (cfr. Num 1,51; 3,10.38)i4 _ Una parola a parte va detta a proposito del complesso rapporto tra sacerdoti e Leviti, la cui distinzione diventa esplicita con Ezechiele (cfr. 44,6-31)i5. Questi secondi a volte vengono accostati alle classi infime della società (cfr. Dt 12,12.18; 14,2.9; 16,11.14) e altre volte sono identificati con i sacerdoti stessi (cfr. Dt 17,9.18; 18,1; 2.4,8; 2.7,9: non però nel senso che tutti i Leviti sono sacerdoti, bensì in quanto i sacerdoti non possono provenire se non dalla tribù di Levi). Certo i Leviti sono persone sacre dedite al servizio liturgico (cfr. Num 1,50-53: 3,5-13-2.8-31.36-37; 4,5-15-2.1-2.3), ma non posso­ no esercitare gli uffici propri dei sacerdoti, ai quali invece sono sottomessi (cfr. Num 18,1-7): non possono neppure accedere né all'altare né all'in­ terno del Santuario vero e proprio (cfr. Num 18,3) come invece facevano i sacerdoti, sottoponendosi però a rigide norme di purità (per esempio non dovevano avere difetti fisici e potevano sposare solo una vergine israeliti­ ca)16. I compiti dei Leviti erano quelli di portieri, di musicisti e cantori e di ogni sorta di servizi annessi al culto, come il mantenimento della pulizia e un pattugliamento di pubblica sicurezza nell'area templarel7.

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Quanto ai sacerdoti veri e propri, bisogna distinguere il Sommo Sacer­ dote da tutti gli altri. Una volta ali'anno egli appariva nella sua esclusiva funzione di mediatore supremo nel Giorno appunto dell'espiazione ( YtJm Kippur, che inizia al crepuscolo del decimo giorno del mese ebraico di T i­ shri, tra settembre e ottobre), stabilito per il perdono di tutti i peccati del popolo secondo l'ordinamento levitico (cfr. Lev 16) con il doppio rito del capro espiatorio/sgozzato e di quello inviato vivo nel desertol8• In forma accessoria il sacerdote è pure incaricato dei riti di consacrazione (come era l'unzione del re: cfr. 1Re 1,39; 2Re 11,12) e di purificazione, come nel caso delle puerpere (cfr. Lev 12,6-8) e dei lebbrosi (cfr. Lev 14, con un'eco in Mt 8,1-4 / Mc 1,40-44 / Le 5,12-14). I sacerdoti dovevano astenersi dal bere vino o altri liquori prima e dopo i loro servizi liturgici (Lev 10,9; Ez 44,21). Sul piano economico dovevano essere abbondanti i loro proventi (di cui partecipavano anche le loro famiglie), consistenti non solo nella parte dei sacrifici a loro riservata, ma anche in imposte varie (primizie, de­ cime), oltre a offerte occasionali39• In Gv 8,20 si parla esplicitamente della «stanza del tesoro» (cfr. anche Mc 12,41.43 circa l'obolo della vedova), situata accanto al cortile delle donne. Ma esiste pure una funzione particolare dei sacerdoti, incentrata sulla parola, oltre alla benedizione che enunciavano sul popolo (cfr. il testo in Num 6,22-27 ). Essi infatti sono anche i ministri di pronunciamenti sul comportamento etico concreto (cfr. per esempio Aronne in Es 4,14-16). Nella liturgia delle feste essi ripetono ai fedeli i racconti su cui si fonda la fede di Israele (di cui sono probabilmente un'eco i testi di Es 1-15 e Gs 2-6). In occasione dei rinnovamenti dell'alleanza essi proclamano la Torah (cfr. Es 2 4,7; Dt 27; Ne 8), e della Torah sono anche gli interpreti ordinari. È da far risalire ai sacerdoti anche l'ultima compilazione del Pentateuco (cfr. Esd 7,14-26; Ne 8) Ma dopo l'esilio appaiono delle novità: nascono e si moltiplicano le sinagoghe 4 ', che sono a conduzione laica, e aumenta l'autorità degli scribi laici, per lo più collegati alla setta dei Farisei (cfr. Mc 2,16; At 23,9 ), che saranno al tempo di Gesù i maestri principali in Israele (cfr. Mt 23,1-7). È però anche interessante la forte critica rivolta loro dai profeti: così per esempio Isaia proclama che Dio è sazio dei sacrifici di montoni e vitelli (1,1.14), Osea contrappone la misericordia ai sacrifici ( 6,6) e Amos parla di rifiuto delle feste e degli olocausti (5,21-25). Ciò avviene per vari motivi4 ': la contaminazione del culto di Yhwh con usi cananei (cfr. Os 4, 4-11; 5,1-7; 6,9 ), un certo sincretismo pagano a Gerusalemme (cfr. Ger 2,26-28; 23,11; 40



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Ez 8), alcune violazioni della Torah (cfr. Sof 3,4; Ger 2,8; Ez 22,26), l'op­ posizione ai profeti stessi (cfr. Am 7,10-17; Is 28,7-13; Ger 20,1-6; 23,33-34; 26), gli interessi personali (cfr. Mie 3,u ; 1Sam 2,12-17; 2Re 12,5-9), la man­ canza di zelo per il culto (cfr. Mal 2,1-9) e in generale la preferenza per il culto più che per l'onestà morale (cfr. Is 1,13: «Non posso sopportare delitto e solennità»; così anche Ger 14,10-12). Questi rimproveri non possono spiegarsi semplicemente come polemica tra due caste opposte, profeti e sacerdoti, dato che Geremia ed Ezechiele sono anch'essi sacer­ doti, e i sacerdoti, che hanno redatto il Deuteronomio e la legge di santità (Lev 17-26), hanno manifestamente cercato di riformare la loro propria ca­ tegoria; del resto, la comunità di Qumran, che polemizza contro il «sacer­ dote empio» (cfr. 1QpHab XI,2-8; 4Q171 IV,6-7), è una setta sacerdotale. Le critiche dei profeti sono ispirate da un alto ideale sacerdotale: i profeti ricordano ai sacerdoti i loro obblighi di santità (cfr. Ez 44,15-31; Lev 21). Infatti il popolo dell'Antico Testamento è ben cosciente che l'uomo è da sé stesso incapace della purità e della santità che Dio gli chiede; perciò è da Dio stesso che si attende in definitiva la realizzazione del sacerdozio perfetto, e lo stesso Messia alla fine dei tempi «ricostruirà il tempio del Signore» (Zac 6,12-13) e il popolo stesso renderà a Yhwh il culto perfetto (cfr. Ez 40-48; Is 2,1-5 ; 60-62). Addirittura a Qumran è documentata la figura di un «Messia di Aronne», cioè di statura sacerdotale (cfr. 1Q_S 9,9; CD 13,21).

Quale laicità in Grecia e in Israele Essendo il concetto di laicità sostanzialmente moderno, si rischia l'ana­ cronismo, lessicale ed ermeneutico, se viene acriticamente applicato alle antiche società greca ed ebraica, dato che là non esiste il nostro tipo di problematica in materia. Qui perciò ci chiediamo quale sia il peso effettivo giocato dal semplice vocabolo sui due rispettivi versanti culturali. Versante greco La sola cosa certa è che il nostro vocabolo «laico» è un aggettivo di origi­ ne greca e fa riferimento a laos, «popolo», che peraltro indica non solo il popolo in generale ma anche la popolazione in opposizione ai suoi capi 43. L'aggettivo però non risulta documentato a livello di letteratura d'autore.

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Al più lo si trova attestato soltanto in alcuni papiri, di cui il più antico risa­ le al III secolo a.C. e precisamente all'Egitto degli ultimi anni di Tolomeo Filadelfo (t 2.2.1 a.C.)44• Si tratta del cosiddetto Papiro di Lilla (dalla città francese in cui è conservato), che contiene una lista in cui sono censiti animali e uomini. V i si rintraccia l'espressione laika tethrdmmena, che significa le «bestie da soma allevate dalla popolazione». La medesima locuzione ricompa­ re più chiara in un papiro posteriore del 12.0 a.C., dove un funzionario dell'amministrazione tolemaica ordina a un subalterno: «Metti immedia­ tamente a disposizione degli addetti all'ammasso di grano tutte le bestie da soma della popolazione [laika tethrdmmena] del tuo distretto». Un altro papiro, assai più importante, datato al 2.62.-2.60 a.C., riporta l'edit­ to di Tolomeo II concernente la riscossione delle tasse sull'acquisto degli schiavi in Siria e Fenicia. Il termine laikos vi ricorre tre volte nelle seguenti espressioni: soma laikon eleutheron, somata laika eleuthera e gynaixi lai­ kais, per indicare rispettivamente «l'uomo indigeno libero», «gli uomini indigeni liberi» e «le donne indigene» appartenenti alla popolazione lo­ cale amministrata dalla dinastia tolemaica. Allo stesso modo l'espressione laike boetheia in un altro papiro significa «l'aiuto del popolo» a cui un debitore si obbliga per contratto a non ricorrere,-per difendersi dalle legit­ time pretese del creditore. Finalmente vari papiri contengono la formula tecnica greca laike syntdxis, equivalente a quella capitatio plebeia del basso impero romano, che designa la tassa imposta su ogni «capo», cioè su ogni individuo della popolazione indigena. Da tutti gli esempi appare chiaro che laikos assume sempre uno stes­ so denominatore comune, equivalente a «ciò che fa parte del laos» , ossia «ciò che appartiene alla popolazione locale», distinta dall'amministra­ zione che la governa. Pertanto da tutto il contesto non sembra che si pos­ sa concludere con certezza che laikos assuma nei papiri ellenistici una sua propria esistenza "autonoma" da laos, con un suo valore specifico e catego­ rizzante. Più in generale ci si può chiedere quale relazione intercorra tra le leggi divine e le leggi della città. Poiché i sacerdoti avevano solo compiti rituali e non politici, la società greca ignorava ogni forma di costrizione ideologica sulle coscienze. Il problema semmai è quello delle accuse fatte a Socrate, nella sede pubblica dell'Areopago, in quanto «non riconosce neppure gli dèi [ ... ] commette reato corrompendo i giovani e non riconoscendo gli dèi in cui crede la città e introducendo nuove divinità»41• In questo caso

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si poteva invocare il crimine di asébeia, «empietà», e in effetti quella vi­ cenda mette in questione la laicità della democrazia ateniese, che eviden­ temente non garantiva i diritti di libertà di pensiero e di espressione46• I Greci, ignorando il concetto di laicità, non conoscono una separazione tra ciò che riguarda l'esclusiva sfera divina e ciò che riguarda il mondo degli uomini; e, nell'esprimere il loro rapporto con il divino, si soffermano meno su fede e credenza, e più sui rituali, eseguiti in base alla tradizione per garantirsi i buoni rapporti con la divinità. Versante ebraico Va subito detto che l'aggettivo laikos nella Bibbia greca, detta dei Settanta, non si trova mai47• Esso viene invece pur raramente impiegato dai tradutto­ ri giudei del II secolo d.C., cioè Aquila, Simmaco e Teodozione48 , e i testi in questione sono solo tre: 1Sam 21,5; Ez 22,16; 48,15. Il vocabolo ebraico così tradotto è bol, «profano», che altrove la Settanta rende in greco con bébélos, «non consacrato, impuro» (Lev 10,10; 1Re 21,4.5; Ez 4,14; 21,25; 22,26; 44,23; 2Mac 5,16; 3Mac 2,2.14; 4,16; 7,15) 49• Ma in questi testi si tratta di cose più che di persone. In ogni caso, la distinzione fondamentale e ampiamente tematizzata, in campo ebraico, non è tanto la differenziazione tra sacerdote e laico quan­ to quella tra sacro e profano, corrispondente rispettivamente a quella tra impuro e puro10• Essa interessa entrambi i ceti senza differenze, anche se al sacerdote viene richiesta la massima purità soprattutto nelle sue funzioni liturgiche. Semmai la differenza si constata nel!' area del Tempio con la se­ parazione fisica tra la zona accessibile ai soli sacerdoti ( il naos [santuario] vero e proprio) e quella riservata agli altri israeliti, che distingueva ancora a parte un cortile delle donne1 '. Sarà con l'essenismo postesilico che avverrà una radicalizzazione estre­ ma della concezione dell'impurità come forza malefica, di fatto coinciden­ te con il peccato e con il male. Qui impurità e peccato coincidono e fanno parte della natura stessa dell'uomo, come si legge a Qumran: «L'uomo è nel peccato ['awon] fin dall'utero» (1QH 4,29-30). Per gli Esseni impuri­ tà e peccato coincidono, dovendo precisare che il termine 'awon qui non indica tanto una singola trasgressione, quanto una macchia costitutiva e indipendente dalla volontà del singolo. Quindi la liberazione dal peccato è liberazione dall'impurità, è purificazione. Sicché per gli Esseni l'uomo

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non è più soltanto sede del profano, ma dell'impuro. La categoria di Eze­ chiele, che considerava impuri gli stranieri (cfr. 44,6-9), è completamente ribaltata: prima Dio e l'uomo si trovavano ai poli opposti di un cosmo, in cui ognuno era libero nella sua sfera. Con questa nuova spiritualità lo spazio del profano scompare: l'aspirazione dell'uomo è di penetrare già su questa terra nella sfera del sacro e del divino, e l'esseno che canta le lodi di Dio è già trasferito ali' interno del Tempio celeste. Su questo sfondo si possono poi comprendere meglio le rispettive po­ sizioni di Giovanni Battista, che battezzava per la remissione dei peccati (cfr. Mc 1,4), e di Gesù, che riportava all'interiorità la radice del male (cfr. Mc 7,15)1 •.

Note 1. Cfr. M. Cortelazzo, P. Zolli (a cura di), Il nuovo etimologico, Zanichelli, Bologna 1999, p. 1 42.4. 2.. Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, Klincksieck, Paris 1999, p. 457. 3. Cfr. F. Koenig, Dizionario delle religioni, Herder, Roma 1960, p. 82.2.: « Non ogni ministro del culto è sacerdote. Lo si designerà, a seconda del grado di cultura, sciama­ no, oppure mago [ ... ] . Il pericolo dell'inaridimento nel sacerdozio consiste nella con­ cezione magica delle sue funzioni». Entrambi, lo sciamano e il mago, operano una mediazione con esseri invisibili superiori all'uomo ma, detto in breve, lo sciamano comporta una qualche forma di estasi o visione e comunicazione diretta con l'Altra Realtà, mentre il mago opera solitamente per scopi di guarigione o di maleficio me­ diante l'uso di oggetti e formule speciali (che possono identificarlo come stregone). 4. G. van der Leeuw, La religion dans son essence et ses manifestations. Phénoménolo­ gie de la religion, Payot, Paris 1955, p. 2.14. Cfr. anche M. Augé, Genio delpaganesimo, Bollati Boringhieri, Torino 2.002., pp. 2.8-35 (La religione tra magia efilosofia). 5. Come abbiamo già visto, secondo Cicerone « nessuno deve avere per sé dèi sepa­ rati, né nuovi né stranieri, se non sono stati riconosciuti pubblicamente [ ... ]. I greci e i romani hanno voluto che essi fossero residenti nelle stesse città in cui lo siamo noi» (De legibus II,19.2.6); del resto, lo stesso Cicerone lamenta il numero eccessivo degli dèi: «Il mondo stesso è dio [deus ipse mundus] [ ... ]. Perché dunque aggiungiamo altri dèi ? Infatti quale moltitudine ne abbiamo. A me sembrano veramente molti» (De natura deorum m,40 ). Cfr. M. Bettini, Elogio delpoliteismo. Quello che possiamo im­ parare oggi dalle religioni antiche, il Mulino, Bologna 2.014. 6. Cfr. in generale M. Vegetti, L'uomo e gli dei, in J.-P. Vernant (a cura di), L'uomo greco, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 2.57-87; A. Motte, Il sacro nella natura e nell'uomo:

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la percezione del divino nella Grecia antica, in J. Ries (a cura di), Trattato di antropo­ logia del sacro, voi. III: Le civilta del Mediterraneo e il sacro, Jaca Book, Milano 1992.,

PP· 2.33-57. 7. Già il presocratico Senofane aveva bollato i racconti dei poeti come menzogne blasfeme, lamentando che Omero ed Esiodo attribuissero agli dèi «tutto ciò che è vergognoso e riprovevole tra gli uomini: rubano, commettono adulterio e si inganna­ no l'un l'altro» (fr. 1 1, in G. Reale, a cura di, Ipresocratici. Prima traduzione integrale

con testo a.fronte delle testimonianze e dei.frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, Bompiani, Milano 2.006, p. 303). Da parte sua Platone definì gli anti­ chi miti «chiacchiere da vecchiette» ( Teet. 176b : graon hjthlos), accusando Omero e i poeti di aver commesso a proposito degli dèi «uno stupido errore» (Rep. 379c: ha­ martian anoetos) riguardo le loro mutazioni poiché invece «ogni dio semplicemente mantiene sempre la sua forma» (Rep. 3 81c); anche secondo Aristotele a proposito degli dèi « i poeti dicono molte bugie » (Metafisica Alfa 2.,983a: polla pseudontai). 8. L. B. Zaidman, P. S. Pantel, La religione greca, Laterza, Roma-Bari 1992., p. 39; cfr. anche W. Burkert, I Greci, voi. I: Preistoria, epoca minoico-micenea, secoli bui (sino al sec. IX), Jaca Book, Milano 1984, pp. 141-7; I. Chirassi Colombo, La religione in Grecia, Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 63-134. 9. La presenza di sacerdotesse è testimoniata già in Omero (cfr. Iliade 6,300); ma cfr.

anche Tucidide 4,133,2.-3. Il loro ruolo era prevalentemente il servizio a divinità fem­ minili. Nel santuario di Delfi era una sacerdotessa, la Pizia, a formulare gli oracoli, sia pure in termini di glossolalia, che veniva resa in forma comprensibile da altri sacerdo­ ti. Inoltre esistevano varie Sibille dislocate in luoghi diversi di cui Varrone ne elenca dieci (in Lattanzio, Divinae institutiones 1,6,12.). Da loro e a partire dal II secolo a.C. prese nome la raccolta giudeo-cristiana degli Oracoli Sibillini (cfr. l'edizione a cura di M. Monaca, Città Nuova, Roma 2.008). 10. Per una descrizione del sacrificio pubblico, con la parte svolta dal sacerdote, cfr. Zaidman, Pante!, La religione greca, cit., pp. 2.5-8. Si può anche vedere il racconto di un sacrificio al dio Poseidone in Odissea 3,41 8-472., quando Nestore, re di Pilo (a sud­ ovest del Peloponneso), accoglie Telemaco in cerca del padre Ulisse. 11. W. Burkert, La religione greca di epoca arcaica e classica, Jaca Book, Milano 2.010', p. 2.12.. 12.. SVF III, n. 608; cfr. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri.filosofi, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2.017, pp. 836-7. Secondo Marco Aurelio, chiunque padrone di sé «è un sacerdote e un ministro degli dèi» (Pensieri 3,4). 13. Zaidman, Pantel, La religione greca, cit., p. 44. Cfr. anche Burkert, I Greci, cit., voi. I, pp. 8 1-175; voi. II: Eta arcaica, eta classica {sec. rx-w), Jaca Book, Milano 1984, pp. 399-437. 14. Per esempio, accanto all'Asclepieion di Corinto sono attestate tre dining rooms, ciascuna con undici posti (cfr. J. Murphy-O 'Connor, St. Paul's Corinth: Texts and Archaeology, Michael Glazier, Wilmington, DE, 1983, pp. 1 62.-5). Nel 1985 fu scoperto a Pergamo un ambiente di 2.4 m X 14 m, un cosiddetto Hestiaion (probabilmente del II secolo), vicino al tempio di Hera, adibito ad adunanze cultuali e svolgimento

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di banchetti (cfr. H. Schwarzer, Vereinslokale im hellenistischen und romischen Per­ gamon, in U. Egelhaaf-Gaiser, A. Schafer, Hrsgg., Religiose Vereine in der romischen Antike. Untersuchungen zu Organisation, Ritual und Raumordnung, Mohr Siebeck, Tùbingen 2.002., pp. 2.2.1-60, specie pp. 2.35-8). 15. A questo proposito è curioso e interessante quanto scrive Tertulliano per i suoi interlocutori pagani: «Voi dite che ogni giorno le entrate dei templi si assottigliano: quanto pochi sono coloro che gettano ormai delle monete! Il fatto è che noi non riusciamo a soccorrere insieme gli uomini e gli dèi vostri mendicanti, e d'altronde cre­ diamo che si debba donare solo a quelli che domandano. Perciò stenda anche Giove la mano e qualcosa riceverà, dal momento che dona di più la nostra pietà per le strade che non la vostra l'.eligione nei templi [plus nostra misericordia vicatim quam vestra religio templatim] » (Apologetico 42.,8). 1 6. Cicerone, De natura deorum 1,u6-u7. Cfr. il pio Enea in Virgilio, Eneide IV,393. 17. Le fonti ci vengono da Tito Livio, Storie 1,2.0; Dionigi di Alicarnasso, Antichita romane 11,64-73; Sesto Pompeo Festo, De verborum significatu 198-2.00. Tra la biblio­ grafia specifica, cfr. J. Scheid, La religione a Roma, Laterza, Roma-Bari 1983; A. Giar­ dina (a cura di), L'uomo romano, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 47-79; M. Sordi, L 'homo romanus: religione, diritto e sacro, in Ries (a cura di), Trattato di antropologia del sacro, cit., voi. III, pp. 2.85-307; J. Champeaux, La religione dei romani, il Mulino, Bologna 2.002.. 18. L'istituzione del Pontefice massimo viene fatta risalire a Numa Pompilio succes­ sore di Romolo (cfr. Dionigi di Alicarnasso, Antichita romane 11,73,1); era anche det­ to Summus pontifox (Tacito, Annali III,58). Sulla etimologia del vocabolo Plutarco riporta tre ipotesi: una legata alla potenza (dal latino potens) degli dèi di cui erano sacerdoti, l'altra connessa al potere di compiere i sacri riti, mentre la terza ipotesi deri­ verebbe dai ponci presso i quali essi sacrificavano e dei quali erano sovrintendenti, ma Plutarco la definisce « ridicola » ( Vita di Numa 9); invece questa è ritenuta giusta da Dionigi di Alicarnasso, 11,73,1, e da Varrone, De lingua latina 5,83, specie in rapporto all'antico Ponce Sublicio (cfr. Cortelazzo, Zolli, a cura di, Il nuovo etimologico, cit., p. 12.2.8). 19. In più, gli era proibito mangiare fave, oltre che vedere e toccare un cadavere ed entrare nel recinto di una pira funebre; cfr. A. Brelich, Appunti sul Flamen Dialis, in "Acta Classica Universitatis Scienciarum Debreceniensis", 8, 1972., pp. 17-2.1. 2.0. In più c'erano poi alcuni sodalizi sacerdotali, come i Fetiales (per controllare che i trattati fossero osservati), gli Arvales (che a fine maggio celebravano una grande festa agraria per la fecondità dei campi, con sacrifici, banchetti e giochi), i Luperci (che il 15 febbraio celebravano i Lupercalia come festa di purificazione e propiziazione per la fecondità delle donne e la fertilità della terra) e i Salii (che portavano in processione a passo di danza dodici scudi sacri per le vie di Roma in occasione della guerra). 2.1. Cfr. J. Scheid, Il sacerdote, in Giardina, L'uomo romano, cit., pp. 55-6. 2.2.. Cfr. Cassio Dione, Storia romana So. Fu poi Aureliano (2.70-2.75) a ufficializzare il culto del Sol Invictus, edificandogli un tempio sul Quirinale con un nuovo corpo di sacerdoti (Pontifices Solis Invicti); il tempio venne consacrato il 2.5 dicembre 2.74 in

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una cerimonia chiamata Dies Natalis Solis lnvicti, « Giorno della nascita del Sole In­ vitto» (cfr. Hist. Aug., Aureliano 35), da cui derivò nel IV secolo l'istituzione cristiana della data del Natale di Gesù. l3- Secondo gli autori antichi il nome diflamen deriverebbe dalfilum ofilamentum di lana del vestito ornamentale, mentre secondo studi recenti dovrebbe derivare in­ vece dajlare, cioè dal!'accendere e dal soffiare il fuoco sull'altare del sacrificio (cfr. G. Dumézil, La religione romana arcaica. Miti, leggende, realta della vita religiosa ro­ mana, Rizzoli, Milano l001). l4. Si trattava della conjàrreatio, che la tradizione faceva risalire a Romolo: una ce­ rimonia caratterizzata dalla spartizione fra i nubendi di una focaccia di farro, da cui prendeva il nome. Essa era riservata esclusivamente ai patrizi e richiedeva la presenza del Pontifex maximus, del Flamen Dialis e di dieci testimoni nati da matrimoni ce­ lebrati con lo stesso rito. L'unione delle mani degli sposi, dexterarum iunctio, era un gesto tramite il quale questi manifestavano il proprio consenso. La cerimonia si con­ cludeva con la pronuncia della formula rituale ubi tu Gaius ego Gaia ( « dove sarai tu Gaio sarò anch'io Gaia »). La donna recideva qualsiasi tipo di legame con la famiglia di origine, precludendosi quindi anche la possibilità di partecipare alle successioni ali' interno della sua famiglia (cfr. C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari, voi. II: Sponsalia, matrimonio, dote, L'Erma di Bretschneider, Roma loo5, PP· u3-45). l5. Cfr. A. Momigliano, Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1980, voi. I, p. 67. l6. Come bibliografia generale si rimanda agli studi classici di R. de Vaux, Le isti­ tuzioni dell'Antico Testamento, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1964, pp. l73-497, specie pp. 34l-457; E. Schiirer, Storia delpopolo giudaico al tempo di Gesù Cristo {175 a.C. -135 d.C.), Paideia, Brescia 1987, voi. II, pp. l95-383; J. Jeremias, Gerusalemme al tempo di Gesù. Ricerche di storia economica e sociale per il periodo neotestamentario, Edizioni Dehoniane, Roma 1989, pp. l39-344. Già Filone Alessandrino dedicò al tema una lunga sezione in Spec. leg. 1,79-161. l7. Di essi nel Nuovo Testamento si parla praticamente solo negli scritti narrativi, Vangeli e Atti (dove in 14,1 3 si accenna pure al « sacerdote di Zeus» della città anato­ lica di Listra), e vi si documenta la distinzione tra « sacerdoti » (hiereis) (15 volte + 1 4 volte i n Ebr; inoltre w 7 volte archiereus + 1 8 volte i n Ebr) e «Leviti» (Leuitai) (solo 3 volte), menzionati insieme in Gv 1,19. l8. Così si parla del sacerdote cananeo di nome Melk.isedeq (Gen 14,18), del sacer­ dote egiziano Potifera padre di Asenat moglie del patriarca Giuseppe (Gen 41,45), del sacerdote madianita letro (Es 1 8,1-u), dei sacerdoti di Baal convocati dal re leu (lRe 10,19-lO), o in generale dei sacerdoti «di chi non è Dio» (lCr 13,9) ecc. Per tre volte è usato invece il vocabolo komer per indicare esplicitamente sacerdoti idolatri (lRe l3,5; Os 10,5; Sof 1,4). l9. Cfr. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, cit., p. 354. Per una distinzio­ ne di funzioni, cfr. L. Grabbe, Sacerdoti, profeti, indovini, sapienti nell'antico Israele, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1998.

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30. L'originale ebraico parla di urim e tummim: due dadi tirati a sorte che il sacerdote recava sul petto (l'Efod di cui in Es 2.8,6-30) e che significavano "sì" e "no" (cfr. 1Sam 1 4,41; Esd 2.,63); probabilmente dopo Davide furono sostituiti dagli oracoli profetici. 3 1. Sadoc, discendente di Eleazaro figlio di Aronne; fu determinante nel portare al trono il re Salomone e, dopo che questi eresse il Tempio di Gerusalemme, Sadoc ne fu il primo Sommo Sacerdote. Il Sommo sacerdozio rimase alla schiatta dei sadociti fino al sorgere dei Maccabei verso il 167 a.C. Al suo nome si richiamerà la fazione dei Sadducei, di cui ci parla Flavio Giuseppe, Ant. 1 8,16-17. Per la storia del postesilio, cfr. R. A. Kugler, Priests, in J. J. Collins, D. C. Harlos (eds.), The Eerdmans Dictionary of EarlyJudaism, Eerdmans, Grand Rapids (MI)-Cambridge 2.010, pp. 1096-9. 32.. Cfr. P. Sacchi, Storia del secondo Tempio. Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., SEI, Torino 1994, pp. 2.05-9; F. Garda Mardnez, J. Trebolle Barrera, Gli uomini di Qumran, Paideia, Brescia 2.003; G. Beccaccini, Oltre l'ipotesi essenica. Lo scisma tra Qumran e il giudaismo enochico, Morcelliana, Brescia 2.003; L. Monti, Una comuni­ tà allafine della storia. Messia e messianismo a Qumran, Paideia-Claudiana, Brescia 2.006; G. lbba, Qumran, Gesu e le prime comunità cristiane, in R. Penna (a cura di), Le origini del cristianesimo. Una guida, Carocci, Roma 2.018, pp. 71-85. 33. Cfr. l'apocrifo Testamento di Levi 18,1-2..8.9.10: « Il sacerdozio [attuale] scompari­ rà. Allora il Signore farà sorgere un sacerdote nuovo [ ... ]. Egli non avrà successori [ ...] . Sotto il suo sacerdozio scomparirà il peccato [ ...] . Egli aprirà l e porte del paradiso e devierà la spada puntata contro Adamo». 34. Cfr. M. Priotto, Esodo. Nuova versione e commento, Paoline, Milano 2.014, p. 355. L'autore diverge dall'opinione di G. Barbiero, Mamleket kohanim [Es 19,oa]: i sacer­ doti al potere?, in "Rivista Biblica� 37, 1989, pp. 42.7-46, secondo cui si tratterebbe di un sacerdozio esercitato da Israele a favore delle genti (come in Filone Alessandrino, Abr. 98; Vit. Mos. 1,149; Spec. leg. 2.,163.167 ). Infatti il testo parla di una distinzione dalle genti, ma non di una missione verso di loro; del resto il midrash rabbinico Me­ kilta de-Rabbi Ishmael intende la qualifica sacerdotale di Israele alla luce di quella seguente « nazione santa », mentre il commento medievale di Rashi di Troyes adduce a spiegazione l'identità dei figli di Davide detti «sacerdoti» (in 2.Sam 8,18) con gli stessi detti invece «principi » (nel parallelo 1Cr 18,17 ). 3 5. Cfr. I. Cardellini, I sacrifici dell'Antica Alleanza. Tipologie, Rituali, Celebrazioni, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2.001, pp. 418-2.6; Id., I Leviti, l'Esilio e il Tem­ pio, Lateran University Press, Roma 2.002.; inoltre Jeremias, Gerusalemme al tempo di Gesu, cit., pp. 32.3-32. (che dà anche il numero totale, circa 2.0.000, delle due categorie al tempo di Gesù). 36. Cfr. ivi, pp. 32.4-5. 37. Un'ampia descrizione dei vari servizi si può trovare in E. P. Sanders, I/giudaismo. Fede e prassi (63 a.C. -66 d.C.), Morcelliana, Brescia 1999, pp. rn5-40 (sul servizio di sacerdoti e Leviti nel Tempio) e 2.36-61 (sui sacerdoti e Leviti fuori del Tempio). 38. In Sir 50,5-2.1 si legge una splendida descrizione di come appariva nel giorno del Kippur il Sommo Sacerdote Simone, figlio di Onia II, in carica negli anni 2.18-185 a.C.

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39. Cfr. l a descrizione dettagliata i n Schiirer, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo (175 a.C. -135 d.C.), cit., voi. II, pp. 3 18-39. 40. Esdra stesso, discendente di Aronne, «era uno scriba esperto nella Legge di Mosè » (Esd 7,6); più in generale, nei libri dell'Antico Testamento il sacerdote appare come l'uomo della conoscenza (cfr. Os 4,6; Mal 2.,6-7; Sir 45,17 ). 41. Cfr. L. I. Levine, 1he Ancient Synagogue: 1he First 1housand Years, Yale Univer­ sity Press, New Haven (cT)-London 2.000; P. J. Achtemeier (a cura di), Il Dizionario della Bibbia, Zanichelli, Bologna 2.003, pp. 796-7 (s.v. Sinagoga). 42.. Cfr. H. Simian Yofre, La critica profetica nei confronti del sacerdozio, in V. Liberti (a cura di), I laici nelpopolo di Dio. Esegesi biblica, EDB, Roma 1990, pp. 89-112.. 43. Cfr. H. Strathmann, in GLNT VI,90-166. In ambito cultuale esso al più può indi­ care i fedeli/laici partecipanti al rito: cfr. GLNT VI,95 ( = IG XI 4,12.99,90): « tutta la gente in quel giorno inneggiò alla grandezza di Serapide » . 44. Cfr. l a documentazione offerta da I . de l a Potterie, L 'origine et le sens primitifdu mot "/aie", in "Nouvelle Revue Théologique", So, 1958, pp. 840-53. 45. Platone, Apol. 1 8c.2.4b-c. In ogni caso sorprende la sua dichiarazione: «Obbe­ dirò piuttosto al dio che a voi e finché avrò respiro non cesserò mai di filosofare [ ... ] . Una vita senza ricerca non è degna d i essere vissuta » (Apol. 2.9d.38a). 46. Cfr. F. Pannuti, Socrate, la morte di un laico e altri saggi, Aracne, Roma 2.009. Più in generale cfr. L. Canfora, Il mondo di Atene, Laterza, Roma-Bari 2.011, pp. 38 e 63-4. 47. Al più si trova un senso partitivo del sostantivo laos come designazione del po­ polo in quanto distinto dai capi e soprattutto dai sacerdoti e da quanti esercitano una funzione religiosa. Per esempio così leggiamo: «I sacerdoti e il popolo non si preci­ pitino» a salire sul Sinai (Es 19,2.4). Oppure: «I sacerdoti, i profeti e tutto il popolo udirono Geremia » (Ger 2.6,7). 48. Cfr. l 'analisi dei testi in De la Potterie, L'origine et le sens primitifdu mot "/aie", cit., pp. 844-7. Curiosamente il vocabolo greco non si trova neppure in alcuno degli scrittori giudeo-ellenisti come la Lettera di Aristea, le Sentenze dello Pseudo-Focilide, Filone Alessandrino e Flavio Giuseppe. 49. Si veda come esempio il doppio linguaggio di Lev 10,10: «possiate distinguere ciò che è santo da ciò che è profano (TM: ben haqqodesh uben habol; LXX : anà méson ton hagion kai ton bebelon) e ciò che è impuro da ciò che è puro (TM : ben hafµime' uben hafµihor; LXX: kai anà méson ton akathdrton kai ton katharon) » . 50. I l tema è stato ampiamente studiato d a Sacchi, Storia del secondo Tempio, cit., pp. 415-53; Id., Sacro/profano, impuro/puro nella Bibbia e dintorni, Morcelliana, Bre­ scia 2.007. 5 1. Cfr. J. Adna, Tempio, in Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2.005, pp. 1049-53. 52.. Cfr. P. Sacchi, Gesù e la sua gente, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2.003, pp. 61-148.

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La laicità del cristianesimo nascente

L' identità del cristianesimo ha una propria dimensione di originalità, let­ teralmente incomparabile, cioè unica nel suo genere. Una cosa infatti è sicura: a parte i casi di inculturazione (di cui parleremo in.fra, Il culto dome­ stico delle prime comunita cristiane), esso, almeno agli inizi, non ha opera­ to alcuna sostanziale appropriazione dello specifico patrimonio religioso ambientale greco o latino. Gli storici delle antiche religioni mediterranee parlano di una interpretatio graeca (come assunzione per esempio degli dèi egiziani Amon, Osiride, Ptah, equiparati a quelli greci Zeus, Dioniso, Efe­ sto) e di una interpretatio romana (con un'analoga identificazione degli dèi greci con quelli latini come Zeus con Giove, Era con Giunone, Afro­ dite con Venere ecc.), che sono evidenti forme di sincretismo religioso'. Quanto al cristianesimo, se mai si può parlare di una interpretatio chri­ stiana, essa può valere soprattutto nei confronti del giudaismo, ma non a proposito di sue inesistenti divinità, bensì come assunzione di qualche ca­ tegoria religiosa trasformata, come sono il monoteismo trinitario, la figura del Messia-Signore, alcune feste reinterpretate quali Pasqua e Pentecoste e, appunto, un mutato concetto di sacerdote (cfr. CAP. 4) rapportato a una laicità di base >. I due inizi "laici" del cristianesimo Come ho già avuto modo di spiegare altrove, il cristianesimo è nato due volte'. Insieme, i due momenti esprimono la doppia anima del cristianesi­ mo stesso, l'una storica e l'altra "mistica". La prima volta il cristianesimo nacque non a Betlemme, ma quando Gesù di Nazaret « aveva circa trent 'anni » (Le 3,2.3) e si espose pubbli­ camente predicando l'evangelo della basi/eia (regno-regalità) di Dio per

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le strade e nei villaggi della Galilea. In materia, le fonti sono soprattut­ to quelle canoniche dei Vangeli sinottici, a cui si aggiungono il Quarto Vangelo e una serie di Vangeli apocrifi. In ogni caso quella predicazione, accompagnata da significative azioni compiute nei confronti dei poveri e degli impuri, rivelò anche la sua identità personale, configurabile al minimo come quella di un maestro (rabbi) e ancor più come quella di un profeta escatologico, che apriva in modo originale 1 'accesso ultimo a Dio4 • L'accoglienza che egli incontrò, da una parte, e il marcato rifiuto che gli venne opposto, dall'altra, sono i segni contrastanti di una novità da lui rappresentata e percepita di volta in volta come liberante o desta­ bilizzante. Comunque gli interventi di Gesù in parole e comportamen­ ti non ebbero soltanto una dimensione attiva-operativa, ma ne ebbero pure una di tipo per così dire "ontologico", riguardante la definizione della sua stessa identità personale. Certo, la prima dimensione, quella operativa, risulta molto più palese, mentre la seconda è lasciata solo in­ travedere come in filigrana. Ma la semplice categoria del profeta esca­ tologico richiede di essere oltrepassata o comunque integrata da altre caratterizzazioni. Per esempio, la enigmatica denominazione di «Figlio dell'Uomo» apre almeno uno squarcio su qualcosa di misterioso, così come il suo modo costante di rivolgersi a Dio chiamandolo «Padre» (in aramaico 'A.bba). Bisogna perciò necessariamente pensarlo come un uomo contraddistinto sia da una particolarissima comunione con Dio Padre, sia da una specialissima intenzione «altruistica» da lui attribu­ ita a tutta la sua intera vita, vissuta in funzione altrui, compresa la sua morte. La seconda volta il cristianesimo nacque a Gerusalemme, quando i di­ scepoli di Gesù, dopo la sua morte in croce e sulla base di una loro perso­ nale esperienza, annunciarono la sua risurrezione/esaltazione, dando ini­ zio e consistenza alla tipica fede cristiana, anzi cristologica. Questo inizio sarebbe stato impossibile senza il primo, poiché soltanto i discepoli del Terreno e non altri si dichiararono testimoni del Glorioso. L'evento an­ nunciato, poggiando sul primo inizio come su di un duro zoccolo storico, esalta appunto la statura ineguagliabile del Terreno. Infatti, annunciare la risurrezione di Gesù (ma secondo il linguaggio neotestamentario si do­ vrebbe parlare propriamente della sua «risuscitazione») significa sempli­ cemente proclamare che Dio stesso, al contrario di quanto hanno fatto gli uomini, ha posto il sigillo della sua approvazione sulla vita e sulla morte di quel Gesù (cfr. Pietro a Pentecoste in At 2.,36: «Sappia con certezza tutta

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la casa d' Israele che Dio ha costituito Signore e Messia quel Gesù che voi avete crocifisso»)1• Dando per scontata la tipica fede cristiana di base, vediamo perciò la di­ mensione laicale di entrambi gli inizi (al secondo dei quali appartengono sia il culto domestico sia alcune componenti etiche), a cui aggiungeremo una documentazione sull'impiego cristiano del termine «laico»6•

La laicità di Gesù di Nazaret Naturalmente qui entra in conto la figura terrena di Gesù di Nazaret, quello che si chiama il Gesù storico7• Ebbene, egli rappresentò una vera sorpresa nel suo ambiente di appartenenza e nel suo tempo: così infatti confessano le guardie del Tempio ai loro capi: «Mai un uomo ha parlato così !» (Gv 7,46; cfr. Mt 7,28-29). Comunque lo si voglia etichettare, egli è stato un outside�. L'appartenenza etnica Gli scritti neotestamentari, compresi gli apocrifi, sono tutti concordi nell'attribuire a Gesù una discendenza genealogica che non ha nulla a che fare con la tribù di Levi, escludendolo così in radice dall'appartenenza al ceto sacerdotale9• Lo si vede all'evidenza già nelle due genealogie riporta­ te da Mt 1,1-17 e da Le 3,23-38, che lo presentano come un davidide della tribù di Giuda, mentre altrove si precisa con chiarezza che di questa tribù «Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio» (Ebr 7,14). Del resto, la qualifica di «figlio di Davide» attraversa tutti i Vangeli (cfr. Mc 9,27; 12,23; 20,31; 21,9-10; Mc 10,47-48; Le 18,38-39; 19,37-38; Gv 12,13) ed è presente pure in altri scritti (cfr. Rom 1,3b; 2T im 2,8; Ap 22,16). La dichiarazione più esplicita si ha nella Lettera agli Ebrei, che peraltro tra tutti gli scritti del Nuovo Testamento formula ed esalta l'identità di Gesù come sacerdote e Sommo Sacerdote (cfr. CAP. 4, «Sacerdote», anzi «Sommo Sacerdote» e il solo Gesu Cristo); ebbene quella Lettera, riferendosi ad Aronne, dice di Gesù che «appartiene a un'altra tribù, della quale nessuno mai fu addetto all'altare, poiché è noto che il Signore nostro è germogliato dalla tribù di Giuda, e di essa Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio» (7,13-14), tanto che «se egli fosse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote» (8,4),

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dato che la sua ben più alta funzione sacerdotale egli la svolge ormai «nei cieli» (8,1). Certo è che i Vangeli non parlano di sacerdozio a proposito di Gesù e neanche per gli apostoli. Tanti titoli vengono attribuiti a Gesù: Maestro, Profeta, Figlio di Davide, Figlio dell'uomo, Messia, Signore, Figlio di Dio; ma tra tutti questi titoli non si trova mai, nei racconti evangelici, quello di sacerdote o di sommo sacerdote'0•

L'importanza dell'anomalo sacerdote Giovanni in quanto "Battista" Il dato interessante è che Gesù, se non con le sue dichiarazioni", certa­ mente con il suo comportamento, prese di fatto le distanze dal mondo dei sacerdoti e di ciò che essi rappresentavano. Lo si vede già, a mio parere, da ciò che paradossalmente dovette significare per lui la figura di un sacerdote come Giovanni figlio di Zaccaria, detto il Battista. Questi, infatti, essendo figlio di un sacerdote (cfr. Le 1,5; 3,2.), era sacerdote pure lui, e tuttavia sor­ prendentemente non seguì le orme paterne poiché, invece di confinare la sua attività tra le mura del Tempio di Gerusalemme e le sue liturgie, scelse e percorse una strada assai diversa. Si può discutere su di un eventuale suo rapporto con gli Esseni, che appunto erano in polemica con il Tempio di Gerusalemme e il suo sacerdozio"; certo è che egli non si chiuse in una comunità (come avvenne per il gruppo di Qumran), ma si attivò pubblica­ mente da solo nel deserto, quindi lontano da Gerusalemme, assicurando il perdono dei peccati non con i soliti rituali compiuti nel Tempio, ma con l'appello alla conversione e un semplice battesimo d'acqua. Questa era una vera innovazione'l. Ebbene, a mio parere, Gesù rimase fortemente colpito da questa novità, al punto che si sentì stimolato a porre fine alla lunga "la­ titanza" della sua vita privata nel villaggio di Nazaret e, pur ponendosi in un primo momento alla sequela di quel Giovanni, intraprese poi un nuovo tipo di predicazione sul perdono dei peccati, collegato questa volta non con un rito d'acqua, ma con la semplice adesione alla sua stessa persona e alla sua parola1 4 • Questo comportamento è variamente attestato, come si vede nel caso di un paralitico (Mc 2.,1-10 e paralleli), di una peccatrice pub­ blica (Le 7,47-49), di un'adultera (Gv 8 , 1 - 1 1 ) , tanto da suscitare perplessità e l'interrogativo problematizzante: «Chi è costui che rimette i peccati?» (Le 7, 49) . In più, i Farisei e gli scribi constatano con scandalo quale sia la sua compagnia preferita: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro»

