Un baule pieno di gente. Scritti su Fernando Pessoa 9788858836248

Antonio Tabucchi è stato uno dei massimi conoscitori dell'opera di Fernando Pessoa. In questa raccolta di intervent

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Un baule pieno di gente. Scritti su Fernando Pessoa
 9788858836248

Table of contents :
Indice......Page 143
Frontespizio......Page 2
Nota......Page 4
Un baule pieno di gente......Page 6
Una vita, tante vite......Page 27
Álvaro de Campos, Ingegnere Metafisico......Page 36
Un bambino attraversa il paesaggio......Page 40
Due appunti sulla poesia VIII di "Il guardiano di greggi"......Page 44
Bernardo Soares, uomo inquieto e insonne......Page 47
Un fil di fumo: Pessoa, Svevo e le sigarette......Page 53
Sulle lettere d’amore......Page 64
Il Marinaio: una sciarada esoterica?......Page 70
Traducendo Il Marinaio......Page 75
Nota al Faust......Page 77
Intervista con Andrea Zanzotto......Page 78
APPENDICI......Page 85
Altri testi su Pessoa & Co.......Page 86
Sopra una fotografia di Fernando Pessoa......Page 87
Il fachiro che volle diventare Pessoa......Page 91
Pessoa e Ophelia, un amore bruciante e misterioso......Page 96
Le ossa di Fernando......Page 98
Testi pessoani particolarmente menzionati in questo libro......Page 101
Lettera a Adolfo Casais Monteiro sulla genesi degli eteronimi......Page 102
Tabaccheria di Álvaro de Campos......Page 111
Anniversario di Álvaro de Campos......Page 117
La poesia VIII di "Il guardiano di greggi" (di Alberto Caeiro)......Page 119
Cinque lettere a Ophelia Queiroz......Page 124
Nota del curatore......Page 129
Inserto fotografico......Page 135

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Antonio Tabucchi Un baule pieno di gente Scritti su Fernando Pessoa Nuova edizione rivista e accresciuta A cura di Timothy Basi Con inserto fotografico

Copyright © 1990, Antonio Tabucchi All rights reserved © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione digitale 2019 da quarta edizione (rivista e accresciuta) nell’“Universale Economica” giugno 2019 Ebook ISBN: 9788858836248 In copertina: © Michele Tabucchi Il copyright delle foto è di Maria José de Lancastre Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

NOTA

Ha scritto Maurice Blanchot che un libro, anche se è frammentario, ha sempre un centro che lo attrae: “centro che non è fisso, ma si sposta per la pressione del libro e per le circostanze della sua composizione. Centro fisso, anche, che si sposta, se è un vero centro, restando lo stesso e diventando sempre più centrale, più riposto, più incerto e imperioso”.1 Sembra quasi pleonastico dire che nell’immenso e misterioso Libro che Pessoa ci ha lasciato il centro più riposto, e certo il più imperioso, è l’eteronimia. Eteronimia intesa non tanto come metaforico camerino di teatro in cui l’attore Pessoa si nasconde per assumere i suoi travestimenti letterariostilistici; ma proprio come zona franca, come terrain vague, come linea magica varcando la quale Pessoa diventò un “altro da sé” senza cessare di essere se stesso. Ed è certo evidente che la linea magica di Pessoa non è situata sul terreno della pura mistificazione e della maschera alla Ezra Pound o alla Robert Browning, per intenderci, né sul terreno dell’attività modellizzante partita da un gioco (certo che l’arte è un gioco, senza gioco non vi sarebbe arte). L’eteronimia di Pessoa rimanda semmai alla capacità di vivere l’essenza di un gioco; non ad una finzione, pertanto, ma ad una metafisica della finzione, o ad un occultismo della finzione; forse ad una teosofia della finzione. La finzione di Pessoa è sempre una finzione “trascendente”, è parola, ma nel senso che ἐν ἀρχῇ ῏ην ὁ λόγος2; e questa parola non è certo “il testo” letterario. Il Logos di Pessoa, nella sua trascendenza, nell’essere un metatesto, è uno scarto, evade dal piano esistenziale-testuale e si attua nell’ontologico-metafisico. Con un calembour si potrebbe dire che il gioco di Pessoa è “giocare” il gioco, risolverlo nel non porlo, passando sul terreno della pura ipotesi. Di lui si può dire quanto Benjamin ha scritto di Kafka: che “tutta la sua opera rappresenta un codice di gesti che non hanno già a priori un chiaro significato simbolico per l’autore, ma sono piuttosto interrogati al riguardo in ordinamenti e combinazioni sempre nuove”. Su questi ordinamenti e combinazioni sempre nuove, cioè sull’essenza

del “gioco” di Pessoa, la sua finzione vera, si incentra, credo, la maggior parte degli scritti che qui raccolgo. Scritti che scaturiscono da una frequentazione che dura da molti anni e che mi è sembrato utile raccogliere in un’unica sede. Essi non hanno certo la pretesa di fornire un’immagine definitiva del poeta dai mille volti, anche perché credo che Pessoa richieda letture che prescindano da interpretazioni prepotenti e che siano capaci piuttosto di seguirlo sul terreno dell’ipotesi. E come ipotesi critiche vorrei appunto che fossero letti questi miei scritti sul poeta più misterioso del Novecento.

Recentemente la bibliografia critica su Pessoa si è notevolmente accresciuta. Alcuni di questi scritti avrebbero forse bisogno di un aggiornamento nel testo e nelle note. Ho tuttavia preferito lasciarli identici a come furono pubblicati la prima volta, a testimonianza degli anni in cui furono scritti. 1 2

I riferimenti bibliografici si trovano in fondo al volume. “In principio era il verbo.” [N.d.C.]

Un baule pieno di gente

In mancanza di prove C’è, subito, qualcosa di eccessivo nella biografia di questo portoghese che col passare degli anni rischia di diventare uno dei più importanti poeti del Novecento: qualcosa di troppo eccessivo per non insospettire, anzi allarmare chi si metta sulle sue tracce. È un eccesso per difetto; è la totale mancanza di indizi o, se si vuole, l’evidenza fatta paradigma, l’alibi perfetto: qualcosa che fa pensare al nascondiglio nell’ostentazione della lettera rubata di Poe e che nella fattispecie significa un eccesso di anonimato, una quintessenza di banalità. È pur vero, c’è un’epidemia di banalità nella grande letteratura del Novecento: da Musil a Beckett, da Valéry a Svevo e a Montale con la sua vita “al cinque per cento” (l’espressione è di Montale stesso), molti fra i maggiori scrittori del nostro secolo vivono una vita scandita dal metronomo dell’abitudine e del grigiore quotidiano. In Pessoa, tuttavia, i giri del motore biografico scendono al minimo, il rendimento del cinque per cento montaliano si abbassa ulteriormente, a un certo punto pare di non sentire neppure più il ronzio e viene il sospetto che Pessoa sia morto prima del suo certificato di morte, lasciando disposizioni perché “tutto” continuasse come prima. Oppure viene il sospetto che Pessoa non sia mai esistito, che sia stato l’invenzione di un certo Fernando Pessoa, un suo omonimo alter ego in quella ridda mozzafiato di personaggi che con Fernando divisero le modeste pensioni lisbonesi dove egli, per trent’anni, condusse il tran-tran della più banale, della più anonima, della più esemplare vita di impiegato di concetto. L’ipotesi che Fernando Pessoa fosse l’alter ego di un Fernando Pessoa completamente identico al primo è davvero allettante e forse, assurdamente, la più ovvia, anche se potrebbe sembrare viziata da un paradosso di sapore borgesiano (il Ménard che riscrive il Chisciotte), se Pessoa stesso, già nel 1931, non ci avesse fornito il paradosso su cui si basa il nostro sospetto: O poeta é um fingidor. Finge tão completamente Que chega a fingir que é dor

A dor que deveras sente. (Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente.)

E se Fernando Pessoa, per l’appunto, avesse finto di essere Fernando Pessoa? È solo un sospetto. Le prove, naturalmente, non le avremo mai. E in mancanza di prove non resta che credere (o fingere di credere) ai dati biografici di colui che fu la finzione di un impostore identico a lui stesso: ossia Fernando António Nogueira Pessoa, fu Joaquim de Seabra Pessoa e Madalena Pinheiro Nogueira, impiegato part-time come traduttore di lettere commerciali in ditte lisbonesi di import-export. Nelle ore libere, poeta. Un baule pieno di gente Ha detto una volta Montale, discorrendo di poesia e celebrità con l’arguzia che lo distingue, che nel palazzo dell’Immortalità (e specificava di intendere quell’immortalità terrestre che può durare pochi secoli e interessare solo dieci “specialisti” a ogni volgere di generazione), si può entrare per il portone d’onore o per la porta di servizio; e c’è anche chi entra per la finestra o per il comignolo. Pessoa è certo uno di quei poeti che nel metaforico palazzo montaliano è penetrato in maniera stravagante e semiclandestina, non saprei dire se per noncuranza o per calcolo (o per calcolata noncuranza), facendovi introdurre, dissimulati in una casalinga arca da biancheria, i suoi molteplici spiriti ben impacchettati in fascicoli manoscritti tenuti con lo spago e contrassegnati da firme diverse. È allettante immaginare, cedendo alle suggestioni della letteratura, quello che sarebbe successo se per un capriccio della sorte, navigando sigillata attraverso i secoli, l’arca avesse potuto approdare alle rive di un’epoca in cui di Pessoa come personaggio anagrafico si fossero perse le tracce: lo sbigottimento di quegli ipotetici posteri nell’apprendere che un piccolo e semisconosciuto paese del ventesimo secolo, dimentico dell’Europa e da essa dimenticato, conobbe lo splendore di una bizzarra età di Pericle della poesia, un ventennio (per tale lasso di tempo agiscono i Pessoa: dal 1914 al 1935) in cui quattro poeti, diversi e perfino contrastanti per voce e temperamento, ma tutti ugualmente grandi e affascinanti per la complessità dei temi e la qualità del verso, poetano contemporaneamente, polemizzano epistolarmente, discutono pubblicamente, si redigono a vicenda prefazioni amichevoli ma compitissime (sempre dandosi del Lei: erano proprio altri tempi), finché, inspiegabilmente, tacciono

tutti allo stesso tempo, scomparendo nel nulla. Forse, se così fossero andate le cose, ne sarebbe scaturito un opposto “caso Omero” o un opposto “caso Shakespeare”: invece che un solo nome ricettacolo di molte vite e molte esperienze, molti nomi e molte esperienze al posto di un solo poeta. In classe coi cattivi Nel 1942, sette anni dopo la morte di Fernando, quando la casa editrice Ática di Lisbona decide di iniziare la pubblicazione dell’opera completa di Pessoa, sotto lo sguardo degli amici letterati e dei filologi che hanno accesso all’arca in cui il poeta ha custodito i suoi manoscritti, comincia a delinearsi una delle personalità letterarie più mostruose del Novecento, ben al di là di quanto poteva far supporre la pur stupefacente personalità rivelata in vita. Pessoa aveva infatti imperversato sulle migliori riviste portoghesi dell’epoca (“A Águia”, “Exílio”, “Centauro”, “Portugal Futurista”, “Presença”), ne aveva create lui stesso almeno due (“Orpheu” e “Athena”), aveva acclimatato in Portogallo le avanguardie e le tendenze letterarie europee e ne aveva inventate tre di sana pianta (paulismo, sensazionismo, intersezionismo); infine, aveva importato quanto di meglio la cultura europea avesse prodotto in quegli anni, dalla psicoanalisi alla fenomenologia. La sua notorietà come creatore restava tuttavia affidata alla provvisorietà di un corpus poetico polverizzato su riviste di limitata diffusione e reperibilità, a quattro volumetti di poesie in inglese (delle edizioni semiclandestine e disadorne, a spese dell’autore) e ad una plaquette uscita l’anno prima della sua morte e dettata dalla contingenza di un premio di poesia (poi non vinto), Mensagem. Quisquilie, a paragone col tesoro postumo. È vero che, rispondendo all’intervista di un critico amico, aveva suscitato la meraviglia degli amici di “Presença” intorno al suo caso poetico allorché dell’eteronimia aveva fornito un rapporto lucido e minuzioso, a metà fra la seduta psicoanalitica e la freddezza della cartella clinica.3 Eppure è da ritenersi che Pessoa occupasse uno spazio nella cultura portoghese dell’epoca più come intellettuale che come poeta, oltre che come polemista feroce e contraddittorio (e da prendersi anche allora con le dovute cautele: si vedano ad esempio le sue provocatorie teorie sul Quinto Impero e quello sciagurato articolo del 1928, O Interregno. Defesa e Justificação da Ditadura Militar em Portugal). Una sistemazione soddisfacente di Pessoa come “intellettuale”, cioè

dell’impianto culturale in senso lato della sua opera teorica e pubblicistica; e quindi degli intrecci, corrispondenze, accordi o dissidi che tale impianto costituisce con la cultura del suo tempo (portoghese in particolare ma anche europea, data la statura del personaggio), è ancora ben lontana dall’essere effettuata. Ciò, credo, per tre comprensibili motivi: innanzitutto la mole e la complessità dell’opera poetica, che ha soverchiato e messo in disparte l’attività del teorico; poi il legittimo convincimento di ogni suo critico che l’ipoteca risultante dall’essere tale opera ancora “aperta” (non solo per motivi intrinseci, ché sotto tale aspetto è “opera aperta” per eccellenza nel Novecento, ma per motivi estrinseci e magari banali: voglio dire per i numerosi inediti tuttora esistenti) ostacoli seriamente un giudizio, se non definitivo, almeno abbastanza attendibile di Pessoa come intellettuale e come uomo di cultura del suo tempo; e infine, motivo che non bisogna sottovalutare, l’imbarazzo della critica di fronte a un personaggio scomodo come Pessoa: il che la dice lunga sui pregiudizi e sull’inibizione di tutta quella critica che guardando al poeta ha rimosso il politico e il filosofo, operando una sorta di divisione sul personaggio (come se Pessoa, oltre a tutte le sue divisioni dal di dentro, avesse bisogno anche di ulteriori divisioni dal di fuori) e sbarazzandosi surrettiziamente del personaggio relegandolo nella classe differenziale, composita e indefinita, dei “cattivi” del Novecento. Com’è noto questa classe è stranamente e multiformemente affollata: ci sono quelli del ceppo hegeliano e coloro che a questo si oppongono, i totalitari e i liberali, gli anarcoidi e i misticheggianti; ci sono, facendo le debite distinzioni, Nietzsche, Pound e Céline, Bataille e Kafka; e infine le sorprese maggiori, i casi più difficili: coloro che vestono i panni della borghesia apparentemente più conservatrice e benpensante, in doppiopetto e gilè, e poi quando arriva il momento del compito in classe producono dei temi che sono una vera e propria rivoluzione (gli esempi illustri sono fin troppi, a cominciare da Carlo Emilio Gadda). Certo è vero che assieme con tutti costoro, con i primi della classe, ci sono anche gli asini degli ultimi banchi, violenti e scomposti, che riempiono le pagine di sgorbi e di patacche d’inchiostro. Ebbene, sia subito chiaro che anche nelle sue pagine più cattive e inquietanti, non solo nella composizione libera ma anche quando fa il tema di attualità politica, Pessoa non ha niente in comune con certi mediocri personaggi, come ad esempio alcuni vociani di casa nostra, di cui è ricca la classe dei “cattivi” del Novecento: appunto dalla voce troppo alta, beceri e

aggressivi in gioventù, docili e conformisti in età matura, remissivi e folgorati dalle conversioni dopo la pensione. Pessoa è di diversa tempra intellettuale e morale: in vita sua non si è mai abbandonato a chiassate e a declamazioni (o quando gli è successo ha affidato l’incombenza ad Álvaro de Campos – che maniera aristocratica in quest’alibi: come il signore che incarica il maggiordomo di sgridare gli scocciatori); lui così riservato, così apparentemente imperturbabile, così freddo e così solo, detesta la volgarità, la retorica, le folle e le parole d’ordine. Sostiene l’opportunità di una dittatura militare e il precetto della disuguaglianza: e allo stesso tempo aborre il fascismo e Salazar, che deride in poesia4; predica il Quinto Impero e il sebastianismo: e allo stesso tempo sbeffeggia Kipling, “imperialista di anticaglie”; si proclama futurista e sensazionista, ma disdegna i rumori e gli obici, deride Marinetti e canta l’asettica perfezione del binomio di Newton. Chi scrive non si considera uno storico della cultura, ma un semplice praticante di letteratura: perciò le sue indicazioni su quelli che si sogliono chiamare i “contesti” culturali sono incerte e approssimative. Tuttavia gli sembrerebbe utile leggere la posizione di Pessoa (che poi, a ben vedere, non è altro che una feroce polemica antiborghese) relativamente all’attrezzatura culturale della Prima Repubblica (1910-26), espressione di una borghesia attestata politicamente, questo sì, su una democrazia parlamentare di stampo liberale, ma rinserrata in una totale e viscerale indisponibilità di confronto con le frange intellettuali disturbatrici. I motivi di tale indisponibilità è opportuno lasciarli all’analisi degli storici competenti a ciò; quello che semplicemente si vuol fare qui notare è che la borghesia portoghese arriva al potere senza una rivoluzione, ma attraverso un regicidio e una sbrigativa sommossa la quale, anche se gode dell’appoggio popolare, non possiede certo il travaglio culturale e la problematica ideologica di una vera e propria rivoluzione. Direi che è proprio questa mancata ideologizzazione, l’assenza di una elaborazione e di una maturazione culturale, che conferisce alla rivoluzione borghese in Portogallo la sua esilità e la sua fragilità, facendola apparire più come un cambio della guardia che un periodo nuovo e innovatore. Mancandole la robustezza di un pensiero legittimante (forse perché essa si installa proprio nel momento più acuto della crisi di valori e di identità della borghesia europea, nel suo periodo di disorientamento, anche di spavento e di isteria), è naturale che non si sia conquistata le simpatie di quegli intellettuali portoghesi più inquieti e insoddisfatti, traumatizzati dal

cataclisma della Grande Guerra, nutriti di radicalismi e di utopie, insicuri, nevrotici e rivoltati. Un sogno portoghese Ora direi che proprio in questo particolarissimo contesto, per tornare alla parola in questione, è necessario vedere le posizioni ideologiche di Pessoa, le sue simpatie aristocratiche e i vaneggiamenti imperialisti, dato che l’ideale repubblicano e progressista è impersonato dal vecchio tipo dell’intellettuale positivista (ad esempio il buon Teófilo Braga, presidente della repubblica), onesto, ottimista, dogmatico e ovviamente inadeguato alla complessità dei tempi. Difatti l’élite culturale portoghese dell’epoca è generalmente aristocratica: sono tali i laico-nazionalisti della Renascença Portuguesa, impregnati di quella ideologia metastorica iberica che nella cultura spagnola coeva, ad esempio, trova i suoi rappresentanti in Unamuno e Ortega y Gasset; sono tali i Saudosistas del movimento capitanato da Teixeira de Pascoaes (anche se produrranno poi campioni di antifascismo come Jaime Cortesão), anch’essi procedenti in base a categorie misticheggianti e metastoriche come la Saudade e il sebastianismo; infine è aristocratico “Orpheu”, coagulo letterario dell’avanguardia storica portoghese, elitario e antiborghese, che conduce in Portogallo il corrispettivo di quella che fu in Italia l’offensiva lacerbiana e vociana contro il borghese “pantofolaio” (il lepidóptero così bersagliato da Sá-Carneiro). Intendiamoci: i ragazzi di “Orpheu” si stimavano rivoluzionari o forse, da buoni rivoltati, non si ponevano neppure il problema. La loro rivolta era diretta sia contro la cultura più retriva, sia contro il positivismo stanco di una borghesia bene intenzionata ma imparaticcia e terribilmente ritardataria, ferma esteticamente ai moduli del naturalismo zoliano. La rivolta di “Orpheu” sapeva di Europa: importava e acclimatava alla foce del Tago tutti gli ismi che andavano per la maggiore sulle rive della Senna (il dadaismo, il futurismo, il cubismo, l’orfismo, il simultaneismo) e ne fabbricava alcuni in Portogallo (il sensazionismo, il paulismo, l’intersezionismo: avanguardistiche bolle di sapone che scoppiavano un po’ malinconicamente, fra il battimano dei soliti amici, appena volate dalla cannuccia del loro inventore – sempre lui, l’ineffabile Fernando). Ci si aspetterebbe allora che l’elemento antidemocratico dell’avanguardia storica portoghese fosse, dati i tempi che correvano, il germe di violenza latente (o

patente) nella mistica dei pistoni e delle culatte del manifesto marinettiano: che poi mantenne quel che prometteva. E invece non è così. Il futurismo portoghese, così alieno dalla velocità, dalle locomotive, dagli obici e dalle esplosioni in genere (perfino da quelle delle parole, che godettero di scarsissima libertà), è un futurismo tutto interiorizzato, psicologistico e paradossalmente introverso, che cerca l’uomo futuro come fuga o liberazione, forse, da un presente in cui probabilmente l’uomo di allora si sentiva a disagio. Questa mi pare la connotazione più curiosa di un futurismo così eccentrico rispetto al decalogo marinettiano, e che funziona appunto come deterrente (e come rifugio, anche) di tutta una generazione di intellettuali impersonandone la rivolta e la collera, il disagio e la malinconia, anche se esse non uscirono completamente allo scoperto per dichiarare una guerra confederata all’odiato “lepidottero” e alla sua estetica, ma furono tanti piccoli duelli appartati e spesso privati, sostenuti (e perduti) con un cerimoniale dignitosissimo e un po’ démodé: il disastro finanziario di “Orpheu” appena al secondo numero, il “Portugal Futurista” che passa dalle rotative ai sacchi dei poliziotti, Sá-Carneiro che si suicida in frac in un modesto alberghetto parigino, Almada-Negreiros che prende il treno per l’Europa sulle orme dei già profughi Souza-Cardoso e Santa-Rita Pintor; oltre alla sconfitta di Pessoa (ma la sua era una sconfitta ontologica, non esistenziale), sempre più rimpiattato nei panni dimessi dell’impiegato di concetto. Gli occhiali per il Gran Viaggio Questo il clima culturale in cui si inserisce il discorso di Pessoa e che in lui trova conseguenza, sul piano ideologico, nella professione delle idee nazionaliste, imperialiste e perfino dittatoriali. Non si corra col pensiero a una figura del nostro tempo che parrebbe costituire un paragone obbligato: Borges. La poesia di Pessoa è l’analisi più complessa, dolente e tragica ma insieme lucida e impietosa dell’uomo del Novecento: un uomo tormentato che deride e si deride e che, nella sua verità e nella sua cattiveria, nell’abuso del paradosso, nella capacità di affermare ironicamente il contrario di un assioma già ironicamente adoperato, realizza una poesia fra le più rivoluzionarie del Novecento. E dunque, per non correre il rischio di dare frettolose e forse inutili etichette politiche a un pensiero così controverso, complesso, scomodo e perfino imbarazzante, diremo piuttosto che Pessoa

appartiene alla letteratura “negativa” del Novecento, cercando eventualmente di scoprirne le strutture portanti. E allora individueremo dapprima l’antiragione (vale a dire la liberazione dell’onirico e dell’inconscio) che viene allo scoperto soverchiando la ragione; e poi, grazie al meccanismo dell’eteronimia che consente a tutti gli ii di poetare contemporaneamente, l’affermazione della sincronia sulla diacronia (e che significa, tradotta sul piano poetico, la frantumazione delle categorie hegeliane). Infine, l’affermazione di una temporalità e di una spazialità interiori che non corrispondono a quelle esteriori, a quelle aristotelico-cartesiane: una non aderenza, nell’uomo, fra il suo “dentro” e il suo “fuori”. In questo nostro secolo così filantropico e nefando, Pessoa teme tutte le filantropie e tutte le nefandezze. Non ama le carità teoretiche e rassicuranti e ne presenta il risvolto inquietante; e non ama le utopie solenni e carismatiche, quasi ne presagisse le turpitudini e le carneficine. Pessoa è una plurima, mostruosa cattiva coscienza: la mia, la nostra, la vostra, quella di tutti gli uomini di buona volontà, di qualsiasi buona volontà si tratti. Pessoa è un grido di dolore e un belato, un canto altissimo e una smorfia, un’unghia che corre sulla lavagna dove un buon professore voleva tracciare la tranquillizzante dimostrazione del suo teorema. Pessoa è una concrezione, una di quelle creature che sembrano unte dal destino a sommare in sé pene che non appartengono loro. “Morse transmitindo o não do sim”, morse che trasmette il no del sì, come dice il verso di una poesia che gli ha dedicato Murilo Mendes, il “negativo” di Pessoa consiste forse in questo: nel rifuggire il segno che si afferma, nel ripudiare la prevalenza. Perché egli ha capito che in ogni sì, anche nel più pieno e nel più rotondo, c’è un minuscolo no, un corpuscolo portatore di un segno contrario che gira in un’orbita oscura a creare proprio quel sì che prevale. E ha deciso di indagare l’orbita oscura, come un bizzarro scienziato che esplora il lato patologico della salute. Nel suo non volere assolutamente insegnare niente, questo “solenne investigatore delle cose futili”, come egli dice di se stesso, sarà un avvertimento o un’intimidazione, un cenno amico o una risata nel buio? Forse si potrebbe dire che Pessoa non riesce a passare, o perlomeno non riesce a passare senza traumi, dal piano concettuale a quello del pragma; probabilmente è convinto che nel farsi il Verbo carne è implicita una certa dose di volgarità. Pessoa ama il gesto, non la mano cui quel gesto appartiene (“O suonatrice di arpa, s’io baciassi / il tuo gesto senza baciare le tue mani!”).

Forse detesta il mondo: ama solo l’idea platonica del mondo. E forse un giorno qualcuno ci dirà, con maggiore credibilità di quanto non abbiano fatto finora quei critici che hanno adoperato con lui una frettolosa psicoanalisi, che il suo essere “negativo” consisteva in fondo in un fatto tutto suo, interiore e privatissimo, qualcosa di segretamente casto e turpe: una turpitudine speciosa e bianca che partecipa dell’impotenza e che è un peccato (o un vizio) dell’intelligenza. Un piccolo grumo che, nato in una dimensione strettamente privata, forse familiare e infantile, certo esistenziale, è diventato Weltanschauung, ha assunto dimensioni ontologiche, ha trovato favorevole ambiente di crescita in un’epoca e in una cultura e ha inceppato il rettilineo condotto aristotelico-cartesiano in cui correva la civiltà occidentale; e ha creato ristagni, paludi, sconosciute diramazioni e inquietanti criteri di intendere il rapporto con se stessi e con gli altri, individualità e interindividualità, socialità e privatezza, normalità e follia. Quello che fu forse, in origine, l’oscuro grumo del bambino Fernando è diventato il superbo peccato di intelligenza del poeta Pessoa: la perversione di abdicare al reale per possedere l’essenza del reale. Una radicale, quasi disgustata rimozione, che fa di Pessoa il più sublime poeta del rovescio, dell’assenza e del negativo di tutto il Novecento. Ma ora, indipendentemente dalle cause che possono aver prodotto la sua visione al negativo dell’uomo e del mondo, quello che più ci colpisce è constatare come ad essa Pessoa sia sempre rimasto fedele, lucidamente e con rara coerenza, senza mai trovare rifugio, nemmeno sul letto di morte, nell’alibi dei pentimenti e delle conversioni. E cedendo per un momento alle suggestioni che vengono dalla biografia, forse non è vano riferire la frase che a detta del suo autorevole biografo e amico (il suo Max Brod), João Gaspar Simões, quell’imperterrito e schernevole teosofo pronunciò prima di spirare – lui che era molto miope: “Datemi i miei occhiali”. Pessoa: chi era costui? Ma se, nonostante la sua gelida e scettica ironia, il reale non fosse né inutile né assurdo: se cioè Pessoa ha inaspettatamente trovato, “di là”, proprio quel Reale maiuscolo sempre cercato dal quale affacciarsi, come su uno specchio, su questo disprezzabile e marcescibile reale minuscolo, chissà come si sarà divertito, quel giorno del 1942, osservando da dietro le spesse

lenti i suoi amici alle prese col suo baule. Perché gli inediti, oltre che confermare e potenziare le maggiori figure eteronimiche fino alla dimensione di quattro opere poetiche distinte, di vasta e complessa articolazione (Caeiro, Campos, Reis, più l’ortonimo), oltre che arricchire la figura dell’eteronimo prosatore Bernardo Soares, rivelano la compiuta esistenza di due filosofi, Raphael Baldaya e António Mora, fatti conoscere solo recentemente, insieme alle più insospettate attività ortonime: un Pessoa diarista, estetologo, critico letterario, autore di racconti gialli. E inoltre comincia a prendere corpo tutta una folla misteriosa e affascinante: Jean Seul e Thomas Crosse, Charles Robert Anon e Charles Search, Alexander Search e il Barão de Teive, Pantaleão, A.A. Crosse... E ancora: le autoanalisi di tipo psicoanalitico, le autodiagnosi nelle minute di lettere (spedite oppure no?) a psichiatri dell’epoca, le provocatorie interviste di Campos, le dispute fra gli eteronimi, le loro reciproche lodi o stroncature, gli oroscopi di Caeiro e di Campos; e ancora: il biglietto da visita di Raphael Baldaya, le prove calligrafiche di un Robert Anon che non ha ancora imparato a scrivere come Anon, la firma perentoria, volitiva e inequivocabile di Campos, la serena grafia di Maestro Caeiro. Infine: gli abissi esoterici, le visioni astrali e il diario limpidissimo, di una oggettività incredibile e impietosa, da cartella clinica. Forse a quel punto i pochi amici che credevano di conoscerlo, che di lui sapevano non solo gli aspetti pubblici dell’intellettuale, ma anche l’aspetto privato dell’uomo, quel “tono minore di una condizione impiegatizia patologicamente rispettosa del rituale”, come ha detto Luciana Stegagno Picchio, gli amici al corrente del tran-tran di quell’impiegato di concetto così prevedibile (il cappello, il vestito scuro, la camera in affitto, la sosta al caffè – sempre lo stesso – per le quattro chiacchiere), probabilmente avranno provato un senso di disorientamento. Pessoa: chi era costui? La follia, questa vecchia amica L’inevasa domanda rimbalza fino a noi: e anche l’imbarazzo che essa comporta. Forse la si potrebbe parzialmente neutralizzare condividendo il presupposto di Eduardo Lourenço, uno dei suoi critici più acuti, che apre una sua recente monografia sul poeta con una frase epigrafica: “L’autore di queste pagine accetta previamente, e in tutta la sua estensione, che Pessoa sia una natura geniale. Chi conosce l’esegesi suscitata dall’opera del poeta sa che

questa ingenuità non è comune: ma non ignorerà, tuttavia, che l’apparente facilità di questa accettazione non risolve nessun problema”. La genialità (che non spiega i problemi), certo; ma, vorrei aggiungere, anche la follia. E non per la complementarità dei termini, per la nota equazione di Lombroso fra genio e follia; ma proprio perché la follia affiora e scompare, circola latente o scoperta nella vita e nell’opera di Pessoa. Nella vita circola sotto varie forme. Fa capolino nella solitaria infanzia, quando, attraverso l’immaginario personaggio del Chevalier de Pas, il piccolo Fernando scrive lettere a se stesso; è presente come tragedia familiare quando, prima di partire per Durban, la famiglia è costretta a ricoverare la nonna paterna, afflitta da gravi turbe mentali, in un ospedale psichiatrico di Lisbona; si riaffaccia nell’adolescenza sudafricana con la creazione dell’eteronimo Alexander Search che, evaso dalla dimensione della letteratura ed entrato nella vita, intreccia una corrispondenza con Pessoa; si delinea scopertamente, arginata però da un lucido controllo, in quella histeronevrastenia autodiagnosticata in una lettera indirizzata (e forse mai spedita) a due noti psichiatri francesi dell’epoca, i dottori Hector e Henri Durville; pare dilagare ormai incontrollabile nei periodi “esoterici”, quando Fernando annota le sue visioni astrali ed eteriche, i poteri radioscopici della sua vista e la sintonizzazione interiore sulla lunghezza d’onda di un Maestro sconosciuto. Ma la follia, apparentemente, circola anche nell’opera. E non tanto per quei tuffi nell’esoterismo, per l’ermetismo quasi negromantico di certe poesie ortonime; ma proprio per il fatto esterno, per l’impalcatura di un’opera che si regge su personaggi così autonomi, così diversi, a volte così contrastanti. Senza contare la meticolosità maniacale con cui costoro sono messi a vivere, ciascuno delineato nella sua anagrafe, nelle caratteristiche somatiche, nell’indole, nei tic, nelle preferenze. Se tutto ciò può sembrare follia, anch’essa però, così come Eduardo Lourenço avvertiva per la genialità, a sua volta non risolve nessun problema. Nella sua realizzazione, infatti, l’eteronimia funziona alla perfezione; se cioè può lasciarci perplessi il meccanismo che provoca la dissociazione, ogni personaggio è poi un poeta autentico, autosufficiente, perfetto. La follia è dunque estrinseca all’opera: intrinsecamente è razionalizzata e risolta. E a questo punto il discorso si sposta necessariamente sul piano della finzione che presiede al fatto letterario. Nella finzione letteraria, cioè nella

creazione di personaggi inesistenti, in questa bizzarra partita a tennis nella quale la palla viene lanciata solo dall’autore mentre il personaggio sta dall’altra parte della rete con la funzione, per così dire, che gli siano lanciate le palle, Pessoa ha accettato di giocare fino in fondo. Con lui la partita si è mossa nei due sensi: a un certo momento colui, anzi coloro che stavano dall’altra parte della rete hanno risposto. E Pessoa, lealmente, ha giocato. Non c’è nessun caso clinico da scoprire nell’eteronimia di Pessoa, solo una “semplice follia”, così come forse è “semplice follia” tutta la letteratura. Per spiegare Pessoa, e magari anche per neutralizzare l’inquietudine che egli ci comunica, si è parlato di turbe e di traumi, di carenza affettiva, di complesso edipico, di omosessualità rimossa. Forse c’è tutto questo e forse niente di questo: ma non è questo il punto e non è questo che conta. Quello che conta è, come egli ci ha detto, che “la letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta”. La botola dei meandri Con Pessoa una delle grandi preoccupazioni della letteratura della nostra epoca, l’Io, entra in scena e comincia a parlare di sé, comincia a riflettere su di sé. Attraverso un’impostazione meticolosa, da referto psicoanalitico, l’eteronimia non è altro che la vistosa traduzione in letteratura di tutti quegli uomini che un uomo intelligente e lucido sospetta di essere. Si potrebbe semmai aggiungere che forse in nessun’altra epoca come nella nostra l’uomo intelligente e lucido ha sospettato di essere tanti uomini. Un sospetto che Nerval aveva fatto in tempo a sussurrare alla platea (“Je suis l’autre”) mentre il sipario calava sull’Ottocento, e che il folletto Rimbaud, attraversando il palco letterario come una meteora, aveva eversivamente gridato, nella lettera a Paul Demeny, il 15 maggio 1871: “JE est un autre”. Ma è evidente che Pessoa, con l’accurata stesura dei diversi copioni attribuiti a ogni suo altro, opera non tanto nella direzione verticale dell’irresponsabilità del creatore, tipica delle poetiche tardo romantiche (anche se questo elemento irrazionale e incontrollabile è presente nei punti fondamentali della sua opera, come nell’automatismo con cui sostiene che scriva il primo eteronimo), quanto nella direzione del creatore che si fa responsabile e dominatore di un atto inizialmente irresponsabile, e che si muove sul piano orizzontale di un sistema. In tal senso si può dire che una

delle più frequentate problematiche del Novecento Pessoa l’ha già tutta riassunta, in anticipo, nella attribuzione del gioco delle parti del suo sistema. Dico in anticipo perché “il giorno trionfale della sua vita”, quando il latente Caeiro (e dopo di lui sarà la volta di Campos e di Reis) viene alla luce e comincia a poetare, è un giorno di marzo del 1914, e il Novecento degli uomini che dalla botola della letteratura si calano nei sotterranei dell’Io (Breton e accoliti da una parte; lo Svevo della Coscienza, il Pirandello di Uno, nessuno e centomila, il Joyce del Finnegans e il Machado del Juan de Mairena dall’altra), quel Novecento è ancora tutto da inventare. L’eteronimia o dell’uomo multiplo; o anche, paradossalmente, della patologia e insieme terapia della solitudine. Solitudine che poi è l’altro aspetto e significato del sistema eteronimico, ed è anche, assieme all’Io (e sua diretta conseguenza), l’altro grande protagonista del Novecento. Perché, evidentemente, con l’Io secundum non datur: l’Io è uno sguardo in dentro, e solo in questa direzione: il microcosmo diventa macrocosmo, il soggetto esclude l’oggetto, anzi il soggetto diventa oggetto di se stesso, si pone a se stesso come altro da sé. Non c’è più l’altro, ma l’alter ego: l’eteronimo. L’eteronimia, nella sua moltitudine, è di fatto una solitudine che può anche assumere dimensioni metafisiche e che costituisce veramente l’altro grande nodo della cultura del nostro secolo (Kafka, Heidegger, Camus, Beckett). Estou só, só como ninguém ainda esteve, Oco dentro de mim, sem depois nem antes. (Sono solo, come nessuno lo è ancora stato, / vuoto dentro di me, senza prima né dopo.)

