Un mondo di mode. Il vestire globalizzato 9788842097235

Un viaggio nei luoghi della moda, vecchi, nuovi o immaginari, e negli stereotipi che ne influenzano le immagini, partend

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Un mondo di mode. Il vestire globalizzato
 9788842097235

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Libri del Tempo Laterza 459

Simona Segre Reinach

Un mondo di mode Il vestire globalizzato

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9723-5

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione

Verso la fine degli anni Ottanta e durante i Novanta c’è stato un notevole sviluppo negli studi sulla moda. Il fenomeno è imputabile a quella che è stata definita la «svolta culturale» (Blaszcyk 2010, Skov e Riegels Melchior 2010: 14) con la relativa critica post-moderna allo statuto del sapere, in modo particolare in relazione alle discipline classiche, come la letteratura e la storia, e alle scienze sociali (Muzzarelli, Riello, Tosi Brandi 2010). Il cambiamento, tuttavia, non è imputabile solo a una trasformazione delle discipline menzionate e al superamento di una concezione della moda come campo del frivolo, dunque di oggetto non degno di studio. Come notano Skov e Riegels Melchior (2010), la trasformazione del sistema stesso della moda ha avuto un peso sostanziale. Il business della moda si è orientato dall’industria manifatturiera, legata a sarti, tecnici e ingegneri, verso l’industria prevalentemente culturale, in cui immagine e creatività sono altrettanto importanti della costruzione materiale di un prodotto di moda. Far parlare la moda attraverso le sue diverse manifestazioni – considerandola una forma di cultura in senso antropologico –, più che parlare di moda, è stato dunque il principio ispiratore di questo libro. Come vedremo, ciò che la moda ci insegna non è solo a «provincializzare» l’Europa (Chakrabarty 2004), di fronte per esempio alla crescita di importanza dell’Asia – quasi sostituendo, in un’operazione ingenua, un continente ad un altro: prima l’Europa, poi gli Stati Uniti, infine l’Asia stessa (Burke 2009a) –, ma piuttosto a riconsiderare quale sia il posto dell’Europa e dell’Occidente in relazione ai nuovi scambi presenti nella moda globalizzata. Ne risulta un mondo della moda ancora parzialmente domi­V

nato dalle ragioni dell’economia occidentale, come scrive Karen Tranberg Hansen (2004a), anche se l’Occidente non controlla più in modo assoluto la creatività e l’ispirazione, come si cercherà di mostrare nel corso di questo libro. La globalizzazione della moda ha infatti trasformato i concetti di tradizione, etnico e folk, cioè il costrutto ideologico vestimentario consolidatosi tra Ottocento e Novecento che opponeva l’Occidente al resto del mondo, in una sorta di world in dress, per usare l’espressione della Tranberg Hansen (2004a), cioè in un «mondo vestito», ancora molto da studiare. L’abbigliamento è da considerarsi sia come prodotto, come manufatto, in quanto abito che indossiamo, sia come processo, in quanto insieme delle pratiche e dei comportamenti che adottiamo per renderci visibili nel modo che desideriamo (Eicher, Evenson, Lutz 2008) o, più spesso, che desidereremmo. Non solo la moda è una caratteristica universale degli esseri umani, ma la sua importanza, ben oltre i vestiti, riflette i diversi modi di appartenere a una cultura e mette a nudo gli snodi e i passaggi tra le persone e tra le nazioni. Per questo la moda si trova implicata nei progetti di vita e per questo non c’è niente di simile allo studio della moda in antropologia per arricchire la nostra comprensione interculturale (Tranberg Hansen 2004b). Oggi è riconosciuto che le comunità locali, i gruppi etnici, le nazioni e le regioni non sono completamente autonomi, non si autoriproducono e autoregolano. L’incremento di tutti gli scambi nel circuito della globalizzazione – scambi di lavoro, di tecnologie, di media e di saperi – ha contribuito a mettere in discussione il modello che prevedeva culture e società autonome e conchiuse. Qualunque ricerca antropologica che contempli la produzione, la vendita e la comunicazione della moda si trova immersa nell’analisi di questi scambi, in territori dai confini fluidi e in continua evoluzione. L’antropologia della moda, occorre sottolineare, non è una parte a sé dell’antropologia, ma condivide il più generale orientamento che da qualche tempo caratterizza la disciplina. Mi riferisco allo spostamento da una visione per così dire strutturalista, in cui la società è un’entità chiusa entro i suoi confini, ordinata o alla ricerca di ordine, verso una visione processuale, in cui la società è intesa nel suo cambiamento, in un movimento creato da varie forme di agentività, tra cui i consumi, le pratiche e le rappresentazioni. Se infatti il cambiamento delle pratiche del vestire ­VI

era attribuibile in un primo tempo ai diversi incontri coloniali e post-coloniali tra Occidente e altre culture, oggi sono gli effetti della globalizzazione a essere sotto esame, dall’ideazione alla produzione e al consumo. Da un lato tutte le mode, in un certo senso, nascono come «emancipazione da Parigi»; dall’altro ogni storia di questa emancipazione è diversa, peculiare e ricca di implicazioni che hanno a che fare con il passato, le storie sartoriali, gli scambi commerciali tra i paesi, le specialità manifatturiere, l’emergere di nuove «capitali della moda». Nuovi discorsi e nuovi luoghi si relazionano con ciò che ha costituito il panorama della moda fino al passato recente, mentre inedite relazioni di potere si incrociano con quelle del sapere. Le grandi potenze come Cina, India e Brasile sono interessate sia allo sviluppo della creatività locale, sia all’interazione con la moda internazionale in modo sempre più originale. I nuovi studi di antropologia della moda vanno dunque fondamentalmente in due direzioni: la comprensione della diffusione globale della moda occidentale e l’appropriazione-traduzione dei suoi codici – ciò che gli antropologi della moda chiamano world dress, che potremmo parafrasare come «stile internazionale» –, e lo studio dei movimenti regionali e locali che avvengono in modo più o meno indipendente dall’Occidente. Nel primo capitolo ho messo in discussione i fondamenti di una visione antica della moda, formalizzatasi tra Ottocento e inizi del Novecento, e cioè l’opposizione tra moda e costume e l’equivalenza tra moda e modernità occidentale. Ho provato sia a rivedere il significato delle antiche rotte del tessile, da Oriente ad Occidente, sia a considerare la moda globalizzata come il luogo della negoziazione delle differenze tra Nord e Sud del mondo. Nel secondo capitolo ho cercato poi di dare un’idea sommaria e spesso anche solo suggestiva dei tanti luoghi – veri, immagina­ri o stereotipati – che compongono il paesaggio sempre più complesso e ampio della moda e delle sue rappresentazioni nella nostra epoca. Le considerazioni sulla moda globalizzata, quale linguaggio comune e al tempo stesso come luogo di conflitti e continue revisioni, ci confermano la ricchezza delle declinazioni della moda nella nostra epoca e suggeriscono l’esistenza di tante e interessanti manifestazioni della moda globale che si situano ai confini tra mainstream e mode locali. ­VII

Nel corso della ricerca sul campo che ho svolto in Cina dal 2002 al 2010, all’interno di un progetto di antropologia culturale sulle relazioni tra imprese italiane e imprese cinesi nel campo del tessile e della moda1, mi sono trovata direttamente nel cuore del cambiamento della moda globale. Il terzo capitolo è pertanto dedicato alla moda cinese, e in particolare alla relazione fluida e ricca di implicazioni che essa ha avuto con l’Occidente, fino alle recenti ibridazioni caratteristiche delle joint ventures internazionali, che attraversano i confini del made in China per avventurarsi nel territorio del made for China. Il quarto e ultimo capitolo è dedicato infine al fenomeno della moda islamica contemporanea, una realtà recente che ha portato a confrontarci con molti stereotipi eurocentrici sulla moda e sulle relazioni tra i sessi, oltre che a mettere in discussione l’equazione tra religiosità e disinteresse per la moda e quella tra velo e oppressione patriarcale. Desidero ringraziare Marco Moneta e Giorgio Riello che hanno avuto la pazienza di leggere queste pagine arricchendole di preziosi suggerimenti. Il libro è dedicato alla memoria di mia sorella Roberta.

1   The New Silk Road, con le antropologhe culturali Sylvia Yanagisako (Università di Stanford, California) e Lisa Rofel (Università della California, Santa Cruz).

Un mondo di mode Il vestire globalizzato

I

La moda globalizzata

1.1. Far parlare la moda: «Verità segrete esposte in evidenza»1 Far parlare la moda anziché parlare di moda può essere il cambiamento di prospettiva richiesto agli studiosi di cultura del vestire globalizzato. La moda è infatti uno dei linguaggi maggiormente in grado di far dialogare le diverse componenti del contesto globalizzato, rivelando quelli che sono a un tempo verità e segreti, stereotipi e luoghi comuni, nuove idee che circolano nel mondo. La moda globalizzata – in cui moda e costume, come vedremo, costituiscono le facce di una medesima medaglia – cambia di continuo secondo logiche proprie, per le tendenze interne al sistema e in conseguenza di eventi esterni. In questo senso è informazione, cioè uno strumento privilegiato di lettura dei fenomeni contemporanei. Mentre in passato si riteneva che la moda fosse in un certo senso il riflesso quasi automatico del sociale – la moda «specchio della storia» – oggi è pertinente un’interpretazione meno passiva: L’immaginario della moda consente anche di penetrare sotto la superficie della società, in profondità, e di rivelare gli schemi, gli archetipi e, di conseguenza, le grandi strutture antropologiche che definiscono un’epoca e le danno un senso (Monneyron 2008: 115).

Da un’analisi della moda è possibile capire aspetti del sociale e non viceversa. Contraddizioni comprese. Anche Hobsbawm 1  Il titolo l’ho «rubato» al libro di Elémire Zolla, Verità segrete esposte in evidenza, Marsilio, Venezia 2003.

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(1998) si stupisce di come i fashion designer riescano ad antici­ pare ciò che accadrà persino meglio di sociologi e storici, un mistero di cui non riesce a rendere conto e che proprio per questo egli considera un argomento centrale per gli storici della cultura. La moda nella sua versione globalizzata, più che anticipare il presente, è dunque il presente stesso. È la manifestazione visiva del presente, la sua epifania. Susan Kaiser (2010) concepisce la moda come un processo dialettico che include una sfida a trasformare lo status quo. Per questo la moda non solo è informazione, ma è anche in-formazione, delinea cioè percorsi e modi che vanno affacciandosi, che stanno per diventare canone. Ciò la rende particolarmente pregnante ai confini, in quei luoghi dove l’identità è più fragile, dove le situazioni si fanno sottili, permeabili e mobili, dove è in gioco una posta più ricca. «Le zone di frontiera, al modo stesso della città cosmopolita, si possono definire interculture, intersezioni di culture, in cui il processo di mescolamento porta alla creazione di qualcosa di nuovo e caratteristico» (Burke 2009b: 66). Che cosa sta avvenendo di nuovo nel sistema della moda globalizzata? Come si può ascoltare le verità della moda e interpretare la polifonia del suo discorso? Attraverso i suoi linguaggi e il suo modo di comunicare. Il riferimento a Roland Barthes è d’obbligo: fu infatti il primo a individuare nella retorica della moda il vero punto nodale della sua essenza (Barthes 1970). Non tanto i vestiti in sé, né la loro rappresentazione iconica, ma ciò che della moda viene detto ci rimanda alla sua verità. Oggi vediamo chiaramente come siano tutta la cultura e la comunicazione della moda a fornirci le informazioni, le parole, le immagini, il senso: pubblicità, redazionali, blog, strategie aziendali, interviste, biografie di designer. Sono questioni che ci rimandano al modo in cui guardiamo il mondo in cui viviamo. Riguardano le ineguaglianze, le aspirazioni, i rapporti tra i sessi, gli ideali di femminilità e mascolinità, l’età, il tempo, i luoghi, le pratiche del corpo – cioè i principali ambiti in cui la moda si è sempre espressa e di cui ha contribuito a cambiare lo status quo. A queste informazioni interne al sistema occidentale, si aggiungono oggi quelle di un confronto più ampio tra le persone, le nazioni e le città, nei diversi modi di pensare e vivere la moda. ­4

Le «verità segrete» che la comunicazione della moda, e più in generale la sua cultura globalizzata, «espone in evidenza» hanno a che vedere con un passato eurocentrico, entro il quale la moda si è affermata presso le élites, e con un presente composto da tante voci, ognuna con un peso e una forza diversi. Questo scambio culturale, tuttavia, non è semplice arricchimento, e non va dimenticato che non di rado avviene «a scapito di qualcuno» (Burke 2009b: xiii). Poiché nella moda, per esempio, il copyright riguarda solo il marchio e non le forme2 (non diversamente dalla musica), il mondo è stato spesso trattato come un enorme suggestivo «catalogo del gusto» a cui attingere, spesso senza riconoscere le fonti (Segre Reinach 2006a), e «il Terzo Mondo come una sorta di materiale grezzo che viene ‘elaborato’ in Europa o in Nord America» (Burke 2009b: xiii). Ma tutto questo è in rapido mutamento e ci costringe a rivedere le vecchie teorie e a ripercorrere i luoghi comuni e le consuete direzioni per identificare nuovi spazi interpretativi. Parafrasando Chakrabarty, possiamo dire che la moda europea che intendiamo decentralizzare è una figura immaginaria che «rimane profondamente intessuta nelle forme schematiche e stereotipiche costitutive» (Chakrabarty 2004: 16). Ed è attraverso la moda, o meglio ancora attraverso il processo di creazione dei prodotti e delle immagini di moda, pubblicità e comunicazione, che vengono riprodotti vecchi stereotipi e rielaborati continuamente di nuovi. Come scrive Patrizia Calefato (2010), la moda rappresenta sia un terreno d’incontro tra le culture, sia un linguaggio in perenne traduzione. Se da un lato viaggia attraverso i consueti canali della comunicazione globale dei marchi, delle sfilate e delle fiere, dall’altro le caratteristiche locali della moda viaggiano ancora più intensamente e velocemente lungo le strade, nell’ibridità dei gusti, negli scambi e nelle fusioni. Ogni novità nella moda globale è debitrice nei confronti delle diverse storie sartoriali e dei diversi luoghi, ma è anche ciò che ci permette di considerare il momento presente come orizzonte temporale dell’azione (Chakrabarty 2004).

2  Per un approfondimento, vedi la lezione di Johanna Blakley su «Ted»: Lessons from fashion’s free culture, http://www.ted.com/talks/lang/eng/johan na_blakley_lessons_from_fashion_s_free_culture.html.

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1.2. Eurocentrismo e dominanza della moda europea Scrive Sarah Grace Heller (2010) che l’origine della moda è, in un certo senso, ovunque la si vada a cercare e le varie attribuzioni, nello spazio e nel tempo, non fanno che segnalare l’inutilità di volerla attribuire a un unico periodo storico e a un unico luogo. I grandi viaggi di scoperta che hanno portato al dominio coloniale europeo tra il Seicento e l’Ottocento hanno sicuramente messo a confronto i colonizzatori anche con l’aspetto fisico di altri popoli, abbigliati e vestiti molto diversamente. La prima grande opposizione semantica del vestire umano è quella tra il tessuto piatto, non tagliato e non cucito, tipico dell’Asia, e quello a tre dimensioni, tagliato e cucito, caratteristico della tradizione sartoriale europea. Sartorialità e taglio si sono imposti, ma sarebbe meglio dire si sono confrontati, per secoli, con il drappeggio della tradizione asiatica. Roberto Rossellini aveva per esempio annotato questa distinzione tra Est e Ovest descrivendo Nehru come «un uomo drappeggiato» (in Segre Reinach 2006a: 78). Mentre, per Winston Churchill, Gandhi che sbarca in Inghilterra in visita ufficiale in lungi drappeggiato sui fianchi, sotto la pioggia e sotto gli sguardi curiosi delle persone che si erano radunate in banchina per vedere da vicino il leader indiano che stava portando il suo paese verso l’indipendenza, era solo «un fachiro mezzo nudo»3. L’abito occidentale si è diffuso in varie parti del mondo non solo attraverso le vie consuete della moda, ma anche tramite i missionari, i commercianti, gli amministratori coloniali, i militari, e le loro mogli. Uno dei primi obiettivi dei missionari nelle colonie, oltre all’evangelizzazione, era appunto, com’è noto, proprio quello di «vestire i selvaggi». È opportuno sottolineare che in epoca coloniale gli abiti degli «altri» avevano lo statuto di costume, cioè un modo considerato arretrato e più o meno primitivo di abbigliarsi, legato a istanze tradizionali, sempre uguale a se stesso, quasi che si situasse fuori dal tempo e dalla storia. Viceversa, l’abito occidentale – rafforzato ulteriormente con l’ascesa del modello produttivo e culturale della haute 3  «A half naked fakir»: Winston Churchill, 1930, www.kamat.com/mmgan dhi/churchill.htm.

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couture francese – era il simbolo della modernità e della civilizzazione. La questione ripropone un tema tipico tra Ottocento e Novecento: moda vs etnico, vestire civilizzato vs vestire dei «selvaggi». Un assioma che valeva per ogni modo di vestire che gli europei incontravano nei paesi su cui estendevano il proprio dominio, seppure, naturalmente, all’interno di questo principio informatore ci fossero ambivalenze e contraddizioni. Le pur frequenti reciproche fascinazioni, tuttavia, non hanno che rafforzato lo sfondo eurocentrico. Se l’Europa è superiore, i suoi usi e costumi vanno diffusi, ma anche regolamentati. Talvolta gli inglesi in India adottavano il modo di vestire indiano, ma parzialmente e con molte precauzioni, onde evitare la temuta eventualità di trasformarsi in nativi (going native): per la paura, cioè, di perdere la propria identità e la propria posizione di privilegio, evidentemente assicurate anche da un modo di vestire considerato simbolicamente rilevante oltreché appropriato. D’altra parte, gli inglesi impedivano ai governanti indiani loro sudditi, in occasione di viaggi in Inghilterra, di vestirsi all’occidentale: doveva essere chiara e ribadita la loro posizione di inferiorità rispetto all’impero britannico, a partire dall’abito. La precondizione per poter affermare che il costume è un insieme vestimentario fatto di immobile tradizione di popoli arretrati è che la moda sia il prodotto di una civiltà superiore. Per quanto ci siano state delle differenze evidenti tra la moda europea di Londra e Parigi agli inizi del Novecento e il modo di vestire degli abitanti di remoti villaggi in India o in Africa o nell’Europa rurale (differenze su cui non è neppure necessario soffermarsi), è invece significativo osservare che moda e costume sono venuti a rappresentare degli idealtipi stereotipati, più che delle opposizioni reali, e che in quanto tali si riaffacciano nel nostro presente globalizzato. I pregiudizi che un tempo portavano a considerare la moda quale segno della civilizzazione superiore di paesi come Francia e Inghilterra, soprattutto con Londra e Parigi, influenzano ancora il discorso della moda contemporanea. L’immutabilità del costume – che sia il sari, il kimono, l’ao-dai o qualunque altra forma di vestiario non europea – è una convinzione che si è formata tra Ottocento e primi del Novecento, ma i cui effetti sono ancora presenti nel linguaggio comune e soprattutto nel giornalismo di moda. Fino a un recente passato l’idea della moda come conseguenza esclusiva della cul­7

tura e dell’economia occidentale era condivisa peraltro anche da gran parte degli studiosi. Gilles Lipovetsky, il cui libro L’impero dell’effimero (1989) è uno dei capisaldi di teoria della moda, promuove di fatto questa visione etnocentrica. Mentre intende celebrare il valore della libera scelta di una società secolarizzata, Lipovetsky in realtà non fa che perpetuare la visione stereotipata sulle origini della moda. E cioè che la moda sia fondamentalmente un fenomeno che dalle corti rinascimentali e dalle città europee si sia diffuso nelle varie parti del mondo che ambiscono ad abbracciare la nostra cultura. Per Lipovetsky, la moda sarebbe addirittura il baluardo delle democrazie occidentali basate sulla rivincita del «frivolo». La teoria eurocentrica sulle origini della moda è stata di recente rivista, ridimensionata, criticata, se non abbandonata del tutto. Molti studi specifici basati su fonti storiche e iconografiche hanno dimostrato come ci fosse moda, cioè cambiamento più o meno veloce nelle fogge, anche in epoche passate, precedenti ai secoli XIV e XV, periodo in cui si colloca di solito l’origine del fenomeno, e anche in luoghi diversi dall’Europa (Maynard 2004, Finnane 2008, Tranberg Hansen 2000, Belfanti 2008, Riello e McNeil 2010). Il cambiamento è presente naturalmente in entrambi i registri, quello della moda e quello del costume, comunque li si voglia definire. La totale fissità non esiste, anche se il cambiamento può rispondere a logiche diverse. Gli elementi di questo cambiamento sono perlopiù interni al sistema nel caso della moda, che è un’istituzione in larga misura autoreferenziale, mentre i cambiamenti nel costume sono imputabili soprattutto a fattori esterni, socioculturali e storici. Inoltre, come dimostra Sheila Cliffe (2010) nel caso specifico del kimono giapponese, i cambiamenti nel vestire non occidentale sono riscontrabili nelle superfici e nei pattern, più che nella forma. Questo ha portato gli studiosi ad attribuire erroneamente una staticità pressoché assoluta ad abiti che non erano in grado di decodificare o che addirittura non conoscevano (Steele e Major 1999). La moda, le mode esistevano anche in passato, nonostante gli steccati im­posti dall’ideologia occidentale abbiano per lungo tempo suggerito il contrario, al di là delle definizioni di moda cui si intenda fare riferimento: cambiamento in sé, cam­8

biamento veloce, differenziazione di classe, di censo, di genere, ostentazione, comunicazione. In questi ultimi anni l’antropologia, dal canto suo, con la sua tradizione di ricerca sul campo in luoghi diversi dall’ambito occidentale, ha contribuito a dimostrare che la moda non è proprietà esclusiva dell’Occidente. Secondo alcuni autori (Niessen 2010) il fatto stesso di utilizzare l’espressione «espansione della moda» dall’Europa verso altre parti del mondo non sarebbe corretto, in quanto è già un’espressione etnocentrica, prova ulteriore della persistenza del preconcetto che la moda sia nata in Europa, in quanto culla della civiltà. Il primo assioma da mettere in discussione non è dunque quello sull’origine europea e occidentale della moda, ma quello che associa la moda alla modernità, mentre lega nel contempo il vestire degli «altri» ad una tradizione premoderna. 1.3. A macchia di leopardo: la diffusione della moda nel mondo Come conseguenza della globalizzazione, le persone sono divenute sempre più connesse e interdipendenti in molti aspetti della loro vita, incluso il modo di vestire. Nessun’altra forma di commercio, è opportuno ricordare, può vantare di essere così pervasiva e ubiqua come il settore del tessile e dell’abbigliamento che, di fatto sinonimo di moda, va assumendo una rilevanza crescente nella cultura contemporanea. Il desiderio di essere dentro lo spirito del tempo, di navigarvi con competenza, di farne parte, possibilmente anticipandolo un poco, è espresso attraverso la pratica della moda, cui pochi volontariamente si sottraggono e che molti invece ambiscono a padroneggiare, considerandola il linguaggio più immediato per compiere il viaggio nella modernità del XXI secolo. Come scrive l’antropologa Karen Tranberg Hansen, «le persone, dappertutto, desiderano ‘l’ultima moda’ qualunque sia la fluttuante definizione di preferenza locale» (2004a: 387; trad. mia). Stile, moda, abbigliamento («style, fashion, dress») costituiscono, secondo Carol Tulloch (2010), una sorta di format, un sistema di elementi tra loro interdipendenti che definiscono l’approccio culturale al vestire, divenuto discorso di una moda globalizzata. ­9

Molti studi recenti hanno analizzato gli effetti della globalizzazione sul vestire, sui gusti e sulle abitudini delle persone (Maynard 2004, Craik 2009, Kunz e Garner 2006, Crane 2004). Risulta evidente che la moda cosiddetta globalizzata non può essere considerata come una semplice espansione lineare della notorietà e del potere di stilisti, marchi e multinazionali del lusso dall’Occidente al resto del mondo. Persino la diffusione globale di jeans e t-shirt, come ha dimostrato per esempio Margaret Maynard (2004), non è uniforme, pervasiva e senza ritorno come potrebbe sembrare a un primo sguardo. Ogni scelta individuale o collettiva di adottare un pezzo del guardaroba occidentale in luoghi del mondo che utilizzano altre grammatiche sartoriali ha sempre a che vedere con il contesto locale di riferimento. Il concetto di «autenticazione culturale», cioè il processo con cui i membri di un gruppo culturale incorporano elementi culturali estranei e li fanno propri, è stato coniato dagli antropologi della moda (Eicher, Evenson, Lutz 2008) per rendere conto della complessità con cui elementi di vestiario estraneo alla propria tradizione vestimentaria vengono inseriti e inglobati nelle abitudini locali. Karen Tranberg Hansen (2000) ha sottolineato come la circolazione in Africa di abiti occidentali di seconda mano, acquistati o donati, fenomeno da lei studiato in Zambia, abbia per molti aspetti stravolto il mercato tessile locale. Ma considerare solo questa faccia della medaglia, cioè l’impatto negativo sull’equilibrio locale, sarebbe fuorviante. Tranberg Hansen ha dimostrato infatti come gli abiti usati siano stati inseriti in un discorso vestimentario più ampio, che definisce il ruolo della persona e la sua posizione in un mondo globalizzato. L’espansione della moda è parte della globalizzazione culturale, un fenomeno che Crane (2004) distingue dalla globalizzazione economica in quanto presenta in modo più spiccato la possibilità di una ricezione attiva e non passiva. I modi del vestire occidentale, confluiti nel significante «moda moderna», non sono quindi il solo vocabolario sartoriale esistente, ma l’insieme del vestire occidentale e le diverse risposte locali vanno a comporre l’attuale mosaico della moda globale, la quale, sì, è pervasiva e almeno apparentemente inarrestabile. Da un lato ci sono i brand occidentali, che si espandono nel mondo alla ricerca costante di nuovi mercati, dall’altro ci sono le grammatiche del vestire locale che si situano in diversi contesti. Infine, c’è la ­10

moda globalizzata, una sorta di nuovo linguaggio che contiene entrambi e che sempre più persone conoscono e padroneggiano nel mondo, pur declinandolo in modi diversi e pur potendovi accedere (è importante non dimenticare quest’aspetto) in modalità diversificate e ineguali. La moda globalizzata attinge a entrambi gli idealtipi, quello della «moda europea» e quello del «costume» – poli semantici, ovunque essi si trovino, di un’opposizione costitutiva di una modernità che non trova riscontro nel XXI secolo. L’attualità, il presente che seduce seguaci e autori della moda globalizzata, ha metabolizzato la «tradizione», al punto che risulta difficile considerarle categorie concettuali opposte. Nella sua semplificazione, la moda globale è essa stessa un idealtipo, avocato per nascondere le disuguaglianze che comporta – come nella United Colors of Benetton – ma nella sua pratica, come vedremo, è un fenomeno reale fluido, vivace e in movimento. Un filo rosso fatto di «storie di moda» di vario genere unisce gli ambiti più disparati e le latitudini più remote – risonando dall’ultima prestigiosa sfilata londinese, dove più che in ogni altra piazza globalizzata vengono celebrati i talenti internazionali, alla moda prodotta dalle donne di una cooperativa delle favelas brasiliane. Trasgressione cosmopolita nel primo caso, desiderio di emancipazione e di rivalsa nel secondo, ma entrambi esempi di moda globalizzata. Energia, innovazione e creatività sembrano provenire maggiormente proprio da luoghi come il Brasile, la Cina, l’India e dalle tante «città della moda» in varie parti del mondo, mentre la tradizione e il recupero della storia sartoriale sono appannaggio dei vecchi centri europei. Questo cambiamento delle tradizionali coordinate geografiche nell’innovazione della moda contribuisce in modo ulteriore a indebolire l’opposizione tra moda e costume, modernità e tradizione, e conferisce alla moda globalizzata un’inedita declinazione di «modernità», del tutto diversa da quella che è emersa con la Rivoluzione industriale in Europa. Se le ricerche dimostrano che il business si fa ancora soprattutto a New York e a Parigi, e in seconda battuta a Londra e a Milano, il quadro generale è in rapido cambiamento. Le forme della moda, gli usi e le tendenze non irradiano semplicemente da Parigi e da New York, scrive Toby Slade (2010), ma da una composizione geografica più espansa, a macchia di leopardo, con continue variazioni. ­11

Nel nuovo contesto nel quale siamo oggi totalmente inseriti, il vestire etnico, locale, adattato, ibridato, creolizzato non è più soltanto un fatto ideologico, politico o contestativo. O meglio, le istanze ideologiche, che ancora in molti casi possono essere rilevate, si contaminano con i nuovi flussi di significato prodotti dalla potenza comunicativa e commerciale della moda e si confrontano con la forza comunicazionale dei marchi del mercato globalizzato, inglobando, adattando e direzionando le mozioni più squisitamente identitarie, come nel caso del fenomeno Islam chic. Da un lato, dunque, si presenta quella che può essere definita come una «cartografia estetica del mondo e dei corpi che lo abitano» (Balasescu 2001); dall’altro il carattere nomadico della moda fa sì che i designer abbiano compreso prima di altri che la moda, e dunque la modernità, non appartengono esclusivamente all’emisfero occidentale. 1.4. Una bussola sartoriale per orientarsi nella moda globalizzata La diffusione della moda e della sua cultura nell’era della globalizzazione non avviene tuttavia in modo casuale, né è guidata interamente dalle strategie commerciali delle singole aziende o dei gruppi multinazionali del lusso, o dal gusto del pubblico, o dalla relativa libertà e agentività espressa nei fashion blog o dai sempre più visibili «designer indipendenti». O perlomeno, casualità e intenzionalità dei vari attori esistono e si verificano, ma la globalizzazione della moda è anche altro. Sotto un pattern «a macchia di leopardo» è possibile notare che i movimenti di internazionalizzazione della moda e delle sue immagini rispondono a logiche che non si sono formate di recente, ma che sono il frutto della storia stessa della moda, una storia fatta delle differenze e disuguaglianze del rapporto tra l’Europa e il resto del mondo. Relazioni storiche, politiche, economiche, di potere imprimono alle dimensioni spaziali specifiche connotazioni. Tra di esse è possibile distinguere due componenti principali: il rapporto tra Est e Ovest, cioè l’orientalismo, un termine consustanziale alla costruzione della moda europea, e il rapporto tra Nord e Sud del mondo, cioè l’emancipazione da forme diverse di dominazione sartoriale. ­12

Queste due componenti sono in parte sovrapponibili, in quanto si tratta pur sempre di rapporti di potere tra l’Occidente e il resto del mondo, tra la moda europea e le altre mode; ma per ragioni che andremo ad analizzare è preferibile considerarle separatamente. L’orientalismo è infatti il background entro cui collocare sia l’ascesa recente dell’Asia, che sarebbe più consono definire come il ritorno della rilevanza dell’Asia4, sia la storia stessa della moda occidentale dall’Ottocento a oggi. Le differenze tra Nord e Sud sono invece una conseguenza più diretta di vicissitudini e discorsi coloniali e post-coloniali, di dominio diretto e di emancipazione da tale dominio. Il rapporto tra Nord e Sud del mondo rappresenta in modo più immediato i fenomeni di empowerment per cui i designer non-occidentali (e i paesi lontani dall’epicentro della moda) si presentano sulla scena della moda: questa tendenza si attua sia all’interno dei luoghi tipici del multiculturalismo, Londra e New York in particolare, sia nei luoghi che possiamo definire «nuovi» per la moda. 1.4.1. Oriente e Occidente Est e Ovest sono i punti cardinali fondamentali nelle traiettorie del tessile e della moda. La storia della moda occidentale non può essere scritta senza parlare dell’Oriente e delle sue influenze su di essa. Scrivono Giovanna Franci e Rosella Mangaroni: L’attrazione per l’esotico nella cultura egemonica dell’Eurocentrismo è stata molto forte sin dall’antichità, da sempre ciò che rappresenta il fuori il diverso il lontano ha esercitato un fascino che si è tradotto in forme e modi differenti a seconda dell’epoca fino a diventare costume per aristocrazie intellettuali. Tra Sette e Ottocento privilegiati viaggiatori europei toccavano nel loro Grand Tour anche terre d’Oriente e ne riportavano in patria le suggestioni. La visitazione o rivisitazione – reale o di fantasia nelle regioni più remote dello spazio e del tempo – trovò nell’Orientalismo Fin de Siècle la sua espressione nella letteratura, nelle arti figurative, nell’architettura, negli arredi delle dimore, e nel modo di abbigliarsi. Il viaggio nell’esotico del passato dell’antico 4  Quasi in un atto di rimozione collettiva, l’Occidente ha cancellato il fatto che prima della Rivoluzione industriale l’Asia, e soprattutto la Cina (Abbattista 2002), fosse ben più avanti dell’Europa, e non solo in termini economici.

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Egitto, o nella classicità greca ispirò artisti e poeti influenzandone il gusto per una foggia nel vestire che rievocasse nelle linee essenziali e fluide quella bellezza perduta. Come gli abiti simili a pepli rimpianti da Oscar Wilde e reinventati da Fortuny e da Poiret (2008: 11-12).

India, Cina e Giappone, e Islam, con le loro estetiche, hanno forgiato lo stile di vita dei grandi borghesi e artisti vissuti tra la Parigi di Paul Poiret, la Venezia di Mariano Fortuny e la Russia di Sergej Diaghilev: broccati e sete, harem, odalische, cineserie e nipponismo. Paesi lontani e coloniali le cui merci si diffondono grazie anche a negozi come Liberty a Londra. Una fascinazione mai priva tuttavia di quell’atteggiamento di superiorità di chi si sente parte del mondo civilizzato e moderno e non può prescindere da quel punto di vista. Nel 1851 si tiene a Londra la Grande Esposizione delle opere dell’industria e della cultura. «Un’apoteosi del progresso materiale e del colonialismo», scrive Flavio Caroli: Le pagine del catalogo dell’India – opere di un popolo che molti credono al confine della civiltà – ammettono che certe tecniche abbiano avuto origine in Asia, però aggiungono che esse sono «naturalmente maturate» in Europa (2006: 132).

L’Oriente diviene un «luogo essenzialmente esotico, distante e antiquato in cui gli europei possono dare esibizione della loro forza», come scrive lo storico Burke (2009a: 89); è l’«altro» rispetto all’Occidente, il suo riflesso invertito, «il luogo della repulsione, ma anche della fascinazione e rappresenta una tentazione costante» (Monneyron 2008: 98). Il termine «orientalismo», coniato dallo storico palestinese Edward Said5 in un contesto geografico e politico riferito al vicino Oriente (Said 1978), è stato ripreso in diverso modo dalla letteratura dei fashion studies. Successive elaborazioni della sua teoria sono alla base di recenti analisi da parte di studiosi di moda sul rapporto tra mondo sartoriale occidentale e non occidentale. Molti autori hanno messo in luce i vari modi in cui l’industria della moda occidentale mette in essere un atteggiamento e dei compor5  Secondo la teoria saidiana l’Oriente è una produzione immaginaria dell’Occidente, realizzata entro una condizione di predominio che induce una visione di dominanza occidentale sull’Oriente.

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tamenti fondamentalmente «orientalisti» nei confronti delle mode degli altri (Niessen, Leshkowich, Jones 2003). Le interazioni tra europei e non europei sono state analizzate di recente anche dagli studiosi di storia del tessile e della moda (Riello e Parthasarathi 2009), i quali hanno dimostrato come lo sviluppo stesso della moda europea sia stato influenzato dalle fonti di approvvigionamento non europee, quali seta e cotone; e come lo sviluppo della moda europea – che dalle corti settecentesche raggiunge il suo apice con la haute couture parigina tra Otto e Novecento – abbia in realtà molti debiti con l’Asia in fatto non solo di materiali preziosi e di lusso, ma anche di stili. Fino alla Rivoluzione industriale, le fibre e i tessuti preferiti erano la seta cinese e il cotone indiano, provenienti dai due grandi paesi asiatici di riferimento per l’Europa della moda; entrambi i tessuti erano i simboli ­stessi dell’eleganza europea. Fino all’epoca dell’industrializzazione e dell’ascesa del capitalismo nel XIX secolo, come scrive Riello (Riello e McNeil 2010: 40-41), il mondo della moda era dominato dal tessile e non dalle forme o dai colori, né dai comportamenti di consumo o dalle strategie aziendali. Fino all’epoca della prima Rivoluzione industriale (1760-80/1830), definita appunto «rivoluzione tessile», l’Asia era dominante nella produzione di beni di lusso: l’Oriente era percepito come fonte di lusso simbolico e di beni pregiati ed elitari e come luogo immaginario per la soddisfazione dei desideri degli occidentali (Squarcini 2006). Con l’industrializzazione, l’Europa assume decisamente il predominio sugli scambi, dato che i prodotti cominciano a essere fatti in serie e nelle fabbriche. Un esempio tipico di un capo «scippato» all’Asia è lo scialle di cashmere, divenuto paisley dal nome del paese in Scozia dove veniva prodotto. Gli scialli, scoperti dagli inglesi in India, dove erano riservati agli uomini, ed esportati in Europa per le grandi dame dell’aristocrazia e della borghesia, cominciarono a essere prodotti industrialmente per ottemperare alla richiesta senza fine di questo accessorio di lusso da parte del mercato europeo (Lévi Strauss 1998). Un altro esempio è il cotone. Dopo la Rivoluzione industriale, il tessile occidentale prodotto nelle fabbriche ha rapidamente la meglio su quello asiatico: affrancarsi dalla produzione tessile asiatica fu uno dei fattori che promosse la moda occidentale. Il cotone veniva prodotto nelle fabbriche inglesi di dickensiana memoria, rendendo obsoleta la ­15

produzione domestica indiana (e ponendo l’India in una condizione di vassallaggio coloniale). Il cotone fu dunque in un primo tempo il protagonista della Rivoluzione industriale inglese (che lo importò dall’India e lo esportò nell’America schiavista) e poi il simbolo dell’indipendenza indiana, quando Gandhi ne ripropose, come protesta non violenta, la produzione con i telai domestici. Con l’invenzione della haute couture a metà Ottocento, a Parigi, l’Europa chiuse in un certo senso il cerchio: stile e materie sono occidentali. La couture va di pari passo con il tessile. Iniziato il declino tessile dell’Asia, l’Oriente resta comunque consustanziale alla moda occidentale per molte ragioni, e con molte ambivalenze. Di recente, alcuni studiosi di moda (Llewellyn-Jones 2010) hanno sottolineato come sia problematico separare la fascinazione per l’Oriente da interpretazioni esclusivamente negative. Da un lato gli occidentali hanno considerato l’abito orientale come una forma di mascheramento teatrale per feste o rappresentazioni – dalla corte di Luigi XV alla festa della Milleduesima notte di Paul Poiret (Parigi 1911) –; dall’altro elementi reali del guardaroba orientale erano indossati e ammirati per bellezza, stile, fattura6. Opposta a quella dei primi del Novecento è la visione dell’Oriente costruita dalla controcultura hippy degli anni Sessanta, tra la California e la Londra dei Beatles (Colaiacomo e Caratozzolo 1996): si tratta di un Oriente che la controcultura idealizza e identifica come luogo immune e come antidoto alla contestata società dei consumi. Il vestire «etnico» non è complicato, ricco, lussuoso, ma è informale, morbido, di seconda mano. Molteplici le ispirazioni orientali: sari, djellabah, camicie con il collo «alla Nehru», giacche «in stile Mao». I viaggi degli hippy, on the road, con pochi soldi e tipici di un pubblico giovanile, contribuiscono a rafforzare l’idea di un mondo incontaminato, povero, semplice e per questo in qualche misura più felice, o almeno più vicino alla natura. L’implicita visione stereotipata di civiltà occidentale vs primitivismo dell’altrove non sembra essere colta dall’ingenua ideologia della controcultura occidentale. Un Oriente a «portata 6  Una mostra dal titolo L’Orient des femmes, curata da Christian Lacroix al museo Quai Branly di Parigi (11 febbraio-15 maggio 2011), rappresenta uno studio affascinante della varietà degli abiti orientali.

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di mano» ma altrettanto costruito dall’Occidente, dunque fittizio quanto quello distante della haute couture e altrettanto indifferenziato, come nella teoria di Said, che va dal Marocco all’Africa nera, dall’India al Sud America. Una visione che si basa sull’implicita, anche se non sempre apertamente riconosciuta, superiorità del mondo occidentale. Il viaggio hippy verso oriente, cioè verso tutti i paesi non occidentalizzati, è in una sola direzione, da ovest verso est, perché solo agli occidentali è dato partire e tornare a loro piacimento con i preziosi tesori simboli del guardaroba della controcultura, secondo il loro desiderio e finché esso sussiste. Con la cosiddetta «rivoluzione giapponese» – negli anni Ottanta del Novecento – il mondo della moda scopre, celebrando il successo di Yohji Yamamoto, Issey Miyake e Rei Kawakubo, che ci può essere un’avanguardia giapponese e che non si tratta di un ossimoro. Si delinea un Oriente diverso sia da quello lussuoso e distante dei primi del Novecento, sia da quello povero e autentico scoperto dalla controcultura degli anni Sessanta (Segre Reinach 2006a). Kawamura (2004) sottolinea tuttavia come questa rivoluzione sia stata parziale, in quanto il centro della moda è rimasto Parigi, e da Parigi i tre giapponesi sono dovuti passare per poter raggiungere il successo internazionale. Dorinne Kondo (1997), ancora più critica di Kawamura, segnala l’atteggiamento prevalentemente stereotipato e orientalista con cui la stampa di moda commentava, all’epoca delle prime sfilate parigine, le collezioni dei tre stilisti giapponesi, nella difficoltà di coniugare l’avanguardia con l’Oriente. Scrive anche Thuy Linh Nguyen Tu: Collocando le «interpretazioni» occidentali in una posizione superiore rispetto a quelle «originali» orientali, i mediatori culturali hanno contribuito a ristabilire l’autorità del soggetto occidentale e il valore unico della creatività. In questo modo, essi hanno riaffermato l’Occidente come la vera fonte della moda – a prescindere dal fatto che si ispiri ad altri luoghi – autorizzata a dettare le tendenze per il resto del mondo (2011: 121; trad. mia).

