Un messaggio per García 9788851142681

15 febbraio 1898: la corazzata Maine, ancorata al largo dell’Avana, esplode misteriosamente, e le tensioni tra Spagna e

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Un messaggio per García
 9788851142681

Table of contents :
Indice......Page 47
Frontespizio......Page 4
«O vivremo del lavoro o pugnando si morrà» di Luciano Canfora......Page 5
Un messaggio per García di Elbert Hubbard......Page 8
Apologia. Il buonsenso......Page 9
L’iniziativa......Page 12
Un messaggio per García......Page 13
Nota storica......Page 18
Ritratto di Elbert Hubbard di Giuseppe Scaraffia......Page 20
Almanacco dell'ultimo secolo scorso......Page 21
Tra Bartleby e Stachanov......Page 26
Vita e amori di Elbert Green Hubbard, viaggiatore commerciante......Page 30
Roycroft, la creatura di un profeta......Page 35
Una fine gloriosa......Page 41

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Tutti i diritti riservati © 2016, De Agostini Libri S.p.A., Novara Prima edizione: ottobre 2016 Progetto grafico: XxY studio ISBN 978-88-511-4268-1 Prima edizione e-book: ottobre 2016 www.utetlibri.it www.deagostinilibri.it utetlibri @utetlibri Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico, in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org

Elbert Hubbard

UN MESSAGGIO PER GARCÍA con una nota di Luciano Canfora e un ritratto di Giuseppe Scaraffia

«O vivremo del lavoro o pugnando si morrà» Luciano Canfora

L’opuscolo di Elbert Hubbard che qui si ripubblica fu dissotterrato e diffuso trentacinque anni fa, per un’edizioncina della allora Dedalo Litostampa, da un geniale industriale quale fu Raimondo Coga. Egli coniugava in sé molte qualità: intraprendenza come “capitano d’industria”, cordiale inclinazione per la causa socialista (fu il promotore dell’edizione italiana della “Monthly Review”), laicità e sano antibigottismo. Un messaggio per García, vero “manifesto” dell’imperativo morale «fai bene il lavoro che ti è stato affidato», esprimeva perfettamente la sua personalità. Gli infelici sacerdoti del “politicamente corretto” potranno arrovellarsi intorno al pretestuoso quesito se quell’imperativo sia di destra o di sinistra. Abbiamo detto “infelici”, perché il contenuto e l’orientamento del “politicamente corretto” sono soggetti a ciclici mutamenti; ma le eventuali sofferenze di costoro poco importano. La posta in gioco è il lavoro: la «gioia del lavoro» (secondo il titolo del libro di Henri de Man) o il lavoro come condanna, o il lavoro come strumento di riscatto, o invece come fenomeno considerato storicamente transitorio, quale lo concepivano le più fanciullesche tra le utopie dell’antichità, sognatrici di una “età dell’oro” (poi “paradiso terrestre”). L’Inno dei lavoratori, scritto da Filippo Turati, conteneva la celebre strofa che abbiamo adottato come titolo di questa nota. Animati da una tale

concezione i Costituenti, i benemeriti autori della Costituzione della Repubblica italiana, scrissero l’articolo 1. Ma la formulazione di quell’articolo fu tutt’altro che tranquilla. Le sinistre, in particolare un loro autorevole esponente, versatissimo nel diritto, l’avvocato ligure Lelio Basso, ne aveva redatto un primo abbozzo, che recitava così: «L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori». La reazione di parte liberale fu durissima. Epicarmo Corbino difese il “diritto di cittadinanza” anche di coloro che, vivendo di rendita, non lavorano. Il compromesso fu la ben nota e oggi malvista espressione “fondata sul lavoro”. La concepì Amintore Fanfani. Il lavoro era nelle “tavole della legge” della sinistra. Nel rinomato discorso rettorale del 9 novembre 1943, Concetto Marchesi aveva pronunziato le celebri parole (apprezzate anche da qualche giornale della Repubblica Sociale): «Il lavoro c’è sempre stato nel mondo. Ma oggi il lavoro ha sollevato la schiena, ha liberato i suoi polsi, ha potuto alzare la testa e guardare attorno e guardare in su, e lo schiavo di una volta ha potuto anche gettare via le catene che avvincevano per secoli l’anima e l’intelligenza sua. [...] Oggi da ogni parte si guarda al mondo del lavoro come al regno atteso della giustizia. Tutti si protendono verso questo lavacro per uscirne purificati. E a tutti verrà bene: allo Stato e all’individuo». E perciò egli concluse il suo dire dichiarando aperto «l’anno 722° dell’Università di Padova [...] in nome di questa Italia dei lavoratori, degli artisti, degli scienziati.» Alla metà degli anni Settanta del secolo XX il movimento chiamato, anzi autodefinitosi, dell’“autonomia”, avente proprio a Padova, sotto l’influenza di qualche filosofo locale, un suo epicentro, proclamò l’ideologia del nonlavoro, del rifiuto di quel valore da sempre, tipico della “sinistra tradizionale”. Sulle gesta e sui fallimenti di tale orientamento teorico-pratico è superfluo soffermarsi qui. Quella deriva mentale però fa oggi specie, per chi consideri la condizione nostra presente: l’endemica mancanza di lavoro, la ricerca – spesso vana – di un qualunque lavoro, la guerra tra poveri contro i nuovi schiavi che l’incessante migrazione di popoli riversa nelle nostre contrade. I teorici del non-lavoro sono definitivamente usciti di scena; forse qualcuno di loro occupa ancora qualche cattedra universitaria, e ripete

stancamente i suoi dogmi. Ma la realtà che ci si para di fronte è tutt’altra: automazione esasperata e nuove schiavitù. Portare il messaggio a García è sempre più difficile.

Elbert Hubbard

UN MESSAGGIO PER GARCÍA traduzione di Chiara Baffa

Apologia Il buonsenso

Se venite assunti da un uomo, nel nome del cielo, lavorate per lui. Se lo stipendio che vi paga è sufficiente a comprare pane e burro, lavorate per lui, parlate bene di lui, pensate bene di lui, state dalla sua parte e dalla parte dell’istituzione che rappresenta. Io credo che se venissi assunto da un uomo, lavorerei per lui. Non lavorerei per lui solo in un determinato orario, ma per tutto il tempo. Gli offrirei o un servizio completo, o niente. Sul piatto della bilancia, un briciolo di lealtà vale quanto un chilo di intelligenza. Se dovete svilire, condannare e denigrare senza posa, allora rassegnate le vostre dimissioni, e una volta fuori potrete imprecare quanto più vi piace. Ma, ve ne prego, finché siete parte di un’istituzione, non condannatela. Non che possiate danneggiare l’istituzione – non è quello – ma nel momento in cui screditate l’azienda a cui appartenete, screditate voi stessi. E non dimenticate – in affari non si dimentica mai niente. Questa bazzecola letteraria, Un messaggio per García, fu scritta una sera dopo cena, in una sola ora. Era il ventidue febbraio del 1899, ricorreva il compleanno di Washington e stavamo mandando in stampa il numero di marzo di “The Philistine”. Lo scritto mi sgorgò dal cuore, al termine di una giornata impegnativa in cui mi ero sforzato di insegnare ad alcuni paesani piuttosto negligenti a svegliarsi dal torpore e a diventare vere fonti di energia. L’idea vera e propria, tuttavia, ebbe origine da una piccola discussione davanti a una tazza di tè, quando mio figlio Bert osservò che il vero eroe della

guerra ispano-americana era stato Rowan. Egli era partito da solo e aveva eseguito il suo compito – portare il messaggio a García. Fu allora che ebbi l’illuminazione! Sì, il ragazzo aveva ragione, l’eroe è un uomo che fa il suo lavoro – colui che porta il messaggio a García. Mi alzai da tavola e scrissi Un messaggio per García. Pensavo fosse una cosa da niente, tanto che lo inserimmo nella rivista senza un titolo. La tiratura andò esaurita, e poco più tardi iniziammo a ricevere ordini per altre copie del numero di marzo di “The Philistine”, una dozzina, cinquanta, cento; e quando l’American News Company ne ordinò un migliaio, domandai a uno dei miei assistenti quale fosse l’articolo che aveva sollevato quel polverone cosmico. «È quella cosa su García», mi rispose. Il giorno seguente arrivò un telegramma da George H. Daniels della New York Central Railroad, che recitava: «Prego comunicare costo centomila articoli Rowan formato pamphlet – pubblicità Empire State Express sul retro – includere tempi di spedizione». Risposi informandolo del prezzo e chiarii che avremmo potuto fornirgli i pamphlet nell’arco di due anni. I nostri impianti erano piccoli e centomila libricini sembravano un’incombenza spaventosa. Il risultato fu che concessi al signor Daniels la licenza per stampare l’articolo con i suoi mezzi. Egli lo pubblicò sotto forma di opuscolo, in tirature da mezzo milione di copie. Due o tre di queste partite da mezzo milione vennero distribuite direttamente dal signor Daniels, e in aggiunta l’articolo fu ristampato da più di duecento riviste e quotidiani. È stato tradotto in tutte le lingue scritte. Proprio mentre Daniels stava distribuendo Un messaggio per García, il principe Hilakoff, direttore delle ferrovie russe, si trovava nel nostro paese. Era ospite della New York Central, e stava visitando il paese sotto la guida del signor Daniels in persona. Il principe vide il libricino e se ne interessò, probabilmente più per il fatto che fosse pubblicato in numeri così impressionanti che per altri motivi. A ogni modo, una volta tornato in patria lo fece tradurre in russo e ne regalò una copia a ogni dipendente della rete ferroviaria del paese.

