Un mondo di mondi. Antropologia delle culture rom 8883250036, 9788883250033

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Un mondo di mondi. Antropologia delle culture rom
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leonardo piasere un mondo di mondi antropologia delle culture rom

à l'ancora

a lara

© 1999. l'ancora s.r.l. prima edizione ottobre 1999 finito di stampare a napoli nel ottobre 1999 dall' «Arte Tipografica» ISBN 88·8325·003-6

presentazione

Questo libro cerca di mostrare come un m on do qualsiasi possa racchiudere in sé mondi plurimi, un mondo di mondi, appunto. Il libro vuole in particolare dar conto della vita, o di p orzi oni di vita, degli zingari fra i gage. Come spiego fin dalle prime pagine, zingari e gage sono due "invenzioni" - per u sa re una pa­ rola di moda oggi cioè due costruzioni sociali edificate con sempre maggior convinzione nel corso dei secoli da chi, rispettivamente, non s i riteneva zinga­ ro da un lato, e gagio dall'altro. Proprio perch é sono due vicendevoli creazi oni storico-sociali, esse sono maledettamente reali: i non zingari son o convinti che esistono gli zingari e i non gage sono convinti che esistono i gage. Si potrebbe di­ re, co n Wittge n stein , che la certezza sia una tonalità del pensiero, e c he la con­ vinzione abbia qui n di un tono di per sé; ciò nonostante «la più imp ortante e s pre s sion e della c on vin zio ne non è questo tono, bensì il modo di agire [1998, pp. 142, 178]. Potr em mo dire che i modi di agire dei gage verso gli zingari e de­ gli zin gari verso i gage, oltre che essere el oquenti di questo tono, costruiscono continuamente la tonalità stessa. Zingari e gage sono convinti dell'esistenza gli uni degli altri, ma essendo entrambi delle invenzioni, delle eteropoiesi, sono c onvinti che gli altri s baglin o i nv ariabilmente a costruire se stessi : nessuno si ri­ co n o sce nell'invenzione dell'altro ma, dovendola subire, di fa tto la adopera per l'autopoiesi. Zingari e gage sono, quindi , pure relazi o ni, che si sono storica­ mente disegnate a vicenda, come le mani di una famosa incisione di Escher. I capitol i che compongono questo libro, allora, non parlano di come i non zingari vorrebb ero che fossero gli zingari, e non p arlan o nemmeno di come gli -

»

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presentazione

zingari siano allo 11 stato puro " . Cercano piuttosto di far vedere come i mondi zingari si costruiscano perennemente in relazione ai mondi dei gage, e che tali relazioni non siano sempre di netta contrapposizione. Si potrebbe dire che quel­ le zingare siano delle specie di culture di secondo grado, dal momento che non possono instaurarsi non tenendo presenti quelle dei gage: possono allora co­ struirsi per analogia, per omologia o per contrapposizione, aggiungendovi sem­ pre un proprio 11tono"- come diceva già anni fa Williams [1984]- come un in­ grediente di una ricetta apprezzata. Tutte queste costruzioni a partire da mondi già pieni di senso portano all'edificazione di un mondo di mondi costituito da stretti attorcigliamenti semantici in cui l'identità risulta il prodotto della pura alterità. Nel momento in cui espressioni come 11CUlture ibride" o 11impure", 11ffie­ ticciamento culturale" e simili sono sotto le luci della ribalta, nel momento in cui una sorta di neo-diffusionismo si sta affacciando all'orizzonte, l'esempio zingaro può rappresentare per l'antropologia un esemplare, un prototipo, nel senso che hanno questi termini nella contemporanea teoria cognitiva: le cultu­ re zingare mostrano che l'ibridazione se è inevitabile, è anche creativa. L'"ibri­ dazione" non porta all'omologazione culturale, ma alla formazione di insiemi culturali sempre diversi. Il presente volume cerca di mostrare quali possono es­ sere le vie della creatività culturale nel caso in cui le forze in campo siano im­ pari, come è il caso tra zingari e gage, in cui il più debole sia contemporanea­ mente convinto di non dover soccombere. In questo frangente gli zingari posso­ no diventare esemplari anche per un altro discorso: essi insegnano che tutto è "negoziabile", sempre - un'altra espressione alla ribalta (e gli antropologi degli zingari sono stati in assoluto fra i primi a parlarne) - ma anche che non tutto è negoziabile fino in fondo, per esempio fino a intaccare il nocciolo duro della propria identità: la distinzione 110ntologica" che h anno costruito con l'inven­ zione del gagio.

Il presente volume rielabora lavori pubblicati in precedenza e che vengono qui emen da ti e aggiornati. In

diversi casi la prima versione mente

un

capitoli.

and amento più

è stata scritta per conve gni o conferenze, e qualche capitolo mantiene vol uta­

discorsivo. Indico nelle fonti che seguono le precedenti versioni orali e/o scritte dei

Qui voglio ringraziare gli organizzatori

di pubblicare gli interventi:

Mariano Pav ane llo

un

deg li incontri che hanno avuto la gentilezza di invitarmi e/o

dell'Università di Pisa; Paolo

6

mondo

di

mo n di

Inghilleri dell'Università di Ve-

rona e Rosalba Terranova Cecchini dell'Università di Milano; Francesca Gobbo dell'Università di Padova; Aparna Rao e Michael Casimir dell'Università di Colonia; Pier Giorgio Solinas dell'Università di Siena; Gian Paolo Gri dell'Università di Udine; Patrick Williams e Michael Houseman del CNRS di Parigi; Glauco Sanga del­ l'Università di Venezia. Desidero inoltre ringraziare Antonio Campigotto, a cui devo un aiuto cospicuo nel reperimento delle fon­ ti; Esteban Cobas e Andrzej Mirga per le informazioni riferite nel capitolo «Segni>>; Michela Sarti, mia moglie,

che mi ha aiutato nella lettura della bibliografia in tedesco.

fonti dei capitoli

l. Gli zingari e la democrazia dei gage, in Ripensare la democrazia nel processo di pluralizzazione etnica della

con te mporanea , a cura di M. Pavanello, ,

4. Etnografia roma n f, owero l 'etnografia come esperienza, conferenza tenuta all'Università di Padova nell'aprile 1997; poi in Cultura, intercultura, a cura di F. Gobbo, P adova, Imprimitur, 1997, pp. 35-80.

S. Comunicazione presentata al congresso della Deutsche Gesellschaft fur Volkerkunde, Colonia, ottobre 1987; poi

(con il titolo Roma and Roma in North-East Italy: Two Types ofTerritorial Behaviour in the Same Larger Territory) in Mo­

bility and Territoriality, a cura di M.J. Casimir e A. Rao, Berg, Oxford, 1992, pp. 279-291; traduzione ungherese in L.

Piasere, A ciganol6gusok szerelmei. Valoga tott tanulnuinyok, a cura di C. Pr6nai, Budapest, 1997, pp. 135-145.

6. La retorica delle roulotte, in Forme di fam iglia . Ricerche per un a tlante italiano, a cura di P.G. Solinas, in «Lari­

cerca folklorica>>, n. 25, 1992, pp. 35-46; vedi anche Uso dello spazio e forme di relaz i one tra i roma, in Zingari in Toscana, a cura di C. Marcetti, T. Mori, N. Solimano, Firenze, Pontecorboli, 1994, pp. 67-85.

7. Comunicazione presentata al convegno , tenutosi

a

Udine nel novembre 1992, poi negli Atti omonimi, a cura di G. Fornasir e G.P. Gri, Udine, Accademia di Scien­

ze, Lettere e Arti, 1993, pp. 105-131.

8. Comunicazione presentata al seminario «Étude des Tsiganes et quest,ons d'anthropologie», patrocinato

dall'"Association pour la recherche en anthropologie sociale", Parigi, giugno 1991, poi (con il titolo Approche dén ota tionniste ou ap p roch e connotationniste: les terminologies de parenté tsiganes) in Jeux, tours et manèges: une eth­

no logie des Tsiganes, a cura di P. Williams, in «Études tsiganes», 2, 1994, pp. 183-208.

9. I segni " segreti " degli zi ngari in Scrittura e figura. Studi di storia e antropologia della scrittura in memoria di G iorgio Rai­ mondo Cardona,�a cura di A. Bartoli Langeli e G. Sanga, in «La ricerca folklorica>>, n. 31, 1995, pp. 83-105.

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presentazione

nota ortografica

Nel testo vengono mantenuti i n om i dei diversi gruppi zingari citati : rom, roma, roma , sinti eccetera. P erò può capitare che il termine "rom" venga us ato in generale per indicare, più o

meno, l'insieme che dall'ester­

no è indicato come gli "zingari". Vista la sua i ncessante presenza, usiamo la grafia italianizzata del termine " gagio "

quando i nse r ito nel testo non romanes . Per quanto riguarda la trascrizione del romanes, quando trat­

tiamo mater i ali di altri autori manteniamo la loro grafia; altrimenti sarà qui usato un siste ma semplificato dell'alfabeto della Rromani Unia, di cui si accenna nel capitolo «Segni>>. Si tenga

é

it. ciao

g

it. giorno

ph

ingl. top-hole

s

it. sciabola

c

kh

th

it. azione i n gl . ink-horn

ingl. ant-hill

x

ted. Buch

z

fr.

z

it. rosa

jour

presente in particolare:

un mondo di mondi

qua nto

può essere plurietnico

uno

stato?

Si potrebbe pensare che se gli zingari non ci fossero dovrebbero essere inventa­ ti. Anzi, una precisa proposta storiografica che ci viene negli ultimi anni da al­ cuni autori nordeuropei [vedi per esempio Lucassen 1990, Svensson 1 992] va giusto in questa direzione: "zingari" è un'etichetta di stigmatizzazione applica­ ta nell'era moderna a persone o gruppi di diversa provenienza, che vengono "desocializzati" in quanto ritenuti parassiti e criminali, reali o potenziali. Chi ha svolto ricerche di storia degli zingari non ha difficoltà a capire le posizioni di quegli storici. Se poi si pensa all'importanza del territorio e al legarne con la ter­ ra nelle culture europee (dal territorio della comunità alla terra patria), si può immaginare quanto antiterritoriale possa essere stato considerato il famoso no­ madismo zingaro. Le fonti moderne mostrano invariabilmente che, quando si parla di zingari, ci si riferisce a una categoria di persone " deterritorializzata". Il nomadismo zingaro (reale, verisimile o immaginario) ha costituito per secoli un trauma cognitivo per le popolazioni europee, i cui vari statuti giuridici hanno sempre associato, esplicitamente o implicitamente, l'essere nomadi all'essere stranieri [Piasere 1996]. L'essere zingari rimanda a persone storicamente deso­ cializzate, deterritorializzate, denazionalizzate, come pure, solo a guardare le opinioni di Lutero e certe direttive del Concilio di Trento, decristianizzate. Que­ sto è senz'altro quello che ci mostrano le fonti (fonti sempre prodotte da chi, invece, si riteneva parte dei socializzati, territorializzati, nazionalizzati e cristia­ nizzati) . Se l'essere zingari esprimeva una relazione, si può dire che l'idea dell'"invenzione" esterna degli zingari è una realtà. Ma essa è anche parziale e 11 quanto

può

essere

plurietnico uno

stato?

sconta la non esperienza degli storici con gli zingari reali: come è stato detto, il documento storico non

è

il fatto storico che esso descrive.

Vi è anche una costruzione interna, o un insieme non articolato di costruzio­ ni interne, che etnografi e antropologi più o meno professionisti hanno messo in luce negli ultimi centocinquant'anni. Tanto l'invenzione esterna degli zingari costruita sullo stigma, tanto la costruzione interna

è

è

costruita sull'orgoglio di es­

sere rom o sinto o manus eccetera. E adopero il termine orgoglio appositamente,

poiché la base emozionale è forse il cemento più importante del sentirsi rom o sin­ te eccetera. Questo prin1ato delle emozioni, come direbbero certi psicologi,

è a sua

volta costruito su un'invenzione, l'invenzione dei gage, la cui traduzione corren­ te di "non zingari" è talmente opaca che non dice quasi niente dello stigma che a sua volta denota1. Riconoscersi come "non zingaro" rispetto a uno zingaro non

è la stessa cosa che essere riconosciuto come gagio da un rom. Potremmo dire che

il più delle volte i non gage provano gli stessi sentimenti di rifiuto verso i gage, ri­ spetto a quelli che i non zingari provano per gli zingari. Per esempio, come gli zin­

gari sono considerati i più sporchi della terra, così dall'altra parte si dice che sono i gage l'umanità immonda; come gli zingari sono temuti come rapitori

di bambi­

ni, così i gage sono temuti come rapitori di bambini (e lo fanno veramente quan­ do i giudici tolgono i figli alle famiglie rom per darli in adozione alle famiglie dei gage); se i bambini gage sono socializzati nella paura dello zingaro, così i bambi­ ni zingari sono socializzati nella paura del gagio; se qualche volta gli zingari sono stati accusati di cannibalismo, così qualche volta pure bambini [vedi Dick Zatta 1996] eccetera. Ma non tutto

i

gage pare si mangino i

è

simmetrico. La distin­

zione tra rom e gage (o sinti e gage eccetera) è una distinzione fondamentale per un rom, molto più della distinzione tra zingari e non zingari per un non zingaro.

È tanto fondamentale che sarebbe improprio definire il termine rom come un et­ nonimo, un nome di popolo, oppure lo

è solo nel registro dei non zingari. Ma nel

registro interno esso significa "la nostra umanità", mentre i gage sono "l'altra umanità", e questa umanità divisa in due

è la base della vita dei rom

(vedi

infra il

capitolo «Etnoantropologie a confronto»).

È ovviamente riscpioso trasferire automaticamente i dati etnografici di oggi ai gruppi zingari dei secoli scorsi, ma ci sono molti indizi che lasciano supporre che questa visione bipartita dell'umanità, questa vera e propria antropologia dualista, sia patrimonio comune da tempo: le prime descrizioni etnografiche e linguisti-

12 un

m ondo

di

mondi

che attendibili raccolte in diversi punt id'Europa tra la fine del Settecento e l' ini­ z io dell'Ottocento mostrano già una situazione da questo punto di vista genera­ l iz zata. Altro discorso, invece, riguarda gli effetti dei concomitanti proce s si di co­ struz io ne degli zingari da un lato e di costruzione dei gage dall'altro. Nel legg ere a ritroso quanto si scrive s u gli zingari si ha come l'impressione di una sorta di rin­ vio concatenato ai tempi edenici, quei temp i in cui zingari e gage sarebbero an­ dat i d'amore e d'accordo. Certi sociolo gi scrivono oggi che "il vento non soffia più", ossia che 11i figli del vento" si sono inurbati e quindi incattiviti perché la ba­ se economica dei loro mestieri "tradizionali" sarebbe venuta meno nell ultimo se­ colo. Gli storici che stud ia no l ' Otto cen to ci dicono che la rivoluzione industria­ le, lo sviluppo dei trasporti e i cambiamenti nei procedimenti pe n al i hanno, in diversi paesi europei, tolto gli spazi economici, sociali e giuridici che prima gli zin­ gari avevano. Gli storici delle società d'Ancien régime ci parlano di persecuzioni in­ credibili, di cacce agl izingari, di gen o cidi depo rtazioni di massa n el le colonie ne i secoli in cui prendono forma gli Stati moderni e parlano di un cambiamento qua­ si repentino che sarebb eintervenuto, o vviamente in peggio, tra la fine del xv e l 'i­ nizio del xvi secolo. E resta allora il Quattrocento, il secolo d i arrivo degli zingari in Europa centro-occidentale, il quale, dopo tanti rinvii, assurge a periodo edeni­ co. Per molti autori esso diventa addirittura il "s ecolo d'oro" de gl izingari in Eu­ ropa. In questo tranello del secolo d'oro, topos miti co della ziganologia tradiz io ­ nale, in cui gli ziganologi trasferiscono i sensi di colpa dei gage che essi rappre­ sentano, è caduto pers in o un autore del calibro di Bronislaw Geremek [1992, pp . 1 5 1 - 172], secondo il quale si sarebbe passati, dal Quattrocento in poi, «dall'assi­ stenza alla repressione». Voglio citare solo tre fatti per mostrare quanto poco do­ rato sia stato il "secolo d'oro". Nel primo documento in cui si parla in modo ine­ quivocabile degli zingari nei paesi germanici, del 1417, si parla apertamente di fatti di sangue: accusati di furto, molti Secani vengono ammazzati dai tedeschi. '

,

Fures autem erant magni, et praecipue mulieres eorum, et plures de eis in diversis locis sunt deprehensi et interfecti

[Cornerus cit. in Gronemeyer 1987, p. 15] .

Nel p rimo documento italiano, del l422, si dice che, accusati di furto, gli egi­ ziani a cc am p ati a Bologna sono oggetto di ritorsione sancita ufficialmente dai governanti della città; si permette ai cittadin i di derubarli a loro volta: 13 quanto

può

essere

plurietnico

uno

stato?

Et costoro si erano li più fini ladri che si vedesse mai. Et si fu dato licentia a coloro, ch'e­ rano stà rubati che

igli possesseno rubare loro per infino a la quantitade del suo danno [Cro­

nica Rampona cit. in Campigotto e Piasere s.d.].

Nel primo documento parigino, del1427, gliAegyptiens sono questa volta ac­ cusati di chiromanzia e subiscono quindi un allontanamento coatto: Tant que la nouuelle en vint à l'Euesque de Paris, lequel

y alla, & mena auec Iuy vn frere

Prescheur nommé le petit Iacobin, lequel par le commendement de l'Euesque feit là vne belle

predication en excommuniant tous ceux, & celles qui ce faisoient, & qui auoient creu, & mon­ stré leurs mains, & conuint qu'ils s'en allassent, & se partirent le iour de nostre Dame en Sep­ tembre

[Pasquier

cit. in Gronemeyer 1987, p. 51].

L'aspetto noto, o meno sconosciuto, riguarda lo stato di tensione perenne tra zingari e gage, che va da forme di guerriglia reciproca, più o meno camuffata, ai grandi "ziganocidi" della storia, come quello dei secoli

xvr-xvn

e quello più con­

centrato del 1943-45. Questa situazione, tipica dell'Europa non balcanica, ri­ flette la criminalizzazione di massa di cui erano oggetto gli zingari, e il reale sta­

to

di "banditi", nel senso etimologico e derivato del termine, in cui erano ca­

duti quei gruppi che non volevano proletarizzarsi o semplicemente che non vo­ levano entrare da subordinati nel meccanismo di dominanza/sottomissione dei gage. Nell'Europa balcanica, invece, in cui si era riusciti fin dal

xrv

secolo a sfrut­

tare la manodopera degli zingari rendendoli schiavi o servi (in un sistema socio­ economico molto diverso da quello coevo occidentale, il cosiddetto secondo servaggio), il processo di criminalizzazione colpì quegli zingari che, fuggendo dai padroni schiavisti, diventavano "banditi" nascondendosi tra le foreste dei Carpazi. Come tutti gli schiavi, gli zingari schiavi furono semplicemente consi­ derati dei sotto-uomini e, come dice Sam Beck [1989], «deumanizzati>). L'aspetto oscurato, d'altro canto, riguarda la reale vita quotidiana e il reale inserimento nelle singole economie regionali degli zingari che non prendeva­

no la via estrema del banditismo anti-gage. Giusto in uno studio sulla schiavitù zingara, sempre Sam Beck denuncia il fatto che si ignori o si misconosca il po­ sto centrale che gli zingari occupavano in tante economie locali dei Balcani in epoca moderna, specie per quanto riguarda la produzione di utensileria in me-

un

14

mondo

di

mondi

tal i o e di armi e l'organizzazione delle feste, ambi ti in cui av evano il monopo­ lio quasi esclu sivo e il loro importante posto nel com mercio, ossia nelle re ti di­ stribut iv e locali. E a qu esto riguardo voglio portare un esempio extraeuropeo ch epuò s embrar eprovocatorio all'int erno del mio discorso e che s erve, inve ce, a togli er e ogni dubbio su un ev entuale ecc esso di analisi vitti mistica : è un dato cont esto storico-economico che crea vittime e aguzzini, non malign it à o bontà d'animo innat e. In segui to all edir ettiv ed el re Giovanni v i portog hesi in iziano, a partire dal 1 7 1 8, una massiccia d eportazione di zingari in Brasile. Perseguita ­ ti e banditi nel pa ese di provenie nza, nel n uovo ambient e della colonia essi si inseriscono nel sistema eco nomico local ediventando . . . commercianti di schia ­ vi. Specie n el sud del Brasile, gli zingari dominavano i m ercati int erprovincia li agendo com e interm ediari tra i proprietari di schiavi nella cos ta e i latifondisti delle piantagioni dell'interno [Donovan 1 992]. La schiavitù nei B alcani te rmi­ na tra il 1855 eil 1 8 6 1 , la schiavitù in Brasile è abolita nel 1888 ; vi è quindi un periodo storico ch e va dall 'inizio del S ettecento alla s econda metà dell'Otto­ cento in cui gli zingari erano a l contempo, in cont est i economici div ers i, sc hia­ vi eschiavisti, sfruttati i n una r egione e sfruttatori all'altro capo del m ondo . Ora, è da segnalare che in entrambe le situazion i non sono mancati casi di z ingari che han no occupato posti pubblici di un certo rilievo n el sistema politico dei gag e, anche se sempre in modo non imp orta nte r ispetto a l peso c he gl i zingar i n el loro compl esso avevano nelle economi e locali. È irre futabil e, infatt i, che es­ s igio carono un ruo lo centrale nello s viluppo dell'economia feuda le romena da un lato, e n ell'economia schiavista brasiliana dall'al tro . Ma il pro cesso di s chi ­ smogenesi in atto non ass egna mai alcun riconoscim ento alle attività z ingare nella costruzione dei sistemi socio-econom ic i reg ionali o nazion ali. A volte il proc edimento è raffinato, come n el caso d ell'Italia contempor anea: in certe re­ gioni i sinti hanno il monopol io dello spettacolo viaggiante e de i luna park, però in questi casi essi sono ri conosciuti come "giostrai", mentre sono riconosc iut i come zinga ri solo quei s in ti ch evivono in bilico tr a attivi tà lega li e illeg ali. In qualità di sfruttati, in qualità di banditi, o in qualità di inter med iari nel le reti distributive o dei s ervizi - ruolo tipico dei simmelian i "stranie ri inte rni" che gli zingari hanno molto spesso ricop erto e continuano a ricoprire [Swa y 1981]­ essi sono sempr estati ipers ensibili agli eventi storici d ei gage e alle atte nuazion i, pur minime, del processo di schismogenesi. Prendiamo un altro filo, a t irando

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l'attenzion e su una corr ela zion estorica ch emi pare non sia mai sta ta indicata . S ia in Europa che in America l'antropolog ia cominc ia a svilupparsi in modo deciso solo qualche anno dopo l'abolizione della sch iav itù. S eprendiamo come data di nascita più o m eno ufficiale dell 'antropologia il 1 8 7 1 , con la pubblicazione di Pri­ mitive Culture d iTylor in Europa e di Systems of Consanguinity and Affinity ofthe Hu­ man Family di Morgan in Am erica, ci accorgiamo ch eessi appaiono una dec in a di a nni dopo l'abolizione della schiavitù zingara in Europa (Bessarabia russa: 1861) e qu ella negra in Ame rica del nord (decreto di emancipazione di Lincoln: 1862). Da notare che la fine d ella schiavitù nei due principati di Valach ia e Molda via, nel 1855-56, fu direttament erichiesta dai governi frances e eingl ese, a cu iqu esti v in ­ colarono il proprio appoggio diplomatico circa i desideri di riunificazione dei due p ri ncipati e di indipendenza dagli ottomani [Vai lant 1979]. E in Francia e in In­ ghilterra esistevano l e Società di Etnologia fin dal 1 839 e 1843. Ossia, sembra es­ ser vi un intreccio tra la p olit ica ant isch iavista e la nascita dell 'antropologia che, con il suo paradigma, confuso ma comunque r ivoluzionar io , dell'unità psich ica del genere umano, scardina il pr ec edent econvincimento ch eaveva imperato per millenni circa le incolmabili d isuguaglianz e intern e al gen ere umano, id eologia che giustificava la pratica della schiavitù. In qu este grandi scoss edella storia, in cu i scopriamo che gli zingari sono sta­ ti attori comprimari, gli st essi zingari hanno effettuato poi agg iu stam enti p icco ­ li ma in una pr ec is a direzion e, quella della rev is ion e d ei rapporti con i gag e. Se questa revisione è stata quasi nulla all'in iz io e l enta poi, è stato p erché ai cam­ biam ent igiuridici che interven iv ano non corrispond evano cambiamenti r ea li di fatto. La cost ruzione dei "gag e" è s empre s ta ta collegata a quella d egli "zingari" in modo comple mentare, non nelle decis io ni formali ma n egli attegg iamenti real i. Così, nel generale processo d i democratizzazione dell'ultimo secolo o se ­ colo e mezzo gli zingari sono entrat idi sfugg ita e solo n egl iultimi t empi. Si può dir e ch e fino alla Seconda guerra mondiale gli zingari sono anzi stati i capri espiatori d elle faglie dei sistemi d emocratici. Come nell 'e ra mod erna gli .Stati eu­ ropei s isono formati anche sull' antiziganismo, così tra Otto e Nov ecento, men­ tre cominciavano a imporsi negli ambi enti int ellettuali l eid eedell 'unità psichi­ ca del genere umano, gli zingari erano ancora t rattati come bestie da tenere sot­ to controllo: è del 1905 il famigerato Zigeuner-Buch di Alfr ed Dillmann, che giu­ stifica con quarant 'a nni di ant icipo il genocidio che verrà; è del 19 12 la legge 16 un

m o ndo di m o ndi

francese che impone il possesso del carnet anthropométrique a tutti gli zingari, una legge che sar à abolita solo nel 1 969, e che qualcuno rec entemente ha proposto, in versione aggiornata, di predisporre per gli zingari di Roma. In Italia, nel 1 9 1 0 assistiamo a una caccia agli zingari i n tutto i l territo rio nazionale perché sos pet ­ tati ingiustamente di pro pagare malattie; nel 19 14 un giudice, Capobianco, pro­ pone l'applicazione di misure simili a quelle francesi e nel 1926, già epoca fa­ scista, abbiamo la chiusura delle frontiere agli zingari stranieri. Eppure, nel pe­ riodo tra le due guerre, nei paesi in cui gli spazi democratici s embrano aprirsi, vi è quella precisa risposta di cui dicevo che si attua attraverso la nascita delle or ­ ganizzazioni zingare di rivendicazione. Tra il l9 1 9 e il 1939 nascono almeno s et­ te associazioni nell' Eu ropa balcanica e in Urss. L' Unione degli zingari di Russia , in particolare, nata nel 1 925, fu una risposta al riconoscimento dei rom come m in oranza etnica, riconosci mento in seguito cancellato da Stalin. Nel 1 934 si tiene a Bucarest la prima assemblea rom che si conosca, che fonda l 'Unione ge­ nerale dei rom della Romania. Un'altra organizzazione, l'Associazion e panelle­ nica cu lturale d egli z in gari grec i, fondata nel 1 939, è importante perché crea ta su iniziativa di due donne. Se insisto sulle organizzazioni zingare è p erché, a mio avviso, esse rappresentano la risposta al processo di democratizzazione dei gage . Più i gage allargano le maglie de l a partecipa zione democ ratica, pi ù gli zin gari escono dall'invisibili tà. Non solo: per adattarsi al nuovo clima che i n teoria non li esclude, gli zingari devono ridefinire i propri rapporti con i ga ge, il che li por ­ ta a una ridefinizione dei propri rapporti interni. Dia mo uno sguardo d'insieme, valido per quel che il suo conciso schematismo qui consente: gli zingari hanno tutt'oggi, specie nell'Europa occidentale, una struttura a polvere, sparpa gliati co­ me sono in m ezzo ai gage. È una struttura idonea a resistere ai tentativi di ster­ minio (fisico o sociale), da un lato, e a sfruttare con successo le risorse econo­ miche in territori distinti, dall'altro . I granelli di polvere, le comunità local i es­ se stesse più o meno fluide, sono forma ti da membri ten denzialmente legati da vincoli di parentela, quindi molto coesi, in cui l'ideologia maschilista è più o meno forte a seconda dei gruppi. Le modalità di acquisizione delle risorse sono decise dai maschi i quali, nei mo menti più critici, possono inco nsa pevolmen te arrivare a sacrificare i membri subalterni (bambini e donne, che fin iscono nel le carceri dei gage) per cercare di perpetuare la comunità. Questa strut tura - che è in realtà un'an tistruttura per il carattere di puro flusso che uno sg uardo diacro-

qua n t o può

e s sere

17 p l u r i etnic o u n o s t a t o ?

nico spesso fa vedere - è tarata su una conflittualità elevata con i gage circostanti, frutto di un adattamento secolare alle persecuzioni: pi ù le persecuzioni sono ele­ vate, più la struttura funziona. Le culture zingare sono il frutto della storia, e in particolare della storia dei rapporti con i non zingari; non si sono costruite av ul­ se dalla storia europea, sulla luna o in un altro mondo, come sembra a volte d i intendere leggendo certi libri di storia degli zingari. Ed è quella strut tura, e la con flittualità a nti -gage che essa incorpora, che le organizzazioni zingare di ri­ vendicazione di fatto rimettono in discussione. E questo è il punto: più il pro ­ cesso di democratizzazione dei gage si a l larga fino a considerare gli zingari dei partner paritari (e fino a questo punto non s i è mai arrivati) , più gli zingari si or­ ganizzano in associazioni vo lt e a rinegozia re il conflitto e più rimettono in di­ scussione le strutture di potere interno, masc hilismo compreso. Ecco perch é non c redo che si trattò di un c aso la nascita dell'associazione g reca fondata da due romnja, per quanto effimera essa sia poi stata. In questo processo tendenziale di attenuazione della schismogenesi vi è un freno potent e, dato dall'o rgan izza zione dei gage in Stati nazionali. Conso lidat isi su un fondamento in cui l'antiziganismo giocava la sua parte, gli Stati mode rni hanno sempre costituito con le loro polizie il braccio armato u fficiale dei gage contro gli zingari [vedi Gronfors 19 79] . E se è vero che gli Eschimesi hanno mar ­ cato il loro rapporto con l'ambiente coniando qua lche decina di term ini per dire « neve», gli zingari hanno fatto lo st esso usando altrettanti termini per dire «po ­ lizia»2. Non è un caso che nel dopogue rra i primi riconoscimenti in favore degli zingari siano sempre venuti o da organismi sovranazionali o da o rganismi infra­ nazionali privi d iforze di coerc izione3: nel 1 969 abbiamo la prima Raccomanda­ zione del Consiglio d'Eur opa che li riguarda, nel 1 9 79 vi è l'a ccet tazione da pa r­ te dell'Onu di un'organizzazione zin gara (il Romano Ekhipe, poi di ven uto Rroma­ ni Unia) con statuto consultivo. Senza contare che già nel 1 965 la Chiesa cattoli ­ ca, con il pellegrinaggio internaziona le di Pomezia, alla presenza di Paolo vr, ave ­ va di fatto aperto la serie dei riconoscimenti. È da notare a tal proposito che lo Stato pontificio, ne l 'era moderna, fu uno degli Stati più antizingari d' Europa; quello che, per quanto ne so, e manò il più alto numero di bandi. In I talia il pri­ mo riconoscimen to ufficiale avviene a livello reg io n al e con l a legge del Venet o del 1984 in favore di sint i e rom. L'unico Stato che abbia varato una leg ge a fa­ vore degli zinga ri, almeno sulla ca rta, è la Gran Bretagna con una legge sui cam18

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pi -s osta negli anni Sessanta, ma non è un caso che ciò sia avvenuto nel Paese in cui un movimento pro-zingari, pur con mille contraddizioni, sia presente fin dal­ l O ttocento e soprattutto fin dalla nascita della Gypsy Lo re Socie ty nel 1 888 La pressione antizin gara degli Stati o delle coscienze collettive nazionali re ­ sta fortissima e la si p uò vedere, per esempio, nell'uso della storia recente. Du ­ rante la Seconda guerra mondiale, dai duecen to ai cinquecentom ila zin gari (a seconda delle stime) sono morti nei campi di sterminio nazisti, ma la Germania ha sempre rifiutato i risarcim enti ai sopravvissuti o ai familiari dei caduti, asse­ r endo che essi sono stati perseguita ti come asociali e non come gruppo razzia­ le. Molti altri zingari sono stati internati in campi di con centrame nto nei Paesi alleati dell a Germania (Italia, Francia di Vichy, Croazia eccetera), ma la storia di q uesti internamenti è stata marcatamente censurata. Una delle situazioni più penose è proprio quella italiana: nel Paese dello storicism o liber ale , marxista, a s­ soluto, eroico, dove qualsiasi cosa si faccia senza "la storia" diventa scandalo, dove esistono schiere di storici di professione che si riuniscono in schiere di De ­ pu tazi oni Istituti, Dipartimenti fina nzi ati dallo Stato, nessuno stor ic o di for­ mazione se non una giovane storica disoccupata, Giovanna Boursier [1996], ha a vuto l'idea di studiare la politica fascista contro gli zi n gari una politica i cui ef ­ fetti p e r cinquant'anni si è tentato di sminuire, se non di nascondere, anche da parte delle o rganizzazioni pro zingar e dei gage. Come si vede, allora, l esempio zingaro diventa una sorta di car tina al torna­ sole per domande del tipo: quanto può essere plurietnico uno Stato? Oppure, "quanto Stato" può star ei in un'organizzazione plurietnica della so detà? La sto­ ria degli zingari dimostra che la versione contrattualista dello Stato è un falli­ mento nel momento in cui esso incontra gruppi che sanno disubb idire a un "con­ tratto" che non sono mai stati chiamati a stipulare. Possono essere puniti, ma so­ no organizzati in modo da non poter essere domati. Dopo anni che gli antropo ­ logi lo predicavano finalmente anche dei giuristi ricon oscono l'importanza de l ­ la legiferazione autono ma" degli zin gar i [Weyrauch e Beli 1993], ossia ricono ­ scono l'importanza dell'esistenza di siste mi legali aut onomi incastrati all'interno de llo Stat o. Tali sistemi autonomi possono dare l impr essione che c hi vi aderis c e voglia andare e splicitamente contro le l eggi dello Stato, mentre spe sso non vi è altro che la scelta di aderire al proprio sistema giuridico Tra antropologi e giuri­ st i, comunque, resta un impreparazione di fondo a l dialogo: i p rimi mi pare non '

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abbiano gl i st rumenti per fonda re un'ant ropologia giuridica delle società occi­ dentaliste, i secondi mi pare non abbiano gli strumenti per riconoscere i sistemi giurid ici non statali incapsulati negli Stati . Da questo punto di vista, il dialogo tra giuristi e antropologi resta una sfida per i decenni a venire, che, credo, si potrà ri­ solve re solo attraverso proposte di sistemi basati su logiche g iuridiche pluriva­ lenti. E qui, non so chi sia più pronto alla bisogna. Per quanto riguarda gli zingari, ess isono oggi alle prese con un'in i z iativa ai limiti del l ' utopia e che va giusto nel la direzione ora p roposta. La politica uffi ­ ciale della Rromani Unia, l'organizzazione più rappresentata e con la leadership meglio preparata, è di costruire un'identità rom transnazionale , che tenga con­ to, al contempo, della reale inclusione delle singole comunità negli Stat i nazio­ nali e dell'altrettanto reale diffusione delle stesse fra Sta ti diversi. In questo mo­ do essi ottemperano sia al lato oscurato dal processo di sc hismogenesi, che ve­ de le comunità zingare saldamente inserite nei contesti locali, sia al lato palese del fondamento antizingaro degli Stati, che la costruzione di un'identità tran ­ snazionale cerca forse inconsciamen te di scavalca re. Si tratta quindi di un labo­ rato rio politico di estremo interesse, quello zingaro, che non deve essere oscu­ rato perché potrebbe essere di utilità generale. In fin dei conti, noi sap piamo so­ lo da qualche an no di vivere in un a socie tà pl uriculturale ; gli zin gari l'hanno sempre saputo. E la loro es perienza val e pi ù di mille conve gni dei gage .