Solo di recente, in effetti, gli assetti consolidati negli ultimi 150 anni stanno realmente modificandosi. All’interno del ritorno di importanza economica dell’Asia – eclissata sin dai tempi della prima Rivoluzione industriale – si presentano nuove configurazioni. ­17

Ciò che si era realizzato in parte con Issey Miyake, Rei Kawakubo e Yohji Yamamoto sulle passerelle parigine degli anni Ottanta, oggi avviene in modo ancor più significativo per molti stilisti e aziende che provengono dall’Asia, come vedremo nel secondo capitolo. Il successo della moda indiana ne è un esempio. Ma in particolare è l’ascesa della Cina, ormai seconda solo agli Stati Uniti per potenza economica e influenza internazionale, ad aver dato un contributo sostanziale allo scioglimento degli orientalismi dei secoli passati. Il paradosso è che proprio nella moda, come vedremo meglio nel terzo capitolo, l’affermazione della Cina risente di pregiudizi e stereotipi. 1.4.2. Nord e Sud Si tratta, come per l’asse Oriente-Occidente, di un rapporto di dominazione che la moda occidentale esprime nei confronti di altri luoghi, altre estetiche, altri individui. Mentre tuttavia Oriente e Occidente sono i poli più antichi di un discorso ancora in atto dal punto di vista antropologico e filosofico (Goody 1999) e di una storia punteggiata di reciproche fascinazioni in campo tessilevestimentario, la coordinata Nord-Sud esprime più direttamente il disequilibrio della relazione tra modernità occidentale e resto del mondo. Nord e Sud del mondo hanno infatti a che vedere con il processo di decolonizzazione di molti paesi che si sono affrancati dalla dominazione europea e occidentale (dapprima spagnola e portoghese e poi soprattutto olandese, tedesca, francese e inglese) con le conseguenti ambivalenze nelle interpretazioni del vestire e con l’ingresso della «tradizione etnica» nell’estetica contemporanea. Un ambito che oppone un Nord ricco e privilegiato a un Sud molto spesso dipendente, direttamente o indirettamente, e in vari modi sfruttato dal Nord. Per ciò che riguarda l’Asia e l’Africa, nella prima fase del processo di decolonizzazione dal dominio europeo, principalmente francese, inglese, tedesco – cioè dal 1945 al 1955, anno della conferenza di Ginevra –, l’abito occidentale è stato investito di grande valore simbolico e viene preferito, in alcuni casi addirittura prescritto, anche da governi locali che identificano la modernità con l’Occidente. Perciò i primi anni del cosiddetto periodo postcoloniale, che ha coinvolto soprattutto l’Asia, sono caratterizzati ­18

da una tendenza ad adottare la divisa occidentale7. Nei decenni successivi, conclusa la gran parte del processo di decolonizzazione, prende forma un atteggiamento opposto rispetto alla politica del vestire. Ritornare al modo di vestire locale, alle tradizioni cosiddette «etniche», popolari, autoctone, diventa parte di una ricerca e di un’affermazione della propria identità culturale e politica. Molti leader politici di diverse parti del mondo ex coloniale mettono in discussione, anche attraverso le regole vestimentarie, il concetto che la modernità e il progresso siano esclusivamente occidentali o che debbano seguire modelli occidentali di sviluppo. Spesso, è opportuno segnalare, si tratta di un fenomeno che riguarda più le donne che gli uomini. Come ha dimostrato Margaret Maynard (2004), sono le donne le più frequenti «depositarie della tradizione»: non tanto per motivi ideologici, quanto perché, specie nei paesi delle ex colonie e di quello che un tempo si chiamava Terzo mondo, esse sono meno inserite di quanto non siano gli uomini nel processo di urbanizzazione e nel mondo del lavoro – che si caratterizza per un’estetica occidentale, e dunque sartorialmente orientato ad adottare la divisa del funzionario prima e del manager poi. Seppure la scelta di vestire «locale» porti con sé la valorizzazione di una tradizione che si vuole affrancata da visioni arcaiche, questa stessa «tradizione» è ancora in un certo senso opposta alla «modernità» del lavoro e dell’urbanizzazione. Da un lato, quindi, si afferma la tendenza a conferire un significato moderno e storicizzato alle pratiche sartoriali locali, dall’altro il mondo del lavoro privilegia la presenza maschile e l’estetica occidentale. Ciò non può che sottolineare l’intima relazione che si va affermando tra le categorie di modernità e tradizione, cioè il modo in cui esse si costituiscono dialetticamente l’una con l’altra e le direzioni in cui evolvono anche in termini di politiche di genere, come nel caso della moda islamica (vedi cap. IV). La presunta omogeneizzazione sul modello vestimentario occidentale è in realtà un fenomeno più complesso, che si interseca 7  Questo «dogma» può anche essere assunto come iperbole non priva di denuncia critica, per quanto inconsapevole, come nel caso dei Sapeur congolesi (di cui parleremo nel secondo capitolo), una consociazione di uomini che vestivano all’occidentale, investendo ogni risorsa economica per ottenere capi francesi di grande prestigio, mirando a competere con l’eleganza parigina.

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con la persistenza di abiti della «tradizione» e con l’adattamento e acquisizione entro grammatiche diverse del vestire. L’opposizione tra abito occidentale e abito locale si fa meno rigida, e si affermano forme diverse di «creolizzazione», cioè di commistione tra i due regimi sartoriali, etnico e occidentale. Intorno alla fine del secolo XX, le grandi trasformazioni postcoloniali si incrociano con quelle prodotte dalla globalizzazione dei mercati, al cui centro si inserisce la moda e la sua cultura come espressione di un mercato più pervasivo e coinvolgente. L’ingresso della moda e del mercato nelle questioni identitarie e politiche mette in crisi in modo ancora più netto l’opposizione modernità e tradizione, maschile e femminile, accentuando invece il tema dell’identità culturale, personale e collettiva. Ripercorrere le tematiche del vettore Nord e Sud significa riconsiderare in modo nuovo il rapporto tra la moda e il cosiddet­to «etnico». Per quanto l’ethnic chic sia un concetto che si è sviluppato negli anni Novanta e che possiamo ricondurre a una ­forma di orientalismo, oggi sta assumendo valenze più complesse. Nel 2004 BBC News ha dedicato un programma alla rivoluzione avvenuta nella moda del Parlamento sudafricano grazie a Mandela8. Prima del 1994, infatti, le sedute del Parlamento africano erano caratterizzate dal colore grigio dei sobri completi maschili e dal cappello a bombetta; con Nelson Mandela – noto per il fatto di partecipare alle riunioni indossando le coloratissime camicie batik, denominate madiba dal titolo onorifico adottato dai membri anziani della famiglia di origine di Mandela – lo stile dei parlamentari ha cominciato a cambiare completamente. Oggi si vedono parlamentari in turbante in stile Erykah Badu, copricapi xhosa (bantu), capelli rasta, camicie con colli alla Nehru, cappelli in stile zulu, uomini in umbhaco, cioè in una «gonna per uomini» xhosa, e parlamentari a piedi nudi. Nuovi designer emergono dalle zone economicamente depresse e politicamente più difficili: per esempio Zolaykha Sherzad, afgana, fondatrice nel 2004 di Zarif Design a Kabul, una cooperativa di donne che producono capi fatti a mano, il cui emblematico 8  Fred Khumalo, How Mandela changed SA fashion, «BBC Focus On Africa» magazine, 5 August 2004.

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claim è «Reviving the tradition – Shaping the future». Talvolta il valore «etnico» si incrocia con il mercato, ed è complesso stabilire quanto «pesino» i due ingredienti, come il caso del marchio americano e kenyota Suno, così chiamato dal nome della madre keniota del fondatore Max Osterweis9. Ma molto spesso sono i membri delle stesse «minoranze etniche» a voler rappresentare direttamente la loro tradizione immettendola nei circuiti della moda, e alcuni di loro diventano poi stilisti di moda riconosciuti. In Canada e in Australia, accanto all’affermazione di una moda «nazionale», soprattutto nello sportswear, a sua volta una forma reattiva nei confronti dell’alta moda parigina, ci sono interessanti filoni di moda «aborigena e nativa», cioè di culture e popoli indigeni, preesistenti all’insediamento occidentale. Jennifer Craik identifica tre versioni di «australianità» in merito al vestire10. La prima è la trasformazione in fashion style del ­bushwear tradizionale, il mito della rude vita all’aria aperta, maschile e lontana dalla città; la seconda è la centralità dell’abbigliamento da surf e da mare nell’identità della moda australiana; la terza è rappresentata dall’incorporazione dell’immaginario australiano e dall’appropriazione specifica di motivi indigeni nei tessuti e nel design dei capi di moda. In vari cicli, scrive Craik, queste tre modalità hanno influenzato l’idea di un vestire australiano e dei suoi codici di riconoscibilità. La prima ha a che vedere con il senso del luogo, la seconda con il senso del corpo e la terza con un senso di «eredità culturale». Oscillando tra queste tre modalità si è venuto costruendo il senso di uno stile australiano contemporaneo. Dagli anni Ottanta molti designer australiani hanno introdotto il tes­ sile aborigeno nelle loro collezioni, e nel giugno 2010 Samantha ­Harris, modella aborigena, è stata scelta per la copertina di «Vogue Australia», dal titolo A New Generation of Beauty. Un altro esempio è il Tiwi Design Center, un centro che è stato fondato nel

9  Suno ha come missione quella «di costruire un’impresa di successo che impieghi talenti locali, tratti i lavoratori in modo equo e metta in rilievo le capacità artigianali e artistiche del Kenya in modo da poter avere un impatto positivo e di lunga durata nel sociale e nell’economia» (dal sito www.suno.com). 10  The Australian-ness of Australian Fashion, in UnAustralia: The Cultural Studies Association of Australasia Annual Conference 2006, Canberra, 6-8 December 2006.

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1960 nella township di Nguiu (sull’isola di Bathurst, al largo delle coste australiane) per promuovere il tessile e altre forme di artigianato locale. Anche in Africa la moda appare spesso, vedremo, uno strumento di emancipazione sia per chi la produce, la disegna, la realizza, sia in senso più generale, come comunicazione di aspetti opposti rispetto alla miseria e alla corruzione cui stereotipicamente si ricorre per descrivere la maggior parte delle nazioni africane. Non solo in città come Dakar, da tempo centro della moda dell’Africa occidentale, ma anche nei moltissimi e popolosi centri urbani in cui vivono molti giovani stilisti. Questi designer presentano collezioni che traggono spunto da materiali e lavorazioni locali, come la nigeriana Bunmi Olaye, inserendoli nel processo creativo a vari livelli. Se la moda riscopre concetti come etnicità e identità, non è per riaffermare i vecchi miti della premodernità, ma per utilizzarli, come afferma Callari Galli, «come processi dinamici che si costruiscono attraverso le pratiche dei contatti culturali» (2005: 23). Moda come «veste magica», dunque, che conferisce un’identità significativa da giocare nelle rotte della globalizzazione. Burke definisce questo «risveglio etnico» quale «ritorno dei repressi» (2009b); un fenomeno che fa rileggere a ritroso anche molti degli imperialismi del passato (ellenizzazione, romanizzazione, ispanizzazione, anglizzazione ecc.), probabilmente meno totalizzanti, scrive Burke, di quanto la storia ci abbia insegnato. In seguito alla Rivoluzione argentina del 1810, per esempio, l’abito dei giovani patrioti ha ispirato una nazione e contribuito a distanziarla da ciò che restava del colonialismo spagnolo, promuovendo sia un’estetica squisitamente argentina, sia mozioni prettamente politiche, come dimostra Regina Root nel suo libro Couture and Consensus (2010)11. È interessante notare che, in luoghi molto distanti per geo­ grafia e cultura, si possano rilevare comportamenti simili da parte dei designer non occidentali. Ad esempio, c’è una netta differenza tra le diverse generazioni di stilisti in relazione al tema 11  Anche nel presente, come scrive Alessandra Vaccari, la presenza di un design indipendente argentino, identificato in una dialettica tra identità e diversità, «ha svolto in Argentina un ruolo cruciale nei processi culturali, produttivi e sociali di superamento della crisi. Ha contribuito ad aggiornare la concezione della moda, riflettendo sul suo ruolo etico e politico» (2010: 292).

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modernità-tradizione sia in Africa che in Cina: mentre i designer della prima generazione hanno generalmente sentito la necessità di esprimere la cultura sartoriale locale in modo esplicito, nel caso dell’Africa inserendo richiami di tradizione tessile, nel caso cinese esotizzando la tradizione manchu (Rovine 2010, Bao Ming Xin 2008) in modo quasi rivendicatorio, le generazioni più giovani sono caratterizzate da una creatività più astratta e concettuale, in cui il luogo d’origine diventa ispirazione di un modo di creare moda e non una citazione esplicita e letterale della tradizione. Come nota Thuy Linh Nguyen Tu a proposito della giovane generazione di designer asiatico-americani, «Queste connessioni materiali si manifestano nel regno del simbolico non attraverso l’uso di immagini e stili esotici, ma con un approccio particolare al design» (2010: 25; trad. mia; vedi a tal proposito anche i capp. II e III). Il ritorno di un interesse per l’identità nazionale in termini estetici e sartoriali è una conseguenza dell’interazione tra queste due direzioni della moda globalizzata, Oriente-Occidente e Nord-Sud del mondo. La nuova semantica dei poli della bussola sartoriale va a comporre quella cultura della moda che ha cominciato ad affermarsi a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, e che riguarda sia l’internazionalizzazione della moda che il suo rapporto con i centri irradiatori di tendenza. Di questi due aspetti ci occuperemo nei prossimi paragrafi. 1.5. Mode nazionali nello scenario globalizzato La moda nazionale è un’espressione della moda globalizzata, laddove lo stile internazionale poteva essere definito come un’espressione della moda europea francocentrica. Le nuove forme di nazionalismo rappresentano il segno specifico di un’estetica riconoscibile e riconosciuta. La presenza sul palcoscenico globale sembra infatti implicare il riconoscimento di un’autorevole presenza estetica, oltre che economica, sul piano nazionale. La presentazione delle capacità estetiche può talvolta sopperire alla debolezza in altri campi. Cina e Italia da questo punto di vista rappresentano due poli opposti: per la prima, grande potenza economica e politica, ma difficoltà a rappresentare uno «stile ci­23

nese»; ininfluenza negli scenari mondiali, ma riconosciuto talento e produzione estetica nel caso della seconda12. Vedremo nel terzo capitolo, dedicato alla moda cinese, come questo incida nelle collaborazioni in joint venture tra italiani e cinesi e come l’ascesa della Cina comporti una trasformazione negli stereotipi Est-Ovest. Se nei primi anni del dopoguerra era soprattutto l’industria tessile a promuovere la nascita di mode nazionali, negli anni Ottanta e Novanta è un convergere di interessi privati e pubblici. La produzione estetica interessa tanto il sistema della moda – stilisti, industria, media, distribuzione – quanto, in termini di comunicazione, le agende dei governi. Seppure in molti casi si riduca a un dispositivo comunicazionale, la capacità della moda nazionale di stimolare forme di attrazione sul territorio, di intensificare gli scambi e di rafforzare al contempo anche l’identità è notevole. La moda nazionale, cioè la riconoscibilità dello stile di un pae­ se, riprende vigore in epoca di globalizzazione, seppure il termine «nazione» presenti caratteristiche diverse da quelle che aveva nell’Europa dell’Ottocento, prive delle implicazioni romantiche dei nazionalismi del passato. L’identità nazionale nel nostro tempo, tuttavia, «rimane uno dei temi topici fondamentali negli studi più recenti; per esempio, il cosiddetto boom degli studi sulla memoria collettiva nel senso di una tradizione consapevolmente trasmessa da una generazione all’altra» (Burke 2009a). La moda sembrerebbe anche da questo punto di vista più vicina dell’arte al tema dell’identità nazionale. Mentre l’arte conserva una sorta di «elitarietà borghese», come già Pierre Bourdieu aveva evidenziato nel suo noto saggio sul gusto (1983), la moda di marchi e stilisti, ciò che compone il cosiddetto «lusso», è un’evidente espressione di cultura popolare, post-borghese e globale, come sostiene Giorgio Riello: «c’è una sorta di rivendicazione della moda da parte delle nuove nazioni»13. La moda, la capacità cioè di produrre un’estetica e dunque dare avvio a una sorta di desiderio mimetico, per utilizzare l’espressione girardiana (io desidero ciò 12  Come ebbe a scrivere l’antropologo Clifford Geertz (1980) a proposito degli spettacoli balinesi nell’Ottocento, lo stato era debole, ma spettacolare. Dare spettacolo era la sua raison d’etre. 13  Paper presentato da Giorgio Riello al convegno Interactions, Centre for Fashion Studies, Università di Stoccolma, 3-4 Ottobre 2008 (trad. mia).

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che l’altro desidera), è al centro della questione della necessità di esprimere una moda nazionale14. Tutti desiderano sottolineare la presenza della moda nel loro paese, costruire o ricostruire legami con le loro specifiche tradizioni sartoriali, promuovere sfilate, settimane della moda, in una sorta di potlach15, cioè di scambio iperbolico e ritualizzato, che sembra rappresentare un indicatore sintetico di «modernità globalizzata» sempre più necessario e imprescindibile. Quanto più l’industria della moda è transnazionale, un business globalizzato condotto da professionisti di varie parti del mondo e molto spesso loro stessi in viaggio, tanto più appare necessario promuovere una creatività nazionale – nonostante la natura ibrida della moda, che in quanto produzione culturale non può che essere sempre multiforme. Attraverso la moda passano narrazioni culturali. Per questo la moda è un linguaggio che va ben oltre gli abiti in cui si materializza. I designer raccontano se stessi e i loro paesi, pre­ figurando un futuro o rifacendosi al passato in caso di una storia significativa in campo tessile-vestimentario da raccontare. Più spesso sono presenti entrambe le componenti. Anche l’incontro tra marchi storici europei e designer globalizzati dà luogo a intrecci narrativi particolarmente densi e coinvolgenti, come nel caso dell’anglo-kenyota Ozwald Boateng per Givenchy (vedi cap. II), dell’indiano Manish Arora per Paco Rabanne, ma anche come Thakoon Panichgul, designer tailandese naturalizzato americano, che nella sfilata per la PE 2011 ha presentato una collezione –  definita «a vivid, global vision»16 – che coniuga i pattern dei tessuti masai con i panniers alla Maria Antonietta;

14  La Cina nella cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici ha cercato di presentarsi come una Grande Civiltà del passato in grado di comunicare anche modernità con un’estetica e una coreografia contemporanee ad opera di Zhang Yimou, diversamente da quanto accaduto durante le Olimpiadi di Atene in cui lo stesso regista aveva giocato la carta delle «Lanterne Rosse» promuovendo un nazionalismo più tradizionale e stereotipato. 15  La pratica del potlach, rilevata dagli antropologi in diverse parti del mondo e soprattutto in Melanesia, si articola in una complessa rete di prestazioni e controprestazioni di carattere circolare, utile ad affermare e riaffermare le gerarchie sociali interne ai gruppi coinvolti e a determinare le gerarchie tra i gruppi in questione. 16  www.fashionetc.com.

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o ancora come nella visione storico-antropologica dell’italiano Rodolfo Paglialunga per Vionnet. In un’intervista al «Jing Daily» Zhang Zhifeng, designer cinese del marchio luxury Ne·Tiger (fondato nel 1991), si è così espresso in merito al rapporto tra nazionalismo, moda e minoranze etniche: Nell’era della globalizzazione, la fusione delle culture ha raggiunto nuovi livelli. È il nostro concetto di design di «combinazione dell’antico e del moderno, di Oriente e di Occidente» che è di moda. Così come la collezione Hua Fu di NE·TIGER, che rappresenta l’abito tradizionale cinese, è diventato il simbolo dello spirito cinese. Hua Fu adotta la «cortesia» come spirito, il «broccato Yun» come materiale, il ricamo cinese come tecnica, i colori nazionali cinesi come base. Possiede le caratteristiche per essere simbolo, per essere classico, per riflettere la fusione e la compatibilità delle razze e delle minoranze e per rappresentare la modernità. Hua Fu appare come l’erede della civilizzazione cinese e mi auguro che porti avanti e diffonda la civilizzazione cinese del lusso nei luoghi del mondo dove si affermerà (trad. mia)17.

La nazionalità o, per meglio dire, le forme di costruzione d’identità nazionale che la moda è in grado di mettere in atto sono spesso supportate dai governi stessi, per esempio nel caso del Canada (Franci e Mangaroni 2008) e dei paesi scandinavi (Skov e Riegels Melchior 2011) che ne hanno compreso l’importanza. Le biografie di sarti, artigiani, calzolai, la riscoperta degli archivi tessili fanno parte di una tendenza della nuova storia culturale, volta ad approfondire i progetti di costruzione dell’identità «in un’epoca in cui la ‘politica dell’identità’ è divenuta una delle questioni più urgenti in tutti i paesi» (Burke 2009a: 121). Concetti come heritage (nel senso di eredità storico-culturale), craftmanship, artigianalità e, per l’Italia, «bottega artigiana» (cfr. anche cap. II) sono al centro di molte strategie di comunicazione, da Louis Vuitton a Salvatore Ferragamo (Segre Reinach 2010c). Burberry è il marchio che rappresenta l’Inghilterra del trench, mentre Tod’s

17  NE·TIGER Founder Discusses History, Future Of Luxury In China, «Jing Daily», 1 April 2010; www.jingdaily.com/en/luxury/interview-ne-tiger-found er-discusses-luxurys-history-future-in-china/.

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ha come claim «Italian Moments» e il suo fondatore Diego Della Valle collabora con un significativo apporto economico al restauro del Colosseo a Roma. In tutta l’Asia, generalmente considerata dall’Occidente solo come un luogo di produzione a basso costo, sono state varate strategie nazionali di promozione di moda e marchi locali. Nel 2001 il Vietnam ha lanciato una «Speed Up Strategy for 2010», in cui il governo pianificava aiuti economici e incentivi per le aziende manifatturiere che progettassero marchi propri. I governi di India e Cina hanno fatto lo stesso con iniziative simili collegate alla promozione della creatività e dell’innovazione. In generale, come nota Thuy Linh Nguyen Tu (2010), è in atto un cambiamento del ruolo della cultura nell’ambito della nuova economia globale. L’industria culturale, di cui la moda è una delle voci più rilevanti, è sempre più significativa nei bilanci economici nazionali. Per questo la ricerca e la teatralizzazione di una moda nazionale coinvolge anche paesi come la Francia, l’Inghilterra, gli Usa, l’Italia e il Giappone, cioè paesi già affermati e non solo quelli che finora, per varie ragioni, non sono stati nelle condizioni di esprimerla. In Francia, dove anche grazie alle più recenti acquisizioni si sta concentrando il mercato del lusso, il concetto di «patriottismo economico» coniato dal deputato Bernard Carayon è ciò che informa le azioni delle grandi multinazionali come PPR e LVMH. In Italia, come vedremo nel secondo capitolo, la questione è scivolata da un’identificazione della moda nazionale con il made in Italy, rivendicato a colpi di proposte di leggi, fino alle riflessioni più recenti sul saper fare diffuso (Colaiacomo 2006, Volonté 2003, Mora 2009, Frisa 2011), seppure a discapito del mito dell’integrità della filiera, recuperato, peraltro, su un altro piano: quello del «territorio dello stile». Il Brasile, nazione in forte espansione economica, punta a costruire una nuova moda nazionale che vada oltre lo stereotipo di «football, bikini e samba», e lo fa con designer riconosciuti come Lucas Nascimento, Andrea Marques, Joao Pimenta, Julia Valle, Pedro Lurenco e molti altri. In generale, si può dire che la gran parte dei paesi sia interessata all’espressione creativa che passa attraverso la moda. L’identità nazionale è il campo non solo dei grandi marchi, ma anche dei designer indipendenti, seppure in quest’ultimo caso sia espresso in termini più sottili, meno roboanti. I grandi spazi ­27

americani di Rodarte o la maglieria di The North Circular18, fondato dalla modella inglese Lily Cole, che utilizza lana di pecore salvate dal macello lavorata da anziane signore inglesi e scozzesi, o le stampe di interni inglesi di Mary Katrantzou, designer greca che opera sulla piazza londinese, sono tra i molti esempi che si possono portare. Il processo tuttavia è complesso e non scevro di trappole etnicizzanti. Da un lato le nazioni, per dimostrare di essere capaci di produrre moda, devono dimostrare di essere moderne. Ma per stabilire il loro contributo originale, sostiene Thuy Linh Nguyen Tu (2010) devono enfatizzare i marcatori nazionali e le loro tradizioni etnicizzate. Dall’altro lato è la definizione stessa di modernità che, includendo progressivamente contributi nazionali e peculiari, continuamente contribuisce a ridefinire anche il significato di «moda moderna». Jennifer Craik (2002), a partire dai suoi studi sulla moda australiana, ha contribuito a individuare le dimensioni del processo di formazione di uno stile o di una moda nazionale: un senso nazionale dello stile o della moda – che lei vede come sinonimi – è l’incapsulamento espressivo dello spirito del tempo di un certo luogo da parte delle persone. Fenomeno che si verifica quando l’estetica, la pratica culturale e l’articolazione culturale sono in sincronia. La dimensione estetica si riferisce, secondo Craik, alla distintività e alla riconoscibilità degli stili di abbigliamento, come la scelta di certi abiti, del taglio, degli insiemi che ne derivano; sono i modi di vestire e di combinare capi, colori, materiali, fibre, ciò che contribuisce a creare un certo «look». La pratica culturale si riferisce invece al modo di acquistare e indossare determinati capi, per esempio in occasioni speciali o quotidiane, modalità che offrono un’intepretazione delle specifiche relazioni tra il corpo e l’ambito culturale. La terza dimensione, l’articolazione culturale, si riferisce infine all’abilità dello stile o della moda di essere proiettata con sicurezza fino al punto in cui viene data per scontata, «naturalizzata», al punto, cioè, in cui percezione interna e percezione esterna vengono a coincidere. Il nazionalismo della moda in epoca globale, diversamente dal passato, è espressione di «creolizzazione del mondo», cioè della   www.thenorthcircular.com.

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teoria della mescolanza culturale, un’alternativa intermedia, scrive Burke (2009b), tra i due estremi spesso teorizzati nell’approccio alla globalizzazione: quello dell’avvicendarsi delle culture al comando del mondo – per esempio un tempo c’era l’Europa, poi venne il turno degli Stati Uniti e ora c’è l’Asia – e quello, altrettanto ingenuo, dell’inalterabilità delle tradizioni locali. L’espressione di una moda nazionale può essere vista sia come reazione al fatto che le rotte della globalizzazione hanno interrotto l’unicità – spesso idealizzata più che praticata – del processo ideativo e manifatturiero (pensiamo a Bulgari diventata francese, o a Prada quotata alla Borsa di Hong Kong, o a Ferragamo in società con capitale cinese e quotata in Borsa), sia come l’espressione delle pluralità locali delle ispirazioni che compongono la progettazione della moda globale. Una forma di rilocalizzazione del pensiero e non solo delle pratiche. 1.6. Il policentrismo e le capitali della moda Il policentrismo è il termine che indica la presenza di molti centri della moda, città e metropoli che sono, si definiscono o ambiscono a diventare «capitali della moda». Un tempo c’era Parigi, e tutto girava intorno alla moda francese. Per Luigi XIV (1638-1715) «la moda è lo specchio della storia» e per Colbert (1619-1683) la moda per la Francia vale come le miniere d’oro per il Perù. L’accentramento su Parigi e Versailles fa sì, poi, che sia possibile che Maria Antonietta (1755-1793) rappresenti, seppure in modo inconsapevole, l’inizio di un nuovo corso per la moda, quello della sua affermazione come campo autonomo, in un processo storico iniziato già nel Seicento: una moda che, a differenza del passato, comincia ad obbedire a logiche proprie. Prima di allora, infatti, «la moda era sottomessa ai diktat e alle scelte dei potenti e le tendenze emergevano principalmente da dinamiche esterne alla moda» (Godart 2010: 49; trad. mia)19. Un

19  Il ruolo di Maria Antonietta quale iniziatrice di un nuovo corso è stato colto anche dalla regista Sofia Coppola, che nel suo film Marie Antoinette, pur basato su accreditate biografie storiche, tratteggia la regina di origini austriache come una fashion addict dei nostri tempi, quasi fosse una protagonista di Sex and the City..

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rapporto così stretto quello tra Parigi e la moda che perdura fino ai giorni nostri. La competizione tra Parigi e Londra è successiva e realizzata su un fronte diverso, quello dell’eleganza maschile, cioè in un certo senso quasi di negazione della moda, perché moda e donna restano per molto tempo, perlomeno fino al secondo dopoguerra, come vedremo, un binomio inscindibile, forte tanto quello tra moda e Parigi, appunto (Breward 2011). Valerie Steele, nel libro dedicato a Parigi città della moda, scrive che gli stranieri «hanno copiato le mode di Parigi per secoli – benché spesso lamentando che non fossero adatte per gli abitanti più virtuosi delle altre nazioni» (Steele 1999: 3; trad. mia). Le copie dei modelli parigini non erano mai precise, ma erano sufficientemente simili da lasciar trasparire più o meno direttamente la provenienza, tracciando la linea di discendenza dall’originale parigino20. Con l’ascesa della borghesia urbana parigina, il demi-monde diventa il vero destinatario della moda e il suo più sapiente interprete. Parigi diventa la Ville lumière. Con l’invenzione della haute couture, a metà Ottocento, è il benchmark per ogni altra moda che intenda imporsi. L’«imitazione di Parigi» è il solo modo per poter partecipare – seppure sempre in secondo piano rispetto all’originale centro considerato irraggiungibile – al gioco della moda. La prima «ondata» di capitali della moda che competano adeguatamente con Parigi risale al periodo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Novecento. Secondo Breward (2011), mentre lo sviluppo delle città della moda prima della guerra era focalizzato sulla costruzione delle fondamenta infrastrutturali e sui luoghi di rappresentazione come parte di una promozione più ampia degli ideali metropolitani, nel secondo dopoguerra l’identità delle città della moda diventa più strettamente collegata con l’evoluzione stessa della moda moderna. Dagli anni Sessanta in poi, al nuovo ordine dei principali centri della moda corrisponde l’ascesa di un’industria basata sull’idea di moda nazionale, che prevede l’e-

20  Nell’Ottocento le nazioni più puritane rendevano i modelli meno osée, come dimostrano le stampe dell’epoca in cui lo stesso vestito è rappresentato in Inghilterra in modo molto più modesto (con il seno più coperto) rispetto all’originale parigino (Steele 1999: 4). Gli americani sono stati ancora più ambivalenti degli inglesi nei confronti della moda parigina, in quanto la loro identità culturale si è formata come reazione all’Europa.

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mergere di vere e proprie capitali della moda. Milano con il suo prêt à porter caratterizzato dall’estetica industriale, New York con la trasformazione del garment district da industria produttiva a industria culturale, Tokyo in tutta la forza della sua avanguardia grazie alla «rivoluzione giapponese a Parigi», Londra che già dagli anni Sessanta, oltre alla tradizione nell’abbigliamento maschile, si era affermata per le «mode di strada» con Mary Quant e Biba: si tratta di città tutte appartenenti al mondo occidentale, con l’eccezione di Tokyo che conserva lo statuto ambivalente di avamposto occidentale in Oriente. Dagli anni Novanta si verifica una seconda ondata di nuove città della moda. La «Cool Britannia» di Tony Blair rilancia la swinging London degli anni Sessanta nella nuova veste di capitale dello stile dove sfilano i talenti internazionali più d’avanguardia. Dai primi anni del XXI secolo molte altre città ambiscono a coprire la mitizzata «quinta» o «sesta posizione» (poiché Tokyo non sempre viene conteggiata) nella classifica delle capitali della moda globalizzata: Shanghai, Stoccolma, San Paolo, Mumbai e Copenhagen, per nominarne solo alcune. Come scrive Lise Skov (2011), c’è stata negli ultimi decenni un’esplosione della retorica sui centri della moda. La ricerca spasmodica dell’industria della moda verso il lancio di nuove città, commenta Skov, è possibile solo per il fatto che l’industria è già ampiamente globalizzata. Gli effetti della delocalizzazione e della crescente internazionalizzazione degli scambi frammentano infatti le sorgenti dello stile in un caleidoscopio polimorfico e cangiante. Ovviamente le diverse città non si equivalgono per influenza, potere, copertura mediatica e transazioni economiche che si attuano entro il loro territorio. Le città leader, secondo Godart (2010), sono ancora oggi Parigi e New York, ma la tendenza, dagli anni Ottanta del Novecento a oggi, è un dialogo tra moda come produzione di manufatti e moda come produzione di immaginari in cui le diverse città inseriscono la propria voce. Si va diffondendo e affermando una nuova cultura della moda in cui luogo, identità estetica, cultura del progetto e pratiche di consumo si intrecciano provocando un interessante legame tra turismo e moda. Sempre più spesso tra le attrattive di un luogo – che sia una città, ma anche un luogo «inventato» per vacanze, come Palm Springs (Wessie Ling 2011) – si inserisce il poter vantare una «settimana della moda», con uno ­31

stile e un’estetica caratterizzanti. Può essere un modo di vestire, di fare shopping, di vivere il tempo libero, può essere una specialità produttiva o di consumo, dal ricamo tradizionale al surfwear hawaiano. Milano, ad esempio, che non rientra nel circuito delle città d’arte italiane, che sono Firenze, Roma e Venezia prima di tutto, deve allo shopping, e in particolare allo shopping di moda, il motivo principale di una visita da parte dei turisti soprattutto stranieri. Una piccola città come Reykjavík, capitale dell’Islanda, con una popolazione di appena trecentomila abitanti, è considerata un centro di tendenza grazie alla presenza di un gran numero di designer indipendenti e creativi (Sigurjónsdóttir 2011). La relazione con la cantante e rock star islandese Björk – quindi l’aspetto culturale della moda intesa come stile, nella quasi totale assenza di industria locale – può essere altrettanto rilevante per il suo affermarsi come città della moda in un’epoca di delocalizzazione produttiva. D’altro canto l’Italia sta riproponendosi come luogo dell’alta qualità manifatturiera. Le città si servono della moda e a sua volta la moda usa la cit­ tà. Come negozi pop up, città pop up salgono alla ribalta, per poi lasciare il posto o aggiungersi, più o meno temporaneamente, più o meno virtualmente, ad altre e altre ancora. Accanto a processi più tradizionali, seppure sempre meno legati a un’industria e caratterizzati piuttosto da tante singole manifatture, scuole di moda e altre attività di tipo terziario, si possono individuare modi inediti di affermazione delle nuove città della moda. Quasi a dire che sia la moda oggi, a sua volta determinata da sottili quanto complesse traiettorie globalizzate, a individuare le città da illuminare e non viceversa: da Berlino, capitale della moda digitale (cioè delle relazioni tra moda e web), a San Paolo, centro di riferimento della moda sudamericana con la Morumbi fashion week. A questo proposito gli studiosi Orvar Lofgren e Robert Willim (2005) hanno coniato il termine «economia della sfilata» (catwalk economy), per definire l’attenzione all’immagine e alla coreografia di tutte le novità che vengono lanciate sui mercati. Novità possono dunque essere non solo i designer e i loro prodotti, ma anche le stesse città, quali oggetti di moda21. I sempre più numerosi centri della   Il designer Phillip Lim ha commissionato quattro cortometraggi al grande

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moda rilanciano in modo nuovo la vecchia relazione tra moda e città, su cui già Georg Simmel si era soffermato e come poi è stato analizzato e sviluppato dalla sociologia moderna (Lehmann 2010, Riello 2010, Bovone e Mora 2007, Codeluppi e Ferraresi 2007). Questo non significa che nel corso della storia, come scrive Lehmann (2010), la moda non sia stata prodotta al di fuori della città. Molto spesso, anzi, abiti e decorazioni del corpo hanno avuto origine proprio nelle aree meno popolate, e nel corso del tempo la moda è stata spesso un adattamento di capi che venivano già utilizzati in aree rurali e isolate, magari scelti per la loro comodità e razionalità. Ma la nostra comprensione moderna di moda, sostiene Lehmann, intesa come un insieme di parametri culturali che sono soggetti a costanti cambiamenti dovuti alle dinamiche dell’economia capitalista e delle società industrializzate, richiede l’organizzazione spaziale e concettuale della città. La maggior parte dei blog e dei siti web dedicati alla moda sono suddivisi per città in cui ricercare le tendenze, dove la moda alta si ibrida con lo stile della strada. «The Business of Fashion», il quotidiano on line che seleziona le notizie più interessanti sul mercato della moda, segue ciò che accade a Bruxelles, Copenhagen, Karachi, Lahore, Londra, Los Angeles, Milano, Mumbai, New York, Parigi, San Paolo, S ­ hanghai, Tokyo e Toronto. Un sito come «The Sartorialist», pioniere nell’identificare i luoghi hot e proiettarli nell’iperluogo della Rete, cerca le sue immagini nelle molte città della moda, New York, Parigi, Firenze, Milano, Londra ecc. Grazie alla Rete si stabilisce un legame nuovo, di tipo immateriale, con il territorio urbano. Il claim di «Facehunter», un blog dedicato agli stili metropolitani, è: «A man out and about in London and beyond: eye candy for the style hungry»22. Yvan Rodic, il fotografo di Facehunter che lo gestisce, ricerca tendenze metropolitane, oltre che nelle città più note, anche a San Paolo, Oslo e Reykjavík, per la rubrica settimanale sul quotidiano inglese «The Guardian». magazzino del lusso cinese Lane Crawford. Ogni film, il cui protagonista è lo stesso Lim in trench, è progettato per evocare il sapore e il fascino di una città: Parigi vista da Yi Zhou, New York da Elle Muliarchyk, Pechino da Rain Li, Hong Kong da Victoria Tang. 22  «Un uomo in giro per Londra e dintorni: delizia per gli occhi per chi ha fame di stile» (trad. mia).

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Il blogging sta cambiando anche il rapporto tra città e «settimana della moda», ritrovando in questo modo parte del potere trasgressivo che un tempo aveva lo street style. «Nowness» ha riportato le parole di un altro noto cool hunter, Phil Oh, in proposito: «È facile scattare fotografie fantastiche durante la settimana della moda, ma non sono rappresentative di ciò che è veramente lo stile di una città», afferma, annoverando Tokyo, Melbourne e Copenhagen quali principali città da tenere d’occhio. «A Melbourne ci sono tantissimi studenti delle scuole d’arte che stanno facendo un ottimo lavoro mescolando i marchi locali con il vintage, dato che lì è molto difficile trovare brand internazionali – così puoi vedere qualcosa di diverso»23.

Dalla prima riconosciuta città della moda, Parigi, siamo dunque giunti, in un progressivo movimento iniziato nella seconda metà del Novecento, all’attuale configurazione policentrica, con ripercussioni non solo nell’economia, ma anche nella politica e nel turismo (Skov 2011). Il potere della moda transnazionale sta proprio nel fatto che rappresenta e al tempo stesso sfida l’egemonia capitalista (Kaiser 2010) portandoci a rivedere le opposizioni classiche di tipo binario verso una visione più fluida, fatta di una rete di interconnessioni. 23   The Streetpeeper’s Fifties Finds: Phil Oh Scours His Archive For the Best Retro Styles, «Nowness», 10 June 2010; trad. mia, www.nowness.com/ day/2010/6/10/699/the-streetpeepers-fifties-finds.