In seguito anche altri stati se ne interessarono, e dalla Russia arrivò in Germania, Francia, Spagna, Turchia, India e Cina. Durante la guerra tra Russia e Giappone, a tutti i soldati russi che partivano per il fronte fu consegnata una copia di Un messaggio per García. I giapponesi, dopo aver trovato gli opuscoli fra gli averi dei prigionieri russi, conclusero che doveva trattarsi di una buona cosa, e di conseguenza lo tradussero in giapponese. Per ordine del Mikado fu distribuito a ogni dipendente del governo giapponese, sia nel ramo militare che in quello civile. Un messaggio per García è stato stampato in più di quaranta milioni di esemplari. Si dice che sia l’opera letteraria che ha avuto la più alta diffusione durante l’arco di vita del suo autore – e tutto grazie a una serie di fortunate coincidenze! E.H.

L’iniziativa

Il mondo elargisce grandi doni, sia in denaro che in onori, solo a chi possiede una qualità. E quella qualità è lo spirito d’iniziativa. In che cosa consiste l’iniziativa? È presto detto: nel fare la cosa giusta senza che nessuno ve lo dica. Ma dopo quelli che fanno la cosa giusta senza che gli venga detto, ci sono quelli che la fanno non appena gli viene ordinato. Vale a dire, portare il messaggio a García: chi riesce a riferire un messaggio si guadagna grandi riconoscimenti, ma il ritorno economico non è sempre adeguato. Seguono coloro che non fanno mai niente finché non gli viene ripetuto due volte; queste persone non ricevono né onori, né denaro. Ancora più in basso si trovano quelli che fanno la cosa giusta solo quando la necessità li prende a calci nel didietro, ottenendo indifferenza invece che onori, e una miseria come ricompensa. È gente che passa la maggior parte del tempo a scaldare la sedia, lagnandosi della propria sfortuna. Per finire, a un gradino ancora più in basso, abbiamo l’uomo che non fa la cosa giusta nemmeno quando qualcuno si presta a mostrargli come si fa e gli rimane accanto per assicurarsi che la porti a termine; costantemente disoccupato, riceve il disprezzo che merita, a meno che non si tratti di un figlio di papà, nel qual caso il Destino lo aspetta pazientemente dietro l’angolo per dargli un bello scapaccione. E tu, a quale categoria appartieni?

Un messaggio per García

In tutta questa faccenda di Cuba c’è un uomo che si staglia all’orizzonte della mia memoria come Marte al perielio. Quando scoppiò la guerra tra Spagna e Stati Uniti, divenne essenziale comunicare velocemente con il capo dei ribelli. García si trovava da qualche parte nella vastità montuosa di Cuba – nessuno sapeva dove. Non c’era lettera o telegramma che potesse raggiungerlo. Il presidente doveva assicurarsi la sua collaborazione, e rapidamente. Cosa fare? Qualcuno disse al presidente: «Se c’è qualcuno che può trovare García per lei, quello è un uomo di nome Rowan». Rowan fu mandato a chiamare e gli venne affidata una lettera da recapitare a García. Come «l’uomo di nome Rowan» prese la lettera, la sigillò dentro un astuccio in tela cerata, se la assicurò sul petto all’altezza del cuore, e quattro giorni dopo arrivò nottetempo con un’imbarcazione scoperta sulla costa cubana, scomparve nella giungla, attraversò a piedi una nazione ostile e dopo tre settimane sbucò dall’altra parte dell’isola e consegnò la lettera a García, sono faccende che non ho particolare desiderio di raccontare in maniera dettagliata. La cosa che mi preme dire è la seguente: McKinley diede a Rowan una lettera da consegnare a García; Rowan prese la lettera senza chiedere: «Dove posso trovarlo?». Santi numi! Ecco un uomo la cui effigie dovrebbe essere scolpita nel bronzo imperituro, la cui statua dovrebbe essere posta in ogni università del paese.

I giovani uomini non hanno bisogno di imparare dai libri, né di essere istruiti su questo e quello, ma di una raddrizzata alle vertebre che li renda fedeli a una causa, pronti all’azione e capaci di concentrare le proprie energie: di fare ciò che devono – «Portare un messaggio a García!». Il generale García ormai è morto, ma vi sono altri García. A tutti coloro che abbiano tentato di compiere un’impresa che richiedesse un lavoro di squadra è capitato di restare sconcertati dall’imbecillità dell’uomo medio – dall’incapacità o dalla riluttanza a concentrarsi su una cosa e portarla a termine. Negligenza, sciocche disattenzioni, piatta indifferenza e svogliatezza nel lavoro sembrano essere la regola; e nessuno riesce nel suo intento a meno che non usi ricatti o minacce, oppure costringa o corrompa altri uomini per farsi aiutare; o magari a meno che Dio nella sua bontà voglia compiere un miracolo e mandargli un Angelo della Luce come assistente. Tu stesso, lettore, metti alla prova la mia teoria: fa’ conto di essere seduto nel tuo ufficio e di avere a disposizione sei impiegati. Convocane uno qualsiasi e fagli questa richiesta: «Per favore, fai una ricerca nell’enciclopedia e scrivimi una breve relazione sulla vita del Correggio». Dirà forse l’impiegato: «Sissignore», e andrà a svolgere il suo compito? Nemmeno per sogno. Ti guarderà con gli occhi da pesce lesso e ti porrà una o più delle seguenti domande: «Chi era costui?» «Quale enciclopedia?» «Dov’è l’enciclopedia?» «Fa parte dei miei compiti?» «Voleva forse dire Bismarck?» «Perché non può farlo Charlie?» «È morto?» «Le serve subito?» «Non è meglio se le porto il volume, così può cercarlo lei stesso?» «Come mai lo vuole sapere?»

E scommetto dieci a uno che dopo che avrai risposto alle domande, e gli avrai spiegato come trovare l’informazione e perché ne hai bisogno, l’impiegato si andrà a cercare un altro impiegato che lo aiuti a trovare il suo García – e poi tornerà e ti dirà che non esiste nessuno con questo nome. Naturalmente potrei perdere la scommessa, ma la legge dei grandi numeri è dalla mia parte. Ora, se sei saggio non ti disturberai a spiegare al tuo “assistente” che Correggio si trova alla lettera C e non alla K, ma sorriderai amabilmente e dirai: «Non importa», dopo di che andrai a cercartelo da solo. Questa incapacità di agire in modo indipendente, questa stupidità morale, questo morbo della volontà, questa riluttanza ad accettare di buon grado le incombenze e a prendersene carico, sono le cose che rimandano la realizzazione del socialismo a un futuro lontano. Se gli uomini non agiscono neanche per loro stessi, cosa faranno quando dovranno impegnarsi per il bene di tutti? Sembra sia sempre necessario un primo ufficiale armato di bastone nodoso; ed è solo il terrore di essere “silurati” alla fine della settimana che tiene al loro posto molti lavoratori. Metti un annuncio per uno stenografo, e nove candidati su dieci non conosceranno né l’ortografia né la punteggiatura – né lo riterranno necessario. Può forse una persona del genere scrivere una lettera per García? «Vedi quel contabile laggiù?» mi chiese il caposquadra di una grande fabbrica. «Sì, perché?» «Sai, è un bravo ragioniere, ma se lo mando in città per una commissione potrebbe eseguirla come si deve, oppure, al contrario, potrebbe fermarsi in quattro diversi pub lungo la via e una volta arrivato sulla strada principale aver dimenticato quel che doveva fare.» Si può forse affidare a un uomo del genere un messaggio per García? Ultimamente si sente molto parlare con stucchevole compassione di «cittadini oppressi dalle fabbriche sfruttatrici» e di «vagabondi senzatetto in cerca di un impiego onesto», discorsi spesso accompagnati da molte dure parole per gli uomini di potere.

Non si fa mai accenno all’imprenditore che invecchia prima del tempo nel vano tentativo di riuscire a far lavorare in modo intelligente dei disorganizzati buoni a nulla; né ai suoi lunghi e pazienti sforzi per istruire degli “aiutanti” che appena si volta dall’altra parte riprendono a poltrire. In ogni negozio e in ogni fabbrica è in atto un costante processo di sfrondamento. Il datore di lavoro licenzia continuamente impiegati che hanno dimostrato la loro incapacità nel promuovere gli interessi dell’azienda, e continuamente ne assume di nuovi. La selezione non si ferma neanche nei periodi di prosperità, tuttavia in tempo di crisi e di scarse possibilità di lavoro la cernita è più accurata – ma una cosa è sempre certa: gli incompetenti e gli immeritevoli vengono eliminati. È la sopravvivenza del più bravo. Gli interessi personali spingono ogni imprenditore a tenere i migliori – coloro che sono in grado di portare un messaggio a García. Conosco un uomo brillante e talentuoso che non ha la capacità di gestire un’impresa sua, ma nemmeno è adatto a lavorare al servizio di qualcun altro perché ha sempre l’insensato sospetto che il suo capo lo stia vessando o intenda farlo. Non è capace di dare ordini e non vuole riceverne. Se qualcuno gli affidasse un messaggio per García, la sua risposta probabilmente sarebbe: «Portaglielo tu». Stasera quest’uomo percorre le strade in cerca di lavoro mentre il vento, fischiando, si infila nei buchi del suo cappotto. Nessun conoscente si arrischia ad assumerlo, perché è uno che fomenta costantemente il malcontento. È refrattario alla ragione, e l’unica cosa che riesce a smuoverlo è la punta di uno scarpone numero quarantadue. Naturalmente so che una persona dalla morale così disastrata non va compatita meno di una fisicamente menomata; ma nella nostra commiserazione dedichiamo una lacrima anche agli uomini che stanno lottando per portare a termine una grande impresa, le cui ore di lavoro non terminano al fischio della sirena, e i cui capelli imbiancano velocemente per lo sforzo di avere la meglio sugli sciatti, gli indifferenti, gli imbecilli e gli ingrati senza cuore che, se non fosse per quell’impresa, si ritroverebbero senza cibo e senza casa.