Così suonano due versi di una delle prime poesie (1917) di Álvaro de Campos. Di quello stesso Campos che in Passagem das Horas ci rivela grandiosamente, quasi ferocemente, il segreto della sua sola moltitudine: Multipliquei-me para me sentir, Para me sentir, precisei sentir tudo, Transbordei, não fiz senão extravasar-me, Despi-me, entreguei-me, E há em cada canto da minha alma um altar a um deus diferente. (Mi sono moltiplicato per sentirmi, / per sentirmi, ho dovuto sentir tutto, / sono straripato, non ho fatto altro che traboccarmi, / mi sono spogliato, mi sono dato, / e in ogni angolo della mia anima c’è un altare a un dio differente.)

Ma la solitudine metafisica è solo il piano “alto” della solitudine di questo portoghese enigmatico che all’inizio del secolo ha fissato in poesia i temi più angoscianti della letteratura che lo avrebbe seguito: sul piano “basso” c’è anche la solitudine dell’uomo, la monotona vita da impiegatuccio assunta

come metafora di una solitudine esistenziale che non prevede compagnie di nessun genere, né umane né ideologiche né religiose. E sarebbe forse necessaria un’incursione nella sua biografia, anche se provoca un senso di disagio e quasi di colpa visitare l’esistenza di un simile personaggio, profanare quel grigio guscio cheratinoso così pertinacemente elaborato sotto il quale Fernando Pessoa visse la sua impercettibile vita di insetto piccoloborghese. Scrivere, vivere Ma bisogna dirlo come preambolo, anche questa esistenza come “fa” Novecento! Se pensiamo che in quegli anni sulla ribalta letteraria campeggiano gli ori e i damaschi, la fatiscente sontuosità degli Huysmans e dei D’Annunzio, le figure roboanti e superumane, ci rendiamo conto di come esse siano avanzi di un’altra epoca, relitti di un Ottocento naufragato. E capiamo anche quanto sia novecentesca l’esistenza di Pessoa, quintessenza e paradigma di quelle esistenze borghesi dei Valéry e degli Svevo, o meglio, più Monsieur Teste e Zeno Cosini che Valéry e Svevo stessi, più kafkiano di un personaggio di Kafka: prototipo dell’uomo-nullità, del poveraccio, dell’impiegatuccio con una vita fatta di malinconiche camere d’affitto, di uno che un giorno potrebbe svegliarsi insetto come Gregor Samsa. Lui, Pessoa, è anche nella vita un personaggio esemplare della letteratura del nostro secolo. Si potrebbe dire che Valéry con Monsieur Teste, Svevo con Zeno e Kafka con l’Agrimensore o con K., hanno in qualche modo esemplato la loro stessa vita abbassandone il tono di qualche ottava, riducendola in letteratura a infima condizione esistenziale. Pessoa tale ruolo lo ha vissuto per davvero. La solitudine di Fernando è all’inizio un prodotto delle circostanze. Nel 1893 la scomparsa del padre tubercoloso, quando Fernando ha solo cinque anni; la morte del fratellino l’anno seguente; il silenzio di una casa segnata dai lutti e dalla follia, il ricovero della nonna in un manicomio di Lisbona; e poi lo sradicamento, la partenza per Durban dove risiede il patrigno, il comandante João Miguel Rosa, console portoghese in Sudafrica; infine l’adolescenza e la giovinezza sudafricane che praticamente mai compaiono nella sua poesia: eppure furono dieci anni, dal 1895 al 1905. Ci soccorre, per l’evocazione di quel periodo da lui mai rammentato, così caparbiamente rimosso dalla memoria e bandito dalla poesia, l’iconografia color seppia

dell’album di famiglia, le varie fotografie. Una di esse ritrae un esterno senza personaggi: l’arcigna cappella neogotica e una parte dell’austero istituto St. Joseph’s School di Durban dove Fernando frequentò le classi elementari. È un’immagine anonima e comune, sulla quale lo sguardo potrebbe scivolar via: ma riferita all’infanzia di Pessoa ci parla di un’educazione puritana, di una pedagogia severa e repressiva, del vittorianesimo vissuto in un paese remoto. La seconda fotografia, una posa di studio, è la carta d’identità che ogni famiglia borghese rilasciava, attraverso l’immagine della prole, del proprio ruolo sociale, gusto e stile di vita. Fernando decenne indossa la divisa di scolaro, una blusa scura col fiocco sul bavero e pantaloni alla zuava, con i calzettoni fino al ginocchio, una mano goffamente infilata in tasca per metà. Il ritrattista gli ha posato la paglietta nastrata, da signorino, su uno di quegli atroci tronchi d’albero che gli studi fotografici di fine secolo amavano tanto. L’ultima fotografia, la più leale, si sottrae al codice della rappresentazione sociale. L’istantanea ha sorpreso il gruppo di famiglia sulle scalette del loro cottage di Durban. A destra c’è il comandante Rosa, in borghese, già pingue e maturo, con un faccione burbero eppure bonario, che sorregge il penultimo dei figli. A sinistra la signora Madalena, invecchiata da una precoce canizie, con l’ultimo nato sulle ginocchia; e seduto a metà scala, a fianco della sorellina, ma da lei discosto, Fernando adolescente, un giovanottino esile con le spalle cadenti, le mani intrecciate su un ginocchio, la bocca stretta da una impercettibile piega malinconica e gli occhi persi oltre l’obiettivo. Ha una positura scomoda, come impaziente, di chi si sente transitorio e fuori posto: non è implausibile leggere sul suo viso la saudade della Lisbona degli anni in cui egli “era felice e nessuno era morto”. No tempo em que festejavam o dia dos meus anos Eu era feliz e ninguém estava morto. Na casa antiga, até eu fazer anos era uma tradição de há séculos, E a alegria de todos, e a minha, estava certa com uma religião qualquer. (Al tempo in cui festeggiavano il mio compleanno / io ero felice e nessuno era morto. / Nella casa antica, perfino il mio compleanno era una tradizione secolare, / e l’allegria di tutti, e la mia, era giusta come una religione qualsiasi.)

Si tratta di una Lisbona che vive dentro di lui nell’immagine incontaminata della memoria infantile: irripetibile e irrecuperabile (ma questo Fernando non lo sa ancora, potrà scriverlo solo molti anni più tardi), Outra vez te revejo, Cidade da minha infância pavorosamente perdida...

Cidade triste e alegre, outra vez sonho aqui... Eu? Mas sou eu o mesmo que aqui vivi, e aqui voltei, E aqui tornei a voltar, e a voltar, E aqui de novo tornei a voltar? Ou somos todos os Eu que estive aqui ou estiveram, Uma série de contas-entes ligadas por um fio-memória, Uma série de sonhos de mim de alguém fora de mim? (Di nuovo ti rivedo, / città della mia infanzia spaventosamente perduta... / Città triste e allegra, eccomi tornato a sognare... / Io? Ma sono lo stesso che qui è vissuto, che qui è tornato, / e che qui è tornato a tornare, e a ritornare, / e di nuovo a ritornare? / O siamo tutti gli Io che qui sono stato o sono stati, / una serie di grani-enti legati da un filo-memoria, / una serie di sogni di me di qualcuno fuori di me?)

A Lisbona Fernando rientra nel 1905, per iscriversi alla facoltà di Lettere. Evidentemente non ha saputo resistere alla tentazione delle memorie infantili. Ma ormai la sua solitudine se la porta appresso, anche come formazione culturale. È la solitudine dell’estrangeirado, dello straniero in patria sua, dell’alloglotta: una solitudine simile a quella del “tedesco” Kafka e del “francese” Beckett. È pur vero che al di fuori, come reazione, c’è il portoghese caparbiamente reimparato, la lettura affannosa e vorace della letteratura patria, e poi l’agitazione dell’intellettuale, i progetti (rovinosi) editoriali, l’avventura avanguardista. Ma dentro c’è l’incapacità di inserimento nella realtà, il senso dell’inutilità del tutto e dell’estraneità a tutto, il desiderio della sicurezza e della consuetudine, che si traduce, una volta buttate alle ortiche le dispense universitarie, nel rifugio nella condizione impiegatizia, segnata dall’oscillazione fra l’orario di ufficio e la camera di affitto. Le sue personal notes, che la sera redige nell’idioma che gli serve al colloquio con se stesso (l’inglese), trasudano solitudine. Oltre allo zibaldone di appunti disparati (critica, filosofia, letture, pensieri vari), c’è un piccolo diario redatto in quello stile neutro e impersonale, da referto, che a volte Pessoa impiega negli scritti che lo riguardano in prima persona: è lo scarno resoconto delle sue giornate fra il febbraio e l’aprile del 1913, e non necessita di commenti per lo squallore e la solitudine che denuncia senza volerlo. Finalmente, la fatidica sera di marzo del 1914, il parto del primo eteronimo, e quindi la folla fittizia. O, come ho detto prima, la terapia della solitudine. Solitudine di un uomo che si rifletterà a sua volta nell’immagine speculare di tre uomini soli. Dalla scheda anagrafica di Caeiro, Campos e Reis, redatta con tanta minuzia, manca infatti ogni sorta di compagnia, familiare o sentimentale. Non solo: anch’essi, come il loro padre, sono dei déplacés, degli emarginati: Reis vive in esilio volontario in Brasile, per via

delle sue idee monarchiche; Campos, ingegnere navale laureatosi a Glasgow, vive disoccupato a Lisbona; Caeiro, che ha già sulla scheda anagrafica il certificato di morte, è sempre vissuto in campagna, presso una vecchia zia. E dal momento in cui la solitudine diventa triplice, ogni possibile valenza è saturata: da allora Fernando Pessoa diventa un circuito chiuso, un sistema autosufficiente. La cronaca letteraria registra il suo sodalizio con gli intellettuali portoghesi dell’epoca (specie il poeta Mário de Sá-Carneiro): ma è un rapporto che riguarda principalmente la sfera intellettuale e culturale, con un contegno sempre compassato e riservato sul piano umano e affettivo; la cronaca privata registra una sua amicizia sentimentale con Ophelia Soares Queiroz, una signorina di buona famiglia lisbonese: ed è un rapporto tutto giocato su un piano che partecipa del doloroso, del morboso, forse dell’autolesionismo. Pessoa le scrive lettere d’amore che ci stupiscono, a prima vista, in un uomo come lui, per il loro apparente timbro da “normale fidanzato”. E il gioco va avanti così, in un’atmosfera che potrebbe soltanto essere tenera e patetica se non si avesse il sospetto di qualcosa di vischioso e di assurdo. Del resto è difficile giudicare quella lettera in cui Fernando, che sapeva Ophelia pia e credente, la invita a pregare per l’amico A.A. Crosse, cultore di enigmistica, che ha partecipato a un ricco concorso sciaradistico messo in palio dal “Times” di Londra: giacché se l’amico Crosse risultasse vincitore dell’ingente somma, si capisce che ha generosamente promesso a Fernando una parte del denaro affinché lui e Ophelia possano comprare quanto necessitano per accasarsi. Sennonché A.A. Crosse esiste nella stessa dimensione in cui esistono Reis, Campos e Caeiro. Anche se è un semplice scherzo, di cui Ophelia è evidentemente al corrente, non è poi tanto semplice come si potrebbe pensare, visti i rapporti così intricati che esistono fra Pessoa e i suoi eteronimi. Un uomo, molte avanguardie Ritengo che l’incursione nella biografia possa sospendersi qui. Del resto non è tanto il livello “basso”, non è tanto il fatto privato (è anche questo) che Pessoa ci partecipa attraverso la poesia; bensì, decantato da ogni scoria dell’individuale, il paradigma di una condizione esistenziale che non riguarda più lui solo, ma l’uomo del suo tempo. Ma Fernando Pessoa, oltre alla vita privata fatta di ufficio e pensione, di

puntualità e solitudine, ha vissuto anche un’altra vita. Una volta rincasato dalla sua giornata di orari, sfilatesi le mezze maniche dello scrivano, l’impiegato Fernando si trasforma. E inventa l’avanguardia portoghese. Anzi, le avanguardie. Per vent’anni, dal 1910 al 1930, la vita culturale del suo paese è marcata da lui. Prima veste i panni del poeta “paúlico” (i testi chiave: Impressões do Crepúsculo, Hora Absurda, Ó sino da minha aldeia): di difficile traduzione per altre latitudini culturali, ma che certamente è consanguineo del tardo simbolismo e del liberty: qualcosa come un’accentuazione morbosa e deliquescente dell’orfismo e che trova affinità elettive in Campana, Klimt, Gaudí. La parte del “paúlico”, tuttavia, lo stanca presto. Nel 1914, ritornando a se stesso dal primo viaggio eteronimico (Alberto Caeiro), codifica, in Chuva Oblíqua, l’intersezionismo: movimento di cui egli sarà il maestro e l’unico vero seguace e che coagula in poesia i fermenti dell’epoca: Delaunay, le scomposizioni futuriste, l’atonalità e le teorie della fisica sullo spazio e sul tempo. Come un Fregoli preso dal raptus del travestimento, l’impiegato Fernando si esibisce in una sequela di numeri prodigiosi: è l’uomo principale di “Orpheu” e uno dei futuristi di “Portugal Futurista”, è il sensazionista Álvaro de Campos che scrive un ultimatum ai mandarini letterari dell’epoca, è l’anticonformista più chiassoso, è il classicheggiante calmo e pacato di “Athena”, è ripetutamente ospite d’onore su “Presença”, la più prestigiosa rivista degli anni trenta. Evidentemente l’impiegato di concetto ha sempre qualcosa per tutti, la sua ricchezza è inesauribile. Ma sui suoi monologhi sta per calare il sipario. La galassia eteronimica Basterebbe certamente la portata dei problemi che Pessoa solleva (la Coscienza, l’Io, la Solitudine) e l’inquietante maniera di impostarli (l’eteronimia), per fare di lui una delle presenze chiave della poesia contemporanea, una figura sbalorditiva e imprescindibile del Novecento. Ma non è tutto. Perché Pessoa non ha creato quattro poeti (per dire unicamente dei personaggi maggiori) solo per glossare la sua solitudine. In realtà ciascuno dei quattro dibatte a sua volta, e in maniera drammatica, i grossi temi del pensiero e della poesia del nostro secolo. L’ortonimo è l’esoterico e il mistico delle poesie ermetiche e di Mensagem, l’esteta che dissipa il

paulismo per poi sperimentare nell’avanguardia intersezionista di Chuva Oblíqua le nuove suggestioni di spazio e di tempo che il Novecento sta scoprendo; ma è anche il brivido metafisico, il terrore dell’uomo di fronte alle cose, il male di vivere e l’autognosi, il dolore della guerra. Campos, il futurista contraddittorio, ardente e angustiato, è il rovello gnoseologico, l’uomo che cerca “l’anello che non tiene” e che si arrende alla terribile plausibilità del reale. Caeiro, il fenomenologo, è l’Occhio, l’olimpica e insieme tenebrosa ricognizione del mondo. Reis, il monarchico in esilio è, col suo bizzarro neoclassicismo, l’ironica accettazione di un mondo incomprensibile e immutabile. Questo in poverissima sintesi, perché poi ciascuno di loro è un poeta contraddittorio, dotato di complessi meccanismi, di intricati circuiti psicologici, di varie e contrastanti ascendenze culturali: un universo, come lo è ogni uomo. E accanto a questi universi ci sono altri nebulosi sistemi, stelle lontane di cui giunge appena una fioca luce, piccoli satelliti, meteoriti che s’incendiano per un attimo e scompaiono nella notte, frammenti: si tratta di António Mora, filosofo ricoverato nella clinica psichiatrica di Cascais; di Raphael Baldaya, speculatore paradossale e nichilista; di Bernardo Soares, semieteronimo per definizione, autore di un sublime zibaldone intitolato Livro do Desassossego (Libro dell’Inquietudine), che canta l’Universo nelle botteghe di barbiere. E con loro altri personaggi sfuggenti che la critica ha chiamato “sub-eteronimi”, denominazione che rivela, nell’imbarazzata terminologia, la fatica degli esegeti di fronte alla complessità dell’opera, quasi si trattasse di un sistema dell’ordine naturale nel quale per districarsi è necessario creare categorie di famiglie, di specie e di sottospecie: A.A. Crosse, cultore di enigmistica; Frederico Reis, cugino del più celebre Ricardo, critico e letterato; Alexander Search, responsabile di alcuni racconti in inglese, di testi filosofici ed esoterici. E poi ancora: Charles Robert Anon, Vicente Guedes, Abílio Quaresma, il Barão de Teive... Nomi, firme perdute, parvenze. A questo punto il fatto eteronimico diventa davvero una galassia in cui si perde l’orientamento, o di cui forse si perde il senso. A questo punto, senza dubbio, Pessoa è l’eteronimia: parlare semplicemente di artificio letterario sarebbe sufficienza e presunzione. Manca sempre una cosa

E anche dire, come è stato detto, che ciascun eteronimo (ma il discorso sarebbe valido solo per gli eteronimi maggiori, almeno per ora) è un capitolo di un unico Poema, un momento di vita, ci lascia soddisfatti solo parzialmente, perché il “Poema” di Pessoa si attua in una dimensione sincronica, tutto avviene contemporaneamente, il tempo sembra liquefatto. Infatti, allorché Pessoa demanda a Caeiro la descrizione di un reale oggettivo alle cui apparenze credere, Campos ha già divorato le apparenze e si è arreso alla loro plausibilità, Reis si è già epicureamente appagato di ciò che il reale gli offre, e Pessoa ortonimo è già sfuggito a questo stesso reale per cercare altrove una risposta e una ragione. A suo modo simile all’Osservatore Inerziale nella teoria einsteniana della Relatività (alla quale del resto Álvaro de Campos paragona la sua Estetica non-aristotelica), Pessoa si fa Osservatore Inerziale della sua vita: riesce a vivere sincronicamente la sua diacronia. Come dire che egli vive tutta la sua vita sempre e subito. Ma quante vite ci sono in una vita? Proviamo a guardare la vita di una persona attraverso i suoi ritratti di epoche diverse: non ci darà un brivido di sbigottimento? È la stessa persona segmentata in più tempi, o il tempo segmentato in più persone? E coloro che invecchiano con lo stesso volto di quando erano bambini, forse che non incutono anch’essi spavento? E poi: quanto dura il tempo di una vita? Ha ragione l’anagrafe o il Genio delle Mille e una notte rinchiuso in un’ampolla? “Secoli e secoli, e solo nel presente accadono i fatti; innumerevoli uomini nell’aria, sulla terra e sul mare, e tutto ciò che realmente accade, accade a me...” Questa constatazione della meschinità cui ci obbliga l’unicità dell’essere, la residenza coatta dell’hic et nunc, su cui un personaggio di Borges riflette sconsolatamente nel Giardino dei sentieri che si biforcano, Pessoa l’ha elusa essendo tanti altri, quanti più altri poteva essere: e contemporaneamente. È un peccato di una superba empietà, che gli dèi greci avrebbero punito con un atroce supplizio. E anche Dante gli avrebbe escogitato un contrappasso degno di tanta offesa. Ma Pessoa non è certo sfuggito all’ira della divinità che ha sfidato, e non ha bisogno di un sistema religioso per trovarsi la pena che gli compete. Nella sua lucidità, proprio mentre sta commettendo il suo peccato, mentre sta essendo quello che non è dato di essere, sa perfettamente che “falta sempre uma coisa, um copo, uma brisa, uma frase, / e a vida dói quanto mais se goza e quanto mais se inventa”,

che manca sempre una cosa, un bicchiere, una brezza, una frase, / e la vita duole quanto più la si gode e quanto più la si inventa.

3

È la lettera sull’eteronimia ad Adolfo Casais Monteiro del 1935 (inclusa in appendice), che, seppur pubblicata in “Presença” due anni dopo la morte del poeta, era circolata nell’ambiente letterario conimbricense. 4 Sull’argomento è fondamentale il volume a cura di José Barreto, Fernando Pessoa – sobre o fascismo, a ditadura militar e Salazar. [N.d.C.]

Una vita, tante vite

Fernando Pessoa Fernando António Nogueira Pessoa nasce il 13 giugno 1888 a Lisbona da Madalena Pinheiro Nogueira e Joaquim de Seabra Pessoa, critico musicale di un giornale cittadino. Nel 1893 muore il padre, ammalato di tubercolosi, e l’anno seguente muore anche il fratellino più piccolo di Fernando. È di questo anno la comparsa del primo personaggio fantastico, lo Chevalier de Pas, attraverso il quale Fernando “scrive lettere a se stesso” (cfr. la lettera sull’eteronimia a Casais Monteiro). Nel 1895 la madre si risposa col comandante João Miguel Rosa, console portoghese a Durban, e la nuova famiglia si trasferisce in Sudafrica dove Fernando compie tutti gli studi fino all’esame di ammissione all’università del Capo, concorso nel quale ottiene il Queen Victoria Memorial Prize. Decide tuttavia di proseguire gli studi in patria e nel 1905 ritorna a Lisbona per iscriversi alla facoltà di Lettere. Dopo aver abbandonato gli studi tenta fallimentarmente un’avventura editoriale investendo in una tipografia il lascito della nonna paterna. Si impiega come traduttore di lettere commerciali in inglese e francese presso alcune ditte lisbonesi di import-export e si trasferisce in casa di una zia presso la quale abiterà per molti anni. Nel 1913, dopo essere passato attraverso l’esperienza del saudosismo di Teixeira de Pascoaes, inventa e lancia il “paulismo”, che trova immediatamente entusiastici adepti nei poeti della sua generazione. Nel 1914 (otto di marzo) appare Alberto Caeiro. Lo seguono Ricardo Reis e Álvaro de Campos. Nel 1915, con Mário de Sá-Carneiro e altri amici (fra cui Almada Negreiros e Armando Côrtes-Rodrigues) pubblica “Orpheu”, rivista di avanguardia che raccoglie esperienze futuriste, “paúlicas” e cubiste, e che morirà al secondo numero dopo aver suscitato una larga quanto effimera polemica nell’ambiente letterario portoghese. Intanto, dopo aver tradotto un trattato di teosofia di C.W. Leadbeater, si tuffa nell’esperienza esoterica e

teosofica (Rosacroce, Blake, Swedenborg), che marcherà profondamente l’opera ortonima. Nel 1916 Sá-Carneiro parte per Parigi. Pessoa gli scrive manifestandogli l’intenzione di esercitare l’astrologia a Lisbona. Inizia nel frattempo pratiche medianiche e parla di visioni “astrali ed eteriche” che gli confermerebbero l’esistenza di un Maestro sconosciuto. Quando Sá-Carneiro si avvelena con la stricnina, dopo aver vestito il frac, in un alberghetto parigino, Pessoa scrive di avere “sentito a distanza” il suicidio poche ore prima che esso avvenisse. Inizia nel 1920 l’unica avventura sentimentale della sua vita. L’amata, Ophelia Queiroz, è impiegata in una delle ditte di import-export presso cui Pessoa lavora. Le scrive lettere confuse e geniali, ciniche e strazianti, oscure e di disarmante franchezza. Il rapporto, dopo un’interruzione di alcuni anni, termina definitivamente nel ’29. Nel 1926 un colpo di stato militare mette fine alla repubblica parlamentare. In un’intervista a un giornale della capitale, Pessoa comincia a esporre le sue teorie del Quinto Impero. Intanto la rivista conimbricense “Presença”, la più prestigiosa rivista letteraria portoghese fra le due guerre, gli offre la cittadinanza onoraria e lo saluta come maestro. Nel 1934 pubblica Mensagem, l’unico volume di versi portoghesi che non sia uscito postumo: una plaquette a sue spese per concorrere al premio del Secretariado de Propaganda Nacional che ha per tema l’espansione portoghese nel mondo. Ottiene il secondo premio: gli è preferito il sacerdote Vasco Reis per l’opera Romaria (Pellegrinaggio). Il 30 novembre del 1935 muore a Lisbona, all’ospedale di St. Luís dos Franceses, per una crisi epatica, probabilmente causata dall’abuso di alcol. Nel 1942 la casa editrice Ática di Lisbona inizia la pubblicazione delle Obras Completas di Pessoa dedicando il primo volume alle poesie ortonime. Alberto Caeiro Alberto Caeiro da Silva, maestro di Fernando Pessoa e di Álvaro de Campos, nacque nel 1889 e morì nel 1915, tubercoloso come il padre di Pessoa. Era nato cittadino, a Lisbona, ma fu uomo campagnolo perché passò tutta la sua breve vita in un villaggio del Ribatejo, nella casa di una vecchia prozia presso la quale si era ritirato per la sua salute cagionevole. In campagna scrisse praticamente l’intera sua opera, dai poemetti del

Guardador de Rebanhos al breve “diario” del Pastor Amoroso; a Lisbona tornò solo per morire, anche se ebbe tempo di scrivervi le ultime poesie di quella raccolta che Pessoa, dietro suggerimento di Campos che gliela aveva fatta avere, intitolò Poemas Inconjuntos. Non v’è molto da dire sulla biografia di quest’uomo schivo e solitario, riservato e contemplativo, che condusse un’esistenza lontana da ogni clamore e da ogni disputa, aliena da legami affettivi e sentimentali. Del resto la gelosia con cui custodì la sua vita privata (“Se quando sarò morto vorrete scrivere la mia biografia, / non c’è niente di più semplice. / Ci sono solo due date: quella della mia nascita e quella della mia morte. / Fra l’una e l’altra tutti i giorni sono miei”) ha probabilmente occultato anche quei fatti, forse poco rilevanti ma comunque significativi, che accadono persino nelle esistenze più monotone e incolori. Pessoa descrive Caeiro, con una certa frettolosa genericità, come un uomo “di statura media, biondo slavato, occhi azzurri”; ma Álvaro de Campos, che più lo amò e gli fu vicino, è per fortuna più prodigo di notizie. Campos lo aveva conosciuto per caso, durante una passeggiata nel Ribatejo, grazie a un suo cugino commerciante che aveva rapporti di affari con un cugino di Caeiro. Di questo casuale incontro, che doveva segnare profondamente la sua opera, Campos ha lasciato un memorabile, commosso ritratto, seguito da una conversazione che è la più bella “intervista” che Caeiro abbia mai rilasciato ai suoi privati discepoli. Álvaro de Campos Álvaro de Campos nacque a Tavira, in Algarve, il 15 ottobre del 1890 e si laureò a Glasgow in ingegneria navale, anche se visse a Lisbona senza mai esercitare la professione. La prima educazione la ricevette da uno zio sacerdote della Beira, che gli insegnò il latino. Nei primi mesi del 1914 fece un lungo viaggio in Oriente, via mare, da cui risultò l’esperienza poetica di Opiário, poi pubblicato retrodatato, un poemetto su temi liberty (il transatlantico, l’oppio, l’esotismo) intriso di un’ironia dandystica e volutamente “futile” sul compasso di un Wilde e di un Laforgue. Ma pochi mesi dopo, nel giugno del ’14, Campos firmava l’Ode Triunfal, solenne e vitalistica celebrazione del brulichio del reale, che pubblicata nel 1915 sul primo numero di “Orpheu” avrebbe fatto da manifesto al modernismo portoghese. Della prima avanguardia portoghese, una volta stabilitosi a

Lisbona, Campos divenne infatti l’inventore e il corifeo. Alto, coi capelli neri e lisci divisi da un lato, impeccabile e un tantino snob, col monocolo, Campos fu la tipica figura di un certo avanguardista dell’epoca, borghese e antiborghese, raffinato e provocatorio, impulsivo, nevrotico e angustiato. Il suo Ultimatum ai mandarini letterari dell’epoca, pubblicato nel ’17 su “Portugal Futurista”, fu di questo atteggiamento il tipico marchio di fabbrica. Ma i tempi si vanno facendo difficili anche per gli avanguardisti alla Campos; la Grande Guerra, assai più efficace delle avanguardie grandeborghesi, ha spazzato l’Europa lasciandola deserta di valori e di certezze. La poesia di Campos, perso lo slancio degli eroici furori, sublima nell’ironia e nel cinismo una disperazione che da esistenziale si sta facendo ontologica. L’introspezionismo proustiano, via Gide, e con esso Pirandello e il pirandellismo, sono il nutrimento della seconda avanguardia portoghese, quella “Presença” cui Campos collabora, con discrezione e riserbo, con le grandi poesie dell’assenza e del nichilismo: Apontamento (1929), Aniversário (1930), Tabacaria (1933). Morì a Lisbona il 30 novembre del 1935, giorno e anno della morte di Pessoa. Ricardo Reis Il 30 novembre del 1935 moriva anche Ricardo Reis, in terra brasiliana, dove si era rifugiato in autoesilio per le sue idee monarchiche fin dal 1919, dopo l’avvento della prima repubblica portoghese. Era nato a Oporto il 19 settembre del 1887 ed era stato educato in un collegio di gesuiti. Era medico, ma non consta che nella vita si sia servito della sua professione per campare, semmai serve a noi per completare i contorni della sua figura di materialista e di sensista, imbevuto di classicismo e di ellenismo, con le satire di Orazio come livre de chevet. Il suo materialismo, tuttavia, appartiene a un versante culturale affatto diverso da quelli di Caeiro e di Campos: al neopaganesimo colto e raffinato di un Walter Pater, al classicismo astratto e distante che infatuò certi naturalisti e scienziati anglosassoni di fine secolo. Non per niente Reis ebbe una polemica piuttosto accesa sull’arte con Campos e firmò una recensione assai riduttiva ai Poemas di Caeiro. Questo suo asettico e sospeso mondo dove la rivolta chiassosa e generosa di Campos si racchiude nello scetticismo e nell’eroica rassegnazione, Reis lo candì nella geometrica

struttura dell’ode oraziana: sigillo stilistico di un “ordine” che il medico in esilio, con la sua simbolica scacchiera sottobraccio degna di un emblema di Alciato, si costruì artificiosamente in un’epoca che non era fatta per lui. Frederico Reis Cugino del più celebre Ricardo. Ci ha lasciato un unico testo critico, in portoghese, sulla poesia di Ricardo da lui definita “di un epicureismo triste”. Alexander Search Il nome anglosassone (del resto così curiosamente enigmistico) e il fatto che fosse in corrispondenza con Pessoa fin dal 1899, allorché quest’ultimo frequentava la High School di Durban, potrebbero farlo supporre sudafricano, oppure inglese residente in Sudafrica. Invece una scheda autografa di Pessoa ci informa che Alexander Search nacque a Lisbona il 13 giugno del 1888. E di fatto a Lisbona egli visse una parte della sua vita, poiché ci resta la busta, affrancata e impostata, di una lettera che Fernando gli scrisse al suo domicilio della capitale portoghese, a quel numero quattro di Rua da Glória dove anche Pessoa abitò per un certo periodo: Alexander Search Esq. / Rua da Glória 4 / Lisbon / Portugal. Di lui sono stati finora pubblicati alcuni testi in inglese, fra cui spicca un patto con Satana che reca la data 2 ottobre 1907. Di recente è anche uscito un racconto intitolato A Very Original Dinner. Un autografo di Pessoa gli attribuisce cinque scritti di cui si attende con curiosità l’uscita dal baule: The Portuguese Regicide and the Political Situation in Portugal; The Philosophy of Rationalism; The Mental Disorder(s) of Jesus; Delirium; Agony. Charles Search Charles James Search, fratello di Alexander, nacque a Lisbona il 18 aprile del 1886. Il suo ruolo si limitò (o avrebbe dovuto limitarsi) a traduzioni in inglese, di cui peraltro non resta traccia. Nella scheda autografa di Pessoa egli avrebbe potuto, a rigore, scrivere prefazioni alle sue stesse traduzioni, pur senza addentrarsi in analisi critiche troppo profonde.

