Un delitto

565 99 8MB

Italian Pages 248 Year 1966

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Un delitto

Citation preview

GLI OSCAR Arnoldo Mondadori Editore SETTIMANALI

UN DELITTO

romanzo di Georges Bernanos edizione integrale

109° migliaio



LIRE

^350

r» io

Scritto nel 1935, “Un delitto” è insieme un romanzo grave, malinconico, percorso da rintocchi e brividi metafìsici, e un geniale libro poliziesco fatto appo­ sta per affascinare ogni tipo di lettore. Nel villag­ gio di montagna di Mégère arriva, nel cuore della notte, il nuovo curato: un giovane dall’aria fragile e delicata, che tuttavia esercita subito su tutti un magnetismo diffìcile da definire. La stessa notte viene consumato in una villa solitaria un duplice omicidio: e la figura del curato, che lo denuncia, crea intorno a questo delitto un alone esaltato e allucinante, un clima di mistero malsano che du­ rerà sino, ed oltre, l'imprevedibile epilogo. Solo un cattolico come Bernanos, mosso da un sentimen­ to drammatico delle profondità, nel Bene e nel Male, di cui l'uomo - il ricco nei castelli e il pove­ ro nelle catapecchie - è capace, poteva scrivere un romanzo cosi profondamente visionario: un romanzo in cui ogni realtà usuale viene trafitta e resa trasparente da uno sguardo che scopre le più segrete infermità e lacerazioni dell’anima.

Georges Bernanos Un delitto Traduzione di Enrico Piceni

Arnoldo Mondadori Editore

Tutti i diritti riservati (C Arnoldo Mondadori Editore 1961 Titolo dell’opera originale Un crime I edizione La Medusa luglio 1961 Il edizione La Medusa dicembre 1961 1 edizione Gli Oscar giugno 1966

Un delitto

Parte prima

I

« Chi è? Sei tu, Femia? » Era poco probabile che la campanara venisse cosi tardi alla canonica. Dalla finestra lo sguardo ansioso

della vecchia governante non poteva giungere oltre la prima svolta del viale; al di là il minuscolo giar­ dino si perdeva nelle tenebre.

« Oh, sei tu, Femia? » ripetè senza convinzione e, questa volta, con un tremito nella voce. Non aveva più il coraggio di chiudere la finestra,

eppure il sordo turbinio del vento in fondo alla valle andava aumentando di minuto in minuto come

ogni sera e non si sarebbe placato che con le prime

nebbie dell’alba. Ma più che la notte ella temeva l’odore indefinibile di quella casa solitaria piena dei ricordi di un morto. Per un momento le sue mani

rimasero avvinghiate allo stipite della finestra. Per slaccarle dovette fare uno sforzo e mentre le sue dita

indugiavano ancora sulla maniglia, le sfuggì un grido di terrore.

« Dio mio, che paura mi hai fatto! Ma da che parte sci salita, Femia. Non hai fatto più rumore di una

donnola! » 9

« Oh bella, dal lavatoio. Non per farle dei rimpro­ veri, ma che razza di guardia fa, signorina Celeste! Parola d’onore si può entrare qui come si entra nel

mulino di padre Anseimo. » Senza attendere la risposta prese un bicchiere dalla scansia e si mise tranquillamente a riempirlo di gi­ nepro. « Ti pare una ragione questa per bere il mio cic­ chetto? » « Si capisce che lei se ne sta al calduccio, signorina

Celeste. Il vento soffia dalla parte dei Trois-Évèques

e mi è penetrato fin nelle ossa. Non c’è scialle che tenga! »

Si asciugò le labbra nel grembiule, sputò educatamente sulla cenere e riprese a parlare con un tono nel quale alla vecchia sospettosa parve sentire un lieve disagio, che sulle prime non seppe spiegarsi.

« Farebbe bene àd andare a letto, signorina Celeste;

il suo curato è già da tanto tempo sotto le lenzuola,

creda a me. Pensi, la moto del postino è appena ar­ rivata a Merle. Sembrava che la nebbia gli scendesse

alle spalle con la sua stessa velocità... Fino a domani non passeranno più macchine sulle colline. » « Chissà, ragazza mia. Vedi, non c’è nulla di più

semplice e fiducioso di un giovane curato alla sua

prima parrocchia. Inoltre quella gente di Grenoble non sa nulla delle nostre montagne. Ascolta... » Il cielo era stato scosso come da un colpo, quasi senza rumore, tuttavia percettibile all’orecchio, e la

10

terra ne sembrava tremare fin dal profondo come

colpita dal battente di una enorme campana di bron­ zo. « Il vento gira ancora un po’ più a nord, mia

cara. Eccolo che passa attraverso le Aiguilles Noires. Freddo in vista! » Riempi il bicchiere, lo cozzò con quello di Femia e con quella sua voce sempre un po’ sibilante attra verso i denti neri, riprese:

« Tutto ciò non presagisce nulla di buono. » « Ma via, signorina Celeste, fuma la pipa a que­ st’ora? » « Non la toccare! » disse la vecchia.

Le sue mani magre e scure, color canapa, agili come

quelle di una scimmia, attraversarono rapidamente la tavola; si trasse vicino il piatto a fiori tenendolo cosi stretto al petto che le pieghe della camicetta lo ricoprirono quasi interamente. « Ma che cosa le prende? È una pipa sacra? »

« Era la sua » disse la governante. « Egli l’ha posata là, tale e quale, proprio due ore prima di morire. Mi crederai pazza, Femia, ma non ho più avuto il coraggio di toccarla dopo d’allora. Guarda, è ancora piena. Ogni tanto oggi, mentre spolveravo i mobili,

mi voltavo indietro e mi pareva di vedere il piatto vuoto e sopra una delle sue grosse mani che si erano così gonfiate negli ultimi giorni... Oh! non ho paura

dei morti, no davvero, ma il nostro vecchio curato,

vedi, non deve essere un morto come gli altri. » Ili mise il piatto in mezzo alla tavola con circospe11

zione e tornò a sedere sulla sua sedia, nell’ombra.

« Ed ecco, intanto, che son già due, dico due, i curati che ho visto morire qui. » « Be’, il giovane curato avrà presto modo di farle passare l’umor nero... Ma è veramente cosi giovane, signorina Celeste? »

« Si... o almeno lo suppongo. Fra i venticinque e i trenta, sembra. La gente dice che viene da lontano, da un’altra diocesi, come dicono loro. Ma quanto a

saperne di piu, maramao! Nessuno di quei signori

del distretto lo conosce. Con loro, cara mia, sarà duro! »

« Venticinque o trenta, pensi! Avrà almeno l’idea di che cosa vuol dire una parrocchia sperduta come

questa a dieci leghe dalla città e dalle strade? Non

parliamo poi delle strade! Ci si potrebbe crepare senza confessione cinque mesi su dodici! Si ricorda della morte del figlio dei Duponchel, e l’automobile di quei parigini che s’è rovesciata l’anno scorso?... Brr... Lo compiango quel povero ragazzo. »

« Quel ragazzo » borbottò la vecchia alzando le spalle. « Guarda come lo dice, la sfrontata! »

« Be’, si, come no, un ragazzo! E per quanto si­ curo di sé egli possa essere, signorina Celeste, si

sentirà a disagio, domani, quando andrà a far visita al signor sindaco. Pensi che hanno atteso sul luogo

per due ore e con un vento gelido... E quando la corriera è arrivata, del curato nemmeno l’ombra. Sembra incredibile! » 12

« Forse avrà dovuto trattenersi a Grenoble! Il suo

bagaglio è là fin da martedì. Oh! poca roba... per lo meno non gran cosa: due valigie e una grossa

cassa di legno, ma cosi pesante... Probabilmente

libri. » « Insomma, quando arriverà, lo riceverà... Non bi­ sogna montarsi la testa, né c’è motivo d’affliggersi, signorina Celeste. Ed ora le auguro la buona notte.

Vada a dormire dunque al caldo vicino alla stufa: una notte passa presto. » Lo sguardo della vecchia si fece di colpo suppliche­

vole. « Ascolta, cara, non ci si potrebbe arrangiare per benino, noi due, per questa notte? Ho un po’ di prosciutto affumicato in cantina e faremo anche

dei grog ben caldi e zuccherati... Vedi, ti viene già l’acquolina in bocca... Non negarlo. » La ragazza ascoltava con occhi accesi e con uno

strano risolino in gola. « E che ne penserebbe mia zia, signorina Celeste? Per l’appunto mi attendeva questa sera per imbot­ tigliare il vino. Ma... ma aspetti, ci si può ancora intendere, le esporrò le mie condizioni... »

« Quali condizioni? » domandò la vecchia con vo­ ce sospettosa. « Non burlarti di me, ragazza! » La campanara aveva già posato la mano sulla ma­

niglia della porta. « La pipa » disse scoppiando in un riso forzato che prolungò oltre il necessario. « Vo­

glio fumare la pipa del morto. » 13

Fece qualche passo verso la tavola saltando da un piede all’altro, ora ridendo rumorosamente, ora in­

crespando le labbra come se già tenesse in bocca quella pipa straordinaria. La vecchia cercava gof­ famente di associarsi a quella allegria, senza peral­ tro riuscire a dare alla propria fisionomia un’espres­

sione che non fosse quella di un terrore servile che, a ogni sguardo della ragazza verso il piatto a fiori,

si manifestava anche col gesto involontario, subito

trattenuto, delle due piccole mani grigie. « Sii seria, suvvia Femia » disse sospirando umil­

mente. « Ti ripeto: che ne diresti di un buon grog subito? Faccio scaldare l’acqua. »

La campanara si fermò senza fiato e stringendosi lo scialle al petto:

« No davvero, signorina Celeste, non posso lasciare mia zia negli impicci... A meno che... » Gli occhi le brillavano maliziosamente ed evitava a

bella posta lo sguardo della governante.

« Se il vento non si farà troppo freddo, verrò for­ se a svegliarla questa notte, tanto per ridere un po’ »

disse.

« Allora resterai fuori della porta, cara mia » re­ plicò la vecchia disperata « non aprirò a nessuno.

A nessuno! capisci! » gridò ancora una volta dalla sommità delle scale. « A ness... » Ma il vento ingolfandosi improvvisamente nell’an­ dito oscuro le troncò la parola: 14

« Avresti almeno potuto chiudere la porta, male­ dizione!... » Gli zoccoli di Femia risuonavano già sul duro suo­

lo del viale. Celeste discese i gradini ad uno ad uno,

la schiena contro il muro, tenendo con le mani la gonna che la corrente d’aria gonfiava come una campana. Un attimo di tregua fra due folate rab­

biose le permise di richiudere l’enorme battente di quercia. La collera, se non aveva dissipato del tutto i suoi timori, l’aveva per lo meno un po’ rianimata. Accese la lampada del vestibolo e decise di ispe­ zionare ogni camera prima di stendersi sul paglie-

riccio. Non vi era angolo di quella casa che non le fosse

familiare, ciò nondimeno la percorse in lungo e in largo in preda a una inquietudine inspiegabile. Con sua grande sorpresa la camera del morto, dove nor­ malmente entrava con una certa ripugnanza, le parve

la sola camera dove potesse, quella sera, sentirsi in

certo senso al sicuro. Per un momento pensò per­ fino di trascinare fin li il suo materasso, poi giudicò la cosa troppo faticosa e a piccoli passi trotterellò

fino in cucina per verificare che le imposte fossero ben chiuse. Nel vestibolo, la lampada di cui aveva

abbassato il lucignolo, diffondeva in tutta la stanza, insieme all’odore di petrolio, un leggero fumo che pur essendo ancora invisibile la fece 'però tossire a più riprese. Sebbene le pantofole di feltro scivolas­

15

sero leggermente sul pavimento, il loro fruscio le parve alla lunga insopportabile, tanto che tornò a sedersi vicino alla tavola con la testa fra le mani, ascoltando distrattamente il forte risucchio del vento

nella vallata, che pulsava regolare come il battito di un cuore umano e che, da sessant’anni a questa parte,

aveva tante volte cullato il suo sonno. Quando riapri gli occhi il fumo che riempiva la

stanza le fece dapprima sbattere le palpebre. Ciò che aveva sentito non era proprio un rumore, poi­

ché non avrebbe potuto localizzarlo in nessun punto dello spazio e tuttavia sembrava non voler cessare, continuava a fluttuare intorno a lei molto vicino.

« Guarda » disse a voce alta « il vento è caduto. » Senza che potesse spiegarsene il perché, questa con­

statazione la rassicurò e si senti sveglia come all’al­ ba. Il silenzio era profondo. Anche l’orologio taceva. Segnava le due del mattino.

« Devono essere circa le cinque » fece.

Decise di scendere in cucina per farsi un po’ di caffè. "Dovrei anche spegnere la lampada del vesti­

bolo” pensò ancora, con gli occhi lacrimosi. Una pan­ tofola le era scivolata sotto la tavola durante il sonno e mentre era china a raccoglierla, si rialzò brusca­

mente, corse alla finestra, appoggiò per un istante la fronte sul vetro gelido, con le orecchie tese... Infine la spalancò.

La canonica, che il comune aveva acquistato dagli eredi della vedova Lombard, era stata una volta una

16

casa quasi sordida e inoltre assai malfamata. Per qualche centinaio di franchi il consiglio municipale vi aveva poco dopo aggiunto un giardino ricavato dai

mediocri pascoli che la circondavano. Quel piccolo terreno di pochi iugeri, metà orto e metà giardino,

coi suoi due viali che si incrociano, limitati dal bosso,

è chiuso su un lato da una semplice siepe di pruni; sugli altri due da un folto filare di nocciòli. La casa occupa il quarto lato. Ha due entrate: una, a de­ stra, dà accesso alla cucina attraverso una semplice

porta a vetri che di notte è protetta da una imposta di ferro. L’entrata principale, al centro della fac­

ciata, esposta a est, è preceduta da una gradinata.