Sono stato troppo impetuoso nella mia esposizione? Forse sì, ma mentre il mondo va in rovina mi piacerebbe spendere una parola di solidarietà per l’uomo che ha successo – l’uomo che contro ogni previsione ha diretto gli sforzi di altri, ed essendo riuscito nel suo intento scopre che non lo aspetta nessun premio: niente, se non un pasto frugale e dei vestiti. Sono stato un dipendente fisso e un lavoratore a giornata, ma anche un datore di lavoro, e so che tutte le parti in causa hanno le loro ragioni. Non c’è nessuna eccellenza, in sé, nella povertà; gli stracci non costituiscono una referenza, e non tutti i datori di lavoro sono avidi e dispotici, come non tutti i poveri sono virtuosi. Con il cuore sono vicino all’uomo che svolge il suo lavoro sia quando il “capo” è in sede sia quando non lo è. E sono vicino all’uomo che, ricevendo una lettera per García, accetta in silenzio la missiva, senza fare nessuna domanda idiota e senza volerla segretamente gettare nel primo tombino a disposizione o farle fare qualsiasi altra fine che non sia consegnarla a chi di dovere, un uomo che non viene mai “scaricato”, né ha bisogno di scioperare per un aumento di salario. La civiltà non è altro che una lunga, ansiosa ricerca di individui di questo genere. Se un uomo simile fa una richiesta, qualsiasi essa sia, deve essere accontentato; la sua specie è così rara che nessun capo può permettersi di farselo scappare. Uno così è richiesto in ogni città, paese e villaggio – in ogni ufficio, bottega, negozio e fabbrica. Il mondo lo chiama a gran voce: di lui ha un disperato bisogno – di qualcuno cui si possa affidare il messaggio per García.

NOTA STORICA

Alla fine del XIX secolo l’isola di Cuba poteva ancora essere annoverata fra i possedimenti spagnoli, di cui faceva parte ormai da quattrocento anni. La vicinanza agli Stati Uniti l’aveva tuttavia resa, nel corso del tempo, ideale campo di investimenti e possibile terreno di rivendicazioni politiche da parte del grande vicino anglofono. Non mancavano nemmeno i movimenti indipendentisti: la guerriglia antispagnola, guidata dal generale cubano Calixto García, aveva dato vita a numerosi scontri per le strade dell’Avana. Il porto cittadino era presidiato, in via apparentemente pacifica, da una corazzata americana, il Maine, che con la sua sola presenza rendeva manifesto l’interessamento americano per l’isola. La situazione precipitò dopo la sera del 15 febbraio 1898, quando la corazzata misteriosamente esplose costando la vita a 266 marinai americani. I sospetti si addensarono subito sulla Spagna, portando rapidamente gli Stati Uniti a dichiarare guerra al grido di «Remember the Maine! To Hell with Spain!». Il 25 aprile dello stesso anno le due nazioni diedero dichiaratamente inizio al conflitto. Per il successo della campagna americana era fondamentale stringere alleanza con i ribelli indipendentisti. Il quadro era complicato dalla difficoltà delle comunicazioni: Calixto García era braccato dagli spagnoli e sempre in movimento. Bisognava agire con rapidità e discrezione. Il presidente americano William McKinley preparò quindi un messaggio per García, ma a chi affidare il compito di consegnarlo?

Su consiglio del colonnello Arthur Wagner la scelta ricadde su Andrew Summers Rowan, ufficiale americano che aveva già militato in America Latina, collaborando con l’intelligence. Era talmente esperto dell’isola cubana da averci scritto sopra un libro, nel 1896. Venne convocato e gli fu illustrata la missione, nonostante i dettagli fossero ridotti al minimo: García si nascondeva da qualche parte nella zona orientale di Cuba ed era necessario e urgente recapitargli un messaggio. Non si seppe niente di lui fino al suo ritorno: salpato sotto copertura, aveva raggiunto Cuba attraverso la Giamaica. Aveva incontrato García sulle montagne orientali, consegnato il messaggio e ottenuto una risposta: il generale cubano era disposto a cooperare con gli americani. La guerra sarebbe finita poco dopo, nell’agosto 1898, con una netta vittoria americana. Dopo la fine della guerra Andrew Summers Rowan avrebbe continuato a prestare servizio, prima nelle Filippine e poi negli Stati Uniti. Solo nel 1922 avrebbe ricevuto la Distinguished Service Cross per il coraggio e l’intraprendenza dimostrati nella missione cubana del maggio 1898.

Giuseppe Scaraffia

RITRATTO DI ELBERT HUBBARD

Almanacco dell’ultimo anno del secolo

La notte del 31 dicembre 1898 a Parigi, la capitale del XIX secolo, una febbrile frenesia faceva dimenticare gli attentati degli anarchici e la controversa grazia al capitano Dreyfus. Alla luce della Tour Eiffel, le carrozze scorrevano tra gli scavi della metropolitana che sarebbe stata inaugurata solo nel 1900. All’Eliseo il nuovo presidente Loubet riceveva gli auguri dei diplomatici, sfavillanti di decorazioni. Nessuno pensava più alla morte scandalosa del vecchio presidente, Félix Faure, avvenuta pochi mesi prima durante un convegno con l’amante: il suo cadavere era stato rinvenuto con le mani inestricabilmente avvinte ai capelli della donna nuda. Alla vigilia della fine dell’Ottocento, i giornali annunciavano che il passato non esisteva più: c’erano solo «il Tempo e l’Umanità». Poi ammonivano: «Il XX secolo metterà in pratica le scoperte del XIX e sarà terribile». Su una cosa erano d’accordo: l’elettricità sarebbe stata la regina della nuova epoca. Oltre l’entrata fastosamente illuminata delle Folies Bergère, il palcoscenico era velato dal fumo dei sigari. Domatori, atleti e prestigiatori s’alternavano alle cantanti più celebri. Al culmine dello spettacolo Lili de Lydia finì il suo striptease sul trapezio destando scandalo in mutandoni e sottoveste, con l’ombrellino in pugno.

Alla Scala Yvette Guilbert, le mani velate da lunghi guanti neri, cantava con voce roca i versi di Verlaine. Nel ristorante più famoso di Parigi, Chez Maxim’s, l’arredamento era stato appena rinnovato: ninfe seminude danzavano sui soffitti tra le sinuose boiserie liberty. I clienti in frac fissavano attraverso il monocolo le più note bellezze della capitale. La bella Otero era coperta di gioielli. Più raffinata, Lyane de Pougy aveva solo tre fili di perle al collo sottile. Poco prima di mezzanotte venne servita su un immenso piatto una fanciulla nuda, destinata a divorare in poco tempo i beni di molti dei presenti. Poi i granduchi russi seminarono mance regali e danzarono sui tavolini, mentre il caviale veniva servito in zuppiere da minestra. Nel lussuoso Hotel Ritz, alcuni becchini, tra le proteste generali, trascinarono all’interno una bara. «Volete rivedere per l’ultima volta il vostro amico?» chiesero. E subito scoperchiarono il feretro, rivelando una distesa di bottiglie di champagne. Era iniziato l’ultimo anno del secolo. *** Nel 1899 La carrozza di tutti, ritratto di Torino vista dal tram, fu un successo inatteso per Edmondo de Amicis: «Fin dal primo giorno conobbi su quella linea un cocchiere tipico; e do a questa parola il suo vero significato, perché era un di quelli che in ogni famiglia d’impiegati o d’operai par che condensino in sé tutti i malumori, tutte le stizze, tutti gli spiriti ribelli della famiglia. Era un traccagnotto col capo nelle spalle, con un viso color di terra cotta, che pareva enfiato, con gli occhi di bragia, la barba di setole, una voce di tuono. Gli muggiva in corpo una tempesta perpetua». Moriva a sessantadue anni la contessa di Castiglione. Da anni nessuno apriva più le persiane del suo fastoso appartamento. Pesanti porte blindate e complicate serrature proteggevano la disillusione della donna, precocemente invecchiata. Gli specchi erano stati banditi. Tutto era nero, dai tappeti alle fodere dei mobili. A tratti il passato riaffiorava in accessi di rabbia contro l’ingratitudine dei potenti cui aveva ceduto. «Io», ripeteva irritata, «ho fatto l’Italia!»