Bernardo Soares Bernardo Soares, “aiutante contabile nella città di Lisbona”, a Lisbona passò tutta la sua mediocre vita di piccolo impiegato. Viveva solo, in una camera d’affitto, nella zona commerciale della città, la Baixa, fra Praça do Rossio e il Tago, dove si trovavano anche le compagnie di import-export presso le quali lavorava il poeta. Pessoa lo conobbe in una modesta trattoria di cui era cliente fisso, e fu proprio a uno di quei tavolini che Soares gli si rivelò scrittore e gli dette da leggere il suo Livro do Desassossego. Grandioso zibaldone di testi diaristici, di impressioni, di descrizioni, di journal intime e di narrazioni, Il Libro dell’Inquietudine è il diario di un’anima e al contempo uno straordinario antiromanzo. Barão de Teive “Trasferisco in Teive la speculazione sulla certezza che i pazzi posseggono più di noi.” Era dunque pazzo il Barone di Teive, autore di pochi frammenti in uno stile “intellettuale, spoglio, un po’, come dire?, aspro e succinto” e di un progetto pedagogico (A Educação do Stoico) ritrovato di recente fra le carte del baule? E dove lo conobbe mai Pessoa? Forse in quella stessa clinica psichiatrica di Cascais dove era ricoverato António Mora? António Mora Nella clinica psichiatrica di Cascais finì infatti i suoi giorni il filosofo António Mora, autore di quel Regresso dos Deuses che avrebbe dovuto costituire il libro mastro del neopaganesimo portoghese. Uno studioso di Pessoa, Jacinto do Prado Coelho, ci ha fatto conoscere di recente alcuni brani di un sorprendente manoscritto del baule intitolato Na Casa de Saúde de Cascais in cui un visitatore (forse Pessoa stesso) descrive il degente António Mora mentre sta passeggiando nel cortile del manicomio. Alto, imponente, lo sguardo vivo e altezzoso e la barba bianca, vestito con una toga alla romana, António Mora sta recitando l’inizio del lamento di Prometeo della tragedia di Eschilo. Il visitatore, vivamente impressionato dal superbo aspetto del vegliardo, chiede al dottor Gama che lo accompagna di essergli presentato. Se, come è legittimo pensare, quel visitatore era Fernando Pessoa, egli

conobbe dunque António Mora in questa circostanza, quando costui era ormai un vecchio pazzo incurabile (“un paranoico con psiconevrosi intercorrenti”), e solo allora entrò in possesso dei suoi scritti filosofici. Raphael Baldaya Autore di un Tratado da Negação e di alcuni Princípios de Metafísica Esotérica nei quali afferma di parlare a nome della “vera scienza esoterica” contro la teosofia, da lui definita una “democraticizzazione dell’ermetismo, la sua cristianizzazione”, fu in rapporto con Pessoa fin dal 1915, come si può desumere da una lettera di quell’anno del poeta a Mário de Sá-Carneiro. Un biglietto da visita a stampa ritrovato nel baule ci dà una preziosa informazione sulla sua poco comune professione: Raphael Baldaya / Astrólogo em Lisboa. Professione che del resto, come risulta dal carteggio con Sá-Carneiro, anche Fernando aveva sempre sognato di esercitare nella sua città. Charles Robert Anon Restano ancora ignoti il luogo e la data di nascita di Charles Robert Anon, autore di un sonetto in inglese datato 1904, di un progetto letterario, anch’esso in inglese, redatto con puntigliosa minuzia, e di una commedia intitolata Marino che reca in calce la firma “Anon”. Tutti questi scritti, purtroppo, sono ancora inediti. Di Anon sono state finora pubblicate cinque meditazioni filosofiche, fra l’aforisma e il promemoria (Taine, Schopenhauer, l’automatismo psichico) che non sono sufficienti a darci una compiuta idea del loro autore. Fra le carte del baule, su minuta (evidentemente un foglio di prova) una incerta calligrafia che pare ricercare una sua personalità ha scritto per varie volte, con la firma, una formula di cortesia epistolare: Yours very true, Anon. Riuscì mai ad essere davvero true, Charles Robert Anon? E, in caso affermativo, che vita condusse? A chi scrisse le sue lettere? A.A. Crosse Di quest’uomo enigmatico, dal nome troppo suggestivo, sappiamo solo che visse per partecipare ai cruciverba e alle sciarade del “Times”. Lo legò a Pessoa una amicizia profonda, e se avesse vinto uno dei grandi premi ne

avrebbe donata una parte all’amico affinché questi potesse comprarsi la mobilia di cui necessitava per sposarsi. Ma non vinse mai il grande premio. Thomas Crosse Questo sconosciuto signore aveva intenzione di rivelare al pubblico inglese, in traduzione, molti poeti portoghesi sensazionisti, oltre che temi e momenti di una certa cultura portoghese dal timbro messianico (The Origin of Discoveries; The Myth of King Sebastian; Kings that will Return). Dei suoi progetti resta una minuta nel baule di Pessoa. Jean Seul Jean Seul de Méluret, secondo il nome completo di una scheda autografa di Pessoa, nacque nel 1885. Il nom de plume che usò (o che avrebbe dovuto usare) è, come quello di Crosse, tutto un destino. Fra le carte del baule permangono inedite moltissime poesie in francese, datate dal 1913 al 1935; ma, poiché non sono firmate, attribuirle a Seul è filologicamente scorretto, anche se la tentazione è forte. Resta, con la sua firma autentica, solo un progetto letterario, un foglio con meri titoli: Des Cas d’Exhibitionnisme; La France en 1950: Satire; Messieurs les Souteneurs. Abílio Quaresma “Fui davvero amico di Quaresma; il suo ricordo mi addolora davvero.” Così, in una nota intitolata Prefácio a Quaresma, Pessoa parla di Abílio Ferreira Quaresma, autore di racconti gialli dei quali egli era anche protagonista (faceva l’investigatore privato). Altro non sappiamo di questo investigatore-filosofo antipositivista che come Auguste Dupin e Nero Wolfe risolve i casi a distanza, ritenendo dannosa alla risoluzione l’osservazione diretta del reale. Certo che quest’uomo gracile, timido, insignificante, disciplinato fino alla mania, che ricostruiva la realtà senza vederla, idealizzandola, mostra con Pessoa ben più di una semplice affinità. E forse si deve proprio a questo l’amicizia che il poeta provò per lui. “Flatus vocis” Chi era Pantaleão, di cui restano nel baule molte lettere inedite e un

progetto di descrizione delle sue visioni eteriche ed astrali? (O non le avrà veramente scritte?) Chi era Pero Botelho, autore di un racconto filosofico intitolato O Vencedor do Tempo e pubblicato solo di recente? Chi era Caesar Seek? E il dottor Nabos? E Ferdinand Summan? E Jacob Satan? Ed Erasmus? E Mister Dare? Chi erano questi personaggi dal nome inverosimile come il signor Kapp di Montale? Individualità che aspettano, nel buio di un baule, di essere portate a vivere, oppure solo nomi rimasti impigliati in un taccuino, firme perdute, ectoplasmi della più fantastica anagrafe della letteratura del Novecento?

Álvaro de Campos, Ingegnere Metafisico

1. L’anglofilo ingegnere Álvaro de Campos, laureatosi a Glasgow e dandy ozioso a Lisbona, è, fra i personaggi fittizi di Pessoa, colui che più ebbe un’esistenza reale. Mentre i suoi confratelli vissero una vita fuori del tempo, una vita sincronica che si svolse tutta e subito nella mente di Pessoa, Campos ebbe in dono la diacronia dei mortali: fece viaggi e conobbe amori, partecipò alla vita pubblica, rischiò di essere incriminato per arroganti manifesti (Ultimatum, 1915; Aviso por causa da moral, 1923), odiò, ebbe polemiche, fondò effimeri movimenti che si concretizzarono in poesie furibonde, infine si rassegnò decorosamente a convivere con l’angoscia metafisica che aveva tentato di dissimulare con l’ironia, per spegnersi a quarantanove anni (era di due anni più vecchio di Pessoa), insieme col suo inventore. La sua opera è anche una biografia, ed è inevitabile percorrerla in senso biografico per afferrare il personaggio. Ma perfino la sua “presenza” ha la densità della vita reale; nelle sue motivazioni psicologiche la creatura Campos ci sorprende e ci disorienta perché fu lui, fra tutti gli eteronimi, quello che maggiormente intrecciò la sua vita di finzione con la vita reale del suo autore, e certe volte vi si sovrappose, in una tela di rimandi, di relazioni, di sostituzioni, di scambi delle parti. Per esempio, abbiamo saputo recentemente, dall’epistolario privato di Pessoa, che Campos si intromise con prepotenza nella relazione fra Pessoa e Ophelia Queiroz; e che se non fu la causa, fu in certo qual modo lo strumento della rottura del fidanzamento: fu lui stesso che, dopo ripetuti “disturbi”, si fece carico di scrivere a Ophelia per convincerla, seppure con argomenti scherzosi, di non pensare più a Fernando (lettera del 25.9.1929). Se poi tiriamo le dovute conclusioni dall’ipotesi (perfettamente plausibile) avanzata da Jorge de Sena che Campos fu scelto da Pessoa come elemento di disturbo perché era omosessuale, allora il suo ruolo nella storia amorosa diventa ancora più insolito, perché viene a costituire, seppure in modo inusuale, il terzo lato del classico triangolo. Del resto Ophelia Queiroz,

fin dall’inizio aveva intuito in Campos una presenza nemica e gli aveva apertamente manifestato la sua antipatia: “Quando me estiveres a escrever, o teu amigo Álvaro de Campos que não esteja ao pé de ti, ouviste? Olha, manda-o para a India...”.5 Fino a questo punto si potrebbe ancora pensare a un comportamento teatrale di Pessoa, a un gioco ambiguo e sospetto i cui limiti ci sfuggono. Ma con Campos Pessoa rischiò seriamente. In una lettera del 15.10.1920 Fernando manifesta a Ophelia l’intenzione di ricoverarsi in una clinica psichiatrica usufruendo fra l’altro del beneficio di un decreto appena approvato dal governo che permetteva ai malati di mente di curarsi a spese dello stato. Non è possibile dire esattamente in che cosa consistesse la sua “malattia”: le parole di Pessoa sono oscure, attraversate da una mal dissimulata angoscia. Eppure, dopo aver seguito lettera per lettera quello strano amore fatto di finzioni e sostituzioni, che infine è giunto alla sua conclusione,6 è plausibile pensare che il pericoloso gioco abbia preso la mano al suo giocatore. Forse Campos, a un certo punto, cominciò davvero a reclamare un’esistenza, esigendo una propria vita e volendo sostituirsi al suo padrone: è questa la “maledizione” dalla quale Fernando si sente minacciato. Poi, la sostituzione non si verificò. Pessoa non ci fornisce altri elementi, ma in qualche modo il creatore riuscì a dominare la sua creatura, la tensione si stabilizzò in una convivenza basata su un mutuo rispetto e Campos si rassegnò a essere Campos, il fantomatico ingegnere di Glasgow che faceva il poeta di avanguardia a Lisbona. 2. Campos era un uomo del Sud. La sua città natale, Tavira, sulla costa dell’Algarve, è come un quadro cubista di case imbiancate a calce, potrebbe sorgere sulle coste della Sicilia o della Grecia. Dell’uomo meridionale, oltre ai tratti somatici (aveva l’aspetto dell’ebreo sefardita, specifica Pessoa), ebbe anche l’indole e i gusti: gli slanci, le passioni, gli entusiasmi; e le conseguenti delusioni e disincanti. Di essi, e di se stesso, seppe avere pena; ma della sua pena seppe sorridere con un sorriso lucido e impietoso, spesso sarcastico. Nella sua vita ci sono una Daisy e una Cecily che vivevano nello Yorkshire e che egli conobbe quando studiava ingegneria in Scozia. Confessò un amore omosessuale per un giovane di cui ignoriamo il nome (Sonetto già antico, 1922) e proclamò la sua omosessualità in versi furibondi e turgidi (Ode marittima, 1915); ma conservò sempre nell’animo il dolce ricordo dell’amore per una donna, amore

al quale forse non si assoggettò per non voler essere, come ci ricorda in una sua poesia, “sposato, quotidiano e tassabile”. Nato sulla costa oceanica, amò il mare e i viaggi, e li celebrò. Nelle sue odi il mare è la storia del Portogallo: è l’avventura verso l’ignoto, l’ostinazione, il coraggio di un piccolo popolo; ma è anche la violenza colonizzatrice, l’Eldorado mancato, la perdita dell’innocenza. Per la verità, aveva l’anima di un vagabondo prigioniero nella pelle di un borghese sognatore. Evocò anche, come Coleridge, Melville e Conrad, i velieri e i Mari del Sud, i cordami, il brulichio dei porti esotici, le maree, i pirati e i vecchi marinai. E isole rosate, con palmeti oleografici come calcografie infantili. I luoghi dei suoi viaggi sono luoghi geometrici, entrano nello spazio del concetto e del desiderio. 3. Ma se per noi Campos è una biografia, egli fu anche, per Pessoa, un espediente letterario. Un espediente e un registro stilistico come tutti gli altri eteronimi, seppure con una densità e con una complessità che gli altri non posseggono. Perché se Alberto Caeiro e Ricardo Reis (il primo, una sorta di poeta-guru che medita sulla Natura; il secondo, un neoclassico pessimista a metà strada fra Orazio e Leopardi) sono due figure poetiche che potrebbero essere collocate in qualsiasi epoca e in qualsiasi latitudine, con Álvaro de Campos Pessoa partecipò da militante alla cultura del suo tempo. Campos non è soltanto una creatura creante, come gli altri eteronimi, ma anche una creatura operante in uno specifico contesto culturale: è una creatura proiettata nella Storia. Campos è dunque molto di più di una autoanalisi; è una riflessione e un estraniamento. Con curiosa e insolita coincidenza, Pessoa visse l’avanguardia storica e contemporaneamente ce ne fornì, attraverso Campos, un ritratto critico visto dal di dentro. Il tipico ritratto dell’avanguardista delle cui caratteristiche possiamo perfino fare un inventario. Abulico, nevrastenico, soggetto a un’isteria sublimata nella poesia, seguace delle teorie di Max Nordau, che Pessoa fagocitò con la sua usuale disinvoltura, Campos fu decadente per blague, futurista per vocazione e dadaista per ideologia. Ebbe un amore a prima vista per un futurismo del tutto personale, introverso e mistico, di oscura formulazione e fondamentalmente anti-marinettiano (a Marinetti, ormai accademico d’Italia, dedicò un sonetto sarcastico che termina col suono di un pallone che si sgonfia). Oltre all’uggia che manifestò per le accademie, dubitò anche delle

utopie, dei sistemi che tendono alla perfezione e delle teorie che interpretano il mondo. Dichiarò rumorosamente la sua antipatia verso Shaw, Maurras, Dostoevskij, Gor’kij. Previde i totalitarismi più spaventosi innalzati su bandiere di varie fedi, rifiutò la fraternità ideologica, il populismo socialista e la carità cristiana. Era ateo? Penso di no. Il suo agnosticismo ha spazio per le idee platoniche e per un’anima spinoziana, quasi un ectoplasma collettivo formato dalle idee di tutti i falliti. Nel suo nécessaire di viaggiante fittizio e tediato ci sono Wilde, Laforgue, Whitman e Schopenhauer. Ma egli è, fondamentalmente, la coscienza della sconfitta, il rifiuto di ogni illusione, una disperazione ironica. La figura di Álvaro de Campos, per un lettore di oggi, è in certo modo un paradigma. Le sue angosce, le sue nevrosi, i suoi cinismi, la sua disponibilità alla contraddizione, il fatto di essere essenzialmente un fallito, il suo sguardo allucinato e metafisico sono le sue stimmate. E, viste al positivo, la sua grandezza.

5

“Quando mi scrivi, fai in modo che il tuo amico Álvaro de Campos non ti stia vicino, capito? Senti, mandalo in India...” Il brano della lettera di Ophelia, non datato, appare riprodotto fotograficamente in Maria José de Lancastre, Fernando Pessoa. Uma fotobiografia. 6 La rottura si verificò il 29.11.1920, con una lettera di Pessoa che termina con queste parole: “Il mio destino appartiene ad altra Legge, della cui esistenza lei è all’oscuro, ed è subordinato sempre più all’obbedienza a Maestri che non permettono e non perdonano”. (La lettera integrale è presente in appendice.)

Un bambino attraversa il paesaggio

Quali segreti sentieri ha percorso questo Cristo ritornato fanciullo fino a giungere sulle pendici di una collina del Ribatejo per mostrarsi nella sua essenza a quel Maestro Caeiro che da una agreste casa imbiancata a calce dettava nel 1914 una dottrina ancora oggi non svelata al cenacolo di tre poeti che rispondevano ai nomi di Álvaro de Campos, Ricardo Reis e Fernando Pessoa? Proviene forse da una poetica decadente (anche se per fare asserzioni che sanno più di Spinoza e Feuerbach che di decadentismo) che secondo l’equazione Poeta = Fanciullo-che-penetra-il-Mistero trova in Italia il suo manifesto nella prosa di Pascoli sul “Marzocco” del 1897 e in Portogallo trova la sua nebulosa formulazione prima nel saudosismo di Teixeira de Pascoaes e subito dopo nel paulismo dello stesso Pessoa? O non proverrà da quel boschetto orfico e platoneggiante che nel nostro meridiano culturale significa Rilke o Campana (e magari un certo D’Annunzio) e in Portogallo trova nella rivista “Orpheu” di Fernando Pessoa il suo corifeo? O, ancora, prima di decantarsi da ebbrezze e da scorie orgiastiche in questo poemetto / manifesto (nel quale peraltro, nonostante la sublimazione e l’asessualità della figura infantile, una componente omosessuale potrebbe anche essere rinvenuta), non avrà per caso attraversato un panteismo ditirambico e dionisiaco che evidentemente significa soprattutto Nietzsche, ma che in Portogallo significa ancora una volta Fernando Pessoa, nella sua ipostasi eteronimica del filosofo António Mora? Se una ricerca delle fonti appare legittima, è anche certo che il significato di questo fanciullo, date la sua complessità e la sua strutturale ambiguità, non si esaurisce nella somma delle fonti che sembrano più plausibili; sicché, piuttosto che limitarci a un ipotetico albero genealogico, al certificato di un gruppo sanguigno che ci suggerisca da dove viene, forse la sua migliore definizione consiste proprio nella previsione del suo futuro, in una carta di transito che ci fornisca ragguagli su dove va o su dove può eventualmente andare. Questo bambino che attraversa il paesaggio portoghese, assunto come metafora di un concetto che attraversa la cultura del Novecento per giungere

fino al nostro presente con le incrostazioni e le varianti assunte durante il suo vagabondaggio, è una proposta di lettura che mi pare di una irriverenza tollerabile per una delle più “iniziatiche” poesie del Guardiano di greggi di Alberto Caeiro. Per predirgli che cosa farà da grande, si tratta semplicemente di verificare le caratteristiche che l’infantile visitatore ha raccolto nella sua sosta presso Fernando Pessoa, in quella casa del colle “caiada e sozinha” (calcinata e sola) dalla quale, nel 1914, Alberto Caeiro scrutava il mondo. E allora, come non prevedere per questo Eterno Bambino, che ha la tendenza a dormire nell’anima della gente e a giocare con i sogni altrui, un non pacifico, scomodo e probabilmente “selvaggio” futuro psicoanalitico? Irriverente e blasfemo, in virtù della sua puerile innocenza, con non disprezzabili doti taumaturgiche (ha guarito Caeiro da ogni deduzione, ha pulito il suo sguardo da ogni scoria culturale: gli ha insegnato tutto), questo spiritello ha tutte le carte in regola per andare ad abitare da protagonista, di lì a qualche anno, un libro anarchico, gaio, magico e assolutamente poco raccomandabile: Das Buch vom Es7 di Georg Groddeck. In verità non ci vuole troppa immaginazione per prevedere che i fantasmi di Pessoa eviteranno accuratamente la clinica massiccia e perentoria di Sigmund Freud per andare a stringere amicizia con analisti vagabondi e stregoneschi. Dal suo cantuccio alla foce del Tago, senza aver mai preso il treno per Parigi o per Vienna, data la sua assoluta incapacità a fare valigie, il solitario Pessoa, rosacroce e teosofo, anticristiano in nome di un’anima collettiva che il cristianesimo ha spazzato via privilegiando l’anima individuale (vedi l’Ultimatum di Álvaro de Campos), attratto dalle forze occulte che operano nell’uomo e curioso di terapie bizzarre e improbabili, si sceglie a priori (attraverso teorie non chiaramente formulate, ma dove si riconoscono fluidi magnetici, pulsioni, liquidi amniotici, inconsci collettivi e panpsichismi) le sue ideali “cattive compagnie”. I suoi amici elettivi (e naturalmente mai frequentati) sono Mesmer, Otto Rank, Alfred Adler, Groddeck, C. Gustav Jung. E un vecchissimo amico per la pelle, nonostante le frasi polemiche che su di lui Fernando annota segretamente nei suoi diari, è un geniale filosofo che ha battezzato questo “bambino così umano da essere divino” allorché Freud e Groddeck non sapevano ancora che si chiamava Es: Friedrich Nietzsche. Ma ci suggerisce soltanto un futuro Es psicoanalitico, questo scugnizzo sottrattosi al tedio dei dopocena in Paradiso per rotolarsi sui prati del Ribatejo

e nei sogni di Alberto Caeiro? Alcuni anni or sono, Orietta del Bene, critica di Pessoa, lanciava nella cerchia dei cultori, con la suggestione di un ipotetico titolo (Fernando Pessoa, Precursor Desconhecido), l’idea di un lavoro sistematico che esaminasse tutto ciò che il poeta portoghese, dalla sua camera d’affitto alla periferia dell’Europa, ha anticipato nella cultura europea del Novecento. Sebbene il grande portoghese sia ormai evaso dalla cerchia ristretta dei cultori nella quale lo confinava un’opera praticamente clandestina, per essere riconosciuto internazionalmente come una delle voci più alte della poesia del Novecento,8 nonostante l’eccezionale fortuna critica che Pessoa ha riscosso nella sua tarda celebrità, i troppi inediti custoditi ancora nel suo famoso baule e le troppe incognite sollevate dai testi pubblicati rendono ancora impossibile il lavoro che auspicava quella critica entusiasta. Eppure, come resistere alla tentazione di rilanciare l’idea, aggiungendo alla suggestione di fondo qualche suggestione estemporanea che il presente testo sollecita? Brevemente, vorrei richiamare lo sguardo di chi legge sullo Sguardo che percorre questa poesia (vedi seconda appendice). C’è un modo di guardare, in questa quintessenziale puerizia, che mi pare ancora inedito nel secolo (intendo nel 1914) e che consiste nella pura attività del guardare. A che cosa prelude questo sguardo fissato con impietosa serenità sulle cose? E che cosa rivelano queste cose che guardate rivelano semplicemente se stesse? Queste cose che, come dice fermamente Caeiro nella poesia XXXIX del Guardiano di greggi, “non hanno significato, hanno esistenza”, e il cui “unico senso nascosto è che esse non hanno nessun senso nascosto”? Cosa significano questo sguardo che è solo uno sguardo e perciò più di uno sguardo, e questa esistenza non limitata se non dall’esistenza, né atto né potenza né accidente né sostanza? Vogliono forse dire intuizioni fondamentali della filosofia del Novecento? Vogliono già dire Heidegger, Jaspers, Sartre? Le mie timide suggestioni si fermano all’interrogazione. Un’interrogazione che prudentemente, e credo anche umilmente, connota questa mia presentazione del più solenne testo del Guardiano di greggi. Non mi resta che invitare al piacere di questo testo, e al sortilegio del magistero di Alberto Caeiro, fornendo prima alcuni indispensabili ragguagli sulla sua esistenza. Secondo una scheda biografica redatta dallo stesso Pessoa (“quest’uomo che inventò le biografie per le opere e non le opere per le biografie”, come

acutamente osservò Adolfo Casais Monteiro: e la differenza è capitale, sottolinea Octavio Paz facendo il confronto con Antonio Machado), Alberto Caeiro da Silva scriveva male il portoghese (aveva fatto solo le scuole elementari) e visse lontano da cenacoli e da salotti. Solo che egli godette di una posizione di indiscutibile primato nella famiglia degli eteronimi: fu il loro Maestro. Di più: come afferma categoricamente Pessoa, Caeiro fu il suo Maestro (“Mi scusi l’assurdità della frase: era apparso in me il mio Maestro” – da una lettera a Casais Monteiro del 13 gennaio 1935). Ma qual è il “significato” della dottrina di questo misterioso Maestro? Per quanto mi riguarda, preferisco ritenere con Octavio Paz che l’affermazione di Pessoa, “Caeiro è il mio Maestro”, “es la piedra de toque de toda su obra. Y podría agregarse que la obra de Caeiro es la única afirmación que hizo Pessoa. Caeiro es el sol y en torno suyo giran Reis, Campos y el mismo Pessoa. En todos ellos hay partículas de negación o de irrealidad: Reis cree en la forma, Campos en la sensación, Pessoa en los símbolos. Caeiro no cree en nada: existe”.9 Caeiro non crede in niente: esiste... Come per Lao-Tse o Milarepa o Socrate, la dottrina di Caeiro non consiste tanto in un’opera quanto in un’esistenza. Caeiro non è un poeta: è un santone, un guru. Forse non è neppure un uomo, è un occhio che scruta il mondo. Un indecifrabile Obbiettivo.

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Il libro dell’Es. [N.d.C.] Anche sulla scorta di coloro che per tempo avevano saputo cogliere la sua grandezza: “Il maggior poeta lirico del Novecento”, Gianfranco Contini; “Uno dei troppo rari grandi poeti dell’umanità”, André Breton; “Pessoa è l’imminenza dell’ignoto”, Octavio Paz; “Il suo nome esige di venire incluso nella lista dei grandi artisti mondiali nati nel corso degli anni ottanta: Stravinskij, Picasso, Joyce, Braque, Chlebnikov”, Roman Jakobson; “Par l’éclatement de sa personnalité, il se hausse à la dimension du planétaire” (“Con l’esplosione della sua personalità, si innalza a una dimensione planetaria” [N.d.C.]), Armand Guibert. 9 “È la pietra miliare di tutta la sua opera. E si potrebbe aggiungere che l’opera di Caeiro è l’unica affermazione che Pessoa ha fatto. Caeiro è il sole e intorno a lui ruotano Reis, Campos e lo stesso Pessoa. In tutti costoro ci sono particelle di negazione o di irrealtà: Reis crede nella forma, Campos nella sensazione, Pessoa nei simboli. Caeiro non crede in niente: esiste.” 8

Due appunti sulla poesia VIII di Il guardiano di greggi10

[1] I bambini “Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: ‘Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso’. E prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro li benediceva” (Marco, 10). Forse a causa di un verso che è diventato un luogo comune (“Ma il meglio del meglio è l’infanzia”) e di alcune poesie giocose considerate “per bambini”, ma che in realtà sono poesie zutiques alla maniera di Rimbaud, il rapporto di Pessoa con l’infanzia (i bambini) è stato sempre affrontato con troppa disinvoltura. Tuttavia è un rapporto che mi interessa in modo particolare perché riguarda la relazione con il Sacro. Non nego che da un certo punto di vista possa essere interpretato in termini psicoanalitici, se pensiamo che sia la formulazione dell’Es sia Groddeck (ma anche il Puer Aeternus di Nietzsche) partono da un’analisi del Sacro. Nella poesia VIII di Il guardiano di greggi, Pessoa realizza una curiosa inversione dell’episodio cristologico. Se nei Vangeli (soprattutto in Marco) Cristo accoglie dentro di sé (fra le sue braccia) i bambini che i discepoli tentano di allontanare affinché non lo disturbino, nella poesia VIII Pessoa accoglie, nonostante i numerosi divieti della Chiesa Cattolica ben evidenti nei versi, la Divinità che presiede alla Chiesa stessa, il Dio che si è fatto uomo, il mistero della Trinità. Pessoa-Caeiro apre le sue braccia a Cristo e lo accoglie. Ma non si limita ad accoglierlo nella sua casa imbiancata sul colle in Ribatejo; lo accoglie dentro di sé (“Egli dorme nell’anima mia / e a volte si sveglia di notte / e gioca coi miei sogni”). Cristo è tornato a essere bambino, è fuggito dal cielo, è un piccolo vagabondo sul pendio di una collina, e cerca un rifugio. Caeiro gli offre, come riparo, la sua stessa anima.

In nessun altro poeta che io conosca si verifica questa miracolosa inversione della tradizione evangelica: “Lasciate che Cristo bambino venga a me”. L’ospitalità che offre Caeiro chiede in cambio un favore per il futuro, una sorta di compensazione per quando lui stesso morirà, per quando arriverà la morte e finirà il “carcere del pensare”, facendolo tornare di nuovo bambino e innocente: “Bambino, quando io morirò / che possa essere io il bambino, il più piccolo. / Prendimi tu in braccio / e portami dentro la tua casa. / Spoglia il mio essere stanco e umano / e coricami nel tuo letto”. [2] Grande è la poesia, la bontà e la danza… ma il meglio del meglio è l’infanzia. F. PESSOA, Liberdade

Non trovo in altri poeti del Novecento lo statuto che Pessoa attribuisce al bambino. Forse in alcuni versi di Rilke, delle Elegie soprattutto, tuttavia non arriva alla dimensione sublime e inquietante che Pessoa gli attribuisce. Come per tutti i grandi poeti, la poesia di Pessoa è fruibile a vari livelli di lettura, e il più immediato, il primo, è da pedagogia da asilo, con i disegni colorati dei bambini appesi alle pareti e la celebrazione del luogo comune dell’infanzia. Nella Weltanschauung di Pessoa, in un’analisi molto sommaria, l’universo è costituito dalla vita visibile, ciò che costituisce il reale, e da una vita invisibile, superiore, misteriosa che appartiene ad altri Enti, a un divino che per Pessoa è molto complesso e di cui egli è costantemente alla ricerca. Ma in questa vita reale (molte volte squallida per Pessoa, cioè disprezzabile in quanto solo apparenza) c’è una creatura che costituisce un tramite verso il divino sconosciuto, un essere visibile e allo stesso tempo ineffabile, che ci ricorda Plotino. È il bambino. Tutta l’infanzia mitica, l’infanzia che Pessoa confessa “mai aver avuto” è una condizione vagheggiata nella quale il divino poteva essere toccato con un dito. Ma allorché questa infanzia si concretizza in un personaggio rivela tutta la sua potenza sovrumana e la possibilità di poter raggiungere un “mondo altro” che non è il Paradiso cattolico, solitamente rappresentato nelle icone che il cattolicesimo di Roma ha elaborato nel corso dei secoli, ma un altro luogo paradisiaco, che non è un

luogo geografico (in fondo il Paradiso cattolico ha una sua geografia, sta in alto, nel cielo, è situato nel cosmo). L’altrove paradisiaco di Pessoa è un luogo ineffabile, un luogo dello spirito spinozianamente inteso, ed è a questo luogo che può eventualmente condurre il Cristo bambino che, fuggito da un Paradiso di cartapesta, scende sulla terra per andare ad abitare dentro l’anima del poeta. Molte altre cose ci sarebbero da dire sulla figura di questo bambino divino che abita questo mondo ma non vi appartiene. Una riflessione meriterebbero certe poesie giocose, non tanto quelle fatte per bambini davvero bambini, ma quelle in cui Pessoa si abbandona come in un’estasi a un linguaggio pre-logico fatto di suoni, assonanze, rime insensate, parole libere da ogni costruzione sintattica (“Em horas inda louras, lindas / Clorindas e Belindas, brandas, / …”) dove sembra di entrare in un linguaggio nel quale prevale il significante, a somiglianza del puro getto verbale di cui è capace il bambino prescindendo da ogni significato.

10

Dedicati al Guardiano di greggi di Alberto Caeiro, VIII (Una sola moltitudine, vol. II, pp. 85-93), questi due appunti, usciti per la prima volta su Adelphiana (Adelphi, Milano 2013), risalgono rispettivamente all’estate e al novembre del 2011 (il secondo è stato dettato in ospedale) e sono l’unica traccia di un’idea che Tabucchi aveva in animo di sviluppare.

Bernardo Soares, uomo inquieto e insonne

in ricordo di Franco Occhetto

1. Bernardo Soares è un uomo che sta a una finestra. Taciturno e solitario, egli se ne sta dietro ai vetri, come il vecchio Flaubert, a spiare la vita. Una vita esterna e reale ma che si svolge estranea a lui, anche se gli transita accanto; e una vita interiore e inventata: perché la finestra di Bernardo Soares ha le imposte che si possono aprire nei due sensi, sul fuori e sul dentro. E anche quel “dentro” è un luogo estraneo e ignoto al suo abitatore: un “dentro” in affitto, la camera di un albergo che Soares divide con altri se stesso che egli non conosce. Su questi due paesaggi che si intersecano e si confondono, Soares va scrivendo minuziosamente, con la maniacale puntigliosità del contabile, il suo diario, che egli chiama Libro e che noi potremmo chiamare romanzo. Del resto tutta la letteratura autobiografica, da Cesare fino a Valéry e a Gide, può essere letta alla luce dell’ironica osservazione di Poe sull’impossibilità di conseguire la “verità” autobiografica “senza che la carta si raggrinzisca e bruci al tocco dell’infiammata penna”. In tal senso, il libro di Soares è certamente un romanzo. O meglio, è un romanzo doppio, perché Pessoa ha inventato un personaggio di nome Bernardo Soares e gli ha delegato il compito di scrivere un diario. Soares è cioè un personaggio di finzione che adopera la sottile finzione letteraria dell’autobiografia. In questa autobiografia senza fatti di un personaggio inesistente consiste l’unica grande opera narrativa che Pessoa ci abbia lasciato: il suo romanzo. Un libro che è un “libro-progetto”, perché in quanto progetto ha occupato per più di un ventennio la vita di Pessoa, e che allo stato di progetto abbiamo recentemente ricevuto (1982) dall’arca che per quasi cinquant’anni lo ha custodito inedito. Un work in progress senza soluzione, dunque, una strana opera aperta e anche un libro “più nostro” degli altri libri, perché è un libro che è stato fatto, cioè “costruito”, dai posteri. Pessoa fu scrittore progettuale per eccellenza. Il progetto globale della sua opera, misterioso e irrealizzato, si pone proprio, in quanto opera-progetto, come Il Libro: quel libro mitico, summa di ogni destino e del mondo “qui aboutit à un livre”,11 che vagheggiò Mallarmé e che probabilmente trova

soluzione proprio nella sua stessa progettualità, una progettualità che racchiude in germe la dissoluzione dei generi letterari. L’eteronimia di Pessoa, cioè il teatro dei suoi personaggi privi di teatro, conduce l’opera verso uno spazio ambiguo. Pessoa non è tanto un poeta quanto un drammaturgo che usa la poesia; non è tanto un drammaturgo quanto un poeta che usa il dramma; non è tanto un romanziere quanto un poeta e un drammaturgo che usano il romanzesco. L’opera di Pessoa si propone come l’Utopia letteraria, il Libro assoluto. Di questa galassia che non sta in nessun luogo, Il Libro dell’Inquietudine può essere considerato una scheggia e un indizio. 2. Come Fernando Pessoa, Bernardo Soares era un impiegato di concetto. Dimesso, umile, privo di anagrafe, Soares ha una vita che può sembrare il pallido riflesso della vita del suo creatore. Pessoa in una lettera lo definisce un semieteronimo “perché pur non essendo la sua personalità la mia, dalla mia non è diversa, ma ne è una semplice mutilazione. Sono io senza il raziocinio e l’affettività”. C’è da credere che un Pessoa senza il raziocinio e l’affettività consista essenzialmente nell’attività dell’osservazione. Pessoa si mutila dunque di questa facoltà e con essa crea un Bernardo Soares ponendolo a una finestra a guardare. Ma perché Bernardo Soares guarda, e in che cosa consiste questa sua attività di guardare? “Io imparo a vedere. Non so perché tutto penetra in me più profondo e non rimane là dove, prima, sempre aveva fine e svaniva. Ho un luogo interno che non conoscevo. Ora tutto va a finire là. Non so che cosa vi accada.” Questo brano, che potremmo plausibilmente leggere nell’Inquietudine di Soares, appartiene al Malte di Rilke. Non è una coincidenza trascurabile, e vale la pena di soffermarcisi perché le analogie letterarie sono sempre qualcosa di più di una semplice analogia. Rilke e Pessoa, naturalmente, non si sono mai conosciuti e forse non si sono mai letti a vicenda. Tuttavia i loro “romanzi”, scritti nella stessa epoca in due aree culturali non comunicanti, presentano un nesso più profondo della pur stupefacente analogia strutturale (il fatto che siano due romanzi di natura anti-romanzesca, due pseudo-diari). C’è un nesso tematico che lega questi due libri, ed esso passa proprio attraverso lo sguardo: Olhar, dice continuamente il personaggio di Pessoa; Schauen, dice il personaggio di Rilke. È uno sguardo che rimanda al rapporto fra l’individuo e la realtà, fra l’Io e il mondo esterno.

