Un paradiso perduto
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Table of contents :
Un paradiso perduto
Colophon
Introduzione
Parte prima. I linguaggi delle scienze
1. Il linguaggio della certezza
1. Il mondo di Aristotele e l’universo galileano
2. Il modello newtoniano di scienza
3. Sintomi di crisi della tradizione newtoniana: Carnot e la nascita della termodinamica
4. La sconfitta dei termodinamici: il compromesso di Plank
5. Dalla fisica costruttiva alla fisica dei principi: Il ruolo di Einstein
6. Un altro sintomo di crisi: Poincaré e l’instabilità dinamica
7. Il divorzio tra fisica e matematica: il programma di Hilbert
2. Il linguaggio dell’indeterminazione
1. Dai quanti alla meccanica quantistica
2. Il confronto tra Heisenberg e Schrödinger
3. Dirac, una terza via?
4. Il dibattito tra Einstein e Bohr
5. Il carattere non separabile della realtà a livello quantico
6. La formulazione definitiva della meccanica quantistica: von Neumann e le variabili nascoste
7. Il gatto di Schrödinger e l’inseparabilità tra osservatore e oggetto
8. Dov’è uno oggetto prima che noi lo guardiamo?
9. Proprietà quantistiche dei corpi macroscopici
3. Il linguaggio della complessità
1. Il mondo di Norbert Wiener
2. La riscoperta del caos deterministico
3. Le scienze della complessità
4. Modelli di sistemi complessi
Complessità algoritmica
Moto caotico e frattali
Automi cellulari
Dinamica delle popolazioni
Percolazione
Vetri di spin
Strutture dissipative
5. Autoreferenzialità e autorganizzazione
6. Creazione di complessità dal rumore
7. Linguaggio riduttivo e linguaggio simbolico
8 La creazione dei significati
4. Il linguaggio della mente
1. Intelligenza Artificiale e processi mentali
2. Può un computer arrivare a pensare?
3. Il darwinismo neuronale e la biologia della coscienza
4. Autoreferenzialità e incompletezza
5. Autoreferenzialità e novità
Parte seconda. La scienza come apprendimento sociale
5. Validità della conoscenza scientifica
1. Apprendimento individuale e apprendimento sociale
2. I due livelli del linguaggio scientifico
3. Le ideologie e la scienza
4. Il processo di produzione di scienza
5. I critici della concezione cartesiana della scienza
6. Come muta l’immagine delle discipline scientifiche?
1. Il mutamento dell’immagine della fisica fra Ottocento e Novecento
2. Due strade a confronto
3. Scienze delle leggi e scienze evolutive: dal modello fisico a quello biologico
4. Un’epistemologia dei processi vitali
5. Bateson e le scienze della complessità
7. Scienza e contesto sociale
1. L’ethos della scienza e le norme di comportamento degli scienziati
2. Gli scienziati come "esperti" nella società tecnologica
3. La bioetica
4. Una cultura dei limiti e della responsabilità
Indice

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Campi del sapere/Feltrinelli

La serie "Filosofia" si occupa dei fondamenti delle scienze privilegiando la dimensione dell'agire che trova espressione nello spettro che va dall'episte­ mologia alla filosofia politica, all'etica. Si guarda non alla filosofia tradiziona­ le ma a quella contemporanea tenendo conto delle proposte provenienti dal­ le più diverse aree di cultura. Il mondo d'oggi ha raggiunto un estremo gra­ do di complessità e anche le categorie dell'indagine filosofica sono obbligate a ridefinirsi continuamente. "Campi del sapere/Filosofia" vuole mettere a disposizione strumenti per aprire un dialogo tra filosofia, scienze e società.

Marcello Cini è nato a Firenze nel 1 92 3 . È stato ordinario di Isti­ tuzioni di Fisica teorica e di Teorie quantistiche all'Università "La Sapienza" di Roma. Nella sua attività di ricerca si è occupato di particelle elementari, di fondamenti della meccanica quantistica e di processi stocastici. Il suo interesse per la storia della scienza e i temi epistemologici l'ha visto in prima linea nelle discussioni dell'ultimo ventennio. È stato vicedirettore della rivista interna­ zionale "Il Nuovo Cimento" Oltre ai testi di fisica per uso univer­ sitario e per la scuola secondaria, ha pubblicato L'ape e l'architet­ to (con G. Ciccotti, G. Jona-Lasino, M. De Maria, Feltrinelli 1 97 6), Il gioco delle regole (con D. Mazzonis, Feltrinelli 1 98 2), Trentatré variazioni su un tema (Editori Riuniti 1 990), Quantum T heory without Reduction (con J.M. Lévy-Leblond, Adam Hilger 1 99 1 ).

Marrello Cini Un penluto Dall'universo delle leggi naturali al mondo dei proressi evolutivi

~Feltrinelli

©Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in "Campi del Sapere" febbraio 1994 Quarta edizione gennaio 1999

ISBN 88-07-10169-6

Introduzione

Il modo più diffuso di parlare di scienza, tralasciando da un lato la manualistica di ogni specie e dall'altro il genere letterario che va dalla storia romanzata alle biografie di scienziati illustri, è la "divulgazione". Il suo scopo è di informare il lettore, con un lin­ guaggio più o meno elementare a seconda del suo livello di cono­ scenze, sui risultati più recenti di una data disciplina. Sottolineo recenti, perché la conoscenza scientifica accumulata in passato non la interessa: rientra nell'ambito di quello che si insegna a scuola, e quindi, per definizione diventa noiosa e priva di interes­ se. Il ventaglio della qualità della divulgazione è, ovviamente, as­ sai ampio: ce ne può essere di ottima (rara) ma anche di pessima (assai più frequente). Essa è comunque caratterizzata da un atteg­ giamento non problematico, finalizzato alla enunciazione di dati di fatto, alla illustrazione di scoperte e alla valorizzazione di tra­ guardi raggiunti. Deve comunicare certezze, non sollevare inter­ rogativi. L'accento è perciò posto assai meno sulle domande che sulle risposte: contano poco le premes se, le motivazioni, le alter­ native di una questione aperta, l 'importante è come va a finire. La divulgazione è infatti figlia di una concezione della scienza che la considera un processo di accumulazione di fatti veri e di sostituzione graduale di credenze errate con conoscenze accerta­ te. E soprattutto che la ritiene un'impresa del tutto autonoma nelle sue motivazioni e nei suoi fini, dedita all'investigazione di­ sinteressata della natura e delle sue leggi, suddivisa in settori di­ sciplinari indipendenti l'uno dall'altro e dal contesto sociale cir­ costante. La divulgazione è perciò per sua natura frammentaria: ogni articolo, ogni libro, ogni documentario descrive una tessera di un mosaico senza curarsi della scena complessiva rappresen­ tata. Ma soprattutto essa è un bene di consumo: l'attenzione del let­ tore deve perciò essere in genere attirata sul carattere inaspetta­ to e spettacolare della conclusione alla quale viene condotto per 7

mano. Di qui l 'uso frequente, salvo eccezioni, di metafore ardite, analogie forzate e iperboli fantasiose tendenti a fornire un'imma­ gine di un oggetto misterioso per suscitare meraviglia. Che cosa resta dunque al consumatore di divulgazione, al ter­ mine della sua fatica ? Ha incontrato occasioni di riflessione, rice­ vuto stimoli all'allargamento del suo orizzonte culturale, colto spunti per risolvere dubbi o colmare lacune ? Ha acquisito stru­ menti che in qualche modo possano servire a migliorare la sua ca­ pacità di orientarsi nel mondo ? Mi sembra difficile rispondere af­ fermativamente. Data infatti la distanza, comunque grande, che separa il linguaggio della divulgazione da quelli utilizzati dagli scienziati nella loro attività reale, essa difficilmente può fornire, per quanto riguarda la possibilità di avvicinarsi alla scienza, qualcosa di più che nomi e nozioni da immagazzinare nella me­ moria. Ma non può nemmeno, proprio per l'esclusione a priori di ogni riferimento alle connessioni di questa attività scientifica con la cultura in senso lato, aprire la via alla comprensione della na­ tura della scienza, delle sue ragioni, dei problemi che il suo svi­ luppo solleva, sia al suo interno che all'esterno dei suoi confini. Ciò non vuol dire tuttavia che essa non comunichi nulla di in­ teressante . Altrimenti non si capirebbero le ragioni del suo suc­ cesso. La divulgazione comunica piuttosto sul piano della fanta­ sia, dell'estetica, del gusto per l 'enigmi stica o della curiosità per l'inaspettato. Paradossalmente dunque il tentativo di far parteci­ pare il pubblico a un' impresa considerata come razionale per ec­ cellenza produce un effetto opposto, perché trasmette un messag­ gio che viene recepito soprattutto a livello emozionale, e acquista dunque un significato completamente diverso. La concezione tra­ dizionale della scienza, che la identifica con il suo contenuto cri­ stallizzato di verità certe e assolute, conduce dunque a una con­ traddizione. La componente speciali stica del discorso scientifico è infatti comunicabile pienamente soltanto a chi sia in grado di seguirne la concatenazione logica in tutti i suoi passaggi: se ne manca anche uno solo, e viene sostituito da una metafora o da un'analogia, la catena si spezza e il ragionamento diventa sugge­ stione, il pensiero procede per associazioni, si dilegua il confine tra il possibile e l' impossibile, fra scienza e fantascienza. Se il discorso scientifico fosse dunque riducibile completa­ mente all'intreccio fra fatti certi e deduzioni logicamente inecce­ pibili non ci sarebbe nulla da fare: la sua comprensione sarebbe preclusa a chiunque non facesse parte della ristretta cerchia de­ gli iniziati, e la sua divulgazione somiglierebbe molto allo spaccio di moneta fal sa. Ma le cose non stanno così . Da ormai qualche de­ cennio gli studi storici, epistemologici e sociologici hanno mo­ strato che le regole dei linguaggi scientifici non sono rigide e im­ mutabili, ma cambiano a seconda del clima culturale e sociale del tempo e che i fatti non sono dati assoluti e a priori, ma a loro voi8

ta devono essere interpretati teoricamente. La pretesa di giustifi­ care la verità e il valore della conoscenza scientifica sulla base di regole metodologiche certe e assolute non regge più. Questo im­ plica che il suo processo di accrescimento non può essere com­ preso se non introducendo, oltre alle categorie concettuali del lin­ guaggio interno alle diverse discipline, anche categorie "esterne" che ne descrivono le interazioni con la società circostante e ne spiegano gli effetti. La scienza acquista dunque, per così dire, una terza dimensio­ ne, storica o se si preferisce evolutiva, in aggiunta alle due - quel­ la empirica e quella logica - che la caratterizzavano. Diventa per­ ciò possibile utilizzarne la rappresentazione in prospettiva, che la nuova dimensione permette di adottare, per illuminarne aspet­ ti non meno reali ed essenziali di quelli che si colgono collocando­ si soltanto nel tradizionale piano bidimensionale. A questo punto tutto il discorso sulla divulgazione cambia. Il riconoscimento di questa possibilità apre infatti la porta della cittadella della scienza anche ai non iniziati. L'attività degli scien­ ziati acquista infatti, oltre al significato direttamente espresso nel linguaggio tecnico della disciplina, un significato che può es­ sere descritto nel linguaggio comune-delle persone colte. La rico­ struzione dei processi storici ed evolutivi ricorre infatti a catego­ rie concettuali e a procedure metodologiche che sono in genere alla portata di una cerchia assai più ampia di quella degli specia­ listi. Alla luce del contesto nel quale sono collocate, le scelte dei problemi da affrontare, le scale di priorità, le controversie inter­ pretative, i mutamenti di punti di vista, che sono incomprensibili e ingiustificabili ricorrendo unicamente a categorie empiriche e logico-deduttive, diventano comunicabili e interpretabili, una volta che si disponga di una descrizione delle tesi a confronto che ne colga il carattere metateorico. In quest'ottica anche discipline come l'epistemologia, la sto­ ria e la sociologia della scienza perdono il loro carattere di setto­ rialità e di incomunicabilità, che si manifesta spesso nell 'affer­ mazione di una pretesa supremazia concettuale di ognuna nei confronti delle altre, per diventare fonti complementari e indi­ spensabili di conoscenza che gettano luce da punti di vista diversi di un processo evolutivo che per es sere compreso deve, appunto, essere "preso insieme" nei suoi molteplici aspetti. Mi preme sottolineare che il ricorso a questa terza dimensio­ ne evolutiva non è un éscamotage o un surrogato. Al contrario, è la concezione dominante della scienza che comporta il ricorso nella divulgazione a trucchi da prestigiatore. Soltanto se si pre­ tende di proiettare tutto lo spessore del processo di sviluppo del­ la scienza sul piano logico-empirico ci si trova infatti di fronte al problema, in realtà insolubile, di descriverlo traducendo il lin­ guaggio specialistico della disciplina nel linguaggio comune. Il ri9

sultato è, come ho cercato di argomentare, quello di travisare e banalizzare il contenuto logico-empirico dell'impresa scientifica e al tempo stesso di eliminarne quello storico-culturale. Voglio tuttavia, a scanso di equivoci, chiarire bene che entrambi questi contenuti sono essenziali, e dunque che sarebbe altrettanto arbi­ trario se si pretendesse di ridurre questo processo alla sua sola dimensione storica, con la riduzione della sua dinamica ai soli mutamenti del contesto sociale, perdendo in tal modo la specifici­ tà degli obiettivi conoscitiv_i che lo giustificano. Il punto essenziale da cogliere in questo modo di vedere il pro­ cesso di crescita della conoscenza scientifica in una prospettiva "tridimensionale" è il riconoscimento della differenza fra ciò che è avvenuto e ciò che deve ancora realizzarsi . Il fatto che un evento si sia verificato non implica che esso doveva necessariamente ve­ rificarsi, anche se, una volta che le cose sono andate in un modo, non si può più tornare indietro. È indubbiamente vero che Napo­ leone è stato sconfitto a Waterloo, ma questa sconfitta non era ineluttabile: è lecito domandarsi perché le cose non sono andate diversamente. Ora, ciò che caratterizza la storia scritta dai vinci­ tori e la distingue in negativo dalla critica storica è proprio l'at­ tribuzione del carattere di necessità a tutto ciò che è accaduto. La concezione tradizionale fa proprio questo: identifica la scienza quale essa è oggi come l'unica scienza che avremmo potuto avere. È un errore epistemologico grave: ma mentre è abbastanza scon­ tata l 'affermazione che il processo evolutivo della specie avrebbe potuto avere infiniti altri sbocchi rispetto a quello rappresentato dalla varietà delle attuali forme viventi (anche se non possiamo verificarla perché è impossibile ricominciare da zero la storia dell'evoluzione della vita sulla Terra), è ancora considerata un'e­ resia sostenere che il complesso ed eterogeneo edificio della scienza contemporanea avrebbe anche potuto essere completa­ mente diverso. Da questo errore discende anche la mancanza di problematici­ tà che caratterizza in genere il resoconto di Ùn nuovo risultato scientifico. Se infatti la scienza di oggi discende ineluttabilmente da quella di ieri, ne segue che anche quella di domani sarà conse­ guenza necessaria di quella di oggi. In altri termini, che c'è una sola risposta giusta a qualunque domanda ci venga in mente di formulare sulla realtà circostante, e dunque che necessariamen­ te, se due scienziati non sono d'accordo, uno dei due ha sbagliato perché non ha rispettato le regole del metodo scientifico. Questa mancanza di problematicità si riscontra non soltanto, come ab­ biamo detto, a livello di divulgazione, ma anche, come avremo modo di vedere in dettaglio, a livello di letteratura specializzata. Questa premessa, forse eccessivamente lunga, mi sembra ne­ cessaria per cercare di spiegare le ragioni e i propositi di questo libro. È chiaro a questo punto che non vuole essere un testo di di10

vulgazione nel senso tradizionale. Tanto meno vuole essere un saggio su una delle discipline accademiche che assumono la scienza come oggetto di indagine, anche perché io non apparten­ go professionalmente a nessuna di esse. Esso si propone piutto­ sto di criticare la concezione tradizionale dell'impresa scientifi­ ca, fondata sull'assunto della sua completa autonomia dal conte­ sto sociale e sull'imperativo deontologico dell'eliminazione dei giudizi di valore dal processo di crescita del suo patrimonio cono­ scitivo, per tentare di rappresentarla guardandola da più angola­ zioni, fornendone un'immagine che sia al tempo stesso più ade­ rente alla sua vera natura di attività sociale umana e più adegua­ ta all'obiettivo di coglierne, ed eventualmente controllarne, l'im­ patto presente e futuro sull'intera collettività della quale questa attività è parte integrante. In altre parole, il libro si propone di mostrare che la scienza non è una città ideale unitaria, regolata da norme metodologiche e da principi epistemologici validi per tutti i suoi abitanti, fissati una volta per tutte, ma un agglomerato di costruzioni erette in tempi diversi con stili differenti e abitato da comunità che parla­ no lingue diverse. Vedremo perciò, nella prima parte, come siano mutati con il tempo e si siano differenziati con il crescere dei set­ tori disciplinari i linguaggi adottati dalle rispettive comunità per rappresentare l 'insieme delle conoscenze accettate come valide in un dato momento storico. Verranno dunque esaminati, in suc­ cessione storica, quattro modi diversi di guardare la realtà e di descriverla. Il primo sta alla base del linguaggio della fisica newtoniana, che è fondata su una concezione deterministica di ogni evento che accade, per tale concezione, in un dominio isolato del mondo cir­ costante, e dunque sulla certezza della completa prevedibilità di ogni fenomeno in quanto riconducibile all'esistenza di leggi sem­ plici e universali della natura. Questo linguaggio, che è stato il modello di scientificità per tutte le altre scienze fino a non molti anni fa, comincia a manifestare fin dalla seconda metà dell'Otto­ cento i sintomi di una crisi che porterà, attraverso scontri anche aspri fra sostenitori di scelte epistemologiche e metodologiche differenti, alla formulazione dei nuovi linguaggi delle scienze del Novecento. Il secondo, nato da quella crisi, dà fondamento al linguaggio della fisica quantistica, che ha accettato, non senza contrasti che in parte sopravvivono anche oggi, l' idea dell'esistenza di fenome­ ni naturali intrinsecamente casuali, non interpretabili come ef­ fetti di cause agenti esterne, rompendo dunque con la tradizione scientifica fondata sul determinismo e sulla convinzione della poss ibilità di rappresentare esaurientemente tutte le proprietà di un s istema i solandolo dal contesto. Il terzo, che risale agli inizi degli anni sessanta, introduce una 11

molteplicità di linguaggi adatti a rappresentare le proprietà dei sistemi caratterizzati da una complessità strutturale e funzionale che impedisce di dedurle direttamente da quelle dei loro compo­ nenti. Essi si basano dunque sul riconoscimento dell 'insufficien­ za del riduzionismo come unico metodo scientifico valido, accet­ tando l'irriducibilità dei diversi livelli di organizzazione di questi sistemi e l'impossibilità di trovare spiegazioni esaurienti delle lo­ ro proprietà senza ricorrere a categorie storico-evolutive. Gli or­ ganismi biologici sono ovviamente esempi tipici di questa classe di sistemi, ma è sempre più diffusa la convinzione che a sistemi comunque dotati di maggiore o minore complessità sia ricondu­ cibile la maggior parte dei fenomeni naturali e probabilmente di quelli sociali . In altre parole questo modo di guardare la realtà porta a ritenere che i fenomeni semplici, manifestazione di leggi naturali universali, che per la scienza classica erano la regola, siano in realtà rare eccezioni. Il quarto, infine, tenta di sviluppare linguaggi adatti a descri­ vere e comprendere le proprietà di quei particolari sistemi com­ plessi che sono le menti degli esseri viventi, e in particolare la mente umana. Questo punto di vista differisce dagli altri per una ragione essenziale. È infatti quello del soggetto che osserva e de­ scrive se stesso. Il concetto di autoreferenzialità, con tutti i suoi paradossi, diventa dunque un elemento comune fondamentale di questi linguaggi, che d'altra parte possono differire tra loro an­ che radicalmente a seconda delle premesse non solo epistemolo­ giche, ma anche ideologiche ed etiche sulle quali vengono co­ struiti. La seconda parte del libro si propone, a questo punto, di rico­ struire il rapporto fra l'evoluzione dei concetti e delle categorie del pensiero scientifico descritto nella prima parte e il tessuto culturale e sociale nei quali esso si è svolto. In altri termini di ve­ rificare l'ipotesi che la scienza non è un'impresa autonoma razio­ nalmente comprensibile sulla base di una dinamica regolata da norme interne fis sate una volta per tutte, ma un concreto proces­ so di apprendimento sociale, dotato di regole specifiche che a lo­ ro volta dipendono dal contesto storicamente dato. Questo non significa, come comunemente si crede, sostenere che i linguaggi disciplinari delle diverse scienze sono direttamen­ te condizionati dalle pressioni e dalle richieste provenienti da fat­ tori sociali esterni. Intendo invece sostenere la tesi che essi muta­ no solo indirettamente in conseguenza dei mutamenti indotti da questi fattori sul complesso dei criteri metateorici che le rispetti­ ve comunità adottano per valutare l'accettabilità o meno delle proposte di innovazione avanzate dai singoli scienziati. Questa te­ si, che viene messa a confronto, mi auguro in modo convincente, con alcune delle principali teorie "esterniste" proposte da episte­ mologi e sociologi negli ultimi anni, garantisce, introducendo 12

una connes sione sufficientemente flessibile fra la sfera della pro­ duzione di conoscenza scientifica e l'ambiente circostante, una relativa autonomia di questa sfera in condizioni normali, ma spiega anche come possa accadere che, quando circostanze stori­ che eccezionali portano a un rapido cambiamento delle idee do­ minanti nel tessuto della società, anche i linguaggi scientifici su­ biscano mutamenti radicali. Diventa a questo punto possibile affrontare, nell 'ultimo capi­ tolo, il tema del rapporto fra scienza e società. Soltanto un'artico­ lazione sufficientemente flessibile dell'interfaccia fra l'una e l'al­ tra permette infatti, a mio giudizio, di affrontare quello che a me sembra il problema fondamentale della società contemporanea, cioè il problema dei modi e delle forme possibili di un controllo sociale del processo di sviluppo scientifico e tecnologico. La ra­ gione è semplice. Se un controllo appare indilazionabile a seguito dell'acuirsi della contraddizione fra il peso determinante che questo processo assume nei confronti del futuro della nostra spe­ cie e il suo sfuggirci sempre più dalle mani ogni giorno che passa, è d'altra parte necessario garantire che esso venga esercitato sen­ za trasformarsi in una diretta indebita intrusione nella sfera di autonomia relativa che deve essere assicurata all'impresa scien­ tifica. Per risolvere questo dilemma appare dunque assai utile quella distinzione fra i linguaggi disciplinari e i criteri metateori­ ci di scelta delle rispettive comunità che è il filo conduttore di tutto il libro. Una volta accettata questa distinzione, infatti, il riconosci­ mento che la tradizionale divisione fra conoscenza e valori non regge più in un mondo dove i condizionamenti reciproci fra scien­ za, tecnologia e società sono di fatto assai intensi anche se spesso nascosti e negati, non si traduce nella identificazione tout court fra la crescita della conoscenza scientifica e le conseguenze di­ struttive di una crescita illimitata e incontrollata della produzio­ ne di merci, ma diventa la giustificazione per una richiesta socia­ le di mutamento della deontologia professionale degli scienziati. Accade sempre più frequentemente infatti, in particolare nel­ le discipline di avanguardia dedite allo studio dei fenomeni biolo­ gici e mentali degli esseri viventi, o nelle aree di ricerca interdi­ sciplinare che si occupano di problemi globali giudicati dalla so­ cietà urgenti e importanti, che premesse differenti di carattere metascientifico (culturale, morale, ideologico, economico ecc.) conducano alla formulazione di teorie scientifiche fra loro alter­ native aprendo così la strada alla possibilità di scelte socio-tecni­ che differenti con ricadute diverse su soggetti sociali diversi. Oc­ corre dunque sfatare l 'opinione, accreditata dalla tesi dominante dell'avalutatività dei giudizi di fatto nella conoscenza scientifica, che soltanto una di queste alternative sia scientificamente giusti­ ficabile, mentre le altre sono mistificazioni. 13

