Ugo Saitta. Un album di ricordi
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Table of contents :
Colophon
Note del curatore
I. Tre volumi per un discorso comune
II. Digitalizzare per conservare, digitalizzare per rendere accessibile
III. Dedicare, ringraziare, invitare
Introduzione
Capitolo 1 - Un album di ricordi (1930-1962)
1.1 Limiti e risorse del cinedilettantismo e le attenzioni del
1.2 La circolazione dei flm a passo ridotto, il cinemagoliardico e Vent’anni
1.3 Partecipare alla vita culturale della città
1.4 Il Centro Sperimentale di Cinematografa di Roma
1.5 Il bramoso cacciatore d’immagini
1.6 I pupazzi animati che vanno al Festival di Venezia
1.7 Cinema e Fascismo. La vigilia della guerra
1.8 Il fecondo rapporto con l’Istituto Luce e la produzione diPrime ali e I cavalieri della G.I.L.
1.9 La guerra è fnita
Capitolo 2 - I documentari della maturità artistica
2.1 I.C.S. Film o X Film che dir si voglia
2.2 Le collane di cortometraggi documentari
2.3 Prove di realismo cinematografico, Zolfara
2.4 Il cinema turistico, l’incontro con il presidente dellaRegione Sicilia
2.5 Taormina, palcoscenico naturale del documentarioturistico
2.6 Rappresentare la realtà
2.7 Il cinema scientifico e la Mostra di Venezia
2.8 L’eruzione dell’Etna e il materiale di repertorio per Sciara
2.9 I Boy Scouts, il principe Farouk e il bandito Giuliano
2.10 Successi e consensi
2.11 Il documentario perduto
2.12 L’industria mancata e la California
2.13 Catania, città Barocca
2.14 I pupi, la barca e il carretto
Capitolo 3 - La vita culturale al servizio delle città
3.1 La televisione e il ruolo di regista programmista
3.2 Il teatro e i rapporti con l’Ente Teatro di Sicilia
3.3 Travelling in Sicily e la celebrazione a Taormina
3.4 Un riferimento culturale per tutti. Il C.U.C.
3.5 La personale al cinema Trinacria e Città barocca in tv
3.6 Il Centro Sperimentale di Prosa presso il Liceo ClassicoM. Cutelli di Catania
Conclusioni
Appendice
Costruire la propria immagine di se stessi
Volto di Sicilia, un album di fotografie raccolte, selezionate e conservate da Tuccio Musumeci (1963-1965)
Lo voglio maschio, un album di fotografie di scena e di back-stage custodite da Tuccio Musumeci
La vita quotidiana e il lavoro di Saitta. Testimonianze
Intervista a Tuccio Musumeci
Intervista a Riccardo Manaò
Intervista a Gabriella Saitta
La voce degli studiosi. Idee, impressioni, opinioni
Intervista a Sebastiano Gesù
Intervista a Enrico Magrelli
Intervista a Giuseppe Giarrizzo
Intervista a Marco Bertozzi
Intervista ad Adriano Aprà
Indice

Citation preview

UGO SAITTA

UN ALBUM DI RICORDI ANALISI DI UNA STAGIONE CINEMATOGRAFICA

Alessandro De Filippo

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Alessandro De Filippo Ugo Saitta, un album di ricordi Analisi di una stagione cinematografica collana: I documentaristi siciliani ISBN 978-88-97888-13-0 © 2012

SOCIETÀ DI STORIA PATRIA PER LA SICILIA ORIENTALE piazza Stesicoro, 29 - Catania tel. 095.316920 http://www.storiapatriacatania.it

Direttore: Alessandro De Filippo Comitato scientifico: Sebastiano Gesù, Giuseppe Giarrizzo, Fernando Gioviale, Enrico Iachello, Alessandro Rais

Note del curatore

L’intento di queste righe è quello di spiegare il senso di un’operazione non immediatamente intelligibile. Gli elementi di opacità sono numerosi e diversi tra loro. Il primo è indubbiamente il desiderio di riunire sotto un unico tetto le monografie su autori diversi e distanti tra loro.

I. Tre volumi per un discorso comune Ho scelto di discutere di cinema documentario e di autori siciliani, mettendo in relazione sguardi diferenti e prospettive etiche ed estetiche peculiari che rendono particolarmente difcile la loro articolazione in un discorso unico. Ecco allora l’esigenza di concepire una serialità di volumi separati, che mettesse però in luce un percorso coerente, ma non coeso, nell’articolazione in tre volumi autonomi. A essere coerente è lo sguardo di chi legge, ma vari e diversificati restano gli oggetti delle analisi, i materiali e perfino la tipologia della documentazione disponibile per ogni singola monografia. Il piano dell’opera prevede un primo volume sulla produzione cinematografica di Ugo Saitta, prevalentemente ma non solo documentaria. Trae origine dalla digitalizzazione di un album di articoli, documenti e ricordi privati, concesso dalla figlia del regista catanese, e da due album di fotografie di scena, miracolosamente salvati da Tuccio Musumeci, l’attore prediletto da Saitta. Questo volume non può esimersi dal dialogare, in maniera reiterata e feconda, con la monografia – di cui sono io 3

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

stesso autore – intitolata Ugo Saitta, cineoperatore. Il cinema come speranza di riscatto per la Sicilia, edita da Bonanno nel 2012. Ma i rimandi qui non restano mai sospesi, come se ci trovassimo ad ascoltare solo uno dei due interlocutori di una conversazione telefonica, perché questo progetto può funzionare solo se ha la capacità di dimostrarsi integrato e permettere una ricostruzione completa ed esaustiva dell’argomento. Il secondo volume è dedicato al principe Francesco Alliata di Villafranca ed è caratterizzato da una lunga ricerca negli archivi privati del regista e da una serie di interviste originali. Per il volume sarà catalogato e digitalizzato il cospicuo archivio dei materiali conservati e custoditi dallo stesso Alliata. Ne è autore Ivano Mistretta, che da anni si occupa di cinema sia come tecnico (operatore e montatore), sia come promotore culturale (già presidente regionale della FICC e curatore di una fortunata rassegna dal titolo Fuoricircuito, che ha permesso di sottotitolare in italiano oltre quaranta film, mai distribuiti in Italia). Il terzo volume è dedicato a Vittorio De Seta e tiene conto della ricchezza bibliografica che contraddistingue – unico caso tra i documentaristi siciliani – la storia cinematografica del regista palermitano. Il volume mostra due centri d’attenzione: la prima parte analizza i documentari siciliani realizzati tra il 1954 e il 1958, i lavori più famosi e celebrati di De Seta; la seconda parte si concentra sulla produzione – prevalentemente televisiva – che De Seta ha dedicato all’infanzia e alla scuola, negli anni in cui questo tema era divenuto centrale anche all’interno dell’oferta culturale della Televisione di Stato. Ne sono autore insieme a Chiara D’Amico, che su Vittorio De Seta ha scritto la tesi di laurea specialistica, in Culture e linguaggi per la comunicazione. Ogni volume segue la propria traiettoria particolare; eppure c’è un discorso che li mette in relazione tutti e li fa dialogare tra diversi. C’è il desiderio di restituire una forma, un disegno riconoscibile, per quanto variegato e frastagliato, irregolare e complesso, di una realtà cinematografica che si è sviluppata già durante il regime fascista e che dura fino ai

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nostri giorni, in un luogo che è tanti luoghi, con le sue contraddizioni e la sua identità plurima.

II. Digitalizzare per conservare, digitalizzare per rendere accessibile Il secondo elemento che vorrei mettere a fuoco è l’esigenza di lavorare a una pubblicazione digitale, con tutte le difcoltà e le difdenze che, in questa fase pionieristica in Italia, l’e-book tutt’ora conserva. Ho lavorato molto sulla ricerca dei documenti originali: lettere, fotografie, ritagli di giornale. I formati erano tanti e irregolari, dall’articolo su quotidiano d’epoca alla lettera su carta intestata in A4, dalle fotografie 10 x 15 alle buste con bolli ufciali, che ne indicano la data di spedi zione. Subito mi sono reso conto che per pubblicare i documenti avrei dovuto rinunciare al cartaceo. Il problema principale erano i costi di una stampa a colori di dimensioni tali da rendere praticabile la lettura di un testo in formato tabloid o in A4. Questa difcoltà economica era connessa con una necessità di carattere tecnico, ossia la possibilità di avere una risoluzione che permettesse di studiare i documenti. La versatilità del digitale mi è sembrata allora una scelta obbligata dal punto di vista scientifico, dato che le riproduzioni digitali – se l’acquisizione è stata efettuata in maniera corretta – possono essere ingrandite considerevolmente, fino ad arrivare a indagare i minimi particolari, senza perdere di qualità. Diventa così possibile, partendo dal documento riprodotto nella sua interezza, anche se di dimensioni notevoli, zoomare al suo interno arrivando sino a leggere i graf e le spuntature delle fotografie, così come particolari altrimenti invisibili, osservare nel dettaglio timbri e appunti annotati a mano, firme e lettere manoscritte. Inoltre, l’analisi di ogni singolo documentario può, senza alcun costo aggiuntivo, essere anche accompagnata da sequenze di fotogrammi, una per ogni variazione di inquadratura. La sintassi cinematografica,

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proprio attraverso l’articolazione delle inquadrature, assume una ricostruzione esemplare, che tiene conto della composizione narrativa dello spazio. Perché la riproduzione del documento fosse completa, veniva a mancare soltanto il ritmo della narrazione. Ma la pubblicazione in digitale permette anche la riproduzione di clip video (sequenze tratte dai film documentari o dalle interviste ai registi) e di file audio (colonne sonore, commento sonoro fuori campo). Alle virtù della multimedialità e dell’economicità, occorre aggiungere quelle dell’ipertestualità e dell’accessibilità dei dati. I contenuti saranno indicizzati con riferimenti intra ed extra-testuali (link verso dati on-line) che consentiranno di operare ricerche mirate in maniera semplice ed efcace, arricchendo altresì la comprensione delle relazioni tra i contenuti. L’accessibilità dei dati-chiave da parte dei motori di ricerca (es. Google) garantirà agli utenti interessati di venire a conoscenza dell’esistenza dei volumi che saranno resi disponibili attraverso i più importanti canali di vendita on-line. I volumi potranno quindi essere acquistati e scaricati ovunque e con estrema semplicità e, grazie all’ottimizzazione del loro “peso”, potranno essere consultati, oltre che sui pc, anche su dispositivi come tablet ed e-book reader. L’ultimo elemento, non secondario, è la possibilità di poter tornare sul progetto, qualora si rinvenissero altri documenti di una certa rilevanza, da integrare alla prima edizione. Il vincolo delle matrici di stampa, le cosiddette “lastre”, necessarie per la stampa cartacea, che impongono una fissità della stesura pubblicata, con il digitale viene fatalmente a cadere. È l’autore a determinare la chiusura del progetto e la sua eventuale riapertura per una nuova e aggiornata edizione.

III. Dedicare, ringraziare, invitare Voglio dedicare questo volume a Laura Salafia, che ha ricominciato a studiare con il suo connaturato entusiasmo. Mi piace pensare anche

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che l’e-book proponga nuove soluzioni in termini di accessibilità. Studiare rende liberi, questo è assodato. E la libertà di studiare deve essere incoraggiata sempre. Anzi, penso che debba persino essere garantita. In altre occasioni, con Laura, a lezione o durante gli esami, ho avuto il gusto della condivisione. Spero che vorrà leggere anche questo mio scritto e che abbia voglia di chiacchierarne, come ha fatto per gli altri saggi su Saitta e sul documentario siciliano. Questo progetto, nella sua articolazione in tre volumi, nasce all’interno di la.mu.s.a., laboratorio multimediale del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania. Colgo qui l’occasione per ringraziare il Direttore del Dipartimento di cui mi onoro di far parte, il prof. Carmelo Crimi. Ringrazio anche il prof. Enrico Iachello, Presidente della Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale, editore dell’intero progetto. All’origine di tutto il progetto ci sono (ancora, sempre!) le sollecitazioni del prof. Giuseppe Giarrizzo, che ne ha seguito gli sviluppi, fin dalle prime battute (spazi inclusi). Ho il piacere di ringraziare per la revisione testuale di questo volume Roberta Caruso; per la sua impaginazione e per l’indicizzazione Alessandro De Caro; e per la grafica Roberta Incatasciato. I loro non sono dei meri apporti professionali; ogni passaggio del progetto è infatti il frutto di una discussione e di una continua condivisione, nella consapevolezza che si tratta ancora di formule nuove, di esperimenti editoriali pionieristici per il laboratorio, per l’editore, per l’autore e perfino per il lettore, che verrà chiamato ad adeguarsi a nuovi modelli di fruizione, a una intertestualità innescata dalla multimedialità. Sono riconoscente anche a Paola Di Dio e Nadia Tosto, due studentesse “cavie”, provenienti dal mio corso di Estetica del cinema, che si sono prestate a una lettura/test preliminare di questo testo. Al lettore, per tutti questi motivi, chiedo di giocare con me, lo interpello per un dialogo non solo sui contenuti, ma anche sulle formule

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che ho scelto, sui modelli ancora in fase di strutturazione. Lo invito a partecipare a questi operosi lavori in corso.

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Introduzione

In questo volume, il metodo che ho adottato per procedere all’analisi della produzione cinematografca di Ugo Saitta ha tratto sempre spunto dai documenti, riprodotti in digitale e resi disponibili dalla generosità di Gabriella Saitta, fglia del regista catanese e, per lungo periodo, sua collaboratrice. E i documenti accompagnano stabilmente la mia scrittura, la puntellano passo per passo, rappresentando l’ossatura principale di questa ricerca. Quando ho cominciato a occuparmi del documentario siciliano, era il 2004, ho avuto la possibilità di intervistare il principe Francesco Alliata di Villafranca e Vittorio De Seta. Certo, c’erano i loro documentari, che potevo studiare con calma attraverso le copie-lavoro in vhs che avevo ricevuto da Sebastiano Gesù – prezioso storico del cinema siciliano e grande collezionista di reperti cinematografci 1 –, ma c’era la possi1

Sebastiano Gesù è stato il primo storico del cinema a studiare prima e celebrare poi il documentario siciliano. Grazie a Etnafest (nel 2006), manifestazione patrocinata dalla Provincia Regionale di Catania, di cui Gesù è stato per molti anni direttore artistico della sezione cinema, gli spettatori hanno avuto la possibilità di conoscere gran parte del cinema documentario realizzato in Sicilia. Una delle operazioni più interessanti condotte in questi ultimi vent’anni da Sebastiano Gesù è stata proprio quella di partire dagli oggetti apparentemente secondari del mondo del cinema, come le locandine, i manifesti e le fotografe di scena, per ricostruire una storia apparentemente più dimessa e quasi sotterranea, ma ricchissima di curiosità e di contenuti sorprendenti. Lo spettacolo del cinema vive proprio di quest’approccio cultuale, che lo accompagna fn dalle prime pellicole. I gadget dedicati ai flm o i manifesti pubblicitari assumono infatti un ruolo non 9

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bilità di intervistare gli autori, di sottoporre loro un fuoco di fla di domande dalle quali solo in parte avrebbero potuto schermirsi. Non è che non si possa studiare il cinema, senza avere il contatto diretto con i registi, ma è un dato di fatto che il racconto dalla viva voce dei protagonisti permetteva di recuperare un contesto storico che riaforava dai ricordi personali. Solo due anni dopo, nel 2006, su sollecitazione di Giuseppe Giarrizzo, mi posi l’obiettivo di “recuperare” anche il cinema di Ugo Saitta. Per me, in quel momento, il regista catanese era poco più di un nome e il ricordo slavato della proiezione pubblica, per strada, della sua Agata, raggio di luce, programmata all’interno del festival girovago, più che itinerante, che si chiamava Mappe (era il 1999). “Incontrare” Saitta dopo quasi venticinque anni dalla sua morte, rendeva difcile proprio ricostruire quel contesto storico che aveva segnato il suo avvicinamento al medium cinematografco e le intersezioni – ricchissime per tutti i registi di documentari, soprattutto di quelli del secondo Dopoguerra – tra la biografa e la flmografa. A mettere in difcoltà la mia ricerca, interveniva un ulteriore elemento aggravante. Dopo la morte di Rita Consoli, moglie di Ugo Saitta e principale collaboratrice nella sua avventura cinematografca, la fglia Gabriella decise di lasciare Catania e, di conseguenza, di vendere la casa paterna per trasferirsi a Roma, dove lavorava da attrice. La casa di via Cibele 111 era stata attrezzata da Ugo Saitta come uno studio cinematografco e vi erano conservati – con amore ossessivo – tutti i cimeli che il regista catanese aveva raccolto nei decenni di produzione cinematografca. C’erano le riviste di cinema, a partire dai primi anni Trenta, articoli di giornale, fotografe e materiale pubblicitario dei flm. Solo le copie in pellicola vennero consegnate alla Filmoteca Regionale Siciliana, perché le custodisse e si occupasse di farle circolare, con un lavoro di valorizzazione del patrimonio culturale immateriale che tante energie ha richieinferiore per importanza a quello dei divi nella costruzione di una vera e propria mitologia cinematografca. 10

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

sto e richiede al personale diretto da Alessandro Rais. Ma, eccetto i flm, tutti i materiali vennero dispersi. Risultava difcile, se non impossibile, a distanza di tanti anni ricostruire le tracce di tale saccheggio. Quando nel 2006 contattai Gabriella Saitta, mi disse che le era rimasto solo un album di ricordi, assemblato amorevolmente dal padre, che raccoglieva alcuni documenti che vanno dal 1930 al 1962, molti articoli di giornale e qualche rarissima fotografa. Da quel materiale, dopo averlo digitalizzato2, sono partito per questa ricerca. E su quel materiale, in maniera puntuale, voglio tornare, per verifcare continuamente la mia scrittura critica. A questa raccolta – organizzata e strutturata dallo stesso regista come il racconto della sua ossessione cinematografca, nonostante lo spirito di occasionalità dei documenti che la compongono – si sono aggiunti due album di fotografe, recuperati da Tuccio Musumeci, tra le proprie memorie professionali. L’attore catanese ha accompagnato per un lungo periodo la ricerca espressiva di Saitta, soprattutto nella realizzazione della cinerivista Volto di Sicilia (1951-1969) e nell’unico lungometraggio a soggetto in 35mm, intitolato Lo voglio maschio (1971). Le fotografe contenute nei due album sono state realizzate da Angelo Strano, altro collaboratore fedele di Saitta, che si è distinto come operatore di ripresa di grande talento in alcuni documentari della stagione più matura del regista catanese (tra i quali, per la qualità delle riprese, segnalo La festa dei poveri, del 1978); le immagini, alcune a colori ma prevalentemente in bianco e nero, riproducono i set di Lo voglio maschio e della puntata n. 4 di Volto di Sicilia (1964), l’unica che è andata perduta delle dieci girate da Saitta. Opportuni appaiono anche i rimandi alla mia monografa su Ugo Saitta, già edita da Bonanno, in cui sono presenti alcune importanti ri2

Le pagine dell’album, in formato A3, sono state scansionate a 600dpi, per farne copia di conservazione, da me e da Chiara D’Amico. Gli 8 dvd che raccolgono le copie digitali ad alta defnizione, per un totale di circa 34 GB di informazioni, sono stati consegnati alla Filmoteca Regionale, che detiene e amministra il Fondo Saitta, e alla stessa Gabriella. 11

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

fessioni estetiche sul suo cinema. Questo volume non deve essere un doppione di quello cartaceo recentemente edito, deve invece dialogare con quel testo, svolgendo un compito che proprio quel testo, per le modalità editoriali che lo contraddistinguono, non può ricoprire. La funzione è diversa, le modalità di analisi e perfno l’approccio ai documenti sono diferenti. Qui si ragiona sui documenti che accompagnano i documentari, qui si legge e si verifca il dietro le quinte dei documentari, laddove invece in Ugo Saitta, cineoperatore si parte dall’analisi tecnica dei documentari, per tracciarne la ricaduta in termini di linguaggio cinematografco. L’approccio di quel testo è di matrice estetica. L’approccio di questo volume è invece di carattere storico. Per questo motivo è possibile indicare l’interazione tra questi due volumi come un unico percorso integrato, nonostante entrambi i volumi mantengano la propria unicità e completezza. Un’ultima precisazione occorre per segnalare la presenza di un’appendice con le trascrizioni di interviste a critici cinematografci e storici del cinema che si sono occupati specifcamente di documentario, come Adriano Aprà, Marco Bertozzi e Sebastiano Gesù, e ai principali testimoni della vita e del lavoro di Ugo Saitta, come la fglia Gabriella, l’amico e attore prediletto Tuccio Musumeci e il suo aiuto regista per numerosi progetti documentari Riccardo Manaò.

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Capitolo 1 Un album di ricordi (1930-1962)

Chi ha messo insieme le immagini di una vita? Chi le ha amorevolmente e sistematicamente – talvolta ossessivamente – raccolte, ordinate, organizzate e disposte in forma di racconto di una lunga e appassionata storia d’amore? L’album di documenti su cui ho lavorato non è una semplice rassegna stampa. Non è solo la raccolta di articoli di quotidiani e riviste, di fogli di sala e lettere e fotografe che parlano di Saitta in relazione alla sua produzione cinematografca. È qualcosa di più. È l’immagine che Ugo Saitta ha costruito di sé. Quella che ha potuto costruire, con i pezzi che la stampa, le istituzioni, i collaboratori gli fornivano; ma anche l’immagine che ha voluto costruire, perché la riteneva aderente alla propria identità. In una parola è la sua immagine allo specchio. È un abito di scena, è il trucco del clown e insieme il vestito della festa, lo smoking bianco con cui riceve il premio a Taormina e la fototessera di tre quarti, con la luce di taglio e i capelli impomatati con la brillantina. Qui lavoro con una rappresentazione sentimentale di sé e insieme con documenti veri: le buste coi timbri postali, le lettere protocollate e gli articoli riportati con l’immancabile ritaglio della testata col giorno della pubblicazione. Quest’album è qualcosa di simile a un’autobiografa, certo un po’ romanzata ed edulcorata dalla bonarietà della memoria, ma fedele nei fatti a ciò che è accaduto veramente. I tanti successi sono veri, quanto le rarissime polemiche. E tutto viene ordinato in forma di notizia, poi di racconto, perché è la narrazione soddisfatta e un po’ malinco13

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

nica di una vita oferta al cinema. Sì, perché c’è anche malinconia in questo personaggio, non solo l’euforia del pioniere e l’entusiasmo del missionario nella sua azione culturale. E forse il rapporto più complesso, quello che fa sofrire e smorza i sorrisi è proprio con la sua città, con quella Catania che nei suoi flm è sullo sfondo, ma che non è mai solo sfondo. Quella Catania che lo ha esaltato, celebrato e che poi lo ha presto dimenticato. Quella Catania che, a cento anni dalla sua nascita, non trova il tempo di proiettare i suoi flm o di fermarsi a parlare intorno a un tavolo di una stagione culturale che l’ha segnata e disegnata nuova, giovane metropoli, falsa Milano del Sud e centro di speculazioni edilizie e di arrembaggi mafosi. Città oggi distratta, presa dalle sue mille beghe quotidiane, senza una linea coerente di sviluppo economico e culturale. Ma qui parlo solo di cinema e di Ugo Saitta, operatore cinematografco e regista di documentari, che ha creduto di portare il proprio contributo al riscatto sociale ed economico della sua isola, armato di treppiedi e macchina da presa. Un sognatore, forse. Sicuramente un uomo del suo tempo.

1.1 Limiti e risorse del cinedilettantismo e le attenzioni del regime Il primo documento che viene analizzato, contrassegnato dal nome [01 fronte], è un articolo della rivista «Stelle», datato 27 ottobre 1934, che riporta la notizia della prevista costituzione, a Catania, della sede provinciale della Società Cinematografca Italiana, di cui viene indicato presidente Ugo Saitta. L’incarico giunge direttamente dalla Direzione Centrale di Roma della S.C.I. che, basandosi sulle esperienze del Cine Gruppo Dilettantistico Juventus – fondato e guidato dallo stesso Saitta – chiede al regista di assumere questo impegno e di utilizzare provvisoriamente la sede del gruppo anche per le attività della sezione provinciale della S.C.I. Le attività previste sono convegni su argomenti cinemato-

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Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

grafci, proiezioni di flm artistici d’avanguardia, conferenze, corsi di istruzione per la regìa, la sceneggiatura, le riprese, la fonica, il montaggio. Tutto ciò che riguarda l’espressione cinematografca che si prevede di realizzare sul territorio viene così a essere organizzato all’interno della sede provinciale della S.C.I. L’entusiasmo dei Cinedilettanti va infatti sì incoraggiato, ma anche regolato da una istituzione dedicata, al fne anche di creare una relazione con le altre realtà culturali che agiscono sul territorio, come i G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti). Saitta e il suo C.G.D. Juventus lavorano a un nuovo progetto, la realizzazione di un flm a soggetto, intitolato Clima puro. Già il nome di Ugo Saitta, un giovane appassionato cultore dell’arte dello schermo è favorevolmente noto negli ambienti cinedilettantistici Italiani […]. Con l’appoggio del GUF e con la diligente e disciplinata collaborazione di un gruppo di amatori riuniti sotto il segno della «Juventus Film» Ugo Saitta è riuscito a girare un lavoro di largo respiro che ha per titolo «Clima puro». Il dramma s’aggira sulla incomprensione che un giovane studente, rientrando in Italia dopo alcuni anni di assenza, ha della dinamica passione della gioventù d’oggigiorno […]. Ad una prima e pur incompleta visione la valentia e le doti del direttore, dell’operatore e degli studenti interpreti sono parse elogiabili e mirabili1.

Saitta, con la diligente e disciplinata collaborazione del suo gruppo di amatori, produce un flm dal tema caro al regime. E subito gli organi di stampa ofrono al regista elogi e incoraggiamenti, come si evince dal documento [01 retro]. La troupe della «Juventus Film», per la maggior parte composta da gufsti e gufste del nostro ateneo si è impossessata con la suggestiva imperiosità della sua giovinezza di queste plaghe divine, girandovi delle importanti scene del flm Clima puro. Il flm […] svolge un 1

Documento [01 fronte], «Stelle», articolo datato 27 ottobre 1934. 15

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

tema studentesco prettamente fascista, inquadrato in questo nuovo clima storico che la Rivoluzione di Mussolini ha inserito nell’animo degli italiani […]. Questo primo flm parlato girato in Sicilia dopo l’avvento del fonocinema dimostrerà che le possibilità della nuova generazione – che con giusto orgoglio ama chiamarsi la generazione fascista di Mussolini – sono multiple e possibili in tutti i campi. Questo flm, nel quale per la maggior parte è inserito lo spirito ultradinamico sportivo del goliardo italiano, ha per interpreti giovani, palestre, stadi2.

Ed ecco, indicato come documento [02], qualche giorno dopo l’anticipazione di stampa (5 novembre 1934), la lettera inviata da Vinicio Araldi, presidente della sede centrale della S.C.I., che sancisce l’assorbimento del C.G.D. Juventus da parte della S.C.I. al fne di «evitare dispersione di forze e confusioni» 3. L’organizzazione dei cinecircoli, articolati in sezioni seguite sempre dall’alto, dal Ministero della Stampa e Propaganda, mette ulteriormente in evidenza la coscienza che il regime fascista ha avuto nei confronti di tutti i realizzatori di flmati cinematografci. Che fossero amatoriali, girati con mezzi di fortuna, che utilizzassero supporti meno professionali come il 9,5mm e non fossero quindi distribuibili a livello nazionale e proiettabili nelle sale cinematografche, per il solo fatto di essere produttori di immagini – e quindi di immaginari – i registi, gli operatori e tutti i cinematografari, compresi i dilettanti, vennero imbrigliati in organizzazioni, intruppati in gruppi e circoli articolati gerarchicamente e sorvegliati direttamente dalle sedi centrali. Le nostre manifestazioni sono state rimandate di qualche tempo dato che saranno svolte con maggior fasto in collaborazione con la Direzione Generale per il Cinematografo del Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda4. 2 3 4

Documento [01 retro], «L’intervista», articolo datato 29 luglio 1934. Documento [02], lettera di Vinicio Araldi, datata 5 novembre 1934. Ibidem. 16

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

Assorbire e inglobare per regolare. La formula burocratica del regime fascista è ben nota e lascia strettissimi spazi di manovra. Di fatto, per un gruppo di dilettanti, rappresenta anche il riconoscimento del valore artistico del loro progetto. E il C.G.D. Juventus non si sottrae alle lusinghe degli apparati di regime, come è possibile leggere sul documento denominato [04 fronte], a titolo Cinema goliardico: Il G.U.F. ha appoggiato con la sua aderenza morale la iniziativa di questi suoi organizzati che serrati in Cinegruppo operano sempre meglio.Il G.U.F. di Catania è orgoglioso e contento di questi giovani, la cui giornata non è male spesa. Il Gruppo Juventus, tacitamente si appresta all’esame severo della critica e della stampa competente con sicurezza di agire e di cuore5.

E come riportato sul documento [04 retro]: Una motocamera dei primi modelli Pathè Baby ed il grande entusiasmo di Saitta […], attività travagliata e tenace, esperienze e tentativi a base di corti metraggi […]. Clima puro, flm faticato e coraggioso, non glorifca solamente la nuova gioventù ma ne attesta anche la volontà costruttiva ed eroica6.

Non è l’attenzione degli ufci preposti al controllo delle produzioni cinematografche, che infastidisce Ugo Saitta, quanto invece la classifcazione di “dilettante”. A questa, il regista catanese si ribella apertamente con un articolo a sua frma, uscito sul mensile – del quale è redattore – «Realtà», che riporta come sottotitolo, tra parentesi, l’Umanità. Un sottotitolo apparentemente curioso, anche se è possibile rintracciare dai vari scritti teorici sul cinema del tempo e dalle recensioni critiche, come i due concetti di realtà e umanità siano ritenuti i pilastri portanti della 5

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Documento [04 fronte], articolo intitolato Cinema goliardico, uscito su «Il Popolo di Sicilia», datato 14 giugno 1934. Documento [04 retro], articolo intitolato Clima puro, uscito su «La Cinematografa Italiana», datato gennaio 1935. 17

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

produzione cinematografca sostenuta e incoraggiata dal regime. Ma torniamo all’articolo polemico e un po’ piccato scritto da Saitta, che è stato classifcato come documento [05]. Qui il regista fa un semplice sillogismo. Se il cinema è arte, allora chi fa cinema è artista vero o è filisteo. E così deve esser chiamato, senza distinzioni di supporto (pellicola 9,5mm, 16mm e 35mm), né distinzioni di genere o durata (lungometraggio a soggetto, cortometraggio a soggetto, lungometraggio documentario, cortometraggio documentario). Chi fa cinema o è artista o non lo è. E nel dubbio li chiamereste voi dilettanti sol perché, privi di mezzi, non possono estendere oggi il campo delle loro concezioni, non possono esplicare largamente le loro attività e debbono sottostare, per necessità, alla penuria del tempo e della borsa? […] Li chiamereste, insomma, dilettanti, perché hanno un fne e non hanno un mezzo?7

Questo è un passaggio analitico importante, da parte di Saitta, perché afronta a testa bassa un modo ormai assodato di considerare le produzioni a passo ridotto (soprattutto in 9,5mm), ideate e realizzate soprattutto in ambienti universitari (produzioni classifcate in maniera riduttiva e approssimativa come passatempi goliardici). Ecco, la precisazione di Saitta è essenziale: è il budget a determinare l’importanza di un’esperienza espressiva o deve essere l’atteggiamento professionale con cui si afronta un progetto a defnirne gli standard di qualità artistica? A leggerla adesso questa domanda, posta da un ventitreenne di belle speranze e di grande maturità, posta da un idealista e sognatore, primo della classe e un po’ sgobbone, entusiasta e coraggioso imprenditore, che al cinema dedicherà tutta la sua vita, a leggerla adesso questa domanda fa un po’ sorridere. Ma di un sorriso amaro, pieno di un fatale senso di sconftta. Perché adesso conosciamo i limiti dell’esperienza cinematogra7

Documento [05], articolo intitolato Cine-Dilettantismo, uscito su «Realtà», datato gennaio 1935. 18

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fca di Ugo Saitta, adesso sappiamo che è sempre stato il sostegno dell’industria che è mancato alle produzioni siciliane, mai l’inventiva o la professionalità, né la passione o il sacrifcio. È mancato proprio quel sostegno in termini di budget di produzione, in termini di fliera di distribuzione, che ha messo ai margini della produzione nazionale le esperienze della X Film di Saitta e parallelamente della Panaria Film di Francesco Alliata & co., che le ha messe fuori gioco. Ma allora, nel gennaio del 1935, il giovane e recalcitrante Ugo Saitta tutte queste cose non poteva ancora conoscerle. Per chiudere defnitivamente il discorso sulla sede provinciale della S.C.I., si prenda in esame il documento [08 retro], che è la lettera con la quale Vinicio Araldi, in qualità di Presidente della Sede Centrale di Roma della Società Cinematografca Italiana, afda la Presidenza della Sede Provinciale a Ugo Saitta, ammonendolo di prestare attenzione a tutte le difcoltà che sarà costretto ad afrontare. Ben volentieri afdo a Lei la Presidenza della n. Sede di Catania, non nascondendoLe che molte sono le difcoltà da superare e che non v’è speranza di poter trarre guadagno alcuno dalla Sua carica8.

Il documento [08 fronte] riproduce invece la tessera rilasciata a Ugo Saitta, in qualità di Presidente Provinciale della S.C.I.

1.2 La circolazione dei flm a passo ridotto, il cinema goliardico e Vent’anni Ci è sembrato quasi impossibile che con la sola fede, col solo entusiasmo si sia potuto arrivare là ove un’attrezzata Casa flmica giunge con milioni e con anni di studio. Eppure il Saitta, goliarda e primo cinedilettante siciliano ci insegna che con la passione, la volontà si 8

Documento [08 retro], lettera di Vinicio Araldi, datata 30 marzo 1934. 19

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arriva a tutto […]. Se nel flm si nota qualche pecca dobbiamo pensare ch’egli è un autodidatta del cine, che è stato solo lui ad improvvisare attori gli amici assommando in sé tutto il pondo del lavoro9.

La lettura del documento [10 fronte] ci permette di individuare un ulteriore elemento tematico, la realizzazione e le relative presentazioni e partecipazioni a rassegne e concorsi di un progetto realizzato dal C.G.D. Juventus Film. Si tratta di un flm a passo ridotto, intitolato Vent’anni, e viene defnito «un esperimento di cinematografa pura, muta e senza didascalie»10. È inoltre di rilevante interesse il documento [14 fronte], che riproduce la busta che conteneva probabilmente foto di scena e materiale informativo del flm Vent’anni: sulla parte frontale sono posizionati tre rettangoli di carta bianca sovraincollati delle proporzioni dello schermo; su questi rettangoli, come se fossero delle truke cinematografche, sono riportati i titoli grafci («Il Cine Gruppo Dilettanti / Juventus / Presenta»11), con un efetto che riproduce la tridimensionalità, sono disegnati a mano con la tecnica del chiaroscuro; scritte a mano anche alcune annotazioni, «Primo passo ridotto a soggetto girato in Italia» con l’anno di produzione 1933 e i credits («soggetto, sceneggiatura, interpretazione, ripresa ottica, montaggio di Ugo Saitta» 12); infne è presente un ulteriore riquadro in carta bianca sovraincollato e dattiloscritto, che riporta l’indi9

10 11 12

Documento [10 fronte], articolo a frma di A.G. Ottorino Russo, intitolato “Vent’anni” e uscito sul settimanale «L’Intervista», datato 24 settembre 1933. Il salto indietro nel tempo, nella presente organizzazione dell’analisi, è legato al rispetto dell’ordine tematico e non prettamente cronologico operato dallo stesso Saitta nella costruzione dell’album, cioè nel racconto della sua stessa storia. L’indicazione delle date di uscita degli articoli, la datazione delle lettere e dei do cumenti ci permette comunque di orientarci anche su questi slittamenti temporali, che assumono una rilevanza di interesse ulteriore, proprio perché disobbediscono a un naturale ordine cronologico. Ibidem. Documento [14 fronte], busta contenente foto di scena del flm Vent’anni, 1933. Ibidem. 20

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cazione «Nel primo esperimento di cinematografa pura. Muto e senza didascalie»13. A seguire, i documenti [14 retro 01], [14 retro 02] e [14 retro 03] riproducono rispettivamente 4, 2 e 1 fotografe di scena e di back-stage del flm Vent’anni. Nella prima e nella terza immagine del documento [14 retro 01], scattate in totale in campo medio, appare visibile il treppiedi e la Pathè Baby; la terza, in particolare, mostra il regista al centro della scena, pensieroso, che regge in mano distrattamente il megafono utilizzato per dirigere. Alla sua sinistra è possibile individuare l’operatore di ripresa, mentre alla destra c’è una signorina, probabilmente la segretaria di edizione, che però sembra puntare un proiettore di luce. È evidente come questa sia una fotografa in posa, proprio a partire dal valore simbolico dei tre oggetti, il megafono, la camera e la lampada. Sempre all’interno del documento [14 retro 01], la seconda e la quarta immagine (sfocata, quest’ultima) riproducono esattamente le inquadrature cinematografche: lo si percepisce soprattutto per lo studio della composizione e la cura delle luci, di taglio, a carattere quasi espressionista. Le due immagini del documento [14 retro 02] sono due semplici fotografe di back-stage, che mostrano due momenti del set, in esterni durante le riprese e in interni in un momento di pausa. La foto contenuta nel documento [14 retro 03], scattata in campo lungo, mostra il regista in un momento di rifessione, con un assistente tecnico, forse un macchinista, seduto per terra, alla sua destra. Entrambi guardano in macchina: questo fa pensare a un’ulteriore fotografa scattata con i protagonisti in posa. Anche in questo caso sono presenti gli strumenti principali del set cinematografco, come il treppiedi e la camera, la lampada e un pannello rifettente di tela bianca (detto anche ‘riverbero’), fatto in casa con una cornice in legno e probabilmente un lenzuolo; il riverbero viene utilizzato spesso per smorzare la luce diretta e violenta del sole o di una lampada, facendola arrivare al soggetto per via rifessa oppure si utilizza per bilanciare con una difusa secondaria una luce diretta primaria. 13

Documento [14 fronte], cit. 21

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La presenza di tale strumento autocostruito risulta pertanto doppiamente rivelatoria: da una parte mostra la cura dei minimi dettagli nella ripresa ottica, dall’altra lo spirito di adattamento di una troupe giovane e volenterosa. Il flm è «nato per volontà e girato sotto la regìa di Ugo Saitta, per il concorso indetto dal giornale torinese “La Stampa” scadente il 15 settembre 1933 XI»14. E a quel concorso, Vent’anni si classifcherà decimo su trentacinque flm concorrenti, dimostrando che i goliardi catanesi possono assumere a pieno diritto il ruolo di sostenitori del mezzo cinematografco, con tutto ciò che comporta in termini di servizio alla propaganda. Ciò dimostra che gli elementi del nostro G.U.F. si sono saputi imporre in quella nuova branca dell’attività giovanile che deve ripristinare il primato della cinematografa italiana15.