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m ondo d i

m on d i

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buono zingaro del tempo che fu

C'è un filo condutto re che da trent'anni a questa parte unisce la tra ma dei discorsi che i gage italiani fanno sugli zingari. S itratta di un filo continuo che tiene uni­ te tutte le parti diversamente colorate di un unico mantello che, come quello dei presti giatori, una volta gettato sopra gli zingari, dovrebbe riconsegnarceli con u na natura mutata: se possibile, da volpi a conigli. Il discorso è grosso modo questo: un tempo gli zingari vivevano (felici?) percorrendo le nostre e le altr ui ca mpagne, svolgendo i loro mestieri 11tipici" in sinton ia con un ambiente agricolo che per­ metteva loro di mantenere una cultura in corrotta, ritmata dai loro riti 11 ancest ra ­ li" . L'avvento dell'industrializzazione e il progressivo processo di u rbanizzazione avrebbero rotto poi l'incanto, sprofondando gli zingari in una situazione dispe­ rata. Venuta meno l'utilità dei "mestieri tipici", ess i non sarebbero stati capaci di mettersi al passo con j tempi, si sarebbero quindi inurbati andando a infoltire il sottoproletariato delle bidonvilles, vivendo di espedienti. Qui, a contatto con la feccia della nostra società, essi starebbero completa mente perdendo la loro cul­ tura, incapaci di qualsiasi reazione: la famiglia sarebbe in via di destrutturazione, l'ad olescente in via di schi zo frenia, il bambino con bloc chi nello sviluppo evo­ lutivo, tutti in via di decul turazione. È tale affresco che giustifica e sostiene l'in­ terven to socio-educativo messo in piedi a part ire dai p rimi ann i Sessanta e c he, negli anni Ottanta, ha avuto come fine propagandato la salvaguar dia della "cul­ tura zingara"; un intervento che è d iventato sempre più massiccio in particolare dopo le barricate antizinga ri di Roma della fine del 1987. Il discorso che si faceva negli anni Sessanta è ripreso pari pari: la scolarizzazione e la riqualificazione pro -

il

buono

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del

tempo

che f u

fessionale dovrebbero ridarei uno zingaro nuovo, più utile, dovrebbero riconse­ gnarci, sotto mutate spoglie, il buono zingaro del tempo che fu. Qui non seguirò quest'interpretazione, che in Italia è un vero e proprio pa­ radigma kuhniano accettato, oltre che da assistenti sociali, pedagogisti e psico­ logi [vedi Piasere 198Sb, 19 86a] , anche da qualche sociologo e antropologo [ve­ di per esempio Marta 1 973, 1 982; Cerulli 19 7 7, pp. 384-386; Bernardi 1985, pp. 100- 104; Calabrò 1 992] . Non seguirò quest'interpretazione per diversi motivi: perché la visione etnologizzante che confina lo zingaro ideale in ambiente ru­ rale e lo zingaro degenerato in ambiente urbano ricorda un binarismo natu­ ra/cultura più dell'ordine del mito che della realtà: se il buon selvaggio lo si fa­ ceva esistere lontano nello spazio, ora il buono zingaro lo si fa esistere lontano nel tempo in un ambiente bucolico; perché i dati storici non suffragano questo modo di vedere: in certe città italiane l'urbanizzazione degli zingari è attestata fin dal xvu secolo e, inoltre, le legislazioni antizingari di un tempo dimostrano un contenzioso che non ha nulla di idilliaco; perché assegnare agli zingari un ruolo completamente passivo nei confronti dei gage urta contro ogni evidenza di ricerca; perché lo "zingaro" così come è presentato esiste solo nelle costru­ zioni fantasmatiche dei suoi ideatori: le comunità zingare sono tante, ognuna con dinamiche proprie, a volte contrapposte le une alle altre, per cui ogni ge­ neralizzazione sembra fuori luogo; perché, come vedremo, concetti come "ac­ culturazione", 11 deculturazione", eccetera, sono ben lungi dal dimostrare la lo­ ro validità euristica in ambiente zingaro; perché ogni cooperazione", quale che sia l'accezione semantica che si vuoi dare al termine, se non tiene conto delle capacità creative (di creazione) di una comunità, sarà sempre e solo un'opera­ zione sulla comunità; perché, e forse più semplicemente, durante i miei sog­ giorni fra i roma e i roma non ho mai incontrato lo zingaro deculturato costruito dall111industria zingara" dei non zingari; perché, infine, tale visione non è con­ divisa da nessuno degli altri antropologi che, pur con diverse impostazioni teo­ riche, hanno praticato l'osservazione partecipante prolungata in ambiente zin­ garo, cioè da quelli che non si sono accontentati di 11Studiarli" a tavolino o con la tattica che altrove ho chiamato dello «Zingaro sotto casa» [Piasere 1991] . Proponendo una lettura diversa degli zingari italiani, mi prefiggo in primo luogo di dimostrare la loro forza, la loro capacità nel consolidare la loro identità, ritenendo che solo sapendo apprezzare tale capacità sia possibile intraprendere u

22 un m ondo di mo ndi

progetti di sviluppo delle relazioni zingari/non zingari Parlando di zingari itali ani, mi riferirò prevalentemente a que lli che vivono ne ll ' Italia cen­ tro-settentrionale, dei quali ho una m aggiore esperi enza personale diretta. I cosiddetti zingari presenti nell'Italia de l nord rappresentano in rea ltà un in­ sieme di popolazio ni eterogenee sotto molti punti di vista. In base alle auto-de­ nominazioni, si incontran o sinti piemontesi, s inti lombardi, sinti mucini, sinti emi­ l iani , sinti veneti, sinti m arch igian i, gaékané sinté, s inti es trajkarja, krasarja, kranarja, rom abruzzesi, rom kalderas(a), rom lovara, roma istriani, roma harvati, roma sloveni, dassikané roma, xoraxané roma, camminanti s icilia n i , rudari rumuni . L'unità cul­ turale dei singoli gruppi così auto- d efiniti (e spesso le denominazioni includono sotto categorie diverse a seconda della tassonomia etnica riconosciuta in una co­ munità) è solo tendenziale. In molti casi, i l termine che distingue il "noi" da "gli altri " è semplicemente "i nostri" : mare roma, amaré roma, mare sin ti (i nostri ro­ ma, i nostri roma, i nostri sin ti) eccetera. Le comunità zingare costituiscono quin­ di tanti "noi" l e cui articolazioni interne sono comples se ed eterogenee. La tentazione sarebbe quella di rappresentare grafi c amente un " noi" con una serie di cerchi concentrici che rappresentano via via l'individuo, la famiglia, il gruppo di pare n tela , il gruppo di riferimento stesso con le sue sotto divisioni t infine, ai confini esterni della circonferenza, i non zingari. È uno schema che È stato adottato da qualche sociologo straniero come raffigurazione della 11 strut­ tura social e zi ngara [vedi Li égeois 1983, p. 79; Vossen 1983, pp . 205-2 1 5] . I cer· chi concentrici assomigliano a una classica costruzione "a cipolla d ell intimità dove ogni strato misurerebbe la distanza relazionale di un individu o o di un' famiglia (il cen tro) co n l e a l tre istanze so ciali U n a raffi gurazione simile è state di recente rip resa da Formoso i l qual e , manipolando il celebre schema della re· cip r ocità di Sahl ins , ha generalizzato le r elazion itra z ingari e gage (figur a 1). Al di là della generalizzazione criticabile, simili rappresentazioni hanno la carat teristica di essere una grafizzazione che condensa, da un lato, le rappresentazion ideali che un gruppo può costruirsi e, dall'altro, le rappresentazioni ideali delle scuo le sociologiche a cui un autore fa riferimento. Non dico che siano "false " , ma eh� sono dell'ordine della rappresentazione ideologica Nel vissuto quotidiano, tali rap presentazioni urtano continuamente, strutturalmente, con le interazi oni reali. Ritorniamo all'Italia settentrionale. Se quelle rappresentazioni si dovesserc realizz are , noi dovremmo trovare tante en clave qu ante sono le auto-denomi .

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figura l . Schema della reciprocità tra zingari e gage secondo Formoso [1 9 8 6 , p . 2 1 ] . In maiuscolo : reciprocità dominante; in minuscolo : reciprocità meno frequente .

nazioni sopra riportate, ognuna delle quali dovrebbe coprire un'area omogenea, confinante con un'area simile e tutte ugualmente lontane dai gage. Ma la realtà sembra spettacolarmente rovesciata: quelli che strutturalmente dovrebbero es­ sere i più l ontani, i gage, sono spazialmente sempre i più vicini. Ma il concetto di vicinanza rende qui male l'idea e quello di "immersione" sembra senz'altro da preferirsi. Lo sfondo grigio della figura l dovrebbe quindi riempire tutti gli strati dell'intimità, ma così la figura non saprebbe dar conto delle distanze ideo­ logiche. Ed è invece grazie al controllo tra distanze spaziali e distanze ideologi­ che che gli zingari hanno saputo costruire una flessibilità strutturale che per­ mette modifiche continue in un mondo, quello dei gage, che è loro ostile. Supponiamo di poter usufruire della fotografia aerea per poter cogliere la si­ tuazione e di essere dotati di uno zoom tanto potente da riuscire a includere tut­ ta l'Italia del nord. Supponiamo che sia i gage sia i membri di ogni singolo grup­ po zingaro siano identificabili attraverso colori diversi, la cui intensità cromati­ ca misura l'intensità di "vicinanza culturale" tra un gruppo e l'altro . Una prima istantanea mostrerebbe grosso modo una situazione del genere: l'Italia del nord è

coperta essenzialmente da gage che si concentrano in certe zone e ne lasciano

un

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scoperte altre; i colori zingari si trovano solo dove c'è il colore gagio, e in mez­ zo a questo essi sono quasi impercettibili; vi sono certi colori zingari che si con­ centrano in certe zone abitate dai gage, ma nessun colore copre un'area unica e ben definita; la maggioranza delle zone sono, quali più quali meno, colorate ad arlecchino su uno sfondo color gagio; vi sono dei colori non ben riferibili a que­ sto o a quel gruppo. Se già quest'istantanea mostra una situazione variegata, essa però coglie sol­ tanto il momento. Una cinepresa darebbe un'idea di quanto sia fuggevole tale momento. Programmata a riprendere diciamo un secolo di vita zingara dell'Ita­ lia settentrionale, ci mostrerebbe non solo i vari movimenti delle vicende de­ mografiche dei gage, ma anche: la persistenza di certi colori zingari in certe zo­ ne; i movimenti di colori da una zona all'altra; la scomparsa di certi colori; la comparsa di nuovi provenienti da zone non inquadrate; la comparsa di nuovi formantisi dalla progressiva fusione e/o mutazione di alcuni già presenti. Se la nostra cinepresa, infine, fosse ultra-potente, mostrerebbe non solo degli indivi­ dui che cambiano i colori zingari nel corso della loro vita, ma ce ne farebbe ve­ dere anche alcuni che, usciti dal loro campo, si mimetizzano con il colore dei gage per riprendere il proprio al rientro e altri, al contrario, che, usciti dallo stes­ so campo, calcano in modo particolare il proprio colore in contrapposizione a quello dei gage fra cui si muovono. Che cosa voglio dire con questa metafora cromatica? Che è impossibile comprendere la persistenza degli zingari (ciò che alcuni hanno definito un'" enigma etnologico") se non si considerano, più che i "gruppi", le comunità concrete, le interazioni tra comunità di una data regione e il tipo di relazioni di volta in volta instaurate con i gage della stessa regione. L' "enigma etnologico" è tale, infatti, solo per chi considera in blocco gli zingari come un'entità omo­ genea destinata a scomparire, destinata a entrare 11in crisi" di fronte alle forze del 11progresso" . Le variazioni cromatiche dimostrano invece che l a flessibilità strutturale delle singole comunità è tale da consentire la perpetuazione anche sopportando la cancellazione delle categorie etniche di riferimento o la crea­ zione di categorie nuove. In questo quadro, un "gruppo" può cambiare nel gi­ ro di due generazioni la tassonomia etnica nella quale si auto-riconosce (vedi per esempio Piasere 198Sa; 1 996b] . Ciò è reso possibile dal fatto che i cosiddet­ ti 11 gruppi zingari" non sono delle entità sostantive, ma sempre e solo delle reti 25 i l b u o n o z i n g a ro d e l

t e m po

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relazionali che si possono re stringe re , tendere e anch e rompere. Se il più delle volte la comunanza di c erti tr a tti cul turali p orta a i nteragire in modo più stret­ to un gruppo di persone (frequentandosi di più, allacciando nume ros e a ll eanz e m at ri m o n i a l i eccete r a) ciò non è s emp r e e comun que la re go l a . La comu n anza di certi tratti culturali non implica automaticame nte l'auto-riconoscimento i n uno stesso 11 gruppo " , qu ando le r el azioni sono poche, ostili o inesistenti. Faccio un esemp io che t r avalica il contesto italiano ma che è di per sé spe tta col ar e . In­ dividui che si riconoscono come rom kalderas(a) sono oggi presenti in tutti i con­ tinenti; è m o l t o probabile che il 11 grup p o " dei kalderas(a) non esistesse pri m a de l la sua dia s pora dai Balcani romenofoni, iniziata intorno alla seconda metà del l Ottoc ento , e che si s i a costituito e abbia vie ppiù rinforzato un'identità pe­ culiare solo in s e gui to all'emigrazione . Ora, nel nor d America è nota la con­ t rap p os i zione tra i kalderasa e un 11 gruppo " chiamato maéwaja; da un punto di vista culturale po c hi ssimo sembra di stinguere i due gruppi, e infatti i maéwaja sembrano molto simili a quei kalderasa che in Italia sono riconosciuti anche co­ me burgarja. Inol tr e Williams [ 1 9 9 Sa] ha dimostrato come questi ultimi e quel­ li di New York, pur c h iam ando s i appunto kalderas e pur condividendo uno stes­ so patrimoni o culturale, abbiano costruito strutture sociali antitetiche in sinto­ nia con il diverso t ip o di rappo rti instaurati con i rispettivi g a ge locali . Si p otrebb e pensare che la fles sibi lit à strutturale sia un effetto dell a situazione economica delle comunità zingare, ma è chiaro che s iamo di fronte a un a sorta di causalità circolare in cui è difficile in dividu are la 11Causa prima". Anche qui una certa libellistica di volgarizzazi one è p r onta ad assegnare a questo o a quel 11 grup­ po" un p reciso mestiere "t radizionale". Ma la realtà storica è ben più articolata. In termini socio-ecologici possiamo dire che tutti i gruppi del nord Italia oc­ cup ano una 11nicchia commerciale" all'interno della più ampia società dei gage, ai quali ve ndono beni e servizi (e saltuariamente la p ropria forza lavoro) in cam­ bio di beni di prima necessità o di b eni in questi convertibili. Essi fa nno parte, in­ somm a, di quell'ampio numero di p opolazi oni 11non pro duttrici di cibo", le cui compon enti p raticanti forme di mobilità spaziale sono indicate da certi autori co­ me comunità girovaghe " . Dal momento che la nicchia commerciale da sfruttare consta esse nzialm ente della domanda di quei beni e/ o servizi che i commercian­ ti gage non forniscono o forniscono solo pa rzia lmente , essa è sempre a l quanto ri­ dotta e si può res tringere ulteriormente in momenti di crisi econ omica . Rao e Ca'

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simir affermano che, trovandosi all'estremo della catena di dipendenza economi­ ca, presumibilmente tali popolazioni «in anni di scarsità di cibo sono le prime a soffrirne» [1988, p. 3 76] . È per evitare tale pericolo che gli zingari del nord Italia hanno sviluppato forme eclettiche di commercio che rendono superflua ogni enumerazione dei "mestieri", perché potenzialmente qualsiasi bene e/o servizio può essere oggetto di transazione con i gage. Una famiglia può esercitare con­ temporaneamente più attività, oppure può svolgerne alcune a rotazione stagio­ nale, oppure può dedicarsi per qualche anno alla compravendita di un'unica mer­ canzia [vedi per esempio la variazione dei mestieri avvenuta negli ultimi cento an­ ni presso i roma sloveni e le loro combinazioni eclettiche, in Piasere 1 985a] . I "me­ stieri" sono sempre congiunturali e il fatto che ve ne siano alcuni di lunga dura­ ta indica semplicemente una congiuntura di lunga durata. Due esempi: un docu­ mento marchigiano del Quattrocento parla di zingari commercianti di cavalli, un'attività che per una favorevole congiuntura storica è diventata "tipica" di di­ versi gruppi, senza mai essere, comunque, l'unica attività praticata. Oggi, molte famiglie l'hanno abbandonata senza traumi, altre la continuano più o meno spo­ radicamente nell'ambito dei cavalli da corsa . . . Un documento toscano del Sei­ cento parla di zingari che vivevano facendo vedere il "mondo nuovo" (una sorta di caleidoscopio), un'attività non più praticata ma che si inserisce in quell'offerta di "meraviglie" di cui i luna park e i circhi sono la variante contemporanea. È forse difficile cogliere quanto economicamente "razionale" sia l'eclettismo commerciale se ci si riferisce solo all'Italia degli ultimi anni. Osservazioni su gruppi stranieri evidenziano l'utilità di una simile strategia. Così, Kaprow [1 990] dimostra come i gitani di Saragozza siano riusciti a non soffrire delle cicliche cri­ si economiche della società spagnola grazie al loro eclettismo; Paul Stahl, in una comunicazione personale, osserva come nella disastrata Romania degli ultimi anni del regime di Ceausescu, solo gli 7igani riuscivano a procurarsi della birra da vendere: si mettevano fuori dalle sale da ballo e, mano a mano che la serata avanzava e l'allegria aumentava, il prezzo della birra saliva . . . Allo stesso modo, nell'Italia degli ultimi decenni con una percentuale cronica di disoccupazione, non ho mai sentito uno zingaro lamentarsi di essere disoccupato! In una società complessa e altamente regolamentata, l'eclettismo commer­ ciale non è certo favorito. Per essere "in regola", uno zingaro dovrebbe chiedere in continuazione licenze e permessi che sono fuori dalla sua portata a causa del

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suo basso livello di scolarizzazione, oppure che sono resi effimeri dall'urgenza di una transazione a causa delle lungaggini burocratiche. Non è la caducità dei "mestieri tradizionali", quindi, il problema, ma la virtuale messa fuori legge del­ l'eclettismo commerciale. Per usare una metafora storica, si potrebbe dire che tutte le regolamentazioni sui vari commerci al dettaglio hanno costituito per gli zingari tanti enclosure acts che hanno reso illegali le loro attività e hanno mar­ cato ancora di più i pregiudizi sul loro declamato parassitismo. Infatti, se i veri enclosure acts portarono migliaia di inglesi al lavoro salariato, la proletarizzazio­ ne è invece sempre stata rifiutata come una condizione permanente dagli zin­ gari dell'Italia del nord. Per quanto paradossale possa sembrare, il rifiuto della proletarizzazione ha avuto finora successo grazie anche al loro statuto di mino­ ranza marginalizzata. Dopo Simmel, l'associazione tra attività commerciale e mi­ noranze etniche è stata osservata un po' ovunque nel mondo, e il relativo suc­ cesso negli affari da parte dei membri delle minoranze è stato così spiegato: Il venditore, provenen d o da un gruppo etnico diverso da quello del cliente, si sente libero dai normali obblighi di generosità e gentilezza. Così è in grado di manipolare l'im­ mediata transazione commerciale a proprio vantaggio e a detrimento dell'altro. Cioè, le aspettative di una persona verso il comportamento di un venditore sono più basse se egli è di una minoranza etnica, per cui questi è in grado di domandare di più al cliente e in fin dei conti di ottenere maggior utile [Meneses

198 7, p. 233] .

Ma nel nostro caso i comportamenti non sono così lineari. La nostra fanta­ stica cinepresa aveva mostrato che ci sono individui che, in giornata, perdono e poi riacquistano il loro colore o lo marcano in modo spropositato. È il caso del­ la manipolazione della propria identità nei contatti commerciali con i gage. È una strategia largamente seguita. Patrick Williams [1 982) ha mostrato bene come i kalderas si rendano etnicamente "invisibili" quando vanno a proporre il proprio lavoro di stagnini o di indoratori ai gage circostanti; Salo e Salo [1 982) , dal can­ to loro, parlano di una «super-comunicazione dell'etnicità» da parte dei romnicél nord americani quando impegnati in attività commerciali. Queste tecniche le ho trovate riunite nelle tattiche di mercanteggiamento dei roma sloveni del nord Ita­ lia: quando, impegnato nel commercio del ferro vecchio, un rom può presentar­ si come un povero zingaro illetterato (super-comunicazione) al momento del-

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l' acquisto p re sso 1 contadini o i carr ozzie ri , in modo da avere il materiale grati s o a un prezzo inferiore a qu ell o corrente; ma al momento d ell a rivendita presso il grossista, se non è conosciuto, può p r e s entars i come uno scafato uomo d' affari, co m e un gagio p a rl ante un italiano forbito (invisibilità), pronto ad alzare il prez­ zo della p ropri a merce promettendo stock enormi di nuovo materiale. Se lo s tatu to di minoranza e la pratica del commercio è sempre visto come p otenzi al m e nte p e ri c o l o s o per l'ordine sociale» [Meneses 1 98 7 , p. 233] , tanto più lo diventa quando si ha a che fare con l'eclettismo commerciale. Non ben inquadrate e cate gorizzat e , le attività zing ar e dive ntano e sp e die nti Meneses afferma che uno dei mezzi per controllare un commercio virtualm ente p eri co loso è quello di ins e ri rl o in o c c a s i on i rituali . Ed è questo il mezzo s e gu i to dai non zingari italia n i ed eu rop ei in genere: l 'attività e cono mic a d e gli z i ng a ri di­ v e nta socialmente accettata non solo quando appare unica e b en c at e go ri z z abi le, ma anche quando è in s erita in quei contesti altamente rituali che sono, per e sempio , le sagre e i luna park o, un tempo in Italia, le fiere di equini. Ci s on o dei sinti veneti che, conoscendo bene qu e sto atte ggiame nto dei gage, si dicono inv ariab ilm e n te gio s trai anche quando non lo sono; dal momento poi che un gio s traio viene raramente cacciato da una località , è fr e qu en t e vedere p iù fami­ gl ie di sinti se gu i r e l'itinerario di un parente g e stor e di una gi ost ra : ufficial­ mente, tutti si dicono p ro p rie tari della gio stra ! Nel comune modo di pensare si dà molta importanza all ' o rigin alità di un tratto cultural e o di un insi eme di tratti culturali. Dire che il tal po polo p o ssie de u sanze ori ginali " significa attribuirgli uno statuto di purezza, incontaminazio­ n e , che rimanda all'isolamento o all'impermeabilità nei contatti con altri popo­ li. Nel caso degli zingari , da qu an d o s'è scoperta la p a rentela della lingua p arlata da molti di essi con il sans crito e si è po stulata la loro emigrazion e dall'India, la ricerca dell ' original e è e quival sa a una ricerca delle ra dici indiane, di quanto di indian o è rimasto nella loro cultura. Al di là dei riscontri lin gui stici , i r i su lt ati so­ no stati miserrimi, anzi oserei dire nulli, nonostante oggi si a un imp egno intra­ preso in p articolare d agli intellettuali rom. La lingua è dive ntata così l'unico trat­ to per di stingu e re i puri zing ari d agli altri. Se in un gruppo si rep eriva un dialet­ to variamente creolizzato o senza lessemi i n di ani , ciò diventava automatica­ mente in dice della sua d egen e razio n e, della sua imminente sparizione. Dal mo­ mento che era difficile trovare i tratti culturali indiani, la ricerca dell'originale in«

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teso come uoriginario" si è spostata alla ricerca dell'originale in quanto "pecu­ liare" : un tratto zingaro era quello non condiviso dalle popolazioni direttamen­ te circostanti. Ciò che appariva diverso diventava "cultura tradizionale", ciò che appariva simile o uguale era senz'altro un uprestito" ; più erano i prestiti nume­ rabili in un gruppo, più questo era ritenuto in via di sparizione. In questo qua­ dro, se la figura ideale dello zingaro tradizionale prevedeva che fosse un noma­ de di campagna, lo zingaro sedentario abitante in città, con pochi tratti diversi dagli altri cittadini, diventava il prototipo dello zingaro degenerato. Le ricerche svolte in diversi paesi europei in questi ultimi dieci-vent'anni hanno dimostrato, però, che non vi sono di fatto tratti " originali" zingari. Han­ no dimostrato che i vari tratti di un dato gruppo provengono invariabilmente dalle società dei gage delle varie regioni europee con cui esso è stato in contat­ to nel corso della sua storia. È stato dimostrato che a volte un gruppo perpetua certe usanze acquisite da una data popolazione e nel frattempo scomparse pres­ so la stessa. Così, per fare solo qualche esempio, per cercare l'"origine" di mol­ ti tratti culturali degli xoraxané ro m a , è sufficiente co n sultare i lavori etnogra­ fici sui popoli della ex Jugoslavia meridionale da cui gli xoraxané provengono; per certi kalderas saranno utili i lavori etnografici della Romania e della Serbia, per i rom abruzzesi quelli dell'Italia centrale, per i roma sloveni quelli della Sia­ venia meridionale e della Croazia eccetera. Sono queste constatazioni che hanno portato alcuni autori a criticare le im­ postazioni culturologic he sull"'acculturazione" degli zingari. Io stesso scrivevo qualche anno fa che ciò che è tradizionale presso gli zingari italiani è l'accultu­ razione in sé, e prendere questo concetto «Come unico strumento d'analisi può essere fuorviante» [Piasere 1 984] . ]udith Okely afferma: «Il termine "accultura­ zione" [ ] è particolarmente inappropriato, poiché parte dalle premesse che gli zingari un tempo siano esistiti indipendentemente dalla cultura e società domi­ nanti. Così l'industrializzazione è vista come uno dei meccanismi per l'accultu­ razion e e la distruzione della pretesa autonomia degli zingari» [1 983, pp. 32-3 3] . Formoso dal canto suo scrive che «Certi autori hanno impiegato i concetti di "deculturazione" o di " destrutturazione" per render conto della situazione di certi gruppi senza prima aver individuato le strutture di cui postulavano l'ab­ bandono. Tale approccio è, naturalmente, altamente contestabile» [1986, p. 246] . Williams, infine, che sviluppa in modo articolato tutto questo discorso . . .

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sull' " originale" e l"' autentico" nella parte conclusiva della sua monografia sui kalderaS: dice inequivocabilmente:

È interessante, alla luce di ciò che precede, esaminare il concetto di acculturazione co­ sì spesso evocato a proposito degli zingari. L'acculturazione può essere definita come un fe­ nomeno che si segnala attraverso la comparsa di modifiche nell'identità

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ciale in seguito a contatti avuti con un altro o altri gruppi sociali; tale modifica dell'identità è in genere presentata come una perdita d'identità; il prestito è il processo più spettacolare dell'acculturazione. Con gli zingari, bisognerebbe al contrario considerare l'acculturazione come ciò che costituisce l'identità del gruppo sociale, poiché - visto che l'originale (origineQ equivale a ciò che è prestito - gli zingari non sono che acculturazione [1984, p. 435] . Che cos'è quindi che fa sì che gli zingari restino zingari di fronte ai gage e che, per esempio, un rom sloveno resti tale di fronte a un rom kalderas o a un gaékan6 sint6 eccetera?

È semplicemente la selezione autogestita

(a volte inconsapevole,

altre consapevole ma presto censurata, altre consapevole e accettata) dei presti­ ti,

è

il modo in cui i prestiti vengono assunti, il modo in cui un tratto culturale

esogeno viene reinterpretato e assimilato . Gli etnonimi dei gruppi su riportati marcano questa storia acculturativa, diversa per ogni gruppo, per cui un sinto lombardo è tale perché non è un gagio lombardo ma nemmeno un sinto pie­ montese eccetera . Gli zingari non sono che acculturazione: affermazione disa­ strante per chi, dall'esterno, vuole ricercare la purezza zingara e magari " salva­ guardarla"; affermazione insignificante per lo zingaro che dall'interno non bada alla provenienza di questo o quel mattone per edificare la propria identità. L'ingegneria culturale delle tanto disprezzate popolazioni zingare ha, da que­ sto punto di vista, qualcosa di veramente eccezionale. Esse giocano con le cultu­ re dei gage per distinguersi da questi e per distinguersi tra di loro; la flessibilità strutturale permette di mantenere una coesione che l'immersione renderebbe al­ trimenti letale; essa è frutto contemporaneamente della disponibilità al cambia­ mento e delle esigenze economiche; le pratiche economiche (scelte fra le tante di quelle dei gage) impongono a loro volta fluidità dei gruppi sociali, dispersio­ ne fra i gage e conoscenza della loro cultura, disponibilità al cambiamento . In breve, gli zingari sono, devono essere, dei maestri in relazioni transculturali, pron­ ti continuamente a rinegoziare, come ha detto Silverman [1988] , la propria "zi31 il buono zingaro d

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ganità11, cioè il proprio non-essere-gage, senza però mai metterlo in discussione. Un bell'esempio di questa capacità di selezione interculturale ci è dato da uno studio di Jane Dick Zatta [1 996] , la quale analizza l'uso che viene fatto del­ le informazioni televisive da una comunità di roma sloveni. In contrapposizio­ ne alle affermazioni di coloro che considerano la televisione come un elemen­ to fondamentale della distruzione delle "tradizioni11 zingare, l'autrice dimostra come l'ascolto dei programmi trasmessi sia variamente selezionato, come i mo­ delli dei gage veicolati siano censurati o reinterpretati all'interno della struttu­ ra narrativa operante fra i roma, come lo stesso atto di guardare la televisione segua modalità dettate da uno stretto controllo sociale e come la preferenza va­ da a quei programmi che, per il loro contenuto (storie di rapporti interfamilia­ ri) , sono percepiti dai roma come simili alla propria esperienza quotidiana. Mi sono soffermato sulle riflessioni che precedono perché sono convinto che solo un cambiamento di rotta dalla visione corrente che si ha in Italia degli zin­ gari possa essere di qualche auspicio per gli eventuali interventi di cooperazione. Da quanto detto appare assolutamente inconsistente il dibattito, più costruito che reale, ove ci si chiede se sia giusto che gli zingari cambino, in vista dell'inte­ grazione, o se sia più giusto che essi restino legati alle loro tradizioni. Gli zingari sono sempre stati pronti al cambiamento e, dal momento che hanno saputo man­ tenere identità distinte, hanno dato prova d'essere sempre riusciti a "integrarsi11 • Il termine integrazione è molto ambiguo ed è molto difficile servirsene sen­ za creare malintesi, visto che spesso è usato come sinonimo di assimilazione. Nei dialetti zingari non esistono i corrispondenti dei due termini, ma tutti gH zingari pongono ben chiara la distinzione tra 11Vivere fra i gage " e "vivere da ga­ ge" . La lotta quotidiana di ogni comunità consiste appunto nel dover vivere im­ mersa fra i gage senza tuttavia diventare dei gage, costretta cioè a sviluppare meccanismi di coesione che impediscano alla dispersione di tramutarsi in dis­ soluzione. Ancora una volta, il discorso che sviluppa Williams è assolutamente pertinente anche in contesto italiano: l'acculturazione destrutturante, più che intesa come perdita/acquisizione di questo o quel tratto, «per gli zingari do­ vrebbe definirsi prima di tutto in termini di isolamento: perdita della coerenza (fine di "aderire insieme 11) , disintegrazione dell'unanimità» [1984, p. 435] . Da questo punto di vista, quindi, gli "interventi mirati11, come ogni cosa dei gage, possono essere accettati dagli zingari se ritenuti utili a una vita migliore fra

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i gage, ma rifiutati, anche con tattiche di lunga durata, quando saranno percepi­

ti come un pericolo per la coesione comunitaria. È questo che è stato mal inter­ pretato dalle centinaia e centinaia di gage che in questi ultimi decenni hanno operato con gli zingari, e in particolare da quelli che hanno reagito inviperiti nei confronti di chi ha cercato di mostrare le motivazioni dei loro insuccessi. L'or­ goglio ferito di pochi è comunque l'indice dell'orgoglio ferito di un'intera società che si è vista svilire, perché reinterpretati o rifiutati, i u doni" che tanto amore­ volmente voleva distribuire. Così, un certo tipo di scolarizzazione, un certo tipo di /{inserimento nel mondo del lavoro" (lavoro salariato), un certo tipo di cam­ pi-sosta (in alcuni casi veri e propri campi di rieducazione), il tutto accompa­ gnato da interventi socio-educativi non indifferenti, ha amplificato negli zinga­ ri la tradizionale convinzione della u stupidità" dei gage che non vogliono e non possono capire che cosa significhi "vivere da zingari" . L'ironia che spesso ac­ compagna gli interventi è ben rappresentata nella figura 2, una vignetta ideata da alcuni travellers irlandesi e distribuita in formato cartolina da un centro cul­ turale di zingari francesi. In questa situazione, solo le singole comunità devono avere la possibilità di scegliere quali tipi di servizi richiedere fra i tanti offerti dai gage, perché non ci può essere un "esperto" gagio che possa dire che cosa si deb­ ba o non si debba fare 11tra", /{per" o 11Con" gli zingari. E qui sta il punto. In questi ultimi secoli i gage hanno sviluppato tutta una cosmologia del rifiuto verso gli zingari (di cui le politiche assimilazioniste sono solo uno dei risultati) che impedisce a questi di poter oggi usufruire dei servizi che di volta in volta sono ri­ tenuti idonei dalle singole comunità. Proprio per questo qualsiasi intervento stu­ diato per 11aiutare" gli zingari può avere in sé, consciamente o no, i germi dei no­ stri atteggiamenti di rigetto. È del tutto pretestuoso che una società (o i suoi mem­ bri illuminati) riconosca di aver maltrattato o di continuare a maltrattare un grup­ po minoritario e pretenda poi di sapere come aiutarlo", prevedendo unicamente interventi sul gruppo e non su se stessa. I programmi di sviluppo concernenti gli zingari dovrebbero essere in primo luogo dei programmi sui non zingari, dei pro­ grammi di lotta al pregiudizio antizingaro, dei programmi tesi a sviluppare la civi­ le coesistenza tra zingari e gage, ad accettarli come comprimari nelle maglie della democrazia multiculturale, come si diceva, avendo come mira principale la fran­ tumazione della cosmologia del rifiuto. E i migliori maestri per combattere questa cosmologia sono per forza di cose gli zingari stessi: loro, che da sempre hanno do11

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figura 2. Cartolina distribuita dal Centre Culturel Tzigane, Parigi Campo nomadi: «Tempi du­ ri! Il nostro campo è invaso dai topi! » . > . . . Con questa tecnica, i rom a erano abilissimi nel sapere da me quello che gli interessava, ma io ero a "

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piedi. . . Molto più che fra gli xoraxané, qui la conoscenza poteva avvenire solo con l'immersione totale, solo con il vivere-con, ascoltando i roma parlare tra lo­ ro, condividendo le ore e ore di chiacchiere pase jag, attorno al fuoco. Seguivo un approccio teorico ethnoscience, ma certo non potevo applicare le tecniche di elicitazione ethnoscience, molto basate sulle domande dirette. Come dice giusta­ mente Judith Okely [1994, p. 5 6] , sono rarissime le opere che descrivono quel­ la che possiamo chiamare la tecnica dell'indagine per immersione. E l'antropo­ loga inglese cita Soulside di Ulf Hannerz. Il rimando è perfetto e molto signifi­ cativo poiché in quell'opera l'antropologo svedese, lui bianco, ha tentato di de­ scrivere la vita di un ghetto negro di Washington. La condizione dei negri nord­ americani e quella degli zingari europei per certi versi non è diversa: entrambi vivono in una situazione non-coloniale, immersi fra una popolazione maggio­ ritaria che li discrimina ma che tenta contemporaneamente di sfruttarne la for­ za-lavoro e che, più non ci riesce, più li marginalizza e criminalizza (e contem­ poraneamente li folklorizza e li rende oggetto di intervento socio-assistenziale); entrambi hanno costruito forme di resistenza contro l'annullamento culturale creandosi nei secoli delle identità forti, anche basate su comportamenti di con­ trapposizione con le circostanti culture dominanti. Per queste condizioni gene­ rali, l'antropologo bianco che va a vivere nel ghetto negro e l'antropologo ga­ gio che va a vivere nel campo zingaro possono essere trattati in modo equiva­ lente: in quanto persona di cui si capisce che ci si può fidare per le sue qualità personali, può essere accettato; in quanto membro riconosciuto della società esterna dominante e spesso coercitiva, ogni suo comportamento che rimandi ai comportamenti visti come coercitivi (come lo stesso dover rispondere a delle domande circa i propri comportamenti o quelli degli altri) viene automatica­ mente scoraggiato. La ricerca per immersione resta quindi l'unica tecnica di in­ dagine che possa dare dei frutti. Fra i roma non potevo fare come i padri del­ l'antropologia (Malinowski, Evans-Pritchard e gli altri) che se ne stavano spesso nella loro tenda, chiamavano gli indigeni, facevano le domande e trascriveva­ no. Provare per credere: se un rom sa che lo chiami per fargli delle domande, hai il tempo di scrivere un romanzo nel tuo quaderno, perché quello non viene! Come, allora, prendere le famose note etnografiche in una situazione di im­ mersione in una comunità di analfabeti o semianalfabeti, dove il taccuino di ap­ punti può ricordare un verbale di contravvenzione o può racchiudere delle

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informazioni la cui divulgazione si teme possa ritorcersi contro la comunità, no­ nostante le buone intenzioni dell'amico etnografo? A pagina 1 63 del loro volu­ me Fabietti e Matera [ 1 9 9 7] riportano una foto di un antropologo francese, Phi­ lippe Descola, ritratto sotto una tettoia di fronde e seduto a un tavolo di fortu­ na mentre sta scrivendo in un quadernone (ma è in posa, perché lo sguardo è ri­ volto all'obiettivo . . . ) . Era fra gli achuar del Perù e la didascalia della fotografia, ri­ presa da un'opera recente dell'autore, dice «Scrivere, scrivere sempre È evi­ dente che se Descola avesse fatto ricerca fra i roma quella foto non l'avrebbe fat­ ta. Volendo essere un buon etnografo, anch'io all'inizio sentivo l'assillo di do­ ver s crivere, ma fu una preoccupazione che piano piano mi abbandonò. Scrive­ vo gli appunti la sera, in roulotte. Avevo detto ai roma che dovevo studiare e che non si preoccupassero se vedevano la luce accesa fino a tardi. Oppure mi rinta­ navo a s crivere i n una casa nel quartiere in cui i roma usavano accamparsi e che mi serviva da base. Non andavo per scrivere 11 di nascosto", ma semmai per cer­ care un po' di relax e di solitudine dalle intense vicende quotidiane dei roma. Per un gagio, l 'intensità con cui è condotta la vita dei roma può davvero essere uno stress psicologico. Non era una base " segreta", i roma sapevano benissimo che ci andavo e spesso mi venivano letteralmente a riprendere. La scrittura fu un assillo solo all'inizio, per due motivi: primo, perché volevo imparare in fretta il loro romanes (non ero più a digiuno perché masticavo già il romanes degli xo­ raxané), per cui mi premeva trascrivere le frasi che sentivo durante la giornata pe.F ordinarie e studiarle; secondo, perché capii in fretta i limiti dello sforzo . Mi spiego. Dal momento che non conduci un'indagine mirata con questionari più o meno strutturati da riempire, l'immersione implica che tu vivi "totalmente" , con i cinque sensi, come diceva Judith Okely, con l e tue _motivazioni, l e tue in­ tenzioni, le tue attenzioni. Ora, chi riesce a trascrivere "totalmente" gli avveni­ menti personali anche di una sola giornata? Quanti volumi ci vorrebbero? Inol­ tre c'è una questione personale. Ci sono diversi modi di prendere appunti: men­ tre faccio lezione vedo studenti che scrivono e scrivono senza alzare la testa (sal­ vo quando li si fotografa come Descola ?), mentre ne vedo altri che si chinano a scrivere ogni tanto per poi rialzare subito la testa e limitarsi ad ascoltare. Io per natura faccio parte di questa seconda categoria di 11prenditori di appunti", forse per, come dire, "pigrizia scrittoria", per cui i miei appunti sono sempre stati mol­ to ermetici, sono stati, appunto, degli strumenti per ricordare, più che degli stru. . .

