Un amore adolescente 9788893813020

Austria, 1952. Liesèl ha 14 anni e un pessimo rapporto con la sua matrigna, una donna insensibile che finisce per allont

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Un amore adolescente
 9788893813020

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Presentazione

Austria, 1952. Liesèl ha 14 anni e un pessimo rapporto con la sua matrigna, una donna insensibile che finisce per allontanare dalla famiglia la ragazzina e mandarla in un collegio collocato in un antico castello, il Seeburg. Ma quella che avrebbe dovuto essere una punizione si rivela invece per Liesèl una grande opportunità. Tra le mura del Seeburg infatti la ragazza troverà un ambiente sereno, grazie all’intelligenza e alla sensibilità del direttore, delle educatrici e dei coetanei con i quali stringerà fortissimi legami. Non solo, insieme ad alcuni di loro, Liesèl fonderà il giornale del Seeburg: un momento per confrontarsi, fare i conti con il loro difficile passato di guerra e i problemi del presente, un progetto condiviso per sviluppare una profonda coscienza di sé e delle proprie potenzialità. Durante le vivaci riunioni per la preparazione degli articoli ci sarà anche il tempo per sperimentare il primo, tormentato amore e sconfiggere la ragazza più cattiva del collegio… Da una grande autrice una storia delicata come l’adolescenza, che racconta la paura e la voglia di crescere, uguale oggi come ieri. Nel 1998, a 58 anni, Helga Schneider ha conquistato il successo letterario con Il rogo di Berlino. Da allora, «l’impellente desiderio di narrare di Helga Schneider è esploso con l’energia di un fiume in piena... con risultati brillanti e varie traduzioni in Europa, negli Stati Uniti, in Brasile, Giappone e Cina» (Elle). Tra i suoi titoli più famosi, oltre a Il rogo di Berlino e Lasciami andare, madre (Adelphi), ricordiamo Io, piccola ospite del Führer e Il piccolo Adolf non aveva le ciglia (Einaudi) e, per Salani, Stelle di cannella, L’albero di Goethe, Heike riprende a respirare, La baracca dei tristi piaceri, Rosel e la strana famiglia del signor Kreutzberg, I miei vent’anni e L’inutile zavorra dei sentimenti. Questo romanzo segna il suo ritorno alla letteratura per ragazzi.

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@salanieditore In copertina: © Seth Haverkamp Art director: Stefano Rossetti Graphic designer: PEPE nymi © 2017 Adriano Salani Editore s.u.r.l. ISBN 978-88-9381-302-0 Prima edizione digitale 2017 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

La disciplina è il ponte tra l’obiettivo e il risultato. Jim Rohn

1

Quando c’era un temporale la matrigna diventava creativa: scriveva lettere, puliva a fondo la credenza, o rammendava calzini. Non era una cattiva donna di casa. Durante una tempesta recuperò le foto che conservava alla rinfusa in un cassetto del comò per incollarle finalmente nell’album. L’album, rilegato in tela color porpora, era stato un dono del marito per il suo ultimo compleanno. Liesèl asciugava i piatti e osservava la matrigna mentre sceglieva le foto da inserire, dividendole da quelle che non rappresentavano la parentela più stretta. A un certo punto, con un gesto brusco e quasi infastidito, ne mise da parte una che era particolare. Sembrava divisa a metà, il residuo di una foto intera che era stata tranciata da un colpo di forbice o strappata. A Liesèl, che osservava, non sfuggì questo fatto, e incuriosita domandò se poteva prenderla e guardarla da vicino, ma lei rispose in tono seccato: «Torna al tuo lavoro, questo non ti riguarda!» Casualmente la frase fu accompagnata da un potente tuono. In quel momento a Liesèl nacque un’idea fissa: doveva vedere quella foto! Decise di aspettare il momento giusto. L’occasione si presentò quando la matrigna si recò al paese insieme a Lukas, il fratello di Liesèl, per comprargli un paio di scarpe nuove. Uscirono di prima mattina. Liesèl attese circa mezz’ora, poi si introdusse nella stanza matrimoniale e rovistò nei cassetti del comò, ma trovò solo biancheria intima, camicie e pigiami del padre. Delusa si guardò attorno: i comodini! Il comodino della matrigna era chiuso, ma da quello del padre vide pendere una chiave. Aveva indovinato, apriva entrambi! C’erano diverse carte, lettere, le foto scartate per l’album, e tra loro

proprio quella che cercava. La prese e si sedette sul bordo del letto. Ritraeva suo padre molto giovane accanto a un’altra persona, che era stata tagliata quasi completamente. Era rimasta solo una piccola porzione di viso e una ciocca di capelli che lambiva, ondulata, la guancia. Sotto spuntavano due pieghe mosse di un vestito molto chiaro, e in fondo la punta rotonda di una scarpa scura di pelle lucida. In realtà era impossibile riconoscere chi si trovasse accanto a suo padre al momento dello scatto, ma i pochi elementi colpirono Liesèl al cuore. Era sicura che si trattasse di sua madre, glielo diceva il cuore. Fu presa da una grande agitazione. Seguì con l’indice il contorno del precario profilo e, malgrado la disprezzasse, perché la donna aveva abbandonato lei e il fratellino da piccoli, le spuntarono le lacrime. Era la prima volta che vedeva i suoi genitori insieme in una foto, anche se la madre era stata eliminata con un taglio brutale. Liesèl decise di appropriarsene. L’avrebbe tenuta nascosta, al riparo della matrigna. Ma il forte turbamento le causò una strana stanchezza, una prostrazione psichica. Si distese e chiuse gli occhi, la foto tra le mani. Rimase lì smarrendo la cognizione del tempo. A un tratto sentì il rumore della porta d’ingresso. Balzò in piedi, il cuore in gola, ma in pochi secondi la matrigna era già nella camera. E, scorgendo la foto che Liesèl stringeva nel pugno e il comodino aperto, capì immediatamente. I suoi occhi diventarono scuri e fissi come quelli di un uccello rapace. «Ladra!» le gridò. «Come hai osato frugare tra le mie cose?» Poi le si accostò e, con un sorriso cattivo, ordinò: «Strappa la foto!» «No», fece Liesèl, annientata. «Ti ordino di strapparla!» La ragazza serrò i denti: «No!» L’altra allora gliela tolse con forza e la ridusse in tanti pezzi che sparse sul pavimento come una manciata di coriandoli. Quindi si avvicinò all’armadio, e in quel momento Liesèl seppe cosa stava per succedere: giù le mutande e legnate sul posteriore con la gruccia. «Misstück!!» ripeteva la matrigna mentre la colpiva. «Sei la rovina della mia famiglia!» Lukas, che aveva assistito alla scena, raggiunse la sorella nella sua cameretta con espressione crucciata. Liesèl non piangeva. Quella volta si era meritata la punizione, ma non

tollerava la frase della matrigna: Sei la rovina della mia famiglia! Come se lei non ne facesse parte, come se fosse un’appendice fastidiosa e sgradita. Ed era proprio così che Liesèl si sentiva da sempre, un elemento estraneo in casa, un impegno in più per la seconda moglie di suo padre che avrebbe voluto essere madre solo per Lukas. «Ti fa male?» domandò il ragazzino, con la voce un po’ tremula. Liesèl scosse la testa e mentì: «Per niente. E poi…lei non può farmi male perché non è mia madre!» «Ma è la mia», dichiarò lui con ignara convinzione. «Non è tua madre!» ribadì lei come già tante altre volte aveva fatto. «Non è né tua né mia. Lei non è la nostra vera madre». Allora lui corse da dalla matrigna e strillò: «Lo ha detto di nuovo! Che non sei la nostra vera mamma!» La verità era questa… Finita la guerra, molti avevano perduto ogni cosa, documenti compresi, e la matrigna dichiarò, su un atto ufficiale davanti a un’autorità della forza occupante, in questo caso gli americani, che solo il maschio era suo figlio biologico. Ma aveva firmato il falso. Essendo Liesèl la più grande, ricordava perfettamente i pochi anni che avevano trascorsi insieme alla loro vera madre, ma la matrigna continuava a tacciarla da bugiarda. E ancora una volta irruppe nella stanza brandendo di nuovo la gruccia: «Ci sarà pure qualcuno che ti farà passare la voglia di dire menzogne a tuo fratello!» In quel momento il padre dei ragazzi rientrò per la pausa pranzo e la donna dovette lasciar perdere. L’uomo non si schierava mai dalla parte della figlia, ma non voleva che la moglie la picchiasse. Dunque Liesèl si salvò dalla gruccia, ma in compenso la matrigna decise di mandarla via. In accordo con il marito, che assecondava sempre i suoi propositi, scelse un posto lontano, una via di mezzo tra collegio e convitto, dopo essersi assicurata che gli educatori fossero molto severi con gli allievi. Era ciò che voleva per una figliastra ribelle dalla memoria imbarazzante! Quando comunicò a Liesèl che sarebbe stata esiliata in un posto dove si applicava «una disciplina di ferro», la ragazza si spaventò. Immaginava un ambiente orribile nel quale l’avrebbero maltrattata e magari anche picchiata. A quel punto accettò di giurare che sarebbe diventata obbediente e mansueta e non avrebbe mai più ribadito la sua verità sulla propria madre, ma era troppo tardi, la matrigna l’aveva già iscritta. Liesèl sperò fino all’ultimo

momento che cambiasse idea, ma capì che non c’era più speranza quando l’altra cominciò a ricamare le sue iniziali sugli abiti che avrebbe dovuto portare al collegio che si chiamava Seeburg. Era una giornata raggiante fin dal primo mattino. Il padre abbracciò Liesèl molto rapidamente e andò al lavoro. Lukas invece si chiuse in bagno, sottraendosi alla scena d’addio. Si vergognava sempre un po’ di avere la lacrima facile. La matrigna, figlia verace della Germania, lo aveva educato alla forza e all’orgoglio maschile «alla tedesca». Ma Liesèl non voleva starci. Si piazzò davanti alla porta, decisa a non andarsene senza aver salutato il fratello. Continuava a bussare, ma lui restava zitto. Allora uscì e dall’esterno picchiò contro il vetro della finestra, che era bassa. Non ricevendo risposta vi assestò un pugno, frantumandolo. Solo in quel momento Lukas emise un grido di spavento. Subito la matrigna si precipitò fuori e, vedendo la mano sanguinante, andò su tutte le furie: «L’hai fatto apposta!» Non potendola tuttavia lasciare in queste condizioni, la spinse in casa per medicarla. «L’hai fatto apposta!» ripeteva, furiosa, e tra un Misstück e l’altro le garantì che l’avrebbe trascinata al collegio viva o morta. Terminata la fasciatura, Liesèl ritornò testardamente davanti alla porta del bagno, ma non ci fu nulla da fare: Lukas non voleva uscire. La situazione era assurda. Lei continuava a bussare, la matrigna premeva perché si avviassero, dal bagno nessun segno di vita e la mano ferita doleva terribilmente. Alla fine qualcosa dentro Liesèl cedette e la ragazza si arrese alla partenza. Costeggiarono la fabbrica adiacente dove lavorava suo padre, e proseguirono a piedi sulla Industriestrasse. Furono superate da una macchina nera e due camion diretti alla vicina cava di ghiaia, tra nuvole di polvere. Oltrepassando il ponte del fiume Salzach, che era gonfio e rumoreggiava contro i pilastri, imboccarono la Bahnhofstrasse. Liesèl reggeva la sua valigia con la mano sinistra, a causa della destra ferita. Aveva con sé solo poche cose utili per il collegio. Ciò che mancava avrebbe dovuto comprarlo in loco. La matrigna camminava davanti a lei, e Liesèl dispettosamente restava indietro. Fissava la nuca della donna sperando che inciampasse, che magari si slogasse una caviglia, incidente che l’avrebbe costretta a rinunciare al

viaggio, ma non successe. Aveva anzi un’ottima andatura e ogni tanto si voltava: «Alza quei piedi, sembri una lumaca!» Portava un abito a piccoli fiori azzurri che indossava nelle occasioni speciali, e ciò la rendeva a Liesèl ancora più estranea del solito. Un leggero scialle fatto a uncinetto e un piccolo cappello di paglia giallina completavano l’abbigliamento della donna. Liesèl invece aveva una gonna di tela beige fino al ginocchio e una maglietta marrone che detestava; non le piaceva per niente il color cioccolato. Si sentiva frastornata come se ciò che accadeva non fosse reale, o come se la sua anima fosse rimasta a casa in attesa che Lukas uscisse dal bagno per salutarla. Lei voleva molto bene al fratello, anche se litigavano spesso, per i motivi più futili. Ad esempio, Liesèl protestava sempre contro il suo metodo di infilzare le povere bestiole vive con uno spillo per la sua collezione di farfalle. C’era poca gente alla stazione, e il treno arrivò puntuale. L’interno sapeva di ferro e vecchio cuoio. Solo a Bischofshofen salì una donna con tre ragazzini, che immediatamente riempirono la carrozza di un inferno di gomitate, strilli e risate. La donna, che Liesèl immaginò fosse la madre, sorrideva imbarazzata dopo aver tentato invano di calmare la masnada scatenata. In circa un’ora e mezzo giunsero a Salisburgo dove presero quasi subito una coincidenza, che dopo trenta minuti le lasciò alla stazione di Seekirchen. Faceva caldo e il vicino lago Waller mandava abbaglianti schizzi di luce. La matrigna chiese a un uomo in calzoncini di pelle, che reggeva una gabbia con una gallina starnazzante, la direzione per il collegio. L’altro indicò un sentiero sterrato: «Sempre avanti!» Durante il tragitto in treno la donna non aveva parlato, ma ora tentò di avviare un’improbabile conversazione. «Avrei preferito non doverti accompagnare qui», dichiarò in un tono ambiguo quasi per giustificarsi. Liesèl posò la valigia per terra e la guardò con quel mezzo sorriso che l’altra usava definire insolente. Ma questa volta la matrigna non commentò. «Sai il motivo per cui ti sto portando in questo posto?» insistette la matrigna. La ragazza tacque, abbassò la testa e diede un calcio a un sasso. «Lo sai il motivo, non è vero?» Allora Liesèl scoppiò: «Tu non sei la madre di Lukas! Tu non sei la

nostra vera madre!» Lo vedeva bene, alla matrigna prudevano le mani dalla voglia di darle un ceffone, ma si trattenne perché stava passando gente. «Ecco perché ti trovi qui», concluse la donna, soddisfatta. La risposta della figliastra aveva rafforzato la sua convinzione di essere nel giusto. Le fece cenno di riprendere la valigia. Proseguirono in silenzio, rinchiuse entrambe nel vecchio rancore. Dopo aver attraversato un passaggio a livello, la stradina cominciò a salire, e davanti ai loro occhi si delineò sempre più nitidamente un’estesa struttura munita di muri di cinta, torrette d’angolo, e il tetto aguzzo di un campanile. Liesèl si fermò, incuriosita. Anche la matrigna si arrestò e sul suo viso comparve un’espressione perplessa. «Non può essere», disse, guardandosi attorno. Ma oltre a campi e frutteti con il fogliame variopinto da un’estate ormai finita, qualche casa contadina qua e là e il lago dal fulgido specchio celeste, non c’era nulla che ricordasse il luogo che si aspettava. A un tratto Liesèl comprese. Ricordò quella specie di dépliant che un giorno aveva visto in casa sul quale c’era un disegno a matita e sopra la scritta SCHLOSS SEEBURG. L’immagine sbiadita in bianco e nero di una stampa scadente riproduceva un luogo sfumato di grigio, tristezza e inospitalità. Più che un castello sembrava una prigione. Liesèl ne era rimasta molto turbata. «Andiamo a chiedere informazioni», decise la matrigna. Raggiunto un ponticello d’accesso, e dopo aver varcato una grande entrata ad arco, sbucarono in un cortile ombreggiato. Una donna, che indossava una sorta di casacca verde da lavoro, stava raccogliendo con un rastrello ramoscelli secchi e foglie rosse. La matrigna le chiese: «Mi scusi, ma è questo il collegio Seeburg?» L’altra appoggiò le mani sull’estremità del bastone e rispose: «Certo. Ma ancora non c’è quasi nessuno, la scuola comincia solo lunedì e la maggior parte dei ragazzi arriva alla domenica. Siete attese?» L’espressione costernata della matrigna tradì che qualcosa aveva decisamente stravolto i suoi piani. Erano attese, ma nel posto sbagliato! Entrarono dalla porta d’ingresso, che era già aperta. Una scala di pietra conduceva su un piano rialzato. Incontrarono una donna che indossava un camice da cuoca. La matrigna domandò dove avrebbero potuto trovare il direttore. La giovane rispose, gentile: «Aspettate qui, vado ad avvertirlo».

Quando tornò disse a Liesèl: «Puoi lasciare qui la valigia. Tranquilla, non te la ruba nessuno». Poi le accompagnò al terzo piano. Un uomo alto e magro con la barba, gli occhi seri e l’espressione severa, le ricevette in una stanza dai mobili scuri e una massiccia scrivania sulla quale c’erano una vecchia macchina per scrivere, una lampada, fasci di carte e un telefono nero. Le invitò ad accomodarsi su comode poltrone di cuoio. Liesèl vide su una parete il ritratto di un uomo che la incuriosì per il contrasto tra l’apparenza carismatica e lo sguardo assente rivolto all’infinito. «È Friedrich Nietzsche», disse il direttore, avendo notato il suo sguardo. «Un grande filosofo tedesco, ma in questa foto era già molto malato». Si rivolse alla matrigna: «Avete fatto buon viaggio?» Lei rispose affermativamente e ammise che il dépliant che aveva ricevuto tempo addietro per posta le aveva fornito un’idea molto differente del collegio. «Spero che l’originale sia una piacevole sorpresa», auspicò l’uomo, gentile. «Purtroppo il tipografo giù al paese non è troppo aggiornato sulla moderna tecnica di stampa. Ha più di settant’anni». «Oh, sono rimasta davvero molto ben impressionata!» assicurò la matrigna, pronunciando una delle sue bugie più clamorose. Il direttore domandò a Liesèl che cosa le fosse successo alla mano, ma la donna si precipitò a rispondere al suo posto: «Non è niente, solo un graffio. Questa figliola è sempre così sbadata, sapesse!» Mentre il direttore cominciava a spiegare a Liesèl le regole del collegio, entrò sua moglie, una donna semplice dalla grazia schiva e cortese. Indossava un vestito dal taglio geometrico color ruggine che Liesèl trovò molto elegante. La donna diede la mano a entrambe, sorrise amabilmente, disse alla ragazza: «Spero che ti troverai bene da noi», e se ne andò. In seguito Liesèl avrebbe visto e parlato solo con lui, che si faceva chiamare Heimvater. Alla fine la matrigna dovette compilare e firmare un documento e depositare il denaro per la retta e l’acquisto delle necessità scolastiche della figliastra. Se ne andò prima di pranzo, malgrado l’avessero invitata a restare. Sembrava che non vedesse l’ora di filarsela. Liesèl la seguì con lo sguardo dalla finestra di un corridoio. Assurdamente aspettò che si voltasse e alzasse la mano per un ultimo saluto, ma la donna non lo fece.

A poco a poco la sua figura rimpicciolì mentre si avvicinava al passaggio a livello, finché scomparve nel nulla. Fu quel nulla, il dissolversi nella sottile foschia di quel giorno che causò a Liesèl un senso di profonda angoscia. Quella donna, che l’aveva sempre fatta sentire non amata e che lei, certamente, aveva ricambiato con il suo non-amore; lei, che l’aveva combattuta e denigrata e malmenata e internata anche da piccola in istituti dove si accoglievano i figli scomodi o non voluti, ora proprio lei era diventata l’unico appiglio che le avrebbe potuto confermare di avere una famiglia. Ed era anche la sola che, volendo, avrebbe potuto riportarla indietro. Indietro da suo padre e da Lukas che amava, che erano tutto ciò che aveva, oltre ai nonni paterni, ma quelli erano rimasti nella loro casa sul lago e chissà quando li avrebbe rivisti. Ora anche la matrigna se ne era andata lasciandola al suo destino. Si sentiva abbandonata in quel corridoio deserto. Il resto era estraneo, sconosciuto, un’incognita che all’improvviso le gravava sul cuore come un’oscura minaccia. Le mancò il respiro, fu colta da un attacco di panico. Allora scappò fino all’imbocco della scala, si precipitò giù e raggiunse il cortile. La donna del rastrello non c’era più. Infilò l’entrata ad arco e sbucò all’aperto.

2

Si fermò e, trovandosi all’improvviso esposta alla luce abbagliante, la vista le si appannò. Il cuore batteva forte. Rimase per qualche istante con gli occhi chiusi finché, riaprendoli, il fenomeno non scomparve. Il respiro tornò normale. Poi una lieve brezza cominciò ad asciugare il sudore sul collo e sulla fronte e anche il tremore alle gambe cessò. Passata la crisi si guardò attorno. Alla sua sinistra scorreva un pezzo di muro popolato di uccelli, davanti a lei invece si estendeva il bianco sentiero sul quale si era allontanata la matrigna. A un tratto si arrabbiò con se stessa. Come aveva potuto sentirsi abbandonata proprio da lei che l’aveva scaricata al collegio perché non la voleva nella sua vita! Insieme allo sdegno sentì brontolare lo stomaco. Era a digiuno fin dalla tazza di pane e latte del mattino, ma ora cosa doveva fare? Rientrare per avere qualcosa da mangiare, o godersi ancora qualche momento di libertà? Scelse la seconda opzione. Immaginava che, una volta tornata dentro, sarebbe stata travolta dal regime «di ferrea disciplina» che la matrigna le aveva annunciato con tanta perfida soddisfazione. Il collegio doveva essere una punizione, perché troppe volte Liesèl aveva ripetuto al fratello che la sua «mammina» non era la loro vera madre. Tante volte, finché non era giunta quella di troppo. Scese dal ponticello e costeggiò un tratto di muro. Proseguì sulla destra fino a una torretta dal tetto a cono che faceva angolo. Da lì cominciava un prato in salita. Lo percorse e, raggiunto il punto più alto, finalmente riuscì a vedere il lago! Si sedette sull’erba per contemplarlo. Lo specchio d’acqua era appena increspato e il profilo azzurro della sponda opposta appariva molto più vicino di quanto Liesèl fosse abituata a vedere sul lago dei nonni. Là dove avevano trascorso alcuni anni dopo aver

lasciato la Germania. Era stata felice, in quel luogo, ma i nonni erano lontani e lei ora era sola! Sola… la parola echeggiò, opprimente, nel suo cuore. Si trovava in un posto sconosciuto su un prato sconosciuto con davanti un castello sconosciuto nel quale educatori severi l’avrebbero trattata con durezza, e non avrebbe avuto nessuno a difenderla. Sapeva che avrebbe sofferto perché conosceva il suo carattere ribelle. La convivenza con la matrigna l’aveva resa combattiva. Quando la accusava di qualcosa che non aveva commesso, e succedeva spesso, Liesèl si difendeva con grinta, anche se alla fine la perdente era sempre lei. La matrigna si imponeva con la gruccia e finiva per essere la più forte. Una volta Liesèl le aveva perfino morso la mano, ma l’altra si era imbestialita talmente che sembrava volesse ucciderla! E, tuttavia, lei non aveva mai osato lamentarsi con il padre. La matrigna avrebbe negato e lui avrebbe creduto solo a lei. Il pensiero di suo padre la rattristò. Nemmeno lui le voleva bene, altrimenti non avrebbe permesso il suo allontanamento. Per un po’ lottò contro le lacrime, poi si lasciò andare. La nonna usava dire: «Gli angeli sono vicini a chi piange». Ma non sentiva nessun angelo nei pressi, solo il ronzio fastidioso di un calabrone! Quando l’insetto si posò sul suo braccio, la ragazzina saltò in piedi e si mise a correre tra l’erba alta. A un tratto si trovò davanti a una fattoria. Intorno a lei, tante galline e due grossi tacchini dal collo nudo si beccavano, emettendo versi stridenti. Un uomo anziano su una sedia fumava la pipa. Liesèl era sul punto di scappare, ma lui la chiamò: «Vieni qui! Non avere paura». Si avvicinò, intimorita. L’uomo diede una lenta tirata a una pipa dal bocchino curvo e domandò: «Chi sei? Come ti chiami?» Disse il suo nome con riluttanza. «Dove abiti? Non ti ho mai vista». Lei indicò una direzione a caso: «Abito là…» Lui indossava una camicia a scacchi bianco-azzurri e pantaloni di pelle scura retti da un paio di bretelle. «Tu non sei di queste parti», disse, tranquillo. «Sì invece!» insistette Liesèl. «Sono abbastanza vecchio da riconoscere le bugie, ragazzina!» Disarmata lei abbassò la testa e si fissò le scarpe.

«Cosa è successo alla tua mano?» Liesèl non voleva ammettere di aver frantumato un vetro, così rispose che l’aveva graffiata un gatto. Una voce femminile gridò: «Nonno, è pronto!» Vide una donna molto giovane, con una treccia color grano fissata attorno al capo e un vestito con il corpetto aderente, le maniche a sbuffo e la gonna larga e azzurra. L’uomo strizzò l’occhio alla bambina: «Hai fame?» Eccome se aveva fame! Fu invitata in casa a condividere il pranzo con loro. Quando il vecchio si alzò, Liesèl si accorse che camminava malamente sorretto da un bastone. Conobbe anche il marito della signora, un uomo abbronzato con le spalle larghe che sapeva di stalla. L’interno era fresco e la Stube, con la cucina tirolese, le sedie con il cuore intagliato nello schienale, la stufa verde in ceramica e il pendolo che batteva pensoso, era molto accogliente. C’erano una zuppa di gnocchi al fegato e il pollo fritto. Un micione bianco e arruffato miagolava vicino al tavolo, e quando l’uomo gli allungò un pezzo di carne, la nipote protestò: «Nonno, il gatto deve cacciare i topi! Lo stai viziando». Liesèl si saziò senza fare complimenti e in seguito si trovò di nuovo all’esterno con il signore anziano che riaccese la pipa. «Sei scappata dal collegio», stabilì lui, placido. «Non è vero!» «Oh, sì. Quando sei arrivata?» «… oggi». «Chi ti ha portato?» «La mia matrigna. Se n’è andata ma non importa! Non me ne importa niente!» Aveva alzato la voce e le era venuto il fiato corto per lo sforzo di essere convincente. «Così non hai più la mamma?» La domanda la infastidì e, per evitare spiegazioni, disse una bugia: «Lei è morta». «Mi dispiace molto. Quanti anni hai?» «Quasi quattordici». Ci fu una pausa e Liesèl cominciò a temere le conseguenze della sua fuga. «È tempo che mia nipote ti riaccompagni», decise infine l’uomo. «Ma puoi ritornare quando vuoi, io sono sempre qui. Ti piace il Seeburg?»

«Non so…» «Vivrai in un castello medioevale, sai cosa significa?» «Che è vecchio». «Diciamo assai vecchio», sorrise lui. «Un tempo vi abitava gente nobile. Dentro c’è anche una cappella con un bellissimo affresco sul soffitto che raffigura la morte di san Ruperto. Dicono che il Seeburg rappresenti un grande valore artistico e culturale per la nostra regione. Quando sarai grande ti ricorderai di aver soggiornato in un posto bello e importante come questo. Sotto c’è perfino un ossario». «Ossario?» ripeté Liesèl con un brivido. «Già. Devi assolutamente visitarlo». «Visitare un ossario?» fece lei con un risolino perplesso. «È molto interessante», dichiarò lui, serissimo. «Ci sono urne e teschi e ossa umane, roba da far accapponare la pelle». La nipote aveva ascoltato le ultime frasi ed esclamò: «Smettila, nonno, le stai facendo paura!» Allora lui le strizzò di nuovo l’occhio: «Se posso darti un consiglio, ragazzina, cerca di fare la brava al collegio perché il direttore usa far scontare le punizioni nell’ossario». La giovane gli diede una tiratina alla barba: «Adesso basta!» E, rivolta a Liesèl: «Ora ti riporto giù». «Posso andarci da sola», propose lei, ma l’altra scosse la testa: «No, mia cara, non mi fido». L’uomo disse: «Torna presto, così parliamo un po’. Ti aspetto». Scesero lungo il prato, facendo scappare alcune mucche. «Sono le nostre», disse la donna, e c’era orgoglio nella sua voce. «Una è incinta. Quando partorirà potrai venire a vedere il vitello». «Non mi piacciono i vitelli», rispose Liesèl. Perché aveva detto una bugia? «Strano, piacciono a tutti», si stupì la giovane. «Ma fai come vuoi». Nei pressi del castello udirono delle voci che chiamavano il suo nome. Liesèl fu presa dalla paura. Fu raggiunta per prima dalla donna che al loro arrivo stava rastrellando il cortile. «Dove ti sei cacciata, benedetta ragazza?» domandò in tono di rimprovero. «Eravamo in pensiero! Dovrai rendere conto al direttore, e sarà meglio che tu possa trovare una giustificazione valida. Scappare via come

una lepre, è il colmo!» A Liesèl venne l’impulso di fuggire di nuovo, ma l’altra la pigliò per un braccio e la guidò decisamente verso l’arco d’entrata.

3

La ricondussero nel castello e salirono al refettorio. «Io sono Frau Gerta», dichiarò la donna del rastrello e, indicando le altre due che l’avevano cercata: «Fräulein Elsie, la nostra cuoca, e Jula, lavapiatti e aiuto-cuoca». Più avanti Liesèl avrebbe saputo che Frau Gerta, occhi nocciola, testa ricciuta e carattere brusco, era addetta alle pulizie del Seeburg e si occupava anche della lavanderia. Ogni domenica mattina i collegiali dovevano consegnare la propria biancheria sporca per il bucato. Poiché su ogni capo c’erano le iniziali, non si rischiava confusione. Elsie e Jula, dopo aver rivolto a Liesèl occhiate di rimprovero, si ritirarono in cucina, Frau Gerta invece le chiese se avesse fame. La ragazza rispose di aver pranzato con dei contadini, accompagnando la frase con un moto della testa a indicare un luogo fuori dal collegio. «Ah, dagli Hogler! Brave persone. Ma non avresti dovuto disturbare». «Non ho disturbato!» protestò lei. «Mi hanno invitata». Frau Gerta la esortò a prendere la sua valigia. Solo in quel momento Liesèl la vide appoggiata contro un muro. Poiché la donna si era avviata senza dire altro fu costretta a seguirla. «Dal direttore ci andrai più tardi», dichiarò Frau Gerta strada facendo. «Dovrai rendere conto della tua fuga». «Non sono fuggita!» Frau Gerta si fermò e chiese in tono ironico: «E come la chiameresti? Una passeggiatina giusto per farci preoccupare?» Restarono sullo stesso piano, e quando svoltarono il corridoio arrivarono alla sala da studio delle femmine; quella dei maschi si trovava dall’altra parte della struttura. Un ambiente spazioso e pieno di luce. Il resto delle ragazze era ancora assente, ma l’eco di tante voci sembrava essersi raccolta negli angoli per poi unirsi ai suoni delle

nuove arrivate. L’arredamento consisteva in diversi tavoli con sedie, uno scaffale con una decina di libri, un crocifisso sul muro, due foto sbiadite e incorniciate del Seeburg datate anni Trenta, un pannello di cartoline che le ragazze avevano spedito dai luoghi delle vacanze estive, un acquarello del vicino lago Waller e infine, su un ripiano in alto, una radio. C’erano tre finestre. Due guardavano il sentiero sul quale si era allontanata la matrigna, la terza apriva la vista su un pezzo di muro di cinta ancora popolato di uccelli. Più in là stava la solita torretta. Uscendo dalla sala Frau Gerta le mostrò un grande scaffale che occupava buona parte di una parete. Ogni studentessa ne avrebbe avuto a disposizione uno scomparto per deporre le cose di scuola e la cartella. Liesèl era senza cartella, quella vecchia, in similpelle, si era troppo sciupata e la matrigna non aveva voluto che la portasse al collegio. Lunedì avrebbe dovuto comprarne una nuova in paese insieme a quaderni e libri di testo. Lasciando la zona studio procedettero a sinistra nel corridoio stretto, giungendo alla cappella. Entrarono da una porta scura e pesante. Liesèl posò la valigia e, facendo scorrere lo sguardo, ammirò i bellissimi stucchi a rilievo. «Li ha fatti un artista di nome Benedikt Zöpf», disse Frau Gerta. «L’altare invece è dedicato a san Ruperto». L’atmosfera suggestiva del luogo era resa più intensa dalle alte finestre ad arco le cui tessere colorate generavano un gioco di luci variopinto. L’intenso odore d’incenso che gravava nell’unica navata stordiva un poco la ragazza. Dopo una breve sosta Frau Gerta annunciò: «Ora ti mostro i dormitori delle femmine». Si spostarono al secondo piano: due ampie camerate ognuna con una quindicina di letti dalle testate in metallo verniciate di bianco, con accanto piccoli comodini anch’essi in metallo. Nell’unico cassetto avrebbero dovuto riporre spazzolino e dentifricio, la saponetta privata, pettine e spazzola. Frau Gerta le assegnò un letto nella stanza delle ragazze più grandi. Dalla finestra si vedeva la casa dove aveva pranzato. Si domandò: perché ho detto che non mi piacciono i vitelli? Che sciocchezza! Quando abitavano dai nonni aveva visto nella vicina fattoria dei vitellini appena nati e li aveva trovati adorabili, ancora così incerti sulle gambe e con quegli occhioni di umida innocenza che guardavano il mondo con una fiducia totale. Aveva detto una bugia stupida! Frau Gerta la informò che la sveglia era alle cinque e quarantacinque, e

che si accedeva al bagno in tre turni suddivisi tra le collegiali di entrambe le camerate. Ognuna aveva circa otto minuti per lavare la faccia, i denti, e quindi rifare rapidamente la branda. Il bagno era dotato di otto lavandini con sopra piccoli specchi, i due gabinetti erano separati. L’asciugamano umido andava steso sulla spalliera del letto. Liesèl apprese anche che nel sotterraneo dell’edificio esisteva un grande impianto docce del quale avrebbero dovuto servirsi, sempre a turno, durante il sabato pomeriggio, prima le femmine e poi i maschi. A un tratto Frau Gerta la guardò pensosa: «Mi chiedo perché tua madre sia scappata via così in fretta». «Non è mia madre!» precisò Liesèl. «È solo la matrigna». «Scusami, non lo sapevo. E come vanno le cose fra voi? Andate d’accordo?» «Solo i nonni mi vogliono bene!» sbottò Liesèl. «Quando siamo arrivati dalla Germania il nonno ha fatto trovare a me e mio fratello una capanna sull’albero e un’altalena e…» «Durante la guerra siete vissuti in Germania?» «Sì». Di nuovo Frau Gerta la guardò in un certo modo, poi fu lei a prendere la valigia: «Forza, Liesèl, devo mostrarti ancora la soffitta». Era la prima volta che la chiamava per nome. Salendo le scale spiegò: «Il terzo piano è suddiviso in due parti: una, con ingresso indipendente, è l’abitazione del direttore, nell’altra ci sono i dormitori dei ragazzi. Il direttore e la moglie consumano i pasti a casa loro». L’ultima rampa, ed ecco la nodosa porta di legno della soffitta. Entrarono. Frau Gerta azionò un interruttore che diffuse una luce discreta, non forte. La soffitta occupava l’intero sottotetto e ciò che saltava subito all’occhio erano decine di armadietti raggruppati in tre blocchi. Nell’ambiente ristagnava il secco torpore della giornata trascorsa, ancora molto calda per la stagione. C’era odore di vecchia polvere unito a quello di roba in disuso abbandonata a un’esistenza mesta e solitaria. In fondo nella penombra Liesèl intravvide la sagoma di un divanetto, una sedia a dondolo e un manichino da sarta. Incuriosita fece per avvicinarsi, ma Frau Gerta la richiamò: «Dobbiamo spicciarci, signorina!» Le assegnò un armadietto. Tre cassetti in fondo e sopra lo spazio per sei, sette grucce.

«Più tardi ti darò un autoadesivo sul quale scriverai il tuo nome». Mentre Liesèl svuotava la valigia, Frau Gerta spiegò: «Ogni sera dopo cena tutti i collegiali saliranno qui per scegliere il vestito, le scarpe o la biancheria che serviranno per il giorno seguente. A turno sarà presente l’educatrice delle ragazze o quello dei ragazzi. Metti la valigia in cima. Sbrigati, ho anche altro da fare». Giunte dabbasso Frau Gerta la lasciò nella saletta da studio: «Aspettami qui, più tardi verrò per accompagnarti dall’Heimvater. Vorrà una spiegazione per la tua fuga. È un buon uomo, ma molto, molto severo. Sei avvisata». Se ne andò. Liesèl fu presa dall’agitazione. Avrebbe dovuto giustificare la sua fuga, parlargli della crisi di panico che l’aveva assalita vedendo allontanarsi la matrigna, ma se ne vergognava. Avrebbe fatto scena muta, si conosceva. La nonna diceva che in certe situazioni diventava cocciuta come un mulo. Il direttore si sarebbe arrabbiato e come punizione l’avrebbe rinchiusa nell’ossario. Rinchiusa tra urne e teschi! Il pensiero la fece sudare freddo. Le mancava il fiato. Andò alla finestra e la spalancò. Inspirò avidamente l’aria fresca. Il cielo aveva perso la luminosità del pomeriggio, stava calando la sera. Sulla sinistra, tagliando in due un pezzo di pianura, passò un treno che ruppe il silenzio con il suo sferragliare. Avrebbe fermato a Seekirchen e poi a Salisburgo. Per andare a Sankt Johann si doveva prendere la coincidenza. La matrigna ormai era arrivata a casa, soddisfatta di averla scaricata al Seeburg! E non aveva potuto salutare Lukas. Non era giusto! Si sentiva molto triste. Cercò di evocare ricordi lieti. La nonna usava posarle una mano sul capo con un gesto così dolce che il calore le riempiva l’anima. Era un ricordo bello. Ma subito fu offuscato da uno triste. Suo padre amava il figlio maschio più di lei, ma lei voleva tanto bene al papà! Una volta lo aveva trovato seduto solo in cucina e gli aveva messo la mano sulla testa come faceva la nonna, ma lui era sussultato. Sembrava spaventato da qualcosa e l’aveva allontanata con un gesto brusco. Lukas invece spesso gli si sedeva sulle ginocchia e ridevano insieme e si vedeva che erano uniti dall’affetto. Doveva essere così tra genitori e figli! Lei invece era sempre stata esclusa da tutto questo e a volte si era sentita così sola e rifiutata che per qualche momento aveva odiato il padre. Ma solo per poco. L’amore per lui finiva sempre per essere più forte.

Fuori sul muro di cinta gli uccelli se ne erano andati e il sentiero sul quale si era allontanata la matrigna non era più bianco, ma grigio. Scorse un uomo con un cappello di paglia in testa che avanzava verso il castello. Tirava un carretto e camminava lentamente, le spalle curve. A poco a poco, Liesèl riuscì a distinguere che trasportava tre sacchi pieni, probabilmente molto pesanti. Poi lui si fermò, estrasse da una tasca del giacchino un fazzoletto, si terse la fronte e alzò il viso. Le fece un gesto di saluto. Liesèl glielo restituii. «Sei nuova al Seeburg?» le gridò. Annuì. Lui rimise a posto il fazzoletto, alzò la mano in un gesto di congedo e se ne andò. Sparito dalla sua visuale sembrava che il mondo si fosse svuotato di ogni essere vivente! All’improvviso desiderò solo un posto dove potersi nascondere e piangere. Piangere senza che nessuno la considerasse una frignona. Prese una decisione. Si avvicinò alla porta e aprì uno spiraglio. Non percepiva né rumori né voci. Uscì e, in punta di piedi, raggiunse la scala. Salì rapidamente i gradini a due a due e, senza incontrare nessuno, arrivò in soffitta. Entrò e azionò l’interruttore come aveva visto fare da Frau Gerta. Appena dentro scoppiò in lacrime. Fu uno sfogo breve ma intenso che la lasciò come svuotata. Quando il respiro si fu calmato si guardò attorno. Esitò, poi andò a curiosare negli angoli della soffitta per vedere ciò che sonnecchiava in fondo, nella penombra. C’erano la sedia a dondolo, molto malmessa, una macchina da cucire a manovella, casse di bottiglie di birra vuote e il manichino da sarta montato su una base in legno. Le forme generose dovevano essere servite per confezionare vestiti per signore ben in carne. Un po’ più in là due tavoli da giardino, un tosaerba e diverse sedie impolverate. Terminata la perlustrazione si accostò al divanetto e si sedette. Vi sprofondò dentro. Sentiva l’odore di vecchia stoffa, un po’ acidulo ma non sgradevole. Accartocciata in quella posizione si guardò intorno. In alto scorse alcuni abbaini che mandavano una luce ormai crepuscolare. Vicino alla porta invece si allineavano gli armadietti ancora vuoti, a eccezione del suo. Era stata la prima ad arrivare al Seeburg, quanta fretta aveva avuto la matrigna di liberarsi di lei! Passò qualche tempo e il silenzio cominciò a premerle sui timpani. Se potessi dormire un po’, pensò, solo per pochi minuti. Si sdraiò. Una molla sporgente le premeva contro la schiena.

Poi fissò il soffitto alto, le travi scure che reggevano il tetto. La luce degli abbaini si affievolì finché i vetri non riflessero il buio. Rimase distesa con un misto di angoscia, inquietudine e sensi di colpa. Alla fine cadde addormentata. Fu svegliata da voci confuse. Il cuore le batteva in gola. «È qui!» gridò Frau Gerta, «grazie al cielo!» La donna avanzò verso il divanetto, seguita dalla cuoca, dall’aiuto-cuoca e dall’Heimvater. Liesèl balzò in piedi, atterrita. Anche il direttore si avvicinò. «Benedetta figliola, nessuna ragazza ci ha mai procurato tanta preoccupazione in così poco tempo!» Liesèl stava lì, rigida, senza fiato, in attesa che venisse giù il mondo! Invece lui le sfiorò la guancia: «Ne parleremo un’altra volta, vuoi? L’importante è che stai bene. E ora basta con le fughe, me lo prometti?» Lei annuì, paralizzata dalla sorpresa e dal sollievo. «E fatti dare qualcosa da mangiare», aggiunse l’uomo, facendo un cenno verso la cuoca. Liesèl si accorse di colpo di avere molta fame.

4

Tornarono dabbasso, l’Heimvater si fermò alla sua abitazione. La moglie lo attendeva alla porta e, vedendo la ragazza, disse con un sospiro: «Che sia ringraziato il cielo». Liesèl proseguì con le altre donne. Giunte al refettorio la vide subito. Era seduta a uno dei lunghi tavoli con l’espressione cupa. «Lei è Annika», annunciò Frau Gerta. «È arrivata stasera con la macchina, ma suo padre è dovuto ripartire subito. Questa invece è Liesèl. Adesso vi faccio preparare qualcosa da mangiare. Intanto voi due fate conoscenza». Le si sedette vicino: «Hallo». «Hallo!» fece Annika, secca. Era molto carina, anzi proprio bella. Capelli biondissimi raccolti alla nuca in un’unica treccia, occhi chiari e naso corto e dritto. Indossava un vestito a piccoli pois bianco-blu con la scollatura rotonda e un’ampia gonna a ruota. Nel frattempo Frau Gerta confabulava con la cuoca attraverso il passavivande, che comunicava con la cucina. Quando arrivarono i canederli alle prugne, Liesèl vi si gettò con voracità. Seguì un trancio di strudel di mele del quale riuscì ad avere una porzione supplementare. Annika invece non mostrò alcun entusiasmo per il cibo, anzi, lasciò nel piatto buona parte dello strudel. Terminata la cena, Frau Gerta invitò entrambe a seguirla in soffitta, ma appena Annika vide il suo armadietto protestò: «È troppo piccolo! Non ci entra nemmeno metà dei miei vestiti». Frau Gerta rispose a tono: «Mi dispiace, ragazzina, ma è tutto ciò che posso offrirti. E adesso metti a posto la tua roba». Poiché non si muoveva, la donna disse: «Forse è meglio che chiami il direttore, così ti lamenterai con lui». Solo allora la ragazza cominciò, con aria

stizzita, a riempire l’armadietto che al termine sembrava sul punto di scoppiare. Infine le due ragazze raccolsero, come suggerito da Frau Gerta, ciò che sarebbe loro servito per la pulizia personale, durante la notte e la mattina seguente, poi scesero nel dormitorio. «Ora vi insegno a preparare i letti», annunciò Frau Gerta. Annika spalancò gli occhi. «Preparare i letti? A casa mia era compito della governante!» «Be’, carina, qui non sei al Grand Hotel», tagliò corto Frau Gerta e consegnò a entrambe i coprimaterasso. «Su, forza! Stendeteli, tirate gli angoli, spianate le grinze e poi sistemate le lenzuola di sotto». E via di questo passo. Annika sbottava, sbuffava, fingeva di non capire e faceva ogni cosa al contrario. Passò così molto tempo finché Frau Gerta non perse la pazienza: «Devo proprio ricorrere all’aiuto del direttore? Non ho tempo da perdere, signorina!» Anche questa volta la bisbetica si arrese alla parola «direttore» e terminò l’operazione con sorprendente precisione. Dopo un ultimo sguardo di controllo, Frau Gerta indicò l’interruttore dell’illuminazione da soffitto, poi quello della luce di sicurezza, augurò la buonanotte e le lasciò sole. Per un attimo si fissarono incerte, infine Annika le voltò le spalle e Liesèl si spostò alla finestra. Fuori era buio fitto, ma poteva vedere una finestra illuminata della casa contadina dove aveva pranzato. Quando si girò, l’altra era sparita, ma sentì lo sciacquone di uno dei gabinetti. Dopo un po’ ricomparve, rigida e immusonita, prese l’astuccio con gli accessori per il bagno e si dileguò di nuovo. Liesèl aveva notato che il suo astuccio, di pelle rossa e dotato di cerniera, era molto elegante, al contrario del suo che consisteva in un sacchetto di tela chiuso con due lacci. I suoi genitori devono essere ricchi, realizzò Liesèl, è una viziata figlia di papà! Si sedette sul bordo del letto in attesa degli eventi. Infine l’altra tornò, si spogliò, indossò la camicia da notte, anche questa dall’aspetto costoso, scivolò sotto le coperte e girò il capo verso il muro. Liesèl indugiò un poco, poi prese il sacchetto e a sua volta si ritirò nel bagno. In seguito mise la camicia da notte di flanella grigia, accese la luce notturna, spense quella da soffitto e si coricò. Chiuse gli occhi sperando di addormentarsi presto, era stata una giornata lunga e piena di eventi, ma al contrario era sempre più sveglia. A un tratto

sentì chiedere: «Tu perché ti trovi qui?» Qualche secondo di stupito silenzio, poi Liesèl rispose: «La mia matrigna non mi vuole tra i piedi». «Anche tuo padre non ti vuole tra i piedi?» «No. E tu perché sei qui?» L’altra tacque per un po’, alla fine si sfogò: «I miei genitori non hanno tempo per me! Mia madre è una cantante ed è sempre in tournée, a volte per mesi. Mio padre ha un atelier di abiti da donna e alla sera torna a casa tardi e molto stanco. Non è che non mi voglia bene… anzi, me ne vuole, mi compra tutte le cose che desidero, ma non lo vedo quasi mai. Spesso parte per il fine settimana e io sto sempre con la governante. Ma la odio!» Ridacchiò con un suono strano, cattivo: «È brutta e stupida! Lei mi comanda e io non ubbidisco. Faccio sempre il contrario di quello che mi ordina. Una volta sono scappata di casa per protesta e mio padre si è arrabbiato moltissimo e ha detto che mi avrebbe mandata in un collegio se lo avessi fatto ancora. Quando l’ultimo Natale mia madre è tornata a casa per una settimana, io le ho detto che mi sentivo sola con la governante e le ho chiesto per quanto tempo avrebbe continuato ad andare in tournée. Lei ha risposto che lo avrebbe fatto finché fosse stata giovane. Quindi ancora per molto tempo! Quando è partita di nuovo sono scappata ancora e mio padre si è fatto preparare da un’agenzia un elenco di tutti i collegi del paese. Alla fine ha scelto il Seeburg. Ma io lo detesto! Voglio che il castello vada a fuoco. Hai capito? A fuoco». Con questo si girò di nuovo verso il muro e tacque. Liesèl si addormentò tardi, e al risveglio aveva l’impressione che fosse ancora molto presto. Sentiva freddo. Si alzò, buttò la coperta sulle spalle e andò alla finestra. La casa dei contadini era avvolta in un sottile velo di nebbia, ma dal comignolo saliva del fumo. Immaginò che la nipote stesse preparando la prima colazione per il nonno e il marito, e si ripromise di tornare presto da loro. Annika era ancora immersa nel sonno, ma appena Frau Gerta aprì la porta balzò su e si sedette sulla sponda con aria smarrita. Si guardò attorno come se faticasse a rientrare in una realtà che la notte aveva stemperato, finché sul suo volto non ricomparve la solita smorfia arrogante. «A che ora servono qui la colazione?» domandò in tono provocatorio, ma Frau Gerta la ignorò perché aveva fretta.

«Fra venti minuti vi aspetto al refettorio! Stamattina assisteremo alla messa in cappella. Sbrigatevi!» E già non c’era più. Annika si stiracchiò nella sua lussuosa camicia da notte ed evitò lo sguardo di Liesèl. Ma lei fece altrettanto. Non è solo ricca, pensò, ma anche antipatica, meglio lasciarla perdere. Prese il suo sacchetto e sparì nel bagno. Si affrettò di proposito. Tornò in camerata, si vestì in un attimo, sistemò il letto e scese nel refettorio. Annika arrivò con dieci minuti di ritardo e Frau Gerta l’accolse con un rimprovero: «Avevo chiesto di sbrigarvi, sei troppo lenta, ragazza!» Per colazione c’era del caffelatte e due fette di pane nero spalmate di burro e marmellata. Liesèl ritirò la sua razione al portavivande. Alla comparsa di Annika aveva già finito, e intanto l’altra si accomodò al tavolo come se aspettasse la cameriera. A Liesèl scappò un sorriso, a dire il vero un po’ dispettoso, quando Annika finalmente capì che, se non fosse andata a prendersela, non avrebbe avuto la colazione. Probabilmente spinta dalla fame, si alzò con una smorfia sdegnata, ritirò la sua parte e in cinque minuti aveva spazzato via ogni cosa. Raggiunsero la cappella insieme a Frau Gerta. Li attendevano l’Heimvater con la moglie, la cuoca, l’aiuto-cuoca e alcuni uomini e donne che abitavano nei dintorni. Nel pomeriggio l’atmosfera al castello cambiò rapidamente, perché arrivarono i collegiali. I nuovi accompagnati da uno o entrambi i genitori, alcuni veterani da soli. Il Seeburg si riempì di voci e rumori e dell’incessante scalpiccio sulle scale per salire all’ufficio dell’Heimvater. Liesèl e Annika si trovarono sole nella sala studio delle femmine in attesa dei prossimi eventi. Annika era in ghingheri. Si era già cambiata, la fanatica! Ora indossava una camicetta bianca a maniche lunghe con bottoncini argentati, e pantaloni neri a metà polpaccio. All’improvviso Liesèl si vergognò della sua semplice gonna arricciata a fiori gialli, e della maglietta marroncino ormai stinta a causa dei ripetuti lavaggi. La sbirciò di sottecchi: stava su una sedia, le gambe allungate, e si osservava compiaciuta le scarpe, anch’esse sicuramente costose. Poi alzò lo sguardo e squadrò Liesèl da capo a piedi come se fosse coperta di stracci. Allora lei pensò: se ironizza sulla mia gonna le darò una sberla. Ma in quel momento entrò una donna che si presentò come la loro educatrice. Era ancora giovane, forse appena sopra la trentina. Snella, non molto alta,

capelli castano chiari, corti, un po’mossi. Portava un tailleur color carta da zucchero, la giacca stretta in vita da un cinturino. Sotto la giacca una maglietta blu a girocollo. Lo sguardo era diretto, seppure discreto, come se celasse qualcosa di prezioso da proteggere. Si chiamava Fräulein Josefine. Annika si fece subito grande, parlò della madre famosa cantante e del padre che gestiva un atelier di abiti da signora frequentato da clienti ricche. Ma a Liesèl non sfuggì il lieve moto di fastidio che la sua irruenza aveva suscitato nell’educatrice. In seguito l’attenzione di Fräulein Josefine si concentrò sulla mano fasciata di Liesèl. Si informò di cosa le fosse successo. Lei ripeté la bugia del gatto che l’aveva graffiata, ma se ne vergognò subito. L’altra volle verificare lo stato delle ferite e insistette per rimuovere le bende. Effettivamente la situazione non pareva grave. Tuttavia andò a recuperare la cassetta del pronto soccorso e rifece la medicazione. Liesèl le disse di amare la lettura, e parlarono un poco di libri. Fräulein Josefine accennò allo scaffale sul quale si allineavano una decina di volumi: «Potrai prenderli in prestito». «Ho già controllato», rispose Liesèl. «Li conosco tutti». Nel tardo pomeriggio, quando anche gli ultimi familiari furono partiti, e ogni collegiale ebbe assegnato il suo letto e l’armadietto, ci fu il discorso di benvenuto dell’Heimvater. Si trovarono stipati nella sala da studio delle femmine perché, come avevano spiegato, quella dei maschi era più piccola. La maggior parte degli studenti stava in piedi a causa delle poche sedie disponibili, e Liesèl si accorse che Annika si era piazzata accanto al ragazzo che senza alcun dubbio era il più bello tra quelli presenti. L’Heimvater auspicava una serena e civile convivenza fra studenti e educatori e si appellava al rispetto verso le persone che lavoravano all’interno della struttura. Sollecitava l’osservanza del ritmo, delle regole e degli orari stabiliti dalla direzione ed esortava al senso di responsabilità al quale erano chiamati nel godere di quella libertà che il collegio concedeva con fiducia ai suoi ospiti. Ad esempio, nel pomeriggio, dopo aver fatto i compiti, potevano trascorrere il tempo libero con chi e nel modo che desideravano, era perfino permesso uscire dal castello per ritornare all’ora di cena. Esisteva anche una saletta-soggiorno dove erano disponibili diversi giochi di società. In un’altra i collegiali avrebbero potuto prendere lezioni di diversi strumenti musicali. Il direttore concluse che sarebbe stato in ogni momento pronto ad

ascoltare i dubbi, reclami o problemi degli alunni, e augurò a tutti un fruttuoso nuovo anno scolastico. Alla fine parlarono l’educatrice delle femmine, Fräulein Josefine, e Herr Rudolf dei maschi, ma per fortuna non si dilungarono troppo. In seguito tutti si riversarono nel refettorio distribuendosi lungo i tre tavoloni. L’altra novità era che ognuno era libero di sedersi accanto a chi voleva, maschi con femmine e viceversa. Annika rimase incollata al bellone, come lo aveva già soprannominato Liesèl, che la giudicò subito una gran civetta. Questa volta la cena fu servita dall’aiuto-cuoca, ma dal pasto successivo tutti avrebbero dovuto ritirare il piatto con il cibo e il bicchiere al portavivande. Al termine a Liesèl girava un poco la testa per l’intenso vociare che aveva accompagnato il rito della cena. Salì quindi con tutti gli altri in soffitta per scegliere scarpe, vestiario e tutto il necessario per il giorno seguente. Liesèl ebbe occasione di vedere da vicino l’educatore dei maschi, che quella sera era «di guardia». Un uomo giovane e biondiccio, abbronzato, e dal fisico atletico. Più in là avrebbe saputo che era stato vincitore di una medaglia a livello nazionale nella disciplina del tiro con l’arco. Come se fosse ormai destino, grazie a Frau Gerta che aveva assegnato l’armadietto ad Annika proprio accanto al suo, Liesèl se la trovò di nuovo tra i piedi. La fanatica volle sapere che cosa avrebbe indossato per il primo giorno di scuola, mostrandole a sua volta un vestito verde scuro con manica a raglan e collo alla coreana, senza alcun dubbio molto elegante. «Io metto questo, ti piace?» insisteva. «Sì sì», fece Liesèl, indifferente. Certo, nulla a che vedere con ciò che aveva lei nell’armadietto! A Fräulein Josefine toccò l’ultimo impegno della giornata, istruire le collegiali di entrambi i dormitori sulla preparazione del letto. Finalmente Liesèl conobbe le compagne con le quali avrebbe diviso la camerata delle più grandi, ma sul momento non ne trovò nessuna particolarmente simpatica. Annika, come previsto, fece furore con la sua sontuosa camicia da notte, che non mancò di suscitare l’ammirazione della maggior parte delle ragazze. Ma per fortuna c’erano anche quelle che al posto di un elegante astuccio avevano solo un sacchetto in tela come quello di Liesèl, e una camicia da notte dozzinale in un tessuto che non figurava certo fra i più pregiati in commercio. Alle nove in punto l’educatrice spense la luce.

5

La mattina seguente la sveglia suonò alle cinque e tre quarti. Si produsse un po’ di agitazione quando tutte le ragazze di entrambe le camerate dovettero passare in bagno, vestirsi e rifare il proprio letto, ma poco dopo le sette erano pronte per scendere al refettorio. Fräulein Josefine, che dormiva in una cameretta a parte, era soddisfatta del suo gregge. Occorreva mettersi in fila. Ogni collegiale doveva ritirare al portavivande la propria razione di pane e caffelatte, e in seguito cercare un posto a uno dei tavoli. Liesèl si trovò seduta tra un ragazzino che chiacchierava fitto con il suo vicino, e una fanciulla biondiccia che continuava a dire che il burro sul pane non era burro ma margarina. Vide con la coda dell’occhio che Annika si era nuovamente sistemata accanto al bellone. È proprio una gran civetta, si ripeteva. Gli educatori non erano presenti: consumavano i pasti in un piccolo vano adiacente alla cucina insieme a Frau Gerta. Finalmente i tavoli si svuotarono e uno dopo l’altro gli studenti abbandonarono il Seeburg per raggiungere la scuola in paese. Era una giornata limpida con un cielo così blu che pareva finto. Liesèl infilò il sentiero sul quale si era allontanata la matrigna. Al passaggio a livello incontrò un gruppetto di maschi del collegio, ma quelli parlavano fra loro e sembrava che nemmeno la vedessero. Tuttavia seguendoli arrivò dritta alla scuola media di Seekirchen. L’edificio aveva un aspetto solido e rassicurante. Liesèl fece un giro attorno e sul retro scoprì un vasto orto, ormai spoglio. Fu incuriosita dal terriccio nero. Solo più tardi avrebbe saputo che un tempo il lago Waller arrivava quasi a lambire la chiesa, e in seguito si era lentamente ritirato. Infine tornò sul davanti e varcò l’entrata, chiedendo a una bidella il numero della sua aula, una classe di sole femmine. Aveva appena messo piede

all’interno quando scorse Annika, già circondata da una schiera di ragazze adulanti. Si sistemò a un banco lontano accanto a una compagna della sua camerata al Seeburg, Marta, che sfoggiava una voluminosa coda da cavallo. L’insegnante era una signora dai capelli biondi scuri con qualche ciocca grigia, il volto giovane e bonario. Portava al collo una catenina dalla quale pendeva una vistosa croce, e una croce in legno campeggiava anche sulla parete dietro la cattedra. Quando la classe fu al completo, e dopo aver eseguito l’appello, l’insegnante pronunciò un simpatico discorso di benvenuto. Annunciò che durante il nuovo anno scolastico avrebbero imparato a coltivare un orto (ecco spiegato quello che Liesèl aveva visto sul retro), inoltre sarebbe stato disponibile un laboratorio per le lezioni di taglio e cucito. L’insegnante ribadì che la direzione della scuola attribuiva molta importanza alla manualità, in quanto l’uso delle mani rafforzava lo sviluppo dell’intelligenza. Ogni alunna avrebbe potuto scegliere un indumento da confezionare durante il periodo scolastico. Liesèl pensò subito a un desiderio mai assecondato dalla matrigna: pantaloni alla pescatora! Seguì l’elenco dei quaderni e libri di testo da comprare ed entro un’ora furono libere. Vicino al Seeburg incontrò di nuovo alcune collegiali. Ma questa volta, sorpassando due ragazze, decise di fermarsi, tornò indietro e si presentò. Erano novelline; una dormiva nella camerata delle più piccole e l’altra in quella di Liesèl. Dissero di essere «le sorelle Wrangler»: Doris la minore e Greta l’altra. Non si somigliavano molto, Doris era bionda con occhi chiari e l’altra bruna e occhi nocciola. Liesèl non avrebbe mai saputo se Wrangler fosse il nome del negozio di articoli sportivi che i loro genitori gestivano a Salisburgo, o il cognome di famiglia. Notò che erano molto ben vestite, ma non con l’eleganza eccessiva di Annika. Decisero che nel refettorio si sarebbero sedute vicine. L’unione fa la forza. Dopo pranzo, Liesèl, Greta e Doris salirono all’ufficio dell’Heimvater per prelevare dal deposito che ogni familiare aveva reso disponibile per i collegiali la somma necessaria per gli acquisti di scuola. Trovarono l’anticamera già gremita. Poiché le poche sedie erano occupate, restarono in attesa in piedi. Quando giunse finalmente il loro turno, entrarono prima le Wrangler, poi toccò a Liesèl. L’Heimvater era seduto alla scrivania e l’accolse con una battuta scherzosa: «Ecco la nostra fuggiasca!» Lei arrossì e per mascherare l’imbarazzo fissò il ritratto che il giorno

dell’arrivo aveva attirato la sua attenzione. «Rammenti il suo nome?» «Nie… Nietzsche», Liesèl ricordò. «Brava. Un grande filosofo tedesco. Aveva una malattia dei nervi, ebbe anche una paralisi alla spina dorsale. All’epoca di questa foto era già condannato a una sedia a rotelle». Liesèl provò un attimo di compassione per lo sfortunato filosofo, poi rammentò che doveva ancora all’Heimvater la giustificazione per le sue fughe. Trasse un profondo respiro e – senza rendersene conto – attaccò a parlare della sua vita trascorsa in Germania. L’abbandono della madre senza che nessuno le avesse mai data una spiegazione, l’avvento della matrigna cattiva, le bombe, la fame, le privazioni e l’angoscia per il padre disperso al fronte. Il senso di solitudine che l’aveva accompagnata da quando riusciva a ricordare, l’impressione di non appartenere a nessuno come un cane randagio, e la gelosia per il fratello che era coccolato dalla matrigna mentre lei era ignorata e rifiutata e… e… Si arrestò con un gesto brusco, come a voler respingere un assalto di ricordi sgradevoli. Ci fu una pausa. Negli occhi severi dell’Heimvater passò una luce mentre sfiorava, senza guardarli, i tasti della vecchia macchina per scrivere. «Io penso che tu dovresti scrivere», disse infine. «Scrivere?» ripeté lei, stupita. «Mettere su carta ciò che hai appena raccontato. E che ti ha fatto soffrire». «Non mi ha fatto soffrire!» esclamò lei, orgogliosa. Temeva di essersi scoperta troppo, anche se non ricordava bene ciò che si era lasciata scappare in quel lungo sfogo. «Io penso che tu dovresti scrivere», ripeté lui. «La scrittura è una buona cosa, aiuta a buttare fuori sentimenti ed emozioni rimasti imprigionati dentro di noi e che continuano a farci male. Trasferendoli invece sulla carta possiamo controllarli e cercare di capire perché ci abbiano procurato tanto dolore». «Ma io non so scrivere», disse lei, confusa. «Non si tratta di fare letteratura, Liesèl, dovresti solo tenere… diciamo un diario». Un diario, pensò lei. Che strana idea.