Non è il caso di ritornare ora sulla controversa interpretazione heideggeriana di Rilke e di trovare il modo di aggiustarla al Libro dell’Inquietudine. Tuttavia la prima osservazione su questo libro è che la consistenza del personaggio Soares (cioè la consistenza umana che Pessoa ha pur tentato di dare al suo personaggio) tende continuamente a dissolversi e a liquefarsi: a ridursi a un nucleo sensoriale che serve di accesso a un qualcosa che sta oltre lo sguardo e la psiche, oltre gli occhi e l’intelletto, e che Bernardo Soares chiama L’anima. Lo sguardo che percorre Il Libro dell’Inquietudine costituisce la percezione e insieme l’alterazione dei dati dell’esperienza: è ciò che sta fuori dell’Io e che l’Io fa suo, è il mondo esterno che diventa Io. L’anima di cui Soares parla quasi ossessivamente per tutto il suo libro è dunque uno spazio difficilmente definibile: è la Coscienza e l’Inconscio, l’Io, l’Essere e l’Esserci. È la vita che egli vive e l’archetipo della vita: una vita reale, e contemporaneamente una vita preesistente ed eterna, che Soares guarda dalla sua doppia finestra, come l’ubiquo Erik Brahe del Malte che con l’occhio sano guarda il mondo dei vivi e con l’occhio fisso guarda il mondo dei morti. Bernardo Soares vive e non vive: il suo esistere si pone fra la vita e la coscienza di essa, fra l’essere e l’idea dell’essere, fra se stesso e l’idea di se stesso, fra il reale che egli guarda e il reale che egli riproduce nella sua descrizione letteraria. Una descrizione, sia detto di sfuggita, che ha un preciso riferimento di maniera e della quale Bernardo Soares è un bizzarro cultore. Il racconto di ciò che per definizione non è raccontabile (l’aria, i colori, la luce) è un’arte alla quale si era dedicato un certo estetismo inglese specie attraverso il word-painting di Ruskin, che non a caso fu il paladino della grandezza di Turner (ma l’origine è il diario di Keats e le più inquietanti “pitture di parole” sono di Hopkins). Soares esercita indubbiamente l’arte di questa pittura: ma se già Hopkins aveva turbato la tavolozza di quest’arte con la tensione del suo misticismo, Soares con la sua metafisica fa addirittura esplodere il paesaggio conducendoci a spasso in un quadro dentro cui non possediamo più orientamento, perché in realtà non ci troviamo più nel quadro, ma al di là del quadro. C’è sempre un “oltre”, in Pessoa, uno scarto. Anche Soares, naturalmente, soffre questo scarto, e spesso lo dipinge con parole. 3. Ma converrà parlare anche di Jules Laforgue, altro poeta col quale Bernardo Soares denota una stretta parentela. Anch’egli, curiosamente, grande esecutore di “pitture di parole” (si vedano i Mélanges posthumes): i

paesaggi estivi, le sere d’autunno al Luxembourg, i chiardiluna di novembre, le primavere sui boulevards, i meriggi torridi e stagnanti. Ma con Laforgue le analogie sono più sostanziali: l’“ever-spleen day” (la domenica, ovviamente) in cui la metafisica si sfilaccia sul greto della quotidianità; la degustazione del Nulla giornaliero che produce un’inquietudine che investe l’universo; i falsi desideri, la notte, l’impossibilità, la solitudine, l’assenza del significato e l’ipertrofia del significante. Insomma, il decadentismo. Ma a dirla così si tratta di una grossolana semplificazione. Il decadentismo, come il romanticismo, è un contenitore di grande capienza, ci possono stare dentro comodamente anche Beckett e Montale. Prima di essi, o comunque dalla stessa parte, c’è il Desassossego di Bernardo Soares, anzi il Mal-de-viver (il male di vivere) di Fernando Pessoa che qualche anno prima di Montale ha accolto il suggerimento del simbolismo francese attribuendogli un’accezione molto più complessa. Di questo “Male” il Desassossego è sicuramente una manifestazione. Desassossego, derivato regressivo di desassossegar, indica in portoghese una perdita o una privazione: la mancanza di sossego, cioè di tranquillità e di quiete. Ma Soares allarga le frontiere del Desassossego fino a zone assai remote: dalla connotazione vagamente decadente di certi testi in cui il Desassossego appare associato al tedio, fino allo snervamento, all’ansia, al disagio, alla pena, al turbamento, all’inadeguatezza e alla “incompetenza verso la vita”. Un’incompetenza verso la vita comune, perché Soares è soprattutto incapace di vivere la quotidianità. E il suo libro, che è mosso dall’Impoetico, ha il tono della “disforia”: il tono sommesso e dimesso, il bisbiglio che si addice a un personaggio come Soares. Un tono straordinario perché è sorprendente vedere un impiegato di concetto, un anonimo, che in una stanza d’ufficio o in una camera d’affitto affronta i temi prediletti che la letteratura grande-borghese del Novecento discute nei salotti viennesi, in lussuosi sanatori di montagna o comunque in ambienti adeguati a discorsi sulla morte, sull’arte, sulla bellezza, sulla solitudine, sull’identità. Soares infrange una convenzione e un codice, e in questo il suo Libro dell’Inquietudine è fortemente inquietante e contagioso: perché è quotidiano, comune, semplice, normale. Insomma, sembra vero. I personaggi di Beckett sono proprio a un passo. 4. Ma più di un codice va in frantumi con Bernardo Soares. Intanto se ne

va lo spazio privilegiato del romanticismo e del decadentismo, il messaggio convenzionalmente interpretabile e comunque liberatorio: il sogno. Che farsene di Freud e di Jung? Bernardo Soares non sogna, perché non dorme. Egli “sdorme”, per usare una sua parola; frequenta cioè quello spazio di ipercoscienza o di coscienza libera che precede il sonno. Un sonno che tuttavia non arriva mai. Il Libro dell’Inquietudine è un’enorme insonnia, la “poetica dell’insonnia”. Anche per questo verso, dunque, Soares non appartiene alla convenzione culturale dei suoi anni. Egli è un curioso anticipatore. La sua insonnia, lasciato indietro il divanetto dello psicoanalista, si allaccia al febbrile stato di veglia dell’esistenzialismo degli anni quaranta, a Lévinas e a Blanchot. La vita come impossibilità di riposare. Se Bernardo Soares sia un volto tragico della letteratura è cosa difficile da stabilire. Forse bisognerebbe soffermarsi sull’aspetto che il tragico assume nel Novecento e fare i dovuti confronti. Certo egli possiede l’ironia, perché la sua figura retorica è la litote, che è anche la figura dell’ironia. Il suo lungo monologo, comunque, è costellato di interrogazioni, di reiterazioni e di interpolazioni che assolvono nel connettivo della narrazione alla stessa funzione dell’interpolazione (del “gag”) in Beckett. Quello di Soares è solo un apparente monologo: in realtà è un dialogo incerto, un dialogo con un interlocutore inesistente, in certi casi una conversazione mancata – il che rimanda al grottesco. Con questo personaggio di modesta appartenenza sociale e di anima vasta, la città di Lisbona entra prepotentemente nella letteratura del nostro secolo. Vi entra con lo statuto speciale delle città-simbolo, come la Praga di Kafka, la Dublino di Joyce e la Buenos Aires di Borges. Si tratta di una città portatrice di mistero, perché nella sua geometria il suo narratore ha posto il mistero dell’esistenza. E con Lisbona entra nella letteratura anche una strada, Rua dos Douradores, la via dei Doratori del centro commerciale e artigianale della città, dove c’è anche la via dei merciai, la via dei conciatori e la via dei calzolai; e con la strada entra l’ufficio di una ditta di tessuti dove sta rimpiattato questo metafisico scrivano che deve avere conosciuto da qualche parte il Bartleby di Melville. E con Lisbona, la via e l’ufficio entra in letteratura anche una bottega di barbiere, un bugigattolo male illuminato dove sta seduto Bernardo Soares con un asciugamano infilato nel colletto. Ha sul viso un’espressione indecifrabile e guarda la porta del retrobottega. Perché

quella vecchia porta, da dove ci aspetteremmo di vedere entrare il barbiere, si affaccia direttamente sull’Universo.

In questo scritto ho utilizzato citazioni e suggerimenti che non ho indicato nel testo per sveltirne la lettura. L’osservazione di Poe sulla “verità” autobiografica appartiene al saggio On the Impossibility of Writing A Truthful Autobiography (ora in The portable Edgar Allan Poe, Viking Press, New York 1968). Recentemente in Italia si è acceso un interessante dibattito circa l’autobiografia e il diario come generi letterari. Per il nodo della questione rimando ai numerosi contributi del numero monografico di “Sigma” (Vendere le vite: la biografia letteraria, XVII, 1-2, 1985) e a un saggio di Arnaldo Pizzorusso, molto utile per le questioni teoriche anche se dedicato esclusivamente alla letteratura francese (Ai margini dell’autobiografia, il Mulino, Bologna 1986). La definizione del Libro dell’Inquietudine come “libro-progetto” e il richiamo a Mallarmé sono di Maria Alzira Seixo, mentre il discorso sulla poetica dell’insonnia è di Eduardo Prado Coelho, al quale si deve anche l’accostamento fra Soares e Lévinas. Si tratta di due relazioni, non ancora pubblicate, che ho ascoltato a un convegno su Pessoa tenutosi alla Fondation Royaumont di Parigi dal 25 al 28 settembre 1986 (M.A. Seixo, Le discours du secret; E. Prado Coelho, Poétique de l’intranquillité). L’idea che il Livro de Desassossego sia “più nostro” delle altre opere di Pessoa è di Eduardo Lourenço (Fernando, rei da nossa Baviera, Imprensa Nacional-Casa da Moeda, Lisboa 1986). Le parole di Pessoa su Soares sono in una lettera che il poeta scrisse a A. Casais Monteiro il 13 gennaio 1935 (vedi seconda appendice). L’espressione pessoana Mal-de-viver compare in una lettera a A. Côrtes-Rodrigues del 4 settembre 1916 (cfr. Una sola moltitudine, vol. 1). Il brano de I quaderni di Malte Laurids Brigge è citato nella traduzione italiana di Furio Jesi, Garzanti, Milano 1974. Numerose pagine di word-painting di Hopkins in G.M. Hopkins, Poems and Prose, a cura di W.H. Gardner, Penguin, London 1984. L’osservazione su Bernardo Soares di “incompetenza verso la vita” è di Jacinto do Prado Coelho nella prefazione all’edizione portoghese del Livro do Desassossego (Lisboa 1982), mentre il termine “disforia” per indicare il tono del Livro è di Arnaldo Saraiva. L’idea che il Desassossego sia un libro “ironico” mi viene da una lettura di Vladimir Jankélévitch (L’Ironie, Flammarion, Paris 1964). Il discorso sull’uso del “gag” in Beckett si trova in un saggio straordinario (Su Beckett, l’interpolazione e il “gag”) di un memorabile libro di Gianni Celati, Finzioni occidentali, Einaudi, Torino 1975, nuova ed. 1986. Per il concetto di Lisbona come cittàsimbolo rimando al saggio di Maria José de Lancastre, Peregrinatio ad loca fernandina. La Lisbona di Pessoa, in “Quaderni Portoghesi”, 1, 1977, e alla sua comunicazione, intitolata Pessoa et Lisbonne, presentata al citato convegno di Royaumont. Ma questo testo è debitore soprattutto di alcune indimenticabili conversazioni col mio amico Franco Occhetto, senza il cui incoraggiamento e senza il cui entusiasmo per il Livro di Pessoa non esisterebbe ora questo libro in italiano. Ed è per questa ragione che il mio scritto è dedicato alla sua memoria. 11

“Che finisce in un libro.” [N.d.C.]

Un fil di fumo: Pessoa, Svevo e le sigarette

C’è un fil di fumo che attraversa l’Europa letteraria del Novecento per unire idealmente, attraverso due scrittori, due città lontane, incomunicanti, ignare l’una dell’altra. Le città sono Lisbona e Trieste, i personaggi Fernando Pessoa e Italo Svevo. Il fumo che li unisce è quello di una sigaretta. Un’analisi critica che, in un testo letterario, privilegi il tabacco, potrà forse sembrare futile o quantomeno stravagante; ma se pensiamo che l’oppio e l’assenzio sono i numi tutelari di molta eccellente letteratura dell’Ottocento, non sembrerà forse troppo peregrino avvicinarsi a superbi testi del Novecento attraverso il gusto fuggitivo di una sigaretta. Ma cos’è una sigaretta? Prima di rispondere a questa frivola domanda, vorrei far rilevare come la vita di Fernando Pessoa e quella di Italo Svevo siano disseminate di sigarette. La vita reale di Svevo-Schmitz, a somiglianza di quella romanzesca di Svevo-Zeno, è dominata dalla sigaretta; a tal punto dominata da essere scandita dal ritornello dell’ultima sigaretta, ovvero dal proposito, peraltro mai realizzato perché forse mai desiderato veramente, di smettere di fumare. Ascoltiamo, ad esempio, una testimonianza di Livia Veneziani Svevo: “Ore 4 e 7 minuti. Era questa l’ora della morte di sua madre. E a quell’ora spesso egli si proponeva di fumare l’ultima sigaretta che purtroppo non fu mai l’ultima. Forse con il fumo tentava di far tacere le ‘rane’. Così chiamava i dubbi insistenti che erano la sua tortura.” I diari e l’epistolario sveviani sono poi costellati di promesse di smettere di fumare: dal giorno 9 febbraio del 1896, allorché con la penna d’oro regalatagli dalla sua Livia verga la prima promessa scritta, passando attraverso una sublime promessa redatta sotto forma di manifesto nel 1897,12 e via via nelle occasioni più importanti della sua esistenza, la vita di Svevo è un autentico balletto di ultime sigarette, fino alla testimonianza di Livia Veneziani Svevo su suo marito che sul letto di morte domanda l’ultima sigaretta. Così note sono le predilezioni per il tabacco di Fernando Pessoa da essere state assunte dall’iconografia pessoana migliore13: i due celebri ritratti di

Almada Negreiros con Pessoa seduto al tavolino di fronte a una tazzina di caffè e alla rivista “Orpheu”, con una sigaretta infilata fra l’indice e il medio; e l’acutissima interpretazione pittorica di Costa Pinheiro che lo ritrae attorniato da un gabbiano, un paio di occhiali, una penna, un bocchino e un pacchetto di “Provisórios”.14 Nella finzione letteraria la predilezione privata di Pessoa, il suo vizio, si trasferisce nel personaggio di Álvaro de Campos. Assieme con Bernardo Soares, Álvaro de Campos è l’unico, in tutta la folla eteronimica, a possedere il vizio del fumo. Ma se per Bernardo Soares la sigaretta è un elemento caratterizzante ma certo non sostanziale (“B. Soares jantava sempre pouco e acabava sempre fumando tabaco de onça”,15 cenava sempre con parsimonia e alla fine del pasto si arrotolava una sigaretta con tabacco di cattiva qualità), per Álvaro de Campos la sigaretta è certo qualcosa di più di un semplice elemento macchiettistico. Questo qualcosa di più assume un’importanza sostanziale nel testo forse più celebre, e probabilmente fra i più intensi e pregnanti di Álvaro de Campos: Tabacaria. È fuori di dubbio che l’interpretazione più interessante della sigaretta, e del vizio del fumo in generale, è stata fornita, si concordi o si discordi da essa, da Sigmund Freud nei Tre saggi sulla teoria della sessualità. Secondo la teoria di Freud, il vizio del fumo, che si basa sul meccanismo della suzione, rimanda alla fissazione di uno stadio infantile, al non superamento della cosiddetta “fase orale” dell’infante. Sulla scorta dell’interpretazione freudiana si sono mossi numerosi critici di Italo Svevo, mentre abbastanza curiosamente, esclusi alcuni intelligenti e rapidi accenni di Georges Güntert e di Armand Guibert, il vizio del fumo di Pessoa-Campos non è mai stato analizzato come forse meriterebbe. Fra le interpretazioni freudiane della sigaretta di Zeno vorrei citarne, per esemplificare, almeno due. La prima è quella di Eduardo Saccone che replica alle affermazioni più banali della psicoanalisi vulgata da posizioni grosso modo lacaniane,16 situando il problema-fumo sul versante del Desiderio: “La quale [sigaretta], del resto, non essendo oggetto di un bisogno ma di un desiderio, in tanto è valorizzata in quanto è, come si diceva, proibita dall’Altro” (ove l’Altro, scritto con la maiuscola, sta a significare il campo di forze antagoniste al soggetto). La sigaretta, continua Saccone, “è un significante, non un’allegoria o un’immagine della virilità”; e da qui la

conclusione del comportamento di Zeno come paura del soggetto di essere privato del suo desiderio. Ancora più suggestiva dell’interpretazione lacaniana di Saccone è, a mio avviso, l’analisi che Mario Fusco fornisce, in un saggio fondamentale per gli studi sveviani, da una posizione ortodossamente freudiana. Tre sono i punti che il critico mette in evidenza nel problema della sigaretta di Zeno: il “bisogno compulsionale”, il “carattere rituale” e l’appartenenza a uno “stadio d’evoluzione infantile”. “L’habitude de fumer sans cesse qui est le premier fait présenté par le roman se révèle à nous comme un besoin compulsionnel dont l’origine, Zeno le dit lui-même, se rattache à sa première enfance et à sa rivalité avec son père.” Continua Fusco: “Le jeu de Zeno avec les dates, les anniversaires, est un autre aspect caractéristique de ce comportement névrotique, mais qui se rattache également à d’autres données. Il y a là, en effet, la manifestation du besoin de se rassurer par des actes prenant un caractère rituel qui nous permet de mieux comprendre l’attitude profondément, fondamentalement hésitante de Zeno”.17 Il critico conclude infine che il romanzo tenta di dare una spiegazione eziologica di questo atteggiamento nevrotico di Zeno collegandolo “de façon tout à fait explicite à une situation oedipienne persistante, et à une fixation du protagoniste à un stade d’évolution encore infantile” (i corsivi sono miei).18 Mi pare che questa suggestiva interpretazione della sigaretta di Zeno come “fissazione a uno stadio d’evoluzione infantile” possa essere egregiamente utilizzata per alcune considerazioni sui testi poetici di Campos che ci interessano. Che la nostalgia dell’infanzia sia effettivamente il centro della pulsione poetica di Fernando Pessoa è opinione che, a partire dalle intuitive considerazioni di João Gaspar Simões sul cosiddetto “regresso infantile”, i più autorevoli critici pessoani accettano: e i testi sono lì a dimostrarlo.19 In Álvaro de Campos la nostalgia dell’infanzia è poi un autentico leitmotiv di cui Lisbon Revisited (1923), Lisbon Revisited (1926), Ode Triunfal e Aniversário sono probabilmente gli esempi più struggenti.20 Ma di “quale” infanzia si tratta? Sono d’accordo con Eduardo Lourenço che la pulsione all’infanzia di Pessoa sia da leggersi non tanto attraverso la mediazione dei poeti delle nostalgie infantili, ma nella sua specifica figura. Eduardo Lourenço, argomentando con molta finezza, dimostra come Pessoa non recuperi la sua vera infanzia, da lui probabilmente pensata come

intoccabile “nel senso in cui sono intoccabili le cose sacre”, preferendo invece recuperare un’infanzia vista altra, dunque un archetipo di infanzia, un’infanzia di finzione. Eppure ritengo che il regresso all’infanzia di Fernando Pessoa non si esaurisca nella nostalgia di un’infanzia archetipica, di un Paradiso Terrestre in cui esiste la rassicurante figura del Padre, la presenza (o l’assenza) del quale è certo fondamentale per comprendere alcuni punti centrali della sua poesia. C’è un’altra infanzia alla quale tende disperatamente, ossessivamente, in una dialettica costante ritmata dall’opposizione speculazione / nonspeculazione, tutta la poesia di Campos, tesa attraverso due poli: il rovello ontologico, il fisso sguardo sul reale da una parte, e la stanchezza infinita di questo interrogativo dall’altra, il benessere nell’abbandonare l’intelligenza speculativa per affidarsi alla grande pace, silente e deserta, di una intelligenza pre-speculativa, competente di sensi (“sensitiva e competente”), assolutamente fisiologica. La feroce nostalgia di Campos per l’infanzia non si proietta dunque solo nel ritorno memoriale a un’infanzia più o meno fittizia ma sempre e comunque ricordabile e ricostruibile; ma piuttosto nel ritorno sensitivo a un’infanzia immemorabile allorché la dannazione dell’intelligenza speculativa non lo ha ancora posto in quello stato di imprescindibile malessere (o di malattia, se vogliamo) che proviene dalla riflessione sul reale. “No tempo em que festejavam o dia dos meus anos / Eu tinha a grande saúde de não perceber coisa nenhuma” (Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno / avevo la grande salute di non capire alcunché...). Lo stadio della grande felicità, della perfetta salute è proprio questa infanzia, un’infanzia immemorabile per definizione, perché essa cessa allorché di essa si può avere memoria, è anteriore allo stadio in cui si organizzano i ricordi razionali, vive esclusivamente nello stadio del gusto, dell’olfatto, dell’udito e della vista, non contaminata dalla “malattia” del raziocinio, da quell’assillo ontologico che strappa a Campos queste esclamazioni: “Ah, perante esta única realidade que é o misterio, / Perante esta única realidade terrível – a de haver uma realidade” (Ah, davanti a questa unica realtà che è il mistero, / davanti a questa unica realtà terribile – quella di esserci una realtà).21 “O que há em mim é sobretudo cansaço”: quel che c’è in me è soprattutto stanchezza. Le poesie di Campos sono piene di stanchezza; anzi, no:

“Cansaço não é... / É eu estar existindo, e também o mundo.” (Stanchezza non è... / È il fatto che io stia esistendo, e anche il mondo.) E sono anche piene di notte, di sonno, di desiderio di notte e di sonno, di appelli alla notte e al sonno. Dormita, alma, dormita! Aproveita, dormita! Dormita! É pouco o tempo que tens! Dormita! É a véspera de não partir nunca! (Dormicchia, anima, dormicchia! / Approfittane, dormicchia! / Dormicchia! / È poco il tempo che hai! Dormicchia! / È la vigilia di non partire mai!) O sono que desce sobre mim, O sono mental que desce fisicamente sobre mim, O sono universal que desce individualmente sobre mim. (Il sonno che scende su di me, / il sonno mentale che scende fisicamente su di me, / il sonno universale che scende individualmente su di me.) Não estou pensando em nada, E essa coisa central, que é coisa nenhuma, É-me agradável como o ar da noite. (Non sto pensando a niente, / e questa cosa centrale, che non è nessuna cosa, / mi è gradevole come l’aria notturna.) No fim de tudo dormir... (Alla fine di tutto dormire...)

Per Campos il rifugio nel sonno è probabilmente l’unica maniera di dimenticare “Esta velha angústia / Esta angústia que trago há séculos em mim”, un’angustia secolare che porta dentro di sé; o anche una maniera di evadere dal “carcere del pensare” in un “universo a buon mercato”, chiusa la porta della camera e “cessato il ciabattare del corridoio”. Ma fra il mondo onirico, che costituisce l’incoscienza del reale, e il mondo della veglia iperlucida di Campos che rappresenta l’insopportabile coscienza dello stesso reale, esiste un terzo stadio. È lo stadio della percezione fenomenica, del mondo come pura sensazione: è il mondo di quello stadio dell’infanzia allorché tutto il reale si riassumeva in una beata e fisiologica soddisfazione orale. È il mondo di quell’infanzia nella quale si ha “la grande salute di non capire alcunché”, nel quale Álvaro de Campos, come vedremo, rientra fumando una sigaretta. Ma che fumatore di lunga data e di consolidata esperienza è il signor Álvaro de Campos! La sua frequentazione degli smoking-rooms dura fin dal tempo di Opiário: Não chegues a Port-Said, navio de ferro! Volta à direita, nem eu sei para onde.

Passo os dias no smoking-room com o conde –, Um escroc francês, conde de fim de enterro. (Non arrivare a Port Said, nave di ferro! / Gira a destra, nemmeno io so verso dove. / Passo le giornate nello smoking-room con il conte –, / un imbroglione francese, conte da coda di funerale.)

Si obietterà che Opiário è un poemetto retrodatato, basato sul registro dell’ironia, e che il personaggio che vi compare appartiene solo idealmente alla protostoria di Álvaro de Campos. Eppure se Pessoa, magari inconsciamente, attribuisce al protagonista un viscerale amore per il fumo, ciò deve avere un significato. Il Campos di Opiário, dandy esotista tediato e blasé, non sente certamente l’angoscia del Campos “maturo”: la sua figura è misurata sul compasso del poeta decadente alla stregua di un Oscar Wilde e il sottile spleen che lo caratterizza non ha ancora raggiunto le dimensioni metafisiche dell’ingegnere disoccupato a Lisbona, è uno spleen tutto esistenziale, magari un po’ futile e à la page. Si potrebbe dire che Álvaro de Campos di Opiário “sa già” quali sono i suoi problemi, ma non si è ancora soffermato su di essi; passa semplicemente la giornata a fumare (“Levo o dia a fumar, a beber coisas, / Drogas americanas que entontecem”, passo il giorno a fumare, a bere cose, / droghe americane che intontiscono) e il sapore della vita si stempera nel sapore di una sigaretta: Ah que bom que era ir daqui de caída Prá cova por um alçapão de estouro! A vida sabe-me a tabaco louro. Nunca fiz mais do que fumar a vida. (Come sarebbe bello cader dritto nella fossa / attraverso una botola senza fondo! / La vita ha il sapore del tabacco biondo. / Non ho mai fatto altro che fumar la vita.)

Una ben diversa funzione sembra invece assumere la sigaretta nel Campos “maturo”. Essa non è più, simbolicamente, l’immagine dei giorni bruciati, della vita gaspillée dal dandy, ma una difesa, un antidoto. Una poesia non datata, ma probabilmente collocabile fra le ultime composizioni di Campos, evidenzia in maniera perfino provocatoria il fine per il quale Campos adopera la sigaretta: Gostava de gostar de gostar. Um momento... Dá-me de ali um cigarro, Do maço em cima da mesa de cabeceira. Continua... Dizias Que no desenvolvimento da metafísica De Kant a Hegel Alguma coisa se perdeu. Concordo em absoluto. Estive realmente a ouvir. Nondum amabam et amare amabam (Santo Agostinho).

Que coisa curiosa estas associações de ideias! Estou fatigado de estar pensando em sentir outra coisa. Obrigado. Deixa-me acender. Continua. Hegel... (Mi piacerebbe che mi piacesse provare piacere. / Aspetta un attimo... Dammi una sigaretta, / dal pacchetto che è lì sul tavolino da notte. / Continua pure... Dicevi / che nello sviluppo della metafisica / da Kant a Hegel / qualcosa si è perso. / Sono assolutamente d’accordo. / Ti ascoltavo con attenzione. / Nondum amabam et amare amabam (Sant’Agostino). / Che cosa curiosa queste associazioni di idee! / Sono stanco di star pensando di sentire qualcos’altro. / Grazie. Fammi accendere. Continua. Hegel...)

Si sarebbe tentati di dire che Álvaro de Campos odia la metafisica (o che non la prende sul serio), e che il suo è un atteggiamento di forte ironia; ma sarebbe evidentemente una semplificazione. Forse sarebbe meglio dire che Campos è un poeta metafisico che odia la metafisica. Anche se “não há mais metafísica no mundo senão chocolates”, al mondo non c’è altra metafisica che la cioccolata, l’ingegnere Álvaro de Campos, reietto e vagabondo, che sarà sempre “quello della mansarda” anche se non ci abita, vagheggia che “as metafísicas perdidas nos cantos dos cafés de toda a parte, / As filosofias solitárias de tanta trapeira de falhado, / As ideias casuais de tanto casual, as intuições de tanto ninguém – / Um dia talvez, em fluido abstracto, e substância implausível / Formem um Deus e ocupem o mundo”, le metafisiche dimenticate nei canti dei caffè d’ogni dove, le filosofie solitarie dei solai di tanti falliti, le idee casuali di tanti casuali, le intuizioni di tanti nessuno – forse un giorno, in fluido astratto e sostanza implausibile, si coaguleranno in un Dio e occuperanno il mondo. La metafisica che Campos affronta ironicamente con la sigaretta, ma che in realtà possiede ed esercita, è proprio quella “qualità” che gli vieta di “ser prático, ser quotidiano, nítido / Ter um lugar na vida, ter um destino entre os homens, / Ter uma obra, uma força, uma vontade, uma horta”, essere pratico, quotidiano, nitido, avere un posto nella vita, un destino fra gli uomini, un’opera, una forza, una volontà, un orto... Ed è anche ciò che lo distingue dallo “Esteves senza metafisica” che esce dalla tabaccheria infilandosi gli spiccioli nella tasca dei calzoni; è la “sensação de que tudo é sonho, como coisa real por dentro”, la sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro, opposta alla lealtà dovuta alla tabaccheria dirimpetto, “como coisa real por fora” e nell’ordine della quale il pratico Esteves evidentemente rientra. Tutto il testo di Tabacaria è scandito dalla dialettica di questi due opposti: da una parte il desiderio dell’accettazione del mondo fenomenico, simboleggiata dallo spaccio di tabacchi dall’altro lato della strada, e dalla

parte opposta la speculazione che sulla “coisa real por fora” il poeta compie. O anche, con un’altra formulazione, la naturalis salus dell’accettazione fenomenica del reale contrapposta al brivido metafisico dell’interrogazione sul reale stesso. Ma perché mai il puro fenomeno è simboleggiato da una tabaccheria? Perché deve essere proprio una rivendita di tabacchi a veicolare l’immagine di una realtà priva di metafisica, semplicemente e apparentemente fisica e che si esaurisce proprio nella sua stessa fisicità? Si potrebbe rispondere che è un caso fortuito e avanzare la testimonianza di biografi come Moitinho de Almeida che ci rammentano come nella Rua dos Retroseiros, angolo Rua da Prata, cioè dirimpetto a uno degli uffici presso i quali Fernando Pessoa lavorava, esistesse una volta una tabaccheria, la “Havaneza dos Retroseiros”, che in seguito cessò l’attività, e che Pessoa l’aveva dunque sotto gli occhi. Ma quante botteghe non saranno cadute sotto gli occhi di Pessoa, a cominciare da quei caffè e ristorantini dei quali era un frequentatore assiduo, fino alle barbierie e alle bottegucce della Baixa di Lisbona descritte sovente da Álvaro de Campos e da Bernardo Soares? Invece che di una tabaccheria assunta per mero caso, per occasionale contiguità spaziale, a simboleggiare la realtà priva di metafisica, vorrei avanzare l’ipotesi di una scelta per necessità, anche se per una necessità preterintenzionale. Campos sceglie “forzosamente”, con un tipico lapsus freudiano, proprio questa bottega e non altre perché è proprio in questa bottega che si vende un prodotto di cui egli solitamente fa uso, anche senza rendersene conto, per “neutralizzare” la sua angustia metafisica: il tabacco. Vorrei a questo punto esaminare il testo nella sua parte finale, in un passaggio che mi pare di fondamentale importanza per la poesia, perché in esso si verifica una svolta decisiva, una soluzione. L’angoscia del parlante ha raggiunto il suo zenit, la tensione è massima. Dopo le considerazioni sul “real por fora” (“Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con una nitidezza assoluta. / Vedo le botteghe, vedo i marciapiedi, vedo le automobili che passano, / vedo gli enti vivi vestiti che si incrociano, / vedo i cani, che anch’essi esistono, / e tutto questo mi pesa come una condanna all’esilio, / e tutto questo è straniero, come tutto”); e le considerazioni sulla inutilità del “sonho como coisa real por dentro”, cioè della poesia (“essenza musicale dei miei versi inutili, / magari potessi incontrarti come cosa fatta da me”), con la desolata conclusione che entrambi (reale e sogno) si equivalgono (il padrone

della bottega che lascia un’insegna, il poeta che lascia dei versi), ci troviamo proiettati all’improvviso nella dimensione dell’Assurdo. Ci affacciamo con Álvaro de Campos allo squarcio della tela che nasconde il senso del mondo e scorgiamo un universo che gira macchinosamente per produrre all’infinito poesie e insegne, come un paradossale gioco di scatole il cui unico “senso” consiste nel contenere altre scatole. Ma... Mas um homem entrou na Tabacaria (para comprar tabaco?), E a realidade plausível cai de repente em cima de mim. Semiergo-me enérgico, convencido, humano, E vou tencionar escrever estes versos em que digo o contrário. (Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?), / e la realtà plausibile si abbatte all’improvviso su di me. / Mi raddrizzo energico, convinto, umano, / e mi riprometto di scrivere questi versi per sostenere il contrario.)

Che cosa significa questo avversativo che apre il verso? Perché questo ma, apparentemente inspiegabile e sempre accettato senza commento dalla critica? E perché questo repentino cambiamento di umore, questo guizzo che fa drizzare Campos energico, convinto, umano, dopo le precedenti considerazioni di una mortale malinconia? Che cosa è successo? Descriviamo, attraverso una sequenza di momenti successivi, il processo che si realizza in Álvaro de Campos:

Il sortilegio si è compiuto: Acendo um cigarro ao pensar em escrevê-los E saboreio no cigarro a libertação de todos os pensamentos. Sigo o fumo como um rota própria, E gozo, num momento sensitivo e competente, A libertação de todas as especulações E a consciência de que a metafísica é uma consequência de estar mal disposto. (Accendo una sigaretta meditando di scriverli / e assaporo in essa la liberazione di tutti i pensieri. / Seguo il fumo come una rotta autonoma, / e godo, in un momento sensitivo e competente, / la

liberazione da tutte le speculazioni / e la consapevolezza che la metafisica è l’effetto di un’indisposizione.)

Come per Svevo il fumo era un mezzo per far tacere le sue “rane”, e per Zeno un bisogno compulsionale che rimandava a uno stadio d’evoluzione infantile, così per Campos la sigaretta agisce sul piano intellettuale per rimandarlo a uno stadio di pura e fisiologica soddisfazione orale, a quella condizione pre-speculativa in cui si ha la grande salute “de não perceber coisa nenhuma”. A questo punto Campos, con l’universo che gli si ricostruisce senza ideale né speranza, è anch’egli un Esteves senza metafisica, un uomo pratico, quotidiano, nitido, che potrebbe avere un orto. Un uomo “normale”. Solo che questa “normalità” dura il momento “sensitivo e competente” di una sigaretta.

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“Manifesto provvisorio / (sarà stracciato quando Livia / ne avrà fatta una bella copia) / Ettore Schmitz / Per l’ultima volta promette / Di non fumare più / 3 (tre) aprile / 11 (undici) antimeridiane / 1897 / Questa data di numeri / Impari / Servirà forse meglio / Di tante date rotonde / Cercate, Stabilite / Ragionate.” 13 Pessoa stesso ammette più volte la sua predilezione per la sigaretta nei suoi appunti personali. Valga per tutte questa nota: “Uno dei pochi divertimenti intellettuali che ancora restano a ciò che ancora resta di intellettuale nell’umanità è la lettura di romanzi gialli [...]. Un libro di uno di questi autori [Conan Doyle e Arthur Morrison], una sigaretta da 45 centesimi al pacchetto, l’idea di una tazza di caffè – trinità la cui unità significa per me coniugare la felicità – ecco in che cosa si riassume la mia felicità” (F. Pessoa, Una sola moltitudine, vol. 1, p. 78). 14 Il titolo del quadro è: Fernando Pessoa Ele-Mesmo com os seus óculos-navios, a sua caneta, o seu maço de cigarros e a sua boquilha (“Fernando Pessoa Egli-Stesso con i suoi occhiali-nave, la sua penna, il suo pacchetto di sigarette e il suo bocchino” [N.d.C.]), 1978. 15 F. Pessoa, Livro do Desassossego. 16 Fra queste, tanto per fare un esempio, quella di P. Robinson (Svevo: Secrets of the Confessional, pp. 101-114), dove il problema è ridotto alla seguente equazione: “Cigarettes are fallic”. 17 “L’abitudine di fumare senza sosta, che è il primo fatto presentato nel romanzo, possiamo interpretarla come un bisogno compulsionale la cui origine, lo dice lo stesso Zeno, va ricercata nella sua prima infanzia e nella sua rivalità con il padre. […] Il giocare di Zeno con date e anniversari è un altro aspetto caratteristico di questo comportamento nevrotico, ma che si ricollega anche ad altri fattori. C’è qui, in effetti, la manifestazione della necessità di rassicurarsi attraverso atti dal carattere rituale che ci permette di capire meglio l’atteggiamento profondamente e fondamentalmente esitante di Zeno.” [N.d.C.] 18 “In modo del tutto esplicito a una situazione edipica persistente e a una fissazione del protagonista a uno stadio di evoluzione ancora infantile.” [N.d.C.] 19 J.G. Simões, Vida e obra de Fernando Pessoa. História duma geração. Vedi anche: Eduardo Lourenço, Pessoa Revisitado. Leitura estruturante do Drama em gente.

20

“O cielo azzurro – lo stesso della mia infanzia –, / eterna verità vuota e perfetta!”, Lisbon Revisited (1923); “Di nuovo ti rivedo, / città della mia infanzia spaventosamente perduta...”, Lisbon Revisited (1926). 21 La suggestione dell’infanzia come pura felicità fisiologica deriva probabilmente dal Nietzsche della Nascita della tragedia.