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(Le 15,2.; cfr. 7,34: «amico dei pubblicani e dei peccatori»), sottintenden­ do il fatto che egli non si cura minimamente dell'impurità di cui potrebbe contaminarsi. Come si vede, Gesù è un uomo libero'5 e, pur essendo un laico, si pone di fronte ai peccatori comportandosi come se fosse un sa­ cerdote e per di più agisce apertamente in ambito profano, cioè al di fuori dell'area sacra del Tempio, quindi a prescindere da tutte le sue liturgie'6• In questo senso, persino il suo nome ebraico ( «Gesù [ Yeshua'] » dal verbo yasha', «salvare») viene interpretato nientemeno che dall'angelo apparso a Giuseppe come includente il programma e lo scopo della sua vita: «Egli salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,2.1), cioè lui, e non i sacrifici templari! Fattori vari La laicità del Gesù storico si deduce e si conferma anche da altri fattori. È vero che, stando soltanto al Vangelo di Luca, egli proviene da una famiglia osservante, come risulta dalla presentazione di lui bambino al Tempio (2.,2.2.-38) e dallo smarrimento di lui dodicenne tra i maestri nell'area templare in occasione di una Pasqua (2., 41-50). Ma quanto alla sua età adulta, non si evidenzia una sua personale frequentazione del Tempio stesso, eccetto il fatto che soltanto il Vangelo giovanneo accen­ na a una sua generica salita dalla Galilea a Gerusalemme in occasione di una Pasqua (2.,13), di una festa non precisata (5,1: forse Shevuot, una Pen­ tecoste), di una festa delle Capanne (7,2.-10: Sukkot nel mese di T ishri tra fine settembre e inizio ottobre) e di una festa della Dedicazione ( 10,2.2.-2.3: Hanukka, verso metà dicembre)' 7 ; non si parla però mai di una sua partecipazione all'importante l'om Kippur, giorno dell'espia­ zione (il 10 di T ishri). Una sua sicura presenza nel Tempio è attestata da Mc 12., 41 mentre era «seduto davanti al Tesoro» (a cui si accedeva dal cortile delle donne!) osservando la povera offerta di una vedova. Ma non abbiamo notizia che egli si sia mai spinto oltre quel luogo verso il cortile degli Israeliti o dei sacerdoti dove stava l'altare per i sacrifici. Certo egli conosce l'attività sacerdotale svolta nel Tempio, poiché fa riferimento alla presentazione di un'offerta all'altare (cfr. Mt 5,2.3-2.4), vi manda il lebbroso guarito secondo le prescrizioni levitiche (Mc 1,4 4), accenna ai sacerdoti che vi infrangono legittimamente il precetto del sa­ bato (cfr. Mt 12.,5-6) e dice a Pietro di pagare il tributo dovuto al Tempio pur precisando che i «figli» non dovrebbero farlo e se lo fa è solo «per

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non scandalizzare» (Mt 17,24-26)18• Tuttavia, secondo Matteo, egli cita due volte le parole di Osea: «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Os 6,6 = Mt 9,13; 12,7), che implicano una chiara «critica religiosa»' 9, tanto più che esse ricorrono nel contesto di una misericordiosa acco­ glienza dei peccatori, che Gesù appunto accoglie senza rimandarli ai sacrifici espletati dai sacerdoti. Inoltre egli critica anche l'istituto del qorban, secondo cui quando un ebreo dichiarava formalmente che una somma di denaro o un altro bene era appunto "qorban", cioè consacrato per il Tempio, quella cifra non era più disponibile per altre finalità be­ nefiche, come il sostentamento dei genitori; ebbene, Gesù ne denuncia la perversione religiosa ed etica (cfr. Mc 7,11-12). Si veda pure la riser­ vatezza che egli richiede a chi fa l'elemosina e si mette a pregare (cfr. Mt 6,1-6; 23,5-7 ): tutto va fatto quasi di nascosto, senza alcuna osten­ tazione religiosa. In questo senso va anche il detto sul puro e l'impuro (cfr. Mc 7,15; Mt 15,10 ), con cui, mediante la contrapposizione tra ciò che entra nell'uomo dal di fuori e ciò che ne esce dal di dentro, vengono declassate le prescrizioni rituali e viene laicamente promosso il valore dell'interiorità. Va pure notato l'inedito rapporto di Gesù con le donne. Secondo Le 8,2-3, oltre ai Dodici, «c'erano con lui alcune donne» (di tre delle qua­ li si danno i nomi: Maria, Giovanna, Susanna), probabilmente benestanti perché «li servivano con i loro beni». Ora, «nell'ambiente del giudai­ smo, vedere Gesù accompagnato da uomini e donne era un fatto veramen­ te sorprendente, insopportabile per l'élite religiosa»10• Lo stesso vale per la sua conversazione con la donna samaritana (Gv 4,5-29), di cui «i suoi discepoli si meravigliavano» (v. 27). Se ne deduce la libertà di Gesù che non si lascia imbavagliare dalle regole religiose". Inoltre va osservato che, nonostante una certa polemica con i Farisei, egli con loro ha dei rapporti amichevoli, come con Simone che lo invita a casa sua per mangiare (cfr. Le 7,36-50) o Nicodemo che lo visita in inco­ gnito (cfr. Gv 3,1-21), tanto che alcuni di loro lo mettono in guardia contro le intenzioni criminali di Erode Antipa (cfr. Le 13,31); anzi, di loro non si fa menzione nel racconto della passione e morte di Gesù. Viceversa, non si ha notizia di rapporti simili con sacerdoti o Sadducei, che invece dispie­ gheranno contro di lui un'ostilità aperta tanto da passare come responsa­ bili diretti della sua condanna a morte". Detto in generale, «egli era un laico religiosamente impegnato, che sembrava minacciare il potere di un gruppo ristretto di sacerdoti»'3 •

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La distinzione tra Cesare e Dio Un giorno alcuni Farisei, riconoscendo che Gesù «non guarda in faccia nessuno», gli mandarono a chiedere se fosse lecito pagare o no il tributo a Cesare (cfr. Mc 22.,15-22.; Mc 12,13-17; Le 20,20-26), cioè all'imperatore di Roma da cui in quegli anni dipendeva la Giudea'4• Gesù si fece mostrare un denaro d'argento, recante il nome dell'imperatore con la sua immagine e la scritta "Pontifex maximus". Alla sua richiesta di chi fosse l'immagine e alla risposta «di Cesare», egli ribatté con la celebre frase: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»'1• Queste parole in genere vengono interpretate nel senso della distinzione tra Stato e chiesa, politica e religione. Tuttavia la frase richiama una verità più profonda giocata sul concetto di immagine. Il termine greco eikon, usato da Gesù per la mone­ ta, rimanda alla frase biblica posta proprio all'inizio della Bibbia: «Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò» (Gen 1,27). Il senso è che, se sulla moneta è impressa l'immagine di Cesare, sull'uomo è impressa l'immagine di Dio o, meglio, gli uomini sono facci a immagine e somiglianza di Dio. La risposta sconcerta gli ascoltatori. In ogni caso nella risposta di Gesù è chiaro che cos'è che appartiene a Cesare, cioè gli appar­ tiene solo quella moneta della Zecca di Roma su cui è incisa l'immagine dell'imperatore. Questa pertanto andava restituita al proprietario. Gesù va oltre e dice di dare a Dio quello che è di Dio. Si segna così il limite della politica e anche il suo fine: essa non fonda i diritti dell'uomo, ma deve a questi inchinarsi e servirli. Il compito dell'agire politico è quello di ricono­ scere la dignità dell'uomo e servirla, poiché i diritti umani hanno origine dalla dignità dell'uomo stesso che gli deriva dal marchio divino che porta in sé. Nel IV secolo Agostino d' Ippona utilizzerà più volte questo riferi­ mento nelle sue omelie: «Se Cesare reclama la propria immagine impressa sulla moneta, non esigerà Dio dall'uomo l'immagine divina scolpita in lui?» (Enan: in Ps. 94,2); e ancora: «Come si ridà a Cesare la moneta, così si ridà a Dio l'anima illuminata e impressa dalla luce del suo volto [ . .. ] . Cristo infatti abita nell'uomo interiore» (Enarr. in Ps. 4,8). Quindi l' indicazione di Gesù non può essere ridotta al solo ambito politico: c'è un'appartenenza a Dio, che è la radice della libertà e della dignità dell'uo­ mo, le quali vanno difese, curate e restituite a ciascuno. In ogni caso emer­ ge dalle sue parole la laicità della politica, nel senso di non esaltare Cesare fino a farne un Dio (cfr. l'apoteosi) e d'altra parte di non ridurre Dio a un Cesare qualunque, poiché se il cristianesimo parla dell'incarnazione/

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umanizzazione di Dio, certo non intende equipararlo a un pretenzioso e magari assolutista leader politico. Le parole di Gesù segnano una svolta, tale da mettere in discussione i modelli politici che l'antichità aveva co­ nosciuto, desacralizzando il potere dei sovrani terreni e depoliticizzando l'idea di una "monarchia divina". Anche il dialogo di Gesù con Pilato (soprattutto nel testo di Gv 18,2840; cfr. v. 3 6: «Il mio regno non è di questo mondo») denota un distacco nei confronti della politica e porta a concludere sulla qualità non sovver­ siva e non politica del cristianesimo, che è comunque rispettoso del po­ tere imperiale a differenza, per esempio, della critica contro la Babilonia romana sviluppata in modo veemente nell'Apocalisse giovannea. Pertanto Gesù si dimostra non interessato né a un regime teocratico né a forme di cesaropapismo. Il gesto profetico compiuto nel Tempio Un fatto molto significativo, che conferma l'estraneità e persino la critica di Gesù nei confronti del sacerdozio giudaico, è il gesto di forza da lui compiuto nel Tempio di Gerusalemme e riportato da tutti e quattro gli evangelisti 16• La sua rilevanza deriva dall'importanza del Tempio stesso, che per Israele, a differenza del mondo greco-romano, è unico e come tale simboleggia l'unicità di Dio e l'unità del popolo, così da escludere ogni innovazione che avrebbe significato un suo travisamento17• Per la verità, l'azione di Gesù può essere intesa in due modi diversi, a seconda che la si interpreti o come una difesa o come un attacco al culto del Tempio con i suoi sacerdoti. La prima interpretazione è di tipo tradizionale e la si vede nel titolo redazionale che alcune traduzioni della Bibbia danno all'epi­ sodio qualificandolo come "purificazione del Tempio", mentre l'altra in­ terpretazione si attiene semplicemente e più onestamente ai fatti con il titolo "Gesù scaccia i venditori dal Tempio". Ma è proprio questo fatto che va spiegato. L'intento polemico di Gesù è stato proposto e sostenuto, ritengo giustamente, da Ed Parish Sanders dell'Università di Oxford ed è seguito da molti altri 18• Anzi, con ogni probabilità fu proprio l'accusa di voler distruggere il Tempio a provocare la questione processuale del Som­ mo Sacerdote ( «Sei tu il Messia, il figlio del Benedetto?»: Mc 14,60-61) e quindi a costituire il motivo della sua condanna a morte19• Aspetti particolari del significato del gesto sono suggeriti dai singo­ li evangelisti3°. Secondo Marco, Gesù riprende le parole di Is 56,7 ( «La

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mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti ») aprendo così una prospettiva universalistica che va oltre il solo Israele. Matteo racconta che Gesù vi guarì ciechi e zoppi, i quali avrebbero invece dovuto essere esclusi dal Tempio (cfr. 2Sam s,8), intendendo così sostituire i sacrifici con il restituire l'uomo alla integrità del suo rapporto con Dio. Da parte sua l'evangelista Giovanni precisa che Gesù scaccia persino le pecore e i buoi destinati ai sacrifici (2,14-15), volendo significare con ciò che la sua propria Pasqua pone un termine ali' antica disposizione sacrificale. Quanto a Luca, egli omette il detto di Gesù sulla distruzione del Tempio, e invece lo at­ tribuirà a Stefano nel racconto degli Atti con riferimento almeno alla sua inutilità (cfr. At 7,48-49), ma annota comunque la dura reazione dei gran sacerdoti e degli scribi con la loro intenzione di farlo morire. Nel suo insieme il gesto di Gesù nel Tempio implica necessariamente anche una critica al sacerdozio che là esercitava le sue funzioni (e che da esse, come abbiamo già detto, traeva pure consistenti vantaggi finanziari). Si trattò di un gesto simbolico, rivelatore di una componente tipica del­ la sua messianicità, che aveva come prospettiva un rinnovamento, se non proprio una sostituzione, del Tempio e della sua funzione di comunicazio­ ne con Dio diventata inappropriata nel tempo escatologicol '. Conclusioni I motivi di laicità che abbiamo elencato evidenziano anzitutto l'umanità di Gesù e la sua originale collocazione religioso-culturale all' interno della società ebraica del suo tempo. Essi però implicano pure un forte risvolto cristologico, per il quale rimandiamo ad altre paginel 1 La sua sacerdotalità sarà un frutto della fede pasquale (cfr. CAP. 4). •

Laicità dei ministeri ecclesiali La dimensione laicale del movimento iniziato da Gesù di Nazaret prose­ gue e si conferma nel periodo postpasquale. Già i Dodici da lui scelti come compagni del suo ministero terreno (cfr. Mc 3,13-19) provenivano tutti da condizioni sociali per così dire "profane", nel senso che nessuno di loro risulta essere della tribù di Levi, a partire da Simeone/Simone chiamato Cefa/Pietro, di professione «pescatore [halieus] » (Mc 1,16)n. La condi­ zione di laico connotava ciascuno dei Dodici, compreso Mattia, scelto in

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seguito per sostituire Giuda (cfr. At 1,2.3-2.6)H. Comunque nessuno di loro aveva a che fare ministerialmente né con i peccatori né con il Tempio. Lo stesso vale per gli altri Apostoli postpasquali, tra cui il primo è Saulo/ Paolo di Tarso, che si professa ripetutamente «della tribù di Beniamino» (Rom 11,1; Fil 3,5). Egli è e resta un laico, di professione «costruttore di tende [skénopoùJs] o tessitore di lino» (At 18,3)3 1 , anche se, come vedremo, impiega un certo linguaggio sacerdotale per qualificare il proprio ministe­ ro apostolico, ma in senso metaforico (cfr. in.fra). Lo stesso si deve dire dei suoi molti collaboratori, tra cui T imoteo, T ito, Epafra, Epafrodito, T i­ chico, Aristarco, Onesimo e altri36 • Semmai l'unica eccezione è Barnaba, indicato esplicitamente come «un levita originario di Cipro» (At 4,36). Questi evidentemente ha una doppia appartenenza: alla casta sacerdotale addetta al Tempio gerosolimitano, anche se di secondo livello (cfr. CAP. 2., Ilgiudaismo), e alla diaspora di lingua greca; tuttavia, benché egli fosse sta­ to il garante di Paolo presso la comunità di Gerusalemme (cfr. At 9,2.6-2.7) e lo avesse poi ricercato a Tarso per condurlo ad Antiochia di Siria (cfr. At 11,2.5-2.6), i due dopo il concilio di Gerusalemme finirono per separarsi37• Inoltre vanno segnalate le varie donne, collaboratrici di Paolo e comunque impegnate per il Vangelo, come Febe, Prisca, Maria, Giunia, Trifena con Trifosa e la «carissima Perside» (nominate in Rom 16,1.3.6.7.12.), Evodia e Simiche (menzionate in Fil 4,2.-3) e Affi.a (in Flm 1)38• Resta comunque il fatto che nelle prime comunità cristiane nessun mi­ nistro o responsabile di gruppo era etichettato con la qualifica di «sacer­ dote» (hiereus), benché si trattasse di veri responsabili "consacrati" alla vita delle singole chiese. Va però subito chiarito che per Paolo i battezzati non solo sono tutti laici, ma sono pure sorprendentemente e paradossal­ mente definiti tutti come «santi»39• Probabilmente questo è un appellativo di origine giudeo-cristiana, che corrisponde a una costruzione identica dei Settanta come designazione dell'assemblea cultuale d'Israele in quanto «convocazione santa» (klété hagia: Es 12.,16; Lev 2.3 dieci volte; Num 2.8,2.5). Del resto, tanto la tradi­ zione biblica (cfr. Es 19,6; Lev 19,2.; Sal 89,6; Sap 7,2.; Dan 7,8 ecc.) quanto quella extrabiblica (cfr. 1En 51,2.; 62.,8; Sal Salom 17,2.8.36; 1Q_S 5,13.2.0 ecc.) ritengono che sia presente nel popolo eletto una santità oggettiva, con­ nessa con la sua elezione e partecipe della stessa santità di Dio (cfr. Dc 7,6: «Tu infatti sei un popolo santo per il Signore tuo Dio: il Signore tuo Dio ti ha scelto»). La santità intesa da Paolo, dunque, non è di ordine morale, quindi non è acquisibile con il personale sforzo etico, ma consiste in uno

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status di base, anteriore a ogni impegno individuale, e che è dono imme­ ritato, libero e gratuito di Dio (cfr. 2.Cor 1,1 ; Fil 1,1; 1Cor 6,1 1), poiché le chiamate di Dio sono creatrici (cfr. Rom 4,17!) 40• Nell'ottica paolina dunque si potrebbe a ragione parlare di una "santità laica", cioè di una santità premorale, oggettiva, basata su nient'altro che sulla fede e sul battesimo; essa certo non esclude ma richiede un conse­ guente sforzo morale e cioè l'impegno personale per «la santificazione» (1Tes 4,3; cfr. Gal 5,6; Ef 1,4), sapendo che comunque «siamo stati san­ tificati per mezzo dell'offerta del corpo di Cristo una volta per sempre» (Ebr 10,10). In ogni caso l'Apostolo apre un'originale prospettiva sull'i­ dentità cristiana, che purtroppo sarà ben presto dimenticata a favore di una santità connotata solo dalla morale41 • Ebbene, tra questo popolo di "santi" si configurano poi delle qualifiche particolari e tipiche di carismi e ministeri, che condividono la stessa santità ma si distinguono per alcune funzioni comunitarie loro proprie. Occorre quindi passare in rassegna i vari titoli che effettivamente sono documentati nei testi a proposito dei responsabili delle varie comunità. Carismi e ministeri (diakonie) Leggendo alcune pagine del Nuovo Testamento sull'ordinamento delle comunità cristiane, la prima impressione potrebbe essere quella di distin­ guere tra i liberi doni dello Spirito venuti dall'alto e forme istituzionali di tipo gerarchico costituite dal basso. Poiché un discorso in materia riguarda essenzialmente le comunità paoline, va anzitutto precisato il corrispon­ dente tipo di linguaggio41 • Certo non dovrebbe essere un gran problema constatare che questi ministeri stanno tutti sotto l'etichetta di «carismi» (charismata) (lett. «favori concessi»), poiché una supposta contrapposi­ zione tra Spirito e istituzione non esiste4 '. Per esempio, nella Prima lettera ai Corinzi leggiamo: «Vi sono diversi carismi [charismata], ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri [diakoniai], ma uno solo è il Signo­ re; vi sono diverse iniziative/attività [energémata] , ma uno solo è Dio che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune » . E si elencano: il linguaggio di sapienza, il linguaggio di conoscenza, il dono delle guarigioni, il potere dei miracoli, il dono della profezia, il dono di discernere gli spiriti, la varietà delle lingue, l' interpretazione delle lingue (12.,4-10). Come si vede, non c'è distinzione tra carismi e ministeri; semmai si

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vuol solo dire che la passività dei primi è orientata ali'attività dei secondi, sicché questi affondano la loro radice nient'altro che in una grazia dello Spirito. Ma se è vero che «i ministeri sono dei carismi, non si può dire con certezza che ogni carisma sia un ministero [ ... ] così il celibato è un "cari­ sma" senza alcun rapporto con il ministero»4 4 • L'Apostolo nelle sue chiese ha il problema addirittura di un eccesso di funzioni comunitarie, tanto che «ciascuno» ha un compito da svolgere, e Paolo non cerca affatto di soffo­ care ma solo di disciplinare i vari impegni comunitari. Poco più oltre nella stessa lettera egli fa un altro elenco, ponendo in primo luogo i ministeri di fondazione (apostoli, profeti, maestri): Alcuni Dio li ha posti nella chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri. Poi vengono i miracoli, i doni di gua­ rire, di assistere, di governare, di parlare in lingua. Forse che tutti sono apostoli? Tutti profeti ? Tutti maestri ? Tutti compiono miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni ? Tutti parlano lingue ? Tutti le interpretano? ( 1Cor I l,lB-30)

Gli apostoli, i profeti e i dottori sembrano perciò i soli ministri che venis­ sero indicati con un vocabolario relativamente fisso. Così pure in Ef 4,11, anche se là si aggiungono «gli evangelizzatori» e i maestri sono una speci­ ficazione dei «pastori» (cfr. infra). In ogni caso si vede bene che al centro della responsabilità ministeriale c'è la parola dell'annuncio evangelico4 S. Analogamente l'organizzazione delle chiese a Roma ci sfugge in gran parte, ma è possibile fare qualche precisazione. L'esortazione a formare un corpo solo, che leggiamo in Rom 12,4-5, viene immediatamente integrata dal riconoscimento di una molteplicità ministeriale: «Ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri». Poi vengono subito elencati set­ te ministeri: profezia, diakonia, insegnamento, esortazione, condivisione, presidenza, opere di misericordia (12,6-8); essi però sono piuttosto gene­ rici e non concordano di fatto con quelli che troviamo nella precedente Prima lettera ai Corinzi (ma anche in Ef 4,11 si elencano apostoli, profeti, annunciatori, pastori e maestri). Certo la loro elencazione non permette di individuare i gradi di quella che oggi un po' anacronisticamente chia­ meremmo "gerarchia ecclesiastica" e che si fonda piuttosto sulla successiva articolazione di episcopi, presbiteri e diaconi (cfr. infra). Preoccupazione tipica dell'Apostolo è di sottolineare la loro unità di origine e la loro dimensione comunitaria. Per indicare l'origine egli si serve di una formulazione implicitamente trinitaria: «C'è diversità di carismi, ma lo Spirito è lo stesso; c'è diversità di servizi, ma il Signore è lo stesso;

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c'è diversità di attività, ma c'è uno stesso Dio che opera tutto in tutti» (1Cor 12,4-6). Che poi questa formulazione cominci con la menzione del­ lo Spirito (Santo), vuol dire che nei ministeri si vede all'opera colui che per definizione è vita, dinamismo, fantasia vivace, del quale altrove Paolo invita a essere addirittura «ferventi [zéontes] ribollenti nello Spirito» (Rom 12,1). Una constatazione è comunque importante e significativa: il vocabo­ lario allora corrente per indicare le autorità costituite della società civile o religiosa del tempo non viene mai applicato ai ministri della chiesa. E si tratterebbe di un lessico piuttosto diffuso, che comprende le designazio­ ni di drchontes (riservate negativamente ai «padroni di questo mondo» in 1Cor 2,8), archai/exousiai, «principati/potestà» (detto delle autorità politiche in Rom 13,1-3), mentre semmai soltanto Gesù Cristo viene de­ signato con le qualifiche di «capo, giudice, liberatore» (drchon, dikastis, lytrotis: At 7,35), «guida, condottiero» (archegos: At 3,15) e «padrone, capo» (despotis: 2Pt 2,1), per non dire del titolo di «signore» (kjrios) che Paolo rifiuta espressamente per sé (cfr. 2Cor 1,24: «Non intendiamo fare da signori/padroni sulla vostra fede, siamo invece i collaboratori della vo­ stra gioia»), mentre viene attribuito soltanto al Cristo risorto (cfr. 1Cor 8,6; Fil 2,9,u)4 6 ; sugli «episcopi», si veda infra. Evidentemente il partico­ lare ruolo o incarico proprio dell'inviato-rappresentante di Cristo non si pone al livello di una definizione giuridica dell'autorità, tanto che secondo l'Apocalisse ogni credente- «vincitore» è chiamato a partecipare al potere che Cristo ha ricevuto dal Padre (cfr. 2,16-28). Vediamo più in dettaglio quale sia la strutturazione ministeriale delle varie comunità in cui è documentata la presenza di ruoli direttivi, sapendo però in anticipo che le loro denominazioni cambiano di chiesa in chiesa e che sono comunque tutte di impronta laicale. La comunità di Gerusalemme Questa è la comunità in cui, mediante la fede pasquale, prese storicamente avvio il nuovo gruppo di credenti in Gesù confessato come Cristo e Si­ gnore (cfr. At 2,36). Noi la conosciamo dagli Atti degli Apostoli e la sua composizione numerica non è facile da stabilire47• Certo in essa eccelleva l'originario gruppo dei Dodici, affiancati dalla costituzione di sette «dia­ coni» servitori alle mense, tra i quali spicca la figura di Stefano (At 6-7 ). Sicuramente tutti costoro sono laici, anzi Stefano fa una dura critica al Tempio (At 7,44-50). Tra coloro che accolsero la nuova fede però risalta

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«una grande moltitudine di sacerdoti» (At 6,7), probabilmente di basso livello, poiché non risulta che essi abbiano svolto una qualunque funzione tra i cristiani di Gerusalemme, probabilmente continuando il loro servizio nel Tempio4 8• Un elemento certamente nuovo a Gerusalemme è l'entrata in scena dei familiari di Gesù, che Luca specifica come suoi «fratelli» (cfr. At 1,14). È difficile spiegare come mai questo gruppo compaia accanto agli apostoli, non essendo stati menzionati né al momento della morte di Gesù e del­ la sua sepoltura né in occasione delle apparizioni postpasquali; soltanto Paolo vi fa cenno in 1Cor 9,5 a proposito del loro matrimonio. Di questi «fratelli» Giacomo appare all'improvviso in At 12,17 distinguendosi per autorità e importanza nel ruolo di guida della stessa comunità di Gerusa­ lemme. Ad alludere alla sua autorità è Paolo, quando racconta che, tre anni dopo i fatti della strada di Damasco, salì a Gerusalemme per conoscere Cefa e restò con lui per quindici giorni, senza però vedere alcun altro degli apostoli «se non Giacomo, fratello del Signore» (Gal 1,15-19); questi per­ ciò va distinto dai due omonimi del gruppo dei Dodici (cfr. Mc 3,16-19) e a lui andrà attribuita la lettera canonica che reca appunto il suo nome, non integrato dalla qualifica di «apostolo». La distinzione è confermata dal fatto che in 1Cor 15,7 egli è menzionato come beneficiario di un'ap­ parizione del Risorto dopo quella destinata a Cefa e ai Dodici e prima di quella «a tutti gli apostoli». Evidentemente, secondo la tradizione ripor­ tata da Paolo, a Giacomo era riconosciuto un primato analogo a quello di Pietro. L'apparizione a lui, a differenza di quella a Pietro (Le 24,34), non è raccontata nei Vangeli canonici, ma è riferita dal!'apocrifo Vttnge­ lo degli Ebrei (in Girolamo, Gli uomini illustri 2,11-13), secondo cui egli, soprannominato «giusto», avrebbe addirittura partecipato all'ultima cena. Stando poi alla testimonianza di Eusebio di Cesarea, questo Giaco­ mo « fu il primo, dicono, ad occupare il trono episcopale della chiesa di Gerusalemme» (Storia 2,1,2-3; cfr. anche 2,23,1; 7,19,1). Certo è che dagli Atti lucani risulta che a Pietro è commissionata la missione al di fuori della comunità di Gerusalemme, mentre al suo interno è piuttosto Giacomo a esercitare la funzione di guida pastorale49• Infatti, al momento della se­ conda visita di Paolo a Gerusalemme, avvenuta quattordici anni dopo la prima (Gal 2,1, ca. 48-49) per discutere il problema della circoncisione dei Gentili convertiti alla fede in Gesù (At 15), la personalità più autorevole sembra essere proprio quella di Giacomo. La ragione di questa autorevo­ lezza viene generalmente motivata dall'abbandono di Gerusalemme da

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parte di Pietro, probabilmente in seguito alle misure repressive introdotte da Erode Agrippa I e che avrebbero portato alla morte di Giacomo figlio di Zebedeo (At 12,1-2). Paolo in Gal 2,9 menziona una triade di nomi: Giacomo, Cefa e Giovanni, che egli considera come «le colonne» (styloi) della comunità gerosolimitana, alludendo a una loro qualche funzione di guida e di responsabilità. Anche se non è dato sapere in che cosa preci­ samente consistesse questa funzione e quali fossero i rapporti reciproci tra le tre «colonne», l'ordine in cui ricorrono i tre nomi suggerisce che Giacomo fosse l'autorità preminente, o almeno un primus inter pares. La correttezza di questa ipotesi sembra confermata dal cosiddetto "incidente di Antiochia", dove Pietro si sottrae improvvisamente alla comunione di mensa con i convertiti di origine gentile «per timore dei circoncisi» dopo che erano sopraggiunti da Gerusalemme «alcuni da parte di Giacomo» (Gal 2,1 1 ss.). La tradizione sul primato di Giacomo come "successore" di Gesù nella guida del gruppo dei suoi seguaci è ripresa in alcune fonti successive, cioè nel Vangelo di Tommaso, in alcuni scritti gnostici, nelle Pseudoclementine e in Eusebio di Cesarea10• Tutte esaltano la sua funzione unica, tanto che secondo le Pseudoclementine la sua autorità si estende sui Dodici, che a lui rendono conto del loro operato (Ritrov. 1, 44,1), e anche su Pietro, che da Giacomo riceve l'incarico di partire per Cesarea per confutare le dottrine di Simon Mago (Ritrov. 1,72,1-8). Del resto, Giacomo non fu l'unico dei familiari di Gesù a esercitare un ruolo di guida nella primitiva comunità di Gerusalemme. Secondo la testimonianza di Eusebio, che riporta una notizia di Egesippo, dopo la sua morte avvenuta nel 62 sarebbe stato eletto Vescovo di Gerusalemme un cugino di Gesù, di nome Simeone (Storia 4,22,4); Giuda, un altro fratello di Gesù, è autore dell'epistola che, sotto il suo nome, è entrata a far parte del Nuovo Testamento; sempre secondo Egesippo, citato da Eusebio, ancora sotto Domiziano (81-96), alcuni nipo­ ti di Giuda erano alla guida di chiese palestinesi in quanto parenti di Gesù (Sto ria 3,19-20,6). Venne così a costituirsi una specie di «califfato», come è stato chiamato1 ' , caratteristico appunto della chiesa di Gerusalemme al­ meno fino agli inizi del II secolo. Nella notizia di Egesippo, riportata da Eusebio, Giacomo viene pre­ sentato addirittura come il modello del sacerdote ideale, che solo può entrare nel Santo dei Santi e intercedere per il popolo (Sto ria 2,23,6); inoltre, i racconti cristiani della morte di Giacomo (Egesippo; Codici di Nag-Hammadi 5,4; Pseudoclementine, Ritrov. 1,66-70) collocano tutti

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l'evento nel Tempio e il documento giudeo-cristiano di Ritrov. 1,2.7-7 1 presenta i l Tempio come i l luogo privilegiato dell'attività missionaria di Giacomo e degli apostoli. Anche l'incontro-scontro di Giacomo con Paolo in At 2.1,2.0 ha a che fare con il Tempio. La frequentazione del Tempio comportava l'osservanza di particolari norme di purità rituale, e che l'osservanza di queste norme comprendesse anche quelle alimenta­ ri si desume indirettamente dall'episodio della visione di Pietro a Joppe (At 1 1,1-18). Per quanto riguarda la conduzione della comunità, Giacomo era af­ fiancato da un gruppo di Anziani (presbjteroi), secondo un modello abbastanza diffuso all'interno del giudaismo del tempo (cfr. At 6,12.). Infatti nella Gerusalemme ebraica c'era «il consiglio degli anziani [to presbytérion] » (Le 2.2.,66), detto alla greca gerousia (cfr. Flavio Giuseppe, Ant. 1 2.,3,3), che prima del 70 costituiva una parte del Sinedrio, equiva­ lente alla nobiltà laica, una sorta di senatori, insieme ai Sommi Sacerdoti e agli scribi1'. Anche a Qumran (cfr. 1 QS 6,8-10; I QM 13,1; CD 10,5-6) gli Anziani (in ebraico z'qenim) avevano assegnato il secondo posto, dopo i sacerdoti e prima del popolo. «In ogni caso essi sono rappresentanti laici associati e subordinati ai sacerdoti [ ... ]. Questo gruppo è sottopo­ sto al m'baqqer e collabora con lui anche nell'assistenza ai poveri»13 . Il m'baqqer (dalla radice verbale bqr, «esaminare, sorvegliare») anche nelle comunità dei Farisei decideva sull'accettazione nella comunità e sull'e­ sclusione da essa. «Il mbqr ha caratteri monarchici più accentuati che non l'episcopato cristiano nella sua forma più antica. Esso trova in effetti un corrispondente non tanto negli episkopoi del cristianesimo primitivo quanto nel vescovo del 111 secolo»14 • Nella chiesa gerosolimitana Giacomo doveva essere il primo all'in­ terno del gruppo degli Anziani, così come Pietro lo era all'interno del gruppo dei Dodici, Stefano ali' interno del gruppo dei Sette (At 6,1-7) e Barnaba all'interno del gruppo dei Cinque (At 1 3,1 ) . Questi Anziani compaiono per la prima volta in At 1 1,30, quando ricevono da una delega­ zione di Antiochia il denaro raccolto per soccorrere la comunità di Geru­ salemme. Essi ricompaiono al cosiddetto "concilio di Gerusalemme" (At 15,4.6.2.2.) e sono cofirmatari, insieme a Giacomo, della lettera che viene indirizzata alle comunità di Siria e Cilicia (At 1 5,2.3) . Questo fatto testi­ monia come Giacomo e il gruppo degli Anziani non si limitassero a gui­ dare la comunità di Gerusalemme, ma esercitassero un'autorità e un'in­ fluenza determinanti anche su comunità e gruppi costituitisi fuori della

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Città santa. Ciò fa supporre che anche la comunità di Gerusalemme non solo conservasse il suo prestigio di chiesa-madre (da cui le «collette»: cfr. Rom 15,2.6-2.7 ), ma avesse svolto e continuasse a svolgere una funzione missionaria almeno «tra i circoncisi» (Gal 2.,10). In ogni caso, è sinto­ matico che la comunità cristiana di Gerusalemme abbia avuto un gruppo dirigente denominato appunto dalla componente laica del Sinedrio e non da quella sacerdotale. La comunità di Antiochia Questa chiesa, che noi conosciamo dagli Atti degli Apostoli, avrà una sto­ ria di grande prestigio, dato che nella sua area vari studiosi ambientano nu­ merosi scritti importanti, che andrebbero studiati uno per uno (così sono la Didaché, l'Ascensione di Isaia, il "Vangelo di Matteo, forse anche il "Vangelo di Luca, il "Vangelo di Pietro, il "Vangelo di Filippo, gli Atti di Paolo e Tecla, per non dire di Ignazio con le sue Lettere e, più tardi, di san Giovanni Crisostomo). Resta il fatto che per la prima generazione (anni 30-70) non possediamo testimonianze dirette, e anche gli Atti lucani appartengono già alla seconda generazione. La sua importanza consiste nel triplice fatto che là per la prima volta l'evangelo fu annunciato ai pagani (At 1 1,19-2.0 ), i credenti in Gesù furono chiamati «cristiani» (At 1 1,2.6) e di là partì una missione programmata (At 13,1-5), svolgendo praticamente anch'essa la funzione di una chiesa-madre11 • La struttura di questa chiesa non è precisata nei dettagli, ma gli Atti an­ notano che là «c'erano profeti e maestri: Barnaba, Simeone detto Niger, Lucio di Cirene, Manaèn compagno d'infanzia di Erode il tetrarca, e Sau­ lo» (At 13,1). Luca non solo non menziona sacerdoti, ma neppure apostoli né presbiteri/ Anziani, come invece fa per la chiesa di Gerusalemme; nep­ pure distingue in quel gruppo chi fosse profeta e chi maestro. Certo essi dovevano svolgere una funzione di leader nella chiesa di Antiochia (cfr. At 13,2.), la quale dunque era guidata da carismi legati alla Parola e non pos­ sedeva ancora una struttura gerarchica di tipo gerosolimitano; tantomeno si parla di episcopi (segno che il periodo preso in considerazione dagli Atti non conosce ancora gli sviluppi attestati poi dall'antiocheno Ignazio) . A meno di pensare che i primi tre fossero profeti e gli altri due maestri, è possibile che le stesse persone svolgessero di volta in volta la funzione di profeti e di dottori, diventando apostoli quando si recavano in missione,

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denotando un'organizzazione comunque carismatica e fondata sul mini­ stero della Parola. Tra costoro la figura più importante doveva essere Barnaba, un perso­ naggio che Luca aveva già introdotto parlando della primitiva comunità di Gerusalemme (At 4,36-37), dalla quale peraltro egli venne mandato ad Antiochia (At 11,22) forse per stabilire un vincolo autorevole di comunione con la chiesa-madre (analogamente all'invio di Pietro e Giovanni da Ge­ rusalemme in Samaria dopo l'evangelizzazione di Filippo: At 8,14). Fu lui poi a prelevare Paolo/Saulo a Tarso e a immetterlo nella chiesa di Antio­ chia dove passarono insieme un anno intero (At 1 1,25-26), dandogli modo di condividere la nuova avventura dell'annuncio ai pagani, intrapresa da quella comunità. La comunità di Tessalonica L'attestazione più antica di un apparente ministero ecclesiale si trova in 1Tes 5,12 ed è formulata al plurale: «coloro che vi presiedono/vi fanno da guida» (hoi proistdmenoi hymon) 16• La stessa qualifica poi ritornerà al singolare in Rom 1 2,8, quindi la si trova a proposito di due chiese diverse e anche distanti tra loro: evidentemente si trattava di una funzione condivi­ sa. Va constatato che questo ministero è indifferentemente inserito fra gli altri, anzi qui si trova al secondo posto come specificazione di «quelli che faticano tra voi»: «V i preghiamo di avere riguardo per quelli che faticano tra voi, che vi presiedono e vi ammoniscono» (1Tes 5,12). Esso permette un confronto con altre funzioni analoghe nella società del tempo, da cui si deducono dei lineamenti più netti. Il significato del vocabolo non ha nulla a che fare con il culto religioso, tanto che in 1T im 3, 4.5.1 2 esso viene impiegato semplicemente a proposito della conduzio­ ne laica della propria casa/famiglia da parte sia dell'episcopo sia dei dia­ coni (sui quali, cfr. infra). In effetti la letteratura greca attesta questa qua­ lifica nel senso o di dirigente/ conduttore17 o più in generale di colui che si interessa di altri18 • Il vocabolo potrebbe corrispondere agli egoumenoi, «capi, dirigenti, responsabili», di cui si parla in Ebr 13,7.17.24. Se ac­ cettiamo questa semantica, bisognerà considerare e soppesare l'uso del plurale «presidenti» nei due testi di 1Tes 5,12 e 1 T im 5,17. Comunque è il contesto a decidere: nella Prima lettera ai Tessalonicesi, dove il vo­ cabolo ricorre al plurale e dopo la menzione di «quelli che faticano tra voi», è possibile che esso abbia piuttosto il secondo significato, quello di

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chi si prende cura degli altri. Il riferimento all'ammonizione (con l 'uso del verbo nouthetein, « consigliare , avvertire, correggere » ) denota una particolare responsabilità comunitaria, pur essendo di tipo sicuramente "laicale". In ogni caso, si vede bene che Paolo non pensa tanto all'eserci­ zio di un potere quanto a un'incombenza esercitata al servizio del bene comune. Nulla si dice sulla istituzione di questo ministero, che però può risalire a una designazione dello stesso Paolo oppure a una personale e responsabile dedizione al servizio della comunità, magari dietro invito di questa. La comunità di Corinto Già si può notare che nella stessa intestazione delle due Lettere ai Co­ rinzi (a differenza per esempio di quella ai Filippesi ; cfr. in.fra) non si fa nessuna menzione di alcun responsabile della/e comunità. Non solo, ma mentre nella Seconda lettera non se ne parla mai in tutto il testo epi­ stolare , nella Prima se ne fa un cenno specifico solo nell'ultimo capitolo (come del resto avviene anche nella Prima lettera ai Tessalonicesi) con la precisa menzione della famiglia di Stefanàs: « Essi furono i primi credenti dell'Acaia e hanno dedicato se stessi a servizio [diakonia] dei santi; siate anche voi sottomessi verso costoro e verso chiunque collabora e si affatica con loro » (1Cor 1 6,15-16). Queste poche parole ci offrono alcune infor­ mazioni interessanti. Già è eloquente il silenzio sul come e su quale base quelli della casa di Stefanàs si siano posti al servizio della comunità di Corinto; applicare loro l' idea odierna di un ministero ordinato sarebbe sostanzialmente anacronistico, anche se il fatto che essi siano stati i primi a essere battezzati ( 1Cor 1,16) e l'affermazione secondo cui essi «hanno dedicato se stessi [étaxan heautous] » (che sembra supporre una loro per­ sonale assunzione di responsabilità) vanno probabilmente connessi con una designazione/ approvazione di Paolo stesso, che comunque riconosce la loro leadership. Inoltre, il concetto di servizio (diakonia) (cfr. il suo uso anche in At 6,4; Rom 1 2,7; 2Cor 1 1,8; Ef 4,12; 2Tim 4,1 1 ; Ap 2,29) è apparentemente generico e non comporta gradi gerarchici, ma evidenzia semplicemente la dedizione (pastorale) a favore della comunità, impli­ cante verosimilmente la presidenza di assemblea e l'assistenza ai bisogni comunitari. Va poi notato che assieme a Stefanàs sono impegnati dei col­ laboratori anonimi (cfr. 1 Cor 1,1 1 : « quelli di Cloe » ), che da una parte

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riconoscono la sua guida e dall'altra formano con lui una équipe di re­ sponsabili operosi. Ma è in 1Cor 12-14 che Paolo documenta e svolge una riflessione spe­ cifica sui ministeri nella chiesa corinzia, e lo fa contestualmente a una valutazione della dimensione "pneumatica" della chiesa stessa e alla sua originale definizione cristologica di «corpo di Cristo» 19• Certo è che là constatiamo il fatto, in certo senso problematico, di una sovrabbondanza ministeriale, che l'Apostolo non cerca affatto di soffocare ma solo di spie­ gare e in parte disciplinare. Un dato sicuro è che non esiste la figura non solo di un qualche sacerdote, ma neppure del presbitero né quella di un episcopo. In effetti, Paolo non conosce ancora nessuna terminologia fissa per indicare i ministeri, come si vede dalla lista presente in 1Cor 12,28-30 citata poco sopra: prima sono evidenziati a parte gli apostoli, i profeti e i maestri, poi seguono i miracoli, i doni di guarire, di assistere, di governare e di parlare con la glossolalia. Tra questi ministeri, quelli caratterizzati da una terminologia standar­ dizzata sono certamente i primi, cioè gli apostoli e i profeti, e solo ipoteti­ camente i maestri (1Cor 12,28). Ma qui incontriamo una tipica originalità paolina, dovendo osservare tra di essi una differenza non marginale. Infatti gli apostoli per san Paolo sono ben distinti dai Dodici (come si vede in 1Cor 15,5.7) e non rappresentano nessun numerus clausus, poiché sono sem­ plicemente i cristiani missionari, fondatori di chiese, eventualmente colla­ boratori di Paolo stesso, tra cui spiccano anche delle donne (cfr. in specie le già menzionate Febe, Maria, Giunia, Trifena, Trifosa, Perside, Giulia in Rom 16): sono essi che pongono il fondamento (1Cor 3,10-11)60• I profeti, da parte loro, non sono quelli itineranti di stampo giudeo-cristiano (come in Mt 7,15), ma membri stabili delle comunità, trasmettitori di rivelazioni ricevute dallo Spirito Santo, tra i quali si possono computare anche delle donne (cfr. 1Cor 11,5). A questi ultimi, secondo Paolo, bisogna assoluta­ mente dare spazio nelle comunità, e se mai essi pongono qualche proble­ ma, si tratta solo di discernere in quale di essi c'è davvero la presenza dello Spirito (cfr. 1Tes 5,19-21; 1Cor 12,10), distinguendo comunque la chiarezza della profezia dalla incomprensibilità della glossolalia. Quanto ai maestri (diddskaloi), essi hanno il compito di istruire la comunità con un insegna­ mento più continuo, magari ricorrendo alla Scrittura; sono enumerati al terzo posto nel passo citato di 1Cor 12,28, ma si tratta di un caso unico nel­ le lettere autentiche di Paolo, visto che altrove Paolo parla genericamen­ te di «chi insegna » in una serie di altri ministeri non istituzionali (cfr.