“Davide contro Golia”: così i giornali di New York avevano ribattezzato lo sciopero degli strilloni, i ragazzini, figli di poveri immigrati, che smerciavano per strada le copie dei quotidiani acquistate in precedenza a metà prezzo. Alla fine i proprietari delle grandi testate avevano mantenuto l’aumento da 50 a 60 centesimi, ma avevano acconsentito a ricomprare le copie rimaste invendute. Monet si era spostato nella capitale inglese per dipingere la nebbia. «Quel che mi piace a Londra è soprattutto la nebbia… È la nebbia che le conferisce la sua magnifica vastità. Quegli isolati regolari e massicci diventano grandiosi sotto quella cappa misteriosa.» Il trentenne Giovanni Agnelli fondava quella che sarebbe diventata la Fiat: una modesta officina con circa cinquanta operai. Risultato del primo anno di lavoro: più di cento automobili. La Gioconda, tragedia di Gabriele D’Annunzio, interpretata da Eleonora Duse ed Ermete Zacconi, riportava uno straordinario successo a Milano e a Roma. L’anarchico Errico Malatesta evadeva dall’isola di Lampedusa dove avrebbe dovuto scontare una condanna di cinque anni per la sua partecipazione ai moti per il pane del 1898. La nave Stella Polare salpava da Kristiania per trasportare al Polo Nord la spedizione di Amedeo d’Aosta, duca degli Abruzzi. In ottobre scoppiava la seconda guerra anglo-boera. I britannici, temendo le conseguenze dell’avvicinamento tra l’impero germanico e la repubblica boera, reagirono a un attacco dei boeri, dando vita a un lungo e cruento conflitto. Durante una passeggiata con un giovane amico, Eugene, James Joyce aveva incontrato un mendicante che gli aveva chiesto: «Non avrebbe qualche monetina da darmi?». Joyce aveva ribattuto: «Ma perché vuole qualche monetina?». «A dire il vero, muoio dalla voglia di farmi un goccetto.» Joyce, allora, gli aveva donato l’ultimo penny che gli era rimasto, e rivolto all’amico aveva commentato: «Se mi avesse detto che era per una tazza di tè, l’avrei picchiato!».

In novembre un sempre più affermato Guglielmo Marconi si imbarcava sulla rapidissima St. Paul, transatlantico dell’American Line. Mentre installava un impianto ricetrasmittente ebbe un colpo di fulmine per un’affascinante ragazza bruna, Josephine. Al Congresso internazionale femminile di Londra, Sibilla Aleramo aveva presentato la sua inchiesta sulle donne. Alle sue domande – le donne dovevano godere di diritti uguali a quelli degli uomini? O di diritti diversi ma equivalenti? Oppure di diritti inferiori? – avevano risposto circa duecento intervistati. Solo il 40%, in massima parte donne, avevano optato per la parità dei sessi. Winston Churchill era stato categorico sull’Islam: «Il fatto che nel diritto maomettano ogni donna debba essere considerata proprietà assoluta dell’uomo ritarderà l’estinzione della schiavitù almeno fino a quando la fede islamica avrà smesso di essere una grande potenza. Non esiste una forza più retrograda di quella islamica». La repubblica filippina aveva dichiarato guerra agli Stati Uniti, che erano subentrati al dominio spagnolo della nazione. Il confronto, estremamente sanguinoso, si era interrotto solo parzialmente in luglio grazie a un compromesso che attenuava il dominio americano. Infatti la lotta dei filippini si trasformò in una guerriglia destinata a durare ancora molti anni. Per celebrare la guerra dell’America Rudyard Kipling pubblicò Il fardello dell’uomo bianco. Gli Stati Uniti e le Filippine: «Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco E ricevi la sua antica ricompensa: / Il biasimo di coloro che fai progredire, L’odio di coloro su cui vigili – / Il pianto delle moltitudini che indirizzi / (Ah, lentamente!) verso la luce: / «Perché ci ha strappato alla schiavitù, La nostra dolce notte egiziana?». Intanto Mark Twain, membro attivo della Lega anti-imperialista americana, tuonava: «Abbiamo spinto i nostri bravi ragazzi a imbracciare un moschetto screditato e fare un lavoro da banditi sotto una bandiera che i banditi erano abituati a temere, non a seguire; abbiamo traviato l’onore dell’America». Tra l’altro, in un clima di diffuso antisemitismo, Twain si era schierato anche dalla parte del popolo ebraico: «La sua fama sul pianeta supera quella

degli altri popoli, e la sua importanza nel commercio è sorprendentemente smisurata rispetto alla scarsità del suo numero. Il suo contributo alla lista dei grandi nomi del mondo, in letteratura, scienze, arte, musica, finanza, medicina e altre forme di istruzione ottuse è di gran lunga sproporzionato rispetto alla scarsità del suo numero». Tra le altre cose, in questo 1899 denso di eventi e di presagi, uscì anche un breve saggio di Elbert Hubbard, Un messaggio per García, destinato a vendere quaranta milioni di copie.

Tra Bartleby e Stachanov

Nel 1899 in realtà era uscito anche un altro, più consistente volume a firma Elbert Hubbard: Little Journeys to the Homes of English Authors. Stampato con una raffinatezza alla William Morris, conteneva tra gli altri proprio il resoconto di un incontro tra Hubbard e il celebre profeta dell’Arts and Crafts. In questa intervista Morris accusava apertamente l’industria di creare prodotti ingannevoli, «simulacri illusori del lusso dei ricchi». «La società», incalzava, «comprende una massa enorme di schiavi che devono essere nutriti, vestiti, alloggiati e divertiti com’è consono alla loro condizione, e a causa dei loro bisogni quotidiani sono costretti a produrre le derrate servili, il cui uso garantisce la perpetuazione del loro asservimento.» Non era certo il primo a denunciare le contraddizioni della civiltà industriale. Nel 1853 era apparso, anonimo, un racconto di Herman Melville: pubblicato in due puntate sulla rivista “Putnam’s Magazine”, Bartleby lo scrivano era destinato a una fama duratura. Il protagonista, Bartleby, una persona «pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida», lavora con zelo, ma respinge certi lavori con un’espressione ormai diventata celebre: «Preferirei di no». Un rifiuto che a poco a poco lo spingerà ad abbandonare ogni lavoro e in seguito lo porterà in carcere e alla morte. Mettendo da parte le interpretazioni allegoriche degli studiosi, è difficile non inserire il comportamento di Bartleby, non a caso apprezzato da filosofi vicini all’autonomia operaia, nel rifiuto del lavoro che, come risposta all’industrializzazione e allo sfruttamento delle masse, comincia ad affacciarsi nel XIX secolo. Non bisogna dimenticare che, in una versione più

violenta, il luddismo predicava il sabotaggio delle macchine, colpevoli di avere distrutto una quantità di posti di lavoro. Il rifiuto o comunque l’astio verso il lavoro si poneva in una prospettiva radicalmente diversa da quella della borghesia che, ancora prima della rivoluzione del 1789, aveva sempre contrapposto alla dissipatezza dell’aristocrazia la propria sobria laboriosità. Nel 1860, Giuseppe Mazzini aveva invano tentato con la Dichiarazione dei doveri dell’uomo di contrastare l’appannamento dei doveri sotto la pressione inarrestabile dei diritti. «Colla teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli; ma non fondare forte e durevole l’armonia di tutti gli elementi che compongono la Nazione. Colla teoria della felicità, del benessere dato per oggetto primo alla vita, noi formeremo uomini egoisti, adoratori della materia, che porteranno le vecchie passioni nell’ordine nuovo e lo corromperanno pochi mesi dopo. Si tratta dunque di trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti. E questo principio è il DOVERE. Bisogna convincere gli uomini ch’essi, figli tutti d’un solo Dio, hanno ad essere qui in terra esecutori d’una sola Legge – che ognuno d’essi, deve vivere, non per sé, ma per gli altri – che lo scopo della loro vita non è quello di essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli altri migliori – che il combattere l’ingiustizia e l’errore a beneficio dei loro fratelli, e dovunque si trova, è non solamente diritto, ma dovere: dovere da non negligersi senza colpa – dovere di tutta la vita.» La presa di coscienza dello sfruttamento, al suo culmine nell’Ottocento – «Il capitale è lavoro rubato», sosteneva il rivoluzionario Auguste Blanqui – coincide con lo sviluppo di un atteggiamento che, mentre proclama il diritto al lavoro, spinge più o meno esplicitamente a lavorare di meno e svogliatamente. Una tendenza che d’altra parte il comunismo reale combatté sempre duramente nei confini dell’Unione Sovietica. L’apice di questa politica venne raggiunto nel 1935 quando l’esempio di un minatore russo, Aleksej Grigor’evič Stachanov, protagonista di un record nell’estrazione del carbone, venne usato dalla propaganda staliniana per

aumentare la produttività. Lo stachanovismo sarebbe però sempre stato visto con sospetto o con scetticismo dai sindacati occidentali del Novecento, fedeli alla denuncia del lavoro come alienazione. Solo la lunga crisi di questi anni recenti ha fatto svaporare questa rappresentazione del lavoro come alienazione, dando più spazio alla lotta per il diritto al lavoro, ma, ancora una volta, senza almeno l’intenzione di elaborare una teoria dei doveri del lavoratore. Teoria che implicherebbe implicitamente un discorso sull’identità individuale non più confinata nel tempo libero, ma dilatata fino a coincidere con il lavoro e con l’orgoglio del lavoro ben fatto. In un certo senso infatti il prezzo pagato per la sostanziale vittoria del movimento dei lavoratori nel secolo breve è stata la rinuncia dell’identificazione con il lavoro svolto. Una carenza che si sente ancora di più in questo periodo in cui il calo dei consumi e l’aumento dell’incertezza diminuiscono l’investimento nel lavoro invece di accentuarlo. Per questo vuoto rimasto incolmato nella vita dei lavoratori l’apologo di Hubbard è ancora più importante. In tempi non sospetti propose infatti una terza via tra lo scettico e sospettoso Bartleby e il devoto e stolido Stachanov: l’oscuro Rowan, colui che senza fare domande parte per portare un messaggio a García, facendosi incarnazione di un’etica del lavoro cooperativa e pragmatica. Sarebbe di grande ispirazione anche oggi, e d’altra parte è scoraggiante constatare la mancanza di laboriosità in un periodo tradizionalmente considerato austero e impegnato. Probabile che l’autore si rivedesse nel protagonista del suo pamphlet: autodidatta, libero pensatore e femminista, Elbert si era rivelato fin dall’inizio un grande lavoratore, una qualità che mitigava il suo egocentrismo e la sua turbolenza. Un binomio di cui resta traccia anche nelle massime per cui sarebbe diventato famoso. «Svolgi il tuo lavoro con tutto il cuore e avrai successo – c’è così poca concorrenza.» La sua fiducia nello spirito di iniziativa era sconfinata quanto il suo orgoglio, ma non ne minava la lucidità. «Il genio è solo il potere di compiere continui sforzi. La linea tra fallimento e successo è così sottile che raramente ci rendiamo conto di oltrepassarla, così sottile che spesso siamo su quella linea e non lo sappiamo.»

