Tutti i racconti
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PROSPER MÉRIMÉE

TUTTI I RACCONTI CARMEN, COLOMBA, LA VENERE D ILLE...

«Tornata in sé, rivide il fantasma - o la statua - immobile, le gam­ be e la parte inferiore del corpo nel letto, il busto e le braccia te­ se in avanti, e fra le braccia il marito, anch'egli immobile. Un gal­ lo cantò. Allora la statua scese dal letto, lasciò cadere il cadave­ re e uscì. Madame Alphonse si attaccò al campanello...».

ra i maestri del racconto ottocentesco, un posto d'onore spetta a Prosper Mérimée, la cui fama universale non a caso è legata a una novella, Carmen, che dopo la trasposizione musicale di Bizet è divenuta uno dei grandi luoghi narrativi e identitari dell'Ottocento eu­ ropeo. Ma Carmen è solo uno dei numerosi racconti usciti dalla penna dello scrittore fran­ cese, che per la prima volta vengono qui pro­ posti in un'edizione italiana integrale: i notis­ simi Colomba, La venere d'llle, Lokis, ma an­ che La perla di Toledo, Mateo Falcone, Il vaso etrusco. In tutto, ventisette racconti. E proprio nella forma breve del racconto che Mérimée riesce meglio a esercitare la sua vi­ vida inventiva sulla materia che più predilige: caratteri violenti ed epoche forsennate, avve­ lenamenti e incesti, fuorilegge e malvagità, contrabbandieri e bohémiens. E accanto a tut­ to ciò, l'inestinguibile curiosità per la psicolo­ gia e l'amore per il folklore, il gusto per il ma­ gico e per le diavolerie e, in cima a ogni co­ sa, la passione per l'esotico. Non a caso Mérimée fu anche un grande viag­ giatore e un instancabile reporter. La Corsica, l'Italia, la Lituania, la Spagna fanno da teatro a tanta parte delle sue storie, in cui l'amore per la vita è alla costante ricerca di un equilibrio, con la profonda convinzione che «lo spazio umano è turpe». Scorre così sotto i nostri occhi la partitura integrale di un maestro assoluto del genere «racconto», di cui l'amico Stendhal eb­ be a dire: «Il più grande: forse non quanto a cuore, ma di sicuro quanto a testa».

T

Prosper Mérimée (Parigi 1 803 - Cannes 1 870), fi­ glio di un pittore e storico dell'arte, ebbe un'educa­ zione non conformista. Fu amico intimo di Stendhal. La sua prima opera è il Teatro di Clara Gazul (1825), un divertissement letterario in cui affiorano gli influssi della letteratura spagnola e britannica. Del 1 827 è in­ vece una raccolta poetica di ballate, La Guzla. Tra le opere narrative, le più note sono il romanzo storico Cronaca del regno di Carlo IX (1 832) e una lunga se­ rie di racconti, da Mateo Falcone (1829) alla cele­ berrima Carmen (1845). La sua narrativa segna il passaggio dal romanticismo al realismo. Negli anni cinquanta dell'Ottocento, pur continuando (ma con minor successo espressivo) nell'attività di narratore, Mérimée si dedicò soprattutto agli studi storici e ar­ cheologici. Amico della madre dell'imperatrice Euge­ nia, divenne prima ispettore dei monumenti, poi sena­ tore e accademico; fu un personaggio di spicco della corte di Napoleone ili.

In sopraccoperta: elaborazione grafica da una locandina per la messa in scena dell'opera Carmen.

Titoli originali Da Mosaico: Mateo Falcone, Vision de Charles XI, L’Enlèvement de la redoute, Tamango, La Perle de Tolède, Le vase étrusque, La partie de trictrac La double méprise, Les âmes du Purgatoire, La Vénus d’Illc, Colomba, Arsène Guillot, Carmen, L’abbé Aubain, Ilviccolo di Madama l.ucrcsia La chambre bleu, Lokis, Federigo, Djouman

Da Lettres adressées d’Espagne: I. Les combats de taureaux, U. Une exécution, ni. Les voleurs, IV. Les sorcières espagnoles

Histoire de Rondino, H.B., Un duel, La bataille

© 2004 Donzelli editore, Roma Via Mentana 2b INTERNET www.donzelli.it E-MAIL editore@donzelli. it ISBN 88-7989-895-7

Prosper Mérimée

TUTTI I RACCONTI

Traduzione di Annalisa Comes

DONZELLI EDITORE

Indice

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239 365

409 463

477 501 515 557 567

581 597

609 621

Mosaico Mateo Falcone La visione di Carlo XI La presa della ridotta Tamango La Perla di Toledo Il vaso etrusco La partita di trictrac

Doppio inganno Le anime del Purgatorio La Venere d’Ille Colomba Arsene Guillot Carmen Il reverendo Aubain Il viccolo di Madama Lucrezia La camera azzurra Lokis Federigo Djouman Lettere dalla Spagna 1.1 combattimenti dei tori il. Un’esecuzione IH. I ladri IV. Le streghe spagnole V

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Per la traduzione, e l’ordine, dei racconti si è fatto riferimento all’edizione: P. Mérimée, Nouvelles Complètes, I., Colomba et dix autres nouvelles, II, Car­ men et treize autres nouvelles, Édition établie, présentée et annotée par Pierre Josserand, Gallimard, Paris 1965; e per i racconti Un duello e La battaglia, al vo­ lume Théâtre de Clara Gazul, Romans et nouvelles, éd., et. près, et annotée par J. Mallion et P. Salomon, Gallimard, Paris 1978.

Le note tra parentesi quadra sono della traduttrice; tutte le altre sono del­ l’autore.

Mosaico

Mateo Falcone

Uscendo da Porto Vecchio e dirigendosi verso nord-ovest, nell’interno dell’isola, si può vedere il terreno alzarsi abbastanza rapidamente, e dopo tre ore di marcia su sentieri tortuosi, ostrui­ ti da grossi blocchi di roccia e talvolta interrotti da burroni, ci si ritrova al margine di un maquis assai esteso. Il maquis è la patria dei pastori corsi e di chiunque abbia a che fare con la giustizia. Bi­ sogna sapere che l’aratore corso, per risparmiarsi la pena di bru­ ciare il suo campo, dà fuoco a una determinata estensione di bo­ sco: tanto peggio se la fiamma si propaga più lontano di quanto gli occorra; succeda quel che succeda; è sicuro di avere un buon raccolto seminando su questo terreno fertilizzato dalla cenere de­ gli alberi che si trovavano là. Tolte le spighe, lascia invece la pa­ glia, perché sarebbe una fatica raccoglierla, le radici che sono ri­ maste in terra senza consumarsi germogliano nella primavera se­ guente, ceppale fittissime, che in pochi anni arriveranno a un’al­ tezza di sette o otto piedi. È questo fitto bosco ceduo che si chia­ ma maquis. Lo compongono diverse specie di alberi e arboscelli, misti e confusi come piace a Dio. E solo con l’ascia alla mano l’uomo vi si può aprire un passaggio, e si vedono macchie così fit­ te e folte che gli stessi mufloni non riescono a penetrarvi. Se avete ucciso un uomo, andate nel maquis di Porto Vecchio e ci vivrete al sicuro, con un buon fucile, polvere e pallottole; non dimenticate un mantello scuro fornito di cappuccio1 che serve da 1 Pilone.

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coperta e da giaciglio. I pastori vi offrono latte, formaggio e ca­ stagne, e non avrete niente da temere dalla giustizia o dai parenti del morto, se non quando dovrete scendere in città per rinnovare le munizioni. Quando mi trovavo in Corsica, nel Mateo Falcone ave­ va la sua casa a una mezza lega da questa macchia. Era un uomo assai ricco per il paese; viveva nobilmente, cioè senza fare niente, dei prodotti delle greggi che i pastori, nomadi, conducevano al pascolo qua e là sulle montagne. Quando lo vidi, due anni dopo l’avvenimento che vi racconterò, mi parve al più sui cinquantan­ ni. Immaginatevi un uomo piccolo ma robusto, dai capelli crespi, neri come il carbone, il naso aquilino, le labbra sottili, gli occhi grandi e vivi, e un incarnato del colore del risvolto degli stivali. La sua abilità con il fucile passava per straordinaria perfino nel suo paese, ricco di buoni tiratori. Mateo, per esempio, non avrebbe mai sparato a pallettoni a un muflone; ma a centoventi passi, po­ teva abbatterlo con una pallottola in testa o alle spalle, a sua scel­ ta. Poteva sparare altrettanto facilmente la notte che il giorno, e mi hanno raccontato una prova di abilità che potrebbe sembrare incredibile per chi non è mai stato in Corsica. A ottanta passi ve­ niva posta una candela accesa dietro un foglio di carta trasparen­ te, largo come un piatto. Prendeva la mira col fucile, poi la can­ dela veniva spenta, e nell’arco di un minuto, nell’oscurità più completa, tirava e centrava il foglio tre volte su quattro. Con qualità così eccezionali, Mateo Falcone si era fatta una gran reputazione. Lo si diceva tanto buon amico che nemico pe­ ricoloso: del resto era servizievole, e facendo l’elemosina viveva in pace con tutti nel distretto di Porto Vecchio. Tuttavia si rac­ contava di lui che a Corte, dove si era sposato, si fosse sbaraz­ zato assai vigorosamente di un rivale che passava per temibile tanto in guerra che in amore: si attribuiva a Mateo almeno un certo colpo di fucile che aveva sorpreso il rivale mentre si stava radendo davanti a uno specchietto appeso alla finestra. La fac­ cenda venne messa a tacere, Mateo si sposò. Sua moglie, Giu­ seppa, gli aveva dato prima tre figlie (il che lo aveva fatto indi­ spettire), e alla fine un figlio, che chiamò Fortunato: era la spe­ ranza della famiglia, l’erede del nome. Le figlie avevano fatto un buon matrimonio: il padre, al bisogno, poteva contare sui pu6

gnali e sui tromboni dei generi. Il figlio aveva appena dieci an­ ni, ma già preannunciava buone inclinazioni. Un giorno d’autunno, Mateo uscì di buonora con la moglie per controllare un suo gregge nella radura di un maquis. Il piccolo For­ tunato voleva accompagnarlo, ma la radura era troppo lontana; d’altronde, doveva rimanere qualcuno per sorvegliare la casa; il pa­ dre dunque rifiutò: si vedrà poi se non ebbe modo di pentirsene. Mancava da qualche ora e il piccolo Fortunato era tranquilla­ mente disteso al sole, guardando le montagne azzurre e pensan­ do che, la domenica seguente, sarebbe andato a cenare in città, dallo zio caporale2, quando improvvisamente fu interrotto nelle sue meditazioni dall’esplosione di un colpo d’arma da fuoco. Si alzò e si girò dal lato della pianura da cui era partito il colpo. Si succedettero altri colpi di fucile, tirati a intervalli irregolari, e sempre più ravvicinati; infine, sul sentiero che conduceva dalla pianura alla casa di Mateo, apparve un uomo con un berretto a punta come lo portano i montanari, barbuto, coperto di stracci, che si trascinava a stento appoggiandosi al fucile. Era stato appe­ na colpito alla coscia. Quest’uomo era un bandito3, che partito di notte per cercare polvere da sparo in città, era caduto in un’imboscata di volteggia­ tori corsi4. Dopo una vigorosa difesa, era riuscito a ritirarsi, inse­ guito alacremente e sparacchiando di roccia in roccia. Tuttavia aveva poco vantaggio sui soldati e la ferita non gli permetteva di guadagnare la macchia prima di essere raggiunto. Si avvicinò a Fortunato e gli disse: «Sei il figlio di Mateo Falcone?». «Sì». «Io sono Gianetto Sanpiero. Sono inseguito dai colletti gialli5. Nascondimi, perché non posso andare più lontano». 2 I caporali furono un tempo i capi che i comuni corsi si diedero quando insorsero contro i signori feudali. Oggi si dà ancora questo nome a un uomo che, per le sue pro­ prietà, le sue alleanze e la sua clientela, esercita una specie di influenza e una sorta di ma­ gistratura effettiva su una pieve o su un cantone. I corsi si dividono, per antica consuetu­ dine, in cinque caste: i gentiluomini (tra cui vi sono i magnifici e i signori'), i caporali, i czZtadini, i plebei e gli stranieri. 3 Questa parola è qui sinonimo di proscritto. 4 È un corpo arruolato da pochi anni dal governo e che serve congiuntamente con la gendarmeria al mantenimento dell’ordine. 5 L’uniforme dei volteggiatori era allora costituita da un abito scuro con colletto giallo.

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«E che dirà mio padre se ti nascondo senza permesso?». «Dirà che hai fatto bene». «Chi lo sa?». «Su, nascondimi, arrivano». «Aspetta che mio padre ritorni». «Che aspetto? Maledizione! Saranno qui tra cinque minuti. Dai, nascondimi, o ti ammazzo». Fortunato gli rispose con il più grande sangue freddo: «Il tuo fucile è scarico e non ci sono più cartucce nella carchera»b. «Ho il mio stiletto». «Ma tu puoi correre veloce come me?». Fece un salto e si mise fuori tiro. «Tu non sei il figlio di Mateo Falcone! Fascerai dunque che mi arrestino .davanti a casa tua?». Il bambino parve colpito. «Che mi regali se ti nascondo?», gli chiese avvicinandosi. Il bandito cercò nella tasca di cuoio che pendeva dalla cintura e ne tirò fuori una moneta da cinque franchi che aveva conserva­ to senza dubbio per comprare la polvere da sparo. Alla vista della moneta d’argento Fortunato sorrise; la toccò e disse a Gianetto: «Non aver paura». Fece subito un grosso buco in un mucchio di fieno vicino alla casa. Gianetto vi si rannicchiò e il ragazzo lo ricoprì in modo tale da lasciargli un po’ d’aria per respirare, senza tuttavia che fosse possibile sospettare che quel fieno nascondesse un uomo. In più ebbe un’accortezza da selvaggio assai ingegnosa. Andò a prende­ re una gatta con i suoi piccoli e li mise sul mucchio di fieno per non far sospettare che era stato smosso da poco. Poi, vedendo del­ le tracce di sangue sul sentiero vicino a casa, le coprì con cura di polvere e, fatto ciò, si rimise al sole con la più grande tranquillità. Alcuni minuto dopo, sei uomini in uniforme scura e con il colletto giallo, comandati da un maresciallo, erano davanti alla porta di Mateo. Il maresciallo era parente alla lontana di Falcone (si sa che in Corsica si seguono i gradi di parentela molto più lon­ tano che altrove). Si chiamava Tiodoro Gamba: era un uomo at­ tivo, molto temuto dai banditi, di cui ne aveva già braccati molti. 6 Cintura di cuoio che serve da giberna e da portafoglio.

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«Buongiorno, cuginetto», disse a Fortunato avvicinandosi, «come sei cresciuto! Hai mica visto passare un uomo poco fa?». «Oh! cugino mio, io non sono ancora grande come te», rispo­ se il bambino facendo il finto tonto. «Un giorno lo sarai. Ma, dimmi, non hai visto passare un uo­ mo?». «Se ho visto passare un uomo?». «Sì, un uomo con un berretto a punta di velluto nero e una giacca ricamata di rosso e giallo?». «Un uomo con un berretto a punta di velluto nero e una giac­ ca ricamata di rosso e giallo?». «Sì, rispondi velocemente e non ripetere le mie domande». «Questa mattina, è passato davanti alla nostra porta il signor curato, col suo cavallo Piero. Mi ha chiesto come stava papà, e gli ho risposto...», «Ah! piccolo buffone, fai il furbo! Dimmi subito per dove è passato Gianetto, perché è lui che cerchiamo; e, ne sono certo, ha preso questo sentiero». «Chi lo sa?». «Chi lo sa? Lo so io che tu l’hai visto». «Forse che uno vede i passanti quando dorme?». «Non dormivi, ragazzaccio; ti hanno risvegliato i colpi di fucile». «Credete dunque, cugino mio, che i vostri fucili facciano tan­ to rumore? Il trombone di mio padre ne fa ben di più». «Che il diavolo ti porti, maledetto monellaccio! Sono sicuris­ simo che hai visto Gianetto. Forse l’hai anche nascosto. Via, com­ pagni, entrate in casa e guardate se c’è il nostro uomo. Cammina­ va solo con una zampa, e ha troppo buon senso, il furfante, per essersi diretto zoppicante verso la macchia. Del resto, le tracce di sangue si fermano qui». «E che dirà papà?», domandò Fortunato ridacchiando, «Che dirà quando verrà a sapere che siete entrati nella sua casa mentre lui era fuori?». «Ragazzaccio!», disse il maresciallo Gamba prendendolo per l’orecchio, «sai che dipende solo da me farti cambiare d’indiriz­ zo? Forse dandoti una ventina di colpi di sciabola parlerai». E Fortunato continuava a ridacchiare. 9

«Mio padre è Mateo Falcone», disse con enfasi. «Sai bene, piccolo sciocco, che posso farti cambiare opinione a Corte o a Bastia. Ti farò dormire in una segreta, sulla paglia, con i ferri ai piedi, e ti farò ghigliottinare se non mi dici dov’è Gia­ netto Sanpiero». A questa ridicola minaccia il ragazzo scoppiò a ridere. Ripete: «Mio padre è Mateo Falcone!». «Maresciallo», disse sottovoce uno dei volteggiatori, «non ini­ michiamoci Mateo». Gamba appariva visibilmente imbarazzato. Parlava a voce bassa con i soldati che avevano già perlustrato tutta la casa. Non era stata un’operazione molto lunga, perché la capanna di un corso è costi­ tuita da una sola stanza quadrata. Il mobilio si compone di un tavo­ lo, delle panche, delle casse e degli utensili da caccia o da cucina. Tuttavia, il piccolo Fortunato carezzava la gatta, e sembrava gioire malignamente della confusione dei volteggiatori e di suo cugino. Un soldato si avvicinò al mucchio di fieno. Vide la gatta e con la baionetta colpì il fieno con negligenza e alzando le spalle, co­ me se sentisse che la sua precauzione fosse ridicola. Non si mos­ se nulla, e il viso del ragazzo non tradì la più piccola emozione. Il maresciallo e la sua truppa stavano per rinunciare; già guardavano per davvero dalla parte della pianura, come dispo­ sti a ritornare da dove erano venuti, quando il loro capo, con­ vinto che le minacce non avrebbero sortito alcun effetto sul fi­ glio di Falcone, volle fare un ultimo sforzo e tentare il potere delle lusinghe e dei regali. «Cuginetto», disse, «mi sembri un tipo sveglio! Andrai lonta­ no. Ma stai giocando un gioco cattivo con me; e se non temessi di dare un dispiacere a mio cugino Mateo, che il diavolo mi porti! ti trascinerei con me». «Bah!». «Ma quando mio cugino tornerà, gli racconterò la faccenda, ti frusterà a sangue perché hai mentito». «Che ne sai?». «Vedrai... Ma ecco... fai il bravo ragazzo, e ti darò qualcosa». «Io, cugino mio, vi darò un consiglio: se tardate ancora, il Gia­ netto sarà alla macchia, e allora vi servirà più di un buontempone come voi per andarlo a cercare». 10

Il maresciallo tirò fuori dalla tasca un orologio d’argento che valeva ben dieci scudi; e, notando che gli occhi del piccolo Fortu­ nato scintillavano nel guardarlo, gli disse tenendo l’orologio so­ speso a un capo della catena d’acciaio: «Birbone! Ti piacerebbe avere un orologio come questo al col­ lo, te ne andresti a spasso per le strade di Porto Vecchio, tronfio, come un pavone; e la gente ti domanderebbe: “Che ore sono?”, e tu risponderesti: “Guardate il mio orologio”». «Quando sarò grande, mio zio caporale mi regalerà un orologio». «Sì; ma il figlio di tuo zio ne ha già uno... non bello come que­ sto, a dire la verità... Eppure è più giovane di te». Il bambino sospirò. «E allora, lo vuoi questo orologio, cuginetto?». Fortunato, sbirciando l’orologio con la coda dell’occhio, sem­ brava un gatto cui viene offerto un pollo intero. E siccome sente che ci si prende gioco di lui, non osa allungare la zampa e di quan­ do in quando gira gli occhi per non soccombere alla tentazione; ma si lecca continuamente i baffi, con l’aria di dire al suo padrone: «Quant’è crudele il vostro scherzo!». Eppure, il maresciallo Gamba sembrava in buona fede nell’ofIrirgli l’orologio. Fortunato non allungò la mano; ma gli disse con un sorriso amaro: «Perché vi prendete gioco di me?»7. «Perdio! non mi prendo gioco di te. Dimmi soltanto dov’è Gianetto, e questo orologio sarà tuo». Fortunato si lasciò sfuggire un sorriso d’incredulità e, fissan­ do i suoi occhi neri in quelli del maresciallo, si sforzò di leggervi la fede che doveva avere nelle sue parole. «Che io perda i miei gradi», gridò il maresciallo, «se non ti do l’orologio a questa condizione! I compagni mi sono testimoni; e non posso più ritrattare». Così dicendo, avvicinava ancora di più l’orologio, tanto da toccare quasi la guancia pallida del ragazzo. Questi ben palesava sul viso la lotta che si svolgeva nel suo animo fra la bramosia e il rispetto dovuto all’ospitalità. Il petto nudo si sollevava con forza, ' Perché me c...?

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sembrava sul punto di soffocare. Intanto l’orologio oscillava, gi­ rava e talvolta urtava la punta del suo naso. Poi, a poco a poco, la sua mano destra si alzò verso l’orologio: lo toccò con la punta delle dita; e lo soppesò nella mano senza che tuttavia il marescial­ lo lasciasse la catena... Il quadrante era azzurro... la cassa lucida­ ta da poco... al sole, sembrava tutto di fuoco... La tentazione era troppo forte. Fortunato sollevò anche la mano sinistra e mostrò con il pol­ lice al di sopra della sua spalla il mucchio di fieno contro il quale era appoggiato di schiena. Il maresciallo capì subito. Abbandonò l’estremità della catena; Fortunato si sentì l’unico possessore del­ l’orologio. Si alzò con l’agilità di un daino, e si allontanò di dieci passi dal mucchio di fieno, che i volteggiatori iniziarono subito a rovistare. Non si tardò a vedere il fieno muoversi; e un uomo sangui­ nante, il pugnale in mano, ne uscì; ma, mentre cercava di alzarsi in piedi, la sua ferita, riaprendosi, non gli permise di tenersi drit­ to. Cadde. Il maresciallo si gettò su di lui e gli strappò lo stiletto. Subito lo incatenarono stretto, malgrado la sua resistenza. Gianetto, steso per terra e legato come un fagotto, girò la te­ sta verso Fortunato che si era avvicinato. «Figlio di...!», gli disse più con disprezzo che con collera. Il ragazzo gli gettò la moneta d’argento che aveva ricevuto da lui, sentendo di non meritarla più; ma il bandito non sem­ brò accorgersi di quel gesto. Disse con molto sangue freddo al maresciallo: «Mio caro Gamba, non posso più camminare; sarete obbliga­ to a portarmi voi in città». «Prima correvi più veloce di un capriolo», disse il crudele vin­ citore, «ma stai tranquillo: sono così contento di averti preso, che ti porterei per una lega sulla mia schiena senza stancarmi. Com­ pagno mio, ti faremo una lettiga con i rami e il tuo cappotto; e al­ la fattoria di Crespoli troveremo dei cavalli». «Bene», disse il prigioniero, «mettetemi anche della paglia sul­ la vostra lettiga, in modo che stia più comodo». Mentre i volteggiatori si occupavano gli uni a fare una sorta di barella con dei rami di castagno, gli altri a fasciare la ferita di Gia­ netto, Mateo Falcone e la moglie comparvero improvvisamente 12

da un sentiero che conduceva al maquis. La donna avanzava pe­ nosamente curva sotto il peso di un enorme sacco di castagne, mentre suo marito se ne andava tranquillo, portando solo un fu­ cile in una mano e l’altro in bandoliera; perché non è degno di un uomo portare altro peso che le sue armi. Alla vista dei soldati, il primo pensiero di Mateo fu che fosse­ ro venuti ad arrestarlo. Ma perché questa idea? Mateo aveva for­ se qualche conto in sospeso con la giustizia? No. Godeva di una buona reputazione. Era, come si dice, un uomo di buona fama', ma era corso e montanaro, ed esistono pochi corsi montanari che, scrutando bene nella loro memoria, non possano trovare un qual­ che peccatuccio, come dei colpi di fucile, dei colpi di stiletto e al­ tre bagatelle. Mateo, più di altri, aveva la coscienza pulita; perché da oltre dieci anni non aveva puntato il suo fucile contro un uo­ mo; tuttavia era prudente, si mise in una posizione per potersi dilendere, se ne avesse avuto bisogno. «Donna», disse a Giuseppa, «metti giù il sacco e tieniti pronta». Ella obbedì subito. Lui le diede il fucile che aveva in bando­ liera e che avrebbe potuto intralciarlo. Caricò quello che aveva in mano e avanzò lentamente verso casa, costeggiando gli albe­ ri che bordeggiavano il cammino e pronto, alla minima dimo­ strazione di ostilità, a gettarsi dietro il tronco più grosso, da do­ ve, al riparo, avrebbe potuto sparare. Sua moglie lo seguiva da vicino, tenendo il fucile di riserva e la giberna. Il compito di una brava massaia, in caso di combattimento, è quello di caricare le armi del marito. Dall’altra parte, il maresciallo era molto preoccupato nel ve­ dere Mateo avvicinarsi così, a passi misurati, il fucile in avanti e il dito sul grilletto. «Se per caso», pensò, «Mateo fosse parente di Gianetto, o fos­ se suo amico e volesse difenderlo, le pallottole del suo fucile arri­ verebbero a due di noi, sicure come una lettera alla posta, e se mi vedesse, nonostante la parentela!...». In tanta perplessità, prese una decisione molto coraggiosa, cioè avanzò da solo incontro a Mateo per raccontargli la fac­ cenda, avvicinandosi come fosse una vecchia conoscenza; ma il breve intervallo che lo separava da Mateo gli parve terribilmen­ te lungo. 13

«Salve! ehi! mio vecchio compagno», gli gridò, «come stai mio prode? Sono io, Gamba, tuo cugino». Mateo, senza rispondere una sola parola, si era fermato e, mentre l’altro parlava, alzava dolcemente la canna del suo fucile, di modo che nel momento in cui il maresciallo lo raggiunse era diretta verso il cielo. «Buongiorno, fratello!»8. «Ero venuto, passando, per dire buongiorno a te e a mia cugi­ na Pepa. Abbiamo fatto un lungo cammino oggi; ma non possia­ mo lamentarci della stanchezza, perché la preda ne valeva la pe­ na. Abbiamo appena preso Gianetto Sanpiero». «Dio sia lodato!», gridò Giuseppa. «Ci ha rubato una capra da latte la settimana scorsa». Queste parole rallegrarono Gamba. «Povero diavolo!», disse Mateo, «aveva fame». «Quello si è difeso come un leone», proseguì il maresciallo, un po’ mortificato, «mi ha ucciso uno dei volteggiatori e, non con­ tento, ha rotto il braccio al caporale Chardon; ma non è un gran male, non è che un francese... Poi, si era così ben nascosto, che neppure il diavolo l’avrebbe potuto scovare. Senza il mio cuginetto Fortunato non l’avrei mai trovato». «Fortunato!», gridò Mateo. «Fortunato!», ripete Giuseppa. «Sì, il Gianetto si era nascosto sotto quel mucchio di fieno lag­ giù, ma il mio cuginetto mi ha fatto scoprire il trucco. Così lo dirò a suo zio caporale, che gli invii un bel regalo per il disturbo. E il suo nome e il tuo saranno nel rapporto che invierò al signor pro­ curatore generale». «Maledizione!», disse a bassa voce Mateo. Avevano intanto raggiunto il distaccamento. Gianetto era già disteso sulla lettiga e pronto a partire. Quando vide Mateo in compagnia di Gamba, sorrise di uno strano sorriso; poi, girando­ si verso la porta della casa, sputò sulla soglia dicendo: «Casa di traditore!». Non poteva essere che un uomo deciso a morire colui che avesse osato pronunciare la parola traditore rivolgendosi a Falco8 Buon giorno, fratello, saluto tradizionale dei corsi.

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ne. Un buon colpo di stiletto, che non avrebbe avuto bisogno di essere ripetuto, avrebbe immediatamente pagato l’insulto. Eppu­ re Mateo non fece altro gesto che quello di portarsi la mano alla Ironie come un uomo affranto. Fortunato era entrato in casa vedendo arrivare il padre. Riap­ parve subito con una scodella di latte, che, ad occhi bassi, offrì a Gianetto. «Via da me!», gridò il proscritto con voce tonante. Poi, rivolgendosi a uno dei volteggiatori: «Compagno, dammi da bere», gli disse. Il soldato gli mise la borraccia tra le mani e il bandito bevve l’ac­ qua che gli dava l’uomo con il quale aveva appena scambiato colpi di fucile. Poi chiese che gli venissero slegate le mani in modo da averle incrociate sul petto invece che legate dietro la schiena. «Mi piace essere disteso a mio agio», diceva. Si premurarono di soddisfarlo; poi il maresciallo diede il se­ gnale della partenza, disse addio a Mateo, che non gli rispose, e discese a passi veloci verso la pianura. Trascorsero quasi dieci minuti prima che Mateo aprisse bocca. Il bambino guardava con occhi inquieti ora sua madre ora suo pa­ tire, il quale, appoggiato al fucile, lo osservava con un’espressio­ ne di collera concentrata. «Cominci bene!», disse infine Mateo con voce calma, ma spa­ ventosa per chi conosceva l’uomo. «Padre mio!», gridò il bambino, avanzando con le lacrime agli occhi come per gettarsi ai suoi piedi. Ma Mateo gli gridò: «Via da me!». E il bambino si fermò e singhiozzò, immobile, a qualche pas­ so da suo padre. Giuseppa si avvicinò. Aveva appena scorto la catena dell’oro­ logio, di cui un capo usciva dalla camicia di Fortunato. «Chi ti ha dato quest’orologio?», domandò lei con aria severa. «Mio cugino il maresciallo». Falcone prese l’orologio e, scagliandolo con forza contro una pietra, lo mandò in mille pezzi. «Donna», disse, «questo figlio è mio?». Le guance brune di Giuseppa diventarono di un rosso mattone. 15

«Che dici, Mateo? lo sai con chi stai parlando?». «Ebbene, questo bambino è il primo della sua razza che abbia commesso un tradimento». I singhiozzi e i singulti di Fortunato raddoppiarono, e Falco­ ne teneva i suoi occhi di lince sempre fissi su di lui. Infine colpì la terra con il calcio del suo fucile, poi se lo gettò sulle spalle e ri­ prese il cammino della macchia gridando a Fortunato di seguirlo. Il bambino obbedì. Giuseppa corse dietro a Mateo e gli toccò un braccio. «E tuo figlio», gli disse con voce tremante, fissando i suoi oc­ chi neri in quelli del marito, come per leggervi cosa stesse acca­ dendo nella sua anima. «Fasciami», rispose Mateo, «sono suo padre». Giuseppa abbracciò il figlio ed entrò piangendo in casa. Si gettò in ginocchio davanti a un’immagine della Vergine e pregò con fervore. Falcone camminò per circa duecento passi lungo il sentiero e si fermò solo davanti a un burrone, in cui discese. Ta­ stò il terreno con il calcio del fucile e lo trovò morbido e facile da scavare. Il luogo gli parve adatto per il suo progetto. «Fortunato, va’ dietro quella grossa pietra». II bambino fece quello che gli comandava, poi si inginocchiò. «Di’ le tue preghiere!». «Padre mio, padre mio, non mi uccidete». «Di’ le tue preghiere!», ripete Mateo con voce terribile. Il bambino, balbettando e singhiozzando, recitò il Pater e il Credo. Il padre, con voce forte, rispondeva Amen! alla fine di ogni preghiera. «Sono queste le preghiere che conosci?». «Padre mio, conosco anche l’Ave Maria e la litania che mi ha insegnato la zia». «F lunga, non importa». Il bambino iniziò la litania con voce spenta. «Hai finito?». «Oh! padre mio, grazia! Perdonatemi! Non lo farò più! Pre­ gherò tanto il cugino caporale che faccia la grazia a Gianetto!». Parlava ancora; Mateo aveva caricato il fucile e lo puntava alla guancia, dicendogli: «Che Dio ti perdoni!». 16

Il bambino fece uno sforzo disperato per sollevarsi e abbrac­ ciare le ginocchia del padre, ma non ne ebbe il tempo. Mateo fe­ ce fuoco, e Fortunato cadde morto stecchito. Senza gettare neppure uno sguardo al cadavere, Mateo riprese la via di casa in cerca di una vanga per sotterrare il figlio. Aveva fatto solo qualche passo quando incontrò Giuseppa che accorre­ va, allarmata dal colpo di fucile. «Che hai fatto?», gridò. «Giustizia». «Dov’è?». «Nel burrone. Vado a seppellirlo. E morto da cristiano; gli laro dire una messa. Manda a dire a mio genero Tiodoro Bianchi di venire a stare da noi». 1829

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La visione di Carlo XI

There are more ‘h’ings in heav’n and earth, Horatio, Than are dreaml of in your philosophy. Shakespeare, Hamlet'.

Ci si fa beffe delle visioni e delle apparizioni soprannaturali; eppure, alcune poggiano su tali testimonianze che se ci si rifiutas­ se di credervi, si sarebbe poi obbligati, per essere coerenti, a re­ spingere in massa tutte le testimonianze storiche. Un processo verbale1 2 in bella forma, corredato della firma di quattro testimoni degni di fede, ecco quello che garantisce l’au­ tenticità del fatto che sto per raccontare. Aggiungerò che la pre­ dizione contenuta in questo processo verbale era nota e citata molto tempo prima che gli avvenimenti verificatisi ai nostri gior­ ni venissero a confermarla. Carlo XI3, padre del famoso Carlo XII, fu uno dei re più di­ spotici, ma anche uno dei più saggi che abbia avuto la Svezia. Limitò i mostruosi privilegi della nobiltà, abolì il potere del Se­ nato ed emanò leggi di propria autorità; in una parola, cambiò la Costituzione del paese, che prima di lui era oligarchica, e ob­ bligò gli Stati ad affidargli il potere assoluto. Era un uomo illu1 [«Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la vostra filosofia»,]. 2 [Il processo verbale, pubblicato dal Vaterländisches Museum, è redatto dallo stesso re e porta la firma di quattro testimoni: il cancelliere Charles Bielke, il consigliere del re­ gno M. W. Bielke, Alexandre Oxenstiern e il vice cancelliere Peter Grauslen]. ’ [Vissuto dal 1655 al 1697, regnò a partire dal 1672. Suo figlio Carlo XII, di cui Vol­ taire ha scritto la storia, è celebre per la sua lotta contro Pietro il Grande].

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minato, prode, molto legato alla religione luterana, dal caratte­ re inflessibile, freddo, positivo, completamente sprovvisto d’immaginazione. Aveva appena perso la moglie, Ulrica Eleonora. Sebbene la sua durezza nei confronti di questa principessa ne avesse - si dice - accelerato la fine, egli la stimava, e sembrò più colpito dalla sua morte di quanto non ci si potesse aspettare da un cuo­ re arido come il suo. Dopo questo fatto divenne ancor più cu­ po e taciturno di prima, e si dedicò al lavoro con un’applica­ zione che testimoniava un imperioso bisogno di sfuggire pen­ sieri penosi. Sul finire di una serata d’autunno era seduto in veste da came­ ra e pantofole davanti a un grande fuoco acceso nel suo studio nel palazzo di Stoccolma. Aveva accanto a sé il suo ciambellano, il conte Brahé4, che egli onorava dei suoi favori, e il dottor Baum­ garten che, sia detto per inciso, sentenziava con il suo spirito cau­ stico, e pretendeva che si dubitasse di tutto, tranne che della me­ dicina. Quella sera l’aveva fatto venire perché voleva consultarlo per non so quale indisposizione. La serata andava per le lunghe, e il re, contro le sue abitudini, non faceva loro sentire, augurando la buona notte, che era tempo di ritirarsi. La testa abbassata e gli occhi fissi sui tizzoni, conser­ vava un profondo silenzio, annoiato dalla compagnia, ma temen­ do, senza sapere perché, di rimanere solo. Il conte Brahé com­ prendeva bene che la sua presenza non era molto gradita, e già più volte aveva espresso il timore che Sua Maestà avesse bisogno di riposo: un gesto del re l’aveva trattenuto al suo posto. A sua vol­ ta, il medico parlò del male che le veglie provocano alla salute; ma Carlo gli rispose tra i denti: «Rimanete, non ho ancora desiderio di dormire». Allora cercarono diversi argomenti di conversazione, ma si esaurivano tutti alla seconda o terza frase. Era evidente che Sua Maestà fosse in uno dei suoi umori neri e, in simili circostanze, la posizione di un cortigiano è assai delicata. Il conte Brahé, suppo­ nendo che la tristezza del re venisse dai rimorsi per la perdita del4 [Per Brahe (1602-1680), senatore, gran siniscalco e membro del consiglio di reggen­ za durante la minore età di Carlo XI].

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la moglie, guardò a lungo il ritratto della regina appeso nello stu­ dio, poi esclamò con un grande sospiro: «Che ritratto somigliante! Che espressione maestosa e dolce insieme!». «Bah!», rispose bruscamente il re, che credeva di vedere un rimprovero tutte le volte che qualcuno faceva davanti a lui il no­ me della regina. «Questo ritratto è troppo lusinghiero! La regina era brutta». Poi, interiormente contrariato per la propria severità, si alzò e fece un giro per la stanza per nascondere un’emozione che lo fa­ ceva arrossire. Si fermò davanti alla finestra che dava sul cortile. La notte era scura e la luna al suo primo quarto. Il palazzo dove risiedono oggi i re di Svezia non era ancora fi­ nito e Carlo XI, che l’aveva iniziato, risiedeva allora nell’antico edificio situato nei pressi del ponte del Ritterholm, che guarda il lago Moeler. È una grande costruzione a forma di ferro di caval­ lo. Lo studio del re era a una delle estremità, e press’a poco da­ vanti si trovava il salone in cui si riunivano gli Stati quando do­ vevano ricevere qualche comunicazione dalla corona. Le finestre della sala in quel momento sembravano illuminate da una viva luce. Ciò parve strano al re. Suppose dapprima che quel chiarore fosse prodotto dalla fiaccola di un valletto. Ma che ci andava a fare a quell’ora in una sala chiusa da tanto tempo? Del resto, la luce era troppo luminosa per provenire da una sola fiac­ cola. Si poteva pensare a un incendio: ma non si vedeva fumo, i vetri non erano rotti, non si percepiva nessun rumore; sembrava proprio un’illuminazione. Per un po’ Carlo guardò le finestre senza parlare. Nel frat­ tempo, il conte Brahé, allungando la mano verso il cordone di un campanello, era già pronto a chiamare un paggio per cercare di scoprire la causa di quel singolare chiarore; ma il re lo fermò. «Voglio andare io in quella sala», disse. Nel terminare queste parole, lo videro impallidire, e il suo vol­ to esprimeva una sorta di religioso terrore. Comunque uscì con passo fermo; il ciambellano e il dottore lo seguirono, tenendo cia­ scuno una candela accesa. Il custode, che aveva la responsabilità delle chiavi, era già a let­ to. Baumgarten andò a svegliarlo e gli ordinò, da parte del re, di 21

aprire immediatamente le porte della sala degli Stati. Grande fu la sorpresa dell’uomo a quest’ordine inatteso; si vestì in fretta e rag­ giunse il re con il suo mazzo di chiavi. Aprì anzitutto la porta di una galleria che serviva da anticamera o da disimpegno alla sala degli Stati. Il re entrò; ma quale fu il suo stupore nel vedere le pa­ reti interamente tappezzate di nero! «Chi ha dato l’ordine di far tappezzare così di nero questa sa­ la?», domandò con tono di collera. «Sire, nessuno che io sappia», rispose il custode tutto treman­ te, «e l’ultima volta che ho fatto pulire la galleria, era rivestita di quercia com’è sempre stata... Certamente questi rivestimenti non provengono dal magazzino di Vostra Maestà». Il re, camminando a passi rapidi, era già arrivato a più di due terzi della galleria. Il conte e il custode lo seguivano da vicino; il dottor Baumgarten era un po’ più indietro, diviso tra il timore di rimanere solo e quello di esporsi al seguito di un’avventura che si preannunciava in modo tanto strano. «Non andate oltre, sire!», gridò il custode. «Sulla mia anima, c’è una stregoneria là dentro. A quest’ora... e dopo la morte del­ la regina, la vostra graziosa sposa... si dice che ella passeggi in questa galleria... Che Dio ci protegga!». «Fermatevi! sire!», esclamò il conte da parte sua. «Non senti­ te questo rumore che viene dalla sala degli Stati? Chi sa a quale pericolo si espone Vostra Maestà!». «Sire», diceva Baumgarten, la cui candela era appena stata spenta da un soffio di vento, «permettetemi almeno di andare a cercare una ventina di alabardieri». «Entriamo», disse il re con voce ferma arrestandosi davanti all’ingresso della grande sala, «e tu, custode, apri subito questa porta». La spinse con il piede e il rumore, ripetuto dall’eco delle vol­ te, risuonò nella galleria come un colpo di cannone. Il custode tremava così forte che la chiave batteva sulla serra­ tura senza che egli riuscisse a farla entrare. «Un vecchio soldato che trema!», disse Carlo alzando le spal­ le. «Andiamo, conte, apriteci questa porta». «Sire», rispose il conte indietreggiando di un passo, «se Vostra Maestà mi ordinasse di marciare contro la bocca di un cannone 22

danese o tedesco, obbedirei senza esitare, ma voi volete che io sfi­ di l’inferno». Il re strappò la chiave dalle mani del custode. «Vedo bene», disse con tono di disprezzo, «che devo farlo da me»; e prima che il suo séguito avesse potuto impedirlo, aveva aperto la massiccia porta di quercia ed era entrato nella grande sa­ la pronunciando queste parole: «Con l’aiuto di Dio!». I suoi tre accoliti, spinti dalla curiosità, più forte della paura, e forse vergo­ gnandosi di abbandonare il re, entrarono con lui. La grande sala era illuminata da un’infinità di fiaccole. Una tappezzeria nera aveva rimpiazzato l’antica tappezzeria a disegni. Lungo le pareti sembravano disposti in ordine, come al solito, bandiere tedesche, danesi o moscovite, trofei di soldati di Gusta­ vo Adolfo5. Si distinguevano nel mezzo le bandiere svedesi, co­ perte da drappi funebri. Un’assemblea immensa occupava i banchi. I quattro ordini de­ gli Stati6 sedevano ciascuno nel proprio posto. Tutti erano vestiti di nero, e questa moltitudine di volti umani, che si stagliavano lu­ minosi su uno sfondo scuro, abbagliavano così tanto gli occhi chedei quattro testimoni di questa scena straordinaria nessuno potè trovare in questa folla un viso conosciuto. Come un attore di fron­ te a un pubblico numeroso non vede che una massa confusa, do­ ve i suoi occhi non possono distinguere un solo individuo. Sul trono elevato da dove il re era solito arringare l’assem­ blea, videro un cadavere sanguinante, rivestito delle insegne del­ la regalità. Alla sua destra, un bambino in piedi e con la corona sulla testa, teneva uno scettro in mano; alla sua sinistra un uo­ mo anziano, o piuttosto un altro fantasma, si appoggiava sul trono. Indossava un mantello da cerimonia come lo portavano gli antichi amministratori della Svezia, prima che Vasa7 ne faces­ se un regno. Davanti al trono, si trovavano seduti parecchi per­ sonaggi dall’aria grave e severa, con lunghi vestiti neri, che sem­ bravano dei giudici, davanti a un tavolo su cui si vedevano gran­ di in folio e alcune pergamene. Fra il trono e i banchi dell’as5 [Gustavo Adolfo il Grande, nato nel 1594, re di Svezia dal 1611 al 1632]. ‘ La nobiltà, il clero, i borghesi e i contadini. 7 [Gustavo Vasa (1496-1560) riuscì a liberare la Svezia dalla dominazione danese. Si fe­ ce proclamare re nel 1523 dalla dieta di Strengnaas e nel 1544 rese ereditaria la corona nel­ la sua famiglia].

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semblea vi era un ceppo ricoperto da un drappo nero e accanto era posta un’ascia. Nessuno, in questa assemblea sovrumana, diede l’impressio­ ne di accorgersi della presenza di Carlo e delle persone che lo accompagnavano. Al loro ingresso, all’inizio, non udirono che un mormorio confuso, nel quale non si poteva comprendere nessuna parola articolata; poi il più anziano dei giudici vestiti di nero, colui che sembrava ricoprire la funzione di presidente, si alzò, e batté tre volte la mano sopra un in folio aperto davanti a lui. All’improvviso si fece un profondo silenzio. Alcuni giovani di bell’aspetto, riccamente abbigliati, con le mani legate dietro la schiena, entrarono nella sala da una porta opposta a quella che aveva aperto Carlo XI. Camminavano a testa alta e con lo sguar­ do sicuro. Dietro di loro, un uomo robusto, con un giustacuo­ re di cuoio scuro, teneva i capi delle corde che legavano loro le mani. Colui che camminava per primo, e che sembrava essere il più importante dei prigionieri, si fermò nel mezzo della sala, da­ vanti al ceppo, che guardò con superbo disprezzo. Nello stesso tempo, il cadavere parve tremare d’un movimento convulso, e sangue fresco e vermiglio zampillò dalla ferita. Il giovane si in­ ginocchiò, allungò la testa; l’ascia brillò nell’aria, e ricadde subi­ to con fragore. Un ruscello di sangue si sparse sulla pedana e si confuse con quello del cadavere; e la testa, sobbalzando più vol­ te sul pavimento arrossato, rotolò fino ai piedi di Carlo, che co­ lorò di sangue. Fino a quel momento lo stupore l’aveva reso muto, ma a quell’orribile spettacolo la lingua si sciolse; fece qualche passo verso la pedana e indirizzandosi a questa figura con il mantello d’am­ ministratore, pronunciò arditamente la ben nota formula: «Se sei Dio, parla; se sei l’Altro, lasciaci in pace». Il fantasma gli rispose lentamente e con tono solenne: «RE CARLO! Questo sangue non scorrerà sotto il tuo regno... (qui la voce si fece meno distinta) ma cinque regni dopo8. Sciagu­ ra, sciagura, sciagura al sangue dei Vasai». 8 [I cinque regni sono quelli di: Carlo XII (1697-1718), Ulrica-Eleonora (1719-1720), Federico I (1720-1751), Adolfo Federico (1751-1771) e Gustavo III (1771-1792). È il quin­ to di questi sovrani, Gustavo IH, che morirà assassinato].

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Mentre le figure dei numerosi personaggi di questa sorpren­ dente assemblea cominciarono a diventare più sfocate e già ap­ parivano solo come ombre colorate, ben presto disparvero del tutto; le fiaccole della visione si spensero e quelle di Carlo e del suo seguito illuminarono solo le vecchie tappezzerie, legger­ mente agitate dal vento. Si potè ancora sentire, per qualche tem­ po, un rumore abbastanza melodioso, che uno dei testimoni pa­ ragonò al mormorio del vento tra le foglie e un altro al suono che fanno le corde dell’arpa quando a volte si spezzano nel mo­ mento in cui si accorda lo strumento. Tutti si trovarono d’ac­ cordo sulla durata dell’apparizione, che giudicarono essere sta­ ta di circa dieci minuti. I drappi neri, la testa mozzata, i fiotti di sangue che tingevano il pavimento, tutto era scomparso con i fantasmi; solo la pan­ tofola di Carlo conservò una macchia rossa, che da sola sarebbe bastata a ricordargli le scene di quella notte, se queste non si fos­ sero impresse così bene nella sua memoria. Rientrato nello studio, il re fece trascrivere una relazione di ciò che aveva visto, la fece firmare dai suoi compagni, e lui stesso la firmò. Nonostante le precauzioni prese per nascondere il con­ tenuto di questa faccenda al pubblico, la storia non tardò a diffondersi, anche mentre era vivo Carlo XI; è viva tuttora e, fino ad oggi, nessuno ha avanzato dei dubbi sulla sua autenticità. Il fi­ nale è notevole: «E, se ciò che ho appena riferito - dice il re - non è l’esatta ve­ rità, rinuncio a ogni speranza di una vita migliore che posso aver meritato per qualche buona azione, e soprattutto per il mio zelo nel lavorare per la felicità del mio popolo e nel difendere la reli­ gione dei miei antenati». Ora, se si ricorda della morte di Gustavo III9, e del giuramento di Ankarstroem, il suo assassino, si troverà più di un rapporto tra questi avvenimenti e le circostanze di questa singolare profezia. II giovane decapitato in presenza degli Stati sarebbe stato Ankarstroem10. ’ [Gustavo III, nato nel 1746, ridusse i diritti della nobiltà e volle regnare da despota assoluto. Cadde vittima di una congiura durante un ballo in maschera nella notte tra il 15 e il 16 marzo 1792. Morì il 29 marzo], 10 [Jean-Jacques, enseigne des gardes, assassino di Gustavo III, fu condannato a morte e decapitato il 29 aprile 1792].

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Il cadavere coronato sarebbe stato Gustavo III. Il bambino, suo figlio e successore, Gustavo Adolfo IV11. Infine, il vecchio, sarebbe stato il duca di Sudermanie, zio di Gustavo IV, che fu reggente del regno, poi re, dopo la deposizio­ ne del nipote. 1829

" [Gustavo IV, nato nel 1778, aveva solo quattro anni alla morte del padre. La reggenza fu esercitata da suo zio il duca di Sudermanie. Incapace e inetto, perse la Pomerania con Napoleone e la Finlandia con ì Russi. Scontentò il popolo e la nobiltà e fu costretto ad ab­ dicare il 29 marzo 1809. Dopo l’abdicazione di Gustavo Alfonso IV, il duca di Suderma­ nie, nato nel 1748, divenne re con il nome di Carlo XIII e regnò fino al 1810].

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La presa della ridotta

Un mio amico militare, che è morto di febbre in Grecia qual­ che anno fa, mi narrò un giorno il primo scontro cui aveva assi­ stito. La vicenda che mi raccontò mi colpì così tanto, che la tra­ scrissi a memoria non appena ne ebbi il tempo. Eccola:

Raggiunsi il reggimento la sera del 4 settembre. Trovai il co­ lonnello al bivacco. Mi ricevette subito assai bruscamente; ma do­ po aver letto la lettera di raccomandazione del generale***, cam­ biò modi, e mi rivolse alcune parole gentili. Da lui fui presentato al mio capitano, che era appena tornato da una ricognizione. Questo capitano, che non ebbi veramente il tempo di conoscere, era un uomo grande, bruno, dalla fisionomia dura e ripugnante. Era stato soldato semplice e si era guadagnato le spalline e la croce sul campo di battaglia. La sua voce, che era roca e debole, contrastava singolarmente con la sua statura quasi gigantesca. Mi dissero che doveva questa voce a una pallottola che l’aveva trapassato da parte a parte nella battaglia di Jena1. Sentendo che provenivo dalla scuola di Fontainebleau, fece una smorfia e disse: «Il mio tenente è morto ieri...». Compresi quello che voleva dire: «Siete voi che dovete rim­ piazzarlo, e non ne siete capace». Mi salì alle labbra una parola pungente, ma mi trattenni. 1 [Avvenuta il 13 ottobre 1806].

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La luna si levò da dietro la ridotta di Cheverino2, a due gittate di cannone dal nostro bivacco. Era larga e rossa, com’è di solito quando sorge. Ma quella sera mi parve di una grandezza straor­ dinaria. Per un istante la ridotta si stagliò nera sul disco splen­ dente della luna. Sembrava il cono di un vulcano nel momento dell’eruzione. Un vecchio soldato, vicino al quale mi trovavo, sottolineò il colore della luna. «È così rossa», disse, «è segno che costerà tanto averla, questa famosa ridotta!». Sono sempre stato superstizioso, e questo presagio, soprattut­ to in quel momento, mi fece effetto. Mi distesi, ma non riuscii a dormire. Mi alzai e camminai un po’, osservando l’immensa linea di fuoco che copriva le alture al di là del villaggio di Cheverino. Quando credetti che l’aria fresca e pungente della notte aves­ se raffreddato abbastanza il mio sangue, ritornai vicino al fuoco; mi avviluppai accuratamente nel mantello e chiusi gli occhi, spe­ rando di non aprirli prima di giorno. Ma il sonno mi serbò ran­ core. Impercettibilmente, i miei pensieri si facevano lugubri. Mi dicevo che non avevo un amico tra i centomila uomini che copri­ vano la pianura. Se fossi stato ferito, sarei finito in un ospedale, trattato senza riguardi da chirurghi ignoranti. Mi tornò in mente quello che avevo sentito dire delle operazioni chirurgiche. Il mio cuore batteva con violenza, e meccanicamente disposi come una sorta di corazza, il fazzoletto e il portafogli che avevo sul petto. La stanchezza mi prostrava, mi assopivo a ogni istante e a ogni istante un pensiero sinistro si ripresentava con maggiore forza e mi risvegliava di soprassalto. Poi la stanchezza prese il sopravvento e quando suonò la dia­ na, ero completamente addormentato. Ci preparammo alla batta­ glia, si fece l’appello, poi si rimisero le armi in fasci, e tutto an­ nunciava che avremmo trascorso una giornata tranquilla. Verso le tre giunse un aiutante di campo che portava un ordi­ ne. Ci fecero riprendere le armi; i nostri fucilieri si disposero per la pianura, noi li seguimmo lentamente e, nell’arco di venti mi2 [Cheverino o Sevardino, nei pressi di Borodino, famoso episodio della battaglia del­ la Moscova durante la campagna di Russia, avvenuto il 5 settembre 1812 e che costò mi­ gliaia di morti].

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liuti, vedemmo tutti gli avamposti dei russi ripiegare e rientrare nella ridotta. Una batteria d’artiglieria venne a collocarsi alla nostra destra, un’altra alla sinistra, ma tutte e due molto avanti a noi. Iniziaro­ no contro il nemico un fuoco molto vivo, questi rispose energi­

camente, e ben presto la ridotta di Cheverino scomparve sotto spesse nuvole di fumo. Il nostro reggimento era quasi al riparo del fuoco dei russi gra­ zie un avvallamento del terreno. Le loro pallottole, del resto rare per noi (perché tiravano di preferenza sui nostri cannonieri), pas­ savano al di sopra delle nostre teste, o tutt’al più ci gettavano ter­ ra o sassi. Appena ci venne dato l’ordine di avanzare, il capitano mi guardò con un’attenzione che mi obbligò a passare due o tre vol­ te la mano sui miei giovani baffi con l’aria più disinvolta possibi­ le. Ma non avevo paura, e il solo timore che provassi era che si po­ tesse pensare che avevo paura. Queste palle inoffensive contri­ buirono ancora a mantenermi nella mia calma eroica. Il mio amor proprio mi diceva che correvo un reale pericolo, poiché in fin dei conti ero sotto il fuoco di una batteria. Ero felicemente sorpreso di sentirmi così a mio agio, e immaginavo il piacere di raccontare la presa della ridotta di Cheverino, nel salotto di Madame de B***3, in rae de Provence. Il colonnello passò davanti alla nostra compagnia; mi rivolse la parola: «Ebbene, sarà un inizio grigio per voi». Sorrisi con un’aria assolutamente marziale, spazzolando la manica della divisa sulla quale una palla, caduta a trenta passi da me, aveva gettato un po’ di polvere. Sembrava che i russi si accorgessero degli insuccessi delle lo­ ro pallottole, perché le rimpiazzarono con granate che più facil­ mente ci potevano raggiungere nella vallata dove eravamo posi­ zionati. Un grosso scoppio mi tolse lo sciaccò4 e colpì un uomo accanto a me. «Mi rallegro con voi», mi disse il capitano, mentre raccoglievo il mio sciaccò, «ne avete avuto abbastanza per oggi». Conoscevo 3 [Si tratta molto probabilmente della contessa de Boigne, che abitava al n. 12, rue de Provence, di cui Mérimée frequentava il salotto]. 4 [Copricapo militare alto, a forma di tronco di cono].

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la superstizione militare che crede nell’assioma non bis in idem, tanto sul campo di battaglia che in una corte di giustizia. Mi ri­ misi fieramente il mio sciaccò. «È per salutare la gente senza cerimonie», dissi più allegra­ mente che potei. Questa cattiva battuta, date le circostanze, par­ ve eccellente. «Mi congratulo con voi», riprese il capitano, «non avrete nien­ te di più e stasera comanderete una compagnia, perché sento che il forno si sta scaldando per me. Tutte le volte che sono stato fe­ rito, l’ufficiale accanto a me ha ricevuto qualche palla morta e», aggiunse con un tono più basso e quasi vergognoso, «i loro nomi cominciavano sempre con P». Mi feci coraggio; molti avrebbero fatto come me; e molti sa­ rebbero stati colpiti come me da queste parole profetiche. Coscrit­ to com’ero, sentivo che non potevo confidare i miei sentimenti a nessuno e che dovevo mostrarmi sempre freddamente intrepido. In capo a mezz’ora, il fuoco dei russi diminuì sensibilmen­ te; allora uscimmo dalla nostra copertura per marciare sulla ridotta. Il nostro reggimento era composto da tre battaglioni. Il se­ condo fu incaricato di aggirare la ridotta dalla parte della gola, gli altri due dovevano dare l’assalto. Io mi trovavo nel terzo battaglione. Uscendo da una specie di parapetto che ci aveva protetti, fum­ mo accolti da molte scariche di fucileria che fecero poco danno ai nostri ranghi. Il fischio delle pallottole mi sorprese: giravo spesso la testa, e così mi attiravo qualche battuta da parte dei miei com­ pagni più avvezzi a quel rumore. «Alla fin fine», mi dissi, «una battaglia non è poi una cosa co­ sì terribile». Avanzavamo a passo di corsa, preceduti dai fucilieri: improv­ visamente i russi gridarono tre urrà, tre urrà ben distinti, poi ri­ masero in silenzio e senza sparare. «Non mi piace questo silenzio», disse il capitano, «non fa pre­ sagire niente di buono». Trovai che i nostri erano un po’ troppo rumorosi, e non pote­ vo impedirmi di fare interiormente un confronto tra i loro tu­ multuosi clamori e l’imponente silenzio del nemico.

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Arrivammo rapidamente ai piedi della ridotta; le palizzate era­ no state abbattute e la terra smossa dalle nostre palle. I soldati si slanciarono sulle recenti rovine gridando: Viva l’imperatore! più forte di quanto ci si sarebbe potuto attendere da gente che aveva già gridato tanto. Alzai gli occhi, e non dimenticherò mai lo spettacolo che vidi. La maggior parte del fumo si era alzato e rimaneva sospeso come un baldacchino a venti piedi sopra la ridotta. Attraverso una neb­ bia bluastra, dietro il loro parapetto semidistrutto, si scorgevano i granatieri russi, le armi puntate, immobili come statue. Mi sem­ bra ancora di vedere ogni soldato, l’occhio sinistro fisso su di noi, il destro nascosto dal fucile alzato. A qualche piede da noi, in una rientranza del terreno, un uomo con una lancia da fuoco era vici­ no a un cannone. Rabbrividii, e credetti che fosse giunta la mia ora. «Ecco che inizia la danza», esclamò il capitano. «Buonasera!». Furono le ultime parole che gli sentii pronunciare. Un rullo di tamburi riecheggiò nella ridotta. Vidi abbassarsi tutti i fucili. Chiusi gli occhi e sentii un fracasso spaventoso, se­ guito da grida e da gemiti. Aprii gli occhi, sorpreso di essere an­ cora vivo. La ridotta era di nuovo avviluppata dal fumo. Ero cir­ condato da feriti e da morti. Il capitano era disteso ai miei piedi: la sua testa era stata frantumata da una palla, ero coperto dal suo cervello e dal suo sangue. Di tutta la mia compagnia rimanevo so­ lo io, e sei uomini. A questa carneficina seguì un momento di stupore. Il colonnel­ lo, mettendo il suo cappello sulla punta della spada, salì per primo sul parapetto gridando: Viva l’imperatore!, fu seguito presto da tutti i sopravvissuti. Non ho un ricordo preciso di quello che ac­ cadde dopo. Entrammo nella ridotta, non so come. Ci battemmo corpo a corpo nel mezzo di un fumo così spesso da non poterci ve­ dere l’un l’altro. Credo che colpii qualcuno, perché la sciabola era tutta sanguinante. Alla fine sentii gridare: «Vittoria!», e calando il fumo, mi accorsi del sangue e dei morti sotto i quali scompariva la terra della ridotta. Soprattutto i cannoni erano sepolti da mucchi di cadaveri. Circa duecento uomini, in uniforme francese, erano rag­ gruppati senza ordine, una parte caricava il fucile, un’altra puliva le baionette. Avevano con sé undici prigionieri russi. 31

Il colonnello giaceva a terra tutto sanguinante su un cassone rotto, vicino alla gola. Alcuni soldati si prodigavano attorno a lui, io mi avvicinai: «Dov’è il capitano più anziano?», chiedeva a un sergente. Il sergente alzò le spalle in modo assai indicativo. «E il tenente più anziano?». «Eccolo signore, è arrivato ieri», disse il sergente con tono cal­ mo. Il colonnello sorrise amaramente. «Via signore», mi disse, «siete voi ormai il comandante in ca­ po; fate prontamente fortificare la gola della ridotta con questi carri, perché il nemico è in forze, ma il generale C*** farà in mo­ do di darci aiuto». «Colonnello», gli dissi, «siete ferito gravemente?». «C... sì! mio caro, ma la ridotta è presa!».

1829

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Tamango

Il capitano Ledoux era un buon marinaio. Aveva iniziato co­ me semplice mozzo, poi era diventato aiuto timoniere. Nella bat­ taglia di Trafalgar1 ebbe la mano sinistra fracassata da un colpo di legno; gli fu amputata, e in seguito venne congedato con buone referenze. Il riposo non gli andava affatto a genio e, presentando­ si l’occasione di imbarcarsi, si arruolò a bordo di una corsara in qualità di secondo luogotenente. Il denaro che ottenne da alcune confische gli permise di comprare dei libri e di studiare teoria del­ la navigazione, di cui già conosceva perfettamente la pratica. Con il tempo divenne capitano di un lugger corsaro12 3di tre cannoni e sessanta uomini d’equipaggio e i cabotieri’ di Jersey ricordano an­ cora le sue gesta. La pace4 lo afflisse: durante la guerra aveva ac­ cumulato una piccola fortuna che sperava di aumentare a spese degli inglesi. La sua forza fu di offrire i suoi servigi a dei pacifici negozianti; e dato che era noto come un uomo di risolutezza e di esperienza, gli venne facilmente affidata una nave. Quando fu proibita la tratta dei negri, e per continuare a praticarla si doveva eludere non solo la vigilanza dei doganieri francesi, il che non era molto difficile, ma, ed era la cosa più azzardata, si doveva anche 1 [Combattuta il 21 ottobre 1805 tra la flotte inglese e franco-spagnola, fu vinta dagli inglesi comandati dall’ammiraglio Horace Nelson]. 2 [Piccolo bastimento da guerra]. 3 [Navi che fanno cabotaggio]. ’ [Tra l’Inghilterra e la Francia con il trattato di Parigi del 30 maggio 1814, ratificata poi dal Congresso di Vienna nel 1815].

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sfuggire agli incrociatori inglesi5, il capitano Ledoux divenne un uomo prezioso per i trafficanti di legno d’ebano6. 7 Molto diverso dalla maggior parte dei marinai che a lungo hanno languito come lui in posti da subalterni, non aveva affat­ to quel profondo orrore nei confronti delle innovazioni e quel­ lo spirito di pigrizia che questi si trascinano spesso fino ai gradi superiori. Il capitano Ledoux, al contrario, era stato il primo a raccomandare al suo armatore l’uso di casse di ferro, destinate a contenere e a conservare l’acqua. A bordo della sua nave le ma­ nette e le catene, di cui erano provvisti i bastimenti negrieri, era­ no costruite con un nuovo sistema, e accuratamente verniciate contro la ruggine. Ma ciò che gli rese più onore tra i mercanti di schiavi fu la costruzione, da lui stesso diretta, di un brigantino destinato alla tratta: fine veliero, stretto, lungo come un basti­ mento da guerra, eppure capace di contenere un gran numero di negri. Lo chiamò La Speranza. Volle che gli interponi?, stretti e rientrati, non misurassero che tre piedi e quattro pollici d’altez­ za, sostenendo che questa dimensione avrebbe permesso a schia­ vi di taglia ragionevole di stare comodamente seduti; e che biso­ gno avevano di alzarsi? «Una volta nelle colonie», diceva Ledoux, «rimarranno a lun­ go in piedi!». I negri, con la schiena appoggiata alle bordature della nave e disposti su due linee parallele, avevano tra loro uno spazio vuoto che in tutti gli altri bastimenti negrieri serve solo al passaggio. Le­ doux immaginò di porre in questo spazio altri negri, sdraiati per­ pendicolarmente ai primi. Così, la sua nave poteva contenere una decina di negri in più di un’altra dello stesso tonnellaggio. Al li­ mite, se ne sarebbero potuti piazzare anche un numero maggio­ re; ma bisogna essere umani e lasciare a un negro almeno cinque piedi8 di lunghezza e due di larghezza per trastullarsi durante una traversata di sei e più settimane: «Perché, insomma», diceva Le5 [Gli incrociatori inglesi, dopo il Congresso di Vienna che aveva abolito la tratta dei negri, avevano il compito di perseguire le navi negriere]. 6 Nome che si danno gli stessi uomini che fanno la tratta. 7 [L’interponte è lo spazio compreso tra il primo e il secondo ponte]. * [Il piede misura 0,324 m (diviso in 12 pollici: 0,027 m). Tre piedi e quattro pollici: 1,08 m].

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doux al suo armatore per giustificare questa misura liberale, «do­ potutto i negri sono uomini come i bianchi». La Speranza partì da Nantes un venerdì, come alcuni super­ stiziosi sottolinearono in seguito. Gli ispettori che visitarono scrupolosamente il brigantino non scoprirono affatto sei grandi casse riempite di catene, di manette e di quei ferri che si chiama­ no, non so perché, ferri di giustizia. Non furono neanche sorpre­ si dall’enorme provvista d’acqua che doveva portare La Speran­ za, la quale, secondo le carte, si recava in Senegai per commercio di legno e avorio. La traversata non era lunga, è vero, ma insom­ ma un eccesso di precauzioni non può nuocere. Se fossero stati colti da una bonaccia, cosa sarebbe successo senz’acqua? La Speranza partì dunque un venerdì, ben armata ed equipag­ giata di tutto punto. Ledoux avrebbe voluto forse degli alberi un po’ più solidi; tuttavia, finché comandò il bastimento, non ebbe a lamentarsene. La traversata fu felice e veloce fino alle coste afri­ cane. Ormeggiò alla foce del Joale9 (credo) in un frangente in cui gli incrociatori inglesi non sorvegliavano questa parte della costa. Alcuni mediatori locali salirono subito a bordo. Il momento era dei più favorevoli; Tamango, famoso guerriero e trafficante d’uo­ mini, aveva appena condotto sulla costa una grande quantità di schiavi; e se ne disfaceva a buon mercato, da uomo che si sente in grado di approvvigionare prontamente il luogo in cui gli articoli che commercia diventano una rarità. Il capitano Ledoux si fece portare a riva, e andò a far visita a Tamango. Lo trovò in una capanna di paglia che gli avevano co­ struito in fretta, in compagnia delle sue due mogli e di alcuni mer­ canti di sott’ordine e condottieri di schiavi. Tamango si era pre­ parato a ricevere il capitano bianco. Era vestito con una vecchia uniforme blu, con ancora i gradi di caporale; ma sulle spalle pen­ devano due spalline d’oro attaccate allo stesso bottone, e ballon­ zolavano, una davanti, l’altra dietro. Dato che non aveva camicia, e che il vestito era un po’ corto per un uomo della sua taglia, si ve­ deva tra i risvolti bianchi dell’abito e le mutande di tela di Gui­ nea, una notevole striscia di pelle nera che sembrava una larga cintura. Una grande sciabola da cavalleria era sospesa di lato gra'' [Piccolo porto del Senegai sulla costa dell’Atlantico, a sud di Dakar].

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zie a una corda e teneva in mano un bel fucile a due colpi, di fab­ bricazione inglese. Così equipaggiato il guerriero africano crede­ va di superare in eleganza il più piccolo e perfetto damerino di Parigi o Londra. Il capitano Ledoux lo squadrò in silenzio per un po’, mentre Tamango, raddrizzandosi come fa un granatiere davanti a un ge­ nerale straniero, gioiva dell’impressione che credeva di produrre sul bianco. Ledoux, dopo averlo esaminato da esperto, si girò verso il suo secondo e gli disse: «Ecco un pezzo d’uomo che potrei vendere almeno a cento scudi, arrivato sano e senza avarie alla Martinica». Si sedettero, e un marinaio che conosceva un po’ la lingua wolof servì da interprete. Dopo essersi scambiati i primi convenevo­ li di cortesia, un mozzo portò un cestino di bottiglie d’acquavite; bevvero, e il capitano, per mettere Tamango di buonumore, gli donò un bel fiaschino di polvere da sparo in rame, ornato con l’effigie di Napoleone in rilievo. Accettato il regalo con la dovu­ ta riconoscenza, uscirono dalla capanna, si sedettero all’ombra davanti alle bottiglie d’acquavite e Tamango diede il segnale per far arrivare gli schiavi che voleva vendere. Apparvero su una lunga fila, i corpi curvi dalla fatica e dal­ lo spavento, ciascuno con al collo una forca lunga più di sei pie­ di, le cui due punte erano riunite dietro la nuca con una sbarra di legno. Quando ci si deve mettere in marcia uno dei condu­ centi prende sulle sue spalle il manico della forca del primo schiavo; questo schiavo si carica della forca dell’uomo che im­ mediatamente lo segue; il secondo porta la forca del terzo schiavo, e così gli altri. Se occorre fermarsi, il capofila pianta in terra l’estremità aguzza della sua forca e tutta la colonna si fer­ ma. Si può facilmente comprendere che non si può pensare di fuggire quando si ha attaccato al collo un grosso bastone di sei piedi di lunghezza. Davanti a ogni schiavo maschio o femmina che gli passava da­ vanti il capitano alzava le spalle, trovava gli uomini gracili, le don­ ne troppo vecchie o troppo giovani e si lamentava dell’imbastar­ dimento della razza negra. «Tutto sta degenerando,» diceva. «Un tempo era ben diverso. Le donne erano alte cinque piedi e sei pollici, e quattro uomini

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avrebbero rovesciato da soli l’argano di una fregata per levare l’ancora maestra». Tuttavia, mentre criticava, faceva una prima scelta dei negri più robusti e belli. Quelli li poteva pagare al solito prezzo, ma per il resto, chiedeva un forte sconto. Tamango, da parte sua, difen­ deva i propri interessi, vantava la mercanzia, parlava della scarsità degli uomini e dei pericoli della tratta. Concluse domandando un prezzo, non so quale, per gli schiavi che il capitano bianco vole­ va caricare a bordo. Appena l’interprete ebbe tradotto in francese la proposta di Tamango, Ledoux cadde all’indietro per la sorpresa e l’indigna­ zione; poi, mormorando qualche orrenda imprecazione, si alzò come per rompere ogni trattativa con un uomo così irragione­ vole. Allora Tamango lo trattenne; riuscì a fatica a farlo rimette­ re seduto. Venne aperta un’altra bottiglia e la discussione rico­ minciò. Fu la volta del negro a trovare folli e stravaganti le pro­ poste del bianco. Gridarono, discussero a lungo, bevvero ac­ quavite a profusione; ma l’acquavite produsse effetti diversi sul­ le due parti contraenti. Più il francese beveva e più riduceva le sue offerte, più l’africano beveva e più diminuiva le sue pretese. Così, alla fine del cestino, si trovarono d’accordo. In cambio di centosessanta schiavi furono offerte cattive tele di cotone, pol­ vere, pietre focaie, tre barili d’acquavite, cinquanta fucili mal ri­ parati. Il capitano, per concludere la tratta, strinse la mano del negro quasi del tutto ebbro, e così gli schiavi furono consegna­ ti ai marinai francesi, che si affrettarono a togliere loro le forche di legno in cambio delle costrizioni e delle manette di ferro; co­ sa che dimostra la superiorità della civiltà europea. Rimanevano ancora una trentina di schiavi: erano bambini, vecchi, donne inferme. La nave era piena. Tamango non sapeva che farne di questi scarti e offrì al capita­ no di venderglieli per una bottiglia d’acquavite a pezzo. L’offerta era allettante. Ledoux si ricordò che alla rappresentazione dei Ve­ spri siciliani'0 a Nantes aveva visto un buon numero di persone grandi e grosse entrare in una platea già piena e riuscire anche a 10 [Les Vêpres siciliennes, tragedia di Casimir Delavigne, andò in scena per la prima volta nel 1819, riscuotendo un grande successo].

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sedersi in virtù della comprimibilità del corpo umano. Dei trenta schiavi scelse i venti più snelli. Allora Tamango chiese per ciascuno dei dieci che rimane­ vano non più di un bicchiere d’acquavite. Ledoux pensò che i bambini non pagano e non occupano che metà spazio nelle vetture pubbliche. Prese dunque tre bambini; ma dichiarò che non voleva caricarsi più di un solo negro. Tamango, vedendo che gli restavano ancora sette schiavi, toccò il fucile e prese la mira su una donna che veniva per prima: era la madre dei tre bambini. «Comprala», disse al bianco, «o la uccido; un bicchierino d’ac­ quavite o sparo». «E cosa diavolo vuoi che me ne faccia?», rispose Ledoux. Tamango fece fuoco e la schiava cadde morta a terra. «Sotto un altro», esclamò Tamango, mirando a un vecchio tut­ to malridotto: «un bicchiere d’acquavite, o...». Una delle mogli gli sviò il braccio, e il colpo partì a caso. Ella aveva appena riconosciuto nel vecchio che il marito stava per uc­ cidere un griot" o stregone, che le aveva predetto che sarebbe di­ ventata regina. Tamango, reso furioso dall’acquavite, non si controllò più ve­ dendo che ci si opponeva alla sua volontà. Batté rudemente la moglie con il calcio del fucile; poi girandosi verso Ledoux: «Tieni», disse, «ti regalo questa donna». Era carina. Ledoux la guardò sorridendo, poi la prese per mano: «Troverò dove sistemarla», disse. L’interprete era una persona umana. Donò una tabacchiera di cartone a Tamango e gli chiese i sei schiavi che rimanevano. Li li­ berò dalle forche e permise loro di andarsene dove volevano. Co­ sì si salvarono, chi qua, chi là, molto imbarazzati di ritornare nei loro paesi a duecento leghe dalla costa. Il capitano disse addio a Tamango e si occupò di far imbarca­ re il suo cargo al più presto. Non era prudente rimanere a lungo nel fiume; gli incrociatori potevano ricomparire e voleva salpare l’indomani. Quanto a Tamango, si distese sull’erba, all’ombra, e dormì per smaltire la sbornia. " [In effetti il griot designa un membro della casta dei poeti-musicisti, depositari del­ la tradizione orale].

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Quando si risvegliò, il vascello aveva già alzato le vele e di­ scendeva il fiume. Tamango, con la testa ancora confusa dai ba­ gordi del giorno prima, chiese di sua moglie Ayché. Gli rispose­ ro che aveva avuto la sfortuna di dispiacergli e che l’aveva regala­ ta al capitano bianco, il quale l’aveva condotta a bordo. A questa notizia, Tamango, stupefatto, si batté la testa, poi prese il fucile, e dato che il fiume faceva parecchie svolte prima di arrivare al ma­ re, corse attraverso la strada più diretta a una piccola ansa, lonta­ na dalla foce di una mezza lega. Là sperava di trovare una scia­ luppa con la quale avrebbe potuto raggiungere il brigantino, di cui le sinuosità del fiume dovevano ritardare il cammino. Non si sbagliava: in effetti, ebbe il tempo di gettarsi in una lancia e di rag­ giungere la nave negriera. Ledoux fu sorpreso nel vederlo, ma ancor di più nel sentirgli richiedere indietro la moglie. «Cosa donata non ritorna più», rispose. E gli girò le spalle. Il negro insistette, offrendo di restituirgli una parte degli og­ getti che aveva ricevuto in cambio degli schiavi. Il capitano si mi­ se a ridere, disse che Ayché era una donna molto buona e che la voleva tenere. Allora il povero Tamango versò un torrente di la­ crime, ed emise grida di dolore così acute come quelle di un mal­ capitato che subisce un’operazione chirurgica. Ora si rotolava sul ponte chiamando la sua cara Ayché, ora si batteva la testa contro le tavole, come per uccidersi. Sempre impassibile, il capitano, mo­ strandogli la riva, gli faceva cenno che per lui era giunto il mo­ mento di andarsene; ma Tamango insisteva. Gli offrì persino le sue spalline d’oro, il fucile e la sciabola. Fu tutto inutile. Durante questo disputa, il luogotenente della Speranza disse al capitano: «Questa notte ci sono morti tre schiavi, abbiamo posto. Per­ ché non ci prendiamo questo vigoroso furfante, che vale da solo più dei tre morti?». Ledoux rifletté che avrebbe venduto Taman­ go a ben mille scudi; che il viaggio, che si annunciava propizio per lui, sarebbe probabilmente stato l’ultimo; che, infine, aveva fatto la sua fortuna e che, rinunciando al commercio di schiavi, non gli importava di lasciare sulla costa della Guinea una buona o cattiva reputazione. Del resto, poi, la riva era deserta, e il guerriero afri­ 39

cano completamente alla sua mercé. Non si trattava che di por­ targli via le armi, perché sarebbe stato pericoloso mettergli le ma­ ni addosso mentre le aveva ancora in suo possesso. Ledoux, allo­ ra, gli chiese il fucile, come per esaminarlo e assicurarsi che ben valeva la bella Ayché. Facendo scattare la molla, ebbe cura di la­ sciar cadere la polvere del detonatore. Intanto il luogotenente, da parte sua, maneggiava la sciabola; e mentre Tamango si trovava così disarmato, due vigorosi marinai si gettarono su di lui, lo fe­ cero cadere riverso sulla schiena, e si presero la briga di incate­ narlo. La resistenza del negro fu eroica. Ritornato in sé dopo la prima sorpresa, e malgrado lo svantaggio della sua posizione, lottò a lungo con i due marinai. Grazie alla sua forza prodigiosa riuscì a rialzarsi. Con un pugno atterrò l’uomo che lo teneva al colletto; lasciò un pezzo del suo vestito tra le mani dell’altro ma­ rinaio e si slanciò come una furia sul luogotenente per afferrare la sciabola. Questi lo colpì alla testa e gli procurò una ferita larga, ma poco profonda. Tamango cadde una seconda volta. Subito gli furono legati stretti i piedi e le mani. Mentre si difendeva, emet­ teva grida di rabbia e si agitava come un cinghiale preso nella trappola; quando tuttavia si rese conto che ogni resistenza era inutile chiuse gli occhi e non fece più alcun movimento. Solo il suo respiro forte e affannato provava che era ancora vivo. «Perbacco!», esclamò il capitano Ledoux, «i negri che ha ven­ duto rideranno di cuore vedendo anche lui schiavo. E così si ren­ deranno conto che la Provvidenza esiste». Il povero Tamango perdeva molto sangue. Il caritatevole in­ terprete che il giorno prima aveva salvato la vita ai sei schiavi gli si avvicinò, gli fasciò la ferita e gli indirizzò qualche parola di consolazione. Quello che gli disse, non lo so. Il negro rimase im­ mobile, come un cadavere. Ci vollero due marinai per portarlo come un fagotto sull’interporne, al posto che gli era stato desti­ nato. Per due giorni non volle né bere né mangiare; lo si vide ap­ pena aprire gli occhi. I suoi compagni di cattività, un tempo suoi prigionieri, lo videro comparire in mezzo a loro con una stupita meraviglia. Tale era il timore che ancora ispirava che nessuno osò insultarlo per la disgrazia che aveva loro causato. Il vascello, favorito da un buon vento di terra, si allontanava rapidamente dalla costa africana. Il capitano, senza più timore 40

dell’incrociatore inglese, pensava solo agli enormi guadagni che lo attendevano nelle colonie verso le quali si stava dirigendo. Il suo legno d’ebano si manteneva senza avarie. Nessuna malattia contagiosa. Solo dodici negri, i più deboli, erano morti per il caldo: una sciocchezza. Per far soffrire meno possibile al suo cargo umano le fatiche della traversata si premurava di far sali­ re sul ponte i suoi schiavi tutti i giorni. Un terzo dei malcapita­ ti a turno aveva un’ora per fare provvista d’aria per tutta la gior­ nata. Una parte dell’equipaggio armata fino ai denti per paura di una rivolta li sorvegliava; comunque, si aveva cura di non libe­ rarli mai completamente dai ferri. Talvolta un marinaio che sa­ peva suonare il violino offriva un concerto. Era curioso allora vedere tutte queste facce nere volgersi verso il musicista, abban­ donare gradualmente la loro espressione di stupida disperazio­ ne, ridere della grossa e battere le mani quando le catene glielo permettevano. L’esercizio era necessario alla salute; così una delle pratiche igieniche del capitano Ledoux era di far danzare spesso gli schiavi, così come si fanno scalpitare i cavalli imbar­ cati per una lunga traversata. «Via, ragazzi, ballate, divertitevi», disse il capitano con voce tonante, facendo schioccare un’enorme frusta da postiglione. E così i poveri negri saltavano e ballavano. Per qualche tempo la ferita trattenne Tamango sotto il bocca­ porto. Infine apparve sul ponte; e subito, alzando la testa con fie­ rezza in mezzo alla folla spaurita degli schiavi, gettò un colpo d’occhio triste ma calmo, poi si accucciò, o meglio si lasciò cade­ re sulle tavole del ponte superiore, senza nemmeno preoccuparsi di sistemare i ferri in modo tale che gli fossero meno scomodi. Ledoux, seduto nel castello di poppa, fumava tranquillamente la sua pipa. Accanto a lui, Ayché, priva di ferri, vestita elegante­ mente, di una tela di cotone azzurra, i piedi calzati in graziose pantofole di marocchino, in mano un vassoio pieno di liquori, si teneva pronta a servirgli da bere. Era evidente che svolgeva alte mansioni presso il capitano. Un negro che detestava Tamango gli fece segno di guardare da quella parte. Tamango girò la testa, la vide, emise un grido; e, alzandosi impetuosamente, corse verso il castello di poppa prima che i marinai di guardia avessero potuto opporsi a un’infrazione così grave della disciplina navale. 41

«Ayché», gridò con voce tonante, e Ayché emise un grido di terrore, «credi forse che nel paese dei bianchi non ci sia nessun MAMA-JUMBO?».

I marinai accorsero con i bastoni alzati; ma Tamango, con le braccia incrociate e come insensibile, stava ritornando tranquilla­ mente al suo posto, mentre Ayché, scoppiando in lacrime, sem­ brava pietrificata a quelle misteriose parole. L’interprete spiegò cosa fosse quel terribile MAMA-JUMBO, di cui il solo nome produceva terrore. «È l’orco dei negri», disse. «Quando un uomo teme che sua moglie faccia quello che tante mogli fanno in Francia come in Africa, la minaccia con Marna-Jumbo. Io che vi parlo, ho visto il Marna-Jumbo, e ho capito il trucco; ma i negri..., come sono semplici, non capiscono niente. Figuratevi che una sera, mentre le donne si divertivano a ballare, a fare un folgar, come dicono nel­ la loro lingua, ecco che da un boschetto fitto e scuro si sente una strana musica, senza che si vedesse nessuno suonare; tutti i musi­ cisti erano nascosti nel bosco. C’erano flauti di canna, tamburi di legno, balafons'1 e chitarre fatte con mezze zucche. Tutto questo produceva una melodia da far venire il diavolo in terra. Appena sentirono quell’aria le donne si misero a tremare, volevano sal­ varsi, ma i mariti le trattenevano; sapevano bene quello che le mi­ nacciava. Di colpo uscì dal bosco una grande figura bianca, alta come il nostro albero maestro, con una testa grande come un moggio, gli occhi larghi come cubie” e una bocca come quella del diavolo con il fuoco dentro. Camminava lentamente lentamente; e non andò più lontano di una mezza gomena1412dal * bosco. Le donne gridavano: “Ecco Marna-Jumbo!”. Sbraitavano come ven­ ditrici di ostriche. Allora i mariti dicevano: “Andiamo, furfanti, diteci se siete state sagge; se mentite, Marna-Jumbo è qui per mangiarvi crude”. Ce n’erano molte sempliciotte che confessava­ no, e allora i mariti le battevano di santa ragione». «E chi è allora questa figura bianca, questo Marna-Jumbo?», domandò il capitano. 12 [Xilofoni]. II [Foro nella murata di una nave per il passaggio della catena dell’ancora]. 14 [Grosso cavo di canapa usato per ormeggiare e rimorchiare le navi].

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«Ebbene, è un buffone vestito con un grande drappo bianco, al posto della testa una zucca cava e guarnita di una candela accesa in cima a un grande bastone. Non è niente di ingegnoso, e non ci vuo­ le granché per imbrogliare i negri. Con tutto questo, è una buona invenzione Marna-Jumbo, e vorrei che mia moglie ci credesse». «La mia», disse Ledoux, «se non ha paura di Marna-Jumbo, ha paura di Martin-Bâton; del resto, sa come la concerei se mi gio­ casse qualche tiro. Non siamo tolleranti nella famiglia Ledoux, e sebbene abbia un polso solo, funziona ancora bene per una garcette'5. Quanto al vostro buffone laggiù, che parla di Marna-Jum­ bo, ditegli che si comporti bene e che non faccia paura a questa piccola, o gli farò pelare così bene la colonna vertebrale che la pel­ le, da nera, diventerà rossa come roastbeef crudo». A queste parole il capitano scese nella sua cabina, fece venire Ayché e cercò di consolarla; ma né le carezze né i colpi - perché alla fine si perde la pazienza - resero trattabile la bella negra; fiot­ ti di lacrime sgorgavano dai suoi occhi. Il capitano risalì sul pon­ te, di cattivo umore, e rimproverò l’ufficiale di quarto sulla ma­ novra che comandava in quel momento. La notte, mentre quasi tutto l’equipaggio dormiva sonni profondi, gli uomini di guardia sentirono prima un canto grave, solenne, lugubre, che proveniva dall’interponte, poi un grido di donna orribilmente acuto. Subito dopo, la grossa voce di Ledoux che bestemmiava e minacciava e il rumore della sua terribile fru­ sta echeggiarono per tutto il bastimento. Un istante dopo, tornò il silenzio. L’indomani, Tamango apparve sul ponte con il volto ferito, ma l’aria così fiera, molto più risoluta di prima. Appena Ayché l’ebbe scorto lasciare il castello di poppa dov’era seduta accanto al capitano, corse rapidamente verso Ta­ mango, s’inginocchiò davanti a lui, e gli disse con accenti di di­ sperazione concentrata: «Perdonami, Tamango, perdonami!». Tamango la guardò fisso per un minuto, poi vedendo che l’in­ terprete era lontano, disse: «Una lima!». 15 [Antico termine marinaresco: piccole trecce di corda con cui si infliggevano le pu­ nizioni].

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E si distese sul ponte superiore girando le spalle ad Ayché. Il capitano la rimproverò aspramente, le diede anche qualche schiaffo e le vietò di parlare al suo ex marito; ma non poteva im­ maginare il senso delle brevi parole che si erano scambiati, e non fece alcuna domanda al riguardo. Intanto Tamango, rinchiuso con gli altri schiavi, li esortava giorno e notte a tentare uno sforzo generoso per recuperare la li­ bertà. Parlava loro dell’esiguo numero dei bianchi, e faceva nota­ re la crescente negligenza delle guardie; inoltre, senza spiegarsi chiaramente, diceva che sarebbe stato in grado di ricondurli al lo­ ro paese, vantava la sua conoscenza di scienze occulte, di cui i ne­ gri sono appassionati, e minacciava la vendetta del diavolo a co­ loro che si fossero rifiutati di aiutarlo nella sua impresa. Nelle sue arringhe si serviva solo del dialetto àéifulbé'b, che la maggior par­ te degli schiavi conosceva, ma che l’interprete non capiva. La re­ putazione dell’oratore, l’abitudine che avevano gli schiavi di te­ mere e obbedire lo aiutarono meravigliosamente nella sua elo­ quenza, e i negri lo misero alle strette per fissare il giorno della lo­ ro liberazione, ancor prima che lui stesso si fosse ritenuto pron­ to per effettuarla. Rispose vagamente ai congiurati che non era ancora il momento e che il diavolo, che gli appariva in sogno, non l’aveva ancora avvertito, ma che si tenessero pronti al primo se­ gnale. Non trascurava nessuna occasione per sperimentare la sor­ veglianza dei guardiani. Una volta, un marinaio, lasciando il fuci­ le appoggiato ai capidibanda, si divertiva a osservare un gruppo di pesci volanti che seguivano il vascello. Tamango prese il fucile e si mise a maneggiarlo, imitando con gesti grotteschi i movi­ menti che aveva visto fare a dei marinai che si esercitavano. In un istante il fucile gli venne ritirato; ma intanto aveva visto che avrebbe potuto toccare un’arma senza suscitare immediati so­ spetti e, quando fosse giunto il momento di servirsene, ben ardi­ to colui che avrebbe provato a strapparglielo dalle mani. Un giorno Ayché gli gettò una galletta, facendogli un cenno che solo lui comprese. Il biscotto conteneva una limetta: da que­ sto strumento dipendeva la riuscita del complotto. Tamango si guardò bene dal mostrarla subito ai suoi compagni; ma quando [Popolazione dell’Africa occidentale].