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Rom 12.,7 ). Comunque, altrove questa triade non compare mai così netta come in 1Cor 12.,2.8, poiché in altri testi posteriori a Paolo si parla soltanto di «profeti e maestri» (ad Antiochia: At 13,1) o di « apostoli e profeti» (Ef 2.,2.0) o ancora di « apostoli, profeti, annunciatori del vangelo, pastori e maestri» (Ef 4,u). Qui, come del resto nelle chiese paoline in generale (cfr. 1Tes 2.,13; Gal 3,2..5; Rom 10,17), è riconosciuta una priorità assoluta alla parola del Vangelo. Fin dall'inizio della lettera si ricorda « la parola della croce» (1Cor 1,18) come contenuto fondamentale dell'annuncio evangelico (1Cor 2.,1-2.). È la parola che fonda la chiesa ed è su di essa che questa si regge; in più, è attorno a essa che ruotano i vari ministeri. Infatti la lista che leggiamo in 1Cor 12.,8-10 (la sapienza, la conoscenza, la fede che opera prodigi, la capacità di guarire, la potenza dei miracoli, la profezia, il discernimento degli spiriti e la glossolalia o il parlare in modo incom­ prensibile) mette al primo posto due carismi che dovrebbero stare alla base dell'annuncio cristiano. D'altra parte, la preminenza della parola è tale che non deve comportare alcuna valorizzazione individuale di colui che ne è ministro, poiché questi non è altro che il suo servitore (1Cor 3,5; 4,1; 2.Cor 1,2.3; 3,6; 4,5), e per di più al servizio di « una nuova alle­ anza» (2.Cor 3,6), cioè di un diverso ordinamento salvifico nel quale è decisivo non il vecchiume letterale della Legge ma la novità stimolante dello Spirito6 '. In più, constatiamo che le funzioni di un vero e proprio governo sono considerate secondarie, visto che nell'elenco di 1Cor 12.,2.8 le kybernéseis, «direzioni/governi», cioè le persone che esercitano un uf­ ficio di dirigenza, sono catalogate al penultimo posto in una serie di otto ministeri. Preoccupazione tipica dell'Apostolo a proposito dei ministeri ecclesiali è di sottolineare la loro unità di origine, la loro dimensione comunitaria, e perciò l'armonia che deve regnare tra di essi. Per indicare la loro origine egli si serve addirittura di una formulazione che, se non è trinitaria, è certo triadica, come abbiamo già notato più sopra a proposito di 1Cor 12.,4-6 con la menzione di Spirito, Signore e Dio. A monte della molteplicità, dun­ que, c'è una sola origine divina, che però a sua volta con la distinzione tra Spirito-Signore-Dio implica già una complessità e comunque una realtà non monocorde. Che poi questa formulazione cominci non con Dio­ Padre(: così avviene di solito), né con il Signore (Gesù Cristo: come avvie­ ne in 2.Cor 13,13), ma con la menzione dello Spirito (Santo) vuol dire che nei ministeri si vede all'opera colui che per definizione è vita, dinamismo,

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fantasia vivace, del quale altrove Paolo invita a essere addirittura «ribol­ lenti» (Rom 12.,11). I ministeri hanno una specifica dimensione comunitaria, in un doppio senso. Da una parte, essi non rappresentano qualcosa di settoriale, come se appartenessero solo a qualcuno: è invece «a ciascuno» che lo Spirito distri­ buisce i carismi (1Cor 12.,11); ciò significa che essi sono assai sfaccettati (la lista che Paolo ne dà qui è solo esemplificativa), cosicché nella chiesa ciascuno ha una sua parte da svolgere che gli è propria, comunque si manifesti. Dall'al­ tra, essi devono cospirare all'utilità comune, poiché ciò che importa è l'edi­ ficazione (oikodomé), la costruzione della comunità, cioè la sua crescita ordi­ nata e non selvaggia (1Cor 12.,7; 14,40). Paolo esemplifica questo principio nel capitolo 14 con il confronto fra i due carismi della glossolalia (il parlare estatico, incomprensibile, che non trasmette alcun logos) e della profezia (la comunicazione effettiva, sensata, che appunto costruisce qualcosa); pur non disprezzando la prima, egli privilegia nettamente la seconda: «Nella ekklésia preferisco dire cinque parole con la rriia intelligenza per istruire anche gli al­ tri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue» (1Cor 14,19)61• Proprio questo rischio di una lacerazione comanda l'esortazione all'agape o amore vicendevole, quindi all'armonia nella chiesa. E, giudicando le cose con il senno di poi, ci si rende conto di quanto sia importante una messa in guardia del genere! In effetti, è sintomatico che ogni volta in cui emerge il discorso sui ministeri Paolo fa anche un discorso sull'amore (agape): ciò avviene non solo nella successiva Lettera agli Efesini (4,11-16), ma anche nel­ la Lettera ai Romani (12.,6-10) e soprattutto nella Prima lettera ai Corinzi. Qui c'è un intero capitolo, il 13, che contiene un solenne encomio dell'agape diventato classico nella tradizione cristiana: «Se non avessi l'amore/carità, non sarei nulla»61. È in questo contesto che Paolo formula per la prima volta la defini­ zione della chiesa come «corpo di Cristo» (1Cor 12.,2.8). Questo sintag­ ma, a motivo del contesto immediato, trae certamente la sua spiegazione dal dato della pluralità dei ministeri e dalla implicita necessità di una loro mutua cospirazione a procedere nell'armonia come le membra di un or­ ganismo vivo. Tuttavia, se si legge la definizione sulla base più ampia delle lettere paoline, non ci si può esimere dal comprenderlo in un senso molto più profondo, che va ben oltre una pura esigenza di esortazione e intende una dimensione mistica di identificazione tra la chiesa e Cristo stesso. Il corpo di Cristo, infatti, non lo fanno i battezzati, poiché esso di fatto già preesiste a loro nel Cristo individuale (Rom 7,4; 1Cor 10,16-17; Gal 3,2.8);

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essi perciò vanno soltanto a inserirsi nella sua realtà previa; non per nulla Paolo non parla mai del "corpo della chiesa" 64 • La/le comunità di Roma A Roma al tempo di Paolo esistevano di fatto cinque comunità ecclesia­ li (come risulta da Rom 16,5.10.11.14.15), ed è interessante constatare che anche qui l'Apostolo scorge una pluralità di ministeri. In Rom 12.,6-8 egli attesta proprio questa componente pluralistica, dettagliata secondo alcuni ministeri comunitari con la precisazione per ciascuno del modo con cui essi vanno esercitati. Anzitutto Paolo inizia con un riferimento globale a carismi diversi: «Abbiamo doni diversi secondo la grazia che ci è stata data» (v. 6a)61 • L'interessante è che, dopo aver tanto insistito sull'unità ec­ clesiale con l'allegoria dell'unico corpo (vv. 4-5: «Come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cri­ sto»), l'Apostolo passa a sottolineare la dimensione della sua diversifica­ zione interna66• Il sostantivo plurale «carismi» comporta naturalmente l' idea di dono, come evidenzia la sua esplicita spiegazione mediante il con­ cetto di «grazia [ ... ] data»! Il vocabolo chdrisma/ charfsmata nel Nuovo Testamento, come ab­ biamo già detto, è tipico di Paolo e del paolinismo67 e copre l'intera gamma delle funzioni esistenti nella comunità cristiana, dai fenomeni pneumatici ai compiti direzionali (ovviamente, quelli elencati dall'Apo­ stolo), sicché una supposta contrapposizione tra carisma e istituzione qui sarebbe anacronistica68• La formulazione è del tutto affine a quella già impiegata poco prima nel v. 3, con la sola differenza del passaggio dalla prima persona singolare alla prima plurale. Paolo dunque non vede molta differenza tra il proprio singolare ministero apostolico e quelli, molti e diversi, presenti nella comunità cristiana, almeno per quanto riguarda la loro comune origine. Tutti, infatti, in ultima istanza si spiegano non per una personale nobiltà interiore o capacità d'azione, ma per un dono che viene dall'alto, che li conforma alla natura stessa della comunità a cui sono destinati69 • Paolo continua con un'elencazione di carismi in numero di sette, che analizziamo brevemente uno per uno. Certamente essi hanno soltanto va­ lore esemplificativo, visto che, invece, in 1Cor 12.,8-10 se ne enumerano

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nove (ridotti a otto in 12.,2.8), mentre nella deuteropaolina Ef 4,11 se ne conteranno solo cinque (in realtà riducibili a quattro), per non dire delle sole tre funzioni trattate nelle Lettere pastorali (episcopi, presbiteri, dia­ coni; cfr. infra). 1. « La profezia sia secondo la conformità della fede». Questo è l'unico caso in cui il vocabolo « profezia» viene impiegato nella lettera e, stante il fatto che non viene spiegato, c'è da supporre che esso fosse ben compreso dai destinatari romani. A noi però si pone inevitabilmente il problema di sapere in che cosa consistesse questo specifico carisma, che nel corso del tempo ha subìto non poche variazioni7° . Il fatto più sicuro è che esso do­ veva costituire un fenomeno normale nelle prime comunità cristiane, dato che Paolo ne parla con una certa insistenza anche in 1Tes 5,19-2.2. e soprat­ tutto in 1Cor 12.,10.2.8 con tutto il capitolo 14; il fatto poi che in Rom 12.,6 la sua classificazione abbia il primo posto denota pure la sua importanza7 '. Nelle altre due lettere è evidente che all'origine del carisma c'è lo Spirito Santo, di cui però da una parte si dice che non va spento e dall'altra che bi­ sogna saperne distinguere le manifestazioni (almeno nel senso di non con­ fonderlo con la glossolalia); nel nostro passo, invece, Paolo non si richiama direttamente allo Spirito7 1 e ciò evidenzia ancora di più la dignità propria del carisma stesso. In concreto, l'intervento dei profeti cristiani doveva consistere in pronunciamenti di vario genere, attinenti comunque alla vita della comunità o dei singoli, e consistenti in esortazioni, rassicurazioni, legittimazioni, annunci di salvezza o di giudizio7 3 • Paolo precisa che essa deve avvenire « secondo la conformità [analogia] della fede»: questo ter­ mine greco (unica ricorrenza in tutta la Bibbia greca) implica l'idea di pro­ porzione e di corrispondenza o correlazione74 • La sua specificazione con il richiamo della « fede» viene di solito doppiamente intesa: o in relazione alla fede oggettiva come dottrina e quindi retta norma o regola del credere (fides quae creditur) 75, oppure in senso soggettivo come riferimento alla fede personale di coloro che esercitano la profezia in proporzioni diverse (fides qua creditur) 76• Nel primo senso, Paolo sarebbe preoccupato che i profeti agiscano rettamente in modo da escludere ogni falsa ispirazione; ma bisogna riconoscere che il contesto non suggerisce nessuna messa in guardia nell'esercizio dei vari carismi. Il secondo significato perciò è da preferire, precisando però che la pistis, «fede, fiducia, affidamento», qui ha probabilmente lo stesso significato della precedente espressione circa « la misura della fede» (v. 3c) intesa come incarico ecclesiale affidato al singolo dalla grazia di Dio.

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2. «Chi ha un ministero (diakonia) attenda al ministero». Il termine greco implica certamente un'idea di servizio77, ma questa semantica è del rutto generica, così che risulta difficile precisare a quale compito qui Pao­ lo alluda7 8• Egli ha impiegato questo termine già in 11,13 in riferimento al proprio ministero apostolico verso i Gentili e lo impiegherà ancora in 15,31 a proposito della colletta da recare a Gerusalemme79 ; ma è ben difficile che il nostro passo intenda anche solo uno di questi due impegni. Certo è che la duplicazione del vocabolo esprime una sottolineatura del suo significato di base, che perciò è ritenuto importante. In questo modo si richiede una dedizione totale (ma anche una limitazione) all'espletamento del proprio compito ecclesiale, qualunque esso sia, così da trovare in esso la realizza­ zione di sé (senza prevaricare su altri ministeri). 3. «Chi insegna si dedichi all'insegnamento». La funzione di uno o più diddskaloi ( «maestri») nelle prime comunità cristiane è ben attestata nel­ le fonti (cfr. At 13,1; 1Cor 12,28.29; Ef 4,11; Gc 3,1). Essa segue sempre la menzione della profezia e se ne distingue per il fatto che questa si verifica spontaneamente sotto l'influsso immediato dello Spirito, in condizione pressoché di trance e con riferimento a situazioni specifiche (in ogni caso diversa dalla glossolalia), mentre l'insegnamento offre istruzioni in uno stato soggettivo di normalità, eventualmente anche in forma istituziona­ lizzata e comunque con riferimento a una tradizione già stabilita e quindi autorevole80• In concreto, può ben riferirsi alla preparazione dei candidati al battesimo e ad approfondimenti della predicazione. Sinonimi di questa attività possono essere soprattutto la didache (cfr. At 2,42; 5,28; 17,19; Rom 16,17; 1Cor 14,6; T it 1,9; 2Gv 9) ma anche la «catechesi» (cfr. il verbo in Le 1, 4; At 18,25; 1Cor 14,19; Gal 6,6), mentre diverso è il kérygma che va inteso come primo annuncio dell'evangelo (cfr. 1Cor 1,21; 2,4; e il verbo in Rom 10,8.14.15; 1Cor 1,23 ecc.). 4. «Chi esorta si dedichi ali'esortazione». Come avviene nell'incipit stesso della sezione morale della lettera (cfr. 12,1: «V i esorto dunque»), il termine in questione indica chiaramente un intervento di sollecitazione, a cui sono affini i concetti di incoraggiamento, di conforto e di sprone. Però, l'elencazione di questa attività tra i carismi comunitari pone un pro­ blema, dato che mai altrove si legge di una funzione simile in nessuna delle altre enumerazioni di ministeri. Del resto, è difficile pensare che una prassi del genere appartenga solo ad alcuni membri della chiesa e non sia piuttosto un compito che ciascun battezzato può e deve assolvere nei con­ fronti di chi è in situazione di difficoltà o di afflizione (cfr. Mt 5, 4: «Bea-

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ti gli afflitti, perché saranno consolati»; Is 6 1,2). Con tutta probabilità, quindi, non si tratta di un carisma limitato, ma di una comune vocazione, qui distributivamente espressa per ciascuno, a svolgere un ruolo di con­ forto e di sostegno verso chi è nel bisogno (cfr. At 15,32: «Giuda e Sila con molte parole esortarono i fratelli e li fortificarono»; 28,14: «Fum­ mo esortati dai fratelli a restare»; 2Cor 7,13: «Tito è stato confortato da voi»). 5. «Chi condivide lo faccia con semplicità». Il verbo impiegato (ho metatidous) comporta l'idea di rendere partecipi altri, cioè di mettere in comune qualche bene8 '. Esso non si riferisce necessariamente alla con­ divisione di beni materiali, potendosi rapportare anche a beni di altro genere8t . Nel nostro caso è difficile decidere della sua semantica; infatti, da una parte, segue a breve distanza un accenno a chi compie opere di mi­ sericordia/carità ma, dall'altra, subito prima si è parlato di esortazione/ incoraggiamento. Questa indeterminatezza potrebbe essere superata in favore di una condivisione di beni materiali, se teniamo presente il passo di Prov u,25-26 LXX: «Benedetta ogni anima semplice, ma l'uomo col­ lerico non è decoroso; chi accumula grano lo lasci alle genti, e sia bene­ dizione sul capo di chi lo condivide»81 • L'accostamento dell'idea di con­ divisione con quella di semplicità (en haploteti) sembra favorire appunto il senso di una messa in comune di beni materiali. In ogni caso, l'accento cade appunto su questa seconda idea, che sta a significare direttamente non tanto la generosità8 4 quanto piuttosto «candore, buona disposizio­ ne d'animo, disinteresse sincero, mancanza di secondi fini» 81, come si legge per esempio nell'apocrifo Testamento di Issacar 3,7-8: «Il Signore raddoppiava i suoi beni nelle mie mani, e anche mio padre Giacobbe capì che il Signore aiutava la mia semplicità. Infatti nella semplicità del mio cuore offrivo tutto ciò che proveniva dai beni della terra ai poveri e agli affiitti»86• 6. «Chi presiede, lo faccia con sollecitudine [ho proistdmenos en spoude;] ». Lo stesso verbo altrove indica una funzione di presidenza o direzione della comunità (cfr. 1Tes 5,12; 1Tim 5,17 ); d'altronde, qui la sua collocazione al penultimo posto dei sette carismi comunitari richiama la stessa posizione delle kyberneseis o «doni di governo/di guida» men­ zionati nell'elenco di 1Cor 12,28! In questo senso, come già accennato, il vocabolo potrebbe corrispondere agli egoumenoi, «capi, dirigenti, re­ sponsabili», di cui si parla in Ebr 13,7.17.24. Accettando questa seman­ tica, bisognerà comunque precisare che non è affatto necessario pensare

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che il singolare «presidente» nel nostro passo alluda a un unico respon­ sabile per tutta la chiesa di Roma. Infatti, come abbiamo già detto, i cristiani di Roma al tempo di Paolo erano suddivisi in almeno cinque gruppi o comunità o chiese, ciascuna delle quali aveva i suoi "ministri". Perciò il singolare andrà inteso in senso distributivo: uno per ciascuna "chiesa". Tuttavia, l'esatta comprensione dell'identità di questi presiden­ ti potrebbe essere condizionata dal contesto immediato, visto che questa funzione è contornata dalla menzione di attività caritative. Alcuni com­ mentatori infatti ritengono che la presidenza in questione sia limitata alla gestione delle opere caritatevoli della comunità. Ma allora non si vedrebbe in che cosa consista la peculiarità di questo carisma rispetto agli altri. Il fatto che esso venga menzionato al singolare gli conferisce probabilmente il significato di chi svolge un incarico riconosciuto, ben­ ché questa funzione si trovi al penultimo posto in un elenco di sette mi­ nisteri, pur raccomandandogli la «sollecitudine»8 7• In pratica, però, il «dirigente/presidente» va verosimilmente identificato soltanto con il capofamiglia (o chi per lui) della casa in cui avveniva il raduno di ciascu­ no dei cinque gruppi menzionati88• La richiesta della «sollecitudine», d'altra parte, è conforme a una comprensione greca del proi'stdmenos nel senso di un originario ruolo sociale di tipo civico, e corrisponde a una pubblica responsabilità svolta en spoude;, cioè non solo con impegno ma anche con zelo89• 7. «Chi fa opera di misericordia [ho eleon], lo faccia con gioia». Il verbo eleéo, come del resto i participi immediatamente precedenti, è impiegato in forma assoluta (cioè «il misericordioso»); non essendo quindi speci­ ficato da nessun oggetto o termine dell'azione significata, non è imme­ diatamente chiaro a che cosa si riferisca. Certo esso allude a un esercizio di compassione, che può consistere in atti di carità e di assistenza verso chi è nel bisogno materiale, come malati o poveri in genere (per esempio cura dei prigionieri o dei defunti)90• Però il verbo greco non si riferisce necessariamente e soltanto a queste azioni. Infatti può anche riportarsi in generale ad atti di magnanimità, tali da comprendere pure gesti di condo­ no, di indulgenza e di perdono9 '. L'importante è il complemento modale, che specifica l'atteggiamento con cui la misericordia viene esercitata, cioè con gioia (hilarotes). Il senso di questo sostantivo, presente solo qui nel Nuovo Testamento (e raro nella grecità), può essere ben spiegato da 2.Cor 9,7: «Ciascuno dia [ ... ] non con tristezza né per forza, perché "Dio ama chi dona con gioia" (Prov 2.2.,8)».

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La comunità di Filippi La Lettera ai Filippesi si apre porgendo i saluti «a tutti i santi in Cristo Gesù che sono in Filippi insieme agli episcopi e ai diaconi» . Problematico risulta il riferimento a questi due gruppi di persone specificate a parte, che potremmo rendere letteralmente: «ai sorveglianti/sovrintendenti e agli assistenti» . Certamente si tratta di un gruppo di persone che fanno parte dei «santi» menzionati prima. Ma il problema viene dal fatto che mai altrove nelle sue lettere sicuramente autentiche (Romani, Prima e Secon­ da Corinzi, Galati, Prima Tessalonicesi, Filemone) Paolo menziona queste forme di ministero ecclesiale, né negli elenchi dei ministeri né separata­ mente. Ricordiamo di passaggio che ancor più si deve dire la stessa cosa a proposito dei "presbiteri", i quali appariranno solo nelle tardive Lettere pastorali (Prima e Seconda a Timoteo, Tito; cfr. infra). La problematicità della doppia menzione è data anche dal fatto che i due tipi di persone ap­ paiono solo di sfuggita nel prescritto della lettera, mentre in seguito non viene dedicata a essi alcuna attenzione; invece altrove, dove essi appaiono insieme (nelle Lettere pastorali), sono oggetto di ampie istruzioni. Inoltre occorre rilevare che, stante il plurale, non si tratta di un solo episcopo, ma di molti e per di più in una sola comunità. D'altronde bisogna anche no­ tare che questa è in assoluto la prima attestazione nella storia della chiesa dell'uso del termine e quindi dell'esistenza di una simile funzione ministe­ riale in ambito cristiano. Tradurre "vescovi" sarebbe del tutto improprio perché anacronistico, visto che essi non corrispondono all'attuale figura di Vescovo (che è uno solo per ogni comunità e con funzioni magisteriali). Vediamo che cosa se ne può dire di più preciso. Episcopos in greco significa «sorvegliante, sovrintendente, controllore, guardiano, osservatore, custode, ispettore» e persino «esploratore». Già Omero definiva gli dèi «custodi [episcopoi] dei patti» (Iliade 22,255) e il troiano Ettore «difensore [episcopos] della città » (Iliade 24,729), men­ tre nella Bibbia Dio stesso è detto «indagatore [episcopos] del cuore» (Sap 1,6). Molto discussa è l'eventuale analogia tra la figura neotestamen­ taria e quella di un personaggio testimoniato nei manoscritti di Qumran, detto in ebraico m'baqqér, «ispettore, controllore» , che interveniva per correggere e istruire i membri della comunità (cfr. 1QS 6,12; CD 13,6-8; 14,8-9 ), ma la destinazione della lettera di Paolo a una comunità di am­ biente pagano rende assai improbabile il riferimento a una prassi giudaica che per di più appartiene a un ambito settario9 l Piuttosto, a monte della .

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figura menzionata da Paolo c'è il significato di una sorta di funzionario laico, proprio dell'ambiente statale o locale, che è ampiamente testimo­ niato in varie città greche e che era preposto a sorvegliare diversi aspetti della vita pubblica (ordine , edilizia, finanze; ma non sono sicure funzioni giudiziarie e religiose). Per esempio, nel v secolo a.C. è testimoniata a Eritre , cittadina non lon tana da Smirne a nord di Efeso, la presenza di alcuni « episcopi» man­ daci da Atene per rendersi conto dell' introduzione di una nuova costitu­ zione civica in quella città9 l. Ma poi lo stesso Cicerone impiega il vocabolo greco dandoci un' informazione autobiografica relativamente al conferi­ mento di un suo ruolo personale nella regione della Campania: « Pompeo desidera che io sia I' episkopos a cui spetti decidere sulle operazioni di leva e sui complessi dei preparativi militari » (AdAtticum 8,1 1 ,5). Lo stesso Gesù Cristo è qualificato come «pastore ed episkopos [custode] delle vostre ani­ me » in 1 Pt 2.,2.5. Certo è che questa figura aveva delle competenze puramente ammi­ niscrative94 ed era priva di ogni compito di ammaestrare o di predicare, che invece era riservato ad altre persone (poeti, oracoli , legislatori, filoso­ fi, profeti), per non dire di inesistenti compiti sacerdotali. Altrettanto si può dire per le prime comunità cristiane , come anche testimonia il libro della Didaché (fine I secolo), dove si parla di episcopi e diaconi eletti dalle singole comunità (15 ,1) , i quali, sia pure al plurale , tendono ormai ad ag­ giungersi se non a sostituire la funzione dei profeti , ritenuta comunque importante: Eleggetevi [cheirotonesate autois, !etc. « imponete le mani per voi » cioè « procura­ tevi»] sovrintendenti e inservienti [episkopous kai diakonous], degni del Signore: siano uomini mansueti, disinteressaci, veritieri e sicuri: essi compiono era di voi l'ufficio dei profeti e dei maestri. Non disprezzaceli perché, con i profeti e i mae­ stri, sono le persone più ragguardevoli tra di voi91•

La mancanza dei "presbiteri" sia qui sia nella Lettera ai Filippesi lascia intendere che le due figure e le due funzioni non sono distinte (così del resto è anche in At 2.0,17 e 2.8, dove ai «presbiteri» di Efeso Paolo dice che lo Spirito Santo li ha posti come « episcopi » per pascere la chiesa). Perciò, di fatto, sia il vocabolo sia il significato che esso comporta derivano dalla cultura pagana ambientale. La funzione degli episcopi a Filippi , dunque, non era di tipo magisteriale e men che meno sacerdotale, ma ammini-

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strativo, essendo essi figure di responsabili dell'andamento comunitario, comprese le funzioni di assistenza, come si specifica con le figure associate dei diaconi. Didkonos, infatti, sta sulla stessa linea dell'episcopo e non a caso viene associato a lui. Il suo significato è quello di «servitore» (originariamente, in greco, è colui che serve a tavola: questo senso si mantiene chiaramente in At 6) e nel nostro caso vale nient'altro che come figura di aiutante degli epi­ scopi. Quando invece il termine ricorre da solo acquista significati traslati più ampi (come si può vedere in Rom 13,4; 1Cor 3,5; 2.Cor u,2.3; 1Tes 3,2.). Della sua figura si tratterà più avanti a proposito delle Lettere pastorali. La comunità di Efeso La Lettera agli Efesini, probabilmente scritta da un posteriore discepolo di Paolo, in realtà si rivolge anche ad altre chiese dell'area microasiatica, rispecchiandone la vita interna96• Tra i vari argomenti trattati da questo scritto, c'è anche una pagina dedicata al tema dei ministeri comunitari, nessuno dei quali è qualificato in termini sacerdotali: 4•7 A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Perciò è detto: Salendo in alto condusse prigionieri e diede doni agli uomini [Sai 69,19]. 9 Ma che significa sali, se non che prima discese nelle parti inferiori della terra? '° Colui che discese è il medesimo che anche ascese al di sopra di tutti i cieli per riempire il tutto. 11 Ed egli diede alcuni come inviati, altri come profeti, altri come annunciatori, altri come pastori e maestri, " per predisporre i santi all'impegno del servizio, alla edificazione del corpo di Cristo, ' 1 finché perveniamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, all'uomo perfetto, alla statura della pienezza di Cristo, ' 4 affinché non siamo più bambini ondeggianti e mossi dal vento di ogni dottrina secondo la malafede degli uomini e la furberia che camuffa l'inganno, 11 ma, fedeli alla verità con amore, cresciamo sotto ogni aspetto verso di lui che è il capo, Cristo, 1 6 a partire dal quale tutto il corpo, compatto e unito da ogni giuntura secondo la forza propria di ciascun membro, opera la propria crescita edificandosi con l'amore (4,7-16). 8

Come si vede, il discorso spazia da «ciascuno» ad «alcuni» fino a «tut­ ti» per dire che si tratta di un insieme unito e comunitario ma strutturato secondo funzioni diverse97• L'osservazione più importante da fare è che viene riconosciuto nel Cristo glorificato, e non nel Gesù terreno, la fonte

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di ogni dono ministeriale fatto alla comunità (vv. 7-10). Inoltre si preci­ sa che i doni ministeriali ricevuti (inviati, profeti, annunciatori, pastori e maestri), tutt'altro che forme di potere, sono finalizzati a fare di tutti i «santi» altrettanti servitori responsabili, adulti e avvertiti (vv. 1I-12), in modo che la comunità sviluppi un suo dinamismo di crescita materiato di amore (vv. 13-16). L'iniziale accostamento tra «grazia» e «dono» dice che qui non si tratta dell'intervento giustificante o santificante di Dio, ma di quello che altrove Paolo chiama «la grazia di prendere parte al servizio in favore dei santi» (2Cor 8,4)98• All'origine viene posto il Cristo glorioso, salito in cie­ lo secondo la conferma del Sai 69, che però viene citato con una vistosa modifica, cioè con il dire che «diede doni agli uomini» (v. 8; mentre l'o­ riginale ebraico dice esattamente il contrario: «ha preso doni tra gli uomi­ ni»). Va detto che questa modifica ha un corrispettivo nell'aramaico del Targum dello stesso Salmo, che è reinterpretato in relazione a Mosè consi­ derato come il donatore della Legge. La nostra lettera invece parla di Cristo glorificato e identifica i doni del Risorto in rapporto alla vita interna della comunità cristiana e specialmente ai ministeri che vi sono esercitati. Questi doni, poi, non sono considerati come un surrogato sostitutivo di Gesù ma come un suo nuovo modo di presenza viva e dinamica nel mondo99• Se ne deduce che Gesù Cristo, invece di apparire come il "fondatore" storico della chiesa (qualifica che nel Nuovo Testamento non viene mai espressa), risulta essere piuttosto il suo «fondamento» (1Cor 3,u) o la «pietra angolare» (Ef 2,20) di quella che Paolo vede come una costruzione ben articolata che cresce come un Tempio santo nel Signore (Ef 2,21), cioè la chiesa intera. Inoltre constatiamo che, mentre altrove si legge che il dono tipico di Gesù risorto e asceso al cielo è essenzialmente lo Spirito (cfr. Le 24, 49; Gv 16,7; 20,22; At 1,8; 2,n; 1Cor 15,45; Gal 4,6; Rom 8,15), qui invece esso consiste in una pluralità di deputazioni ministeriali al servizio della comunità. Ana­ lizziamo brevemente le designazioni elencate. r. «Gli inviati» stanno al primo posto (come in Ef 2,20; 1Cor 12,28), sia che vadano intesi come gruppo venerando e autorevole del passato quali sono stati i Dodici (cfr. Ap 21,1 4) o più probabilmente in senso largo, che abbiamo già precisato, come tutti gli inviati in missione100 dediti alla pre­ dicazione e come tali fondatori di chiese (cfr. Ef 2,20; 1Cor 3,10). 2. «I profeti» anche altrove sono associati agli apostoli (cfr. Ef 2,20; 3,5; 1Cor 12,28) e proprio per questo non sono quelli dell'Antico Testamento. Essi rappresentano quei cristiani responsabili, che ali' interno delle comu-

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nità svolgono un importante ruolo di interpretazione delle rivelazioni del­ lo Spirito sia nelle Scritture come in interventi subitanei e quindi contri­ buiscono a una solida edificazione nella fede101 Aggiungiamo che questa funzione in ambito cristiano era anche svolta da donne, come risulta da At 2.1,9 e da 1Cor 11,5. 3. «Gli evangelisti/evangelizzatori» (= annunciatori dell 'evangelo) sono coloro che proclamano l'evangelo fuori della comunità cristiana (cfr. Ef 1,13; 2.,7; 3,6.8) e come tali proseguono l'opera degli apostoli (cfr. 2.Tim 4,5: «Compi la tua opera di annunciatore dell'evangelo»), ma sen­ za un invio esplicito come missionari carismatici. Come tale in At 2.1,8 è chiamato per nome Filippo, uno dei sette designati in At 6,5 insieme a Stefano per servire alle mense; si parla infatti di un suo ministero svolto in Samaria (At 8,5-8) e con un funzionario etiope della regina Candace sulla strada di Gaza (At 9,2.6-40). 4. «I pastori e maestri» sono considerati insieme (grammaticalmente con un unico articolo) per dire che, mentre è possibile un'autonoma fun­ zione di maestro (cfr. At 13,1; 1Cor 12.,2.8; Gal 3,1), non ci può essere un pastore che non sia anche maestro. Il titolo di «pastore» ricorre qui per l'unica volta nel Nuovo Testamento a indicare una responsabilità eccle­ siale, ma è implicita anche altrove (cfr. il verbo «pascere» in Gv 2.1,16; At 2.0,2.8; 1Pt 5,2.) e implica una partecipazione all'unico «buon pasto­ re» del gregge cristiano (cfr. Gv 10,11-18). Tuttavia, qui essi non sono visti come esponenti di un ministero a sé stante, ma piuttosto in connessione con l'insegnamento considerato come un risvolto dell'ufficio pastorale. Interessante poi è la precisazione del v. 12., secondo cui i ministeri elencati, tutt'altro che formare una casta chiusa in sé stessa, sono rivolti a «predi­ sporre i santi all'impegno del servizio, alla edificazione del corpo di Cri­ sto». Si tratta quindi di un compito essenzialmente promozionale, che consiste nell'aiutare tutti gli altri membri della comunità a raggiungere una condizione di adulti nella fede e nella stessa responsabilità ecclesiale (cfr. v. 13: «perveniamo tutti [ ... ] alla statura della pienezza di Cristo»). •

Il ministero dei «dirigenti» nella Lettera agli Ebrei Solo in questa lettera, e quindi solo nella comunità che è la sua destinata­ ria' 0 \ troviamo la designazione di hegoumenoi, «capi, guide, conducenti, dirigenti»w i _ Il titolo non possiede alcuna connotazione propriamente

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religiosa'04• A monte potrebbe comunque esserci un detto di Gesù, che raglia corto sulla disputa sorta tra i suoi discepoli su chi tra loro si dovesse considerare più grande: I re delle nazioni le signoreggiano [kyrieuousin] ed esercitando l'autorità [exou­ sidzontes] su di esse vengono chiamati benefattori [euergétai]. Voi però non siate così, ma chi tra voi è il più grande [ho meizon] si faccia come il più giovane [ho neoteros] e chi comanda [ho hegoumenos] come colui che serve [ho diakonon] (Le ll,l6).

L'autore della lettera però non fa nessun confronto con altre autorità, ma dà per scontato che tra i destinatari del suo scritto ci sono delle funzioni di governo considerate normali, tanto più che il mittente ne parla solo alla fine come esortazione conclusiva: 13 7 •

Ricordatevi dei vostri capi/dirigenti, che vi hanno annunciato la parola di Dio, [ ... ] imitatene la fede [ ... ]. 17 Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano su di voi e devono renderne conto, affinché lo facciano con gioia [ ... ] . 10 5 4 • ' Salutate i vostri capi e tutti i santi (13,7.17.l4)

A parte la formalità del saluto finale, i vv. 7 e 17 lasciano intendere quali fossero le funzioni di questi «dirigenti», di cui tra l'altro non si fanno i nomi poiché è comunque eloquente il loro ministero, anche se alcuni han­ no già conosciuto «l'esito finale della loro vita» (v. 7b). In primo luogo essi hanno annunciato la Parola con fede. In questo senso si potrebbe an­ che citare la Didaché 4 ( «Figlio mio ricordati giorno e notte di chi predica la Parola di Dio e onoralo come il Signore») e la Lettera di Barnaba 19,9 ( «Amerai come la pupilla del tuo occhio chi ti dice la Parola di Dio»). Se­ condo gli Atti, il ministero della Parola era proprio ciò che doveva caratte­ rizzare i Dodici rispetto ai sette diaconi eletti per servire alle mense (cfr. At 6,4) e del resto Luca stesso all'inizio del suo Vangelo si richiama a coloro che « furono testimoni oculari e divennero servitori della Parola» (Le 1,1). Si tratta di un ministero tanto più importante in quanto poco dopo segue l'esortazione a non lasciarsi sviare da «dottrine varie ed estranee» (13,8) probabilmente concernenti modi soggettivi o parziali di parlare di Cristo, del quale invece l'autore sottolinea il fatto che egli «è lo stesso ieri, oggi e per sempre» (13,7b). Nel Nuovo Testamento si parla spesso di preoc­ cu pazioni del genere (cfr. Gal 1,6; 2.Cor 11, 4; Col 2.,2.2.; 1Tim 4,1; 2.Pt 2.,1; 1 Gv 4,1-6; 2.Gv 7), che inducono alla vigilanza perché la retta fede in Cri­ sto non conosca né tentennamenti né tantomeno deviazioni.

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L'invito a obbedire agli egoumenoi evidenzia il loro ruolo di responsa­ bilità, che in più viene rimarcato dal fatto che «devono renderne conto», sia di fronte al giudizio di Dio sia in occasione di un'eventuale testimo­ nianza martiriale. Il verbo greco hyp-akouein, «obbedire», richiama di per sé l'idea di un'obbedienza fatta sulla base dell'ascolto e in questo senso altrove si parla di obbedienza all'evangelo (cfr. Rom 10,16; 2Tes 1,8) come sinonimo di fede (cfr. Rom 1,5; 16,19; 2Cor 10,5; 1Pt 1,22). Ed è per questo che il ministero va espletato non solo con impegno ma anche «con gioia» (cfr. pure 2Cor 1,24), il che suppone uno stretto vincolo fatto anche di sentimenti condivisi tra i dirigenti e la comunità intera. La struttura ministeriale della comunità secondo le Lettere pastorali Le tre lettere tradizionalmente etichettate come «pastorali», per il fatto che sono indirizzate a figure singole di pastori (T imoteo e T ito), chiama­ no in causa non solo gli ultimi momenti della vita di Paolo (specie la Se­ conda a T imoteo), ma anche le loro relative comunità, che corrispondono rispettivamente alla città di Efeso (cfr. 1T im 1,3) e all'isola di Creta (cfr. T it 1,5). Esse si collocano in un tempo più recente rispetto alle altre lettere paoline, essendo databili a cavallo tra il I e il II secolo106 Un preciso riferimento alle rispettive realtà ecclesiali è piuttosto scarso, e di ciò è sintomo il fatto che lo specifico termine ekklesia è molto raro (trovandosi soltanto in 1T im 3,5.15; 5,16). In effetti vi si nota un interes­ se piuttosto generico per i rispettivi contesti dei destinatari: la tematica trattata è sostanzialmente simile nelle tre lettere, per cui si ha subito l' im­ pressione che esse intendano rivolgersi cumulativamente a tutte le chiese cristiane, in un tempo in cui era ormai in atto un vuoto "apostolico". L'articolazione ministeriale interna a queste comunità suppone un paio di chiarificazioni. La prima riguarda la supposta situazione vitale dei destinatari. Essa è caratterizzata dalla presenza e dall'influsso nefasto di falsi ma­ estri, bollati pesantemente come «dottori della legge che non capiscono né quello che dicono né ciò di cui sono tanto sicuri» (1T im 1,7 ), «spiriti ingannatori e dottrine diaboliche» (1T im 4,1); infatti c'è chi «insegna diversamente e non segue le parole del Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina conforme alla vera religiosità, accecato dall'orgoglio, non com­ prende nulla ed è un maniaco di questioni oziose e discussioni inutili» (1T im 6,3-4), «soprattutto fra quelli che provengono dalla circoncisione •

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molti insubordinati, chiacchieroni e ingannatori» (Tit 1,10), «rinnegano Dio con i fatti, essendo abominevoli e ribelli e incapaci di fare il bene» (Tit 1,16). Essi sono egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, empi, senza amore, sleali, calunniatori, intemperanti, intrattabili, disuma­ ni, traditori, sfrontati, accecati dall'orgoglio, amanti del piacere più che di Dio, gente che ha una religiosità solo apparente ma ne disprezza la forza interiore [ ... ]. Entrano nelle case e circuiscono certe donnette cariche di peccati [ ... ] . Sull'esem­ pio di lannes e di lambres che si opposero a Mosè, anche costoro si oppongono alla verità: gente dalla mente corrotta e che non ha dato buona prova nella fede (lTim 3,l-5.8).

Se ne deve dedurre che si tratta concretamente di un tempo (preconizza­ to come futuro, ma in realtà presente perché a esso bisogna subito reagi­ re), in cui «non si sopporta più la sana dottrina, ma, pur di udire qualche cosa, ci si circonda di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole» (2Tim 4,3-4). Tre nomi vengono fatti di persone effettivamente coinvolte come responsabili di questo quadro così fosco: Imeneo, Alessandro, Fileto (1Tim 1,20; 2Tim 2,17 ); indirettamente si tratta forse anche di Figelo ed Ermogene, che han­ no abbandonato Paolo (2Tim 1,15); di costoro però non sappiamo altro se non che dovevano essere dei cristiani rinnegati'07• Almeno alcuni di questi provengono dal giudaismo (Tit 1,10.14)108 In che cosa consistessero concretamente le dottrine da loro propugnate, lo si può sommariamen­ te individuare come segue: essi ritengono che la risurrezione sia già avve­ nuta (2Tim 2,17-18), vietano il matrimonio e impongono di astenersi da determinati cibi (1Tim 4,3), raccontano favole e genealogie interminabili (iTim 1,4; 4,7; 6,20; 2Tim 4,4), si perdono genericamente in questioni oziose e discussioni inutili (1Tim 6,4.20; 2Tim 2,14.16.23) e si propongo­ no un guadagno disonesto (Tit 1,u ; 2Tim 3,2). L'altra chiarificazione riguarda il tipo di reazione adottato dal mittente per fare fronte a questa insidiosa realtà. L'autore si sente investito della forte responsabilità di opporsi e contrastare tanta insidia. Egli prende posizione in nome di Paolo, presentandosi praticamente come suo successore. L'Apostolo in queste lettere assume la funzione di unico autorevole referente della sana e bella dottrina (1Tim 4,6; Tit 2,1). Egli è considerato l'araldo dell'evangelo e il maestro (1Tim 1,u-16; 2,7; Tit 1,3; 2Tim 1,u-12), colui che ha trasmesso un «deposito» da conservare •

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in modo vivo e incisivo (1Tim 6,20; 2Tim 1,12.14). Paolo perciò tende a essere canonizzato in quanto fonte e garante della tradizione; altri apostoli non vengono minimamente menzionati. L'unica modalità presa in considerazione per contrastare i falsi maestri è l'insegnamento (didaskalia), e può essere interessante notare che questo vocabolo, su 20 ricorrenze in tutto il Nuovo Testamento, ne ha ben 1 5 solo nelle nostre tre lettere (1Tim 4,11.13.16 ecc.). Timoteo è considerato come il trasmettitore "patentato", che è incaricato di tramandare ciò che ha im­ parato da Paolo affinché lo possa comunicare ad altre persone che a loro volta siano in grado di insegnare ancora ad altri (2 Tim 2,2); analogamente si dice di Tito (Tit 2,1.15; 3,8). Questa comunque è la consegna: «Annuncia la Parola, insisti al mo­ mento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2Tim 4,2), utilizzando le Scritture note fin dall'infanzia (2Tim 3,15-16). L'autore è preoccupato solo della vita interna delle comunità e del mantenimento in esse di una fede pura. Non c'è nessuno slancio missionario. Qualche studioso ha parlato di "cristiane­ simo borghese". Certo è che i nomi di «Israele» e dei «Giudei» sono ac­ curatamente evitati, sicché essi non soltanto non sono più sentiti come un problema (come invece in Rom 9-11) né i destinatari hanno bisogno di es­ sere richiamati a quella matrice (come nella Lettera agli Efesini), ma è come se la chiesa potesse ormai farne a meno; e se si parla delle «genti» con lo sguardo comunque orientato verso «tutti gli uomini» (1Tim 2,1.4.6; 4,10; Tit 2,11), è solo per ricordare il passato e l'esempio di Paolo stesso, che delle genti era stato costituito maestro (1Tim 2,7; 3,16; 2 Tim 1,11; 4,17 ). Infine, su queste basi è possibile precisare la composizione strutturale in­ terna alle comunità cristiane destinatarie. Anzitutto notiamo che la chie­ sa, pur solennemente definita come «colonna e sostegno della verità» , è familiarmente qualificata in termini originali come «oikos [casa/famiglia] di Dio» (1Tim 3,15); ed è in questa famiglia che bisogna «mettere ordi­ ne» (Tit 1,5). Un modello del genere richiama l'idea ellenistica dell'ordi­ namento patriarcale della casa. Ma l'immagine è molto diversa da quella paolina di «edificio di Dio» (1Cor 3,9 ), poiché si riferisce alla chiesa non come risultato "architettonico", sia pur metaforico, di una costruzione divina, ma come struttura comunitaria di relazioni e di regole interne a essa. Più prossima semmai è l'altra definizione paolina di «tempio di Dio» (1Cor 3,16-17; 2Cor 6,16), a cui potrebbero richiamare le metafore della colonna e del sostegno, anche perché il sintagma «casa di Dio/del

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Signore» è frequente nella Settanta per designare appunto il Tempio di Gerusalemme (Es 2.3,19; 3 4,2.6; 1Cr 9,11.13.2.3.2.6; 10,10; Sai 5 4/55,14; Is 56,7 ecc.)'09• Tuttavia, bisogna riconoscere che questa prospettiva non viene affatto sviluppata, mentre invece nelle altre ricorrenze del termine oikos nelle Lettere pastorali (1T im 3,4.5.12.; 5,4; 2.T im 1,16; 4,19; T it 1,11; cfr. anche oikia in 1T im 5,13; 2.T im 2.,2.0; 3,6) esso non ha mai una semantica religioso-sacrale ma sempre e solo privatistico-familiare. Ciò significa che in prima battuta la semantica del costrutto greco non rimanda propria­ mente alla dimensione sacrale della chiesa come spazio sacro, bensì alla sua dimensione familiare e laica, sia pur strutturata secondo il patriarcalismo tipico della società antica. A ciò conduce anche la constatazione secondo cui il termine ekklésia in queste lettere non intende etichettare la chiesa universale, ma la singola comunità locale; ciò risulta con sufficiente chiarezza nelle sue altre due ricorrenze: «Se uno non sa dirigere la propria casa, come potrà aver cura della chiesa di Dio?» (iT im 3,5); «Se qualche donna fedele ha con sé delle vedove provveda lei stessa ad esse e non pesi sulla chiesa affinché questa possa provvedere a quelle che sono veramente vedove» (1T im 5,16). Però la casa non è più la singola famiglia che al tempo di Paolo ospitava nel pro­ prio seno solo un certo gruppo di cristiani, ma è l'intera chiesa locale che passa ad assumere i connotati di una famiglia. Ebbene, in questa comunità-casa spicca ora la figura patriarcale di un episkopos, benché coadiuvato da alcuni ministeri subordinati tra cui spic­ ca soprattutto quello dei presbiteri (sul primo cfr. 1T im 3,1-7 ; T it 1,7-9; sui secondi cfr. 1T im 5,17-2.5). L'appellativo greco (come anche l'astratto episkopé), come abbiamo già chiarito, è nome di ufficio equivalente a « sor­ vegliante, ispettore, guardiano», semanticamente non lontano da quello di «pastore» (1Pt 5,2.: «Pascete il gregge [ ... ] sorvegliandolo»). Quan­ tunque nelle nostre lettere esso sia attestato solo due volte sulle cinque ricorrenze neotestamentarie (At 2.0,2.8; Fil 1,1; 1T im 3,2.; T it 1,7; 1Pt 2.,2.5), è solo qui che la sua figura viene fatta oggetto di una vera riflessione e di una specifica normativa. Una cosa è certa: questo lessico non risale a Gesù, e anche nel Paolo sto­ rico esso non ha alcun rilievo significativo (su Fil 1,1 cfr. supra)" L' episko­ pos inoltre si trova contestualmente associato al presbjteros (da cui deriva l' italiano «prete»), letteralmente «anziano». Infatti, non solo in At 2.0,17 Paolo raccomanda ai presbjte roi della chiesa di Efeso di vegliare sul gregge nel quale lo Spirito Santo li ha posti come episkopoi per pascere la chiesa di 0



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Dio, ma anche nelle Lettere pastorali la loro associazione è evidente: nella Prima a T imoteo, dopo aver detto che l'episcopo dev'essere irreprensibile (3,2), si precisa che quei presbiteri i quali esercitano la presidenza vanno trattati con doppio onore (5,17); in T ito, dopo aver ricordato di stabilire dei presbiteri in ogni città (1,5), si precisa che l'episcopo dev'essere irrepren­ sibile (1,7). Si pone perciò la questione di sapere in quale rapporto l'uno stia con l'altro (o con gli altri). Per una soluzione, si devono tenere presenti due fattori egualmente importanti. Il primo è che le nostre lettere, men­ tre impiegano il termine «presbitero» solo al plurale (cfr. presbjteroi in 1T im 5,17; T ic 1,5; il singolare in 1T im 5,19 ha valore distributivo), fanno invece uso del termine «episcopo» solo al singolare (1T im 3,2; T ic 1,7). Se i due termini sono contestualmente coordinati, ciò non significa che la figura del secondo si risolva semplicemente in quella dei primi, ma se ne distingue. Oltre ad altre considerazioni, bisogna anche tener conto del fatto che il termine «episcopo» è sempre accompagnato dall'articolo de­ terminativo: ho episkopos. Quindi, se accanto al presbitero compare anche l'episcopo, ciò significa che la figura di quest'ultimo si era resa necessaria perché determinate funzioni amministrative dovevano essere espletate da una sola persona. Il secondo fattore si accompagna a un'analisi letteraria e teologica glo­ bale delle Pastorali, da cui risulta un momento cronologico molto proba­ bilmente posteriore al Paolo storico (e corrispondente agli anni 80-100 o anche 100-120). Ebbene, l'ipotesi migliore per spiegare la comparsa dell'associazione presbiteri-episcopo e il loro specifico rapporto è quella di supporre che ci sia stata un'evoluzione nella forma organizzativa della co­ munità cristiana. L'innegabile oscillazione delle Pastorali circa l'identità delle due funzioni è probabilmente segno che al tempo della loro com­ posizione sono confluite insieme due strutture ministeriali diverse, una imperniata sui presbiteri e un'altra sulla coppia episcopi-diaconi. Qui, in realtà, si incontrano due tradizioni diverse: quella degli Anziani, di origi­ ne giudeo-cristiana, assente nel Paolo storico, e quella dell'episcopo e dei diaconi, forse veicolata dalle comunità paoline. La funzione dei presbiteri (mai menzionati nelle lettere del Paolo sto­ rico), come abbiamo visto a proposito della chiesa di Gerusalemme, è di probabile derivazione giudaica, essendo appunto testimoniato originaria­ mente nella chiesa-madre. A questi ministeri si aggiunge la figura del didkonos, «servitore, assi­ stente» (1T im 3,8-13), la cui funzione in concreto non è di facile com-

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prensione: forse riguarda l'assistenza dei poveri o un servizio nella cele­ brazione dell'eucaristia. C'è poi anche una questione interessante: in 1 T im 2.,u-15 l'autore dice cose molto dure sulle donne, che non devono insegnare; e tuttavia poco dopo, all'interno di un'istruzione riservata ai diaconi (3,8-10.12.-13), scrive: «Allo stesso modo le donne siano persone degne, non maldicenti, sobrie, fedeli in tutto» (v. u). Non si può non dedurne che qui si tratta di diaconesse1 1 1 Persino una fonte non sospetta, quale è l'Episola 10,96 di Plinio il Giovane all'imperatore Traiano degli anni m-u3, quando era governatore della Bicinia (nell'Anatolia nord­ occidentale), parlando della persecuzione dei cristiani precisa di avere tor­ turato «due schiave che venivano dette ministrae» (e questo vocabolo è semplicemente la traduzione latina del termine greco didkonos, che può anche avere valore femminile come si vede a proposito di Fede in Rom 16,1). In più osserviamo che 1T im 5,3-16 riserva una trattazione particolare alle vedove, distinguendo era quelle che hanno una famiglia, quelle che la chiesa deve assistere, e quelle che sono chiamate a occupare alcune funzio­ ni ufficiali (cfr. anche T ic 2.,3-4)1 11• In ogni caso queste lettere conoscono uno spostamento di accento, per cui il dinamismo carismatico delle comunità va attenuandosi" 3 • Già il semplice fatto che esse siano indirizzate a ministri singoli e non più a in­ tere comunità denota una certa istituzionalizzazione, come risulta anche dal rito dell'imposizione delle mani (in 1T im 4,14; 2.T im 1,6) che, olcre ai pochi casi biblici, era di stampo e quindi di derivazione rabbinica (detta Semikah; cfr. in.fra)" 4• Siamo dunque di fronte a un periodo inoltrato delle origini cristiane, in cui l'episcopo, pur facendo parte di un collegio di pre­ sbiteri, sta emergendo come figura singola, anche se non ancora nel senso strettamente "monarchico" quale si ritaglierà non molto tempo dopo nelle lettere di Ignazio"!. •

Conclusioni Da quanto abbiamo visto sul fatto dei carisimi e delle diakonie nelle più antiche comunità ecclesiali si devono dedurre almeno tre conclusioni. L'una riguarda la pluralità delle forme ministeriali che, pur computando la comune presenza degli "apostoli e profeti", addirittura divergono da chiesa a chiesa, finché sopravviene una struttura più istituzionalizzata che disciplina e riduce le manifestazioni dello Spirito nella terna di episcopo-

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presbiteri-diaconi. Un motivo di questo sviluppo può essere stata l' affer­ mazione di false dottrine giudaizzanti o gnostiche che dovevano essere monitorate" 6• Del resto, un «discernimento degli spiriti» era già calco­ lato dal Paolo storico (in 1Cor 1 2,10) supponendo che non tutte le mani­ festazioni pneumatiche dovessero essere funzionali alla edificazione della chiesa. Il secondo risultato riguarda un ruolo ministeriale evidentemente svol­ to da varie donne (cfr. soprattutto Rom 16; 1 Cor 1 1 ) , come a dire che in Cristo non ci sono contrapposizioni di genere (cfr. Gal 3,28). Anche se esse non appartenevano al gruppo degli Anziani/presbiteri, almeno una è qua­ lificata come « apostolo» (Giunia in Rom 1 6,7) e soprattutto potevano profetare pubblicamente nell'assemblea, cosa che almeno nel giudaismo non avveniva" 7• L'ultima conclusione sta nel dover constatare che, in ogni caso, tut­ te queste forme ministeriali sono di stampo laico, anche per quanto ri­ guarda la terna presente nelle Pastorali. A meno di intendere il laico come semplice distinzione rispetto a chi ha delle pubbliche funzioni specifiche da svolgere, le prime comunità cristiane non conoscono ministeri di tipo strettamente sacerdotale, se non altro perché non hanno templi da gesti­ re. Ciò sarà ancora più chiaro nel prossimo capitolo dove vedremo quale sia la dimensione sacerdotale, comunque reale ma quanto mai originale, della chiesa intera. Sicché, se si vuole qualificare i ministri ecclesiali come sacerdoti, bisognerà precisare che si tratta di un sacerdozio ministeriale, in quanto esso condivide e in più specifica il sacerdozio fondamentale comu­ ne a tutti i battezzati.