Malgrado il suo magnetismo e il grande seguito, Hubbard non era e non intendeva essere una sorta di santone, ma piuttosto un pensatore pieno di ironia sugli altri e su se stesso. «A ripensarci bene, anch’io non sono completamente d’accordo con me stesso. Non tutto quello che ho scritto ieri mi trova d’accordo oggi.» Non prometteva la salvezza a nessuno. «Il pessimismo è soltanto il nome che gli uomini deboli di nervi danno alla saggezza.» Eppure non si scoraggiava mai. «Lo sforzo costante e i frequenti errori sono le rampe di lancio del genio.» Sapeva infatti che il lavoro è un efficace strumento non solo per sopravvivere, ma anche per combattere l’angoscia e la disperazione. «La miglior preparazione per un buon lavoro domani è svolgere un buon lavoro oggi.» E di buon lavoro in buon lavoro, Elbert Hubbard aveva fondato quello che, nella fama raggiunta se non nelle reali dimensioni, poteva dirsi un piccolo impero.

Vita e amori di Elbert Green Hubbard, viaggiatore commerciante

La precoce indipendenza di Elbert Green Hubbard era emersa rapidamente. Unico maschio di quattro figli, il giovane Bert sopportava la rigida educazione battista della sua famiglia, ma dentro di sé rifiutava ostinatamente l’idea di “salvezza”. Quel fondamentalismo gli sembrava una «religione ufficiale destinata agli schiavi, ai quali offriva la consolazione che la terra non aveva concesso». Il padre, un eccentrico medico, aveva sperato che il figlio seguisse la sua strada. Ma Bert trovava la professione medica poco meno ridicola del sacerdozio. Il che non gli impediva di accompagnare il genitore a caccia e nelle visite ai pazienti di Bloomington, un piccolo centro dell’Illinois. Dotato di «una salute invidiabile, un’energia illimitata e un appetito gigantesco», l’adolescente si faceva notare per l’impegno con cui svolgeva qualsiasi lavoro. Tuttavia la natura era la cosa che l’attraeva di più, al punto di pensare di fare l’agricoltore. Cambiò progetti quando la sua famiglia ricevette la visita di un cugino, Justus Weller, sposato con Mary Larkin, rampolla dell’azienda Larkin Soap Company, nata nel 1875. Justus, di poco più anziano di Elbert, lo impressionò con il suo dinamismo, al punto che il sedicenne accettò con entusiasmo di lavorare con lui nel commercio del sapone. Pieno d’energia, raggiungeva su un carro tirato da un cavallo le zone rurali e i paesi più

sperduti, vendendo di persona la sua merce. Il successo fu tale da spingerlo ad abbandonare il carro per il treno, che gli consentiva di raggiungere mete più distanti. Non gli piaceva sentirsi chiamare venditore ambulante e preferiva definirsi “viaggiatore commerciale”. Vendere gli piaceva. «Il mio sorriso era contagioso», raccontava, «quando arrivavo in un posto, tutti sorridevano… distribuivo sorrisi lungo tutto il percorso… e vendevo sorrisi.» Alto un metro e ottanta, una statura notevole per l’epoca, aveva un portamento insieme virile e aggraziato. Attento alla moda, indossava pantaloni a zampa di elefante, cappelli eleganti, giacche sportive. Un aspetto gradevole e una personalità dinamica moltiplicavano le avventure con le donne che incontrava nei suoi itinerari. Tuttavia, il puritanesimo familiare aveva lasciato una profonda traccia in lui: Elbert non beveva, non fumava, non giocava a carte e non andava ai balli. Niente era più vivo dei tempi morti dei viaggi in cui Hubbard s’immergeva nella lettura passando dai classici a pensatori rivoluzionari come Darwin e Spencer. Aveva solo diciannove anni – «Dentro di me mi sentivo un uomo fatto» – quando si era trasferito a Buffalo per essere più vicino alla sede della Larkin Soap. Per aumentare le vendite, la società considerò la possibilità di ridurre il prezzo, e di conseguenza la qualità, dei suoi prodotti. Hubbard riuscì a ottenere lo stesso risultato inaugurando, invece, una serie di strategie commerciali, dalla vendita per corrispondenza fino all’offerta di sfondi già pronti per le vetrine dei commercianti. Inoltre, chi avesse accumulato i coupon dei saponi acquistati avrebbe avuto diritto a un ventaglio di doni, dai cucchiai d’argento – con cui aveva varato l’iniziativa – a vezzose lampade di porcellana al cherosene. Il successo della strategia convinse la Larkin Soap Company a fondare nel 1901 la Buffalo Pottery Company, che presto non si limitò alle porcellane destinate agli acquirenti del sapone, ma iniziò a produrre piatti per stazioni e alberghi. Nel 1911 le porcellane della ditta venivano esportate in ventisette nazioni. A quel giovanotto bello e cordiale, il naso pronunciato sotto la fronte alta, piaceva flirtare con le ragazze che, per il dispiacere della famiglia,

rispondevano spudoratamente al suo richiamo. Ma ben presto era rimasto colpito da una ragazza del Maryland, Bertha Crawford. Come le sue sorelle, Bertha non era solo attraente, ma possedeva anche una cultura insolita per l’epoca. Conosceva bene il greco, il latino, il francese e il tedesco. Doti che dovevano aver impressionato Elbert, che aveva abbandonato precocemente gli studi. Nel 1881, quando si erano sposati, con un’elegante cerimonia riportata sui giornali, lui aveva venticinque anni e lei venti. Tre anni dopo avevano traslocato in una grande casa a East Aurore. Ogni desiderio di Hubbard sembrava esaudito: poteva finalmente scrivere e coltivare nella tenuta la sua passione per i cavalli. Bertha gli aveva partorito due figli. Non sapeva che cosa gli mancasse di preciso finché, nel 1889, non era arrivata da New York, dove aveva fatto la maestra, Alice Moore. Era stata proprio Bertha Hubbard, sua coetanea, a offrirle di vivere in una stanza della loro casa. Una donna nubile infatti avrebbe rischiato la sua reputazione vivendo da sola. Nelle fotografie dell’epoca l’avvenenza del viso di Alice appare attenuata da un’aria sognante; nelle immagini più tarde, già al fianco di Elbert, l’espressione si è fatta sottomessa ma non riesce a nascondere del tutto una grande forza di volontà. In un primo tempo l’intesa tra Alice e Elbert si era limitata al piano intellettuale, nonostante lui non avesse in particolare simpatia il mondo scolastico. Per Hubbard la scuola rappresentava una tappa essenziale, ma non risolutiva nella formazione dei giovani: «L’oggetto dell’insegnamento ad un bambino è di metterlo in grado di continuare senza un insegnante». Hubbard, sempre incuriosito dal nuovo, era però attratto dall’ardente femminismo di quella giovane donna, che sapeva criticare le sue pagine senza ferirlo. Alice non era un’utopista: «Credo che la donna sia uguale all’uomo, se lo è. La donna non è migliore dell’uomo, a meno che non lo sia». Intanto nel 1892, a trentasei anni, Hubbard, incoraggiato proprio da Alice, aveva considerato chiusa la sua esperienza nel mondo commerciale. Vendere le sue azioni al cognato non era stato facile. A John Larkin dispiaceva perdere contemporaneamente un simile stratega e un tale somma in un momento

finanziariamente non facile. Ma Elbert era deciso a fare lo scrittore e a completare la sua istruzione. Non era stato facile. Aveva alle spalle un discreto successo come giornalista, ma anche un esperimento fallito, la pubblicazione, sotto uno pseudonimo femminile, Aspasia Hobbs, di un libro, L’uomo. Una storia di oggi, passato inosservato. Quell’eccentrico trentenne provinciale, aperto sostenitore del libero pensiero, non era però fatto per integrarsi nel clima altoborghese di Harvard. La sua sicurezza economica, al contrario di quella degli altri studenti, veniva dal lavoro e dalla vendita delle sue partecipazioni nella Larkin Soap Co. Gli erano bastati pochi mesi per capire che lì non avrebbe trovato quello che stava cercando. Il legame con Alice si era intanto segretamente approfondito, anche perché – «Spesso i grandi uomini sposano donne banali» – Elbert ormai si annoiava con la moglie Bertha. Alla fine Alice era rimasta incinta. Portare avanti una maternità fuori dal matrimonio era stata una scelta difficile e scandalosa che aveva però rafforzato il loro rapporto. Alice era una donna concreta: «C’è meno romanticismo nel matrimonio che in ogni altro rapporto. Ma l’idea comune sul matrimonio è che sia quasi come un romanzo». I coniugi Hubbard divorziarono solo nel 1903, una decina d’anni dopo l’inizio dell’amore tra Elbert e Alice. Ma a suggellare la loro unione non serviva un matrimonio – che pure si tenne, nel 1904. Erano una macchina perfetta: Alice aveva lo spirito organizzativo che mancava all’estroso compagno. Nessuna delle successive imprese commerciali, letterarie e visionarie di Hubbard sarebbero state possibili senza il suo pragmatico supporto. Il che non le impedì di continuare a dirigere la scuola, scrivere articoli e libri sui temi più diversi, impegnarsi nelle prime lotte del femminismo. Con il pieno consenso del suo novello marito, Alice era infatti scesa in campo con le suffragette nella battaglia per il diritto al voto delle donne. «Non posso impedirmi di credere che il miglioramento del destino di tutte le donne porterà a una vita più pacifica.»