La facciata opposta dà su una stretta corte chiusa da un muro dove, sotto una grande tettoia che ne occupa quasi tutta la superficie e che è costituita da

qualche tavola ricoperta di carta catramata, viene ammucchiata la legna. Fu verso langolo più oscuro della fila di nocciòli

che si posò lo sguardo della signorina Celeste, là

dove termina lo stretto sentiero che i visitatori per­ corrono generalmente essendo quella la via più corta per andare dal villaggio a quella isolata bicocca.

Guardando con attenzione si poteva distinguere va­ gamente, per contrasto con lo sfondo più scuro del

fogliame, il cancello verniciato di fresco. Era soc­ chiuso o no? Era difficile rendersene conto ma la governante credette di sentire il battito del nottolino

e il leggero cigolio dei cardini. Se contro ogni aspet-

17

tativa la signorina Femia fosse tornata alla canonica, per quanta cura avesse messo nel nascondersi, avreb­ be finito per essere tradita dal riflesso del suo abito chiaro in quella notte quasi opaca.

Ogni timore era ora svanito dal cuore della vecchia convinta com’era che fosse prossima l’alba. « Chi è là? » chiese con voce mal ferma.

La risposta le giunse subito e molto più da vicino di quanto si fosse aspettata, proprio da un punto ai piedi della casa tenebrosa.

« Sono io... » « Chi, io? » « Io, il nuovo curato di Megère. » A causa della sua piccola statura ella dovette al­

zarsi sulla punta dei piedi per poter scorgere lungo il muro, e per la prima volta, il suo padrone. « Attenda un istante, signor curato » fece. « Scendo subito. »

Ma afferrò invece la lampada e sporgendosi nuo­ vamente, la sollevò sopra la propria testa. Ciò che vide la rassicurò all’istante. Il viso spiccava nettamente al centro dell’alone luminoso e poco mancò che Celeste non scoppiasse

a ridere. Era esattamente il volto di uno scolaro che,

colto in fallo, si sforzi di dare ai propri lineamenti una espressione quasi comica di riflessione e di di­ gnità. La fiamma fumosa della lampada ne rischia­

rava solo una parte ma era facile capire che le guance 18

erano molto rosse, indubbiamente più per la confu

sione che per il freddo. « È arrivato » ella ripeteva macchinalmente, « è ar­ rivato... » Non sapeva dire altro. Il vento fece annerire per il fumo la lampada. Lontano un gallo cantò. « Scenda subito, la prego » disse il giovane prete fa­

cendo visibilmente appello a tutto il suo coraggio per conferire alla propria voce un accento d’autorità.

« Eccomi » rispose la signorina Celeste. Discese il più rapidamente possibile, tirò i paletti. Che strano modo di comparire! Indubbiamente l’e­ strema solitudine di quel piccolo villaggio mezzo

morto al centro di una delle contrade più tristi e

rudi che si conoscano, l’aveva abituata sin dall’in­

fanzia a questo genere di avventure, che sembrano inverosimili alla gente della pianura dove si può regolare l’orologio al fischio del direttissimo della

sera sempre esatto all’appuntamento. A pensarci be­

ne l’incidente non aveva nulla di strano. Su quella strada incessantemente corrosa dal gelo, dalla neve, dal sole, dalla lenta azione delle acque nascoste che

d’estate come d’inverno continuavano il loro lavoro sotterraneo, quanti cavalli azzoppati, quanti carri

fracassati! Anche la settimana scorsa... Ma ella pen­

sava all’assessore municipale che bestemmiava e stre­

pitava sotto il vento gelido, al sacrestano inutilmente

fasciato nel suo abito nuovo, alle comari che da mezzogiorno stavano in agguato dietro le finestre, 19

alla delusione di tutta la comunità. "Bisognerà che

lo consigli di trovare qualche buona scusa, domeni­ ca alla messa...” Doveva essere certamente intirizzito, ma non lasciò

trapelare nessuna delusione quando, essendosi avvi­ cinato al fornello della cucina, lo trovò freddo.

« Desidererei una bevanda calda » disse. « È pos­ sibile? » « Il tempo di andare a cercar una fascina. Il signor curato mi scuserà, la legna e il carbone sono in can­ tina. Se il signor curato volesse tenere la lampada

un momento?... oh! solo fino al corridoio; mi ba­ sta. »

Improvvisamente ella notò che portava guanti di

filaticcio di seta nera, esile protezione contro il ven­ to del nord. La sua sottana era logora ma pulita, e

con una rapida occhiata la donna si accorse che vi

mancavano due bottoni. I loro sguardi si incon­ trarono.

« Ecco del lavoro per lei, signorina Celeste » egli fece sorridendo. Non avrebbe dimenticato mai più quel sorriso che

cosi rapidamente aveva conquistato il suo cuore e

guadagnato la sua fedeltà per sempre. Ebbe forse fin da quel momento il presentimento che egli sa­

rebbe stato la consolazione della sua ultima ora, la

visione suprema che avrebbe portato con sé da que­ 20

sto mondo dove la sua semplicità non si era mai stupita di nulla? Non ci pensò che sulla soglia della cantina. Si voltò

bruscamente come punta da un tafano. « Come fa a sapere che mi chiamo Celeste? » Il curato di Mégère sorrise nuovamente. « Mi hanno parlato molto di lei ieri » disse, « e non in modo molto chiaro, confesso. Ciò nonostante

mi sono ricordato del suo nome. » Ella fece una smorfia di piacere e finse di contare le piccole fascine che l’una dopo l’altra gettava nel grembiule. « Forse il postino? ” domandò alla fine con finta

indifferenza. « Ciò mi stupisce, non mi conosce per

nulla. » « Non il postino, un’altra persona. » Il prete teneva la lampada alzata all’altezza della fronte, ma l’ombra del paralume lasciava intrave­

dere solamente i suoi occhi tranquilli, dallo sguardo

un po’ incerto, e mentre lei lo precedeva verso la

cucina, egli continuò a parlarle, alle sue spalle. « Debbo dirle che sono molto... molto... be’ si, molto

goffo, molto distratto e molto sfortunato anche. » L’unica sedia era carica di piatti, ed egli restò in piedi, con una mano timidamente appoggiata alla

spalliera. « Che il signor curato, mi scusi » borbottò la vec­ chia con una alzata di spalle quasi materna.

21

Asciugò il sedile con uno strofinaccio, l’avvicinò al fornello e abbassò lo sportello del forno.

« Metta i piedi là dentro, fra poco sarà caldo. » Egli obbedì e rimase un po’ con la testa china, ascol­

tando il mormorio del fuoco e lo scoppiettare delle pigne, mentre le spalle erano scosse da un tremito che a fatica gli riusciva reprimere.

« Molto sfortunato » riprese con voce sognante.

« Senza dubbio avrà indovinato che ho perso la cor­ riera delle undici. All’albergo dove ero andato, ap­ pena sceso dal treno... » « Quale albergo? »

« L’"Universo". Un viaggiatore di commercio, una persona assai premurosa, mi aveva offerto un posto nella sua vettura, un’automobile adatta alla monta­

gna, una macchina molto resistente, sembrava. Così avrei potuto trovarmi senza molto ritardo all’ap­ puntamento con quei signori. Ma è successo che il

carbur... no, il radiatore... che il radiatore gelasse proprio al valico della prima gola... Roque-Noire, mi sembra. » Con le mani gonfie per il freddo portò alle labbra la tazza e annusò con un brivido di piacere la be­ vanda bollente.

« Roque-Noire, sì. Nulla era ancora perduto tut­ tavia. Se non altro avrei potuto tornare indietro con lui in città, andasse come andasse. Fu allora che un baroccino... »

« Che baroccio? » 22

Egli depose a malincuore la tazza sul tavolo ed emise una specie di lamento. « È un principio di gelo » disse la serva intenerita.

« Dovrebbe mettere un momento le dita sotto il ru­

binetto. Non c’è nulla di meglio. E di chi era quel baroccino? » « Era il baroccio di un povero diavolo, di un buon diavolo » continuò il curato di Mégère. « Solo credo

che fosse un po’... un po’ semplice. » « Mathurin! » ella esclamò. « Ha fatto la strada con

Mathurin! » « E chi è dunque Mathurin? » « Il pecoraio dei Malicorne. « Un pecoraio? » « O meglio il vecchio pecoraio. Un idiota... Dicono.

Io lo credo furbo più di una scimmia, una vera scim­ mia con tutte quelle sue smorfie! Ha ereditato da una zia, l’anno scorso, e ha comperato un cavallo e un carretto. Gli affidano carichi, ora per un luogo, ora per un altro, dato che non è mai troppo esigente. Ma dei viaggiatori, ci pensa? Si parte quando capita,

e lo stesso vale per il ritorno... » « Mi aveva promesso che saremmo stati qui per le otto, solamente... » « Solamente egli si è fermato dappertutto, per via di quelle pelli di coniglio. Le pelli di coniglio! Ma sotto ci mette tabacco, alcool e chi sa che cosa altro! I gendarmi non ci posson far nulla, sembra che il

procuratore di Grenoble lo protegga. Che bel pro23

caccia! Scommettiamo che l’ha lasciato sulla strada

che porta alla fabbrica di stoviglie, eh? Oh, conosco

i suoi modi. Non c’è pericolo che spinga il cavallo di notte per un brutto sentiero. Il cavallo è quasi come la moglie per lui. E quanto gli ha dato per questo, signor curato? »

Lo vide arrossire fino alla radice dei capelli. « Ciò non ha alcuna importanza » le rispose dolce­ mente. « Sì, sì » gridò lei fingendosi indignata, « il signor curato avrà dato una grossa somma a quell’idiota che non gliene serberà più riconoscenza di una be­ stia! Sappia anzi che del suo denaro non se ne ri­ corda nemmeno più fin d’ora. »

« Crede? » disse bruscamente il giovane prete. E come vergognandosi di una simile vivacità, riaffondò il naso nella tazza.

« Vedo già che il signor curato » sospirò Celeste, « è troppo buono, troppo tenero. La gente di qui è dura di cuore. Il signor curato dovrà difendersi o altrimenti... »

Fece comicamente l’atto di spogliarsi della gonna e della camicetta.

« Signorina Celeste » disse improvvisamente il cura­ to con calore singolare anche se contenuto « credo che diventeremo amici. »

Mancò poco che la vecchia non lasciasse cadere la caffettiera di maiolica. « Signor curato, anche lei mi piace » dichiarò ir 24

tono ingenuo. « L’altro, quello di prima, non era

cattivo, ma poco comodo da servire! Un malato, che vuole. Il signor curato non è malato? »

« No » le rispose; « non le darò alcun fastidio, non do mai fastidio a nessuno. Vede, signorina Ce­

leste, un prete giovane come me, al suo primo con­ tatto con una nuova parrocchia, deve essere assai

discreto, assai prudente, farsi notare il meno pos­ sibile, non lo crede anche lei? I pregiudizi sono cosi

forti! Si ricordi poi che io appartengo a un’altra diocesi e che i miei stessi confratelli... » « Oh! Il signor curato non avrà molte visite da

fare. Tre o quattro, certo non di più. E poi i par­ roci di questi paesi, vede, li conosco bene; sono

gente di campagna, un po’ grossolani, un po’ rozzi. Lei che è cosi cortese, cosi dolce, cosi garbato, eb­

bene ne farà ciò che vorrà... » « Che il Cielo l’ascolti, signorina Celeste » egli com­ mentò sorridendo. « La sua esperienza mi sarà pre­

ziosa... Dio mio, non le nasconderò che al seminario facciamo delle nostre future domestiche l’oggetto di innocenti facezie. Per esempio abbiamo questo pro­ verbio: "Una perpetua” diciamo "è come una suo­ cera, o tutta buona, o tutta cattiva”.» 1 loro sguardi si incontrarono e quello della vecchia

brillava di innocente tenerezza. « Ha parenti, una famiglia, signorina Celeste? »

« No, signor curato, sono nativa della Mùre e ho

sempre servito. » 25

« Vede... anch’io non ho più nessuno » egli con fesso e l’accento di quelle semplici parole le rese più commoventi di una preghiera. Poi tacque. « Il signor curato può contare su di me » promise la donna con gli occhi umidi. Il canto di un gallo, lo stesso di prima certamente, esplose così improvviso e così forte che sembrava si

levasse dal fondo del giardino. « L’aria porta bene i suoni » ella notò « segno di freddo. »

II curato di Megère parve non avere sentito, assor­ to come era nelle sue riflessioni.