Poi l’Heimvater passò a cose pratiche: «Cosa devi comprare per la scuola?» Lei aveva fatto la lista, compresa la nuova cartella. Lui estrasse da una cassetta metallica alcune banconote, scrisse qualcosa su un blocco e gliele consegnò: «E prendi un quaderno in più». Allo sguardo perplesso della ragazza specificò: «Per il diario». Lei annuì, un po’ sbalestrata, poi ringraziò e lasciò l’ufficio. Solo dopo essere tornata alla sala studio, dove la attendevano le sorelle Wrangler, si rese conto di non aver giustificato le sue fughe. Decisero di recarsi insieme al paese per gli acquisti. Nell’unico negozio che vendeva materiale scolastico trovarono fila. C’era un buon odore di carta e inchiostro. Sulla parete dietro il bancone era appesa una gabbietta con un uccellino giallo che trillava contento. Mentre Liesèl si soffermava indecisa sulla scelta tra una bella cartella piuttosto cara e un’altra economica, l’occhio le cadde su una piccola pila di diari con copertina cartonata e dotati di lucchetto. Ci rifletté solo un attimo, poi decise di comprarne uno insieme alla cartella a buon mercato. Uscite dalla bottega, Greta disse: «Anch’io ho un diario, ma è rimasto a casa. Avevo paura che al Seeburg me lo rubassero». «Rubare un diario?» si stupì Liesèl. «A quale scopo?» «Ma per leggere i tuoi segreti!» sghignazzò l’altra. Strada facendo incontrarono molti studenti del collegio e anche Annika, contornata da tre ragazzi tra cui il bellone. «Ma guardatela, ha già la sua corte!» fece Greta, ironica. «Quello bello si chiama Rainer», dichiarò Doris. «Come fai a saperlo?» chiese la sorella. «Gliel’ho chiesto». «E quando?» «Mentre eravamo in fila per il pranzo». Greta e Liesèl si guardarono sbigottite: hai capito la timida Doris! Tornate al castello ognuna di loro depose gli acquisti nel proprio scaffale, poi tutte insieme raggiunsero Fräulein Josefine nella sala studi. Liesèl tenne però con sé il diario e una penna. A poco a poco rientrò il resto delle collegiali finché la stanza si riempì di voci e risate. Le ragazze cominciarono a scambiarsi impressioni sulla scuola, le compagne di banco, le insegnanti e i nuovi libri di testo. Ma come al solito dopo un po’ Annika richiamò l’attenzione sfoggiando un album di fotografie

e ritagli di giornali che riguardavano sua madre, la famosa cantante. La stessa madre che non aveva mai avuto tempo per la figlia! Tutte, comprese le sorelle Wrangler e perfino Fräulein Josefine, si radunarono attorno a lei, tranne Liesèl che quatta quatta abbandonò la sala. Giunta nel corridoio si domandò dove avrebbe potuto ritirarsi per inaugurare il diario. Le venne in mente la saletta di musica. Sgusciò su per le scale incontrando qualche ragazzo, ma nessuno le prestò attenzione. La sala era deserta. C’erano un pianoforte, il panchetto, due fisarmoniche e una custodia per violino. Un divano a due posti e un tavolo con tre poltroncine completavano l’arredamento. Si sedette, fissò il diario e provò una grande emozione. Era come trovarsi davanti a una porta dietro la quale poteva trovarsi qualunque cosa: bella o brutta, positiva o deludente, costruttiva o devastante. Come un’avventura della quale non si poteva prevedere l’esito. Poi rammentò le parole dell’Heimvater: La scrittura aiuta a buttare fuori sentimenti ed emozioni rimasti imprigionati dentro di noi e che continuano a farci male… trasferendoli invece sulla carta possiamo controllarli… Estrasse dal taschino del vestito la penna e le piccole chiavi – una era di riserva – e aprì il lucchetto. Ecco la prima pagina, bianca e immacolata. Scrisse di getto: Ciao! Io mi chiamo Liesèl e tu sei il mio diario. Voglio che siamo amici e ti chiedo di avere molta pazienza con me. Sotto: Seeburg e la data. Si arrestò, esitò a voltare pagina. Cosa poteva scrivere? Ad esempio, che detestava la matrigna? Era la prima cosa che le veniva in mente. La moglie di suo padre aveva steso fin dal primo momento un’ombra scura e soffocante sulla sua breve esistenza. Colei che avrebbe dovuto essere la sua seconda madre l’aveva sempre fatta sentire una nullità, come fosse stata un essere inferiore. E, quel che era peggio, ancora una volta era riuscita ad allontanarla da suo padre e dal fratello! Pensando a Lukas fu sopraffatta dalla nostalgia e dall’affetto. Scoppiò a piangere. Quando si fu calmata, vide che sulla pagina si era formata una macchia di lacrime. Ci soffiò sopra, ma la chiazza non voleva asciugarsi. Allora con la penna le disegnò intorno un cuore.

6

La giornata era grigia, il cielo coperto. Dal ponticello d’accesso Liesèl osservava il vicino lago. Non era come quello dei nonni, bello in tutte le stagioni. La superfice sfumava nelle tinte dell’acciaio, le acque parevano ferme, opache, il lago trasmetteva tristezza. Distolse lo sguardo ed esclamò: «Ma dov’è finita?» Lei e Greta aspettavano Doris che tardava. Finalmente arrivò trafelata: all’ultimo momento era dovuta correre in bagno! Il trio si mosse verso la scuola. Liesèl sentiva freddo nel suo giacchino leggero, ma era ancora troppo presto per il cappotto. Le sorelle Wrangler invece indossavano giacconi scozzesi di mezza stagione, sicuramente provenienti dal negozio dei loro genitori. Parlarono poco, sembrava quasi che il tempo plumbeo le incupisse. Davanti a loro camminava Annika in compagnia del suo codazzo, tra cui il bellone. Solo quando dovettero arrestarsi davanti al passaggio a livello chiuso, riuscirono a vedere da vicino la casacca felpata a grandi quadretti giallo-verdi di Annika. Liesèl gliela invidiò, ma poi se ne vergognò. La nonna diceva che l’invidia era un sentimento indegno che alla fine si ritorceva sempre su chi la provava. Raggiunto infine l’edificio scolastico, il gruppetto si salutò e ognuna si avviò verso la propria classe. Appena entrata, Liesèl vide che Annika era già circondata da un drappello di ragazze adulanti. Quando le passò davanti, l’altra la trattenne per un braccio. I suoi occhi scintillarono di malizia: «Hai comprato la cartella più brutta che c’era in quel negozio. Non è fatta nemmeno di pelle!» Liesèl si liberò con uno strattone: «Tu sei cattiva, lo sai?»

«Io cattiva?» ironizzò l’altra, premendo la mano teatralmente sul cuore. Il suo seguito sorrideva stupidamente. Marta, che al Seeburg dormiva nella sua camerata, le consigliò: «Non darle ascolto, è insopportabile». Liesèl fu contenta della sua solidarietà. In seguito osservarono insieme l’abbigliamento di Annika. Indossava pantaloni stretti azzurri arrotolati alla caviglia e sopra un maglione largo color fumo di Londra. Calzava scarpe di vernice nera con appena un po’ di tacco. «Quant’è fanatica», bisbigliò Marta. «I pantaloni però non sono male. Si chiamano blue-jeans, vengono dall’America». Entrò l’insegnante e Marta ebbe appena il tempo di aggiungere: «E la tua cartella non è brutta, io ne ho una simile». Durante la pausa di metà mattina, Liesèl chiacchierò con Marta. Suo padre era morto in guerra e la madre gestiva un alberghetto in un paesino montano tirolese. Ma la scuola media era troppo lontana, Marta doveva andare avanti e indietro con un decrepito pullman che d’inverno, con la neve, rimaneva spesso bloccato per giorni. E così sua madre l’aveva iscritta al Seeburg. «Io mi ci trovo bene», disse, «la scuola è vicina e inoltre ho sempre gente attorno. Sapessi che noia a casa! A te piace qualche ragazzo?» «Di quelli del collegio?» chiese Liesèl. «Sì, di quelli». Lei rifletté un attimo. «No, nessuno». «L’unico che potrebbe ispirarmi sarebbe quel Rainer», confessò invece Marta. «Sì, effettivamente non è brutto». Marta sbirciò di nuovo Annika: «Ma quei pantaloni mi piacciono. Anch’io vorrei avere un paio di blue-jeans. E tu?» «Per me non c’è speranza», fece Liesèl con un sorriso storto. «La mia matrigna non me lo permetterebbe mai». «Tu hai una matrigna?» «Sì». «E com’è? Buona?» «No», fece Liesèl. «Mi odia». La campanella annunciò la fine dell’intervallo. Al termine delle lezioni Liesèl e Marta tornarono insieme al collegio. Poiché non avevano ancora dei compiti da svolgere, a Liesèl venne l’idea

di fare una visita ai contadini dopo pranzo. Tuttavia, il regolamento stabiliva che durante il tempo libero pomeridiano non era concesso uscire dal Seeburg da soli, occorreva essere almeno in due. Così domandò alle sorelle Wrangler se avevano voglia di accompagnarla, ma Greta si era proposta di andare con Doris alla sala giochi per una partita di dama, gioco che amava moltissimo e al quale spesso giocava anche quando era a Salisburgo. Liesèl rimase lì un po’ incerta, poi decise di salire in sala musica per scrivere qualcosa sul diario. Anche quel giorno la stanza era libera, sul telaio del pianoforte si stava accumulando la polvere. Ovviamente le lezioni non erano ancora iniziate. Si sedette al tavolo e aprì il lucchetto, aveva le chiavi sempre con sé. La macchia di lacrime si era asciugata, ma il disegno del cuore era sempre lì. Era un cuore per Lukas. Lo immaginava tornare da scuola con la bicicletta, il ciuffo dei capelli scomposto. Lo vedeva pranzare con il padre e la matrigna, e forse dopo sedersi sulle ginocchia del genitore, cosa che faceva spesso, fingendo di essere un bambino piccolo desideroso di coccole. E il loro padre, in genere taciturno e rigido, si commuoveva e stringeva il figliolo a sé e lo baciava sulla fronte e gli diceva cose carine. Era solo colpa della matrigna se lei era esclusa da tutto questo! Scrisse di getto una ventina di righe. Le parole sembravano stemperarsi sulla carta come piombo fuso. Nulla era stato giusto! Nulla di ciò che la matrigna aveva fatto nei suoi confronti dopo aver sposato suo padre, era stato giusto! La profonda solitudine nella quale l’aveva spinta durante la guerra, abbandonandola in quell’istituto per bambini difficili dove le Fräulein le avevano leso l’esofago. Era stata così infelice in quel posto, tanto che non voleva più mangiare. Desiderava solo morire. Ma quelle le avevano cacciato il cibo a forza giù in gola facendola sanguinare. Liesèl riprese fiato, non rilesse ciò che aveva scritto. Chiuse il lucchetto e pregustò l’espressione del vecchio contadino quando l’avrebbe rivista. Ma doveva ancora trovare qualcuno disposto a uscire insieme a lei dal Seeburg. Tornò dabbasso, nascose il diario sotto il materiale scolastico del suo scaffale ed entrò nella sala di studio. L’educatrice stava facendo un discorso a Heidi, una ragazza molto carina di Linz, figlia di un ricco commerciante. Si era alle solite: Heidi non perdeva occasione di prendere in giro una ragazza bassa e grassottella, Michaela, che proveniva dalla sua stessa città. Michaela piagnucolava e l’espressione di Heidi non dava certo segno di

pentimento. Aveva un carattere antipatico e forse per questo si trovava a suo agio nel gruppo di Annika. Nello stesso tempo Liesèl scorse Marta davanti alla finestra che sulla sinistra dava su un tratto di muro di cinta. «Cosa guardi?» chiese, accostandosi a lei. «Da qui il lago non si vede», disse Marta. «Conosco un posto dove ce l’hai proprio davanti», annunciò Liesèl. «Se vieni con me te lo mostro. Vorrei far visita a una famiglia di contadini che ho conosciuto il giorno del mio arrivo. La casa è vicina». Marta era entusiasta. Si congedarono dall’educatrice come stabilito dal regolamento, e uscirono dal castello. Il cielo era ancora basso e desolato, la temperatura rigida. Liesèl gelava nel suo giacchino leggero, ma non voleva che la compagna se ne accorgesse. Marta invece era più fortunata nel suo indumento in panno di Loden. Giunte in cima alla collinetta, ripresero fiato, e finalmente il viso di Marta si rallegrò: «Ecco il lago!» «Sì, ma è triste», constatò Liesèl. «Ti piacciono i laghi?» «Moltissimo. D’estate mia madre mi manda al Wolfgangsee dai miei nonni materni. Per me è sempre il periodo più bello di tutto l’anno. Lo sai che l’operetta Al cavallino bianco è nata proprio là?» «Non lo sapevo», ammise Liesèl. «Ma è un’operetta famosa!» protestò Marta. Liesèl alzò le spalle: «Sarà. Invece tu non sai che anche i miei nonni abitano su un lago». «Davvero? Quale?» «Lago di Atter». Pareva quasi, in quel momento, che il fatto di avere entrambe dei nonni che vivevano accanto a un lago potesse rafforzare la loro amicizia appena nata. Arrivate alla fattoria videro le galline, i tacchini e il cane alla catena, ma non il vecchio. Poiché il cane abbaiava agitato, la contadina uscì e, riconoscendola, la salutò calorosamente. Liesèl le presentò Marta. «Oggi mio nonno è triste», annunciò la donna. «È l’anniversario del giorno in cui gli comunicarono che suo figlio – insomma, mio padre – era morto in Russia. Sapete, durante la guerra. Ma entrate, prego!» Il vecchio, con la solita pipa in mano, stava sulla panca che circondava la stufa in maiolica. Vedendo Liesèl il suo sguardo si illuminò.

«Così non ti sei dimenticata di me», disse, contento. «Chi mi hai portato?» «Una ragazza del collegio e anche della mia classe». L’uomo strinse la mano prima a Marta, poi a Liesèl. «Hai le mani gelate!» le disse. «No, no…» «Come no! Dovevi metterti addosso qualcosa di più caldo, vai in giro mezza nuda!» «Mezza nuda…» rise la nipote. Che imbarazzo per Liesèl. Non voleva spiegare il fatto che era troppo presto per il cappotto, ma non aveva un indumento per la mezza stagione. Il vecchio fece una pensosa tirata alla pipa, poi esortò la nipote: «Prepara qualcosa di caldo per queste fanciulle, poi vai a prendere dall’armadio nel corridoio una di quelle giacche che ti faceva la mamma quando avevi l’età di Liesèl». La donna portò il latte caldo col miele e anche qualche biscotto di farro, e subito dopo una giacca tipo tirolese di lana di pecora con bottoni in corna di cervo. «Provala», la esortò il vecchio. «No, no», fece Liesèl, imbarazzata. «E provala!» Lei infine ubbidì e lui dichiarò soddisfatto: «Ti sta benissimo!» Lanciando un’occhiata alla nipote, aggiunse: «Nel caso dovesse arrivare un erede…» Lei arrossì: «Nonno!» «Santo cielo! Volevo solo dire che se dovessero servire, di queste giacche ne sono rimaste nell’armadio almeno altre due». «Tre», Marie lo corresse. E a Liesèl: «La mamma aveva la passione per il lavoro a maglia. Ha fatto giacche tirolesi per tutta la parentela». Stava imbrunendo e si avvicinava l’ora tassativa del rientro al Seeburg. Si congedarono e Liesèl si sperticò in ringraziamenti, poi dovettero promettere al vecchio che sarebbero ritornate presto. Uscendo Liesèl si strinse nella giacca: «Che caldo fa!» «È brava gente», disse Marta. «Sì, sono amici». Vicino al ponticello incontrarono alcuni allievi, tra i quali anche Annika e Rainer. Appena Annika vide Liesèl proruppe in una risata sprezzante: «Ma

guardatela, è vestita da pecoraia! Hihihi!» «Ignorala», disse Marta. «È una tale idiota». Si infilarono nell’arco d’entrata, ma quando furono sulle scale interne Annika era di nuovo dietro di loro. «La lana di pecora puzza!» continuava a malignare. «Impesterai l’intero collegio!» Successe però una cosa inaspettata. Rainer il bellone, che si trovava alle sue spalle, ordinò ad Annika con una tirata ai capelli: «E piantala, sei odiosa!» Più tardi al refettorio Annika diede a Liesèl un biglietto sul quale era scritto: «Te la farò pagare!»

7

Marta e Liesèl erano molto unite, e del sodalizio facevano parte anche le sorelle Wrangler. Quando il tempo era bello, nel pomeriggio, dopo aver fatto i compiti, uscivano insieme per una passeggiata. Un giorno si spinsero fino alla riva del lago. Si sedettero su una barca a remi nascosta tra le canne palustri e Liesèl e Marta ricordarono i laghi vicino ai quali abitavano i loro nonni. Un’altra volta fecero visita ai contadini. La nipote del vecchio, Frau Marie, preparò i krapfen fritti nello strutto e li offrì alle ospiti insieme al succo di mele di loro produzione. Poi Herr Tobias, tirò fuori l’album di famiglia malgrado le proteste della nipote: «Annoierai le ragazze!» Ma lui le aveva già radunate attorno e aprì la prima pagina. C’era la foto di suo figlio (il padre di Marie), un uomo alto e dritto dall’espressione corrucciata. Teneva in mano il foglio con il quale era stato chiamato alle armi per dare la vita ad Adolf Hitler, dopo che questi aveva annessa l’Austria alla Germania nazista. «Fu fatto prigioniero dei sovietici insieme a un amico d’infanzia», raccontò. «Dovettero marciare per decine di chilometri e poi viaggiare su un carro bestiame senza cibo né acqua con temperature siberiane. Quelli che raggiunsero il lager vivi erano così debilitati che un’epidemia di tifo ne falciò in poco tempo più della metà. Compreso mio figlio». «Nonno!» lo redarguì la nipote, ma lui non le badò e proseguì. «Il suo amico riuscì a tornare e nell’autunno del 1947, mia moglie era ancora in vita, all’improvviso ce lo trovammo davanti alla porta. Quasi non lo riconoscemmo. Fummo emozionati nel rivederlo sano e salvo, ci raccontò di nostro figlio e di come fossero riusciti a restare uniti fino al campo di prigionia. Ma mi arrabbiai quando disse che Dio aveva voluto risparmiare la sua vita. Risposi che, se fosse esistito Dio, non avrebbe fatto una scelta così

arbitraria. Da quella volta non venne più a trovarci». Marie gli prese l’album: «Adesso basta, nonno». Lui fece un gesto di stizza, accarezzò il gatto e aggiunse con impeto: «I nazisti hanno creato campi di sterminio per uccidere barbaramente milioni di persone, ma Dio non è intervenuto. Non ha mosso un dito per fermare quella carneficina! Non è forse la prova che Dio non esiste?» «Nonno, nessuno ha mai dimostrato che Dio non esiste», si oppose Marie. «Ma non hanno nemmeno mai dimostrato il contrario!» «A scuola il catechista ci ha insegnato che Dio ama gli uomini ed è onnipotente», ribatté lei. «E io continuo a crederci». «Come fai a credere nell’amore divino quando il nazismo, che era contro l’umanità, è rimasto al potere per tanti anni prima di essere sconfitto, e non per mano di Dio, ma per quella degli alleati?» Il vecchio si era scaldato e proseguì duramente: «Il mondo è pieno di Male, ma se Dio è onnipotente, il Male non dovrebbe esistere, perché lui potrebbe troncarlo sul nascere. Lo capisci? Lo eliminerebbe dai pensieri e dai cuori della gente. Ma poiché il Male esiste, non può esistere questo Dio onnipotente. È così logico, Marie!» Ora Herr Tobias ansimava, si era agitato troppo. Si capiva che non era la prima volta che i due si imbarcavano in questi discorsi. «Forse ora è meglio che rientriate al collegio», suggerì la giovane alle ragazze. «Ma tornate quando volete, vi aspettiamo». Il vecchio aggiunse: «Sì, tornate presto, un po’ di gioventù in questa casa non guasta!» La nipote commentò con un sorriso ironico: «Già, mio nonno mi considera ormai un ferro vecchio perché non gli ho ancora dato un nipotino. Ma sono sposata solo da due anni e per ogni cosa ci vuole il suo tempo. Dico bene?» Le ospiti annuirono solidali, pur non comprendendo appieno di cosa si stesse parlando. In quel momento entrò il marito di Frau Marie, aveva le spalle larghe e la faccia buona. «La Leni sta per partorire», annunciò, «probabilmente succederà stanotte». «Avremo un vitellino», spiegò Marie, gioiosa. Mentre scendevano il pendio, Greta obiettò: «Se non esiste Dio, perché l’Heimvater vuole che ogni domenica andiamo alla cappella per assistere alla messa?»

«Anche i miei nonni dubitano dell’esistenza di Dio, ma vanno lo stesso in chiesa», disse Marta. «Nostra nonna invece è sempre in chiesa», sghignazzò Doris. «Papà dice che è bigotta». Greta le tirò le trecce: «Non parlare male della nonna! I regali che ti fa per il compleanno e a Natale li prendi senza considerarla bigotta». Doris fece spallucce: «Che c’entra?» «C’entra», fece l’altra e le tirò di nuovo le trecce. «Mia nonna è molto credente», disse invece Liesèl. «Il nonno meno. In chiesa ci va solo lei, lui resta a casa con la scusa che altrimenti i ladri gli rubano le galline o i conigli». «Furbo tuo nonno», commentò Marta. «Sì», annuì Liesèl, «ma è molto buono». Alla fine convennero che tutti i nonni erano buoni. Le giornate al Seeburg scorrevano con un ritmo regolare: sveglia alle cinque e tre quarti, rapido passaggio nel bagno, rifare il letto, vestirsi e scendere al refettorio. In seguito tutti a scuola a Seekirchen. Alla sera, dopo cena, si svolgeva il rituale della soffitta per scegliere ciò che sarebbe servito per la mattina seguente. Ci andavano tutti insieme, maschi e femmine. Era un momento importante per la socializzazione. In quell’occasione l’attività di Annika diventava frenetica perché disponeva di tantissimi vestiti. Buona parte delle compagne la giudicavano vanitosa e fanatica, ma c’era anche chi voleva gareggiare con lei. Nessun armadietto tuttavia era pieno come quello di Annika e – anzi – ne aveva chiesto uno di riserva e l’aveva ottenuto. Competere con lei era una battaglia persa in partenza. Nel frattempo nella soffitta si era attivato un vivace scambio di biglietti e bigliettini fra maschi e femmine. I messaggi dicevano «mi piaci» oppure «vuoi essere la mia ragazza?» Qualche ragazzo si improvvisava nella composizione di versi, altri copiavano le poesie dei grandi scrittori. Nei primi tempi gli educatori, che si alternavano nella sorveglianza, avevano tentato di impedire quel genere di comunicazione promiscua, ma a poco a poco erano diventati più elastici perché il fenomeno si esauriva in innocenti corteggiamenti platonici. Annika riceveva la maggior parte dei messaggi e ne era lusingata, tuttavia la sua attenzione continuava a rivolgersi soprattutto a Rainer. Il bellone era effettivamente il più attraente tra i ragazzi e aveva carisma.

A Liesèl era pervenuto un solo biglietto, ma quando si accorse che lo spasimante balbettava, gli diede il benservito. Marta e Greta invece avevano ognuna un fidanzato «fisso», anche se un giorno sì e uno no si lasciavano e si ripigliavano. Sempre a furore di biglietti, era come un gioco che muoveva la routine del Seeburg. Doris languiva per un ragazzetto dal ciuffo rosso, lui le ripeteva che gli piacevano «da morire» i suoi occhi azzurri. Con un coraggio da leone un giorno copiò dei versi di Goethe, attribuendoli al suo estro creativo: «Appare il sole radioso, e tu dietro a lui, spero. Esci fuori in giardino e sei rosa fra le rose, e sei giglio fra i gigli!» Doris li fece leggere a Greta che si sbudellò dal ridere. Molti collegiali ricevevano posta da casa, altri durante il fine settimana potevano riabbracciare i familiari, come le sorelle Wrangler e Marta. La madre di Marta arrivò con una scatola di biscotti fatti da lei, che la figlia divise con le amiche. Una volta venne anche il padre di Annika, un uomo alto, molto elegante, dai capelli biondo scuri, lisci e lucidi, che sembrava un attore. Piacque a tutte le ragazze, e lei si sciolse dall’orgoglio. Era pur sempre lo stesso padre che non trovava mai tempo per la figlia, cosa che lei aveva sbandierata, rancorosa, ai quattro venti, ma in quell’occasione se ne dimenticò. La madre invece non era potuta venire perché impegnata in una tournée in Spagna. Il padre le aveva portato una nuova gonna a ruota tagliata di sbieco, stivaletti alla caviglia che aveva comprato durante un viaggio in Italia, e diversi fazzoletti da collo in seta che erano di gran moda. Quando lui partì con la bella macchina sportiva lei nascose le lacrime, e alla sera non volle cenare, ma il giorno dopo già si vantava dei nuovi tesori. Liesèl invece non sapeva più nulla della sua famiglia. Si sentiva abbandonata e ne soffriva, ma aveva il diario! Gli affidava tutto, amarezze, tristezze e l’astio per la matrigna. Ogni giorno il legame con il diario si rafforzava, era un amico silenzioso e paziente che non la giudicava. Non la biasimava per i suoi sfoghi a volte spietati. Come la critica verso Annika, che valutava una persona in base ai vestiti che indossava. E quell’antipatica aveva creato attorno a sé una specie di clan, composto solo da ragazze ricche. Avrebbe voluto nel gruppo anche le sorelle Wrangler, ma loro se ne tenevano alla larga. Anche Marta aveva rifiutato, fin dall’inizio lei aveva provato una marcata antipatia per Annika e non lo aveva mai nascosto. Liesèl, Marta e le sorelle Wrangler erano appena rientrate dal paese dove

avevano fatto degli acquisti, quando, salendo le scale interne, sentirono degli strani rumori. Giunte al primo piano videro un folto gruppo di collegiali che ridevano a crepapelle. Avvicinandosi rimasero raggelate. Qualcuno aveva rubato il diario di Liesèl e, strappandone alcune pagine, le aveva incollate sulla bacheca! Liesèl fissò lo scempio impietrita. Ecco i suoi pensieri più intimi gettati alla mercé di tutti. I dolori, i conflitti, le confessioni più segrete violati e derisi! Impallidì e si sentì svenire. Marta e Greta la sorressero. Nel contempo, attirati dal trambusto, accorsero gli educatori ai quali bastò uno sguardo per rendersi conto dell’accaduto. Fräulein Josefine mandò una ragazza a prendere una sedia dal refettorio e vi adagiò Liesèl, tremante. Greta corse in cucina per chiedere un bicchiere d’acqua con zucchero e Marta salì dall’Heimvater che scese subito. Fräulein Josefine accennò alla bacheca. L’Heimvater vi gettò uno sguardo e rimase attonito. Lui educava gli allievi alla libertà e al rispetto della libertà altrui, mentre ora uno dei suoi ragazzi aveva oltraggiato una compagna, esponendola al dileggio dell’intero Seeburg. Si avvicinò a Liesèl, che nel frattempo si era ripresa. «Sono molto dispiaciuto», disse in tono paterno. «Ma ti prometto che il colpevole sarà punito. Come ti senti?» Lei detestava mostrarsi debole e ferita, e rispose con un sorriso storto: «Bene…», ma aveva un nodo in gola. «Le hanno fatto una cosa orribile», disse Fräulein Josefine. «Ma non finisce qui», garantì l’Heimvater. «Al Seeburg non si possono tollerare certe cose!» E ingiunse: «Tutti i ragazzi nella sala studio delle femmine! Subito!» Volle Liesèl accanto mentre parlava. «Oggi è successo un fatto deplorevole», esordì in tono grave. «Qualcuno si è appropriato del diario di questa ragazza e, forzando il lucchetto, ne ha violato il contenuto!» Guardò Liesèl con aria di incoraggiamento, poi proseguì con crescente durezza: «È stato infranto un diritto fondamentale che si chiama riservatezza! Violare un diario è un reato morale imperdonabile! Confidare i propri pensieri a un diario è un atto privato, che si svolge tra chi scrive e le pagine alle quali affida la propria anima, e nessuno ha il diritto di profanare questa

intimità. Al contrario, qualcuno ha osato sottrarre il diario, strapparne alcune pagine e incollarle sulla bacheca, allo scopo di ridicolizzare il contenuto e mortificare una compagna davanti all’intero collegio!» A poco a poco sgomento e sconcerto cominciarono a delinearsi sui volti dei ragazzi, come se solo in quel momento si rendessero conto che non si era trattato di uno stupido scherzo, ma di un’azione vile e abbietta. «Io sono deluso e arrabbiato», continuò l’Heimvater. «Sono molto arrabbiato ed esigo che l’autore o l’autrice di quest’azione si facciano avanti qui e ora! Qui-e-ora!» Seguì un pesante silenzio interrotto solo dal rumore del treno che viaggiava verso Salisburgo. Passarono i minuti, poi mezz’ora. L’oscurità si era ormai consolidata dietro i vetri delle finestre e si avvicinava l’ora di cena. Marta e le Wrangler, essendo state escluse dal novero dei possibili rei, si erano sedute, insieme ai due educatori, a un tavolo appartato. «Staremo qui anche per tutta la notte, se occorre», dichiarò l’Heimvater, esortando Liesèl a sedersi al tavolo separato. Trascorse altro tempo, ormai era un’ora. Quando suonò la campanella per la cena, l’Heimvater invitò il gruppo del tavolo ad andare a mangiare, ma loro vollero restare. La tensione cresceva, i ragazzi avevano fame. Passò ancora qualche minuto, poi una ragazza del dormitorio delle più piccole, Marianne, tutta occhi e trecce color carota, gridò: «Oggi pomeriggio mi ha chiesto la colla!» «Quale colla?» chiese l’Heimvater. Lei esitò, all’improvviso tutto il coraggio sembrò venirle meno. «Parla, Marianne! Forza!» E lei si lanciò. «Io ho un album nel quale incollo le figurine degli attori famosi… e oggi pomeriggio Annika mi ha chiesto la colla. E me l’ha anche consumata!» L’accusata impallidì, ma cercò di negare. Non era vero niente, Marianne mentiva! «Invece lo hai fatto!» esclamò l’altra, arrabbiata. «E l’hai usata per appiccicare quelle pagine sulla bacheca. Lo so! Tu mi hai cercata nella sala giochi e sono scesa con te e ti ho dato la colla, ma poi mi sono nascosta dietro un muro e ti ho vista avvicinarti alla bacheca e incollare delle cose! Ti ho vista, sei stata tu!» Successe una cosa che nessuno si sarebbe mai aspettata proprio da Annika: si nascose il volto tra le mani e scoppiò a piangere. Forse per la

prima volta nella sua vita si sentiva con le spalle al muro. L’Heimvater rinunciò a chiederle una confessione ufficiale, ormai era tutto chiaro e mandò i ragazzi in mensa, tranne la colpevole. «Siediti, Annika, e parliamone», la esortò il direttore. Da lontano giungeva il brusio del refettorio. Lei aveva smesso di piangere, e nel suo sguardo ricomparve la solita espressione di becera arroganza. Sembrava seccata. Era stata smascherata da una compagna e lo considerava un tradimento. Stava lì, rigida, le labbra un filo stretto. «Come ti è venuto in mente a fare una cosa così brutta a una compagna?» domandò l’Heimvater. Annika levò lo sguardo al soffitto, rifletté per qualche momento, poi rispose placida: «Liesèl mi è antipatica». «Per quale ragione?» Inspirò dal naso, abbassò un angolo della bocca e disse: «Mi è antipatica e basta. Va sempre nella saletta musica per scribacchiare i suoi segreti in quello stupido diario. Si crede più intelligente e interessante di noi! Non lo sopporto!» «Pensi che sia un motivo sufficiente per rubare il diario, rompere il lucchetto e mettere alla mercé di tutti il contenuto?» Lei si passò una mano sulla fronte come se volesse estrarne una risposta conveniente. «Non so…» rispose infine, vaga. Sembrava non valutare a fondo la portata del suo atto e perciò non era pentita. «Temo che dovrò informare i tuoi genitori», dichiarò l’Heimvater, serio. Lei sussultò: «Che cosa?» «Dovrò informare i tuoi genitori di ciò che hai fatto», ripeté lui in tono grave. All’improvviso lei fu presa da una forte agitazione. Impallidì ancora di più e iniziò a balbettare: «Non può farlo. Non deve farlo! Per mia madre non importa, lei è sempre in giro, ma papà no. Lui non deve saperlo. La prego!» Sembrava sconvolta e preoccupata. Dalla sua reazione l’Heimvater capì alcune cose. Prima di tutto c’era un motivo di ordine egoistico: sapendo del suo gesto, forse il padre avrebbe smesso di viziarla, di riempirla di vestiti e regali, ma il secondo era di un’altra natura, più straziante. Lui era un padre lontano, distratto, freddo e concentrato solo sul suo lavoro, ma lei lo amava. Era molto legata a lui e non voleva deluderlo.

Ci fu un lungo silenzio, poi l’Heimvater disse: «D’accordo, Annika, io non avvertirò tuo padre, ma devo punirti». Lei abbassò il capo, e si torse le mani. «Sono pronta», rispose.

8

L’Heimvater sospese ad Annika per un mese la libera uscita del pomeriggio, con l’obbligo di essere disponibile per vari lavoretti che le avrebbe assegnato Frau Gerta, come pelare patate o spazzare il cortile. Le impose inoltre il divieto di frequentare la sala giochi – recentemente era anche arrivato un tavolo da ping pong – e finiti i compiti avrebbe dovuto trattenersi nella sala studio a leggere o a scrivere lettere. Diverse ragazze corrispondevano con familiari o amici, ma Annika non amava scrivere, e scelse dunque la lettura. Lesse svogliatamente a metà un paio di libri, trovandoli noiosi. Fräulein Josefine le prestò uno di sua proprietà: Il giovane Holden, sperando che le piacesse, ma lei lo chiuse dopo poche pagine considerandolo poco interessante. Nemmeno Heidi di Johanna Spyri l’appassionò e si diede a sfogliare e risfogliare volumi illustrati come Max e Moritz e Pierino Porcospino di Wilhelm Busch. Per il resto dava l’impressione di scontare la punizione senza grandi patemi d’animo. Un motivo c’era. Quando l’aveva accompagnata al collegio il padre si era fatto promettere che lei avrebbe tenuto a freno il suo carattere provocatorio e ribelle, e Annika aveva giurato. Ma si era impegnata con un giuramento solenne solo dopo l’esplicito avviso del genitore che, al primo reclamo del Seeburg, l’avrebbe mandata in un istituto di suore. Con l’episodio del diario lei aveva tradito il suo giuramento, ma non voleva che il padre lo sapesse. L’ipotesi di trovarsi rinchiusa in una struttura di religiose l’atterriva. Non avrebbe più potuto indossare i suoi bei vestiti e godere della libertà che le offriva il Seeburg. Sembrava che la punizione la stesse cambiando. Rinunciò al solito atteggiamento aggressivo e moderò il linguaggio. Pelava molte patate senza protestare e spazzava con zelo il cortile. In soffitta sceglieva i vestiti più sobri che possedesse, e scendeva subito in camerata, forse anche perché il giro di

biglietti e bigliettini degli ammiratori era cessato. Dopo il discorso dell’Heimvater tutti avevano capito che la sua azione non era stata una stupida bravata, ma qualcosa di peggio: un attacco alla riservatezza e alla dignità di una compagna. Anche Rainer, il bellone, le aveva voltato le spalle, ma le restava buona parte del suo clan. Erano ragazze che preferivano rimanere nella sua orbita anziché mostrare dissenso per ciò che aveva fatto a Liesèl, e lei sapeva come tenersele buone: un foulard da collo di seta (ne possedeva diversi e di vari colori), regalato a una, un cinturino in pelle o un lucidalabbra al sapore di lampone all’altra. Al Seeburg era vietato truccarsi, ma ad Annika non mancavano le risorse. Una volta al mese comprava a Seekirchen una nota rivista di moda e bellezza sulla quale aveva visto la pubblicità di un lucidalabbra creato apposta per le più giovani. In una profumeria ne aveva acquistati un certo numero che, a seconda delle convenienze, elargiva alle sue seguaci. Mentre Annika scontava la sua punizione, Liesèl non si era ancora ripresa dallo shock. Aveva sempre davanti agli occhi quelle pagine incollate sulla bacheca, e l’intensa umiliazione continuava a bruciarle dentro. Proprio quella vanitosa bambola prepotente era riuscita ad appropriarsi dei suoi pensieri più intimi, offrendoli al pubblico ludibrio! Ma ciò che più la mortificava era il fatto che tra le pagine affisse era finita una dichiarazione d’affetto per suo padre, per l’uomo che da quando lei aveva memoria manifestava amore solo per il figlio maschio. L’Heimvater aveva chiamato le due ragazze nel suo ufficio per una rappacificazione. In quell’occasione Annika aveva restituito il diario violato a Liesèl, mostrandosi mortificata e pentita. Ma già mentre scendevano insieme le scale non aveva rinunciato a una battuta velenosa: «Però, quante storie per uno scherzetto! Ti credevo un po’ più spiritosa». No, non era pentita, restava la falsa e arrogante manipolatrice di sempre. Liesèl non stava bene. Di notte si svegliava di continuo e al mattino si alzava stanca. A scuola era distratta e deconcentrata e nel pomeriggio le occorreva molto tempo per i compiti, dovendo ricorrere continuamente all’aiuto dell’educatrice. Fräulein Josefine era una persona severa, ma anche molto disponibile. In poche settimane la sua misurata autorevolezza aveva conquistato le ragazze, che la stimavano e si fidavano di lei. Era gentile e aperta, ma rimaneva l’educatrice e non un’amichetta con la quale potersi prendere troppe confidenze. Cantava e rideva con le allieve, ma insisteva sull’importanza di valori come la buona educazione, la puntualità, la

disciplina e il rispetto delle regole. Ricordava alle allieve che una persona senza valori era come se non avesse radici. Certe volte i suoi discorsi sembravano rivolti anziché al gruppo a una sola ragazza, quella più difficile e problematica. «Puntare tutto sull’esteriorità è sbagliato», diceva, e il suo sguardo incrociava quello di Annika. «Non siamo il vestito che indossiamo, ma ciò che abbiamo dentro: nel cuore, nella coscienza, nell’anima. Identificarsi con i propri abiti crea una percezione di sé errata e distorta». D’altronde, con quale speranza un’educatrice poteva agire sul comportamento di un padre che compensava la sua assenza riempiendo la figlia di vestiti e beni materiali fino ad averla trasformata in una pupattola tracotante e viziata? Capitavano giorni in cui un sole gentile riscaldava ancora l’aria, tessendo veli di bianca foschia sul lago. Quel giorno Marta e le sorelle Wrangler avevano aspettato che Liesèl terminasse i compiti, e ora erano pronte per una passeggiata, ma lei non voleva saperne. «Sono stanca», dichiarò, «non ne ho voglia». «Potremmo andare al lago e vedere se ci sono le anatre dell’altra volta!» la solleticò Marta. «Non mi va!» rispose Liesèl, seccata, e mise in cartella il libro di matematica. Alle ragazze non era sfuggito il cambiamento che negli ultimi giorni era avvenuto in lei, il diminuito interesse per le cose che prima la divertivano; era diventata taciturna e solitaria e talvolta anche molto scostante. Fräulein Josefine tentò di spronarla: «Su, esci, forse è l’ultima giornata bella prima dell’arrivo delle piogge». «Ho detto che non mi va!» ripeté Liesèl, infastidita da tanta insistenza. Allora le amiche si arresero e si avviarono senza di lei. Rimaste sole, l’educatrice la guardò severa: «Così non va, Liesèl, sei stata indisponente con le tue amiche. Non sarà ancora per la storia del diario?» «No». «Sì, invece. E da un lato ti capisco. Ciò che ti ha fatto Annika è stato orribile, ma devi passarci sopra. Non puoi soffrirne per il resto della tua vita!» «…» «Ho pensato di chiedere all’Heimvater di contattare i tuoi», annunciò

Fräulein Josefine. «Sei l’unica che non ha ancora ricevuto la visita dei propri famigliari». Liesèl chiese con un moto stizzoso: «Quale famiglia?» «Tuo padre, tua madre…» «Non è mia madre». «Lo so, ma ti fa da madre, non è vero?» «No». Una striscia di luce attraversò il tavolo sul quale erano ancora sparsi alcuni oggetti di scuola, per sbiadire subito dopo come strofinata da una mano invisibile. Il sole pomeridiano si stava rapidamente indebolendo. «Perché dici che non ti fa da madre?» «Mi odia. Non voglio vederla». «E se arrivasse tuo padre?» «Papà? È escluso». «Come fai a esserne sicura?» «Lo conosco. Verrebbe solo se al Seeburg ci fosse mio fratello, ma sono io quella che mandano sempre via, non Lukas. Loro non mi vogliono bene, è chiaro. Quando si vuol bene a qualcuno non lo si caccia via di casa!» Raccolse le ultime cose, le buttò nella cartella e andò a deporla sullo scaffale del corridoio. Di ritorno trovò Fräulein Josefine silenziosa e impensierita. Non era uno stato d’animo scaturito da simpatia o pena per un’allieva, ma dalla presa di coscienza che quella ragazzina aveva un problema. «Perché non parliamo un po’ della tua seconda madre?» propose con un sorriso solidale. C’era silenzio nella sala. Annika dabbasso spazzava il cortile e le altre collegiali erano uscite per un giretto nei dintorni. Liesèl esitò, poi rispose, educata: «Grazie, ma ora ho mal di testa». «Ragazza mia, i tuoi frequenti mal di testa cominciano a preoccuparmi», fece l’educatrice. «Cosa devo fare con te?» «Forse darmi un’aspirina come l’altra volta», suggerì Liesèl. Fräulein Josefine sospirò: «E va bene! Poi se vuoi sali in camera, ti distendi un po’ e all’ora di cena verrò a chiamarti». La camerata deserta le fece uno strano effetto. I letti calati nelle prime ombre della sera davano un’impressione di tristezza e solitudine. L’ambiente, quando era pieno di ragazze, sembrava familiare e quasi accogliente, ma ora il vuoto dilatava gli spazi rendendoli freddi e ostili. Liesèl si distese e chiuse

gli occhi. Un dolore sordo le batteva alle tempie. Doveva essersi appisolata perché si svegliò di soprassalto. Annika era al lato del letto con un bicchiere in mano nel quale intingeva due dita spruzzandole l’acqua in faccia. Liesèl balzò su, ancora stordita dal sonno. «A quest’ora non è permesso stare qui!» pontificò Annika col tono da maestrina. «Ho il permesso dell’educatrice», si giustificò Liesèl. L’altra continuava il giochetto degli spruzzi, ma Liesèl se ne stufò. Con un colpo secco scaraventò via il bicchiere che volò sul pavimento con un gran tonfo. Stranamente non si ruppe. Annika fece una smorfia, si spostò in fondo al letto, poggiò le mani sulla spalliera e disse: «Io sono salita per lavarmi, spazzando il cortile sono rimasta coperta di polvere. Che schifo!» Liesèl si asciugò il viso con il dorso della mano, non aveva alcuna voglia di fare conversazione con Annika. L’altra però non era dello stesso parere. «Ricordi quando ti scrissi che te l’avrei fatta pagare?» esordì con aria trionfante. «Tornasti dai contadini con quello stupido giaccone da pecoraia e Rainer…» «Ti ha detto che sei odiosa. E allora?» «Be’, te l’ho fatta pagare, no?» «Giusto, stupida!» rispose Liesèl, ironica. «Ma la stai pagando anche tu, sei in punizione!» «È vero», ammise l’altra, «ma per me durerà solo un mese, mentre tu starai male ancora per un bel po’! Ti vedo, non credere, hai sempre una faccia stravolta! Non stai più con le tue amichette e a scuola sei peggiorata. Ti sei già beccata un richiamo verbale e alla fine dell’anno sarai bocciata! Ah, ah!» Scosse i capelli biondi che ora portava lisci sulle spalle. Aveva lineamenti così belli e nello stesso tempo era così cattiva e maligna. Cominciò a declamare ciò che Liesèl aveva scritto sul diario e che si era trovato appiccicato sulla bacheca. Doveva averlo imparato a memoria. Era quella dichiarazione di rammarico e affetto per un padre freddo e scostante che, fin da quando aveva memoria, mostrava amore solo per il figlio maschio. Annika recitava con un pathos così insopportabile che la rabbia e l’umiliazione che bollivano in Liesèl erano forse ancora più cocenti di quelle che aveva provato alla vista dello scempio in quel giorno orribile. Ma già Annika sferrava il colpo successivo.

«Volevo dirti un’altra cosa. Rainer ora è arrabbiato con me, ma lui una come te non la guarderebbe nemmeno di traverso!» Sul suo viso si allargò un sorriso beffardo: «Vuoi sapere il motivo? Perché sei brutta. E vesti come una poveretta. Tu non sei nessuno!» Riprese fiato e ripeté con maggior perfidia: «Ricordati: TU NON SEI NESSUNO!» E in un istante era scivolata via come un serpente.

9

TU NON SEI NESSUNO! Annika la considerava una nullità e non poteva sopportarlo. Lei invece si credeva importante perché possedeva scarpe eleganti e blue jeans originali. Eppure Fräulein Josefine aveva detto che non si era quello che si indossava, ma come si era dentro: onesti, retti, coscienziosi. L’educatrice la trovò rannicchiata sulla sponda del letto, immersa nei suoi pensieri. Liesèl sobbalzò quando sentì chiedere: «Stai meglio?» Solo in quel momento si accorse che l’aspirina aveva fatto effetto. «Sì, grazie, è passato…» Ma rimase cupa. «Qualcosa non va?» chiese l’educatrice. Per un attimo Liesèl considerò se riferire del nuovo scontro avuto con Annika, ma poi decise di non farlo. Avrebbe dovuto ammettere quanto la frase TU NON SEI NESSUNO l’avesse colpita in profondità. Era come se l’altra le avesse posto davanti uno specchio nel quale si rifletteva solo un alone confuso. «Pensavo alle mie amiche», mentì, «saranno arrabbiate con me». «Dovresti chiedere loro scusa», consigliò Fräulein Josefine. «Sei stata scorbutica. Non se lo meritano. L’amicizia è un valore, non scordartelo. Ma farete pace, ne sono sicura». Mentre Liesèl si alzava, l’educatrice disse: «Peccato che tu non sia andata con le ragazze, forse il mal di testa sarebbe sparito senza la pastiglia. Doris aveva intenzione di disegnare le anatre». Liesèl fu stupita. «Non sapevi che le piace disegnare?» «No…» «È davvero molto brava. Riesce a tracciare con pochi segni ciò che ha davanti, sono rimasta sorpresa. Ha talento».

«È la prima volta che lo sento», disse Liesèl, stranita. «Tu ora stai bene?» «Sì». «Allora devo dirti che l’Heimvater ti aspetta nel suo ufficio». «Ma come! Adesso?» «Prima di cena. Una cosa veloce». «Ho fatto qualcosa che non va? «Stai tranquilla, è solo un piccolo colloquio». Il direttore la ricevette seduto alla scrivania e le sorrise, ma i suoi occhi così seri facevano sembrare seri anche i sorrisi. Le fece cenno di accomodarsi. La giornata era stata limpida e un fiammeggiante tramonto riverberava nella stanza, dando una sfumatura di rosso anche al ritratto di Nietzsche. L’Heimvater ripiegò il giornale ed esordì senza preamboli: «Fräulein Josefine e io siamo in pensiero per te». Liesèl inspirò: «Perché?» «Noi crediamo che l’episodio del diario ti abbia ferita più di quanto temessimo, e ci rendiamo conto della tua sofferenza psichica. Ehm… significa il tuo malessere interiore. Che è molto evidente. Sei fredda con le amiche, mostri disinteresse per ciò che prima ti divertiva, soffri di insonnia e non hai appetito. Non va bene, ragazza». Fece una pausa e diede un’occhiata distratta al giornale. «Io sto pensando di farti visitare da un medico speciale», aggiunse infine in tono paterno, e nello stesso tempo deciso. Liesèl trasalì: «Io non sono malata!» «Ci sono malattie che non si vedono, ma non per questo vanno ignorate. Per curarle occorrono medici speciali». Lei si sentì perduta e scoppiò in lacrime. «Cosa posso fare per stare di nuovo bene? Mangerò di più e uscirò con le amiche e… e… la prego!» Lo aveva chiesto con un tono così accorato che l’Heimvater si intenerì: «Be’… vediamo. Potresti ad esempio sforzarti di dimenticare l’episodio del diario e ogni volta che ti viene in mente pensare con tutte le tue forze ad altro. Vogliamo fare una prova per qualche giorno?» «Sì, sì!» esclamò lei con l’ultimo singhiozzo. «Brava, ho fiducia in te. Ora Annika sta scontando la sua punizione e non oserà mai più meditare certe canagliate, almeno non al Seeburg. Sarà più gentile e educata, andrà d’accordo con tutti».

Vedendo l’espressione dubbiosa di Liesèl domandò: «Non ne sei convinta?» Lei esitò. «C’è qualcosa che dovrei sapere?» Allora sbottò: «Oggi pomeriggio Annika mi ha gridato: ‘Tu non sei nessuno, sei brutta e vesti da poveretta! ’ e raccontò dell’incontro nella camerata». L’Heimvater tacque, scosse solo la testa. Si alzò e fece alcuni passi avanti e indietro, poi si fermò davanti alla finestra e guardò fuori. «Sarà una notte stellata», annunciò quasi a se stesso. Quando tornò a sedere ribadì: «Parlerò di nuovo con Annika, è un caso molto difficile. Sì, molto difficile». Aggiunse di punto in bianco: «Io continuo a pensare che tu dovresti scrivere, Liesèl. Perché non ricominci con un nuovo diario?» «No», lei escluse drasticamente. «Allora usa un quaderno vuoto e scarabocchiaci ciò che ti viene in mente: pensieri, rabbie, ricordi…» «No, no…» replicò, non convinta. Sbirciò verso il ritratto di Nietzsche e si chiese quanto avrebbe dovuto ancora crescere per poter leggere un’opera del grande filosofo. Ma a un tratto le sembrò che qualcosa in quel viso statico si muovesse. Che quello sguardo, diretto fino a un momento prima verso un improbabile orizzonte, si girasse lentamente verso di lei quasi che l’immagine volesse rivolgerle la parola. Per un istante si spaventò, poi scoppiò a ridere come quando si ha l’impressione di essersi per un attimo smarriti in un sogno bizzarro. «Vorrei fare un giornalino!» dichiarò, decisa. L’Heimvater la guardò sorpreso. «Il giornalino del Seeburg!» specificò lei. Lui rimase per qualche momento soprappensiero, poi si alzò e si accostò a un mobile massiccio. Aprì un ampio cassetto e si ripresentò con una catasta di carta sul braccio. Gliela mise davanti sulla scrivania: «Ecco il tuo giornalino». Liesèl strabuzzò gli occhi. «È carta buona», asserì. «Me ne è rimasta un po’… diciamo da un mestiere precedente. Dovrai cercarti dei collaboratori, non puoi fare un giornale da sola!» Lei non riusciva a proferir parola.

«Vi do anche una stanza, avrete bisogno di una redazione. Sto pensando a quel vano inutilizzato vicino all’ingresso della cappella. Contiene già un tavolo e qualche scaffale. In soffitta sono rimaste delle vecchie sedie, manderò un paio di ragazzi per recuperarle. Che ne dici?» «Io…» «Ogni edizione dovrà avere almeno quattro pagine», lui ipotizzò. «Il numero finito sarà infilato in un apposito portagiornali che bloccherà le pagine al centro e che così rimarranno anche nella giusta successione. Il bastone avrà un gancio che consentirà di appendere il giornale alla bacheca. Lo usano nei caffè viennesi. Posso procurarmi in pochi giorni un paio di questi aggeggi, ho amici nella capitale». Detto questo sollevò buona parte della carta ed esortò Liesèl a prendere il resto: «Andiamo, ti mostro la vostra redazione». La precedette alla porta. Lei afferrò la risma di carta e lo seguì. Pensò: Tanto sto solo sognando.

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La nuova redazione era un vano lungo, abbastanza capiente, occupato da un robusto tavolo fratino e due scaffali vuoti che scorrevano lungo un muro. L’altra parete era invece dominata da quattro immagini sacre incorniciate con listelli scuri. L’unica finestra dava sul cortile interno e un forte sentore di acqua santa filtrava dalla vicina cappella. Misero la carta sul tavolo. L’Heimvater le rivolse uno di quei sorrisi che volevano essere affettuosi, ma che, a causa del suo sguardo austero, sembravano sempre «sorrisi severi». «Buona fortuna per il tuo giornalino» disse. «Hai già pensato a un nome?» Questa volta Nietzsche non c’entrava quando lei rispose d’istinto: «L’Eco del Seeburg». Liesèl tornò alla sala studio carica di emozione. L’educatrice fu entusiasta della novità. Chiese un momento di attenzione alle ragazze presenti e annunciò il progetto del giornalino, invitando chi avesse intenzione di collaborare a farsi avanti nei giorni successivi con Liesèl. Si diffuse un generale mormorio di sorpresa. Una ragazza desiderava sapere che tipo di contributo servisse. Fräulein Josefine rispose che chiunque avesse qualcosa da dire sarebbe stata la benvenuta. L’unica che sembrò rimanere indifferente era Annika. Continuava a parlare a voce alta con il suo clan e richiamò irritata un’adepta che manifestava un’esagerata curiosità per la notizia. Poco dopo suonò la campanella per la cena. In refettorio, mentre Marta, Greta e Doris commentavano la cena, a Liesèl sorsero i primi dubbi: non era stata troppo precipitosa a proporsi un intento così impegnativo? Sarebbe stato solo un giornalino da collegio, ma ciò nonostante non doveva contenere sciocchezze! E, soprattutto, avrebbe dovuto

essere un’attività di squadra! Ma con chi? Marta le pizzicò un braccio: «A cosa pensi?» Liesèl scosse la testa: «Niente, niente…» «Ti è venuta un po’ di strizza?» «Hmm… forse». «Come ti è saltata in mente questa cosa?!» Sul volto di Liesèl comparve uno strano sorriso: «È stato un suggerimento di Nietzsche». «Nietzsche chi?» «Alcuni giorni fa a scuola non abbiamo forse ripassato la storia dei grandi filosofi?» «Ah, quel Nietzsche! Che c’entra con la tua decisione?» «Se te lo dico mi prendi per pazza». «Perché pazza?» si intromise Greta. Liesèl tagliò un canederlo in due, fece spallucce e tacque. Greta scosse la testa: «Oggi sei tutta strana». Marta troncò la conversazione e si chiese: «Chissà se stasera c’è anche il dolce?» Sbirciarono verso il portavivande ed effettivamente si era già formata una piccola fila, era il segnale! Si accodarono a loro volta. Spazzolato via anche il budino alla vaniglia, Greta suggerì: «Se non dovessi trovare collaboratori per il giornalino potresti sempre dire all’Heimvater che hai cambiato parere. Non puoi mica farlo da sola!» «Questo no!» si sdegnò Liesèl. Oltre tutto aveva già la carta. Guardò da una all’altra e dichiarò a sorpresa: «Inizierò con voi tre». «Come come?» fece Marta. «Doris sa disegnare», rispose Liesèl, seria. «Me lo ha detto Fräulein Josefine. In ogni giornale serve qualcuno che sappia disegnare». Doris fece un segno di protesta. «L’educatrice ha detto che sei un talento precoce», riferì Liesèl. «Davvero?» chiese l’altra con un brillio negli occhi. «Lo giuro». Greta commentò: «Nostra nonna era disegnatrice di moda ed è convinta che Doris abbia ereditato il suo talento». La sorella annuì, lusingata. «Tu invece potresti scrivere piccoli racconti», Liesèl propose a Greta, «e Doris li completerebbe con i suoi disegni».

«Io non sono capace di scrivere racconti!» «Non è vero. L’altro giorno ci hai detto che la tua insegnante aveva letto un tuo tema in classe», le rammentò Liesèl. «Poi nel pomeriggio lo hai fatto leggere anche a noi. Dovevate cimentarvi in una storia fantastica e tu hai inventato quella di un gatto e un cane parlanti. Il gatto era un bastardino e il cane un esemplare di razza e talmente coccolato dai padroni che si sentiva soffocato, triste e infelice. Il finale era geniale!» «Geniale…» sorrise Greta, contenta. «Sì, proprio geniale», ripeté Liesèl. I ragazzi di turno dello sparecchiamento cominciarono a raccogliere le stoviglie. Mentre salivano per il rito della soffitta continuarono a parlare del giornalino. «E io cosa potrei fare?» domandò Marta, a un tratto interessata a una collaborazione. «Non so… forse delle interviste», propose Liesèl. «Interviste?! E a chi? Non abbiamo celebrità al Seeburg». «Non servono delle celebrità. Potresti fare delle domande a Frau Gerta, alle cuoche, agli educatori o al prete che alla domenica celebra la messa». «Tu sei matta! Cosa potrei chiedere a un prete?» «Ad esempio… perché Dio non protegge i deboli e permette che il male vinca sempre». C’era movimento in soffitta. Per un attimo osservarono una fremente Doris. Aveva scoperto, infilato nella maniglia del suo armadietto, un biglietto del suo fan. Lo sfilò e lo lesse con evidente delizia. «Che smorfiosa è diventata», sospirò Greta. «Guardala, va in brodo di giuggiole! Se lo raccontassi a casa… Il mio ‘spasimante’ invece non si fa più vivo da due giorni». «Si sarà trovato un’altra», le rispose Liesèl ammiccando. «Ah, grazie! Per te mi ha già scaricata!» Ma ora le priorità di Marta erano cambiate. «Mi è venuta un’ispirazione». «Sarebbe?» «E se intervistassi Herr Tobias?» «Ottima idea», approvò Liesèl. «Potremmo andarci tutte insieme, così Frau Marie ci prepara i krapfen». Videro comparire Annika insieme a due del suo clan. Si sbrigarono e in cinque minuti erano sparite.