Nel 1912, pochi anni prima di morire, curò l’edizione del volume antologico An American Bible. «Quello che vi offriamo», spiegava Alice nella sua introduzione, «è un libro scritto da americani per americani. Un libro senza miti, miracoli, misteri o metafisica, un libro di buon senso per chi preferisce il buon senso a un lascito divino. Il libro più benefico è quello che spinge gli uomini a pensare e ad agire da soli.» Ogni capitolo, scritto da pensatori come Benjamin Franklin, Abraham Lincoln, Thomas Jefferson, Walt Whitman, Thomas Paine, Ralph Waldo Emerson e, ovviamente, Elbert Green Hubbard, era stampato secondo la tradizione biblica su due colonne. L’edizione, molto raffinata, recava in frontespizio la celebre indicazione «Published by The Roycrofters, East Aurora, New York».

Roycroft, la creatura di un profeta

Nel 1894 Hubbard aveva intrapreso un viaggio in Europa. Ad affascinarlo, in modo particolare, era stata la visita alla Kelmscott Press, la tipografia creata da William Morris in Inghilterra. Elbert aveva sentito molta affinità con il pensiero del celebre artista e scrittore sulla necessità, nell’era delle macchine, di un ritorno al lavoro manuale. «Una macchina può fare il lavoro di cinquanta uomini ordinari, ma nessuna macchina può fare il lavoro di un uomo straordinario.» La qualità doveva prevalere sulla quantità, la singolarità non doveva perdersi nella massificazione. Benché centrale, quello non era l’unico punto di contatto tra i due. Infatti, come Hubbard e anche più di lui, Morris era poliedrico. Era poeta, narratore, pensatore, artista, politico, architetto, tipografo, arredatore e ogni sfaccettatura della sua personalità arricchiva e illuminava l’altra. La società creata da Morris insieme a illustri esponenti dell’arte preraffaellita aveva prodotto stoffe e tappezzerie per contrastare la diffusione dei brutti oggetti diffusi dall’industria. Diventato editore, aveva rivoluzionato l’estetica dei libri recuperando sentieri smarriti dopo il Medioevo. Le arti applicate avevano, a suo parere, una dignità pari alle arti vere e proprie. Seguendo il suo esempio erano nate centinaia di iniziative analoghe in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Tutte intendevano, secondo le parole di un nume tutelare dell’Arts and Crafts, John Ruskin, «lavorare con la testa, la

mano e il cuore e mescolare il gioco al lavoro abbastanza perché ogni compito sia piacevole e produca benessere e felicità». Elbert Hubbard nel 1895, a East Aurora, a quattrocento chilometri da New York, decise di fondare la sua personale comunità, Roycroft, destinata a diventare in breve tempo una delle più celebri. Sebbene non ci siano prove che Hubbard abbia davvero incontrato Morris nel 1894 – come racconterà in Little Journeys to the Homes of English Authors –, in ogni caso era imbevuto delle sue teorie e sedotto dai risultati che aveva raggiunto. La veridicità a quel punto, per un pensatore così ardente, passava in secondo piano rispetto all’utilità di farne il punto di partenza per una nuova iniziativa: «Un’idea che non sia pericolosa, non è degna di chiamarsi idea». Privo delle abilità artistiche di Morris, Hubbard sapeva però scegliere bene i suoi collaboratori, e ben presto aveva riunito intorno a sé un gruppo scelto di artigiani, rilegatori, illustratori, fonditori, incisori, conciatori, mobilieri. «È una bella cosa possedere delle capacità, ma la capacità di scoprire la capacità negli altri è il vero esame.» L’etimologia dietro “Roycroft”, secondo lui, evocava i fornitori del sovrano, e quindi era perfetto per designare l’élite degli artigiani del suo tempo. In quello che intendeva trasformare nel regno della qualità c’era posto per chiunque volesse mettersi alla prova. In pochi anni erano sorte scuole per i dipendenti, una biblioteca, una squadra di baseball, una banda musicale e persino una banca: gli interni degli edifici erano arredati con i mobili gradevoli, semplici e solidi prodotti dagli artigiani di Roycroft. Gli stipendi erano bassi, ma la sopravvivenza e la libertà creativa erano garantite. «Accuratezza e profondità caratterizzano tutte le persone di successo. Il genio è l’arte di prendersi infinita cura delle cose. Tutte le grandi conquiste sono state caratterizzate da un’estrema attenzione, un’infinita diligenza, anche verso il minimo dettaglio.» Tuttavia, a differenza del suo maestro Morris, Hubbard non riteneva che il socialismo fosse in grado di fornire la soluzione ai problemi dell’industrializzazione. Malgrado le sue riserve, riteneva che il capitalismo avrebbe offerto maggiori garanzie allo sviluppo del suo movimento e che la

produzione artigianale di oggetti realmente belli dovesse sfociare nel guadagno. Nel suo lavoro precedente Hubbard aveva verificato l’importanza della pubblicità: non intendeva ritirarsi in un angolo, per quanto idilliaco, del mondo. Il centro dell’attività era una sorta di cappella finemente decorata, che aveva costruito ispirandosi all’estetica medievale britannica. Lì venivano esposti i prodotti degli artigiani, si tenevano i concerti e il fondatore, seduto su un’imponente poltrona di cuoio, dispensava i suoi insegnamenti ai membri della comunità, i Roycrofters, e ai turisti che sempre più numerosi volevano visitare quel luogo che stava diventando leggendario. Gli editori avevano rifiutato i suoi libri? Elbert non aveva minimamente pensato di arrendersi, ma aveva fondato, sempre sulle orme di Morris, una casa editrice, la Roycroft Press – chiudendo in qualche modo un cerchio, visto che il nome “Roycroft” veniva proprio da due stampatori inglesi della fine del Seicento, Samuel e Thomas Roycroft. Il primo libro uscito dai suoi torchi, il sensuale Cantico dei cantici, era, come ogni iniziativa di Hubbard, una sfida alla grettezza del puritanesimo contemporaneo. Accanto ai magnifici volumi stampati a mano era nata, per ospitare la sua lussureggiante ispirazione, la rivista “The Philistine”. A Hubbard piaceva scherzare sulla copertina in carta da macellaio. L’aveva scelta, spiegava, perché «dentro c’è della carne». In quelle pagine satira e politica, etica e medicina, arte e religione si mescolavano arditamente. Irriverente e aggressivo verso le autorità costituite e le reputazioni consolidate, quel “periodico di protesta” era destinato a diffondersi. Lì sarebbe stato pubblicato per la prima volta Un messaggio per García. La straordinaria popolarità di quel breve saggio avrebbe fatto lievitare gli abbonamenti, arrivati nel 1911 a duecentomila copie. Poco prima del Natale 1895 si era tenuta a Roycroft una cena per celebrare il successo della rivista. Gli inviti spediti da Hubbard ai maggiori esponenti della cultura e del giornalismo erano stati circa duecento, ma solo una trentina di essi aveva aderito. Però Elbert aveva ragione di essere soddisfatto: si trattava infatti di personaggi di rilievo dell’editoria e della

cultura. L’ospite d’onore era stato scelto con la consueta audacia: si trattava di un autore allora ancora semisconosciuto, il giovane Stephen Crane. A “The Philistine” si era in seguito affiancata un’altra pubblicazione, “The Fra”, così chiamata in omaggio al soprannome medievaleggiante di Hubbard, Fra Albertus, esplicitamente dedicata a pubblicizzare i prodotti di Roycroft e le concezioni estetico-politiche del suo profeta. L’aumento della popolarità della casa editrice aveva infine spinto il fondatore verso l’uso delle tanto esecrate macchine, per fare fronte alle crescenti richieste. Il che non gli impediva di continuare a proclamare che il lavoro di Roycroft era il prodotto, secondo i dettami di Ruskin, di tre cose: la testa, il cuore e la mano. «Per sfuggire alle critiche bisogna non fare niente o non essere niente.» I suoi nemici sostenevano che i volumi di Roycroft erano solo scadenti imitazioni di quelli creati dalla Kelmscott Press di William Morris. In ogni caso, se la pelle era di bassa qualità e la carta troppo sottile, la marca tipografica dello stampatore veneziano del XV secolo Ottaviano Scoto nobilitava l’impresa. Riscuoteva un notevole successo anche una serie mensile in cui Hubbard faceva in venti pagine i ritratti di celebrità americane o europee: erano i famosi Journeys in cui sarebbe apparso anche l’incontro con Morris. Un critico dubbioso sulla veridicità di questi incontri li aveva soprannominati i “viaggi fantasma”, ma il pubblico li apprezzava. Con la consueta attenzione agli affari, Hubbard ne offriva versioni a prezzo ridotto alle grandi aziende. Le momentanee difficoltà economiche venivano di solito ripianate da Hubbard con i compensi ricevuti come giornalista del gruppo Hearst e, soprattutto, come conferenziere. Era molto richiesto, data la sua sempre crescente notorietà da guru. Il suo aspetto contribuiva all’alone profetico che lo circondava. Era una singolare combinazione di dandy e profeta, artista e lavoratore. Contrariamente alla moda portava i capelli lunghi come gli esteti dell’epoca. Aveva ripreso da Frank Lloyd Wright lo Stetson a tesa larga. Da Oscar Wilde, molto popolare dopo il suo viaggio negli States, l’ampia cravatta a fiocco e le maniere educate e insolenti insieme – ma sotto gli abiti comodi spuntavano grosse scarpe da lavoratore.