« Crede » disse finalmente « che già domani dovrò far visita al sindaco? Sarà forse opportuno? »

« Che diamine, tutti l’hanno aspettata e a lungo. La corriera è arrivata alle quattro... E se ne ricordi domenica al vangelo a meno che lei non abbia qual­

cosa in contrario. » « Oh! domenica... abbiamo davanti cinque giorni, signorina Celeste. Le confesserò anche che, salvo la complicazione di questo maledetto ritardo, avevo in­ tenzione di prendermi qualche giorno di riposo...

prima... prima dei passi ufficiali. Li avrei poi fatti

in compagnia del signor canonico Duperron, il mio

protettore presso Sua Eminenza, che devo vedere a Grenoble giovedì o venerdì. Ma lei penserà senza dubbio... »

« Il signor curato farà ciò che vorrà » ella rispose 26

con aria piccata. « Il signor curato deciderà. Ma in­

tanto dovrebbe andare subito a stendersi un po’ pri­ ma che faccia giorno. Saranno quasi le cinque. »

Il prete estrasse dalla tasca un grosso orologio d’ar­ gento. « Ma no! sono solo le tre e un quarto » fece con la sua voce dolce. « Si sbaglia, signorina Celeste. »

Essa l’accompagnò sino alla sua camera e quando egli le voltò le spalle, ebbe suo malgrado un sor­

riso di compassione materna. La cintura del nuovo curato, chiusa goffamente alla vita, si arrotolava in­

torno ai fianchi come una corda. « Il signor curato dovrebbe lasciarmi la veste vicino all’uscio » fece. « Le darò un colpetto di ferro. » Ma quel colpo di ferro non venne mai dato. La cosa cominciò con un incidente quasi comico. Le era parso di sentire battere alle imposte della cu­

cina mentre, immersa in un sonno profondo, lottava contro il ricordo ancora troppo vivo dell’atto com­ piuto qualche istante prima, vale a dire il ricordo

della pressione delle dita sul metallo gelato e del colpo della sbarra di ferro che rientrava nel suo incavo... Questa lotta assurda, che durò indubbia­

mente un minuto o due, le parve si prolungasse per

delle ore. Poi, come spesso succede, la logica inte­ riore del sogno, più pressante e più imperiosa del­ l’altra, ebbe il sopravvento nel momento stesso in

cui il corpo usciva dall’intorpidimento. Si diresse a

27

tentoni verso l’uscio e l’apri prima ancora di essere riuscita a sollevare le palpebre. Il curato di Megère era davanti a lei.

« Le chiedo scusa » fece con una voce spaventosa.

La lampada tremava cosi violentemente fra le sue dita che la vecchia gliela tolse di mano. Non pen­

sava assolutamente di essere là nel corridoio con la gonna rialzata fino alle cosce, quasi nuda. Non riu­ sciva a staccare gli occhi da quel viso cosi giovane,

improvvisamente incavato dalla paura, invecchiato, irriconoscibile. « Ho sentito... » egli incominciò. « Sentito che cosa? » Il grido che ancora tratteneva, per poco non le usci dalla gola. Non seppe mai spiegarsi in seguito

come e per quale miracolo fosse riuscita a soffocare

dentro di sé quell’urlo furioso simile a quello che si lancia nei sogni. Era bastato un solo sguardo del

prete. Lo spavento che ella vi lesse non ne alterava la straordinaria limpidezza. Quello sguardo le fece vergogna. Il curato di Mégère l’aveva preceduta nella sua ca­ mera e con il busto fuori dalla finestra spalancata, la testa inclinata sulla spalla, scrutava la notte con prodigiosa attenzione. « Là » disse finalmente tendendo il dito verso un

punto dell’orizzonte, mentre ella tutta confusa cer­ cava invano un punto di riferimento fra quelle mac­ chie scure e indistinte.

28

Egli si voltò. Era sempre livido ma le sue esili lab­ bra esprimevano ora una sorta di risoluzione calma e quasi selvaggia.

« Che cosa c’è là, davanti a me, là? »

« Davanti a lei? Un melo. » « Non parlo del melo. Molto più lontano del melo, molto più lontano. » « Come vuole... Dio mio! è più buio che in un for­ no! Ma che cosa ha visto dunque? »

« Non ho visto » fece « ho sentito. »

Andò improvvisamente verso la tavola, prese un loglio di carta. Lo sforzo che si imponeva per restar

calmo conferiva una precisione meccanica a ciascuno dei suoi bruschi movimenti.

« Ecco qui la casa » continuò disegnando rapida­ mente « ecco la strada che ho preso, l’orientamento di questa finestra... » E tracciando una linea obliqua attraverso il foglio: « Che cosa c’è in quella direzione? » chiese.

« Be’, non so, dei pascoli. » « E al di là dei pascoli? » « Dei... nulla. Il villaggio è dietro a noi, alle nostre spalle. » « Mio Dio!... » egli esclamò. « Allora bisogna avver­

tire subito, battere la campagna. Come orientarmi, co­ me ritrovarmi su un terreno che non conosco? » Ella si torceva le mani sperduta in quel paesaggio

tenebroso che le era divenuto improvvisamente stra­ niero come una contrada africana.

29

« Il castello » disse finalmente. « Quale castello? Dov’è il castello? » « Va bene, va bene » brontolò la vecchia. « Ma se non ha visto, che cosa dunque ha creduto di sen­ tire? »

« Non ho creduto di sentire » rispose il prete con una voce la cui fermezza cominciava a restituire co­ raggio alla serva, « ho sentito. Due grida, due ri­

chiami, seguiti da un colpo d’arma da fuoco. Stava dormendo lei? »

« Credo di si » ella confessò un po’ confusa. « Nel sogno pensavo che l’imposta della cucina stesse sbat­ tendo contro il muro e invece era lei che stava pic­ chiando all’uscio. Ha bussato a lungo? »

« No » egli fece dolcemente « mi ha risposto subito. Forse stava dormendo meno profondamente di quan­

to pensa, signorina Celeste. »

Ella provò a riflettere con la testa fra le mani emet­ tendo delle piccole grida soffocate che la più sem­ plice parola di simpatia avrebbe mutato in singhiozzi

convulsi. Ma il prete andava e veniva intorno a lei, senza dar segno di curarsi della sua presenza. Dal rumore che le pesanti suole facevano sul pavimento,

ella capi che aveva infilato le scarpe e che era pronto. Ma non aveva il coraggio di aprire le dita che teneva serrate contro le palpebre. Il cuore le batteva nel petto a grandi colpi sordi: avrebbe giurato che al primo sforzo per rimettersi in piedi, le gambe si sarebbero piegate sotto di lei. Ciò nonostante quando

30

il giovane prete posò la mano sulla sua spalla, nes una forza al mondo avrebbe potuto trattenerla sulla sedia. Se le avesse rivolto la parola da padrone, forse

.ivrebbe trovato il coraggio di discutere, ma egli non

tentava nemmeno di rassicurarla, sia che l’idea che ci si potesse rifiutare di portare aiuto ad una persona

in pericolo non gli fosse venuta nemmeno in mente,

sia che avesse deciso fin da prima di non chiedere

alla vecchia serva nulla che oltrepassasse la sua ener­

gia e le sue forze. « Lei mi accompagnerà fino in cima al sentiero » disse « non sono sicuro di riconoscerlo, ma aspetterò

lassù finché lei sarà rientrata in casa. Non corre dunque nessun pericolo. »

Provò un paio di volte la pila di una lampadina

tascabile. La signorina Celeste notò che la estraeva da un elegante astuccio di cuoio, segnato con le sue iniziali. Egli sorprese il suo sguardo e alzò le spalle senza dubbio irritato di veder dare tanta importanza

a una cosa cosi futile in un momento simile. I illà lo segui fino alla prima curva del viale, in silen­

zio. Non era in condizione di opporre una qualsiasi resistenza e nemmeno di fare la più piccola obiezione.

II suo terrore non aveva più un riferimento preciso: lo ricollegava semplicemente ai passi di quel prete

sconosciuto che ormai avrebbe seguito in qualsiasi

luogo, disarmata come un fanciullo. 31

Egli procedeva molto rapidamente, stranamente ra­ pido su quel brutto sentiero che aveva fatto una sola volta, più rapido di lei e con la sicurezza di un sonnambulo. L’aria intorno a loro era calma e tal­

mente fredda che dava la sensazione di opporre una specie di resistenza impercettibile, simile a quella di una leggera seta che si laceri. L’idea di un delitto, accettabile un momento prima nel cuore della casa solitaria, sembrava ora assolutamente inconcepibile, sotto quei cielo limpido e cosi vicino.

« Signorina Celeste... » Il curato di Mégère si era fermato di colpo. Il gran­

de viale brillava un po’, proprio ai loro piedi, prima di immergersi nuovamente nell’oscurità. « Signorina

Celeste... » posò la mano sulla spalla della serva

respirando affannosamente « che mi sia sbagliato do­ po tutto?... »

Stava per rispondere quando la luce della lampa­ dina elettrica la colpi per un istante in pieno viso. Riuscì solo a balbettare: « Non so... »

« Sbagliato o no » continuò egli « ora dobbiamo

andare sino in fondo. Si, ci fosse anche una sola possibilità, questa possibilità riguarda una creatura umana in pericolo; sarebbe troppo grande il rimorso di avergliela fatta perdere per colpa nostra. Sono un

uomo tranquillo io, signorina Celeste, e anche un po’ più timoroso del necessario, senza dubbio, ma sono anche prete. »

32

Pronunciò le ultime parole con una voce chiara che dovette portarle lontano, molto più lontano di quanto egli supponesse, pericolosamente lontano in

quell’aria secca e sonora come un’incudine. La vec­ chia si portò subito un dito alle labbra. « Certamente » prosegui egli dopo un silenzio in­ terrotto da colpi di tosse « corriamo il rischio di

essere... corro il rischio di essere un po’ ridicolo. Non importa. Le prove di Dio sono quelle che sono,

grandi o piccole... La mia idea » egli si riprese « la

mia volontà, signorina Celeste, è di spingermi fino alla prima casa, costi quel che costi. Se la mia mo­ desta memoria non mi inganna, ve ne è una non

molto lontano di qui, sulla destra. Ma vi troveremo degli aiuti? » « È la casa di Femia, della campanara, della sua

campanara, signor curato. » « Sarà capace di dare l’allarme, di spiegare?... Io temo di non poter prendere parte alle ricerche, e

d’altronde un prete non è un gendarme. Non posso

che offrire il mio soccorso al ferito, all’occorrenza.

Che cosa ne dice? » La lampadina elettrica si accese improvvisamente come la prima volta e sui lineamenti turbati della

serva il curato di Mégère credette di vedere dise gnarsi una specie di sorriso. « Dio mio » fece Celeste « Femia? Sarebbe capa cissima di svegliare tutto il paese, quella! »

II

« Che cosa ne dice del nostro nuovo curato, Fir­ mino? »

« Be’, signor sindaco, sembra un ragazzino con quel suo aspetto di signorina, ma, secondo me, vede, è più riflessivo di quanto uno potrebbe supporre. Però non avrebbe dovuto lasciarlo lassù, si potevan fare le cose con comodo. » Correvano sulla strada gelata. Il rumore dei loro

zoccoli si confondeva in un unico rullio che proba­

bilmente giungeva fin giù in basso alle prime case del paese. Un vago rumore saliva alle loro spalle.

Tutta Megère sapeva da tempo che la grande Fe­ mia non aveva paura di nulla. Anche questa volta

infatti non aveva deluso la loro aspettativa. Appena informata da Celeste, ella scese a precipizio giù per il pendio con tutta la velocità che le permettevano

le sue lunghe gambe, e appena cinque minuti dopo già batteva con lo zoccolo alla porta della casa del

sindaco che, separata dalle altre da un largo re­

cinto, era una delle più vicine alla chiesa. Mentre il sindaco si infilava i pantaloni e apriva la finestra, ella aveva già suonato il campanello dell’osteria di 34

Mendol presso il quale la vecchia guardia campestre Firmino si trovava a pensione dopo la morte della

moglie, e aveva già tirato fuori dal letto in una sola volta i due figli della signora Heurtebise; doveva poi ritrovarli qualche minuto più tardi sulla piccola

piazza dove stavano borbottando come due orsi in­ sieme al sindaco che, fuori di sé, minacciava di chiu­

dere quella benedetta ragazza nel locale dei pom­ pieri "per farle imparare a mettere sottosopra l’in­

tera comunità con le sue frottole”. L’arrivo del cu­ rato di Megère aveva messo fine alla disputa e in­

fatti i quattro uomini decisero “di fare un giretto

laggiù dato che ormai la notte era perduta ”... Sul­ l’altra sponda del Mail, dietro i platani giganti, il

resto del villaggio non aveva sentito nulla, non sa­ peva nulla. Avevano cominciato col riempire le pipe mentre camminavano, poi avevano accelerato il passo e in­

fine si erano messi a correre. Non li sosteneva più il calore della discussione né la cordiale semplicità di qualche risata grossolana, né il quarto di acquavite

che la signora Marivole aveva loro offerto in fretta all’ultimo momento. La voce calma, sicura, anche

se un po’ tremante del giovane prete risuonava an­ cora nelle loro orecchie. Chi sa?...

« Prendi la pila, Gian Luigi. » L’esile fascio di luce della lampadina illuminò il cancello del parco, fece uscire per un momento dal­ 35

l’ombra i suoi grandi pilastri. Era aperto come sem­

pre. Uno dei battenti, staccatosi dai cardini corrosi da una ruggine secolare, era trattenuto solamente da un piuolo piantato solidamente nel terreno. Il parco altro non era che un mediocre giardino di due ettari, invaso dai rovi e il cui dolce pendio terminava in un

piccolo ruscello che per un attimo ' ascoltarono sus­ surrare nel silenzio. « Sembriamo tanti idioti » osservò il sindaco. « Ma che diavolo stiamo facendo qui? Benedetto curato! »

Ma i figli di Heurtebise decisero che si doveva an­ dare fino in cima, per avere la coscienza tranquilla.

Il rumore dei loro passi risuonava ora disordinatamente intorno alla vecchia casa, la cui facciata che

dava a levante, cominciava ad emergere dalla notte, con le sue finestre chiuse.