Il corrispettivo del diritto degli scienziati all'autonomia di­ venta perciò il dovere da parte loro di rendere espliciti i nessi fra le premesse metateoriche e le teorie scientifiche che su di esse si fondano, e contemporaneamente di esplorare nei limiti del possi­ bile le conseguenze delle scelte pratiche che discendono da que­ ste ultime nei confronti dei differenti agenti sociali che sarebbero costretti a subirle. Soltanto un dibattimento fra sostenitori di scelte differenti formalizzato da regole precise che ne·assicurino la trasparenza potrà a questo punto fornire all'opinione pubblica e ai soggetti coinvolti quegli elementi di informazione indispensa­ bili perché possano partecipare responsabilmente all'elaborazio­ ne di una politica della ricerca capace di salvaguardare al tempo stesso la libertà dei ricercatori e il diritto dei cittadini a non subi­ re passivamente le eventuali conseguenze nocive di decisioni pre­ se a loro insaputa. Sarebbe già un risultato utile, credo, se questo libro riuscisse a dare anche solo uno stimolo per cominciare a discutere di que­ sti problemi. È un piacere per me a questo punto ricordare gli amici che mi hanno in vario modo aiutato a portare a termine il mio progetto. La mia gratitudine va particolarmente a Michelangelo De Maria, al quale mi lega non solo una trentennale amicizia, ma anche una lunga consuetudine di interessi culturali e di lavoro di ricerca in comune, per aver contribuito a chiarirmi molte questioni di sto­ ria della fisica. In particolare lo voglio ringraziare, insieme a Ele­ na Gagliasso e Fabio Terragni, per aver fatto la fatica e avuto la pazienza di leggere le successive versioni del libro, formulando critiche utili e suggerimenti preziosi sia per quanto riguarda gli argomenti di loro specifica competenza sia entrando nel merito del discorso complessivo. Il loro aiuto e incoraggiamento sono stati fondamentali per vincere molti dei miei dubbi e delle mie esitazioni. Né voglio dimenticare il lavoro di ricerca svolto negli ultimi anni in collaborazione con Maurizio Serva che ha contribuito in modo determinante alla soluzione di alcuni dei problemi di fon­ damento della meccanica quantistica discussi nel secondo capito­ lo. Così come è stato prezioso lo stimolo all'approfondimento dei temi che in esso sono trattati del contatto quotidiano con gli stu­ denti che ogni anno si sono avvicendati nel mio corso di Teorie quantistiche all'Università di Roma. Il mio ringraziamento va anche, e non marginalmente, a tutti coloro che per trent'anni hanno contribuito all'elaborazione del discorso sulla scienza presentato in questo volume, attraverso la partecipazione comune a un progetto politico-culturale sul tema del rapporto fra scienza e società ispirato ai valori della sinistra, che, nonostante le delusioni e gli sbagli, le ingenuità e gli estremi­ smi, più che mai rappresenta oggi la speranza di trovare una via

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d'uscita "dal volto umano" all'incubo delle incombenti minacce di autodistruzione della nostra specie. Fra di essi rientrano a buon diritto i coautori di L 'ape e l 'a rchi­ tetto (G. Ciccotti, M. De Maria, G. Jona-Lasinio) e di Il gioco delle regole (Danielle Mazzonis). Fra gli altri voglio ricordare colletti­ vamente il lavoro appassionato fatto insieme prima nel gruppo di "Sapere" diretto da Giulio Maccacaro, e poi in quello della rivista "S. E./Scienza Esperienza". Così come mi piace ritornare con la memoria a un'altra tappa formativa del mio percorso: l 'esperien­ za dell'organizzazione dei seminari delle "1 50 ore" all'Università di Roma fatta con sindacalisti, colleghi, operai e studenti. Né pos­ so dimenticare il collettivo de "il manifesto", giornale al quale so­ no legato affettivamente fin dalla sua fondazione, che ha pubbli­ cato la maggior parte delle mie riflessioni. Nella fase più recente, il centro dei miei interessi si è spostato sui temi che caratterizzano l'ambientalismo scientifico. È nato così uno scambio assai fertile di idee e di esperienze con gli amici della Legambiente, fra i quali cito soltanto, per non far torto a nessuno, l'indimenticabile Laura Conti. Ma soprattutto, per finire, voglio ringraziare tutti i lettori del­ le cose che ho scritto, gli amici, i compagni che ho incontrato nei convegni e nei dibattiti ai quali ho partecipato per tanti anni e in tante città, che con le loro domande, le loro curiosità e la loro simpatia hanno contribuito a dare un senso alla mia attività quo­ tidiana. novembre

1993

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Parte prima I LINGUAGGI DELLE SCIENZE

1. Il linguaggio della certezza

1 . 11 mondo di A ristotele e l 'unive rso galileiano

Un lampadario oscilla nel duomo di Pisa. Un giovane barbuto - siamo negli ultimi anni del Cinquecento - segue distrattamente la funzione religiosa. Il lampadario attira la sua attenzione. Piano piano le oscillazioni si smorzano, l'ampiezza si riduce gradata­ mente finché il movimento diventa impercettibile. Chiunque al­ tro avrebbe visto il fenomeno come una conferma della dottrina aristotelica: nel moto naturale ogni corpo tende a raggiungere il punto più basso compatibile con i vincoli, e il lampadario deve, prima o poi, ridursi in quiete. Questo è il "fatto" importante; le fa­ si di risalita sono soltanto conseguenze accidentali del violento allontanamento iniziale del corpo dal suo luogo naturale. Ma il giovane vede lo stesso fenomeno con occhi diversi. Sono le oscillazioni il "fatto" importante. Esse rivelano che, se si tra­ scura come accidentale il graduale smorzamento, il moto verso il basso e quello verso l'alto sono ugualmente naturali, perché re­ versibili tra loro. Soltanto in quest'ottica acquista significato do­ mandarsi quanto tempo ci vuole perché il pendolo compia un'o­ scillazione completa: se discesa e risalita sono moti qualitativa­ mente differenti il problema non esiste, perché non esiste un'o­ scillazione completa. Soltanto la decisione di unificare i due moti considerati fino ad allora diversi permette al giovane di constata­ re - la leggenda dice che abbia utilizzato il battito del polso per averne conferma - che questo tempo è praticamente costante tan­ to per le oscillazioni più ampie che per quelle più limitate. È la "legge dell'isocronismo delle oscillazioni del pendolo" che Galileo ancora studente avrebbe trovato in questo modo. Tutti oggi diciamo che la spiegazione del fenomeno data da Galileo - che il moto oscillatorio è il risultato dell'accelerazione impressa al corpo dalla gravità terrestre alla quale esso è sempre sottoposto sia durante la discesa che durante la risalita - è quella 17

giusta, mentre quella aristotelica è sbagliata. In senso banale è vero. Ma è un'affermazione che non ci porta molto lontano. Anzi, essa ci impedisce di capire bene che cosa vuol dire spiegare un fe­ nomeno in modo diverso da quello comunemente accettato. Ha ragione Thomas Kuhn quando parla, a questo proposito.di "riorientamento gestaltico" 1 dell'intero dominio percettivo. Il si­ stema delle conoscenze è una struttura assai complessa e stratifi­ cata in molti livelli. Non si può pensare di introdurre una profon­ da modificazione "locale" lasciando invariato tutto il resto. Di conseguenza, accettare la nuova spiegazione significa spesso but­ tarne a mare una grande quantità di altre che apparentemente funzionano. Può significare anche rimettere in discussione le pre­ messe epistemologiche sulle quali si fonda la ricerca di nuove co­ noscenze; ossia riconsiderare i criteri in base ai quali si giudica circa la validità e la verità di queste conoscenze. Insomma, per in­ trodurre una radicale innovazione nel modo di vedere e interpre­ tare un dato fenomeno occorre modificare tutto il modo di vedere e di interpretare il resto del mondo. Occorre soprattutto relegare in secondo piano alcuni aspetti della realtà ritenuti fino a quel momento essenziali, e concentrare l'attenzione su altri aspetti considerati irrilevanti nella concezione dominante. Vediamo me­ glio ciò che questo vuol dire nel caso di Galileo. La concezione aristotelica era basata su una netta dicotomia fra il mondo sublunare, caratterizzato dalla trasformazione, dal mutamento, dalla caducità, dalla nascita e dalla morte, e quello delle sfere celesti, dove regnano l'armonia, la regolarità, la perfe­ zione del moto circolare, la ripetizione immutata delle manifesta­ zioni di una sostanza eterna e incorruttibile. Nel mondo sublunare, visto come un sistema organico dove è continuo lo scambio tra vita e ambiente circostante, non c'è sepa­ razione netta fra materia inanimata ed esseri viventi. Non ha sen­ so dunque isolare le proprietà del moto della materia in categorie interpretative a sé stanti. Giustificata dunque la distinzione fra moto naturale, rivelatore della sostanza di un corpo, e moto vio­ lento, artificiosamente impresso a esso dall'esterno. Se cade que­ sta distinzione, dice Simplicio, l'aristotelico, "non avremmo al­ cun modo per capire e distinguere la natura dei corpi". Questa di­ stinzione, va sottolineato, non contrasta con l'esperienza senso­ riale, ma anzi, discende da essa. Soltanto l'osservazione diretta dei fenomeni quali si presentano in natura, senza interventi arti­ ficiosi da parte dell'uomo, rivela infatti la realtà naturale. Una volta stabilito che questa è la realtà che deve essere spiegata, i criteri esplicativi seguono a partire dall'assunzione dell'unità del mondo terrestre. È questa unità che giustifica infatti l'adozione 1

T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino

1 969, p. 1 39. 18

di spiegazioni teleologiche, di categorie qualitative e analogiche fra comportamento umano e fenomeni naturali. La validità di questi criteri non può dunque essere contestata sulla base dell'e­ videnza empirica, ma soltanto introducendo un'altra definizione di realtà. Per Galileo quest'altra realtà si fonda sull'abbattimento della barriera fra cielo e terra. L'universo è unitario, la sostanza dei corpi celesti non è una "quinta essenza" incorruttibile. Essa è la stessa dei corpi terrestri. E poiché i primi rivelano che l'unico mutamento reale è il movimento, anche sulla Terra deve essere possibile ricondurre ogni mutamento, per quanto sostanziale e ir­ reversibile possa apparire, al moto delle sue infime parti. Al di­ sotto delle apparenze, l'universo è semplice, regolare, ripetibile, così come si mostra in cielo. Ed è perciò intelligibile a patto di im­ parare "a intender la lingua, e conoscer i caratteri ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i suoi caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intenderne umanamente parola".2 L'unità dell'universo, tuttavia, è soltanto teorica. Nella prati­ ca occorre infatti interrogare il gran libro della natura là dove si presenta nella sua massima semplicità e regolarità: lontano dalla complicazione e dall'irregolarità -che caratterizzano il turbinio dei fenomeni terrestri. Soltanto un'accurata selezione all'interno di questo mondo disordinato può permettere di individuare alcu­ ni fenomeni particolarmente semplici, sfrondandoli dalle acci­ dentalità contingenti, e di interpretarli mediante l'armonia del linguaggio geometrico. Ma in questo modo ciò che si guadagna in profondità si perde in estensione. In un passo della prima giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo3 Galileo sostiene proprio che la conoscenza umana può attingere, attraverso la matematica, alla stessa profondità di quella divina, ma soltanto per quegli argo­ menti limitati e particolari che l'uomo è in grado di affrontare, mentre quella divina è simultanea, onnicomprensiva e totale. La conoscenza della totalità dell'universo in tutta la sua armonia di­ venta prerogativa esclusiva della divinità, ed è preclusa all'uomo, che deve accontentarsi, con la matematica, di sondarne ogni volta separatamente un aspetto particolare. Questo atteggiamento nei confronti della natura porterà, nei secoli successivi, alla nascita delle scienze moderne come disci­ pline settoriali, che non si pongono l'obiettivo di una conoscenza unitaria del mondo, ma si costituiscono attraverso la selezione, nei diversi aspetti della realtà, di fenomeni caratterizzati da sem-

2 G. Galilei, Il Saggiatore, in Opere di Galileo, voi. VI, p. 232. 3 G . Galilei, Dialogo..., in Opere di Galileo, voi. VII, p. 1 28.

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plicità, regolarità, ripetibilità, reversibilità, ordine e necessità. Solo ciò che mostra queste caratteristiche viene selezionato nel grande caos del mondo e può essere conosciuto. È quindi con la riduzione del complesso al semplice che nascono queste scienze, pagando con lo spezzettamento della realtà e della conoscenza stessa questo loro modo di attingere alla verità, di penetrare nel­ la profondità delle cose. La teorizzazione della necessità di isolare ogni fenomeno dal suo contesto, di interpretarlo mediante una catena lineare di cau­ se ed effetti descritta dall'algoritmo matematico, esclude perciò dalla realtà che può e ssere "compresa" ogni processo irreversi­ bile, irripetibile, disordinato, casuale, caotico, ogni catena cir­ colare di cause ed effetti all'interno di un s istema complesso non riducibile meccanicamente al moto dei suoi costituenti elementa­ ri. Insomma, le scienze nate da questo modo di vedere la realtà sono, da un lato, estremamente potenti, e dall'altro, incapaci, per autodelimitazione, di cogliere gran parte di ciò che avviene intor­ no a noi. I limiti della cultura fondata sull'ipotesi della separabilità del mondo in parti i solate, ognuna delle quali può essere assimilata a un dispositivo sperimentale che reagisce in modo certo e deter­ minato a ogni possibile azione esterna, stanno diventando eviden­ ti oggi, nel momento in cui ci rendiamo conto che la Terra non è fatta così. Anzi, cominciamo ad accorgerci che questa cultura sta producendo disastri imprevisti che non rientrano nei suoi schemi interpretativi. Torneremo più avanti su queste cose, ma questo rapido accenno al presente mi serve per sottolineare lo stretto le­ game esistente fra una determinata concezione della realtà e le forme della conoscenza acquisita nell'ambito di quella conce­ zione. Lo scontro tra Galileo e la cultura aristotelica non va dunque visto, seguendo ciò che comunemente si legge sui libri di scuola, come l 'affermazione del metodo scientifico - un metodo univer­ sale ed eterno fondato sull'alternarsi di "sensate esperienze" e "certe dimostrazioni" - nei confronti di una concezione dogmati­ ca e metafisica della realtà. La sua vera portata s i può compren­ dere soltanto se lo si considera come uno scontro fra due modi al­ trettanto legittimi di osservare la natura, ognuno dei quali ha co­ me conseguenza l 'elaborazione di un proprio sistema coerente ed empiricamente adeguato di conoscenze. Da questo punto di vista sono assai più rivelatori gli errori di Galileo che i suoi successi. Essi dimostrano infatti che egli era as­ sai più impegnato ad affermare la propria concezione della realtà che disposto a riconoscere l'esistenza di ostacoli alla sua diffusio­ ne, rappresentati da fatti in apparente contrasto con essa. Più di una volta è accaduto che Galileo, profondamente convinto del­ la giustezza del proprio modo di vedere la natura, arrivasse a ne­ gare l 'evidenza se questa contraddiceva le proprie convinzioni, e 20

a stiracchiarla fino all'illecito se poteva servire a renderle cre­ dibili. Nella polemica con padre Grassi sulle comete,4 Galileo fa car­ te false per sostenere che esse sono un'illusione ottica, mentre il suo avversario, che passa per un "dogmatico aristotelico", sensa­ tamente gli dimostra che in nessun modo le comete potrebbero muoversi come si muovono se non fossero corpi celesti reali. Non è certo un esempio paradigmatico di quel corretto metodo scien­ tifico che proprio Galileo, come si dice, avrebbe fondato. La veri­ tà è che egli aveva bisogno di liberarsi a tutti i costi dell'ingom­ brante presenza di corpi celesti che sembravano contraddire in modo clamoroso la teoria copernicana. Convinto, giustamente, che quest'ultima non doveva essere abbandonata, e altrettanto convinto, meno giustamente, che le traiettorie dei corpi celesti dovessero essere circolari, non gli restava altro da fare, per spie­ gare quelle traiettorie erratiche e anomale, se non dichiarare che le comete non esistevano. Aveva torto, nel caso specifico, ma ave­ va ragione strategicamente, per mantenere aperta la strada all'af­ fermazione della sua concezione della realtà. La stessa cosa succede con la teoria delle maree. La tenace convinzione che il moto della Terra debba pur avere qualche ef­ fetto osservabile su scala terrestre, nonostante che il principio di inerzia giustifichi l'assenza delle sue più appariscenti manifesta­ zioni (il sasso che cade da una torre tocca terra vicino alla sua ba­ se e non lontano come se fosse rimasto indietro), lo porta a inte­ stardirsi per trent'anni su una spiegazione (fondata sulla compo­ sizione del moto rotatorio diurno con quello annuale attorno al Sole) che è al tempo stesso teoricamente scorretta e in flagrante disaccordo con l'esperienza. Galileo non dà retta a Bacone, che fin dal 1 6 1 9 sottolinea questo disaccordo, né si cura della critica di Jean-J acques Bouchard che nel 1 63 3 gli scrive per fargli notare che "è difficile capire come possa accadere che zone della Terra, che si muovono sempre allo stesso modo le une rispetto alle altre, impartiscano velocità differenti all'acqua che le sovrasta".5 An­ che in questo caso una sola cosa gli importa: battersi con tutti i mezzi a favore della teoria di Copernico. Dobbiamo perciò convenire che, nel caso del confronto fra Ga­ lileo e gli aristotelici, la vittoria non è andata in modo semplice e lineare a chi disponeva di uno strumento sicuro per illuminare la via della verità, sconfiggendo chi brancolava nelle tenebre del­ l'errore e della superstizione. Si è trattato invece di una contro­ versia, nella quale ogni contendente, contrapponendo argomenti

4 W. Shea, Galileo 's intellectual revolu tion, Science History York 1 977, p. 75. 5 Ibid., p . 1 76.

Pubi.,

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di tutti i tipi, utilizzando ugualmente le armi della logica e della retorica, ha fatto il possibile per conquistare il pubblico alla pro­ pria tesi e screditare l'avversario. Soltanto molto tempo dopo che il vincitore ha conquistato il successo, le sue argomentazioni han­ no acquistato rigore ineccepibile e giustificazioni inoppugnabili. Questa differenza fra il momento dell 'invenzione di un nuovo modo di guardare il mondo, e conseguentemente della formula­ zione di un nuovo schema di conoscenza scientifica di alcuni suoi aspetti più o meno fondamentali, e il momento della trasforma­ zione di questo schema in uno strumento consolidato di interven­ to e di controllo della realtà, è essenziale. Essa discende infatti da una concezione generale della storia che considera possibile una molteplicità di sbocchi alternativi di ogni particolare situazione conflittuale, e non pretende di dedurre dal fatto che uno solo di essi si è realizzato l'inevitabilità del suo corso. La continua sotto­ lineatura di questa differenza, unita alla constatazione che la confusione di questi due momenti è un errore logico che porta al­ l'enunciazione di banalità sconcertanti,6 sarà dunque uno dei fili conduttori di questo libro. È dunque lecito chiedersi, se le cose stanno così, quali siano stati i fattori che hanno favorito questo successo. La risposta non può che riferirsi al contesto complessivo all'interno del quale il confronto si è svolto. Il sistema aristotelico comincia a diventare inadeguato nel momento in cui la priorità dell'esigenza di una vi­ sione unificante del mondo terrestre si indebolisce di fronte al moltiplicarsi di fenomeni celesti e terrestri inaspettati, al sorgere di nuove dottrine filosofiche e religiose, alla scoperta di civiltà e di popoli sconosciuti. E nel momento in cui cresce la spinta a co­ struire mezzi e strumenti più efficaci e perfezionati per l'offesa e la difesa, per l'idraulica, per la navigazione, per le tecniche estrattive e metallurgiche, per le arti della manifattura. È il mu­ tamento di contesto che Alexandre Koyré sintetizza con le due formule: dal mondo chiuso all 'unive rso infinito7 e dal mondo del p ressappoco all 'unive rso della p recisione. 8 Si è detto "favorito questo successo" per sottolineare che in nessun modo si vuole ricorrere a un'interpretazione deterministi­ ca di matrice socioeconomica della nascita della scienza moder­ na, da contrapporre all'interpretazione corrente, non meno deter-

6 Come, per fare un esempio, la tesi secondo la quale il fatto che i corpi ca­ dano dappertutto nello stesso modo sotto l'azione della gravità dimostrereb­ be che la scienza è immune da ogni influenza del contesto sociale. 7 A. Koyré, Dal mondo chiuso all 'un ive rso i nfinito, Fe.ltrinelli, Milano 1 970. 8 A. Koyré, Dal mondo del p ressappoco all 'universo della p recisione, Ei­ naudi, Torino 1 967.