A partire dal 1895 aveva iniziato a convertire la sede della tipografia e la sua stessa dimora in alberghi per accogliere le schiere di visitatori e di celebrità che volevano esplorare quell’utopia realizzata in pieno contrasto con la crescente massificazione. Le cinquanta camere del Roycroft lnn, arredate con mobili della comunità, portavano il nome di numi tutelari, da Socrate a Ruskin. Persino Thomas Edison e Henry Ford erano andati in visita a Roycroft e a tutti Hubbard riservava le sue dinamiche conferenze. Intorno crescevano un nuovo quartiere goticheggiante e vari edifici per i laboratori della comunità. Fedele alla sua fiducia nella scienza, Elbert aveva installato nel 1910 una centrale elettrica, e, quasi una rivalsa nei confronti dell’università che l’aveva respinto, aveva creato una scuola. Chi desiderava frequentarla era tenuto a svolgere un lavoro di due ore al giorno per il bene pubblico nelle officine del posto. Purtroppo le leggi sul lavoro minorile l’avevano costretto a rinunciare a quell’esperimento che aveva attirato tanti giovani. Ma per quell’instancabile ottimista il risultato restava comunque apprezzabile: «Loro mi hanno aiutato ed io li ho aiutati e attraverso questo aiuto reciproco siamo andati avanti». Non tutti erano soddisfatti della vulcanica attività di Hubbard. Per esempio il suo socio Henry Taber pensava che Fra Albertus si fosse appropriato dei suoi progetti e dei suoi investimenti nella casa editrice. Ma il magnetismo del fondatore era talmente forte che la maggior parte dei membri della comunità continuava a seguirlo entusiasta. «La preghiera suprema del mio cuore non chiede di essere ricco, famoso, potente o santo ma semplicemente di irradiare. Il mio desiderio profondo è quello di irradiare salute, allegria, coraggio, calma e buona volontà. Vorrei vivere senza odio, capricci, gelosia, invidia, paura. Vorrei essere semplice, onesto, sincero, naturale, pulito nella mente quanto nel corpo, un uomo alla buona, pronto a dire “non so”, se è davvero così e a confrontarmi con tutti gli uomini in uno stato di assoluta uguaglianza. Voglio affrontare qualsiasi ostacolo e ogni difficoltà senza turbamenti e senza paura. Vorrei che ognuno vivesse la sua vita al massimo delle sue potenzialità umane e a tal fine prego affinché io non mi permetta mai più di immischiarmi, interferire, imporre o dare consigli che non siano voluti; allo stesso modo di non prestare aiuto quando i miei servizi

non siano strettamente necessari. Se posso aiutare le persone, lo farò dando loro la possibilità di aiutare se stesse.» L’influenza della prima moglie Bertha sulla nascita e la gestione di Roycroft era stata notevole, ma il divorzio aveva contribuito a emarginarla. Alice aveva iniziato ben presto a occuparsi di ogni difficoltà, salvaguardando la figura profetica di Hubbard che poteva così continuare a pubblicizzare nelle sue conferenze il mito di quello che lui definiva un “campus di artigiani”. La seconda signora Hubbard si occupava di fatto non solo della gestione delle due riviste e degli alberghi, ma anche di sovrintendere alla fattoria e a un’impresa che contava ben cinquecento operai. Sotto la supervisione di Alice i prodotti per l’arredamento delle case si erano ulteriormente diffusi, nonostante l’oscillante qualità degli oggetti. E anche quando le vendite non sembravano sufficienti, Roycroft restava pur sempre un’attrazione per migliaia di persone che accorrevano a visitare quel tempio della creatività. Solo la grande depressione avrebbe messo fine, nel 1938, all’esperimento di Hubbard. Roycroft era stata venduta all’asta, ma la sua leggenda non era destinata a spegnersi, anche grazie a un tipico Roycrofter, George Scheidemantel. Impressionato dalla lettura di “The Philistine”, George si era presentato, giovanissimo, in quello che stava diventando un luogo mitico del movimento Arts and Crafts. Cercava un lavoro per inserirsi nella comunità e aveva iniziato come stalliere. In seguito si era fatto notare per la sua abilità nella lavorazione del cuoio ed era stato messo a capo del Roycroft Cuir Shop. Nel 1905 aveva incontrato Gladys, la figlia di una cuoca di Roycroft. Quando si erano sposati, tre anni dopo, erano andati ad abitare in una casa costruita poco lontano dall’edificio principale della comunità. Ottant’anni dopo l’incontro tra i due, nel 1985, l’ormai centenaria Gladys ha voluto tramutare la sua dimora in un museo, l’Elbert Hubbard Roycroft Museum, che raccoglie i manufatti artistici e le testimonianze di quella società utopica.

Una fine gloriosa

Il 1° maggio 1917 il galateo aveva consentito agli uomini di sostituire i pesanti feltri invernali con le pagliette, che baluginavano tra la folla vestita di scuro e la colonna di taxi neri che si accalcavano nel porto di New York intorno all’RMS Lusitania – maestoso transatlantico britannico della linea Cunard in grado di ospitare duemiladuecento persone. Da una tribuna in legno, i curiosi aspettavano l’arrivo delle celebrità in partenza per l’Europa. Si andava da starlette del teatro al re dello champagne, noto per le sue feste fantasmagoriche e curiosamente somigliante all’austero Sigmund Freud. Non passava certo inosservato il ricchissimo Alfred Vanderbilt. Per un caso curioso il milionario, come altre personalità, da Guglielmo Marconi a Theodore Dreiser, era noto anche per avere disdetto all’ultimo momento il viaggio sul Titanic. Nel filmato girato sulla banchina del porto si vede Elbert Hubbard nel suo consueto abbigliamento, marcatamente diverso da quello dei borghesi americani, con l’ampio cappello chiaro e la cravatta da esteta fin-de-siècle. La vita a bordo del transatlantico era scandita, anche per gli uomini, da una serie di cambi d’abito quotidiani e ogni tipo di tenuta, dagli sportivi pantaloni alla zuava all’abito da sera, e comportava l’abbinamento di altrettante calzature, camicie e cravatte. I passeggeri di prima classe dovevano quindi viaggiare con un bagaglio notevole. Il libraio antiquario Charles Lauriat, con cui Hubbard avrebbe conversato spesso, poteva contare, per esempio, su una cartella, una valigia, un baule armadio e un secondo baule per le scarpe, cui si aggiungeva un terzo, non meglio specificato, “baule da nave”.

I cronisti navali avevano l’abitudine di intervistare le celebrità in arrivo o in partenza dal porto di New York, e una nave di lusso come il Lusitania era, inevitabilmente, al centro dell’attenzione. La Cunard apprezzava molto quel genere di pubblicità: i giornalisti si riunivano nella cabina del commissario di bordo che, dopo un brindisi con il Cunard Line Scotch, presentava loro la lista dei passeggeri. Quel 1° maggio aleggiava un fantasma inquietante: gli Stati Uniti erano rimasti neutrali di fronte allo scoppio della prima guerra mondiale, ma l’ambasciata tedesca a Washington aveva fatto pubblicare dai giornali un minaccioso avviso: «Le navi battenti bandiera britannica o di uno qualsiasi dei paesi suoi alleati sono passibili di affondamento». Perciò, veniva puntualizzato, chi viaggiava su quelle navi lo faceva «a proprio rischio e pericolo». In molti dubitavano che gli U-Boot avrebbero osato attaccare un monumento come il Lusitania, ma i sommergibili tedeschi incutevano timore a tutti. Il capitano William Thomas Turner, uno dei migliori della Cunard Line, ci tenne a rassicurare personalmente i passeggeri. La velocità stessa del gigantesco transatlantico, aveva spiegato, lo metteva al riparo da ogni attacco. «Il Lusitania attualmente è la nave più sicura in navigazione. È troppo rapida per qualunque sommergibile.» Un giornalista si avvicinò a Hubbard, sapendo che era diretto in Germania per intervistare l’imperatore Guglielmo. Solo l’intervento diretto del presidente Woodrow Wilson aveva consentito a Elbert di partire: la condanna per un reato postale gli aveva fatto perdere il passaporto. «Ero in buoni rapporti con il Kaiser, ma non so quale sia la situazione al momento, perché come è noto ho scritto delle cose che potrebbero essergli dispiaciute... Se dovessi uscirne sano e salvo e l’impero tedesco non dovesse vedermi a Berlino, pazienterò un poco e a un certo punto ci incontreremo a Sant’Elena.» Era sempre lui, con quel misto di slancio, ironia e pessimismo che costituiva la sua forza. Nella fotografia scattata il giorno dell’imbarco Hubbard appare indomito, ma segnato da una lieve malinconia, da un’indecifrabile stanchezza. Il creatore di Roycroft era ormai uno degli oratori più ricercati degli Stati Uniti. Negli anni la sua posizione si era evoluta, affiancando all’utopismo di