« Supponendo che qualcuno abbia fatto un colpo » notò la guardia campestre « è scappato sicuramente dalla parte di Dombasle. In ogni caso non ha certo preso per di qui, verso il villaggio. »

« Qual colpo? » domandò il sindaco in tono can­ zonatorio. « "Supponendo" ho detto. Una supposizione, nien-

t’altro. Un’idea, niente di più. Secondo me, bisogne­ rebbe girare subito dietro alla vecchia bicocca, scen­

dere... Lasciami dunque parlare, Eugenio, ragiona... Vediamo un po’! In questo punto potresti gridare con tutta l’anima e perfino tirare con la pistola, ma

che mi impicchino se ti possono sentire fino al pre­ 36

sbiterio; i muri soffocherebbero il suono. Certamente il fatto deve essere avvenuto dal lato opposto; è

chiaro... » « Qual fatto, buffone? » ripete il sindaco. « Luigi, mi stai seccando! » fece la guardia. 1 figli di Heurtebise soffocarono una risata compia­

cente. Con gesto magnanimo il primo magistrato di

Mégère offri delle sigarette che estrasse dalla tasca della sua giacca di velluto. « Tanto per vedere » concluse. « E se non notiamo

nulla di sospetto, parola, figli miei, vi riporto in­ dietro. Sarebbe sciocco svegliare quella gente. »

Mostrò con un ampio gesto la casa che un rapido fascio di luce della sua lampadina percorse ancora

una volta dall’alto in basso. Era un grande cubo di pietra, di una tristezza che nessuna stagione riu­

sciva a rallegrare, sempre uguale sotto il sole o sotto l’acquazzone, nel centro del suo giardino de­ vastato. Ma gli abitanti di Mégère avevano preso ormai l’abitudine di vederla ricomparire ogni mat­ tina sul fianco dell’alta collina, fra i suoi alberi spo­

gli, avvolta da una bruma rosa che si diffondeva improvvisamente e che con altrettanta rapidità si dis­ solveva. La signora Beauchamps, che l’abitava da una dozzina d’anni, era la vedova di un ufficiale di marina, una vecchietta vestita di nero, calzata di

nero, guantata di nero, con pallidi occhi blu dal­ l’espressione vagamente canzonatoria. Viveva là in compagnia di una ex monaca secolarizzata di Notre-

37

Dame de Sion, venuta dalle Fiandre, che le faceva

da governante e che passava, agli occhi dei domestici, per una parente. Filomena, la piccola servetta di

quindici anni, figlia di un povero bracciante di Me­ gère e raccolta per carità sulle soglie di un caffè malfamato di Grenoble, dormiva in solaio. La signo­ ra Beauchamps aveva poche relazioni, ma scelte. Si

raccontava che fosse stata assai bella, che suo ma­ rito l’avesse adorata e che avesse fatto con lui il giro del mondo. L’altro lato del parco era un po’ meno ricco di ce­

spugli ma era in compenso molto scosceso. Il sen­ tiero, interrotto da profondi solchi, che lo divideva in due parti di diversa ampiezza, si inoltrava subito

serpeggiando in un magro bosco ceduo, per discen­ dere poi quasi a picco verso la strada che da Dombasle porta a Fillière. Proprio in questo sentiero si inoltrò il sindaco. I due figli Heurtebise frugavano

fra i cespugli alla sua destra mentre la guardia esplorava un po’ più lontano la sinistra. Sulle alte cime degli olmi uno stormo di cornacchie destate

dal rumore, batteva pesantemente le ali senza osare prendere il volo nel cielo scuro. Lina pioggia di ra­ moscelli secchi crepitava sul folto tappeto di foglie morte.

« L’assassino deve essere appollaiato lassù, di cer­ to » disse il sindaco sottovoce. « Bisogna credere che il nostro curato non abbia sentito spesso il loro can­ to, vero Firmino? »

38

Il cielo stava impallidendo verso est, dava già l’illu­

sione dell’alba. La strada di Dombasle era ora visibile ai loro piedi. Un vetro si illuminò in un punto della campagna; o forse non avevano ancora notato quel

chiarore tremolante raddoppiato dal suo riflesso?

« Guarda » osservò Gian Luigi Heurtebise « ecco Drumeau che scende dal letto... »

o « Oh! Oh! Ohe! » si mise a gridare l’altro giovane

con le mani a imbuto davanti alla bocca, secondo l’uso montanaro.

Corse fino allo strapiombo che dominava la strada e la sua figura si stagliava nettamente sul fondo co­ lor della cenere.

« Ohè! Oh! Ooo... » rispose la voce.

Era molto vicina e quasi subito il sindaco la senti unirsi a quella di Heurtebise in un unico mormorio confuso.

« Che cosa c’è, Gian Luigi? » « È Drumeau » rispose l’interpellato da lontano.

« Ha visto fin da laggiù la nostra luce ed è venuto a chieder notizie, nient’altro. »

Questo Drumeau faceva il taglialegna nel bosco dei Servières dove i suoi antenati vivevano da secoli,

ma il suo lavoro durava fino alle prime nevi di

aprile e per il resto dell’anno egli viveva di un certo numero di mestieri diversi, tutti di scarso rendi­

mento, mercé i quali riusciva appena a nutrire la

moglie e i cinque figli. Dietro raccomandazione del­ 39

la castellana il curato l’aveva scelto come becchino e la domenica cantava anche in chiesa.

I cinque uomini si muovevano ora sulla strada senza preoccuparsi di abbassare la voce.

« Delle grida » esclamò Drumeau « avete voglia di scherzare! Il curato le avrebbe sentite da laggiù, dalla canonica a più di cinquecento metri da qui

e io no? Storie!... Non sono mica sordo io, ragazzi miei! »

« Ci sarebbe stato anche un colpo d’arma da fuo­ co » obiettò il sindaco con un riso forzato che tra­ diva il suo imbarazzo.

« Un colpo di ar-ma da fuoco? » II viso gioviale del becchino si era fatto scuro. « Che cosa? Un colpo di fucile? »

« No, di pistola, pare. Uno sparo... » « Uno sparo? Il curato dice di aver sentito uno sparo? Ma come faceva ad esserci il nostro curato se ha perso la corriera? Mi sembra che sia uno strano

tipo! È arrivato a piedi o come? L’avete visto? » « È venuto con il baroccio di Mathurin, a tarda notte. »

« Accidenti!... » Con le mani in tasca e la testa bassa Drumeau

fischiettava fra i denti cercando di raccogliere i pro­

pri ricordi. Poi cominciò a riempire tranquillamente la pipa.

« Vedete, bisogna essere giusti, il vento è caduto solo a mezzanotte. Fintanto che soffia questi diavoli 40

(li abeti fanno un tale rumore! Pensate: il bosco stre­ pita come vuole, è pieno di rami secchi, una vera

foresta vergine. In quei momenti uno può sparare

con la pistola quando vuole. Scricchiola, stride ed

esplode come la Souippe alle piene di aprile. Ma... verso le due il vento freddo è girato verso nord; allora è venuta la calma, e si sarebbe potuto sentire

fiatare anche una donnola. Forse mi sarò addormen­ tato » concluse grattandosi la testa sotto il berretto

di lana « solamente un vecchio taglialegna come me non dorme che con un... » Parlando avevano raggiunto la curva della strada

e stavano ora ritornando alla spicciolata verso l’ini­ zio dello stretto sentiero che lo stesso Drumeau ave­

va tracciato e che, cento metri più lontano, termina­ va davanti alla sua capanna. Fu in quel momento che l’immagine sinistra che già si era allontanata dai lo­

ro pensieri, si impadronì nuovamente di loro.

« Ehi, Ippolito » disse Gian Luigi Heurtebise al boscaiolo che si era già inoltrato nel bosco « non è

ancora giorno per lasciare là la tua bicicletta, amico mio! » « Quale bicicletta? » Era là, appoggiata contro il fusto di un alto pino, appena nascosta dai rovi. Quella specie di chiarore che dalle vicine colline sembrava scivolasse raso terra lungo i pendìi simile ad un’acqua torbida, faceva brillare il suo manubrio nichelato. Sembrava incre­

41

dibile che avesse potuto sfuggire sino a quel mo­ mento ai loro sguardi. « Santo Dio! » esclamò il sindaco.

Drumeau ritornò correndo senza fiato. « Avrei giurato che prima non c’era, l’avrei giu­

rato parola d’onore » ripeteva macchinalmente men­ tre il suo alito continuava a salire nell’aria tran­ quilla.

Con un medesimo movimento tutti si misero a cor­ rere disordinatamente verso il castello per la via piu breve, ma la voce della guardia li fece fermare:

« Un momento! La cosa deve essere successa qui. Battiamo subito il terreno... Faremo sempre in tem­ po ad avvertire la signora. » « Santi numi! »

Claudio Heurtebise faceva loro segno da un po’ più lontano. La sua testa pallida usciva sola dal fitto del cespuglio ed essi lo videro muovere le labbra

senza peraltro udire alcun suono. Subito il sindaco,

con le lunghe braccia protese in avanti, si lanciò coraggiosamente tra i rovi. Gli altri lo raggiunsero immediatamente.

« Un morto, ragazzi! » gridava Claudio Heurtebise.

Ma il grido di invisibili cornacchie copriva la sua voce. Il cadavere giaceva su di un fianco. Intorno a lui il terreno era nudo, sia che l’uomo si fosse dibat­ tuto nell’agonia sia che, più probabilmente, il suo assassino avesse tentato di trascinarlo più lontano

42

senza riuscirvi. La testa spariva quasi dentro un cu­ scino di foglie morte accumulate sotto le spalle. Il

sangue, già coagulato per il freddo, formava all’al­ tezza delle reni una pozzanghera scura e impressio­ nante, sparsa di aghi di pino. « È stato colpito alle reni » disse Gian Luigi. « Cer­

tamente è stato ucciso alle spalle. » La lampadina elettrica, prestata dal curato di Mé­ gère, non dava ormai che una luce rossastra. Per

distinguere i tratti del viso dovettero coi loro faz­ zoletti asciugarne la faccia tumefatta, divenuta già

violacea, e mentre il sindaco faceva timidamente sci­ volare un dito fra il petto e il collo della camicia, assai stretto, un getto di sangue viscoso gli inondò

le mani. « È un giovanotto » notò la guardia inginocchiatasi

vicino al suo capo « un ragazzo forte e giovane. Non è del paese. » I lineamenti sembravano quelli di un uomo sui ven­ ticinque anni. La fronte un po’ bassa sfuggiva verso

le tempie; le orecchie larghe e staccate, la mascella

inferiore assai sporgente e il collo troppo corto for­ mavano un insieme piuttosto ripugnante, cionondi­ meno l’espressione generale del viso nobilitato dalla morte non ispirava nessuna repulsione. « Non. ha l’aria di essere un cattivo diavolo » fece Luigi Heurtebise esprimendo così il pensiero co­

mune. Sollevarono delicatamente il corpo, ma invano. La

43

schiena era ormai incrostata di terra mista a foglie appiccicate per il sangue. La ferita rimaneva invi­ sibile.

« Bisognerebbe tagliare la camicia » continuò Luigi. « Prendi il coltello nella mia tasca, Claudio... Non posso lasciarlo andare, è pesante. »

« Fermi! » fece la guardia. « Questo non è affar nostro. » Un impercettibile filo di sangue fresco, di un ros­

so vivo su quella materia scura e dall’odore acre, stava ancora sgorgando. Essi tuttavia non lo nota­ rono.

« È morto di sicuro » ripeteva il sindaco « mortis­ simo. Ma perché non avrebbe potuto rompersi le reni scivolando su queste brutte rocce? Sono lisce

come il vetro; non c’è nulla di più insidioso. »

« Può darsi » fece la guardia. « Ma che cosa sareb­ be venuto a fare qui, solo, in piena notte? E vestito

cosi, poi. Ha solo la camicia e i pantaloni, e si era tolto le scarpe... Bisognerebbe trovare le scarpe. »

Claudio Heurtebise era rimasto curvo sul cadavere; chiamò il fratello con uno sguardo. « Guarda qui » fece. Teneva il dito puntato su un foro rotondo, appena visibile, cerchiato di bluastro, nel mezzo del petto.

Sotto la pressione sgorgò una goccia di sangue. « Una pallottola » fece la guardia. « Questa è l’en­

trata. Devono aver sparato da vicino, la stoffa della camicia è bruciata. » 44

Si guardarono in silenzio. Nell’alba livida i loro visi sembravano ancora più pallidi. Qualche minuto pri­ ma, forse un quarto d’ora, l’uomo steso ai loro piedi non era solo... Gian Luigi Heurtebise parlò per tutti.

« L’altro non può essere ancora andato lontano, mol­ to lontano » fece. I loro occhi esaminavano furtivamente il bosco mi­

sterioso, la campagna deserta e silenziosa che sem­ brava risalisse, sorgesse lentamente dal profondo del­

la notte. « Dobbiamo avvertire al castello » fece il sindaco. « Tanto peggio. Mi secca molestare la vecchia signo­

ra, ma non la si può lasciare dormire così tranquil­ lamente fino a giorno, con un cadavere nel suo giar­

dino. » Risalirono verso la casa a testa china. A metà strada alla guardia venne un’idea. « Gian Luigi, va a far la guardia alla bicicletta. Guarda che quel tipo non vi salti sopra e fugga

alle nostre spalle. » II maggiore degli Heurtebise alzò le spalle. « Non sono armato » fece. « Vieni con me Claudio. » E si allontanarono borbottando.