Ed ecco esplicitato anche il compito che i nuovi registi devono assumere. La rinascita del cinema italiano è un obiettivo dichiarato esplicitamente. Sulle mura dell’ingresso di Cinecittà campeggia la dichiarazione del Duce: «La cinematografa è l’arma più forte». È chiaro che l’Italia segna il passo in quegli anni e l’incoraggiamento alle nuove generazioni di sperimentare nuove forme espressive va proprio in questa direzione, nuovi registi per fare un cinema nuovo, rinnovato, rinato. Sono giovani che col cuore agli occhi hanno lasciato che [la] vita s’abbeverasse alle luci e alle ombre dello schermo; che hanno amato tutte le fgure di donna, intraviste nella proiezione […]; e così, senza soldi, senza macchine, senza pellicole, senza speranze, questa fraternità di refrattari […] s’è creato un campo di azione ed ecco come per incanto le macchine del sogno, la pellicola a lunghezze di cinque o 14 15

Documento [10 retro], articolo uscito su «La Stampa», il 31 ottobre 1933. Documento [11 fronte], articolo uscito su una rivista patinata, della quale non viene indicato il nome. 22

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dieci metri a seconda del prodotto delle privazioni personali, gli acidi per lo sviluppo frutto di immaginosi prestiti; le camere oscure scaturite dai salassi dei paterni gilets etc. etc.16

Il fervore, ebbro di altisonanti rimandi all’Arte e alle Muse, mostra e dimostra una passione sconsiderata e folle, un sogno per il quale si è disposti a sacrifcare le povere economie locali – sottratti i danari dalle tasche del gilet dei padri – e la stabilità di un lavoro qualunque. Il cinematografo ha un potere di seduzione assoluto, Hollywood e le sue stelle sono un miraggio illusorio in cui si vuole credere fno in fondo. Il «pronti, si gira» risuona e la sua eco gradita è come una molla per i bravi cinedilettanti ch’altro non attendono per mostrarsi appassionati interpreti del lavoro e della sua trama gioconda, umana, vera […]. L’edizione sarà presentata parlata e sonora con sistema vitaphone, ché l’altro sistema almeno per ora è precluso al cinedilettante, e ci darà l’esatta concezione della tecnica sviluppatissima raggiunta dal bramoso cacciatore d’immagini17.

Gli unici limiti, per i cinedilettanti all’arrembaggio – e un po’ anche allo sbaraglio – sono proprio i problemi tecnici, come quello della registrazione del suono, “sistemato” e sincronizzato in moviola, dal bramoso cacciatore d’immagini.

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17

Documento [12 fronte], articolo intitolato Hollyvoud a Catania [sic], uscito su «L’Intervista», il 1° luglio 1934. Documento [13 fronte], articolo a frma di Otto Rosso (Ottorino Russo), uscito su una testata non indicata («L’Intervista»?). Sulla fgura del cacciatore d’immagini, cfr. anche il documento [13 retro], articolo Pronti, si gira, uscito su «Ribalte e Schermi», settimanale de «Il Popolo di Sicilia», in data 1 maggio 1933: «Al grande concorso testé bandito dal giornale “La Stampa” il cacciatore d’immagini si prepara con fervore di opere e di intenti. Al concorso possono partecipare tutti i tipi di formati di pellicola dal 9,5 mm. a 70 mm., dal passo ridotto a quello grandeur». 23

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Non è solo una retorica esasperata, quella di questi articoli, che descrivono e raccontano le avventure cinematografche di universitari e appassionati in genere. È proprio la condivisione di un mondo, con il suo specifco immaginario appreso sullo schermo che gli amatori tentano di riprodurre in casa, alla buona, coi mezzi di fortuna che possiedono.

1.3 Partecipare alla vita culturale della città Il documento contrassegnato come [15 fronte] è una locandina di uno spettacolo teatrale, programmato all’interno del Teatro Coppola di Catania. La locandina indica l’organizzazione di una serata di benefcenza da parte del Cine Gruppo Dilettanti Juventus Film. La commedia in programmazione si intitola Scampolo, è in tre atti, ed è stata scritta da Dario Niccodemi; viene diretta da Ugo Saitta, che ne è anche interprete. Secondo quanto riportato sul documento [15 retro], «una improvvisata compagnia composta di improvvisati attori» 18 ofre a un pubblico numeroso e caloroso uno spettacolo in un teatro importante della città 19. Quello che è importante sottolineare, in questa sede, è proprio come il gruppo della Juventus Film agisse all’interno del tessuto culturale della città, facendosi promotore di iniziative importanti. Si trattava di studenti universitari, goliardi nella defnizione dell’articolo, pronti a mettersi in gioco al fne di contribuire alla promozione culturale di Catania. Importante è anche la scelta della benefcenza, che mette al riparo da interpretazioni di carattere speculativo. Lo spirito è appunto quello di un servizio culturale oferto alla città, senza ambizioni di tipo economico, ma con una chiara e curata professionalità. Infne va letto in fligrana il documento [17 retro], che riproduce una lettera inviata dall’Aero Club Agatino Arena, che è l’Ufcio Provin18 19

Documento [15 retro], articolo uscito su «L’Intervista», il 20 marzo 1932. Il Teatro Coppola, che è stato per decenni abbandonato, ha recentemente riaperto le porte grazie a un gruppo di cittadini, che lo ha “restituito” alla città. 24

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ciale di Catania del Reale Aero Club d’Italia. La lettera, datata 7 marzo 1930, comunica a Ugo Saitta il trasferimento degli ufci dell’Aero Club e invita il destinatario a recarsi nei nuovi locali per uno scambio di idee, fnalizzato allo sviluppo dell’associazione. L’interesse per questa lettera è duplice. Il primo e più superfciale motivo è che il documento evidenzia la considerazione che l’Aero Club Provinciale nutriva per Saitta, che all’epoca aveva solo diciotto anni. Il secondo elemento di interesse, meno immediatamente individuabile, riguarda invece l’attenzione del regime fascista per il volo, anche in termini di immaginario. È la stessa carta intestata dell’Aero Club a rivelarlo, ostentando in calce gli slogan di Mussolini, «Dare ali all’Italia e volare» 20, di Balbo, «La battaglia dell’Aero Club d’Italia deve raccogliere le Falangi Fasciste: il Duce è sempre lo stesso»21, e del generale Piccio, «E quando la battaglia per le ali sarà vinta, sarà stata la più dura, ma la più bella» 22. Questo elemento investirà lo stesso Saitta – che di volo è direttamente competente come questo documento attesta – di un progetto che verrà sviluppato negli anni successivi, dal titolo Prime Ali, che tanta visibilità donerà al regista catanese. A dire il vero c’è un ulteriore documento che mette in relazione Saitta, Italo Balbo e la passione per il volo, ed è quello contrassegnato come [09 retro], datato 27 agosto 1933, che racconta di una celebrazione di Saitta all’eroe italiano del volo. Un’interessante e riuscitissima sintesi cinematografca della Crociera Aerea Transatlantica del Decennale. Sia la sintesi cinematografca che la costruzione perfetta dei minuscoli modelli d’idrovolanti è stata opera di Ugo Saitta, il regista catanese del flm «Vent’anni» direttore infaticabile del C.G.D. Juventus. Il montaggio rafgurava il globo nello spazio con due luminosi fari Chicago – Roma, su cui gli idro-

20 21 22

Documento [17 retro], lettera dell’Aero Club Provinciale, datata 7 marzo 1930. Ibidem. Ibidem. 25

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volanti di Balbo puntavano per la più grande Vittoria che l’Ala italiana abbia avuto, nell’epica impresa, ormai leggendaria23.

1.4 Il Centro Sperimentale di Cinematografa di Roma Il Centro Sperimentale per Ugo Saitta non è solo un’opportunità di formazione professionale e artistica, non è nemmeno una possibilità di trovare un lavoro in campo cinematografco. Il Centro Sperimentale di Cinematografa di Roma è l’esperienza che Saitta ha sempre sognato di vivere, è la realizzazione concreta di un immaginario che lo ha accompagnato fn dalle sue prime inquadrature a passo ridotto, dalle prime battute da attore amatoriale, dalla stesura delle prime scene su copione. L’immaginario che si fa esperienza reale nella città del cinema per eccellenza, grazie alle lezioni di un maestro assoluto come Alessandro Blasetti. Ugo Saitta viene selezionato al primo anno della Scuola Nazionale di Cinematografa e si trasferisce a Roma, dove stringe anche contatti con i colleghi di corso Francesco Rosi, Citto Maselli, Alida Valli, e con le case di produzione, tra cui spicca per importanza l’Istituto L.u.c.e. (L’Unione Cinematografca Educativa), con cui Saitta farà numerose e importanti esperienze da regista e da operatore di ripresa. I documenti che raccontano questa esperienza sono le due lettere che l’Istituzione romana invia all’allievo del corso, entrambe in data 3 aprile 1936 e sono contrassegnati dai codici [18 fronte], [18 retro]. La prima lettera attesta che Ugo Saitta, in qualità di allievo del Centro Sperimentale, può usufruire della riduzione del 50% del prezzo del biglietto ferroviario per la tratta Roma-Catania; si noti come questo sconto sia una «concessione speciale del Ministero delle Comunicazioni»24 (e Propaganda), che su Cinecittà

23 24

Documento [09 retro], articolo uscito su «L’Intervista», il 27 agosto 1933. Documento [18 fronte], lettera del Centro Sperimentale, datata 3 aprile 1936. 26

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esercita un controllo pressoché assoluto. La seconda lettera invece attesta semplicemente l’iscrizione dell’allievo Saitta per l’annata 1935/1936. Le nozioni apprese alla Scuola Nazionale di Cinema, l’atmosfera respirata in quegli studi, le tecniche di ripresa, di recitazione e di regìa acquisite nei corsi trasformano il giovane Saitta in un vero professionista, gli chiariscono le idee sul suo futuro di coraggioso imprenditore e insieme di appassionato artista, lo fanno perdutamente innamorare non solo del linguaggio cinematografco, ma anche di tutto un mondo fatto di espressioni gergali, di tic e di fssazioni, di ruoli e di modi di essere. E Saitta conserva ogni traccia di quel periodo eroico, ricostruisce ogni minimo dettaglio di quel mondo, quasi in maniera ossessiva. E porterà tutto questo bagaglio di esperienze e di speranze nella sua Catania, come vedremo più avanti nell’analisi dei prossimi documenti.

1.5 Il bramoso cacciatore d’immagini Ai margini della cinematografa industriale esiste un’altra cinematografa quella dilettantistica, quella del cacciatore d’immagini. Il cacciatore d’immagini che apparve prima in Germania si è afermato incontrastatamente da oltre un lustro anche nella nostra penisola. Sorto per volere di pochi si è sviluppato divulgandosi da per tutto come una macchia d’olio si sparge su un foglio di carta25.

E i passoridottisti sono costretti a ingegnarsi con soluzioni creative e alternative rispetto alle grosse produzioni cinematografche industriali. Ne è un esempio un gustosissimo articolo di tecnica cinematografca in cui Ugo Saitta compare in qualità di esperto e inventore. La questione è seria e riguarda uno dei principali movimenti di macchina, quello che in qualche modo segna il discrimine tra professionismo e dilettantismo, cioè il carrello. Se la panoramica può essere a buona ragione considerata 25

Documento [13 retro], cit. 27

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come un movimento di macchina altamente democratico, in quanto basta un buon treppiedi e soprattutto una testa snodata che permetta una rotazione fuida, così non è per il carrello che richiede binari e piattaforme stabili e di grande macchinosità. Ecco, una delle diferenze evidenti tra una troupe di professionisti e una di amatori sta proprio nel numero di macchinisti, attrezzisti ed elettricisti. E sono proprio i macchinisti a costruire, scena per scena, le strutture su cui si muoverà il carrello, che devono essere perfettamente orizzontali, quali che siano le condizioni originarie del terreno sottostante. Ogni carrello ben fatto è una piccola opera ingegneristica e richiede ore di lavoro e tanta fatica. Per questo motivo l’intero articolo, riprodotto come documento [19 fronte], passa in rassegna tutte le possibili alternative low-cost di carrello cinematografco, con tanto di aneddoti divertenti, fotografe e disegni esplicativi. Saitta risulta essere l’inventore di una piattaforma a sfere di rara stabilità, soluzione defnita addirittura geniale dall’autore dell’articolo. Ma è con il documento successivo, contrassegnato come [19 retro], che il discorso si sposta dal piano tecnico su quello etico. Il passo più lungo è stato fatto dal pubblico che applaudisce convinto gli sforzi e le vittorie dei nostri migliori flms e, per quanto abituato ad ogni genere di paradossale produzione commerciale straniera, incomincia ad apprezzare incondizionatamente quei lavori italiani che, per l’inconfondibile spirito etico e morale che li anima, riescono a commuoverlo con la sua stessa vita vissuta nell’ora giornaliera del lavoro e della pace26.

E l’elemento essenziale che permetterà questa ricostruzione, che produrrà questa profonda trasformazione, è indubbiamente il «Centro Sperimentale di Cinematografa di Roma, che dovrebbe essere la fucina di tutte quelle forze nuove che dovranno domani rinnovare per intero i 26

Documento [19 retro], articolo intitolato Ricostruzione del cinema italiano, a frma di Ugo Saitta, uscito sul trimestrale «L’Appello», Rassegna mensile del pensiero dei giovani, datato luglio-settembre 1936. 28

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quadri, in ogni ramo e in ogni specializzazione della produzione» 27. La chiave di lettura adottata da Saitta è quella della sperimentazione. I giovani cinedilettanti, che sono ancora “in formazione”, producono lavori amatoriali in un contesto goliardico e si “fanno le ossa” sulla tecnica e sul linguaggio, studiano al Centro Sperimentale di Cinematografa e hanno alti valori morali e obiettivi precisi di ricostruzione del cinema italiano. Su questi temi, i documenti [20 fronte] e [20 retro] riportano un saggio critico di Domenico Paolella, pubblicato su un volume uscito nel settembre del 1937, dal titolo Cinema Sperimentale, che cita esplicitamente l’esperienza catanese di Saitta. «Triplice fascia di bronzo corazzerà il petto di costui», la cui volontà di riuscire, il desiderio d’arrivare sarà coronato da successo, tanto aspra è la lotta in questo ambiente del cinema, in cui esternamente rifulgono gli ori di una vita facile e avventurosa, promesse ingannevoli […]. Nacquero gruppi un po’ alla volta in tutte le città italiane, a Torino e a Venezia, a Roma e a Catania, a Milano e a Padova. Lo stesso fenomeno si verifcava nel resto dell’Europa, specialmente in Germania, Francia, Inghilterra, nel Giappone e negli Stati uniti d’America, dove sin d’allora, tutti i cinedilettanti furono chiamati a raccolta nella Amateur Cinema League, associazione a tipo federale […]. Nel flm a soggetto, mentre alcuni sono ancora sulla strada del cinedilettantismo […], uno si getta risolutamente nel tentativo del flm industriale dal soggetto aderente ai nostri tempi, Saitta con Clima puro28.

E Saitta, di suo pugno, annota a matita rossa, precisando con chiamate e sottolineature, emendando perfno con correzioni le date indicate dall’autore. Sa di essere non solo testimone di un movimento, ma di 27 28

Documento [19 retro], cit. Documenti [20 fronte] e [20 retro], estratti e ritagliati dal saggio critico di Domenico Paolella, Cinema Sperimentale, Casa Editrice Moderna, Napoli 1937, pp. 10-16. 29

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esserne direttamente coinvolto come attore; anzi, viene indicato da più voci come uno degli attori principali di questa trasformazione estetica del cinema italiano. Ed ecco, a chiudere perfettamente il cerchio, apparire in immediata successione tra i documenti articolati da Saitta in forma di racconto una lettera della Ferrania, industria per la fabbricazione di prodotti sensibili, cioè di pellicola. Il documento [21] riproduce la risposta a una lettera inviata dallo stesso Saitta, con una richiesta di chiarimenti sulle caratteristiche dei materiali prodotti dalla Ferrania e sulla loro reperibilità sul mercato. Perché una lettera aziendale succede un saggio critico sul cinema sperimentale? Perché in questa strana autobiografa per documenti vanno mantenuti chiari i confni di un percorso che è insieme biografco e flmografco. La tecnologia viene incontro alle esigenze tecniche e ha ricadute sulle possibilità espressive e quindi sull’estetica del cinema. Per Saitta è chiarissimo come non ci sia soluzione di continuità. È nata la Pancro C. 5 Ferrania29 e la ditta milanese invita il regista “romano” a provarla, a rendersi conto di persona dei miglioramenti. È il 24 marzo 1939 e Saitta, come vedremo in seguito, è impegnato in un progetto faticosissimo che lo occuperà per undici mesi di lavoro certosino. Poi ci sarà la guerra e un lungo silenzio cinematografco.

1.6 I pupazzi animati che vanno al Festival di Venezia Ugo Saitta ha inventato una fiaba, è questo il titolo di un lungo e articolato approfondimento giornalistico uscito su «Cine Magazzino» del 19 agosto 1939. I documenti [22 fronte], [22 retro], [23 fronte] e [23 retro] riproducono per intero questo ricco articolo, completato da un eccezionale corredo fotografco.

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Documento [21], lettera della Ferrania, datata 24 marzo 1939. 30

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Chi non conosce Saitta non può capire che cosa signifca per qualche giovane la passione del cinematografo. Una passione divorante, ardente, che dà la febbre, che toglie valore ad ogni cosa […]. Fin da quando nel 1927 comprò una macchina da presa a passo ridotto Pathè-Baby girandovi una specie di flm a base di reminiscenze salgariane. Doveva essere un giuoco, allora, immagino. Un giuoco divertente, trasformatosi a poco a poco in lavoro, assiduo, studio infaticabile, tormento continuo30.

Questo è il tono afettuoso e giocoso, quasi di bonaria presa in giro per la passione smodata di Saitta. È chiaro che chi scrive abbia a lungo e approfonditamente intervistato il regista catanese, che gli ha fornito tutte le informazioni essenziali, fn dalle sue prime adolescenziali riprese, alle esperienze ulteriori sia in campo artistico che organizzativo e di responsabilità istituzionale. Ma è il progetto di faba animata ad attirare l’attenzione del giornalista, che scrive anche per fornire un accurato resoconto delle opere presentate alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Questo flm dura appena undici minuti, ed è costato undici mesi di lavoro. Esattamente un mese per ogni minuto. I personaggi sono dei pupazzi di cartapesta e le scene sono riprese a scatto fotografco, cioè fotogramma per fotogramma […]. Per avere un’idea del lavoro che sono costati questi incantevoli undici minuti di faba, si pensi che Saitta ha dovuto impressionare ben 90.224 fotogrammi (pari a m. 1670,81), per utilizzarne soltanto 16.902 (m. 313). Ora «Pisicchio e Melisenda» si trova a Venezia, ed è stato proiettato dinanzi al pubblico più esigente. Tra tanti colossi, «Pisicchio e Melisenda» ha avuto il suo posto, se l’è bravamente conquistato, ottenendo un grande successo: quello che la passione e la fede del suo giovane autore completamente meritavano31.

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Documenti [22 fronte] e [22 retro], Ugo Saitta ha inventato una fiaba, «Cine Magazzino», 19 agosto 1939. 31

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I documenti [24 retro 01] e [24 retro 02] riproducono la locandina del Festival di Venezia del 1939, con il relativo programma, in cui fgura per le 15:30 del 15 agosto 1939 la proiezione di Pisicchio e Melisenda. I documenti [25 fronte], [26 fronte], [26 retro], [27 fronte], [27 retro], [28 fronte], [28 retro], [29 fronte], [29 retro], [30 fronte], [30 retro] e [32 fronte] rappresentano la copiosa rassegna stampa del flm Pisicchio e Melisenda, presentato al Festival di Venezia. Proprio grazie al gran numero di riscontri è possibile esaminare le modalità operative della stampa cartacea già in quegli anni non dissimili a quelle odierne. La circolazione di comunicati stampa a cui riferirsi in maniera spesso acritica determina una sorta di appiattimento dell’informazione e di ridondanza dei pochi, specifci, centellinati dati sulle opere di contorno. È chiaro – avviene così ancora oggi, nei festival più importanti come Cannes, Venezia e Berlino, ma anche Rotterdam, Oberhausen e Locarno, giusto per nominare le manifestazioni che hanno radici storiche più importanti – che lo spazio e l’attenzione maggiori vengono dedicati ai lungometraggi a soggetto in 35mm, laddove i documentari, i cortometraggi e i formati minori (16mm, 9,5mm, super-8 e, da metà degli anni Settanta tutto il mondo delle produzioni video) fanno da cornice ai flm di punta. I nomi dei grandi registi e dei divi del cinema servono però da cassa di risonanza anche per i progetti più piccoli e con uno spiccato interesse culturale. Quindi l’evento festival è un catalizzatore, sia in termini di visibilità – proprio grazie ai mass media – sia in termini di contatti tra autori, artisti e in generale addetti ai lavori. È importante anche il confronto con una critica, talvolta pungente, altre volte incoraggiante e generosa32. 31 32

Documento [22 retro], cit. Segnalo rapidamente, in proposito, alcuni dei commenti presenti sui documenti sopra indicati. Sul documento contrassegnato come [26 retro], che corrisponde all’articolo a frma di Enrico Roma, uscito su «La Sera», il 16 agosto 1939, si leg ge: «Di gusto letterario, cioè un po’ troppo rafnato e prezioso, ma ben fatto e per noi bambini grandi piuttosto ameno, è il cortometraggio di Ugo Saitta». Cfr. anche il documento [27 fronte], scritto dall’inviato de «Il Lavoro», uscito ancora 32

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

1.7 Cinema e Fascismo. La vigilia della guerra Il documento [32 retro] riproduce una lettera del Sindacato Interprovinciale Fascista Registi e Scenotecnici, datata 26 ottobre 1939. Ti comunico che sei stato iscritto a questo Sindacato. Mentre ti do il benvenuto tra noi, ti ricordo che è dovere di ogni organizzato ritirare con sollecitudine la tessera33.

Non ci sono discussioni da fare, il tono è perentorio. Suona addirittura risibile l’imposizione dell’iscrizione a un determinato sindacato, anzi il suo automatismo è a tutti gli efetti ridicolo. Da chi dovrebbe proteggere, il sindacato? A chi dovrebbe fare una eventuale vertenza? È solo un ulteriore tassello nello schema di controllo e di assoggettamento a modelli burocratici, svuotati di ogni signifcato. È il tentativo di irregimentare ogni spinta vitale, ogni entusiasmo espressivo, ogni gesto comunicazionale dentro formule spossessanti: la tessera da ritirare con sollecitudine, personalmente o tramite un incaricato (a cui occorre fare una delega?), gli orari d’ufcio, la frma del Commissario Ministeriale. Saitta sceglie di inserire nel suo album, immediatamente dopo questa lettera, il documento [33 fronte], che riproduce un ritaglio estratto dal Bollettino d’Informazioni del Centro Sperimentale di Cinematografa, indicato come supplemento della rivista «Bianco e Nero», datato 1 ottobre 1939. A lambire il logo del Centro Sperimentale, campeggia il

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il 16 agosto 1939: «Vi è fantasia, vi è grazia: e il Saitta merita la lode». In ultimo, cfr. il documento [28 fronte], l’articolo di Enzo Duse, uscito su «Il Gazzettino» dello stesso giorno: «“Pisicchio e Melisenda” di Saetta [sic], eroicomica storia di fantocci con intenzioni umoristiche, garbatamente e argutamente realizzata». Tutti questi articoli, con le loro citazioni di poche righe, danno però contezza di una copertura mediatica dell’intero programma del festival. E danno soprattutto il senso dell’atmosfera che si è creata intorno al flm di Saitta, della sua ricezione da parte del pubblico e della critica. Documento [32 retro], Lettera del Sindacato Interprovinciale Fascista Registi e Scenotecnici, datata 26 ottobre 1939. 33

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riferimento diretto al Ministero per la Cultura Popolare e, in grassetto, la Direzione Generale della Cinematografa. Il Bollettino contiene ancora una brevissima nota sulla produzione, da parte di Saitta, di Pisicchio e Melisenda come esempio di continuità operativa di un ex allievo dopo la fne dei corsi. Perché questi documenti stanno uno accanto all’altro? Che relazione c’è? È possibile che Saitta proponga una rifessione o l’unica ragione è un ovvio accostamento legato alla datazione (26 ottobre la lettera del Sindacato, primo ottobre il Bollettino)? Sappiamo però che Saitta non ha mai rispettato fedelmente quest’ordine e che anzi ci sono spesso delle discrepanze per cui tra un documento e il successivo si sono verifcati anche salti indietro di tre anni. Solitamente il raggruppamento dei documenti si articola intorno a un tema. È possibile riscontrare un tema comune tra il documento [32 retro] e il documento [33 fronte]? È possibile che questa risulti essere soltanto una forzatura, che si manifesti come un caso di sovrainterpretazione, però mi piace pensare che Saitta sia in grado di cogliere attraverso una visione di insieme gli elementi anche apparentemente distanti del Fascismo. Certo c’è il sindacato burla, ma c’è anche il Centro Sperimentale, e Saitta sembra comprendere che l’uno è il controcampo dell’altro. Entrambe le iniziative obbediscono in fondo agli stessi ideali, controllando e imbrigliando tutti gli sguardi cinematografci dentro lo stesso sistema industriale, burocratico, economico, culturale. La cinematografia è l’arma più forte, perché produce immaginari, guida i sogni, sorregge i pensieri, le paure e i desideri. Tutto il cinema è propaganda. E allora, per quanto sia la più dolce esperienza della vita di Saitta, il Centro Sperimentale non può non essere una scuola di cinema fascista, in cui si costruisce la propaganda che nutre il popolo e fortifca il regime. E fa il paio, senza stonature, con la lettera del sindacato fascista. Allo stesso modo è possibile leggere i documenti [34 fronte 01], [34 fronte 02], che riproducono due articoli sullo

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stesso tema34, ovvero il convegno di critica cinematografca organizzato dal G.U.F., presieduto e diretto da Ottavio Profeta, con interventi del camerata Ugo Saitta sulle «Attuali condizioni della cinematografa italiana»35 e con un intervento di Massimo Caporlingua sul successo del flm Alba tragica. Ritroveremo i nomi di questi protagonisti nei documenti successivi. Sul documento [36 fronte], la penna acuminata di Ottavio Profeta scrive: i corti metraggi di Venezia interessano come documenti di giovani energie che non scimmiottano i papuassi mestieranti, e sono degni di entrare nella grande produzione nazionale, con gli onori dovuti all’ingegno, alla tecnica, alla fede36.

La politica si fa estetica. A dirla con Guy Debord il rapporto tra Potere e Spettacolo è un rapporto di identità. Non è che il cinema metta in scena (rappresenti, racconti, rafguri) il Fascismo. Semplicemente ne è la manifestazione visibile. E la critica del profeta Ottavio Profeta ne suggella il compito morale. Ingegno, tecnica e fede. I cortometraggi, realizzati dai giovani cinedilettanti cresciuti nei Cine-G.U.F., sono l’unica speranza per il futuro del cinema italiano. Gli fa eco Massimo Caporlingua, il quale – ricominciando a ragionare dal flm Alba tragica – torna a chiosare su quanto asserito al convegno sul ruolo dei G.U.F.

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Il documento [34 fronte 01] riproduce l’articolo intitolato Il Convegno di critica cinematografica al Cineguf, pubblicato su «Il Popolo di Sicilia», il 28 dicembre 1939; il documento [34 fronte 02] invece riproduce l’articolo intitolato G.U.F. Convegno di critica cinematografica, pubblicato su «Il Popolo di Sicilia», il 27 dicembre 1939. Documento [34 fronte 02], cit. Documento [36 fronte], articolo intitolato In margine allo schermo. I fantocci di Ugo Saitta “Pisicchio e Melisenda” si afermano a Venezia. Funzione dei corti me traggi, uscito su «Il Popolo di Sicilia», il 24 agosto 1939. 35

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I Cine-Guf, unica strada su cui debbono passare i giovani che al cinema intendono dedicarsi, hanno per scopo principale una coscienza cinematografca nazionale, che possa dare un’impronta artistica e produttiva tipicamente italiana; che possa far sentire il cinema, come qualche cosa di assolutamente necessario e spiritualmente alto, che lo possa far sentire come industria e come arte […]. I cine-Guf tendono a formare nei giovani questa coscienza37.

È soltanto l’acquisizione di questa coscienza che conta. E tutto il contesto, circoli del cinema, gruppi goliardici, G.U.F., cinedilettantismo, Centro Sperimentale, tutto concorre a formare questa coscienza, a indirizzarla in maniera costante e sicura. A completare questo quadro d’insieme, troviamo il documento [37], che è una dichiarazione su carta intestata della Federazione Nazionale Fascista degli Industriali dello Spettacolo, datata 9 giugno 1942, che attesta la regolarità dell’incarico di Saitta presso la ditta Mander per la produzione di un flm. A sinistra, in verticale, sulla carta intestata, ci sono le avvertenze sulle modalità di comunicazione: «Pregasi trattare un solo argomento per ciascuna lettera – Scrivere impersonalmente» 38. Ed è così che le lettere si trasformano in dispacci. Si dichiara che, a quanto risulta a questa Federazione, il sig. Giuseppe Ugo Saitta verrà impegnato quale regista per la produzione di un flm39.

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Documento [36 retro], articolo intitolato Alba tragica, uscito su «Il Popolo di Sicilia», il 9 gennaio 1940 (cioè 12 giorni dopo il convegno di cui ho scritto sopra). Documento [37], lettera della Federazione Nazionale Fascista degli Industriali, Roma 9 giugno 1942. Ibidem. 36

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1.8 Il fecondo rapporto con l’Istituto Luce e la produzione di Prime ali e I cavalieri della G.I.L. Sono molti i documenti che descrivono la nascita e la fortuna di Prime ali, non tanto per la sua reale rilevanza cinematografca, quanto per la storia avvincente che lo vede procedere a singhiozzo dall’ideazione del soggetto alla sua realizzazione. Tante infatti sono le false partenze e le interruzioni, tanti gli aneddoti che accompagnano l’uscita di questo flm, ma le ragioni di tanta visibilità mediatica sono da ricercare altrove: la prima è che l’autore del soggetto, Gastone Martini, che è anche narratore e giornalista, decide di raccontare con un articolo divertito e divertente la storia della nascita del progetto; la seconda ragione riguarda la struttura produttiva che sta alle spalle di Saitta per questo flm, l’Istituto Luce, cioè la più importante realtà produttiva di documentari e cinegiornali in Italia. Ma andiamo con ordine. I documenti [40 fronte], [40 retro], [38 fronte], [38 retro], [35 retro] e [35 fronte], nell’ordine in cui li ho nominati, rappresentano la narrazione di Gastone Martini, uscita su «L’Aquilone», settimanale per i giovani, del 18 ottobre 1942. Il racconto assume fn da subito un tono ironico, con spruzzi di sarcasmo qua e là, sul mondo cinematografco fatto di registi chiacchieroni e produttori millantatori, ma anche di persone serie e appassionate. L’articolo è corredato di vignette a colori e caricature in bianco e nero, tra le quali non può mancare un proflo di Ugo Saitta, con i capelli impomatati e la sigaretta in bocca. Il documento [39 fronte] dà il lancio della notizia delle riprese in corso per il flm Prime ali. Il titolo indicato, Aeromodellismo, è provvisorio e probabilmente Giampiero Pucci, che ha scritto il pezzo, si basa su un’agenzia o direttamente su un comunicato stampa del Luce. Anche questo aspetto è importante: prima che il flm prenda forma, già si lavora per dargli visibilità, già se ne parla, indicandone l’argomento, che viene scambiato per il titolo.

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A partire dal documento [39 retro], si entra nel merito. Qui il documentario di Saitta viene inserito in una sorta di raggruppamento dei flm prodotti dal Luce. Il titolo dell’articolo è chiarissimo in questo senso, Il primo gruppo di documentari Luce per l’anno XXI, che poi sarebbe il 1943. La passione dei giovanissimi per l’aeromodellismo vi è narrata attraverso una semplice trama, che non altera lo spirito del documentario, ma gli dà anzi il pieno rilievo. È un vero e proprio piccolo flm a soggetto, organico e pieno di attrattiva40.

Si rivela la presenza di un soggetto, che poi è una sfda leale tra due giovani aeromodellisti, ma la semplice trama non altera lo spirito del documentario. Saitta vuole raccontare, a soggetto, ma l’Istituto Luce rimette l’operazione cinematografca al suo posto. È un documentario bell’e buono sull’aeromodellismo. Il resto, la storia, i sentimenti (e, più avanti, come vedremo, anche i primi piani) sono contorno, cornice, spunto creativo per rappresentare ciò che davvero importa, cioè la gara organizzata dalla R.U.N.A. ad Asiago. Per chiarire del tutto le posizioni, ecco il documento [41 fronte b], che esprime in maniera ufciale l’idea della casa di produzione. Come sia possibile svolgere un piacevole intreccio con una costante freschezza d’invenzione e al tempo stesso informare esattamente lo spettatore su un’attività che, prima di giungere alla sua fase agonistica, richiede un’attenta e non facile preparazione tecnica, ce lo dimostra Ugo Saitta41.

Salvo che poi, con la matita, lo stesso Ugo Saitta non si premuri di sottolineare un passaggio che rivela le proprie priorità:

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Documento [39 retro], articolo uscito su «Cinema», il 25 dicembre 1942. Documento [41 fronte b], Notiziario Luce, maggio 1943. 38

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ammirevole naturalezza degli interpreti (poche volte, infatti, si son visti dei ragazzi recitare così bene)42.