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menti per archiviare conoscenze definitive. Inoltre, ancora, la vita fra i roma non mi dava sempre il tempo da dedicare alla scrittura. Potevo passare giorni e gior­ ni senza scrivere una riga, intento, com'ero diventato anch'io, a vivere. Arriva­ vo alla sera stanco, con nessuna voglia di riempire pagine su una giornata che mi aveva così preso, e al lume della candela poi, visto che non avevamo l'allac­ ciamento elettrico. Per tutti questi motivi, non ho vissuto, o ho vissuto in mo­ do molto attenuato, quello sdoppiamento della scrittura di cui parlano Fabietti e Matera. Per me l'esperienza della scrittura rimanda veramente ed essenzial­ mente al momento della redazione, quando, oltre agli appunti, la memoria in­ corporata dell'immersione etnografica ha giocato un ruolo basilare. Di altre tecnologie mi sono servito ancora meno. Non ricordo se ho mai scat­ tato foto ai roma, di certo non ho adoperato il registratore, l'uso intensivo del qua­ le pochi anni dopo ha caratterizzato la ricerca di Jane Dick Zatta presso un'altra comunità di roma sloveni [vedi per esempio Dick Zatta 1 988] . Non che i "miei" roma fossero più allergici dei "suoi" alla presenza del magnetofono, non si tratta di questo, poiché l'uso palese del registratore lascia un buon margine di control­ lo della divulgazione delle informazioni anche ai locutori oltre che al ricercatore. Ero io che mi sentivo allergico al suo impiego, forse perché nella situazione di im­ mersione completa non sentivo il bisogno di sovraesporre una conversazione o un racconto piazzando un registratore. jane, invece, non aveva la possibilità di andare a vivere con i roma, per cui doveva massimizzare i risultati delle sue visi­ te, e per questo il registratore può essere molto utile; inoltre, per la ricerca che sta­ va conducendo, che verteva sulle modalità della trasmissione orale, il registrato­ re era indispensabile. È un suo merito, quindi, aver saputo instaurare delle rela­ zioni con i roma che le hanno permesso di registrare ore e ore di conversazioni. L'uso del minimo di tecnologia possibile era anche dettato dal mio generale atteggiamento "e-vadente" di cui parlavo prima. Mi ricordo molto bene dei mo­ menti attorno al fuoco in cui, standomene ad ascoltare i roma che chiacchiera­ vano, mi ritrovavo a pensare cose del tipo: che cosa farebbero in questo mo­ mento se io non fossi qui? Si comporterebbero nello stesso modo, direbbero le stesse cose? Erano domande senza risposta, ovviamente, ma esse esprimevano bene lo stato psicologico in cui mi trovavo: desideravo scomparire pur restando lì. Il desiderio di immersione si accompagnava all'impossibile desiderio di essere invisibile. Come ho detto, questo stato era sostenuto anche dall'ideologia antro-

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come

esperienza

pologica che perseguivo. Volevo che il ricercatore scomparisse per lasciare il po­ sto all'"informatore" . Questa volta non era la realtà "oggettiva" che mi interes­ sava, ma la descrizione della realtà dei roma quale i roma la percepivano, la vi­ vevano, la creavano . Indagavo le loro categorizzazioni e le loro rappresentazioni per capire come vedevano il mondo e come si vedevano. A prescindere dal fatto che oggi avrei molte cose da dire su quello che scrissi allora, per me fu estrema­ mente gratificante quando Patrick Williams, recensendo Mare roma, scrisse che Leonardo Piasere si propone di fatto di descrivere la concezione del mondo dei roma, nel doppio senso del termine: atto di generazione e atto di cognizione [ . . . ] . Il lettore sco­ pre nello stesso tempo il mondo secondo i roma e i roma nel mondo [198 7c, p. 1 8 7) .

Anche s e non lo avevo specificato nel testo, era proprio ciò che avevo tenta­ to di fare ed ero contento che una persona competente dicesse che c'ero riuscito. Il mio desiderio di invisibilità fu a un certo punto tale che ricordo bene d'a­ ver chiesto al mio direttore di studi se potessi scrivere la tesi nel romanes dei ro­ ma invece che in francese. Con la finezza che lo contraddistingue, il professar Stahl si limitò a rispondermi con un sorriso . . . Senza tenere in conto il fatto che esageravo con me stesso circa la mia competenza in quella lingua e che senz'al­ tro non ci sarei riuscito, la richiesta, pur ingenua, non era completamente idio­ ta. Imparando la loro lingua e conoscendo il loro mondo avevo cominciato a toc­ care con mano quello che oggi passa sotto il nome di incommensurabilità delle culture. Già allora ero convinto che incommensurabilità non significa intradu­ cibilità, ma trovavo ostico dover star lì a spiegare l'approssimativa area semanti­ ca e simbolica di un termine e mi pareva pedante doverla ricordare e ripetere nel corso della trattazione. Il risultato fu un ibrido; come tante opere etnografiche, Mare roma è un testo plurilinguistico sotto diversi aspetti: la lingua base è il fran­ cese quale può essere quello nella testa di un italiano (e veneto), presenta cita­ zioni in qualche altra lingua, ma soprattutto ha una dislocazione 11 a chiazze" di termini e frasi in romanes, la cui densità varia al variare dei capitoli. Ultima­ mente ho studiato le commedie plurilinguistiche verrete del Cinquecento [vedi Piasere 1998] e l'accostamento alle odierne monografie etnografiche mi è venu­ to automaticamente: anche in tali commedie è in scena l'alterità culturale, la quale è marcata dalla presenza di frasi straniere disposte 11 a chiazze" nel testo. Le

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morto o assente

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roulotte partecipazione al fuoco cooperazione produttiva e/o solidarietà economica

figura 2. Accampamento di roma [da Piasere 1 9 84, p.

1 70] .

serie monografie di oggi si ritrovano delle antenate "ridicolose" inaspettate . . . Ritornando al mio desiderio di "immersione·· evadente", devo sottolineare come anche i miei grafici lo riflettano. La figura 2 rappresenta un campo di ro­ ma quale lo riportai nel primo lavoro in cui scrissi qualcosa su di loro [vedi Pia­ sere 1 9 84, p. 1 70] . Essa è quasi illeggibile poiché tentavo una raffigurazione plu­ ricontestuale per mostrare contemporaneamente come era la disposizione del­ le roulotte, quali erano i legami genealogici, quali erano le collaborazioni eco­ nomiche in atto, come avveniva la partecipazione al fuoco . Quest'ultimo fatto­ re era particolarmente importante poiché la partecipazione al fuoco in un ac­ campamento di roma pubblicizza le relazioni interfamiliari vigenti. Diversa­ mente dagli xoraxané, fra i quali ogni famiglia usava accendersi il suo focherel­ lo davanti all'abitazione, fra i roma era previsto un solo fuoco collettivo e la pre­ senza di più fuochi in un accampamento segnala sempre delle fratture in atto. Ebbene, nella figura sono talmente "evadente" che la mia roulotte è scompar­ sa! Allora vivevo con Pita e la sua roulotte è quella in alto a sinistra; la mia rou­ lotte era a lato della sua, ancora più in alto nella figura, in una posizione mar­ ginale all'interno del campo . Ovviamente, frequentavo solo il fuoco che fre­ quentava Pita, finché gli attriti con i roma dall'altra parte del campo non cessa­ rono e ritornò a brillare un solo fuoco . Ma allora anche la disposizione delle rou­ lotte cambiò. Abbiamo in questa figura lo stesso risultato della figura l , ottenu­ to per motivazioni e intenzioni opposte: là perché davo per scontato che la co­ noscenza oggettiva è impersonale, qui perché volevo che la conoscenza fosse so81 l ' e tno g r a f i a c o m e e s p e r i e n z a

lo quella dell1 11 informatore " . Non era un tentativo di sovraesporre

i

roma, de­

scrivendoli come se vivessero allo stato "puro" senza contatti con i gage . Al con­ trario, mi ero b en accorto che nel loro tentativo di fingere di volersi " integrare ", i roma erano molto smaliziati e accoglievano spesso (il che non vuoi dire che accettavano) dei gage fra di loro; e fin da quel primo resoconto avevo scritto : se si dovesse descrivere con precisione la composizione di un gruppo locale, si dovreb­ be dire che esso è generalmente costituito da un insieme di famiglie imparentate in un certo modo, alle quali si aggiungono uno o più gage (missionari, assistenti sociali, stu­ denti, ricercatori)

che, come le altre famiglie, sono presenti in modo più o meno flut­

tuante [1 984, p. 1 62] .

Non volevo sovraesporre loro, ma oscurare me. Volevo offrire una fotografia facendo finta di non averla fatta con una macchina fotografica. L' esperienza con i roma mi dimostrò la fallacia di un' altra convinzione allo­ ra abbastanza condivisa fra gli antropologi e giustamente sottolineata anche da Judith Okely. Diversi autori associano l'impresa etnografica a una sorta di nuo­ va socializzazione a cui si sottopone l'antropologo: arrivato

in un mondo sco­

nosciuto, egli acquisisce la nuova cultura con un processo di apprendimento si­ mile se non uguale a quello con cui un bambino acquisisce la propria. Gli etna­ scienziati, che volevano " entrare nella testa dei nativi", non disdegnavano que­ sto accostamento e in questo la pensavano come gli �oraxané, che mi soppor­ tavano trattandomi come un bambino che «non sa» . Ma la mia vita fra i roma mi dimostrava continuamente come fosse una visione errata.

Il mio desiderio di

" entrare nella mente dei nativi" faceva ogni giorno a pugni con la resistenza che il mio inconscio opponeva, una resistenza favorita dalla situazione generale in

cui vivono i roma. Un etnografo "normale " prende armi e bagagli e se ne va in qualche angolo di mondo a indagare cosa si dice, si pensa e si fa da quelle parti. Dopo di che ritorna e divulga che "là" si fa così e cosà. Non solo lo divulga, ma interiorizza egli stesso che

è

là che si vive così e cosà, lontano dal suo luogo di

vita, lontano da 11Casa" . Per l'antropologo stesso

è

normale che i suoi ospiti ab­

biano un' altra "visione del mondo" , visto che il mondo è diverso dal suo: qui un mondo, là ce n' è un altro. Ma per l'etnografo che va a vivere con va

a vivere con i

roma del suo paese, la situazione

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di

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c'è

roma, se

è completamente diversa. Per

"entrare nella testa dei roma", deve imparare a ricategorizzare il "proprio" mon­ do, il mondo in cui è cresciuto, in cui è vissuto fin da bambino, perché è quel mondo che i roma abitano . Come etnografo dei roma non mi sottoponevo a una nuova socializzazione, ma combattevo per l'acquisizione di una conoscenza che mi scompigliava i modelli cognitivi interiorizzati che già avevo. Il dominio co­ gnitivo dei roma non opera in un mondo parallelo (in Perù, gli achuar. . . ), ope­ ra nel tuo mondo. L'etnografo dei roma non vive una schizofrenia dilazionata come gli altri etnografi, la vive allo stato puro poiché il "là" è un "qui" . Senza ri­ prendere i dettagli particolari, la mia vita fra i roma mi insegnava sempre più che nel "mio" mondo c'erano più mondi; mi insegnava che nel "nostro" mondo, in quello che condivido con molti di coloro che leggeranno queste righe, ci sono più mondi. È in un mondo di mondi che noi tutti viviamo - e non ce ne accor­ giamo. Ora si capisce perché fin dalle prime righe ho detto che è impossibile sta­ bilire una distinzione netta tra la mia esperienza etnografica e la mia esperien­ za-e-basta con i roma o i rom in genere. Non essendoci la frattura tra il "qui" e il "là", quando incontro la Nano in giro per la città e mi aggiorna sulle ultime novità, sul chi è "scappato" con chi e chi ha avuto bambini, quando mi incon­ tro con Pamela, ora mediatrice culturale in una scuola frequentata dai figli dei suoi amici e parenti, e parliamo di questa benedetta scolarizzazione, ora che non sto focalizzando la mia attenzione sui roma, sto facendo dell'etnografia o no? È così importante saperlo? È sempre un'esperienza che si sviluppa lungo la mia vi­ ta: e la Nano che non vedevo da tempo a constatare: «Lejo mro, sa baia pame!» (Leo mio, [hai] tutti i capelli bianchi!) - e voglio sperare che esageri. . . . A mo' d i epilogo, vorrei attirare ancora l'attenzione su due aspetti. Il primo riguarda ancora il rapporto tra soggetto e oggetto della conoscenza etnografica. Dopo quanto esposto, credo che risulti evidente che, se è vero che un approc­ cio antropologico può influenzare l'analisi e la presentazione dei dati (la mia tenda e la roulotte scomparse, per esempio), è altrettanto vero che l'esperienza etnografica per immersione "ti salva" dagli eccessi delle ipotesi deduttive per la­ sciare ampio spazio di manovra all'empiria induttiva del quotidiano. La cono­ scenza etnografica è sempre il risultato di una relazione: tra la vita dell'etnografo (con le sue teorie) e quella dei suoi ospiti (con le loro teorie) . D'altra parte, l'e­ sperienza etnografica per immersione è la sola che ti possa aiutare a scoprire l'importanza di ambiti di cui non si parla perché non se ne deve parlare (come

l ' e t n o g r a fia

come

espe rienza

per e s e m pio quello dei morti) o di cui non si parla perché esprimono compor­ tamenti interiorizzati e inconsci (come per esempio le mod al it à di di spo sizi on e delle roulotte di cui parlerò più avanti) . I comportamenti interiorizzati e incor­ p o rati non si possono scop rir e facendo domande e propinando qu esti on ari Il secondo aspetto riguarda i limiti della ricerca etnografica per immersione. Parlando di un gruppo zingaro francese, i manus del Massiccio centrale, sappiamo già che Williams ha scritto che l'immersione è l unica modalità possibile di cono­ scenza: «Con essi non ci sono mezze misure: o si è completamente all'interno, o si rimane irrimediabilmente al di fuori, in capaci di cogliere alcunché» [199 7, p. 1] . La situazione non è generalizzabile a tutti gli zingari, ma certo è diffusa. Se qu e sto è vero, significa che spesso la possibilità di ricerca è bivalente: o si fa o non si fa. Non è possibile fare una ricerca p arzi ale Se qu esto è vero, significa che tante ri­ cerche tentate fra gli zingari sono dovute fallire. I l tema dei fallimenti etnografici dovrebbe essere di una importanza vitale per tutta l a discussione sulla ricerca sul campo, mentre invece è pochissimo dibattuto. Normalmente si tende a tacere un fallimento o a non renderlo oggetto di riflessione pubblica per timore di perdere la rep utazio n e professionale. Certo, ci sono etnografi più o meno bravi, ma se l'et­ nografia è prima di tutto un rapporto in staurato con una comunità, esso può es­ sere difficile o impossibile per motivi che superano di gran lunga l'abilità del ri­ cercatore. È per questo che ho molta stima per le due antropologhe che hanno de­ s critto il loro fallimento nel tentativo di iniziare una ricerca etn ogr afic a in am­ biente zingaro Linda Kent [1992], che per la sua tesi universitaria cercava zingari e Viaggi an ti in Louisiana e Mississipi, non riuscì nemmeno a entr are , a insediarsi fis icamente Susan Di Giacomo, adottata" da una famiglia di rom kalderas in una città spagnola, abbandonò dopo le difficoltà fisiche, le compli cazioni interp erso nali, lo stress, intervenuti durante un viaggio di tre settim an e in giro per la Spa­ gna. Come riconosce l'autrice, la situazione e la natura del gruppo implicavano «la partecipazione totale come metodo» [1983, p. 340] , non sempre pos sibile da so­ stenere. Il suo articolo porta il titolo, ironico per l ' e sperienza vissuta, di Luck on the road (''Fortuna sulla strada ) . Secondo l'autrice dovrebbe essere l a traduzione di un augurio che sarebbe «bax tal o drom». In realtà, l'espressione corretta è «baxtal6 drom» e significa semplicemente "buon viaggio" . Come si ve de, il fallimento si ri­ flette perfin o nell'unica frase in romanes presente nell'articolo, una frase che agli occhi dei lettori non specialisti è forse servita a mi tigare il fallimento ste s so .

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un mondo di mondi

Sia nel dialetto dei roma che in quello dei roma il termine

them è

traducibile sia

con " mondo" che con " stato", "pae s e " , "regione" . Il mondo è formato da tanti "mondi" in cui il singolo luogo

è distinto

come

than

dai roma e misto dai

roma. Ma la suddivisione del mondo in mondi non è opera né dei roma né dei rom a . Sono altri uomini che spezzettano il mondo, quelli chiamati gage dai primi e gagé dai secondi. L'esistenza dei mondi del mondo è dovuta all'esistenza dei gage/ gagé. Una leggen d a ricorda come un tempo anche i roma avessero un loro mondo

potente, distinto da quello dei gagé, ma la presunzione del

loro

re scatenò l'ira di

Dio e i roma persero per sempre il loro mondo1 • Pare invece che i roma non

ab­ biano mai avuto un proprio mondo potente: essi ne furono privati fin dall'inizio, fin da quando Dio suddivise l'umanità in gage e roma2 È quindi in e fra questi mondi abitati e suddivisi da altri che i roma e i roma devono vivere e tentare di co­ struire i propri mondi. Si tratta naturalmente di mondi asso lutamente parti col ari Vedremo in questo cap i tolo le forme di territorialità sviluppate da gru ppi di .

.

roma e di roma in uno dei mondi dei gag e/ gagé3 • In un pubblico scambio di opinioni tra me (Piasere 1 9 8 6] e Aparna Rao [ 1 9 8 7] sono state fatte alcune osservazioni sul funzionamento della territoria­ lità fra gho rbat afgani e roma italiani.

La

domanda più ge nerale

da

porre

è

che

cosa sia e che cosa presupponga la territorialità per un gruppo girovago4, la qua­ le a sua volta rimanda alla vecchia questione di che cosa significhi territorio" . E qui siamo bell'e i m p a nt anati nelle sabbi e mobili ! u

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Alle definizioni dei geografi e dei giuristi, i quali mettono rispettivamente l'accento sul suolo in quanto supporto o sulla competenza amministrativa su di una superficie, si sono aggiunte negli ultimi decenni gli apporti degli etologi. Termini quali core area, home range e "territorio" (in quanto porzione difesa del­ lo home range) , sono stati usati per descrivere il comportamento di molte specie, inclusi i primati non umani. Diversi etnologi hanno impiegato gli stessi termi­ ni per descrivere il comportamento dei gruppi umani. Ora, mi sembra che il semplice trapianto di concetti dall'etologia all'etnolo­ gia ponga più problemi di quanti non ne risolva. Da un lato, il problema è emi­ nentemente epistemologico, e riguarda le interazioni tra osservatore e osserva­ to: il minimo che si possa dire è che in antropologia l'osservatore analizza-in­ terpreta e l'osservato può dire la sua opinione su quelle analisi-interpretazioni, mentre in etologia tutto questo non avviene, o non avviene ancora: non pos­ siamo conoscere ancora le rappresentazioni collettive delle giraffe, né sapere le loro opinioni su quello che gli etologi scrivono su di loro . Dall'altro, la distin­ zione netta tra home range, core area e 11territorio" sembra improponibile anche a certi etologi, fra i quali c'è chi ammette che è preferibile accettare che la terri­ torialità sia un concetto con diverse sfumature di significato (di tipo prototipi­ co-politetico, diremmo oggi), piuttosto che discutere su che cosa sia o non sia con precisione un 11territorio" [vedi Hinde 1 9 77, p. 355] . Mi pare che il problema della definizione di territorio, in quanto porzione di spazio difesa, non stia tanto nel concetto di territorio, quanto in quello di " dife­ so" . Che cosa significa "difendere"? In quanti modi si può difendere qualcosa? O meglio, in quanti modi si crede di difendere qualcosa? Credo che tante difficoltà e ambiguità sul che cosa sia la territorialità per un gruppo girovago derivino da questo e dal fatto che le nostre interpretazioni non combaciano sempre con le loro. Ho molta difficoltà, per esempio, a tradurre nelle parole dei roma e dei roma il concetto di territorio come parte difesa. L'espressione che potrebbe maggior­ mente avvicinarsi potrebbe essere araklo them/arakhl6 them, ma il verbo arak(h)­ significa difendere nel senso di "fare attenzione", 11avere cura", per cui l'espres­ sione significherebbe piuttosto il "mondo di cui si ha cura" . Ma sappiamo che il mondo è un mondo suddiviso dai gage/gagé con confini netti e precisi. Aver cu­ ra di questo mondo implica fare attenzione ai gage/gagé e a tutti i non gage/gagé, a quelli vivi e a quelli morti. Un mondo diventa allora una costruzione, e in quel-

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lo che i gage/gagé considerano un proprio territorio, in senso giuridico ed etolo­ gico, i roma e i roma possono vedere e costruire molti mondi diversi. Pare che i roma abbiano scoperto l'Occidente negli anni Sessanta. Prima in sor­ dina, poi numerosi e ben visibili, dalle regioni meridionali della Jugoslavia si spar­ pagliano nell'Europa occidentale. Dopo un decennio la migrazione diventa un grande flusso, e dopo la dissoluzione violenta della ex jugoslavia assume l'aspet­ to di un'invasione [vedi Brunello 1996a] . In Italia vi arrivano con ogni mezzo, le­ galmente o illegalmente: via terra, via mare e a volte in aereo. Oggi sono presen­ ti in tutte le regioni italiane. Questi immigrati non formano un gruppo cultural­ mente e linguisticamente omogeneo, per cui le mie osservazioni non possono es­ sere generalizzate. Esse si riferiscono soprattutto alla seconda fase, quella del gran­ de flusso degli anni Settanta-Ottanta, e concernono delle comunità di roma gur­ beti e arlia provenienti dal Kosovo. Come molti altri immigranti i roma arrivano grazie a quel /{travaso" inevitabile che ha luogo ogni qualvolta esista uno squili­ brio economico marcato tra aree geografiche vicine: attratti e accecati dall'ab­ bondanza dell'Ovest, essi si lasciano alle spalle la povertà del sud-est europeo. La scoperta dell'abbondanza va di pari passo con la scoperta degli altri gruppi rom presenti in Italia, possibili concorrenti nello sfruttamento dell'abbondanza stessa. Tale abbondanza è naturalmente costituita dal surplus economico dei gagé locali, per cui dobbiamo prendere in considerazione tre tipi di rapporti: il rap­ porto roma-italiani, n rapporto roma e altri zingari, il rapporto inter-roma . l . I roma sono considerati dagli italiani dei cittadini stranieri; il più delle vol­ te i roma sono senza permesso di soggiorno, per cui la loro presenza è conside­ rata illegale dagli italiani. Inoltre, per beneficiare dell'abbondanza, essi hanno "deciso" di praticare in prevalenza attività considerate illegali dagli italiani: la mendicità e il piccolo furto. Il risultato della loro posizione precaria e delle loro attività illegali è dato dall'azione delle forze dell'ordine che li cacciano in con­ tinuazione da qualsiasi luogo ove si accampino e che tentano spesso di riman­ darli oltre confine. Per esempio, negli otto mesi in cui rimasi accampato con un gruppo di loro, fummo cacciati otto volte e rifacemmo quindi otto accampa­ menti diversi, uno al mese in media. I roma riconoscono che gli italiani hanno un territorio ben definito. Tutti gli italiani sono considerati molto ricchi, quindi sono considerati tutti sfruttabili e si

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pensa che tutto il loro territorio sia frequentabile. In teoria i roma avevano due possibilità per accedere alle risorse: o tenere un profilo basso per cercare di essere espulsi il meno possibile, o sviluppare una strategia economica temporanea ma efficiente che mettesse pure in conto un alto attrito con gli italiani. Hanno " scel­ to" questa seconda opzione e hanno sviluppato l'intervento economico infanti­ le: la legge non punisce i minori di quattordici anni e i minori di sedici anni han­ no eventualmente una pena ridotta. Certe famiglie sono giunte fino a 11prendere in affitto" bambini da altre nel frattempo rimaste in jugoslavia. Si tratta dei 11bam­ bini-schiavi", gli argati, che hanno riempito le pagine dei giornali italiani e ai qua­ li si riferisce anche il famoso film di Kusturica Il tempo dei gitani5 • 2. I rapporti con gli altri zingari non sono migliori. Fra questi la mendicità e il furto, praticati sporadicamente, raramente costituiscono le uniche attività eco­ nomiche. Comunque, anch'essi dipendono per le loro attività commerciali, le­ galizzate o meno, dal surplus dei non zingari, per cui, direttamente o indiretta­ mente, i roma sono visti come loro concorrenti. Ora, incuranti di costoro, i roma si sono fatti largo "a spalla te", per così dire, incutendo paura. Ritenendoli dei mez­ zi-italiani, i roma non si fanno scrupoli a volte di invadere i loro accampamenti e persino di derubarli. A loro volta, gli zingari italiani li considerano dei selvaggi, li temono e li evitano il più possibile. Può capitare che tentino di allontanarli nel­ lo stesso modo usato dai gagé, ossia sollecitando l'intervento della polizia. La presenza di altri gruppi zingari non è presa in considerazione. Anche se questi ultimi possono considerare una zona come loro territorio esclusivo, essa può essere tranquillamente invasa dai roma. I roma si difendono ispirando pau­ ra e formando di solito grandi accampamenti di qualche centinaio di persone, una dimensione raramente raggiunta da quelli dei rom e sinti italiani. È vero che un grande accampamento attira presto l'attenzione dei gagé, ma è anche ve­ ro che costituisce un buon deterrente contro un possibile attacco dall'esterno. 3. Nel periodo che abbiamo chiamato «del grande flusso», i rapporti tra i di­ versi gruppi di roma emigrati in Italia era il più delle volte di semplice evitazio­ ne per quanto riguarda l'accamparsi assieme. Dopo !'"invasione", invece, anche se la tendenza all'evitazione è sempre evidente, molti gruppi di famiglie di di­ versa provenienza hanno dovuto accettare di insediarsi negli stessi spiazzi. Gli xoraxané roma (letteralmente "roma turchi") evitano di accamparsi vicino ai das­ sikané roma (letteralmente "roma serbi") . Fra gli xoraxané, i gurbeti o i gambas del

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Kosovo e della Macedonia evitano di accamparsi con i éergarja bosniaci o mon­ tenegrini. Questa tendenza non è mai assoluta e oggi capita spesso che famiglie appartenenti a gruppi diversi di xoraxané operino nello stesso territorio dei gagé. Oggi in Italia ritroviamo praticamente tutti i gruppi rom descritti più di qua­ rant'anni fa da Rade Uhlik [1955, 195 6] per la jugoslavia e l'evitazione inter-roma sembra funzionare ancora come meccanismo di salvaguardia delle categorie et­ niche riconosciute prima dell'emigrazione. Sembra una operazione mnemonica ricollegabile alle suddivisioni territoriali nel paese d'origine, suddivisioni che dif­ ficilmente sopravviveranno quali sono ora in futuro. Vi è un altro aspetto da segnalare legato ai rapporti inter-roma. La distribu­ zione fra gli italiani sembra seguire spesso delle modalità temporali più che spa­ ziali. L'abbondanza è potenzialmente di tutti, ma non tutti possono rivolgersi contemporaneamente agli stessi italiani. Una prima distribuzione si impone quindi automaticamente. Contemporaneamente, l'intervento delle forze del­ l'ordine (eccetto forse che nelle grandi città) impone gli spostamenti da un luo­ go all'altro e la non cooperazione, o il basso grado di cooperazione interfami­ liare nelle attività economiche, favorisce un alto grado di fluidità nella compo­ sizione dei gruppi locali. Può capitare che una famiglia accampata in una città si faccia scrupoli ad andare a mendicare in un'altra città in cui ci siano roma co­ nosciuti, ma è sufficiente che essa si aggreghi a questi ultimi perché ogni scru­ polo venga meno. Questa libertà di movimento provoca di fatto una situazione per cui le famiglie "si turnano" i territori economici, in modo non regolare, a seconda degli interventi della polizia. Se, per esempio, so che nella tale città i tali, con cui non volevo avere a che fare, sono stati cacciati, posso pensare di an­ darci a mia volta con parenti e amici di mio gradimento . Le strategie dei roma sono diverse. Presenti in Italia da più di cinquant'an­ ni, hanno instaurato rapporti diversi sia con i gage che con gli altri zingari. l . Innanzi tutto, essi sono cittadini italiani e in quanto tali hanno il diritto e il dovere d'avere un comune di residenza ufficiale. Con i gage hanno soprattutto rapporti commerciali: tutto può essere comprato e poi rivenduto. Negli ultimi de­ cenni i roma si sono comunque concentrati sul commercio dei metalli di recu­ pero; mentre la mendicità ha perso molto peso dopo l'arrivo dei roma jugoslavi. Per poter praticare i loro commerci i roma devono essere accettati dai gage, non devono essere cacciati in continuazione. Per questo essi tentano di accumu-

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lare quello che ho chiamato il capitale gagikano6, un insieme di buone relazioni e qualità accettate dai gage di un dato "mondo" [Piasere 1 98Sa, pp. 143- 1 46] . 2. I rapporti con gli altri gruppi zingari, diversi dai roma jugoslavi, sono im­ prontati alla mutua accettazione. I roma si considerano i migliori di tutti (anche se quelli che essi chiamano i magarja, cioè i rom kalderas e lovara, sono pure con­ siderati un gruppo di rispetto) e l'esistenza degli altri è una prova di questa ele­ zione. Gli scambi matrimoniali con gli altri non sono inusuali. I rapporti con i roma (chiamati rahane) sono invece pessimi. I matrimoni con loro sono considerati impensabili e può capitare che si tenti di tenerli lontani sollecitando l'intervento della polizia dei gage. Se non è sempre il caso è solo perché i roma temono molto la possibile vendetta dei roma. A questi ultimi non viene riconosciuta alcuna sfera di influenza, ma i roma sanno bene che essi si sono oramai conquistati, specie nelle città più grandi, lo spazio della mendicità. Certe donne dei roma, per esempio, non vogliono più andare a mendicare per non essere scambiate per delle rahane, delle "zingare slave", appunto. 3. I rapporti interni ai roma sono pure molto diversi da quelli in vigore fra i roma. Riguardo allo sfruttamento delle risorse i roma hanno "deciso" di agire di­ versamente, cioè suddividendosi i gage e "avendone cura" secondo uno schema spaziale, più che temporale. Ogni gruppo locale ha quinçli i propri gage. La distribuzione dei roma fra i gage segue criteri di politica interna spesso di­ battuti. Mentre 1 1 11 autoregolazione" tra i roma e gli altri zingari tende a essere "spontanea", i movimenti individuali dei roma sono strettamente controllati. A partire dalla località di residenza ufficiale, in cui è apprezzato il proprio capi­ tale gagikano, i roma cercano di costruire territori distinti. Nella località di resi­ denza i roma locali avanzano un diritto di esclusiva e mano a mano che ci si al­ lontana il sentimento di tale diritto è sempre meno provato, benché molto di­ penda dalle momentanee armonie o disarmonie con gli outsider. La località B, nella figura l, è un esempio di questo tipo di comportamento territoriale. B rap­ presenta un tentativo non riuscito, verificatosi nel 1986, da parte di certe fami­ glie normalmente residenti in A di stabilire una nuova località-base. Nonostan­ te il loro sforzo di crearsi un solido capitale gagikano nella nuova città7, questi roma dovettero abbandonare la zona dopo solo pochi mesi dal loro arrivo, a cau­ sa della forte frizione intervenuta con i roma di C. Avvicinarsi a una località-ba­ se o, peggio, tentare di stabilirvisi senza il consenso dei roma già residenti, può 90

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provocare attriti pericolosi . L'intervento della p o li zia dei gage può essere il ben­ venuto contro gli invasori, anche se u fficialmente condannato. Riprendiamo ora l'argomento della mutua accettazione tra i roma e gli altri gruppi zingari non jugoslavi. Queste relazioni i mpli cano anche l'accettazione di sfere territoriali che sono sp e sso distinte ma non sempre esclusive . I roma co­ noscono bene la loro regione e sanno quali sono le zone in cui sono presenti gli altri zin g ari , gli aver roma, gli altri roma, come pure li chi amano. Le zone degli altri non sono inacce s sibi l i , ma non sono nemmeno se mp re sfruttabili econo­ micamente e i roma fanno attenzione a non urta re la suscettibilità altrui . Cer­ chi amo di vedere più in d e ttagli o. O gni famiglia cerca in generale di ins e diarsi in una città, che diventa un pun ­ to di riferimento durante gli ulteriori spostamenti. Qui la famiglia cerca soprat­ tutto di accumulare del c ap i tale gagikano, che le darà una certa sicurezza. Ma que­ sta città crea anch e un l egame simbolico tra i roma e la region e , attraverso il ci­ mitero in cui vengono sep olti i propri morti, la chi e sa preferita eccetera, e tale le­ game è ri conos ciuto anche dagli altri roma. La tendenza a stabilire una località­ base è influ enzata sia da e sigenze economiche che sociali . Oggi nell'Italia setten­ trionale p ossi amo trovare grup p i locali con un territorio commerciale a pro pria disp osizione in cui, in assenza di licenze commerciali, difficili da ottenere dai ro­ ma per via degli ostacoli burocratici dei gage, essi cercano di svolger e le loro atti­ vità servendosi del solo capitale gagikano accumulato (amici, organizzazion i pro­ zingari ecc e tera) . Il nomadismo dei roma è quindi limitato ai m ovim enti di fa­ miglie da un grup p o locale a un altro, sia per esigenze soci ali, sia per correre in

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figura l . Dieci località-base dei roma nell'Italia d e l nord (le cifre esprimono la distanza in chilometri) .