II

Vecchi luoghi, nuovi luoghi e luoghi comuni

I luoghi che descrivo in questo capitolo sono geografici, reali, immaginari, talvolta stereotipati. Non avrei potuto, ma neanche avrei voluto presentare un resoconto completo di tutti i luoghi culturalmente densi dal punto di vista della moda. Alcuni sono luoghi mentali che la moda predilige e utilizza, come la «bottega dell’artigiano»; oppure sono una sintesi di tutti i luoghi, come il web, luogo dei luoghi e al tempo stesso astrazione. Parigi e Londra sono come due sorelle in perenne competizione. Gli Stati Uniti hanno cominciato a traino della moda europea, superandola e tuttavia supportandola (White 2000). Ma già il modello rilassato della California non è dovuto passare attraverso l’emancipazione da Parigi, quanto piuttosto sopravvivere ad una guerra interna con New York, per trovare un posto di rilievo nell’ambito destinato a diventare la cifra vestimentaria a partire dalla seconda metà del XX secolo, il casual. L’India è una grande realtà emergente in fatto di moda: il suo passato di alto artigianato è presente più che mai in molti dei suoi designer. Ho scelto di parlarne in modo indiretto, attraverso l’esperienza dei progetti in India di Christina Kim, designer coreana con base a Los Angeles. La sua è una sofisticata moda «etica» che si sviluppa in molti paesi oltre all’India. La moda etica è una delle frontiere del cosiddetto sviluppo sostenibile, indicato da alcuni come il più promettente dei futuri possibili per la moda (Mora 2009). Anch’essa tuttavia non è esente da pensieri stereotipati, come vedremo nel paragrafo dedicato alle sue contraddizioni, spesso attribuibili ancora una volta a una visione eurocentrica delle relazioni di moda. Sembra che la moda (o meglio, l’attenzione agli aspetti simbolici del vestire, cioè la sua valenza antropoietica) sia ­35

una delle attività più diffuse e ricercate in ogni angolo del pianeta. Ho cercato di analizzare chi ancora ne è escluso e in che modo, pur essendone escluso, non può esimersi dal farne parte suo malgrado. Della moda giapponese ho sottolineato la complementarietà delle diverse anime che la compongono. Alla moda italiana ho dedicato una riflessione sul rapporto tra produzione materiale e industria culturale alla luce dei più recenti sviluppi, di quella africana ho trovato interessante tracciare un collegamento tra la generazione dei giovani stilisti e un fenomeno storico di grande interesse per l’antropologia della moda, quello dei Sapeur congolesi. Nati all’interno di una relazione coloniale e post-coloniale, oggi i Sapeur hanno parecchio in comune con i designer indie. L’ultima fashion icon, ma la prima davvero globalizzata, è senz’altro Michelle Obama, al cui guardaroba ho dedicato un’approfondita analisi. Marchi recenti possono spesso avere un legame con il passato del luogo in cui sono fondati, quasi ci fosse una cultura che porta a concretizzarsi in quel tipo di prodotto. È il caso di Lululemon, marchio specializzato in yoga e jogging, erede della tradizione naturista e salutista di un quartiere di Vancouver. L’ultimo paragrafo è infine un esempio perfetto di annuncio pubblicitario in chiave postcoloniale. Non me ne voglia l’azienda che l’ha realizzato se non ho potuto fare a meno di includerlo in un capitolo dedicato alle diverse e variegate manifestazioni della moda globalizzata. 2.1. Geografie di moda 2.1.1. Parigi e Londra: la «parisienne» e il «gentleman» Nel Settecento la moda femminile era dominata dalla Francia e quella maschile dall’Inghilterra. Come sostiene Vivienne Westwood, la stilista britannica che nel suo lavoro ha più di ogni altro designer studiato e rivisitato la storia dell’abbigliamento e del costume europeo, tutta la moda moderna può essere interpretata come il frutto della rivalità tra le due città più importanti del XIX secolo, Parigi e Londra. La loro storia sartoriale e lo scambio di esperienze «ha contribuito a produrre una frizione culturale che ha sprigionato nuove idee, e che rende lo studio di questo secolo urbano e intelligente sia interessante che piacevole» (Ribeiro 2010: 232; trad. mia). ­36

La haute couture nasce a Parigi a metà del XIX secolo ad opera di un inglese, Charles F. Worth (1825-1895). L’organizzazione della «moda dei cent’anni», per dirla con Lipovetsky (1989), apre un dialogo tra le due nazioni, Francia e Inghilterra, che perdura tuttora. Infatti, seppure Parigi sia indubbiamente la città della moda per definizione, spostando la focalizzazione dalla donna all’uomo, Londra non ha concorrenti. La capitale britannica vanta una produzione di beni di lusso e una sartoria che si consolida già all’inizio del Settecento ed è rivolta principalmente a un pubblico maschile. Trasmette il sistema inglese delle classi e produce un’idea dello stile che ancora riconosciamo: l’abito di Savile Row, le camicie di Jermyn Street, le scarpe (brogue) fatte a mano di John Lobb, la bombetta (bowler hat) di St. James Street (Breward 2004). Entrambe, Londra e Parigi, tra la metà dell’Ottocento e il Novecento sono metropoli cosmopolite le cui élites possono sentirsi al centro del mondo. L’Europa è il riferimento sia da un punto di vista economico, sia da un punto di vista culturale. Agli occhi dei couturier europei, l’America non è che una grande provincia priva di gusto. Nei primi decenni del Novecento Paul Poiret (1879-1944)1 tiene diverse conferenze a New York, Philadelphia, San Diego e Los Angeles, in un viaggio di presentazione delle sue creazioni. In questo viaggio Poiret scopre che gli americani pensano solo a fare soldi e non hanno tempo per occuparsi delle belle arti. Nella sua autobiografia King of Fashion (2009)2 Paul Poiret così si esprime a proposito degli americani: Le restrizioni che gli americani hanno imposto a se stessi potrebbero avere buoni risultati nello sport e nel lavoro, ma non saranno certamente in grado di aumentare il numero dei poeti, dei musicisti o dei pittori (2009: 143; trad. mia).

Poiret si riferisce al proibizionismo americano (1919-1933) e al conseguente rapporto con il vino e con l’alcol in genere, che, scrive, oltre a essere di pessima qualità, era vietato e consumato 1  Celebre couturier, noto per aver abolito il corsetto dagli abiti femminili e celebrato un ideale di donna esotica e sensuale, fasciata in abiti drappeggiati. 2  L’autobiografia di Poiret è stata pubblicata la prima volta nel 1931 per i tipi della J.B. Lippincott Company.

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di nascosto nei deprimenti contesti di appositi locali, all’epoca chiamati speak easy. Vino e alcol che sono invece necessari e fondamentali allo sviluppo della creatività come lo stile di vita che accompagna il loro consumo, secondo il couturier, che non a caso cita Baudelaire: «È ora di ubriacarsi! Ebbri! Per non esser gli schiavi seviziati del Tempo: ubriachi! Senza tregua! Di vino, di poesia o di virtù – a piacer vostro»3. A Poiret l’America appare dunque un paese privo di senso estetico, mal vestito e incapace di comprendere le sottigliezze europee in fatto di arte e di moda. Per gli americani, dice, la moda è solo «label», etichetta, che attaccano ai prodotti copiati dall’Europa per renderli interessanti4. «Non vedo come la massa di lavoratori americani che rifiutano di ammettere il diritto della proprietà artistica possano essere educati» (2009: 140; trad. mia). Sin dall’apertura della sua autobiografia Paul Poiret ribadisce la sua posizione: «Sono parigino di Parigi. Sono nato nel cuore della città, in Rue des Deux-Ecus, nel primo Arrondissement» (Poiret 2009: 1; trad. mia), celebrando a un tempo l’unicità di Parigi e la correlazione tra lo stile di vita della metropoli francese e la creatività artistica che vi abbonda. Se è vero, come anche i romanzi di Edith Warthon ci mostrano, che la buona società di New York di fine Ottocento era ancora dipendente dal gusto di Parigi, e che una classica meta del viaggio di nozze era l’atelier di Charles Worth, è anche vero che le considerazioni di Poiret formulate qualche decennio più avanti ci sembrano eccessive e parziali. All’epoca dei viaggi di Poiret, Chicago e New York erano molto innovative in fatto di distribuzione (retail) e produzione, ed era già evidente il potenziale per un’interpretazione più democratica della moda quale impresa commerciale e dell’America come sinonimo di moda giovane e metropolitana (Breward 2011). Si può dire che la visione di Poiret rifletta il suo marcato francocentrismo, nell’assoluta convinzione che solo a Parigi si possa davvero creare la moda; di

  Da Le spleen de Paris (1864).   Gli americani di allora sono considerati «privi di gusto» nel senso che intendeva Pierre Bourdieu. Molto curiosamente, ma non sorprendentemente, queste rimostranze nei confronti degli americani in merito alla proprietà intellettuale e ai falsi sono del tutto simili a quelle che attualmente l’Occidente imputa ai cinesi. 3 4

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fatto Poiret, incapace di adattarsi ai tempi nuovi in arrivo, dopo tanti fasti e successi finì la sua vita quasi dimenticato5. Certamente Poiret considerava Parigi il centro del mondo, ma i francesi avevano in stima anche l’eleganza inglese, con cui sin dal Settecento gli aristocratici e il bel mondo si confrontavano. Se nella prima metà del secolo anche il gentleman inglese, e non solo la sua lady, amava recarsi a Parigi per farsi confezionare gli abiti, già dal 1780 la sartorialità inglese e i tessuti ruvidi tipici della campagna erano famosi in tutta Europa e apprezzati anche in Francia. Il gentleman inglese è dunque altrettanto simbolicamente fondativo di un’identità sartoriale europea quanto la parisienne. Le due figure, la parisienne e il gentleman, rappresentano gli uomini e le donne che aspirano a modi aristocratici ma praticano le classificazioni tipiche della borghesia cui appartengono. La prima e fondamentale opposizione è quella tra uomini e donne. Simbolicamente si crea una connessione destinata a perdurare fino alla seconda metà del Novecento, tra frivolezza, moda e donna. È di questa separazione, che le due città simboleggiano, e dei diversi strati sociali che lottano per il predominio, che ci parlano anche i primi grandi studiosi di moda: Veblen, Spencer e soprattutto Simmel. Una società borghese che utilizza la moda come espressione della sua nuova forza e come strumento per gareggiare con un’aristocrazia sempre ammirata. Una figura che mette ulteriormente in relazione Londra e Parigi, Francia e Inghilterra è il dandy. Il dandy nasce in Inghilterra nella seconda metà del Settecento con George Bryan Brummel (detto «Beau», 1778-1840); Oscar Wilde introdurrà poi i concetti fondamentali del dandy letterario nel suo romanzo Il ritratto di Dorian Gray. Ma il dandy britannico, che fa della sua vita un’opera d’arte e dell’eleganza una vocazione, ha molti seguaci anche in Francia, da Baudelaire al conte poeta Robert de Montesquiou, al quale si ispirò Marcel Proust per il personaggio del barone di Charlus nella Recherche. In Francia il dandismo diventa una filosofia di vita e un’estetica della modernità, come appare chiaro nel Trattato sulla vita elegante di Balzac (1799-1850), pubblicato per 5  Nell’ultima pagina della sua autobiografia possiamo leggere: «I bear no resentment. I have accostumed myself to being non longer rich» («Non provo alcun risentimento. Mi sono abituato a non essere più ricco», 2009: 178; trad. mia).

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la prima volta sulla rivista «La Mode» nel 1830. Anche per Charles Baudelaire (1821-1867) il dandy è un’espressione di modernità, una delle conseguenze di un mutato ordinamento sociale nella sua epoca. Il dandismo nasce quando la democrazia non è ancora completamente affermata, mentre l’aristocrazia sta cominciando il suo declino (cit. in Monneyron 2008). Per questo Baudelaire ritiene che in Francia la figura del dandy sia in via di estinzione, mentre in Inghilterra continuerà ancora per un po’ di tempo ad avere spazio. Per alcuni aspetti il dandy può essere considerato un’esasperazione del gentleman, un’iperbole in molti sensi, ma non una figura completamente diversa dalla mascolinità che l’Inghilterra ha espresso in parallelo e in contrasto alla seduttività della parisienne sin dal Settecento. Il dandy creato da Brummel rifiuta ogni affettazione femminile, che invece era stata caratteristica dei macaroni settecenteschi. Brummel voleva raggiungere con il suo modo di vestire una sorta di concetto universale adatto a tutte le classi e a tutte le occupazioni (Vainshtein 2010), riconoscibile nella sua perfezione solo da parte dei suoi pari, dunque portatore di un’eleganza fatta di dettagli discreti, sottili, interpretabili alla luce della conoscenza profonda di un certo milieu sociale. Autocontrollo e dignità personale appartengono tanto al dandy quanto al gentleman britannico. Come scrive ancora Olga Vainshtein, «Il dandismo del periodo della Reggenza fondò i modelli di un’eleganza autoprodotta che diventarono stereotipi dell’atteggiamento maschile nella società durante il diciannovesimo secolo» (2010: 331; trad. mia). L’eleganza del dandy, privata delle sue punte estreme, resta appannaggio, stereotipicamente, dello stile maschile inglese. Allo stesso tempo, con l’attenzione spasmodica al vestire che il dandy attua verso la fine dell’Ottocento, introduce il femminile nel maschile attraverso il vestito. «L’esteta fin de siècle», sostiene Foucault, «incarna nelle rappresentazioni collettive questa ‘sorta di androginia interiore, di ermafroditismo dell’anima’ che definisce oramai l’omosessuale alla fine del XIX secolo» (cit. in Monneyron 2008: 84). Flaubert descrive Parigi come il «paradiso della donna», la «quintessenza della femminilità» (Rocamora 2006: 48). In ogni classe sociale, scrive il letterato e bibliofilo Octave Uzanne (1851-1931), «una donna è più donna a Parigi che in ogni altra parte del mondo» (cit. in Steele 1999: 75). È il dovere sociale della seduzione che carat­40

terizza la haute couture parigina6. La parisienne nasce in opposizione alla donna di provincia, come ben sostiene Balzac, secondo il quale, per diventare parigini, era necessaria prima una complessa attività di «sprovincializzazione», tanto per gli uomini quanto per le donne. Per «s’emparisennier» bisognava conoscere i grandi sarti, leggere i giornali, frequentare i luoghi dove si radunava il bel mondo, sposarne i riti collettivi come la passeggiata a cavallo al Bois de Boulogne. La parisienne e il gentleman non segnano soltanto la visione maschile e femminile dell’Europa che emerge dalla Rivoluzione industriale. Parigi e Londra, Francia e Inghilterra rappresentano anche sistemi sartoriali simbolicamente opposti: formale e informale, lusso e understatement. Fin da prima del 1750, scrive Valerie Steele (1999: 27), esisteva una dicotomia tra l’abito formale francese e quello informale inglese, notata da molti viaggiatori dell’epoca, imputabile alla diversa organizzazione politica e sociale dei due paesi. Lo splendore dell’abito di corte (grand habit), adottato in tutta Europa, domina fino alla Rivoluzione (Ribeiro 2010: 218), ma l’aristocrazia inglese, che pur avendo dimore a Londra privilegiava le residenze di campagna, faceva scuola per il modo di vestire informale, adatto alle attività all’aria aperta, caratterizzato da tessuti e stili più egualitari, con ispirazioni anche dal mondo del lavoro. Il British tweed ne costituisce forse l’esempio più noto, ma tutte le lane inglesi sono l’anima sartoriale del gentleman che, come dice Breward, è dyed in the wool, tinto nella lana. Per questo, come sottolinea Valerie Steele (1999), la divisa dell’uomo ottocentesco non è solo frutto dell’ascesa della borghesia e della prevalenza della cultura industriale, dunque della «grande rinuncia» borghese teorizzata da Flügel negli anni Trenta, ma anche di questo modo aristocratico britannico di preferire l’abito informale, poco appariscente. Mentre la vita francese era centrata intorno alla corte di Versailles e poi nella città di Parigi, la Ville lumière, quella dell’aristocrazia inglese era vissuta tra i passatempi nelle te6  Dalla fine del XIX secolo si afferma il culto dello chiffon, cioè l’uso della biancheria intima femminile, lingerie e déshabillé, come strumento di seduzione non solo da parte delle cortigiane, che conoscevano da tempo l’importanza di curare la loro seduttività fino nei dettagli più intimi, ma anche delle donne «rispettabili». Chiamato il «lusso segreto», l’abbigliamento intimo in chiffon diventa garanzia della felicità sessuale nel matrimonio borghese.

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nute di campagna. Come scrive Peter Burke a proposito dell’arte della conversazione, quella «francese profumava di corte, quella inglese era rinfrescata da brezze campestri» (Burke 1997: 45). Nella seconda metà del Novecento, con la crisi del sistema ottocentesco e l’ascesa dei movimenti giovanili e di rottura con lo stile di vita borghese, Parigi sembra perdere il suo prestigio, che nemmeno la guerra e il tentativo, fallito, della Germania di portare a Berlino l’intero sistema dell’alta moda avevano intaccato. La parisienne appare a un tratto una datata signora con cui le ragazze non si identificano. Brigitte Bardot, per esempio, rifiuta le lezioni di eleganza offerte da un’invecchiata Coco Chanel (Steele 1997). È la swinging London la nuova città della moda e dell’avanguardia culturale, dove batte il pendolo della storia. Ed è la strada londinese che si contrappone, come luogo dell’innovazione negli anni Sessanta, all’atelier parigino. Il «tramonto» parigino, tuttavia, dura poco. Parigi, dopo le incertezze e resistenze dei couturier meno giovani, con Yves Saint Laurent che abbraccia interamente il nuovo corso entra invece nella cultura della moda che emerge dai movimenti degli anni Sessanta di Londra e San Francisco, riaffermando la sua vocazione di città della moda. Oggi Parigi riprende la sua eredità di «città del lusso» e la sua vocazione per un’eleganza irraggiungibile. Ci sono posti a Parigi dove il lusso semplicemente è di casa. A Place Vendôme non devi passare davanti alle guardie in uniforme verso i gioielli preziosi di Chaumet o Van Cleef & Arpels per vederlo. Esiste proprio nell’architettura dei pallidi archi e dell’ampia distesa della piazza Grand Siècle. Tutta questa eleganza da Vecchio Mondo, comunque, rappresenta solo un aspetto della multisfaccettata cultura urbana del lusso, che, anche se fortemente ancorata alla storia e al patrimonio, abbraccia anche la vita moderna, con la sua innovazione e le tendenze in movimento. [...] Coloro che appartengono ai circoli parigini del lusso ammirano la sua abilità di prendere qualcosa di stabile e prezioso, e, senza perdere di vista l’originale, reinventarlo. Questo è il motivo per cui designer come Karl Lagerfeld, John Galliano7, Alber Elbaz e Marc Jacobs sono tenuti in così alta considerazione qui (MacKay 2010; trad. mia). 7  John Galliano è stato licenziato da Dior dopo le sue dichiarazioni antisemite pronunciate in un bar di Parigi il 25 febbraio 2011.

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Nel cosiddetto «triangolo d’oro» a Parigi, tra Avenue Marceau, gli Champs-Elysees e Avenue Montaigne, sono concentrate ancora oggi tutte le più note maison del Novecento, come Louis Vuitton, Givenchy, Rochas, Dior, Celine, Chanel ed Hermès. Parigi è sede delle multinazionali del lusso LVMH e PPR, che dagli anni Novanta riuniscono marchi noti a livello internazionale. Così commenta la sua sfilata parigina lo stilista indiano Manish Arora: «Devi essere qui (a Parigi) se vuoi essere conosciuto internazionalmente» (Trebay 2009; trad. mia). Se il lusso è a Parigi, Londra coltiva la sua identità poliedrica facendo dialogare le sue diverse vocazioni sedimentate nel tempo: tradizione, moda alternativa, innovazione, cultura fusion. L’uomo inglese, nelle diverse versioni dal gentleman al punk, continua a essere una delle icone più visitate dalla moda anche oggi. Ecco un resoconto delle sfilate del gennaio 2011: I ragazzi inglesi si sono rivelati all’altezza quale ispirazione per la moda di questa stagione maschile. Abbiamo visto spettacoli di tutti i tipi, dai ragazzi di strada della Londra punk fino ai militari in giubba rossa, per non parlare degli eccessi del tartan a quadri. Da Kenzo, il designer Antonio Marras ha colto il trend e lo ha fatto proprio. Motivato dalla letteratura sui detective inglesi, ha allargato l’idea dello stile inglese fino ad includere ispirazioni da tutta l’isola. [...] Il designer ha anche dato al kilt una versione moderna, tagliata per coprire una sola gamba e indossata sopra pantaloni molto sciancrati. [...] il designer fa uscire le sue creazioni disinvolte e romantiche. Le giacche accartocciate da studente inglese che finiscono in una cappa che scende da una parte del corpo (Michault 2011; trad. mia).

2.1.2. Maschi californiani: dal «leisure wear» del Sun Belt8 al trasandato-chic della Silicon Valley La cosiddetta «emancipazione da Parigi» ha riguardato New York, come molte altre città europee, ma non Los Angeles, che è divenuta il centro della moda maschile già dalla fine degli anni 8  Il Sun Belt (la «cintura del sole») è una regione degli Stati Uniti che si estende dalla costa atlantica alla costa pacifica, raggruppando gli Stati del Sud e del Sud-ovest del paese.

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Quaranta quasi senza cimentarsi con il mainstream europeo. Mentre a New York gli abiti di Claire McCardell (1905-1958) venivano definiti la risposta americana al new look di Dior, la California ha mostrato sin dagli anni Trenta un profilo diverso e autonomo, mirato a far proprio un modo di vestire che non fosse «moda» nell’accezione europea e parigina del termine, ma piacevole, comodo, rilassato, da vacanza. Nel saggio California Casual William Scott (2008) riporta quanto ebbe a dichiarare sul «Los Angeles Times» il portavoce di Western Apparel Manufacturers nel 1948: A New York il design potrebbe essere qualcosa captato nell’aria, o preso direttamente da Parigi. [...] Gli stili della California riconoscono invece bisogni delle persone e ne sono un’interpretazione (cit. in Scott 2008; trad. mia).

Esasperando un posizionamento più generale caratteristico della moda americana, orientata all’abbigliamento casual e da tempo libero, fatta di abiti prevalentemente da giorno e caratterizzata da uno stile molto versatile, il concetto di Californian casual è stato raggiunto e perfezionato con ben determinate pratiche di marketing, portate avanti dall’associazione dei produttori di abbigliamento tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta. L’associazione dei produttori californiani aveva stilato i sette punti fondamentali che definiscono il Californian fashion: che sia disegnato e prodotto in California, di stile casual, di semplice vestibilità, di costruzione ampia nelle spalle, che privilegi la comodità alla tradizionalità, che faccia un uso inusuale dei colori, che presenti dettagli ornamentali di ispirazione Old West (Scott 2008: 175). Il life style marketing, cioè il marketing dei prodotti di moda orientato allo stile di vita californiano, era dunque una scelta razionale e consapevole, operata da molte aziende di Los Angeles per promuovere i loro marchi di abbigliamento. Proponendo una nuova figura di uomo che integrava molti aspetti diversi, come lo stile sofisticato di Hollywood, l’abbigliamento da vacanza di Palm Springs, la rudezza del «vecchio West» e l’informalità dei sobborghi cittadini, metteva in discussione il classico modello del «tre pezzi» maschile. La California dunque si afferma per una moda maschile, ma rivolta a un nuovo uomo meno rigido e meno coinvolto nel suo ruolo di capitano d’industria e capo famiglia. Al ­44

tempo stesso questa informalità permette all’uomo occidentale di uscire dalla gabbia della «grande rinuncia maschile»9 ed entrare fluidamente in un mondo di consumi ancora appannaggio quasi esclusivo della donna. Il successo dell’abito da tempo libero californiano ha cambiato non solo il guardaroba degli uomini, ma anche il modo in cui gli abiti maschili erano considerati. Lo stile che l’industria vestimentaria di Los Angeles promuove ha avuto un tale successo da rendere sostanzialmente la vita in California sinonimo di questo stile rilassato presentato dalla pubblicità, esportando il concetto in tutta l’America e in Europa. L’intento delle diverse azioni di marketing che caratterizzarono le aziende di abbigliamento californiane sin dagli anni Quaranta era chiaramente quello di far associare al consumatore un luogo, la California, con uno stile casual e rilassato. Camicie colorate, costumi da bagno, sole, spiagge e star di Hollywood. Il marchio Catalina Swimwear, azienda fondata già nel 1907, prende ad esempio il nome dall’isola di Catalina, luogo di vacanze. Con il suo claim pubblicitario «Styled for the Stars of Hollywood» è un esempio di questo stile, che si rifà alla vita salubre all’aria aperta come anche alla bella vita dei divi di Hollywood. Gli abiti maschili californiani divennero per sempre i simboli stessi dello stile di vita che solo la California poteva offrire. Il completo maschile classico non sparì ovviamente dalla California, ma sempre più chi lo indossava veniva a rappresentare la convenzionalità e la sobrietà. Oggi ritroviamo nello stile di vita della Silicon Valley di San Francisco questa valenza «anti-moda» ormai consolidata in California, che possiamo riassumere come una preferenza per lo stile rilassato e informale, dedicato a un uomo che rifiuta sia la convenzionalità della divisa del manager sia la sofisticazione della moda anche nei luoghi di lavoro e non solo in quelli della vacanza o nel guardaroba del fine settimana. Tipico esponente è Steve Jobs, sempre vestito in jeans, maglietta a collo alto nera e sneakers. Il fondatore della Apple è entrato con il suo stile nella classifica dei miliardari «me9  Il termine, coniato da John Carl Flügel negli anni Trenta in Psicologia dell’abbigliamento (2003), si riferisce alla svolta sobria nel vestire maschile avvenuta dopo la Rivoluzione francese e all’affermazione dell’abito borghese simbolo di dedizione al lavoro.

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glio vestiti» secondo «Forbes». Da questo a lanciare la linea iWear il passo è stato breve. «Think Different, Dress Alike» è il claim, e gli abiti si rifanno direttamente al celebre look di Steve Jobs. Distaccandosi dall’elettronica per la prima volta nella sua storia, oggi Apple lancia iWear – una linea di moda che cattura il look e lo stile del suo amministratore delegato trendsetter. Una nuova campagna pubblicitaria con il motto «Be like Steve» apparirà durante le vacanze nelle pubblicazioni e nei siti più in voga (Bitensky 2010; trad. mia).

Si tratta in realtà di una falsa notizia, inventata dal sito «Scoo­ pertino. Unreal Apple News»; ma qualcun altro nella Silicon Valley ci ha pensato davvero. Fonte di ispirazione è il look nerd, detto anche geek, ovvero il modo di vestire di chi è completamente disinteressato al suo aspetto perché altrettanto completamente immerso nella sua attività intellettuale, tecnologica o altro. Il look di Mark Zuckerberg – il fondatore di Facebook che si presentava alle riunioni in sandali e maglietta over-size, così almeno appare nel film dedicato alla sua storia – è infatti stato la diretta fonte di ispirazione per un altro rappresentante di questa categoria di persone che si vestono in modo rilassato e casual, il fondatore di YouTube Chad Hurley. Hurley ha addirittura lasciato la sua carica di amministratore delegato di YouTube per dedicarsi interamente alla diffusione della linea di abbigliamento da lui creata, insieme a un socio, nel 2006. Il brand si chiama Hlaska e comprende abiti molto funzionali e «senza fronzoli» che offrono «confidence and comfort» (Wilkinson 2010), sicurezza di sé e comodità. Il nome Hlaska è un mix tra Hawaii e Alaska, una dicotomia, spiega Hurley (Steiner 2010), che rappresenta il caldo e il freddo, gli estremi e le differenze che ci sono in America e anche la massima estensione presente nel paese, quella appunto tra i due Stati, Hawaii e Alaska. La collezione viene prodotta a San Francisco, in una fabbrica vicino agli uffici. Sul sito web viene valorizzato l’aspetto della produzione locale americana: «Hlaska riprende l’onesta produzione americana, e i prodotti di Hlaska stanno portando a un nuovo modo di dare valore alla scienza e al lusso»10. Lo stile, dichiara ancora Hurley, è ispirato al mondo delle automobili e   Dal sito www.hlaska.com; trad. mia.

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alla storia marittima di San Francisco. L’idea di Hurley è di aprire negozi anche sulla East Coast, oltreché a San José, Stanford, Palo Alto e in ogni grande città degli Stati Uniti. Ma il fondatore di YouTube non è il solo ad aver pensato di trasformare il look nerd della Silicon Valley in un progetto di moda. Saboteur di Kristen Slowe e Justin Kan è un altro marchio lanciato nel 2010 con la simile idea di provvedere a vestire chi non è interessato alla moda, ma ama lo stile casual della Silicon Valley: La moda della Silicon Valley, a quanto pare, riguarda poche cose. Prima di tutto, i blazer hanno un taglio particolarmente asciutto, rendendoli così perfetti da far sembrare che la T-shirt vi sia attaccata addosso. Il manipolo di giacche e camicie che Slowe ha disegnato si caratterizza per il contrasto con asole rosso brillanti ricamate o disposte su un sobrio cappotto grigio, per esempio, per rendere possibile un particolare brand da geek chic. E, naturalmente, è coinvolto un elemento di pazzesco futurismo, come in questo blazer waterproof fatto di uno speciale misto lana trattato proveniente dalla Svizzera (Zax 2010; trad. mia).

Secondo quanto riporta il quotidiano «la Repubblica», lo stile nerd o geek si sta diffondendo ben al di fuori della California, per diventare uno stile di vita globalizzato, come già accadde al casual inventato a Los Angeles. Quel che qui conta però è che ormai rappresentano una cultu­ra sfoggiata con orgoglio a Tokyo, New York o Londra. Con eventi che si propagano fra Oriente e Occidente, dal Geek Pride Day al Blip Festival, dove musicisti europei, giapponesi e americani si alternano sul palco suonando console d’epoca. Cultura di massa perfino in Italia. Secondo l’ultima ricerca condotta dalla Nielsen per conto di Confindustria, i geek sarebbero quasi quindici milioni. [...] Corteggiati quindi dalle aziende perché disposti a spendere, almeno per quel che riguarda la dotazione di gadget hi-tech, dall’iPad ai nuovi e-book reader, ai capi di abbigliamento sdoganati da Zuckerberg e compagni: felpe, sneakers, Swatch, jeans. Indumenti da nerd, fino all’altro ieri, finiti ora sulle passerelle della moda. Del resto la rima fra geek e chic viene facile (D’Alessandro 2010).

Se lo stile di vita losangelino degli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta e Sessanta si riferiva al tepore della spiaggia, al surf, al mare, ­47

alla musica hawaiana e alla rilassatezza dei modi, nonché al divertimento dei divi di Hollywood, quello della Silicon Valley dei nostri giorni rappresenta l’imprenditoria rilassata e giovane, la genialità dell’iniziativa personale, l’inventiva, la libertà d’azione, il successo e la nonchalance del portamento. Interessante notare che il punto in comune di entrambi gli stili californiani, Los Angeles ieri e San Francisco oggi, al di là della comodità e rilassatezza, sia l’individuare nell’uomo il destinatario di questi modelli. Seppure le donne ovviamente vi partecipino egualmente, sia nel caso del Californian casual sia nel caso del Silicon Valley look11, è come se, diversamente dagli uomini, esse non potessero rinunciare dichiaratamente alla «schiavitù» della moda per abbracciare una tenuta confortevole, ma estetica. Aver rinunciato al mainstream della moda, non aver «lottato» per emanciparsi da Parigi, vuol dire necessariamente rinunciare anche a parlare direttamente a un pubblico femminile e rivolgersi invece all’uomo come interlocutore principale. La scarsa presenza femminile nelle imprese digitali della Silicon Valley è stata oggetto di una ricerca di cui riferisce il «New York Times»: Le donne oggi superano numericamente gli uomini nelle università d’élite, nelle scuole di diritto, o di medicina e in generale nella forza lavoro. Persiste ancora però un forte squilibrio tra i sessi nel mondo high-tech, dove il cambiamento avviene solitamente a rotta di collo (Cain Miller 2010; trad. mia).

È anche una prova che anti-moda e rifiuto delle convenzioni sembrano essere programmaticamente questioni maschili, come ai tempi di Georg Simmel. 2.1.3. Kitsilano, Vancouver: lo yoga di Lululemon12 e la moda canadese Il marchio Lululemon, fondato nel 1998 da Chip Wilson, è legato a un quartiere di Vancouver, Kitsilano, dove il primo negozio è 11  Hlaska prevede di ampliare la linea di abbigliamento per includere qualche capo femminile. 12  Ringrazio la runner Marcella Meciani che mi ha fatto conoscere Lululemon.

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stato aperto nel 2000. Chip Wilson, originario di San Diego in California, ha portato in Canada la cultura del surf, intesa non tanto come sport ma come ricerca di uno stile di vita e di uno stato della mente, adattandola allo yoga e al running, che similmente offrono un’esperienza mentale e spirituale oltreché fisica. Lululemon disegna e produce capi tecnici per praticare yoga, prima di tutto, e running. L’idea era quella di rendere il negozio il fulcro di una comunità dove la gente potesse imparare e discutere gli aspetti fisici della vita salubre, dallo yoga e dalla dieta fino alla corsa e alla bicicletta, così come agli aspetti mentali di vivere una vita piena di possibilità13.

Seppure venda prodotti anche per uomini, Lululemon è principalmente un marchio «al femminile», e in questo sfida lo stereo­ tipo del mondo del casual e dello sportswear americano, che è soprattutto maschile. Nel Lululemon Manifesto, documento programmatico dell’azienda, è chiaramente espresso l’atteggiamento favorevole al benessere fisico e psichico più che al raggiungimento di traguardi sportivi. Potremmo definire Lululemon una sorta di «anti-Nike»: atletica e yoga al femminile, ma sia per donne che per uomini. I suoi testimonial, che Lululemon definisce ambassadors, cioè ambasciatori del marchio14, sono praticanti e insegnanti di yoga o sportivi, in prevalenza donne, di varie discipline atletiche. Oltre agli ambassadors ci sono poi gli élite ambassador, e cioè sportive e sportivi che hanno vinto premi olimpici o si sono distinti in altre competizioni nella loro disciplina atletica. Lululemon, per quanto sia sottile interprete di tendenze, non trae spunto dalla moda europea, ma dalla cultura del quartiere dove è nato. Il quartiere di Kitsilano (da Xats’alanexw, nome di un capo indiano), situato tra due spiagge, Kitsilano Beach e Jericho Beach, negli anni Sessanta era un quartiere hippy e un luogo frequentato dalla contro-cultura locale. Nel 1975 è stato aperto a Kitsilano il primo ufficio di Greenpeace, l’organizzazione non governativa per l’ambiente. Attualmente è una zona d’arte, cultura, shopping e   Dal sito www.lululemon.com; trad. mia.   Il concetto di ambassador in luogo dei classici testimonial è stato mutuato dagli Apple Evangelist, detti anche Apple fan boys. 13 14

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ristorazione con una forte impronta alternativa, naturista, vegetariana e vegana. Benché nell’ambito della passerella la moda canadese abbia seguito il percorso tradizionale di «emancipazione da Parigi» (Franci e Mangaroni 2008) – basti citare i notissimi gemelli Dean e Dan Caten di Dsquared2 –, nel produrre abbigliamento sportivo ha presentato sin dagli anni Ottanta una peculiare abilità progettuale, per esempio nella ricerca dei tessuti tecnici e di un marketing originale, che ha dato vita a marchi noti a livello internazionale, come Shan per i costumi da bagno, Sugoi per l’abbigliamento da ciclista e Mec (Mountain Equipment Co-up) per la montagna, la prima azienda ad utilizzare il polartech, un filato ottenuto dal riciclo della plastica. Altri marchi noti per lo sport e l’aria aperta sono Ripzone e Westbeach, per sci e soprattutto snowboard, e Tilley Endurables per l’abbigliamento da viaggio (Palmer 2008). La moda canadese presenta anche un lato «etnico», che rivaluta e rivendica il contributo degli indiani nativi allo stile canadese. Questo percorso, molto ricco di suggestioni e collaborazioni incrociate, genera una parte peculiare e decisamente riconoscibile dell’identità canadese nella moda. Recuperare le radici della propria cultura autoctona del costume e dei costumi nazionali porta la ricerca in due direzioni: la frequentazione dei musei e di tutto l’apparato storico-antropologico e l’altra anche più ricca di spunti delle popolazioni indigene, gli Inuit e le loro attività artigianali in quelle regioni dove la stessa natura e il paesaggio sconfinato sono fonte di ispirazioni (Franci e Mangaroni 2008: 26).

La forte presenza nell’ispirazione dei suoi designer della cultura aborigena ha ottenuto il risultato di proporre inediti modelli femminili, legati ai miti fondativi della natura, degli spazi sterminati, della ricerca di protezione. Un esempio è Linda Lundstrom (Franci e Mangaroni 2008) che progetta capi di moda con il marchio Laparka, in collaborazione con un gruppo di donne originarie come lei di Red Lake nell’Ontario15. Interessante è il modello 15  Per l’attenzione ecologica con cui viene disegnata e prodotta Laparka, Linda Lundstrom è stata scelta dal WWF canadese per promuovere la moda eco-sostenibile.

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Okochitaakwe, ispirato al mito femminile della peacekeeper/warrior woman. Il fatto di essere forte, competitiva e sportiva non è in contraddizione con la volontà di essere in pace e di volere la pace. In genere i modelli sono quelli del male warrior e della female peacekeeper. Okochitaakwe li contiene e rappresenta entrambi. Proprio come Lululemon. 2.1.4. La moda giapponese: i percorsi incrociati di strada e passerella Per quanto una fascinazione per il Giappone sia stata presente nella moda ottocentesca europea all’interno del neonato sistema della haute couture parigina – basti pensare ai rimandi presi dalle decorazioni delle fusciacche obi negli abiti da sera di Worth –, è solo agli inizi del Novecento, con Paul Poiret, il più significativo esponente dei couturier «orientalisti», e con Madeleine Vionnet, che il Giappone si afferma come fonte di ispirazione fondamentale nel nuovo percorso verso la fluidità delle forme che caratterizza la moda femminile in Europa. È noto che Paul Poiret, con l’abolizione del busto, rivoluzionò la silhouette femminile, cominciando proprio da un’ispirazione giapponese, cui si sommarono quella della Grecia antica e quella del Direttorio. L’orientalismo interpretato dalla haute couture è quasi una «mania» per tutto ciò che proviene da Oriente, dall’antica Persia e dall’Arabia ai Balletti Russi portati a Parigi da Diaghilev, ai colori degli artisti fauve. Le modiste parigine creano turbanti ornati con piume di struzzo o di pavone o di altri uccelli esotici. Il kimono entra nella moda occidentale soprattutto come ispirazione per nuovi motivi decorativi floreali e faunistici, crisantemi, uccelli, onde, e come influenza sulle tecniche di tessitura e stampa dell’industria serica di Lione. Viene utilizzato come abito da casa, in versioni più o meno autentiche, o come ispirazione per vestaglie. La sottomessa, esotica ed erotica geisha Madama Butterfly di Puccini debutta nel 1904. Nella Recherche proustiana la duchessa di Guermantes riceve gli ospiti avvolta in una veste da camera-kimono di Mariano Fortuny. Paul Poiret crea il suo cappotto-kimono ancora quando lavora presso la maison Worth e Jeanne Paquin è autrice di cappe giapponesi. Akiko Fukai (2011), la curatrice del museo del costume di Kyoto, individua a questo ­51

proposito due fasi distinte di fascinazione nipponica, anche se ininterrotte. Una nella seconda metà dell’Ottocento – in cui il Giappone più che un luogo era un concetto piuttosto vago, e i suoi prodotti venivano spesso confusi con quelli cinesi e asiatici in generale, riuniti sotto il generico termine di «exotica» – e la seconda, il japonisme vero e proprio, negli anni Venti del Novecento. Al centro della fascinazione di entrambi i momenti c’è naturalmente il kimono. All’inizio il kimono è del tutto incompreso – come nei resoconti di Pierre Loti, in cui il vestire giapponese è definito così diverso dal nostro da rendere impossibile qualunque comprensione (cit. in Fukai) –, seppur celebrato in arte e nel teatro, specialmente dopo le celebri performance parigine dell’attrice e ballerina Sada Yacco (1871-1946) che recita e danza in kimono, seducendo la Parigi degli artisti e degli intellettuali nella primavera del 1900. Sarà soprattutto Madeleine Vionnet a studiare la sartorialità del kimono negli anni Venti. Mentre infatti Poiret si rifaceva in generale alla Cina, al Giappone, all’antichità, costruendo un mondo simbolico che abbracciava Asia e passato in antitesi alla modernità occidentale, che tuttavia lui stesso stava innovando proprio grazie anche a queste ispirazioni «pre-moderne», la Vionnet va oltre. La sua invenzione del taglio sbieco è, secondo Fukai (2011), una diretta applicazione della struttura del kimono all’abito occidentale. Furisode e Japonica sono, non a caso, i nomi di due di queste creazioni di Vionnet ispirate alla cultura sartoriale giapponese. La stoffa «piatta» bidimensionale tagliata in rettangoli sostituisce il principio sartoriale occidentale delle tre dimensioni. Più ci addentriamo nel Novecento, in particolare negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, più la moda europea si istituzionalizza e si riferisce sempre meno all’esotico, all’etnico e al folk, nella tendenza opulenta e travestita che l’etnico e l’Oriente avevano avuto. La donna in kimono perde di attrattiva. Resta il richiamo al Giappone nei decori ispirati alla tecnica giapponese dell’hand stitching di Vionnet, negli abiti con le maniche a kimono di Lanvin, ma si tratta di elementi minori. Il Giappone ritorna a ispirare la moda occidentale solo qualche decennio più avanti, tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, con Hanae Mori e Kenzo, entrambi attivi a Parigi. E soprattutto, dagli anni Ottanta in avanti, con quella che è stata definita da Yunika Kawamura ­52

(2005) la rivoluzione giapponese a Parigi. Anche per i tre artefici della «rivoluzione», e cioè Issey Miyake, Rei Kawakubo e Yohji Yamamoto, si ripresenta il tema dell’opposizione tra modernità europea e tradizione etnica giapponese, come visioni eurocentriche rispetto al vestire. Costume è ciò che non cambia, tradizionale e pre-moderno, eventualmente femminile e aggraziato; moda ciò che cambia e pertiene al registro della modernità. I tre designer però rifuggono ogni interpretazione tradizionalista, peraltro assai poco pertinente all’avanguardia che mostravano le passerelle – una moda anti-graziosa in senso futurista – e descrivono la loro moda come «giapponese e moderna» piuttosto che «giapponese ma moderna». In effetti il loro impatto sull’estetica della moda fu travolgente: per l’uso del nero, per il non finito, per le asimmetrie, per la decostruzione della silhouette femminile. In realtà molti degli elementi che Miyake, Kawakubo e Yamamoto proposero nella celebre sfilata del 1981 da allora in avanti, in un movimento di trickle down, non smisero più di influenzare la moda non solo dei grandi designer, ma anche quella più o meno anonima destinata al mercato di massa (Kondo 1997). Per molti aspetti tuttavia la rivoluzione giapponese viene considerata incompleta. Solo dopo aver conosciuto il successo a Parigi, infatti, Miyake, Kawakubo e Yamamoto, già molto noti in Giappone, diventano stilisti internazionali. Come scrive Kawamura (2005), in luogo di mettere in discussione il ruolo di Parigi, il loro successo non fa che riconfermarne l’importanza. Anche per il Giappone, come per altre mode che esprimono estetiche di avanguardia ma non appartengono al sistema europeo, si presenta negli anni Ottanta il tema del rapporto tra modernità e tradizione. La migliore illustrazione di questo tema la troviamo nel saggio The Japanese Eye scritto nel 1957 da Yanagi Muneyoshi (18891961), capo del movimento per l’artigianato giapponese (Mingei). A questo movimento di recupero dell’artigianalità si ispira appunto la linea Japanese Eye del marchio contemporaneo Matohu, che sul suo sito riporta proprio una citazione di Muneyoshi: Il Giappone dovrebbe credere fermamente nell’Occhio Giapponese e dunque pensare che è suo dovere condividerlo con il mondo. Inutili vanterie a questo riguardo sarebbero sciocche, ma credo che sia arrivato il tempo per il Giappone di promuovere con fiducia il suo ­53

particolare punto di vista. È forse la maniera giapponese più monotona della maniera occidentale? Dobbiamo provare vergogna per la nostra arretratezza rispetto alla maniera moderna? La mia opinione è che il brillante e sempre dilagante Occhio Occidentale troverebbe un tesoro in questa controparte giapponese, perché l’Occhio Giapponese è costruito su una lunga e solida tradizione16.