I documenti [42 retro], [43 fronte], [43 retro], [44], [45 fronte]43, [45 retro], [46 fronte 01], [46 fronte 02], [46 retro 01], [46 retro 02] sono ancora dedicati ai documentari Luce e a Prime ali, in particolare, con una ricchezza non solo di menzioni, ma anche di immagini fotografche, che ricorrono spesso su diverse testate, a evidenziare ancora il potere di difusione della casa di produzione romana. Lo stesso impatto mediatico che si manifesta per un altro progetto, ancora prodotto dal Luce, che si intitola I cavalieri della G.I.L. Anche qui la messe di articoli che informano sulla preparazione del nuovo documentario di Ugo Saitta è davvero ragguardevole. Il documento [43 retro], ad esempio, mette in relazione di continuità i due documentari. E Ugo Saitta, pensoso autore di uno spensierato flm di ragazzi, «Le prime ali», che, dopo il cortometraggio sulla storia dell’orologio ultimato in questi giorni, si appresta a eseguirne una serie dedicata ad alcune attività della G.I.L.44

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Documento [41 fronte b], cit. Documento [45 fronte], articolo uscito su «Il Tevere», il 9 giugno 1943, che sul flm commenta: «una breve vicenda è svolta con rapida e piacevole bravura, sul tema della propaganda aeronautica». La promozione di un passatempo giovanile, i modellini aeronautici, diventa uno col concetto della propaganda aeronautica. Non è solo una questione terminologica, quanto l’espressione di un’idea che sta alla base del progetto del Luce. E infatti, sullo stesso articolo: «Opportunissimo quindi questo cortometraggio di Ugo Saitta a farci conoscere più da vicino quel mondo dove la passione per il volo è coltivata e dal quale la tecnica trae e trarrà preziosi contributi per la sua evoluzione». Documento [43 retro], articolo intitolato Dei documentari in genere e di quelli “Luce” in particolare, a frma di Amerigo Gomez, uscito su «Schermo», Rassegna della cinematografa, del marzo 1943. 39

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I cavalieri della G.I.L. è un documentario celebrativo della scuola di equitazione del Comando Generale, dove gli allievi vengono trasformati da gof giovanotti senza arte né parte in cavalieri provetti. È inutile sottolineare come un progetto sifatto non possa sottrarsi alla retorica di regime. A seguire, ancora una sventagliata di citazioni su diverse testate nazionali. I documenti [47], [48 fronte 01], [48 fronte 02], [48 retro], ne riproducono ben otto, su vari quotidiani di tutta Italia.

1.9 La guerra è fnita Saitta, tornato dal fronte greco ferito e impossibilitato a tornare a combattere, aveva ricominciato a far cinema già nel 1942, a Roma, con il Luce45. Ma c’è come un buco nella narrazione del nostro album di documenti. Dal 1943 si salta fno alla fne della guerra. Il regista catanese ha abbandonato Roma, per tornare nella sua Sicilia e per dare inizio a una nuova avventura produttiva proprio nella sua città. A Catania, infatti, Saitta porterà tutto un bagaglio di esperienze romane. E un sogno, quello di realizzare con le sue sole forze una piccola Cinecittà siciliana. Le premesse ci sono tutte: il clima favorevole, che lo stesso Saitta defnirà come una “primavera perenne”; il coraggio di intraprendere; il mare e la montagna vicini, a favorire qualsiasi scenografa naturale. Tutto lascerebbe presagire una rinascita economica in grado di passare da un rilancio culturale e cinematografco, in particolare. Saitta tornerà spesso su questi argomenti, fno a farne una sorta di tormentone personale. Ma farà di più. Tutta la stagione cinematografca che si apre nel dopoguerra, tutti i documentari che realizzerà dal 1947 alla sua scomparsa vedono la loro ragione di esistere proprio in termini di missione economica e culturale del regista catanese. Il cinema può far nascere il turismo, il cine45

Documento [41 fronte a], articolo uscito su «Cine Illustrato», Settimanale di Cinema e Varietà, dell’ottobre 1942: «Ugo Saitta, dopo aver fatto il suo dovere di ufciale sul fronte greco, ha ripreso la sua attività cinematografca». 40

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ma può rivelare le bellezze naturali e monumentali della Sicilia, il cinema è la più grande risorsa per una rinascita della propria terra. È come se Saitta ripartisse da ciò che ha imparato a Roma, la cinematografia è l’arma più forte, ma cambiandolo di segno, dando anche un valore sociale a questa formula, come dimostrerà la sua esperienza cinematografca più importante, quella di Zolfara.

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Capitolo 2 I documentari della maturità artistica

2.1 I.C.S. Film o X Film che dir si voglia Il primo passo è fondare una casa di produzione. Non si tratta più di dilettantismo, perché adesso Saitta è un professionista maturo, con una sua credibilità culturale non indiferente. Ha seguito i corsi del Centro Sperimentale, ha lavorato per il Luce, è stato proiettato a Venezia. Nessuno può mettere in discussione la sua autorevolezza tecnica e artistica, in campo cinematografico. Il primo passo è quello di creare una rete. I tecnici vanno formati, allora si cercano gli attori, anzi i tipi. Il documento [50 fronte] riproduce un manifesto del Primo Concorso per la scelta di Tipi Cinematografici1. A organizzarlo è la neonata X Film, che sta per ‘ICS’, ossia l’acronimo I.C.S., che “sciolto” significa Industria Cinematografica Siciliana. Ecco, è importante che si chiami industria. È un nome che rappresenta la proiezione di un’identità ricercata, voluta, desiderata. Ci vuole un’industria cinematografica, ci vuole – meglio – un sistema industriale, con il suo indotto, la rete di vendita e i rapporti con gli assessorati alla Cultura e al Turismo e Spettacolo. Con l’industria si gioca su tre tavoli, 1

Successivamente il manifesto della X Film viene ripubblicato per intero, come riprodotto dal documento [52 retro], dal quotidiano «La Sicilia», l’11 maggio 1945. 42

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quello dello sviluppo economico diretto (la produzione industriale di film), quello della promozione turistica, quello della promozione culturale, che significa crescita sociale di tutta l’isola. Su questo Saitta è lucidissimo e molto concentrato. Gioca le sue carte e fa un tentativo, tanti tentativi fino in fondo. Anche quando ormai è chiaro che gioca da solo e che la politica non gli ofre la sponda aspettata, Saitta non rinuncia e va per la sua strada. Il documento riprodotto in [50 retro] riporta piccoli ritagli di giornale, apparentemente slegati, ma messi insieme e montati in modo curioso. Nel primo ritaglio, come se fosse un titolo, tutto in maiuscolo, figura solo il nome del regista: «UGO SAITTA». Sotto, in un rettangolino di carta bianca, un pezzetto di articolo, quattro righe esatte, che riportano quasi un’epigrafe: «dopo molti anni di permanenza nel campo professionale romano, è rientrato in Sicilia» 2. È il programma di Saitta. La sua dichiarazione d’amore e il suo impegno per la ricostruzione sociale ed etica, la rinascita economica e culturale dopo la seconda guerra mondiale. La Sicilia ha bisogno del suo apporto; e lui, da “cervello in fuga”, sente il dovere di ritornare e di provare a riproporre sulla sua terra quanto ha imparato altrove. E a registrare il cambiamento di atmosfera, c’è il documento [51], una lettera del Centro Italiano di Studi Anglo-Franco-Americani. Sotto la presidenza onoraria dell’On. Aldisio, Alto Commissario per la Sicilia, e con la partecipazione dei più autorevoli esponenti della cultura, dell’arte e del giornalismo, si è recentemente costituito, con sede in Palermo e con delegazioni nelle principali città d’Italia, un Centro Italiano di Studi Anglo-Franco-Americani […]. Per la costituzione della Delegazione Provinciale di Catania, ci onoriamo di invitarLa a far parte del Comitato Promotore3.

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Documento [50 retro], articolo ritagliato e montato da Saitta. Nessun riferimento all’autore, né alla testata, né alla datazione. 43

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Si riparte da zero e si tenta di riannodare i rapporti culturali che il regime fascista aveva rozzamente rescisso, per quella sua velleità di autarchia culturale. Ma questa nuova e necessaria apertura al confronto internazionale rischia di essere molto pericolosa, se non viene compresa e gestita in maniera seria. Il documento [52 fronte] riproduce un articolo, a firma dello stesso Saitta, uscito su «Il Meridiano dell’Isola» del 25 giugno 1946. Il cinema può giustificare i suoi attributi di universalità programmatica per potersi annoverare fra le vere industrie e il consesso delle vere arti. Il voler continuare a considerarlo soltanto sotto l’aspetto di bassa e volgare speculazione, è miraggio di coloro che hanno sfruttato il campo, obbligando a rovinare disastrosamente il prodotto sulla scala dei valori artistici. Il cinema è un’arte-industria che non potrà mai prescindere da uno dei suoi canoni formativi. E più che ogni altro, oggi, il nostro cinema che, cessata una efmera impalcatura di deprecato monopolio, viene a trovarsi, di colpo, in regime di libera concorrenza internazionale, per afrontare il quale non basta, per ovvie ragioni, la più encomiabile volontà di ripresa4.

Il corsivo è dello stesso Saitta. Se non si coglie la necessità dei due poli, il cinema e l’industria, da mantenere e rispettare entrambi, si rischia di appiattirsi sul versante speculativo e commerciale o si fa arte per pochi eletti. E invece il cinema ha la missione primaria di esprimere le «possibilità artistiche del nostro popolo»5. A questo punto, la X Film raccoglie la sfida e prova a indicare una direzione di sviluppo, portando come esempio ciò che si è realizzato pri3

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Documento [51], lettera del Centro Italiano di Studi Anglo-Franco-Americani per la ripresa e lo sviluppo degli scambi culturali, Delegazione Provinciale di Catania, indirizzata a Ugo Saitta, presso X Film, datata 27 ottobre 1945. Documento [52 fronte], articolo di Ugo Saitta, uscito su «Il Meridiano dell’Isola», il 25 giugno 1946. Ibidem. 44

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ma della guerra. È per questo motivo che Saitta decide di proiettare «in ripresa», cioè in replica, Pisicchio e Melisenda al cinema Lo Pò di Catania, come prodotto dalla X Film. Il documento [53 fronte] riproduce tre articoli, usciti rispettivamente sul «Corriere di Sicilia», su «La Voce dell’Isola» e su «La Sicilia», tra il 6 e il 10 dicembre del 1945 (ricordiamo che Pisicchio e Melisenda venne presentato a Venezia nell’agosto del 1939, quindi sono passati sei anni). Il documento [53 retro] riproduce l’articolo che informa dell’iscrizione della I.C.S. Film all’A.N.I.C.A. Il documento [54 retro] è la riproduzione di una lettera dell’Ente Provinciale per il Turismo di Palermo, che ha come oggetto «Riprese cinematografiche». È un invito a Saitta e alla sua X Film di dare visibilità a una serie di iniziative culturali, di fiere campionarie e manifestazioni sportive, che avranno luogo in Sicilia. È la prima testimonianza del tentativo di fare rete tra Enti locali e aziende cinematografiche del territorio. Il documento [55 fronte] riproduce un articolo uscito su «Orizzonti», il 7 maggio 1945. Una chiacchierata amichevole col Dott. Ugo Saitta ci ha messo al corrente di un’attività che sorge con ardente coraggio nella nostra città: l’Industria Cinematografica Siciliana X Film che si appresta ad entrare nella fase esecutiva con un programma di lavorazione e con vedute che artisticamente e commercialmente s’imporranno6.

Ecco, ancora una volta rispuntare i due poli, ineludibili nell’idea di Ugo Saitta, essere produttivi «artisticamente e commercialmente». In realtà, in questo caso si riferiva a un progetto, intitolato Nuvola, che non avrebbe mai visto la luce, per una serie di motivi estranei alla volontà e alle disponibilità dirette dello stesso Saitta 7. Quello che conta, 6 7

Documento [55 fronte], articolo uscito su «Orizzonti», il 7 maggio 1945. Cfr. la trascrizione della conversazione registrata il 17 dicembre 2008, tra Gabriella Saitta, Riccardo Manaò, Giorgia Bianchi, Chiara D’Amico e me; qui di 45

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in questa sede, è però la volontà di mettere a fuoco continuamente gli stessi obiettivi, con una pervicacia che risulta evidente in ogni singolo intervento. Intanto Saitta procede, come testimoniano i documenti [56 retro], [57 fronte], [57 retro], [59 a retro], a un consolidamento della sua struttura produttiva X Film e della sua posizione personale di regista e produttore indipendente. Lancia un progetto di Cine Club Catania, per costruire un pubblico di appassionati all’arte cinematografica; su «Cineguida» dell’aprile 1947, Saitta figura tra i registi e la X Film tra le case di produzione; rinnova l’iscrizione della X Film all’A.N.I.C.A.; entra a far parte dell’Unione Nazionale Produttori, braccio operativo dell’Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche e Afni. E ricomincia a girare documentari, con una progettualità nuova, non più la singola opera, ma collane di cortometraggi documentari, perché la dimensione deve sì essere artistica, ma anche industriale.

seguito riportiamo un intervento della figlia del regista catanese, Gabriella Saitta, intervento già pubblicato in Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, cineoperatore. Il cinema come speranza di riscatto per la Sicilia, Bonanno, Acireale-Roma 2012, pp. 16-17, n. 15: «Venne qua [in Sicilia; sc.] per girare Nuvola, un film che non fu mai finito, primissimo film del dopoguerra, raccontava che per girare scoperchiarono le case per avere la luce, perché ovviamente non avevano niente [...]. Papà [...] tornò con l’idea di creare una Cinecittà come quella romana, perché lui giustamente diceva: abbiamo il clima migliore d’Italia, possiamo per nove mesi l’anno girare in esterni. In più era molto amico di Ettore Catalucci, che era il fondatore della S.P.E.S., che poi divenne Technospes. La sua idea era quella di creare nel catanese degli Studios e fare il laboratorio di sviluppo e stampa con Catalucci. Questo progetto partì con la X film [...]. Nuvola però purtroppo non si poté finire perché i finanziatori si ritirarono. Papà girò metà film, poi andò a Roma e gli ofrirono un minimo garantito enorme, perché era l’unico film del dopoguerra. Tornò, disse questa cosa ai finanziatori che si accapigliarono, ovviamente, per chi doveva accaparrarsi il progetto... tanto che lo fecero finire nel nulla. Da quel momento questo progetto non poté più avere luce». 46

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2.2 Le collane di cortometraggi documentari A inaugurare la nuova e rinvigorita stagione di documentari è lo spettacolare L’Etna è bianco. Dà notizia della sua proiezione un trafiletto intitolato Prime natalizie, riprodotto insieme ad altri articoli nel documento [55 retro]. È infatti il 24 dicembre 1947, quando il film viene proiettato al cinema Diana di Catania. Il film appare subito come un evento cinematografico, perché è riuscito a cogliere dal vivo un’eruzione del vulcano più attivo d’Europa e perché è stato girato, per buona parte, a 3.000 metri d’altezza. La X Film riesce a muoversi agevolmente sul terreno della comunicazione, come attesta il documento [58 retro], in cui è riprodotto un articolo che mette in relazione la pericolosa emergenza della colata lavica con le riprese cinematografiche di Saitta. Il film invece è una storia, piana e serena, gioiosa perfino, delle bellezze paesaggistiche che ofre il vulcano. Narra, come la maggior parte dei documentari di Saitta – e la quasi totalità dei documentari dell’epoca –, una storia definita, che permette di accompagnare all’esile trama la presentazione dell’argomento principale del documentario. In questo caso, attraverso il tragitto di due gruppi di escursionisti, si potranno scorgere i panorami di due itinerari tra i più spettacolari dell’Etna. Le eleganti scelte di regìa mostrano un’accurata messa in scena e permettono di comprendere l’approccio di Saitta. Importante è soprattutto la scena del saluto tra i membri dei due gruppi, che si dividono per diferenziare i percorsi. Girata in campo e controcampo, dimostra che il film segue una precisa sceneggiatura8 e che è ben lontano dall’idea di documentario come ripresa di avvenimenti reali. C’è una studiata messa in scena di azioni, scritte e preparate nei dettagli. È ovvio che questo approccio di regìa si discosti alquanto dalla formula di promozione del film, che sembrerebbe far pensare a una troupe che si è trovata suo malgrado a inseguire la realtà dell’eruzione etnea. Nel film di Saitta, invece, è tutto sotto controllo, 8

Cfr. l’intervista al critico cinematografico Adriano Aprà, qui pubblicata in appendice. 47

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pianificato e predisposto a favore di macchina. La X Film è stata però in grado, con furbizia, di sfruttare il clamore mediatico dell’eruzione proprio in concomitanza con l’uscita del film. Il documento [59 a fronte] riproduce un lancio dell’Agenzia Informazioni Cine Teatrali Cinepress, del 21 marzo 1948, che annuncia l’uscita di ben quattro documentari. Per la produzione e la regìa di Ugo Saitta sono stati realizzati 4 cortometraggi illustranti le bellezze naturali e le attività industriali della Sicilia. “Boj Scouts a Taormina”; “Zolfara” con delle riprese efettuate a 450-500 metri nel sottosuolo; “Agata, raggio di cielo”; “Angolo di paradiso”. I documentari fanno parte di una collana mirante alla valorizzazione della ricostruzione turistica, sociale artistica della Sicilia (CINEPRESS)9.

È già possibile individuare una collana di documentari cortometraggi ed è chiara la proposta di una ricostruzione economica dell’isola che passi dal turismo e dall’arte cinematografica. Ormai la macchina è avviata e il documento [59 b fronte] mette in luce come alla stampa vadano comunicati anche gli spostamenti della troupe. Saitta e compagni si recano a Siracusa per le riprese di un nuovo documentario. Il documento [59 d retro] ci rivela titolo e sinossi: Mito e realtà di Siracusa; e siamo già nel 1948. Il documento [59 e fronte] riproduce un foglio di sala a colori, in quattro lingue (italiano, inglese, francese e spagnolo), del film L’Etna è bianco. Il documento [59 fronte] riproduce due articoli, a ridosso della settimana di festeggiamenti in onore di Sant’Agata, che annunciano le riprese del documentario omonimo, diretto da Saitta. Anche in questo

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Documento [59 a fronte], lancio dell’Agenzia Informazioni Cine Teatrali Cinepress, del 21 marzo 1948. 48

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

caso, si tratta di saper ben comunicare, con il giusto tempismo, la notizia alla stampa. In occasione delle prossime feste celebrative della Patrona, Ugo Saitta, girerà un documentario dal titolo «Agata, raggio di cielo». Il lavoro che tende a valorizzare il senso spettacolare umano e mistico nella sua efcacia tradizionale nonché gli aspetti veristici dell’attaccamento del devoto popolo catanese alla Santa, sarà subito portato in sede di montaggio e di sincronizzazione in modo che, il pubblico potrà apprezzarne positivamente i risultati10.

Sembrerebbe il progetto di un instant movie, eppure riguarda una festa che si ripete, uguale a se stessa, con piccolissime variazioni, di anno in anno. E allora perché tanta fretta? È ovvio che il tempismo dell’uscita del film – o della sua semplice comunicazione al pubblico – ha la sua importanza non secondaria. C’è proprio un ragionamento in termini di promozione del prodotto, in maniera modernissima, che permette a Saitta di dare massima visibilità e massimo sostegno alla sua azione cinematografica sul territorio. Il documento [59 retro] risulta di notevole interesse, perché mette insieme due articoli di giornale. Il primo, datato 18 marzo 1947, mostra una fotografia con un paesaggio lunare. Saitta la scatta durante l’eruzione dell’Etna che ha “accompagnato” le riprese de L’Etna è bianco. La didascalia descrive «l’infernale sarabanda della lava»11 e l’eroica impresa di Saitta con dei toni epici che accrescono l’attenzione del pubblico sul documentario.

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Documento [59 fronte], articolo intitolato Un documentario sulla festa di S. Agata, uscito sul «Corriere di Sicilia», il 19 gennaio 1948. Documento [59 retro], didascalia della fotografia scattata da Saitta e pubblicata da «La Sicilia», il 18 marzo 1947. A margine della didascalia, è possibile leggere: «foto esclusiva per concessione della X Film». 49

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Non è facile descrivere, né immaginare le difcoltà e i pericoli cui si esposero Saitta e i due aiutanti che lo accompagnavano per «girare» la lava a pochi metri di distanza, su un terreno che cedeva sotto i piedi, tra il calore infocato del magma e il gelo della tormenta a 3000 metri12.

Accanto alla fotografia tanto celebrata dell’eruzione, nello stesso documento [59 retro], Saitta ha incollato una segnalazione, uscita su «La Sicilia», il 23 dicembre 1947, in cui si dà informazione al lettore di un incontro a Taormina tra Ugo Saitta e Sandro Pallavicini, direttore del settimanale Incom. Si tratta di una riunione operativa, finalizzata all’ideazione e organizzazione di un festival del cortometraggio e del documentario per la primavera successiva, una rassegna che permetta di mostrare non solo le opere girate in 35mm, ma anche quelle in 16mm, cioè di produzione indipendente e low budget. Almeno due sono, in questo articolo, gli elementi di rilievo: il primo riguarda l’intenzione di Saitta di farsi promotore del cinema siciliano anche in termini di difusione distributiva; il secondo è “l’alleanza” con la Settimana Incom, che in termini strategici è decisamente significativa, perché significa avere accesso a una rete di distribuzione capillare di prodotti realizzati in serie. L’Industria Cortometraggi Milano, di cui In.co.m. è l’acronimo, ha infatti assunto nel dopoguerra un ruolo di primo piano nell’informazione audiovisiva, attraverso il format del cinegiornale. I servizi giornalistici, che vanno dai fatti di cronaca ai pezzi di costume, assumono la forma di palinsesto e acquisiscono un valore aggiunto che è dato proprio dalla serialità narrativa. Sono prodotti industriali, questo li rende ibridi, per metà documentari, narrazioni cinematografiche compiute e artisticamente rilevanti, per metà meri pezzi giornalistici, in cui l’urgenza dell’informazione ha il sopravvento sulla costruzione narrativa, cioè sul linguaggio cinematografico. I cortometraggi documentari che ha in mente Saitta per il festival devono venire anche da quella realtà indu12

Documento [59 retro], cit. 50

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striale di grande rilievo economico e di grande solidità produttiva. È un’apertura estetica che porterà in futuro Saitta a occuparsi direttamente di informazione, con il suo cinegiornale Volto di Sicilia. I documenti [59 c fronte], [59 c retro], [59 d fronte] sono delle pagine di un catalogo, ognuna delle quali è dedicata a un progetto cinematografico di Saitta: Sant’Agata, La Valle dei Templi e Dulcis in fundo. Dei primi due documentari è rimasta copia disponibile e tutt’ora fruibile presso la Filmoteca Regionale Siciliana. Dell’ultimo cortometraggio, invece, non è rimasta traccia, se non in rari riferimenti su articoli di giornale e appunto sulla pagina dedicata al film dal catalogo, poi riprodotta nel documento [59 d fronte]. Si tratta di un documentario sulla fabbricazione industriale dello zucchero, dalla produzione agricola della barbabietola alla rafnazione grazie a modernissimi macchinari. Dall’articolazione della sinossi è possibile evincere uno dei temi peculiari di Saitta, cioè quello della modernizzazione industriale come risorsa per lo sviluppo economico nazionale. Quello della tecnologia applicata alla tecnica industriale moderna è uno degli argomenti più cari al regista catanese. Di questo gruppo di documenti, è importante segnalare la traduzione in quattro lingue della sinossi (oltre all’italiano, c’è il testo in francese, in inglese, in tedesco e in spagnolo), la presenza di riproduzioni di fotogrammi come accompagnamento alla scheda del film e la presenza di alcuni pupazzetti stilizzati, in forma di caricatura, che rappresentano i vari ruoli della troupe (operatore, regista, autore delle musiche), con accanto il nome dei vari responsabili. Il documento [60 fronte] riproduce un articolo che informa sulle varie manifestazioni previste a Taormina per rendere più piacevole il soggiorno dei turisti. Tra le decine di iniziative previste in un vero e proprio cartellone annuale, c’è anche la manifestazione organizzata da Saitta e Pallavicini (Incom), una mostra internazionale del cortometraggio che si terrà nell’aprile. Il documento [60 retro] riproduce un’agenzia di stampa Cinepress, sull’uscita del documentario Agata, raggio di luce. La data del bollettino 51

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è 22-29 febbraio 1948, quindi a ridosso della festa della Santa Patrona di Catania, che si tiene dal 3 al 5 febbraio di ogni anno. Molto interessante è l’articolo di giornale, riprodotto nel documento [61 fronte], pubblicato sul settimanale di informazioni «Giornale del Lunedì» del 10 maggio 1948. Sono attorniati da uno stuolo di tecnici e collaboratori, i registi alla moda, e lavorano tranquilli all’ombra di assegni bancari con cifre da piano Marshall, e non sanno che in fondo a una miniera o in cima a una montagna un loro collega, con l’aiuto della sola segretaria e di un unico macchinista, ha lavorato per tre ore come un negro per fissare la macchina da presa in terreno impraticabile e ha dovuto spostare con le sue mani cento volte cavalletti e schermi per ottenere la luce giusta, perché la pellicola costa cara e un’inquadratura va girata una volta sola a colpo sicuro […]. E l’assessore regionale al turismo tirerà un sospiro di soddisfazione pensando che anche senza contributi, tante volte richiesti al governo e mai erogati, la propaganda in Sicilia si fa lo stesso. Che ne sa l’assessore al turismo di cinema e di propaganda? O crede forse che bastino tre o quattro documentari in giro per il mondo, frutto della passione di tre o quattro cittadini, per convogliare sull’isola carovane di turisti? […] In Sicilia non ci sono industrie, ma esiste, erogato a suo tempo dalla divina provvidenza, un patrimonio naturale, un capitale morto da mettere a frutto […]. Apriamo le porte all’industria del cinema e il volto della Sicilia diventerà familiare anche in Alaska […]. Un paio di lungometraggi sono stati prodotti, è vero, da case siciliane: ne è venuta fuori, su alcuni chilometri di pellicola, una serie di fotogrammi da cartolina illustrata, dove il folklore ha avuto partita vinta sull’arte servendosi dei più vieti luoghi comuni […]. I cortometraggisti animati dalla passione più che da mire di lucro hanno tentato, non preoccupandosi della più o meno commercialità del soggetto, di presentare una visione artistica dell’isola del sole; ma il loro lavoro, se non ostacolato, certo per nulla agevolato dagli enti turistici, dalle aziende di soggiorno, da

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tutte le innumerevoli organizzazioni comunque interessate al turismo, si potrebbe paragonare addirittura a un’impresa di pionieri13.

L’articolo risulta un attacco frontale all’amministrazione regionale, perché fa mancare il suo sostegno agli autori che lavorano per l’isola. Da una parte ci sono i registi appassionati, come Saitta, che corrono di qua e di là per dare visibilità nel migliore dei modi alle ricchezze ambientali e culturali della Sicilia14. Dall’altra ci sono i registi ricchi e distratti, aiutati da lauti contributi, che possono permettersi di lavorare con altezzosa noncuranza nei confronti dell’aspetto organizzativo delle riprese. Insomma, l’invito, rivolto direttamente a palazzo d’Orleans, è di tenere nella giusta considerazione chi fa il bene dell’isola, con serietà e sforzi immani. Non si richiedono per forza aiuti di carattere economico, in forma di contributi alla produzione di documentari, ma si chiede la facilitazione alle riprese, l’ottenimento senza lungaggini burocratiche di permessi e autorizzazioni, precisi ordini di servizio per i custodi di monumenti e musei. Si chiede, in poche parole, un aiuto sul campo al povero regista indipendente. Queste esigenze, messe a fuoco con notevole lucidità in questo articolo, sono proprio le motivazioni che stanno oggi alla base delle Film Commission di tutte le regioni italiane, Sicilia compresa. Il ruolo di agenzia di mediazione tra le case di produzione e il territorio

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Documento [61 fronte], articolo a firma P. e G., pubblicato sul settimanale di informazioni «Giornale del Lunedì», il 10 maggio 1948. Ne è testimonianza il documento [61 retro], che raccoglie tre articoli, due dei quali comunicano la partecipazione di Ugo Saitta, in qualità di operatore di ripresa, a Messina, per il cortometraggio Città Sorelle, diretto da Silvestro Prestifilippo. Il terzo articolo, tratto dalla rivista «Fotogrammi», pubblicato il 6 aprile 1948, comunica che «il documentarista siciliano Ugo Saitta sta ultimando il montaggio di quattro documentari, tutti ambientati in Sicilia: “Boy scouts a Taormina”, “Zolfara”, “Agata, raggio di cielo” e “Angolo di Paradiso”, che fanno parte di una collana di cortimetraggi [sic] che intende valorizzare la ricostruzione sociale, turistica e artistica dell’Italia e particolarmente della Sicilia». 53

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rappresenta infatti ancora oggi una delle difcoltà maggiori per un’impresa cinematografica.

2.3 Prove di realismo cinematografico, Zolfara È il 1947, quando Ugo Saitta realizza quello che viene considerato il suo capolavoro. Zolfara è tutto concentrato nello sforzo di dare visibilità a una situazione lavorativa al limite della sopportabilità, di una durezza bestiale e di una pericolosità allarmante. Realizza così un documentario onesto, pieno di rispetto nei confronti dei minatori dei quali viene esaltato il coraggio e la grande umanità. Certo, il documentario manca del tutto di polemica politica, perché altre sono le intenzioni del regista catanese. E quest’aspetto più volte ritornerà nelle note critiche delle recensioni, come elemento positivo. Il giudizio su Zolfara è quello di una buona operazione di realismo proprio perché manca di una confittualità politica programmata, dichiarata, rivendicata. Non c’è la lotta di classe, nel documentario di Saitta, c’è invece uno spirito umanitario che abbraccia i lavoratori delle miniere e ne evidenzia le virtù. Solo una frase del film, riferita ai lavoratori più giovani, ai “carusi” come vengono indicati dal commento sonoro fuori campo, mette in luce l’amarezza dell’autore per una realtà inaccettabile. Il carico dei calcheroni è riservato ai più giovani, ancora quasi ragazzi, i carusi fanno qui tirocinio e imparano forse troppo precocemente la fatica della zolfara15.

È tutta qui l’indignazione di Saitta, in questa puntura di spillo, perché altre sono le priorità, altre le battaglie da combattere. La contrapposizione politica dei proletari all’aristocrazia latifondista che possiede anche le miniere di zolfo dell’entroterra siciliano non è, secondo Saitta, 15

Trascrizione del commento sonoro fuori campo del film Zolfara di Ugo Saitta, 1947. 54

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una formula valida per combattere la povertà e l’arretratezza culturale. Si deve invece fare fronte comune, si devono lodare la dedizione, il coraggio e l’operosità dei minatori che permettono di estrarre il miglior zolfo del mondo16. La ricchezza dell’isola risiede anche nell’industria estrattiva, che permette di dare slancio a un’altra fondamentale via di sviluppo economico. Il ruolo del cinema deve essere quello di individuare una strada comune per la ricostruzione economica del dopoguerra, non di fomentare odi e contrapposizioni sociali. Ed è proprio questo ottimismo della volontà, con cui si afronta un tema spinoso come quello delle zolfare, che permette al documentario di Saitta di avere un così grande e indiscusso successo, su scala nazionale, a partire dalla Mostra del Cinema di Venezia, in cui fa ritorno a distanza di nove anni. Dopo l’esperienza di Pisicchio e Melisenda, programmato dal festival più importante d’Italia nel 1939, a essere selezionato nel 1948 è proprio il documentario Zolfara. I documenti [62 fronte] e [62 retro] riproducono il programma completo dei film scelti per Venezia 1948. Accanto a Zolfara, c’è Isole di cenere, un film per me importante, perché diretto dalla siciliana Panaria del principe Francesco Alliata di Villafranca. È l’anno in cui vengono presentati, tra i lungometraggi a soggetto, anche La terra trema di Luchino Visconti e Gli anni difficili di Luigi Zampa, con due soggetti tratti rispettivamente da Giovanni Verga e da Vitaliano Brancati (quest’ultimo collabora anche alla stesura della sceneggiatura del film). Due dei sei lungometraggi a soggetto e due degli otto cortometraggi documentari sono di ambientazione siciliana. L’attenzione che Venezia rivolge all’isola è indiscutibile e va motivata. La Sicilia diventa il luogo cinematografico della rappresentazione dei confitti, il simbolo perfetto delle contraddi16

Trascrizione del commento sonoro fuori campo del film Zolfara di Ugo Saitta, 1947: «Non ancora purissimo, è vero: perché divenga tale autocarri e teleferiche son pronti per trasportarlo alle rafnerie. Dopo, lo zolfo di Sicilia sarà il migliore del mondo». 55

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zioni dell’Italia all’indomani dalla guerra. Neanche Zolfara, del bonario e conciliante Saitta, può sottrarsi da quest’impeto di analisi sociale e di desiderio di riscatto economico, politico e morale di un territorio che era stato sempre rafgurato come fatalmente condannato alla miseria e all’arretratezza. Il cinema propone uno scarto, uno scatto di reni per rialzarsi, per ricominciare a sperare e credere in una Sicilia migliore, meno ingiusta e feroce, meno chiusa e feudale, superando proprio quella paralisi indotta dalle spinte conservatrici di chi possiede e gestisce “la roba” e il potere. La presenza e la visibilità di Zolfara sono testimoniate dai documenti [63 fronte], [64 fronte], [64 retro], [65 fronte], [66 fronte], [66 retro a + retro b], [67 fronte], [67 retro], [68 fronte], [68 retro], [69 fronte], [69 retro], [70 retro], [72 fronte], [72 retro 02], [73 fronte], [73 retro], [74 retro], [75 fronte], [75 retro]. È chiaro che il festival di Venezia produca di per sé una spinta non indiferente alla visibilità di un film. Ma l’attenzione e il clamore suscitati da Zolfara superano la normale “ridondanza” nella presenza sulla carta stampata, soprattutto se si considera che la sezione del cinema documentario è una sezione minore del Festival, che dedica invece la massima attenzione al concorso dei lungometraggi a soggetto. Non è un caso che in due articoli, rispettivamente riprodotti dai documenti [64 fronte], [67 retro], ci sia l’esplicito augurio per Saitta, notate e apprezzate le sue capacità cinematografiche, di passare alla direzione proprio di lungometraggi a soggetto17. Un altro elemento di interesse è proprio l’opinione dei vari recensori, i quali ritengono che Ugo Saitta abbia finalmente trovato la corretta misura per rappresentare dal punto di vista sociale e politico l’insosteni17

Documento [64 fronte], articolo pubblicato su «Il Giornale dell’Isola» del 21 agosto 1948: «auguriamo il più lieto successo. Che gli sia di conforto e d’incita mento per la produzione e la regìa di cose maggiori!». Cfr. anche il documento [67 retro], articolo pubblicato sulla «Gazzetta del Cinema» del 28 agosto 1948: «E gli auguriamo, perché se lo merita, di dirigere al più presto un film a soggetto». 56

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bilità del lavoro nelle miniere, senza rendere il proprio film un’opera a tesi. È una fedele, poetica documentazione della vita nelle miniere di zolfo siciliane […]. Si può dire che parlano le sole immagini e che volendo, il bel commento di Giampiero Pucci, potrebbe essere superfuo18.

È un’operazione dichiaratamente realistica. Per questo, il recensore, con una battuta naïve, sostiene che il documentario potrebbe prescindere dalla sua colonna sonora. Qui si porrebbe un discorso estetico estremamente complesso sulla invadenza della musica nel documentario italiano19. Qui mi limito ad annotare afettuosamente la superficialità 18

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Documento [67 retro], articolo intitolato “La Zolfara” girata a 500 metri sotto terra, uscito sulla «Gazzetta del Cinema», Quotidiano della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, il 28 agosto 1948. Cfr. Marco Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Marsilio, Venezia 2008, pp. 125-126: «In termini stilistici si tratta di prodotti segnati dall’onnipresenza della voice over, in qualche modo certa di un’unica, figurabile, realtà […]: limitazione del creativo, protezione dell’aleatorio, certezza dei paradigmi. Quando, nei migliori casi, a sovrabbondanze sintattiche si associano preziosità lessicali, è evidente che le ambizioni comunicative del documentario risentono ancora dei modelli letterari di riferimento dell’avvento del sonoro […]. In questa fase, il sonoro dal vivo resta una chimera: tanto che il film in stile «Formula 10» è spesso senza fonico e, a volte, con una colonna sonora composta senza aver visto le immagini (d’altronde le musiche devono essere originali, per assicurare altri introiti grazie ai diritti d’autore)». Per la specificità del “caso Saitta” all’interno della produzione nazionale di cortometraggi documentari, cfr. Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, cineoperatore, cit., p. 42: «Ugo Saitta riesce, in parte, a sottrarsi alla rigidità della formula 10, perché opera all’estrema periferia dei circuiti cinematografici nazionali e ne resta economicamente escluso. Se gli elementi di contiguità sono indubbiamente riconoscibili nella imposizione della durata e nell’utilizzo di un invadente sonoro extradiegetico (voice-over e colonna sonora spalmata su ogni sequenza, fino a cancellare ogni riferimento all’ambiente sonoro naturale di luoghi e situazioni riprodotte), così 57

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dell’autore di questo articolo, che, avendo inteso rivolgere dei complimenti all’autore del film, dimostra di non averne compreso le peculiarità linguistiche, considerate sia come limiti che come pregi. E ancora, sul documento [69 retro], leggiamo: Preoccupazione costante di mantenere il film sul piano della più assoluta obbiettività politica data la estrema ed umana delicatezza dell’argomento, è stato il fine primo della creazione artistica […]. Produzione varia ed impegnativa, come si vede, e tutta tesa alla migliore valorizzazione artistica della Sicilia, nel mondo 20.