«Veloci come fulmini», ghignò Greta. Quella notte a Liesèl successe il contrario di ciò che capita ad altre persone che, dopo aver subito una forte emozione, non riescono a prendere sonno. Lei invece si addormentò quasi subito e al risveglio si sentiva vispa e riposata. La mattina seguente la temperatura era scesa, il cielo era basso e scuro e una fitta nebbia limitava la visuale. Dopo la prima colazione Fräulein Josefine aveva mandato tutte in soffitta per sostituire l’indumento di mezza stagione con il cappotto invernale. Liesèl si accorse che dall’anno precedente il suo si era un poco ristretto, ma aveva solo quello, e avrebbe dovuto passarci l’inverno! Quando Marta e Liesèl entrarono in classe videro subito Annika circondata dalla sua corte, che come al solito ignorò le compagne del Seeburg. Nella seconda ora l’insegnante annunciò che presto avrebbero cominciato, nell’ora dei lavori manuali, a confezionare il capo che ogni alunna avrebbe scelto di realizzare. Liesèl non aveva cambiato idea: pantaloni alla pescatora da portare in primavera! Annika, presuntuosa e assurda, optò per una camicia da notte in seta e dichiarò che si sarebbe fatta mandare il tessuto da suo padre. Risultato: un coro di ironiche risate. L’insegnante evitò i commenti e suggerì alle altre di recarsi in un negozio apposito, indicare l’indumento che si intendeva cucire, far calcolare la metratura e comprare la stoffa. «Dobbiamo salire dal direttore per i soldi», bisbigliò Liesèl a Marta. Durante l’intervallo, Annika fece recapitare da una sua adepta un biglietto al banco di Liesèl sul quale c’era scritto: «Anche con i pantaloni alla pescatora TU NON SARAI NESSUNO!» Lo passò a Marta che commentò con una smorfia di disprezzo: «Non farci caso, lei ha la patente della superstupida». Tornate al Seeburg, dopo il pranzo e i compiti, Liesèl esortò Greta, Marta e Doris a seguirla nella redazione del giornalino. La carta era lì e aveva l’aria di sfida: usatemi! Si sedettero attorno al tavolo e rimasero in silenzio per un po’, come spaesate. Si sentivano proiettate in un luogo estraneo, un ambiente austero e severo che oltre tutto sapeva di chiesa. A un certo punto Doris interruppe il silenzio: «C’è odore di acqua santa!» Tutte scoppiarono a ridere.

Liesèl si schiarì la voce ed esordì: «È meglio che cominciamo con i discorsi seri. Eccoci qui nella nostra redazione…» «Che sa di chiesa», ripeté Doris con un risolino. Tutte sghignazzarono. Liesèl batté le nocche sul tavolo: «Signorine, un po’ di disciplina, per favore!» «Basta che non cominci a fare il capo», la avvisò Marta, semiseria. «Ho l’aria del capo?» fece Liesèl, sollevando un lembo di stoffa del suo modesto abituccio. «Non ancora», ghignò l’altra. «Bene, basta così. E cominciamo proprio da te, Greta. Tu scriverai racconti fantasiosi e Doris li completerà con i disegni. Siamo d’accordo?» Confermarono l’impegno e Liesèl passò alle interviste di Marta. «La più importante sarà quella al signor Tobias, le altre saranno meno impegnative. Con domande semplici, prese dalla vita quotidiana». «Devo intervistare le nostre cuoche? Non è che abbiano da raccontare grandi cose della vita», dubitò Marta. «Oh, ne avranno a sufficienza», ribadì Liesèl. «Ad esempio come accontentare i gusti delle sessanta persone che vivono e mangiano al Seeburg. Oppure il grado di difficoltà di certe ricette. Ho sentito dire che, per preparare alcuni piatti, le cuoche si devono alzare alle cinque del mattino». Le ragazze si scambiarono sguardi stupiti. A un certo punto Doris volle sapere: «Ma tu cosa farai per il giornalino?» «Scriverò roba autobiografica», rispose Liesèl. «Ho vissuto la guerra in Germania e ce n’è da raccontare». In quel momento bussarono alla porta. Si guardarono sorprese, poi Liesèl andò ad aprire. Era Michaela, quella ragazzina di Linz sempre dileggiata da quell’antipatica Heidi perché piccolina e bene in carne. «Io vorrei collaborare al giornalino», dichiarò con le guance rosse. Fu invitata a entrare e le offrirono una sedia. «E cosa ti piacerebbe fare?» chiese Liesèl. Solo in quel momento si accorse che l’altra aveva con sé un libro. «È un volume di barzellette», spiegò la ragazza, «me lo hanno regalato le mie zie per il mio ultimo compleanno. È una raccolta delle più belle barzellette ideate durante gli ultimi trent’anni. C’è anche la traduzione di quelle estere, spagnole, cinesi o russe. Alcune fanno molto ridere, davvero! Potrei copiarne tre o quattro per ogni edizione…» Si bloccò, presa

dall’emozione. «È un’ottima idea», approvò Liesèl. «Ma come sono? Non è che…» «No, no, pulite!» assicurò Michaela. Liesèl si rivolse alle altre: «Voi che ne dite?» Tutte annuirono entusiaste. «Allora sei dei nostri», dichiarò Liesèl. «Come si dice in questi casi?» «Benvenuta a bordo», suggerì Marta. Liesèl le rivolse uno sguardo di stima: «Sei sveglia, ragazza!» Rifletté, poi disse: «È rimasta una cosa da fare, un cartello da applicare alla porta con su scritto REDAZIONE. Una cosa carina, un po’ artistica». «Perché guardate tutte me?» protestò Doris. Al refettorio Michaela si sedette vicino al quartetto provocando gli sguardi torvi di Heidi. Lei aveva sempre esercitato una grande influenza su Michaela e ora sembrava inferocita perché l’altra aveva preso un’iniziativa autonoma. Per non parlare delle occhiate velenose che arrivavano da Annika! Parlava fitto con le sue fedeli e il tema delle loro conversazioni era palesemente il giornalino. Più tardi in soffitta Liesèl trovò il suo primo biglietto: un ragazzo offriva la sua collaborazione. La voce era già arrivata ai maschi! Si firmava Dorian Kolb. Diceva di parlare perfettamente l’inglese perché sua madre era nata a New York. Poiché leggeva regolarmente riviste americane per giovani – sua madre gliene mandava per posta – propose di raccogliere notizie interessanti dagli Stati Uniti che forse in Europa erano ancora sconosciute. «Chi è questo Dorian Kolb?» chiese Liesèl, sbirciando verso il gruppo dei ragazzi che si trovavano nei pressi dei loro armadietti. Ma non riuscivano a individuarlo. «Però il nome Dorian è romantico», dichiarò Marta, storcendo gli occhi. «Che scema sei!» sghignazzò Liesèl. Il giorno seguente, dopo aver sbrigato i compiti – nei quali Liesèl, tutto a un tratto, era diventata sveltissima – il quintetto si riunì nella redazione. C’erano ancora tante cose da discutere, dettagli da decidere. «Dobbiamo chiedere i soldi all’Heimvater», disse a un certo punto Marta a Liesèl. Lo stavano quasi dimenticando! «A cosa vi serve il denaro?» chiese Greta. Anche lei faceva la terza, ma in una diversa sezione. «Nell’ora di attività manuali cuciremo un indumento di nostra scelta», spiegò Liesèl. «Io voglio pantaloni alla pescatora di colore blu, come il

tessuto jeans». «Io invece mi farò una camicetta a quadretti rossi con degli spacchi ai lati», dichiarò Marta. «Spacchi…» ripeté Doris con una smorfia da fatalona. «Come sei stupida!» E giù linguacce. In quel momento bussarono alla porta. Era Dorian Kolb. Gli offrirono una sedia. Aveva quattordici anni, anche lui era in terza, ma a causa di una malattia aveva perso un anno di scuola. I suoi genitori si erano conosciuti a Vienna, sua madre era giornalista che scriveva per una testata di Boston. Si erano sposati nel 1936 e due anni dopo era nato Dorian. Con l’annessione dell’Austria alla Germania suo padre era stato chiamato alle armi e nel 1942 era morto durante la campagna del Nord Africa. Dopo la guerra la madre aveva ricominciato a lavorare per un giornale americano, ma da cittadina austriaca. Poiché era costretta a viaggiare sempre di più, avevano deciso, di comune accordo, che Dorian sarebbe stato iscritto al Seeburg. Mentre lui parlava, le ragazze lo guardavano affascinate. Era davvero un bel ragazzo. Indossava jeans, probabilmente originali, e un maglione scuro a girocollo. Lui sembrava divertito dell’impressione che aveva fatto, ma loro si stupirono di Michaela: parve che a un tratto si fosse liberata della sua timidezza. «Sei così bello», disse a Dorian, guardandolo con occhi dolci. «Anche tu», rispose lui, forse per gentilezza. «No!» esclamò lei. «Sono brutta e grassa». «Chi ti ha detto che sei brutta e grassa?» «Heidi!» «Ah, Heidi», sorrise lui. «È quella un po’… insomma, è quella strabica?» «Sì, ma…» «I tuoi occhi sono molto più belli di quelli di Heidi», dichiarò Dorian. «Non ho mai visto un azzurro così brillante, mi puoi credere». Michaela parve affondare nel suo profondissimo rossore!

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Marta e Liesèl chiesero il denaro al direttore, e dopo i compiti scesero in paese per comprare le stoffe. La giornata era fosca, un’acqua lenta e pigra scendeva da nuvole basse e gonfie. Sull’insegna del negozio spiccava il nome IRMA KRAUSEHAR. L’interno era grande e pieno di rotoli di stoffa di ogni qualità e colore. Marta ebbe il tessuto che desiderava, ma per Liesèl non c’era quello del genere jeans. Dovette accontentarsi di un’anonima tela blu. Rientrarono verso le sei, era già quasi buio, e mostrarono a Fräulein Josefine gli acquisti. Dopo aver riposto le stoffe nello scaffale, si diressero verso la redazione. Vi trovarono Greta, Doris e Michaela in attesa che Dorian offrisse l’assaggio di una traduzione di un pezzo tratto da una rivista americana. Si aggiunsero, incuriosite, al gruppetto. L’articolo riguardava i giovani americani degli anni cinquanta, una generazione irrequieta, annoiata dalle grigliate sui praticelli dei sobborghi, dalle case piene di tostapane e frullatori, dal baseball, dal cibo precotto del supermercato e della televisione. Una gioventù permeata da un forte spirito di ribellione e dal rifiuto dei valori tradizionali della società. Inoltre moltissimi ragazzi avevano subito le conseguenze della Seconda guerra mondiale perdendo almeno un membro della famiglia, spesso proprio il padre. «Anche i nostri padri sono stati al fronte», obiettò Greta, interrompendo Dorian. «È vero», rispose, «ma con la differenza che fu la Germania a cominciare il conflitto, gli americani e gli altri alleati sono scesi in guerra per salvare l’Europa dal nazismo». Le ragazze restarono un momento in silenzio, era un ragionamento al quale non avevano mai pensato. «Certo, a nessuno piace la guerra», considerò Dorian. «E all’epoca

nemmeno gli americani ne furono entusiasti. I giovani volevano solo godersi la spensieratezza della propria età, frequentare il liceo o l’università, innamorarsi, andare a ballare, divertirsi. Non capivano che cosa avesse a che fare l’America con una guerra scoppiata nella lontana Europa». Suonò la campanella per la cena. «Mi sono dilungato…» si scusò Dorian, «ma con una madre di origine newyorchese, l’argomento mi interessa. Parte delle mie radici sono negli Stati Uniti». «L’articolo è molto interessante», disse Liesèl. «Non immaginavo che i nostri coetanei americani, o quasi coetanei, fossero così inquieti e insoddisfatti. L’America ha pur vinto la guerra!» «È vero, ma oggi i giovani vogliono nuovi stimoli e nuovi idoli», spiegò Dorian. «Qualcosa che si muova, che li entusiasmi. Domani vi tradurrò il resto. In seguito lo metterò su carta per il nostro giornale». A Liesèl piacque quel nostro, sapeva di affinità di interessi, di amicizia e di condivisione di un progetto. Il giorno seguente, dopo i compiti, decisero di andare dai contadini per l’intervista di Marta a Herr Tobias. Volle aggregarsi anche Michaela, e non se la sentirono di dirle di no. Non pioveva più, ma l’aria era carica di umidità e un cielo grigio e opaco si stendeva sul castello Seeburg. Salendo il pendio dovettero fare attenzione a non scivolare sul terreno fradicio. Frau Marie e il nonno erano felici di rivedere le collegiali. La Stube accolse le ragazze con un bel calore e odore di latte acido, pancetta affumicata e fumo di pipa. Herr Tobias si congratulò per l’idea del giornalino, ma anziché accettare l’intervista preferì raccontare liberamente di sé. Prima però esortò la figlia a offrire qualcosa alle ospiti. Questa volta non furono i krapfen, ma pane casereccio di segala e salame di loro produzione. Certo, di salame alla mensa del Seeburg non se ne parlava proprio, e non era quotidiano nemmeno il formaggio. La carne due volte al mese. Poiché le sedie erano poche, le ragazze si sistemarono sul pavimento attorno a Herr Tobias godendosi l’insolita merenda, accompagnata da un buonissimo succo di mela. Alla fine Marta aprì il blocco, ma solo per prendere appunti, e dopo una pensosa tirata alla pipa, Herr Tobias esordì: «Sono vecchio e pieno di acciacchi. A vent’anni le ossa non si sentono, è come se tu non le avessi, ma

alla mia età pesano come pietre e fanno male». Frau Marie fece un gesto di affettuosa rassegnazione come a dire: «Ecco che il nonno ricomincia a lamentarsi». «Dopo che sei stato in guerra il tuo cervello e la tua mente cambiano», proseguì il vecchio, «non sarai mai più la persona di prima. È come se la vista di sangue e morte riuscisse a contagiare la tua anima con un virus inguaribile. E anche se il corpo guarisce dalle ferite inferte dal nemico, il tuo spirito resta contaminato. Le guerre sono orribili sciagure per l’umanità e voi dovete rendervene conto, ragazze!» Lo disse con tanta veemenza che il gatto, prima accucciato sulla panca della stufa, fuggì con un salto spaventato. «Io sono tornato mutilato anche nel fisico», aggiunse con un misto di rancore e amarezza. «Non è giusto! Qui servivano due braccia utili e non un inabile. In mia assenza mancò anche mia nuora, vittima di un calcio alla tempia da una mucca. Se ne andò in nemmeno un’ora. Rimasero solo mia moglie e mia nipote insieme a un ragazzetto del paese a portare avanti la fattoria. Marie all’epoca aveva solo dodici anni». Restò per qualche momento in silenzio, fissando il micio che si era riparato sotto il tavolo. Dopo la chiamata in guerra del figlio di Tobias, che aveva lasciato a casa i genitori, la moglie e la figlioletta Marie, nella primavera del 1944 era toccato anche a Herr Tobias. Dopo quattro mesi fu gravemente ferito in Russia e trasportato su un’ambulanza della Croce Rossa, assieme ad altri compagni malconci, in un pronto soccorso da campo alloggiato in una tenda, dove gli fu diagnosticato un trauma alla spina dorsale. Una visita più accurata in un ospedale territoriale sempre della Croce Rossa diagnosticò severe difficoltà motorie giudicate irrimediabili e permanenti. Gli venne consegnato un bastone in legno con impugnatura a T e, non potendo più servire alla causa del Führer, venne rimandato in patria. «Quando vi guardo, ragazze care, mi sento felice perché potete trascorrere un periodo della vostra vita libere e spensierate al Seeburg», riprese dopo una nuova pausa. «Ma non è sempre stato così. Forse non sapete che dal 1940 al 1945 il vostro collegio fu la sede del Reichsbann G». «Reichsbann G?» si stupirono. «Era un’unità di sordomuti della Hitlerjugend», spiegò. «In principio i sordomuti erano insieme ai ragazzi udenti, ma poi l’insofferenza nei loro confronti aumentava, così come le angherie e i dileggi, e fu deciso di inserirli

in un reparto speciale, il Bann G. (G, Gehörlose, privi di udito). Al Seeburg appunto era di stanza un reparto di ragazzi sordomuti che venivano addestrati da due tipi feroci. Li educavano alla disciplina, alla cieca ubbidienza al nazionalsocialismo e all’incrollabile fede nella vittoria finale». Fece un nuovo intervallo e per un po’ guardò fisso davanti a sé. Infine continuò. «Un giorno mi trovai davanti alla porta uno di quei ragazzi sordomuti, avrà avuto quindici anni. Sembrava terrorizzato e fece capire a gesti di essere scappato dal Seeburg. Immaginai subito che ci sarebbero stati problemi. Tentai di sapere per quale motivo fosse fuggito, ma lui non riusciva a comprendere la mia domanda. Tremava di paura. Nemmeno dieci minuti dopo si presentò un giovane in uniforme che intuii essere uno degli addestratori. Essendo la nostra casa l’unica a due passi dal Seeburg, il primo luogo dove sospettavano che si fosse nascosto il fuggiasco fu proprio questo. Il tizio, grande e grosso dalla faccia bianca e brutale, si avventò contro il ragazzo urlando come un ossesso malgrado non potesse sentirlo, e cominciò a menarlo. Aveva con sé una specie di manganello e lo usò con inaudita violenza. Io cercai di convincere quella bestia ad avere pietà del giovane disperato, ma lui mi tolse il bastone di mano e me lo ruppe letteralmente sulla schiena. Marie, attirata dalle grida, era corsa fuori e…» Si passò una mano sugli occhi come a soffocare le lacrime. «Le prese anche lei», terminò con la voce rotta. «Povera creatura innocente. E povero ragazzino disgraziato. Il folle aguzzino lo portò via continuando a picchiarlo. L’episodio mi tolse il sonno per molti mesi. Mi doleva così tanto di non aver potuto fare di più per quella creatura e…» «Adesso basta, nonno!» intervenne drasticamente Frau Marie, «e niente proteste. Nemmeno il tuo cuore è più quello di una volta. Basta così!» Per qualche momento tutti tacquero. Poi Marta ringraziò Herr Tobias per la sua testimonianza, per ciò che aveva voluto affidare a loro. Aveva preso zelantemente molti appunti. Di lì a poco le ragazze si congedarono. Il vecchio si fece promettere che sarebbero tornate presto a trovarlo. Rientrarono al Seeburg silenziose e molto colpite da quella storia. Una storia di guerra e dittatura, di partenze forzate e ritorni mesti, di ingiustizia e violenza, e di un uomo costretto a continuare a vivere a dispetto della vana, maledetta ribellione contro un destino che era stato guidato e deformato da un

tiranno privo di scrupoli. Il giorno seguente le ragazze erano impazienti di finire i compiti e ritirarsi nella redazione. Tra le quattro mura in quello stanzone spoglio si era creata un’atmosfera di fervore ed entusiasmo. Il resto delle compagne era curioso di sapere che cosa succedesse dietro quella porta sulla quale campeggiava il fantasioso cartello REDAZIONE. Inoltre si era sparsa la voce che Dorian Kolb era diventato collaboratore del giornalino, scatenando un fiume di chiacchiere. Spesso qualche fanciulla si appostava dietro un angolo per veder passare il bel Dorian che si dirigeva verso la porta misteriosa. Quel pomeriggio riferirono a Dorian il racconto di Herr Tobias, e la storia che al Seeburg era stata alloggiata una sede del Reichsbann G. Anche lui fu molto toccato dall’episodio del ragazzo sordomuto massacrato dal suo crudele carceriere. Il racconto andava scritto, ma Marta si dichiarò spaventata da un compito che le pareva più grande delle sue capacità. Dorian si offrì per darle alcuni consigli. Come preparare una prima stesura riassumendo l’intero racconto e mettendolo in ordine di data e tempo, e tanti altri suggerimenti. «Sembri molto esperto», constatò Marta, stupita. «Mia madre è giornalista», ribadì lui. «Mi dava alcune dritte quando scrivevo sul giornalino della scuola alle elementari». In quel momento Fräulein Josefine bussò alla porta per avvertire Liesèl che era attesa dall’Heimvater. Il direttore l’accolse con l’abituale sorriso un po’ tirato che derivava dal suo sguardo severo. Le chiese come andassero le cose con Annika. C’erano stati altri problemi? Liesèl si accorse di non aver più pensato alla questione, e ammise di essere molto presa dalla preparazione del giornalino. Lui parve contento. Se quell’impegno le aiutava a superare il trauma del diario era un’ottima notizia! Lei gli raccontò la testimonianza di Herr Tobias e l’informazione sul Reichsbann G. Sì, lui ne era a conoscenza, ma l’episodio del ragazzo sordomuto percosso a sangue lo turbò parecchio. «Volete inserire il racconto nel giornalino?» chiese infine. «Certo», rispose Liesèl, ma fece anche cenno al timore di Marta di non essere all’altezza di un articolo così impegnativo. «Sì, è impegnativo», concordò il direttore. «Si tratta di una storia di vita che va trattata con rispetto». Liesèl rimase pensierosa.

«Vorrei fare una proposta», aggiunse l’uomo. «Prima che Marta trascriva l’ultima bozza sulla carta originale, potrei darci un’occhiata io. Che ne dici?» Liesèl esultò e dichiarò che sicuramente Marta avrebbe apprezzato la sua disponibilità. Si sentiva orgogliosa del suo interessamento. Finalmente passarono al vero motivo della chiamata. L’Heimvater sollevò una busta che per tutto il tempo aveva tenuto accanto alla macchina per scrivere e annunciò: «È arrivata stamattina dalla tua famiglia. Poiché è stata indirizzata a me, l’ho aperta. Contiene una piccola somma di denaro come regalo per il tuo compleanno dopodomani, e la richiesta di controllare che tu la spenda in modo sensato. Inoltre…» Si interruppe, perché Liesèl era diventata prima rossa e poi pallidissima. «Stai bene?» «È solo… per la sorpresa». «Bene, bene. E ora ti dò una cosa che ti farà sicuramente molto piacere». Estrasse dalla busta un foglio e glielo passò attraverso il piano della scrivania. Era un disegno di suo fratello: due stelle alpine incrociate e sotto frasi molto commoventi: «Cara Liesèl, tanti auguri per il tuo quattordicesimo compleanno! E non sentirti troppo sola nel collegio, io ti penso sempre e sono impaziente di rivederti a Natale. Tuo fratello Lukas». Più in basso: «Auguri anche da parte di Vati e Mutti!» Liesèl fu presa da una commozione così grande che le mancò quasi il fiato. Provò una gioia indicibile per le parole di Lukas e la sua dimostrazione di affetto. Almeno un membro della sua famiglia le voleva bene! Lesse e rilesse le frasi finché non le si appannò la vista. Allora abbassò il foglio e si mise a piangere. Fu un pianto prolungato e struggente nel quale si concentravano molti dolori, amarezze e frustrazioni subite durante la sua giovane età. Quando si fu finalmente calmata, l’Heimvater dichiarò: «Anch’io desidero farti un regalo, signorina, è vero che ami leggere?» «Sì…» «Vieni con me». Arrivarono a una porta a vetri che immetteva alla sua abitazione privata. Lui mise per un attimo la testa in cucina e disse alla moglie: «Accompagno Liesèl in biblioteca, poi ti spiego». La biblioteca privata dell’Heimvater, Liesèl rabbrividì. I muri erano occupati di scaffali pieni di libri, che meraviglia! La condusse davanti a un reparto che recava un cartello: LETTERATURA

CLASSICA PER RAGAZZI.

«Avevo un figlio», disse l’Heimvater, e Liesèl capì che non c’era più. «Queste erano le opere che lui amava. Scegline una, sarà il mio regalo per i tuoi quattordici anni». Liesèl pensò ancora una volta: Tanto, sto solo sognando. Lesse con attenzione titoli e nomi di autori e alla fine scelse: Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain. Quella sera ne avrebbe avute di cose da raccontare agli amici in refettorio! Il giorno dopo, come succedeva ormai sempre, Liesèl non vedeva l’ora di andare in redazione, ma le altre ragazze avrebbero tardato. Marta e Doris stavano ancora lottando con i loro compiti, Greta a scuola aveva una lezione pomeridiana di cucina, e Michaela era salita in soffitta con il falegname perché si era rotta la maniglia del suo armadietto. Liesèl si trovò sola con Dorian. Lui si era già messo al lavoro, ma quando la vide entrare si fermò. «Hallo, capo!» fece. «Non sono un capo!» rispose lei. «Hai la faccia da capo», la prese in giro. «Smettila! Non mi piace comandare», si difese. Lui si arrese e domandò: «Hai già cominciato a leggere il libro che ti ha regalato l’Heimvater? Sei proprio fortunata a essere stata introdotta in quel santuario!» «Sì, ieri notte mi sono rinchiusa in bagno e ho letto almeno trenta pagine», lei raccontò. «E ho continuato nell’intervallo a scuola. Mi piace moltissimo. Quando lo avrò finito te lo presterò volentieri». «Grazie, ci tengo». Ci fu una pausa, poi Dorian domandò: «E cosa ti comprerai con il denaro che ti hanno mandato i tuoi? Delle belle calze?» Le ammiccò: «Mutande col pizzo?» Lei arrossì: «Non ti facevo così scemo!» «Allora cosa ti comprerai?» Lei indugiò, alla fine pigliò coraggio e gli confidò ciò che aveva in mente: andare dalla parrucchiera al paese e farsi un nuovo taglio di capelli. Dorian domandò secco, asciutto: «Perché?» Lei balbettò: «Ma perché… ne ho bisogno! Ormai sono diventati troppo lunghi».

«Ti arrivano alle spalle», osservò lui in tono pratico. «È la lunghezza giusta». «Non è vero», protestò lei, risentita perché lui non condivideva la sua idea. Successe una cosa molto strana. Dorian allungò la mano attraverso il tavolo e la pose sulla sua: «I tuoi capelli sono perfetti. Un bel biondo scuro e sono anche ricci». Lei domandò, stupita: «Ti piacciono ricci e non…» «Lisci come quelli di… Annika?» fece lui con un filo di ironia. «No, mi piacciono ricci». Per un po’ si guardarono, e lei pensò per la prima volta: ‘Che insolito colore blu hanno i suoi occhi… E sembra anche più grande della sua età’. Lui ritirò la mano perché era entrata Michaela. «Finalmente il falegname ha sostituito la maniglia rotta!» annunciò lei con pathos come se l’uomo avesse salvato il mondo da una sciagura. «Ora non è più di legno, ma di metallo. E luccica. Come luccica!» Dorian disse, divertito: «Hallelujah!»

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Con il denaro del padre e della matrigna Liesèl comprò una nuova penna stilografica con il cappuccio in simil-argento che scriveva a meraviglia. «È un modello moderno», dichiarò la commessa, una giovane rotondetta col viso disseminato di efelidi. La mattina del suo compleanno Liesèl ricevette gli auguri di Fräulein Josefine, Marta, Greta, Doris e Michaela, e in seguito, nel refettorio, anche quelli di Dorian. Lui le mise al polso un braccialetto in cuoio intrecciato: «Me lo ha portato mia madre da un viaggio. È da maschio, ma spero che ti piaccia ugualmente». Lei diventò rossa come un pomodoro maturo e ammutolì. Doris pizzicò Dorian a un braccio: «Vuol dire che tu e Liesèl…?» Lui finse la voce da severo maestro: «Signorina, lei trae sempre grandi conclusioni da piccoli gesti?» Lei rispose di rimando: «Il tuo gesto non sembrava affatto piccolo ma…» «Inequivocabile?» suggerì Marta. Doris ghignò: «Ha parlato Frau Einstein, l’esperta in tedesco». «Per tua norma Einstein non è un letterato ma un fisico», la corresse Marta. Doris fece spallucce e intinse il pane nel caffelatte. Liesèl sfiorò il braccialetto con le dita. Era confusa, imbarazzata, e nello stesso tempo sentiva uno strano vuoto alla bocca dello stomaco. La domenica arrivò il padre di Annika con il tessuto che lei aveva chiesto per la camicia da notte da realizzare durante l’ora di attività manuale a scuola. Proprio quel giorno il periodo di punizione era terminato. L’uomo ignorava il brutto episodio del diario, e così le regalò una borsetta deliziosa comprata a Parigi. Dopo un’ora lui ripartì e Annika ebbe un momento di forte crisi e delusione. I suoi sentimenti per il padre erano autentici. Tuttavia l’amarezza durò poco, e si vantò per il resto della giornata

della borsetta che effettivamente era molto chic. Una sera Liesèl trovò in soffitta il messaggio di una ragazza che desiderava collaborare al giornalino. «Chi è? Dai, chi è?» premevano le altre. «Non indovinerete mai!» Doris scalpitava: «Non farla troppo lunga! Allora?» «Una del clan di Annika». «Nooo! Chi?» «Jutta Seidel». «Nooo!» «Lei è nella mia classe», disse Greta, «ma da quando è diventata seguace di Annika non la posso vedere!» Michaela fece un fischio mal riuscito: «Ragazze, ci sarà la guerra!» Il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, Jutta Seidel bussò alla porta della redazione. Erano al completo: Liesèl, Marta, Greta, Doris, Michaela e Dorian. Aveva il fiato grosso: «Sono scappata di nascosto, se lo sa Annika mi stacca il collo». Le offrirono una sedia. Lei si accomodò, pareva agitata. «Sembra che tu sia fuggita da un orco!» commentò Dorian con un risolino ironico. «Tu non puoi capire», cercò di giustificarsi. «Quando si è nella cerchia di Annika è difficile sottrarsene. Non la conosci». «Ciò che so di lei mi basta», assicurò lui. Liesèl domandò: «Cosa vorresti fare per il giornalino?» «Be’… scrivere di me», rispose. «Pensi che ci sia molto da scrivere su di te?» «Forse no, ma ciò che vorrei raccontare potrebbe interessare ragazzi che hanno una famiglia come la mia». «Che famiglia?» «Mio padre è disperso in Russia e mia madre convive con un altro uomo, che ha due negozi di elettrodomestici. Ma io lo odio! Quando mi parla giro sempre la testa dall’altra parte e lui si arrabbia. Fra noi non ci sono mai stati veri discorsi, ma solo urla. Un giorno, mia madre era andata dal medico, lui venne nella mia camera e… mi toccò il petto». Ci fu un silenzio. Alla fine Dorian chiese: «Come hai reagito?» «Gli ho piantato un’unghia sul collo. Lui ha cacciato un grido ed è uscito

dalla stanza come un lampo. A mia madre raccontò poi di essere stato graffiato dal nostro porcellino d’India». «Le hai detto quello che ti ha fatto?» «No, non ce l’ho fatta. Lei era incinta e stava sempre male. Poi è arrivata a casa nostra una specie di assistente sociale del quartiere, forse per una spiata dei vicini di casa, e ha chiesto di parlare prima con mamma e poi con me. Ho dovuto rispondere a una serie di domande, ma non ho avuto il coraggio di raccontare che lui mi aveva toccata. Temevo che, se lo avesse saputo, mi avrebbe ammazzata di botte. Poco dopo quella visita mia madre cominciò a informarsi sui collegi che si trovavano nelle zone occupate dagli americani, e poiché il Seeburg era l’unico laico, mi ha iscritto qui». «Il bambino poi è nato?» chiese Liesèl. «Sì, un maschietto». «Vorresti davvero raccontare questa storia sul nostro giornalino?» «Perché no? Io non sono certo l’unica ragazza che ha dovuto accettare un estraneo in casa quando il padre non era stato nemmeno dichiarato ufficialmente morto». Si incupì in volto: «È tutta colpa della guerra, la stramaledetta guerra!» Jutta fu accettata come collaboratrice dell’Eco del Seeburg. «E con Annika come la metterai?» domandò Liesèl. «Già, Annika. Vedremo. Mica mi ammazzerà!» I problemi con Annika cominciarono quella sera stessa. Dall’inizio dell’anno scolastico i ragazzi ai tavoloni del refettorio si erano a poco a poco riuniti e consolidati in gruppi che avevano qualcosa in comune. Poteva essere la provenienza dalla stessa regione, la passione per il pallone o le partite di ping pong che al Seeburg erano diventate appassionate. Erano compagnie di soli maschi, o di sole femmine, oppure clan come quello di Annika e ora la squadra dei collaboratori del giornalino. Quando Annika entrò nel refettorio era nervosa, probabilmente perché aveva smarrita una delle sue pecorelle. Jutta infatti, trattenendosi nella redazione fino al suono della campanella, si era aggiunta alla squadra del giornalino. Così quando la scorse seduta fra Liesèl e Dorian, Annika ebbe uno scatto isterico. Mandò una damigella per esortare Jutta a ritornare al suo solito posto, ma lei dichiarò che si trovava bene dove stava. A queste parole, Annika balzò in piedi e lasciò il refettorio senza cenare. «È uscita come se qualcuno le avesse pestato la coda», ridacchiò Greta.

«Le passerà», disse Dorian. «È solo orgoglio ferito. Si crede il centro del Seeburg e non sopporta che qualcuno non la consideri tale. È insopportabilmente presuntuosa». Le fedeli di Annika non sapevano come reagire. Seguirla per solidarietà e rinunciare a mangiare? Ma poi decisero di dare precedenza al «piatto freddo» che riscontrava sempre grande successo presso tutti i collegiali: due tipi di salumi, una fetta di emmentaler austriaco e cetrioli sott’aceto. Più tardi, in soffitta, Annika attendeva Liesèl al varco. Appena la vide accostarsi all’armadietto cominciò a inveire: «Non lo leggerà nessuno quel ridicolo giornalino! E Jutta non potrà mai essere tua amica perché io so qualcosa di lei che tu nemmeno immagini!» «Perché non me lo dici?» domandò Liesèl. «Non darle retta», disse Jutta. Fräulein Josefine, che era di guardia, avvertì Annika: «Finiscila di seminare zizzania». «Zizzania?» protestò l’altra. «Dico solo la verità! Io so qualcosa di Jutta che Liesèl dovrebbe sapere!» Ma, conoscendola, l’educatrice aveva i suoi giusti dubbi. «È meglio che tu prenda le tue cose e torni in camerata», le suggerì con la solita fermezza. «Io torno in camera quando mi pare!» sbottò Annika, ormai fuori controllo. «D’accordo», convenne l’educatrice. «Non mi resta che chiedere domani un colloquio all’Heimvater. Mi stai proprio costringendo». Nominare il direttore faceva sempre un certo effetto su Annika e, pur con un’orribile smorfia, si arrese. Scelse la roba per l’indomani e se ne andò – senza il suo seguito. «A cosa accennava?» chiese Liesèl. «Sta bluffando», fece Jutta. «È una fetente», commentò Marta. «Non dobbiamo dare retta alle sue farneticazioni. È pura cattiveria». «Hai ragione», concordò l’educatrice. «Fate conto che non abbia insinuato niente, altrimenti non se ne viene fuori da questa storia». Ma il sasso era stato gettato nello stagno e ora anche il resto delle collegiali cominciava a chiedersi che cosa avesse inteso Annika con quel misterioso accenno. La mattina dopo si presentò soleggiata con un cielo dal quale il vento,

soffiando per l’intera notte, aveva spazzato via tutte le nuvole. Ma la giornata sembrava nata storta. Marta si alzò con il mal di testa, ne soffriva spesso come Liesèl, e una ragazzina della camerata delle più piccole scivolò e cadde nel bagno riportando un grosso livido a una natica. Anche Fräulein Josefine non era in forma, durante la notte era stata male per un’indigestione. Al refettorio infine non si capiva per quale motivo il caffelatte fosse freddo, e Dorian raccontò che un compagno del suo dormitorio era rimasto a letto con febbre e tosse. Più tardi sarebbe venuto il medico. Annika mantenne un contegno controllato, ma gli sguardi che indirizzava alla schiena di Jutta, che si era di nuovo unita al gruppo del giornalino, sembravano frecce acuminate. Sicuramente la storia non sarebbe finita con l’allusione della sera precedente, non avrebbe mollato prima di aver reso ufficiale ciò che pretendeva di sapere, a torto o a ragione, di Jutta. Annika si scatenò poi a scuola. Attirò fastidiosamente l’attenzione delle compagne sulla borsetta parigina che le aveva regalato il padre, e durante l’intervallo si lanciò in sarcastici commenti sul braccialetto di Liesèl. La poveretta dovette rispondere più volte alla domanda se il bellissimo Dorian fosse il suo ragazzo. Lei arrossiva ogni volta sentendosi una stupida. Nel pomeriggio Liesèl e Marta incontrarono seri problemi con il compito di algebra. Annika, essendo in classe con loro, avrebbe dovuto avere lo stesso impasse, e invece sembrava proprio aver capito tutto al volo. E così, dopo essersi sbrigata con buon anticipo, uscì con le sue damigelle per una passeggiata. Anche Doris e Michaela dopo mezz’ora terminarono i compiti e abbandonarono la sala studio. A Greta sarebbe servito ancora un po’ di tempo per una traduzione dall’inglese, e Jutta doveva prepararsi per un’interrogazione in storia e geografia. Fräulein Josefine si dimostrò il solito angelo salvatore e aiutò le ragazze nei problemi di algebra, ma Liesèl si rivelò più dura di comprendonio di Marta. Malgrado il mal di testa, che l’aveva tormentata fin dal mattino, lei riuscì infatti a concludere gli esercizi prima dell’amica. In seguito l’educatrice le diede un’aspirina e il permesso di salire al dormitorio e sdraiarsi per un’oretta sul letto. Era ormai una prassi consolidata in caso di mal di testa. Liesèl sudava, questa roba diabolica proprio non voleva entrarle in testa. Era vero, lei odiava la matematica ed era sempre stata promossa per un soffio

a causa dell’insufficienza in quella materia, ma l’algebra era ancora peggio. Non riusciva a capirla. Tutti quei simboli, quelle lettere, le procedure incomprensibili… Davvero un incubo! Dopo aver finito i compiti, Michaela e Doris si erano spostate in redazione, dove però non c’era ancora nessuno. In realtà, Michaela aveva già copiato quattro barzellette su carta originale per il primo numero del giornalino, Doris invece era ancora in attesa che Greta terminasse il racconto per poter aggiungere i disegni. Lo stanzone sembrava arido e vuoto senza gli altri, mancava anche Dorian. A un certo punto Doris buttò li: «C’è un sole così bello fuori! Perché non…» «Sì, un bel sole…» concordò Michaela. «E se uscissimo per fare un giretto? Giusto dieci minuti. Che ne dici?» Michaela fu d’accordo e zitte zitte se la svignarono. Quando poco dopo entrò Greta, a sua volta trovò la stanza deserta. Prima o poi qualcuno arriverà, si disse, e prese a lavorare alla bozza del suo racconto. Poi entrò Dorian. Finalmente anche Liesèl riuscì a terminare l’odioso compito, seppure con l’aiuto di Fräulein Josefine. Jutta le fece segno che ne aveva ancora per mezz’ora. Liesèl annuì, ringraziò l’educatrice, lasciò la sala studio, depose le cose di scuola nel suo comparto dello scaffale e si avviò verso la redazione, trovandola vuota. Che strano, si disse. Avrebbero dovuto esserci già Doris, Michaela, Greta e Dorian. Disorientata si avvicinò alla finestra. Fuori Frau Gerta spazzava il cortile. Quella donna lavorava sempre! Tornò al tavolo e si sedette in attesa che arrivasse qualcuno. Ma non arrivava nessuno. Cominciò a innervosirsi. Possibile che tutti fossero andati per i fatti propri senza avvertirla? Dopo mezz’ora era decisamente arrabbiata. Basta! Uscì, diede un’occhiata allo scaffale, prese Tom Sawyer e si mise a leggerlo nella redazione vuota e silenziosa. Scivolò dentro la trama come in un film. Ascoltava le voci dei protagonisti, ne vedeva i gesti e le espressioni, era affascinata da quel ragazzo irrequieto e vivace che ne combinava di tutti i colori con i suoi amici Huck e Joe, trovandosi nello stesso tempo in perenne contrasto con il fratellastro Sid.

Passarono i minuti, poi un’ora. Quando arrivò Jutta Liesèl era giunta quasi alla fine del libro. «Ho fatto tardi», annunciò lei. «Lo vedo», disse Liesèl e infilò un dito tra le pagine. «Hai idea di dove siano gli altri?» «So solo che quelle che avevano finito i compiti sono uscite, delle nostre non so niente». «Ma… Doris e Michaela? Greta? Nessuna traccia nemmeno di Dorian». Jutta scrollò le spalle: «Che ne so… Com’è il libro?» «Bellissimo!» «Senti, sai cosa facciamo? Ti lascio alla lettura e io salgo al soggiorno e cerco qualcuno disposto a fare con me una gara di ping-pong. Con Annika non riuscivo mai a fare ciò che mi pareva. Sei c’accordo?» Liesèl sospirò: «Eh va bene, ma oggi è tutto molto strano». «Sì, molto strano», disse Jutta e uscì. Il rintocco della cappella l’avvisò che mancava mezz’ora alla cena. Aveva finito il libro e ne era dispiaciuta, avrebbe voluto seguire ancora la storia di Tom, la sua vita, le sue vicende. Lasciò il volume nello scaffale ed entrò in sala studio. Non c’era nessuno, nemmeno Fräulein Josefine. Come mai? Dalla finestra osservò il tramonto, il sole calante tingeva lentamente il rosa dell’aria in un plumbeo antracite. Di colpo cominciò il rientro. Prima un gruppetto di ragazze, poi uno di ragazzi che forse erano stati al campetto dietro il Seeburg per una partita di calcio. Seguiva Annika con il suo clan e, più indietro, Rainer il bellone con altri collegiali, ma sembrava che tenesse di proposito le distanze da lei. Infine Doris e Michaela, che ridevano come due monelle. Che canaglie traditrici! Alla fine… Dorian e Greta. Fianco a fianco. Ogni tanto si fermavano e si sorridevano. Lui le diceva qualcosa e lei gli dava un colpo al braccio come se non condividesse. Poi lui le cinse le spalle e in questo modo salirono sul ponticello d’accesso. A Liesèl per un attimo mancò il respiro, e subito dopo sentì un crampo allo stomaco. Perché faceva così male? In pochi minuti la sala fu piena e animata. Michaela e Doris si scusarono. C’era un bel sole, avevano avuto l’idea di… semplicemente. Niente da aggiungere. Le guance di Greta invece erano rosse, e la sua bella coda di cavallo mezza sciolta.

Lei e Dorian si erano messi al lavoro, disse, sì, è vero, solo per dieci minuti, poi a lui era venuta la voglia di una passeggiata fino al lago. Ah, c’erano le anatre e due ragazzi avevano tirato fuori la barca per farsi una remata… si stava così bene! Niente scuse, tutto normale: il lago… la barca… e Dorian. «Forse è stata l’ultima giornata di sole», aggiunse Greta in tono pratico. «Sarebbe stato sciocco non approfittarne». Lo sguardo era lucido e le guance rosse. Faceva male, tanto, troppo! Il giorno seguente era brutto tempo, da un cielo violaceo scendeva un’acquerugiola gelida che si incollava alla faccia. Dal Seeburg partì un piccolo esercito di ombrelli aperti. Liesèl, per difendersi dal freddo, sotto il cappotto indossava la giacca che le avevano regalato gli amici contadini. Insieme a Marta, le sorelle Wrangler e Michaela si avviò verso la scuola del paese. Non era di buon umore, qualcosa della «giornata storta» le era rimasto addosso, un senso di vago malessere dell’anima, di uggia indefinita. Il passaggio a livello era chiuso. Si trovavano già là alcuni collegiali tra i quali Dorian e Rainer. Dorian fece un cenno di intesa alle ragazze, ma Rainer si sollevò sulla punta delle scarpe e gridò una frase a Liesèl al di sopra delle teste dei compagni. Colta di sorpresa, lei non capiva se davvero si stesse rivolgendo a lei. «Devo parlarti», ripeteva. Lei era troppo stupita per avere la prontezza di reagire. «Nel pomeriggio alle sei in sala musica?» insistette lui. «Oggi è libera!» Liesèl inspirò una quantità di aria umida e annuì per inerzia. Il treno transitò rumoroso e mentre le barriere si rialzavano, Marta constatò: «Hai un appuntamento con Rainer Herzog, è la novità del giorno!» Non ricevendo risposta ribadì: «Dico, con il ragazzo più bello e riservato del Seeburg!» Doris obiettò maliziosa: «Però prima della storia del diario il bello e riservato era molto amico della pestifera Annika!» Michaela la punzecchiò: «Chissà cosa vuol fare in sala musica, così soli soletti voi due… Hi hi!» «Come siete sceme!» esclamò Liesèl, e andò avanti. L’ora di attività manuale era cominciata con qualche settimana di ritardo

perché il laboratorio di taglio e cucito non era stato ancora finito. Ora la classe era in attesa di conoscere la nuova insegnante. Marta le pizzicò la spalla: «Chissà cosa vorrà da te…» «Chi?» «Rainer Herzog!» «Come sei noiosa!» sibilò Liesèl. «Piuttosto guarda Annika, sta mostrando di continuo il tessuto che le ha procurato il padre. Ripete a tutte che è pura seta. Che fanatica». Anche Marta e Liesèl avevano portato la stoffa, ma non si trattava certo di merce costosa e raffinata. Il laboratorio, chiamato sartoria, era uno stanzone grande, quadrato, con diverse illustrazioni incorniciate alle pareti che mostravano signore sedute davanti a macchine per cucire di diverse epoche e modelli. Due esemplari a pedale di marca Singer completavano l’ambiente. Finalmente entrò l’insegnante che si chiamava Frau Wimmerstein. Al primo impatto sembrava un donnone buffo. Alta due forme di formaggio, seni e fianchi voluminosi, stazza pesante e un’acconciatura che pareva un nido di cicogna, si rivelò invece agile, scattante e velocissima, e si mise subito all’opera. Attrezzata di gesso, metro da sarta e forbicioni, cominciò a raccogliere le misure delle alunne e in due ore aveva eseguito tutti i tagli delle stoffe sui vari cartamodelli. La settimana successiva le allieve avrebbero dovuto cominciare con l’imbastitura. Ma già il modello tagliato entusiasmava le ragazze, e ognuna immaginava il momento in cui avrebbe potuto indossarlo. Si sentivano orgogliose della propria scelta e, sotto la guida di Frau Wimmerstein, erano ansiose di vederlo a poco a poco realizzarsi. Avrebbe avuto un valore speciale, diverso da un capo comprato in un negozio. Sulla via del ritorno, nei pressi del Seeburg, Liesèl e Marta si fermarono incuriosite dai colori cupi del lago, la cui riva opposta pareva inghiottita da una colata di fango. «In primavera quando andremo al lago indosserò i miei pantaloni alla pescatora», disse Liesèl, pregustando l’evento. «Sembrerai un maschio», ghignò Marta. «Tutta invidia!» rise Liesèl. Di nuovo seria aggiunse, pensierosa: «Non è strano che solo ieri Greta e Dorian siano andati fin laggiù sotto un sole quasi primaverile mentre oggi è praticamente inverno?»

Marta le gettò uno sguardo curioso: «Ti ha dato fastidio, non è vero?» «A me?» mentì. «No, per niente». A pranzo c’erano gnocchetti di semolino e un peperone ripieno di sugo di pomodoro e carne macinata. Tutti mostrarono grande apprezzamento per il menu. Jutta in refettorio si era unita al solito gruppo, ma aveva un cruccio: che débâcle l’interrogazione a scuola! «E pensare che mi ero preparata per un pomeriggio intero!» si lamentò. Greta affondò la forchetta nella polpa del peperone e annunciò: «Ho finalmente la storia per il giornalino!» Liesèl, malgrado provasse ancora stizza verso di lei, manifestò subito interesse: «Dai, dacci un anticipo!» «D’accordo, d’accordo», concesse Greta, «ma solo un assaggino». Dunque, ci sono due fratelli, Bernd e Baldur. Bernd è sempre vissuto al paese dove sono nati, Baldur invece ha viaggiato in tutto il mondo arrivando fino in India. Un giorno, trovandosi a una festa di corte, gli capita per puro caso di salvare la vita proprio alla figlia del Maharaja. Il Maharaja per gratitudine gli dona una piccola pietra che, strofinata tra le mani, esaudisce i desideri. Ma è una pietra speciale: soddisfa solo richieste moderate e non più di tre. Tornato a casa, passano gli anni, e Bernd si stupisce che Baldur, pur possedendo la pietra miracolosa, non sia diventato ricco sfondato. Un giorno gli chiede spiegazioni. Il fratello spiega che la pietra non gli avrebbe concesso richieste sfacciate e che anzi queste sarebbero state punite. Per questo motivo non era diventato ricco». «Mi pare interessante», commentò Dorian. «Non mi interrompere, così rovini la suspense!» protestò Greta. «Per Bernd la pietra del fratello diventa un’ossessione e un giorno ha l’ardire di chiedergliela in dono dal momento che lui ne ha già riscosso i benefici e così anche Bernd potrebbe averli, ma Baldur rifiuta. Ce l’ha ancora col fratello perché la donna che avevano corteggiato entrambi alla fine ha sposato Bernd. Ciò rappresenta per Baldur un motivo di insanabile rancore. Così Bernd decide di rubare la pietra e dopo numerosi tentativi ci riesce. Ritorna gongolante a casa ed esprime un desiderio per nulla moderato: una casa lussuosa circondata da un grande giardino. Ma la punizione arriva prontamente e…» Si fermò, prese un pezzo di peperone e disse: «Il resto lo leggerete quando sarà finito. Intanto Doris può cominciare a preparare i disegni».

«Sei cattiva!» sbottò Michaela. «Già immaginavo il castigo di Bernd. Forse non trovò più i mobili della cucina!» «Buona idea», fece Greta. «Oppure si era volatilizzato il trono della stanza da bagno», suggerì Marta. «Trono?» ripeté Greta. «Il gabinetto!» «Siete disgustose!» sbuffò Doris. «Parlare di gabinetti mentre stiamo mangiando». Nel pomeriggio, durante il consueto incontro in redazione, Doris stupì lo staff con lo schizzo di un superbo Maharaja! Alle sei meno cinque minuti Marta disse fra il serio e lo scherzoso: «Hai un appuntamento galante in sala musica, Liesèl, tesoro, non lo avrai dimenticato?» Dorian alzò lo sguardo: «Quindi ci vai?» «Certo che ci va!» esclamò Doris. «Deve incontrare Rainer Herzog! Dico: Rainer Herzog. Un super bello». Dorian trattenne una smorfia divertita: «Super bello? E io che ero convinto di essere il più irresistibile del Seeburg». Liesèl salì le scale un po’ agitata. Dal soggiorno del primo piano provenivano voci, risate, e il secco rumore della pallina del ping pong quando batteva sulle palette. Sui muri scintillavano goccioline di umidità, faceva freddo al Seeburg. Giunta nei pressi della sala musica udì il suono del pianoforte. Rainer deve essersi sbagliato, pensò, sembra che sia in corso una lezione. Tuttavia aprì la porta di un minuscolo spiraglio per curiosare. Voleva vedere chi fosse l’allievo. Era Rainer che suonava. Allora scivolò dentro e fissò, stupita, la schiena del ragazzo. A un certo punto sembrò che lui intuisse la sua presenza. Tolse le mani dai tasti e si girò. «Eccoti», disse. «Non sapevo che tu…» balbettò lei. «Sì, prendo lezioni di pianoforte», confermò lui. Lei annuì, senza fiato per l’emozione. «Vieni!» La invitò a sedersi accanto a lui sul panchetto e ricominciò a suonare. Lei non si intendeva di musica, tanto meno di quella classica, ma era

incantata. «È un notturno di Chopin», spiegò lui. «Un compositore polacco geniale. Io lo adoro». Terminato il brano si alzarono e si sedettero attorno al tavolo. «Ma non è di Chopin che desideravo parlarti», esordì lui. «Volevo dirti che trovo l’idea del giornalino fantastica». «È solo un giornaletto da collegio», rispose lei, «tutto improvvisato e scritto a mano». «Sarà il suo bello! Qui al Seeburg non succede quasi mai niente, ma tu hai mosso le acque. Potrei collaborare anch’io?» Lei ebbe un sussulto di entusiasmo: «Cosa vorresti fare?» «Per esempio inventare delle piccole storie e accompagnarle con delle illustrazioni colorate». «Una bella idea!» esclamò lei. Per un momento si guardarono. Lei pensò: da vicino è ancora più bello. Aveva occhi blu e capelli castani scuri, tagliati corti. Bei lineamenti, regolari, un po’ severi, il profilo deciso. Appena un po’ di peluria sul mento e sulle guance. Poi lui ammirò il suo braccialetto. Lei non riuscì a trattenersi e confessò che era un regalo di Dorian, ma se ne pentì subito: un violento rossore infuocò le sue guance. «Su, scendiamo», lo esortò per superare l’impasse. «Ti mostro la nostra redazione». Dabbasso incontrarono Fräulein Josefine. «Ah, Liesèl, ti stavo cercando. Devo chiederti di venire dopo cena nella sala studio». Si stupì dell’insolita richiesta a un’ora inconsueta. L’educatrice accennò: «Ci sarà un incontro con Annika». Liesèl annuì, aveva capito. In refettorio Rainer si aggiunse al gruppo del giornalino. Ora erano in otto. Quando Annika dall’altro tavolone se ne accorse, sembrò esplodere di sorpresa e rabbia. Proprio Rainer, con il quale per un certo periodo aveva legato così bene! Ma dopo l’episodio del diario lui si era allontanato da lei. Rainer era stato accolto con grande entusiasmo nella redazione, e Dorian aveva espresso soddisfazione per non essere più l’unico gallo del pollaio. Doris gli aveva riservato un atteggiamento di innocente ammirazione, dicendogli con una strizzatina d’occhi «che forse lui era un po’ più bello di

Dorian». Greta si era di nuovo lamentata del fatto che non riconosceva più la sorella, era diventata così civettuola! Per il resto, di recente Doris aveva dato il benservito al suo ammiratore della soffitta, giudicandolo «troppo romantico e mooolto immaturo». Quando Liesèl entrò vide subito che non c’erano solo Fräulein Josefine, Annika e una delle sue seguaci, ma anche Jutta, e si stupì un poco, visto che durante la cena lei non le aveva detto di essere stata convocata. C’era una strana atmosfera nella sala, tipica degli ambienti che durante il giorno sono affollati, e a sera inoltrata si svuotano. Come se qualche eco di voci, risate, armonie o tensioni fosse rimasto impigliato negli angoli, tra le pareti o sotto i tavoli. L’educatrice aveva lasciato acceso solo il lampadario centrale sotto il quale sedeva proprio Annika, e vicino la sua seguace. A una certa distanza Jutta. Dopo un momento di incertezza, Liesèl si accomodò accanto a lei. Fräulein Josefine esordì dicendo che, poiché qualche giorno prima Annika aveva accennato di sapere qualcosa di Jutta che sarebbe stato di ostacolo a un’amicizia fra lei e Liesèl, adesso era pregata di raccontare tutto. Annika si alzò e si schiari la voce. La luce che spioveva direttamente sulla sua testa, unita ai capelli biondi e lisci e l’abbigliamento scuro, le conferivano uno strano alone traslucido rendendola quasi irreale. Per un attimo Liesèl si sentì assurdamente catturata da quella visione, come se la sua mente avesse separato l’Annika negativa da quella indubbiamente molto bella. Ma l’impressione svanì non appena l’altra aprì bocca. «Voglio dire solo una cosa», esordì con un tono duro e velenoso, nel quale vibrava anche la sorpresa scioccante di aver scoperto Rainer nel gruppo del giornalino, «Jutta non può essere amica di Liesèl perché è stata complice di… quella cosa che avevo fatto con il diario!» «In che senso complice?» domandò l’educatrice. «Devo spiegarlo?» «Direi proprio di sì». «Dunque: quando quel giorno le tre andarono al paese, io decisi di approfittare della loro assenza per dare una lezione a Liesèl. Mi ero stufata della sua mania di salire da sola in sala musica per scrivere i suoi segreti nel diario. Sembrava che volesse apparire più speciale e interessante di tutte noi! Mi dava fastidio. Dissi alle mie amiche che volevo farle un dispetto e loro approvarono. Ci tenevano anzi a contribuire. Così chiesi se qualcuna fosse disposta a prendere il diario di Liesèl dal suo scaffale – e si offrì Jutta».

Jutta si alzò e ribadì: «È vero, mi feci avanti, anche se mi chiedo ancora il motivo. Ma forse…» Esitò un attimo, come se non fosse sicura di volersi esporre, poi dichiarò, onesta: «In fondo tutte volevamo accattivarci le tue simpatie e la tua considerazione, e anch’io. Lo riconosco». Annika fece una smorfia di disprezzo. «Ma in quel momento», aggiunse Jutta, accorata, «si parlava solo di un dispetto. Io non immaginavo cosa volessi fare davvero!» Annika si agitò e gridò in tono pungente: «Bugiarda! Vi avevo spiegato benissimo cosa intendevo fare con il diario!» «Non è vero», protestò Jutta. «Stai mentendo». Annika perse le staffe. Batté un piede in terra e gridò: «Invece vi avevo informate! E Anja può testimoniarlo». La sua adepta esitò. «E dillo!» la esortò rudemente. «Dì che vi avevo spiegato cosa avrei fatto con quel diario!» L’altra abbassò la testa, la rialzò e guardò Annika con espressione indecisa. Allora lei la strattonò per un braccio: «E parla, stupida oca!» Il corpo di Anja sembrò attraversato da un tremito quando disse: «È falso, non ci avevi detto che cosa volevi fare con il diario». Fu come se il suo grazioso ed esile fisico si assottigliasse ancora di più, preso dal panico per aver trovato il coraggio di dire la verità. Annika, incredula, sbiancò. Si lasciò sfuggire un gesto di minaccia verso Anja, disse fra i denti: «Che imbecille!» e in un lampo fu all’uscita. L’educatrice le ordinò di tornare indietro, ma inutilmente. Prima però di sbattersi la porta alle spalle strillò verso Anja: «E tu d’ora in poi scordati i miei regali! Anzi, voglio indietro tutti quelli che ti ho fatto, compresa la sciarpa bianca di cachemire. Soprattutto quella! Hai capito?» Seguì un lungo momento di silenzio, alla fine Fräulein Josefine disse con un sospiro di impotenza: «Non si sa più come fare con questa ragazza. Comunque, ora è tutto chiarito. Resta una cosa che vorrei sapere da voi due: perché, quando l’Heimvater vi ha chiesto di parlare, avete taciuto? Sapevate benissimo che la colpevole era Annika. L’unica coraggiosa fu Marianne che ha parlato della colla. Rischiando anche di pagarla cara». Entrambe tacquero, vergognandosi. Alla fine Jutta ammise: «Non avevo il coraggio di espormi davanti a tutto il collegio». «Io invece… avevo paura di Annika», disse Anja.

L’educatrice si alzò: «È l’ora della soffitta, siamo in ritardo. Comunicherò a tutte che Annika non era a conoscenza di nessun segreto». Liesèl prese Jutta a braccetto: «Be’, io in realtà non ci credevo che lei avesse qualcosa di grave da dire su di te. Ne ero certa». «Sei sicura?» «Quasi», sorrise.

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In soffitta Annika si piazzò prepotentemente davanti all’armadietto di Anja, pretendendo di riavere i regali. Per fare più scena, scelse il momento in cui era presente la maggior parte delle collegiali. Il giorno dopo, la sciarpa bianca di cachemire che era stata di Anja faceva bella mostra di sé al collo di una delle sue fedeli. E così nei giorni seguenti gli altri regali furono distribuiti alle altre amiche a cui l’impudenza non faceva difetto. Il lavoro nella redazione ferveva. Marta aveva consegnato la terza bozza della testimonianza di Herr Tobias all’Heimvater e ne attendeva impaziente la restituzione. Nel frattempo si era anche cimentata in brevi interviste, una a Frau Gerta e due a collegiali della camerata delle più piccole. Le risposte delle ragazzine erano risultate fiacche e noiose, malgrado lei avesse cercato di tirarci fuori l’impossibile. Quella di Frau Gerta invece era riuscita bene, un’altra testimonianza di vita. La donna aveva raccontato di essere vedova. Il marito non era morto in guerra, ma a causa di una malattia tropicale. I suoi due figli crescevano con sua madre in una città della Carinzia. Li vedeva solo a Pasqua e Natale. Lei soffriva di una malattia alla schiena, e malgrado questo si sobbarcava i lavori più duri del Seeburg, tirando avanti con farmaci antidolorifici. Era l’altro lato di una persona della quale tutti avevano conosciuto solo il silenzioso zelo e il carattere all’apparenza brusco e scostante. Jutta stava finendo la sua ‘cronaca familiare’, e anche Dorian era a buon punto con la lunga traduzione dell’articolo dall’inglese al tedesco. Infine il racconto fantasioso di Greta era pronto. Il primo desiderio fallito di Bernd ebbe per conseguenza la sparizione dei mobili della camera da letto, scatenando l’ira della moglie. Pressato dalla donna, Bernd formulò la seconda richiesta volta a riavere ciò che gli era stato tolto, ma commise un nuovo errore. Si permise una velenosa critica per

il fatto che non gli era stato sottratto il vestito della domenica, o la cuccia del cane, ma il letto matrimoniale! Seguì una nuova sanzione: i mobili ricomparvero, ma non erano quelli di prima! La moglie fu preda di una crisi di nervi. Si trattava di un’eredità di famiglia, una ricchezza affettiva preziosa e insostituibile! Lei non voleva questi mobili seppure più belli e moderni, e su quel letto estraneo non avrebbe più chiuso occhio per il resto della sua vita! La protesta della donna fu così violenta e straziante che a Bernd non rimase altro che spendere il terzo desiderio per riavere la vecchia camera, esaurendo così il potere della pietra. Doris stava realizzando disegni deliziosi per il racconto della sorella dimostrando tutta la forza del suo talento. Rainer a sua volta lavorava alla prima mini-storia accompagnata da illustrazioni colorate con tempere che si era procurato al paese. Liesèl aveva quasi pronto il suo pezzo autobiografico dal titolo: L’orrore della guerra. Gli allarmi si susseguivano uno dopo l’altro, giorno e notte, e non si riposava mai. Avevo voglia di dormire, forse per sempre, dimenticare il terrore delle bombe e la paura dell’arrivo dei russi che, correva voce, violentavano le donne ma anche le bambine. Io non sapevo precisamente che cosa significasse la parola «violentare», ma il tono con il quale ne parlavano gli adulti mi faceva venire i brividi. Una mattina, oltre lo strazio che vivevamo senza tregua, ci svegliammo con degli strani ponfi rossi sul corpo e capimmo che la nostra cantina era infestata dalle cimici. Cominciò una lotta forsennata per liberarci da quei laidi insetti… Tutti si sentivano molto coinvolti nella preparazione dell’Eco del Seeburg e soprattutto Liesèl, perché era la coordinatrice. Se tempo prima aveva sofferto di insonnia per il brutto episodio del diario, ora la notte non trovava pace perché continuava a pensare al giornale. Una mattina ebbe una brutta sorpresa. L’insegnante la chiamò alla cattedra e le consegnò un richiamo scritto che avrebbe dovuto essere firmato dal direttore del collegio. Il suo rendimento scolastico aveva subito negli ultimi tempi un rapido calo. I compiti erano svolti con superficialità e scarsi risultati, e l’esito delle recenti interrogazioni era insufficiente. «Ti ho pregato più volte di aumentare l’impegno nello studio», le rammentò l’insegnante, «ma anziché migliorare sei peggiorata. È un vero peccato, Liesèl, perché, applicandoti, saresti un’ottima alllieva».