Negli anni Novanta si afferma un altro fenomeno centrale nella storia della moda, destinato ad avere una grande rilevanza nella moda globalizzata e a imprimere vitalità al sistema della moda in Giappone: l’abbigliamento e lo stile delle subculture giapponesi di strada. Gli stili di strada in Giappone nascono dapprima come imitazione delle mode europee, e in seguito come adattamento delle etichette e dei marchi più noti o degli abiti che sfilano sulle passerelle delle capitali della moda, coniugati con l’estetica punk, gotica o hippy. Nel 1997 la rivista «Fruits» pubblica le fotografie dei ragazzi e delle ragazze che vestono nei modi più strani ed elaborati e rende note anche in Occidente le tribù urbane del quartiere Harajuku e Shibuya di Tokyo. Da allora le sub-culture sono diventate un’attrazione turistica, che tuttavia non ne mina l’autenticità, e nuovi stili continuano a fiorire. Alle prime – lolite, ganguros, kogal, cosplayers, b≥s≥zoku ecc. – si aggiungono le hime-kei («principesse decorate») e le mori girls («ragazze della foresta»). Le più note, come le diverse varianti di lolita, sono presenti in Europa e negli Stati Uniti. Elemento interessante delle sub-culture giapponesi è la prevalenza femminile, mentre quelle europee e americane sono state prevalentemente maschili (Polhemus 1994). Inoltre, mentre gli stili di strada occidentali si sono caratterizzati per essere «contro», dei «ribelli con stile» per citare il titolo di Matteo Guarnaccia (2009), quelli giapponesi sono sin dall’inizio inclusivi e trasformisti. Come scrive Toby Slade (2010), questi stili non sono espressione di provocazione sociale, anzi sono utilizzati proprio in modo diverso dagli originali stranieri cui si ispirano. E la ricerca e passione per il nuovo, ricercato come stile, come gioco e non per i contenuti che potrebbe comportare, è l’altra faccia, secondo Slade, di un profondo conservatorismo.   Dal sito www.matohu.com; trad. mia.

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Lo stile delle sub-culture giapponesi gioca tanto con l’universo simbolico del consumo quanto con le favole medievali europee e con la moda «alta». Gli abiti sono realizzati dalle stesse ragazze e ragazzi che li indossano, completati da quelli delle molte marche dedicate che vendono tanto nei negozi quanto su Internet. Data la diffusione dello street style giapponese in Usa e in Europa, Internet è diventato lo strumento principale per gli adepti non residenti in Giappone e a Tokyo in particolare. La moda «alta» contemporanea contribuisce a diffondere e interpretare gli stili di strada. Per esempio Hirooka Naoto, designer del brand h.Naoto, coniuga il punk con lo stile della gothic lolita. La relazione con la cultura giovanile di strada è visibile anche nei designer contemporanei e nei nuovi marchi, come Sacai e Matohu, che popolano il quartiere del lusso a Tokyo, Omotesand≥. Così si esprimono i due designer Hiroyuki Horihata e Makiko Sekiguchi, artefici del marchio Matohu, a proposito della linea Japanese Eye, cui abbiamo già accennato: Per il fatto che siamo nati in Giappone, e che viviamo qui, pensiamo a riscoprire una per una le manifestazioni dell’Occhio Giapponese che tendono a scomparire, e ci auguriamo di farlo seguendo la maniera di Matohu. Ma più che osservare rigorosamente tradizione e regole fisse, speriamo di entrare in empatia con persone del nostro tempo e condividere la stessa emozione17.

Si può dire che i designer di moda «ufficiale» abbiano a loro volta incorporato il metodo camaleontico e trasformista delle subculture facendone un metodo di creatività tipicamente giapponese. Come scrive Valerie Steele: Infatti, la moda giapponese resta significativa a livello globale esattamente perché mescola gli elementi dell’avanguardia (mettendo l’involucro estetico al livello dell’arte ‘alta’) con aspetti di stile da sottocultura e da street style (Steele et al. 2010; trad. mia)18.   Ibid.   Nel 2010 sono state dedicate due mostre alla moda giapponese: una, curata da Akiko Fukai, a Londra al Barbican, dal titolo Future Beauty: 30 Years of Japanese Fashion; l’altra, curata da Valerie Steele, a New York al Fit (Fashion Institute of Technology) Museum, intitolata Japan Fashion Now. Entrambe 17

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John Lawrence Sullivan, Miharayasuhiro e Phenomenon sono tra i più noti marchi di moda maschile, un comparto particolarmente vivace della moda giapponese. Le loro collezioni esprimono un retrogusto americano e inglese, con un’estetica che cita dal punk al preppy, dal grunge a Savile Row. La moda giapponese è un sistema che mette in dialogo la moda come arte, gli stili sperimentali di strada e la commercializzazione del vestire in epoca di fast fashion. Composta di «tecnologia, heritage, autenticità, gender-bending, punk, decostruzionismo, divertimento, eleganza» (Scaturro 2010), la moda giapponese non si contrappone alla moda occidentale, ma al tempo stesso non coincide interamente con essa. La marca di jeans Evisu, fondata nel 1991, per esempio, è un’interpretazione giapponese del denim. Hidehiko Yamane, il designer, è stato il primo a fondere la tradizione del denim con l’avanguardia nel design. Anche nel fast fashion, uno dei grandi filoni della moda contemporanea (Segre Reinach 2010a, Cietta 2009), il Giappone ha saputo imprimere il proprio segno con Uniqlo, facendo concorrenza per notorietà e giro d’affari ai «giganti» europei Zara ed H&M. Il marchio Uniqlo nasce nel 2005 da una ristrutturazione della Fast Retailing19 (fondata nel 1949), di cui era una divisione. Oggi Uniqlo, tutto «made in China», è quotata alla Borsa di Tokyo ed è presente con negozi di proprietà in Giappone, Corea, Inghilterra, Cina, Usa, Francia, Singapore, Malaysia, Taiwan, Russia. Il fatto di essere in Asia, pur comprendendo appieno i consumatori americani ed europei, è, secondo il fondatore di Uniqlo Tadashi Yanai, una ragione in più di successo: «Siamo al crocevia culturale ed economico del mondo moderno» (Aldridge 2011; trad. mia). A questo punto possiamo chiederci che fine abbia fatto il kimono. Un documento ufficiale commissionato dall’industria del compartono dalla «rivoluzione giapponese a Parigi», cioè dagli anni Ottanta, ma con alcune differenze. Mentre la mostra di Londra sottolinea gli aspetti relativi alla storia per cui la moda giapponese è diventata nota nel mondo come forma d’arte, l’enfasi della mostra newyorkese è sul rapporto tra moda «alta» e strada. 19  Tra i marchi appartenenti a Fast Retailing ci sono Aspesi Japan, Comptoir des Cotonniers, Foot Park, National Standard, Princesse Tam Tam, Theory.

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mercio giapponese rivelerebbe un declino nelle vendite di kimono dagli anni Ottanta ai giorni nostri. Tuttavia, come dimostra Sheila Cliffe (2010), questo calo di vendita riguarda i canali tradizionali, cioè i negozi monitorati dal Libro bianco sul kimono, che non hanno saputo adeguarsi alle nuove forme e ai nuovi usi di questo capo. Il calo evidenziato non corrisponde a un nuovo interesse crescente per questo indumento che sul web sta conoscendo una nuova vita a livello globale. Chi indossa il kimono ed è appassionato cultore di questo indumento, soprattutto donne ma in una percentuale minore anche uomini, per l’acquisto e i suggerimenti su come indossarlo si affida alla Rete, ai negozi on line e ai blog. 2.1.5. Moda ed «empowerment»: dai Sapeur ai designer africani Su Facebook c’è un profilo dal nome Sapeurs vs Swenkas. Seppure i Sapeur del Congo siano molto più noti degli Swenka del Sud Africa, lo stesso comportamento accomuna i membri di queste sottoculture maschili in Africa: il feticismo della moda occidentale sullo sfondo di tematiche coloniali e post-coloniali. Gli Swenka Nel Sud Africa post-apartheid (1948-1994) c’è un piccolo gruppo di operai e lavoratori zulu che ogni sabato sera smette i consunti abiti da lavoro per indossare i migliori abiti dei marchi da loro più amati, soprattutto Carducci e Pierre Cardin, comperati grazie a risparmi di mesi e talvolta di anni, per sfilare davanti al giudice preposto a stabilire quale di loro sia non solo il più elegante della settimana, ma anche quale proponga la migliore coreografia nei movimenti, cioè quello che si definisce lo swank20. Sono gli Swenka, e questa sfilata con passi di danza inclusi, che si svolge a Johannesburg ogni sabato, è ormai una tradizione consolidata. I Sapeur Le radici del movimento della Sape (Société des Ambianceurs et des Personnes Élégants) si rintracciano negli anni Venti e Trenta, quando i primi congolesi appartenenti all’élite tornavano in pa  Vedi il film di Jeppe Rønde, The Swenkas (2004).

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tria, dopo un soggiorno a Parigi, con i bauli pieni di eleganti completi francesi. Il vero e proprio culto dello stile non comincia però prima degli anni Sessanta e Settanta, grazie anche al supporto del musicista Papa Wemba (Congo-Zaire) che sostenne il movimento dal 1979. I Sapeur di Brazzaville sono stati studiati dall’antropologo Jonathan Friedman (1994), che ne ha evidenziato l’ossessione per la moda in una società politicamente instabile ed economicamente depressa. Il «pellegrinaggio» a Parigi, alla fonte di tutti gli agognati beni di lusso, era una necessità e il ritorno a Brazzaville dimostrava quanto il Sapeur aveva dovuto lottare per conquistare ciò che veniva chiamato la gamme, cioè l’accumulo di vestiti. Una volta tornato, ricominciava l’impegno costante per trovare le risorse necessarie a ritornare ancora una volta a Parigi. I vestiti europei firmati – da Yves Saint Laurent a Versace – erano molto richiesti, ma non si trovavano nei negozi locali. Erano dunque la moneta di scambio dei giovani Sapeur, spesso disoccupati, per i quali un abito di marca era il più importante simbolo di status. Vestire firmato non era una forma mimetica per fingere di essere ciò che non erano, ma un modo per guadagnare ammirazione e riconoscimento da parte di chi era rimasto in Congo, oltre che parte essenziale della costruzione della propria identità di persone di prestigio. Dal viaggio a Parigi dipendeva infatti il loro ruolo e il loro status una volta tornati in Congo. I viaggi al limite dell’eroico che alcuni di loro intraprendevano alla volta della Francia facevano sì che negli anni Cinquanta il viaggio a Parigi e ritorno diventasse una vera e propria pratica iniziatica per trasformarsi da congolese in aventurier e dunque in parisien, figura riconosciuta e di prestigio: Prima di tutto è necessario ricordare che l’Aventurier è prima un Sapeur. È dal momento in cui ha concretizzato il viaggio a Parigi che gli si attribuisce l’appellativo di Aventurier (Gandoulou 1984: 134; trad. mia).

Negli anni Settanta, quando Friedman (1994) ha studiato il fenomeno dei Sapeur, l’indipendenza del Congo era stabilita da un decennio, ma la situazione economica e culturale era ancora di grande incertezza, quasi peggiore di quella del periodo coloniale. I governanti congolesi dei primi anni dell’indipendenza, negli an­58

ni Sessanta, non apprezzavano i Sapeur, in quanto ritenevano la loro passione per i vestiti un segno di una sudditanza continuata dopo l’indipendenza. Mobutu Sese Seko (1930-1997), per esempio, aveva emanato decreti specifici che obbligavano a vestirsi secondo la tradizione africana. Il noto designer inglese Paul Smith si è di recente appassionato all’estetica dei Sapeur. Ha scritto l’introduzione del libro del fotografo italiano Daniele Tamagni a loro dedicato, dal titolo Gentlemen of Bacongo (il quartiere di Brazzaville dove si trova la maggior parte di questi giovani), e si è inoltre ispirato ai Sapeur per la sua linea Mainline: Per me il look dei Sapeurs è semplicemente straordinario. È già incredibile vedere oggi uomini vestiti così elegantemente in capitali come Parigi e Londra, figuriamoci in Congo. La loro attenzione al dettaglio, il loro uso del colore, il tutto confrontato con l’ambiente in cui vivono, è semplicemente fantastico. Il loro stile mi affascina perché sin dall’inizio della mia carriera ho sempre lavorato con le forme classiche e mi sono battuto per la qualità, mentre l’enfasi maggiore nel mio lavoro viene dall’uso del colore e dall’originale coordinazione dei tessuti. Come designer, per anni nel mio lavoro ho anche giocato con gli opposti e con l’inaspettato, ad esempio una giacca classica con una fodera atipica. Il contrasto tra lo stile e la sorprendente eleganza dei Sapeurs e lo sfondo delle loro inaspettate condizioni di vita, è una vera fonte di ispirazione (Smith 2009; trad. mia).

Una mostra che si è tenuta a Parigi nel 2010 al Musée Dapper21 riprende il tema dei Sapeur, ma con un’importante novità rispetto a quanto detto finora. Di recente infatti alcuni Sapeur sono diventati essi stessi stilisti. Non si limitano a sfoggiare in modo originale le griffe preferite (Cerruti, Coveri, Marithé + François Girbaud, Pierre Cardin, Roberto Cavalli, Armani, Dior, Fendi, Ferré, Gaultier, Gucci, Charles Jourdan, Miyake, Prada, Saint Laurent, Versace, Yamamoto e molte altre) come un tempo, ma producono collezioni da loro create che vendono in loro negozi. Molti di 21  L’Univers de la SAPE: Héctor Mediavilla e Baudouin Mouanda, dal 15 novembre 2009 all’11 luglio 2010.

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loro vivono e lavorano a Parigi in altro tipo di occupazione, e quest’attività parallela di stilisti in Congo permette di integrare lo stipendio e continuare l’attività di Sapeur acquistando capi di marca sempre più costosi. L’evoluzione dei Sapeur, nella specificità del rapporto con Parigi, che è stata per questo gruppo di appassionati non solo la capitale della moda, come per tutta Europa, ma il luogo da cui dipendevano come colonia, offre molti spunti per un’interpretazione delle attuali rotte globalizzate della moda. Abbiamo visto che l’abbandono dell’abito occidentale, adottato per un certo periodo come segno di modernizzazione, è un tratto comune per la gran parte dei paesi delle ex colonie europee. Fase che ha nella maggior parte dei casi portato a una ripresa del vestire «etnico» come segno di emancipazione. I Sapeur tuttavia costituiscono un’eccezione a questa dinamica identitaria in rapporto all’Europa. In primo luogo, sin dagli anni Settanta, per i Sapeur non si è trattato di adattarsi al vestire occidentale, quanto di entrare iperbolicamente nel mondo della moda e delle griffe, ciò che l’antropologo congolese Gandoulou chiama «acculturation esorbitante» (Gandoulou 1984: 39). Ed ecco una «ballata» tipica dei Sapeur: Listen my love. On our wedding day The label will be Torrente The label will be Giorgio Armani The label will be Daniel Hechter The label for the shoes will be J.M. Weston22.

Non era il vestire in giacca e cravatta quale simbolo di mascolinità e di potere ad attirare il loro interesse, quanto la partecipazione appassionata e decontestualizzata ai rituali della moda. L’interesse anche oggi di fotografi, artisti e mondo della moda mainstream, come appunto Paul Smith, per quelli che vengono definiti 22  «Ascolta amore mio. Al nostro matrimonio / l’etichetta sarà Torrente / l’etichetta sarà Giorgio Armani / L’etichetta sarà Daniel Hechter / L’etichetta delle scarpe sarà J.M. Weston»; trad. mia, dal sito 20littlecities.com/what-to-see/ photographers-hector-mediavilla-and-baudouin-mouanda-at-musee-dapper-inparis-lunivers-de-la-sape/.

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i «dandy africani» non fa che confermare questa interpretazione. Il dandy, ricorda Patrizia Calefato (2009: 108), utilizzando i criteri di Bachtin sul grottesco, può essere l’esagerazione, l’iperbole, la smisuratezza, la sovrabbondanza. In secondo luogo, il richiamo al dandismo da parte di ex sudditi dell’Europa è una questione squisitamente coloniale e post-coloniale. Non a caso uno degli artisti più noti per aver scandagliato con la sua opera le dinamiche coloniali e post-coloniali, l’anglo-nigeriano Yinka Shonibare, ha scelto il dandy africano (The African dandy) come una delle figure centrali del suo lavoro. Infine, da imitatore seppure creativo e iperbolico, l’esponente della cultura Sape si è trasformato di recente in «creativo indipendente», senza tuttavia tradire la sua vocazione – dato che i proventi della sua attività di stilista gli permettono di continuare quella di Sapeur. L’evoluzione dei Sapeur riflette il cambiamento in atto nelle traiettorie di creazione e diffusione della moda. I «nuovi» Sapeur si inseriscono infatti in un percorso più generale nel quale gli stilisti africani, pur nella diversità della storia e della cultura dei singoli casi, cercano un ruolo attraverso il quale esprimere la propria identità attraverso scelte sartoriali. La moda è un settore e un’attività sempre più sviluppata in Africa, e gli stilisti generalmente vivono nelle grandi metropoli africane. È un’industria ancora giovane, che si è formata intorno agli anni Settanta23, ma che, come scrive Victoria L. Rovine (2010), ha già prodotto molti designer conosciuti a livello internazionale. Gli stili sono vari, come accade per i designer nel resto del mondo; non ci sono uno stile o più stili «tipicamente africani», e non è dunque possibile generalizzare. Tuttavia vi sono dei tratti comuni individuabili nelle connessioni e soprattutto nelle tensioni tra modi e stili di vestire locali e quelli dominanti nell’industria della moda internazionale. Secondo Rovine, è possibile classificare i designer africani secondo le due strategie creative fondamentali – anche se la linea di demarcazione tra le due non è ovviamente netta – impiegate per venire a termini con la complessa relazione tra stili africani e stili internazionali. Si tratta di due modi di concepire l’innovazione. La prima e la più diffusa è quella di cercare 23  La Fédération africaine des créateurs de mode è stata fondata solo nel 1994.

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di fondere forme originarie africane con abiti tipici della moda occidentale: per esempio, un completo maschile può essere arricchito da revers fatti con una stoffa locale o una minigonna si può ornare con perline. Si tratta sostanzialmente di incorporare stili e materiali locali in abiti che sono chiaramente di provenienza europea. Questa prima strategia è adottata specialmente dalla prima generazione di stilisti professionisti, che sono cresciuti quando la lotta per l’indipendenza dalle colonie era all’apice – e l’orgoglio per l’identità nazionale era parte della vita culturale e politica di molti nuovi Stati africani. Questi designer – i più noti sono Chris Seydou (Mali), una figura di spicco negli ambienti della moda africana e non solo in Mali, Alphadi (Niger), Kofi Ansah (Ghana), Oumou Sy (Senegal), Pépita Djoffon (Benin) e Mickael Kra (Costa d’Avorio) – hanno lavorato anche fuori dall’Africa, introducendo nel mainstream della moda espressioni evidenti ed espliciti riferimenti a diversi stili e tradizioni africane. Molti di loro, come soprattutto Chris Seydou, che ha studiato e lavorato a Parigi, e Oumou Sy, che oltre ad essere designer è anche costumista per il cinema e fondatrice dell’associazione culturale Metissacana di Dakar, sono stati attivi per promuovere in Occidente cultura e moda africane. La seconda strategia è quella che Rovine chiama «concettuale». L’identità africana, che pure è la fonte creativa dei designer che appartengono a questa categoria, non appare direttamente nelle forme o nei materiali, né nelle immagini pubblicitarie delle collezioni. L’«africanità» consiste nel modo complessivo della progettazione, nell’approccio allo stile e alla moda, più che nelle forme. Si tratta di stilisti più giovani, che si sono formati in anni un po’ più distanti dal periodo immediatamente precedente o successivo alla liberazione e indipendenza dalle colonie. I nomi più noti sono Ozwald Boateng, nato a Londra da genitori ghanesi, che ha collaborato con Givenchy prima di aprire la sua maison, Stoned Cherry (Sud Africa), un marchio di street style urbano creato nel 2000 e ispirato al quartiere nero di Sophiatown (Johannesburg); Lamine Kouyaté, per metà maliano e per metà senegalese, autore del noto marchio Xuli Bet; e ancora Joel Andrianomearisoa (Madagascar), designer e artista, Moshood (Nigeria), Deola Sagoe (Nigeria), Tina Atiemo (Ghana) e molti altri. Tutti questi designer in modo più o meno esplicito hanno dichiarato di voler evitare ogni forma ­62

di «auto-esotizzazione», di non voler cioè riprodurre stereotipi africani nelle loro collezioni. Tuttavia di recente Boateng, detto «The Peacock of Savile Row»24 per l’uso del colore nei completi sartoriali maschili, nei quali eccelle e con i quali ha guadagnato un posto di rilievo nella moda internazionale, ha creato una collezione dal titolo emblematico di Tribal Traditionalism. A proposito di questa collezione, Ozwald Boateng ha dichiarato di essersi sentito libero per la prima volta di esprimere la sua spiritualità e la sua cultura ancestrale senza sentirsi rinchiuso in uno stereotipo. 2.2. L’India di Christina Kim. Dosa e gli artigiani25 Christina Kim è una fashion designer coreana che vive e lavora a Los Angeles. Il suo marchio si chiama Dosa, dal soprannome di sua madre che in coreano significa «saggia». Christina Kim è nota per il suo approccio alla moda basato sul rapporto tra artigianato e creatività, attraverso l’uso di materiali riciclati. Lavora con gli artigiani di molti paesi: Bosnia, India, Kenya, Corea, Messico, Cina, Africa e Perù. Più che una stilista, si considera un’artista e una designer. Nel 2008 a Bologna la mostra Naturale rigenerato fatto mano: la moda etica di Christina Kim e tre installazioni hanno raccontato al pubblico italiano l’attività della designer (Colaiacomo 2011). La relazione di Christina Kim con le tradizioni artigianali indiane è quella di più antica data. Khadi e jamdani sono parte dei suoi progetti più noti. La ragione per cui preferisco il cucito e il disegnato a mano è che la personalità dell’artigiano arriva attraverso i punti e le linee. Puoi percepire la mano di qualcuno, le abitudini e lo sforzo. [...] Vorrei trovare un posto dove gli artigiani di talento possano esprimersi. Il progetto di riciclo è bello così. Ogni pezzo è destinato a essere un pezzo unico26. 24  Ozwald Boateng si ritiene abbia rivoluzionato Savile Row, ridefinendo il taglio del completo tradizionale maschile e introducendo il colore. Con il suo approccio contemporaneo all’abito maschile, ha notevolmente contribuito a coinvolgere i giovani nella cultura sartoriale di Savile Row. 25  L’intervista è stata condotta via e-mail; la traduzione è mia. 26  Dal sito di Christina Kim, www.dosainc.com.

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Christina, come sono iniziati i tuoi progetti indiani? Che cosa ricercavi all’inizio? I miei progetti indiani in realtà sono iniziati insieme a un caro amico, Uberto Spaghi, che è stato uno dei nostri primi fornitori. Dopo aver visto il film Gandhi (1982), mi era scattato un interesse per il khadi. Uberto mi invitò ad andare con lui in India in uno dei suoi viaggi di lavoro, e io cominciai a cercare il khadi. Uberto mi trasmise una tale meravigliosa visione dell’India che io mi sentii del tutto catturata e presto cominciai a fare viaggi in India per conto mio. Dopo tutti questi anni di progetti in India per Dosa come è cambiata, se è cambiata, la tua relazione con l’India? Quando cominciammo ad usare il tessuto khadi nella collezione, ero solita andare molte volte in India e restavo per un lungo periodo per controllare la produzione. Negli ultimi cinque anni però abbiamo assunto una fashion designer indiana, Mona Shah, che lavora a stretto contatto con gli artigiani. Ora siamo in grado di sviluppare più progetti e produrre in modo più efficiente in India senza la mia continua guida. Negli anni anche i nostri fornitori indiani hanno sempre meno bisogno di supervisione. Grazie alla capacità degli artigiani indiani di imparare e di adattare il loro lavoro ai diversi progetti, vedo una grande potenzialità per altri designer di lavorare in India. Puoi dirci qualcosa di più del khadi indiano? Il khadi è da anni la base del nostro abbigliamento e delle linee di tessile per la casa. Veramente la storia con il khadi cominciò vent’anni fa, quando lo ricercavo a New York presso gli intermediari. Quattro o cinque anni dopo viaggiavo in India per comperarlo direttamente e negli anni, dato che lo utilizzavamo in ogni stagione, abbiamo cominciato a essere sempre più coinvolti nel modo in cui viene prodotto. Dato che il khadi è filato e tessuto a mano, produrlo è un processo molto intimo che richiede molte mani. Una buona parte del khadi di Dosa oggi è organica e non è tinta o è tinta naturalmente. Comunque speriamo di espandere ­64

maggiormente la produzione di khadi organico e di usare sempre più tinture naturali in futuro. Come lavori con gli artigiani indiani? Qual è il tuo approccio? Lavorare con gli artigiani in giro per il mondo è un’esperienza di apprendimento culturale per me. Prima guardo che cosa le persone fanno e poi utilizzo la loro tradizione e le loro capacità come punto di partenza. Come designer, porto loro anche nuove idee e materiali, ma considero con attenzione ciò che introduco nel loro mondo. Nel 2009 abbiamo fatto un progetto utilizzando fazzoletti vintage e le donne del SEWA (Self Employed Women Association) che lavoravano al progetto erano deliziate dalla varietà dei diversi fazzoletti, tutti pezzi unici27. Ciononostante mi chiedevo: «È giusto introdurre un materiale estraneo come i fazzoletti?». Prima di iniziare qualunque progetto mi chiedo quale sarà l’impatto potenziale sulla tradizione specifica dell’artigiano. Il mio intento originale è quello di mantenere in vita le tradizioni della comunità artigiana, perciò sto molto attenta, sono quasi restia a introdurre materiali che siano al di fuori della loro cultura. Per esempio in India proverò a usare le tecniche di cucito tradizionale. Al tempo stesso credo che sia importante introdurre novità e spontaneità in questi processi di lavoro intensivo. L’esperienza di lavoro deve essere interessante e divertente e a questo scopo utilizzerò materiali che, nonostante non appartengano alla tradizione, offrano un interesse visivo o tattile e una dimensione ludica per gli artigiani. Le donne al SEWA apprezzano la varietà di colori, modelli e mano del tessuto e hanno piacere ad avere una scelta di materiali interessanti da cucire. L’opportunità di scambio o sinergia è un aspetto del lavoro con le tradizioni di una cultura diversa, ma ci sono anche molte sfide e io devo procedere con attenzione. Spesso vedo che il lavoro manuale non è considerato e valutato e vorrei vedere un maggiore equilibrio tra l’infrastruttura e il singolo lavoratore. In altre aree del mondo il business opera secondo modelli sociali ar27  Jessica Helfand, Better Living Through Artistry, «Change Observer», 17 February 2010; http://changeobserver.designobserver.com/feature/betterliving-through-artistry/12697/.

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caici: c’è una separazione tra il designer e il realizzatore e non c’è comunicazione diretta tra di loro. Ma questo non è il modo in cui lavoro io. Io sono una persona manuale, mi siedo sul pavimento con gli artigiani e lavoriamo insieme. In qualche modo in India, diversamente da molti altri luoghi, gli artigiani non solo portano un livello di expertise alle loro capacità tradizionali, ma fanno un passo in più intraprendendo un dialogo creativo con me in modo che un progetto Dosa diventi più collaborativo. Spesso durante lo svolgersi del lavoro gli artigiani hanno le loro idee o le loro soluzioni ai problemi che sorgono e questo dialogo è una parte significativa dell’esperienza di lavoro nel suo insieme. Quando considero le condizioni umane dei lavoratori nei diversi paesi, ho un conflitto interno che riguarda il modo in cui stanno le cose e il modo in cui io penso dovrebbero invece essere. Come visitatore però devo chiedermi: «Chi sono io per venire in una cultura straniera e pensare che debba cambiare?». Idealmente vorrei pensare che il passo successivo è quello in cui l’individuo possa scegliere autonomamente. Inoltre considero anche la potenziale durata della relazione prima di cominciare progetti di collaborazione con gli artigiani. Può essere complesso prefigurare quanto possa continuare un progetto quando lo inizi, ma il mio obiettivo è di sostenere una comunità artigiana per almeno cinque anni. Nel capo finito quanto c’è di indiano secondo te? Sia i costumi tradizionali mughal sia i costumi rabari della regione desertica del Nord-ovest dell’India mi hanno sempre influenzato e così le forme degli abiti Dosa li riflettono. Il riciclo è parte del tuo approccio alla moda... Sì, riciclare è una dichiarazione politica per me. Dato che hai sviluppato progetti Dosa in molte parti del mondo, vorrei chiederti quali differenze hai riscontrato tra l’India e gli altri paesi dove hai lavorato, come la Cina, l’Africa... In India e in Messico siamo fortunati ad avere connessioni forti con residenti locali. Ad Ahmedabad, Mona Shah, designer e in­66

segnante al NID (National Institute of Design), lavora a stretto contatto con molti artigiani oltre che con le donne del SEWA. E a Oaxaca, Trine Ellitsgaard, un’artista, ha coordinato un ampio numero di progetti di lavoro fatto a mano per noi: carta tinta naturalmente e papel picado28, milagros29 ottenuti da scarti riciclati, ferma-carte di vetro riciclato. Dato che la loro relazione con gli artigiani è intima e personale, entrambe queste donne sono eccellenti conduttrici di una comunicazione fluida e aperta tra me e gli artigiani. Mentre quando Dosa faceva progetti in Cina e in Africa, non avevamo qualcuno lì e io non sapevo mai quanto venivano davvero pagate le persone che facevano il lavoro. Con Mona in India e Trine in Messico c’è trasparenza e quindi fiducia. 2.3. Produzioni materiali e produzioni culturali 2.3.1. «Prada made in». Lo strano caso della moda italiana Nel settembre 2010 Miuccia Prada rilascia un comunicato stampa che suscita molto scalpore nel mondo della moda. Così commenta «Il Sole 24 Ore»: Alcuni prodotti vengono realizzati alla perfezione in Italia. Per altri le capacità artigianali e culturali possono essere altrove. Non è un segreto e non c’è niente di male ad ammetterlo. Anzi, è giusto scriverlo a chiare lettere, con la sicurezza di chi conosce i propri punti di forza e allo stesso tempo riconosce quelli altrui. È questo lo spirito del progetto «Prada made in»: il gruppo milanese ha selezionato quattro produzioni di eccellenza provenienti da quattro angoli diversi del nostro pianeta, che saranno etichettate in modo trasparente ed eloquente: sotto al logo Prada Milano apparirà il relativo «made in». I luoghi protagonisti della prima fase del progetto sono India, Giappone, Perù e Scozia, scelti dal gruppo milanese per altrettante capacità manifatturiere o artigianali o per la disponibilità e la familiarità con l’utilizzo di particolari materie prime (Crivelli 2010). 28  Letteralmente «carta bucata», il papel picado è una forma d’arte tradizionale tipica del Messico, che consiste nel bucare la carta creando immagini e forme che poi si appendono. 29  Ex voto.

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Dal Perù provengono i maglioni di alpaca, dal Giappone il denim per i jeans, dalla Scozia il tartan per la collezione di kilt, mentre i ricami, le calzature e le borse dall’India. Tutti prodotti di alto artigianato di diversi paesi, scelti dall’azienda in funzione delle vocazioni e competenze locali. La dichiarazione di Miuccia Prada è come un sasso nello stagno. Finora la moda italiana era considerata, nel rapporto con altre manifatture, il punto più alto, quella con la manodopera più sofisticata. L’eventuale produzione di moda italiana all’estero era vista solo come una scelta forzata dalla necessità di contenere i costi. Il mito del made in Italy, costruito a partire dagli anni Ottanta in senso letterale, si trasforma attraverso spostamenti successivi e «falsi movimenti», sulla spinta di necessità produttive, nella convinzione condivisa ma non esplicitata che i confini geografici non siano così significativi (Fortunati e Danese 2003, Barile 2006). Se in linea teorica l’ideale è rappresentato dalla filiera integrata, cioè dal controllo diretto di tutte le fasi della produzione di un capo di moda, la difficoltà dei mercati ha costretto le aziende a vari compromessi e a varie forme di delocalizzazione, sperimentate soprattutto negli anni Novanta. Per molti anni alcune aziende italiane hanno cercato di evitare di rendere noto il fatto che molta della loro produzione veniva realizzata all’estero, soprattutto in Cina e in Romania; nel caso in cui venisse invece esplicitamente dichiarato il made (in) altrove, la separazione tra progettazione e realizzazione giustificava neologismi come styled in Italy e desi­ gned in Italy. Oggi è convinzione ormai consolidata che il made in Italy si applichi soltanto alle produzioni più preziose e costose, con cui viene identificata la moda italiana, mentre per l’abbigliamento e gli accessori di fascia media e bassa si conviene che l’Italia per varie ragioni non possa più essere competitiva. Resta controversa però la denominazione del made in. Negli anni il made in Italy è stato infatti oggetto di riflessioni di stampo protezionistico, con diverse proposte di legge, spesso rimaste tali, che scontentavano a turno tutti, come una coperta troppo corta. La più recente, la legge Reguzzoni-Versace, approvata dal Parlamento nel 2010, sancisce che un prodotto può essere etichettato made in Italy se almeno due delle quattro lavorazioni previste sono effettuate in Italia. Come le precedenti, non sfugge alle critiche. Propone infatti un’interpretazione di prodotto italiano che ­68

si presta a includere prodotti molto diversi tra loro; una legge che Luciano Barbera, produttore di lane pregiatissime, non esita a definire un imbroglio: È una truffa. E sto combattendo con tutte le mie forze per far capire alla gente che questo paese sta distruggendo se stesso per portare avanti solo gli interessi di poche persone che sono sfortunatamente membri della più potente casta di questa nazione (Segal 2010; trad. mia).

Nell’articolo Barbera sottolinea, amareggiato, l’ambiguità delle molte proposte di legge, inclusa l’ultima, che per proteggere il made in Italy includono prodotti qualitativamente differenziati e di diversa lavorazione, penalizzando quelli della fascia più alta, l’alto artigianato italiano, cui la sua azienda e poche altre possono dire di appartenere davvero. Senza entrare nel merito delle ambivalenze che genera la delocalizzazione, per esempio nella differenza di percezione tra Cina e Romania (Segre Reinach 2010c, Redini 2008) – la prima produttore ma poi anche e soprattutto consumatore di made in Italy, la seconda mera manodopera –, il tema delle leggi sembra essere solo quello di tutelare la denominazione di origine. Dalla guerra aperta verso chi, senza né arte né scrupoli, incrinerebbe il bene prezioso della manifattura italiana – come per esempio nelle campagne seriali di Carlo Chionna «Dio salvi il made in Italy» (DSMY), in cui l’imprenditore dichiara la sua lotta aperta alla cosiddetta concorrenza sleale cinese attraverso la cruda immagine pubblicitaria di un gladiatore romano in armi davanti al Colosseo – fino all’accorato appello dell’imprenditore biellese Luciano Barbera, la protezione del made in Italy assomiglia quasi a una crociata. Da un lato troviamo la convinzione di una superiorità da proteggere contro un mondo di falsari e incapaci, dall’altro come risposta viene proposta la burocratizzazione di un concetto, il made in Italy, ridotto dal suo senso originario di «bello e ben fatto», corrispondente a una specifica cultura produttiva (Fontana 2010), a etichetta da ottenere con stratagemmi procedurali, per diventare infine un prodotto che può o non può, per legge, essere confezionato nella carta da pacchi a motivo made in Italy. Una legge siffatta non può che scontentare i consumatori più sofisticati, e non solo gli operatori del settore che da questa legge non si sento­69

no protetti. In breve made in Italy diviene oggetto di polemiche, come nell’articolo Chinese Remake the «Made in Italy» Fashion Label, riferito ai terzisti cinesi di Prato: È un problema relativo al «Made in Italy»: approfittando della debolezza delle istituzioni italiane e della tolleranza verso chi non rispetta le regole, i cinesi hanno annullato la linea di separazione tra «Made in China» e «Made in Italy», indebolendo il valore e l’abilità dell’Italia di commercializzare i suoi prodotti unicamente come alto di gamma (Donadio 2010; trad. mia).

O, nella migliore delle ipotesi, made in Italy è un concetto da esportare nei mercati dei «nuovi ricchi» che si ritiene non sappiano distinguere il vero dal falso. Altri designer e creatori, perso interesse per questa denominazione, riprendono le fila del discorso per trovare una definizione diversa di moda italiana, o meglio di un modo italiano di fare moda, che eventualmente si può trovare in piccole etichette con applicata la dicitura «fatto in Italia» (Segre Reinach 2011b). L’inziativa di Prada è dunque significativa per diversi aspetti, al di là dell’intento diretto dell’azienda di comunicare un’iniziativa originale e un nuovo progetto commerciale. Il più immediato è quello di definire l’alta competenza artigianale italiana come un primus inter pares, ripulendola dalla retorica, ma al tempo stesso rivalutandola in quanto viene reimmessa in un’arena di realtà. Liberando il made in Italy dalla gabbia burocratica in cui le diverse leggi e le diverse vicende l’hanno costretto, si valorizzano infatti maggiormente le effettive capacità produttive del paese. Un fenomeno, quello dell’Italia come produttore d’eccellenza e non necessariamente come patria di anziani stilisti, che è sotto osservazione da parecchi punti di vista (Mora 2009, Bucci, Codeluppi, Ferraresi 2011, Segre Reinach 2010c, Frisa 2011). Anche Suzy Menkes (2009) ha parlato di recente di una «Made in Italy Renaissance». Ma è qualcosa di diametralmente opposto a quanto viene inteso dalla retorica sul bel paese. Non si tratta di resuscitare o reinventare uomini completi, umanisti, scienziati, artigiani e commercianti, naviganti e sognatori. Tantomeno di promulgare regolazioni normative sul made in Italy. Come indica il titolo stesso dell’articolo: Italy Looks Beyond Its Borders for Fashion Talent. ­70

La ricerca di nuovi talenti ha preso un’interessante svolta: si cercano designer creativi che sono venuti in Italia per lavorare con gli artigiani (Menkes 2009; trad. mia).

L’articolo si riferisce a Max Kibardin, designer russo specializzato negli accessori, in particolare in calzature. Kibardin è stato anche premiato al Who’s Next di Pitti Immagine Firenze 2009, dedicato ai giovani talenti. Le motivazioni del premio sono quelle di «mostrare a una generazione di designer dell’Est europeo gli esiti dell’incontro con la straordinaria cultura produttiva italiana nella moda». È dunque il nostro turno di essere «cinesi»? I crea­tivi stranieri vengono in Italia per «sfruttare» le nostre capacità di produzione? Kibardin, in realtà, coerentemente con la transnazionalità e il cosmopolitismo delle carriere della moda contemporanea, si è trasferito a Milano dopo aver studiato in Russia ed esser vissuto a New York. Ciò che promuove non è un ritorno all’artigianato, ma una moda globale e locale che, nelle nuove forme di distinzione, passa all’incrocio tra la materialità del prodotto e la personalità dell’autore. Solo in ultima istanza dal logo. Il mondo del fare e il mondo delle idee sembrano non essere più così separati. In questo senso i prodotti «artigianali» – come pratica arricchita della dimensione culturale, dunque autoriflessiva, e non come retorica – sono un settore presente in modo diverso in ogni paese, a seconda delle tradizioni, ma simile in ogni paese. Un’artigianalità che dunque trova uno spazio trasversale e originale anche in Italia, in parte ancora di risulta, data la presenza tuttora dominante della cultura, se non del modello reale, del prêt à porter made in Italy. Ma in parte anche da essa positivamente improntato, ad esempio nella capacità della moda italiana di tradurre in commercio le buone idee, indipendentemente da dove arrivino. Non è infrequente il caso di aziende italiane che dopo un periodo di declino sono state rilanciate sulla base di progetti internazionali che partono dalle competenze locali. È il caso di Bottega Veneta, dal 2001 parte del gruppo Gucci, che a sua volta fa capo alla multinazionale francese PPR, il cui direttore creativo Tomas Maier, un tedesco voluto da Tom Ford, americano, fa base in Florida. La produzione di Bottega Veneta è però tutta a Vicenza, dove l’azienda è nata. Lo stesso designer, che vive tra la ­71

Florida e New York, dichiara che quel tipo di intrecciato tipico degli accessori a marchio Bottega Veneta non potrebbe che essere eseguito in loco, per le capacità uniche degli artigiani italiani. Ma può accadere anche il processo inverso: una grande azienda italiana che rilancia, grazie alle sue competenze produttive e organizzative, un marchio storico francese. È il caso di Marzotto con Vionnet, la cui direzione creativa è affidata a Rodolfo Paglialunga. Dichiara Matteo Marzotto, a capo dell’operazione: Sfilare a Parigi è in totale coerenza con il brand. Credo molto nell’Europa, anche in quella allargata, e poter lavorare su un progetto che se da un lato sarà strettamente legato all’Italia, paese nel quale concentreremo il 100% della produzione sfruttando il fantastico sistema dei distretti, dall’altro avrà una connotazione europea, mi rende felice ed orgoglioso (Mello-Grand 2009).