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ministica, fondata sull'affermazione della superiorità intrinseca delle categorie esplicative da essa elaborate per l'interpretazione dei fenomeni naturali. Il discorso è un altro. Si tratta invece di ri­ conoscere che ogni svolta nella storia della cultura (e la scienza non è che una delle sue componenti) è il frutto della concomitan­ za di condizioni sociali favorevoli e di proposte di innovazione "convincenti•. Da un lato è infatti necessario che, in un dato momento stori­ co, le risposte, fino a quel momento giudicate adeguate e suffi­ cienti, date dalla cultura dell'epoca alle domande poste dall'incal­ zare dei problemi pratici e ideali della vita degli individui e della collettività, incomincino a rivelarsi limitate e insoddisfacenti. Dall'altro occorre che, quando si manifestano i sintomi di una cri­ si del genere, siano disponibili alternative concettuali capaci di cogliere, al disotto delle apparenze caotiche del mondo fenomeni­ co, quei nessi e quelle relazioni fra elementi della realtà naturale che hanno rilevanza per le nuove domande che nascono dall'evo­ luzione del tessuto sociale. Si tratta insomma di capire che non esistono strumenti e me­ todi "oggettivi", validi in ogni tempo e in ogni luogo, per formula­ re una specie di manuale per l'uso dell'universo, continuamente aggiornato sulla base di una rappresentazione sempre più fedele e dettagliata delle sue parti e dei suoi ingranaggi. Esistono solo strumenti e metodi che ci permettono di selezionare, schematiz­ zare e collegare fatti, esperienze, fenomeni all'interno di un qua­ dro interpretativo coerente con un certo modo di vedere la realtà, che muta al variare di quello Zeitgeist che permea di sé tutto il tessuto sociale di un'intera epoca storica. Alla luce di queste considerazioni l'affermazione che Galileo aveva ragione nella controversia con gli aristotelici perde il valo­ re di assolutezza che di solito le viene attribuita. Tale affermazio­ ne è valida soltanto limitatamente a un periodo storico determi­ nato. Da un lato infatti, molto banalmente, non si può negare che la fisica aristotelica, in un mondo come quello antico dominato dall 'attrito, fosse più aderente alla realtà sul piano empirico e più efficace sul piano pratico di qualunque teoria che consideras­ se questo fenomeno come irrilevante. Dall'altro cominciamo ad accorgerci oggi che il sistema delle scienze galileiane si avvia a di­ ventare inadeguato nel momento in cui la crescente frammenta­ zione delle conoscenze, il perseguimento di innumerevoli obietti­ vi indipendenti e contrastanti, la crescita esponenziale di merci sempre più effimere e ingombranti, il prevedibile esaurimento delle stesse risorse naturali che alimentano questo processo di sviluppo, pongono l'esigenza di collocare nuovamente una conce­ zione unitaria del mondo a fondamento e guida dell'attività cono­ scitiva. È insomma nell'arco di tempo che va dalla prima metà del Seicento alla seconda metà del Novecento che la concezione galileiana del mondo naturale nasce, fiorisce e decade. 23

2. Il modello newtoniano di scienza

Per secoli l'ideale conoscitivo della scienza si è dunque identi­ ficato con la possibilità di prevedere l'evoluzione futura di ogni fenomeno a partire dalla conoscenza della legge che lo regola. La traiettoria di un proiettile, la velocità di caduta di un grave la­ sciato cadere da una certa altezza, il tempo necessario a percor­ rere una data orbita, sono state le prime grandezze calcolabili con precisione grande a piacere, applicando le leggi della dinami­ ca e della gravitazione universale, formulate da Newton nei suoi Philosophiae Naturalis Principia Mathematica. Il successo empirico di questo metodo ha via via rafforzato la convinzione che l'infinita varietà dei fenomeni fisici, nonostante le loro apparenze così diverse, fosse riconducibile a una spiega­ zione in termini di leggi semplici e universali, tale da permettere di prevedere, mediante il calcolo, la successione degli eventi che si sarebbero susseguiti temporalmente all'interno di un sistema dato, a partire dalla conoscenza delle condizioni in cui esso si tro­ vava all'istante iniziale. Fino alla seconda metà dell'Ottocento, questa convinzione si spinse addirittura a immaginare che tutti i fenomeni fossero spiegabili in termini di movimento degli elementi ultimi della materia sotto l'azione di forze agenti a distanza fra di essi. Helm­ holtz, per esempio, nelle considerazioni che precedono la prima formulazione (1 847) della legge che oggi conosciamo come "legge di conservazione dell 'energia", scriveva: "La fisica teorica [ . ] avrà perfettamente condotto a termine il suo compito quando sa­ rà riuscita a ridurre tutti i fenomeni a forze semplici (di attrazio­ ne e di repulsione, la cui intensità dipende dalla distanza) e a di­ mostrare che tale riduzione è l'unica ammissibile per i fenomeni da spiegare. Tale spiegazione rappresenterebbe l'interpretazione necessaria dei fenomeni della natura e ad essa potrebbe quindi essere attribuita una verità oggettiva".9 Il compito della fisica è dunque, secondo questa concezione "meccanicista" della realtà, di realizzare per quanto possibile l'o­ biettivo di quella mente sovrumana, immaginata da Laplace, che, conoscendo in un istante dato, "tutte le forze che animano la natu­ ra e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono", riu­ scirebbe a racchiudere, sottoponendo questi dati all'analisi, "nel­ la stessa formula i moti dei più grandi corpi dell'universo e dell'a­ tomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e tanto l'avveni­ re che il passato sarebbero presenti ai suoi occhi".10 .

.

9 Cit. in E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, Einaudi, Torino 1 958, voi. IV, tomo I, p. 1 ,8 4. 10 P.-S. de Laplace, Théorie Analytique des probabilités, Paris 1 820.

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Ma anche dopo il declino della concezione "meccanicista", che entra in crisi alla fine del secolo scorso sotto l'incalzare di nuovi fenomeni come quelli elettromagnetici, difficilmente inquadrabi­ li nei suoi schemi, l 'ideale conoscitivo della scienza rimane im­ mutato. Esso continua a identificarsi nell'obiettivo della scoperta delle leggi necessarie e universali che determinano il corso degli eventi in ogni dominio della realtà, e permettono quindi di preve­ derlo mediante l'uso del formalismo matematico che lo rappre­ senta. Secondo questo ideale la rappresentazione dettagliata dei fe­ nomeni complicati è inutile e fuorviante. Esso infatti si fonda sul­ la convinzione che qualunque fenomeno può essere sfrondato del­ le accidentalità che non ne alterano sostanzialmente la natura e l'evoluzione. Una volta fatta questa operazione di riduzione al­ l'essenziale, ogni fenomeno diventa semplice, e la sua evoluzione diventa prevedibile, perché è il risultato della necessaria sotto­ missione della natura alle leggi che la regolano. In natura, insom­ ma, accade solo ciò che è prescritto da leggi incorporate nella stessa realtà materiale. È insomma una versione razionale e laica del vecchio detto popolare "non muove foglia che Dio non voglia". Questa volta però Dio stesso è prigioniero delle leggi che ha fissa­ to una volta per tutte. Avremo modo di tornare più avanti sulle caratteristiche e sul­ le conseguenze di questa concezione, che è generalmente etichet­ tata come riduzionista. Mi basta per ora osservare che essa si ba­ sa sull 'assunzione che gli effetti del caso dell'aleatorietà, dell'im­ previsto, tutti fattori che la scienza ha fino a poco tempo fa tenta­ to di esorcizzare, di minimizzare, di relegare al di fuori dei suoi confini, possano essere ridotti fino a diventare trascurabili. Questa assunzione è implicita nella concezione tradizionale, per la quale, come si è visto, l'evoluzione di ogni aggregato di ele­ menti materiali è completamente determinata dalle leggi che ne regolano le reciproche interazioni e dalle loro condizioni iniziali, ed è dunque prevedibile entro margini, riducibili a piacimento, che dipendono soltanto da un'imperfetta conoscenza di questi da­ ti. "Tutti gli avvenimenti - scriveva Pierre-Simon de Laplace - an­ che quelli che per la loro piccolezza non sembrano ubbidire alle grandi leggi della natura, ne sono conseguenza altrettanto neces­ saria quanto le rivoluzioni del Sole. Nell'ignoranza dei legami che li uniscono all'intero sistema dell'universo, li si fa dipendere da cause finali, o dal caso, a seconda che accadano e si succedano con regolarità oppure senza ordine apparente; ma queste cause immaginarie sono state successivamente ricacciate indietro con l'estendersi dei confini delle nostre conoscenze, e scompaiono in­ teramente davanti a una sana filosofia, che non vede in esse altro che l'espressione della nostra ignoranza delle vere cause."11 11 P.-S. de Laplace, Essai philosophique sur les probabilités, Gauthier Vil­ lars, Paris 1 92 1 , p. 2.

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Non c'è perciò contraddizione - afferma Laplace - fra una concezione deterministica del mondo e l 'utilizzazione del calcolo delle probabilità come strumento predittivo dell'evoluzione di una sua parte in condizioni di parziale ignoranza delle sue condi­ zioni iniziali e al contorno. È così diffusa la convinzione che il ca­ so debba essere relegato ai margini della scienza, e possa sussi­ stere all'interno di essa soltanto come fattore rappresentativo di aree di incertezza tollerabili nella descrizione della realtà purché non assumano un peso significativo, da diventare elemento costi­ tutivo della definizione stessa di teoria scientifica anche in disci­ pline assai lontane dalla fisica. Lo stesso Darwin, che, come vedremo meglio tra breve, attri­ buì al caso un ruolo possibile nella produzione delle variazioni somatiche che successivamente vengono selezionate dall'ambien­ te, dichiara per esempio che il ricorso al caso è solo frutto della nostra ignoranza. "Quantunque ogni modificazione debba avere la sua causa determinante - egli scrive nel suo saggio sulle varia­ zioni degli animali e delle piante allo stato domestico - ed essere sottomessa a una legge, noi possiamo così raramente intendere la relazione precisa esistente fra la causa e l'effetto, che siamo por­ tati a parlare delle variazioni come sorte spontaneamente. Noi possiamo chiamarle anche accidentali, ma soltanto nel senso che noi diamo al termine dicendo, per esempio, che un frammento di roccia cadendo da un'altezza deve la sua forma al caso." La convinzione dell'incompatibilità del caso con una spiega­ zione scientifica della realtà è così diffusa che persino Marx, il quale concepisce "lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale", e si propone, mediante "un'indagine scientifica precisa", di fornire la "spiegazione delle leggi specifiche che regolano nascita, esistenza, sviluppo e morte di un organismo sociale dato, e la sua sostituzione da parte di un altro, superiore".12 ritiene che l'eliminazione del caso da una teo­ ria sia un'esigenza essenziale di scientificità. Di questa convinzio­ ne testimonia un curioso e vivace scambio di opinioni contrastan­ ti con Engels, a proposito di un tal Trémaux, che Marx ritiene ab­ bia scritto un libro "che costituisce un notevolissimo progresso su Darwin", mentre Engels ribatte che "il libro non vale niente" e "fa a pugni con tutti i fatti". 1 3 Ciò che colpisce non è tanto il gran­ chio che Marx prende, quanto le ragioni per cui lo prende. Egli è infatti affascinato dal fatto che Trémaux, facendo discendere le differenze fra le specie da ila "conformazione del terreno", riusci­ rebbe a dimostrare necessario "il progresso che per Darwin è pu­ ramente casuale". È chiaro che di fronte alla prospettiva di riu-

1 2 K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma 1 964, libro I, p. 42. 13 Carteggio Marx·Engels, Rinascita, Roma 1 95 1 , voi. IV, p. 440.

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scire a sostituire la casualità con la necessità egli è disposto a passar sopra alle manchevolezze della proposta. Questa concezione della scienza si estende dunque, nell'Otto­ cento, dalla fisica alle altre scienze più giovani, che si andavano sviluppando con l'obiettivo di trovare spiegazioni scientifiche per i processi che avevano dato origine alla conformazione della cro­ sta terrestre e alle diverse forme della vita. Il successo della fisi­ ca di Newton e di Laplace rende infatti questa disciplina un mo­ dello metodologico ed epistemologico per tutte le altre. L'atteg­ giamento prevalente negli studi di storia naturale assume perciò come obiettivo quello di ricondurre la molteplicità e la varietà dei processi osservati a poche leggi formulate nel modo più sem­ plice e astratto possibile. Le ricerche sull'evoluzione furono per­ ciò intese all'inizio come studio delle grandi leggi che determine­ rebbero l'intero corso della storia naturale. Anche qui, la convin­ zione che i fenomeni naturali, una volta sfrondati delle accidenta­ lità, sono semplici, porta alla convinzione che la scoperta delle leggi che li regolano avrebbe permesso, oltre alla spiegazione de­ gli eventi passati, anche la previsione dell'intero corso di quelli futuri. Una rapida ricostruzione della nascita dell'evoluzionismo dar­ winiano conferma l'influenza che su di esso ha avuto questa con­ cezione della scienza, nonostante le potenzialità alternative al mo­ dello newtoniano insite nella teoria, che avranno modo di realiz­ zarsi soltanto nel corso di questo secolo con lo sviluppo della nuo­ va sintesi darwiniana e la sua diffusione.14 Le scienze naturali nascono nel Seicento come descrittive e classificatorie, dominate da una concezione "fissista" che consi­ derava, conformemente agli insegnamenti della Bibbia, eterne e immutabili le differenti forme di vita sulla Terra e le stratifica­ zioni geologiche all'interno di essa. Ma già nel corso del Settecen­ to comincia ad affermarsi una concezione "trasformista", che le considera invece indizio di una "storia naturale" ricostruibile pro­ prio a partire da queste tracce e testimonianze. Scriveva Buffon a questo proposito: "Come nella storia dell'umanità si consultano i documenti, si esaminano le monete e le medaglie, si decifrano le iscrizioni antiche, onde determinare i rivolgimenti e stabilire le epoche della vita spirituale, così bisogna frugare anche per la storia naturale, entro gli archivi del mondo, strappare alle visce­ re della terra i documenti più antichi . [ .. ] Questo è l'unico mezzo per determinare nell'infinità dello spazio qualche punto fisso e per trovare alcune poche pietre miliari lungo la via perpetua del tempo".15 .

14

M. Blanc, Les héritiers de Darwin. L 'évolution en mutation, Seui!, Paris

15

H. Buffon, cit. in G. Pancaldi, Charles Darwin: Storia ed economia della La Nuova Italia, Firenze 1 977, p. 3.

1 990.

natura,

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Il primo ad argomentare in dettaglio la tesi trasformista fu Jean-Baptiste Lamarck. La scoperta di fossili di specie sconosciu­ te che avevano popolato la Terra in passato poteva infatti essere spiegata, una volta esclusa la possibilità di successivi atti di crea­ zione divina intervenuti per rimpiazzare le specie estinte, con l'i­ potesi che queste ultime, invece di estinguersi, si erano trasfor­ mate in quelle attualmente esistenti. Il meccanismo di tale tra­ sformazione, come è noto, fu da Larrtarck individuato nell 'adatta­ mento delle caratteristiche somatiche delle specie al mutamento dell'ambiente. Va notato tuttavia che questo meccanismo è neces­ sario, ma non sufficiente di per sé a spiegare la scala degli esseri viventi, che via via conduce dai più semplici, attraverso gradini crescenti di complessità, all'uomo. Lamarck perciò parla anche, in aggiunta, coerentemente con una concezione deista della natu­ ra a quel tempo assai in voga, di una generica tendenza spontanea allo sviluppo di esseri sempre più perfezionati nella struttura e nelle funzioni, ipotizzando la possibilità dell'esistenza in passato di specie di transizione, provvisoriamente mancanti, a cavallo fra classi diverse. Il vero problema che Darwin si trova di fronte è dunque quello di trovare una spiegazione al processo evolutivo subito dalle spe­ cie facendo soltanto ricorso a categorie esplicative scientifica­ mente accettabili, ossia facendo a meno non solo dell 'intervento divino, ma anche di un ipotetico e sostanzialmente tautologico fi­ nalismo tendenziale della natura verso la perfezione. Il carattere di scientificità della sua teoria è dunque garantito non tanto dal­ l'ipotesi dell'esistenza di un processo che dà origine alla variabi­ lità dei caratteri somatici dei differenti individui di una medesi­ ma specie, quanto dal meccanismo della selezione natu rale, che riconduce a un meccanismo di causa ed effetto la formazione suc­ cessiva di specie dotate di capacità sempre maggiori di adatta­ mento all'ambiente e di competitività per la sopravvivenza. È per questo che Darwin non insiste sulla natura delle varia­ zioni che portano alla nascita di individui più o meno adatti alla sopravvivenza nell'ambiente dato, e talvolta sembra propendere per una loro origine casuale, mentre altre volte pare accettare la spiegazione lamarckiana dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti dai genitori a seguito di un adattamento somatico all'ambiente, o del maggiore o minore uso di determinati organi. L'idea centrale veramente nuova è infatti di riconoscere che gli individui porta­ tori di caratteri vantaggiosi per la sopravvivenza in determinate circostanze ambientali e competitive, trasmetteranno questi ca­ ratteri ai loro discendenti perché si riproducono a un tasso più elevato di quelli più svantaggiati che muoiono precocemente. Questo meccanismo, del tutto naturale e perfettamente necessa­ rio, porta dunque all'accumulazione di variazioni graduali nella popolazione che man mano caratterizzeranno varietà e sottospe28

cie differenti all'interno di una medesima specie, fino a trasfor­ marle in vere e proprie specie distinte. È vero, tuttavia, che le lacune della teoria a proposito del mec­ canismo di trasmissione ereditaria dei caratteri portarono Dar­ win a dover affrontare difficoltà allora irresolubili. Soprattutto egli non era in grado di spiegare come potessero essere trasmesse intatte le variazioni favorevoli da una generazione all'altra senza diluirsi all'interno di una popolazione nella quale dovevano esse­ re presenti variazioni di tutte le grandezze e di tutti i tipi. Soltan­ to la conoscenza delle leggi di Mendel (rimaste sostanzialmente ignorate dalla comunità scientifica per più di quarant'anni dopo la loro pubblicazione nel 1 866) avrebbe potuto fornire una rispo­ sta soddisfacente fondata sulla discontinuità degli elementi (geni) portatori dei caratteri, discontinuità che permette la conserva­ zione integrale da parte della progenie di una variazione anche quando uno solo dei genitori la possiede. Ma i tempi non erano maturi per l'accettazione di un cambiamento così radicale come l'abbandono, nell'interpretazione dei fenomeni naturali, della ca­ tegoria della continuità. L'idea della possibile introduzione della discontinuità fa la sua apparizione, come vedremo, nella fisica soltanto ai primi del Novecento. E forse non è un caso che soltan­ to allora le leggi di Mendel fossero scoperte da Hugo De Vries e diventassero una componente essenziale della teoria dell'evolu­ zione, confermando il carattere casuale dell'origine delle varia­ zioni fenotipiche. Ma su questa nuova fase torneremo in dettaglio più avanti. 16 L'ideale della sostanziale semplicità dell'universo e della sua comprensibilità in termini di leggi necessarie e universali rimane un caposaldo della "metafisica influente" della maggior parte de­ gli scienziati ancora oggi. Lo stesso Einstein, che pure, come avremo occasione di vedere meglio, ha introdotto mutamenti so­ stanziali nel modo di "spiegare" i fenomeni fisici, rimase legato, a questo proposito, alla concezione tradizionale. "Il fine più alto del fisico - egli scrive - è quello di pervenire a leggi elementari, uni­ versali, che permettano la ricostruzione dell'universo per via de­ duttiva: Questo giustifica la supremazia conoscitiva della fisica sulle altre scienze. "Le leggi generali su cui si basa la struttura della fisica - aggiunge infatti - hanno la pretesa di essere valide per tutti i fenomeni naturali. Per mezzo di esse si dovrebbe perve­ nire alla descrizione, cioè alla teoria, di ogni processo naturale, ivi compreso quello della vita:17 Anche un biologo come Francis Crick, uno degli scopritori del16 17

Cap. 5, § 3 . A. Einstein, Idee e opinioni, Schwarz, Milano 1 957, p. 2 1 O . 29

la doppia elica del DNA, ne è convinto. "Quando conosceremo in tutti i dettagli - scriveva pochi anni fa - tutti i passi chimici (che, in ultima analisi, sono fisici) che avvengono nella cellula nel cor­ so dell'intero ciclo cellulare, non ci sarà altro da sapere sulla cel­ lula stessa, e il meccanismo del suo vivere sarà completamente decifrato."18 Insomma, fino agli inizi degli anni venti di questo secolo, la realtà, e non solo quella fisica, è ritenuta intrinsecamente deter­ ministica, nel senso che la sua evoluzione è considerata il risulta­ to dell'esistenza di leggi che prescrivono con assoluta certezza le trasformazioni successive di ogni sua parte. Soltanto quando noi vogliamo isolare una di queste parti dal resto, senza conoscere con precisione il suo stato iniziale e le forze alle quali essa è sotto­ posta, siamo costretti a introdurre nella descrizione della sua fu­ tura evoluzione incertezze e indeterminazioni, e siamo costretti dunque a invocare il caso come fattore che interviene nelle previ­ sioni a rappresentare le conseguenze della nostra ignoranza. La prevedibilità di un fenomeno qualsiasi dipende perciò es­ senzialmente, secondo questo modo di concepire la realtà, dalla completezza delle nostre informazioni e dalla correttezza della nostra teoria. Tutto è prevedibile, dunque, almeno in linea di principio, una volta che siano state scoperte le leggi "vere" che ne regolano il divenire . "Dio non gioca a dadi" diceva Einstein. Ma oggi molti non sono più d'accordo. Per Richard Feynman, che è stato certamente uno dei più geniali fisici contemporanei, "la co­ noscenza delle leggi fisiche non ci dà, automaticamente e diretta­ mente, una comprensione degli aspetti essenziali del mondo". An­ zi, occorre riconoscere che "la natura sembra essere fatta in mo­ do che le cose più importanti del mondo reale appaiano essere conseguenze complicate e accidentali di una molteplicità di que­ ste leggi".19 È possibile cioè che esistano eventi o fenomeni intrin­ secamente casuali, e dunque, intrinsecamente imprevedibili, o prevedibili soltanto entro limiti che non possono essere ridotti. Vedremo che la questione non è di poco conto. Anzi, il dibattito che attorno a essa si sta svolgendo è uno dei numerosi sintomi della crisi che sta travagliando la concezione del mondo nata tre secoli fa con la scienza moderna.