Fu un duro scossone. Ma ciò che le dispiaceva di più era che avrebbe deluso l’Heimvater. Lui che era stato così comprensivo con lei, supportandola nel progetto del giornalino. Deluderlo era l’ultima cosa che desiderava! Mentre saliva le scale ansimava un poco per il batticuore. Si sedette su un gradino e appoggiò i gomiti sulle cosce: come era potuto succedere? Arrivare addirittura a un richiamo scritto! Si rese conto di non aver sottovalutato solo gli avvertimenti dell’insegnante, ma anche quelli dell’educatrice. ‘Stai dedicando sempre meno tempo ai compiti’, le ripeteva spesso. ‘Il giornalino è una cosa bellissima, ma la scuola è più importante!’ «Che succede, ragazzina?» Alzando il viso si trovò davanti Frau Gerta. Allora Liesèl le porse il foglio: «Devo farlo firmare dal direttore». L’altra sorrise: «Sapessi quanti richiami ha firmato mio padre ed erano ogni volta botte. L’Heimvater è severo, ma non è un orco. Vai, sali da lui e non temere che ti stacchi la testa». La ricevette con il solito piglio, allo stesso tempo autorevole e bonario. Lei si accorse subito che si era tagliato la barba, e ora, con il volto liscio, sembrava più giovane. Il direttore esordì senza preamboli: «Fräulein Josefine mi ha anticipato la notizia, naturalmente sono deluso. Da te non me lo sarei aspettato». Lei abbassò la testa perché era arrossita. «Sono stato molto contento quando mi hai detto che il progetto del giornalino ti aveva fatto dimenticare l’episodio del diario. Inoltre avevi trovato da sola una forma di crescita del tuo carattere e meritavi di essere sostenuta. Ma in tutto questo tu hai sbagliato una cosa». La guardò serio. «La scuola rappresenta una priorità e non a vantaggio del collegio o della società, ma per la tua vita e il tuo futuro. Preparare il numero del giornalino, incontrarti con i tuoi compagni e discutere del contenuto, costituisce sicuramente un passatempo, uno stimolo, un modo di aprirti l’orizzonte, ma non puoi metterlo in primo piano trascurando il tuo dovere morale verso lo studio! Mi capisci, vero?» «… Sì». «Esiste una scala dei valori, cara ragazza, e in cima c’è scritto: prima il dovere e poi il piacere. Sembra un noioso proverbio che puzza di vecchio, ma in realtà contiene una grande saggezza».

Terminò la paternale in tono rigoroso: «È la prima e ultima volta che accetto di vedere una comunicazione del genere, sono stato chiaro?» Poi lo firmò e glielo allungò attraverso il piano della scrivania. Liesèl ebbe un moto di sollievo interiore e nello stesso tempo si giurò che non avrebbe mai più deluso l’Heimvater, a costo di dover studiare di notte sotto le coperte con una lampadina tascabile! «Ora voglio mostrarti una cosa», disse lui cambiando argomento. Si alzò, prese qualcosa dal solito mobile vicino alla finestra e glielo porse: «Ecco il portagiornali per L’Eco del Seeburg!» «Oh!» esclamò lei, elettrizzata. Era fatto di bambù intrecciato. C’era il bastone per bloccare le pagine al centro, e il gancio in cima per appendere il giornalino alla bacheca. «Posso portarlo giù e mostrarlo agli altri?» chiese Liesèl, raggiante. «Certo. I miei amici di Vienna me ne hanno mandata una copia come riserva, non si sa mai». La moglie bussò alla porta, aveva bisogno del suo aiuto, una cosa urgente. Liesèl cominciò a balbettare un confuso ringraziamento, ma l’Heimvater disse: «Cara signorina, il tuo giornalino emoziona anche me, ma pretendo che tu studi! Siamo intesi?» La precedette, aprì la porta, fece un cenno scherzosamente galante per farla passare e chiese alla moglie: «Si è di nuovo bloccata l’anta dell’armadio?» Il portagiornale causò un’ondata di meraviglia ed euforia tra lo staff dell’Eco del Seeburg! Il sabato, verso le tre del pomeriggio, cominciò il rituale delle docce nel sotterraneo, prima le femmine e poi i maschi. Alla sera si svolse la consueta salita in soffitta, ma questa volta con l’intento di scegliere il vestito adatto per la messa alla quale l’intero collegio assisteva ogni domenica nella cappella del Seeburg. Dopo pranzo, nel primo pomeriggio, alcune collegiali attendevano delle visite: Jutta e Marta le madri, Anja una zia e Annika il padre. Anche Greta e Doris aspettavano i genitori, ma all’ultimo momento arrivò la notizia che la mamma era al pronto soccorso perché, inciampando, si era rotta una caviglia. Le sorelle erano deluse e dispiaciute. Restarono un po’ lì, indecise e sgomente, poi Doris propose, dal momento che il pomeriggio era libero, di fare un giretto fuori. «Chi viene?»

«Io!» fece Michaela. Liesèl si sottrasse: «Io resto, durante la messa mi è venuto il mal di testa e ce l’ho ancora». Greta disse: «Io ci sto, ma prima faccio un salto ‘in un certo posticino’». «Certo posticino…» Doris le fece il verso. «Ma sbrigati!» «Spiritosa la sorellina!» Passarono i minuti, dopo un quarto d’ora Doris sbuffò: «Basta, andiamocene noi due, Michaela, mia sorella ogni tanto ha il vizio di eclissarsi senza degnarsi di avvertire. Odio quando fa così!» La sala era semivuota, non c’era nemmeno l’educatrice, che forse si godeva un riposino nella sua cameretta piena di libri e graziose tendine scelte di persona dalla moglie dell’Heimvater, come aveva raccontato un giorno alle allieve. Liesèl si spostò alla finestra perché fuori era sbucato un sole sorprendentemente vivido e luminoso per novembre. Dal sentiero stavano salendo diverse persone, alcune ragazze e ragazzi del collegio invece scendevano verso il passaggio a livello. Avevano detto che al paese ci fosse un luna park. Anche le due cuoche del Seeburg si allontanavano, alla domenica erano solite godersi un film al cinema di Seekirchen. Ma d’un tratto il cuore di Liesèl fece un tuffo: sul ponticello d’accesso erano comparsi Greta e Dorian. Succedeva di nuovo e faceva male, più dell’altra volta. Li osservò, incredula, agitata, mentre svoltavano a sinistra, verso il lago. Non resistette oltre e abbandonò di corsa la sala. Fuori nel corridoio si imbatté in Rainer. «Ti stavo cercando», disse lui. «Che c’è? È successo qualcosa?» «Perché?» «Hai una strana faccia… non stai bene?» Lei cercò di riprendersi: «No, no, sto bene». «Volevo chiederti una cosa», fece lui. «Quale?» «Se ti andava di venire con me a scattare delle foto a una casa misteriosa». «Hai una macchina fotografica?» «Sì, un’Agfa, un modello vecchiotto, ma fa ancora delle buone foto. Ha anche il flash». «Perché dici che è misteriosa?»

«Tutte le case vuote e abbandonate lo sono», rispose. «Sono piene dei ricordi delle persone che le hanno abitate. Be’, l’ho letto in un libro francese». «Va bene, vengo», disse Liesèl. Era la distrazione giusta nel momento giusto! «Vado a prendere il cappotto». Imboccarono una stradina sterrata in salita orlata di steccati storti e traballanti che sembravano aver abdicato al dovere di delimitare qualche proprietà. Davanti a un fienile diroccato erano accucciati due gatti rossicci che non si mossero al loro passaggio. Forse erano vecchi o solo pigri. Il fogliame degli alberi attorno era stinto e flaccido, le foglie cadevano al suolo anche in assenza di vento. Il sole era ancora brillante. «Ecco la casa», annunciò Rainer. «Un giorno ci sono passato con due ragazzi della mia camerata, ma l’hanno trovata brutta e triste. Per me invece è affascinante». Era bassa, dal tetto spiovente, tutta coperta di legno annerito. Lungo il piano rialzato correva un tetro balcone con diverse assi rotte. Sulla robusta porta d’ingresso era inchiodata di traverso una tavola di legno. Una finestra a destra con il davanzale sbrecciato, due più piccole a sinistra senza vetri dalla quale fuggirono dei volatili. Davanti alla facciata c’era una panca ancora abbastanza ben messa. Rainer scattò diverse foto. Aggirarono l’edificio, costeggiando una piccola costruzione decadente con il tetto crollato che doveva essere stata il gabinetto. La porticina, rosa dai tarli, aveva nel mezzo un cuore intagliato. Lui fece un paio di scatti. «Voglio andare dentro la casa», annunciò. «Vieni?» «Non ci cadrà in testa?» temeva lei. «Ma no!» Entrarono senza difficoltà dalla stalla vuota. C’erano ancora le mangiatoie e gli abbeveratoi. Un forcone da letame arrugginito era rimasto abbandonato in un angolo. Chissà da quanto tempo. Proseguirono lungo un andito stretto, mal illuminato da una finestrella senza vetro piena di tele di ragno. Passarono davanti a diverse porte senza infissi e alla fine si trovarono nella cucina. Vi ristagnava un odore indefinibile di antiche zuppe di latte acido, crauti e salsicce, e forse rari Gulasch che avevano onorato qualche giorno di festa. C’erano ancora dei mobili coperti di polvere: un tavolo quadrato attorno al quale correva una panca. Dall’altro lato una credenza decrepita, con i cassetti bloccati. Rainer fece altre foto usando il flash. Al muro vicino alla porta, attaccato a un grosso chiodo, spiccava un

piccolo calendario ingiallito del 1940. Rainer lo staccò e lo sfogliò. Immagini di santi, sull’ultima pagina il timbro dello stampatore: PHOTOGRAPHIA SEPP MANDLHAUSER. «Me lo tengo», disse, «è un pezzo da museo». «Ma è un furto!» protestò lei. Lui si girò, le sorrise, e in quel sorriso c’era tutto: la sua giovane bellezza, l’adolescenza intelligente e vivace, la voglia di diventare adulto e pronto per sfidare la vita. «A chi lo ruberei?» chiese. «Qui nulla appartiene più a nessuno». «A me sembra un furto», insistette lei. «Testarda», fece, e le passò una mano tra i capelli. «Belli questi ricci, mi ricorda un ritratto antico nello studio di mio padre». «Antico!» protestò lei. «Permalosa», constatò. «Certi volti del Settecento sembrano invece modernissimi». Lei si scostò. Questo Rainer era diverso da quello della redazione che inventava storielle e dipingeva figure a tempera. La confondeva. «Perché stavi per piangere?» domandò lui di punto in bianco. «Io… quando?» «Prima. Quando ti ho vista nel corridoio». «Non stavo per piangere!» Ci fu una pausa, poi lui disse con un tono cameratesco, solidale: «Anch’io li ho visti andare via insieme». «Chi?» «Lo sai. E tu stai male per lui». Liesèl diventò paonazza e inconsapevolmente si toccò il braccialetto: «Non è vero! E tu cosa ne vuoi sapere?» «Ho quasi quindici anni», rispose, «pensi che io non possa essere stato molto male per… una donna?» «Donna?» chiese lei dubbiosa. «È successo durante le ultime vacanze. Lei aveva diciassette anni, era la figlia del mio maestro di pianoforte. Ma torniamo fuori». La precedette. Il sole si era un poco offuscato. Si sedettero sulla panca davanti alla casa. Un treno fischiava in lontananza. «Eravamo molto amici», continuò. «Ci vedevamo ogni giorno. Andavamo insieme a nuotare in piscina e a raccogliere mirtilli sui calanchi.

Ma all’improvviso lei mi disse che la sua famiglia stava per trasferirsi in un’altra città… avrebbero fatto trasloco appena due giorni dopo. Solo due giorni! Mi sentii quasi morire di disperazione e dolore. Anche lei era molto triste. E così… l’ultimo pomeriggio…» Si interruppe come a valutare se confidarsi fino in fondo o non commettere imprudenze. Poi, repentino, chiese: «Mi giuri che non lo dirai a nessuno?» «Lo giuro…» fece lei confusa. «L’ultimo pomeriggio… siamo stati insieme». Liesèl rimase perplessa, le sembrava che nella frase mancasse un pezzo. «Insieme… come?» Lui tacque per qualche momento, alla fine scosse la testa come se avesse cambiato idea e la tirò su dalla panca: «È meglio che andiamo, si è fatto tardi». «Non hai risposto!» esclamò lei. Rainer ebbe uno strano sorriso: «Insieme. Chiaro, no? Resta ferma!» Le scattò l’ultima foto.

14

Cosa aveva inteso con la parola insieme? La curiosità era come un tarlo. Liesèl aveva riflettuto a lungo, intuiva che il significato andasse oltre lo scontato, ma non superava l’ipotesi che avessero rubato la marmellata dalla dispensa, o fumato di nascosto la prima sigaretta. Allora perché tanto mistero? E il tarlo scavava ancora. Un’altra cosa che non le usciva dalla mente era la visione di Greta e Dorian insieme sul ponticello. Nello stesso tempo capiva che, se non avesse mascherato il suo malessere, l’armonia nella redazione si sarebbe guastata e anche l’amicizia con Greta. Doveva assolutamente sforzarsi di pensare ad altro, innanzitutto allo studio, come aveva promesso all’Heimvater. Decise di dedicare più tempo ai compiti, approfondì coscientemente le materie e si preparò con scrupolo alle interrogazioni. Intanto l’Heimvater aveva restituito a Marta la bozza della testimonianza di Herr Tobias, con i complimenti per l’ottimo lavoro. Però, quante correzioni! Ma lei ne era stata felice perché ora sapeva che lo scritto era pulito. Dopo lo scontro, Anja era stata espulsa dal clan di Annika, che si era ridotto a quattro membri. Annika aveva perso attrattiva sui maschi e i bigliettini erano diminuiti. Altre fanciulle erano salite di quota, come Jutta, che riceveva messaggi appassionati da vari corteggiatori, tra cui un belloccio che però più che le ragazze apprezzava il gioco del calcio. Marta invece sembrava aver perso ogni interesse al genere maschile avendo scoperto, dopo gli elogi dell’Heimvater, la sua vena di giornalista. Decise che in futuro avrebbe continuato gli studi in quel settore, magari frequentando l’università di Vienna. Nel refettorio anche Anja si era aggiunta al gruppo della redazione, che era formato ormai da nove persone, e subiva pertanto le occhiate rabbiose di

Annika. Si crucciava tuttavia di non aver alcun ruolo nel giornalino. Liesèl le propose di realizzare, come aveva già fatto Marta, un paio di interviste a qualche compagno o compagna del Seeburg, ma Anja si spaventò: «Non sarò mai capace di fare una cosa del genere!» Ma gli altri insistettero: doveva almeno tentare. Lei rimase dubbiosa, negli occhi color non ti scordar di me permaneva lo sgomento: le interviste no! Liesèl preparò alla chetichella sei facili domande e scelse il primo candidato. Si chiamava Alwin e passava per il ragazzo più simpatico del collegio. Dorian fece da tramite e Alwin si dichiarò subito disponibile. Posta davanti al fatto compiuto, Anja cedette. Ebbe il permesso di usare il refettorio per l’incontro, suscitando le proteste di Marta: «Io quel permesso non ce l’avevo!» Liesèl rise divertita: «Che c’è, sei gelosa?» «Le interviste le dovevo fare solo io!» «Hai dato un contributo molto importante al giornalino con la testimonianza di Herr Tobias», Liesèl le riconobbe. «Anche l’intervista a Frau Gerta è molto interessante. Smettila di brontolare». Quando l’incontro con Alwin si concluse, Anja tornò in redazione e disse, mortificata: «Mi sembra che sia venuta fuori una scemenza». «Vediamo», fece Liesèl e lesse ad alta voce domande e risposte. Cosa ti piace di più al Seeburg? Quando a pranzo c’è il kaiserschmarren! Al secondo posto ci sono i rösti di patate. Pensando alla tua mamma, qual è la prima cosa che ti viene in mente? Che alla domenica preparava la torta di ricotta. E di tuo padre? Lui portava a casa i wafer rotti. Mio padre lavora in una fabbrica che produce wafer e quelli rotti li vendono al personale a un terzo del prezzo nei negozi. Hai ancora i nonni? Solo una nonna. Come regalo di compleanno lei mi invitava in una pasticceria e potevo mangiare tre tipi diversi di dolci. Una volta ho anche vomitato e la cameriera mi ha sgridato. Quali sono i tuoi amici in questo collegio? Uno in particolare: Max Schreiner. Quando i suoi vengono in visita gli portano dei biscotti al marzapane e li divide solo con me.

C’è una ragazza al Seeburg che ti è più simpatica delle altre? Sì, Gabi Klein, in refettorio siede accanto a me. Quando alla domenica ci danno il dolce ed è al cioccolato, lei lo passa a me perché il cacao le fa venire i brufoli. Non si capiva se Alwin l’avesse trasformata di proposito in un’intervista gastro-comica, ma piacque a tutti. Ad Anja fu consegnato, con pacche sulle fragili spalle, un foglio per trascrivere il lavoro sulla carta originale insieme all’invito di realizzarne subito un’altra. Con nuove gelosie di Marta. Quella domenica erano attese le zie di Michaela e i genitori di Greta e Doris, la mamma con la caviglia ingessata. Le sorelle fin dalla mattina erano emozionatissime. Mentre Marta, Jutta, Anja e Liesèl decidevano se uscire per una passeggiata o salire in sala giochi, entrò Rainer. Non fu una sorpresa. I maschi potevano frequentare la sala studio delle femmine, anche se accadeva raramente. Molti maschietti avevano le battute e le urla facili, ma in certi frangenti erano frenati dalla timidezza. Dorian e Rainer invece erano diversi, più disinvolti, più sicuri di sé. Forse anche un po’ più maturi della loro età. Rainer puntò verso Liesèl: «C’è una bella luce fuori, mi è venuta voglia di scattare altre foto. Facciamo un salto al lago?» Lei esitava, ma le amiche incalzarono: «Muovetevi prima che il sole se ne vada!» «Va bene», fece Liesèl, «prendo il cappotto e tu aspettami giù in cortile». Quando qualche minuto dopo uscì dal vano-guardaroba urtò contro Dorian. «Ti stavo cercando», disse lui. «Verresti con me al paese? È l’ultimo giorno del luna park». Lei fu presa da una forte emozione. Nello stesso tempo si disse: non farlo. Ma lo fece. «Lo stai proponendo a me perché oggi Greta non è libera?» Dorian rispose con un’aria perplessa: «No, volevo andare al luna park con te e non con Greta». Lei alluse, ironica: «Anche se con lei ti saresti divertito di più?» Lui replicò, di nuovo disorientato: «Be’, Greta è una ragazza curiosa, ha così tanta fantasia. Dietro ogni cosa vede una storia, e comincia subito a inventarne la trama e mi chiede cosa ne penso. La trovo molto divertente». Liesèl si irrigidì dinnanzi alla sua ammissione diretta e disse, stizzosa: «Allora trovo strano che tu voglia sprecare del tempo con me». Lui scosse la testa: «Non ti capisco…»

«E poi…» aggiunse lei spinta da una stupida aggressività, «vi vedo sempre scappare via di nascosto senza dire niente a nessuno». «Scappare via?» ripeté lui, sorpreso. «Non siamo più liberi di fare una passeggiata dove, quando e con chi vogliamo?» Di colpo Liesèl capì il tragico equivoco. Probabilmente il fatto che le avesse regalato il braccialetto le aveva acceso una fantasia tutta sua. Si vergognò. Non ricevendo risposta, Dorian ripeté: «Allora vieni in paese?» Lei si riprese da una sorta di torpore e rispose con un tono ancor più acido: «Mi dispiace, ma oggi sono già impegnata». Dorian trattenne un sorrisetto per quell’ampolloso impegnata. «Un giretto con le amiche? Potrei venire con voi». «Chiedilo a loro, io esco con Rainer!» dichiarò lei, spiccia. «Come l’hai fatta lunga», commentò lui, secco. «Potevi dirlo subito. Allora ci si vede a cena». Si girò e si avviò verso la sala delle femmine. Lei riprese fiato. Si odiava per le sue battute da scolaretta gelosa! Scese le scale in preda alla rabbia e alla frustrazione. «Ci hai messo un secolo per prendere il cappotto», disse Rainer. «Scusa… Mi ha fermato Dorian. Voleva che andassi con lui al luna park, ma gli ho detto di no». Senza dire altro si avviò verso l’uscita. Passarono un pezzo di muro di cinta, la temperatura era mite. Liesèl si sentiva delusa e seccata con se stessa per essersi resa ridicola dinnanzi a Dorian. Camminavano in silenzio, e Rainer non la tediò con altre domande. Giunti in riva non trovarono anima viva, nemmeno le anatre. Le case di vacanza erano deserte. Ne costeggiarono alcune, poi da un cancello aperto entrarono in una piccola proprietà sulla quale sorgeva una costruzione bassa dotata di un minuscolo portichetto. Dietro c’era un pontile. Si tolsero i cappotti e si misero sulle assi leggermente riscaldate dal sole, e guardarono il lago. L’acqua era liscia e luccicante. Regnava un’atmosfera di quiete. Dopo un po’ Rainer si alzò e scattò diverse foto, anche a lei. Di nuovo seduto, disse: «Lo so che avresti preferito andare via con Dorian». Lei scosse il capo: «Non è vero». «Perché non lo ammetti? Io lo capisco». «Dico solo che non è vero!» ribadì lei, nervosa.

«Le quattordicenni si innamorano, è normale», fece lui. «Io innamorata? Ma piantala!» «Si prendono le cotte anche prima della nostra età. Io a dieci anni ne pigliai una tremenda per la mia maestra, solo perché un giorno mi aveva accarezzato una guancia dopo che ero scoppiato a piangere per un brutto voto. E per Inga ho sofferto come un cane». «Inga… quella che poi ha traslocato?» «Sì». «Con la quale l’ultimo pomeriggio sei stato insieme?» Lui non rispose. «Mi avevi fatto giurare di non dire niente a nessuno e poi non mi hai dato spiegazioni», gli rimproverò. «Ferma così», fece, e la inquadrò. «E finiscila!» Girò dispettosamente la faccia dall’altra parte, ma lui fece lo stesso la foto. «Ho deciso che non te lo dirò», disse Rainer. Liesèl sentì montare un’ondata di collera: «Mi tratti come una bimbetta stupida!» «Non ti considero una bimbetta stupida», si giustificò lui, «ma ho cambiato idea: non intendo più parlarti di un fatto… molto privato. Tutto qui». Lei scattò in piedi: «Era privato anche l’altro giorno quando mi hai fatto giurare e stavi per dirmelo!» «Non insistere, Liesèl». «Mi hai stufata!» esclamò lei, imbufalita. «Sei bugiardo!» Lui la guardò stupito come quando si scopre una persona ben conosciuta sotto un’altra luce. «Perché non ti calmi un po’?» tentò di rabbonirla. Erano entrambi in piedi e si fissarono. Per un momento Liesèl pensò: è davvero molto bello. Indossava un pullover scuro e pantaloni tipo blue-jeans. Da quando era al Seeburg le sembrava anche cresciuto, ora la sovrastava di parecchio. «Se non me lo dici non ti rivolgerò mai più la parola, lo giuro!» lei minacciò, rossa in volto. Negli occhi di Rainer passò un’ombra di incredulità: «Stai diventando assurda». Allora Liesèl gli diede una spinta che per poco non lo spedì in acqua

insieme alla sua macchina fotografica. Lui si rimise in piedi e disse: «Povera ragazza, la cotta per Dorian ti ha fatto uscire di testa. Per il resto…non te lo dirò. Chiuso il discorso». Ci fu una piccola pausa durante la quale lei valutò se cedere, scusarsi e rassegnarsi a quel «no», ma ormai era troppo agitata. Prese il cappotto e lasciò il pontile. Lui non la richiamò indietro.

15

Mentre tornava al collegio piangeva. Non capiva cose le fosse successo dal momento in cui aveva parlato con Dorian davanti al guardaroba. Si era comportata da stupida gelosa! E alla fine aveva anche litigato con Rainer. Raggiunse il Seeburg sconvolta. Entrando in sala studio trovò gli ospiti. Michaela le comunicò che Marta, Jutta e Anja erano uscite con Dorian e le presentò le zie, con le quali era cresciuta, orfana di padre e madre. Ma entrambe le donne erano in cattiva salute e così quest’anno l’avevano iscritta al Seeburg perché facesse la terza (e presumibilmente anche la quarta) alla scuola media di Seekirchen. Erano due signore magre, pallide, vestite di grigio, che indossavano cappellini tipo cloche. Si somigliavano a tal punto che dovevano essere gemelle. Quella che si reggeva a un bastone accarezzò Liesèl su una guancia: «Brava brava, così tu sei un’amica della nostra Michaela?» Lei annuì, si scusò e raggiunse Greta che voleva farle conoscere i genitori. La madre era seduta su una sedia con la caviglia ingessata. Aveva i colori chiari di Doris, bionda con gli occhi azzurri. Vestiva sportivo, un sorriso dolce e aperto. I capelli del padre invece erano castani come quelli di Greta, alto, smilzo, occhi scuri e sguardo diretto. «Dunque tu sei la famosa fondatrice del giornalino del collegio!» esclamò, battendole amichevolmente la spalla. «Be’, famosa…» Liesèl si imbarazzò. «Non essere troppo modesta! Tu hai mosso le acque al Seeburg e le nostre figlie ne sono entusiaste». Proseguì per un po’ con i complimenti finché Liesèl non trovò opportuno lasciarli soli. Si congedò con un pretesto. Prima di abbandonare la sala sbirciò il tavolo al quale sedeva Annika col padre. Lei gli parlava fitto

sporgendosi verso di lui per costringerlo ad ascoltarla. Nei pochi secondi in cui li aveva osservati, lui aveva consultato l’orologio con un gesto nervoso, come se avesse fretta. Giunta nel corridoio si fermò, aveva bisogno di un posto dove poter riflettere. Scelse la saletta musica. Salì la scala di corsa. Si sedette al tavolo e fissò il pianoforte. Provò tristezza e un senso di delusione verso se stessa, uniti al timore che Rainer si fosse stancato di lei e avrebbe potuto voltare le spalle al giornalino. Mentre rimuginava, pentita di averlo offeso, si aprì la porta ed entrò Annika. Liesèl non aveva mai visto una persona più furiosa. Intuì tuttavia di non essere lei stavolta la destinataria di quella aggressività, ma forse il padre che l’aveva appena lasciata. Quel rigido manico di scopa sarà scappato via dopo un’ora come al solito, pensò Liesèl, lasciando la figlia triste e delusa. Le stava quasi nascendo un sentimento di solidarietà per Annika, ma lei cominciò a gridare: «Come pensavo! Ti sei rintanata nel tuo nascondiglio preferito!» Ci risiamo, pensò Liesèl e si alzò. Quando c’era Annika nei paraggi poteva succedere di tutto. Lei si accostò al tavolo, vi appoggiò i gomiti e disse in tono arrogante: «Ti ho vista andare via con Rainer! Come ti permetti di stare sempre appiccicata a lui?» «Appiccicata?» fece Liesèl. «Non mi pare». «Non ti pare?! Anche l’altro giorno te la sei svignata quatta quatta con lui!» «Sembra che ti diverta a spiarmi», constatò Liesèl, seccata. «Lui era mio amico!» gridò Annika, rabbiosa. «E tu lo hai allontanato da me». «Non potrebbe essere che quella carognata che hai fatto al mio diario non gli sia affatto piaciuta?» le ricordò Liesèl. «Lo sai cosa penso?» incalzò Annika, maligna: «Ti sei inventata quel patetico giornale solo per avere Rainer vicino. Sei falsa e intrigante! E poi quell’idiozia della finta redazione dove restate rinchiusi ore a fare chissà cosa». Liesèl non aveva alcuna voglia di ribattere. Girò attorno al tavolo per raggiungere la porta, ma Annika la trattenne per un braccio: «Scappi, eh? Hai paura di me, non è vero?» «No, voglio solo uscire». «Sì che hai paura! E ti dico anche perché. Tu temi che io possa dirti cose che gli altri non hanno il coraggio di sbatterti in faccia».

Liesèl cercò di liberarsi dalla sua presa, ma l’altra la stringeva. «Solo io ho il fegato di ricordarti che vesti come una miserabile», Annika le scagliò contro, «e scommetto che sei invidiosa del mio guardaroba di lusso!» A Liesèl scappò una risata beffarda: «Guar-da-roba di lusso? Non meriti nemmeno una risposta». «Te la dò io la risposta!» sbavò Annika. «TU NON SEI NESSUNO. Vuoi cacciartelo in testa? NESSUNO!» «Ci godi proprio a ripetere quella frase», fece Liesèl, sprezzante. «Ma sappi: non mi tocca più». Raggiunse la porta. «Aspetta!» Si voltò e Annika disse, minacciosa: «Per Rainer me la paghi. Te la farò pagare, preparati». «Di nuovo?» fece Liesèl, sarcastica, e uscì. Durante la cena il gruppo del giornalino era di umore diverso: Michaela e le sorelle Wrangler tristi perché i visitatori erano ripartiti, Marta, Jutta e Anja allegre per la bella passeggiata che avevano fatta con Dorian, e Liesèl silenziosa per via di ben due scontri avuti nello stesso pomeriggio! Rainer se ne stava un po’ pensieroso, ma nessuno lo notò, era nella sua natura. Poi lo spirito positivo di tutti rinacque perché c’era il gulasch con le patate e dopo una bella fetta di ciambella al cioccolato. Dall’altro tavolo Alwin fece un buffo cenno di soddisfazione: l’ormai famosa Gabi Klein gli aveva passato il dolce perché conteneva il cacao che le causava i brufoli. Più tardi in soffitta Liesèl cercò di ignorare Annika, ma quella, attorniata dal suo clan, si incensava per il regalo che le aveva portato il padre, anche se questa volta non era strabiliante: un paio di guanti imbottiti di pelo per l’inverno con sopra applicate perline luccicanti. Jutta trovò un biglietto del suo fanatico del calcio, e Doris una ormai breve poesia del suo ex che ancora non si era rassegnato del tutto. Ti vidi, e una mite gioia passò dal tuo dolce sguardo su di me. Fu tutto per te il mio cuore, fu tuo ogni mio respiro… Lo fece leggere a Greta che commentò: «Povero piccolo, proprio non trova pace». Doris fece spallucce e scandì: «È così immaturo!» La poesia però era di Goethe, un particolare sfuggito a entrambe. «Che hai?» chiese Marta, notando che Liesèl fin dal refettorio era stata

insolitamente taciturna. Ma lei non voleva parlare dell’ennesima lite con Annika e della frase che l’aveva ancora una volta turbata, malgrado avesse affermato il contrario: TU NON SEI NESSUNO! Inoltre era preoccupata per la sua minaccia. Era gelosa di Rainer e chissà cosa avrebbe combinato questa volta! «Te lo racconto domani», le promise. «Sono un po’ stanca e ho mal di testa». Il giorno seguente era un lunedì, di nuovo freddo e piovoso. Nel pomeriggio il gruppo avrebbe dovuto riunirsi nella redazione per tirare le somme su ciò che era stato preparato fino a quel momento per il primo numero del giornalino. Uno dopo l’altro entrarono – tranne Rainer. Liesèl cominciò a sentire la tensione. E se, a causa del suo stupido comportamento al lago, avesse davvero deciso di chiudere con L’Eco del Seeburg? Ma lui arrivò, benché in ritardo di un quarto d’ora. «Scusate, il compito di matematica!» sbuffò. «Se potessi cancellerei la matematica dalla faccia della terra!» «Eppure sono i numeri che governano il mondo», commentò Dorian, serioso. «Ha parlato il filosofo», ironizzò Rainer. «Platone», ghignò Dorian. «Ah, ecco! Ma se non sbaglio, a scuola a Platone non siamo ancora arrivati». «Mia madre», fece Dorian. «È prodiga di citazioni». Rainer si sedette. «Che mi sono perso?» Intanto Liesèl aveva tirato un sospiro di sollievo. «Niente», disse, «ti abbiamo aspettato». Potevano cominciare. Il materiale era stato ormai trasportato in buona parte sulla carta originale, quattro pagine riempite su entrambi i lati e molto varie: i temi seri alternati con quelli divertenti. Alla fine Doris aveva realizzato dei disegni anche per le barzellette copiate da Michaela, e quelli fatti per il racconto di Greta erano superbi. Tutti erano entusiasti di ciò che aveva ideato Rainer; piccole storie accompagnate da illustrazioni colorate a tempera, un poco stilizzate, come le definiva lui. Doris invece preferiva il carboncino sfumato, o gli acquerelli. Poi c’era ‘la cronaca familiare’ di Jutta, reale, diretta e dura, la toccante testimonianza di Herr Tobias più l’intervista a Frau Gerta a firma di Marta, la

lunga traduzione di Dorian dell’articolo dall’inglese in tedesco e altre due più corte sui gusti musicali dei giovani americani, e il racconto autobiografico di Liesèl L’orrore della guerra, che era stato revisionato da Fräulein Josefine. Nel mezzo l’intervista gastro-comica fatta di Anja con quel ragazzetto simpatico e un po’ matto che era Alwin, e oltre a questa un’altra a Jula, l’aiuto cuoca del Seeburg. Lei abitava a Seekirchen e aveva raccontato una storia molto triste di suo padre, che era tornato dalla guerra mutilato di una mano e una gamba. Un uomo distrutto nel corpo e nell’anima diventato cupo e depresso. Anche sua madre alla fine si era ammalata di depressione. La riunione si svolse in modo vivace e terminò circa alle sei, c’era ancora tempo prima che suonasse il campanello per la cena. Liesèl e le ragazze si spostarono in sala studio per riferire a Fräulein Josefine, che desiderava essere sempre aggiornata sul progresso del giornalino. Dorian aveva annunciato che si sarebbe rilassato con una partitina a ping pong, se avesse trovato un partner, e Rainer, per lo stesso motivo, sarebbe salito in sala musica per suonare un po’ di Chopin. Liesèl, Marta, Jutta, Greta, Doris, Anja e Michaela continuarono a conversare con l’educatrice, e altre compagne si aggiunsero per ascoltare. Poi Fräulein Josefine rivelò un’anteprima: in occasione dell’uscita del primo numero dell’Eco del Seeburg, l’Heimvater intendeva fare un discorso davanti a tutti i collegiali. Inoltre la direzione avrebbe offerto un buffet con bibite, dolci e tartine salate, un po’ all’americana. L’annuncio suscitò uno scoppio di euforia tra le ragazze. Annika, che si era trattenuta con le adepte a qualche tavolo di distanza, captando la notizia lasciò irritata la sala. Dopo un po’ anche Liesèl, con la scusa di andare in bagno, uscì e infilò la scala. Doveva chiarirsi con Rainer! Davanti alla porta esitò, poi scivolò dentro. Si sedette sul divanetto ascoltando il ragazzo che suonava. Stava lì, immobile, fissava le sue spalle e si lasciava trasportare dalla musica. C’era penombra nella stanza, una lampada sul pianoforte illuminava i tasti e le mani di Rainer. La finestra, che dava sul cortile interno, mostrava le ombre della sera. Come era già successo un’altra volta, lui intuì che qualcun altro si trovava nella stanza, e si girò. Non parve molto sorpreso. Le fece segno di sedersi accanto a sé sul panchetto. «Chopin, notturno opera 9», spiegò, e ricominciò a suonare. Lei sentiva la

musica toccarle l’anima e per lunghi minuti le sembrava di essere uscita dal solito mondo per entrare in un altro vibrante di emozioni. Quando sentirono l’avviso per la cena fu come se calasse un sipario. Lui lasciò ancora per qualche momento le mani sui tasti come se non riuscisse a staccarsene. Infine si voltò verso di lei e disse: «No, non sono arrabbiato con te per la scenetta che mi hai fatto sul pontile, perché quando si ha una cotta per qualcuno si va fuori di testa». «Ma io non ho affatto una…» «Sì che ce l’hai». «No!» «Sei cocciuta e orgogliosa. Tu provi qualcosa per Dorian e non c’è nulla di male. E stai tranquilla, lo sappiamo solo noi due, non andrò a dirglielo». «No?» «Lo giuro». «E… cosa devo fare?» «Niente. Aspettare. Se lui prova la stessa cosa prima o poi te lo farà capire. Altrimenti come non detto. D’accordo?» «Va bene. Altrimenti come non detto». Rainer calò il coperchio sulla tastiera: «Dobbiamo scendere, ho una gran fame!» Furono gli ultimi ad arrivare. Il gruppo del giornalino era già in fila davanti al portavivande, si misero in coda. Marta lanciò a Liesèl un’occhiata indagatrice come a chiedere dove si fosse cacciata, ma la cosa inconsueta era lo sguardo di Dorian. Uno sguardo strano che sembrava contenere una muta domanda.

16

Il primo numero del giornalino sarebbe stato presentato ai ragazzi del Seeburg domenica pomeriggio con un discorso del direttore. Un avviso affisso in bacheca comunicava che L’Eco del Seeburg era sotto la protezione del direttore e qualunque forma di disturbo o sabotaggio sarebbe stata punita. Quella domenica il tempo era pessimo, e verso mezzogiorno si scatenò una violenta grandinata. L’appuntamento per l’inaugurazione del giornalino era fissato per le diciassette. Era previsto che con una solenne cerimonia il gruppo avrebbe infilato le pagine nel portagiornali per raggiungere alle cinque e trenta il refettorio, dove sarebbero stati accolti dal direttore, dagli educatori e da tutti i collegiali al completo! Ma fermiamoci alle quattro di quel giorno. In sala studio regnava agitazione. La festicciola, e soprattutto la novità del buffet, offrivano ai collegiali un gradito diversivo dalla solita routine. Il clan era seduto a un tavolo in disparte. Parlottavano tra loro chinati verso la leader. A un certo punto Annika si allontanò e si avviò nel corridoio, dove incontrò un paio di ragazze della camerata delle più piccole. Finse di dirigersi verso il bagno che si trovava sullo stesso piano. Sparite le fanciulle tornò indietro e corse verso la direzione. Entrò furtiva. L’oggetto pendeva da un grosso chiodo messo di recente e, mentre lo toglieva, provò un senso di maligna soddisfazione. Alla porta tese l’orecchio, e non sentendo rumori sospetti uscì e raggiunse di corsa la scala che portava dabbasso. Nel cortile fu investita da una raffica di vento gelido, pioveva misto a neve. Si mosse a tentoni verso l’angolo, scivolò, l’impetuoso maestrale minacciava di scaraventarla a terra. Svoltò a sinistra e strisciando contro la parete proseguì a fatica.

Raggiunse e oltrepassò l’altro angolo. Una volta aveva fatto di nascosto lo stesso percorso, ma con un tempo mite e asciutto. Ecco la porta. Era chiusa, ma non a chiave. In quello scantinato il Seeburg conservava legna e carbone. Entrò, attivò l’interruttore della luce e cominciò a scendere la scala, ma la fanghiglia attaccata alle sue scarpe la fece scivolare. Ruzzolò rovinosamente fino in fondo seppellendo sotto di sé il portagiornali, che si spezzò in due. Nella caduta perse i sensi. Quando alle cinque il gruppo si riunì in redazione non trovò il portagiornali. Eppure fino a poche ore prima era là, appeso al chiodo. Ci fu incredulità e sbigottimento. Poi qualcuno disse: «Io ho un sospetto…» La cercarono nella sala studio, controllarono i bagni, le camerate, la soffitta, tutti i vani dove avrebbe potuta essere, ma invano. Tornarono in sala studio. Nel frattempo si era diffusa un’atmosfera di stupore e smarrimento. Liesèl avvicinò una delle adepte: «Tu sai qualcosa?» L’altra sbatté le ciglia: «Io? No, niente». Fräulein Josefine radunò le quattro fedeli e le esortò, severa: «Avanti, ragazze, se sapete qualcosa parlate!» Quelle si guardavano l’una con l’altra scuotendo le teste. L’educatrice si inquietò: «Non è il momento di prendere le parti di Annika, potrebbe essersi messa in un serio guaio!» Solo allora la più robusta e tosta balbettò: «Forse è…» «Dove, dannazione?» «Nella carbonaia». Si mise a tremare. Fräulein Josefine cadde dalle nuvole: «Quale carbonaia?» Solo Frau Gerta era a conoscenza di quella maledetta cantina. Quando la trovarono era ancora priva di sensi. Chiamarono l’ambulanza e fu portata all’ospedale. Si era rotta una gamba, ma non era in pericolo di vita. Fu avvertito il padre che arrivò, trafelato, la mattina seguente alle sette. Annika non volle tornare a casa e, dopo essere stata dimessa, rientrò al Seeburg. Ma era un’altra ragazza. Come se il suo cuore, la sua coscienza e i suoi sentimenti fossero stati rivoltati. Ora aveva bisogno dell’aiuto e della solidarietà di tutti ed era umile e riconoscente. Diceva ‘per favore’ e ‘grazie’. E, in sala studio, davanti a tutte le collegiali, domandò scusa a coloro alle quali aveva fatto del male, soprattutto a Liesèl. Restò al Seeburg in quelle condizioni fino al venti di dicembre, giorno in

cui il padre venne a prenderla e la portò a casa per le vacanze natalizie. L’Eco del Seeburg fu presentato due domeniche dopo l’incidente, Annika era presente con tanto di gamba ingessata. Le cuoche erano state sottoposte a un tour de force per preparare, oltre al normale servizio di cucina, anche il buffet. Avevano sistemato i tavoloni del refettorio contro una parete, uno sopra l’altro, per far posto al gran numero di persone che si sarebbe raccolto. L’atmosfera era agitata, perfino la moglie del direttore era scesa per partecipare all’insolito evento. Indossava un vestito elegante di taffettà blu. Giunse infine il grande momento. L’Heimvater, accompagnato da un lungo applauso, si accingeva a pronunciare un discorso di elogio rivolto al gruppo, che aveva voluto si raccogliesse vicino a lui. Parlò del valore di un’idea e della volontà di realizzarla, di svilupparla con una manciata di compagni che fino a quel momento non sapevano di possedere un talento o una particolare attitudine. Inneggiò alla passione condivisa per un progetto che crea forza, solidarietà, dedizione ed entusiasmo. L’Eco del Seeburg era molto più di un giornalino da collegio, disse. Esprimeva infatti la volontà di un gruppo di ragazzi di misurarsi con le proprie possibilità e i propri limiti. Un gruppo che desiderava crescere e capire qualcosa del mondo. Che aveva rivolto lo sguardo oltre le mura del collegio e oltre il presente, spingendosi a indagare anche sul recente passato dell’Europa. E terminò: «Io sono orgoglioso di questi magnifici ragazzi che stanno percorrendo un piccolo tratto di strada al Seeburg insieme a tutti noi!» Ci furono nuovi applausi, anche da parte della moglie del direttore, e Annika si spellò le mani. Quando l’Heimvater diede il via al buffet sembrò che si fosse rotta una diga. Per il resto, L’Eco del Seeburg era di quanto più serio e nello stesso tempo candido, comico, curioso e variopinto si potrebbe immaginare. E il portagiornali? Be’, per fortuna l’Heimvater ne aveva ricevuto da Vienna uno di riserva. Liesèl fu chiamata nell’ufficio del direttore. «Fra tre giorni partirete tutti per trascorrere le vacanze natalizie a casa», esordì l’Heimvater. «Come ti senti? Sei contenta?» Il tono era di affettuosa partecipazione, conosceva la situazione familiare della ragazza. «Non so», rispose lei, incerta. «Devo darti una notizia… Ha telefonato la tua matrigna, non può venire a

prenderti». Lei ebbe un piccolo sorriso ironico come se se lo aspettasse. «Ma ho un’idea», aggiunse il direttore. «Dorian Kolb abita a Bischofshofen e potreste partire insieme con lo stesso treno. Che ne dici?» «Non sapevo che abitasse a Bischofshofen», si stupì Liesèl. «Sono poche fermate prima della mia». Accordo fatto. In clima di congedo le ragazze del gruppo desideravano fare gli auguri di buone feste agli amici contadini. Herr Tobias si intenerì molto mettendosi a fumare furiosamente la pipa. Anche Frau Marie e il marito si commossero e regalarono a ogni ragazza due mele del loro frutteto. Prima che se ne andassero, Herr Tobias si fece promettere che un giorno in gennaio gli avrebbero portato il giornalino per verificare «che cosa avessero combinato con la sua testimonianza!» Era duro lasciare il collegio. La matrigna l’aveva internata per punizione, ma il Seeburg era stato per Liesèl una fonte di esperienza e crescita. Al Seeburg era felice. Dorian e Liesèl sedevano uno di fronte all’altra. Il vento scagliava la neve contro il vetro del finestrino, ma il treno proseguiva sfidando la burrasca. Non parlarono molto, ricordarono solo per qualche momento l’emozione e la gratificazione che avevano provato durante la presentazione del giornalino e il bellissimo discorso del direttore. «Chi viene a prenderti a Bischofshofen?» domandò Liesèl quando il convoglio entrò nella stazione di Salisburgo. «Mia madre», rispose Dorian, e la gioia e il calore che trasparivano dalla sua voce le fecero male. Sentiva sempre un’invidia dolorosa quando qualcuno aveva una madre amorevole. La coincidenza tardava un poco, gelide raffiche di vento spazzavano la pensilina. Le valigie erano sistemate nel portabagagli, sopra di loro. C’era solo un’altra persona nello scompartimento, un’anziana signora imbacuccata in una pelliccia maculata. «Per favore, mi svegliate prima di Kuchl?» chiese loro e poi si addormentò. Liesèl indossava il cappottino che si era un poco ristretto dall’ultimo anno, Dorian un giaccone di loden. Faceva freddo nel vagone, il controllore li aveva avvertiti che il riscaldamento era rotto.

Passò un po’ di tempo, entrambi si sentivano racchiusi in un insolito imbarazzo. Non era come discutere del giornalino nella familiare redazione. Di colpo Dorian dichiarò: «Forse non avevo capito bene… tu e Rainer…» La signora parlava nel sonno: «… No in montagna non ci vengo. Non ci vengo…» «E tu e Greta?» domandò Liesèl. Sul volto di Dorian passò un sorriso furbetto: «Prima tu». «No, non stiamo insieme», rispose. «Ma Rainer mi piace molto. Suona divinamente il pianoforte». Lui annuì, serioso: «Be’, io contro un bravo suonatore di piano posso solo giocare il mio ottimo inglese. Vuoi essere la mia ragazza?» A Liesèl mancò il respiro. Il trenò lanciò un lungo fischio prima di entrare in un tunnel. Per qualche istante si sentì solo il fischio simile a un grido di allarme: Non sporgetevi dai finestrini! «Sì», disse, quando tornò il silenzio, e arrossì. Dorian si sporse avanti, le prese la mano e la accostò per un attimo alla propria guancia. Poi si ritirò e sorrise contento: «Bene». E così, in quel momento, cullandosi in quella inaspettata novità, Liesèl scacciò il pensiero che l’aveva tormentata negli ultimi giorni: rivedrò Lukas, che gioia, ma ricomincerà la battaglia con la matrigna. E invece ora avrebbe affrontato tutto questo con una nuova forza. Dopo le vacanze sarebbe tornata al Seeburg, al gruppo del giornalino, all’Heimvater e Fräulein Josefine, alla camerata con i letti smaltati di bianco, al refettorio strapieno, alla messa celebrata nella cappella, ad Annika, di cui forse sarebbe diventata amica – e ci sarebbe stato Dorian! «Ma», lei esordì in un discorsetto da femmina diffidente, «se oggi non avessimo preso questo treno insieme…» Dorian tirò fuori un foglio dalla tasca del giaccone: «Ecco la risposta». Lei scoppiò a ridere: «Non ci credo! Mi avresti lasciato un biglietto in soffitta al Seeburg?» «Yes. Dai un’occhiata». Lei lo spiegò e lesse: «Vuoi essere la mia ragazza?» Liesèl sentì scoppiare il cuore e si alzò per riprendere fiato. Guardò fuori dal finestrino. Il paesaggio correva via veloce. Seguì con lo sguardo la plumbea linea dell’orizzonte. Poi, in fondo, da sotto una pesante coltre di nuvole, a un tratto vide allargarsi una chiazza di

luce. Come un gentile augurio inviato dal cielo dell’est.

17

Il treno ripartì e nel cuore di Liesèl si scolpì l’immagine di Dorian che abbracciava sua madre sotto il cartello BISCHOFSHOFEN. A un tratto lo scompartimento le sembrò terribilmente vuoto e gelato, e si avvolse più strettamente nel cappotto. La prossima fermata era la sua. Tirò giù la valigia dal portabagagli e la sistemò vicino a sé. Il controllore mise dentro la testa facendole cenno di prepararsi. «Sì, grazie», rispose lei. Entrò una coppia. L’uomo era vestito di scuro come se fosse in lutto, la donna indossava una giacca a vento azzurro e un berretto di lana blu che si tolse, liberando una cascata di capelli color miele. Dopo qualche minuto si rivolse a Liesèl: «Viaggi da sola?» «Sì. Torno a casa per Natale». «Da dove vieni?» «Dal collegio Seeburg». Aveva pronunciato il nome con orgoglio. «Ti trovi bene là?» «Molto bene!» esclamò con slancio. Pensava a Dorian. Ora stiamo insieme, si ripeteva. Mi ha chiesto se voglio essere la sua ragazza e ho risposto di sì, ma pochi minuti dopo è dovuto scendere e lo rivedrò solo fra quindici giorni. Un’eternità! Temeva l’incontro con la matrigna, le solite tensioni tra loro, alle quali la donna aveva voluto porre termine allontanandola dalla famiglia. Al Seeburg, che avrebbe dovuto essere un luogo di punizione, Liesèl aveva invece trovato da un lato rigore e severità, ma dall’altro umanità, stimoli, insegnamento e amicizie. Il viaggiatore aprì un thermos e versò del tè fumante in un bicchiere di plastica. La donna fece di no col capo e domandò: «Hai dei fratelli?» «Uno», sorrise Liesèl. «Si chiama Lukas».

«Che strano», disse l’altra. «Sai che anche mio padre si chiama Lukas?» Liesèl annuì mentre il treno rallentava, sbuffando e sferragliando rumorosamente. Prima di avviarsi verso la porta salutò educatamente. «Buone feste!» augurarono i due quasi all’unisono. Liesèl trovò la pensilina spazzata dalla neve. Per un momento osservò un addetto in tuta bianca che ne caricava palate su un carretto a due ruote. Malgrado fosse partita solo quattro mesi e mezzo addietro, la stazione le dava un senso di estraneità come se la vedesse per la prima volta. Sentì un fruscio al suo fianco e si voltò di scatto. Vide suo padre! Il cuore le sobbalzò ed ebbe l’impulso di buttargli le braccia al collo, ma quasi a prevenire il gesto lui pose una mano sulla sua spalla: «Eccoti arrivata! Il treno è giunto con due minuti d’anticipo, incredibile». La osservò dalla testa ai piedi: «Sei cresciuta! Stai bene?» «Sì, papà». Lui prese la valigia e la precedette verso l’uscita. La Bahnhofstrasse era scivolosa. «Attenta a non cadere», disse il padre. «Da ieri è venuta giù parecchia neve e la temperatura è scesa. Qui spargono il sale solo una volta al giorno. Cosa mi racconti del Seeburg? Non è che tu abbia scritto molte lettere!» «All’ultima non avete risposto», gli fece notare lei. «Forse perché…» cercò di giustificarsi, «a casa abbiamo avuto a turno l’influenza, ci sono stati problemi in fabbrica e inoltre…» «Non importa, papà». Lui tacque finché non arrivarono nei pressi del ponte. Il Salzach era gonfio e schiumoso. Quante volte lei lo aveva attraversato insieme al fratello per raggiungere la scuola su al paese. Il padre posò la valigia e domandò di nuovo: «Dunque che mi racconti del collegio? Sono molto severi?» «No», rispose. «Sono… giusti. Là sono felice». «Fe…lice?» «Sì, papà». L’uomo slacciò l’ultimo bottone del loden e chiese, come se non fosse sicuro di aver capito bene: «Hai detto che là sei felice?» Liesèl annuì, formò una palla di neve e la lanciò contro lo steccato di Frau Hennerbrandt, proprietaria dell’unica bottega di alimentari che si trovava nei paraggi della fabbrica. Il padre indugiò, poi esordì: «Devo chiederti una cosa».

Lei lo guardò in attesa, notando che i capelli del genitore si erano molto ingrigiti sulle tempie. «Vorrei che in questi giorni tu evitassi le discussioni con tua madre. Me lo prometti?» La ragazza deglutì. Come bruciava sulla punta della lingua la frase «non è mia madre!» ma si trattenne. «Te lo prometto, papà. E Lukas?» «L’ho lasciato a casa perché stamattina aveva il mal di gola». «Ma sta bene?» «Sì, sì, deve solo aver preso un po’ di freddo. Non vuole mai mettersi la sciarpa, dice che gli pizzica il collo. È talmente cocciuto tuo fratello!» Ripresero il cammino imboccando la Industriestrasse. Poiché lo stabilimento era chiuso per le festività, la strada era tranquilla e deserta. Sui campi c’era una coltre di neve fresca parecchio alta che scintillava al timido sole di dicembre. Vicino alla fabbrica incontrarono Irmi, una ragazzina con la quale Liesèl era molto amica. Le due si salutarono festose. «Vado a prendere il latte dal contadino», annunciò Irmi, indicando il bidoncino dal manico di legno. «Più tardi passi da casa mia? Ho tanto da raccontarti!» «Va bene, farò un salto». Quando si fu allontanata, il padre disse: «Girano certe voci su di lei…» «Sì? Quali?» «Che abbia già un ragazzo e molto più grande di lei. Ma forse sono solo dicerie. In posti piccoli come questo le cattiverie fanno presto a circolare». Erano arrivati. Lukas li attendeva dietro la finestra della sua camera, e non appena li vide corse fuori per abbracciare la sorella. «È così che prendi il mal di gola!» protestò il padre, ma il ragazzino si era già avvinghiato al collo di Liesèl. Entrarono in casa, c’era profumo di dolce appena sfornato. La matrigna sbucò dalla cucina e la baciò sulla guancia: «Ecco la nostra collegiale! Come stai?» «Bene». Ma Lukas la afferrò per la mano e la trascinò nella sua stanza. «Guarda, ho una nuova bicicletta! L’altra era ormai quasi arrugginita. L’ho avuta per il mio compleanno. Ti piace?» «È bellissima», confermò Liesèl. Lo era davvero. «Però se continua a nevicare non potrò usarla», si rammaricò il ragazzo. «Dovrò andare a scuola a piedi».

«Anch’io vado a scuola a piedi», disse Liesèl. «Ma forse la tua non è lontana come la mia!» ribadì lui. «Ogni giorno due chilometri avanti e indietro!» «Oh, poverino», lo canzonò Liesèl. «Ti consumerai le gambe». «Scema! Quanto tempo ti fermi?» «Quindici giorni». «È vero che al Seeburg stai molto male?» «Chi te l’ha detto?» «La mamma». Liesèl ingoiò la frase: «Lei non è nostra vera madre» e affermò: «Invece al collegio sto benissimo. Mi diverto e abbiamo anche fatto un giornalino. Il direttore ci ha offerto un buffet per l’inaugurazione». «Un che?» «Significa che si mettono tante cose da mangiare e da bere su un tavolo e ognuno può prendere ciò che vuole», spiegò. «Così al collegio sei contenta?» «Sì, Lukas». Lui la fissò incerto: «Ma la mamma ha detto il contrario. E lei non sbaglia mai». «Questa volta si è sbagliata». «Glielo vado a dire!» esclamò e stava per precipitarsi fuori dalla stanza, ma Liesèl lo trattenne per un braccio: «Non farlo, resta qui». «Perché?» «Vuoi che lei si arrabbi con me? Poi sai come va a finire». Il ragazzino passò una mano sul lucido cerchione della bicicletta e disse: «Ho fatto una cosa…» «Sì? Racconta…» «Un giorno quando la mamma è andata a fare la spesa l’ho cercata nell’armadio». «Che cosa hai cercato?» «La gruccia con la quale lei… che usava per …» «Per menarmi», fece Liesèl, seccamente. «E allora?» «L’ho spezzata sul ginocchio, poi sono uscito e ho buttato i pezzi dietro il capanno nel quale gli operai hanno lasciato i mattoni e le tegole». Liesèl gli passò una mano tra i capelli mossi: «Hai fatto bene, fratellino». Lui sorrise lusingato e aggiunse con aria complice: «Ma papà è in casa. Lei non ti picchiava in sua presenza».

Il piatto preparato dalla matrigna era quello delle grandi occasioni: un rotolo di impasto per canederli avvolto in un canovaccio e cotto in acqua salata, poi servito a fette cosparse di burro fuso. Inoltre insalata di sedano rapa in agrodolce. Per un po’ tutti furono occupati a godersi il cibo, ma quando Lukas ebbe finito, depose la forchetta e domandò in tono perentorio: «Perché mi hai raccontato una bugia, mamma?» La donna alzò il capo, stupita: «Di cosa parli, tesoro?» «Non è vero che Liesèl al Seeburg sta male perché la battono col bastone. Non è vero!» Lei lanciò uno sguardo d’aiuto al marito. Lui si rivolse al figlio: «Avrai frainteso, Lukas». «Non ho frainteso! La mamma ha detto che Liesèl è cattiva e al collegio la battono col bastone per farle passare la voglia di raccontarmi delle menzogne!» Detto questo balzò in piedi, rosso in volto, e in due secondi era uscito. Liesèl si scusò e lo seguì nella sua camera. Appena anche lei fu entrata lui chiuse la porta a chiave dall’interno. Qualche istante dopo arrivò il padre e, accorgendosi di non poter entrare, cominciò a bussare: «Aprite, ragazzi!» «No!» gridò Lukas. «Ve lo ordino!» «No!» Liesèl non aveva mai visto il fratello così arrabbiato. L’uomo attese qualche momento, poi annunciò che avrebbe rotto il vetro della finestra per introdursi nella stanza dall’esterno, e in tal caso sarebbero stati guai per tutti. Abitavano al pianoterra e la minaccia era concreta. Lukas si strinse nelle spalle e si sedette sul letto. Liesèl gli scivolò accanto: «Ma cosa ti ha preso?» «Ora lo so», disse lui, arrabbiato. «Lei ti ha mandata al Seeburg per quella cosa che tu mi dicevi sempre: che non è la nostra vera madre». Durante i pochi mesi in cui Liesèl era stata al collegio, non solo i capelli del padre si erano molto ingrigiti, ma sembrava che anche in Lukas si fosse prodotto un cambiamento. Prima non si sarebbe mai ribellato con quella veemenza a una dichiarazione di colei che riteneva la sua madre naturale. Nel frattempo l’uomo aveva cominciato ad armeggiare attorno alla finestra. Lukas si girò e fissò la sorella negli occhi: «Adesso tu devi dirmi la

verità: lei è la nostra vera madre o no?» Liesèl pensava alla promessa fatta al padre di evitare liti ed esitò. Chissà cosa sarebbe successo se ora lei avesse ribadito la sua verità. Una verità che sapeva lei, ma non il fratello. Ma era difficile resistere allo sguardo di Lukas. Si sentiva in trappola. «Mi fai un grande favore?» domandò infine Liesèl in tono accorato. «Quale?» «Mi concederesti alcuni giorni per la risposta?» «Ma…» «Ti prego, è importante. Sai cosa facciamo? Io ti darò la metà del mio Bunter Teller». Il Bunter Teller era ciò che per tradizione ricevevano i ragazzi austriaci la notte di Natale insieme ai regali. Era un piatto pieno di noci, cioccolatini, dolci di marzapane, frutta e biscotti a forma di stella, coperti con candida glassa. Il padre bussò al vetro: «Conto fino a dieci e poi lo rompo!» «La metà?» chiese Lukas. «La metà», confermò Liesèl. «Ci sto». «Ora apriamo!» gridò Liesèl. Dopo un po’ l’uomo entrò nella stanza e guardò l’uno e l’altra più volte. «Dovrei punirvi, ma domani è la vigilia e desidero che restiamo in pace. E tu, Lukas, datti una calmata, non voglio che ti rivolgi mai più con questa prepotenza a tua madre. Siamo intesi?» Lui annuì a testa bassa. «La mamma è andata a riposare», concluse. «Vado a distendermi anch’io per un’oretta». Quando se ne fu uscito, i due si guardarono in silenzio, stupiti per l’insolita clemenza del genitore. Liesèl decise di fare un salto a casa di Irmi, che abitava due portoni più in là. Le aprì la madre. Di statura minuta, corporatura rotonda, sguardo dolce e mite, era un tipo di donna che irradia un forte senso materno. «Allora sei tornata dal collegio per Natale?» domandò con un sorriso caldo, familiare. «Sì», rispose Liesèl. «E come ti trovi lontana da casa?»