Anche lo scambio internazionale di giovani talenti è favorito da questo cambiamento di prospettiva sul significato del made in Italy. Scrive a questo proposito Suzy Menkes: Come un calcio di inizio alla nuova stagione italiana, Vogue Italia ha tenuto una «open house», ovvero un «Talents Corner», mercoledì, dove 14 giovani designer con una carriera appena iniziata sono capaci di mettere in scena capsule collections che includono abbi­ gliamento, gioielli e scarpe per un pubblico proveniente dai più alti livelli dell’industria. È significativo il fatto che i designer selezionati non vengono solo dall’Italia, ma sono stati trovati a Pechino da Vogue Russia e in Brasile, California, Londra e Parigi da altri redattori. Una portata così globale sarebbe stata inconcepibile quando il «Made in Italy» significava «protezionismo». Ma in questa primavera milanese c’è stata davvero una rivoluzione della moda (2011a; trad. mia).

L’evoluzione del rapporto tra manifattura, design, creatività è dunque l’inizio di una nuova cultura della moda (Frisa 2011), ma ci riporta anche per alcuni aspetti, al sistema del tessile e dell’abbigliamento italiano precedente all’ascesa di Milano quale capitale della moda. È opportuno ricordare ancora una volta che il prêt à porter milanese – fondamentale per la diffusione della moda moderna, non solo italiana (Cietta 2009, Segre Reinach 2010b) – è ­72

stato costruito sulla base di un incontro tra il design e l’industria, tra lo stile e la produzione. La figura centrale e di raccordo è lo stilista, a sua volta erede del couturier. Il primo interprete e promotore del nuovo modello è Walter Albini (Frisa e Tonchi 2010, Segre Reinach 2010a) e il più noto Giorgio Armani. L’insistenza sul concetto di made in Italy oggi non può prescindere dall’attaccamento a quello specifico modello, il cui apice si è avuto negli Ottanta, ma che è ormai anacronistico. Dopo più di trent’anni la moda italiana si è trasformata, condizionata dall’internazionalizzazione dei mercati, e la cultura della moda globale è polarizzata tra lusso e fast fashion. Milano resta la capitale della moda italiana, in quanto le testate di moda, le agenzie di pubblicità, gli studi di PR, la maggior parte delle scuole di moda e tutto quanto contribuisce a trasformare i prodotti vestimentari in capi di moda sono concentrati lì30; ma sono i distretti produttivi sopravvissuti alla concorrenza internazionale a mostrare un’identità più forte, non meramente manifatturiera, ma collegata a territori di creatività diffusa (Volonté 2003). È ciò che gli economisti definiscono «il Quarto Capitalismo», nato dalla crisi dei distretti degli anni Novanta. Per la verità, la sintesi tra design e industria operata dal prêt à porter milanese risultava già nella creazione di un nuovo fenomeno e non nella separazione tra i due aspetti, come poi la banalizzazione del concetto di made in Italy ha comportato, separando l’ideazione dalla manifattura. Riprendere in considerazione la circolarità e necessarietà del legame tra ideazione e produzione, a prescindere dal luogo in cui avvengono le fasi, sposta inevitabilmente anche il punto di vista sulla moda italiana e sul ruolo di Milano. Attualmente la «provincia» è sede di molta creatività riconosciuta e non solo luogo di una produzione in calo. Come scrive Elda Danese (2011), la moda italiana ha rappresentato in effetti un caso molto peculiare nel teorema di modernità e me30  «Con più di 7000 imprese di moda, un fatturato di 90 miliardi di euro, 300 eventi di moda l’anno, la presenza di 20.000 professionisti durante le Settimane della Moda, il primato mondiale nella moda-uomo, Milano è una delle tre capitali mondiali della moda, insieme a New York e Parigi»; così Letizia Moratti, nel discorso introduttivo alla seconda edizione di Milano Fashion City, tenutasi dal 15 febbraio al 9 marzo 2011.

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tropoli, in cui già lo stesso Benjamin (1986: 544) non mancava di sottolineare l’incompatibilità del flaneur con il carattere italiano e con il paesaggio di una città come Roma. Secondo Elda Danese, l’industrializzazione italiana ha causato solo per un breve periodo lo spopolamento delle campagne e dei piccoli centri urbani, mentre ha comportato la formazione di un panorama di «campagna urbanizzata», specialmente nella cosiddetta Terza Italia dei distretti industriali. «In questa prospettiva», scrive Danese, «la descrizione simmeliana delle metropoli – presentate come scenari di una cultura che eccede e sovrasta ogni elemento personale, dove le costruzioni, i luoghi della vita comunitaria e le istituzioni dello Stato manifestano uno spirito che soverchia gli individui, in cui l’elemento personale deve esagerare per farsi sentire – non sembra essere adeguata a descrivere il passaggio alla modernità così come è avvenuto in Italia». La produzione industriale non ha interamente sradicato la cultura della provincia italiana, al contrario ha contribuito a definirne l’immaginario nazionale. Milano, città della moda, era ed è dunque in una condizione peculiare rispetto alle grandi metropoli come Londra e Parigi, in cui la cultura della modernità industriale ha fatto da culla alla formazione della moda dei grandi sarti per la grande borghesia. In questo senso l’ascesa di Milano nel territorio dello stile è più simile a quella di New York – entrambe «emancipate» da Parigi tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, ma con un’importante differenza. New York, scrive Thuy Linh Nguyen Tu (2010), ha segnato la sua identità quale città della moda rispetto a Londra e Parigi separandosi dal suo passato produttivo, come abbiamo accennato nel primo capitolo, costituito dal lavoro dei sarti immigrati concentrati nel Garment District e trasformando il quartiere stesso in un’industria culturale: La trasformazione di New York in una città della moda ha richiesto la rimozione della sua storia di città della produzione vestimentaria. Una volta sinonimo di sarti immigrati a basso costo e couture scopiazzata, è ora famosa per DKNY, Condé Nast e la Bryant Park Fashion Week. Ma la produzione di abbigliamento non è certo scomparsa. Piuttosto è diventata per la moda qualcosa di simile a un cugino povero (ivi: 18; trad. mia). ­74

Milano invece ha sempre integrato industria culturale e produzione materiale, come indica Giovanni Luigi Fontana (2010), inserendola in un contesto più ampio che include non solo la moda, ma molti altri settori produttivi italiani. La qualità manifatturiera della moda italiana è stata tenuta in gran conto anche durante gli anni di maggiore enfasi sugli aspetti immateriali della moda milanese. E Milano, rispetto a Londra e Parigi nelle quali si accentrava e si accentra tutta l’organizzazione, per le sue piccole dimensioni e per la posizione di collegamento di province di produzione e di saperi, ha avuto una funzione di raccordo più che di accentramento. Il ritorno di interesse di questi ultimi anni nei confronti dell’artigianato industriale italiano ne è una riprova. Il fashion mantra «Parigi-Londra-Milano-New York-Tokyo» cela dunque culture della moda molto diverse tra loro, che riemergono nonostante la globalizzazione o, più probabilmente, proprio a causa di essa. Per l’Italia la delocalizzazione (lo spostamento di alcune fasi della produzione all’estero) ha comportato da un lato il perfeziona­mento di quelle rimaste, dall’altro la trasformazione del made in Italy e della visione di Milano quale unica città della moda ­italiana verso forme di creatività più ampie, non soltanto legate alla fabbri­ca. Ciò ha comportato la ripresa di un dialogo tra Milano, le altre città della moda italiana come Firenze, Roma, Bologna, e gli altri luoghi della produzione e del consumo. Basti pensare a Yoox, il sito di vendita di moda on line che da Bologna, dove è stato fondato nel 1999, è diventato uno dei siti internazionali più significativi dell’e-commerce, oggi presente anche in Cina; o ai negozi multimarca, da Penelope di Brescia a Lazzari di Treviso, in cui è evidente la cura per la creatività nel vestire, erede della «bella figura» che costituisce l’antropologia sartoriale italiana. Stiamo assistendo a un riposizionamento sul segmento alto e a una conseguente tendenza alla rilocalizzazione. La nuova organizzazione comporta uno spostamento dal distretto – la cui crisi aveva imposto la delocalizzazione – alla «rete lunga». Che cosa sarà davvero della moda italiana tuttavia non è dato di sapere. I nuovi designer italiani, scrive Frisa (2011), appartengono a una cultura molto diversa dai loro predecessori, gli stilisti, e lavorano in contesti molto internazionalizzati e diversificati, ma sono ac­75

comunati da una creatività riconoscibile e da un talento che affonda le radici in un passato di competenze. Elementi che unitamente alla loro estraneità, per ragioni biografiche, rispetto alla cultura degli anni Ottanta potrebbero permettere loro di «fare sistema» in modo nuovo. Per altri autori, come Emanuela Mora, sembra invece essersi spento il portato innovativo della moda italiana, da un lato per una sorta di saturazione semiotica, dall’altro per il «blocco del potere da parte dei soggetti già affermati, che ha reso molto difficile l’affermazione di nuovi aspiranti attori nel campo» (2009: 31). Certo è che la cultura dell’indipendenza che si va affermando in molte parti del mondo, cioè la presenza significativa di indie labels, non è propriamente nelle corde italiane, frenata anche da un sistema distributivo che, con rare eccezioni, non supporta i designer indipendenti e compera solo quello che pensa di vendere, in un circolo vizioso che appiattisce l’offerta. L’assenza di uno street style italiano visibile e articolato, come invece accade nel Regno Unito e in Giappone, non è che l’altra faccia della medaglia. 2.3.2. Artigiani in vetrina e artigiani in bottega In un articolo sul «New York Times» la critica di moda Suzy Menkes (2010) si chiede se la storia dei marchi europei (la cosiddetta heritage, un termine caro oggi alla moda) abbia un senso per il resto del mondo, per esempio per gli Stati Uniti e soprattutto per l’Asia. In realtà la questione se la pongono soprattutto i manager dei marchi del lusso, sempre alla ricerca di un compromesso tra passato, presente e un futuro che risiede sul web più che in bottega. Il tema dell’eredità (heritage) dei marchi è dunque da qualche tempo al centro delle preoccupazioni delle grandi aziende, incerte se accomodarsi nel passato confortevole dell’artigianalità o proiettarsi nel futuro di e-commerce e social network, o più probabilmente tentare di trovare un equilibrio tra questi due aspetti. Suzy Menkes si chiede anche in che misura l’artigianalità sia una parte essenziale dell’eredità di un marchio. Forse non per i marchi francesi e inglesi, benché abbiamo visto che i sarti di Savile Row siano spesso citati dai marchi inglesi quale fonte di ispirazione; ma sicuramente lo è per l’Italia, dove il processo produttivo viene spesso richiamato e rappresentato anche in pubblicità. Gucci, ad esempio, ha di recente inserito nel suo sito web le immagini della ­76

fabbrica di un tempo con i lavoratori in camice bianco, mentre Tod’s ha prodotto un film in cui mette in relazione gli artigiani che lavorano la pelle per le scarpe con un balletto al teatro La Scala di Milano. Ferragamo ha teatralizzato la bottega artigiana del ciabattino in occasione della mostra Salvatore Ferragamo Evolving Legend, riscuotendo un grande successo non solo a Shanghai, dove la mostra è stata inaugurata nel 2008, ma anche alla Triennale di Milano, dove è stata esposta successivamente: il pubblico italiano, non diversamente da quello cinese, si è dimostrato affascinato dalla ricostruzione del passato del marchio (Segre Reinach 2010b). Lo stesso ha fatto Ermenegildo Zegna allestendo nelle sue vetrine di via Montenapoleone a Milano l’atelier del sarto, in occasione della notte bianca della moda organizzata dalla rivista «Vogue» nel settembre del 2009. In entrambi i casi si trattava di tableaux vivants in cui artigiani-attori (o attori-artigiani) mettevano in scena la tradizione portando il pubblico a una romanticizzazione del lavoro artigiano. Un altro aspetto della ripresa della tradizione è la rivisitazione degli archivi storici. Dal britannico Burberry con il lavoro sul trench, al rilancio di Lanvin da parte di Alber Elbaz, a quello di Vionnet da parte di Marzotto, sono in molti a ricercare un legame con la tradizione artigiana del lusso, valorizzando anche gli archivi. Gucci ha celebrato il novantesimo anniversario con l’inaugurazione di un museo a Firenze, in cui sono in mostra i prodotti che hanno reso il marchio noto nel mondo sin dai primi del Novecento, e con la pubblicazione di un libro in cui si celebrano, con uno sguardo al presente, i grandi personaggi che hanno caratterizzato la storia della maison, tra la dolce vita romana e le bellezze fiorentine. Si legge nei manuali di marketing che il successo di un prodotto di moda sta nell’allontanamento da ogni riferimento alla sua vera produzione. Ma questi riferimenti alla bottega non contraddicono i manuali. In quanto costruzione idealizzata, contribuiscono ad allontanare dalla realtà del lavoro dell’artigiano il quale, come scrisse Melchiorre Gioia (1767-1829), «non sta contemplando le scene o animate e belle o languide e tristi della natura, ma sta concentrato in un’officina dall’alba del giorno sino alla sera» (Bollati 1972). I responsabili dei grandi marchi storici sono inoltre convinti, come si evince da molte interviste, che l’heritage non sia nostalgia, ­77

né mero strumento di marketing, bensì il segno di una qualità intrinseca dei prodotti che si trasmette nelle generazioni e che può diventare parte del patrimonio del marchio, da comunicare anche all’esterno. Artigianalità come segno di bellezza, in opposizione al lavoro industriale: non è una novità. Già negli anni Sessanta Jean Baudrillard (1979) aveva sottolineato quale fosse il grande inganno che il sistema della moda metteva in atto, riservando alle élites il prodotto unico e di valore e distribuendo al popolo mere copie industriali spacciate per autentiche. La visione di Baudrillard era fortemente ideologica: capitalismo e industrializzazione avevano generato la moda, una figlia particolarmente perniciosa. Ma nel settore tessile-moda che Entwistle (2000) definisce un’industria imperfetta in quanto permangono anche oggi aspetti artigianali e semi-artigianali, il fatto a mano è una definizione ambivalente: può voler dire specializzazione e competenza da un lato, ma anche sfruttamento di manodopera decentrata e a basso costo dall’altro (Segre Reinach 2010a). Nel nostro presente il mito dell’artigiano ritorna apparentemente depurato dall’apparato ideologico che contraddistingueva gli autori strutturalisti e post-strutturalisti come Bourdieu, Baudrillard e Barthes, fortemente critici dell’organizzazione capitalista e dei suoi simboli. Uno dei libri di maggior successo di questi ultimi anni è infatti L’uomo artigiano del sociologo americano Richard Sennett (2008) in cui viene celebrato il valore della piccola impresa, come luogo in cui le cose sono fatte «a regola d’arte», con un prodotto che soddisfa tanto chi lo esegue quanto chi lo riceve. L’uso dell’artigianalità in comunicazione può essere per molti aspetti assimilato alla cosiddetta «invenzione della tradizione», un concetto caro tanto agli antropologi quanto agli storici. Nel celebre saggio curato da Hobsbawm e Ranger (2002) lo storico inglese ha dimostrato come molte pratiche considerate tradizionali e antiche sono invece recenti e talvolta del tutto inventate. Nella moda e nell’abbigliamento il fenomeno è molto diffuso. Spesso abiti tradizionali e nazionali sono recenti invenzioni costruite per rafforzare idee e convinzioni in merito alla nazionalità. Mi riferisco per esempio all’aodai vietnamita creato a fine anni Venti dal pittore Nguyen Cat Tuong (Leshkowich 2003), al turbante indiano sikh, codificato come tale solo durante il dominio britannico, e al kilt scozzese, ­78

in realtà inventato da un inglese nel 1730 (Trevor-Roper 1983), solo per citare i casi più noti. Il confine tra omaggio al passato e invenzione della tradizione è molto sottile. Louis Vuitton è stato condannato dal Gran Giurì per «messaggio ingannevole» nel caso della sua campagna pubblicitaria «degli artigiani». Sono due i visual considerati ingannevoli: il primo rappresenta una sarta che cuce a mano una borsa, la cui body copy recita: «La sarta con filo di lino e cera d’api. Si potrebbe dire che una borsa di Louis Vuitton è un insieme di dettagli. Ma se così tanta attenzione è profusa in ognuno di essi, li possiamo ancora chiamare dettagli?»; il secondo raffigura una donna che cuce a mano un portafoglio. Entrambi gli annunci sono realizzati in uno stile che ricorda i dipinti fiamminghi. Nel caso di Paul Smith il ricorso alla tradizione è invece un’operazione concettuale che non si presta a interpretazioni letterali che possano infastidire il Gran Giurì. L’eredità britannica è solo il punto di partenza. Paul Smith ha elaborato i codici sartoriali britannici modificandone i colori, per esempio nel caso del celebre cappotto con il colletto di velluto Epsom, o ha disegnato modelli a partire da figure storiche di eleganza classica come il duca di Windsor, il fotografo e costumista Cecil Beaton, il dandy e couturier Bunny Rogers, inserendo nelle collezioni anche il loro britannico senso dell’umorismo. La Francia con i suoi marchi del lusso, e per molti aspetti anche l’Inghilterra, spesso eredi di una cultura della distinzione ottocentesca, è un caso diverso da quello italiano. Il concetto di made in Italy e il suo conseguente successo – sembrano dimenticare i comunicatori attuali della bottega artigiana – si sono basati proprio sul superamento della dimensione artigiana e sulla possibilità di fare industrialmente un bel prodotto, grazie non solo alle competenze artigiane, ma anche a quell’ondata di modernità che gli stilisti hanno saputo creare (Segre Reinach 2010d), mettendo a sistema un processo di industrializzazione del tessile, che era iniziato già nel secondo dopoguerra grazie al piano Marshall. Il risultato, quasi a confutare la teoria di Baudrillard, era un prodotto di serie attraente quanto l’originale in copia unica. E il prêt à porter milanese è stato indubbiamente una democratizzazione del lusso, in quanto ha massificato un concetto, il prêt à porter de luxe, con cui i francesi cercavano di ovviare alla decaduta cultu­79

ra della haute couture, destinata a un pubblico di élite, costruita artigianalmente. Lo dice chiaramente Diego Della Valle – che ha cominciato a cucire scarpe nella bottega di ciabattino del nonno Filippo, nelle Marche – che ciò che l’antico ciabattino ha in comune con la moderna fabbrica è la ricerca della qualità, e non certo un modo di produzione pre-industriale (Menkes 2010). Come il controverso programma di Milena Gabanelli sul made in Italy (Report, 2007) e il libro di Roberto Saviano Gomorra (2006) hanno mostrato, non di rado gli «artigiani» di oggi sono lavoratori in nero sottopagati, tramite subappalti di subappalti, dislocati in vari laboratori spesso clandestini. Il fascino dell’artigiano tuttavia sussiste e può essere ricondotto non solamente alle strategie di comunicazione sopra descritte, ma a una condizione creata dalla cultura globalizzata della moda in cui convivono diverse forme di modernizzazione. Due in particolare sono i «fronti» in cui troviamo «artigiani in bottega» (e non in vetrina). Il primo caso è il fenomeno dei designer «indipendenti», cioè coloro che si trovano a lavorare non necessariamente con un grande produttore o entro codici prestabiliti dal mercato di massa. Il designer indipendente, una sorta di «erede» dell’artigiano inteso in senso classico, è una figura presente più nel Nord Europa e meno in Francia e in Italia, paesi in cui l’industria è andata di pari passo con la creazione dello stile, impedendo non di rado ad altre voci di farsi sentire (Colaiacomo 2006)31. Questi designer indie hanno in comune con gli artigiani tradizionali la piccola dimensione e la possibilità, entro i limiti imposti comunque dal gusto del pubblico, di esprimere la propria creatività. Si tratta spesso di giovani appena diplomati nelle scuole di moda, ai quali il governo (è il caso dei paesi scandinavi) offre incentivi per «aprire bottega», vendere e far conoscere i propri prodotti. Vetrine che possono essere il primo passo verso una produzione su una scala più ampia, oppure, con i debiti aggiustamenti, verso il posizionamento in una dimensione di impresa riconosciuta e commercialmente attuabile, seppur limitata. 31  Per quanto cominci a diventare un fenomeno riconosciuto anche in Italia (Frisa 2011).

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Il secondo caso è il lavoro artigianale vero e proprio nei cosiddetti paesi in via di sviluppo – anche se spesso si tratta di economie già molto forti, come nel caso dell’India, ricchissima di varie forme di artigianato locale. L’artigianato così inteso è collegato alla «moda etica» o slow fashion, moda lenta, così definita in contrapposizione alle produzioni su larga scala del fast fashion globalizzato. Il movimento dello slow fashion, che ricorda quanto già accaduto nel settore alimentare con il più noto slow food, è una rivalutazione e rivitalizzazione di modalità produttive all’insegna della sostenibilità e della valorizzazione delle competenze. Uno degli aspetti dello slow fashion che, come vedremo (vedi il paragrafo successivo), può tuttavia anche scivolare verso una dimensione paradossale è quello dell’attenzione alla manodopera. Un’attenzione che non sta soltanto nelle condizioni di lavoro e di salario, ma anche – e in questo caso troviamo la parentela con il «nuovo artigiano» – nella possibilità che competenze e tecniche tradizionali di lavoro, messe in ombra o addirittura annullate nei processi più spinti di industrializzazione della moda, possano essere riproposte e valorizzate in circuiti più ampi. La vita degli artigiani tessili (spesso donne), le sfide che devono fronteggiare, le opportunità che il lavoro artigianale offre loro per superare contesti difficili sono oggetto di recenti studi. Nel paragrafo dedicato all’attività in India della fashion designer Christina Kim abbiamo considerato esempi di donne artigiane al lavoro per il marchio Dosa. La moda lenta offre alternative, scrive Hazel Clark (2008), per analizzare da vicino la relazione tra il vestire e la sostenibilità, proprio in quanto mette in dialogo quelli che la studiosa definisce i tre aspetti fondamentali alla base del prodotto sostenibile: la valorizzazione delle risorse locali, la trasparenza dei sistemi di produzione – con la conseguente valorizzazione della «filiera corta» – e la sensorialità del prodotto, spesso particolarmente intensa nei prodotti di moda, per via della vicinanza al corpo e all’identità. Caratteristiche indubbiamente «artigianali», ma anche estremamente moderne. Ancora una volta niente di nuovo sotto il sole, probabilmente: potremmo infatti chiamarla un’attualizzazione dell’antico concetto greco kalòs kai agathòs, bello e buono.

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2.3.3. Un paradosso della «moda etica» I movimenti per la salvaguardia delle risorse del pianeta, per i diritti umani e per il consumo consapevole (tendenze in grande espansione in tutti i settori) non potevano non coinvolgere anche la moda, un comparto che sin dalla querelle sul lusso dell’Europa del Settecento (vedi La favola delle api di Bernard de Mandeville, 1705) ha prestato il fianco più di altri settori alla «questione morale». Definita come industria imperfetta (Ribeiro 1986, Entwistle 2000), la moda è poco «controllabile» nell’intera sua filiera. Con la globalizzazione dei consumi e della produzione, e con la questione della «moda etica» e dei diversi aspetti ad essa correlati – prodotto in sé, modalità di produzione in fabbrica e consumo –, la definizione stessa di moda etica si complica ulteriormente, perché ideazione, produzione e consumo di capi di abbigliamento spesso avvengono in luoghi diversi32. La moda etica o l’etica nella moda è di moda oggi più che mai. A volte la moda etica può tradursi anche in una parodia, come è il caso della borsa «I’m NOT a Plastic Bag» (2007) di Anya Hindmarch, creata per incoraggiare le sue consumatrici a non usare la plastica, ma poi criticata perché accusata di essere stata prodotta in Cina da lavoratori sottopagati. L’Ethical Fashion Show di Parigi è una fiera nata nel 2004 dedicata interamente al tema della potenzialità della moda etica. I suoi organizzatori tengono a precisare che la moda può essere rispettosa dell’ambiente e dei lavoratori pur conservando intatta tutta la sua attrattiva. In apertura del catalogo dell’edizione 2007 dell’Ethical Fashion Show sono elencati gli obiettivi della manifestazione: provare che la moda etica possa essere di tendenza e anche socialmente utile, rispettosa dell’ambiente, aperta alle influenze dei paesi in via di sviluppo, alle diverse culture. Una moda che possa incoraggiare lo sviluppo economico, costituire un luogo di incontro per tutti i designer, gli stilisti e i commercianti di prodotti tessili, promuovere il dibattito sui temi dell’etica e soprattutto dimostrare di poter avere un grande mercato. Dal lusso al mass-market, i temi dell’etica attraversano diverse produzioni di moda. Campagne pubblicitarie di diffusione 32  I viaggi di una T-shirt nell’economia globale di Pietra Rivoli (2006) aveva evidenziato appunto le rotte complesse che attraversano la confezione di uno dei capi più emblematici del vestire globalizzato.

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internazionale, come «Clean Clothes» e «Made in Dignity», sono nate per diffondere la familiarità dei consumatori con concetti come trasparenza nei controlli e nelle transazioni e rispetto delle leggi internazionali a tutela di tutti i lavoratori. Lunghi e Montagnini (2007) hanno contribuito a classificare e a distinguere i vari aspetti che compongono il fenomeno della moda etica – che le autrici preferiscono definire «moda della responsabilità» – secondo tre aspetti: il primo è la moda «biologica», che riguarda l’ecosostenibilità della produzione, quindi i metodi di coltivazione delle fibre, per esempio le coltivazioni organiche, i procedimenti di tintura; il secondo è la moda «solidale», attenta alle condizioni dei lavoratori; e infine, il terzo, la moda «dell’usato», che mette al centro del consumo consapevole il riciclo nelle sue varie forme. Si potrebbe inoltre aggiungere, nella prima categoria, anche il rispetto per le condizioni di vita degli animali – per esempio per le modalità di tosatura delle pecore, o nel caso dell’uso della pelliccia si potrebbe mettere in discussione del tutto la liceità della pelliccia dal punto di vista «etico» pur essendo di fatto una fibra naturale. È chiaro che i tre aspetti sono correlati, ma possono convivere l’uno senza gli altri e spesso lo fanno. Pur riconoscendo la difficoltà e la complessità nel definire che cosa possa essere la «moda etica» – per quanto il futuro della moda, come di altri comparti del consumo, stia nella sua sostenibilità per il pianeta (Wilson 2010, Mora 2009) –, mi preme segnalare un’altra questione, e cioè quali siano gli stereotipi e i luoghi comuni su cui si basa la visione dell’etica nella moda una volta che il confine si allarghi dall’Occidente ad altre culture, paesi, nazioni. Il discorso occidentale sulla sostenibilità pecca infatti di orientalismo. In sintesi il ragionamento è il seguente: l’Occidente accusa i paesi emergenti di arricchirsi seguendo quello stesso modello di sviluppo su cui oggi fa autocritica, in quanto lo ritiene non più sostenibile. Saremmo in troppi a voler condurre i medesimi dispendiosi stili di vita. L’Occidente, con i suoi economisti, filosofi e sociologi, ricerca e propone variazioni a quel modello, di cui dichiara imminente una revisione, un ripensamento. E vorrebbe che anche gli altri, in particolare la Cina e l’India, cioè i newcomers, contribuissero a questo cambiamento di rotta (l’Africa è ancora fuori gioco, pur essendo già terra di conquista cinese, mentre gli Stati Uniti, tuttora i più grandi inquinatori, fanno parte dei propu­83

gnatori dell’altro modello). Ma, purtroppo, «loro non ci sentono» da questo orecchio. Scrive a questo proposito Serge Latouche: con il tasso attuale di crescita della Cina (10% di aumento del Pil annuo nei primi otto anni del XXI secolo) si ottiene una moltiplicazione di 736 volte in un secolo. Immaginiamo invece che la Repubblica Popolare si assesti su una velocità di sviluppo più moderata, per esempio quel 3,5% annuo che fu la media europea negli anni della ricostruzione post-bellica: si avrebbe pur sempre una moltiplicazione di 31 volte in un secolo. Chi può pensare che ci sia sul pianeta abbastanza petrolio, acqua da bere, ossigeno per respirare, per una Cina che produce e consuma trenta volte più di adesso? (in Rampini 2010).

Latouche auspica una sorta di neo-frugalità appagata, commenta Federico Rampini sulle pagine del quotidiano «la Repubblica» sopra citate, e invoca un freno alla crescita coatta del Pil. Nuovi studi sulla nozione di «felicità» sono stati prodotti per dimostrare che la crescita economica non è tutto, anzi, spesso i paesi dove gli abitanti sono più felici sono quelli che hanno come priorità altri valori che non la crescita economica. Questo metterebbe in crisi il modello stesso di consumo. Ne parla anche la moda, che anzi ha da tempo anticipato questa visione, valorizzando la qualità, il tempo, l’autenticità, il fatto a mano, la moda lenta, gli artigiani, il viaggio con il baule ottocentesco, la fine della corsa forzata ai consumi. Tomas Maier, il designer tedesco che ha contribuito a rilanciare il brand Bottega Veneta, dichiara ironicamente, in un articolo a lui dedicato dal «New Yorker» significativamente intitolato Just Have Less (Colapinto 2011), che tutti possono permettersi una sciarpa di cashmere dipinta a mano da millecinquecento dollari, basta comprare meno: just have less, appunto. Modelli di de-branding, cioè la presa di distanza dal marketing improntato al marchio, la ricerca di creatività, la moda ecologica, il rispetto dell’ambiente, delle condizioni di lavoro, della salute del consumatore, costituiscono il leitmotiv di una parte sempre più consistente del discorso della moda. Come scrive Stefano Tonchi, capo redattore di «Time Magazine»: La chiave va individuata nella transizione da un’economia del lusso a un’economia del valore. L’obiettivo è ridefinire l’importanza del ­84

lavoro nella moda e compiere il doloroso ma necessario processo di eliminazione del marchio: gli unici a sopravvivere saranno i nomi in grado di offrire qualità vera (cit. in Bonami 2009).

Ma noi, i «convertiti» al consumo critico, i convinti che la felicità stia nel consumare in modo consapevole, vogliamo comunque che gli altri continuino a comperare i nostri brand, di cui abbiamo i magazzini pieni. Mentre noi li snobbiamo come commerciali, industriali, poco creativi, «un’immagine-segno che coniuga significati arbitrari e valori attribuiti a un oggetto e che, da un punto di vista materiale, non è più distinguibile da quelli prodotti dai concorrenti» (Mora 2009: 174), d’altra parte ci organizziamo per esportarne una gran parte nei paesi del vecchio Terzo mondo, ora ribattezzati «nuovi mercati». L’emergere dei nuovi player economici estranei al primo progetto di modernità costringe il vecchio mondo (cui ormai appartiene anche l’America) a riprendere in mano la rappresentazione del proprio destino e ad immaginare per sé un nuovo modello di sviluppo dove il valore culturale e sociale del nuovo deve necessariamente conciliarsi con il valore culturale ed economico della sostenibilità, pena la possibilità materiale stessa di sopravvivere (ivi: 177).

Non ci piacciono più, in un’ottica distintiva alla Bourdieu, ma vogliamo continuare a venderli altrove, mentre noi ci rivolgiamo verso il consumo sostenibile. E non è tutto. Noi pensiamo che la ricerca di sobrietà sia soprattutto occidentale, che questo «bisogno sociale di trasparenza» (ivi: 175) sia tutto nostro, mentre in Cina, in India, in Russia, la tendenza prevalente sia la ricerca acritica di brand. Dunque sosteniamo che «a loro piacciono», e cioè che l’ideale per un nuovo ricco di un nuovo mondo sia un vecchio brand di un vecchio mondo (eventualmente fabbricato nel nuovo mondo). Recentemente c’è stato un dibattito interno ad alcune aziende, ad esempio, in merito alle dimensioni dei loghi presenti sui capi e sugli accessori. Mentre sembra che in Europa vi sia una tendenza a indossare loghi sempre più piccoli e appena accennati, quasi solo suggeriti a un pubblico di conoscitori dal gusto raffinato, in Asia e in particolare in Cina il consumatore viene invece descritto ­85

come desideroso di riconoscere all’istante le sue marche preferite, anche attraverso la visibilità del logo. L’articolo riportava il dubbio delle aziende se produrre o meno loghi differenziati per i due mercati (Jamieson 2010). È un aggiornamento di una delle prime leggende sui cinesi, secondo la quale gli acquirenti dei primi capi occidentali di marca nei negozi, come conseguenza della politica della porta aperta, portavano i capi con il cartellino del prezzo attaccato per dimostrare quanto avevano speso. Ci arriveranno anche «loro» al nostro gusto raffinato! Nel frattempo li inondiamo di scarpe e occhiali griffati, mentre noi ci dilettiamo nella nostra sofisticata ricerca di understatement. Un’analisi anche sommaria della moda globale evidenzia invece che lo stesso processo verso la «moda etica» è individuabile altrove, per esempio proprio in Cina (oltre che in altre parti del «nuovo mondo»). Alla Cina sta sempre più stretto il ruolo di manifatturiere privo di gusto e di creatività. La crescente autonomia stilistica e l’affermazione identitaria della moda cinese, progettata e realizzata da stilisti cinesi, oggetto di numerose pubblicazioni ad essa dedicate (Finnane 2008, Tsui 2010, JuanJuan Wu 2009), ci fanno capire che non siamo i soli ad avere nuove aspettative nei confronti del vestire. Se film come China Blu (di Micha X. Peled, 2005), una produzione americana girata di nascosto in una fabbrica di jeans cinese, vincitore del premio per il miglior documentario (Toronto 2005), ci fanno vedere molto crudamente, ma occorre aggiungere da una sola prospettiva, qual è la vita delle ragazze operaie (le dagon mei), altri film, come Useless (di Jia Zhangke, 2007), ci restituiscono la realtà cinese in modo più complesso. ­Useless descrive il dramma di un villaggio, quello da cui proviene il regista stesso, in cui i sarti, tradizionalmente impegnati in un’attività autonoma e di soddisfazione, diventano lavoratori sfruttati in miniera per assecondare le logiche di mercato. Questa è la Cina «fabbrica del mondo», in cui i lavoratori non sono protetti e sono vittime della corsa all’accumulo di ricchezza della nuova società cinese liberalizzata. Ma in Useless è anche ripresa una performance di Ma Ke, una delle più note stiliste cinesi, la cui «prima linea» si chiama appunto Useless (Wuyong), cioè moda che non serve. Durante la performance di Ma Ke, cui il film dedica una lunga parte, la designer cinese sotterra gli abiti, che diventano così parte della natura stessa. È un atto simbolico. ­86

Ma Ke si considera infatti una stilista ecologica. In un’intervista on line33 chiarisce la sua posizione e così commenta il suo lavoro di designer ecologica: Non penso all’ecologia mentre creo i miei lavori. È già parte del mio sangue; seguo il mio cuore. Non penso nemmeno agli affari, dal momento che la vita è più che business. Ci sono meno necessità nella vita di quelle che pensiamo.

Sul tema della moda sostenibile e del fatto che la Cina possa seguire lo stesso modello occidentale, Ma Ke risponde in questo modo: La storia dell’industria della moda in Cina è molto più breve di quella occidentale, ha solo 30 anni. Tuttavia la Cina ha una ricca cultura dell’abbigliamento e del costume. La nostra tradizionale saggezza dovrebbe portare i cinesi verso uno sviluppo diverso dal modello industriale occidentale. Rispetto a quest’ultimo, abbiamo visto gli svantaggi che ha portato nella società industriale: la Cina non deve seguire la stessa vecchia strada (trad. mia).

Del resto, non è nemmeno accertato che noi occidentali ci stiamo muovendo nella direzione di un consumo più consapevole. Scrive a questo proposito Adriano Sofri: Così stanno le cose. Noi non abbiamo convertito la nostra vita quotidiana di automobili private da 250 all’ora andanti nel traffico urbano a 10 all’ora, così da avere qualche titolo per ammonire il resto del mondo che, se avesse fatto come noi, sarebbe stato fottuto. E ora ci disperiamo perché a Pechino riducono drasticamente le immatricolazioni di nuove auto, che noi vogliamo vendergli. Inquiniamo a tutta forza e compriamo l’aria dei paesi (provvisoriamente) affamati (Sofri 2011).

Non credo tanto che il discorso «noi e loro» si sia allargato fino a comprendere paternalisticamente anche «loro», quanto che sia 33  Useless-Design by Ma Ke, «Eco Fashion World», www.ecofashionworld. com/Designer-Profile/Useless-Design-by-Ma-Ke.html; trad. mia.

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il momento in cui «loro» si fanno sentire molto incisivamente, se dobbiamo dare ascolto a ciò che la moda ci dice. Da parte nostra non facciamo dunque che perpetuare il modello «fardello dell’uomo bianco» di Kipling decidendo la direzione del cambiamento. Questo porta a forme di cause related marketing, come si definisce in campo aziendale la charity. Ma il connubio tra primo mondo e charity è, come noto, esplosivo. Come sempre la moda lo ha anticipato. Già l’artista Vanessa Beecroft con il progetto Sudan (2006), prodotto dalla Galleria Lia Rumma di Milano, aveva affrontato l’argomento in modo così poco politically correct che il suo gallerista americano aveva avuto reticenza a esporre il lavoro a New York. Ricordo in particolare un’opera: lei stessa, Vanessa Beecroft, vestita con un abito di Martin Margiela bruciacchiato ai bordi, fotografata mentre allatta due bimbi gemelli africani rimasti orfani nel Darfur. Titolo dell’opera: White Madonna with Twins (2006). L’immagine prende spunto da una vecchia campagna pubblicitaria di United Colors of Benetton, in cui una donna nera teneva al seno un bimbo bianco. Dove c’era il multiculturalismo ingenuo, cioè la fantasia di un tempo a venire in cui le razze e i colori non conteranno più e vivremo tutti in pace, ora troviamo invece perplessità e dubbio. L’artista ha veramente allattato i due orfani sudanesi – all’epoca del progetto Sudan stava infatti allattando suo figlio – ma l’azione da lei compiuta esponeva in modo crudo le profonde contraddizioni che caratterizzano il nostro rapporto con il «Sud del mondo», ovunque esso si collochi. 2.3.4. Inclusioni/Esclusioni Si può dire che tutta la storia della moda e del vestire sia un lungo racconto di inclusioni ed esclusioni dal suo circolo. «Non vorrei mai far parte di un club che mi accettasse come socio»: la famosa frase, attribuita a Groucho Marx, non fa che riprendere le disquisizioni dotte che facevano i sociologi tra Ottocento e Novecento in merito alle funzioni della moda. Simmel (1986), che per primo individuò il movimento continuo tra imitazione e differenziazione, sostenne che nella moda questa alternanza è emblematica, ma non è il solo campo cui si applica, in quanto la dinamica è caratteristica di tutto l’agire umano. Tutti vorrebbero accedere a prodotti esclusivi, e la maggior ­88

parte della pubblicità della moda si basa precisamente sulla promessa di entrare a far parte, grazie a quel capo di abbigliamento e quella marca, di un mondo da cui altri sono esclusi. Anche nel caso di prodotti low cost, come ad esempio nella recente campagna di riposizionamento di Oviesse Industry, un marchio retail del gruppo Coin, affidarsi a testimonial di prestigio per fama televisiva, ricchezza o notorietà familiare significa comunicare un messaggio di inclusione/esclusione, a dispetto della accessibilità del prodotto. Edizioni limitate di prodotti in serie industriale dimostrano del resto come sia ancora necessario ammantare di esclusività abiti e accessori. La moda si espande e si «democratizza» estendendo il suo dominio in campi finora inesplorati, come i bambini e gli animali domestici, ma vuole e deve conservare il principio di esclusività. Gli abiti per cani e gatti, una delle recenti nefandezze in rapida ascesa, mostra come, trasformando le bestiole in living accessories («accessori viventi»), si riproduca lo stesso meccanismo della «partecipazione al club». Quello che un tempo era il compito delle leggi suntuarie – attive in Europa tra il Duecento e il Settecento, ma presenti anche nella Cina Ming, nel Giappone del XVII secolo, nell’Impero ottomano fino al XX secolo, nell’America Latina a partire dal Seicento (Muzzarelli, Riello, Tosi Brandi 2010) –, cioè quello di limitare la natura espansiva della moda, oggi si trova al centro di un cambiamento significativo. Mentre le leggi suntuarie classificavano la società europea pre-moderna – ad esempio, il velluto e il broccato andavano bene per gli abiti della nobiltà ma non per quelli dei mercanti –, e durante la Belle Époque le conoscenze del «bel mondo» in merito a indirizzi di atelier, nomi di couturier, luoghi di villeggiatura e occasioni mondane (vedi Il Ballo di Irène Némirovsky) erano oggetto di caccia spasmodica da parte delle fazioni di una media borghesia in ascesa, che aveva i soldi ma non l’accesso alle informazioni, oggi sembrerebbe che l’esclusione, a dispetto delle pratiche del marketing, avvenga principalmente per disponibilità economica. Per continuare con Groucho Marx, «nella vita ci sono cose ben più importanti del denaro: il guaio è che ci vogliono soldi per comprarle». Le strategie per ottenerle anche con scarsa disponibilità economica oggi però sono molto varie: mini-serie firmate per catene di retail, falsificazioni di brand del lusso, imitazioni a basso costo, svendite, outlet, vendite ­89

parallele, second hand, riciclo. È sulla «sindrome di Stendhal», malessere provocato dall’eccesso, che oggi riflettono filosofi e sociologi; il lato oscuro di questa disponibilità di accesso a beni «esclusivi» è stato analizzato con chiarezza per esempio da Zygmunt Bauman (2011). L’eccesso di possibilità crea difficoltà di orientamento e sperdimento. Ci si deve tuttavia chiedere se ci siano ancora e chi siano oggi in Occidente gli «esclusi del club della moda». Qualche anno fa si poteva rispondere di cercare tra gli anziani e le persone «sovrappeso» e tra i portatori di handicap – ma oggi queste categorie sono considerate dal mercato. Uno dei blog più interessanti è una sorta di «Sartorialist per anziani» dal titolo «Advanced Style». Così lo illustra il suo fondatore, Ari Seth Cohen: Mi chiamo Ari Seth Cohen sono l’inventore di Advanced Style. Giro per le strade di New York in cerca delle persone anziane più eleganti e creative. Rispettate i vostri anziani e lasciate che queste signore e questi gentiluomini vi insegnino due o tre cose su come vivere appieno la vita. Advanced Style conferma l’idea a partire da questa saggia generazione dai capelli d’argento che lo stile personale aumenta con l’età (advancedstyle.blogspot.com).