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giunse la notte iniziò a sussurrare parole incomprensibili accom­ pagnate da gesti bizzarri. Gradualmente si animò fino a lanciare delle grida. Nel sentire le varie intonazioni della sua voce si pote­ va dire che avesse intrapreso un’animata conversazione con un essere invisibile. Tutti gli schiavi tremavano, non dubitando affat­ to che il diavolo in quel momento si trovasse in mezzo a loro. Tamango pose fine a questa scena lanciando un grido di gioia. «Compagni», esclamò, «lo spirito che ho evocato alla fine mi ha accordato ciò che mi aveva promesso e ho nelle mani lo stru­ mento della nostra liberazione. Ora dovete solo farvi un po’ di coraggio per rendervi liberi». Fece toccare la lima ai suoi vicini e quell’astuzia, grossolana com’era, trovò credito presso uomini ancor più grossolani. Dopo una lunga attesa arrivò il giorno della vendetta e della li­ bertà. I congiurati, legati fra loro da un giuramento solenne, ave­ vano stabilito il piano dopo una maturata deliberazione. I più de­ terminati, con Tamango in testa, avrebbero dovuto salire sul pon­ te e impadronirsi delle armi dei guardiani; altri sarebbero andati nella cabina del capitano per prendere i fucili che si trovavano là. Coloro che fossero riusciti a limare i ferri avrebbero dovuto dare inizio all’attacco; ma, nonostante il lavoro ostinato di più notti, la maggior parte degli schiavi era ancora incapace di prendere parte attiva all’operazione. Così tre negri robusti avevano il compito di uccidere l’uomo che aveva in tasca la chiave dei ferri e liberare su­ bito dopo i compagni incatenati. Quel giorno, il capitano Ledoux era di buonumore; contraria­ mente alle sue abitudini graziò un mozzo che aveva meritato la fru­ sta. Fece i complimenti all’ufficiale di quarto per la sua manovra, dichiarò all’equipaggio che era contento, e annunciò che in Marti­ nica, dove sarebbero arrivati tra breve, tutti loro avrebbero ricevu­ to una gratifica. I marinai, cullandosi in questa piacevole prospetti­ va, si figuravano il modo in cui spendere l’inatteso denaro. Pensa­ vano all’acquavite e alle donne di colore della Martinica, mentre Tamango e gli altri congiurati si fecero condurre sul ponte. Questi avevano avuto cura di limare i ferri in modo tale che non sembrassero tagliati e che il mimino sforzo bastasse per spez­ zarli. Del resto, li facevano risuonare così bene, che a sentirli si sa­ rebbe detto che portavano un peso doppio. Dopo aver respirato 45

l’aria per un po’, si presero tutti per mano e si misero a ballare, mentre Tamango intonava il canto di guerra della sua famiglia17, che un tempo cantava prima di andare a combattere. Dopo che eb­ bero danzato un po’, Tamango, come spossato dalla fatica, si di­ stese tutto lungo ai piedi di un marinaio, che si appoggiava con in­ dolenza contro i capodibanda della nave; tutti i congiurati fecero altrettanto. Così che ogni marinaio era circondato da più negri. Improvvisamente Tamango, che aveva appena rotto dolce­ mente i suoi ferri, lanciò un forte grido, che doveva servire da se­ gnale, tirò violentemente per le gambe il marinaio che si trovava accanto a lui, lo rovesciò, e mettendogli i piedi sul ventre, gli strappò il fucile e se ne servì per uccidere l’ufficiale di quarto. Nel­ lo stesso momento ogni marinaio di guardia venne assalito, disar­ mato e subito scannato. Da ogni parte si alzò un grido di guerra. Il caposquadra, che aveva la chiave dei ferri, soccombette per pri­ mo. Allora una folla di negri inondò il ponte superiore. Quelli che non potevano trovare armi presero le sbarre dell’argano o i remi della scialuppa. Da quel momento l’equipaggio europeo fu perdu­ to. Alcuni marinai si lanciarono sul castello di poppa; ma manca­ vano d’armi e di risoluzione. Ledoux era ancora vivo e non aveva perduto affatto il suo coraggio. Accorgendosi che Tamango era l’anima della congiura, si augurò che se fosse riuscito ad ucciderlo avrebbe avuto la meglio sui suoi complici. Dunque si slanciò con­ tro di lui con la sciabola in mano, chiamandolo a gran voce. Subi­ to Tamango gli si precipitò contro. Teneva un fucile per la punta della canna e se ne serviva come una mazza. I due capi si raggiun­ sero su una delle passerelle, lo stretto passaggio che unisce il ca­ stello di prua a quello di poppa. Tamango colpì per primo. Con un lieve movimento del corpo il bianco schivò il colpo. Il calcio, ca­ dendo con forza sulle tavole, si ruppe, e il contraccolpo fu così violento, che il fucile sfuggì dalle mani di Tamango. Era senza di­ fesa, e Ledoux, con un sorriso diabolico di gioia, alzava il braccio e stava per colpirlo; ma Tamango era agile come una delle pantere del suo paese. Si lanciò tra le braccia dell’avversario, e gli afferrò la mano in cui teneva la sciabola. L’uno si sforza di trattenere l’arma, l’altro di strappargliela. In questa lotta furibonda, cadono entramOgni capitano negro ha il suo.

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bi; ma l’africano ha la peggio. Allora, senza scoraggiarsi e strin­ gendo l’avversario con tutta la sua forza, Tamango lo azzannò al­ la gola con una tale violenza che il sangue fiottò come per il mor­ so di un leone. La sciabola sfuggì dalla mano indebolita del capi­ tano. Tamango se ne accorse; rialzandosi, con la bocca sanguinan­ te e lanciando un grido di trionfo, raddoppiò i colpi sul nemico già mezzo morto. La vittoria non era più in dubbio. I pochi marinai rimasti tentarono di implorare la pietà dei rivoltosi; ma tutti, per­ fino l’interprete che non aveva mai fatto loro del male, furono massacrati senza pietà. Il luogotenente morì con onore. Si era riti­ rato sulla poppa, vicino uno dei piccoli cannoni che girano su un perno, e che si caricano di mitraglia. Con la mano sinistra, puntò l’arma e con la destra, armato di sciabola, si difese così bene da at­ tirare una folla di negri. Allora, premendo il grilletto del cannone, provocò nel mezzo di quella massa compatta una larga strada se­ minata di morti e feriti. Un istante dopo venne fatto a pezzi. Quando anche il cadavere dell’ultimo bianco, smembrato e ta­ gliato a pezzi, fu gettato in mare, i negri, sazi di vendetta, alzaro­ no gli occhi alle vele della nave, che sempre gonfiate da un vento tresco, sembravano ancora obbedire ai loro oppressori e condur­ re i vincitori, malgrado il trionfo, verso la terra della schiavitù. «Non abbiamo ancora finito», pensarono con tristezza; «e questo grande feticcio dei bianchi vorrebbe ricondurci nel nostro paese, noi che abbiamo versato il sangue dei suoi capi?». Alcuni dissero che Tamango avrebbe saputo farlo obbedire. Subito venne chiamato Tamango a gran voce. Non si affrettò a mostrarsi. Lo trovarono nella cabina di pop­ pa, con una mano appoggiata alla sciabola sanguinante del capi­ tano, l’altra la tendeva con aria distratta a sua moglie Ayché, che lo baciava inginocchiata davanti a lui. La gioia di aver vinto non sminuiva la cupa inquietudine che si intuiva in tutta la sua per­ sona. Meno rozzo degli altri, avvertiva meglio la difficoltà della sua posizione. Apparve infine sul ponte superiore, ostentando una calma che non provava. Incalzato da cento voci confuse che gli dicevano di condurre la corsa del vascello, si avvicinò al timone a passi lenti, come per ritardare un po’ il momento, che avrebbe deciso, per sé e per gli altri, l’entità del suo potere. 47

Per tutto il vascello, non c’era negro, per sciocco che fosse, che non avesse osservato l’influenza che una certa ruota e la sca­ tola posta di fronte esercitavano sui movimenti della nave; ma, at­ torno a questo meccanismo, c’era sempre un grande mistero. Tamango esaminò la bussola a lungo muovendo le labbra, come se leggesse i caratteri che vedeva tracciati; poi si portò la mano alla fronte, e assunse l’attitudine pensosa di un uomo che fa un calco­ lo con la testa. Tutti i negri gli stavano attorno, la bocca spalanca­ ta, gli occhi sgranati, seguendo con ansia il più piccolo gesto. In­ fine, con quel misto di timore e confidenza che dà l’ignoranza, impresse un violento movimento alla ruota del timone. Come un focoso corsiero che si impenna agli speroni di un cavaliere imprudente, il bel brigantino La Speranza sobbalzò sull’onda a questa inaudita manovra. Si sarebbe detto che, indi­ gnato, volesse inabissarsi insieme al suo ignorante pilota. Es­ sendosi bruscamente spezzato il rapporto necessario tra la dire­ zione delle vele e quella del timone, il vascello si inclinò con una tale violenza, che si poteva dire stesse per inabissarsi. I lunghi pennoni si immersero in mare. Parecchi uomini furono rove­ sciati; qualcuno cadde fuori bordo. Ben presto il vascello si rialzò fieramente contro l’ondata, come per lottare ancora una volta con la distruzione. Il vento raddoppiò la forza e, improv­ visamente, con un rumore terribile, i due alberi maestri cadde­ ro, spezzati ad alcuni piedi dal ponte, coprendo la tolda di rot­ tami e di una pesante rete di cordami. I negri spaventati fuggivano sotto i boccaporti lanciando gri­ da di terrore; ma, dato che il vento non trovava più presa, il va­ scello si rialzò e si lasciò dolcemente sballottare dai flutti. Allora i negri più arditi risalirono sul ponte superiore e lo liberarono dei rottami che lo ostruivano. Tamango rimaneva immobile, il gomi­ to appoggiato sulla chiesuola e nascondendo il viso sotto il brac­ cio piegato. Ayché era vicino a lui, ma non osava rivolgergli la pa­ rola. A poco a poco i negri si avvicinarono; si levò un mormorio, che presto si tramutò in un uragano di rimproveri e ingiurie. «Perfido! impostore!», gridarono, «sei tu la causa di tutti i no­ stri mali, tu ci hai venduto ai bianchi, tu ci hai costretto a rivol­ tarci contro di loro. Avevi vantato il tuo sapere, ci avevi promes­ so di riportarci nel nostro paese. Ti abbiamo creduto, pazzi che 48

siamo! ed ecco che siamo stati quasi sul punto di morire perché tu hai offeso il feticcio dei bianchi!». Tamango rialzò la testa con fierezza e i negri che lo attornia­ vano indietreggiarono intimiditi. Raccolse due fucili, fece segno alla moglie di seguirlo, attraversò la folla che si apriva davanti a lui e si diresse verso la prua del vascello. Là, si costruì come un bastione con botti vuote e tavole; poi si sedette nel mezzo di que­ sta specie di trincea, da cui uscivano minacciose le baionette dei due fucili. Lo lasciarono tranquillo. Tra i rivoltosi alcuni piange­ vano, altri alzavano le mani al cielo invocando i loro feticci e quelli dei bianchi; questi, in ginocchio davanti alla bussola, di cui ammiravano il movimento continuo, la supplicavano di ricon­ durli nel loro paese, quelli si distesero sul ponte superiore in un cupo abbattimento. In mezzo a questi disperati, si devono imma­ ginare donne e bambini che urlavano di terrore, e una ventina di feriti che chiedevano aiuto senza che nessuno pensasse a loro. Improvvisamente un negro comparve sul ponte superiore: il suo viso era radioso. Annunciava di aver appena scoperto il luo­ go dove i bianchi conservavano l’acquavite; la sua gioia e il suo contegno ben provavano che l’aveva già assaggiata. Questa noti­ zia arrestò per un istante le grida dei disgraziati. Corsero alla cambusa e si scolarono il liquore. Un’ora dopo li si vide saltare e ridere sul ponte, abbandonarsi a ogni più brutale stravaganza da­ ta dall’ebbrezza. Le loro danze e i loro canti erano accompagnati dai gemiti e dai singhiozzi dei feriti. Così trascorsero il resto del giorno e tutta la notte. Il mattino, al risveglio, nuova disperazione. Durante la notte, un gran numero di feriti era morto. Il vascello fluttuava carico di cadaveri. Il mare era grosso e il cielo brumoso. Si riunì un consi­ glio. Alcuni apprendisti nell’arte magica, che non avevano osato parlare del loro sapere davanti a Tamango, offrirono a turno i propri servigi. Si provarono parecchi potenti scongiuri. A ogni tentativo andato a male, aumentava lo scoraggiamento. Infine si tornò a parlare di Tamango, che ancora non era uscito dalla sua trincea. Dopotutto, era il più saggio di loro, e solo lui poteva ti­ rarli fuori dall’orribile situazione in cui li aveva messi. Un vecchio gli si avvicinò, proponendogli patti di pace, e lo pregò di venire a dare il suo consiglio; ma Tamango, inflessibile come Coriolano, 49

rimase sordo a tutte le preghiere. La notte, in mezzo alla confu­ sione aveva fatto scorta di gallette e carne salata. Sembrava deter­ minato a vivere solo nel suo ritiro. Rimaneva l’acquavite. Almeno faceva dimenticare il mare e la schiavitù e la morte vicina. Si dorme, si sogna l’Africa, si vedono foreste di acacie, di capanne coperte di paglia, di baobab la cui ombra copre tutto un villaggio. L’orgia del giorno prima ricominciò. Trascorsero così parecchi giorni. Gridare, piangere, strapparsi i capelli, poi ubriacarsi e dor­ mire, così era la loro vita. Molti morirono a forza di bere, altri si gettarono in mare o si pugnalarono. Una mattina, Tamango uscì dalla sua fortezza e avanzò fino al troncone dell’albero maestro. «Schiavi», disse, «mi è apparso in sogno lo Spirito e mi ha ri­ velato il modo per tirarvi fuori da qui e ricondurvi nel vostro pae­ se. La vostra ingratitudine meriterebbe che io vi abbandonassi, ma ho pietà delle donne e dei bambini che gridano. Vi perdono: ascoltatemi». Tutti i negri abbassarono la testa con rispetto e si strinsero a lui. «I bianchi», proseguì Tamango, «conoscono solo le parole po­ tenti che fanno muovere queste grandi case di legno; ma noi pos­ siamo dirigere a nostro piacimento queste barche leggere che so­ migliano a quelle del nostro paese». Mostrava la scialuppa e le altre imbarcazioni del brigantino. «Riempiamole di viveri, montiamoci dentro e remiamo nella direzione del vento; il mio maestro e il vostro lo farà soffiare ver­ so il nostro paese». Gli credettero. Mai progetto fu più insensato. Ignorando l’uso della bussola, e sotto un cielo sconosciuto, non potevano che pro­ cedere a caso. Secondo le sue idee, immaginava che remando tut­ to dritto davanti a sé, alla fine avrebbe trovato qualche terra abita­ ta dai negri, perché i negri possiedono la terra, e i bianchi vivono sui loro vascelli. E quello che aveva sentito dire da sua madre. Presto fu tutto pronto per l’imbarco; ma in grado di navigare c’erano solo una scialuppa e un canotto. Era troppo poco per contenere circa ottanta negri ancora vivi. Dovevano abbandona­ re tutti i feriti e i malati. La maggior parte chiese di essere uccisa prima di separarsi da loro. 50

Le due imbarcazioni, messe in acqua con infinite difficoltà e ca­ ricate oltre misura, lasciarono il vascello con un mare che sciabor­ dava e che a ogni istante minacciava di inabissarli. Il canotto si al­ lontanò per primo. Tamango con Ayché aveva preso posto nella scialuppa che, molto più pesante e carica, rimase indietro. Si pote­ vano ancora sentire le grida di alcuni disgraziati abbandonati a bordo del brigantino, quando un’onda abbastanza forte colpì la scialuppa di traverso e la riempì d’acqua. In meno di un minuto colò a picco. Il canotto vide il disastro e i rematori raddoppiarono gli sforzi per paura di dover raccogliere qualche naufrago. Quasi tutti quelli che erano saliti sulla scialuppa morirono annegati. Sol­ tanto una dozzina riuscì a raggiungere il vascello. Tra questi c’era­ no Tamango e Ayché. Quando il sole tramontò, videro scompari­ re il canotto dietro l’orizzonte, ma quello che gli successe non si sa. Perché dovrei affaticare il lettore con la disgustosa descrizione della tortura della fame? Quasi venti persone in uno spazio ri­ stretto, ora sballottate da un mare in tempesta, ora bruciate da un sole ardente, si litigavano tutti i giorni i miseri resti delle loro provviste. Ogni morso di galletta costava una guerra, e il debole moriva non perché lo uccideva il forte, ma perché lo lasciava mo­ rire. In capo a qualche giorno a bordo del brigantino La Speran­ za non rimasero in vita che Tamango e Ayché. Una notte, il mare era agitato, il vento soffiava con violenza, e l’oscurità era così profonda che dalla poppa non si poteva vedere la prua della nave. Ayché era distesa su un materasso nella cabina del capitano e Tamango era assiso ai suoi piedi. Tutti e due erano da tanto in silenzio. «Tamango», esclamò alla fine Ayché «tutto quello che tu stai soffrendo, tu lo soffri a causa mia...». «Non soffro», rispose bruscamente. E gettò sul materasso, a fianco della moglie, la metà di una galletta che gli restava. «Prendila tu», gli disse rifiutando con gentilezza la galletta, «non ho più fame. Del resto perché mangiare? Non è giunta la mia ora?». Tamango si alzò senza rispondere, salì barcollante sul ponte superiore e si sedette ai piedi di un albero rotto. La testa reclina­ ta sul petto, fischiava la melodia della sua famiglia. Improwisa51

mente, tra il rumore del vento e del mare, si sentì un grido; ap­ parve una luce. Si sentirono altre grida, e un grosso vascello nero si accostò rapidamente al suo; così vicino che i pennoni passaro­ no al di sopra della sua testa. Vide solo due persone illuminate dalla luce di una lanterna sospesa a un albero. Questi lanciarono ancora un grido, e così come la loro nave, portata dal vento, scomparvero nell’oscurità. Senza dubbio gli uomini di guardia avevano visto il vascello naufragato; ma il cattivo tempo impedi­ va loro di virare di bordo. Un istante dopo, Tamango vide la fiamma di un cannone e sentì il rumore dell’esplosione; poi vide la fiamma di un altro cannone, ma non udì più alcun rumore; poi non vide più niente. L’indomani, nemmeno una vela compariva all’orizzonte. Tamango si riaccucciò sul suo materasso e chiuse gli occhi. Sua moglie Ayché era già morta nella notte. Non so quanto tempo dopo, una fregata inglese, La Bellona, scorse un bastimento disalberato e apparentemente abbandonato dal suo equipaggio. Una scialuppa lo abbordò e furono trovati una negra morta e un negro così scarnificato e così magro, che sembrava una mummia. Era privo di sensi, ma aveva ancora un alito di vita. Il chirurgo se ne impadronì, lo curò, e quando La Bellona arrivò a Kingston18, Tamango era in perfetta salute. Gli chiesero di raccontare la sua storia. Disse quello che sapeva. I piantatori dell’isola volevano impiccarlo come un negro ribelle, ma il governatore, che era una persona umana, si interessò a lui trovando il suo caso giustificabile poiché, dopo tutto, si era trat­ tato di legittima difesa; e poi coloro che aveva ucciso erano solo francesi. Lo trattarono come si trattano i negri a bordo di un va­ scello negriero che viene confiscato. Gli concessero la libertà; cioè 10 fecero lavorare per il governo; ma riceveva sei soldi al giorno e 11 vitto. Era un gran bell’uomo. Il colonnello del 75° lo vide e lo prese per farne un cimbalaio nella banda del suo reggimento. Im­ parò un po’ d’inglese; ma non parlava mai. In compenso, beveva troppo rum e tafia19. Morì in ospedale d’infiammazione al petto. 1829 [Capitale della Giamaica]. [Acquavite fatta con melassa e sciroppo di zucchero di canna].

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La Perla di Toledo Ispirato allo spagnolo

Chi mi può dire se il sole è più bello quando sorge o quando tramonta? Chi mi può dire qual è l’albero più bello tra un olivo e un mandorlo? Chi mi può dire se è più coraggioso un valenciano o un andaluso? Chi mi può dire qual è la donna più bella? «Vi dirò qual è la donna più bella: è Aurora di Vargas, la perla di Toledo». Il Nero Tuzani ha chiesto la sua lancia, ha chiesto il suo scudo: tiene la lancia con la mano destra; lo scudo gli pende al collo. Scen­ de nella stalla, e valuta le sue quaranta giumente una dopo l’altra. Dice: «Berja è la più vigorosa; sulla sua larga groppa porterò la per­ la di Toledo, o, per Allah!, Cordova non mi vedrà mai più». Parte, cavalca, arriva a Toledo, e vicino a Zacatin incontra un vecchio. «Vecchio dalla barba bianca, porta questa lettera a don Guttiere, a don Guttiere di Saldana. Se è un uomo, verrà a com­ battere con me vicino alla fontana di Almami. La perla di Toledo dev’essere solo uno di noi due». E il vecchio ha preso la lettera, l’ha presa e l’ha portata al con­ te di Saldana, che stava giocando a scacchi con la perla di Toledo. Il conte ha letto la lettera, l’ha letta, e con la mano ha battuto sul tavolo così forte che sono caduti tutti i pezzi. Poi si è alzato e ha chiesto la sua lancia e il suo buon cavallo; e la perla si è alzata tut­ ta tremante, perché ha capito che andava a un duello. «Signor Guttiere, don Guttiere Saldana, restate, ve ne prego, e giocate ancora con me». «Non giocherò più a scacchi; vado a gio­ care al gioco delle lance alla fontana di Almami». E i pianti di Au­ 53

rora non poterono fermarlo; perché niente ferma un cavaliere che va a un duello. Allora la perla di Toledo ha preso il suo mantello e, salita sulla mula, è andata alla fontana di Almami. Attorno alla fontana il prato è rosso. Rossa anche l’acqua del­ la fontana; ma non è il sangue di un cristiano che rende rossa l’er­ ba, che rende rossa l’acqua. Il Nero Tuzani è riverso sulla schie­ na: la lancia di don Guttiere si è spezzata nel suo petto, tutto il suo sangue cola a poco a poco. La giumenta Berja lo osserva pian­ gendo, perché non può guarire la ferita del suo padrone. La perla scende dalla mula: «Cavaliere, fatevi coraggio; vivre­ te ancora e sposerete una bella Mora, la mia mano sa guarire le fe­ rite fatte dal mio cavaliere». «O perla così bianca, o perla così bel­ la, strappami questo pezzo di lancia che lacera il mio petto; il freddo dell’acciaio mi ghiaccia e mi paralizza». Ella si avvicina senza diffidenza; ma quello si rianima e con il filo della sciabola sfregia quel viso così bello. 1829

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Il vaso etrusco

Auguste Saint-Clair non era amato in quella che si suole chia­ mare buona società; la ragione principale era che cercava di pia­ cere solo a coloro che piacevano a lui. Ricercava gli uni e fuggiva gli altri. Era distratto e indolente. Una sera, mentre usciva dal Théâtre Italien, la marchesa A*"'* gli chiese come avesse cantato mademoiselle Sontag1. «Sì, madame», rispose Saint-Clair sorri­ dendo piacevolmente e pensando a tutt’altro. Non si poteva at­ tribuire quella ridicola risposta alla sua timidezza, perché si rivol­ geva a un gran signore, a un grand’uomo, e persino a una donna di mondo con la stessa sfacciataggine, come se s’intrattenesse con un suo pari. La marchesa decise che Saint-Clair era un prodigio d’impertinenza e fatuità. Madame B:ilo invitò a cena un lunedì. Gli parlò spesso e lui, uscendo dalla sua casa, dichiarò che non aveva mai incontrato una donna più amabile. Madame B*** accumulava lo spirito in casa degli altri per un mese e poi lo dispensava in una sola sera in casa propria. Saint-Clair la rivide il giovedì della stessa settimana. Que­ sta volta si annoiò un po’. Un’altra visita lo convinse a non ripre­ sentarsi nel suo salotto. Madame B*** dichiarò che Saint-Clair era un giovanotto senza educazione e del peggiore cattivo gusto. Era nato con un cuore tenero e affettuoso; ma nell’età in cui si ricevono troppo facilmente impressioni che durano tutta la vita, la sua sensibilità troppo espansiva gli aveva attirato lo scherno dei [Henriette Sontag (1805-1854) recitò a Parigi al Théâtre Italien].

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compagni. Era fiero, ambizioso; teneva all’opinione altrui come i bambini. Da allora si studiò di nascondere tutte le manifestazio­ ni che giudicava una disonorevole debolezza. Raggiunse il suo scopo: ma la vittoria gli costò cara. Riuscì a celare agli altri le emozioni del suo animo troppo tenero, ma rinchiudendole den­ tro di sé le rese cento volte più crudeli. In società, ottenne la tri­ ste reputazione di uomo insensibile e incurante; e nella solitudi­ ne, la sua inquieta immaginazione gli creò tormenti tanto più do­ lorosi che non avrebbe voluto confidare in segreto a nessuno. È vero che è difficile trovare un amico! «Difficile? Ma è possibile? Sono mai esistiti due uomini che non abbiano avuto segreti uno per l’altro?». Saint-Clair non cre­ deva affatto nell’amicizia, e si vedeva. I giovani di società lo tro­ vavano freddo e riservato. Non chiedeva mai i loro segreti; ma tutti i suoi pensieri e la maggior parte delle sue azioni erano un mistero. I francesi amano parlare di sé e anche Saint-Clair, suo malgrado, era depositario di confidenze. I suoi amici, e questa pa­ rola designa le persone che noi vediamo due volte alla settimana, si lamentavano della sua diffidenza nei loro confronti; in effetti, colui che, senza essere interrogato, ci rende parte di un segreto, generalmente si offende di non conoscere il nostro. Si crede che nell’indiscrezione ci debba essere reciprocità. «È abbottonato fino al mento», diceva un giorno il capo squa­ drone Alphonse de Thémines, «non potrei mai avere la minima confidenza con quel diavolo di Saint-Clair». «Mi sembra un po’ gesuita», riprese Jules Lambert, «qualcuno mi ha dato la sua parola che l’ha incontrato due volte mentre usci­ va da Saint-Sulpice. Nessuno sa quello che pensa. Per quanto mi riguarda, non potrei mai trovarmi a mio agio con lui». Si separarono. Alphonse incontrò Saint-Clair, sul Boulevard des Italiens, che camminava a testa bassa e senza vedere nessuno. Alphonse lo fermò, gli prese il braccio e, prima di arrivare a rue de la Paix, gli aveva raccontato tutta la storia dei suoi amori con madame ***, il cui marito è tanto geloso e brutale. La sera stessa, Jules Lambert, perse il suo denaro a\\’écarté. Si mise a ballare. Ballando, si trovò gomito a gomito con un uomo che, avendo perso tutto il suo denaro, era di pessimo umore. Di qui qualche parola pungente: incontro stabilito. Jules pregò Saint56

Clair di fargli da secondo, e nella stessa occasione, gli chiese in pre­ stito del denaro, che si è sempre dimenticato di restituirgli. Dopo tutto, Saint-Clair era un uomo di buon carattere. I suoi difetti arrecavano danno solo a lui. Era cortese, spesso amabile, raramente noioso. Aveva viaggiato molto, letto molto, e non par­ lava dei suoi viaggi e delle sue letture se non quando richiesto. Era anche alto, ben fatto; il suo volto era nobile e spirituale, quasi sempre troppo serio; ma il suo sorriso era pieno di grazia. Dimenticavo un punto importante. Saint-Clair era sollecito nei confronti di tutte le donne e preferiva la loro conversazione a quella degli uomini. Amava? È la cosa più difficile da dire. Se que­ st’uomo freddo era capace di provare amore, si sapeva soltanto che la graziosa contessa Mathilde de Coursy doveva essere l’og­ getto della sua preferenza. Era una giovane vedova presso la qua­ le lo si vedeva assiduamente. Per pronunciarsi sulla loro intimità si avevano i seguenti indizi: prima di tutto, la gentilezza quasi ce­ rimoniosa di Saint-Clair nei confronti della contessa, e viceversa; poi, la sua ostentazione nel non pronunciare mai il suo nome in società; o, se era obbligato a parlare di lei, mai il minimo elogio; poi, prima che Saint-Clair le fosse presentato, egli amava appas­ sionatamente la musica e la contessa aveva altrettanto gusto per la pittura. Da quando si erano visti, i loro gusti erano mutati. Infi­ ne, essendo andata la contessa alle acque termali l’anno prima, Saint-Clair era andato da lei per sei giorni. Il mio dovere di storico mi obbliga a dichiarare che una notte del mese di luglio, poco prima del sorgere del sole, la porta del parco di una casa di campagna si aprì, e ne uscì un uomo con tut­ te le precauzioni di un ladro che teme di essere sorpreso. Questa casa di campagna apparteneva a madame de Coursy e quell’uomo era Saint-Clair. Una donna, avviluppata in una pelliccia, lo ac­ compagnò fino alla porta, e rimase affacciata per guardarlo anco­ ra a lungo mentre si allontanava scendendo il sentiero che co­ steggiava il muro del parco. Saint-Clair si fermò, gettò attorno a sé uno sguardo circospetto e con la mano fece cenno alla donna di rientrare. La luminosità della notte d’estate gli permetteva di distinguere il suo volto pallido, sempre immobile nello stesso po­ sto. Tornò sui suoi passi, si avvicinò a lei e la strinse teneramente 57

fra le braccia. Voleva invitarla a rientrare, ma aveva ancora cento cose da dirle. La conversazione durava da dieci minuti quando si udì la voce di un contadino che usciva per andare a lavorare nei campi. Viene preso e restituito un bacio, la porta si richiude e Saint-Clair, con un salto, è alla fine del sentiero. Seguiva una via che gli sembrava nota. Ora quasi saltava di gioia, e correva colpendo i cespugli con il suo bastone; ora si fermava o rallentava il passo, guardando il cielo che verso orien­ te si tingeva di porpora. In breve, a vederlo, si sarebbe detto un folle felicissimo d’aver rotto la gabbia. Dopo mezz’ora di cam­ mino, si trovava davanti alla porta di una piccola casa isolata che aveva affittato per la stagione. Aveva la chiave: entrò, poi si gettò su un grande divano e là, lo sguardo fisso, la bocca piega­ ta in un dolce sorriso, pensava, sognava ad occhi aperti. La sua immaginazione si presentava con pensieri di felicità. «Come so­ no felice», si diceva ad ogni istante. «Alla fine l’ho incontrato questo cuore che comprende il mio!... Sì, ho trovato il mio ideale... Ho nello stesso tempo un amico e un’amante... Che carattere!... che animo appassionato!... No, non ha mai amato prima di me...». Ben presto, dato che la vanità si intrufola nelle cose di questo mondo: «È la donna più bella di Parigi», pensa­ va. E la sua immaginazione passava in rassegna tutte le sue gra­ zie. «Mi ha scelto fra tutti. Aveva ammiratori dei più alti gradi della società. Quel colonnello degli ussari così bello, così corag­ gioso, e non troppo vanitoso; quel giovane artista che fa grazio­ si acquarelli e recita bene i proverbi; quel Lovelace russo che ha visto i Balcani e ha servito sotto Diebitch2; soprattutto Camille T***, che sicuramente ha molto spirito, bei modi, un bel colpo di sciabola sulla fronte... li ha respinti tutti. E io!...». Ritorna­ va così il ritornello: «Come sono felice! Come sono felice!». E si alzava, apriva la finestra, perché non riusciva a respirare; poi camminava, poi si rotolava sul divano. Un amante felice è quasi sempre noioso come un amante infe­ lice. Un mio amico, che spesso si trovava nell’uno e nell’altro sta­ to, non aveva trovato altro mezzo per farsi ascoltare che quello di 1 [Hans Diebitch-Zabalkanskij, maresciallo russo che guidò le campagne del 1828 e 1829 nei Balcani].

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offrirmi un pranzo squisito durante il quale aveva la libertà di parlare dei suoi amori; dopo il caffè, doveva assolutamente cam­ biare conversazione. Dato che io non posso offrire il pranzo ai miei lettori, farò lo­ ro la grazia dei pensieri d’amore di Saint-Clair. Del resto, non si può rimanere sempre tra le nuvole. Saint-Clair era stanco, sbadi­ gliò, allungò le braccia, vide che era giorno fatto; bisognava infi­ ne pensare a dormire. Quando si risvegliò, vide dall’orologio che aveva appena il tempo di vestirsi e correre a Parigi, dov’era invi­ tato a un pranzo-cena con parecchi giovani di sua conoscenza.

Si stava per stappare un’altra bottiglia di vino di Champagne; lascio al lettore determinarne il numero. Gli sia sufficiente sape­ re che si era arrivati a quel momento, che arriva presto in un pranzo di giovanotti, in cui tutti vogliono parlare contempora­ neamente, il momento in cui le buone teste cominciano a critica­ re le cattive teste. «Vorrei», disse Alphonse de Thémines, che non perdeva un’oc­ casione per parlare dell’Inghilterra, «vorrei che a Parigi fosse di mo­ da, come a Londra, fare ognuno un brindisi alla sua amante. Allo­ ra sapremmo perbene per chi sospira il nostro amico Saint-Clair», e così parlando riempì il proprio bicchiere e quello dei vicini. Saint-Clair, un po’ imbarazzato, si preparò a rispondere; ma Jules Lambert lo precedette: «Approvo completamente questa usanza», disse, «e l’adotto», e alzando il bicchiere: «A tutte le modiste di Parigi! Eccetto quel­ le che hanno trent’anni, le guerce e le zoppe ecc.». «Urrà! urrà!», gridarono i giovani anglomani. Saint Clair si alzò, con il bicchiere in mano: «Signori», disse, «non ho un cuore grande come il nostro amico Jules, ma il mio è più costante. Ora, la mia costanza è tan­ to più degna di merito per il fatto che da tempo sono separato dalla donna dei miei pensieri. Sono sicuro che voi approverete la mia scelta, se tuttavia non siete già miei rivali. A Judith Pasta3, signori! Che noi la possiamo rivedere presto come prima attri­ ce tragica d’Europa!». ’ IJudith Pasta cantò al Théâtre Italien a Parigi dal 1821 al 1826. Vi ritornò poi nel 1833. E noto che Mérimée, Stendhal, Jacquemont e Mareste la frequentassero].

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Thémines voleva criticare il brindisi, ma le acclamazioni lo in­ terruppero. Avendo Saint-Clair parato il colpo, si credeva fuori gioco per la giornata. La conversazione cadde dapprima sul teatro. La critica tea­ trale servì di transizione per parlare di politica. Da lord Welling­ ton4, si passò ai cavalli inglesi, e dai cavalli inglesi, per un’asso­ ciazione d’idee facile da capire, alle donne; perché, per dei gio­ vani, un bel cavallo prima e una graziosa amante poi sono i due obiettivi più ambiti. Allora, si discusse sui mezzi per ottenere questi due oggetti così ambiti. I cavalli si comprano, anche le donne si possono comprare, ma non parliamo di quelle. SaintClair, dopo aver modestamente addotto la sua scarsa esperienza in merito a questo soggetto delicato, concluse che la prima con­ dizione per poter piacere a una donna è quella di distinguersi, di essere diversi dagli altri. Ma esiste una formula generale di di­ stinzione? Non lo credeva. «Quindi, secondo il vostro parere», disse Jules, «uno zoppo o un gobbo, piacciono più di un uomo dritto e fatto come gli altri?». «Spingete le cose molto lontano», rispose Saint-Clair, «ma se occorre, accetto tutte le conseguenze di ciò che ho detto. Per esempio, se io fossi gobbo, non mi farei saltare le cervella e vorrei fare delle conquiste. Anzitutto, non mi rivolgerei che a due specie di donne, sia a quelle che hanno una vera sensibilità, sia alle don­ ne, e sono parecchie, che hanno la pretesa di avere un carattere ori­ ginale, eccentric, come si dice in Inghilterra. Alle prime dipingerei l’orrore della mia condizione, la crudeltà della natura nei miei con­ fronti. Cercherei di impietosirle sulla mia sorte, saprei far loro im­ maginare che sono capace di un amore appassionato. Ucciderei in duello uno dei miei rivali, e mi avvelenerei con una debole dose di laudano. In capo a qualche mese la mia gobba non si vedrebbe più, e allora mio compito sarebbe quello di spiare il primo accesso di sensibilità. Quanto alle donne che aspirano all’originalità, la con­ quista è facile. Persuadetele solo che è una regola buona e debita­ mente stabilita che un gobbo non possa avere fortuna; esse vor­ ranno subito dare la smentita alla regola generale». «Che don Giovanni!», esclamò Jules. 4 [Batté i francesi a Vittoria, in Spagna, il 21 giugno 1813],

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«Tagliamoci le gambe, signori», disse il colonnello Beaujeu, «poiché abbiamo la disgrazia di non essere nati gobbi». «Sono completamente d’accordo con Saint-Clair», disse Hec­ tor Roquantin, che misurava solo tre piedi e mezzo d’altezza, «tutti i giorni si vedono le donne più belle e più alla moda darsi a persone che voialtri bei giovani non potreste sospettare...». «Hector, alzatevi, ve ne prego, e chiamate qualcuno che ci por­ ti del vino», disse Thémines con l’aria più naturale che c’è. Il nano si alzò, e ognuno si ricordò sorridendo la favola della volpe con la coda tagliata. «Per me», disse Thémines riprendendo la conversazione, «più vivo, più vedo che una figura passabile», e al tempo stesso getta­ va uno sguardo compiacente allo specchio che gli era davanti «una figura passabile e un certo gusto nell’abbigliamento sono la grande distinzione che seduce le più crudeli»; e, con un buffetto, fece saltare una mollica di pane che si era attaccata al risvolto del suo vestito. «Bah!», esclamò il nano, «con una buona figura e un vestito di Staub5 6si hanno delle donne che si tengono otto giorni e che vi annoiano al secondo incontro. Ben altro ci vuole per farsi amare, quello che si chiama amare... Bisogna...». «Ecco», lo interruppe Thémines, «volete un esempio conclu­ sivo? Voi tutti avete conosciuto Massigny, e sapete che uomo era. Modi da groom1' inglese, conversazione degna del suo cavallo... Ma era bello come Adone e indossava la cravatta come Brummel. In compenso, era l’essere più noioso che abbia conosciuto». «Ha cercato di uccidermi di noia», disse il colonnello Beaujeu. «Figuratevi che sono stato obbligato a fare con lui duecento leghe». «Sapete», domandò Saint-Clair, «che ha causato la morte di quel povero Richard Thornton, che tutti voi avete conosciuto?». «Ma», riprese Jules, «allora non sapete che è stato assassinato dai briganti vicino Fondi?». «Sì, ma vedrete come Massigny è stato perlomeno complice del crimine. Parecchi viaggiatori, fra i quali si trovava Thornton, avevano deciso di andare a Napoli tutti insieme per paura dei bri­ 5 [Sarto alla moda presso il quale si vestivano Rastignac e Julien Sorci, reso celebre da Stendhal e Balzac], 6 [Fattorino d’albergo].

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ganti. Massigny volle aggiungersi alla carovana. Appena Thorn­ ton lo seppe, lo precedette per il timore, penso, di dover passare qualche giorno con lui. Partì solo, e voi conoscete il seguito». «Thornton aveva ragione», disse Thémines; «e delle due morti, scelse la più dolce. Chiunque al suo posto avrebbe fatto lo stesso». Poi, dopo una pausa: «Voi concordate», riprese, «che Massigny era l’uomo più noioso della terra?». «Sì!», gridarono per acclamazione. «Nessuno deve disperare», disse Jules, «facciamo un’eccezione in favore di***, soprattutto quando spiega i suoi piani politici». «Siete d’accordo», proseguì Thémines, «che la signora de Coursy è una donna di spirito, se ne esiste una». Vi fu un momento di silenzio. Saint-Clair chinò la testa e im­ maginò che tutti gli occhi fossero puntati su di lui. «Chi lo mette in dubbio?», disse infine, sempre curvo sul suo piatto e con l’aria di osservare con molta curiosità i fiori dipinti sulla porcellana. «Sostengo», disse Jules, alzando la voce «sostengo che è una delle tre donne più amabili di Parigi». «Ho conosciuto suo marito», disse il colonnello. «Spesso mi ha mostrato le lettere incantevoli di sua moglie». «Auguste», lo interruppe Hector Roquantin «presentatemi dunque alla contessa. Si dice che voi facciate da lei il bello e il cat­ tivo tempo». «Alla fine dell’autunno», mormorò Saint-Clair, «quando sarà di ritorno a Parigi... Io... io credo che non riceva in campagna». «Volete ascoltarmi?», esclamò Thémines. Si ristabilì il silenzio. Saint-Clair si agitava sulla sedia come un imputato davanti a una corte d’assise. «Non avete visto la contessa tre anni fa, allora eravate in Ger­ mania, Saint-Clair», riprese Alphonse de Thémines con un san­ gue freddo esasperante. «Non avete idea di com’era allora: bella, fresca come una rosa, soprattutto vivace, e gaia come una farfal­ la. Ebbene, sapete fra i numerosi corteggiatori chi ha onorato del­ le sue grazie? Massigny! La più bestia degli uomini e il più stupi­ do a far girare la testa alla più spirituale delle donne. Pensate che

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un gobbo avrebbe potuto fare altrettanto? Via, credete a me, cer­ cate di avere una bella figura, un buon sarto, e siate audace». Saint-Clair si trovava in una situazione atroce. Voleva dare una smentita formale al narratore, ma la paura di compromettere la contessa lo trattenne. Avrebbe voluto poter dire qualcosa in suo favore, ma la sua lingua era di ghiaccio. Le labbra gli trema­ vano di furore e cercava invano nella mente qualche mezzo indi­ retto per iniziare un litigio. «Cosa!», esclamò Jules con aria sorpresa, «madame de Coursy si è data a Massigny? Frailty, thy name is woman.*7». «È una questione così insulsa la reputazione di una donna!», disse Saint-Clair con un tono secco e di disprezzo. «È consentito farla a pezzi per fare un po’ di spirito, e...». Mentre parlava si ricordò con orrore di un certo vaso etrusco che aveva visto cento volte sul caminetto della contessa a Parigi. Sapeva che era un regalo di Massigny al suo ritorno dall’Italia, e, circostanza schiacciante, quel vaso era stato portato da Parigi in campagna. E tutte le sere, togliendosi il mazzolino di fiori, Mathilde lo posava nel vaso etrusco. La parola gli morì sulle labbra; non vide più che una cosa, non pensò più che a una cosa: il vaso etrusco! Bella prova! dirà un critico, sospettare la sua amante per co­ sì poco! Siete mai stato innamorato, signor critico? Thémines era troppo di buonumore per offendersi del tono che Saint-Clair aveva usato parlando con lui. Rispose con un’aria di leggerezza e bonomia: «Io non faccio che ripetere quel che ho sentito in giro. La co­ sa passava per vera quando voi eravate in Germania. Del resto, conosco poco madame de Coursy; sono diciotto mesi che non vado da lei. È possibile che si siano sbagliati e che Massigny mi abbia raccontato una storia. Per tornare a quello che dicevamo, quand’anche l’esempio fosse falso, non di meno avrei ragione. Sapete tutti che la donna più intelligente di Francia, quella le cui opere...». La porta si aprì ed entrò Théodore Neville. Tornava dall’Egitto. ' [W. Shakespeare, Amleto, atto I, scena II].

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«Théodore! così presto di ritorno!». Fu sommerso di domande. «Hai portato un vero vestito turco?», domandò Thémines. «Hai preso un cavallo arabo e un groom* egiziano?». «Che uomo è il pascià?9», chiese Jules. «Quando si renderà indipendente? Hai visto tagliare la testa con un solo colpo di sciabola?». «E le almeel'0» chiese Roquantin. «Sono belle le donne al Cairo?». «Avete visto il generale L***?», domandò il colonnello Beaujeu. «Come ha organizzato l’armata del pascià?». «Il colonnello C*** vi ha dato una sciabola per me?». «E le piramidi? e le cataratte del Nilo? E la statua di Menino­ ne? Il pascià Ibrahim?11 ecc.». Parlavano tutti insieme; Saint-Clair non pensava che al vaso etrusco. Théodore si era seduto con le gambe incrociate, poiché aveva preso questa abitudine in Egitto e non era riuscito a perderla in Francia, attese che le domande si fossero esaurite e parlò così, molto velocemente per non essere facilmente interrotto. «Le piramidi! sul mio onore sono un regular humbug'2. Sono più basse di quanto si creda. Il Münster15 a Strasburgo non è che di quattro metri più basso. Le antichità mi escono dagli occhi. Non me ne parlate. La sola vista di un geroglifico mi farebbe sve­ nire. Ci sono così tanti viaggiatori che si occupano di queste co­ se. Il mio scopo è stato quello di studiare la fisionomia e i costu­ mi di tutta quella strana popolazione che si accalca per le strade di Alessandria e del Cairo, come turchi, beduini, copti, fellah, maghrebini. Ho scritto alcune annotazioni in fretta mentre ero al lazzaretto. Che infamia quel lazzaretto! Spero che voi non crediate al contagio, voi altri! Io, io ho fumato tranquillamente la pipa in mezzo a trecento appestati. Ah! colonnello, laggiù ve­ dreste una bella cavalleria, ben allestita. Vi mostrerò le armi su­ perbe che ho portato. Ho un gerid" che era del famoso Murad ’ [Cfr. nota 5]. ’ [Il famoso pascià Mohamed Alì di cui Mérimée parla nella prefazione della Crona­ ca di Carlo IX ]. 10 [Danzatrici]. " [Figlio del sopra citato Mohamed Ali], 12 [«Una mistificazione in piena regola»]. 15 [Nome della torre della cattedrale di Strasburgo]. 14 [Giavellotto].

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bey15. Colonnello, ho uno giatagan'6 per voi e un kangiar'7 per Auguste. Vedrete il mio mchlak™, il mio burnus''7, il mio haik. Sa­ pete che se avessi voluto avrei potuto portare delle donne? Il pa­ scià Ibrahim ne ha mandate tante dalla Grecia, e si trovano per niente... Ma a causa di mia madre... Ho parlato molto con il pa­ scià. Perdio, è un uomo d’ingegno! senza pregiudizi. Non riu­ scirete a credere come comprende bene i nostri affari. Sul mio onore, è informato dei più piccoli segreti del nostro gabinetto. Ho attinto dalla sua conversazione informazioni molto preziose sulla situazione dei partiti in Francia. In questo momento si oc­ cupa molto di statistica. È abbonato a tutti i nostri giornali. Sa­ pete che è un accanito bonapartista! Parla solo di Napoleone. “Ah! che grand’uomo quel Bunabardo\” mi diceva. Bunabardo, è così che chiamano Bonaparte». «Jordina, cioè Jourdain10», mormorò a bassa voce Thémines. «All’inizio», continuò Théodore, «Mohamed Alì era molto ri­ servato con me. Sapete che tutti i turchi sono molto diffidenti. Mi considerava una spia, che il diavolo se lo porti! o un gesuita. Ha orrore dei gesuiti. Ma, dopo qualche incontro, ha riconosciuto che ero un viaggiatore senza pregiudizi, curioso di imparare a fondo i costumi, le abitudini e la politica dell’Oriente. Allora si è sbottonato, e mi ha parlato a cuore aperto. Durante la mia ultima udienza, era la terza che mi accordava, mi presi la libertà di dirgli: “Non capisco perché Vostra Altezza non si renda indipendente dalla Porta”. “Dio mio!”, mi disse, “lo vorrei, ma temo che i gior­ nali liberali che governano tutto nel tuo paese non mi sostengano una volta proclamata l’indipendenza dell’Egitto”. È un bel vec­ chio, con una bella barba bianca, non ride mai. Mi ha dato eccel­ lenti marmellate; ma fra tutte le cose che gli ho regalato, la cosa che gli ha fatto più piacere è la collezione di costumi della guar­ dia imperiale fatta da Charlet». «È romantico il pascià?», domandò Thémines. 15 [Capo mammalucco che comandava in Egitto e che, vinto da Napoleone, divenne suo alleato]. 16 [Scimitarra]. 12 [Pugnale]. " [Mantellina]. ” [Mantella]. 20 [Protagonista di Le bourgeoise gentilhomme di Molière, atto IV, scena vi].

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«Si occupa poco di letteratura, ma voi non sapete che tutta la letteratura araba è romantica. Hanno un poeta che si chiama Melek Ayatalnefus-Ibn-Esraf, che ha pubblicato ultimamente delle Meditazioni, che quelle di Lamartine al confronto sembrano pro­ sa classica. Al mio arrivo al Cairo, ho preso un maestro di arabo, con il quale mi sono messo a leggere il Corano. Benché abbia pre­ so poche lezioni, ho imparato abbastanza da poter comprendere le sublimi bellezze dello stile del profeta, e quanto sono cattive tutte le nostre traduzioni. Ecco, volete vedere la scrittura araba? Questa parola in lettere d’oro, è Allah, cioè Dio». Così parlando, mostrò una lettera molto sporca che aveva ti­ rato fuori da una borsa di seta profumata. «Quanto tempo sei rimasto in Egitto?», domandò Thémines. «Sei settimane». E il viaggiatore continuò a descrivere tutto, dal cedro all’isso­ po. Saint-Clair uscì quasi subito dopo il suo arrivo, e si avviò verso la sua casa di campagna. Il galoppo impetuoso del cavallo gli impediva di seguire distintamente le sue idee. Ma sentiva va­ gamente che la sua felicità in questo mondo era andata distrutta per sempre, e che non poteva che prendersela con un morto e con il vaso etrusco. Giunto a casa, si gettò sullo stesso divano su cui il giorno pri­ ma aveva così a lungo e deliziosamente analizzato la propria feli­ cità. L’idea che aveva carezzato più amorosamente era che la sua amante non fosse una donna come le altre, che non avesse mai amato e non potesse amare che lui. Ora quel bel sogno spariva nella triste e crudele realtà. «Possiedo una bella donna, ecco tut­ to. È intelligente: ciò la rende ancora più colpevole, ha potuto amare Massigny!... E vero che ora mi ama... con tutta l’anima... come può amare lei. Essere amato come è stato amato Massi­ gny!... Si è arresa alle mie cure, ai miei capricci, alle mie sgrade­ volezze. Ma mi sono sbagliato. Non c’era simpatia tra i nostri due cuori. Massigny o io, per lei è la stessa cosa. È bello, lei lo ama per la sua bellezza. Ogni tanto la faccio divertire. “Ebbene, amiamo Saint-Clair - si è detta - dato che l’altro è morto! E se Saint-Clair muore o mi annoia, vedremo”». Credo fermamente che il diavolo stia con l’orecchio teso, in­ visibile vicino a un disgraziato che si tortura da solo in questo 66

modo. Lo spettacolo è divertente per il nemico degli uomini; e quando la vittima sente rimarginare le sue ferite, il diavolo è pronto a riaprirle. Saint-Clair credette di sentire una voce che mormorava alle sue orecchie:

Il singolare onore di essere un successore... Si drizzò a sedere e gettò un feroce colpo d’occhio attorno a lui. Come sarebbe stato felice di trovare qualcuno nella sua ca­ mera! Senza dubbio l’avrebbe fatto a pezzi. La pendola batté le otto. Alle otto e mezzo, lo aspettava la contessa. Se avesse mancato l’incontro! «In effetti, perché rivede­ re l’amante di Massigny?». Si distese di nuovo sul divano e chiu­ se gli occhi. «Voglio dormire», disse. Rimase immobile mezzo minuto, poi saltò in piedi e corse alla pendola per vedere il corre­ re del tempo. «Vorrei che fossero le otto e mezzo!», pensò. «Al­ lora sarebbe troppo tardi per mettermi in cammino». Nel suo cuore non aveva il coraggio di rimanere in casa; cercava un prete­ sto. Avrebbe preferito essere molto malato. Camminò per la ca­ mera, poi si sedette, prese un libro, e non riuscì a leggere una sil­ laba. Si piazzò davanti al suo pianoforte, e non ebbe la forza di aprirlo. Fischiò, guardò le nuvole e volle contare i pioppi davan­ ti alla finestra. Infine ritornò a consultare la pendola, e vide che non era riuscito a far passare che tre minuti. «Non posso impe­ dirmi di amarla», gridò digrignando i denti e battendo il piede, «mi domina, e io sono il suo schiavo, come lo è stato Massigny prima di me! Ebbene, miserabile, obbedisci, poiché non hai ab­ bastanza coraggio di spezzare una catena che tu odi!». Prese il cappello e uscì di corsa. Quando siamo trascinati da una passione, il nostro egoismo prova una certa consolazione nel contemplare dall’alto del nostro orgoglio la nostra debolezza. «È vero che sono debole», ci dicia­ mo «ma se volessi!». Salì a passi lenti il sentiero che conduceva alla porta del parco, e da lontano vedeva una figura bianca che si stagliava sul colore scuro degli alberi. Con la mano agitava un fazzoletto come per fargli cenno. Il suo cuore batteva con violenza, le ginocchia gli 67

tremavano; non aveva la forza di parlare, ed era diventato così ti­ mido che temeva che la contessa gli leggesse il suo cattivo umore sul volto. Le prese la mano che lei tendeva, le baciò la fronte, perché lei si era gettata sul suo petto, e la seguì in casa, muto, soffo­ cando a fatica i sospiri che sembravano dover far scoppiare il suo petto. Una sola candela rischiarava il salottino della contessa. Tutti e due si sedettero. Saint-Clair osservò la pettinatura della sua ami­ ca; un’unica rosa fra i capelli. Il giorno prima le aveva portato una bella incisione inglese, la duchessa di Portland ritratta da Lesly (è pettinata così), e Saint-Clair aveva detto queste parole: «Preferi­ sco una semplice rosa a tutte le vostre complicate acconciature». Lui non amava i gioielli, e la pensava come quel lord che diceva brutalmente: «Donne ornate e cavalli ingualdrappati neppure il diavolo ne vuole sapere». La notte precedente, giocando con una collana di perle della contessa (poiché parlando doveva avere sempre qualcosa fra le mani), aveva detto: «I gioielli servono so­ lo a nascondere i difetti. Siete troppo bella, Mathilde, per portar­ ne». Quella sera la contessa, che prendeva in considerazione an­ che le sue parole più insignificanti, aveva tolto anelli, collane, orecchini e braccialetti. Nell’abbigliamento di una donna guarda­ va, prima di tutto, le scarpe, e come molti altri aveva le sue manie in proposito. Prima del tramonto c’era stato un grosso acquaz­ zone. L’erba era ancora tutta bagnata; tuttavia la contessa aveva camminato sul prato umido con le calze di seta e scarpe di raso nero... Se si fosse ammalata? «Mi ama», si disse Saint-Clair. E sospirò per se stesso e per la propria follia, mentre guarda­ va Mathilde sorridendo suo malgrado, diviso fra il malumore e il piacere di vedere una bella donna che cercava di piacergli con tut­ ti quei piccoli niente che però hanno tanto valore per gli amanti. Quanto alla contessa, il suo volto radioso esprimeva un misto di amore e di allegra malizia che la rendeva ancora più amabile. Prese qualcosa dentro una cassa di lacca giapponese e, offrendo­ gli la piccola mano chiusa e nascondendogli l’oggetto che teneva: «L’altra sera», disse, «ho rotto il vostro orologio. Eccovelo aggiustato».

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Gli diede l’orologio, e lo guardava con aria tenera e birichina al tempo stesso, mordendosi il labbro inferiore, come per impe­ dirsi di ridere. Viva Dio! Com’erano belli i suoi denti! Come bril­ lavano bianchi sul rosa ardente delle labbra! (Un uomo ha un’a­ ria ben sciocca quando riceve freddamente le adulazioni di una bella donna). Saint-Clair la ringraziò, prese l’orologio e stava per metterse­ lo nella tasca: «Guardate, dunque», continuò lei, «apritelo, e controllate che sia ben aggiustato. Voi che sapete così tante cose, voi che siete sta­ to al Politecnico, dovete vederlo». «Oh! non sono un esperto in questo campo», disse SaintClair. E aprì la cassa dell’orologio con aria distratta. Quale fu la sor­ presa! Sul fondo della cassa c’era il ritratto in miniatura di madame de Coursy. Come continuare a tenere ancora il broncio? La fronte gli si schiarì: non pensò più a Massigny; si ricordò solo che era vi­ cino a una donna affascinante, e che questa donna lo adorava. L’allodola, messaggera dell’aurora2' cominciava a cantare, e lunghe strisce di una luce pallida percorrevano le nuvole a orien­ te. È allora che Romeo disse addio a Giulietta; è l’ora classica in cui tutti gli amanti devono separarsi. Saint-Clair era in piedi davanti a un caminetto, con la chiave del parco in mano, gli occhi attentamente fissi sul vaso etrusco di cui abbiamo già parlato. Aveva ancora del rancore in fondo all’a­ nima. Eppure era di buonumore, e la più semplice idea che Thémines avesse potuto mentire cominciava a farsi largo in lui. Men­ tre la contessa, che voleva accompagnarlo fino alla porta del par­ co, si avviluppava la testa in uno scialle, batteva dolcemente la chiave sul vaso odioso, aumentando progressivamente la forza dei colpi, in modo da far credere che ben presto l’avrebbe fatto volare in pezzi. «Ah! Dio! State attento!», gridò Mathilde, «romperete il mio bel vaso etrusco». E gli strappò la chiave dalle mani. [Allusione a W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, atto III, scena v].

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Saint-Clair era molto scontento, ma rassegnato. Volse la schie­ na al caminetto per non soccombere alla tentazione e, aprendo l’orologio, si mise a osservare il ritratto che aveva ricevuto. «Chi è il pittore?», domandò. «Monsieur R*** Ecco, è Massigny che me l’ha fatto conosce­ re». (Massigny, dopo il suo viaggio a Roma, aveva scoperto di avere un gusto squisito per le belle arti, ed era diventato il mece­ nate di tutti i giovani artisti). «Veramente trovo che questo ritrat­ to mi somigli, sebbene sia un po’ lusinghiero». Saint-Clair aveva il desiderio di gettare l’orologio contro il mu­ ro, cosa che l’avrebbe reso ben difficile da accomodare. Tuttavia, si trattenne e lo rimise in tasca; poi, osservando che era ormai giorno, uscì dalla casa, supplicò Mathilde di non accompagnarlo, attraver­ sò il parco a grandi passi e in un attimo fu solo nella campagna. «Massigny! Massigny!», gridò con una rabbia concentrata, «ti ritroverò sempre dunque!... Sicuramente il pittore che ha fat­ to questo ritratto ne ha dipinto un altro per Massigny! Che im­ becille sono stato! Per un istante ho creduto di essere amato di un amore pari al mio... e questo solo perché si pettina con una rosa e non porta gioielli!... Ne ha un comò pieno... Massigny, che non guardava che all’abbigliamento delle donne, amava tan­ to i gioielli!... Sì, lei ha un buon carattere, bisogna convenirne. È capace di adattarsi ai gusti dei suoi amanti. Perdinci! preferirei cento volte che fosse una cortigiana e che si fosse concessa per denaro. Almeno potrei credere che mi ama, poiché è la mia amante e non la pago». Ben presto un’altra idea ancora più tormentosa si presentò al­ la sua mente. Fra qualche settimana il lutto della contessa sareb­ be finito, Saint-Clair doveva sposarla prima che l’anno di vedo­ vanza si fosse concluso. L’aveva promesso. Promesso? No. Non gliene aveva mai parlato. Ma questa era la sua intenzione, e la contessa l’aveva capito. Per lui equivaleva a un giuramento. Il giorno prima avrebbe dato un regno per affrettare il momento in cui avrebbe potuto confessare pubblicamente il suo amore; ades­ so tremava alla sola idea di legare il suo destino a quello dell’an­ tica amante di Massigny. «Eppure GLIELO DEVO!», si diceva, «e così sarà. Povera don­ na, ha creduto senza dubbio che conoscessi i suoi passati intri­ 70

ghi. Dicevano che l’affare era pubblico. E poi, del resto, lei non mi conosce... Non può capirmi. Pensa che io l’ami come l’ama­ va Massigny». Allora si disse non senza orgoglio: «Per tre mesi mi ha reso il più felice degli uomini. Questa fe­ licità vale bene il sacrificio della mia vita intera». Non andò a dormire, passeggiò a cavallo nella foresta per tut­ ta la mattina. In un viale del bosco di Verrière, vide un uomo su un bel cavallo inglese che da lontano lo chiamava per nome e lo avvicinò. Era Alphonse de Thémines. Nella situazione di spirito in cui si trovava Saint-Clair la solitudine era particolarmente gra­ dita: così l’incontro con Thémines mutò il suo malumore in una collera soffocata. Thémines non se ne accorgeva, oppure provava un piacere maligno nel contrariarlo. Parlava, rideva, scherzava, senza accorgersi che lui non rispondeva. Saint-Clair, vedendo uno stretto viale, vi fece subito entrare il cavallo nella speranza che il seccatore non lo seguisse; ma si sbagliava, perché un secca­ tore non abbandona facilmente la sua preda. Thémines girò la briglia e accelerò l’andatura per mettersi al passo con Saint-Clair e continuare la conversazione più comodamente. Ho detto che il viale era stretto. I due cavalli potevano a ma­ lapena camminare accanto; così non era straordinario che Thémi­ nes, benché ottimo cavaliere, sfiorasse il piede di Saint-Clair pas­ sando accanto a lui. Questi, la cui collera aveva toccato il culmi­ ne, non potè trattenersi a lungo. Si alzò sulle staffe e batté con forza con la canna il naso del cavallo di Thémines. «Che diavolo avete, Auguste?», esclamò Thémines. «Perché battete il naso del mio cavallo?». «Perché mi seguite?», rispose Saint-Clair con voce terribile. «Siete fuori di senno, Saint-Clair? Dimenticate con chi state parlando?». «So bene che parlo a un presuntuoso». «Saint-Clair!... Siete pazzo, credo... Ascoltate: domani mi porgerete le vostre scuse, oppure mi renderete ragione della vo­ stra impertinenza». «A domani dunque, signore». Thémines fermò il cavallo; Saint-Clair spinse il suo; ben pre­ sto scomparve nel bosco. 71

In quel momento si sentì più calmo. Aveva la debolezza di cre­ dere ai presentimenti. Pensava che sarebbe stato ucciso l’indomani e allora era una conclusione molto adatta alla sua situazione. Anco­ ra un giorno da passare; domani niente più inquietudini, niente più tormenti. Rientrò in casa, inviò il suo domestico con un biglietto dal colonnello Beaujeu, scrisse alcune lettere, poi cenò di buon appeti­ to, e si trovò puntuale alle otto e mezzo alla porta del parco.

«Che avete dunque oggi, Auguste?», chiese la contessa. «Siete di un’allegria strana, eppure non potete farmi ridere con tutte le vostre battute. Ieri eravate un po’ tetro e io ero così allegra! Og­ gi, ci siamo scambiati i ruoli. Io ho un terribile mal di testa». «Bell’amica, lo confesso, sì, ieri ero un po’ noioso. Ma oggi, ho passeggiato, ho fatto esercizi; sto a meraviglia». «Invece io mi sono alzata tardi, ho dormito a lungo questa mattina, ho fatto dei sogni penosi». «Ah! dei sogni? Credete ai sogni?». «Che sciocchezza!». «Io ci credo; scommetto che avete fatto un sogno che annun­ cia un tragico avvenimento». «Mio Dio, non mi ricordo mai dei miei sogni. Eppure, mi ri­ cordo... nel mio sogno ho visto Massigny; così vedete che non era niente di così divertente». «Massigny! Avrei creduto, al contrario, che avreste avuto mol­ to piacere a rivederlo». «Povero Massigny!». «Povero Massigny?». «Auguste, ditemi, vi prego, cosa avete questa sera. Nel vostro sorriso c’è qualcosa di diabolico. Avete l’aria di prendere in giro voi stesso». «Ah! , ecco che mi trattate male come mi trattano le vecchie ve­ dove, vostre amiche». «Sì, Auguste, oggi avete l’aspetto che di solito avete con le per­ sone che non vi piacciono». «Cattiva! Andiamo, datemi la vostra mano». Le baciò la mano con una ironica galanteria, e si guardarono fissi per un minuto. Saint-Clair abbassò gli occhi per primo ed esclamò: 72

«Com’è difficile vivere in questo mondo senza passare per cat­ tivi! Bisognerebbe parlare solo del tempo o della caccia, oppure discutere con le vostre vecchie amiche del bilancio dei loro comi­ tati di beneficenza». Prese un foglio sul tavolo: «Ecco, ecco il conto della vostra lavandaia. Parliamo di que­ sto, angelo mio: così, voi non direte che sono cattivo». «In verità, Auguste, voi mi sorprendete...». «Questa grafia mi fa pensare a una lettera che ho trovato sta­ mattina. Vi devo dire che ho sistemato le mie carte, perché ogni tanto metto in ordine. Ora, dunque, ho ritrovato una lettera d’a­ more che mi scriveva una sarta di cui mi ero innamorato quando avevo sedici anni. Ha un modo tutto suo di scrivere ogni parola, e sempre il più complicato. Il suo stile è degno della sua grafia. Ebbene, dato che all’epoca ero un po’ presuntuoso, trovavo in­ degno di me avere un’amante che non scriveva come la Sévigné. La lasciai bruscamente. Oggi, rileggendo quella lettera, ho rico­ nosciuto che quella sarta doveva provare un vero amore per me». «Bene! Una donna che voi mantenevate?». «Molto magnificamente!: cinquanta franchi al mese. Ma il mio tutore non mi elargiva una pensione troppo alta, perché diceva che un giovanotto che ha denaro perde se stesso e perde gli altri». «E quella donna, cos’è diventata?». «Che ne so?... Probabilmente è morta all’ospedale». «Auguste... se ciò fosse vero, non avreste quest’aria noncu­ rante». «A dire il vero, si è sposata con un brav’nomo·, e io quando mi sono emancipato, le ho dato una piccola dote». «Come siete buono... Ma perché volete sembrare cattivo?». «Oh! Sono molto buono! Più ci penso, più mi persuado che questa donna mi amava davvero... Ma allora non ero capace di distinguere un sentimento vero sotto il ridicolo». «Avreste dovuto portarmi la vostra lettera. Non sarei stata ge­ losa... Noi donne abbiamo più giudizio di voi e ci accorgiamo subito dallo stile di una lettera se l’autore è in buona fede, o se fin­ ge una passione che non prova». «Eppure quante volte vi lasciate attrarre da sciocchi e da vanitosi!». 73

Parlando guardava il vaso etrusco, e aveva negli occhi e nel­ la voce un’espressione sinistra di cui Mathilde non si accorse affatto. «Andiamo dunque! Voi altri uomini volete tutti passare per dei don Juan! Vi figurate di seminare vittime, mentre spesso non trovate che delle dona Juana, ancor più scaltre di voi». «Posso capire che con il vostro ingegno superiore, voi signo­ re, vi accorgete di uno sciocco a una lega di distanza. Così come non dubito che il vostro amico Massigny, che era sciocco e fatuo, sia morto vergine e martire...». «Massigny? Ma non era poi così sciocco; e poi ci sono anche delle donne sciocche. Vi devo raccontare una storia su Massi­ gny... Ma non ve l’ho già raccontata, ditemi?». «No, mai», rispose Saint-Clair con voce tremante. «Al suo ritorno dall’Italia, Massigny s’innamorò di me. Mio marito lo conosceva; me lo presentò come un uomo d’ingegno e di buon gusto. Erano fatti l’uno per l’altro. All’inizio Massigny fu molto assiduo; mi regalava come fatti da lui degli acquarelli che acquistava da Schroth, e mi parlava di musica e di pittura con un tono di superiorità molto divertente. Un giorno, mi spedì una let­ tera incredibile. Tra le altre cose, mi diceva che ero la donna più onesta di Parigi e per questo voleva essere il mio amante. Mostrai la lettera a mia cugina Julie. Eravamo due pazze allora e deci­ demmo di giocargli un brutto scherzo. Una sera avevamo delle visite, fra cui Massigny. Mia cugina mi disse: “Vi leggo una di­ chiarazione d’amore che ho ricevuto stamattina”. Prende la lette­ ra e la legge fra scoppi di risate... Il povero Massigny». Saint-Clair cadde in ginocchio emettendo un grido di gioia. Prese la mano della contessa, e la coprì di baci e di lacrime. Mathilde era completamente sorpresa, e all’inizio credette che si sentisse male. Saint-Clair non poteva dire che queste parole: «Perdonatemi! perdonatemi!». Infine si rialzò. Era raggiante. In quel momento era più felice del giorno in cui Mathilde gli disse per la prima volta: «Vi amo». «Sono il più pazzo e il più colpevole degli uomini», gridò, «da due giorni sospettavo... E non ho cercato una spiegazione con te...». «Tu mi sospettavi?... E di cosa?». 74

«Oh! sono un miserabile!... Mi hanno detto che avevi amato Massigny e...». «Massigny!», e si mise a ridere; poi, presto smettendo: «Au­ guste», disse, «come potete essere così pazzo da aver avuto tali sospetti, e così ipocrita da nascondermeli!». Una lacrima le spuntò dagli occhi. «Ti supplico, perdonami». «Come non perdonarti, caro amico? Ma prima lasciami giu­ rare...». «Oh! ti credo, ti credo, non mi dire nulla». «Ma in nome del cielo, cosa ti ha fatto sospettare una cosa tan­ to improbabile?». «Niente, niente al mondo che la mia testa malvagia... e ... vedi, questo vaso etrusco, sapevo che ti era stato donato da Massigny...». La contessa giunse le mani con un’aria di stupore; poi esclamò, scoppiando a ridere: «Il mio vaso etrusco! il mio vaso etrusco!». Saint-Clair non potè impedirsi lui stesso di ridere, eppure le lacrime gli scorrevano lungo le guance. Prese Mathilde fra le brac­ cia, e le disse: «Non ti lascio fino a che non mi hai perdonato». «Sì, ti perdono, pazzo che sei!», disse baciandolo teneramen­ te. «Mi rendi così felice oggi; ecco la prima volta che ti vedo pian­ gere e credevo che tu non ne fossi capace». Poi, liberandosi dalle sue braccia, prese il vaso etrusco e lo ruppe in mille pezzi sul pavimento. (Era un pezzo raro e inedito. Vi era raffigurato, in tre colori, il combattimento di un Lapita contro un Centauro). Saint-Clair per alcune ore fu il più mortificato e il più felice degli uomini.

«Ebbene», disse Roquantin, al colonnello Beaujeu, che incon­ trò la sera da Tortoni22, «la notizia è vera?». «Assolutamente vera, mio caro», rispose il colonnello con aria triste. «Raccontatemi com’è successo». - [Famoso caffè allora in voga, sul Boulevard des Italiens].

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«Oh! D’accordo. Saint-Clair ha cominciato a dirmi che aveva torto, ma che voleva subire il fuoco di Thémines prima di por­ gergli delle scuse. Non potevo che approvare. Thémines voleva che la sorte decidesse chi doveva sparare per primo. Saint-Clair ha voluto che fosse Thémines. Thémines ha sparato: ho visto Saint-Clair girare una volta su se stesso, ed è caduto a terra mor­ to stecchito. Ho già osservato in molti soldati colpiti da colpi d’arma da fuoco, questo strano giro che precede la morte». «È straordinario», disse Roquantin. «E Thémines, cos’ha fatto?». «Oh! ciò che si deve fare in simili circostanze. Ha gettato la sua pistola a terra con aria di rammarico. L’ha gettata così forte che si è rotto il cane. È una pistola inglese di Manton23; non so se potrà trovare a Parigi un archibugiere che sia capace di rifarne una uguale».

La contessa rimase tre anni interi senza vedere nessuno; d’in­ verno come d’estate, risiedeva nella sua casa di campagna, uscendo appena dalla sua camera, servita da una mulatta che co­ nosceva il suo legame con Saint-Clair e alla quale ella non dice­ va che due parole al giorno. Dopo tre anni, sua cugina Julie ri­ tornò da un lungo viaggio; forzò la porta e trovò la povera Mathilde così magra e pallida che credette di vedere il cadavere di quella donna che aveva lasciato così bella e piena di vita. Riu­ scì a fatica a tirarla fuori dal suo ritiro e a condurla a Hyères. La contessa vi languì ancora tre o quattro mesi, poi morì di una malattia di petto causata da dispiaceri domestici, come disse il dottor M*** che la curò.

1830

25 [Armatolo inglese, famoso per le sue armi. In Colomba, la protagonista dona a Or­ so della Rebbia un fucile di Manton].

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La partita di trictrac

Le vele senza movimento pendevano incollate agli alberi; il mare era piatto come ghiaccio, il calore era soffocante, la calma disperante. In un viaggio in mare le risorse di divertimento che possono offrire gli ospiti di un vascello sono presto esaurite. Ci si cono­ sce troppo bene, ahimè!, quando si sono passati quattro mesi in­ sieme in una casa di legno lunga centoventi piedi. Appena vede­ te arrivare il primo luogotenente, sapete subito che vi parlerà di Rio de Janeiro, da dove viene; poi del famoso ponte di Essling, che ha visto costruire dai marinai della guardia di cui faceva par­ te. Dopo quindici giorni, conoscete perfino le espressioni a cui è affezionato, perfino la punteggiatura delle frasi, le differenti in­ tonazioni della sua voce. Quando mai ha tralasciato di fermarsi tristemente dopo aver pronunciato per la prima volta nel suo racconto questa parola, l’imperatore... «Se voi l’aveste visto al­ lora!!!» (tre punti esclamativi), aggiunge invariabilmente. E l’e­ pisodio del cavallo del trombettiere, e la palla che rimbalza e porta via una giberna che conteneva oro e gioielli per settemilacinquecento franchi ecc. ecc.! Il secondo luogotenente è un gran­ de politico; tutti i giorni commenta l’ultimo numero del «Con­ stitutionnel», che ha portato da Brest; oppure, se tralascia le al­ tezze della politica per abbassarsi alla letteratura, vi regalerà l’analisi dell’ultimo vaudeville che ha visto recitare. Gran Dio! Il commissario di marina aveva una storia molto interessante. Com’è riuscito a incantarci la prima volta che ci raccontò la sua 77

evasione dal pontone di Cadice!1 Ma, alla ventesima ripetizione, in fede mia, non lo si poteva sopportare... E i sottotenenti, e gli allievi ufficiali!... Il ricordo delle loro conversazioni mi fa driz­ zare i capelli in testa. Quanto al capitano, generalmente è il me­ no noioso a bordo. Nella sua qualità di dispotico comandante versa in uno stato di segreta ostilità contro tutto lo Stato mag­ giore; vessa, talvolta opprime, ma si prova un certo piacere a im­ precare contro di lui. Se ha qualche spiacevole mania verso i suoi subordinati, essi hanno il piacere di vedere il loro superiore ridi­ colo, e questo li consola un po’. A bordo del vascello sul quale ero imbarcato, gli ufficiali era­ no le migliori persone del mondo, tutti buoni diavoli, si amavano come fratelli, ma si annoiavano molto. Il capitano era il più dolce degli uomini, per niente fastidioso (il che è una rarità). Era sem­ pre dispiaciuto di far sentire la sua autorità dittatoriale. Eppure, quanto mi sembrò lungo il viaggio! soprattutto quella calma che ci aveva colto appena qualche giorno prima di vedere terra!... Un giorno, dopo la cena che l’inoperosità ci aveva fatto pro­ lungare più di quanto fosse umanamente possibile, eravamo tut­ ti radunati sul ponte, in attesa dello spettacolo monotono ma sempre maestoso del tramonto del sole in mare. Alcuni fumava­ no, altri rileggevano per la ventesima volta uno dei trenta volu­ mi della nostra triste biblioteca; tutti sbadigliavano fino alle la­ crime. Un sottufficiale seduto accanto a me si divertiva, con tut­ ta la gravità degna di un’occupazione seria, a lasciar cadere con la punta in basso, sulle tavole del ponte superiore, il pugnale che gli ufficiali di Marina portano di solito con la divisa da tutti i giorni. È un divertimento come un altro, e che richiede abilità perché la punta cada ben perpendicolare nel legno. Volendo imi­ tare il sottufficiale, e non avendo con me un pugnale, volli chie­ dere in prestito quello del capitano, ma egli rifiutò. Teneva in modo particolare a quest’arma, e si sarebbe arrabbiato nel ve­ derla servire a un divertimento così futile. Un tempo quel pu­ gnale era appartenuto a un coraggioso ufficiale morto disgrazia­ tamente nell’ultima guerra... Indovinai che ne doveva seguire una storia, e non mi sbagliavo. Il capitano cominciò senza farsi 1 [I francesi, prigionieri in Spagna dopo la capitolazione di Bailen del 1808, erano sta­ ti inviati sui pontoni di Cadice, navi da guerra trasformate in prigioni].

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pregare; quanto agli ufficiali che ci stavano attorno, dato che ognuno di loro conosceva a memoria le sventure del luogote­ nente Roger, si allontanarono presto con prudenza. Ecco poco dopo il racconto del capitano:

Quando conobbi Roger, aveva tre anni più di me; era luogotenente; io allievo ufficiale. Vi assicuro che era uno dei migliori ufficiali del nostro corpo; d’altronde, aveva un ottimo cuore, spi­ rito, istruzione, buone attitudini, in una parola un ragazzo in­ cantevole. Disgraziatamente era un po’ orgoglioso e suscettibile, e ciò dipendeva dal fatto, credo, che fosse un figlio naturale; te­ meva che la sua nascita gli facesse perdere considerazione in so­ cietà; ma, a dire il vero, fra tutti i suoi difetti, il più grande era un desiderio violento e continuo di primeggiare ovunque si trovas­ se. Suo padre, che non aveva mai conosciuto, gli dava una pen­ sione che avrebbe dovuto essere ben più che sufficiente per i suoi bisogni se Roger non fosse stato la generosità in persona. Tutto quello che possedeva era dei suoi amici. Quando aveva appena ricevuto il suo stipendio, c’era chi andava a trovarlo con un vol­ to triste e preoccupato: «Ebbene, compagno, che hai?», domandava lui; «hai l’aria di non poter far gran rumore battendo nelle tasche; andiamo, ecco la mia borsa, prendi ciò che ti serve, e vieni a cena con me». Arrivò a Brest una giovane attrice molto carina, di nome Ga­ brielle, che non tardò a fare conquiste tra i marinai e gli ufficiali della guarnigione. Non era una bellezza regolare, ma era ben fat­ ta, con dei begli occhi, piedi piccoli, l’aria abbastanza sfrontata; tutto questo piace molto quando si hanno tra i venti e i venticin­ que anni. La si diceva per giunta la più capricciosa creatura del suo sesso, e il suo modo di recitare non smentiva questa reputa­ zione. Ora recitava meravigliosamente e la si sarebbe detta un’at­ trice di prim’ordine; il giorno dopo era, nella stessa commedia, fredda, insensibile; recitava la sua parte come un bambino recita il suo catechismo. Ciò che interessò soprattutto i nostri giovani fu la storia che si raccontava su di lei. A Parigi sembrava fosse sta­ ta mantenuta molto riccamente da un senatore, che per lei, come si suol dire, faceva follie. Un giorno quest’uomo, trovandosi in sua presenza, si mise il cappello in testa; ella lo pregò di toglier79

selo, lamentandosi perfino che le stesse mancando di rispetto. Il senatore si mise a ridere, alzò le spalle, e disse adagiandosi como­ damente in una poltrona: «È il minimo che io mi metta a mio agio da una ragazza che pago». Un bello schiaffo da facchino, spicca­ to dalla bianca mano di Gabrielle, lo ripagò subito della risposta e gettò il cappello all’altro capo della camera. Da lì, rottura com­ pleta. Banchieri, generali avevano fatto delle considerevoli offer­ te alla dama; ma lei le aveva tutte rifiutate, ed era diventata attri­ ce per essere indipendente, disse. Quando Roger la vide e conobbe questa storia, giudicò che questa persona fosse fatta per lui, e con la franchezza un po’ bru­ tale che rimproverano a noi marinai ecco come fece per mostrar­ le quanto fosse stato colpito dalle sue grazie. Comprò i fiori più belli e più rari che riuscì a trovare a Brest, e ne fece un mazzo che legò con un bel fiocco rosa e, nel nodo, attaccò molto elegante­ mente un sacchetto di venticinque napoleoni; era tutto ciò che possedeva in quel momento. Mi ricordo che lo accompagnai die­ tro le quinte nell’intervallo. Fece a Gabrielle un complimento molto breve sulla grazia che aveva nel portare il suo costume, le offrì il mazzo e le chiese il permesso di andarla a trovare a casa sua. Tutto ciò fu detto in tre parole. Fino a che Gabrielle non vide che i fiori e il bel ragazzo che glieli presentava continuò a sorridergli, accompagnando il sorri­ so a una delle più graziose riverenze; ma quando ebbe il mazzo tra le mani e sentì il peso dell’oro, la sua fisionomia cambiò più rapidamente della superficie del mare sollevata da un uragano dei tropici; e certo fu altrettanto violenta, perché scagliò con tutta la sua forza il mazzo e i napoleoni sulla testa del mio povero amico, che ne portò il segno sul viso per più di otto giorni. La campa­ nella del direttore di scena si fece sentire, Gabrielle tornò sul pal­ coscenico e recitò molto male. Roger, dopo aver raccolto il mazzo e il sacchetto con l’oro con un’aria molto confusa, se ne andò al caffè ad offrire il mazzo (sen­ za il denaro) alla signorina del banco e, bevendo un punch, si sforzò di dimenticare la crudele. Non ci riuscì; e malgrado il di­ spetto che provava di non potersi mostrare con il suo occhio ne­ ro, si innamorò follemente della collerica Gabrielle. Le scriveva venti lettere al giorno, e che lettere! sottomesse, tenere, rispetto­ so

se, come si potevano inviare a una principessa. Le prime gli furo­ no restituite senza essere aperte; le altre non ottennero risposta. Eppure Roger conservava ancora qualche speranza, quando sco­ primmo che la venditrice di arance del teatro incartava le sue arance nelle lettere d’amore di Roger, che Gabrielle le regalava per una raffinatezza di cattiveria. Fu un colpo terribile all’orgo­ glio del nostro amico. Eppure la sua passione non diminuì. Dice­ va che avrebbe chiesto in sposa l’attrice; e, dato che gli si ribatte­ va che il ministro della Marina non avrebbe mai dato il consenso, gridava che si sarebbe fatto saltare le cervella. Nel frattempo, accadde che gli ufficiali di un reggimento di stanza a Brest vollero far provare una strofa di vaudeville a Ga­ brielle, che si rifiutò per puro capriccio. Gli ufficiali e l’attrice si ostinarono così tanto che gli uni fecero abbassare il sipario con i loro fischi, e l’altra svenne. Voi conoscete com’è il pubblico di un teatro di una città di presidio. Si convenne tra gli ufficiali che l’in­ domani e i giorni seguenti la colpevole sarebbe stata fischiata sen­ za remissione, che non le avrebbero permesso di recitare una so­ la battuta se non avesse fatto onorevole ammenda con l’umiltà necessaria per espiare il suo crimine. Roger non aveva assistito a quella rappresentazione; ma apprese, la sera stessa, lo scandalo che aveva messo tutto il teatro in subbuglio, come pure i proget­ ti di vendetta che si tramavano per il giorno dopo. Prese imme­ diatamente una decisione. L’indomani, quando apparve Gabrielle, dal banco degli uffi­ ciali partirono urla e fischi da spaccare le orecchie. Roger, che si era piazzato di proposito vicino ai chiassosi, si alzò e interpellò i più rumorosi in termini così oltraggiosi che tutto il loro furore si rivoltò presto contro di lui. Allora, con grande sangue freddo, tirò fuori dalla tasca il taccuino e scrisse i nomi che gli gridavano da tutte le parti; avrebbe stabilito degli incontri per battersi con tutto il reggimento, se, per spirito di corpo, un gran numero di ufficiali di Marina non fossero sopravvenuti, e non avessero pro­ vocato la maggior parte dei suoi avversari. La zuffa fu veramente spaventosa. Tutta la guarnigione fu consegnata per parecchi giorni; ma quando venne loro resa la libertà, ci fu un conto terribile da re­ golare. Alla fine fummo una sessantina sul campo. Roger, da so­ 81

lo, si batté contro tre ufficiali uno dopo l’altro; ne uccise uno, e ferì gravemente gli altri due, senza riceverne neppure una scalfit­ tura. Da parte mia, fui meno fortunato: un maledetto luogote­ nente, che era stato maestro d’armi, mi diede un gran colpo di spada al petto, che mi fece quasi morire. Vi assicuro che fu un bel­ lo spettacolo quel duello, o meglio quella battaglia. La Marina vinse, e il reggimento fu obbligato a lasciare Brest. Figuratevi se i nostri ufficiali superiori dimenticarono l’autore della lite. Ebbe per circa quindici giorni una sentinella alla porta. Quando gli levarono gli arresti, io uscii dall’ospedale e andai a trovarlo. Quale fu la mia sorpresa, entrando da lui, nel vederlo se­ duto a tavola, faccia a faccia con Gabrielle! Avevano l’aria di es­ sere da lungo tempo in accordo perfetto. Si davano già del tu e si servivano dello stesso bicchiere. Roger mi presentò all’amante come il suo migliore amico, e le disse che ero stato ferito in quel­ la specie di scaramuccia di cui lei era stata la causa prima. Ciò mi valse un bacio da quella bella ragazza che aveva inclinazioni tut­ te marziali. Trascorsero tre mesi insieme in uno stato di perfetta felicità, senza lasciarsi neppure per un istante. Gabrielle sembrava amar­ lo alla follia, e Roger ammetteva di non aver conosciuto l’amore prima di Gabrielle. Una fregata olandese entrò in porto. Gli ufficiali ci invitarono a cena. Si bevve abbondantemente ogni sorta di vino; e, tolta la to­ vaglia, non sapendo che fare, dato che questi signori parlavano molto male francese, ci si mise a giocare. Gli olandesi sembravano avere molto denaro; e il loro primo luogotenente, soprattutto, vo­ leva giocare così tanto forte che nessuno di noi se la sentì di par­ tecipare al suo gioco. Roger, che generalmente non giocava, cre­ dette che in questo caso si trattasse di sostenere l’onore del pro­ prio paese. Dunque giocò, e accettò le puntate del luogotenente olandese. Prima vinse, poi perse. Dopo qualche alternanza di vin­ cite e di perdite, si separarono con un nulla di fatto. Restituimmo il pranzo agli ufficiali olandesi. Si giocò ancora. Roger e il luogotenente si trovarono ancora di fronte. In breve, per parecchi gior­ ni s’incontrarono, sia al caffè, sia a bordo, sperimentando tutti i ti­ pi di gioco, soprattutto il trictrac, e aumentando sempre di più le loro puntate, finché arrivarono a giocarsi venticinque napoleoni a

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partita. Era una somma enorme per dei poveri ufficiali come noi: più di due mesi di salario! In capo a una settimana, Roger aveva perso tutto il denaro che possedeva, più tre o quattromila franchi che si era fatto prestare a destra e a manca. Avete ragione a sospettare che Roger e Gabrielle avessero fi­ nito per fare vita e cassa comune: in verità Roger, che aveva ap­ pena ricevuto un’ingente somma dalle scommesse, aveva messo nel mucchio dieci o venti volte più dell’attrice. Eppure conside­ rava sempre questo mucchio come appartenente più all’attrice, e non si era lasciato per sé, per le proprie spese personali, che una cinquantina di napoleoni. Così era stato obbligato a ricorrere a questa riserva per continuare a giocare: Gabrielle non gli fece la minima osservazione. Il denaro di casa prese la stessa strada del suo denaro per le pic­ cole spese. Ben presto Roger si ridusse a giocare i suoi ultimi ven­ ticinque napoleoni. Si applicava terribilmente; così la partita fu lunga e contesa. Arrivò un momento in cui Roger, tenendo il car­ toccio con i dadi, aveva solo una possibilità per vincere: credo che avesse bisogno di sei quattro. Era notte inoltrata. Un ufficiale che li aveva guardati giocare a lungo, aveva finito per addormentarsi su una poltrona. L’olandese era stanco e assopito; inoltre aveva bevu­ to parecchio punch. Solo Roger era ben sveglio, e in preda alla più violenta disperazione. Tremando, gettò i dadi. Li gettò con una ta­ le brutalità sulla scacchiera, che per la scossa una candela cadde sul pavimento. L’olandese subito girò la testa verso la candela, che ave­ va coperto di cera i suoi pantaloni nuovi, poi guardò i dadi. Segna­ vano sei quattro. Roger, pallido come la morte, ricevette i venticin­ que napoleoni. Continuarono a giocare. La fortuna divenne favo­ revole al mio disgraziato amico, che tuttavia faceva sviste su sviste e giocava come se avesse voluto perdere. Il luogotenente olandese si intestardì, raddoppiò, decuplicò le puntate: perse sempre. Mi sembra di vederlo ancora: era un uomo grande e biondo, flemmatico, il cui volto sembrava di cera. Alla fine si alzò, dopo aver perso quarantamila franchi, che pagò senza che la sua fisio­ nomia svelasse la minima emozione. Roger gli disse: «Ciò che abbiamo fatto questa sera non significa niente, era­ vate mezzo addormentato; non voglio il vostro denaro».