«Molto bene!» Ma intanto Irmi si era precipitata fuori dalla sua cameretta e, interrompendo bruscamente lo scambio di battute, già aveva trascinato l’amica con sé. «Ultimamente mio padre si diverte a verniciare qualsiasi cosa gli capiti a tiro», spiegò, indicando una sedia dipinta di verde. «Niente paura, è asciutta». Liesèl si sedette. Irmi invece scivolò su uno sgabello color giallo limone. «Papà da piccolo sognava di diventare un pittore», aggiunse. «Ora invece lavora come stampatore nella fabbrica. La mamma dice che non possiamo sempre diventare ciò che desideriamo. Io da maggiorenne vorrei frequentare una scuola per indossatrici, ma lei non è d’accordo. Finirò per essere commessa da un fornaio». «Perché proprio dal fornaio?» «La gente comprerà sempre più pane che biancheria erotica, non credi?» «Biancheria erotica?» ripeté Liesèl, stupefatta. «Come ti viene in mente?» «L’ho letto su Stern. Mia madre è iscritta a un circolo di lettura. Ti consegnano sei riviste al prezzo di tre e le puoi tenere una settimana. A volte sono già vecchie di quindici giorni, ma non importa. Almeno si capisce cosa succede nel mondo, anche se un po’ in ritardo. Che mi racconti del collegio?» Liesèl non vedeva l’ora di dire tutto all’amica e, dopo aver narrato dall’inizio alla fine la storia del giornalino del quale – precisava – era stata ideatrice e coordinatrice, giunse alla grande notizia: «Ho un ragazzo!» Irmi si elettrizzò: «Voglio sapere tutti i particolari!» Tuttavia non ce ne erano tanti. Il sentimento che Liesèl coltivava segretamente per Dorian e il malessere che provava quando lui, nel pomeriggio, andava a farsi un giretto proprio con l’amica di lei, Greta, avendo scoperto la gelosia, e poi… «Racconta!» la incalzò Irmi. Già, e poi la fatidica domanda che Dorian le aveva fatto un attimo prima di scendere a Bischofshofen: «Vuoi essere la mia ragazza?» E il suo confuso, sorpreso, felice sì. «Tutta qui la vostra storia?» fece Irmi, delusa. «In che senso?» «Nel senso che sei rimasta l’innocentella che eri quando sei partita, e questo dopo aver trascorso quattro mesi in un collegio insieme a tanti maschi!» «Cosa vuol dire?» chiese Liesèl con stizza: «Mi tratti da stupida oca arretrata!»

Irmi si affrettò a scusarsi: «Non volevo offenderti, lo giuro! Intendevo che…» «Ah, stai zitta!» disse Liesèl. «Aspetta!» Si spostò a un mobiletto con tre cassetti, ne aprì uno con la chiave, estrasse una foto in bianco e nero e la porse a Liesèl: «Questo è il mio ragazzo». Uno stangone biondo piuttosto carino. «È un atleta», spiegò, orgogliosa. «Ginnastica artistica. Si chiama Achim». «Quanti anni ha?» «Sedici». «Ma è più grande di te di tre anni!» «Due», la corresse. «Ne ho compiuto quattordici. Come te, no?» «Ehm… sì». Ci fu una pausa, poi Liesèl si lasciò prendere dalla curiosità: «E quando vi vedete?» L’altra si avvicinò alla porta, aprì uno spiraglio per verificare se la madre si trovasse nei paraggi, poi - ributtandosi sullo sgabello - sussurrò: «Il sabato pomeriggio. Dico ai miei che vado al cinema con una compagna di scuola e invece mi incontro con lui». «Dove?» «Nel garage dei suoi genitori. Il sabato pomeriggio vanno sempre a trovare dei parenti che abitano fuori Sankt Johann. Achim invece resta a casa». Fece una pausa e sorrise come se evocasse la figura dell’innamorato. «Che fate nel garage?» Liesèl la esortò. «Ci sono due macchine, una nuova, poco usata, e una stravecchia che apparteneva al bisnonno di Achim. La conservano come una reliquia. Ha i sedili morbidi, un po’ scomodi, ma ci arrangiamo». «Vi… arrangiate?» «Non hai capito?» «Veramente…» «Ci arrangiamo per fare quella cosa!» Liesèl non sapeva esattamente di che si trattasse, ma intuiva che fosse qualcosa che dovevano fare solo gli adulti. «E se venissero a saperlo i tuoi genitori?» ipotizzò, turbata. «Per l’amor del cielo», bisbigliò Irmi. «Mio padre mi rinchiuderebbe subito in convento».

«Come fai a ingannare i tuoi in questo modo?» L’altra balzò su: «Credevo che tu fossi dalla mia parte! Non abbiamo sempre detto di non avere segreti fra noi?» Liesèl annuì, disorientata. Sentiva una strana cosa, come se si fosse posto fra loro un ostacolo, che collocava Irmi da un’altra parte, da quella delle ragazze vissute, mentre lei si sentiva sciocca e ingenua. Si alzò: «Devo andare. Ho promesso a Lukas che sarei tornata entro un’ora». «Ma ci vediamo ancora prima che tu riparta? Non siamo più amiche?» «Ma sì…» «Posso chiederti una cosa?» «Dimmi». «Una volta sono andata con Achim davvero al cinema, e all’uscita mi ha visto Ernst, il figlio degli Scheffner, quelli che stanno nell’ultima mansarda in fondo a questa casa». «E allora?» «Potresti sondare un po’ con tuo padre se… insomma, se Ernst ha diffuso la notizia nei dintorni? Sai, per i miei genitori. Non vorrei che…» «Ci proverò», promise Liesèl, mentre le veniva in mente la frase del padre: Girano certe voci su di lei… Trovò Lukas che stava preparando dei biscotti con la matrigna. Erano così impegnati che quasi non si accorsero del suo rientro. Lei domandò se poteva dare una mano. Lukas alzò il viso. «No, no, ci sono già io! Non è vero, mamma?» «Sì, tesoro», rispose la donna. Il ragazzo mentre tagliava con lo stampino alcuni cuori nell’impasto, dichiarò, vivace: «Farò anche delle stelle cadenti. Portano fortuna». «Come sei bravo», lo lusingò Liesèl. Lui fece spallucce, passò il dorso della mano sulla guancia per levare una spolverata di farina, poi si rivolse alla matrigna: «Mamma, perché non facciamo pure dei biscotti di cocco?» «Ci avevo già pensato», rispose lei. «Ho giusto trovato da Frau Hennerbrandt la farina di cocco». Si rivolse a Liesèl: «Perché non vai a svuotare la tua valigia? Che cosa hai portato dal Seeburg?» «Le cose che non si possono mettere in lavatrice», spiegò lei. «Maglie di lana, la vestaglia, i vestiti di…»

«Ho capito», la matrigna tagliò corto. «Dovrò lavare tutto a mano e Dio solo sa come e quando si asciugherà!» «Dov’è andato papà?» chiese Lukas. «A prendere l’albero», annunciò la donna. Lui si mise a saltellare: «Che bello, che bello!» Ma per tradizione i ragazzi potevano vedere l’albero addobbato solo dopo la cena della vigilia insieme ai doni. «Io so che regali riceverò», dichiarò Lukas con aria saputella. «No che non lo sai», rise la matrigna. «Invece sì!» insistette il ragazzino. Lei si avvicinò e gli diede una strizzatina al naso lasciandolo infarinato: «No che non lo sai». Lui tossicchiò dalle risate e infilò in bocca un pezzo di impasto. «Poi ti viene il mal di pancia», lo avvertì la donna. «Non è vero». «Eccome se è vero! Vuoi che non ti conosca?» Liesèl uscì dalla cucina, l’intesa fra i due era fastidiosa. Per qualche istante si soffermò nell’ingresso ascoltando le loro voci. Che fine aveva fatto la rabbia di Lukas dopo aver scoperto la bugia della matrigna? Fece un giro per l’appartamento quasi volesse convincersi di essere tornata a casa e non in un luogo estraneo. C’era il piccolo vano che fungeva da riserva di legna e carbone. In realtà le stanze riscaldate con la stufa erano solo due: il salotto e quella di Lukas. La camera matrimoniale, quella da pranzo che in pratica non si usava mai, e la stanza di Liesèl rimanevano al freddo. Il bagno si intiepidiva solo quando si accendeva lo scaldabagno, e il gabinetto, separato, la cui finestrella si affacciava sul cortile esterno esposto al vento, era gelatissimo. Trovò la sala da pranzo chiusa a chiave, immaginava che vi fossero nascosti i regali di Natale. Alla fine Liesèl curiosò un po’ nella camera del fratello: la bicicletta nuova tutta luccicante faceva da protagonista. Contro una parete c’erano gli sci e le racchette, ma avevano già due anni ed erano ormai piccoli per Lukas. Poi il letto, un tavolo grezzo sul quale il fratello si cimentava in lavoretti di falegnameria e una piccola scrivania con sedia per svolgere i compiti. Infine un armadietto tirolese dipinto con tante stelle alpine comprato a suo tempo usato, e uno scaffale con le cose di scuola sul quale Liesèl scoprì anche una collezione di libri di Karl May. Decise di prenderne qualche volume in

prestito per i giorni di vacanza che aveva davanti. Si sedette alla scrivania e pensò a Dorian. Era sicuramente in compagnia di sua madre che lui amava e dalla quale era riamato. Ne sentì una segreta, amara gelosia. Ripensò alla domanda che le aveva fatto un attimo prima di scendere a Bischofshofen: «Vuoi essere la mia ragazza?» Era stato il momento più felice dal giorno di settembre in cui la matrigna l’aveva consegnata al Seeburg. Sì, consegnata. In fretta e furia come ci si libera di un fagotto ingombrante. «Liesèèèl!» senti strillare Lukas. «Sono nella tua camera!» Lui arrivò pieno di entusiasmo. «I biscotti sono nel forno. Più tardi la mamma prepara anche lo Stollen!» Un tipico dolce di Natale austriaco lievitato e speziato con frutta secca, mandorle e uva passa. Per un po’ contemplò la bicicletta. «Purtroppo quando nevica non posso usarla per andare a scuola. Ma se non nevica non è Natale!» Tacque un attimo, poi riprese: «Ci ho pensato mentre ritagliavo le stelle filanti…» «A cosa?» «Alla risposta che devi darmi». «Abbiamo detto fra qualche giorno», gli rammentò. Lui scosse lentamente la testa: «Non la voglio più». «Come mai?» Con uno scatto tra rabbia e insofferenza diede un calcio alla bicicletta: «Non voglio sapere niente, hai capito?» E scappò dalla stanza. Liesèl rimase sgomenta, poi realizzò: Non vuole sapere perché ha paura della verità. Sentiva chiasso provenire dalla porta d’ingresso. Era arrivato il padre con l’albero di Natale e Lukas lo aveva accolto con gridolini di gioia. Liesèl capì dal velo opaco nell’aria che fuori stava nevicando. Balzò dal letto e corse alla finestra: da un cielo impenetrabile scendevano grossi fiocchi lenti. Era la vigilia e nevicava, doveva svegliare Lukas e portargli la bella notizia. Infilò le ciabatte e si buttò il piumone sulle spalle, faceva freddo. Nel corridoio sentì parlare in cucina e, aprendo la porta, vide il resto della famiglia riunito per la prima colazione. Per un momento rimase impietrita dalla sorpresa, si erano seduti a tavola come facevano di solito quando lei non c’era!

«Perché non mi hai chiamata?» domandò alla matrigna in tono offeso, deluso. La donna la guardò confusa: «Io pensavo che…» «Avevi già dimenticato che sono tornata dal collegio e ho dormito nel mio letto?» chiese Liesèl, ironica. «Non ti rivolgere a tua madre con questo tono», la ammonì il padre. Lei fece uno sforzo terribile per non dire «non è mia madre!», ma insistette con la matrigna: «Per quale motivo non mi hai chiamata? Forse io non dovevo mangiare?» «Credevo che tu volessi dormire ancora», rispose l’altra, riluttante. «Perché?!» «Liesèl», fece il padre. Lei batté un piede in terra: «Perché?!» La matrigna sbottò, seccata: «Lo sapevo che con il tuo arrivo sarebbe finita la pace in questa casa!» Aggirò il tavolo, si fermò per un attimo alla credenza, fece un gesto di fastidio verso il marito e lasciò la cucina. Il padre sospirò. Liesèl, vedendolo afflitto, ricordò la promessa che gli aveva fatto e disse: «Non volevo, papà…» Lui scosse la testa: «No, no, hai ragione tu. Avremmo dovuto chiamarti. Ma siediti. Lukas, versa a tua sorella il caffelatte e taglia una fetta di ciambella». Lei scivolò sulla panca. Mentre il fratello la serviva, ridacchiò: «Sembri un fantasma con quella cosa sulle spalle!» Con una mano Liesèl stringeva gli angoli del piumone per non farlo scivolare giù, con l’altra intingeva un trancio di dolce nella tazza. Il padre si alzò: «Parlerò con tua… parlerò con lei. A proposito, fra poco la mamma e io usciamo e andiamo con il furgoncino dei Leitner a Sankt Johann per la spesa». I Leitner abitavano un portone più in là ed erano persone gentili e solidali. Spesso prestavano il piccolo furgoncino ai vicini che dovevano fare una spesa più grande del solito. La matrigna ricambiava il favore con qualcuno dei suoi buonissimi dolci. «Dovete comprare molta roba?» si informò Lukas in tono interessato. «È Natale e si mangia di più», rispose il padre. «Che bello!» si rallegrò il ragazzo. «Ma ci vogliono anche più soldi. Non è vero papà?» «Sì, ragazzo mio, ma in dicembre la fabbrica ci dà la tredicesima».

«Ah!» fece Lukas, sperando che la tredicesima portasse anche regali più costosi Quando il padre fu uscito, lui ripeté: «Tanto, io so cosa troverò sotto l’albero». Liesèl sollevò le sopracciglia: «Sentiamo, signor so tutto io!» «Non te lo dico», troncò. Andò alla finestra e controllò la nevicata. «Adesso i fiocchi sono molto piccoli», riferì. «Più tardi potremmo fare un pupazzo di neve», propose Liesèl. «Oh, sì!» si rallegrò Lukas. «Per gli occhi usiamo due pezzettini di carbone e… sai cosa gli mettiamo al collo?» «No…» «La mia sciarpa! La odio, mi pizzica. Forse al pupazzo non pizzica». Liesèl ridacchiò: «Sono sicura che a lui non darà fastidio, furbone». Come imparato al Seeburg, si vestì e rifece rapidamente il letto. Sentì bussare. Era la matrigna. Vedendo il letto in ordine, la donna commentò: «Il collegio serve almeno a qualcosa, anche se devo ammettere di aver avuto informazioni errate su quel posto, sembrava che avessero un metodo educativo più severo». «Sono anche severi», spiegò Liesèl, sollecita, «e ci sono pure le punizioni. Ma il direttore è buono e ci ha aiutato a fare il giornalino». «Quale giornalino?» Lei iniziò a raccontare la storia dell’Eco del Seeburg come aveva fatto con Irmi, ma alla seconda frase la matrigna la interruppe: «Ho molta fretta, stiamo andando al paese per la spesa natalizia. Io spero solo che al collegio imparerai a non ripetere la solita bugia a tuo fratello». Liesèl, che dinnanzi a Irmi si era sentita un po’ tonta, a un tratto decise di affrontare la matrigna con grinta. «Tu sai che è la verità», ribadì in tono fermo. La donna sospirò, segno che stava perdendo la pazienza. Aveva già indosso il cappotto e la sciarpa, ma la allentò e fece quello sguardo da rapace che Liesèl conosceva bene. «Allora insisti!» soffiò, rabbiosa. «Vuoi mettere a ogni costo una menzogna in testa a tuo fratello. Non te lo permetterò!» Liesèl rispose, coraggiosa: «Io ricordo perfettamente la mia vera madre, sono stata con lei fino a quattro anni. Lukas invece non può, era troppo piccolo. Non puoi continuare a darmi della bugiarda». La matrigna bisbigliò, rossa in viso: «Sei la solita rovinafamiglie!» Alzò

la mano per tirarle una sberla, ma la ragazza le bloccò il braccio. «Lo sai cosa dice il direttore del Seeburg? Solo i deboli usano le mani per farsi capire, ai forti bastano le parole». Dallo sguardo della donna capì subito di averla provocata. L’altra sospirò di nuovo, impallidì, sibilò «carogna!» e uscì dalla stanza sbattendo la porta. Liesèl era turbata. Aveva promesso al padre di evitare gli scontri, invece era successo il contrario. Si spostò alla finestra. Nevicava ancora, ma molto piano. Pensava a Dorian e si chiese se nevicasse anche a Bischofshofen. Che fortuna che la matrigna non era venuta a prenderla al collegio, così il direttore aveva deciso che lei e Dorian dovessero partire insieme, dal momento che andavano nella stessa direzione. Vuoi essere la mia ragazza? ripeté fra sé. Appannò il vetro e scrisse: sì! Lukas piombò dentro rumoroso: «Sono andati via! Andiamo a fare il pupazzo?» «Non si bussa?» chiese lei. Lui si accigliò: «Ma tu sei mia sorella». «Che c’entra? Si bussa prima di entrare nella stanza degli altri». «Uffa!» sbottò il ragazzino. «Allora facciamo il pupazzo?» «Solo se d’ora in poi busserai». «Te le insegnano al Seeburg queste cose?» «Sì, Lukas». Con un gesto buffamente teatrale il fratello si mise le mani nei capelli: «Come sei diventata noiosa!» Quando i grandi tornarono a casa, i ragazzi aiutarono a portare dentro la spesa. Sistemato tutto sul tavolo in cucina, il padre disse: «Avete fatto un bellissimo pupazzo di neve, ma ora, caro figliolo, tu vai a prendere la tua sciarpa». «Perché?» protestò Lukas. «Ti serve per andare a scuola, furbacchione». «Ma io…» «Niente storie, altrimenti stasera non troverai nemmeno un regalo sotto l’albero». Oh, come uscì in fretta il piccolo ribelle! La sciarpa era inzuppata di neve. Successe una cosa curiosa: la matrigna pregò Liesèl gentilmente di darle una mano a cucinare il pranzo della vigilia, e lei rispose con slancio. Mi ha

perdonata la frase del direttore, si disse, sollevata. Lukas era geloso: «Ma ci sono io, mamma!» «Ho bisogno dell’aiuto di entrambi, c’è molto lavoro da fare», tagliò corto la donna. Prepararono un menu speciale: zuppa di frittatine e filetti di oca con cavolo rosso e canederli di patate. Per finire una Linzer Torte. Cenarono in un’atmosfera distesa e serena. Al termine i fratelli sparecchiarono e aiutarono a riordinare la cucina, e finalmente furono mandati nella camera di Lukas per attendere la distribuzione dei doni natalizi. Erano molto emozionati. Rimasero al buio a guardare fuori dalla finestra dove, attorno al corpo luminoso di un solitario lampione, turbinavano piccoli fiocchi di neve. «Lo so che non esiste», dichiarò Lukas a un certo punto con il consueto tono da saputello. «Cos’è che non esiste?» «Babbo Natale». «Ne sei proprio sicuro?» lo stuzzicò lei. Lui rimase per un attimo incerto, poi fece, risoluto: «Naaa! Perché in Austria non ci sono le renne». «Hai ragione», convenne lei. «Senza renne Babbo Natale non si sposta, a meno che non arrivi in treno». Lukas scoppiò a ridere: «Babbo Natale col treno? Che scemata». In quel momento suonò il campanellino, segnale che potevano entrare nel salotto. Per prima cosa videro l’albero addobbato con palle rosse e blu, pigne dorate, ghirlande argentate, cioccolatini avvolti nella stagnola, biscotti ricoperti di glassa e in cima una luccicante stella. «Che bello!» esclamarono all’unisono. «Buon Natale», dissero il padre e la matrigna. «Buon Natale», ripeterono i ragazzi, solo dopo osarono abbassare lo sguardo cercando i regali. Per Lukas c’erano sci, racchette, scarponi e giacca a vento nuovi. Liesèl invece ricevette un cappotto rosso scuro in zibeline, pantaloni neri in velluto a coste e un paio di scarpe con piccolo tacco. Naturalmente per entrambi c’era un ricco Bunter Teller. Liesèl fu presa da un impeto di emozione al pensiero di mostrarsi elegante davanti a Dorian. Spinta da traboccante gratitudine abbracciò il

padre e la matrigna ringraziando dei doni generosi. Anche Lukas era raggiante. Continuava a passare la mano sulla resina liscia degli sci che erano dotati del moderno attacco a Kandahar. «E per finire», annunciò il padre, «questa è una lettera dei vostri nonni che vi invitano a trascorrere le prossime vacanze estive da loro. Purtroppo oggi non possono essere con noi, perché il nonno si è storto una caviglia cadendo dal noce». «Cadendo dal noce?» si stupirono. «Già. Voleva salvare un gattino che non riusciva più a scendere». La prospettiva di passare l’estate con i nonni sul lago riempiva i fratelli di grande gioia. La mattina dopo, giorno di Natale, Lukas andò a svegliare Liesèl molto presto, i grandi dormivano ancora. Lei si strofinò gli occhi: «Ho sonno… E non hai bussato!» «Devo provare gli sci nuovi!» dichiarò lui, deciso. «Io non vengo. E poi i miei sci sono ormai vecchi». «Hanno solo due anni», le rammentò lui. «Alzati». «No!» Ma tanto fece il ragazzo che alla fine la sorella dovette arrendersi. «Aspettami in cucina, che piaga sei!» Lui si strinse nelle spalle e uscì dalla camera. Erano appena passate le otto quando i due attraversarono i binari del treno oltre i quali agganciarono gli sci. Per raggiungere i calanchi dovevano attraversare prima un ampio campo imbiancato e infine una piccola radura dove il bosco cominciava a salire la collina. Si fermarono per un momento. Tutt’attorno, in un’atmosfera di immobile incanto, si estendeva uno scenario di alberi e cespugli imbiancati. «E se incontrassimo il mostro della neve?» fece Lukas, mimando un brivido. «Che sciocchezza», fece lei. A un tratto pensò a Dorian: che cosa stava facendo in questo momento? «Lo sai che ho un ragazzo?» rivelò al fratellino. «In che senso?» chiese lui. «Non sai cosa significa avere un ragazzo?» «È uno del Seeburg?» «Sì. Ma non lo deve sapere nessuno. È un segreto fra di noi, me lo prometti?»

«Lo prometto». Lukas fece ruotare una racchetta in aria, poi annunciò con un tono d’importanza: «Anch’io ho una ragazza». «Davvero!?» «Si chiama Petra e a scuola ci scambiamo i bigliettini. Lei me ne manda in continuazione, io meno». «Cosa ti scrive?» «Che ho la faccia buffa, il naso lungo e scrivo brutti temi». «Bei complimenti», commentò Liesèl. «E tu cosa rispondi?» «Che ride come una capra, ha i capelli troppo rossi e la faccia macchiata». «Vuoi dire che ha le lentiggini?» «Sì, quelle». «Deve essere molto carina», disse Liesèl. «Sì, abbastanza», ammise. E aggiunse con un velo di gelosia: «Lei piace a tutti i ragazzi della nostra classe, perfino a quel pallone gonfiato di Harald Lobeck!» «Chi è?» «Uno nuovo. Ha il padre molto ricco. Pensa, arriva accompagnato da una specie di servitore. Harald critica sempre tutto di noi, anche i nostri vestiti, ma sbava dietro a Petra». «E lei?» «I bigliettini li scrive solo a me. Allora andiamo?» A Liesèl non sfuggì che era arrossito. Nello stesso tempo si rese conto che la lontananza da casa la stava estraniando da suo fratello, e avvertì un dispiacere amaro. La pendenza del calanco era severa, ma non acuta. Salirono e, arrivati in cima, Lukas disse: «Ora provo i miei nuovi sci. Tu mi guardi?» «Certo». Scese sicuro con gli sci paralleli e ravvicinati e raggiunse la base con un magnifico cristiania. Si sbracciò esortandola a lanciarsi a sua volta. Liesèl esitò e si lasciò andare tentennante. Giunta in fondo curvò male e cadde. Lukas l’aiutò ad alzarsi: «Non sai più sciare?» «Sono fuori esercizio», si giustificò. «Tu, piuttosto, dove hai imparato a fare un così bel cristiania?» «Al corso», rispose. «Papà mi ha iscritto a un corso di sci». «Quando?» «… qualche settimana fa. Eravamo una decina fra ragazze e ragazzi».

«Dove lo avete fatto?» «Nel pomeriggio salivamo con lo skilift sull’Alpendorf e là ci allenavano due maestri. Una volta durante un fine settimana abbiamo anche dormito al rifugio». Di nuovo Liesèl pensò che il collegio le stava sottraendo la crescita e l’anima di Lukas. «Perché non me lo hai raccontato?» domandò, dispiaciuta. Lui fece un gesto di stizza: «E quando? Tu eri in collegio!» «È stata la tua mammina a mandarmi al Seeburg», gli ricordò. «Dici sempre così!» sbottò lui. «Ma è anche la tua mamma!» Eccoci, ci risiamo… si disse Liesèl. Fu tentata di ribadire «non è la nostra vera madre», ma si trattenne. Avrebbe solo creato nuovi problemi. «Io risalgo», fece, brusca, ma lui la prese per la manica della giacca a vento: «Perché non rispondi?» Lei si liberò e lo guardò dritto negli occhi: «Vuoi davvero la risposta?» Lui indugiò. Batteva con le racchette la neve, poi le voltò le spalle e cominciò a risalire il declivio. Lei lo seguì, e da quel momento tacquero. Continuarono a salire e a scendere, a metà mattina sbucò un sole vivace e brillante. Non si accorsero del tempo che si spolverizzava nell’aria limpida e fredda. Quando Liesèl propose di rincasare, Lukas non volle saperne: «Ancora dieci minuti!» Fecero altri cinque o sei giri su e giù, finché lei non insistette a rientrare. Lui si rabbuiò, ma si rassegnò. Nei pressi dei binari sganciarono gli sci e li misero in spalla. Entrati in casa li poggiarono contro la parete dell’ingresso, levarono gli scarponi e si presentarono in cucina. Si accorsero subito del clima teso. Il tavolo era apparecchiato, il padre seduto al solito posto, la matrigna in piedi con la faccia scura. «Lo sai che sono quasi le due?» tuonò verso Liesèl. Lei balbettò, sgomenta: «Scusa…» «Non ti è venuto in mente nemmeno per un attimo che avresti dovuto aiutarmi a preparare il pranzo?» incalzò la donna, rabbiosa. «Sei egoista e maleducata!» Ora intervenne il padre: «Hanno tardato entrambi, non solo Liesèl». Era la prima volta che prendeva le parti della figlia. «Ma Lukas è piccolo!» ribatté la moglie, stizzosa. «Io non sono piccolo!» protestò il ragazzo. «No, non sei più molto piccolo», gli sorrise il padre. «Adesso andate a

lavarvi le mani. Niente discussioni a Natale!» «Liesèl deve chiedere scusa», insistette la matrigna. La ragazza si girò: «Allora anche Lukas deve chiedere scusa». «No, io no», lui si sottrasse. «Sono stata io a insistere che si tornasse a casa», gli rammentò lei. «Non è vero!» negò lui. Liesèl fece un gesto di collera: che sfacciato bugiardo! «Allora nemmeno io mi scuso», dichiarò, decisa. «Io insisto!» ribadì la matrigna. Il padre si innervosì: «Smettetela tutti e tre! E voi due di corsa a lavarvi le mani!» Durante il pranzo la matrigna non disse una parola e, con l’ultimo boccone in bocca, si alzò e si ritirò in camera. Ci fu un lungo momento di silenzio, poi il padre disse, rassegnato: «Ci tocca rigovernare la cucina, ragazzi. Coraggio, diamoci da fare». Poi ognuno si ritirò nella propria stanza. Fino alla fine dell’anno l’atteggiamento della matrigna rimase ostile. Le mancate scuse di Liesèl il giorno di Natale, appoggiate dal padre, l’avevano fatta arrabbiare moltissimo. Era tornata al solito atteggiamento freddo e scostante verso la figliastra. Le cose peggiorarono quando il padre tornò al lavoro. La matrigna mostrava affetto solo per Lukas, tuttavia i fratelli riuscirono ad andare altre volte a sciare sul solito calanco. Dopo il rientro Lukas asciugava accuratamente i suoi tesori, rimanendo per qualche minuto in adorazione di quel magnifico paio di sci. Un giorno la matrigna domandò se voleva che la riaccompagnasse al collegio, ma Liesèl rispose che non ce ne era bisogno. Conosceva bene il tragitto: il primo treno fino a Salisburgo, poi per venti minuti la coincidenza per Seekirchen. La donna sembrò sollevata. Le fece anzi un complimento: «Brava, dimostri di essere ormai una signorina. Papà ti accompagnerà alla stazione». Liesèl era impaziente di partire. Aveva voglia di rivedere Dorian e tutti gli amici del Seeburg. Tutti! Il direttore, l’educatrice Fräulein Josefine, le amiche più intime, Marta, Greta e Doris, e tutti quelli che avevano collaborato al giornalino. Aveva perfino nostalgia del refettorio rumoroso e affollato, e del suo semplice letto nella spoglia camerata in seconda fila accanto alla finestra.

Al Seeburg si sentiva a casa. Quella domenica si scatenò una forte nevicata sferzata da rabbiose raffiche di vento. Anche Lukas avrebbe dovuto accompagnare la sorella alla stazione, ma fu sopraffatto dall’emozione e rigettò il pranzo e la matrigna lo mise a letto con la borsa dell’acqua calda. L’addio fra i fratelli fu breve e dimesso, Liesèl restò con lo strazio nel cuore. Il commiato dalla matrigna invece fu rapido e indolore, sembrava che entrambe non vedessero l’ora di separarsi Il pavimento dell’atrio della stazione era bagnato e scivoloso, un addetto del Comune spargeva segatura. C’era parecchia gente. Si sedettero su una panca, avevano ancora mezz’ora. «Non capisco, fino a ieri sera Lukas diceva che non gliene importava nulla della mia partenza…» si disperò Liesèl. «È stata la tensione», spiegò il padre. «Tuo fratello ti vuole molto bene». «Anch’io gliene voglio, moltissimo», rispose. E aggiunse, amara: «Ma cresce lontano da me». Il padre si fissò la punta delle scarpe, poi esordì, prudente: «Lo sai perché la mamma ha ritenuto necessario iscriverti al Seeburg?» «Perché continuavo a dire a Lukas la verità!» rispose Liesèl, secca. «Forse dovresti aver capito che a questo punto è meglio lasciare le cose come stanno, non pensi?» fece lui. «Continuare a dirgli una bugia?» «La verità potrebbe causargli un trauma, Liesèl!» «E quando dovrà saperlo? Quando?!» Il padre tacque, disarmato. L’orologio sulla parete di fronte segnalava che il treno sarebbe arrivato fra otto minuti. Liesèl comprese che non era il momento di insistere e cambiò discorso: «Sapessi come sono contenta dei regali di Natale, papà!» L’espressione dell’uomo si distese: «Ne sono davvero felice, figlia mia». «E non ti ho raccontato del giornalino», si rammaricò lei. «Giusto. Perché non me ne hai parlato? Abbiamo avuto tanti giorni a disposizione». Lei rispose, piano: «È vero, papà, tanti giorni, ma poi sembrava che tu non avessi mai tempo per me». Infatti, ogni volta che aveva cercato di restare sola con lui la matrigna si era frapposta tra loro. Il pianto di un bambino, tenuto per mano da un’anziana che doveva essere la nonna, si mescolò alla voce dell’altoparlante che annunciava l’arrivo del

treno. Solo in quel momento a Liesèl venne una crisi di ansia. Il padre si alzò, prese la valigia e la accompagnò al binario. Successe tutto molto in fretta. Lei salì e riuscì ad abbassare un finestrino per salutarlo. «E dai un bacio da parte mia a Lukas», si raccomandò. «Lo farò», fece il padre. Ma le parole si confusero con il rumore del convoglio che stava ripartendo. Lo scompartimento era quasi pieno. Di fronte a lei sedeva un giovane uomo dalla capigliatura bianchissima che la fissava. Guardò fuori dal finestrino e dopo alcuni minuti il treno passò davanti a casa sua. Pensò al padre che stava rientrando senza di lei. Il loro rapporto era rimasto quello di sempre: superficiale e incerto. Girando lo sguardo incontrò di nuovo quello del giovane, che le sorrise. Lei notò che anche le sue ciglia e sopracciglia erano bianche. Le fece una strana impressione: era la prima volta che vedeva un albino. Chissà se Dorian sale a Bischofshofen, cominciò a domandarsi col batticuore. Giunti alla piccola stazione tirò giù il finestrino e si sporse. Tra le poche persone che si avvicinarono alle porte lui non c’era. La madre lo accompagnerà con l’automobile, pensò allora, arriverà al Seeburg prima di me. Richiuse il finestrino perché una signora anziana si lanciò in una stridula protesta: «Maledizione, ci farai morire di freddo, ragazzina!» Solo all’ultimo momento, prima di uscire per andare alla stazione, aveva indossato di nascosto il braccialetto che Dorian le aveva regalato al Seeburg per il suo compleanno. Da allora l’aveva portato al polso tutti i giorni, senza mai separarsene, e solo quando era arrivata a casa per le vacanze natalizie l’aveva nascosto nella sua camera, per non dare spiegazioni. Il fatto di voler bene a Dorian era una cosa sua, intima e segreta, lo aveva raccontato solo a Lukas, confidando nella sua riservatezza. Era soprappensiero quando il treno si fermò bruscamente. Ci fu un momento di silenzio, poi un viaggiatore dal viso magro e tirato esclamò: «Che diavolo succede? Siamo in aperta campagna!» Un altro signore aprì il finestrino e sbirciò da destra a sinistra, ma la donna anziana riprese a strillare: «Chiuda, si muore di freddo!» Passarono alcuni minuti senza che accadesse nulla. Dopo un po’ il giovane albino uscì dallo scompartimento per chiedere informazioni. Tornò con la notizia che la locomotiva aveva un guasto, ma lo stavano riparando. Si

levarono commenti irritati. «È colpa di questi treni decrepiti dell’anteguerra!» imprecò un uomo che indossava un pastrano verde e un cappello nero ornato di un pennello di peli di camoscio. Il giovane albino aggiunse, sarcastico: «No, è molto peggio! Mi risulta che le ferrovie usino ancora molti treni degli anni Venti!» Si avviò una vivace discussione sulle ferrovie austriache e il tempo passò in fretta. Finalmente ripartirono, anche se con oltre un’ora di ritardo. Giunti a Salisburgo, sulla pensilina li attendeva un ambulante che gridava: «Panini, birra, Coca-Cola!» Liesèl raggiunse il binario dei treni regionali, ma un ferroviere le disse che la sua coincidenza era partita da un pezzo. Ne sarebbe arrivata un’altra tra cinquanta minuti. Le consigliò di ripararsi nella sala d’aspetto indicandogliela. Nella sala ristagnava la stanca atmosfera delle attese forzate. C’era una ventina di persone tra cui una zingara vestita di arancione con due ragazzini che si stavano tirando per i capelli. Liesèl si sedette all’estremità di una lunga panca di legno, sistemò accanto a sé la valigia e chiuse gli occhi. Si sentiva frastornata, ma nello stesso tempo fiera di sé. Il padre e la matrigna si erano fidati di farla partire da sola. A un tratto trasalì: qualcuno aveva infilato la mano nella tasca del suo cappotto. Era uno dei ragazzi della zingara. Liesèl saltò in piedi e gridò: «Provaci un’altra volta e vedrai cosa ti faccio, brutto ladro!» L’altro, colto alla sprovvista, tornò a gambe levate dalla madre. Qualcuno batté le mani: «Brava! Bravissima!» Lei tornò a sedere, sorrise degli applausi e pensò: Sì, sono proprio diventata grande. Su una parete c’era un grande orologio, Liesèl lo controllava, e quando vide che mancavano dieci minuti, si alzò, prese la valigia e tornò al binario dei regionali. Il treno arrivò puntuale. Salì, trovò un posto finestrino e sospirò felice: tra mezz’ora sarebbe arrivata a Seekirchen. E Seekirchen era Seeburg, e Seeburg era Dorian! Era ormai quasi buio. Sopra il lago si stendeva un festoso cielo stellato. Si avviò, euforica, sulla stradina che conduceva al collegio. Oltre il passaggio a livello si fermò e guardò verso le finestre illuminate del Seeburg. Da lì ancora

pochi minuti ed ecco il ponticello d’accesso. Poi la porta d’ingresso con in cima la luce a forma di antico lampione. Era a casa! Già sulle scale sentì il brusio familiare. Nella sala studio delle femmine trovò un gran numero di compagne che la salutarono festose. L’educatrice Fräulein Josefine le venne incontro con il volto teso: «Eccoti finalmente, eravamo così preoccupati! Che cos’è successo?» Liesèl raccontò del guasto del treno e del fatto di aver perso la coincidenza ed essere stata costretta a prendere la successiva. «Ma… sei venuta da sola?» si stupì la Fräulein. «Sì». L’altra scosse la testa: «È davvero inconcepibile! Ora però sali dal direttore, anche lui è in ansia per te. Sono felice che tu sia di nuovo con noi». «Anch’io», sorrise Liesèl. Diede un’occhiata attorno e si meravigliò di non vedere nessuno del «gruppo del giornalino», ma Fräulein Josefine la incalzava: «Su, vai dal direttore, al resto penserai dopo». Lui la accolse con calore e sollievo: «Ero in pensiero per te, cara ragazza! Tutti gli altri sono arrivati stamattina, al massimo nel primo pomeriggio, ma di te nessuna traccia. Sei venuta da sola? Non ti hanno accompagnata?» «Sono stata io a voler partire da sola», dichiarò lei, sollecita, scagionando i suoi. Riferì del ritardo del primo treno e tutto il resto. «Inoltre a casa vostra non avete il telefono», aggiunse l’Heimvater, «non c’era alcun modo di contattare la tua famiglia. Poco è mancato che mandassi al vostro indirizzo i vigili del Comune di Sankt Johann per avere notizie». «Davvero lo avrebbe fatto?» «Se entro le otto di stasera tu non fossi arrivata lo avrei fatto di sicuro!» esclamò lui, convinto. «Ma ora sei qui ed è ciò che importa. Adesso però ti consiglio di sistemare le tue cose in soffitta. Ah… da domani appenderemo di nuovo il giornalino in bacheca». Lei sentì da parte di quell’uomo un affetto così forte che avrebbe voluto abbracciarlo, ma si trattenne. Tuttavia per un momento godette ancora della sensazione rassicurante di essere giunta a casa. Prima di uscire, il direttore la chiamò indietro: «Dimenticavo, l’unica che non è arrivata è Annika. Domani deve andare col padre al funerale della nonna che è morta in ospedale. Verrà dopodomani. Puoi avvertire tu la vostra insegnante visto che è in classe con te e Marta?» «Va bene», disse.

«Non ci saranno più problemi con Annika?» domandò l’Heimvater. «No», rispose Liesèl. «Potremmo essere anche amiche. Lei era pentita di quello che mi aveva fatto». «Speriamo che sia davvero così. Allora vai, stasera a cena c’è una sorpresa». «Kaiserschmarren?» fece lei. Lui alzò le mani in segno di dubbio: «Non si sa…» «Kaiserschmarren», disse Liesèl e uscì. Mentre saliva alla soffitta pensava ad Annika. Annika la più bella del Seeburg, la più elegante, la più cattiva, l’abile manipolatrice. Annika che le aveva detto: «Rainer ora è arrabbiato con me, ma lui una come te non la guarderebbe nemmeno di traverso! Vuoi sapere il motivo? Perché sei brutta. Vesti come una poveretta. Ricordati: tu non sei nessuno!» E sempre Annika che le aveva sottratto il diario, esponendolo al pubblico ludibrio e poi ancora Annika che aveva sabotato l’inaugurazione del primo numero del giornalino, diventando lei stessa la vittima del suo gesto maligno. Dopo aver aperto la porta della soffitta, si fermò per un attimo. Per prima cosa, come sempre, saltavano all’occhio le decine di armadietti raggruppati in tre blocchi. Inspirò l’odore di vecchia polvere unito a quello di roba in disuso. Pensò: com’è affascinante questo posto! Raggiunse il suo armadietto, svuotò la valigia, la sistemò in cima e scese nella sala studio. Si guardò intorno, ma non vide nessuno del gruppo del giornalino. Chiese notizie a Fräulein Josefine. Lei rispose con un sorrisetto: «Non indovini dove si sono rintanati i tuoi soci?» «Nella redazione!» esclamò ed era già nel corridoio. Davanti alla redazione indugiò. Quante ore laboriose ed entusiasmanti avevano trascorso in quello stanzone! Inspirò profondamente, fra un attimo avrebbe rivisto Dorian! Aprì la porta. Ed erano tutti lì seduti attorno al lungo tavolo fratino: Greta e la sorella più piccola, Doris, Marta, Michaela, Jutta, Anja, Rainer e… Dorian. Rimase per qualche istante senza fiato. Tutti la salutarono rumorosamente e vollero sapere perché era arrivata così tardi, ma lei guardava verso Dorian. Aspettava chissà che cosa. Che si alzasse e le andasse incontro, magari ripetendo il gesto del treno quando le aveva fatto una carezza al volto. Ma lui sollevò una macchina fotografica e la esortò:

«Sorridi! Voglio inaugurare con te la mia Leica!» E le scattò una foto. «L’ho avuta per Natale», aggiunse, orgoglioso. «Sarà costata una fortuna, povera mamma». Rainer Herzog, che Liesèl aveva chiamato fin dal primo giorno «il bellone», disse malizioso: «Scommetto che ti sei fatto regalare la macchina per farmi concorrenza!» «Concorrenza alla tua Agfa?» esclamò Dorian, divertito. «Ti rendi conto che la mia è una Leica?!» Nel frattempo Liesèl si era seduta al suo solito posto e ascoltava delusa il battibecco dei due. «Non è la macchina che fa belle foto», sentenziò Rainer, «ma l’occhio artistico del fotografo». «E tu avresti questo occhio artistico?» chiese Dorian, scettico. Rainer annuì: «Precisamente! Liesèl, ti ricordi quella volta che siamo andati alla vecchia casa abbandonata?» Liesèl annui: «Certo che ricordo. Avevo paura che ci cadesse in testa!» «E allora?» lo solleticò Dorian. «Durante le vacanze ho fatto stampare quelle foto e l’uomo del negozio le ha mandate a un concorso fotografico. Le foto dei tre primi vincitori saranno pubblicate su una famosa rivista d’arte». Dorian si arrese e sospirò: «D’accordo, farò il tifo per te, fanatico!» Greta si rivolse a Liesèl: «Lo sai che Dorian prima ci ha raccontato la storiella di un treno sul quale due ragazzi si sono detti delle cose?» Liesèl finse di non capire. Offesa del fatto che Dorian non era sembrato felice del suo arrivo, rispose con un’alzata di spalle: «Mi dispiace, ma non capisco di quale storiella parli. Piuttosto, visto che siamo tutti qui riuniti, avrei una domanda da farvi. Siete d’accordo che si comincerà a preparare la seconda edizione dell’Eco del Seeburg?» Dorian fece per parlare, ma Liesèl scosse la testa: «Non adesso, prima le cose serie». La stoccata era per lui! Tutti votarono per il sì. Si trattennero ancora in redazione in attesa della campanella per la cena. Qualcuno lanciò un’idea per il nuovo numero. Rainer, che per la prima edizione aveva creato piccoli racconti accompagnati da illustrazioni colorate a tempera, accennò a un episodio accaduto al suo paese durante le recenti vacanze. Una banda di ragazzotti aveva attirato un bambino ignaro su uno

stagno ghiacciato e, quando la superficie era ceduta facendo piombare il piccolo nell’acqua gelata, erano scappati. Il bambino era stato salvato dal postino che passava lì con la sua bicicletta a motore. Tutto il paese ne era rimasto scioccato. «Che vigliacchi!» commentò Jutta, sdegnata. Mesi prima Jutta Seidel aveva abbandonato il gruppetto di Annika per collaborare al giornalino, suscitando la rabbia della leader. Sempre Jutta aveva scritto per L’Eco del Seeburg un pezzo molto duro. Suo padre era disperso in Russia e la madre conviveva da qualche tempo con un altro uomo, che lei rifiutava, sperando ancora nel ritorno del genitore. «Per quel che so io», disse Rainer, riprendendo il tema del suo racconto, «stanno indagando sulle vere intenzioni dei ragazzi. Il fatto di essersela svignati lasciando il piccolo al suo destino costituisce un’aggravante, anche se si tratta di minorenni». «Vuoi metterlo sul giornalino?» domandò Liesèl, recuperando il ruolo di coordinatrice. «Credo di sì. Mio zio, che è giornalista, dice che l’Austria ha cresciuto una gioventù cinica e violenta, specialmente nelle famiglie in cui il padre è caduto in guerra e le madri sono rimaste sole con i figli». Rainer non era certo violento, nonostante anche lui avesse perso il padre in guerra. I ragazzi cominciarono a scambiarsi notizie sui regali ricevuti a Natale, ma quando Liesèl arrivò a parlare del suo cappotto rosso suonò la campanella. Per tutto il tempo aveva evitato lo sguardo di Dorian. Qualcosa la faceva sentire confusa e contrariata: un’ombra di incertezza sui veri sentimenti del ragazzo. Si spostarono nel refettorio. Il gruppo del giornalino occupò il solito posto a uno dei tavoloni e per qualche istante Liesèl si distrasse. A casa aveva sognato il ritorno al collegio, ricordando con piacere perfino il diffuso vocio che si produceva nel refettorio affollato, e sorrise fra sé. Eccolo, il brusio, le risate, le battute, e di nuovo si sentì felice di essere ritornata al Seeburg. C’era davvero il Kaiserschmarren e poi una generosa fetta di torta di mele. Alla fine chiacchierarono ancora un poco. «Domani mattina ricominciano le levatacce», sospirò Marta. Già: sveglia alle cinque e quarantacinque, sbrigarsi in tre rapidi turni nel bagno, rifare il proprio letto e infine scendere al refettorio per la prima

colazione. A un certo punto Greta stuzzicò Dorian: «E allora quella storiella del treno? Vogliamo sapere!» Dorian fece una pausa così prolungata che Liesèl si sentì costretta a guardarlo negli occhi, e a quel punto lui domandò: «Poco fa qualcuno non ha forse detto ‘parliamo prima di cose serie’?» Liesèl comprese l’allusione, arrossì e stava per giustificarsi, ma Dorian si alzò: «Io comincio a salire in soffitta, così evito l’ingorgo». A poco a poco il refettorio si svuotò dei maschi e poi fu il turno delle ragazze. Liesèl era di cattivo umore: che delusione il primo incontro con Dorian. Lo aveva pensato così intensamente durante le vacanze, aspettando impaziente di rivederlo, mentre a lui premeva solo scattarle quella stupida foto! Michaela le domandò alle spalle: «Allora non state più insieme tu e Dorian?» Liesèl si girò di scatto, un piede sul gradino e l’altro su quello successivo: «Noi non stiamo insieme!» «Ma lo ha detto lui», insistette l’altra. «Sciocchezze», tagliò corto e accelerò il passo. Giunte alla porta della soffitta, Jutta le cinse solidale le spalle: «Non ti crucciare, Liesèl, i ragazzi sono tutti uguali, oggi si interessano a te, ma bastano quindici giorni di vacanza e puff… tutto finito!» Quando Liesèl si avvicinò al suo armadietto scorse un biglietto infilato nella fessura superiore della porta. Michaela commentò: «Toh, hai già un ammiratore!» Liesèl lo sfilò e lesse: «Ti ho trovata un po’ sciocca, oggi! Ma te lo chiedo di nuovo: vuoi essere la mia ragazza?» «Ehi», fece Marta, «chi è lo spasimante?» Liesèl trasse un profondo respiro: «Dorian». «Do-ri-an?» scandì l’altra, stupita. «Cosa scrive?» «Che oggi mi ha trovata un po’ sciocca». «Tutto qui?» «E chiede se voglio essere la sua ragazza». Greta si avvicinò e dichiarò con un sorriso divertito: «Per me siete due scemi. Ma meno male che avete fatto pace, avevo paura che stanotte ti saresti buttata dalla finestra della camerata». «Che fantasia! Come fai a dire certe cose?!» Doris ridacchiò maliziosa: «Liesèl è innamorata! Hihi!»

Lei arrossì, ma alla luce fioca della soffitta non si poteva vedere. Aprì l’armadietto e prese i pantaloni nuovi di velluto a coste. Poi si girò e, guardando verso il gruppo dei maschi, cercò la sagoma di Dorian senza trovarla. Forse era già sceso in camerata. La mattina dopo Liesèl si svegliò molto presto, fuori il buio era ancora fitto. Il suo primo pensiero fu per Dorian. «Liesèl è innamorata», l’aveva canzonata Doris. Si soffermò sulla parola innamorata. Tra le ragazze l’avevano sempre pronunciata con una sfumatura di ironia, come fosse un concetto troppo romantico e forse un po’ patetico. Sono innamorata di Dorian? A un tratto quella parola assunse un peso diverso. Non si trattava di sentimenti che provava per il padre, il fratello, l’Heimvater, Fräulein Josefine o le amiche del Seeburg; era un’altra cosa. Una cosa per la quale si poteva soffrire tanto! Quando venne l’educatrice ad accendere la luce centrale, Liesèl fu la prima a sfrecciare in bagno, e poi a rifare il letto. Aspettava impaziente che tutte le ragazze fossero pronte e si potesse scendere al refettorio, perché là avrebbe rivisto Dorian! Finalmente sedeva di fronte a Dorian nell’angolo ormai stabilmente occupato dal gruppo del giornalino. Lui indossava quel maglione nero a collo alto che gli stava così bene, e i blue jeans originali che gli procurava la madre americana. Come il resto dei collegiali presenti, anche il gruppo si mise in fila per ritirare al portavivande la propria razione di pane, burro, e caffelatte. Dorian era al fianco di Liesèl. «Mi piacciono i tuoi pantaloni», le disse, facendola arrossire. «Davvero?» domandò lei, tutta contenta. Rainer, che si trovava davanti a loro, si voltò e commentò con una smorfia divertita: «… siete patetici!»

18

Lunedì l’Heimvater appese in bacheca L’Eco del Seeburg con il rinnovato e, questa volta ancora più esplicito avviso, che il giornale era sotto la sua protezione. Ma forse proprio a causa di questa precisazione, dopo pranzo si produsse una piccola ressa tra i collegiali per appropriarsi del giornalino, tanto che fu necessario stabilire nuove regole. Chi desiderava leggerlo doveva ritirarlo in sala studio delle ragazze da Fräulein Josefine, e restituirlo entro un’ora e mezza. Poiché non erano ancora stati assegnati loro dei compiti, nel primo pomeriggio Liesèl uscì con Dorian per fare degli scatti con la Leica. La giornata era abbastanza mite, con un sole timido e un po’ intirizzito. Scesero al lago. Lui la fotografò più volte con il cappotto rosso che gli piaceva molto, e lei ne fu lusingata. Più tardi si sedettero su un pontile dal quale si levò un gruppo di uccelli emettendo striduli versi di protesta. Discussero del giornalino e del fatto che la madre aveva accompagnato Dorian al collegio in macchina caricando anche i suoi sci. «Voglio tanta neve», auspicò lui, entusiasta. A un certo punto Dorian le prese una mano e la tenne per tutto il tempo in cui parlò della sua mamma. La donna, vedova di guerra, aveva cominciato a frequentare un uomo e lui ne era turbato. Il giorno di Natale avevano pranzato insieme al tizio e Dorian si era sentito tradito. Aveva paura che volesse risposarsi, non lo avrebbe sopportato. Liesèl lo vide soffrire e soffriva con lui. Con quella strana luce diafana che sprigionava il lago, il colore degli occhi di Dorian le parve ancora più profondo e misterioso. Lei si sentiva felice in sua compagnia e temeva il momento in cui le avrebbe lasciato la mano. Quando alla fine lo fece, provò un forte smarrimento. Nel frattempo il sole se ne era andato e incombeva la sera. Dovevano rientrare. Dorian disse di avere ancora metà del rullo e che avrebbe voluto

fare presto altre foto insieme a lei. Annika arrivò il giorno seguente, a metà pomeriggio. Il tempo era cambiato, per la gioia di Dorian nevicava fitto. Dopo essersi presentati al direttore, il padre portò la valigia in soffitta, baciò la figlia sulla fronte e se ne andò con la scusa: «Devo rientrare di corsa, tesoro, ho un impegno importante». Nemmeno un’ora dopo l’arrivo era già in automobile e correva via. Come al solito, lei rimase a fissare la valigia lottando contro le lacrime di rabbia e delusione. Qualche momento dopo giunsero Marta e Liesèl con il falegname, perché la porta dell’armadietto di una delle due si era bloccata. Mentre l’uomo si metteva al lavoro, Marta e Liesèl salutarono Annika: «Ci dispiace per tua nonna». L’altra sollevò una spalla e dichiarò in tono indolente: «Era già malata da qualche mese e non riconosceva più nessuno. È stato meglio così». Marta gettò uno sguardo alla valigia: era enorme! «Ma cos’hai lì dentro? Ti servirà un terzo armadietto!» Annika rispose con una smorfia: «Che posso farci se ho tanta roba? Non è colpa mia se voi avete solo due vestiti in croce». Liesèl e Marta si scambiarono un’occhiata: no, Annika non sembrava cambiata. «Non è vero che abbiamo solo due vestiti in croce», protestò Marta. Annika fece di nuovo spallucce: «Si fa per dire, no? Come siete suscettibili! Mi aiutate a sistemare le cose? Da sola ci metterei un secolo». Marta e Liesèl si resero disponibili. Aprirono la valigia e trovarono di tutto: scarpe, vestiti, pantaloni, maglie, due giacconi, uno pesante e uno leggero per la primavera, biancheria intima e Dio solo sa cos’altro. Servì più di un’ora per riempire i due armadietti e alla fine pareva che volessero esplodere. Nel frattempo il falegname aveva terminato e si congedò: «Ora la porta chiude bene, ho anche aggiustato la serratura. Vado a riferire al direttore. Arrivederci ragazze». Sistemati gli armadietti, le tre scesero in sala studio, Annika doveva ancora salutare Fräulein Josefine. Ma poiché il gruppo del giornalino si era accordato per riunirsi alle diciotto in redazione, Marta, Liesèl, Jutta, Greta, Doris, Michaela e Anja lasciarono la saletta studio. Trovarono Rainer e Dorian ad attenderle. Liesèl, vedendo Dorian, si illuminò così vistosamente

che Rainer scoppiò a ridere. «Che c’è?» fece lei, arrossendo. «No, no, niente», sghignazzò lui. Doris annusò l’aria: «Ancora quest’odore di acqua santa! Non andrà mai via?» «A me non dà fastidio», commentò Greta. «Sempre meglio del lezzo di stalla». «Bada», fece Doris, seria, «a me l’odore della stalla di Herr Tobias piace moltissimo!» Greta storse la bocca: «Profumo di stalla… che gusto selvaggio!» Rainer intercalò: «Anche a me piace l’odore di stalla. È quasi sensuale!» Storse buffamente gli occhi. Michaela sospirò: «Siete proprio scemi!» Liesèl si sistemò al suo posto di coordinatrice e non riuscì a resistere: cercò lo sguardo di Dorian e gli sorrise. Indossava il braccialetto che lui le aveva regalato per il suo compleanno e, per esibirlo, aveva arrotolato in su la manica del vestito. Dopo aver ricevuto un sorriso di risposta, si fece seria: «Vogliamo cominciare a tracciare le prime linee del secondo numero del giornalino?» «Tracciare le prime linee…» ridacchiò Doris. «Come parliamo forbite!» Doris, dotata di un grande talento per il disegno, era anche capace di commenti ironici e divertenti. «Come siamo stupide», ribatté Liesèl. «Perché non cresci un po’, Doris?» «Sembra di essere all’asilo comunale», ghignò Rainer. Liesèl sospirò, soffiò via una ciocca di capelli che le faceva solletico al sopracciglio ed esordì: «Basta così! Allora come procederemo? Chi ha nuove idee?» Jutta propose di intervistare un ragazzo del collegio che si chiamava Giosuè. «Perché proprio lui?» chiese Liesèl. «So che è ebreo e ha perso i genitori a causa dei nazisti. Forse sono stati deportati». «Sì, potrebbe venirne fuori qualcosa di interessante», approvò Liesèl. Michaela avrebbe continuato con la trascrizione delle barzellette dal suo famoso libro ricevuto dalle zie per l’ultimo compleanno. Dorian invece voleva proseguire a tradurre articoli da riviste americane per giovani. Quando fu il turno di Jutta di raccontare i suoi progetti, si aprì la porta ed entrò

Annika. «Ciao a tutti», disse, avanzò verso il tavolone e si accomodò su una delle sedie rimaste vuote. Poi guardò dall’uno all’altra e dichiarò con un piglio perentorio: «Voglio collaborare con il vostro giornalino». Per la sorpresa calò un momento di silenzio. Alla fine Liesèl domandò: «Cosa vorresti fare?» «Potrei insegnare come vestire elegante», rispose Annika, convinta. «Intendi… vestire come te?» «Non sono forse la più elegante del Seeburg?» chiese l’altra con tono petulante. «Troppo», fece Dorian, secco. Non era riuscito a trattenersi. Annika lo fulminò: «Non si può essere mai troppo eleganti! Lo dice mio padre che ha un atelier di abiti per signore, sicché deve intendersene, non trovi?» «Ma tuo padre», ribatté Dorian, «anche se ha un atelier di abiti per signore, non dovrebbe voler agghindare una figlia della tua età in un modo eccessivo». Annika scoppiò: «Ag-ghin-dar-mi in modo ec-ces-sivo? Povero imbecille, tu non capisci niente di moda! Sei ignorante e non rivolgermi mai più la parola. Hai capito?!» Balzò dalla sedia, corse alla porta e uscì, sbattendosela alle spalle. «L’hai fatta proprio arrabbiare», constatò Liesèl, ma provava ammirazione per come Dorian le aveva parlato. Rainer osservò: «D’ora in poi ti odierà come la peste, Dorian!» Doris dichiarò, solidale, mentre suonava la campanella per la cena: «Hai fatto bene, Dorian, glielo hai detto proprio sul muso». Al refettorio trovarono Annika al solito posto attorniata dalle sue fedeli adepte. «È rientrata al club», disse Marta. «Io pensavo che avrei potuto diventare sua amica», ammise Liesèl. «Dopo la rottura della gamba sembrava cambiata». «Non cambierà mai», disse Greta. «Sei un’illusa». Infine il gruppo si aggiunse alla fila per ritirare al passavivande le razioni della cena. Ricominciò la solita routine del Seeburg. Dopo la prima colazione Liesèl si avviava verso scuola a Seekirchen con Marta, Jutta, Doris, Greta, Anja e Michaela. Dorian e Rainer si aggregavano invece a un gruppetto di ragazzi

della loro camerata. Liesèl si sentiva legata a Dorian e ne provava un senso di euforica felicità. Era sempre impaziente di rivederlo nel refettorio, e alla sera in redazione, incontri diventati irrinunciabili per il gruppo del giornalino. Un pomeriggio Liesèl, Greta e Doris decisero di fare una visita agli amici contadini, e rimasero scioccate. Herr Tobias aveva avuto un infarto con complicazioni e si trovava ricoverato a Salisburgo in una clinica specializzata. Durante l’ultimo periodo Dorian, dopo i compiti, era uscito diverse volte con alcuni ragazzi del collegio che, come lui, si erano portati gli sci da casa, per andare a sciare nei dintorni, e Liesèl aveva provato un po’ di gelosia. Inoltre non erano più andati a scattare altre foto con la Leica come lui aveva progettato, ma lei si era tenuta il magone dentro senza protestare. Tuttavia era dura contenere la gelosia! Ci fu una novità alla scuola di Seekirchen. La presidenza decise di mettere in scena Intrigo e amore di Friedrich Schiller per presentarlo alla fine dell’anno scolastico nella sala del cinema, che era anche attrezzata per rappresentazioni teatrali. A tale scopo il preside, insieme al regista, aveva cominciato a visitare le classi alla ricerca degli attori adatti. Una mattina giunsero anche nell’aula di Liesèl, Marta e Annika. Il preside spiegò in poche frasi la trama dell’opera. Si svolgeva nella Germania del Settecento divisa in tanti piccoli regni più o meno dispotici. Il dramma contrapponeva la tirannia al diritto alla felicità, rappresentato dall’incontro-scontro fra la nobiltà ricca e la piccola borghesia povera. Un duca onnipotente esercitava il potere tramite un altrettanto onnipotente presidente di nome von Walter. Il figlio maggiore del presidente, Ferdinando, si innamora di Luisa Miller, una fanciulla dolce e onesta, figlia di un modesto suonatore di violoncello nell’orchestra comunale. Fra i due, nonostante la grande differenza sociale, nasce un amore profondo fatto di sogni, progetti e promesse di matrimonio. Ma il padre di Ferdinando contrasta la relazione ed esplode il dramma. Il padre ordina al figlio di sposare la favorita di un duca, Lady Milford, e ne diffonde l’annuncio, ma Ferdinando rifiuta. Il padre allora si reca a casa di Luisa e fa arrestare i genitori, annunciando per Luisa la consegna alla pubblica gogna. Di fronte alla tragedia, Ferdinando non ha altra scelta che minacciare il padre di rivelare a tutti un suo antico delitto del quale è a conoscenza. Insomma, la

tragedia si dipana fino alla catarsi finale: la morte purificatrice degli innocenti e la condanna e la rovina dei colpevoli. In seguito alla spiegazione del preside, il regista, un giovane uomo alto, dal volto scarno, ma con due occhi neri dallo sguardo sfavillante, chiamò alla cattedra una dopo l’altra le ragazze rivolgendo loro alcune domande. Ma quando si trovò davanti ad Annika successe l’incredibile. La trattenne per almeno dieci minuti, poi si appartò con il preside per un breve conciliabolo. Infine tornò da lei e annunciò alla classe di avere trovato in Annika l’interprete principale dell’opera: Luisa Miller! Marta sibilò a Liesèl: «Non è possibile, tutte le fortune a quella!» C’erano altri ruoli da assegnare, ma il regista contava di trovarli nelle classi che doveva ancora esaminare. Quando i due furono usciti, Annika si gonfiò come un pavone. Il suo clan applaudì rumoroso. Anche l’insegnante si congratulò con lei dicendosi certa che avrebbe fatto onore alla sua classe. Successe il giorno dopo. Durante il pranzo in refettorio Annika diffondeva come una nube tossica la sua soddisfazione per essere stata scelta come interprete di Luisa Miller, e si comportava come se fosse già un’attrice famosa. Ma tutto a un tratto si alzò e si avvicinò al gruppo del giornalino. Mise da dietro le mani sulle spalle di Dorian costringendolo a voltarsi. «Congratulazioni», gli disse con un sorriso un po’ diabolico. Dorian sembrò spiazzato, palesemente a disagio. Sul viso di Annika si allargò un’espressione di sorpresa. «Vedo che non hai ancora comunicato ai tuoi amici la buona novella». «Che novella?» fece Marta. Annika rispose con un tono di dispettoso compiacimento: «Che stamattina il regista lo ha scelto per il ruolo principale della rappresentazione! Sarà Ferdinando, l’innamorato di Luisa Miller!» Tutti fissarono Dorian stupiti, sorpresi. «Dovremo andare alle prove», annunciò Annika con un tono di maligna soddisfazione, «e forse ti rimarrà poco tempo per dedicarti al vostro giornalino, caro Dorian». «È vero?» domandò Liesèl. Lui deglutì: «Devo spiegarvi… stavo per dirvelo». Ma nello stesso tempo si alzò, spinse infastidito Annika da parte e uscì dal refettorio. Liesèl gli andò dietro e lo vide imboccare le scale.