Dove possiamo rivolgerci dunque per trovare gli esclusi dalla moda? Vista la grande varietà dei metodi a disposizione per accedere ai beni di lusso o presunti tali, possiamo dire che siano poche le categorie che non fanno parte della fruizione a trecentosessanta gradi della simbologia della moda. Probabilmente dobbiamo cercare tra gli esclusi dalla società più in generale, quasi che moda, stile e abbigliamento costituissero un format della nostra cultura e un linguaggio uniformante. E quindi dobbiamo cercare tra le persone che non hanno un domicilio, i cosiddetti «senza tetto» che sopravvivono ai margini della vita cittadina, conducendo una vita parallela alla nostra nella società opulenta e consumista che li ignora. Ma non completamente. Seppure loro sono i veri esclusi dagli scambi della moda, il loro modo di vivere non lo è più. Lucy Orta, designer e artista, ha realizzato una collezione dal nome Refuge Wear City dedicata agli emarginati che vivono sulle strade, pensando al fatto che per queste persone la casa è sia abito che abitazione. E molti designer si sono cimentati con ­90

il tema dell’abito-abitazione34. Un autentico senza tetto cinese di Ningbo – così si è scoperto dopo averlo individuato per il suo stile apparentemente studiato, in realtà del tutto corrispondente al tipo di vita che conduce sulle strade – è stato fotografato e iscritto su Facebook come Brother Sharp («Fratello elegante»)35, dove è virtualmente presente in una serie di immagini estetizzate in cui è un nomade della Manciuria a cavallo, un guerriero, un dandy, un militare, un ragazzo casual... L’ultima frontiera dei «senza moda» è stata così raggiunta e superata, loro malgrado. 2.3.5. Il guardaroba globalizzato di Michelle Obama Per molti anni Arnold Scaasi, Oscar de la Renta e Carolina Herrera sono stati gli unici interpreti, fautori e perpetuatori dello stile per le mogli dei presidenti americani. Anche Nancy Reagan, considerata a suo modo una fashion icon, si era uniformata a questo stile, con piccole variazioni personali che non modificavano la visione d’insieme. Michelle Obama ha interrotto una lunga tradizione di first ladies che intenzionalmente ignoravano la moda del momento per adottare uno stile appropriato al ruolo – un insieme di eleganza formale e colori saturi –, imponendosi come una first lady del tutto unica, per la sua presenza fisica e per il suo stile. Nel confronto storico è stata paragonata all’eccezione costituita da Jacqueline Kennedy, in quello tra le first ladies contemporanee internazionali a Carla Bruni Sarkozy. Ma i paragoni sono entrambi inappropriati. Jacqueline Kennedy viveva in un periodo in cui la moda era ancora francocentrica, e la sua eleganza era chiaramente ascrivibile alla sua francesità, non del tutto apprezzata dagli americani. Difatti era stata spesso criticata per il  suo vestire troppo «francese» – Chanel, Givenchy, Christian Dior  – e sollecitata a scegliere più frequentemente abiti di designer americani. Carla Bruni è d’altro canto un’italiana molto francese e per giunta una ex modella. Le sue scelte vestimentarie 34  Patrizia Calefato (2009) sottolinea la parentela tra abito e abitare che rimanda al tema della casa-rifugio su cui altri designer di moda e architetti hanno lavorato. 35  www.facebook.com/brothersharp.

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sono state giudicate un po’ rétro, in quanto ricordano quelle di Jacqueline Kennedy, ma la decontestualizzazione le rende camp e vintage. La cifra stilistica di Michelle Obama risulta invece «autentica», in quanto sintonizzata perfettamente sulle coordinate di base della moda globale. I vestiti indossati da Michelle Obama in occasioni pubbliche rivelano la consapevolezza che la first lady americana ha non solo dell’importanza della moda nella società dell’immagine, ma anche del potere rivelatorio della moda stessa. I vestiti di Michelle sono disegnati da stilisti e designer americani, la lealtà al paese e la promozione della moda americana sono tra i suoi obiettivi dichiarati, ma la maggioranza di questi designer ha un background multiculturale, quasi a sottolineare la volontà degli Obama di rilanciare in modo nuovo il vecchio sogno del melting pot americano: il fatto, cioè, che negli Stati Uniti ognuno possa trovare una chance per soddisfare le proprie ambizioni e mettere a frutto le proprie capacità. I luoghi di origine dei designer sono stati sottolineati in diverse occasioni e le loro biografie valorizzate. Michelle Obama alterna abiti di designer, spesso giovani e indipendenti, con abiti poco costosi tipici dei grandi magazzini americani e con qualche «incursione» nella moda più costosa. Da Jason Wu, nato a Taiwan e cresciuto in Canada, a Narciso Rodriguez, figlio di immigrati cubani in New Jersey, passando per il tailandese Thakoon, la cubana Isabel Toledo, fino al marchio Banana Republic, tipico prodotto dell’industria manifatturiera e del marketing americano. E sul blog dal titolo «Mrs. O» dedicato al suo guardaroba e al suo ruolo di fashion icon, anche la figlia Sasha è indicata come una promettente leader in campo estetico. Michelle Obama non proviene dal mondo della moda come Carla Bruni, ma sembra padroneggiarne con anche maggior competenza il nuovo linguaggio globale. Non solo compie scelte autonome in fatto di stile, ma per alcuni è anche vista come simbolo post-femminista e democratico. Suzy Menkes (2011a) sostiene che il cardigan indossato da Michelle sia la notte in cui suo marito Barack Obama vinse le elezioni, sia per l’incontro ufficiale con la regina Elisabetta II, rappresenta in modo netto la sua indipendenza dalle convenzioni sul guardaroba da first lady. Tuttavia anche Michelle Obama non è esente da critiche. Non tanto per le scelte personali – la questione sulle «braccia nude» ­92

è apparsa piuttosto ridicola per gran parte degli americani – ma per alcuni elementi di fondo relativi alle sue scelte. Il principale è di pertinenza economica. È stato per esempio dimostrato che c’è una correlazione molto forte tra le sue scelte vestimentarie e i risultati finanziari. Un’analisi condotta da David Yermack (2010) ha stabilito che Michelle Obama è molto di più di una trend setter. Il suo guardaroba ha infatti un impatto immediato sul successo dei fashion designer e dei marchi scelti. Finora l’«effetto Michelle Obama» è stato valutato 2,7 miliardi di dollari per le ventinove aziende di abbigliamento che sono state analizzate, molto di più di quanto riescano a far ottenere i testimonial del mondo dello spettacolo. Il motivo sembra essere correlato all’effetto «autenticità» cui abbiamo accennato: mentre è noto che le varie celebrities sono pagate per indossare certi abiti, o perlomeno si ritiene che lo siano, quelli di Michelle Obama sono considerati frutto della sua personale scelta. Proprio questa valutazione monetaria ha messo in crisi lo stile della first lady, studiato in un libro di Kate Betts (2011). Finora la sua scelta di moda americana è stata apprezzata quale supporto fondamentale alla crisi del settore, e in particolare a quella del Garment District newyorkese. Ma le sue scelte recenti, come gli abiti di Alexander McQueen, inglese, Martin Margiela e altri designer non americani, hanno sollevato polemiche sull’impegno di Michelle Obama nel promuovere e proteggere la moda nazionale, dopo che è stato reso noto quanto valga in termini di impennata di vendite ogni sua scelta, come già era accaduto per Jackie Kennedy. Forse per questo Michelle Obama ha di recente rilasciato una dichiarazione sul senso della moda, ridimensionando la sua passione: Donne, indossate ciò che amate. È tutto ciò che si può dire. È il mio motto. È bello indossare un bel vestito. Ma è ancora più bello cercare di cambiare una generazione, in termini di diritto alla salute. Ci sono così tante cose che spero di realizzare mentre rivesto il mio ruolo, che possano davvero fare la differenza nella vita della gente36. 36  Justin Fenner, Michelle Obama Responds to Dress Controversy, in «Styleite», 31 January 2011; www.styleite.com/media/Michelle-Obama-State-dinnerdress-response/.

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Quasi un volersi chiamare fuori dalle inevitabili implicazioni commerciali del suo guardaroba, ora che sono state quantificate precisamente da una ricerca. Aver dimostrato l’importanza di compiere scelte vestimentarie appropriate comporta paradossalmente l’abbandono delle medesime. In questo modo, secondo Betts, l’autrice del libro sopra citato, Michelle Obama rinnega il valore post-femminista della moda, incarnato per la prima volta da una first lady. Riaffiora così l’antica associazione tra frivolezza, donna, e superficialità in opposizione alle cose importanti, maschili e profonde, che ha contrassegnato la visione della moda sin dai tempi della società europea ottocentesca di cultura industriale e ancor prima con il dibattito settecentesco sul lusso. Temi che hanno impegnato molti teorici della moda dagli anni Ottanta a oggi (da Valerie Steele, a Gilles Lipovetsky, a Elizabeth Wilson, a Dorinne Kondo) nel dimostrare quanto quei discorsi fossero stereotipati e dipendenti dall’impossibilità di considerare la moda se non sotto la lente deformante dell’ideologia, tanto di quella borghese, quanto di quella marxista. 2.3.6. «Great minds think alike» La modernità è un concetto analitico e anche un termine usato dalle persone in diversi luoghi. Le due cose non sono separate. [...] Il design di moda è al centro della creazione dell’immagine dell’individuo moderno e ci sono zone di moda in cui la tensione tra persone moderne e non-moderne torna con particolare vigore, indicando un’estetica stereotipata e un’immagine razzializzata dell’individuo moderno; inoltre designa l’esotico come non moderno (Balasescu 2001; trad. mia).

In una recente campagna di un marchio di abbigliamento maschile, il cui corporate claim è great minds think alike, vediamo rap­presentata la scena che vado a descrivere. Siamo in India. Due manager occidentali vestiti in completo grigio scuro, uno in doppiopetto e uno in tre bottoni, camicia a righe e cravatta, palmare alla mano, con l’aria sicura che emana il potere economico e culturale, il «capitale simbolico» direbbe Pierre Bourdieu, sono in piedi accanto a un’auto che li aspetta con la portiera aperta. Occupano la parte sinistra dell’immagine. Sulla destra un terzo uomo orien­94

tale, un po’ meno giovane, con i baffi, in livrea e turbante sikh apre la portiera dell’auto. Chiaramente il terzo uomo, l’indiano, è un servitore, probabilmente l’autista che sta facendo salire i due manager sull’auto37. Non serve ricorrere alla semiotica per leggere questa immagine. L’orientale servitore indiano, nero, con un vestito tra «costume etnico» e «divisa», è in una condizione di inferiorità rispetto ai due manager vestiti con il «costume del comando» che è la divisa maschile. La scena ricorda i tempi del Raj britannico. Nella storia del costume, scrive Patrizia Calefato (2007), l’uniforme rappresenta la manifestazione significativa di come l’abito possa diventare per il corpo un apparato regolamentativo che determina un sistema chiuso di corrispondenze tra l’apparenza esterna e l’ordine sociale. Secondo Calefato (2010) l’uniforme è l’emblema della separazione tra l’interno e l’esterno di una cultura ordinata gerarchicamente tra ciò che è nostro e ciò che è loro, tra identità e alterità. L’immagine presenta parecchie analogie con quella di un celebre dipinto del 1840, in cui un suddito africano vestito con un immaginario completo da «selvaggio» si inchina alla regina Vittoria, porgendo omaggio alla sovrana. Chissà come commenterebbe Waris Ahluwalia, celebre socialite globalizzato, attore e designer di gioielli (www.houseofwaris.com): Waris è infatti un indiano sikh e nelle fotografie è ritratto sempre con il turbante. Spesso sottolinea con ironia come nelle interviste gli venga continuamente chiesto che cosa significhi per lui essere un indiano sikh; lui ogni volta si stupisce, perché a nessun designer occidentale qualcuno penserebbe mai di chiedere che cosa significhi essere cristiano o, aggiungo io, di Lentate sul Seveso. Probabilmente, se il responsabile della comunicazione dell’azienda fosse stato intervistato in merito alla pubblicità «indiana» si sarebbe sorpreso di questa nostra lettura, inconsapevole di promuovere idee di un passato coloniale. Al contrario! Risponderebbe che l’azienda fa persino beneficenza in India. Probabilmente lo stesso fotografo della serie «Great minds think alike» è anche autore dell’immagine con cui la medesima azienda presenta la sua charity action in India come responsabilità sociale. Lì troviamo 37  Questa e le altre immagini citate della campagna pubblicitaria di Ermenegildo Zegna sono visibili on line all’indirizzo blog.purentonline.com/index. php/2009/04/03/ermenegildo-zegna-ss-09-bravo/.

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bambini e bambine indiani nella tradizionale divisa scolastica intorno al consueto manager che improvvisa un passo di danza insieme a loro in un allegro girotondo. All’interno del cartoncino promozionale dell’iniziativa benefica non si legge più «­Great minds think alike»: qui infatti non c’è nemmeno il dubbio di un’uguaglianza, bensì la spiegazione dell’impegno aziendale con l’associazione che si occupa della scolarizzazione dei bambini indiani. In questo caso la disparità non viene celata, ma celebrata: l’adulto occidentale aiuta il bambino asiatico. L’Occidente adulto, maschile, bianco. L’Oriente infantilizzato, femminilizzato, scuro. Come non pensare ai capisaldi della letteratura post-coloniale, da Said a Bhabha, Spivak e Chakrabarty!

III

La moda cinese

Siamo all’inizio di un «nuovo secolo della moda». Sull’onda del successo economico dell’impero cinese, la moda diventa «accessorio» della sua ascesa. In Cina ci sono scuole di moda, riviste di moda, concorsi di bellezza, negozi, laboratori sartoriali, colossi produttivi di seta, lana, cashmere, tessuti di ogni tipo e prodotti finiti. Ci sono marchi cinesi, come Meters/bonwe, che possiede circa 1800 negozi, aziende come Youngor che finanziano la ricerca Tessile e Moda della Dong Hua University di Shanghai, designer di nicchia e brand di massa, produzioni artigianali e produzioni industriali su larga scala, come Cathaya. A distanza di trent’anni dalla cosiddetta «rivoluzione giapponese a Parigi» ad opera degli stilisti Yohji Yamamoto, Issey Miyake e Rei Kawakubo (Kawamura 2005), non si tratta di riconoscere che i cinesi, come molti altri, facciano moda, ma di capire come ed entro quali relazioni lo facciano, e quale sia il posto della moda cinese nella cultura globalizzata. Una moda non solo prodotta e venduta, ma anche uno stile riconosciuto a livello internazionale. Che caratteristiche ha e avrà questa moda cinese? È una domanda importante in quanto non risponde solo ai caratteri della moda cinese, ma dell’intero sistema mondiale. Attualmente la Cina è leader a livello produttivo1, ma presto possiamo prefigurare una sua leadership anche nel design e nel branding. La crescita del potere d’acquisto dei consumatori cinesi rende il paese un mercato sempre più interessante non solo per i brand stranieri, che da tempo già lo considerano una priori  Una cifra per tutte: il 70% delle scarpe mondiali è prodotto in Cina.

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tà, ma anche per quelli cinesi di fascia medio-alta. La dipendenza dai brand occidentali e il favore per i suoi simboli convivono con varie forme di affermazione di identità sartoriale cinese e di predilezione per altre estetiche asiatiche, in particolare quella giapponese e quella coreana, oltre al recente interesse per l’estetica delle minoranze etniche non han. La parte alta del mercato è tuttora dominata dai brand stranieri delle multinazionali del lusso, mentre i brand cinesi occupano il segmento medio. Accanto ad esperimenti in joint venture con gli italiani, si afferma una creatività sempre più autonoma. I designer cinesi stanno riscoprendo le loro radici sartoriali, tra molte ambivalenze e contraddizioni. Come scrive Uradyn Bulag (2010a), è come se all’improvviso i cinesi fossero diventati ipersensibili al tema dell’identità sartoriale han, nella convinzione di averla per molti aspetti sprecata e lasciata ad altri, in modo particolare a coreani e giapponesi2, e stessero ricercando un’identità comune in cui riconoscersi. Il riconoscimento di una moda cinese è ancora in corso, nonostante il paese sia ora anche tra i primi consumatori di moda. Per questo l’obiettivo della CNGA (la China National Garment Association, fondata nel 1991) di questi ultimi anni è di accrescere la qualità dei prodotti invece che i volumi e di sostituire la manifattura di brand stranieri con quella dei designer cinesi. Il rafforzamento di una moda cinese d’autore in Cina e fuori dalla Cina è dunque parte di un progetto più vasto di affermazione dell’estetica e della cultura cinese, oltreché della sua forza economica. Negli Stati Uniti il successo crescente di un nutrito gruppo di designer cinesi di seconda generazione sta contribuendo a rafforzare la nuova percezione della Cina creativa e a sconfiggere gli stereotipi che ancora inchiodano il paese alla visione orientalista di manifatturiere privo di iniziativa e di gusto. Come sostiene JuanJuan Wu (2009), il futuro della moda cinese risiede negli esiti dello spostamento da un’economia orientata all’esportazione a una orientata a soddisfare la domanda interna. Una domanda che potrebbe rivoluzionare anche la percezione dei luxury brands occidentali in Cina, tuttora preferiti e ricercati dai cosiddetti «nuovi 2  Ricordiamo che sia l’hanbok coreano che il kimono giapponese sono capi di origine cinese.

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ricchi», ma che potrebbero tra non molto spostarsi verso la ricerca di luxury brands cinesi, costruiti sulla base di una visione e di un’estetica riconosciute come cinesi dai cinesi, oltre che dalla vasta e cosmopolita comunità fashion. Ne·Tiger è uno di questi. Anche al nuovo nato di Hermès, il brand Shang Xia, una joint venture con Ceo e designer cinese, è stato dato un posizionamento legato alla tradizione dell’alto artigianato cinese. 3.1. Il rapporto con l’Occidente 3.1.1. L’apertura allo stile occidentale Il primo decennio del Novecento costituisce l’inizio di un nuovo periodo per la Cina. L’ultima dinastia imperiale, i Qing, di etnia manchu3, sta lentamente perdendo il suo potere dopo quasi 300 anni di governo (1644-1911). Sartorialmente il periodo è un misto di tradizione e di innovazione. Sono presenti i due stili, quello Manchu e quello Han, cioè quello dell’etnia cinese prevalente, insieme a non poche innovazioni provenienti da Occidente, come i cappelli e qualche completo maschile. Le donne manchu, che non praticano il bendaggio dei piedi (Ko 2006), portano larghe pettinature con estensioni orizzontali, come corna laterali e scarpe con la suola sollevata da una zeppa. Per le donne han, invece, il guardaroba consiste principalmente in un corpetto con un’ampia gonna, spesso una camicia e una giacca, a volte imbottita. Ai piedi, piccolissimi per le fasciature cui si sottopongono sin dall’infanzia (piedino detto «a fiore di loto» o «loto d’oro»), calzano scarpine ricamate. A inizio secolo, tuttavia, c’è una rivoluzione e lasciar crescere il piede femminile in modo naturale rappresenta il corrispondente del taglio del codino, che era stato imposto dai manchu, per l’uomo. I rivoluzionari si tagliano il codino e non cercano più mogli dai piedi piccolissimi, che prima era un criterio base per

3  I manchu sono la tribù nomadica che proveniva dalla Manciuria e che si impose sull’etnia han a metà del XV secolo. I Qing sono anche la dinastia cui si deve la costruzione della Grande Muraglia. I colori caratteristici della dinastia erano il blu e il giallo; il rosso era invece quello della dinastia precedente, quella Ming, e continuerà ad essere utilizzato in determinate circostanze, ma con parsimonia, proprio per segnare la differenza con i Ming.

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la scelta della sposa, ma donne con i piedi «naturali» e che abbiano studiato «come conviene a un paese moderno». Il 1° gennaio 1912 viene istituita la prima Repubblica cinese4. Sun Yat-sen, il fondatore, ha studiato in Occidente, ha tagliato il codino, parla inglese e veste all’occidentale. Il periodo della rivoluzione di Sun Yat-sen si chiama Xinhai ed è accompagnato da una moda tipica detta appunto moda xinhai, un punto di passaggio dalla tarda tradizione dell’ultima dinastia Qing ai primi anni della nuova era nella storia cinese. Si tratta di un periodo in cui l’antico e il nuovo si mescolano e i confini tra uno e l’altro non sempre sono netti. Si possono vedere uomini vestiti con la tunica lunga e la giacca e altri in abito occidentale. Entrambe le fogge sono pienamente accettate. Tra gli uomini vi sono coloro che vestono in stile cinese tradizionale, cioè con la tunica e la giacca da equitazione, altri che vestono metà cinese e metà occidentale, la lunga tunica sopra i pantaloni occidentali e le scarpe di cuoio e altri ancora completamente occidentalizzati. Sia la tunica lunga portata con la giacca da cavallo sia il vestito occidentale costituiscono infatti, ai primi del Novecento, il guardaroba formale dell’uomo cinese. Negli anni Venti e Trenta l’influenza occidentale a Shanghai è forte. Nel giro di tre mesi al massimo arrivano in città le ultime mode europee, cioè parigine. L’abito maschile occidentale diventa sempre più popolare. Aprono molte sartorie specializzate in abiti occidentali. Ed è di moda anche per le donne vestire talvolta con completi maschili occidentali. Tra gli anni Venti e gli anni Trenta il qipao – detto anche cheongsam in cantonese – raggiunge la sua massima espansione e notorietà, con il fiorire di stili e di colori che lo rendono noto in tutto il mondo come tipico abito cinese. Negli anni Quaranta il qipao diventa più aderente al corpo, soprattutto a Shanghai, secondo lo stile degli abiti occidentali del medesimo periodo. Su ispirazione delle gonne europee, l’orlo si alza e si vedono le caviglie. Come conseguenza della scarsità di tessuti dovuta alla guerra con il Giappone, il qipao diviene meno decorato e come novità viene introdotta la zip. Negli anni Cinquanta, con l’avvento 4  L’ultimo imperatore, Pu Yi, dopo varie vicissitudini morirà pazzo e solo nel 1967 a Pechino.

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della Repubblica popolare cinese, comincia il suo declino. Il qipao dunque conosce in Cina vent’anni di vita intensa, tra gli anni Venti e gli anni Quaranta, prima di scomparire e riapparire a Hong Kong e presso le cinesi della diaspora. Lentamente, decontestualizzato, si trasforma in «costume etnico cinese» (Wessie Ling 2007, Wilson 1999, Finnane 2008). L’importazione di abiti occidentali mette in crisi l’industria cinese e nasce un movimento per proteggere i prodotti locali. La giacca di Sun Yat-sen, poi nota come «giacca in stile Mao», una perfetta combinazione tra stile e funzionalità di Est e Ovest, emerge da queste esigenze nazionalistiche volte a rilanciare l’industria locale. Sun Yat-sen presto perde il potere e, con l’ascesa di Chiang Kai-shek, comincia in Cina un periodo di guerre intestine che si conclude con l’invasione giapponese (1937-1945) e in seguito con la presa di potere dei comunisti (1949) che sconfiggono i nazionalisti di Chiang Kai-shek, ex alleato e cognato, avendo entrambi sposato due delle tre ricche e bellissime sorelle Soong. 3.1.2. Il rifiuto dell’Occidente Il Partito comunista cinese (PCC) sale al potere nel 19495. Chiang Kai-shek è sconfitto e fugge a Taiwan con i nazionalisti. Mao Tse Tung, nuovo leader della Repubblica popolare cinese, rifiuta di 5  Il Partito comunista cinese (PCC), nato nel 1921, non a seguito di una scissione, come i partiti comunisti europei, ma per diretto influsso della Rivoluzione d’ottobre, è stato ed è uno dei grandi protagonisti della storia e della politica cinese. Nel 1949, a seguito della sconfitta del Guomindang (partito nazionalista) di Chiang Kai-shek nella guerra civile, è diventato il partito unico di governo della Repubblica Popolare Cinese. Nei suoi settant’anni di storia il PCC ha cambiato spesso il suo indirizzo politico e la sua struttura organizzativa, per adattarsi ai mutamenti di condizioni che lo hanno visto trasformarsi da partito dell’intellighenzia progressista e del proletariato urbano alleato con il Guomindang all’inizio degli anni Venti, piccolo gruppo di militanti e guerriglieri duramente perseguitati negli anni Trenta, organizzatore di un massiccio movimento di resistenza e di guerriglia durante la seconda guerra mondiale, vincitore della guerra civile contro il partito nazionalista del Guomindang negli anni Quaranta e infine forza di governo a capo di un sistema politico autoritario dal 1949 a oggi. Dopo il 1978 ha abbandonato l’ideologia marxista ortodossa per il «socialismo cinese», ideologia che intende conciliare il comunismo con l’economia di mercato.

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indossare il completo occidentale con le scarpe di pelle. La sua idea è che i cinesi abbiano le loro usanze in fatto vestimentario e che non debbano conformarsi a quelle degli altri. Il 1° ottobre 1949 nella piazza di Tiananmen celebra la nascita della Repubblica popolare cinese, indossando la «giacca di Sun Yat-sen» con i pantaloni, un insieme destinato a divenire il tipico abito del funzionario cinese. Il qipao non c’è più. Sono ormai quasi solo le mogli dei leader politici a indossarlo nelle versioni colorate – le donne comuni, che ancora talvolta lo mettono, ne indossano versioni sobrie e a tinta unita – in occasione delle visite ufficiali all’estero. La campagna governativa «Vestitevi bene», di ispirazione sovietica, è l’ultimo tentativo (1955-1956) di riportare per un breve periodo questo abito allo splendore dei decenni passati. Ma già nei primi anni Sessanta è difficile vedere donne in qipao. Secondo Valerie Garrett (1994) il 1965 è l’ultimo anno in cui si vedono nella Cina continentale donne in qipao, durante una parata per il sedicesimo anno della vittoria dei comunisti; poi con la Rivoluzione culturale (1966-1976) viene proibito, come anche le gonne e la permanente ai capelli. Con il «Grande balzo in avanti» (1958-1961) il movimento per il vestire bene cessa e si afferma l’idea che attenzione al vestire equivalga a un comportamento immorale. La «giacca di Sun Yat-sen» (Zhongshan suit), poi «giacca di Mao», per più di settant’anni nel Novecento domina il vestire nazionale cinese maschile e in parte anche femminile. L’origine della giacca è ibrida, nasce da una combinazione tra un vestito clericale, un’uniforme dell’esercito giapponese, un’uniforme giapponese dei lavoratori delle ferrovie, una giacca da caccia inglese e un’uniforme dell’esercito tedesco. Stretta, abbottonata al centro, con tasche quadrate al petto e in vita, si indossa sopra i pantaloni di stile occidentale. I tre bottoni su ogni manica simboleggiano i tre princìpi del popolo: nazionalismo, democrazia, vita del popolo. I cinque bottoni al centro le componenti del governo nazionalista: amministrativo, legislativo, giudiziario, esaminativo e disciplinario. Durante il periodo repubblicano la giacca è associata alle immagini di Sun Yat-sen e di Chiang Kai-shek; ma dopo la Rivoluzione diviene definitivamente il vestito di Mao. Quella degli anni Cinquanta era un po’ diversa da quella dei primi anni ­102

della Repubblica. Le prime erano rigide nel numero di tasche e di bottoni perché c’era una significato preciso al riguardo. Negli anni Cinquanta, anche perché le persone avevano cominciato a confezionarselo da sole, c’era più variazione nel numero dei bottoni e delle tasche. Il modello «nuovo classico» è quello di Mao, con il colletto più largo, più lungo e appuntito invece che arrotondato. Stretto solo in vita, per il resto più largo e comodo. Nella tasca sinistra c’era uno spazio per la penna, di derivazione dalla «giacca alla Lenin»: la penna nel taschino è infatti lo status symbol del quadro comunista istruito. Poteva essere un capo formale o informale6. Sono quindi i leader politici i simboli della nuova cultura sartoriale anti-occidentale. La donna indossa l’«abito alla Lenin» (Lenin suit), cioè la giacca a doppio petto con collo abbottonato che prende il nome dal leader sovietico che l’indossava sempre in pubblico. Capelli corti tagliati all’altezza dell’orecchio, il cappello ottagonale con la stella rossa, la cintura di pelle in vita e fascia al braccio, per la soldatessa dell’armata rossa l’«abito alla Lenin» era un lusso. Risparmiava per indossarlo al proprio matrimonio. Le donne indossano anche il bulaji, che in russo significa «abito intero», spesso visto nei film sovietici: un tipico vestito di campagna con maniche corte e a sbuffo, il collo arrotondato, la vita alta, molte pieghe in vita, lungo fin sotto il ginocchio e allacciato dietro. 3.1.3. La rivoluzione culturale e l’abolizione dei codici sartoriali dell’Occidente L’abito della Rivoluzione culturale7 coincide con la divisa del soldato, verde e rossa. Gli altri indossano la «giacca di Mao», o la divisa da soldato, con poche variazioni, molta uniformità di colori (blu, grigio, verde, bianco) e di fogge, nessuno spazio per l’individualità o per la scelta personale. Frugalità e monotonia caratterizzano questo periodo. Scarpe di stoffa imbottite fatte dalle 6  Come abito formale i politici la indossano fino agli anni Novanta (Deng Xiaoping ne costituisce un esempio), ma già dagli anni Ottanta nella quotidianità era meno utilizzato. 7  La Rivoluzione, capeggiata da Mao e da sua moglie Jiang Qing, comincia come una vendetta contro i «reazionari»: manderà in esilio milioni di studenti, professori e medici, a lavorare nelle remote comuni delle campagne.

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donne di casa per tutta la famiglia, trecce per le ragazze, qualche giacca imbottita sono gli elementi chiave di questo periodo. Tra le cose vecchie che la Rivoluzione intende sconfiggere ci sono infatti le stoffe e i tessuti colorati, retaggio dello stile di vita borghese (il colore resta però nei poster della propaganda). L’ideale da perseguire è una vita semplice e modesta, così come la frugalità. Anche chi avrebbe potuto comprarsi un abito nuovo preferiva rammendare il vecchio. Leggenda vuole che Mao stesso avesse un pigiama di cotone con settantatré toppe. Nel negare la moda e ogni espressione di individualità, lo Stato riconosce tuttavia l’importanza degli abiti come espressione visibile di un sistema morale e come mezzo di controllo. Da un lato gli abiti civili assomigliano sempre più a uniformi, dall’altro le uniformi dell’esercito perdono valore gerarchico e diventano più egualitarie. Il controllo sul vestire è reso possibile anche da una effettiva scarsità di stoffa e di prodotti a disposizione, in ogni caso razionati dallo Stato. Le Guardie Rosse indossano la divisa verde, il berretto verde, la tipica borsa dello stesso colore, la fascia rossa intorno al braccio. Hanno in mano il libretto rosso di Mao. Oltre alla borsa di tela verde, decorata con la stella rossa o con l’immagine di Mao, alle scarpe dell’esercito, anch’esse di tela, con la suola di gomma e al contenitore di alluminio per l’acqua, non ci sono molti altri accessori. Proprio a quest’ultima suppellettile è ispirata la linea Cha Gang dello stilista cinese contemporaneo Wang Yi Yang, autore anche del noto marchio ZucZug. Un’unica eccezione all’uniformità, più legata al mito che alla realtà, è l’«abito di Jiang Qing» (Jiang Qing dress), disegnato e lanciato dalla moglie di Mao nel 1974, come tentativo del regime di affermare un abito nazionale femminile che fosse potente quanto la divisa unisex del soldato. Creato con l’aiuto dei costumisti dell’Opera di Pechino, è affidato per la produzione a una ditta statale di Tianjin, che ne produce 80.000 pezzi. Troppo costoso, non riesce ad affermarsi. Una delle accuse mosse alla moglie di Mao quando verrà arrestata insieme alla cosiddetta Banda dei quattro, sarà quella di farsi la permanente e di badare troppo ai vestiti.

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3.1.4. Riprende il dialogo: la moda cinese dopo il 1978 Con la morte di Mao (1976) e con la Riforma e la «Politica della Porta Aperta» di Den Xiao Ping (1904-1997) iniziata nel 1978, il ritmo del cambiamento diviene più intenso. Negli anni Ottanta, accompagnati dalla musica della cantante taiwanese pop-melodica Teresa Teng (1953-1995) – che canta in abito da sera –, i cinesi si vestono imitando gli attori che vedono nei film di Hong Kong e Taiwan, città leader della moda, dopo la decadenza di Shanghai. Il qipao non torna8, se non sporadicamente, come divisa per staff di hotel, un «falso» esotismo da turisti, o come esercizio di alta moda. Le prime scarpe di pelle, dopo quelle di stoffa, fanno la loro comparsa nei primi anni Ottanta. La città di Zhencheng, nel Guangdong, diventa la «capitale» dei blue jeans, dove vengono prodotti per l’export. Come scrive Antonia Finnane, «in generale le persone all’epoca della Riforma volevano essere cittadini del mondo» (2008: 280; trad. mia). E la moda, suggerisce Finnane, è proprio uno degli argomenti con cui la Cina della Riforma entra in contatto con il resto del mondo occidentalizzato: tra i sogni più condivisi di ragazze e ragazzi c’è quello di diventare stilisti di moda e modelli (Bao Ming Xin 2008)9. Dopo tentativi di riprendere la moda dagli anni Cinquanta, dal qipao o addirittura dalle tradizioni imperiali, i cinesi non possono che guardare all’estero, al Giappone e all’Europa. L’improvvisa libertà di indossare qualcosa di diverso dalla divisa tuttavia non può considerarsi completa. Si scontra sia con carenza di effettivi capi di abbigliamento a disposizione, dopo le devastazioni della Rivoluzione culturale, sia con le pressioni sociali e dello Stato. L’ideologia maoista che associa la moda a forme di cultura decadente infatti è tutt’altro che scomparsa: gli anni della Rivoluzione culturale sono finiti, ma il governo lancia ancora campagne contro il vestire borghese. Le 8  Sarà rilanciato nel 2000 con i film di Wong Kar-wai, in particolare In the Mood for Love. 9  «La serie del 1993 Woman is not the moon racconta della trasformazione di una ragazza di campagna che fugge da un matrimonio combinato. Come precedenti storie di emancipazione, la protagonista soffre di repressioni di vario tipo e ha bisogno di aiuto. A differenza dei racconti precedenti, il suo salvatore non è un dirigente comunista – ma un fashion designer che nota la sua bellezza orientale e la assume come modella» (Xiaoping Li 1998; trad. mia).

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prime visite di stilisti stranieri sono eventi molto discussi e criticati sui giornali. Hanae Mori, couturière giapponese che lavora a Parigi, viene invitata in Cina alla fine degli anni Settanta; Pierre Cardin organizza la prima sfilata a Pechino nel 1979 e poi a Shanghai; Yves Saint Laurent organizza una sfilata nel 1985. Ma si tratta di eventi accettati con riserva, anzi spesso assai apertamente criticati, sbeffeggiati, quasi a esorcizzarne il portato rivoluzionario, come evidente in questo commento sulla sfilata di Pierre Cardin: Sebbene niente sia andato storto nella sfilata in sé, la cronaca dell’evento è stata tutta un’altra storia. The Reference News, una pubblicazione a tiratura limitata, ha pubblicato un commento di un quotidiano di Hong Kong, che afferma che i Cinesi dovrebbero trattenersi dall’ospitare fashion shows fino a che ogni cittadino sarà dotato di un vestiario sufficiente. Questa storia ha contribuito a infondere in alcuni alti funzionari cinesi una intolleranza crescente nei confronti dei fashion shows (Pierre Cardin Fashion Invasion, «China Weekly», 10-12-2008, disponibile on line su www.gotoread.com; trad. mia).

Tra il 1979 e il 1981 fioriscono molti dibattiti sul vestire. Viene affrontato pubblicamente il tema dell’abbandono dell’uniformità a favore dell’espressività10. Per gli uomini può trattarsi del passaggio verso un’altra divisa: Hu Yaobang si fa fotografare in giacca e cravatta, mentre Deng Xiaoping resta fedele alla divisa di Mao. Per le donne, spiega Finnane (2008), dopo aver abbandonato la divisa da soldato, capire come vestirsi è invece più complesso. La questione della «refeminization of women» (Finnane 2008: 272, Ko 2006) è parte essenziale della cultura degli anni Ottanta. Sono soprattutto i giovani che vogliono vestire liberamente. Capelli lunghi, occhiali da sole, jeans. Ricompaiono gonne e ­abiti, la permanente, il make up per le ragazze, proibiti durante la Rivoluzione culturale. I pantaloni a «zampa d’elefante»11, fuori moda 10  Nel 1984, i film The Fashionable Red Dress e Girl in Red ripropongono il colore rosso libero da associazioni con il collettivismo (Finnane 2008). 11  I film Platform (2000) di Jia Zhangke e Shanghai Dreams (2005) di Wang Xiaoshuai illustrano il decennio del grande cambiamento cinese, quello degli anni Ottanta. In entrambi ci sono episodi in cui i protagonisti vestono i pantaloni a zampa, simbolo del conflitto generazionale.

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in Europa già da almeno un decennio12, sono un successo straordinario; come anche gli occhiali da sole, e i primi denim. Televisione e cinema sono i primi maestri di stile13. Come nota JuanJuan Wu (2009), praticamente qualsiasi serie televisiva importata nei primi anni Ottanta, qualunque fosse il paese di origine, diventa un caso e invoglia milioni di persone a imitare lo stile dei protagonisti. La prima serie televisiva di fantascienza importata dall’America nel 1981 Man from the Bottom of Atlantic lancia la moda degli occhiali da sole14. 3.2. L’identità polimorfica della moda cinese contemporanea 3.2.1. Moda e cultura popolare La moda in Cina sorge da un contesto diverso rispetto a quello dei paesi occidentali, dove già dagli anni Sessanta del Novecento la moda aveva cominciato ad assumere un ruolo e un aspetto popolari e non più prevalentemente elitario, come era stato durante la cultura francese della haute couture. È opportuno ricordare che il vestire dei giovani occidentali – che si caratterizzava per un iniziale rifiuto della moda nella sua accezione borghese – già nel decennio successivo, i Settanta, si trasforma in un nuovo atteggiamento verso l’abito e lo stile. L’anti-moda della controcultura 12  «Nel 1978 stava finendo la popolarità dei pantaloni a campana in Europa e in America, quando la Cina aprì le porte al mondo esterno. I pantaloni scampanati divennero popolari tra i giovani cinesi per le ore notturne e presto si diffusero nel resto della nazione. Le giacche abbinate erano elastiche, a forma di A» (Hua 2004: 152; trad. mia). 13  La televisione fa la sua comparsa in Cina nel 1958, ma è disponibile soltanto per gli alti funzionari statali, e non è niente di più che uno strumento di propaganda (JuanJuan Wu 2009). Già all’inizio dell’era della Riforma, tuttavia, la domanda di televisione cresce e negli anni Ottanta l’importazione di produzioni di Hong Kong, Giappone, America si fa sempre più intensa e contribuisce a forgiare le aspettative anche estetiche, soprattutto dei giovani. 14  L’abito intero da donna si diffonde tramite il cinema e la televisione in tre ondate successive: la prima nel 1980, con il film Romance on Lushan Mountain di Huang Zumo, in cui sono presenti più di quaranta modelli di abitini; la seconda con i film tratti dalle novelle di Qiong Yao, la più celebre delle quali è Princess Pearl, da cui è stata tratta un’omonima serie ancora molto popolare; la terza, infine, fa seguito ad alcune serie televisive giapponesi.