Il culto domestico delle prime comunità cristiane" 8 Inculturazione La laicità del cristianesimo si misura anche dalla sua capacità di non ir­ rigidirsi in forme di vita chiuse e asociali, ma di inserirsi e condividere il quadro socioculturale con cui viene a contatto. Esso cioè non ha un' impo­ stazione culturale previa, unica e impermeabile, la quale, se così fosse, as­ sumerebbe i contorni di una presuntuosa autosufficiente settarietà. Invece fin da subito è stato praticato un processo di inculturazione consistente nell' inserimento dell'evangelo nel patrimonio culturale di coloro ai quali

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esso veniva annunciato. Archetipo di questo comportamento si può con­ siderare lo stesso Logos ( Verbo) di Dio che si fece carne (cfr. Gv 1,14), cioè divenne non solo uomo ma specificamente giudeo, non ateniese o cinese o altro, comunque assumendo ciò che prima non aveva, quindi umanizzan­ dosi e in un certo senso secolarizzandosi. Questa procedura non equivale né a eclettismo né a sincretismo, cioè non significa una perdita della pro­ pria identità originale, che semmai acquisisce un arricchimento e soprat­ tutto la possibilità di rendersi comprensibile al suo ambiente. A questo proposito, dal punto di vista dell'antropologia culturale, è molto efficace il concetto di interstizialita proposto qualche anno fa sulla base della distinzione categoriale fra gli avverbi di luogo inglesi bere (che rende l'idea di una primitiva religiosità "fatta in casa" e anteriore a quella pubblica), there (che si riferisce all'instaurazione di luoghi, insieme a per­ sone e azioni, esterni alla casa e pubblicamente riconosciuti) e anywhere ( con cui si denotano circoli o associazioni private, figure carismatiche e anche praticanti della magia, che occupano un posto "interstiziale", cer­ to non istituzionale, tra i due luoghi precedenti o semplicemente negli interstizi della seconda tipologia)" 9• Con ciò si esprime l'idea secondo cui persone o gruppi sono situati in senso pressoché diasporico dentro gli spazi intermedi delle componenti religiose ufficiali di una società, con la quale non si identificano appieno. Il concetto di interstizialità, dunque, è utile per designare adeguatamente i luoghi e le forme di raduno dei pri­ mi cristiani. A esso si può aggiungere il concetto affine di liminalita, che esprime pure un'analoga idea di marginalità110• Ebbene, la interstizialità o liminalità delle prime comunità cristiane rispetto al circostante mondo greco-romano si constata ovviamente in primo luogo sul piano della fede proclamata e della morale praticata, ma anche sulla qualità dei loro incon­ tri comunitari, e comunque con la preoccupazione di «condurre una vita decorosa di fronte a quelli di fuori» (1Tes 4,12.; Rom 13,13). In sintesi, possiamo distinguere tre atteggiamenti diversi nelle relazioni instaurate dai primi cristiani verso l'esterno. Il primo è di polemica aperta, se non di rifiuto. Il caso più lampante è il concetto giovanneo di «mondo» (cfr. 1Gv 2.,15-17) che, quando è inteso in senso negativo, implica un giudizio certamente genericista ma fermo verso le realtà terrene (non escluso il giudaismo stesso). Ma il passo ne­ otestamentario più concreto lo abbiamo in Rom 1,18-32. dove, con cate­ gorie proprie della polemica giudeo-ellenistica, si condanna l'idolatria di quanti, distorcendo la conoscenza di Dio sul piano religioso, cadono poi

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in inqualificabili comportamenti sul piano morale. Un giudizio negativo sul paganesimo viene dato anche là dove Paolo stesso condivide con Pietro la coscienza di essere «per natura Giudei e non peccatori come i Gentili» (Gal 2,15) 111, e ancor più là dove si discorre dei destinatari delle lettere come «sottomessi a divinità che in realtà non lo sono» (Gal 4,8), «senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo» (Ef 2,12). È soprattutto l'apo­ calittica giudaica a marcare la differenza, se non l'opposizione, tra «questo mondo» e il «mondo futuro», canto da lasciare segni evidenti sul suo versante cristiano che nel Giovanni dell'Apocalisse non lesina addirittura accenti di satanismo per il potere politico. È evidente che in questo modo si accentua una presa di distanza, che in ogni caso implica un'irriducibile coscienza di diversità, come anche rivela il concetto paolino dell'evangelo come scandalo e stoltezza (1Cor 1,18-25). Però va ben notato che, almeno per quanto riguarda Paolo, egli paradossalmente argomenta in modo po­ lemico molto più ampio verso il giudeo-cristianesimo (a proposito della funzione giustificante della Torah) che non verso il paganesimo! Il secondo atteggiamento, più attenuato, consiste nella semplice consta­ tazione della diversa identità altrui111• Lo si vede bene in 1Cor 8,5-6: «Noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo e che non c'è che un Dio solo. E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dèi e molti signori, per noi c'è un solo Dio [ ... ] e un solo Signore». L'ammissione è fatta per così dire a denti stretti, visto che nella sintassi del testo essa appartiene a una frase secondaria ( «anche se»); ma è importante notare che la specifica identità cristiana viene fatta risaltare sulla base di un confronto con il politeismo pagano, riconosciuto nella sua realtà oggettiva senza particolari inasprimenti polemici. Va pure notato che la dif­ ferenza qui è contraddistinta non dal riferimento a una diversa morale, ma da ciò che riguarda una diversa impostazione religiosa di fondo. Qualcosa di analogo si può dire sul rapporto di accettazione delle autorità politiche (a prescindere dall'Apocalisse giovannea) quale è documentato in Rom 13,1-7 (e ribadito in T ic 3,1; 1Pt 2,13-14): il potere pubblico è onorato non certo per ragioni di divinizzazione ma per convenienza sociale (cfr. infra). In terzo luogo, e in termini più marcati, sia pur impliciti, dobbiamo constatare un interessante e positivo atteggiamento di accoglienza o condi­ visione. Gli esempi non sono pochi e qui ci accontentiamo di richiamarli rapidamente113 • Si va da un minimo qual è la possibilità di condividere l'as­ sunzione di carni di animali immolaci nei templi pagani (1Cor 8-10; ma

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non è così per Ap 2,14.20 rispetto alle chiese di Pergamo e di T iàtira) fino a un massimo come è la condivisione dell'idea originariamente greca della paternità universale di Dio (At 17,28-29; Ef 4,6; anche Mc s,4s). Tra questi estremi si pongono vari altri fattori, che sono l'ammissione di una legge naturale scritta nei cuori di tutti gli uomini (Rom 2,1s-16; come in Cicero­ ne, De rep. 3,2.2,33), la concezione di impronta ellenistica del singolo uomo come Tempio di Dio (1Cor 3,16-17; come in Seneca, Epist. 41,2: «Uno spi­ rito divino dimora in noi»), l'immagine della vita e dell'impegno cristia­ no come di una corsa nello stadio (1Cor 9,24-27; come in Musonio Rufo, Diatribe 7), alcuni elementi di etica stoica come è l'ideale della sujficientia sui o del bastare a sé stessi (Fil 4,11; come in Crisippo, SVF III, p. 67) e per­ sino l'idea di una koinonia (comunione) con Gesù Cristo nel momento del pasto cultuale (1Cor 10,16; come in certi culti misterici quale il culto di Dioniso). A questo proposito vale, in linea generale, il luminoso principio enunciato nella Lettera ai Filippesi: «Tutto ciò che è vero, tutto ciò che è nobile, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è onesto, tutto ciò che è amorevole, tutto ciò che vi fa onore, se c'è qualcosa di valore, e se c'è qualcosa di lodevole: questo sia oggetto dei vostri pensieri» (4,8). Con ciò viene formulata un'affermazione interamente basata su di un presup­ posto meramente umanistico, senza motivazioni di ordine trascendente e tanto meno soprannaturale. Potrebbe quindi valere per Paolo ciò che un suo compatriota, il filosofo Antipatro di Tarso, già maestro di Augu­ sto, annotava a proposito degli stoici: «Osserva come il loro discorso conduca ad affermazioni di grande levatura e nobiltà [ ... ] . A giudizio e a detta dei nostri uomini, il bene e la felicità non hanno altra essenza se non la tanto decantata razionalità nella scelta delle cose che hanno valore» '" 4 • In concreto, la disponibilità culturale dell'evangelo si vede bene, oltre che nel rapporto con la matrice giudaica, anche nei confronti con la do­ minante cultura greca, di cui recepisce alcune modalità importanti. Una di queste è l'idea e soprattutto la prassi dell'associazione, che compren­ de anche la tipologia dei banchetti quale occasione di synousia, cioè dello stare comunitariamente insieme, che secondo Aristotele è appunto il loro scopo'"1 • In effetti, le specifiche adunanze dei cristiani sono immaginabi­ li solo se vengono inquadrate nella più ampia cornice della collocazione delle loro comunità nella società del tempo. Ma l'associazione implica in primo luogo una qualche dissociazione, che va chiarita.

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Dissociazione dal linguaggio e dai luoghi di culto tradizionali Il nuovo movimento sorto nel nome di Gesù di Nazaret, proclamato Cri­ sto e Signore, comportò inevitabilmente delle novità sul piano della prassi religiosa-cultuale, prima per i cristiani che risiedevano a Gerusalemme e poi anche per quanti si trovavano a vivere in ambito greco-romano. La prima e più evidente differenza riguarda la frequentazione del Tempio gerosolimitano: infatti, mentre i "cristiani" di Gerusalemme lo frequen­ tavano ancora (ma non per i sacrifici, bensì come luogo di preghiera: cfr. Le 24,53: At 2,46a; 3,1; 5,42; 21,23-24), quelli presenti nelle altre città del Mediterraneo ovviamente erano impossibilitati a prendere parte alle sue liturgie'"6• Comunque i giudei-cristiani presenti a Gerusalemme non si sentivano più inscindibilmente agganciati al Tempio. Se dobbiamo credere a Luca, infatti, dopo aver scritto che essi «ogni giorno frequentavano concorde­ mente il Tempio» (At 2,46a: to hieron, cioè l'area templare in genere), egli aggiunge: «Ma spezzavano il pane nelle singole case, prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46b). Il dato più importante è segnalato dal sintagma greco kat 'o ikon, letteralmente «casa per casa»: i discepoli di Gesù hanno ormai un altro luogo d'incontro, tutt'altro che sacerdotale, che è la casa, anzi una pluralità di case (cfr. il plurale kat 'o ikous in At 8,3; 20,20 ), con la loro dimensione laica di privatezza ! È là che si celebra un atto comunitario (e bisognerà precisare quanto esso sia "cultua­ le") che per essi è il più significativo, sia perché raduna un intero gruppo di persone in un luogo profano, sia perché si pone in continuità con l'ul­ timo pasto o comunque con i pasti di Gesù (cfr. anche At 5,42; 8,3; u,14; 16,15.31-32; 18,8; 20,20). La separazione dai luoghi di culto ufficiali vale ancor più per i cristiani di ambito pagano greco-romano, che abbandonarono la frequentazione dei molti templi presenti nelle varie città.,7• Al massimo Paolo concede che si possano mangiare le carni degli animali sacrificati agli "idoli" nei templi e vendute al mercato, purché questa libertà non scandalizzi i più deboli (cfr. 1Cor 8,1-12}'>8 • Comunque il Nuovo Testamento, che pur impiega il termine "altare" (thysiasterion) 23 volte, non Io applica mai a un altare, del resto inesistente, del culto cristiano, se non in Ebr 13,10 ma in senso tra­ slato, come vedremo (mentre le altre volte si tratta sempre dell'altare del Tempio giudaico)'"9• E poiché è Paolo il più antico testimone diretto della prassi cultuale

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delle prime comunità cristiane, la sua testimonianza non può che ave­ re la massima importanza per stabilire quale sia stata la prima coscienza che i gruppi cristiani avevano di sé in materia religiosa' 10• Qui di seguito, pertanto, si stabilirà innanzitutto quale sia il concetto paolino di ekklesia come raduno di credenti in Cristo. In secondo luogo, si prenderanno in considerazione i rapporti delle chiese paoline, sia con le istituzioni cultua­ li ufficiali del tempo, sia con le analoghe associazioni volontarie dell'am­ biente greco-romano. Infine, si presenterà lo svolgimento del culto specifi­ co svolto in quelle stesse chiese domestiche.

Le ekklesiai paoline San Paolo è il primo scrittore (cristiano) a impiegare il termine ekklesia in senso "religioso", pur essendo esso di origine soltanto profano-politica' 1 ', per qualificare l'adunanza di un gruppo di credenti in Cristo; e lo fa abi­ tualmente, visto che nelle sole lettere autentiche esso occorre ben 44 volte. Al contrario, egli evita i termini più disponibili sul piano del lessico "societario" di marca religiosa, che sono synagoge (diventato tipico delle riunioni giudaiche)' 1 \ panegyris (che indica per i Greci un'assemblea fe­ stosa, di portata comunque religiosa)m e thiasos (equivalente a un gruppo religioso, anche se dedicato prevalentemente a Dioniso)' 14, per non dire di éranos, hetaireia e koinon (cfr. anche i collegia in ambito latino). Ma vanno subito precisate alcune cose: 1. il termine ekklesia era già stato impiegato dalla Bibbia greca (96 volte) soltanto per tradurre l'ebraico qdhdl, con cui si indicava invece l'assemblea cultuale di Israele, ma che, a differenza di 'eddh, era inteso in generale come designazione del popolo più che di una riunione particolare (cfr. Lev 1 6,17; Num 1 6,3; Dt 23,2.-4; Ne 7,66 ecc.); 2. ciononostante Paolo non impiega mai il termine ekklesia con queste va­ lenze semantiche, benché raramente altrove nel Nuovo Testamento esso o etichetti esplicitamente l'assemblea di Israele nel deserto (cfr. At 7,38), o mantenga ancora il suo originario significato profano politico-ammini­ strativo a proposito dell'assemblea della cittadinanza di Efeso nel teatro di quella città (cfr. At 20,32.3 9.40); 3. in ogni caso, nei testi extrabiblici l'uso del termine come designazione di un gruppo cultuale è sostanzialmente assente' 1 1• Certo è che nel linguaggio dell'Apostolo il termine ekklesia, che vale « assemblea, adunanza, riunione, comunità» (lett. «convocazione»), non ha ancora alcun valore generalizzante per indicare la chiesa universale,

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come invece avverrà a partire dalle pseudoepigrafiche Lettere ai Colossesi (cfr. 1,18.24)1 36 e soprattutto agli Efesini (cfr. 1,22; 3,10.21; 5,23-2s.27.29.32). Sicuramente, in ogni caso, il vocabolo non ha valore architettonico'17, ma soprattutto non è mai ristretto a designare la sola gerarchia come avvie­ ne oggi in un certo acritico linguaggio giornalistico! Paolo invece intende sempre la ekklesia come un insieme fraterno di battezzati riferito a singo­ le comunità locali, che il luogo di riferimento corrisponda a una sola città (Cenere: Rom 16,1; Corinto: 1Cor 1,2; 2Cor 1,1; Tessalonica: 1Tes 1,1), o alle comunità di un'intera regione (la Galazia: Gal 1,2; 1Cor 16,1; l'Asia: 1Cor 16,19; la Macedonia: 2Cor 8,1; la Giudea: Gal 1,22; 1Tes 2,14), o a una riunione che si tiene in una singola casa (di Prisca e Aquila a Roma: Rom 16,s; di Aquila e Prisca a Efeso: 1Cor 16,19; di Gaio probabilmente a Corin­ to: Rom 16,23; di Filemone a Colosse: Flm 2; cfr. anche Ninfa a Laodicea: Col 4,1s). La stessa semantica localistica emerge all'evidenza nel frequente uso del termine plurale hai ekklesiai (cfr. Rom 16,4.16; 1Cor 7,17; 11,16.22; 14,33; 2Cor 8,18-19.23-24; 11,8.28: «la preoccupazione per tutte le chiese»; 12,13), ma anche nel singolare distributivo «ogni chiesa» (en pasi; ekklesia;: 1Cor 4,17; cfr. « nessuna chiesa», oudemia ekklesia: Fil 4,1s)1 38• Anche l'e­ spressione di 1Cor 11,18 («quando vi radunate in chiesa/assemblea») va in­ tesa non in senso spaziale (= radunarsi "in una chiesa") ma in senso modale ( = radunarsi per un incontro, così da formare un'adunanza, un'assemblea), come si conferma poco dopo (cfr. 11,20: « Quando voi vi radunate insieme/ nello stesso luogo» [epi to auto] » ), ma anche in Didaché 4,14 ( « Confesse­ rai nell'assemblea [en ekklesia;] le tue trasgressioni»). Una pluralità di case di raduno per i cristiani è comprovabile anche per una sola città. Come abbiamo già accennato, ciò appare nel modo più chiaro a Roma, dove si può dedurre l'esistenza di almeno tre case del gene­ re: quella dei coniugi Prisca e Aquila (cfr. Rom 16,3-s), quella di Asincrito, Flegonte, Ermete, Patroba, Erma « e i fratelli che sono con loro» (Rom 16,14), e quella di Filologo e Giulia, Nereo e sua sorella, e Olimpa « e tutti i santi che sono con loro» (Rom 16,1s); a queste se ne aggiungono altre due, visto che si parla anche di « quelli che appartengono alla casa di Aristobu­ lo» e di «quelli che appartengono alla casa di Narciso» (Rom 16,10-11), probabilmente schiavi dei rispettivi padroni menzionati, i quali, come av­ veniva anche per altri culti, permettevano loro di radunarsi insieme' 19• Per calcolare il loro numero totale, bisogna tenere conto del fatto che una casa antica, stando alle informazioni forniteci dall'archeologia (si intende la casa di un benestante, a prescindere dalle insulae proletarie)' 40, disponeva

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in concreto come ambiente di raduno soltanto del triclinio, che poteva contenere più o meno una dozzina di persone (eventualmente raddoppia­ bili, se su di un letto [kline] giacevano due persone)' 4' ; se poi vi si aggiun­ geva per estensione anche lo spazio dell'atrio (dove peraltro si doveva stare in piedi), si poteva arrivare a un totale di una trentina-quarantina di perso­ ne. Possiamo perciò quantificare il numero dei cristiani di Roma al tempo dell'apostolo Paolo in un arco compreso tra i cento e i duecento (su di una popolazione di circa un milione di unità, di cui venti-trentamila ebrei)' 4 1• Anche a Corinto doveva esserci più di un luogo di raduno, nonostante che in Rom 16,23 si legga che Gaio vi dava ospitalità a «tutta la chiesa», nel senso di una convergenza di più gruppi. Infatti, in 1Cor 1,16 e 16,15-16 si legge anche della casa di un certo Stefanàs, che secondo il testo doveva svolgere mansioni di leadership all'interno della comunità corinzia. Sul versante giudaico, la casa poteva offrire un'analogia solo quanto alla prassi del banchetto pasquale, che è presieduto dal capofamiglia e non da un sacerdote, ma che è a scadenza annuale, mentre invece i cristiani, a quanto risulta, si radunavano settimanalmente (cfr. 1Cor 16,1; At 20,7; Ap 1,10)' 41 • Quanto alle sinagoghe, esse non offrono una vera analogia con le chiese paoline, essendo luoghi diversi dalle case private e ufficialmente deputati al culto, anche se alcune di esse, dal punto di vista architettonico, risultano essere degli ampliamenti di case precedenti' 44 (ciò avverrà anche per il cristianesimo, ma solo dopo il I secolo). Sembra comunque accertato che pure il culto sinagogale in certi casi potesse essere seguito da pasti in comune' 41 •

Le parallele associazioni volontarie Le comunità cristiane dovevano considerarsi e insieme apparire agli occhi dei contemporanei del tutto equivalenti ai raduni delle varie associazioni di cittadini, dette in greco etairelai e in latino collegia, variamente suddi­ vise secondo una triplice tipologia: professionali, cultuali, funerarie' 4 6• Per quanto ci riguarda, escludiamo le associazioni professionali e le funerarie, poiché una comparazione è possibile solo con quelle di tipo cultuale, sorte in età ellenistica come manifestazioni di una religiosità privata' 47 ; come tali, rispetto alle forme della religione civica pubblica, erano più consone a esprimere i bisogni personali di individui e di gruppi devoti a una delle antiche o nuove divinità. Particolarmente interessante e istruttiva è un'iscrizione rinvenuta a Fi-

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ladelfia in Lidia, datata verso il 1 0 0 a.C., che documenta il caso di un grup­ po che si radunava nella casa di un certo Dionisio' 48 • Si tratta di un gruppo misto tanto a livello sessuale (uomini e donne) quanto anche sociale (li­ beri e schiavi). Il raduno è fatto in onore di Zeus, di Hestia, degli « altri dèi salvatori » (probabilmente Apollo, Asclepio, i Dioscuri) e di altre en­ tità astratte (Felicità, Ricchezza, Virtù, Salute, Buona Fortuna, Memoria, Grazia, Vittoria), con una menzione a parte della dea frigia «Agdistis» protettrice della casa. A tutti i membri viene sorprendentemente richie­ sto sotto giuramento di astenersi da determinati comportamenti immo­ rali, tra cui spicca il divieto di usare veleni e pozioni abortive (afthoreion ), contraccettivi (atokeion) e cose letali per i bambini; inoltre, soprattutto alle donne, si richiede la fedeltà coniugale, sotto pena di essere escluse dal gruppo. Il motivo è che « il dio» non desidera che queste cose avvengano e «gli dèi» saranno benigni verso coloro « che essi amano» . In più, benché non si descriva lo svolgimento dell'incontro, si precisa che i sacrifici hanno una scansione mensile. Infine si affida a «Zeus salvatore » Dionisio con la sua famiglia. Analogamente alle associazioni cultuali, i membri delle ekklesiai pao­ line sono cooptati per loro libera decisione, non per nascita o per censo o per professione; inoltre, essi praticavano pasti comuni, a cui potevano con­ tribuire gli stessi partecipanti; anche l'appellativo di « fratelli » è testimo­ niato tra i membri dei culti misterici o delle associazioni volontarie, anche se è rarissimo e vale in senso letterale solo per i maschi che sono gli unici membri delle associazioni stesse' 49, non essendo peraltro mai usato come appellativo diretto ma solo in notizie alla terza persona'10• Naturalmente, da parte delle chiese, esistono anche delle differenze non trascurabili, di cui la più evidente è la risocializzazione in base a una comune fede di tipo sostanzialmente esclusivo, essendo caratteristica una certa idea tipica di salvezza; inoltre, nelle ekklesiai cristiane, per la partecipazione al culto non è imposta nessuna limitazione né di sesso né di censo; in più, non è docu­ mentato nessun elenco di persone più ragguardevoli e non vige alcun tito­ lo di onore' 1'. D 'altra parte, in nessun'altra delle associazioni contempo­ ranee i membri erano definiti « santi/chiamati/amati da Dio » ' 1'. In ogni caso, rispetto alle associazioni religiose del tempo, c 'è una forte differenza quanto all' impiego della casa come luogo di riunione per le comunità pa­ oline: ed è che, mentre nella società greco-romana il culto domestico era comunque subordinato o addirittura coordinato ai culti pubblici della cit­ tà, a cui non poteva non fare riferimento' 11, per le ekklesiai paoline invece

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la casa era il solo e unico luogo possibile di riunione, dunque a sé stante, senza alcun coordinamento ad altri luoghi cultuali ufficiali. Essa è il luogo più laico. Si deve comunque riconoscere che per i primi cristiani il culto o è domestico/familiare o semplicemente non è ! In ogni caso va ammesso che in ambito greco-romano, come accenna­ vamo più sopra, anche la casa privata può essere un luogo di culto. Cice­ rone infatti la esalta così: « Cosa c 'è di più santo, cosa c'è di più sicuro per tutta la religione, della casa di ogni singolo cittadino ? Lì ci sono gli altari, lì i focolari, lì gli dèi penati, lì sono conservate le cose sacre, i culti e le ce­ rimonie » (De domo sua 41,109). Addirittura Plutarco definisce la tavola che accoglie gli ospiti come « un altare degli dèi dell'amicizia e dell'ospita­ lità » (Sept. sap. conv. 15 = Mor. 158C). Le associazioni dovevano essere particolarmente numerose e vivaci, se hanno persino dato fastidio all'autorità romana (come nel caso dei Bacca­ nali soppressi nel 186 a.C.) 1 14 • Anche se i loro incontri potevano avvenire in luoghi specificamente deputati a questo scopo, è però ben documentato appunto il caso di riunioni cultuali anche in case private. Al loro interno il principio dell'egualitarismo vigeva secondo le componenti sociali del gruppo: quanto più varia e bassa era la sua composizione sociale, tanto più i suoi membri erano gerarchicamente suddivisi 1 11 • Nel caso dei sacrifici pri­ vati i sacerdoti non avevano un ruolo loro proprio, poiché il banchetto sa­ crificale era guidato da un "presidente" che svolgeva la parte di simposiar­ ca, cioè di colui che gestiva il banchetto determinando anche le misure di vino e dell'acqua che vi si doveva mescolare' 16• Quanto alla preghiera, essa era pronunciata in piedi con le palme e lo sguardo rivolti verso il cielo' 17•

Somiglianza con le scuole.filoso.fiche ? L'assenza di ogni elemento cultuale strettamente "religioso" nelle riunioni cristiane ha spinto qualche studioso a sostenere che non c 'è alcuna ana­ logia tra le contemporanee associazioni volontarie di tipo cultuale e le ekklesiai paoline. Queste invece si spiegherebbero piuttosto in base a una somiglianza con le scuole di filosofia (o di retorica) ' 18• Nonostante le dif­ ferenze già notate, è pur vero che, « anche se il cristianesimo non derivava in alcun modo direttamente dalla filosofia ma dal giudaismo, tuttavia esso condivideva delle caratteristiche strutturali che lo rendevano simile a una filosofia » , sicché «non sorprende se sotto molti aspetti il cristianesimo paolino ha molto di più in comune con le filosofie ellenistiche che con la

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religione tradizionale»' 19. In effetti, per non dire del giudaismo ellenisti­ co' 60, basti pensare alle diffuse prese di posizione addirittura anticultuali­ stiche proprie dell'epicureismo161 , del neopitagorismo161 e soprattutto del­ lo stoicismo' 63, senza volersi richiamare alla successiva nuova sofistica' 64. Non è un caso, se ancora nella seconda metà del II secolo Luciano attesta un'equiparazione tra «atei/cristiani/epicurei» (Alex. 38) ! Al pari di quelle scuole, infatti, nelle riunioni delle prime chiese si dibat­ tevano verità di alto profilo sulla base di determinati testi scritti (biblici o apostolici) e nello stesso tempo ci si preoccupava di delineare un particola­ re stile di vita; in più i loro banchetti potevano avere apparenti analogie con alcune di queste scuole' 61 ; inoltre, si deve tenere conto del fatto che proprio durante i banchetti tra filosofi. avvenivano conversazioni, discussioni e di­ scorsi, la cui raccolta, secondo gli stessi filosofi citati da Plutarco (tra cui Platone, Aristotele, Epicuro), «è un'impresa degna di qualche sforzo»166. D'altronde, se accogliamo la illuminante triplice distinzione, che ab­ biamo già richiamato, di Varrone tra religione/teologia mythica!fabulosa (quella dei racconti mitologici dei poeti), civilis/politica (quella ufficiale e pubblica, e anche popolare, propria dello Stato) e physica/naturalis (quel­ la dei filosofi, «disadatta alla piazza cioè alle masse, e ristretta alle pareti di una scuola»; in Agostino, De civitate Dei 6,5,2.), si deve dare ragione ad Agostino, il quale affermerà che senza ombra di dubbio è la religione filosofica e quindi sono i filosofi. a essere più vicini «a noi» cristiani (De civitate Dei 8,9: eos omnes ceteris anteponimus eosque no bis propinquiores fatemur) ! Con ciò si intendono escludere le prime due tipologie come inappropriate definizioni del cristianesimo, ma non si vuole certo dire che le riunioni dei cristiani siano degli incontri filosofici poiché invece essi, semmai, sono incontri di amici, secondo quanto scrive Aristotele: «L'a­ micizia consiste nella comunione [koinonia] [ ... ]. Nell'amicizia tra fratelli [di sangue] si trovano le stesse caratteristiche dell'amicizia fra i membri di uno stesso gruppo [etaireia]» (Etica Nicom. VIII,I I59b32.; I I 62.a10); e Cri­ sippo da parte sua confermerà che «l'amicizia è comunanza/condivisione di vita» (svF III, p. 2.7: koinonia biou). I l rito d i iniziazione Il momento dell'ammissione nella ekklesia avveniva mediante il battesimo, un rito "laico" consistente in un'immersione nell'acqua' 67. Il vocabolo deri­ va dal verbo greco bdptolbaptizo che significa appunto «immergere, som-

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mergere, tuffare» (così già in Odissea 9,392), usato anche in senso figurato (per esempio la folla che sommerge la città: Flavio Giuseppe, Guerra 4,137). Il Nuovo Testamento non ci dà una descrizione della sua esecuzione. Qualche cosa in più sappiamo dai suoi eventuali paralleli o addirittura matrici. Nell'ellenismo il bagno purificatore in acque chiare è un ingrediente delle affiliazioni religiose, ma non ha il valore di un'iniziazione vera e pro­ pria, essendo accompagnato da altri riti di importanza uguale se non mag­ giore. Tertulliano scriverà polemicamente che le acque degli iniziati ai mi­ steri non hanno la stessa efficacia del battesimo cristiano (De baptismo 5,1) e cita i misteri di Iside e di Mitra. In ogni caso nel culto di Mitra, tra i sette gradi della iniziazione non c'è alcun bagno d'acqua, essendo invece importante un'abluzione con il sangue di un toro; invece l'iniziazione al culto di Iside, secondo la testimonianza di Apuleio, comporta un previo lavaggio con acqua' 68, che però fa parte di tutta una serie di altri riti. Nel giudaismo sono ben noti e praticati bagni di purificazione in varie circostanze, attestati sia nella Bibbia (cfr. Lev 14-15) sia a Qumran (cfr. I QS 3,4-5; CD 10,10-13; 11,22) e in genere presso gli Esseni (cfr. Flavio Giu­ seppe, Guerra 2,129.138.149-150). Ma si tratta di lavaggi ripetuti in occasio­ ni varie; il passo degli Oracoli Sibillini 4,164-165 ( «Lavate per intero i vo­ stri corpi in fiumi perenni»), della fine del I secolo, può essere interpretato o come riferimento a un battesimo "una tantum" o come purificazione periodica di varie empietà, a parte una sua possibile valenza metaforica. D'altronde, una serie di autori e di testi non fanno un minimo cenno a un battesimo di convertiti (così Filone Alessandrino, Flavio Giuseppe e il romanzo Giuseppe e Aseneth ). Più interessante sarà la prassi rabbinica del battesimo dei proseliti, la cui testimonianza più esplicita è però nel tardivo trattato del Talmud babilonese ( Yebamot 47a-b)169• Una maggiore importanza "genetica" è attribuibile al battesimo prati­ cato da Giovanni figlio di Zaccaria (cfr. Mc 1,2.-11) che, a differenza degli altri bagni, ha tre particolarità: è amministrato da un battezzatore (quindi non è autogestito), è fatto per la remissione dei peccati (e non solo di im­ purità rituali) ed è unico (cioè non ripetibile). Sul piano della valenza teologica, la prassi cristiana era probabilmente passata da un semplice significato di attribuzione di appartenenza a Cristo (con la formula battezzati «nel nome di Gesù»: Ac 2.,38) a una semanti­ ca più "mistica" di immersione/partecipazione alla morte di Cristo stesso (Rom 6,1-11; Col 2.,12-13).

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Sul piano pratico, ci si pone invece la questione di sapere se nella casa in cui si radunava la comunità ci fosse abbastanza acqua per consentire appunto un'immersione. O forse il rito avveniva fuori casa presso qualche torrente? La notizia lucana dei tremila battezzati il giorno di Pentecoste (At 2.,41; si tratterebbe di oltre un decimo degli abitanti di Gerusalemme!) riferisce un numero che non è né reale né simbolico ma ideale per evi­ denziare la fecondità dello Spirito Santo. Mentre la Tradizione Apostolica di Ippolito ci informa che a Roma agli inizi del III secolo i battezzandi praticavano nudi una triplice immersione (cfr. la descrizione dettagliata nel n. 2.1), almeno un secolo prima la Didaché attesta che, se non ci fosse stata acqua sufficiente, si versasse per tre volte acqua sul capo del battez­ zando dopo aver digiunato (7,1-4). Le metafore paoline dello svestirsi e rivestirsi e ancor più quella del morire e risorgere non alludono ancora, probabilmente, allo scendere e risalire dall'acqua, visto che non se ne fa al­ cuna menzione; la stessa metafora pasquale del lievito e degli azzimi (1Cor s,6-8) si aggiunge semplicemente alle due precedenti a confermare che il linguaggio impiegato è puramente metaforico, non simbolico. Certo è che un simile rito d'acqua in qualche modo sottrae il cristiano alla sua vita precedente, morale e sociale insieme, conferendogli una nuova identità. Esso dunque evidenzia e sancisce una condizione di liminalità/ separatezza in cui egli è ormai definitivamente collocato. Lo svolgimento delle riunioni conviviali Il dato più evidente per connotare le riunioni cristiane dal punto di vista strettamente "religioso" è la totale assenza di categorie sacrali, per quan­ to riguarda sia i presidenti del culto sia lo svolgimento del culto stesso' 70• Nessuno dei responsabili viene mai qualificato con il titolo sacerdotale di hiereus o simili (hierourgos, hierodoulos, therdpon)'7 ' ; anzi, non risulta che Paolo insediasse qualche specifico responsabile delle singole comunità, dato che quella funzione doveva spettare al padrone o alla padrona di casa (cfr. i «governi» [kyberneseis] in 1Cor 12.,2.8; sul ruolo di un "simposiarca", cfr. infra)'7'. Così pure gli atti compiuti nelle assemblee non vengono mai definiti con termini strettamente religiosi' 71 ; anzi, secondo Paolo non ci sono neppure momenti o scadenze temporali che si debbano ritenere sacre (cfr. Rom 14,5; Gal 4,10: «Voi osservate scrupolosamente giorni, mesi, sta­ gioni e anni: temo di essermi affaticato invano per voi»), con l'eccezione

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del settimo giorno (cfr. 1 Cor 16,2; At 20,7). È ben difficile, dunque, che le riunioni cristiane venissero comprese come eventi di una religione vera e propria: o meglio, se ciò poteva accadere da parte pagana, non sembra af­ fatto che questa fosse la coscienza propria degli appartenenti alle ekklés/ai, che non avevano alcun rapporto istituzionale con i quadri cultuali della società. In effetti, per il credente in Cristo il distacco dalla Legge, richiesto al Giudeo, e quello dall'idolatria, richiesto al Gentile, non comportavano di dover aderire a un quadro religioso istituzionale già fissato! Tutto ciò non significa che le chiese paoline non avessero la percezione di una dimensione propria del "sacro", la cui nozione, detto in modo som­ mario, si può esprimere in termini di consapevolezza di un'esclusività in­ tesa come nuova appartenenza e perciò come diversità non scambiabile' 74 • Tuttavia, all'interno del cristianesimo paolino, la categoria dell'esclusivo/ separato come sinonimo di sacro/sacrale non appartiene né a luoghi né a persone ma semmai ad alcune azioni distintive che sono ritenute patri­ monio proprio della comunità cristiana. A questo proposito, sarebbe inte­ ressante l'analisi dei verbi «santificare» (hagidzo) e «separare» (afor/zo), che nella Settanta indicano una vera e propria separatezza in funzione cultuale171 ; in Paolo invece, essi non solo rivelano un utilizzo scarso1 76, ma denotano anche una semantica di altro genere, certamente non riferita ad atti cultuali, tanto che in Gal 2.,12. la astensione di Pietro dal condividere la mensa con i pagani è oggetto di rimprovero da parte di Paolo. Certo, bisognerebbe tenere maggiormente in conto il concetto paolino di santità, ma in generale si deve dire che essa non è affatto vincolata a cose o persone o azioni specifiche, essendo invece intrecciata con altri concetti tipici della riflessione condotta da Paolo sull'evento-Cristo (cfr. redenzione/riscatto, giustificazione, liberazione, riconciliazione); in questo senso, essa è una proprietà comune a tutti i membri delle ekklés/ai senza alcuna distinzio­ ne e concretamente materiata dalla normale esistenza quotidiana (cfr. la logiké latrda, «culto spirituale/razionale/interiore», in Rom 1 2.,1, su cui torneremo più avanti)177• In ogni caso, le prime chiese praticavano atti comuni del tutto partico­ lari. La possibilità di delineare il concreto svolgimento di quelle riunioni dipende non da una specifica descrizione, che è inesistente, ma dalla inter­ pretazione di indizi e allusioni. Se si vuole parlare di azioni esclusive, è ine­ vitabile chiamare in causa il concetto di culto e quindi di rito. D'altronde, quando gli scrittori latini definiscono il nuovo fenomeno cristiano come superstitio' 7 8, si riferiscono precisamente non solo a credenze ma anche a

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prassi cultuali di origine estranea alla società romana, non tradizionali, e quindi giudicate in modo del tutto negativo; anzi, la superstitio può essere anche un eccesso di religione, così da essere considerata come l'esatto con­ trario dell'ateismo ma altrettanto detestabile''�. Ebbene, ci sono due momenti che qualificano la riunione cristiana: il pasto e la parola. Si noti la loro successione, poiché bisogna stare attenti a non interscambiarli: il susseguirsi di una cosiddetta "liturgia della parola" e di una cosiddetta "liturgia eucaristica" non solo non è attestato, ma è del tutto improbabile' 80• V i si oppone sia la tradizione simposiaca greca sia la prassi gesuana stessa che, stando soprattutto al Quarto Vangelo, consiste nel far seguire una serie di discorsi alla cena vera e propria (cfr. Gv 13-17; ma anche Le 22,21-30 ). In effetti, la successione pasto-parola corrisponde più esattamente alla successione deipnon-symposion, poiché il banchetto greco comprendeva prima il momento del pasto (deipnon) fatto di cibo solido di vario genere (pane, verdure, olive, formaggi, pesce, raramente carne)' 8 ', e poi il momento della bevuta (symposion) consistente nel bere vino (mescolato con acqua normalmente in rapporto di 1/3) a cui si ac­ compagna la conversazione su qualche tema181 Questa struttura si vede bene nel Simposio di Platone (172a-223d), dove prima si cena (cfr. 175c: Agatone «disse che potevano cenare») e poi si passa al bere (cfr. 176a: «Dopo che [Socrate] si sdraiò ed ebbe mangiato, egli e gli altri fecero le loro libagioni e, cantato in onore al dio e compiuti i riti usua­ li, si volsero al bere») dando subito inizio al lungo discorso sull'Amore/ Eros' 8 l. Si deve però menzionare a parte il banchetto dell'associazione giu­ daico-monastica dei Terapeuti vicino ad Alessandria, descrittoci da Filone Alessandrino, che invece esclude esplicitamente il vino' 84 • Comunque: •

in senso lato il simposio è un rituale sociale, costituito da una serie di azioni codi­ ficate e programmate in precedenza. In senso stretto comporta un aspetto rituale autenticamente religioso, che consiste nella consacrazione agli dèi di una parte del vino consumato, ciò che i greci chiamavano libagione, e cioè un'offerta liquida fatta a uno o più dèi' 81•

Una celebre elegia del presocratico Senofane'86 descrive gli elementi essen­ ziali di un simposio ideale: la purezza dello spazio, la collocazione centrale di un cratere a cui attingere, il profumo dell'incenso, gli ingredienti del vino, dell'acqua, del pane, del formaggio e del miele, un altare coperto di fiori, il canto e le preghiere, la libagione e i testi di riferimento della conversazione.