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aiuto di parenti in difficoltà, sia per unirsi in gruppi commerciali temporanei. È importante notare che le località-base nell'Italia del nord-est sono situate lungo un asse stradale di circa quattrocentodieci chilometri in direzione est-ove­ st e un asse di centoventi in direzione nord-sud (figura 1 ) . Dobbiamo ricordare che: vi sono altre città dei gage lungo i due assi, in cui però non vi sono roma presenti; l'ammontare numerico dei roma varia da oltre cinquecento unità in G e paesi limitrofi a poche decine negli altri gruppi locali (eccetto per A, dove so­ no forse dell'ordine di più di un centinaio); come si può vedere dalla figura, le distanze tra le varie basi vanno dai cento-centodieci ai trenta chilometri. Tale si­ tuazione non può essere spiegata solo dalla relazione roma/gage, ma si deve te­ ner conto anche della presenza degli altri gruppi zingari presenti nella regione, in particolare dei vari gruppi di sinti e dei rom kalderasa. A parte G, dove i ro­ ma rappresentano il gruppo zingaro più numeroso, in ogni altra località vi è una larga maggioranza di sinti. I kaldera§a sono meno numerosi dei roma e la loro presenza appare essere più marcata tra K e C e tra F e G, cioè tra le due basi di roma più distanziate. Ossia, sembra di essere in presenza di quel tipo di auto-re­ golazione inter-gruppi su cui ha attirato giustamente l'attenzione Reyniers [1 986, pp. 93-94] . I roma vivono dispersi fra i gage, ma anche, per certi versi, fra i sinti che sono numerosi in questa regione. Dove questi sono meno numerosi, come in G, o dove vi è una maggiore densità di popolazione, come in A, i roma tendono a vivere più vicini; altrimenti la dispersione tende a crescere. La di­ stanza media tra una località-base e l'altra è di circa sessanta chilometri, ma di­ minuisce a circa quarantacinque se si escludono le due distanze maggiori. Il che ci porterebbe a concludere che la presenza dei kalderaSa tende ad allontanare un gruppo di roma da un altro di una quindicina di chilometri, ma è forse una con­ clusione troppo precisa per essere confermata senza ulteriori ricerche. Potremmo certo adoperare i termini degli etologi per descrivere il compor­ tamento territoriale dei roma e dei roma. Potremmo dire allora che i primi non sono o sono poco "territoriali", mentre presso i secondi la territorialità è più pro­ nunciata. Ma, come abbiamo visto; l'u aver cura di un mondo" ha molte facce e la netta distinzione tra gruppi territoriali e non territoriali può essere limitativa. Troppe volte in antropologia abbiamo visto cadere costruzioni concettuali ba­ sate sulla semplice dicotomia dell'avere/non avere una certa caratteristica. I roma e i roma mostrano che la territorialità è un fenomeno complesso, perché

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i comportamenti variano a seconda del chi si ha di fronte: un gruppo può ave­ re un territorio rispetto a un altro gruppo e un non-territorio rispetto a un altro ancora, per cui la sua vita sarà organizzata in un sistema formato da territori, quasi-territori e non-territori. Sono questi sistemi che devono attirare la nostra attenzione, e in particolare il loro carattere processuale. Adoperando una terminologia usata da Pier Giorgio Solinas in tutfaltro con­ testo [1 986, p. 41] , chiamerei propagativo il sistema dei roma e aggregativo quel­ lo dei roma. In una fase di emigrazione da una regione europea all'altra, in un pe­ riodo di ricognizione economico-cognitiva del nuovo ambiente, ma anche in una situazione di emergenza sociale provocata da un esodo di massa per nulla idillico, i roma con cui ho vissuto non difendevano un territorio da altri, bensì difendeva­ no la propria presenza, se stessi, da altri, non riconoscendo l'esclusiva che questi pretendevano sulle zone di loro presenza, esclusiva che seguiva equilibri inter­ gruppi a volte costruiti e rispettati con difficoltà. Le tecniche economiche, le rea­ zioni degli italiani e la turnazione irregolare favoriscono una dispersione policen­ trica. Il luogo dell'accampamento è il momentaneo centro dell'area economica e il flusso da un luogo a un altro diventa essenzialmente di natura economica. Spe­ cialmente nella fase del grande flusso la propagazione verso nuove zone da sfrut­ tare era inevitabile, ma anche dopo !"'invasione" non si è arrestata, anche se si è attenuata. Oggi i roma sono alla ricerca di nuovi equilibri territoriali, di cui si può vedere qua e là qualche esito (come l'acquisto di cascine di campagna abbando­ nate nella Valpadana), ma ancora largamente imprevedibili. I roma hanno costruito, invece, un sistema monocentrico, nel senso che ogni gruppo locale ha il suo preciso centro fortemente aggregativo . Gli sposta­ menti da un centro all'altro sono essenzialmente di ordine sociale e per questo altamente congiunturali 8 • Il riconoscimento dei territori propri e altrui, anche se di natura zero o mano-dimensionale, come vedremo nel sesto capitolo, im­ pedisce o comunque frena la propagazione, che è semmai ricercata tramite lo stabilimento di nuove alleanze matrimoniali ed è quindi altamente controllata. Aparna Rao ha scritto molto giustamente che i rapporti che intercorrono tra un gruppo girovago e i suoi clienti dipendono strettamente dalla base ideologi­ ca di un dato contesto [ 1 98 7a, p. 1 1 ] . Le rappresentazioni dei roma e dei roma da un lato e quelle dei gagé/gage dall'altro sono di estrema importanza nella co­ struzione di un sistema territoriale.

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I roma con cui vivevo si erano convinti che l'abbondanza degli italiani fosse sfruttabile ovunque. Dopo la loro venuta in Italia tutti dicevano di credere anco­ ra nei éoxané (i vampiri) e nel beng (il diavolo), ma ritenevano che continuassero a vivere in Jugoslavia. Si sono accorti dell'errore quando un éoxan6 li cacciò da una città e quando il beng si fece vedere in un'altra. Piano piano i roma vengono a conoscenza del mondo degli italiani e imparano a evitare i posti pericolosi. . . I roma, invece, conoscono oramai bene il mondo degli italiani e proprio per questo cercano di salvaguardarlo piuttosto che sfruttarlo indiscriminatamente. Conoscono i posti dei mule (morti) che è meglio evitare e quelli dei devlora (san­ ti) che è meglio frequentare. Ma conoscono bene anche quello che i gage pensa­ no degli zingari. Vi sono dei gruppi locali che confidano molto su questa loro co­ noscenza per "aver cura" della propria zona di influenza. Non chiamano la poli­ zia, né attaccano gli indesiderati, ma confidano sulla frequenza e sulla "predici­ bilità" dell'intervento di espulsione della polizia o di altre autorità locali: essi re­ stano, gli altri partono. Sfruttando le persecuzioni antizingari messe in atto dai gage, per quanto patetico possa sembrare, essi vengono ad avere un territorio de facto che altri, i gage, difendono. Ciò non cambia la forma aggregativa del siste­ ma territoriale dei roma, ma mostra come le rappresentazioni proprie e la cono­ scenza di quelle altrui possano intervenire nelle costruzioni territoriali. D 'altra parte, i sistemi propagativi o aggregativi non coprono tutta la com­ plessità della fenomenologia territoriale dei gruppi girovaghi. L'esempio dei sinti giostrai che vivono nello stesso "mondo" sembra sfuggire a questa banale classi­ ficazione. Di essi si ha una conoscenza ancora troppo superficiale, ma mi pare che alcune famiglie presentino un territorio a-centrico che possono proteggere con la segretezza, ossia non rivelando ad altri giostrai, per non farsi soffiare la "piazza", il nome delle località in cui vanno con il "mestiere" (la giostra). Pare che cono­ scenza e non-conoscenza, a seconda del contesto, possano entrambe servire. Quel che è certo è che nello studio dei sistemi territoriali delle cosiddette comunità gi­ rovaghe siamo solo ai primi tentennamenti. E di ciò certi roma di mia conoscen­ za non si dispiaceranno: si sa che meno i gage sanno di loro, meglio è per tutti!

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A partire dal 1 9 84 diverse Regioni hanno varato leggi che, nelle intenzioni di­

chiarate, sono rivolte alla tutela della cultura rom», dell' etnia rom», dell'«et­ nia e della cultura dei nomadi degli «Zingari» eccetera. Le leggi prevedono in­ variabilmente stanziamenti di fondi ai Comuni che deci dano di allestire cam­ pi-sosta, continuando di fatto una linea di interventi iniziata da qualche città dell'Italia settentrionale fin dagli anni Sessanta. La maggior parte delle leggi re­ gionali, a cui si sono aggiunte iniziative parallele da parte di alcune Province, sono state emanate dopo le famose barricate antizingari di Roma del 1 9 8 7 e poi, grazie anche al Decreto del Ministero dell'Interno del 7 aprile 1989, gli stanzia­ menti sono diventati oramai uno scroscio di miliardi; si tratta di una sorta di piccola rivoluzione nella tradizione giuridica italiana, se si pensa che soltanto fino a qualche anno fa gli zingari erano considerati dai vari poteri pubblici so­ prattutto un affare di polizia/pulizia, non certo degni di 11tutela" . Nel l983-84 il Centre de Recherches Tsiganes dell'Università di Paris v mi ri ­ chiese un rapporto sulla politica i taliana nei confronti delle po polazio n i noma­ di, e in quell'occasione ebbi modo di sottolineare l'aperta ideologia assimila­ zionista che condiva l'intervento dei Comuni verso gli zingari. In e sso, fra l'al­ tro, denunciavo alcuni regolamenti a cui si dovevano sottoporre gli zingari che volevano entrare in un campo-sosta [vedi Piasere 1 98Sb, pp. 1 80- 1 86] . Accen­ no a questo non perché voglia continuare direttamente quella d i scussion e ma perché le leggi regionali nel frattempo emanate presentano al riguardo discor­ danze da sottolineare. Qualcuna intende p rivi legiare «al ma s s imo l' autogestio«

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ne» del campo (Regione Sardegna), qualcun'altra «obbliga all'osservanza del re­ golamento che viene dal Comune competente» (Regione Toscana) pena l'e­ spulsione1 . Ora, il regolamento può prevedere, come a Torino, che «i nomadi sono impegnati a rispettare il numero dei posti e la corretta posizione delle rou­ lotte o carovane», dove il numero del posto (che per un periodo veniva stam­ pato con una bomboletta spray sulle roulotte stesse, checché ne pensasse il pro­ prietario) e la corretta posizione sono assegnati e indicati dal sorvegliante non zingaro del campo. Il sorvegliante (chiamato "coordinatore"), che può essere un ragazzotto sotto servizio civile o un assistente sociale più o meno stipendiato, si trova così a insegnare a un 11nomade" come si metta una roulotte, lui che sì e no se n ' è servito qualche volta per le sue vacanze! L'oscillazione tra l'autogestione e la coercizione nell'uso degli spazi dei cam­ pi-sosta era già presente nei diversi interventi attuati prima dell'avvento delle leggi regionali. L'autogestione, però, più che frutto di un'apertura intercultura­ le, era spesso il risultato dell'indifferenza provata verso gli utenti del campo. Ma­ no a mano che sono cominciati a piovere i quattrini, all'indifferenza s'è venu­ ta a sostituire la tendenza a regolamentare in modo sempre più stretto, con il presupposto che «i nomadi non sanno stare insieme» : un giudizio che negli an­ ni Sessanta veniva apertamente dichiarato e che oggi figura implicitamente nel­ le normative e nell'ansia di «aiutarli ad adattarsi alla vita contemporanea» . I 11nomadi", come abbiamo visto nel secondo capitolo, vivrebbero un periodo di sfasatura con la società 11Sedentaria", la quale avrebbe tolto tutto lo spazio ai me­ stieri tradizionali, idonei per una società contadina ma obsoleti in una indu­ striale; da qui l'esigenza di «riqualificazione professionale», come indica qual­ che legge, e gli aiuti a quelli che vogliono sedentarizzarsi, più coscienti degli al­ tri, evidentemente, che il nomadismo non è più 11 funzionale" . I campi-sosta per "sedentarizzati" (distinti da quelli per i " nomadi di passaggio"), previsti in qual­ che legge, sono anche quelli che più cadono nel mirino dei regolamenti, dove lo spazio è maggiormente regolamentato, con il proposito più o meno nascosto di insegnare ai " nomadi" le norme di convivenza, anche in vista di un'eventuale sistemazione in casa. Ecco allora che i campi-sosta sono progettati dagli Uffici tecnici comunali come se fossero dei camping normali, salvo qualche piccola variazione l/culturale" (altamente simbolica: la disposizione particolare dei ser­ vizi igienici), a volte dal sapore naif (un capanno 11polivalente") . Le leggi di 11 tu-

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tela della cultura rom " si trovano, insomma, volenti o nolenti, a tutelare la cul­ tura dei non zingari. E l'esempio dei campi-sosta è significativo: se «l'architet­ tura connota una ideologia dell'abitare)> [Eco 1980, p. 229] , allora quella dei campi-sosta regolamentati connota l'ideologia dell'abitare dei non zingari, non certo quella degli zingari. Non c'è da sorprendersi, quindi, se tanti zingari non amano i campi ufficiali (pur frequentandoli a volte), dimostrandosi ingrati ver­ so tanta profusione di risorse con cui li si vuole " salvaguardare" . In questo capitolo cercherò di mostrare a che cosa è dovuta 1'11ingratitudine" . I dati che presenterò si riferiscono ai roma sloveni e non dovranno assolutamente essere generalizzati: non so se ci sono altri zingari, in Italia o all'estero, che si com­ portano come i roma riguardo all'aspetto che tratterò; so per altro che ci sono mol­ ti zingari che non si comportano così. Quindi, se generalizzazioni si vorranno fa­ re, dovranno essere solo il risultato di comparazioni precise e ampie, non di allar­ gamenti dalla parte (i roma) al tutto (gli zingari), dove il 11tutto", fra l'altro, pone come abbiamo visto dei problemi di categorizzazione non facilmente risolvibili. I roma vivono oggi in prevalenza nell'Italia settentrionale, anche se qualche piccolo gruppo è presente stabilmente in Toscana, Lazio e Abruzzi. Arrivati in Ita­ lia in seguito a varie peripezie, grosso modo tra il l 9 1 8 e il l945, hanno lasciato nelle regioni di provenienza, Slovenia meridionale e Croazia settentrionale, il re­ sto del gruppo, la cui presenza è attestata in quelle zone fin dai primi decenni del XIX secolo [S trukelj 1980, pp. 34-42] . Solo l'Istria, altra regione di provenienza, sembra essere stata completamente abbandonata. Molte famiglie mantengono tutt'oggi contatti con i parenti rimasti in Slovenia, anche se gli scambi matrimo­ niali sembrano essere assenti; i contatti sembrano essere aumentati dopo l'indi­ pendenza della Slovenia. Quelle regioni di provenienza, già per i membri della se­ conda generazione di immigrati, rappresentano una sorta di luogo delle origini e alcuni rifiutano apertamente e pubblicamente l'idea di una lontana origine in­ diana, che i non zingari e gli intellettuali zingari di altri gruppi tanto declamano. Mi limito a ricordare che l'insediamento dei roma nell'Italia settentrionale dipende sostanzialmente da tre ordini di relazioni: - i rapporti interni tra i mare roma, i nostri roma", ossia il gruppo di origi­ ne sloveno-croata; a

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- i rapporti con gli aver roma, gli "altri roma", ossia gli altri zingari (per la tas­ sonomia etnica, quale è riconosciuta dai mare roma stessi, vedi Piasere 1 98Sa, pp . 40-95 e infra il capitolo «Etnoantropologie a confronto»); - i rapporti con i gage, i "non roma", grosso modo i non zingari (ma le aree semantiche non sono perfettamente corrispondenti) . L'interazione fra questi tre ordini di relazioni, il peso di ognuno dei quali può variare a seconda del luogo e del momento, dà adito a una sorta di vettore di frequenza che consiglia a una famiglia di frequentare, appunto, una zona piut­ tosto che un'altra. È da ricordare che negli ultimi venti-trent'anni tali vettori si sono relativamente stabilizzati, favorendo la creazione di un modello territo­ riale particolare ma non nuovo per i roma, che già lo attuavano nella Slovenia d'anteguerra. Il modello prevede: l. immersione dei roma tra i gage e conseguente dispersione delle famiglie; 2. formazione di gruppi locali esigui e relativamente fluidi; 3 . elezione di una località-base, punto di riferimento di un gruppo locale. Questo modello ha portato i roma a vivere oggi, nell'Italia del nord, dispersi lungo i due a ssi stradali e con le caratteristiche di dispersione che abbiamo vi­ sto nel capitolo precedente. La dispersione, si ricorderà, non è regolare ma nean­ che casuale, e segue criteri di concentrazione dipendenti dai vettori di frequen­ za in opera. Mi limito ancora ad accennare al fatto che l'elezione di una loca­ lità-base è un'operazione impegnativa, di non sempre facile attuazione, il cui successo dipende molto dal capitale gagikano, vale a dire l'insieme di buone re­ lazioni che si riesce a instaurare con i gage del posto e l'insieme di buone qua­ lità e abilità possedute da un rom e ritenute tali dagli stessi gage (e non auto­ maticamente dai roma) . Un rom può poi far valere il capitale gagikano accumu­ lato verso i roma del gruppo e verso gli aver roma [Piasere 1 98Sa, pp. 1 43-1 46] . La località-base viene con il tempo "marcata" simbolicamente nel momento in cui un rom comincia a seppellire i propri defunti nel cimitero locale. Si tratta del modo più efficace per sancire nei confronti dei roma (non dei gage) il suo diritto a stare in quel luogo. Siamo qui in quella dimensione mulani, la dimen­ sione delle relazioni tra vivi e morti, che è culturalmente fondamentale ma che, per quanto riguarda la discussione sull'uso dello spazio, possiamo rubricare al­ l'interno dell'insieme delle relazioni fra roma, dove i roma vanno intesi come il tutto costituito dai vivi e dai morti.

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È banale dire che la dispersione è dovuta a esigenze economiche, di cui par­

lerò più avanti . Molto meno evidente è invece asserire che il nomadismo dei ro­

ma, vale a dire gli spostamenti delle famiglie da un gruppo locale all'altro, sia sempre motivato da esigenze economiche. E anche di questo avrò modo di d­ parlare. Mi interessa prima mostrare un altro aspetto2• Il territorio dei roma può essere descritto - come ho tentato di fare fino a questo momento - con i termini della nostra geografia e ricostruito nelle nostre carte geografiche; ma per cercare di capire come è percepito, vissuto o non vis­ suto, bisogna tener conto delle categorie cognitive che i roma impiegano per or­ dinario, poiché esse fanno parte integrante dei rapporti sociali instaurati con le persone che vivono in quel territorio. La figura l rappresenta grosso modo la cartina di una città dell'Italia del nord-est: in essa vi appaiono i termini nor­ malmente adoperati dai roma per identificare le categorie e i luoghi più signifi­ cativi, che spiego qui di seguito: - mara misto "il nostro posto" (ci si riferisce anche con romano misto, roméngero misto, mistaéi, "il posto, il posticino dei roma", oppure aménde "da noi"): è il luo­ go, l'accampamento dove si trovano i roma locutori; può essere, per esempio, quel­ lo della figura 2 del capitolo «L'etnografia come esperienza»(vedi p. 80); i

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figura l .

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Giftarja

Una città dell 'Italia del nord come viene " letta" dai roma.

99 la retorica delle roulotte

- dis 11la città" : indica in particolare il centro urbano, evitato come luogo di

sosta e pochissimo frequentato; - gav 11il villaggio" : indica il quartiere vicino all'accampamento; a differenza del centro, è molto frequentato (bar, negozi eccetera); - fiive 11 Campi coltivati" : indica in generale gli spazi senza abitazioni ma pri­ vatizzati dai gage; - gage: tutti gli uomini, indistintamente, che non sono riconosciuti come ro­ ma; occupano direttamente (dis, gav) o indirettamente (fiive) tutto lo spazio fisico che circonda i roma. Con loro si instaurano rapporti economici, ma è preferibile non allacciare alleanze matrimoniali, anche se avvengono; le alleanze di compa­ drinaggio sono invece ben accettate e ricercate; - Giftarja: indica tutte le persone che si autodenominano sinti e/o sinte. So­ no riconosciuti come roma (giftarsko roma) . Sono visti come concorrenti eco­ nomici, ma le alleanze matrimoniali sono possibili; la �onvivenza in uno stes­ so accampamento è considerata difficile, anche se di rado avviene; - (O)rahane: indica tutte le persone che si autodenominano roma. Sono rico­ nosciuti come roma, ma della peggior specie; la vita in comune e le alleanze ma­ trimoniali sono da evitare, in quanto considerati moralmente (gadno) e fisica­ mente (blatno) sporchi; - grobli 11cimitero" : spesso frequentato per rendere visita ai pre mule, i propri morti. Dal momento che i mule, almeno per un certo periodo, non devono es­ sere abbandonati, essi hanno il potere di fissare i vivi nel territorio in cui si tro­ va il grobli. In ogni modo, è preferibile evitare di accamparsi nelle estreme vici­ nanze di un qualsiasi cimitero; - muldno (o muléngero) misto "il posto del morto, dei morti" : è il luogo in cui è deceduto un rom conosciuto, parente o meno (può essere anche un ospeda­ le) . È da evitare per 11rispetto" verso il morto . Il posto è quindi lasciato ai gage o ai roma che non sanno ciò che vi è accaduto o che non seguono questo sistema di rispetto; - Santa Teréza: santuario dedicato a Santa Teresa del Bambin Gesù. È la chie­ sa più frequentata (esequie funebri, voti) dalla comunità dei roma. L'effigie del­ la Santa è spesso presente all'interno delle roulotte (dove fino a qualche anno fa era impensabile mettere in mostra foto dei parenti morti; oggi qualcuno ha in­ cominciato a farlo) . Per voti di estrema importanza si fa visita, in alternativa o in

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aggiunta, al santuario di Sant'Antonio a Padova, riconosciuto come più potente. La lettura della carta mostra bene l'immersione dei roma fra i gage e l'immer­ sione è calcata linguisticamente dall'uso onnicomprensivo del termine gagio. Quando parlano nella loro lingua, i roma non dicono di solito, per esempio, «Va­ do dal meccanico», «Vado dal contadino», oppure «ho visto Tizio che . «ho fat­ to un affare con Caio», ma sempre e solamente «Vado dal gagio ad aggiustare la macchina», «vado dal gagio a comprare galline», «ho visto il gagio che . . . », «ho fat­ to un affare con quel gagio che . . . » eccetera. Ho tentato altrove di tradurre in ter­ mini antropologici questa situazione, dicendo che i gage sono visti dai roma co­ me una sorta di umanità-"natura", un'umanità resa 11natura" da un continuo la­ voro simbolico che ha poi bisogno di un contro-lavoro che stabilisca i roma co­ me umanità-cultura [Piasere 1985a, pp. 1 38-1 40) . Sinteticamente, possiamo dire che questa dicotomia è marcata dai due avverbi po gagikane, 11 come i gage", "da gagio", e po rom ane "come i roma", "da rom" . Si tratta però di una dicotomia par­ ticolare, perché non è che ci siano cose dei gage e cose dei roma. Tutti gli oggetti che possono avere i roma sono sempre un sottoinsieme degli oggetti che i gage già hanno; tutti i mestieri che possono esercitare i roma sono sempre un sottoin­ sieme dei mestieri esercitati dai gage; e ciò vale per tutti gli aspetti della vita dei roma. La differenza sta nel fare la stessa cosa o nell'usare uno stesso oggetto in mo­ do diverso: non po gagikane, ma po romane. Questo vale, per esempio, anche con luoghi particolari come il cimitero o la chiesa o la scuola . . . : C1è un modo po roma­ ne di andare in cimitero (che è quello dei gage), o in chiesa (che è quella dei ga­ ge), di andare a scuola (che è quella dei gage) eccetera. Fare qualcosa po romane si­ gnifica semplicemente "degagizzare' quella cosa. A seconda del contesto e degli elementi su cui si opera, 11impegnativo lavoro simbolico di degagizzazione può es­ sere del tutto momentaneo, di medio o di lungo termine. Ritorniamo ora alJiuso dello spazio: quali sono le modalità di degagizzazio­ ne del territorio? Cercherò di mostrarlo servendomi di alcuni concetti impiega­ ti da Ingold [1986] . Questo autore, come è noto, distingue nettamente i due con­ cetti di territoriality e di tenure; il primo costituirebbe essenzialmente un modo di comunicazione che permette di veicolare informazioni sulla dislocazione di individui dispersi nello spazio; il secondo sarebbe un modo di appropriazione che permette agli individui di reclamare diritti sulle risorse disperse nello spa­ zio [1986, p. 1 30 e seguenti] . La distinzione non è molto convincente e forse po.. »,

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ne più problemi di quanti non ne risolva; ma la riporto per introdurre la suc­ cessiva. Riferendosi agli studi di eco-psicologia di Gibson [19 79, pp. 33-36] , che descrive la geometria non in termini astratti (piani, linee, punti) ma concreti (superfici, sentieri, siti), Ingold distingue tre tipi di tenures: zero-dimensionale (costituito da posti, siti), mano-dimensionale (sentieri, piste) e bi-dimensiona­ le (aree, superfici del suolo) . Egli afferma che molti antropologi hanno descrit­ to modi di appropriazione essenzialmente zero e mano-dimensionali (come per esempio quelli dei cacciatori-raccoglitori) in termini bi-dimensionali, che sono invece tipici dei popoli agricoltori [1 986, pp. 1 4 7- 1 60] . Sfruttando questa terminologia, possiamo dire che la degagizzazione è effet­ tuata dai roma operando in modo zero e mano-dimensionale in un territorio (la­ sciando cadere la distinzione di Ingold), quello dei gage, che è essenzialmente bi­ dimensionale. Non è che i roma non siano in grado di percepire la bidimensiona­ · lità; al contrario, sanno benissimo che i gage vivono divisi in comuni, province, regioni, stati, parrocchie, diocesi eccetera; sanno benissimo che ci sono le proprietà fondiarie, private, demaniali eccetera, ma questo è appunto un modo di fare da ga­ ge, tant'è vero che, come ho cercato di spiegare nel capitolo precedente, è quanto meno problematico tradurre nella loro lingua un concetto, così ampiamente usa­ to dagli etologi, come quello di territorio, inteso come porzione difesa di spazio. La discussione sull'uso dello spazio non può prescindere da una, seppure som­ maria, descrizione delle pratiche economiche dei roma. E ciò si rende necessario perché anch'io, credo, sono forse caduto altrove nell'errore denunciato da Ingold di aver parlato in termini bidimensionali di un'appropriazione territoriale che non lo è. E il discorso diventa interessante se ci si riferisce all'ambito di quelle che sono state chiamate le comunità girovaghe (peripatetic communities) . La strategia gir ovaga - scrive Aparna Rao - deriva essenzialmente dalla combinazio­ ne di mobilità sp a zi a l e e comme rci o non di sussistenza a livello economico con l'endo­ gamia a l ive ll o sociale. Di origini etniche varie e parlanti lingu e differe nti , i girovaghi sono qui ndi definiti come comunità che, fondamentalmente, non sono produttrici/ac­ quisitrici dirette di cibo, che sono preferenzialmente endogame, itineranti, e che vivo­ no essenzialmente attraverso la ve nd it a di beni e/o servizi più o meno specializzati a clienti sedentari e/o nomadi [ . . . ] . I girovaghi, nell'insieme, costituiscono una categoria socio-economica e ogni comunità è, i n o l tre , un'unità etnica [ . . . ] e costituisce una mi­ noranza ovu n qu e si trovi [Rao 1 9 8 7a, p. 3] . 10 2

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Ho suggerito altrove [1 99 1 , pp. 1 40- 1 42] che, se si svincola la mobilità spa­ ziale dalle pratiche economiche, ossia se non si considera sempre e ovunque la mobilità come effetto causato da motivi economici, e se si ammette che un cer­ to grado di sedentarietà è strutturale alle comunità girovaghe, solo allora i roma possono essere inclusi in questa categoria concettuale. Se si accetta questo, pos­ siamo ritenere le strategie dei roma come un sottoinsieme del più ampio insie­ me delle strategie che i girovaghi possono attuare in giro per il mondo. I roma sono essenzialmente dei commercianti e, in teoria, p ossono mettersi a commerciare di tutto. Di fatto, da buoni commercianti, selezionano di volta in volta i beni di compravendita in sintonia con l'andamento del mercato dei ga­ ge, per lo meno, secondo l'andamento del mercato quale essi lo percepiscono. Successi e rovesci economici sono normali all'interno della famiglia, come nor­ male è il passaggio da un'attività commerciale all'altra o l'esercizio di più attività contemporaneamente. I roma tendono a lavorare in famiglia o associati in due o tre famiglie al massimo. Le associazioni sono sempre provvisorie e i guadagni sono tendenzialmente divisi equamente fra i soci. Le attività commerciali sono scelte anche in base a questo criterio, che prevede la non collaborazione o una collaborazione minima di più roma. Diversamente da quanto avviene presso al­ tri zingari, tali associazioni effimere non hanno un riscontro lessicale: i roma di­ cono semplicemente keri buti skupa, «lavorare insieme», o kana keru buti x-ha, «Sto lavorando con X» . Anche se i commerci possono essere tanti, i roma negli ultimi anni hanno prediletto quello dei metalli (di tutti i tipi), della frutta e, in parte, degli animali (soprattutto cavalli), il che prevede anche un'attività di alleva­ mento più o meno temporanea. La mendicità femminile e infantile, un tempo prospera, è di molto diminuita e in qualche gruppo locale praticamente scom­ parsa. Oggi entrate buone provengono dai sussidi comunali. Ho già detto che è dell'ordine della banalità constatare che la dispersione dei roma ha cause economiche. Dal momento che i commerci sono esercitati con i gage e che ci sono anche dei gage che esercitano gli stessi commerci dei roma, questi sono costretti a operare in luoghi diversi. La saturazione di un territorio commerciale è l ungi dall'essere una chimera, e ciò vale a maggior ragione se nel­ la zona vi sono aver roma, altri zingari, che praticano attività simili, che occupa­ no, in termini eco-sociali, la stessa nicchia economica. Ogni gruppo locale di ro­ ma tende ad avere i "propri" gage . Se un rom vuoi operare in una località-base

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altrui, evitando conflitti, si premunisce di avvertire i roma che vi abitano o di in­ vitarli a partecipare all' affare. In modo corrispondente, i roma di un posto pos­ sono avere la forza di far allontanare degli intrusi (i meccanismi sono vari) . Usan­ do un termine commerciale usuale, si può dire che ogni gruppo locale pretende l'esclusiva sugli affari con

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i gage di una data

località e cerca di salvaguardarla.

commerci dei roma sono commerci esercitati anche da certi gage. Ma i ro­

ma solo li esercitano po

romane, per esempio seguendo ritmi di lavoro diversi da

quelli dei gage, ripartendo il ricavato equamente fra i soci, evitando l'aborrito lavoro salariato : un rom che lavori per un altro rom in cambio di una paga

è im­

pensabile . La degagizzazione opera nel lavoro come in qualsiasi altro aspetto; i centri di esclusiva commerciale sono automaticamente e simbolicamente se­ gnati dall'operare dei roma. Di fronte alle facili asserzioni che considerano gli zingari come un popolo senza territorio, ecco invece come si configura quello dei roma: un territorio ze­ ro o meno-dimensionale che, per il solo fatto di essere abitato dai roma stessi,

è

sempre anche di ordine simbolico . Si tratta di un territorio costituito, con le

parole di Pietro Scarduelli, da «Un reticolo di punti di natura simbolica che estendono la loro influenza in modo /(radiante" su un 11intorno" privo di limiti precisi» [1 985,

p . 1 1] . Considerando che !' " intorno" dei roma supera raramen­

te i quaranta o cinquanta chilometri, e che la distanza media da una località-ba­ se all'altra

è

sui cinquanta o sessanta chilometri, gli 11intorni" raramente si so­

vrappongono : ognuno è sempre circondato da zone (abitate dai gage) non de­ gagizzate, non investite simbolicamente. Più che un territorio a macchie di leo­ pardo, però,

è

un territorio che si potrebbe definire a ruote di bicicletta senza

cerchio e a raggi rotti che si accavallano, dove i raggi sono costituiti dalle stra­ de percorse alla ricerca dei clienti. Dal punto di vista di un gruppo locale, si trat­ ta quindi di un territorio mano-centrico, dove la località-base ha un'attrazione centripeta aggregativa, come abbiamo già visto . Non

è per deformazione professionale

che l'antropologo che studia i roma si

trova fin dall'inizio a fare i conti con la parentela. Fin dall'inizio si trova di fron­ te a una situazione pressoché aberrante : si accorge che praticamente tutto

è vei­

colato dai legami parentali e che, al contempo, quegli stessi legami subiscono for­ ti meccanismi di misconoscimento a livello linguistico.

u n

104 m o n d o

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m o n d i

Un rom riconosce di avere dei cons anguinei che può indicare con mre roma, "i miei roma", con il termine italiano "parenti" o con un termine che si va og­ gi perdendo, zlahta, di origine tedesca (geschlecht) ma probabilmente preso a prestito in Slovenia meridionale. Si tratta di una categoria di persone traducibi­ le in t ermini antropologici con pare ntado cognatico. È un parentado dai confi­ ni sfumati che comunque comprende i cugini primi. Non esiste alcuna catego­ ria linguistica generale per gli affini, che non sono considerati parenti. La stes­ sa vaghezza esiste per il gruppo domestico, che può essere indicato ancora con mre roma, con il termine d'origine italiana familja o con quello di origine slava druiina. Questi termini possono riferirsi alla famiglia nucleare di procreazione, a quella d'orientamento, alle due insieme, a seconda dei contesti. La terminologia delle relazioni sp ecifiche è ridotta all'osso Si potrebbe dire che è di tipo descrittivo nell'accezione che Murdock dà a questo vocabolo, ma è chiaro che da un punto di vista compone nzi ale una tale terminologia descrit­ tiva è in realtà una terminologia che comprende un numero ridotto di lessemi. D'altra parte, i già pochi lessemi esistenti subiscono un uso particolare che mi limito a riassumere: - uso infantile: al vocativo, i termini dad, 11padre", e daj, m a dre , vengono ado­ perati per chiamare il padre, la madre, il nonno, la nonna e, al converso, il figlio, la figlia e i figli (-e) dei figli (-e) . In generale, possono essere usati da chiunque per chiamare i bambini. Si tratta quindi di due allocutivi che enucleano una sfera del­ l'affettività fra generazioni che, usati in modo inverso, annullano di fatto la di­ stanza g enerazionale (ritornerò su tutto quest'argomento nell'ottavo capitolo); - uso quotidiano limitato: i termini sono usati pochissimo e sono sostituiti dal nome proprio (quello po romane), di cui se ne fa un uso intensivo. Tutti chia­ mano tutti, e si riferiscono a tutti, per nome. Essendo i casi di omonimia raris­ simi, un nome di fatto esprime tutte le relazioni di parentela che il suo porta­ tore ha nei confronti di chi lo conosce (e di colui dal qu al e è conosciuto) . Il no­ me e s p ri me una parentela altrimenti taciuta; - uso necronimico: poiché non si deve evocare il nome (quello po romane) di un morto il morto viene indicato esclusivamente con i termini di parentela. Si può dire che il vocabolario della parentela, sostituito dal nome proprio nei riguardi dei vivi, è più che altro un vocabolario parlato per esprimere le relazioni con i morti. Anche quando adoperano i termini italiani, o semplicemente parlano in ita,

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liano, i roma usano in questo modo i lessemi parentali. È un altro esempio di degagizzazione del mondo, di intervento creatore dei roma. Alla parentela taciuta si contrappone in modo spettacolare la parentela vis­ suta. I membri di un gruppo locale sono invariabilmente parenti e quando non sono tali per i roma, lo sono per l'antropologo che riesce facilmente a stabilire le relazioni di consanguineità o di affinità che li legano. I soci negli affari sono parenti e spesso lo sono le due persone che si sposano o le due che si sparano. Tutti i roma sembrano vivere tra parenti (nel loro senso o in quello antropolo­ gico)3 le cose belle della vita e quelle brutte, gli amori e le discordie, la felicità e l'infelicità, la gioia e il dolore. Con gli altri, è l'indifferenza che domina. Rimando a un altro lavoro la descrizione del funzionamento degli scambi matrimoniali [Piasere 1 98Sa, pp. 82-88, 1 23- 1 3 1] . Qui voglio trattare un aspet­ to cui ho già accennato altrove ma che resta da approfondire, e che risponde al­ la domanda: perché i roma vivono in roulotte? Assieme a una parentela taciu­ ta, ne scopriamo così una retoricizzata. È opinione abbastanza diffusa fra gli operatori sociali che i roma siano «in via di sedentarizzazione» . In realtà la documentazione a disposizione per gli ul­ timi cento-centovent'anni mostra che un certo grado di sedentarietà è sempre stato presente [Piasere 199 1 a, pp. 1 30-135] . Se con nomadismo e sedentarietà si vogliono intendere i due estremi di mobilità e fissità continua, allora i roma non sono mai stati né completamente nomadi, né completamente sedentari; hanno semmai seguito forme di insediamento in una data regione che combinavano i due estremi o che seguivano modalità intermedie. Oggi vi sono nell'Italia del nord-est alcune decine di famiglie che vivono in casa (villa o casa popolare), ma la grande maggioranza dei roma vive in roulotte. Che non tutti i roma desiderino ardentemente una casa in cui abitare sta­ bilmente è confermato dal fatto che ci sono oramai diversi roma che, quando si presenta l'occasione, commerciano . . . in case! Si compra o si rivende una casa continuando a vivere in roulotte4 • In uno studio recente Helleiner [1 990] sot­ tolinea che molti travellers difendono, verso le autorità irlandesi, non tanto la loro vita "nomade", quanto la loro vita in abitazioni mobili. I roma fanno pra­ ticamente lo stesso: più che, o oltre che, per praticare il nomadismo, i roma han­ no le roulotte per. . . vivere in roulotte. Si tratta quindi di una scelta che, come tale, bisogna tentare di spiegare.