È la “delicatezza” dell’argomento a determinare la morbidezza dell’approccio politico di Saitta. La posizione del recensore permette di fare chiarezza sulla percezione del film che avevano gli spettatori contemporanei e gli addetti ai lavori del tempo. Soltanto la didascalia a una foto di scena di Zolfara, pubblicata da «Paese Sera» del 1 settembre 1948 [68 retro], ofre un taglio diverso, di critica sociale più accesa nei confronti della disumanità del lavoro dei minatori siciliani: La vita bestiale che conducono i minatori dello zolfo nelle viscere della terra di Sicilia costituisce il tema di un documentario intitolato «Zolfara». C’è da augurarsi che, almeno al cinematografo tra una si-

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non avviene per l’assenza di sopralluoghi e di riprese in locations reali. Ciò che permette a Saitta di ottenere risultati originali è proprio il suo approccio artigianale e l’adozione di un modello di casa di produzione a carattere familiare. I do cumentari di Saitta, anche quando vengono girati “in serie”, non sono il risultato di una impersonale catena di montaggio. Non giocano a essere un oggetto com merciale di scambio, per avere semplicemente un borderò compiacente e tuttavia umiliante. Saitta a questo gioco si sottrae proprio per il suo amore sconfinato per la narrazione cinematografica. Così tutte le sue opere sono il risultato di un’elaborazione personale di un regista artigiano, che lavora ogni singolo film come un “pezzo” unico e irripetibile». Documento [69 retro], articolo pubblicato su «Cinemundus», il 30 agosto 1948. 58

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garetta e l’altra, i «padroni» vadano a vedere come si fa a guadagnarsi il pane.

È la prima e unica volta che appariranno i «padroni» come ombra cinica e feroce della lotta di classe in una nota sul cinema di Saitta. Si può pertanto considerare questa didascalia come un momento di forte discontinuità della comunicazione sul film Zolfara e, a maggior ragione, sull’intera produzione del regista catanese. A rimettere, in questo senso, le cose a posto, ci pensa Enfer, Enea Ferrante, con il suo articolo intitolato monograficamente Zolfara, nel quale battezza il film di Saitta con una battuta ardita: «Si vale di un linguaggio altamente sociale»21. Resterebbe oscuro il concetto di ‘linguaggio sociale’ se non si inserisse il cinema tra le arti e quindi non gli si ri conoscesse un valore educativo. Saitta si è ormai, dopo «L’Etna è bianco», impadronito interamente del linguaggio documentaristico che ai profani potrebbe sembrare cosa assai agevole. Ma non è così giacché quando non c’è trama bisogna egualmente interessare lo spettatore mediante una funzione esplicativa nascente dalla naturalezza delle sequenze e di quelle forze insite nella caratterizzazione dell’opera filminesca. E il regista ha svegliato queste forze che sembrano ancora primitivamente rozze ma pur sempre presenti nelle fasi evolutive della nostra società, di quel nucleo sociale cioè che, dimenticato, trova modo di far sentire ancora la sua anima fatta di lavoro, di onestà e di sacrificio. Molti giornali hanno parlato di questo film, si è detto che è bello, è riuscito, è esemplare. Non basta! «Zolfara» è anche un’opera socialmente educativa22.

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Documento [70 retro], articolo di Enfer, Zolfara, pubblicato sul «Corriere di Sicilia», il 7 settembre 1948. Ibidem. 59

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I minatori di Trabia-Tallarita sono un esempio per tutti i siciliani, con il loro spirito di sacrificio e l’onestà che li contraddistingue. L’importante è non scivolare mai in un’operazione scopertamente politica, mantenere cioè un equilibrio della cronaca fedele, che è poi il ruolo destinato al documentario. Rifuggendo dal trarre facili efetti pregni di quella dubbia «socialità» che in questi tempi così spesso ci capita di vedere, Ugo Saitta ci ha dato una fedele cronaca della vita dello zolfo, che tratto dalle viscere della miniera a 500 metri di profondità, attraverso un dolorante cammino fatto fare da uomini silenziosi ed induriti dalla secolare fatica, da sasso che è diventa liquido, e quindi, il miglior fior di zolfo del mondo23.

Perché, se Pietro Germi e Luchino Visconti, con i rispettivi film hanno denigrato gli isolani, per fortuna ci pensa il “nostro” Saitta a dare il suo sincero contributo alla rinascita della Sicilia. Non meno severo Luchino Visconti nel rimaneggiare la trama dei Malavoglia per quel suo film che tante polemiche e discussioni riuscì a sollevare negli ambienti cinematografici e politici […]. Da buon milanese egli osa gettare un pugno di fango in faccia all’umile pescatore di Aci ed insozzare quella placida borgata (posta là a guardia dei faraglioni) con la sua filosofia amara, col suo modo di raccontare non già la favola delicata che parla di bontà e di pace, ma quella della miseria, della grettezza morale […]. Ma vien poi Germi e con «In nome della legge» non fa che infierire selvaggiamente, brutalmente, sul corpo dolorante del siciliano cui a volte – se non di sovente – la macchina da presa fa l’efetto strano di un arnese di tortura […]. Ma un artista veramente «nostro» c’è, anche se l’indiferenza dei più cerca di relegarlo in una zona d’ombra per far tacere la sua voce 23

Documento [74 fronte], articolo di Pino Correnti, intitolato Ugo Saitta e i suoi cortometraggi turistici, uscito su «Etna. Notiziario turistico» (nato nel 1927 con la Fondazione della Pro Catania di cui è l’eco), datato dicembre 1948. 60

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schietta, sincera, tutta in difesa della terra che gli ha fatto da culla. E «Zolfara» oltre che un documentario d’arte, una bella pagina di «cinema puro», è un documentario di alto interesse umano e sociale […]. Ci duole che pochi, pochissimi, abbiano apprezzato e giustamente valutato la sua fatica, ma ci fa immenso piacere il poterlo annoverare, tra i propugnatori di questo rinascimento siciliano, uno dei nostri fratelli migliori24.

Perché la Sicilia non può risolvere tutta la sua complessità nello stereotipo, non può sciogliere la sua ricchezza di contraddizioni in una serie limitata e limitante di luoghi comuni. Di questo Ugo Saitta è sicuro. È stanco di fare solo da testimone e, dall’autorevolezza della sua posizione di intellettuale, pienamente riconosciuta dai suoi concittadini, lancia il suo atto d’accusa. Una cinquantina di frasi fatte, di luoghi comuni e di aggettivi; una cinquantina di pregiudizi, di leggende e di denigrazioni. E con questi cento numeri del vecchio, sbiadito e quasi sempre falso e insulso repertorio, indigeni e forestieri credono di conoscere a fondo quel capolavoro della natura che si chiama Sicilia! E invece no. Essa rimane una terra misteriosa25.

Subito scatta la denuncia, perché questo “mistero” resterà tale finché le istituzioni territoriali, gli enti locali e in special modo l’amministrazione regionale non decideranno di muoversi per valorizzare il territorio, favorendo il turismo.

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Documento [73 fronte], articolo firmato da Vito Sturiale Romano e intitolato La Sicilia piace al Cinema, uscito su «Mareneve» mensile di turismo, lettere, arte, folklore, datato marzo 1952. Documento [73 retro], articolo a firma dello stesso Ugo Saitta, dal titolo Glorifcazione della Sicilia. Zolfara, uscito sul settimanale indipendente «Giornale dei Siciliani», il 15 ottobre 1948. 61

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D’altra parte, che cosa ha fatto lo stato unitario, che cosa ha fatto il Governo regionale per difondere nel mondo la conoscenza dell’Isola del Sole, dei suoi incanti, delle sue particolari attrattive, della sua vita, del suo folklore? Nulla o quasi nulla, se si eccettuano le chiacchiere, le promesse e i platonici programmi miranti (solo con la fantasia) a valorizzarne l’economia e il turismo26.

Ecco allora il ruolo che sa ritagliarsi Saitta in questo contesto espressivo, artistico, ma anche produttivo ed economico. Da autore innamorato della sua isola, diventa regista illuminato, che canta la sua terra. Ed è proprio in questo «innamoramento ottico» la rivelazione dell’artista, amante della sua, della nostra terra; è proprio per questa via che trionfa l’inno alla Sicilia e si irradia nel mondo come un irresistibile richiamo verso la regina dell’Jonio, che impera in un angolo di paradiso terrestre27.

Un ruolo necessario soprattutto a contrastare quelli che lui stesso chiama gli «insulti gratuiti di certi denigratori»28. Urge quindi un incontro con i massimi vertici della Regione Siciliana, al fine di programmare una strategia unitaria di sostegno cinematografico alle ricchezze ambientali e culturali dell’isola.

2.4 Il cinema turistico, l’incontro con il presidente della Regione Sicilia Il percorso condotto da Saitta si mostra, ancora una volta, coerente e ben organizzato. Non basta girare questo o quel documentario, per ot26 27 28

Documento [73 retro], cit. Ibidem. Ibidem. 62

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tenere i risultati desiderati, per quanto concerne la promozione turistica. Bisogna prevedere un palinsesto di lavori diferenti eppure collegati tra loro, una collana di opere con molteplici oggetti di interesse, ma con un unico approccio alla narrazione, uno sguardo cioè che ne renda riconoscibile l’autore. «Ugo Saitta metterà in lavorazione una serie di documentari formanti un complesso armonico “Il volto di Sicilia”» 29, come registra il documento [64 retro]. È la comunicazione di un’impresa che vedrà la luce qualche anno dopo nella sua forma compiuta, ma che esiste già come progetto, come proposta da comunicare alle autorità che gestiscono e guidano il territorio. Sui documenti [74 fronte], [76 retro], [77 retro 01] troviamo la conferma della lungimiranza e della efcienza di Saitta, non solo come regista, ma anche come promotore e organizzatore di iniziative culturali. L’incontro con l’On. Alessi, Presidente della Regione Sicilia, permette infatti a Saitta di presentare – grazie a una proiezione cinematografica, presso il cinema Diana di Catania – un progetto concreto e in pronta consegna. La risposta positiva delle istituzioni non si fa attendere. [L’On. Alessi ha voluto] intrattenersi col valoroso regista per studiare con lui un programma cinematografico da attuare per conto della Regione […]. Nel pomeriggio, a Siracusa, l’On. Alessi ha avuto con Ugo Saitta un lungo colloquio, nel corso del quale gli ha dato l’incarico di produrre, per conto della Regione, quattro documentari per propaganda turistica da servire per la preparazione dell’Anno Santo. L’On. Alessi ha, inoltre, acquistato per conto della Regione una copia dei documentari visionati al Diana ed ha, altresì, dato a Saitta, un premio in denaro, come riconoscimento dell’opera svolta30.

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Documento [64 retro], articolo intitolato Zolfare, uscito su «La Sicilia» del 12 dicembre 1948. È interessante segnalare anche la discrepanza tra l’articolo e le fotografie, che sono probabilmente degli scatti efettuati dalla X Film di Saitta come sopralluogo, durante gli oltre 1.200 km percorsi per scegliere le migliori locations delle riprese di Zolfara. 63

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Ancora, il documento [77 retro 01] conferma quanto presente sul precedente, aggiungendo una sfumatura politica sulla fruizione di Zolfara. [L’On. Alessi] ha manifestato in maniera tangibile il suo plauso ed il suo interessamento acquistando in copia i documentari visionati ed elargendo, per conto della Regione, una somma di denaro a titolo di premio e d’incoraggiamento […]. Infine, una nota profondamente umana s’è avuta con la proiezione di «La Zolfara»: il lavoro, in cui il Saitta, con mano forte ma felicemente misurata, ci ha messo di fronte alla dura fatica sostenuta dai minatori delle zolfare31.

Anche in questo caso, viene sottolineata la misura con cui Saitta ha saputo raccontare il lavoro sventurato nelle miniere. Una misura che viene “premiata” dal Presidente della Regione, che riconosce ufcialmente a Saitta un ruolo preciso nella realtà culturale siciliana, di promotore delle bellezze dell’isola e delle virtù degli isolani. Non c’è ombra di polemica politica32, quindi Saitta è un uomo con cui si può discutere, non solo di ciò che ha già realizzato – che ha il suo indiscusso fascino e la sua assoluta utilità – ma soprattutto in termini di programmazione 30

31

32

Documento [77 fronte], articolo intitolato Visionati all’on. Alessi i documentari di Saitta, uscito sul «Domani», il 20 dicembre 1948. Documento [77 retro 01], articolo intitolato L’on. Alessi al circolo della stampa e alla proiezione dei flm di Saitta, uscito sul «Giornale dell’Isola», il 21 dicembre 1948. A ribadire ulteriormente, se ce ne fosse ulteriore bisogno, c’è il curioso articolo di Enfer, che con una lingua aulica e altisonante ribadisce il concetto. Non simbolo di “socialità”, non bandiera di lotta di classe, ma mera testimonianza della realtà. L’articolo, riprodotto nel documento [78 fronte], è intitolato Sicilia bella nei documentari di Ugo Saitta, uscito sul «Domani», il 20 dicembre 1948: «È questo un momento polemico perché apparentemente “Zolfara” non potrebbe che lasciare obiettivata la realtà descritta. Ma la sostanza è un’altra, non è la visione statica, generica […]. Si tratta di “socialità” e questa non è parvenza d’immagini cinematografiche o simbolismo di fotogrammi, ma vitale realismo». 64

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per il futuro. Ed è questa la vittoria maggiore, “strappata” da Saitta alle istituzioni, l’unica che conti davvero, poter cominciare a ragionare in termini di sistema di promozione del territorio, un sistema che può utilizzare il cinema come strumento efcace economicamente e rilevante artisticamente. E giù a battere il ferro, mentre è ancora caldo: documento [78 retro], «A Catania la produzione Ugo Saitta ha presentato in visione privata il primo gruppo di Documentari realizzati per la valorizzazione turistica e industriale della Sicilia»33. È un fuoco di fila: documento [79 fronte], in cui il regista catanese appare «nello sguardo tecnico e nel cuore appassionato […] giovane Artista, che ha succhiato l’Arte col latte materno»34 e però capace di mostrare «la vita dello Zolfataro e dei carusi ritratta con l’animo del sociologo» 35. La strada è ormai tracciata, la credibilità culturale è ampiamente riconosciuta, anche le istituzioni finalmente rispondono con la dovuta attenzione. Bisogna continuare a percorrere questa strada con pervicacia e senza esitazioni. I documenti [80 fronte], [80 retro], [81 fronte], [81 retro], [82 retro] disegnano in termini di continuità il successo ormai consolidato di Saitta, sempre accompagnato da una ricca copertura da parte dei giornali, ai quali si forniscono tutte le dovute informazioni su spostamenti, progetti in fase di sceneggiatura e riprese in corso. L’abilità di raccontare ciò che si sta producendo in tutte le sue fasi di sviluppo è importante tanto quanto girare e montare senza soluzione di continuità, ragionare cioè sempre in termini di industria cinematografica. È un circolo virtuoso, che a partire dalla fine degli anni Quaranta a tutti i Cinquanta vedrà forse realizzare pienamente il sogno di Saitta, nella sua piena integrazione tra forza industriale e valore artistico. 33 34

35

Documento [78 retro], lancio d’agenzia Cinepress del 26 dicembre 1948. Documento [79 fronte], articolo intitolato Al cinema Diana, uscito su «Unione», il 20 dicembre 1948. Ibidem. 65

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2.5 Taormina, palcoscenico naturale del documentario turistico Dal 9 al 16 ottobre del 1949 si tiene a Taormina la Terza edizione della Rassegna Internazionale del Documentario Turistico, patrocinata dall’Assessorato Turismo e Spettacoli della Regione Sicilia. È, in pratica, il sogno di Saitta che si realizza. C’è il riconoscimento ufciale dell’esistenza di un genere quale il documentario turistico; c’è la piena considerazione da parte dell’amministrazione regionale; c’è Taormina, bella bellissima e turistica come piace al regista catanese, ma anche glamour. Taormina è insieme location “obbligata” di tanti documentari realizzati per favorire il turismo in Sicilia, ma anche il palcoscenico predestinato a ospitare una rassegna che promuova l’idea stessa di un “documentario turistico”, la sua esistenza tra i generi cinematografici. La locandina, riprodotta dal documento [83 fronte], rafgura due pale di fico d’India (che fanno tanto stereotipo siciliano) che, al posto dei fiori, mostrano tante bandierine variopinte di diversi paesi (simbolo dell’internazionalità); ad avvolgere la pianta, come se si trattasse di un bouquet di fiori, c’è un nastro di pellicola, su cui campeggia la scritta «Taormina». Tutto è molto chiaro, lampante. Una comunicazione che rifugge alcun fraintendimento, diretta e senza dubbi o incertezze, sicura nei contenuti. È chiaro che si tratti di comunicazione pàtica: un’immagine di propaganda di assoluta evidenza. E questo è un elemento di estremo interesse. Perché mostra e dimostra in che modo le istituzioni, anche attraverso questa dichiarata – urlata, perfino – scelta grafica, considerino questo genere appena inventato. Più volte avevamo trovato l’espressione ‘propaganda turistica’, anche sugli articoli del dopoguerra. E abbiamo pensato a un retaggio di regime che ha ossidato la lingua dei giornali e che tarda a scrostarsi. E invece no. È l’immaginario di chi lavora negli assessorati, parallelamente a quello degli autori e a quello del pubblico, a essere stato colonizzato a tempo indeterminato dal concetto di propaganda. Che è cosa diversa dalla pubblicità, dalla promozione. Perché nella propaganda 66

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si compie la manipolazione del fruitore, che non viene afatto rispettato, laddove invece nella promozione si apprezza la sola proposta, l’oferta di un progetto, di un’idea, ancora di un immaginario. Questa locandina è anche un manifesto programmatico di un concetto di cinema al servizio delle istituzioni per una funzione precisa. Tutto viene predeterminato, dalla scelta fatale di Taormina alla pianta di fichi d’India, per rappresentare iconicamente – e laconicamente, mi verrebbe di aggiungere – la Sicilia. E questo in barba alla complessità di un luogo, al suo mistero tanto desiderato e auspicato da Ugo Saitta. I commenti che si possono leggere dagli articoli che accompagnano e raccontano la manifestazione sono perfettamente consoni all’occasione. Gino Corigliano scrive Un applaudito cortometraggio di Ugo Saitta, su «La Sicilia» del 15 ottobre 1949: «Le inquadrature hanno un solo difetto: sono troppo perfette per sembrare vere» 36. Gli fa eco Italo C. Fuks, da «Il Tempo di Sicilia», uscito il 15 ottobre 1949: «Ugo Saitta ha presentato un pregevole gruppo di cortometraggi, fra cui si aferma indubbiamente “L’Etna è bianco”»37. E il solito Enea Ferrante dalle pagine del «Corriere di Sicilia», ancora del 15 ottobre, infiora la sua prosa di punte di lirismo. Questa sera è stato presentato dopo un’ansiosa aspettativa da parte degli invitati alla Terza Rassegna Internazionale del documentario turistico il cortometraggio di Ugo Saitta «Sole e Fiori a Taormina» che ha riconfermato alla numerosa «èlite» di questo mondo elegante e cosmopolita quanta passione animi uno dei pochi siciliani che facciano del vero cinematografo. Ugo Saitta presentò questo documentario qualche tempo fa a Catania dinanzi all’allora presidente della Regione On. Alessi, fu calorosamente applaudito e le voci di consen36

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Documento [83 retro], articolo di Gino Corigliano, intitolato Un applaudito cortometraggio di Ugo Saitta, uscito su «La Sicilia», il 15 ottobre 1949. Documento [83 retro], articolo di Italo C. Fuks, intitolato Tra sole, pioggia e fori il documentario turistico, uscito su «Il Tempo di Sicilia», il 15 ottobre 1949. 67

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so così suonavano da una parte all’altra: «Questa è la vera Sicilia, una Sicilia bella e multiforme, gaia e fervida di opere»38.

Lo stesso entusiasmo, gli stessi toni trionfalistici, le stesse celebrazioni ridondanti sono riprodotti sui documenti [83 retro], [84 fronte], [84 retro], [85 fronte], [85 retro], [86 fronte], [86 retro], [87 fronte], [87 retro], [88 fronte], [88 retro], [89 fronte], [89 retro], [90 retro]. Sparute, invece, in questa sequenza di osanna, appaiono le rifessioni. Ragionamenti sul cinema pochissimi, poche le considerazioni sul ruolo del festival e sulle possibilità di crescita e di sviluppo della manifestazione. E al centro di tutto, l’assegnazione dei premi e il circo della comunicazione che già ha imparato a ruotare intorno ai comunicati stampa, senza inventiva alcuna, senza soggettività del giornalista che scrive. Ma procediamo con ordine. Il primo inciampo della rassegna è di tipo burocratico. La dogana non lascia passare molti documentari provenienti dall’estero e il programma salta, viene modificato, trasformato, mutilato. I pochi lavori internazionali che “filtrano” a Taormina costano tanto agli organizzatori del festival, costretti a svincolarli con sovrattasse pagate all’ultimo momento utile. Speriamo comunque che un altro anno si pensi in tempo ad organizzare meglio per dare a questa manifestazione il prestigio che merita per il buon nome della nostra autonomia e per gli sforzi che la Regione fa per risollevare le sorti del turismo isolano39.

La chiave di lettura è esclusivamente politica. La rassegna è una vetrina, che rischia di essere sporcata da questi contrattempi. La messa a 38

39

Documento [84 fronte], articolo di Enea Ferrante, intitolato “Sole e fori a Taormina” di Ugo Saitta, uscito sul «Corriere di Sicilia», il 15 ottobre 1949. Documento [86 fronte], articolo a firma di Graziano Motta, intitolato A Taormina tornati a splendere sole e fori, anche sullo schermo, uscito su «Sicilia del Popolo», il 19 ottobre 1949. 68

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fuoco è ovviamente sul frutto politico più succoso del momento, cioè proprio quell’autonomia cercata, voluta e ottenuta, grande vittoria concreta e insieme simbolica della politica regionale. Il secondo elemento di rifessione sulla rassegna è il periodo. Ottobre non consente la sicurezza meteorologica per le proiezioni in esterni; la rassegna inoltre, qualora venisse mantenuto il periodo autunnale per la programmazione, seguirebbe altre manifestazioni, gemelle per tema, che si organizzano in Europa. Ciò escluderebbe dal concorso molti dei film internazionali. L’iscrizione a un concorso cinematografico prevede infatti che il film da presentare sia in anteprima. La scelta del periodo della rassegna si carica così di una serie di ragioni di opportunità. Il terzo tema afrontato è quasi una denuncia. I documentari non vengono proiettati in sala. Prendono i soldi dei contributi statali, compaiono sul borderò che ne dichiara ufcialmente l’avvenuta proiezione, ma nelle sale non appaiono40. Una buona nota, inoltre, a tutta la critica che da tempo ribadisce l’argomento. La Giuria ha oferto a proposito del premio da assegnarsi «all’esercente italiano che abbia proiettato il maggior numero di documentari». Tale nota dice appunto, tra l’altro, che «constatando come nessun esercente abbia notificato la partecipazione al concorso (chi poteva farlo?) e d’altra parte riconoscendo come la presentazione di documentari nei pubblici locali sia generalmente trascurata, la Giuria è costretta a non assegnare il premio». Questa purtroppo è la verità, mentre è ben noto che il pubblico si interessa particolarmente dei documentari, i quali molto più del film a soggetto portano lo spettatore in luoghi reali e sconosciuti, rivelando uomini e Paesi senza finzione di sorta41.

40 41

Cfr. Marco Bertozzi, Storia del documentario, cit., pp. 124-125. Documento [88 retro], articolo a firma a.f., intitolato La III Rassegna del Documentario. Dopo Taormina, uscito sul «Giornale di Sicilia», il 23 ottobre 1949. 69

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In realtà non è che ci sia proprio tutto questo esagerato interesse del pubblico nei confronti dei documentari. C’è quasi un tacito accordo tra i gestori delle sale, che massimizzano i profitti dichiarando di proiettare i documentari e riscuotendo i contributi statali per le proiezioni, i produttori, che si preoccupano soltanto delle dichiarazioni ufciali dei gestori delle sale, e lo stesso pubblico, che non protesta mai se il documentario non viene proiettato, mentre invece mostra segni di irrequietezza (fischi e schiamazzi) quando la proiezione viene efettuata veramente. Cosicché la proiezione fittizia del documentario, prima del lungometraggio a soggetto, diventa un triste costume, da tutti accettato e perfino apprezzato. È chiaro invece che il pubblico che partecipa alla manifestazione tematica di Taormina al documentario sia efettivamente interessato. Il documento [89 retro] riproduce un articolo di Gino Visentini dal titolo decisamente esplicito: Il pubblico dorme ai documentari. Il critico prova a raccontare giornalisticamente tutte le iniziative mondane che hanno accompagnato la rassegna, elogiandole e indicandole come necessario accompagnamento alle proiezioni. Il discorso poi si sposta dalla quantità di eventi alla qualità cinematografica dei film presentati. Ed è la proiezione di un classico documentario come L’uomo di Aran di Robert Flaherty, che suscita nel critico cinematografico delle amare considerazioni. Questa proiezione non aveva alcun intento malizioso, ma lo spettatore esigente ha dovuto trarre le sue conclusioni: che cioè il documentario, anche quello turistico, ha bisogno di uscire dalla routine e di essere a suo modo un’opera di ispirazione. A Taormina qualche buon esempio non è mancato; si tratta solo di continuare, altrimenti il pubblico s’addormenta o s’arrabbia42.

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Documento [89 retro], articolo di Gino Visentini, intitolato Il pubblico dorme ai documentari, uscito su «L’Europeo», il 26 ottobre 1949. 70

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Basta vedere un classico del cinema documentario per capire che al di là di generi e sottogeneri, di raggruppamenti tematici che vengano incontro alle aspettative degli ufci e degli assessorati, il cinema produce film di qualità e film scadenti. E proprio per questo motivo la Giuria del festival decide di non premiare nessuno dei film in concorso, perché nessuno si è imposto in termini di qualità sugli altri. I lavori più interessanti sono tutti fuori concorso, perché non sono appunto anteprime. E proprio tra i film fuori concorso, è lo stesso Assessorato al Turismo e Spettacoli a voler premiare il film di Ugo Saitta L’Etna è bianco, dichiarandolo come il «miglior documentario sulla Sicilia prodotto dal 1945 al 1948» 43. È questa un’ulteriore attestazione di stima da parte della Regione nei confronti del regista catanese. Il premio è infatti dichiarato «extra-regolamento» e risulta essere a tutti gli efetti una celebrazione all’artista, che tanta attenzione ha dedicato alla sua isola. Un premio che gratifica enormemente l’autore Saitta, rivelando però tutti i limiti intrinsechi della manifestazione, che deve cercare il suo vincitore al di fuori del concorso.

2.6 Rappresentare la realtà Dopo tanto clamore mediatico e dopo tanta mondanità, si torna a lavorare. Si torna cioè a battere il territorio, con la macchina da presa, a costruire storie, a rendere visibili pezzi di realtà dell’isola, con la stessa buona lena degli esordi e con un po’ di consapevolezza in più, data dalle esperienze acquisite e dai riscontri favorevoli di pubblico e istituzioni. Il documento [91 retro] riproduce un articolo uscito sull’organo della federazione nazionale dei coltivatori diretti, una testata di servizio che ha nome proprio «Il Coltivatore Diretto». Tre fotografie, ritagliate 43

Documento [85 retro], articolo intitolato Il sole saluta a Taormina “l’ottobrata” e la luna chiude la “mostra del documentario”, uscito sul «Notiziario di Messina» tra il 17 e il 19 ottobre 1949. 71

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da Saitta, campeggiano sul foglio del suo album. Due fotografie illustrano e insieme testimoniano una scena del lavoro nei campi: la selezione delle mandorle e la raccolta delle olive per l’esportazione. La prima da sinistra ofre invece al fruitore un paesaggio campestre, che svela sullo sfondo una maestosa Etna innevata. Si tratta di tre immagini del documentario a tema agricolo Sicilia Jonica della Trinacria Film, di cui Saitta è stato direttore della fotografia e regista, ma non sceneggiatore 44. Ma non c’è, a ben vedere, soluzione di continuità tra il fulgore della manifestazione di Taormina e la concretezza dei coltivatori diretti, perché l’intenzione di Saitta e le forme da lui adottate restano le medesime. Ciò che cambia è, al limite, la comunicazione, ma è solo un discorso di superficie. Così il titolo dell’articolo a firma del solito Enea Ferrante, riprodotto sul documento [92 fronte], propone: «Un trapianto cinematografco in terra di Sicilia. La vallata dell’Alcantara utilizzata dagli americani per un nuovo tipo di Western?»45. Concetti già noti eppure ripetuti come un mantra, come una preghiera laica rivolta a chi? Alle istituzioni, certo. Agli imprenditori locali e nazionali, pure. Perché la Sicilia è un set perfetto, non solo per i film di ambientazione siciliana (Visconti, Castellani e Germi lo dimostrano), ma anche per tutti i produttori e gli autori che intendono utilizzare i suoi vari scorci paesaggistici di rara bellezza. Il problema – e riecco il mantra, ripetuto instancabilmente – è la mancanza di una solida struttura industriale che possa accogliere questi progetti cinematografici. Il documento [93 retro] riproduce una locandina di una serata organizzata dagli Amici del cinema il 5 febbraio 1950 e che prevede la 44

45

Documento [94 fronte], presentazione del film su «Rassegna Nazionale» dell’aprile 1950. Viene indicato il presidente della Trinacria film nella persona del Principe Rufo Rufo della Scaletta. Documento [92 fronte], articolo di Enea Ferrante, intitolato Un trapianto cinematografco in terra di Sicilia. La vallata dell’Alcantara utilizzata dagli americani per un nuovo tipo di Western?, uscito sul «Corriere di Sicilia», il 25 gennaio 1950. 72

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proiezione del documentario Zolfara, qui proposto con il titolo errato Solfara. Il documento [94 retro] torna ancora su Zolfara, inserendolo senza incertezze «nel quadro della Propaganda Turistica Isolana». Con «Zolfara», recentemente premiato alla Biennale di Venezia, Saitta, dice la sua parola sui problemi sociali che travagliano i nostri duri uomini dell’interno, per i quali il sole che abbacina è un mito, costretti come sono dalla diuturna fatica a 500 metri di profondità nelle viscere della terra46.

Zolfara è un documentario con un taglio sociale o è destinato, come gli altri alla “propaganda turistica”? Non c’è contraddizione tra le due posizioni, per la stampa del tempo, com’è possibile leggere sul documento [95 retro], che fa una disamina del cinema documentario di alcuni autori di qualità come Emmer, Alliata, Antonioni, Risi e lo stesso Saitta. Per costoro – e questo è un superamento – il documentario non è fine a se stesso; non è ricerca in sé chiusa e definita come illustrazione di questa città o di quel monumento. Ma è qualcosa di più: è la via aperta verso un particolare genere che nel documentario ha la sua radice e nel film a soggetto le sue logiche propaggini. Non più documento, ma interpretazione; non più l’uomo che osserva, ma l’uomo che interpreta47.

46

47

Documento [94 retro], articolo di Pino Correnti, intitolato La “Ugo Saitta Film” nel quadro della Propaganda Turistica Isolana, uscito sull’Almanacco Etneo 1950, p. 85. Documento [95 retro], articolo di Domenico Meccoli, intitolato Documentari e cortometraggi, pubblicato probabilmente su un volumetto, di cui non conosciamo l’autore o il curatore, intitolato Cinema italiano oggi, edito da Carlo Bestetti – Edizioni d’Arte, Roma, s.d., p. 171. 73

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L’uomo che interpreta la realtà, potremmo suggerire, utilizzando a sostegno di questa suggestione il documento [95 fronte], che è un lancio d’agenzia che informa come Ugo Saitta e Rita Consoli «dopo la realizzazione di interessanti documentari per la valorizzazione turistica della Sicilia, pensano di passare alla produzione di films a soggetto sulla Sicilia. Films a carattere verista»48. Interpretazione, appunto, della realtà. Con un approccio che ha richiami di matrice letteraria. È il 1950 e il richiamo al Verismo non è per nulla casuale. Tre anni dopo, Saitta realizzerà La terra di Giovanni Verga, con un commento ancora una volta letterario nella forma e nei riferimenti continui alle pagine delle novelle verghiane. Un’operazione lucidissima e “a freddo”, studiata nei dettagli e quasi chirurgica nella sua essenzialità. Andare nei posti in cui Giovanni Verga ha ambientato i suoi racconti e metterli in forma di cartolina illustrata per i turisti-che-verranno. E, attraverso quelle sequenze, belle e splendenti negli accesi e vividi colori della Ferrania, gli spettatori riconosceranno l’angolo della Acitrezza di Padron ’Ntoni o della campagna assolata e ricca di Mazzarò o di quella aspra e maledetta della Lupa. Il verismo cinematografico di Ugo Saitta è un’altra formula della sua ricerca peculiare e personale. Qui prende a prestito un termine forse troppo specifico e alto e connotato, per non rischiare di scivolare in un inadeguato luogo comune. Ma l’importante è crederci e provarci, crederci fino in fondo e provarci seriamente. Dovremo aspettare ventun anni da questo lancio d’agenzia per vedere un film a soggetto firmato da Saitta. E certo non si può dire che il suo Lo voglio maschio abbia un taglio verista.

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Documento [95 fronte], lancio d’agenzia Stampa Internazionale. Non è possibile risalire alla data della sua emissione, ma probabilmente risale al 1950. 74

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2.7 Il cinema scientifico e la Mostra di Venezia I documenti [96 retro], [97 fronte], [97 retro] si riferiscono tutti al progetto Canapa, diretto da Ugo Saitta, prodotto dall’Istituto Luce e presentato alla prima edizione della Mostra Internazionale del Film Scientifico e del Documentario d’Arte, sezione separata ma ospitata dall’XI Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Al di là delle considerazioni sull’opportunità per questa sezione del festival più prestigioso d’Italia di “staccarsi” definitivamente dalla manifestazione principale ed essere proposta culturale a sé, si coglie l’attenzione per una produzione audiovisiva di nicchia, con funzioni specifiche. Ma il rapporto tra il concorso e le sezioni secondarie dei grandi festival è un problema che continua ad afiggere la critica cinematografica ancora oggi e che sembra senza una soluzione definitiva. Da una parte, è auspicabile mantenere separate manifestazioni diferenti, quando dimostrano di avere un’identità forte; dall’altra, le manifestazioni minori utilizzano l’attenzione suscitata dalle grandi kermesse, per contare sulla presenza della critica al completo e avere un ritorno importante in termini di rassegna stampa. Saitta si dimostra, anche in questa occasione, il solito professionista e il suo documentario risulta gradito agli addetti ai lavori. Divertente infine il siparietto, riprodotto dal documento [99 fronte], ospitato sui fascicoli 51 e 53 di «Cinema», con un botta e risposta piccato tra Ugo Saitta e Gaetano Carancini. Il giornalista aveva parlato bene di Canapa, ma aveva sbagliato a indicare il nome del regista. Saitta lo accusava di non aver visto il film e di scriverne basandosi sui soli comunicati stampa. Il giornalista reagiva con un certo mordente. Ritroveremo infine una sorta di riconciliazione un po’ più avanti nel tempo, nel documento [101 retro] quando lo stesso Carancini, scrivendo un articolo su un’altra testata, ribadirà i complimenti al lavoro di Saitta, nominando due suoi titoli: Zolfara e Canapa.

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2.8 L’eruzione dell’Etna e il materiale di repertorio per Sciara Due documenti [98 fronte] e [98 retro] mettono in luce una nuova formula. Saitta raccoglie materiali, come se realizzasse un cinegiornale, per poi utilizzarli come repertorio in occasione dei suoi progetti documentari. L’occasione è, ancora una volta, oferta dall’eruzione dell’Etna. Saitta si reca con l’attrezzatura fotografica e cinematografica a registrare i momenti salienti dell’eruzione. Sono ormai passati tre anni dalla precedente eruzione filmata e montata all’interno del documentario L’Etna è bianco. Saitta procede stavolta in maniera diversa, c’è una coscienza diversa a guidarlo, una nuova lungimiranza. Non ragiona più da semplice regista, ma da produttore. E come produttore comincia a costruire i propri archivi di immagini, che torneranno utili in seguito, quando comincerà a realizzare i suoi documentari antologici49 e, successivamente, la cinerivista Volto di Sicilia. La raccolta delle immagini, sia fotografiche che cinematografiche, permette alla casa di produzione di lavorare come service, cioè di produrre immagini per lavori di altre aziende. Vendere non il prodotto finito, il progetto conchiuso, bensì la materia prima permette a Saitta una maggiore e più articolata presenza sul mercato. In questo caso, le immagini fotografiche vengono vendute al giornale per un servizio sull’eruzione. Nello stesso tempo, Saitta raccoglierà le sequenze della distruzione dei villaggi da parte dell’Etna, che poi saranno utilizzate tre anni dopo per il film Sciara. Predisporre degli archivi di ri49

Cfr. Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, cineoperatore, cit., p. 61: «L’ultimo Saitta ha già abbandonato il ruolo del narratore, perché è interessato a un’altra forma di comunicazione, molto più rapida e compulsiva, di matrice prettamente televisiva, anche se tecnicamente curata come solo il cinema può e vuole essere. Gli ultimi lavori di Saitta, soprattutto quelli privi di un tema centrale e che, per quanto riguarda la struttura, abbiamo denominato “antologici”, aprono la ricerca ad altre formule, a nuovi modelli di comunicazione. E l’esperimento del regista catanese sicuramente più innovativo, quello della cinerivista Volto di Sicilia, attraverserà buona parte della carriera di questo generosissimo autore, e ne infuenzerà in maniera progressivamente crescente le scelte linguistiche». 76

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prese comporta un investimento iniziale per acquistare la pellicola e girare delle scene senza prevederne un utilizzo immediato. Ma alla lunga fornisce a un’azienda gli strumenti per lavorare con un grande risparmio di energie e sul versante economico. La fase più difcile è proprio quella iniziale. Se però, come in questo caso, si afanca la produzione di sequenze cinematografiche a quella fotografica, che può essere prontamente monetizzata, i rischi economici vengono praticamente abbattuti.