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«Voi scherzate», rispose l’olandese flemmatico, «ho giocato molto bene, ma i dadi sono stati contro di me. Sono sicuro di po­ ter sempre vincere rendendovi quattro buchi2. Buonasera!». E lo lasciò. L’indomani apprendemmo che, disperato per la perdita, si era bruciato le cervella nella sua stanza dopo aver bevuto una tazza di punch. 1 quarantamila franchi vinti da Roger erano sparsi su un tavo­ lo, e Gabrielle li contemplava con un sorriso di soddisfazione. «Ecco che siamo ricchi», disse, «che faremo con tutto questo denaro?». Roger non rispose niente; sembrava inebetito dalla morte del­ l’olandese. «Dobbiamo fare mille follie», continuò Gabrielle, «il dena­ ro guadagnato così facilmente si deve spendere nello stesso modo. Compriamoci un calesse e sfidiamo il prefetto maritti­ mo e sua moglie. Voglio avere diamanti, cachemires. Chiedi un congedo e andiamo a Parigi; qui non riusciremo mai a spende­ re tanto denaro!». Si fermò per osservare Roger, il quale, gli occhi fissi sul pavi­ mento, il capo sulla mano, non l’aveva sentita, e sembrava che per la testa gli passassero i più sinistri pensieri. «Che diavolo hai, Roger?», esclamò appoggiandogli una ma­ no sulla spalla. «Fai il muso, credo; non riesco a strapparti una parola». «Sono molto infelice», disse alla fine con un sospiro soffocato. «Infelice! Dio mi perdoni, non avrai per caso dei rimorsi per aver spennato quel grosso mynheerb>\ Alzò la testa e la guardò con occhi stravolti. «Che importa!...», proseguì, «che importa che abbia preso la faccenda in modo così tragico e che si sia fatto saltare quel poco cervello che aveva! Non compatisco i giocatori che perdono; e si­ curamente il suo denaro sta meglio nelle nostre mani che nelle sue; gli avrà evitato di sprecarlo nel bere e nel fumare, mentre noi, noi faremo mille stravaganze, una più elegante dell’altra». 2 [Aperture collocate sul lato della scacchiera del gioco del trictrac, dove vengono ri­ poste le fiches che segnano i punti fatti]. 3 [Signore in olandese].

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Roger camminava per la stanza, la testa china sul petto, gli oc­ chi semichiusi e pieni di lacrime. Se l’aveste visto, vi avrebbe fat­ to pietà. «Sai che le persone che non conoscessero la tua sensibilità romantica potrebbero pensare che tu abbia barato?», gli disse Gabrielle. «E se fosse vero?», esclamò con voce sorda fermandosi davan­ ti a lei. «Bah!», rispose sorridendo, «non hai abbastanza coraggio da barare al gioco». «Sì, ho barato Gabrielle; ho barato da miserabile che sono». Ella comprese dalla sua emozione che le stava dicendo la ve­ rità: si sedette su un divano e rimase un po’ senza parlare. «Avrei preferito», disse lei alla fine con una voce molto com­ mossa, «avrei preferito che tu avessi ucciso dieci uomini piutto­ sto che aver barato al gioco». Seguì un silenzio mortale di una mezz’ora. Si erano seduti en­ trambi sul sofà, e non si guardarono una sola volta. Si alzò per primo Roger, e le augurò la buonasera con voce calma. «Buonasera!», gli rispose lei con un tono secco e freddo. Roger mi ha detto che si sarebbe ucciso quel giorno stesso se non avesse temuto che noi compagni potessimo indovinare la causa del suicidio. Non voleva infangare la sua memoria. L’indomani, Gabrielle fu allegra come sempre; si poteva dire che avesse già dimenticato la confidenza del giorno prima. Per quanto riguarda Roger, era diventato scuro, lunatico, burbero; usciva a malapena dalla sua stanza, evitando gli amici, e passava spesso giornate intere senza rivolgere una sola parola alla sua amante. Attribuivo la sua tristezza a una sensibilità onorevole, ma eccessiva, e parecchie volte tentai di consolarlo; ma mi al­ lontanava ostentando una grande indifferenza per il suo disgra­ ziato partner. Anzi, un giorno fece una violenta tirata contro l’Olanda, e volle che io sostenessi che non ci poteva essere un solo uomo onesto in quel paese. Tuttavia si informava di nasco­ sto della famiglia del luogotenente olandese; ma nessuno gliene poteva dare notizie. Sei settimane dopo quella disgraziata partita di trictrac, Roger trovò da Gabrielle un biglietto scritto da un allievo ufficiale che 85

sembrava ringraziarla delle cortesie che gli aveva usato. Grabrielle era il disordine in persona e il biglietto in questione era stato da lei lasciato sul caminetto. Non so se gli fosse stata proprio infe­ dele, ma Roger lo credette, e la sua collera fu spaventosa. L’amo­ re e un resto d’orgoglio erano gli unici sentimenti che potessero farlo sentire ancora attaccato alla vita, e il più forte di questi sen­ timenti stava per essere improvvisamente distrutto. Ricoprì di in­ giurie l’orgogliosa commediante; e, violento com’era, non so co­ me avvenne che non la picchiò. «Sicuramente», le disse, «questo cicisbeo vi ha dato molto de­ naro? È l’unica cosa che amate, e voi accordereste i vostri favori al più sporco dei nostri marinai se avesse di che pagarli». «Perché no?», rispose freddamente l’attrice. «Sì, mi farei paga­ re da un marinaio, ma non lo deruberei». Roger lanciò un grido di rabbia. Tirò fuori tremando il suo pu­ gnale e per un istante guardò Gabrielle con occhi sbarrati; poi, rac­ cogliendo tutte le forze, gettò l’arma ai suoi piedi e scappò dal­ l’appartamento per non cedere alla tentazione che lo ossessionava. Quella sera, passai davanti al suo alloggio molto tardi e, ve­ dendo la luce, entrai per chiedergli in prestito un libro. Lo trovai molto occupato a scrivere. Non si mosse affatto, e sembrò appe­ na accorgersi della mia presenza nella camera. Mi sedetti vicino al suo tavolo e contemplai i suoi tratti; erano talmente alterati che chiunque altro all’infuori di me avrebbe potuto a malapena rico­ noscerlo. Improvvisamente, scorsi sul tavolo una lettera sigillata, indirizzata a me. La aprii subito. Roger mi annunciava che si sa­ rebbe ucciso, e mi incaricava di diverse commissioni. Mentre leg­ gevo, lui continuava a scrivere senza curarsi di me: diceva addio a Gabrielle... Potete immaginare il mio stupore, e quello che gli potei dire, confuso com’ero della sua decisione. «Come, tu vuoi ucciderti, tu che sei così fortunato?». «Amico mio», mi disse sigillando la lettera, «tu non sai niente; tu non mi conosci affatto, io sono un truffatore; sono così spre­ gevole che una donnina allegra mi insulta; e sento così tanto la mia bassezza che non ho il coraggio di picchiarla». Allora mi raccontò la storia della partita di trictrac, e tutto ciò che già sapete. Ascoltandolo, ero commosso almeno quanto lui; non sapevo cosa dirgli; gli stringevo le mani, avevo le lacrime agli 86

occhi, ma non riuscivo a parlare. Infine mi venne l’idea di fargli ca­ pire che non doveva rimproverarsi di aver causato volontariamen­ te la rovina dell’olandese e che, dopo tutto, non gli aveva fatto per­ dere a causa del suo... imbroglio... che venticinque napoleoni. «Dunque», esclamò lui con amara ironia, «sono un piccolo la­ dro e non uno grande. Io, che avevo tanta ambizione! Non sono che un piccolo truffatore!...». E scoppiò a ridere. Mi sciolsi in lacrime. Improvvisamente si aprì la porta; entrò una donna e si gettò tra le sue braccia: era Gabrielle. «Perdonami», esclamò stringendolo con forza, «perdonami. Io lo so, amo solo te. Ti amo più adesso che se tu non avessi fatto ciò di cui ti rimproveri. Se vuoi, io ruberò, ho già rubato... Sì, ho ru­ bato, ho rubato un orologio d’oro... Che si può fare di peggio?». Roger scosse la testa con aria di incredulità; ma la sua fronte parve distendersi. «No, mia povera bambina», disse respingendola dolcemente, «devo assolutamente uccidermi. Soffro troppo, non posso sop­ portare il dolore che sento qui». «Ebbene, se vuoi morire, Roger, io morirò con te! Senza di te, che m’importa della vita! Ho coraggio, ho sparato con dei fucili; mi ucciderò. E poi dato che ho recitato tante tragedie, ci sono abituata». All’inizio aveva le lacrime agli occhi, ma quest’ultima battuta la fece ridere, e Roger stesso si lasciò scappare un sorriso. «Tu ridi, ufficiale mio», esclamò lei battendo le mani e bacian­ dolo; «non ti ucciderai!». E continuava a baciarlo, ora piangendo, ora ridendo, ora im­ precando come un marinaio; perché non era di quelle donne che si spaventano di una parolaccia. Intanto io mi ero impossessato delle pistole e del pugnale di Roger, e gli dissi: «Mio caro Roger, hai un’amante e un amico che ti amano. Credimi, puoi ancora aver un po’ di felicità a questo mondo». Uscii dopo averlo baciato, e lo lasciai solo con Gabrielle. Credo che saremmo riusciti solo a ritardare il suo funesto di­ segno, se non avesse ricevuto dal ministero l’ordine di partire, co87

me primo luogotenente, a bordo di una fregata che doveva navi­ gare nei mari dell’India, dopo essere passata attraverso la squadra inglese che bloccava il porto. La faccenda era rischiosa. Gli feci capire che era meglio morire nobilmente con una pallottola in­ glese che mettere fine lui stesso ai propri giorni, senza gloria e senza utilità per il suo paese. Promise di vivere. Dei quarantami­ la franchi, ne distribuì la metà ad alcuni marinai storpi o alle ve­ dove e ai bambini dei marinai. Il resto lo regalò a Gabrielle che, all’inizio, giurò di impiegare quel denaro in opere buone. Aveva intenzione di mantenere la parola, la poverina; ma in lei l’entu­ siasmo durava poco. Ho saputo poi che diede qualche migliaio di franchi ai poveri. Il resto lo spese in vestiti. Io e Roger salimmo su una bella fregata, La Galatea·, i nostri uomini erano prodi, esperti, ben disciplinati; ma il nostro co­ mandante era un ignorante, che si credeva un Jean Bart4 perché imprecava meglio di un maestro d’armi, perché storpiava il fran­ cese e non aveva mai studiato la teoria della sua professione, di cui intendeva in modo assai mediocre la pratica. Eppure, all’ini­ zio, la sorte lo favorì. Uscimmo felicemente dalla rada, grazie a una raffica di vento che forzò la squadra del blocco a guadagna­ re il largo, e cominciammo la navigazione con il bruciare una corvetta inglese e un vascello della Compagnia5 sulle coste del Portogallo. Procedevamo lentamente verso i mari dell’India, ostacolati dai venti e dalle manovre sbagliate del nostro capitano, la cui goffag­ gine aumentava il pericolo della nostra navigazione. Ora cacciati da forze superiori, ora inseguendo navi mercantili, non passam­ mo un solo giorno senza qualche nuova avventura. Ma, né la vi­ ta rischiosa che facevamo, né le fatiche che gli dava l’organizza­ zione della fregata di cui era incaricato riuscivano a distrarre Ro­ ger dai tristi pensieri che lo seguivano senza posa. Lui, che un tempo passava per l’ufficiale più attivo e brillante del nostro por­ to, adesso si limitava a svolgere semplicemente il suo dovere. Ap­ pena aveva finito il suo compito, si rinchiudeva in cabina, senza libri, senza giornali; trascorreva ore intere disteso nella cuccetta, e il disgraziato non riusciva a dormire. * [Celebre ammiraglio francese del XVII secolo]. 5 [Si tratta della Compagnia delle Indie].

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Un giorno, vedendo il suo abbattimento, osai dirgli: «Perdio! mio caro, ti affliggi per poco. Hai rubato venticinque napoleoni a un grosso olandese, ebbene! e hai rimorsi per più di un milione. Ora, dimmi, quando eri l’amante della moglie del prefetto di..., non ne avevi? Tuttavia ella valeva più di venticin­ que napoleoni». Si rigirò sul materasso senza rispondermi. Continuai: «Dopo tutto, il tuo crimine, dato che dici che di crimine si tratta, aveva un motivo onorevole, e veniva da un’anima elevata». Girò la testa e mi guardò con aria furiosa. «Sì, perché infine, se tu avessi perso, che ne sarebbe stato di Gabrielle? Povera ragazza, avrebbe venduto la sua ultima camicia per te... Se tu avessi perso, si sarebbe ridotta in miseria... E per lei, è per amor suo che hai barato. Ci sono persone che uccidono per amore... che si uccidono... Tu, mio caro Roger, tu hai fatto di più. Per uomini come noi, ci vuole più coraggio a... rubare, per parlare chiaro, che a uccidersi». «Forse ora», mi disse il capitano, interrompendo il racconto, «vi sembro ridicolo. Vi assicuro che la mia amicizia per Roger, in quel momento, mi dava un’eloquenza che oggi non trovo più; e il diavolo mi porti, parlandogli così, ero in buona fede, e credevo a tutto quello che dicevo, Ah! ero così giovane allora!».

Roger rimase qualche tempo senza rispondermi; mi tese la mano. «Amico mio», disse, sembrando fare un grande sforzo su se stesso, «mi credi migliore di quanto non sono. Sono un debole furfante. Quando ho ingannato l’olandese, non pensavo che a vincere venticinque napoleoni, ecco tutto. Non pensavo a Ga­ brielle, ed ecco perché mi disprezzo... Io, stimare il mio onore meno di venticinque napoleoni!... Che bassezza! Sì, sarei felice di poter dire: ho rubato per tirar fuori Gabrielle dalla miseria... No!... No! Non pensavo a lei... Non ero innamorato in quel momento... ero un giocatore... ero un ladro... Ho rubato il de­ naro per me... e questa azione mi ha talmente abbrutito, talmen­ te avvilito, che oggi non ho più coraggio, né amore... vivo e non penso più a Gabrielle... sono un uomo finito». 89

Sembrava così infelice, che se mi avesse chiesto le mie pistole per uccidersi, credo che gliele avrei date. Un venerdì, giorno di cattivo augurio, scoprimmo una grossa fregata inglese, YAlcesti, che ci dava la caccia. Aveva cinquantotto cannoni, noi ne avevamo solo trentotto. Forzammo le vele per sfuggirla; ma la sua velocità era superiore; ogni istante guadagna­ va su di noi, era evidente che prima di notte saremmo stati co­ stretti a procedere a un combattimento impari. Il nostro capitano chiamò Roger nella sua cabina, dove rimasero un bel quarto d’o­ ra a consultarsi. Roger risalì sul ponte superiore, mi prese per il braccio, e mi tirò da parte. «Di qui a due ore», mi disse, «inizierà il ballo; questo brav’uomo qua che si dimena sul castello di poppa ha perso la testa. C’erano due possibilità: la prima, la più onorevole, era di lasciare che il nemico ci arrivasse contro, poi l’avremmo ab­ bordato vigorosamente, mandando su un centinaio di uomini ben determinati; l’altra, che non è malvagia, ma disonorevole, sarebbe di alleggerirci gettando in mare una parte dei nostri cannoni. Allora potremmo avvicinarci molto alla costa africana che si vede laggiù a babordo. L’inglese, per paura di arenarsi, sarebbe obbligato a lasciarci andare; ma il nostro... capitano non è né un vigliacco né un eroe, si farà distruggere da lontano a colpi di cannone, e dopo qualche ora di combattimento, am­ mainerà onorevolmente la sua bandiera. Tanto peggio per voi: i pontoni di Portsmouth vi aspettano. Per quanto mi riguarda, non voglio vederli». «Forse», gli dissi, «i nostri primi colpi di cannone potranno colpire il nemico tanto da obbligarlo a rinunciare all’insegui­ mento». «Ascolta, non voglio essere fatto prigioniero, voglio uccider­ mi; è tempo di farla finita. Se per caso mi ferissi, dammi la tua pa­ rola che mi getterai in mare. È il letto dove deve morire un buon marinaio come me». «Che pazzia!», esclamai, «e che compito mi dai!». «Tu assolverai la volontà di un amico. Tu sai che devo morire. Non ho acconsentito ad uccidermi che nella speranza di essere ucciso, te ne ricordi. Dai, fammi questa promessa; se rifiuti, do­ manderò il servizio al caposquadra, che non me lo rifiuterà». 90

Dopo aver riflettuto un po’, gli dissi: «Ti do la mia parola che farò ciò che desideri, purché tu sia fe­ rito a morte, senza speranza di guarigione. In questo caso accon­ sento a risparmiarti delle sofferenze». «Sarò ferito a morte, oppure sarò ucciso». Mi tese la mano, gliela strinsi con forza. Da allora fu più cal­ mo, e una certa allegria marziale brillò persino sul suo viso. Verso le tre del pomeriggio i cannoni da caccia del nemico co­ minciarono a colpirci. Allora imbrogliammo una parte delle vele: ci presentammo all’A/cesd di traverso, e aprimmo un fuoco di fila al quale gli inglesi risposero con vigore. Dopo circa un’ora di com­ battimento, il nostro capitano, che non faceva mai niente a propo­ sito, volle tentare l’arrembaggio. Ma avevamo già molti morti e fe­ riti e il resto dell’equipaggio aveva perso l’ardimento; e infine, la nostra attrezzatura aveva molto sofferto e gli alberi erano forte­ mente danneggiati. Nel momento in cui spiegammo le vele per raggiungere la nave inglese, il nostro albero maestro, che non ser­ viva più a niente, cadde con un fracasso terribile. L’Alcesli appro­ fittò della confusione nella quale eravamo a causa di questo inci­ dente. Arrivò fino alla nostra poppa facendo fuoco su di noi a un mezzo colpo di pistola; attraversò da davanti a dietro la nostra po­ vera fregata, che non poteva contare che su due miseri cannoni. In quel momento ero vicino a Roger, che cercava di far taglia­ re i tiranti che trattenevano ancora l’albero abbattuto. Sento che mi stringe il braccio con forza; mi giro, e lo vedo riverso sul pon­ te superiore tutto coperto di sangue. Aveva appena ricevuto un colpo di mitraglia al ventre. Il capitano corse da lui. «Cosa dobbiamo fare, luogotenente?» gridò. «Bisogna inchiodare la nostra bandiera al troncone dell’albero e farci colare a picco». Il capitano lo lasciò subito, non apprezzando questo consiglio. «Andiamo», mi disse Roger, «ricordati della tua promessa». «Non è niente, puoi guarire». «Gettami fuori bordo», gridò imprecando orribilmente e prendendomi per la falda dell’abito; «vedi bene che non ho scampo: gettami in mare, non voglio vedere ammainare la no­ stra bandiera». 91

Due marinai gli si avvicinarono per portarlo nel fondo del­ la stiva. «Ai vostri cannoni, furfanti», gridò con forza; «tirate a mitra­ glia e puntate al ponte superiore. E tu, se non tieni fede alla tua parola, ti maledico, e ti considero il più basso e il più vile di tutti gli uomini!». La sua ferita era certamente mortale. Vidi il capitano chiama­ re l’allievo ufficiale e dargli l’ordine di ammainare la bandiera. «Dammi una stretta di mano», dissi a Roger. Nel momento stesso in cui la nostra bandiera venne ammai­ nata...

«Capitano, una balena a babordo!», interruppe un sottotenen­ te di vascello correndo verso di noi. «Una balena!», esclamò il capitano trasportato dalla gioia e la­ sciando là il suo racconto. «Presto, la scialuppa in mare! iole6 in mare, tutte le scialuppe in mare! Arpioni, corde! ecc.». Non ebbi mai modo di sapere come morì il povero luogote­ nente Roger.

1830

6 [Nelle navi mercantili, imbarcazione di legno a remi, sottile e veloce, destinata al ser­ vizio degli ufficiali].

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Doppio inganno Zagala, mas que las flores Blanca, rubia y ojos verdes, Si piensas seguir amores Piérdete bien, pues te pierdes'.

I

Julie de Chaverny era sposata da circa sei anni, e dopo cinque anni e sei mesi aveva riconosciuto non solo l’impossibilità di ama­ re suo marito, ma anche la difficoltà di stimarlo. Il marito non era un disonesto, non era uno stupido, né uno sciocco. Eppure forse c’era un po’ di tutto questo. Consultando i suoi ricordi, avrebbe potuto ricordarsi che un tempo l’aveva tro­ vato amabile; ma ora la annoiava. Trovava tutto ripugnante in lui. Il modo di mangiare, di prendere il caffè, di parlare, le procura­ vano degli scatti di nervi. Non si vedevano e non si parlavano che a tavola; ma capitava che cenassero insieme più volte a settimana, e ce n’era abbastanza per alimentare l’avversione di Julie. Quanto a Chaverny, era un bell’uomo, un po’ troppo grasso per la sua età, dalla carnagione fresca, sanguigno, che per carattere non si abbandonava a quelle vaghe inquietudini che tormentano spesso le persone dotate di immaginazione. Credeva sinceramen­ te che sua moglie provasse nei suoi confronti una dolce amicizia (era troppo filosofo per credersi amato come il primo giorno del matrimonio), e questa persuasione non gli causava né piacere né pena; si sarebbe ugualmente accomodato al contrario. Per parec1 «Ragazza, più bianca dei fiori, bionda e dagli occhi verdi, perditi bene dato che ti perdi» (Calderón).

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chi anni aveva servito in un reggimento di cavalleria; ma avendo ereditato una considerevole fortuna, si era stancato della vita di guarnigione, aveva dato le dimissioni e si era sposato. Spiegare il matrimonio fra due persone che non avevano una sola idea in co­ mune può sembrare molto difficile. Da una parte, i nonni e quei sensali che, come Phrosine, farebbero sposare la Repubblica di Ve­ nezia con il Gran Turco2, si erano dati tanto da fare per regolare una questione di interesse. Dall’altra, Chaverny apparteneva a una buona famiglia; non era così grasso a quel tempo; era allegro ed era, in tutta l’accezione della parola, quello che si dice un bravo ragazzo. Con piacere Julie lo vedeva venire a trovare sua madre, perché la faceva ridere raccontandole delle storie del suo reggi­ mento di una comicità che non sempre era di buon gusto. Lo tro­ vava amabile perché ballava con lei a tutti i balli e non mancava mai di buone ragioni per persuadere la madre di Julie a restarvi fi­ no a tardi, ad andare a uno spettacolo o al bois de Boulogne. Infi­ ne, Julie lo credeva un eroe, perché si era battuto in duello con onore due o tre volte. Ma ciò che decretò il trionfo di Chaverny fu la descrizione di una vettura che doveva far costruire in base a un suo disegno, e nella quale avrebbe condotto lui stesso Julie una volta che avesse acconsentito a concedergli la sua mano. In capo a qualche mese di matrimonio, tutte le belle qualità di Chaverny avevano perso molte delle loro attrattive. Non bal­ lava più con sua moglie, questo va da sé. Le sue storie allegre le aveva tutte raccontate tre o quattro volte. Adesso diceva che i balli duravano troppo. Sbadigliava agli spettacoli e trovava una costrizione insopportabile l’uso di vestirsi per la sera. Il suo di­ fetto capitale era la pigrizia; se avesse cercato di piacere, forse ci sarebbe potuto riuscire; ma il disturbo gli sembrava un suppli­ zio: questo aveva in comune con quasi tutte le persone grasse. Il mondo lo annoiava perché non vi si è ben ricevuti che in pro­ porzione agli sforzi che uno fa per piacere. Una gioia grossola­ na gli sembrava preferibile a tutti i divertimenti più raffinati; perché, per distinguersi tra le persone di suo gusto, non doveva darsi altra pena che gridare più forte degli altri, cosa che non gli era difficile con polmoni tanto vigorosi come i suoi. Inoltre, si1 1 [Allusione all’Avaro di Molière, atto II, scena V],

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piccava di bere più vino di Champagne di un uomo qualunque, e faceva saltare perfettamente al suo cavallo una barriera di quatro piedi. Godeva di conseguenza di una stima legittimamente acquisita tra quegli esseri difficili da definire che si chiamano giovani, di cui abbondano i nostri boulevards verso le cinque di sera. Partite di caccia, scampagnate, corse, pranzi e cene fra uo­ mini erano da lui ricercati con sollecitudine. Diceva venti volte al giorno che era il più felice degli uomini; e tutte le volte che Ju­ lie lo sentiva, alzava gli occhi al cielo, e la sua piccola bocca prendeva un’indicibile espressione di sdegno. Bella, giovane, e sposata a un uomo che non le piaceva, si può immaginare che dovesse essere attorniata da molteplici attenzio­ ni. Ma oltre alla protezione della madre, donna molto prudente, l’orgoglio era il suo difetto e l’aveva difesa fino ad allora contro le seduzioni della società. Del resto, la delusione che aveva seguito il matrimonio, dandole una specie di esperienza, l’aveva resa dif­ ficile agli entusiasmi. Era fiera di vedersi compiangere dalla so­ cietà ed essere citata come un modello di rassegnazione. Dopo tutto, si considerava quasi felice, perché non amava nessuno, e suo marito la lasciava completamente libera nelle sue azioni. La sua civetteria (e, bisogna confessarlo, le piaceva un po’ dimostra­ re che suo marito non fosse consapevole del tesoro che possede­ va), la sua civetteria, tutta istintiva come quella di un bambino, si legava bene con una certa disdegnosa riservatezza che però non era timidezza. Infine sapeva essere amabile con tutti, ma con tut­ ti nello stesso modo. La maldicenza non poteva farle il benché minimo rimprovero.

il I due sposi avevano pranzato da madame de Lussan, la madre di Julie, che stava per partire per Nizza. Chaverny, che si annoia­ va mortalmente dalla suocera, era stato obbligato a passarvi tutta la serata, malgrado il desiderio di raggiungere i suoi amici sul boulevard. Dopo aver cenato, si era sistemato su un comodo di­ vano, ed era stato due ore senza dire una parola. La ragione era semplice: dormiva, decentemente del resto, seduto, la testa china 95

da un lato e come ascoltando con interesse la conversazione; si ri­ svegliava anche di tanto in tanto e diceva la sua. In seguito, aveva dovuto sistemarsi a un tavolo di whist, gio­ co che detestava perché esige una certa applicazione. Tutto que­ sto era durato a lungo. Stavano per suonare le undici e mezzo. Chaverny non aveva programmi per la serata: non sapeva assolu­ tamente cosa fare. Mentre si trovava in questa perplessità, venne annunciata la sua vettura. Se fosse rientrato a casa, avrebbe dovu­ to accompagnare la moglie. La prospettiva di un faccia a faccia di venti minuti bastava a spaventarlo; ma non aveva sigari in tasca, e moriva dal desiderio di cominciare una scatola che aveva ricevu­ to da Le Havre nel momento stesso in cui usciva per andare a ce­ na. Si rassegnò. Mentre avvolgeva la moglie nello scialle, non potè impedirsi di sorridere guardandosi in uno specchio assolvere così le fun­ zioni di un marito fresco di otto giorni. Considerò anche la mo­ glie, alla quale aveva dato appena uno sguardo. Quella sera le sembrava più carina del solito: fu così che ci mise un po’ di tem­ po a sistemarle lo scialle sulle spalle. Julie era molto contrariata da quel faccia faccia coniugale che si preparava. La bocca era pie­ gata in una piccola smorfia imbronciata, e le sopracciglia arcua­ te si riunivano involontariamente. Tutto questo dava al suo vol­ to un’espressione così piacevole, che persino un marito non sa­ rebbe potuto rimanere insensibile. I loro occhi si incontrarono nello specchio durante l’operazione di cui vi ho parlato. En­ trambi furono imbarazzati. Per tirarsi fuori dalla faccenda, Cha­ verny baciò sorridendo la mano della moglie che lei alzava per sistemare lo scialle. «Come si amano!», disse a bassa voce madame de Lussan, che non si accorse né del freddo sdegno della donna né dell’aria incu­ rante del marito. Seduti entrambi nella vettura e quasi toccandosi, all’inizio ri­ masero un po’ senza parlare. Chaverny sentiva bene che era il ca­ so di dire qualcosa, ma non gli veniva in mente nulla. Da parte sua, Julie conservava un disperante silenzio. Lui sbadigliò tre o quattro volte, pur vergognandosene, e l’ultima volta si sentì ob­ bligato a chiedere scusa alla moglie. «La serata è stata lunga», aggiunse, come per scusarsi. 96

Julie non vide in questa frase che l’intenzione di criticare le se­ rate da sua madre e di dirle qualcosa di sgradevole. Da tempo ave­ va preso l’abitudine di evitare con suo marito ogni spiegazione: continuò dunque a mantenere il silenzio. Chaverny, che tuttavia quella sera si sentiva di umore loquace, proseguì in capo a due minuti: «Ho cenato bene oggi; ma mi permetto di dirvi che lo cham­ pagne di vostra madre è troppo dolce». «Come?», domandò Julie, girando la testa dalla sua parte con molta noncuranza e fingendo di non aver sentito niente. «Dicevo che lo champagne di vostra madre è troppo dolce. Ho dimenticato di dirglielo. È una cosa sorprendente, ma uno immagina che sia facile scegliere dello champagne. Ebbene, non c’è niente di più difficile. Ci sono venti cattive qualità di champa­ gne, e non ce n’è che una buona». «Ah!...», e Julie, dopo aver accordato questa interiezione al­ la gentilezza, girò la testa e guardò attraverso la portiera della sua parte. Chaverny si rovesciò all’indietro e posò i piedi sul cu­ scino davanti del calesse, un po’ mortificato che sua moglie si mostrasse così insensibile a tutti gli sforzi che faceva per tener viva la conversazione. Tuttavia, dopo aver sbadigliato ancora due o tre volte, conti­ nuò avvicinandosi a Julie: «Avete un vestito che vi sta a meraviglia, Julie. Dove l’avete comprato?». «Senza dubbio ne vuole comprare uno simile alla sua amante», pensò Julie. «Da Burty», rispose, sorridendo leggermente. «Perché ridete?», chiese Chaverny, togliendo i piedi dal cusci­ no e avvicinandosi ancora. Nello stesso tempo prese una manica del suo vestito e si mise a toccarla un po’ alla maniera di Tartufo’. «Rido», rispose Julie, «per il fatto che voi osservate il mio ab­ bigliamento. Attento, mi stropicciate le maniche». Ritirò la manica dalla mano di Chaverny. «Vi assicuro che faccio grande attenzione al vostro abbiglia­ mento, e che ammiro particolarmente il vostro gusto. No, sul mio onore, ne parlavo l’altro giorno a... una donna che si veste [Protagonista dell’omonima commedia di Molière].

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sempre male... benché spenda tantissimo per il suo abbiglia­ mento... Rovinerebbe... Le dicevo... Vi citavo...». Julie godeva del suo imbarazzo, e non cercava affatto di farlo smettere interrompendolo. «Non sono buoni i vostri cavalli. Non camminano! Bisognerà che ve li cambi», disse Chaverny sconcertato. Per il resto della strada la conversazione non prese più vivacità; da una parte e dall’altra non si andò più lontano di una replica. I due sposi infine giunsero in via'1'*"', e si separarono auguran­ dosi la buonanotte. Julie aveva cominciato a spogliarsi, e la sua cameriera era ap­ pena uscita non so per quale motivo, quando la porta della stan­ za da letto si aprì bruscamente e Chaverny entrò. Julie si coprì precipitosamente le spalle. «Perdonatemi», disse, «per addormentarmi vorrei l’ultimo vo­ lume di Scott... Non è Quentin Durwardi». «Dev’essere da voi», rispose Julie, «non ci sono libri qui». Chaverny contemplava la moglie in quel semidisordine così favorevole alla bellezza. La trovava piccante, per usare un’espres­ sione che detesto. «È veramente una donna bellissima!», pensava. E rimaneva immobile, davanti a lei, senza dire una parola, con la sua bugia in mano; Julie, davanti a lui, spiegazzava la sua cuffia da notte e sembrava aspettare con impazienza che la lasciasse sola. «Siete deliziosa questa sera, che il diavolo mi porti!», esclamò alla fine Chaverny avanzando di un passo e posando la candela. «Quanto amo le donne con i capelli in disordine!». E così par­ lando toccò con una mano le lunghe trecce che coprivano le spal­ le di Julie e le passò quasi teneramente il braccio attorno alla vita. «Ah! Dio! sapete di tabacco da far orrore!», esclamò Julie al­ lontanandosi. «Lasciate i miei capelli, li impregnerete di quell’o­ dore, e non potrò più liberarmene». «Bah! dite così perché sapete che ogni tanto fumo. Non fate tanto la difficile, mogliettina mia». Ed ella non potè sbarazzarsi delle braccia tanto in fretta da evi­ tare un bacio che lui le diede sulle spalle. Fortunatamente per Julie, rientrò la cameriera: perché non esi­ ste niente di più odioso per una donna di quelle carezze che è quasi più ridicolo rifiutare che accettare. 98

«Marie», disse madame de Chaverny, «il corpetto del mio ve­ stito azzurro è troppo lungo. Ho visto oggi madame de Bégy, che ha sempre un gusto perfetto; il suo corsetto era certamente di buone due dita più corto. Ecco, fate una piega con delle spille su­ bito per vedere l’effetto che farà». A questo punto la cameriera e la padrona intavolarono uno dei più interessanti dialoghi sulle dimensioni precise che deve avere un corsetto. Julie sapeva bene che Chaverny non odiava niente di più che sentir parlare di moda, e che ciò lo avrebbe messo in fuga. Così, dopo cinque minuti di andirivieni, Cha­ verny, vedendo che Julie era tutta presa dal suo corsetto, sbadi­ gliò in modo spaventoso, riprese la candela e uscì, questa volta per non ritornare.

Ili Il comandante Perrin era seduto davanti a un tavolino e legge­ va con attenzione. La sua redingote perfettamente spazzolata, il berretto di fatica, e soprattutto, la rigidità inflessibile del petto, palesavano un vecchio militare. Tutto era pulito nella sua camera, ma della più grande semplicità. Un calamaio e due penne tutte ap­ puntite erano sul tavolo accanto a un quaderno di carta da lette­ re, di cui non aveva usato un foglio da almeno un anno. Se il co­ mandante Perrin non scriveva, in compenso leggeva molto. Leg­ geva allora le Lettere persiane fumando la sua pipa di schiuma, e queste due occupazioni catturavano talmente la sua attenzione che all’inizio non si accorse che era entrato nella sua camera il co­ mandante de Châteaufort. Era un giovane ufficiale del suo reggi­ mento, una figura elegante, molto amabile, un po’ fatuo, molto protetto dal Ministro della Guerra; in una parola l’opposto del comandante Perrin sotto quasi tutti gli aspetti. Tuttavia erano amici, non so perché, e si vedevano tutti i giorni. Châteaufort batté sulla spalla del comandante Perrin. Questi girò la testa senza lasciare la pipa. La sua prima espressione fu di gioia vedendo l’amico, la seconda di rammarico, il degn’uomo!, perché doveva lasciare il suo libro; la terza indicava che aveva pre­ so una decisione e che avrebbe fatto al meglio gli onori di casa. 99

Frugò in tasca per cercare una chiave che apriva un armadio dov’era chiusa una preziosa scatola di sigari che il comandante stesso non fumava, e che regalava uno per uno al suo amico; ma Chàteaufort, che l’aveva visto fare cento volte lo stesso gesto, esclamò: «Fermo, dunque papà Perrin, conservate i vostri sigari; ce li ho!». Poi tirando fuori da un elegante astuccio di paglia del Messico un sigaro dal color di cannella, ben affusolato e sottile da entrambi i capi, lo accese e si distese su un piccolo divano, che il comandante Perrin non usava mai, la testa su un cuscino, i piedi sullo schienale opposto. Châteaufort cominciò ad avvilupparsi in una nuvola di fumo, mentre, con gli occhi chiusi, sembrava meditare profonda­ mente su ciò che voleva dire. Il suo volto era raggiante di gioia, e sembrava a malapena trattenere nel petto il segreto di una felicità che bruciava dal desiderio di essere indovinata. Il comandante Per­ rin, dopo aver sistemato la sedia davanti al divano, fumò per un po’ senza dire niente; poi, dato che Châteaufort non si affrettava a par­ lare, gli chiese: «Come si comporta Urika?». Si trattava di una giumenta nera che Châteaufort aveva un po’ affaticato e che minacciava di diventare bolsa. «Molto bene», disse Châteaufort, che non aveva sentito la do­ manda. «Perrin!», esclamò stendendo verso di lui la gamba che ri­ posava sullo schienale del divano, «sapete che dovete essere feli­ ce di avermi come amico?...». Il vecchio comandante cercava dentro di sé qualche vantaggio che gli aveva procurato la conoscenza di Châteaufort, e non tro­ vava altro che il dono di qualche libro di Kanaster e qualche gior­ no di arresti forzati che aveva subito per essersi immischiato in un duello dove Châteaufort aveva recitato il ruolo da protagonista. L’amico gli dava, è vero, numerosi segni di fiducia. Era sempre a lui che Châteaufort si indirizzava per farsi rimpiazzare quando era di servizio, o quando aveva bisogno di un secondo. Châteaufort non lo lasciò a lungo nelle sue ricerche e gli tese una piccola lettera scritta su carta inglese satinata, con una scrit­ tura graziosa a zampe di gallina. Il comandante Perrin fece una smorfia che in lui equivaleva a un sorriso. Aveva visto spesso quelle lettere satinate e coperte da scrittura a zampe di gallina, in­ dirizzate al suo amico. 100

«Ecco», gli disse, «leggete. È a me che dovete questo». Perrin lesse ciò che segue:

«Sareste amabile, caro signore, a venire a cena da noi. Mon­ sieur de Chaverny vi avrebbe pregato, ma è stato obbligato ad an­ dare a una partita di caccia. Non conosco l’indirizzo del signor comandante Perrin, e non posso scrivergli per pregarlo di ac­ compagnarvi. Mi avete fatto venire un gran desiderio di cono­ scerlo, e vi sarei doppiamente riconoscente se lo condurrete qui. Julie de Chaverny

P. S. Vi ringrazio per la musica che avete preso la pena di co­ piare per me. È meravigliosa, e ammiro come sempre il vostro gu­ sto. Non venite più ai nostri giovedì; sappiate peraltro che è sem­ pre un grande piacere vedervi». «Una scrittura graziosa, e molto fine», disse Perrin terminan­ do. «Ma diavolo! La sua cena mi rompe le scatole; perché biso­ gnerà mettersi le calze di seta, e non fumare dopo cena!». «Bella disgrazia davvero! preferire alla più graziosa donna di Parigi una pipa!... Ciò che ammiro è la vostra ingratitudine. Non mi ringraziate della felicità di cui mi siete debitore». «Ringraziarvi! Ma non devo a voi l’obbligo di questa cena... se vi è un obbligo». «A chi dunque?». «A Chaverny, che è stato capitano da noi. Avrà detto a sua moglie: “Invita Perrin, è un buon diavolo”. Come volete che una donna graziosa, che ho visto una sola volta, pensi a invitare un vecchio militare come me?». Châteaufort sorrise guardandosi nello stretto specchio che de­ corava la camera del comandante. «Oggi non siete perspicace, papà Perrin. Rileggete questo bi­ glietto e forse vi troverete qualcosa che non avete visto». Il comandante girò, rigirò il biglietto ma non vide niente. «Come, vecchio drago!» esclamò Châteaufort, «non avete notato che ella vi invita per farmi piacere, solamente per pro­ varmi che si preoccupa dei miei amici... che vuole darmi la pro­ va... di...?». «Di cosa?», lo interruppe Perrin. 101

«Di... voi sapete bene di cosa». «Che vi ama?», domandò il comandante con aria dubbiosa. Châteaufort fischiò senza rispondere. «È dunque innamorata di voi?». Châteaufort fischiò di nuovo. «Ve l’ha detto?». «Ma... è evidente, mi sembra». «Come?... Da questa lettera?». «Senza dubbio». Allora fu il turno di Perrin di fischiare. Il suo fischio fu signi­ ficativo come il famoso Lillibulero" di mio zio Toby. «Come!», esclamò Châteaufort strappando la lettera dalle ma­ ni di Perrin, «non vi rendete conto di quanto vi è di... tenero... sì, di tenero, là dentro? Che potete dire su questo: Caro Signore} Badate bene che in un altro biglietto mi scriveva semplicemente: Signore. Avrei un doppio obbligo di riconoscenza, questo è posi­ tivo. E vedete, c’è una parola cancellata dopo mille·, voleva scri­ vere mille cortesie, ma non ha osato; mille complimenti, non era abbastanza... Non ha terminato il biglietto... Oh! vecchio mio! volete che per caso una donna beneducata come madame de Chaverny si getti al collo del vostro servitore come farebbe una sarti­ na?... Ve lo dico io che la sua lettera è elegante, e che bisogna es­ sere ciechi per non vedervi la passione... E i rimproveri finali, perché ho mancato un solo giovedì, che ne dite?». «Povera donnetta!», esclamò Perrin, «non ti infatuare di lei: te ne pentiresti presto!». Châteaufort non fece attenzione alla prosopopea dell’amico, ma a voce bassa e insinuante: «Sapete mio caro», disse, «che potreste rendermi un grande servigio?». «Come?». «Dovete aiutarmi in questo affare. So che suo marito è molto cattivo con lei, è un animale che la rende infelice... l’avete cono­ sciuto, voi, Perrin; dite alla moglie che è un bruto, un uomo che ha la peggiore reputazione...». «Oh!». ’ [Allusione a uno dei libri preferiti di Mérimée, Il Trinstram Shandy di Sterne; è anche il titolo di una canzone popolare della fine del XVII see.].

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«Un libertino... lo sapete. Aveva delle amanti quando era al reggimento, e che amanti! Dite tutto a sua moglie». «Oh! come dirglielo? Fra l’albero e la corteccia...». «Dio mio! vi è un modo per dire tutto!... Soprattutto parlate­ le bene di me». «Questo è più facile. Sebbene...». «Non è così facile, ascoltate; perché se vi lasciassi parlare, mi fareste un tale elogio che non mi rendereste un buon servigio... Ditele che da qualche tempo vi siete accorto che sono triste, che non parlo più, che non mangio più...». «Questa no!», esclamò Perrin con una grossa risata che faceva fare alla pipa i più ridicoli movimenti, «non potrei mai dire que­ sto davanti a madame de Chaverny. Ancora ieri sera, vi abbiamo dovuto strappare dalla cena che i compagni hanno dato per noi». «E sia, ma è inutile raccontarle questo. È bene che sappia che sono innamorato di lei; e quei fanfaroni dei romanzi hanno per­ suaso le donne che un uomo che mangia e beve non può essere innamorato». «Per quanto mi riguarda, non c’è niente che mi faccia smette­ re di bere e di mangiare». «Ebbene, mio caro Perrin», disse Châteaufort mettendosi il cappello e sistemandosi i riccioli dei suoi capelli, «ecco ciò che è deciso; giovedì prossimo vi verrò a prendere; scarpe e calze di se­ ta, di rigore! Soprattutto non dimenticate di parlarle degli orrori del marito, e molto bene di me». Uscì agitando la canna con molta grazia, lasciando il coman­ dante Perrin molto preoccupato per l’invito che aveva ricevuto, e ancor più perplesso al pensiero delle calze di seta e della tenu­ ta di rigore.

IV

Molte delle persone invitate a casa di madame de Chaverny avevano presentato le loro scuse, così la cena fu un po’ triste. Châteaufort era accanto a Julie, molto sollecito nel servirla, ga­ lante e amabile come suo solito. Chaverny, che la mattina aveva fatto una lunga passeggiata a cavallo, aveva un appetito prodigio­ 103

so. Mangiava dunque e beveva in modo tale da suscitare il desi­ derio dei più malati. Il comandante Perrin gli teneva compagnia, versandogli spesso da bere, e ridendo così forte da rompere i ve­ tri tutte le volte che la grossolana allegria del suo ospite gliene da­ va l’occasione. Chaverny, trovandosi con militari, aveva ben pre­ sto ripreso il suo buonumore e i modi da reggimento; d’altronde, non era mai stato molto delicato nella scelta delle sue storie di­ vertenti. Sua moglie assumeva un’aria freddamente sdegnosa a ogni arguzia sconveniente; allora si voltava dalla parte di Chàteaufort, e iniziava con lui un colloquio privato, per non dare l’impressione di ascoltare una conversazione che le risultava estremamente sgradevole. Ecco un saggio dell’urbanità di quel modello di sposi. Verso la fine della cena, la conversazione era caduta sull’Opera, si discute­ va il merito relativo di alcune ballerine, e tra le altre si elogiava molto mademoiselle ***. Su questo punto Châteaufort rincarava la dose rispetto agli altri, lodando soprattutto la sua grazia, la sua andatura, l’aria riservata. Perrin, che Châteaufort aveva condotto all’Opera qualche giorno prima, e che non vi era andato che quella volta, si ricorda­ va molto bene di mademoiselle ***. «È quella piccolina in rosa, che salta come un capriolo?... che ha delle gambe di cui parlavate tanto, Châteaufort?». «Ah! voi parlate delle sue gambe!», esclamò Chaverny; «ma sapete che se ne parlate troppo ve la dovrete sbrogliare con il vo­ stro generale, il duca di J***! Attento a voi, compagno mio!». «Non penso che sia così geloso da impedire di guardarle at­ traverso un occhialino». «Al contrario, perché ne è così fiero come se le avesse scoper­ te lui. Che ne dite comandante Perrin?». «Mi intendo solo di zampe di cavalli», rispose modestamente il vecchio soldato. «Veramente sono bellissime», riprese Chaverny, «e non ce ne sono di più belle a Parigi eccetto quelle di...». Si fermò e si mise ad arricciare i suoi baffi con un’aria beffarda guardando la moglie, che subito arrossì fino alle spalle. «Eccetto quelle di mademoiselle D***?», lo interruppe Châ­ teaufort ricordando un’altra ballerina. 104

«No», rispose Chaverny con tono tragico da Amleto, «ma guarda mia moglie». Julie divenne porpora dall’indignazione. Lanciò a suo marito uno sguardo rapido come un lampo, ma dove si dipingevano il di­ sprezzo e il furore. Poi, sforzandosi di contenersi, si voltò bru­ scamente verso Châteaufort. «Dobbiamo», disse con una voce leggermente tremante, «dobbiamo studiare il duo di Maometto. Dovrebbe essere perfet­ to per la vostra voce». Chaverny non si smontava facilmente. «Châteaufort», proseguì, «sapete che una volta volevo pren­ dere l’impronta delle gambe di cui parlo? Ma non me l’ha mai vo­ luto permettere». Châteaufort, che provava una viva allegria a questa imperti­ nente rivelazione, fece finta di non aver capito, e parlò di Mao­ metto con madame de Chaverny. «La persona che voglio dire», continuò impietoso il marito, «si scandalizzava sempre quando le rendevo giustizia su questo argomento, ma in fondo non era contrariata. Sapete che si è fatta prendere le misure dal suo venditore di calze? Moglie mia, non vi arrabbiate... la sua venditrice, voglio dire. E quando sono stato a Bruxelles, ho portato con me tre pagine scritte da lei con le più dettagliate istruzioni per l’acquisto delle calze». Ma aveva un bel parlare, Julie era determinata a non sentire niente. Discorreva con Châteaufort, e gli si rivolgeva con un’af­ fettata allegria, e il suo grazioso sorriso cercava di persuaderlo che lei stesse ascoltando lui solo. Châteaufort, per parte sua, sembra­ va interessato solo a Maometto-, ma non si perdeva una sola delle impertinenze di Chaverny. Dopo cena, si fece della musica, e madame de Chaverny cantò accompagnata al pianoforte da Châteaufort. Chaverny scompar­ ve nel momento in cui il piano si aprì. Arrivarono molte visite, ma non impedirono a Châteaufort di parlare sottovoce molto spesso a Julie. Uscendo, dichiarò a Perrin che non aveva perso la serata, e che i suoi affari andavano avanti. Perrin trovava del tutto naturale che un marito parlasse delle gambe della moglie: così, quando fu solo per strada con Châ­ teaufort, gli disse con tono convinto: 105

«Che coraggio avete per infastidire una così bella coppia! Lui è così innamorato della sua mogliettina!».

V

Da un mese Chaverny era molto preoccupato all’idea di di­ ventare un gentiluomo della camera. Ci si stupirà forse che un uomo grasso, pigro, amante degli agi, fosse accessibile a un’idea di ambizione; ma non mancava di buone ragioni per giustificare la propria. Prima di tutto, di­ ceva ai suoi amici, spendo molto denaro in palchi che cedo alle donne. Quando avrò un impiego a corte, potrò avere, senza che mi costi un soldo, tutti i palchi che vorrò. E si sa tutto quello che si ottiene con i palchi. Inoltre, amo molto la caccia: le cac­ ce reali saranno mie. Infine, ora che non ho più l’uniforme, non so come vestirmi per andare ai balli di mia moglie; non amo gli abiti da marchese; un vestito da gentiluomo della camera mi an­ drà benissimo. Di conseguenza, brigava. Avrebbe voluto che anche sua moglie lo facesse, ma lei vi si era opposta con ostina­ zione, benché avesse amiche molto potenti. Avendo reso qual­ che servigio al duca di H***, che si trovava a corte, si aspetta­ va molto dal suo credito. Il suo amico Châteaufort, che aveva anch’egli ottime relazioni, lo serviva con uno zelo e una devo­ zione che potreste trovare, forse, se foste il marito di una don­ na graziosa. Una circostanza fece molto avanzare gli affari di Chaverny, benché avrebbe avuto per lui conseguenze assai funeste. Madame de Chaverny si era procurata, non senza fatica, un palco all’Ope­ ra a una prima. Questo palco era da sei posti. Suo marito, a tito­ lo straordinario e dopo vive rimostranze, aveva acconsentito di accompagnarla. Ora, Julie voleva offrire un posto a Châteaufort, e sapendo che non poteva andare da sola con lui all’Opera, aveva obbligato il marito a venire a quella rappresentazione. Subito dopo il primo atto, Chaverny uscì, lasciando la moglie da sola con l’amico. Tutti e due all’inizio rimasero in silenzio con un’aria un po’ impacciata. Julie, perché lei stessa da qualche tem­ po era imbarazzata quando si trovava sola con Châteaufort; lui, 106

perché aveva i suoi progetti e aveva trovato conforme alla buona creanza sembrare commosso. Gettando di nascosto un’occhiata alla sala, vide con piacere parecchi occhialini di conoscenze pun­ tati sul suo palco. Provava una viva soddisfazione nel pensare che molti dei suoi amici invidiavano la sua felicità e, secondo ogni apparenza, la immaginavano molto più grande di quanto in realtà non fosse. Julie, dopo aver annusato a più riprese il suo bruciaprofumi e il suo bouquet, parlò del caldo, dello spettacolo, dei vestiti. Chàteaufort ascoltava distratto, sospirava, si agitava sulla sedia, guar­ dava Julie e sospirava ancora. Julie cominciò a preoccuparsi. Im­ provvisamente lui esclamò: «Come rimpiango i tempi della cavalleria!». «I tempi della cavalleria. Perché», domandò Julie. «Forse per­ ché un costume medievale vi starebbe bene?». «Mi credete ben fatuo», disse con tono di amarezza e di tri­ stezza. «No, rimpiango quei tempi... perché un uomo che aveva coraggio... poteva aspirare a... molte cose... In definitiva, si trat­ tava di fare a pezzi un gigante per piacere a una dama... Ecco, ve­ dete quel grande colosso al balcone? Vorrei che voi mi ordinaste di andare da lui a chiedere i suoi baffi per darmi poi il permesso di dirvi tre paroline senza farvi arrabbiare». «Che follia!», esclamò Julie, arrossendo fino al bianco degli occhi, perché aveva già indovinato quelle tre paroline. «Ma guar­ date dunque madame de Sainte-Hermine così scollata alla sua età e col vestito da ballo!». «Vedo solo una cosa, che voi non volete capire, ed è da tempo che me ne avvedo... Se volete, taccio, ma...» aggiunse a bassissi­ ma voce e sospirando, «voi mi avete compreso...». «Veramente no», disse seccamente Julie. «Ma dov’è andato mio marito?». Una visita sopraggiunse molto a proposito a tirarla fuori dal­ l’imbarazzo. Châteaufort non aprì bocca. Era pallido e sembra­ va profondamente afflitto. Quando il visitatore uscì, fece qual­ che commento indifferente sullo spettacolo. Tra loro c’erano lunghi silenzi. Stava per iniziare il secondo atto, quando la porta del palco si aprì e comparve Chaverny insieme a una donna molto carina 107

e adorna, pettinata con magnifiche piume rosa. Era seguito dai duca di H***. «Mia cara amica», disse alla moglie, «ho trovato il signor duca e madame in un orribile palco laterale da dove non si vedono le decorazioni. Hanno accettato un posto nel nostro». Julie si inchinò freddamente; il duca di H*** non le piaceva. Il duca e la donna dalle piume rosa si profusero in scuse, affermando che non volevano disturbare. Ci fu un movimento e una lotta di generosità per sedersi. Durante il disordine Châteaufort si chinò all’orecchio di Julie e le disse velocissimamente a bassissima voce: «Per l’amor di Dio, non vi sedete sul davanti del palco». Julie fu molto scossa e rimase al suo posto. Quando tutti era­ no seduti, si voltò verso Châteaufort e gli domandò con uno sguardo un po’ severo la spiegazione di questo enigma. Lui era seduto, il collo rigido, le labbra strette, e tutto il suo atteggia­ mento rivelava quanto fosse contrariato. Riflettendoci, Julie in­ terpretò male la raccomandazione di Châteaufort. Pensò che lui volesse parlarle a bassa voce durante la rappresentazione e conti­ nuare con i suoi strani discorsi, cosa che gli sarebbe stata impos­ sibile se lei si fosse seduta davanti. Quando voltò lo sguardo ver­ so la sala, si accorse che molte donne indirizzavano l’occhialino verso il palco; ma era sempre così all’apparizione di ogni nuova figura. Si sussurrava, si sorrideva; ma che c’era di straordinario? E una piccola città l’Opera! La donna sconosciuta si chinò verso il mazzo di fiori di Julie, e disse con un sorriso incantevole: «Avete un bellissimo mazzo di fiori, madame! Sono sicura che è dovuto costare moltissimo di questa stagione: almeno dieci franchi. Ma ve l’hanno donato! E un regalo, vero? Le signore non comprano mai i loro mazzi di fiori». Julie spalancò gli occhi non sapendo davanti a quale provin­ ciale si trovava. «Duca», disse la donna con aria languida, «non mi avete re­ galato un mazzo di fiori». Chaverny si precipitò alla porta. Il duca volle fermarlo, e anche la donna; non desiderava più un mazzo di fiori. Julie scambiò uno sguardo con Châteaufort. Vo­ leva dire: «Vi ringrazio, ma è troppo tardi». Eppure non aveva ancora indovinato del tutto. 108

Durante tutta la rappresentazione, la donna dalle piume tam­ burellò con le dita contro tempo e parlò di musica a vanvera. Do­ mandò a Julie il prezzo del vestito, dei gioielli, dei cavalli. Julie non aveva mai visto simili maniere. Concluse che la sconosciuta doveva essere una parente del duca, arrivata recentemente dalla bassa Bretagna. Quando Chaverny tornò con un mazzo di fiori enorme, ben più bello di quello di sua moglie, vi furono ammira­ zione, ringraziamenti e scuse a non finire. «Signor Chaverny, non sono un’ingrata», disse la sedicente provinciale dopo una lunga tirata, «per dimostrarvelo, fatemi pensare a promettervi qualcosa, come dice Potier. Davvero, vi ri­ camerò una borsa quando avrò terminato quella che ho promes­ so al duca». Poi l’opera finì, con grande soddisfazione di Julie che si sentiva a disagio accanto a quella singolare vicina. Il duca le offrì il braccio, Chaverny prese quello dell’altra donna. Châteaufort, con l’aria tri­ ste e scontenta, camminava dietro Julie, salutando con fare contra­ riato le persone di sua conoscenza che incontrava per le scale. Alcune donne passarono accanto: Julie le conosceva di vista. Una giovane donna parlò loro a voce bassa, sogghignando; que­ ste guardarono subito con aria di viva curiosità Chaverny e sua moglie, e una di loro esclamò: «Non può essere!». Arrivò la vettura del duca, che salutò madame de Chaverny rinnovando con calore i ringraziamenti per la sua compiacenza. Chaverny volle accompagnare la donna sconosciuta fino alla vet­ tura del duca, e Julie e Châteaufort rimasero soli un istante. «Chi è questa donna?», domandò Julie. «Non voglio dirvelo... perché è incredibile!». «Come?». «Del resto, tutte le persone che vi conoscono sapranno bene a cosa attenersi... Ma Chaverny!... Non l’avrei mai creduto». «Ma che c’è dunque? Parlate, in nome del cielo! Chi è questa donna?». Chaverny tornò. Châteaufort rispose a bassa voce: «L’amante del duca di Madame Mélanie R***». «Buon Dio!», esclamò Julie guardando Châteaufort con aria stupefatta, «è impossibile!». 109

Châteaufort alzò le spalle, e conducendola alla vettura aggiunse: «È quello che dicevano quelle signore che abbiamo incontrato per le scale. Per il resto è una persona come si deve, nel suo gene­ re. Lei ha bisogno di cure, di attenzioni... Ha persino marito...». «Cara amica», disse Chaverny con tono gioioso, «non avete bisogno di me per ritornare a casa. Buona notte. Vado a cena dal duca». Julie non rispose niente. «Châteaufort», proseguì Chaverny, «volete venire con me dal duca? Siete invitato, me l’ha appena detto. Vi ha notato. Gli siete piaciuto, siete un buon soggetto!». Châteaufort lo ringraziò freddamente. Salutò madame de Chaverny, che stava mordendo con rabbia il fazzoletto quando la vettura partì. «Ah, almeno questo, mio caro», disse Chaverny «accompa­ gnatemi con la vostra carrozza fino alla porta della bambina». «Volentieri», rispose allegramente Châteaufort; «ma, a proposi­ to, sapete che vostra moglie alla fine ha capito a fianco di chi era?». «Impossibile». «Siatene certo, e non sta bene da parte vostra». «Bah! Ha buon gusto; e poi non la conosco ancora bene. Il du­ ca la porta ovunque».

vi

Madame de Chaverny trascorse una notte molto agitata. Il comportamento di suo marito all’Opera era il peggiore di tutti i torti, e le sembrava assolutamente necessaria un’immediata sepa­ razione. L’indomani avrebbe preteso una spiegazione da lui, e gli avrebbe manifestato la sua intenzione di non vivere più sotto lo stesso tetto con un uomo che l’aveva compromessa in modo così crudele. Eppure questa spiegazione la spaventava. Non aveva mai avuto una conversazione seria con suo marito. Fino a quel mo­ mento ella aveva espresso il suo malcontento solo con musonerie, alle quali Chaverny non aveva prestato alcuna attenzione; perché, lasciando alla moglie una libertà totale, non avrebbe mai creduto che ella avrebbe potuto rifiutargli un’indulgenza che, al bisogno, 110

era disposto a usare nei suoi confronti. Lei temeva soprattutto di mettersi a piangere in mezzo a tale spiegazione, e che Chaverny attribuisse queste lacrime a un amore ferito. Fu allora che rim­ pianse vivamente l’assenza della madre, che avrebbe potuto darle un buon consiglio o incaricarsi di pronunciare la sentenza di se­ parazione. Tutte queste riflessioni la gettarono in una profonda incertezza e, quando si addormentò, aveva preso la decisione di consultare una donna fra i suoi amici che l’aveva conosciuta mol­ to giovane, e di rimettersi alla sua prudenza per il comportamen­ to da tenere nei confronti di Chaverny. Completamente in balia della sua indignazione, non aveva potuto impedirsi di fare senza volere un paragone tra suo ma­ rito e Châteaufort. L’enorme sconvenienza del primo faceva ri­ saltare la delicatezza del secondo, e riconosceva, con un certo piacere, e tuttavia rimproverandoselo, che l’amante fosse più preoccupato del marito per la sua reputazione. Questa compa­ razione morale la conduceva suo malgrado a constatare l’ele­ ganza dei modi di Châteaufort e il comportamento volgare di Chaverny. Vedeva suo marito, con il ventre un po’ sporgente, che faceva pesantemente lo zelante dietro l’amante del duca di H***, mentre Châteaufort, più rispettoso ancora che del co­ stume, sembrava cercare di trattenere attorno a lei la conside­ razione che suo marito poteva farle perdere. Infine, dato che i nostri pensieri ci portano lontano nostro malgrado, si imma­ ginò più di una volta che poteva diventare vedova e, in tal caso, giovane, ricca, niente si sarebbe opposto a quello che lei legit­ timamente incoronava come l’amore costante di un giovane co­ mandante di squadrone. Un tentativo infelice non voleva dire niente contro il matrimonio, e se l’attaccamento di Châteaufort era sincero... Ma poi cacciava i pensieri che la facevano arros­ sire, e si riprometteva di essere ancor più riservata nelle sue re­ lazioni con lui. Si risvegliò con un forte mal di testa, e ancor più lontana da una decisione definitiva rispetto alla sera prima. Non volle scen­ dere a colazione per paura di incontrare suo marito, si fece por­ tare del tè in camera, e chiese la sua vettura per andare da mada­ me Lambert, l’amica che voleva consultare. La signora in que­ stione si trovava allora in campagna, a P***. Ili

Mentre faceva colazione, aprì il giornale. Il primo articolo che le cadde sotto gli occhi diceva così: «Monsieur Darcy, primo se­ gretario dell’ambasciata di Francia a Costantinopoli, è arrivato l’altro ieri a Parigi carico di dispacci. Questo giovane diplomati­ co, immediatamente dopo il suo arrivo, ha avuto una lunga con­ versazione con Sua Eccellenza il Ministro degli Affari esteri». «Darcy a Parigi!», esclamò, «Lo rivedrei con piacere. Non sarà diventato sussiegoso? Questo giovane diplomatico! Darcy giovane diplomatico!». Non potè impedirsi di ridere da sola a queste parole: giovane diplomatico. Questo Darcy era un tempo assiduo alle serate di madame de Lussan; era legato al Ministro degli Affari esteri. Aveva lasciato Parigi qualche tempo prima del matrimono di Julie, e da quel mo­ mento non l’aveva più rivisto. Sapeva solamente che aveva viag­ giato molto e che aveva fatto una rapida carriera. Aveva ancora il giornale tra le mani quando era entrato suo marito. Sembrava di splendido umore. Al suo arrivo lei si alzò per uscire, ma dato che avrebbe dovuto passargli vicino per en­ trare nel suo spogliatoio, all’inizio rimase al suo posto, ma tal­ mente turbata, che la sua mano appoggiata al tavolino da tè fa­ ceva distintamente tremare il vassoio di porcellana. «Mia cara amica», disse Chaverny, «vengo a salutarvi per qual­ che giorno. Vado a caccia dal duca di H***. Vi devo dire che è ri­ masto incantato dalla vostra ospitalità di ieri sera. I miei affari procedono e mi ha promesso di raccomandarmi al re nel modo più pressante». Julie impallidva e arrossiva alternativamente ascoltandolo. «Il signor duca di H*** ve lo deve...», disse con voce tre­ mante. «Non può fare diversamente per uno che compromette nel modo più scandaloso la propria moglie con le amanti del suo protettore». Poi, con uno sforzo disperato, attraversò la camera a passo mae­ stoso ed entrò nel suo spogliatoio che chiuse a chiave con forza. Chaverny rimase un minuto con la testa bassa e l’aria confusa. «Come diavolo fa a saperlo?», si domandò. «Dopotutto che importa? Quel che è fatto è fatto!». E dato che non era sua abitudine soffermarsi a lungo su un’i­ dea spiacevole, fece una piroetta, prese un pezzetto di zucchero 112

dalla zuccheriera, e disse con la bocca piena alla cameriera che en­ trava: «Dite a mia moglie che rimarrò quattro o cinque giorni dal duca di H*'“'* e che le invierò della selvaggina». Uscì, pensando solo ai fagiani e ai caprioli che avrebbe ucciso. VII

Julie partì per P*** con il doppio della collera nei confronti di suo marito; ma questa volta si trattava di un motivo assai futile. Per andare al castello del duca di H*'“'* aveva preso il calesse nuo­ vo, lasciando alla moglie l’altra vettura che, a detta del cocchiere, aveva bisogno di riparazioni. Per strada, madame de Chaverny si preparava a raccontare la sua avventura a madame Lambert. Malgrado il dispiacere, non era insensibile alla soddisfazione che a un narratore dà una storia ben raccontata, e così preparava il suo racconto cercando gli esordi, e iniziando ora in un modo, ora in un altro. Il risultato fu che vide le enormità di suo marito sotto tutti gli aspetti, e che il suo risen­ timento aumentò in proporzione. Com’è noto, ci sono più di quattro leghe da Parigi a P*** e per quanto lunga fosse la requisitoria di madame de Chaverny, si capisce che fosse impossibile, anche per l’odio più astioso, ri­ tornare sulla stessa idea per quattro leghe di seguito. Ai senti­ menti violenti che i torti del marito le ispiravano si succedeva­ no ricordi dolci e malinconici, per quella strana facoltà del pen­ siero umano che spesso associa un’immagine gioiosa a una sen­ sazione penosa. L’aria pura e fresca, il bel sole, le figure indifferenti dei passanti contribuirono così a tirarla fuori dalle sue riflessioni piene d’odio. Si ricordò le scene della sua infanzia e i giorni in cui andava a pas­ seggiare in campagna con i giovani della sua età. Rivedeva le sue compagne di convento; assisteva ai loro giochi, ai pasti. Si spiega­ va le confidenze misteriose che aveva sorpreso ai grandi e non poteva impedirsi di sorridere pensando a questi piccoli tratti che tradivano un precoce istinto di civetteria femminile. Poi rivedeva il suo debutto in società. Danzava di nuovo ai balli più eleganti che aveva visto nell’anno che seguì la sua usci113

ta dal convento. Gli altri balli li aveva dimenticati; ci si stanca così in fretta; ma quei balli le ricordarono il marito. «Come so­ no stata folle!», si disse. «Come ho fatto a non rendermi conto subito che sarei stata infelice con lui?». Tutte le differenze, tut­ te le bassezze da fidanzato che il povero Chaverny le spacciava con tanto sangue freddo un mese prima del matrimonio, tutto si trovava annotato e debitamente registrato nella sua memoria. Nello stesso tempo, non poteva impedirsi di pensare ai nume­ rosi ammiratori che il suo matrimonio aveva condotto alla di­ sperazione, e che ancora mesi dopo non si erano sposati né con­ solati in altro modo. «Sarei stata felice con un altro?», si domandò «A*** era de­ cisamente uno sciocco; ma non era offensivo, e Amelie lo co­ manda a suo piacimento. C’è sempre un modo di vivere con un marito che obbedisce. B*** ha delle amanti, e la moglie ha la bontà di affliggersi. Del resto, è pieno di attenzioni per lei, e... non chiederei di meglio. Il giovane conte di C***, che legge sempre pamphlet, e che si dà tanto da fare per diventare depu­ tato, forse sarà un buon marito. Sì, ma sono tutti noiosi, brutti, sciocchi...». Mentre passava in rassegna tutti i giovani che ave­ va conosciuto quando era signorina, il nome di Darcy le si pre­ sentò per la seconda volta. Un tempo nel circolo di madame de Lussan Darcy non era una persona di riguardo, nel senso che si sapeva... le madri sape­ vano che la sua fortuna non gli permetteva di sognare le loro fi­ glie. Per loro lui non aveva niente che avrebbe potuto far girare la testa. Per il resto aveva la reputazione del galantuomo. Un po’ misantropo e caustico, gli piaceva molto, unico uomo in un cer­ chio di signorine, infischiarsene delle ridicolezze e delle pretese degli altri giovani. Quando parlava a bassa voce a una signorina, le madri non si allarmavano perché le figlie ridevano a voce alta, e le madri di quelle che avevano bei denti dicevano anche che il signor Darcy era molto amabile. Una somiglianza di gusti e il timore reciproco del loro talento di sparlare avevano avvicinato Julie e Darcy. Dopo qualche sca­ ramuccia, avevano siglato un trattato di pace, un’alleanza offensi­ va e difensiva; avevano riguardo l’uno per l’altra ed erano sempre uniti per fare gli onori delle loro conoscenze. 114

Una sera, Julie era stata pregata di cantare non so quale brano. Aveva una bella voce e lo sapeva. Avvicinandosi al pianoforte, ave­ va guardato le donne con un’aria fiera prima di cantare, come se volesse sfidarle. Ora, quella sera là, un’indisposizione, o una triste fatalità, la privò di quasi tutti i suoi mezzi. La prima nota che uscì dalla gola generalmente melodiosa fu decisamente falsa. Julie si turbò, cantò male, mancò tutte le note; in breve, il fiasco fu ecla­ tante. Sgomenta, prossima alle lacrime, Julie lasciò il piano e, ri­ tornando al suo posto, non potè impedirsi di osservare la gioia maligna che mal nascondevano le sue compagne nel vedere umi­ liato il suo orgoglio. Anche gli uomini sembravano reprimere a fa­ tica un sorriso canzonatorio. Abbassò gli occhi per la vergogna e la collera, e rimase un po’ senza osare alzarli. Quando risollevò la testa, la prima figura amica di cui si accorse fu quella di Darcy. Era pallido e i suoi occhi erano pieni di lacrime; sembrava più colpito di lei da quella disavventura. «Mi ama!», pensò, «mi ama davve­ ro». La notte non riuscì a dormire, e la triste figura di Darcy era sempre davanti ai suoi occhi. Per due giorni non pensò che a lui e alla passione segreta che doveva nutrire per lei. Il romanzo anda­ va avanti, quando madame de Lussan trovò un biglietto del signor Darcy con queste tre lettere: P. P. C. «Dove va dunque il signor Darcy?», domandò Julie a un gio­ vane che lo conosceva. «Dove va? Non lo sapete? A Costantinopoli. Parte questa notte con il postale». «Dunque non mi ama!», pensò lei. Otto giorni dopo Darcy era stato dimenticato. Da parte sua Darcy, che allora era molto romantico, rimase otto mesi senza dimenticare Julie. Per scusare lei e spiegare la prodigiosa differenza di costanza, bisogna riflet­ tere sul fatto che Darcy viveva in mezzo a barbari, mentre Julie era a Parigi, attorniata da omaggi e piaceri. Comunque sia, sei o sette anni dopo la loro separazione, Ju­ lie, nella sua vettura, sulla strada per P*** si ricordava dell’e­ spressione malinconica di Darcy il giorno in cui aveva cantato male, e se doveva confessarlo, pensò al probabile amore che provava allora per lei, forse più dei sentimenti che ancora pote­ va conservare. Tutto ciò la occupò vivamente una buona mezz’ora. Poi dimenticò Darcy per la terza volta. 115

vin Julie fu non poco contrariata quando, arrivando a P***, vide nel cortile di madame Lambert una vettura da cui venivano stac­ cati i cavalli, che annunciava una visita che doveva prolungarsi. Impossibile, di conseguenza, intavolare la discussione sui risenti­ menti contro il signor di Chaverny. Madame Lambert, quando Julie entrò nel salone, si trovava in compagnia di una donna che Julie aveva incontrato in società, che conosceva a malapena di nome. Ella dovette fare uno sforzo su se stessa per nascondere l’espressione di disappunto che provava per aver fatto inutilmente il viaggio a P***. «Eh! buongiorno, mia cara!», esclamò madame Lambert ab­ bracciandola, «come sono felice di vedere che non mi avete di­ menticata! Non potevate arrivare più a proposito, perché oggi aspetto non sapete quante persone che vi amano alla follia». Julie rispose con un’aria un po’ contrariata perché aveva cre­ duto di trovare madame Lambert da sola. «Saranno entusiasti di vedervi», riprese madame Lambert. «La mia casa è così triste, dal matrimonio di mia figlia, che sono felicis­ sima quando i miei amici si incontrano qui. Ma, mia piccola cara, che ne avete fatto del vostro bel colorito? Siete tutta pallida oggi». Julie inventò una piccola bugia: la lunghezza della strada... la polvere... il sole... «Proprio oggi ho a pranzo uno dei vostri adoratori, a cui farò una piacevole sorpresa. Monsieur de Châteaufort, e probabil­ mente il suo fedele Acate, il comandante Perrin». «Ho avuto il piacere di ricevere il comandante Perrin di recen­ te», disse Julie arrossendo un po’, perché pensava a Châteaufort. «C’è anche monsieur de Saint-Léger. E assolutamente neces­ sario che organizzi qui una serata di proverbi per il mese prossi­ mo; e voi, angelo mio, giocherete il vostro ruolo: da due anni sie­ te il nostro primo soggetto per i proverbi». «Dio mio, madame, è da tanto che non gioco ai proverbi che non credo di poter ritrovare la sicurezza di un tempo. Sarò co­ stretta a ricorrere al Sento qualcuno». «Ah! Julie, piccola mia, indovinate ancora chi aspettiamo. Ma quello, devo fare uno sforzo di memoria per il suo nome...». 116

Il nome di Darcy si ripresentò a Julie. «Mi ossessiona vera­ mente», pensò. «Di memoria, madame?... io ne ho molta». «Ma io intendo una memoria di sei o sette anni... Vi ricorda­ te di uno dei vostri ammiratori, quando eravate una ragazzina e portavate i capelli con la riga in mezzo?». «Per la verità non riesco a indovinare». «Che orrore! mia cara... Dimenticare così un uomo affasci­ nante, che vi piaceva così tanto, se non mi sbaglio, che vostra ma­ dre ne era quasi preoccupata. Andiamo, bella mia, dato che voi dimenticate così i vostri adoratori, è necessario ricordare i loro nomi; vedrete presto monsieur Darcy». «Monsieur Darcy?». «Sì, è tornato da Costantinopoli solo da qualche giorno. È ve­ nuto a trovarmi l’altro ieri e l’ho invitato. Sapete, ingrata che non siete altro, che mi ha chiesto vostre notizie con una sollecitudine molto significativa?». «Monsieur Darcy?...», chiese Julie esitando e con una affetta­ ta distrazione. «Monsieur Darcy?... Non è forse quel gran gio­ vane biondo... che è segretario d’ambasciata?». «Oh! mia cara, non lo riconoscereste affatto: è molto cambia­ to; è pallido, o meglio olivastro, gli occhi infossati, ha perso mol­ ti capelli per il caldo, a quello che dice. Tra due o tre anni, se con­ tinua così, davanti sarà calvo. Eppure non ha ancora trent’anni». Qui la donna che ascoltava le disavventure di Darcy consigliò fortemente l’uso di kalydor, che aveva trovato efficace a seguito di una malattia che le aveva fatto perdere molti capelli. Parlando si passava la mano tra i folti riccioli di un castano cenere. «Monsieur Darcy è rimasto tutto questo tempo a Costantino­ poli?», domandò madame de Chaverny «No, ha viaggiato molto: è stato in Russia, poi ha attraversato tutta la Grecia. Non conoscete la sua fortuna? Suo zio è morto e gli ha lasciato un discreto patrimonio. È stato in Asia minore, in... come si chiama?... Caramania. E incantevole, mia cara; ha storie affascinanti che vi incanteranno. Ieri me ne ha raccontate alcune così belle che gli dicevo sempre: “Ma conservatele per do­ mani, le racconterete alle signore invece di sprecarle con una vec­ chia mamma come me”». 117

«Vi ha raccontato la storia della donna turca che ha salvato?», domandò madame Dumanoir, la patrona del kalydor. «La donna turca che ha salvato? Ha salvato una donna turca? Non mi ha detto una parola». «Come! ma è un’azione ammirevole, un vero romanzo». «Oh! raccontatecela, ve ne prego». «No, no; domandatela a lui stesso. Io so la storia da mia so­ rella, il cui marito, come sapete, è stato console a Smirne. Ma lei l’ha saputa da un inglese che è stato testimone di tutta l’avventu­ ra. E meraviglioso». «Madame, raccontateci questa storia. Come possiamo aspetta­ re fino all’ora di cena? Non c’è niente di più deprimente che sen­ tir parlare di una storia che non si conosce». «Ebbene, la sciuperò; ma eccovela così come me l’hanno rac­ contata: Monsieur Darcy era in Turchia per esaminare non so quali rovine in riva al mare, quando vide venire verso di lui una processione assai lugubre. Erano dei muti che portavano un sac­ co che si muoveva come se dentro ci fosse qualcosa di vivo...». «Ah! dio mio!», esclamò madame Lambert, che aveva letto il Giaour1 «gettavano in mare una donna!». «Esattamente», proseguì madame Dumanoir, un po’ seccata per essersi vista rubare la nota più drammatica del racconto. «Monsieur Darcy guarda il sacco, sente un sordo gemito e così indovina l’orribile verità. Chiede ai muti che stanno facendo: per tutta risposta i muti tirano fuori i pugnali. Per fortuna monsieur Darcy era ben armato. Mise in fuga gli schiavi e tirò fuori dal brutto sacco una donna di una incredibile bellezza, semisvenuta e la condusse in città, in una casa sicura». «Povera donna!», disse Julie, che cominciò a interessarsi alla storia. «Pensate che fosse in salvo? Niente affatto. Il marito geloso, perché c’era un marito, sollevò tutto il popolo, che arrivò con le torce alla casa di monsieur Darcy, volendola bruciare viva. Non conosco bene la fine della faccenda, tutto quello che so, è che ha sostenuto l’assedio e ha messo in salvo la donna. Sembra anche», aggiunse madame Dumanoir, cambiando di colpo ’ [Titolo di un romanzo di Byron].

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espressione e con tono nasale molto devoto, «sembra che mon­ sieur Darcy si sia preso cura della sua conversione e che sia sta­ ta battezzata». «E monsieur Darcy, l’ha sposata?», chiese sorridendo Julie «Questo non ve lo so dire. Ma la donna turca... aveva un no­ me singolare; si chiamava Emine... Nutriva una passione violen­ ta per monsieur Darcy. Mia sorella mi diceva che lo chiamava sempre Sôtir... Sótir... che vuol dire mio salvatore in turco o in greco. Eulalie mi ha detto che era una delle persone più belle che abbia mai incontrato». «Gli faremo la guerra sulla sua Turchia!», esclamò madame Lambert, «non è vero, monsieur? bisogna tormentarlo un po’... Del resto, questo tratto di Darcy non mi sorprende affatto; è uno degli uomini più generosi che conosca, e sono al corrente di sue buone azioni che mi fanno venire le lacrime agli occhi tutte le volte che le racconto. Suo zio è morto, lasciando una figlia natu­ rale che non aveva mai conosciuto. Dato che non ha fatto testa­ mento, non aveva alcun diritto alla successione; Darcy, che era l’unico erede, ha voluto che lei ne avesse una parte, e probabil­ mente questa parte è stata più consistente di quanto non avreb­ be provveduto lo stesso zio». «Era carina questa figlia naturale?», domandò madame de Chaverny con aria cattiva, perché cominciava a sentire il bisogno di par­ lare male di Darcy che non riusciva a cacciare via dai suoi pensieri. «Ah! mia cara, come potete supporlo?... Ma del resto mon­ sieur Darcy era ancora a Costantinopoli quando suo zio è mor­ to, e verosimilmente non ha visto questa creatura». L’arrivo di Châteaufort, del comandante Perrin e di qualcun altro, mise fine a questa conversazione. Châteaufort si sedette ac­ canto a madame de Chaverny e, approfittando di un momento in cui si parlava a voce alta: «Sembrate triste, madame», le disse, «sarei dispiaciuto nel sa­ pere che ciò che vi ho detto ieri ne fosse la causa». Madame de Chaverny non l’aveva sentito, o meglio non ave­ va voluto sentirlo. Châteaufort dunque si sentì mortificato a ri­ petere la frase, e più mortificato ancora a sentire una risposta sec­ ca, dopo la quale Julie si unì alla conversazione generale; e cam­ biando posto, si allontanò dal suo infelice ammiratore.

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Senza scoraggiarsi, Châteaufort faceva inutilmente dello spiri­ to. Madame de Chaverny, alla quale sola voleva far piacere, lo ascoltava con aria distratta; pensava al prossimo arrivo di mon­ sieur Darcy, domandandosi perché si occupasse tanto di un uo­ mo che doveva aver dimenticato, e che probabilmente l’aveva di­ menticata da tanto. Infine si sentì il rumore di una vettura; la porta del salone si aprì. «Eh! eccolo!», esclamò madame Lambert. Julie non osò volta­ re la testa, ma impallidì completamente. Provava una viva e sotti­ le sensazione di freddo, ed ebbe bisogno di raccogliere tutte le sue forze per riprendersi e impedire a Châteaufort di scoprire il cam­ biamento nei suoi tratti. Darcy baciò la mano di madame Lambert e le parlò subito per un po’, poi si sedette accanto a lei. Allora si fece un grande silenzio: madame Lambert sembrava attendere e misurare la gratitudine. Châteaufort e gli uomini, ad eccezione del buon comandante Per­ rin, osservavano Darcy con una curiosità un po’ gelosa. Arrivando da Costantinopoli aveva grandi vantaggi su di loro, ed era un mo­ tivo sufficiente per darsi quell’aria di compassata freddezza che in genere si prende con gli stranieri. Darcy, che non aveva fatto caso a nessuno, ruppe per primo il silenzio. Parlò del tempo o della stra­ da, poco importa; la sua voce era dolce e musicale. Madame de Chaverny si azzardò a guardarlo: lo vide di profilo. Le sembrò di­ magrito, la sua espressione era mutata... In generale lo trovò bene. «Mio caro monsieur Darcy», disse madame Lambert, «guar­ datevi bene attorno e vedete se non trovate qui delle vecchie co­ noscenze». Darcy girò la testa e si avvide di Julie, che fino ad allora si era nascosta sotto il cappello. Si alzò precipitosamente con un’escla­ mazione di sorpresa, avanzò verso di lei tendendole la mano; poi, fermandosi all’improvviso come pentito per un eccesso di fami­ liarità, salutò profondamente Julie, e le espresse in termini conve­ nienti tutto il piacere che provava nel rivederla. Julie balbettò qualche parola di gentilezza, e arrossì molto vedendo che Darcy continuava a rimanere davanti a lei e a fissarla. La sua presenza di spirito le ritornò ben presto, ed ella ricam­ biò il suo sguardo con uno insieme distratto e osservatore che la gente di mondo sa assumere a proprio piacimento. Era un giova120

ne grande e pallido, i cui tratti esprimevano calma, ma una calma che sembrava scaturire non tanto da uno stato abituale dell’ani­ mo quanto piuttosto dalla padronanza che era giunto a prendere sull’espressione della fisionomia. Rughe già profonde gli solcava­ no la fronte. I suoi occhi erano infossati, gli angoli della bocca ab­ bassati, e le tempie cominciavano a diventare rade. Eppure non aveva più di trent’anni. Darcy era vestito con molta semplicità, ma con quell’eleganza che indica le abitudini della buona compa­ gnia e l’indifferenza per un soggetto che occupa le meditazioni di tanti giovani. Julie fece tutte queste osservazioni con piacere. Notò ancora che sulla fronte aveva una cicatrice molto lunga che mal nascondeva con una ciocca di capelli e che sembrava essere stata fatta da un colpo di sciabola. Julie era seduta accanto a madame Lambert. C’era una sedia tra lei e Chàteaufort; ma appena Darcy si era alzato, Chàteaufort ave­ va messo la sua mano sul dorso della sedia, l’aveva piazzata su una sola zampa e la teneva in equilibrio. Era evidente che pretendeva di conservarla come il cane del giardiniere fa la guardia alla cassa d’avena. Madame Lambert ebbe pietà di Darcy che rimaneva sem­ pre davanti a madame de Chaverny. Fece posto accanto a lei sul divano su cui era seduta, e lo offrì a Darcy, che così si trovò per ca­ so accanto a Julie. Si affrettò di approfittare di questa posizione vantaggiosa, cominciando con lei una conversazione assidua. Pure dovette subire da parte di madame Lambert e da alte per­ sone un interrogatorio in piena regola sui suoi viaggi; ma rispose in modo laconico, e approfittò di tutte le occasioni per riprende­ re il suo colloquio privato con madame de Chaverny. «Prendete il braccio di madame de Chaverny», disse madame Lambert a Darcy nel momento in cui la campana del castello an­ nunciò la cena. Chàteaufort si morse le labbra, ma trovò il modo di sistemar­ si a tavola abbastanza vicino a Julie per poterla osservarla.