«Dorian! Aspetta!» Ma lui proseguì, senza voltarsi, e lei decise di seguirlo. Dorian salì in fretta fino alla porta della soffitta, dove lei finalmente lo raggiunse: «Non è permesso venire qui a quest’ora!» Ma lui non l’ascoltava. Entrò ed accese la luce. Liesèl lo acchiappò per un braccio: «Dobbiamo uscire da qui, Dorian!» Lui si liberò e si spostò sotto uno dei finestrini a oblò oltre il quale si stirava un quadrato di pallido cielo invernale. «Cosa ti succede?» domandò lei. «Niente!» «Come niente? Ieri in redazione avevi detto che, se per caso ti avessero scelto per il ruolo di Ferdinando, avresti rifiutato solo per non dover recitare accanto ad Annika, e adesso invece lei sostiene che il regista ti ha offerto la parte e tu hai accettato». Dorian tacque per qualche istante, poi si girò e disse: «Be’, ieri la pensavo così». «E poi?» «Non sono riuscito a rifiutare». «Perché?» «Una volta alle elementari ho recitato in una commedia natalizia, ero Giuseppe, e mi è piaciuto così tanto. Adoravo le prove, il palco, i costumi di scena e le luci. Da allora ho sempre pensato che da grande avrei fatto l’attore». «Significa che ora reciterai accanto ad Annika, farete tante prove insieme e non avrai più tempo per il nostro giornale?» «Ma no, ti sbagli». «Invece sì! Per quella là… pianterai L’Eco del Seeburg e le riunioni in redazione e tutto il resto». Si sentiva così sgomenta che scoppiò a piangere. Allora Dorian alzò la mano e le sfiorò il viso come aveva fatto sul treno nel viaggio verso casa per le vacanze natalizie. Il gesto la stravolse e per un attimo si accostò a lui e gli circondò il torace con le braccia. «Non sarà come pensi tu», lui cercò di rassicurarla. «Ti ho chiesto due volte di essere la mia ragazza, nulla cambierà fra noi due, devi credermi!» «Lo giuri?» Lui le alzò il mento: «Te lo giuro».

Si staccarono e raggiunsero la porta. Scesero senza dire più nulla. Non incontrarono nessuno. Tutti i collegiali si trovavano nel refettorio e i due educatori, insieme a Frau Gerta, la donna che si occupava delle pulizie e della lavanderia nel sotterraneo, cenavano insieme in un vano attiguo alla cucina. Raggiunto il refettorio, Marta indicò i loro piatti: «Si è raffreddato tutto!» Seguì una settimana bellissima. Ogni pomeriggio, dopo i compiti, lei e Dorian programmavano qualcosa insieme. Uscivano dal Seeburg per scattare nuove foto, e una volta entrarono in un piccolo locale nei dintorni dove gli anziani contadini giocavano a carte, e lui le offrì una cioccolata calda. Liesèl era euforica, avrebbe voluto sempre stare in compagnia di Dorian, solo loro due. Sembravano una coppia di fidanzatini. Ma non mancavano mai l’appuntamento in redazione. Tutti concordavano che la seconda edizione del giornalino dovesse essere preparata con lo stesso impegno e il medesimo entusiasmo della prima, ma a qualcuno mancavano ancora le idee. Ad Anja, ad esempio. Ci teneva moltissimo a collaborare con L’Eco del Seeburg, ma temeva di non riuscire mai più a realizzare un’intervista come quella che aveva fatto con Alvin. Il ragazzo, simpatico e spiritoso, aveva trasformato le sei domande di Anja in qualcosa che il direttore, molto divertito, aveva chiamato «un esilarante capolavoro gastro-comico». Anche Jutta era ancora incerta su cosa fare. Si era aspettata molto dalla conversazione con Giosuè, il ragazzo ebreo, ma lui voleva ancora pensarci su. Non era sicuro di volerle raccontare cose di famiglia così dolorose. Dorian invece cominciò a dubitare del fatto di avere sufficiente tempo per le traduzioni tratte dalle riviste americane per giovani. Quando Liesèl gli chiese spiegazioni, lui si mise sulla difensiva: «Forse ho troppe cose per la testa». Marta intervenne, incuriosita: «Troppe cose… di che genere?» «Dopo pranzo ho i compiti, poi sto con Liesèl…» esordì, tentennante, «e sapete che ho cominciato a svegliarmi alle quattro del mattino per studiare la parte della recita?» «Che cosa?» fece Marta, allibita. «Ti alzi alle quattro del mattino per studiare la parte di… di…» «Ferdinando», disse lui. Liesèl domandò, stupita: «Vuoi dire che a causa del tempo che trascorri con me devi svegliarti alle quattro del mattino per imparare…» «Sì», confermò. Doris, che si esprimeva sempre con estrema franchezza, dichiarò: «Ma

come! Prima grandi parole che non avresti mai accettato il ruolo per non dover recitare a fianco di Annika, e non solo lo hai accettato, ora stai facendo pure la vittima!» Intervenne Rainer: «Sì, stai facendo la vittima, Dorian. Per il resto, mi chiedo che cosa ti sia successo durante le vacanze di Natale, sembri un altro. Lo stesso fatto che tu abbia accettato quel ruolo…» Dorian saltò su: «È forse proibito?» «Naturalmente non è proibito, ma stai tradendo tutto e tutti: il giornalino, il gruppo, la tua dignità e la tua ragazza. Mi chiedo se tu…» Dorian balzò dalla sedia e sbottò: «Adesso basta, me ne vado!» Uscì sbattendo la porta. Ancora una volta Liesèl lo seguì. Lo trovò nella saletta della musica, che a quell’ora era libera. Appena la vide scavalcò il panchetto del pianoforte e le volse le spalle. Lei gli scivolò accanto. «Non dire niente», lui l’avvertì, molto teso. «Rainer ha ragione», disse invece lei, «sei molto cambiato, Dorian». «Solo perché ho accettato la parte?» protestò. «Ce l’avete tutti con me, tu per prima!» «Ho solo paura che con il teatro cambierà tutto, soprattutto fra noi due!» ammise lei. «Ti avevo giurato che non sarebbe successo», le rammentò. «Ma sta già succedendo! Non stai lavorando per il giornalino e…» «Tu sai il motivo». «Sì, il motivo», ripeté lei con uno scatto di nervi. «Il tempo che trascorri con me ti impedisce di studiare la parte. Ecco il motivo!» «Oh, basta!» esclamò lui, seccato, si alzò e si accostò alla finestra. «Come odio tutto questo», disse contro il vetro. «Non sono dunque più libero di prendere una decisione senza chiedere il tuo benestare? Senza chiedere il permesso del gruppo?» Si girò verso di lei con espressione stanca, infastidita. Lei si avvicinò. Lo vedeva così bello! Seccato e confuso, ma bello. Gli erano un po’ cresciuti i capelli conferendogli l’aspetto di… di un artista, pensò lei. Proprio come un attore. Ma nello stesso tempo capiva che, se lei non avesse trovato la forza di un compromesso, lo avrebbe perduto. «Ormai hai accettato il ruolo», esordì in tono accomodante, «e devi studiare il testo. Ma non è giusto che tu debba farlo all’alba! Io propongo una

cosa». All’improvviso si sentiva più grande di lui, più matura. «Quale?» «Dobbiamo ridurre il tempo che passiamo insieme». Dorian si adombrò: «Non vuoi più essere la mia ragazza?» Liesèl sorrise dentro di sé: era proprio lì che lo voleva! «Lo dico per te», spiegò con aria premurosa. «Hai voluto accettare la parte? Adesso devi pur impararla a memoria. Per cui d’ora in poi durante la settimana staremo insieme solo un pomeriggio, così avrai sufficiente tempo per studiare il ruolo di… di…» «Ferdinando», disse lui, contrito. «Non va bene?» «Facciamo due pomeriggi», decise lui. Di nuovo lei sorrise fra sé: «Va bene, due pomeriggi». Lui annuì soddisfatto e insieme guardarono fuori. Nevicava piano, fitto. «Dobbiamo tornare in quel bar e ti offrirò un’altra cioccolata calda», propose lui. «Oh sì!» approvò lei, felice. Le regole del Seeburg stabilivano che i collegiali non potessero tenere con sé molto denaro, e quando ne facevano richiesta all’Heimvater dovevano giustificarne lo scopo. Generalmente i soldi servivano per comprare materiale scolastico, o prodotti di igiene personale ed era proprio questo che aveva fatto Dorian, dicendo la prima bugia al direttore. Aveva invece speso i soldi per la cioccolata calda di Liesèl e una limonata per sé. Dorian si entusiasmò: «Mi piace andare con te in un locale! L’altra volta il tipo dietro il bancone ti guardava in un certo modo. Mancava poco che non gli dicessi qualcosa». Lei rise divertita: «Non mi guardava, scemo!» «Dobbiamo assolutamente ritornarci», progettava lui. «Che ne dici di domenica nel pomeriggio?» «Benissimo!» esclamò con entusiasmo. Ma domenica il progetto del locale sfumò perché nel primo pomeriggio arrivarono alcuni parenti in visita tra cui la madre di Dorian in compagnia di un signore. Liesèl intuì che fosse l’uomo con il quale avevano pranzato il giorno di Natale. Avvilita per il piano andato a monte, si rintanò nella redazione per smaltire la delusione. All’inizio non c’era nessuno. Greta, Doris, Jutta e Michaela avevano

deciso di uscire dal Seeburg per sgranchirsi le gambe, la giornata era fredda ma splendente, e Rainer era fuori con gli sci. Liesèl era triste. Che disdetta la visita della signora! E, a giudicare dalla faccia di Dorian, pur adorando la madre, doveva essere rimasto molto contrariato dall’imprevisto. Poi entrò Marta. «Che faccia hai!» esclamò. «È successo qualcosa?» Allora Liesèl le confidò che lei e Dorian avrebbero dovuto ritornare in un bar dove lui alcuni giorni prima le aveva offerto una cioccolata calda, ma oggi a sorpresa era spuntata sua madre e quindi non se n’era fatto più niente. Marta rimase sbigottita. «Siete per caso impazziti voi due? Ti ricordo che è assolutamente vietato per noi entrare in un qualunque locale e ordinare consumazioni!» Liesèl, di solito sempre ligia al dovere e attenta ai divieti, annuì, consapevole che avevano trasgredito a una regola, oltre tutto quella più intransigente. «Ma ci siamo così divertiti…» mormorò, sgomenta. Marta non capiva. «Come avete potuto rischiare l’espulsione dal collegio per una cioccolata calda? Ha ragione Rainer, Dorian dopo le vacanze non è più quello di prima, e nemmeno tu!» Liesèl ammutolì, e per un po’ restarono in silenzio. Poi si materializzò Anja con un’espressione da funerale. «E tu cos’hai?» chiese Marta. L’altra scoppiò a piangere: «Poco fa l’Heimvater mi ha chiamata in ufficio e mi ha detto che…» «Ti ha detto cosa?» «Domani mattina viene mio padre per riportarmi a casa». «No!» fecero Liesèl e Marta all’unisono. «E perché?» «Lui è stato trasferito in una filiale in Germania ed entro una settimana traslocheremo. Forse non andrò nemmeno più in un collegio perché papà avrà lo stipendio più alto e mia madre non dovrà più lavorare in pasticceria come fa adesso». Si gettò le mani sul viso: «Ma io voglio rimanere al Seeburg! Qui sto bene e in Germania non avrò nessun amico e forse sarò molto infelice!» Marta cercò di dare una nota positiva alla vicenda. «Se tuo padre avrà uno stipendio più alto e tua madre non dovrà più lavorare in pasticceria mi sembra una buona notizia, no?» Ma l’altra si mise a singhiozzare da far pietà.

«Scapperò…» balbettò tra le lacrime, «andrò giù al lago e mi butterò in acqua e annegherò perché non so nuotare!» Più tardi in refettorio l’umore dei ragazzi era basso. Con la partenza di Anja avrebbero perso un membro del gruppo e una collaboratrice del giornalino. Inoltre Dorian era sconvolto: la madre gli aveva annunciato che si sarebbe sposata a giugno. «Io quello non lo voglio a casa mia!» dichiarò, furente. «Piuttosto vado al lago e mi annego!» A Liesèl e Marta scappò da ridere perché in poche ore erano ben due le persone che avrebbero voluto affogarsi nel lago. Con la differenza che Dorian era un bravo nuotatore. Lunedì mattina il padre di Anja arrivò alle otto. Ci fu una breve scena di singhiozzi e lacrime, ma in dieci minuti era tutto finito e se ne andarono. Quel giorno Marta, Liesèl e Annika avevano due ore di attività manuale che si svolgeva nel laboratorio di taglio e cucito chiamato sartoria, uno stanzone grande con alle pareti diverse illustrazioni incorniciate di signore sedute davanti a macchine per cucire di diverse epoche e modelli. L’insegnante, Frau Wimmerstein, avvertì la classe: «Tutte le vostre creazioni devono essere terminate entro la fine di aprile, quindi al lavoro, ragazze!» Liesèl stava confezionando i suoi pantaloni alla pescatora, Annika, invece, la solita presuntuosa, aveva optato per una camicia da notte in seta e si era addirittura fatta mandare al Seeburg il prezioso tessuto da suo padre. Durante l’intervallo Marta andò in bagno e Annika si avvicinò al posto di Liesèl. «Io non credo che questi pantaloni ti staranno bene», disse con una smorfia ironica. «Non mi interessa il tuo parere», rispose Liesèl di rimando. «E ricordati…» aggiunse l’altra, «tu non sei nessuno. Sarai nessuno anche con i pantaloni alla pescatora». Liesèl si sforzò di restare calma: «Lo sai che ti stai ripetendo? E non mi fa più effetto». I begli occhi di Annika riflessero una luce fredda quando disse: «Be’, presto la penserai in un altro modo, credimi». «E per quale motivo?» chiese Liesèl con un moto di apprensione. «Lo vedrai». Si allontanò perché Marta era tornata. «Cosa voleva?» «In realtà non l’ho capito», rispose Liesèl.

«Quella è impregnata di veleno», disse Marta con disprezzo. «E tu pensavi di poterle essere amica? Ma svegliati, tesoro!» Poiché erano carichi di compiti, Liesèl impiegò almeno un’ora e mezza per sbrigarsi. In seguito andò alla ricerca di Dorian, lui le doveva delle spiegazioni. Non poteva trattarla come se non esistesse più, dopo tutto era stato lui a chiederle se voleva essere la sua ragazza! E poi nel pomeriggio continuava ad andare a sciare con i compagni e veniva poco in redazione. Non le stava più bene questa storia! Dall’altra parte della struttura si affacciò alla sala studio dei maschi, c’erano una ventina di allievi e l’educatore, Herr Rudi. Lui le sorrise e domandò: «Hai bisogno di qualcosa, Liesèl?» «Devo parlare con Dorian», rispose. «Mi dispiace, ma è andato con gli altri a sciare». Lei ringraziò e se ne andò. Ci era rimasta malissimo. Tuttavia, per distrarsi in attesa di vedere Dorian, così almeno sperava, in redazione, chiese a Fräulein Josefine un libro dello scaffale in sala studio. Lei le allungò Robinson Crusoe. «Lo conosci?» «Sì, ma lo rileggerò volentieri…» L’educatrice indugiò sul suo viso: «C’è qualche problema, Liesèl?» «No, no!» si affrettò a rispondere la ragazza per evitare di dire bugie. Non poteva certo confessare di essere sconvolta per il comportamento di Dorian. Si sedette a un tavolo appartato e aprì il libro, ma non riusciva a concentrarsi sulla trama. Le altre del gruppo del giornalino erano salite al primo piano per distrarsi con qualche gioco di società. Nelle vicinanze due ragazzine della camerata delle più piccole stavano litigando, perché a una delle due si era rotto lo stantuffo della penna stilografica e aveva schizzato inchiostro sul vestito dell’altra. E c’era Annika con la solita corte. Ormai diventata una litania, si vantava del ruolo avuto nella rappresentazione. «Da adulta farò senz’altro l’attrice», dichiarò alle adepte, «e poi passerò al cinema». «Oh!» si stupirono quelle, ammirate. Quando Liesèl entrò finalmente in redazione tirò un sospiro di sollievo: c’era Dorian! Adesso l’avrebbe sentita! «Sono andato a sciare perché avevo bisogno di scaricare la rabbia», lui le

disse subito in tono spiccio. «Perché sei arrabbiato?» chiese lei. «Ti prego, non farmi scendere in dettagli!» esclamò lui. «Sono molto nervoso, cerca di capire». «Sempre per il matrimonio di tua madre?» «Sì», confermò, cupo. «Io non sopporto il pensiero che lei si sposi con quel… con quel tizio che non so nemmeno chi sia. Dice che è un giornalista. Che faccia pure il giornalista, ma non si installi nella camera da letto nella quale mia madre ha dormito con mio padre!» Nel frattempo erano entrati gli altri del gruppo, senza Anja: erano rimasti in otto. Anche Rainer era stato a sciare, aveva ancora le guance rosse e il naso viola. «Che freddo faceva oggi!» disse, guardando Dorian. «Sì, più freddo di ieri», concordò lui. «E la pista era leggermente ghiacciata, io ho fatto un bello scivolone». «Se è per questo, anch’io», ghignò Rainer. «Ma mi è venuta una gran fame, stasera mi mangio un bue». «Sì, un bue!» ridacchiò Doris. «Saremo fortunati se non ci tocca un semolino o roba del genere». «Esagerata», la corresse Greta. «Se c’è una cosa che non si può dire del Seeburg è che si mangia male». Liesèl, vedendo che Dorian si era rilassato, riprese il suo posto da coordinatrice e cominciarono a discutere del secondo numero del giornalino. Ma lui era distratto e continuava a girare in mano una penna. A un certo punto Liesèl, urtata, gli chiese: «Ma ti interessa ciò che stiamo dicendo?» Lui sbuffò e rispose: «Scusa, ma non riesco a concentrarmi con tutti i pensieri che ho!» E lasciò la redazione.

19

La mattina seguente Liesèl sperò che Dorian si scusasse per il suo comportamento, ma invano. Anzi, era di umore così cattivo che consumò solo metà della prima colazione e lasciò subito il refettorio. «È diventato pure maleducato», commentò Doris, incredula. «È preoccupato per sua madre», disse Liesèl, difendendolo ad oltranza. «Eh, basta giustificarlo!» esclamò Jutta. «Che lagna per quella madre!» Rainer sospirò: «Ma che bella atmosfera stamattina. E io che oggi ho un’interrogazione molto importante». «Auguri», fece Michaela, gentile. Aveva un bel viso, Michaela, tutto di colori chiari: occhi, capelli, pelle bianchissima. «Sei un tesoro», ghignò Rainer. E aggiunse, scherzoso: «Vorresti diventare la mia ragazza?» Lei rispose: «C’è uno che mi scrive dei biglietti». «Da quando?» «Tre giorni…» «E gli hai risposto?» «Sì, una volta». Abbassò la testa per nascondere il rossore. Non faceva molto freddo, quella mattina, il Seeburg era avvolto da una luce mite. A scuola Liesèl era nervosa e disattenta, all’interrogazione di matematica prese un voto insufficiente unito al biasimo dell’insegnante: «Anziché migliorare stai peggiorando, Liesèl!» Durante l’intervallo arrivò la bidella, una donna robusta dagli occhi allegri, e chiamò Annika dal preside. Quella se ne andò pavoneggiandosi dinnanzi alla classe, e al ritorno fece la misteriosa. Bisbigliò fastidiosamente con la sua corte e tutte sghignazzavano su comando.

«Il preside le avrà parlato della rappresentazione», ipotizzò Marta, «e la gran dama è sempre più piena di sé! Avendole assegnato quel ruolo stanno solo ulteriormente gonfiando il suo ego». «Gonfiando il suo ego…» ironizzò Liesèl. «Stai diventando troppo filosofica». «Macché filosofica! Non vedi che, prima ancora che siano cominciate le prove, sta già scoppiando di presunzione?» «E lascia che scoppi», commentò Liesèl, indifferente. «A me fa solo ridere». All’uscita della scuola Liesèl era impaziente di ritornare al Seeburg. Era molto agitata per Dorian, dovevano chiarirsi! Altrimenti non sarebbe più stata in grado di fare qualunque cosa: dormire, mangiare, studiare. A un tratto si fermò e guardò, pensosa, verso il lago. «Che c’è?» chiese Marta, «fulminata sulla via di Damasco?» «Non ho mai preso un’insufficienza», rispose, sgomenta. «E oggi me la sono beccata. È un’ingiustizia, però, ho cercato di dare il massimo!» «No», Marta la contraddisse. «Tu pensi solo a Dorian, e nient’altro». «Non è vero!» «Eccome se è vero. La verità è che tu sei veramente innamorata di lui. Ma ti consiglio, visto il suo strano comportamento, di capire se per lui è ancora lo stesso». «È tutto così diverso da quando sono tornata da casa», disse Liesèl tristemente. «Ero impaziente di rivederlo e invece… non lo capisco più. Non vuole nemmeno più scattare foto con me. Pensa, ho perfino confessato a mio fratello di avere un ragazzo!» «Lui cosa ha detto?» «Che a scuola si scambia delle letterine con una ragazzina. Mi ha fatto tanta tenerezza… è anche arrossito». «Tu vuoi tanto bene a Lukas, non è vero?» «Sì, moltissimo. Ma purtroppo cresce lontano da me. E tutto per colpa della nostra matrigna. Come detesto quella donna!» «Vorresti tornare dai tuoi per essere vicina a tuo fratello?» domandò Marta. Liesèl rifletté. Furono superate da un gruppo di collegiali, uno dei quali saltellava buffamente come un canguro. «Io sono felice al Seeburg», rispose. «Se non fosse per…» Marta sospirò: «Sì, lo sappiamo! Su, muoviti, e vediamo cosa succede

quando Dorian compare in refettorio». Lui arrivò ostentando una faccia da funerale e proseguì con la posa del figlio affranto per la madre che voleva ripigliare marito. Finché Rainer non sbuffò: «E basta, Dorian! Non casca il mondo se tua madre si risposa, in fondo ne ha tutto il diritto, non ti sembra?» «Ti sbagli!» scattò l’altro con veemenza. «Mi aveva promesso che non avrebbe mai voluto un altro marito per non tradire l’amore che provava per mio padre!» «Ma tuo padre è morto in guerra», rispose Rainer, piuttosto duramente, «e lei è ancora giovane. D’altra parte, anche tu un giorno prenderai moglie e la lascerai sola». «Mai!» esclamò, sdegnato. «Lei vivrebbe sempre insieme a noi. Sempre!» «Be’, sono cose che si dicono finché si è scapoli», commentò Jutta in tono pratico. «Poi cominciano le liti fra suocera e nuora e…» «Volete finirla di immischiarvi in cose che non vi riguardano?» esplose Dorian, tanto che gli allievi degli altri tavoli allungarono il collo. Ma si aggiunse anche la dispettosa Doris: «E lascia che mammina si prenda un nuovo maritino nel letto!» Negli occhi di Dorian avvampò un’ombra di ira: «Come osi parlare in questo modo di mia madre? Chiudi quella bocca!» «Ehi, ehi», fece Rainer, «calmati, amico». «Ho solo detto di chiudere la bocca!» ripeté Dorian, incattivito. «In quanto a mia madre… io non ho bisogno di un secondo padre, avete capito?» «Non è che avresti voluto essere tu quello che sposava tua madre?» fece Rainer tra il serio e il faceto. Dorian balzò in piedi: «Hai detto una cosa cattiva e stupida!» «Era una battuta», sospirò Rainer. «Come sei diventato noioso». «Siete voi a essere diventati noiosi!» ribatté Dorian, velenoso, «mi avete stancato». E ancora una volta piantò la compagnia e abbandonò il refettorio. Liesèl avrebbe voluto seguirlo, ma Rainer la trattenne: «Non farlo, per una volta lascia che rinsavisca da solo». Avevano molti compiti, ma come sempre Annika si sbrigò prima delle altre. Bisognava ammetterlo, in questo era imbattibile. Raccolse quindi le sue cose nella cartella, si alzò, disse a Fräulein Josefine: «Allora io vado e torno all’ora di cena», fece un cenno di commiato

al suo clan e uscì dalla sala studio. Le allieve presenti si scambiarono sguardi di stupore, Liesèl e Marta invece si alzarono e andarono alla finestra per vederla spuntare sul ponticello. Poco dopo comparve, avvolta nel suo elegante giaccone color prugna, e al suo fianco c’era Dorian. A Liesèl mancò il respiro. «Aspetta», fece Marta, «vado a chiedere…» Al ritorno le spiegò la situazione: quel pomeriggio cominciavano le prove nella palestra della scuola e, poiché doveva presentarsi anche Dorian, erano andati insieme. «D’ora in poi faranno lo stesso ogni martedì, mercoledì e venerdì», concluse Marta. «Quindi tre volte alla settimana e difficilmente Dorian potrà venire in redazione». Ed ecco ciò che aveva inteso Annika! Era l’ultima cosa alla quale Liesèl avrebbe voluto assistere: Dorian e Annika che si recavano fianco a fianco alle prove. Inoltre c’era il pericolo che lui veramente non avrebbe più avuto tempo per il giornalino. Sbiancò dalla rabbia e dalla gelosia, la gola le tremava. «Ora non metterti a piangere!» le sibilò Marta. «Ne parliamo dopo. Prima i compiti!» Liesèl non pianse, strinse i denti e terminò i compiti. Quando anche il resto del gruppo del giornalino ebbe finito, Marta le chiamò nel corridoio per aggiornarle sulle novità. «Quindi a scuola avrà saputo fin dal mattino che nel pomeriggio sarebbero cominciate le prove», realizzò Jutta, incredula, «ma durante il pranzo non ha fiatato. Frignava solo per la madre. Non avrebbe potuto dirci: vado con Annika alle prove e basta? Saremmo magari rimaste male con tutta l’antipatia che lui ha sempre manifestato per lei, ma almeno sarebbe stato sincero. Che vigliacco!» «Per poi sgattaiolare via di nascosto con quella… strega!» commentò Michaela, delusa. «Sono disgustata», dichiarò Doris, drastica. «Dorian è un verme! Non lo avrei mai detto!» Greta annuì, concorde con la sorella. Jutta le strofinò il braccio. «Come ti senti?» Liesèl deglutì e si sforzò di trattenere le lacrime. Ma mentre Marta proponeva di uscire tutte per prendere una boccata

d’aria rilassante, arrivò un ragazzo e disse a Liesèl: «Torno ora dall’Heimvater, mi ha detto di salire da lui non appena ti sarai liberata dai compiti». Le venne un colpo. Subito fu assalita dal dubbio che il direttore fosse venuto a conoscenza del fatto che lei e Dorian erano entrati in quel locale, e ora stava per comunicarle che sarebbero stati espulsi dal Seeburg. «Allora vai», la esortò Marta. «Noi ti aspettiamo in sala studio». Salì le scale con la tremarella. Per un momento l’ansia le piegò le ginocchia e si sedette su un gradino. Aveva due strazi nel cuore: l’incomprensibile cambiamento di Dorian, e il terrore di un forzato ritorno a casa, dove avrebbe subito il biasimo del padre e l’ira della matrigna. Due ragazzi uscirono dalla vicina sala giochi e si fermarono: «Cosa fai qui seduta? Stai male?» «No, no!» fece in fretta, si alzò e tornò a salire. «Siediti, Liesèl». Si accomodò di fronte alla scrivania, dove sedeva l’Heimvater accanto al suo telefono nero, la lampada e la macchina per scrivere. «Come va il giornalino?» domandò lui in quel suo tono caloroso e paterno. Liesèl esitò. Sbirciò l’ormai familiare ritratto di Nietzsche appeso alla parete e le parve che la solita tristezza del volto si fosse un poco addolcita. «Non tutti hanno ancora le idee molto chiare», ammise. «Mi era piaciuto il tuo ricordo della guerra vissuta in Germania», disse l’uomo. «Ero convinto che tu avessi ancora molto altro da raccontare». «Sto preparando un nuovo episodio», disse lei. «Ah, bravissima». «Anche Jutta non sa ancora quale tema affrontare…» aggiunse Liesèl, «e poi…» Riprese fiato: «E poi probabilmente non potremo più contare su Dorian». Lui intuì l’afflizione che si celava tra le sue parole e le rivolse uno sguardo incoraggiante: «Vedrai che nonostante le prove, Dorian troverà anche tempo per le traduzioni». «Non so…» fece lei, di nuovo incerta, angosciata. «Inoltre non c’è più Anja». «Troverete altri collaboratori», disse l’Heimvater, convinto. «Potremmo mettere un annuncio sulla bacheca. Io desidero che prepariate il secondo numero del giornalino. Per me è stata una gioia vedervi lavorare, stare

insieme, misurarvi l’uno con l’altro. Tutto questo ha sicuramente giovato a ognuno di voi. Ha sviluppato la vostra fantasia, l’immaginazione, lo sforzo di capire le cose della vita, anche quelle più grandi di voi. E che magnifica intervista ha fatto Marta al vecchio contadino. Sapervi a preparare con tanto impegno L’Eco del Seeburg è stato per me… come avere una luce nella mia esistenza». Si fermò, temendo forse di essersi lanciato troppo. Ma poi proseguì, felice di queste piccole confidenze. «Da giovane avevo grandi progetti… volevo viaggiare per il mondo e al ritorno scrivere un libro su tutto ciò che avevo visto e vissuto. Ma poi l’Austria è stata annessa alla Germania e un anno dopo ci fu la guerra». Lei lo ascoltava in silenzio, assorbiva le sue parole e sentiva crescere in sé una rinata voglia di affrontare il secondo numero del giornalino. Lui si scosse: «Scusami, non ti ho ancora spiegato il motivo per il quale ti ho fatta chiamare». Liesèl inspirò, ora era certa che non si trattava della storia del bar! «Quando voi eravate in vacanza», lui esordì, «un caro amico è venuto a trovare me e mia moglie. Durante la guerra siamo stati al fronte insieme. Lui è rimasto gravemente ferito, ha subito l’amputazione del braccio sinistro ed è stato rimpatriato». Rimase per qualche momento assorto, fissando il telefono nero. «Ora dirige un giornale regionale», continuò infine, «una testata molto seguita dai lettori. Gli ho mostrato il vostro giornalino, e lui ne è rimasto entusiasta! Oggi mi ha telefonato. Vuole venire qui con un fotografo per fare alcuni scatti alle pagine, e oltre a ciò è interessato a intervistare i componenti del vostro gruppo. Un paio di domande a ciascuno. Che ne pensi?» Liesèl era talmente sollevata per aver scampato l’espulsione che esclamò con buffa enfasi: «Che bello, intervistati da un giornale vero! Ah che bello!» «Il mio amico avrebbe proposto per venerdì», aggiunse l’Heimvater. «Diciamo…verso le cinque del pomeriggio. Potrebbe andare?» «Sì, sì!» Fu presa da una grande agitazione. «Grazie, Heimvater. È stupendo tutto questo!» Lui sorrise del suo entusiasmo. «L’incontro si svolgerà al refettorio. Ci sarò anch’io, vogliono porre due domande anche a me. L’Eco del Seeburg sarà famoso!» Fece un gesto come se volesse riportare tutto nella giusta misura: «Be’, in fondo si tratta solo di un quotidiano, sarà famoso per un solo giorno, ma

meglio di niente, non ti pare?» Rainer quel pomeriggio aveva lezione di pianoforte e giunse con qualche minuto di ritardo in redazione. Trovò Marta, Jutta, Michaela, Doris, Greta e Liesèl con espressioni tese. Scivolò al suo posto, le guardò e domandò, perplesso: «È successo qualcosa? E dov’è Dorian?» Liesèl si fece portavoce ed esordì, raccontando ciò che avevano osservato dalla finestra, e poi saputo dall’educatrice. «È andato alle prove con Annika?» esclamò Rainer, basito. «Di nascosto come un ladro? Adesso ho capito dov’è sparito dopo i compiti! Si è defilato zitto zitto con Annika. Che codardo!» A quel punto anche le altre espressero la loro opinione su questo nuovo Dorian. «E tu come ti senti?» chiese Rainer a Liesèl, solidale. Lei scosse la testa: «Non ci capisco più niente…» Poi inspirò, fece un gesto come per cacciare via una mosca e disse: «Ma ora c’è una bella novità». Lo informò dell’appuntamento di venerdì con il direttore del giornale regionale e il fotografo. Rainer era elettrizzato: «Migliaia di persone leggeranno l’articolo e L’Eco del Seeburg sarà famoso. È fantastico! A che ora arriveranno?» «Alle cinque». Lui restò per un po’ in silenzio, fissando la parete di fronte con espressione concentrata, poi disse: «Venerdì alle cinque Dorian sarà in palestra per le prove, dico bene?» Liesèl annuì: «Giusto». «Avrei una proposta. Lui ci ha nascosto la piccola fuga con Annika, noi non gli diciamo l’incontro con il giornale regionale. Che ne dite?» Liesèl esitò: «Ma no… rimarrebbe male se lo escludessimo». Anche le altre esitarono, mosse dallo stesso scrupolo. «Peccato», sospirò Rainer. «Si sarebbe meritato una lezione. Allora, cara Liesèl, quando il nostro attore ritornerà dalle prove, a te il compito di comunicargli la novità». Dorian e Annika arrivarono in refettorio con dieci minuti di ritardo. Entrarono insieme. Lei gli sfiorò il braccio in modo confidenziale, poi si diresse verso il proprio tavolo, accolta dagli applausi del clan come se fosse già una diva del palcoscenico. Dorian invece si aggiunse al suo gruppo e li salutò con slancio. Sembrava

di ottimo umore, il cruccio per la madre era accantonato. Dopo aver ritirato dal passavivande la sua razione di cibo, constatò: «Vi vedo seri». «No, perché?» fece Rainer. «Così, mi sembrava». E aggiunse en passant: «Oggi è stato il primo pomeriggio delle prove». «Com’è andata?» chiese Jutta. «Oh, benissimo!» rispose, vivace. «Comunque, è stata solo una prima lettura». «Bene bene», fece Jutta. «Ancora non so per quale motivo il regista abbia scelto proprio me tra tutti i ragazzi della scuola», si domandò Dorian con aria pensosa. «Forse perché sei bello», accennò Michaela. «Anche Rainer è bello», obiettò Greta, secca. «Perché non hanno scelto lui?» L’altro però fece un gesto come a dire: veramente non ci tenevo. «Il regista ha detto che ho la faccia da cinema», Dorian si vantò, dimenticando di mangiare. «Chissà, se questo sarà il mio futuro. Essere il protagonista di un film importante, ve lo immaginate?» Ma la domanda non sembrò suscitare molta attenzione nel gruppo. La conversazione languì tra il fitto vocio del resto degli allievi che affollavano il refettorio. «Stamattina la nostra insegnante starnutiva in continuazione», raccontò Doris per rompere il ghiaccio. «Speriamo che non abbia inondato l’aula di microbi. Non ho proprio voglia di ammalarmi». «Batteri», fece Greta. «Cosa?» «Sono virus e batteri che causano le malattie, non i microbi», puntualizzò la sorella. «Lo abbiamo studiato nella lezione di pronto soccorso». «Il mio compagno di banco è a casa con l’influenza», riferì Dorian. «Manca solo che mi abbia contagiato!» «Stai tranquillo, l’erba cattiva non muore», commentò Doris. Era stato più forte di lei. Dorian le gettò uno sguardo attento: «Per caso ce l’hai con me?» «Forse dovrei?» lei alluse. Lui depose la forchetta: «Non lo so, dimmelo tu». Liesèl assistette a questo cianciare di nulla e si chiese chi fosse stato quel

compagno di collegio che a Natale sul treno verso casa le aveva chiesto se voleva essere la sua ragazza. Ad un certo punto Rainer chiese con aria spazientita: «Insomma, Dorian, non ti sembra che tu ci debba qualche spiegazione?» «In che senso?» l’altro si stupì. «Fai finta di non capire?» «Non capisco, giuro!» «E non hai niente da spiegare nemmeno a Liesèl?» Fino a quel momento Dorian aveva evitato di guardarla in faccia, ma ora si rivolse a lei con aria tediata: «Sei di nuovo arrabbiata perché ho accettato quel ruolo?» Lei inspirò, le mancò un po’ di respiro: «Non è questo che…» «Non è questo il punto», intervenne Rainer, seccato. In quel momento arrivò Annika, posò le braccia sulle spalle di Dorian e dichiarò alla compagnia: «Lui è un grande attore! Si è capito subito. Il regista, si chiama Sàndor, era molto contento di lui». Dorian si girò verso di lei: «Se è per questo, era contento anche di te». Annika fece una smorfia lusingata. «Sàndor ha detto che noi due abbiamo trovato subito il tono giusto», aggiunse Annika, gongolante. «Sàndor», ripeté Rainer senza nascondere l’ironia. «Sì, Sàndor!» ribadì Dorian seccato. «È ungherese. Qualcosa non va nel nome?» «Oh, no, no», fece Rainer con un sorrisetto beffardo. «Sàndor va benissimo». Annika si avvicinò all’orecchio di Dorian e gli bisbigliò qualcosa. «Sei maleducata», le fece notare Jutta. «Puoi dire tutto ciò che vuoi a voce alta, fra noi usa così». Lei rispose prontamente in tono arrogante: «Gli ho detto che siete tutti gelosi del fatto che andiamo alle prove insieme». Dorian annuì lentamente: «Sì, lo penso anch’io. L’invidia è una brutta cosa». Allora Annika lo tirò giù dalla panca: «Vieni da noi, le mie amiche vogliono farti delle domande». Lui indugiò un attimo, poi prese la sua cena e la seguì all’altro tavolo. Ci fu un nuovo silenzio, alla fine Rainer disse: «Lui non saprà del nostro incontro di venerdì. Siete d’accordo?»

Tutte annuirono tranne Liesèl. Marta le disse: «Anche tu, tesoro. Tanto sei in minoranza». Alla fine, con fatica, pure Liesèl acconsentì. Ma abbassò il viso perché si sentiva in colpa con Dorian. Quella sera, in soffitta, Annika si piazzò davanti all’armadietto di Liesèl e chiese in tono subdolo: «Cosa indosserai domani? Non so come tu faccia a scegliere continuamente tra quattro straccetti! Non ti viene a noia?» Aveva parlato di proposito a bassa voce per non farsi sentire dalle ragazze vicine. «Lasciami in pace», fece Liesèl, seccata. Annika fece la sua solita smorfia di cinico disprezzo e disse, sempre con quel bisbiglio insidioso: «Ricordati, tu non sei nessuno! Non sarai mai nessuno. Ora hai perso due cose: Dorian e il vostro inutile giornalino. Era lui il più bravo e originale di tutti, senza lui il vostro stupido Eco del Seeburg non sarà più niente. Più niente!» Marta si avvicinò e domandò: «Perché non ti occupi del tuo armadietto, Annika? Anzi, dei tuoi due armadietti da gran dama fasulla?» E a Liesèl: «Cosa voleva?» Lei scosse solo la testa. La frase ‘ora hai perso due cose: Dorian e il vostro stupido giornalino…’, le aveva fatto troppo male. Si era sentita battuta dalla bella, prepotente e vincente Annika! Sul viso di Annika si disegnò un sorriso meschino con il quale servì anche Marta: «Pure tu non sarai mai nessuno, ricordatelo!» E, sghignazzando da sola, si allontanò. La mattina dopo in refettorio Dorian si sedette al tavolo di Annika. Rainer disse, pensoso: «Aveva ragione mia nonna, non si conoscono mai a fondo le persone anche se sono nostri fratelli, mariti, genitori, mogli o amici». Michaela scosse la testa: «Però sono molto triste. Ora Dorian sta con Annika e Liesèl non è più la sua ragazza e io non capisco perché tutto questo sia successo e…» Marta la interruppe e suggerì con benevolo sarcasmo: «Svegliati, Biancaneve». Liesèl disse, gettando uno sguardo verso l’altro tavolo: «Io non ho perso niente, lui è diventato un altro Dorian. Ma comincio a sentirmi molto stupida». Doris declamò per tirare su l’atmosfera: «Dopo che siamo state tradite da un amore ci sentiamo sempre stupide».

«Ha parlato Mata Hari», chiosò Greta, secco. «Che c’entra Mata Hari?» fece Rainer. «Non era quella che aveva trenta amanti in cinque nazioni diverse?» «Mata Hari era un’agente segreto olandese, anzi, una spia internazionale», spiegò Rainer. «Be’, ciò non toglie che avrà avuto una serie di amanti, no?» «Ma sei fissata!» ghignò Rainer. E aggiunse a bassa voce: «A casa ho letto di straforo L’amante di Lady Chatterley». «Di cosa parla?» si informò Greta, molto interessata. Ma Rainer storse solo gli occhi: «Non è roba per bambine». «Quali bambine?» lei protestò. Jutta disse: «Guardate Dorian! Annika gli sta sempre appiccicata. Poverino, quasi non riesce a fare colazione». «Macché poverino», fece Rainer e addentò la sua fetta di pane, burro e marmellata. Quando ebbe finito di sorseggiare il caffelatte ribadì: «Mi raccomando, nessuna parola in giro sull’appuntamento del venerdì. Intesi?» Questa volta annuirono tutte. Dopo che entrambi si furono liberati dai compiti, venerdì verso le quattro, Dorian, ormai apertamente, si avviò insieme ad Annika in direzione scuola per le prove. Il gruppo del giornalino invece aspettava impaziente nella redazione che arrivasse l’ora X. Alle cinque in punto entrarono nel refettorio. Il direttore del giornale regionale si chiamava Herr Griesler, e aveva un braccio artificiale, che tuttavia quasi non si notava. Il nome del fotografo era Sigi Dreihoff. Anche il direttore del Seeburg era già presente. Si accorse che mancava Dorian. Ma Rainer si affrettò a rispondere in nome del gruppo: «Lui non ha potuto venire perché aveva la tassativa richiesta di presentarsi alle prove». Liesèl tremava per l’ardita bugia. L’Heimvater rimase per un momento perplesso: «Peccato. Immagino che sia rimasto dispiaciuto. Forse avrebbe preferito stare con noi». Il discorso terminò lì. Fu un evento memorabile. Herr Dreihoff scattò molte foto di diverse pagine del giornalino, e in seguito Herr Griesler rivolse alcune domande, prima al direttore, poi a ciascun membro del gruppo. Ci fu anche una foto collettiva insieme all’Heimvater, e un primo piano di Liesèl in quanto ideatrice dell’Eco del Seeburg. Più tardi nel refettorio il gruppo del giornalino non fece che bisbigliare e

ridacchiare euforico, tanto che gli sguardi di Annika e Dorian sbirciarono spesso nella loro direzione. Finché Dorian non resistette, si alzò e venne da loro. «Che cosa avete? C’è qualcosa che dovrei sapere?» Alla domanda Doris scoppiò a ridere. «Cos’hai da ridere?» chiese lui, confuso. «È forse proibito?» fece lei, e rise più forte. Dorian esitò, guardò verso Annika, poi disse: «Là le ragazze raccontano che oggi pomeriggio sono venute due persone che si sono trattenute qui nel refettorio con il direttore e ci siete stati anche voi e…» Marta rispose con presenza di spirito: «Erano amici del direttore! Volevano vedere il portagiornale con il giornalino infilato dentro e…» «Per quale motivo?» si stupì Dorian. «Forse l’Heimvater ci teneva a mostrare come siamo stati bravi a fare un giornale tutto scritto e disegnato a mano», inventò Marta lì per lì. Dorian ebbe un attimo di cedimento. «È vero», annuì, «abbiamo lavorato tanto. È stato bello. Tutte quelle ore trascorse in redazione…» Si interruppe, guardò di nuovo Annika: «Be’, mi si raffredda la minestra». E tornò dall’altra parte.

20

Quella mattina, mercoledì, l’insegnante entrò in aula con la sua capiente borsa nera di cuoio al braccio sinistro, un fascio di giornali sotto quello destro, sedette alla cattedra, fece l’appello ed esordì: «Buongiorno, ragazze. Oggi è per me un giorno triste perché esattamente tre anni fa ho perso mio marito per un male incurabile. Da allora vivo sola nell’appartamento dove eravamo felici». Contemplò la sua classe come a voler sondare l’effetto del suo davvero insolito preambolo. «Mia sorella», proseguì, «insieme a mio cognato, gestisce poco lontano dal mio palazzo un piccolo locale dove ogni mattina, dopo aver comprato il mio giornale preferito, faccio colazione». Fino a quel momento le studentesse non sapevano molto di lei tranne che era molto alta e magra e vestiva sempre di scuro. Conoscevano la sua indole rigorosa e severa, ma aveva gli occhi buoni. «In genere», continuò, «mentre mia sorella mi prepara la colazione, do una veloce scorsa al giornale, il resto lo leggo al rientro dalla scuola. Ma oggi mi sono soffermata su un articolo che parla del collegio Seeburg e per la prima volta ho fatto raffreddare il caffè». Sorrise di ciò che doveva rappresentare un’assoluta eccezione, far raffreddare il caffè a causa di qualcosa che aveva monopolizzato il suo interesse. Marta bisbigliò a Liesèl: «Oddio, è uscito il pezzo su di noi!» L’insegnante sollevò una copia dal mucchio, la aprì e annunciò: «Ora vi leggo ciò che ha dichiarato il direttore del collegio all’intervistatore, perché è straordinario». Si soffiò per un attimo il naso e partì. «Io sono orgoglioso di questo gruppo di ragazzi che con grande

entusiasmo e impegno hanno realizzato il primo numero del giornalino del nostro collegio, L’Eco del Seeburg, scritto e disegnato interamente a mano. Un particolare encomio va all’allieva Liesèl che ha voluto fondarlo. Ha raccolto attorno a sé un gruppo di collegiali e insieme hanno dimostrato come un progetto comune possa sviluppare nei ragazzi una profonda coscienza di sé e delle proprie potenzialità. Come lavorare insieme, ognuno su temi diversi, possa aiutare a socializzare, a condividere gli spazi, ad ascoltarsi e a stimolarsi a vicenda. A divertirsi anche, a diventare amici». Alzò lo sguardo facendolo vagare di nuovo sui volti delle alunne. Si era fatto un profondo silenzio nell’aula. «‘L’Eco del Seeburg è molto più di un giornalino da collegio», seguitò a leggere l’insegnante, caricando le parole dell’importanza che attribuiva al contenuto, «ma esprime la volontà di questi ragazzi di misurarsi con le proprie possibilità e i propri limiti. Un gruppo che desidera crescere e capire qualcosa del mondo che lo circonda. Che ha rivolto lo sguardo oltre le mura del Seeburg e oltre il presente, spingendosi a indagare anche sul recente passato dell’Europa. È per me una grande soddisfazione che questi allievi percorrano un piccolo tratto di strada insieme a tutti noi del Seeburg». Sorrise: «C’è anche una bellissima foto del direttore con la squadra del giornalino, e un primo piano della nostra Liesèl che ne è la fondatrice». Chiuse il giornale e concluse: «Desidero dirvi che anch’io sono orgogliosa di avere tra i miei banchi due membri di questo gruppo sul quale il direttore ha espresso un elogio così lusinghiero e convinto: Liesèl e Marta!» Cominciò un vivace bisbiglio tra le ragazze e tutte guardarono verso le due nominate. L’insegnante chiese un ultimo momento di attenzione. «Stamattina dopo colazione sono tornata dal giornalaio e ho comprato altre tre copie: due per Liesèl e Marta e una per Annika, perché anche lei abita al Seeburg. Potete venire a ritirarle. È un mio regalo personale». Liesèl e Marta si avviarono, confuse e emozionate. Annika invece attese che ritornassero al loro posto, poi a sua volta si avvicinò, curiosamente rigida, alla cattedra, tornò al suo banco, aprì il giornale e… Fu incredibile. La forte, coriacea Annika, alla vista della vistosa foto di Liesèl fu sopraffatta da un sentimento di tale rabbia e invidia che si sentì male. Dovette correre fuori al bagno per vomitare. Tornò in classe bianca e tremante, l’insegnante la accostò, preoccupata: «Come ti senti?»

Annika, con un gesto un po’ teatrale, si passò una mano sulla fronte e rispose con voce flebile: «Ho ancora mal di stomaco e mi gira la testa». «Vuoi che chiami il medico della scuola?» chiese la donna, premurosa. «Non vorrei che tu stessi covando l’influenza. Certo, sarebbe una disdetta, mia cara, proprio ora che sono cominciate le prove per la rappresentazione». Alla parola prove Annika si rianimò come per miracolo: «No, no, non c’è bisogno del dottore, forse non ho digerito i canederli allo speck di ieri sera». «Sicura? Non vuoi che il medico ti dia un’occhiata?» «Sto già molto meglio», dichiarò Annika con un sorriso falso. Liesèl mormorò a Marta: «Che bugiarda! Ieri per cena c’erano gli gnocchi di semola!» Sulla via del ritorno incontrarono Jutta, Doris, Greta e Michaela. Marta e Liesèl riferirono subito dell’uscita del pezzo, di come l’insegnante lo avesse letto davanti a tutta la classe, per poi regalare a loro due, e pure ad Annika, delle copie. «Annika ha visto l’articolo?» chiese Jutta, scalpitando di curiosità. «Sì, le è bastato dare un’occhiata per sentirsi male», raccontò Liesèl. «Come si è sentita male?» «È corsa in bagno a vomitare». «Le sarà scoppiato il fegato dall’invidia», commentò Doris con una risatina sarcastica. «Dai, facci vedere l’articolo!» friggeva Greta. Allora Liesèl aprì la sua copia e le ragazze rimasero sconvolte. «Una pagina intera!» esclamò Michaela, gli occhi lucidi. Diventò tutta rossa dall’emozione. «E che bella foto di Liesèl!» Doris fece il muso: «Avrebbero potuto mettere un primo piano anche di me!» «Hanno pubblicato quello di Liesèl perché è la fondatrice del giornalino», spiegò Greta. «Ma sulla foto del gruppo sei molto carina anche tu, sorellina». «È vero», annuì Doris. «Sembra che abbia due anni in più». «Perché non cinque?» Greta la stuzzicò. «Così i lettori ti prendono per maggiorenne e si fa avanti qualche ammiratore con una proposta di matrimonio. Magari l’erede di un famoso caseificio». Doris si offese: «Secondo te io non merito altro che un tizio che sta dalla mattina alla sera in mezzo al formaggio e avrà sempre addosso l’odore di Emmental?» Mentre tutte sghignazzavano furono raggiunte da Annika. Questa volta

era senza codazzo. «Chi credete di essere?» gridò velenosa verso Liesèl. «Ma non finisce qui! Io vi denuncio al direttore, avete ingannato Dorian! Vi denuncio, preparatevi!» Corse avanti, si fermò, tornò indietro, si piazzò di nuovo davanti a Liesèl e disse: «Anche con quella stupida foto sul giornale tu non sei nessuno! Inoltre indossavi un vestito orrendo. Tu sei solo una povera ebete mentecatta!» Quando se ne fu andata, fra le ragazze scoppiò un’ondata di risate contagiose. «Ebete mentecatta!» Marta si sbudellò. «Deve essere impazzita di invidia! Che scena esili… esilo…» «Esilarante», completò Jutta. «Avete visto i suoi occhi? Schizzavano odio!» «Andrà sicuramente dall’Heimvater», pronosticò Liesèl. Divennero tutte serie. «Muoviamoci», suggerì Marta. «Mi sa che ci aspetta un pomeriggio complicato». Rientrate al Seeburg trovarono Fräulein Josefine raggiante: «È uscito il vostro bellissimo articolo e l’Heimvater mi ha lasciato alcune copie del giornale per voi». Ne consegnò una a ciascuna del gruppo. Marta e Liesèl riferirono della lettura dell’insegnante davanti alla classe e della copia che avevano già avuto in omaggio. «Io mando la seconda a casa», annunciò Marta. «Anch’io», annuì Liesèl. «A proposito di Annika», fece l’educatrice, «poco fa è arrivata come una furia gridando di dover andare subito dal direttore. Non mi ha nemmeno lasciato il tempo per chiedere il motivo. Ne sapete qualcosa?» «È stata male a scuola», disse Liesèl. «Cioè?» «Anche lei ha avuto una copia gratis e dopo aver visto l’articolo le è venuto il vomito ed è dovuta correre al bagno». «Dopo aver visto l’articolo?» ripeté la Fräulein. «Proprio così», intervenne Doris. «Dall’invidia deve esserle venuto un attacco di bile». «Non essere così maligna», la riprese l’educatrice, ma, conoscendo bene Annika, celò un piccolo sorriso divertito.

In quel momento Annika entrò in sala, vide il gruppo attorno alla Fräulein e annunciò minacciosa: «Dopo i compiti l’Heimvater vi aspetta al completo nel suo ufficio! Informate Rainer, a Dorian ci penso io». E tornò fuori di corsa. L’educatrice domandò, basita: «Che succede, ragazze?» Marta rispose, esitante: «Be’, effettivamente una cosa c’è… noi avevamo… si tratta di Dorian…» Ma suonò la campanella per il pranzo e tutte si precipitarono al refettorio lasciando senza risposta la Fräulein. Rainer arrivò sventolando una copia, scivolò al suo posto, la aprì con espressione solenne e chiese: «Avete letto ciò che ha detto il direttore su di noi e L’Eco del Seeburg?» Gli dissero che non avevano avuto ancora tempo per farlo, e lo informarono che Annika era subito filata dal direttore per denunciarli, e che dopo i compiti erano attesi nel suo ufficio. «Che belva», sibilò Rainer. Tuttavia non si lasciò togliere la soddisfazione per l’articolo. «La foto del portagiornale è fantastica!» dichiarò, entusiasta. «Me ne intendo, sono un fotografo anch’io». «Certo», sghignazzò Jutta, «con quella tua Agfa fai foto da urlo». «Battuta stupida», fece lui, sprezzante. «Comunque, non so se avete notato che il primo piano di Liesèl è stato tutto concentrato sul suo sguardo. Inoltre la luce è…» «Ehi», lo interruppe Doris, «anch’io avrei voluto una foto così bella sul giornale!» «Se vuoi domani te ne scatto io alcune», si offrì Rainer. «Ma non è la stessa cosa», sbuffò lei, sdegnata. «Bada, le mie foto della casa abbandonata partecipano a un importante concorso», ribadì lui, offeso. Doris fece spallucce: «Tanto, non vincerai». «Grazie dell’incoraggiamento», ghignò lui e guardò verso Dorian che sedeva al tavolo di Annika. «Che strano…» disse, «mi aspettavo che ce lo saremmo trovati davanti a coprirci di invettive per il nostro tradimento, e invece è lì che mangia tranquillo come se nulla fosse successo». «Sei sicuro che sappia dell’articolo?» chiese Marta. «Sicurissimo. Il direttore ha lasciato a Herr Rudi alcune copie, due in particolare per Dorian e me in quanto membri del gruppo del giornalino».