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La successione dei due momenti si riscontrerà ancora nella Didaché, dove si ricorda prima l'eucaristia vera e propria (par. 9) e poi una pre­ ghiera di ringraziamento con l'intervento della parola dei profeti (par. 1 0 ) . Sarà Giustino, verso la metà del II secolo, a documentare per primo lo svolgimento dell'eucaristia domenicale con la diversa successione tra il momento della parola con le letture e il momento del banchetto con la consacrazione del pane e del vino (cfr. I Apologia 67,3-7; Tertulliano, Apologetico 39 ). È possibile che il fatto, più che dalle scuole filosofiche, di­ penda da un influsso del culto sinagogale impostato primariamente sulla lettura di testi scritturistici e sul loro commento' 87• Ma in analogia almeno parziale con i banchetti greci doveva svolgersi il banchetto delle ekklésiai paoline, il cui specifico ordine, almeno per quan­ to riguarda il caso di Corinto maggiormente documentato, si può enucle­ are sostanzialmente nei quattro momenti seguenti 1 88• 8 1. Messa a parte la previa lavanda dei piedi ' 9, e conformemente a un uso non greco ma giudaico, si iniziava con la benedizione sul pane (cfr. 1Cor 11,2.3) 190 : così avveniva almeno nelle chiese paoline, poiché è possibile che altrove si anteponesse la benedizione sul calice (cfr. Le 2.2.,17-19; Didaché 9,2.-3)19 1• 2.. Si proseguiva con il pasto vero e proprio, probabilmente aperto dalla con­ sumazione del pane benedetto/consacrato. Nelle chiese paoline, ma non solo in esse, il pasto doveva esprimere al massimo grado la koinonia fraterna' 9". In­ fatti, il rimprovero che l'Apostolo rivolge ai Corinzi (cfr. 1Cor 11,2.0-2.1) è di disgiungere la «cena del Signore» (kyriakon deipnon ), inteso come momen­ to di comunanza vicendevole basata sulla comunione con Cristo, da «un pa­ sto proprio» (idion deipnon ), cioè un pasto che i più abbienti consumavano autonomamente senza curarsi degli altri. L'inaccettabilità di una simile pras­ si è ben formulata da una lapidaria sentenza che si legge nel pagano Plutarco, secondo cui «dove prevale ciò che è proprio si perde ciò che è comune» , poiché «niente ha così bisogno di uguaglianza come una compagnia intor­ no a una tavola, necessaria per natura e non per legge» !' 93 3. Al termine del pasto, dopo essersi lavate le mani1 94 , si proseguiva con la benedizione sul calice del vino'9\ a cui è conseguentemente associata l'azio­ ne del bere (cfr. 1Cor 1 1,2.s: «dopo aver cenato, prese il calice» ). Nei testi amichi non è sempre chiaro se si bevesse tutti da una medesima coppa o se ciascuno ne avesse una propria'96• Questo momento comportava comun­ que due componenti: uno "erotico", consistente in musica e performance di danzatrici (ampiamente documentato dall' iconografia vascolare), e uno di conversazione su tematiche varie sotto la responsabilità di un simposiar-

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ca'97• Le adunanze cristiane (in ciò simili a quelle dei Terapeuti; cfr. supra) dovevano però escludere il momento erotico'98 e concentrarsi sulla parola. In ogni caso, a differenza del costume ellenistico, le chiese paoline ammet­ tevano la presenza delle donne anche in questa sezione del banchetto, per di più con una loro partecipazione attiva come profetesse' 99• Una peculiarità tipicamente paolina concernente la celebrazione della Cena è che la partecipazione al pane e al calice comporta anche «una co­ munione al sangue di Cristo e [ ... ] una comunione al corpo di Cristo» (1Cor 10,16-17). Riprendendo in breve ciò che ebbi modo di scrivere altro­ ve, l'idea di una comunione con il "dio" cultuale può avere un'ascendenza non biblico-israelitica ma soltanto greco-pagana'00, come del resto sugge­ risce Paolo stesso quando ammonisce i Corinzi: «Non voglio che siate in comunione [koinonous] con i démoni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei démoni; non potete partecipare [ metéchein] alla mensa del Signore e alla mensa dei démoni» (1Cor 10,2.0 -2.1)'0 1 • 4. Al contesto del "sim-posio" come un "bere-insieme" apparteneva la conversazione. Questa tipica componente discorsiva era già stata persino celebrata dalla succitata elegia di Senofane: «È da lodare tra gli uomini colui che, bevendo, pronuncia belle parole, secondo che gli detti la me­ moria e la sua aspirazione alla virtù, che non racconta lotte di Titani né di Giganti e neanche di Centauri, favole inventate dagli antichi, o violente lotte civili, in cui non c'è nulla di buono» '0 '. In più, come sostiene un te­ sto di Plutarco, «la conversazione [ho logos], come il vino, non dev'essere commisurata in base alla ricchezza o al rango, ma, come in una democrazia [ hosper en demokratia;], dev'essere suddivisa ugualmente fra tutti ed essere collegiale [kai koinim einai] »'0 1• In ambito cristiano e paolino, a ben vedere, il simposiarca, che altrove può anche essere idealmente un dio' 4, non è altro che il Pneuma hdgion, lo Spi­ rito Santo'01 : è lui infatti che conduce la comunità riunita e fa parlare i suoi membri (cfr. 1Cor 12.,3), distribuendo i doni a ciascuno come vuole (cfr. 1Cor 12.,7-11). Paolo, da parte sua, è semmai preoccupato della eukosmia o euschemosjne, cioè che tutto si svolga in buon ordine (cfr. 1Cor 14,40) cosic­ ché non si possa dire che i partecipanti sono fuori di sé (cfr. 1Cor 14,2.3)'06 ; in quest'ultimo senso va la direttiva data circa il rapporto tra glossolalia e profe­ zia con la preferenza accordata a questa seconda (cfr. 1Cor 14,15: «Pregherò con lo Spirito, ma pregherò anche con l'intelligenza; canterò con lo Spirito, ma canterò anche con l'intelligenza »!). D'altronde, lo Spirito è ritenuto addirittura la bevanda stessa: «Tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» 0

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(1Cor 12,13b)w7• In effetti, è dall'intervento dello Spirito che derivano i vari carismi, qualificati appunto come ta pneumatikd, «ciò che appartiene allo Spirito»: non solo la profezia (cfr. 1Cor 14,1.3), ma anche una serie di altre esternazioni, visto che «ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle; ma tutto avven­ ga per l'edificazione» (1Cor 14,26). A questa prassi alludono anche alcuni testi di lettere deuteropaoline, come Col 3,16 ( «La parola di Cristo abiti abbondantemente in voi, insegnando con ogni sapienza ed esortandovi a vicenda, cantando a Dio nei vostri cuori con salmi, inni e canti spirituali» ) e ancor più Ef 5,18-19 ( «Non inebriatevi di vino, nel quale c'è sregolatezza, ma riempitevi di Spirito, parlando tra di voi con salmi e inni e canti spirituali, cantando e lodando il Signore con il vostro cuore» ). Probabilmente, però, per prima cosa si leggevano testi di comune inte­ resse: sia la lettera inviata da Paolo alla rispettiva comunità radunata (cfr. 1Tes 5,27; Col 4,16), sia poi qualche passo delle Scritture bibliche108, e a essi dovevano seguire uno o più commenti dei partecipanti. D'altra parte, i numerosi riferimenti veterotestamentari presenti almeno in alcune lette­ re (cfr. Prima e Seconda Corinzi, Galati, Romani) suppongono che i de­ stinatari fossero istruiti nelle Sacre Scritture, e l'unico luogo ipotizzabile per un'istruzione del genere (a meno che si trattasse di giudeo-cristiani provenienti già dalla frequenza delle sinagoghe) doveva essere il momento conviviale della ekklésia riunita. È altrettanto probabile che in questo stesso contesto simposìaco, oltre alle acclamazioni, alle dossologie ed euloghie, si siano formati anche i vari inni reperibili qua e là nelle pagine del Nuovo Testamento109 , in modo par­ ticolare all'interno delle lettere paoline (cfr. Fil 2,6-I I ; Col 1,12-20; 1Tim 3,16)110• Verosimilmente, infine, «il bacio santo» doveva rappresentare la conclusione o comunque il saluto reciproco tra i partecipanti alla ekklésia (cfr. Rom 16,16; 1Cor 16,20; 2Cor 13,12; 1Tes 5,26; e anche 1Pt 5,14)2 1 1 Altri riti ci sfuggono totalmente, come potrebbero essere quelli fune­ rari. Quanto al matrimonio, non esisteva alcun rito proprio, essendo con­ siderato valido queilo laico praticato nella rispettiva società di originern. •

Conclusioni Ciò che indubbiamente colpisce nei momenti cultuali delle prime chiese è la spontaneità, favorita anche daII'assenza di un quadro rituale eccessiva­ mente rigido. Si vede bene che tra quei momenti e la vita quotidiana non

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c'è una grande cesura. Infatti, lo Spirito che presiede alla ekklisia, cioè al gruppo radunato, è lo stesso che sostenta tutta la concreta esistenza del sin­ golo cristiano al largo della sua vita nella società. In particolare va notata la forte coesione dell'insieme comunitario, contrariamente a quanto avverrà in seguito con la separazione del clero dal popolo (che Antonio Rosmini denuncerà nella sua celebre opera del 1848 addirittura come la prima delle «cinque piaghe della santa chiesa»). Un'evidente componente di questa unità è l'uguale condivisione del pasto, per quanto riguarda tanto il pane quanto il vino. Per i credenti in Cristo, dunque, l'importante non è tanto la mera prassi cultuale quanto piuttosto una vita comunionale/agapica {cfr. Rom 13,8-10) condotta all'insegna della fede (cfr. Gal 5,6), rivolta a un ine­ guagliabile «Dio per noi» (Rom 8,31), sotto la esclusiva signoria di Cristo (cfr. 1Cor 8,6b) «finché egli venga» ( 1Cor 11,2.6). Questa è la sostanza. Il resto, per dirla con Aristotele, sono per lo più accidenti11 1 .

Componenti "laiche" della morale paolina Va subito chiarito che il movimento cristiano, in prima battuta, si distin­ gueva alla radice per la peculiarità della fede professata, di cui l'éthos o comportamento morale non era che una manifestazione. Questa prima­ ria e determinante connessione con la fede resta tale e qui viene data per scontata11 4 Il pensiero più consistente da esaminare per mettere a fuoco gli esatti contorni dell'identità morale dei cristiani, tanto come dottrina quanto come vita vissuta, è quello di Paolo. Ed è proprio l'Apostolo lo scrittore delle origini cristiane che maggiormente attesta l'assunzione di valori umanistici, propri dell'etica filosofica greca, intesi come assoluta­ mente accordabili con l'evangelo. Qui prendiamo brevemente in conside­ razione quattro di queste componenti. •

Legge e libertà I due valori hanno una semantica diversa a seconda del diverso contesto culturale, greco o giudaico. Nel mondo greco si parla di legge non solo a proposito della polis ma dell'intero universo, per cui già Eraclito senten­ ziava che «tutte le leggi umane si nutrono della sola legge divina» (fr. 114) coincidente con il logos (ragione) immanente che unifica il Tutto {cfr.

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fr. 5 0). Per lo stoico Epitteto questa legge non è altro che la legge di natura (cfr. Diatr. 1,2.9,19). E, come scrive Seneca, poiché «non c'è natura senza dio né c'è dio senza natura, ma entrambi sono la stessa cosa» (Sui benefici 4,8,2.), va considerata «una innocenza meschina quella di essere virtuosi secondo la legge [ ... ] infatti le obbligazioni che impongono la pietà, I'uma­ nità, la giustizia, la generosità, la lealtà non stanno scritte sulle tavole uffi­ ciali» (De ira 2.8,2.) ! Quanto alla libertà, a parte la dimensione sociale della schiavitù (ritenuta parte dell'ordinamento pubblico), essa comprendeva tre ambiti diversi: politico (sui diritti dei cittadini in contrasto con ogni assolutismo), filosofico-religioso ( in senso stoico, come conformazione della propria volontà a quella del Fato; in senso gnostico, come liberazione dall'ignoranza circa la radice divina della propria identità) e morale (se­ condo cui l'azione dipende interamente dal soggetto agente e non da una costrizione esterna)11 S. Nel mondo giudaico invece è determinante il concetto di Legge rive­ lata e donata da Dio a Mosè sul monte Sinai. Come tale è considerata la conseguenza di un atto di grazia consistente nella liberazione dalla schia­ vitù in Egitto. Essa però diventa una tale esigenza morale da investire pa­ ritariamente l'individuo e la nazione, così che solo la sua osservanza porta a essere considerati giusti agli occhi di Dio, mentre la sua trasgressione di­ venta causa di maledizione. In questa prospettiva la libertà è assicurata dal­ la Legge stessa (cfr. Sai 119, 45: «Camminerò in un luogo spazioso perché ho ricercato i tuoi precetti»)116, perciò essa è l'emblema religioso di Israele. I primi scritti cristiani parlano invece di libertà da punti di vista diversi. Nei Vangeli sinottici sembra che Gesù stesso non voglia altro che servire la Legge (così almeno secondo Mt 5,17-2.0), ma in realtà egli si dimostra superiore a essa in vari casi in cui sembra invece trascurarla, dimostrando la propria superiorità e libertà nei suoi riguardi, anteponendo l'uomo al comandamento11 Nel Vangelo di Giovanni il concetto ha una portata cristologica (cfr. 8,31: «La verità vi farà liberi»), non solo perché a volte Gesù bypassa la Legge di Mosè (come nel caso dell'adultera perdonata: 8,1-11 ) , ma soprat­ tutto nel senso che egli sottrae il credente al peccato inteso come sempli­ ce ignoranza della identità di Gesù quale rivelatore celeste in quanto egli stesso è la verità (14,6) e dona lo Spirito di verità (14,16)118 La Lettera di Giacomo poi parla addirittura di «legge perfetta della libertà» (1,2.5; 2.,12.) in quanto identificata con l'osservanza fattiva del precetto dell'amore del prossimo definito «legge regale» (2.,8)11 7 •



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Paolo, dopo che già l'incontro apostolico di Gerusalemme aveva sanci­ to la libertà dei cristiani dagli obblighi rituali della Torah (cfr. At 15,5-2.9)no, ne fa una questione di principio e ne parla in termini molto forti: «Per la libertà Cristo ci ha liberati. State dunque saldi e non lasciatevi di nuovo imporre il giogo della schiavitù» (Gal 5,1). Il giogo in questione è l'asservimento alla Legge come vincolante criterio di giustificazione o di santità davanti a Dio"'. Ormai «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi» (Gal 3,13), e ciò «gratuitamente, per la sua grazia» (Rom 3,2.4; cfr. 5,8-9; :z.Cor 5,14-17). Se poi Paolo dice che «siete chiamati a libertà» (Gal 5,13), non intende un ideale da raggiungere, poiché si tratta di una liberazione già avvenuta. Infatti si tratta di una libertà non conquistata e neppure prevista, ma donata e comunque già posseduta mediante la fede. In concreto essa con­ siste nel superamento, se non nell'accantonamento, del criterio limitativo dell'osservanza dei comandamenti della Torah (comprendente 613 precetti, di cui 10 sono i più noti) come decisivi per l'identità del battezzato. Al loro posto c'è la pura adesione a Gesù Cristo, che finisce per valere come alterna­ tiva alla Legge, essendo ormai considerato giusto chi ha fede in lui, in quanto «egli mi ha amato e ha dato se stesso per me [ . .. ]. Infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano» (Gal 2.,2.0-2.1); è questa adesione che genera una «nuova creatura» (:z.Cor 5,17; Gal 6,15) ancor prima di ogni impegno morale. In gioco dunque, in prima battuta, non c'è una libertà di tipo né politico né filosofico-etico né sociale. C 'è invece una libertà per così dire dall'ambito moralistico-religioso, quindi di tipo autenticamente laico, nella misura in cui il credente è sottratto a norme che pretendano di render­ lo gradito a Dio in base soltanto ai suoi precetti e al proprio agire morale. In questo caso si incorrerebbe in una maledizione, che Paolo cita dall'Antico Testamento: «Maledetto chiunque non rimane fedele a tutte le cose scritte nel libro della Legge per metterle in pratica» (Gal 3,10 = Dt 2.7,2.6)m. Certo l'acquisizione di questo nuovo tipo di libertà non significa l'instaurazione del libertinismo, poiché si è liberati da (cioè da imposizioni esterne, e in de­ finitiva da sé stessi) così da essere liberi per (cioè per amare e servire meglio il prossimo; cfr. Gal 5,13-14). Non si tratta dunque di un semplice e stoico dominio di sé, nel senso che non basta volere il bene"3 , poiché così si finireb­ be per rinchiudersi in sé stessi, mentre è l'apertura comunionale a realizzare l'uomo vero,.4• In più, Paolo è il solo autore neotestamentario a parlare an­ che di una libertà sociale, là dove dice che in Cristo «non c'è più né schiavo né libero» (Gal 3,2.8; cfr. 1Cor 7,2.2.: «lo schiavo chiamato dal Signore è un

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uomo libero, e chi è chiamato da libero è schiavo di Cristo») o dove, a pro­ posito di uno schiavo fuggito, raccomanda al suo padrone di riaccoglierlo «non più come schiavo ma come fratello carissimo» (Flm 15-16). La coscienza È interessante notare che il vocabolo «coscienza», in greco syneidesis, su 30 ricorrenze neotestamentarie (mai però nei Vangeli), si trova ben 2.0 volte nelle lettere paoline (di cui 14 volte nelle lettere autentiche)n1_ Di fatto, perciò, esso è stato introdotto da Paolo nel linguaggio cristiano, ed egli lo impiega soprattutto a proposito della possibilità di mangiare la car­ ne degli animali sacrificati agli dèi pagani per denotare quella che oggi si chiama "libertà di coscienza" (cfr. 1Cor 8,7.10.12; 10,25-27.28.29bis) e che può anche significare la semplice autoconsapevolezza dell'agire morale in quanto deve presiedere a ogni comportamento (cfr. 2Cor 1,12; 4,2). In più essa viene anche riconosciuta ai pagani come positivo metro di giudizio extracristiano: «Quando i pagani, che non hanno la Legge [rivelata], per natura agiscono secondo la Legge, [ ... ] sono legge a se stessi. Essi dimo­ strano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza» (Rom 2,15). È come dire che in ciascuno c'è un'esigenza morale innata, anche se non tutti la seguono; sfumando, si potrebbe precisare che non propria­ mente la Legge di Dio è innata nell'uomo, ma è innata una facoltà intuitiva che permette di apprendere e conoscere alcune istanze o principi primi di carattere moraleu6• Questa tematica è tradizionale nella grecità antica, so­ prattutto in campo stoicou7, dove si parla in termini di «legge comune», koinos nomos, anteriore a tutte le leggi, come si vede per esempio nell'Inno a Zeus di Cleanteu8• Paolo in effetti non parla esplicitamente né di una «legge di natura», nomosfjseos, (le prime formulazioni greche più vicine a questo sintagma si trovano solo in Filone Alessandrino, sia pur basate su precomprensioni stoiche)»9 né di una «legge non scritta», nomos dgra­ Jòs (di cui si parla già da Sofocle in poi)"10, ma chiaramente la suppone in quanto la ritiene «scritta nei loro cuori». Da parte sua, Filone parla del­ la coscienza come di un «tribunale» che giudica (In Fl. 7) e addirittura come di « briglie» che guidano il comportamento (Deter. 23). D'altronde c'è pure chi invita a fare al termine della giornata un esame di coscienza, come Cicerone (De senect. u,38) e ancor più Seneca (De ira 3,6), il quale esclama: «O te infelice se non ti curi di un tale testimone» (Epist. 43,4).

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In ogni caso, va detto che «nessuno di questi testi è paragonabile per densità e precisione a quelli di san Paolo [ ... ]. Abolita la Legge, ossia una morale fondata sull'osservanza di regole esteriori, egli la sostituisce con una norma individuale, con le capacità del singolo: il cristiano è "auto­ nomo"»13 '. Naturalmente si tratta di un'autonomia confermata e insieme condizionata soltanto dalla fede. Il criterio del bene e del male Sorprende notare che nella importante sezione morale della Lettera ai Romani ( 1 2,1-14,23) Paolo non fonda mai l'etica cristiana su passi della Torah, che pure era ritenuta da Israele come la Legge rivelata da Dio13 1 . L'unico suo richiamo con valore argomentativo riguarda Lev 1 9,18 circa l'amore del prossimo (citato in Rom 1 3,9 e in Gal 5,14), che però viene ad­ dotto come testo-sintesi di ogni altro possibile comandamento'H. È vero che l'Apostolo non cita neppure nessun'altra fonte da cui derivare l'etica cristiana, ma tra le righe si sente piuttosto l'eco della condivisione, sia della tradizione sapienziale, compresa quella gesuana (cfr. soprattutto 1 2,9-21), sia anche di una certa tradizione umanistica greca. Qui infatti affiora un altro principio etico, che va di pari passo con quello dell'agape, ma che è di impronta, per così dire, più "laica": si tratta del criterio apparentemente generico delfare il bene ed evitare il male per averne lode, e non disapprovazione, dalla società e dalle autorità. Que­ sto criterio nella Lettera ai Romani era già stato accennato prima (cfr. 1 2,2 dove si dice di ricercare/saggiare «ciò che è bene»; esso risuonava pure in 2,10: «gloria e onore e pace per chiunque opera il bene»): ma là era formulato nel quadro di un'argomentazione critica nei confronti della giustizia retributiva (non evangelica), mentre viene poi ripreso in un'ottica semplicemente umana, come a dire che l'evangelo non disdegna affatto i valori esterni a esso, ma li assume e li integra conferendo loro sfumature nuove. La discussione sul tema del bene o del sommo bene in generale è fortemente presente nel mondo antico, sia nella tradizione d ' l­ sraele134 , sia soprattutto nella tradizione filosofica greca almeno a partire da Socrate1 3 1 . In questa prospettiva si pone il mitico racconto di Ercole al bivio, in­ dotto da due donne a seguire rispettivamente la via della virtù o la via del vizio (cfr. Senofonte, Memor. 2,1,21-34). La filosofia in merito finisce per

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dare all'argomento connotazioni di tipo politico-pubblico maggiormente sviluppate in Platone13 6 e in Aristotelem, mentre lo stoicismo tratta il tema in un'ottica di tipo piuttosto individuale138• Da parte sua, Cicerone dedicò ali'argomento un importante trattato, il De.finibus bonorum et malorum, in cui si riprendono e si discutono le dottrine dei sistemi filosofici greci in materia139• Proprio in Cicerone leggiamo di un comportamento dell'u­ mana natura, tale che «non dev'essere in antitesi con la vita sociale e con l'affetto fra gli uomini [quicquid aget] [ ... ] [caritate ac societate humana non abhorrebit] » ( 5,68 ) 14 Un aspetto interessante del discorso in materia è l'originale equipara­ zione greca tra i concetti di buono (agathos) e di bello (kalos). Di qui de­ riva il tipico sostantivo kalokagathia che unisce insieme i due fattori come massimo ideale greco; Socrate stesso si dimostrò in suo possesso perché « mostrava se stesso come kalon kagathon ragionando meravigliosamente [kdllista] sulla virtù e gli altri pregi umani» (Senofonte, Memor. 1,2,1?). Platone poi scrive esplicitamente che «il Bene è venuto a confinare nella natura del Bello» (Filebo 6 4e) e Aristotele afferma che «le cose buone per l'individuo bello e moralmente perfetto sono anche belle [ ... ] . Quindi la kalokagahtia è una virtù perfetta» (Etica Eud. vm,1249a16). Si com­ prende allora perché Filone Alessandrino giunga a definirla come «il bene maggiore e più prezioso che ci sia in natura» ( Virt. 117 ). Ebbene, nel Nuovo Testamento troviamo echi di questa tipica conce­ zione morale là dove, per esempio, Gesù stesso parla delle «opere buone» come kala érga, letteralmente «opere belle» (Mt 5,16). Ma è soprattutto Paolo a impiegare su vasta scala questa sinonimia, non solo quando conce­ de che «la legge è bella/buona» (Rom 7,16.18.21), ma specialmente quan­ do esorta a «fare il bello/bene» (2Cor 13,7), a «impegnarsi sempre nel bello/bene» e a «non stancarsi di fare il bello/bene» (Gal 4,18; 6,9 ). Par­ ticolarmente le Lettere pastorali documentano questa visione delle cose, come, per esempio, là dove si raccomanda che « si premurino di eccellere nelle belle/buone opere coloro che hanno fede in Dio, perché sono belle e utili agli uomini» (Tit 3,8) 1 Sicuramente Paolo suppone dei tipici fondamenti cristiani della mo­ rale propria dei battezzati, al punto che, come già detto, la loro santità non dipende dall'agire etico ma da costitutivi assolutamente premorali14 1 Tuttavia egli fa vedere bene che nel conseguente e concreto agire morale ci sono ideali e prassi, se non proprio dedotti, certamente condivisibili con l 'ambiente non tanto religioso quanto filosofico. 0•

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Vangelo e politica Un discorso a parte merita il tema attinente al pubblico governo (cittadino o statale) e alle rispettive autorità. Abbiamo già visto il pensiero di Gesù sul rapporto tra Dio e Cesare (cfr. supra, La laicita di Gesu di Nazaret), da cui risulta almeno che egli non aveva intenzione di fondare un movimento politico contrapposto, anche perché il suo messianismo differiva assai dai movimenti messianici del tempo'41. Ora dobbiamo constatare che anche il primo cristianesimo mantenne un analogo atteggiamento di distacco nei confronti delle cariche statali. Chi lo testimonia di più è Paolo, soprattut­ to in Rom 13,1-7: ' Ciascuno sia sottomesso alle autorità [exousiai] costituite. Infatti non c'è autori­ tà se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio. ' Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono atti­ reranno su di sé la condanna. 1 I governanti [drchontes] infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver paura dell'autorità ? Fa' il bene e ne avrai lode, 4 poiché essa è al servizio [didkonos] di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora devi temere, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi fa il male. 1 Perciò è neces­ sario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. 6 Per questo infatti voi pagate anche le tasse: quelli che svolgono questo compito sono a servizio [leitourgoi] di Dio. 7 Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse, date le tasse; a chi l'imposta, l'imposta; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto.

Da questo testo traiamo alcune affermazioni, insieme generali e fonda­ mentali'44. Anzitutto si scorge alla base l'ideale greco della necessità per l'uomo di vivere in pieno la sua dimensione sociale dentro unapolis (comu­ nità). Già Platone identificava «il massimo bene» di una polis con «ciò che la lega insieme rendendola una» (Rep. 462a-b). E Aristotele aggiunge­ va che «l'uomo è per natura un animale politico [zoon politikon] », sicché «chi non può entrare a far parte di una comunità, chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma o è una bestia o è un dio» (Politica A,2.,12.53a: eite therion eite theos). Del resto, l'invito di Paolo a pagare le tasse esprime la consapevole responsabilità di vivere pienamen­ te questa comunitarietà, poiché la loro elusione avrebbe contribuito a smi­ nuire quel senso di pubblico onore, a cui Paolo nell'immediato contesto epistolare dimostra di tenere per la lode dei cristiani (cfr. Rom 13,3).

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Inoltre va riconosciuto che il Vangelo non è piegato a offrire alcuna dot­ trina politica in rapporto né con la Legge né con le autorità civili"4S. Ciò che egli dice della «legge» non è per richiedere leggi speciali a favore dei cristiani. E ciò che dice delle «autorità», non lo dice a loro ma ai cristiani (benché il tono sia valido anche per i non cristiani) in quanto hanno ne­ cessariamente a che fare con esse. Certo Paolo non scrive per teorizzare un qualche sistema di potere, ma neppure per cercare di «capire il potere», secondo il titolo di uno scritto di Noam Chomsky, cioè per smascherare i meccanismi e gli inganni delle istituzioni che detengono il potere stesso"46• Il molteplice vocabolario impiegato dall'Apostolo per designare le autori­ tà (drchontes, theou didkonos, leitourgoi theou), per quanto forte e persino contrassegnato da una prospettiva apparentemente religiosa, non intende affatto enfatizzare il loro ruolo e certo non divinizzarle! Altrove l'Aposto­ lo ha già chiarito che, « benché [ nel mondo] ci siano molti dèi e signori, per noi al contrario c'è un solo Dio e un solo Signore» (1Cor 8,5-6)"47• Ciò spiega perché egli non sviluppi nessuna esortazione nei loro confronti ma anche nessuna critica tale da opporre la libertà del cristiano all'autocrazia dell'imperatore romano: è come se il potere politico fosse per lui un dato indifferente, un adiàforon, a cui il cristiano si adegua per necessità"48• Se ne deduce che Paolo, a differenza del veggente Giovanni nell'Apocalisse e delle sue forti accentuazioni ami-imperiali con la messinscena di draghi e serpenti (oltre alle icone della Prostituta e di Babilonia)"49, non ragiona da apocalittico, ma da pastore realista, preoccupato più dei cristiani che dei potentiis0• In più, va detto che l'adozione del linguaggio sull'origine divina delle autorità dipende semplicemente dall'adeguamento culturale a un luogo comune, un topos proprio dell'ambiente tanto ellenistico"1 ' quanto giudai­ co•1•. In particolare, bisogna pur riconoscere che questo linguaggio non esprime una convinzione specificamente evangelica, ma è un caso tipico di inculturazione dell'evangelo stesso (in Gv 19,11 Gesù dice a Pilato: «Tu non avresti alcun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto»). Questo però non significa certamente una rinuncia all'idea di un'incom­ patibilità, comunque di timbro apocalittico, tra il cristiano e «questo mon­ do», enunciata programmaticamente in Rom 12,2 ( «Non conformatevi a questo eone»)'Il. Ne risulta che l'onore da prestare alle autorità non pre­ clude affatto la possibilità di morire per la propria fede; quindi c'è qualcosa che viene prima e vale ben più dell 'autorità politica, la quale è messa in crisi proprio dalla irriducibilità del cristiano al politeuma di questo mondo"14 •

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Usando una terminologia del nostro tempo, potremmo dire che il cristia­ nesimo paolino si rende preferibilmente presente nel sociale, non nel poli­ tico, se per politico si intende la struttura del potere (imperiale o altro)•1s. Paolo pensa alla chiesa non certo come interlocutrice del potere politico, eventualmente desiderosa di incidere in maniera diretta sulle strutture dello Stato, ma come luogo di esperienze sociali innovatrici, artefice di fraternità e di cambiamento nei rapporti vicendevoli, soprattutto in relazione alle per­ sone più deboli: un luogo dove non soltanto curare l'onore proprio e altrui, ma dove soprattutto testimoniare inedite relazioni agapiche. E non è certo impossibile prevedere che pure in un nostro futuro secolarizzato la inciden­ za storica della fede cristiana debba manifestarsi non tanto nella preoccu­ pazione di influire con la propria presenza sui quadri del potere politico (a cui è sicuramente omogeneo anche il potere economico), quanto piuttosto nella capacità di tessere e promuovere reti personali e sociali alternative. In definitiva, la prospettiva di Paolo è che né la Legge (sia essa natu­ rale, mosaica, o civile) né il potere politico fanno formalmente parte dell' euaggélion. Entrambe le realtà costituiscono semmai un mero referen­ te estrinseco, quasi una cornice o un contenitore, nell'ambito del quale il cristiano vive e manifesta la propria autonoma identità, la quale dalla djna­ mis dell'evangelo e non certo da quella della Legge o dalla Politica trae la propria ragion d'essere. Quindi possiamo dire che se c'è una laicità dello Stato come atteggiamento di separazione dalla chiesa, si può dire che c'è pure il corrispettivo di una certa qual "laicità" della chiesa come comporta­ mento autonomo e indipendente dallo Stato.

L'uso cristiano del termine «laico» L'impiego cristiano del vocabolo si deve considerare nei due momenti linguistici successivi, greco e latino. A essi va premessa la negativa con­ statazione di base, secondo cui l'aggettivo laikos, già mancante nell'Anti­ co Testamento greco, è pure del tutto assente nel Nuovo Testamento, sul quale perciò non si può dire nulla. La sua sorte lessicale è poi rilevabile dall'intreccio storico dei testi cristiani propri delle due lingue mediter­ ranee. In ambito cristiano esso appare per la prima volta in greco nella Lettera di Clemente ai Corinzi, databile negli ultimi anni del I secolo, ma in un contesto particolare che ne limita il senso"16• Il testo suona così:

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I l Signore prescrisse di compiere i sacrifici e le funzioni sacre, non a caso e senz'or­ dine, ma in determinate circostanze e in tempi stabiliti. Anzi egli stesso, con il suo volere sovrano, determinò dove e da chi queste sacre funzioni devono essere compiute [ ... ]. È per questo che al sommo sacerdote sono stati conferiti particola­ ri uffici liturgici, agli altri sacerdoti è stato assegnato un incarico specifico, ai leviti incombono particolari servizi, e infine il laico [ho laikos dnthropos, lett.: «l'uomo del popolo, l'uomo comune » ] è tenuto alle disposizioni che lo riguardano [tois laikois prostdgmasin dédetai, lett.: «è tenuto alle disposizioni proprie del popo­ lo» ] (40,1-5 ) .

Questo passo va ben collocato nel suo contesto. La Lettera di Clemente (ma questo nome di autore non compare, essendo il mittente semplice­ mente tutta «la chiesa di Dio straniera [paroikousa] a Roma », Prescritto) è indirizzata alla chiesa di Corinto, dove alcuni onorati presbiteri erano stati deposti da giovani contestatori. Questa lettera rappresenta il primo intervento "disciplinare" da parte della chiesa romana per ricomporre una situazione incresciosa in un'altra chiesa. Lo scritto, al fine di ottenere que­ sto risultato, fa ricorso a tre analogie per sottolineare la necessità di un ordinamento comunitario: la prima è quella dell'esercito con i suoi soldati, che sono sottomessi ai loro comandanti (cfr. 37,2.-3); la seconda è quella del corpo umano, in cui tutte le membra cospirano unitariamente a formare il corpo intero (cfr. 37,5); la terza è quella della gerarchia sacerdotale, ordina­ tamente strutturata, propria dell'antico Israele (cfr. 40,2.-5). È precisamen­ te in quest'ultima analogia che fa la sua prima comparsa nella letteratura cristiana il termine «laico» . Esso segue la triplice menzione del Sommo Sacerdote, dei sacerdoti e dei Leviti, a indicare ogni singolo membro del popolo (laos) in quanto diverso dalle cariche sacerdotali, che come tali non lo caratterizzano. Infatti il testo continua specificando che i sacrifici si offrono solo a Gerusalemme, e precisamente sull'altare con l'intervento dei sacerdoti sulla vittima ( 41,2.). Il fatto interessante da rilevare è che l'appellativo non si riferisce alla composizione della comunità cristiana, ma soltanto a quella del popolo ebraico. Esso quindi non rispecchia la vita interna della chiesa, ma quella di una società diversa. La lezione che comunque se ne trae è che «ciascu­ no possa essere gradito a Dio nel proprio posto [en toi idioi tdgmati] » , tanto i sacerdoti quanto i laici, secondo «la norma stabilita per il servizio [leitourghia ] » (41,1), come a dire che anche il laico come il sacerdote ha comunque un proprio ruolo da svolgere. In ogni caso, fino a tutto il II secolo « i laici come categoria ecclesiale a

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sé stante non emergono» 117• Pur senza usare il vocabolo in questione, già lo scritto A Diogneto sul finire del II secolo (anche se sono ignoti tanto l'autore quanto il destinatario) descrive la vita dei cristiani con il mette­ re in luce la loro assoluta normalità sul piano della loro convivenza nella società, senza fare distinzioni fra laici e non laici, come se tutti fossero accomunati da una sola identità: I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti non abitano in città particola­ ri, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere. Questa dottrina che essi seguono non l'hanno inventata loro in seguito a riflessione e ricerca di uomini che amavano le novità, né essi si appoggiano, come certuni, su un sistema filosofico umano. Risiedono poi in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammes­ so, incredibile. Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera. Si sposano come tutti gli altri uomini ed hanno figli, ma non ripudiano i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il letto. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo. Osservano le leggi stabilite ma, con il loro modo di vivere, sono al di sopra delle leggi. Amano tutti, e da tutti vengono persegui­ tati. Anche se non sono conosciuti, vengono condannati; sono condannati a morte, e da essa vengono vivificati. Sono poveri e rendono ricchi molti; sono sprovvisti di tutto, e trovano abbondanza in tutto. Vengono disprezzati e nei disprezzi trovano la loro gloria; sono colpiti nella fama e intanto viene resa te­ stimonianza alla loro giustizia. Sono ingiuriati, e benedicono; sono trattati in modo oltraggioso, e ricambiano con l'onore. Quando fanno del bene vengono puniti come fossero malfattori; mentre sono puniti gioiscono come se si donasse loro la vita. I Giudei muovono a loro guerra come a gente straniera, e i pagani li perseguitano; ma coloro che li odiano non sanno dire la causa del loro odio (5; trad. G. Corti) 11 8 •

Con questa dettagliata descrizione l'autore prende anche "laicamente" le distanze dal culto tanto greco quanto giudaico, equiparati da una prassi sacrificale, di cui chi ha creato il cielo e la terra «non ha bisogno» . In particolare si polemizza contro le varie usanze giudaiche delle carni proi­ bite, del sabato, della circoncisione, del digiuno, tutte definite come «cose ridicole [kataghélasta] e indegne di considerazione» (3-4).

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Le prime designazioni specificamente cristiane dei laici come membri della chiesa le distinguiamo a seconda della lingua'19 : in latino si tratta di Ter­ tulliano (ca. 160-ca. 220) e di Cipriano (ca. 210-258)'60 ; in greco invece entra­ no in conto Clemente Alessandrino (ca. 150-215) e Origene (ca. 190-254)'61• Il latino laicus per la verità è già presente nella versione della citata Let­ tera di Clemente (forse del II secolo)'6 ', dove la frase greca che contiene il nostro vocabolo è resa così: Plebeius homo laicis praeceptis datus est, « L' uo­ mo del popolo è affidato alle disposizioni di tipo laico» . Come si vede, mentre la prima occorrenza del vocabolo traduce il greco con plebeius, dal latino plebs, «popolo» nel senso di volgo opposto al patriziato, la seconda è una semplice traslitterazione dall'originale greco ma serve solo per desi­ gnare delle cose, non delle persone'63 • Il vocabolo latino appare di uso normale in Tertulliano, sia prima sia dopo il suo passaggio al montanismo: [gli eretici] affidano incarichi sacerdotali anche ai laici [et laicis sacerdotalia mune­ ra iniungunt] (Depraescriptione haereticorum 41,8). La facoltà di battezzare spetta anzitutto al sommo sacerdote cioè all'epìscopo se è presente, poi ai presbiteri e ai diaconi, non senza l'autorizzazione del!' epìscopo [ ... ] altrimenti spetta anche ai laici [alioquin etiam laicis ius est] (De baptismo 17,1-2.). Saremmo inattendibili, se credessimo che non siano lecite ai sacerdoti cose lecite ai laici; forse che pure noi laici non siamo sacerdoti ? [nonne et laici sacerdotes su­ mus?] [ ... ] Dove sono in tre, anche se laici, lì c 'è la chiesa [ubi tres, ecclesia est, licet laici] (De exhort. cast. 7,2.-3). Se le stesse autorità, cioè gli stessi diaconi e presbìteri ed epìscopi fuggono, come potrà comprendere il laico? (Defuga in persecutione 11) [sed cum ipsi diaconi et presbyteri et episcopifugiunt, quomodo laicus intelligere poterit?].

Quanto a Cipriano, la fonte principale sono le sue Lettere. Qui trovia­ mo tre modi di parlare dei laici: con la menzione del vocabolo stesso (cfr. 30,5: «una comune assemblea di episcopi, presbiteri, diaconi, confessori e ugualmente laici che si sono mantenuti fedeli » ; 3 1,6; 65,3; 67,6; 72,2; 81; cfr. anche il sinonimo plebeius nella Vita di Cipriano 1,2; 3,4), con la dizione plebs (cfr. 14,1.4: «non dare alcun responso senza il consenso del mio popolo» ; 19,2; 41,1; 67,3-4) e con l'uso del termine «clero» (clerus) che implica un'evidente distinzione di collocazione nella chiesa (cfr. 1,1 :

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l'antico sistema della tribù di Levi «si mantiene oggi nel clero»; 19,2.; 33,1; 2.9,1: «il clero di Roma»; 34, 4; 52.,2.)'6 4• Il termine «clero» è traslitterazione del greco kleros che significa «un bene avuto in sorte, parte assegnata» (cfr. Odissea 9,331; Platone, Leggi 92.3d; Erodoto 3,83,2.). Nelle fonti cristiane lo si trova per la prima volta in Clemente Alessandrino, Quis dives 42. (a proposito dell'apostolo Gio­ vanni che viaggiava presso Efeso «dove veniva chiamato, qui per istituire episcopi, là per regolare intere chiese, altrove ancora per ammettere nel clero coloro che lo Spirito aveva indicato») e in Origene, Hom. in Jer. 11,3 ( «L'ufficio non garantisce la salvezza [ ... ] . Ci sono alcuni nel clero che non vivono in modo tale da trarne giovamento e fare onore al clero [ ... ] . Ciò che giova, i n realtà, non è il fatto di essere seduti nel presbiterio, ma il vivere in modo degno di quel posto»). Il vocabolo latino invece si trova in Tertulliano: Da dove provengono gli episcopi e il clero ? Non forse da tutti ? Se non fossero tenuti tutti a osservare la monogamia, da dove si prenderebbero i monogami per il clero ? Bisognerà forse istituire un ordine a parte di monogami, dai quali reclutare i membri del clero ? Eppure quando si tratta di sollevarci e di infiammarci contro il clero, allora siamo tutti una cosa sola, siamo tutti sacerdoti (De monogamia, 12.,1-2.; cfr. anche Ordo sacerdotalis in De exhort. cast. 7 ).

Agostino spiegherà così il suo significato: «I clerici sono così chiamati per­ ché sono la parte del Signore o perché il Signore è la loro parte» (Ep. 52.,5; in Enarr. in Ps. 67,19 porta l'esempio di Mattia «eletto a sorte, ordinato per primo dagli apostoli, indicando con kleros in greco la sorte o l'eredi­ tà»). Sullo sfondo c'è il passo biblico di Dt 10,9, dove a proposito della tribù di Levi si dice che essa non avrà proprietà terrene «perché il Signore stesso è il suo kleros » (in ebraico beqal), e Filone Alessandrino ne fa una lettura allegorica in riferimento a colui che appartiene al Signore mediante il dominio delle passioni (cfr. Leg. alleg. 2.,51-52.)'61 • Il greco laikos in senso cristiano si trova in Clemente Alessandrino e precisamente nel contesto di un discorso sul matrimonio. Qui, citando il testo paolino che raccomanda alle giovani di sposarsi e avere figli senza dare occasione a maldicenze (cfr. 1T im 5,14-15), Clemente Alessandrino così continua: «(l'Apostolo) approva pienamente l'uomo "sposato a una sola donna", sia presbitero, sia diacono, sia laico, purché pratichi il suo ma­ trimonio in modo irreprensibile» (Stromati m,90,1). Un altro passo della stessa opera lascia intravedere che il vocabolo viene dal linguaggio ebrai-

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co; infatti, descrivendo il Tempio di Gerusalemme, Clemente distingue il Santo dei Santi dove entrava solo il Sommo Sacerdote, il Santo riservato ai sacerdoti comuni e l'atrio esterno accessibile a tutti gli ebrei ma separato mediante un velo (kdlymma). Giocando sulle parole, si precisa la desti­ nazione di questo drappo: «Il velo era un impedimento/difesa [kolyma] rispetto all'infedeltà laica/del popolo [laikes apistlas] » (Stromati v,33,3); e quest'ultima espressione significa per metonimia «gente infedele», con cui viene designato in senso peggiorativo (forse ironico?) la popolazione comune in quanto distinta dai sacerdoti incaricati del culto. Il termine diventerà poi di uso comune, come si vede in Origene, il quale giunge a dire: l'essere presbitero non è garanzia di salvezza [ ... ] molti anche laici saranno ricono­ sciuti beati, poiché ci sono alcuni tra il clero [kleros] che non vivono in modo tale da far onore al loro ufficio [ ... ]. Da un presbitero si esige più che da un diacono, e da un diacono più che da un laico ( Omelie su Geremia x1.3). Non è forse più meritevole di perdono il laico, se lo si rapporta al diacono, e anche il diacono in confronto a un presbitero ? ( Omelie su Ezechiele 5,4)

In più, una notizia su Origene ci viene data da Eusebio di Cesarea in quan­ to egli, prima di ricevere l'ordinazione sacerdotale, venne invitato a pre­ dicare in presenza di alcuni Vescovi, per cui alcuni osservarono: «Non si era mai udito, né era mai avvenuto, che laici predicassero alla presenza di epìscopi» (Storia 4,19,17). In sostanza, il vocabolo «laico» sembra avere soltanto una semantica diversificante, in quanto designa un cristiano che non è né Vescovo, né sacerdote, né diacono, in quanto cioè non appartiene al clero che stava strutturandosi come una classe a sé stante. La distinzione maturerà fino alla sentenza ormai inappellabile del Decreto di Graziano, una raccolta di fonti di diritto canonico redatta verso il 1140 dal monaco camaldolese ma­ estro a Bologna (in auge fino alla nuova composizione del diritto canonico del 1917), che così si esprime: Due sono i generi di cristiani. L'uno è riservato al servizio divino, dedito alla con­ templazione e alla preghiera, a cui conviene di astenersi da ogni preoccupazione di cose temporali, come sono i chierici e i votati a Dio, cioè i conversi [ ... ]. L'altro genere di cristiani è quello dei laici [ ... ]. A questi è permesso possedere cose tem­ porali, ma solo per l'uso166•

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Si accentuò così la clericalizzazione della chiesa, che il Concilio Vaticano II (196 2.-6 5 ) corresse riconoscendo che la missione della chiesa non è esclu­ siva dei "chierici" né si identifica con loro, ma è propria di tutto il popolo di Dio, laici compresi, sia pure sulla base di una diversità di ministeri (cfr. l'apposito decreto Apostolicam actuositatem ). La questione venne ripresa dall'esortazione apostolica Christiftdeles laici del Papa Giovanni Paolo II nel 1988: questo testo affronta il tema della presenza e del significato dei movimenti ecclesiali, effettuando il necessario discernimento di esperien­ ze, correnti e modi di partecipazione del laicato, caratteristici del primo periodo postconciliare. Concretamente dava nuovi indirizzi mirati a « su­ scitare e alimentare una più decisa presa di coscienza del dono e della re­ sponsabilità che tutti i fedeli [ ... ] hanno nella comunione e nella missione della Chiesa » (par. 2. )'67•

Note 1. Cfr. per esempio F. Dunand, Sincretismi eforme di vita religiosa, in S. Settis (a cura di), I Greci. Storia Cultura Arte Societa, voi. 11: Una storia greca, t. Ili: Trasformazioni (IV secolo a.C. -II secolo d.C.), Einaudi, Torino 1998, pp. 3 3 6-75. Il fatto spiega l'interes­ sante assenza di conflitti religiosi nel mondo pagano; cfr. in merito M. Bettini, Elogio delpoliteismo. Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche, il Mulino, Bo­ logna 2.014, pp. 81 -6. È comunque originale la lamentela di Luciano sull'introduzione di tutta una serie di divinità dall'Oriente, di cui dà la responsabilità a Zeus per essersi unito a tante donne mortali ( Gli dei a parlamento 7 ). 2.. In più, esempio di interpretatio christiana saranno nel IV secolo la sostituzione della festa romana del Sol lnvictus, celebrata il 2.5 dicembre, con la festa del Natale di Gesù Cristo e la proclamazione della domenica come giorno di riposo nel nome del Sole (dies solis = inglese Sunday, tedesco Sonntag); cfr. J. Ferguson, Le religioni nell'Impero romano, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 42.-50. Diverso è il senso sostenuto da H. Rahner, Miti greci nell'interpretazione cristiana, EDB, Bologna 2.011, che richia­ ma piuttosto il concetto di praeparatio evangelica proprio di Eusebio di Cesarea. 3. Cfr. R. Penna, / due inizi della cristologia. Storia efede, in Id., Pro.fili di Gesu, EDB, Bologna 2.011, pp. 7-14; cfr. anche L. Cerfaux, jésus aux origines de la tradition, De­ sclée, Louvain 1968, p. 144. Per un quadro generale del primo cristianesimo, cfr. J. Gnilka, Iprimi cristiani. Origini e inizio della chiesa, Paideia, Brescia 2.000; K. Ber­ ger, / cristiani delle origini. Gli annifondatori di una religione mondiale, Queriniana, Brescia 2.009; R. Aguirre (ed.), Asi empezo el cristianismo, EVD, Estella 2.011. In ogni caso va ricordato che il termine "cristianesimo" è posteriore a Gesù e sarà coniato solo da Ignazio di Antiochia, Ad Magn. 10, ali' inizio del II secolo.