Sulle lettere d’amore

Hai tanto potere su di me: via, trasformami in un uomo che sia capace di ciò che è ovvio. F. KAFKA in una lettera a Felice

Iscritta fra la parodia della dichiarazione di Amleto a Ofelia, in bigliettini nascosti in scatole di caramelle, e un finale in forma di filastrocca nonsense, la storia di questo amore segretissimo e casto, così ottimisticamente puerile e insieme così senza speranza, potrebbe forse sembrare ridicola se non partecipasse, proprio come i veri grandi amori, del ridicolo e del sublime. Qui c’è un Faust in gabardine, soggetto a tonsilliti e impiegato in ditte lisbonesi di import-export, costretto a barattare la sua fragile Margherita, intelligente e un po’ disorientata, per un Mefistofele implacabile e totalitario rimpiattato nel Progetto di un’Opera. (“Del resto la mia vita gira intorno alla mia opera letteraria – buona o scadente che essa sia o che possa essere. Tutto il resto della vita ha per me un interesse secondario [...].”) È impossibile non pensare a una lettera di Kafka a Felice Bauer del 1912: “La mia vita consiste ed è consistita, in fondo, da sempre, in tentativi di scrivere [...]. Il mio tenore di vita è organizzato soltanto in vista dello scrivere, e se subisce mutamenti, li subisce perché corrisponda meglio, possibilmente, allo scrittore, poiché il tempo è breve, le forze sono esigue, l’ufficio è uno spavento, l’abitazione è rumorosa e bisogna cavarsela con artifici, quando non è possibile farlo con una bella vita diritta”. Ed è impossibile non figurarsi questa scelta come un ovvio, e forse un po’ banale Ersatz: Pessoa ha scelto la letteratura semplicemente perché non poteva scegliere l’amore. Ma ogni lettore di Pessoa sa come l’ovvio e il banale siano categorie inadeguate per un personaggio che visse una vita da impiegato di concetto come se fosse un impiegato di concetto, trattò se stesso come se fosse un altro, scrisse poesie sue come se fossero altrui. Il sentimentalismo più deteriore, così impeccabilmente di cattivo gusto e così inappellabilmente “normale”, conferisce a queste lettere un’ovvietà troppo ovvia per essere

ovvia davvero. È il primo sospetto che queste lettere ci comunicano, e con esso il primo disagio. Come se in queste missive innocue di insulsaggine corresse sotterraneo qualcosa di indecifrabilmente nocivo e peccaminoso. In queste lettere non c’è l’ovvietà, ma l’Ovvio maiuscolo e platonico, la sua struttura profonda, la fenomenologia in forma epistolare di un paradigma: il codice minacciosamente stupido dell’Amore. Credo che non sarebbe piaciuto a Stendhal, questo amore così povero di connotazioni storiche e di implicazioni sociali per essere degno di figurare nel suo trattato. Ma se queste lettere fossero cadute sotto gli occhi di Bouvard e Pécuchet, forse i due metafisici della Bêtise avrebbero emesso con soddisfazione la loro sentenza preferita: “Che faremo di tutto questo? Niente riflessioni! Copiamo!”. Con Flaubert, del resto, Pessoa mostra una grande affinità elettiva. Anch’egli, come l’ex idiot de la famille rinchiuso a spiare il mondo dietro le finestre, avrebbe potuto legittimamente dichiarare che la vita “sembra tollerabile soltanto se si riesce a schivarla”; e la sua opera, specie le più struggenti composizioni di Álvaro de Campos (Passagem das horas e Tabacaria) ne sono la conferma. Ecco perché il sillabario di queste lettere ci procura il malessere di un peccato doloroso e inutile: come qualcuno che voglia vivere con estrema convinzione qualcosa di cui non è convinto; come certe macchine ingegnose e perfette che non servono a nulla. Perché ci inducono a pensare che Pessoa abbia delegato a un altro, che era lui stesso, il compito di vivere una storia d’amore e di scrivere lettere d’amore alla signorina Ophelia Queiroz, anch’essa impiegata in ditte di import-export nella Lisbona degli anni venti. E che lui sia rimasto a guardare il suo Bouvard e Pécuchet, che era lui stesso, che ricopiava le sue stesse lettere. Tutto Pessoa è “come se”, ha scritto Luciana Stegagno Picchio. A loro modo anche queste lettere sono un “come se”. Ma anche i “come se” danno dolore, certo. E forse anche piacere. Come una protesi. E postulano una sintonia con la sensibilità del terminale a cui si riferiscono: dunque sono dotati degli stessi princìpi di quello, posseggono gli stessi meccanismi, magari il materiale è il medesimo. Il Fernando Pessoa che vive il suo “come se” è evidentemente anch’egli Fernando Pessoa. Seguendo la scarna cronaca del suo “come amore” avremo, come sostiene David Mourão-Ferreira, “un’ulteriore superficie, un ulteriore strato del labirinto che Pessoa è sempre stato”. Di che cosa ci parlano queste lettere? Intanto ci parlano di orari. Il che

può sembrare abbastanza plausibile per un uomo che scandì la sua vita sull’immutabile metronomo del piccolo impiegato. Ma in queste lettere la presenza delle lancette è talmente ossessiva da diventare qualcosa di diverso da una mera misurazione delle ore. Pessoa ha sempre il potere di maiuscolizzare la banalità, come sanno fare i grandi nevrotici. In lui il vezzo diventa tic, il tic mania, la mania ossessione; e l’ossessione rimanda a zone buie, a minuscoli abissi quotidiani, a totem domestici e tascabili, ma non per questo meno minacciosi e prepotenti. Ci parlano anche del terrore-rifiuto per la fotografia, per quella “provvisoria immagine di se stesso”, come la definì nella dedica a una zia che gliela aveva richiesta insistentemente, che ha senz’altro qualcosa in comune con l’angustia del “reale visibile” che sempre accompagnò la poesia di Campos. Ci parlano infine della coniugazione dell’insolito binomio Amore / Deambulazione, dettato dal criterio schizoide di trovarsi in un luogo e di pensare a quando si troverà in un altro luogo. Che lo costringe ossessivamente a tracciare percorsi, a immaginare itinerari, a segnare una fittissima rete topografica fatta di strade, di piazze, di vicoli, di banchine del porto, di fermate del tram e che si iscrive nella Lisbona deputata (la Baixa) del Campos avanguardista e del Bernardo Soares scrivano decadente. E c’è, infine, la proiezione di se stesso sull’essere amato per amarvisi narcisisticamente, tale che pare di sentire i versi di Ricardo Reis: Ninguém a outro ama, senão que ama O que de si há nele, ou é suposto. (Nessuno ama un altro, ama soltanto / ciò che di sé c’è in lui, o che suppone.)

Che cosa ama (o suppone) di sé in Ophelia, Fernando Pessoa? Ama il bambino che egli è, la sua più urgente puerilità finalmente sottratta alle censure del super-ego e mostrata nella sua più insolente nudità: che significa balbettio infantile, desiderio di tenere percosse materne, voglia del grembo, invidia-nostalgia di un mondo nel quale il giudizio sul reale era delegato agli adulti. Certo fu un bel rapporto nevrotico, maniacale come lo sono gli amori che di norma durano tutta una vita: proprio il contrario di certe passioni liberatorie, travolgenti e tutte basate sui lombi. No: questo fu, senza esserlo, un matrimonio, e come tale si nutrì di abitudini, di decoro, di devozione e di meschinità. Non travolse niente, non liberò niente e non produsse niente. Solo che si esaurì nella pura idea o nella pura struttura matrimoniale, prescindendo dal talamo. Ma poi il sesso qui che c’entra? Per Pessoa questo

fu l’essenza dell’amore, non la sua realizzazione sul piano del pragma, così come l’ortonimo lo aveva teorizzato in poesia: O amor é que é essencial. O sexo é só um acidente. Pode ser igual Ou diferente. O homen não é um animal: È uma carne inteligente, Embora às vezes doente. (È l’amore che è essenziale. / Il sesso è solo un accidente. / Può essere uguale / o differente. / L’uomo non è un animale: / è una carne intelligente, / anche se a volte malata.)

E l’“accidente” non si verificò. Presumibilmente una tale accidentalità era vietata a questo tipo di amore e le lettere lo palesano. E del resto perché parlare dell’uomo Pessoa? Chi gioca qui, anche se si chiama come lui (o anche se è proprio lui), è uno dei suoi tanti alter ego, un “doppio” doppio. Più che mai personaggio di se stesso, questo Pessoa ortonimo che scrive lettere d’amore ai tavolini dei vecchi caffè di Lisbona vive la vita in letteratura: come Campos, Reis, Caeiro e gli altri eteronimi vive cioè una vita che è la quintessenza della vita, il suo codice. Il punto centrale di queste lettere, come di tutta la poesia di Pessoa, è dunque il problema della finzione, cioè dell’eteronimia. Non poteva essere altrimenti, perché la “finzione vera” di Pessoa, secondo una sua sottile distinzione, è un atteggiamento verso il reale, non solo una dimensione letteraria, e fu usata nella letteratura e nella vita senza nessuna differenza. La presenza degli eteronimi veri e propri si riduce qui principalmente alla persona di Álvaro de Campos, visto che, come dichiara Ophelia nella sua testimonianza, “Fernando parlava raramente di Caeiro, di Reis e di Soares”. C’è anche, è vero, la presenza del signor Crosse, lo sciaradista dal nome sciaradistico che passò la vita a concorrere ai premi enigmistici del “Times” di Londra. Ma la sua apparizione non rappresenta mai un’interferenza fra i due innamorati: anzi, è un personaggio confortante e protettore, eventuale dispensatore di beni materiali nella felice ipotesi di una sua vincita. La presenza dell’ingegnere Álvaro de Campos, sempre trattato con ironica deferenza col suo titolo di studio, è affatto diversa. La sua esistenza si insinua ben presto nella storia d’amore di Ophelia e Fernando, reclama diritto al giudizio, all’azione, alla partecipazione. “Non ti stupire se la mia calligrafia è un po’ strana,” raccomanda Fernando nella lettera 13; e giustifica questa stranezza con due motivi: la qualità del foglio e lo stato di ebbrezza in cui si

trova. E poi aggiunge esserci questo terzo motivo: “che ci sono solo due motivi, e dunque non c’è affatto un terzo motivo”. È un tipico ossimoro alla Campos, che tra parentesi firma questa paradossale asserzione; ma non bisogna dimenticare un vero motivo sottinteso al non-motivo apparente: il vezzo di Pessoa di cambiare calligrafia a seconda dei suoi eteronimi. In ciò la reale stranezza (leggi differenza) della calligrafia. Resta da sapere perché, fra i tre eteronimi maggiori, proprio ad Álvaro de Campos sia toccato in sorte di partecipare della storia d’amore di Fernando. Certo egli godette di uno statuto speciale che agli altri eteronimi non toccò. Alberto Caeiro morì molto giovane, nel 1915, dopo aver trascorso tutta la vita in provincia presso una vecchia zia. Ricardo Reis se ne andò presto dal Portogallo, emigrò in Brasile a causa delle sue idee monarchiche e non fece più ritorno. Álvaro de Campos, ingegnere navale disoccupato, visse tutta la vita con Pessoa, frequentò e amò gli stessi luoghi (la Baixa, i moli del porto, i caffè liberty, le bottegucce e le tabaccherie di Rua dos Retroseiros), cessò di scrivere quando Pessoa cessò di scrivere, cioè morì con lui. Ma credo che si debba tener conto anche dell’acuta osservazione di Jorge de Sena che concerne la natura di Campos, l’unico omosessuale di tutto il gruppo eteronimo, secondo cui Campos è stato scelto da Pessoa (consciamente o inconsciamente) come elemento di “disturbo”. Del resto Ophelia aveva intuito in Campos una presenza minacciosa e nemica. La sua antipatia per lui è rimproverata a varie riprese da Fernando, che più di una volta si lagna dell’avversione dell’innamorata per l’ingegnere, nonostante che a costui “la Nininha piace tanto, tantissimo” (lettera 26). Un entusiasmo, quello dell’ingegnere avanguardista, di breve data, visto che appena un mese prima Fernando terminava una lettera con questa esortazione: “Asciugati le lacrime, piccola mia! Oggi hai dalla tua parte il mio vecchio amico Álvaro de Campos, che in generale è sempre stato soltanto contro di te” (lettera 22). La presenza di Campos si fa in breve massiccia e tende addirittura a spodestare Fernando, a sostituirsi a lui. Nella lettera 35, dove Fernando confida a Ophelia il progetto di ricoverarsi in una clinica psichiatrica per cercare una cura che gli permetta di resistere all’onda nera che si è abbattuta sul suo “cervello condannato”, con una scherzosa frase di commiato cerca di minimizzare un avvenimento che per certo è stato grave e perturbatore. Ma il tono da boutade non riesce a mascherare il panico per un “gioco” che forse non è più controllabile. È l’ottobre del 1920, vigilia della prima rottura, e la

frase dice: “Dopo tutto di cosa si è trattato? Mi hanno scambiato per Álvaro de Campos”. Né, nove anni più tardi, quando dopo la lunga separazione si riaccende effimero il guizzo di una nuova fiamma, l’ingegnere navale si tira discretamente nell’ombra. Anzi, ora egli entra nel rapporto a due con sicurezza e prosopopea, incaricandosi di scrivere di suo pugno alla “rivale” per convincerla a non pensare più a Fernando (lettera 41). E ha il sapore di vendetta (meglio: di una resa dei conti) l’invito che Campos rivolge a Ophelia di buttare nella fogna “l’immagine mentale” di Pessoa. Ormai l’ortonimo e l’eteronimo godono dello stesso statuto, sono entrambi un’immagine mentale, un’invenzione, l’idea di un qualcuno che è Fernando Pessoa ma che non è nessuno dei due. E il “vero” Pessoa intanto dov’è? In quale luogo si svolge la sua vita? Che cosa fa questo latitante di se stesso? Pessoa è in qualche altrove che si pensa e che si scrive. Il suo destino “appartiene ad altra Legge... ed è subordinato sempre più all’obbedienza a Maestri che non permettono e non perdonano” (lettera 36). Come questo amore, che fu un pensiero, anche la “vera” vita di Pessoa sembra un pensiero, come se tutto fosse stato pensato da un altro. Esiste, ma non ha luogo. È un testo. In questa assenza la sua conturbante grandezza.

Il Marinaio: una sciarada esoterica?

Ho per la vita l’interesse di un decifratore di sciarade. F. PESSOA

1. Recentemente, in una pubblicazione del Centro de História da Cultura della Universidade Nova de Lisboa, è apparso un curioso saggio della filosofa Maria Ivone de Ornellas de Andrade sul Marinaio di Pessoa. Si tratta di sette riflessioni, o meglio, di sette interpretazioni diverse, attraverso le quali l’autrice, facendosi marinaio, tenta, per usare le sue parole, di circumnavigare l’arcipelago pessoano abbordandolo da punti di vista differenti. I punti di vista sono costituiti, rispettivamente, da una riflessione simbolica, da una riflessione platonica, da una riflessione plotiniana, da una riflessione nietzscheana, da una riflessione heideggeriana, da una riflessione cubista e da una riflessione eteronimica. Procedendo metodologicamente da quella Ermeneutica del sospetto di cui parla Paul Ricoeur, l’autrice demolisce in maniera garbata ma implacabile la tesi oggi più in voga sul Marinaio, tesi che vede nel dramma pessoano un testo paradigmaticamente esoterico e dunque non suscettibile di altre letture. Di fronte a questo eclettico pezzo di bravura, sarebbe arduo scegliere o preferire una fra le sette interpretazioni che la critica propone: a riprova di quanto Il Marinaio sia un testo ricco, ambiguo, equivoco e suscettibile delle più svariate letture. Così come sarebbe rischioso, a questo punto, addentrarsi nell’ermeneutica del dramma muniti di una tesi soda e poco duttile. Si potrebbe semmai tentare di aggiungere un’ulteriore riflessione. E in questa prospettiva ci potrebbe soccorrere una passione che Pessoa coltivò per tutta la vita, col suo vero nome o nascosto dietro l’ironico biglietto da visita di Mister Crosse, partecipando discretamente per anni (utilizzava a tale scopo una casella postale) ai concorsi sciaradistici a premio che il “Times” londinese, all’epoca, metteva in palio sulle proprie pagine: la passione per l’enigmistica. Ma prima di procedere alla nostra riflessione – forse più frivola delle altre – sarà opportuno ricordare che quasi tutta la critica, almeno dal 1952 fino ai

giorni nostri, non ha fatto altro che ripetere che Il Marinaio è un dramma simbolista scritto sotto l’influenza di Maeterlinck; e io stesso, in un mio lontano scritto, non ritenevo del tutto improponibile questa lettura.22 L’equivoco fu fornito probabilmente dallo stesso Pessoa con un’affermazione di Álvaro de Campos che risale al 1916 ma che fu pubblicata solo nel 1952 sulla rivista “Tricórnio”: “Maeterlinck’s best nebulosity and subtlety is coarse and carnal by comparison23 (con il Marinaio)”. Il confronto che Pessoa instaura, sul piano del nebuloso e del sottile, non è francamente sufficiente per far supporre un’ascendenza maeterlinckiana. O meglio, si può dire che da un punto di vista del linguaggio Il Marinaio è un testo di sapore simbolista; ma nei risultati e nel significato è tutt’altra cosa: è un’opera squisitamente pessoana che contiene in nuce la dicotomia finzione / verità, il problema dell’eteronimia, il gusto dell’esoterico. Intanto è opportuno ricordare che il dramma fu composto nel 1913 e rivisto e pubblicato nel 1915 (nel primo numero di “Orpheu”), ossia, nell’occhio del ciclone eteronimico, allorché Pessoa stava riflettendo attorno a una problematica agli antipodi del simbolismo. Il dramma fu composto di getto (è Pessoa stesso che ce lo dice) nello spazio di poche ore, durante la notte fra l’11 e il 12 ottobre del 1913. Ma al momento della sua pubblicazione Pessoa vi introdusse considerevoli e direi sostanziali modifiche; varianti talmente profonde da far pensare che nel frattempo (vale a dire nei due anni intercorsi) egli avesse risolto un suo problema di poetica del quale ormai possedeva perfettamente la chiave. E poiché risulta dai suoi diari che quelli furono proprio gli anni in cui egli inseguiva il segreto, come lo chiamava, dello “Shakespeare problem” per riuscire a tradurre sul piano della finzione letteraria il problema verdade / fingimento, non sarebbe implausibile pensare che il sigillo del Marinaio, piuttosto che nel simbolismo del poeta belga, sia da cercarsi nella poetica shakespeariana che Pessoa ha studiato ed esaminato con fervore e puntiglio: il play within the play di Amleto e di Prospero, grazie a cui Shakespeare riesce a tradurre nella finzione teatrale la “finzione” che è la vita. Il Marinaio è però un dramma camuffato alla rovescia, e per trovarvi qualcosa di shakespeariano non bisogna spogliarlo, ma rivestirlo; potrebbe essere un’opera shakespeariana senza intreccio, senza miserie e senza umanità: è la grammatica di Shakespeare che Pessoa, nel tornio del suo ragionamento, applica alle voci del dramma.

2. “We are such stuff / As dreams made on; and our little life / Is rounded with a sleep” (Noi siamo della stoffa / di cui sono fatti i sogni; e la nostra piccola vita / è circondata di sonno), è l’aforisma con cui Prospero, al principio del quarto atto, annuncia la conclusione della Tempesta. È a questo punto che comincia Il Marinaio. In una stanza circolare fiocamente illuminata, tre donzelle vestite di bianco vegliano il cadavere di una quarta donzella. L’allegoria delle tre Vegliatrici si rivela fin dalle prime battute: rinchiuse in una stanza di insolita geometria, dalla quale è bandito il tempo, intente all’ipotetica ricerca di ciò che “forse non sono state”, prive di identità e di memoria, sono esse stesse un sogno. Vivono lo spazio di una notte, timorose e insieme desiderose della prima luce dell’alba che le dissolverà. Ma intanto, per vivere la loro notte e potersi credere reali, sono obbligate a parlare e a raccontarsi a vicenda i loro sogni. Sono vive nella misura in cui ingannano se stesse, giocano e si intrattengono col loro passato fittizio, un passato “che forse non hanno avuto”. Parlare è l’unica maniera di resistere alla storia enigmatica che le trascina e le trascende. In questa atmosfera comincia la storia del Marinaio, sogno di una delle tre Vegliatrici, il quale, avendo fatto naufragio in un’isola deserta, si mette a sognare un passato e una patria che non ha avuto, inventandoli interamente nei dettagli più minuziosi. Pessoa glossa lo stratagemma shakespeariano: la Vegliatrice (un sogno) sogna un Marinaio che sogna una patria; ossia, play within the play within the play. E forse è all’ultimo paradossale sogno o finzione, che nella fattispecie è la patria del Marinaio, che Pessoa vuole affidare simbolicamente il significato del suo problema poetico. Nella Tempesta, Prospero, dopo avere mostrato che il mondo è un teatro e il teatro il mondo, lascia la sua bacchetta magica di artista e ritorna al mondo degli uomini: “But this rough magic / I here abjure; and, when I have required / Some heavenly music / [...] / I’ll break my staff / Bury it certain fathoms in the earth” (Ma questa rozza magia / ora io rinnego; e dopo avere chiesto solo / un po’ di musica divina / [...] / io spezzerò la mia bacchetta / la metterò molte braccia sottoterra). Anche il Marinaio esce dal mondo della finzione, ma il dramma non dà risposta al legittimo dubbio che il lettore, insieme con le Vegliatrici, si pone. PRIMA VEGLIATRICE Ma che accadde dopo? SECONDA VEGLIATRICE Dopo? Dopo che? Dopo significa qualche cosa?... Arrivò un giorno una nave... Arrivò un giorno una nave... – sì, sì, può essere stato solo così... – Arrivò un giorno una nave e passò da quell’isola, ma il marinaio non c’era più... TERZA VEGLIATRICE Forse era ritornato in patria. Ma in quale?

PRIMA VEGLIATRICE Sì, in quale? E che cosa ne sarà stato di lui? Qualcuno mai lo saprà?

3. Qual è questa patria sulla quale Pessoa non vuole dirci altro? Ha qualche significato questa interrogazione dal sapore di un indovinello con la quale il dramma si conclude? Visto che il quesito posto dalle Vegliatrici rimanda anche a come il Marinaio sia riuscito a evadere dall’isola, accettiamo di giocare all’apparente sciarada che Pessoa ci propone e vediamo di capire il meccanismo grazie al quale il Marinaio riesce a scomparire. La situazione del Marinaio ricorda un classico problema della sciaradistica, quello del prigioniero dentro una cella sulla quale si aprono due porte; una porta che conduce alla libertà e una porta che conduce al patibolo. A guardia di ciascuna delle porte stanno due sentinelle; una che dice sempre la verità e una che dice sempre menzogne. Il condannato ha la possibilità di fare una sola domanda a una sola sentinella, e in tale modo può salvarsi. Per riuscire a salvarsi egli deve chiedere a una delle sentinelle quale sia la porta che secondo il collega conduce alla salvezza (o al patibolo) e poi cambiare la porta che gli sarà indicata. In sostanza, per arrivare alla verità, il prigioniero deve riuscire a percorrere in senso inverso il processo attraverso il quale gli arriva la risposta. Il Marinaio si comporta nello stesso modo, riuscendo a ripercorrere il labirinto. Infatti, egli che è sogno di un sogno, si libera sovvertendo il sogno, o ripercorrendolo in senso contrario, cioè sognando chi lo sogna. (“Perché il Marinaio non potrebbe essere l’unica cosa reale in tutto questo, e noi e tutto il resto solo un suo sogno?” dice alla fine una Vegliatrice; e un’altra specifica: “Forse si muore perché non si sogna abbastanza”.) Insomma, sognando, il Marinaio evade dal sogno come dalla bocca di un imbuto, chiude il circolo, si dissolve; e dissolvendosi fa dissolvere con l’alba coloro che sognandolo lo fecero sognare. La sciarada è risolta, il racconto è finito. Che lo consideriamo fuggito al Tempo e allo Spazio o che lo vogliamo addormentato / morto fra gli scogli dell’isola, il Marinaio ha risolto comunque il mistero e ha raggiunto la dimensione della sua patria: sia essa un archetipo inconscio, una dimensione “altra” o il Nulla, che forse è per Pessoa la patria più idonea ai sogni che noi siamo. Ma il significato di una vera soluzione di questo misterioso gioco a tre voci (nel caso che essa esista) dovrà piuttosto essere cercato nell’equazione fra “apparenza illusoria” e “verità occulta”, che è il problema che costituisce il fondamento del dramma. In tal senso credo di poter affermare che Il Marinaio, nonostante il suo sapore simbolista apparentemente debitore di

Maeterlinck, costituisce la protostoria di quell’attrazione per l’esoterismo che avvierà più tardi Pessoa alla teosofia e che costituirà la spina dorsale delle grandi poesie ermetiche e del poemetto Mensagem.

22

A. Tabucchi, Pessoa e un esempio di antiteatro o di “teatro statico”. “La più grande nebulosità e sottigliezza di Maeterlinck è grossolana e carnale in confronto.” [N.d.C.] 23

Traducendo Il Marinaio

“Falemos, se quiserdes, de um passado que não tivéssemos tido.” Così, col piuccheperfetto del congiuntivo, una delle protagoniste del Marinaio inaugura un raro e smaltato uso dei verbi che le tre Vegliatrici proseguiranno per tutto il dramma. Come tradurre in italiano un piuccheperfetto del congiuntivo che in portoghese indica un’azione irreale nel passato? È necessario aggirare l’ostacolo, introdurre un dubitativo “forse”, o ricorrere ad altri stratagemmi: parliamo, se volete, di un passato che forse non abbiamo mai avuto; oppure: parliamo, se volete, di un passato che potremmo non avere avuto. Il Marinaio è scritto al congiuntivo, che è un modo impossibile da mantenere in italiano; e in tutte le possibilità che la lingua portoghese, così congiuntivale, può offrire: dal futuro congiuntivo semplice, che indica una possibilità nel futuro, al futuro congiuntivo composto, che indica un fatto futuro come terminato in relazione ad un altro fatto futuro. Forse la magia del Marinaio, quella sua atmosfera sospesa, congelata in un tempo fuori dal tempo che pare non appartenere a nessuno (né alle Vegliatrici, né al cadavere della donzella, né al Marinaio che vive il suo folle sogno di ricostruire un passato inesistente), questa magia, dicevo, dipende in gran parte dallo strano e straordinario uso dei modi verbali che Pessoa, approfittando di tutte le potenzialità che la lingua portoghese gli offriva, ha impiegato nel suo “dramma statico”. E dunque, principalmente, il congiuntivo, verbo dell’eventualità, dell’incertezza e dell’irrealtà, in dipendenza diretta, come dicono le grammatiche, “dalla volontà, immaginazione o sentimento di colui che lo impiega”. Ma, col congiuntivo, anche l’infinito personale, altro modo intraducibile in italiano, da Pessoa usato di preferenza nell’eteronimo Bernardo Soares, e qui impiegato estenuantemente, così da conferire alla lingua del Marinaio una sorta di iperletterarietà che ne fa una lingua superba e insieme irreale, di un’eleganza distante, gelida, assoluta. E infine il gerundio, che Pessoa predilige, specie il gerundio dilatato, che continua nel tempo, usato col verbo “estar” (“neste

momento não tinha sonho nenhum, mas é-me suave pensar que o podia estar tendo,” dice a un certo punto la Seconda Vegliatrice, che in traduzione letterale suonerebbe: “in questo momento non avevo nessun sogno, ma mi è dolce pensare che lo potrei stare avendo”). Le tre Vegliatrici del Marinaio, diciamolo infine, parlano una lingua imparlabile: una lingua che nessuno mai utilizzerebbe nel discorso parlato; a tal punto che la cifra del Marinaio sembra uno strutturale paradosso: denominato da Pessoa “dramma statico”, e dunque teatro per essere ascoltato, esso risulta di fatto un teatro scarsamente recitabile, scritto soprattutto per essere letto. C’è piuttosto qualcosa del poème en prose in questo monologo a tre voci nel quale ogni voce, estranea come in un sogno, ci parla dalla distanza di una sintassi remota, quasi cifrata, esoterica, araldica. Un poème en prose fortemente connotato dal gusto dell’epoca e dalle prove poetiche avanguardistiche con le quali Pessoa, in quegli anni, cercava di dare un volto lusitano, col movimento del paulismo, al tardosimbolismo e al liberty. Sullo smalto quasi klimtiano di questo linguaggio si è posata inevitabilmente una pellicola che lo opacizza. La pellicola della traduzione. Ma la traduzione non è certo l’opera, né il calco di un’opera; semmai, come diceva Ortega, è solo un viaggio verso l’opera. Mi auguro perciò che inoltrandoci nel paesaggio immobile e smagliante del Marinaio si riescano ancora a scorgere, anche se dalla nostra vettura con i vetri un po’ appannati, alcuni bagliori delle gemme di cui questo prezioso cammeo è composto.

Nota al Faust

Una voce monologante, tragica e disperata, trascina il suo lamento lungo tutto questo frammentario poema drammatico. È la voce di un poeta, povero Faust solitario partito all’esplorazione della sua coscienza e giunto alla visione del vuoto e dell’abisso. Ma è anche una delle “voci” che abitarono Pessoa, uno dei suoi fantasmi, in questo caso con un’anagrafe e una biografia solo culturali, che parla dentro il poeta come un’ossessione e una maledizione. Denominato da Pessoa “tragedia soggettiva”, questo Faust astratto e metafisico ha ormai lasciato l’ideale faustiano della Conoscenza e del Progresso per cantare l’inanità della vita, l’impossibilità di conoscere, il terrore della morte. Se accettiamo il suggerimento di Roman Jakobson di leggere Pessoa nel contesto dei grandi artisti mondiali nati sul limitare del Novecento, in compagnia di Stravinskij e di Joyce, non possiamo negare che questo Faust soggettivo somigli a un “notturno” suonato su una partitura di Stravinskij, ad una voce disperatamente balbettante recitata su un monologo interiore joyciano. In più ci sono la teosofia e l’esoterismo, coltivati da Pessoa per tutta la vita, che venano di mistero il poema; e con questa cifra potrebbero essere lette le altre voci che fanno da controcanto al lamento di Faust: voci che appartengono a lemuri, ectoplasmi, spettri chiamati a declamare, sul palco della poesia, il doloroso vagabondaggio di un’anima.

Intervista con Andrea Zanzotto

1. A.T. – Se all’interno della poetica della schizofrenia, oppure, per dirla con Manganelli, della “letteratura come menzogna” del Novecento, volessimo fare un censimento anagrafico, troveremmo un buon numero di primi posti occupati da alloglotti, se si vuole da spostati linguistici: ad esempio Conrad, Kafka, Svevo (che ad apertura della Coscienza, nei panni di Zeno, si dichiara, in quanto triestino scrivente in italiano, menzognero) e infine Fernando Pessoa. Pessoa saltò alternativamente dal portoghese all’inglese, cercando forse di neutralizzare la sua schizofrenia nel migliore dei modi: accettandola, definendo e circoscrivendo accuratamente lo status del poeta inglese e quello del poeta portoghese. Anche tu, Zanzotto, puoi essere in qualche modo considerato un alloglotta, che però ha parzialmente neutralizzato il suo spaesamento linguistico inserendo la lingua madre (il dialetto di Pieve di Soligo) nel connettivo testuale delle poesie in lingua, per tornare però alla lingua madre con le recenti poesie di Filò. Tu credi che la finzione (o lo spaesamento linguistico) porti come conseguenza a una finzione poetica, cioè alla menzogna? E, eventualmente, ti senti di appartenere alla famiglia di coloro che, come Pessoa, della loro menzogna sono consapevoli, hanno cioè autoanalizzato la loro “schizofrenia”? A.Z. – Il caso di Pessoa è talmente complesso da offrire i più impensati riferimenti ad una meditazione generale sul significato della letteratura, della poesia, della “lingua” stessa. Chiunque scriva avrebbe seri motivi per confrontare la propria posizione con l’universo di Pessoa: imparerebbe sempre qualcosa. Per quanto mi riguarda devo dire che non mi sono mai sentito “alloglotta” rispetto all’italiano, perché la mia posizione era abbastanza comune, anzi era la più probabile per la maggior parte degli italiani (letterati e non) formatisi qualche decennio fa. Essi infatti, in una situazione di diglossia piuttosto che di bilinguismo, parlavano italiano o dialetto, a seconda delle circostanze, e

per lo più scrivevano in italiano. Si trattava comunque di una spaccatura orizzontale, non verticale, che consentiva un attivo rapporto sociale con la comunità, pur se a vari livelli d’inserimento. Anche in questo caso esiste una scissione, ma non si può parlare di un effetto di vero schizoidismo che ne consegua. Si coglie, da tale situazione, la realtà di un “contratto sociale” tra conscio e inconscio che sta alla base del linguaggio e nello stesso tempo si è portati ad una consapevolezza della labilità di tale contratto. Oggi in generale si ritiene che sia positivo aver a che fare con parecchie “parlate” (anche se non proprio lingue), perché, in primo luogo, ne nasce un rapporto più corretto con il fatto linguistico, in quanto se ne avverte, fin dagli inizi dello strutturarsi dell’io, da un lato l’“arbitrarietà”, dall’altro la necessità-assolutezza. Si tocca la compresenza di due poli del linguaggio che si trovano – e non si trovano – in rapporto dialettico tra loro, si è spinti in una continua corsa dall’uno all’altro, in una “pendolarità” (anche multidirezionale) che è ininterrotta constatazione / rifiuto di una compresenza di opposizioni. La lingua così coincide meglio con la vita che appunto si fa nella non contraddittoria compresenza di tutte le contraddizioni, e viceversa. In chi si disponga allo scrivere, “letterario” e più, questi fatti aprono al sentire tutta una serie di accezioni all’interno dell’atto della fictio. Esiste comunque una grande differenza tra chi si muova, quasi inconsciamente, tra parecchi linguaggi abbastanza simili tra loro e comunitari (dialetto, italiano e, per noi, aggiungerei anche le lingue romanze, con il latino giunto per le più varie vie) e chi al contrario “si divide” tra lingue diversissime, attribuendo loro una ben precisa parte nella sua storia personale, mitizzandole, distorcendole ad un grande disegno di creatività che, in un primo momento, rovescia nel seno narcisistico dell’io gli stessi elementi comunitari, pur ben percepiti, di ciascuna lingua usata. Forse l’inglese di Conrad è tanto privato quanto lo fu quello di Pessoa, nonostante l’apparenza di una diversità totale e il segno apertamente “privatistico” (eccetto forse per l’area delle poesie del tempo giovanile) che Pessoa attribuisce a questa lingua. Ma, si potrebbe chiedere, era meno privatistico per lui il portoghese? Egli scrisse più per il cofano e per il futuro che per un immediato riscontro comunitario (e fosse pure ridotto alla comunità dei letterati). Ogni grande caso, da Svevo a Kafka, da Rilke a Beckett, ha comunque sue precise e imparagonabili motivazioni, spesso addirittura contrapposte. Pare del resto che più di frequente un “marcato” plurilinguismo ed un effettivo