2.9 I Boy Scouts, il principe Farouk e il bandito Giuliano Taormina si dimostra, ancora una volta, uno snodo essenziale nella vita di Ugo Saitta e di sua moglie Rita Consoli. L’occasione è, in questo caso, duplice e riguarda sia le notizie sulla proiezione del documentario Boy Scouts a Taormina, [99 retro], sia le riprese “rubate” del principe egiziano Farouk [100 fronte]. A raccontare la proiezione del documentario ci pensa uno scontatissimo Ottorino Russo, che mantiene – nonostante la guerra sia ormai passata da un pezzo – la sua scrittura in divisa militare. A leggerlo, no nostante la data indichi il 1950, si sente ancora la voce stridula e nasale dei commentatori radiofonici o cinematografici di regime. [Nel metodo educativo dei boy scout] si può constatare come lealtà, patriottismo, senso dell’onore, ardimento siano i postulati che creano l’Uomo che domani è in grado di poter assumere i maggiori posti di responsabilità nella vita50.

Più avvincente risulta l’avvenimento narrato sull’articolo pubblicato da «La Sicilia» il 12 giugno 1951, documento [100 fronte]. Quando il principe Farouk tenta di lasciare Taormina con il proprio yacht, sarà Rita Consoli a riuscire a rubare una sequenza filmata. Verrà fermata, in50

Documento [99 retro], articolo di o.r., probabilmente Ottorino Russo, intitolato L’ombra e la luce, pubblicato su una testata imprecisata, in data 26 luglio 1950. 77

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sieme ad altri reporter, fotografi e giornalisti, ai quali vengono anche puntate addosso le armi da sparo da parte delle guardie del corpo di Farouk. La Consoli, che si occupava personalmente del caricamento del magazzino della macchina da presa, per mezzo del sacco nero, riesce a scambiare la pellicola impressionata con le preziose immagini con della pellicola vergine, che poi consegnerà alle minacciose guardie del principe egiziano. È così che l’operatrice mostra arguzia, sangue freddo e una grande competenza tecnica. Riesce a realizzare lo scoop e accredita ancora di più la casa di produzione del marito, Ugo Saitta. Sicuramente, l’impresa giornalistica più sensazionale viene girata da Saitta e dalla Consoli in occasione della morte del bandito Giuliano. E su questo tema, controverso e oscuro ancora oggi 51, di estremo interesse 51

Sul tema della mancanza di chiarezza sui fatti che hanno portato alla morte del bandito Giuliano e sulla relazione, articolata e complessa, che la sua uccisione ebbe con il cinema, cfr. Alessandro De Filippo, Registrazione riproduzione rappresentazione. Sulla rappresentazione cinematografca della morte del bandito Giuliano, in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale» (in corso di pubblicazione): «Di quegli stessi giorni è l’articolo di Tommaso Besozzi, uscito sul n. 29 de “L’Europeo” del 1950, con un titolo significativamente esplicito: Un segreto nella fne di Giuliano. Di sicuro c’è solo che è morto. Di sicuro c’è anche che Ugo Saitta, arrivato nel cortile dell’avvocato Gregorio Di Maria prima che albeggiasse, subito dopo la morte del bandito (almeno secondo la ricostruzione ufciale che ne danno i Carabinieri), racconta […] che le immagini registrate quella notte non sono solo quelle montate nel servizio della Settimana Incom. Alcune sequenze, infatti, a suo dire vennero sequestrate e fatte sparire dagli inquirenti. Sempre secondo Saitta, lo stesso Ministro dell’Interno Mario Scelba si occupò di coordinare i Carabinieri nella “comunicazione” degli eventi riguardanti sia lo scontro a fuoco, che le ore immediatamente successive alla morte del bandito Giuliano. C’è un gran numero di incongruenze tra la versione ufciale fornita dalle forze dell’ordine e le ferite sul corpo di Giuliano. Ci sono anche incongruenze che riguardano orari e testimonianze, tra le quali quella del cugino di Giuliano, Gaspare Pisciotta, che successivamente si autoaccusò della morte del bandito. Lo stesso Pisciotta, che minacciava clamorose rivelazioni sull’accaduto, venne presto avvelenato in carcere da ignote mani assassine». 78

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è la costruzione narrativa realizzata con un collage da Saitta nel suo personale album di ricordi. Saitta e la moglie si trovano al cortile Di Maria, perché inviati della Settimana Incom, e sono i primi a fotografare e filmare il cadavere di Salvatore Giuliano. Le riprese permetteranno l’identificazione del bandito e la dimostrazione della vittoria dello Stato sulle bande di criminali organizzati. Esasperanti le difcoltà che ebbe la Settimana Incom n. 466, del 12 luglio 1950, dapprima in parte censurata dall’allora Sottosegretario per lo Spettacolo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, poi invece rilasciata nella sua interezza e così proiettata nelle sale cinematografiche. Saitta e la moglie hanno sempre raccontato che parte delle loro riprese erano scomparse, che c’erano delle evidenti discrepanze tra il racconto dei Carabinieri e lo stato del corpo del bandito (i fori d’entrata, il sangue sulla schiena). Nei racconti privati, che fecero sia alla figlia Gabriella che a un collaboratore tra i più assidui, Riccardo Manaò, Saitta e la Consoli concordavano sulla manomissione della scena del crimine, con il corpo spostato e posto in una posizione più favorevole per la luce dell’alba, poi invece ricondotto nella posizione “ufciale” decisa dalle forze dell’ordine. Ma in questa sede ci occupiamo di un documento specifico [100 retro], che raccoglie una sorta di collage sovrapposto di diversi articoli. Il primo e più importante è proprio quello sulla morte di Salvatore Giuliano, tratto dal «Corriere di Sicilia» del 24 aprile 1951, in cui è visibile a piena pagina la fotografia del corpo del bandito, che indica con una didascalia in Saitta l’autore dello scatto. A fianco c’è la sovrapposizione tra due articoli, che apparentemente non hanno alcuna correlazione. Il primo, sovrincollato, è tratto da «La Sicilia» del 17 luglio 1951, ed è intitolato I primi rifessi della strage di Portella. Messaggio di Giuliano al Presidente Truman. Il secondo, in buona parte coperto, è del 25 dicembre 1951 ed è intitolato I «pupi» di Emanuele Macrì entusiasmano spettatori di tutto il mondo. In quest’ultimo articolo Saitta ha sottolineato un brano, con la matita rossa, che riguarda

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la morte di Agricane. Certo, il rischio di una sovrainterpretazione 52 è probabile, ma possiamo immaginare che Saitta volesse proporre un parallelismo tra la morte di Agricane e quella di Giuliano? Oppure, e questo sarebbe invece il grado zero di questo accostamento, cioè quello senza sovrastrutture ideologiche, la sovrapposizione dei due articoli sarebbe determinata esclusivamente dalla ricerca di una autocelebrazione, in quanto il nome di Saitta appare citato in entrambi gli articoli. A mantenere valide entrambe le ipotesi concorre un ulteriore elemento: tutti gli articoli compresenti nelle stesse pagine dell’album sono sempre afancati e mai sovrapposti, per permetterne una chiara lettura. Spesso la compresenza è determinata dalla condivisione dell’argomento trattato o del giorno dell’uscita dell’articolo. Mai sono presenti articoli che afrontino temi diferenti, pubblicati in giorni diferenti, e sovrapposti a formare una sorta di cut-up, in pieno stile Burroughs. Nonostante questi evidenti elementi di discontinuità, a favore della semplice autocelebrazione ci sarebbero invece vari precedenti di una scelta coerente di mantenere in ogni occasione un basso profilo da parte di Saitta, che ha sempre evitato le denunce e le aperte polemiche di carattere politico e ha sempre schivato possibili strumentalizzazioni del suo lavoro e della sua ricerca.

2.10 Successi e consensi Tra i simboli che maggiormente richiamano l’identità catanese, la festa di Sant’Agata assume una posizione di rilievo. Saitta ha già realizzato un documentario, Agata, raggio di luce (conosciuto anche come Agata, raggio di cielo) che ha avuto la sua circolazione regolare. Sulla festa della Patrona di Catania, ritorna per un servizio fotografico, che accompagna un articolo del «Corriere di Sicilia», uscito tra il 15 e il 17 agosto

52

Cfr. Umberto Eco, Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani, Milano 2002. 80

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1951, in occasione delle celebrazioni del XVII Centenario del Martirio, documenti [102 fronte] e [102 retro]. Del 12 ottobre 1951 è invece una lettera [103 retro], giunta da Palermo a testimonianza del successo ottenuto dalla proiezione di Zolfara alla terza edizione del Festival Internazionale dell’Arte e della Grazia (anche se la carta intestata si riferisce alla seconda edizione), svoltosi a Palermo dall’8 al 30 settembre 1951. A ottobre del 1952, si inaugura a Siracusa la rassegna del documentario cinematografico siciliano. Saitta vi partecipa con Zolfara, con La Valle dei Templi e con Mito e realtà a Siracusa. L’obiettivo, dichiarato dagli organizzatori della rassegna, così come riportato dal titolo dell’articolo riprodotto sul documento [104 retro], è quello di «creare una coscienza cinematografica in Sicilia»53. Il documento [105 retro] rivela come Zolfara sia il documentario più apprezzato e come ci si aspetti che vinca un premio. I documenti [106 fronte] e [106 retro] comunicano l’attribuzione a Saitta del primo premio 54. Sul documento [107 fronte], che riproduce un articolo pubblicato da «L’unità», si può leggere anche l’entusiasmo del giornalista, che testimonia come Zolfara sia stato «seguito eccezionalmente con grande interesse del pubblico, solitamente 53

54

Documento [104 retro], articolo di Enzo Garofalo, intitolato S’è inaugurata sotto fausti auspici la rassegna del documentario a Siracusa, uscito su «La Sicilia», il 28 ottobre 1952. Ancora una volta si farà riferimento in questa occasione all’importanza dei cinecircoli per “formare un gusto” cinematografico e per mettere il cinema al centro dell’attenzione anche economica della Sicilia. Perché, anche questo concetto ritorna spesso nei documenti qui analizzati, la Sicilia può divenire una seconda Hollywood, con il suo clima californiano e le sue bellezze ambientali uniche. Il secondo premio viene assegnato al film Tra Scilla e Cariddi, un documentario diretto da Francesco Alliata di Villafranca e prodotto dalla Panaria Film. È quella di Alliata l’altra figura fondamentale del documentario cinematografico siciliano, a partire dall’immediato secondo dopoguerra. Molte volte si incontrano, nei documenti qui analizzati, i film prodotti dalla Panaria. A quell’esperienza cinematografica è dedicato interamente il secondo volume di questo progetto editoriale. 81

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ostile ai cortometraggi documentari»55; sul [107 retro] addirittura il giornalista si spinge a descrivere con toni apocalittici i rapporti tra pubblico e documentario: «da meravigliare [questo successo di Zolfara], quando si tenga conto che uno spettacolo formato da soli documentari può, a un certo punto, innervosire il pubblico più abituato e più preparato»56. Il documento [108 retro] dà, attraverso due articoli, due notizie per nulla connesse tra loro: l’elezione di Miss Sicilia (Ugo Saitta è in Giuria) e l’elezione di Saitta nel Comitato direttivo del circolo cinematografico. L’abbinamento di due notizie così diverse per argomento e tono è determinato dalla contiguità cronologica (22 marzo 1953 e 8 settembre 1953), ma anche dalla coscienza di una partecipazione a tutto tondo alla vita sociale e culturale della città, da parte del regista catanese. Molto interessanti i documenti [109 fronte] e [109 retro], che ci raccontano la storia della prima operatrice cinematografica in Europa, l’intraprendente Rita Consoli. Nelle due interviste la Consoli spiega la sua scelta di rimanere accanto al marito e di aiutarlo con tutte le proprie forze. Una serie di divertenti aneddoti la descrivono come una donna coraggiosa e volitiva, piena di ambizione, ma pronta al sacrificio delle proprie aspirazioni personali a favore della famiglia. Una donna che descrive una Sicilia diversa rispetto a quella raccontata dal cinema a soggetto di allora, mettendo in discussione molti stereotipi sulla donna sottomessa e soggiogata al volere del proprio uomo. Il lavoro di Rita Consoli, quello che ha deciso di fare per passione, le permette di essere una figura di riferimento nella produzione cinematografica non solo siciliana, ma anche di livello nazionale57. 55 56

57

Documento [107 fronte], articolo uscito su «L’Unità», il 5 ottobre 1952. Documento [107 retro], articolo intitolato Nuovi temi da sfruttare per il documentario in Sicilia, uscito su «La Sicilia», il 2 novembre 1952. Per approfondire la figura di Rita Consoli, cfr. l’intervista a Gabriella Saitta, qui pubblicata in appendice. 82

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2.11 Il documentario perduto Il documento [110 fronte] riproduce un trafiletto intitolato I cortometraggi e pubblicato da «Cinema Nuovo» del 15 maggio 1954. Attraverso questo documento è stato possibile ritrovare un documentario di cui nulla si sapeva, La terra di Giovanni Verga. Come è stato possibile notare anche dalla lettura di questi documenti, è consuetudine difusa che un film abbia più titoli con cui viene nominato. Questa pratica è dovuta a una mancanza di precisione da parte dei giornalisti, per un verso, ma anche al desiderio di riproporre i cortometraggi di finzione e documentari a distanza di tempo, magari con qualche piccola modifica ottenuta in moviola, qualche minima variazione e un titolo nuovo. A una prima verifica incrociata tra la filmografia realizzata grazie a questi documenti, il fondo amministrato dalla Filmoteca Regionale Siciliana, i saggi di Sebastiano Gesù, considerato lo storico del cinema siciliano con maggiore esperienza, le interviste allo stesso Gesù e all’erede di Ugo Saitta, la figlia Gabriella, e uno scambio di informazioni con la Cineteca Nazionale di Roma, saltava fuori un titolo praticamente sconosciuto a tutti, eppure nella disponibilità dell’istituzione romana, conservato in formato 35mm, con un negativo infiammabile. Il motivo di questa sparizione e riapparizione a distanza di cinquantasei anni è determinato dalle vicissitudini produttive di questo cortometraggio documentario. Saitta lo gira, ma il produttore è Carmine Gallone, che sta girando in Sicilia il suo Cavalleria rusticana, un primo esperimento di cinema in 3D. Il film di Gallone è un vero e proprio kolossal pieno di efetti speciali del tempo 58 e allo stesso Saitta viene messa a disposizione una larghezza di mezzi, di cui non dispone usualmente. Ne viene fuori un documentario estremamente interessante, girato con i 58

Purtroppo oggi della Cavalleria rusticana di Gallone resta soltanto l’occhio destro, quindi si è perso l’effetto della tridimensionalità. Qualora si ritrovasse anche il sinistro, si potrebbe pensare a un restauro al fine di recuperare anche questa tecnica sperimentale. 83

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colori accesi della pellicola Ferrania, con un commento sonoro più misurato e asciutto, con dei movimenti di macchina sobri e morbidi, pochi carrelli e qualche lenta panoramica. C’è una messa in scena dei personaggi ripresi, una disposizione delle figure umane nello spazio particolarmente curata. Ciò dimostra che Saitta ha avuto anche il giusto tempo per comporre ogni singola inquadratura, tutta l’attenzione necessaria a realizzare il suo film, che è una vera e propria celebrazione dei luoghi che hanno caratterizzato la letteratura verghiana. C’è anche, leggibile sottotraccia, una sorta di pacata polemica con Gallone, che ha scelto i luoghi per le riprese del suo film seguendo esclusivamente le esigenze della logistica cinematografica. La maggior parte delle sequenze in esterni di Cavalleria rusticana sarebbe infatti stata girata a Misterbianco. Saitta si reca invece a Vizzini, ad Acitrezza e in tutti i luoghi reali nominati da Giovanni Verga, con una sorta di rispetto filologico del testo letterario. Il film uscirà, accoppiato al lungometraggio diretto da Gallone, nel 1954, ma la sua data di realizzazione ufciale è indicata come 1953. La Cineteca Nazionale ne entra in possesso negli anni Settanta, in seguito al fallimento del laboratorio collegato alla casa di produzione di Gallone. Da quando in istituto arriva la scatola del documentario, nessuno l’ha mai aperta, né s’è curato di vedere di cosa si trattasse 59. A seguito della mia telefonata in Cineteca, la dott.ssa Annamaria Licciardello – che è di origini catanesi, come Saitta e come Verga – ha controllato prima sul registro informatico, poi è andata di persona ad aprire la scatola e ha visto alcuni fotogrammi del negativo, riconoscendo che si trattava di immagini riprese a Vizzini. A quel punto appariva chiaro che il documentario fosse originale e non il frutto di uno scambio con un doppio titolo e si poteva avviare un percorso di recupero, che ha richiesto oltre

59

Per comprendere appieno le difcoltà a cui vanno incontro le grandi cineteche come l’istituzione romana, cfr. l’intervista ad Adriano Aprà, qui pubblicata in appendice. 84

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un anno di tempo per le autorizzazioni e per reperire i fondi di laboratorio60. Il documento [110 retro] riproduce quattro segnalazioni de La terra di Giovanni Verga. La più interessante da analizzare è indubbiamente quella a firma di Giuseppe Fava, importante voce del giornalismo catanese, poi anche autore teatrale e collaboratore di Saitta durante il progetto Volto di Sicilia. Fava scrive un afettuoso articolo sul «Corriere di Sicilia» del 30 gennaio 1954. Ugo Saitta, nel girare questa «rievocazione», ha sentito e soferto Verga (è così: i personaggi di Verga si amano e si sofrono soprattutto) ed ha realizzato un brano di poesia con un’ispirazione che sarebbe stata molto utile a Gallone per Cavalleria. Ma è nella logica del cinema italiano che l’opera d’arte debba essere interpretata da chi ad essa si volge con spirito commerciale. Senza voler fare poesia ma soltanto e molto più semplicemente quattrini61.

L’approccio polemico di Giuseppe Fava si apprezza anche in questo breve brano del suo intervento. Il suo giornalismo, come il teatro e tutti i suoi interventi pubblici saranno sempre segnati da questo suo spirito dialettico62. 60

61

62

Grazie a un progetto realizzato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania, dall’associazione culturale Fuoricircuito e dal laboratorio multimediale di sperimentazione audiovisiva del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania e attraverso un accordo con la Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia è stato possibile restaurare e digitalizzare il documentario La terra di Giovanni Verga. La digitalizzazione ne ha permesso una diffusione maggiore in piccoli festival del cinema d’archivio e in rassegne specializzate. Documento [110 retro], articolo di Giuseppe Fava intitolato La terra di Giovanni Verga, uscito sul «Corriere di Sicilia», il 30 gennaio 1954. Per questo motivo sono sicuro che la sua figura di intellettuale andrebbe indagata al di là delle, seppur necessarie, celebrazioni antimafia. C’è come un buco nero intorno a Pippo Fava, un buco di silenzio sui suoi tentativi di fare teatro e cine85

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2.12 L’industria mancata e la California Il documento [111 fronte] riproduce tre articoli di notevole rilevanza per la presente analisi. Il tema è unico e riguarda la presentazione di tre documentari di Saitta presso il cinema Diana di Catania. Insomma, Saitta ha superato se stesso realizzando dei documentari che dagli intendimenti turistici prendono solo le mosse per elevarsi via via dall’arido piano della propaganda a quello vibrante dell’arte63.

Cioè, a voler leggere seriamente questo articolo, Saitta ha un compito preciso, che è fare un certo tipo di cinema finalizzato esclusivamente ad attirare turisti. E questo sarebbe l’arido piano della propaganda. Ma Saitta è un artista vero. E allora si eleva con il suo spirito artistico e vibra. È ovvio che chi scrive non è un critico cinematografico e non è, forse, nemmeno un giornalista. Al di là della banalità dei pensieri e dell’eccesso altisonante delle parole, qui ci troviamo probabilmente di fronte a un redazionale (scritto male, tra l’altro). Ma andiamo avanti, in questa progressiva beatificazione del personaggio. Ugo Saitta non è soltanto un uomo di cinema, ma è anche un appassionato di cinema, per cui nei suoi documentari potremmo trovare tutti i difetti ma mai scarso impegno, faciloneria o impreparazione (tutti attributi rilevabili nella maggior parte dei documentari che ma e televisione. C’è stato, negli anni che sono trascorsi dal suo omicidio, come un appiattimento della sua figura sul ruolo del giornalista antimafia che si lancia, armato della sola macchina da scrivere, contro i cavalieri dell’apocalisse che hanno saccheggiato Catania. Questa nota è scritta nell’augurio che qualcuno raccolga la sfida di studiare anche un altro Fava, intellettuale, autore di spettacoli teatrali di grande rilevanza (La violenza, Il proboviro, L’ultima violenza), autore dei testi di alcuni episodi di Volto di Sicilia dello stesso Saitta, autore di un programma in sei puntate, prodotto dalla Rai regionale e mai mandato in onda. Ma questa è un’altra storia da scrivere. 63

Documento [111 fronte], articolo intitolato Tre gioielli turistici del regista Ugo Saitta, uscito su «Il Giornale dell’Isola», l’11 aprile 1954. 86

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vengono proiettati insieme coi film). Il terzo è una succosa visione delle bellezze di Taormina, in cui Saitta ha sfruttato, come poche volte è stato fatto, le rilevanti possibilità del ferraniacolor, ora ricavandone tinte delicate o carnose, ora ottenendo, come nel finale, rifessi perlacei di indubbia bellezza. Insomma, un vero incanto per gli occhi64.

Il successo viene misurato sulla capacità di rapire lo sguardo: è «un vero incanto per gli occhi». È come se dalla realtà si fuggisse, al fine di cercare la bellezza e di rifocillarsi, saziandosi, alla sua fonte. I documentari di Saitta vengono appiattiti sulla funzione comunicazionale che si riconosce ai suoi lavori. Sono belli. E tanto basta, per apprezzarli, per lodarli, per additarli a esempio. «Ricordo di Taormina» è a colori: un incanto. Colori dosati su misura e tenuti su un tono tenue per una serie di quadri che rappresenta sul già vecchio argomento di propaganda turistica, una novità in quanto evade dal comune per diventare una gioia degli occhi e dello spirito pervasa com’è di valori lirici ed espressivi. Una sinfonia di immagini e di colori che con solare chiarezza conferma ed esalta le naturali bellezze di cui madre natura ha dotato quell’angolo di paradiso65.

Anche qui si legge di «un incanto». La misura dei colori, i quadri (le inquadrature) composti con sapienza, «sinfonia di immagini e di colori» per rappresentare il «paradiso». Dalla mediocrità di questo giornalismo servile e superficiale, alla scheda di Callisto Cosulich – documento [112 retro] – è più di un salto carpiato con doppio avvitamento. Siamo proprio su un altro pianeta, 64

65

Documento [111 fronte], articolo a firma c.b., intitolato Tre documentari di Ugo Saitta, uscito su «La Sicilia», l’11 aprile 1954. Documento [111 fronte], articolo a firma E.L., intitolato Volti della nostra terra in tre documentari di U. Saitta, uscito sul «Corriere di Sicilia», il 13 aprile 1954. 87

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quello della critica cinematografica. E anche il contesto in cui Ugo Saitta viene inserito, probabilmente a ragione, poco ha in comune con le letture mielose e strampalate degli articoli precedenti. Saitta si trova enumerato in un elenco di autori di cinema di primo piano: Zampa, De Santis, Antonioni, Germi, Pietrangeli, Lizzani. A seguire, vengono nominati anche i più grandi attori italiani. In comune con Saitta hanno la provenienza, cioè il Centro Sperimentale. Ognuno con la sua ricerca diferente, ognuno seguendo la propria strada artistica personale, hanno però un’estetica e una filosofia condivise. E tutto questo movimento, variegato e contraddittorio, produsse il Neorealismo. Delle due l’una. O Saitta produce specchietti per le allodole e incanti per gli occhi, oppure fa parte della storia del cinema italiano, con tutte le sue contraddizioni, grandezze e cadute, con la sua estetica e filosofia condivise che produrranno la più importante corrente cinematografica italiana, conosciuta in tutta Europa, il Neorealismo. È evidente come il problema non stia soltanto in chi produce i film, cioè i produttori, gli sceneggiatori e i registi. Il problema risiede anche – soprattutto – nella critica, che dovrebbe capire, interpretare, proporre, presentare, accompagnare i prodotti cinematografici realizzati. Ma se la critica locale, siciliana, è quella che abbiamo letto sopra, non c’è speranza alcuna che i film prodotti in Sicilia siano “raccontati” al di fuori dell’isola. Su queste basi d’argilla, Ottorino Russo – ancora lui – prova a tirar fuori dal cilindro l’ennesima disamina della situazione cinematografica in Sicilia, dai tempi del muto alla metà degli anni Cinquanta. Lo leggiamo sul documento [111 retro]. Ciò che manca – è la solita filastrocca – è una organizzazione economica di tipo industriale. E così, tutto resta sospeso, in attesa della nuova legge regionale sul cinema. Ma chi propone il cinema in Sicilia? Che ruolo hanno rassegne e festival? Formano scuole critiche? Allevano un pubblico con una coscienza cinematografica? A chiudere in maniera surreale, se non destabilizzante, il discorso, basterebbe il documento [113 fronte], che presenta ancora una volta 88

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due articoli, su due temi poco afni. Il primo informa della costituzione, in seno alla Sicindustria, di una sezione regionale di produttori cinematografici, al fine di ragionare insieme sui problemi economici e sindacali. Il secondo riguarda, ancora una volta, l’elezione di Miss Sicilia, tenutasi al lido dei Ciclopi di Catania. Presente, ancora una volta, in qualità di giurato, è sempre Ugo Saitta.

2.13 Catania, città Barocca La realizzazione del documentario Città barocca è strettamente collegata al ruolo di intellettuale conquistato sul campo cittadino da Saitta. Ne sono testimonianza gli articoli, invero tre lettere aperte, uscite su «La Sicilia», rispettivamente il 26 agosto 1955, il 2 settembre 1955 e il 15 settembre 1955, documento [113 retro]. Il tema centrale è la difesa delle qualità artistiche di via Crociferi. Ugo Saitta e Giuseppe Berretta hanno appena terminato le riprese del documentario Città barocca. Il regista e l’autore del commento sonoro hanno raccolto una serie di impressioni sul livello di incuria in cui molti palazzi si trovano e provano a denunciare la questione alla cittadinanza attraverso una lettera aperta. Non vogliamo parlare di quel gioiello che fu la casa del Vaccarini, oggi ricovero – più che abitazione – di innumerevoli famiglie, semidiroccata, sommersa dalla sporcizia e dagli stracci. Piuttosto che fare del neorealismo a buon mercato, chiusi penosamente gli occhi, l’abbiamo cancellata dalla sceneggiatura66.

Molto interessanti risultano le considerazioni sulla possibilità di fare del «neorealismo a buon mercato». In questa espressione risiedono due elementi di interesse. Il primo è l’equivalenza tra Neorealismo e denuncia della povertà. Viene a cadere anche la specifica della tematica sociale. 66

Documento [113 retro], lettera aperta, intitolata “Città barocca” con moderne deturpazioni, uscita su «La Sicilia», il 26 agosto 1955. 89

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Dietro il cinema neorealista, così per come viene inteso in questa lettera aperta, non ci sarebbe uno sguardo etico sul disagio sociale, non ci sarebbe analisi delle condizioni politico-economiche che lo hanno determinato, né ci sarebbe proposta per il cambiamento. Il Neorealismo, in questa ristretta accezione, si risolverebbe tutto nel mettere la macchina da presa di fronte ai poveri. E questo costituirebbe una forma – superficiale, non narrativa, men che mai esplicativa – di denuncia. È chiaro che, da questa formula, Saitta e Berretta si sentano lontanissimi ed estranei. Perché il cinema, come lo intendono e lo fanno loro, sarebbe esattamente l’inverso di questa formula semplicistica appena enunciata. Sarebbe mettere la macchina da presa di fronte alle meraviglie artistiche e ambientali della Sicilia, per parlarne bene, per superare le difcoltà economiche e sociali, che pur ci sono. Non significa dimenticare le famiglie condannate agli stracci e alla sporcizia, ma partire da via Crociferi con l’intento di produrre – attraverso il cinema in sé e il turismo che induce – quella ricchezza che faccia uscire dallo stato di indigenza le famiglie sfortunate. È chiaro che il Neorealismo, per quanto qui frainteso e ridotto a uno slogan logoro e superficiale, non sia comunque la strada per Ugo Saitta e i suoi compagni di avventura. La lettera aperta contiene anche l’augurio che non si compia ulteriore scempio di via Crociferi, con la costruzione di una fontana, che ne deturperebbe l’aspetto. Segue risposta piccata dell’ideatore e promotore del progetto della fontana, con tanto di area verde già in fase avanzata di studio. Saverio Fiducia, che più tardi ritroveremo tra gli intellettuali della cultura catanese, millanta anche autorizzazioni e un dichiarato supporto al progetto dell’amministrazione comunale della città. A cancellare ogni illazione di cambiamento e innovazione architettonica per via Crociferi, ci pensa un funzionario della Soprintendenza ai monumenti della Sicilia orientale, il dott. Giuseppe Consoli. L’ufcio di cui fa parte, infatti, non accetterà mai soluzioni arbitrarie. Immediata la smentita di Fiducia, il quale aferma come l’idea di realizzare una fontana non sia ancora neanche allo stato di progetto, nonostante venga difusamente 90

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apprezzata dall’amministrazione comunale. Ci sono due possibilità, insomma: la prima è che Fiducia, con le sue improvvide dichiarazioni, abbia assolto la funzione di sondare il terreno culturale su un tema spinoso; la seconda, invece, è che si sia inventato una battaglia personale per realizzare un progetto, che poi è miseramente fallito. Qui, però, ciò che ci interessa è soprattutto il ruolo di “cane da guardia” assunto da Saitta & co. sul tema delle bellezze monumentali di Catania. L’autorevolezza che viene riconosciuta a Saitta, in questo periodo, da parte dell’ambiente culturale della città, risulta evidente dall’efcacia dei risultati ottenuti, anche in termini di visibilità di un problema posto con una lettera aperta. Non solo infatti viene pubblicata, ma origina la pubblicazione delle altre tre e comporta addirittura un’uscita pubblica della Soprintendenza. Del documentario di Saitta, Città barocca, poco si conosce, perché a oggi non è ancora entrato nelle disponibilità del Fondo Saitta, conservato presso la Filmoteca Regionale Siciliana. Si sa soltanto che venne proiettato dalla televisione nazionale, come vedremo in seguito da ulteriori documenti qui contenuti.

2.14 I pupi, la barca e il carretto A chiudere questa fase della produzione cinematografica di Saitta, ci sono i documenti che riguardano l’uscita di un nuovo gruppo di documentari con tema centrale e monografico. Il documento [114 fronte] raccoglie tre articoli sulla presentazione per la stampa de Il carretto siciliano e I pupi siciliani. Su «L’ora» di Palermo esce un articolo entusiasta sui nuovi lavori di Saitta. I suoi due ultimi documentari in ferraniacolor: «Il carretto siciliano» e «I pupi siciliani», due «fattori» folcloristici della nostra regione celebri in tutto il mondo […]. Saitta sta diventando, se ci lasciate passare l’espressione, il cantore cinematografico della Sicilia […], Saitta

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è, insomma, un documentarista-creatore, non un mestierante del documentario, come ne pullulano in Italia67.

Gli fa eco Enfer, con un tono più familiare, dalle colonne del «Corriere di Sicilia»: «Il bravo Ugo rimane ancor oggi un efcace realizzatore e un sensibilissimo traduttore degli aspetti più sentiti del nostro popolo»68. Questo è ciò che si chiede al buon Saitta. E questo è esattamente ciò che lui ofre al suo pubblico e alla critica. Si propone come «cantore cinematografico della Sicilia» e come «traduttore sensibilissimo» dello spirito del popolo siciliano. I suoi documentari, per la critica dell’epoca, assolvono questo doppio compito di cantare e tradurre il folklore siciliano per il resto del mondo. Sintonizzati sullo stesso tono troviamo i documenti [115 fronte], [115 retro] e [116 fronte]. Quest’ultimo annuncia la presentazione de I pupi siciliani al Festival del cinema turistico di Venezia. La prima rassegna del film d’interesse turistico è stata inaugurata nel Palazzo del Cinema al Lido alla presenza dell’alto commissario per il turismo on. Romani […]. Egli ha tenuto a sottolineare il vivo interesse che suscitano all’estero i cortometraggi turistici italiani, e ha posto in rilievo l’utilità della collaborazione tra turismo e cinema per la divulgazione nel mondo delle attrattive del nostro paese69.

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Documento [114 fronte], tre articoli di tre testate diverse: il primo intitolato I documentari di Saitta, uscito su «L’ora», il 1° luglio 1955; il secondo firmato da c.b., intitolato Documentari di Ugo Saitta, uscito su «La Sicilia del Lunedì», il 27 giugno 1955; il terzo firmato da Enfer, intitolato Documentari di U. Saitta, uscito sul «Corriere di Sicilia», il 28 giugno 1955. Ibidem. Documento [116 fronte], articolo intitolato “I pupi siciliani” di Ugo Saitta proiettato a Venezia, uscito su «Paese sera» del 10-11 agosto 1956. È importante segnalare, in questa sede, la presenza di un altro regista, Fiorenzo Serra, che è legato a una “idea regionale di cinema”. Cfr. l’intervista a Marco Bertozzi, qui pubblicata in appendice. 92

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Non c’è nulla di nuovo sotto al sole. Saitta continua il suo percorso produttivo e artistico con assoluta coerenza. Si sommano titoli nuovi ai vecchi, storie originali e divertenti a quelle più statiche e formali del passato, c’è oggi il colore acceso della Ferrania dove ieri c’era il biancoenero. Ma nulla, in termini di progetto culturale, muta di una virgola. Dalla stroncatura di «Cinema Nuovo», documento [116 retro], all’ossequiosa intervista su «Il Tempo», documento [117 fronte], nella quale Saitta risponde quasi a monosillabi, «risposte secche. Improvvise ed irruenti» 70, per poi tornare a girare di corsa un nuovo progetto. Due note da segnalare, che ci permettono di fare qualche breve considerazione. Alla domanda “politica” sugli uomini più rappresentativi di Catania, non commenta. E a quella sull’artista siciliano degno di stima e ammirazione, risponde Renato Guttuso. Sulla capacità di Saitta di svincolarsi dalle appartenenze partitiche, ho già detto altrove in numerose occasioni. La scelta di Guttuso resta invece più opaca, non per la grandezza dell’artista, che non si discute, quanto invece per il suo essere designato come militante politico di primo piano. Saitta e Guttuso avranno modo di lavorare insieme al Teatro Stabile, come vedremo in seguito. Ma al di là dell’esperienza di collaborazione, che evidentemente ne rinsaldò stima e ammirazione, certo suona curiosa questa risposta secca, senza precisazioni, né motivazioni aggiuntive.

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Documento [117 fronte], articolo intitolato Il personaggio del giorno. Ugo Saitta, uscito su «Il Tempo», il 30 giugno 1959. 93

Capitolo 3 La vita culturale al servizio della città

3.1 La televisione e il ruolo di regista programmista I documenti [117 retro], [118 retro] e [119 fronte] riproducono cinque articoli su un’attività nuova di Ugo Saitta, cioè quella del regista programmista di un servizio televisivo. Da sempre il regista catanese è stato autore in senso pieno dei suoi lavori, cioè ne ha curato il soggetto, la sceneggiatura e la regìa. In questa occasione invece, proprio per le caratteristiche peculiari del medium televisivo, Saitta si confronta con un programma che ha già i suoi autori e le sue “regole” narrative. Si inserisce cioè in un discorso compiuto, per realizzare però un suo personale contributo. L’occasione è data dal programma Giramondo, che riporta come sottotitolo Notiziario internazionale dei ragazzi. Una puntata viene dedicata a Catania, con la presentazione del gruppo mimo-corale folkloristico Figli dell’Etna. Il gruppo è formato da ragazzini tra gli otto e i dodici anni, che eseguono canti e balli e scenette del repertorio tradizionale. L’intera messa in scena, che segue un’unica linea narrativa, è curata da Saitta.