18

F. Crick, Uomini e molecole, Zanichelli, Bologna 1 970. R. Feynman, The Cha racte r of Physical Law, London 1965 {trad. it. La legge fisica, Bollati Boringhieri, Torino 1 97 1 ; la citazione è tratta dalla trad. francese, Seui!, Paris 1 980, p. 1 79). 19

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3. Sintomi di crisi della tradizione newtoniana: Carnot e la nascita della termodinamica I primi sintomi di una rottura con la tradizione che per brevi­ tà chiameremo newtoniana, cominciano già nel primo Ottocento. L'eretico è Sadi Carnot, che getta le basi di un modello di scienza diverso da quello newtoniano sia dal punto di vista metodologico che da quello epistemologico. Basta una frase, tratta dalle sue Ré­ flections sur la puissance motrice du feu, per rendersene conto. "Poiché qualsiasi ristabilimento dell'equilibrio del calorico può essere causa della produzione di potenza motrice, qualunque ri­ stabilimento di equilibrio che avvenga senza produzione di que­ sta potenza dovrà essere considerato come una vera e propria per­ dita; ossia, per poco che ci si rifletta, ci si accorge che qualunque cambiamento di temperatura, che non sia dovuto a un cambia­ mento di volume dei corpi, non può essere che un ristabilimento inutile di equilibrio del calorico."20 Carnot usa qui termini che uno scienziato tradizionale non si sognerebbe mai di usare: parla di perdita e di inutilità. Si tratta di concetti che sono relativi all'uomo, non al fenomeno "in sé". Il ca­ lorico perduto è quello che non produce potenza (meccanica) mo­ trice. La variazione di temperatura inutile è quella che non viene utilizzata per lo stesso scopo. Le categorie concettuali introdotte per analizzare il fenomeno della conversione di calore in potenza motrice (non ci interessa qui discutere la differenza fra la teoria del calorico adottata da Carnot e quella cinetica del calore, alla quale del resto pervenne egli stesso negli ultimi anni di vita) sono dunque espressione diretta dell'interesse a massimizzare que­ st'ultima a parità di combustibile bruciato. Questo modo diverso di guardare le cose ha due conseguenze fond.amentali. La prima è che il tipo di "legge" cercata è qualitati­ vamente diverso da quello delle leggi di Newton, che sono, come si è detto, prescrittive e deterministiche. Essa si prefigge soltanto di stabilire un limite massimo al rendimento di una macchina ter­ mica ottenibile in condizioni ideali. Si tratta dunque di scoprire i divieti che la natura pone all'utilizzazione delle sue forze, di de­ terminare i vincoli che limitano le loro reciproche trasformazio­ ni, piuttosto che di prevedere in dettaglio tutto ciò che deve ne­ cessariamente accadere. La seconda è che il tipo di astrazione necessaria per l'identifi­ cazione dei primi è sostanzialmente differente da quella che oc­ corre fare per inseguire quest 'ultimo obiettivo. Per Carnot è im­ portante ciò che per gli altri è concettualmente da scartare, per-

20 S. Carnot, Réflections sur la puissance motrice du feu, A. Blanchard, Pa· ris 1 953, p. 23. 31

ché egli si muove nel mondo reale dove tutto è irreversibile, e non nelle sfere celesti dove tutto si ripete identicamente. Si badi bene che non si ha qui la solita contrapposizione vec­ chia di duemila anni fra il filosofo che specula e l'artigiano che inventa macchine utili: questo poteva ancora essere vero per Newcomen o per Watt. Carnot non è un costruttore di macchine: è uno scienziato che cerca di formulare la teoria più generale pos­ sibile in grado di interpretare ciò che accade nel mondo reale. La contrapposizione perciò non è tra teoria e pratica, tra generale e particolare, tra universale e contingente, ma tra la concezione della tradizione galileiana, che considera la complessità del mon­ do reale come una pura apparenza, e immagina che esso possa es­ sere ricostruito a partire da alcune leggi elementari fondamenta­ li, e una concezione dell'intelligibilità del reale fondata sull'intro­ duzione di categorie "fenomenologiche" più facilmente adattabili alla complessità dei fenomeni reali. Le idee di Sadi Carnot non ebbero immediata risonanza. Ma nel giro di una ventina d'anni dalla pubblicazione delle Réflec­ tions nasce la termodinamica, che di quelle idee è la formalizza­ zione più completa e coerente, e si afferma come paradigma diffe­ rente da quello newtoniano dominante. Nasce in modo anomalo, non sistematico, come somma più o meno casuale di contributi diversi che all'inizio sembrano avere obiettivi limitati nell'ambi­ to della fenomenologia del calore, e gradatamente assumono il si­ gnificato di elementi costitutivi di una teoria di estrema generali­ tà, che tende ad abbracciare tutti gli aspetti delle proprietà ma­ croscopiche della materia. Conviene a questo punto fare una breve digressione per rias­ sumere sommariamente la storia della formulazione della pri­ ma legge della termodinamica, oggi comunemente chiamata prin­ cipio di conservazione dell'energia. Essa è, come ha mostrato Kuhn,21 la storia di una "scoperta simultanea", alla quale hanno contribuito in modo indipendente una dozzina di scienziati di di­ versa formazione culturale e differente esperienza professionale. Alcuni di essi - R. Mayer, J . Joule, L.A. Colding e H. von Helm­ holtz - enunciarono l'ipotesi della conservazione dell'energia in forma generale tra il 1 842 e il 1 847 all'insaputa l'uno dell'altro, accompagnandola con applicazioni quantitative concrete. Altri, invece, si avvicinarono sostanzialmente allo stesso concetto par­ tendo da punti di vista particolari . Da un lato troviamo Sadi Car­ not già prima del 1 832, M. Séguin nel 1 839, K. Holtzmann nel 1 845 e G.A. Hirn nel 1 854, che riuscirono a esprimere indipenden-

21

T.S. Kuhn, Energy conservation as an example of simultaneous disco· in M. Clagett, Criticai problems in the h istory of science, Wisconsin Univ. Press, 1 959.

very,

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temente la convinzione che calore e lavoro meccanico sono quan­ t itativamente intercambiabili, e a calcolare il valore del coeffi­ ciente di conversione. Dall'altro abbiamo C.F. Mohr, W. Grove, M. Faraday e J . von Liebig, che descrissero tutti il mondo fenomenico come manife­ stazione di un'unica "forza" che poteva apparire come elettrica, termica, meccanica o in molte altre forme, ma non poteva in al­ cun modo essere creata o distrutta nelle trasformazioni da una forma all'altra. Una tale proliferazione di idee sostanzialmente simili non può, evidentemente, essere casuale. Secondo Kuhn tre furono i fattori principali che influirono in modo determinante, ma con peso differente, sullo sviluppo di queste idee . Il primo di questi fattori può essere identificato nell 'accumu­ larsi di una molteplicità di evidenze· sperimentali relative all' in­ terconnessione fra branche diverse della fisica negli anni fra il 1 800 e il 1 835. Dalla scoperta di Volta, che individua la connessio­ ne fra corrente elettrica e processi chimici, si moltiplicano le pro­ ve che mostrano l'esistenza di legami insospettati fra fenomeni fi­ sici differenti . Con Oersted si rivelano gli effetti magnetici della corrente elettrica, con Joule, Seebeck e Peltier si mettono in evi­ denza gli effetti termici della corrente elettrica e viceversa. Con Melloni entra nel quadro la luce e il calore radiante . La catena di trasformazioni si chiude infine con gli effetti meccanici delle cor­ renti dimostrati dalla scoperta di Faraday dell 'induzione elettro­ magnetica. La caduta delle barriere fra i differenti settori che co­ stituivano la fisica del Settecento introduce dunque un nuovo punto di vista in questa disciplina che è la premessa di quella so­ stanziale unificazione che, per l'appunto, si verifica negli anni immediatamente successivi. Il secondo fattore individuato da Kuhn ha radici assai diffe­ renti . Esso si identifica con il diffuso "interesse per le macchine" che è frutto della rivoluzione industriale. Esso è chiaramente de­ terminante per quattro dei pionieri: Carnot, Hirn, Séguin, e Holtzmann, che erano soprattutto interessati alle macchine a va­ pore . Ma questo interesse non avrebbe potuto contribuire allo sviluppo di un concetto così astratto come quello di energia e di un principio così generale come quello della sua conservazione, se esso non avesse indotto anche alcuni degli altri pionieri a con­ siderare come centrale il problema dell 'efficienza della conver­ sione dei processi chimici della combustione e di quelli termici della produzione di vapore in lavoro meccanico utilizzabile. E, a sua volta, il problema della conversione non avrebbe potuto esse­ re posto se non fosse stato chiaramente formulato il concetto di lavoro, sotto lo stimolo della necessità di valutare in modo scien­ tificamente ben definito, la quantità di lavoro produttivo umano (o animale) equivalente che le nuove macchine erano in grado di sostituire. La stessa denominazione scelta (ho rse-powe r caval·

=

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lo-vapore) per l 'unità di lavoro ne identifica chiaramente l'origine economica e sociale. Il terzo fattore infine è identificato nel background culturale comune di sette dei dodici pionieri, che, per la loro appartenenza all'area di influenza del movimento filosofico della Naturphiloso­ phie, sarebbero stati disponibili a porre come premessa più o me­ no cosciente delle loro ricerche la convinzione dell'esistenza di un principio unificatore di tutti i fenomeni naturali . Questo fatto­ re spiegherebbe come sia accaduto che la maggioranza degli scienziati coinvolti appartenesse all'area culturale tedesca, nono­ stante che la Germania fosse a quell 'epoca assai meno sviluppata scientificamente e industrialmente della Francia e dell'Inghil­ terra. L'analisi di questo caso storico,22 costituito da un insieme di eventi indipendenti simili nei risultati, ma diversi per le circo­ stanze nelle quali si sono verificati, permette dunque di rivelare la presenza di fattori "esterni" nell'evoluzione dei concetti della scienza, a dimostrazione dell'insufficienza di una concezione di questa evoluzione circoscritta al dominio dei "puri" fatti empirici e delle teorie preesistenti. Da questo punto di vista infatti né la teoria di Newton, né la fenomenologia dei processi di trasforma­ zione avrebbero richiesto l'introduzione di un nuovo concetto esplicativo come quello di energia, dotato di tale generalità da rendere difficile a prima vista capire come potesse essere effica­ ce dal punto di vista predittivo. Era infatti un concetto che, nell'ambito della meccanica, non introduceva niente di nuovo, essendo del tutto sufficienti le leggi di Newton a descrivere completamente ed esaurientemente qua­ lunque tipo di movimento dei corpi materiali. A stretto rigore dunque, a un newtoniano coerente, il concetto di energia (nelle sue due forme cinetica e potenziale) sarebbe apparso da un lato superfluo, perché questa grandezza, al pari di ogni altra proprie­ tà del sistema, è determinata completamente dalle soluzioni delle equazioni del moto, e dall'altro troppo generico, perché è insuffi­ ciente a fornire tutti gli altri dettagli del processo evolutivo. Del resto, la relazione fra altezza di caduta e vis viva2 3 era già nota fin dal Settecento, senza che ad essa fosse stato attribuito il signifi­ cato di "legge di conservazione" di qualcosa. Nell'ambito della fenomenologia dei processi di trasformazio-

22 La ricostruzione di Kuhn è stata criticata da Y. Elkana nel libro La sco­ (Feltrinelli, Milano 1 977). Ai fini del no­ stro discorso, ovviamente sommario, non ci sembra tuttavia necessario segui­ re i dettagli di questo dibattito. 2 3 La somma della vis viva oggi chiamata energia cinetica ( 1 /2)mv2 - e dell'altezza di caduta (energia potenziale) è costante ed è uguale all'energia meccanica totale.

pe rta della conse rvazione dell 'energia -

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=

ne fra grandezze fisiche di natura differente - da quelle termiche a quelle meccaniche, ma anche tra queste e quelle elettriche, ma­ gnetiche, ottiche e persino chimiche - il nuovo concetto sembrava soltanto permettere di constatare a posteriori che, quando man­ cava "qualcosa" da una parte, ci si trovava sempre dall'altra con "qualcosa" che prima non c 'era. La scoperta della conservazione dell'energia consisteva in sostanza nel verificare che esisteva un rapporto costante fra ciò che scompariva e ciò che compariva. Di­ ventava per esempio pos sibile "prevedere" che, se si riusciva a trasformare calore in lavoro meccanico (sollevare un peso, per esempio), per ogni caloria che mancava nel bilancio termico si sa­ rebbe ottenuto il lavoro necessario a sollevare di un metro una massa di 427 chilogrammi. Un risultato utile, forse, per i costruttori di macchine termi­ che o elettriche, ma dal significato concettuale difficile da ap­ prezzare per chi era abituato a una fisica fatta di capitoli separati contenenti grandezze fra loro incommensurabili. Insomma, tut­ t'al più un prontuario per tradurre dall'uno all'altro. Poteva addi­ rittura sembrare scientificamente fuorviante usare lo stesso no­ me per qualcosa che si manifestava sotto aspetti qualitativamen­ te così diversi . I n effetti la legge d i conservazione dell 'energia è una legge concettualmente diversa da quelle che regolano i fenomeni all'in­ terno dei tradizionali capitoli della fisica. Tali leggi infatti erano in grado di collegare un insieme assegnato di cause date a effetti determinabili quantitativamente con precisione. La legge di con­ servazione dell'energia era invece un vincolo molto generale del tipo: "Tutto può accadere purché siano rispettate certe propor­ zioni". E in effetti inutile e fumoso dovette apparire il nuovo concetto a Poggendorf, un fisico sperimentale peraltro di valore, che, nella sua veste di direttore degli "Annalen der Physik", rifiutò di pub­ blicare i lavori di Mayer e di Helmholtz sull'argomento. C'era tuttavia una profonda differenza fra il punto di vista di Helmholtz e quello di Mayer. Il primo, come abbiamo visto, aderi­ va pienamente all'interpretazione meccanicista della natura, e considerava la sostanziale unità del mondo fisico una manifesta­ zione del movimento dei suoi costituenti elementari. La possibili­ tà di dimostrare la conservazione dell'energia nell'�mbito della meccanica gli permetteva dunque di estenderne la validità ai pro­ cessi di trasformazione allo scopo di pervenire a una più appro­ fondita conoscenza delle forze universali agenti fra quegli ele­ menti. Mayer, al contrario, vide nell 'individuazione di un'equiva­ lenza costante fra grandezze definite nell'ambito di domini feno­ menologici differenti, la scoperta di un "principio supremo" che avrebbe potuto essere usato "come una bussola, per navigare con una guida sicura nell'oceano del particolare". Questa contrappo­ sizione fra i due personaggi prelude allo scontro estremamente 35

aspro che alla fine del secolo vedrà schierati gli uni contro gli al­ tri i sostenitori delle due tendenze che si fronteggiano per tutta la seconda metà dell 'Ottocento: i meccanicisti con Boltzmann in pri­ ma linea da un lato, e gli energetisti, rappresentati da Ostwald, Helm e Mach, dall'altro. Fu uno scontro che assunse anche toni apocalittici, come di­ mostrano le parole di Helm a commento del congresso che si ten­ ne a Lubecca nel 1 895: Nella polemica che si accese [ i n quell'occasione] non si tratta in realtà di atomismo o di spazio occupato da materia continua, non si tratta del segno di disuguaglianza nella termodinamica o dei fondamenti energetici della meccanica: queste sono tutte minuzie; si tratta in real­ tà dei principi della nostra conoscenza della natura [ . . . ] Contro l 'onni­ potenza che il metodo meccanico si arroga, per rappresentare i risul­ tati della nostra esperienza, sorge un metodo nuovo che permette di descrivere le esperienze in un modo più immediato e raggiunge ugual­ mente la generalità dei concetti, indispensabile per una teoria appro­ priata della natura. Se si concepisce l 'energetica con quest'ampiezza, allora la decisione è assai semplice: o la scolastica o l'energetica; non c'è altra scelta. 24

Anche se il nodo fondamentale dello scontro fra energetisti e meccanicisti è, come dice Helm, la radicale differenza nel modo di guardare e descrivere la natura, la questione concreta attorno alla quale si concentra il dibattito alla fine del secolo, coinvolgen­ do anche personaggi che, come Planck, non appartengono né al primo né al secondo schieramento, diventa quella già sollevata da Carnot cinquant'anni prima: l 'origine dell'irreversibilità nella trasformazione dell 'energia meccanica in calore. Codificata nella forma di "seconda legge della termodinamica", che Rudolf Clau­ sius e William Thomson formulano indipendentemente negli anni 1 850- 1 85 1 , questa irreversibilità equivale al postulato dell'impos­ sibilità di una trasformazione che abbia come unico risultato il passaggio spontaneo del calore da un corpo più freddo a un corpo più caldo. Le conseguenze della seconda legge si estendono tuttavia ben al di là dei fenomeni della trasmissione del calore. In associazio­ ne con la prima legge infatti, per la reciproca convertibilità delle diverse forme di energia, questa impossibilità si traduce nell'in­ dividuazione di un senso unico d.i percorrenza per ogni processo di trasformazione di un sistema fisico isolato, e dunque nel rico­ noscimento dell'irreversibilità di ogni evoluzione spontanea che avvenga in natura. Può essere utile a questo punto fare una breve digressione per 2 4 G. H e l m L 'energe tica secondo il suo sviluppo storico, Storia della filosofia , cit., p. 1 57 . ,

...

36

cit. in E. Cassirer,

introdurre il concetto di entropia, definito da Clausius per carat­ terizzare questa irreversibilità. La prima cosa da dire è che l'en­ tropia di un sistema termodinamico è una grandezza definibile soltanto quando esso si trova in equilibrio. In tal caso essa è per­ fettamente determinata dai valori delle variabili (pressione, tem­ peratura, volume ed eventualmente composizione chimica) che ne definiscono lo stato. A stati differenti corrispondono dunque valori differenti dell'entropia, che possono essere calcolati tenen­ do conto in modo opportuno delle quantità di calore scambiate dal sistema con l'ambiente esterno, e delle temperature alle quali questi scambi sono avvenuti nelle successive tappe della transi­ zione da uno stato a un altro. Si può dimostrare che, dati due stati di un sistema isolato caratterizzati da due valori differenti del­ l'entropia, il sistema evolve spontaneamente dallo stato a entro­ pia più bassa a quello di entropia più elevata.25 La seconda legge della termodinamica si può quindi formula­ re dicendo che in un sistema isolato l'entropia non può mai dimi­ nuire. Dal confronto fra i valori dell'entropia di due stati è dun­ que possibile inferire il verso di percorrenza di una trasformazio­ ne spontanea che porti dall'uno all'altro. Corrispondentemente l'aumento di entropia di un sistema isolato è un segnale certo del­ l'irreversibilità delle trasformazioni avvenute al suo interno. Anche la seconda legge, dunque, ha, come la prima, un signifi­ cato epistemologico assai diverso da quello al quale siamo abi­ tuati dal paradigma newtoniano: essa postula l'esistenza di un vincolo, non prescrive dettagliatamente in che modo il sistema evolverà: fissa il verso della trasformazione, non la successione precisa delle sue fasi intermedie. Ma il punto centrale del dibattito che si accende sulla seconda legge è assai più dirompente. A differenza della prima legge, che è perfettamente compatibile con le leggi della dinamica newtonia­ na (anche se, rispetto a esse, il concetto di energia può apparire, come si è visto, ridondante), la seconda legge non lo è. Le leggi di Newton infatti, nate per unificare in un unico quadro interpreta2 5 All'equilibrio infatti l'entropia può variare soltanto se, a una data tem­ peratura T, il sistema cede o riceve una data quantità di calore AQ. La varia­ zione di entropia AS è espressa in funzione di queste due grandezze dalla for­ mula AS AQ/T. Si può infatti dimostrare che soltanto questa dipendenza dal­ la temperatura assicura che l'entropia è una funzione unicamente delle varia­ bili che definiscono lo stato del sistema. Questo significa che la variazione di entropia nel passaggio da uno stato a un altro non dipende dalla trasforma­ zione subita dal sistema in questo passaggio. Se la variazione di entropia AS di un corpo risulta inversamente propor­ zionale alla sua temperatura, il passaggio spontaneo della quantità di calore AQ da un corpo più caldo (a temperatura T 1 ) a uno più freddo (a temperatura T2), ammesso dalla seconda legge, equivale all'aumento dell'entropia del siste­ ma isolato complessivo formato dai due corpi. L'entropia perduta dal corpo più caldo (AQ/T ) è infatti minore dell'entropia acquistata dal corpo più fred­ 1 do (AQ/T 2). =

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tivo i moti dei pianeti e i moti dei corpi materiali sulla Terra (la famosa mela ! ), prescrivono dettagliatamente la forma della traiettoria percorsa, ma non ne fissano il verso di percorrenza, che può essere scelto arbitrariamente. Questa reversibilità della dinamica newtoniana è però incom­ patibile con la seconda legge della termodinamica, che esclude la possibilità di ripercorrere spontaneamente all 'indietro un pro­ cesso di trasformazione naturale. A essere precisi l'esistenza di questa incompatibilità non fu percepita fin dall'inizio. Anzi, la scuola degli atomisti, che avevano, da Maxwell in poi, sviluppato la teoria cinetica26 con l 'intento non solo di spiegare le proprietà dei gas mediante il modello molecolare, ma più in generale di ri­ condurre la termodinamica all'interno del paradigma newtonia­ no, sembrò avere segnato un punto definitivo a favore della con­ cezione meccanica del calore quando Boltzmann formulò una di­ mostrazione (teorema H) dell 'unidirezionalità dell'evoluzione di un gas verso lo stato di equilibrio per effetto delle equazioni del moto che regolano gli urti elastici delle molecole che lo compon­ gono. Questo significava che la seconda legge della termodinami­ ca doveva essere una conseguenza delle equazioni della mecca­ nica. Questo risultato tuttavia fu presto contestato dalle obiezioni, prima di Loschmidt e poi di Zermelo, che criticavano la dimostra­ zione asserendo che essa introduceva implicitamente delle ipote­ si aggiuntive dalle quali discendeva quell'irreversibilità che le equazioni del moto non contenevano. In effetti lo stesso Boltz­ mann, a questo punto, modificò il suo ragionamento introducen­ do una distinzione, basata sul calcolo delle probabilità, fra le con­ dizioni iniziali che portano a un'evoluzione verso lo stato di equi­ librio e quelle che, invece, conducono ad allontanarsene. Poiché risulta che le prime sono enormemente più numerose delle secon­ de, l'irreversibilità della seconda legge si concilia, secondo Boltz­ mann, con la reversibilità delle leggi di Newton, in quanto essa deriva dalle proprietà della stragrande maggioranza delle condi­ zioni iniziali possibili. La seconda legge in questo modo viene a perdere il carattere di legge assoluta e necessaria della natura, a essa attribuito dagli energetisti e dai termodinamici per assume­ re lo statuto di affermazione probabilistica sulle proprietà di qualunque sistema formato da un gran numero di costituenti ele­ mentari. L'entropia di uno stato, infatti, è per Boltzmann nient'al­ tro che una misura della sua probabilità. La legge dell'accresci­ mento spontaneo dell'entropia esprime dunque una proprietà 26 Per una storia dettagliata della contrapposizione fra il programma di ri­ cerca fenomenologico della termodinamica e quello meccanico della teoria ci­ netica dei gas vedi S.G. Brush, Kinetic Theory, Pergamon, London 1 965. Nel seguito ci limiteremo ad accennare ad alcuni dei suoi momenti salienti.