IX Dopo cena, dato che la serata era bella e faceva caldo, si riuni­ rono in giardino attorno a un rustico tavolo per prendere il caffè. 121

Châteaufort aveva osservato con stizza crescente le attenzioni di Darcy nei confronti di madame de Chaverny. Più osservava l’interesse che ella sembrava avere nella conver­ sazione con il nuovo arrivato, meno lui diventava affabile e la ge­ losia che sentiva non aveva altro effetto che ostacolarlo nel suo tentativo di piacere. Camminava per la terrazza dove si era sedu­ ti, non potendo stare fermo, seguendo il comportamento tipico delle persone inquiete, guardando spesso delle grosse nuvole ne­ re che si adddensavano all’orizzonte e annunciavano un tempo­ rale, più spesso ancora il suo rivale, che discorreva a bassa voce con Julie. Ora la vedeva sorridere, ora diventare seria, ora abbas­ sare timidamente gli occhi; infine vedeva che Darcy non poteva proferire parola che non producesse un profondo effetto; e ciò che soprattutto gli dispiaceva era che le varie espressioni che prendevano i tratti di Julie sembravano essere l’immagine e come il riflesso mobile di Darcy. Infine, non potendo più sottostare a questa specie di supplizio, si avvicinò a lei e chinandosi sulla spal­ liera della sedia nel momento in cui Darcy dava a qualcuno indi­ cazioni sulla barba del sultano Mahmoud: «Madame», disse con tono amaro, «monsieur Darcy sembra essere un uomo così amabile!». «Oh! sì», rispose madame di Chaverny con un’espressione di entusiasmo che non aveva potuto reprimere. «Sembra», continuò Châteaufort «farvi dimenticare i vostri vecchi amici». «I miei vecchi amici!», disse Julie con accento un po’ severo. «Non so cosa volete dire». E gli girò le spalle. Poi, prendendo un angolo del fazzoletto che madame Lambert teneva in mano: «Com’è di buon gusto il ricamo di questo fazzoletto!», disse. «È un’opera meravigliosa». «Trovate, mia cara? E un dono di monsieur Darcy, che mi ha portato non so quanti fazzoletti ricamati da Costantinopoli. A proposito, Darcy, è la vostra turca che li ha ricamati?». «La mia turca? Quale turca?». «Sì, quella bella sultana a cui avete salvato la vita, che vi chia­ mava... oh! sappiamo tutto... che vi chiamava... il suo... salva­ tore, ecco. Dovete sapere come si dice in turco». Darcy si batté la fronte ridendo. 122

«È possibile», esclamò, «che la fama della mia disavventura sia già arrivata a Parigi?». «Ma non c’è nessuna disavventura là; forse ce ne può essere una per il Mamamuchi che ha perso la sua favorita». «Ahimè!», rispose Darcy, «mi rendo conto che voi conoscete solo metà della storia, perché è stata un’avventura così triste per me, come fu quella del mulino a vento per don Chisciotte. Dopo aver fatto tanto ridere i franchi, bisogna che sia ancora canzona­ to anche a Parigi per il solo episodio da cavaliere errante di cui mi sia mai reso colpevole!». «Come! Ma noi non ne sappiamo niente. Raccontatecelo!», esclamarono le signore tutte insieme. «Dovrei», disse Darcy, «lasciarvi al racconto che voi già cono­ scete, e dispensarmi dal seguito, i cui ricordi non hanno niente di piacevole per me; ma un mio amico... vi chiedo il permesso di presentarvelo, madame Lambert, sir John Tyrrel... uno dei miei amici, anche lui attore in questa scena tragicomica, verrà presto a Parigi. Lui potrà darvi il piacere maligno di prestarmi nel suo rac­ conto un ruolo ancor più ridicolo di quello che ho interpretato. Ecco il fatto: questa donna infelice, una volta installata nel con­ solato di Francia...». «Oh! ma iniziate dal principio!», esclamò madame Lambert. «Ma lo conoscete già». «Noi non ne sappiamo niente e vogliamo che raccontiate la storia dall’inizio alla fine». «Ebbene, saprete, signore, che mi trovavo a Larnaca nel 18**. Un giorno uscii dalla città per disegnare. Con me c’era un giova­ ne inglese molto piacevole, un bravo ragazzo, buon uomo, di no­ me sir John Tyrrel, uno di quegli uomini preziosi in viaggio, per­ ché pensano alla cena, di quelli che non dimenticano le provvi­ gioni e che sono sempre di buonumore. Per il resto viaggiava sen­ za scopo e non conosceva né la geologia né la botanica, scienze molto sgradevoli in un compagno di viaggio». «Mi ero seduto all’ombra di una casupola, a circa duecento passi dal mare, che in quel luogo era dominato da rocce a picco. Ero molto occupato a disegnare quello che restava di un sarcofa­ go antico, mentre Sir John, sdraiato sull’erba, mi prendeva in gi­ ro per la mia infelice passione per le belle arti fumando del deli­ 123

zioso tabacco di Latakié. Accanto a noi, un dragomanno turco, che avevamo preso a nostro servizio, ci preparava del caffè. Era il migliore preparatore di caffè e il più poltrone di tutti i turchi che ho conosciuto. Improvvisamente sir John esclamò con gioia: “Ecco delle persone che discendono la montagna con la ne­ ve; andiamo a comprarne un po’ per fare un sorbetto con le arance”. Alzai gli occhi e vidi venire verso di noi un asino sul qual era stato caricato, di traverso, un grosso pacco: due schiavi lo reggevano da ogni parte. Davanti, un asinaio conduceva l’asi­ no, e dietro, un venerabile turco, dalla barba bianca, chiudeva il corteo, su un gran bel cavallo. La processione avanzava lenta­ mente e con molta solennità. Il nostro turco, soffiando sul fuoco, gettò un colpo d’occhio al carico dell’asino e ci disse con un singolare sorriso: “Non è neve”. Poi tornò a occuparsi del nostro caffè con la flemma abituale. “Cos’è allora?”, domandò Tyrrel. “Qualcosa da mangiare?”. “Per i pesci”, rispose il turco. In quel momento l’uomo a cavallo partì al galoppo e dirigen­ dosi verso il mare passò dietro di noi, non senza gettare uno di quegli sguardi di disprezzo che spesso i musulmani indirizzano ai cristiani. Spinse il suo cavallo fino alle rocce a picco di cui vi ho già parlato, e lo fermò in breve nel punto più scosceso. Guardò il mare, e sembrava cercare il punto migliore per gettarsi. Esaminammo allora con maggiore attenzione il pacco che l’asi­ no trasportava, e fummo colpiti dalla sua strana forma. Ci torna­ rono subito alla memoria tutti i racconti di donne annegate dai ma­ riti gelosi. Ci scambiammo le nostre riflessioni. “Domanda a questi furfanti”, disse sir John al nostro turco, “se c’è una donna”. Il turco spalancò gli occhi sgranandoli, ma non la bocca. Era evidente che trovava la nostra domanda molto sconveniente. In quel momento il sacco era vicino a noi, lo vedemmo muover­ si distintamente, e sentimmo una specie di gemito o di brontolio. Tyrrel, sebbene gastronomo, aveva uno spirito cavalleresco, Si alzò come una furia, corse dall’asinaio e gli chiese in inglese, tanto era sconvolto dalla collera, cosa portava in quel modo e cosa pretendeva di fare con quel sacco. L’asinaio non si curava 124

di rispondere; ma il sacco si agitò violentemente, si sentirono delle grida di donna: al che i due schiavi cominciarono a dare al sacco dei forti colpi con le cinghie di cui si servivano per far camminare l’asino. Tyrrel era giunto al limite. Con un pugno vi­ goroso e scientifico gettò l’asinaio a terra e prese uno schiavo per la gola: il sacco spinto con violenza nella lotta cadde pesan­ temente sull’erba. Ero accorso. L’altro schiavo raccoglieva delle pietre, l’asinaio si rialzava. Malgrado la mia avversione per l’immischiarmi negli affari altrui, mi era impossibile non aiutare il mio compagno. Es­ sendomi accorto di avere un picchetto che mi serviva a tenere il parasole quando disegnavo, lo bradii minacciando gli schiavi e l’asinaio nel modo più marziale che mi fosse possibile. Andava tutto bene, quando quel diavolo di turco a cavallo, avendo finito di contemplare il mare ed essendosi voltato al rumore che faceva­ mo, partì come una freccia e fu su di noi prima di avere il tempo di pensare: aveva in mano una specie di brutto coltellaccio...». «Un ataghan?», chiese Châteaufort che amava il colore locale. «Un ataghan», riprese Darcy con un sorriso d’approvazione. «Passò accanto a me e mi diede sulla testa un colpo di ataghan da farmi vedere trentasei... candele, come diceva tanto elegantemen­ te il mio amico, il signor marchese di Roseville. Gli risposi asse­ standogli un buon colpo di picchetto sulle reni, e feci mulinello quanto potei colpendo asinaio, schiavi, cavallo e turco, diventato io stesso dieci volte più furioso del mio amico sir John Tyrrel. Il nostro dragomanno conservava la neutralità, e noi non potevamo difenderci a lungo con un bastone contro tre uomini di fanteria, uno di cavalleria e un ataghan. Per fortuna sir John si ricordò di un paio di pistole che avevamo portato. Le recuperò, me ne gettò una e prese l’altra, che rivolse subito contro il cavaliere che ci dava tan­ to da fare. La vista delle armi e il leggero caricamento del cane del­ la pistola produssero un magico effetto sui nemici. Ruggirono ver­ gognosamente, lasciandoci padroni del campo di battaglia, del sac­ co e anche dell’asino. Malgrado tutta la nostra collera, non aveva­ mo sparato, e questo andò bene, perché non si uccide impune­ mente un buon musulmano, e costa caro pestarlo. Quando mi fui un po’ spolverato, la nostra prima preoccupa­ zione fu, come ben immaginate, di andare al sacco e di aprirlo. Ci 125

trovammo dentro una donna molto carina, un po’ grassa, con bei capelli neri, che per solo vestito aveva una camicia di lana azzur­ ra un po’ meno trasparente della sciarpa di madame de Chaverny. Uscì velocemente dal sacco, e senza sembrare per nulla imba­ razzata, ci rivolse un discorso molto patetico senza dubbio, di cui però non comprendemmo una parola; al termine del quale mi ba­ ciò la mano. È stata l’unica volta, signore, che una signora mi ab­ bia tributato questo onore. Il sangue freddo ci era ritornato ben presto. Vedemmo il no­ stro dragomanno strapparsi la barba come un uomo disperato. Io mi sistemai al meglio la testa con il fazzoletto. Tyrrel diceva: “Che diavolo ne facciamo di questa donna? Se restiamo qui, il marito tornerà in forze e ci accopperà; se ritorniamo a Larnaca, con lei nel nostro bell’equipaggio, la canaglia ci lapiderà senza dubbio”. Tyrrel, preoccupato a tutte queste riflessioni, e avendo recuperato la sua flemma britannica, esclamò: “Che diavolo d’idea avete avuto di andare a disegnare oggi!”. La sua esclamazione mi fece ridere, e anche la donna, pur non avendo capito nulla si mise a ridere. Comunque bisogna prendere una decisione. Penso che la co­ sa migliore da fare sia di metterci sotto la protezione del consola­ to di Francia; ma la cosa più difficile è ritornare a Larnaca. Il gior­ no finiva e questa era una circostanza a nostro favore. Il nostro turco ci fece fare una deviazione, e arrivammo senza problemi, grazie alla notte e a questa precauzione, alla casa del console che si trova fuori città. Ho dimenticato di dirvi che avevamo fatto al­ la donna un vestito quasi decente con il sacco e il turbante del no­ stro interprete. Il console ci trattò male, ci disse che eravamo dei folli, che bi­ sognava rispettare gli usi e i costumi del paese dove si viaggia, che non bisogna mettere il dito tra l’albero e la corteccia... Infine ci redarguì pesantemente; e aveva ragione, perché ne avevamo fatta una abbastanza grossa da causare una violenta sommossa e far massacrare tutti i francesi dell’isola di Cipro. Sua moglie fu più umana; aveva letto molti romanzi, e trova­ va il nostro comportamento molto generoso. Di fatto ci eravamo comportati da eroi di romanzo. Questa donna eccellente era mol­ to devota; pensava che avrebbe facilmente convertito l’infedele 126

che avevamo portato, che questa conversione sarebbe stata ricor­ data dal «Moniteur», e che suo marito sarebbe stato nominato console generale. Nella sua testa questo piano si formò in un istante. Abbracciò la donna turca, le donò un vestito, rimproverò al signor console la sua crudeltà e lo spedì dal pascià per sistema­ re la questione. Il pascià era molto in collera. Il marito geloso era un perso­ naggio influente, e mandava fuoco e fiamme. Era un orrore, dice­ va che dei cani di cristiani impedissero a un uomo come lui di get­ tare il suo schiavo in mare. Il console era molto in pena; parlava molto del re suo padrone, ancora di più di una fregata di sessan­ ta cannoni che stava per trovarsi nelle acque di Larnaca. Ma l’ar­ gomento che fece più effetto, fu la proposta, che fece a nome no­ stro, di pagare il giusto prezzo per lo schiavo. Ahimè! se voi sapeste qual è il prezzo giusto per un turco! Bi­ sognava pagare il marito, pagare il pascià, pagare l’asinaio a cui Tyrrel aveva rotto due denti, pagare per lo scandalo, pagare per tutto. Quante volte Tyrrel esclamò dolorosamente: “Perché diavolo andare a disegnare in riva al mare!”». «Che avventura, mio povero Darcy!», disse madame Lam­ bert, «è là dunque che avete ricevuto quello sfregio terribile? Di grazia, spostate i capelli. Ma è un miracolo che non vi abbia spaccato la testa». Per tutto il racconto Julie non aveva levato gli occhi dalla fronte del narratore; alla fine domandò con una voce timida: «Cosa successe alla donna?». «È quella la parte della storia che non mi piace raccontare. Il seguito è così triste per me che giusto mentre ve ne sto parlando, c’è ancora chi prende in giro la nostra combriccola cavalleresca». «Era carina questa donna?», domandò madame de Chaverny arrossendo un po’. «Come si chiamava?», domandò madame Lambert. «Si chiamava Emineh». «Carina?...». «Sì, era molto carina, ma troppo grassa e tutta imbrattata di rosso, secondo l’uso del suo paese. C’è bisogno di molto tempo per apprezzare la bellezza turca. Emineh fu dunque sistemata nella casa del console. Era Mingrélienne e, disse a madame C**'“', 127

la moglie del console, che era figlia di un principe. In quel paese ogni farabutto che comanda dieci altri farabutti è un principe. La trattarono dunque da principessa; cenava a tavola, mangiava per quattro; e poi, quando le si parlava di religione, si addormentava regolarmente. Questa storia durò un po’ di tempo. Alla fine si stabilì il giorno del battesimo. Madame C**'“' si nominò sua ma­ drina, e volle che io fossi padrino insieme a lei. Dolci, regali e tutto ciò che segue!... Era scritto che questa infelice Emineh mi rovinasse. Madame C*** diceva che Emineh mi preferiva a Tyrrel, perché portando il caffè lo lasciava sempre cadere sui miei abiti. Io mi preparavo a questo battesimo con una compunzione veramente evangelica, quando, la vigilia della cerimonia, la bella Emineh scomparve. Devo dire tutto? Il console aveva per cuoco un Mingrélien, certamente un gran furfante, ma bravissimo nel pilaf. Questo Mingrélien era piaciuto a Emineh che senza dub­ bio era a modo suo patriottica. Portò via lei e nello stesso tempo una grossa somma di denaro a madame C***, che non potè più recuperare. Così il console si rimise il suo denaro, la moglie le borse che aveva donato a Emineh, io i guanti, i dolci, per non parlare dei colpi che avevo ricevuto. Il peggio è che in qualche modo mi si ritenne responsabile dell’avventura. Si pretese che ero stato io ad aver liberato quella donna cattiva che vorrei sape­ re in fondo al mare e che aveva attirato tante disgrazie sui miei amici. Tyrrel seppe tirarsene fuori; passò per vittima, mentre in realtà era stato lui l’unica causa di tutta la bagarra, e io rimasi con una reputazione da don Chisciotte e lo sfregio che vedete nuoce molto ai miei successi». Dopo la storia, rientrarono nel salone. Darcy parlò ancora un po’ con madame de Chaverny, poi fu costretto a lasciarla per un giovane uomo molto esperto in economia politica che studiava per diventare deputato e che desiderava avere dei dati statistici sull’impero ottomano.

X Julie, dopo che Darcy l’aveva lasciata, guardava spesso la pen­ dola. Ascoltava Châteaufort con distrazione e i suoi occhi invo128

lontariamente cercavano Darcy che parlava all’altro capo del salo­ ne. Talvolta lui la guardava, continuando a parlare con il suo ap­ passionato di statistica, e lei non riusciva a sostenere il suo sguar­ do penetrante, sebbene calmo. Sentiva che aveva già preso un im­ menso potere su di lei e non pensava più a sottrarvisi. Infine chiese la sua vettura e, vuoi per calcolo, vuoi per preoc­ cupazione, la chiese guardando Darcy con uno sguardo che voleva dire: «Avete perso una mezz’ora che avremmo potuto passare in­ sieme». La vettura era pronta. Darcy continuava a parlare, ma sembrava affaticato e annoiato dal tipo che continuava a fargli do­ mande su domande e non lo lasciava andare. Julie si alzò lenta­ mente, strinse la mano di madame Lambert, poi si diresse verso la porta del salone, sorpresa e quasi stizzita nel vedere Darcy conti­ nuare a rimanere nello stesso posto. Châteaufort era vicino a lei; le offrì il braccio che lei prese macchinalmente senza ascoltarlo, e quasi senza accorgersi della sua presenza. Attraversò il vestibolo, scortata da madame Lambert e da al­ tre persone che la accompagnarono fino alla vettura. Darcy era rimasto in salone. Quando fu seduta nel suo calesse, Châteaufort le domandò sorridendo se non avesse paura tutta sola di notte per strada, aggiungendo che l’avrebbe seguita da vicino con il suo tilbury5, non appena il comandante Perrin avessse terminato la sua partita a biliardo. Julie, che era tutta trasognata, tornò in sé con il suono della sua voce, ma non aveva capito niente. Fece ciò che avrebbe fatto qualsiasi altra donna in tali circostanze: sorrise. Poi, con un cenno della testa, disse addio alle persone riunite sulla scalinata, e i cavalli la portarono rapidamente via. Ma nel preciso istante in cui la sua vettura si era mossa, aveva visto Darcy uscire dal salone, pallido, l’aria triste, gli occhi fissi su di lei, come se le chiedesse un addio distinto. Ella partì, portando con sé il rimpianto di non aver potuto fare un cenno con la testa a lui solo, e pensò anche che dovesse esssere stizzito. Aveva già di­ menticato di aver affidato a un altro la cura di condurre la sua vet­ tura; ora i torti erano da parte sua, e se li rimproverava come un grande crimine. I sentimenti che aveva provato per Darcy qualche anno prima, lasciandolo dopo quella serata in cui aveva cantato 5 [Piccola carrozza].

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male, erano meno vivi di quelli che sentiva questa volta. E non era­ no stati solo gli anni a rafforzare le sue impressioni: era stata tutta la collera verso suo marito ad accrescerle. Forse quella specie di at­ trazione che aveva sentito nei confronti di Châteaufort, che d’al­ tronde in quel momento era completamente dimenticato, l’aveva preparata a lasciarsi andare, senza troppi rimorsi, al sentimento ben più vivo che provava per Darcy. Quanto a lui, i suoi pensieri era di una natura più calma. Aveva incontrato con piacere una donna graziosa che gli ricor­ dava momenti felici, e la cui frequentazione gli sarebbe stata probabilmente piacevole per l’inverno che avrebbe trascorso a Parigi. Ma, una volta che non era più davanti ai suoi occhi, gli restava più o meno il ricordo di qualche ora trascorsa allegra­ mente, ricordo la cui dolcezza era ancora alterata dalla prospet­ tiva di andare a dormire tardi e di fare quattro leghe per ritro­ vare il letto. Lasciamolo, tutto solo ai suoi pensieri prosaici, av­ volgersi con cura nel suo cappotto, sistemarsi comodamente nella sua carrozza a noleggio, perdersi nei suoi pensieri dal sa­ lone di madame Lambert a Costantinopoli, da Costantinopoli a Corfù, da Corfù a un dormiveglia. Caro Lettore, se non ha nulla in contrario, noi seguiremo madame de Chaverny.

XI

Quando madame de Chaverny lasciò il castello di madame Lambert la notte era orribilmente nera, l’aria pesante e soffocan­ te: di quando in quando, i lampi, illuminando il paesaggio, dise­ gnavano le figure nere degli alberi sullo sfondo di un livido tem­ porale. L’oscurità sembrava raddoppiare a ogni lampo, e il coc­ chiere non riusciva a vedere la testa dei suoi cavalli. Ben presto scoppiò un violento acquazzone. La pioggia, che cadeva prima in gocce larghe e rade, si tramutò presto in un vero e proprio dilu­ vio. Ovunque il cielo era di fuoco e l’artiglieria celeste comincia­ va a diventare assordante. I cavalli, affaticati, soffiavano forte e si impennavano invece di avanzare, ma il cocchiere aveva la pancia piena: la sua spessa finanziera, e soprattutto il vino che aveva be­ 130

vuto, gli impedivano di temere l’acqua e i cattivi cammini. Fru­ stava con energia le povere bestie, non pilotameno intrepido di Cesare nella tempesta, quando diceva alla sua guida: «Tu porti Cesare e il suo destino!». Madame de Chaverny, non avendo paura dei tuoni, non si oc­ cupava del temporale. Si ripeteva tutto quello che le aveva detto Darcy, e si pentiva di non avergli detto cento altre cose che avreb­ be potuto dirgli, quando improvvisamente venne interrotta nelle sue meditazioni da un violento colpo alla sua vettura: nello stes­ so momento i vetri volarono in pezzi, si sentì uno scricchiolio di cattivo presagio; il calesse era precipitato in un fosso. Julie se la cavò solo con un bello spavento. Ma la pioggia non smetteva; si era rotta una ruota; le lanterne si erano spente e in giro non si ve­ deva una sola casa per mettersi al riparo. Il cocchiere bestemmia­ va, il valletto malediceva il cocchiere, e imprecava contro la sua goffaggine. Julie rimaneva nella vettura, domandando come poter ritornare a o quello che bisognasse fare; ma a ogni doman­ da che poneva riceveva la stessa disperante risposta: «È impossibile!». Si sentì da lontano il rumore sordo di una vettura che si avvi­ cinava. Il cocchiere di madame de Chaverny riconobbe subito, con sua grande soddisfazione, uno dei colleghi con il quale aveva gettato le basi di una tenera amicizia nelle scuderie di madame I .ambert: gli gridò di fermarsi. La vettura si fermò; e appena fu pronunciato il nome di mada­ me de Chaverny, un giovanotto che si trovava nella carrozza aprì lui stesso la porta e, chiedendo: «E ferita?» si slanciò con un balzo sul calesse di Julie. Lei aveva riconosciuto Darcy, lo aspettava. Le loro mani si incontrarono nell’oscurità e Darcy credette di sentire che madame de Chaverny stringesse la sua; ma forse era un effetto della paura. Dopo le prime domande, Darcy offrì na­ turalmente la sua vettura. Julie non rispose subito, perché era molto indecisa sul partito da prendere. Da una parte, pensava al­ le tre o quattro leghe che avrebbe fatto da sola con un giovanot­ to se voleva andare a Parigi; dall’altra, se tornare al castello a chie­ dere ospitalità a madame Lambert, fremeva all’idea di raccontare il romanzesco incidente della vettura ribaltata e del soccorso rice­ vuto da Darcy. Ricomparire nel salone in mezzo alla partita di 131

whist, salvata da Darcy come la donna turca... non poteva nep­ pure pensarci. Ma anche tre lunghe leghe fino a Parigi!... Mentre vagava così nell’incertezza e balbettava maldestramente qualche frase banale sul disturbo che stava arrecando, Darcy, che sembra­ va leggere nel fondo del suo cuore, le disse freddamente: «Pren­ dete la mia vettura madame, io resterò nella vostra fino a che non passerà qualcuno diretto a Parigi». Julie, temendo di mostrarsi troppo pudica, si affrettò ad accet­ tare la prima offerta, ma non la seconda. E dato che la sua deci­ sione fu tutta improvvisa, non ebbe il tempo di risolvere l’impor­ tante questione di sapere se si fosse ritornati a P*** o a Parigi. Era già nella vettura di Darcy, avvolta nel cappotto che lui si affrettò a darle, e i cavalli trottavano velocemente verso Parigi, prima che lei avesse pensato a dire dove voleva andare. Il suo domestico aveva scelto per lei e aveva indicato al cocchiere il nome e la stra­ da della sua padrona. La conversazione cominciò con imbarazzo da una parte e dal­ l’altra. Il tono di voce di Darcy era secco, e sembrava annunciare un po’ di stizza. Julie immaginò che l’avesse colpito la sua indeci­ sione e che la considerasse una ridicola puritana. Ella subiva già talmente l’influenza di quest’uomo che si indirizzava interior­ mente vivi rimproveri e non pensava che a dissipare quel movi­ mento di stizza di cui si era accusata. L’abito di Darcy era bagna­ to, se ne era accorta, e, sbarazzandosi subito del cappotto, esiget­ te che lo indossasse. Da lì una lotta di generosità, da cui risultò che avendo tagliato a metà la controversia, ciascuno ebbe la sua metà di cappotto. Imprudenza enorme che non avrebbe commesso sen­ za quel momento di esitazione che voleva far dimenticare! Erano così vicino l’uno all’altra che la guancia di Julie poteva sentire il calore del respiro di Darcy. I sobbalzi della vettura li av­ vicinarono anche di più. «Il cappotto che ci copre entrambi», disse Darcy, «mi fa veni­ re in mente le sciarade di un tempo. Vi ricordate di essere stata la mia Virginie, quando ci vestimmo in modo ridicolo tutti e due, con la mantellina di vostra nonna?». «Sì, e della mercuriale che mi fece in quella occasione». «Ah!», esclamò Darcy, «che tempi felici quelli! Quante volte ho ripensato con un misto di tristezza e felicità alle nostre divine 132

serate di rue de Bellechasse! Vi ricordate le belle ali d’avvoltoio che vi avevano attaccato alle spalle con dei nastri rosa, e il becco di carta dorata che vi avevo fabbricato con tanta maestria?». «Sì», rispose Julie, «voi eravate Prometeo e io l’avvoltoio. Ma che memoria che avete! Come potete ricordare tutte queste fol­ lie? Perché è tanto che non ci vediamo!». «Mi chiedete un complimento?», chiese Darcy sorridendo e avanzando in modo da gurdarla in faccia. Poi, con un tono più serio: «In verità», proseguì, «non è poi così straordinario che abbia conservato il ricordo dei momenti più felici della mia vita». «Che talento avevate per le sciarade!...», intervenne Julie, che temeva che la conversazione potesse assumere un tono troppo sentimentale. «Volete che vi dia un’altra prova della mia memoria?», la inter­ ruppe Darcy. «Vi ricordate del nostro patto d’alleanza da madame Lambert? Ci siamo promessi di parlare male dell’intero universo; in compenso, di sostenerci l’un l’altra e contro tutti... Ma il nostro trattato ha fatto la fine di tutti i trattati: è rimasto lettera morta». «Che ne sapete?». «Ahimè! immagino che non abbiate avuto spesso occasione di difendermi; perché, una volta lontano da Parigi, quale ozioso si è occupato di me?». «Di difendervi... no... ma di parlare di voi ai vostri amici...». «Oh! i miei amici!», esclamò Darcy con un sorriso misto di tristezza, «non ne avevo nessuno all’epoca, almeno che conoscia­ te anche voi. I giovani che frequentavano la vostra signora madre mi odiavano, non so perché; e quanto alle donne, pensavano po­ co a monsieur l’addetto al Ministero degli Affari esteri». «Perché voi non vi occupavate di loro». «Questo è vero. Non sono mai riuscito a essere amabile con le persone che non mi piacciono». Se l’oscurità avesse permesso di distinguere il volto di Julie, Darcy avrebbe potuto vedere che un vivo rossore si era diffuso sui suoi tratti ascoltando quest’ultima frase, alla quale aveva attri­ buito un significato forse che Darcy neanche si sognava. Comunque sia, lasciando là dei ricordi troppo ben custoditi dall’uno e dall’altra, Julie volle ricondurli un po’ sui suoi viaggi, 133

sperando che, in questo modo, sarebbe stata dispensata dal parla­ re. Il procedimento riesce quasi sempre con i viaggiatori, soprat­ tutto con quelli che visitano qualche lontano paese. «Che bel viaggio il vostro!», disse, «e come rimpiango di non poterne fare uno simile!». Ma Darcy non era più in umore da raccontare. «Chi è quel giovanotto con i baffi», domandò bruscamente, «che vi parlava sempre?». «È un amico di mio marito», rispose,«un ufficiale del suo reg­ gimento... Si dice», proseguì senza voler abbandonare il suo te­ ma orientale, «che le persone che hanno visto quel bel cielo az­ zurro d’Oriente non possano più vivere altrove». «Non mi è piaciuto per niente, non so perché... Parlo dell’ami­ co di vostro marito, non del cielo azzurro... Quanto a quel cielo azzurro, madame, Dio ve ne preservi! Si finisce per averlo talmen­ te a noia a forza di vederlo sempre uguale, che si preferirebbe co­ me il più bello di tutti gli spettacoli una fumosa sala di Parigi. Nien­ te infastidisce più i nervi, credetemi, di quel cielo azzurro, che era azzurro ieri e sarà azzurro domani. Se sapeste con quale impazien­ za, con quale disappunto sempre nuovo si aspetta una nuvola!». «Eppure siete rimasto a lungo sotto quel cielo azzurro!». «Ma, madame, mi era difficile fare altrimenti. Se avessi potuto seguire solo la mia inclinazione sarei ben presto tornato nei pres­ si di rue de Bellechasse, dopo aver soddisfatto il piccolo moto di curiosità che dovevano necessariamente esercitare gli stranieri d’Oriente». «Credo che molti viaggiatori direbbero la stessa cosa se fosse­ ro franchi come voi... Come si passa il tempo a Costantinopoli e nelle altre città d’Oriente?». «Là, come dappertutto, ci sono molti modi di ammazzare il tempo. Gli inglesi bevono, i francesi giocano, i tedeschi fumano, e alcuni di spirito, per variare i loro piaceri, si fanno tirare dei colpi di fucile arrampicandosi sui tetti per sbirciare le donne locali». «E probabilmente a quest’ultima occupazione che voi date la preferenza». «Niente affatto. Io, io studiavo il turco e il greco, cosa che mi copriva di ridicolo. Quando avevo terminato gli impegni del­ l’ambasciata, disegnavo, correvo alle Acque Dolci, e poi andavo 134

sul bordo del mare a vedere se non arrivava qualche figura uma­ na dalla Francia o da altrove». «Doveva essere un grande piacere per voi vedere un francese a così grande distanza dalla Francia». «Sì, ma per un uomo intelligente, quanti mercanti di chinca­ glieria o cachemire; o, il che è peggio, giovani poeti, che quando vedono anche da lontano qualcuno dell’ambasciata, gli gridano: “Portatemi a vedere le rovine, portatemi a Santa Sofia, conduce­ temi sulle montagne, o al mare azzurro; voglio vedere i luoghi dove sospirava Erodoto!”. Poi, quando sono colpiti da un bel colpo di sole, si rinchiudono nelle loro camere, e non vogliono vedere nient’altro che l’ultimo numero del “Constitutionnel”». «Vedete tutto storto, secondo la vostra vecchia abitudine. Non vi siete corretto, sapete? Perché siete sempre molto beffardo». «Ditemi, madame, è permesso a un dannato che frigge nella sua padella di rallegrarsi un po’ a spese dei suoi compagni di frit­ tura? Sul mio onore! Non sapete com’è miserabile la vita che vi­ viamo laggiù. Noi altri segretari d’ambasciata siamo simili alle rondini che non si fermano mai. Per noi nessuna di quelle rela­ zioni intime che fanno la felicità della vita... mi sembra. (Pro­ nunciò queste due ultime parole con un accento singolare e avvi­ cinandosi a Julie.) Per sei anni non ho trovato nessuno con cui scambiare i miei pensieri». «Non avete amici laggiù?». «Vi sto dicendo che è impossibile averne nei paesi stranieri. Ne avevo lasciati due in Francia. Uno è morto; l’altro si trova ora in America, da dove ritornerà tra qualche anno, se la febbre gial­ la non lo trattiene». «Così siete solo?...». «Solo». «E la società delle donne, com’è in Oriente? Vi offre qualche risorsa?». «Oh! quella, è la peggiore di tutte. Quanto alle donne turche, neanche a pensarci. Delle greche e delle armene, quello che si può dire di meglio a loro merito, è che sono molto carine. Dispensa­ temi dal parlare delle donne dei consoli e degli ambasciatori. È una questione diplomatica; e se dicessi ciò che penso, potrei pro­ curarmi dei fastidi agli Affari esteri». 135

«Non sembra che a voi piaccia molto la vostra carriera. Un tempo desideravate con tanto ardore entrare in diplomazia!». «Non conoscevo ancora il mestiere. Ora vorrei essere ispetto­ re dei rifiuti di Parigi!». «Ah! Dio! Come potete dire questo? Parigi! il più noioso sog­ giorno della terra!». «Non bestemmiate. Vorrei sentire la vostra palinodia a Napo­ li, dopo due anni di soggiorno in Italia». «Vedere Napoli è una delle cose che più desidererei al mondo», rispose sorridendo, «sempre che i miei amici fossero con me». «Oh! a questa condizione farei il giro del mondo. Viaggiare con i propri amici! Ma è come se uno rimanesse nel proprio salo­ ne mentre il mondo passa davanti alle vostre finestre come un pa­ norama che si snoda». «Ebbene, se è chiedere troppo, vorrei viaggiare con... due amici solamente». «Per quanto mi riguarda io non sono così ambizioso; ne vor­ rei uno solo, o una sola», aggiunse sorridendo. «Ma è una felicità che non ho mai avuto... e che non avrò», riprese con un sospiro. Poi, con tono più allegro: «In verità, sono sempre stato sfortuna­ to. Non ho mai desiderato vivamente che due cose, e non le ho potute ottenere». «Cosa?». «Oh! niente di strano. Per esempio, ho desiderato appassiona­ tamente poter ballare il valzer con qualcuno... Ho fatto degli stu­ di approfonditi sul valzer. Mi sono esercitato per mesi interi, solo, con una sedia, per superare lo stordimento che non mancava mai di capitarmi, e quando sono riuscito a non avere più vertigini...». «E con chi desiderereste ballare il valzer?». «Se vi dicessi con voi?... E quando sono diventato, a forza di pene, un ballerino di valzer consumato, vostra nonna, che aveva appena preso un confessore giansenista, proibì il valzer con un ordine del giorno che non ho ancora digerito». «E il vostro secondo desiderio?...», domandò Julie molto turbata. «Il mio secondo desiderio, ve lo cedo. Avrei voluto, era trop­ po ambizioso per me, avrei voluto essere amato... ma amato... È prima del valzer che avrei desiderato così, e non seguo l’ordine 136

cronologico... Avrei voluto, dico, essere amato da una donna che mi avesse preferito a un ballo, il più pericoloso di tutti i rivali; da una donna che avrei potuto andare a trovare con gli stivali inzac­ cherati nel momento in cui ella fosse stata pronta a salire in vet­ tura per andare al ballo. Avrebbe avuto una grande toilette, e mi avrebbe detto: Rimaniamo. Ma era una follia. Si devono chiedere solo cose possibili». «Come siete cattivo! Sempre osservazioni ironiche! Niente trova grazia davanti a voi. Non avete pietà per le donne». «Io! Dio me ne guardi! È di me piuttosto che sparlo. È dire male delle donne sostenere che preferiscono una piacevole sera­ ta... a un tête-à-tête con me?». «Un ballo!... una toilette!... Ah! mio Dio!... Chi ama il ballo ora!...». Ella non pensava più a giustificare tutto il suo sesso chiamato in causa; credeva di capire il pensiero di Darcy, e la povera donna non ascoltava che il suo cuore. «A proposito di toilette da ballo, che peccato che non siamo più a carnevale! Ho portato un costume da donna turca che è bel­ lissimo, e che vi starebbe d’incanto». «Me ne farete un disegno per il mio album». «Molto volentieri. Vedrete che progressi ho fatto dal tempo in cui scarabocchiavo delle figurine sulla tavola da tè di madame vostra madre. A proposito, madame, devo farvi un complimen­ to; mi hanno detto stamattina al ministero che monsieur de Chaverny sarà nominato gentiluomo della camera. Mi ha fatto un gran piacere». Julie trasalì involontariamente. Darcy proseguì senza rendersi conto di questo movimento: «Permettetemi di domandarvi ora... Ma, in fondo, non sono troppo contento della vostra nuova posizione. Temo che siate ob­ bligata ad andare ad abitare a Saint-Cloud per l’estate, e allora avrò meno spesso l’onore di vedervi». «Non andrò mai a Saint-Cloud», disse Julie con una voce molto commossa. «Oh! tanto meglio, perché Parigi, vedete, è il paradiso da cui si può uscire solo per andare di quando in quando a cena in cam­ pagna da madame Lambert, a condizione di tornare la sera. Co­ 137

me siete fortunata, madame, di vivere a Parigi! Io che non vi ri­ marrò forse che per poco tempo, non avete idea di quanto mi sen­ ta felice nel piccolo appartamento che mia zia mi ha dato. E voi, voi abitate, mi hanno detto, nel fabourg Saint-Honoré. Mi hanno indicato la vostra casa. Dovete avere un giardino delizioso, se la mania di costruire non ha già cambiato i vostri viali in negozi». «No, il mio giardino è ancora intatto, grazie a Dio». «Che giorno ricevete, madame?». «Sono in casa quasi tutte le sere. Mi farebbe piacere se voleste venirmi a trovare qualche volta». «Vedete madame, che io mi comporto come se il nostro patto esistesse ancora. Mi invito da solo senza cerimonie e senza pre­ sentazione ufficiale. Mi perdonerete, no?... Conosco solo voi a Parigi e madame Lambert. Tutti mi hanno dimenticato, ma le vo­ stre due case sono le sole che io abbia rimpianto in esilio. Soprat­ tutto il vostro salotto deve essere incantevole. Voi che scegliete così bene gli amici!... Vi ricordate i progetti che facevate un tem­ po per quando sareste diventata una padrona di casa? Un salotto inaccessibile ai noiosi; talvolta della musica, conversazione sem­ pre e fino a tardi; persone non di pretese, un piccolo numero che si conosce perfettamente e che di conseguenza non cerca di men­ tire né di fare effetto... Due o tre donne spirituali (ed è impossi­ bile che le vostre amiche non lo siano); e la vostra casa è la più pia­ cevole di Parigi. Sì, voi siete la più fortunata delle donne, e ren­ dete felici tutti coloro che vi avvicinano». Mentre Darcy parlava, Julie pensava che la felicità che descri­ veva con tanta vivacità l’avrebbe potuta avere se si fosse sposata con un altro uomo... con Darcy, per esempio. Invece di questo salotto immaginario, così elegante e piacevole, pensava ai noiosi che Chaverny aveva attirato... invece di queste conversazioni co­ sì allegre, si ricordava le scene coniugali come quella che l’aveva portata a P***. Infine si vedeva infelice per sempre, legata per la vita al destino di un uomo che odiava e disprezzava; mentre co­ lui che trovava la persona più amabile di tutte, colui che avrebbe voluto incaricare della propria felicità, doveva restare per sempre un estraneo. Era suo dovere evitarlo, separarsene... ma lui le era così vicino, tanto che le maniche del suo vestito erano mosse dai revers di quello di lui! 138

Darcy continuò un po’ a dipingere i piaceri della vita a Parigi con tutta l’eloquenza che una lunga privazione gli offriva. Men­ tre Julie sentiva le lacrime colare lungo le guance. Aveva timore che Darcy se ne accorgesse, e il contegno che si imponeva raffor­ zava ancora di più la commozione. Soffocava; non osava fare un movimento. Infine le sfuggì un singhiozzo, e tutto fu perduto. La testa le cadde fra le mani, a metà soffocata dalle lacrime e dalla vergogna. Darcy che non pensava a niente di meno, fu ben scosso. Per un istante la sorpresa lo rese muto; ma i singhiozzi raddoppiava­ no, si credette obbligato a parlare e a domandare il motivo di quelle lacrime improvvise. «Cos’avete, madame? In nome di Dio, madame... rispondete­ mi. Che succede?». E dato che la povera Julie, a tutte queste domande, stringeva con forza maggiore il fazzoletto sugli occhi, lui le prese la mano e, allontanando dolcemente il fazzoletto: «Vi scongiuro, madame», disse con un tono della voce altera­ to che penetrò Julie fino al fondo del cuore, «vi scongiuro, cosa avete? Vi ho forse offeso involontariamente?... Mi fate disperare con il vostro silenzio». «Ah!», esclamò Julie non potendo più contenersi, «sono così infelice!», e singhiozzò ancora più forte. «Infelice? Come?... Perché?... chi può rendervi infelice? ri­ spondetemi». E così parlando, le strinse le mani e la sua testa toccò quasi quella di Julie, la quale continuava a piangere invece di risponde­ re. Darcy non sapeva cosa pensare, ma era commosso dalle sue la­ crime. Si sentiva ringiovanito di sei anni, e cominciava a intrave­ dere un avvenire che non si era ancora presentato alla sua imma­ ginazione, che dal ruolo di confidente avrebbe potuto ben passa­ re a un altro più elevato. Dato che lei si ostinava a non rispondere, Darcy, temendo che si sentisse male, abbassò uno dei vetri della vettura, staccò i nastri dal cappello di Julie, scostò il suo cappotto e la sciarpa. Gli uomini sono goffi in queste premure. Voleva far fermare la vettura nei pressi di un villaggio, e stava già chiamando il coc­ chiere, quando Julie, toccandondogli il braccio, lo supplicò di 139

non fermarsi e lo assicurò che stava molto meglio. Il cocchiere non aveva sentito niente e continuava a dirigere i cavalli verso Parigi. «Ma vi supplico, mia cara madame de Chaverny», disse Darcy, riprendendole la mano che aveva abbandonato un istante, «vi scongiuro, ditemi, cosa avete? Ho paura... Non posso capire co­ me sono stato tanto infelice da farvi pena». «Ah! non si tratta di voi!», esclamò Julie, e gli strinse un po’ la mano. «Ebbene, ditemi, chi può farvi piangere così? Parlatemi in confidenza. Non siamo vecchi amici?», aggiunse sorridendo e stringendo a sua volta la mano di Julie. «Voi mi parlate della felicità di cui mi credete avvolta... e que­ sta felicità è così lontana da me!». «Come! Non avete tutti i motivi per essere felice...? Siete giovane, ricca, graziosa... Vostro marito ha un rango distinto in società...». «Lo detesto!», esclamò Julie fuori di sé, «lo disprezzo!». E si nascose la testa nel fazzoletto singhiozzando ancor più forte di prima. «Oh! oh!», pensò Darcy, «la cosa diventa molto grave». E, approfittando con abilità di tutte le scosse della vettura per avvicinarsi ancora di più alla povera Julie: «Perché», le chiese con la voce più dolce e più tenera del mon­ do, «perché vi affliggete così? Come può un essere che voi di­ sprezzate avere tanta influenza sulla vostra vita? Perché gli per­ mettete di avvelenare la vostra felicità? Ma è forse a lui che dove­ te chiedere questa felicità?...». E le baciò la punta delle dita; ma dato che ella ritirò subito la mano con terrore, lui temette di essersi spinto troppo lontano... Tuttavia, determinato a vedere la fine dell’avventura, disse sospi­ rando in modo iprocrita: «Mi sono sbagliato! Quando ho saputo del vostro matrimo­ nio, credevo che monsieur de Chaverny vi piacesse davvero». «Ah! monsieur Darcy, non mi avete mai conosciuta!». Il tono della sua voce diceva chiaramente: «Vi ho sempre ama­ to, e voi non avete voluto accorgervene». La povera donna in quel momento credeva davvero, con la più grande fede del mon­ 140

do, di aver sempre amato Darcy nei sei anni passati, tanto era l’a­ more che sentiva per lui in quel momento. «E voi!», esclamò Darcy animandosi, «voi, madame, mi avete mai conosciuto davvero? Avete saputo mai quali fossero i miei sentimenti? Ah! se mi aveste conosciuto meglio, sicuramente ora saremmo stati felici entrambi». «Come sono infelice!», ripete Julie raddoppiando le lacrime e stringendogli la mano con forza. «Ma quand’anche mi avreste compreso, madame», continuò Darcy con quell’espressione di ironica malinconia che gli era abituale, «quale sarebbe stato il risultato? Ero senza fortuna; la vostra era considerevole; vostra madre mi avrebbe respinto con disprezzo. Ero condannato in partenza. Voi stessa, sì, voi Julie, prima che un’esperienza fatale non vi avesse mostrato dove fos­ se la vera felicità, voi avreste sicuramente riso della mia presun­ zione, e una vettura ben verniciata, con una corona di conte sul­ la bandiera sarebbe stato senza dubbio il mezzo più sicuro per piacervi». «O Cielo! anche voi! Nessuno dunque avrà pietà di me?». «Perdonatemi, cara Julie!», esclamò anche lui molto commos­ so, «perdonatemi, ve ne supplico. Dimenticate questi rimproveri; no, non ho il diritto di farvene, io. Io sono più colpevole di voi... Non vi ho saputo apprezzare. Vi ho creduto debole come le don­ ne del mondo in cui vivete; ho dubitato del vostro coraggio, cara Julie, e ne sono crudelmente punito!...». Le baciò con trasporto le mani che lei non ritirò più; fece per avvicinarla a lui... ma Julie lo respinse con una viva espressione di terrore e si allontanò da lui tanto quanto lo poteva permettere la larghezza della vettura. Al che Darcy, con una voce la cui dolcezza rendeva l’espres­ sione più straziante: «Scusatemi, madame, avevo dimenticato Parigi. Mi ricordo ora che ci si sposa, ma che non ci si ama». «Oh! sì, vi amo», mormorò lei in singhiozzi; e abbandonò la testa sulla spalla di Darcy. Darcy la strinse tra le braccia con trasporto, cercando di fer­ mare le sue lacrime con i baci. Lei tentò di nuovo di allontanare la sua stretta, ma questo fu l’ultimo sforzo che tentò. 141

XII

Darcy si era sbagliato sulla natura della sua emozione: bisogna dirlo, non era innamorato. Aveva approfittato di una fortuna che sembrava essergli caduta sulla testa, e che ben meritava di non la­ sciarsi scappare. Del resto, come tutti gli uomini, aveva molta più eloquenza nel chiedere che non nel ringraziare. Comunque era gentile, e la gentilezza spesso prende il posto dei più rispettabili sentimenti. Passato il primo momento d’ebbrezza, snocciolava a Julie tenere frasi che componeva senza troppo sforzo, e che ac­ compagnava con numerosi baciamano che gli facevano rispar­ miare altrettante parole. Vedeva senza rimorsi che la vettura era già alle sbarre, e che in pochi minuti si sarebbe separato dalla sua conquista. Il silenzio di madame de Chaverny al posto delle sue proteste, la prostrazione nella quale sembrava essere caduta, ren­ deva difficile, anche noiosa, se posso dirlo, la posizione del suo nuovo amante. Rimaneva immobile, in un angolo della vettura, stringendo macchinalmente il suo scialle al petto. Non piangeva più; i suoi occhi erano fissi, e quando Darcy le prendeva la mano per ba­ ciarla, questa mano, una volta abbandonata, ricadeva come mor­ ta sulle sue ginocchia. Non parlava, ascoltava a malapena; ma una moltitudine di pensieri laceranti si presentavano tutti insieme al suo spirito, e se ne avesse voluto esprimere uno, un altro all’i­ stante veniva a chiuderle la bocca. Come rendere il caos di questi pensieri, o piuttosto queste im­ magini che si succedevano con la rapidità del battito del suo cuo­ re? Credeva di sentire alle orecchie parole senza legami e senza seguito, ma tutte con un senso terribile. La mattina aveva accusa­ to suo marito, era vile ai suoi occhi; ora lei era cento volte più disprezzabile. Le sembrava che la sua vergogna fosse pubblica. L’a­ mante del duca de H*** l’avrebbe a sua volta respinta. Madame Lambert, tutti i suoi amici non l’avrebbero voluta più vedere. E Darcy? L’amava? La conosceva appena. L’aveva dimenticata. Non l’aveva riconosciuta subito. Forse l’aveva trovata molto cambiata. Si era comportato con freddezza con lei: era quello il colpo di grazia. Il suo trasporto per un uomo che la conosceva appena, che non le aveva dimostrato l’amore... ma solo della gen­ 142

tilezza. Era impossibile che l’amasse. Lei stessa, lo amava? No, perché si era sposata appena lui era partito. Quando la vettura entrò a Parigi, gli orologi batterono l’una. Alle quattro aveva visto Darcy per la prima volta. Sì, visto, non poteva dire rivisto... Aveva dimenticato i suoi tratti, la sua vo­ ce; era un estraneo per lei... Nove ore dopo, era diventata la sua amante!... Nove ore erano state sufficienti per questa singolare fascinazione... erano state sufficienti perché lei fosse disonora­ ta ai suoi stessi occhi, agli occhi dello stesso Darcy; perché cosa poteva pensare lui di una donna così debole? Come non di­ sprezzarla? Talvolta la dolcezza della voce di Darcy, le tenere parole che lui le rivolgeva la rianimavano un po’. Allora si sforzava di cre­ dere che lui davvero la amasse di quell’amore che le diceva. Non si era arresa così facilmente. Il loro amore durava da quando Darcy l’aveva lasciata. Darcy doveva sapere che lei si era sposata solo in seguito al dispetto che la sua partenza le aveva fatto senti­ re. I torti erano dalla parte di Darcy. Tuttavia lui l’aveva sempre amata durante la sua lunga assenza. E, al suo ritorno, era stato fe­ lice di ritrovarla costante come lui. La franchezza della sua con­ fessione, la sua stessa debolezza dovevano far piacere a Darcy che detestava la dissimulazione. Ma l’assurdità di questi ragionamen­ ti le fu presto ben evidente. Le idee consolanti svanirono, e rima­ se in preda alla vergogna e alla disperazione. Per un istante volle esprimere quello che sentiva. Si vedeva già come proscritta dalla società, abbandonata dalla famiglia. Dopo aver così gravemente offeso suo marito, la sua fierezza non le per­ metteva di rivederlo più. «Sono amata da Darcy», si disse, «non posso amare che lui. Senza di lui non posso essere felice. Con lui sarò felice ovunque. Andiamo insieme in un luogo in cui non possa vedere nessuno che mi faccia arrossire. Che mi porti con lui a Costantinopoli...». Darcy era a cento leghe dall’indovinare quello che passava nel cuore di Julie. Aveva appena sottolineato che stavano entrando nella strada dove abitava madame de Chaverny e si rimetteva i guanti con grande sangue freddo. «A proposito», disse, «è necessario che io sia presentato uffi­ cialmente a monsieur de Chaverny... Suppongo che presto sare­ 143

mo buoni amici. Presentato da madame Lambert, sarò ben ac­ colto nella vostra casa. Nell’attesa, dato che è in campagna, pos­ so vedervi?». La voce morì sulle labbra di Julie. Ogni parola di Darcy era una pugnalata. Come parlare di fuga, di rapimento, a quest’uomo così calmo, così freddo, che non pensava che a sistemare la sua re­ lazione per l’estate, nel modo più comodo? Ruppe con rabbia la catena d’oro che portava al collo, e piegò le catenelle tra le dita. La vettura si fermò alla porta della casa che abitava. Darcy fu molto sollecito a sistemarle lo scialle sulle spalle, ad aggiustare il suo cappello in modo conveniente. Quando la portiera si aprì, le porse la mano con l’aria più rispettosa, ma Julie si lanciò a terra senza volersi appoggiare a lui. «Vi chiederò il permesso, madame», disse inchinandosi profondamente «di venire a domandare vostre notizie». «Addio!», disse Julie con voce soffocata. Darcy rimontò nel suo scompartimento e si fece portare a ca­ sa fischiettando il motivo di un uomo molto soddisfatto della sua giornata.

XIII

Appena si ritrovò nel suo appartamento da scapolo, Darcy in­ dossò un vestito da camera turco, mise delle pantofole e avendo ca­ ricato di tabacco Latakié una lunga pipa il cui cannello era di marasco di Bosnia e il bocchino d’ambra bianca, sentì il dovere di as­ saporarlo accomodandosi in una grande poltrona guarnita di ma­ rocchino e debitamente imbottita. Alle persone che si stupiranno di vederlo in questa volgare occupazione nel momento in cui for­ se avrebbe dovuto sognare più poeticamente, risponderò che una buona pipa è utile, se non necessaria, al sogno, e che il vero mezzo per gioire appieno di una felicità, è di associarla a un’altra felicità. Uno dei miei amici, uomo molto sensuale, non apriva mai una let­ tera della sua amante prima di aver tolto la cravatta, attizzato il fuo­ co se si era in inverno, ed essersi sistemato su un comodo divano. «In realtà», si disse Darcy, «sarei stato un grande sciocco se avessi seguito il consiglio di Tyrrel, e se avessi comprato una 144

schiava greca per condurla a Parigi. Perdio! sarebbe stato, come diceva il mio amico Haleb-Effendi, sarebbe stato portare dei fichi a Damasco. Grazie a Dio! La civiltà ha fatto passi da gigante du­ rante la mia assenza, e non sembrava che la rigidità fosse portata all’eccesso... Quel povero Chaverny!... Ah! ah! Eppure, se fossi stato abbastanza ricco qualche anno fa, avrei sposato Julie e forse sarebbe stato Chaverny a riccompagnare Julie questa sera. Se mai mi sposerò, farò controllare spesso la vettura di mia moglie, in modo tale che non abbia bisogno di cavalieri erranti che la tirino fuori dai fossati... Vediamo, ricordiamo. Tutto sommato, è una donna molto graziosa, ha dello spirito e, se non fossi così vecchio come sono, non spetterebbe che a me credere che è per il mio prodigioso merito!... Ah il mio prodigioso merito!... Ahimè! ahimè! in un mese il mio merito sarà al livello di quel signore con i baffi... Perdinci! Avrei preferito che quella piccola Nastasia, che ho tanto amato, avesse saputo leggere e scrivere e parlare come si deve con gente perbene, perché credo che sia la sola donna che abbia mai amato... Povera piccola!...». La sua pipa si spense e presto si addormentò.

XIV

Rientrando nel suo appartamento, madame de Chaverny rac­ colse tutte le sue forze per dire con aria naturale alla sua camerie­ ra che non aveva bisogno di lei, e che la lasciasse sola. Appena la ragazza fu uscita, si gettò sul letto e là si mise a piangere più ama­ ramente, ora che si trovava sola, mentre la presenza di Darcy l’a­ veva costretta a trattenersi. La notte senza dubbio influisce profondamente sulle pene morali come sui dolori fisici. Conferisce a tutti una tinta lugubre, e le immagini che di giorno sono indifferenti o anche ridenti, ci inquietano e ci tormentano di notte, come spettri che non hanno forza se non durante le tenebre. Sembra che, durante la notte, il pensiero raddoppi la propria attività, e che la ragione perda il pro­ prio dominio. Una specie di fantasmagoria interiore ci infastidi­ sce e ci atterra senza che noi abbiamo la forza di eliminare la cau­ sa dei nostri terrori o di esaminare freddamente la realtà. 145

Ci si immagini la povera Julie distesa sul suo letto, semive­ stita, che si agita senza posa, ora divorata da un calore brucian­ te, ora ghiacciata da un brivido penetrante, che trasale al mini­ mo scricchiolio del rivestimento di legno, e che ascolta distintamente i battiti del suo cuore. Non conservava della sua posizio­ ne che una vaga angoscia, di cui cercava invano la causa. Poi, tutto d’un tratto, il ricordo di quella fatale serata si palesava ra­ pido come un fulmine, e con esso si risvegliava un dolore vivo e acuto come quello che produrrebbe un ferro rovente in una fe­ rita cicatrizzata. Ora guardava la lampada, osservando con una stupida atten­ zione tutti i tremolìi della fiamma, fino a che le lacrime che si ac­ cumulavano nei suoi occhi, non sapeva perché, le impedivano di vedere la luce. «Perché queste lacrime?», si domandava. «Ah! sono disono­ rata!». Ora contava le ghiande delle tende del suo letto, ma non riu­ sciva mai a ricordare il numero. «Che follia è questa?», pensava. «Follia? Sì, perché un’ora fa mi sono data come una miserabile cortigiana a un uomo che non conosco». Poi seguiva con occhio ebete l’ago della pendola con l’ansia di un condannato che vede avvicinarsi l’ora del supplizio. Di colpo la pendola suonò: «Tre ore fa», diceva, trasalendo in sussulto, «ero con lui, e ora sono disonorata!». Passò tutta la notte in questa agitazione febbrile. Quando fu giorno, aprì la finestra, e l’aria fresca e pungente del mattino le procurò un po’ di sollievo. China sulla balaustra della finestra che dava sul giardino, respirava l’aria fredda con una specie di voluttà. Il disordine delle idee si dissipò poco a poco. Ai vaghi tormenti, al delirio che l’agitavano, succedette una disperazione concentra­ ta che a paragone era un riposo. Doveva prendere una decisione. Si occupò allora a riflettere su ciò che doveva fare. Non pensò neppure per un istante di rivede­ re Darcy. Le sembrava impossibile; sarebbe morta di vergogna nel vederlo. Doveva lasciare Parigi, dove in due giorni tutta la so­ cietà l’avrebbe mostrata a dito. Sua madre era a Nizza; l’avrebbe 146

raggiunta, le avrebbe confessato tutto; poi, dopo essersi sfogata sul suo petto, non aveva che una cosa da fare, cercare qualche luo­ go deserto in Italia, sconosciuto ai viaggiatori, dove avrebbe vis­ suto sola e sarebbe morta presto. Una volta presa questa risoluzione, si sentì più tranquilla. Si sedette a un tavolino davanti alla finestra, e, la testa fra le mani, pianse, ma questa volta senza amarezza. La fatica e l’abbattimen­ to la espugnarono alla fine, e si addormentò, o piuttosto, smise di pensare per circa un’ora. Si risvegliò con i brividi della febbre. Il tempo era cambiato, il cielo era grigio, e una pioggia fine e ghiacciata annunciava freddo e umidità per tutto il resto del giorno. Julie suonò per la cameriera. «Mia madre è malata», le disse, «bisogna che io parta imme­ diatamente per Nizza. Preparate un baule, desidero partire tra un’ora». «Ma madame, cos’avete? Siete forse malata?... Madame non è andata a dormire!», esclamò la cameriera, sorpresa e allarmata dal cambiamento che osservò nei tratti della padrona. «Voglio partire», disse Julie con tono impaziente, «è assolutamente necessario che io parta. Preparatemi un baule». Nella nostra moderna civiltà non basta un semplice atto di vo­ lontà per andare da un luogo a un altro. Bisogna fare pacchetti, portare cartoni, occuparsi di cento preparativi noiosi che sareb­ bero sufficienti a scacciare il desiderio di viaggiare. Ma l’impa­ zienza di Julie accorciò molto tutte queste necessarie lentezze. Andava e veniva di stanza in stanza, aiutava lei stessa a fare i bau­ li, ammucchiando senza ordine berretti e vestiti abituati a essere trattati con più cura. Eppure tutto l’impegno che ci mise contri­ buì piuttosto a ritardare i suoi domestici invece che affrettarli. «Madame ha senza dubbio avvertito monsieur?», domandò timi­ damente la cameriera. Julie senza risponderle, prese della carta; scrisse: «Mia madre è malata a Nizza. Vado da lei». Piegò la carta in quattro, ma non potè risolversi a mettervi un indirizzo. In mezzo ai preparativi della partenza, entrò un domestico: «Monsieur de Châteaufort», disse, «chiede se può vedere ma­ dame; c’è anche un altro signore che è arrivato nello stesso mo­ mento, che non conosco: ma ecco il suo biglietto». 147

Lesse: «E. DARCY segretario d’ambasciata». A mala pena potè trattenere un grido. «Non ci sono per nessuno!», esclamò; «dite che sono mala­ ta. Non dite che sto per partire». Non poteva spiegarsi come Châteaufort e Darcy venissero a trovarla nello stesso momento, e nella sua agitazione, non ebbe alcun dubbio che Darcy avesse già scelto Châteaufort come suo confidente. Tuttavia, non c’era niente di strano nella loro pre­ senza simultanea. Arrivati per lo stesso motivo, si erano incon­ trati alla porta; e dopo essersi scambiati un freddo saluto, si era­ no mandati al diavolo l’un l’altro di cuore. Alla risposta del domestico, scesero insieme le scale, si salu­ tarono di nuovo ancor più freddamente, e si allontanarono cia­ scuno in direzione opposta. Châteaufort aveva notato l’attenzione particolare che mada­ me de Chaverny aveva mostrato per Darcy, e, da quel momen­ to, l’aveva preso in odio. Da parte sua Darcy, che si piccava di essere fisionomista, non aveva potuto osservare l’aria di imba­ razzo e di contrarietà di Châteaufort senza concludere che que­ sti amava Julie; e, dato che da diplomatico era portato a sup­ porre il male a priori, aveva concluso che Julie non era abba­ stanza crudele per Châteaufort. «Questa strana civettuola», diceva a se stesso uscendo, «non avrà voluto riceverci insieme, per paura di una scena di spiega­ zione come quella del Misantropo... Ma sono stato ben sciocco a non trovare qualche pretesto per rimanere e lasciar andare via quel giovane fatuo. Sicuramente, se avessi aspettato solamente che avesse girato le spalle, sarei stato ammesso, perché io ho su di lui l’incontestabile vantaggio della novità». Nel fare queste riflessioni si era fermato, poi si era girato, per rientrare di nuovo nella casa di madame de Chaverny. Châ­ teaufort, il quale si era voltato anche lui più volte per osservar­ lo, ritornò sui suoi passi e si sistemò a poca distanza, in modo da poterlo sorvegliare. Darcy disse al domestico, sorpreso di rivederlo, che aveva dimenticato di riferirgli una cosa per la sua padrona, che si trat­ tava di un affare urgente e di una commissione di cui una si­ gnora l’aveva incaricato per madame de Chaverny. Ricordando­ 148

si che Julie capiva l’inglese, scrisse su un biglietto a matita: Begs leave to ask when he can show to madame de Chaverny his turkish Album. Consegnò il biglietto al domestico, e disse che aspettava la risposta. Questa risposta tardò ad arrivare. Infine il domestico ritornò molto agitato: «Madame», disse, «si è sentita male improvvisamente, è trop­ po sofferente ora per potervi rispondere». Tutto ciò era durato un quarto d’ora. Darcy non credeva af­ fatto allo svenimento, ma era evidente che non si voleva rice­ verlo. Prese la cosa con filosofia e, ricordandosi che doveva fa­ re delle visite nel quartiere, uscì senza curarsi troppo di quel contrattempo. Chàteaufort lo aspettava con un’ansia furiosa. Vedendolo passare non ebbe dubbi che il suo rivale avesse avuto fortuna, e si promise di arrivare alle mani alla prima occasione per vendi­ carsi dell’infedele e del suo complice. Il comandante Perrin, che andò apposta a trovare, ricevette le sue confidenze e lo consolò come meglio potè, non senza dimostrargli la scarsa consistenza dei suoi sospetti.

XV

Julie era davvero svenuta ricevendo il secondo biglietto di Darcy. Lo svenimento fu seguito da uno sbocco di sangue che la indebolì molto. La sua cameriera aveva mandato a chiamare il suo medico; ma Julie rifiutò ostinatamente di vederlo. Verso le quattro i cavalli di posta erano arrivati, i bauli sistemati: tutto era pronto per la partenza. Julie salì in vettura, tossendo orri­ bilmente e in uno stato da fare pietà. Durante la serata e tutta la notte, parlò solo al valletto seduto sul sedile del calesse, e solo perché dicesse al postiglione di affrettarsi. Continuava a tossire, e sembrava soffrire molto di petto; ma non fece sentire un la­ mento. Il mattino era così debole, che svenne quando aprì la portiera. La fecero scendere in un cattivo albergo e là la misero a letto. Un medico del villaggio fu mandato a chiamare: la trovò con una febbre violenta e le impedì di continuare il viaggio. Tut­ 149

tavia voleva sempre partire. In serata arrivò il delirio, e tutti i sintomi si aggravarono. Parlava continuamente e con una volu­ bilità così grande che era difficile da comprendere. Nelle sue frasi incoerenti i nomi di Darcy, Châteaufort e di madame Lam­ bert ritornavano spesso. La cameriera scrisse a monsieur de Chaverny per annunciargli la malattia della moglie; ma lei si trovava a circa trenta leghe da Parigi, Chaverny era a caccia dal duca di H***, e la malattia progrediva così rapidamente che era in dubbio potesse arrivare in tempo. Tuttavia il valletto era stato a cavallo alla città vicina e aveva portato un medico. Costui biasimò le prescrizioni del suo col­ lega, dichiarò che lo avevano chiamato tardi e che la malattia era grave. Il delirio cessò al levare del giorno, e Julie allora si addor­ mentò profondamente. Quando si svegliò, due o tre giorni do­ po, sembrò provare pena nel ricordare per quale seguito di ac­ cidenti si trovava a letto in una camera d’albergo. Eppure la memoria le tornò presto. Disse che si sentiva meglio, e parlò anche di ripartire il giorno dopo. Poi, dopo aver dato l’impres­ sione di aver meditato a lungo tenendo la mano sulla fronte, domandò inchiostro e carta, e volle scrivere. La cameriera la vi­ de cominciare delle lettere e stracciarle dopo aver scritto le pri­ me parole. Nello stesso tempo raccomandava che venissero bruciati i frammenti di carta. La cameriera notò su parecchi pezzetti questa parola: Monsieur, cosa che le parve straordina­ ria, disse, perché credeva che la signora scrivesse a sua madre o a suo marito. Su un altro frammento lesse: «Dovete disprez­ zarmi. .. ». Per circa mezz’ora tentò inutilmente di scrivere questa let­ tera, che sembrava preoccuparla vivamente. Infine, l’esaurirsi delle forze non le permise di continuare: respinse il leggio che le avevano messo sul letto, e disse con un’aria smarrita alla ca­ meriera: «Scrivete voi stessa a monsieur Darcy». «Che devo scrivere, madame?», chiese la cameriera convinta che il delirio stesse per ricominciare. «Scrivetegli che non mi conosce... che io non lo conosco...». E ricadde prostrata sul cuscino. 150

Furono le ultime parole di seguito che pronunciò. Il delirio ri­ prese e non la lasciò più. Morì l’indomani senza grandi sofferen­ ze apparenti.

XVI

Chaverny arrivò tre giorni dopo il funerale. Il suo dolore sem­ brava autentico, e tutti gli abitanti del villaggio piansero veden­ dolo in piedi al cimitero fermo a contemplare la terra recente­ mente smossa che copriva la bara di sua moglie. Voleva farla rie­ sumare subito e trasportarla a Parigi; ma poiché il sindaco vi si era opposto e il notaio gli aveva parlato di formalità senza fine, si ac­ contentò di ordinare una lapide in pietra calcarea e di dare ordini per l’erezione di una tomba semplice, ma decorosa. Châteaufort fu molto commosso a questa morte così improv­ visa. Rifiutò parecchi inviti ai balli, e per qualche tempo non lo si vide che vestito di nero.

XVII

In società si parlò molto della morte di madame de Cha­ verny. Secondo alcuni, aveva avuto un sogno, o, se si vuole, un presentimento che le annunciava la malattia della madre. Era stata talmente colpita che si era messa immediatamente in viag­ gio per Nizza, nonostante un grave raffreddore che aveva preso ritornando da madame Lambert; e questo raffreddore si era tra­ mutato in una polmonite. Altri, più perspicaci, assicurarono con aria misteriosa che non potendo dissimulare l’amore che sentiva per monsieur de Châteaufort, madame de Chaverny avesse voluto cercare dalla madre la forza di resistervi. Il raffreddore e la polmonite erano la conseguenza della precipitosa partenza. Su questo punto era­ no d’accordo. Darcy non parlò mai di lei. Tre o quattro mesi dopo la sua morte, fece un matrimonio vantaggioso. Quando annunciò le nozze a madame Lambert, lei gli disse felicitandosi: 151

«In verità vostra moglie è incantevole, e solo la mia povera Ju­ lie avrebbe potuto essere più adatta a voi. È un peccato che foste troppo povero per lei quando si è sposata!». Darcy sorrise di quel sorriso ironico che gli era abituale, ma non rispose niente. Questi due cuori che si ignoravano erano forse fatti l’uno per l’altro.

1833

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Le anime del Purgatorio

Cicerone scrisse da qualche parte, credo nel suo trattato Del­ la natura degli dei, che ci sono stati molti Giove, un Giove a Creta, un altro a Olimpia, un altro ancora altrove; non esiste una città in Grecia un po’ celebre che non abbia avuto il suo Giove. Di tutti questi Giove se n’è fatto uno solo, cui sono state affib­ biate tutte le avventure di ognuno dei suoi omonimi. E così che si spiega la prodigiosa quantità di successi galanti che è stata at­ tribuita a quel dio. La stessa confusione è avvenuta con don Juan, personaggio che si avvicina molto alla celebrità di Giove. La sola Siviglia an­ novera parecchi don Juan; molte altre città citano il proprio. Cia­ scuna una volta aveva la propria leggenda. Con il tempo, si sono tutte fuse in una sola. Eppure, guardando più da vicino, è facile attribuire la parte di ognuno, o perlomeno distinguere due fra questi eroi: vale a dire don Juan Tenorio, che come tutti sanno, è stato rapito da una statua di pietra, e don Juan de Marafia, che ha avuto una fi­ ne completamente diversa. Si raccontano nello stesso modo la vita dell’uno e dell’altro: solo la conclusione li distingue. Ce n’è per tutti i gusti, come nel­ le opere di Ducis, che finiscono bene o male, a seconda della sen­ sibilità dei lettori. Quanto alla verità di questa storia o di queste due storie, è incontestabile, e si offenderebbe molto il patriottismo provin­ ciale dei sivigliani se si mettesse in dubbio l’esistenza di questi 153

scapestrati che hanno reso sospetta la genealogia delle loro fa­ miglie più nobili. Agli stranieri si mostra la casa di don Juan Tenorio e ogni uomo amico delle arti non è potuto passare da Siviglia senza visitare la chiesa della Carità. Vi avrà visto la tomba del cavaliere di Marana con questa iscrizione dettata dalla sua umiltà o, se si vuole, dal suo orgoglio: Aqui yace el peor hombre que fué en el mundo. Lascia forse dei dubbi? È vero che dopo avervi condotto a questi due monumenti, il vo­ stro cicerone vi racconterà ancora come don Juan (non si sa quale) fece delle strane proposte alla Giralda, questa figura di bronzo che domina la torre moresca della cattedrale, e come la Giralda le accettò come don Juan, camminando riscaldato dal vino sulla riva sinistra del Guadalquivir, chiese del fuoco a un uomo che passava sulla riva destra fumando un sigaro, e come il braccio del fumatore (che altri non era se non il diavolo in persona) si allungò tanto da attraversare il fiume e arrivare a offrire il suo sigaro a don Juan, il quale accese il proprio senza batter ciglio e senza approfittare dell’avvertimento, tanto era diventato insensibile... Ho cercato di attribuire a ciascun don Juan la parte che gli spetta nel loro fondo comune di malvagità e di crimini. Con un metodo migliore, mi sono applicato a raccontare di don Juan de Marana, il mio eroe, solo le avventure che non appartengono per diritto di prescrizione a don Juan Tenorio, se non quelle note gra­ zie ai capolavori di Molière e di Mozart. Il conte don Carlos de Marana era uno dei signori più ricchi e più considerati di Siviglia. La sua nascita era illustre e nella guer­ ra contro i Mori in rivolta aveva dimostrato che il coraggio dei suoi antenati non si era degenerato. Dopo la sottomissione di Alpuxarres, ritornò a Siviglia con una ferita sulla fronte e un gran numero di bambini presi agli infedeli, che si curò di far battezza­ re e che vendette vantaggiosamente in case cristiane. Le sue feri­ te, che non lo sfiguravano, non gli impedirono di piacere a una si­ gnorina di buona famiglia che gli accordò la preferenza fra un gran numero di pretendenti alla sua mano. Da questo matrimo­ nio nacquero subito molte figlie, di cui qualcuna in seguito si sposò e altre presero i voti. Don Carlos de Marana si disperava di non avere eredi del suo nome, quando la nascita di un figlio ar­ 154

rivo a colmarlo di gioia e gli fece sperare che il suo antico maggiorasco non passasse a una linea collaterale. Don Juan, questo figlio tanto desiderato, e l’eroe di questa sto­ ria vera, fu viziato da suo padre e da sua madre, dato che doveva essere l’unico erede di un grande nome e di una grande fortuna. Da piccolo era pacrone assoluto delle sue azioni, e nel palazzo di suo padre nessuno avrebbe avuto l’ardire di contraddirlo. Solo che, mentre sua madre voleva che fosse devoto come lei, suo pa­ dre voleva che fosse coraggioso come lui. A forza di carezze e dolciumi, quella costringeva il bambino a imparare le litanie, i ro­ sari, e tutte le preghiere obbligatorie e non obbligatorie. Lo ad­ dormentava leggendogli la leggenda. Dall’altra parte, il padre in­ segnava al figlio i romanzi del Cid e di Bernard del Carpio, gli raccontava la rivolta dei Mori, e lo incoraggiava a esercitarsi tut­ to il giorno a lanciare il giavellotto, a tirare di balestra o anche d’archibugio contro un manichino vestito da moro che aveva fat­ to costruire in fondo al giardino. Nell’oratorio della contessa de Marana c’era un quadro nello stile severo e duro di Morales’ che rappresentava i tormenti del purgatorio. Tutti i tipi di supplizio che il pittore aveva potuto co­ noscere vi si trovavano rappresentati con una tale precisione, che le torture dell’Inquisizione non avrebbero trovato niente da ri­ prendere. Le anime in purgatorio erano in una specie di grande caverna sopra la quale si vedeva una finestra. Posto sul bordo di questa apertura, un angelo tendeva la mano a un’anima che usci­ va dalla dimora di dolore, mentre accanto a lui un uomo anziano, con un rosario fra le mani giunte, sembrava pregare con molto fervore. Quest’uomo era il committente dell’opera, che l’aveva fatta fare per una chiesa di Huesca. Nella loro rivolta i Mori mi­ sero a ferro e fuoco la città; la chiesa fu distrutta, ma, per miraco­ lo, il quadro fu conservato. Il conte de Marana l’aveva portato con sé e ne aveva decorato l’oratorio della moglie. In genere il piccolo Juan tutte le volte che entrava da sua madre rimaneva a lungo in contemplazione davanti a questo quadro che lo spaven­ tava e lo catturava al tempo stesso. Soprattutto non poteva stac­ care gli occhi da un uomo di cui un serpente sembrava rosicchia1 [Luis de Morales, detto il Divino, pittore spagnolo (1509-1580)].

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re le viscere mentre era sospeso sopra un braciere ardente per mezzo di ami di ferro che lo agganciavano alle costole. Voltando gli occhi con ansia dalla parte della finestra, il sofferente sembra­ va chiedere al committente delle preghiere che lo strappassero a tali sofferenze. La contessa non mancava mai di spiegare al figlio che quel disgraziato subiva quel supplizio perché non aveva sa­ puto bene il catechismo, perché si era fatto beffe di un prete, o non era andato in chiesa. L’anima che prendeva il volo verso il pa­ radiso era l’anima di un parente della famiglia de Marana, che si­ curamente aveva qualche peccatuccio da rimproverarsi, ma il conte de Marana aveva pregato per lui, aveva donato molto al cle­ ro per tirarlo fuori dal fuoco e dai tormenti, e aveva avuto la sod­ disfazione di spedire in paradiso l’anima del suo parente senza la­ sciargli il tempo di annoiarsi troppo in purgatorio. «Perciò Juanito», aggiungeva la contessa, «forse un giorno soffrirò così, e resterò milioni di anni in purgatorio se non pen­ serai a far dire delle messe per tirarmi fuori! Come sarebbe brut­ to lasciare nella sofferenza la madre che ti ha nutrito!». Allora il bambino piangeva, e se aveva qualche reale in tasca, si affrettava a donarlo al primo questuante che incontrava che aveva un salvadanaio per le anime del purgatorio. Se entrava nello studio del padre, vedeva delle corazze incri­ nate dalle palle di archibugio, un elmo che il conte de Marana portava all’assalto d’Almeria, e che conservava l’impronta della lama di un’ascia musulmana; lance, sciabole moresche, stendardi presi agli infedeli decoravano questo appartamento. «Questa scimitarra», diceva il conte, «l’ho strappata a un cadì2 di Vejer, che mi colpì tre volte prima che gli togliessi la vita. Que­ sto stendardo era portato dai ribelli della montagna d’Elvire. Ve­ nivano a saccheggiare un paese cristiano: accorsi con venti cava­ lieri. Quattro volte tentai di penetrare in mezzo al loro battaglio­ ne per prendere questo stendardo; quattro volte fui respinto. Al­ la quinta, mi feci il segno della croce; gridai: “San Giacomo!” e sfondai i ranghi di questi pagani. E vedi quel calice d’oro che por­ to nelle armi? Un alfaqui dei Mori l’aveva rubato in una chiesa, dove aveva commesso mille infamie. I suoi cavalli avevano man2 [Giudice musulmano].

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giato l’orzo sull’altare, e i suoi soldati avevano disperso le ossa dei santi. L’alfaqui si serviva di questo calice per bere del sorbetto di neve. Lo sorpresi nella sua tenda mentre portava alle labbra il va­ so sacro. Prima ancora che potesse dire “Allah!”, mentre la be­ vanda era ancora nella sua gola, con questa buona spada colpii la testa rasata di quel cane, e la lama vi penetrò fino ai denti. Per ri­ cordare questa santa vendetta, il re mi ha permesso di portare un calice d’oro sulle mie armi. Ti dico questo, Juanito, perché tu lo racconti ai tuoi figli e che sappiano perché le tue armi non sono proprio quelle di tuo nonno, don Diego, che vedi dipinte là nel suo ritratto». Diviso fra la guerra e la devozione, il bambino trascorreva le sue giornate a costruire piccole croci con dei listelli di legno, o meglio, armato di una sciabola di legno, a servirsene nell’orto contro le zucche di Rota, la cui forma era molto simile, secondo lui, alle teste dei Mori coperte dai loro turbanti. A diciott’anni, don Juan sapeva piuttosto male il latino, servi­ va molto bene la messa, e maneggiava lo spadone, o la spada a due mani, meglio del Cid. Suo padre, ritenendo che un gentiluomo della casata di Marana dovesse ancora acquisire altri talenti, si ri­ solse a inviarlo a Salamanca. I preparativi del viaggio furono pre­ sto fatti. Sua madre gli diede in gran quantità rosari, scapolari e medaglie benedette. Gli insegnò anche molte orazioni di grande aiuto in numerose circostanze della vita. Don Carlos gli diede una spada la cui impugnatura, damascata d’argento, era decorata con le armi della sua famiglia; gli disse: «Fino a oggi hai vissuto solo con dei bambini; ora vai a vivere con degli uomini. Ricordati che il bene più prezioso di un genti­ luomo è il suo onore, e il tuo onore è quello dei Marana. Meglio che muoia l’ultimo discendente della nostra casa piuttosto che una macchia ne infanghi l’onore! Prendi questa spada; ti difen­ derà se qualcuno ti attacca. Non essere mai il primo a colpire; ma ricordati che i tuoi antenati non hanno mai rimesso la loro nel fo­ dero senza che fossero stati vincitori e vendicati». Munito così di armi spirituali e temporali, il discendente dei Marana salì a cavallo e lasciò la casa paterna. L’università di Salamanca era allora all’apice della sua gloria. I suoi studenti non erano mai stati tanto numerosi, i suoi professo­ 157

ri più dotti; ma va anche detto che mai i borghesi avevano dovu­ to sopportare le insolenze della gioventù indisciplinata, che risie­ deva, o piuttosto regnava nella loro città. Le serenate, gli schia­ mazzi, ogni tipo di baccano notturno, tale era il loro modo di vi­ vere abituale, la cui monotonia era di quando in quando spezza­ ta da rapimenti di donne o ragazze, da furti o bastonate. Don Juan arrivò a Salamanca, passò qualche giorno a consegnare lette­ re di raccomandazione agli amici di suo padre, a far visita ai suoi professori, a percorrere le chiese, e a farsi mostrare le reliquie che vi erano racchiuse. Secondo la volontà del padre, consegnò a uno dei professori una somma assai considerevole perché fosse distri­ buita tra gli studenti più poveri. Questa generosità ottenne il più grande successo e gli valse subito numerosi amici. Don Juan aveva un gran desiderio di imparare. Si proponeva di ascoltare come parole del Vangelo tutto quello che usciva dal­ la bocca dei suoi professori; e per non perdere niente, volle se­ dersi il più vicino possibile alla cattedra. Quando entrò nella sala dove doveva esserci la lezione, vide che c’era un posto vuoto pro­ prio accanto al professore, più vicino di quanto avrebbe potuto desiderare. Vi si sedette. Uno studente sporco, spettinato, vestito di stracci, come ce ne sono tanti nelle università, alzò un istante gli occhi dal suo libro per portarli su don Juan con un’aria di ot­ tusa meraviglia. «Vi sedete qui?», disse con un tono spaventato, «non sapete che generalmente vi si siede don Garcia Navarro?». Don Juan rispose che aveva sempre saputo che i posti sono del primo che li occupa e che, trovando quello lì vuoto, credeva di poterlo occupare, soprattutto se il signor Garcia non aveva inca­ ricato il suo vicino di conservarglielo. «Siete straniero qui, a quanto vedo», disse lo studente, «e arri­ vato da poco, dato che non conoscete don Garcia. Sappiate dun­ que che è uno degli uomini più...». Qui lo studente abbassò la voce e sembrò provare timore di essere udito dagli altri. «Don Garcia è un uomo terribile. Disgraziato chi lo offende! Ha la pazienza corta e la spada lunga; e siate sicuro che se qual­ cuno si siede in un posto in cui don Garcia si è seduto due volte, ce n’è abbastanza per un litigio, perché è molto ombroso e su­ 158

scettibile. Quando discute, colpisce, e quando colpisce, uccide. Io vi ho avvertito, ora fate ciò che vi sembra meglio». Don Juan trovò straordinario che questo don Garcia preten­ desse di riservarsi i posti migliori senza darsi la pena di meritarli per la sua puntualità. Nello stesso tempo vedeva che molti stu­ denti avevano gli occhi fissi su di lui, e sentiva come sarebbe sta­ to mortificante lasciare quel posto dopo esservisi seduto. Dall’al­ tra parte non era molto preoccupato all’idea di avere un litigio ap­ pena arrivato, e soprattutto con un uomo così pericoloso come sembrava esserlo don Garcia. Si trovava in questo stato di indeci­ sione, non sapendo cosa fare e restava sempre allo stesso posto, quando entrò uno studente e avanzò dritto verso di lui. «Ecco don Garcia», gli disse il suo vicino. Questo Garcia era un giovanotto largo di spalle, vigoroso, il viso abbronzato, l’occhio fiero e la bocca sprezzante. Aveva un farsetto logoro, che avrebbe potuto essere nero, e un mantello bucato; al di sotto di tutto questo pendeva una lunga catena d’o­ ro. Si sa che in ogni tempo per gli studenti di Salamanca e delle al­ tre università d’Europa è quasi un punto d’onore sembrare strac­ cioni, volendo probabilmente dimostrare così che il vero merito sappia passare dagli ornamenti chiesti in prestito alla fortuna. Don Garcia si avvicinò al banco dove don Juan era ancora se­ duto, e salutandolo con grande cortesia: «Signor studente», disse, «siete nuovo venuto tra noi; tuttavia il vostro nome mi è ben noto. I nostri padri sono stati grandi ami­ ci e, se voi lo permetterete, i loro figli non saranno da meno». E così parlando tendeva la mano a don Juan con l’aria più cor­ diale. Don Juan, che si aspettava tutt’un altro inizio, ricevette con molta premura le gentilezze di don Garcia e gli rispose che sa­ rebbe stato onorato dell’amicizia di un cavaliere come lui. «Voi non conoscete ancora Salamanca», proseguì don Garcia; «se volete accettarmi come vostra guida, sarò incantato di farvi vedere tutto del paese dove vivrete, dal cedro all’issopo». Poi, ri­ volgendosi allo studente seduto accanto a don Juan: «Andiamo, Perico, alzati di lì. Credi che un un cafone come te debba far com­ pagnia al signore don Juan de Marana?». Così dicendo lo spinse via rudemente e si mise al suo posto, che lo studente si affrettò a lasciare. 159

Quando fu terminata la lezione, don Garcia diede il suo indi­ rizzo al nuovo amico e gli fece promettere che sarebbe andato a trovarlo. Poi, dopo averlo salutato con la mano con un’aria gen­ tile e familiare, uscì avvolgendosi con grazia nel suo mantello bu­ cato come un colabrodo. Don Juan, i libri sotto al braccio, si era fermato in una galleria del collegio per esaminare le antiche iscrizioni che coprivano i muri, quando si accorse che lo studente che gli aveva parlato pri­ ma gli si era avvicinato come se volesse esaminare gli stessi og­ getti. Don Juan, dopo avergli fatto un cenno con la testa per mo­ strargli che lo riconosceva, si preparò a uscire, ma lo studente lo prese per il mantello. «Signor don Juan», disse, «se non avete troppa fretta, sareste così gentile da accordarmi un breve colloquio?». «Volentieri», rispóse don Juan, e si appoggiò contro un pila­ stro, «vi ascolto». Perico guardò da tutte le parti con aria inquieta, come se te­ messe di essere osservato, e si avvicinò a don Juan per parlargli al­ l’orecchio, cosa che sembrava una precauzione inutile, dato che non c’era nessuno nella vasta galleria gotica dove si trovavano. Dopo un momento di silenzio: «Potreste dirmi, signor don Juan», domandò lo studente a vo­ ce bassa e quasi tremante, «se vostro padre ha realmente cono­ sciuto il padre di don Garcia Navarro?». Don Juan ebbe un moto di sorpresa. «Avete sentito don Garcia dirlo poco prima». «Sì», rispose lo studente, abbassando ancora di più la voce, «ma voi avete mai sentito dire a vostro padre che ha conosciuto il signor Navarro?». «Sì, senza dubbio, ed era con lui nella guerra contro i Mori». «Bene; ma avete mai sentito dire da questo gentiluomo che aveva... un figlio?». «In verità, non ho mai fatto molta attenzione a ciò che mio pa­ dre poteva dirne... Ma a che pro queste domande? Don Garcia non è il figlio del signor Navarro? Sarebbe bastardo?». «Il Cielo è testimone che non ho detto niente di simile», esclamò lo studente impaurito guardando dietro il pilone contro il quale si appoggiava don Juan; «volevo solo chiedervi se non 160

eravate a conoscenza di una storia strana che molti raccontano su questo don Garcia». «Non ne so nulla». «Si dice..., osservate bene che io non faccio che ripetere ciò che ho sentito dire..., si dice che don Diego Navarro aveva un fi­ glio che all’età di sei o sette anni cadde malato di una malattia gra­ ve e così strana che i medici non sapevano a che rimedio votarsi... Il padre, che non aveva altri figli, inviò numerose offerte a varie cappelle, fece toccare delle reliquie al malato, tutto invano. Di­ sperato, un giorno disse, mi hanno assicurato..., un giorno disse guardando un’immagine di san Michele: “Dato che non sei capa­ ce di salvare mio figlio, voglio vedere se quello che è là sotto i tuoi piedi non avrà più potere”». «Era un’abominevole bestemmia!», esclamò don Juan tutto scandalizzato. «Poco dopo il bambino guarì..., e questo bambino..., è don Garcia!». «E così don Garcia ha il diavolo in corpo da quel tempo», dis­ se scoppiando a ridere don Garcia, che si mostrò nello stesso istante e che sembrava aver ascoltato tutta la conversazione na­ scosto dietro un pilastro vicino. «In verità, Perico», disse con to­ no freddo di disprezzo allo studente stupefatto, «se non siete un vigliacco, vi farò pentire per l’audacia che avete avuto di parlare di me. Signor don Juan», proseguì rivolgendosi a Marana, «quan­ do ci conosceremo meglio, non perderete tempo ad ascoltare questo chiacchierone. Ed ecco, per provarvi che non sono un cat­ tivo diavolo, fatemi l’onore di accompagnarmi di questo passo al­ la chiesa di san Pietro; dopo aver pregato vi domanderò il per­ messo di offrirvi una cattiva cena con qualche compagno». Così dicendo, prendeva il braccio di don Juan che, vergognan­ dosi di essere stato sorpreso ad ascoltare la strana storia di Perico, si affrettò ad accettare l’offerta del suo nuovo amico per provargli che non faceva caso alle maldicenze che aveva appena udito. Entrando nella chiesa di san Pietro, don Juan e don Garcia si inginocchiarono davanti a una cappella attorno alla quale c’era un gran numero di fedeli. Don Juan pregò a bassa voce; e, benché ri­ manesse un tempo conveniente in quella pietosa occupazione, quando rialzò la testa trovò che il suo compagno sembrava anco­ 161

ra assorto in un’estasi devota; muoveva dolcemente le labbra; si sa­ rebbe detto che non fosse che a metà delle sue meditazioni. Un po’ vergognoso d’aver finito così presto, si mise a recitare a bassa vo­ ce le litanie che gli tornarono alla memoria. Terminate le litanie, don Garcia ancora non si muoveva. Don Juan sbrigò distrattamente ancora qualche suffragio spicciolo; poi, vedendo il suo compagno sempre immobile, credette di poter guardare un po’ at­ torno a sé per passare il tempo e aspettare la fine di quella orazio­ ne eterna. Tre donne, inginocchiate su dei tappeti turchi, attiraro­ no subito la sua attenzione. Una, per la sua età, gli occhiali e la ve­ neranda ampiezza della cuffia, non poteva essere che la governan­ te. Le altre due erano giovani e carine, e non tenevano i loro occhi tanto bassi sui loro rosari da nascondere quanto fossero grandi, vi­ vi e ben tagliati. Don Juan provò un gran piacere a guardare una delle due, molto più piacere di quanto ne avrebbe dovuto avere in un luogo santo. Dimenticando la preghiera del suo compagno, lo tirò per la manica e gli domandò a bassa voce chi era quella signo­ rina che aveva un rosario d’ambra gialla. «È», rispose Garcia senza sembrare scandalizzato per l’inter­ ruzione, «è dona Teresa de Ojeda; e quella lì, è dona Fausta, sua sorella maggiore, tutte e due figlie di un uditore al consiglio di Castiglia. Sono innamorato della maggiore; cercate di innamorar­ vi della più giovane. Ecco», aggiunse, «si alzano e stanno per usci­ re dalla chiesa; affrettiamoci per vederle salire in vettura: forse il vento solleverà le loro basquines* e potremo vedere un paio di gambe graziose». Don Juan era talmente colpito dalla bellezza di dona Teresa, che senza prestare attenzione all’indecenza di questo linguaggio, seguì don Garcia fino alla porta della chiesa e vide le due nobili signorine salire sulla loro carrozza e lasciare la piazza della chie­ sa per entrare in una delle strade più frequentate. Quando se ne furono andate, don Garcia, calzando il cappello di traverso sulla testa, esclamò allegramente: «Ecco delle ragazze incantevoli! Che il diavolo mi porti se la maggiore non sarà mia qui davanti a me in dieci giorni! E voi, sie­ te andato avanti nei vostri affari con la minore?». [Gonna tipica del costume regionale basco].