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3.2 Il teatro e i rapporti con l’Ente Teatro di Sicilia Parallelamente alla sua prima uscita televisiva, Saitta ricomincia a interessarsi di teatro e di recitazione. I documenti [120 fronte] e [120 retro] riproducono la locandina della stagione invernale 1959-1960 dell’Ente Teatro di Sicilia, nella quale Saitta viene indicato tra i registi. Il documento [121 fronte] riproduce un ritaglio de «La Sicilia» dell’8 novembre 1959, che corrisponde alla locandina della stagione 1959-1960. Anche qui, tra i registi, fgura il nome di Saitta. Uno degli spettacoli in programmazione è Testi di ligni, atto unico di Giovanni Girgenti. È probabile che questo titolo abbia afascinato a tal punto Saitta, da fargli cambiare il titolo del suo cortometraggio di animazione del 1939, Pisicchio e Melisenda, proprio in Teste di legno, che è il titolo riportato ufcialmente ancora oggi. È ovvio che si tratti soltanto di una supposizione, perché non abbiamo testimonianze, né documenti che lo attestino. Ma si dà il caso che fno a questa data, il cortometraggio sia sempre stato chiamato Pisicchio e Melisenda e che invece il titolo sia stato registrato dalla Filmoteca Regionale Siciliana come Teste di legno. I documenti [121 retro], [122 fronte] e [122 retro] danno conto della messa in scena de L’aria del continente e del San Giovanni decollato. Al di là dei riscontri positivi per l’inizio delle attività dell’Ente Teatro Sicilia, c’è una vena polemica sulla mesa in scena del San Giovanni decollato, di cui si sarebbe occupato in una prima fase Ugo Saitta. Resosi però conto dell’impossibilità di lavorare come avrebbe voluto, il regista catanese abbandonava l’incarico. Ne nasceva una blanda polemica, su «Paese Sera», alla quale Saitta rispondeva con una lettera aperta, che attestava il suo rammarico per non aver potuto realizzare il lavoro come riteneva opportuno.

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3.3 Travelling in Sicily e la celebrazione a Taormina È il documento [123 fronte] ad annunciare l’inizio dei lavori del documentario di maggior successo prodotto e diretto da Ugo Saitta, Travelling in Sicily. L’eccezionalità di questo documentario è la perfetta aderenza con le aspettative del pubblico del tempo in cui è stato realizzato. È sicuramente il lavoro di Saitta che è invecchiato peggio, che ci appare oggi più sterile e superfciale e velleitario in quello sforzo che mette insieme l’intrattenimento spettacolare con le funzioni di “propaganda turistica”. La scelta di rinunciare al commento parlato, con funzione didascalica, invece di alleggerire il flm, lo condanna a una zavorra più pesante e opprimente, quella del commento musicale. Ma Travelling in Sicily è un caso di studio perfetto per capire la capacità di penetrazione che la proposta cinematografca di Ugo Saitta ebbe in quegli anni. Le decine di articoli di una critica entusiasta, la premiazione a Taormina al Teatro greco-romano, il consenso unanime del copioso pubblico sono la dimostrazione della distanza che intercorre tra il gusto del tempo e la nostra attuale sensibilità cinematografca. Per questo, oggi sarebbe assurdo limitarsi a giudicare il flm con le nostre attuali categorie estetiche. Per questo, è più opportuno invece cercare di comprendere le motivazioni della accoglienza di questo “documentario” da parte della critica e del pubblico. La premiazione a Taormina è sicuramente il momento più alto di successo per Ugo Saitta. Ed è anche un evento mediatico di tale portata, da arrivare a segnare profondamente la sua vita di artista e di produttore. L’Isola di Travelling in Sicily viene presentata come documentaria e fantastica. È in corso di realizzazione “Traveling in Sicily”, un cortometraggio in parte documentario ed in parte fantastico, che illustra le più fa-

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mose località della Sicilia con il distacco dovuto a due personaggi che idealizzano in forma mimica e danzata i luoghi cinematografati1.

È chiaro anche allo spettatore più sprovveduto, che di documentario non c’è nulla e che l’approccio registico è rigidamente quello del cinema di fnzione. Questo “sconfessa” i lanci d’agenzia e gli articoli della stampa cartacea riprodotti nel documento [123 retro]. I documenti [124 fronte 01] e [124 fronte 02] sono delle importantissime fotografe a colori, scattate come back-stage di Travelling in Sicily. Sono fotografe in posa, celebrative in qualche modo delle riprese del flm, destinate a una difusione a stampa, probabilmente per accompagnare i comunicati stampa della casa di produzione. All’interno della sesta edizione della Rassegna Cinematografca Internazionale di Messina e Taormina, c’è una sezione dedicata ai documentari, che prevede un suo premio importante dal punto di vista economico e da quello della visibilità mediatica, è il Premio Sicilia. Il documento [126 fronte] è un telegramma inviato da Cavallaro, Segretario del Premio Sicilia, che comunica l’attribuzione del primo premio a Travelling in Sicily e invita il regista a intervenire alla premiazione prevista per giorno 30 luglio 1960. I documenti [124 retro], [125 fronte], [125 retro], [126 retro 01], [127 fronte], [127 retro], [128 retro] indicano la presenza del documentario al festival e la sua premiazione. Il documento [128 fronte] fornisce qualche indicazione in più sulle scelte artistiche del flm. Il documentario costituisce una nuova apprezzabile formula nel genere in particolare è da lodare lo sforzo fatto dal Regista di presentare attraverso una colorita e fantasiosa carrellata gli aspetti monumentali e pittoreschi della Sicilia2.

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Documento [123 retro], lancio di agenzia efettuato dall’A.N.S.A. (Agenzia Nazionale Stampa Associata), del 21 aprile 1960. 97

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Ne indica addirittura un modello, una formula che può dare origine a un nuovo genere di documentari. E loda lo sforzo di originalità. Questo è un dato comune a tutte le testate che commenteranno il flm di Saitta. E probabilmente, nel panorama piatto e ripetitivo dei documentari prodotti in serie, Travelling in Sicily dev’essere sembrato una ventata d’aria fresca, la volontà di indagare le possibilità espressive di un genere ormai logoro e poco apprezzato dal grande pubblico. Il flm di Saitta è diverso; magari non migliore, ma sicuramente frutto di uno sforzo di innovazione. E questo lo fa imporre all’attenzione della stampa, senza dubbio. I documenti [128 retro], [129 fronte 02], [129 retro 01], [130 fronte], [130 retro], [131 fronte a + fronte b], [131 retro], [132 fronte a + fronte b], [132 retro], [133 fronte], [133 retro], [134 fronte], [135 fronte], [135 retro], [136 fronte], [136 retro], [137 fronte a + fronte b], [137 retro 01 + retro 02], [139 fronte], [140 retro] attestano ancora l’attribuzione del Premio Sicilia a Saitta. Spesso si tratta di articoli che parlano in generale del festival, che raccontano aneddoti sulla presenza dei divi. Saitta viene solo nominato, così come il suo flm, che si è ag giudicato il premio di una sezione minore. Eppure è la rassegna stampa più ricca e articolata della flmografa prodotta dal regista catanese, ricca anche di immagini spettacolari, come il campo lungo della premiazione in un Teatro Antico stracolmo di persone o il campo medio della consegna del Premio Sicilia, in cui Saitta ci appare dimesso e quasi intimidito, sicuramente frastornato dal tripudio della folla, documento [131 retro]. Segnalo il documento [140 fronte], perché non è un articolo di giornale, ma un telegramma inviato dal sig. Sciarretta per conto della Ferrania, l’1 agosto 1960. La ditta produttrice di pellicole si congratula con il regista catanese per il premio ricevuto dal suo flm.

2

Documento [128 fronte], articolo intitolato Alzato il sipario sulla Sesta Rassegna. A Ugo Saitta il «Premio Sicilia», uscito sul «Giornale di Sicilia», il 24 luglio 1960. 98

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Un’attenzione particolare, infne, è necessario dedicare al documento [138 fronte], perché riproduce un articolo interamente dedicato a Travelling in Sicily. Deve solo alla sua modestia, alla sua intransigenza artistica (e alla miopia dei produttori?) se sinora la sua fama è rimasta ristretta alla documentaristica. Ma questa volta ha fatto un autentico gioiello. «Travelling in Sicily» evita anzitutto tutti gli scogli che minacciano il naufragio di un documentario turistico: la pignoleria e la retorica archeologica, la ingenuità e la convenzione folkloristica, l’oltraggiosa intenzione di propaganda turistica stile «dépliant» pubblicitario […]. Come ha fatto a dipanare questa matassa attossicata dai ricordi sentimentali in un così puro flo fantastico, in questa danza di immagini luminose della luce e dello spirito?… Saitta, la nostra amicizia cementata dalle polemiche (come vivere senza polemiche?) esigeva il pezzo critico, ed invece ecco fuori un volgare «pezzo di colore». Ma negli orecchi ho ancora l’eco di quel battimani…3

C’è un grande afetto nelle parole dell’amico recensore di «Paese Sera», che non frma il pezzo. E non c’è alcuna obiettività, dichiaratamente. Anzi, di questo il giornalista quasi si scusa con il lettore: avrebbe dovuto fare un pezzo critico e ne è uscito un pezzo di colore. Eppure il valore testimoniale di questo articolo è ricchissimo, proprio per questo motivo. È un pezzo che vive dell’emozione di quel momento, della condivisione con un pubblico estasiato, che applaude fotogramma per fotogramma. E che esagerazione! Ma proprio questa esagerazione di ventiquattro applausi per ogni secondo, tanti sarebbero i fotogrammi cinematografci, è il frutto di un trasporto emotivo senza confni, oltre i limiti della stessa credibilità, della “imparzialità” che – luogo comune anch’esso – dovrebbe essere riconosciuta al critico d’arte cinematograf3

Documento [138 fronte], articolo intitolato Il successo del catanese Ugo Saitta al «Premio Sicilia». “Travelling in Sicily” puro ritmo di colori, uscito su «Paese Sera» dell’1-2 agosto 1960. 99

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ca. Chi scrive diventa invece tifoso, partigiano dichiarato e quasi si vergogna della sua stessa partigianeria. Ma è questo un evento, per Saitta, per il documentario siciliano, per tutta la produzione cinematografca dell’isola, per il pubblico che applaude forsennatamente, per la critica che non critica, per il festival che diventerà Taormina Arte e che vivrà il suo futuro incerto, fatto di grandi direzioni artistiche e di saltimbanchi e trufatori e bufoni e curatori fallimentari. Questa è la storia del cinema siciliano, fatta di momenti di gloria e di catastrof, di osanna e di de profundis. E la Storia, per quei dieci minuti di proiezione e per i tre successivi della premiazione di un barcollante regista a cui fschiavano le orecchie per l’emozione, ha camminato sulle gambette magre di Ugo Saitta.

3.4 Un riferimento culturale per tutti. Il C.U.C. I documenti [141 fronte] e [141 retro] riproducono due lunghi articoli sul dibattito del Centro Universitario Cinematografco. Il tema è il rapporto strettissimo tra la morale e la censura nel cinema del tempo, cioè il ruolo che il cinema può o deve assumere nell’educazione dei giovani. Ancora una volta il cinema è uno strumento, che si incarica di una precisa funzione formativa. Perché Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti e L’avventura di Michelangelo Antonioni vengono ritenuti osceni? C’è un contrasto di posizioni tra l’arte e la morale? E in questo caso, a chi andrebbe riconosciuta la supremazia? Si susseguono gli interventi dei vari docenti universitari (Mario Sipala, Vito Librando, Nino Recupero) e degli intellettuali e accademici. Ma quando tocca a Saitta proporre la propria relazione, la sua prospettiva appare del tutto estranea ai problemi teorici degli interventi che lo hanno preceduto. La sua è una concretezza disarmante. I flm costano soldi e sono dei progetti. È opportuno che la legge stabilisca cosa si può raccontare e cosa no; e soprattutto che indichi chiaramente come è possibile rappresentarlo. Altrimenti gli sceneggiatori prima e i registi poi rischiano di incagliarsi nelle severe maglie

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della censura. Ugo Saitta riporta così la discussione al grado zero, sparigliando le posizioni critiche dei teorici del cinema, degli appassionati e degli studiosi. La sua umiltà è fglia della concretezza di chi sa cosa comporti organizzare le riprese di un flm, chiedere le autorizzazioni, trovare i soldi per la pellicola e le energie per il montaggio. Ed è interessante recepire come, nonostante il suo intervento fosse stato collocato nella parte centrale della discussione, non abbia modifcato in nessun modo le prospettive di tutti gli altri relatori. È come se fosse passato inosservato, eppure viene riportato – pur nella sua diformità – in entrambi gli articoli. Appare chiaro, dunque, come Saitta parli un’altra lingua non intesa dagli accademici e come altre siano le sue priorità nell’approccio al medium cinematografco.

3.5 La personale al cinema Trinacria e Città barocca in tv Il documento [142 fronte] riproduce un articolo sulla personale dedicata a Saitta e presentata presso il cinema Trinacria di Catania, in una proiezione privata, a inviti. Saitta ripropone quattro suoi documentari, realizzati nel corso di tredici anni di lavoro: Zolfara (1947), I pupi siciliani (1954), Itinerario Etna (1960) e Travelling in Sicily (1960). L’analisi che suscita maggiore interesse è quella dedicata a Zolfara, che risulta il documentario più moderno, nonostante sia invece il più vecchio dei quattro. «Zolfara», girato nel 1948 alla miniera di Trabia-Tallarita, è un documentario in bianco-nero che reca, col palpito delle immagini, il fremito di un’accennata indagine sociale. Anche se a distanza di dodici anni, le condizioni di lavoro nelle miniere di zolfo sono un pochino cambiate, con il rinnovo degli impianti e l’automazione incipiente, il discorso che Saitta ci fa intorno a quel duro lavoro è sempre valido ed i suoi fotogrammi sono la testimonianza ed insieme la denuncia di problemi che aforano, senza che il commento della voce fuori campo vi accenni minimamente, dai volti scavati dei minatori, dalle 101

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loro parole misurate, dal sudore che impregna i loro corpi, dal fumo dei calderoni [sic] che annerisce ed appesta un cielo ampio ma senza colori, un orizzonte senza contorni4.

È chiaro che i ‘calderoni’ siano i ‘calcheroni’, cioè i forni tradizionali per cuocere ed estrarre lo zolfo. Ma a parte questo insignifcante dettaglio, com’è possibile notare, la critica è cambiata e rilegge Zolfara. Sono passati dodici anni e a essere cambiate non sono solo le dotazioni di sicurezza delle miniere di zolfo, ma anche il modo di intendere il cinema e l’idea del suo ruolo nel contesto culturale che sarà quello degli anni Sessanta. Ed ecco, da un palpito di immagini, cogliere un’accennata indagine sociale. Il recensore coglie quella spinta, quell’accenno non sviluppato, per non scivolare in quella «socialità» giudicata pericolosa da alcuni, indisponente da altri. Qui invece il valore artistico di un’opera non viene posto in termini di contraddizione della sua lettura sociale, un tentativo larvale, invero, un accenno appunto. E l’analisi si concentra sulle scene del flm, sulle immagini che le connotano, senza giustapporre commenti frutto di posizioni pregiudiziali. La modernità di questa critica sta proprio nella semplicità di ripartire dalle immagini, dalle scelte tecniche e di linguaggio. Non da ciò che il flm deve o dovrebbe fare. Non dalla funzione che deve o dovrebbe assumere. Il flm è infne lì, davanti agli occhi degli spettatori e dialoga con loro nonostante i pregiudizi e le aspettative, nonostante le idee preconcette che ogni singolo spettatore può possedere su un dato argomento. Prima c’è il flm e alla fne resta il flm. Il documento [142 retro] propone una segnalazione della proiezione della personale, uscita su «Espresso Sera», e l’invito ufciale, con un 4

Documento [142 fronte], articolo intitolato Una “personale” del regista catanese. Quattro cortometraggi di Ugo Saitta al “Trinacria”, uscito sul «Corriere di Sicilia», il 18 aprile 1961. Segnalo una piccola incongruenza: la produzione di Zolfara è accreditata ufcialmente nel 1947; la presentazione al Festival di Venezia, del 1948, viene però comunemente considerata l’uscita ufciale del flm. 102

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titolo errato: Traveling in Sicilj, invece di Travelling in Sicily. Avevamo già notato, in più occasioni, un Boj scouts a Taormina e ciò ci fa comprendere le difcoltà di penetrazione della lingua inglese nell’immediato dopoguerra, dopo anni di ridicola autarchia linguistica di regime. Più utile forse sarebbe cogliere appieno le ragioni della scelta, da parte di Saitta, di un titolo inglese, per il suo flm di maggior successo. È proprio l’aspirazione a conquistare un pubblico straniero, probabilmente, che lo fa optare per una formula internazionale e che, di conseguenza, impone la rinuncia del commento parlato con la voice over dall’idioma italico. E poi il mito del cinema è l’anglofona Hollywood e i sogni cinematografci non possono esimersi dal parlare inglese. In fondo, il rischio di qualche storpiatura giornalistica, vale pure il tentativo di aggiudicarsi una ribalta più ampia, anzi globale. I documenti [143 fronte] e [144 fronte] riproducono due articoli sulla messa in onda televisiva di Città barocca. Siamo in tempi di canale unico: e quindi è la televisione italiana a trasmettere il documentario di Saitta, per un pubblico di milioni di spettatori. È certo una grande conquista per il regista, gli autori del commento parlato e delle musiche. Ma lo è ancora di più per Catania, che assurge a palcoscenico nazionale proprio grazie alle sue peculiarità storiche, la distruzione reiterata delle colate laviche, il terremoto devastante del 1693, le ricostruzioni stratifcate. Il documento [144 retro] torna sulla retrospettiva dei quattro cortometraggi. Ma è il documento [145 fronte] a completare questo excursus cinematografco con una bella celebrazione. Saitta viene nominato tra i catanesi dell’anno, come regista, e a lui viene dedicata, su «Espresso Sera», una breve scheda accompagnata da una fotografa. Insieme a lui, risuonano i nomi di Turi Ferro per il teatro, di Pippo Baudo per la televisione e di Mario Scelba per la politica. Saitta viene indicato come il regista cinematografco che ha rinunciato alle ambizioni artistiche per il suo istinto giornalistico. Per questo avrebbe rinunciato a girare flm di lungometraggio, che lo avrebbero sicuramente elevato nel novero dei 103

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più grandi registi italiani. La condanna al cinedilettantismo dei generi minori, documentari, cortometraggi, passi ridotti lo perseguita ancora dopo quasi trent’anni di carriera. Perché il cinema è il lungometraggio a soggetto, con gli attori famosi e tutto il contesto dei manifesti, delle fotografe autografate e degli articoli di pettegolezzi sui giornali scandalistici. Tutto il resto, lo sperimentalismo di formule narrative nuove, il tentativo di mettersi a disposizione delle istituzioni, i festival e i premi, le rassegne stampa corpose come libri, tutto il resto è solo un biglietto da visita per fare il grande passo, il salto di qualità del flm di fnzione. Forse per questo, nove anni dopo questo articolo, Saitta deciderà di provare a realizzare il suo lungometraggio.

3.6 Il Centro Sperimentale di Prosa presso il Liceo Classico M. Cutelli di Catania La generosità di Saitta si misura sull’impegno culturale profuso per la città. Il gruppo dei collaboratori – sempre gli stessi – e degli aiutanti dei suoi progetti cinematografci aveva costituito una piccola scuola di tecnici e di autori. Ma Saitta prova a spingersi oltre, costituendo un Centro Sperimentale di Prosa per gli alunni del Liceo Classico M. Cutelli di Catania. Un corso di recitazione e di dizione, con il sostegno dell’Università di Catania. I documenti [146 fronte], [147 fronte], [147 retro], [148 fronte a] e [148 fronte b] danno ampia testimonianza dell’iniziativa. Il documento [148 retro] fa riferimento alla presenza di Leo Gullotta tra gli aspiranti attori, che si esibiscono con un saggio impegnativo, mettendo in scena Morti senza tomba di Jean-Paul Sartre. Sul foglio in cartoncino dell’album, c’è un appunto manoscritto fssato con una grafetta metalli-

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ca da ufcio, che riporta l’indicazione: «Cercare altri articoli del genere (annunzio saggio e fotografe di scena) ed incollare in questa pagina»5. Il documento conclusivo [149 fronte] raccoglie cinque afettuose e scherzose dediche di altrettanti allievi del corso. I fogli su cui sono stati scritti i saluti al maestro sono i retro degli inviti agli spettacoli o alcuni ritagli di carta intestata del progetto. Sono riportati i nomi delle istituzioni partner che hanno realizzato l’iniziativa del Centro Sperimentale di Prosa, cioè L’Università degli Studi di Catania, attraverso l’Opera dell’Università, e il Liceo M. Cutelli di Catania.

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Documento [148 retro], trascrizione di un appunto manoscritto, fssato al foglio dell’album con una grafetta metallica. 105

Conclusioni

Si ha buon gioco oggi, ma si compie un’operazione ingiusta oltre che scorretta, a giudicare e valutare il lavoro cinematografco di Ugo Saitta con gli attuali criteri estetici. È facile attaccare il passatismo del linguaggio, l’approccio troppo accondiscendente nei confronti di una terra così ricca di contraddizioni e di confitti sociali. Le une e gli altri sembrano acquietati, se non cancellati in buona parte della sua produzione cinematografca. Ma bisogna leggere gli articoli di giornale che sostenevano tutte le scelte di Saitta proprio in quella direzione, bisogna aver contezza delle infnite pacche sulle spalle, degli applausi, dei benebravo-bis urlati con euforia dalla gente rispettabile della città, della reverenza con cui i più umili guardavano al poeta della macchina da presa. Solo dopo, solo adesso, da critici che hanno studiato e conoscono il contesto storico in cui il regista catanese operava, è possibile presentare le proprie rimostranze contro un lirismo del commento sonoro fuori tempo massimo; contro una colonna sonora frutto di un inattuale horror vacui (riferito al silenzio e agli eventuali suoni ambientali, ricchi di sfumature, che vengono puntualmente sofocati dalle musiche), che era comprensibile e accettabile, forse, nei primi anni dell’avvento del sonoro; contro una narrazione troppo conciliante e arrendevole. È vero, a Saitta talvolta sembra sia mancato il coraggio di innovare la sua espressione cinematografca, ma è stato il successo che gli hanno tributato continuamente la stampa, le autorità cittadine e regionali, i festival di Venezia e di Taormina, le rassegne a tema, perfno le riviste specializzate che mettevano il suo nome accanto a Blasetti, a Rossellini, a Visconti, 106

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ad Antonioni. A quel punto, perché avrebbe dovuto trasgredire una regola d’oro, perché avrebbe dovuto rinunciare a quell’abbraccio fatto di quotidiane piccole e grandi soddisfazioni, al fne di innovare il linguaggio cinematografco, come se l’originalità espressiva fosse il Sacro Graal e l’innovazione una crociata spirituale? Ci vogliono altri percorsi, più liminari, per sentire il bisogno di infrangere le regole (De Seta, ad esempio). Non è questione di tempra o di volontà, ma di tavolo da gioco. Ci sono tavoli e tavoli. Ed è il tavolo che detta le regole, è il contesto in cui ci si muove. Certo, le aspirazioni hanno il loro peso, ma anche a nuotare contro corrente, permane il confronto con la corrente. Non si prescinde dalla corrente. In questo studio ho delineato la corrente in cui nuotava Saitta, quella che lo trascina talvolta, quella contro cui si dibatte con procedere disordinato, quella che lo mette in riga e lo rende un nome di richiamo, un punto di riferimento culturale. Basta una lettera al giornale, per far pesare il proprio nome, basta un’uscita pubblica o una proiezione “privatissima” per far rimbalzare lo stesso comunicato stampa urbi et orbi. E allora, come leggere una così ricca produzione? Come segnarla criticamente con le corrette categorie di analisi? Ugo Saitta è stato un uomo del suo tempo. E ha saputo esprimere perfettamente il groviglio delle contraddittorie aspirazioni – cinematografche e più generalmente culturali – della sua Sicilia. Attraverso il suo album di ricordi, frutto anch’esso di un amore incondizionato per il medium cinematografco, è stato possibile conoscere non solo la sua ricerca cinematografca, ma anche il mondo in cui operava, lungo tutti gli anni in cui ha ideato, girato e montato i suoi flm.

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Appendice

Costruire la propria immagine di se stessi Siamo partiti dai documenti selezionati, raccolti e assemblati da Ugo Saitta. Li abbiamo incrociati tra loro, tentando di farli dialogare. Li abbiamo letti, provando a dare loro una successione narrativa, che ha formato un intreccio. Perché di questo si tratta, infne, di una narrazione autobiografca che procede per salti temporali, a volte di mesi o di anni, per esitazioni e incongruenze, per tentativi di schermirsi o di farsi belli o di difendersi da attacchi malevoli. È la narrazione di un uomo che si guarda allo specchio e ricorda e si aiuta con frammenti e pezze d’appoggio. Prova a dare un ordine ai ricordi, con il vago senso di una memoria che esita, manifesta buchi e smagliature. Ugo Saitta prova a costruirsi un avatar, composto di articoli di giornale, di telegrammi e di fotografe, di lanci d’agenzia e di lettere istituzionali. E il suo avatar è qualcosa che ha un rapporto diretto con la sua identità di uomo, di regista e di produttore, ma è sempre di meno o di più oppure altro 1. Non è 1

C’è sempre una mancata corrispondenza tra l’immagine che si sceglie per manifestarsi a un pubblico e l’identità reale di un individuo (semmai ne esiste una reale). C’è sempre il desiderio di apparire migliori, più sicuri e stabili di come si è, meno incoerenti e tentennanti. Avatar, in sanscrito, è l’immagine che il dio sceglie per apparire al mondo, per manifestarsi. È un inganno, perché attraverso l’avatar il dio nasconde la sua divinità, illudendo così l’osservatore con un’immagine che non corrisponde a sé. 108

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qualcosa di fedele, non può esserlo, né in fondo vuole esserlo. Un avatar è il tentativo di costruire la propria immagine di se stessi. È una proiezione di sé. È l’idea che un uomo ha di sé, comprensiva di aspettative e delusioni, di paure e di desideri irrealizzati, di sogni e di incidenti di percorso. È un’immagine della cosa, non la cosa.

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Volto di Sicilia, un album di fotografe raccolte, selezionate e conservate da Tuccio Musumeci (1963-1965) L’album, contenente le fotografe di scena e di back-stage di alcuni episodi delle puntate n. 2, 3, 4 e 5 di Volto di Sicilia, offre un contributo importante per capire il livello di professionalità raggiunto da Saitta e dalla sua troupe. Permette inoltre di comprendere quali fossero le aspirazioni registiche di Saitta, che detestava il concetto di documentario come restituzione delle fonti e invece spingeva tantissimo proprio sulla messa in scena e sul racconto di una storia avvincente e appassionante per il pubblico. Non che in lui mancasse il rigore della ricerca sull’argomento trattato, ma, proprio in termini di priorità, Saitta si è sempre sentito un divulgatore e ha sempre amato rivolgersi a un pubblico indifferenziato, le persone che vanno al cinema, piuttosto che dialogare esclusivamente con gli addetti ai lavori. La maggior parte delle fotografe di scena riguarda proprio la messa in scena di sketch con attori, alcuni dei quali – Musumeci soprattutto – camuffati con travestimenti. È chiaro che il tono delle scenette recitate da attori e comparse sia prevalentemente comico, satirico e in certi casi addirittura farsesco. Solo nelle immagini della ricostruzione dell’impresa dei Garibaldini, sembra prevalere un tono romantico, tra il personaggio interpretato, ancora una volta, da Tuccio Musumeci e quello interpretato da Rosalba Giannini. L’album di Volto di Sicilia riporta in copertina la data di inizio della raccolta delle fotografe, 1963. La fotografa [01] è una bellissima immagine di back-stage, in posa, del regista con il protagonista e i tecnici di ripresa, in occasione delle riprese dell’episodio intitolato Una ricchezza da difendere, che si trova all’interno della puntata n. 2 della cinerivista. Le fotografe [02], [03], [04], [05], [06], [07], [08] sono fotografe di scena dello stesso episodio. Musumeci interpreta tanti personaggi diversi, caratterizzati da accessori o tratti fortemente stereotipati, come il colbacco per il russo e l’elmetto

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nazista e i baf hitleriani per il teutonico o la coppola per il siciliano, sullo sfondo di una pianta di fchi d’India. Il tono della messa in scena è decisamente poco serio e riguarda il fatto che tutto il mondo apprezzi la produzione agrumicola siciliana più degli stessi siciliani. E, come indica il titolo stesso dell’episodio, la scena si chiude con la raccomandazione di cominciare a valorizzare maggiormente i nostri prodotti agricoli, divenendone primi consumatori. La fotografa [09] mostra Tuccio Musumeci che interpreta un curato di campagna, che ha deciso di provvedere coi suoi stessi piedi alla pigiatura dell’uva da vino, proprio quel vino che berrà durante la Santa Messa della domenica. Durante la pigiatura, dal palmento accanto giungono alle orecchie del prete i canti osceni e triviali che accompagnano i contadini durante la fatica. I doppi sensi procurano al curato quasi un malore fsico, come appare chiaramente nella fotografa. Lui, che trascorre il tempo pigiando e leggendo il breviario, è costretto ad allentare il nodo del fazzoletto per non soffocare dopo aver udito tali sconcezze. Nella fotografa successiva [10] lo stesso Tuccio Musumeci, ora di spalle, è diventato un contadino che dialoga allegramente con un altro uomo di campagna. Entrambi brindano al gusto del vino prodotto dalle terre che loro stessi hanno coltivato. La fotografa [11] riprende il manifesto dell’episodio Uno contro tutti e viceversa, contenuto nella cinerivista n. 3. Le fotografe [12], [13], [14], [15] mostrano Tuccio Musumeci, truccato da anziano signore benestante, che con un’auto d’epoca e l’autista si appresta a percorrere, spaesato, le vie di una Catania ormai trafcatissima e aggressiva. Lui, così distinto e gentile, rappresenta un passato fatto di buone maniere e della concessione della precedenza come atto rispettoso e cortese. Non a caso lo si vede dapprima circolare, da solo, con la sua auto d’epoca tirata a lucido, per la bellissima via Crociferi, salotto buono della città già allora chiuso al trafco veicolare. Questa sequenza prova a rafgurare un passato perduto, ancora libero dalla caotica battaglia quotidiana che si vive sulle strade della città moderna, in pieno boom economico. È un 382

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tentativo di dar forma, anche un po’ naïve, alla Catania intesa come Milano del Sud, come metropoli di caratura internazionale. Il caos agli incroci, le auto che strombazzano all’impazzata, il rischio dei pedoni di essere arrotati e lo slalom compiuto dalle rare biciclette sopravvissute sono una sorta di dimostrazione di una metamorfosi ormai pienamente compiuta. La fotografa [16] mostra il personaggio simbolo, nonché vittima, di questa rivoluzione: il vigile urbano, cioè l’uomo che tenta di mettere ordine in un disordine assoluto e ormai costitutivo della vita contemporanea. La fotografa [17], infne, chiude la documentazione di questo episodio, con un’immagine di back-stage, ripresa dall’alto. Da quest’immagine è possibile notare, non solo la troupe e le attrezzature di ripresa, ma anche un pannello rifettente di grandi dimensioni e la presenza di veri vigili urbani a sorvegliare la scena e a occuparsi del vero trafco veicolare, ostacolato parzialmente dalle riprese. C’è anche una mezza dozzina di curiosi spettatori, che osserva la troupe al lavoro, a manifestare una perfetta integrazione ormai consolidata tra i cittadini catanesi e il regista cinematografco di casa. La fotografa [18] mostra Tuccio Musumeci, in un momento d’attesa durante le riprese, poggiato all’auto di servizio della cinerivista Volto di Sicilia. Oggi diremmo che si tratta di una station-wagon, ma allora si chiamava giardinetta. Anche il portapacchi sul tetto dimostra che si tratta di un’auto utilizzata per il trasporto di una gran copia di attrezzature. Le fotografe [19], [20], [21], [22], [23], [24], [25], [26] ci permettono di conoscere uno dei quattro o, più probabilmente, tre episodi che composero la puntata n. 4 di Volto di Sicilia, che oggi risulta l’unica a esser andata perduta. È l’episodio che riproduce una scena dell’impresa dei Mille, che raccoglie il maggior numero di scatti dell’album, perché è sicuramente il più complesso e articolato, dal punto di vista registico, anche per l’alto numero di comparse, tutte in costume. L’affollatissima fotografa [27] mostra infatti una parte della troupe, con molti attori abbigliati con i costumi di scena. Il regista e i protagonisti maschile e femminile non sono presenti nell’immagine e questo lascia pensare che la 383

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troupe qui rafgurata non sia al completo e che la restante parte del gruppo di lavoro sia impegnata nelle riprese di un’altra scena. La fotografa [28] mostra Ugo Saitta che fornisce indicazioni di regìa ad Arnoldo Foà. Il luogo dello scatto dovrebbe essere una via di Taormina. Gli abiti indossati da Foà sono quelli utilizzati durante le riprese dell’episodio intitolato Una spiaggia internazionale contenuto in Volto di Sicilia n. 5, in cui l’attore interpreta l’homo turisticus, una simpatica invenzione di Saitta. Infatti è possibile vedere a tracolla, oltre alla borsa di vernice bianca, oggi tornata di moda come oggetto vintage, anche una macchina fotografca a pozzetto, all’interno della sua custodia rigida; il cappello di paglia, gli occhiali da sole e il libro, che potrebbe essere una guida, con i luoghi da visitare, confermerebbero quest’ipotesi. Infne, non è chiara la funzione di un oggetto posizionato sulla parte frontale della sua fgura e che sembrerebbe un esposimetro con un tappo aperto, che copre la zona di rilevazione fotosensibile, oppure un binocolo: questa sarebbe un’ulteriore conferma della supposizione sopra enunciata. Da segnalare, la presenza di due dive. La prima donna del cinema di Antonioni, Monica Vitti, appare qui in una fotografa spontanea e di chiaro stampo documentaristico [33]; anzi, sembrerebbe quasi uno scatto rubato, per la naturalezza dell’espressione dell’attrice. L’altra, Joan Crawford, appare più ieratica in una posa ostentata con lo sguardo ammirato al belvedere di Taormina [32]. Entrambe queste immagini sono in bianco e nero e presentano un aspect ratio differente, rispetto a tutte le altre. Non si tratta, infatti, delle solite stampe 10x15, come nel caso delle altre fotografe, bensì di un formato quadrato, con una cornicetta bianca ondulata ai bordi. Lo stesso bianco e nero di queste due immagini è più piatto e meno contrastato. E lascerebbe pensare al risultato di due istantanee. Le altre tre immagini, [29], [30], [31], relative sempre all’episodio intitolato Una spiaggia internazionale, sono infne riferite a una seconda sequenza di fnzione dell’episodio, in cui Umberto Spadaro, che si è imbattuto in tre gemelle svedesi, tutte belle, bionde e sorri384

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denti, crede di avere le traveggole per aver bevuto troppo vino. Una scenetta comica che qui viene raccontata dalla foto di scena a colori del piano d’insieme delle tre gemelle [30] e da due scatti di back-stage, in campo e controcampo [29] e [31], che mostrano la soggettiva del personaggio interpretato da Umberto Spadaro e l’oggettiva dello stesso personaggio che, attraverso una smorfa, mostra di temere di aver avuto un’allucinazione visiva.