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La kampina, " roulotte", rappresenta una unità di domicilio in cui può abita­ re soltanto una coppia sposata; è impensabile per i roma che due coppie, quali che siano i legami parentali che le uniscono, vivano in un'unica kampina . Una kampina quindi è la dimora di una coppia, più gli eventuali figli non sposati. Ovviamente può essere la dimora anche di una famiglia nucleare frammentata (madre vedova e i figli eccetera) . Quando due giovani si sposano, una delle pri­ me preoccupazioni delle due famiglie d'origine (quando sono d'accordo per la nuova unione) è di provvedere alla nuova kampina della coppia. Da questo pun­ to di vista, cioè per quanto riguarda il domicilio in sé, si può affermare che la residenza è sempre neo-locale. La pratica si inserisce all'interno di una filosofia sociale più generale che esalta l'autonomia economica e politica di ogni nucleo familiare . La kampfna è prima di tutto il simbolo di una coppia sposata, di un rom e di una romni che dormono insieme. Quando ci sono dei figli, lo spazio interno viene di sera diviso con séparés o tende: i genitori divisi dai figli e, quan­ to a questi, i ragazzi divisi dalle ragazze. Se la kampina è piccola, qualcuno dei ragazzi va a dormire in macchina. Quando la famiglia è numerosa e lo spazio per dormire in una kampfna è ritenuto insufficiente, un rom può decidere di comprarne un'altra o di costruire una baracca nei pressi della kampina. In que­ sto caso la baracca e la seconda kampina sono riservate ai figli o a una parte di essi. La kampina ritorna però a riunire la famiglia appena questa si mette in viag­ gio: la baracca viene abbandonata o demolita, la seconda roulotte lasciata in consegna a qualcuno dell'accampamento o messa in un garage dei gage o ven­ duta. La kampina in quanto tale non è un luogo di riunione: i roma preferisco­ no passare la giornata all'aperto o, quando c'è, nella baracca; le donne preferi­ scono cucinare all'aperto o nella baracca. La famiglia nucleare è senz'altro una unità di consumo, ma fra i roma il mo­ mento del pasto è molto informale: salvo in certe ricorrenze, ognuno mangia sempre alla spicciolata. La kampina è simbolo dell'unità, come lo può essere del­ la prosperità di una famiglia nucleare . I roma non si legano a una roulotte par­ ticolare; al contrario, l'acquisto o la rivendita di una kampina sono frequentis­ simi. Il possesso di una roulotte di lusso, con tutti i comfort moderni, costosa, grande, porta vanto al proprietario che non si esime dall' ostentarla. Il desiderio di ostentazione può spingere uno ad andare a trovare dei parenti lontani qual­ che centinaio di chilometri solo per mostrare la propria floridezza e farsi ap-

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reto rica

10 7

delle

roulotte

prezzare. E se qualcuno non la nota (o fa finta di non notarla), scatta con volu­ ta non curanza la domanda : « On da na hikjas mri kampina?», «Beh, non hai vi­ sto la mia roulotte? » . I roma non costru iscono l e roulo tte che abitano. Le .comprano di prima ma­ no dai gage o di se conda terza, quarta mano dai roma. Si tratta delle no rmali roulotte che i gage usano per andare in ferie, nei campi n g ; e, come per tutte le cos e dei gage, anche le r oulotte subiscono interventi po romane, di cui i più evi­ d enti sono il non uso della toilette (quando c'è), smantellata o adibita a ripo­ stiglio, e la distruzione totale in caso di morte di uno dei suoi abitanti. Con il suo piccolo " cimitero" (mulane riéa "le cose d ei morti ) tenuto lontano dagli sguardi dei vivi [vedi Piasere 198Sa, pp. 22 1-222] e le immagi ni dei devl6ra ("pic­ coli dei", i santi) ornanti un angolo o una pare te la kampfn a non raffigura un mondo alla roves ci a ma un mondo in miniatura rispetto a quello reale e quo­ tidiano. Nonostante questi usi la roulotte subisce pochissime modifiche mate­ riali rispetto al momento in cui è uscita dalla fabbrica dei gage. L intervento fondamentale sta allora nel modo in cui i roma disp o n gono le kampfne. La relazione di vicinanza è talmente pregnante tra i roma che ]ane Dick Zat­ ta l'ha considerata un fattore creatore d'ordin e : ,

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Un fondamentale principio ordinatore della realtà, nel pensiero dei roma, è quello della maggiore o minore contiguità, l'opposizione vicino-lontano in termini di spazio, tempo e grado di parentela [1988, p. 6 1 ] .

Tale criterio s i troverebbe esplicitato i n tutti gli ambiti della cultura dei ro­ ma, compreso quel lo della narrazione [198Sb] . Qui mi limiterò ad approfondi­ re il rapporto tra spazio e p arentela, cercando di analizzare l'asserzione di Dick Zatta s econdo cui «la disposizione delle roulotte è una metafora per la "vici­ nanza" delle fami gli e [1988, p. 65] . Dal mo m ento che la kampfna è l unità di domicilio i roma esprimono il con­ cetto antropologico di res id enza in termini, appunto, di vicinanza: be.SU pa5e x , «sto, sono fermo, vicino a X». A seconda del contesto del discorso stare pase qual cuno può significare: - sono nel lo stesso accampamento di x; - essendo nello stesso accampamento, ho la roulotte "vicina" a quella di x . »

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Ora, la relazione di vicinanza non coinvolge solo i due elementi esplicitati (Ego e x), ma anche un elemento terzo (o un insieme di elementi terzi) che implicita­ mente resta escluso: se sono vicino a x, non sono vicino a y (oppure, non sono vi­ cino a y, w, z . . . ) . La spiegazione della relazione di vicinanza così impostata servirà, credo ad affrontare meglio il problema delle norme di residenza e della form a di famiglia non solo presso i roma, ma anche presso altre comunità girovaghe un problema che ha soll evato a volte discussioni fra gli autori che ne hanno trattato5 • La kampina è il simbolo della famiglia nucleare e ogni famiglia nucl eare è in­ dividuata fra i roma con il nome (po romane) del capofamiglia (il marito/padre o la madre vedova) . Chiamo i tre capifamiglia d'esempio Ego, Alter e Alius. Si­ muliamo le seguenti possibili situaz i oni : l . Ego, Alter e Alius sono accampati in tre località-base diverse; 2. Ego e Alter sono accampati in una località, Alius in un'altra; 3. Ego, Alter e Alius sono nella stessa località in tre accampamenti diversi; 4. Ego e Alter sono nello stesso accampamento, Alius in uno diverso ma nel­ la stessa località; S . Ego Alter e Alius sono nello stesso accampamento. In l Ego Alter e Alius si trovano a sfruttare economicamente tre territori di­ stinti, quali sono stati precedentemente descritti; i tre vivono a decine se non a centinaia di chilometri di distanza. Le vicendevoli relazioni sono tendenzial­ mente neutre; se vi sono stati scambi matrimoniali, le relazioni possono essere buone o cattive, a seconda dell'accordo o disaccordo delle famiglie sul matrimo,

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figura 2. Le disposizioni Sfp [da Hall l 9 72, p . 7 6] .

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nio dei figli. In 2, a differenza di Alius, Ego e Alter sfruttano lo stesso territorio economico (i campi possono distare l'uno dall'altro qualche centinaio di metri o qualche chilometro. Le relazioni con Alius sono come in 1 , mentre tra Ego e Alter sono problematiche: raramente neutre, raramente buone, il più delle volte sono altamente conflittuali, anche se la divisione può essere un'imposizione dei gage. A medio termine, o i due si uniscono, o uno deve abbandonare la zona. La situazione 3 è rara altamente conflittuale e alla lunga insostenibile; che io sap­ pia, solo nella località-base più popolosa abbiamo una situazione simile stabiliz­ zata. In 4 Alius appare un concorrente di Ego e Alter, così percepito a prescinde­ re dalle momentanee relazioni vigenti fra questi due. La 5 presuppone, per com­ presenze lunghe, che i tre accettino di sfruttare lo stesso territorio; possono allo­ ra collaborare, avere momentanei conflitti o mantenere r ap por ti neutri. Le cinque simulazioni (che non sono poi tanto tali) mostrano che la "vici­ nanza" non garantisce automaticamente le buone relazioni; a volte stabilisce l' esistenza di c on flitti con quelli lontani, più che la concordia con il vicino. La concordia è semmai garantita dal modo in cui si sta vicino. Nei suoi studi di prossemica Hall chiamava sociofugale e sociopetale «le di­ sposizioni o orientazioni spaziali che respingono o attraggono, e cioè che sepa­ rano o congiungono le persone, che aumentano gli stimoli dell'interazione o li diminuiscono» . L'asse Sfp (sociofugale-sociopetale) è quindi «Una funzione del­ le relazioni dei corpi rispetto ad altri» [1 9 72, pp. 74-75] . Hall ha messo a punto una trascrizione prossemica dell'asse Sfp che riporta otto situazioni che vanno ,

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figura 3 . Le disposizioni integrative Sfp .

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13

dalla massima sociopetalità (due individui posti uno di fronte all'altro) alla mas­ sima sociofugalità (due individui posti schiena contro schiena) . Le otto posi­ zioni descritte sono riportate nella figura 2. Dal momento che le kampine sono delle unità di movimento, possiamo be­ nissimo servirei dello stesso codice per illustrare i tipi di disposizione; dal mo­ mento, inoltre, che le kampfne sono unità di domicilio, la loro disposizione varia­ bile dà luogo a una prossemica interfamiliare non casuale. Pensando, quindi, che i bastoncini della figura 2 rappresentino roulotte e non persone, fra i roma assumono significato prossemico le disposizioni O, 2, 3, 4 e 8 . La disposizione 3 che, se sviluppata con più kampfne, porta a una disloca­ zione a cerchio, è usata raramente e solo in situazioni ritenute particolarmente pericolose [vedi un esempio in Piasere 1 98Sa, p. 99] . La disposizione O l'ho ri­ scontrata soltanto nel caso in cui le due kampfne appartengono alla stessa fami­ glia. Le disposizioni non citate sono rare e suggerite più che altro dalle caratte­ ristiche dell'accampamento e non dal modello prossemico interiorizzato . Per capire il valore delle disposizioni significative, l'asse Sfp di Hall deve, tut­ tavia, essere integrato con uno che si sviluppi a partire da una situazione che prevede due roulotte disposte in modo che una dia sul retro dell'altra (vedi fi­ gura 3) . Qui, quelle che assumono significato prossemico sono le disposizioni 10, 1 2, 1 4 e 1 6 . La sociofugalità e la sociopetalità, quali sono espresse dai roma, intersecano gli assi Sfp delle figure 2 e 3 . Le disposizioni O, 2 e 10 sono altamente sociopetali. Le disposizioni 8, 1 2, 1 4 e 1 6 sono altamente sociofugali . La dispo­ sizione 4, che con 2 è quella più largamente attuata, è tendenzialmente socio­ petale, con caratteristiche che specifico subito . Gli assi Sfp assumono una connotazione prossemica ancora più precisa quan­ do si combinano con la distanza relativa delle kampfne. Vi è una tendenza evi­ dente e ricercata che mostra che, se Ego è più vicino ad Alter rispetto ad Alius, si­ gnifica che in quel momento Ego ha rapporti migliori con Alter che con Alius, op­ pure, il che non è proprio lo stesso, che Ego ha rapporti peggiori con Alius che con Alter. La distanza assoluta ha un'importanza derivata: se Ego e Alter sono mol­ to lontani, è spesso perché fra loro ci sono tanti Alius intermedi. È combinando, quindi, distanza relativa e assi Sfp che la lettura di un accampamento riesce pro­ babile. Probabile, e mai sicura, perché anche la prossemica interfamiliare ha la ca­ ratteristica di tutte le comunicazioni prossemiche, le quali «Sono sempre lette in

la

retorica

111

delle

ro ulotte

rapporto al contesto e non hanno alcun significato fuori di questo» [Hall 1 9 72, p. 75] . Dick latta stessa ne ha dato un ottimo esempio, descrivendo due successive disposizioni spaziali di un accampamento, facendo di fatto vedere come il conte­ sto ne fosse la chiave di lettura [1988, pp. 65-67] . La disposizione 4, per e sempio, è altamen te vincolata dal contesto, diventando altamente sociopetale per due roulotte contigue e tendenzialmente sociofugale per due che non lo sono. Sulla base di quanto detto finora, presento adesso dei casi etnografici che mostrano come il contesto della parentela sia vinco l ante . caso uno: vicinanza post-matrimoniale

Dopo la fuga di due giovani, le trattative fra le due famiglie d'origine si fanno intense, con vicende alterne che possono portare a un accordo, a rotture, sepa­ razione degli sposi, lotte anche violente, azioni di mediazione, ricomposizioni. L' oggetto principale della di sputa è uno: presso chi va ad abitare la nuova cop­ pia? Pase kon? Ora, la tendenza generale (dico generale per scrupolo, ma tutti i casi a mia conosc enza lo confermano ) è che la coppia viva un periodo di uxori­ località, seguito da uno di ambilocalità e infine da uno di virilocalità [vedi Pia­ sere 1 98Sa, pp. 9 7- 1 0 1 ] . Ma, l ' abbiamo visto, "residenza" significa "vicinanza" : be.SU pase x, "sto nello stesso campo di x", oppure "ho la roulotte vicino a x" . La figura 4 spiega le due situazioni riunite: siamo nella località-base di Alter, padre di Ego, ma la roulotte di costui è vicina e in posizione sociopetale con quella del suocero, Alius. Virilocale dal punto di vi s ta del territorio, la residenza di Ego è

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Alius

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Accampati altrove

figura 4. Coniugazione di uxorilocalità e virilocalità .

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112

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uxorilocale dal punto di vista della cooperazione economica, della protezione reciproca e dell'intimità. La figura 5 indica, invece, la situazione di virilocalità completa: Ego vicino e in posizione altamente sociopetale con il padre, in un campo dove è pure presente uno zio paterno. caso due: il gruppo locale

Considerata la virilocalità progressiva, un gruppo locale tende ad essere formato da un insieme di fratelli maschi sposati, presente o meno il padre, a cui si ag­ giungono uno o più generi in fase uxorilocale. In qualche caso l'uxorilocalità si stabilizza, dando luogo a gruppi per lo più orizzontali formati da fratelli e cognati (mariti delle sorelle/fratelli delle mogli) . A questo nucleo forte si può aggiungere qualche cugino, spesso "residuo" del gruppo locale dei genitori. Il tutto rende vi­ sibile una patrilinearità sommersa, altrimenti poco propagandata, confermata anche dagli scambi matrimoniali di un certo tipo, che evidenziano le patrilinee come gruppi scambisti non formalizzati [vedi Piasere 1 985a, pp. 126-13 1] . Tenuto conto dell'ideologia bilaterale, il gruppo locale potrebbe essere de­ finito come un parentado ristretto residenziale, la cui possibile esistenza era stata ipotizzata da Fox [1 9 73, p. 1 8 5] . Tenuto conto della pratica patrilineare, potrebbe anche essere inteso come un pallido gruppo di discendenza locale, quale è stato definito da Leach [ 1 9 73, p. 94] , che si coagula attorno al padre o a un fratello leader, che sfrutta un dato territorio di cui si garantisce simboli­ camente l'esclusiva seppellendovi i propri morti, morti che, diventando ano-

Alter Alter

• Alius

Ego

figura S . Virilocalità completa.

1 13 l a

r e t o r i c a

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ro u l o t t e

nimi, impediscono a loro volta il riconoscimento ideologico del gruppo loca­ le come gruppo di discendenza tout court. Esempi di tali gruppi sono dati in Piasere [198Sa] e in Dick Zatta (1988] , dove si mostra come le armonie e disarmonie interfamiliari dirigano l'ordine variabile delle kampfne di un accampamento, le partenze e gli arrivi, come insomma il grup­ po presenti una struttura gommosa a topologia flessibile. caso

tre: visite

Il numero dei membri di un gruppo locale, anche se costituito da un nucleo for­ te, non è mai fisso. Vi sono motivi che consigliano flessibilità e fluidità. Secondo Matt Salo, tali motivazioni sono sempre in ultima istanza di ordine economico an­ che per le comunità girovaghe. Egli scrive in un lavoro d'altra parte interessante: Per quanto l'accesso alle risorse non sia il solo fattore motivante che determina la di­ stribuzione o i movimenti delle popolazioni umane o animali, sulla lunga durata è tuttavia il più significativo e di certo il più costante [ .] . Se in qualche caso lo sfruttamento delle ri­ sorse deve assumere un ruolo secondario, come nel caso di considerazioni sociopolitiche quali l'evitare gruppi ostili, il desiderio di massimizzare il rendimento continua ad agire an­ che nelle nuove situazioni. Il nuovo fattore è semplicemente divenuto un limite all'eserci­ . .

zio della scelta più vantaggiosa, ma il principio all'opera è sempre lo stesso [1995, p. 1 98] .

È chiaro che, posto i l problema i n termini così generali, è difficile non essere d'accordo con Salo. Alla domanda «È più utile mangiare o più utile sposarsi?», anche un rom potrebbe rispondere che se non mangi muori, mentre puoi cam­ pare anche senza sposarti. Ma che cosa succede quando la salvaguardia dei mec­ canismi di accesso alle risorse è ben collaudata, cioè quando il cibo è garantito? Gli spostamenti delle singole famiglie dalla propria località-base a quelle degli al­ tri avvengono sia per motivi economici, sia per motivi altamente politici, che sa­ rebbe riduttivo definire solo in termini economicistici. Illustro con un esempio. Ego ha una figlia in età da marito; subodora una sua fuga con il figlio di un rom con cui non vuole assolutamente allearsi. Nella località dove si trova, Ego ha un capitale gagikano fortissimo, ha un'attività commerciale ben salda con tutta una rete di clienti consolidata. Che cosa fa per evitare il matrimonio non gradito? Lascia tutto e se ne va per più di un anno con tutta la famiglia. In certe località

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11 4

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m o n d i

dove ha altre figlie sposate non ha problemi per la sosta; per lo meno non li ha da parte dei roma; più di una volta, però, viene cacciato dai gage e si trova costretto ad andare in una località dove non ha alleati. Per accamparvisi deve scomodare un genero, parente dei membri del gruppo locale, affinché lo accompagni. Il ca­ rattere amichevole della visita è spiegato dalle kampfne della figura 6, sequenza A . La posizione sociopetale tra Ego e Alter non è qui di natura economica e non in­ dica una situazione di uxorilocalità; Alter ha solo una funzione di mediazione po­ litica tra Ego e Alius. Tant'è,vero che, quando Alter se ne va dopo circa un mese, l'ospite comincia a diventare indesiderato, scattano le prime incomprensioni e Alius, con un pretesto banale sposta la sua kampfna in posizione sociofugale con Ego (vedi figura 6, sequenza B) . Dopo qualche settimana Ego se ne va . caso quattro: invasioni

Una disposizione sociofugale può a volte essere creata dai nuovi arrivati. Il caso che riporto ha, questa volta, cause prettamente economiche. Ego pensa di po-

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figura 6. Sequenze di una visita.

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r o u l o t te

ter stabilire la sua base in una località già occupata da altri roma con cui non ha legami di parentela. Tenta una fase di avvicinamento, andando ad accamparsi a un centinaio di metri dai 11residenti" . Dopo qualche settimana, non solo il ten­ tativo appare vano, Ego arriva anche a litigare in modo furibondo con il fratel­ lo-leader del gruppo locale. Ego se ne va e ritorna tre giorni dopo accompagna­ to da due fratelli. La figura 7 mostra la provocazione: una disposizione sociope­ tale con i fratelli, sociofugale con gli avversari e contemporaneamente in posi­ zione ravvicinata (Ego a tre-quattro metri da Alius) . Bisogna tenere presente che per mettere le roulotte come ha fatto Ego, occorrono sì pochi minuti, ma oc­ corrono anche una serie di manovre, con l'auto trainante o a mano, che ren­ dono di per sé evidenti le intenzioni. Normalmente, invece, quando un rom è in arrivo, sembra collocare la roulotte con noncuranza o facendo finta di chie­ dere consiglio a quelli già presenti. Ricordo bene il fatto descritto: stavo gio­ cando a carte con Alius davanti alla sua kampfna, quando Ego e i fratelli ci pas­ sarono davanti in modo risoluto per poter sistemare le roulotte. Il commento di Alius fu laconico: «Hik léngeri politika», «Guarda la loro politica» . E con ostenta­ ta superiorità volle terminare la partita iniziata. Ego e i fratelli restarono tre gior­ ni: i roma del posto guardarono con soddisfazione la polizia che li cacciava . . . Negli ultimi due casi è evidente che l'asse Sfp sostituisce i l codice basato sul­ la distanza ed è solo la conoscenza del contesto di relazioni già in atto che per­ mette la comprensione della disposizione. U roberto Eco definisce la retorica come un'oscillazione tra ridondanza e

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figura 7. Provocazione.

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informazione, e l'architettura come un «Sistema di regole retoriche volte a dare all'utente quello che già si attende» [1 980, pp. 87, 227] . Con le stesse parole, possi amo dire che le kampine e le loro relazioni spaziali (in un accampamento, tra più accampamenti nella stessa località e tra più località) esprimono un co­ dice architettonico che, in quanto retorico, si basa «SU altri codici che non so­ no quelli dell'architettura» [1 9 80, p. 233] e che sono costituiti dai sistemi di re­ lazioni roma-gage e roma-roma. È da specificare che fa parte del sistema di re­ lazioni roma-gage il fatto che il codice architettonico dei roma sia decodificato in modo diverso a seconda che il lettore sia un gagio o un rom. Il gagio tende a vedere il messaggio veicolato dal fatto che gli zi ngari sono "nomadi" e vivono "ai margini della società" (aree non edificate, discariche ec­ cetera) . Ciò lo pèrsuade che essi sono dei paria; il che diventa, nel discorso di al­ cuni, motivo e giustificazione per gli interventi di " aiuti" e, ultimamente, di tu­ tela verso ciò che c'è di "buono" da salvare nella loro cultura. Per i roma la situazione è diversa. All'antropologo piace dire che, se essi co­ noscessero Eco, direbbero che la kampina denota una "funzione prima" (l'abi­ tare un'abitazione mobile) e connota "funzioni seconde", che non sono (o non sono solamente) i desideri di distinguersi dal "sedentario", ma quelli di poter at­ tuare sempre, quando si rende necessario, il codice prossemico interfamiliare in­ teso nella sua totalità. Avendo dato al codice spaziale il compito di rendere espli­ cita una parentela altrimenti poco declamata, ma per questo non meno vissu­ ta, i roma fanno esprimere alle kampine un corpus di «soluzioni codificate atte­ nendosi alle quali la persuasione riconferma, con una ridondanza finale, i co­ dici da cui parte» [1980, p. 87] . Riassumendo su queste basi: - l'accamparsi in uno spiazzo ai margini delle città connota per i roma il lo­ ro potere di -degagizzazione; si inseriscono in un vuoto del pieno [vedi Williams 199 7] , cioè in un sito inutilizzato del territorio bidimensionale dei gage, da cui stabiliscono un territorio romano zero/mano-dimensionale; - l'accamparsi in un certo modo nello spazio dei gage connota il come si de­ ve vivere da roma, indicando di volta in volta le relazioni di el ezion e di rifiuto o di indifferenza; la disposizione delle kampine è un'azione di persuasione: per­ suade i roma su ciò che il sistema sociale già prescrive; - il sistema sociale prescrive che ogni famiglia nucleare debba essere auto"

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noma; la kampina connota un'autonomia che permette di scegliere con chi vi­ vere vicino; per questo la virilocalità e il precedente periodo di uxorilocalità, per quanto altamente dominanti, sono sempre di ordine statistico. Ogni rom pro­ paga un'ideologia della possibilità di scelta: «Vado con chi voglio; guarda dov'è la mia roulotte e ciò ti persuaderà». L'antropologo degli zingari si trova sempre troppo immischiato per non ca­ pire l'importanza che rivestono le politiche dei gage, e per questo ho voluta­ mente iniziato questo capitolo con un cenno alle politiche dei gage verso gli zin­ gari. Riguardo ai campi-sosta, i roma si sono sempre detti pronti ad accettarli. Ciò non deve sorprendere perché, dal momento che l'importante è saper degagizza­ re un prodotto gagikano, essi hanno sempre accettato un campo attrezzato che veniva loro offerto dai Comuni, quando sapevano di poterlo degagizzare, (per esempio, mediante l'autogestione degli spazi) . L'hanno invece rifiutato (parten­ ze in massa) quando i gage lo rendevano invivibile con regolamenti inflessibili. Questo studio vorrebbe allora essere un esempio e un appello. Un esempio che mostra che almeno per i roma, se non per gli altri zingari su cui mancano studi specifici, i campi-sosta iper-regolamentati sarebbero delle riserve, non de­ gli spazi di "tutela" . Un appello: prima di fare, a volte è meglio chiedersi quello che c'è da sapere; altrimenti le riserve cresceranno e il processo di indianizza­ zione degli zingari diventerà irreversibile. E c'è già chi, incontrando simili zin­ gari indianizzati e "tutelati", li stima indegni di esistenza. Il circolo si chiude: ed è storia vecchia! Nonostante i miliardi, gli Uffici tecnici comunali non hanno progettato «funzioni prime variabili e funzioni seconde "aperte"», l'architetto gagio non è diventato «qualcos'altro da se stesso [ . . . ] obbligato a pensare la to­ talità» [Eco 1 9 80, pp. 2 1 6, 245] , egli ha pensato alla propria totalità e non a quel­ la degli utenti . Ma non è forse ciò che i "bianchi" hanno sempre fatto?

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Tre premesse devo fare subito per spiegare e giustificare la natura di questo capi­ tolo1. Devo spiegare che cosa intendo con quell"'etnoantropologie" che compa­ re nel titolo; devo spiegare, parafrasando il titolo del convegno, il gioco di /(den­ tro-fuori" su cui si muoverà il mio " sguardo"; devo infine giustificare l'intrusione delle mie riflessioni, che vogliono essere di antropologia letteraria, all'interno di una giornata dedicata invece alla cultura popolare.

premessa prima In Italia il termine etnoantropologia, coniato più di vent'anni fa, è diventato d'uso corrente per designare l'insieme di quelle discipline che nel mondo acca­ demico sono chiamate Etnologia, Antropologia culturale, Antropologia sociale eccetera. Non è in quest'accezione italiana che intendo qui il termine, ma in un'accezione, diciamo, americana. Grosso modo nello stesso periodo in cui na­ sceva la nostra etnoantropologia, nella comunità antropologica americana na­ sceva quella che allora era chiamata /(nuova etnografia" e che, in Inghilterra, si chiamerà 11nuova antropologia" . I "nuovi etnografi" si prefiggevano di descri­ vere i modi di conoscere dei membri di una data comunità e per questo tale in­ dirizzo si chiamò anche /(antropologia cognitiva" . I nuovi etnografi, o nuovi an­ tropologi, o antropologi cognitivi, studiavano e studiano in particolare l'orga­ nizzazione dei saperi di una data cultura e per distinguere tali saperi da quelli occidentali, o semplicemente da quelli accademici, hanno preso l'abitudine di etichettarli preponendo il termine "etno" . Di fronte alla zoologia insegnata nel119 etnoantropologie

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le università è sorta, per esempio, l'etnozoologia, ossia il sapere sugli animali condiviso dai membri di una comunità; allo stesso modo si parla di etnobota­ nica, etnoastronomia, etnomedicina, etnoembriologia eccetera. Il tutto, ovvia­ mente, si è configurato come un' "etnoscienza", che è il termine che ha sop­ piantato quello di "nuova etnografia", visto che tanto nuova non lo è stata pre­ sto più. lo non ho mai visto impiegato un termine del tipo ethno-anthropology da un qualche autore anglofono, ma è in questo senso che va inteso il mio '' et­ noantropologia" : l'organizzazione del sapere sulle culture umane da parte di una data comunità. È quella che Remotti [1990] ha chiamato anche "antropo­ l ogia implicita" . Il mio, allora, è il contributo di un etnoantropologo (all'italia­ na) sulle etnoantropologie (all'americana) quali sono espresse da quelli che nor­ malmente usiamo chiamare gli zingari e i non zingari. premessa seconda

Anche se sono venuto qualche volta in Friuli a visitare qualche famiglia zingara, non si può dire certo che io abbia fatto ricerche in Friuli. Da questo punto di vi­ sta, il mio è senz'altro lo sguardo più "da fuori" che verrà lanciato in questa gior­ nata di studio : di cultura friulana io non ne so proprio niente. Possiamo dire al­ lora che il mio sguardo da fuori si posa su due " sguardi da dentro che guardano fuori" . Gli sguardi sono costituiti dalle due opere che prenderò in esame: il ro­ manzo Il caldèras di Carlo Sgorlon, famoso scrittore friulano, e la raccolta di ver­ si Popolo mio dei rom di Mansueto Levacovich, un rom che ha trascorso buona parte della sua vita in questa regione che ha costituito per lui, usando le parole che Sgorlon adopera per il suo protagonista, la «grande madre friulana» [p. 275] . Come vedremo, la caratteristica dei due testi è quella appunto di "guardare fuo­ ri", perché si guardano reciprocamente: Sgorlon, non zingaro, parla degli zinga­ ri e Levacovich, zingaro, parla dei non zingari (nonostante il titolo del libro spin­ ga a travisarne il contenuto) . Questo incrocio di sguardi friulani ci mostrerà che, almeno nell'ambito dei rapporti tra zingari e non zingari, non è possibile isola­ re le etnoantropologie locali dai contesti più ampi in cui sono immerse. L'opera di Sgorlon risente - e vedremo quanto - di quella che chiamo la ziganologia di massa italiana, mentre l'opera di Levacovich è comprensibile solo se si tiene con­ to della gagiologia" quotidiana del suo gruppo di appartenenza, un gruppo di­ sperso tra l'Italia centro-settentrionale e la Slovenia meridionale. 11

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premessa terza L'antropologia letteraria è un'area di studio che si è sviluppata all'interno dell'et­ noantropologia generale (all'italiana) . Essa comprende la tradizionale ricerca del "popolare" nella letteratura, ma non si ferma a questo. Cerca piuttosto di analiz­ zare le opere letterarie adoperando la strumentazione concettuale di cui si serve normalmente l'antropologo nello studio delle culture. Per fare qualche esempio, c'è chi ha studiato la terminologia di parentela quale viene usata dal tal autore [Shapera 1 9 7 7] , chi il comportamento tra fratelli maggiori e cadetti nelle tali ope­ re [Tadmor 1 994L chi l'impegno etnografico dei membri di una data corrente let­ teraria [Toffin 1 989] ; c'è anche chi, lévi-straussianamente, ha considerato le ope­ re di uno stesso romanziere come varianti di un unico mito personale, svilup­ pantesi seguendo regole di concatenazione e permutazione [Albert 1 989]; l'altra faccia dell'antropologia letteraria è oggi costituita dalla critica letteraria dei testi etnografici, sviluppata dall'antropologia critico-ermeneutica. Anche l'antropolo­ gia letteraria, come la critica letteraria e come tutte le altre 11logie" della lettera­ tura (psicologia, sociologia, semiologia . . . ) è un campo di studi in qualche modo parassitario: senza le opere letterarie scritte da altri, le "logie" morirebbero per asfissia . . . Oltre a questo, non credo di sbagliare se dico che il rapporto tra ruolo­ go" e lo scrittore/poeta è spesso di invidia. Tutte le considerazioni che farò sul­ l'opera di Sgorlon, per esempio, ho paura che nascondano tutta l'invidia che pro­ vo per il suo dolce modo di scrivere! Ma c'è un'altra questione da liquidare. L'an­ tropologo normalmente studia insiemi di esseri umani, insiemi di comportal

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menti, insiemi di relazioni; come può allora consacrarsi allo studio dell'opera di un singolo poeta/romanziere? Come può pretendere di poter comprendere l'in­ venzione creativa di un singolo, lui che studia sempre comportamenti condivisi da tutta una comunità? Cercherò di mostrarlo nel prosieguo, facendo vedere che anche l'intuizione personale, che scaturisce, se mi si passa l'orribile espressione, dall'idio-etnoantropologia di un singolo, può nascere solo all'interno di un'et­ noantropologia collettiva più ampiamente condivisa. Prima di cominciare l'analisi delle due opere, è utile che presenti in modo molto succinto e schematico le griglie cognitive che organizzano le classifica­ zioni etniche dei due autori. La differenza tra le due è fondamentale per la com­ prensione di tutto il discorso che farò2 . Nella figura l abbiamo lo schema concettuale del mondo degli uomini qua­ le si può evincere dal libro di Sgorlon. Si tratta di una costruzione cognitiva che ci è familiare, perché comune fra i non zingari europei, e che gli etnoscienziati chiamano tassonomia: l'insieme degli uomini, l'umanità, è divisa in tanti po­ poli (A, B, C . ), i quali a loro volta possono avere delle sotto-divisioni, sotto-sot­ to-divisioni eccetera. La caratteristica di questo schema concettuale è che non prevede, diciamo così, dei doppioni: se il popolo A è diviso a sua volta in a e b, allora a e b non possono essere suddivisioni anche di B, il quale sarà invece sud­ diviso in c e d. Nella tassonomia di Sgorlon, gli zingari rappresentano uno dei tanti popoli in cui è divisa l'umanità, e sono a loro volta reputati essere distin­ ti in Sindhi e rom, dove il primo è una trascrizione esotica del più comune sinti. Sono d'altra parte un popolo speciale per i motivi che vedremo. La figura 2 mostra invece la classificazione dell'umanità quale è riconosciu­ ta nel gruppo a cui appartiene Levacovich e che ricostruisco in base alle mie ri­ cerche dirette . Qui lo schema prevede una normale costruzione tassonomica fi­ no al livello 2, dopo di che si sviluppano di fatto due tassonomie parallele che in teoria possono rispecchiarsi perfettamente. Si tratta di un tipo di classifica­ zione che gli etnoscienziati chiamano paradigma, anche se, da un punto di vi­ sta interno e in senso pragmatico, essa può funzionare come una tassonomia doppia. In parole correnti: l'umanità, manusa, è divisa in gage e roma, e come i gage possono essere divisi, per esempio, in italiani, francesi, tedeschi, così an­ che i roma possono essere divisi in italiani, francesi e tedeschi, con tutte le even. .