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4. Cfr. le varie definizioni di «carismatico escatologico» (M. Hengel, Sequela e carisma. Studio esegetico e di storia delle religioni su Mt S,21 e la chiamata di Gesù alla sequela, Paideia, Brescia 1990, p. 12.1), «rappresentante escatologico di Dio» ( M. Kreplin, Das Selbstverstdndnisjesu. Hermeneutische und christologische Rejlexion. Historisch-kritische Analyse (Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testa­ mene, 2.141), Mohr Siebeck, Ttibingen 2002, p. 346), « araldo escatologico di Dio» (J. D. G. Dunn, Gli albori del cristianesimo, voi. I : La memoria di Gesù, t. II: La mis­ sione di Gesu, Paideia, Brescia 2006, p. 798) e «mediatore escatologico di Dio Padre e del suo regno per il popolo d' Israele» (G. Segalla, Sulle tracce di Gesù. La terza ricerca, Cittadella, Assisi 2006, p. 122). Un bilancio complessivo sulla ricerca di una definizione di Gesù si può trovare in D. B. Gowler, What Are They Saying About the Historicaljesus?, Paulist Press, New York-Mahwah (NJ) 2007. 5. Cfr. R. Penna, Le apparizioni del Risorto, fondamento della fede pasquale, in Id., Parola fede e vita. Stimoli dal Nuovo Testamento, Boria, Roma 2013, pp. 1 1 5-22; e in generale G. Lorusso, Risurrezione. La testimonianza dei Vangeli e delle lettere paoline, EDB, Bologna 2018. 6. Un ampio quadro sulla qualità metaforica del sacerdozio nel cristianesimo (con delle importanti premesse tanto nella grecità quanto soprattutto in Israele) è of­ ferto da V. Gackle, Allgemeines Priestertum. Zur Metaphorisierung des Priestertitels im Fruhjudentum und Neuen Testament (Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testamene, 331), Mohr Siebeck, Ttibingen 2014. Cfr. anche G. Rinaldi, Cri­ stianesimi nell'antichita. Sviluppi storici e contestigeografici (Secoli 1-vm), GBU, Chieti­ Roma 2008, pp. 274-6. 7. In merito, cfr. R. Penna, Ricerca e ritrovamento del Gesù storico. Alcune considera­ zioni, in "La Scuola Cattolica", 144, 2016, pp. 507-33. 8. G. Theissen, Gesù e il suo movimento. Storia sociale di una rivoluzione di valori, Claudiana, Torino 2007, p. 84. 9. La definizione generica di Elisabetta (che era di discendenza sacerdotale: Le 1,5) come syggenis (parente) di Maria difficilmente implica un'analoga discendenza sa­ cerdotale da parte di Maria; piuttosto «Elisabetta è verosimilmente parente acqui­ sita della vergine Maria » (C. Spicq, Note di lessicografia neotestamentaria, Paideia, Brescia 1994, voi. II, p. 592, n 2). Peraltro l'apocrifo Protovangelo di Giacomo dice esplicitamente che Maria «era della tribù di Davide » (10,1). 10. A. Vanhoye, La novita del sacerdozio di Cristo, in "La Civiltà Cattolica", 35 41, 1, 1998, pp. 16-27. 1 1 . Si veda però la magra figura che fanno tanto un sacerdote quanto un levita che, secondo la parabola del buon samaritano (in Le 10,31-32), passano accanto all'uomo sanguinante e mezzo morto sulla strada da Gerusalemme a Gerico, senza degnarsi di un minimo soccorso. 1 2. . Cfr. H. Stegemann, Gli esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù. Una monogra­ fia, EDB, Bologna 1996; S. Paganini, Gesù, Qumran e gli esseni. Le prime comunita cristiane e l'essenismo, Paoline, Milano 2013.

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13. «Un tale perdono dei peccati, assente nelle altre pratiche purificatorie giudaiche contemporanee a Giovanni, era l'aspetto davvero rivoluzionario della sua predicazione. Questa idea, infatti, sorpassava d'un balzo la necessità di un tempio in cui eseguire il sa­ crificio espiatorio» (E. Lupieri, Giovanni Battistafra storia e leggenda, Paideia, Brescia 1988, pp. 179-80 ). Certo non regge il paragone con l'eremita Banno, di cui scrive Flavio Giuseppe da lui frequentato in età giovanile: «Dimorava nel deserto, vestiva di ciò che offrivano gli alberi, mangiava ciò che la natura gli permetteva, e spesso faceva abluzioni giorno e notte per la purificazione» ( Vita 11-12.); costui infatti era posteriore a Giovan­ ni di circa 15 anni e non praticava il battesimo pubblico per la remissione dei peccati. 14. Cfr. E. Lupieri, Giovanni e Gesu: storia di un antagonismo, Mondadori, Milano 1991. Che i due personaggi fossero cugini, come si impose poi nella tradizione, è cosa assai dubbia (cfr. J. P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesu storico, voi. I: Le radici del problema e della persona, Queriniana, Brescia 2.001, p. 2.11). Che poi Gesù stesso sia stato un battezzatore è assai discutibile; in Gv 4,1.2. l'evangelista corregge la diceria secondo cui «Gesù battezza più di Giovanni», precisando: « sebbene non fosse Gesù in persona a battezzare ma i suoi discepoli ». C 'è chi sostiene che Gesù in un primo tempo abbia fatto uso di questa pratica ma l'abbia poi abbandonata (cosl S. Légasse, Alle origini del battesimo. Fondamenti biblici del rito cristiano, San Paolo, Cinisello Balsamo, MI, 1994, p. 85). 15. Cfr. R. Penna, Gesu, un uomo libero, in Id., Profili di Gesu, cit., pp. 59-66. 16. Cfr. J. D. G. Dunn, Gli albori del cristianesimo, voi. I: La memoria di Gesu, t. III: L'acme della missione di Gesu, Paideia, Brescia 2.007, pp. 841-5, specie p. 843: « Le autorità religiose furono maggiormente irritate dalle notizie dell 'indifferenza di Gesù per la purità rituale » . 17. Questo particolare rapporto tra Gesù e i l Tempio è u n dato sicuramente giovan­ neo, cioè spiegabile a livello redazionale; cfr. M. L. Rigato, Giovanni: l'enigma il Pre­ sbitero il culto il Tempio la cristologia, EDB, Bologna 2.007. 18. Per quest'ultimo caso i commentatori fanno notare che il testo, oltre a richiamare la povertà di Gesù e dei suoi discepoli, può anche riferirsi a dopo l'anno 70, quan­ do il Tempio non c 'era più e la tassa per il Tempio era stata tramutata dai Romani nelfiscus iudaicus per il tempio di Giove Capitolino (cfr. Flavio Giuseppe, Guerra 7,6.6), che anche i giudeo-cristiani dovevano pagare. Cfr. U. Luz, Das Evangelium nach Matthdus, voi. II: Mt S-17, Benziger-Neukirchener, Ziirich-Neukirchen-V luyn 1990, pp. 52.8-37. 19. J. Gnilka, Il Vangelo di Matteo, voi. I: Commento ai capp. 1,1-13,58, Paideia, Brescia 1990, p. 488. Addirittura le stesse parole di Osea saranno riprese da Rabbi Yohanan ben Zakkai dopo il 70, cioè dopo la distruzione del Tempio, per dire che il ritualismo non ha l ' importanza della beneficenza (cfr. Aboth R. Natan 6). 2.0. G. Rossé, Il Vangelo di Luca. Commento esegetico e teologico, Città Nuova, Roma 1992., p. 2.81. ln effetti nel trattato rabbinico Pirqé Aboth si legge: «Non parlare molto con la donna [ ... ]. Chi aumenta ciarle con le donne causa danno a sé stesso, si distrae dallo studio della Legge e la sua fine è di acquistarsi l' inferno» ( 1,5).

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2,1. A parte, anche se il dato non riguarda più il rapporto diretto con Gesù, va osser­ vato quanto sia stata rilevante la funzione delle donne nel racconto della passione, sia in quanto presenti alla croce (cfr. Mt 2,7,55-56), sia come testimoni della tomba vuota e delle prime cristofanie pasquali (cfr. Le 2.3,55-2.4,11 ; Gv 2.0,1.11-18). 2,2.. Cfr. A. Puig i Tàrrech, Gesu. La risposta agli enigmi, San Paolo, Cinisello Balsa­ mo (MI) 2.007, pp. 340-3 e 345-8. 2.3. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesu storico, cit., voi. I, p. 347 (cfr. pp. 345-53: Stato laicale di Gesu ). Sul rapporto di Gesù con il culto cfr. anche le buone pagine di N. Ciola, Gesu Cristofiglio di Dio. Vicenda storica e sviluppo della tradizione ecclesiale, Boria, Roma 2.012., pp. 18 1-6. 2.4. Il tributo, al tempo di Gesù, riguardava la Giudea (non per nulla l'episodio è si­ tuato a Gerusalemme nel!'area del Tempio), che appunto era governata da un prefetto romano (Ponzio Pilato dal 2.6 al 36), mentre la Galilea aveva una sua autonomia sotto il tetrarca Erode Antipa (dal 4 a.C. al 39 d.C.). 2.5. Le parole, un po' ritoccate, sono pure riportate dall'apocrifo Vangelo di Tommaso 100 e dal Papiro Egerton 3,1-6, entrambi databili almeno nella prima metà del II secolo. 2.6. Qui non teniamo conto della sua collocazione cronologica, visto che i Sinot­ tici pongono il gesto al termine della vita pubblica (Mt 2.1,12.-13; Mc 1 1,11.15-17; Le 19,45-46), mentre Giovanni lo pone all' inizio (2.,13-2.2.); cfr. in merito R. Schna­ ckenburg, Il Vangelo di Giovanni, voi. I: Introduzione e commento ai capp. I-4, Paideia, Brescia 1973, pp. 509-12., secondo cui il Quarto evangelista è mosso da un intento teologico: quello di far vedere subito «l'abisso che si apre tra Gesù e il giudaismo ufficiale» (ivi, p. 512.). 27. L'opposizione giudaica a ogni cambiamento (neoterismos) in materia è attestata da Filone Alessandrino nel caso sia di Caligola che voleva erigervi una propria statua, sia di Pilato che vi introdusse degli scudi d'oro con scritta dedicatoria (cfr. rispettiva­ mente Legatio ad Caium 2.08.292.333 e 300). 28. Cfr. E. P. Sanders, Gesu e ilgiudaismo, Marietti, Genova 1992, pp. 83-12. 1 ; inoltre: J. Schlosser, Gesu di Nazaret, Boria, Roma 2002, pp. 234-50; S. Freyne, Gesu, ebreo di Galilea. Una rilettura del Gesu storico, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2.006, pp. 199-2.06; M. Hengel, A. M. Schwemer, jesus und das Judentum, Mohr Siebeck, Tùbingen 2007, pp. 557-61; R. A. Horsley, Gesu e l'impero. Il regno di Dio e il nuovo disordine mondiale, EMI, Bologna 2.008, pp. 112-25; R. Fabris, Gesu "il Nazareno''. In­ dagine storica, Cittadella, Assisi 2.011, pp. 565-659; G. Lohfink, Gesu di Nazaret. Cosa volle - Chifu, Queriniana, Brescia 2014, pp. 301-5; Gackle, Allgemeines Priestertum, cit., pp. 299-310; M. Tiwald, Einzug in]erusalem, Tempelreinigung (jesu Stellungzum Tempel), in J. Schroter, Ch. Jacobi (Hrsgg.),Jesus Handbuch, Mohr Siebeck, Tùbin­ gen 2017, pp. 460-7; D. Marguerat, Vie et destin dejésus de Nazareth, Éditions du Seui!, Paris 2019, pp. 234-7. Questa impostazione maggioritaria è oggetto di critica da parte di G. Jossa, Voi chi dite che io sia? Storia di un profeta ebreo di nome Gesu, Paideia, Brescia 2.018, pp. 243-51, che parla piuttosto di «una riaffermazione della santità di rutta la zona del tempio» (ivi, p. 247 ).

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l9, Cfr. Dunn, Gli albori del cristianesimo, vol. I: La memoria di Gesù, t. II, cit., pp. 667-9. 30. Cfr. A. Mello, Evangelo secondo Matteo. Commento midrashico e narrativo, Qiqa­ jon, Magnano (BI) 1995, pp. 367-9. 3 1. Cfr. in merito J. Adna, jesus and the Tempie, in T. Holmén, S. E. Porter (eds.), Handbookfor the Study ofthe Historicaljesus, voi. III: Ihe Historicaljesus, Brill, Leid­ en-Boston (MA) lOI I, pp. l636-75. Inolcre, sull' insieme cfr. anche R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, voi. I : Gli inizi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) lOIO, pp. 69-78. 3l. Cfr. ivi, pp. 35-178; Id., Lafede cristiana alle sue origini, San Paolo, Cinisello Bal­ samo (MI) w13; Id., Vangelo, Cittadella, Assisi lo14. 33. Cfr. C. P. Thiede, Simon Pietro dalla Galilea a Roma, Massimo, Milano 1999, pp. l7-37. In più si legge in At 4,13 che Pietro e Giovanni erano «persone semplici e senza istruzione » (agrdmmatoi kai idiotai). 34. La sola distinzione poteva essere di tipo sociale e riguardare il distacco dalla fami­ glia, che connotava più quelli che seguivano Gesù da vicino e meno quelli che erano suoi seguaci ma rimasti nelle loro case (cfr. S. Guijarro Oporto, }esus y sus primeros discipulos, Verbo Divino, Estella loo7 ). Un piccolo problema è posto dal nome di "Matteo" (in Mc 10,l-4; Mc 3,16-19; Le 6,14-16; At 1,13) in quanto sostituito altrove da "Levi" (in Mc l,13-14; Le 5,l7-l8), che però non dovrebbe avere nulla di sacerdotale, se non altro perché in quanto pubblicano/gabelliere è un impuro (cfr. Mc 9,11). 35. Cfr. R. F. Hock, Ihe Socia/ Context ofPaul's Ministry: Tentmaking and Apostle­ ship, Fortress Press, Philadelphia (PA) 1980. 36. Cfr. E. E. Ellis, Collaboratori, Paolo e i suoi, in G. F. Hawthorne, R. P. Martin, D. G. Reid (a cura di), Dizionario di Paolo e delle sue lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999, pp. l56-66. 37. Il motivo fu la discordia sorta sulla possibilità di riprendere con sé Giovanni Mar­ co (su cui cfr. At Il,Il.l5; 1 3,5.13), che di Barnaba era cugino (cfr. Col 4,IO) e che Paolo voleva escludere dal nuovo viaggio missionario, forse perché era più vicino alle riserve gerosolimitane sulla missione universale, cosa che avrebbe fatto di lui un partner teo­ logicamente poco affidabile (cfr. D. Marguerat, Atti degli Apostoli, voi. II: r3-z8, EDB, Bologna lo 15, p. Il?). 3 8. Le persone salutate in Rom 16 sono 17 uomini e 9 donne ma, volendoci rende­ re conto di quante siano le persone lodate per il loro effettivo impegno evangelico nell'ambito della comunità, dobbiamo constatare che il rapporto si inverte, poiché le donne superano gli uomini per 7 (Prisca, Maria, Giunia, Trifena, Trifosa, Perside e la madre di Rufo) a 5 (Aquila, Andronico, Urbano, Apelle e Rufo). Cfr. in spe­ cie S. Mathew, Women in the Greetings Romans IO.I-Io: A Study Mutuality and Women's Ministry in the Letter to the Romans, Bloomsbury, London lo13. Più in ge­ nerale sulla componente femminile nelle chiese delle origini, cfr. E. W. Stegemann, W. Stegemann, Storia sociale del cristianesimo primitivo. Gli inizi nel giudaismo e le comunita cristiane nel mondo mediterraneo, EDB, Bologna lo15, pp. 667-70; J. Da-

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niélou, Il ministero delle donne nella Chiesa antica, in AA.VV., Aspetti della teologia del sacerdozio dopo il Concilio, Città Nuova, Roma 1974, pp. 2.09-2.7; R. Penna, Ilfemmi­ nismo di Paolo: alcuni datifondamentali, in C. Simonelli, P.-R. Tragan (a cura di), La Parola e la Polis. Percorsi biblici, teologici, politici. Omaggio a Marinella Perroni, Paoline, Milano 2.017, pp. 64-72.. 39. Questi sono i testi in cui incontriamo tale designazione, sia nelle lettere autenti­ che (Rom 1,7; 8,2.7; 1 2.,13; 15,2.5.2.6.31; 16,2..15; 1Cor 1,2.; 6,1.2.; 1 4,33; 16,1.15; 2.Cor 1,1; 8,4; 9,1.12.; 13,12.; Fil 1,1; 4,2.2.; 1Tes 3,13; Flm 5.7), sia nelle lettere deuteropaoline (Ef 1,1.15.18; 2.,19; 3,8.18; 4,12.; 5,3; 6,18; Col 1,2..4-2.6; 2.Tes 1,10; 1Tim 5,10). Viceversa la designazio­ ne è rarissima fuori di Paolo (Mt 2.7,52.; At 9,41; 2.6,10; Ebr 6,10; Gd 3), mentre la si trova di più nell'Apocalisse (5,8; 8,3.4; 1 1,18; 1 3,7.10; 14,12.; 16,6; 17,6; 1 8,2.0.2.4; 19,8; 2.0,9; 2.2.,2.1). 40. Cfr. Agostino: «Non sono stati chiamati perché erano già santi, ma sono stati fatti santi perché sono stati chiamati » (PL 35,2.093). E a proposito del Sai 85,2. (testo greco e latino: «Custodiscimi perché sono santo» ; l'ebraico dice: «perché sono fe­ dele » ), Agostino commenta: « Oserò dunque dire anch'io che sono santo? [ ... ] Non è questa la superbia dell'orgoglioso, ma la confessione di chi non vuole essere ingrato [ ... ] . Insomma, devi riconoscere che hai dei beni e che non li hai da te stesso: così non sarai né superbo né ingrato. Dì al tuo Dio: "Sono santo perché tu mi hai santificato; perché l'ho ricevuto, non perché l'ho avuto da me stesso; perché tu me l'hai dato, non perché io me lo sono meritato". Se tu dicessi il contrario, cominceresti a recare ingiuria al Signore nostro Gesù Cristo [ ... ] . Orbene, dica pure ogni cristiano, o meglio lo dica tutto il corpo di Cristo, lo gridi ovunque, mentre sopporta le tribolazioni, le varie tentazioni, gli innumerevoli scandali; dica: "Custodisci l'anima mia, perché sono santo! Salva il tuo servo, Dio mio, che spera in te"» (Enarr. in Ps. 85,4). Il Criso­ stomo, invece, insiste sull'idea di eguaglianza sociale tra tutti coloro che condividono la stessa santità (cfr. PG 60,399). Per una differenza con il concetto greco-pagano di santità intesa come eroismo umano, cfr. A.-J. Festugière, La sainteté, Presses universi­ taires de France, Paris 1949. 41. In questo senso va anche il rabbinismo, che sentenzia: « La santità consiste nell'osservare tutti i comandamenti » (così il midrash sul Levitico Sifré Lev. 2.0,7 ). 42.. La voce «carisma» si trova nel Nuovo Testamento 17 volte, di cui ben 1 6 nelle sole lettere paoline (più 1Pt 4,10: «Ciascuno, secondo il dono [chdrisma] ricevuto, lo metta a servizio [diakonountes] degli altri come buoni amministratori della mul­ tiforme grazia [chdris] di Dio»). Sull'argomento cfr. l'ottimo studio di A. Vanhoye, I carismi nel Nuovo Testamento, G&B Press, Roma 2.01 1; e più in generale : G. Hasen­ hiittl, Carisma, principiofondamentale per l'ordinamento della Chiesa, EDB, Bologna 1973; J. Delorme (a cura di), Il ministero e i ministeri secondo il Nuovo Testamento. Documentazione esegetica e riflessione teologica, Paoline, Milano 1977; E. Cattaneo (a cura di), I ministeri nella Chiesa antica. Testi patristici dei primi tre secoli, Paoline, Milano 2.012.2 E. Malnati, I ministeri nella Chiesa, Paoline, Milano 2.008; A. D. Clar­ ke, A Pauline Theology of Church Leadership, T&T Clark, London-New York 2.008; ;

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G. Bellia, D. Garribba (a cura di), Carismi, diaconia e ministeri dalI al II secolo d.C. , in "Ricerche Storico-Bibliche", 15, 1013. 43. Il nesso semantico tra i concetti di chdris e di chdrisma (di cui il secondo è con­ cretizzazione della prima) è ben evidente in un bel passo di Filone Alessandrino: «Il giusto [ ... ] scopre che tutto è grazia [chdris] di Dio e che nulla è un favore [chdrisma] della creazione, poiché questa non possiede nulla, ma tutto è proprietà di Dio; perciò la grazia [chdris] appartiene solo a lui come sua caratteristica propria. Quindi a quanti cercano il fondamento della creazione sarebbe esatto rispondere che sono la bontà [agathotis] e la grazia [chdris] di Dio, di cui egli ha fatto dono [echdrisato] all'umani­ tà; infatti, tutto ciò che è nel mondo e il mondo stesso è un dono [dored], un beneficio [kai euergesia] e un favore [kai chdrisma] di Dio» (Leg. alleg. 3,78). 44. A. Lemaire, Le lettere di Paolo: la diversità dei ministeri, in Delorme (a cura di), Il ministero e i ministeri secondo il Nuovo Testamento, cit., pp. 11-104, qui p. 87 (con rimando a 1Cor 7 ). 45. Sull' importanza della parola di salvezza, cfr. Ch. Perrot, Apresjésus. Le ministbe chez /es premiers chrétiens, L'Atelier, Paris 1000, pp. 14-9, 87-8, 174-5, 105-18 e 158 ( «La movimentata storia dei ministeri è anzitutto la storia della parola cristiana » ; trad. mia). 46. Cfr. J. Delorme, Diversità e unità dei ministeri secondo il Nuovo Testamento, in Id. (a cura di), Il ministero e i ministeri secondo il Nuovo Testamento, cit., pp. 415-509, specie pp. 465-6. 47. Cfr. R. Penna, Le prime comunità cristiane. Persone, tempi, luoghi,farme, creden­ ze, Carocci, Roma 1017', pp. 64-5. Non abbiamo invece notizie su eventuali comunità in Galilea, anche se dovevano esserci. 48. Cfr. G. Rossé, Atti degli Apostoli. Commento esegetico e teologico, Città Nuova, Roma 1998, p. 181. 49. Cfr. E. Chilton, C. A. Evans (eds.),james thejust and Christian Origins, Brill, Leiden-Boston (MA) 1999, pp. 143-109. 50. Cfr. C. Gianotto, Ebrei credenti in Gesù. Le testimonianze degli autori antichi, Paoline, Milano 1011, pp. 5 1-73. 51. E. Meyer, Ursprung und Anfange des Christentums, voi. I I I : Die Apostelgeschichte und die Anfange des Christentums, Cotta'sche Buchhandlung Nachfolger, Stuttgart­ Berlin 1913, p. 114. 51. Cfr. G. Bornkamm, in GLNT XI,103-110; J. Jeremias, Gerusalemme al tempo di Gesù. Ricerche di storia economica e sociale per il periodo neotestamentario, Edizioni Dehoniane, Roma 1989, pp. 345-5 1; F. Bovon, Vangelo di Luca, voi. III: Commento a 19,28-24,53, Paideia, Brescia 1013, pp. 368-9. 53. G. Bornkamm, in GLNT x1,107. 54. H. W. Beyer, in GLNT m,785. Cfr. anche F. Manns, La liste des premiers éveques de jérusalem, in Id., jérusalem Antioche Rome. jalons pour une théologie de l'église de la circoncision, Terra Santa-Franciscan Printing Press, Milan- Jérusalem 1009, pp. 336-54.

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55. Cfr. M. G. Mara, Antiochia: città delle prime volte, in L. Padovese (a cura di), Atti dell'vm Simposio Paolino. Paolo tra Tarso e Antiochia. Archeologia, storia, religione, Anconianum, Roma 2.004, pp. 1 65-71; inoltre Penna, Leprime comunità cristiane, cit., pp. 107-1 3. 56. Il vocabolo deriva dal verbo proistimi, che significa letteralmente «porre/porsi davanti». 57. Cfr. per esempio 1Mac 5,19: «Governate [prosti] questo popolo» ; Plutarco poi parla di un pretesto offerto dai «capi del governo» (hoiproestotes tespoliteias) per una ribellione (Mor. 304A); e Flavio Giuseppe racconta di un re in grado di «governare [prostenai] il popolo con giustizia e pietà » (Ant. 8,300). 58. Per esempio in un'iscrizione agrigentina del I secolo a.C. si chiede di «onorare convenientemente coloro che si sono impegnati [tou.s proistaménous] per il nostro popolo» (F. Canali De Rossi, a cura di, Iscrizioni storiche ellenistiche, voi. III: Decreti per ambasciatori greci al Senato, Herder, Roma 2.002., p. 93); Epitteto paragona Dio a chi veglia su di noi e «ci guida/protegge come un padre [patrikos proistdmenon] » (Diatr. 3,2.4,3). 59. Oltre ai commenti, cfr. Vanhoye, I carismi nel Nuovo Testamento, cit., pp. 49-142.. 60. Per il titolo di apostolos che Paolo attribuisce a sé stesso, cfr. R. Penna, Lettera ai Romani, EDB, Bologna, 2.010, pp. 10-3; e sulle donne menzionate in Rom 1 6, cfr. ivi, pp. 1078-94. 61. Oltre a Delorme, Diversità e unità dei ministeri secondo ilNuovo Testamento, cit., pp. 449-51, cfr. A. Pitta, La seconda lettera ai Corinzi, Boria, Roma 2.006, pp. 166-71. 62.. In merito, cfr. Vanhoye, I carismi nel Nuovo Testamento, cit., pp. 137-42.. 63. Cfr. R. Penna, L'encomio dell'amore (rCor r3), in Id., Amore sconfinato. Il Nuovo Testamento sul suo sfondo greco ed ebraico, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2.019, pp. 170-90. 64. Cfr. più ampi sviluppi in Id., La chiesa come Corpo di Cristo secondo S. Paolo. Me­ tafora sociale-comunitaria o individuale-cristologica?, in "Estudios Biblicos� 65, 2.007, pp. 2.43-57. 65. L'affermazione « abbiamo» nel cesto originale corrisponde a un participio presence plurale (échontes), il quale si aggancia benissimo al precedente soggetto «i molti» e al suo verbo finito «siamo» (v. sa). Ma poi inizia una serie di nominativi (vv. 7b-8: «chi insegna [ ... ] chi esorta [ ... ] chi condivide [ ... ] chi presiede [... ] chi fa opere di misericordia »), che non reggono alcuna forma verbale (pur essendo sot­ tinteso un verbo di azione), quasi dovessero essere incesi essi stessi come altrettanti accusativi. 66. L'aggettivo « diverso, differente » (didforos), nel Nuovo Testamento si trova solo qui e in Ebr 1,4; 8,6; 9,10. Può essere interessante notare che in greco, insieme ali' i­ dea di distinzione, esso può anche comportare il senso di eccellenza, di vantaggio, di importanza. 67. Le sue 17 occorrenze neotestamentarie sono così distribuite: 6 in Rom, 7 in 1Cor, 1 in 2.Cor, 1 in 1Tim, 1 in 2.Tim e I in 1Pt.

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68. Cfr. Perrot, Apres jésus, cit., pp. 33-69; E. Nardoni, Ihe Concept of Charism in Paul, in uThe Catholic Biblica! Quarterly� 55, 1993, pp. 68-80; K. Berger, in DENT II, 1886-1889. 69. Cfr. Vanhoye, I carismi nel Nuovo Testamento, cit., pp. 157-65. 70. Alcuni tra gli studi maggiori in materia sono: G. Dautzenberg, Urchristliche Prophetie. lhre Erforschung, ihre Voraussetzungen im judentum und ihre Struk­ tur im ersten Korintherbrief, Kohlhammer, Stuttgart 1975; R. Penna (a cura di), Il profetismo da Gesu di Nazaret al montanismo, Atti del IV Convegno di studi neotestamentari (Perugia, 1 2.-14 settembre 1991), EDB, Bologna 1993; C. Forbes, Prophecy and lnspired Speech in Early Christianity and lts Hellenistic Environment (Wissenschafdiche Uncersuchungen zum Neuen Testamene, 2..75), Mohr Siebeck, Ttibingen 1995; D. E. Aune, La profezia nel primo cristianesimo e il mondo medi­ terraneo antico, Paideia, Brescia 1996. Cfr. anche C. M. Robeck jr., Profezia, in Hawthorne, Martin, Reid (a cura di), Dizionario di Paolo e delle sue lettere, cit., PP· 1 2.38-51. 71. È possibile che le comunità cristiane si distinguessero dal contemporaneo mainju­ daism, almeno sulla base del testo talmudico: «Quando Aggeo, Zaccaria e Malachia morirono, lo Spirito Santo cessò in Israele» (t.Sotah 13,2.-4); ma, data la tardività di que­ sto testo rabbinico, l'affermazione va presa con cauzione, come giustamente sostiene J. R. Levison, Did the Spirit Withdrawfrom lsrael? An Evaluation ofthe Early ]ewish Data, in uNew Testamene Studies� 43, 1997, pp. 35-57. 72.. La sua unica menzione contestuale si trova in Rom 12.,1 1 ( « Siate ferventi nello Spirito»), che però non è fatta in rapporto ai carismi. 73. Cfr. Aune, La profezia nelprimo cristianesimo e il mondo mediterraneo antico, cit., pp. 584-95. 74. Lo stesso costrutto paolino si trova in Platone, là dove Socrate, a proposito di alcuni interlocutori che gli sono stati presentati da un amico, dice a costui: «Benché tu abbia assegnato loro un uguale valore, essi differiscono l'uno dall'altro più di quanto avven­ ga secondo la proporzione [katà ten analogian] della vostra arte » (Politica 2.57b). Nel senso di rapporto aritmetico e armonico, ne parla Filone Alessandrino, Opif. rn7-110; cfr. anche Cher. rn5: «La geometria crea il senso di uguaglianza in base alla proporzione [ten kat 'analogian hisoteta] e corregge ciò che in noi è privo di ritmo e di misura » . 7 5 . Così già i n Lutero (nel commento a Rom 12.,6), Erasmo (nel commento a Rom 12.) e Calvino (Istituzione 1,11 8), oltre a vari commenti odierni (cfr. E. Kasemann, H. Schlier, U. Wilckens,J. A. Fitzmyer, E. Lohse). 76. Così già Origene (benché egli intenda la fede come condizione per accogliere/ meritare le grazie; cfr. commento a Rom 12.,6); inoltre nei commenti moderni di C. E. B. Cranfield 2.,62.1 ; ]. D. G. Dunn 2.,72.9; C. K. Barrett, p. 2.3 8; ]. Ziesler, p. 2.99; T. R. Schreiner, p. 656; S. Légasse, pp. 773-4. 77. La sua etimologia non è del tutto chiara. C 'è chi, separando la preposizione did, vi scorge un imparencamento sia con il verbo eg-konéo, «darsi da fare, affrettarsi », sia con il latino conor, « intraprendere, tentare, accingersi, impegnarsi» (cfr. P. Chan-

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traine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, Klincksieck, Paris 1999, s.v. ); altri, implicando anche la preposizione, pensa a una derivazione dal verbo dii5ki5, «perseguire, spingersi, correre » (cfr. R. C. Trench, Synonyms ojthe New Testament, Baker Book House, Grand Rapids 1989, p.47); in ogni caso, viene igno­ rato o escluso un collegamento con il sostantivo konis/konla, «polvere » (in quanto sollevata per la sollecitudine nell'espletamento di un compito ricevuto). 78. Infatti, in 1Cor 12.,5 Paolo parla di una «suddivisione di ministeri » , che vengono poi specificati nei versi seguenti in forme assai diversificate. D'altra parte, Giovan­ ni Crisostomo dice apertamente che Paolo pone qui «un caso generale [katholikòn pragma] poiché [ ... ] ogni buona opera spirituale [pan agathon pneumatikòn érgon] è una diakonla » (PG 60,602.-603). 79. Il termine didkonos verrà ancora dato da Paolo nella stessa lettera alle autorità politiche (non cristiane) in 13,4, poi a Cristo nei confronti dei Giudei in 15,8 e infine a una donna, Febe, in 16,1 per un suo particolare esercizio di "patronato" verso la chiesa di Cenere. Il nesso tra carisma e servizio è ben evidenziato da R. Brockhaus, Charisma und Amt. Die paulinische Charismenlehre aufdem Hintergrund der.fruhchristilichen Gemeindefunktionen, SCM R. Brockhaus, Wuppertal 1975'. So. Cfr. per esempio 1Cor 4,17: «V i mando Timoteo, [ ... ] che vi ricorderà le mie vie in Cristo, come dovunque insegno in ogni chiesa » (su cui cfr. G. Barbaglio, Laprima lettera ai Corinzi, EDB, Bologna 1995, p. 2.48). 81. È lo stesso verbo che si trova in Le 3,11 ( «Chi ha due tuniche ne metta a parte chi non ne ha »); Rom 1,11 ( «per comunicarvi qualche dono spirituale ») ; Ef 4,2.8 ( « ave­ re di che condividere con chi è nel bisogno» ) . Cfr. anche Euripide, Oreste 450: «Fa ' parte agli amici della tua prosperità [metddosflloisi ses eupraxlas] » . 82.. Per esempio, i n Sap 7,1 3 l o s i trova riferito alla sapienza ( «Senza frode l'ho impa­ rata e senza invidia la dono»); Filone Alessandrino lo applica sia a Dio (cfr. Opif. 44: in principio Dio « voleva rendere immortali i generi della natura facendoli partecipa­ re ali' immortalità » ) sia alla condivisione dell' identità giudaica (cfr. Virt. w8: se degli Egiziani vogliono adottare la polite/a dei Giudei, « bisogna comunicare loro le parole divine a cui possono essere iniziati » ) ; Erodoto parla di una condivisione dei diritti civici (cfr. 9,33,4); e Socrate, vedendo un giorno un amico triste, gli disse: «Sembra che tu abbia un peso da portare! È doveroso che gli amici condividano la tua angustia, e forse noi possiamo alleggerirti» ( in Senofonte, Memor. 2.,7,1 ). 83. L'originale ebraico, invece, legge letteralmente così: «Un'anima di benedizione verrà saziata e chi disseta sarà dissetato; chi accumula grano lo maledice la gente, e benedizione sul capo di chi lo vende [ub'rakah l:ro'J mafbir] » . 84. Questo invece sembra essere i l senso d i haplotis i n 2.Cor 8,2. a proposito delle chiese di Macedonia: «La loro estrema povertà si è tramutata nella ricchezza della loro generosità» (per la chiesa di Gerusalemme). 85. Ricordiamo che in greco l 'aggettivo haplous si oppone a diplous, «doppio» . 86. Una bella teorizzazione d i questo atteggiamento si può trovare i n Aristotele: « È più caratteristico della virtù fare il bene che non riceverlo, e compiere belle azioni più

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che non compierne di cattive [ ... ]. Ed è più facile non prendere che donare: si è meno disposti a cedere del proprio che non a prendere dell'altrui. E liberali [eleuthérioi] sono chiamati quelli che donano; quelli che non prendono ciò che non devono non sono lodati dal punto di vista della liberalità, bensì della giustizia [ ... ]. Gli uomini liberali sono amati quasi più di tutti quelli che sono amati per la virtù, perché sono benefici, e l 'essere benefici consiste nel donare [ ... ]. L'uomo liberale, dunque, donerà a chi si deve e nella quantità e nel momento in cui si deve [ ... ] e lo farà con piacere, o almeno senza pena» (Etica Nicom. IV,1,112.oa). 87. Cfr. Vanhoye, / carismi nel Nuovo Testamento, cit., pp. 157-65. 88. Cfr. in merito R. Penna, Chiese domestiche e culti privati pagani alle origini del cri­ stianesimo. Un confronto, in Id. Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazio­ ne e cultura nelNuovo Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo (Ml) 2.001, pp. 746-70. 89. Per il Nuovo Testamento cfr. Mc 6,2.5; Le 1,39; 2.Cor 7,11.12.; 8,7.8.16; Ebr 6,1 1. Il termine spoude si trova spesso nelle iscrizioni in onore di personaggi pubblici per lo­ darne le qualità "politiche"; cfr. per esempio Canali De Rossi (a cura di), Iscrizioni sto­ riche ellenistiche, cit., voi. m, nn. 1 35,4; 151,5; 166,2.6; 186,16; 191,4. Cfr. anche Demo­ scene, III Fil. 46: « La situazione attuale esige molto impegno e una buona decisione ». 90. I commentatori i n genere si attestano su questa interpretazione. In effetti, si pos­ sono addurre alcuni testi in suo appoggio, come Prov 19,17 ( «Fa un prestito a Dio chi ha compassione del povero [ho eleon ptochon] » ); Papiro Fayum 106,16 (ca. 140; un medico impoverito per la sottrazione dalla sua professione supplica il prefetto d' Egit­ to: «Abbi compassione di me [eleesaime] e ordina [ ... ] che io possa riprendermi dalle mie sofferenze »); Tob 1,3; 4,7 ( « fare elemosina [eleimosjni] » ); Le 10,37 (il buon samaritano è detto ho poiisas to éleos, « colui che ha avuto compassione »). 91. Il suo uso nella grecità, infatti, è applicato anche ad atteggiamenti di benevolen­ za d'animo, come si vede nei testi seguenti: Odissea 2.2.,312. (uno dei Proci supplica Ulisse: « Ti scongiuro, [ ... ] risparmiami, abbi pietà [eléeson] » ); Luciano, Lessijàne 16 («Ho avuto pietà [eléoun] della tua sfortuna, vedendo che sei caduto in un labirinto senza via d'uscita ») ; Sai 56/57,1 LXX ( «Abbi pietà di me, o Dio, abbi pietà di me [eléison me, ho theos, eléeson me] »); Os 2.,2.3 LXX ( «Avrò compassione di colei che non era stata amata [eleeso tin ouk eleeménin] » ; cfr. Rom 9.2.5) ; Mc 18,33 ( «Non do­ vevi anche tu avere compassione [eleésai] del tuo compagno, come io ho avuto pietà di te [sé eléesa?] » ); Filone Alessandrino, Deus imm. 76 (Dio «fa beneficiare della sua misericordia anche coloro che ne sono indegni, e non si accontenta di fare misericor­ dia [eleei] dopo aver giudicato, ma giudica avendo già fatto misericordia [eleisas] . La misericordia infatti presso di lui è più antica del giudizio » !). 92.. Tuttavia in un manoscritto di Qumran leggiamo: «L' Ispettore istruirà i Molti nelle opere di Dio e insegnerà le sue potenti meraviglie [ ... ]. Avrà pietà di essi come un padre dei suoi figli e farà tornare tutti i traviati come un pastore al suo gregge » (Documento di Damasco 13,7-9 ). 93. Cfr. H. W. Beyer, in GLNT m,765, con in più un'ampia documentazione. 94. Secondo Platone è la Nemesi, personificazione della giustizia punitiva, a es­ sere qualificata come « epfskopos di tutte le mancanze » concernenti le parole nei

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confronti dei genitori (Leggi 717d). In Filone Alessandrino è Mosè a essere de­ finito episkopos ( « guardiano-controllore » ) della memoria di Abramo (Quis rer. div. ber. 30), e anche « sorvegliante degli avvenimenti» (Ebr. 9 8 : episkopos ton pragmdton). 95. Cfr. il commento di G. Visonà, Didache. Insegnamento degli apostoli, Paoline, Milano 2.000, pp. 2.10-3: la mancanza dei presbiteri lascia intendere che si tratta di un'epoca in cui essi « sono ancora solo "gli anziani" della comunità [ ... ] e non è an­ cora avvenuto l ' incorporamento di questo istituto giudeo-cristiano nella struttura vescovi-diaconi che si sviluppa a contatto con l 'ambiente ellenistico» . 96. Sull' intera questione s i può vedere R. Penna, Lettera agli Efesini, EDB, Bologna 2.001, pp. 1 1-69. 97. Cfr. Vanhoye, I carismi nel Nuovo Testamento, cit., pp. 167-76. 98. Cfr. anche 1Pt 4,10: «Ciascuno viva secondo il dono della grazia [chdrisma] rice­ vuta, mettendola al servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia [chdris] di Dio » . 99. La frase «per riempire i l tutto» (v. 1 0 ; c fr. anche E f 1,2.2.-2.3) indica appunto la totalità, tanto cosmica quanto ecclesiologica, ormai connotata dalla presenza e dalla funzione di Gesù risorto, analogamente a ciò che lo stesso Gesù proclama nell'apocri­ fo Vangelo di Tommaso 77 ( con la sola precisazione circa la distinzio­ ne tra sacerdozio comune e sacerdozio ordinato o ministeriale (par. IO )'1 4 • E nel decreto sull'apostolato dei laici lo stesso Concilio ribadisce che « i laici derivano il dovere e il diritto all'apostolato dalla loro stessa unione con Cristo [ ...] consacrati per formare un sacerdozio regale onde offrire sa­ crifici spirituali mediante ogni attività » (Apostolicam actuositatem par. 3). L'ordinazione con l' imposizione delle mani Questa prassi (in greco cheirotonia) equivale a un atto di scelta gestuale, ed è attestata nel Nuovo Testamento in tre casi: a Gerusalemme con la scelta comunitaria dei sette servitori alle mense (At 7,5-6), nelle comunità anatoliche del primo viaggio missionario da parte di Paolo e Barnaba per la costituzione di presbiteri locali (cfr. At 14,23) 111, e nella scelta di un ano­ nimo compagno di Paolo presso le comunità della Macedonia (2Cor 8,19); in più, le due Lettere a Timoteo ricordano al destinatario l' imposizione delle mani ricevuta (cfr. 1Tim 4,14; 2Tim 1,6) con la raccomandazione di non imporle frettolosamente ad altri (cfr. 1Tim 5,22). La prassi proviene dal mondo ebraico'16, sia in epoca biblica (cfr. Dt 34,9 dove si parla di Mosè che impose le mani su Giosuè come suo

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successore alla presenza della comunità; Num 27,18-23) sia soprattutto nel rabbinismo con la denominazione di simkah che consiste nell'ordinazione di un rabbino con l'imposizione delle mani da parte di tre altri rabbini (cfr. la Mishnah, Sanh. 1,3). Verso il 215 apparve la prima descrizione dell'ordinazione dei Vesco­ vi, presbiteri e diaconi, nella Tradizione Apostolica attribuita al Vescovo di Roma Ippolito (ca. 170-235). V i si distinguono prescrizioni diverse a seconda dei tre gradi della gerarchia'1 7• Anzitutto il Vescovo deve essere ordinato in giorno di domenica me­ diante l'imposizione delle mani di un Vescovo alla presenza di altri Vesco­ vi e di tutto il collegio dei preti (,presbyterium), ma solo dopo essere stato scelto dal popolo: Con il consenso di tutti [i vescovi] gli impongano le mani e il collegio dei presbi­ teri vi assista in silenzio [ ... ]. Uno dei vescovi presenti, a richiesta di tutti, imponga le mani a colui che viene ordinato vescovo (can. 2).