schizoidismo vengano a incontrarsi sulla linea delle difficoltà di un rapporto tra l’io e la madre (lingua-madre). Si può ricordare in proposito la straordinaria testimonianza e autoanalisi di Wolfson, introdotta da Deleuze. Quando ci si riporta invece ad una situazione come la mia – e ancora sottolineo il fatto della sua relativa “medietà” da ogni punto di vista, calcolata anche la distanza da quei grandi... – altre sono le situazioni psichiche in grado di affiorare lungo l’asse del rapporto con la lingua. Si può, ad esempio, trovarsi sospinti alla ricerca di una lingua che non può e non deve mai essere scritta (dal dialetto “puro” al “petèl” infantile al vero e proprio gorgoglio somatico) perché si riferisce appunto ad una possibile “oralità eterna”, la quale è anche contatto fisico, immediato, con la “madre”, e implicita negazione persino delle “protoscritture” – dalla carezza al graffio – che vengono a “intagliarsi” al corpo, e comunque a “tagliare”. Ma la madre si sottrarrà a tale contatto, pur se non completamente, ponendosi sempre “un po’” oltre. Può così formarsi l’incubo di un vuoto di lingua, accompagnato dalla comparsa di oscuri “linguaggi” totalmente somatici, assai vicini a quelli dell’isteria. Il soggetto, che tenderebbe a condannare qualunque fictio (e a maggior ragione qualunque menzogna) nella sua corsa ad un’assoluta autenticità per altro continuamente frustrata, pare rafforzi all’eccesso il senso della propria unità, si dichiara un ben unico “io”, a tutta voce; maschera le faglie o le lascia apparire con estrema, dolorosa riluttanza, anche se queste premono a irrompere nel primo piano. Si avrà allora unità “calcata” dell’io con fuga in avanti della lingua lungo fluide similarità di sistemi fino all’accarezzamento del silenzio e insieme della fisicità monologante. In altri casi invece, e soprattutto quando le lingue usate sono molto diverse, pare facilitato l’irrigidimento di ciascuna lingua in una definita funzione, mentre al contrario cede l’io, che può farsi e “pluralizzarsi”. Inoltre, ove esiste una forte volontà di coscienza, si rende più facile l’attenzione all’aspetto di fictiomenzogna presente nella letteratura. Ma le sfumature intermedie tra queste posizioni sono numerosissime. Pessoa resta un unicum perché esiste in lui una inestricabilità tra il sentimento dell’eteronimo come fatto letterario e la possibile tragedia di una realtà psicologica scissa che ne fa da supporto, in una zona di ambiguità in cui la spaccatura della persona-Pessoa (e si pensi anche al significato di questo nome proprio, nel suo spessore etimologico) genera altri io dall’aspetto di minotauri che stanno tra l’allucinatorio della schizofrenia e il

più spericolato gioco letterario. La famosa lettera ne è palese testimonianza. Tuttavia, la linea di scissione psichico-letteraria non ha in Pessoa un rapporto evidenziato con la spaccatura inglese / portoghese, col fatto linguistico in quanto tale. 2. A.T. – Ancora sul problema dello sdoppiamento. In una tua suggestiva prefazione alla traduzione italiana di The Secret Sharer di Conrad, concludevi che: “Il Capitano e il suo doppio, mai veramente sovrapponibili, mai veramente distaccabili, nonostante le apparenze di un congedo, e ugualmente in balìa delle correnti di deriva, segnano qualche cosa che è connotativo del mondo, umano e non”. È un discorso appena accennato, ma ricco di suggerimenti, che forse sottintende tutto un discorso riconducibile a certe posizioni di Lacan e dei filosofi della struttura. Potresti esplicitarlo brevemente sul “paziente” Pessoa? Che cosa connota il quadruplo del poeta portoghese? A.Z. – In quella frase della mia introduzione al racconto di Conrad mi riferivo appunto alle linee di discontinuità (se quest’espressione ha un senso), che non solo attraversano la psiche, ma anche il “mondo” in senso lato e in particolare il linguaggio in quanto “zona dell’esplicitazione” e anche dell’invenzione. Pessoa sentì terribilmente le incrinature, le barres, che tagliano la realtà nei suoi vari livelli e ordini; volle abbandonarsi in esse e volle parecchi io e parecchi nomi più o meno adeguati, se non proprio a queste “differenze”, ad una netta denuncia della loro presenza. Si sa che la quadruplicazione di Pessoa è più provvisoria di quanto sembri; egli fa capire di sentirsi “Legione” come il demonio evangelico. Nell’enigma di Pessoa vediamo delle persone del tutto allucinatorie che funghiscono (o gemmano) dal suo inconscio fin dalla prima infanzia, ma vediamo numerosi personaggi paralleli, relativamente minori degli altri eteronimi più consacrati, affacciarsi in continuazione e sovrapporsi, accompagnarsi ai primi. Si tratta di una folla di potenzialità che tenderebbe a mimare la vita / realtà intesa come un puzzle in cui ogni pezzo può avere un nome, senza che possa costituirsi il nome del “tutto”, se non a barlumi vaghi nella precarietà di un ortonimo “portante”, anche se non privilegiato. Il “tutto” è uguale a ciascuna sua parte. Una realtà non ordinabile, né riconducibile ad unità, ad un “nome del Padre” è appunto

quella che potrebbe chiamarsi “Legione” demoniacamente, e Pessoa si fa dunque legione di nomi. Si pensi all’oscura angoscia ma anche alla sottile perfidia del non volere né poter chiamare pseudonimi questi segni. Perché, di fatto, sembra che tutto venga a giocarsi proprio intorno al nome, ai nomi. In Pessoa un io diviso, che non può nemmeno sospettare lo pseudonimo, va a braccetto con un superlogico fingidor. E, d’altra parte, negli innumerevoli autori che si diedero pseudonimi (si pensi anche al caso dello pseudonimo che si abbina più volutamente all’uso di un’altra lingua, come nel FoscoloDidimo dell’Ipercalisse o si pensi, al polo opposto, addirittura ad un’intera società di Pseudonimi, come l’Arcadia) quanta falsa coscienza v’era proprio nell’accettare questo termine? E che dire dei romanzieri, dei “creatori di personaggi” presentati non importa se nelle prime o nelle terze persone verbali? Pessoa ci fa sentire più di ogni altro che tutto si gioca intorno al nome, al paradosso della nominazione, e che la realtà, psichica o no, è per noi frantumata da nomi tendenti a non essere mai “comuni”, ma sempre e definitivamente propri, chiusi in un “loro” essere come ogni oggetto che nel mondo primitivo diventa un dio denotandosi con un nome proprio (o con parecchi, non tutti conosciuti o dicibili). Appare a questo punto il ruolo decisivo del rapporto sociale, in cui l’io e il mondo “eventualmente” possono ritrovarsi, al di là delle barres, e nel movimento nome-verbo. 3. A.T. – Nel panorama della poesia del Novecento, Pessoa è certo una delle presenze più inquietanti. Il suo caso è a tuo avviso un caso limite? È egli un nostro contemporaneo o già un nostro postero? A.Z. – Allora, senza cedere al vortice degli eteronimi e nomi propri che si pretendono veri anche nel controllarsi reciprocamente come in parte falsi (cioè non esaurienti), forse bisognerà cercare altrove il segno dell’“unità implosiva” di Pessoa, il fondamento o almeno il luogo dell’ortonimo effettivo, anche se volessimo concepirlo come “buco nero”. Se Pessoa si ricollega certamente a un passato recentissimo e più che mai attivo, se i problemi da lui posti riguardano certamente il futuro (al quale egli continua ad arrivare dal suo prezioso cofano, con la “civetteria” di essersi voluto quasi tutto postumo), il Pessoa presente, il poeta grande e sempre rintracciabile

attraverso qualunque moto di specchi deformanti, si dovrà e potrà incontrare al di qua e al di là del “muro del nome”, cioè nella “fisicità” e matericità del fatto poetico da lui offertoci. Sarà dunque una capillare analisi delle strutture fonico-ritmiche, sintattiche, semiche, dei loro intrecci di sovrapponibilità, opposizione, contestualità, a dirci “il profondo” dell’opera di Campos, Reis, Caeiro ecc., in modo da assicurarci veramente che essi siano qualche cosa di più che nomina e, in definitiva, flatus vocis, nonostante i loro conclamati profili e “programmi” tanto differenti. Insomma, la ricerca effettuata sui tessuti soprattutto dei componimenti poetici farebbe probabilmente constatare un superamento delle barres nominali, portando a ritrovare un dato omogeneo – l’inconfondibile rumore-sussurro oceanico che, così a orecchio, si avverte in tutta la grande poesia di Pessoa. Forse si riscontrerebbe ancora una volta che i saussuriani “mots sous les mots”, serpeggianti al di sotto della superficie testuale, gettano ponti tra gli eteronimi e che, pur nell’affascinante diversità di atteggiamenti e di situazioni creata dai “nomi sopra i nomi”, risulta una tenace tendenza agglutinante, anche per vie anagrammatiche, dei “nomi sotto i nomi”: appunto ad attestare almeno un campo unitario di implosione. Del resto gli eteronimi stessi sembrano alludere a qualcosa di simile: Campos e Caeiro hanno in comune la parte iniziale; Reis appare disperso e anagrammato nelle due parti finali degli stessi nomi (pos ed eiro)”... E se così non fosse, ne resterebbe comunque socchiuso un nuovo capitolo di ricerca. Certo è che forse soltanto in Kafka il rapporto fra realtà, realtà psichica e nominazione ha assunto le tensioni, la “coscienza fisica”, che si ritrovano in Pessoa. Essere nella discontinuità e comunque gettarvi sopra dei ponti, “precipitando” in questo rischio totale eppure vincendo la partita, è sempre stato il désir che muove la poesia – o, all’opposto (punti di luce o di ombra interscambiabili nello stesso specchio o nello stesso “disegno” uscito da un computer), la matematica. E vorrei ricordare le recenti, controverse proposte di R. Thom. Pessoa inoltre ci spinge a porre i problemi del rapporto nome / verbo anche in relazione ad un nuovo modo di “sentire” la socialità, modo che è ancora da inventare, in gran parte. Questo io che produce suoi duplicati (come il “tu” che troviamo nel componimento di apertura della Satura montaliana) e che finisce per non sapere più se sia l’“originale” o una copia,

da una parte dichiara il fallimento di un discorso in cui un soggettivismo assoluto non può che esplicitare la propria irrealtà, ma ad un tempo azzera tutte le mistificazioni (e le spinte sadomasochistiche loro sottese), tutti i reali furori narcisistici che sono stati “intrecciati” finora al discorso sociale, pervertendolo. Dalla tabula rasa di Pessoa e degli altri grandi autori a lui congeneri bisogna dunque ripartire.

APPENDICI

Altri testi su Pessoa & Co.

Sopra una fotografia di Fernando Pessoa

Se la preistoria dell’eteronimia di Fernando Pessoa è una rêverie infantile dal nome anfibologico (Chevalier de Pas), una bizzarra coincidenza, che fece seguito all’improvvisa apparizione del primo eteronimo, è, come noto, una farmacia di Lisbona. Passeggiando un giorno per le vie della città in automobile, notò per una curiosa fatalità che il nome del suo personaggio era identico a quello della farmacia A. Caeiro. Uno scherzo e un nome. Sull’origine linguistica e insieme ludica dell’eteronimia, molte congetture critiche si sono infatti orientate ultimamente, secondo l’ipotesi che vede nella suggestione del fonema l’origine della “fabula” (il nome che agisce, direbbe Montale). Fino alle ipotesi, forse opinabili ma non del tutto implausibili, che scorgono nella subconscia suggestione di un cognome pregnante (Pessoa dal latino Persona = Maschera) il destino di una vita fondata sull’essere “altra” (Sena, Zanzotto). Ma mi pare anche che non sia implausibile, nell’indagare sul fenomeno dell’eteronimia di Pessoa, parlare della fotografia, perché questa, a somiglianza di quella, riguarda essenzialmente i fantasmi. Quale fu il rapporto che Pessoa intrattenne con la fotografia? Dalle testimonianze di quanti lo conobbero, sapevamo che egli nutriva diffidenza per la macchina fotografica: l’attendibile ricordo della fidanzata ha recentemente definito i termini di questa diffidenza (“Fernando detestava farsi fotografare”, Queiroz, 28). Ma evidentemente l’atteggiamento di Pessoa nei riguardi della fotografia non è definibile, sic et simpliciter, nei termini di una mania o di una bizzarria (Pessoa ne coltivò un certo numero)24 né tantomeno di una superficiale antipatia. La diffidenza (o l’avversione) che Pessoa nutre per la lastra fotografica rientra presumibilmente nell’ordine conflittuale dell’evidenza ingannatrice e della verità nascosta che attiene alla problematica di alcuni fra i suoi eteronimi maggiori. È l’intuizione che guida la metodologia / filosofia dell’investigatore Abílio Quaresma; è l’assillo di Álvaro de Campos di fronte alla “plausibilità” del reale; è la misteriosa contemplazione di Alberto Caeiro delle pietre e degli alberi; e forse, in ultima

analisi, è anche ciò che spinge il Pessoa lui-même sulla via della teosofia e dell’occultismo. È cioè un problema di ordine ontologico prima che gnoseologico, riguarda la “realtà” del reale, la sua essenza, pertiene alla basilare interrogazione di Pessoa. Nel gennaio del 1914, dunque circa due mesi prima di quel 14 marzo che vede la nascita trionfale degli eteronimi maggiori (“fu il giorno trionfale della mia vita e non potrò mai più averne uno simile”, sempre secondo la lettera a Casais Monteiro), Fernando si fa fare un ritratto per mandarlo alla zia Anica, alla quale lo legava un tenero affetto. È un ritratto singolare, vale la pena di esaminarlo. Si tratta di una foto tipo carte-postale, di quelle che erano in voga all’epoca per mandare i saluti alle persone care. È una posa da studio, con un fondale neutro, come tante. Ma “puisque toute photo est contingente – et par là même hors de sens –, la Photographie ne peut signifier – viser une généralité – qu’en prenant un masque”25 (Barthes, 60-61). Ciò che è veramente singolare è che Fernando indossa un cappotto scuro e un cappello nero, come non si era soliti usare negli studi, dove era regola posare senza cappello e con la giacca. Sembra proprio che il fotografato voglia sottolineare una mancanza di autenticità, un’impostura: come se volesse imitare l’immagine di se stesso (“Je ne cesse pas de m’imiter, et c’est pour cela que chaque fois que je me fais photographier, je suis immanquablement frôlé par une sensation d’inauthenticité, parfois d’imposture…”,26 Barthes, 29-30). Sul retro del ritratto Fernando di suo pugno scrive: Alla sua carissima zia offre questa provvisoria rappresentazione visibile di se stesso, con un abbraccio grande come la sua [di chi?] sconsideratezza. Il nipote affezionato, geniale e grato Fernando. Segue un rapido post scriptum: Ritratto fatto nel gennaio del 1914, perché una buona volta lo si doveva fare. Ebbe paura, Fernando Pessoa, delle fotografie? Qualcosa ci fa sospettare di sì. Forse la stessa paura che nutrì verso il mistero delle cose. L’espressione “provvisoria rappresentazione visibile di se stesso” denota un approccio col “fisico” che riguarda il metafisico, e proprio attraverso questa contea passa (o passa anche) la strada dell’eteronimia. L’eteronimia, insomma, oltre che a un universo linguistico (o psico-linguistico in termini lacaniani), rimanda all’universo dell’immagine, alla misteriosa plausibilità del reale visibile, alla Metaphysica di Pessoa ortonimo che sentenzia: “L’unica parte della materia che è reale è l’idea della materia”. Rimanda insomma alla Caverna di Platone: quella caverna, nella storia della letteratura, che ha esercitato un

fascino irresistibile sulla razza di artisti alla quale Pessoa appartiene (quella dei Kafka e dei Borges, per fare due nomi del Novecento): coloro che sono pervenuti alla metafisica del reale visibile. Ma se è vero che “la Photographie a le même rapport à l’Histoire que le biographème à la biographie”27 (Barthes, 54), se è vero cioè che essa permette, come sostiene Barthes, di accedere a un infra-sapere fornendo una collezione di oggetti parziali e stuzzicando in noi un certo feticismo, a quale infra-sapere possiamo accedere leggendo le immagini che Pessoa lasciò di se stesso? I suoi “altri” se stesso, ovviamente, non hanno impressionato la lastra fotografica. Di essi, di quella che è stata definita la “verità finta” di Pessoa, restano, quali elementi extratestuali (possiamo chiamarli biografemi?), alcune firme: la serena calligrafia di Maestro Caeiro, la firma estroversa di Campos, la composta ortografia di Ricardo Reis. E poi, alcune minute di lettere, una busta affrancata e spedita ad Alexander Search, un biglietto da visita dello stesso, alcune prove calligrafiche in cui qualcuno che si chiama Charles Anon sta imparando a scrivere come Charles Anon. Al piano della vita visibile (ormai la parola biografia non ha più tanto senso con Pessoa) appartengono invece altre pose da studio (occhialini d’oro e cappello nastrato, immagine celeberrima) o istantanee (a cui peraltro egli ha avuto il tempo di accondiscendere) di un distinto signore deambulante nella Baixa di Lisbona con occhiali, cappello, papillon e gabardine. E infine, foto di gruppi familiari, eleganti e composti, con un Pessoa che, come direbbe Barthes, “non cessa di imitarsi”. Eccola dunque, la provvisoria rappresentazione visibile di se stesso, già pronta a passare al futuro: un signore discreto, appartato, elegante, tranquillo, serio, scapolo, miope, ordinato, persino insignificante. Accrescono questa immagine del borghese tranquillo “il rifugio nel tono minore di una condizione impiegatizia […], il ritmo vitale, le ore d’ufficio, l’appuntamento e la sosta al caffè, a ‘quel’ caffè, con gli amici” (Stegagno Picchio, 381): atteggiamenti tali da rientrare come cliché nelle biografie, da costituire una vera e propria epigrafe tombale. Ma i ritocchi che Pessoa apporta alla propria “rappresentazione visibile” sono senza dubbio frutto di un calcolo o, detto altrimenti, di un “alibi esteriore” (Stegagno Picchio, 381), tessuto con paziente determinazione, così che la rappresentazione provvisoria di se stesso pare piuttosto pensata come definitiva, come imposta previamente al futuro. La ragione di tale operazione può non apparire perfettamente chiara: è chiaro invece che l’elaborazione dell’alibi esteriore (dell’immagine di sé-per-gli-

altri) non si realizza necessariamente a livello conscio, o non solo a tale livello. I rituali della nevrosi, insegna Freud, dapprincipio sono una misura di difesa o un’assicurazione contro qualcosa, un atto protettivo: solo allorché le misure di protezione paiono insufficienti sorgono i divieti che servono a tenerci a distanza dalla situazione in cui saremmo tentati. Ma anche gli alibi pazientemente elaborati arrivano a insospettire; non solo quelli destinati ai posteri, ma anche quelli destinati a un’interlocutrice coeva di nome Ophelia Queiroz con la quale Fernando intrecciò un amore segretissimo e casto, fatto di bigliettini strabilianti, di percorsi complicati, di orari ferrei e principalmente di lettere straordinariamente banali e stereotipe, ma dove in realtà “niente è più illusorio e depistante della loro superficie apparentemente anodinac (Mourão-Ferreira, 221). Il nodo centrale dell’“uomo che non fu mai”, per usare una definizione di Jorge de Sena, la sua immagine di sé-per-gli-altri, mostra qualche crepa, rivela la sua natura di finzione: la vita e la letteratura fatalmente si confondono, la vita produce opera, è opera. E il “vero” Pessoa, intanto, dov’è? In quale luogo si svolge la sua vita? Che cosa fa questo latitante di se stesso? Pessoa sembra essere in qualche altrove che si pensa e che si scrive, come se fosse, egli stesso, un suo personaggio, un testo. In questa “assenza” la sua conturbante presenza. 24

Fra le più curiose: l’abitudine di scrivere in piedi; l’impellenza a seguire percorsi “obbligati”; la convinzione che i cani ululassero al suo passaggio; il rispetto cronometrico degli orari; la riluttanza ad entrare in locali non noti; la smisurata passione per l’enigmistica. Anche la predilezione per l’alcol e per il tabacco, che non appartiene del tutto a questa casistica, fu però coltivata con identica cura. 25 “Visto che ogni foto è contingente – e proprio per questo vuota di senso – la Fotografia può avere un significato – riguardare una generalità – solo indossando una maschera.” [N.d.C.] 26 “Non smetto mai d’imitarmi, ed è per questo che ogni volta che mi faccio fotografare sono immancabilmente sfiorato da una sensazione d’inautenticità, talvolta d’impostura…” [N.d.C.] 27 “La Fotografia sta alla Storia come il biografema alla biografia.” [N.d.C.]

Il fachiro che volle diventare Pessoa

C’era una volta il signor Eliezer Kamenesky. Era un ebreo russo naturalizzato portoghese, era un po’ guru e un po’ ciarlatano, predicava il naturismo e l’alimentazione paradisiaca, era scrittore a tempo perso e fu amico di Fernando Pessoa negli ultimi anni della vita del grande scrittore portoghese. Intendiamoci, in quanto a qualità letteraria Kamenesky sta a Pessoa come le memorie di un figlio dei fiori possono stare al diario di Kafka, perciò non è per i suoi meriti artistici che ce ne occupiamo qui. Ce ne occupiamo perché fu un pittoresco personaggio che attraversò le cronache dell’epoca, ebbe vita errabonda e mirabolante e poi perché, soprattutto, la sua autobiografia, che dettò alla scrittrice degli anni venti Maria O’Neill, è stata recentemente attribuita in Italia a Fernando Pessoa e pubblicata sotto il nome di quest’ultimo. Già il fatto che con un testo così, una noiosa e sfilacciata registrazione di avvenimenti, il muscoloso Kamenesky si sia fatto scambiare per il sublime Pessoa non è un colpo da poco: evidentemente l’aura fra il santone e il fachiro che lo circondava in vita continua a funzionare anche dopo morto. Ma aveva davvero facoltà fachiresche, il nostro Eliezer Kamenesky? A vederlo nella carte-postale che si era fatto fare al Cairo verso la metà del primo decennio del secolo si direbbe di sì, anche se la didascalia recita: Naturaliste, végétarien, faisant le tour du monde. Come mestiere non c’è male, ma fare il giro del mondo da vegetariano e naturista per Kamenesky non era certo un mestiere, era una missione da compiere. Il suo nome esatto, che poi successivamente modificò, era Eleazar Kamenetzky, era nato a Lugansk, in Russia, nel 1888, era figlio di un rabbino, conosceva l’ebraico e l’Antico Testamento. Coniugando la paura dei pogrom zaristi e il desiderio di viaggi e di avventure che gli ispiravano le letture di Jules Verne, giovanissimo si imbarcò clandestinamente su un piroscafo diretto a Londra, dall’Inghilterra partì per New York, vagabondò per gli Stati Uniti dove frequentò i circoli socialisti dell’epoca, fece mille mestieri, dal cameriere al panettiere, e da lì ritornò in Europa dove fu folgorato da un libriccino di un medico polacco che si intitolava Alimentazione paradisiaca. Convertito alla

fede naturista e vegetariana (erano gli anni in cui i medici naturisti curavano i tisici con verdure e bagni freddi), ebbe sporadici contatti con i tolstojani e altri gruppi misticheggianti, finché si imbarcò per l’America Latina dove pensò di predicare il verbo naturista. In Brasile il rigoglio orgiastico della natura lo manda in visibilio: la foresta, la frutta, le acque dei fiumi e delle cascate gli fanno credere di aver trovato il Paradiso Terrestre. Ma Kamenesky è instancabile, sembra avere il diavolo in corpo, e seguire le sue peregrinazioni per il mondo fa venire il capogiro. Dal Brasile a Marsiglia, alla Tunisia, all’Algeria, all’Egitto. Ad Alessandria lavora come mugnaio, poi fa il profumiere al Cairo, raggiunge Porto Said, Beirut e finalmente i suoi occhi di ebreo errante vedono la Terra Promessa e Gerusalemme. Da qui passa a Baghdad e a Teheran, e poi, ovviamente, punta sull’India. Dico ovviamente perché nel panorama di un santone come Kamenesky non poteva mancare l’India, con la sua religiosità e i suoi misteri. Infatti egli si reca in India col proposito di studiare l’ipnotismo, sognando di ammansire le bestie feroci e di guidare (sempre con l’ipnotismo) gli uomini sulla via dell’onestà e della virtù. Cerca di iniziarsi a Benares, ma evidentemente l’ipnotismo non è una cosa facile, non si diventa in pochi giorni un Abate Faria. Così il nostro Eliezer frequenta qualche fachiro, crede di avere imparato quel tanto di magnetismo che giudica necessario a fortificare le sue facoltà e poi decide di tornare in Europa, per l’esattezza in Svizzera, presso una setta di strambi adepti vegetariani che sorgeva allora nei pressi del Lago Maggiore e che si chiamava Montagna della Verità. Ma che lingua avrà parlato, in queste sue continue peregrinazioni, l’instancabile viaggiatore? Me lo chiedo perché leggendo le sue memorie raccolte da Maria O’Neill, un rovello che assilla il povero Kamenesky in giro per il mondo è come comunicare col prossimo. Le lingue di Kamenesky sono il russo e un po’ d’ebraico, e per diffondere le sue dottrine ha ovviamente bisogno di essere tradotto dal russo, cosa non sempre facile. Ci riesce fortuitamente a Napoli, dove lo troviamo nel 1914 e dove, per i tipi della Tramontana, fa stampare un opuscolo, L’alimentazione paradisiaca, che ha per sottotitolo La vita per la vita e non per la tomba: sedici paginette di prosa incertissima che così esordiscono: “Uomini! Vi voglio dimostrare che noi attualmente non viviamo, ma semplicemente esistiamo. Partendo dal concetto della vita, possiamo dar la definizione di ciò che è per noi quello senza il quale non possiamo vivere. Questi sono elementi a tutti noti: in primo luogo,

l’aria, senza la quale, come si sa, non si può vivere neppure pochi minuti. In secondo luogo l’immediata luce del sole, l’alimentazione, l’acqua e il sonno. Inoltre, conformemente alle condizioni climatiche ed alle variazioni delle stagioni, noi dobbiamo servirci dell’abbigliamento per difenderci dal freddo, e dobbiamo servirci del fuoco per il riscaldamento e per l’illuminazione delle nostre abitazioni, e per la sola cottura dei cibi. Ci serviamo noi di questi elementi in tutta la loro totalità? No signori”. Sembra di sentire uno di quei presunti medici che una volta imbonivano il popolino nelle fiere di paese vendendo il rimedio universale. Perché tutti i nostri guai, sostiene Kamenesky nel suo opuscoletto, derivano da una sbagliata alimentazione e da errate regole igieniche. Ma ecco il suo rimedio universale: verdure crude per cibo, bagni di acqua fredda anche in inverno, seminudità e soprattutto libertà di piedi. “Dirò dell’abbigliamento moderno che esso è in genere antigenico e immorale, cominciando dalla calzatura. Alla calzatura è necessario prestare seria attenzione! È una vera barbarie! Quanto incomoda e quanto nociva è la calzatura moderna! Le punte strette sono cagione delle unghie incarnate, dei calli, degli indurimenti. Tipo della normale calzatura è il sandalo, che lascia completa libertà di movimento al piede e che non disturba la circolazione sanguigna.” In sandali e seminudo Kamenesky porta il suo verbo attraverso l’Italia. Ma il problema della lingua, come si diceva, non è un ostacolo da poco. Scritto il suo opuscolo in russo, deve tradurlo in italiano e riesce a trovare un tolstojano, anche lui vegetariano osservante, che gli fa da traduttore. Poi, attraverso la colonia russa in Italia, si fa presentare a Vincenzo Gemito che gli fa un ritratto a mezzo busto rappresentandolo come un nazareno. E Kamenesky scopre una nuova fonte di reddito: fare il modello per i pittori. Posa prima a Milano, poi a Capri, dove va a trovare Gor’kij (con una certa reverenza ma che non gli piace perché fuma troppo). Si sposta instancabilmente dal Nord al Sud, da Como a Milano, a Genova, a Brindisi, a Foggia, a Messina. Conosce la prigione per vagabondaggio, è attirato dai circoli anarchici, si reca a Cerignola, è cacciato dalle guardie, elemosina nei ristoranti. Nel 1917 lo troviamo in Brasile, e ora Kamenesky ha fatto un salto di qualità, è definito Strenuo apostolo del naturismo. Così lo appella “Polyanthéa”, organo della “Società vegetariana di Bahia” che lo acclama presidente onorario. È una rivista interamente dedicata a lui, con i testi di

varie conferenze, ritratti, poesiole e aforismi dell’apostolo. Su “Polyanthéa”, oltre che pubblicare un primo stralcio della sua autobiografia, Kamenesky comincia a dar corpo alla sua fama di santone. Un certo João de Matos che traccia il suo profilo lo definisce un predestinato e un eroe, e così conclude: “Nel suo dolce sguardo sta il segreto della sua superiorità, uno sguardo in cui c’è la magnifica forza magnetica che domina le moltitudini”. Munito della sua dolcezza e del suo magnetismo, l’apostolo si rimette in cammino e dopo altri mirabolanti giri approda in Portogallo dove cerca di diffondere la sua dottrina. Ma la sponda lusitana di quegli anni (Eliezer vi arriva nel 1920) non è un luogo adatto alla propaganda vegetariana: nel 1918 è stato assassinato il dittatore militare Sidónio Pais e il Portogallo attraversa una profonda crisi economica e politica che prelude alla dittatura di destra (nel ’28 arriverà Salazar). La gente ha fame, i contadini vivono miserabilmente, un diffuso malessere serpeggia nel paese. Kamenesky, accorciate le chiome e calzate le odiate scarpe, comincia ad arrendersi. Sposa una ragazza di Lisbona e mette su un negozio di antiquario in una zona elegante della città. Crede che sia venuto il momento di raccontare le sue memorie a qualcuno e sceglie la scrittrice per l’infanzia Maria O’Neill. Per la verità fu Maria O’Neill che lo andò a trovare, incuriosita da un articolo che aveva letto su un giornale di Lisbona, e cominciò a raccogliere le memorie dell’ex apostolo accomodandone lo stentato portoghese e augurandosi che il suo lavoro, come lei stessa dice nella sua nota di prefazione, “fortifichi le coscienze dei lettori attirandoli verso un cammino di felicità”. E poi, cosa fece il nostro eroe? Fece un incontro molto importante, certo il più importante di tutti quelli fatti nella sua mirabolante vita. Conobbe Fernando Pessoa. E Pessoa, che amava i tipi strani, la teosofia e le scienze esoteriche (in quegli anni frequentava il mago inglese Aleister Crowley e pensava di aprire uno studio di medium), cominciò a frequentare il suo negozio di antiquario. Nel 1932 Kamenesky pubblicò un libretto di poesie, Alma errante, per il quale Pessoa scrisse una breve prefazione. E Pessoa se la cavò benissimo: parlò con simpatia del personaggio e degli ebrei erranti, ma si tenne sulle generali guardandosi bene dall’entrare nel merito di quegli ingenui componimenti. Poi Pessoa morì, e Kamenesky continuò a fare l’antiquario. Con qualche sortita cinematografica. Comparve in qualche film di Francesco Ribeiro e di Antonio Lopes Ribeiro, un regista del regime salazarista che fece molti film di regime: recitò in un filmetto musicale (O

pátio das cantigas, Il patio delle canzonette) e partecipò a un sinistro film di propaganda delle camicie brune portoghesi intitolato A revolução de maio (La rivoluzione di maggio). Poi fino alla morte, avvenuta nel 1957, la sua biografia non registra altri avvenimenti degni di rilievo. Chissà se negli ultimi anni della sua vita, oltre che alle odiate calzature e agli “immorali” vestiti, Kamenesky non si sia convertito anche alla carne. A vederlo fotografato a passeggio per Lisbona, vestito tutto perbenino con giacca e panciotto, e viste le sue simpatie per i film di Lopes Ribeiro, si direbbe che la sua carica eversiva si fosse ormai spenta e che comunque si trovasse perfettamente a suo agio nel Portogallo dell’epoca. Resta un interrogativo. Fu davvero Pessoa a tradurre in inglese una parte (ne mancano 18 capitoli) della sua autobiografia, quella che è rimasta nel Fondo Pessoa della Biblioteca nazionale di Lisbona? Forse. Questa è una questione che poi si vedrà. Ma un altro interrogativo sorge spontaneo: anche Kamenesky (a modo suo, s’intende) può dirsi un “eteronimo” di Pessoa, seppure un eteronimo reale e concreto? In fondo anche lui è uscito dal baule, è venuto alla ribalta grazie a Pessoa. Se così non fosse stato, chi si ricorderebbe oggi di questo vegetariano che girò tutto il mondo e che raccontò una vita bizzarrissima ma che letterariamente è una ben povera cosa? E invece un magico tocco di Pessoa ha fatto il miracolo e Kamenesky si riaffaccia fra noi con le sue chiome fluenti. Forse, in tutta questa storia, il vero fachiro è proprio Pessoa.

Pessoa e Ophelia, un amore bruciante e misterioso

Ieri si sono svolti i funerali di Ophelia Queiroz. Si sono svolti nel più stretto riserbo come la famiglia ha preferito fare rispettando la volontà di Ophelia. Ma non so fino a che punto la notizia avrebbe potuto interessare i giornali portoghesi, tutti occupati da complicate diatribe politiche in vista delle elezioni che si terranno a ottobre. Inoltre gli agricoltori del centro-nord protestano per la politica agricola comunitaria e occupano le strade nazionali con i trattori. Tra blocchi stradali al nord e massicce invasioni di turisti al sud, il Portogallo va passando la sua estate cercando faticosamente la soluzione dei suoi problemi economici. Forse questo è l’unico giornale al mondo che ricorda oggi Ophelia Queiroz e sono contento di poterlo fare io, che in questi anni ho avuto modo di conoscere, attraverso la letteratura, la figura di questa intelligente donna. Forse al lettore italiano meno attento il nome di Ophelia Queiroz può risultare sconosciuto; ma tutti quei lettori che in questi ultimi anni hanno scoperto l’opera di Fernando Pessoa ricorderanno una storia d’amore, un intenso episodio sentimentale (l’unico) che il grande poeta portoghese visse e che ha regalato alla letteratura europea le più bizzarre lettere d’amore del Novecento. Ophelia Queiroz amò Fernando Pessoa e ne fu riamata. Fu un amore vivissimo, bruciante e misterioso, che si spense non per inerzia, come spesso si spengono le normali passioni amorose, ma per una curiosa interferenza che Álvaro de Campos, uno degli eteronimi di Pessoa, insinuò nella storia sentimentale del suo creatore. Campos entrò prepotentemente nella storia d’amore di Fernando e di Ophelia, scrisse di suo pugno una lettera malevola alla ragazza, si intromise nella coppia con arroganza. Geloso, nevrotico, un po’ isterico, l’ingegnere Álvaro de Campos, dandy perdigiorno a Lisbona e autore di odi avanguardiste, non tollerava che la piccola Ophelia concedesse il suo cuore a un uomo così grigio e insipido come Fernando Pessoa. Questa, almeno, la spiegazione ufficiale che si

desume dalle lettere. Ma in realtà Pessoa non poteva spartire la sua vita tra un normale ménage familiare e il progetto onnivoro e senza scampo della sua opera. Era il 1920, Ophelia aveva 19 anni, Pessoa 31. “Mio caro piccolo Bebè”, così spesso Pessoa apostrofa epistolarmente la sua innamorata inviandole lettere dove il desiderio di regressione verso l’età infantile è certo evidente. Forse Pessoa visse questo amore alla sua maniera: come una suprema finzione, come una ulteriore spersonalizzazione nella quale egli assumeva il ruolo del “normale” fidanzato. E infatti il loro amore era cominciato come un gioco: un giorno, approfittando del fatto che era mancata la luce, Pessoa si era presentato a Ophelia con un candeliere in mano ripetendo le parole di Amleto a Ofelia nella tragedia di Shakespeare. Ma sono incline a credere che Ophelia abbia vissuto il suo grande amore in maniera affatto diversa dal suo innamorato: con convinzione, con maturità, con chiarezza. Ophelia lavorava come dattilografa nella stessa ditta di importexport nella quale lavorava Fernando Pessoa. Era una ragazza sveglia, graziosa, di buona famiglia, che aveva scelto di lavorare per essere indipendente. Credeva in se stessa, nel lavoro e nell’emancipazione femminile. Era una ragazza intelligente. Capì Pessoa, o si sforzò di farlo. Accettò perfino il gioco un po’ perverso dell’eteronimia, che per Pessoa aveva ormai varcato i confini della letteratura ed era entrato nella vita. Inizialmente tollerò la presenza indiscreta di Álvaro de Campos che cominciava ad affacciarsi nella loro amicizia sentimentale; quando Campos prese il sopravvento reagì con fermezza ma con grande intelligenza. Ci si sarebbe potuto aspettare che trattasse Pessoa come un visionario, invece assecondò la sua situazione psicologica, considerando Campos alla stregua di una persona realmente esistente, come per Pessoa lo era davvero. Probabilmente capì anche il motivo della rinuncia del suo innamorato. Gli restò sempre amica con grande fedeltà intellettuale.