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tuali sottodivisioni [vedi Piasere 1 985a; Cardona 1 985] . Quello che qui è im­ portante, capitale, è la suddivisione del livello 2. Mansueto Levacovich fa parte del gruppo dei roma istriani che, con i roma croati e i roma sloveni, costituiscono in Italia un insieme culturalmente e lingui­ sticamente abbastanza omogeneo e ben identificabile in rapporto agli altri zin­ gari. Benché sia figlio di primo letto di un rom croato, egli è considerato un rom istriano poiché, dopo il divorzio dei genitori, continuò a vivere con la madre, rom­ ni istriana, e con i parenti di costei. Io non l'ho mai conosciuto personalmente, ma quando vivevo fra i roma, essi lo catalogavano invariabilmente, oltre che, ap­ punto, come rom istriano, anche come udinasko rom o rom udinese, proprio per­ ché aveva fatto èli Udine la sua località-base. Suo padre, Giuseppe Levakovich (qui il cognome è con la "k"), morto qualche anno fa, è un rom di una certa notorietà per aver raccontato una ventina d'anni or sono la sua biografia (contestata da al­ tri roma) che fu pubblicata da Giorgio Ausenda [vedi Levakovich e Ausenda 19 75] . In qualche modo, quindi, figlio d'arte, Mansueto ha pubblicato nel 1 99 1 una rac­ colta di sedici poesie, scritte in italiano, curate e presentate da Paolo Zatta. Dieci delle sedici poesie sono datate e risultano essere state scritte tra il dicembre 1986 e l'ottobre 1 9 8 7, un periodo in cui Levacovich, non i n sintonia con la comunità dei roma udinesi, si spostava tra la Toscana, il Veneto e la Lombardia. Svilupperò in particolare due temi strettamente connessi e che risaltano dal­ la lettura, due temi che ritroveremo molto diversamente scanditi in Sgorlon : la concezione dell'Altro e la concezione della storia. i gage Nonostante, come si diceva, il titolo del volume sia Popolo mio dei rom, che ri­

prende il primo verso della prima poesia e che forse è dovuto al curatore, è il ga­ gio il protagonista quasi ossessivo delle poesie. Tredici poesie su s edici hanno invocazioni del tipo «tu gagi e tu gagio>>, «Oh tu gagio», «Oh gagio» . Riprenden­ do la figura 2, ci accorgiamo subito come funziona la classificazione del livello 2. Da un lato, essa solo appare come fondamentale, poiché le varie successive suddivisioni non vengono mai evocate; l'umanità è un blocco diviso in due: ro­ ma e gage. Dall'altro, si tratta di un blocco che si fonda su una asimmetria che connota tutto il reale umano e che concerne innanzi tutto un rapporto di po123 etnoantropotogie

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tere: il gagio è potente, il rom debole. La potenza del gagio è totale, in quanto è «padrone assoluto di questa terra» [p. 1 3] . È un padrone crudelissimo che sfoga tutta la sua malvagità sul resto del mondo, compresa la terra stessa3 : «Tu gagio, padrone assoluto di questa terra, l il tuo disprezzo ed il tuo odio l ti rendono cieco e crudele. l Tante offese rechi alla terra: chiedile perdono, l se non lo farai un giorno l tutto distruggerai» (da Pensa ci o gagio) . Ma è innanzi tutto sul rom che il gagio sfoga tutto il male di cui è capace: C i disprezzano, ci umiliano, ci dicono che siamo zingari, l disonesti, e ci cac­ ciano via» (da Qual è il tuo Dio?); «Il gagio e la gagi l ci stanno uccidendo lenta­ mente. [ . ] l Il mio popolo sta morendo l tramite le vostre ingiustizie» (da Un popolo che perisce giovane). Questa malvagità viene esercitata in tutti i modi, chia­ ramente o ipocritatnente: «Il gagio e la gagi l hanno il viso coperto: l i loro cuo­ ri sono pieni di odio» (da Madre mia e Senza diritti né umanità); «Gagio, e tu ga­ gi: l voi che predicate la compassione l come una delle più preziose facoltà l del­ l'anima umana, l e dite che nessuna società è possibile l e che nessun legame può esistere l tra gli uomini l senza di essa; l essa comprende la giustizia e la ca­ rità» (da Ma dre mia e Senza diritti né umanità); «0 tu gagio, ma chi sei, che segui il mio cammino l e dici: "Fratello zingaro" . l Io vivo in un ghetto e disprezzato, l e tu vivi nel benessere e nel rispetto. l E tu parli dell'anima l ma non di com­ passione . [ ] l E se un giorno ti sveglierai l saprai quanto male hai fatto l a uno zingaro l che tu chiami "fratello" » (da Tu gagio) . Anche le preghiere fanno parte degli strumenti di maleficio del gagio: «Oh tu, mamma delle mamme, l oggi ci hai lasciato. l Oggi è il più bel giorno per te, l sei libera per sempre dalle ingiustizie e sofferenze l del gagio . l Il gagio ti ac­ compagna pregando, l che tanto ti ha disprezzata. l Le sue preghiere sono la sua forza l per perseguitare i tuoi figli l e il tuo popolo: così è stato l sempre e sem­ pre sarà» (da Una mendicante oggi perita). In questa visione dualista dell'umanità, nessuna faglia è concessa. In «Un rom che trovò un fratello gagio», il poeta invita l'amico gagio a desistere dalla sua inutile iniziativa di aiuto: «Oh tu, amico e fratello gagio, l tu che mendichi un po' di pace l e amore da questi per un popolo l tormentato: fratello gagio, tu l sei disprezzato e umiliato per questo. l Fermati, salvati, l il nostro destino è se­ gnato per le sofferenze» . ,

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Se il gagio è il padrone assoluto della terra, i rapporti di potere che vengono instaurati danno a questa organizzazione dualista una forma particolare per quanto riguarda la disposizione territoriale. I due blocchi di umanità non sono spazialmente contrapposti e marcati da confini precisi; i roma vivono dispersi tra i gage e sempre a stretto contatto con loro; è questo contatto che riflette il livello 3 della classificazione etnica, ed è questo contatto che i gage stessi vor­ rebbero rifiutare e che li porta alla crudeltà: «Madre mia, noi siamo poveri, l e chiediamo una piccola particella. l Il gagio e la gagi ci negano anche questo di­ ritto l che ci appartiene» (da Madre mia) . Essendo la dispersione fra i gage una costante strutturale dell'organizzazione sociale dei roma, essa si riflette anche nella disposizione spaziale delle tombe nei cimiteri. I roma seppelliscono i pro­ pri morti nei cimiteri dei gage ·e le tombe dei roma sono tendenzialmente spar­ se in mezzo a quelle dei gage [vedi Piasere 1 98Sa] . È questa realtà che evoca la poesia «La pace di un rom», dove risalta ancora la prepotenza del gagio: «Una misera croce l su un cumulo di terra. l Sotto questo cumulo giacciono quattro ossa l che appartenevano alla vita l di uno zingaro l tanto umiliato e disprezza­ to. l Adesso è in pace. l Accanto allo zingaro l una lapide del gagio; l ben pre­ sto il gagio l disse allo zingaro: "Chi sei?" l 11Sono un rom" egli rispose, l "Qui ho trovato la pace!" l "Vattene via zingaro, l ho vergogna di stare vicino a te! " » . Riprenderemo fra un istante questa poesia, che potremo apprezzare piena­ mente dopo aver delin�ato i confini della potenza distruttrice del gagio. Ricor­ diamo il verso «Tu gagio, padrone assoluto di questa terra» e cerchiamo di co­ glierne tutto il significato. Se il gagio è onnipotente, su questa terra, egli è anche più potente di Dio . È possibile? Ricordo per inciso che i roma si dicono cattolici e credono nell'esistenza degli esseri soprannaturali riconosciuti dalla Chiesa cat­ tolica (salvo che nello Spirito Santo) . Nella loro lingua, Dio è Dével, mentre tut­ ti gli altri esseri soprannaturali (Cristo, la Madonna e i santi) possono essere rag­ gruppati nella categoria dei devl6ra, "piccoli dei"; in questa categoria possono essere inclusi anche i ministri terreni come preti e santoni [vedi Piasere 198Sa] . Ricordiamo ora l'accusa di deicidio che è stata mossa per secoli dai cristiani agli ebrei, un , accusa ritirata dalla Chiesa solo recentemente. Bene, se riprendiamo la figura 2, noi vediamo che al livello 2 non c'è un posto speciale per gli ebrei (che i roma chiamano g'ide); e poiché non sono certo dei roma, essi sono automati­ camente dei gage. Ecco allora la credenza corrente fra i roma secondo cui sono 125 etnoantropologie

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stati i gage a uccidere Cristo. Nelle poesie di Levacovich questa realtà è spesso ri­ portata e il deicidio è spesso amplificato come il peggiore dei mali mai commessi dai gage: «Tu gagio e tu gagi, l peccatori, fermatevi; l avete anche ucciso Cristo», recita già la prima poesia della raccolta. E un'altra: «Tu, tutore dell'ordine [gagio] che parli di giustizia, l cosa hai fatto a Cristo? l Perché non lo hai difeso dal mar­ tirio che ha subito?» (da Qual è il tuo Dio?) . E ancora, confondendo come di so­ lito nei roma Dio con il Padre: «Tu, Dio, non dici niente? l Ma perché? l Hanno perseguitato tuo Figlio: l umiliato, bastonato, l torturato e messo in croce. l Ma perché, perché? l Oggi pregano ai piedi di tuo Figlio l implorando perdono. l Tu gagio e tu gagi: l non basta il male che faceste l uccidendo Cristo?» (da Tu, Dio, non dici niente?) . In una visione dicotomica del mondo degli uomini, chia­ ramente, le colpe dell'uno diventano meriti dell'altro; così, dove sta il grande vanto dei roma? «Fratelli cari e sventurati: l il gagio ci ha tolto tutto. l Due cose non ci possono portare via: l l'amore dei nostri figli l e l'orgoglio di non aver preso parte l al genocidio [sic] di Cristo» (da L'orgoglio dei rom) . Vivendo fra i ro­ ma non ho mai inteso esprimere le motivazioni dell'orgoglio di essere roma in questo modo. Qui abbiamo un'elaborazione personale, che abbozza un'antro­ pologia filosofica per cui il rom è equiparato a Cristo nelle persecuzioni subite a opera dei gage: «Tu gagio e tu gagi: l non basta il male che faceste l uccidendo Cristo? l Perché ci perseguitate l predicando "Non aiutateli. l Non aiutate que­ sto popolo di vagabondi l rifiuto della società, l zingari, parassiti" . l [ ] l E tu Cristo, l che sai che cosa sono le sofferenze, l ascolta queste mie suppliche. l Ti scongiuro: ferma questi persecutori. l Le sofferenze del mio popolo sono tante, e tante . » (da Tu, Dio, non dici niente?) . In quest'ottica, se il peccato è pur sem­ pre un male, esso non stacca completamente il rom da Cristo, perché è sempre il gagio che spinge a commetterlo: «Il gagio e la gagi mi fanno peccare l con le loro ingiustizie. l Scusami, o Cristo, l se sono un po' lontano da te; l ma tu sai l che non è colpa mia» (da Tu, Dio, non dici niente?) . Non voglio fare pronostici su un futuro passaggio in massa dei roma al mo­ vimento pentecostale, ma in Levacovich troviamo in nuce l'essenza dell'inse­ gnamento del movimento evangelico zingaro . Negli ultimi decenni tale movi­ mento messianico si è propagato a macchia d'olio in Europa, sviluppandosi in modo eclatante in Francia e ultimamente in Spagna. In Italia i 11COnvertiti" si contano soprattutto fra i rom kalderas/ a e lovara, fra i sin ti [vedi Simonelli . . .

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1996] , e hanno cominciato a comparire anche fra gli xoraxané. Il gruppo di Le­ vacovich a mia conoscenza, non annovera per il momento degli adepti, ma le sue poesie riflettono, se non una conversione, certo una convergenza: come po­ polo sofferente, i roma diventano il popolo eletto4, con un totale ribaltamento dei miti d'origine tradizionali, che li vedevano invece come il frutto di una con­ danna divina [vedi infra il capitolo «Un mondo di mondi») . ,

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La convergenza è comunque solo parziale . Se per gli zingari pentecostali l'ele­ zione consiste nel costituire il popolo che ripristinerà il regno di Cristo su questa terra, per Levaccvich l'elezione sembra consistere nella certezza di ottenere il per­ dono divino. Dove? Certo non su questa terra, perché qui nessun cambiamento è possibile. Nonostante egli sia o sia stato - come ci ricorda Paolo Zatta nell'In­ troduzione - un rom impegnato politicamente, la percezione della storia che egli delinea è congruente e non innovativa rispetto a quella della sua comunità. Riprendiamo la poesia in cui il gagio morto vuole scacciare il rom morto che gli giace vicino : «"Tu gagio non hai capito ancora"» l continuò lo zingaro, l " da quando sei entrato l da quel cancello l hai perduto tutti i diritti, l le tue carni ben presto l saranno putrefatte, i vermi l ingrasseranno di te rimarranno l quattro ossa come le mie l e ben presto sarai di m enticato, l tu che tanto mi hai odiato con le ingiustizie l Eccoti accanto a me, l senza nessun potere né pace (da La pace di un rom) . Dopo la morte abbiamo un azzeramento; anche linguisticamen­ te, infatti, i roma morti e i gage morti sono indistintamente chiamati mule. La distinzione etnica si cancella e così l'asimmetria: i gage, dopo la morte, non han­ no il potere, dopo la morte scompaiono Come si capirà dal confronto con l'o­ pera di Sgorlon, qui raggiungiamo forse il maggior scollamento tra le culture zin­ gare e quelle non zingare Al gagio preme la gloria, la fama, lasciare come si di­ ce il proprio ricordo ai posteri. Il rom si vendica con il mezzo che il gagio più teme: la minaccia dell'oblio: «Oh gagio, pensa che un giorno l la terra ti divorerà l e un giorno nessuno saprà l che sei esistito» (da Una mendicante oggi perita) . Se tutto finisce varcato quel cancello , significa allora che tutto succede fuo­ ri da quel cancello E ciò che vi succede è il tutto totale sempre uguale a se stes­ so: nelle vite degli uomini la malvagità del gagio verso il rom c'è sempre stata, c'è ora, ci sarà sempre: «Tu gagio e tu gagi, l che mi avete sempre perseguitata, ,

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confronto

zingara, mendicante, vagabonda. [ . . ] l Il gagio e la gagi vi perseguiteranno fi­ no alla morte l come me. [. ] l Oh Dio ti prego con tutta la mia anima l non ab­ bandonare i miei figli, l solo tu puoi alleviare l le sofferenze che subiranno l dai gage perseguitatori l Da sempre è stato così l e sempre sarà!» (da Tu gagio e tu gagi, perché avete ucciso Cristo?) . La continuità della persecuzione si tramanda senza scarti in linea diretta: « I nostri avi hanno perseguitato i vostri avi, l noi p erseguitiam o voi: zingari, vaga­ bondi, l rifiuto della società [ ] l O figli sventurati, l perdonate i vostri genitori. l Pace e amore dai figli di questi gagi l non avrete» (da Senza speranza); arriva ad assumere una connotazione cannibalesca5 : «0 gagi, gagi: l voi che vi cibate del­ le so fferenze l di un popolo infelice, l non siete ancora sazi? l "No, zingari. l I no­ stri figli dovranno cibarsi l dei vostri figli fino alla morte, l come è sempre stato l e sarà fino alla fine dei tempi" » (da Cos'è la felicità?); e terminerà solo quando il mondo cesserà di esistere distrutto dai gage stessi: «Tutto questo non porta felcità, l così come non ebbero felicità i vostri antenati, l straziando il corpo di Cristo. l Così come i vostri figli seguiranno l il vostro male così grande, un gio rno l il mon­ do distruggeranno e tutti periranno» (da Una data da non dimenticare) . Non c'è lo spazio qui per ricordare nei dettagli come i roma percepiscano la storia e come questa perce zi one sia costruita sui rapporti che essi instaurano con i morti [vedi Piasere 1 98Sa] . Mi limito a dire che i roma organizzano più l'oblio delle persone che il loro ricordo, il che porta a un controllo del passato che non prevede il riconoscimento di momenti marcati: niente grandi avvenimenti, niente eroi, niente epopee. Esistono invece chiari meccanismi culturali che cer­ cano di neutralizzare le distanze temporali Detto questo, è insostenibile ap­ pioppare ai roma l'etichetta in voga nella ziganologia di massa, secondo cui gli zingari vivrebbero "in un eterno presente" . I roma sanno perfettamente che il tempo passa: checché se ne dica e se ne scriva, nella loro lingua i vari tempi dei verbi esistono eccome! Eppure, ancora, non è nemmeno possibile includere quella dei roma fra le "culture passatocen­ triche" né in quelle "futurocentriche", come le ha chiamate Le Goff e come ce lo ricorda Carmela Pignato [1 98 7] in un suo recente excursus sulle varie conce­ zioni del tempo. Quello che i roma hanno costruito è, invece, una sorta di me­ ta -te m po, un tempo che concilia contemporaneamente la ciclicità, la linearità e la stazionarietà; un meta-tempo che, di fatto, dà luogo a un'anti-storia: l

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. .

.

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. . .

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128 u n

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di

m o n d i

- ciclicità: i roma sanno che sia i gage che i roma nascono, vivono, muoiono; - linearità: i roma sanno che sia i gage che i roma nascono da dei genitori e mettono a loro volta al mondo dei figli; ma sanno che sono i gage che marcano momenti ritenuti salienti del passato, creando eroi e momenti epici; - stazionarietà: i roma sanno che i rapporti roma-gage sono stati e saranno quelli oggi in vigore; ma sono i roma che non vogliono eroi da ricordare, per­ ché è il solo modo che hanno per mantenere l'egemonia dell'interno e quindi la certezza della loro perennità fra i gage. Perché anti-storia e non semplicemente non-storia? Perché privilegiando l'immutabilità, essi si garantiscono l'autofedeltà6 che è qui costruita con moda­ lità contrapposte alla 11 Storia" dei gage. Un esempio per tutti: le città dei gage sembrano tanti cimiteri, con le loro vie, piazze, scuole eccetera che portano per lo più il nome di un morto - un eroe (sia esso un militare, un poeta, uno stati­ tista, uno scienziato, un santo eccetera) o di un grande avvenimento [vedi Pia­ sere 1997; in corso di stampa] . I gage arrivano a {/spazializzare" il passato che hanno eletto a storia . I roma, dal canto loro, quando muore uno, non ne pro­ nunciano più il nome e lo spazio in cui è avvenuto il decesso viene abbando­ nato. Entrambi dicono di farlo per rispettare i morti. Si capisce ora la continuità nell'immutabilità. Finché ci saranno i gage ci sa­ ranno anche i roma - Levacovich fa dire ai gage: «No, zingaro, zingari. l Noi sia­ mo il vostro destino» - ma i gage costruiscono una storia lineare e cumulativa che somma ingiustizie a ingiustizie fino alla catastrofe finale. I roma, con la loro esi­ stenza, dimostrano di saper imbrigliare il tempo e addomesticare la storia selvag­ gia dei gage con la loro anti-storia. È come se dicessero: la vostra storia selettiva è una maschera; noi sappiamo bene, e la nostra permanenza in mezzo alle vostre persecuzioni lo dimostra, che voi siete sempre gli stessi. Solo noi, coerentemente fedeli a noi stessi, conoscendo la vostra ipocrisia, la sappiamo dominare. Nelle poesie di Levacovich manca qualsiasi tentativo di descrizione etno­ grafica dei gage, vi appare solo un'etnoantropologia generale dei gage, di taglio quasi filosofico, come si diceva. Diverso è il caso del libro di Sgorlon (edito nel 1988 e quindi scritto in pratica contemporaneamente alle poesie di Levacovich) nel quale, forse per il semplice fatto di essere un romanzo e non dei versi, vi fi­ gurano molti dati etnografici. 129

etnoantropologie

a

c o n fronto

Mi riprometto allora di dimostrare che: l'etnografia di Sgorlon rappresenta in realtà un fallimento; nonostante tale fallimento, il genio dello scrittore arri­ va a postulare un percorso antropologico credibile; tale percorso è comunque possibile perché retto da un artificio narrativo che si basa sulla falsa etnografia da cui è partito . Per cominciare, vediamo subito quali sono le fonti di Sgorlon, quali ce le indica egli stesso in una noticina alla fine del volume: La maggior parte delle notizie sul popolo degli zingari sono state tratte dal libro di Giovanni Pederiali

Dove

vanno gli zingari? edito da Rusconi [nel 1 9 79] . Ma rom e sindhi

appartengono da sempre alla mia esperienza ed al mio interesse, in forme che non esclu­ dono una patina di mistero e di magia, così come appartengono alla mia terra [il Friu­ liL dove hanno cominciato ad integrarsi

e

a farsi stanziali [p. 334] .

E ricordiamo brevemente l e vicende narrate ne Il caldèras : Dopo un avvelenamento collettivo che ha colpito un villaggio della Slavonia, un vec­ chio zingaro, Vissalòm, fugge portando con sé uno zingarello rimasto orfano, Sindel. Pas­ sa la frontiera dell'Impero austro-ungarico e arriva in Friuli dove ricomincia la sua vita di calderaio girovago. Qui i due si trovano a vivere a ridosso del fronte le vicende della Pri­ ma guerra mondiale e in particolare la rotta di Caporetto. Finita la guerra, eleggono il Friuli a loro zona di nomadizzazione e il paesino di Fajèt diventa il centro del loro terri­ torio. Il tentativo di andare in Camargue, alla festa zingara delle Saintes-Maries-de-la-Mer fallisce per la morte del vecchio, sopravvenuta in Piemonte. Sindel torna a Faj èt, va ad abitare in una casa, diventa amico di vari personaggi della zona, marginali sotto diversi punti di vista: una ex prostituta austriaca, un anarchico, un conte . . . Si innamora di Te­ reza, colla quale potrà vivere solo dopo che costei abbandonerà il marito, un ricco possi­ dente arricchitosi illegalmente. Alla morte di questi, la coppia eredita tutti i suoi beni e Sindel convince molti zingari a stanziarsi nelle sue terre e a intraprendere delle attività "normali11 • Morirà nella lotta partigiana, a capo della brigata zingara che aveva creato.

gli zingari Lo studioso di cose zingare vede fin da subito in Sindel e in Vissalòm due mem­ bri del gruppo dei rom kalderas (o kalderasa, a seconda dei sub-dialetti familia­ ri) . Si tratta di un gruppo sparso oggi in tutti i continenti e proveniente da re­ gioni romenofone (Valachia, Transilvania, Moldavia . . . ), lasciate nel xix secolo e

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130

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a volte prima. Il vecchio infatti ha un cognome romeno, ricorda le feste alle fo­ ci del Danubio, esercita il mestiere di calderaio da cui deriva l'etnonimo, un me­ stiere che molti kalderas continuano a esercitare . È storicamente provato che molti kalderas vivevano in Slavonia agli inizi di questo secolo e che da lì emi­ grarono in America ed Europa occidentale, Italia compresa, durante o subito do­ po la Prima guerra mondiale. Tutto questo non c'è in Pederiali e Sgorlon l'ha tratto evidentemente da altre fonti. Accanto a informazioni verosimili come queste, ve ne sono però molte altre inattendibili; si tratta di caratteristiche linguistiche ed etnografiche che segna­ no appunto il fallimento della realtà zingara descritta dall'autore . La lista sa­ rebbe veramente lunga e per non essere pedante mi limito a degli esempi. Dal punto di vista linguistico: già il titolo riflette il fallimento, perché si pronuncia, appunto, "kalderas" e non /{ caldèras" . I kalderas non dicono devél, 11Dio", ma del; non dicono gagé, ma gaié; baxt, 11fortuna", è femminile non maschile; il plurale di kumpania (il gruppo locale nomade o sedentario) non è kumpanie, ma k um­ panii; in generale, il dialetto kalderas non è «impastato di parole tedesche» [p. 54] , ma certamente di romene7• Dal punto di vista etnografico: è certo che i kal­ deras della Slavonia non usavano i carrozzoni (carovane) all'inizio del secolo, ma tende e carri; è tutto da provare che fossero dei suonatori di violino; è vero che essi fanno il banchetto funebre (pomana: un'usanza di origine romena), ma non è assolutamente vero che brucino la carovana del morto [p . 95] - un co­ stume di altri gruppi, fra i quali i roma di Levacovich; il fazzoletto da testa del­ le donne, il dikl6 (e non il dfl,

,

'

'

173

segni

.

Il primo che ne parla sembra essere George Borrow, missionario e scrittore, uno dei più noti ziganologi inglesi del secolo. Nel suo primo libro del 1 84 1 , dedica­ to ai gitani spagnoli, consacra diverse pagine agli zingari inglesi, ed è parlando di questi ultimi che accenna a una pratica a suo dire «altamente caratteristica di un popolo vagabondo e che persiste solo fra quelli della razza che ancora con­ tinuano a girovagare molto» [s.d., p. 29] . Fra questi annovera gruppi di zingari russi e ungheresi che scorazzano per l'Italia «in spedizioni predatorie» . Il mate­ riale sembra comunque provenire dagli zingari inglesi, i quali userebbero tre ti­ pi di segnali: - due o tre ciuffi d'erba posti a piccola distanza l'uno dall'altro e collocati in un incrocio all'inizio della strada da prendere; - una croce latina disegnata sulla strada (strada bianca, ovviamente), con il braccio più lungo disposto nella direzione da prendere; - un bastone spezzato conficcato ai bordi della strada, con un piccolo brac­ cio nella fenditura indicante la strada da prendere; questo segnale è adatto so­ prattutto quando si viaggia con il buio [s .d., pp. 29-30] . Anche se riferiti agli zingari inglesi, questi tipi di segnali sarebbero larga­ mente condivisi e l'autore racconta di come, nel sud della Francia, egli fosse una volta riuscito ad arrivare a un accampamento zingaro seguendo i segnali del se­ condo tipo. Per sua stessa ammissione, da buon scrittore romantico, Borrow è lettera imente affascinato da questa pratica ed è di fatto l'iniziatore della visio­ ne amplificatrice: sarebbe stato grazie a essi che gli zingari, nel loro viaggio dal­ l'India all'Europa, sarebbero riusciti a non perdersi, «pur vagando fra tetre gole e orridi deserti» ! Egli riferisce che i segnali sono chiamati dagli zingari patteran oppure trail. È molto probabile, da quel che vedremo subito, che il secondo termine fosse di gran lunga il più usato, ma per amor di esotismo Borrow usa costantemente il primo, contribuendo così a farlo entrare stabilmente nell'uso degli ziganologi e compi­ latori fino ai nostri giorni (è un termine che si ritrova spesso in compagnia con patrin) . Trai/ è ovviamente il termine inglese per "traccia", "orma", mentre il si­ gnificato di patteran ci viene dato in un'altra opera di Borrow, The Romany Rye, la cui prima edizione risale al 185 7. Riporto parte del brano che ci interessa perché è significativo per più di una ragione. Borrow sta conversando con Ursula, una giovane vedova del gruppo degli smiths, o petulengre, zingari dell'East Anglia:

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17 4

m o n do

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« [ . . . ] Sai che cosa s i gnifica patteran?»

«Naturalmente, Ursula; la traccia zingara, il ciuffo d'erba che gli zingari spargono per strada quando viaggiano, per informare i compagni che stanno dietro sulla strada che hanno preso. Il patteran zingaro ha sempre avuto per me uno strano

int e r e sse ,

Ursula» .

«Probabile, fratello; m a che cosa vuoi dire patteran?» «Insomma, la traccia zingara, fatta come t'ho appena detto>> . « E non sai nient'altro del patteran, fratello?» «Nient'altro, Ursula; e tu? » «Come si chiama la foglia di un albero, fratello?» «Non lo SO», dissi; «è abbastanza strano, perché l'ho chiesto a dozzine di romany chals [romaniéals] e romany chi [romaniéaj]8 e nessuno ha saputo dirmelo >> . «Non lo sanno più, fratello; c'è solo una persona in Inghilterra che l o sa, e quella so­ no io: il nome per foglia è patteran. Ora siamo in due a saperlo [ . . . ] . Me lo disse un gior­ no mia madre, Mrs. Herne [ . . . ] . Mi disse che la parola per foglia era patteran, che

i

no­

stri usano ora per traccia [trail] , avendo dimenticato il vero significato. Disse che la trac­ cia era chiamata patteran perché gli zingari di un tempo avevano l'abitudine di fare i se­ gni con foglie e rami d'albero, messi in una certa maniera. Mi disse che nessuno lo sa­ peva, eccetto lei, che era dei più anziani, e mi raccomandò di non rivelare la parola a nessuno, se non a colui che avrei sposato [ . . . ] . Così, quando mi sposai, parlai a mio ma­ rito del patteran e prendemmo l'abitudine di fare il nostro patteran privato, con foglie e rami d'albero, che nessun altro zingaro faceva» [Borrow 1907, pp . 73- 74] .

Per capire tutto il passo bisogna sapere che gli zingari inglesi parlavano già, nella prima metà del secolo scorso, una lingua molto creolizzata con l'inglese, quello che oggi è comunemente chiamato anglo-romanes. Il termine patteran in Borrow è solo al singolare e si configurerebbe come una variante del più co­ mune (in altri dialetti) patrin, o simili, che significa effettivamente "foglia" . Il plurale di patrin varia da un dialetto all'altro, dando patrinja, patrifia, patrja, pa­ tra eccetera e si avvicina a patteran. Il passo di Borrow evidenzia allora più cose: conferma l'uso riportato da Dekker di fare i segnali stradali con foglie e rami d'albero; da quest'uso il termine patteran, da un probabile significato originario di "foglie" (al plurale), si era specializzato nel significato di "traccia"; il modo di fare le tracce poteva variare da una famiglia all'altra. Ma era sempre usato il termine patteran? Un americano venuto in Europa a studiare gli zingari ce lo rivela. Charles Leland sta parlando con uno zingaro in17 5

segni

glese giusto dell'argomento e gli chiede: « Così, lo chiamate tutti

patteran?» ;

a

cui segue la risposta : «No, pochissimi di noi conoscono questa parola. Lo fac� ciamo e basta, senza chiamarlo in nessun modo» [Leland

1 8 73,

p.

24] .

Egli sco�

priva così che le pratiche segnaletiche erano di fatto delle pratiche anonime e che l 'uso del termine

patteran,

che comunque continuò a impiegare, sconfina�

va tra l'esotico e l'esoterico fra gli stessi utenti9 • Leland stava cercando di scoprire se i romaniéals usassero gli stessi segnali

dei sinti tedeschi. I primi che in Germania si erano occupati dell'argomento fu� rono due autori con interessi criminologici. Tra il 1 85 8 e il 1 8 62, Avé�Lallemant aveva pubblicato i quattro volumi sull' ambiente della malavita tedesca . Pur avendo dedicato un lungo capitolo agli zingari nel primo volume, e pur aven� do riservato ampie parti, specialmente del terzo volume, alle varie forme di

zinken, i

segni segreti dei malandrini, egli non dà alcuna informazione sui segni

zingari. Si limita soltanto a postulare - in modo errato - che lo stesso termine

zinken derivi da una radice zingara [1 862, III vol. ,

p. 62] , stabilendo così una sor­

ta di paternità zingara sui segni della malavita tedesca. Nei decenni seguenti l'o­

pera di Avé-Lallemant ebbe grande influsso sugli ziganologi, che cercarono fra i molti esempi di segni che egli riportava, origini o parentele zingare. L'influsso si esercitò subito su Richard Liebich, un magistrato amico dello stesso Avé�Lal� lemant, che nel 1 863 pubblicò un libro dedicato interamente agli zing�ri . Co­ me i delinquenti di Avé-Lallemant, dice Liebich, anche gli zingari hanno i loro segni segreti e indica tre tipi di segnali di viaggio [1 863, pp .

95-96] :

- un segnale di sosta: nel luogo dove uno zingaro ha passato la notte viene inciso, sulle p areti dell'abitazione o su un albero, un disegno a forma di arpa con al di sotto, se uno sa scrivere, il suo nome zingaro (un esempio che mostra come figura e scrittura non fossero autoescludentisi); - un segnale di passaggio: lungo la strada percorsa, gettato su un cespuglio o sui rami di un albero, si lascia un capo di vestiario o dei cenci a indicare che si

è

passati di lì, a conferma che quella

è

la strada giusta;

- segnali di direzione : per indicare la via da prendere in un incrocio, si pos­ sono adoperare tre tipi di segnale : ai bordi della strada si pianta un fuscello con almeno tre rametti : il ramo centrale, più lungo, indica la strada da prendere; ai bordi della strada da prendere si mettono tre pietre sovrapposte di misura de­ crescente; si disegnano per terra, o sulla neve, tre linee parallele intersecate da 176 u n

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una verticale (grosso modo a forma di quella che viene chiam ata croce papale o trip la ) : la linea di mezzo, più lunga, i ndica la direzione da prendere . Limitiamoci qui a notare un abbozzo di sistematicità nei s egn ali di direzio­ ne, che gli esempi di Borrow non co nos c evano : tre rami, tre pietre, tre linee1 0 • Come erano chiamati dai sinti tedeschi que sti s egnali? Liebich non lo dice nel testo, ma nel vocabolario con cui termina il libro troviamo che sikkerpaskero si­ gnifica mae stro " e " i n d icatore e, in p articol are, troméskero sikkerpaskero è reso da Liebich con "Wegweiser", ossia indicatore stradale [ 1 8 6 3 , pp . 1 5 9, 259] . Troméskero è un ge nitivo normale da tram (o drom), s tra da " mentre sikkerpa­ skero è un genitivo sostantivato dalla r adi c e sikker-, o siker-, " insegnare", " indi­ care " . È un termine che ritroveremo. Ritornando a Leland, egli mostrò allo zingaro inglese con cui stava parlan­ do d el patteran il s egnale us at o d agli zingari tedeschi, il disegno a forma di cro­ ce papale. L'informatore inglese si limitò a riferire che i suoi non lo faceva no co­ sì, ma che con la stessa funzione usavano disegnare una croce latina, il cui brac­ cio più lungo indicava da strada da p rendere [1 8 73, p. 25] . Egli con ferm ava quindi il s egnale riport ato da Borrow più di trent'anni prima. Con un pro c e dime nto che non costituisce un caso i solato , le informazioni di Liebich e di Leland saranno riportate in modo diverso dai compilatori posteriori. Così n�l 1 889 per Adriano Colocci, un autore che si imp egna spesso a frainten­ dere le sue fonti, il segnale di Liebich (la cui opera per a ltro dimostra di non co­ noscere, anche se citata in bibl iografia; d'altra parte, la stessa constatazione può essere e stesa a decin e di altri testi del suo apparato bibliografico) costituirebbe il patteran più antico in uso fra gli zi n gari in genere, quello di Leland il patteran più recente [19 7 1 , p. 1 82] . Questa lettura verrà ripresa pari pari da Lombroso [ 1 8 9 7, III vol., p. 44, dove patteran diventa patterau] , e da Menarini [195 7, p. 5] . Esiti di­ versi hanno an che le realizzazioni grafiche del s egna le di Li ebich , nonostante egli stesso ne fornisse un dis egno (vedi figura 1): Leland lo raffigura in verticale per mostrare che forse rappresentava il tridente di Shiva, la divinità indiana; Colocci ne acc en tu a la forma a tridente, forma che sarà ripre sa da Menarini; il disegno è ripres o anche dai criminologi i quali, meno coinvolti nell'ideologia in dianis ta de­ gli ziganologi, lo riportano con più fedeltà; è il caso dell'austriaco Hans Gross, nel suo manuale p er i giudici istruttori, da cui lo ripr enderà Mariani [1901] 1 1 • Nel pri­ mo volume del suo manuale, Gross dedica un intero capitolo agli zingari [1 899, "

"

"

177

segni

,

pp. 3 9 1 -422] , dimostrando una conoscenza bibliografica molto aggiornata spe­ cialmente per le opere in tedesco. Le notizie sui segnali zingari sono riportate però nel capitolo dedicato agli zinken (i segni segreti della malavita) e sono presi uni­ camente da Liebich, anche se la fonte non è citata [1 899, pp. 364-365] . Le infor­ mazioni di costui vengono riferite con qualche ricamo personale e accompagna­ te dalla ricostruzione grafica di alcuni dei segnali che ho descritto sopra (vedi fi­ gura 2) . Nessuna menzione viene fatta del codice di Wlislocki [189 1 -92, 1892], che ritrovo invece puntualmente descritto nella nona edizione tedesca del 1954 [pp. 48-5 1] . Tale codice, per la sua particolarità, verrà qui trattato più avanti in una sezione apposita. Passiamo ora ad alcuni dati raccolti nel nostro secolo. Fra i sinti dell'Italia centrale l'uso dei segnali stradali è attestato da Sigi­ smondo Caccini (per informazioni sul quale rimando a Piasere 1996b) . Il segnale, scrive l'autore, consiste in un ramoscello con foglie, che si pone a terra, col­ la parte recisa verso la parte percorsa e la cima verso la via percorrente o da percorrersi, con un sasso sul centro per fermare il ramoscello e contrassegnarlo. Talvolta basta un cencio co­ nosciuto e gettato sur una siepe a rappresentare il pattéran [Uifalussi Caccini 1 9 1 1, p. 1 0] .

L'uso del termine pattéran nel contesto dei sinti italiani sembra altamente problematico e abbiamo forse qui un ossequio alla trad izione borrowiana . In uno dei suoi dizionari, per il momento ancora inediti, l'autore precisa che patri

Liebich 1 86 3 ,

96

� u

Leland 1 873, 24

a

b Gross 1899, 365 Mariani 1 90 1 , tavola

Colocci 1971, 1 82 Menarini 1957, 5

[ 1 889 1 ]

figura 2. Realizzazione grafica dei segnali

figura l . Realizzazioni grafiche diverse del

descritti da Liebich a opera di Gross [1 899,

segnale di Liebich .

pp. 3 64-365] a) disegni a forme di arpa b) tre pietre sovrapposte .

u n

178 m o n d o

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(pl. patrià) si gni fi ca fogl i a e che pa trìn (pl. patrignà) s i gni fica «segnale, indicato­ re zingaro (è un ramo svelto da qualsiasi pianta, posto in te rra con sovra un sas ­ so nel mezzo - la punta indica la direzione) » . In ogni modo, ne l suo libretto del 1 9 1 1 Caccin i usa anche la forma pàtrfm, che fa derivar e da pàtria, plurale di pà­ trfn, " fog li a . E dagl i esempi che riporta sembrerebbe che pàtran esista davvero con un suo s i gni ficato specializzato: "

Dik thay dìké lpì pàtria.

Guarda se vedi le foglie (l'indicatore) . Non vedo nulla. Come non vedesi l'indicatore? Sì, sì, eccolo! Cos'è? Non è le foglie è il cen cio (straccio)

Na dihava [dikava?] ci. Sar si na dìkèlpì o pàtran? Oà, oa, oklo! So sl? Na si pàtrià si lumpnes [lumpe?] (lumpo)

Il pàtran o patrìn, quindi , sarebbe il s egnale che si fa con le foglie (pàtriél) o con uno straccio (lumpo) . Ma poco sotto, p �ima di spiega r e come i sinti usino gridarsi «cucù ! » per ch i amarsi se dis t anziati quando sono in m arcia , l'autore scri­ ve: «Ci è noto lo stratagemma escogitato per corrispondere facendo uso dei cucù e da tale stratagemma il p a tra n , segnale, indicatore» [19 1 1 , p. 10, corsivo mio] . In con clusione , la frase «Sar si na dìkelpì o p àtra n? » potrebbe esse re un'ortodos­ sia ziganologica al posto di «Sar si na dì kelp ì o patrìn (o cucu) ? Ma se non si vuo­ le accettare questa manipolazione su un testo di prima mano, e am m ettendo che il termine esistesse fra i sinti italiani di ottant anni fa, appare comu nque sign i ­ ficativo che oggi esso non sia più ricordato fra i sinti attuali del nord Italia, che per " segnale" hanno, a seconda d egli "etnoletti" patrin o patria o patri. Jan Yoors, un belga che negl i anni Trenta visse parte della sua gioventù no­ madizzando in Europa con una comu n ità di rom lovara, e al quale era stato con­ sigliato di non l egge re nulla di quanto scritto sugli zingari p rima di rendere pub­ bliche le sue osservazioni, a c c enna ai segnali stradali nel suo primo libro. Essi erano costituiti da stracci di colore vivo «attaccati ai rami degli alb e ri abbastan­ za in alto da non attirare l'attenzione del comune viaggiatore». In mancanza di alberi si facevano, di quando in qu an do lungo il cammino, dei mucchietti di stecchì, di p igne , di ossi di pollo o di cocci di stoviglie [1968, pp. 83-84] . A dif»

'

17 9

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ferenza di quanto avveniva nei casi visti finora, presso i lovara sembra fosse ob­ bligatorio per chi li incontrava, e non facoltativo, seguire i segnali: «è la regola fra i rom e la sua non osservanza costituisce un delitto, a meno che le circo­ stanze non impongano di prendere percorsi alternativi» [19 68, p. 1 08; un esem­ pio di attuazione della regola è riportato a p . 1 1 1] . Il segnale era chiamato vur­ ma, un termine che deriva dal romeno urme, "orma, traccia" [vedi Gj erdman e Ljungberg 1 9 63, p. 382] . Ritorniamo ora a Barthelemy che, come abbiamo visto, è uno degli autori che minimizzano al massimo l'importanza dei segnali zingari. Cappellano de­ gli zingari in Francia per decenni, egli è forse uno degli ultimi a portare degli esempi che ha visto di persona, e lo fa proprio in un capitolo del suo libro in cui intende smontare molti luoghi comuni della ziganologia. La descrizione che riporta pare riferirsi a dei manus della Francia:

ha individuato un paese in cui troverà del lavoro. Se qual­ cuno rimane i n di e tro e ritarda u n po' troppo e se M at cho arriva a un incrocio, bisogn a indicare la strada giusta, mette re i un segno. Matcho conosce la strada,

Segue la lista dei possibili segni da mettere all'inizio della strada da prende­ re : mucchi di foglie o, se non ci sono foglie, dell'erba, con una pietra sopra se c'è vento; oppure delle zolle d'erba ben zavorrate di terra; oppure un pezzo di stoffa, specialmente se quelli dietro lo possono riconoscere; oppure un mucchio di fondi di caffé; oppure un calzino vecchio, oppure delle scorze di vimini, un materiale ancora lavorato da diverse famiglie manus [1 982, pp. 38-39] . Segue un aneddoto, di cui forse solo chi ha vissuto fra gli zingari può raffigurarsi la scena e la relativa sequela di scherzosi, interminabili commenti:

[Matcho] trovava quelli che li seguivano più ingombranti che uti li li ha m e ssi su una falsa pista. Messi su una strada sbagliata e non trovan d o più indicazio­ ni, qu e sti sono andati avanti a caso e per caso h a nn o ritrovato il traditore, che ha do­ vuto pagare da b e r e [1 982, p. 39] . ,

Un giorno che

Dopo aver spiegato che patrin non significa affatto segno segreto, come di­ cono i libri, ma solo foglia («Si tratta di foglie, semplici foglie d'albero, al limi-

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te fogli di carta e, scherzando, b anconote » ) Barthelemy non dice c o m e il suo amico manus c hiamasse qu ei segni e quelle in dic a zio n i Fra i m anus del Massiccio centrale, comunque, cajxo significa segno" e al p lur al e , cajxi, " segni sulla strada" . Nel suo dizionario Val et rip ort a la seguente frase: «kredum cajxi ap O drom, i buco graza un zanta pre» «hO fatto dei segni sul­ la strada: un ciuffo d' erba con sopra de l la sabbia» [1 986, p. 1 7] . L'uso dei cajxi fra questi manus, dice Williams, era p r atica corrente all' epoca delle roulotte ti­ rate da cavalli [1 997, p . 25] . Come segn i costui cita: un ciuffo d' erba con sassi sopra, un mucc hio di terra o di sabbia, un p ezzo di stoffa attaccato a un ramo basso, un p a c ch e tto di G au loi s e s vuoto e app all otto l a to sul mucchio di sabbia dei lavori stradali. Il signi fic ato dei segni era uno solo: « Siamo p assati da qui » . Valet fa giu s t a m ente derivare cajxo dal tedesco Zeichen, " segno " . E venia mo a i roma sloveno-croati dell'Italia settentrionale, dove i se gnali sembra fossero un po' più articolati . ,

.