«Inoltre Annika lo ha cercato per dirgli che siamo attesi dal direttore», aggiunse Greta. «Forse vuol aspettare che siamo tutti davanti a lui per dircene quattro», arguì Rainer. «Dovrebbe essere mooolto arrabbiato con noi», obiettò Michaela, «lo abbiamo ingannato». «Oddio», sospirò Doris, «perché non vai da lui e lo consoli con un bacio?» «Ma che dici?!» protestò l’altra. «Non ha guardato nemmeno una volta verso il nostro tavolo», si stupì Liesèl. Rainer osservò: «Vedo che hai tolto il suo braccialetto». Lei annuì: «Mi sembra che ormai non abbia più senso portarlo». «Pensi che fra voi sia finita?» «Tu cosa dici? Dovrei essere proprio stupida pensare il contrario». «Puoi sempre ripiegare su di me», le ammiccò Rainer, scherzoso. «Come sei scemo! E quante ragazze vuoi?!» «Dico seriamente. Potremmo tornare alla casa abbandonata e fare altre foto». «La casa abbandonata…» sorrise lei, amara. «Bella consolazione». Marta cercò di rincuorarla: «Non ti buttare giù, la vita è piena di sorprese e può cambiare da un momento all’altro». «E dove hai letto questa perla di saggezza?» «In un romanzo d’amore di mia madre trovato a casa durante le vacanze di Natale», sghignazzò Marta. «Ah, ecco!» fece Liesèl. «Per il resto, cari compagni, io prevedo che l’Heimvater ci darà una bella punizione». «Dopo aver dichiarato cose così belle sul nostro gruppo?» dubitò Rainer. «Che c’entra? Resta il fatto che abbiamo nascosto a Dorian l’incontro con quelli del giornale!» Doris sbuffò: «Sarà quel che sarà, ma io ho fame». Si aggiunsero alla fila per ritirare ognuno al portavivande il proprio pranzo. Terminarono prima del solito e lasciarono in fretta il refettorio. Finalmente potevano leggere e godere del lungo e meraviglioso articolo e discuterne con orgoglio e soddisfazione. Rainer si presentò verso le quattro in sala studio delle femmine per salire

insieme al gruppo dal direttore, ma dovette aspettare ancora un poco perché Doris e Michaela non avevano ancora finito. Annika, dopo avergli gettato uno sguardo micidiale, con una smorfia di fastidio girò il capo dall’altra parte. Quando furono tutti pronti uscirono nel corridoio. «E Dorian?» chiese Marta. «Stava finendo il compito di matematica», rispose Rainer. «Ma avete parlato voi due?» «Ha solo detto che ci avrebbe raggiunto». «Come ti è sembrato?» chiese Liesèl. «Calmo e serio come al refettorio». «Calmo e serio…» ripeté lei, incredula. Michaela ripeté la litania: «Invece Dorian dovrebbe essere taaanto arrabbiato con noi!» Marta sospirò: «E basta, sembri santa Gertrude! Sempre a difenderlo». Rainer sollevò le sopracciglia: «Santa Gertrude? Chi sarebbe costei?» «Mia nonna la adorava», spiegò Marta. «È la protettrice di… forse degli innocenti. Non ricordo». Cominciarono a salire le scale. Dal primo piano proveniva il vocio dalla sala giochi e il secco suono della pallina da ping-pong. Giunti davanti alla porta dell’appartamento suonarono. Dopo un po’ il direttore aprì e disse: «Ecco i miei prodi! Venite avanti». Li precedette nell’ufficio. «C’erano poche sedie», spiegò, «mia moglie ne ha aggiunte alcune pieghevoli. Ci siete tutti?» «Manca Dorian», disse Liesèl. «Già, Dorian», annuì lui e si sistemò dietro la scrivania. «Coraggio, accomodatevi». Si sentivano tutti molto impacciati. «Per cominciare», esordì l’uomo in tono fermo, seppure non duro o biasimevole, «questo incontro sarà…» Bussarono. «Entra, Dorian!» Appena lo vide, a Liesèl vennero le palpitazioni. Lui si mise sulla seggiola rimasta vuota accanto a Michaela. Lei gli sorrise solidale. «Bene, ora siamo al completo», dichiarò l’Heimvater e guardò dall’uno

all’altra. Aveva davanti una copia del giornale e la aprì, si soffermò per qualche istante sulla pagina, poi cominciò. «Vorrei iniziare a esprimere la mia grande soddisfazione per l’uscita del meraviglioso articolo che rende pienamente giustizia al vostro gruppo del quale continuo a essere molto fiero. Poco fa ha chiamato il mio amico del giornale dicendomi che è arrivato un gran numero di telefonate in redazione che si complimentavano per il bel servizio. Avete il vostro momento di gloria». Abbassò di nuovo lo sguardo sulla pagina: «La foto dell’Eco del Seeburg infilato nel portagiornali è perfetta, sicuramente ha suscitato molta curiosità nei lettori». Gli occhi si stirarono fino a un sorriso compiaciuto: «Il primo piano di Liesèl è davvero stupendo, lo farò incorniciare insieme alla nostra foto di gruppo». Chiuse la copia e la mise da parte come a significare che il discorso avrebbe cambiato direzione. «Tuttavia…» riprese, serio, «in quella foto manca una persona. Vuoi essere tu, Liesèl, a dirmi il motivo?» Dall’emozione le venne un attacco di tosse nervosa, allora prese la parola Rainer: «Sono stato io a proporre di tacere a Dorian l’incontro con il giornale». «Ma eravamo tutte d’accordo», aggiunse Marta. «Tutte…» confermò anche Michaela, e Marta le gettò un’occhiata soddisfatta. «Come mai eravate tutti d’accordo di escludere Dorian?» chiese l’Heimvater. Seguì un lungo silenzio che a un certo punto fu interrotto da Dorian: «Avrei qualcosa da spiegare». «Prego, ragazzo». Lui si tormentò per un po’ le mani, poi iniziò. «Dopo l’orribile scherzo del diario che Annika ha fatto a Liesèl… Annika mi era diventata antipatica. Non potevo più vederla». Si fermò, inspirando alcune volte come se l’introduzione gli avesse accorciato il fiato. «Quando a scuola si cominciò a parlare della rappresentazione», proseguì, «dichiarai agli amici del gruppo che non avrei mai accettato il ruolo principale per non dover recitare al fianco di Annika, e se per caso il regista

avesse scelto me avrei rifiutato. Ma poi lui offrì la parte proprio a me e non riuscii a dire di no». «Perché?» chiese l’Heimvater. «Perché… mi è sempre piaciuta l’idea di recitare. Una volta alle elementari misero in scena una commedia natalizia, io ebbi il ruolo di Giuseppe, e da allora ho pensato che forse da grande avrei fatto l’attore. Il teatro… sì, mi affascina moltissimo». «Fin qui non vedo nulla di particolarmente grave», sentenziò l’Heimvater. «Hai cambiato idea, può succedere. Tutti prima o poi cambiamo idea, non siamo dei robot». «Ma non ho avuto il coraggio di dire ai miei amici di aver accettato il ruolo malgrado avessi dichiarato più volte il contrario! Lo hanno saputo da Annika e in modo offensivo, beffardo. Mi sono sentito un verme. E in seguito ho ripetuto lo stesso errore. Quella mattina a scuola mi avevano comunicato che nel pomeriggio sarebbero cominciate le prove, e Annika mi aveva chiesto di andarci insieme, e non ero riuscito a dire di no nemmeno a lei. Stavo nel refettorio insieme ai miei amici per il pranzo, ma non avevo il fegato di dire che sarei andato alle prove con Annika. Salvo poi essere scoperto alla finestra da Marta e Liesèl mentre di nascosto mi allontanavo dal Seeburg con lei». Tacque di nuovo e pareva molto provato dalle ammissioni. «Io apprezzo la tua autocritica, ragazzo mio», disse l’Heimvater in tono paterno, «se prima non sei stato sincero e coraggioso con il tuo gruppo, lo sei stato adesso. Penso però che, escludendoti di proposito dall’incontro con il giornale, il torto che ti è stato fatto sia più grave del silenzio che hai ostentato nei loro confronti. Inoltre hanno agito in sei contro uno. Io credo purtroppo che i tuoi compagni meritino una punizione». «No, io questo non lo voglio!» esclamò Dorian, deciso. «È vero, quando oggi ho visto la pagina sul giornale mi sono sentito per un momento molto deluso, ignorato e amareggiato, perché anch’io ho collaborato all’Eco del Seeburg! Anch’io faccio parte del gruppo del giornalino che lei sul giornale ha così tanto elogiato! Ma non desidero che siano puniti. Io li ho delusi nascondendo verità e decisioni, e si sono giustamente arrabbiati con me!» Pur sembrando sconvolto mostrava una forza d’animo ammirevole. Ci fu un nuovo silenzio. L’Heimvater fissò per qualche istante la copia del giornale, la aprì, vi gettò uno sguardo rapido e la chiuse. Poi sollevò il ricevitore dell’apparecchio, cominciò a comporre un numero, nello stesso tempo disse: «Andatevene prima che cambi idea! Su, tornate giù!»

Non se lo fecero ripetere. Mancava ancora un po’ di tempo per la cena, così si unirono in redazione. Si sedettero ognuno al proprio posto e per alcuni minuti non dissero niente. Liesèl stava di fronte a Dorian, Doris accanto alla sorella Greta, Rainer a capo tavola, Michaela vicino a lui e poi Jutta e Marta. A un certo punto Doris esclamò: «Ancora questo odore di acqua santa, non se ne può più!» Tutti a sghignazzare. Rainer disse: «Grazie per averci salvati dalla punizione, Dorian. Siamo stati cattivi e vendicativi con te, ce la saremmo meritata». Le altre si aggregarono alle sue parole. «E io sono stato vile e falso», dichiarò Dorian. «Mi odio per come mi sono comportato». Liesèl si fece coraggio e domandò: «Pensi di ricominciare a fare qualcosa per il giornalino?» «Oh, sì, certo», affermò. «Avrò meno tempo, ma mi restano sempre il mercoledì, sabato e domenica». Lei gli sorrise: «Grazie, che bello!» «Allora siamo di nuovo un gruppo?» domandò lui. «Purché non ti sposi con Annika», fece Marta, scherzosa. Dorian allungò la mano attraverso il tavolo e afferrò quella di Liesèl: «Amici come prima?» Lei arrossì, sapendo cosa intendeva: «Sì, oh sì!» In refettorio Dorian ritornò al tavolo del suo gruppo, Annika e il clan erano in ritardo. «Preparati alla tempesta», lo avvertì Rainer. «Lo so…» fece Dorian. A uno dei tavoloni c’era del movimento. Alcuni collegiali si erano stretti a un biondino che stava lì con un’espressione triste. «Gli è morto il nonno», spiegò Rainer. «Suo padre è caduto in guerra e lui era molto legato a quel vecchio. È nella camerata con me, stanotte l’ho sentito piangere». Il resto del refettorio era affollato dei soliti gruppi che si erano formati durante il primo semestre in base ai vari interessi, affinità e simpatie. Quando arrivò Annika con il suo clan appariva nervosa e tesa. Guardò subito verso il tavolo del giornalino e, scorgendo la schiena di Dorian, lo puntò. Facendo piombare le mani sulle sue spalle disse in tono

gelido: «Girati, buffone». Lui lo fece e si guardarono negli occhi. «Che cosa ci fai qui?» domandò lei con fredda calma. «Lo vedi», rispose. «Sono tornato al mio vecchio posto». «In mezzo a questi traditori? E non dovevano essere in punizione?» «No», fece. «Perché no?» «Ho chiesto al direttore di non punirli». «Allora sei proprio un imbecille! Questi ti escludono di proposito da una cosa importante e cosa fa lo stupidone? Ah, non posso crederci!» Dorian inspirò: «Non pensi che siano decisioni che riguardano solo me?» Anche lei riprese fiato, era molto pallida e nei suoi occhi brillava una luce malevola: «Allora pensi di cavartela così?» «In che senso?» «Passarci sopra come se nulla fosse successo?» «Ti ripeto che tu non c’entri in tutto questo!» «C’entro invece!» esclamò. «Appena tornata da scuola mi sono precipitata dal direttore per denunciare il torto che ti hanno fatto i tuoi falsi amici e tu cosa fai? Li proteggi e perdoni tutto! Fai schifo. Se pensi che finirà così, ti sbagli. Domani sarò più precisa, ma l’hai voluta tu, ricordati! L’hai voluta tu». E con un secco dietrofront raggiunse il suo tavolo. «Cosa avrà voluto dire con questo domani sarò più precisa?» chiese Marta. «Non ne ho idea», rispose Dorian. Anche lui era pallido e sembrava molto turbato. «Che iena», sbottò Rainer. «Odiosa e insopportabile». «Fetente», fece Doris, disgustata. «Sei stato bravo a tenerle testa», gli disse Jutta. «Strega maledetta», soffiò Michaela. Liesèl gli sorrise: «Sì, sei stato bravo, Dorian». Greta si alzò: «Gente, non so voi, ma io vado a ritirare la mia cena. Quella strega non mi fa certo passare l’appetito».

21

La mattina dopo, in refettorio, Annika parlava fitto con il suo clan, e ogni tanto gli sguardi si rivolgevano, come sincronizzati, verso la schiena di Dorian. Era palese che discutevano di lui. «Io mi convinco sempre più di una cosa», disse Rainer: «Annika si è fissata su Dorian». «Se intendi che ne è innamorata», commentò Doris con una smorfia sprezzante, «quella non può innamorarsi di nessuno perché non ha un cuore». Michaela, sempre prudente e delicata nelle sue esternazioni, ribadì: «Liesèl invece è innamorata di Dorian». Subito dopo, come vergognandosi della frase, diede un colpetto di tosse: «Ehm, scusami Liesèl». Liesèl guardò Dorian e disse, sommessa: «Michaela ha ragione, io a Natale non ho fatto che pensare a lui». «Anch’io», sorrise Dorian. «Mia madre se n’è accorta e una volta ha chiesto: non hai per caso preso una cottarella per una fanciulla del Seeburg?» «E tu?» chiese Liesèl. «Ho negato», rispose, onesto. «Ma ecco che arriva». Annika gli si avvicinò con passo deciso e, battendogli di nuovo le mani sulle spalle, disse in tono aggressivo: «Girati, buffone!» Lui lo fece, riluttante. «Cosa c’è ancora?» «Voglio solo consigliarti di non farne poi una tragedia greca. Ti ho avvertito». «D’accordo», rispose Dorian, «mi hai avvertito. C’è dell’altro?» «È tutto, imbecille», e tornò al suo tavolo. Rainer dichiarò con sincero rammarico: «Che peccato, è così bella e così cattiva. Ma è chiaro che sta complottando qualcosa». Dorian annuì: «Chiarissimo. E mi aspetto il peggio».

«Che cosa ti aspetti?» chiese Liesèl, preoccupata. «Non lo so, ma arriverà. Ormai la conosciamo». «Oggi avete le prove?» «Sì», sospirò Dorian. «Ci andrai da solo?» «Da solo, certo». «Non vorrei essere nei tuoi panni, Dorian!» dichiarò Marta. «Nemmeno io», fece lui con un sorriso storto. A scuola Annika era furente. Dopo la lettura dell’articolo in classe, in molte alunne era nata un’ammirazione per Marta e Liesèl e nell’intervallo le circondarono assillandole di domande. Annika friggeva di gelosia. Perfino alcune delle fedelissime, che prima pendevano dalle sue labbra, adesso volevano sapere tutto sul gruppo del giornalino e si chiedevano per quale motivo Annika non ne facesse parte. «Non è abbastanza brava per scrivere qualcosa di interessante», osò insinuare una ragazza, suscitando le risate dispettose delle compagne. Annika si incollerì talmente che sbatté la penna stilografica sul banco rompendola e schizzandosi il vestito di inchiostro. Quando, un momento prima che ricominciassero le lezioni, Liesèl corse fuori per fare un salto in bagno, Annika la seguì. Uscita dalla cabina se la trovò davanti, negli occhi un luccichio cattivo. Le serrò entrambe le braccia in una morsa rabbiosa e disse: «Scommetto che nessuno di voi furbastri ha fatto i conti con mio padre!» Liesèl guardò oltre le sue spalle, lesse le parole scritte col gesso sul muro: MONIKA GAMBE STORTE FA SCHIFO, ABBASSO LA MATEMATICA, BERTA TETTONA.

Poi, liberandosi con uno scatto iroso, chiese, stupita: «Cosa c’entra tuo padre?» La campanella suonò, dovevano rientrare. Allora Annika allungò la mano, estrasse dal maglione di Liesèl un fiocco di tessuto, lo arrotolò tra pollice e indice e dichiarò in tono velenoso: «Il tuo pullover è di pessima qualità, è da straccioni. Mio padre, piuttosto che mandarmi in giro così, mi preferirebbe nuda». Con una risatina beffarda uscì dal bagno. Dopo la scuola, in refettorio, mentre Liesèl raccontava al gruppo la scena del bagno, Annika si avvicinò a Dorian e disse: «Devo parlarti, vieni un momento fuori». «Fuori dove?»

«Nel corridoio. Ci metto un minuto». Così uscirono. Dorian rientrò con un’espressione stravolta. Scivolò al suo posto e fissò il vuoto. «Cosa voleva quella?» chiese Liesèl. Lui scosse la testa: «No, non adesso…» «Allora vai a prenderti da mangiare», consigliò Rainer. «Come sono stufo di tutte queste storie per Annika!» Dorian si alzò, andò a ritirare la sua razione di gnocchi con ripieno di prugne, ne consumò solo la metà, malgrado ne fosse ghiotto, si scusò e lasciò il refettorio. «Chissà cosa gli ha detto quella rompiscatole», si chiese Rainer, seccato. «Dovrebbe essere espulsa dal Seeburg», stabilì Doris, risoluta. «Non se ne può più di lei!» «Vado a cercarlo», decise Liesèl e lo seguì. Lo trovò seduto sull’ultimo gradino davanti alla porta della soffitta. Gli sedette accanto: «Cos’hai?» Lui batteva nervosamente una mano sulla coscia, aveva il respiro grosso come se avesse corso. In quel momento le sembrava così fragile. Il cuore le si fece pesante e gli afferrò una mano: «Che cosa ti ha detto Annika?» «Non ci crederai…» fece, atono. «Dimmelo». Lui cercava affannosamente le parole, finalmente esordì: «Io non lo sapevo, te lo giuro! Ma…» «Cos’è che non sapevi?» «Che le scuole per realizzare dei progetti che costano molto devono chiedere il supporto di gente abbiente». «E allora?» «C’è appunto un gruppo di persone che sovvenzionano l’allestimento della nostra rappresentazione pagando l’affitto del teatro, le scene, i costumi e tutto il resto. E il maggiore finanziatore è… il padre di Annika». «Non ci credo!» fece lei, basita. «È vero purtroppo. Ed è per questo che lei ha potuto decidere a chi assegnare il ruolo principale, capisci?» Eccome se capiva! Comprese anche che ora lui temeva per la sua parte, e nello stesso tempo era mortificato per essere alla mercé di Annika. Le prove erano appena cominciate e non ci sarebbe voluto niente a togliergli il ruolo e

darlo a un altro. Lo vedeva scosso e teso, sconsolato. E ancora una volta lei si sentì più grande di lui, più forte e saggia. «No», dichiarò, sdegnata, «non voglio che lei cerchi di toglierti la parte solo perché sei tornato al nostro tavolo e non hai voluto che il direttore ci punisse. Non voglio!» «Pretende che ci ritorni», disse lui, sgomento. «Al suo tavolo?» «Sì. E che non collabori più al giornalino». «Che iena», disse Liesèl tra i denti. «Potrei continuare di nascosto con le traduzioni», ipotizzò lui, «lei non può controllare ciò che faccio nella nostra sala studio dopo i compiti. Non vi pianterei in asso». Per un momento si guardarono, confusi. Alla fine Liesèl trasse un profondo respiro ed esordì: «Tu ci tieni alla parte?» Lui esitò, teneva a quel ruolo più di quanto volesse ammettere, e non trovava la forza di rinunciarci. «Sì», annuì infine. E aggiunse, preoccupato: «Inoltre ho sempre il fiato di Nikolas Schreiner sul collo». «Chi è?» «Quando si allestisce una recita ci vuole sempre un sostituto dell’attore principale che deve conoscere perfettamente la parte ed essere pronto a subentrare se il protagonista si ammala. Nikolas non vedrebbe l’ora di potermi sostituire, il ruolo gli fa tanto gola». «Hai una sola possibilità di tenerti la parte», disse lei, decisa, «assecondare Annika. Torna al suo tavolo, nel pomeriggio vai con lei alle prove e fingi di avere chiuso con il giornalino». «No…» esitò, «non posso». «Sì che puoi». A un tratto lui la attirò verso di sé e la baciò sulla guancia: «Dici seriamente?» «Mooolto seriamente», fece lei con forza. «Ma tu resterai la mia ragazza?» domandò, accorato. «Rimarrò la tua ragazza sempre. Per sempre!» Ma all’improvviso le venne da piangere. Avrebbe tanto desiderato poter essere felice al Seeburg senza quella brutta ombra di Annika attorno! «Io non torno al suo tavolo se tu non vuoi», ci ripensò lui.

«Invece lo voglio, Dorian! Spiegherò tutto al gruppo, loro capiranno». Per un poco lui la serrò di nuovo a sé, ora pareva più tranquillo, quasi rasserenato. Lei gli passò una mano fra i capelli: «Adesso devo tornare giù. Va tutto bene, Dorian». «Sicuro?» «Sì». Gli rivolse un ultimo sorriso rassicurante e scese rapidamente le scale. Rientrata in refettorio, gli amici la attorniarono per sapere se avesse parlato con Dorian. «Vi racconto tutto più tardi in redazione», rispose. Rimasero di stucco. «Così Dorian ha avuto la parte solo perché il padre di Annika è il maggiore finanziatore», sogghigno Rainer, «è una notizia bomba, ragazze!» «Quindi non è stato il regista a sceglierlo perché è bello», aggiunse Marta, «ma glielo aveva praticamente ordinato Annika!» Greta domandò, incredula: «E tu sei disposta a recitare questa commedia, Liesèl? Stare a guardare mentre lui le scodinzola dietro solo per salvarsi la parte di quella stupida rappresentazione?» «Lui ci tiene talmente tanto», rispose Liesèl con disperata solidarietà. «È da quando è bambino che desidera recitare e…» «Tu giustifichi la sua vigliaccheria», la interruppe duramente Greta. «Io penso invece che lui dovrebbe avere la dignità di rinunciare al ruolo piuttosto che farsi comandare e ricattare da quella schifosa!» Tutti erano d’accordo sul fatto che Dorian avrebbe dovuto ritirarsi. «Arrendersi agli intrighi di Annika?!» protestò Liesèl, sdegnata. «No, non sono d’accordo! Lui deve salvare il suo ruolo e a ogni costo». «A costo anche della tua dignità?» chiese Marta. «Sì, sì», ribadì Liesèl, cocciuta, ormai con le lacrime agli occhi. «Io davvero non ti riconosco più», dichiarò Rainer, costernato. «Non sei più la ragazza che conoscevo. Lui ha accettato di recitare una misera tragedia a suo vantaggio, lo capisci?» «L’ho voluto io!» dichiarò lei, veemente. «Le prove non dureranno in eterno, prima o poi ci sarà la rappresentazione e questa storia finirà». Perfino Michaela non capiva. «Ma tu sei la ragazza di Dorian», disse, sgomenta. «Perché devi accettare che lui, solo per poter recitare in teatro, faccia le moine a quella e la

accompagni alle prove e magari la baci anche!» Marta disse, ghignando: «Frena la fantasia, tesoro». L’altra rispose, stizzosa: «Ma nella rappresentazione si devono comunque baciare!» «Sono baci di scena», fece Marta. «Non penserai che in scena si bacino sul serio?» «Perché no?» fece Michaela, innocente. «Ah ah! Sei proprio la nostra Biancaneve», sorrise l’altra. «Concludendo», tagliò corto Rainer, «tu e Dorian come andrete avanti? State insieme o cosa?» «Mi ha chiesto se sarò sempre la sua ragazza», rispose Liesèl, fiera. Rainer scosse la testa: «Mi sembrate due matti». All’improvviso Liesèl perse il controllo. «Non hai capito niente!» esclamò e scoppiò in lacrime. «Tu finiscila di farla piangere», Marta avvertì Rainer. Lui alzò le mani in segno di resa: «Non dico più nulla. Mi dispiace solo che Liesèl debba stare male. Non è giusto. Ma fate voi». Poco dopo suonò la campanella e si spostarono al refettorio. Dorian e Annika arrivarono con un quarto d’ora di ritardo. Quando entrarono, a Liesèl venne un forte batticuore. La gran dama fu accolta con sorrisi e sorrisetti dal suo clan, Dorian ebbe un istante di incertezza, poi si sedette al tavolo di Annika. «Il dado è tratto», fece Rainer con pathos teatrale, e aggiunse in tono lieve: «Questo Kaiserschmarren è il migliore che finora abbia fatto la cuoca, bisogna farle i complimenti». C’era un orario fisso per salire alla soffitta, ma la regola stabiliva che i maschi ci andassero un quarto d’ora prima per non intasare tutto in una volta le scale con sessanta collegiali. Questo permetteva anche ai ragazzi di avere tempo per infilare i famosi bigliettini nell’armadietto delle corteggiate. Quella sera Liesèl trovò una lettera di Dorian. ‘Cara Lilli, sei stata a lungo tutta la gioia, tutto il mio canto; adesso, ahimè, sei tutto il mio dolore, eppure sei tutto il mio canto ancora. Wolfgang von Goethe.’ Naturalmente al posto di Lilli immagino il tuo nome! Mi sento in colpa, Liesèl, per aver accettato la tua proposta, ma ormai è fatta. Anche se dobbiamo fingere il contrario, tu rimani la mia ragazza! Ti riscrivo presto. Dorian.

«Di chi è?» chiese Marta, incuriosita. Liesèl sorrise e ripiegò il foglio. «Ho capito, ma ha ragione Rainer, siete due matti. Anch’io però ho ricevuto un biglietto. Da quel ragazzo ebreo, ricordi? Ha deciso di raccontarmi la sua storia».

22

Benché non fosse pentita della proposta fatta a Dorian, né che lui avesse accettato, la mattina seguente, in refettorio, Liesèl soffriva nel vederlo al tavolo di Annika. Lui invece si sforzava di non guardare verso di lei, verso il gruppo del giornalino e il suo posto vacante, che aveva abbandonato per salvarsi il ruolo nella recita. A scuola Annika si divertiva a provocare Liesèl. Durante la ricreazione bisbigliò vistosamente con quelle adepte che le erano rimaste fedeli, e incaricò una di loro perché le recapitasse un biglietto che diceva: «Ricordati che non sei nessuno e Dorian ha scelto me!» Liesèl lo passò a Marta che commentò con una smorfia di sarcasmo: «La stupida non ha capito che Dorian ha scelto il suo ruolo e non lei!» All’ora di attività manuale Liesèl era contenta perché la confezione dei suoi pantaloni alla pescatora era ormai a buon punto. Li provò davanti allo specchio, le stavano molto bene. Annika si avvicinò e disse, storcendo il naso: «Sembri un maschio, eheh!» E si mise a ridacchiare con tale cattiveria tanto che l’insegnante, Frau Wimmerstein, la riprese: «Proprio non ce la fai a non essere maligna? Torna al tuo posto!» La camicetta a quadretti rossi con spacchi ai lati di Marta era indietro con la lavorazione, mancavano i polsi e c’erano ancora tutte le asole da fare. Annika al contrario era molto fiera perché la sua camicia da notte in seta pura era quasi finita ed era molto graziosa. Lei eccelleva in molte cose, in contrasto con il suo carattere smodatamente vanitoso, prepotente e intrigante. Alla sera arrivò in redazione Giosuè, il collegiale ebreo che Marta intendeva intervistare, per una visita. Era la prima volta che lo vedevano da vicino. Di statura media, con una corporatura atletica – finché c’era la neve aveva trascorso ogni minuto libero a sciare fuori sul calanco – aveva capelli castani chiari e grandi occhi scuri.

Lo invitarono a sedersi al posto di Dorian. Doris partì subito con una battuta: «Chissà perché non ci siamo accorti che tra i maschietti del Seeburg ce n’era anche uno carino come te?» Lui le rispose con un sorriso timido e gentile. Greta sospirò: «Mi accorgo sempre più che mia sorella è una civettona patentata». Rainer protestò: «Non hai sempre detto che io fossi il più bello del collegio, cara Doris?» «Giosuè lo è di più», ribadì lei, pimpante. «Per me il più bello di tutti è Dorian», dichiarò Michaela con la sua solita garbata timidezza, ma subito dopo pose la mano sulla bocca, rendendosi conto che non avrebbe dovuto nominarlo per riguardo a Liesèl. Marta disse: «Sono contenta che tu sia disposto a raccontarmi la tua storia, Giosuè». «Mi sono deciso dopo aver letto il vostro articolo sul giornale regionale», ammise lui, onesto. Esitò un istante, poi aggiunse: «Ma oltre l’intervista vorrei chiedervi un’altra cosa. Ho scritto un racconto e mi piacerebbe copiarlo sull’Eco del Seeburg». «Di cosa parla?» chiese Liesèl. «Dei miei anni trascorsi in convento». «In… convento?» si stupì lei. Lui spiegò con una voce molto bella, insolita in un adolescente, ma con un tono distaccato: «Quando vennero i nazisti a portare via i miei genitori, un momento prima mio padre mi aveva nascosto in una botola e ci rimasi per due giorni. Poi uscii e andai a bussare alla porta dei vicini di casa. Loro mi accompagnarono di notte in un convento e rimasi con le suore fino alla fine della guerra». Seguì un attonito silenzio, finché Marta non lo interruppe: «Sai cosa facciamo, Giosuè? Domani pomeriggio, quando il refettorio è vuoto, ci andiamo tu e io e mi racconti con tutta calma la tua storia. Che ne dici?» «Sì, voglio farlo», rispose. E, per porre distanza da ciò che aveva appena anticipato, esclamò: «Peccato che non ci sia più la neve! Io amo sciare. Quando vado giù per una discesa non penso a niente, sono solo felice». Mentre la campanella suonava per la cena, Liesèl disse: «Penso che siamo tutti d’accordo che tu debba pubblicare il tuo racconto sull’Eco del Seeburg, Giosuè. Benvenuto nel gruppo del giornalino».

Come era ormai consuetudine, i due attori in erba arrivarono un poco in ritardo, ma la prima cosa della quale si accorsero fu che Giosuè era seduto al posto di Dorian. Annika cominciò subito un fitto conciliabolo con la sua corte, mentre Dorian non riusciva a staccare lo sguardo dalla schiena di Giosuè. Marta diede una gomitata a Liesèl: «Hai visto? È rimasto malissimo e ben gli sta». «Tu ci godi perché lui sta male?» si sdegnò Liesèl. Marta le lanciò uno sguardo stupito: «Tu no?» «No», rispose, brusca. «L’ho voluto io, non ricordi?» «Sì, sì, hai voluto fare l’eroina», fece Marta, secca. «L’amour est inguérissable. L’amore è inguaribile». «Sempre letto sul romanzetto di tua madre?» ironizzò Liesèl. «No, è Proust, mia cara». «Da quando frequenti Proust?» «Stiamo diventando intellettuali», constatò Greta. Marta ghignò: «Macché intellettuali, l’ho letto sulla cartina di un cioccolatino del nostro albero di Natale». «Ah, ecco», annuì Liesèl. «Ah, ecco», fece Doris. Rainer si alzò e domandò: «Stasera le signorine non intendono cenare? Allora vieni tu, Giosuè, lanciamoci nella fila». Ma prima di avviarsi dichiarò: «Sono contento di non essere più l’unico gallo nel pollaio!» Greta sussultò: «A proposito di gallo, in questo momento mi è venuto l’idea di una fiaba. Doris, preparati a disegnarmi il gallo più bello del mondo, con una cresta enorme». «Ricevuto», fece lei, e si levò a sua volta. «Speriamo che stasera non ci sia la zuppa di farro, la odio». Il giorno dopo, sabato, si svolse il rito delle docce giù nel sotterraneo, prima le femmine e poi i maschi. Al termine del turno dei ragazzi, Marta e Giosuè si ritirarono in refettorio per l’intervista. Greta e Doris si eclissarono invece in sala giochi, Jutta, Michaela e Liesèl si spostarono in saletta studio per scrivere ai propri familiari. Liesèl si rese conto che a causa degli ultimi eventi aveva pensato poco a Lukas, e ne provò rimorsi. Annika, dall’altra parte dell’ambiente, si stava esibendo davanti al suo clan adorante in una scena di Intrigo e amore. Altre collegiali si avvicinarono

e alla fine, incuriosita, si accostò anche Fräulein Josefine. Bisognava ammetterlo, Annika era bravissima ad affascinare le persone. Malgrado Liesèl non fosse esperta in tema di recitazione, l’impressione che ricevette da quella performance era che fosse una brava attrice e sarebbe stata convincente nel ruolo di Luisa Miller. Ma mentre la osservava fu presa da improvviso sgomento. Se conquista me, pensò, a maggior ragione non potrebbe succedere anche a Dorian? Tre volte alla settimana sono impegnati nei ruoli di due innamorati e dalla finzione non c’è il rischio che nasca un sentimento vero? Per il resto della giornata rimase prigioniera di quell’ipotesi fastidiosa. Domenica, nel primo pomeriggio, arrivarono diversi parenti in visita, come i genitori di Greta e Doris e la madre di Marta. Jutta e Michaela salirono in sala giochi per divertirsi, e Rainer domandò a Liesèl se le andava di tornare con lui alla casa abbandonata. Voleva trattenere sulle foto la malinconica magia di quel luogo prima che fosse demolito. Lei colse l’occasione per distogliere il pensiero da Dorian e si avviarono. Ma quando uscirono dal Seeburg, sul ponticello d’accesso si imbatterono in Dorian e Annika. Lui era intento a fotografarla con la Leica. Quando così all’improvviso ebbe Liesèl e Rainer davanti, lui si irrigidì, abbassò la macchina e compì un vago gesto di saluto. Annika invece esclamò, petulante: «Buon pomeriggio, piccioncini!» Rainer rispose di rimando: «Altrettanto buon pomeriggio anche a voi, piccioncini!» E proseguì con Liesèl. Strada facendo disse: «Sembra che lui non reciti solo una commedia». «Cosa vuoi dire?» «Hai capito benissimo. Non solo si è trasferito al tavolo di Annika e nel pomeriggio vanno insieme alle prove, ma divide con lei anche il tempo libero della domenica». Lei accusò il colpo e, accigliata, si sedette sul tronco di un albero al margine del sentiero. «Sicuramente è stata Annika a insistere che le facesse la foto», dichiarò, mentendo anche a se stessa. Era una giornata stupenda con la primavera nell’aria e bianche, leggere nuvolette nel cielo. «Lo giustifichi sempre», commentò Rainer, seccato. «Non è vero!» negò lei con forza, ma le palpitavano dentro il dubbio e la

rabbia. «Allora non è vero», concesse lui, come quando si dà ragione a una persona ottusa, e andò avanti. Lei indugiò un poco, stizzita, poi, vedendolo sparire dietro l’arco della stradina, lo seguì. Subito dopo ebbe davanti la vecchia casa dal tetto spiovente, tutta coperta di legno scuro e il balcone con diverse assi rotte che correva lungo la facciata del piano rialzato. Sulla robusta porta d’ingresso spiccava una tavola di legno inchiodata di traverso. Aggirò l’edificio, costeggiando la piccola costruzione diroccata che doveva essere stato il gabinetto. Come l’altra volta entrò dalla stalla vuota dove c’erano ancora le mangiatoie e gli abbeveratoi. Il forcone da letame continuava a sonnecchiare nel suo angolo, solitario e arrugginito. Proseguì lungo l’andito stretto e male illuminato da una finestrella senza vetro. Quando giunse nella cucina trovò Rainer intento a fotografare la credenza decrepita. «Ah, eccoti», disse, e a sorpresa le scattò una foto. «Avevo chiuso gli occhi!» protestò lei. Lui non l’ascoltò, affascinato dall’ambiente impolverato con il suo indefinibile odore persistente di antiche zuppe di latte acido, crauti e salsicce, che si ostinava a rimanere nella stanza come uno stoico inquilino che non se ne vuole andare. Poi Rainer uscì dalla cucina avventurandosi in un oscuro corridoio. «Dove vai?» lo chiamò lei, ma non avendo risposta lo seguì. Stava salendo una scala. Gli andò dietro sentendo sotto le suole il crepitio del vecchio legno che le ricordava una scala nella casa dei nonni. Di sopra trovarono tre stanze che si affacciavano sul balcone malandato, due vuote e una con un letto. Era un matrimoniale con la testata in legno spaccata in due pezzi, come se fosse stata oggetto della furia di uno scalmanato. Nel cassone assi di legno curve e deformate. I muri erano anneriti e un altro spazio pulito sopra il letto, su cui spiccava un chiodo isolato, lasciava immaginare, con la sua forma, una croce che vi era stata appesa. Rainer cominciò a scattare una serie di foto del letto e della portafinestra senza vetri. Non badava a Liesèl, preso dalla passione per le foto strane e insolite. Lei se ne indispettì. Quando improvvisamente la pregò di mettersi

davanti allo spazio bianco, perché voleva farle uno scatto, lei sbottò, riluttante: «Uffa!» «Che c’è?» chiese lui, stupito. «Verrebbe una brutta foto!» protestò. Lui la guardò sorpreso. Credeva che fossero in sintonia e ora, all’improvviso, lei si mostrava invece seccata. Inspirò, abbassò la macchina fotografica e annunciò: «Voglio spiegarti una cosa». «Quale?» «Io amo la musica», esordì, «e anche mio nonno ama la musica. Mi piace la fotografia e piace anche al nonno. Mio nonno mi disse un giorno che la fotografia ha qualcosa in comune con la musica. Una buona foto ha ritmo e il suo ritmo è simile a quello musicale». «Capisco una bella foto», ribadì lei, sbuffante, «ma cosa c’entra la fotografia con questa vecchia casa e la polvere e i muri neri e un letto decrepito e un ambiente… di morte?» «Ambiente di morte?» ripeté lui, sdegnato. «Povera sciocca! Davvero non riesci a percepire questa atmosfera speciale che testimonia di persone che sono vissute qui ma non hanno più voce? Le foto possono ridare loro voce, possono risvegliare i sentimenti che l’occhio nudo non può più cogliere. L’obiettivo di una macchina fotografica è in grado di farlo!» «Lo ha detto sempre tuo nonno?» chiese lei sarcastica, e si sedette sul bordo del letto. In realtà era solo irritata per aver incontrato Dorian con Annika. «A volte puoi essere davvero insensibile e stupida», dichiarò lui duramente. «Ora sono diventata addirittura stupida solo perché non condivido la tua fissa della fotografia!» esclamò lei, offesa. Lui le puntò contro l’Agfa come se fosse stata un’arma: «Sì, lo ripeto, sei stupida al punto da non accorgerti che Dorian ha deciso di stare con un piede in due staffe! Credo perfino che tenga a te, ma vuole anche la parte nella rappresentazione e tu gli permetti di fare il doppio gioco. Se non è idiota questo…» Era troppo e lei scoppiò a piangere. Chinò il capo, poggiò i gomiti sulle cosce, portò le mani sul viso e pianse senza più ritegno. Lui ne rimase colpito, posò la macchina fotografica per terra e le si sedette accanto. «Non volevo ferirti», disse. «Ho detto cose che non pensavo».

Ma lei continuava a singhiozzare, non l’aveva mai vista così. «Tu non piangi perché ti ho dato della stupida», le disse, «il vero motivo è che la storia con Dorian ti fa troppo male. Sei diventata un’altra persona, Liesèl». Lei non riusciva a calmarsi. A un tratto lui le sollevò la testa, la girò verso di sé e le diede un bacio sulla guancia, appena sotto lo zigomo. E mentre lei si divincolava, lui ripeté il bacio sempre sullo stesso punto, solo prolungandolo di qualche istante. Poi tirò fuori un fazzoletto e cominciò ad asciugarle il viso. Fu in quei momenti, in quel lasso di tempo tra il secondo bacio e l’asciugatura della faccia, che le scattò qualcosa dentro. Un colpo alla bocca dello stomaco, il battito del cuore forte, ma nello stesso tempo dolce, soave. Abbassò il capo sul petto, confusa, sorpresa. «Scusami», disse lui. Fra le ultime lacrime le sbocciò un sorriso. Si alzò e si pose davanti allo spazio bianco dove un tempo doveva esserci un armadio: «Sono pronta». Lui riprese l’Agfa e le scattò tre foto.

23

Lo scambio dei famosi bigliettini dei collegiali funzionava così. I maschi, che dovevano salire in soffitta un quarto d’ora prima delle femmine, avevano tempo sufficiente per infilare i messaggi nell’armadietto della diletta, ma per le ragazze lo stesso compito era più difficile. Così, per le risposte femminili avevano escogitato una scappatoia. Entrando nel Seeburg, e giungendo in cima alla scala, alla sinistra si trovava il guardaroba, un vano nel quale gli allievi appendevano giacche, cappotti e giubbotti. Ognuno disponeva di un piccolo pannello appendiabiti semi chiuso con sopra il nome, è lì le allieve potevano lasciare una lettera o quant’altro per il proprio corrispondente. Lunedì al ritorno da scuola, Marta e Liesèl si liberarono dai cappotti, poi, in un momento in cui non c’era nessuno, Liesèl inserì un biglietto nel pannello di Dorian. «Messaggino per un amore segreto…» commentò Marta ironica, mentre se ne andavano. Stava entrando un gruppo di maschi. «Spiritosa», fece Liesèl. «È la risposta alla sua lettera che ho trovato ieri sera in soffitta. Sembrava irritato per avermi vista domenica andare via con Rainer». «Questa è bella!» fece Marta. «Non lo avevate pizzicato in allegra compagnia di Annika di domenica, quando non c’erano le prove? Quindi lui può con quella, ma tu non con Rainer?» «Infatti gli ho scritto che, se lui trascorre il tempo libero con Annika, anch’io posso andare in giro con Rainer». Poi aggiunse in tono misterioso: «Oltre tutto ho passato un pomeriggio mooolto interessante con lui». Marta la fermò per un braccio e storse gli occhi: «Un momento! Mooolto interessante? Che cosa avete fatto?»

«Altre foto nella casa abbandonata». «Sì, sì, ma poi?» Allora Liesèl pose un dito là dove l’aveva baciata Rainer. Marta sgranò gli occhi: «No! Il buon Rainer… ha…» «Mi devi ancora raccontare com’è andata l’intervista con Giosuè», riprese Liesèl, tagliando corto, ed entrò nella saletta studio. Durante i compiti in sala studio capitava che ogni tanto una ragazza si alzasse per andare al bagno, al piano rialzato. Anche Liesèl a un certo punto si assentò, ma come era già accaduto a scuola, Annika la seguì e Liesèl, uscendo dalla cabina, se la trovò davanti. Con un movimento rapidissimo l’altra le serrò le braccia, spingendoci dentro le unghie, e disse minacciosa: «Tu devi toglierti dalla testa Dorian, hai capito? Io e lui stiamo insieme, chiaro?» Per qualche secondo Liesèl rimase a ridosso del lavandino contro il quale l’aveva spinta Annika, poi si liberò con uno scatto rabbioso. «Sei tu che devi lasciare in pace me!» ribadì, dandole delle spintarelle al petto. «E non dire scemate! Voi due non state insieme». «Invece sì!» gridò Annika, scuotendo i bei capelli di un biondo speciale. «Dorian mi ha domandato se voglio essere la sua ragazza e ho accettato!» E la fissò con i suoi occhi azzurri e gelidi, pieni di rabbia. Liesèl accusò il colpo e rabbrividì, ma il suo cuore si ribellava a ciò che le pareva una sfacciata menzogna. Tuttavia, cercando di restare calma, domandò: «Quando te lo avrebbe chiesto?» «Domenica», rispose Annika con molta sicurezza. «Abbiamo tanti interessi in comune, siamo i protagonisti di un’opera teatrale, andiamo d’accordo su tutto e…» Liesèl la interruppe: «Come posso credere che ti abbia chiesto di essere la sua ragazza?» «Te lo giuro», fu la pronta risposta. «Devi giurare su una persona alla quale sei molto legata». Sul viso di Annika passò un’ombra, come per uno scrupolo. Poi il suo sguardo tornò limpido: «Te lo giuro sul mio papà». Portò una mano al cuore e rafforzò: «Te lo giuro sulla vita di mio padre!» Per un momento, solo per un momento, Liesèl fu colta da un dubbio, poi si convinse che nemmeno Annika sarebbe stata capace di uno spergiuro così grave e sentì dentro un cedimento, unito a un dolore che le levò il fiato. Poi entrò Marta, che aveva notato Annika seguire Liesèl, e non si fidava.

«Fräulein Sofia chiede perché ci mettete così tanto!» le avvisò. «Arriviamo», rispose Annika per entrambe e uscì. «Cos’è successo?» domandò Marta. Liesèl sospirò. «Ma cos’è successo?» ripeté l’amica, impressionata. «Mi ha detto…» esordì a fatica, «mi ha detto che Dorian le ha chiesto di essere la sua ragazza». «Non ci credo», fece Marta d’acchito. «E allora il messaggio di gelosia di ieri sera?» «Forse ho frainteso», rispose Liesèl, sgomenta. «Sei sicura che Annika non ti abbia mentito?» «Ha giurato sulla vita di suo padre!» esclamò, disperata. «Ne parliamo dopo», propose Marta, «dobbiamo rientrare. Ma io di questa storia non ci capisco più niente». Dopo i compiti restava ancora del tempo libero prima della riunione, così Greta propose alle amiche di fare una passeggiata all’aria aperta perché aveva mal di testa. Le ragazze furono d’accordo. Ma avrebbero dovuto aspettare Marta che voleva chiedere qualcosa a Fräulein Josefine. A un certo punto Liesèl disse «Faccio un salto in bagno», e uscì. Non la videro tornare. Passarono dieci minuti, poi mezz’ora. Andarono a cercarla, ma non la trovarono da nessuna parte. Pensarono di avvertire l’educatrice, ma poi scartarono l’idea, perché lei certamente avrebbe allertato l’Heimvater e si sarebbe prodotta una grande confusione. «Andiamo in redazione», propose Marta, «così non si accorgono che c’è qualcosa di anomalo». Rimasero lì confuse, disorientate, anche un po’ spaventate. «Ma dove può essersi cacciata?» sospirò Michaela con le lacrime agli occhi. Allora Marta riferì dello scontro con Annika nella toilette. Furono incredule, scioccate. Doris si incollerì: «Che mascalzone! Così si è messo con quella non più per finta, ma seriamente. E tutto per tenersi la parte ancora più stretta. Che verme!» Erano quasi le cinque quando tornarono a cercarla dappertutto, ma senza risultato. Di nuovo in redazione si guardarono attonite. Cosa fare? A un certo punto Marta disse: «Restate qui, io avverto Rainer».

Lo trovò nella sala studio dei maschi. Lui la guardò sorpreso: «È successo qualcosa?» «Liesèl è sparita», disse sottovoce. «Come sarebbe a dire?» «Sparita, sparita. Dopo i compiti dovevamo uscire, lei ha fatto un salto in bagno ma non è tornata. Non abbiamo ancora detto niente a nessuno per non scatenare il caos. Vieni in redazione, le ragazze sono là, sconvolte». Rainer si sedette scuotendo la testa. «Non capisco, dove diavolo potrebbe essere? E per quale motivo lo sta facendo?» Allora Marta spiegò anche a lui ciò che era successo nella toilette e ciò che le aveva detto Annika. Lui rimase basito: «Dorian avrebbe chiesto ad Annika di essere la sua ragazza? Sarà una delle sue sporche menzogne!» «Annika ha giurato sulla vita di suo padre», disse Marta. A quel punto anche Rainer si convinse che Annika non avrebbe potuto spingersi fino a spergiurare. Tutti sapevano che adorava suo padre. «Ecco il motivo», annuì Rainer, ancora incredulo. «Ma dove potrebbe essersi nascosta? Avete controllato nel guardaroba se c’è il suo cappotto?» «Non c’è», confermarono. Rainer si alzò: «Mi è venuta un’idea. Restate qui e non fate nulla finché non sono tornato». In realtà avrebbe dovuto avvertire l’educatore, Herr Rudi, della sua uscita dal Seeburg, ma trascurò la regola e abbandonò l’edificio cercando di passare inosservato. Per fortuna a quell’ora del pomeriggio la maggior parte dei collegiali si trovava in sala giochi, o nelle salette studio. La giornata, sospesa tra gli ultimi sentori dell’inverno e le frizzanti fragranze dell’imminente primavera, era mite. Rainer si avviò con passo veloce verso il lago. Giunto in riva non c’era anima viva, solo un cane dal pelo arruffato che doveva essersi perso. L’animale si fermò, gli gettò uno sguardo diffidente, poi scappò via con la coda bassa imboccando il sentiero che conduceva a Seekirchen. Le case di vacanza erano deserte, mute. Ne costeggiò un paio, così come aveva fatto con Liesèl quando erano venuti insieme, poi riconobbe un cancello di ferro battuto che allora avevano trovato aperto, e lo era ancora. Entrò nella piccola proprietà sulla quale sorgeva una costruzione bassa dotata

di un minuscolo portichetto. La aggirò. Lei era seduta sul pontile con il suo cappotto rosso, quello che a Natale le aveva procurato una gioia enorme, e la voglia di mostrarlo subito a Dorian. Vedendoselo così all’improvviso davanti, lei fece un gesto irritato. «Vai via!» lo aggredì. Lui le si sedette accanto: «Io so tutto. Cosa credevi di fare scappando?» Quando girò il capo vide sul suo giovane volto un velo di stanchezza unito a qualcosa di nitido e potente: il dolore. Il dolore per la delusione di aver perso Dorian, e di averlo lasciato ad Annika. Proprio a lei! «A Natale non ho fatto che pensare a lui», disse tristemente. «E volevo che avesse la parte nella recita. Gli ho proposto la finta intesa con Annika perché… Sapevo che, se lei gli avesse fatto togliere il ruolo, avrebbe tanto sofferto e… e…» Si arenò. A un tratto lei gli parve piccola e indifesa nella sofferenza per il suo amore tradito. «Ti capisco», esordì. «Credimi, so ciò che provi. È successo anche a me e mi sembrava che finisse il mondo. Dicono che i ragazzi della nostra età non siano capaci di amare veramente, ma io non sono d’accordo. Ho vissuto un grande sentimento con tutto il mio cuore, e quando è finito ho creduto che anche la mia vita sarebbe finita. So cosa provi, Liesèl». Restarono per qualche momento in silenzio, e l’unico rumore era quello dell’acqua che sciabordava contro i piloni. «Parli di quell’amore con la ragazza più grande di te, la figlia del tuo maestro di pianoforte al tuo paese?» chiese lei. «Sì. Ci vedevamo ogni giorno. Stavamo male se non potevamo incontrarci per ventiquattro ore. Ma di colpo lei mi disse che la sua famiglia si sarebbe trasferita in un’altra città… avrebbero traslocato appena due giorni dopo. Rimasi male da morire. E così…» «E così l’ultimo pomeriggio siete stati insieme», Liesèl completò la frase. Glielo aveva raccontato lui la prima volta che erano andati a fare foto alla casa abbandonata. E aggiunse con rancore: «Dovevi spiegarmi che cosa intendevi dicendo siamo stati insieme, ma non hai mantenuto la parola. Dimmelo adesso!» Rainer scosse lentamente la testa: «Non posso». «Perché?» «È impossibile spiegarlo con le parole». Lei si incollerì, sentendosi trattata come una bimba dell’asilo.

«Io non sono così stupida come pensi. Posso capire benissimo che cosa significa la frase, cosa credi? Un’amica di Sankt Johann mi ha spiegato certe cose…» Tacque, rifletté, la fronte corrugata «Ma dopo…» domandò, il tono ansioso, «dopo… un ragazzo ama la ragazza di più?» «Dopo cosa?» Lei gli diede un colpo di gomito al fianco: «Lo sai cosa intendo!» Lui si alzò: «Dobbiamo rientrare, Liesèl, se scoprono che siamo usciti senza avvertire gli educatori, rischiamo una grave punizione». Anche lei era balzata su. La sua figura avvolta dal cappotto rosso si stagliava contro la facciata della costruzione, di un grigio sbiadito. Lo guardò dritto in faccia: «Tu pensi che Dorian faccia quella cosa con Annika?» «Ancora! Ma sei fissata!» «Perché no? Lei mi ha detto che Dorian le ha chiesto se voleva essere la sua ragazza. Forse è per questo motivo che lui preferisce lei a me!» «La tua fantasia sta correndo un po’ troppo», disse Rainer. «E, secondo te, dove lo farebbero? Mentre vanno alla palestra per le prove? Tornando a casa? Dentro il Seeburg nello sgabuzzino delle scope?» «Voglio una risposta!» gridò lei, smaniosa. Era diventata rossa in viso, le tremava la bocca. «Ho bisogno di saperlo!» «Basta!» lui si spazientì. «Stai dicendo troppe sciocchezze». All’improvviso lei gli stampò un bacio sulla bocca. «È così che due cominciano quando stanno insieme?» Lui arretrò, colto alla sprovvista: «Cosa stai facendo?» Poi la prese per un braccio e la trascinò energicamente sulla terra ferma e avanti verso il Seeburg. Lei si dimenò per tutto il tragitto, ma lui era più forte e non le parlò più finché non arrivarono al ponticello d’accesso. «E adesso prega che arriviamo al guardaroba senza che nessuno ci veda», si raccomandò e la spinse verso l’entrata. Ebbero una fortuna sfacciata. Riuscirono ad appendere i cappotti e a sgattaiolare in redazione. Ci fu un grande sollievo tra gli amici, che nel frattempo avevano anche chiamato Giosuè, ma quando Rainer riferì dove l’aveva trovata, si sollevarono voci di rimprovero. «Per uno che ti lascia per un essere ignobile come Annika tu scappi e

rischi di venire espulsa dal Seeburg?!» esclamò Marta duramente. «È proprio ciò che vorrebbe Annika», aggiunse Greta. «Non ci hai pensato?» «Io sono molto arrabbiata con te», dichiarò Doris. «Ci hai spaventati da morire, lo sai? Non sapevamo cosa fare, se avvertire Fräulein Josefine, ma lei avrebbe chiamato il direttore e puoi immaginare che cosa sarebbe successo!» «Io ho pianto…» disse Michaela e aveva ancora gli occhi umidi. A questo punto Liesèl si coprì il viso con le mani e a sua volta scoppiò in un pianto liberatorio. Più tardi in soffitta trovò una lettera di Dorian, ma la strappò senza leggerla. La mattina seguente in refettorio, appena si accorse che Dorian cercava il suo sguardo, cambiò posto con Marta in modo da rivolgergli la schiena. Martedì al ritorno da scuola Rainer fu chiamato nell’ufficio del direttore. Era arrivato un pacco dai suoi contenente una enorme Sacher torte accompagnata da una lettera che lo informava di avere vinto il concorso fotografico per le immagini scattate nella casa abbandonata. C’erano anche tre copie della rivista sulla quale erano pubblicate le sue foto. Ne regalò una al direttore. I genitori scrivevano inoltre che il premio comprendeva anche una piccola somma di denaro che gli avrebbero consegnato quando sarebbe tornato a casa a Pasqua. Rainer decise di organizzare una festicciola, quella sera in redazione, tagliando insieme la torta. Il direttore nel primo pomeriggio scese e appese sulla bacheca la rivista, con la pagina delle foto di Rainer aperta, e offrì al gruppo tre bottiglie di aranciata per annaffiare il dolce. Non vedevano l’ora di finire i compiti e addentare un pezzo di Sacher torte! Si erano accordati per anticipare di un’ora la solita riunione. Rainer aveva provveduto a rifornirsi in cucina di un coltello da dolce, di bicchieri, piattini e cucchiaini. Ci fu un’atmosfera allegra, spensierata. Fecero i complimenti a un felicissimo Rainer, poi lui tagliò la torta e la distribuì agli amici. Mise anche da parte due fette per l’Heimvater e la moglie, una per Fräulein Josefine e una per l’educatore dei maschi, Herr Rudi. Giosuè, Michaela e Jutta dichiararono di non aver mai mangiato prima la Sacher torte e se la godettero. Si divertirono, ma d’improvviso si aprì la porta e, senza aver bussato, entrò… Annika.

Avanzò rapida lungo le sedie sulla destra per raggiungere Rainer. Gli cinse da dietro le spalle, accostò la guancia alla sua ed esclamò: «Congratulazioni, sei un artista! Bravo!» La cosa avvenne talmente a sorpresa che per un attimo i ragazzi rimasero di sale. E anche Rainer ci mise qualche secondo prima di saltare in piedi e respingere Annika. «Sei impazzita?» Ma lei, come sempre, quando era convinta che una cosa tornasse a suo vantaggio, fece la voce dolce: «Volevo complimentarmi con te! Ho visto le tue foto sulla rivista in bacheca e mi sento così orgogliosa di esserti amica!» Rainer rispose, gelido: «Ma io non voglio essere tuo amico». Lei assunse un’espressione di addolorato sdegno: «Vuoi dire che rifiuti la mia amicizia?» «Esattamente», lui ribadì. «E ora fammi il piacere e lasciaci soli, nessuno ti ha invitata». Cominciò a spingerla verso la porta. Ma lei riuscì a svincolarsi e, rivolgendo un’occhiata di spregio a Giosuè, disse: «Tu non vuoi la mia amicizia, ma la regali a tipi come quello!» «Come quello… cosa intendi?» chiese Rainer. Lei non si fece tirare fuori la risposta: «Con un ebreo!» Tutto il gruppo balzò in piedi, sdegnato, ma Rainer prese il primo bicchiere pieno che trovò sul tavolo e le gettò il contenuto in faccia. Ora anche lei era rimasta di stucco. Il liquido stava tingendo di arancione il suo elegante pullover bianco di lana d’angora. Quando si fu ripresa dallo shock, cominciò a strillare: «Ora salgo dal direttore e ti denuncio! Non puoi trattarmi così! Non te lo permetto!» «Bene», rispose Rainer di rimando, «salgo con te e riferisco al direttore che abbiamo al Seeburg niente di meno che una razzista! Sai come lui la pensa a riguardo, vero?» Per qualche secondo le mancò la parola, annaspò come un pesce fuor d’acqua, poi berciò: «Ti odio! E sai una cosa? Tu non sei nessuno, nemmeno avendo tutte quelle foto sulla rivista! E non sono nemmeno belle! Tu non sei nessuno, capito?» Finalmente uscì, levandosi dai piedi.

24

Liesèl conosceva la sofferenza, l’aveva provata a Berlino durante la guerra, per essere stata abbandonata dalla madre, rifiutata dalla matrigna, e non amata dal padre, e ora la stava subendo per un sentimento tradito. La grande delusione sembrava sovrastare la sua vita come un’ombra greve. Seguì un periodo ambiguo. Dorian per qualche tempo lasciò ancora messaggi nel suo armadietto, ma lei li strappava senza leggerli. Un pomeriggio, uno dei pochi in cui non era fuori con Annika per le prove, lui spuntò come un fantasma da dietro un angolo e le serrò un braccio. Lei stava salendo dal direttore per chiedere del denaro, doveva comprare un nuovo pettine perché l’altro si era spezzato. «Cosa vuoi da me?» lo assalì, furiosa. «Devo parlarti», disse lui in fretta. Aveva l’aria tesa. Ci fu un momento in cui lei sentì come un sussulto dentro, un riaccendersi dell’amore che aveva provato per lui, ma poi si lasciò andare a un impeto di collera. «Lo dirò all’Heimvater che mi hai aggredita sulle scale!» urlò, e si liberò dalla sua presa precipitandosi su per i gradini. Lui rimase basito dalla frase cattiva. Liesèl non poteva credere che lui fosse il tipo da aggredire qualcuno, tanto meno lei! Di ritorno dal direttore, al quale tuttavia non parlò dell’episodio, al primo piano incrociò Rainer che stava entrando in sala giochi. Gli fece un cenno d’intesa e proseguì, ma lui la chiamò: «Aspetta!» La raggiunse: «Che c’è?» «Perché?» «Hai una faccia…» Allora lei gli raccontò del brutto incontro con Dorian e le spuntarono le lacrime: «L’ho trattato da bruto!» «Non capisco cosa voglia ancora da te», commentò lui, stupito.