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Lo voglio maschio, un album di fotografe di scena e di backstage custodite da Tuccio Musumeci (1971) Lo voglio maschio è l’unico lungometraggio a soggetto, girato da Ugo Saitta in 35mm. Il flm, realizzato nel 1971, venne identifcato immediatamente come un prodotto di genere, che abbinava agli stereotipi della cultura siciliana una serie di altri stereotipi culturali di matrice nazionale, che riguardavano la sfera della sessualità. La bellona di turno afanca il mingherlino Musumeci, che prova tutti i rimedi della medicina tradizionale contadina e perfno la magia di una fattucchiera per concepire un fglio maschio. Un abbinamento di caratteri che ofre, nella semplifcazione mediatica dei primissimi anni Settanta, una fumosa rilettura della liberazione sessuale sessantottina, con qualche inquadratura della diva scosciata e qualche elemento di “comicità di situazione”, che si presta a doppi sensi da parte di un pubblico ormai abituato ad applicare uno sguardo morboso e insieme perbenista su tutto ciò che viene proposto al cinema2. Per intenderci, quelli sono gli anni di Malizia 2

Dello stesso anno, 1971, è un’intervista di Emilio Fede a Pier Paolo Pasolini, sull’uscita del suo Decameron. Fede, con ignobile grettezza, chiedeva a un imbarazzato Pasolini: «Ma è vero che nel suo flm ci sono delle scene, diciamo, piccanti?». Il tentativo di Pasolini di scuotere le coscienze conservatrici della borghesia italiana, con la sua trilogia della vita, naufragava così immediatamente di fronte alla capacità che la stessa borghesia perbenista e ipocrita mostrava di avere, in termini di capacità di ingoiare e metabolizzare tutto lo Spettacolo. Il sesso come slancio vitale del proletariato, come spinta al cambiamento e al riscatto, veniva distorto in un superfciale voyeurismo da cinema pecoreccio (quello che alla fne dei Settanta darà vita ai Lino Banf, Alvaro Vitali, Gloria Guida e Edwige Fenech). A Pasolini non rimaneva che rinnegare tristemente le sue tre opere più godibili e vitalistiche, scrivendo quello che forse è uno dei suoi interventi più disperati e disperanti: l’abiura della trilogia della vita. E si rendeva necessario mostrare, proprio a quella borghesia irredimibile, che aveva ormai abbracciato consapevolmente il fascismo della società dei consumi, il suo stesso volto mostruoso allo specchio. Era il 1975, quando uscì Salò o le 120 giornate di Sodoma, inevitabile orrorifco testamento politico di Pier Paolo Pasolini. 419

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(1973) e insieme de Il merlo maschio (1971), che sono i confni di alto e di basso entro cui viene confnato il lungometraggio di Saitta. Eppure è riduttivo voler racchiudere quest’esperienza cinematografca del regista catanese tutta entro i limiti di un flone commerciale limitante, dal punto di vista dell’espressione non solo narrativa, ma soprattutto linguistica. La rigidità di quell’immaginario, infatti, viene scompaginata decine di volte nel flm di Saitta, che pure ha una certa familiarità di fondo con quei temi e con quel tono ironico e talvolta grottesco. Saitta cambia registro a ogni blocco narrativo. I suoi riferimenti lo avvicinano maggiormente alle sue produzioni precedenti, agli sketch di Volto di Sicilia soprattutto, rispetto a quanto non lo mettano in relazione al panorama del lungometraggio a soggetto nazionale di quegli anni. Basti pensare all’utilizzo di atmosfere irreali, determinate dall’assunzione di pozioni magico-afrodisiache, che però generano per un sovradosaggio delle allucinazioni alienanti. Il modo che Saitta sceglie per rappresentare questo altrove della coscienza è apertamente in controtendenza con il cinema commerciale dell’epoca. I giochi di vapore e di luce, i suoni elettrici distorti ci fanno pensare a certo cinema sperimentale degli anni Sessanta. È chiaro come questo lavoro di Saitta sia una sorta di patchwork di visioni e di esperienze personali o indirette, di letture di riviste specializzate, di un lunghissimo rimuginare su invenzioni e trovate audiovisive. Lo voglio maschio diventa così il contenitore di tante aspirazioni narrative e visuali. È incoerente, contraddittorio in certi passaggi e raccordi, perché accumula anni e anni di slanci espressivi trattenuti o arginati all’interno del framework del documentario. Qui Saitta invece può dare libero sfogo alla sua passione afabulativa e accumulativa di trucchetti visivi e virtuosismi vari di regìa. C’è voglia di provare a fare, di trovare la formula in corso d’opera. In una parola, c’è voglia di sperimentare. Per questo, il flm cambia registro tante volte, per questo alterna toni e immaginari, per questo non è semplicemente ascrivibile a un genere consolidato, con tanto di convenzioni e di stereotipi. Arrivato in piena maturità professionale, il lungometraggio a soggetto diventa così una summa di tutte le 420

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esperienze passate e anche delle aspirazioni disattese o rinviate, diventa un progetto liquido e inclassifcabile, di notevole interesse proprio per capire cosa e come in Sicilia fosse possibile esprimersi, sia in termini di produzione che di regìa cinematografca. Una parte importante delle immagini contenute in questo album riguarda la prima, presso il Cinema Capitol di Catania, alla presenza del cast tecnico e artistico. Sono presenti anche numerose fotografe di scena, sia a colori che in bianco e nero. Ci sono infne molte immagini di back-stage, che ci permettono di comprendere il livello di professionalità raggiunto sul set. Sia le attrezzature che il numero dei tecnici dimostrano infatti un grosso investimento produttivo da parte di Saitta per questo progetto cinematografco. Le fotografe [01], [02], [03], [04], [05], [06], [07] si riferiscono all’arrivo, all’aeroporto di Fontanarossa, della diva protagonista Aliza Adar. Ad accoglierla, fn sotto la scaletta dell’aereo, con un vistoso mazzo di fori, è lo stesso Saitta, insieme all’altro protagonista del flm, Tuccio Musumeci. La fotografa [08] mostra ancora Musumeci e la Adar, su un terrazzo, in posa per una foto ricordo. Le fotografe [09], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20], [21], [21], [22] “raccontano” l’arrivo del regista e degli attori al Cinema Capitol circondati da un pubblico numerosissimo. In una sala stracolma di spettatori, Saitta saluta emozionato il suo pubblico. Le fotografe [23], [24], [25], [26], [27], [28], [29], [30], [31], [32], [33], [34], [35], [36], [37], [38], [39], [40], [41], [42], [43], [44], [45], [47], [48], [49], [50], [51], [52], [53], [54], [55] sono fotografe di scena del flm. Le fotografe [46], [56], [57], [58], [59] sono delle immagini di back-stage, anche se appaiono in posa e non “rubate”, come avviene solitamente sul set. Le fotografe [60], [61], [62], [63], [64], [65], [66], [67], [68], [69], [70], [71] sono ancora foto di scena, come pure la [73]. 421

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Le immagini [72] e [74] sono fotografe di back-stage, interessanti soprattutto perché la prima è di una scena girata in notturna e la seconda è di una scena girata in interni. Entrambe mostrano la cura fotografca e l’utilizzo di una gran numero di corpi illuminanti. Le fotografe [75], [76], [77] sono degli scatti in posa dei protagonisti in un momento di pausa dalle riprese. Si coglie una certa familiarità tra i due attori e un clima disteso sul set. Le fotografe [78], [79], [80], [81], [82] mostrano una gita in barca. Musumeci guida uno splendido Riva, uno degli status symbol di quegli anni, e sullo sfondo è riconoscibile il porto di Catania. La fotografa [83], scattata lo stesso giorno (i due attori indossano i medesimi abiti), mostra un’insolita premiazione, di cui non è possibile ricostruire l’occasione. Appare sulla foto anche Ugo Saitta. Le fotografe [84], [85], [87] sono degli scatti di gruppo, in cui sono riconoscibili Aliza Adar, Rita Consoli, Ugo Saitta e la fglia Gabriella; Tuccio Musumeci ha una sorta di vestaglia di raso, sotto la quale indossa canottiera e mutandoni bianchi. Nella foto [86] lo stesso Musumeci assume una posa bufa, da donna fatale, proprio sventolando la sua vestaglia e scoprendo le gambe secche secche e pelose; accanto a lui, un Saitta disgustato si presta al gioco dell’amico. L’immagine [88] mostra Saitta seduto in una sala cinematografca, accanto a una collaboratrice, che poi riappare accanto a Musumeci nelle fotografe [89], [90], [91], [92], [93], [94], [95], [96]; questi ultimi sono degli scatti familiari, di amici sorridenti che trascorrono insieme il tempo libero. Ciò testimonia come il gruppo di collaboratori di Saitta fosse una specie di famiglia allargata, che trascorreva insieme anche momenti non strettamente lavorativi. È chiaro che queste fotografe assumono, per chi le ha raccolte e custodite, non soltanto uno strumento di lavoro efcace per la promozione del flm, ma soprattutto una raccolta di immagini ricordo di momenti importanti dal punto di vista sia professionale che umano. Si tratta, anche in questo caso, di un album di ricordi, che propone la narrazione della storia di un progetto e del gruppo che l’ha realizzato.

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La vita quotidiana e il lavoro di Saitta. Testimonianze A seguire, ci sono anche le interviste ad alcuni testimoni di prim’ordine, come lo stesso Tuccio Musumeci, attore prediletto e amico fraterno di Ugo Saitta. Qui ha modo di raccontare del gruppo di lavoro del regista catanese, della sua famosa casa in via Cibele e dell’entusiasmo che circondava i film realizzati insieme. L’intervista all’aiuto regista Riccardo Manaò, che accompagnò Saitta per cinque documentari e diverse pubblicità, permette di comprendere l’organizzazione del lavoro di Saitta. Dalla voce della figlia Gabriella, già collaboratrice del padre fin da adolescente, viene fuori l’uomo Saitta, il padre e il marito afettuoso. Si ha modo di conoscere, inoltre, anche il rapporto che il regista catanese ebbe con Rita Consoli, complice prima di ogni idea e sogno e progetto.

Intervista a Tuccio Musumeci Domanda: Chi era Ugo Saitta per Tuccio Musumeci? Risposta: Con Ugo Saitta e con la moglie Rita ci siamo incontrati diciamo negli anni ’58 o ’59, perché lui iniziò a fare un cinegiornale dal titolo Volto di Sicilia. Gli è venuta quest’idea perché lui prima era il corrispondente della Settimana Incom per la Sicilia, che allora fu un cinegiornale abbastanza importante. Volto di Sicilia afrontava tanti argomenti, molto diversi tra loro, ma Saitta li rappresentava simpaticamente, perché inseriva sempre delle scenette recitate. Io iniziai con il secondo numero di Volto di Sicilia, che ebbe un grande successo, non solo in Sicilia, ma in tutta Italia, specialmente in Toscana. Veramente io debbo tutto a Ugo Saitta, perché oltre a essere un amico mi fece appassionare al cinema, soprattutto all’aspetto tecnico.

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Quello artigianale di allora, non il cinema di oggi che è tutto basato sul controllo elettronico dell’immagine. Saitta era abbastanza nervoso sul set, rigoroso, pretendeva una grande attenzione e dedizione. Tante volte io lo sfottevo e iddu rideva sotto i baf, però aveva una simpatia immensa. Anche la moglie lo sfotteva quando girava, perché voleva la perfezione, era una cosa impossibile. Quando lui mi invitò per fare il protagonista di Lo voglio maschio, io mi trovavo a Milano, dove avevo fatto una trasmissione con Pippo Baudo, Settevoci, che andava in onda il sabato sera come programma di varietà. Quando Saitta mi disse: facciamo allora questo film, vedi che l’ho scritto per te, ju mi misi i manu nt’e capiddi, rissi Madonna mia, chissà che nervosismo ci sarà. Ed è stato proprio così. Domanda: Per lei che ha avuto modo di conoscere anche Rita Consoli, quale ruolo aveva nella produzione dei film del marito? Risposta: Era una figura importante, una figura di una bellezza eccezionale, e una grande direttrice della fotografia. Io mi ricordo che Luchino Visconti le fece la corte, nel senso lavorativo, per averla come direttrice della fotografia. E poi era anche una grande umorista. Sul piano produttivo, pensava a tutto lei, perché lui non si interessava di nient’altro che non fosse la gestione del set, le riprese, la macchina e gli attori. Ugo Saitta, anche quando si sedeva a tavola per mangiare, non sapeva quello che mangiava, perché parlava continuamente di cinema. Era la moglie che si occupava di tutto l’aspetto organizzativo. Io poi mi sono afezionato talmente a quest’uomo, che ogni sera andavo da lui, perché facevamo delle partite a scopone scientifico, fra amici. Era una cosa tanto per giocare, per tenere le carte in mano, perché lui parlava continuamente di cinema anche in quella occasione. E ju ci rissi: ma ora basta! Domanda: Questa storia delle partite a scopone scientifico ci è stata raccontata anche dalla figlia Gabriella, perché le era rimasta impressa... 520

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Risposta: Quando io ho conosciuto Gabriella Saitta aveva tre anni, ed era una cosa proprio – come si dice da noi in Sicilia – di ’mpicàlla ’ndo n’muru... Domanda: Si era formato un gruppo di lavoro, all’interno della casa di produzione di Saitta, che in fondo era quasi una famiglia allargata. Com’era riuscito a costruire per un lungo periodo questa sintonia? Risposta: Io mi ricordo che tutta questa gente, giornalmente, era a casa di Saitta sia a pranzo che a cena; e si facevano anche le nottate nello studio, al piano di sotto, dove c’era la sala montaggio, c’era la sala di proiezione. Per esempio, in occasione della quarta puntata di Volto di Sicilia, Saitta aveva ricostruito lo sbarco dei mille, con un sacco di comparse, a Francofonte, in una specie di masseria. Cominciammo a cucire i costumi, noi tutti insieme alla moglie, una settimana prima. E terminammo la notte prima dell’inizio delle riprese. Facevamo i sarti, facevamo tutto, era veramente un divertimento. Tra i collaboratori più presenti c’erano anche due importanti giornalisti: un critico teatrale, Gaetano Caponetto, che ha scritto il commento sonoro di buona parte di Volto di Sicilia, e Pippo Fava, che oltre a scrivere faceva delle comparsate nei documentari. Domanda: La collaborazione di Pippo Fava è un elemento di interesse per chi è interessato al ruolo del teatro, del cinema e della cultura in genere come forza di cambiamento della città. In questo senso, Pippo Fava è anche una figura simbolica, non solo come giornalista, ma come intellettuale proprio... Risposta: Nei primi tempi della collaborazione, Pippo Fava non aveva ancora scritto niente di importante. Cioè scriveva, “scarabocchiava” a casa di Saitta, aveva centomila idee perché era un vulcano. Il primo lavoro che scrisse Pippo Fava fu Cronaca di un uomo, che io interpretai a 521

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teatro e fu un grande successo. Poi c’è stato il produttore Turi Basile, che dopo aver visto questo lavoro avrebbe voluto fare anche il film, ma non se ne fece completamente niente.

Intervista a Riccardo Manaò Domanda: Quali sono i progetti di Saitta a cui hai collaborato? Risposta: Io ho collaborato con Ugo Saitta per circa cinque anni, dal 1975 al 1980 circa. Ho lavorato all’inizio come scenografo, perché io ero scenografo del Teatro Stabile di Catania. Lavorammo a degli spot pubblicitari e anche a delle produzioni di cortometraggi. Domanda: C’era un gruppo di persone, di amici, che collaborava stabilmente con Saitta. Tra questi, per esempio Angelo Strano, come direttore della fotografia, o attori come Tuccio Musumeci. A cosa era dovuta questa continuità delle collaborazioni tecniche e artistiche? Risposta: Fondamentalmente perché era una piccola produzione, poi perché Ugo Saitta era un’artista, oltre a essere un produttore, quindi aveva bisogno dell’energia di persone di cui si fidava, per dare il meglio di sé. Aveva bisogno di avere fiducia nelle persone. Quindi le due cose messe insieme facevano sì che avesse un piccolo clan di collaboratori, sempre quelli, con cui si giocava una partita afettuosa per ogni produzione. Domanda: Com’era Ugo Saitta dal punto di vista umano e professionale?

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Risposta: Ugo Saitta era figlio del suo tempo, perché veniva dal primo corso del Centro Sperimentale di Roma, i suoi compagni erano Francesco Rosi, erano Alida Valli, erano Arnoldo Foà; il suo maestro era Alessandro Blasetti, un grande del cinema degli anni Trenta. Lui era un regista con grande cultura, con grande passione, però sicuramente con pochi mezzi, com’era il cinema italiano d’allora. Quindi c’era molto rigore e molta voglia di tendere verso la perfezione. E questo faceva sì che lui fosse uno estremamente esigente. Lui era anche un grande maestro, cioè lui aveva nel sangue la trasmissione iniziatica del lavoro, così come l’aveva ricevuta, con quella severità con cui l’aveva ricevuta. Quindi, se volevi entrare in sintonia con lui, dovevi essere un buon allievo e poi un buon compagno di viaggio, perché ci credeva, ci credeva molto in certi valori. Domanda: Il lavoro dei documentaristi di quei tempi ha qualcosa a che vedere con l’artigianato? Risposta: Io ricordo che con lui ho imparato a fare il mestiere nel modo più artigianale possibile, però di alto artigianato, penso come fosse nelle botteghe rinascimentali. Perché la prima cosa che feci, nonostante io già fossi un professionista afermato nel mio piccolo con esperienza o altro, fu quella di imparare a caricare la pellicola, cioè con il sacco nero, messo lì, cric cric a tagliare. Ecco, dal caricare la pellicola in una macchina da presa a pulire gli obiettivi, a portare il cavalletto, a mettere le luci, a cambiare le lampade, tutto questo faceva parte di un percorso di avvicinamento all’opera. L’opera compiuta si lusingava della tua attenzione. E questo era molto importante. Domanda: Saitta era stato un operatore, veniva dall’esperienza anche tecnica...

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Risposta: No, era un cinereporter. È diverso. Lui aveva bisogno di comporre e quindi aveva bisogno di un controllo molto forte sullo strumento. Questo significava anche avere in mano la macchina da presa, avere in mano l’esposimetro, avere l’occhio poggiato al mirino della macchina. Era molto curioso, molto aggressivo nei confronti della realtà che lo circondava. La voleva catturare, la voleva interpretare. E quindi il discorso di fare il cinegiornale – che allora era uno strumento molto difuso, perché non c’era ancora la televisione – era per lui una sfida importante. Poteva così parlare della Sicilia, poteva mettere a punto la sua esperienza cinematografica e dargli un tocco d’autore. Domanda: Saitta lavorò anche per la Settimana Incom. Questa esperienza aveva, secondo te, influenzato il suo modo di lavorare? Risposta: La Settimana Incom fu per lui un lungo momento di attività, dove diede forse il meglio di sé in termini di dinamismo. Perché lui sapeva catturarle, le notizie. Lui aveva questa voglia di andare, di arrivare per primo sui fatti, di raccontare, di rischiare in prima persona. Quando inseguiva il bandito Giuliano, che si nascondeva sulle montagne, era una bella sfida. Dietro la macchina da presa, diventava un leone, cioè incosciente e coraggioso come tutti i grandi reporter. Quando venne ucciso il bandito Giuliano, Saitta fu il primo cineoperatore e fotografo e giornalista presente nel cortile Di Maria. Arrivò addirittura prima ancora che arrivassero gli inquirenti, quindi lui approfittò di un momento estremamente privilegiato per filmare il cadavere di Giuliano, quando ancora le persone intorno erano spaesate e non sapevano come ci si doveva comportare, quando ancora la macchina dello Stato, oppure insomma le “macchine potenti”, non avevano avuto il tempo di intervenire. Saitta, in proposito, diceva che Giuliano non era morto come è stato reso noto. Ugo Saitta aveva scattato delle fotografie, aveva girato dei filmati che sconfessavano quanto veniva detto dalle forze dell’ordine. Addirittura mi raccontò – e la moglie me lo confermò – che prese e spo524

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stò il cadavere, per portarlo alla luce e filmarlo e fotografarlo. Francesco Rosi sapeva di questa storia, perché il materiale di Ugo Saitta era andato alla settimana Incom, che lo aveva proiettato nei cinema. Rosi, per questo motivo, chiese a Saitta delle informazioni, per documentarsi e per rendere più realistico il suo film Salvatore Giuliano. Domanda: Cosa è rimasto a te degli insegnamenti di Saitta? Risposta: La prima cosa che imparai con Ugo Saitta fu quella di distinguere tra una buona ripresa e una cattiva ripresa, semplicemente applicando un paradigma: il cinema è movimento, le pietre fisse, i sassi, appartengono alla ripresa fotografica. Quindi – e lo ripeteva sempre – quando si doveva riprendere, per esempio, una facciata di una chiesa Barocca, chiunque avrebbe messo la macchina da presa, magari con un’angolazione diversa, una luce un po’ particolare e avrebbe girato. Il risultato sarebbe stato l’immagine fissa. Invece con lui bisognava avere un set molto vivo, un gelataio che passava, dei bambini che correvano, un foglio di carta o delle foglie portate dal vento, una processione addirittura, perché il cinema per lui era movimento.

Intervista a Gabriella Saitta Domanda: La tua famiglia si è dedicata alla produzione cinematografica. Chi veniva impegnato nei progetti di tuo padre? Risposta: Il lavoro di Papà, anche se ovviamente aveva una altissima professionalità, era artigianale. Lui curava tutti i minimi particolari e coinvolgeva i membri della famiglia. Non eravamo tanti, prima mia mamma, poi io e anche lo zio Pippo, che è il fratello della mamma. Lui ha lavorato con papà: ha fatto l’operatore e faceva parte della troupe. Poi

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papà, quando poteva, coinvolgeva anche parenti, amici; ma diciamo che mamma e io eravamo sicuramente delle figure fisse. La mamma è stata la prima donna operatrice di ripresa – stiamo parlando degli anni Cinquanta ed era una cosa abbastanza sconvolgente –, ci fu anche un articolo che uscì su «Marie Claire», che racconta del lavoro appassionato di mamma. Io invece, crescendo, ho cambiato ruolo. Prima facevo il ciak, poi imparai a fare la segretaria di edizione; e quindi anche un ruolo di responsabilità, nonostante fossi ancora una ragazzina. Papà era una persona molto carina, pacifica, ironica, divertente, ma quando si lavorava era tostissimo. Domanda: Tuo padre viveva questo amore smodato per Cinecittà, per il Centro Sperimentale, per Roma e questa professionalità cercò di trasferirla in Sicilia. Risposta: Partiamo dal fatto che, all’epoca, il Centro Sperimentale era per un regista un banco di prova serissimo. Adesso i lavori sono più settoriali, invece quello che mi raccontava papà era proprio che chi faceva il Centro Sperimentale studiava da attore, da operatore, da direttore della fotografia; cioè, prima di arrivare a fare il regista, di fatto, conosceva benissimo tutti i ruoli dei professionisti che andava a dirigere. Per cui papà era un attore fantastico, perché per dirigere degli attori devi sapere da che parte incominciare. Questa è una cosa che io, nel mio mestiere di attrice, non ho trovato tanto difusa. Quelle generazioni invece avevano una preparazione in questo senso che era spettacolare. La preparazione di papà è avvenuta a Roma e poi il suo grande sogno era quello di portare tutto questo gran bagaglio di conoscenze e competenze qui in Sicilia. È stato giusto, è stato sbagliato? Chi può dirlo? Ci ha provato in tutti i modi! E il progetto che aveva era un gran progetto, perché lui partiva dall’idea che, grazie alle condizioni atmosferiche ottimali che ci sono in Sicilia, si potessero girare film per nove mesi all’anno. Tra l’altro, all’epoca, le condizioni atmosferiche erano im526

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portanti: cioè non c’erano tutti i mezzi che abbiamo oggi e quindi avere costantemente delle belle giornate ovviamente permetteva di lavorare senza intoppi. Domanda: Un’altra cosa che lui diceva sempre, anche attraverso il commento sonoro dei suoi documentari era che, nel catanese, c’era anche la possibilità di girare in location di montagna e di mare, senza grandi spostamenti. Risposta: Un altro motivo importante, diceva papà, per cui venire a creare dei centri di produzione o degli studios in Sicilia. Infatti, molti dei suoi documentari raccontano proprio questo: mare, neve, sci; e riesci a sciare e poi essere al mare e farti il bagno dopo mezz’ora. Non so in quale altra parte del mondo possa esistere una cosa del genere. E poi l’amicizia che papà aveva con Ettore Catalucci, che è stato un personaggio importantissimo per il mondo del cinema. Catalucci aveva gli stabilimenti della Spes, che poi diventarono Tecnospes. Tutti i film venivano sviluppati e stampati dalla Spes, anche quelli americani. Quindi, questa amicizia lo aveva anche aiutato a sognare di poter creare sia lo stabilimento di sviluppo e stampa, sia gli studios. Purtroppo questo è rimasto un sogno. Però lui è tornato in Sicilia, dopo vent’anni di lavoro a Roma, e ha fatto la sua piccola e artigianale casa di produzione, la X Film. Il film, Nuvola, dal quale doveva partire, purtroppo però non andò in porto. E, tra l’altro, per motivi che possono sembrare assurdi: mi raccontava papà che Nuvola era stato il primo film del dopoguerra, girato scoperchiando i tetti delle case, per ottenere la giusta quantità di luce. Allora non c’erano le lampade e i proiettori luminosi costavano troppo e non erano disponibili per chi girava con piccoli budget; e poi c’era appena stata la guerra. Girarono metà film, papà poi andò a Roma, per cercare quello che all’epoca si chiamava il minimo garantito. I produttori dei film, quando lui trovò un grosso minimo garantito, si accapigliarono

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perché volevano appropriarsene e da quel momento, purtroppo, questo progetto non andò avanti. Domanda: Dunque, siamo arrivati a Catania, dove nasce l’idea della X Film. Nel momento in cui tuo padre fonda la casa di produzione, decide di dedicarsi fondamentalmente al documentario, però con un’idea di documentario che è molto diversa da quella che noi oggi abbiamo. Risposta: Non gli piaceva fare “documentari sulle pietre”, diceva proprio questo. Sì, insomma, a lui non piaceva dare una serie di informazioni, tecniche, teoriche, sui vari siti archeologici, quelle che lui chiamava “le pietre”. Ma gli piaceva creare una storia, fare entrare il pubblico dentro un racconto. Erano documentari, ma con lo stile del film a soggetto: c’erano per esempio delle scenette, negli episodi di Volto di Sicilia, che facevano capire bene l’animo del siciliano. Lui amava la Sicilia, quindi ogni occasione era buona per raccontarla. C’era Tuccio Musumeci o Arnoldo Foà. Ecco, diventavano delle piccole scene recitate e, all’epoca, per il documentario, questa era una cosa nuova. E da qui poi, penso – io ero piccola ovviamente – è venuta fuori l’idea di fare i cinegiornali. Anche nel cinegiornale esisteva il documentario, come quello della Settimana Incom, che passavano prima del film. Ma l’idea del cinegiornale fatto in questa maniera, in questa forma, è stata assolutamente innovativa. Domanda: Un altro elemento importante, nel modo di fare cinema di tuo padre, era il rapporto con i suoi collaboratori, che poi erano sempre le stesse persone. Si diventava anche amici, sul set. Risposta: Sì, io devo citare una persona, lo devo fare proprio col cuore, perché è stata una persona che ha dedicato a mio padre la sua vita, ed era un macchinista, Nino Basile. Ovviamente, da macchinista 528

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non si viene mai ricordati. Ma, nella nostra famiglia, non era “il macchinista”, era una persona che ha fatto tutti i documentari con papà, lo seguiva in qualunque progetto, lasciava perdere tutto, anche la famiglia. Angelo Strano è stata un’altra persona che ha lavorato per tanti anni con papà. Insomma, erano figure che poi diventavano anche familiari, perché lui giornalmente incontrava tutti i suoi collaboratori. A casa, appunto, inventavano, scrivevano, era una sorta di laboratorio permanente, sempre in attività. C’erano anche i fratelli Paganello, Ciccio e Fausto Paganello, c’erano tanti giovani, che lui metteva alla prova sul lavoro pratico, manuale, perché si faceva dare una mano a costruire gli scenari. Poi li portava a girare, così crescevano professionalmente. E mi ricordo infatti che casa mia era un porto di mare: a tutte le ore arrivavano questi giovani. Mia madre era sempre lì a preparare, a cucinare. Da questo punto di vista, la mia casa di Cibali era un punto di riferimento. E tutt’oggi, chi si ricorda di papà, si ricorda di quella casa, che comunque era un ritrovo creativo. Domanda: E gli attori? Risposta: Papà amava avere un rapporto personale, afettuoso, con le persone. Quindi, Tuccio Musumeci viveva a casa nostra: l’estate, ogni sera, alle cinque del pomeriggio, Tuccio era a casa mia, per chiacchierare con papà, per fare progetti, per raccontare. Poi giocavano a scopone scientifico. Leo Gullotta, si raccontava che papà l’avesse conosciuto al C.U.T., Centro Universitario Teatrale, ed era un ragazzino, credo che avesse un quindici anni. E papà raccontava come lui l’avesse voluto, perché aveva capito quanto talento avesse questo ragazzo; e Leo è sempre stato una persona vicina alla nostra famiglia. E poi nei lavori che papà ha fatto, l’ha sempre ricordato, nel film [Lo voglio maschio] aveva un bel ruolo. Arnoldo Foà era un’altra persona con cui papà lavorava. Poi c’erano le collaborazioni, invece, per scrivere i documentari: Pippo Fava faceva parte di quelle persone che io vedevo ogni giorno, perché stavano lì, 529

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avevano idee, scrivevano; e poi c’erano il professore Caponetto e Giuseppe Berretta, altri collaboratori fissi di papà. Domanda: Cosa resta, oggi, di quel mondo e anche di quelle esperienze? Risposta: Che cosa resta? Restano i documentari di papà che ha la Regione Siciliana e che sarebbe bello se si potessero vedere un po’ di più. Rimangono tante cose che io ho dato alla professoressa Sarah Zappulla Muscarà. Quando papà morì, lei prese tutto il materiale, anche quello di Angelo Musco, perché si doveva aprire questo museo dei personaggi siciliani. Io ho dato tutto quello che avevo di cartaceo, le locandine. Praticamente, oggi non ho più niente, per cui spererei vivamente che qualcosa succedesse, ma non so cosa sia stato fatto. Con grande rammarico, devo dire che esiste un museo del cinema a Catania, alle Ciminiere, dove mio padre non è neanche menzionato. Quindi, quello che resta? Quello che non resta, purtroppo... Domanda: Mi puoi dire qualcosa in più sul rapporto lavorativo che tuo padre ebbe con tua madre? Sembra essere una collaborazione che segnò entrambi in maniera profonda... Risposta: Sicuramente la collaborazione di mia mamma fu fondamentale per papà. Come iniziò questo rapporto? Iniziò perché la mamma, che era una bellissima donna, voleva fare l’attrice e conobbe questo regista. Quello che si raccontava a casa era che papà le fece una sorta di provino: era assolutamente negata per recitare. Papà le fece delle lezioni, ma andò a finire malissimo. Dal sogno di fare l’attrice passò al ruolo di operatrice. Diciamo che era il braccio, non solo destro, destro e sinistro di papà. Perché mentre papà era il creativo, la mamma era il factotum, l’organizzatrice a livello commerciale, era una figura molto importante. Ecco perché ci tengo che venga ricordata e le si dia il ruolo che le spetta. 530

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Sono state due figure che hanno viaggiato proprio insieme e, devo dire, l’uno non avrebbe potuto fare a meno dell’altro. Quindi il lavoro di papà è giusto che vada anche condiviso con la figura della mamma.

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La voce degli studiosi. Idee, impressioni, opinioni In conclusione, riporto alcune interviste a diversi studiosi. Sebastiano Gesù è uno storico del cinema e un grande conoscitore specifcamente del cinema siciliano. Instancabile promotore culturale, autore e curatore di numerosissime pubblicazioni sul cinema italiano e siciliano; da direttore artistico della sezione cinematografca di Etnafest, ha permesso ai catanesi di riappropriarsi del cinema documentario siciliano. Enrico Magrelli è il Conservatore della Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografa di Roma, giornalista e critico cinematografco. Insieme a Steve Della Casa, è autore radiofonico di Hollywood Party, la più importante trasmissione che Radio Rai dedica al cinema. Giuseppe Giarrizzo ha poco o nulla a che vedere con il cinema, perché è uno storico puro, anche se lui direbbe – meglio – uno storico generale. Le sue competenze di storia della Sicilia, la sua poliedrica attività culturale nella e per la città di Catania e la sua attività politica rendono la sua testimonianza di notevole rilevanza, per comprendere il mondo in cui Saitta agiva. Marco Bertozzi è storico del cinema, critico cinematografco e regista di documentari. È il punto di riferimento per conoscere e comprendere il cinema documentario italiano. Adriano Aprà è storico del cinema e critico cinematografco. Autore di documentari, è apparso anche in flm di Marco Ferreri e di JeanMarie Straub. È stato Conservatore della Cineteca Nazionale di Roma e direttore artistico del Festival del Cinema Nuovo di Pesaro. Profondo conoscitore del Neorealismo, ha seguito – e coi suoi scritti, orientato – gran parte delle derive sperimentali cinematografche e video.

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Intervista a Sebastiano Gesù Domanda: In quale occasione hai conosciuto Ugo Saitta? Risposta: Ho conosciuto Ugo Saitta agli inizi degli anni Settanta, in occasione di un convegno tenuto a Giardini Naxos dal Centro Studi Cinematografci. Saitta era una delle personalità più illustri che partecipava al convegno e ha tenuto una relazione proprio sul documentario siciliano. Ed è stata una bella scoperta, anche perché insieme a lui c’era la moglie Rita Consoli e insieme formavano una ditta a carattere familiare. Questa amicizia è durata per anni e lo andai a trovare varie volte nella sua casa di via Cibele, dove lui aveva addirittura una sala cinematografca e proiettava flm e suoi documentari. Domanda: Che impressione hai avuto di Saitta? C’è chi dice che fosse molto severo... Risposta: Saitta era una persona simpaticissima, molto cordiale, disponibile anche a darci delle imbeccate per quanto riguarda l’organizzazione di iniziative di ambito cinematografco. E lui si prestava molto anche a partecipare alle iniziative che riguardavano la Sicilia e il Cinema. Erano gli anni in cui incominciava a nascere l’interesse per questo rapporto tra la Sicilia e il Cinema. Domanda: Io ho avuto modo di conoscere il cinema di Saitta grazie alla rassegna sul documentario Siciliano, che tu hai curato per Etnafest. Ciò che veniva fuori da quella importante manifestazione culturale è che esiste un importante patrimonio cinematografco in Sicilia, che è quello del documentario, che è però completamente sconosciuto o poco conosciuto al grande pubblico.

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Risposta: Sì, in verità il documentario siciliano è un mondo sommerso, al di là di Ugo Saitta, di Francesco Alliata e di Vittorio De Seta, si conosce pochissimo. E questa conoscenza, come dire, è dovuta agli anni più recenti. Però c’è tutto un mondo che bisogna riscoprire, rivalutare e incominciare a studiare. In realtà si è fatto molto poco, sia dal punto di vista dello studio, sia dal punto di vista della conservazione e della valorizzazione di questo patrimonio. Io ho cercato di proporre una retrospettiva abbastanza ampia, con Etnafest a Catania, e sono stato tra i primi ad apprezzare in modo organico, sistematico tutta l’opera di Ugo Saitta; sia l’opera documentaria che anche l’unico flm a soggetto, che ho proposto anche al Festival di Marzamemi, Lo voglio maschio. Domanda: Tu hai fatto anche una mostra importante, che è stata ospitata dal Museo del Cinema di Catania, sulle prime case di produzione, attive tra il 1911 e il 1914. Questa vocazione della Sicilia a fare cinema è una vocazione che nasce insieme con il cinema... Risposta: Nasce proprio con il cinema delle origini. E nasce in tutti gli ambiti e in tutti i settori dell’attività cinematografca, dalla produzione, alla distribuzione, a tutto l’indotto. E non bisogna dimenticare che in Sicilia, proprio in quegli anni, esistevano ben quattro case di produzione cinematografche, che coinvolgevano attori del teatro catanese e scrittori importanti come Verga, Capuana, De Roberto. C’era anche tutto un indotto che riguardava le riviste specializzate. Non bisogna dimenticare che a Catania e a Palermo sono arrivati anche grandi direttori artistici perché allora non venivano chiamati registi e addirittura, nel 1914, in Sicilia si istituiva la prima casa di recitazione per attori di cinema e si pubblicava un manuale per diventare artisti cinematografici.