La formula della preghiera era la seguente: Tu, o Padre, che conosci i cuori accorda al tuo servitore, da te eletto ali'episcopato, di pascere il tuo santo gregge e di compiere l'ufficio di sommo sacerdote verso di ce servendoti puramente giorno e notte. Che egli renda propizio il tuo volto e offra dono per la tua santa Chiesa; abbia potere di rimettere i peccati in virtù dello Spirito del sommo sacerdote [ ... ] sciolga ogni legame (can. 3).

Sarà poi il IV Concilio di Toledo del 633 (un sinodo locale presieduto da sant' Isidoro di Siviglia) che menzionerà l'anulum come distintivo del Ve­ scovo insieme al baculum pastorale. Anche il sacerdote-presbitero veniva ordinato con l'imposizione della mano episcopale e con il concorso dei suoi colleghi presbiteri: Quando si ordina un sacerdote, il vescovo imponga la mano sul capo, imitato dai sacerdoti, e dica parole simili a quelle sopra indicate (can. 7 ).

Tuttavia i presbiteri con tale gesto non contribuiscono a ordinare il prete «perché i preti hanno il potere di ricevere lo Spirito Santo, non di darlo». Con l'imposizione delle mani essi esprimono solo «la propria approva­ zione» e la volontà di accogliere il neo-ordinato nel gruppo dei presbiteri (can. 9)' 1s. Invece il diacono, che in modo particolare è legato al Vescovo, secondo

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la stessa fonte sarà ordinato con la sola imposizione delle mani del Vesco­ vo, senza che i presbiteri compiano alcuna azione: Noi comandiamo che nell'ordinazione del diacono il solo vescovo imponga le mani, perché egli non è ordinato al sacerdozio, ma al servizio del vescovo, per fare ciò che egli ordina [ ... ] e non è partecipe del consiglio nel clero (can. 8).

Anche le diaconesse, secondo il Concilio di Nicea del 325, «non aven­ do ricevuto alcuna imposizione delle mani, vanno computate tra i laici» (can. 19 ). Invece il successivo Concilio di Calcedonia del 451 stabilirà quanto segue: Non si ordini diacono una donna prima dei quarant 'anni, e non senza diligente esame. Se per caso, dopo aver ricevuto l' imposizione delle mani e avere esercitato per un certo tempo il ministero, osasse contrarre matrimonio, disprezzando con ciò la grazia di Dio, sia scomunicata insieme a colui che si è unito a lei (can. 15)'19•

Dunque è l'imposizione delle mani a operare una vera e propria ordinazio­ ne; ma non per questo essa era finalizzata a creare dei sacerdoti, così come in ambito giudaico essa creava rabbini ma non sacerdoti, i quali, come ab­ biamo visto, esistevano già da tempo come categoria a parte. Forse proprio il fatto che invece essi mancavano nel cristianesimo motivò l'idea di una loro vera e propria creazione. Sta di fatto che questo rito finì per segnare la distinzione tra l'ordine sacerdotale e il laicato. Non si può comunque dimostrare che nelle paoline Lettere pastorali ci sia, con questo gesto, l'intenzione di creare dei successori' 60• Il concetto di successione apostolica sarà esplicitato solo più tardi da lreneo161 • L'idea però è già accennata nella Lettera di Clemente ai Corinzi a proposito delle contese sorte a Corinto «per la dignità della sovrintendenza [episkope]. Per questo motivo, prevedendo perfettamente l'avvenire,[gli apostoli] istituirono i sacri ministri e poi diedero ordine che alla loro morte succedessero [diadéxontai] al loro ministero altri uomini sicuri» (44,1-2). Molto eloquente qui è l'uso del verbo diadéchomai che appunto significa «succedere, prendere il posto, sostituire» (cfr. Platone, Leggi 758b: «I magistrati succedano ai magistrati, i guardiani si sostituiscano ai guardiani, senza mai cessare di trasmettersi le consegne» ). Tuttavia nella Lettera di Clemente si sta parlando di «presbite­ ri» al plurale (cfr. 44,5) e «manca la premessa di base per una successione in senso stretto, cioè il monoepiscopato come struttura comunitaria. Sarebbe quindi anacronistico pretendere dal testo più di quanto possa dare» '6'.

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Il celibato Gesù di Nazaret, con ogni probabilità, rimase celibe come lo furono il profeta Geremia, Giovanni Battista e molti tra gli Esseni, per non dire di qualche filosofo greco come Pitagora, Epitteto e Apollonio di T ia­ na' 6l. Però la pratica del matrimonio tra i primi ministri delle comunità cristiane era usuale164. Già i Vangeli suppongono che Simon Pietro fosse sposato, essendo menzionata sua suocera (cfr. Mt 8,14; Mc 1,30; Le 4,38). Che questa sua condizione sia continuata anche dopo la Pasqua è attestato da Paolo, secondo cui erano coniugati «gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa», tanto che vorrebbe anche lui avere con sé una adeifèn gynaika, letteralmente «una sorella moglie» cioè una cristiana come spo­ sa (1Cor 9,5)161. L'argomento viene poi toccato da Tertulliano, che attesta due catego­ rie di sacerdoti, celibi e monogami, quando parla di un'eucaristia offerta per i defunti «tramite un sacerdote arrivato ali'ordinazione essendo spo­ sato una volta sola [de monogamia] oppure che è stato consacrato essen­ do celibe [de virginitate] e celebra circondato fra vedove mai risposate [univiris] » (De exhort. cast. 11,2.). Anche Clemente Alessandrino ricorda che l'Apostolo «approva pienamente l'uomo sposato a una sola donna, sia presbitero, sia diacono, sia laico, purché pratichi il suo matrimonio in modo irreprensibile» (Stromati 111,12.,90,1: con riferimento a 1T im 3,2..12.; T it 1,6). La norma del celibato fu emanata dall'iberico Concilio di Elvira (= Granada) nel 306: Il concilio ha stabilito senza eccezioni per gli episcopi, i presbiteri e i diaconi, ossia per tutti i membri del clero posti nel ministero, questa proibizione: che si asten­ gano dall'avere proprie mogli [abstinere se a coniugibus suis] e dal generare figli [et non generarejilios]. Chiunque farà ciò sia per sempre privato dell'onore della clericatura [Quicumque veroJecerit, ab honore clericatus exterminetur] (can. 3 3).

D'altronde, questa presa di posizione si inscriveva in una diffusa prassi di verginità e continenza sessuale, che probabilmente denotava anche l'esi­ stenza di posizioni encratite (già criticate in 1T im 4,1-5 come proprie di «spiriti ingannatori»)' 66• Accenniamo appena al fenomeno pur importante del monachesimo cristiano (tanto eremitico quanto cenobitico, maschile e femminile), impostosi tra il 111 e il IV secolo a partire soprattutto da Antonio abate

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(ca. 251-356) e Pacomio (287-346) in Egitto e propagatosi in Siria e Ana­ tolia con le sue successive propaggini europee, benedettine e altre. In esso confluirono sacerdoti e laici, che condussero un'esigente vita ascetica con implicita critica alla società del tempo, ma che furono anche provvidenzia­ li promotori di cultura (tramite il lavoro manuale e la benemerita trascri­ zione dei testi della letteratura antica)167• Il vestito Né Gesù né i suoi discepoli si distinguevano per un particolare vestiario come divisa16 8 ; così anche l'apostolo Paolo, che peraltro era un tessitore ma non per sé (At 1 8,3)16�. Anzi, nei primi secoli del cristianesimo l'abito degli ecclesiastici non si distingueva in nulla dal vestito dei laici. Ancora Papa Celestino I (422-432) nel 428 scrisse un'Epistola ai Vesco­ vi delle province Viennese e Narbonese, in cui così si esprimeva contro un certo rigorismo ascetico manifestato anche nel modo di vestire: Alcuni sacerdoti sono vestiti di pallio [= veste monastica] con la cintura ai fianchi [= simbolo di continenza] [ ... ]. Noi dobbiamo distinguerci dal popolo e da tutti gli altri per la dottrina non per la veste, per la condotta non per la foggia del vesti­ re, per la purezza della mente non per il modo esteriore del vivere [Discernendi a plebe ve! ceteris sumus doctrina non veste, conversatione non habitu, mentis purita­ te non cultu ]. Infatti se cominciamo a ricercare la novità, calpesteremo le norme

trasmesseci dai padri, e faremo spazio a superstizioni senza valore. Dunque non dobbiamo spingere le menti dei fedeli verso tali esteriorità. Infatti vanno educati, non illusi (par. 2.; PL 50,42.9-436).

Quando poi, a partire dal V secolo, cominciarono a diventare di moda per i laici gli abiti introdotti dai barbari (tuniche corte sui pantaloni), vari concili locali li proibirono agli ecclesiastici e prescrissero che questi por­ tassero sempre vestiti lunghi, chiusi, senza ornamenti superflui, di colore piuttosto scuro. Così infatti si esprime il Concilio di Aquisgrana (ted. Aa­ chen, fr. Aix-la-Chapelle) dell'81 6 : «Dimostrino nel vestire l'umiltà che portano nel cuore» (can. 1 24: Humilitatem, quam corde gestant [ ... ] habi­ tu demonstrent). Per trovare delle norme universali in materia bisogna aspettare il Con­ cilio Lateranense IV (1215: Costituz. xvi) e il Concilio di V ienne (1312), che vietarono ai chierici alcune forme e colori di abiti lussuosi. Il colore nero, importato dai benedettini, non divenne obbligatorio che nei seco-

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li XV-XVI. Sarà il Papa Sisto v con la bolla Cum sacrosanctam del 158 9 a ordinare che i chierici portassero la tonsura e l'abito talare nero sotto pena di perdere ogni privilegio ; esso sarà anche detto abito piano dal nome del Papa Pio IX ( 1 846-78) che lo rese obbligatorio in tutte le circostanze. Più recentemente, un comunicato della Conferenza episcopale italiana nell'a­ prile 1 9 66 permise di indossare il clergyman'70•

Note 1. Più avanti saranno presi in considerazione a parte una serie di altri vocaboli pre­ senti nelle lettere paoline e non solo, inerenti originariamente al linguaggio cultuale, che però vengono impiegati anch'essi in senso metaforico a proposito dei cristiani: latreia ( « servizio religioso» : Rom 1,9; 2.Tim 1,3), thysia ( «sacrificio» : Rom 12.,1), thysiastérion ( « altare » : Ebr 13,IO), hilastérion-hilasmos ( « strumento di perdo­ no/espiazione»: Rom 3,2.5; 1Gv 2.,2.; 4,IO), leitourgos [ ... ] hierourgon ( « servitore che adempie un sacro ministero»: Rom 15,15), leitourgia ( « funzione pubblica » : 2.Cor 9,12.), spéndomai ( « versare in libagione» : Fil 1,17 ), osmé ( «profumo» sacrifi­ cale: 2.Cor 2.,14.16; Ef 5,2.; Fil 4,8) e hierosjné (in Ebr 7,11.12..2.4). Sul tema in generale resta importante A. Vanhoye, Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote. Secondo il Nuovo Testamento, Elledici, Collegno (To) 1985. 2.. Cfr. anche P. Grelot, Regole e tradizioni del cristianesimo primitivo, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1998, pp. 132.-55 (Il ministero cristiano nella sua dimensione sacerdotale). 3. Sui problemi generali del testo, cfr. CAP. 3, n 102.. 4. Per la verità, archiereus in quanto equivalente al latino Pontifex maximus po­ trebbe alludere a una superiorità di Gesù Cristo rispetto ad altri sacerdoti di ran­ go inferiore, però nella Lettera agli Ebrei il plurale «sacerdoti» riguarda solo quelli ebrei (7,14.2.0.2.3; 9,6) con un loro proprio diverso Sommo Sacerdote (5,1; 7,2.7.2.8; 8,3; 9,7.2.5; 10,1 1; 13,11) senza palare mai di sacerdoti cristiani; quindi il titolo non allude al primato in una casta ma ha solo un valore accrescitivo personale. 5. Di quelli infatti si legge che «ciascuno è stato contro suo figlio e contro suo fratel­ lo» (Es 32.,2.9 ), mentre uno di loro, Finees, trafisse un israelita e la donna madianita con cui si era unito (Num 2.5,6-13). 6. Cfr. A. Vanhoye, L'.Épitre aux Hébreux. Un prétre dijférent, Gabalda, Paris 2.oIO, pp. 83-4. 7. Cfr. Id., La novità del sacerdozio di Cristo, in "La Civiltà Cattolica", 3541, 1, 1998, pp. 16-2.7; Id., Il sacerdozio di Cristo e il laicato nell'aepistola agli Ebrei, in V. Liberti (a cura di), I laici nelpopolo di Dio. Esegesi biblica, EDB, Roma 1990, pp. 1 2.5-50; Id., Gesù Cristo il mediatore nella lettera agli ebrei, Cittadella, Assisi 2.007. 8. Cfr. N. Casalini, Eb 7, 1-10: Melchisedek prototipo di Cristo, in "Liber Annuus� 34, 1984, pp. 149-90; M. Tomasovic, Melchisedek e il sacerdozio di Cristo. Saggio di teolo­ gia biblica, Messaggero, Padova 1993.

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9. Notiamo che nel complemento modale kata ten tdxin (Vg: secundum ordinem) il sostantivo tdxis non significa « ordine (gerarchico o di successione) » , né tantomeno l'ordine sacramentale, ma semplicemente « qualità, natura, condizione, maniera » (cfr. Ebr 7,15: «a somiglianza di Melkisedeq » ), specificato però in senso sacerdotale e quindi nel senso di « ordinamento, tipo, classificazione » . 10. Infatti «l'antitipo non può diventare troppo grande accanto a l tipo che è Gesù» (H. Braun, An die Hebrder, Mohr, Tubingen 1984, p. 137 ). 1 1. È vero che Sai 110 nel suo v. 1 è già utilizzato in Ebr l,3d e lo sarà ancora in 12.,2. (passando per 1,1 3; 8,1; 10,12.); ma là si tratta della figliazione divina e della sessione alla destra di Dio. Ciò che vale per il discorso su Gesù-Figlio, anteriore a quello su Gesù-sacerdote, si riflette già in qualche maniera nella successione stessa dei versetti di Sai 1 10, dove l'affermazione circa il sacerdozio nel v. 4 si fonda su quella precedente circa la sessione alla destra di Dio nel v. 1. 1 2.. Il nome in ebraico significa letteralmente «Mio re è Sedeq = Giustizia» oppu­ re semplicemente «Re di giustizia » ; ma Ebr 7,2., oltre a questa traduzione, suppone anche un originario shalom invece di salem e lo intende anche come « re di pace » (così pure Filone Alessandrino, Leg. alleg. 3,79 ). Sull'insieme cfr. C. Gianotto, Mel­ chisedek e la sua tipologia. Tradizioni giudaiche, cristiane e gnostiche (sec. li a.C. -sec. III d.C.}, Paideia, Brescia 1984; C. Marcheselli-Casale, Lettera agli Ebrei, Paoline, Mila­ no 2.005, pp. 316-2.3. 13. Questa è la posizione propria di F. Manzi, Melchisedek e l'angelologia nell'epistola agli Ebrei e a Qy,mran, Pontificio istituto biblico, Roma 1997, che si oppone a tutti coloro che invece qui ritengono l'ebraico malklsedeq come nome proprio del perso­ naggio biblico (cfr. ivi, pp. 64-94); la sua argomentazione è fondata, sia sull'accerta­ mento di un impiego dell'onomastica ebraica per designare Dio stesso, sia sul fatto che all'interno del manoscritto il soggetto dell'intervento escatologico non si colloca mai tra Dio e gli uomini ma si identifica con Dio stesso ( « messaggero» è sempre un altro: 2.,18-19), sia sul fatto che le funzioni giudiziarie e militari del protagonista sono proprie di Dio in quanto il suo dominio riguarda la totalità degli uomini e degli an­ geli. Tuttavia in 2.,13 sembrerebbe imporsi una distinzione: «Ma il re digiustizia farà vendetta con i giudizi di Dio» (cfr. 2.,2.3). 14. Cfr. Gianotto, Melchisedek e la sua tipologia, cit., pp. 2.38-5 1 ; Manzi, Melchisedek e l'angelologia nell'epistola agli Ebrei e a Qumran, cit., pp. 83-6. 15. II riferimento è certamente alla futura generazione successiva al diluvio e forse anche a « una qualche setta di tipo sadocita e in definitiva essenica» (P. Sacchi, a cura di, Apocrifi dell'Antico Testamento, UTET, Torino 1989, voi. II, p. 591). 16. Nella tradizione cristiana posteriore egli verrà poi inteso come prefigurazione del sacerdote cristiano, in particolare nella celebrazione dell'eucaristia a motivo della sua offerta di pane e di vino (così a partire da Clemente Alessandrino, Stromati IV,1 61,3). 17. Cfr. H.-J. Kraus, Psalmen, Neukirchener, Neukirchen-V luyn 1961', voi. II, pp. 752.-64; G. Ravasi, Il libro dei Salmi, EDB, Bologna 1993 6, voi. lii, pp. 2.84-91. 18. La verosimiglianza di questo dato diventa ancor più forte in base allo studio di R. Gelio, L'ingresso di Davide in Gerusalemme capitale. Studio letterario, storico e teo-

2.10

UN SOLO CORPO

logico su II Sam 5,lf-S; lf,I-23, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1997, secondo cui la

conquista di Gerusalemme da parte di Davide avvenne mediante l'alleanza di Ebrei e Gebusei contro gli occupanti Filistei: l'alleanza dei primi due gruppi etnici non pote­ va non confluire nell'accettazione da parte ebraica di vari elementi della cultura e del­ la religione cananea, che erano molto superiori a quelle dei nuovi padroni della città. 19. In più va notato che i due aggettivi akatdlytos e apardbatos ricorrono solo qui in tutta la Bibbia greca (Nuovo Testamento e Settanta). Sulla figura del Logos, cfr. pure il bel testo di Filone Alessandrino, Fug. rn8: «Il sommo sacerdote non è un uomo, ma è il Logos divino che non partecipa di nessuna trasgressione, tanto volontaria che involontaria [ ... ]. Suo padre è Dio, che è anche padre dell'universo, e sua madre la Sapienza, per il cui tramite l'universo è stato generato». 2.0. Su questa linea si può leggere quanto scriverà Ignazio di Antiochia: «Non in­ gannatevi con opinioni estranee né con vecchi mitemi, che sono inutili; se infatti continuiamo a vivere secondo la legge del giudaismo, confessiamo di non aver attinto la grazia » (AdMagn. 8,1). 2.1. Filone Alessandrino critica l'attribuzione del giuramento a Dio come antropo­ morfismo indegno di lui, poiché «Dio è degno di fede quando non fa altro che par­ lare, cosicché le sue semplici parole, a motivo della loro sicurezza, non differiscono in nulla dai giuramenti » (Sacr. 93; cfr. 9 1-96); altrove però egli accetta che Dio giuri per sé stesso adducendo sé medesimo come garante e testimone di ciò che promette (cfr. Leg. alleg. 3,2.03-2.07 ). 2.2.. Sulla prassi dei sacrifici israelitici, cfr. R. de Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testa­ mento, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1964, pp. 404 ss.; G. A. Anderson, Sacrifìce and Sacrificial Ojferings (or), in ABD 5, pp. 870-86. Per una discussione sulla linea del!'antropologia culturale, cfr. J. Dunnill, Covenant and Sacrifìce in the Letter to the Hebrews, "Society for New Testament Studies Monograph Series" 75, Cambridge University Press, Cambridge 1992.. Inoltre cfr. A. Vanhoye, Ilsangue di Cristo nell'epi­ stola agli Ebrei, in F. Vattioni (a cura di), Sangue e antropologia biblica, Pia Unione Preziosissimo Sangue, Roma 1981, voi. II, pp. 819-2.9. 2.3. Filone Alessandrino, Spec. leg. 1,2.05, commenta ottimamente dicendo che «pro­ priamente parlando, il sangue (effuso) è una libagione della vita ». Per le analogie con l'antico Vicino Oriente, cfr. R. Gelio, Ilsangue nei rituali. Analogie e individualità tra mondo biblico e anatolico-mesopotamico, in Vattioni (a cura di), Sangue e antropologia biblica, cit., voi. II, pp. 42.5-51. 2.4. Infatti in Lev 5,11-13 è prevista per il povero l'offerta di una quantità di farina, che il sacerdote brucerà come rito espiatorio. Altre volte si richiede una lustrazione d'ac­ qua, ma solo per le impurità rituali, non per il peccato (cfr. Lev 15,10.13; 1 6,2.6.2.8 ecc.). 2.5. Così nel Talmud babilonese: «Non c'è nessuna espiazione, se non attraverso il sangue » (Yom. sa); «Appena il sangue raggiunge l'altare, ne consegue il perdono» (Zeb. 6a). Cfr. H. L. Scrack, P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Tal­ mud und Midrasch, Beck, Miinchen 1954, voi. III, p. 742.. In effetti, « il sangue non agisce su Dio, ma sull'uomo, toglie da lui l'impurità, il peccato» (G. Deiana, Dai sa­ crifici dell'Antico Testamento al sacrificio di Cristo, Urbaniana University Press, Roma 2.002., p. 67 ).

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2.6. Del resto, va notato non solo che la Lettera agli Ebrei è lo scritto del Nuovo Testamento che impiega di più il vocabolo haima, «sangue» (ben 2.1 volte contro le II volte di Matteo e le 12. volte dell'intero epistolario paolino), ma soprattutto che lo fa quasi sempre in rapporto al sangue di Cristo, sia direttamente (cfr. 9,12..1 4.2.0; 10,19.2.9; 1 1,2.8; 12.,2.4; 1 3,12..2.0) sia indirettamente (quando si parla dei sacrifici anti­ chi); solo in due casi non ha valenza cristologica (cfr. 2.,14; 12.,4). 2.7. Altra cosa è il tema dell'alleanza, che si arricchisce con la citazione di Ger 3 1,31-34 (cfr. Ebr 8,7-13); cfr. infra. 2.8. La celebrazione dello J-om Kippur (attestata, con alcune varianti, in varie fonti: Lev 16; 2.3,2.6-32.; Num 2.9,7-1 1 ; 1 1 QT 2.5,10-2.7,10; Filone Alessandrino, Spec. leg. 1,188; Flavio Giuseppe, Ant. 3,2.40-2.43; Giustino, Dia!. 40,4; Mishnah, Yoma) richiedeva anzitutto l'osservanza di un rigoroso digiuno (cfr. Lev 2.3,2.9: «Chi non digiuna in questo giorno sarà estirpato dal suo popolo» ) ; inoltre sul piano rituale comportava: ,. alcuni olocausti (cfr. Num 2.9,8); 2.. l' immolazione di un vitello per i peccati del Sommo Sacerdote; 3. l' immolazione di un capro per i peccati del popolo ( « toccato in sorte al Signore »), di cui il Sommo Sacerdote portava il sangue nel Santo dei Santi (TM: debir o qodes haqqadafym; i Settanta traslitterano semplicemente il primo [cfr. ,Re 6,16] e rendono il secondo con "il santo dei santi" [cfr. Es 2.6,33]) per aspergere il coperchio dell'arca dell'alleanza o Espiatorio (TM: kapporet; LXX: hilasterion; esso però dopo l'esilio consisteva solo più in un semplice rialzo di tre dita dal pavimento: m.Yom. 5,2.; secondo Flavio Giuseppe, Guerra 5,2.19, addirittura nel Santo dei Santi « non c'era assolutamente nulla » ; e Tacito conferma quando, a proposito di Pompeo che vi entrò per curiosità nel 63 a.C., riferisce che il romano vi trovò « vacuam sedem et inania arcana» [Hist. 5,9] ); 4. il rinvio nel deserto di un altro capro caricato dei peccati di tutti gli israeliti ( « toccato in sorte ad Azazel » : ma questo termine è inter­ pretato come nome comune sia dai Settanta [apopompaios] sia dalla Vg [emissarius]). Sull'insieme, cfr. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, cit., pp. 486-9; e so­ prattutto G. Deiana, Ilgiorno dell'espiazione. Il kippur nella tradizione biblica, EDB, Bologna 1994, che tra l'altro data la redazione di Lev 16 nel III secolo a.C. 2.9. Infatti Filone Alessandrino chiama la festa solo tre volte con il nome di hilasmos, «espiazione » (cfr. Congr. 89.w7; Plant. 6 1 ; ma qui il termine non è direttamente collegato con il rito del sangue), mentre il più delle volte la designa come hi nisteia, «il digiuno» (cfr. Decal. 159; Spec. leg. 1,168.186; 2.,41.193.194.197.2.oo; Vit. Mos. 2.,2.3; Legatio ad Caium 306), e addirittura alcune volte connette il concetto di espiazione a quello di digiuno (cfr. Poster. 48; Leg. alleg. 3,174). Anche nel Nuovo Testamento essa viene denominata così in At 2.7,9. Sull'insieme, cfr. Deiana, Il giorno dell'espiazione, cit., pp. 141-5. 30. La stessa cosa va detta a proposito del fatto che la Lettera agli Ebrei non fa alcuna menzione del cosiddetto «capro emissario » , non essendo collegato con il sangue. Sull' insieme, cfr. anche N. Casalini, Dal simbolo alla realta. L 'espiazione dall'Anti­ ca alla Nuova Alleanza secondo Eb 9,I-I4, Franciscan Printing Press, Gerusalemme 1989. 31. Il presupposto è che nel «sacrificio per il peccato» l'animale offerto dev 'essere «senza difetto» (cfr. Lev 4,3.14).

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32.. Un'improbabile interpretazione trinitaria è suggerita da J. J. McGrath, Through the Eternai Spirit: An Historical Study ofthe Exegesis ofHebrews 9:13-14, Pontificia Università Gregoriana, Rome 1961. Da parte sua, invece, A. Vanhoye, Esprit éternel etfau du sacrifice en He 9,14, in "Biblica", 64, 1983, pp. 2.63-74, vi vede una connessio­ ne con il fuoco perenne dell'altare dei sacrifici, che consuma le vittime offerte (cfr. Lev 6,5-6; Esd 6,2.3). 33. Cfr. anche 1Sam 15,2.2.; Sai 49,13-15; 50,18-19; Is 1,1 1 ; Ger 6,2.0; 7,2.2.; Os 6,6; Am 5,2.2..2.5. 34. In più, la Lettera agli Ebrei omette il v. 9b del Salmo ( «Mio Dio, questo io de­ sidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore »), dove si suggerisce che ciò che l'uomo deve fare per piacere a Dio è racchiuso nel rotolo della Torah. Infatti la let­ tera ha un concetto di Legge come realtà imperfetta, se non negativa (cfr. 10,1.8.9), poiché essa è del tutto incapace di realizzare una mediazione efficace tra Dio e il suo popolo (cfr. A. Vanhoye, L'ombre et l'image. Discussions sur He 10,1, in P. Bovati, R. Meynet, éds., "Ouvrir /es Ecritures". Mélanges ojferts à Paul Beauchamp à l'occasion de ses soixante-dix ans, Éditions du Cerf, Paris 1995, pp. 2.67-82.; e soprattutto Id., La Loi dans l'Épitre aux Hébreux, in C. Focant, éd., La Loi dans l'un et l'autre Testament, Éditions du Cerf. Paris 1997, pp. 2.71-98). 35. «L' intera vita di Gesù, cominciando dal suo ingresso nel mondo (10,5) fino alla sua esaltazione (10,12.), è un cammino diritto verso il Santo dei Santi» (F.-J. Schierse, Verheissung und Heilsvollendung. Zur theologischen Grundfrage des Hebraerbriefes, Zink, Miinchen 1955, p. 57; trad. mia). 36. Cfr. M. Recalcati, Contro il sacrificio. Al di là delfantasma sacrificale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2.017, pp. 140-4. Una critica a René Girard e al suo concetto di sacrificio come ripetizione di una "vittima sostitutiva" viene mossa da Vanhoye, Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote, cit., pp. 183-4, n 55. 37. Per la crocifissione comepatibulum extraportam, cfr. Plauto, Mi/esgloriosus 359-360. 38. Si noti che quello era anche lo spazio destinato alla pubblica lapidazione dei be­ stemmiatori (cfr. Lev 2.4,14), dei violatori del sabato (cfr. Num 15,36) e degli adulteri (cfr. Dt 2.2.,2.4). 39. Il riferimento ai sacrifici compiuti «ogni giorno» (Ebr 7,2.7; 10,11) non può che essere al sacrificio del tamid ( = «perpetuo » ) , compiuto due volte al giorno (cfr. Es 2.9,38-42.; 30,7-8; Num 2.8,2.-8). Esso però è un olocausto (di due agnelli, uno al mattino e uno al crepuscolo), unito a un'offerta di farina impastata con olio, a una libagione di vino e a un 'offerta d'incenso sull'altare dei profumi; quindi, non essendo un sacrificio basato sul sangue, non ha valore espiatorio ma solo di ringraziamento e di lode. In più, esso non è compiuto dal Sommo Sacerdote (se­ condo m. Yom. 1,2. egli compie il sacrificio quotidiano per i sette giorni precedenti il Kippùr e ogni volta che lo vuole) e comunque non per i peccati propri del sacerdote offerente. Tuttavia, poiché anche Filone Alessandrino parla di sacrifici quotidiani del Sommo Sacerdote (cfr. Spec. leg. 3,131) e ritiene che l'offerta della farina nel

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Tamid fosse per gli stessi sacerdoti offerenti (cfr. Quis rer. div. her. 174), è possibile che anche il nostro autore « non fosse del tutto familiare con il rituale del Tempio, ma basasse la sua comprensione delle cose su una sua interpretazione dei sacri testi filtrati da una tradizione esegetica » (H. W. Attridge, The Epistle to the Hebrews: A Commentary to the Epistle to the Hebrews, Fortress Press, Philadelphia, PA, 19 89, p. 2.14; trad. mia). 40. Ciò che si legge in 10,2.0, dove si parla del « sangue di Gesù, che inaugurò per noi una strada nuova e viva attraverso il velo, che è la sua carne» sembra identifi­ care simbolicamente il velo del Tempio con la carne di Gesù. Poiché le precedenti due menzioni del velo hanno un significato letterale (cfr. 9,3), sia pure traslato (cfr. 6,19), risulta sorprendente questa identificazione: la spiegazione migliore sarà quella di pensare che secondo la Lettera agli Ebrei l'ingresso al cospetto di Dio non avvenne attraverso un passaggio cultuale ma attraverso la sua concreta offerta di sé mediante il sacrificio del suo corpo (cfr. Attridge, The Epistle to the Hebrews, cit., pp. 2.85-7 ). La metafora quindi non va presa troppo letteralmente. 41. Secondo A. Vanhoye, La structure littéraire de l'Épitre aux Hébreux, Desclée de Brouwer, Paris 1963, p. 1 37, questi versi (e in particolare il nome iniziale « Cristo» ) stanno addirittura al centro anche materiale d i tutta l a lettera; cfr. Id., Sanctuaire ter­ restre, sanctuaire céleste dans l'épitre aux Hébreux, in C. Focant (éd.), Quelle maison pour Dieu?, Éditions du Cerf, Paris 2.003, pp. 361-94. 42.. Questa interpretazione può assumere varie sfumature: 1. il corpo terreno di Gesù (così A. Cody, Heavenly Sanctuary and Liturgy in the Epistle to the Hebrews: The Achievement of Salvation in the Epistle's Perspectives, Grail Publications, Saint Meinrad, IN, 1960, pp. 156-65); 2.. il corpo glorificato di Gesù (così A. Vanhoye, "Par la tende plus grande et plus parfaite..." {Hebr 9,11), in "Biblica", 46, 1965, pp. 1-2.8; Id., Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote, cit., pp. 150-4); 3. il corpo eucaristico di Gesù (così J. Swetnam, "The Greater and More Peiftct Tent": A Contribution to the Discussion of Hebrews 9,11, in "Biblica� 47, 1966, pp. 91-106; va detto che questa ermeneutica, per quanto mi risulta, non è stata seguita dai commentatori). 43. È vero che in Ebr 9 l'espressione «la prima tenda» ha un doppio significato: mentre in 9,6 si allude alla prima parte del Tempio ( = il Santo, in rapporto alla « se­ conda Tenda » di 9,7 che è il Santo dei Santi), invece in 9,8 si fa riferimento all'insie­ me del Tempio terreno come simbolo di quello celeste (cfr. 9,9). Cfr. anche P. Andri­ essen, Das grossere und vollkommenere Zeit (Hebr 9,11), in "Biblische Zeitschrifi:", 15, 1971, PP· 76-92.. 44. Sullo sfondo c'è l'idea platonica del modello eterno (parddeigma) con cui il som­ mo Artefice costruì l'universo: «È assoluta necessità che questo mondo sia immagine di qualche cosa » ( Tim. 2.8c-2.9b). Si comprende perciò il commento di Filone Ales­ sandrino al testo dell'Esodo citato in Ebr 8,5: «Mosè [ ... ] ebbe una visione spirituale delle idee immateriali corrispondenti agli oggetti materiali da realizzare, e secondo le quali bisognava riprodurre le imitazioni sensibili a partire dall'archetipo originale e

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dai modelli concettuali [ ... ]. Così la forma del modello fu impressa come un sigillo nello spirito del profeta [ ... ]. La realizzazione fu compiuta in conformità con questa forma» ( Vit. Mos. 2.,74.76). 45. Naturalmente ciò implica una radicale critica alla Legge mosaica, distinta dalla critica fatta da Paolo: l'Apostolo critica la Legge perché incapace di rendere giusto un peccatore, mentre il nostro autore la critica perché incapace di stabilire un valido mediatore tra il po­ polo e Dio. Cfr. Vanhoye, L'Épitre aux Hébreux, cit., pp. 162.-5, in particolare p. 163 (trad. mia): «L'autore estende la sua critica alla Legge affermando che essa "non ha reso nulla perfetto� È una constatazione molto negativa, ma san Paolo è ancora più negativo quando afferma che "la Legge è intervenuta per moltiplicare il peccato" (Rom 5,2.0) ». Cfi-. anche l'ebreo G. G. Stroumsa, Lafine delsacrificio. Le mutazioni religiose della tarda antichita, Ei­ naudi, Torino 2.006, che però, riconoscendo solo al giudaismo la fine dei sacrifici (in realtà avvenuta casualmente con la distruzione del Tempio nel 70 ), misconosce il fatto cristiano secondo cui invece la fine dei sacrifici è avvenuta « una volta per sempre » con l'offerta di sé fatta da Gesù (Ebr 9,2.6), di cui però l'eucaristia non è una reduplicazione ma solo un me­ moriale. Quanto ai sacrifici pagani, la loro fine è dovuta a un decreto del!' imperatore Co­ stanzo II (337-361), ripreso nel Codex 'Jheodosianus del 438: Cesset superstitio, sacri.ficiornm aboleatur insania («Cessi la superstizione e si abolisca la demenza dei sacrifici» ) ( 16,IO). 46. Cfr. R. le Déaut, Aspects de l'intercession dans lejudaisme ancien, in "Journal for the Study ofJudaism", 1, 1970, pp. 35-57. 47. Cfr. 2.Mac 7,37-38; 4Mac 6,2.8-2.9. Di essi si può anche dire che « stanno ora ac­ canto al trono di Dio e vivono la beata eternità» (4Mac 17,18), ma non che interce­ dono per gli uomini (cfr. anche Ap 7,15; Test.Job. 33,3). 48. Si tratta di Mosè in Test. Mos. 1 1,17; 12.,6; di Enoch in zEn. 64,5. Invece Abra­ mo, Isacco e Giacobbe, in Apoc. Sof. 1 1,1-4, intercedono per coloro che sono già nei tormenti (cfr. anche Test. Abr. 14,5-8). Da parte sua il Figlio dell' Uomo sarà, sì, un « bastone di appoggio» ma solo «dei santi e dei giusti » (1En. 48,4). 49. Così Enoch (cfr. zEn. 2.4,1: « Il Signore mi chiamò e mi mise alla sua sinistra più vicino di Gabriele e io adorai il Signore » ) ; Mosè (cfr. Ezechiele il Tragico, Exagogé 68-89 in Eusebio, Praep. ev. 9,2.9,4, dove Mosè stesso racconta di aver visto in sogno Dio in trono: «Con la destra mi fece un cenno e io mi fermai davanti al trono. Mi consegnò lo scettro e sul trono grande disse di sedere. Mi diede anche il regale diade­ ma [ ... ] e io rimirai tutta la terra rotonda [ ... ]. Poi, spaventato, mi desto dal sonno », trad. L. Troiani; e alcuni midrashim tardivi); Davide (cfr. b.Chag. 14a). 50. Cfr. Dan 1 2.,1; Test. Lev. 5,6; Test. Dan. 6,2.. In 1En. 40,9 egli è detto « misericor­ dioso», ma in 68,4 si dice che « non ebbe successo» (presso Dio). In 4Q491 fr. 1 1 si legge un supposto "Canto di Michele", in cui egli dice di «essere annoverato tra gli es­ seri divini» (r. 14), ma non si parla di un' intercessione. Più sopra abbiamo ricordato anche Elia e il Logos filoniano; ma il primo è presente solo in testi rabbinici posteriori e il secondo non è identificato con nessun personaggio storico. 51. Sull' idea del trono nell'antichità, cfr. M. Philonenko (éd.), Le Trone de Dieu (Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testamene, 69 ), Mohr Siebeck, Tùbingen 1993.

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52.. Esso, come vedremo, è presente invece esplicitamente in 1Pt 2.,9; Ap 1,6; 5,10. Ma il tema non si può non intravedere implicitamente presente anche in quei testi dove si parla dellaprosagoghé o libero accesso dei battezzati a Dio (cfr. Rom 5,2.; Ef 2.,18-19; 3,12.). 53. Cfr. Vanhoye, Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote, cit., pp. 172.-3. Generalmente questa particolare prospettiva non viene colta dai commentatori. 54. Cfr. invece Filone Alessandrino: «Preghiamo Dio, noi che siamo accusati dalla coscienza dei nostri peccati, perché ci punisca piuttosto di lasciarci liberi. Infatti, se ci lascia liberi farà di noi degli schiavi, non più della sua misericordia bensì della crea­ zione che è senza misericordia; ma se ci castiga, riparerà le nostre mancanze con dol­ cezza e indulgenza, inviando nel nostro spirito il suo stesso Logos come contestatore e correttore, mediante il quale lo guarirà facendolo arrossire e biasimandolo per gli errori commessi» (Det. pot. ins. 146). Peraltro è curioso notare come lo stesso Filone ritenga che la semplice esposizione delle prescrizioni religiose sul settimo giorno, sul settimo anno e sul cinquantesimo anno «è sufficiente a rendere perfetti nella virtù i meglio dotati e a rendere più docili i caratteri ribelli e duri» (Spec. leg. 2.,39 ). Cfr. anche G. S. Selby, 'Jhe Meaning and Function oj "Syneidesis" in Hebrews 9 and 10, in "Restoration Quarterly� 2.8, 1 985-86, pp. 1 45-54. 55. Così opportunamente Casalini, Dal simbolo alla realtà, cit., p. 131. 56. In Sofocle, Antig. 456-457, lo schema è rivolto verso il passato (si tratta delle « leg­ gi non scritte, divine, che né da oggi né da ieri, ma da sempre sono in vita » ) . Platone invece, riflettendo sul tempo, scrive: «L'era e il sarà sono forme generate del tempo, che noi inconsapevolmente riferiamo a torto all'essere eterno. Infatti noi diciamo che esso era ed è e sarà, e tuttavia solo lo e gli conviene veramente, mentre l 'era e il sarà si devono dire solo di ciò che è generato nel tempo» ( Tim. 37e-38a). In un'epigrafe a Eleusi di età augustea, dedicata adAion, si legge che egli «è ed era e sarà» (Dittenber­ ger, Syll. 3,1 12.5). Plutarco attesta un'iscrizione sulla statua di Iside in Egitto: « lo sono tutto ciò che è stato e ciò che è e ciò che sarà» (De Is. et Osir. 9 (354c]). Infine in Pausania si legge di un inno a Zeus cantato nel santuario di Dodona: «Zeus era, Zeus è, Zeus sarà » (10,1 2.,5). 5 7. Cfr. già Flavio Giuseppe: « Dio è l' inizio e il mezzo e la fine di tutte le cose » ( Con­ tro Ap. 2.,190). Interessante è poi l'interpretazione rabbinica di Es 3,14 ( « lo sono colui che sono»), che viene variamente letto così: «Colui che parlò e il mondo fu, fin dal!' i­ nizio, e colui che deve dirgli "Sii" ed esso sarà » ( Tg. N.); «lo sono colui che è e che sarà » (Tg.j. r); «lo sono colui che sono stato e sono lo stesso ora e nel futuro» (Ex. R. ). A proposito di Es 15,3 laMek. Ex. integra così: « Il Signore [ ... ] è lui che era in Egit­ to e che era al mare [rosso]. E lui che era nel passato e che sarà nel futuro. È lui che è in questo mondo e che sarà nel mondo a venire, come è detto: "Ora vedete che io, io sono quello" (Dt 32.,39); e dice anche: "lo, il Signore, sono il primo e con gli ultimi sono lo stesso" (Is 41,4) » . Il Tg.J. I a Dt 32.,39 dice: « Quando il Memrà [= la Parola] del Signore sarà rivelato per redimere il suo popolo, dirà a tutte le nazioni: Ora vedete che io sono colui che è e che era e io sono colui che sarà, e non c'è altro Dio fuori di me » . Infine citiamo u n bel testo d i Gen. R . 81: «Che cos'è l a verità ( 'mt) ? Disse R . Laqish:

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"(aleph) è la prima delle lettere, m (mem) è la mediana, t (tau) l'ultima. Perché: "lo sono il primo e io sono l'ultimo; e all'infuori di me non esiste Dio" (Is 44,6) » . 58. È come «pensare cristianamente la storia attraverso l a metafora della spirale: ogni evento salvifico comprende il passato e lo supera aprendo al futuro» (G. Lori­ zio, Rivelazione cristiana. Modernita. Post-modernita, San Paolo, Cinisello Balsamo, MI, 1999, p. 46). 59. «Causa di salvezza completa » è detto il serpente di bronzo di Num 2.1,8 da Filo­ ne Alessandrino, Agric. 96; altrove lo stesso Filone dice dell'uomo virtuoso che « non sarà mai causa di male, ma piuttosto dell'acquisizione e del godimento del bene per tutti coloro che gli si sottomettono» (Abr. 2.61). 60. Cfr. P. Andriessen, Renonfant a lajoie qui lui revenait, in "Nouvelle Revue Théo­ logique", 107, 1975, pp. 42.4-38. Una traduzione alternativa è proposta da P.-E. Bon­ nard, La traduction de Hébreux 12,2: "C 'est en vue de lajoie que]ésus endura la croix", in "Nouvelle Revue Théologique� 97, 1975, pp. 415-2.3. 61. Cfr. particolarmente D. Hamm, Faith in the Epistle to the Hebrews: Ihe ]e­ sus Factor, in "Tue Catholic Biblica! Quarterly", 52., 1990, pp. 2.70-91. Da parte sua, H.-F. Weiss, Der Briefan die Hebraer, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1991, p. 632., pone questo linguaggio sullo sfondo della tradizione martirologica giudaica e fa riferimento in particolare a 4Mac 17,7.10.12.. 17. 62.. La questione dei debiti della Lettera agli Ebrei nei confronti di una tradizione cri­ stologica precedente è ben trattata da Weiss, Der Briefan die Hebraer, cit., pp. 78-95 e 2.2.8-37; cfr. anche Marcheselli-Casale, Lettera agli Ebrei, cit., pp. 54-61. 63. Cfr. H. Schiirmann (Hrsg.),]esus - Gestalt und Geheimnis. Gesammelte Beitrage, Bonifatius, Paderborn 1994, pp. 2.86-306. 64. Lasciamo da parte 1Cor 5,7 ( «Cristo nostra pasqua è stato immolato [etjthe] » ) dove Cristo è paragonato all'agnello pasquale nel contesto d i un' istruzione sui cri­ stiani come pani azzimi, cioè esenti da contaminazioni di peccato; del resto, I' immo­ lazione del!'agnello pasquale non aveva nessuna valenza sacrificale-espiatoria. 65. Oltre a R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristo­ logia neotestamentaria, voi. 11: Gli sviluppi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2.011, pp. 146-9, cfr. G. Pulcinelli, La morte di Gesù come espiazione. La concezione paolina, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2.007, pp. 334-67. 66. Cfr. R. Penna, L'assenza della "purificazione" nel vocabolario soteriologico di Paolo, in P. Merlo, A. Passaro (a cura di), Testi e contesti. Studi in onore di Innocenzo Cardel­ lini nel suo 70° compleanno, EDB, Bologna 2.016, pp. 139-49. 67. L'Apostolo non impiega mai il sostantivo; quanto al verbo, esso ha un mero signifi­ cato profano (cfr. Rom 1,2.7; 1Cor 7,11.12..13), con l'unica eccezione di Rom 4,7 ( «Beati coloro, di cui sono condonate le iniquità »), che però rappresenta una citazione di Sai 32.,1 LXX e viene commentato solo con il lessico della fede e della giustificazione. 68. Cfr. più ampi sviluppi in R. Penna, ''Remissione dei peccati": impiego e semantica di un costrutto neotestamentario, in Id., Parolafede e vita. Stimoli dal Nuovo Testamen­ to, Boria, Roma 2.013, pp. 135-47.