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statistica evidente: quella che uno stato meno probabile deve evolvere spontaneamente verso uno stato più probabile.27 2 7 In un recentissimo libro (Le origini dell 'irreversibilità, Bollati Borin­ ghieri, Torino 1 992) Mario Ageno ridiscute a fondo la questione dell ' irreversi­ bilità, sostenendo che tanto la dimostrazione di Boltzmann quando le obiezio­ ni di Loschmidt e di Zermelo sono errate. Riassumiamo rapidamente i punti salienti della sua argomentazione. Il modello di gas utilizzato da Boltzmann è costituito da un insieme di un gran numero di sferette rigide, rinchiuse in un recipiente dalle pareti perfettamente riflettenti contro le quali rimbalzano, che si urtano fra loro. Poiché tuttavia non è possibile risolvere esattamente le equazioni che descrivono l 'evoluzione dinamica di un sistema cosi complica­ to, è necessario introdurre una schematizzazione abbastanza drastica del pro­ blema per renderlo trattabile. In particolare Boltzmann passa a descrivere il sistema come se fosse formato da una distribuzione continua di punti descrit­ ta da una funzione continua che rappresenta la probabilità che una particella del gas abbia un dato valore della velocità, una volta supposta omogenea la di­ stribuzione delle particelle nello spazio interno al recipiente. Diventa possibi­ le in questo modo scrivere un 'equazione che descrive come varia questa fun­ zione continua di probabilità in conseguenza dei loro urti . Orbene, è proprio questo passaggio da un sistema discreto e deterministi­ co a un sistema continuo e aleatorio che porta, secondo Ageno, all'abbandono di un'assunzione fondamentale: quella della conservazione dell 'energia e del­ l' impulso nell'urto fra due sferette. Se queste leggi sono rispettate, infatti, i valori delle loro velocità dopo ogni urto sono completamente determinati, e dunque un solo stato risulta ogni volta accessibile per il sistema. L'assunzio­ ne dell'esistenza di un ventaglio di stati possibili dopo ogni urto ne implica perciò la violazione. D'altra parte è proprio questo artificio che porta alla di­ mostrazione del teorema H e dunque dell'irreversibilità dell 'evoluzione del si­ stema verso lo stato di equilibrio. Se si deve abbandonare questa approssima­ zione, che risulta fisicamente illecita, l' irreversibilità scompare. Si tratta dunque di capire se è possibile giungere allo stesso risultato, che sappiamo es sere in accordo con il carattere irreversibile delle trasformazioni spontanee naturali, senza rinunciare a imporre il rigoroso rispetto di queste due leggi fondamentali della meccanica. A questo punto Ageno fa vedere che una soluzione del problema si può tro­ vare purché si prenda in considerazione un fatto fisico finora trascurato, ren­ dendo il modello più aderente alla realtà. Si tratta di abbandonare l'ipotesi che le pareti siano superfici ideali perfettamente riflettenti, tenendo conto in­ vece che esse sono fatte di atomi, delle stesse dimensioni di quelli del gas, in­ terconnessi fra loro da una struttura reticolare. Questo implica che la veloci­ tà finale di una molecola del gas dopo un urto contro una parete non è più ri­ gorosamente determinata, ma può assumere qualsiasi valore entro un venta­ glio continuo di valori possibili, perché è tutto l'insieme degli atomi del reti­ colo che interagisce in modo imprevedibile con la particella urtante . L'origine dell'irreversibilità non sta dunque negli urti fra le molecole del gas, come im­ maginavano sia Boltzmann che i suoi avversari, ma negli urti fra molecole e pareti. L'argomentazione di Ageno si spinge ancora oltre, per arrivare all'identifi­ cazione della causa dell 'imprevedibilità del valore della velocità di una mole­ cola dopo l'urto contro una parete, che risulta essere in definitiva l'emissione o l 'assorbimento di radiazione elettromagnetica da parte del reticolo cristalli­ no. La conclusione è drastica: la dimostrazione di Boltzmann non dimostra nulla, perché contiene due errori, uno matematico (il passaggio dal discreto al continuo) e l'altro fisico (l'assunzione che le pareti siano perfettamente ri­ flettenti) che solo per caso, compensandosi a vicenda, portano al risultato cor­ retto. 39

Questa soluzione sanciva un ridimensionamento dello status epistemologico della termodinamica, divenuta una teoria proba­ bilistica, nei confronti della meccanica, che si riaffermava in que­ sto modo come teoria universalmente valida della materia. Que­ sto ridimensionamento, in effetti, ebbe luogo, ma solo alcuni anni dopo, e soprattutto non fu accompagnato da una riaffermazione del ruolo dominante della meccanica. Negli anni successivi infat­ ti una serie di fatti imprevisti e di nuove idee rimescolarono pro­ fondamente le carte, fino ad arrivare, agli inizi del Novecento, a gettare in profonda crisi tutto l'edificio della fisica costruito nel corso dei due secoli precedenti. Nei paragrafi che seguono esami­ neremo in maggior dettaglio i punti salienti di questa vicenda e le controversie che ne determinarono l'esito. 4. La sconfitta dei termodinamici: il compromesso di Planck Il protagonista del primo di questi punti di svolta fu Planck.28 Nei primi anni della sua carriera scientifica egli si occupò essen­ zialmente di termodinamica. Non aveva perciò un'alta opinione della teoria cinetica. "Chiunque abbia studiato - scriveva nel 1 89 1 i lavori di Maxwell e di Boltzmann, i due scienziati che più han­ no approfondito l'analisi del moto molecolare, difficilmente sfug­ girà all'impressione che l'intuizione fisica e l'abilità matematica fuori del comune dimostrate nell'affrontare questi problemi sia­ no state scarsamente remunerate dai risultati ottenuti".29 Un mo­ do gentile per dire: la montagna ha partorito un topolino. Nella polemica tra Boltzmann e Zermelo, Planck si schiera con que­ st'ultimo. Scrive, nel 1 897: -

Sulla questione principale sono d'accordo con Zermelo, cioè penso che non sia possibile derivare la velocità dei processi irreversibili in modo realmente rigoroso dalla teoria contemporanea dei gas. [ . . . ] Il calcolo delle probabilità può servire, se nulla è noto in anticipo, a de­ terminare lo stato più probabile. Ma non può servire, quando un im­ probabile stato iniziale è dato, a calcolare quello successivo. Questo è determinato non dalla probabilità, ma dalla meccanica. Sostenere che il mutamento in natura procede sempre dagli stati con probabilità più bassa a quelli con probabilità maggiore è totalmente privo di fonda­ mento. 30 28 Vedi per es. T.S. Kuhn, Blackbody Theory and the Quantum Discon ti­ nuity, Oxford Univ. Press., 1 978 (trad. it. Alle origini della fisica con tempora­ nea. La teoria del corpo nero e la discontinuità quantica, Il Mulino, Bologna

1 98 1 ). 29 Ibid., p. 22. 30 Ibid. , p. 27. 40

Il programma di ricerca che Planck intraprende a partire dal­ la metà degli anni novanta si fonda dunque sull'assunzione di una scala di priorità relativa al grado di generalità e di validità delle teorie fisiche che vedeva al primo posto la termodinamica, e sol­ tanto al secondo posto l'elettromagnetismo seguito dalla mecca­ nica. Sappiamo già che la prima, in quanto estendeva il suo cam­ po di validità ai fenomeni descritti da entrambi questi settori, era considerata, almeno da una parte della comunità, la teoria più ge­ nerale della fisica. Dobbiamo invece spendere qualche parola per illustrare sommariamente il rapporto fra meccanica ed elettro­ magnetismo negli ultimi anni del secolo. Con Maxwell il processo di unificazione concettuale dei feno­ meni elettrici e magnetici, preparato dall'opera, durata un seco­ lo, 3 1 di una serie di personaggi che vanno, per citare soltanto le fi­ gure più significative, da Coulomb fino a Faraday, passando per Oersted, Laplace, Ampère, Henry, arriva a compimento agli inizi degli anni sessanta. La fisica si presenta a questo punto come co­ stituita da due grandi capitoli separati: da un lato la meccanica newtoniana, che unifica tutti i fenomeni nei quali sono coinvolti corpi materiali dotati di massa soggetti a forze di qualunque na­ tura, e dall'altro la teoria di Maxwell, che descrive unitariamente i fenomeni dell'elettricità e del magnetismo come manifestazione di un unico campo elettromagnetico, in grado anche di propagar­ si nel vuoto (immaginato tuttavia come un mezzo dotato di pro­ prietà particolari: l'etere) sotto forma di onde, identificabili, en­ tro un particolare intervallo di frequenze, con le onde luminose dell'ottica ondulatoria. Il problema della possibile esistenza di una connessione fra i fe­ nomeni meccanici e quelli elettromagnetici era tuttavia presente. Modelli meccanici erano già stati usati da Maxwell per spiegare in termini di proprietà elastiche dei solidi le proprietà elettriche e magnetiche dei mezzi materiali e dello stesso etere, e successiva­ mente modelli basati sulla dinamica dei fluidi furono proposti da W. Thomson (lord Kelvin) ed altri. Con gli anni novanta, dominati dalla figura di Lorentz, va diffondendosi invece la tendenza a consi­ derare come primarie le proprietà del campo elettromagnetico e a spiegare per mezzo di esse le proprietà della materia. Non c'è dunque da stupirsi che Planck nutrisse la speranza, destinata, come oggi appare ovvio, al fallimento,32 che fosse pos3 1 La ricostruzione storica di quest'opera esula dagli scopi di questo libro. Per chi volesse saperne di più rimandiamo a A. Braccesi, Una storia della fisi­ ca classica, Zanichelli, Bologna 1 992, cap. 1 O. Per una trattazione più comple­ ta, vedi E. Whittaker, A History of the Theories of Aether and Electricity, Nel­ son & Sons, London 1 953. 3 2 Anche le equazioni di Maxwell sono reversibili nel tempo come quelle di Newton, e dunque Planck si sarebbe rapidamente imbattuto nella stessa diffi­ coltà incontrata da Boltzmann. 41

sibile fare con la teoria elettromagnetica ciò che non era possibi­ le fare con la teoria cinetica dei gas: dimost rare cioè che le equa­ zioni dell 'evoluzione dinamica del campo elettromagnetico (le equazioni di Maxwell) conducono necessariamente un sistema lontano dallo stato di equilibrio a raggiungere irreversibilmente quest'ultimo. In altre parole dimostrare che la seconda legge del­ la termodinamica, contrariamente a quanto accade per la mecca­ nica, discende esattamente dalle equazioni dell'elettromagne­ tismo. Coerentemente con le sue premesse, dunque, Planck fino al 1 900 usa la termodinamica al tempo stesso come strumento euri­ stico e come criterio di legittimità scientifica. Perciò, quando nel 1 899 riesce a dimostrare che, definendo lo stato di equilibrio del­ la radiazione elettromagnetica in una cavità a elevata temperatu­ ra33 in modo da garantire la validità della seconda legge della ter­ modinamica, si ottiene come distribuzione della densità dell'e­ nergia alle diverse frequenze proprio quella legge di Wien che sembrava in accordo con i dati sperimentali, egli ritiene di avere raggiunto il suo scopo. La giustificazione termodinamica è suffi­ ciente. È soltanto quando, un anno dopo, l'esperienza dimostra che la legge di Wien è in disaccordo con le misure alle basse fre­ quenze, che Planck cambierà atteggiamento. La termodinamica viene ancora utilizzata come strumento euristico, che gli serve per trovare una nuova formula che questa volta riproduce bene i nuovi dati, ma non gli basta più come giustificazione. Per dare un fondamento teorico alla nuova legge di distribuzione egli si vede costretto a ricorrere a quelle stesse argomentazioni probabilisti­ che che aveva tanto criticato in Boltzmann. È un cambiamento radicale di punto di vista, dunque, che lo porta, seguendo il formalismo di Boltzmann, a introdurre, nella valutazione della probabilità dei diversi valori pos sibili dell'ener­ gia degli oscillatori che rappresentano gli elettroni delle pareti della cavità in interazione con la radiazione, quelle unità elemen­ tari discrete di energia - i quanti - che inaspettatamente si rivela­ no e ssenziali per derivare quell'espressione della legge di distri-

33 Tecnicamente una cavità del genere è nota come corpo nero. L'energia totale delle onde elettromagnetiche racchiuse all'equilibrio nel suo interno, risulta, sulla base di considerazioni termodinamiche molto generali, propor­ zionale alla quarta potenza della temperatura assoluta (legge di Stephan). La legge di distribuzione di questa energia totale fra le diverse frequenze, invece, era, a quel tempo, mal conosciuta sperimentalmente e non fondata teorica­ mente. Wien aveva proposto una formula semiempirica che sembrava accor­ darsi bene con i dati sperimentali. Planck si propone invece di dare una base teorica ben fondata a questa legge che al tempo stesso risolvesse il problema dell'irreversibilità. La legge di distribuzione che tuttavia si dimostrerà cor­ retta è quella che Planck determinerà pochi mesi dopo abbandonando l'argo­ mentazione termodinamica. 42

buzione, in perfetto accordo con i dati sperimentali, già trovata per via termodinamica tre mesi prima. Contrariamente a quanto si legge sui manuali, tuttavia, ci vollero quasi dieci anni perché questa discontinuità dell'energia emessa o assorbita dagli oscilla­ tori delle pareti della cavità fosse definitivamente accettata da Planck stesso e dall'intera comunità dei fisici come una proprietà indiscutibile della materia a livello atomico. Essa infatti implicava conseguenze di portata straordinaria proprio nei confronti di quelle leggi della dinamica newtoniana che la maggioranza della comunità aveva voluto riportare in posi­ zione centrale. Avremo occasione di tornare, più avanti, su una valutazione più approfondita di questa svolta. Per ora mi preme sottolineare che essa fu radicale non solo perché, come si legge sui libri, segnò la nascita della fisica quantistic;a,34 ma anche per­ ché, e questo sui libri non si legge, decretò la scomparsa della "freccia del tempo" dalla fisica: da allora l'evoluzione di un siste­ ma verso l 'equilibrio cessa di essere un problema degno di inte­ resse, per lo meno per i fisici. La meccanica statistica s i riduce al calcolo delle probabilità degli stati all'equilibrio. La termodina­ mica di non equilibrio, o dei processi irreversibili, interesserà soltanto, a partire dal secondo decennio del secolo, un ristretto gruppo di scienziati ai margini della fisica vera e propria, consi­ derati piuttosto come appartenenti alla comunità dei chimico-fi­ sici, per i quali la termodinamica resta uno strumento teorico e pratico importante.35 Questa sconfitta storica degli eredi di Carnot merita qualche considerazione. Anche qui il giustificazionismo superficiale della concezione dominante, che vede la scienza come un processo gra­ duale di accumulazione di nuovi dettagli che portano a una rap­ presentazione sempre più fedele della realtà naturale, non vede motivo per interrogarsi sulle circostanze che hanno portato a questo esito, né per domandarsi se un esito diverso sarebbe stato possibile e con quali conseguenze. Dal nostro punto di vista, tut­ tavia, si tratta di domande tutt'altro che prive di senso.

34 Vedi cap. 2, § 1 . 35 Una dimostrazione significativa della marginalizzazione della termodi­ namica all'interno della fisica, non solo per quanto riguarda la ricerca, ma an­ che come componente culturale della preparazione professionale dei fisici, ci viene da una recentissima inchiesta condotta tra gli studenti del corso di lau­ rea in fisica e gli insegnanti delle scuole secondarie (M. Vicentini, Indagine sulle conoscenze in termodinamica degli studenti del corso di laurea in fisica,

nota interna n. 853, 1 6/ 1 0/ 1 985 Istituto Fisica Università di Roma "La Sapien­ za"). Le risposte a un questionario nel quale si alternano domande che si rife­ riscono ad argomenti formalizzati svolti nei corsi universitari a domande re­ lative a fenomeni tratti dall'esperienza quotidiana, mostrano la pressoché to­ tale incapacità degli intervistati di utilizzare la termodinamica come stru­ mento per analizzare e comprendere ciò che ci accade intorno. 43

Se infatti ripercorriamo rapidamente l 'intera vicenda, appare subito evidente che le sorti dello scontro fra le due fazioni che si fronteggiavano inizialmente facendosi portatrici di concezioni della realtà (e della scienza) radicalmente diverse non furono de­ cise da un verdetto inappellabile dei "fatti". Se l'accordo con i dati dell'esperienza fosse stato l'unico criterio di scelta, la spiegazio­ ne termodinamica dello spettro del corpo nero data da Planck nella sua prima memoria del 1 900 sarebbe stata accolta come una conferma della capacità della termodinamica di render conto di una grande molteplicità di fatti apparentemente eterogenei al­ l'interno di uno schema generale di relazioni la cui validità era garantita dal fatto di essere state derivate da principi primi indi­ scutibili. Questa capacità, tuttavia, che, secondo i suoi sostenitori rap­ presentava un pregio nei confronti della concezione rivale, pote­ va essere, dal punto di vista opposto, considerata una prova di ec­ cessiva "elasticità" (la termodinamica, infatti, in quanto teoria fe­ nomenologica, era compatibile sia con la legge di Wien, rivelatasi sperimentalmente inadeguata, sia con quella, corretta, che poi da Planck prese il nome) e perciò di scarso potere predittivo. Tale potere predittivo era invece considerato appannaggio, da un pun­ to di vista di principio, della teoria cinetica, che, partendo dalla dinamica newtoniana, avrebbe potuto prevedere con esattezza il comportamento di un aggregato qualsiasi di entità elementari semplici sottoposte a quelle leggi. Soltanto dal punto di vista di principio però, poiché l'attendibilità delle previsioni era in realtà subordinata a due condizioni: da un lato la veridicità del modello adottato (ipotesi molecolare), a quell'epoca tutt'altro che sconta­ ta, e dall'altro la correttezza matematica dei procedimenti di ap­ prossimazione utilizzati, resi necessari dall'impossibilità di risol­ vere esattamente le equazioni del moto di un sistema formato da un elevato numero di particelle. Di fatto la teoria non sembrava in grado di soddisfarle entrambe. Planck adottò dunque una terza soluzione. Da un lato infatti la termodinamica gli appariva eccessivamente accomodante, e dun­ que non sufficientemente esplicativa, e dall 'altro lo schema di Boltzmann eccessivamente rigido. Di quest'ultimo mantenne per­ ciò l'atteggiamento riduzionista, cioè il modello degli oscillatori interagenti con la radiazione, rinunciando però a una deduzione delle proprietà necessarie a ottenere l'accordo cercato fra teoria e dati sperimentali che fosse fisicamente e matematicamente giu­ stificabile sulla base delle conoscenze disponibili. Ci vollero qua­ si dieci anni, ma alla fine la proposta di Planck di introdurre la di­ scontinuità dell 'energia degli oscillatori fu accettata dalla comu­ nità come la soluzione "giusta" del problema. Questo mutato atteggiamento non è che uno dei tanti esempi della flessibilità e della modificabilità dei criteri che le comunità 44

scientifiche usano per definire priorità, forme e modi dello svilup­ po delle rispettive discipline, criteri che avremo modo di esamina­ re dettagliatamente nella seconda parte di questo libro. Per ora è sufficiente ribadire che la storia della scienza non è altro che un aspetto particolare della storia umana, e, di conseguenza, che la comprensione della succes sione delle sue tappe salienti implica per ognuna di esse una ricostruzione dei sentieri abbandonati, del­ le alternative contrapposte, delle forze e degli interessi in gioco, delle ragioni che hanno fatto prevalere una scelta rispetto alle al­ tre possibili e, soprattutto, dei "vantaggi" che la scelta vincente pre­ sentava per la successiva affermazione nel contesto sociale e cultu­ rale del nuovo modo di vedere il mondo che essa implicava.