William Morris l’elogio dello spirito d’iniziativa americano. Quando un intervistatore gli mostrò il comunicato dell’ambasciata tedesca, Hubbard stava mangiando in compagnia della moglie Alice. Non fece commenti e continuò ad addentare la sua mela rossa. Poi ne prese un’altra dalla tasca dell’abito e l’offrì allo sconosciuto. «Ecco, prenda una mela e non stia a preoccuparsi di quei maniaci di Potsdam. Sono completamente pazzi.» Ma, insisté il giornalista, che cosa avrebbe fatto, invece, se ci fosse stato un attacco? «Cosa farò? Be’, resterò sulla nave. Sono troppo vecchio per correre dietro alle scialuppe e non sono mai stato un buon nuotatore. No, noi resteremo a bordo.» Poi, rivolto alla moglie: «Non è vero, mamma?». Alice non disse nulla, ma l’intervistatore ebbe l’impressione che fosse turbata. Anche se i passeggeri più ansiosi dormivano vestiti per essere pronti a qualsiasi evenienza, sotto il soffitto affrescato dell’immenso salone ristorante, in grado di ospitare duecentosettanta ospiti, l’atmosfera era prevalentemente tranquilla. A tavola, scherzare sui sommergibili del Kaiser era diventato una specie di gioco di società. Quando, nel 1912, il mitico e poderoso Titanic era affondato urtando contro un iceberg, facendo annegare millecinquecento passeggeri, Hubbard si era interrogato in un saggio sulla vicenda di Ida e Isidor Straus, proprietari dei grandi magazzini Macy’s. Le norme davano la precedenza sulle scialuppe di salvataggio alle donne e ai bambini, ma Ida aveva rifiutato di lasciare il marito, affermando: «Non voglio separarmi da mio marito. Abbiamo vissuto insieme e moriremo insieme». Straus a sua volta aveva rifiutato per cavalleria l’offerta del capitano di imbarcarsi, vista la sua età avanzata, con le donne. Aveva fatto imbarcare al suo posto la cameriera – «Pensa a salvarti!» – e le aveva regalato la pelliccia della consorte. I superstiti avevano raccontato di aver visto, allontanandosi, la coppia allungata tranquillamente sulle sedie a sdraio sul ponte del Titanic. Quella scena aveva impressionato il pensatore. «Dal mio personalissimo punto di vista, se anche affondassero la nave non mi importerebbe. Per me potrebbe essere una buona cosa. Affonderei con lei, che è più o meno l’unica via per riuscire nel mio ambizioso obiettivo di

entrare nella leggenda. Sarei un eroe con tutti i crismi e avrei raggiunto il massimo.» Man mano che il Lusitania si avvicinava alle acque della Gran Bretagna, malgrado si contasse sulla protezione offerta dalla flotta inglese, il nervosismo aumentava e i sommergibili riaffioravano ossessivamente nelle conversazioni. Da parte sua, Hubbard non riusciva nemmeno a concepire che un sottomarino potesse attaccare una nave senza armi piena di donne e di bambini. Solo i più esperti avevano notato che il transatlantico era stato concepito in modo da poter caricare armi e munizioni, e che un’attenta ronda presidiava certe zone del bastimento. Il 7 maggio 1915 Elbert e Alice chiaccheravano con Charles Lauriat, al quale Hubbard aveva prestato Chi ha sollevato il coperchio dell’inferno?, il suo rovente pamphlet contro l’imperatore tedesco e le atrocità commesse dal suo esercito. Il pensatore, meditabondo, aveva chiesto al giornalista: «Lei pensa davvero che sarei il benvenuto in Germania?». In quel momento si era sentito un rumore sordo e l’immensa nave era stata scossa da un tremito. I tre si erano voltati, cercando di capirne la causa, ma avevano visto solo un fumo denso a tribordo. Poi c’era stata un’altra, più violenta esplosione. Lauriat, preoccupato, aveva suggerito alla coppia di andare in cabina a prendere i giubbotti di salvataggio. Ma Alice non sapeva nuotare e sembrava completamente frastornata. Hubbard appariva lucido come sempre, ma era rimasto immobile, limitandosi a mettere affettuosamente un braccio intorno alla vita della moglie. «Restate qui se preferite», disse Lauriat, «andrò a cercare dei giubbotti di salvataggio per voi.» La ressa di persone che cercavano di rintracciare a bordo amici e parenti – e un giubbotto di salvataggio – era incredibile. Quando finalmente Lauriat era riuscito a tornare non c’era più traccia della coppia. Preoccupato, il giornalista li aveva cercati a lungo nella calca, ma sembravano scomparsi. Un passeggero che li conosceva, Archie Donald, li aveva visti rifiutare l’offerta di salire su una scialuppa. Un altro, Ernest Cowper, raccontò in una lettera scritta al figlio di Hubbard di aver sentito il padre commentare: «Dunque ce l’hanno fatta. Sono maledettamente peggio di quello che pensavo che fossero». Quando gli aveva chiesto cosa intendesse fare, Elbert aveva

scosso il capo in silenzio, mentre Alice aveva risposto sorridendo: «Non mi sembra che ci sia niente da fare». Poi si erano diretti verso la loro cabina e avevano chiuso la porta. A Cowper era tornata in mente una frase del pensatore: «Adesso siamo qui, un giorno ce ne andremo. E quando ce ne andremo preferiremmo andarcene con stile». Diciotto minuti dopo l’attacco la nave era affondata completamente, facendo 1198 vittime. Il comandante dell’U-Boot, Walther Schwieger, sostenne di non avere subito riconosciuto il Lusitania, ma era difficile crederci perché quella gigantesca sagoma con i suoi quattro immani fumaioli era tanto celebre quanto inconfondibile. «Il siluro», annotò Schwieger, «ha colpito la fiancata di dritta dietro il ponte di comando. È seguita una deflagrazione insolitamente forte con una notevole nube esplosiva che è arrivata ben oltre il fumaiolo di prua. L’esplosione del siluro dev’essere stata seguita da una seconda (caldaia, carbone, polvere da sparo?).» L’affondamento del Lusitania resta un mistero. Come lo resta la decisione di Churchill di non assegnare di fatto nessun cacciatorpediniere di scorta a una nave che – come si sarebbe poi scoperto – trasportava effettivamente munizioni ed esplosivi. Una decisione ancora meno comprensibile dato che una ventina di mercantili erano stati silurati nella medesima zona. In ogni caso gli inglesi cercarono con ogni mezzo di nascondere che i tedeschi avevano lanciato solo uno e non due siluri e che quindi l’esplosione più terrificante era avvenuta a causa del carico nascosto nel transatlantico. Certo, Churchill riteneva imprescindibile per vincere la guerra l’uscita degli Stati Uniti dalla neutralità e il disastro del Lusitania raggiunse lo scopo. L’inchiesta dell’ammiragliato cercò di addossare la colpa al capitano della nave, Turner, che poi venne prosciolto, mentre la colpa dell’ultima grande esplosione venne attribuita a quel secondo, inesistente, siluro nemico. Il presidente Wilson, pur essendo al corrente del carico segreto del Lusitania, asserì che il transatlantico era «inerme». Quando la notizia arrivò a Roycroft, le bandiere vennero abbassate a mezz’asta. Ma il figlio di Hubbard, che dirigeva la comunità in assenza di Elbert, non riusciva a capacitarsene. «Mio padre», ripeteva, «non è morto e nemmeno Alice. Le notizie sono false. Devono essere stati salvati.» In effetti

in un primo momento le notizie erano state contrastanti. C’era chi sosteneva di averli visti su una scialuppa che poi era affondata, chi diceva di avere visto Hubbard aggrappato a un rottame, chi dilaniato dalle esplosioni. Gli abitanti di Roycroft erano amareggiati. Non sopportavano che il Kaiser l’avesse avuta vinta sul profeta. Molti ritenevano che il Lusitania fosse stato silurato per eliminare la loro guida. Poi era arrivata al figlio la lettera di Cowper. «Non posso dire con precisione dove si trovassero suo padre e la signora Hubbard quando i siluri ci hanno colpito. Ma posso dirle cos’è successo dopo. Sono usciti dalla loro camera che si trovava a babordo. Suo padre e sua moglie erano allacciati nel modo in cui passeggiavano sempre sul ponte. Non si erano spostati molto dal punto in cui li avevo visti. Dato che mi stavo dirigendo dall’altra parte della nave, preparandomi a saltare giù al momento giusto, l’ho chiamato.» E da questo punto la testimonianza di Cowper coincideva con quella di Lauriat. Hubbard aveva scosso il capo e Alice aveva commentato che non c’era niente da fare. «Poi suo padre ha fatto una delle cose più impressionanti che abbia mai visto. Ha fatto dietrofront con la signora, è entrato in una cabina aperta sul ponte superiore e l’ha chiusa dietro di sé. Evidentemente pensava che dovessero morire insieme, senza rischiare di essere separati dall’acqua.» Hubbard era convinto che sarebbe vissuto fino a cent’anni, ma la morte non lo colse impreparato. «Una cosa è sicura, esistono solo due modi rispettabili di morire: di vecchiaia o per un incidente. Tutte le malattie sono indecenti. Il suicidio è terribile. Ma andarsene come è capitato ai signori Straus è davvero una fine gloriosa. In pochi hanno un tale privilegio. Erano entrambi felici e innamorati. Sempre uniti, nella vita così come nella morte.»

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Frontespizio «O vivremo del lavoro o pugnando si morrà» di Luciano Canfora Un messaggio per García di Elbert Hubbard Apologia. Il buonsenso L’iniziativa Un messaggio per García Nota storica Nota storica Ritratto di Elbert Hubbard di Giuseppe Scaraffia Almanacco dell'ultimo secolo scorso Tra Bartleby e Stachanov Vita e amori di Elbert Green Hubbard, viaggiatore commerciante Roycroft, la creatura di un profeta Una fine gloriosa

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