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«Come andato avanti!?!», rispose don Juan con un’aria inge­ nua. «Ma se è la prima volta che la vedo!». «Buona ragione davvero!», esclamò don Garcia. «Credete che io conosca Fausta da più tempo? Eppure oggi le ho consegnato un biglietto che lei ha preso». «Un biglietto? Ma non vi ho visto scrivere!». «Ho sempre qualcosa di scritto con me, e dato che non c’è no­ me, può andar bene per tutte. Bisogna avere solamente l’atten­ zione di non utilizzare epiteti compromettenti sul colore degli occhi o dei capelli. Quanto ai sospiri, alle lacrime e alle ansie, bru­ ne o bionde, ragazze o donne, ne prenderanno ugualmente in buona parte». Così parlando, don Garcia e don Juan si trovarono alla porta della casa dove li aspettava la cena. C’era cibo da studenti, più ab­ bondante che raffinato e vario: una gran quantità di stufato alle spezie, carne salata, tutte cose che fanno venire sete. D’altronde c’erano vini della Mancia e dell’Andalusia in abbondanza. Alcu­ ni studenti, amici di don Garcia, aspettavano il suo arrivo. Si mi­ sero immediatamente a tavola, e per un po’ non si sentì altro ru­ more che quello delle mascelle e dei bicchieri che urtavano le bot­ tiglie. Ben presto, poiché il vino aveva messo i convitati di buo­ numore, iniziò la conversazione e divenne delle più scottanti. Si parlò solo di duelli, di amoretti e di gite scolastiche. Uno raccon­ tava come aveva abbindolato la sua ostessa traslocando il giorno prima di pagare l’affitto. L’altro aveva chiesto a un mercante di vi­ no alcune giare di valdepenas da parte di uno dei più seri profes­ sori di teologia, e aveva avuto l’abilità di sviare le giare, lasciando al professore il conto da pagare. Uno aveva colpito la guardia, l’altro per mezzo di una scala di corda era entrato dalla sua aman­ te malgrado le precauzioni di un marito geloso. All’inizio don Juan ascoltava con una specie di costernazione il racconto di tut­ te questi disordini. Poco a poco, il vino che beveva e l’allegria dei convitati disarmarono la sua timidezza. Le storie che raccontava­ no lo fecero ridere, e arrivò anche a invidiare la reputazione di al­ cuni per i loro giri di abilità o di truffe. Cominciò a dimenticare i saggi principi che aveva portato all’università per adottare la re­ gola di condotta degli studenti; regola semplice e facile da segui­ re, che consiste nel permettersi tutto contro i pillos, cioè contro 163

tutta quella parte della specie umana che non è immatricolata nei registri dell’università. Lo studente in mezzo ai pillos è in paese nemico, e ha il diritto di agire verso di loro come gli Ebrei nei confronti dei Cananei. Solamente il Signor corregidore aveva ma­ lauguratamente poco rispetto per le sante leggi dell’università, e non cercava che l’occasione di nuocere ai suoi iniziati, dovevano essere uniti come fratelli, aiutarsi a vicenda e soprattutto conser­ vare un segreto inviolabile. Questa edificante conversazione durò tanto quanto le botti­ glie. Quando furono vuote, tutte le facoltà di giudizio erano sin­ golarmente imbrogliate, e ognuno provava un violento desiderio di dormire. Il sole aveva ancora tutta la sua forza quando si sepa­ rarono per la siesta; ma don Juan accettò un letto da don Garcia. Dopo essersi velocemente intesi su un materasso di cuoio, la fati­ ca e i fumi del vino lo sprofondarono nel sonno. A lungo i suoi sogni furono così bizzarri e così confusi che non provava altro sentimento che un vago malessere, senza avere la percezione di un’immagine o di un’idea che potesse esserne la causa. Poco a po­ co cominciò a veder chiaro nel suo sogno e, per così dire, e sognò il seguito. Gli sembrava di essere in una barca su un grande fiu­ me, più largo e più torbido di come avesse mai visto il Guadal­ quivir in inverno. Non c’erano né vele, né remi, né timone, e la ri­ va del fiume era deserta. La barca era talmente sballottata dalla corrente, che dal malessere che provava si credette alla foce del Guadalquivir, nel punto in cui i bighelloni di Siviglia che vanno a Cadice cominciano a sentire i primi sintomi del mal di mare. Pre­ sto si trovò in una parte del fiume molto più stretta, tanto che po­ teva facilmente vedere e anche farsi sentire sui due lati. Allora, nello stesso momento, sulle due rive apparvero due figure lumi­ nose, che si avvicinarono, ciascuna dalla sua parte, per portargli soccorso. Girò la testa prima a destra e vide un vecchio dal volto grave e austero, a piedi nudi, che per vestito aveva solo un saio di spine. Sembrava tendere la mano a don Juan. A sinistra, dove guardò in seguito, vide una donna, alta e dal volto più nobile e at­ traente, che aveva in mano una corona di fiori che gli offriva. Nel­ lo stesso tempo si accorse che la sua barca si dirigeva dove vole­ va, senza remi, grazie solo alla sua volontà. Si stava indirizzando dalla parte della donna, quando un grido, partito dalla riva destra, 164

gli fece girare la testa e avvicinarsi da quella parte. Il vecchio ave­ va l’aria ancora più austera di prima. Tutto quello che si vedeva del suo corpo era coperto da lividi, del colore del sangue coagu­ lato. Con una mano teneva una corona di spine, con l’altra una frusta dalle punte di ferro. A questo spettacolo don Juan fu assa­ lito dall’orrore; ritornò subito alla riva sinistra. L’apparizione che lo aveva tanto incantato c’era ancora; i capelli della donna flut­ tuavano al vento, i suoi occhi erano animati da un fuoco sopran­ naturale, e al posto della corona aveva in mano una spada. Don Juan si fermò un istante prima di scendere a terra, e a quel punto, guardando con più attenzione, si accorse che la lama della spada era rossa di sangue, e che anche la mano della ninfa era rossa. Spa­ ventato, si risvegliò di soprassalto. Aprendo gli occhi, non potè trattenere un grido alla vista di una spada sguainata che brillava a due piedi del letto. Ma non era una bella ninfa che teneva questa spada. Don Garcia stava per svegliare il suo amico, e vedendo ac­ canto al suo letto una spada lavorata in modo originale, la esami­ nava con aria da esperto. Sulla lama c’era questa iscrizione: «Con­ serva la lealtà». E sull’impugnatura, come abbiamo già detto, era­ no incisi le armi, il nome e il motto dei Marana. «Avete una bella spada, compagno mio», disse don Garcia. «Dovete esservi riposato ora. E notte, camminiamo un po’; e quando le persone oneste di questa città saranno rientrate a casa, se vi va, andremo a fare una serenata alle nostre dee». Don Juan e don Garcia camminarono per un po’ lungo il Tormes, guardando passare le donne che venivano a prendere il fre­ sco o a sbirciare i loro amanti. Poco a poco i passanti si fecero più rari: improvvisamente scomparvero. «Ecco il momento», disse don Garcia, «ecco il momento in cui la città tutta intera appartiene agli studenti. I pillos non oserebbe­ ro disturbarci nelle nostre innocenti ricreazioni. Quanto alla guardia, se per caso abbiamo qualche noia con lei, non ho biso­ gno di dirvi che è una canaglia che non bisogna risparmiare. Ma se i i lazzaroni sono troppi, e bisogna giocare di gambe, non ab­ biate alcun timore: conosco tutte le scappatoie, pensate solo a se­ guirmi, e siate certo che tutto andrà bene». Così parlando, si gettò il mantello sulla spalla sinistra, in mo­ do da coprire la maggior parte della sua persona, ma lasciando il 165

braccio destro libero. Don Juan fece altrettanto, e tutti e due si di­ ressero verso la strada dove abitavano dona Fausta e sua sorella. Passando davanti all’atrio di una chiesa, don Garcia fischiò, e ap­ parve il suo paggio con una chitarra in mano. Don Garcia la pre­ se e lo congedò. «Vedo», disse don Juan entrando nella strada di Valladolid, «vedo che volete usarmi per proteggere la vostra serenata; siate certo che mi comporterò in modo da meritare la vostra approva­ zione. Sarei rinnegato da Siviglia, la mia patria, se non fossi capa­ ce di controllare una strada dai seccatori!». «Non pretendo che voi facciate da sentinella», rispose don Garcia. «Io ho i miei amori qui e voi avete i vostri. A ciascuno la sua preda. Zitto! ecco la casa. Voi a quella tenda, io a questa, e attenzione!». Don Garcia, dopo aver accordato la chitarra, si mise a cantare con una voce molto piacevole una romanza, che, come al solito, trattava di lacrime, di sospiri e di tutto quel che ne consegue. Non so se ne era l’autore. Alla terza o quarta séguedille4, le tende delle due finestre si sol­ levarono leggermente, e si udì una tosse leggera. Questo voleva dire che erano in ascolto. I musicisti, dicono, non suonano mai quando li si prega o li si ascolta. Don Garcia depose la chitarra su un cippo, e intavolò una conversazione sottovoce con una delle donne che lo ascoltavano. Don Juan alzando gli occhi vide alla finestra sopra di lui una donna che sembrava osservarlo con attenzione. Non ebbe dubbi che questa fosse la sorella di dona Fausta, che il suo gusto e la scelta del suo amico gli davano per dama dei suoi pensieri. Ma era ancora timido, senza esperienza, non sapeva da dove cominciare. Improvvisamente dalla finestra cadde un fazzoletto, e una vocina dolce esclamò: «Ah! Gesù! mi è caduto il fazzoletto!». Don Juan lo raccolse subito, lo mise sulla punta della sua spa­ da e lo sollevò all’altezza della finestra. Era un modo per entrare in argomento. La voce iniziò con dei ringraziamenti, poi do­ mandò se il signor cavaliere che era stato così gentile non fosse 4 [Seguidilla·, danza spagnola su un ritmo veloce in tre tempi, ma può indicare anche la sola musica e il canto].

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stato in mattinata nella chiesa di San Pietro. Don Juan rispose che ci era stato e che aveva perso il riposo. «Come?». «Vedendovi». Il ghiaccio era rotto. Don Juan era di Siviglia e sapeva a me­ moria tutte le romanze more di cui la lingua amorosa è così ric­ ca. Non poteva non essere eloquente. La conversazione durò circa un’ora. Alla fine Teresa disse che sentiva suo padre, e che doveva ritirarsi. I due spasimanti non lasciarono la strada se non dopo aver visto due piccole mani bianche uscire dalla tenda e gettare a ciascuno un rametto di gelsomino. Don Juan andò a dormire con la testa piena di immagini deliziose. Per quanto ri­ guarda don Garcia, entrò in una taverna, dove passò la maggior parte della notte. L’indomani, i sospiri e le serenate ricominciarono. La stessa cosa le notti seguenti. Dopo una conveniente resistenza, le due dame acconsentirono a dare e a ricevere dei riccioli di capelli, operazione che si fece per mezzo di un filo che discese e portò i pegni scambiati. Don Garcia, che non era uomo da accontentarsi di sciocchezze, parlò di una scala di corda o piuttosto di chiavi false; ma lo trovarono ardito e la sua proposta fu se non rifiutata, almeno indefinitamente rimandata. Per un mese circa, don Juan e don Garcia tubarono inutil­ mente sotto le finestre delle loro amate. Una notte molto scura erano di guardia come al solito, e la conversazione durava da un po’ con soddisfazione degli interlocutori, quando alla fine della strada comparvero sette o otto uomini con il mantello, di cui la metà aveva degli strumenti musicali. «Cielo!», esclamò Teresa, «ecco don Cristovai che viene a far­ ci una serenata. Allontanatevi, per l’amor di Dio, o avverrà qual­ che disgrazia». «Non cediamo a nessuno un così bel posto», disse don Gar­ cia, e alzando la voce: «Cavaliere», disse al primo che veniva avanti, «il posto è preso, e queste dame non si occupano della vo­ stra musica; dunque, per favore, cercate fortuna altrove». «E uno di quegli studenti mascalzoni che pretende di impe­ dirci di passare!», esclamò don Cristovai. «Vado a fargli capire quanto gli costa rivolgersi ai miei amori!». 167

A queste parole, impugnò la spada. Nello stesso tempo, quel­ le di due dei suoi compagni brillarono fuori del fodero. Don Gar­ cia, con una prestanza ammirevole, avvolgendo il mantello attor­ no al braccio, sguainò la spada al vento e gridò: «A me gli studenti!». Ma ce n’era uno solo nei dintorni, e i musicisti temendo senza dubbio di vedere i loro strumenti rotti nella confusione, si diede­ ro alla fuga chiamando la giustizia, mentre le due donne alla fine­ stra invocarono in loro aiuto tutti i santi del paradiso. Don Juan, che si trovava sotto la finestra più vicina a don Cri­ stovai, si dovette subito difendere da lui. Il suo avversario era abi­ le, e inoltre aveva nella mano sinistra un paletto di ferro di cui si serviva per parare i colpi, mentre don Juan non aveva che la sua spada e il suo mantello. Vivamente pressato da don Cristovai, si ri­ cordò a proposito di una botta del signor Uberti, il suo maestro d’armi. Si lasciò cadere sulla mano sinistra, e con la destra, facendo scivolare la spada sotto il paletto di don Cristovai, gliela conficcò alla giuntura delle costole con tanta di quella forza che il ferro si ruppe dopo essere penetrato per la lunghezza di un palmo. Don Cristovai emise un grido, e cadde nel suo sangue. Durante questa operazione, che fu più lunga da raccontare che da fare, don Garcia si difendeva con successo contro i suoi due avversari, che non ap­ pena ebbero visto il loro capo per terra fuggirono a gambe levate. «Salviamoci ora», disse don Garcia, «non è il momento per di­ vertirci. Addio, mie belle!». E trascinò via don Juan tutto spaventato della sua prodezza. A venti passi dalla casa, don Garcia si fermò per chiedere al suo compagno che ne aveva fatto della sua spada. «La mia spada?», disse don Juan accorgendosi solo allora che non l’aveva più in mano, «...Non lo so... l’avrò probabilmente fatta cadere». «Maledizione!» esclamò don Garcia, «e il vostro nome che è inciso sull’elsa!». In quel momento si vedevano degli uomini con delle fiaccole uscire dalle case vicine e prodigarsi attorno al moribondo. Dal­ l’altro lato della strada un gruppo di uomini armati avanzavano rapidamente. Era evidentemente una pattuglia attirata dalle grida dei musicisti e dal rumore del combattimento. 168

Don Garcia, abbassandosi il cappello sugli occhi e coprendosi con il mantello la parte inferiore del volto per non essere ricono­ sciuto, malgrado il pericolo si lanciò in mezzo a tutti quegli uo­ mini, sperando di ritrovare quella spada che avrebbe inevitabil­ mente fatto scoprire il colpevole. Don Juan lo vide colpire a destra e a sinistra, spegnendo le luci e rovesciando tutto quello che tro­ vava al suo passaggio. Riapparve presto correndo con tutte le sue forze con una spada in mano: tutta la pattuglia lo seguiva. «Ah! don Garcia», esclamò don Juan afferrando la spada che lui gli tendeva, «vi sarò eternamente grato!». «Fuggiamo! Fuggiamo!», gridò don Garcia, «Seguitemi e se qualcuno di questi furfanti vi serra troppo da vicino, colpitelo co­ me avete fatto con l’altro». Allora tutti e due si misero a correre con la velocità data lo­ ro dal vigore naturale, aumentata dalla paura del Signor corregidore, magistrato che passava per ancora più temibile agli stu­ denti che ai ladri. Don Garcia, che conosceva Salamanca come il suo Deus det, era molto abile a girare rapidamente agli angoli delle strade e a gettarsi nelle strette viuzze, mentre il suo compagno, più inesper­ to, lo seguiva a fatica. Cominciava a mancargli il respiro, quando alla fine di una strada incontrarono un gruppo di studenti che passeggiavano cantando e suonando la chitarra. Appena questi si furono accorti che due dei loro compagni erano inseguiti, affer­ rarono delle pietre, dei bastoni, e tutte le armi possibili. Gli sbir­ ri, tutti senza fiato, non ritennero il caso di avviare una scara­ muccia. Si ritirarono prudentemente, e i due colpevoli andarono a rifugiarsi e a riposarsi un istante in una chiesa vicina. Sotto il portale, don Juan volle rimettere la spada nel fodero, non trovando conveniente né cristiano entrare nella casa di Dio con un’arma in mano. Ma il fodero faceva resistenza, la lama en­ trava a fatica; insomma, si rese conto che la spada che aveva non era la sua: don Garcia, nella fretta, aveva preso la prima spada che aveva trovato a terra, e si trattava di quella del morto o di uno dei suoi accoliti. Il caso era grave; don Juan avvertì l’amico, che ave­ va imparato a guardare come a un buon consiglio. Don Garcia aggrottò le sopracciglia, si morse le labbra, torse i bordi del cappello, fece qualche passo, mentre don Juan, tutto 169

spaventato dalla spiacevole scoperta che aveva appena fatto, era in preda all’inquietudine e ai rimorsi. Dopo un quarto d’ora di ri­ flessione, durante il quale don Garcia ebbe il buon gusto di non dire una sola volta: «Perché avete lasciato cadere la spada?», pre­ se don Juan per il braccio e gli disse: «Venite con me, ho quel che fa al caso nostro». In quel momento un prete usciva dalla sagrestia della chiesa e stava per avviarsi per strada; don Garcia lo fermò. «Non è forse al saggio laureato Gomez che ho l’onore di par­ lare?» gli disse inchinandosi profondamente. «Non sono ancora laureato», rispose il prete, evidentemente lusingato di passare per laureato. «Mi chiamo Manuel Tordoya, al vostro servizio». «Padre mio», disse don Garcia, «siete esattamente la persona a cui desideravo parlare; si tratta di un caso di coscienza, e se la fa­ ma non m’inganna, voi siete l’autore di quel famoso trattato De casibus conscientiae che ha fatto tanto scalpore a Madrid». Il prete, abbandonandosi al peccato di vanità, rispose balbettan­ do che non era l’autore del libro (che, a dire il vero, non era mai esi­ stito), ma che si era molto occupato di cose del genere. Don Garcia, che aveva le sue buone ragioni per non ascoltarlo, proseguì così: «Ecco, padre mio, in tre parole, la questione su cui desidero consultarvi. Un mio amico, oggi stesso, meno di un’ora fa, viene avvicinato per strada da un uomo che gli dice: “Cavaliere, vado a battermi a due passi da qui, il mio avversario ha una spada più lun­ ga della mia; prestatemi la vostra perché le nostre armi siano ugua­ li”. E il mio amico ha fatto a cambio di spada con lui. Aspetta un po’ da una parte della strada che l’affare sia risolto. Non sentendo più il rumore delle spade, si avvicina; che vede? un uomo morto, trafitto dalla stessa spada che aveva prestato. Da quel momento è disperato, si rimprovera la sua compiacenza, e teme di aver com­ messo un peccato mortale. Io ho tentato di rassicurarlo; penso a un peccato veniale, perché se non avesse prestato la sua spada, sa­ rebbe stato la causa del fatto che i due uomini si sarebbero battu­ ti ad armi impari. Che ne pensate, padre mio? non siete del mio stesso avviso?». Il prete, che era apprendista casista, a questa storia drizzò le orecchie e si batté per un po’ la fronte come un uomo che cerca una 170

citazione. Don Juan non sapeva dove volesse arrivare don Garcia, ma non aggiunse niente, temendo di fare qualche goffaggine. «Padre mio», proseguì Garcia, «la questione è molto difficile, dato che un grande saggio come voi esita a risolverla. Domani, se voi lo permettete, ritorneremo per sapere la vostra risposta. Nel­ l’attesa, vogliate, vi prego, dire o far dire qualche messa per l’ani­ ma del morto». A queste parole depose due o tre ducati nella mano del prete, cosa che finì per disporlo favorevolmente nei confronti di giova­ ni così devoti, così scrupolosi e soprattutto così generosi. Assi­ curò loro che l’indomani, nello stesso luogo, avrebbe dato loro la sua opinione per scritto. Don Garcia fu prodigo di ringrazia­ menti; poi aggiunse con tono disinvolto, e come un’osservazione di poca importanza: «Purché la giustizia non abbia da conside­ rarci responsabili di questa morte! Noi speriamo in voi per ri­ conciliarci con Dio». «Quanto alla giustizia», disse il prete, «non avete niente da te­ mere. Dato che il vostro amico non ha fatto altro che prestare la spada, non è legalmente complice». «Sì, padre mio, ma l’assassino è fuggito. Esamineranno la feri­ ta, forse troveranno la spada insanguinata... che ne so? Gli uomi­ ni di legge sono terribili, si dice». «Ma», disse il prete, «voi siete stato testimone che la spada è stata prestata?». «Certamente», rispose don Garcia, «lo affermerei davanti a tutte le corti del regno. Del resto», proseguì con tono più insi­ nuante, «voi, padre mio sarete là a testimoniare la verità. Ci sia­ mo presentati a voi molto tempo prima che l’affare fosse noto per chiedervi consigli spirituali. Voi potreste anche testimoniare lo scambio... Eccone la prova». Allora prese la spada di don Juan. «Guardate questa spada», disse «che figura fa in questo fodero!». Il prete chinò la testa come un uomo convinto della verità del­ la storia che gli hanno raccontato. Soppesò senza parlare i ducati che aveva in mano, ci trovò ancora un argomento senza replica a favore dei due ragazzi. «Inoltre, padre mio», disse don Garcia con tono molto devo­ to, «che ci importa della giustizia? È con il Cielo che noi voglia­ mo essere riconciliati». 171

«A domani, ragazzi miei», disse il prete ritirandosi. «A domani», rispose don Garcia, «vi baciamo le mani e con­ tiamo su di voi». Il prete se ne andò, don Garcia fece un salto di gioia. «Viva la simonia!», esclamò, «eccoci in una posizione miglio­ re, lo spero. Se la giustizia se la prende con voi, questo buon pa­ dre, per i ducati che ha ricevuto e ciò che spera di ricavare da noi, è pronto a testimoniare che siamo estranei alla morte del cavalie­ re che avete appena sbrigato, come un bambino appena nato. Ri­ tornate a casa ora, rimanete sul chi vive e aprite la porta solo a buoni alfieri; io corro in città a sapere un po’ di notizie». Don Juan, rientrato in camera, si gettò tutto vestito sul letto. Passò la notte senza dormire, pensando solo all’omicidio che aveva commesso, e soprattutto alle sue conseguenze. Ogni volta che per strada sentiva il rumore dei passi di un uomo, si imma­ ginava la giustizia che veniva ad arrestarlo. Eppure, dato che era stanco e aveva ancora la testa pesante in seguito alla cena degli studenti a cui aveva partecipato, si addormentò nel momento in cui il sole si levava. Riposava già da alcune ore, quando il suo domestico lo svegliò dicendogli che una dama velata chiedeva di parlargli. In quello stesso momento una donna entrò in camera. Era avvolta dalla te­ sta ai piedi in un grande mantello nero che le lasciava scoperto so­ lo un occhio. Questo occhio, lo girò verso il domestico, poi ver­ so don Juan, come per chiedergli di parlare senza testimoni. Il do­ mestico uscì subito. La dama si sedette, guardando don Juan con quell’occhio e con la più grande attenzione. Dopo un momento di silenzio, cominciò così: «Signor cavaliere, la mia venuta ha di che sorprendervi, e voi dovete, senza dubbio, avere di me una mediocre opinione; ma se si conoscessero i motivi che mi conducono qui, senza dubbio non mi si biasimerebbe. Voi vi siete battuto ieri con un cavaliere di questa città...». «Io, signora!», esclamò don Juan impallidendo, «io non sono uscito da questa camera...». «È inutile fingere con me, e vi do l’esempio della franchezza». Così dicendo, si tolse il mantello e don Juan riconobbe dona Teresa.

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«Signor don Juan», proseguì arrossendo, «devo confessarvi che il vostro coraggio mi ha enormemente colpito. Ho notato, malgrado l’agitazione in cui mi trovavo, che la vostra spada si era spezzata, e che voi l’avevate gettata a terra vicino alla nostra por­ ta. Nel momento in cui si avvicinavano al ferito, io sono scesa e ho preso l’impugnatura di questa spada. Guardandola ho letto il vostro nome e ho capito quanto potevate essere esposto, se que­ sta fosse caduta nelle mani dei vostri nemici. Eccola, sono felice di potervela restituire». A ragione, don Juan cadde alle sue ginocchia, le disse che le doveva la vita, ma che era un regalo inutile, poiché lei lo faceva morire d’amore. Dona Teresa aveva fretta, voleva ritirarsi subito; eppure ascoltava don Juan con un piacere tale che non riusciva a decidersi a rientrare. Un’ora circa trascorse, tutta piena di giura­ menti d’amore eterno, di baciamano, preghiere da una parte, de­ boli rifiuti dall’altra. Don Garcia, entrando improvvisamente, in­ terruppe questo tête-à-tête. Non era uomo da scandalizzarsi. La sua prima preoccupazione fu di rassicurare Teresa. Lodò molto il suo coraggio, la sua presenza di spirito e finì per pregarla di in­ tercedere presso sua sorella per dedicargli un’accoglienza più umana. Dona Teresa promise tutto quello che egli volle, si avvi­ luppò ermeticamente nel mantello e uscì dopo aver promesso di ritrovarsi la sera stessa insieme alla sorella in una parte della pas­ seggiata che indicò. «I nostri affari procedono bene», disse don Garcia appena i due furono soli. «Nessuno vi sospetta. Il corregidore, che non mi ama affatto, all’inizio mi aveva fatto l’onore di pensare a me. Era convinto, diceva, che ero stato io a uccidere don Cristovai. Sape­ te cosa gli ha fatto cambiare opinione? gli hanno detto che avevo passato tutta la serata con voi; e voi, mio caro, avete una così grande reputazione di santità da rivenderne ad altri. Sia quel che sia, non pensano a noi. La birichinata di questa brava piccola Te­ resa ci rassicura per l’avvenire, dunque ora pensiamo solo a di­ vertirci». «Ah! Garcia», esclamò tristemente don Juan, «è una cosa tri­ ste uccidere un proprio simile!». «C’è qualcosa di più triste», rispose don Garcia «ed è che un nostro simile ci uccida, e una terza cosa supera le altre due in tri­ 173

stezza: un giorno passato senza mangiare. E per questo che vi invito a cena oggi con qualche buona persona che sarà incanta­ ta di vedervi». Così dicendo, uscì. L’amore provocava già una potente diversione ai rimorsi del nostro eroe. La vanità finì di soffocarli. Gli studenti con i quali cenò da Garcia avevano saputo da lui chi era il vero assassino di don Cristovai. Questo Cristovai era un cavaliere famoso per il suo coraggio e la sua rettitudine, temuto dagli studenti: così la sua mor­ te non poteva che eccitare la loro allegria, e il suo fortunato avver­ sario fu sommerso di complimenti. A sentirli, era l’onore, il fiore, il braccio dell’università. Si bevve alla sua salute con entusiasmo, e uno studente di Murcia improvvisò un sonetto in sua lode, nel quale lo paragonava al Cid e a Bernard del Carpio. Alzandosi da tavola, don Juan sentiva ancora un peso sul cuore; ma se avesse avuto il potere di resuscitare don Cristovai, forse non l’avrebbe fatto, per paura di perdere la considerazione e la fama che questa morte gli aveva procurato in tutta l’università di Salamanca. Arrivò la sera, entrambe le parti arrivarono in orario all’ap­ puntamento, che ebbe luogo ai bordi del Tormes. Dona Teresa prese la mano di don Juan (non si dava ancora il braccio alle don­ ne), e dona Lausta quella di Garcia. Dopo qualche giro, le due coppie si separarono molto contente, con la promessa di non far­ si sfuggire una sola occasione di rivedersi. Lasciando le due sorelle, incontrarono alcuni zingari che bal­ lavano con dei tamburi baschi in mezzo a un gruppo di studenti. Si unirono a loro. I danzatori piacquero a don Garcia, che decise di condurli a cena. La proposta fu subito fatta e accettata. Nella sua qualità di fidus Achates, don Juan era della brigata. Colpito da uno di questi libertini che gli aveva detto che aveva l’aria di un monaco novizio, si studiò di fare tutto ciò che era necessario per provare che questo soprannome era sbagliato: imprecò, ballò, giocò e bevve lui da solo come due studenti del secondo anno avrebbero potuto fare. Lecero molta fatica a riportarlo a casa dopo mezzanotte, un po’ più che ubriaco e in un tale stato di furore che voleva mette­ re a ferro e fuoco Salamanca e bere tutto il Tormes per impedire di spegnere l’incendio. 174

È così che don Juan perse, una dopo l’altra, tutte le buone qua­ lità che la natura e la sua educazione gli avevano dato. In capo a tre mesi di soggiorno a Salamanca sotto la guida di Garcia, aveva completamente sedotto la povera Teresa: il suo compagno ci era riuscito per parte sua otto o dieci giorni prima. All’inizio don Juan amò la sua amante con tutto l’amore che un ragazzo della sua età prova per la prima donna che gli si concede; ma don Gar­ cia gli dimostrò senza fatica che la costanza era una virtù chime­ rica; inoltre, se si comportava in modo diverso dai suoi compagni nelle orge universitarie, avrebbe causato dei sospetti nella reputa­ zione di Teresa. Perché, diceva, solo un amore violento e soddi­ sfatto si accontenta di una sola donna. Inoltre, la cattiva compa­ gnia nella quale don Juan era immerso non gli lasciava un mo­ mento di riposo. A fatica faceva la sua comparsa in classe, o piut­ tosto, indebolito dalle veglie e dalla dissolutezza, si assopiva du­ rante le dotte lezioni dei più illustri professori. In compenso, era sempre il primo e l’ultimo nelle passeggiate; e le sue notti le pas­ sava regolarmente nelle taverne, o in un luogo peggiore, quando dona Teresa non gli si poteva consacrare. Un mattino aveva ricevuto un biglietto da questa dama che gli esprimeva il rimpianto di dover mancare a un appuntamento pro­ messo per la notte. Era arrivata a Salamanca una vecchia parente e le davano la camera di Teresa, che doveva dormire in quella di sua madre. Questo disappunto afflisse un poco don Juan, che trovò il modo di impiegare la serata. Mentre stava per uscire in strada, occupato nei suoi progetti, una donna velata gli consegnò un biglietto; era di dona Teresa. Aveva trovato un mezzo per ave­ re un’altra camera, e aveva sistemato tutto con la sorella per rin­ contro. Don Juan mostrò la lettera a don Garcia. Esitarono un po’; poi, alla fine, macchinalmente e come al solito scalarono il balcone delle loro amanti. Dona Teresa aveva alla gola un segno molto appariscente. Fu un immenso favore che ricevette don Juan la prima volta che eb­ be il permesso di guardarlo. Per molto tempo continuò a consi­ derarlo come la cosa più meravigliosa del mondo. Ora lo parago­ nava a una violetta, ora a un anemone, ora al fiore dell’alfala. Ma ben presto questo segno, che in realtà era molto grazioso, smise per sazietà di sembrargli tale. «E una grande macchia nera, ecco 175

tutto» si diceva sospirando. «È un peccato che si trovi là. Perdin­ ci, sembra la cotenna del lardo. Il diavolo porta il segno!». Un giorno chiese anche a Teresa se non avesse consultato un medico per farlo scomparire. Al che la povera ragazza rispose, arrossen­ do fino al bianco degli occhi, che nessun uomo, eccetto lui, aveva mai visto quella macchia, e che inoltre la sua nutrice era solita dir­ le che tali segni portano bene. La sera che ho detto, don Juan, arrivato all’incontro di cattivo umore, rivide il segno in questione, che gli parve ancora più gran­ de delle altre volte. «Perdinci, è la rappresentazione di un grosso ratto», disse tra sé e sé osservandolo. «In realtà è mostruoso! E un segno di riprovazione come quello di cui fu marchiato Caino. Bi­ sogna avere il diavolo in corpo per essere l’amante di una tale donna». Fu tetro fino alla fine. Discusse senza motivo con la po­ vera Teresa, la fece piangere e la lasciò verso l’alba senza volerla baciare. Don Garcia, che usciva con lui, camminò per un po’ sen­ za parlare; poi fermandosi improvvisamente: «Siete d’accordo, don Juan», gli disse, «che ci siamo molto an­ noiati questa notte. Per me è troppo, ho proprio voglia di man­ dare al diavolo una volta per tutte la principessa!». «Avete torto», disse don Juan, «Fausta è una persona incante­ vole, bianca come un cigno, ed è sempre di buonumore. E poi vi ama così tanto! In verità siete ben fortunato». «Bianca, meno male; ne convengo con voi che è bianca; ma non ha colori, e accanto a sua sorella sembra un gufo accanto a una colomba. Voi siete fortunato». «Proprio così», rispose don Juan. «La piccola è molto gentile, ma è una bambina. Non si può parlare ragionevolmente con lei. Ha la testa piena di romanzi di cavalleria; e sull’amore si è fatta le idee più stravaganti. Voi non avete idea di quanto sia esigente». «Siete voi troppo giovane, don Juan, e non sapete addestrare le vostre amanti. Vedete, una donna è come un cavallo; se voi le lasciate prendere cattive abitudini, se non la persuadete che non le perdonerete alcun capriccio, non potrete ottenere mai nulla». «Ditemi don Garcia, voi trattate le vostre amanti come i vostri cavalli? Usate spesso la verga per far loro passare i capricci?». «Raramente: ma sono troppo buono. Ecco, don Juan, volete cedermi la vostra Teresa? Vi prometto che in capo a quindici gior­ 176

ni sarà morbida come un guanto. In cambio vi offro Fausta. Vale bene lo scambio?». «La mercanzia sarebbe di mio gusto», disse don Juan sorriden­ do, «se queste dame da parte loro acconsentissero. Ma dona Fau­ sta non vi cederebbe mai. Ci perderebbe troppo nello scambio». «Voi siete troppo modesto; ma rassicuratevi. L’ho fatta arrab­ biare così tanto ieri che il primo venuto dopo di me le sembrebbe come un angelo di luce per un dannato. Sapete, don Juan», continuò don Garcia, «che sto parlando sul serio?». E don Juan rise più forte della seriosità con cui l’amico spac­ ciava le sue stravaganze. Questa edificante conversazione fu interrotta dall’arrivo di parecchi studenti che diedero un altro corso alle loro idee. Ma venuta la sera, i due amici erano seduti davanti a una bottiglia di vino di Montilla accompagnato da un cestino pieno di ghiande di Valencia, quando don Garcia si mise di nuovo a lagnarsi del­ la sua amante. Aveva appena ricevuto una lettera di Fausta, pie­ na di espressioni tenere e di dolci rimproveri, tra i quali si pale­ sava il suo spirito allegro e l’abitudine a cogliere il lato ridicolo di ogni cosa. «Ecco», disse don Garcia porgendo la lettera a don Juan e sba­ digliando oltre misura, «leggete questo bel pezzo. Ancora un in­ contro per questa sera! ma il diavolo mi porti se ci vado!». Don Juan lesse la lettera che gli sembrò incantevole. «In verità», disse, «se avessi un’amante come la vostra, farei di tutto per renderla felice». «Prendetevela allora, mio caro», esclamò don Garcia, «pren­ detela, fatevi passare la fantasia. Vi cedo i miei diritti. Facciamo di meglio», aggiunse alzandosi, come illuminato da un’ispirazione improvvisa, «giochiamoci a carte le nostre amanti. Ecco le carte. Facciamo una partita a hombre. Dona Fausta è la mia posta; voi mettete sul tavolo dona Teresa». Don Juan, ridendo fino alle lacrime per la follia del suo com­ pagno, prese le carte e le mischiò. Sebbene non prestasse alcuna attenzione al gioco, vinse. Don Garcia, senza mostrarsi dispiaciu­ to della perdita della partita, domandò da scrivere, e fece una spe­ cie di pagherò cambiario, emesso su dona Fausta, alla quale in­ giungeva di mettersi a disposizione del portatore, proprio come 177

avrebbe scritto al suo attendente di contare cento ducati per uno dei suoi creditori. Don Juan, sempre ridendo, propose a don Garcia la rivincita. Ma questi rifiutò. «Se avete un po’ di coraggio», disse, «prendete il mio mantel­ lo, andate alla porticina che voi ben conoscete. Troverete solo Fausta, dato che Teresa non vi aspetta. Seguitela senza dire una parola; una volta nella sua camera, è possibile che provi un mo­ mento di sorpresa, che versi una lacrima o due; ma che questo non vi fermi. Siate certo che non oserà gridare. Allora mostratele la mia lettera; ditele che sono un orribile scellerato, un mostro, tutto quello che volete; che ha una vendetta facile e pronta, e que­ sta vendetta, siatene certo, la troverà ben dolce». A ogni parola di Garcia, il diavolo penetrava sempre più a fon­ do nel cuore di don Juan, e gli diceva che ciò che fino allora ave­ va considerato solo come una facezia inconcludente, poteva fini­ re per lui nel modo più gradito. Smise di ridere, e un rossore di piacere prese a salirgli sulla fronte. «Se io fossi sicuro», disse, «che Fausta acconsentisse a questo scambio...». «Se acconsentirà!», gridò il libertino. «Che razza di sbarbatel­ lo siete, compagno mio, da credere che una donna possa esitare fra un amante di sei mesi e uno di un giorno! Via, domani mi rin­ grazierete entrambi, non ne dubito, e Punica ricompensa che vi chiedo, è il permesso di fare la corte a Teresita per risarcirmi...». Poi, vedendo che don Juan era convinto più che a metà, gli disse: «Decidetevi, perché io non voglio vedere Fausta stasera; se voi non accettate, do questo biglietto al grosso Fadrique: così la manna toccherà a lui». «In fede mia, accada quel che accada!», esclamò don Juan, prendendo il biglietto; e per farsi coraggio, trangugiò d’un solo colpo un grosso bicchiere di Montilla. L’ora si avvicinava. Don Juan, trattenuto tuttora da una trac­ cia di scrupolo, beveva senza tregua per stordirsi. Infine l’orolo­ gio suonò. Don Garcia gettò il proprio mantello sulle spalle di don Juan e lo accompagnò fino alla porta della sua amante; poi, fatto il segnale convenuto, gli augurò la buonanotte, e si allontanò senza il minimo rimorso per la cattiva azione commessa. 178

Subito la porta si aprì. Dona Fausta aspettava da un po’. «Siete voi, don Garcia?», domandò a bassa voce. «Sì», rispose don Juan ancora più piano e con il volto nasco­ sto fra le pieghe del largo mantello. Entrò e, richiusasi la porta, don Juan cominciò a salire con la sua guida per una scala buia. «Prendete il lembo della mia mantiglia», disse lei, «e seguitemi più piano che potete». In pochi istanti si trovò nella camera di Fausta. Un’unica lam­ pada vi diffondeva una luce fioca. Sul principio don Juan, senza togliersi il mantello né il cappello, rimase in piedi, con le spalle appoggiate alla porta, senza osare ancora rivelarsi. Dona Fausta lo osservò per un po’ senza dire nulla, poi d’un tratto avanzò verso di lui tendendogli le braccia. Don Juan, lasciando allora cadere il mantello, imitò il gesto di lei. «Come! siete voi, signor don Juan?», ella gridò. «Don Garcia è malato?». «Malato? No», disse don Juan, «...Ma non può venire. Mi ha mandato da voi». «Oh! come mi dispiace! Ma ditemi, non è un’altra donna che lo trattiene?». «Lo credete dunque così libertino?...». «Come sarà contenta mia sorella di vedervi! Povera bambina! Credeva che non sareste venuto... Lasciatemi passare, vado ad avvertirla». «E inutile». «Avete un’aria strana, don Juan... Dovete forse darmi una cat­ tiva notizia... Parlate, è successa una disgrazia a don Garcia?». Per risparmiarsi una risposta imbarazzante, don Juan tese alla povera ragazza l’infame biglietto di don Garcia. Ella lo lesse fret­ tolosamente, e dapprima non lo comprese. Lo rilesse, e non potè credere ai suoi occhi. Don Juan la osservava attentamente, e la ve­ deva volta a volta asciugarsi la fronte, stropicciarsi gli occhi; le labbra le tremavano, un pallore mortale le copriva il volto ed era costretta a tenere con due mani il foglio perché non le cadesse in terra. Infine, alzandosi con uno sforzo disperato, gridò: «È tutta una falsità! È un’orribile menzogna! Don Garcia non ha mai scritto questo!». Don Juan rispose: 179

«Conoscete la sua calligrafia. Egli ignorava il valore del tesoro che possedeva... e io ho accettato perché vi adoro». Ella gli gettò uno sguardo pieno del più profondo disprezzo, e si mise a rileggere la lettera con l’attenzione di un avvocato che sospetti una falsificazione in un atto. I suoi occhi erano smisura­ tamente aperti e fissi sul foglio. Di tanto in tanto una lacrima ne scendeva senza che ella battesse la palpebra, e cadeva scivolando­ le sulle guance. D’un tratto sorrise come una folle; e gridò: «È uno scherzo, non è vero? E uno scherzo? don Garcia è qui, sta per venire!...». «Non è uno scherzo, dona Fausta. Nulla è più vero dell’amo­ re che io ho per voi. Sarei ben infelice se non mi credeste». «Miserabile!» gridò dona Fausta; «ma se dici la verità tu sei an­ cora più scellerato di don Garcia». «L’amore giustifica tutto, bella Faustita. Don Garcia vi abban­ dona; prendete me per consolarvi. Vedo dipinti su quel quadro Bacco e Arianna; lasciate che io sia il vostro Bacco». Senza rispondere una parola, ella afferrò un coltello sul tavolo, e tenendolo alzato al di sopra della testa avanzò verso don Juan. Ma egli aveva intuito il suo gesto; le afferrò il braccio, la disarmò senza fatica, e, credendosi autorizzato a punirla per quell’inizio di ostilità, la baciò tre o quattro volte, e fece per condurla a un diva­ no. Dona Fausta era una donna debole e delicata, ma la collera le dava forza; ella resisteva a don Juan ora aggrappandosi ai mobili, ora difendendosi, con le mani, con i piedi e con i denti. All’inizio don Juan aveva ricevuto qualche colpo sorridendo, ma presto la collera fu in lui non meno violenta dell’amore. Strinse forte Fau­ sta senza timore di ferire la sua pelle delicata. Era un lottatore ir­ ritato che voleva ad ogni costo trionfare sull’avversario, pronto a soffocarlo, se occorreva, per vincerlo. Fausta ricorse allora all’ul­ tima risorsa che le restava. Fin qui un sentimento di pudore fem­ minile l’aveva trattenuta dal chiamare aiuto, ma vedendosi sul punto di essere vinta fece risuonare la casa delle sue grida. Don Juan sentì che non si trattava più per lui di possedere la sua vittima, doveva inanzitutto pensare alla propria incolumità. Volle respingere Fausta e raggiungere la porta, ma lei gli si ag­ grappava ai vestiti, e non poteva liberarsene. Intanto si udiva un rumore allarmante di porte che si aprivano; passi e voci di uomi­ 180

ni si avvicinavano, non c’era un minuto da perdere. Fece uno sforzo per svincolarsi da dona Fausta, ma questa l’aveva afferra­ to per la giubba con tanta forza che egli girò su se stesso con lei senza aver ottenuto altro che di mutare posizione. Fausta si tro­ vava allora accanto alla porta che si apriva dal di dentro. Conti­ nuava a gridare. Nello stesso momento la porta si apre: un uomo con un archibugio in mano appare sulla soglia. Si lascia sfuggire un’esclamazione di sorpresa, e subito segue una detonazione. Il lume si spense, e don Juan sentì che le mani di dona Fausta si di­ schiudevano, e che qualcosa di caldo e liquido colava sulle sue. Ella cadde o meglio scivolò sul pavimento, la pallottola le aveva spezzato la spina dorsale: il padre aveva ucciso lei invece del suo aggressore. Don Juan, sentendosi libero, si slanciò verso la scala, in mezzo al fumo dell’archibugio. Ricevette dapprima un colpo con il calcio dell’archibugio dal padre, e poi un colpo di spada dal servo che lo seguiva. Ma né l’uno né l’altro gli fecero molto ma­ le. Ponendo mano alla spada, cercò di aprirsi un varco e di spe­ gnere il lume del servo. Spaventato dalla sua aria risoluta, questi si fece indietro. Quanto a don Alonso de Ojeda, uomo ardente e intrepido, si gettò su don Juan senza esitare; questi parò alcuni colpi e certo sul principio non aveva che l’intenzione di difender­ si, ma l’abitudine alla scherma fa sì che una risposta dopo una pa­ rata non è che un moto meccanico e quasi involontario. Dopo un attimo, il padre di dona Fausta tirò un gran sospiro e cadde feri­ to a morte. Don Juan, trovando libero il passaggio, si slanciò co­ me un fulmine sulla scala, di lì verso la porta e in un batter d’oc­ chio fu per strada senza che lo inseguissero i servitori, che tutti s’affaccendavano intorno al loro padrone in agonia. Dona Teresa accorse al rumore del colpo dell’archibugio, aveva visto l’orribile scena ed era caduta svenuta accanto al padre. Ella non conosceva ancora che la metà della propria sventura. Don Garcia finiva l’ultima bottiglia di Montilla, quando don Juan, pallido, insanguinato, con gli occhi smarriti, la giubba strappata e il bavero che usciva fuori di mezzo piede più del consueto, entrò a precipizio nella sua camera e si gettò trafelato su una poltrona senza poter parlare. L’altro capì immediata­ mente che era accaduto un incidente grave. Lasciò che don Juan respirasse penosamente due o tre volte, poi gli domandò dei 181

particolari; in due parole fu informato. Don Garcia, che non perdeva facilmente la sua flemma abituale, ascoltò senza batter ciglio il rotto racconto dell’amico. Poi, riempiendo un bicchie­ re e offrendoglielo: «Bevete», gli disse, «ne avete bisogno. È un brutto affare», ag­ giunse dopo aver bevuto lui stesso. «Uccidere un padre è grave... Tuttavia ne esistono già molti esempi, a cominciare dal Cid. Il peg­ gio è che voi non avete cinquecento uomini tutti vestiti di bianco5, tutti cugini vostri per difendervi dagli arcieri di Salamanca e dai pa­ renti del defunto... Occupiamoci subito della cosa più urgente. Fece due o tre volte il giro della stanza come per raccogliere le idee. «Restare a Salamanca», riprese, «dopo un simile scandalo, sa­ rebbe follia. Non è un nobiluccio provinciale, don Alonso de Ojeda, e d’altronde i servi vi hanno certo riconosciuto. Ammet­ tiamo per un attimo che non vi abbiano riconosciuto; ormai vi siete conquistata una reputazione così fortunata all’università che non si mancherà d’imputarvi un misfatto anonimo. Sentite, cre­ dete a me, bisogna partire, e al più presto possibile, è la cosa mi­ gliore. Qui voi siete diventato tre volte più colto di quanto non si addica a un gentiluomo di buona famiglia. Lasciate Minerva e as­ saggiate un poco di Marte; ciò vi riuscirà meglio, poiché ne avete la disposizione. In Fiandra si combatte. Andiamo ad ammazzare degli eretici, niente è più adatto per riscattarci dei nostri pecca­ tucci su questa terra. Amen! Finisco come alla predica». La parola Fiandra agì su don Juan come un talismano. Lascia­ re la Spagna gli sembrava fosse come sfuggire a se stesso. In mez­ zo alle fatiche e ai pericoli della guerra, non avrebbe avuto tempo libero per i propri rimorsi! «In Fiandra, in Fiandra!», gridò, «andiamo a farci ammazzare in Fiandra». «Da Salamanca a Bruxelles la strada è lunga», riprese grave­ mente don Garcia, «e nella vostra situazione non potete partire troppo presto. Pensate che se il corregidore vi acchiappa vi sarà ben difficile fare una campagna altrove che nelle galere di Sua Maestà!». [Secondo la leggenda, i compagni del Cid sono bianchi come la neve].

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Dopo essersi concertato alcuni minuti con l’amico, don Juan si spogliò in fretta dell’abito di studente. Indossò una giacca di cuoio ricamato, come la portavano i militari, un cappellone ben calzato sugli occhi, e non dimenticò di munire la cintura con tan­ ti dobloni quanti ne potè fornire don Garcia; tutti questi prepa­ rativi durarono pochi minuti. Egli si mise per via a piedi, uscì dal­ la città senza essere riconosciuto e camminò tutta la notte e tutto il mattino seguente, fino a che il calore del sole lo obbligò a fer­ marsi. Nella prima città dove arrivò, comprò un cavallo e unen­ dosi a una carovana di viaggiatori, raggiunse Saragozza senza ostacoli. Là dimorò alcuni giorni sotto il nome di don Juan Car­ rasco. Don Garcia, che aveva lasciato Salamanca il giorno dopo la sua partenza, prese una via diversa e lo raggiunse a Saragozza. Non vi si trattennero a lungo. Dopo aver fatto molto in fretta le loro devozioni alla Madonna del Pilastro, non senza adocchiare le bellezze aragonesi, ciscuno accompagnato da un buon servito­ re, si recarono a Barcellona, dove si imbarcarono per Civitavec­ chia. La stanchezza, il mal di mare, le novità dei luoghi e la natu­ rale leggerezza di don Juan, tutto concordava a far sì che egli pre­ sto dimenticasse le orribili scene che lasciava dietro di sé. Per qualche mese i piaceri che i due amici trovarono in Italia li fecero trascurare lo scopo principale del loro viaggio; ma, poiché i fon­ di cominciavano a scarseggiare, si unirono a un certo numero di compatrioti, prodi al pari loro, e al verde, e si misero in viaggio per la Germania. Arrivati a Bruxelles, ognuno si arruolò nella compagnia del capitano che più gli piacque. I due amici vollero fare il loro esor­ dio d’armi in quella del capitano don Manuel Gomar, prima di tutto perché era andaluso, e poi perché aveva fama di non esigere dai suoi soldati che del coraggio e delle armi lucenti e in buono stato, molto conciliante invece nei riguardi della disciplina. Attratto dal loro bell’aspetto, li trattò bene e ne assecondò i gusti, cioè si servì di loro in tutte le occasioni rischiose. La sorte fu loro favorevole, e là dove molti compagni trovarono la morte, essi non ricevettero neppure una ferita e si fecero notare dai ge­ nerali. Ottennero una carica ciascuno, lo stesso giorno. Da quel momento, rassicurati dalla stima e dall’amicizia dei loro superio­ ri, confessarono i loro veri nomi e ripresero il tenore di vita con­ 183

sueto, cioè passavano la giornata a giocare e a bere, e la notte a far serenate alle più belle donne delle città in cui si trovavano di guar­ nigione durante l’inverno. Avevano ottenuto il perdono dei loro genitori, cosa che li toccò ben poco, e delle lettere di credito per dei banchieri di Anversa. Ne fecero buon uso. Giovani, ricchi, prodi e intraprendenti, le loro conquiste furono numerose e rapi­ de. Non indugerò a raccontarle; al lettore basti sapere che, quan­ do vedevano una bella donna, tutti i mezzi erano buoni per otte­ nerla. Promesse, giuramenti, non erano che un gioco per quegli indegni libertini; e se dei fratelli o dei mariti trovavano da ridire sulla loro condotta, essi avevano per rispondere buone spade e cuori spietati. La guerra ricominciò in primavera. In una scaramuccia che fu sfortunata per gli spagnoli il capita­ no Gomar fu ferito mortalmente. Don Juan, che lo vide cadere, corse a lui e chiamò alcuni soldati per portarlo via; ma il prode ca­ pitano, raccogliendo le forze che gli restavano, gli disse: «Lasciatemi morire qui, sento che è finita per me. Morire qui o a una mezza lega più lontano è lo stesso. Attenti ai vostri sol­ dati; fra poco avranno molto da fare, poiché vedo che gli olande­ si avanzano in forze. Ragazzi», aggiunse rivolgendosi ai soldati che lo attorniavano, «stringetevi attorno alle vostre bandiere e non datevi pensiero per me». Don Garcia arrivò in quel momento e gli domandò se non aveva qualche ultima volontà che dovesse essere eseguita dopo la sua morte. «Che diavolo volete che io desideri in un momento come que­ sto?...». Sembrò raccogliersi alcuni minuti. «Non ho mai pensato molto alla morte», riprese, «e non la credevo così vicina... Non mi dispiacerebbe avere accanto un prete... Ma tutti i nostri monaci fanno fagotto... Eppure è duro morire senza confessarsi!». «Ecco il mio libro di preghiere», disse don Garcia offrendogli una bottiglia di vino. «Fatevi coraggio». Gli occhi del vecchio soldato si offuscavano sempre più. Egli non si accorse dello scherzo di don Garcia, ma i vecchi soldati che lo circondavano ne furono scandalizzati. 184

«Don Juan», disse il moribondo, «avvicinatevi, ragazzo mio. Venite, vi nomino mio erede. Prendete questa borsa, contiene tut­ to quello che possiedo; è meglio che sia vostra piuttosto che di questi scomunicati. La sola cosa che vi chiedo è di far dire qual­ che messa perché la mia anima possa riposare in pace». Don Juan promise stringendogli la mano, mentre don Garcia gli faceva osservare a bassa voce quale differenza c’era fra le opinioni di un uomo debole nel momento della morte e quelle che egli pro­ fessa seduto davanti a una tavola coperta di bottiglie. Alcune pal­ lottole, fischiando ai loro orecchi, annunciarono l’arrivo degli olan­ desi. I soldati tornarono nei ranghi. Ognuno disse addio in fretta al capitano Gomar e non si pensò ad altro se non a ritirarsi in buon ordine. La cosa era abbastanza difficile dato il numero dei nemici, della strada scavata dalle piogge, dei soldati sfiniti per una lunga marcia. Tuttavia gli olandesi non riuscirono a recar loro danno e durante la notte abbandonarono l’inseguimento senza aver preso una bandiera o fatto un solo prigioniero che non fosse ferito. La sera i due amici, seduti sotto una tenda con alcuni ufficiali, ragionavano sull’episodio al quale avevano assistito. Furono bia­ simate le disposizioni del comandante di giornata e si trovò tutto quello che sarebbe stato bene fare. Poi si venne a parlare dei mor­ ti e dei feriti. «Quanto al capitano Gomar», disse don Juan, «lo rimpiangerò a lungo. Era un ufficiale coraggioso, un buon compagno, un ve­ ro padre per i suoi soldati». «Sì», disse don Garcia, «ma vi confesserò che non sono mai stato così stupito come quando l’ho visto così afflitto di non aver accanto una veste nera. Questo prova una cosa sola, che è più fa­ cile essere coraggiosi a parole che nei fatti. Uno ride di un peri­ colo lontano, ma impallidisce quando si avvicina. A proposito, don Juan, visto che siete il suo erede, fateci vedere quello che c’è nella borsa che vi ha lasciato». Don Juan l’aprì allora per la prima volta e vide che conteneva circa sessanta monete d’oro. «Visto che non ci mancano i fondi», disse don Garcia, abitua­ to a considerare la borsa dell’amico come sua propria, «perché non facciamo una partita di faraone invece di piagnucolare così, pensando ai nostri amici morti?». 185

La proposta fu approvata da tutti; vennero portati dei tambu­ ri, che si ricoprirono con un mantello. Servirono da tavolo da gio­ co. Don Juan iniziò, consigliato da don Garcia, ma prima di pun­ tare tirò fuori dalla borsa dieci monete d’oro che avviluppò nel fazzoletto e se le mise in tasca. «Che diavolo volete farne?», gridò don Garcia. «Un soldato che tesaurizza denaro! e alla vigilia di un’impresa!». «Sapete, don Garcia, che tutto questo denaro non è mio. Don Manuel mi ha fatto un legato sub poenae nomine, come diciamo noi a Salamanca». «La peste ti colga!», gridò don Garcia. «Credo, il diavolo mi porti, che ha intenzione di dare questi dieci scudi al primo cura­ to che incontreremo». «Perché no? L’ho promesso». «Tacete, per la barba di Maometto! Ho vergogna di voi e non vi riconosco più». Il gioco cominciò; sul principio la fortuna fu varia, poi si fece decisamente contraria a don Juan. Invano, per mutare sorte, don Garcia prese le carte; dopo un’ora, tutto il denaro che possedeva­ no, e più i cinquanta scudi del capitano Gomar, erano passati nel­ le mani del banco. Don Juan voleva andare a letto; ma don Gar­ cia era infervorato, pretese d’avere la rivincita e riguadagnare quello che aveva perduto. «Su, Signor Prudente», disse, «vediamo quegli ultimi scudi che avete così ben riposto. Sono sicuro che ci porteranno for­ tuna». «Don Garcia, ricordatevi che ho promesso!...». «Su, su, bambino che siete! si tratta proprio di dir messe ora. Il capitano, se fosse qui, avrebbe saccheggiato una chiesa piutto­ sto che lasciar passare una carta senza puntare». «Ecco cinque scudi», disse don Juan. «Non li arrischiate tutti in una volta». «Nessuna debolezza!», disse don Garcia. E puntò i cinque scu­ di su un re. Vinse, raddoppiò la posta, ma perse il secondo colpo. «Fuori gli ultimi cinque!», gridò pallido d’ira. Don Juan fece qualche obiezione, subito vinta; cedette e diede quattro scudi che ben presto seguirono i primi. Don Garcia, scagliando le carte in faccia a quello che teneva il banco, si alzò furibondo. Disse a don 186

Juan: «Siete sempre stato fortunato, voi, e ho sentito dire che un ultimo scudo ha un grande potere per scongiurare la sorte». Don Juan era furibondo almeno quanto lui. Non pensò più né alle messe né al suo giuramento. Puntò su un asso il solo scudo che gli rimaneva e lo perse subito. «Al diavolo l’anima del capitano Gomar!», gridò. «Credo che il suo denaro fosse stregato!...». L’uomo del banco domandò loro se volevano giocare anco­ ra; ma, dato che non avevano più denaro e che difficilmente si fa credito a chi ogni giorno si espone al rischio di farsi rompere la testa, furono costretti a lasciare il gioco e cercare di consolarsi con i bevitori. L’anima del povero capitano fu completamente dimenticata. Alcuni giorni dopo, ricevuti i rinforzi, gli spagnoli ripresero l’offensiva e avanzarono. Attraversarono i luoghi dove si erano battuti. I morti non erano ancora stati sotterrati. Don Garcia e don Juan spronavano i cavalli per sfuggire a quei cadaveri che offendevano a un tempo la vista e l’odorato, quando un soldato che li precedeva gettò un alto grido alla vista di un corpo che giaceva in un fossato. Si avvicinarono e riconobbero il capitano Gomar. Tuttavia era quasi sfigurato. I suoi lineamenti deformi e\ irrigiditi in orribili convulsioni attestavano che i suoi ultimi istanti erano stati accompagnati da dolori atroci. Pur avendo fa­ miliarizzato con simili spettacoli, don Juan non potè trattenere un fremito vedendo quel cadavere, i cui occhi appannati e pieni di sangue rappreso sembravano fissi su di lui in un’espressione minacciosa. Si ricordò le ultime raccomandazioni del povero ca­ pitano, e come aveva trascurato di eseguirle. Tuttavia, la forzata durezza di cui era riuscito a colmare il proprio cuore lo liberò ben presto da tali rimorsi; fece subito scavare una fossa per sep­ pellire il capitano. Per caso si trovava lì un cappuccino che re­ citò frettolosamente alcune preghiere. Il cadavere, asperso d’ac­ qua benedetta, fu ricoperto di pietre e di terra, e i soldati prose­ guirono il loro cammino più silenziosi del consueto, ma don Juan scorse un vecchio archibugiere che, dopo essersi frugato a lungo nelle tasche, vi trovò infine uno scudo che diede al cap­ puccino dicendo: «Ecco, per dire delle messe per il capitano Gomar». 187

Quel giorno, don Juan diede prova di un coraggio straordina­ rio, e si espose al fuoco nemico con così scarse cautele che si sa­ rebbe detto che volesse farsi uccidere. «È coraggioso chi si trova senza un soldo», dicevano i com­ pagni. Poco tempo dopo la morte del capitano Gomar, un giovane soldato fu ammesso come recluta nella compagnia in cui serviva­ no don Juan e don Garcia; sembrava deciso e intrepido, ma di un carattere sornione e misterioso. Mai lo si vedeva bere o giocare con i compagni; passava ore intere seduto su una panca nel corpo di guardia, intento a guardar volare le mosche, o a far scattare il grilletto del suo archibugio. I soldati, che lo prendevano in giro per la sua riservatezza, gli avevano dato il nomignolo di Modestob. Sotto questo nome egli era noto nella compagnia, e perfino i su­ periori non lo chiamavano in altro modo. La campagna finì coll’assedio di Berg-op-Zoom, che, com’è noto, fu uno dei più sanguinosi di quella guerra, poiché gli asse­ diati si difesero con estremo accanimento. Una notte i due amici si trovavano insieme di servizio nella trincea, allora così vicina al­ la piazzaforte che il posto era tra i più pericolosi. Le sortite degli assediati erano frequenti e il loro fuoco vivo e preciso. La prima parte della notte trascorse in allarmi continui; poi assediati e assedianti parvero cedere ugualmente alla stanchezza. Da una parte e dall’altra si cessò di sparare, e un profondo silen­ zio regnò in tutta la pianura, interrotto da rare scariche che non avevano altro scopo se non quello di attestare che, anche se il combattimento era cessato, si faceva però buona guardia. Erano circa le quattro del mattino; è il momento in cui l’uomo che ha vegliato prova una penosa sensazione di freddo accompagnata da una sorta di accasciamento morale, causato dalla stanchezza fisica e dalla voglia di dormire. Non c’è un soldato di buona fe­ de che non ammetta che in simili condizioni di spirito e di cor­ po non si sia sentito capace di debolezze che l’hanno fatto ar­ rossire dopo il levare del sole. «Caspita!», esclamò don Garcia battendo i piedi per riscaldar­ si e stringendosi addosso il mantello, «sono gelato fino al midol6 [In italiano nel testo].

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lo; credo che un bambino olandese mi vincerebbe con una mez­ zina di birra. Davvero non mi riconosco più. Ecco che un colpo di archibugio mi fa trasalire. Io! In fede mia, se fossi religioso, non farei che interpretare lo strano stato in cui mi trovo come un avvertimento dall’alto». Tutti quelli che erano presenti, e soprattutto don Juan, furono estremamente stupiti nel sentirlo parlare del Cielo, poiché non se ne interessava per nulla; o, se ne parlava, era per riderne. Accor­ gendosi che molti sorridevano a quelle parole, e riacceso da un sentimento di vanità, gridò: «Che nessuno si permetta di pensare, però, che ho paura degli olandesi, di Dio, o del diavolo, perché alla guardia entrante rego­ leremo insieme i conti!». «Passi per gli olandesi, ma per Dio e per l’Altro, è ben lecito averne paura», disse un vecchio capitano dai baffi grigi che aveva un rosario appeso accanto alla spada. «Che male mi possono fare?», chiese; «il fulmine non colpisce con la precisione di un archibugio protestante». «E la vostra anima?», disse il vecchio capitano segnandosi a quella orribile bestemmia. «Ah! quanto alla mia anima... anzitutto dovrei essere certo di averne una. Chi mai ha detto che ho un’anima? I preti. Ora, l’in­ venzione dell’anima frutta loro entrate così laute che non c’è più dubbio che ne sono gli autori, nello stesso modo come i pasticce­ ri hanno inventato le torte per venderle». «Don Garcia voi finirete male», disse il vecchio capitano. «Non si devono fare simili discorsi in trincea». «In trincea, come altrove, io dico quello che penso. Ma taccio, perché, ecco, vedo il mio amico don Juan cui sta per cadere il cap­ pello, tanto gli si drizzano i capelli in testa. Lui non crede soltan­ to all’anima; crede anche alle anime del purgatorio». «Io non sono uno spregiugicato», disse don Juan ridendo, «e invidio talvolta la vostra sublime indifferenza per le cose dell’al­ tro mondo; perché, ve lo confesserò, anche se doveste ridere di me, vi sono dei momenti in cui quel che si racconta dei dannati mi causa delle fantasticherie spiacevoli». «La prova migliore dello scarso potere del diavolo è che voi siete oggi qui in piedi in questa trincea. Parola mia, signori», ag­ 189

giunse don Garcia battendo sulla spalla di don Juan, «se ci fosse un diavolo, si sarebbe già portato via questo ragazzo. Giovane com’è, ve lo do per un vero scomunicato. Ha portato più donne alla perdizione e uomini alla tomba di quanto due francescani e due prodi di Valencia». Stava ancora parlando quando un colpo d’archibugio partì dal lato della trincea che confinava con il campo spagnolo. Don Gar­ cia si portò la mano al petto e gridò: «Sono ferito!». Barcollò, e cadde quasi subito. Nello stesso tempo videro un uomo che fuggiva, ma le tenebre lo sottrassero ben presto agli in­ seguitori. La ferita di don Garcia apparve mortale. Il colpo era stato ti­ rato molto da vicino, e l’arma caricata con molte pallottole. Ma la fermezza di quell’inveterato libertino non si smentì un istan­ te. Mandò via quegli che gli parlavano di confessarsi. Diceva a don Juan: «Una sola cosa mi rincresce: che i cappuccini vi convince­ ranno che la mia morte è avvenuta per giudizio divino. Conve­ nite con me che non c’è niente di più naturale che un colpo d’archibugio uccida un soldato. Dicono che il colpo sia partito dalla nostra parte: è senza dubbio qualche geloso pieno d’astio che mi ha fatto assassinare. Fatelo impiccare quant’è lungo se lo prendete. Sentite, don Juan, ho due amanti ad Anversa, tre a Bruxelles, e altre in altri luoghi che non ricordo... mi si offusca la memoria... Ve le lascio in eredità... in mancanza di meglio... Prendete anche la mia spada... e soprattutto non dimenticate il colpo che vi ho insegnato... Addio... e, invece di messe, che i miei compagni si riuniscano in un’orgia imponente dopo la mia sepoltura». Tali furono pressappoco le sue ultime parole. Di Dio, dell’al­ tro mondo, non si preoccupò più di quanto non avesse fatto quando era pieno di vita e di forza. Morì con il sorriso sulle lab­ bra, dato che la vanità gli dava la forza di sostenere fino alla fine la parte detestabile che tanto a lungo aveva rappresentato. Mode­ sto non ricomparve più. Tutta l’armata fu persuasa che egli fosse l’assassino di don Garcia; ma si perdevano in vane congetture sui motivi che potevano averlo spinto a quel delitto. 190

Don Juan rimpianse don Garcia più che se fosse stato suo fra­ tello. Si diceva, l’insensato!, che gli doveva tutto. Era stato lui ad averlo iniziato ai misteri della vita, a staccargli dagli occhi le fitte scaglie che li ricoprivano. «Chi ero prima di conoscerlo?», si chie­ deva, e il suo orgoglio gli diceva che era diventato un essere su­ periore agli altri uomini. Insomma tutto il male che gli aveva fat­ to in realtà il conoscere quell’ateo, egli lo mutava in bene, e glie­ ne era riconoscente come un discepolo lo è al maestro. Le tristi impressioni che gli lasciò quella morte così im­ provvisa permasero nell’animo suo abbastanza a lungo da co­ stringerlo a cambiare vita per molti mesi. Ma a poco a poco tornò alle antiche abitudini, ormai troppo radicate in lui perché un accidente potesse mutarle. Si rimise a giocare, a bere, a cor­ teggiare le donne, e a battersi con i mariti. Tutti i giorni aveva nuove avventure. Oggi ad assaltare una breccia, l’indomani a scalare un balcone; al mattino battersi con un marito, alla sera bere con delle cortigiane. In mezzo a queste dissolutezze apprese che suo padre era morto; la madre non gli era sopravvissuta che pochi giorni, di modo che ricevette le due notizie insieme. Gli uomini d’affari, concordi nel suo stesso desiderio, gli consigliavano di ritornare in Spagna e di prendere possesso del maggiorasco e delle grandi ricchezze che aveva ereditato. Da molto tempo aveva ottenuto la grazia per l’uccisione di don Alonso de Ojeda, padre di dona Fausta, e considerava quella faccenda come del tutto chiusa. D’altronde aveva voglia di esercitarsi in un teatro più grande. Pensava alle delizie di Siviglia e alle svariate bellezze che senza dubbio non aspettavano che il suo arrivo per arrendersi senza condizioni. Abbandonando dunque la corazza, partì per la Spa­ gna. Soggiornò un po’ di tempo a Madrid; si fece notare in una corrida per la ricchezza degli abiti e per la sua abilità nel colpire, vi fece alcune conquiste, ma non vi si fermò a lungo. Arrivato a Siviglia, sbalordì piccoli e grandi con il suo fasto e la sua magni­ ficenza. Dava tutti i giorni nuove feste, dove invitava le più bel­ le dame dell’Andalusia. Tutti i giorni erano nuovi piaceri, nuove orge nel suo splendido palazzo. Era diventato il re di una folla di libertini, che, disordinati e indisciplinati con tutti, gli obbediva­ no con quella docilità che troppo spesso si trova nelle associa­ ci

zioni dei malvagi. Infine non c’era dissolutezza in cui non si tuf­ fasse, e come un ricco vizioso non rappresenta un pericolo sol­ tanto per se medesimo, il suo esempio pervertiva la gioventù an­ dalusa, che lo portava alle stelle e lo prendeva a modello. Senza dubbio, se la Provvidenza avesse tollerato più a lungo il suo li­ bertinaggio, sarebbe stata necessaria una pioggia di fuoco per far giustizia dei disordini e dei crimini di Siviglia. Una malattia che per qualche giorno trattenne don Juan a letto non lo indusse a ravvedersi; al contrario, egli non chiedeva al medico che di ri­ dargli la salute per correre a nuovi eccessi. Durante la convalescenza si divertì a comporre una lista di tut­ te le donne che aveva sedotto e di tutti i mariti che aveva inganna­ to. Questa lista era metodicamente divisa in due colonne. Nell’una c’erano i nomi delle donne e i connotati sommari; a lato nome e professione dei rispettivi mariti. Stentò assai a ritrovare nella propria memoria i nomi di tutte quelle sventurate, ed è probabile che quel catalogo fosse ben lungi dall’essere completo. Un giorno lo mostrò a un suo amico che era venuto a fargli visita; e dato che in Italia aveva avuto i favori di una donna che osava vantarsi di es­ sere stata l’amante di un papa, la lista cominciava con il suo nome, e quello del papa figurava nella lista dei mariti. Seguiva un princi­ pe regnante, poi duchi, marchesi, fino a degli artigiani. «Vedi, mio caro», disse all’amico, «vedi, nessuno ha potuto sfuggirmi, dal papa al calzolaio; non c’è classe che non mi abbia fornito la sua quota». Don Torribio, così si chiamava l’amico, esaminò il catalogo, e glielo restituì dicendo in tono di trionfo: «Non è completo!». «Come? non è completo? Chi manca dunque alla mia lista di mariti?». «DIO», rispose don Torribio. «Dio? è vero! non c’è una suora. Caspita! ti ringrazio di aver­ mi avvertito. Ebbene, ti do la mia parola di gentiluomo che pri­ ma di un mese sarà nella mia lista, prima di monsignore il papa, e che ti inviterò a cena qui con una suora. In quale convento di Si­ viglia vi sono delle monache graziose?». Alcuni giorni dopo, don Juan si era messo in moto. Si mise a frequentare le chiese dei conventi femminili, inginocchiandosi as­ 192

sai vicino alle grate che separano le spose del Signore dagli altri fe­ deli. Di là gettava i suoi sguardi sfrontati a quelle timide vergini, come un lupo entrato nell’ovile cerca la pecora più grassa per im­ molarla per prima. Non tardò a osservare nella chiesa della Ma­ donna del Rosario una giovane suora di una bellezza incantevole a cui dava ancora più spicco un’espressione di malinconia diffusa in ogni suo tratto. Non alzava mai gli occhi, né li volgeva a destra o a sinistra; sembrava interamente assorta nel divino mistero che si celebrava davanti a lei. Le sue labbra si muovevano dolcemen­ te, ed era facile vedere come ella pregasse con maggiore fervore ed unzione di tutte le sue compagne. La vista di lei suscitò in don Juan antichi ricordi. Gli sembrò di aver visto quella donna in un altro luogo, ma non gli era possibile ricordare quando e dove. Nella sua memoria erano impressi più o meno nitidamente tanti ritratti che gli era impossibile non fare confusione. Per due gior­ ni di seguito egli tornò nella chiesa mettendosi sempre accanto al­ la grata, senza riuscire a far alzare gli occhi a suor Agata. Aveva saputo che questo era il suo nome. La difficoltà di trionfare su una persona così ben difesa dal proprio stato e dalla propria modestia non valeva che ad acuire i desideri di don Juan. Il punto più importante, e anche il più dif­ ficile, era farsi notare. La sua vanità lo induceva a credere che se soltanto avesse potuto attirare l’attenzione di suor Agata, la bat­ taglia sarebbe stata vinta più che per metà. Ecco l’espediente che escogitò per costringere quella bella creatura ad alzare gli occhi. Prese posto più vicino che poteva e, approfittando del momento dell’elevazione, quando tutti si prosternano, passò la mano fra le sbarre della grata e versò davanti a suor Agata il contenuto di una boccetta di profumo che aveva portato. L’odore acuto che subito si diffuse intorno costrinse la giovane suora ad alzare la testa, e siccome don Juan era seduto proprio di fronte a lei ella non potè fare a meno di vederlo. Dapprima una viva meraviglia si dipinse su tutti i suoi tratti, poi divenne di un pallore mortale; gettò un debole grido e cadde svenuta sul pavimento. Le sue compagne le accorsero intorno e la portarono nella sua cella. Don Juan, an­ dandosene assai contento di sé, si diceva: «Questa suora è davvero incantevole; ma più la guardo e più mi sembra che debba già figurare nel mio catalogo». 193

L’indomani, si trovò puntualmente presso la grata all’ora della messa. Ma suor Agata non era al suo posto consueto, fra le suore di prima fila; era invece quasi nascosta dietro le sue compagne. Nondimeno, don Juan osservò che ella gettava sguardi furtivi. Ne trasse un buon auspicio per la propria pas­ sione. «La piccola mi teme», pensava, «...non tarderà ad am­ mansirsi». Finita la messa, osservò che entrava in un confessio­ nale; ma per arrivarvi passò accanto alla grata e, come per caso, fece cadere il rosario. Don Juan aveva troppa esperienza per la­ sciarsi ingannare da quella pretesa distrazione. Anzitutto pen­ sò che era importante per lui avere quel rosario; ma si trovava dall’altro lato della grata e capì che per raccoglierlo doveva aspettare che tutti se ne fossero andati dalla chiesa. Nell’attesa, si appoggiò a una colonna, in attitudine meditativa, ma con una mano sugli occhi, con le dita leggermente scostate in modo da non perdere nulla dei movimenti di suor Agata. Chiunque l’a­ vesse visto in quella postura l’avrebbe preso per un buon cri­ stiano assorto in devoti pensieri. La suora uscì dal confessionale e fece alcuni passi per rientra­ re nel convento; ma presto si accorse, o meglio finse di accorger­ si, che non aveva il rosario. Girò gli occhi intorno da ogni parte e vide che era presso la grata. Tornò indietro e si chinò per racco­ glierlo. In quello stesso istante don Juan scorse qualcosa di bian­ co che passava sotto la grata. Era un fogliettino piegato in quat­ tro. Subito la suora se ne andò. Il libertino, sorpreso di riuscire ancor prima di quanto si aspettasse, provò una sorta di rammarico a non incontrare altri ostacoli. Così è all’incirca il rammarico di un cacciatore che inse­ gue un cervo contando su una corsa lunga e penosa: all’improv­ viso l’animale cade dopo il primo balzo, togliendo al cacciatore il piacere e il merito che si era ripromesso dall’inseguimento. In ogni modo egli raccolse rapidamente il biglietto, e uscì dalla chie­ sa per leggerlo a suo agio. Ecco ciò che conteneva: «Siete voi, don Juan? E dunque vero che non mi avete dimen­ ticata? Ero molto infelice, ma cominciavo ad abituarmi alla mia sorte. Adesso sarò mille volte più infelice. Dovrei odiarvi... avete versato il sangue di mio padre...; ma non posso né odiarvi né di194

menticarvi. Abbiate pietà di me. Non tornate più in questa chiesa; mi fate troppo male. Addio, addio, io sono morta per il mondo. Teresa».

«Ah! è la Teresita!», si disse don Juan. «Sapevo che l’avevo già vista da qualche parte». Poi rilesse di nuovo il biglietto. «Vi dovrei odiare...». Cioè vi adoro. «Avete versato il sangue di mio padre!...». Chimene dice­ va lo stesso a Rodrigo... «Non tornate più in questa chiesa». Cioè vi aspetto domani. «Benissimo! è mia». E ci pranzò sopra. L’indomani si trovò puntuale in chiesa con una lettera pronta in tasca; ma grande fu la sua sorpresa nel non veder comparire suor Agata. Mai una messa gli sembrò tanto lunga. Era furioso. Dopo aver maledetto cento volte gli scrupoli di Teresa, se ne andò a pas­ seggio lungo le rive del Guadalquivir per cercare qualche espedien­ te, ed ecco quello che scelse. Il convento della Madonna del Rosa­ rio era rinomato fra quelli di Siviglia per le squisite confetture che le suore vi preparavano. Si recò al parlatorio, chiese della conversa e si fece dare la lista di tutte le confetture che aveva in vendita. «Non avreste limoni alla Maraha?», chiese con l’aria più natu­ rale del mondo. «Limoni alla Marana, signor cavaliere? E la prima volta che sento parlare di simili confetture». «Eppure non c’è niente che sia più di moda; e mi stupisco che in una casa come la vostra non se ne facciano molte». «Limoni alla Maraha?». «Alla Maraha», ripetè don Juan scandendo ogni sillaba. «E im­ possibile che nessuna delle vostre religiose ne conosca la ricetta. Chiedete, vi prego, a quelle dame se proprio non conoscono que­ ste confetture. Ripasserò domani». Pochi minuti dopo nel convento non si parlava che di limoni alla Maraha. Le migliori pasticcere non ne avevano mai sentito parlare. Soltanto suor Agata ne conosceva il procedimento. Biso­ gnava aggiungere acqua di rose, di violette ecc., a dei limoni co­ muni, poi... Ella si incaricava di tutto. Don Juan, quando tornò, trovò un vaso di limoni alla Maraha: era, a dire il vero, un miscu­ glio abominevole al gusto; ma sotto la carta del vaso c’era un bi­ glietto di Teresa. Erano nuove preghiere perché rinunciasse a lei e 195

la dimenticasse. La povera ragazza cercava di ingannare se stessa. La religione, la pietà filiale e l’amore si disputavano il cuore di quella sventurata; ma era facile accorgersi che l’amore era il più forte. L’indomani don Juan mandò al convento uno dei suoi pag­ gi con una cassa di limoni da far candire, raccomandandosi in mo­ do particolare alla suora che aveva preparato le confetture da lui comprate il giorno prima. In fondo alla cassa aveva abilmente na­ scosto una lettera di risposta a quella di Teresa. Le diceva: «Sono stato molto infelice. Una fatalità mi ha guidato il braccio. Dopo quella notte funesta non ho smesso di pensare a te. Non osavo sperare che tu non mi odiassi. Finalmente ti ho ritrovato. Smetti di parlarmi dei voti che hai pronunciato. Prima di legarti ai piedi de­ gli altari, mi appartenevi. Non hai potuto disporre del tuo cuore che era mio... Vengo a richiedere un bene che preferisco alla vita. Morirò o mi sarai resa. Domani verrò a farti chiamare in parlato­ rio. Non ho osato presentarmi prima di averti avvertito. Ho te­ muto che il tuo turbamento ci tradisse. Armati di coraggio. Dim­ mi se la conversa può essere corrotta». Due gocce d’acqua fatte abilmente cadere sulla carta raffigura­ vano delle lacrime versate scrivendo. Qualche ora dopo, il giardiniere del convento gli portò una ri­ sposta e gli offrì i propri servigi. La conversa era incorruttibile; suor Agata acconsentiva a scendere in parlatorio, ma a condizio­ ne che fosse per dare e ricevere un addio eterno. L’infelice Teresa apparve nel parlatorio più morta che viva. Dovette appoggiarsi con le due mani alla grata per non cadere. Don Juan, calmo e impassibile, assaporava con delizia il turba­ mento che le causava. Sul principio, per ingannare la conversa, parlò con disinvoltura degli amici che Teresa aveva lasciato a Sa­ lamanca, e che lo avevano incaricato di portarle i loro ossequi. Poi, approfittando di un momento in cui la conversa si era allon­ tanata, disse sottovoce a Teresa molto rapidamente: «Sono deciso a tutto per toglierti da qui. Se bisogna dar fuoco al convento, lo brucerò. Non voglio sentire nulla. Tu mi appar­ tieni. Fra qualche giorno sarai mia, o morirò; ma molti altri mo­ riranno con me». La conversa si avvicinò di nuovo. Dona Teresa soffocava e non poteva articolare una parola. Don Juan, però, con tono indiffe-

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rente, parlava delle confetture, dei lavori di cucito di cui si occu­ pavano le religiose, prometteva alla conversa di inviarle dei rosa­ ri benedetti a Roma e di donare al convento un abito di broccato per vestire la santa patrona della comunità nel giorno della sua fe­ sta. Dopo mezz’ora di una simile conversazione, salutò Teresa con aria rispettosa e grave, lasciandola in uno stato di agitazione e di disperazione impossibile a descriversi. Ella corse a rinchiu­ dersi nella sua cella, e la sua mano, più obbediente della sua lin­ gua, vergò una lunga lettera di rimproveri, di preghiere e di la­ menti. Ma non poteva trattenersi dal confessare il suo amore e si scusava di questa colpa al pensiero che l’espiava rifiutando di ar­ rendersi alle preghiere dell’amante. Il giardiniere, al quale era af­ fidata quella corrispondenza criminosa, riportò presto una rispo­ sta. Don Juan minacciava sempre di ricorrere ai mezzi estremi. Aveva cento bravi al suo servizio. Il sacrilegio non lo spaventava. Sarebbe stato felice di morire, pur di stringere ancora una volta la sua amata fra le braccia. Che poteva fare quella debole bambina, abituata a cedere a un uomo che adorava? Passava le notte a pian­ gere, e di giorno non poteva pregare, l’immagine di don Juan la seguiva ovunque; perfino quando accompagnava le compagne negli esercizi di pietà, il suo corpo faceva macchinalmente i gesti di una persona che prega, ma tutto il suo cuore era in preda alla sua funesta passione. Dopo alcuni giorni, ella non ebbe più la forza di resistere. An­ nunciò a don Juan che era pronta a tutto. Si vedeva perduta in ogni caso, e si era detta che, dovendo morire, era meglio avere prima un istante di felicità. Don Juan, al colmo della gioia, fece tutti i preparativi per rapirla. Scelse una notte senza luna. Il giar­ diniere portò a Teresa una scala di seta che doveva servirle a scen­ dere le mura del convento. In un punto convenuto del giardino sarebbe stato nascosto un involto con dentro un abito borghese, poiché non c’era neppure da pensare a uscire per strada con la to­ naca. Don Juan l’avrebbe aspettata ai piedi del muro. A una cer­ ta distanza sarebbe stata pronta una lettiga tirata da mule vigoro­ se, per condurla rapidamente in una casa di campagna. Là si sa­ rebbe sottratta a ogni inseguimento e sarebbe vissuta tranquilla e I elice con il suo amante. Questo era il piano che tracciò don Juan medesimo. Fece fare degli abiti opportuni, provò la scala di cor­ 197

da, vi aggiunse una spiegazione sul modo di appenderla; infine non trascurò nulla di ciò che poteva assicurargli il successo del­ l’impresa. Il giardiniere era fidato, e aveva troppo da guadagnare a essere fedele perché si potesse dubitare di lui. In più erano sta­ te prese le misure necessarie per farlo assassinare la notte dopo il rapimento. Sembrava infine che la trama fosse stata ordita con tanta abilità che niente l’avrebbe potuta spezzare. Per evitare sospetti, don Juan partì per il castello di Marana due giorni prima della data stabilita per il rapimento. In quel ca­ stello egli aveva passato la maggior parte della sua infanzia; ma non vi aveva messo più piede dopo il suo ritorno a Siviglia. Vi ar­ rivò al cadere della notte e il suo primo pensiero fu di fare una buona cena. Poi si fece svestire e si mise a letto. Aveva fatto ac­ cendere nella stanza due grandi candele di cera, e sul tavolo c’era un volume di racconti licenziosi. Dopo averne letto alcune pagi­ ne, sentendosi venir sonno, chiuse il libro e spense una delle can­ dele. Prima di spegnere la seconda, girò distrattamente gli sguar­ di per tutta la camera e d’un tratto scorse nell’alcova il quadro che rappresentava i tormenti del purgatorio, il quadro che aveva os­ servato così spesso nell’infanzia. Involontariamente i suoi occhi riandarono all’uomo a cui un serpente divora le viscere e, benché quell’immagine gli ispirasse allora ancor più orrore di una volta, pure non potevano staccarsene. Nel medesimo tempo si ricordò del volto del capitano Gomar e le orribili contrazioni che la mor­ te aveva impresso sui suoi lineamenti. Questo pensiero lo fece trasalire, e si sentì drizzare i capelli in testa. Tuttavia, ricordando il suo coraggio, spense l’ultima candela sperando che l’oscurità lo avrebbe liberato dalle orride immagini che lo perseguitavano. L’oscurità aumentò ancor più il suo terrore. I suoi occhi si rivol­ gevano sempre verso il quadro che non poteva vedere; ma gli era così familiare da profilarsi nella sua immaginazione nitidamente come fosse stato pieno giorno. A tratti gli sembrava perfino che le figure si illuminassero e divenissero splendenti, come se il fuo­ co del purgatorio, dipinto dall’artista, fosse stato una fiamma ve­ ra. Infine la sua agitazione crebbe a tal punto che egli chiamò a gran voce i servi perché gli togliessero il quadro che gli dava tan­ to spavento. Appena entrati nella camera, ebbe vergogna della propria debolezza. Pensò che i servitori si sarebbero burlati di lui 198

se avessero saputo che aveva paura di un quadro. Si contentò di dire, con il tono più naturale che gli fu possibile, che riaccendes­ sero le candele e lo lasciassero solo. Allora si rimise a leggere; ma soltanto i suoi occhi percorrevano il libro, la mente era sul qua­ dro. In preda a un turbamento indicibile, passò così tutta la not­ te insonne. Non appena fu giorno si alzò in fretta e uscì per andare a cac­ cia. L’esercizio e l’aria fresca del mattino lo calmarono a poco a poco, e le impressioni suscitate in lui alla vista del quadro erano scomparse quando rientrò nel castello. Si mise a tavola e bevve molto. Era già un po’ stordito quando andò a dormire. Dietro suo ordine, gli avevano preparato un letto in un’altra camera e, com’è facile immaginare, si guardò bene dal farvi trasportare il quadro; ma ne aveva serbato il ricordo, che fu abbastanza forte da tenerlo di nuovo sveglio per una parte della notte. Ma questi terrori non gli ispirarono alcun pentimento per la sua vita trascorsa. Egli si occupava sempre del rapimento che ave­ va progettato; e, dopo aver dato tutti gli ordini necessari ai servi, partì da solo per Siviglia, nell’afa del giorno, per non arrivare che di notte. Infatti era già notte fonda quando egli passò accanto al­ la torre del Lloro, dove un servo lo aspettava. Gli affidò il caval­ lo, si informò se la lettiga e le mule erano pronte. Secondo i suoi ordini, queste dovevano aspettarlo in una strada abbastanza vici­ na al convento perché egli potesse giungervi subito a piedi con Teresa, e nello stesso tempo non tanto vicina da risvegliare i so­ spetti della ronda, nel caso l’avessero incontrata. Tutto era pron­ to, le sue istruzioni erano state eseguite alla lettera. Vide che c’e­ ra ancora da aspettare un’ora prima di poter dare il segnale con­ venuto a Teresa. Il servo gli gettò sulle spalle un largo mantello marrone, ed entrò solo a Siviglia dalla porta di Triana, nascon­ dendosi il volto in modo da non essere riconosciuto. Il caldo e la stanchezza lo costrinsero a sedersi su una panca in una via deser­ ta. Lì si mise a fischiare e a canticchiare i motivi che gli tornaro­ no alla memoria. Di tanto in tanto consultava l’orologio e si ac­ corgeva con dispiacere che la lancetta non avanzava con il ritmo della sua impazienza... D’un tratto una musica lugubre e solenne venne a colpirgli l’udito. Dapprima distinse i canti che la chiesa ha consacrato ai funerali. Poi subito una processione svoltò l’an199

golo della strada e avanzò verso di lui. Due lunghe file di peni­ tenti con dei ceri accesi precedevano una bara ricoperta di vellu­ to nero e portata da molte figure vestite alla foggia antica, la bar­ ba bianca e la spada al fianco. La sfilata terminava con due schie­ re di penitenti vestiti a lutto, che portavano dei ceri come i primi. Non si sentiva il rumore dei passi sul selciato e si sarebbe detto che ognuna di quelle figure scivolasse anziché camminare. Le pie­ ghe lunghe e rigide delle vesti e dei mantelli sembravano immo­ bili come gli abiti di marmo delle statue. A questo spettacolo sul principio don Juan provò quella sorta di disgusto che l’idea della morte ispira a un epicureo. Si alzò e volle allontanarsi, ma il numero dei penitenti e la pompa del cor­ teo lo sorpresero e punsero la sua curiosità. La processione si di­ rigeva verso una chiesa vicina le cui porte si erano aperte rumo­ rosamente don Juan prese per la manica una delle figure che por­ tavano i ceri e le domandò cortesemente chi fosse la persona che stava per essere seppellita. Il penitente alzò la testa: il suo viso era pallido e scarno come quello di un uomo che esce da una malat­ tia lunga e dolorosa. Rispose con voce sepolcrale: «Il conte don Juan de Marana». La strana risposta fece rizzare i capelli in testa a don Juan; ma dopo un attimo riprese il suo sangue freddo e sorrise. «Avrò capito male», si disse, «o il vecchio si sarà sbagliato». Entrò nella chiesa insieme alla processione. I canti funebri ri­ cominciarono, accompagnati dal suono squillante dell’organo; e dei preti vestiti di cappe da lutto intonarono il De Profundis. No­ nostante gli sforzi di apparire calmo, don Juan si sentì gelare il sangue. Avvicinatosi a un altro penitente, gli disse: «Chi è dunque il morto che seppelliscono?». «Il conte don Juan de Marana», rispose il penitente con una voce cupa e spaventevole. Don Juan si appoggiò a una colonna per non cadere. Si sentiva venir meno, e tutto il suo coraggio lo aveva abbandonato. La funzione intanto continuava, e le volte della chiesa ampliavano ancora gli squilli dell’organo e le voci che cantavano il terribile Dies irae. Gli sembrava di sentire i cori de­ gli angeli nel giudizio finale. Infine, con uno sforzo, egli prese la mano di un prete che gli passava accanto. Quella mano era fred­ da come il marmo.