5. Dalla fisica costruttiva alla fisica dei p rincipi: il ruolo di Einstein Il 1 905 è un anno cruciale per la fisica: nel giro di pochi mesi Albert Einstein pubblica negli "Annalen der Physik" tre lavori che diventeranno altrettante pietre miliari per lo sviluppo di questa disciplina. Il primo,36 comunemente noto come il lavoro dell'ef­ fetto fotoelettrico,37 ha in realtà portata assai più generale, per­ ché introduce per la prima volta l 'idea che la luce e più in genera­ le la radiazione elettromagnetica di ogni lunghezza d'onda possa presentarsi, oltre che in forma ondulatoria, come era ormai ac­ cettato universalmente da un secolo, anche in forma corpuscola­ re; l'energia E di ogni corpuscolo (fotone) essendo legata alla fre­ quenza v dell'onda corrispondente dalla relazione E = l)v. Questa idea fu considerata per molti anni38 una stravaganza dalla comu­ nità dei fisici, nonostante la successiva verifica sperimentale del­ l'effetto fotoelettrico, perché in completa contraddizione con tut­ te le numerosissime esperienze sulla propagazione delle onde elettromagnetiche. Il secondo,39 noto come il lavoro sul moto browniano,40 mo-

36 A. Einstein, "Annalen der Physik", 1 7 , 1 905, p. 1 32. 3 7 L'effetto fotoelettrico, che ormai è comunemente

utilizato nei campi più svariati, consiste nell'estrazione di elettroni da una superficie metallica colpita da luce di frequenza sufficientemente elevata (in genere nell'ultravio­ letto). È proprio l'esistenza di una soglia, al disotto della quale l'estrazione non ha luogo, la caratteristica prevista da Einstein in base all'ipotesi della na· tura corpuscolare della radiazione. 38 Fino all'esperimento di Compton del 1 92 1 , che confermava le leggi di conservazione dell'energia e dell'impulso nell'urto fra fotoni ed elettroni. 39 A. Einstein, a rt. cit. , p. 560. 40 Già nel 1 827 il botanico inglese Brown aveva scoperto che particelle di dimensioni dell'ordine del micron in sospensione in un liquido, osservate al microscopio, apparivano animate da un moto irregolare ed erratico di origine allora sconosciuta. È tuttavia dimostrato che Einstein non era a conoscenza del fenomeno, che non viene citato nel suo lavoro, tanto che nelle sue conclu­ sioni egli auspica una verifica sperimentale delle sue previsioni, che in realtà era già disponibile. 45

stra che, se è valida la teoria cinetica dei gas, dev'essere possibi­ le rivelare indirettamente il moto molecolare a partire dall'effet­ to, osservabile al microscopio, degli urti delle molecole contro particelle, di massa e di dimensioni molto maggiori, sospese in un liquido o in un gas (per esempio particelle di fumo nell'aria). Einstein individua in questo modo, calcolando esplicitamente il percorso medio delle particelle in funzione dei parametri che de­ finiscono lo stato macroscopico del gas, la possibilità di una con­ ferma delle previsioni della teoria cinetica, e in particolare dell'e­ sistenza reale degli atomi e delle molecole, negata dagli energe­ tisti. Il terzo infine, di gran lunga il più noto all'esterno della comu­ nità dei fisici, intitolato Sull 'elettrodinamica dei corpi in moto, 4 1 è il lavoro che pone le basi della teoria della relatività.42 In esso Einstein affronta la questione della possibilità di rivelare o meno il moto assoluto di un laboratorio ideale (sistema di riferimento) nel quale si eseguano e sperienze di fisica. Già Galileo aveva affer­ mato che soltanto il moto relativo di un corpo rispetto a un altro può essere messo in evidenza, portando a sostegno della sua tesi il famoso esempio del naviglio, il cui movimento rispetto alla co­ sta non è percepibile da chi si trovi sottocoperta (almeno se il ma­ re è calmo !), perché ogni cosa, dalle mosche che volano alle gocce d'acqua che cadono, si svolge al suo interno esattamente come se esso fosse fermo. Questo "principio di relatività galileiano" tutta­ via non era applicabile ai fenomeni elettromagnetici, perché le equazioni di Maxwell che li regolano non rimangono invariate se vengono riformulate in un sistema di riferimento in moto relati­ vo rispetto a quello nel quale assumono la loro forma più sempli­ ce. Questo sistema privilegiato veniva perciò identificato con l'e­ tere cosmico, cioè con il mezzo nel quale si assumeva che le onde elettromagnetiche si propagassero uniformemente con la stessa velocità in tutte le direzioni. Avrebbe dovuto essere possibile dunque, mediante esperimenti di elettromagnetismo, rivelare il moto assoluto di un corpo qualsiasi rispetto all'etere. La propo­ sta di Einstein, consistente nell'assumere che il principio di rela­ tività venga esteso anche ai fenomeni elettromagnetici, postulan­ do che la luce si propaghi sempre uniformemente con la stessa velocità costante in tutti i sistemi di riferimento che si muovono di moto relativo uniforme l'uno rispetto all'altro, porta a preve­ dere deviazioni, verificabili sperimentalmente, nel moto dei corpi

41 42

A. Einstein, a rt. cit. , p. 89 1 . Si tratta della cosiddetta relatività speciale, per distinguerla dalla rela­ tività generale, alla quale Einstein dedicò, a partire dal 1 9 1 6, anno della pub­ blicazione di questa teoria, la maggior parte della sua vita successiva di scien­ ziato. 46

(dell'ordine del rapporto fra la velocità del corpo e la velocità del­ la luce) rispetto alle conseguenze delle leggi della dinamica new­ toniana.43 Questi tre contributi non soltanto appaiono come genialmente innovativi rispetto alle conoscenze condivise e accettate dai suoi contemporanei ma sembrano per di più riferirsi ad argomenti co­ s ì diversi fra loro da accentuare la meraviglia per una fertilità creativa così straordinaria. È tuttavia possibile, fermo restando questo giudizio, cercare da un lato di capire meglio la connessio­ ne nascosta fra questi tre contributi e dall'altro di collocarli con­ cettualmente rispetto allo stato della fisica all'atto della loro pub­ blicazione, per valutarne meglio gli elementi di continuità e quel­ li di rottura. In realtà i tre lavori hanno una radice comune. Possiamo in­ fatti renderci conto che alla base di essi c'è la stessa impostazio­ ne epistemologica e metodologica. Si tratta dell 'abbandono di quella che lo stesso Einstein chiamò "fi sica costruttiva" con l'ado­ zione del quadro concettuale della "fisica dei principi". Boltzmann e Lorentz erano stati i più convinti assertori della prima. Per loro ogni spiegazione valida dei fenomeni fisici doveva ricondurre le proprietà e il comportamento di ogni sistema com­ plesso a interazioni semplici e universali fra i suoi costituenti ele­ mentari . In questo contesto il criterio di semplicità implica che debba essere semplice e universale la legge dinamica a livello ele­ mentare, a costo di ottenere una formulazione complicata e ap­ prossimata della descrizione di ogni fenomeno che coinvolga una molteplicità di elementi costituenti. Ecco come lo stesso Einstein descriveva nel 1 9 1 9 questo approccio: La maggior parte [delle teorie della fisica] sono teorie costruttive. At­ traverso un sistema di formule relativamente semplice situato alla base, esse cercano di costruire un'immagine di fenomeni relativamen­ te complessi. Così la teoria cinetica dei gas tende a ridurre i processi meccanici, termici e di diffusione a movimenti di molecole, cioè a co­ struirli partendo dall'ipotesi del movimento molecolare. Quando si dice che si è pervenuti a comprendere un insieme di processi naturali, ciò significa sempre che si è trovata una teoria costruttiva che abbrac­ cia i fenomeni in questione.

Questa concezione aveva una sua giustificazione finché si po­ teva essere certi della validità assoluta delle leggi dinamiche ele­ mentari. Essa è invece inutilmente macchinosa e addirittura fuor-

43 Può essere interessante ricordare che i primi esperimenti (W. Kaufman) che citano il lavoro di Einstein, rivelano una discordanza fra i risultati e le sue previsioni. Einstein affermò molti anni dopo che la cosa non lo preoccupò affatto, perché era sicuro che la sua teoria era giusta e che gli esperimenti do­ vevano essere sbagliati. 47

viante nel momento in cui sono proprio quelle leggi a essere mes­ se in dubbio. Diventa perciò necessario un nuovo metodo euristi­ co, consistente nel cercare di dedurre da pochi principi generali, dei quali si ha fondata certezza, tutte e sole le conseguenze possi­ bili, senza impegnarsi troppo in dettaglio su ipotesi riguardanti la natura e le proprietà dei costituenti microscopici del sistema considerato. Il punto di partenza e la base [delle teorie dei principi] non sono costi­ tuiti da elementi di costruzione ipotetica ma da proprietà generali di processi naturali determinate empiricamente, dalle quali derivano in seguito criteri formulati matematicamente, ai quali i processi parti­ colari o le loro immagini teoriche debbono adeguarsi . Così la scienza della termodinamica, partendo dal fatto universalmente sperimenta­ to che il moto perpetuo è impossibile, cerca per via analitica di stabili­ re le condizioni necessarie alle quali i processi particolari devono uni­ formarsi. 44

È questa la strada che Einstein segue fin dagli anni 1 902- 1 903 nei suoi lavori di termodinamica statistica, che costituiscono la premessa dei suoi tre contributi del 1 905. Se riprendiamo in esame brevemente tali contributi alla luce di queste considerazioni, ci accorgiamo subito del loro carattere comune, al di là dell'apparente diversità degli argomenti trattati. Nel primo, infatti, il problema del corpo nero, che Planck aveva trattato con approccio costruttivo, viene affrontato dal punto di vista della fisica dei principi, assumendo come punto di partenza la legge empirica di distribuzione dell 'energia elettromagnetica all'interno della cavità. Semplici considerazioni termodinamiche (la termodinamica può essere considerata la prima teoria dei principi) permettono rapidamente di ottenere l'entropia della ra­ diazione e di constatare che essa, nel limite delle alte frequenze, ha la stessa forma dell'entropia di un gas di particelle se si am­ mette che la relazione fra l 'energia E delle particelle e la frequen­ za v della radiazione corrispondente sia appunto E = bv. Anche il secondo lavoro segue la stessa impostazione. In esso infatti si deriva il numero di Avogadro45 (grandezza caratteristica delle proprietà microscopiche di un gas) a partire dalle grandezze osservabili che ne definiscono le proprietà macroscopiche. Infine il terzo lavoro è addirittura paradigmatico dal punto di vista del nuovo approccio, in quanto assume anch'esso come punto di par­ tenza un'osservazione empirica non spiegabile in termini dell 'in-

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A. Einstein, Idee e opinioni, cit., p. 2 1 2. Il numero di Avogadro è il numero di molecole contenuto in una gram­ momolecola di un gas (cioè in una massa in grammi pari al peso molecolare). 48

terpretazione corrente della teoria46 (l 'analogia con il primo lavo­ ro è evidente) e, con l'aggiunta del postulato della costanza della velocità della luce in tutti i sistemi di riferimento in moto relativo uniforme, deduce una serie di conseguenze cinematiche e dinami­ che in parte già note47 (trasformazioni di Lorentz) e in parte nuo­ ve (variazione della massa di un corpo con la velocità). A questo punto si apre una questione che è stata oggetto di controversie accese, e precisamente quella del rapporto fra la teoria di Einstein e i contributi precedenti di Lorentz e Poincaré. Per quanto riguarda il primo, è noto che nel fondamentale lavoro del 1 904, a sua volta un esempio paradigmatico di teoria costrut­ tiva, Lorentz dimostra che, se si postulano le trasformazioni che portano il suo nome per passare dai valori delle coordinate e del tempo in un sistema di riferimento in quiete ai valori delle coor­ dinate e del tempo in un sistema in moto rispetto all'etere, il moto assoluto rispetto a quest'ultimo non è rivelabile, almeno per valo­ ri piccoli della velocità del riferimento b rispetto alla velocità del­ la luce e (trascurando termini superiori a (b/c) 2). Più precisamente Lorentz dimostra che, se le forze che tengono insieme gli atomi di un oggetto materiale di dimensioni assegnate nel sistema fisso sono di natura elettromagnetica, le dimensioni dell'oggetto si ac­ corciano nel sistema in movimento proprio in modo da compen­ sare gli effetti della variazione di velocità delle onde elettroma­ gnetiche che si propagano al suo interno, in modo da annullare ogni effetto dipendente dal moto assoluto. La ttrelatività" dei fenomeni elettromagnetici è dunque per Lo­ rentz un fenomeno da spiegare, che non è per nulla ovvio né evi­ dente . L'esperienza di Michelson,48 che dimostrava l'inesistenza di effetti dovuti al moto della Terra rispetto all'etere diventa in questo modo compatibile con l'esistenza dell'etere, che non è messa in dubbio. Einstein affronta invece il problema nel modo esattamente opposto. Per lui, come abbiamo visto, la relatività è da assumere a priori come un postulato, come "principio", e non ha bisogno di essere spiegata. Va sottolineato tuttavia che, dal

46 Einstein inizia il lavoro osservando che la corrente elettrica indotta in un circuito che si muove rispetto a un magnete immobile è identica a quella generata da un magnete che si muove rispetto a un circuito fermo. Questa identità implica che il fenomeno dipende soltanto dal moto relativo tra circui­ to e magnete e non dal moto assoluto di ognuno di essi rispetto all'etere. 47 Sembra tuttavia certo che Einstein non conoscesse le trasformazioni di Lorentz pubblicate nel 1 904. Vedi in proposito G. Holton, Thematic Origins of Scien tific Though t, Harvard Univ. Press, Cambridge (Mass.), 1 973, p. 283 (trad. it. parziale L 'im maginazione scientifica, Einaudi, Torino 1 983). 48 Per una discussione del rapporto fra Lorentz, Einstein e l'esperimento di Michelson, vedi G. Holton, Thematic Origins ... , cit., p. 26 1 .

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punto di vista empirico, i due approcci sono esattamente equiva­ lenti. Anche se Lorentz non ha esplicitamente ricavato tutte le conseguenze della sua teoria per quanto riguarda la dinamica, i risultati, se avesse effettuato i calcoli, sarebbero stati gli stessi ottenuti da Einstein. L'unica differenza sta nel fatto che questi calcoli sono estremamente complicati, se si deve partire, come fa Lorentz, da un modello esplicito per gli elettroni e per gli atomi di un corpo materiale, mentre sono estremamente semplici se si parte da principi generali, come fa Einstein, senza dover fare al­ cuna ipotesi sulla sua struttura interna. L'affermazione della teoria di Einstein negli anni successivi non è stata dunque il risultato di più estese e profonde capacità predittive, ma di una scelta della comunità basata su fattori di natura pratica, e stetica, culturale, differenti da quello - la verifi­ ca empirica - comunemente ritenuto determinante. Al contrario, il maggior contenuto empirico corroborato che la teoria einste­ niana alla fine arriva a pos sedere è il risultato di quell'afferma­ zione. Solo dopo che la teoria di Lorentz fu abbandonata, infatti, lo sviluppo della ricerca condusse a quell 'allargamento delle pos­ sibilità di verifica empirica della teoria, che viene in generale considerato causa del suo successo. È lo stesso discorso che ab­ biamo fatto nel primo paragrafo, quando abbiamo discusso delle ragioni del successo della scienza galileiana nei confronti di quel­ la aristotelica. Per quanto riguarda Poincaré, il suo contributo è stato, secon­ do alcuni, non meno importante di quello di Einstein. Edmund Whittaker, un fisico-matematico noto per i suoi contributi impor­ tanti alla meccanica analitica, sostiene infatti che il principio di relatività è stato enunciato dal matematico francese un anno pri­ ma del lavoro del fisico tedesco. 49 In effetti nel 1 904 Poincaré, in un penetrante saggio nel quale esaminava le principali difficoltà che la fisica si trovava a dover affrontare, elencava "il principio di relatività, secondo il quale le leggi dei fenomeni fisici dovrebbero essere le stesse tanto per un osservatore fisso che per uno che si muove di moto traslatorio uniforme". E a questo proposito ag­ giungeva, dopo aver sottolineato che tale principio "è confermato dall'esperienza di tutti i giorni", che "bisognerebbe forse costrui­ re una nuova meccanica, della quale possiamo soltanto intrave­ dere i lineamenti, nella quale l 'inerzia aumenterebbe con la velo­ cità e la velocità della luce diventerebbe un limite invalicabile".50 L'anticipazione, sul piano qualitativo, dei risultati di Einstein è

E. Whittaker, A History of the Theories of Aethe r and Electricity . , cit. 50 H. Poincaré, cit. in G. Holton, Thematic Origins . . , cit., p. 1 87.

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..

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so

evidente. L'anno dopo, qualche mese prima della pubblicazione del lavoro di quest'ultimo sugli "Annalen der Physik", Poincaré pubblica nei "Comptes Rendus" un lavoro nel quale, oltre a rica­ vare le formule della cinematica relativistica, arriva ad abbando­ nare il concetto di tempo assoluto e a criticare la nozione di si­ multaneità di eventi in luoghi differenti . 5 1 Ma se è vero che Poincaré è giunto indipendentemente e addi­ rittura prima di Einstein a risultati sostanzialmente analoghi, in che cosa dunque la teoria di quest'ultimo si può considerare so­ stanzialmente innovatrice ? La risposta è sempre la stessa: nella proposta di eliminare l 'etere dalla teoria elettromagnetica. Il ri­ fiuto di Poincaré nei confronti di questa proposta, mantenuto fi­ no alla sua morte nel 1 9 1 2, ha una doppia giustificazione. In pri­ mo luogo egli, coerentemente con tutta la tradizione ottocente­ sca, considera fisicamente insostenibile ritenere che un'onda possa propagarsi in assenza di un mezzo nel quale abbiano sede le vibrazioni che essa trasferisce da un punto a un altro. In secon­ do luogo il suo rifiuto deriva dalla stessa convinzione di Lorentz che l'esistenza dell'etere è e ssenziale per spiegare, attraverso la compensazione di effetti di segno opposto, l 'invarianza delle leggi fisiche nei sistemi inerziali in moto relativo. L'esigenza di fornire una spiegazione di questa proprietà che discende da un insieme di fatti sperimentali si contrappone dunque alla drastica soluzio­ ne einsteiniana di rinunciare a darne una spiegazione, adottando come postulato l'esistenza della proprietà stessa e buttando a ma­ re l'etere. La grande svolta del 1 905 è dunque interpretabile non tanto come un passo avanti nella costruzione di una rappresentazione sempre più dettagliata e fedele della natura, ma soprattutto come un mutamento sostanziale del punto di vista dal quale essa viene osservata e del linguaggio nel quale le sue proprietà sono de­ scritte.

6. Un altro sintomo di crisi: Poinca ré e l 'instabilità dinamica Henri Poincaré è dunque una figura emblematica delle con­ traddizioni che caratterizzano la fisica e la matematica all 'alba del nuovo secolo. Di fronte all'accumularsi di fatti radicalmente nuovi che non trovano una collocazione nel quadro delle cono­ scenze acquisite e delle teorie consolidate da decenni di conferme e di successi egli resta un convinto assertore della necessità di mantenere fermi i capisaldi di una concezione unitaria e riduzio­ nista della realtà, fondata sui due pilastri della fisica classica e dell'analisi matematica che si sorreggono vicendevolmente. Il leSI

Ibid.

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game fra analisi e fisica istituito quasi cent'anni prima da Fou­ rier,52 fondato sulla concezione che la "verità" della matematica risiede nel suo essere il linguaggio universale che esprime i rap­ porti invariabili degli enti naturali, costituisce per Poincaré un modello di riferimento sempre valido. Di questa fedeltà alla tra­ dizione testimonia il suo atteggiamento di estrema cautela nei confronti delle due fondamentali svolte della fisica nei primissi­ mi anni del Novecento: la relatività e la teoria dei quanti. È un di­ saccordo che dimostra un atteggiamento disponibile ad accettare graduali modificazioni del quadro teorico esistente, ma rifiuta mutamenti radicali: "Non possiamo più - egli insiste in uno dei suoi ultimi scritti - rompere i quadri [di riferimento], dobbiamo cercare di piegarli". Della sua posizione nei confronti della prima svolta abbiamo già parlato. Per quanto riguarda la seconda - sono già passati un­ dici anni dall'introduzione da parte di Planck dell'ipotesi della di­ scontinuità dell'energia emessa o assorbita dagli oscillatori di ra­ diazione e ormai si sta diffondendo nella comunità dei fisici la convinzione che non esista altra alternativa - Poincaré ritorna sulla questione riesaminando a fondo la possibilità che nell'ambi­ to della dinamica newtoniana, nella sua formulazione più genera­ le, rimanga aperta una via per riuscire a spiegare lo spettro del corpo nero senza dover ricorrere a un mutamento così radicale come quello prospettato da Planck nel 1 900. Il risultato è negati­ vo, ma Poincaré non è ancora convinto.53 La morte lo coglie l'an­ no successivo senza che egli abbia avuto modo di tornare sulla questione. Potremmo domandarci, alla luce delle nostre cono­ scenze attuali, se questo tentativo non avrebbe potuto avere un esito diverso. Fermo restando, naturalmente, che la storia non si fa con i se, e che la fisica da allora ha seguito un diverso cammi­ no, la domanda ci riporta alla questione, più volte sollevata, del­ l'influenza del contesto sulle scelte degli scienziati. Ne riparlere­ mo dunque più avanti. La figura di Poincaré, contrassegnata da questa sua duttile ma ferma fedeltà alla tradizione, appare tanto più contradditto­ ria in quanto proprio a lui tocca di portare un ulteriore colpo alla concezione deterministica della meccanica newtoniana con la scoperta del fenomeno dell'instabilità dinamica di un sistema di­ namico non lineare.54 In questo caso infatti ci si trova di fronte, 52 J . Fourier, Discours p réliminaire a Théorie A nali tique de la Chaleu r, Pa· ris 1 822. 53 G. Ciccotti e E. Ferrari, Was Poincaré a herald of Quan tum Theory?, in "Eur. Jour. Phys.", 4, 1 983, p. 1 1 0. 54 Per sistema dinamico non lineare si intende un sistema caratterizzato da equazioni del moto nelle quali le variabili compaiono elevate a una potenza maggiore di uno. Questo implica che non è più vero, come accade nei sistemi lineari, che la somma di due soluzioni è ancora una soluzione. La perdita di questa proprietà comporta un salto qualitativo nel compo r t a m e n t o delle solu­ zioni stesse.