La casa grigia sembrava più tranquilla del solito dietro le persiane chiuse. Ne fecero il giro due volte. L’oscurità era ancora troppo profonda perché si po­ tesse notare qualche traccia. Sui gradini della scala

essi raccolsero tuttavia una stringa di cuoio. 45

« Firmino! » mormorò il sindaco a voce bassa. Col dito teso indicava l’angolo destro del tetto. Una sottile spirale di fumo saliva nell’aria immobile. Il

suo riflesso leggermente bluastro la faceva spiccare sola nel cielo. « Deve venire dalla camera della signora » riprese

il sindaco. « È molto strano però che il fuoco sia durato fino al mattino. Ascolta, amico mio, andia­ mo subito a svegliare la governante. Credo che la

sua finestra sia proprio qui sopra. Non hai che da gettare un pugno di ghiaia pian pianino. »

Ma i minuscoli sassi colpirono inutilmente le im­ poste di quercia. Qualcuno tintinnò anche contro il vetro.

« Incredibile! » esclamò la guardia.

Si scambiarono uno sguardo che già si era fatto sospettoso. L’avarizia della ex monaca era la favola di Mégère.

« Succeda quel che succeda, ragazzo mio » dichiarò il sindaco. « Al punto in cui siamo non c’è scandalo che tenga. Butta l’elmetto. Uno, due... alt! » Si senti chiaramente lo scricchiolio di un cardine

arrugginito, ma la persiana sulla quale tenevano fissi gli occhi non si era mossa di un pollice. La guardia tese di nuovo la mano verso l’elmetto.

« Sei tu, Filomena? » fece il sindaco. « Vedo la punta del tuo naso, ragazzina. » E siccome la ser­ vetta non diceva parola dietro l’imposta semiaperta:

« Scendi subito, ti dico! » ripete con voce minac­ 46

ciosa. « Scendi subito in nome della legge. Non mi

riconosci, sono io, il signor Desmons, il sindaco, e

questo è Firmino. » « Vado a svegliare la signora Luisa? »

« No. » Ma quando penetrarono nel vestibolo la figura del­ la governante apparve in cima alle scale. « Sali, Filomena » disse aspramente la vecchia. « Che cosa succede? » « Ho bisogno di voi due » interruppe il sindaco qua­ si villanamente. « Dobbiamo intenderci noi quattro

prima di svegliare la signora. » « Svegliare la signora! » Diede in una piccola risata che fece arrossire il pri­ mo magistrato di Mégère. L’intervento della guardia campestre fermò fortunatamente la sua risposta.

« Forse è già sveglia a quest’ora » disse con aria furba. « Il suo camino sta fumando. » Per un minuto lo sguardo acuto della governante squadrò il vecchio dalla testa ai piedi, senza degnarsi

però di rispondere. Si rivolse invece al sindaco: « Un camino che fuma? » fece. « E per un camino che fuma si sveglia la gente? » Senza dubbio doveva crederli ubriachi, tanto più che

la reputazione di sobrietà del sindaco e della sua

guardia non era delle più sicure. « Signora Luisa, vi è un maccabeo nel giardino, ecco che cosa c’è. » Le parole uscivano a stento dalla sua gola e doveva

47

fare una gran fatica a mantenere un po’ di sangue

freddo davanti a quella donna la cui calma straor­ dinaria lo umiliava. « Un mac... un maccabeo... »

Ella non aveva probabilmente sentito pronunciare molte volte quella parola poco comune e ne cercava

il significato prudentemente, temendo di essere vit­ tima di qualche scherzo volgare. « Un morto, insomma. »

La guardia credette che ella stesse per lasciar ca­ dere la lampada. Ciò nonostante il suo sguardo so­ stenne quello del sindaco. Balbettò solamente:

« Un morto? Ma come può essere? Da dove viene? » « La signora lo saprà forse un giorno » rispose la guardia campestre fatta improvvisamente ardita dalla

spontaneità di una simile domanda e dalla confu­ sione che traspariva da una donna cosi padrona di se stessa. Ma la ex monaca non rilevò l’insolenza.

« Vado ad avvertire la signora » sospirò, decisamen­ te vinta dalla enormità della notizia.

Il sindaco la segui a qualche passo di distanza ma questa suprema indiscrezione non strappò alla gover­ nante una parola di più; ella si accontentò solo di al­

zare le spalle. Al momento di bussare alla porta, ciò

nondimeno, ella lo tenne a distanza con un gesto del­ la mano. Ma subito le sfuggi un grido soffocato.

« La porta è socchiusa » balbettò. « Mio Dio! » Nulla è più difficile da sostenere che il terrore irra­ gionevole di una donna nervosa di fronte ad uno

48

di quei fatti insignificanti cui l’angoscia contagiosa attribuisce in un secondo non si sa quale significato misterioso. Il primo magistrato di Megère fissava ora

la sottile figura scura con uno sguardo smarrito e fece un passo indietro mentre la governante si affer­

rava alla sua spalla.

« Ebbene che cosa c’è? » riuscì finalmente a balbet­ tare. « Non bisogna perdere la testa per questo. È a proprio sicura che fosse chiusa ieri sera la porta? » Questo tentativo sornione di temporeggiare con la

paura prima del passo inevitabile non riuscì che ad accendere negli occhi della governante un breve lam­ po di furore o di disprezzo che punse sul vivo l’amor proprio del sindaco e trattenne sulle sue labbra il

nome della guardia sempre di sentinella nel vesti­ bolo. Abbassando il capo oltrepassò la soglia della

camera e fece ancora qualche passo vacillando come un ubriaco. Ma il presentimento di un nuovo dram­ ma era ormai penetrato profondamente nel suo cuo­

re. Ciò che vide non lo sorprese affatto. L’anziana signora, in camicia, era stesa per benino

sul pavimento con le ginocchia raccolte contro il pet­

to e con un’espressione ironica, ben diversa da quella che normalmente aveva il suo viso dal piccolo naso a punta. Il belletto, che doveva dissimulare abil­ mente sotto uno spesso strato di cipria, formava

ora sugli zigomi due macchie rotonde che sembra­

vano disegnate da un pennello. Le labbra sottili com­ 49

pletamente scolorite non si distinguevano più dalla pelle livida, cosicché quella figura ridicola e spa­ ventosa allo stesso tempo non aveva più bocca. La testa usciva da una cuffia da notte legata sotto il

mento e bordata da una mussolina increspata che la faceva assomigliare a uno di quei mazzi di fiori avvolti nella carta che si vedono nei cimiteri.


.- ella rispose do­ po un silenzio.

Ma il ragazzo sporse il busto fuori dalla finestra senza rispondere; i suoi piedi si erano sollevati da terra tanto che la donna lanciò un grido atterrita.

« Potresti ucciderti, ragazzino! » esclamò. La voce del seminarista le arrivava dall’esterno cu­ riosamente deformata per la sonorità dell’abisso. « Tutti gli sono affezionati » egli fece con un sor­ riso amaro.

« Geloso! Confessa che sei geloso di tuo zio, ge­ loso come una ragazza: del resto me ne sono accorta

subito, basta vedervi insieme... Ma è anche vero che ci si attacca a lui, si viene presi senza nemmeno

averci pensato. Ecco, la prima sera, non fosse che

per il suo modo di parlarmi del mio paese, di To­ losa... Una bella città Tolosa, ma bisogna capirla... Lui è del Nord, vero? delle Ardenne? » Il ragazzo si drizzò sui polsi, la testa e il busto get­ tati all’indietro, la punta delle scarpe contro il muro. Il vento faceva ondeggiare i suoi capelli biondi.

216

«A Tolosa! » fece con un sibilo. « Ma crede che sia mai stato a Tolosa? Lo racconta cosi per dire, per farle piacere. E la gente gli crede; gli credono

sempre. » « Non dirai che tuo zio è un bugiardo?... » insinuò l’albergatrice con gli occhi che le brillavano.

Ma ella non riuscì a strappare una parola di più al chierichetto che chiusa la finestra, andò a sedersi sul letto dove rimase con lo sguardo fisso al soffitto e

le gambe ciondoloni fino a che, alla fine, la signora Pouce si allontanò brontolando...

« Signor abate » cominciò il curato di Megère « sono un po’ sorpreso... » Non riusciva a vedere bene il prete sconosciuto che, venutogli incontro, lo attendeva sul limite del sen­ tiero, in piedi contro un muro, col viso nell’ombra. Come se indovinasse il suo pensiero l’altro fece un

passo in avanti. Per qualche istante rimasero a faccia a faccia senza dir parola. « Perdoni la mia insistenza » disse il visitatore con voce rauca. « Personalmente avevo il più grande de­

siderio di conoscerla. Dall’anno scorso adempio un modesto incarico presso monsignore, ma la mia casa natale, dove mi reco quasi ogni settimana, si trova

a Castet, dietro questa collina. Siamo dunque un po’ vicini. » Dietro una delle finestre dell’albergo apparve la fac­ cia del padrone, incollata al vetro e già di un co-

217

lore e di un’immobilità d’espressione così poco uma­ ni, che faceva pensare a qualche mostruosa escre­ scenza vegetale.

« È per lui che mi sono preso la libertà di atten­ derla fuori » fece lo sconosciuto che aveva senza

dubbio sorpreso lo sguardo del curato di Megère. « Povero uomo! Quel male terribile lo tormenta

giorno e notte, non gli lascia mai riposo, ed egli

passa il tempo a spiare i passanti e perfino, ahimè, ad ascoltare alle porte. I rari clienti della signora Pouce si lamentano di averlo sorpreso più di una

volta con l’occhio al buco della serratura, come un bambino. Non avremmo potuto parlare liberamen­ te. »

« Non pensavo » fece il curato di Megère « che do­

vessimo avere in comune dei segreti così importan­ ti... » Alzò le spalle e riprese a camminare a capo chino con aria indifferente quasi stesse facendo da solo la passeggiata sul limite della scogliera, come tutte le sere. « Il signor curato di Castet si proponeva di farle visita lui stesso. Questo piccolo borgo dipende in effetti dalla sua parrocchia e... »

« Avrei dovuto evidentemente prevenirlo... » « Niente affatto, no, no! » protestò lo sconosciuto. « Forse egli ha solamente temuto che una iniziativa troppo frettolosa prendesse ai suoi occhi, in vista della giurisdizione che egli esercita su questo terri­ 218

torio, un carattere...; un carattere spiacevole. » « La capisco benissimo » disse il curato di Megère

« Chi di noi, fuori della sua diocesi, potrebbe van­ tarsi di venire accolto senza diffidenza dai suoi con­

fratelli? Da seminario a seminario, l’educazione è a

volte assai diversa... » « Lei si burla di me » fece lo sconosciuto con la sua voce più dolce. Fecero ancora qualche passo voltando nettamente la

schiena alla strada. Il sentiero che essi seguivano

serpeggiava attraverso le rocce prima di raggiungere il fianco stesso della parete di granito dove, per un centinaio di passi, continuava a strapiombo sull’abisso per perdersi poi di nuovo fra le pietre scendendo lentamente verso il fiume. « Vede, signor curato » riprese il basco dopo un

lungo silenzio « non bisogna credere che noi siamo qui più curiosi o più sospettosi che altrove. Bayonne,

Biarritz, Saint-Jean-de-Luz sono cittadine molto fre­ quentate, molto aperte e io stesso, nonostante la funzione che esercito mi imponga qualche vigilanza,

devo chiudere sovente gli occhi. Qualche impruden­ za, Dio ne sia ringraziato, non può compromettere

seriamente il nome di un clero che passa, giusta­

mente, per il più sano di Francia: basta non attirare l’attenzione di nessuno. Come tutte le amministra­ zioni la nostra teme ciò che viene chiamato, del resto assai impropriamente, "una storia”... »

Risero insieme di un piccolo riso che il curato di 219

Megère prolungò un po’ di più del necessario, con

una sorta di ironia di cui il suo compagno ebbe ap­ pena il tempo di misurare l’insolenza perché quel debole rumore delle labbra prese improvvisamente,

in quella solitudine invasa insieme dal respiro gelato del fiume e dall’ombra, un significato tragico.

« Un prete che fa baldoria... » fece. « Questi signori credono di vedere dappertutto. E chi sa? Forse la signora Pouce ha subito avuto qualche dubbio sul...

sul vero sesso del mio piccolo compagno? »

« Stavo per raccontarle la cosa » replicò il basco impassibile. « Ma non era che una storiella; ne ab­ biamo fatto delle grandi risate. Se lei avesse avuto

l’idea di una scappatella di quel genere, sarebbe stato

molto ridicolo vestire una fanciulla da ragazzo quan­ do le sarebbe stato più facile... più facile lasciare questo abito. » « Senza dubbio. E confesso anche che per alcune

circostanze eccezionali in cui mi trovo, ero assai di­ sposto a prendere questa precauzione contro la ma­ levolenza. Ma, la presenza presso di me di... »

« Di suo nipote? » « Non è mio nipote » disse il curato di Mégère con la maggiore calma. « E del resto, signore, lei lo sa. »

« Lo sapevo infatti » rispose l’altro nel medesimo tono. « A ogni modo questo non riguarda che lei. Ma non le sono per questo meno riconoscente di una franchezza che mi mette a mio agio per dirle che considero come compiuta la missione particolare

220

di cui mi avevano incaricato i miei superiori. Che cosa vuole? Non mi aspettavo di incontrare qui un

uomo della sua qualità. Mi fa piacere di poterle or­ mai parlare a nome mio. »

« Le credo » disse il curato di Mégère. « Temo sola­ mente che la sua buona volontà intervenga un po’ tar­

di e che lei si stia compromettendo per nulla. »

« Non è mai utile compromettersi » osservò il basco scuotendo il capo. « Non ci si compromette che per il proprio piacere. Ho vissuto molto nel mondo, si­

gnore, sono entrato in seminario che avevo più di trent’anni, e questo conta! Credevo di trovarmi in presenza di qualche giovane prete sventato... ma ba­ sta vederla, sentirla... La prova che lei sta attraver­

sando deve essere delle più difficili, delle più ango­

sciose... » « Lo era, signore. Si può parlarne ormai al passato. Infatti l’incertezza è il peggiore dei nostri mali, e

probabilmente il solo. » « E sia pure. In ogni modo non le può essere inu­

tile sapere con quale specie di curiosità lei ha a che fare. Quella dei preti, facilmente svegliata, si calma altrettanto rapidamente... »

Posò la punta delle dita sulla manica del curato di Mégère e disse lentamente:

« Conosce lei un certo signor di Frescheville, o Fre-

scheville? » « Molto bene » rispose il curato di Mégère senza cambiare espressione.