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69. La sinonimia tra i due termini si può vedere per esempio in Sir 2.3,2. ( « non siano risparmiati i miei errori e i loro peccati non siano condonati » ), dove si dà un paralle­ lismo sinonimico dei rispettivi verbi aflémi e parlémi (propriamente «passare sopra, sorvolare, non imputare » , ma anche « rimettere» debiti o obbligazioni, come testi­ moniano alcuni papiri). Cfr. S. Lyonnet, Le sens propre de pdresis en Rom 3,25, in Id., Études sur l'épitre aux Romains, Pontificio istituto biblico, Rome 1989, pp. 89-106; R. Penna, Ilsignificato dipdresis in Rom. 3,25c e ilpensiero di Paolo sulperdono da parte di Dio, in Id., Paolo e la chiesa di Roma, Paideia, Brescia 2.009, pp. 99-12.3. 70. Solo 3 volte è costruito con un genitivo, che però non consiste mai nell' imperso­ nale « dei peccati» bensì in un'espressione personalistica come «dei figli di Israele» (Num 36,4) e «dei figli degli uomini» (2.Sam 7,14), mentre in Dan 12.,7 il termine ha un impiego negativo e profano di «dissipazione delle forze del popolo santo» . 71. D i queste 47 ricorrenze ben 2.9 s i trovano nei testi legislativi d i Esodo (18,2.; 2.3,u), Levitico (2.5,10.u.12..13 ecc.), Numeri (36,4) e Deuteronomio (15,1.2.bis ecc.), mentre 18 sono sparse essenzialmente nei libri dei Profeti. Addirittura Filone Alessandrino denominerà il giubileo semplicemente come dfesis e in esso scorgerà una dimensione spirituale, ma nel senso che diventa allegoria dell'anima libera che rigetta i propri errori per ancorarsi all' Essere che non erra (cfr. Congr. 108-109). 72.. Ricordiamo che Azazel è il nome del capo degli angeli ribelli e ha un ruolo de­ terminante nell' introduzione del peccato e del male nel mondo secondo l'apocrifo Enoch etiopico (cfr. 8,1; 9,6; 10,4.8; 1 3,1; 54,5; 55,4); il suo nome, oltre che in Lev 1 6,2.6, dove è appena menzionato, si ritrova in contesti più ampi sia a Qumran (cfr. 4Q1 80,1; uQ19 [ rotolo del Tempio] 2.6,4.13) sia nel!' apocrifa Apocalisse di Abramo (cfr. 1 3,6-7; 14,5; 2.0,5.7; 2.2.,5; 2.3,u; 2.9,6; 31,5). 73. Cfr. la discussione filologica in Deiana, Ilgiorno dell'espiazione, cit., p. So; I. Car­ dellini, I sacrifici dell'A.ntica Alleanza. Tipologie, Rituali, Celebrazioni, San Paolo, Cini­ sello Balsamo (MI) 2.001, p. 380. Il nome proprio Azazel è stato tradotto dalla Settanta, per un equivoco o intenzionalmente, con l'aggettivo apopompaios (Vg: emissarius), lett. « mandato via, allontanato» , scomponendo il nome ebraico in 'éz ozél, lett. «un capro che va via» (cfr. la sua applicazione soteriologica a Cristo in Giustino, DiaL 40,4). 74. Le eccezioni di Gal 1,4 e Rom 4,2.5 non fanno che riecheggiare questa formula­ zione tradizionale, alla cui base c'è la concezione rituale giudaica del sacerdote che «offre doni e sacrifici per i peccati» (Ebr 5,1; cfr. 7,2.7 ). 75. Là invece abbiamo sempre la preposizione peri, « a proposito di, a riguardo di, in rapporto a» (cfr. Lev 16,3.6.7.9.17.2.4.2.5.2.7.30.33; Num 2.9,u); anche in Is 53 si trova o peri (vv. 4.10) o did (vv. 5bis.12.). Lo stesso concetto di « sacrificio» (thysia) non viene applicato da Paolo alla morte di Cristo, bensì alla vita cristiana quotidiana (cfr. Rom 12.,1; Fil 2.,17) e tutt'al più a qualche specifico atto di carità (cfr. Fil 4,18). Solo il già citato Ef 5,2. ricorre a questa etichetta cultuale, ma la lettera è deuteropaolina. 76. La tradizione paolina conferma il punto di vista dell'Apostolo in Ef 5,2..2.3; Tit 2.,14. Cfr. anche 1Pt 2.,2.1; 3,18; 1Gv 3,16. La Lettera agli Ebrei associa la preposizio­ ne di favore non tanto alla morte di Gesù quanto alla sua attuale intercessione presso

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Dio (in qualità di Sommo Sacerdote entrato nel Santo dei Santi: 6,20; 7,25; 9,24). Per una più ampia discussione cfr. Pulcinelli, La morte di Gesù come espiazione, cit., pp. 198-215; V. Hampel, R. Weth (Hrsgg.), Fur uns gestorben. Suhne - Opfer - Stell­ vertretung, Neukirchener, Neukirchen-Vluyn 2010. 77. Sulla dibattuta questione della sua autorialità (scritto pseudoepigrafico di un gruppo petrine presente a Roma) e della datazione (tra il 70 e il 95), cfr.J. H. Elliott, I Peter: A New Translation with lntroduction and Commentary, Doubleday, New York­ London 2000, pp. 1 18-38; J. Schlosser, La premiere épitre de Pierre, Éditions du Cerf, Paris 2011, pp. 33-7. Per la sua autenticità con una datazione anteriore al martirio di Pietro (nel 64 o nel 67 ), cfr. M. Mazzeo, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda, Paoline, Milano 2002, pp. 3 8-48. 78. Il tema del sacerdozio di Israele è ripreso nell'apocrifo Libro dei Giubilei 16,18; 33,20 ( « Israele è popolo santo al Signore » ). Cfr. il commento di M. Priotto, Esodo. Nuova versione e commento, Paoline, Milano 2014, pp. 355-6. 79. L'ebraico qadof, stando alla etimologia del vocabolo, esprime l' idea di santità consistente in uno stato di diversità e separatezza, che si realizza non solo negli atti cultuali ma soprattutto nell' identità stessa di Israele, che è distinto dalle genti e ancor più deve distinguersi mediante l'osservanza dei precetti della Torah. 80. Cfr. Elliott, 1 Peter, cit., pp. 421-2; U. Vanni, La pratica del sacerdozio dei cri­ stiani alla luce della Prima lettera di Pietro: spunti e riflessioni, in Liberti (a cura di), I laici nel popolo di Dio, cit., pp. 235-64; V. Gackle, Allgemeines Priestertum. Zur Metaphorisierungdes Priestertitels im Fruhjudentum und Neuen Testament (Wissen­ schaftliche Untersuchungen zum Neuen Testamene, 3 31), Mohr Siebeck, Tùbingen 2014, pp. 385-470. 81. Qualcosa di analogo leggiamo a Qumran a proposito di un peccatore riammesso nella comunità « senza la carne degli olocausti e senza il grasso del sacrificio, l'offerta delle labbra sarà come l 'odore gradevole di giustizia e la perfezione della condotta sarà come l 'offerta volontaria da accettare » (1Q_S IX,4-5). 82. Anche nei manoscritti di Qumran si parla della comunità come di « una casa san­ ta per Israele [ ... ] abitazione del santo dei santi per offrire un odore gradevole [ ... ] una casa di verità e perfezione » , la cui funzione è quella sacerdotale di «espiare in favore del paese » (1Q_S vm,5-9). Sulla dimensione architettonica dei luoghi di raduno dei cristiani, cfr. CAP. 3, n 139. 83. L. Alonso Schokel, J. L. Sicre Diaz, I Profeti, Boria, Roma 1984, p. 420. Addirit­ tura nel Sal 82,6 si legge un'affermazione ( «Voi siete dèi » ) che Gesù riprenderà in Gv 10,34, ma nel Salmo è detto come ironica polemica verso i giudici ingiusti, mentre Gesù se ne avvale come dimostrazione afortiori della propria identità (cfr. S. Grasso, Il Vangelo di Giovanni, Città Nuova, Roma 2008, pp. 455-6). 84. Cfr. A. Belano, Apocalisse, Aracne, Roma 2013, p. 53. 85. In senso più specifico sul protestantesimo, cfr. anche A. Sabetta, Sacerdozio e ministero ordinato in Lutero, in "Rassegna di Teologia", 56, 3, 2015, pp. 483-5 16, che sottolinea più la funzione che non la dignitas.

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86. Cfr. R. Penna, Cristianesimo e laicita nella teologia di S. Paolo. Appunti, in Liberti (a cura di), I laici nelpopolo di Dio, cit., pp. 2.65-78. 87. Cfr. H. Strathmann, in GLNT VI,167-190. Ricordiamo di passaggio che da questa radice verbale greca, oltre che l'astratto latreia, « servizio [per paga) », deriva il so­ stantivo neutro ldtron, « compenso, mercede » ; a esso corrisponde il maschile latino latro, «predone» (che finì per soppiantare il più originalefar), il quale a sua volta diede origine all' italiano "ladro", da intendersi come mercenario-parassita che fa i propri interessi invece che quelli del suo datore di lavoro. 88. Per esempio Plutarco, Pyth. orac. 2.6 ( 407 D) qualifica i servitori e i profeti del dio Apollo a Delfi come theoi latreuontes, « ministri di un dio » ; cfr. Platone, Fedro 2.44e; Epitteto, Diatr. 3,2.2.,56. 89. Nella Settanta il verbo latreuo risulta simile a leitourgéo, con la differenza che, mentre il secondo è riservato alle funzioni dei sacerdoti (cfr. anche therapeuo), il pri­ mo vale sempre per l'azione religiosa del popolo nel suo insieme. Inoltre è il primo a tradurre quasi sempre la radice ebraica 'iibad, « servire » , cosa che nel secondo succe­ de molto di rado. 90. Cfr. in proposito R. Penna, L'ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione ragionata, EDB, Bologna 2.012.6, pp. 151-2.. 91. Un'analogia in questo senso si può rinvenire a Qumran, dove si parla della co­ munità stessa come bet qodef l'yisra'il (1Q_S 8,5), letteralmente « casa santa per Israe­ le » ma probabilmente anche « tempio per Israele » , tanto più che poco dopo essa è detta « abitazione del Santo dei santi » (1Q_S 8,8). Più discutibile invece è il sintagma miqdaf adiim (4QF!or 1,6), traducibile come « santuario di uomini» in rapporto alla stessa comunità del Mar Morto, ma anche come « santuario di Adamo» in rapporto al santuario escatologico quando si riprenderà lo stato di innocenza del progenitore. 92.. Cfr. in generale A.-M. Denis, La fonction apostolique et la liturgie nouvelle en esprit. Étude thématique des métaphores pauliniennes du culte nouveau, in "Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques", 42., 1958, pp. 401-46 e 617-56, specie pp. 403-8; J. Ponthot, L'expression cultuelle du ministère paulinien se/on Rom 15,16, in A. Vanhoye (éd.), L:Apotre Paul: personnalité, style et conception du ministère, "Bi­ bliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium" 73, Leuven University Press, Leuven 1986, pp. 2.54-62.. 93. A partire da Aristotele (cfr. Politica 133oa13) è documentato l'impiego soprat­ tutto del verbo leitourgéo e del sostantivo astratto leitourgia; il sostantivo concreto si . trova in Plutarco con il costrutto leitourgoi theon, « ministri degli dèi» (Def or. 13 = Mor. 417A). 94. Il sostantivo concreto leitourgos nella Settanta (tralasciando il verbo, 98 volte, e il nome astratto, 44 volte) ricorre solo 14 volte, ma in appena 4 casi esso ha una connotazione religiosa: Esd 7,2.4 ( «gli inservienti della casa di Dio»): Ne I0,40 ( «i sacerdoti ministri» ) ; Sir 7,30 ( «Ama con tutta la forza chi ti ha creato e non trascu­ rare i suoi ministri» ) ; Is 61,6 ( «Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio»). Cfr. anche A. Romeo, Il termine LEITOURGIA nella grecità bibli-

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ca {Settanta e Nuovo Testamento}, in Miscellanea Liturgica in honorem L. Cuniber­ ti Mohlberg, BEL 2.3, Roma 1949, voi. II, pp. 467-519; e soprattutto R. M. Cooper, Leitourgos Christou lesou: Toward a Iheology o/Christian Prayer, in "Tue Anglican Theological Review", 47, 1965, pp. 2.63-75. 95. Sull' importanza della cristologia pasquale per spiegare il passaggio dalla missio­ ne di Gesù a quella della chiesa, cfr. R. Penna, Gesu Cristo salvatore: cristologia e sue implicanze missiologiche, in G. Colzani, P. Giglioni, S. Karotemprel (a cura di), Cristo­ logia e missione oggi, Atti del Congresso internazionale di missiologia (Roma, 17-2.0 ottobre 2.000), Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2.001, pp. 364-72.. 96. C. Kraus Reggiani, 4 Maccabei, Marietti, Genova 1992., p. 103. La variante era sta­ ta però accolta daJ. Dupont-Sommer, Le quatrième livre des Machabées, Champion, Paris 1939. 97. Abbiamo già visto la testimonianza di Diogene Laerzio: «I sapienti sono gli uni­ ci sacerdoti [monous hieréas]. perché essi si sono fatte idee chiare sui sacrifici, sulle co­ struzioni dei templi, sulle purificazioni e su tutto ciò che appartiene agli dèi» (7,1 19). Analogamente scrive Ario Didimo sugli stoici: « Dicono che solo il saggio è anche sacerdote » (Eth. st. , da Stobeo, Anthologion II,67,1). Marco Aurelio lo dirà degli uo­ mini buoni in generale (cfr. Pensieri 3,4,4). Persino Filone Alessandrino scrive che «chi vive secondo le leggi diventa subito un sacerdote, anzi un sommo sacerdote» (Spec. leg. 2.,164). 98. Cfr. anche R. J. Dillon, Ihe "Priesthood"o/St Paul Romans 15:15-10, in "Worship", 74, 2.000, pp. 156-68. Cfr. anche G. Baldanza, Caratteristiche del linguaggio cultuale nella Lettera ai Romani, in "Laurentianum", 44, 2.003, pp. 2.99-32.3 specie pp. 32.0-2.. 99. PL 60,655. Da parte sua Origene commenta opportunamente : « Come dunque i pontefici quando offrivano un sacrificio necessariamente dovevano provvedere che nella vittima non vi fosse macchia, guasto o difetto così da poter essere accetta a Dio e gradita, allo stesso modo anche chi offre in sacrificio il vangelo e annunzia la pa­ rola di Dio, deve badare in tutti i modi che non sorga qualche macchia nel predi­ care, qualche difetto nell' insegnare, qualche colpa nella funzione di maestro» (In Rom. x1,12.68B). E icastico è il commento di K. Barth: « La teologia [ ... ] è quest'ulti­ ma impresa rischiosa, il "sacro servizio dell'Evangelo di Dio". Se non è questo, se non si fida di essere quello che è, farebbe meglio a mettersi in liquidazione, e meglio oggi che domani» (512.)! JOO. In questo senso si potrebbe pensare che si tratti dei Gentili, che possono offrire i loro corpi o sé stessi in sacrificio; questa è la lettura che sembra favorita da Agostino, Expositio 75 (con rimando a Rom 12.,1). JOI. D'altronde, Paolo è chiaramente mosso piuttosto da un' istanza "centrifugale': in quanto si muove da Gerusalemme verso le genti, non viceversa. 102.. Il commento di C. E. B. Cranfield parla piuttosto di Cristo stesso come agente dell'offerta dei Gentili a Dio, e rispetto a lui il ministero paolino sarebbe «subordi­ nate and auxiliary » (2.,756-757 ); ma l'ufficio sacerdotale espresso dal participio hie­ rourgoùnta è detto solo di Paolo.

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2.2.1

103. Oltre al già citato Es 19,6 cfr. soprattutto Filone Alessandrino: Abramo è all'ori­ gine di « tutta una nazione, quella che è la più cara a Dio era le nazioni, che secondo me ha ricevuto in sorte il sacerdozio e la profezia per il bene di tutta l'umanità» (Abr. 98); «Ciò che il sacerdote è in rapporto alla città, lo è la nazione giudaica in rapporto all'intera ecumene» (Spec. leg. 2.,163); inoltre Vit. Mos. 1,149. rn4. L'aggettivo composto euprosdektos non si trova mai nella Settanta (che invece at­ testa il semplice dektos: 32. volte, spesso in senso cultuale), ma è noto nella grecità, come si vede in Aristofane, Pace 1054 (detto di un sacrificio [thysia]). In Paolo anche Rom 15,31 ; 2.Cor 8,12.; inoltre 1Pc 2.,5. Esso è sinonimo di eudrestos impiegato in Rom 1 2.,1. 105. La forma hagidzo è rarissima nella grecità excragiudaica, dove invece è nota la forma hagizo (cfr. Pindaro, Olimp. 3,19; Sofocle, Ed. Col. 149 5 ), mentre è frequentissi­ mo nella Settanta (almeno 150 volte); cfr. anche Filone Alessandrino, Spec. leg. 1,167: quanto a coloro che offrono vittime, «la Legge vuole che essi [ ... ) non rechino un'a­ nima raggiunta da qualche debolezza, malattia o passione, ma devono sforzarsi di consacrarla [hagidzein] con uno stato di purezza assolutamente perfetta, affinché Dio vedendola non volti la sua faccia » . Il significato cultuale del verbo è confermato in Mc 2.3,19 ( «Cos'è più grande, l'offerta o l'altare che santifica l'offerta? » ). rn6. Cfr. A. Pitta, Quale tipo di "libagione" in Fil 2,17: ministerialita o tanatologia?, in N. Ciola, G. Pulcinelli (a cura di), Nuovo Testamento: teologie in dialogo cultu­ rale. Scritti in onore di Romano Penna nel suo 70° compleanno, EDB, Bologna 2.008, pp. 305-15; W. Burkert, I Greci, voi. I: Preistoria, epoca minoico-micenea, secoli bui (sino alsec. 1x),Jaca Book, Milano 1984, pp. 104-8. rn7. Una costruzione del genere è ben attestata nella grecità, come si vede in Seno­ fonce, Anab. 6,1,2.2. ( «presentando due vittime le sacrificò a Zeus » ), in Polibio 16,2.5,7 ( «presentando vittime »), in Flavio Giuseppe, Ant. 4,11 3 ( «presentare/offrire cori e capri ») e in Luciano, Sacr. 13 ( «Gli Sciti [ ... ) offrono uomini ad Artemide ») . La Set­ tanta, tuttavia, praticamente non attesta il verbo al transitivo con un'offerta sacrifica­ le come oggetto, ma lo attesta ali' intransitivo con il significato di « servire, assistere » (cfr. Dc 1,38: « Giosuè figlio di Nun, che sta al tuo servizio/ci assiste ») ; ma cfr. Num 2.3,3-15 ( «Presentaci/fermaci presso il tuo sacrificio» ) ; Dc 10,8 ( « Il Signore scelse la tribù di Levi per servire davanti al Signore»); 17,12. ( « Il sacerdote che è presence per servire il Signore » ) ; 1Sam 5,2. ( «I Filistei la [= l'arca] presentarono presso Dagon » ); 4Mac 17,18 ( « Essi ora servono al crono divino» ). rn8. Cfr. R. H. Gundry, ''s6MA" in Biblica/ Iheology with Emphasis on Pauline Anthropology, "Sociecy for New Testamene Scudies Monograph Series", 2.9, Cambrid­ ge Universicy Press, Cambridge 1975, pp. 34-5 e 2.2.0, in parziale polemica con chi vor­ rebbe ridurre il termine «corpo» a puro « sostitutivo del pronome riflessivo » (J. A. T. Robinson, Il corpo. Studio sulla teologia di san Paolo, Gribaudi, Torino 1967, p. 65). 109. Cfr. P. Chancraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, Klincksieck, Paris 1999, p. 449. Cfr. anche J. Behm, in GLNT IV,62.5-658. 110. Cfr. Burkert, I Greci, cit., voi. I, pp. 83-12.5; D. D. Hughes, I sacrifici umani nell'antica Grecia, Salerno Editrice, Roma 1999, pp. 18-2.9; una euaggelion thysia, « un

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sacrificio per le buone notizie », è attestata in un'iscrizione (G 11• 12.2.4 fr. d,18). La Set­ tanta impiega il termine per tradurre generalmente zebaH e minHtih (cfr. Cardellini, I sacrifici dell:A.ntica Alleanza, cit.). m. Apollonio di Tiana, Dei sacrifici ( = fr. in Eusebio, Praep. ev. 4,13). 112.. Commenta Giovanni Crisostomo: «È nuova questa norma del sacrificio, canto che è paradossale il modo del fuoco: infatti, non c'è bisogno di legna né di altra materia, poi­ ché il fuoco è vivo in ciascuno di noi, né esso brucia la vittima, ma piuttosto la vivifica» ! (PG 60,596). Un eventuale riferimento al sacrificio del capro mandato vivo ad Azaz.el nel giorno del /uppur è invece suggerito da N. Kiuchi, Living like the Autzel-Goat in Romans 12:1b, in "Tyndale Bulletin� 57, 2.006, pp. 2.51-61. 113. Così il citato testo di Platone, Eutifr. 14c. Nella Settanta si trova cuce' al più thysia hagiasmou, « sacrificio/vittima di santificazione» (Sir 7,31 : nel contesto della parte da dare al sacerdote). 114. Cfr. Filone Alessandrino, Spec. leg. 1,2.01: « Due sono gli elementi che compon­ gono la nostra anima, il razionale e l'irrazionale [logikon kai dlogon] [ ... ]. La mente (nous), quando è senza macchia e purificata con le perfette lustrazioni della virtù, costituisce per se stessa il sacrificio più puro e totalmente gradito a Dio [kai boli di'holon eudrestos theo;] » . 115. Cfr. Platone, Apol. 2.3c: «Vivo i n estrema povertà per i l mio servizio al dio» (dia ten tou theou latreian: in senso non rituale); Fedro 2.44e: « ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi» (katafygousa pros theon euchàs te kai latreias: in senso rituale). Quanto alla Settanta, il termine vi ricorre 8 volte e traduce l'ebraico 'abodtih, letteral­ mente « servizio» (Es 1 2.,2.5.2.6; Gs 2.2.,2.7; 1Cr 2.8,13; 1Mac 1,43; 2.,19.2.2.), ma è molto più frequente il verbo latreuo (98 volte; cfr. Es 2.3,2.5: « Servirai il Signore Dio tuo»). 116. Altrove nel Nuovo Testamento: solo in Gv 16,2.; Ebr 9,1.6. 1 17. Cfr. Epitteto: « Tu sei un uomo, cioè animato e mortale, capace di usare le rap­ presentazioni in modo ragionevole [logikos]. Ma cosa significa "in modo ragionevo­ le"? Essere conforme alla natura e in modo perfetto. Qual è l'elemento di superiorità in tuo possesso ? Essere animato? No! Essere mortale ? No! Tu hai l'elemento ragione­ vole [to logikon] come motivo di superiorità: questo devi adornare e rendere bello! » (Diatr. 3,1,2.6); « "Che cos'è l'uomo?" "Un essere vivente, s i dice, ragionevole [zo,on logikon ], mortale". "E in quanto ragionevole [en to; logiko;], da che cosa lo distinguia­ mo?" "Dagli animali"» (Diatr. 2.,9,2.). Da parte sua, Diogene Laerzio «non si stanca­ va di ripetere che nella condotta della vita bisogna avere la ragione o un laccio» (in 6,2.4: logon e brochon, cioè agire secondo ragione o stare zitti, se non proprio usare un capestro !). Cfr. anche Apollonio di Tiana, Dei sacrifici (cit. supra, n m). 118. Là infatti potrebbe più semplicemente spiegarsi in rapporto al logos inceso come «parola [dell'evangelo] » (cfr. Elliott, I Peter, cit., pp. 400-1). 119. Cfr. Spec. leg. 1,171 dove, a proposito delle offerte e dei profumi offerti nel Tem­ pio, Filone distingue: «Le offerte cruente sono in ringraziamento per le nostre vice fisiche, mentre i profumi lo sono per l'elemento-guida, cioè lo spirito razionale che è in noi [to en hemin logikou pneumatos] »; l'incera sezione dei parr. 2.69-2.79 è una bella

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disquisizione sul culto più gradito a Dio (cfr. 2.72.: «Anche se non offrono nient'altro, portando se stessi compiono il miglior sacrificio, il più perfetto compimento della nobiltà morale [to pléroma kalokagathlas teleùJtaton] [ ... ] pronunciando con la sola anima parole e grida della mente, che soltanto l'orecchio divino può sentire» ) ; cfr. anche Plant. 108.12.6; Vit. Mos. 2.,108. 12.0. Su di essa si basa l ' interessante esegesi di Tommaso d'Aquino, che intende l'ag­ gettivo rationabile nel senso di cum discretione, cioè « con misura », e offre questa distinzione: «In ciò che è proposto comefine non è richiesta nessuna misura, ma quanto più ce n'è tanto meglio è [e fa l'esempio della fede, speranza e carità] . Invece in ciò che è richiesto in vista delfine, si impiega una misura in proporzione del fine [ ... ] : negli atti esteriori va impiegata una discretionis mensura in rapporto alla carità » (ed. Cai, par. 964). Quanto mai pertinente è pure la parafrasi di Erasmo da Rotter­ dam: «Vi supplico, fratelli, per quelle dimostrazioni di benevolenza di Dio, alla cui gratuità voi dovete l'intera vostra felicità, che d'ora in poi voi gli immoliate vittime degne di questa confessione di fede, non capre o pecore o buoi [ ... ] ma un sacrificio dotato di ragione [ ... ]. Al posto di un vitello, immola il sentimento di superbia; al posto di un ariete, sgozza l' ira che ribolle; al posto di un capro, dà fuoco alla libidi­ ne» (Para.frasi della Lettera ai Romani, a cura di M. G. Mara, Japadre, L'Aquila 1990, pp. 2.81-2.). 12.1. Il Crisostomo infatti chiama in causa « tutta la vita [ton dpanta blon] [... ] in modo che tu sia sacerdote del tuo stesso corpo» (PG 60,597). Ancora più bello è ciò che scrive il già citato Origene, sia pure a proposito di un altro testo biblico : «Non è in un luogo che bisogna cercare il santuario, ma negli atti e nella vita e nei costumi. Se essi sono secondo Dio, se si conformano ai comandi di Dio, poco importa che tu sia in casa o in piazza. Che dico "in piazza"? Poco importa perfino che tu ti trovi a teatro: se stai servendo il Verbo di Dio, tu sei nel santuario, non avere alcun dubbio» (Hom. in Lev. 12.,4). Cfr. anche P. Wick, Die urchristlichen Gottesdienste. Entstehung und Entwicklung im Rahmen derftuhjudischen Tempel-, Synagogen- und Haus.from­ migkeit, Kohlhammer, Stuttgart 2.003', pp. 2.3-6. 12.2.. Evidentemente Paolo non pensa neppure che il battesimo e l'eucaristia o co­ munque le assemblee cristiane vadano computati come riti "religiosi". Sul piano cul­ turale, l'Apostolo si inserisce di fatto in una corrente anticultualista/ritualista assai diffusa nel mondo mediterraneo al tempo delle origini cristiane (in merito, cfr. alcuni testi di Lucrezio, Seneca, Epitteto, Apollonio di Tiana, Luciano, riportati in Penna, L'ambiente storico-culturale delle origini cristiane, cit., pp. 151-2.; inoltre J. Behm, in GLNT IV,642.-653). D'altronde, non si può escludere che il fariseo Paolo si dimostri qui erede e traspositore in ambito cristiano dell'istanza propria dei Farisei, i quali pretendevano di trasferire nella vita quotidiana di tutti i Giudei le regole levitiche di purità che erano richieste e riservate ai sacerdoti. 12.3. Altre buone possibilità di traduzione sono proposte dai commentatori, come queste: « conveniente» (così K. Barth: in tedesco « sachgemass » ), o semplicemente « vero» (così U. Wilckens), o ancor meglio «che conviene alla vostra natura di esseri

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ragionevoli » (così). A. Ficzmyer); un po' eccedenti sono quelle di C. E. B. Cranfield ( « consonant wich che truth of che gospel» [conforme alla verità del Vangelo)) e di D. Attinger ( « conforme alla Parola »). Sull' insieme cfr. G. Corvino, Il culto conforme alla ragione. Ragione efede nella Lettera ai Romani, Città Nuova, Roma 2.013. 12.4. In proposito cfr. R. Penna, Le collette di Paolo per la chiesa di Gerusalemme, in "Parola Spirito e Vita", 31, 1995, pp. 179-90. I2.5. Cfr. Rom 1,14 ( « lo sono debitore tanto verso i Greci quanto verso i Barbari, tan­ to verso i sapienti quanto verso gli ignoranti); 8,12. ( «Siamo debitori non alla carne per vivere secondo la carne » ) : 15,2.7 ( « ritenersi loro debitori »); ofeili in 13,7 ( « Ren­ dete a tutti ciò che è loro dovuto»); ofeilima in 4,4 ( «A colui che opera il compen­ so non viene computato secondo grazia ma secondo debito»): ofeilo in 13,8 ( «Non abbiate debiti con nessuno, se non quello di amarvi gli uni gli altri »); 15,1 ( « Noi che siamo i forti siamo in dovere di sostenere le limitazioni dei deboli» ).2.7 ( « devono rendere loro un servizio»). 126. Qui però si aprirebbe il grande capitolo della inculturazione dell'evangelo (e in parte della sua ellenizzazione). In effetti l'evangelo, soprattutto nella sua ermeneutica paolina, ha conosciuto alcune elaborazioni di origine ellenica (da non considerarsi come contaminazioni !). Tra la vasta bibliografia in materia, cfr. almeno T. Engberg-Pedersen (ed.), Paul Beyond thejudaism/Hellenism Divide, Westminster John Knox Press, Loui­ sville (KY) 2001; S. E. Porter (ed.), Paul's World, Brill, Leiden-Boston (MA) 2008. 1 27. Cfr. A. Pitta, La seconda lettera ai Corinzi, Boria, Roma 2006, pp. 376-7. 1 28. Cfr. H. Balz, G. Schneider ( a cura di), Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2004, pp. 245-7. 129. Vanhoye, Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote, cit., p. 305; cfr. anche Vanni, La pratica del sacerdozio dei cristiani alla luce della Prima Lettera di Pietro: spunti e rifles­ sioni, cit.; e più in generale M. Adinolfi, Il sacerdozio comune deifedeli, Antonianum, Roma 1983. 130. Platone aggiunge: « Quanti condividono anche un poco di saggezza, prima di intraprendere qualsiasi impresa invocano sempre la divinità: così anche noi che stia­ mo per fare dei ragionamenti sull'universo » ( Tim. 27c). Si veda anche la bella pre­ ghiera rivolta dal giovane Ippolito ad Artemide: «Vivo e parlo con ce, e percepisco la tua voce anche se non vedo il tuo volto» (Euripide, Ippolito 85-86). 131. Cfr. la voluminosa monografia di F. Heiler, Lapreghiera. Studio di storia epsicolo­ gia delle religioni, Morcelliana, Brescia 2016 (con citazione del poeta tedesco Novalis, p. 17: « Il pregare è nella religione ciò che il pensiero è nella filosofia » ); cfr. pure G. Ravasi, Preghiera, in G. Filoramo (a cura di), Di�ionario delle religioni, Einaudi, Torino 1993, pp. 579-82. 132. Così Erri de Luca con riferimento ai naufraghi: « Mare nostro che non sei nei cieli », reperibile sul web (http://fondazionerrideluca.com/web/mare-nostro-our­ facher-sea/, ultimo accesso novembre 2019 ): insieme a posizioni analoghe di Roberto Saviano e Norberto Bobbio. 13 3. Citazione da D. Antiseri, Credere. Dopo la.filosofia delxx secolo, Armando, Roma 2017', p. 8, che pure contesta il nome di Dio al risultato delle dimostrazioni mecafi-

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2.2.5

siche come di una causa prima o primo motore, ordinatore del mondo, che è solo il pascaliano «Dio dei filosofi » . Semmai si può convenire con Cartesio, secondo cui « è il dubbio l'inizio della sapienza » . 1 3 4 . M. Buber, Ilprincipio dialogico, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1993, p . 79. 135. Là «quasi non esiste rituale senza preghiera, ma nemmeno esiste preghiera im­ portante senza rituale » ed essa si fa non in ginocchio, ma « tendendo le mani con le palme rivolce verso il cielo» (Burkerc, I Greci, dc., voi. I, pp. 108-12.). Platone ne parla come di « una comunione vicendevole era dèi e uomini» (Symp. 1 88b-c). Si veda an­ che la preghiera ad Artemide secondo Euripide: « lo sono con ce e ti parlo, ascolco la cua voce anche se non ci vedo» (Ippolito 85-86). 1 36. In Israele, olcre a quanto si trova nell'Antico Testamento (cfr. i Salmi), sono im­ portanti le due preghiere quotidiane dello Ascolta/Shema' ( = Dc 6,4-9) e delle Diciot­ to benedizioni/Shemoneh 'esreh (cfr. E. Schiirer, Storia delpopolo giudaico al tempo di Gesù Cristo (175 a.C.-135 d.C.), Paideia, Brescia 1987, voi. II, pp. 546-54). In specie su Qumran, cfr. G. Ibba, La preghiera allafine del Secondo Tempio. Una selezione, EDB, Bologna 2.017. 137. Cfr. la miscellanea offerta da M. Kiley (ed.), Prayer.from Alexander to Constan­ tine: A Criticai Anthology, Roucledge, London-New York 1997, con un materiale tri­ partito fra giudaismo, greco-romanità, cristianesimo. Un'antologia di età patristica è curata da S. Pricoco, M. Simonetti (a cura di), La preghiera dei cristiani, Mondadori, Milano 2.000. 1 38. Cfr. in generale O. Cullmann, La preghiera nel Nuovo Testamento. Una risposta alle domande odierne, Claudiana, Torino 1996; G. Ravasi, L'incontro. Ritrovarsi nella preghiera, Mondadori, Milano 2.014. 1 39. Questa preghiera affonda le sue radici in quella aramaica del Qaddish che Gesù doveva conoscere fin dalla sua fanciullezza (cfr. il testo in Penna, L'ambiente storico­ culturale delle origini cristiane, dc., p. 36). Il primo commentatore fu Tertulliano sul finire del II secolo che la definì breviarium [= sintesi] totius evangelii (De orat. dom. 1,6). È appena il caso di ricordare la terribile e bizzarra parodia che nel 1938 ne fece Ernesc Hemingway nell'ulcimo dei suoi racconci sostituendo ogni vocabolo impor­ tante con il termine «Nulla » , in spagnolo Nada, vanificando tutto il suo contenuto:

«Nada nostro che sei nelnada, nada sia il nome tuo, il regno tuo nada, sia la tua volonta nada in nada come in nada. Dacci questo nada il nostro nada quotidiano e nadaci il no­ stro nada come noi nadiamo i nostri nada e non nadarci in nada ma liberaci dal nada» (I quarantanove racconti, Mondadori, Milano 2.0163, pp. 455-66). 140. Del resto, come scrive Origene, « le opere della virtù e l'adempimento dei co­ mandamenti fanno parte della preghiera. Solamente così possiamo comprendere come possibile l'ordine di pregare incessantemente, se cioè definiamo la vita del santo come una sola continua preghiera, di cui quella che siamo soliti denominare preghie­ ra non è che una parte » (De oratione 12.,1-2.). 141. Cfr. per esempio Sir 2.1,5: «La preghiera del povero va dalla sua bocca agli orec­ chi di Dio » ; 35,17: «La preghiera dell'umile penetra le nubi » ; Sai 8,10: «O Signore,

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quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra » . Cfr. anche Kiley (ed.), Prayer.from

Alexander to Constantine, cit., pp. 9-12.0.

142.. Esemplare è la preghiera di Socrate: «O amico Pan, e voi tutti dèi di questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro [kalo; genésthai tdndothen]; e che tutto ciò che ho ali'esterno sia in accordo con ciò che è nell'intimo. Che io consideri ricco il saggio, e che possa avere tanto oro quanto può portarne e usarne solo l'uomo virtuo­ so [ ... ]. Per me questa preghiera è sufficiente » (Platone, Fedro 2.79b-c). Di Cleante, oltre al celebre Inno a Zeus, cfr. l'affidamento al Fato: «Conducimi, o padre e signore dell'alto cielo, dovunque vuoi: sono pronto a obbedire » (sVF I, n. 52.7; ripresa da Epitteto, Diatr. 2.,2.3,42.; 3,2.2.,95; 4,4,34); Seneca commenta: «Grande è l'animo che gli si è abbandonato; ma è piccolo e ignobile quello che si ribella al Fato e disapprova l'ordine del mondo preferendo correggere gli dèi che se stesso» (Epist. w7,12.). Cfr. anche Kiley (ed.), Prayer.from Alexander to Constantine, cit., pp. 12.1-2.04.

143. Cfr. Heiler, La preghiera, cit., pp. 333-8.

144. Corpus Hermeticum w,5 (sono testi raccolti nel 11-111 secolo come prevalente espressione del neoplatonismo). Cfr. A.-J. Festugière, Ermetismo e mistica pagana, Il melangolo, Genova 1991. 145. Sulla crocifissione nell'antichità, cfr. M. Hengel, Crocifissione ed espiazione, Pai­

deia, Brescia 1988; W. Bosen, L'ultimo giorno di Gesu di Nazaret, Elledici, Collegno

(To ) 2.007, pp. 338-44. 146. Cfr. E. Cattaneo (a cura di), I ministeri nella Chiesa antica. Testi patristici dei

primi tre secoli, Paoline, Milano 2.012.\ specie pp. 145-59. Ricordiamo che il vocabolo italiano prete nell'uso corrente vale come suo sinonimo, ma deriva etimologicamente dal latino presbyter (anziano), che non ha nulla a che fare con sacerdos (addetto al sacro). 147. Sul problema posto da questo uso del vocabolo « sacrificio» , cfr. E. Prinzivalli, M. Simonetti (a cura di), Seguendo Gesu. Testi cristiani delle origini, Mondadori, Mi­ lano 2.010, voi. r, pp. 444-5. Forse l'espressione è condizionata dalla successiva citazio­

ne di Mal 1,n: «In ogni luogo e in ogni tempo mi viene offerto un sacrificio puro» (cfr. A. Milavec, The Didache: Faith, Hope & Lift ofthe Earliest Christian Communi­ ties, 50-70 C.E. , Newman Press, New York 2.003, pp. 554-7 ). 148. Cfr. Cattaneo (a cura di), I ministeri nella Chiesa antica, cit., pp. 32.2.-43. Discussa è l'affermazione che si legge in Adv. haer. 4,8,3 dove, parlando di Davide come sacer­ dote, afferma nel testo originale che « ogni re giusto ha un rango sacerdotale » ; però la versione latina conferisce alla frase una dimensione generalizzante: Omnes iusti sacer­ dotalem habent ordinem; ma ciò non corrisponde all'originale, che ci è conservato da Giovanni Damasceno (cfr. ivi, p. 336, n 45). 149. Tertulliano, De monogamia 12.,1-4: «Adeo, inquiunt, permisit apostolus iterare conubium, uc solos qui sint in clero monogamiae iugo adstrinxerit [ ... ]. Unde enim episcopi et clerus ? Si non omnes monogamiae tenentur, unde monogami in clerum ? [ ... ] omnes sacerdotes, quia sacerdotes nos deo et patri fecit » . Sull'importanza di Cipriano (ca. 2.I0-2.58) in ambito latino, cfr. Cattaneo (a cura di), I ministeri nella Chiesa antica, cit., pp. 503-64.

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150. Cfr. L. Perrone, La preghiera secondo Origene. L'impossibilità donata, Morcellia­ na, Brescia 2.011, pp. 171 e 440. 151. Analogamente leggiamo nell'Ambrosiascro: «Socco la Legge i sacerdoti nasce­ vano dalla stirpe del levita Aronne, ora al contrario cucci appartengono alla classe sa­ cerdotale, dal momento che Pietro apostolo dice: Voi siete un genere sacerdotale e regale. Perciò dal popolo si può fare un sacerdote » (In Ep. ad Ephes. 4,1 1-12.). 152.. Agostino, De civitate Dei 2.0,10: «Quod aucem, cum dixissec: In istis secunda mors non habet potestatem; adiunxit acque aie: Sed erunt sacerdotes Dei et Christi et regnabunt cum eo mille annis; non ucique de solis episcopis et presbyceris dictum est, qui proprie iam vocancur in Ecclesia sacerdotes; sed sicut omnes christos dicimus propcer myscicum chrisma, sic omnes sacerdotes, quoniam membra sunt unius sacer­ docis; de quibus apostolus Pecrus: Plebs, inquic, sancta, regale sacerdotium » . 153. Sessione del 15 luglio 1563 (Denz. 9 6 0 = 1767) : « S i quis omnes chriscianos pro­ miscue Novi Testamenti sacerdoces esse, aut omnes pari incer se pocescace spirituali praedicos affirmec: nihil aliud facere videcur quam ecclesiascicam hierarchiam con­ fondere [ ... ] perinde ac si contra Pauli doccrinam, omnes Apostoli, omnes Prophecae, omnes Evangelistae, omnes Pastores, omnes sint Doctores ». 154. Lo stesso par. 10 precisa: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio mi­ nisteriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinaci l'uno all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a sua ptoprio modo, partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo» . 155. Cfr. capitolo 3, n 172.. 156. Nella grecità il verbo cheirotonéo non indicava l'imposizione delle mani ma l'alza­ ta di una mano per eleggere qualcuno o votare qualcosa (cfr. Aristofane, Acarnesi 607; Uccelli 15 71; Ecclesiazuse 2.97; Platone, Leggi 756b; Plutarco, Aristide 4,6). Sull'insieme, cfr. Ch. Perroc, Apresjésus. Le ministere chez lespremiers chrétiens, L'Atelier, Paris 2.000, pp. 170-3; e l'Excursus di C. Marcheselli-Casale, Le lettere pastorali. Le due lettere a Ti­ moteo e la lettera a Tito, EDB, Bologna 1995, pp. 643-52.. Inolcre, a parte la documentazio­ ne in H. L. Scrack, P. Billerbeck, Kommentarzum Neuen Testament aus Talmud undMi­ drasch, Beck, Mi.inchen 1956, vol. 11, pp. 647-61, cfr. G. Scemberger, Ilgi,udaismo classico. Cultura e storia del tempo rabbinico (dal 70 al Io40), Città Nuova, Roma 1991, pp. 101-5. 157. Ricordiamo che il termine «gerarchia» (dal greco hieros [sacro] e archein [pre­ siedere]), riferito alla struttura della chiesa, è consacrato dall'opera dello Pseudo­ Dionigi l'Areopagita, De ecclesiastica hierachia, databile nel v secolo: secondo l'au­ tore, di ispirazione neoplatonica, essa è composta di ere ordini (Vescovi, sacerdoti, ministri) e svolge al pari della gerarchia celeste le ere funzioni della purificazione, dell'illuminazione e dell'iniziazione. 158. La designazione di «sacerdoti», riservata a un ristretto gruppo di ministri eccle­ siali, appare proprio nella Tradizione Apostolica. Quanto al Vescovo, saranno le Costi­ tuzioni apostoliche del IV secolo a dargli grande rilievo, ordinando di «amarlo come un padre, temerlo come un sovrano, onorarlo come un signore » (2.,34). 159. Secondo G. Otranto, Note sul sacerdozio femminile nell'antichità in margine a una testimonianza di Gelasio I, in "Vetera Christianorum", 19, 1982., pp. 341-60, alcune

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epigrafi attestano la presenza addirittura di qualche presbitera nel V secolo specie in Italia meridionale. 1 60. Così Marcheselli-Casale, Le lettere pastorali, cit., p. 648; in concreto si tratta della « capacità di "ascoltare-insegnare" la Parola (1Tim 4,II-13) e il discernere i vari carismi all'interno della comunità» (ivi, p. 652.). 161. Ireneo infatti così scriverà: «La tradizione degli apostoli, manifesta in tutto quanto il mondo, si mostra in ogni Chiesa a tutti coloro che vogliono vedere la verità e noi possiamo enumerare i vescovi stabiliti dagli apostoli nelle Chiese e i loro suc­ cessori fino a noi [ ... ] [Gli Apostoli] vollero infatti che fossero assolutamente perfetti e irreprensibili in tutto coloro che lasciavano come successori trasmettendo loro la propria missione di insegnamento. Se essi avessero capito correttamente, ne avrebbe­ ro ricavato grande profitto; se invece fossero falliti, ne avrebbero ricavato un danno grandissimo [ ... ]. Con questo ordine e con questa successione è giunta fino a noi la tradizione che è nella Chiesa a partire dagli Apostoli e la predicazione della verità. E questa è la prova più completa » (Adv. haer. 3,3,1.3 = PG 7,843.851). 162.. H. E. Lona, Der erste Clemensbrief. Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1998, p. 4771 63. Sul tema, cfr. A. Puig i Tàrrech, Gesu. La risposta agli enigmi, San Paolo, Cinisel­ lo Balsamo (MI) 2.007, pp. 2.2.7-32.. 164. Cfr. Cattaneo (a cura di), / ministeri nella Chiesa antica, cit., pp. 1 32.-44. 165. Che Paolo stesso fosse sposato è ritenuto da alcuni Padri della chiesa (Clemente Alessandrino, Stromati m,53,1; Origene, In Rom. 1,1; Eusebio, Storia 3,30,1), ma si può ipotizzare che la moglie non lo abbia seguito nella scelta della fede cristiana: infatti questo è il caso che egli enuncia poco prima in 1Cor 7,12.-16; d'altronde, data la sua formazione rabbinica, sapeva che il celibe «è come uno che diminuisce l'immagine di Dio» (R. Ja