Le ossa di Fernando

Lisbona – “Poveretto, stava così bene nella tomba della nonna, così anonimo come scelse di vivere, non capisco proprio perché trasportarlo ai Jerónimos.” L’aggettivo “poveretto” si riferisce a Fernando Pessoa, le cui spoglie, a cinquant’anni dalla morte, sono in via di trasferimento dal cimitero Dos Prazeres di Lisbona ad una tomba del monastero manuelino dei Jerónimos che si affaccia sulla foce del Tago. La data prescelta, con solenne cerimonia di Stato, è domani 13 giugno, giorno di nascita del poeta e giorno di S. Antonio, patrono di Lisbona (Pessoa si chiamava Fernando António). Il commento che ho citato è di una mia amica scrittrice, è sincero e privo di malizia, e riflette una delle due scuole di pensiero contrapposte che dividono oggi gli intellettuali portoghesi. Da una parte, i sostenitori della discrezione e della modestia: la piccola cappella di famiglia nella quale Pessoa riposa attualmente in compagnia della nonna Dionisia Seabra Pessoa, morta pazza nel 1907, al numero 4371 della prima via a destra del cimitero cittadino dei Prazeres. Dall’altra parte, i fautori di un ingresso delle spoglie di Pessoa nel Pantheon delle maggiori glorie nazionali, vicino alle tombe di Camões, di Vasco da Gama e di Alexandre Herculano. Le spoglie dei poeti sono spesso state oggetto di controversie, nella tradizione occidentale. Probabilmente ciò è dovuto a un concetto latente nella cultura cristiana, forse collegabile con la resurrezione della carne, e che comunque nutre il sospetto, nel subconscio del subconscio, che una quintessenza di ciò che fummo, una particola di ciò che pensammo, resti impressa in modo indelebile nelle nostre ossa e nella nostra polvere. Per altri popoli e per altre culture il problema non si pone in questi termini: le ceneri del corpo cremato sono disperse sulla terra e sui fiumi, e il corpo di chi fu un uomo si disperde nell’immensità del globo, circola, arriva magari in una foglia di un albero di Villa Borghese; vallo a sapere. Per noi occidentali no. Legati anima e corpo a ciò che fummo e allo spazio che

frequentammo, il luogo che ospita le nostre spoglie deve essere unico e inequivoco, perché in esso noi, in qualche modo, continuiamo ad essere. Non sono molto bravo a replicare all’osservazione della mia amica, passeggiamo per Lisbona, è una giornata afosa, con un’umidità atlantica che toglie le forze. Ci fermiamo in un caffè, apriamo i giornali, commentiamo con compunzione le argomentazioni delle due opposte scuole di pensiero, cerchiamo di essere obiettivi. Per obiettività – che nel mio caso è forse una segreta forma di codardia – mi schiero con la scuola dei fautori dell’assunzione nell’Olimpo. Mi piace che Pessoa sia trasportato in quel bellissimo monastero cinquecentesco, sotto quelle volte gotiche dove i passi risuonano nel silenzio, davanti all’Atlantico della sua Ode marittima e dei suoi sogni. Passò la vita in modeste camere d’affitto, dico; sentiva le ciabatte della padrona nel corridoio, mi sembra una giusta ricompensa che abbia una stanza tutta per sé. La mia amica mi guarda dubbiosa. Pensa come si deve sentire a disagio, continuo, in quel minuscolo monolocale di famiglia, in compagnia della nonna. Era un uomo timido e impacciato, mi pare giusto che abbia perlomeno un suo privato appartamento in quel grande palazzo che egli rammentò nella sua poesia. Sono certo che gli piacerà chiacchierare nottetempo con Camões e con Vasco da Gama; hanno molti argomenti su cui discutere. La mia amica tentenna il capo; probabilmente resta della sua opinione, ma in fondo la mia teoria le sembra plausibile. E io non ho il coraggio di andare oltre. Perché dovrei dirle che questa traslazione mi sembra inadeguata e insufficiente. A un’altra sto pensando, ma è certo troppo eccentrica. Un pizzico di polvere in una tomba dell’Algarve, con una lapide per Álvaro de Campos, uomo fallito e inquieto che schernì se stesso e la ferocia del mondo moderno. Una tomba per un pezzettino di Maestro Caeiro, autodidatta malato e solitario che cantò il mistero delle pietre e degli alberi. Una tomba neoclassica per un po’ di Ricardo Reis, nella sua nativa Oporto, magari in piazza Carlo Alberto, visto che Reis era monarchico. Una piccola urna in una bottega di barbiere della Lisbona popolare dove visse Bernardo Soares, impiegato di concetto che mangiava in trattoria sognando Samarcanda e che scoprì l’universo in via dei Merciai. E tanti altri tranquilli luoghi di riposo sparsi per il Portogallo, ognuno per ogni uomo che fu Pessoa. Oppure, e sarebbe forse la cosa migliore, si potrebbe affidare l’urna delle sue ceneri al Tago e lasciare che l’Oceano le porti dove vuole, qua e là nel

mondo, a raggiungere le sponde di ogni continente. Sul monastero dei Jerónimos, davanti al quale nel Cinquecento salpavano i navigatori portoghesi, potrebbe restare una lapide: il 13 di giugno del 1985, da questo luogo, partivano le ceneri di Fernando Pessoa.

Testi pessoani particolarmente menzionati in questo libro

Lettera a Adolfo Casais Monteiro sulla genesi degli eteronimi

Casella Postale 147 Lisbona, 13 gennaio 1935

Mio stimato Amico, La ringrazio molto della Sua lettera, a cui rispondo immediatamente e integralmente. Prima di cominciare, voglio chiederLe scusa se Le scrivo su questa carta da minuta. Mi è finita la carta buona, è domenica, e non posso trovarne altra. Ma è sempre meglio scrivere su di un brutto foglio che rimandare a un’altra volta. In primo luogo, voglio dirLe che non vedrei mai “altre ragioni” in qualunque cosa Lei potesse scrivere, di discorde, nei miei confronti. Sono uno dei pochi poeti portoghesi che non ha decretato la propria infallibilità, né prende le critiche che gli sono fatte come un atto di lesa divinità. Inoltre, nonostante tutti i miei difetti mentali, non soffro affatto di mania di persecuzione. A parte ciò, conosco ormai sufficientemente la Sua indipendenza intellettuale che, se mi è consentito dirlo, ho in grande onore e stima. Non mi sono mai proposto di essere Maestro o “Chef”: Maestro, perché non so insegnare, né so se dovrei insegnare; “Chef”, perché non sono neanche capace di fare un uovo fritto. Non si preoccupi mai, quindi, di ciò che dovrà dire di me. Io non vado in cerca di cantine nei piani nobili. Sono assolutamente d’accordo con Lei sul fatto che non sia stato felice il mio esordio con un libro come Mensagem. Di fatto, io sono un nazionalista mistico, un sebastianista razionale. Ma, a parte ciò, e addirittura in contraddizione con ciò, sono molte altre cose. E queste cose non sono incluse in Mensagem per la natura stessa del libro. Ho esordito con questo libro per la semplice ragione che è stato il primo libro che sono riuscito ad avere, non so perché, organizzato e pronto. Dato che era pronto, mi hanno spinto a pubblicarlo: ho accettato. Non l’ho fatto, devo dirlo, con gli occhi puntati sull’eventuale premio del Segretariato; ma se vi avessi pensato non sarebbe poi stato un grave peccato intellettuale. Il mio libro era pronto a settembre, e io credevo addirittura che non avrei potuto

concorrere al premio, poiché ignoravo che il termine per la consegna dei libri, che inizialmente era la fine di luglio, era stato prorogato alla fine di ottobre. Dato, però, che alla fine di ottobre avevo ormai degli esemplari di Mensagem pronti, ho consegnato le copie richieste. Il libro aveva tutte le qualità (nazionalismo) per concorrere. Ho concorso. Quando, a volte, pensavo all’ordine di una pubblicazione futura delle mie opere, un libro del tipo di Mensagem non figurava mai al numero uno. Ero in dubbio se avrei dovuto cominciare con un grosso libro di versi – un libro di un 350 pagine –, che inglobasse le varie sottopersonalità di Fernando Pessoalui stesso, o se avrei dovuto aprire con un racconto poliziesco, che non sono ancora riuscito a completare. Sono d’accordo con Lei, dicevo, che la pubblicazione di Mensagem non è stato in realtà un esordio felice. Ma sono anche d’accordo, se bado ai risultati, che è stato il miglior esordio che avrei potuto fare. Proprio perché questo aspetto – in un certo qual modo secondario – della mia personalità non era mai stato sufficientemente manifestato nelle mie collaborazioni a riviste (se non nel caso di Mar Português, parte di questo stesso libro), proprio per questo conveniva che apparisse, e che apparisse ora. Ha coinciso, senza che lo pianificassi o lo premeditassi (sono incapace di premeditazione pratica), con uno dei momenti critici (nel senso originale della parola) del rimodellamento del subcosciente nazionale. Ciò che ho creato per caso e che poi si è completato a furia di parlarne, era stato esattamente progettato, con Squadra e Compasso, dal Grande Architetto. (Interrompo. Non sono matto né ubriaco. Sto però scrivendo direttamente, tanto rapidamente quanto la macchina me lo permette, e mi vado servendo delle espressioni che mi vengono lì per lì, senza badare a fare della letteratura. Supponga – e farà bene a supporlo, perché è vero – che io stia semplicemente chiacchierando con Lei.) Rispondo ora direttamente alle Sue tre domande: 1) piano futuro della pubblicazione delle mie opere, 2) genesi dei miei eteronimi e 3) occultismo. Dopo la pubblicazione, nelle circostanze che Le ho indicato, di Mensagem, che è una manifestazione unilaterale, ho intenzione di proseguire nel modo seguente. Sto ora completando una versione totalmente rifatta del Banqueiro Anarquista; sarà pronta tra breve e conto, non appena pronta, di pubblicarla immediatamente. Se va tutto bene, ne farò una traduzione in inglese e vedrò di pubblicarlo in Inghilterra. Così come deve venire, ha delle

probabilità europee. (Non prenda questa frase nel senso di premio Nobel imminente.) Poi – e ora rispondo direttamente alla Sua domanda che si riferisce alla poesia – ho intenzione, durante l’estate, di riunire quel grosso volume delle poesie brevi di Fernando Pessoa-lui stesso, e di vedere se riesco a pubblicarle alla fine di quest’anno. Sarà questo il volume che Lei aspetta, ed è questo che io stesso desidero si faccia. Questo, allora, sarà l’insieme di tutti gli aspetti, eccetto quello nazionalista, che Mensagem ha già manifestato. Ho fatto riferimento, come ha visto, solo a Fernando Pessoa. Non ho progetti per Caeiro, per Reis o per Álvaro de Campos. Non potrò infatti pubblicare le opere di costoro se non quando (vedi sopra) mi sarà dato il premio Nobel. Eppure – lo penso con tristezza – ho messo in Caeiro tutta la mia forza di spersonalizzazione drammatica, ho messo in Ricardo Reis tutta la mia disciplina mentale, vestita della musica che le è propria, ho messo in Álvaro de Campos tutta l’emozione che non ho dato né a me né alla mia vita. E pensare, mio caro Casais Monteiro, che tutti costoro, per la pubblicazione, devono essere posticipati a Fernando Pessoa, impuro e semplice! Credo di aver risposto alla Sua prima domanda. Se ho omesso qualcosa, mi dica che cosa. Se potrò rispondere, risponderò. Altri piani non ne ho, per ora. E, sapendo bene che cosa sono e che risultato danno i miei piani, è il caso di dire, Grazie a Dio! Passo ora a rispondere alla Sua domanda sulla genesi dei miei eteronimi. Vedrò se riuscirò a risponderLe in maniera esauriente. Comincio dalla parte psichiatrica. L’origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. Non so se sono semplicemente isterico o se sono, più propriamente, un istero-nevrastenico. Propendo per questa seconda ipotesi, perché ci sono in me fenomeni di abulia che l’isteria propriamente detta non registra fra i suoi sintomi. Come che sia, l’origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente per me e per gli altri, in me si sono mentalizzati; voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l’interno e io li vivo da solo con me stesso. Se fossi una donna – nelle donne i fenomeni isterici esplodono con crisi e cose simili – ogni poesia di Álvaro de Campos (il più istericamente isterico di me) sarebbe un allarme per il vicinato. Ma sono un uomo: e negli uomini l’isteria assume principalmente aspetti mentali; così tutto finisce in silenzio e poesia...

Questo spiega, tant bien que mal, l’origine organica del mio eteronimismo. Le farò ora direttamente la storia dei miei eteronimi. Comincio da quelli che sono morti (e di alcuni ho perso completamente il ricordo), da quelli che giacciono perduti nel passato remoto della mia infanzia quasi dimenticata. Fin da bambino ho avuto la tendenza a creare intorno a me un mondo fittizio, a circondarmi di amici e conoscenti che non erano mai esistiti. (Non so, beninteso, se realmente non siano esistiti o se sono io che non esisto. In queste cose, come del resto in ogni cosa, non dobbiamo essere dogmatici.) Fin da quando mi conosco come colui che definisco “io”, mi ricordo di avere disegnato mentalmente, nell’aspetto, movimenti, carattere e storia, varie figure irreali che erano per me tanto visibili e mie come le cose di ciò che chiamiamo, magari abusivamente, la vita reale. Questa tendenza, che ho fin da quando mi ricordo di essere un “io”, mi ha accompagnato sempre, variando lievemente l’adagio musicale con cui mi affascina, ma non alterando mai la sua carica di fascinazione. Ricordo, così, quello che mi sembra sia stato il mio primo eteronimo o, meglio, il mio primo conoscente inesistente: un certo Chevalier de Pas di quando avevo sei anni, attraverso il quale scrivevo lettere sue a me stesso, e la cui figura, non del tutto vaga, ancora colpisce quella parte del mio affetto che confina con la nostalgia. Mi ricordo, con meno nitidezza, di un’altra figura di cui non mi sovviene più il nome, ma certamente anch’esso straniero, che era, non saprei in che cosa, un rivale del Chevalier de Pas... Cose che capitano a tutti i bambini? Senza dubbio; o forse. Ma a tal punto io le vissi che le vivo ancora, perché me le ricordo talmente bene che devo fare uno sforzo per rendermi conto che non furono realtà. Questa tendenza a creare intorno a me un altro mondo, uguale a questo ma con altra gente, non ha mai lasciato la mia immaginazione. Ha avuto varie fasi, tra le quali questa, già in età matura. Mi sovveniva un motto di spirito, assolutamente estraneo, per un motivo o per l’altro, a quello che io sono o a quello che io suppongo di essere. Lo dicevo immediatamente, spontaneamente, come se fosse di un certo mio amico, di cui inventavo il nome, di cui montavo la storia e il cui aspetto – viso, statura, abiti e gesti – vedevo immediatamente davanti a me. E così mi sono fatto, e ho propagato, vari amici e conoscenti che non sono mai esistiti, ma che ancora oggi, a quasi

trent’anni di distanza, io ascolto, sento, vedo. Ripeto: ascolto, sento, vedo... E ne ho nostalgia. (Quando attacco a parlare – e scrivere a macchina per me è parlare – mi resta difficile mettere il freno. Smetto di seccarLa, Casais Monteiro! Passo alla genesi dei miei eteronimi letterari che, in sostanza, è ciò che Lei vuole sapere. In ogni caso, quanto ho detto prima Le fornisce la storia della madre che li ha dati alla luce.) Verso il 1912, salvo errori (che comunque sarebbero minimi), mi venne l’idea di scrivere qualche poesia di indole pagana. Abbozzai qualcosa in versi irregolari (non nello stile di Álvaro de Campos, ma in uno stile di media regolarità), e lasciai perdere. Si era abbozzato in me, tuttavia, in una mal tessuta penombra, un vago ritratto della persona che stava scrivendo quei versi. (Era nato, senza che lo sapessi, Ricardo Reis.) Un anno e mezzo, o due anni dopo, un giorno mi venne in mente di fare uno scherzo a Sá-Carneiro: di inventare un poeta bucolico, abbastanza sofisticato, e di presentarglielo; non mi ricordo più in quale modo, come se fosse reale. Passai qualche giorno a elaborare il poeta ma non ne venne niente. Alla fine, un giorno in cui avevo desistito – era l’8 marzo 1914 – mi avvicinai a un alto comò e, preso un foglio di carta, cominciai a scrivere, in piedi, come scrivo ogni volta che posso. E scrissi trenta e passa poesie, di seguito, in una specie di estasi di cui non riuscirei a definire la natura. Fu il giorno trionfale della mia vita, e non potrò più averne un altro simile. Cominciai con un titolo, O Guardador de Rebanhos. E quanto seguì fu la comparsa in me di qualcuno a cui subito diedi il nome di Alberto Caeiro. Mi scusi l’assurdità della frase: era apparso in me il mio Maestro. Fu questa la mia immediata sensazione. Tanto che, non appena scritte le trenta e passa poesie, afferrai un altro foglio di carta e scrissi, di seguito, le sei poesie che costituiscono Chuva Oblíqua di Fernando Pessoa. Immediatamente e totalmente... Fu il ritorno di Fernando Pessoa-Alberto Caeiro al Fernando Pessoa-lui solo. O meglio, fu la reazione di Fernando Pessoa alla propria inesistenza come Alberto Caeiro. Apparso Alberto Caeiro, mi misi subito a scoprirgli, istintivamente e subcoscientemente, dei discepoli. Estrassi dal suo falso paganesimo il Ricardo Reis latente, gli scoprii il nome e glielo adattai, perché allora lo vedevo già. E, all’improvviso e da derivazione opposta a quella di Ricardo Reis, mi venne a galla impetuosamente un nuovo individuo. Di getto, e alla

macchina da scrivere, senza interruzioni né correzioni, sorse l’Ode Triunfal di Álvaro de Campos: l’Ode con questo nome e l’uomo con il nome che ha. Creai, allora, una coterie inesistente. Fissai tutto questo in forme di realtà. Guardai le influenze, conobbi le amicizie, udii dentro di me le discussioni e le divergenze di opinioni, e in tutto ciò mi sembra che io, creatore di tutto, fossi quello che era meno presente. Direi che tutto accadde indipendentemente da me. E direi che ancora accade così. Se un giorno potrò pubblicare la discussione estetica fra Ricardo Reis e Álvaro de Campos, vedrà come questi due sono diversi tra loro e come io non sono niente in materia. Quando stava per uscire il primo numero di “Orpheu” all’ultimo momento fu necessario trovare qualcosa per completare il numero delle pagine. Proposi allora a Sá-Carneiro di scrivere io stesso una poesia “antica” di Álvaro de Campos: una poesia come l’avrebbe scritta Álvaro de Campos prima di aver conosciuto Caeiro e di esserne stato influenzato. E scrissi così Opiário, in cui cercai di esprimere tutte le tendenze latenti di Álvaro de Campos, quali si sarebbero poi rivelate, ma senza che ci fosse ancora alcuna traccia di contatto con il suo Maestro Caeiro. Delle poesie che ho scritto, Opiário è stata quella che mi ha dato più da fare, per il duplice potere di spersonalizzazione che ho dovuto sviluppare. Ma, dopo tutto, credo che non sia riuscita male, e che esprima veramente Álvaro in nuce... Credo di averLe spiegato l’origine dei miei eteronimi. Se c’è però qualche punto in cui ha bisogno di una spiegazione più lucida (sto scrivendo in fretta, e quando scrivo in fretta non sono molto lucido) lo dica, che glieLa darò di buon grado. A proposito, una postilla veritiera e isterica: nello scrivere certi passi delle Notas para recordação do meu Mestre Caeiro, di Álvaro de Campos, ho pianto lacrime vere. Tanto perché Lei sappia con chi ha a che fare, mio caro Casais Monteiro! Qualche altra indicazione su questo argomento... Io vedo davanti a me, nello spazio incolore ma reale del sogno, i volti, i gesti di Caeiro, di Ricardo Reis e di Álvaro de Campos. Ho costruito loro le età e le vite. Reis è nato nel 1887 (non mi ricordo il giorno e il mese, ma li ho segnati da qualche parte), a Oporto, è medico, e risiede attualmente in Brasile. Alberto Caeiro nacque nel 1889 e morì nel 1915; nacque a Lisbona ma passò quasi tutta la vita in campagna. Senza professione e praticamente senza istruzione. Álvaro de Campos è nato a Tavira il 15 ottobre 1890 (alle 13,30, mi dice Ferreira Gomes; ed è vero, perché, fatto l’oroscopo per quest’ora, è risultato esatto).

Costui, come Lei sa, è ingegnere navale (ha studiato a Glasgow), ma attualmente si trova qui a Lisbona, senza esercitare la professione. Caeiro era di statura media e, sebbene realmente fragile (è morto di tubercolosi), non sembrava tanto fragile come in effetti era. Ricardo Reis è un po’, appena un po’, più basso, più forte, ma asciutto. Álvaro de Campos è alto (m. 1,75, 2 cm. più di me), magro e un po’ tendente a curvarsi. Tutti quanti viso rasato: Caeiro biondo slavato, occhi azzurri; Reis sul bruno spento; Campos tra il bianco e il bruno, del tipo vagamente dell’ebreo portoghese, però con i capelli lisci e normalmente con la scriminatura di lato, monocolo. Caeiro, come ho detto, non ricevette quasi nessun tipo di istruzione: solo le scuole elementari; gli morirono presto il padre e la madre, e se ne restò in casa, vivendo di certe piccole rendite. Viveva con una vecchia zia, una prozia. Ricardo Reis, educato in un collegio di gesuiti è, come ho detto, medico; vive in Brasile dal 1919, in esilio volontario per le sue idee monarchiche. È un latinista per l’educazione che ha ricevuto e un semiellenista autodidatta. Álvaro de Campos ha ricevuto una normale istruzione liceale, poi è stato mandato in Scozia a studiare ingegneria, prima meccanica e poi navale. Durante una vacanza, ha fatto un viaggio in Oriente, da cui è nata la poesia Opiário. Gli ha insegnato il latino uno zio della Beira che era sacerdote. Come scrivo nel nome di questi tre?... Caeiro per pura e insperata ispirazione, senza sapere né prevedere che mi metterò a scrivere. Ricardo Reis, dopo una astratta deliberazione, che subito si concretizza in un’ode. Campos, quando sento un improvviso impulso a scrivere, anche se non so che cosa. (Il mio semieteronimo Bernardo Soares, che d’altronde in molte cose si assomiglia con Álvaro de Campos, appare sempre mentre sono stanco o insonnolito, quando le mie qualità di ragionamento e di inibizione sono un po’ affievolite; quella prosa è un vaneggiamento costante. È un semieteronimo perché, pur non essendo la sua personalità la mia, dalla mia non è diversa, ma ne è una semplice mutilazione. Sono io senza il raziocinio e l’affettività. La prosa, eccetto la finezza che il raziocinio conferisce alla mia prosa, è uguale a questa, e il portoghese perfettamente uguale; mentre Caeiro scriveva male il portoghese, Campos ragionevolmente ma con lapsus come dire “io proprio” invece di “io stesso” ecc., Reis meglio di me, ma con un purismo che considero esagerato. Il difficile, per me, è scrivere la prosa di Reis – ancora inedita – o di Campos. La simulazione è più facile, anche perché è più spontanea, in poesia.)

In questo momento Lei, Casais Monteiro, starà pensando che la cattiva sorte l’ha fatta capitare, sia pure soltanto in lettura, in mezzo a un manicomio. In ogni caso, la cosa peggiore di tutto ciò è l’incoerenza con cui ho finora scritto. Ripeto, però: scrivo come se Le stessi parlando, per poterLe scrivere subito. Se non fosse così, passerebbero mesi senza che io riuscissi a scriverLe. Mi resta da rispondere alla Sua domanda circa l’occultismo. Mi chiede se credo nell’occultismo. Fatta così, la domanda non è ben chiara; comprendo però l’intenzione e a questa rispondo. Credo nell’esistenza di mondi superiori al nostro e di abitanti di questi mondi, in esperienze di diversi gradi di spiritualità, che si assottigliano fino ad arrivare a un Ente Supremo che presumibilmente ha creato questo mondo. Può essere che ci siano altri Enti, ugualmente Supremi, che abbiano creato altri universi, e che questi universi coesistano con il nostro, interpenetrandosi o meno. Per queste ragioni, e altre ancora, l’Ordine Esterno dell’Occultismo, ossia la Massoneria, evita (eccetto la Massoneria anglosassone) l’espressione “Dio”, date le sue implicazioni teologiche e popolari, e preferisce dire “Grande Architetto dell’Universo”, espressione che lascia scoperto il problema se Lui sia Creatore, o semplice Governatore del mondo. Date queste scale di esseri, non credo nella comunicazione diretta con Dio ma, secondo il nostro affinamento spirituale, potremo pervenire alla comunicazione con esseri sempre più alti. Ci sono tre vie che conducono all’occulto: la via magica (incluse le pratiche come quelle dello spiritismo, intellettualmente al livello della stregoneria, che è pure magia), via, questa, estremamente pericolosa in tutti i sensi; la via mistica, che non ha di per sé pericoli, ma è incerta e lenta; e quella che si chiama la via alchemica, la più difficile e la più perfetta di tutte perché comporta una trasmutazione persino della personalità che la prepara senza grandi rischi, anzi con le difese che le altre vie non hanno. Quanto all’iniziazione o meno, posso dirLe solo questo, che non so se risponde alla Sua domanda: non appartengo a nessun Ordine di Iniziati. La citazione, epigrafe alla mia poesia Eros e Psique, di un brano (tradotto, perché il Ritual è in latino) del Rituale di Terzo Grado dell’Ordine dei Templari Portoghesi indica semplicemente – è un fatto – che mi è stato permesso di sfogliare i Rituali dei primi tre gradi di quest’Ordine, estinto o addormentato fino da circa il 1888. Se non fossi assopito, non avrei citato il brano del Rituale, perché non si devono citare (indicandone l’origine) brani di Rituale che sono ancora in vigore.

Credo così, mio caro Amico, di avere risposto, seppure con certe incoerenze, alle Sue domande. Se ce ne sono altre che desidera farmi, non esiti a farle. Risponderò come potrò e meglio che potrò. Ciò che potrà capitarmi, e di ciò mi scuserà fin d’ora, sarà di non rispondere molto in fretta. Un abbraccio con stima e ammirazione dal Suo Fernando Pessoa 14.1.1935

P.S.!!! Oltre alla copia che normalmente faccio per me, quando scrivo a macchina, di qualsiasi lettera con spiegazioni sul tipo di quelle contenute in questa, ne ho fatta una supplementare, caso mai questa lettera andasse perduta o se, come può capitare, Le abbisognasse per un qualche altro fine. Questa copia è sempre a Sua disposizione. Altra cosa. Può darsi che, per qualche suo studio, o per un analogo fine, Lei abbia bisogno in futuro di citare qualche passo di questa lettera. È autorizzato fin da ora a farlo, ma con una riserva, e mi permetto di sottolinearla. Il paragrafo sull’occultismo, alla pagina 7 della mia lettera, non può essere riprodotto a stampa. Desiderando rispondere il più chiaramente possibile alla Sua domanda, sono uscito di proposito un po’ fuori dei limiti naturali dell’argomento. Si tratta di una lettera privata, e non ho esitato perciò a farlo. Nulla impedisce che Lei legga questo paragrafo a chi vuole, basta che anche questa altra persona obbedisca al criterio di non riprodurre a stampa ciò che è scritto in questo paragrafo. Credo di poter contare su di Lei perché ciò non accada. Continuo ad esserLe in debito di una lettera ultradovuta sui suoi ultimi libri. Mantengo fermo ciò che credo di averLe detto nella mia lettera precedente: ora che andrò (credo che sarà solo in febbraio) a passare qualche giorno a Estoril, metterò in ordine la corrispondenza, poiché sono in debito, su questo argomento, non solo con Lei, ma anche con tante altre persone. Devo domandarLe di nuovo una cosa che Le ho già domandato e a cui non mi ha risposto: ha ricevuto i miei versi in inglese, che Le ho mandato tempo fa? “Per mia amministrazione”, come si dice nel linguaggio commerciale, Le chiederei di farmi sapere il più presto possibile se ha ricevuto questa lettera. Grazie. Fernando Pessoa

Tabaccheria di Álvaro de Campos

Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso voler essere niente. A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo. Finestre della mia camera, della mia camera di uno dei milioni del mondo che nessuno sa chi è (e se sapessero chi è, che cosa saprebbero?), date sul mistero di una strada attraversata costantemente da gente, su una strada inaccessibile a tutti i pensieri, reale, impossibilmente reale, certa, sconosciutamente certa, col mistero delle cose sotto le pietre e gli esseri, con la morte che insinua umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini, col Destino che guida la carretta di tutto per la strada di niente. Oggi sono vinto, come se sapessi la verità. Oggi sono lucido, come se stessi per morire e non avessi altra fratellanza con le cose che un commiato, e questa casa e questo lato della strada diventassero la fila di vagoni di un treno, e una partenza fischiata dal dentro della mia testa, e una scossa dei miei nervi e uno scricchiolio di ossa nell’avvio. Oggi sono perplesso, come chi ha pensato e trovato e scordato. Oggi sono diviso fra la lealtà che devo alla Tabaccheria dirimpetto, come cosa reale dal di fuori, e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro. Ho fallito in tutto. Poiché non ho fatto nessun proposito, forse tutto era niente. Dall’insegnamento che mi hanno dato sono sceso attraverso la finestra del retro. Sono andato fino in campagna con grandi propositi.

Ma là ho trovato solo erbe e alberi, e quando c’era gente era uguale all’altra gente. Mi allontano dalla finestra, mi seggo su una sedia. A che devo pensare? Che cosa so di quel che sarò, io che non so cosa sono? Essere ciò che penso? Ma penso di essere tante cose! E ci sono tanti che pensano di esser la stessa cosa che non ce ne possono essere tanti!

Genio? In questo momento centomila cervelli si credono in sogno geni come me, e la storia non ne registrerà, chissà?, neppure uno, e non resterà che letame di tante conquiste future. No, non credo in me. In tutti i manicomi ci sono pazzi insensati con tante certezze! Io, che non ho nessuna certezza, sono più certo o meno certo? No, neppure in me… In quante mansarde e non-mansarde del mondo non staranno sognando a quest’ora geni-per-se-stessi? Quante aspirazioni alte e nobili e lucide – sì, proprio alte e nobili e lucide –, e magari anche realizzabili, non vedranno mai la luce del sole reale né troverannoascolto? Il mondo è di chi nasce per conquistarlo e non di chi sogna di conquistarlo, anche se ha ragione. Ho sognato più di quanto Napoleone non abbia realizzato. Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo, in segreto ho fatto filosofie che nessun Kant ha mai scritto. Ma sono, e forse resterò sempre, quello della mansarda, anche se non ci abito; sarò sempre quello che non era fatto per questo sarò sempre soltanto quello che aveva qualità; sarò sempre quello che si aspettò gli aprissero la porta in una parete senza porta e cantò la canzone dell’Infinito in un pollaio, e sentì la voce di Dio in un pozzo tappato. Credere in me? No, né in niente.

Che la Natura mi sparga sulla testa ardente il suo sole, la sua pioggia, il vento che mi trova i capelli, e il resto che venga se verrà, o se deve venire, oppure non venga. Schiavi cardiaci delle stelle, abbiamo conquistato il mondo prima di alzarci dal letto; ma ci siamo svegliati ed esso è opaco, ci siamo alzati ed esso è estraneo, siamo usciti di casa ed esso è la Terra intera, più il sistema solare e la Via Lattea e l’Indefinito. (Mangia i cioccolatini, piccola, mangia i cioccolatini! Bada che al mondo non c’è altra metafisica che la cioccolata. Bada che tutte le religioni non insegnano di più della confetteria. Mangia, bambina sporca, mangia! Potessi io mangiare cioccolata con la stessa verità con cui la mangi tu! Ma io penso: e quando tolgo la carta argentata, che poi è di stagnola, butto tutto per terra, come ho buttato la vita.) Ma almeno resta, dell’amarezza di ciò che mai sarò, la calligrafia rapida di questi versi, portico rotto sull’Impossibile. Ma almeno riservo a me stesso un disprezzo senza lacrime, nobile almeno nel gesto ampio con cui getto i panni sporchi che io sono, senza elenco, sul decorso delle cose, e resto in casa senza camicia. (Tu che consoli, che non esisti e per questo consoli, dea greca, concepita come statua vivente, o patrizia romana, impossibilmente nobile e nefasta, o principessa di trovatori, gentilissima e colorita, o marchesa del Settecento, scollata e glaciale, o cocotte celebre del tempo dei nostri padri, o non so che cosa moderno – proprio non saprei cosa –,

tutto questo, qualunque cosa tu sia, se può ispirare che ispiri! Il mio cuore è un secchio svuotato. Come quelli che invocano spiriti invocano spiriti invoco me stesso e non trovo niente. Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con una nitidezza assoluta. Vedo le botteghe, vedo i marciapiedi, vedo le automobili che passano, vedo gli enti vivi vestiti che si incrociano, vedo i cani, che anch’essi esistono, e tutto questo mi pesa come una condanna all’esilio, e tutto questo è straniero, come tutto.) Ho vissuto, studiato, amato e perfino creduto, e oggi non c’è accattone che io non invidi solo perché non è me. Guardo gli stracci e le piaghe e le menzogne di ciascuno e penso: forse non hai mai vissuto né studiato né amato né creduto (perché è possibile fare la realtà di tutto questo senza far niente di questo); forse sei solo esistito, come una lucertola cui tagliano la coda e che è coda al di qua della lucertola agitatamente. Ho fatto di me quanto non ho saputo, e quanto potevo fare di me non l’ho fatto. Il domino che ho indossato era sbagliato. Mi hanno subito riconosciuto per chi non ero, e non l’ho smentito, e mi sono perso. Quando ho voluto togliermi la maschera, era attaccata al mio viso. Quando l’ho tolta e mi sono visto allo specchio, ero già invecchiato. Ero ubriaco, non sapevo indossare il domino che non mi ero tolto. Ho buttato via la maschera e ho dormito nel guardaroba come un cane tollerato dalla gestione perché è inoffensivo, e voglio scrivere questa storia per provare che sono sublime. Essenza musicale dei miei versi inutili, magari potessi incontrarti come una cosa fatta da me e non restassi sempre dirimpetto alla Tabaccheria dirimpetto

calpestando la coscienza di stare esistendo come un tappeto in cui un ubriaco inciampa o uno zerbino rubato dagli zingari che non valeva niente. Ma il padrone della Tabaccheria si è fatto sulla porta e vi è rimasto. Lo guardo col disagio che dà la testa girata a metà e col disagio che dà l’animo quando ha per metà inteso. Lui morirà e io morirò. Lui lascerà l’insegna, io lascerò dei versi. A un certo momento morirà anche l’insegna, e anche i versi. Poi morirà la strada dove fu l’insegna e la lingua in cui furono scritti i versi. Infine morirà il pianeta ruotante in cui tutto ciò avvenne. In altri satelliti di altri sistemi, qualcosa simile a gente continuerà a fare cose come versi e a vivere sotto cose come insegne, sempre una cosa di fronte all’altra, sempre una cosa inutile quanto l’altra, sempre l’impossibile stupido quanto il reale, sempre il mistero del fondo, certo come il sonno del mistero della superficie, sempre questo o sempre un’altra cosa, oppure né una cosa né l’altra. Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?), e la realtà plausibile si abbatte all’improvviso su di me. Mi raddrizzo energico, convinto, umano, e mi riprometto di scrivere questi versi per sostenere il contrario. Accendo una sigaretta meditando di scriverli e assaporo in essa la liberazione di tutti i pensieri. Seguo il fumo come una rotta autonoma e godo, in un momento sensitivo e competente, la liberazione da tutte le speculazioni e la consapevolezza che la metafisica è l’effetto di un’indisposizione. Poi mi reclino sullo schienale della sedia e continuo a fumare. Finché il Destino me lo concederà, continuerò a fumare. (Se sposassi la figlia della mia lavandaia forse sarei felice.) Stabilito questo, mi alzo e vado alla finestra. L’uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilandosi in tasca il resto?).