221

« Che cosa pensa di lui? »

« È un imbecille » prosegui il prete con la sua voce sempre uguale. « Ma c’è una logica nelle sue idee; 10 credo dunque un imbecille molto pericoloso. » « Ebbene, il caso... » « Non esiste il caso, signore. » « È questo comunque il nome che io do alla Prov­ videnza quando questa mi sembra complicare le cose

invece di semplificarle. In breve, questo giudice istruttore per un caso stranissimo è venuto a por­

tare a termine a Bayonne la convalescenza di una influenza infettiva assai grave. Ed è proprio da me

che egli ha incontrato il signor curato di Castet.

Converrà che l’avventura è singolare. » Continuavano a camminare a fianco a fianco e seb­ bene il sole fosse ancora al di sopra dell’orizzonte,

una nebbia funebre cominciava a salire, invisibile ma

denunciata dal suo acre profumo. 11 vento si fece improvvisamente freddo. « Ciò che so mi ispira un grande interesse per lei,

signore. Aggiungo che la giustizia e la gente della giustizia al contrario... » Provò a ridere ma si fermò stupefatto come se quel suono di una povera gaiezza fosse parso a lui stesso, in quel luogo deserto e in quell’ora selvaggia del cre­ puscolo, un rumore troppo insolito, intollerabile. « Questo signor Frescheville desidera vederla e io mi permetto di parteciparle questo desiderio, a modo

mio. A modo mio, capisce? » 222

« La ringrazio » disse il curato di Megère senza la­

sciare con gli occhi le labbra del suo interlocutore

come se pretendesse di leggervi il suo segreto pen­ siero.

« Lei avrebbe torto di credere che io mi sarei asso­ ciato a qualsiasi cosa che potesse assomigliare a una

inchiesta poliziesca. Il caso che lei sa non lo interessa altro che a titolo privato. L’inchiesta ha seguito d’al­ tronde il suo corso e si incammina, a ciò che egli

dice, verso una soluzione mediocre. Dopo tutto, se ho capito bene, l’autore del delitto è morto; io mi domando che cosa possono augurarsi di più. » Passò il braccio sotto quello del curato di Megère. « Io so che cosa è un giovane prete. Alla sua età

non dispiace trovarsi in contraddizione con la let­ tera in nome dello spirito. Io non la rimprovero certo, ma creda alla mia esperienza: se lei pretende

di lottare da solo, la conclusione la conosco già: la lettera la ucciderà. Si interroghi, signore, soppesi le sue possibilità. Lei deciderà allora, sia di mettersi

sotto la protezione dei suoi superiori che non gliela

faranno pagare troppo cara, spero, sia... » Interrogò un momento l’orizzonte grigio dietro il quale un picco sconosciuto colpito da un ultimo rag­ gio di sole apparve improvvisamente lanciando nello

spazio un chiarore folgorante, una specie di richiamo

luminoso e poi si spense. « Scomparire di nuovo » concluse il prete a bassa voce. « La simpatia che lei mi ispira... » 223

Ma non terminò la frase. Il viso del curato di Me­ gère si raggrinzì dal basso in alto, parve corrugarsi fino a che gli occhi socchiusi non lasciarono passare che uno sguardo obliquo. Sembrava quello di un

gatto. « Non parli di simpatia » fece. « Aspettavo la pa­

rola, la parola, solamente, perché la cosa era già av­ venuta. Viene sempre. Perché lei l’ha sentita nascere in lei dal primo sguardo, vero? Perché non l’ha sog­ giogata? Ma non avrebbe potuto. Io desto simpatia

- quale ignobile espressione! — penso di averla de­ stata fin dalla culla, molto prima di sapere che cosa

fosse. Ma lo so poi anche oggi? Infatti ho subito questa fatalità senza capirla. Lei non è un uomo co­

mune, signore, forse finirà con l’odiarmi. Ma io non ho più né il tempo né il coraggio di correre questa

ultima possibilità. È meglio che ci arrestiamo a que­ sto punto, lei e io. » « Non potrei odiarla » fece il prete con voce sorda.

« Né mi permetterei di compiangerla. Qualunque sia

il motivo, lei si trova in questo momento all’estremo limite delle sue forze. Quando l’equilibrista è sulla

corda tesa, nel passaggio più difficile, si trattiene il

respiro, si tace. » Il curato di Mégère lo guardò sorpreso.

« Il suo paragone non è brutto » disse. Volse la schiena, fece qualche passo, e restò a lungo immobile, a testa bassa, poi ritornò improvvisamente verso il prete.

224

« Sono a disposizione del signor Frescheville » fece.

« Venga pure quando vuole. Non esco mai. »

A una prima occhiata la soffitta gli parve vuota e dovette socchiudere il lucernario per scorgere il suo

piccolo compagno steso attraverso il letto, con la testa fra le mani e probabilmente addormentato. Av­

vicinatosi dolcemente gli mise una mano sulla fronte. Il ragazzo allora si drizzò di colpo volgendo verso di

lui un volto contratto dal terrore e dalla collera.

« Che cosa hai? Perché non mi parli più da questa mattina? »

« A. che cosa serve parlare? » rispose il ragazzo fa­ cendo uno sforzo immenso per articolare distintamente ogni parola. « So che lei è un bugiardo. Si »

continuò con voce discorde « ho fatto per lei tutto ciò che ho potuto, lei mi aveva promesso di non

abbandonarmi... » « Chi parla di abbandonarti, sciocco che non sei al­

tro! Ti ho detto soltanto che alcune circostanze...

Ebbene, ciò che mi aspettavo è avvenuto. Per qual­ che giorno, per qualche settimana al massimo... »

Non ebbe il coraggio di terminare. Il suo sguardo, che si era indurito per un attimo, ebbe un lampo di tenera pietà, una specie di sorriso funebre. « Potrei d’altronde dirti tutto ora » fece « la cosa non avrebbe piu alcuna importanza... »

« Lo dica allora » supplicò il ragazzo con una spe-

225

eie di selvaggia rassegnazione. « Lei si è burlato di

me abbastanza a lungo. Ma che cosa gliene importa ora? »

« Sciocco! » disse il curato di Megère. « Che scioc­ co sei! » Alzò le spalle e riprese a camminare in su e in giù per la camera. Attraverso il lucernario rimasto aperto saliva, a ogni soffio di vento, un odore di acqua pu­ trida.

« La verità non ti servirebbe a nulla » prosegui il prete. « A che scopo? Forse anzi ti rovinerebbe per sempre. Perché io ti conosco bene, Andrea... Ciò che tu chiami le mie menzogne erano fatte apposta per

te. È meglio che io scompaia con loro. Potrai dirmi di avermi accompagnato fino alla fine della strada perché, ormai, davanti a me non c’è più strada. » Gli occhi del ragazzo non lasciavano i suoi e la stra­

ordinaria immobilità del suo piccolo volto sarebbe stata completa senza l’impercettibile smorfia della

bocca ogni volta che inghiottiva le lacrime.

« Partirai domani » fece il prete con voce interrotta. « Lo voglio. Ascoltami, Andrea. » Posando le mani sulle spalle di lui lo fece retroce­

dere lentamente fino al muro dove lo tenne fermo

per un secondo. Ma appena il ragazzo senti allentare

la stretta, scivolò fuori dalle braccia del prete, rag­ giunse con un salto l’altra estremità della camera e

là rimase in attesa, raccolto su se stesso, a testa bassa, come un animale inseguito. 226

« Basta con le sciocchezze » fece il curato di Megè­ re. « Altrimenti mi obbligherai... Vuoi che ti faccia ricondurre a casa dalla polizia? »

« La polizia! » ripete il piccolo con voce rauca. (Si sforzava di ridere ma dalla sua gola non usciva altro che una specie di gemito.) « Lei dovrebbe temere la polizia più di me. L’ho seguita poco fa. Ho sentito tutto. » « Ah! » fece semplicemente il curato di Megère.

Posò la mano sulla spalla del seminarista che que­ sta volta non si mosse. « Dove non l’avrei seguita? » riprese il ragazzo or­ mai quasi vinto. (Le lacrime cominciavano a scorre­

re sulle sue gote nonostante che il suo viso rimanes­ se contratto dalla collera.) « L’avrei seguita non im­ porta dove. E per obbedire a quell’orribile prete lei va... lei va a consegnarsi domani a quel giudice come

un... come un vigliacco... » « A consegnarmi? Che cosa intendi dire con questo?

Mi prendi per un ladro? » Lo sguardo del ragazzo ebbe, tra le ciglia socchiuse, una espressione indefinibile di disperazione, d’orgo glio, di inflessibile cocciutaggine. Poi girò verso l’an­

golo più oscuro della soffitta dove brillava la ser­ ratura nichelata di una borsa di cuoio. Per quanto

rapido e furtivo fosse quello sguardo, il prete l’aveva colto a volo. « Meriteresti di venire frustato » fece seccamente.

« Che ne hai fatto delle mie lettere? » 227

Col mento il ragazzo mostrò il lucernario aperto.

Il volto del curato di Megère divenne improvvisa­ mente pallido.

« Andiamocene! » fece Con la stessa voce dura, senza aggiungere parola. Uscirono tutti e due, si avviarono nella direzione

opposta a quella presa un momento prima dal basco. All’inizio, chiuso fra pareti di pietra, il sentiero sboc­

cava improvvisamente in uno spiazzo circolare dove il vento di levante, il vento d’alto mare, sollevava e faceva turbinare senza posa, lungo degli intermina­

bili autunni, una polvere tagliente come il vetro. A

volte il vento si faceva freddo e lo spiazzo solitario sprizzava verso il cielo una folta nube di foglie

morte che salivano subito come aspirate dal sole pallido, e poi si sparpagliavano in un batter d’occhi,

ingoiate dalla gola gigantesca e gelata del fiume men­

tre sul baratro volteggiava lentamente uno stormo di colombi selvatici.

Sedettero a fianco a fianco all’inizio della stretta

breccia aperta sulla Bidassoa. Dalla riva opposta, la

sola visibile, saliva il ritornello curiosamente scan­ dito di un doganiere spagnolo che, finita la sua gior­ nata, sorvegliava ancora per abitudine in maniche

di camicia le piccole baie e le insenature battute dai

contrabbandieri. In quel punto la scogliera si abbas­ sava ed essi potevano sentire, ad ogni interruzione

del canto, il formidabile risucchio del fiume, il roto228

Ilo dei ciottoli sul fondo e, quando un’onda più po­

tente veniva a mordere lo sperone di granito, il fran­

tumarsi delle acque e il sibilo della schiuma. « Non te ne voglio » disse il curato di Mégère. « Le quattro lettere che hai letto le avrei distrutte io stesso questa sera. E non mi dispiace che tu abbia

saputo da solo oggi, quello che non avresti capito che più tardi, se mai potrai capirlo. Mi dispiace so­ lamente di aver turbato la tua coscienza. »

« La mia coscienza! » esclamò il ragazzo con un im­ peto furioso. « Non si tratta qui della mia coscien­

za! Me ne infischio io della mia coscienza! Non è la mia coscienza che... Ma lei mi sta ancora men­

tendo. Che cosa so io di lei? Quella donna inve­

ce... » « Silenzio! » disse il prete a bassa voce. « Anch’essa non mi conosce più. Mi conoscerà meno di te, per­

ché tu mi vedi nel solo momento della mia vita nel quale senza dubbio posso essere finalmente me stes­

so. E in che cosa del resto ti ho mentito? E prima

di tutto che cosa è che tu chiami menzogna? Il mon­

do è pieno di gente che non dissimula niente per­ ché non ha niente da nascondere. Ma essi non sono nulla. È questa indubbiamente una verità un po’ du­

ra per la tua giovine età o che per lo meno oltre­ passa il tuo giudizio! Per comprenderla ti basterebbe

riflettere un po’ su te stesso. Non sei forse tu ben diverso dall’immagine che si fa di te la gente di Mé­

gère? Lo sapevano forse che tu li disprezzavi? E d’al­ 229

tronde che cosa avresti guadagnato a rivelarti a della

gente di un’altra razza? Tu hai taciuto, sia pure. Ma il silenzio stesso non sarebbe rimasto a lungo per te una protezione efficace. Sarebbe venuto il momento

in cui avresti dovuto portare una maschera, delle

maschere, un’infinità di maschere, una maschera per ogni giorno della tua vita. È una costrizione diffi­ cile, di cui un uomo degno di questo nome finisce per fare un gioco appassionante, perché è difficile e

pericoloso. Ti parlo ora da pari a pari, certamente con un linguaggio poco adatto per un adolescente,

sia pure selvaggio come te. Non importa! Volerne parlare a un altro sarebbe perdere del tempo e io non ne ho molto da dartene. Ricordati almeno que­

sto, ancora. L’essere volgare non conosce se stesso che attraverso il giudizio degli altri; sono gli altri che gli danno il suo nome, quel nome sotto cui vive

e muore, come un bastimento sotto bandiera stra­ niera. Dammi la mano... » La prese fra le sue con

una specie di diffidenza e la strinse appena fra le dita come se avesse paura di far del male ad una bestia fragile e selvaggia. « La tua vita comincia. Ahimè! Se ti avessi conosciuto prima! Avremmo cor­ so insieme il mondo e per un viaggio simile non

c’è bisogno né di bussola né di bastimento. Che cosa

potrebbe portarci più lontano e con maggior sicu­ rezza dei nostri sogni?... dei sogni in cui nessuno

possa entrare all'infuori di noi? Ma pochi uomini sanno sognare. Sognare, è mentire a se stessi, e per

230

mentire a se stessi bisogna prima imparare a men­ tire a tutti gli altri. » Si arrestò per un frammento impercettibile di tempo

e il suo volto ebbe ancora una volta quell’espres sione triste e dolce che gli aveva guadagnato tanti cuori. « È ciò che ho fatto » disse. Il ragazzo ritirò la mano senza che il prete facesse alcuno sforzo per trattenerla. Non alzò nemmeno gli

occhi. Guardava le sue palme vuote. « Io non sono il curato di Megère » riprese dopo un lungo silenzio.