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«Nel nome del Cielo! padre mio», gridò, «per chi pregate qui, e chi siete?». «Preghiamo per il conte don Juan de Marana», rispose il pre­ te guardandolo fisso con un’espressione di dolore. «Preghiamo per la sua anima, che è in peccato mortale, e noi siamo delle ani­ me che le messe e le preghiere della madre di lui hanno tratto dal­ le fiamme del purgatorio. Paghiamo al figlio ciò che dobbiamo al­ la madre; ma questa messa è l’ultima che ci sia concesso di dire per l’anima del conte don Juan de Marana». In quel momento l’orologio della chiesa batté un colpo: era l’ora stabilita per il rapimento di Teresa. «È giunto il momento», gridò una voce che partiva da un an­ golo buio della chiesa, «è giunto il momento! è nostro?». Don Juan voltò la testa e vide un’apparizione orribile. Don Garcia, pallido e sanguinante, avanzava in compagnia del capita­ no Gomar, i cui lineamenti erano ancora sconvolti da orribili con­ vulsioni. Si diressero tutti e due verso la bara e don Garcia, get­ tandone a terra con violenza il coperchio, ripetè: «È nostro?». Nello stesso tempo un serpente gigantesco si alzò dietro di lui e, superandolo di molti piedi d’altezza, sembrava pronto a slanciar­ si verso la bara... Don Juan gridò: «Gesù!» e cadde svenuto sul pavimento. La notte era alta quando la ronda che passava scorse un uo­ mo disteso, immobile davanti alla porta di una chiesa. Gli sbirri si accostarono, credendo che fosse il cadavere di un uomo assas­ sinato. Riconobbero subito il conte don Juan de Marana, e cer­ carono di rianimarlo gettandogli in viso dell’acqua fresca; ma vedendo che non riprendeva coscienza, lo portarono a casa sua. Gli uni dicevano che era ubriaco, gli altri che si era preso qual­ che bastonata da un marito geloso. Nessuno, o almeno non una persona onesta, lo amava a Siviglia e ciascuno diceva la sua. Uno benediceva il bastone che lo aveva così ben stordito, l’altro do­ mandava quante bottiglie poteva contenere quella carcassa im­ mobile. I servi di don Juan ricevettero il padrone dalle mani de­ gli sbirri e corsero in cerca di un chirurgo. Gli fu fatto un ab­ bondante salasso, e non tardò a riprendere i sensi. Dapprima non lece udire che parole sconnesse, grida inarticolate, singhiozzi e gemiti. Poi, a poco a poco, parve si desse a osservare con atten201

zione tutti gli oggetti che lo circondavano. Chiese dove fosse, poi chiese che cosa fosse avvenuto del capitano Gomar, di don Garcia e della processione. I servi lo credettero pazzo. Tuttavia, dopo aver preso un cordiale, egli si fece portare un crocifisso e per un poco lo baciò, versando un fiume di lacrime. Poi ordinò che gli conducessero un confessore. La sorpresa fu generale, tanto era nota la sua empietà. Parec­ chi preti, chiamati dai servi, rifiutarono di andare da lui, convinti che egli preparasse loro qualche brutto scherzo. Alla fine un mo­ naco domenicano acconsentì a vederlo. Furono lasciati soli, e don Juan, gettandoglisi ai suoi piedi, gli raccontò la visione che aveva avuto; poi si confessò. Nel raccontare ogni suo delitto, si inter­ rompeva per chiedere se era possibile che un grande peccatore come lui potesse mai ottenere il perdono celeste. Il religioso ri­ spondeva che la misericordia di Dio era infinita. Dopo averlo esortato a perseverare nel suo pentimento e dopo avergli dato i conforti che la religione non rifiuta ai maggiori colpevoli, il do­ menicano si ritirò promettendogli di ritornare la sera. Don Juan trascorse tutta la giornata in preghiere. Quando il domenicano tornò, dichiarò che la sua decisione era presa e che si sarebbe ritirarato da un mondo in cui aveva dato tanto scandalo e che avrebbe cercato di espiare negli esercizi della penitenza gli enor­ mi delitti di cui si era macchiato. Il monaco, commosso dalle sue lacrime, lo incoraggiò come meglio poteva, e per provare se aves­ se il coraggio di seguire la sua determinazione, gli fece un quadro spaventevole delle austerità del chiostro. Ma a ogni mortificazio­ ne che descriveva, don Juan esclamava che non era niente e che egli meritava lo si trattasse in modo ben più duro. Dall’indomani fece dono della metà del proprio patrimonio ai parenti, che erano poveri; ne consacrò un’altra parte alla fonda­ zione di un ospedale e alla costruzione di una cappella; distribuì somme considerevoli ai poveri e fece dire un gran numero di messe per le anime del purgatorio, soprattutto per quelle del ca­ pitano Gomar e degli infelici che erano morti battendosi in duel­ lo con lui. Infine riunì tutti gli amici, e si accusò del cattivo esem­ pio che aveva loro dato per tanto tempo; dipinse in maniera pa­ tetica i rimorsi che la sua passata condotta gli causava, e le spe­ ranze che egli osava concepire per il futuro. Parecchi di quei li­ 202

bertini furono colpiti dalle sue parole e fecero ammenda; altri, in­ correggibili, lo lasciarono con freddi scherni. Prima di entrare nel convento che aveva scelto come suo riti­ ro, don Juan scrisse a dona Teresa. Le confessava i propri vergo­ gnosi progetti, le raccontava la sua vita, la sua conversione, e le chiedeva perdono, inducendola ad approfittare del suo esempio e a cercare la salvezza nel pentimento. Affidò la lettera al domeni­ cano dopo avergliene mostrato il contenuto. La povera Teresa aveva aspettato a lungo nel giardino del con­ vento il segnale convenuto; dopo aver passato parecchie ore in un’indicibile agitazione, vedendo che l’alba stava per spuntare, era rientrata nella cella in preda al più vivo dolore. Attribuiva l’as­ senza di don Juan a mille ragioni tutte ben lontane dalla verità. Così passarono diversi giorni, senza che ella ricevesse notizie di lui e senza un messaggio che venisse ad addolcire la sua dispera­ zione. Finalmente il monaco, dopo aver conferito con la superio­ ra, ottenne il permesso di vederla, e le consegnò la lettera del suo seduttore pentito. Mentre leggeva, le si vedeva la fronte coprirsi di grosse gocce di sudore; ora si faceva rossa come il fuoco, ora pallida come la morte. Tuttavia ebbe il coraggio di terminare la lettura. Il domenicano allora cercò di dipingerle il pentimento di don Juan e la felicità di essere scampata all’orrendo pericolo e che li attendeva entrambi se il loro piano non fosse stato sventato per un palese intervento della Provvidenza. Ma a tutte quelle esorta­ zioni, dona Teresa esclamava: «Non mi ha mai amato!». Una feb­ bre ardente si impadronì della sventurata; invano le vennero pro­ digati i soccorsi della scienza e della religione; ella respinse gli uni e parve insensibile agli altri. Spirò dopo qualche giorno, ripeten­ do sempre: «Non mi ha mai amato!». Don Juan, preso l’abito di novizio, mostrò che la propria con­ versione era sincera. Non c’erano mortificazioni o penitenze che non gli sembrassero troppo dolci; e il superiore del convento era spesso costretto a imporgli dei limiti alle macerazioni con cui tor­ mentava il suo corpo. Gli mostrava come in tal modo egli avreb­ be abbreviato i suoi giorni e come in realtà vi fosse maggior co­ raggio nel soffrire a lungo mortificazioni moderate che non finire di colpo la penitenza togliendosi la vita. Trascorso il tempo del no­ viziato, don Juan pronunciò i suoi voti e continuò, sotto il nome 203

di frate Ambrogio, a dare esempio a tutto il convento della pro­ pria austerità. Portava un cilicio di crine di cavallo sotto la veste di bigello; una specie di scatola stretta, non meno lunga del suo cor­ po, gli faceva da letto. Non si nutriva che di legumi lessi e soltan­ to nei giorni festivi, solo su espresso ordine del superiore, accon­ sentiva a mangiare del pane. Passava la maggior parte delle sue notti a vegliare e a pregare, le braccia in croce; insomma era l’e­ sempio di quella devota comunità, come un tempo era stato il mo­ dello dei libertini della sua età. Una malattia epidemica che era scoppiata a Siviglia gli fornì l’occasione di esercitare le nuove virtù che la conversione gli aveva dato. I malati erano accolti nell’ospe­ dale che aveva fondato; curava i poveri, passava le giornate presso il loro letto, li esortava, li incoraggiava, li consolava. Il pericolo del contagio era tale che non si poteva trovare a nessun prezzo degli uomini che seppellissero i morti. Don Juan compiva questo uffi­ cio; andava nelle case abbandonate e dava sepoltura ai cadaveri in decomposizione, che spesso si trovavano là da parecchi giorni. Ovunque lo benedivano, e poiché durante quella terribile epide­ mia non si ammalò mai, alcune persone di fede assicurarono che Dio aveva fatto un nuovo miracolo in suo favore. Da parecchi anni ormai don Juan, o meglio frate Ambrogio, abitava il chiostro, e la sua vita non era che una successione inin­ terrotta di esercizi di pietà e di mortificazioni. Il ricordo della vi­ ta passata era sempre presente nella sua memoria, ma i suoi ri­ morsi erano già temperati dalla soddisfazione di coscienza che gli dava il suo cambiamento. Un giorno, nel pomeriggio, nel momento che il caldo si face­ va sentire con più forza, tutti i frati del convento godevano di un po’ di riposo, secondo la consuetudine. Soltanto frate Ambrogio lavorava nel giardino, a testa nuda sotto il sole: era questa una delle penitenze che si era imposto. Curvo sulla vanga, vide l’om­ bra di un uomo che si fermava accanto a lui. Credette fosse uno dei frati che era sceso nel giardino e, pur continuando l’opera, lo salutò con un Ave Maria. Ma non ebbe risposta. Sorpreso di ve­ dere quell’ombra immobile, levò gli occhi e scorse, in piedi da­ vanti a sé, un giovanotto alto, coperto di un mantello che ricade­ va fino a terra, e con il viso seminascosto da un cappello ombreg­ giato di una piuma bianca e nera. L’uomo lo contemplava in si204

lenzio con un’espressione di gioia maligna e di profondo di­ sprezzo. Si guardarono fissi l’un l’altro per qualche istante. Infi­ ne lo sconosciuto, avanzando di un passo e togliendosi il cappel­ lo per mostrare i propri tratti, gli disse: «Mi riconoscete?». Don Juan lo osservò con maggiore attenzione, ma non lo ri­ conobbe. «Vi ricordate dell’assedio di Berg-op-Zoom?», chiese lo sco­ nosciuto. «Avete dimenticato un soldato di nome Modesto?...». Don Juan trasalì, e lo sconosciuto proseguì freddamente: «Un soldato di nome Modesto, che uccise con un colpo d’ar­ chibugio il vostro degno amico don Garcia, mentre aveva mirato contro di voi?... Modesto! sono io. Ho anche un altro nome, don Juan: mi chiamo don Pedro de Ojeda; sono il figlio di don Alon­ so de Ojeda che voi avete ucciso; sono il fratello di dona Fausta che voi avete ucciso; sono il fratello di dona Teresa de Ojeda che voi avete ucciso». «Fratello mio», disse don Juan inginocchiandosi davanti a lui, «io sono un miserabile carico di delitti. E per espiarli che porto quest’abito e ho rinunciato al mondo. Se c’è un mezzo per ottene­ re il perdono da voi, indicatemelo. La più aspra penitenza non mi spaventerà più, se potrò ottenere di non essere maledetto da voi». Don Pedro sorrise amaramente. «Lasciamo stare l’ipocrisia, signor de Marana; io non perdono. Quanto alle mie maledizioni, sono tutte per voi. Ma io sono trop­ po impaziente per aspettarne l’effetto. Ho con me qualcosa di più efficace delle maledizioni». A queste parole, buttò via il mantello e mostrò che aveva con sé lunghi spadoni da combattimento. Li trasse dal fodero e li piantò in terra tutti e due. «Scegliete, don Juan», disse. «Si dice che siate un grande spa­ daccino, e io ho l’ambizione di essere abile nella scherma. Vedia­ mo quello che sapete fare». Don Juan fece il segno della croce e disse: «Fratello mio, voi dimenticate i voti che ho pronunciato. Io non sono più il don Juan che avete conosciuto, sono frate Ambrogio». «Ebbene, frate Ambrogio, voi siete il mio nemico, e qualsiasi nome portiate, vi odio, e voglio vendicarmi di voi». 205

Don Juan si rimise in ginocchio dinanzi a lui. «Se è la mia vita che volete, fratello mio, essa è vostra. Punite­ mi come desiderate». «Vile ipocrita! mi credi il tuo zimbello? Se avessi voluto am­ mazzarti come un cane arrabbiato, mi sarei forse dato la pena di portare queste armi? Su, scegli in fretta e difendi la tua vita». «Ve lo ripeto, fratello mio, non posso combattere, ma posso morire». «Miserabile!», gridò don Pedro con furore, «mi avevano det­ to che avevi del coraggio. Vedo che non sei che un vile codardo!». «Coraggio, fratello mio? ne chiedo a Dio per non abbando­ narmi alla disperazione in cui mi getterebbe, senza il suo aiuto, il ricordo dei miei delitti. Addio, fratello mio; mi ritiro, perché ve­ do bene che la vista della mia persona vi inasprisce. Possa un gior­ no il mio pentimento apparirvi così sincero come è nella realtà!». Stava facendo alcuni passi per lasciare il giardino, quando don Pedro lo fermò per la manica. «Voi o io», gridò, «non usciremo vivi di qui. Prendete una di queste spade, e il diavolo mi porti se credo a una sola parola di tutte le vostre geremiadi!». Don Juan gli gettò uno sguardo supplichevole, e fece ancora un passo per allontanarsi; ma don Pedro lo afferrò con forza e disse, e tenendolo per il collare: «Credi dunque, infame assassino, di poterti sottrarre alle mie mani! No! Farò a pezzi la tua ipocrita veste che nasconde il pie­ de biforcuto del diavolo e allora, forse, ti sentirai coraggioso ab­ bastanza da batterti con me». Così parlando, lo spingeva aspramente contro il muro. «Signor Pedro de Ojeda», esclamò don Juan, «uccidetemi, se volete, io non mi batterò!». E incrociò le braccia, fissando don Pedro con un’espressione tranquilla, benché abbastanza fiera. «Sì, ti ucciderò, miserabile! Ma prima ti tratterò da quel vi­ gliacco che sei». E gli diede uno schiaffo, il primo che don Juan avesse mai ri­ cevuto. Il viso di don Juan si fece di un rosso porpora. La su­ perbia e il furore della sua gioventù ritornarono nell’anima sua. Senza una parola, si gettò su una delle spade e se ne impadronì. Don Pedro prese l’altra e si mise in guardia. Entrambi attacca-

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rono con furore e si colpirono l’un l’altro e con lo stesso impe­ to. La spada di don Pedro affondò nella veste di lana di don Juan e scivolò lungo il corpo senza ferirlo, mentre quella di don Juan penetrò fino all’elsa nel petto dell’avversario. Don Pedro spirò subito. Don Juan, vedendo il nemico disteso ai suoi piedi, rimase per qualche tempo immobile a contemplarlo come istu­ pidito. A poco a poco tornò in sé e comprese l’enormità del suo nuovo delitto. Si gettò sul cadavere e tentò di richiamarlo in vita. Ma aveva visto troppe ferite per dubitare un solo momento che quella non fosse mortale. La spada insanguinata era ai suoi piedi e sembrava offrirsi a lui perché si punisse con le sue stesse mani; ma allonta­ nando subito quella nuova tentazione del demonio corse dal su­ periore e si precipitò sgomento nella sua cella. Qui, prosternato ai suoi piedi, gli raccontò quella terribile scena versando un fiu­ me di lacrime. Dapprima il superiore non volle credergli e il suo primo pensiero fu che le grandi macerazioni che si imponeva fra­ te Ambrogio gli avessero fatto perdere la ragione. Ma il sangue di cui erano coperte la veste e le mani di don Juan non gli permise di dubitare più a lungo dell’orribile verità. Era un uomo pieno di presenza di spirito. Capì subito tutto lo scandalo che si sarebbe riversato sul convento se quella faccenda si fosse diffusa fra la gente. Nessuno aveva visto il duello. Egli si prese cura di nascon­ derlo agli stessi abitanti del convento. Ordinò a don Juan di se­ guirlo e, aiutato da lui, trasportò il cadavere in una stanza in bas­ so, di cui prese la chiave. Poi, chiuso don Juan nella sua cella, uscì per andare ad avvertire il corregidore. Sembrerà strano forse che don Pedro, che aveva già tentato di uccidere don Juan a tradimento, avesse respinto l’idea di un se­ condo assassinio, e cercato invece di liberarsi del suo nemico in un combattimento ad armi pari; ma questo non era in lui che un calcolo di vendetta infernale. Aveva sentito parlare delle austerità di don Juan, e la sua reputazione di santità era così diffusa che don Pedro non dubitava che, se l’avesse assassinato, l’avrebbe mandato dritto in cielo. Sperò allora che, provocandolo e co­ stringendolo a battersi, lo avrebbe ucciso in peccato mortale, ed egli avrebbe così perduto il suo corpo e la sua anima. Si è visto co­ me quel disegno diabolico si volse contro il suo stesso autore. 207

Non fu difficile soffocare la faccenda. Il corregidore si accordò con il superiore del convento per stornare i sospetti. Gli altri fra­ ti credettero che il morto fosse caduto in un duello contro un ca­ valiere sconosciuto e che fosse stato portato ferito nel convento, dov’era spirato poco dopo. Quanto a don Juan, non tenterò di descriverne i rimorsi né i pentimenti. Compì con gioia tutte le pe­ nitenze che il superiore gli impose. Per tutta la vita serbò sospesa ai piedi del letto la spada con la quale aveva trafitto don Pedro, e mai la guardava senza pregare per l’anima di lui e per quelle del­ la sua famiglia. Per domare quella traccia d’orgoglio mondano che ancora gli restava nel cuore, l’abate gli aveva dato ordine di presentarsi ogni mattina al cuoco del convento che doveva dargli uno schiaffo. Dopo averlo ricevuto, don Juan non mancava mai di offrire l’altra guancia, ringraziando il cuoco di umiliarlo così. Visse ancora dieci anni nel chiostro, e mai la sua penitenza fu in­ terrotta da un ritorno alle passioni della giovinezza. Morì venera­ to come un santo, anche da chi aveva conosciuto i suoi primi co­ stumi dissoluti. Sul letto di morte chiese come una grazia di esse­ re seppellito sotto l’atrio della chiesa in maniera che entrando ognuno lo calpestasse. Volle ancora che sulla sua tomba fosse in­ cisa questa iscrizione: Qz/f giace l’uomo peggiore che vi fu al mon­ do. Ma non si giudicò opportuno eseguire tutte le disposizioni dettate dalla sua eccessiva umiltà. Fu sepolto presso l’altare mag­ giore della cappella che aveva fondato. Si acconsentì, è vero, a in­ cidere sulla pietra che copre le sue spoglie mortali l’iscrizione che aveva composto, ma vi si aggiunse un racconto e un elogio della sua conversione. Il suo ospedale, e soprattutto la cappella dov’è sepolto, sono visitati da tutti i forestiero che passano per Siviglia, Murillo ha decorato la cappella di molti suoi capolavori. Il ritor­ no del figliol prodigo e La piscina di Gerico, che si possono ora ammirare nella galleria del Signor Maresciallo Soult7, adornavano un tempo le mura dell’ospedale della Carità.

1834

7 [Generale in capo dell’armata di Spagna nel 1810 e governatore dell’Andalusia].

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La Venere d’Ille

Τλεώς ήν δ’ εγώ έστω ό άνδρίας και ήκιος ούτως ανδρείος ών

Che questa statua, dissi allora, che è tanto simile a un uomo, ci sia benevola e propizia (Luciano, Il mentitore, 19).

Stavo scendendo l’ultimo pendio del Canigou e, benché il so­ le fosse già tramontato, distinguevo nella pianura le case della cit­ tadina d’Ille, verso cui mi dirigevo. «Sapete», dissi al catalano che mi faceva da guida dal giorno prima «sapete dove abita monsieur de Peyrehorade?». «Sì, lo so!», esclamò, «conosco la sua casa come la mia; e se non fosse così buio ve la indicherei! È la più bella casa d’Ille. Ha denaro, sì, monsieur de Peyrehorade e sposa il figlio a chi è più ricco ancora di lui». «E questo matrimonio si farà presto?», gli chiesi. «Presto! può darsi che i violini per le nozze siano già stati or­ dinati. Questa sera forse, domani, dopodomani, che so io! Si farà a Puygarrig: perché è mademoiselle de Puygarrig che monsieur il figlio sposa. Sarà bello, sì!». Io ero raccomandato a monsieur de Peyrehorade da un mio amico, monsieur de P***1. Era, mi aveva detto lui, un archeologo coltissimo e di una cortesia eccezionale. Sarebbe stato un piacere 1 [Jaubert de Passa (1784) era stato sotto luogotenente dei dragoni, dal 1806 nel Con­ siglio di Stato, nel 1813 prefetto di Perpignan. Dopo l’Empire si ritirò occupandosi di agri­ coltura, scienze, archeologia. È come archeologo che Mérimée lo conobBe passando nel 1834 da Perpignan. Visitò con lui le regioni del Canigou e il villaggio di Ille. La loro ami­ cizia durò fino al 1855].

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per lui mostrarmi tutte le rovine dieci leghe attorno. Dunque io contavo su di lui per visitare i dintorni d’Ille, che sapevo ricchis­ simi di monumenti antichi e medioevali. Quel matrimonio, di cui sentivo parlare per la prima volta, scombinava tutti i miei piani. «Vengo a fare il guastafeste», mi dicevo. Ma mi aspettavano: monsieur de P*** mi aveva annunciato, ero costretto a presentarmi. «Scommettiamo, monsieur», disse la mia guida, quando fum­ mo nella pianura, «scommettiamo un sigaro che io indovino quel che andate a fare da monsieur de Peyrehorade?». «Ma», risposi tendendogli un sigaro, «non è molto difficile da indovinare. A quest’ora, quando si sono fatte sei leghe nel Canigou, la faccenda più importante è pranzare». «Sì, ma domani?... Guardate, scommetterei che venite a Ille per vedere l’idolo. L’ho indovinato vedendovi fare il ritratto ai santi di Serrabona»2. «L’idolo! che idolo?». Questa parola aveva eccitato la mia cu­ riosità. «Come! non vi hanno raccontato a Perpignan che monsieur de Peyrehorade ha trovato un idolo sotto terra?». «Volete dire una statua di terracotta, d’argilla?». «Ma no. Di rame, sì, da farne dei bei soldi. Pesa quanto la campana di una chiesa. L’abbiamo trovata molto sotto, ai piedi di un ulivo». «Dunque voi eravate presente alla scoperta?». «Sì, monsieur. Monsieur de Peyrehorade ci disse, quindici giorni fa, a Jean Coll e a me, di sradicare un vecchio ulivo che si era gelato dall’anno scorso, che è stato un anno molto rigido, co­ me sapete. Così dunque Jean Coll, lavorando a tutto spiano, ec­ co che dà un colpo di zappa e sento un bimm... come se avesse battuto su una campana. “Che cos’è?” dico io. Zappiamo ancora, zappiamo, ed ecco apparire una mano nera, che pareva la mano di un morto che uscisse dalla terra. Io mi sono spaventato. Vado da monsieur e gli dico: “Ci sono dei morti, padrone mio, sotto l’uli­ vo! Si deve chiamare il curato”. “Che morti?” lui mi dice. Viene, e non ha ancora visto la mano che si mette a gridare: “Un’anti­ chità! un’antichità!”. Avreste detto che avesse trovato un tesoro. - [Allusione ai capitelli scolpiti].

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Ed eccolo lì con la zappa, con le mani, che si dimena e si dava da fare quasi quanto noi altri due». «E che avete trovato alla fine?». «Un’enorme donna nera seminuda, parlando con rispetto, monsieur, tutta di rame, e monsieur de Peyrehorade ci ha detto che era un idolo del tempo dei pagani... del tempo di Carlomagno, anzi!». «Comincio a capire... Qualche buona Vergine di bronzo di un convento distrutto». «Una buona Vergine! ma proprio!... L’avrei riconosciuta se fosse stata la buona Vergine. E un idolo, vi dico: si vede dalla sua aria. Vi fissa con i suoi grandi occhi bianchi... Si direbbe che vi squadri. Si abbassano gli occhi, sì, nel guardarla». «Occhi bianchi? Senza dubbio sono incrostati nel bronzo. Sarà forse qualche statua romana». «Romana! proprio così. Monsieur de Peyrehorade dice che è una romana. Ah! vedo bene che siete un dotto come lui». «È intera, ben conservata?». «Oh! monsieur, non le manca niente. E ancora più bella e me­ glio rifinita del busto di Luigi Filippo in gesso dipinto, che sta al municipio. Ma con tutto questo, la faccia di quell’idolo non mi va. Ha l’aria cattiva... ed è cattiva infatti». «Cattiva! Che vi ha fatto di male?». «Non proprio a me: ma sentite. Ci eravamo messi in quattro per alzarla in piedi, e anche monsieur de Peyrehorade tirava la corda, benché non sia più forte di un pulcino, quel brav’uomo! Con molta fatica la mettiamo dritta. Io radunavo delle tegole per sostenerla, quando, patatrac! eccola che cade di peso supina. Di­ co: “Attenti!”. Ma troppo tardi, perché Jean Coll non ha avuto il tempo di tirar via la gamba...». «Ed è stato ferito?». «Spaccata in due come un palo, la sua povera gamba! Poveret­ to! Quando l’ho visto, ero furibondo. Volevo sfondare l’idolo a zappate, ma monsieur de Peyrehorade mi ha trattenuto. Ha dato del denaro a Jean Coll, che intanto però è ancora a letto dopo quindici giorni che gli è capitato questo incidente, e il medico di­ ce che con quella gamba non potrà camminare mai più come con quell’altra. E un peccato, poiché era il nostro miglior corridore e, 211

dopo monsieur il figlio, il più in gamba giocatore di pallacorda. Il giovane de Peyrehorade era triste, perché è con Coll che giocava sempre. Ecco, era bello davvero vedere come si mandavano le palle. Paf! paf! Non toccavano mai terra». Così chiacchierando, arrivammo a Ille, e presto mi trovai in presenza di monsieur de Peyrehorade. Era un vecchietto ancora in gamba e gagliardo, incipriato, con il naso rosso e l’espressione gioviale e canzonatoria. Ancor prima di aver aperto la lettera di monsieur de P. mi aveva fatto accomodare davanti a una tavola ben imbandita, mi aveva presentato a sua moglie e a suo f iglio co­ me un illustre archeologo, che doveva salvare il Roussillon dal­ l’oblio in cui lo lasciava l’indifferenza degli studiosi. Pur mangiando di buon appetito, poiché nulla rende meglio disposti dell’aria frizzante delle montagne, osservavo i miei ospiti. Ho detto due parole su monsieur de Peyrehorade; devo aggiungere che egli era la vivacità in persona. Parlava, mangia­ va, si alzava, correva alla sua biblioteca, mi portava dei libri, mi mostrava delle stampe, mi versava da bere; non stava mai due minuti tranquillo. Sua moglie, un po’ troppo grassa, come la maggior parte delle catalane quando hanno passato i quarant’anni, mi parve una perfetta provinciale unicamente assorta nelle faccende domestiche. Benché la cena fosse sufficiente per sei persone almeno, ella corse in cucina, fece uccidere dei pic­ cioni, fece friggere delle miliasses\ aprì non so quanti vasi di marmellata. In un attimo la tavola fu ingombra di piatti e botti­ glie, e sarei certo morto d’indigestione se avessi soltanto assag­ giato un poco di tutto quello che mi offrivano. Tuttavia, a ogni piatto che rifiutavo, erano nuove scuse. Temevano che mi tro­ vassi proprio male a Ille. In provincia si hanno così poche ri­ sorse, e i parigini sono così difficili! Nell’andirivieni dei suoi genitori, monsieur Alphonse de Pey­ rehorade non si muoveva più di un Terme. Era un giovanottone di ventisei anni, di fisionomia bella e regolare, ma priva di espres­ sione. La sua figura e le sue forme atletiche giustificavano bene la reputazione fattagli nel paese d’infaticabile giocatore di pallacor­ da. Quella sera era vestito con eleganza, esattamente come il fi3 [Miliasses o miliasses·. dolci di farina di mais].

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gurino dell’ultimo numero del «Journal des Modes». Ma mi sem­ brava si trovasse a disagio nei propri abiti; era rigido come uno stecco nel suo colletto di velluto e non si girava che tutto d’un pezzo. Le sue mani grosse e abbronzate, le sue unghie corte, fa­ cevano un singolare contrasto con l’abbigliamento. Erano mani da lavoratore che uscivano dalle maniche di un damerino. D’al­ tronde, per quanto mi osservasse dalla testa ai piedi con grande curiosità, nella mia qualità di parigino, non mi rivolse la parola che una sola volta in tutta la serata, fu per domandarmi dove aves­ si comprato la catena del mio orologio. «Ah! mi dispiace, mio caro ospite», mi disse monsieur de Peyrehorade verso la fine della cena, «ma voi mi appartenete, ormai siete a casa mia. Non vi lascio più andare se non quando avrete vi­ sto tutto quello che abbiamo di curioso nelle nostre montagne. Bisogna che impariate a conoscere il nostro Roussillon e che gli rendiate giustizia. Nemmeno vi immaginate tutto quello che vi faremo vedere, monumenti fenici, celti, romani, arabi, bizantini, vedrete tutto, dal cedro all’issopo. Vi accompagnerò dappertutto e non vi farò grazia di un solo mattone». Un accesso di tosse l’obbligò a fermarsi. Ne approfittai per dirgli che sarei stato desolato di disturbarlo in una circostanza co­ sì importante per la sua famiglia. Se mi voleva dare i suoi eccel­ lenti consigli per le escursioni che avrei avuto da fare, potevo, senza che si prendesse il fastidio di accompagnarmi... «Ah! volete parlare del matrimonio di questo ragazzo qui», esclamò interrompendomi. «Bazzecole, dopodomani sarà bell’e fatto. Farete le nozze con noi, in famiglia, perché la promessa sposa è in lutto di una zia di cui è erede. Così niente feste, nien­ te ballo... E un peccato... avreste visto ballare le nostre catala­ ne... Sono graziose e forse vi sarebbe presa la voglia di imitare il mio Alphonse. Un matrimonio tira l’altro, dicono... Sabato, sposati i ragazzi, io sono libero, e ci metteremo in marcia. Vi chiedo scusa della noia di un matrimonio provinciale. Per un parigino sazio di feste... e un matrimonio senza ballo per giun­ ta! Però, vedrete una sposa... una sposa... mi direte il vostro pa­ rere... Ma voi siete un uomo serio e non guardate più le donne. Ho di meglio da farvi vedere. Vi mostrerò qualcosa!... Ho in serbo una solenne sorpresa per voi domani». 213

«Mio Dio!» gli dissi, «è difficile avere un tesoro in casa pro­ pria senza che il pubblico ne sia al corrente. Credo di indovinare la sorpresa che mi preparate. Ma se si tratta della vostra statua, la descrizione che me ne ha fatta la mia guida non è servita che ad eccitare la mia curiosità e a dispormi all’ammirazione». «Ah! vi ha parlato dell’idolo, poiché così chiamano la mia bel­ la Venere Tur... ma non vi voglio dire nulla. Domani la vedrete, in pieno giorno, e mi direte se ho ragione di crederla un capola­ voro. Perbacco! non potevate arrivare più a proposito! Ci sono delle iscrizioni che io, povero ignorante, spiego a modo mio... ma un erudito di Parigi!... Forse voi riderete della mia interpre­ tazione... perché ho fatto una memoria,... io che vi parlo... vec­ chio archeologo di provincia, mi sono lanciato... Voglio far ge­ mere i torchi... Se voi mi voleste fare il favore di leggermi e cor­ reggermi, allora potrei sperare... Per esempio, sono ben curioso di sapere come tradurreste l’iscrizione del piedistallo: CAVE... Ma non voglio domandarvi niente, ancora! A domani, a domani! Non una parola sulla Venere oggi». «Hai ragione, Peyrehorade», disse la moglie, «a lasciar stare il tuo idolo. Dovresti vedere che impedisci a monsieur di mangiare. Suvvia, monsieur ha visto a Parigi delle statue molto più belle del­ la tua. Alle Tuileries ce ne sono a dozzine, e di bronzo anche». «Ecco l’ignoranza, la santa ignoranza della provincia!» inter­ ruppe monsieur de Peyrehorade. «Paragonare un’antichità am­ mirevole alle piatte figure di Coustou»4. Ma con quanta irriverenza La mia massaia parla degli dei!

«Sapete che mia moglie voleva che io facessi fondere la statua per farne una campana per la nostra chiesa? Voleva esserne la ma­ drina. Un capolavoro di Mirone5, monsieur!». «Capolavoro! capolavoro! un bel capolavoro ha combinato! rompere la gamba a un uomo!». «Moglie mia, vedi?» disse monsieur de Peyrehorade con tono risoluto, e stendendo verso di lei la sua gamba destra, ricoperta di ' [Scultore francese del Seicento] 5 [Scultore greco della seconda metà del V secolo a.C.].

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un’elegante calza di seta cinese, «se la mia Venere mi avesse rotto questa gamba, non la rimpiangerei». «Buon Dio! Peyrehorade, ma come puoi dire questo! Per fortuna quell’uomo sta meglio... E ancora io non posso risol­ vermi a guardare la statua che provoca simili disgrazie. Povero Jean Coll!». «Ferito da Venere, monsieur», disse monsieur de Peyrehorade ridendo di un riso grasso, «ferito da Venere, il briccone si lagna:

Veneris nec praemia nons'' Chi non è stato ferito da Venere?». Monsieur Alphonse, che capiva meglio il francese del latino, strizzò l’occhio con aria d’intesa, e mi guardò come per doman­ darmi: «E voi parigino, capite?». La cena finì. Io avevo smesso già da un’ora. Ero talmente stanco da non riuscire più a nascondere i frequenti sbadigli che mi sfuggivano. Madame de Peyrehorade fu la prima ad accor­ gersene, e osservò che era tempo di andare a dormire. Comin­ ciarono allora nuove scuse per la sistemazione disagevole che avrei avuto. Non era certo come a Parigi. In provincia si sta co­ sì male! Bisognava essere indulgenti con i roussiglionesi. Era inutile che protestare, dicendo che dopo una gita in montagna un fastello di paglia mi sarebbe sembrato un giaciglio delizioso, seguitavano a pregarmi di perdonare a dei poveri campagnoli se non mi trattavano bene come avrebbero desiderato. Infine salii nella camera che mi era stata destinata, accompagnato da mon­ sieur de Peyrehorade. La scala, i cui ultimi gradini erano di le­ gno, dava nel mezzo di un corridoio sul quale si aprivano pa­ recchie camere. «A destra», mi disse il mio ospite, «c’è l’appartamento da me destinato alla futura madame Alphonse. La vostra camera è in fondo al corridoio opposto. Capite bene», aggiunse con tono che voleva rendere arguto, «capite bene che bisogna isolarli, i giovani sposi. Voi siete a un capo della casa, loro all’altro». Entrammo in una camera assai arredata, dove il primo ogget­ to che scorsi fu un letto lungo sette piedi, largo sei e tanto alto che " «Non conoscerai i doni di Venere» (Virgilio, Eneide, IV, 33).

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ci voleva uno sgabello per arrivarci. Il mio ospite, dopo avermi indicato il campanello, e dopo essersi personalmente assicurato che la zuccheriera fosse piena, i flaconi d’acqua di colonia al loro posto sulla toilette, e dopo avermi chiesto più volte se nulla mi mancava, mi augurò la buona notte e mi lasciò solo. Le finestre erano chiuse. Prima di spogliarmi, ne aprii una per respirare l’aria fresca della notte, deliziosa dopo una lunga cena. Davanti a me era il Canigou, sempre d’aspetto magnifico, ma quella sera mi parve addirittura la montagna più bella del mondo, illuminata com’era da una luna risplendente. Restai un poco a contemplare la sua sagoma meravigliosa, e stavo per chiudere la finestra quando, abbassando gli occhi, scorsi la statua su di un piedistallo a una ventina di tese dalla casa. Era posta all’angolo di una siepe viva che separava un giardinetto da un vasto quadrato perfettamente piano che, come appresi più tardi, era il campo di pallacorda della città. Il terreno, di proprietà di monsieur de Peyrehorade, era stato da lui ceduto al comune sotto le insistenti sol­ lecitazioni del figlio. Alla distanza in cui ero, mi era difficile distinguere l’attitudine della statua; potevo solo giudicarne l’altezza, che mi parve di sei piedi circa. In quel momento due monelli della città passavano sul campo di pallacorda, abbastanza vicino alla siepe, fischiando il grazioso motivo del Roussillon: Montaignes regalades7. Si ferma­ rono a guardare la statua; uno di essi l’apostrofò a voce alta. Par­ lava catalano; ma ero stato abbastanza nel Roussillon da capire all’incirca quello che diceva: «Eccoti qua, birbona!» (Il termine catalano era più energico). «Eccoti qua!», diceva. «Sei tu dunque che hai rotto la gamba a Jean Coll! Se fossi mia, ti romperei il collo». «Bah! e con che?» disse l’altro. «È di rame, e così dura che Etienne ci ha rotto la lima, cercando d’intaccarla. E rame del tem­ po dei pagani; è più duro di non so che cosa». «Se avessi il mio scalpello», (a quanto pare era un fabbro ap­ prendista), «le farei saltare quegli occhiacci bianchi, come se sgu­ sciassi una mandorla. Ci sono più di cento soldi d’argento». Fecero alcuni passi allontanandosi. 7 [Regalades·. reali ].

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«Devo dare la buona notte all’idolo», disse il maggiore degli apprendisti, fermandosi a un tratto. Si chinò, e probabilmente raccolse un sasso. Lo vidi allungare il braccio, lanciare qualcosa e subito un colpo sonoro risuonò nel bronzo. Ma nel medesimo istante l’apprendista si portò la mano alla testa gettando un grido di dolore. «Me l’ha ributtato indietro!» esclamò. E i miei due monelli fuggirono a gambe levate. Evidentemen­ te il sasso, rimbalzando sul metallo, aveva punito quel mariuolo dell’oltraggio recato alla dea. Chiusi la finestra ridendo di tutto cuore. «Ancora un Vandalo punito da Venere. Che tutti i distruttori dei nostri monumenti antichi possano rompersi la testa così!». Con questo augurio caritatevole, mi addormentai. Quando mi risvegliai, era giorno fatto. Accanto al mio letto stavano, da un lato monsieur de Peyrehorade, in vestaglia; dal­ l’altra un domestico mandato dalla moglie con una tazza di cioc­ colato in mano. «Andiamo, su, parigino! Eccoli i miei pigroni della capitale!» diceva il mio ospite mentre mi vestivo in fretta. «Sono le otto e siete ancora a letto! io sono in piedi dalle sei. Ecco, è la terza vol­ ta che salgo, mi sono accostato alla vostra porta in punta di piedi: nessuno, non un segno di vita. Vi farà male dormire troppo alla vostra età. E non avete ancora visto la mia Venere. Andiamo, pre­ sto, prendetemi questa tazza di cioccolata di Barcellona... Vero contrabbando... A Parigi cioccolato come questo non ce n’è. Fa­ te incetta di forze, poiché quando sarete davanti alla mia Venere, non sarà possibile staccarvi da lei». In cinque minuti fui pronto, cioè rasato a metà, mal abbotto­ nato, e bruciato dalla cioccolata che trangugiai bollente. Scesi in giardino, e mi trovai davanti a un’ammirevole statua. Era proprio una Venere, e di una bellezza meravigliosa. Aveva la parte superiore del corpo nuda, come gli antichi rappresenta­ vano abitualmente le grandi divinità; la mano destra, levata all’al­ tezza del seno, era rivolta con la palma in dentro, il pollice e le due dita vicine distese, le altre due dita leggermente piegate. L’al­ tra mano, accostata al fianco, sorreggeva il drappeggio che rico­ priva la parte inferiore del corpo. L’atteggiamento di questa sta­ 217

tua ricordava quello del Giocatore di morra che, non so bene per­ ché, si suole designare con il nome di Germanico. Forse avevano voluto rappresentare la dea mentre giocava a morra. Comunque sia, era impossibile vedere qualcosa di più perfet­ to del corpo di quella Venere; niente di più soave, di più volut­ tuoso dei suoi contorni; niente di più elegante e più nobile del suo drappeggio. Mi aspettavo un’opera del Basso Impero; vedevo in­ vece un capolavoro dell’epoca migliore della statuaria. Quello che mi colpiva soprattutto era la squisita verità delle forme, tanto che avremmo potuto crederle ritratte dalla natura, se la natura creas­ se modelli così perfetti. La capigliatura, rialzata sulla fronte, pareva essere stata un tempo dorata. La testa, piccola come in quasi tutte le statue gre­ che, era leggermente inclinata in avanti. Quanto al volto, non po­ trei mai riuscire a esprimere la strana fisionomia, che non si acco­ stava ad alcun tipo di statua antica che io ricordi. Non si trattava affatto di quella calma e severa bellezza degli scultori greci che, a schema fisso, davano a ogni tratto una maestosa immobilità. Qui, al contrario, osservavo con sorpresa l’intenzione palese dell’arti­ sta di rendere la malizia, giungendo quasi alla cattiveria. Tutti i li­ neamenti erano leggermente contratti: gli occhi un po’ obliqui, le labbra rialzate agli angoli, le narici un po’ dilatate. Disprezzo, iro­ nia, crudeltà, si leggevano su quel volto che pure era di una bel­ lezza incredibile. In verità, più si guardava quell’ammirevole sta­ tua, e più si provava il sentimento penoso che una tale meravi­ gliosa bellezza avesse potuto unirsi all’assenza di ogni sensibilità. «Se il modello è mai esistito», dissi a monsieur de Peyrehorade, «e io dubito che il Cielo abbia mai creato una donna simile, come compiango i suoi amanti! Ella si sarà compiaciuta di farli morire di disperazione. C’è nella sua espressione qualcosa di fe­ roce, eppure non ho visto mai niente di così bello».

«È Venere tutta intera alla sua preda avvinta!»* gridò monsieur de Peyrehorade, soddisfatto del mio entusiasmo. Quell’espressione di ironia infernale era forse accresciuta dal contrasto degli occhi incrostati d’argento e assai splendenti, con • [Racine, Phèdre, atto I, scena III].

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la patina di un verde nerastro che il tempo aveva dato all’intera statua. Quegli occhi splendenti producevano una certa illusione che ricordava la realtà, la vita. Mi ricordai quello che mi aveva detto la mia guida, che essa faceva abbassare gli occhi a quelli che la guardavano. Era quasi vero, e io non potei difendermi da un moto di collera verso me stesso, sentendomi un poco a disagio di­ nanzi a quel volto di bronzo. «Ora che avete ammirato tutto in ogni particolare, mio caro collega d’anticaglie», disse il mio ospite, «apriamo, se volete, una conferenza scientifica. Che dite di quest’iscrizione, di cui ancora non vi siete accorto?». Mi mostrava lo zoccolo della statua e vi lessi queste parole: CAVE AMANTEM

«Quid dicis, dottissime?», mi chiese fregandosi le mani. «Ve­ diamo se ci troveremo d’accordo sul significato di quel cave amantem\». «Ma», risposi, «ci sono due interpretazioni. Si può tradurre: “Guardati da colui che ti ama” o “diffida degli amanti”. Ma in questo senso, non so bene se cave amantem sarebbe buon latino. Osservando invece l’espressione diabolica della dama, sarei por­ tato a credere piuttosto che l’artista abbia voluto mettere in guar­ dia lo spettatore contro questa terribile bellezza. Tradurrei dun­ que: “Sta’ in guardia se ella ti ama”». «Uhm!» disse monsieur de Peyrehorade, «sì, è un’interpre­ tazione possibile; ma, se non vi dispiace, preferisco la mia pri­ ma traduzione, che tuttavia vi spiegherò. Conoscete l’amante di Venere?». «Ve ne sono parecchi». «Sì, ma il primo è Vulcano. Non si è voluto dire: “Malgrado tutta la tua bellezza, la tua aria sdegnosa, avrai per amante un fab­ bro, un brutto zoppo?”. Profonda lezione, monsieur, per le ci­ vette!». Non potei impedirmi di sorridere, tanto la spiegazione mi parve tirata per i capelli. «È una lingua terribile il latino con quella concisione», osser­ vai per evitare di contraddire formalmente il mio archeologo, e I eci alcuni passi indietro per contemplare meglio la statua. 219

«Un momento, collega!» disse monsieur de Peyrehorade, fer­ mandomi con il braccio, «non avete visto tutto. C’è ancora un’al­ tra iscrizione. Salite sul piedistallo e guardate sul braccio destro». Così dicendo mi aiutava a salire. Mi aggrappai senza tanti complimenti al collo della Venere, con la quale cominciavo a familiarizzare. La guardai per un istan­ te sotto il naso, e da vicino la trovai ancora più cattiva e ancora più bella. Poi riconobbi che c’erano, incisi sul braccio, alcuni caratte­ ri di scrittura corsiva antica, a quel che mi parve. Con un grande sussidio di lenti compitai quel che segue, e intanto monsieur de Peyrehorade ripeteva ogni parola a mano a mano che io le pro­ nunciavo, approvando con il gesto e con la voce. Lessi dunque: VENERI TURBUL... EUTYCHES MYRO IMPERIO FECIT.

Dopo la parola TURBUL della prima riga, mi parve vi fossero ancora alcune lettere cancellate; ma TURBUL era perfettamente leggibile. «Che significa?...» mi chiese il mio ospite, raggiante e sorri­ dendo con malizia, poiché pensava che non me la sarei cavata fa­ cilmente con quel TURBUL. «C’è una parola che non so spiegarmi», gli dissi; «tutto il re­ sto è facile. Eutiche ha fatto questa offerta a Venere dietro suo ordine». «Benissimo. Ma di TURBUL, che ne fate? Cos’è TURBUL?», «TURBUL mi mette molto in imbarazzo. Cerco invano qualche noto epiteto di Venere che mi possa aiutare. Vediamo, che ne di­ reste di TURBULENTA? Venere che sconvolge, che agita... Vi ac­ corgerete che mi rende perplesso la sua espressione cattiva. TUR­ BULENTA, certo non è un epiteto troppo cattivo per Venere», ag­ giunsi con modestia, poiché non ero neppure io pienamente sod­ disfatto della mia spiegazione. «Venere turbolenta! Venere la chiassosa! Ah! credete dunque che la mia Venere sia una Venere da cabaret? Niente affatto, mon­ sieur; è una Venere d’alta società, ma ora vi spiegherò quel TUR­ BUL... Almeno promettetemi di non divulgare la scoperta prima della pubblicazione della mia memoria. Il fatto è, vedete, che mi 220

sento fiero di questa scoperta... Bisogna pure che ci lasciate qual­ che spiga da raccogliere a noialtri poveri diavoli di provinciali. Voi siete così ricchi, voi signori scienziati di Parigi!». Dall’alto del piedistallo, dov’ero sempre appollaiato, gli pro­ misi solennemente che non avrei mai avuto la bassezza di rubar­ gli la sua scoperta. «TURBUL..., monsieur», disse avvicinandosi e abbassando la voce per paura che altri all’infuori di me potessero udirlo, «leg­ gete TURBULNERAE». «Ancora non capisco». «Ascoltate bene. A una lega da qui, ai piedi della montagna, c’è un villaggio che si chiama Boulternère. È una corruzione del lati­ no TURBULNERA. Nulla di più comune di queste inversioni. Boulternère, monsieur, è stata una città romana. Io l’avevo sempre pensato, ma non ne avevo mai avuta la prova. La prova, eccola qui. Questa Venere era la divinità topica della città di Boulternè­ re, e questo nome di Boulternère, di cui ora ho dimostrato l’ori­ gine antica, prova una cosa ben più curiosa, e cioè che Boulternè­ re, prima di essere una città romana, è stata una città fenicia!». Si interruppe un istante per respirare e per gioire della mia sor­ presa. Riuscii a reprimere una gran voglia di ridere. «Infatti», proseguì, «TURBULNERA è puro fenicio, TUR che si pronuncia TUR... TUR e SUR stessa parola, no? SUR è il nome fe­ nicio di Tiro; non c’è bisogno che io ve ne ricordi il senso. BUL è Baal, Bài, Bel, Bui leggere differenze di pronuncia. Quanto a NERA, questa mi dà un po’ piùdi difficoltà. Sono tentato di cre­ dere, non trovando una parola fenicia, che venga dal νηρός, umido, paludoso. Sarebbe dunque una parola ibrida. Per giustilicare νηρός, vi farò vedere a Boulternère come i ruscelli della montagna vi formino dei pantani infetti. D’altronde, la termina­ zione NERA potrebbe essere stata aggiunta molto più tardi in onore di Nera Pivesuvia, moglie di Tetricoon, che avrebbe fatto qualcosa per la città di Turbul. Ma preferisco l’etimologia di νηρός per via delle paludi». E fiutò una presa di tabacco con aria soddisfatta. «Ma lasciamo stare i fenici e torniamo all’iscrizione. Io tradu­ co dunque: “A Venere di Boulternère Mirone dedica per suo or­ dine questa statua, opera sua”». 221

Mi guardai bene dal criticare la sua etimologia, ma volli dar prova a mia volta di acume, e gli dissi: «Altolà, monsieur. Mirone ha consacrato qualcosa, ma non vedo perché dovrebbe essere questa statua». «Come!» esclamò, «Mirone non era un famoso scultore gre­ co? Il talento si sarà perpetuato nella sua famiglia: questa statua è opera di uno dei suoi discendenti. Non c’è niente di più certo». «Ma», replicai, «vedo sul braccio un forellino. Penso sia servi­ to a fissare qualcosa, un braccialetto, ad esempio, che quel Miro­ ne donò a Venere quale offerta espiatoria. Mirone era un amante infelice. Venere era irritata contro di lui: egli la placò consacran­ dole un braccialetto d’oro. Osservate che fecit vuol dire spesso consecravit. Sono sinonimi. Potrei mostrarvene più di un esempio se avessi sotto mano il Griiter o meglio l’Orelli. È naturale che un innamorato veda Venere in sogno, che si immagini che ella gli or­ dini di offrire un braccialetto d’oro alla sua statua. Mirone le con­ sacrò un braccialetto... Poi i barbari, o qualche altro ladro sacri­ lego...». «Ah! si vede bene che avete scritto dei romanzi!», esclamò il mio ospite porgendomi la mano per discendere. «No, monsieur, è un’opera della scuola di Mirone. Basta che ne osserviate il lavo­ ro e ne converrete». Poiché mi ero imposto come legge di non contraddire mai a oltranza gli antiquari caparbi, chinai la testa con aria convinta dicendo: «E un pezzo ammirevole». «Ah! mio Dio», gridò monsieur de Peyrehorade, «ancora un altro vandalismo! Devono aver scagliato una pietra contro la mia statua!». Aveva osservato un segno bianco un po’ al di sopra del seno della Venere. Osservai una traccia consimile sulle dita della mano destra che, come supposi allora, erano state toccate dalla pietra nella sua traiettoria, o forse anche a quell’urto se ne era staccato un frammento, che era rimbalzato sulla mano. Raccontai al mio ospite l’insulto del quale ero stato testimone e dell’immediata pu­ nizione che l’aveva seguito. Ne rise molto e, paragonando l’ap­ prendista a Diomede, gli augurò di vedere, al pari dell’eroe greco, tutti i suoi compagni tramutati in uccelli bianchi. 222

La campana del pranzo interruppe quella conversazione classica e, come il giorno prima, fui costretto a mangiare per quattro. Poi vennero alcuni fittavoli di monsieur de Peyrehorade; e mentre questi dava loro udienza, suo figlio mi portò a vedere un calesse che aveva comprato a Tolosa per la fidanzata e che io, non c’è bisogno di dirlo, ammirai. Poi entrai con lui nella scuderia, dove mi tenne mezz’ora vantandomi i suoi ca­ valli, facendomene la genealogia, parlandomi dei premi che avevano vinto alle corse del dipartimento. Infine giunse a par­ larmi della sua futura sposa, a proposito di una giumenta grigia che le aveva destinato. «La vedremo oggi», disse. «Non so se la troverete carina. A Parigi siete difficili; ma tutti qui a Perpignan la trovano incante­ vole. L’importante è che è molto ricca. Sua zia di Prades le ha la­ sciato il suo patrimonio. Oh! sarò molto felice». Fui profondamente colpito nel vedere un giovanotto che sem­ brava più impressionato dalla dote che non dai begli occhi della sua futura sposa. «Voi che vi intendete di gioielli», proseguì monsieur Alphon­ se, «che ne dite di questo? E l’anello che le darò domani». Così dicendo, si tirò via dalla prima falange del mignolo un grosso anello adorno di diamanti e formato da due mani intrec­ ciate; allusione che mi parve infinitamente poetica. La fattura era antica, ma mi parve che fosse stata ritoccata per incastonare i dia­ manti. Nell’interno dell’anello si leggevano queste parole in lette­ re gotiche: Sempr’ab ti, cioè, sempre con te. «È un bell’anello», dissi, «ma i diamanti aggiunti l’hanno pri­ vato un poco del suo carattere». «Oh! è molto più bello così», rispose sorridendo. «Qui ci so­ no milleduecento franchi di diamanti. Me l’ha regalato mia ma­ dre. Era un anello di famiglia antichissimo... dell’epoca della ca­ valleria. L’aveva portato la mia nonna, che l’aveva avuto dalla sua. I )io solo sa quando è stato fatto». «A Parigi», gli dissi, «è in uso regalare un anello molto sem­ plice, composto abitualmente di due metalli diversi, come oro e platino. Vedete, quell’altro anello che tenete al dito, sarebbe pie­ namente adatto. Questo, con i suoi diamanti e le sue mani in ri­ lievo, è tanto grosso che non si potrebbe più mettere un guanto». 223

«Oh! madame Alphonse se la vedrà lei. Credo che nonostan­ te tutto sarà ben felice di averlo. Milleduecento franchi al dito, è piacevole. Quest’altro anellino», aggiunse guardando con aria soddisfatta l’anello disadorno che portava alla mano, «questo, me l’ha dato una donna a Parigi un martedì grasso. Ah! come me la sono spassata quando ero a Parigi, due anni fa! E là che ci si di­ verte!...». E sospirò di rimpianto. Quel giorno dovevamo pranzare a Puygarrig, in casa dei pa­ renti della sposa; salimmo in calesse e raggiungemmo il castello, che era una lega e mezzo all’incirca lontano da Ille. Fui presenta­ to e accolto come un amico di famiglia. Non parlerò del pranzo né della conversazione che seguì e alla quale partecipai assai po­ co. Monsieur Alphonse, seduto accanto alla sua promessa, le di­ ceva una parola all’orecchio ogni quarto d’ora. Quanto a lei, non alzava gli occhi, e ogni volta che il futuro sposo le parlava, arros­ siva con modestia, ma gli rispondeva senza imbarazzo. Mademoiselle de Puygarrig aveva diciotto anni, la sua figura snella e delicata contrastava con le forme ossute del suo robusto fidanzato. Ammiravo la perfetta naturalezza di tutte le sue rispo­ ste; e la sua espressione di bontà, che pure non era priva di una lieve sfumatura di malizia, mi ricordò, mio malgrado, la Venere del mio ospite. Facendo dentro di me tale confronto, mi chiede­ vo se la evidente superiorità di bellezza della statua non dipen­ desse in gran parte da quell’espressione tigresca; poiché l’energia, anche nelle cattive passioni, suscita sempre in noi uno stupore e una sorta di ammirazione involontaria. «Che peccato», mi dissi lasciando Puygarrig, «che una così amabile creatura sia ricca, e che la sua dote induca un uomo in­ degno di lei a volerla sposare!». Tornando a Ille, e non sapendo che dire a madame de Peyrehorade, alla quale ritenevo fosse educato rivolgere qualche parola: «Siete davvero spregiudicati nel Roussillon!», esclamai; «co­ me, madame, fate un matrimonio di venerdì! A Parigi, saremmo più superstiziosi; nessuno oserebbe prendere moglie in un gior­ no simile». «Mio Dio! non me ne parlate», mi disse, «se non fosse dipeso che da me avrei certo scelto un altro giorno. Ma Peyrehorade ha voluto così e abbiamo dovuto cedere. Mi rincresce. Se accadesse 224

qualche disgrazia? Ci sarà bene un motivo perché il venerdì deb­ ba mettere paura ad ognuno». «Venerdì!» esclamò suo marito, «è il giorno di Venere! Un buon giorno per un matrimonio! Vedete, mio caro collega, io non penso che alla mia Venere. Parola d’onor! ho scelto il venerdì proprio per lei. Domani, se volete, prima delle nozze, le offrire­ mo un piccolo sacrificio, le sacrificheremo due colombe, e se sa­ pessi dove trovare dell’incenso...». «Ma insomma, Peyrehorade!» interruppe la moglie, scandaliz­ zata all’estremo. «Incensare un idolo! Sarebbe abominevole! Che direbbero di noi nel paese?». «Almeno», disse monsieur de Peyrehorade, «mi permetterai di porle sulla testa una corona di rose e gigli:

Mambus date lilia plenis'’. Vedete, monsieur, la Carta è una parola vana. Non abbiamo li­ bertà di culto!». Le disposizioni per l’indomani furono prese nel modo se­ guente. Tutti dovevano essere pronti e abbigliati alle dieci preci­ se. Dopo aver preso la cioccolata, saremmo andati in carrozza a Puygarrig. La cerimonia civile avrebbe avuto luogo al municipio del villaggio, mentre la cerimonia religiosa nella cappella del ca­ stello. Poi vi sarebbe stata una colazione. Dopo la colazione, avremmo trascorso il tempo come meglio ci fosse piaciuto fino alle sette. Alle sette saremmo ritornati a Ille, in casa di monsieur de Peyrehorade, dove le due famiglie dovevano cenare riunite. Il resto viene da sé naturalmente. Non potendo ballare, si era pen­ sato di mangiare il più possibile. Fin dalle otto ero seduto dinanzi alla Venere, con una matita in mano, ricominciando per la ventesima volta la testa della sta­ tua, senza riuscire a coglierne l’espressione. Monsieur de Pey­ rehorade andava e veniva intorno a me, mi dava consigli, mi ripetcva le sue etimologie fenice; poi disponeva alcune rose del Ben­ gala sul piedistallo della statua e con tono tragicomico le rivolge­ va dei voti per la coppia che avrebbe vissuto sotto il suo tetto. Verso le nove rientrò per occuparsi del proprio abbigliamento, e 9 «Donate gigli a piene mani» (Virgilio, Eneide, VI, 882).

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apparve intanto monsieur Alphonse, con un abito nuovo, attilla­ to, guanti bianchi, scarpe di vernice, bottoni cesellati, una rosa al­ l’occhiello. «Farete il ritratto a mia moglie?» mi disse chinandosi sul dise­ gno. «Anche lei è carina». In quel momento, sul campo di pallacorda del quale ho par­ lato, aveva inizio una partita che subito attrasse l’attenzione di monsieur Alphonse. Ed io, stanco e non sperando più ormai di riuscire a ritrarre quel volto diabolico, abbandonai ben presto il disegno per guardare i giocatori. Fra loro c’erano alcuni mulat­ tieri spagnoli, giunti il giorno prima. Erano aragonesi e navarresi, tutti dotati di una meravigliosa destrezza. Perciò gli illesi, benché incoraggiati dalla presenza e dai consigli di monsieur Alphonse, non tardarono a essere battuti da quei nuovi campio­ ni. Gli spettatori nazionali erano costernati. Monsieur Alphonse guardò l’orologio. Non erano che le nove e mezzo. Sua madre non si era ancora pettinata. Egli non esitò più: si tolse la giubba, chiese una camicia e sfidò gli spagnoli. Io lo guardavo fare sorri­ dendo, e un po’ sorpreso. «Bisogna tener alto l’onore del paese», disse. Allora lo trovai veramente bello. Era pieno di passione. Il suo abbigliamento, che poco prima gli stava tanto a cuore, non era più niente per lui. Qualche minuto prima, avrebbe avuto scrupolo a voltare la testa nel timore di sciuparsi la cravatta. Ora non pensa­ va più ai suoi capelli arricciati, né al suo jabot così ben pieghetta­ to. E la fidanzata?... In fede mia, se fosse stato necessario, credo avrebbe rimandato il matrimonio. Lo vidi infilarsi in fretta un paio di sandali, rimboccarsi le maniche, e con aria impavida met­ tersi alla testa di una squadra vinta, come Cesare quando raduna­ va intorno a sé i suoi soldati a Durrachio10. Saltai la siepe e mi si­ stemai comodamente all’ombra di un bagolaro, in modo da vede­ re bene i due campi. Contro l’aspettativa generale, monsieur Alphonse mancò la prima palla; è vero che essa arrivò rasente terra e scagliata con forza sorprendente da un aragonese che doveva essere il capo de­ gli spagnoli. [Città dell’Illiria, oggi Durazzo].

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Era un uomo di una quarantina d’anni, secco e nervoso, alto sei piedi, e la sua pelle olivastra aveva un tono quasi altrettanto cupo come il bronzo della Venere. Monsieur Alphonse gettò a terra la racchetta con furore. «E questo maledetto anello», esclamò, «che mi stringe il dito e mi ha fatto mancare una palla sicura!». Non senza fatica si tolse l’anello di diamanti; mi avvicinavo per prenderlo, ma egli mi prevenne, corse alla Venere, le infilò l’a­ nello nell’anulare, e riprese il suo posto alla testa degli illesi. Era pallido, ma calmo e risoluto. Da allora non sbagliò più, e gli spagnoli furono battuti in pieno. Fu un bello spettacolo l’entusiasmo degli spettatori: gli uni levavano mille grida di gioia gettando in aria i berretti; altri gli stringevano le mani, chiamandolo onore del paese. Se avesse respinto un’invasione, dubito che avrebbe ricevuto congratulazioni più vive e più sin­ cere. Il dispiacere dei vinti accresceva ancora lo splendore della sua vittoria. «Faremo altre partite, mio prode», disse all’aragonese con to­ no di superiorità; «ma vi darò dei punti di vantaggio». Avrei preferito che monsieur Alphonse fosse più modesto, e quasi mi rincrebbe l’umiliazione del suo rivale. Il gigante spagnolo fu profondamente colpito dall’insulto. Lo vidi impallidire sotto l’incarnato bruno. Guardava cupo la sua racchetta stringendo i denti; poi disse con voce soffocata, disse a bassa voce: «Me lo pagaràs». La voce di monsieur de Peyrehorade turbò il trionfo del figlio; il mio ospite, assai stupito di non trovarlo intento a presiedere ai preparativi del calesse nuovo, fu più stupito ancora nel vederlo tutto sudato con la racchetta in mano. Monsieur Alphonse corse a casa, si lavò il viso e le mani, rimise l’abito nuovo e le scarpe di vernice, e cinque minuti dopo percorrevamo di gran trotto la strada verso Puygarrig. Tutti i giocatori di pallacorda del paese e un gran numero di spettatori ci seguirono con grida di gioia. I vi­ gorosi cavalli che ci portavano riuscivano appena a oltrepassare q uegli intrepidi catalani. Eravamo a Puygarrig, e il corteo stava per incamminarsi verso il municipio quando monsieur Alphonse, battendosi la fronte, mi disse sottovoce: 227

«Che granchio! Ho dimenticato l’anello! È al dito della Vene­ re, che il diavolo se la porti! Non lo dite a mia madre almeno. Forse non si accorgerà di nulla». «Potreste mandare qualcuno» gli dissi. «Bah! il mio domestico è rimasto a Ille, di questo non mi fido. Milleduecento franchi di diamanti! la cosa potrebbe tentare più di una persona. D’altronde, che penserebbero qui della mia distra­ zione? Mi canzonerebbero troppo. Mi chiamerebbero il marito della statua... Purché non me lo rubino! Per fortuna l’idolo fa paura a questi miei cialtroni. Non osano avvicinarla alla distanza di un braccio. Bah! non importa; ho un altro anello». Le due cerimonie, quella civile e quella religiosa, si svolsero con la dovuta pompa e mademoiselle de Puygarrig ricevette l’a­ nello di una modista di Parigi, senza sospettare che il fidanzato le sacrificasse un pegno amoroso. Poi ci si mise a tavola, dove si bevve, si mangiò e perfino si cantò, il tutto assai a lungo. Io sof­ frivo per la sposa della gioia grossolana che prorompeva intorno a lei: tuttavia mostrava più contegno di quanto avessi sperato e il suo imbarazzo non era né goffaggine né affettazione. Forse il coraggio viene con le situazioni difficili. Finita, quando piacque a Dio, la colazione, erano già le quat­ tro, gli uomini andarono a passeggio nel parco, che era magnifi­ co, dove guardarono ballare sul prato del castello le contadine di Puygarrig, vestite dei loro abiti festivi. Trascorremmo così alcune ore. Frattanto le donne circondavano sollecite la sposa, che face­ va loro ammirare i doni ricevuti. Poi ella cambiò l’abito e osser­ vai come si coprì di una cuffia e di un cappello a piume i bei ca­ pelli, poiché le donne non vedono nulla di più urgente che pren­ dere, non appena possono, gli ornamenti che la consuetudine vie­ ta loro quando sono ancora signorine. Erano quasi le otto, quando ci preparammo a partire per Ille. Ma prima vi fu una scena patetica. La zia di mademoiselle de Puygarrig, che le faceva da madre, una donna molto anziana e as­ sai devota, non sarebbe dovuta venire con noi in città. Al mo­ mento della partenza ella fece alla nipote un commovente sermo­ ne sui suoi doveri di sposa, sermone che provocò un torrente di lacrime e abbracci senza fine. Monsieur de Peyrehorade parago­ nava quella separazione al ratto delle Sabine. Tuttavia partimmo, 228

e durante la strada ognuno fece del suo meglio per distrarre la sposa e farla ridere; ma inutilmente. A Ille ci aspettava la cena, e che cena! Se la gioia grossolana del mattino mi aveva urtato, ancora di più mi urtarono le battute e gli scherzi di cui lo sposo, e soprattutto la sposa, furono oggetto. Lo sposo, che prima di mettersi a tavola era scomparso per un minu­ to, era pallido e di un glaciale sussiego. Beveva in continuazione del vino vecchio di Collioure, forte quasi come acquavite. Ero se­ duto accanto a lui, e mi sentii in obbligo di avvertirlo: «State attento! si dice che il vino...». Non so che sciocchezza gli dissi, per mettermi all’unisono con i convitati. Ma egli mi toccò il ginocchio, e sottovoce mi disse: «Quando ci si alzerà da tavola... vorrei dirvi due parole». Il suo tono solenne mi stupì. Lo guardai più attentamente e osservai la strana alterazione dei suoi tratti. «Vi sentite poco bene?» gli chiesi. «No». E si rimise a bere. Intanto, in mezzo alle grida e ai battimani, un bambino di un­ dici anni, che si era insinuato sotto la tavola, mostrava ai presen­ ti un grazioso nastro bianco e rosa che aveva strappato alla cavi­ glia della sposa. E quello che si chiama la sua giarrettiera. Fu su­ bito tagliata a pezzetti e distribuita ai giovanotti, che se ne ador­ narono l’occhiello, secondo una consuetudine antica che ancora si conserva in qualche famiglia patriarcale. La sposa ne ebbe mo­ tivo di arrossire fino al bianco degli occhi... Ma il suo turbamen­ to fu al colmo quando monsieur de Peyrehorade, chiesto il silen­ zio, cantò alcuni versi catalani, estemporanei, diceva. Eccone il senso, se l’ho inteso bene: «Che c’è dunque, amici miei? il vino che ho bevuto mi fa ve­ dere doppio? Ci sono due Veneri qui...». Lo sposo volse bruscamente la testa con un’aria sgomenta, che fece ridere tutti. «Sì», proseguì monsieur de Peyrehorade, «ci sono due Veneri sotto il mio tetto. Una l’ho trovata sottoterra come un tartufo; l’altra, scesa dai cieli, ha spartito per noi la sua cintura». Voleva dire la sua giarrettiera. 229

«Figlio mio, scegli tu fra le Venere romana e la catalana quella che preferisci. Il briccone prende la catalana e ha scelto bene. La romana è nera, la catalana è bianca. La romana è fredda, la catala­ na infiamma chiunque l’awicini». Questa chiusa suscitò un tale urrà, degli applausi così fragoro­ si e delle risate così sonore che io credetti di vedere il soffitto ca­ scarci sulla testa. Intorno alla tavola non c’erano che tre volti se­ ri, quelli degli sposi e il mio. Avevo un gran mal di testa: e poi, non so perché, un matrimonio mi rattrista sempre. Inoltre quello mi disgustava un poco. Quando il vicesindaco ebbe cantato le ultime strofe, ed erano molto libere, devo dirlo, passammo nel salotto per goderci la par­ tenza della sposa, che doveva essere accompagnata nella sua ca­ mera, perché era quasi mezzanotte. Monsieur Alhonse mi trasse nel vano di una finestra, e mi dis­ se distogliendo gli occhi: «Mi prenderete in giro... Ma non so che cos’ho... sono stre­ gato! il diavolo mi porti!». Il primo pensiero che mi venne in mente fu che egli si credes­ se minacciato da qualche disgrazia del tipo di quelle di cui parla­ no Montaigne e Madame de Sévigné: «Il regno dell’amore è pieno di storie tragiche, ecc.». Credevo che tale sorta di incidenti non colpissero che gli in­ tellettuali, dissi a me stesso. «Avete bevuto troppo vino di Collioure, mio caro monsieur Alphonse», gli dissi. «Vi avevo avvertito». «Sì, forse. Ma c’è qualcosa di ben più terribile». Aveva la voce rotta. Lo credetti completamente ubriaco. «Il mio anello, sapete?» proseguì dopo un silenzio. «Ebbene, l’hanno preso?». «No». «Allora l’avete?». «No... io... io non posso levarlo dal dito di quel diavolo di una Venere». «Bene! non avrete tirato abbastanza forte». «Sì... ma la Venere... ha chiuso il dito». Mi guardava fisso, con un’espressione torva, appoggiandosi alla spagnoletta della finestra per non cadere. 230

«Che storia!» gli dissi. «Avete spinto con troppa forza l’anel­ lo nel dito. Domani lo riavrete usando le tenaglie. Ma state atten­ to a non rovinare la statua». «No, vi dico. Il dito della Venere si è ritirato, si è ripiegato; chiude la mano, capite?... È mia moglie, a quanto sembra, poiché le ho regalato il mio anello... Non lo vuole più restituire». Mi colse un brivido repentino, e per un attimo sentii la pelle d’oca. Poi, un lungo sospiro che egli trasse mi alitò in faccia una sbuffata di vino e ogni emozione disparve. «Lo sciagurato», pensai, «è completamente ubriaco». «Voi siete archeologo, monsieur», aggiunse lo sposo con ac­ cento lamentoso; «voi conoscete quelle statue... c’è forse qual­ che segreto, qualche diavoleria che non so... Se voi andaste a ve­ derla?». «Volentieri», dissi. «Venite con me». «No, preferisco che andiate da solo». Uscii dal salotto. Durante la cena il tempo era cambiato, e la pioggia comincia­ va a cadere con forza. Stavo per chiedere un ombrello, quando un pensiero mi fermò. «Sarei un bello stupido davvero», mi dissi, «se andassi ad accertarmi di quello che ha detto un uomo ubriaco! Del resto, forse, mi ha voluto fare uno scherzo maligno, per far ridere alle mie spalle questi onesti provinciali; e il meno che mi possa capitare è di bagnarmi fino alle ossa e prendermi un bel raf­ freddore». Dalla porta gettai uno sguardo alla statua grondante d’acqua e salii in camera mia senza tornare nel salotto. Mi coricai; ma il son­ no fu lento a venire. Alla mia mente si offrivano tutti gli episodi della giornata. Pensavo a quella ragazza così bella e così pura, ab­ bandonata a un brutale ubriacone. Un matrimonio di convenien­ za, mi dicevo, che cosa odiosa! Un sindaco si mette una sciarpa tricolore, un curato una stola, ed ecco che la più onesta fanciulla del mondo viene consegnata in balia di un Minotauro! Due esse­ ri che si amano, che si possono dire in un momento simile, in un momento che due innamorati pagherebbero a prezzo della loro vita? Una donna può mai amare un uomo che una volta le sarà apparso volgare? Le prime impressioni non si cancellano e, ne so­ no certo, questo monsieur Alphonse meriterà di essere odiato... 231

Durante il mio monologo, che abbrevio di molto, avevo udi­ to un gran andirivieni per la casa, porte che si aprivano e si chiu­ devano, carrozze che partivano; infine mi era parso di sentire sul­ la scala i passi leggeri di molte donne che si dirigevano verso l’e­ stremità del corridoio opposto alla mia camera. Era probabil­ mente il corteo della sposa, che portavano a letto. Poi ridiscende­ vano le scale. La porta di madame de Peyrehorade si era chiusa. Come deve sentirsi turbata e a disagio, mi dissi, quella povera ra­ gazza! Mi rigiravo nel letto con malumore. Uno scapolo fa una sciocca figura in una casa dove si compie un matrimonio. Da poco regnava il silenzio, quando mi sentii turbato da al­ cuni passi pesanti che salivano le scale. Gli scalini di legno cigo­ lavano forte. «Che zoticone!» esclamai. «Scommetto che cadrà dalle scale». Tutto tornò tranquillo. Presi un libro per mutare il corso del­ le mie idee. Era una statistica del dipartimento, abbellita da una memoria di monsieur de Peyrehorade sui monumenti druidici del circondario di Prades. Mi assopii alla terza pagina. Dormii male e mi risvegliai diverse volte. Potevano essere for­ se le cinque del mattino, ed ero sveglio da più di venti minuti, quando il gallo cantò. Stava per farsi giorno. Allora udii distintamente i medesimi passi pesanti, il medesimo cigolio delle scale che avevo udito prima di addormentarmi. Questo mi parve stra­ no. Sbadigliando, cercavo di indovinare perché monsieur Alhonse fosse così mattiniero. Non trovai nessuna spiegazione verosi­ mile. Stavo per richiudere gli occhi, quando la mia attenzione fu di nuovo destata da strani calpestìi, a cui presto si unì il suono dei campanelli e il rumore di porte che si aprivano con fracasso, poi distinsi delle grida confuse. «Il mio ubriacone avrà dato fuoco a qualcosa!», pensai saltan­ do giù dal letto. Mi vestii rapidamente e uscii nel corridoio. Dall’estremità op­ posta venivano grida e lamenti, e una voce straziante dominava tutte le altre: «Figlio mio! Figlio mio!». Era chiaro che a monsieur Alphonse era accaduta una disgrazia. Corsi alla camera nuziale: era piena di gente. Il primo spettacolo che mi colpì la vista fu quello del giovanotto semivestito, disteso di traverso sul letto il cui legno era spezzato. Era livido, immobile. La madre piangeva

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c gridava accanto a lui. Monsieur de Peyrehorade si agitava, gli strofinava le tempie con l’acqua di colonia, gli mettevano i sali sotto il naso. Ahimè! suo figlio era morto già da lungo tempo. Su un divano, all’altra estremità della camera, c’era la sposa, in preda a orribili convulsioni. Gettava grida inarticolate, e due robuste domestiche duravano la più grande fatica a tenerla. «Mio Dio!» gridai, «ma cosa è successo?». Mi avvicinai al letto e sollevai il corpo dello sventurato gio­ vane; era già rigido e freddo. I denti stretti e il volto annerito esprimevano i patimenti più atroci. Sembrava che la sua morte fosse stata violenta così come la sua agonia. Ma non c’era traccia di sangue sugli abiti. Scostai la camicia e scorsi sul suo petto un’impronta livida che si prolungava sulle costole e sulla schie­ na. Pareva fosse stato stretto in una morsa di ferro. Il mio piede si posò su qualcosa di duro sul tappeto; mi chinai e vidi l’anello di diamanti. Trascinai monsieur de Peyrehorade e la moglie nella loro stan­ za; poi vi feci trasportare la sposa. «Avete ancora una figlia», dissi loro, «e le dovete le vostre cu­ re». Allora li lasciai soli. Mi pareva indubbio che monsieur de Peyrehorade era stato vittima di un assassinio, i cui autori avevano trovato modo di in­ sinuarsi di notte nella camera della sposa. Tuttavia quei lividi sul petto, la loro forma circolare mi rendevano assai perplesso, per­ ché non avrebbero potuto essere prodotti né da un bastone né da una sbarra di ferro. A un tratto mi ricordai di aver sentito dire che a Valencia i bravi si servivano di lunghi sacchi di cuoio pieni di sabbia finissima per uccidere le persone per la cui morte erano stati pagati. Subito mi tornarono in mente il mulattiere aragone­ se e la sua minaccia; tuttavia, mi riusciva difficile credere che aves­ se tratto una vendetta così feroce da uno scherzo leggero. Andai in giro per la casa, cercando ovunque tracce di effrazio­ ne e non trovandone in nessun luogo. Scesi in giardino per vede­ re se gli assassini si erano potuti introdurre di là; ma non vidi al­ cun indizio sicuro. Del resto, la pioggia del giorno prima aveva intriso il terreno a tal punto che non sarebbe stato possibile che conservasse un’impronta nitida. Tuttavia, osservai alcuni passi profondamente impressi nel terreno; ce n’erano in due direzioni 233

contrarie, ma su una stessa linea, partendo dall’angolo della siepe contigua al campo di pallacorda e terminando sulla porta della ca­ sa. Potevano essere i passi di monsieur Alphonse quando era an­ dato a prendere il suo anello al dito della statua. Da un altro lato la siepe in un punto era meno fitta che altrove, lì avrebbe potuto essere scavalcata dagli assassini. Passando e ripassando davanti al­ la statua, mi fermai un attimo ad osservarla. Questa volta, lo con­ fesserò, non potei contemplare senza paura la sua espressione di malvagità ironica; e, con la testa tutta piena delle scene orribili di cui ero stato testimone, mi sembrò di vedere una divinità infer­ nale plaudente alla sciagura che abbatteva su quella casa. Tornai nella mia camera e vi restai fino a mezzogiorno. Allo­ ra uscii e chiesi notizie dei miei ospiti. Erano un po’ più calmi. Mademoiselle de Puygarrig, o dovrei dire la vedova di monsieur Alphonse, aveva ripreso conoscenza. Aveva perfino parlato al procuratore del re di Perpignan, in quel momento a Ille in viag­ gio d’ispezione, e il magistrato aveva accolto la sua deposizione. Mi chiese la mia. Gli dissi quello che sapevo e non gli nascosi i miei sospetti sul mulattiere aragonese. Egli ordinò che fosse arre­ stato immediatamente. «Avete saputo qualcosa da madame Alphonse?» chiesi al pro­ curatore del re, quando la mia deposizione fu scritta e firmata. «Quell’infelice giovane è diventata pazza», mi rispose sorri­ dendo tristemente. «Pazza! completamente pazza. Ecco ciò che racconta: Si era coricata, dice da alcuni minuti, le tende erano state tira­ te, quando la porta della camera si era aperta e qualcuno era en­ trato. In quel momento madame Alphonse era nel corsello del letto, il viso rivolto verso la parete. Non si mosse, persuasa che fosse il marito. Dopo un attimo, il letto cigolò come gravato da un peso enorme. Ella ebbe una gran paura, ma non osò voltare la testa. Cinque, dieci minuti forse... non può rendersi conto del tempo, trascorsero così. Poi fece un movimento involontario, o piuttosto la persona che era nel letto lo fece, e lei avvertì il con­ tatto con qualcosa di freddo come il ghiaccio, questa è la sua espressione. Si rannicchiò nel corsello, tremando in tutte le mem­ bra. Poco dopo, la porta si aprì una seconda volta, ed entrò qual­ 234

cuno che disse: “Buona sera, mogliettina mia”. Ben presto furo­ no tirate le tendine. Ella udì un grido soffocato. La persona che era nel letto, accanto a lei, si alzò a sedere e sembrò tendere le braccia in avanti. Allora lei volse il capo... e vide, dice, il marito in ginocchio presso il letto, con la testa all’altezza del guanciale, fra le braccia di una specie di gigante verdastro che lo stringeva con forza. Dice, e me l’ha ripetuto più di venti volte, povera don­ na!... dice che ha riconosciuto... indovinate? la Venere di bron­ zo, la statua di monsieur de Peyrehorade... Da quando è qui in paese, tutti se la sognano. Ma riprendo il racconto della sventura­ ta pazza. A quello spettacolo, perse i sensi e probabilmente già da pochissimo aveva perso la ragione. Ella non sa dire in alcun mo­ do quanto tempo rimase svenuta. Tornata in sé, rivide il fantasma, o la statua, come dice, immobile, le gambe e la parte inferiore del corpo nel letto, il busto e le braccia tese in avanti, e fra le braccia il marito, anch’egli immobile. Un gallo cantò. Allora la statua sce­ se dal letto, lasciò cadere il cadavere e uscì. Madame Alphonse si attaccò al campanello, e il resto lo sapete». Condussero lo spagnolo; era calmo e si difese con molto san­ gue freddo e presenza di spirito. Non negò, del resto, la frase che io avevo udito, ma la spiegava sostenendo di non aver voluto di­ re altro se non che l’indomani, dopo che si fosse riposato, avreb­ be battuto alla pallacorda il suo vincitore. Ricordo che aggiunse: «Un aragonese, quando viene offeso, non aspetta l’indomani per vendicarsi. Se avessi pensato che monsieur Alphonse voles­ se insultarmi, immediatamente gli avrei sferrato il mio coltello nel ventre». Vennero confrontate le sue scarpe con le impronte dei passi in giardino; le sue scarpe erano molto più grandi. Alla fine l’oste presso il quale l’uomo era alloggiato, affermò che aveva passato tutta la notte a strofinare e medicare uno dei suoi muli che era malato. D’altronde, quell’aragonese godeva di una buona reputazione, era molto noto in paese, dove ogni anno veniva per i suoi affari. Lo si rilasciò quindi facendogli delle scuse. Dimenticavo la deposizione di un domestico che aveva visto per ultimo monsieur Alphonse da vivo. Lui stava per salire dalla moglie e, chiamando quell’uomo con aria inquieta, gli aveva do­ 235

mandato se sapeva dove fossi io. Il domestico aveva risposto che non mi aveva visto. Allora monsieur Alphonse aveva tirato un so­ spiro ed era rimasto più di un minuto senza parlare, poi aveva detto: «Andiamo! Anche Ini se lo sarà portato via il diavolo». Chiesi all’uomo se monsieur Alphonse avesse l’anello di dia­ manti quando gli aveva parlato. Il domestico esitò a rispondere; infine disse che gli pareva di no, che del resto non vi aveva fatto attenzione. «Se avesse avuto quell’anello al dito», aggiunse poi riprenden­ dosi, «certo l’avrei senza dubbio notato, poiché credevo l’avesse dato a madame Alphonse». Mentre interrogavo l’uomo, anch’io provavo un po’ di quel terrore superstizioso che la deposizione di madame Alphonse aveva diffuso in tutta la casa. Il procuratore del re mi guardò sor­ ridendo e io mi guardai bene dall’insistere. Alcune ore dopo i funerali di monsieur Alphonse, mi prepara­ vo a lasciare Ille. La carrozza di monsieur de Peyrehorade doveva condurmi a Perpignan. Nonostante il suo stato di debolezza, il po­ vero vecchio volle accompagnarmi fino alla porta del giardino. Lo attraversammo in silenzio, lui si trascinava a fatica appoggiato al mio braccio. Al momento di separarci, gettai un ultimo sguardo al­ la Venere. Prevedevo che il mio ospite, benché non condividesse i terrori e gli odi che essa ispirava a una parte della famiglia, volesse disfarsi di un oggetto che gli avrebbe continuamente ricordato un’atroce sventura. La mia intenzione era di indurlo a metterla in un museo. Esitavo a entrare in argomento, quando monsieur de Peyrehorade, volse macchinalmente la testa dalla parte dov’era fis­ so il mio sguardo. Scorse la statua e subito scoppiò in lacrime. Io lo abbracciai e, senza osare dirgli una sola parola, salii in carrozza. Dal giorno della mia partenza non ho più saputo se un nuovo barlume sia venuto a illuminare quella misteriosa disgrazia. Monsieur de Peyrehorade morì qualche mese dopo suo figlio. Mi lasciò in testamento i suoi manoscritti, che forse un giorno pubblicherò. Non vi ho trovato la dissertazione relativa alle iscri­ zioni della Venere.

P. S. Il mio amico, monsieur P***, mi scrive ora da Perpignan che la statua non esiste più. Dopo la morte del marito, il primo 236

pensiero di madame de Peyrehorade fu di farla fondere in una campana, e sotto tale nuova forma serve alla chiesa di Ille. Ma, ag­ giunge monsieur de P., sembra che la cattiva sorte perseguiti co­ loro che possiedono quel bronzo. Da quando a Ille suona quella campana, le vigne hanno gelato due volte.

1837

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Colomba

I

Pè far la to vandetta, Sta sigur’, vasta anche ella. «Ma per fare la tua vendetta sta sicuro, basta anch’ella».