Ah, lo conosco: è l’Esteves senza metafisica. (Il Padrone della Tabaccheria si è fatto sulla soglia.) Come per un istinto divino Esteves si è girato e mi ha visto. Mi ha fatto un cenno di saluto, io gli ho gridato “Ciao, Esteves!”, e l’universo mi si è ricostruito senza ideale né speranza, e il Padrone della Tabaccheria ha sorriso. 15 gennaio 1928

Anniversario di Álvaro de Campos

Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno, io ero felice e nessuno era morto. Nella casa antica, perfino il mio compleanno era una tradizione secolare, e l’allegria di tutti, e la mia, era giusta come una religione qualsiasi. Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno, avevo la grande salute di non capire alcunché, di essere intelligente per quelli della famiglia, e di non aver le speranze che gli altri avevano in mia vece. Quando arrivai ad avere speranze, non sapevo più avere speranze. Quando arrivai a guardare la vita, avevo perso il senso della vita. Sì, quello che fui di supposto per me stesso, quello che fui di cuore e famiglia, quello che fui di veglie di semiprovincia, quello che fui perché mi amavano e perché ero bambino, quello che fui – Dio mio!, quello che solo oggi so di essere stato… Com’è lontano!... (Nemmeno l’eco…) Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno! Ciò che oggi sono è come l’umidità nel corridoio in fondo alla casa, che provoca muffa nelle pareti… Ciò che oggi sono (e la casa di quelli che mi hanno amato trema attraverso le mie lacrime), ciò che oggi sono è che abbiano venduto la casa, è che tutti siano morti, è che io sia sopravvissuto a me stesso come un fiammifero freddo… Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno… Quale oggetto d’amore è per me quel tempo, come& una persona! Desiderio fisico dell’anima di essere lì un’altra volta, attraverso un viaggio metafisico e carnale,

con una dualità da me a me… Mangiare il passato come pane per l’affamato, senza tempo di burro sotto i denti! Vedo tutto ancora una volta con una nitidezza che mi rende cieco alle cose presenti… La tavola apparecchiata con dei posti in più, con la porcellana migliore, con dei bicchieri in più, la credenza con molte cose – dolci, frutta, il resto nell’ombra sotto la scansia –, le vecchie zie, i cugini estranei, e tutto era per me, al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno… Fermati, cuore mio! Non pensare! Lascia il pensiero alla testa! Oh mio Dio, mio Dio, mio Dio! Oggi non compio più gli anni. Perduro. I miei giorni si addizionano. Sarò vecchio quando lo sarò. Nient’altro. Rabbia di non aver portato in tasca il passato rubato!... Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio& compleanno!... 15 ottobre 1929

La poesia VIII di Il guardiano di greggi di Alberto Caeiro

VIII Un mezzogiorno di fine primavera ebbi un sogno come una fotografia. Vidi Gesù Cristo scendere sulla terra. Scese lungo il fianco di un monte, ritornato bambino, correndo e rotolandosi sull’erba e cogliendo fiori per gettarli via e ridendo che lo si sentiva da lontano. Era scappato dal cielo. Era troppo nostro per fingersi la seconda persona della Trinità. Nel cielo era tutto falso, tutto in disaccordo da fiori e alberi e sassi. Nel cielo doveva stare sempre serio e di tanto in tanto farsi uomo un’altra volta e risalire in croce e stare sempre a morire con una corona di spine sulla fronte e i piedi trafitti da un chiodo, e perfino con uno straccio intorno ai fianchi come i negri nelle illustrazioni. Non permettevano neppure che avesse padre e madre come gli altri bambini. Suo padre era due persone: un vecchio chiamato Giuseppe, che faceva il falegname e che non era suo padre; e l’altro padre era una colomba stupida, l’unica colomba brutta del mondo

perché non era di questo mondo e non era una colomba. E sua madre non aveva amato prima di averlo. Non era donna: era una valigia in cui egli era venuto dal cielo. E pretendevano che lui, che era nato solo dalla madre, e che mai aveva avuto un padre da amare e rispettare, predicasse la bontà e la giustizia! Un giorno che Dio stava dormendo e lo Spirito Santo svolazzava, egli andò alla cassa dei miracoli e ne rubò tre. Con il primo fece sì che nessuno sapesse che lui era fuggito. Con il secondo si creò eternamente umano e bambino. Con il terzo creò un Cristo eternamente in croce e lo lasciò inchiodato alla croce che c’è in cielo e che serve di modello alle altre. Poi fuggì verso il sole e scese con il primo raggio che gli capitò. Oggi vive con me nel mio villaggio. È un bambino bello di riso e naturale. Si pulisce il naso al braccio destro, sguazza nelle pozzanghere, coglie i fiori e li ama e li dimentica. Tira sassi agli asini, ruba la frutta negli orti e fugge piangendo e gridando dai cani. E poiché sa che la gente si diverte e le ragazze si arrabbiano, corre loro dietro quando vanno a gruppi per la strada con le anfore sulla testa e solleva loro le gonne. A me ha insegnato tutto. Mi ha insegnato a guardare le cose. Mi addita tutte le cose che ci sono nei fiori. Mi mostra come sono belli i sassi quando li teniamo in mano

e li guardiamo lentamente. Mi parla molto male di Dio. Dice che è un vecchio stupido e malato che sta sempre a sputare sul pavimento e a dire indecenze. La Vergine Maria passa le serate dell’eternità a fare la calza. E lo Spirito Santo si gratta col becco e si appollaia sulle sedie e le sporca. In cielo tutto è stupido come la Chiesa Cattolica. Mi dice che Dio non capisce niente delle cose che ha creato – “Ammesso che le abbia create lui, cosa di cui dubito” – “Egli dice per esempio che gli esseri cantano la sua gloria, ma gli esseri non cantano niente. Se cantassero sarebbero cantanti. Gli esseri esistono e basta, per questo si chiamano esseri.” E poi, stanco di dire male di Dio, il Bambino Gesù si addormenta fra le mie braccia e io lo porto in collo verso casa. ... Egli abita con me nella mia casa a metà del colle. Egli è l’eterno bambino, il dio che mancava. Egli è l’umano che è naturale, egli è il divino che sorride e gioca. Ed è per questo che io so con ogni certezza che egli è il vero Gesù Bambino. E il bambino così umano da essere divino è questa mia quotidiana vita di poeta, ed è perché cammina sempre con me che io sono poeta sempre e che il mio minimo sguardo mi riempie di sensazioni, e che il più piccolo suono, da qualunque cosa esso provenga, sembra parlare con me. Il Nuovo Bambino che abita dove vivo dà una mano a me

e l’altra a tutto ciò che esiste e così andiamo tutti e tre per ogni sentiero, saltando e cantando e ridendo e godendo il nostro comune segreto che è di sapere dappertutto che non c’è mistero nel mondo e che tutto vale la pena. Il Bambino Eterno mi accompagna sempre. La direzione del mio sguardo è il suo dito puntato. Il mio udito allegramente attento a tutti i suoni è il solletico che scherzando mi fa alle orecchie. E stiamo così bene l’uno con l’altro in compagnia di tutto che mai pensiamo l’uno all’altro ma viviamo uniti tutti e due con un intimo accordo come la mano destra e la mano sinistra. La sera giochiamo ai cinque sassolini sulla soglia di casa, gravi come si conviene a un dio e a un poeta, e come se ogni sasso fosse tutto un universo e dunque fosse un grande pericolo per esso lasciarlo cadere per terra. Poi io gli racconto storie delle cose solo degli uomini ed egli sorride, perché è tutto incredibile. Ride dei re e di coloro che non sono re, e si addolora a sentir parlare delle guerre, e dei commerci, e delle navi che diventano fumo nell’aria degli alti mari. Perché egli sa che a tutto questo manca quella verità che un fiore ha nel fiorire e che va con la luce del sole a cangiare monti e valli e a far dolere negli occhi i muri di calce. Poi egli si addormenta e io lo corico. Lo porto in braccio dentro casa

e lo corico spogliandolo lentamente, come seguendo un rituale molto pulito e tutto materno, finché non è nudo. Egli dorme nell’anima mia e a volte si sveglia di notte e gioca coi miei sogni. Alcuni li butta a gambe all’aria, altri li mescola e li confonde e batte le mani da solo sorridendo al mio sonno. ... Bambino, quando io morirò, che possa essere io il bambino, il più piccolo. Prendimi tu in braccio e portami dentro la tua casa. Spoglia il mio essere stanco e umano e coricami nel tuo letto. E raccontami storie, casomai mi svegliassi, per farmi riaddormentare. E dammi i tuoi sogni perché io ci giochi finché non spunti un qualche giorno che tu sai quale sia. ... Questa è la storia del mio Gesù Bambino. Per quale motivo mai non dovrebbe essere più vera di tutto quanto i filosofi pensano e di tutto quanto le religioni insegnano?

Cinque lettere a Ophelia Queiroz

22 marzo 1920

Mio Bebè angioletto, non ho molto tempo per scriverti, né avrei in verità, mio piccolo amore cattivo, molte cose da dirti che non possa dirti assai meglio domani, a voce, durante il tempo, purtroppo breve, che dura il tragitto da Rua do Arsenal fino a casa di tua sorella. Non voglio che tu ti preoccupi; voglio vederti allegra, come è tua natura essere. Promettimi di non preoccuparti, o di fare il possibile per non lasciarti preoccupare. Non hai nessuna ragione di preoccuparti, credilo. Senti, piccolo Bebè... Nei tuoi voti chiedi una cosa, che prima mi sembrava impossibile, per via della mia poca fortuna, ma che ora mi pare più – molto di più – possibile. Chiedi che il signor Crosse azzecchi un grosso concorso – un premio di mille sterline – a cui ha partecipato. Non puoi immaginare quanto sarebbe importante per noi se ciò si verificasse! E poi, guarda, ho visto nel giornale inglese che ho ricevuto oggi che egli si è già trovato a una sterlina di quota in un concorso in cui tutte le sue sorti erano piuttosto scarse; tutto è dunque possibile. Attualmente egli è dodicesimo su circa 20.000 (ventimila) concorrenti. È dunque proprio impossibile che un giorno arrivi al primo posto? Ah, se ciò potesse succedere, mio piccolo amore, e proprio in un concorso di quelli grossi (da mille sterline, e non da trecento, che non risolverebbero niente)! Capisci? Sono tornato da poco dall’Estrêla, dove ero andato a vedere quel 3º piano da 70.000 reis (per la verità, dato che al 3º non c’era nessuno, ho visto il 2º, che ha naturalmente gli stessi vani). Alla fine ho deciso di fare il cambio. È una casa più che buona, magnifica! È più che sufficiente per mia madre, fratelli, infermiera e zia; e per me (ma su questo punto ho un’altra cosa da dirti, e te la dirò domani). Ciao amore. Non ti scordare del signor Crosse, va bene? Pensa che egli ha molta amicizia per noi e può esserci (a me e a te) molto utile. Molti baci di tutte le misure dal tuo, sempre tuo

Fernando 29 novembre 1920

Ophelinha, la ringrazio per la lettera. Essa mi ha portato dolore e sollievo allo stesso tempo. Dolore perché queste cose addolorano sempre; sollievo perché, in verità, l’unica soluzione è questa: non prolungare oltre una situazione che ormai non trova più una giustificazione nell’amore, né da una parte né dall’altra. Da parte mia, almeno, resta una stima profonda, un’amicizia inalterabile. Lei non mi negherà altrettanto, vero? Né lei, Ophelinha, né io, abbiamo colpa di tutto questo. Solo il Destino ne avrebbe la colpa, se il Destino fosse una persona a cui poter attribuire delle colpe. Il Tempo, che invecchia i volti e i capelli, invecchia anche, ma ancora più rapidamente, gli affetti violenti. La maggior parte della gente, per la sua stupidità, riesce a non accorgersene, e crede di continuare ad amare perché ha contratto l’abitudine di sentire se stessa che ama. Se non fosse così, non ci sarebbe al mondo gente felice. Le creature superiori, tuttavia, sono private della possibilità di codesta illusione, perché non possono credere che l’amore sia duraturo, né, quando sentono che esso è finito, si sbagliano interpretando come amore la stima, o la gratitudine, che esso ha lasciato. Queste cose fanno soffrire, ma poi il dolore passa. Se la stessa vita, che è tutto, passa, perché non dovrebbero passare l’amore, il dolore e tutte le altre cose che sono solo parti della vita? Nella sua lettera è ingiusta con me, ma la comprendo e la scuso. Certo l’ha scritta con irritazione, forse perfino con dolore; ma la maggior parte della gente – uomini e donne – avrebbe scritto, nel suo caso, in un tono ancor più acerbo e in termini ancora più ingiusti. Ma lei, Ophelinha, ha un meraviglioso carattere, e perfino la sua irritazione non riesce ad essere cattiva. Quando si sposerà, se non avrà la felicità che si merita, certamente non sarà colpa sua. Quanto a me... L’amore è passato. Ma le mantengo un affetto inalterabile, e non dimenticherò mai – mai, lo creda – né la sua figurina graziosa e i suoi modi di ragazzina, né la sua tenerezza, la sua dedizione, la sua adorabile indole, può essere che mi sbagli, e che queste qualità che le attribuisco fossero una mia

illusione; ma non credo che lo fossero né, se lo sono state, sarei così villano da attribuirgliele. Non so che cosa desidera che le restituisca: lettere o che altro ancora. Io preferirei non restituirle niente, conservare le sue lettere come il ricordo vivo di un passato morto come ogni passato; come un qualcosa di commovente in una vita quale la mia, in cui l’avanzare negli anni va di pari passo con l’avanzare nell’infelicità e nella delusione. Le chiedo di non fare come la gente comune, che è sempre grossolana: che non giri la testa quando ci incontreremo; né abbia di me un ricordo in cui ci sia spazio per il rancore. La prego, siamo l’uno con l’altro come due persone che si conoscono dall’infanzia, che si amarono da bambini e, sebbene nella vita adulta seguano altre strade e altri affetti, conservano sempre, in una piega dell’animo, il ricordo profondo del loro amore antico e inutile. Per quanto forse “altri affetti” e “altre strade” possano concernere lei, Ophelinha, non certo me stesso. Il mio destino appartiene ad altra Legge, della cui esistenza lei è all’oscuro, ed è subordinato sempre più all’obbedienza a Maestri che non permettono e non perdonano. Ma non è necessario che capisca quanto dico. Basta che mi conservi affettuosamente nel suo ricordo come io, sempre, la conserverò nel mio. Fernando Abel, 25 settembre 1929

Gentilissima Signora Ophelia Queiroz, un abietto miserabile individuo chiamato Fernando Pessoa, mio personale e caro amico, mi ha incaricato di comunicare alla Signoria Vostra – considerando che il di lui stato mentale gli impedisce di comunicare alcunché, neppure a una mosca (esempio di obbedienza e disciplina) – che alla Signoria Vostra è vietato: 1) pesare di meno; 2) mangiare poco; 3) non dormire; 4) avere la febbre; 5) pensare all’individuo suddetto. Da parte mia, come intimo e sincero amico di quel poco di buono della cui comunicazione, seppur con sacrificio, mi faccio carico, consiglio la Signoria Vostra di prendere l’immagine mentale che eventualmente possa essersi fatta dell’individuo la cui menzione sta rovinando questo foglio di carta soddisfacentemente bianco, e di buttarla, quest’immagine mentale, nel buco dell’acquaio, essendo materialmente impossibile dare questa

destinazione, che peraltro giustamente competerebbe a quell’entità fintamente umana, se ci fosse giustizia al mondo. Voglia gradire i complimenti di Álvaro de Campos (Ingegnere Navale) 26 settembre 1929

Piccola Ophelinha, non so se mi vuole bene, ma le scrivo esattamente per questo motivo. Poiché mi ha detto che domani non vuole vedermi fino a quando non ci troveremo alla fermata del tram, cioè fra le cinque e un quarto e le cinque e mezzo, verrò dunque là. Tuttavia, dato che si verifica la circostanza che l’Ingegnere Álvaro de Campos domani mi deve accompagnare per gran parte della giornata, non so se sarà possibile evitare la presenza (del resto gradevole) di questo signore durante il cammino verso certe finestre di un colore che ora non ricordo. Il mio vecchio amico che ho testé nominato ha poi qualcosa da dirle. Rifiuta di fornirmi qualsiasi indiscrezione sull’argomento, ma ho fiducia che in sua presenza abbia possibilità di dirmi, o dirle, o dirci di che cosa si tratta. Fino a quel momento sarò silenzioso, attento, e perfino fiducioso. E a domani, boccuccia dolce. Fernando domenica 29 settembre 1929

Piccola Ophelinha, poiché non voglio che dica che io non le ho scritto per il fatto di non averle veramente scritto, le sto scrivendo. Non sarà una linea, come ho promesso, ma non saranno molte. Sono malato, principalmente a causa della serie di preoccupazioni e seccature che ho avuto ieri. Se non vuole credere che sono malato, lo faccia pure. Ma le chiedo il favore di non dirmi che non ci crede. Mi è più che sufficiente essere malato; ci mancherebbe anche che qualcuno ne dubitasse o mi chiedesse ragioni della mia salute come se dipendesse dalla mia volontà, o che io dovessi dare conto a qualcuno di qualcosa. Quanto le ho detto sul mio trasferimento a Cascais (Cascais vuol dire un luogo qualsiasi fuori da Lisbona, ma vicino, e può significare anche Sintra o Caxias) è la pura verità: perlomeno quanto all’intenzione. Sono arrivato a quell’età in cui si ha il pieno dominio delle proprie qualità e l’intelligenza

raggiunge la sua massima forza e capacità. È dunque il momento di realizzare la mia opera letteraria, completando alcune cose, raccogliendone altre, scrivendone altre ancora che sono restate da scrivere. Per realizzare quest’opera ho bisogno di tranquillità e di un certo isolamento. Non posso, purtroppo, lasciare l’ufficio in cui lavoro (non posso, è ovvio, perché non ho altre rendite), ma posso invece, lasciando per il lavoro due giorni la settimana (mercoledì e sabato), essere a mia completa disposizione i giorni rimanenti. Ecco cosa significa il progetto di Cascais. Tutta la mia vita futura dipende dal fatto che io riesca o meno a fare quanto ho detto: e in breve tempo. Del resto la mia vita gira intorno alla mia opera letteraria – buona o scadente che essa sia o che possa essere. Tutto il resto della vita ha per me un interesse secondario: ci sono cose, naturalmente, che amerei avere; altre che mi è perfettamente indifferente avere o non avere. È necessario che tutti coloro che hanno dei rapporti con me si convincano che io sono fatto così, e che esigere da me i sentimenti, del resto degnissimi, di un uomo normale e banale, sarebbe come pretendere che io avessi gli occhi azzurri e i capelli biondi. E trattarmi come se io fossi un’altra persona non è la miglior maniera per mantenere il mio affetto. È preferibile trattare “così” chi è davvero “così”, e dunque “rivolgersi a un’altra persona” (vale una qualsiasi altra frase simile a questa). Lei, Ophelinha, mi piace molto, davvero molto. Apprezzo moltissimo la sua indole e il suo carattere. Se mi dovessi sposare, non potrei che sposarmi con lei. Resta da sapere se il matrimonio o vita coniugale (o come lo si voglia chiamare) sia una forma di vita che possa andare d’accordo con la mia vita interiore. Ne dubito. Per ora, e nel più breve tempo possibile, desidero organizzare la mia vita interiore, il mio lavoro. Se non riuscissi a organizzarli, è chiaro che non potrei neanche pensare di progettare un matrimonio. E se li organizzassi in forma tale da accorgermi che il matrimonio potesse turbarli, è evidente che non mi sposerei. Ma può anche darsi che non sia così. Il futuro – ed è un futuro prossimo – lo dirà. Ecco: questa è, francamente, la verità. Arrivederci, Ophelinha. Mangi, dorma, e non perda grammi. Il suo affezionato Fernando

NOTA DEL CURATORE

Uscito per la prima volta con l’editore Feltrinelli nel 1990, Un baule pieno di gente viene a integrare la vasta e articolata antologia pessoana (Una sola moltitudine, Adelphi, Milano 1979 e 1984, vol. I e vol. II) curata da Antonio Tabucchi con la collaborazione di Maria José de Lancastre, silloge che fu per i lettori italiani una finestra improvvisamente – e magistralmente – spalancata sullo sconfinato universo “del poeta più misterioso del Novecento”. Fra i tanti meriti di questa raccolta di saggi, adesso presentata in versione riveduta e arricchita, vi fu, senza dubbio, quello di aver sollevato il portentoso baule di Pessoa (e col termine “baule” intendo designare, per metonimia, i documenti emersi dal baule – quello vero – in cui Pessoa conservò la maggior parte dei suoi scritti) dai corridoi degli ambienti accademici italiani per spostarlo fuori, all’aria aperta, scoperchiato e accessibile a tutti. E così il numero dei lettori aumentò in modo esponenziale e questo libro, “piccolo universo in espansione”, diventò col passare degli anni un punto di riferimento indispensabile per i cultori di Pessoa in Italia e all’estero. Per questo, nel campo della saggistica, Un baule pieno di gente può oggi essere considerato a tutti gli effetti un vero e proprio classico. Tenendo conto della volontà dell’autore di lasciare questi testi “identici a come furono pubblicati la prima volta, a testimonianza degli anni in cui furono scritti”, il mio lavoro è consistito sostanzialmente nel dare una sorta di “spolverata” e “rassettata” a questo libro-baule. Ho innanzitutto alleggerito il volume togliendo una serie di note di approfondimento più utili, forse, nelle prime edizioni, quando Pessoa era molto meno conosciuto; ho poi scartato sporadiche ripetizioni e spostato i vari riferimenti bibliografici, aggiornandone alcuni, in un’apposita sezione in fondo al volume. Infine, seguendo sempre il filo conduttore del discorso eteronimico, ho pensato di arricchire l’opera con qualche altro contributo letterario. Nello specifico, al saggio intitolato Un bambino attraversa il paesaggio, sulla poesia VIII di Il guardiano di greggi di Alberto Caeiro, ho affiancato, grazie alla generosità di Roberto Calasso, altri due brevi, imprescindibili

appunti su questa poesia, precedentemente pubblicati su Adelphiana (2013). Scritti nel 2011, a distanza di trentun anni dal primo testo, uscito sull’“Almanacco dello Specchio” nel 1980, testimoniano la costante fascinazione che questi versi hanno esercitato su Tabucchi. La prima appendice contiene un breve saggio pubblicato su “L’Illustrazione Italiana” (1981) e tre articoli usciti su “la Repubblica” e il “Corriere della Sera”. Il testo Sopra una fotografia di Pessoa, uscito per la prima volta nella rivista “L’Illustrazione Italiana”, oltre a essere una curiosa analisi del rapporto fra eteronimia e fotografia, marca anche, retrospettivamente, l’inizio del vivace dialogo che Tabucchi avrebbe poi a lungo intrattenuto col mistero dell’immagine fotografica, al quale peraltro partecipano con brio anche i personaggi delle sue storie; si pensi, ad esempio, alle speculazioni del fotografo Tiago, nel romanzo Per Isabel (2013): “La vita contro la vita, la vita nella vita, la vita sulla vita?, forse, è un enigma che lascio a lei che guarda questa fotografia”. Dei molti articoli scritti da Tabucchi su Pessoa in vari quotidiani, ho scelto quelli dal sapore più narrativo e che si allacciano meglio, tematicamente, agli altri testi di questo volume. Il fachiro che volle diventare Pessoa è un accattivante ritratto di Eliezer Kamenesky, giramondo strampalato, a tratti picaresco, e soprattutto amico, per poco, di Pessoa. C’è chi, in Italia, ha pensato addirittura che la sua autobiografia fosse frutto di una delle tante maschere del poeta portoghese. Fraintendimento non del tutto ingiustificabile, se si considera che Kamenesky potrebbe essere un cugino bislacco del bislacco Álvaro de Campos, e il suo “fibrillante” nomadismo una trasposizione nella dimensione del vissuto reale dei versi più spumeggianti dell’Ode trionfale e dell’Ode marittima. Tabucchi stesso osserva che “Kamenesky si riaffaccia fra noi con le sue chiome fluenti” perché in fondo, come gli eteronimi, “anche lui è uscito dal baule, è venuto alla ribalta grazie a Pessoa”. Il testo Pessoa e Ophelia, un amore bruciante e misterioso, scritto il giorno dopo il funerale di Ophelia Queiroz, mostra, fra le altre cose, il grande interesse (“forse questo è l’unico giornale al mondo che ricorda oggi Ophelia Queiroz e sono contento di poterlo fare io”) e la stima che Tabucchi nutriva verso “questa intelligente donna”. L’articolo Le ossa di Fernando, infine, è un pezzo che lo stesso Pessoa, mi piace pensare, avrebbe potuto leggere annuendo ironicamente.

Ho considerato inoltre opportuno aggiungere all’appendice originaria due poesie fondamentali di Álvaro de Campos, Anniversario e Tabaccheria, a cui si fa spesso riferimento nei saggi. Ho tenuto in modo particolare a includere Tabaccheria, in quanto, oltre a rappresentare una delle vette poetiche del Novecento, è stata la chiave con cui Tabucchi ha aperto per la prima volta il baule di Pessoa: nel 1964, in una bancarella di Parigi, acquistò per caso una plaquette dal titolo Bureau de tabac, di un certo Fernando Pessoa. In questa sezione, ho anche tolto due delle sette lettere a Ophelia Queiroz che compaiono nella stesura precedente del volume, parendomi una superflua ripetizione di concetti e umori già ampiamente espressi nelle altre epistole. Le otto fotografie dell’inserto sono quasi tutte tratte dal volume Fernando Pessoa – uma fotobiografia (1981) di Maria José de Lancastre: immagini che s’intrecciano, suggestivamente, ai temi via via esposti, e anche, per dirla con Pessoa, “provvisorie rappresentazioni visibili” di personaggi che tornano a vivere con grande forza evocativa. Vorrei concludere questa nota con una confessione: anch’io sono uno dei tanti lettori che hanno scoperto Fernando Pessoa con questo libro, e ritengo un grande privilegio aver ascoltato, durante i miei studi all’Università di Siena, i versi di Pessoa e dei suoi eteronimi letti e svelati dalla voce di Antonio Tabucchi. Curare questa nuova edizione di Un baule pieno di gente è stato quindi per me anche un modo di rincontrare il mio professore, di richiacchierarci e soprattutto di ringraziarlo. Timothy Basi

I testi qui raccolti sono tratti da: Un baule pieno di gente, da Una sola moltitudine, Adelphi, Milano 1979, vol. I. Una vita, tante vite (scritto in collaborazione con Maria José de Lancastre), da Una sola moltitudine, Adelphi, Milano 1979, vol. I. Álvaro de Campos, Ingegnere Metafisico, da Fernando Pessoa, Nove poesie di Álvaro de Campos e sette poesie ortonime, Baskerville, Bologna 1988. Un bambino attraversa il paesaggio, dall’“Almanacco dello Specchio”, Mondadori, Milano 1980. Bernardo Soares, uomo inquieto e insonne, da Fernando Pessoa, Il Libro dell’Inquietudine, Feltrinelli, Milano 1986. Un fil di fumo. Pessoa, Svevo e le sigarette (pubblicato con il titolo Le sigarette di Fernando Pessoa), in AA.VV., Il poeta e la finzione. Scritti su Fernando Pessoa, Tilgher, Genova 1983. Sulle lettere d’amore (pubblicato con il titolo Un Faust in gabardine), da Fernando Pessoa, Lettere alla fidanzata, Adelphi, Milano 1988. Il Marinaio: una sciarada esoterica? e Traducendo Il Marinaio, da Fernando Pessoa, Il Marinaio, Einaudi, Torino 1988. Nota al Faust, da Fernando Pessoa, Faust, Einaudi, Torino 1989. Intervista con Andrea Zanzotto, da “Quaderni portoghesi”, Pisa autunno 1977, vol. II. Si ringraziano gli editori e in particolare Adelphi Edizioni per l’autorizzazione a pubblicare i seguenti testi: Lettera a Adolfo Casais Monteiro sulla genesi degli eteronimi e La poesia VIII di Il guardiano di greggi, da Una sola moltitudine, Adelphi, Milano 1979 e 1984, vol. I e vol. II. Cinque lettere a Ophelia Queiroz, da Lettere alla fidanzata, Adelphi, Milano 1988. Tabaccheria e Anniversario, da Poesie di Álvaro de Campos, Adelphi, Milano 1993. Due appunti sulla poesia VIII di Il guardiano di greggi”, da Adelphiana, Adelphi, Milano 2013.

I testi della prima appendice sono tratti da: Sopra una fotografia di Fernando Pessoa, in “L’illustrazione italiana”, n. 1, ottobre-novembre 1981, pp. 77-78. Il fachiro che volle diventare Pessoa, in “Corriere della Sera”, 19 gennaio 1992. Pessoa e Ophelia, un amore bruciante e misterioso, in “Corriere della Sera”, 27 luglio 1991. Le ossa di Fernando, in “la Repubblica”, 12 giugno 1985.

Riferimenti bibliografici: Barthes, R., La chambre claire. Note sur la photographie, Cahiers du Cinéma, Gallimard Seuil, Paris 1980. Barreto, J., Fernando Pessoa – sobre o fascismo, a ditadura militar e Salazar, Tinta da China, Lisboa 2015. Benjamin, W., Angelus Novus, traduzione e introduzione di R. Solmi, Einaudi, Torino 1976, p. 270. Blanchot, M., Lo spazio letterario, traduzione di G. Zanobetti, Einaudi, Torino 1975, p. 3. Casais Monteiro, A., Estudos sôbre a Poesia de F. Pessoa, Livraria Agir, Rio de Janeiro 1958, p. 81. Del Bene, O., Algumas notas sôbre Alberto Caeiro, in “Ocidente”, LXXIV, Lisboa 1968, pp. 129-135. De Ornellas de Andrade, M.I., Sete reflexões sobre “O Marinheiro”, in “Centro da História da Cultura da Universidade Nova”, Lisboa 1986, pp. 671-701. Fusco, M., Italo Svevo. Conscience et Réalité, Gallimard, Paris 1973, p. 363. Guibert, A., prefazione a F. Pessoa, Bureau de tabac et autres poèmes, Éditions Caractères, Paris

1955. Güntert, G., Das fremde Ich. Fernando Pessoa, Walter de Gruyter, Berlin-New York 1971, p. 173. Lancastre, M. J. d., Fernando Pessoa. Uma fotobiografia, Imprensa Nacional, Lisboa 1981, p. 211. Lourenço, E., Pessoa revisitado. Leitura estruturante do Drama em gente, Inova, Porto 1973, p. 13 e pp. 104-105. Moitinho de Almeida, L.P., Algumas notas biográficas sôbre Fernando Pessoa, Setúbal 1954, p. 28. Montale, E., Un poeta ricostruito come un affresco in briciole, in “Corriere della Sera”, 4 ottobre 1952. Ora in E. Montale, Sulla poesia, Mondadori, Milano 1976, p. 417. Paz, O., El desconocido de sí mismo, introduzione a F. Pessoa, Antología, selección, traducción y prólogo de O. Paz, Universidad Nacional Autonoma, México 1962, p. 23; poi ristampato in O. Paz, Cuadrivio. Darío, López Velarde, Pessoa, Cernuda, Joaquím Mortiz, México 1969. Pessoa, F., Cartas de amor de Fernando Pessoa, organização, postfácio e notas de David Mourão-Ferreira, Edições Ática, Lisboa 1978. Pessoa, F., Il Libro dell’Inquietudine, a cura di Maria José de Lancastre, traduzione di Antonio Tabucchi e Maria José de Lancastre, Feltrinelli, Milano 1986, p. 23. Pessoa, F., Lettere alla fidanzata, Adelphi, Milano 1988. Pessoa, F., Livro do Desassossego, organização Richard Zenith, Assírio & Alvim, Lisboa 1998, p. 43. Pessoa, F., Prosa íntima e de autoconhecimento, Obra essencial de Fernando Pessoa, edição Richard Zenith, Assírio & Alvim, Lisboa 2007 (originariamente in: Pessoa, F., Páginas Íntimas e de Auto-interpretação, Edições Ática, Lisboa 1966). Pessoa, F., Poesie di Álvaro de Campos, a cura di Maria José de Lancastre, traduzione di Antonio Tabucchi, Adelphi, Milano 1993. Le principali poesie citate nel presente volume sono: Il passaggio delle ore, Anniversario, Lisbon Revisited (1923), Lisbon Revisited (1926) , “Ah, davanti a quest’ultima realtà che è il mistero”, “Quello che c’è in me è soprattutto stanchezza”, “No, non è stanchezza…”, “La vigilia di non partire mai”, “Il sonno che scende su di me”, “Non sto pensando a niente”, “Alla fine di tutto dormire”, “Questa vecchia angoscia”, Oppiario, “Mi piacerebbe che mi piacesse provare piacere”, “Nelle piazze a venire – forse le stesse delle nostre –”, Tabaccheria. Pessoa, F., Poesie di Fernando Pessoa, a cura di Antonio Tabucchi e Maria José de Lancastre, Adelphi, Milano 2013. Le principali poesie qui citate sono: Autopsicografia, Stazioni della Via Crucis – IV, “È l’amore che è essenziale”. Robinson, P., Svevo: Secrets of the Confessional, in “Literature and Psychology”, XX [1970], pp. 101-114. Sena, J.d., Fernando Pessoa e Ca. heterónima, Edições 70, Lisboa 1981, vol. II, p. 177. Sena, J.d., Fernando Pessoa: o homem que nunca foi, in “Persona”, n. 2, Porto, luglio 1978, pp. 27-41. Simões, J.G., Vida e obra de Fernando Pessoa. História duma geração, 3a edição novamente revista, Bertrand, Lisboa 1973. Stegagno Picchio, L., Pessoa, uno e quattro, in “Strumenti critici”, IV, ottobre 1967, pp. 377401. Tabucchi, A., Pessoa e un esempio di antiteatro o di “teatro statico”, in “Il Dramma”, 8 agosto 1970, p. 34. Veneziani Svevo, L., Vita di mio marito, Edizioni dello Zibaldone, Trieste 1958, p. 41.

Inserto fotografico

Fernando Pessoa a dieci anni.

Pessoa e la sua famiglia sulle scale del cottage di Durban (1903?).

Pessoa con Moitinho de Almeida, amico e proprietario di una delle ditte in cui lavorava Pessoa, e due clienti stranieri (la coppia al centro).

Pessoa mentre fuma in una via della Baixa.

Foto offerta alla zia Anica nel gennaio del 1914.

Dedica alla zia sul retro della foto.

Kamenesky a spasso in una via di Lisbona (anni trenta).

Ophelia all’epoca dell’amore “ardente e misterioso” per Pessoa.

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Frontespizio Nota Un baule pieno di gente Una vita, tante vite Álvaro de Campos, Ingegnere Metafisico Un bambino attraversa il paesaggio Due appunti sulla poesia VIII di "Il guardiano di greggi" Bernardo Soares, uomo inquieto e insonne Un fil di fumo: Pessoa, Svevo e le sigarette Sulle lettere d’amore Il Marinaio: una sciarada esoterica? Traducendo Il Marinaio Nota al Faust Intervista con Andrea Zanzotto APPENDICI Altri testi su Pessoa & Co. Sopra una fotografia di Fernando Pessoa Il fachiro che volle diventare Pessoa Pessoa e Ophelia, un amore bruciante e misterioso Le ossa di Fernando Testi pessoani particolarmente menzionati in questo libro Lettera a Adolfo Casais Monteiro sulla genesi degli eteronimi Tabaccheria di Álvaro de Campos Anniversario di Álvaro de Campos La poesia VIII di "Il guardiano di greggi" (di Alberto Caeiro) Cinque lettere a Ophelia Queiroz Nota del curatore Inserto fotografico

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