Il

« La carta è piuttosto brutta, non lo nego » fece 1 cameriere con malinconica dignità « ma non si scrive mai qui, o quasi. La stazione non è molto frequen­

tata, è un vero sudiciume... »

Spiegò che un tempo aveva servito al caffè del Duo­ mo a Bayonne. « Il mio stomaco non sopporta la

città; la città è troppo eccitante, si fanno degli ec­ cessi, senza volerlo. Del resto sono un mutilato di guerra. Gas » riprese fieramente « ho una pensione. Se faccio qualche lavoruccio è per passare il tempo, ecco tutto. »

Sollevò il calamaio fino al suo occhio giallo e triste, passò sulla penna un pollice esperto e rimase in pie­ di, immobile.

« La signora riprende l’accelerato delle 9 e 18 per Quincy? Partenza alle 9 e 18, arrivo alle 11 e 15. È triste vedere una carcassa simile! Da Bayonne a qui quattro ore, quattro e due fanno sei. Sei ore

per 180 chilometri, e lei parla di una media! Quelli del Tour de France fanno di meglio... Pane e burro o croissant? »

« Né l’uno né l’altro. Del caffè nero. » 232

« Caffè nero... caffè nero... » (l’occhio giallo parve

farsi ancora più triste). « Sarò costretto a servirle uno “speciale”; “l’espresso” non funziona che più tardi, a causa della pressione... Se la signora volesse,

io... » « Mio caro » disse la viaggiatrice senza voltarsi e con una voce stranamente velata « vorrei solo che lei mi lasciasse in pace. » Intinse la penna nell’inchiostro e cominciò a scrivere

prima che il cameriere avesse potuto trovare una

risposta. Ma quegli, giudicando la partita persa e compro­ messa la propria dignità, decise di allontanarsi, tra­ scinando a bella posta le ciabatte in segno di pro­

fondo disprezzo. Per la Signora Evangelina Souricet. Chàteauroux. (Affidato alla cortese discrezione del Signor abate Capdevieille, cappellano delle Suore del Pentimen­

to.) Cara amica, non ti vedrò mai più. Non mi stupisce scriverlo e tu non ti stupirai di leggerlo. Mi ricordo del nostro primo incontro a Chàteauroux in quella

piccola cappella di suore, tutta grigia. Tu avevi la tua espressione dei giorni cattivi, color della pioggia, quel tuo povero sorriso sciocco... Tornando insieme

lungo la rue des Grainetiers jra due alti muri, in mezzo a quei giardini invisibili, abbiamo scambialo

si e no dieci parole. Tu non amavi il silenzio, ma 233

esso ti affascinava. Io, invece, l’amo. Tutto ciò che io amo ha su di te il potere di affascinarti. Per que­

sto hai creduto d’amarmi, e io anche. E tu lo cre­ derai fino al giorno...

Ma no. Quel giorno non verrà... Nulla mi cancellerà, lo so. Dopo di me, per te, non vi è nulla. Quella solitudine dalla quale ti ho tolta, quei lunghi anni

di solitudine, quegli anni inutili, la tua giovinezza - la sola che tu fossi capace di vivere, di volta in

volta gelida e bruciante — quegli anni segreti non

saranno stati che per me. Per me sola, la tua attesa, perché ormai tu non aspetterai più nessuno. Ci vor­ rebbe molto di più che la vita di una donna per ri­

creare in te, a vantaggio di un altro essere che mi

equivalga, ciò che tu non avrai prodigato, dissipato, distrutto che per me.

Tu hai avuto paura di me, amica mia. Non c’è amore

senza timore. In questo momento mi temi ancora, come mi è dolce questo pensiero! Tu mi temerai a lungo, ancora, sempre, forse... Ricordati! Ricordati! Dal primo minuto o dalla prima parola scambiata,

quando discutevamo cosi tranquillamente del prezzo della mia pensione, delle tue abitudini e delle mie, quando parlavamo modestamente di un semplice ten­ tativo di vita in comune, il tuo sguardo esprimeva già quel timore e poi... Quante volte mi hai detto:

“non so niente di te, del tuo passato". Ma che cosa avevi bisogno di sapere? La nostra sicurezza, il no­

stro riposo, la nostra felicità stavano proprio nel

234

fondo, nel più profondo di questo segreto nel quale a poco a poco ti trascinavo. Chiamalo menzogna, se vuoi, non ha importanza! Se avessimo girato il mon­ do, nei vagoni letto, negli alberghi di lusso, se aves­

simo condotto quella vita errabonda, alla giornata, quella fuga senza fine, complice di tanti amori, tutto ciò non ci avrebbe separato di più dagli uomini che

le mura della tua piccola casa, quelle mura che un

bambino avrebbe scalato senza fatica? La nostra ca­ sa!... Altri che me te ne avrebbero staccato. Ma io

sapevo, io, che le gioie meno attese, quelle che ci sembrano piovute dal cielo, un po’ strane, come i

cigni selvatici, sono state da lungo tempo covate den­ tro di noi, a nostra insaputa. La noia, la mediocre noia, da tutti odiata, la noia che si crede sterile è la terra profonda, grassa e nera, dove molto tempo prima il caso semina il granellino da cui nascerà la

gioia. Hai il coraggio di dire che avremmo potuto

conoscere la nostra in un altro luogo che non fosse quella città sordida, dove tu avevi sbadigliato per dieci anni presso un vecchio devoto, fra quei preti

e quelle suore, al suono della campana delle Dame del Pentimento, dal suono cosi dolce, cosi puro?... Si, nulla sembrava cambiato, in apparenza, della tua

antica vita, se non che io la dividevo con te... Era­

vamo sole, completamente sole, di una solitudine

miracolosa che avremmo cercato inutilmente a mille leghe al di là dei mari. Perché giorno e notte vigi­ lava davanti alla nostra porta la più attenta e la più 235

sicura delle sentinelle: quella falsa immagine che il

mondo si era fatta di noi... “Come ami la menzogna!”

mi dicevi. Si, amavo la menzogna. Non quella men­ zogna utilitaria, quella forma abbietta di menzogna

che non è che un mezzo di difesa come un altro,

usato a malincuore, con vergogna... Io ho amato la menzogna ed essa mi ha contraccambiato degnamen­ te. Mi ha dato la sola libertà di cui potevo godere senza ristrettezza, perché se la verità rende liberi,

essa mette però alla nostra libertà delle condizioni troppo dure per il mio orgoglio, mentre la menzo­

gna non ne impone nessuna. Solamente finisce per uccidere. Mi uccide. È infatti qualche cosa essere sfuggite per tanti anni

alla sinistra curiosità degli uomini, a tutte le solle­ citudini materiali a cui i deboli abbandonano la loro

misera vita. Esse non avranno avuto di me che l’ap­ parenza, e dubito che ne abbiano tratto molto pro­ fitto. Non ho nutrito la pietà di nessuno. E al mo­

mento stesso in cui forse stavano per esercitarsi su

di me tutte quelle gengive, io sto per essere divo­ rata in un solo boccone. Vedi, amica mia, oggi parlo di me con una franchezza

insolita che deve sicuramente ispirarti un po' di dif­ fidenza. Dopo la mia partenza da Chàteauroux, du­

rante quelle tre lunghe settimane di cui forse non conoscerai mai la storia, sono passata attraverso del­ le alternative di rabbia e di speranza ugualmente

folli, ti ho molto odiato. Ho saputo del tuo tradi-

236

mento fin dal primo giorno, si mia cara fn dal primo

giorno, perché tu non mi puoi nascondere nulla. Ma che m’importava, dopo tutto? Sapevo, so ancora che non avrei che a ricomparire... Ma non comparirò più.

Un momento, è vero avevo fatto quello stupido pro­ getto di fuggire con te. Non ci mancava che il de­

naro e io avevo il modo di farti ricca... Tu lo sei e... Rimase a lungo con la penna alzata al di sopra della carta, lo sguardo vago, una terribile smorfia sulla

bocca. Poi cancellò con cura il paragrafo ad eccezio­ ne delle prime tre righe.

...Dopo la mia partenza da Chàteauroux, mi doman­

do ancora se scomparirò o no... La parola scomparire ha d’altronde più di un signifcato. Preferisco la­ sciarti la scelta. La tua miserabile vita [cancellò la

parola miserabile] la tua vita mi resta aperta: la forzerò quando mi piacerà. In tutti i modi tu sei ri­

masta quella ridicola, piccola, tranquilla bigotta, av­ velenata di silenzio e di solitudine, che andava ogni giovedì e ogni sabato, dopo la messa, a portare al Petit Berrichon ZZ famoso annuncio di cui abbiamo

riso tante volte, ti ricordi? "Orfana che vive sola

cerca compagna, eccellente'educazione, buona fami­ glia, cattolica, artista, fsico piacevole, per esistenza comune. Conveniente indennità." Si, abbiamo riso

insieme di questo richiamo discreto, di cui la tua semplicità non sospettava neppure il carattere equi­ voco. Ma io temo ora che tu ti possa vantare un po’

237

credendo di avermi cosi chiamata. Bisogna oggi che io ti disinganni. Tu non mi hai rivelato la tua esi­ stenza; essa mi era nota fin nei più piccoli partico­

lari. Sapevo tutto di te, piccola vipera! E ricordati ancora di questo: molto prima che fosse nata in me

quella tenerezza di cui non eri degna - fortunata­

mente del resto, perché non saprei che farmene di una simile a me - avevo deciso di avvicinarti, co­ stasse quel che costasse. E perché? Perché ti sapevo

sola, debole, preda facile e la probabile ereditiera di una vecchia avara di ottant’anni... Una preda, ti dico, niente altro che una preda.

Premette con tanta forza sulla carta che la penna scricchiolò e schizzò. ...Per questo avresti torto di inorgoglirti della mia amicizia, anche col tuo amante. Sarebbe inutile e

forse pericoloso. Io sono una avventuriera, cara mia...

“Educazione eccellente, buona famiglia." Ah è bella

la mia famiglia! Non ho padre e sono figlia di una...

Da un istante l’identica smorfia contraeva la sua boc­

ca e sembrava diffondersi per tutto il volto, la cui espressione divenne a poco a poco spaventevole. La mano che teneva appoggiata sulla carta si fermò im­

provvisamente ed ella rimase a lungo appoggiata con un gomito sulla tavola e con l’altro braccio penzo­

loni fino a terra, sgualcendo rabbiosamente il foglio fra le dita. 238

Quando prese di nuovo la penna, i suoi lineamenti

mostravano ancora un impercettibile fremito, poi si indurirono inaspettatamente come se ella intrave­ desse un’uscita, un raggio di luce nel più profondo

della fossa dove soffriva da tante ore tutte le umi­ liazioni e i tormenti di un enorme orgoglio in agonia.

Staccò dal blocco un nuovo foglietto e cominciò a scrivere con una scrittura più larga, più regolare,

la sua scrittura delle grandi giornate, delle giornate

decisive della sua dura vita. Cera ragazza mia, riceverai sicuramente la visita di un giovane a cui mi interesso molto. Dico sicura­ mente perché ci siamo lasciati un po’ bruscamente,

lui e io, l’altro ieri sera, dopo una penosa conver­ sazione. Questo ragazzo — è quasi un bambino — tt

parlerà di me. Giudicherai forse, nella tua poca sag­ gezza, che la mia fiducia è stata assai mal riposta, ma io ho passato la vita, tu lo sai, a commettere

delle imprudenze e le ho sempre commesse gratui­ tamente. Tu mi hai disgustato della menzogna, quasi per la stessa ragione per cui i poeti mediocri ci di­ sgustano della poesia. Ma tu non hai certamente ab­

bastanza importanza in questo mondo per darmi il gusto della verità. Il mio protetto farà, se lo giu­

dicherà conveniente, quello che io stessa non mi sen­ to il coraggio di fare. Mi fido di lui completamente

perché egli assomiglia in modo strano a ciò che io

ero alla sua età. Se non è facile sapere quello che 239

passa in quelle testoline, è assolutamente impossibile prevedere ciò che vi passerà.