«Ci vediamo più tardi in redazione», tagliò corto lei, non aveva voglia di intavolare un discorso su Dorian. «Vieni su con me», le propose Rainer. «Su dove?» «In sala musica». «Per fare che?» Ma lui l’aveva già preceduta. «Uffa…» lei sbottò, ma lo seguì. Si respirava un’aria tranquilla in quella stanza, emanava una calma imperturbabile, benefica. C’erano un violino, due fisarmoniche e uno Steinway. Là dentro si svolgeva l’attività fra insegnanti e allievi che condividevano lo stesso amore per un’arte che da sempre affascina l’uomo, anche se ogni individuo ne è attratto in maniera diversa. «Allora?» fece lei. «Ti suono qualcosa, dopo starai meglio». «Ma io sto bene!» «No. Hai ancora la testa piena di Dorian. La musica libera la mente dai brutti pensieri». «Lo ha detto sempre tuo nonno?» domandò lei con lo stesso tono ironico che aveva usato l’ultima volta che erano stati alla casa abbandonata. Rainer non raccolse, accese la lampada sul pianoforte, spense la luce centrale, si sedette e le fece cenno di mettersi accanto sul panchetto. Lei indugiò. All’improvviso si sentiva di nuovo insicura dinnanzi a questo ragazzo che sembrava cambiare a seconda delle circostanze. C’era il collegiale con l’Agfa che amava immortalare le tracce impolverate di persone vissute in case ormai fatiscenti, e il collaboratore del giornalino che scriveva racconti dotandoli di illustrazioni a tempera. Per diventare infine il ragazzo che una volta alla settimana prendeva lezioni di pianoforte e ora voleva suonare per lei per farla sentire meglio… Era ancora Chopin. E successe anche questa volta: la musica le toccò l’anima. Chiuse gli occhi e si abbandonò alle dolci emozioni. Quando li aprì fu presa come da un senso di stordimento, un rammarico così forte che posò una mano sul suo braccio. Lui si fermò: «Che c’è?» In quei riflessi morbidi i suoi occhi erano scurissimi e i lineamenti, benché un poco acerbi, incredibilmente belli. «Perché non posso avere un ragazzo come te?» lei sospirò e non si rese conto della cosa inaudita che aveva pronunciato. Lui tacque per qualche istante, colto alla sprovvista. Poi estrasse dal

taschino della camicia un foglio e le mostrò la firma. «Valentine?» «Sì», annuì. «È… lei?» «Scrive che trascorrerà le prossime vacanze estive a casa dei suoi nonni che continuano ad abitare al mio paese». Le sue parole vibravano di gioia, della felice speranza che la storia con quella ragazza più grande di lui potesse avere un seguito. Liesèl si sentì un poco stupida, ridicola. «Ma io rimango tuo amico», lui la rassicurò e le diede un buffetto sulla punta del naso. Poi rimise le mani sui tasti e riprese: Beethoven, moonlight sonata. Più tardi in redazione Liesèl cominciò a impostare il secondo numero dell’Eco del Seeburg, facendo rinascere in tutti l’entusiasmo, lo stimolo della fantasia e la gioia della creatività, il senso di unità e amicizia. C’era il materiale dell’intervista che Marta aveva fatto a Giosuè, e dal quale intendeva trarre un racconto testimoniale simile a quello che aveva realizzato con Herr Tobias. Era salita dal direttore per chiedere consigli su come affrontare il tema al meglio, e lui le aveva prestato un fascicolo che documentava il destino degli ebrei austriaci sotto la dittatura hitleriana. Tra gli ebrei viennesi ci furono molti personaggi noti, come i banchieri Rothschild, i medici e psicologi Sigmund Freud e Alfred Adler, gli scienziati Adolf Lieben e Robert von Lieben, i compositori Gustav Mahler e Arnold Schönberg, gli scrittori Hugo von Hofmannsthal, Karl Kraus, Joseph Roth, Arthur Schnitzler e molti altri ancora. Dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, le leggi razziali furono subito applicate e iniziò un grande esodo di ebrei nei paesi ritenuti più sicuri, prima che fosse troppo tardi. La famiglia di Giosuè, padre ariano e madre ebrea, in base alle Leggi di Norimberga era stata classificata come «unione mista», quindi considerata privilegiata. Commisero però il fatale errore di confidare nell’iniziale protezione di un cugino di suo padre, che aveva aderenze politiche con il regime hitleriano austriaco. Dopo l’Anschluss, il nazismo vissuto da vicino si rivelò quasi subito una delusione, perché non avrebbe risolto né i problemi della disoccupazione né quelli della stagnante economia. Hitler aveva solo bisogno degli austriaci per

la sua guerra, che iniziò un anno dopo. Quando il popolo si sentì trascinato nel secondo conflitto mondiale, l’iniziale euforia cominciò rapidamente a scemare. Vivevano a Vienna, il padre aveva una farmacia, ma nel 1940 fu sequestrata per essere data a un imprenditore ariano. Giosuè era nato nel 1938 e aveva un fratello, Natan, di quattro anni più grande. Ricordava che più volte il fratello era tornato dalla scuola ebraica con un occhio pesto e coperto di lividi, risultato di brutali pestaggi da parte di gruppi di ragazzini ariani. Infine, malgrado qualche debole tentativo del parente di impedirlo, un giorno fu sequestrato anche il loro appartamento nel centro di Vienna, che dovettero cedere a un prezzo da fame. Si trasferirono in un alloggio camera e cucina all’estrema periferia della città. Il padre era ormai senza lavoro e la madre andò a fare clandestinamente le pulizie presso un’abbiente e caritatevole famiglia viennese. Nathan smise di frequentare la scuola ebraica perché venne chiusa. Il nuovo appartamento, situato all’ultimo piano di un tetro casermone abitato da famiglie di operai e diversi nuclei di «unioni miste», era buio e angusto, i ragazzi dormivano in cucina su un vecchio divano comprato usato. Dabbasso si accucciava un cortile squallido, ma in quel misero e polveroso posto dai colori di fuliggine e pece, i bambini degli abitanti ariani picchiavano i ragazzi ebrei e Giosuè, a causa di una di quelle risse, subì una grave riduzione della capacità visiva dell’occhio sinistro. Quando una sera in redazione Marta accennò a grandi linee alla storia di Giosuè, rimasero tutti molto colpiti. Lui ascoltò con quella sua espressione distaccata, come se fra la sua coscienza e i presenti ci fosse un muro divisorio di protezione. A Liesèl, ancora fragile per la rottura con Dorian, venne un attacco di pianto al quale si unì Michaela. Dopo che le due si furono calmate, Marta propose di raccontare il resto il giorno seguente, ma Liesèl voleva sentirlo subito. Anche Michaela era d’accordo. La cucina del piccolo appartamento aveva un soffitto insolitamente basso e il padre di Giosuè scoprì che era fatto di legno e aveva un vano soprastante. Se mai aveva avuto un accesso, era stato eliminato. Tormentato dalla precaria situazione della sua famiglia, dalle sconfortanti prospettive per il futuro e dalla crescente paura della Gestapo, l’uomo si distrusse nella folle speranza di poter salvare almeno la vita dei figli. Sapeva

da fonti clandestine che migliaia di ebrei erano già stati deportati nei ghetti in Polonia o in campi di concentramento, fra gli altri anche importanti funzionari della comunità ebraica austriaca. Il Paese si trovava in un clima perverso nel quale si contrapponevano fazioni differenti: vittime e persecutori, resistenza e funzionari austriaci passati alle SS, fanatici nazisti e ufficiali imprigionati per aver tentato di salvare l’Austria dalla furia distruttrice della guerra di Hitler. Il padre di Giosuè si mise all’opera e creò un piccolo soppalco nel soffitto per nascondere i figli quando fosse venuta la Gestapo. Riuscì a mimetizzarlo così bene che solo chi ne era a conoscenza avrebbe potuto accorgersene. Bastava mettere una sedia sul tavolo per raggiungere la botola. Accadde di notte. Arrivarono, senza il solito chiasso e abbaiare di cani, verso le due, e suonarono. Due colpi secchi. La madre e il padre balzarono dal letto e corsero in cucina. Misero una sedia sul tavolo e Giosuè riuscì a salire. Ma Nathan, dall’agitazione, fece cadere la sedia e crollarono a terra entrambi. In quel momento gli uomini della Gestapo abbatterono la porta, fecero irruzione nella cucina e Giosuè di sopra chiuse istintivamente la botola. Ci rimase per il resto della notte e l’intero giorno seguente, in preda al terrore. Finalmente alla sera trovò il coraggio e saltò giù. Vide molto sangue sul pavimento dove doveva essere caduto il fratello e fuggì dall’uscio sfondato. Suonò dai vicini di casa, una famiglia di operai di animo buono e solidale, che lo portarono, al buio, a un vicino convento dove le suore lo accolsero. Rimase con loro fino alla fine della guerra. In seguito un ufficio, che si occupava di orfani, lo diede in affidamento a una coppia di mezza età, che lo mandò alla scuola pubblica. Erano brave persone, discrete e affettuose. Ma poi il padre adottivo morì e la moglie si ammalò e quindi non poteva più occuparsi di lui. Così la donna lo iscrisse al Seeburg perché continuasse, accudito e in compagnia di coetanei, la scuola media. Giosuè diede il tocco finale al racconto. «Avevo cinque anni, ma le suore cominciarono subito a insegnarmi a leggere e scrivere. Io stavo bene con loro, c’era un giardino chiuso e mi sentivo fortunato e protetto. Non mi accorgevo della guerra, a parte qualche incursione aerea sulla città vicina. Avevo rimosso il ricordo dei miei genitori e di Nathan. Le persone alle quali ero stato affidato fecero qualche ricerca, ma trovarono solo la vedova di un fratello di mio padre con il quale lui si era

scambiato alcune lettere». Fece una pausa, le mani intrecciate sul tavolo. «Le suore non mi costringevano mai a pregare con loro», proseguì infine in un tono di stima e riconoscenza. «Io pregavo da solo nella mia stanza. Dicevano che mi ero salvato per miracolo. Quelli della Gestapo sapevano sicuramente che dovevano arrestare due genitori e due figli, ma la caduta di mio fratello e le sue grida dovevano averli distratti. Urlava in un modo così… così…» Si arrestò. Per un po’ rimase immobile, il viso senza espressione, come se avesse chiuso il dolore dietro le palpebre serrate. Era giunta la primavera e il sole creava un luccichio così abbagliante sul lago che sembrava disseminato di diamanti. C’era un caldo anomalo per la stagione, e qualche collegiale esuberante andava a scuola indossando camicie a mezza manica. Ma furono costretti a ricredersi quando a metà mese arrivò un forte abbassamento della temperatura e al Seeburg tirarono fuori di nuovo le coperte pesanti. All’ora di attività manuale, ormai tutte le ragazze avevano terminato il loro lavoro, e anche i pantaloni alla pescatora di Liesèl erano finiti. L’insegnante, Frau Wimmerstein, diede il voto a ciascuna alunna per il lavoro svolto, e le sartine in erba poterono finalmente portarsi a casa la propria creazione. Un giorno, dopo i compiti, le compagne del gruppo decisero di fare una passeggiata al lago e Liesèl indossò i suoi pantaloni, abbinati a una maglia leggera azzurra. Non aveva molte maglie nell’armadietto, ma quella era ancora presentabile. Le amiche la prendevano un poco in giro, ma affettuosamente. Quei pantaloni le stavano alla perfezione, davano slancio alle sue gambe e garbo ai suoi fianchi, ancora acerbi. Quando si trovarono appena fuori dal ponticello d’accesso incontrarono Annika e Dorian. Era un mercoledì, e non avevano l’impegno delle prove. Lui aveva in mano la Leica e lei, appena vide Liesèl con i pantaloni, si mise a strepitare: «Dove vuoi andare vestita da spaventapasseri?» Mentre era ancora piegata dal ridere, Dorian le gridò: «E chiudi quella bocca per una volta!» Poi inquadrò Liesèl e le scattò una foto. Annika si drizzò, gli gettò uno sguardo incredulo e, offesa a morte, rientrò al Seeburg. Le ragazze non sapevano come interpretare la scena e preferirono avviarsi verso il lago.

«Curioso», commentò Marta, strada facendo, dando con la punta della scarpa un calcio a un sasso. Liesèl le gettò uno sguardo interrogativo. «Che ti abbia fatto la foto». Michaela, che era molto carina nel suo vestito a farfalline viola con sopra un giacchino di lana blu, disse: «Io so il motivo». «Ha parlato la nostra veggente», fece Doris. «Perché le vuole ancora bene», rispose l’altra, serissima. Jutta si aggregò: «Anch’io lo penso». Liesèl andò avanti, poi si girò ed esclamò: «A volte siete così sceme!» Lavorarono sodo al nuovo numero dell’Eco del Seeburg, e la cosa più bella era l’armonia che si era di nuovo creata tra il gruppo. L’appuntamento serale nella redazione rappresentava per tutti un solido punto di riferimento, pure Giosuè si era inserito molto bene e proseguiva a copiare, sulla carta originale, il suo racconto sul tempo trascorso al convento con le suore. Anche lui, come già Marta, aveva pregato l’Heimvater di dare un’occhiata al testo per evitare errori ed espressioni inappropriate. Un giorno la classe di Liesèl e Marta ottenne il permesso di assistere alle prove di Intrigo e amore, che ora si svolgevano sul palcoscenico del teatrocinema. Liesèl fu rapita dalla bravura con la quale Dorian interpretava Ferdinando, l’innamorato di Luisa Miller, e una fiammata di rinnovati sentimenti le disturbò il sonno per diverse notti. Tuttavia non poté non ammirare anche la recitazione di Annika, che affrontava il ruolo di Luisa con una forza incredibile, con una naturalezza che non le apparteneva nella vita reale in cui enfasi ed esaltazione facevano da padrone. Ancora una volta Liesèl fu costretta a scindere il giudizio tra la Annika che, fin dal primo giorno, aveva fastidiosamente incrociato la sua via, colpendola con atti di crudeltà e cattiveria, rubandole infine anche il ragazzo che adorava, e quella peste che eccelleva in molte cose, stemperando così la valutazione negativa sulla sua persona. Ma non le avrebbe mai perdonato di essersi accaparrata Dorian! Sì, perché quando lui, a Natale, sul treno che li conduceva verso casa, le aveva chiesto: «Vuoi essere la mia ragazza?» – il suo «Sì» non era stata solo un’affermazione di gioiosa soddisfazione, ma il compimento di un sogno che aveva coltivato durante i primi mesi della sua permanenza al collegio. Era amore il suo? Sapeva solo che continuava a tremare dentro appena sapeva Dorian nelle

sue vicinanze; appena al mattino, per pranzo o a cena, lo vedeva entrare nel refettorio, anche se poi restava con la schiena rivolta al tavolo di Annika, ed era meglio così. Altrimenti non avrebbe smesso di guardare nella sua direzione. Si era ormai vicini alle vacanze di Pasqua. Una domenica pomeriggio Liesèl e Dorian furono chiamati nell’ufficio del direttore. Lei giunse per prima e aspettò agitata l’arrivo di lui. Il direttore domandò se anche questa volta, come in occasione delle vacanze natalizie, volessero tornare a casa con il medesimo treno, visto che erano diretti nella stessa direzione. Dorian rispose, risentito: «Veramente io vorrei restare al Seeburg. Non ho voglia di vedere mia madre insieme a quel tipo che sposerà, io quello proprio non lo sopporto». Ma l’Heimvater riuscì a convincerlo che la sua ribellione era infantile e ingiusta, sua madre era ancora giovane e aveva ogni diritto di rifarsi una vita con un altro uomo. Avrebbe forse voluto rischiare, con il suo atteggiamento ostile, di perdere l’amore di sua madre? Non era lei la persona più importante della sua vita? Usava un tono così affettuoso che Dorian depose le armi. Infine il direttore si rivolse a Liesèl: «La tua matrigna ha telefonato dicendo che purtroppo ha una caviglia slogata, per cui dovrai tornare a Sankt Johann da sola. Ma penso che non ci sia alcun problema, non è vero?» «No», confermò lei. L’Heimvater chiese dunque se fossero d’accordo di prendere quel treno insieme. Entrambi confermarono. Non avevano il coraggio di rifiutare, spiegandone il motivo. Il direttore rappresentava per tutti i collegiali un’importante figura di riferimento paterno, ma in realtà non tutto si può confidare a un padre! Arrivò l’ultimo giorno di scuola e quello della grande partenza. Il gruppo del giornalino si salutò. Ma si sarebbe trattato solo di una separazione di sette giorni. Quando a Natale Dorian e Liesèl erano partiti insieme, nevicava furiosamente, questa volta invece veniva giù una pioggia scrosciante. I due ragazzi si avviarono verso la stazione, seri e muti, sebbene riparati sotto lo stesso ombrello. Il convoglio arrivò puntuale. Si trovarono tra una giovane madre con un ragazzetto che piagnucolò per

tutto il tempo, e un signore con addosso un loden sbottonato e in testa un cappello tirolese ornato di cordini verdi intrecciati. Scesero a Salisburgo, c’era parecchia gente in giro. Liesèl, ignorando Dorian, si diresse solerte verso il binario sul quale sarebbe arrivata la coincidenza, ma lui restò al suo fianco e le rammentò: «Il direttore voleva che partissimo insieme perché tu non dovessi viaggiare da sola». «Così saresti il mio angelo custode?» fece lei, beffarda. «Come sei stupida», la liquidò. Il treno giunse con le fiancate grondanti di acqua piovana. Non era molto pieno e anche questa volta trovarono da sedere, due posti che li costrinsero a essere uno di fronte all’altra. Liesèl era nervosa, e le prese la solita tremarella per la vicinanza di Dorian. Evitò di guardarlo, fissando fino alle lacrime la borsetta di una ragazza a righe bianco-nere con in mezzo applicata una rosa rossa in pelle. A un certo punto non ce la fece più, la tensione era diventata insopportabile. Si alzò e si spostò nel corridoio. Fuori scorreva la campagna avvolta da una nebbia così fitta e opaca che i ciliegi in fiore sembravano sudari di lutto. Giunsero alla fermata di Werfen. Ed ecco che le tornò il batticuore, perché entro una ventina di minuti sarebbero arrivati a Bischofshofen, dove lui avrebbe dovuto scendere. A un tratto lo sentì accanto. Un signore passò e nello spazio ristretto li spinse l’uno contro l’altra. I minuti correvano veloci, lui guardò l’orologio. «Io non sto con Annika», disse all’improvviso. Erano appena usciti da una galleria e la frase suonò come uno scoppio minaccioso. Lei si girò: «Tu non stai… cosa?» «Non sto con Annika». «Ma… ma lei ha giurato sulla vita di suo padre che tu le avevi chiesto se voleva essere la tua ragazza!» «Questo io non lo sapevo», dichiarò lui, sostenuto. «E non capivo per quale motivo tu non rispondessi più alle mie lettere». Liesèl annaspò: «Io stracciavo le tue lettere perché tu ti eri messo con Annika!» «Non mi ero messo con Annika!» ripeté lui, battendo il palmo sul vetro del finestrino. «Io ero convinta che… che lei avesse detto la verità!» Liesèl balbettò,

stravolta, sgomenta. «Avresti dovuto chiedermelo!» dichiarò lui, severo, e consultò di nuovo l’orologio. «Sono quasi arrivato». Allora lei lo implorò, presa dal panico: «Dimmi solo una cosa, ma tu davvero non le hai chiesto…» «Devo andare», disse lui e tornò dentro. Si infilò il giubbotto, prese la valigia dal portabagagli, le rivolse un gesto d’addio e si avviò verso l’uscita. Il treno si fermò. Vocio, porte che sbattevano, infine il fischio per la partenza. L’improvvisa assenza di Dorian le esplose dentro come un lampo violento e silenzioso.

25

La stazione Sankt Johann era avvolta in un alone grigio e freddo. Il padre venne a prenderla e anche lui aveva un aspetto grigio e infreddolito nel suo impermeabile color antracite. La accolse con il solito gesto impacciato, posandole una mano sulla spalla: «Eccoti arrivata, com’è andato il viaggio?» «Bene, papà». Lui prese la valigia e si avviarono. Diluviava. Imboccata la Bahnhofstrasse, il padre aprì un voluminoso ombrello nero, e lei il suo, più piccolo e verde chiaro, che aveva comprato a Seekirchen quando in autunno erano cominciate le giornate di pioggia. «Tua madre si è slogata una caviglia», le confermò, «dovrai essere gentile e darle una mano in casa. Me lo prometti?» «Sì. E Lukas?» «Lui sta bene. Ha portato il giornale con il vostro articolo a scuola per mostrarlo ai compagni di classe. È molto orgoglioso di te. Spero che quella foto non ti abbia fatto montare la testa». Sembrava che avesse guardato solo la foto senza aver letto il testo. Lei si sentì delusa, ma non volle insistere. Quando si trovarono all’altezza del podere dove Irmi usava prendere il latte, il padre disse: «La tua amica ha avuto qualche problema. Un pomeriggio è arrivata in taxi con un uomo e si sono sentite grida e improperi dalla sua abitazione. Da allora è sulla bocca di tutti». Liesèl rimase senza parole. Giunti a casa Lukas le saltò al collo, mentre la matrigna li attendeva in soggiorno. Era seduta sul divano con la caviglia fasciata. Liesèl si abbassò e la baciò sulla guancia. Rialzandosi ebbe per un attimo una sensazione precisa come se non fosse tornata dalla sua famiglia, ma in un contesto anonimo. Ma subito il fratello la trascinò via, pilotandola nella sua stanza.

«Guarda!» In una cesta di vimini imbottita stava acciambellato un gatto. «Si chiama Moritz ed è un maschio!» spiegò il ragazzino. «Di notte dorme con me. È buonissimo e così pulito». Liesèl si chinò e lo accarezzò sulla schiena. Il micio aprì gli occhi e fece un miao di saluto. Era un esemplare piuttosto grosso, macchiato di bianco e nero con bellissimi occhi azzurri. «Mamma prima non lo voleva», raccontò, «ma poi anche lei si è affezionata. Io lo desideravo per il mio compleanno e papà lo ha comprato di nascosto, e così lei è stata costretta ad accettarlo». Si sedettero sulla sponda del letto e parlarono ancora un poco di Moritz. Lukas tenne a precisare che solo lui se ne occupava in tutto, come se volesse legare l’animale a sé in un rapporto stretto ed esclusivo. Poi discussero dell’articolo pubblicato sul giornale regionale. «L’ho fatto vedere alla mia classe!» esclamò, raggiante. «Sono rimasti tutti a bocca aperta. Ormai sei famosa! E adesso nella mia scuola sono un po’ famoso anch’io». Ridacchiò con evidente orgoglio. A un tratto Moritz saltò sulle ginocchia di Liesèl. Questo causò in Lukas una reazione di gelosia, che tuttavia riuscì a dominare. «E quella Petra con la quale ti scambiavi i bigliettini?» lei lo distrasse. Lui emise uno sbuffo di collera: «Mi ha tradito! Si è messa con quel riccone di Harald Lobeck! Lui è pure brutto con le orecchie a sventola. Non capisco come possa piacerle!» Aveva la faccia delusa. «E non ti scrivi più con nessun’altra?» chiese lei, dispiaciuta per il dolore del fratellino. «No!» esclamò, sdegnato. «Lei è la più bella di tutte!» Sembrava che questa strana unione tra la più bella e il più brutto l’avesse colpito al punto da fargli rifiutare, per ora, nuove simpatie e corrispondenze con altre ragazzine. «Ridammi il gatto!» disse poi perentorio. Liesèl glielo allungò e lui lo strinse a sé con un gesto possessivo e soddisfatto. «Moritz è solo mio», dichiarò, serio. Sentirono la voce della matrigna che reclamava Liesèl. Liesèl si dimostrò volenterosa e disponibile. Aiutò a preparare il pranzo e finalmente tutti si riunirono attorno al tavolo. Attirato dall’odore del cibo, si presentò anche Moritz, facendo gli occhioni imploranti, ma Lukas disse, severo: «Tu hai già mangiato, torna alla tua cuccia!» Naturalmente il gatto

ignorò fieramente il comando. Alla fine Liesèl lavò i piatti e Lukas li asciugò. Il padre elogiò entrambi, cosa assai rara per lui, poi si ritirò in camera insieme alla matrigna per un riposino. Liesèl, stuzzicata da ciò che aveva sentito su Irmi, decise di andarla a trovare. Appena entrata nell’appartamento avvertì un’atmosfera pesante. La signora, che l’aveva sempre salutata familiarmente, le disse in tono infastidito, come se lei stessa fosse parte del problema: «Solo mezz’ora, mia figlia è in punizione!» Irmi si affacciò sul corridoio e, gettando uno sguardo ostile alla madre, trascinò l’amica nella sua stanza. Accennò a una sedia e si accasciò come un sacco vuoto su uno sgabello. «Mio padre ha detto che hai avuto dei problemi», accennò Liesèl, cauta. «Problemi? Una tragedia», rispose l’altra con una voce che sembrava uscire dall’oltretomba. «Cioè? Quale tragedia?» «Ti avevo raccontato del mio ragazzo, ricordi?» «Sì, Achim. Con il quale ti vedevi il sabato pomeriggio nel garage dei suoi». «Di solito il sabato pomeriggio i genitori vanno fuori Sankt Johann per fare visita a dei parenti», spiegò, la voce tremolante, «ma questa volta…» Si tormentò le mani, molto agitata. «Ma questa volta?» «Un maledetto guasto a metà strada con la loro maledetta Volkswagen!» «E allora?» «Sono tornati in anticipo! E mentre eravamo nella macchina del bisnonno… ricordi?» «Sì… facendo quella cosa». Irmi saltò su: «Lo hai detto con cattiveria!» «Non è vero». «Lo hai detto con l’arroganza della santarellina che disprezza le ragazze emancipate come me!» «Emanci… cosa?» «Lascia perdere. Mentre stavamo… insomma, hai capito, all’improvviso si è spalancata la portiera e c’era il padre di Achim che gridava come un matto: ‘Schifosi! Depravati!’ Mi ha tirata fuori prendendomi per i capelli.

Achim è sceso dall’altra parte. Ci ha menati entrambi, quel bruto, poi mi ha portata a casa con un taxi. Spaventando a morte i miei!» «Santo cielo…» fece Liesèl con un brivido. «Quell’energumeno ha accusato mio padre di essere un cattivo soggetto che non sorveglia abbastanza una figlia che si comporta come… una di quelle! Ha raccontato come ci aveva trovati, seminudi, hai capito? Si è fatto giurare che i miei genitori mi avrebbero tenuta casa e scuola fino alla fine dell’anno scolastico!» «E loro?» «Mio padre ha promesso che mi avrebbe custodita come se fossi una prigioniera. E dopo che quel bruto se n’è andato, mi ha menata pure lui! Ti sembra giusto tutto questo solo perché io amo Achim? Perché io lo amo, capisci? Mi credi?» Liesèl esitò. Provava pena per l’amica, era molto cambiata da quando l’aveva vista l’ultima volta a Natale. I capelli arruffati, la faccia bianca, indossava una maglia chiara piena di macchie di inchiostro. «Che brutta storia», commentò infine. «Ma forse i grandi non possono comprendere che…» «Non possono comprendere cosa?» esclamò Irmi, furiosa. «Che ci si può innamorare seriamente alla nostra età? Che alla fine si fanno anche queste cose con il proprio ragazzo?» Liesèl non sapeva cosa rispondere, era molto turbata. Irmi saltò in piedi e, con gli occhi fuori dalle orbite, strillò: «Ho capito, anche tu la pensi come tutti gli altri! Che sono una di quelle, senza morale. È vero? Ammettilo!» Liesèl era in difficoltà: «No, non lo penso ma…» «Bugiarda! Tu pensi proprio questo, che sono una sgualdrina. E allora vattene, non voglio più vederti! Non siamo più amiche. Sparisci!» E la spinse letteralmente fuori dalla porta. La madre nel corridoio chiese: «Cos’è successo?» Liesèl scosse solo la testa, stravolta, e scappò via. Più tardi il padre chiese: «Allora cosa ti ha raccontato Irmi?» «Non ho capito bene…» tentò di scantonare Liesèl. «Abbiamo litigato. Devo ancora svuotare la valigia». «Ti do una mano», si offrì Lukas. Filarono nella stanza di lei con il gatto dietro. Liesèl aiutava in casa, per il resto si tratteneva spesso nella camera di

Lukas. Parlavano molto. Il fratello cominciava ad avere un’età in cui pretendeva delle risposte, ma palesemente non le riceveva né dal padre né dall’amata mammina. Nemmeno la sorella tuttavia sapeva dargliele, benché fosse più grande di lui e addirittura ormai esperta nel prendere dei treni da sola. Ma al di là del fatto di essere brava a viaggiare sola, dopo aver ascoltato la storia di Irmi si sentiva spiazzata. Si domandò: ciò che l’altra aveva concesso al suo ragazzo perché lo amava, anche se in realtà non capiva fino in fondo di cosa si trattasse, era davvero così deplorevole da scatenare tanta rabbia negli adulti? Una volta, un pomeriggio caldo e assolato, i fratelli fecero una lunga passeggiata fermandosi poi alla cava di ghiaia dove c’era un piccolo chiosco. Lukas con la sua paghetta le offrì una Coca-cola e i due fratelli si misero a sedere sotto un pergolato come fossero dei grandi. «E ti trovi sempre bene al Seeburg?» domandò lui. «Sì, molto», rispose. «Non pensi più che la mamma abbia voluto mandarti in collegio perché non ti vuole bene?» Liesèl rifletté, poi rispose, onesta: «Anche se avesse voluto mandarmi via perché non mi vuole bene, sono contenta che lo abbia fatto. Al Seeburg sono felice». Per un istante pensò che Lukas le avrebbe posto la famosa domanda, se la matrigna fosse o no la loro vera madre, ma non accadde. Ne fu quasi sollevata. Forse non era ancora arrivato il momento giusto. Pasqua passò in fretta, tra uova colorate e qualche pranzo di festa. Liesèl si rivelò molto utile alla matrigna che non trovò nessun pretesto per litigare. Al di là di questo, la ragazza pensava quasi ininterrottamente a Dorian. Il distacco sul treno era avvenuto in un modo così brusco e triste da averle lasciato dentro un dolore sordo. Tornata al Seeburg avrebbe dovuto assolutamente chiarirsi con lui! Liesèl ripartì la domenica successiva nel primo pomeriggio, il tempo era incerto. Il genitore e il fratello l’accompagnarono alla stazione. Il padre fu insolitamente espansivo, la ringraziò per essere stata così disponibile in casa. Ma Lukas pianse. «Ritorno in giugno», lei lo consolò. «Sono solo due mesi. Poi andiamo dai nonni sul lago. Mi aspetti?» «Sì», annuì lui, con l’ultima lacrima che gli scivolava giù per la guancia.

26

Lo scompartimento era occupato da un gruppo di chiassosi alpini, che indossavano copricapi decorati con le stelle alpine. Uno di loro, che sembrava il più giovane, le sorrise e domandò: «Viaggi da sola, bambina?» Liesèl rispose di rimando: «Non sono una bambina!» «Ah, giusto», concesse il ragazzo, «sei una signorina». Gli altri risero con fare bonario. Liesèl rifletté ancora per qualche minuto su ciò che aveva appena lasciato. Sentiva il dispiacere per le lacrime di Lukas, e la situazione spinosa di Irmi, ma anche il sollievo perché a causa della caviglia slogata la matrigna era stata più accomodante con lei. Per finire ripensò a suo padre, e a come il suo comportamento non avesse in alcun modo mostrato che la distanza tra loro si fosse accorciata. Non aveva nemmeno potuto capire se avesse davvero letto l’articolo del giornale regionale. Una volta gliene aveva accennato, ma lui se l’era sbrigata con la frase: «Sì, interessante, ma non montarti la testa per quella foto». Doveva essere stata proprio quella foto, molto in vista, ad averlo infastidito, e per un attimo suppose che forse, in quell’immagine, lei somigliasse troppo a sua madre. Infine si concentrò su Dorian, occorreva assolutamente che si spiegassero. E Annika avrebbe dovuto renderle conto dell’ennesima carognata che le aveva fatto, ritirare la menzogna e chiedere scusa! Si sentiva molto agguerrita. Quando il treno arrivò a Salisburgo scoppiò un temporale. Ci furono tuoni tremendi e alla fine si scatenò un acquazzone che infuriò fin sotto le pensiline. Per fortuna la coincidenza arrivò puntuale. Liesèl salì, tutta intirizzita. Giunse a Seekirchen nel tardo pomeriggio, la pioggia per fortuna era diminuita di intensità. Aprì l’ombrello e si avviò verso il collegio. Durante il

breve tragitto pensò due cose: che amava il Seeburg, ma soprattutto amava Dorian e voleva essere di nuovo la sua ragazza! Appena entrata nel guardaroba assistette a una scena odiosa. Annika stava dicendo a Giosuè: «Perché non fai spostare il tuo appendino da un’altra parte? Non voglio che il mio si trovi troppo vicino a quello di un ebreo!» Era il colmo! Liesèl la avvicinò e le disse in faccia: «Brutta razzista, proprio non ce la fai a non offendere qualcuno? Vergognati!» Annika sbuffò, seccata: «Sono qui da nemmeno dieci minuti e già ti ho tra i piedi! Perché ti immischi?» «Al Seeburg non sono ammessi i razzisti», rispose Liesèl, indignata. «Il direttore è stato chiaro in questo, sei forse a corto di memoria?» «Io a corto di memoria?» belò l’altra, offesa. «Ho imparato a memoria l’intera parte di Luisa Miller, stupida!» «Cosa c’entra la rappresentazione col fatto che tu sia una razzista?» chiese Liesèl, sarcastica. Allora Annika diventò rossa di collera e le sferrò un calcio sulla tibia, ma Liesèl non fu da meno. La afferrò per i capelli tanto che le rimase in mano un piccolo ciuffo biondo. Annika sbraitò: «Adesso vado subito dal direttore e ti denuncio!» «Bene», rispose Liesèl, «verrò con te e riferirò come hai trattato Giosuè!» L’altra boccheggiò, si morse la lingua, alla fine prese la sua valigia e fece per uscire dal guardaroba. «Aspetta, già che ci sei vorrei chiederti una cosetta…» accennò Liesèl, ma Annika fece un gesto di insofferenza e se ne andò. Giosuè aveva assistito immobile e sgomento. «Grazie per avermi difeso», le disse, ma lei scosse la testa: «Tu non hai nulla da cui devi essere difeso, ma quella arpia non merita di trovarsi al Seeburg! Su, portiamo in soffitta le nostre valigie». Davanti agli armadietti dei maschi c’era un nugolo di ragazzi indaffarati, dall’altra parte Liesèl trovò Greta, Doris e Michaela. Ci furono gioiosi saluti e affettuosi abbracci. Quando tutte e quattro finirono di sistemare le proprie cose, fecero un cenno d’intesa a Giosuè e scesero alla sala studio per presentarsi a Fräulein Sofia. Annika aveva già occupato un tavolo appartato ed era in pieno cicaleccio con il suo adorante clan. Non mi scapperai una seconda volta, si disse Liesèl, mi devi delle scuse. Eccome se me le devi!

A poco a poco la sala studio si riempì e alla fine il numero delle collegiali fu al completo. Anche il gruppo delle ragazze del giornalino si era ricomposto, e si raccontarono tra loro come avevano trascorso Pasqua in seno alle proprie famiglie. Ma Liesèl era tesa dall’impazienza di rivedere Dorian, tuttavia avrebbe dovuto aspettare l’ora di cena. Finalmente suonò la campanella e tutti si precipitarono nel refettorio. Si era aggiunto Giosuè e ritrovarono anche Rainer. «Ben tornata la mia bella compagnia», lui li accolse, contento, «da me tutto bene ad eccezione che il giorno di Pasqua è morto mio nonno. Sarò anche un maschio, ma sono stato male per tre giorni nutrendomi solo di latte». Gli amici espressero il loro dispiacere. «Ultimamente era molto malato», aggiunse, «aveva un tumore allo stomaco e soffriva di dolori terribili». Ebbe un momento di cedimento. «Be’, scusate», concluse. «E dopo aver tanto pianto per un nonno che mi ha insegnato ad amare la musica, mi sono sentito felice che avesse finito di soffrire». Sul suo volto regolare e armonioso tornò il sorriso: «Basta così, e ora sapete cosa c’è? Ho una gran fame. Su, Giosuè, cominciamo a buttarci nella fila». Liesèl non voleva che le ragazze si accorgessero della sua ansia, nell’attesa di veder apparire Dorian, ma lui tardava. Forse sta discutendo con Annika, ipotizzò, le dirà di aver saputo del suo spergiuro e non si siederà più al suo tavolo. Ma poco dopo lui arrivò proprio con lei, attorniati dal clan starnazzante, e si sistemò al solito posto. Liesèl non poteva crederci! Là su quel treno aveva capito o no che Annika aveva giurato il falso? Delusa e spiazzata si aggiunse alla fila per ritirare dal passavivande la sua razione di cibo. Mentre tutti mangiavano, Marta osservò: «Niente di nuovo sull’altro fronte, c’è la regina, ci sono le damigelle e il principe consorte». A Liesèl andò di traverso un boccone. Dopo essersi ripresa dalla tosse, riferì ciò che aveva saputo sul treno. «Annika avrebbe giurato il falso sulla vita di suo padre?» Rainer si sdegnò, basito. «Allora è proprio senza scrupoli fin dentro il midollo, quella fetente!» «Mi chiedo solo perché lo vedo ancora al suo tavolo», disse Jutta,

perplessa. «Come sempre vuol stare con un piede in due staffe», replicò Doris, facendo sfoggio del suo elenco di massime popolari. «Non è detta l’ultima parola», disse Liesèl, decisa. Si girò e guardò verso Dorian, ma lui, appena si sentì osservato, cominciò a parlare con una brunetta che gli dedicò subito un’attenzione raggiante. Annika invece stava lì con la solita maschera da diva. A Liesèl sorse il dubbio che lui non le avesse ancora parlato del falso giuramento. Non avrà di nuovo paura che lei gli tolga il ruolo, pensò. L’idea la infastidiva talmente che passò il suo dolce a Michaela. Finita la cena, il refettorio iniziò a svuotarsi. A quel punto i maschi erano soliti raggrupparsi per salire in soffitta, e anche Dorian si aggregò. «Cosa vuoi fare?» chiese Marta, vedendo che si era alzata di scatto. «Non ti preoccupare…» «Liesèl!» la ammonì Rainer. Lei sollevò solo una spalla e, senza dire altro, raggiunse l’uscita. Erano sulla scala. Liesèl salì di corsa finché non si trovò a fianco di Dorian. Lo fermò per un braccio: «Dobbiamo parlare». «Non adesso», fece lui. «Invece sì, adesso!» ribadì lei. Ora si trovarono sul piano della saletta musica, e così, serrandolo saldamente per un polso, lo trascinò verso la porta. Qualche ragazzo alle loro spalle rideva divertito. Giunti dentro lui si liberò: «Sei impazzita?» «Devi ascoltarmi, Dorian!» «Lo dici tu. Ma io non voglio», dichiarò. Indossava i blue jeans azzurri che gli aveva procurato sua madre, e quel pullover nero a collo alto che gli stava così bene. Per un momento a Liesèl passò davanti agli occhi, come nella sequenza di un film, il momento in cui lui, mesi prima, aveva allungato la mano attraverso il tavolo in redazione posandola sulla sua. «I tuoi capelli sono perfetti», aveva detto. «Un bel biondo scuro e sono anche ricci». E lei: «Ti piacciono ricci e non…» «Lisci come quelli di… Annika?» aveva risposto lui con un filo di ironia. «No, mi piacciono ricci». Poi aveva ritirato la mano perché era entrata Michaela.

«Ma non hai capito ciò che ti avevo detto sul treno?» Liesèl domandò, accorata. «Annika ha giurato sulla vita di suo padre che tu le avevi chiesto se voleva essere la tua ragazza!» Lui la guardò, e a un tratto lei ebbe l’impressione che fosse sordo e insensibile all’angoscia che palpitava in lei, all’urgenza di ristabilire con lui la precedente intesa. «Sì, ho capito», rispose con una voce calma e distaccata. «E ha sbagliato. Si è mostrata l’ignobile manipolatrice che è, e non glielo perdono». Il tono diventò duro, accusatorio. «Ma ancor meno perdono te. Tu non dovevi crederle!» «Ha giurato sulla vita di suo padre!» ribadì lei, disperata. «E tu l’hai bevuta senza nutrire il minimo dubbio? Avresti invece dovuto venire da me per chiedermi se quella fosse la verità! Io invece non capivo per quale motivo tu non rispondevi più alle mie lettere. E quando ti ho fermata sulle scale perché avevo bisogno di spiegazioni, tu mi hai trattato come se fossi un bruto violento!» Liesèl era immobile. A un tratto si impadronì di lei una paura sorda di averlo perduto, e gli circondò le spalle con le mani. «Hai ragione, mi sono fidata come un’idiota, ma ora ti chiedo scusa e…» «Mi hai fatto soffrire», dichiarò lui, astioso, liberandosi dalla presa. «Io non sto con Annika, e lei lo sa, lo sa fin da quella brutta menzogna. Recitiamo solo insieme e nient’altro, e continuerà così. Ma non voglio nemmeno più stare con te. E adesso devo andare». Si girò e raggiunse rapidamente la porta. Lei rimase ancora lì per qualche minuto, rendendosi conto che lo spergiuro di Annika aveva prodotto fra loro una frattura profonda. Poi si sedette sul panchetto, aprì il pianoforte e sfiorò i tasti. Se potessi suonare come Rainer, pensò, ferita nel cuore, forse in questo momento potrei trovare sollievo nella musica. Nelle dolci note di Chopin… Finalmente riuscì a piangere.

27

Liesèl uscì dalla saletta musica e salì le scale per raggiungere le compagne in soffitta. Gradino dopo gradino aveva l’impressione di lasciarsi alle spalle un periodo del Seeburg che non sarebbe più tornato, la vita, da quella sera in poi, senza Dorian, sarebbe stata diversa. «E non perdono nemmeno te…» aveva detto, e ancora: «Mi hai fatto soffrire!» Aveva pronunciato queste parole con astio, una collera inconciliabile. Si sentiva ancora molto agitata, aveva un leggero tremolio nelle membra. Doveva calmarsi, sfogarsi con le amiche! Ma arrivata di sopra c’era un’atmosfera ilare. Doris aveva trovato un messaggio nell’armadietto, lungo due pagine, con l’aggiunta di altre due che contenevano poesie copiate da qualche scrittore. «Tu sei la stella che nuota nell’azzurro…» lesse, tra il divertito e il perplesso. «Solo per i tuoi occhi immensi mi piaci immensamente». «Ma è bello!» esclamò Michaela, entusiasta. «La solita romanticona», arrivò la frecciata di Jutta. «A me invece scrive uno che si chiama Gustl Glaser», esordì Greta: «Mia madre ha lo stesso tuo naso un po’ storto e per questo vorrei che tu fossi la mia ragazza». Spostò lo sguardo dall’una all’altra: «Ho il naso storto io? Non me ne sono mai accorta!» Doris commentò: «Non è storto, solo un po’ a patata». «A…patata?» ripeté l’altra, indignata. «Ma la nonna ha sempre detto che ho il suo naso! Che secondo lei è il più perfetto del mondo!» «Ah ah ah!» fece Doris. «Tu credi alle sue vecchie foto? Erano tutte ritoccate soprattutto sul naso». «Che cattiveria», commentò Greta. «Sei una iena». Finalmente Marta domandò a Liesèl: «Allora cos’è successo con

Dorian?» Lei rispose con uno scatto secco: «Lascia perdere». E puntò al suo armadietto. Ma l’altra la seguì: «Cosa c’è?» «Niente…» «Ma con Dorian?» «Finita». «Avete parlato?» «Parlato…» ripeté Liesèl, amara, aveva un leggero affanno nella voce quando disse: «Se vuoi chiamarlo così». «Spiegati!» insistette Marta, ma Liesèl sbottò: «Finiscila, l’argomento è chiuso». «Non capisco…» fece l’amica. «Meglio così. Io scendo in camerata. Mi sta scoppiando il mal di testa». Per quanto Liesèl si sforzasse di non pensare più a Dorian, il sentimento che provava per lui continuava a essere vivo in lei, anzi, in quel momento faceva anche più male. Tuttavia l’impegno per preparare il secondo numero dell’Eco del Seeburg le offriva un po’ di sollievo e distrazione. Rainer, che per la prima edizione aveva creato piccoli racconti accompagnati da illustrazioni colorate, aveva deciso di sviluppare l’episodio accaduto al suo paese durante le vacanze natalizie. Una banda di ragazzotti aveva attirato un bambino ignaro su uno stagno ghiacciato e, quando la superficie era ceduta, facendo piombare il piccolo nell’acqua gelata, erano scappati. Il bambino era stato salvato dal postino che passava lì con la sua bicicletta a motore. Rainer aveva discusso del grave episodio con suo nonno, che a Natale stava ancora abbastanza bene. Come potevano quattro ragazzini decidere di uccidere un essere umano indifeso solo per noia? Jutta, invece, che per L’Eco del Seeburg aveva scritto un pezzo di cronaca familiare molto duro, questa volta intendeva approfondire la storia del Castello Seeburg, compresa la lugubre esistenza dell’ossario. Si era procurata del materiale sia alla biblioteca comunale sia dal direttore, che era sempre pronto a dare una mano al gruppo del giornalino. Marta aveva sorpreso tutti con una proposta originale: esplorare l’origine della biancheria intima femminile, e il suo sviluppo nel corso dei secoli. Dall’antico Egitto delle tuniche, al periodo romano dei primi reggiseni, fino al corsetto, o busto, dell’Ottocento, composto di tessuto rinforzato da stecche

di balena. L’idea le era venuta vedendo su una bancarella di libri usati un grosso volume che trattava l’argomento, corredato riccamente di disegni (che poi Doris avrebbe riprodotto), e lo aveva comprato a un prezzo esiguo.Michaela era la solita addetta alle barzellette, e Giosuè stava lavorando alla sua memoria sul periodo trascorso nel convento delle suore. E c’era Greta con il suo racconto fantastico di un gallo speciale. C’era una volta nei tempi antichi un sovrano molto amato perché promulgava leggi che proteggevano la parte più povera e debole del suo popolo. Di lui si sapeva che amava mangiare le frittate, e a tale scopo aveva fatto costruire nei pressi del castello un grande pollaio nel mezzo di una vasta area nella quale i pennuti potevano razzolare in pace e libertà. Naturalmente tra la moltitudine delle galline c’erano anche alcuni operosi galli! Ogni mattina presto una famosa maga usava fare la sua quotidiana passeggiata arrivando proprio vicino al pollaio, ma un giorno fu aggredita da uno dei galli che cominciò a beccarla nell’unico punto più vulnerabile del suo corpo, un minuscolo triangolo sopra il sopracciglio destro. A salvarla fu il gallo Gockle che, con grande clamore, fece scappare l’aggressore. Allora la maga per gratitudine gli donò la capacità di leggere nei pensieri delle persone quando erano addormentate. «E poi?» fecero gli altri molto incuriositi. «Al castello viveva un pennuto che era considerato il primo gallo di corte perché era l’unico in grado di far addormentare il sovrano che soffriva di una terribile insonnia. Era trattato come un principe». «E poi?» la incalzarono. Perfino Rainer si era incuriosito. «Gockle si era messo in testa di diventare lui il primo gallo di corte e si dette da fare. Cominciò a sentire i pensieri dei primi consiglieri e scoprì che un paio di loro progettavano di assassinare il sovrano per far salire al trono il fratello più giovane». «E poi che successe?» «Basta!» fece Greta, «lo leggerete poi quando sarà finito. Tu, Doris, prepara il disegno di un gallo superbo». «Ricevuto», fece la sorella. La vita al Seeburg continuava al solito ritmo. Dorian non stava con Annika, come aveva dichiarato, ma l’accompagnava solerte alle prove. Per il resto, nel tempo libero a volte usciva con la Leica insieme a un compagno di camerata, o stava in sala giochi a fare partite di ping-pong. Si era ormai a metà maggio e nella scuola circolavano voci eccitanti sui

costumi della rappresentazione che erano quasi terminati, e al cinema-teatro avevano iniziato a montare la scenografia. Annika era diventata insopportabile. Faceva la diva, e si comportava come se le fosse permesso per grazia ricevuta di fare ciò che agli altri, invece, comportava rimproveri o punizioni. Rispondeva in modo altezzoso a Fräulein Josefine, e una sera aveva polemizzato con la cuoca sulla qualità delle frittelle, definendole unte, grinze e bruciacchiate. Che, invece, non era affatto vero. Ma un pomeriggio scoppiò una bomba. A quell’ora quasi tutti i collegiali si trovavano in sala studio occupati con i compiti. Annika, che come sempre si sbrigava prima delle altre – in questo continuava a essere straordinaria – a un certo punto lasciò la saletta. Poi rientrò e si mise a bisbigliare in disparte con un paio di adepte del suo clan che a loro volta avevano finito. All’improvviso si sentì provenire dal corridoio un vocio che diventava sempre più forte. L’educatrice andò a vedere e tornò con una strana faccia. Verso le sei tutti i collegiali furono convocati dal direttore nella sala studio delle femmine. Di nuovo, come il giorno in cui Annika aveva sottratto il diario di Liesèl incollandone alcune pagine sulla bacheca, si respirava un’atmosfera di stupore e turbamento. L’intero Seeburg era lì, stretti gli uni contro le altre, confusi e disorientati. Davanti a tutti c’era l’Heimvater, dritto e accigliato, con accanto Giosuè. «È successa ancora una volta una cosa intollerabile», esordì con voce dura e indignata. «Qualcuno ha incollato sulla bacheca un doppio foglio con su scritto: GIOSUÈ BLUMEN SPORCO EBREO». Pose un braccio paterno attorno alle spalle del ragazzo e aggiunse: «Ebbene, questo vostro compagno di collegio è Giosuè Blumen e io pretendo di sapere chi è l’autore della vergognosa scritta!» Seguì un bisbiglio tra i collegiali, alcuni avevano l’espressione stupita, altri sdegnata, altri ancora si guardavano attorno per scoprire sulla faccia di un compagno o di una compagna il segno della sua colpevolezza. «Io esigo che l’autore di questa scritta sia individuato entro stasera!» tuonò l’Heimvater. «Voi siete tutti figli dell’ultima guerra, che ha colpito duramente anche l’Austria. Cinquantamila ebrei austriaci sono stati perseguitati, deportati e uccisi nei campi di sterminio nazisti, e io non tollero che un nuovo seme di razzismo nasca proprio al Seeburg! Ora pensateci e chi

ha un indizio da fornirmi si faccia avanti! Non abbiate paura di essere considerati traditori o spie. Stasera non si andrà a cena se il colpevole non verrà fuori!» Restarono lì fino alle nove, poi l’Heimvater dovette arrendersi. Non poteva lasciare senza cena un collegio intero. Ma quella sera Dorian non si presentò al refettorio. Il giorno seguente a scuola la voce percorse in fretta le aule: Dorian Kolb aveva abbandonato il ruolo di Ferdinando in Intrigo e amore, cedendo il posto al suo sostituto, Nikolas Schreiner. A pranzo al Seeburg ne parlarono tutti, e Liesèl si rese conto di quanto doveva essergli costato di rinunciare alla parte. Ne fu immensamente commossa perché intuiva il motivo. Lo amava più che mai! Annika invece era fuori di sé e sibilava fitto con il suo clan. Dorian arrivò molto in ritardo, forse il regista lo aveva trattenuto per dissuaderlo dalla sua decisione. Appena Annika lo vide entrare si alzò, gli si precipitò addosso e, battendogli i pugni sul petto, lo riempì di improperi: «Schifoso vigliacco, mi hai piantata con quell’idiota di Nikolas Schreiner che non solo è brutto ma anche più basso di me e sparirà sul palcoscenico come una misera pulce! Come hai potuto farmi questo? La rappresentazione sarà una porcheria e l’unico responsabile sarai tu! Tutti i soldi che ha speso mio padre saranno stati buttati fuori dalla finestra, e sarà solo colpa tua!» Dorian, dopo averla ascoltata anche con troppa pazienza senza reagire, la piantò lì e uscì dal refettorio. Liesèl balzò dalla panca. «Lascialo stare», fece Rainer, «calmati anche tu. Sappiamo tutti per quale motivo ha rinunciato al suo ruolo, e gli fa onore». «Perché ha rinunciato?» domandò Michaela, spalancando i suoi magnifici occhi chiari. «Svegliati, Biancaneve», fece Marta, ma con affetto. «Però non ha le prove», osservò Jutta. «Ieri sera nessuno sembra abbia visto, nessuno ha fiatato». «Non c’è bisogno delle prove», disse Rainer, «sappiamo chi è stato. E ha anche usato la carta del giornalino!» «Così prima di fare quella porcata è andata in redazione e ha rubato la carta!» si sdegnò Doris. «Che brutta persona. Una vera delinquente!» «E razzista», aggiunse Greta.

Liesèl era tornata a sedersi, ma nel suo cuore si faceva largo un sentimento caldo e ammirato per Dorian. E sorrise. Piano. Con uno strano senso di soddisfazione e felicità. Bravo, il mio Dorian, disse fra sé.

28

Dorian non tornò al tavolo di Annika, si unì a un gruppo di compagni della sua camerata. Marta propose di ridargli il suo vecchio posto nel gruppo, ma Rainer si oppose, sostenendo che avrebbe dovuto essere lui a chiederlo. Annika invece si era chiusa in una rabbia muta e granitica. Arrivava tardi in refettorio, non finiva mai la sua razione di cibo e se ne andava lasciando indietro il clan. Poi sbrigava come sempre rapidamente i compiti e usciva subito per raggiungere il teatro. La defezione di Dorian era diventata motivo di intenso chiacchiericcio tra gli studenti della scuola. I ragazzi cercavano di indovinarne i motivi, arrivando persino a scommettere su un suo eventuale ripensamento. Ai loro occhi era già diventato un mito. Diverse classi, prima del suo ritiro, avevano potuto assistere alle prove ammirando la recitazione di Annika e Dorian. Era come se fossero nati per quei ruoli, e interpretavano con stupefacente perfezione, malgrado la giovanissima età, Ferdinando e Luisa Miller nella tragedia Intrigo e amore di Friedrich Schiller. Si sapeva – la bidella era un affidabile bollettino delle notizie – che Annika aveva fatto intervenire suo padre presso il preside e il regista affinché facessero pressione su Dorian, ma senza risultato. Perfino il direttore del Seeburg aveva cercato di dissuaderlo dalla sua scelta, ma coerente con la sua impostazione democratica non aveva insistito. Molti ragazzi del collegio erano convinti che l’autrice della scritta razzista fosse Annika, e che Dorian non se la fosse più sentito di recitare accanto a una ragazza che aveva chiamato «sporco ebreo» un compagno del Seeburg. Ma in realtà non esistevano prove a suo carico. Correva anche voce che Annika avesse già violentemente litigato con il sostituto di Dorian, Nikolas Schreiner, definendolo «nano ridicolo» e «cane

di attore». Il regista tuttavia non era intervenuto, forse perché terrorizzato di perdere anche la protagonista. La sostituta di Annika, come Nikolas, era certo dotata di talento, ma non della sua bellezza e della sua statura alta e slanciata. La differenza tra le due era così schiacciante che il regista aveva chiuso un occhio per non giocarsi la sua interprete preferita. Un giorno, tornate da scuola, Marta e Liesèl si imbatterono in Dorian nel guardaroba. Ci fu un momento di imbarazzo, non sapevano cosa dire né come porsi dinnanzi a lui, ma fu Dorian ad avvicinarle. «Ti ho preparato questo», disse, porgendo a Liesèl dei fogli. In preda al solito batticuore quando si trovava nelle sue vicinanze, lei domandò, sbalordita: «Che cos’è?» «La traduzione di un articolo interessante che ho trovato su una rivista per giovani americani». Marta osservò: «Ma è carta originale della redazione!» «È vero», ammise, «una volta quando voi non c’eravate mi sono procurato una riserva di fogli». Liesèl boccheggiò: «Ma… cosa significa?» «Desidero dare il mio contributo al nuovo numero del giornalino», rispose. Marta disse: «Sentite, parlate voi, io vado in sala studio». Liesèl si sentì tremare. «Potresti rientrare nel gruppo», propose tuttavia, quasi senza fiato. «No, no!» esclamò lui, «niente complicazioni». Liesèl, spinta da un impulso incontrollabile, gli prese una mano: «Lo so perché hai rinunciato al ruolo». Lui non rispose, annuì con espressione grave e si ritrasse. «Io… ti ammiro molto per questo», aggiunse lei. «So cosa ti costa essere fuori dalla rappresentazione». Sospirò, le sembrava di soffocare: «E voglio che tu sappia… sono stata tanto male per te». Lui reagì con uno scatto immediato, impetuoso, quasi come un animale ferito che si sottrae a nuovi contatti. «Anch’io!» ribadì, come l’altra volta avverso, ostile, negli occhi un velo di orgoglio ferito. «Se vuoi usare la traduzione per il secondo numero», concluse, spiccio, «l’ho fatta volentieri. Altrimenti stracciala». Entrarono alcune ragazze che non erano della classe di Liesèl, e una di

loro disse, cattiva: «Un giorno io strozzo la nostra insegnante di geografia, mai una volta che mi dia un voto decente!» Dorian se ne era andato. Quando l’Eco del Seeburg fu pronto, l’Heimvater offrì di nuovo una festicciola a buffet, esprimendo la soddisfazione per il lavoro svolto. «E non sarà tanto il ricordo dell’Eco del Seeburg ad accompagnare questi ragazzi nel loro futuro», disse durante il suo discorso, commosso, «ma l’esperienza di un impegno assunto, del gusto della creatività, della bellezza, della fantasia e soprattutto del senso di amicizia che ha legato insieme questo gruppo. A me negli anni a venire resterà la gioia di aver avuto al Seeburg una giovane squadra straordinaria, fuori dal comune, unita, geniale e di grande talento». Espresse un particolare apprezzamento per il racconto di Giosuè del suo periodo trascorso nel convento delle suore, e per l’articolo molto interessante tradotto da Dorian da una rivista americana per giovani. Anche la tragedia Intrigo e amore era pronta e fu stabilita la data della prima. Ci furono tre rappresentazioni, le prime a due turni per gli alunni della scuola e gli insegnanti, la terza per la cittadinanza. Annika brillò nella superba interpretazione di Luisa Miller, mettendo in ombra il suo partner Nicholas Schreiner, poveretto. Lui era più basso di lei e il costume di scena sembrava renderlo ancora più piccolo e fragile. Inoltre la sua voce aveva un timbro un poco troppo alto, mentre quello di Annika era solido, femminile, ma con una leggera sfumatura maschile, che conferiva al suo ruolo forza e carisma. La classe di Marta e Liesèl fu inserita nel secondo turno, alcune file davanti scoprirono Dorian con la sua. A Liesèl, come al solito, cominciò a battere il cuore sapendolo nelle vicinanze. Il giornale regionale dedicò allo spettacolo una pagina intera esaltando il talento e la bellezza di Annika. Si avvicinava la fine dell’anno scolastico e il giorno delle grandi partenze. Una sera prima di cena Liesèl e Dorian furono chiamati nell’ufficio del direttore, che domandò se anche questa volta, come in occasione delle vacanze natalizie e quelle di Pasqua, volessero tornare a casa con il medesimo treno, visto che erano diretti nella stessa direzione. Non c’era motivo di rifiutare. Ci furono lacrime e lunghi saluti commossi: dal personale della cucina, da Frau Gerta, dall’Heimvater, la moglie e gli educatori. Il gruppo del giornalino si diede l’ultimo addio in redazione.

Quante ore avevano trascorso in quell’ambiente austero e disadorno, che era diventato un luogo di lavoro, di idee, di fervente creatività, di entusiasmo! Confrontandosi, misurandosi e stimolandosi a vicenda. Impegnandosi e crescendo, diventando migliori. No, non era tanto la creazione dell’Eco del Seeburg, interamente scritto e disegnato a mano – ma tutto il resto. Tutto ciò che ruotava attorno, che fermentava nell’amata redazione. Uno spazio che sapeva di acqua santa, ma che era per loro un affascinante e irrinunciabile punto di riferimento. Alle sei in redazione! Che non manchi nessuno! C’è qualcosa di importante da discutere! Ma la consolazione più grande in quegli ultimi minuti era la certezza che si sarebbero ritrovati dopo le ferie estive. Liesèl e Dorian uscirono dal Seeburg nel primo pomeriggio, il tempo era afoso. Dovettero stare in piedi fino a Salisburgo, perché il treno era pieno. Non parlavano, ma si portavano dietro, condividendolo, il ricordo del collegio che avevano imparato ad amare. Quel piccolo mondo a sé, con le sue regole severe e la libertà di movimento concessa dal direttore con generosità, seppure attentamente sorvegliata. Liesèl e Dorian guardavano fuori dal finestrino, ma non vedevano il panorama che passava. Sulle loro retine restava ancora l’immagine del Seeburg con i suoi muri di cinta, le torrette d’angolo e il tetto aguzzo del campanile della cappella. Anche a Salisburgo l’aria era pesante. La coincidenza arrivò con un gran sbuffare come se pure il convoglio fosse a corto di respiro. Salirono. Ma c’era qualcosa di stranamente simile al loro viaggio fatto insieme a Natale. Le valigie erano sistemate nel portabagagli, sopra di loro. C’era solo un’altra persona nello scompartimento, questa volta un signore anziano che portava una sciarpa al collo malgrado il caldo soffocante di quella giornata. «Per favore mi svegliate prima di Kuchl?» pregò i ragazzi, «non sto tanto bene». Poco dopo si addormentò. Passò un po’ di tempo, entrambi si sentivano racchiusi in un muto imbarazzo, eppure c’era qualcosa che li univa come un laccio invisibile. Tutto a un tratto Dorian disse: «È stato tutto sbagliato». «Cosa vuoi dire?» chiese lei. «Annika ha giurato il falso e io non ho punito lei, ma te». «Sì, mi hai fatto soffrire». «Sono stato male anch’io», disse lui.

«Per aver rinunciato al ruolo nella rappresentazione?» «Anche per questo, ma…» «Perché lo hai fatto?» «Annika mi aveva detto spesso che la presenza di un ebreo al Seeburg la disturbava molto. Suo padre era uno di quelli che durante la guerra si era schierato dalla parte dell’antisemitismo nazista, e lei deve aver assorbito qualcosa di questo sentimento in famiglia. Poteva averlo scritto solo lei quell’insulto a Giosuè. Ne ero sicuro, anche se non ne avevo le prove. Tuttavia solo il pensiero che stavo recitando accanto a una razzista mi infastidiva così tanto che non ho potuto fare altro che abbandonare la parte». «Deve esserti costato molto». «Sì, durante le prove eravamo così affiatati… Ma mi è dispiaciuta molto anche un’altra cosa». «Quale?» «Non essere riuscito a perdonarti di aver creduto allo spergiuro di Annika e di avermi lasciato per questo». «Averti lasciato?» «Da un giorno all’altro non rispondevi più alle mie lettere!» «Pensavo che tu stessi con Annika», fece lei, sommessa. «Invece no!» esclamò lui e batté la mano sul tavolino che stava nel mezzo dei due sedili. Il vecchio signore balzò su, spaventato: «Oddio, è già passato Kuchl?» «Mi scusi», disse Dorian, «no, dobbiamo ancora arrivarci». «Ah, bene…» annuì l’altro, sollevato, e si riaddormentò. «Sono uno stupido», disse Dorian mentre il treno lanciava un lungo fischio prima di entrare in un tunnel. Per qualche istante si sentì solo questo, il fischio simile a un grido di allarme, una richiesta di attenzione: Non sporgetevi dai finestrini! Quando tornò il silenzio, lui aggiunse: «Sono uno stupido perché non mi piace nessuna come te e invece…» «Invece?» «Ti ho fatto… soffrire». Si sporse avanti e le sfiorò la guancia con una carezza: «Vuoi essere di nuovo la mia ragazza?» A Liesèl mancò il respiro. «Sì», rispose poi e arrossì rovinosamente. Lui sorrise e per la prima volta negli ultimi tempi i suoi lineamenti si

distesero. «Staremo lontani per due mesi», disse poi, pensoso. «Saranno lunghi». «Sì, molto lunghi», sospirò Liesèl. «Ma in settembre ci rivedremo». «In settembre», ripeté lei, ma non le importava. Avrebbero trascorso un nuovo anno scolastico al Seeburg e sarebbero stati insieme. «Ti aspetterò, Dorian». «Anch’io ti aspetterò», dichiarò lui e cercò di nascondere la commozione. E così, cullandosi in quella inaspettata novità, Liesèl si alzò per riprendere fiato. Guardò fuori dal finestrino. Il paesaggio correva via veloce. Seguì con lo sguardo la fumosa linea dell’orizzonte. Poi, in fondo, da sotto un pesante strato di afa, vide allargarsi una chiazza di luce. Come un gentile augurio inviato dal cielo dell’est.

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