11

«

»

v ogl ia m o indicare il ca mmi n o - diceva un compianto rom harvato lasciamo lungo la strada rami di circa c inqua n ta centimetri di lun gh ez za , con le foglie, puntati nella direzione del cammino oppure buttiamo ciuffi d' erba ai crocicchi al prin­ Qu ando noi

cipio della strada da prendere [ . . . ] . S ass o l i n i è m egl i o non ad o pe rarli perché vengono spostati; l'erba è quello che c'è di meglio, perché se anche è sparsa è sempre sparsa in lunghezza [Levakovich e Ausenda 1 9 7 5 , p . 1 29] . ,

distinguon o due situ azi on i : in una situazione n o r m a l e di tra nqu illit à, i segni p otevano essere costituiti o da nastri legati ai rami o da tre ciuffi d'erba con un sas s o sopra sul primo ciuffo; in una situazione di peri­ colo, quando l u rgenza della fuga consigl iava di non p e r dere neanche un mi­ nuto, si spargeva dell'erba (o lo stesso fieno che si aveva sul carro per i cavalli) in mezzo alla strada e non ai l ati , in modo che i l s e gnal e non venisse confuso con il fieno caduto accidentalmente dai carri dei contadini . I roma pr evedeva ­ no anche dei s egnali di a vve rtimento non strettamente rivolti a chi s eguiva una carovana. Per segnalare ad altri roma eventualmente presenti in zona che biso­ gnava evitare una località, si m ettevan o in mezzo alla strada delle lunghe foglie di canna annodate al centro : la direzione c o n s iglia ta era quella indicata dalle punte delle fogl ie e il nodo significava «attenzione: pe ric o li in vista per i roma» Altre testimonianze

'

181

segni

[Piasere 1 98Sa, pp. 1 62- 1 63] . Ricordo d1aver sentito parlare di questo in alme­ no due occasioni, in entrambe le quali degli anziani portavano l'esempio del­ l'uso di questo tipo di segnali per dimostrare ai giovani che li ascoltavano co­ me un tempo i roma fossero più uniti e solidali di oggi. In un'atmosfera da "ri­ cordo dei bei tempi passati" e in una conversazione prettamente rom - rom, nessun termine particolare veniva usato per i segnali, se non trago, "segno" : po drom tragi roma avne, «i roma mettevano i segni per strada», tragi roma kerne, «fa­ cevano i segni» . Trago sembrerebbe derivare dal serbo-croato trag, 11 segno" . Oltre a questi, erano in uso presso i roma anche altri segnali di evitazione. Un primo tipo, rivolto ancora a evitare i gage e attestato sempre in Italia, era espres­ so da un ramo piantato per terra con un nastro rosso annodato e significava: è meglio non accamparsi in questo posto [Levakovich e Ausenda 1 9 75 , p. 1 29] . An­ che qui compare il nodo come segno di pericolo . Un secondo segnale era rivol­ to a evitare i roma morti e il suo uso è testimoniato per i roma della Dolenjska, in Slovenia meridionale: per indicare che in un dato luogo è morto un rom e che quindi è un luogo da evitare, un luogo in cui non ci si deve accampare, i roma vi tracciavano per terra un disegno a forma di croce di saneAndrea. Pavla S trukelj , [1980, pp. 2 1 1 -2 1 3] , da cui prendo quest informazione, riporta anche la foto­ grafia di un tale segnale. Quest'uso è oggi sconosciuto ai roma che io conosco. È utile a questo punto riassumere le caratteristiche dei segnali che abbiamo descritto. Per prima cosa, appare insostenibile l'opinione che tali segnali siano , un invenzione o frutto di fantasia: le testimonianze sono tante (e non sono sta­ te tutte citate), scaglionate nel tempo, provenienti da più gruppi zingari e for­ nite da autori degni di credibilità, autori che, in più di un caso hanno trascor­ so anni fra gli zingari. D'altro canto, sia chi amplifica l'importanza dei segni 11 Se­ greti", sia chi la minimizza, può trovare fra i dati presentati argomentazioni fa­ vorevoli al proprio punto di vista. Dalla parte dei primi sta lo stesso fatto che questi segnali sono (o sono stati) adoperati per secoli, che il loro uso sembra una , costante dei gruppi nomadi. Dalla parte dei secondi sta l apparente povertà dei segnali, che sembra esprimersi a più livelli. l . Terminologia. Solo in un caso molto dubbio sembra che essi fossero desi­

gnati da un termine ad hoc (cucu); in qualche altro caso, non sempre chiaro, il ter­ mine (al singolare) sembra una specializzazione da un plurale (patteran, patran);

u n

182

m o n d o

d i

mo n d i

in qualche caso, già più certo, il segnale è chiamato "foglie" (patria e simili); in tutti gli altri casi si tratta di termini non specializzati che significano in generale, appunto, segno, segnale, traccia: trail, sik(k)erpaskero, vurma, cajxo, trago. Di que­ sti termini solo uno, il secondo, è formato su una radice di origine neo-indiana. 2. Messaggi. Il più delle volte alla varietà della forma è associato un unico con­ tenuto, che può essere tradotto con «sono passato da qui: se vuoi, seguimi»; in un caso (sinti tedeschi dell'Ottocento) è attestato il messaggio «ho dormito qui, mi so­ no fermato qui». Solo fra i roma sloveno-croati pare che i messaggi veicolabili fos­ sero più numerosi: «Sono passato da qui: se vuoi, seguimi» (tranquillità); «Sono pas­ sato da qui: presto, seguimi» (urgenza); «ti consiglio di lasciare la zona: prendi que­ sta direzione»; «ti consiglio di non accamparti qui: problemi con i gage»; «ti con­ siglio di non accamparti qui per rispetto verso dei morti roma». D'altra parte, è cer­ to che una singola comunità di roma non usasse tutti insieme questi messaggi. 3 . Materiali. Pochissimi sono i casi in cui questi segnali erano costituiti da se­ gni grafici (per esempio, le varie forme di croce), anche se, come abbiamo visto, sono quelli che hanno maggiormente attirato l'attenzione e le manipolazioni. Notiamo in ogni caso che tali segni, fatti sulla polvere di una strada bianca o sulla neve, erano alquanto effimeri e destinati a scomparire nel giro di poco tempo (quasi come l'alfabeto nelle foglie di cavolo) . Gli altri tipi di segnali pos­ sono essere così suddivisi: a) materiale trovato. in loco, variabile a seconda del­ le condizioni geografiche: sassi, erba, bastoni, rametti, stecchì, foglie, pigne; b) rifiuti: panni smessi, stracci, ossi di pollo, cocci di stoviglie, fondi di caffé, scor­ ze di vimini, pacchetto vuoto di sigarette. 4. Disposizione. A parte i rami singoli (che potevano essere adagiati o pian­ tati per terra) e gli stracci (che venivano legati alle siepi o ai rami degli alberi o semplicemente gettati sopra), i restanti materiali venivano per lo più ordinati in una serie di mucchi o in un unico mucchio (erba, foglie, stecchì, pigne, ri­ fiuti vari eccetera) . Solo in qualche caso il materiale era sparso (erba) . Insomma, da un certo punto di vista, potrebbe sembrare il codice meno ela­ borato, meno elegante, meno nobile, più sgangherato e più misero che si pos­ sa trovare: un codice praticamente senza nome (le foglie, i segni), con un nu­ mero minimo di messaggi veicolati, quando non ne veicola che uno solo , co­ struito con materiale povero se non infimo (rifiuti) e che abbisogna di un lavo­ ro minimo (fare un mucchio, staccare un ramo, annodare un cencio . . . ) . Ebbe-

segni

ne, questo codice è in realtà una costruzione altamente elaborata, perché, come ha sottolineato Williams, quello che si chiede a questi segni ciò che esserci

è prima di tutt o di non sembrare se gni [ .. ] . .

d eve sembrare non averne Segni visti soltanto segni [ 1 9 9 7, p. 25] . .

Chi sa leggerli dà un senso a

da quelli che sanno che

devono

Avremo modo di ritornare su questo punto dopo averlo considerato in un con­ tinuum più ampio, in un continuum che arrivi a prevedere anche quei s egni il cui statuto di segni appare chiaro anche a chi non ne possieda la chiave di decodifica. Le summae ziganologiche scritte a partire dagli anni Trenta del nostro seco­ lo raramente riportano i codici "poveri" che abbiamo descritto finora. Quello che riportano è un codice, o frammenti dello stesso, molto più ricco riguardo soprattutto al numero dei messaggi trasmessi. L'analisi dei testi che lo riporta­ no dimostra che non si tratta di un codice universalmente seguito dagli zinga­ ri, come gli autori lasciano intendere, ma di un codice descritto alla fine del­ l'Ottocento da Wlislocki, che una catena ripetitiva di citazioni, a volte corrette altre fraudolente, ha divulgato in modo abnorme. Wlislocki descrive i segnali zingari in due lavori: in un articolo apparso nella rivista Ethnologische Mitteilungen aus Ungarn [189 1 -92] e nel quinto capitolo («Wanderzeichen, Signale und Zeichensprache») del suo ultimo libro sugli zin­ gari [1892] . Il capitolo del libro è un ampliamento per quanto riguarda l 'uso di certi segnali orali (fischi, versi di animali eccetera) e gestuali, trattandosi per il re­ sto di una semplice dedizione del primo con sparute aggiunte. Secondo l'auto­ re, i suoi dati sarebbero validi per gli zingari nomadi ungheresi, transilvani, po­ lacchi, serbi, romeni e turchi. Non si capisce su quali elementi basi la sua affer­ mazione, dal momento che le sue ricerche dirette sembrano riguardare solo i cor­ torari transilvani. Come abbiamo già visto, degli elementi fanno pensare che Wli­ slocki si fosse imbattuto in un gruppo che praticava un nomadismo internazio­ nale e che si era spostato più o meno recentemente in Transilvania da regioni sla­ vofone, e penso alla Serbia. I segnali stradali, egli dice, sono chiamati sikerpaskero dagli zingari tedeschi, sikajimako da quelli ungheresi, transilvani e romeni, e çilderpen [leggi: xilderpen]

un

18 4 m o n d o

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da quelli serbi e turchi. Il primo termine lo conosciamo già ed è quello di Lie­ bich, dal quale forse Wlislocki lo copia. Il secondo deriva dalla stessa radice ver­ bale, con un a realizzazione tipica nei dialetti "vlax" in sik(h)av- o sikhad- . En­ trambi significano comunque "indicatore, segnale" . L'etimologia del terzo ter­ mine, che non appare nel dizionario del 1 884, mi è oscura. Egli lo traduce con "Erwartung" (attesa), ma nei dialetti del romanes "attendere" ha tutt'altra radi­ ce . Né mi sembra che si tratti di un prestito da una lingua della regione. Per cer­ te caratteristiche di questi segnali, mi viene da avvicinare xilderpen alla radice xl- o x in- "defecare" , da cui il participio xindo "defecato" (che a volte può signi­ ficare semplicemente "merda") e il sostantivo xlijpe "merda, cacata" . Lasciando ai linguisti il compito di appurarne con sicurezza l'etimo, vedremo comunque subito che in questi segnali lo sterco aveva un suo ruolo. Pare che ogni "nazione", quale l'abbiamo descritta nel precedente capitolo, avesse i propri segnali stradali che non potevano essere confusi con quelli degli al­ tri (ma Wlislocki non porta alcun esempio in proposito) . Si trattava di segnali co­ munitari e non individuali; infatti costituiva grande vanto poter possedere un se­ gnale personale. I segnali personali erano appannaggio del voivoda, dei capi dei gruppi locali e dei membri che di solito precedevano in avanscoperta l'" amicizia" a cui appartenevano. Oltre a questi, il vo ivoda poteva conferire segnali individuali a membri ritenuti meritevoli. E Wlislocki riporta la testimonianza di un rom serbo che si lamentava della proliferazione che a quel tempo conoscevano tali segnali: Un tempo era diverso [

biamo

così tanta gente

. . .

nella

]

perché c' erano solo pochi

segnali particolari [

. . .

] . Ora ab­

tribù che possiede contrassegni, che presto dovremo tene­

re un prete che ci tenga nota di tu tt i

questi

segnali [ 1 89 1 -92, p.

1 35;

1 892,

p. 1 02] .

Eccetto quando riporta l'esempio del segnale di un voivoda, Wlislocki non di­ ce mai in che cosa consistessero i contrassegni individuali. Un segnale stradale poteva quindi essere un insieme composto da: il segnale di viaggio in sé, il con­ trassegno della "nazione", il contrassegno del capo (voivoda o sajbidjo) o quello della persona in avanscoperta. Il tutto poteva arricchirsi a seconda dei messaggi supplementari da dare. I segnali erano adoperati solo nel periodo della bella sta­ gione, quando le "nazioni" si disperdevano divise per "amicizie", e non nel pe­ riodo invernale, quando si riunivano nella stessa località o in località contigue. 18 5 segni

Quando venivano usati, i segnali venivano posti agli incroci, ai lati della strada, per terra o attaccati in alto (come facevano i lovara che, guarda caso, provengo­ no all'incirca dalle stesse regioni) . I segnali di viaggio in sé erano simili, se non uguali, ad altri che abbiamo già incontrato: un rametto a tre punte, intagli su un albero fatti dalla parte della direzione da prendere, lo straccio attaccato al ramo, pietre ammucchiate avvolte con fili di paglia, tre pietre sovrapposte con sassoli­ ni sulla cima. Abbiamo visto che in altri gruppi si evitavano i segnali con i sassi perché facilmente distruttibili da profani; da parte sua, Wlislocki sottolinea che vicino a questo tipo di segnale, per proteggerlo, si metteva espressamente dello sterco. Di tutti questi segnali, a ogni modo, era quello dello straccio il più impie­ gato, ed era a partire da esso che si formavano i messaggi più complessi (non è un caso, dice l'autore, che gli zingari tengano tutti gli stracci possibili). Cerco qui di seguito di ordinare i tipi di messaggi che Wlislocki elenca in modo sparso. Quando e dove incontrarsi. Natale, Pasqua, Pentecoste e il giorno di san Mi­ chele suddividevano l'anno dei cortorari in quattro parti, ognuna delle quali era poi suddivisa contando le domeniche, e tra una domenica e l'altra si computa­ vano i giorni. Un rom, per indicare che sarebbe stato presente in una certa da­ ta, indicava la data stessa mediante dei punti cuciti nel suo straccio-segnale: i punti cuciti in lunghezza indicavano le domeniche, quelli posti trasversalmen­ te i giorni. Le quattro festività di base non erano segnate poiché si contavano le domeniche a partire dall'ultima festa trascorsa. Un esempio dallo stesso Wli­ slocki: il mercoledì dopo la quinta domenica dopo Pentecoste (e Pentecoste è già passata) era indicato con cinque punti orizzontali (le cinque domeniche) e tre di traverso (i tre giorni della settimana contando dal lunedì) .Il luogo dell'in­ contro era indicato, invece, mediante dei buchi fatti sullo straccio-segnale. Un foro quadrato significava "città" e uno tondo "villaggio" . Se, quindi, il segnale aveva nell'ordine tre buchi rotondi, uno quadrato e ancora due rotondi, signifi­ cava che, per raggiungere il luogo fissato per appuntamento, si dovevano attra­ versare, a partire da dove era deposto il segnale e nella direzione da esso indica­ ta, tre villaggi, una città e due villaggi. L'ultimo foro indicava la località dell'ap­ puntamento; naturalmente, mano a mano che ci si avvicinava alla meta, il nu­ mero dei buchi nei segnali diminuiva. Se, poi, la richiesta di incontro era mol­ to urgente, il segnale doveva essere costituito da un pezzo di pelliccia o di cuoio.

u n

186 m o n d o

d i

m o n d i

Notizie generali. Uno straccio-segnale unto con sterco umano indicava un successo in un'impresa di cui tutto il gruppo avrebbe usufruito. Un segnale un­ to parzialmente con sterco bovino significava che alcuni membri erano stati presi dalle autorità; se era totalmente unto con lo stesso tipo di sterco, signifi­ cava che qualcuno era ricercato per furto o simili, e che quindi si doveva stare in guardia. La previsione di un grosso affare era indicata mediante un ciuffo di setole di maiale attaccato allo straccio. Un ciuffo di peli di cane consigliava, in­ vece, di cambiare rapidamente direzione. Le notizie potevano anche essere mi­ rate: Wlislocki dice che ogni "cuginanza" era contraddistinta da un numero, per cui, se si voleva mettere in guardia solo la "terza cuginanza", per esempio, nei peli di cane venivano avvolti tre coleotteri morti. Malattie. Un rametto di lillà12 attaccato allo straccio informava che un mem­ bro del gruppo era ammalato. Più gemme o foglioline aveva il ramo, più grave era la malattia. Se il rametto era mezzo bruciacchiato, significava che qualcuno era morto. Più rametti di lillà non bruciacchiati e legati assieme con paglia indi­ cavano che qualcuno si era rotto un braccio; se non erano legati assieme, allora c'era di mezzo la frattura di una gamba. Come indicare chi è il malato? Qui Wli­ slocki abbozza un codice per indicare i legami di parentela che poi non porta a termine. Se il malato aveva il suo proprio segnale, si metteva quello; se non ce l'a­ veva, si metteva quello del parente più stretto, ripetuto tante volte quanti erano i gradi di parentela. L'autore fa solo l'esempio del figlio (due segnali accostati), del nipote, del nonno (tre segnali accostati) e della moglie (due segnali sovrapposti) . Vita di gruppo. Un ramo di betulla significava che un membro era stato por­ tato via dalle autorità; un ramo di salice informava di una nascita: avvolto in fi­ lo rosso se maschio, bianco se femmina. Un rametto di abete informava di un fidanzamento, uno di quercia dell'imminente rientro di un membro nel grup­ po che riceveva l'informazione. Animali. Frammenti di vetro posti vicini al segnale indicavano la perdita di un animale; se i frammenti erano molto piccoli, significava Che l' animale era morto, se grossi che era stato rubato o smarrito. Se i frammenti erano puliti, si trattava di un cavallo, se unti con sterco di vacca, allora era un maiale.

segn i

Come si vede, questo codice si basa sempre su dei materiali poveri ma, a dif­ ferenza dei precedenti, è in grado di veicolare un numero molto maggiore di messaggi. Notiamo qui un primo passaggio da un codice che non deve sembra­ re tale a un occhio profano, a uno che può essere percepito come tale. Dal mo­ mento che si tratta di un codice cumulativo, in cui cioè il numero dei messag­ gi è proporzionale al numero degli oggetti aggiunti allo straccio-segnale, l'in­ sieme di tali oggetti può diventare più facilmente percepibile, appunto, in quan­ to codice. Tant' è vero che lo sterco, oltre che essere esso stesso un elemento del sistema segnico, aveva la funzione di tener lontani eventuali, coscienti o inco­ scienti, profanatori. La cumulazione non porta, comunque, a una combinato­ ria. Gli elementi del codice, cioè, non cambiano di significato (e quindi non vei­ colano messaggi diversi) a seconda della loro associazione con elementi diver­ si. Per esempio, dei cocci di vetro significano sempre "perdita di un animale" , sia che si trovino assieme a un ramo di salice (''nuova nascita") o a uno di abe­ te ("fidanzamento"). Solo la distinzione moglie/figlio introduce un elemento combinatorio, dal momento che la prima è denotata da due stracci sovrapposti e il secondo dagli stessi stracci ma allora accostati. Prima di affrontare il problema della credibilità dell'esistenza di questo co­ dice, dobbiamo passare alla descrizione di un altro che, pur essendo sempre di tipo cumulativo, si presenta subito, anche per un profano, come un insieme di segni: i famosi graffiti degli zingari . I graffiti degli zingari, i segni "segreti" per antonomasia, sono famosi grazie soprattutto alla divulgazione fattane da Clébert [1 9 6 1 , pp . 255-256] , il cui libro è stato tradotto in diverse lingue (inglese, tedesco, spagnolo, olandese . . . ) ed è sta­ to riedito in francese nel 1 9 76. Ora, checché ne lasci intendere l'autore, niente del suo libro sembra essere frutto di ricerche di prima mano, ma sembra piutto­ sto essere stato compilato in base ai volumi reperibili in un preciso schedario del­ la Bibliothèque Nationale di Parigi. Lo sottolineo perché, circa l'argomento spe­ cifico dei graffiti zingari, niente sembra essere più indispensabile che un'attenta esegesi delle fonti. Clébert, dopo aver detto d'aver preso l'impegno di non sve­ lare i segni segreti ma, per darne un esempio, riproduce quelli pubblicati da Fèb­ vre (che egli scrive Fèvre), di cui indica in modo lacunoso l'opera. Si tratta di un libro divulgativo in cui l'autore narra aneddoti di vita zingara a cui dice d'aver

u n

t88

m ond o d i m o n d i

partecipato. Nel capitolo in cui compaiono i segni grafici [195 5 , p. 120] , Fèbvre sta raccontando la partenza di un gruppo di manus da un villaggio del Portogal­ lo e di come alcuni di essi fossero impegnati da più di mezz'ora a preparare i se­ gnali per quelli che in futuro si sarebbero accampati nello stesso posto . . . Il passo sembra inventato di sana pianta. Che negli anni Cinquanta ci fossero delle fa­ miglie manus che nomadizzavano tra la Francia meridionale, la Spagna e il Por­ togallo settentrionale, è un fatto attestabile e non pone problemi. Ma che questi manus chiamassero i segnali trail, come dice Fèbvre [1955, p. 1 1 7] , è tutto da pro­ vare, a meno che essi non avessero seguito delle lezioni di inglese . . . Cosa anco­ ra più importante, tutto il passo in cui l'autore descrive le caratteristiche dei se­ gnali è chiaramente copiato dal libro di Martin Block [1936, pp. 193-1 98] . Uscito in Germania e subito tradotto in francese, il libro di Block è stato il grande tramite tra la ziganologia tedesca e quella transalpina. È grazie alla ver­ sione francese, edita da una casa editrice di prestigio, che molte notizie, che egli prendeva dagli autori tedescofoni del secolo scorso, sono passate a riempire le pagine dei volgarizzatori francesi, e non solo francesi. Diversamente che nella sua tesi di dottorato del 1 923 dedicata alla cultura materiale dei rom romeni e solo da poco pubblicata [vedi Block 1 9 9 1 ] , nel suo libro di divulgazione si tro­ va poco di originale e la parte sui segnali itinerari [1936, pp. 1 9 3 - 1 9 8] presenta poco più di quanto non avesse già detto Wlislocki. E siamo tornati all'autore che abbiamo appena lasciato! Sottolineo, quindi, che i famosi segni segreti de­ gli zingari, riportati in tante opere (i romanzieri in particolare se ne sono ab­ buffati) derivano dalla catena ripetitiva Wlislocki-Block-Fèbvre-Clébert: l'ulti­ mo è stato il grande divulgatore, il primo, l'unico che li abbia raccolti di prima mano. In questa ricostruzione c'è una smagliatura che dovremo affrontare. I segni grafici che nella letteratura vengono fatti passare per un sistema usa­ to dagli zingari nelle circostanze più svariate, sono descritti da Wlislocki come dei segni prettamente femminili. Egli ne parla negli stessi lavori in cui riferiva dei segnali stradali [ 1 89 1 -92, pp. 1 38- 139; 1 892, p. 1 08] e li descrive essenzial­ mente come una furbizia delle cartomanti. Per evitare che due zingare propo­ nessero alla stessa persona letture troppo diverse delle carte, si facevano con il carbone dei segni su una parete della casa o nella recinzione; in questo modo le cartomanti potevano dare informazioni grosso modo concordi, dimostrando quindi di saper davvero indovinare. Wlislocki non dà la ricostruzione grafica dei

segni

segni, limitandosi a de s crive rl i . Questa descrizione sarà r i p r esa in parte da Block

e costituirà p oi la base su cui Fèbvre costruirà i suoi segni. Ma e s iste una prece­ dente realizzazione gr afi ca del codi ce di Wlislocki e d è quella p rop os t a, questa volta in m o d o del tutto c o r r ett o, da Payne [1935, p. 1 73] . Nella fi gur a 3 le pri­ me due colonne mostrano tali se gni quali son o stati ricostruiti rispettivamente da Payne (e d a Hirst, il d is e gn ato r e che li h a materialmente fatti) e d a Fèbvre . Di primo acchito, sembrerebbe trattarsi di due codici diversi, pur n e lla loro somi­ glianza; in r ealt à la diversità sembra derivare da una lettura diversa delle parole di Wli s loc ki . Così, il s egn o grafico n. l (la numerazione è mia), de scritto da Wli ­ slocki come u na croce» («ein Kreuz»), è stato dis e gnato da P ayne come una cro­ ce di sant'Andrea e da Fèbvre come un a croce greca; il n. 2, «Una do p pi a croce» («ein Doppelkreuz»), è stato r eali zzato nei due modi indicati nella figura; il n. 5, «due linee longitudinali e di sopra du e trasversali», può be ni s sim o essere inteso come l'hanno dis egnat o i due autori ( n ell ' artico l o del 1 89 1 -92, il «di sopra» dari.iber - è assente: « ZWe i Ui.n gs t ri c h e und zwei Qu e rstri c h e ) ; nel n. 6, c om e «

»

pure nel 1 7, la diversità sembrerebbe derivare da una confusione tra "croci"

(Kreuze) e 11 Cerchi" (Kr e is e) (n. 5 : «zwei Kre u ze und zwei Striche unter dieselben»;

n. 1 7: «ZWei Kreuze und dazwischen eine sclangenformige Linie»); la descrizio­

ne del n. 7 suona semplicemente: «più l i ne e v er ti ca l i»; il n. 9 è r iportato solo d a P ayne ; anche il n. 1 1 p u ò derivare dalla stessa descrizione: «ZWei vertikale Linien

mit einer sclanenformigen verbunden»; il n. 1 3 è la diversa realizzazione di »

«ZWei Kr e i s e («due cerchi» : Wlislocki non dice se i due cerchi erano accostati o c onc entri ci) . Il n . 1 4 è riportata solo da F èbvr e ma W li slo cki lo descrive e anche Payne lo cita senza disegnarlo; anche il n. 1 9 sembr erebb e derivare da una di­ versa lettura di Wlislo cki , che da parte sua è m olt o chiaro: «eine vertikale Linie, darunter eine horiz ontal e Linie und unter dieser ein Kreuz»; solo per il n. 1 8 r e ­ sta q ua l ch e dubb io , poiché p r e n d ere una croce per una linea sembra proprio un'acrobazia: «ZWei sclangenformige Lin ie n un dazwischen ei n Kr euz . ,

»

Mi sentirei molto sicuro di questa ricostruzione, che rimanderebbe l'uso di

qu es ti

s e gn i grafici ai soli zi ngar i di Wlislocki, se non vi fosse la smagliatura a

cui a cce n navo . Essa è co s ti tui ta da i dati offerti da Aparna Rao in un articolo sui sinti dell'Alsazia, stori c a m e nte c oll e gati con i manus del Massiccio centrale d e ­ scritti da Williams e con al t ri manus di o r igin e ge rm ani ca presenti in Francia. Nel testo l'autrice accenna ai segnali stradali - o patrin, usato semp re al singo190

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Significato

Wlisl ocki Payne

Fèbvre

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8) W: qui si può guadagnare denaro

con le carte e cose del genere; F e R:

10) W: la padron a vorrebbe dei bam-

bini; F e R: la padrona desidera un bambino.

1 1 ) W: la padrona





18





15

17

cosa; F e R: abbiamo già rubato.

9) W: fate un danno! (keren paguba!) .



13

3) W: regalo; F : la gente è generosa . 4) W: ge nte molto buona; F e R: la gente è bu o n a e molto generosa. 5 ) W: qui abita un g i udice o un'auto ri tà ; F e R: casa del sindaco. 6) W: qui gli zingari sono accusati di un fu rto ; F e R: gli zingari sono consi dera ti ladri. 7) W: qui abbiamo trovato (kathe hadsiljam), cioè qui abbiamo rubato qual-

si possono leggere le carte .

lO

12

l ) W: qui non c'è niente da prendequi non danno niente. 2) W: i n fa m ia (djungiben), ossia trattamento d i su m a no ; F e R: i mendire; F :

111 1 1

7

[W = Wlislocki e Payne; F = Fèb= Rao] :

vre; R

.

non

v o rrebbe più

avere bambini; F: la padrona non desidera più bambini.

1 2) W: qui è mo rta una vecchia; F e R: è morta una vecchia . 13) W: qui è m orto un vecc h i o ; F e R: è morto un vecchio. 14) F e R: liti gio per un'eredità . 1 5 ) W: morte del padrone di casa; F: il padrone è appena m orto . 1 6) W: morte della padrona di casa; F : la padro na è morta.

1 7) W: tradimento da parte della mo-

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....l..

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glie; F: la padrona è scostumata.

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figura 3 . I segni grafici.

19 1

segni

1 8) W:

tradimento da parte del mari-

to; F e R : al padrone p i a cc i on o le donn e

.

1 9) W: progetto di matrimonio; F e R: un matrimonio è nell' aria .

lare [ 1 9 76, p . 1 98] - che sarebbero usati solo in campagna e che non sembrano diversi da altri che abbiamo visto: «Ciuffi d'erba o di paglia posti negli incroci, sassi sovrapposti ai lati della strada, rami d'albero spezzati pezzi di stoffa attac­ cati a un albero o a un palo» [ 1 9 76, p. 1 92] . Alla fine dell'articolo, nel modo criptico consueto al quale neppure lei sfugge, allega una tavola sul «Codice se­ greto della chine» [ 1 9 7 6, p. 20 1], in cui precisa solo che «questi segni sono ap­ posti sulle case che ci si propone di sondare per la chine» , ossia per quell'insie­ me di strategie di sollecitazione economica di porta in porta che possono com­ prendere vendita al minuto di piccola merceria, d ivinazione, mendicità eccete­ ra . Dal momento che la chine è u n occupazione delle donne, si tratterebbe an­ che qui di un codice femminile. Il codice è riportato nella terza colonna della figura 3 . Come si vede, benché i simboli siano inferiori di numero, essi corri­ spondono perfettamente a quelli di Fèbvre (più che a quelli di Clébert, perché questi aveva omesso di copiare il n. 5) . E corrispondono troppo perfettamente: nella forma, nel significato (Rao li traduce praticamente con le stesse parole) e perfino nell'ordine in cui sono elencati. Espressamente interpellata, l'autrice mi ha assicurato che i simboli le vennero riferiti da un'anziana sinta oggi defunta, e che l'elicitazione del codice avvenne senza alcuna sollecitazione da parte sua e senza alcun confronto su pubblicazioni anteriori. Non ha potuto assicurarmi, però, che altri prima di lei non ave ssero mostrato alla donna lo stesso codice già pubblicato e che la donna poi le avesse riferito i simboli che si ricordava. Il che non sarebbe tanto strano, dal momento che ricercatori assistenti sociali e pre­ ti erano di casa fra la comunità d indagine quella dei s inti del Polygone di Stra­ sburgo. La stessa Rao, comunque, mi ha ri ferito che l'esistenza del codice le fu in seguito confermata da un sacerdote (padre Freund) che frequ e ntava da anni i sinti della zona Le possibilità, in conclusione, sono due: o l'anziana sinta ha riferito un codice non in uso e che aveva visto in qualche libro dei non zinga­ ri, o Fèbvre ha mescolato dei simboli che ha realmente raccolto, con altri tratti da Wlislocki via Block. In quest'ultimo caso significherebbe che alcuni gruppi di sinti-manus di proven i en za g e r m anica userebbero (o avrebbero usato) un co­ dice molto simile a quello dei cortorari di Wlislocki13. Una matassa difficile da sbrogliare: d'altronde, sono o non sono segni segreti. . . ? Se i dati di Wlislocki restano per il momento gli unici 11Sicuri" , resta da af­ frontare il problema della loro attendibilità. Wlisloc ki per la sua opera com,

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192

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plessiva, riceve, come abbiamo detto, apprezzamenti antitetici da parte di alcu­ ni autori: chi lo considera il più grande ziganologo di tutti i tempi, chi tende a considerarlo né più né meno che un falsario. Anch'io per diverso tempo n1i so­ no posto il problema della veridicità dei suoi resoconti, tendendo nettamente allo scetticismo . Ma oggi credo che sbagliavo. Oggi mi limito a rimproverare a Wlislocki il fatto che non abbia mai ben specificato il suo metodo di lavoro, le sue fonti individuali (l'ha fatto di rado), di aver spesso generalizzato a tutti gli zingari nomadi dei Balcani ciò che osservava o che gli veniva detto presso un gruppo o dei gruppi particolari, di aver voluto, infine, sistematizzare troppo i suoi materiali senza distiguere il detto dal fatto. Ma al di là di questo, che non è poco, si può veramèhte pensare che avrebbe potuto inventarsi le informazioni contenute in tutti i suoi libri? La critica più seria potrebbe essere che tante sue informazioni non sono state in seguito confermate. Ma è una critica insuffi­ ciente: quanti sono i ricercatori che hanno studiato lo stesso o gli stessi gruppi nomadi con cui visse Wlislocki? A mia conoscenza nessuno. E, come oggi sap­ piamo, la verifica deve essere fatta sempre sullo stesso gruppo, non a partire da altri gruppi. D'altra parte, la conferma della validità dei suoi dati, per lo meno di molti, può avvenire indirettamente: per esempio, il pantheon zingaro che egli descrive in un suo libro corrisponde molto al pantheon dei contadini della re­ gione quale ci viene descritto dagli etnologi romeni di oggi. E non è una carat­ teristica delle popolazioni zingare costruire la propria cultura prendendo ele­ menti dalle culture dei non zingari locali, come risulta anche dalle pagine del presente volume? Ancora, riguardo alla vasta raccolta di canti, ballate, epopee eccetera, pubblicata da Wlislocki, una produzione notevole che gli altri zingari europei non sembrano conoscere, è rimasta per decenni una specie di enigma. Ma recenti ricerche condotte da studiosi ungheresi in Transilvania hanno con­ fermato l'esistenza di quest'enorme produzione zingara [vedi Vekerdi 1 983, p. 234] . Lipa [1985] ha rinfacciato a Wlislocki di aver inventato un dialetto romano improbabile per essere parlato in regioni romenofone. Al contrario, è stato di­ mostrato che un dialetto abbastanza simile, e praticamente uguale nella gram­ matica, esiste ed è quello dei gurvari dell'Ungheria, il che dimostra la sua alta plausibilità [Vekerdi 1 9 7 1] . D'altra parte, lo stesso dialetto è quello riportato da Anton Hermann, il direttore delle Ethnologische Mitteilungen aus Ungarn, uno studioso la cui correttezza non mi pare sia mai stata messa in discussione. 19 3

segni

Un'altra critica seria, in via deduttiva e riguardo ai segni grafici, può con­ cernere la loro funzione. A differenza dei segnali stradali e degli altri segnali de­ scritti da Wlislocki, che servivano a dare informazioni sulla vita interna della comunità nella fase della sua periodica dispersione, i segni grafici costituiscono un codice che dà informazioni sui non zingari locali, con un compito essen­ zialmente economico. Simulo la situazione, estremizzandola, riportando la fa­ mosa Cadger's map, la pianta del mendicante pubblicata nel 1859 da Camden Hotten e riferentesi a un codice dei me n dicanti inglesi di inizio Ottocento (ve­ di figura 4); la pianta è stata in seguito ripubblicata da diversi autori, fra cui Avé­ Lallemant [18 62, vol. IV, p. 38] da cui la prendo. Immaginiamo di sostituire i simboli presenti nella cartina (che non è il caso qui di spiegare) con quelli del­ la nostra figura 3 : avremo un territorio non zingaro marcato da segni zingari che informano sulla vita degli abitanti locali in vista di un loro sfruttamento in quanto possibili fonti economiche. Commento di Barthelemy: il suo bigl i etto da visita a un salice del­ la riva con questo messaggio: qui m'è scappata una trota da 4 e tti , usare filo n. 7? Come immaginare che il monde du voyage, il più individualista che esista, si curi di svela re le sue Ce

lo

i mmagi n i amo un pescatore che attacca

piccole s c o p erte ? s inis tra e ad

So bene che qu an d o Mimi ha trovato una cliente docile ad allungare la a pr ire il portafoglio, non andrà a dirlo nemmeno a sua s o rella [1 982, p. 39] .