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diventa moda. Basti pensare all’incorporazione nel mainstream della moda dello stile «alternativo hippy». Più tardi la cultura del prêt à porter, in particolare con l’estetica industriale degli stilisti italiani, offre una moda adatta alla società dei consumi di massa che si va affermando. Negli anni Ottanta la trasformazione è completa e l’associazione tra cultura popolare e moda è destinata a divenire una delle più solide, come dimostra il successo attuale della fast fashion e del fast luxury15. Concetti come cultura popolare, anti-moda e subculture giovanili, che sono al centro della formazione di una nuova idea di moda, legata al concetto non più solo della distinzione ma anche dell’espressività, erano ovviamente assenti nella Cina del periodo. Il termine stesso di «cultura popolare», in opposizione a una cultura elitaria, in Cina non può avere il medesimo significato di quello occidentale cui si riferiscono i cultural studies. Privata del suo senso oppositivo, la cultura popolare cinese corrisponde alla cultura ufficiale dello Stato maoista e ne costituisce il presupposto16. Se dunque, tra gli anni Sessanta e Settanta (cioè ai tempi della Rivoluzione culturale maoista [1967-1976]), la visione antiborghese genera in Occidente le anti-mode giovanili che saranno il presupposto per l’emergere di una nuova moda post-borghese, in Cina sfocia nell’utopia dell’abolizione della moda tout court come retaggio borghese, a favore invece dell’uniformità. Ma dopo il 1978 tra le prime cose che i giovani cinesi desiderano possedere ci sono i vestiti, quale segno tangibile del cambiamento in atto, della rincorsa verso modelli e luoghi dove la cultura giovanile e popolare si è già affermata da almeno un decennio. Inizia così un nuovo sguardo della Cina al di fuori dei suoi confini. Non più come scambio e ibridazione tra culture, come era stato nei primi decenni del Novecento, ma con un forte sentimento di svantaggio, nella percezione di un gap da colmare. L’attrazione per il mondo occidentale suscita a quel tempo perplessità e problemi di decodifica dei significati dell’abito. Così si esprime la   Il termine fast luxury mi è stato suggerito da Giorgio Riello.   Anche nella Cina post-maoista, come nota Lisa Rofel (2007), il concetto di cultura popolare ha una sua specifica declinazione che non può essere assimilata a quella dei paesi occidentali, seppure una divisione tra «alto» e «popolare» cominci a prendere forma. 15 16

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giovane stilista Wendy Ye, dell’azienda di moda a marchio Studio Regal, di sua proprietà: Molti cinesi si sono sentiti lasciati indietro e ora cercano disperatamente di recuperare. È come se fossimo stati chiamati brutti da quando eravamo bambini e ora volessimo essere chiamati belli (Spencer 2006; trad. mia).

3.2.2. I designer della diaspora Quando la moda è bandita in Cina, un’altra moda cinese, separata da quella del continente, si afferma fuori dalla Cina, a partire dalle diverse idee di «cinesità» dei sarti cinesi di Hong Kong – spesso fuggiti in seguito alla Rivoluzione culturale – o anche, prima, dei designer cinesi di Taiwan e di quelli cinesi degli Stati Uniti. I primi stilisti cinesi di successo sono quelli della diaspora americana. Han Feng, diplomata in Cina alla China Academy of Fine Arts di Hangzhou e trasferita a New York dal 1985, rientra a S ­ hanghai negli anni Novanta e apre la sua attività anche in Cina. Mark Cheung, nato nel 1963, inizia come designer da Oleg C ­ assini nel 1985 e fonda il suo brand nel 1991. Altri continuano a vivere negli Stati Uniti, come Wang Xinyuan, Yang Liu, Vivienne Tam, nota per i suoi abiti con stampe di Mao e autrice del libro China Chic (2000). Le loro produzioni sono in vari modi esotizzate o autoesotizzate, che si tratti della Shanghai degli anni Trenta, del lusso imperiale o dell’uniforme maoista. Ripropongono stereoti­ picamente quanto un occhio straniero ha in mente pensando alla Cina. Ma l’esempio più di successo di «cinesità inventata» è il marchio Shanghai Tang17 lanciato da David Tang, imprenditore di Hong Kong che per primo ha avuto l’idea, nel 1994, di commercializzare la «moda cinese» in Europa e in Usa, e ora anche nella stessa Cina. La Cina di Shanghai Tang è quella degli anni Venti, Trenta e Quaranta, quella di recente riproposta dai film di Wong Kar-wai, quando Shanghai era nota come «la Parigi d’Oriente». Un’esotizzazione che ha creato non poco disagio alle generazioni di stilisti della Cina continentale, che da queste forme 17  Attualmente Shanghai Tang è parte della multinazionale del lusso Riche­ mont.

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di ethnic chic tendono invece a dissociarsi (Bao Ming Xin 2008). In un interessante articolo Wessie Ling (2011: 106-123) compie un’analisi di questo processo intorno all’identità di Hong Kong. In particolare mette a confronto tre casi «locali»: Vivienne Tam, Shanghai Tang e Goods of Desire (GOD). Ciò che accomuna Vivienne Tam e Shanghai Tang, pur nella loro diversità, è la lontananza dall’immaginario della gente di Hong Kong (Wessie Ling 2011): la moda di Vivienne Tam, il «Mao pop», è coerente con la sua posizione di una cinese di New York, mentre la gente di Hong Kong vede come problematica la relazione con la Repubblica popolare; dal canto suo Shanghai Tang, autoesotizzando il passato coloniale, è a sua volta molto lontana da poter sedurre un’audience locale. Diverso il posizionamento di GOD, fondata nel 1996 da Douglas Young, che ha puntato su riferimenti espliciti alla quotidianità locale, così come si ritrovano nelle attività di ogni giorno, traendo spunto dallo stile di vita della gente di Hong Kong: dalle stampe di slums e quartieri popolari su borse e magliette, a quelle con ritagli di giornale e scritte su problemi della comunità, ai riferimenti allo scenario musicale del paese, come il Cantopop. Sono precisamente gli aspetti più banali della quotidianità inseriti nella produzione di GOD che consentono a questo marchio, diversamente dagli altri citati, di superare i confini etnici e le narrazioni iper-codificate di «cinesità» che oggi rifuggono tanto i cinesi continentali tanto quelli di Hong Kong. Bisogna tuttavia disitinguere tra le prime generazioni di designer «stranieri» e quelle attuali (Thuy Linh Nguyen Tu 2010). Gli stilisti sino-americani di seconda generazione stanno infatti recuperando le loro radici e si sono quasi del tutto allontanati da una visione esotizzata della Cina, che si tratti del dragone o della «giacca alla Mao». Uno dei rappresentanti più significativi di questo gruppo è Phillip Lim. Da una sua intervista a Suzy Menkes del 2008 apprendiamo che tra i primi obiettivi di questi sino-americani c’è proprio l’allontanarsi dagli stereotipi con cui l’Occidente guarda la Cina: Nessuno dei nuovi nomi cerca simboli di ispirazione come la giacca di Mao. Nessun dragone come decorazione (Menkes 2008; trad. mia). ­110

Tre anni dopo l’interesse di Phillip Lim (come appare chiaro in un’intervista alla Cnn del 6 gennaio 2011) è di rivisitare la sua identità cinese, al di là degli stereotipi, ma oltre il semplice adattamento alla cultura occidentale: Sono cresciuto in una dualità dove il giorno era dominato dalla cultura occidentale e la notte interamente da quella orientale. Sono cresciuto combattendo contro la mia eredità orientale, il mio lato cinese. Invecchiando ho sentito questo desiderio innato di realizzare le mie radici e di entrare in un contatto più profondo con esse (trad. mia).

In generale la tendenza degli stilisti cinesi che hanno v­ issuto fuori dalla Cina è di abbandonare la «cinesità esotizzata» di qualsivoglia origine, americana, taiwanese, di Hong Kong, per una ricerca nelle collezioni e nella comunicazione di una visione cosmopolita della Cina contemporanea, ricollegandosi alla medesima ricerca che fanno i designer cinesi continentali più giovani. 3.2.3. I designer della Repubblica popolare cinese I designer continentali hanno una storia del tutto diversa da quelli della diaspora. Secondo JuanJuan Wu (2009), la prima generazione di designer – ad eccezione di quelli statali, i cui nomi sono del tutto sconosciuti al pubblico e noti solo all’interno della cerchia ristretta dell’industria vestimentaria di Stato – è quella che ha studiato nelle scuole di design e tessile che sono fiorite in Cina tra la fine dei Settanta e il decennio degli anni Ottanta e che è stata dunque attiva dalla fine dei Novanta. La maggior parte dei programmi a disposizione nelle molte università che cominciano a occuparsi di tessile e moda in modo nuovo, dopo la Riforma, è tutta all’interno di accademie d’arte e di disegno. La moda è apparentata all’arte e alla tecnica di disegno, e non alla realizzazione di una collezione e men che meno, ovviamente, al branding. Se i primi designer di Stato sapevano perfettamente come costruire un prodotto (in genere divise, camicie e abiti per l’Occidente) ma conoscevano poco o niente di moda e di stile, i laureati e i diplomati nelle nuove scuole di moda cinese imparavano a disegnare molto bene, ma non sapevano costruire i prodotti (JuanJuan Wu 2009). La vocazione artistica della moda cinese – ricordiamo che ­111

gli antenati dei designer provenivano dai costumi del teatro della propaganda18 – è una costante con cui solo di recente i nuovi designer si confrontano, seppure con molte contraddizioni e ambivalenze. La scarsa conoscenza delle logiche di prodotto di questi designer appare paradossale per la nostra visione della Cina come «fabbrica del mondo», ma è ascrivibile alla interpretazione della moda «alto di gamma» in Cina come espressione puramente artistica. Stilisti come Ma Ke, che pure commercializza un brand molto popolare e diffuso, Exception de Mixmind, si riconosce nell’accezione di moda come arte. È infatti con la sua prima linea, Wu Yong/Useless, che preferisce esprimere la sua poetica. Per Ma Ke la moda è lontana dal commercio, vicina all’arte «pura». Dichiara di essere più interessata a creare «cose che siano portatrici di valori per il futuro». Per questo rifiuta le tendenze del fast fashion e lavora solo con artigiani che utilizzano il telaio a mano. Il nome della sua linea, Useless, evoca il Trattato delle cose super­flue composto all’inizio del XVII secolo dal dotto gentiluomo cinese Wen Zhenheng (cit. in Burke 2009a: 83). Anche He Yan, una giovane designer di successo, in un’intervista19 racconta di essersi formata, come molti giovani stilisti cinesi, nello studio di Shanghai di un celebre pittore a olio, Chen Yifei (1946-2005)20. Wang Wei, uno dei designer di maggior successo, laureato alla Dong Hua University di Shanghai, dichiara di aver imparato il lato commerciale del suo lavoro solo quando, a Hong Kong, ha collaborato per qualche tempo con un’azienda a marchio, prima di aprire la sua Wang Wei Gallery a Londra. I designer che hanno caratterizzato la ripresa della moda dopo 18  «Li Keyu (nata nel 1929) è stata una costumista sotto la vecchia amministrazione ed è diventata una fashion designer nella nuova. È passata da creare abiti di scena per il ‘Distaccamento Femminile Rosso’ a realizzare vestiti di design» (Finnane 2008: 273). 19  Concessa nell’aprile del 2007 a Shanghai. 20  Nonostante fosse stato denunciato per «atteggiamento capitalista», l’evidente talento e maestria di Chen nella tecnica del dipinto ad olio gli valse il riconoscimento da parte delle autorità. Chen divenne presto uno dei pittori più importanti della Rivoluzione culturale, si rese famoso per i grandi ritratti di Mao e la raffigurazione dei grandi eventi eroici della moderna nazione cinese. Dopo la Rivoluzione culturale Chen divenne il precursore di una nuova era nell’estetica cinese, promuovendo un nuovo senso di modernità e lifestyle nei suoi dipinti così come nella moda, nel cinema e nel design.

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il 1978 distano pochi anni gli uni dagli altri, ma sono molto diversi tra loro (Finnane 2008, Bao Ming Xin 2008, JuanJuan Wu 2009, Tsui 2009), come se fossero già passate almeno diverse generazioni. Chi è nato in Cina prima degli anni Ottanta ha una conoscenza del mercato più scarsa e una maggiore «serietà» e calligraficità nel rappresentare l’identità cinese; i più giovani sono invece decostruzionisti e più ironici21. Uma Wang, Chen Ping, Qiu Hao, Qiao Qiao, He Yan e molti altri designer sono accomunati dalla ricerca di una nuova estetica, che parte dalla Cina per abbracciare un linguaggio internazionale22. 3.2.4. La separazione tra moda e abbigliamento Una distinzione evidente tra moda e abbigliamento, tra moda intesa come arte applicata e moda prodotta industrialmente ha segnato il percorso della produzione vestimentaria cinese sin dall’era della Riforma. Ciò che le aziende cinesi, prima statali e poi sempre più privatizzate producevano, non era propriamente moda, ma abbigliamento e divise (Hua Mei 2004), quest’ultimo un importante comparto produttivo che si apre in Cina dopo il 1978. Divise per il lavoro23, divise per lo Stato, divise per i funzionari e i quadri e per i nuovi uomini d’affari. D’altro canto, proprio perché la costruzione di un’estetica – produttiva e di consumo – è considerata, allora come adesso, una priorità e un completamento della crescita economica, il governo cinese ha sempre inteso guidarne e indirizzarne i percorsi, con l’esito di separare ulteriormente creatività e industria, elementi che invece sono necessariamente uniti nella moda moderna intesa come industria culturale. Le aziende che producono i powerful brands cinesi, ad esempio, non si servono di veri stilisti ma di stilisti di Stato e, come nota Finnane (2008), non di rado, ancora fino a un recente passato, un «dipartimento stile» non è necessariamente presente in queste grandi aziende. Inoltre, poiché molte grandi aziende e fabbriche producono capi per l’Occidente, a 21  Un pop up store di Pechino (gennaio-febbraio 2011), solo per fare un esempio, è stato chiamato «Nouveau Riche»! 22  Per una descrizione di alcuni di questi designer vedi anche Peng 2011. 23  Anche Hanae Mori ha disegnato uniformi per i funzionari statali cinesi.

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maggior ragione non è necessaria la presenza di uno stilista cinese. Benché sin dagli anni Novanta la tendenza sia stata quella di sostituire le grandi aziende statali con quelle private, come Sunshine e Sanmao, non è infrequente trovare ancora a capo delle grandi aziende provinciali e regionali, con articolate e ramificate relazioni internazionali, funzionari di partito evidentemente estranei alle logiche che governano la produzione di moda. La moda cinese dunque da una parte è il frutto di un nuovo individualismo che impronta il paese e delle privatizzazioni delle aziende che dagli anni Novanta hanno caratterizzato i comparti industriali, ma dall’altra è anche il risultato di precise politiche statali e dei molteplici significati della moda in Cina. 3.2.5. Le minoranze etniche cinesi La Cina è composta, oltre che da una maggioranza han, anche da cinquantasei minoranze etniche: alcune molto note in Occidente (come i miao, gli uyguri, i mongoli, i kakaki e i tibetani), altre a noi quasi sconosciute, con tradizioni, lingua, sistemi vestimentari propri. Nei loro confronti i cinesi han hanno lo stesso tipo di atteggiamento che il mondo della moda occidentale ha sviluppato nei confronti di culture lontane con una produzione estetica molto significativa, cioè una percezione esotizzata. La storia recente degli abiti delle minoranze si è caratterizzata in due opposti movimenti: la soppressione e la ripresa. Durante il periodo maoista, riprendono vigore molti aspetti della visione puritana sul vestire. Molti degli abiti etnici, che si caratterizzano proprio per i loro colori vividi e nitidi, sono considerati controrivoluzionari. Il colo­ re, scrive Bulag (2010a), veniva trattato come «altro» se rapportato alla piattezza cromatica rivoluzionaria. E dunque, in un’accezione ben nota anche all’orientalismo di stampo occidentale, il colore e le culture vestimentarie minoritarie che ne facevano ampio uso venivano associati non solo allo stile di vita borghese, ma alla seduzione, all’effeminatezza, all’infantilismo, al disordine. Nei primi anni della Riforma questa tendenza all’anti-diversificazione persiste, in quanto i leader politici adottano la divisa occidentale (giacca e cravatta) come simbolo di liberalizzazione e internazionalizzazione. Verso la fine del XX secolo la situazione muta ulteriormente. Lo stesso potere politico che aveva bandito l’abito etnico comincia a recuperarne la diversità in un’ottica ­114

nuova. Attualmente, sono due le motivazioni per cui l’abito etnico viene recuperato: di tipo economico e di tipo politico. Mentre nei primi anni Ottanta la Cina si considerava post-nazionalista, in opposizione alle «nazionalità» delle minoranze etniche, oggi la nuova auto-percezione della Cina quale nazione unica, secondo Bulag (2010b), tende a includere le minoranze come gruppi etnici appartenenti alla nuova nazione cinese. Le minoranze non devono marcare un’autonomia politica, ma arricchire, con la loro diversità, la nazione cinese. Da un punto di vista economico sono favorite le mostre e le manifestazioni che, valorizzando i costumi locali, attraggono i turisti. Ciò comporta una sorta di reificazione dell’abito etnico. Uno dei marchi cinesi nuovi più interessanti, Poesia, della designer cinese Chris Chang (ex general manager di Prada a Taiwan), per esempio, ridisegna alcuni abiti etnici cinesi e li trasforma in capi di moda per bambini. Ecco cosa riporta il suo sito web (www.poesiaworld.com): I modelli si ispirano ai vibranti colori dei costumi del mondo e agli abiti tradizionali di Tibet, Mongolia, Yunnan e Xinjiang, brillantemente interpretati in un genere di abbigliamento divertente e stravagante, chic e seducente. Creo i miei abiti per una donna globale eccentrica e alla moda (trad. mia).

Anche Mark Cheung – designer della prima generazione, che ha realizzato diverse collezioni ispirate al Tibet e Zhang Zhifeng con il marchio Ne·Tiger, uno dei rari brand del lusso cinese – si posiziona con un esplicito riferimento sia al passato imperiale che alle tecniche locali etniche di ricamo e di broccato. 3.3. L’Occidente interpreta la Cina 3.3.1. Le multinazionali del lusso: nuovi esotismi globali Quasi tutti i grandi marchi occidentali si sono cimentati con il promettente mercato cinese, e molti hanno attuato specifiche strategie di comunicazione in cui la propria visione della cultura cinese gioca un ruolo di primo piano. Non si può dire che la comunicazione abbia raggiunto traguardi originali. Grande dispiego di stereotipi orientalisti, quasi inevitabilmente ridotti alla ­115

«Parigi d’Oriente», al colore rosso, al mistero di donne bellissime, seduttive e da sedurre. Il calendario Pirelli del 2008, ad esempio, è stato ambientato e realizzato in una Shanghai esotizzata in cui le modelle erano vestite (da John Galliano per Dior) in una fantasmagoria orientale che mixava Cina e Giappone24. Nella corsa alla conquista del mercato cinese, sono soprattutto i marchi del lusso francese (Dior, Hermès, Chanel) ad attingere a piene mani dall’immaginario orientalista. Nel 2010 sono state realizzate tre campagne pubblicitarie – un insieme di film, fotografie, clip – che hanno riproposto sia la retorica coloniale, sia l’esotismo sofisticato dei primi decenni del Novecento. Tutte e tre le campagne applicano arguzie retoriche che rimaneggiano gli stereotipi orientalisti classici, riproponendoli in una chiave inusuale. Nel corto di David Lynch per Blu Shanghai Dior e nell’immagine pubblicitaria firmata da Steven Klein c’è un rovesciamento del rapporto di genere. La donna è europea bianca, mentre l’uomo è cinese. Nella campagna seriale del fotografo cinese Quentin Shih per Dior viene riproposto l’antico stereotipo della massa informe e indistinta25, composta da operaie cinesi, soldatesse maoiste in divisa, ragazze in qipao, da cui la modella occidentale emerge letteralmente, facendo cioè un passo in avanti e apparendo più grande in una prospettiva abnorme, ma sottintendendo che la sua grandezza derivi in realtà dalla sua individualità, accresciuta dal fatto di essere vestita Dior26. In Coco Chanel. From Paris to Shanghai, a 24  Dichiara l’autore, il fotografo Patrick Demarchelier: «In un mondo di bellezza globale non si poteva non pensare a un calendario che unisse la bellezza occidentale e quella orientale» (Maria Corbi, Calendario Pirelli 2008, dalla Cina con pudore, «La Stampa», 30 novembre 2007). 25  Woaishanghai posta sul forum www.shanghaiexpats.com: «Sembra proprio che le persone manchino di individualismo. Agiscono esattamente nello stesso modo, molte di loro si vestono esattamente nello stesso modo e comprano esattamente le stesse cose. Ma non si tratta soltanto di mancanza di individualità, bensì anche di assoluta mancanza di gusto. Ad esempio, i fidanzati che abbinano le proprie t-shirt non dimostrano alcuna traccia di gusto. Oppure rivestendosi di marchi, un CK qui, un LV lì e un Gucci proprio qua, sembra che non provino neppure a fare degli abbinamenti ma che li comprino soltanto per il nome e perché così la gente penserà che sono ricchi» (trad. mia). 26  Shih aveva già partecipato al progetto Dior presso l’Ullens Center di Pechino (2008) in cui alcuni artisti cinesi erano stati invitati a reinterpretare il marchio. Shih aveva posto una modella vestita Dior in una teca di cristallo

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Fantasy di Karl Lagerfeld la storia cinese viene trasformata in una soap opera in cui Coco, in un sogno evocato dal racconto della duchessa di Windsor e da un piccolo segreto che quest’ultima confida all’orecchio curioso di Madame Chanel, attraversa le diverse epoche della storia cinese, ovviamente ripercorrendo à rebours i soliti stereotipi. Si parte dalla Rivoluzione culturale per arrivare all’ultimo imperatore Qing. È interessante notare che quando nel film si parla cinese, si tratta in realtà di un «finto cinese». In un articolo apparso sul «Guardian», la giornalista Jenny Zhang così si esprime in merito al film: Il messaggio non potrebbe essere più chiaro – i cinesi sono ignoranti riguardo alla loro stessa storia, desiderano imitare l’Occidente, e hanno bisogno di un europeo acculturato che li educhi. I media convenzionali devono fare pressione su Dior affinché chieda scusa per la sua imbarazzante campagna Shanghai Dreamers. Ma sono stati zitti, ad eccezione di «Art Info», che ha focalizzato la maggior parte delle sue critiche sul fotografo, Quentin Shih. Shih, un artista originario della Cina, nato nel 1975, ha affermato pubblicamente che la campagna pubblicitaria è stata totalmente una sua idea e che non intendeva offendere (Zhang 2010; trad. mia).

Questi e molti altri esempi si basano sui luoghi comuni più visitati. Rovesciando, estetizzando, rivisitando e re-inventando alcuni dei più evidenti stereotipi orientalisti, non fanno che riaffermarli, rivelando i conflitti di potere e le contraddizioni che caratterizzano il rapporto tra la moda occidentale e la Cina contemporanea. D’altro canto l’utilizzo invertito, sovvertito o decostruito ironicamente dei luoghi comuni orientalisti mette a nudo anche il fatto nuovo, per l’Occidente, che la modernità non sia una sua esclusiva. 3.3.2. Da made in China a made for China: le «joint ventures» Mentre i brand del lusso globalizzato promuovono un’immagine codificata, le joint ventures con capitale straniero sono un esem-

trasparente, esposta allo sguardo ammirato, incredulo e incuriosito di comuni cinesi lavoratori.

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pio di creazione di nuove identità commerciali e visive. In particolare quelle italiane, oggetto della mia ricerca sul campo dal 2002 al 2010, presentano elementi interessanti di collaborazione tra i due paesi, stereotipicamente opposti in fatto di moda. Per l’Italia la moda è un fatto non solo acquisito, ma parte sostanziale della sua immagine all’estero. Per la Cina, per le molte ragioni che abbiamo analizzato, è un processo ancora in via di consolidamento. L’incontro tra i due paesi, Italia e Cina, sul terreno della moda cinese non poteva che generare ambivalenze, conflitti, ma anche nuove interessanti forme di moda globalizzata. Le visioni di italiani e cinesi divergono. Nel discorso italiano si tratta di un incontro tra «potenza produttiva cinese e senso estetico italiano», come si legge nel sito web di una joint venture27. Per la Cina si tratta dell’opportunità di inserire in azienda in modo rapido aspetti di branding, di composizione e di presentazione dell’offerta per soddisfare il mercato interno, ma anche per l’esportazione. Queste due posizioni diametralmente opposte traggono sostentamento dal passato sartoriale di ciascun partner. Entrambe le posizioni sono in questo essenzializzate e decontestualizzate. La moda italiana è soggetta a una «naturalizzazione» del gusto, che porta a dichiarazioni quali «la bellezza è nel dna italiano» e persiste anche quando il made in Italy non è fatto in Italia. Sulla cosiddetta «mancanza di gusto» dei cinesi si è d’altro canto costruito un castello esplicativo che si ritrova in tutta la catena comunicazionale28. Questi stereotipi possono servire talvolta a ribadire posizioni di potere all’interno delle joint ventures, altre volte si tratta di luoghi comuni che convivono in modo pressoché innocuo con le pratiche quotidiane che dovebbero confutarli. Il presente mostra infatti una realtà in rapido mutamento, più veloce probabilmente delle idee che la accompagnano. Sharmoon è un’azienda in joint venture fondata nel 2004, di proprietà per metà di Ermenegildo Zegna e per metà dei fratelli 27  Quello di Sharmoon, joint venture con Zegna di cui parleremo più diffusamente tra poco. 28  È così potente che un giovane imprenditore cinese e fashion theorist l’ha provocatoriamente scelto come nome del suo blog, dal quale propone moda di designer esclusivamente cinesi: chinesepeoplehavenostyle.blogspot.com.

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Chen di Wenzhou. Il modello incarnato dall’immagine internazionale di Zegna, il manager in abito formale, è di grande attrattiva per il pubblico maschile cinese. Diciamo che costituisce uno dei modelli più diffusi. Sharmoon si inserisce in questa «estetica del manager» con la sua scansione temporale di «lavoro» e «tempo libero», pur essendo molto adattato all’estetica cinese nei tessuti e nei colori. Per esempio le camicie non sono slim, come oggi è la norma in Occidente, e il colore delle giacche è quasi sempre grigio, navy o nero, mentre in occasioni formali gli italiani optano per il blu. Al di là degli aggiustamenti di stile, colori e tessuti, Sharmoon condivide con Zegna i tratti distintivi di una mascolinità occidentale legata al mondo del lavoro di prestigio. Nei mall cinesi, da Shanghai e Pechino alle città di seconda, terza, quarta fascia, questo tipo di uomo, di cui probabilmente il marchio Ermenegildo Zegna rappresenta l’idealtipo, è molto diffuso e sono in particolare i marchi italiani o dal nome italianeggiante o italiano quelli più diffusi e ricercati. Sul sito web di Sharmoon si legge: «L’esclusiva eleganza urbana di Sharmoon rappresenta implicitamente la sofisticatezza e la sicurezza dell’élite maschile e le maniere generose nella fiera della vanità»29. Giacca, cravatta, camicia, ventiquattrore in pelle. Il prodotto è sintonizzato sul gusto cinese, ma l’immagine è italiana. Sharmoon ha un nome cinese, ma un’impronta italiana, e si rivolge a un ceto medio cinese in espansione che intende vestire formale e italiano. Sul sito web, i modelli non sono cinesi, ma europei30. Elegant.Prosper è per metà del gruppo italiano Miroglio e per metà dei coniugi Zhang. Prima di entrare in società con Miroglio, Elegant.Prosper era una delle ditte cinesi più note e qualificate per i prodotti in seta e produceva abiti per note aziende italiane. Anche per questa joint venture, l’idea è di attingere all’immagine 29  «The unique city elegance of Sharmoon implicitly represents the sophistication and the confidence of the male elite and the generous manner in the vanity fair», dal sito www.sharmoon.com; trad. mia. 30  È interessante notare che, nella presentazione di Pitti 2011, Ermenegildo Zegna si è invece distinto per aver «cinesizzato» interamente la sfilata. I modelli, in gran parte cinesi, sembrava scendessero dalla Grande Muraglia grazie agli effetti speciali di James Lima, il visual consultant del kolossal Avatar. Sarebbe come dire che un’estetica cinese è adatta all’élite cinese e internazionale, mentre l’estetica italiana è adatta al mercato cinese medio.

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premiante della moda italiana per fare una moda cinese in Cina. Per la donna cinese non c’è un modello prevalente di «femminilità moderna» che sia il corrispettivo del manager, evoluzione del funzionario. La career woman cui molti mall dedicano un reparto apposito, stilisticamente è un mix di suggestioni tra Cina, Corea, Giappone e naturalmente Europa. Vedere la Cina femminile con gli occhi dei cinesi è dunque complesso, seppure l’utilizzo di tessuti italiani sia considerato un valore aggiunto per il marchio. Ma forgiare un’immagine di donna su un modello completamente italiano, cioè molto modaiolo, non è l’intento di questo marchio. Elegant.Prosper non si rivolge prevalentemente alla clientela fashion oriented dell’élite di Shanghai e Pechino, ma alle donne del ceto medio delle grandi città di seconda e terza fascia, dalle più moderne, come le career women, alle più tradizionali, come le mogli di funzionari statali che sono alla ricerca di uno stile europeizzante, ma cinese. Alle ragazze più giovani e fashion oriented, Miroglio si rivolge con un altro marchio in joint venture con la medesima azienda, The Beautiful Future (TBF), un nome evocativo, molto cinese ma di stile coreano, come Ochirly, uno dei preferiti dal pubblico giovane. Anche sui siti web di Elegant.Prosper e di TBF figurano modelli e modelle occidentali. La moda prodotta dalle joint ventures sino-italiane è una moda cinese d’ispirazione italiana; si avvale infatti a livello organizzativo dell’esperienza e del know how delle aziende italiane. Le conoscenze del partner cinese in merito alla distribuzione, in particolare alla scelta dei luoghi e delle zone in cui aprire punti vendita e alle negoziazioni dei posti nei mall, sono d’altro canto indispensabili per la buona riuscita delle vendite. La collaborazione dunque non è tra due sistemi complementari: il buon gusto italiano e la capacità produttiva cinese secondo gli italiani, oppure, secondo i cinesi, l’accrescimento del profitto grazie alle conoscenze di composizione della collezione e di branding. Consiste piuttosto nella costruzione di una nuova moda cinese, moderna, rivolta al grande pubblico, la cui definizione e i cui contenuti sono in rapida evoluzione. A livello comunicativo e di immagine i brand sino-italiani riprendono in diverse forme quanto può essere sintetizzato come lifestyle italiano, nella convinzione, condivisa da entrambi i part­120

ner, che il modello italiano sia un elemento di attrazione. Nel prodotto e nelle pratiche di vendita e di consumo, invece, è più evidente la novità dell’offerta: si tratta di una moda cinese globalizzata. La sua componente ibrida, italiana e cinese, la rende molto interessante anche su un altro versante, quello della circolazione internazionale. Una moda adatta cioè a soddisfare tanto il mercato cinese quanto, potenzialmente, anche un mercato fuori dalla Cina. Risulta chiaro che l’opposizione tra modernità e tradizione, tipica di una visione occidentale di stampo colonialista, non si può applicare appieno al caso cinese. La Cina ha espresso sin dai primi del Novecento un rapporto di reciprocità con la moda occidentale, che si è interrotto bruscamente solo durante gli anni di isolamento. E la ripresa, abbiamo visto, non si caratterizza tanto per opposizioni, ma piuttosto per continue metamorfosi, imputabili alla forza economica e produttiva, alle immagini della Cina nel mondo e alla presenza massiccia dei brand occidentali in Cina. Il filo rosso è la crescente affermazione di un’identità estetica cinese poliedrica, dai molti volti, ma decisamente orientata a rappresentare una modernità di impronta cinese.

IV

Moda modesta. Islam chic

4.1. La moda islamica e il velo La moda islamica è un fenomeno che si è affermato da circa un decennio, soprattutto nelle città cosmopolite d’Europa e degli Stati Uniti e nei paesi islamici orientati alla democrazia, come Turchia e Indonesia. Il modest fashion, la moda modesta, divenuta islam chic (Giannone e Calefato 2007, Segre Reinach 2006a, Lewis 2004) o hijab chic, ha messo in crisi lo stereotipo prevalente in Occidente, secondo il quale l’abito islamico femminile è una sorta di sacco informe, interamente definito da norme religiose, sotto il quale si nasconde il corpo delle donne musulmane. Un giro a Istanbul, Berlino, Londra contraddice immediatamente questa visione. Giovani donne musulmane, come le loro coetanee non musulmane, sono tutto fuorché nascoste. Sono invece molto visibili e vestite secondo interpretazioni e ibridazioni delle tendenze del momento. Ciò che le rende immediatamente riconoscibili come musulmane è l’uso del velo, sempre molto elaborato, pensato, coordinato con il resto dell’abito. Se il velo dunque è il segno più visibile dell’abbigliamento della donna musulmana, è necessario però distinguere tra «velo», un termine in sé problematico (El Guindi 2003, Tarlo 2010) e comunque appartenente ad una categoria più ampia, e moda islamica contemporanea. A differenza di quest’ultima – fenomeno metropolitano recente, come si è detto, e collegato all’espansione in molte parti del mondo di un ceto medio islamico – l’uso del velo è antico e spazia attraverso le culture e le religioni. Come noto, il velo era indossato nell’antica Grecia, nell’Impero ottomano, in ­122

Egitto, da parte di donne ebree, cristiane, oltreché musulmane. Ma anche restringendo l’analisi al solo mondo islamico, definire il velo non è semplice. In arabo, scrive Emma Tarlo (2010), non c’è una parola univoca per definire il pezzo di stoffa che comprende dal foulard-headscarf-fazzoletto al velo che copre anche il viso, fino al cosiddetto «vestito coperto» dalla testa ai piedi, chiamato burqa o chador. E anche l’ampia scelta di parole che definiscono la copertura più o meno estesa del corpo femminile in Islam varia di paese in paese. Se da un lato termini differenti possono essere usati per vestiti che sembrano molto simili (Moors e Tarlo 2007), dall’altro gli stessi termini possono essere usati per capi di vestiario molto diversi fra loro. Ad esempio il velo si è diffuso nel contesto inglese e americano tramite il termine hijab, mentre in Indonesia viene chiamato jilbπb. In altri contesti, come l’Europa e il Medio Oriente, jilbπb identifica un cappotto lungo fino ai piedi, mentre per lo stesso capo in Yemen si usa il termine balto. Nonostante chador o chadar in Iran o Pakistan si riferiscano ad un abito che copre tutto il corpo, in Indonesia rimandano ad un tipo d’abito che include la velatura del viso. Allo stesso modo il termine burqa in Yemen si riferisce ad un modo moderno di velare il viso, mentre in Afghanistan, Pakistan e India alcuni lo usano per denominare un unico vestito coprente per corpo e viso, che nel caso afgano prevede un tessuto a rete per gli occhi. Mentre in Pakistan e nel Nord dell’India è usato il termine shalwar kamiz per indicare una lunga tunica con ampi pantaloni, nel Sud dell’India questo capo viene chiamato churidar, che nel dialetto dell’India settentrionale si riferisce invece a un tipo di pantaloni aderenti stretti in vita da un cordoncino. Inoltre, solo i termini jilbπb e khimar (rispettivamente «mantello» e «copricapo») appaiono nel Corano per indicare direttamente un abito femminile. Ed è solo nell’arabo contemporaneo che il termine hijab – che nel linguaggio del Corano significa «separazione» (El Guindi 2003) – comincia ad essere usato per riferirsi ad un abbigliamento coprente. Il velo oggi può essere indossato dalle donne per diversi motivi: come segno della tradizione, come segno di moda islamica, di identità culturale (in Occidente) e come segno di fondamentalismo religioso. Senza dimenticare che ci sono donne musulmane che non lo portano del tutto, anche tra quelle religiose. L’uso o la condanna del velo sono stati e sono tuttora il risultato di politiche legate tanto ­123

al passato coloniale e post-coloniale quanto al presente globalizzato che si misura con il tema dell’immigrazione. Il velo è ricco di significati che dipendono dal contesto, come peraltro tutti i capi di abbigliamento. Alla donna velata si ispira la letteratura coloniale maschilista, fino all’ambivalenza rispetto al ruolo della donna islamica all’interno del discorso femminista occidentale. E, come altre categorie antropologiche, non è «inerte». La percezione dell’hijab dipende in larga misura da elementi esterni ad esso, di tipo relazionale, socioculturale, politico e, naturalmente, dalle norme sartoriali che prevalgono in determinati luoghi. Il velo è anche collegato all’harem, uno dei più visitati e controversi temi del rapporto tra Oriente e Occidente. Le istanze occidentali e locali sul velo hanno caratterizzato in modo contraddittorio e ambivalente il Novecento. Da un lato hanno sollecitato l’emergere di stili vestimentari in grado di esprimere autenticità e resistenza allo stile occidentale, dall’altro hanno stabilito le premesse per un nuovo uso del velo. In molte parti del mondo, dall’Egitto all’Algeria, dall’Indonesia all’Iran, al Pakistan, tra gli anni Settanta e Ottanta il vestire islamico è stato una risposta alla secolarizzazione imposta dai governanti locali o dall’Occidente, come in Egitto e Turchia, o anche un modo di esprimere la religiosità in paesi dove si riteneva essa non fosse sufficientemente valorizzata, come in Mali e in Indonesia. 4.2. Il velo nella cultura coloniale e post-coloniale Nella prima metà del XX secolo l’eliminazione del velo dall’abbigliamento femminile è stata perseguita sia dalle politiche degli Stati imperialisti occidentali, sia dai governi locali musulmani, con alcune eccezioni cui abbiamo già accennato. Mentre in Mali, ad esempio, i vestiti occidentali non ebbero mai molta diffusione, e a San’a’, la capitale dello Yemen, gli stili d’abbigliamento occidentali per l’esterno sono ancora oggi largamente assenti (Moors e Tarlo 2007), in paesi come la Turchia e l’Iran negli anni Venti del Novecento lo Stato ha imposto stili occidentali alle popolazioni locali. Come parte dell’impegno di de-islamizzare la sfera pubblica in nome della modernizzazione, le donne in Turchia furono scoraggiate dall’indossare abiti in stile islamico, mentre in Iran l’uso del chador fuori casa fu proibito dal 1936 al 1941. Sia Ataturk sia lo scià Rehza ­124

Pahlavi investirono molta energia politica per sradicare l’abitudine, la tradizione e la moda del velo in Turchia e in Iran, in nome di una secolarizzazione e di un progresso che corrispondevano, secondo la loro opinione, a quello occidentale. Mentre Ataturk proibì anche l’uso del fez maschile, imposto nell’Ottocento, dimostrando di avere a cuore un cambiamento radicale a favore dello stile occidentale, del modo di apparire uomini e donne moderni in Turchia, l’Iran è poi drammaticamente passato dal potere assoluto e filo-americano dello scià – che governò dal 1941 al 1979 e che, a differenza di Ataturk, più che alla modernità, cui pure teneva in funzione della sua dipendenza dagli Stati Uniti, aspirava a ripristinare un passato persiano imperiale pre-islamico – alla dittatura fondamentalista inaugurata da Khomeyni nel 1979. La Turchia di Ataturk, il fondatore della repubblica, ha invece continuato un processo di rielaborazione di entrambe le tradizioni, quella orientale e quella occidentale, fino alle attuali discussioni in merito all’ingresso in Europa, con una identità nazionale cui la Turchia non intende rinunciare. In Turchia, dove alle donne che vestono il velo è peraltro ancora negato l’accesso alle istituzioni statali, l’educazione superiore e l’impiego statale, si è sviluppata di recente una grande varietà di abbigliamento di moda islamica sia tra le donne religiosamente orientate all’Islam, sia tra le giovani modaiole delle grandi città. Hayrünissa, la moglie del presidente turco Abdullah Gül, il velo lo porta in pubblico, a dimostrazione di una visione velata e moderna della donna turca (e Gül vorrebbe abolire il veto ancora vigente di indossare il velo nelle strutture pubbliche). In Iran, invece, dove le regole in merito al­l’abbigliamento femminile sono regolamentate da un potere religioso e maschilista, le donne sono obbligate ad indossare il vestito islamico che copre tutto tranne la faccia e le mani. Come scrivono Moors e Tarlo (2007), le donne in Iran esprimono la loro opposizione alle norme imposte dallo Stato indossando vestiti per i luoghi pubblici che rivelano quanto più possibile il corpo e i capelli. La battaglia sul vestire delle donne è stata illustrata con successo da Marjane Satrapi, la scrittrice e fumettista iraniana fuggita in Europa dopo la rivoluzione di Khomeyni, nella graphic novel Persepolis1 (2002). Ancora oggi continua nell’Iran di Ahmadinejad

  Fumetto storico e autobiografico scritto in francese, edito per la prima

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con Zahra’s Paradise di Amir e Khalil (pseudonimi di due autori che vivono in Iran). 4.3. L’abito islamico nelle metropoli europee Benché le società liberali e multiculturali accettino e talvolta anche enfatizzino la dimostrazione di specificità culturali, nel mondo occidentale la donna velata è presa generalmente come simbolo della sua soggezione a tradizioni oppressive. Questo contraddice l’ideale del «cittadino libero e razionale» dello Stato secolarizzato, in quanto la libertà individuale è proprio la qualità che distingue il cittadino moderno da altri che non lo sono. Parigi e Londra sono grandi metropoli dove vivono, transitano, lavorano persone di tutto il mondo. Nel passaggio dall’epoca coloniale a quella post-coloniale si sono creati in queste città gli spazi e le condizioni per il cosmopolitismo, non senza conflitti e contraddizioni, ancora visibili in entrambi i paesi. C’è tuttavia una differenza fondamentale nelle due città rispetto alla nuova moda islamica, che è ben più sviluppata a Londra che a Parigi. Il fatto che gli esperimenti di moda islamica cool, e non solo tradizionale, siano particolarmente effervescenti a Londra è anche una conseguenza del diverso atteggiamento che ha verso il velo l’Inghilterra rispetto alla Francia, dove vive peraltro la percentuale più alta di popolazione islamica. In risposta al voto del parlamento francese del luglio 2010, che proibisce l’uso del velo islamico integrale nei luoghi pubblici, il ministro inglese per l’immigrazione Damian Green ha dichiarato che «proibire alle donne in Inghilterra di indossare certi abiti sarebbe poco inglese e andrebbe contro le convenzioni di una società reciprocamente tollerante e rispettosa»2 (trad. mia). Quella inglese è sostanzialmente una democrazia che si definisce nel diritto all’opposizione, mentre la democrazia francese, generata dalla Rivoluzione, ha inteso fondare un ordine nuovo universale basato su un sistema giuridico che, seppure sviluppato in età moderna, è idealmente collegato ai valori di volta da Lizard in quattro volumi tra il 2002 e il 2003 e ripubblicato in un’unica edizione integrale nel 2007. 2  ABC News, Australian Broadcasting Corporation, 19 July 2010.