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Domanda: E tutto scomparirà con la nascita di Cinecittà? E però i documentaristi siciliani hanno tutti la capacità di autoprodursi, lo stesso Saitta aveva la sua casa di produzione. Risposta: Sì, nel momento in cui il cinema si concentra a Roma e non è più un “cinema regionalistico”, diciamo così, i documentaristi, questi fgli minori del cinema, si organizzano per conto proprio, diventano autori indipendenti e si autoproducono. Domanda: Per Saitta il documentario doveva essere una cosa divertente e divulgativa, cioè lui aveva molto quest’idea dell’intrattenimento del pubblico. Risposta: Sì, Saitta è interessato al paesaggio, ai monumenti, alla classicità della Sicilia – e infatti uno dei suoi documentari si intitola Città Barocca – ma poi è anche interessato molto al costume siciliano e al folclore. In Sicilia c’è tutto un mondo che Saitta racconta simpaticamente, il mondo che evidentemente conosce più da vicino è quello catanese, quello legato soprattutto alla sua cara Etna, alla zona pedemontana, che gli è molto cara. Domanda: Tu, oltre a essere uno storico del cinema, sei anche un appassionato collezionista. Questa passione ti pone anche di fronte a oggetti che fanno parte del mondo del cinema, ma in qualche modo sono di contorno all’opera cinematografca, eppure sono fondamentali, per permetterci di comprendere appieno le relazioni che le opere avevano con la società. Risposta: Sì, io penso di non essere un collezionista maniacale. Non cerco di avere l’oggetto per utilizzarlo in maniera feticistica, ma per poterlo studiare all’interno di un contesto più generale, più importante, se vuoi, anche se questi materiali sono stati considerati fno a oggi materia535

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li minori. In realtà, minori non lo sono assolutamente, perché molte volte ho capito che da questi materiali viene fuori un’altra storia del cinema, che non è legata soltanto ai fotogrammi della pellicola. Purtroppo, mi rammarico che di Saitta si conserva molto poco: ho soltanto un logo della sua X Film e poi qualche foto di scena della sua cinerivista Volto di Sicilia, una di Zolfara e una de I pupi siciliani; ho anche una fotografa di Ugo Saitta sul set, durante le riprese. Bisogna anche considerare che, per quanto riguarda il cinema documentario, non si producevano molti materiali pubblicitari, perché il meccanismo della distribuzione del documentario era diverso,rispetto al cinema a soggetto, che aveva tutta una serie di materiali pubblicitari che accompagnavano i flm nelle sale o che ne annunciavano l’uscita. Domanda: Tu hai avuto modo di vedere questo cortometraggio ritrovato di Saitta, La terra di Giovanni Verga, che è del 1953. Cosa ne pensi? Risposta: Io credo che questo documentario, legato alla terra di Giovanni Verga, sia un’opera interessante, perché arriva in un momento in cui c’era una sorta di diatriba legata alla Cavalleria rusticana. La Cavalleria rusticana, girata nel 1954 da Carmine Gallone, non era stata girata a Vizzini, ma era stata girata nelle zone di Misterbianco, di Paternò. Quindi, come dire, Gallone aveva tradito Verga, perché non era tornato nei luoghi in cui era ambientato il dramma. Ugo Saitta, inoltre, così come accade nelle sue altre opere, riesce a contestualizzare il letterato Verga e le sue opere all’interno di un contesto ambientale di grande interesse. E poi quelle sono zone che non hanno resistito ai tempi, che sono state stravolte dal punto di vista urbanistico e quindi credo che sia un materiale importante. Domanda: Tu pensi che possano esistere nelle cineteche, pubbliche o private, dei flm che noi oggi non conosciamo? Magari di documenta536

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risti, considerati minori, che possano essere recuperati? O credi che il nostro sia stato un unico colpo di fortuna? Risposta: No, io credo che ci sia un mondo sommerso. È importante, bisogna farlo riemergere, restaurarlo e promuoverlo. Io stesso conosco dei collezionisti privati, che hanno tanti documentari che riguardano la Sicilia, ma il problema investe le istituzioni, le flmoteche, la conservazione, il restauro. Non bisogna – coi fondi pubblici erogati dalle varie Film Commission – soltanto produrre dei flm, che poi magari non vengono nemmeno distribuiti, ma piuttosto invece conservare, valorizzare e fare conoscere i tesori che si possiedono negli archivi, soprattutto attraverso le scuole, come sussidio didattico, perché l’immagine oggi è un sussidio molto importante per le attività didattiche. Domanda: Hai fatto cenno alle istituzioni locali, qual è il ruolo che dovrebbero avere, a tuo avviso? Risposta: Il ruolo delle istituzioni locali deve essere quello legato alla promozione, dalla produzione alla distribuzione, alla conservazione, perlomeno del cinema che non trova spazi nelle sale commerciali e che invece può avere un pubblico importante, di nicchia, nelle varie attività culturali. Per questo motivo, stiamo istituendo un Consorzio di Festival e di associazioni, che si interessano alla promozione cinematografca, proprio per fare circolare questi materiali, che altrimenti non si vedrebbero. E io credo che verrà fuori un circuito alternativo di grande interesse. Domanda: Tra le opere di Saitta, qual è quella che tu pensi sia la più interessante o a cui ti senti più legato e perché? Risposta: Io preferisco Zolfara sicuramente, però apprezzo anche molte sequenze di tantissimi dei suoi documentari, soprattutto quelli le537

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gati all’Etna, per l’amore, per l’afato che il regista catanese ha per questo territorio.

Intervista a Enrico Magrelli Domanda: Tu sei il Conservatore della Cineteca Nazionale di Roma. La mia domanda iniziale è questa: cosa “conservi” e perché? Risposta: ‘Conservatore’ è una strana parola, che ha molte connotazioni. Chi occupa, transitoriamente, il ruolo di Conservatore della Cineteca Nazionale è il curatore della cineteca, è il direttore della cineteca, sostanzialmente, è la persona che si occupa della strategia culturale di una cineteca. L’oggetto prezioso, principale, che viene conservato sono le pellicole, sono i flm. Il conservatore, quindi, è un uomo che ha il difcile compito di “maneggiare’’ la memoria cinematografca. Domanda: E proprio di memoria ci vogliamo occupare. La nostra idea è quella di poter recuperare parte dell’identità culturale della Sicilia attraverso il cinema e, in particolare, il documentario. Pensi che possa esserci una relazione tra memoria, cinema e identità? Risposta: Dunque, memoria è una parola onnicomprensiva, ed è molto facile fare considerazioni retoriche o banali o stereotipate sulla memoria. C’è un rapporto però molto profondo, se vogliamo parlare della memoria cinematografca. La memoria cinematografca è fatta di cose molto note, riconoscibili, identifcabili, consolidate. Il lavoro più interessante però è lavorare

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sulle smagliature, sui buchi neri della memoria, laddove in alcune zone d’ombra ci possono essere storie, racconti, esperienze, tentativi di lavorare – tentativi spesso riusciti – sul linguaggio cinematografco, che in qualche modo sono caduti in una sorta di amnesia collettiva. Credo che il compito di una cineteca sia soprattutto lavorare sul consolidato, sul noto, sul famoso, ma anche su quello che non si conosce. La memoria cinematografca ha a che fare profondamente con l’identità culturale; se ne rende conto anche chi, a livello europeo, ragiona su quanto sia importante preservare la memoria, ad esempio del cinema muto. Gran parte del cinema muto, il 90% o forse anche più del 90%, che ha avuto una produzione ricca, articolata, sterminata, ormai è completamente perduta. Preservare quel 10% che rimane signifca lavorare su un bene culturale, quali sono i flm, che hanno lo stesso valore di un monumento, di un quadro o di una scultura. Credo ci sia un rapporto strettissimo, fortissimo, profondo, tutto da analizzare, tra la memoria del cinema e l’identità, identità reale o identità proiettata, di una cultura, di una società, di un mondo che ha realizzato e in qualche modo si è autorappresentato in quella storia. Domanda: L’idea di Saitta è che il cinema, anche in termini di “propaganda turistica”, potesse rappresentare una rinascita economica e sociale per la Sicilia, nell’immediato dopoguerra. Pensi che si tratti di un’idea ingenua? Risposta: Quando il cinema è nato, gli operatori andavano in giro per il mondo, per portare a casa (cioè nella casa cinematografca delle persone) proprio immagini dal mondo. Quelle non sono immagini turistiche, non sono immagini promozionali di un luogo. Ma sicuramente il cinema è un elemento di promozione e di progresso, non solo culturale ma anche oggettivamente economico.

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Domanda: In che modo il cinema può rappresentare l’identità di un territorio e in che modo le sue ambizioni di sviluppo? Risposta: Il cinema diventa non solo momento di cristallizzazione di un’identità culturale – fssa un luogo, descrive uno spazio, fa percepire delle emozioni, delle atmosfere, delle paure, delle speranze di una società – ma può essere anche ambizione per un’identità che non si è ancora conquistata. E può essere un’ambizione di tipo economico, culturale, sociale o politico.

Intervista a Giuseppe Giarrizzo Domanda: Può raccontarci in quale occasione ha conosciuto Ugo Saitta? Risposta: Lui era già una persona anziana, quando io l’ho conosciuto; non apparteneva certo alla mia generazione. Non ricordo, in particolare le circostanze, nel senso che presumo che ci siamo incontrati in uno di questi tanti circoli culturali che allora erano ancora attivi a Catania. Ci furono poi anche delle richieste di incontri più ravvicinati, perché lui desiderava che vedessi la raccolta di documentari che aveva a casa e mi invitò un paio di volte a farlo. Domanda: Secondo lei, in quella che era la realtà culturale del tempo, il cinema aveva un qualche ruolo a Catania? Risposta: Ma, io direi che c’era una tradizione. Poi, faceva parte in modo soverchiante della cultura consumata. Dire che si trattasse – qui e complessivamente in Sicilia – di cultura prodotta, ho qualche dubbio. Ma questo, non ho una specifca competenza per poterlo sostenere.

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Domanda: Una delle cose che mi ha colpito sono i documentari sull’industria, soprattutto quando Saitta parla di Gela come di una risorsa straordinaria. Quando cioè sostiene che la Sicilia debba togliersi di dosso, diciamo, l’agricoltura arretrata e guardare verso l’Europa, verso il futuro. Chiaramente, dalla nostra prospettiva odierna, c’è un errore di valutazione? Risposta: No, secondo me è una posizione del suo tempo. Cioè teniamo conto naturalmente che l’Università di Catania, indipendentemente poi dal giudizio che si può dare sul livello politico-culturale della élite che la reggeva, tratta sulla possibilità di creare addirittura una Facoltà di Chimica Industriale. E Priolo viene aperta in funzione naturalmente di questo obiettivo. Il problema, naturalmente, della industrializzazione della Sicilia era il grande sogno. Stiamo attenti, che naturalmente in quegli anni, fno al periodo milazziano, cioè fno alla fne degli anni Cinquanta, la tesi fondamentale era che la trivellazione in mare della costa ionica avrebbe fatto della Sicilia una specie di California o El Dorado dell’Italia meridionale. E qui non ci sono diferenze. La sinistra era, da questo punto di vista, più mobilitata della destra. Al di là del fatto che alcuni di questi documentaristi – e presumo anche Saitta – rispondevano a committenze, quindi rispondevano al fatto che c’erano dei soggetti in grado di pagargli i costi della loro attività. Nella sostanza, naturalmente, quello fu un momento di impressionante infatuazione; con quelle caratteristiche, stiamo attenti, perché si parlava fondamentalmente di industria estrattiva. Non dobbiamo dimenticare l’acquisizione regionale delle miniere. Cioè, l’ente minerario siciliano nasce all’interno di questa visione. La Sicilia è un impressionante serbatoio di ricchezze, per le prospettive delle industrie, ma fondamentalmente industrie estrattive, quindi la linea che Saitta assume risponde a quella che è l’idea dominante di quel tempo. Se pensiamo che quello è il periodo, come dire, dell’identifcazione di un boom economico siciliano con Mattei. L’idea fondamentale era che la Sicilia fosse davanti a tutti sul piano delle risor541

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

se minerarie, di gas, di petrolio. Non prendiamocela con il bravo Saitta, perché in realtà, in qualunque caso, lui rispondeva a questa deriva. Domanda: In questo periodo stiamo lavorando al quarto volume della Storia di Catania, di cui lei stesso è curatore. Come sa, il mio contributo prova a capire se il cinema ha la capacità di rappresentare l’immaginario di una città. Come si vede la città allo specchio? E come vuole autorappresentarsi? Il cinema, secondo lei, da storico, ha questo potere? Risposta: Mio caro, io ritengo che questo sia vero per qualunque tipo di documento, a maggior ragione per un documento complesso come è il cinema, che è un misto di linguaggi, da quello verbale a quelli non verbali. La storia è racconto, quindi, un testo il quale sia mera rappresentazione e non contenga una sequenzialità narrativa diventa problematico da utilizzare per uno storico, ma se ha, implicita o esplicita, una sequenzialità narrativa, è una fonte storica a tutti gli efetti.

Intervista a Marco Bertozzi Domanda: Zolfara è del 1947. È il primo documentario girato da Saitta dopo la guerra. Ed è l’unico che adotti un linguaggio diverso dagli altri, più vicino a un’idea di realismo. Risposta: Ogni cultura defnisce i suoi livelli di realismo, l’ammissibilità di determinati realismi. Nel Ventennio, il realismo è di un certo tipo e probabilmente questo realismo continua anche nell’immediato dopoguerra e negli anni Cinquanta. È l’idea che ci sia un’unica verità forte, potente, da defnire. E che il documentario sia il profeta di questa

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Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

realtà e la voice-over sia, come dire, il “paradivino”, che si manifesta attraverso un soundscape così rigido, così defnito. Probabilmente, al di là della mutazione del quadro politico nell’Italia del dopoguerra, invece, alcune forme persistono. E quelle del documentario sono le più forti. Ed è molto interessante, perché alla base del Neorealismo c’è comunque un’istanza documentaria molto forte, anche molto rafnata, che trae spunto anche dalle fabbriche del Luce, dall’emergenza sociale ed economica, dalla necessità di documentare la guerra, ad esempio. Oppure dall’urgenza che emergeva anche in riviste importanti come «Cinema», come «Bianco e Nero», di tornare al paese reale, quindi di documentare attraverso una serie di flm. Penso a Comacchio, penso a tanti documentari che erano all’opposto dei telefoni bianchi. È come se questa linfa, che non nasce improvvisamente con il Neorealismo, ma che parte già da prima, defnisse una necessità di documentare il paese reale, che però poi viene presa dal Neorealismo e volta in fnzione. È una semplifcazione dire che il cinema neorealista è “documentario”. Il cinema neorealista è un cinema narrativo, un cinema di fnzione, un cinema che usa attori, che usa sceneggiature, però è chiaro che la sua istanza documentaria è molto forte. E lascia purtroppo, invece, al documentario questa forma rigida. Lascia una serie di leggi, che dal dopoguerra vanno a defnire in maniera univoca come deve essere un cortometraggio. Deve essere con musica spalmata su tutto il flm; deve ben adattarsi a questo pacchetto, costituito dal documentario più flm narrativo; deve durare 10 minuti. Tutto questo avviene con tutta una serie di scandali, che esploderanno negli anni Cinquanta, quando poche grandi società di produzione potranno arricchirsi, lucrando in maniera eccezionale, sulle percentuali governative e poi sui premi di qualità. Domanda: Nelle cineteche, a tuo avviso, è ancora possibile scoprire “tesori nascosti”, di autori minori o di autori importanti?

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Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

Risposta: Guarda, c’è in atto un processo storiografco di alcuni autori importanti, penso ad esempio a Emmer o a Pasolini o anche a Rossellini. Negli ultimi anni si stanno rivalutando molto i loro documentari, che sino a qualche tempo fa, nel privilegio di una cultura, se vuoi, letteraria, venivano considerati solo dei piccoli flm. Magari, come nel caso di Pasolini, dei piccoli flm in forma di appunti, per poi andare a fare i grandi flm letterari o mitologici. Quindi già c’è una scoperta in questo senso, che chiamerei una riscoperta, un’immersione proprio, che nasce da un cambiamento di prospettiva storiografca. E poi, sicuramente, si possono trovare ancora dei tesori. Penso ai tesori che periodicamente riemergono dal cinema muto, ad esempio. In Italia godiamo di due festival importanti a livello internazionale, come le Giornate del cinema muto di Pordenone e il Cinema ritrovato di Bologna. In quelle occasioni, possiamo vedere ogni anno alcuni tesori documentari che riemergono a nuova luce. Ma, ad esempio, ci sono dei fondi anche dei produttori, come dire, mainstream di cinema documentario, come la Documento flm, la Corona cinematografca, la Astra, che erano le Major del documentario negli anni Cinquanta e Sessanta. Hanno realizzato centinaia di documentari, che sono custoditi alla Cineteca di Bologna, alla Cineteca Nazionale o in altri fondi e, insomma, bisognerebbe vederli tutti, bisognerebbe fare delle tesi di laurea, di dottorato. Probabilmente ofrirebbero materiale sufciente per fare un documentary channel, per fare qualcosa che ogni giorno potrebbe nutrirsi di nuove visioni oppure di flm a base d’archivio, partendo da questi materiali. Quindi penso che una prospettiva di recupero, sia di oggetti mai identifcati, ma anche di oggetti di cui c’è il sentore, sia importante insomma, sia ammissibile. Domanda: La Sicilia, nel cinema di fnzione, è sempre un luogo stereotipato, il luogo di Cavalleria rusticana, per intenderci, dell’onore e della violenza, di passioni senza controllo, senza dominio. Una terra bellissima, ma arretrata, povera. In realtà il documentario siciliano ci restituisce invece una complessità di questo luogo. Potrebbe essere questa, in 544

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qualche modo, la “missione” del documentario: cercare di restituire, con voci diverse, questi temi di complessità? Risposta: Penso di sì, penso che la molteplicità degli sguardi, garantita dal documentario di creazione, dovrebbe, potrebbe ofrire questo. Però, attenzione alle “missioni”, perché spesso il documentario è scambiato per un missionario. E quindi deve documentare una nefandezza, deve svelare qualcosa di mai visto, deve occuparsi, appunto, del sociale, no? Tutte cose legittime. Certo, il documentario è una forma d’arte cinematografca, per me, è cinema a tutti gli efetti. E quindi forse la sua prima “missione” è quella di fare dei bei flm, che abbiano un contenuto importante, ma che godano di un processo di messa in forma consapevole. E come sai, in questi anni, il documentario è forse il luogo di maggiore rifessione sulla messa in forma; e di maggior sperimentalismo. Quindi è importante mostrare la Sicilia da vari punti di vista, ma bisogna farlo con dei bei flm. Mi sembra che ci siano degli autori, dei documentaristi, in Sicilia che lo sappiano fare bene questo lavoro; non voglio fare nomi, ma siete tanti, quindi andate avanti. Domanda: Il rapporto tra documentario e documento storico, anche secondo quanto scrive Peppino Ortoleva, pone una serie di problemi. Cosa pensi, in proposito? Risposta: Nella parola documentario c’è l’etimo ‘document’ che rimanderebbe a qualcosa di positivista. Qualcosa che defnisce un’attestazione, quasi senza scampo, mi vien da dire, con un referente univoco. Ma il documentario non è un documento storico. Il documento storico è qualcosa che dovrebbe attestare, appunto, un atto legislativo, un atto catastale, un atto pontifcio, un atto. Il documentario è un punto di vista, che gode di una serie di atti, ma che viene messo in forma da una persona, in un determinato momento storico, in una determinata socie-

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tà. La diferenza è radicale, il documentario è un flm, il documento storico è un documento storico. Domanda: Saitta è molto legato alla Sicilia. Riesce, a tuo avviso, a tracciare con il suo cinema l’identità della sua isola? Risposta: Ma sicuramente Saitta, come Fiorenzo Serra in Sardegna, come Nino Zucchelli in Lombardia, come tanti autori che vissero di documentari in quegli anni, ha avuto il grande merito di gettare – lo dicevi anche prima – un occhio non banale sulla propria regione, sul proprio territorio. Quindi, in qualche modo, di moltiplicare i punti di vista, in maniera appassionata, quindi con una vicinanza ai paesaggi indagati, all’umanità indagata, che probabilmente documentaristi di altre regioni non avrebbero potuto porre, non sarebbero stati in grado di porre. Ed è interessante, perché è come se nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, in un momento di grande foridezza economica per il documentario, la molteplicità di questi sguardi si impone in autori che potremmo defnire, appunto, i fautori del “documentario medio”. Non hanno una consapevolezza estetica, come stava avvenendo in quegli anni, non so, per Rafaele Andreassi o per Vittorio De Seta. Per cui penso che il valore di Saitta, come di Serra, come di Zucchelli, sia quello di aver dato uno sguardo ulteriore alla propria regione, cercando per quello che era possibile, all’interno di quelle forme culturali, di quel determinato periodo storico, di illustrare la propria passione per la propria regione. Questo mi sembra che sia stato importante. Domanda: Dalla produzione documentaria di Saitta, viene fuori anche l’idea, che per lui era una cosa estremamente importante, che il cinema rappresentasse una concreta possibilità di sviluppo economico per la Sicilia, che potesse servire a un rilancio turistico. Cioè, lui fa una rifessione proprio sulla capacità che il cinema ha di accompagnare l’economia di una regione a partire soprattutto dagli anni Cinquanta. Que546

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sto tipo di rifessione c’è in generale nel documentario, oppure è una caratteristica peculiare di Saitta? Risposta: Pensa proprio a inizio anni Cinquanta, quando Folco Quilici girò Sesto continente, un flm girato in gran parte sott’acqua, parlava proprio di questo, immaginandosi come incredibile location mai utilizzata, ancor più delle scenografe dei potenziali hollywoodiani, dicendo che c’erano dei fondali meravigliosi etc. etc. Quindi è chiaro che c’è questa rifessione. E la Sicilia, probabilmente, si presta particolarmente, per le sue caratteristiche, come dicevi tu. Però bisogna stare attenti anche a queste enfasi localistiche. Perché, come sai naturalmente, per ogni Film Commission Regionale, in Italia, c’è la volontà di dire che la propria regione è la più cinematografca, che si può fare un cine-turismo fantastico. Ma questo, lo può dire, lo possono dire molte regioni in Italia. Certo, la Sicilia, forse, è un po’ speciale, è veramente meravigliosa. Però sai qual è il rischio? Il rischio è che il documentario si presti particolarmente a soddisfare dei piccoli cabotaggi territoriali: cioè il fatto che appunto la politica locale possa vedere nel documentario una bandiera, che sventola a proprio favore, e in questo senso allargare la retorica del territorio, utilizzando il cinema per farlo. Quindi bisogna stare molto attenti, secondo me, in questo senso. Il corollario di questa considerazione è anche la nascita di una serie di festival, in ogni comune. Ogni provincia, ogni paesino si fa il suo festival, dove fa vedere i flm del territorio o, bene che vada, di altri territori. Un po’ a scapito forse della qualità e anche di una rifessione che sappia in qualche modo mettere in relazione il localismo con l’internazionalismo.

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Intervista ad Adriano Aprà Domanda: Zolfara è forse l’unico documentario di Ugo Saitta che ha un approccio dichiaratamente realistico. Come giudichi questo flm, anche in relazione al resto della sua produzione documentaria? Risposta: Fra i documentari di Ugo Saitta che ho avuto occasione di vedere, Zolfara e Sciara sono quelli che mi sono sembrati più vicini a una certa idea di realismo, di documentazione relativamente immediata di una realtà, che evidentemente Saitta conosceva abbastanza bene. Credo che contribuisca anche il bianco e nero a questa sensazione di realismo. In questi documentari, Saitta non è ancora viziato dalle maniere del documentarismo italiano. Non che in questi lavori manchi la presenza della musica o la presenza della voce fuori campo, che sono elementi di convenzione che diminuiscono il tasso di realismo, però a livello di certe immagini, di certe inquadrature, si sente uno sforzo in questa direzione. Non a caso, in Zolfara, Saitta sente il bisogno di andare a girare immagini in condizioni di illuminazione difcili, considerando poi che la pellicola dell’epoca era pochissimo sensibile. Le riprese di Zolfara sono proprio realizzate in condizioni estreme sia dal punto di vista fotografco sia dal punto di vista fsico, dell’operatore che flma. In altri documentari, efettivamente Saitta si adegua di più a quella che è la maniera del documentarismo italiano, che possiamo riassumere sostanzialmente in tre elementi: 1) la durata in 10 minuti canonici, che poi sono quelli di una bobina di pellicola positivo 35mm, scelta imposta dai costi. Meno il documentario costa, più i produttori sono contenti, perché accedono ai premi di qualità, che sia lungo 10 minuti oppure che sia lungo 15, ma se lo fanno di 15, gli tocca poi di fare le copie in due rulli e questi sono costi aggiuntivi;

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Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

2) l’altro elemento che imperversa in tutto il documentarismo dell’epoca, con pochissime eccezioni, è quello della voce fuori campo. Forse Saitta ha, in alcuni, non in tutti i suoi documentari, il vantaggio di usufruire di voci che non sono quelle canoniche italiane, quelle che si sentono in tutti i documentari italiani, ma comunque non fa mi pare nessuno sforzo particolare per dare al commento parlato delle caratteristiche diverse da quelle che sono le norme; 3) e poi c’è la presenza della musica, che sembra imprescindibile e che nasconde un altro elemento, che è quello dell’assenza di suoni reali o di voci reali. C’è qualche eccezione che ho visto in alcuni documentari: io una sola volta ho sentito un uso di presa diretta, ma è di pessima qualità. Questo fa parte delle caratteristiche generali del documentario italiano, cioè è un documentarismo muto, in cui l’unico suono è afdato alla voce fuori campo e, ripeto, alla musica. Questo limita molto le sue possibilità creative, espressive. Le eccezioni che ho avuto modo di verifcare – io ne ho visti centinaia di documentari italiani – sono veramente rarissime. Domanda: I più grandi produttori di cinema documentario, anche attraverso la formula distributiva dei cinegiornali, sono l’Istituto Luce e la Settimana Incom. Quali rapporti ha il cinema prodotto dalla X Film di Ugo Saitta con quello prodotto dai due colossi del documentario italiano? Risposta: Il documentarismo Luce e Settimana Incom hanno delle caratteristiche diverse nell’anteguerra o nel periodo di guerra, ma non ne hanno più di sensibili nel documentarismo del dopoguerra, se non per il fatto che il Luce è un documentarismo più esplicitamente di propaganda democristiana. Fra tutte le case di produzione cinematografca di documentari del dopoguerra italiano, il Luce è quello meno interessante di tutti, probabilmente anche quello che ha prodotto più docu549

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

mentari – non lo so esattamente – ma è quello più convenzionale, proprio perché si propone esplicitamente come propagandistico. Devi sapere che molti documentari, anzi, sarei tentato di dire, la maggior parte dei documentaristi italiani erano “di sinistra” – lo dico virgolettando, perché il termine è molto generico – e quei registi o non riuscivano a fare flm di fnzione oppure cominciavano a fare dei flm “allenandosi”, per così dire, col documentarismo. Ma, per quello che io mi ricordi, niente delle cose migliori è stato prodotto dal Luce. Erano sempre altre case di produzione, che si afancavano al Luce, specializzate in documentari: proprio all’interno di queste altre case di produzione si possono trovare delle eccezioni dal punto di vista qualitativo. Domanda: Attraverso la lettura dei pochi, pochissimi, documenti che sono rimasti su Saitta, è venuto fuori che c’era un suo progetto su Verga. Abbiamo avuto modo di ritrovare questo documentario, presso la Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Roma, grazie all’aiuto di Annamaria Licciardello, che tu conosci bene. In realtà, ritieni che possano essere presenti in cineteche private o pubbliche altre opere interessanti oppure questa nostra esperienza è stata un caso, un colpo di fortuna unico? Risposta: Con le cineteche non bisogna mai dire caso unico, perché è sempre possibile trovare tesori nascosti. Devi immaginare che le cineteche, specie quelle grandi come la Cineteca Nazionale, non hanno avuto il personale in grado di catalogare tutto ciò che hanno incamerato, cioè tutti i documentari che hanno avuto dei premi di qualità 3. Quindi 3

In realtà il cosiddetto “premio di qualità” è un incentivo erogato alla casa di produzione di un documentario. I criteri con cui si scelgono le case di produzione poco o nulla hanno a che vedere con una efettiva valutazione della qualità di un’opera. Si tratta di un processo che assume via via una crescente dimensione industriale. Ed è così che poche case di produzione fanno incetta di contributi. Cfr. Marco Bertozzi, Storia del documentario italiano, Marsilio, Venezia 2008, p. 550

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

è possibile che ci siano dei materiali dispersi. Io stesso, quando ero direttore della Cineteca Nazionale, ho avuto modo di scoprire delle cose semplicemente attraverso delle parole che non mi erano del tutto chiare scritte sulle scatole. Il problema è aprire la scatola, sperare che il mate riale che è dentro sia ancora in condizioni decenti e visionarlo. E soprattutto capire, visionandolo, di che cosa si possa trattare. Certo, col documentarismo la cosa è molto più complicata, perché la conoscenza che noi abbiamo del documentarismo italiano è scarsa. Esiste pochissimo e il numero di documentari prodotti in Italia è impressionante. Io una volta ho calcolato che, fra il 1940 e il 1970, qualcosa come 15.000 documentari siano stati prodotti, quindi tu puoi immaginare che non esistono flmografe. Esistono delle flmografe relative ad alcuni autori, ma sono anche sempre parziali. Insomma è una vera “terra di nessuno”, nella quale è possibile fare delle scoperte. Io mi domando, per esempio, se non si possano trovare documentari presso gli assessorati al turismo, che potevano essere fra quelli interessati a conservare questo materiale, non dico a produrre, ma almeno a conservarlo, perché rappresentava qualche cosa per quella località, quella regione che aveva contribuito a rappresentare e raccontare. Ma, insomma, i ritrovamenti che sono stati fatti negli ultimi anni invitano sempre a sperare, a essere cauti nel dire: questo flm è perduto! Domanda: Il problema che ci si è posto, quando abbiamo ritrovato La terra di Giovanni Verga, è stato quello di dare accessibilità al documentario. Per questo motivo, come Facoltà di Lettere e Filosofa dell’Università degli Studi di Catania abbiamo provveduto a erogare un contributo per il suo restauro, una nuova stampa e la digitalizzazione. 117: «La legge del 1945 (che riserva al documentario il 3 per cento dell’introito lordo degli spettacoli) e quella del 1949 (che aggiunge un ulteriore 2 per cento ai cortometraggi di “eccezionale valore tecnico e culturale”) garantiscono infatti lauti guadagni ai produttori di cineattualità e di documentari. Tuttavia pochissime case di produzione [...] si assicurano quasi l’80 per cento dei contributi statali». 551

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

Come è possibile, secondo te, dare visibilità a questi autori e a queste opere considerate dal pubblico come opere minori, di minore importanza? Risposta: Io ritengo che il documentario non sia afatto un genere minore rispetto al cinema di fnzione. Mi rendo ben conto che se uno dice la parola film, immediatamente pensa a un flm di fnzione e pensa a un lungometraggio. Io non ho nessun pregiudizio nei confronti dei flm: non credo che il flm corto sia di per sé meno interessante di un flm lungo. Certo è vero che, in Italia in particolare, c’è stata più energia creativa nel cinema di fnzione che non nel cinema documentario, per cui la storia del documentarismo italiano è di gran lunga meno ricca della storia del cinema di fnzione italiano. Però il problema della diffusione della conoscenza del documentario è un compito che ormai non spetta più alla difusione in pellicola. Devo dire che anche il problema della conservazione in pellicola, che dovrebbe essere una regola di una cineteca che si rispetti, si pone con urgenza, perché bisogna far fronte al problema della mancanza di fnanziamenti. Quindi io sono assolutamente favorevole al trasferimento di questi documentari in digitale e alla loro difusione migliore, naturalmente attraverso gli strumenti digitali. L’ideale sarebbe poter produrre, a costi quindi assai più contenuti, dei dvd e pubblicare delle antologie di documentari per farli conoscere. A volte, l’interesse dei documentari non è tanto di tipo estetico, ma è di tipo diciamo pure contenutistico. Nei casi, che sono più frequenti di quello che uno non immagini, in cui questi documentari sono stati girati in località, diciamo, sperdute del panorama geografco italiano, questi documentari rimangono come prove fsiche di qualche cosa che nel frattempo è molto cambiato. Per farti un esempio, a proposito di Saitta, mi ha colpito vedere in due documentari diversi delle immagini in un caso in bianco e nero e nell’altro a colori di Acitrezza, dove pochissimi anni prima era stato girato La terra trema. Ora, quelle immagini, probabilmente, sono le uniche immagini flmate di Acitrezza in quegli anni, 552

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

quando il paese era ancora molto simile a come lo si vede ne La terra trema, poi successivamente il paese è cambiato. E quindi il documentarismo fnisce per avere un valore di documento, anche se questo è qualcosa che poi interessa non il critico cinematografco ma l’urbanista, per esempio, che troverebbe nel documentario una fonte straordinaria di dati di fatto. Domanda: Il tema che susciti, con questa tua rifessione, riguarda il rapporto che intercorre tra documentario e documento, inteso anche come fonte storica. Risposta: Il termine documentario è un termine estremamente generico, oggi come oggi. Ci siamo resi conto che molti documentari non documentano, però li riconosciamo immediatamente come opere diverse dal cinema di fnzione. Dov’è questa diferenza? Non è nel fatto che questi documentari rappresentino la realtà, perché intervengono tanti di quegli elementi che truccano questa realtà. Già il solo fatto di inquadrarla, il montaggio, l’intervento della voce fuori campo, di una musica, sono elaborazioni della realtà. Quindi è una realtà sempre di secondo se non di terzo livello. In questo senso, non c’è diferenza fra il cinema di fnzione e il cinema documentaristico, a livello dei modi di espressione. La diferenza sta nel rapporto con lo spettatore. Lo spettatore sa a priori, anche inconsciamente, di fronte a un flm di fnzione, che quello che sta vedendo non è veramente accaduto, anche se è flmato in una maniera per cui dà l’impressione che accada veramente in quel momento davanti ai suoi occhi. Di fronte a un documentario, che forse sarebbe meglio chiamare flm di non fnzione, lo spettatore sa a priori che quello che ha davanti agli occhi è stato flmato non in funzione di una messa in scena. Anche se poi, a volte, ci si rende conto che una messa in scena c’è, in diversi documentari di Saitta si nota. Si sente che quel volto autentico non è stato colto di sorpresa ma che probabilmente il regista gli ha detto: «mettiti così, gira la testa da quella parte, girala da quell’altra». Insom553

Alessandro De Filippo, Ugo Saitta, un album di ricordi

ma, un po’ di messa in scena c’è, però non è una messa in scena a priori. Lo spettatore ha pur sempre l’impressione di trovarsi di fronte a delle immagini che sono state colte casualmente e sente, quindi, un surplus di realtà rispetto a un flm di fnzione. Non sono defnizioni molto esplicite, sono più impressioni diverse, un diverso livello di impressione di realtà. Il cinema di Ugo Saitta è come quello di gran massima parte dei documentaristi italiani, un documentarismo che è estremamente manipolato, ma che dà l’impressione di essere stato girato senza un eccesso di artifcio.

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Indice 3

Note del curatore

»

I. Tre volumi per un discorso comune

5

II. Digitalizzare per conservare, digitalizzare per rendere accessibile

6

III. Dedicare, ringraziare, invitare

9

Introduzione

Capitolo 1 13

Un album di ricordi (1930-1962)

14

1.1 Limiti e risorse del dilettantismo e le attenzioni del regime

19

1.2 La circolazione dei film a passo ridotto

24

1.3 Partecipare alla vita culturale della città

26

1.4 Il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma

27

1.5 Il bramoso cacciatore di immagini

30

1.6 I pupazzi animati che vanno al Festival di Venezia

33

1.7 Cinema e Fascismo. La vigilia della guerra

37

1.8 Il fecondo rapporto con l’Istituto Luce e la produzione di Prime ali e I cavalieri della G.I.L.

40

1.9 La guerra è finita

Capitolo 2 42 »

I documentari della maturità artistica 2.1 I.C.S. Film o X Film che dir si voglia

47

2.2 Le collane di cortometraggi documentari

54

2.3 Prove di realismo cinematografico, Zolfara

62

2.4 Il cinema turistico, l’incontro con il presidente della Regione Sicilia

66

2.5 Taormina, palcoscenico naturale del documentario turistico

71

2.6 Rappresentare la realtà

75

2.7 Il cinema scientifico e la mostra di Venezia

76

2.8 L’eruzione dell’Etna e il materiale di repertorio per Sciara

77

2.9 I Boy Scouts, il principe Farouk e il bandito Giuliano

80

2.10 Successi e consensi

83

2.11 Il documentario perduto

86

2.12 L’industria mancata e la California

89

2.13 Catania città Barocca

91

2.14 I pupi, la barca e il carretto

Capitolo 3 94

La vita culturale al servizio della città

»

3.1 La televisione e il ruolo di regista programmista

95

3.2 Il teatro e i rapporti con l’Ente Teatro di Sicilia

96

3.3 Travelling Sicily e la celebrazione a Taormina

100

3.4 Un riferimento culturale per tutti. Il C.U.C.

101

3.5 La personale al cinema Trinacria e Città Barocca in tv

104

3.6 Il Centro Sperimentale di Prosa presso il Liceo Classico M. Cutelli di Catania

106

Conclusioni

108

Appendice

»

Costruire la propria immagine di se stessi

381

Volto di Sicilia, un album di fotografie raccolte, selezionate e conservate da Tuccio Musumeci (1963-1965)

419

Lo voglio maschio, un album di fotografie di scena e di backstage custodite da Tuccio Musumeci (1971)

519

La vita quotidiana e il lavoro di Saitta. Testimonianze

»

Intervista a Tuccio Musumeci

522

Intervista a Riccardo Manaò

525

Intervista a Gabriella Saitta

532

La voce degli studiosi. Idee, impressioni, opinioni

533

Intervista a Sebastiano Gesù

538

Intervista a Enrico Magrelli

540

Intervista a Giuseppe Giarrizzo

542

Intervista a Marco Bertozzi

548

Intervista ad Adriano Aprà