Estremizzata è la simulazione, estremizzato è il punto di vista di Barthelemy. Certo, fa parte anche della mia esperienza il rom che trova la cuccagna in un ga­ gio ben disposto o ben ingenuo, e che se lo tiene ben stretto senza dire niente agli altri o che, se scoperto, può accampare diritti di precedenza sui roma che si pon­ gano come concorrenti: il gagio è "suo" e guai a chi glielo tocca. Ma il rapporto con i gage può conoscere momenti di cooperazione che non intaccano in nulla il preteso individualismo zingaro, ossia la tendenziale autonomia economica del­ le singole famiglie. Ora, la grande lacuna di Wlislocki sta nel non dire come in pratica quei segni venissero usati. Ed è comprensibile: trattandosi di un codice usato dalle donne, non credo che egli lo abbia mai visto adoperato. Si è proba­ bilmente limitato a riportarlo nel modo in cui gli veniva descritto da un'infor­ matrice. Ma perché dovrebbe essere impensabile che due donne che collaborano nella mendicità o nella lettura del destino non si possano lasciare dei segni? O

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1 94

m o n d o

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m o n d i

che una stessa donna non lasci per se stessa dei segni, per ricordare e per non confon dere una famiglia di gage con un'altra, in vista di future nuove visite? L'er­ rore di Wlislocki è stato anche di affermare che quei segni erano usati un po' da tutti gli zingari nomadi della regione danubiana senza poterlo provare. È mia op in ione, invece, che si trattasse di un codice di uso molto limitato che doveva esaurirsi all'interno di un unico gruppo locale, ossia all'interno di quella che era a tutti gli effetti l'unità di sfruttamento del territorio ; un'unità nomade che, lo ri­ cordo, poteva raggiungere anche i duecento effettivi, un'unità, cioè, che i grup­ pi zingari dell'Europa occidentale da tempo non ricordano di tale ampiezza. Lo stesso discorso vale per quanto riguarda la credibilità dell'esistenza del si­ stema di segna li riguardanti la vita interna al gruppo . Wlislocki non dà mai la prova d averli visti; in un solo caso parla di un segnale che «è stato ritrovato» («fan d man») - come dice in modo sibillino usando la forma imp er s o n ale - nel luglio del 1 89 1 , ossia giusto il mese precedente alla redazione del suo articolo sui segnali zingari, come si può constatare dalla firma in calce all'articolo del 1 8 9 1 -92. Il che pone soltanto il problema del loro reale uso e della frequenza di '

figura 4. La «pianta del mendicante» [da Avé-Lallemant 1 8 62, vol. 1v, p.

19 5 segni

38] .

tale uso, non tanto quello della loro esistenza che, anzi, si addice bene a dei gruppi strutturati nel modo in cui ce li descrive Wlislocki. Lo possiamo provare mediante i dati di un altro autore. Prima abbiamo det­ to che Block riporta nel suo libro poco di più di quanto non avesse già detto Wlislocki. Quel "poco di più" si riferisce alle informazioni che egli prendeva, senza citarlo ovviamente, da un breve articolo di Hermann del 1 89 3 . Già Wli­ slocki, parlando dei segnali stradali, aveva notato quasi di sfuggita che i corto­ rari usavano farli anche mediante delle incisioni sugli alberi: potevano fare un certo numero di intagli sul lato dell'albero verso la direzione da prendere. Non conosco nessun'altra fonte che citi questo sistema, che ritroviamo sviluppato con esiti interessanti nell'articolo di Hermann . Parlando degli zingari nomadi dell'Ungheria meridionale, li descrive come fabbri ma anche come abili com­ mercianti; già allora potevano presentarsi come robivecchi, ma soprattutto commerciavano in cavalli e maiali; oltre a ciò fungevano da agenti finanziari: prestavano denaro e potevano essere usurai. Essi, scriveva Hermann, «non san­ no né leggere, né scrivere; molti di loro non sono in grado di contare fino a 100» [1 893, p. 1 58] , ma i commercianti sanno che cosa sono le entrate e le uscite, sanno che cos'è un creditore (unsoljo) e una cambiale, che si dice cinitori. L'au­ tore non si sofferma a spiegare che il termine deriva dalla radice éin- "tagliare", e può significare qualcosa del tipo " l a piccola cosa intagliata" . Nonostante il lo­ ro analfabetismo, essi sanno tenere liste precise dei debitori, dei crediti da ri­ scuotere, dei tempi e degli interessi, il tutto segnato in stecche con tacche. Tale tipo di stecca era chiamata cinipe, che letteralmente significa "taglio, intaglio, tacca", dalla stessa radice di cinitori, e «egli ha molti debiti» - dice Hermann - si dice «egli ha molti cinipe» (bute hin leske pro cinipe) .

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figura S . Stecca con tacche.

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196

m o n d o

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m o n d i

Il cinipe consiste in una stecca piatta di betulla o di faggio lunga da una a quat­

tro spanne e larga fino a due dita. Questi rom indicavano le cifre con i numeri romani, mentre altri segni convenzionali indicavano date e oggetti. La figura S, per esempio, mostra un cinipe che dice che il debito è di diciannove fiorini e de­ ve essere pagato entro il mercoledì dopo la quarta domenica dopo Pentecoste: il diciannove in numeri romani indica il debito, le prime tre linee oblique da de­ stra a sinistra indicano la Pentecoste, cioè - come si ricorderà dai dati di Wli­ slocki, che Hermann conferma in toto - la terza festa del calendario rom (dopo Natale e Pasqua e prima di san Michele), le quattro incisioni sul bordo della stec­ ca indicano le quattro domeniche successive, le ultime tre linee oblique da sini­ stra a destra indicano il mercoledì come terzo giorno della settimana. Come si vede, la stecca è doppia, poiché una era per il debitore e una per il creditore; inol­ tre, esse erano intagliate in modo che le tacche dell'una corrispondessero a quel­ le dell'altra. Il foro serviva per legarci il contrassegno del debitore (e sull'impor­ tanza dei contrassegni personali, anche Hermann si dilunga con nuovi partico­ lari, che qui non riprendiamo) . Le due stecche, 11Sigillate" con il contrassegno, sono preparate in presenza di due testimoni, come pure distrutte alla presenza degli stessi una volta estinto il debito. La distruzione fraudolenta della stecca in­ taccata poteva essere motivo di espulsione dal gruppo da parte del voivoda . Da

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Voici , d'au tre part, les formes des consonnes et leur ordre :

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figura

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Alfabeto riportato da Decourdemanche

201 segni

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franç.ais p français h fr auçais . v français f fr ançais 1{ français g fr ançais de gond h fr ançais t français d fr ançais n français r français l français s espagnol eh d ans chat teh j i talìen j espagn ol

[1 908, p. 379] .

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Tutto questo è più o meno riferito anche da Clébert. Si capirà fra un istante, invece perché metto in evidenza le seguenti d i screpanze: l . Clébert non riferi­ sce che i termini dei diciotto oggetti, che danno il nome alle consonanti pos­ sono essere scritti in due modi: o per esteso, o tracciando solo la consonante omonima preceduta da un punto . Per esempio, nak (11naso" ) può essere scritto per esteso (con le corrispondenti di consonante nak + vocale a + consonante ker), oppure con la sola consonante nak prepuntata [Decourdemanche 1 908, p . 380] ; 2. Clébert scrive che «le parole si scrivono unendo ogni segno a una co­ mune barra orizzontale superiore, e non si può essere colpiti dalla somiglianza con le grafie indiane» [1 9 6 1 , p. 252] ; avrò letto dieci volte il testo di Decourde­ manche senza trovare traccia di quest'affermazione, che è quindi aggiunta. Presento ora la figura 8. Si tratta di un alfabeto mandatomi nel 1989 da Andr­ zej M irga, un rom antropologo di Cracovia. Non si tratta di un alfabeto in uso pres­ so il suo gruppo d'appartenenza (i bergitka roma polacchi), ma di un alfabeto che gli è stato insegnato da un sinto piemontese vivente in Francia il quale a sua vol­ ta, l'aveva imparato dal padre. Come si vede, si tratta senza dubbio di una varian­ te dell'alfabeto di Decourdemanche e, oserei dire, molto più credibile. Segnalia­ mone alcune differenze: manca qualsiasi distinzione tra forma dei bambini, degli anziani e degli uomini, ma una parte delle lettere la si ritrova nella prima forma della figura 7 di Decourdemanche, una parte nella seconda e una nella terza; le let­ tere per le vocali non sono più anche indici di classi lessi cali (che non esistono) e, come le consonanti pure le vocali hanno un nome; in questo caso, non vi è sem­ pre corrispondenza tra iniziale del termine e lettera di riferimento; le lettere corri­ spondenti a 110 " e a "i" raffigurano in modo più evidente il sesso maschile e fem­ minile (ricordo che in romanes -o e -i sono effettivamente dei morfemi di genere per il maschile e il femminile); alcuni nomi dei caratteri sono uguali a quelli di De­ courdemanche, altri sono diversi: la cosa apparentemente strana è che non tutti i nomi si ritrovano oggi nel dialetto sinto piemontese. Tenendo conto solo di que­ sto, sembrerebbe proprio trattarsi di un'evoluzione di uno stesso alfabeto. Si potrebbe pensare che si tratti di una manipolazione a partire dal testo di Clébert (più che da quello di Decourdemanche, che è rimasto sepolto nelle bi­ blioteche)? Ossia, si può sospettare che un sinto alfabetizzato abbia letto Clé­ bert e vi abbia poi ricavato questa variante? Riprendiamo le due discrepanze se­ gnalate sopra. In base alla seconda lo si potrebbe pensare. Negli esempi di scrit,

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202 m o n d o

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tura mandatimi da Mirga (rifere ntisi al suo dialetto e non a quello sinto) , le let­ tere di una parola vengono collegate da una linea orizzontale, co tn e dice Clé­ bert e come non diceva Decou rdema nche: la colonn a 4 della figura 8 ne mostr a degli esemp i. In base alla prima discrepanza, però, lo si deve negar e. Non solo i termin i degli oggetti che danno il nome alle lettere possono essere scritti con le sole lettere omon ime, ma quest e st e sse lettere possono essere usate in cambilW�rv\•o

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L' alfabeto nell'autografo di Mirga.

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c.�Pr.> queste constatazioni nel momento in cui la Camera dei Deputati le ribadiva e corroborava, nel giugno 1 998, escludendo rom e sinti dalla legge di tutela delle minoranze l inguistiche.

1

l 'anomalia perfetta Già all ' inizio del Seicento Bisciola fa derivare il termine da

athinganoi,

"intoccabili" [C ampigotto e

Piasere, s . d . ] , nome di una setta apparsa in Frigia nel 1x secolo, ed è tuttora l ' eti m ologia che gode della maggiore diffusione. Ho accennato altrove agli autori che non accettano tale etimologia [Pia­

202] . Drettas ultimamente espone al riguardo un 'opinione netta: «In nessun caso il termine greco (tsinkani, atsinkani) può derivare dal greco medievale scritto athinganoi [ . . . ] . Se il pro­ sere 1 99 1 , p.

blema storico posto dagli Intoccabili dell'area greco-ortodossa è ben lungi dall'essere risolto, la que­ stione terminologica non pone assolutamente dubbi: la intervocalica non può in alcun caso dare un gruppo -ts- o -tJ-» [ 1 99 1 ,

p. 228] .

Il fatto che quell 'etimologia sia da secoli larg amente accetta­

ta, più che la vera storia del termine riflette semmai lo stato di schismogenesi di cui si parlava nel

2

primo capitolo, quale è veicolato dagli studiosi.

Rinvio a Piasere 1 989b per una visione generale, !imitandomi qui ad alcuni esempi: per Enea Piccolomi­

ni, cioè papa Pio 11

(xv secolo) ,

essi sono originari di una regione del Caucaso, terra abitata da genti fero­

ci, situata tra l'Europa e l'Asia; per Polidoro Virgilio ria; per Agrippa da Nettesheim

(xv secolo)

sono Assiri della Cilicia o Cilici dell'Assi­

(xv1 secolo) provengono dalla Nubia, terra cristiana situata al di là del mon­ (xv1 secolo) p arl a di zingari dell'India

do musulmano, alla frontiera tra l'Egitto e l' Etiopia; Cesare Vecelio

(senza tuttavia postulare un'origine indiana degli zingari europei) : per lui, essi sono cristiani - abbiamo anche qui dei cristiani situati al di là del mondo musulmano - ma adoratori del demonio eccetera.

2 11 n ot e

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Influenza negativa, nel senso che nelle opere di antropologia generale gli zingari appaiono per illustrare esempi che sono !ungi dall'essere edificanti . Dò solo due esempi . Un autore di fama internazionale come Kroeber parlò degli zingari in un'opera molto celebre in un capitolo sulle «Culture nomadi, parassitarie e di casta>>, portatrici di «mezze culture>>, dunque incapaci di costruirne una "vera" : «Se tutti

quelli che non

sono zingari venissero improvvisamente cancellati dalla faccia dell'Europa e del Nord America, e questi due continenti venissero completamente abbandonati agli zingari, è ragionevole pensare che in poche ge­ nerazioni la culhua zingara rassomiglierebbe abbastanza a quella dei seri o dei negritos [cioè culture pa­ rassitarie che non hanno contribuito alla cultura umana] nella forma, e forse alla fine anche nella sem­ plicità di sostanza o contenuto�>

[1983, p. 262] . In un testo spesso usato nelle università italiane, Ernesta

Cernili categorizza gli zingari nel modo seguente: [1977, p. 385] . A Graziadio Isaia Ascoli, uno dei padri della linguistica italiana, si deve anche il primo studio linguisti­ co su dati raccolti personalmente presso degli zingari italiani, in Molise nel Una precedente raccolta è dovuta al famoso poliglotta Mezzofanti tra il

1864

[vedi Ascoli, 1 865] .

1 799 e il 1800 a Bologna; in

questo caso l' informatore era un rom balcanico in servizio nell'esercito austriaco che occupava la città durante una fase delle guerre antinapoleoniche [vedi Piasere in corso di stampa b] . La prima testimo­ nianza di romanes parlato in Ital ia è comunque di molto precedente e risale al 1 646 [vedi Piasere

1 994] .

5 Un vero precursore, che comunque non ha influenzato gli sviluppi ulteriori, fu E.D. Beynon [1 936] : egli la­

vorava con la strurnentazione concettuale della cosiddetta Scuola di Chicago di sociologia e antropologia ur­

bana. Il suo articolo apparve in una rivista prestigiosa di sociologia (nello stesso numero vi è un articolo di

Lowie, uno dei pilastri dell'antropologia culturale moderna), al di fuori dei canali ziganologici e, significati­

vamente, è stato riscoperto solo di recente: la ziganologia europea degli anni Trenta non era di certo pronta ad assimilare uno studio che dimostrava il buon "adattamento" degli zingari in un contesto urbano. A dire il vero, stenta ancora oggi . . . L'analisi di Van

Vijk [1 948] , che precede quella della Cotten di qualche anno, è

condotta senza spirito critico né conoscenza delle teorie antropologiche coeve dell'organizzazione sociale.

1

l'etnografia come esperienza

Potrà risultare fastidioso il taglio fortemente autoreferenziale del presente capitolo, dovuto alle circo­ stanze in cui esso

fu originariamente presentato. Se tale taglio è qui mantenuto non è per ragioni au­

tocelebrative, ma squisitamente epistemologiche: voglio insistere sul fatto che il lavoro etnografico è,

prima di tutto, un'esperienza, una realtà esperienziale; voglio suggerire che il famoso " laboratorio del­ l'etnologo" è i n prima battuta l 'etnologo stesso, il quale, a differenza di altri studiosi che lavorano in

al tri " laboratori " , può essere in grado di controllare, manipolare e modificare ben poche " variabili " ol­ 2

tre a se stesso e alle proprie teorie . Anche qui, prima per una convergenza e solo in un secondo momento per una decisione teorica conscia. Amo dire che mi piace giocare con le teorie, e alcuni critici se ne sono accorti e me ne hanno dato positi-

212 un

m o n d o

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m o n d i

vamente atto. Simonicca ha scritto che «lo sguardo scettico sulle teorie antropologiche, da parte dell'au­ tore, è netto: mai nessuna teoria potrà essere corroborata totalmente; si può solo, alla Wittgenstein (non interpolo: il riferimento è dell'autore stesso), descrivere le connessioni interne ai comportamenti di un raggruppamento sociale>> [1993, p. 196] . Pr6nai mi paragona a un bricoleur teorico, così come gli zingari che descrivo sono dei bricoleurs culturali, e afferma: «La posizione scientifica di Piasere è simile alle sue idee sugli zingari. Possiamo imparare da lui ciò che lui stesso ha imparato dagli zingari [ . . 1 si può sempre adot­ tare qualcosa e soprattutto rifiutare ogni tendenza all'omogeneizzazione» [1 996, p. 8] . 3 Harris ha una responsabilità particolare nell'ave! diffuso in modo sostanzialmente errato la famosa di­ stinzione tra emic ed etic utilizzata dagli etnoscienziati. 4 Per spiegarlo devo inserirmi nello scarto temporale su cui è costruita la prima versione del presente ca­ pitolo: momento della comunicazione orale della conferenza tenuta a Padova (aprile 1 9 9 7 ) l momento della redazione (agosto 1997). Quando ho tenuto la conferenza di cui queste pagine sono un'espres­ sione più o meno fedele e in cui ho parlato, appunto, di « Conoscenza incorporata dell'esperienza et­ nografica», non avevo ancora letto un lavoro che judith Okely (l'antropologa inglese presente al se­ minario di Parigi) aveva pubblicato già nel 1992. Devo sottolineare che Judith Okely, fra gli antropo­ logi degli zingari, è senz'altro quella che ha riflettuto di più sullo svolgimento della ricerca sul campo e sulle sue implicazioni teoriche [vedi Okely 1 983, pp. 38-48; 1987; 19 94; 1 996, pp. 1 -44] . Nel 1 992 curò, con Helen Callaway, un testo dal titolo An thropology and autobiography, una raccolta di saggi di un convegno tenutosi nel 1 989. Ebbene, il suo contributo particolare in quel volume porta il seguen­ te titolo: An tltropology and autobiography: participatory experience and embodied knowledge Il che signifi­ ca che io ho adoperato la stessissima espressione della Okely. Chi non mi crede penserà a un plagio da parte mia, ma chi crede alla mia buona fede non potrà non constatare che un'esperienza etnografica simile porta a incorporare conoscenze inconsce simili che portano a reagire nei diversi contesti di vi­ ta in modo simile: si ride quando gli altri non ridono al racconto di un aneddoto, si teorizzano cose simili contro teorie ritenute riduttive nel contesto accademico. 5 Il sabir è lo stato di una lingua parlata da un alloglotto nel tentativo di farsi capire dai parlanti locali. .

.

1

2

un mondo di mondi

Un tempo i roma erano un popolo potente e avevano un re potente . Poiché questi era una persona pia e devota, o Do/ (Dio) gli dava tutto quello che chiedeva. Venne il momento in cui, alleato con un altro re, i1 re dei roma decise di muovere guerra contro un altro popolo. Un grande fiume però era d'o­ stacolo alla marcia verso la terra dei nemici e i due re non avevano alcun mezzo per attraversarlo. Al­ lora il pio re dei roma pregò Dio invocando il suo aiuto . Ascoltate le sue parole, Dio divise le acque del fiume in modo che si aprisse un passaggio e gli eserciti potessero raggiungere il territorio nemico. Si fece così la battaglia e, ancora grazie all'aiuto di Dio, il re dei roma e il suo alleato vinsero. Al ritorno, c'era sempre il fiume che impediva la marcia : il re pregò Dio il quale ancora divise le acque. Quando il re alla testa del suo esercito si trovò in mezzo al fiume fra le due barriere di acqua, disse: «Avete vi­ sto? Siamo tanto forti che anche Dio ha paura di noi. Fa tutto quello che gli dico! » . Sentito ciò, Dio, che credeva il re dei roma buono e devoto, comandò alle acque di chiudersi e li fece annegare tutti. Tutti tranne un rom e una romni che erano capaci di nuotare e si salvarono. Dio condannò i discen­ denti di questi due a restare sempre divisi per il mondo (raccontato da Avdulà, un rom gurbeto, e da me trascritto nel 1 9 78). Un giorno, in paradiso, Deve/ (Dio) andò a trovare Adamo ed Eva. Poiché essi avevano vergogna di ave­ re molti bambini, ne fecero vedere solo alcuni a Dio e nascosero gli altri. Dio chiese se quelli che ve­ deva fossero tutti i loro figli ed essi dissero di sì. Allora Dio si arrabbiò e stabilì che a partire da quel

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momento avrebbe avuto cura solo di quelli che aveva di fronte, mentre quelli che gli erano stati na­ scosti sarebbero diventati roma . Di questi si sarebbero dovuti curare solo Adamo ed Eva; essi avrebbe­ ro vissuto nei boschi e sarebbero rimasti per sempre senza una ca s a . Solo gli altri, di cui egli stesso si prendeva cura, avrebbero avuto casa e terra (raccolto nel 1 962 in Slovenia da Pavia � trukelj [1980, p. 225; vedi anche Piasere 1 9 85a, p. 249] ) . Per altre informazioni s i rimanda, per i roma del gruppo qui considerato, a Piasere [199 1 , pp. 7-1 10 e 1 99Sb] e Lapov [in corso distampa], e per i roma a Dìck Zatta [1 985, 1 988, 1 996], Piasere [1 985a, 1 99 1 , pp. 1 29- 1 42, oltre agli altri capitoli del presente volume] , e a Trevisan [1996] . Sul concetto di "girovago", che traduce l'inglese "peripatetic", vedi il dibattito in Piasere 1 99 Sa. Questa pratica non è assolutamente condivisa da tutte le famiglie: la maggioranza dei roma della mia comunità pensava che fosse immorale per una famiglia servirsi dei bambini altrui, mentre non vedeva nessun problema se mandava a mendicare i propri. Molti autori hanno affrontato questo argomento so­ prattutto da un punto di vista socio-criminologico e nell'ambito del paradigma della "cultura zingara in crisi" [vedi infra il capitolo «Il buono zingaro del tempo che fu»] . In realtà, la forte riprovazione pubbli­ ca verso questo trattamento dei bambini rispecchia il forte scarto esistente nella concezione dell'infan­ zia tra roma e italiani . Questo scarto è già minore nei Balcani dove esiste tutta una costruzione mitico­ rituale perfino sulla "vendita" dei bambini [vedi Brouskou 1988] . Infatti, anche gli altri gruppi rom ita­ liani condannano i roma per questo loro uso intensivo dei bambini nella mendicità e nei furtarelli. Per un'analisi della "strategia-r", che si può qui evocare per spiegare l'attività economica dei roma, riman­ do a Lauwagie [1995] . Per una descrizione dell'organizzazione e delle tecniche per accedere alle risorse, rimando a Piasere 199Sb e, per altre comunità di roma, a Padiglione 1 994 e Brunello 1 996b. Tengo a precisare che "capitale gagikano" non è un'espressione dei roma ma è una mia astrazione. Ta­ le concetto è stato ripreso da altri con termini diversi: Formoso [1 986, p . 74] parla di "capitale di ri­ spettabilità", mentre Reyniers [1 986, p. 9 7] e De Marne [1 988, p. 45] parlano di " capitale relazionale". Le tecniche usate sono diverse. Negli ultimi anni quella più seguita consiste nel creare " un caso" ed essere pronti a seguire il gioco dei gage, i quali sono sempre desiderosi di organizzare grandi dibattiti e pubblici convegni sul problema dell'«integrazione dei nomadi nella società civile» . L'i m prevedibilità di questi spostamenti può cogliere di sorpresa anche il ricercatore più attento : nel 1995 Orioles riferiva della situazione di una decina di famiglie accampata da quindici anni in un ter­ reno di Udine, e riportava l 'intervista di un rom che affermava, appunto, che > . In questo capitolo, rielaborazione dell'intervento che in quell'occasione presentai, mi piace mantenere i riferimenti a quell' incontro .· Mantengo qui gli schemi semplificati di una situazione molto più complessa. Essi non pregiudicano la descrizione della caratteristica che mi preme sottolineare, ossia la incornrnensurabilità delle due classificazioni. Nel citare le poesie, in qualche caso preferisco riportare la suddivisione dei versi quale appare nel te­ sto dattiloscritto che Jane Dick Zatta ebbe la gentilezza di farmi avere fin dal 1 988. Per quanto riguar­ da la grafia, nei testi di Levacovich troviamo a volte il plurale di gagio italianizzato in "gagi " (invece che il consueto "gage"); in questo caso non è da confondere con "gagi" come normale femminile sin­ golare. Levacovich, inoltre, usa il plurale "rom" (invece di "roma", forma corretta nel suo dialetto), oramai usuale in italiano. Scrive Williams: «Gli zingari pentecostali hanno elaborato dei miti che danno di loro stessi, di fronte a Dio e ai gentili, un'immagine inedita. Dio li ha scelti per far vivere il suo messaggio agli occhi del mondo . Perché proprio loro? Perché vivendo ai margini, sono rimasti al riparo dalla corruzione che colpisce la società e perché è nel disegno del Signore eleggere coloro che sono respinti>> [1995b, p. 135 ] . Sulle accuse di cannibalismo rivolte ai gage dai roma, vedi Dick Zatta 1996. Il discorso che al riguardo sviluppa Patrick Williams [1997] circa i manus della Francia centrale è del tutto pertinente anche per i roma. Questa interpretazione si discosta da quella avanzata da Calabrò [1 992], secondo la quale gli zingari avrebbero mantenuto una concezione del tempo "pre-moderna" . Per esempio, un famoso vocabolario kalderas è risultato composto da termini di origine rumena per circa i l quarantadue percento, mentre quelli di origine tedesca sono risultati essere meno dell'uno per­ cento [vedi Gj erdman e Ljungberg 1963] . In realtà, il termine sindel o zindel o zindelo non è un nome proprio, ma è attestato in alcuni dialetti del romanes con il significato di "capo", "condottiero" . attorcigliamenti semantici

Il campo del cognitivismo è molto ampio e non può essere limitato al dibattito sul primato cognizio­ ne/emozione. Forse anche in seguito all'analisi qui presentata, Stewart ha offerto nuove informazioni sulla termi­ nologia nell'edizione del 199 7 [pp. 5 1 -55 e 259] del suo lavoro; dai nuovi dati la presente lettura può risultarne al massimo attenuata, ma di fatto confermata.

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note

:l

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Forse

inconsapevolmente, i due autori lo hanno ben riassunto nei titoli dei loro lavori [Stewart 1 9 8 7

e Williams

1 984] : Fra telli nel can to e Matrimonio zingaro.

che vedremo fra un istante, è interessante notare che nei contesti linguistico-culturali, influenzato i roma sloveni nel corso degli ultimi secoli - il contesto greco e quello ser­ bo-croato -, non sembra che l'allocuzione inversa esista o sia di uso corrente [Braun 1988, pp. 272, 277]; essa non esiste nemmeno nell'Italia del nord. Non conosco l a situazione per quanto riguarda l a Slovenia. Sempre per dei motivi che vedremo poi, bisogna sottolineare che, al contrario, l'allocuzione inversa è molto corrente in romeno, ma non è attestata con la forma utilizzata dai ka l dera s: in romeno sono sem­ Per delle ragioni

che possono aver

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pre i term ini delle generazioni superiori che sono usati all'inverso, mai quelli delle generazioni inferio­

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ri, come è il caso presso i kalderas [vedi Renzi 1 9 68; Braun 1988, pp . 275-276] . Nei diagrammi non è presa in considerazione la distinzione di uno stesso lessema quando è operata solo da morfemi di genere; in questi casi sarà in d i c a t o solo il maschile. Questo procedimento è con­

soluzione è possibile solo u tilizzando un'analisi plurivalente che è inutile ripren­ dere qui, dal momento che i ri s u l t a t i non ne sono compromessi . Su tale modello di analisi, che va ol­ tre le analisi semantiche classiche, vedi Piasere 1 998a. Wlislocki visse in Transilvania, allora sotto il dominio ungherese, nella seconda metà del secolo scorso. È un autore ancora oggi oggetto di giudizi contrapposti: per qualcuno, per esempio Vekerdi, egli è stato il testabile, ma la sua

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più grande ziganologo di tutti i tempi [cit. in Mészaros 1983] , per altri, come Lipa

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[1985] , è il più grande

tempi. Personalmente credo che non sia stato né l'uno né l'altro e che vi siano nei suoi scritti sia del materiale raccolto di prima mano, che materiali ripresi da altri in modo non corretto. Le sue opere devono essere lette, e rilette, con spirito critico, specie quando Wlislocki affronta temi sui quali non aveva alcuna preparazione specifica. Per una valutazione diversa dalla mia, vedi Pr6nai 1998. Si potrebbe dire che dopo la rilettura dei lavori di Thompson [Pia s ere 1 99 1 , pp. 1 1 1- 1 28] e quella dei dati di Wlislockl che presentiamo qui, siamo oggi in grado di liquidare definitivamente la questione, affermando che l ' esistenza di zingari matrilineari, nel senso dato attualmente al termine in antropo­ imbroglione di tutti i

logia della parentela, è !ungi dall'essere provata. Gakko è evidentemente una variante del più usuale kako, che significa di solito "zio" . In Wlislocki il

a tt estato con questo signi fi cat o , m a in altri dialetti del romanes ritroviamo kako o va­ anche "amico" . Per gruppi tedeschi dell'Ottocento è pu­ re attestata la fo rma kakepen o kakipen, con significati simili al gakkiya di Wlislocki [vedi Wolf 1960] . Ques ti nomi non hanno oggi un'aria molto co nvi n cen t e , m a solo una ricerca etnostorica condotta di­ rettamente in Transilvania potrà darne conferma o meno. termine non è

rianti con il significato di " zio", " cugino" e 10

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Si fa fatica a credere che le i nformazioni date da Wlislocki siano state tanto amplificate in seguito dai numerosi ziganologi che h anno parlato di " zingari matrilineari " . Si può, invece, così ricapitolare: per Wlislocki, non tutti gli zi ngari della Transilvania erano matrilineari, ma solo i cortorari; non tutti i cor­ torari erano matrilineari, m a solo gli aschani e i tschale; questi, a loro volta, non erano stati sempre matrilineari, ma lo erano solo da una ventina d'anni ! Ora, qualunque antropologo sociale sa bene che è p raticamente impossibile che una società possa pas­ sare in due decenni da una struttura patrili neare a una matrilineare, come Wlislocki lasciava intende­ re. Da questo punto di vista l'autore transilvano era assolutamente incapace di analizzare i dati che

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aveva in mano. Sia Wlislocki

che Thompson lavoravano all'interno dei paradigmi evoluzionisti che, i n ogni caso, po­ i mi tivi tà " delle istituzioni a diritto materno, come si diceva allora . Dimostrare che gli zingari erano matrilineari significava dimostrare "scientificamente" che essi erano dei primitivi : i pri­ mitivi dell'Europa civilizzata . A dire il vero, Wlislocki non sembra ess ere molto informato sul dibatti­ to antropologico del suo tempo e un suo critico, Bebel [ 1 896-9 7] , gli rimproverava proprio di aver instulavano la

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trapreso una ricerca fra gli zingari senza po s s ed e re la capacità analitica necessaria per condurla bene a

termine. Bebel cercò dunque di rimediare al l ' i gnoran za di

W l i slocki circa le opere di M organ e inter­ e quello

pretò gli zinga ri come una p opola zi one di transizione fra lo «Stadio superiore della barbarie

della civiltà»; egli pre cisò tuttavia che gli zingari che si potevano osservare in quei tempi non rappre­

sentavano più la pura autenticità . . . !

13 Nella gra fia di Wlislocki phralipe sarebbe scritto pçralipe: è p robab il e che paralipe sia quindi un errore 14

di stampa .

Questa è la l ista dei termini qu a l i sono ri p o rtat i dall'autore [ 1 890, pp. 63-64] ; seguo il suo ordine e

le mie interpolazioni sono solo quelle fra marito/uomo : rom; gadsio; manush;

p a rente s i

qu a d re :

moglie/donna: romfii; gadsiori; pa d re : dad; vezzeggiativo : tata, muko; madre: day; vez z eggiativo: mama, cuci [lett. "mammella" ] , dayday; nonno: papush; nonna: baba; pçure [sic] day (= "vecchia madre ") [con errore nell'aggettivo] ;

" pa dr e del nonno"}; bisnonna: bahakri day [lett. "madre della nonna "} ; legpçureder day {lett. "madre più vecchia "]; figli : cay [dovrebbe s i gn i fic a re " figlia"] ; figlio: raklo;

bisnonn o : papusheskro dad [lett.

figlia: rakli; cayori; gem e lli : dongoy;

tri-gemelli: trigoy;

nipote lineare m asc h io : unoka; nipote lineare femmina: unoka cayori;

pr o n ipot e lineare maschio: unokeskro raklo [lett . " figlio dell' unoka"];

pronipote l ine are femmina: unokeskro [sic] raklyi [lett. "figlia dell'unoka",

con errore nel genitivo];

fratello del nonno o zio del padre: pçral papusheskro [lett. " fratello del nonno "];

fratello del padre, zio : pçral dadeskro {lett. " fratello del padre " ) , baci; fratello della madre, zio : pçral dayikri [sic] [lett. " fratell o della madre", con errore nel genitivo];

gulbdci = gufo baci, "dolce zio " ; sorella

della madre : pçhen dayakri [lett. " sorella della

suocera: sasuy;

m ad re " ] ; gule néni; seki;

suocero : sokro;

fratelli: pçrala; sorelle: pçena; figli del fratell o : caya pçraleskro ( sic] [lett. " figlie del fratello " , con errore nel figli de l l a sorella: caya pçefiakri genero: suro; dumneskro raklo;

g en iti vo] ;

[sic] [lett . " figlie della sorella", con errore nel genitivo] ; bratuce;

[per

Wl i s l o ck i significherebbe " figlio de l l e spalle" (>, afferma categoricamente che «la socie tà zingara è orale e, oseremmo dire, in mo­ do li mp i do e senza sbavature» [ 1 99 1 , pp. 1 5, 20] . Si veda ora il raffinato articolo di Williams [1 998], che mostra come si articolano gli incastri tra orale e scritto in alcune scene di vita zingara francese; sulla stessa scia anche il libro di Ana Gomes [ 1 998] sui sinti di Bologna. 5 Esagerando un po', ma per dare l'idea, si può dire che fino a oggi i sistemi di trascrizione deidialetti zin­ gari sono stati tanti quante sono state le persone che li hanno trascritti; si tratta di sistemi quasi sem­ pre basati sull'alfabeto della società di provenienza dell'autore [vedi Courtiade 1 990] . Fra questi è da se­ gnalare quello del linguista russo Sergjevski, che forse fu il primo a essere ideato per entrare in un cir­ cuito rom - rom . Basato sull'alfabeto cirillico russo, da cui si discostava solo in qualche particolare, es­ so fu adoperato a cavallo degli anni Venti e Trenta negli abecedari stampati per i bambini zingari russi [vedi Tos ovié 1 9 89] . L'alfabeto approvato nel 1 990 dalla Rromani Unia, sotto gli auspici dell'Unesco, è basato sull'alfabeto latino [vedi Rromani Unia 1 990] e deriva da quello ideato da M. Courtiade [1986] . 6 Su Dekker, e in generale sulla "letteratura della miseria" inglese del periodo, si vedano le eccellenti pa­ gine di Geremek [ 1 988, pp. 40-46 e 128-2 1 1 ] . 7 Tutto i l capitolo d i Dekker sui moon e m en è riportato i n Sampson [189 1-92], da cui prendo l e citazio­ ni . Mi sembra utile riportare per esteso il passo originale concernente questa prima testimonianza. Il capitolo riportato da Sampson (), è tratto da un' edizione del 1 609 (mantengo senza alcun cambiamen­ to grafia e punteggiatura) : «One shiere alone & no more is sure stil at one time, to haue these Egiptian lice swarming within i t, far like flockes of wild-géese, they will euermore fly one after another: let them be scattred worse then the quarters of a traitor are after hées hang'd drawne and quartred, yet they haue a tricke (like water cut with a swoord) to come together instantly and easily againe : and this is their pollicy, which way soeuer the formost ranckes lead, t hey sticke vp small boughes in seuerall pla­ ces, to euery village where they passe; which serue as ensignes to waft on the rest» [189 1-92, p. 249] . 8 romaniéal (qui con un improbabile femminile in romaniéaj) è uno degli autonimi degli zingari inglesi. 9 Riferimento al patera11 (così scritto) o trai/ viene fatto anche in un'opera di De Sales Mayo [ 1 8 70, pp . 42-43] sui gitani spagnoli, ma tutto il capitolo è chiaramente un plagio dal primo libro di Borrow. Ben­ ché l'autore dica chiaramente che si tratta di un uso che si è