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nonostante il rigoroso determinismo della legge di Newton, a un comportamento caotico, e quindi imprevedibile del sistema, pro­ vocato dall'impossibilità, non soltanto pratica, ma di principio, di definirne le condizioni iniziali con precisione infinita. Vediamo la cosa in maggiore dettaglio. In una memoria del 1 889, intitolata Sul p roblema dei tre corpi e le equazioni della dinamica, che procurò al matematico france­ se grande notorietà per il premio, i stituito dal re di Svezia, che gli venne attribuito in quell 'occasione, Poincaré ottenne infatti un ri­ sultato che avrebbe dovuto far vacillare la cieca fiducia nella pre­ vedibilità del moto di ogni corpo materiale che aveva caratteriz­ zato fin dalla nascita la fisica moderna. A dire il vero questa con­ clusione non venne esplicitata chiaramente nemmeno dallo stes­ so Poincaré, che s i limitò a dimostrare, nel linguaggio rigorosa­ mente tecnico della meccanica celeste, che, anche per un sistema così semplice come quello di tre corpi mutuamente interagenti, diventa impossibile fare previsioni esatte sul comportamento delle soluzioni delle equazioni della dinamica.55 Egli perciò conclude: "Se la conoscenza delle leggi naturali ci permettesse di predire la situazione successiva di un dato univer­ so, con la stessa approssimazione [con la quale conosciamo la si­ tuazione iniziale] questo è tutto ciò che chiediamo e diremmo che il fenomeno è stato predetto. Ma non sempre è così: può infatti ac­ cadere che piccole differenze nelle condizioni iniziali producano un errore enorme in quelle successive. La predizione diventa im­ possibile". 56 L'analisi di Poincaré si è spinta tuttavia assai oltre . L'anda­ mento qualitativo delle traiettorie del sistema, in prossimità di una traiettoria periodica semplice, analizzato con metodi nuovi da lui inventati a questo scopo, mostra una struttura di una fan­ tastica complessità. Essa rivela infatti una transizione continua

55 Tecnicamente Poincaré dimostrò che queste equazioni non sono com­ pletamente integrabili e che le serie utilizzate per risolverle approssimativa­ mente sono tutte divergenti. La prima affermazione vuol dire semplicemente che, al di fuori di un insieme discreto di soluzioni periodiche semplici, non esiste in generale una soluzione effettivamente calcolabile in termini finiti a partire da condizioni iniziali assegnate. La cosa non sarebbe grave se si potes­ sero utilizzare, per ottenere una soluzione approssimata, metodi in grado di fornire approssimazioni successive caratterizzate da un errore sempre più piccolo. La seconda affermazione tuttavia dimostra che questi metodi non so­ no applicabili per il sistema in questione, perché la somma dei termini della serie introdotta per approssimare la soluzione, a partire da un certo ordine in poi, si allontana dalla soluzione vera anziché avvicinarsi ad essa sempre di più. "Queste serie - scrive Poincaré - non sono in grado di raggiungere una approssimazione indefinitamente accurata. È per questo che esse non posso­ no servire a risolvere la questione della stabilità del sistema solare.• 56 H. Poincaré, Science e t méthode, Flammarion, Paris 1 908. 53

tra il moto regolare e prevedibile della traiettoria periodica di ri­ ferimento fino ad arrivare, passando per traiettorie periodiche sempre più complicate, a traiettorie irregolari e caotiche. Il moto realizza in questo modo una mescolanza di ordine e di disordine, nel senso che una traiettoria apparentemente regolare appare profondamente perturbata a una scala più dettagliata, ma contiene sempre, all'interno del disordine, delle isole di ordine, che a loro volta rivelano, a una scala ancora più fine, del le zone di disordine ove la stessa struttura si perpetua in miniatura. L'ordi­ ne e il disordine, il regolare e l'irregolare, il prevedibile e l 'impre­ vedibile si intrecciano indissolubilmente man mano che si proce­ de verso !'infinitamente piccolo. "Si rimarrebbe sbalorditi dalla complessità di questa figura - scrive Poincaré - che non cerco nemmeno di tracciare . Niente è più adatto a darci un'idea della complicazione del problema dei tre corpi, e in generale di tutti i problemi della dinamica dove non c'è alcun integrale uniforme e dove le serie sono divergenti. •s7 La scoperta dell'instabilità dinamica bandisce dunque per sempre dalla fisica la certezza nella capacità previsionale della legge matematica che regola il moto di ogni massa materiale. La caoticità intrinseca del comportamento di ogni sistema sottopo­ sto all'azione di forze non lineari diventa perciò la norma, mentre la regolarità dei moti dei corpi celesti, fondamento concettuale della dinamica newtoniana, si rivela un'eccezione dovuta alla possibilità di trascurare in prima approssimazione le forze di at­ trazione fra i pianeti rispetto a quella preponderante fra ognuno di essi e il Sole. Non può non destare stupore la scarsa attenzione prestata dalla comunità dei fisici per quasi settant'anni alla clamorosa scoperta di Poincaré, pur riconoscendo che egli stesso, coerente­ mente con il suo atteggiamento generale nei confronti della scien­ za, accompagnò, anche in questo caso, una straordinaria capacità di analizzare a fondo il fenomeno nei suoi dettagli tecnici più ina­ spettati e profondi con una grande reticenza a generalizzarne le potenziali implicazioni, e a trarne conseguenze radicali sul piano epistemologico. Che si sia dovuto attendere, come vedremo, fino agli anni sessanta perché il comportamento caotico dei sistemi dinamici non lineari venisse riscoperto e riconosciuto come un argomento di grande rilevanza concettuale, addirittura come un argomento in grado di aprire una problematica di avanguardia e di diffondersi con crescente rapidità in molti campi delle discipli­ ne più svariate, è comunque un fatto inspiegabile se non si rico­ nosce ancora una volta che i criteri di scelta delle comunità .), de Broglie ipotizza che le parti· celle materiali debbano manifestare, accanto alle proprietà corpuscolari clas­ siche, nuove proprietà ondulatorie definite dalle stesse relazioni. 11 nb Nel caso di orbita circolare la condizione di Bohr si scrive 211'rp che diventa, sostituendo a p l'espressione di de Broglie-Einstein, 211'r = nÀ. Ciò significa che nella circonferenza possono stare soltanto un numero intero di lunghezze d'onda. =

=

=

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messa sotto il naso dal Suo secondo lavoro sulla degenerazione dei gas" . 1 2 L a meccanica ondulatoria d i Schrodinger nasce dunque come formalizzazione coerente dell'idea che la propagazione di un'on­ da sia in qualche modo sempre associata al moto di una particel­ la materiale. Essa fu accolta, come era da attendersi, in modo contraddittorio. 1 3 Planck scrisse a Schrodinger che era "deliziato dalla bellezza [della teoria] che salta agli occhi". Einstein gli scris­ se: "Sono convinto che lei ha compiuto un progresso decis ivo con la sua formulazione della condizione di quantizzazione, così co­ me sono convinto che Heisenberg e Born non sono sulla strada giusta". La reazione della scuola di Gottingen-Copenhagen fu invece apertamente ostile. In una lettera a Pauli dell'estate del 1 926 Hei­ senberg scrive : "Più rifletto sulla parte fisica della teoria di Schro­ dinger e più la trovo detestabile. Egli butta nel cestino tutta la teoria dei quanti. [ . . . ] In questo modo non è difficile fare una teo­ ria". Un'ostilità del resto ricambiata, come appare chiaramente dalle parole attribuite a Schrodinger nel corso di una discussio­ ne con Bohr: "Se dobbiamo per forza accettare questi maledetti salti quantici mi pento di aver avuto a che fare con la teoria dei quanti". Alla fine del 1 926 ci troviamo dunque, come si è detto all'ini­ zio, con due teorie diverse e persino contrastanti, entrambe in grado di spiegare correttamente i dati sperimental i, che si con­ tendono un riconoscimento definitivo da parte della comunità dei fisici. Vediamo ora come si svolse questa contesa.

2. Il confronto fra Heisenbe rg e Sch rodinge r Nel marzo del 1 926 lo stesso Schrodinger scopre che le due teorie, dal punto di vista matematico, sono identiche. Egli così commenta questo risultato nell'introduzione del suo lavoro: Se si riflette alla straordinaria diversità dei punti di partenza e delle concezioni che caratterizzano da un lato la meccanica quanti stica di Heisenberg, e dal l ' altra la teoria che ho chiamato meccanica ondula­ toria, si dovrà convenire che è ben strano constatare che esse condu­ cono sempre agli stessi risultati, anche quando questi differi scono da quelli previsti dalla vecchia teoria dei quanti. [ . ] Le due teorie infatti si allontanano dalla meccanica classica verso cammini diametral­ mente opposti. Nella meccanica di Heisenberg le variabili continue ..

1 2 P. Forman e V. Raman, "Historical Studies in the Physical Sciences", 1, 1 969, p. 29 1 . 1 3 M . De Maria e F. La Teana, "Physis", 25, 1 982, p . 33. Le citazioni che seguono sono tratte da questo lavoro.

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classiche sono sostituite da sistemi di numeri discreti dipendenti da due indici interi (matrici) che sono determinati mediante equazioni al­ gebriche. Gli stessi autori chiamano la loro teoria "la vera teoria del di­ scontinuo". La meccanica ondulatoria, al contrario, segna un progres­ so rispetto alla meccanica classica in una direzione opposta, cioè verso una teoria del continuo. Essa infatti sostituisce il fenomeno meccani­ co, descritto da un numero finito di funzioni [che descrivono le coordi­ nate del sistema] con un campo continuo di fenomeni nello spazio delle coordinate. [Ciononostante] dimostrerò che esiste un legame intimo as­ sai stretto fra la meccanica quantistica di Heisenberg e la mia meccani­ ca ondulatoria. 1 4

L'equivalenza matematica, tuttavia, sostiene Schrodinger, non è tutto. La tesi, condivisa da molti fisici, secondo la quale equiva­ lenza matematica ed equivalenza fisica sono la stessa cosa, ha una validità soltanto relativa. Di due formulazioni matematicamente equivalenti, nell 'ambito di un dato dominio fenomenologico, una può rimanere valida in un dominio più esteso, mentre l'altra può non essere utilizzabile in tale contesto. È proprio in questo senso che Schrodinger attribuisce alla pro­ pria teoria una capacità euristica che l'altra, secondo lui, non pos­ siede: Per attaccare i problemi che la fisica sperimentale ci pone in forma es­ senzialmente intuitiva è assolutamente indispensabile avere una visio­ ne chiara e netta di come si passa con continuità dalla meccanica ma­ croscopica intuitiva alla micromeccanica dell'atomo. La micromecca­ nica appare come un perfezionamento della meccanica macroscopica reso necessario dalla piccolezza degli elementi geometrici e meccanici degli oggetti considerati, del tutto analogo a quello che porta dall'otti­ ca geometrica all 'ottica ondulatoria. [ . . . ] A me sembra assai difficile af­ frontare problemi del genere finché ci si sente obbligati, per ragioni che si richiamano alla teoria della conoscenza, a eliminare qualunque immagine intuitiva della dinamica atomica, per operare soltanto con nozioni astratte come probabilità di transizione, livelli energetici e co­ sì via.

Nel 1 927 la polemica fra le due fazioni si concentra dunque sul problema dell 'interpretazione della teoria. Già alla fine del 1 926 Born aveva proposto di interpretare la funzione d'onda di Schro­ dinger come un'onda di probabilità, il cui significato poteva essere conciliato con l'esistenza dei salti quantici, perché da essa poteva essere calcolata la probabilità dei salti in questione . La teoria di­ viene perciò intrinsecamente probabilistica, nel senso che il carat­ tere statistico degli eventi non deriva dalla nostra ignoranza della effettiva dinamica sottostante (come accade per la meccanica stati­ stica di Maxwell e Boltzmann), ma riflette il carattere essenzial­ mente non deterministico e casuale degli eventi stessi. 1 4 E. Schrodinger, "Ann. d. Phys.", 79, 1 926, p. sur la Mécanique Ondulatoire, Paris 1 933, p. 72).

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735 (trad. francese Mémoires

Schrodinger d'altra parte (restando attaccato a un'interpreta­ zione realistica della sua funzione in termini di una distribuzione continua di materia) trovava "particolarmente comica" l'idea che "queste onde di probabilità possano interferire in modo del tutto misterioso". Il conflitto raggiunse il suo apice alla Conferenza Solvay che si tenne a Bruxelles nell'ottobre. In quell'occasione Born e Hei­ senberg presentarono la loro teoria come definitiva: "Ritenia­ mo che la meccanica quantistica sia una teoria completa, le cui ipotesi fisiche e matematiche fondamentali non sono ulteriormen­ te suscettibili di modificazioni". 1 5 L'indeterminismo diventa dun­ que una caratteri stica essenziale e fondamentale della meccani­ ca quantistica. "Il determinismo, che fino ad ora era stato assun­ to come base delle scienze esatte della natura - essi affermano sembra non poter più essere accettato senza riserve. Ogni nuovo progresso nell 'interpretazione delle formule ha mostrato che il si­ stema formato da queste formule non può essere interpretato sen­ za contraddizioni che dal punto di vista di un indeterminismo fon­ damentale." Il principio di inde terminazione riassume l'aspetto essenziale della nuova teoria: esso stabilisce l'impossibilità di determinare simultaneamente con precisione arbitraria i valori di quelle varia­ bili (tecnicamente chiamate coniugate) che, come la posizione e la velocità di una particella, ne determinerebbero completamente, secondo le equazioni della dinamica classica, la traiettoria. Questa impossibilità si traduce in una formula ormai celebre, secondo la quale il prodotto delle indeterminazioni �x e � p (x è la coordinata e p = mv è l 'impulso di una particella di massa m e velocità v) non può mai essere inferiore al valore della costante di Planck l). In questo senso "il vero significato della costante di Planck - si legge nella re­ lazione - è dunque di costituire la misura universale dell'indeter­ minazione introdotta nelle leggi della natura dal dualismo fra onde e corpuscoW. Dall 'altra parte Schrodinger tenta di mantenere un'interpreta­ zione intuitiva e realistica delle onde della meccanica ondulatoria. La difficoltà principale che gli viene contestata dagli avversari, al­ la quale egli non è in grado di fornire una risposta convincente, sta tuttavia nell'impos sibilità di interpretare come distribuzione con­ tinua di materia (o di elettricità) nello spazio ordinario tridimen­ sionale, la distribuzione rappresentata dalla sua funzione d'onda che è definita, per un sistema a più gradi di libertà, nello spazio multidimensionale corrispondente. Il confronto diventa dunque uno scontro fra due concezioni della natura incommensurabili fra loro.

1 5 M. Born e W. Heisenberg, in Electrons et Photons, in "Comptes Rendus Sme Conseil Solvay•, Gauthier Villars, Paris 1 928, p. 20 1 . 71

Per quanto riguarda la nuova teoria un contributo essenzia­ le alla fondazione delle sue basi epistemologiche viene da Bohr. Due ne sono i capisaldi. 1 6 Il primo consiste nel riconoscimento della impossibilità di separare in modo univoco l'oggetto osserva­ to e lo strumento di misura, "di modo che non è possibile attribui­ re una realtà fisica e indipendente nel significato ordinario di questi termini né ai fenomeni, né ai mezzi di osservazione". Il se­ condo è fondato sul concetto di complementarità dei fenomeni quantistici, che implica la necessità da parte dell 'osservatore di scegliere fra manifestazioni mutuamente incompatibili, ma sepa­ ratamente realizzabili, di una data realtà fisica, come quelle ca­ ratterizzate dalla localizzazione spaziale di una particella e dalla sua velocità. Ciò significa che "dobbiamo accontentarci di consi­ derare la rappresentazione spazio-temporale e il principio di causalità, che congiuntamente caratterizzano la teoria classica, come tratti complementari, ma mutuamente incompatibili, della descrizione dell'esperienza, che ne simbolizzano le possibilità di osservazione e di definizione". Esempio tipico della complementarità fra proprietà corpusco­ l ari e proprietà ondulatorie delle particelle è la cosiddetta "espe­ rienza delle due fendi ture". Supponiamo che un fascio di particelle i ncida su uno schermo sul quale sono state praticate due fenditure parallele sufficientemente vicine tra loro. Se si raccolgono le parti­ celle dopo il loro pas saggio attraverso le fenditure su una lastra fo­ tografica (o su uno schermo fluorescente) si ottiene una figura ca­ ratterizzata da righe alterne di intensità decrescente dal centro al­ le estremità e nulla tra le successive righe 1 7 del tutto analoga alla figura di interferenza che si ottiene classicamente con un'onda lu­ minosa nelle stesse condizioni sperimentali. L'esperimento mette dunque in evidenza il carattere ondulatorio della propagazione delle part icelle attraverso lo schermo, e permette anche di verifi­ care sperimentalmente la relazione di Einstein-de Broglie (p = �/A.) tra il valore della lunghezza d'onda A. associata alla propagazione della particella e il suo impulso p. 1 8 Se invece vogliamo scoprire attraverso quale fenditura ogni particella è passata, dobbiamo mettere un contatore dopo ogni fen­ ditura (a rigore ne basta uno solo perché se la particella non lo fa 16

Ivi, p. 2 1 5 . 17 È una figura che approssimativamente si presenta così: 1 1 1 1 1 1 8 La lunghezza d'onda À è legata alla distanza .:ix fra le fenditure dalla rela­ zione a .:i x = À, dove a è l'angolo compreso fra i raggi che dal centro di una fendi­ tura arrivano rispettivamente sulla riga centrale e su quella immediatamente adiacente. Inoltre, poiché a è anche uguale a .:ip/p (dove .:ip è l'incertezza acqui­ stata dall'impulso della particella attraversando le fenditure) si ottiene subito (.:ip/p) .:ix = l)/p, ossia la relazione di Heisenberg .:ip .:i x = l). 72

scattare vuol dire che è pas sata attraverso l'altra) individuando co­ sì la traiettoria seguita da ogni particella nell'attraversare lo schermo. Tuttavia, così facendo, scompare la figura di interferen­ za. Si trovano infatti sulla lastra fotografica due righe distinte for­ mate dalle particelle che sono passate da una o dall'altra fenditu­ ra 19 che non contengono più traccia del carattere ondulatorio della propagazione. Il punto fondamentale dell 'interpretazione di Bohr è dunque che non ha senso cercare di attribuire simultaneamente significa­ to alle proprietà ondulatorie e a quelle corpuscolari . Non ha senso dunque domandarsi attraverso quale fenditura la particella è pas­ sata quando non ci sono contatori, così come non ha senso doman­ darsi qual è la lunghezza d'onda (cioè l'impulso) della particella quando ne localizziamo il cammino percorso. Quest'affermazione equivale dunque del tutto al principio di indeterminazione di Hei­ senberg. Il gruppo di Gottingen-Copenhagen presenta dunque una teoria coerente e completa, nel senso che essa è in grado di fornire previ­ s ioni precise per i fenomeni che possono essere investigati median­ te ogni concepibile apparecchiatura sperimentale. Essa non dà in­ vece risposta alle domande del tipo "Come si muove in realtà il sin­ golo elettrone quando passa da uno stato quantico a un altro ?", op­ pure "Quando accadrà quel dato evento ?", o ancora "Qual è il valore vero di una variabile del sistema quando il suo stato prevede che esso sia indeterminato entro un certo intervallo ?". Per la nuova meccanica queste domande sono prive di senso ed è corretto quin­ di che la teoria non contenga elementi formali che a queste doman­ de facciano riferimento. Sull 'altro fronte resiste la pattuglia dei realisti. Essi insistono che non è poss ibile rinunciare a una concezione che considera la realtà come esistente oggettivamente e indipendentemente dall' os­ servatore, e negano che la risposta fornita dalla nuova meccanica sia definitiva. "La questione in gioco - cerca di ribattere Schrodin­ ger alle critiche di Heisenberg - è quella dell'interpretazione fisi­ ca. Essa è indispensabile per l'ulteriore sviluppo della teoria." I realisti, tuttavia, non sono in grado di fornire alla comunità dei fisi­ ci un'alternativa concreta alla proposta dei loro avversari, e si limi­ tano a esprimere un'esigenza di carattere epistemologico, che po­ trebbe permettere la formulazione di una teoria più "soddisfacen­ te" in futuro. Dal canto loro questi ultimi rispondono con uno spo­ stamento programmatico del concetto di spiegazione scientifica che giustifica l 'adozione immediata di uno strumento teorico dota­ to di un'efficacia potenzialmente straordinaria dal punto di vista del controllo pratico dei fenomeni della fisica a livello microsco­ pico. 19

La figura adesso si presenta così: 1 1 . 73

La scelta da parte dei fisici più giovani non poteva che essere quella di adottare il nuovo modo di vedere la natura. Esso è ben s in­ tetizzato dalle parole con le quali Wolfgang Pauli inizia l'articolo sui "Principi generali della meccanica quantistica" del trattato

Handbuch der Physik:

Con il principio di indeterminazione di Heisenberg [ . . ] la fase iniziale di sviluppo della teoria giunse a termine. La teoria conduce alla solu­ zione del problema a lungo cercata, e fornisce una descrizione corretta e completa dei fenomeni che la riguardano. La soluzione è ottenuta a costo di abbandonare la desc rizione causale e spazio-temporale classi­ ca della natura, che dipende es senzialmente dalla nostra capacità di se­ parare in modo unico l 'osservatore e la cosa osservata. 20 .