Vocero del Niolo

Ai primi di ottobre del 181"', il colonnello irlandese sir Tho­ mas Nevil, distinto ufficiale dell’esercito britannico di ritorno da un viaggio in Italia, prese alloggio, insieme con la figlia, a pa­ lazzo Beauvau a Marsiglia. L’ammirazione continua dei viaggia­ tori fanatici ha suscitato una violenta reazione, e oggi, per me­ glio distinguersi, molti turisti si vanno appropriando del motto oraziano: «nil admirari». In questa categoria di viaggiatori mal­ contenti rientrava miss Lydia, figlia unica del colonnello. A lei, la Trasfigurazione era apparsa mediocre e l’eruttante Vesuvio appena più cospicuo delle fabbriche di Birmingham. La grande obiezione che ella faceva all’Italia, era, insomma, che il paese mancasse di colore locale, di carattere. Spieghi chi può il senso di tali parole, che io comprendevo benissimo pochi anni fa e che oggi non intendo più. 239

Da principio miss Lydia si era compiaciuta di trovare al di qua delle Alpi cose mai viste da altri prima di lei e di cui poteva discor­ rere con le persone oneste, come dice monsieur Jourdain1. Accorta­ si presto, però, di essere stata ovunque preceduta da suoi conna­ zionali, e senza più speranza di scovare alcunché d’ignoto, si gettò dalla parte dell’opposizione. Infatti, è assai sgradevole non poter parlare delle meraviglie d’Italia senza che qualcuno vi dica: «Cono­ scete sicuramente quel Raffaello del palazzo“'**, a ***? È quanto vi sia di più bello in Italia». Ed è precisamente ciò che si è tralasciato di vedere. Ora, siccome a vedere tutto sarebbe un affare troppo lungo, torna più semplice condannare tutto, per partito preso. All’albergo Beauvau, miss Lydia ebbe un’amara delusione. Ri­ portava dall’Italia un grazioso schizzo della porta pelasgica, o ci­ clopica di Segni che riteneva ignorata dai disegnatori. Ora, im­ battutasi a Marsiglia in Lady Frances Fenwich, questa le mostrò il suo album nel quale, tra un sonetto e un fiore appassito, figura­ va la porta in questione, illuminata con grande spreco di terra di Siena. Miss Lydia regalò la porta di Segni alla sua cameriera, e perse ogni stima per le costruzioni pelasgiche. Questi suoi stizziti umori erano condivisi dal colonnello Nevil, il quale dopo la morte della moglie non vedeva ormai le cose che attraverso gli occhi di miss Lydia. Per lui l’Italia aveva l’im­ menso torto di aver tediato la figlia, e dunque era il paese più noioso del mondo. Non aveva nulla da ridire, è vero, circa le pit­ ture e le statue; ma ciò che poteva assicurare, era che la caccia era assai meschina in questo paese, e che bisognava percorrere dieci leghe buone sotto un gran bel sole nella campagna romana per uccidere qualche misera pernice rossa. Il giorno dopo il suo arrivo a Marsiglia, invitò a pranzo il ca­ pitano Ellis, suo ex attendente, che tornava da un soggiorno di sei settimane in Corsica. Il capitano raccontò molto bene a miss Ly­ dia una storia di banditi che aveva il pregio di non somigliare af­ fatto alle storie di ladri che le erano state narrate sulla via da Ro­ ma a Napoli. Al dolce, i due uomini, rimasti soli davanti ad alcu­ ne bottiglie di Bordeaux, parlarono di caccia e il colonnello sep-1 1 [Monsieur Jourdain: «Je veux avoir de l’esprit et savoir raisonner des choses parmi les honnêtes gens», Molière, Le bourgeoise gentilhomme, atto III, scena III].

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pe che in nessun altro paese se ne trova di migliore che in Corsi­ ca, né di più varia o più abbondante. «Vi si vedono un gran nu­ mero di cinghiali», diceva il capitano Ellis, «e ci si deve abituare a distinguerli dai suini domestici, che gli somigliano in modo sor­ prendente; perché uccidendo i maiali ci si procurano fastidi con i guardiani. Questi sbucano fuori da un bosco ceduo che chiama­ no maquis2, armati fino ai denti, vi fanno pagare le loro bestie, e si beffano di voi. Si trova il muflone, uno stranissimo animale che non esiste altrove, selvaggina famosa, ma difficile. Cervi, daini, fa­ giani, pernici, non si finirebbe mai di elencare tutte le specie che pullulano in Corsica. Se vi piace sparare, colonnello, andate in Corsica. Se amate sparare, andate in Corsica, colonnello; laggiù, come diceva un tale che mi ospitò, potrete sparare a ogni possibi­ le selvaggina, dal tordo fino all’uomo». All’ora del tè il capitano dilettò di nuovo miss Lydia con una storia di vendetta trasversale0, anche più strana della storia prece­ dente, e suscitò in lei un vero entusiasmo per la Corsica, descri­ vendole l’aspetto fantastico, selvaggio del paese, l’indole origina­ le degli abitanti, la loro ospitalità, i loro costumi primitivi. Infine, depose ai suoi piedi un grazioso stilettino, degno di nota non tan­ to per la forma o la montatura in rame, quanto per la sua prove­ nienza. Era stato ceduto al capitano Ellis da un bandito famoso, il quale gli aveva assicurato che quell’arma aveva già trafitto quat­ tro corpi umani. Miss Lydia se lo aggiustò alla cintura, lo collocò sul suo comodino e lo sguainò due volte prima di addormentar­ si. Dal canto suo, il colonnello sognò che uccideva un muflone e che il proprietario ne esigeva il prezzo, al che volentieri accon­ sentiva, trattandosi di un animale assai curioso, che somigliava a un cinghiale, ma con le corna di cervo e una coda di fagiano. «Ellis dice che vi è una caccia meravigliosa in Corsica», disse il colonnello durante la colazione che fece solo con la figlia; «se non fosse così lontano, mi piacerebbe trascorrere laggiù una quindicina di giorni». «Ebbene», rispose miss Lydia, «perché non andiamo in Cor­ sica? Mentre sarete a caccia, io disegnerò; sarei felice di possede­ 2 [Cfr. il racconto Mateo Falcone.]. ’ E la vendetta che si fa ricadere su un parente più o meno lontano dall’autore dell’oftcsa.

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re nel mio album la grotta di cui parlava il capitano Ellis, dove se ne andava a studiare Bonaparte bambino». Era forse la prima volta che un desiderio espresso dal colon­ nello otteneva l’approvazione della figlia. Esultante per quel gra­ dimento inaspettato, egli ebbe tuttavia l’accortezza di muovere qualche obiezione, al fine di eccitare maggiormente il felice ca­ priccio di Miss Lydia. Invano parlò della selvatichezza del paese e delle difficoltà che una donna avrebbe trovato a viaggiarvi: ella non temeva nulla; le piaceva, più di ogni altra cosa, viaggiare a ca­ vallo; sarebbe stata una festa per lei dormire all’addiaccio; minac­ ciò di andare in Asia Minore. A dirla in breve a tutto trovava ri­ sposta, perché nessuna inglese era stata in Corsica; quindi ci do­ veva andare lei. Che gioia, poi, quando sarebbe stata di ritorno, mostrare il suo album nella sua casa di Saint-James’s Place! «Per­ ché, mia cara, saltate quel grazioso disegno?». «Oh! una cosettina da nulla. E uno schizzo che ho fatto a un bandito corso che ci servì da guida». «Come! siete stata in Corsica?...». Poiché non esistevano ancora battelli a vapore tra la Francia e la Corsica, andarono in cerca di qualche bastimento in partenza per l’isola che miss Lydia si proponeva di scoprire. Il giorno stesso, il colonnello scriveva a Parigi per disdire l’appartamento già preno­ tato e trattò con il padrone di una goletta corsa che si accingeva a far vela per Ajaccio. Erano disponibili due cabine accomodate alla bell’'e meglio. Si imbarcarono le provviste; il padrone giurò di ave­ re un cuoco stimabile nella persona di un suo vecchio marinaio, del quale non si trovava il compagno nell’arte di preparare la zuppa di pesce; promise che la signorina sarebbe stata servita in modo con­ veniente e che avrebbe avuto buon vento e buon mare. Inoltre, per volontà della figlia, il colonnello stipulò che il ca­ pitano non accogliesse a bordo altri passeggeri e facesse in modo da costeggiare l’isola, cosicché si potesse godere la vista delle montagne. II

Il giorno stabilito per la partenza, tutto era stato imballato e imbarcato di buon’ora, sebbene la goletta dovesse salpare con la brezza vespertina. Nell’attesa il colonnello passeggiava con la fi­ 242

glia sulla Canebière, quando il padrone del bastimento lo avvi­ cinò per chiedergli il permesso di prendere a bordo un suo pa­ rente, cioè il lontano cugino del padrino del suo primogenito, il quale doveva tornare nella natia Corsica per affari urgenti e non riusciva a trovare altro mezzo per tragittarlo. «È un giovane simpatico», aggiunse il capitano Matei, «un mi­ litare, ufficiale a piedi della guardia e sarebbe già colonnello se l’Altro fosse ancora imperatore». «Dato che si tratta di un militare...» disse il colonnello, stava per aggiungere: «Acconsento di buon grado a che venga con noi...», se non che miss Lydia esclamò in inglese: «Un ufficiale di fanteria!...» (il padre aveva prestato servizio nella cavalleria ed ella quindi disprezzava ogni altra arma), «un uomo forse maleducato, che soffrirà il mal di mare, e che ci sciu­ perà tutto il piacere della traversata!». Il padrone del bastimento non capiva l’inglese, ma mostrò di aver capito, dalla piccola smorfia di quella bocca graziosa, il sen­ so di ciò che miss Lydia stava dicendo, e perciò cominciò un elo­ gio in piena regola del parente, assicurando, nella chiusa, che si trattava di una persona a modo, di una famiglia di caporali, e dal quale il signor Colonnello non avrebbe ricevuto il minimo fasti­ dio, tanto più che egli stesso - parola di capitano - avrebbe avu­ to cura di alloggiarlo in un canto dove nessuno si sarebbe accor­ to della sua presenza. Al colonnello e a miss Nevil parve strano che in Corsica si tro­ vassero famiglie nelle quali fossero a quel modo caporali di padre in figlio; ma siccome con indulgenza ritenevano trattarsi di un ca­ porale di fanteria, ne dedussero che fosse un povero diavolo che il capitano desiderava imbarcare per carità. Se si fosse trattato di un ufficiale avrebbero avuto l’obbligo di parlargli, di stare con lui; ma con un caporale non occorre far tanti complimenti; la presen­ za di un essere così dappoco lascia il tempo che trova, quando non vi sia anche la sua squadra, per condurvi, baionetta in canna, dove non avreste voglia di andare. «Soffre il mal di mare, il vostro parente?» chiese miss Nevil in tono asciutto. «Mai, signorina: cuore fermo come uno scoglio, tanto sul ma­ re che a terra». 243

«E sia! conducetelo pure», disse quella. «Potete condurlo», ripete il colonnello, e ripresero la loro passeggiata. Verso le cinque del pomeriggio il capitano Matei li venne a cercare perché si imbarcassero. Al porto, vicino al canotto del ca­ pitano, trovarono un giovanottone con un pastrano azzurro ab­ bottonato fino al mento, il viso abbronzato, gli occhi neri, vivi, ben tagliati, e una certa aria decisa e arguta. Dal modo in cui ri­ traeva le spalle e dai baffetti arricciati, era facile riconoscere il mi­ litare; perché infatti, in quel tempo, né i baffi si portavano molto, né la guardia nazionale aveva ancora introdotto nelle famiglie i modi di vestire e le abitudini dei corpi di guardia. Visto il colonnello, il giovane si tolse il berretto, e ringraziò in termini acconci e disinvolti del servizio che gli rendeva. «Lieto di esservi utile, ragazzo mio», disse il colonnello, con un cenno della testa amichevole. E andò a prendere posto nell’imbarcazione. «Non spreca convenevoli il vostro Inglese», disse sottovoce in italiano il giovane a padron Matei. Questi si toccò sotto l’occhio sinistro con la punta dell’indice e abbassò gli angoli della bocca. Ciò significava, per chi conosce il linguaggio dei segni, che l’Inglese capiva l’italiano e che era un tipo strambo. Il giovane ebbe un lieve sorriso, rispose al cenno di Matei toccandosi la fronte, come per dirgli che tutti gli inglesi hanno qualche stramberia in testa, poi si sedette accanto al capi­ tano, e si diede a rimirare con molta attenzione, ma senza imper­ tinenza, la sua graziosa compagna di viaggio. «Hanno un buon aspetto questi soldati francesi», disse il co­ lonnello alla figlia in inglese; «perciò se ne fanno facilmente de­ gli ufficiali». Poi, rivolgendosi in francese al giovane: «Ditemi, caro ragazzo, in quale reggimento avete servito?». Questi diede una lieve gomitata al padre del figlioccio del suo lontano cugino, e trattenendo un sorriso ironico, rispose che era stato nei cacciatori a piedi della guardia e che, attualmente usciva dal settimo reggimento di fanteria leggera. «Siete stato a Waterloo? Siete molto giovane». «Scusate colonnello; è la mia sola campagna». 244

«Conta per due», disse il colonnello. Il giovane corso si morse le labbra. «Papà», disse miss Lydia in inglese «chiedigli se i corsi amano molto il loro Bonaparte». Il giovane non aspettò che il colonnello traducesse la doman­ da in francese, e rispose in un buon inglese, anche se con un for­ te accento: «Voi sapete, signorina, che nessuno è profeta in patria. Noial­ tri, compatrioti di Napoleone, lo amiamo forse meno dei france­ si. Io però, con tutto che la mia famiglia fosse un tempo nemica della sua, lo amo e lo ammiro». «Parlate inglese!» esclamò il colonnello. «Malissimo, come potete constatare». Sebbene un poco irritata dal tono disinvolto di lui, Miss Lydia non potè trattenersi dal ridere al pensiero di un’inimicizia perso­ nale tra un caporale e un imperatore. Per lei fu come un saggio delle stranezze della Corsica, e si ripromise di annotare l’episodio nel suo diario. «Forse siete stato prigioniero in Inghilterra?» chiese il colon­ nello. «No, colonnello mio, ho imparato l’inglese in Francia, quando ero ancora giovanissimo da un prigioniero della vostra nazione». Poi, rivolgendosi a miss Nevil: «Matei mi ha detto che tornate dall’Italia, signorina, e sono convinto che parlate il puro toscano; ma temo che avrete qualche difficoltà a capire il nostro dialetto». «Mia figlia capisce tutti i dialetti italiani», rispose il colonnel­ lo, «ha il dono delle lingue. Non è come me». «È in grado, signorina, di capire per esempio questi versi di una nostra canzone corsa? Un pastore dice alla pastorella: S’entrassi ‘ndru Paradisa santa, santa E nan travassi a tia, mi n’esciria»4.

Miss Lydia comprese, e trovata la citazione alquanto audace e più audace ancora lo sguardo che l’accompagnava, rispose, arros­ sendo, in italiano: «Capisco». ' «Se entrassi nel paradiso santo, santo e non ti trovassi, ne uscirei» {Serenata di Zi­ cavo).

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«E così» domandò il colonnello, «ve ne tornate a trascorrere in patria i vostri sei mesi di licenza?». «No, colonnello mio. Mi hanno collocato a metà paga, proba­ bilmente perché mi sono trovato a Waterloo e perché sono un conterraneo di Napoleone. Me ne torno a casa alleggerito di spe­ ranza e di pecunia, come dice la canzone». E sospirò guardando il cielo. Il colonnello, frugandosi in tasca, girava e rigirava tra le dita una moneta d’oro, cercando una frase adatta per lasciarla garba­ tamente scivolare nelle mani del suo sventurato nemico. «Anch’io», disse in tono bonario, «sono stato collocato a mezza paga; ma... la mezza paga vostra non basta nemmeno per comprarvi il tabacco. Tenete, caporale». Provò a spingere la moneta d’oro nella mano chiusa che il gio­ vane teneva appoggiata all’orlo del canotto. Il giovane corso arrossì, si raddrizzò, si morse le labbra e par­ ve lì per lì voler rispondere in malo modo, quando a un tratto, mutò espressione, scoppiando a ridere. Il colonnello, con la sua moneta in mano, se ne stava tutto sbalordito. «Colonnello», disse il giovane tornando serio, «consentitemi di darvi due consigli: il primo è quello di non offrire mai denaro a un corso, poiché tra i miei compatrioti ne potreste anche trova­ re qualcuno tanto scortese da gettarvelo in faccia; il secondo è di non affibbiare alle persone titoli ai quali non pretendono. Mi chiamate caporale, e io sono tenente. È vero che la differenza non è molta, ma...». «Tenente!», esclamò sir Thomas, «tenente! ma il padrone del­ la barca mi ha detto che eravate caporale, non meno di vostro pa­ dre e di tutti gli uomini della vostra famiglia». Nell’udire ciò, con il busto rovesciato all’indietro dall’allegria, il giovane scoppiò a ridere più di prima e con una tale forza che il padrone e i due marinai gli fecero coro. «Scusate, colonnello», riprese alla fine il giovane; «ma l’equi­ voco è portentoso, e io l’ho capito solo ora. Infatti la mia famiglia si gloria di annoverare, tra i suoi antenati, molti caporali; ma i no­ stri caporali corsi non hanno mai portato galloni sugli abiti. Era circa l’anno di grazia 1100, quando un certo numero di comuni, ribellatisi alla tirannia dei signorotti locali, si scelsero i propri ca­ 246

pi che chiamarono caporali. Nell’isola nostra, stimiamo assai onorevole discendere da quella specie di tribuni». «Vi chiedo scusa, monsieur!», esclamò il colonnello, «mille volte scusa. Poiché intendete la ragione del mio errore, spero che vorrete perdonarlo». E gli tese la mano. «La mia piccola superbia, colonnello, ha avuto il suo giusto castigo», rispose il giovane, ridendo ancora e stringendo cor­ dialmente la mano dell’Inglese. «E poiché il mio amico Matei mi ha così mal presentato, lasciate che mi presenti da me: mi chia­ mo Orso della Rebbia, tenente a mezza paga, e se venite in Cor­ sica per cacciare, come suppongo da questi due bei cani, mi sti­ merò assai lusingato di farvi gli onori delle nostre macchie e del­ le nostre montagne... purché non le abbia dimenticate», ag­ giunse con un sospiro. Il canotto si accostava proprio allora alla goletta. Il tenente of­ frì la mano a miss Lydia, aiutando poi il colonnello ad arrampi­ carsi sul ponte. Là sir Thomas, ancora confuso dall’abbaglio pre­ so e desideroso di far dimenticare la propria impertinenza a un uomo che risaliva al 1100, senza aspettare l’assenso della figlia, lo pregò di cenare con loro, con rinnovate scuse e strette di mano. Miss Lydia aggrottò un poco le sopracciglia, ma, in fondo, non le dispiaceva di aver appreso che cosa fosse un caporale; l’ospite non le tornava sgradito, cominciava persino a trovargli un non so che di aristocratico; solo che le appariva un po’ troppo schietto e gio­ viale per un eroe da romanzo. «Tenente della Rebbia», disse il colonnello salutando il giova­ ne all’uso inglese, con in mano un bicchiere di Madera, «ho visto in Spagna molti vostri compatrioti: era la famosa fanteria per Tor­ ti ine sparso e le azioni di fiancheggiamento». «Sì, molti giovani sono rimasti in Spagna», disse il tenente, se­ rio in viso. «Non dimenticherò mai il comportamento di un battaglione corso nella battaglia di Vittoria»5, continuò il colonnello. «Non potrei non ricordarmelo», aggiunse fregandosi il petto. «L’intera giornata si erano tenuti sparpagliati, a tirarci addosso dagli orti, 5 [Città dei paesi baschi spagnoli; la battaglia vi ebbe luogo il 21 giugno 1813. I fran­ cesi furono battuti dall’armata di Wellington],

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dietro le siepi, e ci avevano ucciso non so quanti uomini e caval­ li. Quando fu decisa la ritirata, si radunarono, e si misero a fuggi­ re a grande velocità. In pianura, speravamo di prenderci la nostra rivincita, ma quei mariuoli... scusate tenente, quei valorosi, dico, si erano disposti in quadrato, e non c’era verso di disperderli. In mezzo al quadrato - mi pare di vederlo anche adesso - stava un ufficiale su un cavallino nero; fermo accanto all’aquila, si fumava il suo sigaro come se fosse stato in un caffè. Ogni tanto, come per farsi beffe di noi, la loro musica ci suonava una fanfara... Io lan­ cio su di loro i miei primi due squadroni... Macché! Anziché far breccia sulla fronte del quadrato, ecco i miei dragoni che scivola­ no di lato, poi fanno dietro-front e se ne tornano in gran disordi­ ne, e più di un cavallo senza cavaliere... e sempre quella musica indiavolata! Schiaritosi il fumo che avvolgeva il battaglione, rivi­ di l’ufficiale accanto all’aquila, che fumava ancora il suo sigaro. Esasperato, mi posi io stesso alla testa di un’ultima carica. I loro fucili, sporchi per il troppo tirare, non sparavano più, ma i solda­ ti erano là, in sei ranghi, con le baionette puntate alle froge dei ca­ valli, si sarebbe detto un muro. Gridavo, esortavo i miei dragoni, stringevo gli stivaloni per sospingere il cavallo, quando l’ufficiale che vi ho detto, togliendosi finalmente il sigaro di bocca, mi in­ dicò a uno dei suoi uomini con un cenno della mano. Intesi qual­ cosa come: Al capello bianco! Avevo un pennacchio bianco. Altro non udii, perché una pallottola mi attraversò il petto. «Era un bel battaglione, monsieur della Rebbia, il primo del 18° reggimento di fanteria leggera; tutti corsi, a quanto mi fu det­ to poi». «Sì», disse Orso a cui brillavano gli occhi durante quel rac­ conto, «sostennero la ritirata e riportarono la loro aquila; ma due terzi di quei valorosi dormono oggi nella piana di Vittoria». «E sapreste, per caso, il nome dell’ufficiale che li comandava?». «Era mio padre. A quel tempo era maggiore presso il 18°, e fu promosso colonnello per il suo valore dimostrato quel triste giorno». «Vostro padre! In fede mia, era un prode! Mi piacerebbe rive­ derlo, e sono certo che lo riconoscerei. Vive ancora?». «No, colonnello», disse il giovane impallidendo un poco. «Era a Waterloo?». 248

«Sì, colonnello, ma non ha avuto la fortuna di cadere sul cam­ po di battaglia... È morto in Corsica... due anni fa... Dio mio! com’è bello questo mare! Erano dieci anni che non vedevo il Me­ diterraneo. Non trovate che il Mediterraneo sia più bello dell’o­ ceano, signorina?». «Troppo azzurro, mi sembra... e le sue onde sono poco im­ ponenti». «Amate la bellezza selvaggia, signorina? In questo caso, credo che la Corsica vi piacerà». «Mia figlia» disse il colonnello, «ama tutto ciò che è straordi­ nario; perciò non le è piaciuta affatto l’Italia». «Dell’Italia», disse Orso, «conosco soltanto Pisa, dove sono stato per un certo tempo in collegio; ma non posso pensare sen­ za ammirazione al Camposanto, al Duomo, alla Torre penden­ te... più di tutto al Camposanto... Avete presente la Morte delI’Orcagna?... Mi sembra che la potrei disegnare, tanto è rimasta impressa nella mia memoria». Miss Lydia ebbe timore che il signor tenente si ingolfasse in uno sproloquio d’entusiasmo. «È molto carino», disse sbadigliando. «Papà mio, scusatemi, mi fa male la testa; mi ritiro in cabina». Ella baciò il padre sulla fronte, fece un maestoso cenno col ca­ po a Orso e scomparve. I due uomini si misero allora a parlare di caccia e di guerra. Scoprirono che a Waterloo si erano trovati uno davanti all’al­ tro, e che dovevano essersi scambiati un mucchio di pallottole. La loro reciproca intesa ne fu raddoppiata. A vicenda criticarono Na­ poleone, Wellington e Blücher, poi cacciarono insieme il daino, il cinghiale e il muflone. Infine, dato che la notte era già inoltrata e vuota l’ultima bottiglia di Bordeaux, il colonnello strinse ancora la inano del tenente e gli augurò la buonanotte, esprimendo la spe­ ranza di coltivare una relazione allacciata in modo così bizzarro. Si lasciarono, e se ne andarono a letto entrambi. Ili

La notte era bella, la luna scherzava sulle onde, la nave sci­ volava dolcemente sul mare con il favore di un lieve venticello. 249

Miss Lydia non aveva voglia di dormire, ed era stata unicamen­ te la presenza di un profano ad impedirle di assaporare quelle emozioni che ogni essere umano prova sempre in mare e con il chiaro di luna, purché abbia in cuore un po’ di poesia. Quando ritenne che il tenente, da quell’uomo prosaico che era, riposas­ se ormai tra due guanciali, si alzò, prese una pelliccia, svegliò la cameriera e salì sul ponte. Non vi era che un marinaio al timo­ ne, il quale cantava una specie di lamento in dialetto corso, su un’aria aspra e monotona. Nella quiete notturna, quella musica strana aveva un suo fascino. Peccato che miss Lydia non affer­ rasse appieno il senso delle parole cantate dal marinaio. In mez­ zo a frequenti luoghi comuni, un verso più veemente eccitava in maniera viva la sua curiosità, ma presto, sul più bello, capitava qualche espressione in vernacolo di cui le sfuggiva il senso. Tut­ tavia, comprese che si parlava di un delitto. Le imprecazioni contro gli assassini si mescolavano confusamente alle minacce di vendetta e alle lodi del defunto. Ritenne alcuni versi, che pro­ verò a tradurre:

«... Né i cannoni, né le baionette / hanno fatto impallidire la sua fronte, / serena sul campo di battaglia / come un cielo d’esta­ te. / Era il falcone amico dell’aquila, / miele delle sabbie per gli amici / per i nemici mare in tempesta. / Più alto del sole, / più dol­ ce della luna. / Lui che i nemici di Francia / non colpirono mai, / assassini del suo paese / l’hanno colpito alle spalle, / come VittoIo uccise Sampiero Corso6. / Non osarono mai guardarlo in fac­ cia. / ...Sistemate sul muro, davanti al mio letto, / la mia croce d’onore ben guadagnata. / Rosso il nastro, / Più rossa la mia ca­ micia. / Per mio figlio, mio figlio in lontano paese, / conservate la mia croce e la mia camicia sanguinante. / Vi vedrà due buchi. / Per ciascun buco, un buco nella camicia di un altro. / Ma la mia ven­ detta sarà compiuta allora! / Voglio la mano che ha sparato, / l’oc­ chio che ha visto, / il cuore che ha pensato...».

Il marinaio tacque improvvisamente. «Perché non continuate, amico mio?», domandò miss Nevil. 6 Si veda Filippini, libro XI. Il nome di Vittolo è tuttora esecrabile per i corsi. È anco­ ra oggi sinonimo di traditore. [Sampiero Corso, eroe dell’indipendenza corsa che volle li­ berare dal dominio genovese ma fallì l’impresa].

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Il marinaio, con un cenno del capo, le indicò una persona che usciva dal gran quartiere di boccaporto della goletta: era Orso che veniva a godersi il chiaro di luna. «Su, terminate il vostro lamento», disse miss Lydia, «mi piace­ va molto». Il marinaio si chinò verso di lei e sussurrò a voce bassissima: «Io non do il rimbecco a nessuno». «Che cosa? il...?». Il marinaio, senza più rispondere, si mise a fischiare. «Vi colgo ad ammirare il nostro Mediterraneo, miss Nevil», disse Orso andandole incontro. «Riconoscete che in nessun’altra parte si vede questa luna». «Non la guardavo. Ero intenta a studiare il dialetto corso. Questo marinaio, che cantava un lamento quanto mai tragico, si è fermato sul più bello». Il marinaio si abbassò, come per leggere meglio la bussola, e diede uno strattone alla pelliccia di Miss Nevil. Era evidente che il suo lamento non si poteva cantare in presenza del tenen­ te Orso. «Che cantavi, Paolo France?» chiese Orso, «una ballata, un vocero? La signorina ti capisce e vorrebbe sentire la fine». «Non me la ricordo più, Ors’Anton’», disse il marinaio. E immediatamente intonò a voce spiegata un cantico della Madonna. Miss Lydia ascoltò distrattamente il cantico e non fece altra premura al cantore, ripromettendosi tuttavia di scoprire più tardi la soluzione dell’enigma. Ma la cameriera che pur essendo fiorentina non comprendeva meglio della sua padrona il dialetto corso, era molto desiderosa d’istruirsi; rivolgendosi a Orso in questi ter­ mini, prima che Miss Lydia facesse in tempo ad avvertirla con un colpo di gomito: Quando muore qualcuno, specie se è stato assassinato, il corpo viene posto su di un tavolo e le donne della famiglia, o in loro mancanza, amiche, o anche donne estranee no­ te per il loro talento poetico, improvvisano in versi, davanti a un numeroso auditorio, la­ menti nel dialetto del paese. Queste donne si chiamano voceratrici o, secondo la pronunI ia corsa, buceratrici, e il lamento si chiama vocero, buceru, buceratu, sulla costa orienta­ le; ballata, sulla costa opposta. La parola vocero, così come i suoi derivati, vocerar, vocecarice, vengono dal latino vociferare. Talvolta più donne improvvisano a turno e spesso , intano il lamento funebre la moglie stessa o la figlia del defunto.

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«Signor capitano», chiese, «che significa dare il rimbecco"}*». «Il rimbecco!» disse Orso, «ma è l’ingiuria più mortale che si possa fare a un corso: cioè rimproverargli di non essersi vendica­ to. Chi vi ha parlato di rimbecco?». «Ieri, a Marsiglia», rispose in fretta Miss Lydia, «il padrone della goletta adoperò questa parola». «E di chi parlava?» chiese Orso vivacemente. «Oh! ci narrava un’antica storia... del tempo di... sì, credo che si trattasse di Vannina d’Ornano?». «La morte di Vannina, lo suppongo, signorina, non vi ha ispi­ rato molta simpatia, per il nostro eroe, il prode Sampiero?». «Ma, lo giudicate veramente eroico?». «Il suo delitto trova la sua scusa nel costume selvaggio del tempo; e poi Sampiero conduceva una guerra a morte contro i Genovesi: quale fiducia avrebbero più potuto riporre in lui i suoi compatrioti, se non avesse castigato colei che cercava di trattare con Genova?». «Vannina», disse il marinaio, «era partita senza il permesso del marito; Sampiero fece bene a torcerle il collo». «Ma» replicò miss Lydia «era per salvare il marito, solo per amore di lui andava a chiedere ai Genovesi la sua grazia». «Chiedere quella grazia significava umiliarlo!» esclamò Orso. «E ucciderla con le sue mani!», proseguì miss Nevil. «Quale mostro doveva essere?». «Voi sapete che ella gli chiese come un favore di morire per mano sua. Otello, signorina, lo considerate pure un mostro?». «Che differenza! era geloso; Sampiero aveva soltanto vanità». «E la gelosia, non è forse vanità? E la vanità dell’amore, e voi la scusereste forse in considerazione del movente?». Miss Lydia gli lanciò uno sguardo pieno di dignità e, rivol­ gendosi al marinaio, gli chiese quando la goletta sarebbe giunta in porto. «Dopodomani», disse quello, «se il vento si mantiene». «Vorrei già vedere Ajaccio, poiché questa nave mi esaspera». 8 Rimbeccare, in italiano, significa ribattere, replicare, rintuzzare. Nel dialetto corso, vuol dire: rimprovero oltraggioso e pubblico. Si dà il rimbecco al figlio di un uomo assas­ sinato dicendogli che suo padre non è stato vendicato. Il rimbecco è una specie d’intima­ zione per l’uomo che non ha ancora lavato nel sangue un’ingiuria. La legge genovese pu­ niva severamente l’autore di un rimbecco...

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Si alzò, prese il braccio della cameriera e fece pochi passi sul ponte superiore. Orso rimase fermo accanto al timone, incerto se dovesse passeggiare con lei o interrompere una conversazione che sembrava importunarla. «Bella figlia, sangue della Madonna!» disse il marinaio; «se tutte le pulci del mio letto fossero come lei, non mi lamenterei di esserne morso!». Miss Lydia intese forse quell’ingenua lode della sua bellezza e se ne adombrò, perché scese quasi immediatamente nella sua ca­ bina. Poco dopo anche Orso si ritirò. Non appena quest’ultimo ebbe lasciato il ponte superiore, la cameriera risalì e, sottoposto il marinaio a un interrogatorio in piena regola, recò le seguenti informazioni alla padrona: la ballata interrotta dalla presenza di Orso era stata composta in occasione della morte del padre di lui, il colonnello della Rebbia, assassinato due anni prima. Il marinaio non aveva dubbi che Orso tornasse in Corsica per fare la vendet­ ta, queste le sue parole, e affermava che tra breve si sarebbe vista della carne fresca nel paese di Pietranera. Dalla traduzione di que­ sto modo di dire, proprio della nazione corsa, risultava che il si­ gnor Orso si proponeva di assassinare due o tre persone sospette d’aver assassinato suo padre, le quali, per la verità, erano state perseguite dalla giustizia per quella faccenda, ma ne erano venu­ te fuori candide come neve, in quanto avevano dalla loro giudici, avvocati, prefetto e gendarmi. «Non c’è giustizia in Corsica», aggiungeva il marinaio, «e io mi al fido più volentieri a un buon fucile che a un consigliere della cor­ te reale. Quando si ha un nemico, bisogna scegliere fra le tre S9». Queste interessanti notizie produssero un notevole cambia­ mento nelle maniere e nelle disposizioni di miss Lydia nei con­ fronti del tenente della Rebbia. Da quel momento, egli divenne agli occhi della romantica inglese un vero e proprio eroe. Ora quell’aria di noncuranza, quel tono di franchezza e di buon umo­ re, che dapprima l’avevano così sfavorevolmente impressionata, erano a un tratto diventati un merito in più, in quanto le appari­ vano come l’arte di perfetta dissimulazione di uno spirito virile, ehe non lascia minimamente trapelare all’esterno nessuno dei ’ Espressione nazionale, cioè: schiopetto, stiletto, strada, fucile, stiletto, fuga.

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suoi sentimenti profondi. Orso le sembrò una specie di Fieschi10, dagli ampi progetti celati sotto un’apparente leggerezza; e, per quanto l’uccisione di alcuni furfanti sia cosa meno bella della li­ berazione della patria, una bella vendetta è bella sempre; e del re­ sto le donne preferiscono un eroe che non sia uomo politico. Al­ lora soltanto miss Nevil rilevò che il giovane tenente aveva occhi veramente grandi, denti bianchi, figura elegante, una certa educa­ zione e una discreta pratica delle buone usanze. Gli rivolse spes­ so la parola il giorno seguente, e la sua conversazione la interes­ sò. Fu interrogato a lungo sul suo paese, e ne diceva bene. La Corsica, che aveva lasciato giovanissimo per andare prima in col­ legio e poi alla scuola militare, era rimasta nel suo spirito ornata di colori poetici. Si accalorava parlando delle sue montagne, del­ le sue foreste, dei costumi originali degli abitanti. Com’è facile pensare, la parola vendetta ricorse più volte nei suoi racconti, da­ to che è impossibile parlare dei corsi senza condannare o giustifi­ care la loro proverbiale passione. Orso stupì un poco miss Nevil con il disapprovare in genere gli odi inestinguibili dei suoi com­ patrioti. Nei contadini tuttavia, cercava di scusarli, e sosteneva che la vendetta è il duello dei poveri. «Tanto è vero», diceva, «che non si uccide se non dopo una regolare sfida. “Guardati, che io mi guardo”: queste sono le parole di rito che due nemici si scam­ biano prima di tendersi vicendevoli agguati. Vi sono più omicidi da noi», aggiungeva, «che in qualunque altra regione; ma non riu­ scirete mai a trovare un movente ignobile in questi delitti. Abbia­ mo, è vero, molti assassini, ma neppure un ladro». Quando pronunciava le parole di vendetta e uccisione, miss Lydia lo osservava attentamente, senza però scoprire sul viso di lui la minima traccia di emozione. E siccome aveva deciso che egli aveva la forza d’animo necessaria per rendersi impenetrabile a tutti gli sguardi, meno che ai suoi, beninteso, continuò ferma­ mente a credere che i Mani del colonnello della Rebbia non avrebbero atteso a lungo la soddisfazione che volevano. La goletta era già in vista della Corsica. Il padrone indicava i nomi dei principali luoghi della costa, e per quanto fossero igno[Nobile genovese, ordì nel 1547 un complotto contro Andrea Doria. Morì durante il massacro che aveva provocato].

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ti a miss Lydia, ella provava un certo piacere a sentirli. Nulla è più noioso di un paesaggio anonimo. Talvolta il cannocchiale del colonnello permetteva di scorgere qualche isolano, vestito di panno scuro, armato di un lungo fucile, lanciato su un piccolo cavallo che galoppava per ripide chine. Miss Lydia credeva di ve­ dere in ognuno un bandito, oppure un figlio che andava a vendi­ care la morte del padre; ma Orso l’assicurava che si trattava in­ vece di un pacifico abitante del borgo vicino, in viaggio per affa­ ri, che portava un fucile non tanto per necessità quanto per ga­ lanteria, per moda, così come un dandy non esce mai senza un elegante bastone. Sebbene un fucile non sia un’arma meno nobi­ le e meno poetica di uno stiletto, miss Lydia pensava che per un uomo era pur sempre meglio di un bastone, e si ricordò anche che tutti gli eroi di Lord Byron muoiono di qualche pallottola anziché di un classico pugnale. Dopo tre giorni di navigazione, comparvero le isole Sanguina­ rie, e il panorama del golfo di Ajaccio si dispiegò agli occhi dei nostri viaggiatori. Si ha ragione di paragonarlo alla baia di Napo­ li; e nel momento in cui la goletta entrava nel porto il fumo di una macchia che copriva la Punta di Girato'1 ricordava il Vesuvio, e ne accentuava la rassomiglianza. Solo che, perché sia completa, oc­ correrebbe che un’orda di Attila piombasse nei dintorni di Na­ poli; perché tutto è morto e deserto nei pressi di Ajaccio. Al po­ sto degli edifici eleganti che ovunque si osservano da Castellam­ mare al Capo Miseno, non si scorgono, intorno al golfo d’Ajaceio, che macchie cupe, e dietro, montagne pelate. Non una villa, non un’abitazione. Solamente, qua e là, sulle alture vicine alla città, si staccano bianche su uno sfondo verde, poche costruzioni isolate: cappelle funerarie, tombe di famiglia. Tutto, in quel pae­ saggio, è di una bellezza grave e triste. L’aspetto della città, specie in quel tempo, accresceva l’im­ pressione cagionata dalla solitudine dei dintorni. Nessun movi­ mento per le vie, se non qualche rara figura di sfaccendati, e sempre quelle. Nessuna donna, all’infuori di qualche campa­ gnola che si reca a vendere le sue merci. Non senti parlare for­ te, ridere, cantare come nelle città italiane. Talvolta, all’ombra di " [Collina che domina Ajaccio e la sua baia].

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un albero della passeggiata, una dozzina di contadini armati giocano a carte o guardano giocare. Non gridano, non litigano mai; se il gioco si riscalda, allora senti dei colpi di pistola, che sempre precedono la minaccia. Il corso è di natura serio e silen­ zioso. Di sera, qualcuno esce a godersi il fresco, ma quelli che vedi passeggiare sulla via principale sono quasi tutti stranieri. Gli isolani se ne stanno sulla loro porta; ognuno di guardia, si direbbe, come un falco sul nido.

IV

Dopo aver visitato la casa natale di Napoleone, dopo essersi procurata con mezzi più o meno leciti un po’ di carta della tap­ pezzeria, miss Lydia, due giorni dopo essere sbarcata in Corsica, si sentì pervadere da una profonda tristezza, come succede a ogni straniero che si trovi in un paese dove l’indole poco socievole de­ gli abitanti sembra condannarlo a un isolamente completo. Si pentì del suo colpo di testa; ma partire subito avrebbe voluto di­ re compromettere la sua reputazione d’intrepida viaggiatrice; miss Lydia si rassegnò dunque ad aver pazienza e ad ammazzare il tempo nel modo migliore. Con questa generosa determinazio­ ne, approntò matite e colori, schizzò alcune vedute del golfo e fe­ ce il ritratto di un contadino abbronzato che vendeva meloni co­ me un ortolano del continente, ma che aveva una barba bianca e l’aria del più feroce furfante che si potesse vedere. Non paga di ta­ le divertimento, decise di far girare la testa al discendente dei ca­ porali, e la cosa in verità non era difficile, poiché Orso, lungi dall’affrettarsi per rivedere il proprio villaggio, sembrava apprezza­ re molto Ajaccio, con tutto che non frequentasse nessuno. D’al­ tronde, miss Lydia si era proposta un nobile compito, quello di incivilire quell’orso montanaro, e farlo rinunciare alle sinistre in­ tenzioni che lo avevano ricondotto nell’isola. Da quando si era data la pena di studiarlo, si era detta che sarebbe stato un peccato lasciare che quel giovane corresse verso la propria rovina, e che per lei sarebbe stata un motivo di vanto convertire un corso. Le giornate dei nostri viaggiatori trascorrevano nel modo se­ guente: la mattina, il colonnello e Orso andavano a caccia; miss 256

Lydia disegnava o scriveva alle amiche, se non altro che per data­ re le sue lettere da Ajaccio. Verso le sei, gli uomini tornavano ca­ richi di selvaggina; si cenava, miss Lydia cantava, il colonnello si appisolava e i giovani rimanevano a conversare fino a tardi. Non so quale formalità riguardo al passaporto avesse costret­ to il colonnello Nevil a fare una visita al prefetto; questi, che si annoiava molto, come la maggior parte dei suoi colleghi, era an­ dato in visibilio alla notizia dell’arrivo di un inglese, ricco, uomo di mondo e padre di una bella figlia; perciò lo aveva accolto in modo perfetto e colmato di offerte di servigi; pochissimi giorni dopo, gli restituì la visita. Il colonnello, che si era appena alzato da tavola, se ne stava comodamente disteso sul divano, quasi im­ merso nel sonno; la figlia cantava davanti a un pianoforte sgan­ gherato; Orso voltava le pagine della musica e guardava le spalle e i capelli biondi della virtuosa. Annunziarono il signor prefetto; il pianoforte ammutolì, il colonnello si alzò, si strofinò gli occhi e presentò il prefetto alla figlia: «Non vi presento monsieur della Rebbia», disse, «poiché cer­ tamente lo conoscete». «Monsieur è il figlio del colonnello della Rebbia?», chiese il prefetto con aria lievemente turbata. «Sì, signore» rispose Orso. «Ho avuto l’onore di conoscere il vostro signor padre». I soliti convenevoli si esaurirono presto. Suo magrado, il co­ lonnello sbadigliava con una certa frequenza; essendo un liberale, Orso non voleva parlare con un satellite del potere; miss Lydia sosteneva da sola la conversazione. Da parte sua, il prefetto non la lasciava languire, ed era evidente che provava un vivo piacere a parlare di Parigi e del bel mondo con una donna che conosceva il lior fiore della società europea. Ogni tanto, continuando a parla­ re, guardava Orso con una singolare curiosità. «Avete conosciuto monsieur della Rebbia sul continente?», domandò a miss Lydia. Miss Lydia rispose alquanto impacciata che aveva fatto la sua conoscenza sulla nave che li aveva portati in Corsica. «È un giovane molto dabbene», disse il prefetto a mezza voce. L vi ha detto», continuò in tono ancora più basso, «con quali in­ tenzioni ritorna in Corsica?». 257

Miss Lydia assunse la sua aria maestosa: «Non gliel’ho chiesto», disse; «potete interrogarlo». Il prefetto rimase in silenzio; ma poco dopo, udendo Orso che rivolgeva qualche parola in inglese al colonnello: «Avete molto viaggiato, signore», disse, «a quanto pare. Do­ vete aver dimenticato la Corsica... e le sue usanze...». «È vero, ero molto giovane quando l’ho lasciata». «Appartenete ancora all’esercito?». «Sono a mezza paga, signore». «Siete stato troppo a lungo nell’esercito francese per non esse­ re diventato, non ne dubito, francese in tutto e per tutto, signore». Pronunciò queste ultime parole con enfasi marcata. Non si lusingano eccessivamente i corsi che per ricordare lo­ ro che appartengono alla grande nazione. Vogliono essere un po­ polo a sé, e giustificano abbastanza bene tale pretesa per non es­ sere contrariati su questo punto. Orso, un po’ stizzito, replicò: «Credete voi, signor prefetto, che un corso, per essere uomo d’onore, abbia bisogno di servire nell’esercito francese?». «No, di certo», disse il prefetto, «non è affatto il mio pensie­ ro: parlo soltanto di certe manie di questo paese, di cui alcune non sono quelle che a un prefetto piacerebbe vedere». Calcò sulla parola usanze, e prese l’aria più grave che il suo vi­ so potesse prendere. Subito dopo si alzò e uscì, con la promessa che miss Lydia avrebbe fatto una visita alla moglie in prefettura. Quando se ne fu andato: «Ci voleva», disse miss Lydia, «che venissi in Corsica per sa­ pere che uomo sia un prefetto. Questo mi sembra una persona piuttosto garbata». «Per quanto mi riguarda», disse Orso, «non potrei dirne al­ trettanto, e lo trovo davvero strano con quell’aria enfatica e mi­ steriosa». Il colonnello era più che appisolato; miss Lydia diede un’oc­ chiata dalla sua parte e abbassando la voce: «E io, io trovo», disse, «che non è così misterioso come vole­ te pretendere, perché credo di averlo capito». «Senza dubbio, voi siete di fine intuito, miss Nevil; e, se tro­ vate un’ombra di spirito in ciò che ha detto, è tutto merito vo­ stro». 258

«È una frase del marchese de Mascarille12, signor della Rebbia, ini pare; ma... volete che vi dia una prova della mia perspicacia? lo sono un po’ maga, so quello che pensano le persone dopo averle viste due volte». «Dio mio, mi spaventate. Se voi sapete leggere nei miei pen­ sieri, non so se dovrò esserne lieto o affliggermene...». «Signor della Rebbia», proseguì miss Lydia arrossendo, «ci conosciamo da pochi giorni; ma in mare, e nei paesi barbari, - voi ini perdonerete, lo spero... - nei paesi barbari si diventa amici più in fretta che non in società... Perciò non stupitevi se io vi parlo come amica di cose certo un po’ intime, nelle quali forse un’e­ stranea non dovrebbe immischiarsi». «Oh! non dite questa parola, miss Nevil; l’altra mi piaceva as­ sai di più». «Ebbene signore, devo dirvi che pur non avendo cercato af­ fatto di sapere i vostri segreti, mi trovo a conoscerli in parte, e ve n’è qualcuno che mi addolora. Conosco, signore, la disgrazia che ha colpito la vostra famiglia; mi hanno molto parlato dell’indole vendicativa dei vostri compatrioti e del modo di vendicarsi... Non è a questo che il prefetto faceva allusione?». «Miss Lydia, come può pensare!...». E Orso, si fece pallido come un cadavere. «No, signor della Rebbia», disse lei interrompendolo; «so che voi siete un gentiluomo pieno di onore. Voi stesso mi avete detto che nel vostro paese il popolino soltanto pratica tuttora la 'ven­ detta... che a voi piace definire come una forma di duello...». «Mi credereste dunque capace di diventare mai un assassino?». «Dal momento che vi parlo di queste cose, monsieur Orso, i (imprendete perfettamente che io non dubito di voi, e se vi ho par­ lato», proseguì chinando gli occhi, «è perché ho capito che, torna­ lo nel vostro paese e circondato forse da barbari pregiudizi, vi avrebbe confortato sapere che c’è qualcuno che vi stima per il vo­ stro coraggio a resistervi. Via», disse alzandosi, «non parliamo più di queste brutte cose: mi fanno male alla testa e poi è molto tardi. Non me ne volete? Buona sera, all’inglese». E gli tese la mano. [Molière, Les Précieuses ridicules, scena IX; in realtà è Cathos che dice a Mascarille: • Pour voir chez nous le mérite, il faut que vous l’y ayez amené»].

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Orso la strinse con aria grave e commossa. «Signorina», disse, «sapete che ci sono dei momenti in cui l’i­ stinto del paese si risveglia in me? Talvolta, quando sogno il mio povero papà,... allora orrendi pensieri mi assillano. Grazie a voi, me ne sono liberato per sempre. Grazie, grazie!». Stava per continuare, ma miss Lydia fece cadere un cucchiaino da tè e il rumore destò il colonnello. «Della Rebbia, domani alle cinque, a caccia! Siate puntuale». «Sì, mio colonnello».

V

Il giorno seguente, poco prima del ritorno dei cacciatori, miss Nevil, rientrando da una passeggiata in riva al mare, stava rag­ giungendo l’albergo in compagnia della cameriera quando notò una giovane donna vestita di nero, la quale entrava in città su di un cavallo piccolo ma vigoroso. Era seguita da una specie di con­ tadino, anche lui a cavallo, con una giubba di panno scuro buca­ ta ai gomiti, una borraccia a tracolla, una pistola agganciata alla cintura; in mano un fucile il cui calcio stava in una tasca di cuoio che pendeva dall’arcione della sella; insomma, la perfetta tenuta da brigante del melodramma o da borghese corso in viaggio. La notevole bellezza della donna attirò l’attenzione di miss Nevil. Questa dimostrava una ventina d’anni. Era alta, di carnagione bianca, con gli occhi di un azzurro cupo, la bocca rosea, i denti smaglianti. Sul suo viso si riflettevano a un tempo orgoglio, in­ quietudine e tristezza. Sul capo portava quel velo di seta nera, detto mezzaro, che i Genovesi hanno introdotto in Corsica e che tanto si addice alle donne. Lunghe trecce di capelli castani forma­ vano come un turbante attorno alla fronte. Il suo costume era de­ coroso, ma della più grande semplicità. Miss Nevil ebbe tutto il tempo di osservarla, poiché la signo­ ra dal mezzaro si era fermata nella via a interrogare qualcuno con molto interesse, come appariva dall’espressione dei suoi occhi; poi, quand’ebbe avuto la risposta che desiderava, diede un colpo di verghetta alla bestia e, cavalcando di buon trotto, non si fermò più che davanti alla porta della locanda ove erano alloggiati sir 260

Thomas Nevil e Orso. Là, dopo aver scambiato poche parole con Toste, la giovane saltò svelta a terra dal cavallo e si mise a sedere su una panca di pietra accanto al portone, mentre il suo scudiero conduceva i cavalli nella stalla. Miss Lydia passò davanti alla stra­ niera nel suo vestito parigino, senza che lei alzasse neppure lo sguardo. Un quarto d’ora dopo, aprendo la finestra, ella vide an­ cora la signora dal mezzaro seduta nello stesso posto, nella stessa posa. Ben presto apparvero il colonnello e Orso, di ritorno dalla caccia. Allora Toste disse qualcosa alla signorina in lutto, e le ad­ ditò il giovane della Rebbia. Lei arrossì, si alzò con vivacità, fece qualche passo avanti, e poi si fermò, immobile e come smarrita. Vicinissimo a lei, Orso la guardava con curiosità. «Siete voi», disse con voce commossa, «Orso Antonio della Rebbia? Io sono Colomba». «Colomba!», esclamò Orso. E stringendola fra le braccia, la baciò teneramente, cosa che un poco stupì il colonnello e la figlia, poiché in Inghilterra non usa baciarsi in strada. «Fratello mio», disse Colomba, «mi perdonerete di essere ve­ nuta senza vostro comando; ma dai nostri amici ho saputo del vo­ stro arrivo, e vedervi era per me un tale conforto...». Orso la baciò di nuovo; poi, rivolgendosi al colonnello: «Questa è mia sorella», disse, «non l’avrei mai riconosciuta se non mi avesse detto il suo nome. - Colomba, il colonnello sir Thomas Nevil. - Colonnello, vorrete tanto scusarmi, ma oggi non potrò avere l’onore di cenare con voi... Mia sorella...». «Eh! dove diavolo intendete cenare, mio caro?», esclamò il co­ lonnello; «sapete bene che preparano una sola cena in questa ma­ ledetta osteria, ed è per noi. La signorina arrecherà un grande pia­ cere a mia figlia, stando con noi». Colomba guardò il fratello, il quale non si fece troppo pregare, e tutti insieme entrarono nella stanza più grande della locanda, che al colonnello serviva da salotto e da sala da pranzo. La signorina tirila Rebbia, presentata a miss Nevil, le fece una profonda rive­ renza, ma non aprì bocca. Si vedeva che era sbigottita e che, forse per la prima volta in vita sua, si trovava in presenza di stranieri del­ la buona società. Tuttavia, non c’era niente nei suoi modi che fa­ ceva sentire la provincia. La sua stranezza la salvava da ogni gof­ 261

faggine. Per ciò stesso piacque a miss Nevil; e siccome non vi era­ no altre camere disponibili nell’albergo che il colonnello aveva in­ teramente occupato con il suo seguito, miss Lydia spinse la sua condiscendenza, o la sua curiosità, fino a offrire alla signorina del­ la Rebbia di farle preparare un letto nella sua camera. Colomba balbettò poche parole di ringraziamento e si affrettò a seguire la cameriera di miss Nevil, per aggiustare il proprio ab­ bigliamento quel tanto che è necessario dopo un viaggio fatto a cavallo fra la polvere e il sole. Rientrando nel salotto, si soffermò davanti ai fucili del colon­ nello che i cacciatori avevano appena deposti in un angolo. «Che belle armi!», disse; «sono vostre, fratello mio?». «No, sono fucili inglesi del colonnello. E sono buoni quanto belli». «Mi piacerebbe molto», disse Colomba «che ne aveste uno si­ mile». «In mezzo a quei tre, ce n’è certamente uno che appartiene a della Rebbia», esclamò il colonnello. «Li maneggia troppo bene. Oggi, quattordici colpi sparati, quattordici pezzi di selvaggina!». Subito si aprì una gara di generosità, nella quale Orso fu vin­ to, con grande soddisfazione della sorella, com’era facile accor­ gersi dall’espressione di gioia infantile che improvvisamente bril­ lò sul suo viso, poco prima tanto serio. «Scegliete, mio caro» diceva il colonnello. Orso rifiutava. «Ebbene! la signorina vostra sorella sceglierà per voi». Colomba non se lo fece dire due volte: prese, tra i fucili, il me­ no ornato, ma era un ottimo Manton di grosso calibro. «Questo» disse, «deve portare bene la pallottola». Il fratello si imbarazzava in ringraziamenti, quando il pranzo giunse molto a proposito a trarlo d’impaccio. Miss Lydia provò gusto nel vedere che Colomba, la quale aveva resistito un poco prima di mettersi a tavola e non aveva ceduto che per uno sguar­ do del fratello, da buona cattolica si faceva il segno della croce prima di mangiare. «Bene», si disse, «ecco qualcosa di primitivo». E in cuor suo si ripromise di fare delle osservazioni interes­ santi su quel giovane esempio dei costumi antichi di Corsica.

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Dal canto suo, Orso era visibilmente un poco a disagio, nel ti­ more, senza dubbio, che la sorella dicesse o facesse qualcosa di gusto troppo paesano. Ma Colomba non cessava di osservarlo e su di lui regolava i movimenti suoi. Talora lo guardava fisso con una strana espressione di tristezza; e allora, se gli occhi di Orso incontravano i suoi, lui era il primo a distogliere lo sguardo, co­ me se avesse voluto sfuggire a una domanda che la sorella gli ri­ volgeva mentalmente e che lui comprendeva fin troppo bene. Si parlava in francese, perché il colonnello si spiegava molto male in italiano. Colomba capiva il francese, e anzi pronunciava ab­ bastanza bene le rare parole che era costretta a scambiare con i suoi ospiti. Dopo la cena, il colonnello, cui non era sfuggita quell’ombra di soggezione tra fratello e sorella, chiese a Orso con la sua fran­ chezza consueta se non desiderasse parlare da solo con la signo­ rina Colomba, proponendo in tal caso di ritirarsi con la figlia nel­ la stanza attigua. Ma Orso si affrettò a ringraziarlo e a dire che avrebbero avuto tutto il tempo di discorrere a Pietranera. Questo era il nome del paese che ora sarebbe stato la sua residenza. Il colonnello prese dunque il suo solito posto sul divano, e miss Nevil, dopo aver tentato vari argomenti di conversazione, disperando all’idea di far parlare la bella Colomba, pregò Orso di leggere un canto di Dante: era il suo poeta preferito. Orso scelse il canto àe\\’ Inferno dove si trova l’episodio di Francesca da Ri­ mini, e cominciò a leggere, scandendo del suo meglio le sublimi terzine che esprimono così bene il pericolo di leggere in due un libro d’amore. Man mano che egli leggeva, Colomba si avvicina­ va al tavolo, sollevava la testa, china sino ad ora; le pupille dilata­ te brillavano di un fuoco straordinario: ora arrossiva, ora impal­ lidiva, si muoveva convulsamente sulla sedia. Ammirevole natura italiana che, per intendere la poesia, non ha bisogno di un pedan­ te che gliene spieghi le bellezze! Quando la lettura fu terminata: «Com’è bello!» esclamò. «Chi l’ha fatto, fratello mio?». Orso rimase un po’ sconcertato e miss Lydia rispose sorriden­ do che era un poeta fiorentino morto da parecchi secoli. «Ti farò leggere Dante», disse Orso, «quando saremo a Pie­ tranera». 263

«Mio Dio, com’è bello!», ripeteva Colomba: e recitò tre o quattro terzine che aveva ritenute, prima sottovoce; poi, animan­ dosi, le declamò con espressione persino più sentita di quella in cui le aveva lette il fratello. Miss Lydia, assai meravigliata: «Dimostrate di amare molto la poesia» disse. «Come invidio la felicità che proverete leggendo Dante come un autore nuovo». «Voi vedete, miss Nevil», diceva Orso, «quale potere hanno i versi di Dante, per commuovere così una piccola selvaggia che conosce appena il suo Pater... Ma io m’inganno; ora mi ricordo che Colomba è del mestiere. Ancora bambina, si sbizzarriva a comporre versi, e mio padre mi scriveva che era la più grande voceratrice di Pietranera e di due leghe all’intorno». Colomba rivolse al fratello uno sguardo supplichevole. Pur­ troppo miss Nevil aveva inteso parlare delle improvvisatrici cor­ se e moriva dalla voglia di sentirne una. Così si affrettò a pregare Colomba di darle un saggio del suo talento. Orso, vivamente pentito di essersi ricordato così a sproposito dell’attitudine poe­ tica della sorella, cercò allora di evitarle il fastidio. Ma invano giurò che nulla è più sciatto di una ballata corsa, e invano prote­ stò che recitare versi corsi dopo quelli di Dante era come tradire la sua terra, non fece che stuzzicare il capriccio di miss Nevil, e si vide costretto alla fine di dire alla sorella: «E sia, improvvisa qualcosa, ma che sia breve!». Colomba emise un sospiro, per un istante, guardò pensosa il tappeto del tavolo, poi le travi del soffitto; quindi, coprendosi con una mano gli occhi, come quegli uccelli che riprendono fiducia e credono di non essere visti quando essi stessi non vedono, cantò, o meglio salmodiò con voce malferma la serenata che leggeremo:

La ragazzina e la Colomba

Nella vallata, ben oltre dietro le montagne, / il sole non arriva che un’ora al giorno; / nella vallata c’è una casa scura, / e l’erba cre­ sce sulla soglia. / Porte, finestre sono sempre chiuse. / Nessun fu­ mo esce dal tetto. / Ma a mezzogiorno, quando arriva il sole, / al­ lora si apre una finestra, / e l’orfana si siede, filando il suo arcolaio: / fila e canta lavorando / un canto di tristezza; / ma nessun altro canto risponde al suo. / Un giorno, un giorno di primavera, / una 264

colomba si posò su un albero vicino, / e intese il canto della ra­ gazzina. / Ragazzina, le disse, non piangi da sola / un credele spar­ viero ha rapito il mio compagno. / Colomba, mostrami lo spar­ viero rapitore; / fu così alto fra le nuvole, / io l’avrei presto abbat­ tuto in terra. / Ma a me, povera ragazza, chi mi renderà mio fra­ tello, / mio fratello ora in un paese straniero? / Ragazzina, dimmi, dov’è tuo fratello, / e le mie ali mi porteranno da lui.

«Ecco una colomba bene educata!», esclamò Orso baciando la sorella con un’emozione che contrastava con il tono di scherzo che ostentava. «La vostra canzone è deliziosa», disse miss Lydia. «Voglio che me la scriviate nel mio album. La tradurrò in inglese e la farò mu­ sicare». L’ottimo colonnello, che non aveva capito un’acca, unì i suoi complimenti a quelli della figlia. Poi aggiunse: «La colomba di cui parlate, signorina, è forse quell’uccello che abbiamo mangiato oggi alla griglia?». Miss Nevil portò il suo album e non fu meravigliata nel vede­ re che l’improwisatrice copiava la canzone risparmiando la carta in modo curioso. Anziché presentarsi isolati uno dall’altro, i ver­ si si seguivano senza distacco, su tutta la larghezza del foglio, co­ si da non corrispondere più alla nota definizione dei componi­ menti poetici: «Brevi righe, di misura disuguale, con un margine da ogni lato». Ci sarebbe stata ancora da fare qualche osservazio­ ne circa l’ortografia un po’ capricciosa della signorina Colomba, che, più di, fece sorridere miss Nevil, mentre la vanità fraterna di Orso soffriva le pene dell’inferno. Giunta l’ora di andare a letto, le due giovani si ritirarono nel­ la loro camera. Là, mentre miss Lydia si toglieva collana, orecchi­ ni, braccialetti, osservò la sua compagna che sfilava dal vestito un oggetto lungo come una stecca del busto, ma di forma diversa. Colomba lo pose con cura e quasi furtivamente sotto il suo mez­ zana, deposto su una tavola; poi si inginocchiò e recitò la sua pre­ ghiera con devozione. Due minuti dopo era a letto. Di natura molto curiosa e, da buona inglese, lenta nello svestirsi, miss Lydia si avvicinò alla tavola e, fingendo di cercare una spilla, sollevò il mezzaro e vide uno stiletto alquanto lungo, con un curioso ma265

nico d’argento e madreperla; il lavoro era stimabile ed era un’ar­ ma antica e di gran pregio per un amatore. «Da queste parti», disse miss Nevil sorridendo, «usa forse che le signorine portino questo aggeggio nel busto?». «È necessario», rispose con un sospiro Colomba. «C’è tanta gente malvagia!». «E avreste davvero il coraggio di darne un colpo così?». E nel dire questo miss Nevil, con lo stiletto in pugno, faceva l’atto di colpire, come si usa sulla scena, dall’alto in basso. «Sì, se fosse necessario», rispose Colomba con la sua voce dol­ ce e musicale, «per difendermi o difendere i miei amici... Ma non dovete tenerlo così; vi potreste ferire se la persona che desiderate colpire si ritraesse». E alzandosi a sedere sul letto spiegò: «Guar­ date, è così, il colpo, dal basso in alto. Allora è mortale, dicono. Fortunati coloro che non hanno bisogno di tali armi!». Sospirò, abbandonò il capo sul guanciale, chiuse gli occhi. Una testa più bella, più nobile, più virginea, non si sarebbe potu­ ta vedere. Fidia, per scolpire la sua Minerva, non avrebbe deside­ rato altro modello.

VI

È per attenermi al precetto di Orazio che mi sono lanciato su­ bito in médias res. Ora che tutto dorme, e la bella Colomba, e il colonnello, e la figlia, approfitterò di questo momento per istrui­ re il mio lettore su alcuni particolari che non deve ignorare, se de­ sidera meglio addentrarsi in questa veridica storia. Egli sa già che il colonnello della Rebbia, padre di Orso, è morto assassinato; ora, in Corsica non si è assassinati come in Francia dal primo avanzo di galera che non trovi un mezzo migliore per derubarvi della vostra argenteria: si è assassinati dai propri nemici; ma il motivo per cui si hanno dei nemici è spesso molto difficile da di­ re. Un gran numero di famiglie si odiano per antica abitudine, e la tradizione della ragione prima della loro inimicizia si è perdu­ ta completamente. La famiglia alla quale apparteneva il colonnello della Rebbia ne odiava parecchie altre, ma in modo particolare quella dei Bar-

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ricini; alcuni asserivano che nel XVI secolo, un della Rebbia aves­ se sedotto una Barricini e fosse stato pugnalato, in seguito, da un parente della ragazza oltraggiata. Altri, in verità, narravano la fac­ cenda in modo diverso, pretendendo che la ragazza sedotta fosse stata una della Rebbia, e l’uomo pugnalato un Barricini. Fatto sta che, per usare un’espressione di rito, vi era del sangue tra le due casate. Quell’uccisione, tuttavia, contro ogni consuetudine, non ne aveva provocato altre; e ciò perché i della Rebbia e i Barricini erano stati ugualmente perseguitati dal governo genovese, ed es­ sendo i giovani espatriati, le due famiglie furono private, per mol­ te generazioni, dei loro più energici rappresentanti. Alla fine del­ l’ultimo secolo, un della Rebbia, ufficiale al servizio di Napoli, trovandosi in una bisca, ebbe una lite con alcuni militari, i quali, tra altre ingiurie, lo chiamarono capraio corso; mise mano alla spada, ma, solo, contro tre, non l’avrebbe passata liscia se un fo­ restiero che giocava nello stesso luogo, non si fosse messo a escla­ mare: «Sono corso anch’io!» e non avesse preso le sue difese. Quel forestiero era un Barricini, il quale d’altronde non conosce­ va il suo conterraneo. Quando giunsero alle spiegazioni, da una parte e dall’altra, si scambiarono grandi cortesie e giuramenti di eterna amicizia; perché in continente i corsi legano con facilità. Succede invece perfettamente il contrario nella loro isola, e ben si vide anche allora. Della Rebbia e Barricini furono amici intimi finché rimasero in Italia; ma, tornati in Corsica, si videro solo di rado, sebbene abitassero entrambi nello stesso paese, e quando morirono si disse che non si fossero parlati almeno da cinque o sei anni. Anche i loro figli vissero in etichetta, come si dice nell’i­ sola. Uno, Ghilfuccio, il padre di Orso, fu militare; l’altro, Giu­ dice Barricini, fu avvocato. Divenuti entrambi capi famiglia e di­ visi nella loro professione, non ebbero quasi più occasione di ve­ dersi o di sentir parlare l’uno dell’altro. Nondimeno, un giorno verso il 1809, nel leggere su un gior­ nale, a Bastia, che il capitano Ghilfuccio era stato decorato, Giu­ dice dichiarò in presenza di testimoni di non stupirsene, poiché il generale“'*“' proteggeva la famiglia. Quella parola giunse all’orec­ chio di Ghilfuccio, allora a Vienna, il quale disse a un compatrio­ ta che al suo ritorno in Corsica avrebbe trovato Giudice molto ricco, poiché le cause perdute gli fruttavano più delle vinte. Non 267

si è mai saputo se insinuasse così, che l’avvocato tradiva i clienti, oppure se non si limitasse a ripetere questa verità triviale che un uomo di legge guadagna più nel condurre avanti un cattivo affa­ re che una buona causa. Comunque sia, l’avvocato Barricini ven­ ne a sapere dell’epigramma e non lo dimenticò. Nel 1812, aspira­ va a essere nominato sindaco nel suo comune e aveva tutte le spe­ ranze di riuscirvi, quando il generale'“'·“'”· scrisse al prefetto per raccomandargli un parente della moglie di Ghilfuccio. Il prefetto si affrettò ad uniformarsi ai desideri del generale e Barricini non ebbe il minimo dubbio di dovere la propria delusione agli intri­ ghi di Ghilfuccio. Dopo la caduta dell’imperatore, nel 1814, il protetto del generale fu denunciato come bonapartista e sostitui­ to da Barricini. A sua volta, quest’ultimo fu destituito nei Cento Giorni”; ma, dopo quella tempesta, riprese possesso in pompa magna del sigillo del comune e dei registri dello stato civile. Da quel momento la sua stella divenne più brillante che mai. Il colonnello della Rebbia, collocato a metà paga e ritirato a Pie­ tranera, dovette sostenere contro di lui una sorda guerra di per­ petui cavilli: ora lo si citava per il risarcimento di danni prodotti dal suo cavallo nei recinti del signor sindaco; ora questi, con il pretesto di restaurare il pavimento della chiesa, faceva rimuovere una lapide spezzata che copriva, sotto lo stemma gentilizio, la tomba di qualche membro della famiglia della Rebbia. Se le capre mangiavano le piantine del colonnello, i padroni di quelle bestie erano protetti dal sindaco; successivamente, il droghiere che te­ neva l’ufficio postale di Pietranera, e la guardia campestre, vec­ chio soldato mutilato, entrambi clienti dei della Rebbia, furono destituiti e rimpiazzati da creature dei Barricini. La moglie del colonnello morì esprimendo il desiderio di es­ sere sepolta nel mezzo di un piccolo bosco dove le era sempre piaciuto passeggiare; ma il sindaco dichiarò che sarebbe stata inumata nel cimitero comunale, dato che non aveva ricevuto il permesso di concedere una sepoltura isolata. Il colonnello furi­ bondo dichiarò che, nell’attesa di quel permesso, la moglie sa­ rebbe stata seppellita nel luogo che aveva scelto e vi fece scavare una fossa. Da parte sua, il sindaco ne fece fare una nel cimitero, 15 [Dal 20 marzo all’8 luglio 1815].

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c mandò la gendarmeria, affinché, diceva, l’ultima parola spet­ tasse alla legge. Il giorno dei funerali, le due famiglie si trovaro­ no di fronte e, a un certo momento, ci fu da temere che non si azzuffassero per il possesso dei resti della signora della Rebbia. Una quarantina di contadini ben armati, guidati dai parenti del­ la defunta, costrinsero il curato, all’uscita della chiesa, a diriger­ si per la via del bosco; dall’altra parte, il sindaco, con i suoi due figli, i suoi clienti e i gendarmi si presentò per opporsi. Quando apparve, e intimò al corteo funebre di retrocedere, fu accolto da urla e minacce; gli avversari erano in numero superiore e sem­ bravano decisi. Alla vista del sindaco, molti fucili furono carica­ ti; si narra persino che un pastore avesse già puntato l’arma con­ tro di lui; ma il colonnello alzò il fucile, dicendo: «Nessuno spa­ ri senza mio ordine!». Il sindaco «temeva per natura i colpi», co­ me Panurge14 e rifiutando la battaglia, si ritirò con la sua scorta: allora la processione funebre si mosse, avendo cura di prendere la strada più lunga, per passare davanti al municipio. Durante la sfilata, un idiota che si era unito al corteo, si azzardò a gridare vi­ va l’Imperatore! Gli risposero due o tre voci, e i rebbianisti, più e più scaldandosi, proposero di uccidere un bue del sindaco che, per caso, ostacolava loro la via. Per fortuna il colonnello impedì quella violenza. Come ben s’intende, l’accaduto fu messo a verbale e il sinda­ co fece al prefetto un rapporto nel suo stile più solenne, nel qua­ le gli mostrava come a Pietranera si calpestassero le leggi umane e divine, misconosciute e insultate, la maestà di lui, sindaco, e quel­ la del curato, mentre il colonnello della Rebbia, ponendosi a ca­ po di un complotto bonapartista per cambiare l’ordine della suc­ cessione al trono, sobillava i cittadini ad armarsi gli uni contro gli altri; tutti reati previsti agli articoli 86 e 91 del codice penale. Nocque alla denuncia la sua stessa esagerazione. Il colonnello scrisse al prefetto, al procuratore del re: un parente di sua moglie era parente di uno dei deputati dell’isola, un altro cugino del pre­ sidente della Corte reale. Grazie a queste protezioni, il complot­ to svanì, la signora della Rebbia rimase nel bosco, e solo l’idiota fu condannato a quindici giorni di prigione. 14 [Compagno e amico di Pantagruel: F. Rabelais, Gargantua et Pantagruel, ni libro].

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L’avvocato Barricini, insoddisfatto dell’esito di quella faccen­ da, volse altrove le sue batterie. Esumò un vecchio documento, in forza del quale si mise a contestare al colonnello la proprietà di un certo corso d’acqua che faceva girare un mulino. Ne seguì un processo che durò a lungo. In capo a un anno, la corte stava per emettere un giudizio favorevole, secondo tutte le apparenze, al colonnello, quando il signor Barricini consegnò nelle mani del procuratore del re una lettera firmata da un certo Agostini, cele­ bre bandito, il quale minacciava proprio lui, il sindaco, d’incen­ dio e di morte se non avesse desistito dalle sue pretese. È risapu­ to che in Corsica la protezione dei banditi è molto desiderata e che, per far piacere agli amici, questi si intromettono spesso nelle liti private. Il sindaco si giovava di quella lettera, quando un nuo­ vo incidente venne a complicare la questione. Il bandito Agosti­ ni scrisse al procuratore del re, dolendosi che qualcuno avesse contraffatto la sua scrittura, e gettato sospetti sul suo carattere col farlo apparire come uomo che facesse traffico della propria in­ fluenza: «Se scopro il falsario», diceva nella chiusa della lettera, «lo castigherò in modo esemplare». Era chiaro che Agostini non aveva scritto la lettera minatoria al sindaco; i della Rebbia ne accusavano i Barricini e viceversa. Da ambo le parti tuonavano minacce, e la giustizia non sapeva dove andare a trovare i colpevoli. In quei frangenti il colonnello Ghilfuccio fu assassinato. Ecco i fatti così come furono ricostruiti dalla giustizia: il 2 agosto 18**, all’imbrunire, donna Maddalena Pietri che portava del pane a Pie­ tranera, udì due colpi d’arma da fuoco consecutivi, tirati, a quan­ to le sembrava, a un crocicchio che conduceva al paese, a circa centocinquanta passi da dove si trovava. Subito dopo vide un uo­ mo che correva, abbassandosi, per un sentiero fra i vigneti, e si di­ rigeva verso il paese. Quell’uomo si fermò un attimo e si voltò; ma la distanza impedì a donna Pietri di distinguerne i lineamenti. Costui teneva d’altronde in bocca una foglia di vite che gli na­ scondeva quasi tutto il viso. Fece con la mano un cenno a un compagno che la testimone non vide, poi scomparve nelle vigne. Donna Pietri, lasciato il fardello, volò di corsa su per il sen­ tiero e trovò il colonnello della Rebbia immerso nel proprio san­ gue, ferito da due colpi d’arma da fuoco, ma che respirava anco­ 270

ra. Accanto c’era il suo fucile caricato e armato, come se si fosse messo in difesa contro una persona che lo attaccava di fronte, mentre un’altra lo colpiva alle spalle. Rantolava e si dibatteva contro la morte, ma non poteva articolare parola, fatto che i me­ dici spiegarono con la natura delle ferite, che avevano trapassato il polmone. Il sangue lo soffocava; colava lento e come una schiuma rossa. Invano donna Pietri lo sollevò e gli rivolse qual­ che domanda. Ella vedeva bene che voleva parlare, ma non riu­ sciva a farsi comprendere. Accortasi che cercava di mettersi la mano in tasca, ella si affrettò a trarne fuori un taccuino che gli presentò aperto. Il ferito prese la matita del taccuino e tentò di scrivere. Difatti, la testimone lo vide tracciare a stento molte let­ tere; ma, non sapendo leggere, non riuscì a capirne il significato. Sfinito da tale sforzo, il colonnello lasciò il taccuino nelle mani di donna Pietri, che strinse con forza guardandola con aria stra­ na, come se volesse dirle, sono parole della testimone: «È im­ portante; è il nome del mio assassino». Donna Pietri saliva verso il paese, quando s’imbatté nel signor Barricini con suo figlio Vincentello. In quel momento era quasi notte. Narrò ciò che aveva visto. Il sindaco prese il taccuino e cor­ se al municipio per cingere la sciarpa e chiamare il segretario e i gendarmi. Rimasta sola con il giovane Vincentello, Maddalena Pietri gli propose di andare in soccorso del colonnello, nel caso fosse stato ancora vivo; ma Vincentello rispose che, se si fosse av­ vicinato a un uomo che era stato accanito nemico della sua fami­ glia, lo avrebbero senz’altro accusato di averlo ucciso. Poco dopo giunse il sindaco, trovò il colonnello morto, fece rimuovere il ca­ davere e stese il verbale. Nonostante il suo turbamento, naturale in quella occasione, il signor Barricini si era affrettato a porre sotto sigilli il taccuino del colonnello e ad eseguire tutte le indagini in suo potere; ma nessu­ na condusse a qualche importante scoperta. Quando arrivò il giu­ dice istruttore, fu aperto il taccuino e sopra una pagina macchia­ ta di sangue si videro pochi caratteri tracciati con mano tituban­ te, ben leggibili tuttavia. Vi era scritto: Agosti..., e il giudice non dubitò che il colonnello avesse voluto indicare Agostini come il suo uccisore. Intanto, Colomba della Rebbia, chiamata dal giudi­ ce, chiese di esaminare il taccuino. Dopo averlo sfogliato a lungo, 271

tese la mano verso il sindaco, e gridò: «Ecco l’assassino!». Allora, con una precisione e una chiarezza sorprendenti nell’impeto del dolore in cui era immersa, narrò che suo padre, ricevuta pochi giorni prima una lettera dal figlio, l’aveva bruciata, ma che prima di farlo, aveva scritto a matita, nel proprio taccuino, l’indirizzo di Orso, che aveva cambiato guarnigione. Ora, quell’indirizzo non si trovava più nel taccuino, e Colomba concludeva che il sindaco avesse strappato la pagina su cui era scritto, che avrebbe dovuto essere la stessa su cui il padre aveva tracciato il nome dell’ucciso­ re e a quel nome il sindaco, secondo Colomba, avrebbe sostitui­ to quello di Agostini. Il giudice vide in effetti che un foglio man­ cava dal quaderno su cui era scritto il nome; ma poi notò che mancavano anche altri fogli da altri quaderni dello stesso taccui­ no e taluni testimoni dichiararono che il colonnello aveva l’abitu­ dine di strappare a quel modo delle pagine dal taccuino quando voleva accendere un sigaro; nulla di più probabile dunque che l’indirizzo che aveva copiato fosse stato bruciato da lui inavverti­ tamente. Inoltre fu accertato che il sindaco, dopo aver ricevuto il taccuino di donna Pietri, non avrebbe potuto leggervi per il buio; fu provato che non si era fermato un solo istante prima di entra­ re al municipio, che il brigadiere dei gendarmi che l’aveva accom­ pagnato, l’aveva visto accendere una lampada, mettere il taccuino in una busta e nasconderlo sotto i suoi occhi. Quando il brigadiere ebbe terminato la sua deposizione, Co­ lomba, fuori di sé, si gettò ai suoi piedi e lo supplicò, per tutto quello che aveva di più sacro, di giurare che non aveva lasciato so­ lo il sindaco nemmeno per un attimo. Il brigadiere, dopo una bre­ ve titubanza, visibilmente turbato dall’esaltazione della giovane, confessò che era andato a cercare in una stanza vicina un foglio grande di carta, ma che non era rimasto fuori che un minuto e che il sindaco non aveva mai smesso di parlare mentre lui cercava a ta­ stoni la carta in un cassetto. Del resto, attestava che al suo ritor­ no il taccuino insanguinato era ancora allo stesso posto, sul tavo­ lo dove il sindaco lo aveva gettato entrando. Il signor Barricini depose con la massima calma. Scusava, di­ ceva, l’agitazione della signorina della Rebbia, e perciò acconsen­ tiva a difendersi. Provò che era rimasto in paese tutta la sera; che il figlio Vincentello era con lui davanti al municipio nel momen272

to del delitto; infine che suo figlio, Orlanduccio, colto da febbre quello stesso giorno, non si era mosso dal letto. Esibì tutti i fuci­ li della casa, nessuno dei quali era stato adoperato di recente. Ag­ giunse che per quanto concerneva il taccuino, ne aveva subito ca­ pito l’importanza; che lo aveva posto sotto sigilli e l’aveva conse­ gnato nelle mani del suo aggiunto, in previsione di essere sospet­ tato a causa della sua inimicizia con il colonnello. Quindi ricordò che Agostini aveva minacciato di morte colui che aveva scritto una certa lettera in suo nome e insinuò che quel miserabile, aven­ do sospettato presumibilmente il colonnello, lo avesse assassina­ to. Nei costumi dei banditi non mancano esempi di vendette del genere, per motivi analoghi. Cinque giorni dopo la morte del colonnello della Rebbia, Agostini, sorpreso da un distaccamento di volteggiatori, fu ucci­ so, dopo essersi battuto come un disperato. Su di lui fu trovata una lettera di Colomba che lo scongiurava di dichiarare se fosse oppure no colpevole dell’uccisione che gli imputavano. Dato che il bandito non aveva risposto, i più ne conclusero che non aveva avuto il coraggio di dire a una figlia di averle ucciso il padre. Tut­ tavia, coloro che pretendevano di conoscere bene il carattere di Agostini, dicevano a bassa voce che, se avesse ucciso il colonnel­ lo, se ne sarebbe vantato. Un altro bandito, noto con il nome di Brandolaccio, rilasciò a Colomba una dichiarazione con la quale attestava, sul proprio onore, l’innocenza del compagno; ma la so­ la prova che addusse era che Agostini non gli aveva mai detto di sospettare il colonnello. In conclusione, i Barricini non furono indagati; il giudice istruttore coprì di elogi il sindaco e questi coronò degnamente la sua bella condotta rinunciando a ogni ulteriore pretesa sul ru­ scello per cui era stato in lite con il colonnello della Rebbia. Davanti al cadavere del padre, Colomba improvvisò, all’uso del paese, una ballata in presenza di tutti gli amici. Ella vi effuse tutto l’odio contro i Barricini e li accusò formalmente dell’assassi­ nio, li minacciò anche della vendetta del fratello. Ed era la ballata, ormai popolarissima, che il marinaio aveva cantato davanti a miss I ,ydia. Avuta la notizia della morte del padre, Orso, allora nel nord della Francia, chiese una licenza, ma non riuscì a ottenerla. A tut­ ta prima, su di una lettera della sorella, aveva creduto i Barricini 273

colpevoli, ma presto ricevette copia di tutti gli atti dell’istruttoria e una lettera personale del giudice quasi lo convinse che il solo col­ pevole era il bandito Agostini. Ogni tre mesi Colomba gli scrive­ va per ribadirgli i suoi sospetti, che ella chiamava prove. Suo mal­ grado, quelle accuse gli facevano ribollire il suo sangue corso, e a volte non era lontano dal condividere i pregiudizi della sorella. Però, ogni qualvolta le scriveva, le ripeteva che le sue supposizio­ ni non avevano alcun solido fondamento e non meritavano credi­ to. Le vietava persino, ma sempre inutilmente, di parlargliene an­ cora. Trascorsero così due anni, in capo ai quali fu collocato a mezza paga, e allora pensò di rivedere il suo paese, non già per vendicarsi di persone che credeva innocenti, ma per far sposare la sorella e vendere le sue piccole proprietà, se avessero avuto abba­ stanza valore da permettergli di vivere sul continente. VII

Sia che l’arrivo della sorella avesse ridestato più vivo in Orso il ricordo del tetto paterno, sia che egli un poco soffrisse davanti ai suoi amici più urbani, per i costumi e i modi primitivi di Co­ lomba, annunziò fin dal giorno dopo il suo proposito di lasciare Ajaccio e tornare a Pietranera. Tuttavia fece promettere al colon­ nello di venire a pernottare nella sua umile casa quando si sareb­ be recato a Bastia, e in cambio si impegnava a fargli cacciare dai­ ni, fagiani, cinghiali e tutto il resto. La vigilia della partenza, invece di andare a caccia, Orso pro­ pose una passeggiata sulla riva del golfo. Dando il braccio a miss Lydia poteva parlare liberamente, poiché Colomba era rimasta in città per fare qualche spesa e il colonnello li lasciava spesso soli per sparare ai gabbiani e alle sule, con viva sorpresa dei pas­ santi, che non capivano come si potesse sprecare polvere per una simile selvaggina. Seguivano la via che porta alla cappella dei Greci, da cui si go­ de la più bella veduta della baia; ma non vi prestavano alcuna at­ tenzione. «Miss Lydia...» disse Orso dopo un silenzio abbastanza pro­ lungato da diventare imbarazzante, «sinceramente, che cosa pen­ sate di mia sorella?». 274

«Mi piace molto», rispose miss Lydia. «Più di voi», aggiunse sorridendo, «perché è veramente corsa, mentre voi siete un sel­ vaggio troppo incivilito». «Troppo incivilito!... Ebbene! mio malgrado, mi sento ritor­ nare selvaggio da quando ho messo piede in quest’isola. Mille atroci pensieri mi agitano, mi tormentano... e sentivo il bisogno di discorrere un po’ con voi prima di inoltrarmi nel mio deserto». «Bisogna avere coraggio, signore; guardate la rassegnazione di vostra sorella, vi dà il buon esempio». «Ah! disingannatevi. Non crediate alla sua rassegnazione. Non mi ha detto ancora neppure una parola, ma ho letto in ogni suo sguardo ciò che aspetta da me». «Che vuole, dunque, da voi?». «Oh! nulla... soltanto che io provi se il fucile del vostro signor padre è altrettanto buono per l’uomo come per la pernice». «Che idea! E voi potete supporre questo! dopo che avete or ora riconosciuto che non vi ha detto ancora nulla. Ma è spaven­ toso da parte vostra». «Se non pensasse alla vendetta, mi avrebbe prima di tutto par­ lato di nostro padre; non lo ha fatto. Avrebbe pronunciato il no­ me di coloro che considera... a torto, lo so, come gli assassini. E invece no, neanche una parola. Vedete, è che noi altri corsi siamo una razza astuta. Mia sorella capisce che non mi tiene compietamente in suo potere, e non vuole spaventarmi finché posso anco­ ra sfuggirle. Una volta che mi avrà condotto sull’orlo del precipi­ zio, quando la testa mi girerà, mi spingerà nell’abisso». Allora Orso narrò a miss Nevil alcuni particolari sulla morte del padre, e ricordò le principali prove che concorrevano a fargli ravvisare in Agostini l’uccisore del padre. «Nulla», aggiunse, «ha potuto convincere Colomba. L’ho vi­ sto dalla sua ultima lettera. Ha giurato la morte dei Barricini; e ... miss Nevil, vedete quanta fiducia ho in voi, forse non sarebbero più di questo mondo se, per effetto di uno di quei pregiudizi giu­ stificati dalla sua educazione selvaggia, mia sorella non fosse con­ vinta che la vendetta spetta a me, nella mia qualità di capo fami­ glia, e che il mio onore vi è impegnato». «In verità, signor della Rebbia», disse Miss Nevil, «calunniate vostra sorella». 275

«No, lo avete detto voi stessa... è corsa..., pensa come tutti gli altri. Sapete perché ero così triste ieri?». «No, ma da qualche tempo andate soggetto a questi accessi di malinconia... Eravate più amabile nei primi giorni della nostra conoscenza». «Ieri, invece, ero più allegro, più felice del solito. Vi avevo vi­ sto così buona, così indulgente verso mia sorella!... Tornavamo in barca, il colonnello e io. Sapete che cosa mi ha detto uno dei marinai, nel suo gergo infernale: “Avete ammazzato molta sel­ vaggina, Ors’Anton’, ma troverete Orlanduccio Barricini mag­ gior cacciatore di voi”». «Ebbene, che c’è di così terribile in queste parole? Avete dun­ que tanta pretesa di essere un esperto cacciatore?». «Ma non capite che quel disgraziato diceva che io non avrò il coraggio di uccidere Orlanduccio?». «Sapete, signor della Rebbia, voi mi fate paura. Sembra che l’a­ ria della vostra isola non dia soltanto la febbre, ma renda anche pazzi. Fortunatamente per noi la lasceremo presto». «Non prima di essere stati a Pietranera. Lo avete promesso a mia sorella». «E se noi non manteniamo la promessa, dovremo senza dub­ bio aspettarci qualche vendetta?». «Vi ricordate ciò che il vostro signor padre ci raccontava ieri l’altro, a proposito di quegli Indiani che minacciano i governato­ ri della Compagnia di lasciarsi morire di fame se non acconsen­ tono alle loro richieste?». «Cioè, vi lascerete morire di fame? Ne dubito. Rimarreste un giorno senza mangiare, e poi la signorina Colomba vi porterebbe un bruccio'^ così appetitoso che rinuncereste al vostro proposito». «Siete così crudele nel deridermi, miss Nevil; mi dovreste usa­ re qualche indulgenza. Ecco, io sono solo qui. Non avevo che voi per trattenermi dal diventare pazzo, come voi dite; eravate il mio angelo custode, e ora...». «Ora», disse miss Lydia in tono serio, «possedete, per soste­ nere quella ragione così pronta a vacillare, il vostro onore d’uo15 Tipo di formaggio.