Morse violentemente il portapenna e attraverso il margine lanciò, più che non scrisse, questa minaccia: Egli tiene la tua sorte nelle sue mani.

Le sue dita si erano messe a tremare cosi forte che la scrittura era quasi indecifrabile. Passò convulsa­

mente il palmo sull’inchiostro fresco e respirò lun­ gamente come se l’aver tracciato quelle righe, per

lei sola, la liberasse di una costrizione intollerabile Ti prego di essere buona con lui, generosa anche,

dato che sei ricca... Non credere di avere a che fare con un ricattatore. Per quanto profondamente tu

mi abbia offesa, non vorrei compiere su di te né

soprattutto sul tuo amante una vendetta cosi bassa. Soltanto mi piace molto lasciarti, lasciare nella tua vita un essere cosi simile a me, di una razza cosi

vicina alla mia e cosi familiare che l’ho riconosciuto al primo sguardo... E ricordati ancora di questo: nel­ le tue mani sarà inoffensivo, come lo ero io stessa. Nelle tue mani, cara mia, nelle tue mani dico. Non cercare di leggere fra le righe di questa lettera (è la terza che scrivo e non so se mi deciderò a spe­

dirla). Non credere più che oggi stia portando a termine un piano meditato già da lungo tempo. In­ fatti tu mi giudichi perfida perché non ho mai fatto

ciò che mi piaceva nel momento in cui mi piaceva. 240

I perfidi invece sono i martiri della loro stessa perfi

dia e pagano assai caro, orribilmente caro, il breve

piacere gustato nel momento in cui l’hanno conce­ pito. Le maschere che ho portato le ho sempre scel­

te in base alla mia fantasia, e fosse anche per sal­ vare la mia testa, non le avrei tenute un momento

di piu. Sono state necessarie delle circostanze ecce­ zionali perché io incontrassi quel piccolo compagno

e più straordinarie ancora perché io provassi improv­

visamente il bisogno oscuro di lasciargli, prima di scomparire, qualche cosa di me, di sopravvivere in lui. Che io non contassi più nella tua vita, era trop­

po! D’altronde non avevo scelta, amica mia. Morta

io, il povero ragazzo sarebbe caduto in mani esperte

che avrebbero approfittato della sua stessa ignoranza per fargli dire la verità. Invece prevenuto da me... subirebbe qualunque tortura piuttosto che parlare! E poiché essi non sapranno niente da te, sono sicura

di entrare nella morte, sotto il naso di quegli imbe­ cilli, con falso volto e falso nome. Se non ti dico di più non è per il vano piacere di tenere sospeso sopra le vostre teste, le vostre due

teste...

Lasciò cadere la penna e buttò il capo all’indietro

portandosi la mano alla gola come se l’aria le fosse

improvvisamente venuta a mancare. Per un momen­

to girò e rigirò la lingua nella bocca arida senza riu­ scire a trovare abbastanza saliva per metter fine al 241

terribile spasimo della glottide che faceva vacillare d’angoscia il suo sguardo.

...una ridicola minaccia. Per quanto incredibile ti possa sembrare io sono all’oscuro come te dei pro­ getti del mio piccolo compagno. La nostra ultima

conversazione non è durata che alcuni istanti: mi ha ascoltato in silenzio ed è partito senza una parola. Non l’ho più rivisto. Ho lasciato una lettera per lui

sul mio tavolo e tutto ciò che possedevo, poco più di settemila franchi. Avrà trovato tutto al risveglio.

Mi sono infatti recata alla stazione a notte fonda, alle due del mattino, un’ora in cui succede ai saggi

di divenire folli, ma in cui i folli non diventano mai

saggi... « La signora perderà il treno » dichiarò il cameriere magnanimo. « Mi permetto di dirlo alla signora an­ che se vuole che la si lasci in pace. »

Prese le monete sparse sul tavolo e ritornò a lenti passi verso la macchina del caffè, assaporando la sua giusta rivincita.

« Quanta carta! » fece mentre la porta si richiudeva alle spalle della sua strana cliente. « Ancora una paz­

za che scrive pagine e pagine al suo amico che forse non sa nemmeno leggere. »

La minuscola stazione di Quincy, non molto più grande della casetta di un cantoniere, è fiancheggiata da una fila di tigli molto esili ai cui piedi spunta 242

una erbetta rara secca fin dalla primavera, che non riesce a trovare un po’ di freschezza che nell’ultimo autunno, al momento in cui i venti del nord la fan­

no ingiallire di nuovo. Alla loro vista la viaggiatrice

solitaria sussultò e parve contarli con lo sguardo.

Quattro Tigli.. Ebbe un sorriso ambiguo. La ven­ ditrice di giornali attraversava la piazza, spingendo

davanti a sé il suo carrello. Era una di quelle vec­

chie delle Lande dal viso dorato e dagli occhi pal­ lidi. Tese verso la passante l’ultima edizione del

Courrier de Bayonne che ella prese macchinalmente dopo aver fatto scivolare venti franchi nella pìccola

mano ricurva, sporca d’inchiostro. Questa genero­

sità le ricordò che non doveva avere in tasca che pochi soldi. Li lanciò per aria un po’ piu lontano in un campo. Non ne avrebbe più avuto bisogno. Fece l’atto di gettare anche il giornale ma poi cam­ biò idea. Mentre esaminava il foglio ancora piegato,

lo stesso ambiguo sorriso riapparve sulle sue labbra

e vi rimase a lungo. La strada che seguiva si ricongiungeva con quella di Pauriac, ma ella voltò deliberatamente la schiena al villaggio e riprese il cammino verso nord-est attra­

verso un paesaggio di una monotonia nauseante sot­

to un cielo grigio. Andava con un passo regolare, un passo d’uomo, e quando apparvero le case di Ge-

noude, sul limitare di una pineta che incendi recenti avevano reso simile a una specie di landa difforme,

irta di tronchi neri, guardò l’ora e constatò non sen­ 243

za sorpresa che era in anticipo di venti minuti. Staccò l’orologio dal polso e lo lanciò lontano nei cespugli. Uno sforzo supremo la portò fino alla linea ferro­ viaria, molto meno vicina di quanto avesse creduto, perché uscendo da Genoude le rotaie fanno un’am­

pia curva che aveva costeggiato senza accorgersi. Se­ dette sul terrapieno rabbrividendo. Dall’antivigilia

non aveva quasi mangiato né dormito, e la certezza di raggiungere finalmente la meta la lasciava senza forze con un immenso bisogno di sonno. Ma appena

chiudeva gli occhi per concedersi la breve illusione di un riposo, le immagini allontanate cosi faticosa­

mente nel corso delle ultime ore ritornavano a lei come bestie, cosi reali, cosi vive che le sembrava di poterle respingere con la mano. Rivedeva la sua triste infanzia, i volti odiati delle sue nutrici, sempre diverse, perché l’ex monaca, sua madre, ridotta per vivere a mediocri impieghi di go­

vernante, errava di luogo in luogo e di città in cit­ tà, inseguita dal timore malato di venire riconosciuta e smascherata. Questo timore aveva a poco a poco

preso il carattere di una vera ossessione che la fi­ glia condivideva molto oscuramente per quel mime­

tismo nervoso così notevole nei bambini. Della fede

perduta la sciagurata aveva conservato solo certe abi­ tudini inestirpabili, il gusto dei “focolari cristiani”,

una diffidenza insormontabile per gli empi, i malpen­ 244

santi. Servire tali padroni le sarebbe parso il colmo della decadenza e la loro sdegnosa indulgenza, o for­

se la loro approvazione, l’avrebbe meno umiliata ai propri occhi che declassata; il declassamento, ultimo cerchio dell’inferno borghese, dannazione senza ri­

corso!... Invano ella giurava a se stessa di mante­ nere il silenzio sul proprio passato. Appena aveva respirato di nuovo quell’aria tiepida, un po’ sbia­ dita, e steso i suoi nervi affaticati, sembrava che

una forza sconosciuta trionfasse della sua volontà, dei suoi terrori e improvvisamente sotto il pretesto più futile, usciva da sola, aggravata dalle reticenze

e dal mistero, la confidenza, la parola irreparabile, l’allusione prima discreta poi più chiara alla antica

esistenza, al tranquillo paradiso perduto. Liberazio­

ne precaria, ahimè! Perché appena le era sfuggita quella parte del suo segreto, ella non viveva più che nel terrore che un caso lo rivelasse interamente. Al­

lora moltiplicava febbrilmente le menzogne, si osti­ nava a imbrogliare la pista fino al giorno in cui, giudicandosi presa al proprio laccio, domandava il proprio compenso e fuggiva, appena pagata, trasci­ nandosi dietro con precauzioni e stratagemmi degni

di una rapitrice di bambini, la figlia, suo rimorso

vivente, da cui sarebbe stata incapace di separarsi del tutto. Dopo aver cosi conosciuto un’infinità di focolari diversi - le povere case di contadini dove sua madre andava a trovarla con grande mistero l’infelice bambina dovette peregrinare ancora di

245

scuola in scuola fino al giorno in cui, Evangelina

aveva allora diciassette anni, l’ex monaca si lasciò sfuggire il suo segreto. Esse non dovevano rivedersi che dieci anni più tardi a Mégère.

Con un gesto meccanico alzò il polso fino all’altezza degli occhi, si ricordò di colpo che aveva buttato via l’orologio e il suo cuore si strinse mentre dava

uno sguardo all’orizzonte grigio da cui si sarebbe pre­

sto alzato il pennacchio di fumo che doveva fissare il suo destino. Megère!... Al ricordo di quell’avven­

tura incredibile, ebbe quel furtivo sussulto di atten­ zione che desta in noi il titolo di un libro letto molto tempo prima e che ci aveva appassionato. Nulla di

più. L’assassinio della vecchia signora non era per

lei in quel momento che un incidente quasi trascu­ rabile, una peripezia senza grande interesse in con­ fronto a ciò che l’aveva seguito. Non aveva d’altron­ de premeditato quel delitto, o quasi. Fra tante men­

zogne un passaggio della lettera che aveva scritto

esprimeva la pura verità, per quanto inverosimile potesse essere. Era stata veramente la signora Luisa che, disperando di strappare alla sua padrona niente

di più che un modesto legato, aveva sognato di col­

locare sua figlia presso l’ereditiera. In questo modo ella credeva di assicurarle per tanto tempo, forse per sempre, quella sicurezza che lei stessa aveva cercato

sempre senza riuscire a ottenerla. Era poco proba­

bile, infatti, che la debole orfanella riuscisse mai a 246

sfuggire al potere della donna audace e lucida che

aveva forzato la sua solitudine. Ma era proprio l’ere­

dità che poco mancava finisse per cadere in altre mani. L’ex monaca avvertita dall’uomo di affari del­ l’arcivescovo stesso, principale artefice dell’intrigo, si era sforzata di ottenere dalla figlia che tentasse a nome, anche se all’insaputa, della pronipote, un

passo disperato dal quale ella potesse aspettarsi la

riconciliazione delle due donne, così lontane luna dall’altra per età, abitudine, reciproca ignoranza del­ la loro vera natura e smisurato orgoglio... Il solo

caso aveva fatto il resto. No! Non provava decisamente alcun rimorso di quel

delitto casuale. L’atroce gelosia che la dilaniava da più settimane, dopo che il tradimento le era parso sicuro, e che era entrata in lei fin nel più profondo

delle sue viscere, la convinzione di dover perdere

un giorno o l’altro la sua giovane preda, sembrava spegnersi per mancanza di alimento. L’oscura fie­ rezza di aver recitato fino all’ultimo, di recitare fino

alla morte una parte straordinaria fatta per lei, per la sua potenza di dissimulazione e di menzogna la trascinava verso tutt’altro sentimento. Quella parte,

le circostanze gliel’avevano indubbiamente imposta,

poiché essendosi trovata di nuovo a faccia a faccia - due volte nel medesimo giorno - con lo sfortu­ nato prete, ed essendo stata riconosciuta non le era

rimasta altra possibilità per sfuggire - almeno prov­

247

visoriamente - al disastro dove avrebbe trascinato

sua madre e la sua amica sempre amata. Infine, ave­

va mantenuto l’impossibile scommessa. E nessun ra­

gionamento avrebbe potuto in quel momento abbat­ tere la sua fierezza; avrebbe sempre ignorato, non

avrebbe mai potuto comprendere, non avrebbe mai voluto convenire che credendo di dover tutto alla

propria energia e alla propria astuzia, aveva in ve­

rità vissuto da sveglia un sinistro incubo, dove per­ sone più lucide avrebbero riconosciuto a una a una

le immagini abbominevoli nate dai rimorsi della ma­

dre, quella ossessione del prete, dei suoi modi, del suo linguaggio che aveva avvelenato per tanti anni

la coscienza torturata dell’ex monaca. Discese dal terrapieno, fece qualche passo, sedette lentamente sulle rotaie, poi, spiegando il giornale,

lo stese con un sorriso sul luogo stesso in cui avreb­ be posato la testa. La sua guancia si posò da sola

sul titolo, stampato a grossi caratteri, di un semplice

fatto di cronaca di cui i lettori del Courrier de Bayonne prendevano indubbiamente conoscenza in quello stesso momento, ma che ella non doveva mai leggere. Incidente, delitto o suicidio?

È stato ritrovato ieri nella Bidassoa il cadavere sfi­

gurato di un ragazzo di una quindicina d’anni che

la corrente ha senza dubbio trascinato per un lungo tratto e di cui si dispera di poter stabilire l’identità. 248