Einstein e Schrodinger rimasero fedeli per tutta la vita alla lo­ ro concezione. "Uno non può fare a meno dell'ipotesi di realtà scriveva per esempio Einstein ventitré anni dopo - se vuole essere onesto. La maggior parte di loro [i fisici 'ortodossi'] non vede che genere di gioco rischioso fanno con la realtà, la realtà come qualco­ sa di indipendente da ciò che può es sere verificato sperimental­ mente." Vedremo in uno dei prossimi paragrafi come essi conti­ nuarono a formulare obiezioni contro l'interpretazione "ortodos­ sa" della meccanica quantistica, mettendone in rilievo alcune con­ seguenze apparentemente paradossali, almeno dal punto di vista di una concezione intuitiva della realtà naturale. Al di fuori di Bohr, tuttavia, che rimase il loro principale interlocutore, la que­ stione dell'interpretazione della meccanica quantistica cessò di in­ teressare i fisici. L'egemonia dell'interpretazione di Gottingen-Copenhagen, for­ malizzata da von Neumann negli anni successivi sotto forma di un teorema che pretendeva di dimostrare l 'impossibilità di attribuire il carattere probabilistico della meccanica quantistica alla manca­ ta conoscenza di variabili inaccessibili all'osservazione diretta, si tradusse in un vero e proprio decreto di squalifica per qualunque ricerca che si proponesse di rimettere quell'interpretazione in di­ scussione . Questo stato di cose durò fino agli anni sessanta. In tem­ pi recenti, in seguito a una ripresa di interesse per questi problemi da parte di alcuni fisici delle generazioni più giovani, hanno rico­ minciato ad apparire sulle riviste accreditate articoli che ripren­ dono la tematica dei cosiddetti paradossi. Questa ripresa di inte­ resse testimonia di un certo disagio che permane anche nei più acu­ ti e profondi conoscitori della meccanica quantistica. Significativa in proposito è la drastica affermazione di Richard Feynman, forse il più geniale fisico teorico della generazione successiva a quella dei padri fondatori di questa teoria, che, dopo aver contribuito per

20 W.

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Pauli, Handbuch der Physik, 24, Springer Verlag, Berlin 1 933.

cinquant'anni in modo determinante al suo sviluppo e alla confer­ ma della sua validità, confessava: "Nessuno capisce la meccanica quantistica".

3 . Dirac, una te rza via ? Il libro di P.A.M. Dirac The principles of Quantum Mechanics, pubblicato per la prima volta nel 1 930, è stato paragonato, e non so­ lo per il suo titolo, ai Principia di Newton. Esso costituì indubbia­ mente per generazioni di fisici la bibbia del nuovo paradigma. Il ruolo di Dirac nella formulazione della meccanica quantistica è tuttavia assai singolare, visto che non è possibile assimilarne tout court le posizioni a quelle della scuola di Gè:ittingen-Copenhagen. Anzi, come vedremo, si può dire che nel corso della sua originalissi­ ma attività scientifica egli esercitò una costante critica nei con­ fronti delle posizioni della scuola continentale . Fin dai suoi primi lavori negli anni 1 923- 1 924 Dirac, formatosi nella tradizione di Newton e Hamilton e vissuto nella Cambridge dove il testo classico di Whittaker21 era un pilastro della cultura dei matematici e dei fisici, appare convinto che la nuova meccanica dei quanti debba essere formulata come estensione e generalizza­ zione della meccanica classica nella sua forma hamiltoniana piut­ tosto che essere frutto di un'operazione di radicale rottura rispet­ to ad essa. Partendo da queste premesse egli legge la proposta di Heisenberg in un'ottica totalmente diversa da quella che aveva in­ dotto quest'ultimo ad avanzarla e, nel presentare la sua formula­ zione della meccanica quantistica, scrive : In un recente lavoro Heisenberg propone una nuova teoria nella quale si suggerisce che non sono le equazioni della meccanica classica a esse­ re in difetto, ma piuttosto che sono le operazioni matematiche median­ te le quali si ottengono da esse i risultati fisici a dover essere modifica­ te. Tutte le informazioni fornite dalla teoria classica possono essere perciò utilizzate nella nuova teoria. 22

Come vedremo meglio fra poco l'idea che tutte le relazioni fra grandezze della fisica classica debbano rimanere valide anche nel­ la teoria quantistica pur di cambiare le proprietà matematiche del­ le grandezze stesse resterà anche in seguito un punto di riferimen­ to fisso del "nucleo metafisico" dell'opera di Dirac. Basta a questo punto ricordare l 'affermazione di Heisenberg sulla necessità di rinunciare alla validità della meccanica classica,

21 22

E. Whittaker, A nalytical Dynamics, Cambridge Univ. Press, 1 904. P.A.M. Dirac, "Proc. Roy. Soc.", A, 1 09, 1 926, p. 642. 75

per accorgersi della diversità dei rispettivi punti di vista. Que­ sta diversità si manifesta negli anni successivi anche nei confron­ ti delle basi epistemologiche della formulazione "ortodossa".23 Indifferente a proposito del principio di indeterminazione per­ ché "riteneva di secondaria importanza le cose qualitative", Di­ rac era ancora più critico verso il concetto di complementarità. "Non mi piace . [ . . ] In primo luogo è troppo indefinito. Non fornisce alcuna equazione che non si conoscesse già prima, e poi non credo che sia stata detta l'ultima parola sulla relazione fra onde e corpu­ scoli. "24 Anche la sua concezione del carattere casuale dei fenomeni quantistici differiva profondamente da quella di Heisenberg. Alla Conferenza Solvay, nel corso del dibattito sulla relazione di que­ st 'ultimo, Dirac così espresse la sua opinione: .

Lo stato del mondo è descritto in ogni momento da una funzione che normalmente varia seguendo una legge causale, in modo che il suo va­ lore iniziale determina il suo valore a un istante successivo qual siasi. Può accadere tuttavia che a un istante dato questa funzione si possa scomporre nella somma di funzioni che non possono interferire tra lo­ ro [tali cioè che a ognuna di esse corrisponda un valore differente di una data variabile]. [ . . . ] In questo caso si può dire che la natura sceglie una di esse a piacere, perché la sola informazione che la teoria fornisce è la probabilità di tale scelta. Essa, una volta compiuta, è irrevocabile, e condizionerà tutto lo stato futuro del mondo.25

Heisenberg controbatte: "Non sono d'accordo con Dirac quan­ do dice che nell'esperienza descritta la natura fa una scelta. [ . . ] Di­ rei piuttosto che è lo stesso osservatore a fare la scelta, perché è soltanto nel momento in cui l'osservazione è effettuata che la scel­ ta è divenuta una realtà fisica". 26 È dunque la tradizionale contrap­ posizione fra una concezione oggettiva e una soggettiva della real­ tà che si ripresenta anche all'interno del nuovo paradigma. È lecito a questo punto domandarsi se queste differenze, anche profonde, di preconcetti, tradizioni culturali, approcci euristici, enunciazioni programmatiche si siano tradotte in strumenti teori­ ci diversi. Per quanto riguarda la meccanica quantistica non relati­ vistica la risposta è negativa. La proposta di Dirac, che inizialmen­ te conteneva elementi formali e interpretativi propri, fu rapida­ mente incorporata nella formulazione definitiva, e il dibattito sui principi ebbe termine. Cominciò un lungo periodo di "scienza nor­ male", nel senso definito da Kuhn,27 dedicata alla soluzione dei pro.

2 3 M. De Maria e F. La Teana, Dirac 's "Unorthodox " Con t ribution to Orthodox Quantum Mechanics, in "Scientia", 1 1 8, 1 983, p. 595. 24 Ibid. , p . 605 . 25 P.A.M. Dirac, in Electrons et Photons, cit., p. 262. 2 6 W. Heisenberg, in ibid. , p . 264. 2 7 T.S. Kuhn, La struttu ra delle rivoluzioni scientifiche, cit. 76

blemi concreti che il nuovo paradigma permetteva di affrontare nel campo della struttura della materia (fisica atomica e molecola­ re, fisica dello stato solido, fisica nucleare). Assai diversa era invece la situazione nel campo dei problemi che concernevano la radiazione elettromagnetica e le sue intera­ zioni con la materia. L'estensione del formalismo della meccanica quantistica ai sistemi relativistici dotati di infiniti gradi di libertà presentava difficoltà assai maggiori di quelle da affrontare per ri­ solvere i "rompicapo" della struttura della materia. Si trattava di sviluppare un nuovo quadro concettuale e i modi per farlo erano tutt'altro che univoci. Per circa vent'anni (fino alla svolta del 1 947 che dette all 'elettrodinamica quantistica la sua forma attuale) si confrontarono proposte diverse, in parte mutuamente incompati­ bili e comunque giudicate più o meno attendibili dai diversi inter­ locutori. Ancora una volta emerge in questo contesto la profonda differenza fra la linea di ricerca perseguita da Dirac e quella porta­ ta avanti dal gruppo dei fisici continentali, fra i quali Pascual Jor­ dan assunse il ruolo di protagonista. Può essere interessante cerca­ re di individuare gli elementi essenziali di questo confronto. 28 Fu J ordan il primo a studiare con successo le proprietà della ra­ diazione elettromagnetica applicando le leggi della nuova mecca­ nica quantistica. C'era infatti una contraddizione da risolvere. Dal punto di vista della dinamica tale radiazione era rappresentata da un campo classico determinato dalle equazioni di Maxwell, mentre da quello della termodinamica statistica la radiazione mostrava quella duplice natura ondulatoria e corpuscolare che Einstein ave­ va messo in evidenza fin dal 1 905 . J ordan risolse il problema mostrando che, ferma restando la validità formale delle equazioni di Maxwell, il campo elettroma­ gnetico acquista, in aggiunta alle proprietà ondulatorie, anche proprietà corpuscolari quando la variabile continua che ne rap­ presenta classicamente l'ampiezza diventa una variabile dinamica quantistica, che soddi sfa alle condizioni di quantizzazione di Hei­ senberg. Da questo risultato, che confermava il punto di vista della scuola di Gottingen secondo il quale la nuova meccanica era la vera teoria della discontinuità, Jordan trasse la convinzione che nel li­ mite classico non esistono particelle ma solo onde, o se si vuole, che la spiegazione dell'esistenza dei corpuscoli in natura sta nella vali­ dità delle leggi quantistiche. Questa convinzione lo portò, negli an­ ni successivi, ad affermare l 'origine quantistica della natura cor­ puscolare di tutte le particelle materiali (elettron i, protoni ecc.), negando che tale natura possa coerentemente essere postulata nel dominio della fisica classica. 28 M. Cini, Cultura/ Traditions and Environmental Factors in the Develop­ ment of Quantum Electrodynamics (1 925-1 933), in "Fundamenta Scientiae", 3,

1 982, p. 229. Le citazioni successive sono tratte da questo lavoro.

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Di parere opposto era Dirac. Come si è visto egli era convinto che la s truttura formale della meccanica classica (nella sua forma hamiltoniana) dovesse essere trasportata integralmente nella teo­ ria quantistica e ne fornisse un valido fondamento. Diventava natu­ rale dunque, per costruire una corretta teoria quanti stica del cam­ po elettromagnetico, partire da una descrizione corpuscolare della radiazione, che si prestava a essere formulata in questa forma. L'obiettivo di Dirac dunque non era di dimostrare l'esistenza dei fotoni, ma di far vedere che una corretta trattazione quanti­ stica di un insieme di tali corpuscoli portava alla coesistenza di proprietà corpuscolari e ondulatorie, proprio come aveva intuito Einstein. •L'Hamiltoniana di interazione del campo elettroma­ gnetico con un atomo - concludeva Dirac - ha la stessa forma di quella dell'interazione di un insieme di quanti di luce con l'ato­ mo. C'è dunque una riconciliazione completa fra il punto di vista corpuscolare e quello ondulatorio."29 Ciò che va sottolineato del contrasto fra queste due diverse concezioni della realtà naturale è che esse conducono a una diver­ sa valutazione dell 'esistenza o meno di problemi da affrontare. Per Jordan l 'importanza di spiegare l'esistenza delle particelle come conseguenza della discontinuità quantistica discende da una profonda esigenza di carattere filosofico, che si identifica con la •liquidazione del materialismo". Le nuove concezioni che hanno origine dagli esperimenti della fisica quantistica e dalla loro elaborazione teorica conducono alla liquida­ zione dell'immagine materialistica del mondo che è stata sviluppata dalla scienza classica occidentale, a partire dalla filosofia materiali­ stica dei greci. [ . . . ] Mentre siamo stati abituati, seguendo lo sviluppo storico, a considerare la rappresentazione atomistica come primitiva, introducendo successivamente gli effetti quantistici, oggi il nesso logi­ co sembra essere esattamente l 'inverso. [Ne deriva che] l 'atomo non ha più proprietà direttamente percepibili al tatto e alla vista come gli ato­ mi di Democrito; privato di tutte queste qualità sensibili, esso è carat­ terizzato soltanto da uno schema di formule matematiche. 30

Per Dirac, profondamente legato alla tradizione della mecca­ nica classica, il problema dell'esistenza delle particelle materiali non ha invece alcun fondamento scientifico. Gli elettroni sono ov­ viamente particelle che ubbidiscono alle leggi della meccanica quantistica. Esiste piuttosto il problema di capire •perché la na­ tura non si sia accontentata di una carica puntiforme e abbia in­ vece scelto per l'elettrone una struttura più complicata" con un momento angolare intrinseco31 (spin). Questa domanda, alla qua2 9 P.A.M. Dirac, 'Proc. Roy. Soc.", 1 1 4, 1 927, p. 243. 30 P.Jordan, 'Phys. Z.", 30, 1 929, p. 700. 3 1 Il momento angolare intrinseco di un corpo ruotante su se stesso (trot­ tola) è l'analogo, per il moto rotatorio, dell'impulso (prodotto della massa per la velocità) di un corpo che si muove di moto rettilineo. La scoperta dello spin dell'elettrone, dovuta a S. Goudsmit e G.E. Uhlenbeck, risale al 1 925. Vedi an­ che nota 40.

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le Dirac risponde nel 1 929 con l 'equazione che porta il suo nome, non avrebbe avuto senso se egli non fosse partito dall 'idea che gli elettroni, in quanto sorgenti del campo elettromagnetico, sono particelle primitive totalmente diverse dai "quanti di luce". Par­ tendo da questa idea egli riesce a dimostrare che "la più semplice Hamiltoniana per un elettrone puntiforme che contemporanea­ mente soddisfa alle condizioni imposte dalla relatività e dalla teo­ ria delle trasformazioni conduce alla spiegazione della struttura a doppietti degli spettri atomici". La costruzione di una teoria che esplicitamente soddisfi alle ri­ chieste della relatività rimane per Dirac un obiettivo prioritario anche negli anni successivi. Esso è infatti coerente con la strate­ gia, elaborata fin dall'inizio della sua carriera scientifica, di tra­ sportare nella teoria quantistica tutte le relazioni fondamentali della fisica classica, considerate come vincoli formali di validità universale. Ed è proprio la fedeltà a questa strategia che, dopo averlo condotto al successo con l'equazione relativistica dell'elet­ trone, lo porterà nel 1 932 a proporre, in due lavori di rara acutez­ za anticipatoria, una via d'uscita dalle difficoltà nelle quali si di­ battevano, e per molti anni continueranno a dibattersi, i fisici del­ la scuola continentale. Saranno tre fisici della generazione succes­ siva, Tomonaga, Feynman e Schwinger, che,alla fine della seconda guerra mondiale, riusciranno a dare all'elettrodinamica quanti­ stica, richiamandosi esplicitamente agli spunti contenuti in quei lavori, una forma che la comunità scientifica considera oggi coe­ rente e soddisfacente. Paradossalmente l 'unico a non ritenersi soddisfatto fu proprio Dirac, che pur ammettendo un sostanziale progresso della nuova formulazione dal punto di vista dell'accor­ do con l'esperienza, non riconobbe mai ad essa il carattere di solu­ zione definitiva del problema. Ma qui conviene fermarci per ritor­ nare a occuparci del dibattito alla fine degli anni venti.

4. Il diba ttito tra Einstein e Bohr Alla Conferenza Solvay del 1 927 Einstein rese esplicita la sua profonda insoddisfazione per l'abbandono della descrizione causa­ le dei fenomeni nello spazio e nel tempo che l'interpretazione del formalismo della meccanica quantistica, presentata da Bohr in quella sede, aveva teorizzato. Ebbe inizio così un dibattito, durato quasi dieci anni, fra questi due grandi protagonisti della svolta ra­ dicale degli inizi del secolo, che soltanto oggi, dopo un lungo perio­ do di disinteresse per questi argomenti, sta ridiventando d'attuali­ tà, per ragioni che avremo modo di discutere più avanti, anche al­ l 'interno della comunità scientifica. 32 32 Per un dettagliato resoconto del dibattito Einstein-Bohr, cfr. Max Jammer, The Philosophy of Quantum Mechanics, J. Wiley & Sons, New York 1 974, p. 108.

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L'argomento centrale del contendere era se la descrizione dei fenomeni microfisici fornita dalla meccanica quantistica avrebbe potuto e dovuto essere approfondita ulteriormente per cercare di rappresentarli in maggiore dettaglio, come sosteneva Einstein, o se essa esaurisse completamente ogni possibilità di render conto dei fenomeni osservabili, come affermava Bohr. In una prima fase del dibattito Einstein tenta di aggirare le li­ mitazioni imposte dal principio di indeterminazione immaginan­ do un'esperienza ideale in grado di fornire simultaneamente una precisa localizzazione spazio-temporale di una particella insieme a un'accurata descrizione causale del suo movimento dedotta dal­ la misura dell'impulso e dell'energia trasferiti dalla particella al diaframma forato utilizzato per localizzarne la posizione. Ciò non è possibile, come aveva mostrato Heisenberg, se il diaframma è fisso, perché a un'indeterminazione àx nella localizzazione della particella corrisponde sempre, come si è visto, a causa delle pro­ prietà ondulatorie della sua propagazione, un'indeterminazione minima nell'impulso data da àp = l)/àx. Ma se il diaframma è mo­ bile, sosteneva Einstein, si sarebbe potuto ridurre l'incertezza nel­ la localizzazione della particella osservando la direzione del rin­ culo del diaframma impresso dall'urto contro i bordi del foro at­ traverso il quale essa è passata. Più precisamente Einstein riproponeva il dispositivo ideale formato da un diaframma con due fenditure. Se il diaframma è fis­ so, non si può sapere attraverso quale di esse la particella è pass a­ ta, e l'indeterminazione àx è la loro distanza. Ma se il diaframma è sospeso a una molla, dovrebbe e ssere possibile determinare attra­ verso quale fenditura il passaggio è avvenuto osservando la dire­ zione del suo rinculo. Per la conservazione della quantità di moto nell 'urto, infatti, se la particella è stata deviata in una direzione il diaframma deve essere rinculato in direzione opposta. In questo modo l'indeterminazione àx dovrebbe diventare la larghezza del­ la fenditura attraverso la quale la particella è passata, e non più la distanza fra le due. Rimanendo invariato àp, dunque, concludeva Einstein, il prodotto può diventare minore di l). Questo ragionamento tuttavia, controbatte Bohr, implica che sia possibile determinare la posizione e l'impulso del diaframma con precisione maggiore di quella ammessa dal principio di inde­ terminazione . Ma questo non è possibile. Se infatti si vuole deter­ minare l'impulso trasferito dalla particella al diaframma sarà la posizione del diaframma ad acquistare un'indeterminazione che prima non aveva. Questa delocalizzazione delle fenditure porta al­ la scomparsa delle righe che costituivano la figura di interferenza rivelatrice dell'aspetto ondulatorio della propagazione della par­ ticella attraverso entrambe (aspetto che è invece rivelato dal dia­ framma fisso), di modo che il valore di àp non sarà più determina­ to dalla distanza fra le due righe come prima, ma risulterà maggio­ re, perché la nuova figura di interferenza ha una struttura più al­ largata, come deve essere per il fatto che adesso àx risulta minore perché corrisponde alla larghezza di una sola fenditura e non più 80

alla distanza fra le due. Insomma, se la meccanica quantistica de­ ve valere per qualunque corpo materiale, diventa impossibile im­ maginare uno strumento che possa permettere di ottenere una de­ scrizione della realtà più dettagliata di quella fornita dalla mecca­ nica quantistica stessa. In sostanza, conclude Bohr, "soltanto perché siamo costretti a scegliere fra rivelare il cammino della particella oppure osserva­ re l' interferenza dell'onda, riusciamo a sfuggire alla paradossale conclusione che il comportamento di un elettrone possa dipende­ re dalla presenza o meno di un foro nel diaframma attraverso il quale esso non è passato". Abbiamo qui un tipico esempio, egli ag­ giunge, "di come i fenomeni complementari appaiano sempre in dispositivi sperimentali mutuamente esclusivi".33 Il confronto fra Bohr e Einstein continuò alla Conferenza Sol­ vay del 1 930. Ancora una volta Einstein cerca di immaginare un dispositivo ideale mediante il quale sia possibile violare il princi­ pio di indeterminazione. Questa volta egli tenta di determinare con precisione arbitraria l'istante nel quale accade un evento che implica una variazione di energia in un sistema dato, e al tempo stesso di ridurre l'indeterminazione nella misura di tale variazio­ ne al disotto del limite consentito dalla relazione di Heisenberg nella forma �t�E � b.34 Concretamente egli propone di determi­ nare l'istante in cui un fotone esce da una scatola contenente ra­ diazione elettromagnetica attraverso un foro lasciato aperto per un intervallo di tempo �t piccolo quanto si vuole e di misurare contemporaneamente l'energia trasportata dal fotone pesando la scatola prima e dopo l'emissione (per l 'equivalenza relativistica fra energia e massa la prima si può ottenere dalla misura della se­ conda). Poiché l'indeterminazione nella misura della massa per­ duta dalla scatola sembra anch'essa potersi ridurre a piacere, in­ dipendentemente dalla precisione raggiunta nella determinazio­ ne dell'istante di emissione, il limite posto dalla relazione di Hei­ senberg sembra aggirato. Ancora una volta, tuttavia, Bohr riesce a controbattere la proposta di Einstein mostrando che la misura della massa perduta e quella dell'istante dell'uscita del fotone non sono indipendenti. Senza entrare nei dettagli dell'argomentazione di Bohr è suffi­ ciente sottolineare che anche in questo caso egli dimostra che l'os­ servatore deve scegliere, in accordo con il principio di comple­ mentarità, tra una procedura sperimentale che permette di ridur­ re a piacere l 'indeterminazione nella misura dell'istante di emis­ sione del fotone, e un'altra procedura che fornisce invece un valo­ re preciso quanto si vuole dell'energia che esso trasporta. 33 Ibid. , p. 1 30. Si può dimostrare che questa relazione è formalmente equivalente all'altra .lx .