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liberté, fraternité ed egalité, che garantiscono un buon governo alla società. Il sistema legislativo britannico è invece improntato alla concretezza del singolo caso (common law): si trova cioè la soluzione a un problema e poi se ne fa una legge. Al contrario in Francia il sistema giuridico è universalista e rifiuta il particolare, che etichetta negativamente come «particolarismo» (Godbout 2003: 53). Nel periodo coloniale, opposti erano anche i modi di amministare i territori, come indica Bernard Droz (2006: 10). Mentre la Gran Bretagna in India professò e praticò l’indirect rule, cioè l’amministrazione indiretta, che privilegiava una devoluzione di poteri più o meno ampi a vantaggio di notabili locali, la Francia, per tradizione centralizzatrice e burocratizzata, fece ricorso all’amministrazione diretta. Per la Francia la laicità è un valore assoluto e la scuola, come luogo pubblico, è uno dei cardini di questa laicità. Per questo in Francia si è arrivati alla legge che proibisce il velo nelle scuole e ora anche in tutti i luoghi pubblici, a garanzia di un principio astratto di laicità. In Inghilterra invece (e in modo minore in altre parti del mondo di cultura anglosassone e in Usa) è del tutto consentito mostrare segni identitari ed espressivi anche nel proprio modo di vestire. Questo non significa che l’Inghilterra sia più cosmopolita o tollerante della Francia, ma che le negoziazioni avvengono in modo privato tra individui e imprese, e non, come in Francia, stabilite in modo centralizzato e burocratizzato. Dunque mentre a Londra ci possono essere regole diverse rispetto ad altre città inglesi, in Francia la regola tende a essere applicata generalmente. Le diverse «politiche del velo» in Francia e in Inghilterra si riverberano sulla moda islamica. A Parigi, per esempio, una street artist, che ha mantenuto l’anonimato ma si suppone sia una donna, compie azioni di «guerriglia niqab» sulla metropolitana, intervenendo sui grandi manifesti pubblicitari fortemente sessualizzati tipici della moda, spruzzandoli di notte con una vernice nera che rappresenta il velo. Princess Hijab, così si definisce, ha dichiarato che la sua «guerrilla niqab» mostra non solo le sue idee rispetto alla proibizione del velo, ma è anche una denuncia dei problemi dell’integrazione in Francia. Al contrario in Inghilterra, per esempio, il nuovo brand made in London di moda islamica, Elenany, della giovane stilista Sarah Elenany, inglese e musulmana, promuove un nuovo tipo di streetstyle molto «graphic». Elenany ha ­127

incontrato un tale successo che sta estendendo il suo target dalle ragazze e ragazzi islamici (per gli uomini c’è il brand Triple 9 Percent) ai londinesi non musulmani. Parigi e Londra costituiscono due poli opposti e ben definiti, ma in altre parti d’Europa e anche negli Stati Uniti più spesso c’è molta ambivalenza e decisioni contraddittorie. Nel contesto italiano, in particolare, la visibilità dell’abito islamico è frastornante, problematica. L’immigrazione è un fatto recente rispetto a Francia e Inghilterra, che hanno da tempo dovuto confrontarsi con il tema della convivenza. Le donne musulmane immigrate in Italia, cioè coloro che fanno emergere il tema del velo in pubblico, sono di prima generazione, di solito povere e poco scolarizzate. Per le donne islamiche immigrate in Italia non si tratta di scegliere tra una moda islamica e una occidentale, ma di acquisire diritti primari, ottenere un permesso di soggiorno, essere rispettate nella loro identità, e dunque anche potersi vestire a loro modo. Istituzioni come L’Institut du monde arabe a Parigi o l’Ismaili Centre a Londra sono impensabili in Italia, dove ancora si discute sull’opportunità di permettere la costruzione delle moschee. Non c’è da stupirsi se in Italia il fatto che possa esistere una moda islamica borghese europea, più che essere osteggiato ideologicamente, non è ­ancora nemmeno percepito. Tutto il dibattito si svolge tra proibire il velo o accettare il velo – spesso deciso in modi idiosincratici ed estemporanei, a seconda di convenienze campanilistiche che poco hanno a che vedere con esso. Il risultato è che le donne musulmane sono spesso descritte secondo modelli stereotipati: come vittime in terra straniera pronte a essere salvate dalla nostra civilizzazione occidentale, o come immigrate che, rifiutando ostinatamente di abbandonare il loro passato retrogrado e le loro tradizioni, mettono in crisi i concetti occidentali di libertà e individualismo. In Germania, scrivono Antonella Giannone e Patrizia Calefato (2007), sono state pronunciate sentenze contro l’uso del velo nelle scuole, per esempio da parte delle insegnanti di fede musulmana, per non incrinare, secondo le motivazioni date dai tribunali tedeschi, quella dimensione di quiete necessaria all’apprendimento. Ma la presunta neutralità richiesta non sarebbe che una forma di occidentalizzazione, né, come rimarcano le autrici, si può davvero ipotizzare una dimensione di neutralità del corpo. «Il corpo rivestito è legato all’azione sociale, ai suoi tempi e ai suoi spazi, è sempre inevitabilmente marcato, segnato, inscritto ­128

di tratti distintivi, intriso nella sua storia» (ivi: 118). La presunta neutralità, in altre parole, non è altro che l’invisibilità della posizione egemonica. Questo è anche il punto di vista, vedremo più avanti in questo capitolo, di Martha Nussbaum (2010) in merito alla proibizione della copertura del volto. 4.4. Abito islamico e femminismo Il velo non è solo il simbolo di controverse visioni della modernità e dell’emancipazione dal colonialismo. È anche la più diretta allusione al rapporto tra maschile e femminile. Come nota Alex Balasescu (2001), il velo simboleggia e addirittura prova, nel discorso comune occidentale, la mancanza di libertà delle donne musulmane. La donna velata è un’immagine che evoca più immediatamente di altri capi vestimentari le differenze tra uomo e donna e le dinamiche di genere. Nel mondo islamico, infatti, questa opposizione è alla base stessa del vestire: basti pensare al Qatar e ad altri Stati del Golfo, in cui il nero è il colore della donna e il bianco quello dell’uomo, diametralmente opposti. Le femministe e le studiose di women studies, non a caso, sul tema del velo sono divise e il dibattito è tutt’altro che risolto. Il discorso femminista occidentale tende a vedere nella eliminazione dell’obbligo del velo per la donna un passaggio necessario verso l’emancipazione. Per esempio Phyllis Chesler (2010), nota psicologa femminista3 ed accademica americana, sostiene senza esitazioni la necessità di abolire il burqa, smantellando le motivazioni religiose a favore e sottolineando l’oppressione della donna, la dominazione maschile e l’aspetto politico e ideologico del velo: Quando si comprende che il burqa non è un obbligo religioso ma piuttosto una dichiarazione politica – o al massimo solo un costume etnico e misogino – non c’è nessuna ragione per cui le tradizioni occidentali di tolleranza religiosa debbano contrabbandare la copertura delle donne come un dovere religioso in un periodo in cui la gran parte dei musulmani non la vede in questo modo (Chesler 2010; trad. mia).

3  Tutte le informazioni sul lavoro e l’impegno di Phyllis Chesler sono disponibili sul suo sito: www.phyllis-chesler.com.

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Per questo autrici post-coloniali come Lila Abu-Lughod e Gayatri Spivak (2002, 2004), entrambe docenti negli Stati Uniti, di origine palestinese-americana la prima e indiana la seconda, definiscono l’atteggiamento ideologico che opta per l’abolizione del velo islamico appartenente a un tipo di «femminismo coloniale». Una forma cioè di paternalismo delle donne occidentali verso le altre donne, che evocherebbe il celebre «fardello dell’uomo bianco» dei versi di Kipling4. Come se le donne occidentali fossero più avanti nel cammino verso l’autonomia e per questo motivo potessero essere di aiuto alle loro sorelle asiatiche, africane e a tutte le altre non europee e non americane nell’emanciparsi secondo il modello occidentale. Spivak e Lughod difendono il diritto delle donne di scegliere il proprio modo di vestire e dunque anche di vestire velate, individuando la matrice occidentale del divieto. Particolarmente interessante, in questo secondo gruppo di femministe (cioè quello che difende il diritto all’uso del velo e al vestire coperto), ci sembra la posizione della nota filosofa americana Martha Nussbaum (2010). Più che «difendere» il velo in sé, Nussbaum ha dimostrato l’incongruenza di gran parte delle critiche occidentali all’uso del vestire coperto, individuando e smantellando uno per uno i punti cardine intorno ai quali più di frequente si costruisce il discorso anti-velo. Generalmente, secondo Nussbaum, le proposte di legge che presuppongono il divieto del velo vengono sostenute infatti da cinque argomentazioni base. La prima argomentazione adduce esigenze di sicurezza legate alla visibilità del volto: il velo cioè andrebbe proibito perché impedisce di identificare immediatamente la persona che lo indossa e crea paura. La seconda motivazione, correlata alla prima, si concentra sulla trasparenza e la reciprocità dei rapporti tra i cittadini, che verrebbe minata dall’uso del velo. Queste prime due ragioni contro il velo, scrive Nussbaum, non sono logicamente corrette, in quanto incoerenti: non è il coprirsi in sé, infatti, a incutere timore o a impedire l’identificazione. A Chicago, dove l’inverno è molto rigido, cita come esempio Nussbaum, le persone per strada sono totalmente imbacuccate e quindi del tutto 4  La poesia The White Man’s Burden fu pubblicata per la prima volta in Inghilterra nel 1899, al ritorno di Kipling dall’India.

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irriconoscibili, senza che questo crei alcun problema di pubblica sicurezza. Molti professionisti, inoltre, dai giocatori di football americano, ai chirurghi, agli sciatori, hanno il viso coperto senza che questo susciti timore in chi li vede. Ciò che fa paura non è quindi il coprirsi, bensì il coprirsi alla maniera musulmana. Anche per quel che riguarda la necessità di identificare la persona e il rifiuto delle donne islamiche di togliere il velo per la foto sul passaporto, Nussbaum obietta che in realtà per la donna musulmana farsi fotografare per il passaporto sarebbe comunque possibile, a patto di osservare alcune accortezze, per non offenderne la sensibilità durante la sessione fotografica, per esempio assicurare che il fotografo sia una donna. Ma, osserva Nussbaum, è ormai noto che l’identificazione ufficiale non avviene attraverso la fotografia, quanto attraverso il riconoscimento ottico e le impronte digitali, come da tempo è in uso presso gli aeroporti americani. Dunque il velo non mina in ogni caso l’identificazione, che avviene con altri mezzi. La terza motivazione generalmente addotta è che il burqa sia un simbolo di dominazione maschile: punto di vista che presuppone, secondo la filosofa americana, l’assoluta ignoranza di che cosa simboleggi per la religione islamica il vestire coperto e delle relazioni tra uomo e donna nella cultura musulmana. Ma soprattutto la non considerazione di tutti i simboli di dominazione maschile presenti nella nostra società, accettati in pieno dalle stesse persone che invece indicano nel burqa il simbolo del potere maschile: per esempio le riviste pornografiche, gli abiti attillati, gli interventi sul corpo femminile come la liposuzione, il lifting, il seno rifatto, le labbra gonfiate. Chi propone di vietare il burqa, sostiene Nussbaum, non propone contestualmente di vietare anche queste pratiche, ma anzi spesso vi partecipa5. La quarta considerazione contro il vestito coperto indica che le donne, se potessero scegliere, non indosserebbero il burqa e che lo fanno esclusivamente per le minacce che ricevono in famiglia. Questo è un aspetto di cui sicuramente lo Stato deve farsi carico, sostiene Nussbaum – garantire cioè la libertà di tutti i suoi cittadini, attra5  In Italia questa interpretazione «femminista» del capo coperto dal foulard è stata curiosamente scelta come cavallo di battaglia proprio da una parlamentare di destra xenofoba e collusa con il potere maschilista della politica italiana, senza che nessuno apparentemente ne abbia notato la contraddizione.

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verso per esempio la promozione dell’istruzione di primo e secondo grado e la promulgazione di leggi che promuovano agentività ed empowerment –, ma non c’è nessuna statistica, scrive ancora Nussbaum, che dimostri che in America la violenza domestica sia più diffusa tra i musulmani che tra il resto della popolazione. Il quinto argomento, la scarsa salubrità del burqa perché scomodo e soffocante, è secondo Nussbaum quello più irrilevante e superficiale. Naturalmente il paragone con i tacchi alti o con altre «scomodità» della moda, che non nascono certo da esigenze di comodità, come tutti i grandi pensatori dei primi del Novecento hanno già ampiamente dimostrato (da Simmel a Flügel a Veblen), evidenziano l’incongruità di questa ultima argomentazione. Secondo Nussbaum, dunque, «Tutti gli argomenti contro il velo sono discriminatori. Non dobbiamo neanche scomodarci a toccare la questione del compromesso su basi religiose per renderci conto che sono inaccettabili. Il pari rispetto di tutte le coscienze ci impone di rifiutarle» (Nussbaum 2010: 36). Mentre le femministe francesi hanno appoggiato il progetto di legge, intro­dotto nel 2005 in Francia, che vieta l’uso del velo nei luoghi pubblici, in Inghilterra e nei paesi anglosassoni il femminismo non si è schierato in modo compatto per la sua abolizione. Le domande sul velo tuttavia sono molte, e molti quesiti restano ancora senza risposta, scrivono Maggie Awadalla e Anastasia Valassopoulos (2000), per la densità culturale cui il vestire coperto rimanda. 4.5. Moda islamica contemporanea: tra «prêt à porter», web e «streetstyle» Ma in che cosa consiste dunque la «moda modesta» islamica, islam chic o hijab chic, che sempre più vediamo fiorire sulle passerelle e sulle strade delle grandi città? Può essere uno stile, un modo di vestire con capi disegnati appositamente pensando alla donna islamica: tramite una rivisitazione di tutto il repertorio vestimentario musulmano – abaya, maniche lunghe, shalwar kamiz – come nel sito americano «Rebirth of Chic»6 (il cui claim significativamente   www.rebirthofchic.com.

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recita «redefining fashion, rediscovering beauty, reasserting originality»), sia con capi occidentali che possono essere «islamizzati» nel modo di essere indossati. Non viene escluso ciò che proviene dai negozi di moda occidentale, ma le s­uggestioni vengono incorporate e rielaborate. In altre parole, le ragazze musulmane in Europa vestono sia da Zara e da H&M come le loro coetanee, sia in negozi musulmani specifici e soprattutto acquistano on line. Un progetto di ricerca inglese dal titolo Modest Fashion7 ha individuato nel «vestire modesto», offerto e comunicato in blog e siti di e-commerce islamici, un’area alternativa di discorso sulla moda, in cui si incontrano donne delle tre fedi, musulmana, cristiana (in particolare i mormoni) ed ebrea ortodossa, che condividono l’esigenza di un vestire meno succinto e rivelatorio del corpo femminile. Con la proliferazione dei blog di moda islamica sono d’altra parte cresciute le communities di stile islamico e la conoscenza dei luoghi dove comperare capi islamici e di moda, con notevole segmentazione dell’offerta, dai siti più tradizionali e fioriti nella tradizione araba, a quelli più orientati al design nord-europeo, come il marchio Capster (capsters.com), dedicato allo sportswear islamico. Anche la moda «alta» ha partecipato all’evoluzione del vestire ispirato all’Islam. Sono passati tredici anni dalla provocatoria collezione Burka (1997) del turco cipriota Hussein Chalayan, dichiaratamente ateo, che presentava donne col viso coperto e nude dalla cintola in giù, una forma d’arte più che una collezione di moda, al premio Who’s Next assegnato nel 2010 a un altro designer turco, Erkan Çoruh, dichiaratamente religioso, autore della collezione Radical Beauty. La collezione con cui Çoruh ha vinto il premio Who’s Next, che il designer definisce «un viaggio straordinario dal rigido mondo dell’Islam verso una visione di bellezza femminile», è parte del progetto Men and Women of Allah, ispirato al lavoro sull’identità di genere nell’Islam dell’artista iraniana Shirin Neshat8. Il lavoro di Çoruh sull’estetica musulmana sia maschile che femminile ha una grande potenza sovversiva, in quanto si innesta sugli stereotipi di genere che stanno alla base 7  Condotto a Londra da Reina Lewis, parte del programma «Religion and Society». 8  Shirin Neshat, artista visuale di cinema e fotografia, è nata il 26 marzo 1957 a Qazvin in Iran. Attualmente vive a New York.

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di molta letteratura sulla cultura musulmana. In più, rispetto al recente passato, l’esplorazione del potenziale estetico di questo incontro tra Oriente e Occidente nel progetto di Çoruh è maggiormente collegata al suo sviluppo commerciale. Dunque, è più «moda» nel senso contemporaneo del termine. Le settimane della moda islamica, inoltre, contribuiscono a creare una piattaforma di lancio e diffusione della moda alta e non solo per il mondo musulmano. Sono notevoli per esempio quelle che si celebrano in Indonesia9 dal 2008. I modelli presentati dai molti designer di cultura islamica, a Jakarta e in altre piazze musulmane, hanno chiaramente l’ambizione duplice di affermare la propria estetica e di estendersi oltre il pubblico di riferimento elettivo. Inoltre, come abbiamo visto, l’utilizzo del web e la frequentazione dei blog contribuiscono a diffondere uno streetstyle islamico in grado di mettere in dialogo la moda popolare con la moda etnica. Il tema della moda islamica è dunque «caldo» e sembra che il velo, questo fazzoletto di tela dalla più o meno ridotta superficie, condensi su di sé molti dei temi della società globalizzata e non solo il retaggio di un passato «orientalista». Questo è un fatto nuovo, ma che si inserisce in un più ampio contesto che ha visto negli ultimi tempi l’affievolirsi di alcune grandi opposizioni in merito al vestire, tra etnico e moda, moda e costume, religione e moda, moda e socialismo (Bartlett 2010), e l’aprirsi di nuovi percorsi da interpretare con lenti diverse. Dove l’abito islamico è un obbligo, la copertura viene contestata nella misura in cui una protesta è possibile. Ma dove si tratti di una scelta, il discorso si rivela assai più complesso. Il velo dunque è un simbolo culturalmente denso, che rivela le relazioni sia tra Oriente e Occidente, sia tra Nord e Sud del mondo, di stampo post-coloniale. Rappresenta in modo iperbolico e ricco di nuove implicazioni uno dei temi alla base della storia e della teoria della moda, quello della differenziazione tra uomo e donna. Come scrive Fadwa El Guindi (2003), le giovani che oggi vestono varie forme di moda islamica rappresentano un’innovazione dell’abito tradizionale e non un ritorno ad esso. Per la studiosa il termine stesso di «moda modesta» è una semplificazione e talvolta non   www.jakartafashionweek.co.id.

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è corretto. Infatti molte versioni alla moda del concetto di hijab sono molto appariscenti e contraddicono il principio stesso dell’Islam, secondo il quale la donna dovrebbe nascondere il suo corpo in pubblico. Il tema è complesso e sembra poco realistico trovare una risposta universale che si adatti alle tante circostanze in cui le donne musulmane si vestono, in varia maniera velate e coperte. L’essere, diceva Aristotele, si dice in tanti modi.

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Indici

Indice dei nomi*

Abbattista, Guido, 13n. Abu-Lughod, Lila, 130. Ahluwalia, Waris, 95. Ahmadinejad, Mahmud, 125. Albini, Walter, 73. Aldridge, James, 56. Alphadi, pseud. di Sidahmed Seidnaly, 62. Amir, 126. Andrianomearisoa, Joel, 62. Ansah, Kofi, 62. Aristotele, 135. Armani, marchio, 59, 60 e n. Armani, Giorgio, 73. Arora, Manish, 25, 43. Aspesi Japan, 56n. Ataturk, Mustafa Kemal, 124-125. Atiemo, Tina, 62. Awadalla, Maggie, 132. Bachtin, Michail, 61. Badu, Erykah, 20. Balasescu, Alex, 12, 94, 129. Banana Republic, 92. Bao Ming Xin, 23, 105, 110, 113. Barbera, Luciano, 69. Bardot, Brigitte, 42. Barile, Nello, 68. Barthes, Roland, 4, 78. Bartlett, Djurdja, 134. Baudelaire, Charles, 38-40.

Baudrillard, Jean, 78-79. Bauman, Zygmunt, 90. Beaton, Cecil, 79. Beecroft, Vanessa, 88. Belfanti, Carlo M., 8. Benjamin, Walter, 74. Betts, Kate, 93-94. Bhabha, Homi K., 96. Biba, 31. Bitensky, 46. Björk, vedi Guðmundsdóttir, Björk. Blaszcyk, R., v. Boateng, Ozwald, 25, 62, 63 e n. Bollati, Giulio, 77. Bonami, Francesco, 85. Bottega Veneta, 71-72, 84. Bourdieu, Pierre, 24, 38n, 78, 94. Bovone, Laura, 33. Breward, Christopher, 30, 38. Brummel, George Bryan «Beau», 3940. Bruni, Carla, 91-92. Bulag, Uradyn, 98, 114-115. Burberry, 26, 29, 77. Burke, Peter, v, 4-5, 14, 22, 24, 26, 29, 42, 112. Cain Miller, Claire, 48. Calefato, Patrizia, 5, 61, 91n, 95, 122, 128. Callari Galli, Matilde, 22.

* Oltre ai nomi di persona, il presente indice include anche i nomi di marchi e gruppi finanziari.

153

Calvin Klein, marchio, 116n. Capster, 133. Caratozzolo, 16. Cardin, Pierre, 106. Carducci, 57. Caroli, Flavio, 14. Catalina Swimwear, 45. Caten, Dan, 50. Caten, Dean, 50. Celine, 43. Cerruti, 59. Chakrabarty, Dipesh, v, 5, 96. Chalayan, Hussein, 133. Chanel, marchio, 43, 91, 116. Chanel, Gabrielle, detta «Coco», 42, 117. Chang, Chris, 115. Charles Jourdan, 59. Chaumet, 42. Chen Ping, 113. Chen Yifei, 112 e n. Chesler, Phyllis, 129 e n. Cheung, Mark, 109, 115. Chiang Kai-shek, 101 e n, 102. Chionna, Carlo, 69. Christian Lacroix, marchio, 16n. Churchill, Winston, 6 e n. Cietta, Enrico, 56, 72. Clark, Hazel, 81. Cliffe, Sheila, 8, 57. Codeluppi, Vanni, 33, 70. Coin, 89. Colaiacomo, Paola, 16, 27, 80. Colapinto, John, 84. Colbert, Jean-Baptiste, 29. Cole, Lily, 28. Comptoir des Cotonniers, 56n. Coppola, Sofia, 29n. Corbi, Maria, 116n. Çoruh, Erkan, 133-134. Coveri, marchio, 59. Craik, Jennifer, 10, 21, 28. Crane, Diana, 10. Crivelli, Giulia, 67. D’Alessandro, Jaime, 47. Danese, Elda, 68, 73-74. Daniel Hechter, marchio, 60 e n. de la Renta, Oscar, 91.

Della Valle, Diego, 27, 80. Della Valle, Filippo, 80. Demarchelier, Patrick, 116n. de Montesquiou, Robert, 39. Deng Xiaoping, 103n, 105-106. Diaghilev, Sergej, 14, 51. Dior, marchio, 42n, 43-44, 59, 91, 116 e n, 117. Djoffon, Pépita, 62. DKNY, 74. Donadio, Rachel, 70. Dosa, 63-64, 66. Droz, Bernard, 127. Dsquared2, 50. Edoardo VIII, duca di Windsor, 79. Eicher, Joanne B., vi, 10. Elbaz, Alber, 42, 77. Elegant.Prosper, 119-120. Elenany, marchio, 127. Elenany, Sarah, 127. El Guindi, Fadwa, 122-123, 134. Elisabetta II, regina del Regno Unito, 92. Ellitsgaard, Trine, 67. Entwistle, Joanne, 78, 82. Ermenegildo Zegna, marchio, 77, 95n, 118 e n, 119. Evenson, Sandra Lee, vi, 10. Evisu, 56. Exception de Mixmind, 112. Fast Retailing, 56. Fendi, 59. Feng, Han, 109. Fenner, Justin, 93n. Ferragamo, gruppo finanziario, 29. Ferraresi, Mauro, 33, 70. Ferré, marchio, 59. Finnane, Antonia, 8, 86, 101, 106 e n, 112n, 113. Flügel, John Carl, 41, 45n, 132. Fontana, Giovanni Luigi, 69, 75. Foot Park, 56n. Fortunati, Leopoldina, 68. Fortuny, Mariano, 14, 51. Franci, Giovanna, 13, 26, 50. Friedman, Jonathan 58.

154

Frisa, Maria Luisa, 27, 70, 72-73, 75, 80n. Fukai, Akiko, 51-52, 55n. Gabanelli, Milena, 80. Galliano, John, 116, 42 e n. Gandhi, Mohandas Karamchand, 6. Gandoulou, Justin-Daniel, 60. Garner, Myrna I., 10. Garrett, Valerie, 102. Gaultier, marchio, 59. Geertz, Clifford, 24n. Giannone, Antonella, 122, 128. Gioia, Melchiorre, 77. Givenchy, marchio, 25, 43, 62, 91. Godart, Frédéric, 29, 31. Godbout, Jacques T., 127. Goods of Desire, 110. Goody, Jack, 18. Guarnaccia, Matteo, 54. Gucci, gruppo finanziario, 71. Gucci, marchio, 59, 76-77, 116n. Guðmundsdóttir, Björk, detta Björk, 32. Gül, Abdullah, 125. Gül, Hayrünnissa, 125. H&M, 56, 133. h.Naoto, 55. Harris, Samantha, 21. He Yan, 112-113. Helfand, Jessica, 65n. Heller, Sarah Grace, 6. Hermès, 43, 99, 116. Herrera, Carolina, 91. Hidehiko, Yamane, 56. Hindmarch, Anya, 82. Hlaska, 46, 48. Hobsbawm, Eric, 3, 78. Horihata, Hiroyuki, 55. Hua Fu, 26. Hua, M., 107n, 113. Huang Zumo, 107n. Hurley, Chad, 46. Hu Yaobang, 106. iWear, 46. J.M. Weston, 60 e n.

Jacobs, Marc, 42. James Lima, 119n. Jamieson, Alastair, 86. Jiang Qing, 103n, 104. Jia Zhangke, 86, 106n. Jobs, Steve, 45. John Lawrence Sullivan, 56. Jones, Carla, 15. JuanJuan Wu, 86, 98, 107 e n, 111, 113. Kaiser, Susan, 4, 34. Kan, Justin, 47. Kangxi, imperatore Qing, 117. Katrantzou, Mary, 28. Kawakubo, Rei, 17-18, 53, 97. Kawamura, Yunika, 17, 52-53, 97. Kennedy, Jacqueline, 91-92. Kenzo, 43, 52. Khalil, 126. Khomeyni, Ruhollaˉh Mustafa Mosavi, 125. Khumalo, Fred, 20n. Kibardin, Max, 71. Kim, Christina, 35, 63 e n, 81. Kipling, Rudyard, 88, 130 e n. Klein, Steven, 116. Ko, Dorothy, 99, 106. Kondo, Dorinne, 17, 53, 94. Kouyaté, Lamine, 62. Kra, Mickael, 62. Kunz, Grace I., 10. Lagerfeld, Karl, 42, 117. Lanvin, 52, 77. Laparka, 50 e n. Latouche, Serge, 84. Lehmann, Ulrich, 33. Leshkowich, Marie, 15, 78. Lévi Strauss, Monique, 15. Lewis, Reina, 122, 133n. Li Keyu, 112n. Lim, Phillip, 32n, 33n, 110-111. Ling, Wessie, 31, 101, 110. Lipovetsky, Gilles, 8, 37, 94. Llewellyn-Jones, Lloyd, 16. Lofgren, Orvar, 32. Loti, Pierre, 52.

155

Louis Vuitton, marchio, 26, 43, 79, 116n. Luigi XIV di Borbone, re di Francia, detto «re Sole», 29. Lululemon, 36, 48 e n, 49, 51. Lundstrom, Linda, 50 e n. Lunghi, Carla, 83. Lurenco, Pedro, 27. Lutz, Hazel, vi, 10. LVMH, 27, 43. Lynch, David, 116. MacKay, Fiona, 42. Maier, Tomas, 71, 84. Major, John S., 8. Ma Ke, 86-87, 112. Mandela, Nelson, 20. Mandeville, Bernard de, 82. Mangaroni, Rosella, 13, 26, 50. Mao Tse Tung, 101-105, 103n, 109110, 112n. Margiela, Martin, 88, 93. Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, regina di Francia, 25, 29 e n. Marithé + François Girbaud, 59. Marques, Andrea, 27. Marras, Antonio, 43. Marx, Groucho, 88-89. Marzotto, marchio, 72, 77. Marzotto, Matteo, 72. Matohu, 53, 55. Maynard, Margaret, 8, 10, 19. McCardell, Claire, 44. McNeil, Peter, 8, 15. McQueen, Alexander, 93. Mec, 50. Meciani, Marcella, 48n. Mello-Grand, Cristina, 72. Menkes, Suzy, 70-72, 76, 80, 92, 110. Michault, Jessica, 43. Miharayasuhiro, 56. Miroglio, 119-120. Miyake, marchio, 59. Miyake, Issey, 17-18, 53, 97. Mobutu Sese Seko, pseud. di Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Zabanga, 59. Moneta, Marco, viii. Monneyron, Frédéric, 3, 14, 40.

Montagnini, Eugenia, 83. Moors, Annelies, 124-125. Mora, Emanuela, 27, 33, 35, 70, 76, 83, 85. Moratti, Letizia, 73n. Mori, Hanae, 52, 106, 113n. Moshood, 62. Muliarchyk, Elle, pseud. di Elle Gender, 33n. Muzzarelli, M. Giuseppina, v, 89. Naoto, Hirooka, 55. Nascimento, Lucas, 27. National Standard, 56n. Némirovsky, Irène, 89. Neshat, Shirin, 133 e n. Ne∙Tiger, 26 e n, 99, 115. Nguyen Cat Tuong, 78. Niessen, Sandra, 8, 15. Nike, 49. Nussbaum, Martha, 129-132. Obama, Barack, 92. Obama, Michelle, 36, 91-94. Obama, Sasha, 92. Olaye, Bunmi, 22. Oleg Cassini, marchio, 109. Orta, Lucy, 90. Osterweis, Max, 21. Oviesse Industry, 89. Paco Rabanne, marchio, 25. Paglialunga, Rodolfo, 26, 72. Pahlavi, Mohammad Reza, 124-125. Panichgul, Thakoon, detto «Tha­ koon», 25, 92. Papa Wemba, pseud. di Jules Shungu Wembadio Pene Kikumba, 58. Paquin, Jeanne, 51. Parthasarathi, Prasannan, 15. Peled, Micha X., 86. Peng, Elizabeth, 113n. Phenomenon, 56. Pierre Cardin, marchio, 57, 59. Pimenta, Joao, 27. Poesia, 115. Poiret, Paul, 14, 16, 37, 37n, 38-39, 51-52. PPR, 27, 43, 71.

156

Prada, gruppo finanziario, 29, 115. Prada, marchio, 59, 67, 70. Prada, Miuccia, 67-68, 70. Princesse Tam Tam, 56n. Proust, Marcel, 39. Puccini, Giacomo, 51. Pu Yi, 100n. Qiao Qiao, 113. Qiong Yao, 107n. Qiu Hao, 113. Quant, Mary, 31. Rain Li, 33n. Rampini, Federico, 84. Ranger, T., 78. Reagan, Nancy, 91. Redini, Veronica, 69. Ribeiro, Aileen, 36, 41, 82. Richemont, 109n. Riegels Melchior, Marie, v, 26. Riello, Giorgio, v, viii, 8, 15, 24 e n, 33, 89, 108n. Ripzone, 50. Rivoli, Pietra, 82n. Roberto Cavalli, marchio, 59. Rocamora, Agnès, 40. Rochas, 43. Rodarte, 28. Rodic, Yvan, 33. Rodriguez, Narciso, 92. Rofel, Lisa, viiin, 108n. Rogers, Bunny, 79. Rønde, Jeppe, 57n. Root, Regina, 22. Rossellini, Roberto, 6. Rovine, Victoria L., 23, 61. Saboteur, 47. Sacai, 55. Sada Yacco, pseud. di Sadayakko Kawakami, 52. Sagoe, Deola, 62. Said, Edward, 14, 96. Saint Laurent, Yves, 42, 58, 106. Salvatore Ferragamo, marchio, 26, 77. Satrapi, Marjane, 125. Saviano, Roberto, 80. Scaasi, Arnold, 91.

Scaturro, Sarah, 56. Scott, William, 44. Segal, David, 69. Segre Reinach, Simona, 5-6, 17, 26, 56, 69-70, 72, 77-79, 122. Sekiguchi, Makiko, 55. Sennett, Richard, 78. Seth Cohen, Ari, 90. Seydou, Chris, 62. Shah, Mona, 64, 66. Shan, 50. Shanghai Tang, 109 e n, 110. Shang Xia, 99. Sharmoon, 118 e n, 119 e n. Sherzad, Zolaykha, 20. Shih, Quentin, 116 e n, 117. Shonibare, Yinka, 61. Sigurjónsdóttir, Æsa, 32. Simmel, Georg, 33, 39, 48, 88, 132. Simpson, Wallis, duchessa di Windsor, 117. Skov, Lise, v, 26, 31, 34. Slade, Toby, 11, 54. Slowe, Kristen, 47. Smith, Paul, 59-60, 79. Sofri, Adriano, 87. Spaghi, Uberto, 64. Spencer, Richard, 39, 109. Spivak, Gayatri, 96, 130. Squarcini, Federico, 15. Steele, Valerie, 8, 30 e n, 41, 55 e n, 94. Steiner, Christopher, 46. Stoned Cherry, 62. Studio Regal, 109. Sugoi, 50. Sun Yat-sen, 100-102. Suno, 21 e n. Sy, Oumou, 62. Tadashi, Yanai, 56. Tamagni, Daniele, 59. Tang, David, 109. Tarlo, Emma, 122-125. Teng, Teresa, 105. Thakoon, vedi Panichgul, Thakoon. The Beautiful Future, 120. The North Circular, 28. Theory, 56n.

157

Thuy Linh Nguyen Tu, 17, 23, 27-28, 74, 110. Tilley Endurables, 50. Tod’s, 26, 77. Toledo, Isabel, 92. Tonchi, Stefano, 73, 84. Torrente, 60 e n. Tosi Brandi, Elisa, v, 89. Tranberg Hansen, Karen, vi, 8-10. Trebay, Guy, 43. Trevor-Roper, 79. Triple 9 Percent, 128. Tsui, Christine, 86, 113. Tulloch, Carol, 9. Uniqlo, 56. United Colors of Benetton, 11, 88. Uzanne, Octave, 40. Vaccari, Alessandra, 22n. Vainshtein, Olga, 40. Valassopoulos, Anastasia, 132. Valle, Julia, 27. Van Cleef & Arpels, 42. Veblen, Thorstein, 39, 132. Versace, marchio, 58-59. Victoria Tang, 33n. Vionnet, marchio, 26, 72, 77. Vionnet, Madeleine, 51-52. Vittoria, regina del Regno Unito, 95. Vivienne Tam, 110. Volonté, Paolo, 27, 73. Wang, Uma, 113. Wang, Wei, 112. Wang, Xiaoshuai, 106n.

Wang, Xinyuan, 109. Wang, Yi Yang, 104. Warthon, Edith, 38. Westbeach, 50. Westwood, Vivienne, 36. White, Nicola, 35. Wilde, Oscar, 14, 39. Willim, Robert, 32. Wilson, Chip, 48-49. Wilson, Elizabeth, 83, 94, 101. Wong Kar-wai, 105n, 109. Worth, Charles F., 37-38, 51. Wu, Jason, 92. Xiaoping Li, 105n. Xuli Bet, 62. Yamamoto, Yohji, 17-18, 53, 59, 97. Yanagi, Muneyoshi, 53. Yanagisako, Sylvia, viiin. Ye, Wendy, 109. Yermack, David, 93. Yi Zhou, 33n. Young, Douglas, 110. Yves Saint Laurent, 59. Zara, 56, 133. Zarif Design, 20. Zax, David, 47. Zhang, Jenny, 117. Zhang Yimou, 25n. Zhang Zhifeng, 26. Zhenheng, Wen, 112. Zolla, Elémire, 3n. Zuckerberg, Mark, 46. ZucZug, 104.

Indice del volume

Introduzione

v

I. La moda globalizzata

3

1.1. Far parlare la moda: «Verità segrete esposte in evidenza», p. 3 - 1.2. Eurocentrismo e dominanza della moda europea, p. 6 - 1.3. A macchia di leopardo: la diffusione della moda nel mondo, p. 9 - 1.4. Una bussola sartoriale per orientarsi nella moda globalizzata, p. 12 - 1.4.1. Oriente e Occidente, p. 13 - 1.4.2. Nord e Sud, p. 18 - 1.5. Mode nazionali nello scenario globalizzato, p. 23 - 1.6. Il policentrismo e le capitali della moda, p. 29

II. Vecchi luoghi, nuovi luoghi e luoghi comuni

35

2.1. Geografie di moda, p. 36 - 2.1.1. Parigi e Londra: la «parisienne» e il «gentleman», p. 36 - 2.1.2. Maschi californiani: dal «leisure wear» del Sun Belt al trasandato-chic della Silicon Valley, p. 43 - 2.1.3. Kitsilano, Vancouver: lo yoga di Lululemon e la moda canadese, p. 48 - 2.1.4. La moda giapponese: i percorsi incrociati di strada e passerella, p. 51 - 2.1.5. Moda ed «empowerment»: dai Sapeur ai designer africani, p. 57 - 2.2. L’India di Christina Kim. Dosa e gli artigiani, p. 63 - 2.3. Produzioni materiali e produzioni culturali, p. 67 - 2.3.1. «Prada made in». Lo strano caso della moda italiana, p. 67 - 2.3.2. Artigiani in vetrina e artigiani in bottega, p. 76 - 2.3.3. Un paradosso della «moda etica», p. 82 - 2.3.4. Inclusioni/Esclusioni, p. 88 - 2.3.5. Il guardaroba globalizzato di Michelle Obama, p. 91 - 2.3.6. «Great minds think alike», p. 94

III. La moda cinese

97

3.1. Il rapporto con l’Occidente, p. 99 - 3.1.1. L’apertura allo stile occidentale, p. 99 - 3.1.2. Il rifiuto dell’Occidente, p. 101 - 3.1.3. La rivoluzione culturale e l’abolizione

­159

dei codici sartoriali dell’Occidente, p. 103 - 3.1.4. Riprende il dialogo: la moda cinese dopo il 1978, p. 105 - 3.2. L’identità polimorfica della moda cinese contemporanea, p. 107 - 3.2.1. Moda e cultura popolare, p. 107 - 3.2.2. I designer della diaspora, p. 109 - 3.2.3. I designer della Repubblica popolare cinese, p. 111 - 3.2.4. La separazione tra moda e abbigliamento, p. 113 - 3.2.5. Le minoranze etniche cinesi, p. 114 - 3.3. L’Occidente interpreta la Cina, p. 115 - 3.3.1. Le multinazionali del lusso: nuovi esotismi globali, p. 115 - 3.3.2. Da made in China a made for China: le «joint ventures», p. 117

IV. Moda modesta. Islam chic

122

4.1. La moda islamica e il velo, p. 122 - 4.2. Il velo nella cultura coloniale e post-coloniale, p. 124 - 4.3. L’abito islamico nelle metropoli europee, p. 126 - 4.4. Abito islamico e femminismo, p. 129 - 4.5. Moda islamica contemporanea: tra «prêt à porter», web e «streetstyle», p. 132

Riferimenti bibliografici

137

Indice dei nomi

153