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mo e di militare, e...», continuò volgendosi a cogliere un fiore, «se questo può avere qualche effetto su di voi, il ricordo del vo­ stro angelo custode». «Ah! miss Nevil, se io potessi pensare che voi realmente v’in­ teressate un poco...». «Ascoltate, signor della Rebbia», disse Miss Nevil un po’ commossa, «dato che siete un bambino, vi tratterò come tale. Quando ero piccola, mia madre mi diede una bella collana, che io desideravo ardentemente; però mi disse: “Ogni volta che ti metterai questa collana, ricordati che tu non sai ancora il fran­ cese”. La collana perse ai miei occhi un po’ del suo pregio. Era diventata per me come un rimorso; ma la portai e seppi il fran­ cese. Vedete questo anello? È uno scarabeo egiziano trovato nientemeno che in una piramide. Questo segno strano, che voi scambiate forse per una bottiglia, raffigura la vita umana. Vi è gente nel mio paese che troverebbe il geroglifico assai appro­ priato. Questo segno che viene dopo, è uno scudo con un brac­ cio che regge una lancia: ciò vuol dire combattimento, battaglia. Quindi, l’insieme di questi due caratteri compone un motto, che io trovo abbastanza bello: La vita è una battaglia. Non abbiate da credere che io traduca i geroglifici correntemente; è un sag­ gio in us'b che me l’ha spiegato. Prendete, vi cedo il mio scara­ beo. Quando avrete qualche brutto pensiero corso, guardate il mio talismano e dite a voi stesso che è necessario uscire vincito­ ri dal conflitto mossoci dalle cattive passioni. Ma, in verità, non predico male». «Penserò a voi, miss Nevil, e dirò a me stesso...». «Ditevi che avete un’amica che sarebbe desolata... di... saper­ vi impiccato. Ciò d’altronde addolorerebbe troppo i signori ca­ porali, vostri antenati». A queste parole, lasciò ridendo il braccio di Orso e correndo verso suo padre: «Papà», disse, «lasciate quei poveri uccelli, e venite con noi a lare un po’ di poesia nella grotta di Napoleone». “ [L’edizione francese riporta a questo proposito i seguenti versi di Toulet che aveva letto Colomba: «Le microbe Botulinus / Fut en ses exercises/ Découvert au sein des sau­ cisses / Par un Alboche en us» (p. 810)].

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vin C’è sempre un che di solenne in ogni distacco, anche quando ci si lascia per breve tempo. Orso doveva partire con la sorella molto presto, e si era accomiatato da miss Lydia la sera prima, poiché non sperava che lei volesse fare per lui uno strappo alla sua pigrizia. Il loro saluto era stato freddo e serio. Dopo la conversa­ zione avuta sulla riva del mare, miss Lydia temeva di aver mo­ strato a Orso un interessamento forse troppo vivo e Orso, da parte sua, si sentiva ancora ferito nel cuore dai suoi motteggi e so­ prattutto dal suo tono frivolo. Per un momento, gli era sembrato di scorgere nei modi dell’inglesina un sentimento di affetto na­ scente; ora, sconcertato da quel fare canzonatorio, si diceva di non essere per lei nulla più che una semplice conoscenza, che pre­ sto avrebbe dimenticato. Grande fu dunque la sua sorpresa quan­ do quella mattina, seduto a prendere il caffè con il colonnello, vi­ de entrare miss Lydia seguita da sua sorella. Si era alzata alle cin­ que, e per un’inglese, in particolare per miss Nevil, lo sforzo era abbastanza grande perché suscitasse in lui una certa vanità. «Sono desolato che vi siate disturbata così di buon’ora», disse Orso. «Dev’essere stata mia sorella senza dubbio a svegliarvi, no­ nostante le mie raccomandazioni, e penso che ci manderete al dia­ volo. Sbaglio, o mi vorreste sapere già impiccato"}». «No», disse miss Lydia con voce bassissima e in italiano, evi­ dentemente per non essere compresa dal padre. «Ma ieri mi ave­ te tenuto il broncio per i miei scherzi innocenti, e io non ho vo­ luto lasciarvi partire con un cattivo ricordo di quest’umile serva vostra. Che gente terribile siete, voi altri corsi! Arrivederci dun­ que; a presto, spero». Ella gli porse la mano. Orso non seppe rispondere che con un sospiro. Colomba gli si avvicinò, lo trascinò nel vano di una finestra, e mostrandogli un oggetto che teneva nascosto sotto il mezzaro, gli parlò un mo­ mento sottovoce. «Mia sorella», disse Orso a miss Nevil, «vi vuol fare, signori­ na, un dono alquanto singolare; ma noi altri corsi non abbiamo gran che da offrire..., tranne il nostro affetto..., che il tempo non cancella. Ma mia sorella mi dice che avete guardato questo stilet278

to con curiosità. È un cimelio di famiglia. Probabilmente in tem­ pi antichi pendeva dalla cintura di uno di quei caporali cui devo l’onore della vostra conoscenza. Colomba lo stima un oggetto tanto prezioso che mi ha chiesto il permesso di donarvelo, e io non so se devo accondiscenderle, perché ho paura che vi burlere­ te di noi». «Quello stiletto è delizioso», disse miss Lydia; «ma è un’arma di famiglia; non posso accettarlo». «Non è lo stiletto di mio padre», esclamò vivamente Colom­ ba. «È stato donato a un bisavolo di mia madre dal re Teodoro17. Se la signorina lo gradisce, ci farà molto piacere». «Guardate, miss Lydia», disse Orso; «non disdegnate lo stilet­ to di un re». Per un amatore, le reliquie del re Teodoro sono infinitamente più preziose di quelle del più potente monarca. La tentazione era forte, e miss Lydia già pregustava l’effetto che quell’arma avreb­ be prodotto posata su un tavolo laccato nel suo appartamento londinese di St. James’s Place. «Ma», disse prendendo lo stiletto con l’esitazione di chi avrebbe pur voglia di accettare, e rivolgendo a Colomba il suo sorriso più grazioso, «cara signorina Colomba..., io non pos­ so..., non oserei lasciarvi andare via così disarmata». «Mio fratello è con me», disse Colomba fieramente, «e abbia­ mo il buon fucile che vostro padre ci ha donato. Lo avete carica­ to a palla, Orso?». Miss Nevil si tenne lo stiletto, e Colomba per scongiurare il pericolo cui si va incontro nel regalare armi da taglio o da punta ai propri amici, pretese un soldo in pagamento. Alla fine bisognò partire. Orso strinse ancora una volta la inano di miss Nevil; Colomba la baciò, quindi porse le sue lab­ bra di rosa al colonnello, pieno di stupore per il galateo corso. 1 falla finestra del salotto, miss Lydia vide fratello e sorella mon­ tare a cavallo. Gli occhi di Colomba brillavano di una gioia ma­ ligna che non aveva scorto finora. Quella donna alta e forte, fa­ natica nelle sue idee di onore barbaro, con l’orgoglio in fronte, le labbra incurvate in un sorriso sardonico, che si trascinava ap'' [Barone Teodoro di Neuhoff (1690-1756), acclamato re dei corsi nel 1736].

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presso quel giovane armato come per una sinistra spedizione, le ricordò i timori di Orso, e le sembrò di vedere il cattivo genio di lui che lo conduceva alla perdizione. Orso, già in sella, alzò il capo e la vide. Sia che indovinasse il suo pensiero, sia che voles­ se dirle un’ultima volta addio, prese l’anello egiziano che aveva appeso a un cordoncino e se lo portò alle labbra. Miss Lydia, ar­ rossendo, si ritrasse dalla finestra; poi, quasi subito, riaffacciata­ si, vide i due corsi allontanarsi velocemente al galoppo dei loro cavallini, in direzione delle montagne. Mezz’ora dopo, il colon­ nello, armato di cannocchiale, glieli indicò che costeggiavano l’arco estremo del golfo, ed ella vide che Orso volgeva spesso il viso verso la città. Poi scomparve dietro le paludi che oggi han­ no ceduto il posto a un bel vivaio. Miss Lydia, guardandosi allo specchio, si trovò pallida. «Che penserà di me quel giovane?» si disse, «e che penso io di lui? e perché ci penso?... Una conoscenza di viaggio!... Che co­ sa sono venuta a fare in Corsica?... Oh! non lo amo affatto... No, no; d’altronde è impossibile... E Colomba... Io, la cognata di una voceratrice! che porta un grande stiletto!». Ed ella si accorse di tenere i mano quello del re Teodoro. Lo gettò sul tavolino del lavabo. «Colomba a Londra, che balla da Almack’s18... Che leone''1 da esibire, gran Dio!... Potrebbe furoreggiare... Egli mi ama, ne sono certa... E un eroe da romanzo del quale ho interrotto la carriera avventurosa... Ma aveva proprio voglia di vendicare il padre all’uso corso?... Era una via di mezzo tra un Conrad20 e un dandy... Ne ho fatto un puro dandy, e un dandy vestito da corso!...». Si buttò sul letto e volle dormire, ma le fu impossibile; e io non mi proverò a riferire il seguito di quel monologo, nel quale si dis­ se più di un centinaio di volte che il signor della Rebbia non era stato, non era e non sarebbe mai stato nulla per lei. " [Almack’s Assembly Rooom: (per anagramma del fondatore, lo scozzese William Mac Cali, valletto di camera del duca di Hamilton) sala di riunione aperta in King Street verso il 1763, dove l’aristocrazia dava balli e feste]. ” A quel tempo, in Inghilterra, si dava questo nome alle persone alla moda che si fa­ cevano notare per qualcosa di straordinario. 20 [Nome dell’eroe del romanzo II corsaro (1814) di Byron].

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IX

Orso, intanto, proseguiva per la sua strada con la sorella. L’an­ datura veloce dei cavalli non permise loro, da principio, di par­ larsi; ma, quando le salite troppo erte li costringevano ad avanza­ re al passo, scambiavano qualche parola sugli amici che avevano appena lasciato. Colomba parlava con entusiasmo della bellezza di miss Nevil, dei suoi capelli biondi, dei suoi modi aggraziati. Poi chiedeva se il colonnello era ricco come sembrava, se la si­ gnorina Lydia era figlia unica. «Dev’essere un buon partito», diceva. «Da quel che sembra il padre ha molta amicizia per voi...». E siccome Orso non le dava nessuna risposta, aggiungeva: «Anticamente, la nostra famiglia è stata ricca, e anche oggi è tra le famiglie più considerate dell’isola. Tutti quei signori1' sono ba­ stardi. Non vi è più nobiltà che nelle famiglie caporalizie, e voi sa­ pete, Orso, che discendete dai primi caporali dell’isola. Sapete che la nostra famiglia viene da di là dei monti22, e sono state le guerre civili che ci hanno costretto a trasferirci da questa parte. Se io fos­ si nei vostri panni, Orso, non esiterei, chiederei miss Nevil al pa­ dre... (Orso alzò le spalle). Con la dote comprerei il bosco della I alsetta e le vigne sotto la nostra tenuta; costruirei una bella casa in pietra tagliata, e alzerei di un piano la vecchia torre dove Sambucuccio ha ucciso tanti Mori al tempo di Arrigo il bel Missere23». «Colomba, tu sei pazza», rispose Orso galoppando. «Voi siete uomo, Ors’Anton’, e sapete certo meglio di una donna ciò che dovete fare. Ma vorrei proprio sapere che obiezio­ ne potrebbe trovare quell’inglese a una unione con la nostra fa­ miglia. Vi sono caporali in Inghilterra?...». Dopo aver camminato alquanto, fra discorsi del genere, fratel­ lo e sorella giunsero a un paesello poco distante da Bocognano24, 21 Si chiamano signori i discendenti dei signori feudali della Corsica. Tra le famiglie dei •ignori e quelle dei caporali c’è rivalità per quanto riguarda la nobiltà. 22 Cioè la costa orientale. Questa espressione molto usata, di là dei monti, cambia di significato a seconda della posizione di chi la utilizza. La Corsica è divisa da nord a sud da una catena di montagne. 22 Si veda Filippini, lib. Il: Il conte Arrigo bel Missere morì verso l’anno 1000; si dice che alla sua morte si udì una voce nell’aria che cantava queste profetiche parole: «£ mor­ to il conte Arrigo bel Missere ! E Corsica sarà di male in peggio». 24 [Al centro dell’isola, 30 chilometri a nord est di Ajaccio],

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dove sostarono per cenare e pernottare da un amico di famiglia. Furono accolti con quell’ospitalità corsa che non può essere ap­ prezzata se non da chi l’ha conosciuta. Il giorno dopo, colui che li aveva ospitati, che era stato compare della signora della Rebbia, li accompagnò fino a una lega dalla sua casa. «Vedete quei boschi e quelle macchie?», disse a Orso nell’accomiatarsi da lui, «un uomo che avesse fatto un guaio vi potreb­ be vivere dieci anni in pace senza essere ricercato da gendarmi o volteggiatori. I boschi confinano con la foresta di Vizzavona25, e quando si hanno amici a Bocognano o nei dintorni, non manca loro niente. Avete lì un bel fucile, sembra di buona portata. San­ gue della Madonna! che calibro! Con quello si può uccidere qual­ cosa di meglio che cinghiali». Orso rispose freddamente che il fucile era inglese e portava il piombo assai lontano. Si abbracciarono, e ognuno continuò per la sua strada. I nostri viaggiatori erano giunti ormai nelle vicinanze di Pietra­ nera, quando all’imbocco di una gola che dovevano attraversare scorsero sette o otto uomini armati di fucile, gli uni seduti su delle pietre, gli altri distesi sull’erba, qualche altro in piedi, come fosse di sentinella. Poco discosto pascolavano i loro cavalli. Colomba li esa­ minò un momento con un cannocchiale, che tirò fuori da uno di quei grandi zaini di pelle che i corsi portano in viaggio. «Sono i nostri uomini!», esclamò con aria contenta. «Pieruccio ha bene adempiuto la sua incombenza». «Quali uomini?» chiese Orso. «I nostri pastori», rispose lei. «L’altra sera ho mandato Pieruccio a radunare quella buona gente per accompagnarvi fino a casa vostra. Non sarebbe decoroso per voi entrare a Pietranera senza scorta, e d’altronde dovete sapere che i Barricini sono ca­ paci di tutto». «Colomba», disse Orso in tono severo, «ti avevo spesso pre­ gato di non parlarmi più dei Barricini né dei tuoi sospetti senza fondamento. Non mi renderò certamente così ridicolo da torna­ re a casa mia con quella banda di fannulloni, e sono assai scon­ tento che tu li abbia riuniti senza avermi avvisato». 25 [Dieci chilometri a nord di Bocognano, sulla strada per Corte].

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«Fratello mio, avete dimenticato il vostro paese. Tocca a me assicurarvi una difesa, quando vi esponete con la vostra impru­ denza. Dovevo fare quel che ho fatto». In quel momento, i pastori, accortisi del loro arrivo, corsero ai cavalli e vennero giù al galoppo per incontrarli. «Evviva Ors’ Anton’!», gridò un vecchio robusto, dalla barba bianca, vestito nonostante il caldo di un gabbano con cappuccio di panno corso, più pesante del vello delle sue capre. «È il vero ri­ tratto di suo padre, solo più alto e più forte. Che bel fucile! Si par­ lerà di questo fucile, Ors’ Anton’!». «Evviva Ors’Anton’!», ripeterono in coro tutti i pastori. «Lo sapevamo che alla fine sareste tornato!». «Ah! Ors’Anton’», diceva un grande gagliardo dal viso color mattone, «che gioia proverebbe vostro padre se fosse qui a rice­ vervi! Che brava persona! Lo vedreste qui in carne e ossa se so­ lo avesse voluto darmi retta, se mi avesse lasciato sistemare Γai­ tare di Giudice... pover’uomo! Non volle credermi; ora sa che avevo ragione». «Bene!», riprese il vecchio, «Giudice non avrà perso nulla ad aspettare». «Evviva Ors’Anton’!». E una dozzina di colpi di fucile accompagnarono quell’accla­ mazione. Orso, di pessimo umore in mezzo a quel gruppo di uomini a < avallo che parlavano tutti allo stesso tempo e si accalcavano per stringergli la mano, rimase per qualche momento nell’impossibi­ lità di farsi ascoltare. Poi, assumendo l’aspetto che gli era consue­ to quando, di fronte al suo plotone di soldati, distribuiva i rim­ proveri e i giorni di consegna: «Amici miei», disse, «vi ringrazio dell’affetto che mi dimo­ strate, di quello che aveste per mio padre; ma voglio, pretendo che nessuno mi dia consigli. So io ciò che devo fare». «Ha ragione, ha ragione!», esclamarono i pastori. «Sapete be­ ne che potete contare su di noi». «Sì, ci conto: ma ora non ho bisogno di nessuno, e nessun pe­ ricolo minaccia la mia casa. Cominciate con il fare dietro front, e andate a badare alle vostre capre. Conosco la strada di Pietrane­ ra, e non mi occorrono guide».

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«Non abbiate timore di nulla, Ors’Anton’», disse il vecchio; «quelli oggi non oserebbero mostrarsi. Il topo rientra nella tana quando torna il gatto». «Gatto sarai tu, vecchia barba bianca!», disse Orso. «Come ti chiami?». «Eh, come! non mi conoscete, Ors’ Anton’? io che tanto spes­ so vi ho portato in groppa sul mio mulo che morde! Non cono­ scete Polo Griffo? Un brav’uomo, vedete, corpo e anima dei del­ la Rebbia. Dite una parola, e quando il vostro fucilone parlerà, questo vecchio moschetto, vecchio come il suo padrone, non se ne starà muto. Contateci, Ors’Anton’». «Bene, bene; ma per tutti i diavoli! andatevene e lasciateci pro­ seguire». Finalmente i pastori si allontanarono, dirigendosi di gran trot­ to verso il paese; ma di quando in quando, su tutti i punti più ele­ vati della strada, si fermavano come per accertarsi che non vi fos­ se nessuna imboscata, e tenendosi sempre assai vicini a Orso e al­ la sorella, per soccorrerli, in caso di necessità. E il vecchio Polo Griffo diceva ai suoi compagni: «Lo capisco! lo capisco! Non dice quello che vuole fare, ma lo fa. È il vero ritratto di suo padre. Bene! Di’ pure che non ce l’hai con nessuno! ti sei votato a santa Nega26. Bravo! Io non darei un fico per la pelle del sindaco. Prima di un mese, non se ne potrà più fare un otre». In tal modo preceduto da quel manipolo di esploratori, il discendente dei della Rebbia entrò nel suo paese e raggiunse il vecchio maniero dei caporali suoi antenati. I rebbianisti, a lun­ go rimasti senza capo, gli erano venuti incontro in massa, e gli abitanti del paese che si mantenevano neutrali si erano tutti af­ facciati sull’uscio per vederli passare. I barracinisti se ne stava­ no chiusi nelle loro case e guardavano dalle fessure delle loro. Il borgo di Pietranera è di costruzione assai irregolare, come tutti i paesi corsi; perché per vedere una via d’aspetto cittadino, bisogna andare a Cargese27, paese costruito dal signor di Mar“ Questa santa non si trova nel calendario. Votarsi a santa Nega, significa negare per partito preso. 27 [Sulla costa ovest dell’isola, a una trentina di chilometri a nord ovest di Ajaccio].

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beuf28. Le abitazioni, disposte a caso e senza il minimo allinea­ mento, occupano la sommità di un piccolo poggio, o meglio di un ripiano della montagna. Verso il centro del borgo si innalza una grande quercia verde, e accanto si vede un mastello in granito, do­ ve un cannello di legno porta l’acqua di una vicina sorgente. Que­ sto monumento di pubblica utilità venne costruito, a spese con­ giunte, dai Della Rebbia e dai Barricini; ma molti si ingannereb­ bero a volervi scorgere l’indizio dell’antica concordia delle due tamiglie. Esso, al contrario, non è che un’opera della loro gelosia, il colonnello della Rebbia avendo una volta inviato al consiglio municipale del suo comune una piccola somma di denaro per contribuire all’erezione di una fontana, l’avvocato Barricini si era affrettato a offrire un dono simile, ed è a tale duello di generosità che Pietranera deve l’acqua. Attorno alla quercia verde c’è uno spazio vuoto che si chiama la piazza, dove gli oziosi si riuniscono la sera. Talora vi giocano a carte, e una volta l’anno, a carnevale, vi ballano. Alle due estre­ mità della piazza s’innalzano due fabbricati più alti che larghi, di granito e schisto. Sono le torri nemiche dei della Rebbia e dei Barricini. La loro architettura è uniforme, l’altezza è la stessa, e si ca­ pisce che la rivalità delle due famiglie si è mantenuta costante, senza che la fortuna decidesse mai tra le due. È forse opportuno chiarire che cosa si deve intendere con la parola torre. È una costruzione quadrata, alta circa quaranta piedi, che in un altro paese si chiamerebbe semplicemente pic­ cionaia. La porta stretta si apre a otto piedi da terra, e vi si ac­ cede per una scala assai erta. Al di sopra della porta c’è una fi­ nestra con una specie di balcone forato nella parte inferiore co­ me una piombatoia, che permette di accoppare senza rischi un visitatore indiscreto. Tra la finestra e la porta, due stemmi roz­ zamente scolpiti. Uno recava anticamente la croce di Genova; ma oggi, tutto martellato, non è più intellegibile che per gli an­ tiquari. Sull’altro stemma sono scolpite le armi gentilizie della I amiglia che possiede la torre. Aggiungete, per completare la de­ corazione, alcune tracce di pallottole sugli stemmi e sugli stipi[Il marchese de Marbeuf (1712-1786) fu il primo governatore francese della Corsi. .1, dopo la cessione dell’isola da parte dei Genovesi (1768)].

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ti della finestra, e potrete farvi un’idea di un maniero del me­ dioevo in Corsica. Ho dimenticato di dire che i locali d’abita­ zione sono attigui alla torre e spesso con questa collegati per mezzo di un passaggio interno. La torre e la casa dei della Rebbia occupano il lato nord della piazza di Pietranera; la torre e la casa dei Barricini il lato sud. Dal­ la torre del nord fino alla fontana, è il luogo di passeggio dei del­ la Rebbia, quello dei Barricini è dal lato opposto. Dal funerale della moglie del colonnello, mai si era visto un membro delle due famiglie comparire se non sul lato della piazza assegnatogli per una specie di tacita convenzione. Per evitare un giro più lungo, Orso stava per passare davanti alla casa del sindaco, quando la so­ rella lo avvertì e lo invitò a prendere una stradina che li avrebbe condotti a casa loro senza attraversare la piazza. «Perché scomodarsi?», disse Orso; «la piazza non è di tutti?». E spronò il cavallo. «Cuore ardito!», disse Colomba sottovoce. «Padre mio, sarai vendicato!». Nel giungere in piazza, Colomba si pose tra la casa dei Barri­ cini e il fratello, tenendo sempre gli sguardi ben fissi alle finestre dei nemici. Notò che queste erano state barricate da poco, e mu­ nite di archere. Si chiamano archere certe strette aperture, disposte a guisa di feritoie tra i grossi ceppi con cui si sbarra la parte inferiore di una finestra. Quando si teme un qualche attacco, ci si barrica in que­ sto modo, e si può, al riparo dei trochi di legno, sparare al coper­ to sugli gli assalitori. «I vigliacchi!», disse Colomba. «Guardate, fratello mio, co­ minciano già a guardarsi: si barricano! ma dovranno uscire, un giorno!». La presenza di Orso sul lato sud della piazza destò una viva im­ pressione a Pietranera, e fu considerata come una prova di audacia confinante con la temeriarietà. Ai neutrali raccolti quella sera at­ torno alla quercia verde, fornì materia di commenti senza fine. «È fortunato», dicevano, «che i giovani Barricini non siano ancora ritornati, perché non hanno lo spirito di sopportazione dell’avvocato, e forse non avrebbero lasciato passare il nemico sul loro terreno senza fargli scontare la bravata». 286

«Ricordatevi di quanto sto per dirvi, vicino», aggiunse un vec­ chio che era l’oracolo del borgo. «Ho osservato oggi la faccia di Colomba, ha qualcosa in mente. Sento polvere nell’aria. Fra bre­ ve, ci sarà carne di macello a buon mercato a Pietranera».

X

Separato giovanissimo da suo padre, Orso non aveva avuto tempo di conoscerlo. Aveva lasciato Pietranera a quindici anni per andare a studiare a Pisa, e di là era entrato alla scuola milita­ re, mentre Ghilfuccio scorrazzava per l’Europa con le aquile im­ periali. Sul continente, Orso l’aveva visto assai di rado, e solo nel 1815 si era trovato nel reggimento che il padre comandava. Ma il colonnello, inflessibile in fatto di disciplina, trattava il figlio come tutti gli altri giovani ufficiali, e cioè con molta severità. I ricordi che Orso ne aveva conservato erano di due tipi. Lo ricordava a Pietranera, quando gli affidava la sciabola, gli lasciava scaricare il fucile al ritorno dalla caccia, oppure come nel giorno in cui lo fe­ ce sedere per la prima volta, ancora bambino, al desco familiare. Poi si rappresentava il colonnello della Rebbia, quando lo mette­ va agli arresti per qualche sventataggine, e non lo chiamava mai che «tenente della Rebbia»: «Tenente della Rebbia, non siete al vostro posto di battaglia, tre giorni di arresti. I vostri tiratori sono di cinque metri troppo distanti dalla riserva, cinque giorni di arresti. Siete in bustina di servizio a mezzogiorno e cinque, otto giorni di arresti». Una sola volta, ai Quattro Bracci29, gli aveva detto: «Molto bene Orso, ma prudenza». Del resto, questi ultimi ricordi non erano quelli che gli ricor­ davano Pietranera. La vista dei luoghi familiari della sua infan­ zia, i mobili che usava sua madre, che aveva amato teneramente, lo commovevano, suscitando nel suo animo una moltitudine di sentimenti dolci e penosi; poi, l’avvenire oscuro che si preparava per lui, la vaga inquietudine che sua sorella gli ispirava, e ciò che più lo tormentava, l’idea che miss Nevil sarebbe venuta nella sua ” [La sanguinosa battaglia del 16 giugno 1815, a cui due giorni dopo seguì quella di Waterloo].

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casa, che gli sembrava oggi così piccola, così povera, così poco decente per una persona abituata al lusso, il disprezzo che forse lei ne avrebbe concepito, tutti questi pensieri producevano una enorme confusione nella sua mente e lo inducevano in un profondo scoraggiamento. Si sedette per cenare, in una grande poltrona di quercia an­ nerita, dalla quale il padre era solito presiedere ai pasti familia­ ri, e sorrise nel vedere Colomba che esitava a mettersi a tavola con lui. Ma le fu grato del silenzio che mantenne durante la ce­ na e della prontezza con cui si ritirò dopo, perché si sentiva troppo commosso per sostenere gli assalti che certamente ella gli preparava; ma Colomba voleva lasciargli il tempo di racca­ pezzarsi nella sua nuova situazione e il tempo di riconoscersi. La testa appoggiata sulla mano, stette a lungo immobile, riepi­ logando nella sua mente tutte le scene vissute in queU’ultima quindicina di giorni. Considerava sgomento l’aspettativa in cui tutti sembravano essere per la condotta che avrebbe osservato nei confronti dei Barricini. E già si accorgeva che l’opinione di Pietranera cominciava a essere veramente per lui quella della so­ cietà. Doveva vendicarsi, a meno di voler apparire un vile. Ma contro chi vendicarsi? Non poteva credere i Barricini colpevoli di assassinio. Erano, sì, nemici della sua famiglia, ma ci voleva­ no i rozzi pregiudizi dei suoi conterranei per attribuire loro un omicidio. Di quando in quando, osservava il talismano di miss Nevil e ne ripeteva il motto sottovoce: «La vita è una batta­ glia!». Alla fine, si disse fermamente: «Ne uscirò vittorioso!». E dopo questa buona risoluzione si alzò, e prendendo il lume, si accinse a salire in camera sua, quando bussarono alla porta di casa. Non era ora da ricevere visite. Comparve svelta Colomba, seguita dalla donna che li serviva. «Non è nulla», disse correndo alla porta. Tuttavia, prima di aprire, chiese chi bussava. Una voce gentile rispose: «Sono io». La stanga di legno posta attraverso la porta fu subito tolta, e Colomba riapparve in sala da pranzo seguita da una bambina di circa dieci anni, a piedi nudi, vestita di cenci, il capo ricoperto da un fazzoletto malconcio da cui sfuggivano lunghe ciocche di ca­ 288

pelli neri come l’ala di un corvo. La bambina era magra, pallida, dalla pelle bruciata dal sole; ma negli occhi brillava il fuoco del­ l’intelligenza. Vedendo Orso, si fermò timidamente e gli fece una riverenza alla campagnola; poi parlò sottovoce a Colomba, e le mise nelle mani un fagiano ucciso da poco. «Grazie, Chili», disse Colomba. «Ringrazia tuo zio. Sta be­ ne?». «Benissimo signorina Colomba, per servirvi. Non sono potu­ ta venire prima perché ha tardato molto. Sono rimasta tre ore nel­ la macchia ad aspettarlo». «E non hai cenato?». «Signora! no, signorina Colomba, non ho avuto tempo». «Ti faremo cenare. Tuo zio ha ancora pane?». «Poco, signorina; ma ha soprattutto bisogno di polvere. Ora che ci sono le castagne, non ha bisogno che di polvere». «Ti darò un pane per lui e della polvere. Digli di tenerla da conto, costa cara». «Colomba», disse Orso in francese, «a chi mai fai così la ca­ rità?». «A un povero bandito del paese», rispose Colomba nella stes­ sa lingua. «Questa piccola è sua nipote». «Mi sembra che potresti collocare meglio i tuoi doni. Perché mandare polvere a un furfante che se ne servirà per commettere delitti? Senza questa riprovevole debolezza che tutti dimostrano di avere per i banditi, sarebbero già spariti dalla Corsica da un bel pezzo». «I più cattivi del nostro paese non sono coloro che stanno al­ la campagna»30. «Dagli del pane se vuoi, il pane non si nega a nessuno; ma non voglio che gli si forniscano munizioni». «Fratello mio», disse Colomba in tono serio, «qui siete il pa­ drone, e tutto in questa casa vi appartiene: ma vi avverto che darò il mio mezzaro a questa bambina perché lo venda, piuttosto che rifiutare la polvere a un bandito. Rifiutargli la polvere! ma tanto vale consegnarlo ai gendarmi. Che altra protezione ha da loro, se non le sue cartucce?». M Stare alla campagna, cioè essere banditi. Bandito non è un termine dispregiativo: si usa nel senso di banni; è Voutlaw delle ballate inglese.

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La bambina, frattanto, divorava con avidità un tozzo di pane e, guardava con attenzione ora Colomba ora suo fratello, cercan­ do di capire dai loro occhi il senso di ciò che dicevano. «E che ha fatto dunque il tuo bandito? Per quale delitto si è dato alla macchia?». «Brandolaccio non ha commesso nessun delitto», esclamò Colomba. «Ha ucciso Giovan’ Opizzo, il quale gli aveva assassi­ nato il padre mentre era soldato». Orso volse il capo, prese il lume, e, senza rispondere, salì in ca­ mera sua. Allora Colomba diede alla bambina polvere e provvi­ ste, e la riaccompagnò fino alla porta ripetendole: «Soprattutto che tuo zio vegli per bene su Orso!». XI

Orso stentò a lungo a prendere sonno, e perciò si svegliò tar­ di, almeno per un corso. Appena alzato, ciò che prima colpì i suoi occhi fu la casa dei suoi nemici con le archere di cui questi l’ave­ vano munita. Scese e domandò della sorella. «E in cucina a fondere pallottole», gli rispose la domestica Saveria. Così, non poteva muovere un passo senza essere perseguitato dall’immagine della guerra. Trovò Colomba seduta sopra uno sgabello, circondata di pal­ lottole appena fuse, che tagliava le colate di piombo. «Che diavolo fai lì?», le domandò il fratello. «Non avete pallottole per il fucile del colonnello», rispose lei con la sua voce dolce; «ho trovato uno stampo del calibro, e oggi avrete ventiquattro cartucce, fratello mio». «Grazie a Dio, non ne ho bisogno!». «Non bisogna lasciarsi prendere alla sprovvista, Ors’Anton’. Vi siete dimenticato del vostro paese e delle persone che vi cir­ condano». «Anche se lo avessi dimenticato, tu me lo ricorderesti subi­ to. Dimmi, non è arrivato un grosso baule, qualche giono fa?». «Sì, fratello mio. Volete che lo porti su in camera vostra?». «Tu, portarlo? Ma non avresti mai la forza di sollevarlo... Non c’è qui un uomo, per farlo?». 290

«Non sono così debole come pensate», disse Colomba, rim­ boccandosi le maniche e scoprendo un braccio bianco e tondo, perfettamente formato, ma che rivelava una forza poco comune. «Andiamo, Saveria», disse alla domestica, «aiutami». Già si caricava da sé il baule pesante, quando Orso si affrettò ad aiutarla. «In questo baule, mia cara Colomba», disse, «c’è qualcosa per te. Mi scuserai di offrirti così poveri doni, ma la borsa di un te­ nente a metà paga non è troppo ben fornita». Mentre parlava, apriva il baule, e tirava fuori alcuni vestiti, uno scialle e altri oggetti che si addicono a una giovane donna. «Che belle cose!», esclamò Colomba. «Le voglio subito ri­ porre, perché ho paura che si sciupino. Le conserverò per le mie nozze», aggiunse con un sorriso triste, «poiché ora sono in lutto». Baciò la mano del fratello. «C’è dell’ostentazione, sorella mia, nel portare il lutto così a lungo». «L’ho giurato», disse Colomba con un tono fermo, «Non lascerò il lutto...». E guardava attraverso la finestra la casa dei Barricini. «Che il giorno in cui ti sposerai?», disse Orso, cercando di evi­ tare la fine di quella frase. «Non mi sposerò», disse Colomba, «se non con l’uomo che avrà fatto tre cose...». E osservava sempre con occhio sinistro la casa nemica. «Graziosa come sei, Colomba, mi stupisco che tu non sia an­ cora sposata. Andiamo, mi dirai chi ti fa la corte. D’altronde sentirò bene le serenate. Bisogna che siano belle per piacere a una grande voceratrice come te». «Chi vorrebbe una povera orfanella?... E poi l’uomo che mi larà togliere i miei vestiti in lutto dovrà far portare il lutto alle donne di laggiù». «È una pazzia», si disse Orso. Ma non rispose per evitare ogni discussione. «Fratello mio», disse Colomba con tono carezzevole, «ho an­ ch’io qualcosa da offrirvi. I vestiti che avete indosso sono troppo belli per questo paese. Quell’elegante pastrano sarebbe ridotto in 291

cenci in capo a due giorni se lo portaste nella macchia. Dovete conservarlo per quando tornerà miss Nevil». Poi, aprendo un armadio, ne tirò fuori un abito completo da cacciatore. «Vi ho fatto una giacca di velluto, ed ecco un berretto come lo portano i nostri giovani eleganti; l’ho ricamato per voi molto tempo fa. Volete provare queste cose?». E gli faceva indossare una larga giacca di velluto verde, muni­ ta, dietro, di un’enorme tasca. E gli poneva in testa un berretto a punta di velluto nero, ricamato di giaietto e seta dello stesso co­ lore, che terminava con una specie di nappa. «Ecco la cartucciera31 32 di nostro padre», disse, «il suo stiletto è nella tasca della vostra giacca. Vado a cercarvi la pistola». «Ho l’aria di un vero brigante da melodramma», diceva Orso, guardandosi in uno specchietto che gli presentava Saveria. «Fatto sta che state a meraviglia, Ors’Anton’», diceva la vec­ chia domestica, «e il più bel pointu^2 di Bocagnano o di Bastelica non sembra più ardito!». Orso fece colazione con il suo nuovo vestito, e durante il pa­ sto disse alla sorella che nel baule c’erano anche un certo numero di libri; che era sua intenzione farne venire altri dalla Francia e dall’Italia, e di farla lavorare molto. «Poiché non sta bene, Colomba», aggiunse, «che una ragazza della tua età non sappia ancora certe cose che i bambini del con­ tinente imparano appena svezzati». «Avete ragione, fratello mio», diceva Colomba; «conosco ciò che mi manca, e non chiedo di meglio che di studiare, specie se vorrete farmi lezione». Trascorsero alcuni giorni senza che Colomba pronunciasse mai il nome dei Barricini. Era sempre piena di piccole premure per il fratello, e gli parlava spesso di miss Nevil. Orso le dava da leggere opere francesi e italiane, e rimaneva sorpreso tanto della giustezza e del buon senso delle sue osservazioni, tanto della sua profonda ignoranza delle cose più comuni. 31 Carchera: cintura in cui si mettono le cartucce. A sinistra vi si attacca una pi­ stola. 32 Pinsuto. Si chiamano così coloro che portano il berretto a punta, barreta pinsuta.

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Una mattina, dopo colazione, Colomba uscì un attimo e, in­ vece di tornare con un libro e con la carta, comparve con il suo mezzaro in capo. Il suo aspetto era più serio del solito. «Fratello mio», disse, «vi prego di uscire con me». «Dove vuoi che ti accompagni?», disse Orso offrendole il braccio. «Non ho bisogno del vostro braccio, fratello mio; ma prende­ te il vostro fucile e la vostra scatola di cartucce. Un uomo non de­ ve uscire senza armi». «Bene! Conviene seguire la moda. Dove andiamo?». Colomba senza rispondere, si strinse il mezzaro intorno al ca­ po, chiamò il cane da guardia, e uscì seguita dal fratello. Allonta­ nandosi a passi rapidi dal paese, imboccò un sentiero infossato che serpeggiava fra i vigneti, dopo aver spedito innanzi il cane, a cui fece un cenno che quello dimostrò di capire perfettamente; perché subito si mise a correre di qua e di là, passando nelle vi­ gne, ora da un lato, ora dall’altro, sempre a una cinquantina di passi dalla padrona, e fermandosi talvolta nel mezzo del sentiero per guardarla, scodinzolando. Sembrava adempiere alla perfezio­ ne il suo compito di esploratore. «Se Muschetto abbaia», disse Colomba, «armate il fucile, fra­ tello mio, e rimanete immobile». A mezzo miglio dal villaggio, dopo molti giri, Colomba si fermò improvvisamente in un luogo in cui il sentiero faceva una svolta. Là si alzava una piccola piramide fatta di rami, in parte ancora verdi, in parte già secchi, ammucchiati per circa tre piedi d’altezza. In cima si vedeva spuntare l’estremità di una croce di legno dipinta di nero. In molte cantoni della Corsica, soprattutto nelle montagne, un uso an­ tichissimo, e che forse si riallaccia alle superstizioni del paganesimo, vuole che i passanti gettino una pietra o un ramo d’albero sul luo­ go dove un uomo è perito di morte violenta. Per anni e anni, finché il ricordo della sua tragica fine si conserva nella memoria degli uo­ mini, questa singolare offerta si accumula in tal modo giorno per giorno. La chiamano l’amas, il mucchio di un tale. Colomba si fermò davanti a quel cumulo di fogliame e, spez­ zando un ramoscello di corbezzolo, lo aggiunse alla piramide. «Orso», disse, «è qui che nostro padre è morto. Preghiamo per la sua anima, fratello mio!». 293

Si inginocchiò. Orso subito l’imitò. In quel momento la cam­ pana del villaggio rintoccò lentamente, poiché un uomo era mor­ to durante la notte. Orso scoppiò in lacrime. Trascorsi alcuni minuti, Colomba si alzò, con gli occhi asciut­ ti, ma il viso acceso. Si fece, con il pollice, un rapido segno di cro­ ce, secondo il gesto abituale dei suoi compatrioti e che accompa­ gna di solito i giuramenti solenni, poi, trascinando il fratello, ri­ prese la via del villaggio. Rientrarono in silenzio nella loro casa. Orso salì in camera sua. Un istante dopo Colomba lo seguì, por­ tando un cofanetto che posò sul tavolo. L’aprì e ne tirò fuori una camicia coperta da larghe macchie di sangue. «Ecco la camicia di vostro padre, Orso». E gliela gettò sulle ginocchia. «Ecco il piombo che lo ha colpito». E posò sulla camicia due pallottole ossidate. «Orso, fratello mio!», esclamò slanciandosi nelle sue braccia e strigendolo con forza. «Orso! tu lo vendicherai!». Lo baciò con una specie di furore, baciò le pallottole e la ca­ micia, e uscì dalla stanza, lasciando il fratello come pietrificato sulla sedia. Orso rimase un po’ di tempo immobile, non osando allonta­ nare da sé quelle spaventose reliquie. Alla fine, con sforzo, le ri­ pose nel cofanetto e corse all’altro capo della stanza a gettarsi sul letto, la testa rivolta verso il muro, affondata nel guanciale, come se avesse voluto sottrarsi alla vista di uno spettro. Le ultime pa­ role della sorella riecheggiavano senza tregua alle sue orecchie, e gli sembrava di udire un oracolo fatale, inevitabile, che gli chie­ deva sangue, e sangue innocente. Non tenterò di rendere le sen­ sazioni dell’infelice giovane, confuse come quelle che sconvolgo­ no la mente di un pazzo. Rimase a lungo nella stessa posizione, senza osare volgere la testa. Alla fine si alzò, chiuse il cofanetto, e uscì precipitosamente da casa, percorrendo la campagna, e cam­ minando dritto davanti a sé, senza sapere dove andasse. A poco a poco, l’aria libera lo sollevò; si fece più calmo e con­ siderò con sangue freddo la propria posizione e i modi di uscir­ ne. Non sospettava i Barricini di assassinio, lo sappiamo; ma li ac­ cusava di aver inventato la lettera del bandito Agostini; e quella lettera, così almeno credeva, aveva causato la morte di suo padre. 294

Sentiva che non era possibile perseguirli come falsari. Se i pregiu­ dizi o gli istinti del suo paese ritornavano ad assalirlo e gli mo­ stravano una facile vendetta alla svolta di un sentiero, li respinge­ va con orrore, pensando ai colleghi di reggimento, ai salotti di Pa­ rigi, e soprattutto a miss Nevil. Poi si figurava i rimproveri della sorella, e quel poco che rimaneva di corso nel suo carattere giu­ stificava quei rimproveri e li rendeva più strazianti. Una sola spe­ ranza gli restava in quel combattimento fra la sua coscienza e i suoi pregiudizi, era di attaccare briga, per un pretesto qualsiasi, con uno dei figli dell’avvocato e battersi in duello con lui. Ucci­ derlo con una pallottola o un colpo di spada conciliava le sue idee corse e francesi. Accettato l’espediente, e meditandone i mezzi di attuazione, si sentiva già alleggerito di un grande peso, quando al­ tri pensieri più dolci contribuirono ancora a placare la sua agita­ zione febbrile. Cicerone, disperato per la morte della figlia Tullia, dimenticò il proprio dolore con il ripassare mentalmente tutte le cose belle che poteva dire in proposito. Parlando così della vita e della morte, mister Shandy33 si consolò della perdita del figlio. Orso si rinfrescò il sangue pensando che avrebbe potuto fare a miss Nevil un quadro dello stato della sua anima, quadro che avrebbe interessato molto quella graziosa creatura. Si avvicinava al paese da cui, si era parecchio allontanato sen­ za accorgersene, quando udì la voce di una bambina che cantava, senza dubbio credendosi sola, in un sentiero sul confine della macchia. Era il motivo lento e monotono delle lamentazioni fu­ nebri, e la bambina cantava: «A mio figlio, mio figlio lontano / conservate la mia croce e la mia camicia insanguinata...». «Che canti là, piccina?», chiese Orso in tono irato, comparen­ do all’improvviso. «Siete voi, Ors’Anton’!», esclamò la bambina un po’ spaven­ tata... «È una canzone della signorina Colomba...». «Ti proibisco di cantarla», disse Orso con voce terribile. La bambina, volgendo la testa a destra e a sinistra, sembrava cercare il punto da cui fuggire, e certamente se la sarebbe data a gambe se non fosse stata trattenuta dalla cura di conservare un grosso pacchetto che si vedeva sull’erba ai suoi piedi. ” [Allusione al romanzo di L. Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy (1760-61)].

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Orso si vergognò della sua violenza. «Che porti là dentro, piccola mia?», le chiese quanto più dol­ cemente potè. E dato che Chilina esitava a rispondere, sollevò il panno che avvolgeva il pacchetto, e vide che conteneva un pane e altre provviste. «A chi porti questo pane, mia piccolina?», le chiese. «Lo sapete bene monsieur, a mio zio». «Ma tuo zio non è bandito?». «Per servirvi, monsieur Ors’Anton’». «Se ti incontrassero i gendarmi, ti chiederebbero dove vai...». «Gli direi», rispose la bambina senza esitare, «che porto da mangiare ai lucchesi che tagliano legna nella macchia». «E se trovassi qualche cacciatore affamato che volesse man­ giare a tue spese e levarti le tue provviste?...». «Nessuno oserebbe. Direi che è per mio zio». «Infatti, non è uomo da lasciarsi portar via la cena... Ti vuole molto bene, tuo zio?». «Oh! sì, Ors’Anton’. Da quando è morto mio padre, si pren­ de cura della famiglia: di mia madre, di me e della mia sorellina. Prima che mamma si ammalasse, la raccomandava ai ricchi per­ ché le dessero lavoro. Il sindaco mi regala ogni anno un vestito, e il curato mi spiega il catechismo e mi insegna a leggere da quando mio zio ha parlato loro. Ma è soprattutto vostra sorella che è buona verso di noi». In quel momento un cane apparve sul sentiero. La bambina si portò due dita alle bocca, fece udire un fischio acuto: subito il ca­ ne corse da lei e le fece festa, poi all’improvviso si cacciò nella macchia. Ben presto due uomini mal vestiti, ma ben armati, sor­ sero da dietro una ceppaia a qualche passo da Orso. Si sarebbe detto che fossero avanzati strisciando come bisce nell’intrico di cisti e mirti che coprivano il terreno. «Oh! Ors’Anton’, siate il benvenuto», disse il più vecchio di quei due uomini. «Eh come! non mi riconoscete?». «No», disse Orso guardandolo fisso. «È buffo come una barba e un berretto a punta cambino un uomo! Andiamo, tenente mio, guardatemi bene. Avete dunque dimenticato i veterani di Waterloo? Non vi ricordate più di Bran296

do Savelli, che al vostro fianco ha strappato più di una cartuccia quel giorno di disgrazia?». «Come! sei tu!», disse Orso. «E tu hai disertato nel 1816?». «Proprio così, tenente mio. Diamine, il servizio militare vie­ ne a noia, e poi avevo da saldare un conto in questo paese! Ha, ha! Chili, sei una brava ragazzina. Svelta, servici, che abbiamo fame. Non avete idea, tenente mio, quanto appetito si ha nella macchia. Chi è che ci manda questa roba, la signorina Colomba o il sindaco?». «No, zio; è la mugnaia che me l’ha data per voi, e una coperta per la mamma». «Che cosa vuole da me?». «Dice che i suoi lucchesi, quelli che ha assunto per dissodare, le chiedono ora trentacinque soldi e le castagne, a causa della feb­ bre che c’è nella parte bassa di Pietranera». «Quei pelandroni!... Vedrò. Senza cerimonia, signor tenente, volete condividere la nostra cena? Altri pasti peggiori abbiamo fatto insieme, al tempo del nostro povero compatriota che ora hanno congedato». «Grazie tante. Hanno congedato anche me». «Sì, l’ho sentito dire; ma non ve la siete avuta a male, scom­ metto. Così non vi mancherà l’occasione di saldare quel vostro conto. Via, curato!», disse il bandito al compagno, «a tavola! Si­ gnor Orso, vi presento il signor curato, cioè, non so proprio se sia curato, ma ne ha la scienza». «Un povero studente in teologia, signore», disse l’altro bandi­ to, «cui fu impedito di seguire la sua vocazione. Chissà? Sarei po­ tuto diventare papa, Brandolaccio». «Quale motivo ha dunque privato la chiesa dei vostri lumi?», domandò Orso. «Una sciocchezza, un conto da saldare, come dice l’amico Brandolaccio, una mia sorella che aveva combinato delle scioc­ chezze mentre io divoravo libri vecchi all’università di Pisa. Mi toccò tornare in paese per maritarla. Ma lo sposo, troppo fretto­ loso, muore di febbre tre giorni prima del mio arrivo. Come avre­ ste fatto anche voi al posto mio, mi rivolgo allora al fratello del defunto. Mi dissero che era già sposato. Che fare?». «In effetti, era imbarazzante. Che faceste?». 297

«Sono di quei casi per cui bisogna ricorrere alla pietra da fu­ cile»34. «Ciò vuol dire che...». «Gli piantai una pallottola in capo», disse freddamente il bandito. Orso ebbe un gesto di orrore. Tuttavia la curiosità, e forse an­ che il desiderio di ritardare il momento in cui sarebbe dovuto ri­ tornare a casa, lo fecero rimanere al suo posto e continuare la conversazione con quei due uomini, ciascuno dei quali aveva al­ meno un assassinio sulla coscienza. Mentre il compagno parlava, Brandolaccio gli poneva dinanzi pane e carne; servì se stesso, poi fece una parte al cane, che pre­ sentò a Orso col nome di Brusco, dotato del meraviglioso istinto di riconoscere un volteggiatore sotto qualsiasi travestimento. Al­ la fine tagliò un pezzo di pane e una fetta di prosciutto crudo che diede alla nipote. «Bella vita quella del bandito!», esclamò lo studente in teolo­ gia dopo aver mangiato alcune bocconi. «Forse un giorno l’assaggerete, signor della Rebbia, e proverete quanto sia dolce non conoscere altro padrone che il proprio capriccio». Fin qui, il bandito si era espresso in italiano; continuò in fran­ cese: «La Corsica non è un paese molto divertente per un giovane; ma quale differenza per un bandito! Le donne vanno pazze per noi. Così come mi vedete, ho tre amanti in tre diversi cantoni. Sono ovunque a casa mia. E ce n’è una che è moglie di un gendarme». «Conoscete parecchie lingue, signore», disse Orso in tono serio. «Se parlo francese è perchè, vedete, maxima debetur pueris re­ verenda. Intendiamoci, Brandolaccio e io, che la piccola faccia una buona riuscita e fili diritto». «Quando arriverà sui quindici anni», disse lo zio di Chilina, «la mariterò bene. Ho già un partito in vista». «Farai tu la domanda?», disse Orso. «Certamente. Credete che se io dico a un riccone del paese: “Io Brando Savelli, vedrei con piacere che vostro figlio sposi Michelina Savelli”, credete che si farà tirare per le orecchie?». 34 La scaglia, espressione molto comune.

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«Non glielo consiglierei», disse l’altro bandito. «Il collega ha la mano un po’ pesante». «Se io fossi un birbante», proseguì Brandolaccio, «una cana­ glia, un falso, non avrei che da aprire la bisaccia, vi pioverebbero pezzi da cento soldi». «C’è dunque nella tua bisaccia», disse Orso, «qualcosa che li attira?». «Nulla; ma se io scrivessi, come hanno fatto alcuni, a un ricco: “Mi servono cento franchi”, si affretterebbe a spedirmeli. Ma so­ no un uomo d’onore, tenente mio». «Lo sapete voi, signor della Rebbia», disse il bandito che il suo compagno chiamava il curato, «lo sapete che in questo paese dai costumi semplici, ci sono anche alcuni miserabili che si approfit­ tano della stima che ispiriamo mediante i nostri passaporti (mo­ strava il suo fucile), per riscuotere cambiali contraffacendo la no­ stra scrittura?». «Lo so», disse Orso in tono brusco. «Ma cambiali di che ge­ nere?». «Sei mesi fa», continuò il bandito, «me ne andavo in gita dalle parti di Orezza35, quando si avvicinò a me uno zoticone che da lontano si sberretta e mi dice: “Ah! signor curato (mi chiamano sempre così), scusatemi, datemi tempo; non ho po­ tuto trovare che cinquantacinque franchi; ma è vero, di più non ho potuto raccogliere”. Io, tutto sorpreso: “Che vuoi dire, ga­ glioffo! cinquantacinque franchi?”, gli dico. “Volevo dire sessantacinque”, mi risponde; “ma i cento che mi chiedete, è im­ possibile”. “Come, buffone! Io ti chiedo cento franchi! Io non ti conosco”. Allora mi esibì una lettera, o meglio un pezzo tut­ to sporco, con il quale era invitato a deporre cento franchi in un luogo che veniva indicato, sotto la pena di vedersi la casa bruciata e le mucche uccise da Giocamo Castriconi, è il mio nome. E avevano avuto l’infamia di contraffare la mia firma! La cosa che mi indispettì di più, è che la lettera era scritta in dia­ letto, piena di errori d’ortografia... Io fare errori d’ortografia! io che vincevo tutti i premi all’università! Comincio con il da­ re al mio villano un ceffone che lo fa girare due volte su se stes[Villaggio situato a nord est di Corte].

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so. “Ah! tu mi scambi per un ladro, furfante che non sei altro!” gli dico, e gli do una buona pedata dove sapete. Alquanto sol­ levato, gli chiedo: “Quand’è che devi portare quei soldi, nel luogo stabilito?”. “Oggi stesso”. “Bene! Vai e portali”. Era sot­ to un pino, e il punto era esattamente indicato. L’uomo porta il denaro, lo sotterra ai piedi dell’albero, poi torna da me. Mi ero appostato nei dintorni. Rimasi là con il mio uomo per sei lun­ ghissime ore. Signor della Rebbia, vi sarei rimasto tre giorni, se fosse servito. In capo a sei ora spunta un Bastiaccio*, un infa­ me strozzino. Si china per prendere il denaro, io sparo e avevo così ben preso la mira che, nel cadere, andò a sbattere con la te­ sta sugli scudi che dissotterrava. “E ora, buffone!” dico al con­ tadino, “riprendi il tuo denaro e non arrischiarti più a sospet­ tare di bassezza Giocanto Castriconi”. Il povero diavolo, tutto tremante raccolse i suoi sessantacinque franchi senza darsi la pena di asciugarli. Mi ringrazia, gli allungo una buona pedata di addio e fugge ancora». «Ah! curato», disse Brandolaccio, «come t’invidio quel colpo di fucile. Avrai riso parecchio?». «Avevo colto il Bastiaccio alla tempia», continuò il bandito, «e questo mi ricordò i versi di Virgilio: ... Liquefatto tempora plumbo Diffidit, ac multa porrectum extendit arena'7.

Liquefatto! Credete, signor Orso, che una pallottola di piom­ bo sia fonda per la rapidità del suo tragitto nell’aria? Voi che ave­ te studiato balistica, dovreste dirmi se sia un errore o una verità». Orso preferiva di più discutere tale questione di fisica, anziché argomentare con il laureato circa la moralità della sua azione. Brandolaccio, cui poco divertiva quella dotta disputa, lo inter­ ruppe per osservare che il sole stava per tramontare: «Dato che non avete voluto cenare con noi, Ors’Anton’», gli disse, «vi consiglio di non far aspettare più a lungo la signorina Colomba. E poi non è sempre buono andare per le strade quan­ do il sole è tramontato. Perché uscite senza fucile? Ci sono per361 corsi montanari detestano gli abitanti di Bastia, che non considerano compoatrioti. Non dicono mai Bastiano, ma Bastiaccio·, è noto che la terminazione in -accio viene uti­ lizzata generalmente in senso dispregiativo. 57 Virgilio, Eneide, IX, 587-588.

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sone cattive nei dintorni; fateci attenzione. Oggi non avete nulla da temere; i Barricini si portano a casa il prefetto; l’hanno incon­ trato sulla strada, ed egli si ferma un giorno a Pietranera prima di andare a Corte, a porre, come dicono..., una stupidaggine! Stase­ ra dorme dai Barricini; ma domani saranno liberi. C’è Vincentello, che è un pessimo soggetto, e Orlanduccio che non vale di più... Procurate di trovarli separati, oggi uno, domani l’altro; ma diffidate, vi dico solo questo». «Grazie del consiglio», disse Orso, «ma non abbiamo nulla da spartire insieme; finché non mi vengono a cercare, non ho niente da dirgli». Il bandito tirò fuori la lingua da un lato e la fece schioccare contro la guancia con aria ironica, ma non rispose nulla. Orso si alzava per andarsene: «A proposito», disse Brandolaccio, «non vi ho ringraziato per la polvere; mi è giunta opportuna. Ora non mi manca nulla..., cioè mi mancherebbe ancora un paio di scarpe..., ma saprò far­ melo con la pelle di un muflone un giorno di questi». Orso fece scivolare due pezzi da cinque franchi nelle mani del bandito. «È Colomba che ti ha mandato la polvere; ecco per comprar­ ti le scarpe». «Non facciamo sciocchezze, tenente mio», esclamò Brandolaccio nel restituirgli i due pezzi. «Mi prendete per un mendican­ te? Accetto il pane e la polvere, ma non voglio nient’altro». «Tra vecchi commilitoni, ho creduto che ci si potesse aiutare. Via, addio!». Ma, prima di andarsene, aveva messo il denaro nella bisaccia del bandito, senza che questi se ne fosse accorto. «Arrivederci, Ors’Anton’!», disse il teologo. «Ci ritroveremo forse alla macchia uno di questi giorni, e riprenderemo i nostri studi su Virgilio». Orso aveva lasciato i suoi onoesti compagni da un quarto d’o­ ra, quando sentì un uomo che gli correva dietrocon tutte le sue forze. Era Brandolaccio. «Questa è un po’ grossa, tenente mio», esclamò il bandito senza fiato! «È un po’ troppo grossa! Ecco i vostri dieci franchi. A un altro, non farei passar liscia la burletta. Molti complimenti 301

da parte mia alla signorina Colomba. Mi avete fatto sfiatare! Buonasera».

XII

Orso trovò la sorella alquanto in pensiero per la sua lunga as­ senza; ma vedendolo, Colomba riprese quell’aria di triste serenità che era la sua espressione abituale. Durante la cena, non parlaro­ no che di cose insignificanti, e Orso, rincuorato dall’aspetto cal­ mo di sua sorella, le narrò l’incontro con i banditi e arrischiò an­ che qualche scherzo sull’educazione morale e religiosa che rice­ veva la piccola Chilina per cura dello zio e del suo onorevole col­ lega, messer Castriconi. «Brandolaccio è un uomo onesto», disse Colomba; «ma di Castriconi, ho sentito dire che è un uomo senza principi». «Credo», disse Orso, «che valga quanto Brandolaccio, e Bran­ dolaccio quanto lui. Entrambi sono in guerra aperta con la so­ cietà. Un primo delitto li porta ogni giorno ad altri crimini; ep­ pure non sono forse così colpevoli come tanti altri che abitano la macchia». Un lampo di gioia brillò sulla fronte della sorella. «Sì», proseguì Orso, «quei miserabili hanno una loro specie d’onore. È un pregiudizio crudele e non una bassa cupidigia che li ha gettati nella vita che ora conducono». Ci fu un attimo di silenzio. «Fratello mio», disse Colomba versandogli il caffè, «forse sa­ pete che Charles-Baptiste Pietri è morto la notte scorsa? Sì, è morto di febbri malariche». «Chi è questo Pietri?». «Un uomo di questo borgo, marito di Madelaine, colei che ri­ cevette il portafoglio da nostro padre moribondo. Lei stessa, la vedova, è venuta a pregarmi di partecipare alla veglia e di cantar­ vi qualcosa. E bene che veniate anche voi. Sono nostri vicini ed è una gentilezza a cui non ci si può sottrarre in un luogo piccolo come il nostro». «Al diavolo la tua veglia, Colomba! Non mi piace affatto ve­ dere mia sorella esibirsi così in un pubblico spettacolo». 302

«Orso», rispose Colomba, «ognuno onora a suo modo i pro­ pri morti. La ballata ci viene dai nostri avi e noi dobbiamo ri­ spettarla come un uso antico. Madelaine non ha il dono, e la vec­ chia Fiordispina, che è la migliore voceratrice del paese, è malata. Occorre pure qualcuno per la ballata». «Credi che Charles-Baptiste non troverà la sua strada nell’al­ tro mondo se non si cantano cattivi versi sulla sua bara? Vai alla veglia se vuoi, Colomba; verrò con te, se credi che io debba, ma non improvvisare, è sconveniente alla tua età, e... te ne prego, so­ rella mia». «Fratello mio, ho promesso. È l’usanza qui, lo sapete, e ve lo ripeto non ci sono che io per improvvisare». «Sciocca usanza!». «Io soffro molto a cantare così. Mi ricorda tutte le nostre di­ sgrazie. Domani mi sentirò male; ma devo. Permettetemelo, fra­ tello mio. Ricordatevi anche che ad Ajaccio mi avete detto d’improwisare per divertire quella signorina inglese che si burla delle nostre antiche usanze. E dunque non potrò improvvisare oggi per questa povera gente, che me ne sarà grata, e l’aiuterà a sopporta­ re il suo dolore?». «Via, fa’ come vuoi. Scommetto che hai già composto la tua ballata e che non vuoi perderla». «No, non potrei comporla prima, fratello mio. Mi pongo da­ vanti al morto, e penso a coloro che restano. Mi vengono le lacri­ me agli occhi, e allora canto ciò che mi passa per la mente». Tutto questo era detto con una semplicità tale che era impos­ sibile supporre la minima vanagloria poetica nella signorina38 Co­ lomba. Orso si lasciò piegare e si recò con la sorella in casa Pietri. Il morto era disteso sopra un tavolo, il volto coperto, nella stan­ za più grande della casa. Porte e finestre erano spalancate, e pa­ recchi ceri ardevano intorno al tavolo. Al capezzale del morto stava la vedova e alle spalle di lei numerose donne occupavano un intero lato della camera; dall’altro, stavano gli uomini, in piedi, a capo scoperto, lo sguardo fisso sul cadavere, e assorti nel più profondo silenzio. Ogni nuovo visitatore si avvicinava al tavolo, baciava il morto39, accennava con il capo un saluto alla vedova e [In italiano nel testo]. ” Questa usanza è ancora presente a Bocognano (1840).

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al figlio, poi prendeva posto nella cerchia, senza proferire una pa­ rola. Di quando in quando, tuttavia, uno dei presenti rompeva il silenzio solenne per rivolgere qualche parola al defunto. «Perché hai lasciato la tua buona moglie?», diceva una comare. «Non ti ha dimostrato forse cure sufficienti? Che cosa ti mancava? Perché non hai aspettato almeno un altro mese, la tua nuora ti avrebbe dato un figlio». Un giovanottone, figlio di Pietri, stringendo la mano fredda del padre, esclamò: «Oh! perché non sei morto di malamorteV0 Ti avremmo vendicato!». Queste furono le prime parole che Orso udì entrando. Alla vi­ sta di lui, il cerchio si aprì, e un sommesso mormorio di curiosità annunciò l’attesa dell’assemblea, eccitata dalla presenza della voceratrice. Colomba baciò la vedova, le prese una mano e rimase per qualche minuto in raccoglimento, con gli occhi bassi. Poi gettò all’indietro il mezzaro, guardò fisso il morto, e, china sul ca­ davere, quasi altrettanto pallida cominciò così: «Charles-Baptiste! il Cristo riceva la tua anima! / Vivere è sof­ frire. Vai in un luogo / dove non c’è sole né freddo. / Tu non hai più bisogno della roncola, / né della zappa pesante. / Non c’è più lavoro per te. / Ormai tutti i tuoi giorni sono domeniche. / Char­ les-Baptiste, il Cristo abbia la tua anima! / Tuo figlio regge la tua casa. / Ho visto cadere la quercia / seccata dal libeccio. / Ho cre­ duto che fosse morta. / Sono ripassata, e le sue radici / avevano fatto nascere un germoglio. / Il germoglio è divenuto una quer­ cia, / dalla vasta ombra. / Sotto i suoi forti rami, Maddelè, ripo­ sati, / e pensa alla quercia che non c’è più».

Qui Madeleine cominciò a singhiozzare forte, e due o tre uo­ mini che all’occasione avrebbero sparato su dei cristiani con al­ trettanto sangue freddo che a pernici, si asciugarono grosse lacri­ me sulle guance abbronzate. Colomba continuò in quel modo per un certo tempo, ora ri­ volgendosi al defunto, ora alla sua famiglia, talvolta per una pro­ sopopea frequente nelle ballate, faceva parlare il morto stesso per consolare gli amici o per consigliarli. A mano a mano che im“ Mala morte: morte violenta.

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prowisava, il volto di lei prendeva un’espressione sublime; le guance si colorivano di un rosa trasparente che faceva maggior­ mente risaltare la lucentezza dei denti e il fuoco delle pupille dila­ tate. Era la pitonessa sul suo treppiedi. All’infuori di qualche so­ spiro, di qualche singhiozzo soffocato, non si sentiva il più lieve sussurro nella folla che si pressava attorno a lei. E anche Orso, an­ che se meno sensibile degli altri a quella poesia selvaggia, si sentì vincere presto dalla commozione generale. Appartatosi in un an­ golo oscuro della sala, pianse come piangeva il figlio di Pietri. A un tratto, un leggero movimento si produsse nell’uditorio: il cerchio si aprì ed entrarono alcuni estranei. Dal rispetto dimo­ strato per loro, dalla premura con cui furono aiutati a prendere posto, era evidente che si trattava di persone importanti e che la loro visita onorava la casa in maniera singolare. Nondimeno, per il rispetto della ballata, nessuno rivolse loro la parola. Quello che era entrato per primo dimostrava una quarantina d’anni. L’abito nero, il nastrino rosso, a guisa di rosetta, all’occhiello, l’aspetto si­ curo e autorevole del suo viso lo designavano subito per il pre­ fetto. Lo seguiva un vecchio signore curvo, dal colorito bilioso, che mal celava dietro gli occhiali verdi uno sguardo timido e in­ quieto. Indossava un abito nero troppo largo, e che, benché an­ cora nuovo, era stato evidentemente cucito parecchi anni prima. Sempre vicino al prefetto, si sarebbe detto che volesse nasconder­ si nella sua ombra. Infine, dopo di lui, entrarono due giovani di alta statura, dal volto bruciato dal sole, le guance ricoperte da fit­ ti baffi, l’occhio fiero, arrogante, che mostravano un’impertinen­ te curiosità. Orso aveva avuto il tempo di dimenticare le fisiono­ mie della gente del suo paese; ma la vista del vecchio con gli oc­ chiali verdi ridestò di colpo nella sua mente vecchi ricordi. La sua presenza al seguito del prefetto bastava per farlo riconoscere. Era l’avvocato Barricini, il sindaco di Pietranera, il quale veniva insie­ me con i due figli, a offrire al prefetto lo spettacolo di una balla­ ta. Sarebbe difficile definire ciò che avvenne in quel momento nell’animo di Orso; ma la presenza del nemico del padre gli cau­ sò una specie di orrore, e, come non mai, si sentì accessibile ai so­ spetti che aveva lungamente combattuto. Per Colomba, alla vista dell’uomo cui aveva votato un odio mortale, la sua mutevole fisionomia assunse di colpo un’espres­ 305

sione sinistra. Impallidì; la sua voce divenne rauca, il verso co­ minciato le morì sulle labbra... Ma subito, riprendendo la sua ballata, proseguì con nuova veemenza:

«Quando lo sparviero si lamenta / davanti al suo nido vuoto, / gli storni volteggiano attorno, / insultando il suo dolore».

A questo punto si udì un riso soffocato; erano i due giovani arrivati che senza dubbio trovavano la metafora troppo ardita. «Lo sparviero si risveglierà, spiegherà le sue ali, / laverà il suo becco nel sangue! / E a te, Charles-Baptiste, i tuoi amici / ti ri­ volgono l’ultimo saluto. / Le loro lacrime sono colate. / La pove­ ra orfana sola non ti piangerà più. / Perché piangerti? / Ti sei ad­ dormentato in pieno giorno / in mezzo alla tua famiglia, / pron­ to a comparire / davanti all’Onnipotente. / L’orfana piange suo padre, / sorpreso da vili assassini, / colpito alle spalle; / suo padre il cui sangue è rosso / sotto il cumulo di foglie verdi. / Ma lei ha raccolto il suo sangue, / questo sangue nobile e innocente; / lei lo ha sparso su Pietranera, / perché diventi veleno mortale. / E Pie­ tranera resterà segnata, / fino a che sangue colpevole / abbia lava­ to la traccia del sangue innocente».

Terminando quelle parole, Colomba si lasciò cadere su una se­ dia, si abbassò il mezzaro sul viso, e la udirono singhiozzare. Le donne in lacrime si affollarono intorno all’improwisatrice; molti uomini, gettarono sguardi minacciosi sul sindaco e i suoi figli; qualche vecchio mormorò per lo scandalo che avevano cagionato con la loro presenza. Il figlio del defunto avanzò tra la calca, e si disponeva a pregare il sindaco di sgombrare il luogo al più presto; ma questi non aveva atteso l’invito. Stava già sulla porta e i due fi­ gli erano in strada. Il prefetto rivolse qualche frase di condo­ glianza al giovane Pietri, e li seguì quasi subito. Per quanto ri­ guarda Orso, si accostò alla sorella, le prese il braccio e la trascinò fuori della sala. «Accompagnateli!», disse il giovane Pietri ad alcuni dei suoi amici. «Badate che non gli succeda nulla!». Due o tre giovani misero prontamente lo stiletto nella manica sinistra della giacca, e scortarono Orso e la sorella fino alla porta di casa. 306

XIII

Colomba ansimante, esausta, non era più in grado di artico­ lare parola. La testa era reclina sulla spalla del fratello, teneva una mano di lui stretta fra le sue. Benché Orso, fosse nell’intimo ab­ bastanza scontento della sua perorazione, si sentiva troppo in­ quieto per rivolgerle il minimo rimprovero. Attendeva in silen­ zio la fine della crisi nervosa alla quale Colomba sembrava in preda, quando bussarono alla porta, e Saveria entrò tutta sgo­ menta, annunciando: «Il signor prefetto!» A quel nome Colom­ ba si alzò come vergognosa della propria debolezza, e stette in piedi, appoggiandosi a una sedia che tremava visibilmente sotto la sua mano. Il prefetto esordì con qualche scusa banale sull’ora indebita della sua visita, compianse la signorina Colomba, parlò del peri­ colo delle forti emozioni, biasimò l’usanza delle lamentazioni fu­ nebri che il talento stesso della voceratrice rendeva ancora più pe­ nose per l’uditorio; insinuò abilmente un lieve rimprovero sul ca­ rattere dell’ultima improvvisazione. Poi, cambiando tono: «Signor della Rebbia», disse, «i vostri amici inglesi mi hanno incaricato per voi, di molti complimenti: Miss Nevil invia tante espressioni amichevoli alla signorina vostra sorella. Ho per voi una sua lettera da consegnarvi». «Una lettera di miss Nevil?», esclamò Orso. «Purtroppo non ce l’ho con me, ma potrete averla fra cinque minuti. Suo padre è stato male. Abbiamo temuto per un momen­ to che avesse preso le nostre terribili febbri. Per sua fortuna ora è fuori pericolo, e voi stesso giudicherete, poiché lo vedrete presto, immagino». «Miss Nevil deve essere stata molto in pensiero?». «Fortunatamente, ha saputo del pericolo solo dopo che era già lontano. Signor della Rebbia, miss Nevil mi ha molto parlato di voi e della signorina vostra sorella». Orso si inchinò. «Ha molta amicizia per entrambi. Sotto un aspetto pieno di grazia, sotto un’apparenza frivola, nasconde una perfetta as­ sennatezza». «E una persona deliziosa», disse Orso. 307

«Ed è quasi per una sua preghiera che io sono qui, signore. Nessuno conosce meglio di me una fatale vicenda che io vorrei non dovervi ricordare. Ma poiché il signor Barricini è tuttora sin­ daco di Pietranera, e io prefetto di questa provincia, non ho biso­ gno di dirvi in quale conto tenga certi sospetti, dei quali, se sono ben informato, alcune persone imprudenti vi hanno fatto parte, e che voi avete respinto, lo so, con quello sdegno che ci si doveva aspettare dalla vostra posizione e dal vostro carattere». «Colomba», disse Orso agitandosi sulla sedia, «sei molto stanca. Dovresti andare a letto». Colomba scosse la testa in segno di rifiuto. Aveva ripreso la sua calma solita e fissava il prefetto con occhi ardenti. «Il signor Barricini», continuò il prefetto, «bramerebbe viva­ mente veder cessare questa specie d’inimicizia..., ossia questo stato d’incertezza nel quale vi trovate uno di fronte all’altro... Per parte mia, sarei quanto mai felice di vedervi stabilire con lui rapporti qua­ li devono avere fra loro persone degne di reciproca stima. «Signore», interruppe Orso con voce commossa, «non ho mai accusato l’avvocato Barricini d’aver assassinato mio padre, ma egli ha commesso un’azione che mi impedirà sempre di avere qualsiasi relazione con lui. Ha inventato una lettera minatoria, a firma di un certo bandito... o almeno l’ha subdolamente attri­ buita a mio padre. Questa lettera, insomma, signore, che proba­ bilmente è stata la causa indiretta della sua morte». Il prefetto si raccolse per un attimo. «Che il vostro signor padre l’abbia creduto, quando, trascina­ to dalla vivacità del proprio carattere, era in causa con il signor Barricini, il fatto è scusabile; ma, da parte vostra, un accecamen­ to simile non è più consentito. Riflettete dunque che Barricini non aveva interesse a contraffare quella lettera. Non vi parlo del suo carattere..., non lo conoscete, siete prevenuto verso di lui..., ma non potete supporre che un uomo informato delle leggi...». «Ma signore», disse Orso alzandosi, «vogliate riflettere che dirmi che quella lettera non è opera del signor Barricini, significa attribuirla a mio padre. Il suo onore, signore, è il mio». «Nessuno più di me, signore», continuò il prefetto, «è con­ vinto dell’onore del colonnello della Rebbia... ma... l’autore di quella lettera è noto ora». 308

«Chi?», gridò Colomba muovendosi verso il prefetto. «Un miserabile, colpevole di molti delitti... di quei delitti che voi non perdonate, voi altri corsi... un ladro, un certo Tomaso Bianchi, ora detenuto nelle carceri di Bastia, ha confessato di es­ sere l’autore di quella lettera fatale». «Non conosco quest’uomo», disse Orso. «Quale poteva esse­ re il suo scopo?». «È uno di questo paese», disse Colomba, «fratello di un no­ stro vecchio mugnaio. E un malvagio e un bugiardo indegno di essere creduto». «Vedrete», continuò il prefetto, «l’interesse che aveva in que­ sta faccenda. Il mugnaio di cui ha fatto cenno la signorina vostra sorella - si chiamava, credo, Théodore, - teneva in affitto dal co­ lonnello un mulino sul corso d’acqua di cui il signor Barricini contestava la proprietà al vostro signor padre. Il colonnello, ge­ neroso come al solito, non traeva quasi nessun profitto dal suo mulino. Ora, Tomaso ha pensato che se il signor Barricini avesse ottenuto il corso d’acqua, avrebbe dovuto pagare un affitto con­ siderevole, poiché si sa che al signor Barricini piace abbastanza il denaro. In breve, per favorire il fratello, Tomaso ha contraffatto la lettera del bandito, ed ecco tutta la storia. Voi sapete che i vin­ coli di famiglia sono così potenti in Corsica da trascinare talvolta al delitto... Vogliate prendere visione di questa lettera che mi ha scritto il procuratore generale, vi confermerà ciò che vi ho appe­ na detto». Orso scorse la lettera che riferiva al dettaglio la confessione di Tomaso, e Colomba, nello stesso tempo, leggeva di sopra alla spalla del fratello. Quando ella ebbe finito, esclamò: «Orlanduccio Barricini è stato a Bastia un mese fa, quando ha saputo che mio fratello stava per tornare. Avrà visto Tomaso e gli avrà comprato questa menzogna». «Signorina», disse il prefetto con impazienza, «spiegate tutto con supposizioni odiose; è questo il mezzo per scoprire la verità? Voi, signore,avete sangue freddo; ditemi, che pensate ora? Crede­ te voi, come la signorina, che un uomo che ha una condanna al­ quanto lieve si addossi a cuor leggero un delitto falso per com­ piacere una persona che non conosce?». 309

Orso rilesse la lettera del procuratore generale, pesando ogni parola con un’ attenzione straordinaria; perché, da quando aveva visto l’avvocato Barricini, stentava a lasciarsi convincere come non gli sarebbe accaduto nei giorni precedenti. Alla fine, si vide costretto a confessare che la spiegazione gli sembrava sufficiente. Ma Colomba esclamò con forza: «Tomaso Bianchi è un furbo. Non sarà condannato o scapperà di prigione, ne sono sicura». Il prefetto alzò le spalle. «Vi ho reso edotto, signore», disse, «delle informazioni che ho ricevuto. Mi ritiro, e vi lascio alle vostre riflessioni. Aspetterò che la ragione vi abbia illuminato, e spero che possa prevalere sulle... supposizioni di vostra sorella». Orso, dopo alcune parole per scusare Colomba, ripete di cre­ dere ora che Tomaso era il solo colpevole. «Se non fosse così tardi», disse, «vi proporrei di venire con me a prendere la lettera di miss Nevil... Con la stessa occasione, po­ treste dire al signor Barricini quanto mi avete detto or ora, e tut­ to sarebbe finito». «Mai Orso delle Rebbia entrerà da un Barricini!», gridò Co­ lomba con impeto «La signorina è il tintmajo4' della famiglia, a quanto sembra», disse il prefetto in tono di canzonatura. «Signore», disse Colomba con voce ferma, «v’ingannano. Non conoscete l’avvocato. E il più astuto, il più furbo, degli uo­ mini. Ve ne scongiuro, non fate fare Orso a un’azione che lo co­ prirebbe di vergogna». «Colomba!», esclamò Orso, «la passione ti fa sragionare». «Orso! Orso! ve ne supplico per la cassetta che vi ho dato, ascoltatemi. Tra noi e i Barricini c’è sangue; voi non andrete da loro!». «Sorella mia!». «No, fratello mio, non andrete, o io lascerò questa casa e non mi vedrete più... Orso abbiate pietà di me». E cadde in ginocchio. 41 Si chiama così il montone munito di sonaglio che conduce il branco, e, per me­ tafora, si dà lo stesso nome al membro di una famiglia che la dirige in tutte le faccende importanti.

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«Sono desolato», dichiarò il prefetto, «di vedere la signorina della Rebbia così poco ragionevole. Voi la convincerete, ne so­ no sicuro». Dischiuse la porta e si fermò, come attendendo che Orso lo dovesse seguire. «Non la posso lasciare ora», disse Orso, «...Domani, se...». «Parto di buon’ora», disse il prefetto. «Almeno, fratello mio», esclamò Colomba con le mani giun­ te, «aspettate fino a domani mattina. Lasciatemi rivedere le carte di mio padre... Non mi potete negare questo!». «Ebbene, le vedrai stasera, ma per lo meno poi non mi tormen­ terai più con quest’odio stravagante... Mille scuse, signor prefet­ to... Anch’io mi sento a disagio... È meglio che sia per domani...». «La notte porta consiglio», disse il prefetto nel ritirarsi, «spe­ ro che domani tutte le vostre titubanze saranno terminate». «Saveria», gridò Colomba, «prendi la lanterna e accompagna il signor prefetto. Ti consegnerà una lettera per mio fratello». E sottovoce aggiunse alcune parole che Saveria sola intese. «Colomba», disse Orso quando il prefetto se ne fu andato, «mi ha arrecato molto dolore. Rifiuterai dunque sempre l’evidenza?». «Mi avete concesso fino a domani», rispose lei. «Ho assai po­ co tempo, ma spero ancora». Poi prese un mazzo di chiavi e corse in una stanza del piano di sopra. Là, fu udita aprire precipitosamente alcuni cassetti e fruga­ re in uno scrittoio, nel quale il colonnello della Rebbia chiudeva un tempo le sue carte importanti. XIV

Saveria rimase fuori a lungo, e Orso era al colmo dell’impa­ zienza quando ricomparve finalmente con una lettera, seguita dalla piccola Chilina, che si stropicciava gli occhi, perché era sta­ ta svegliata nel primo sonno. «Bambina», disse Orso, «che vieni a fare qui a quest’ora?». «La signora mi vuole», rispose Chilina. «Che diavolo vuole?», pensò Orso; ma si affrettò a dissuggel­ lare la lettera di miss Lydia e, mentre leggeva, Chilina salì dietro sua sorella. 311

«Mio padre è stato un po’ male, signore», diceva miss Nevil, «e d’altronde è così pigro nello scrivere che io sono costretta a fargli da segretaria. L’altro giorno, voi sapete che si bagnò i piedi sul bor­ do del mare, invece di ammirare con noi il paesaggio, e non occor­ re altro per buscarsi la febbre nella vostra bella isola. Vedo da qui la faccia che fate: cercate senza dubbio il vostro stiletto, ma spero che non lo avrete più. Dunque, mio padre ha avuto un po’ di feb­ bre e io molto terrore: il prefetto, che io persisto nel ritenere assai gentile, ci ha procurato un medico molto gentile anche lui, che in due giorni ci ha tolti d’impiccio: la febbre non è più ricomparsa, e mio padre vuol tornare a caccia; ma glielo proibisco ancora. Come avete trovato il vostro castello nelle montagne? La vostra torre di settentrione è sempre nello stesso luogo? Ci sono fantasmi? Vi fac­ cio tutte queste domande, perché mio padre si ricorda che gli ave­ te promesso daini, cinghiali, mufloni... È questo il nome di quel­ l’animale strano? Nell’imbarcarci a Bastia, contiamo di chiedervi ospitalità, e spero che il castello della Rebbia, che voi mi dite così vecchio e malandato, non crollerà sulle nostre teste. Benché il pre­ fetto sia tanto simpatico che con lui non mancano mai soggetti di conversazione, by the by*2, mi lusingo di avergli fatto girare la te­ sta. Abbiamo parlato di vossignoria. I giureconsulti di Bastia gli hanno mandato certe rivelazioni di un malvivente che tengono sot­ to chiave, e queste sono di natura tale da distruggere i vostri resi­ dui sospetti; la vostra inimicizia, che talvolta mi impensieriva, deve quindi cessare. Non avete idea quanto mi ha fatto piacere. Quan­ do siete partito con la bella voceratrice, il fucile in pugno, lo sguar­ do cupo, mi sembraste più corso del solito... fin troppo corso. Ba­ stai Mi dilungo a scrivervi perché mi annoio. Il prefetto deve an­ dar via, ahimè! Vi spediremo un messaggio prima di incamminarci sulle vostre montagne, e mi prenderò la libertà di scrivere alla si­ gnorina Colomba per chiederle un bruccio, ma solenne. Nell’atte­ sa, ditele mille cose affettuose. Faccio grande uso del suo stiletto, ci taglio le pagine di un romanzo che ho poilato; ma quel ferro terri­ bile si indigna per un tale uso e mi lacera il libro in modo pietoso. Addio, signore; mio padre vi manda his best love*\ Ascoltate il pre42 [In inglese nel testo]. ” [in italiano nel testo]. 44 [In inglese nel testo].

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fetto, è uomo di buon consiglio e allunga la sua strada, credo, a cau­ sa vostra; va a posare una prima pietra a Corte; suppongo che deb­ ba essere una cerimonia assai imponente, e mi rincresce di non as­ sistervi. Un signore in abito ricamato, con le calze di seta, sciarpa bianca, una cazzuola in mano!... e un discorso; la cerimonia si chiuderà con le grida, mille volte ripetute, di viva il re! Vi gloriere­ te di avermi fatto riempire quattro pagine; ma io mi annoio, signo­ re, ve lo ripeto, e proprio per questo vi permetto di scrivermi lun­ gamente. A proposito, trovo strano che non mi abbiate ancora par­ tecipato il vostro felice arrivo in Pietranera-Castle. Lydia». «P. S. Vi chiedo di ascoltare il prefetto, e di fare ciò che vi dirà. Abbiamo concertato insieme che dovreste agire così, e questo mi farà piacere». Orso lesse tre o quattro volte questa lettera, accompagnando mentalmente ogni lettura di innumerevoli commenti; poi scrisse una lunga risposta che incaricò Saveria di affidare a un uomo del paese che partiva la notte stessa per Ajaccio. Non pensava già più a discutere con la sorella di torti, veri o falsi dei Barricini, la lette­ ra di miss Lydia gli faceva vedere tutto rosa; non aveva più so­ spetti, né odio. Dopo aver per un poco atteso che la sorella ridiscendesse, e non vedendola ricomparire, andò a letto con il cuo­ re più leggero come non aveva sentito da un pezzo. Chilina es­ sendo stata accomiatata con segrete istruzioni, Colomba trascor­ se la maggior parte della notte a leggere vecchi scritti. Un po’ pri­ ma del giorno, qualche sassolino fu lanciato contro la sua finestra; a quel segnale, scese in giardino, aprì una porta nascosta, e fece entrare in casa due uomini di pessima grinta; sua prima cura fu di condurli in cucina e di dar loro da mangiare. Chi fossero questi uomini, si saprà tra poco. XV

Al mattino, verso le sei, un domestico del prefetto bussava al­ la casa di Orso. Ricevuto da Colomba, le disse che il prefetto sta­ va per partire, e che attendeva il fratello. Colomba rispose senza 313

esitare che il fratello era allora caduto per le scale e si era slogato il piede; che era incapace di muovere un solo passo, supplicava il signor prefetto di volerlo scusare e gli sarebbe stato assai ricono­ scente se si fosse degnato di passare da lui. Poco dopo questo messaggio, Orso scese e chiese alla sorella se il prefetto non lo avesse mandato a cercare. «Vi prega di attenderlo qui», disse lei con la più grande si­ curezza. Passò mezz’ora senza che si scorgesse il più piccolo movi­ mento verso la casa dei Barricini; nel frattempo, Orso chiedeva alla sorella se aveva fatto qualche scoperta; ella rispose che si sa­ rebbe spiegata in presenza del prefetto. Ostentava una grande cal­ ma, ma il colore del suo viso e i suoi occhi tradivano un’agitazio­ ne febbrile. Finalmente si vide aprirsi la porta di casa Barricini; il prefetto, in abito da viaggio, uscì per primo, seguito dal sindaco e dai suoi due figli. Quale fu lo stupore degli abitanti di Pietranera, in ve­ detta fin dal levare del sole, per assistere alla partenza del primo magistrato della provincia, quando lo videro attraversare la piaz­ za in linea retta ed entrare in casa della Rebbia accompagnato dai tre Barricini. «Fanno la pace!», esclamarono i politici del paese. «Ve lo dicevo io!», aggiunse un vecchio. «Orso Antonio è vissuto troppo a lungo sul continente per far le cose da uomo di fegato». «Comunque», rispose un rebbianista, «fate caso che sono i Barricini a recarsi da lui. Chiedono grazia». «E il prefetto che li ha abbindolati tutti», replicò il vecchio; «oggi non c’è più coraggio, e i giovani si danno pensiero del san­ gue paterno come se fossero tutti bastardi». Il prefetto fu molto meravigliato nel trovare Orso alzato e in atto di camminare senza fastidio. In due parole, Colomba si ac­ cusò della bugia e gli chiese scusa: «Se aveste preso alloggio altrove, signor prefetto, mio fratello sarebbe venuto ieri ad ossequiarvi». Orso non si profondeva in scuse, protestando di essere del tutto estraneo a quell’astuzia ridicola, della quale era profonda­ mente mortificato. Il prefetto e il vecchio Barricini sembrarono credere alla sincerità del suo rincrescimento, confermato d’al­ 314

tronde dal suo turbamento e dai rimproveri che rivolgeva alla so­ rella; ma i figli del sindaco non sembrarono soddisfatti: «Si burlano di noi», disse Orlanduccio, abbastanza forte per­ ché lo sentissero. «Se mia sorella mi giocasse di questi tiri», disse Vincentello, «le toglierei presto la voglia di ricominciare». Quelle parole e il tono con cui furono dette spiacquero ad Or­ so e gli fecero perdere un po’ della sua buona volontà. Scambiò con i giovani Barricini occhiate scevre d’ogni benevolenza. Nondimeno, dopo che tutti si furono seduti, tranne Colom­ ba, che rimaneva in piedi vicino alla porta della cucina, il pre­ fetto prese la parola e, detti alcuni luoghi comuni sui pregiudizi del paese, ricordò che la maggior parte delle inimicizie più in­ veterate avevano origine da malintesi. Poi, rivolgendosi al sin­ daco, gli disse che il signor della Rebbia non aveva mai creduto che la famiglia Barricini avesse partecipato in modo diretto o in­ diretto al miserabile evento che lo aveva privato del padre; per la verità gli era rimasto qualche dubbio circa un particolare del processo che si era svolto fra le due famiglie; che questo dubbio si giustificava dalla lunga assenza del signor Orso e dalla natura delle notizie che aveva ricevuto; che illuminato ora da recenti ri­ velazioni, si riteneva completamente soddisfatto, e desiderava stabilire con il signor Barricini e con i suoi figli rapporti di ami­ cizia e di buon vicinato. Orso si inchinò con aria impacciata; il signor Barricini mor­ morò qualche parola che nessuno intese; i suoi figli guardarono le travi del soffitto. Il prefetto, continuando la sua arringa, stava per rivolgere a Orso la contropartita di quanto aveva detto al signor barricini, quando Colomba, tirando fuori alcune carte di sotto il lazzoletto, si fece avanti, grave in volto, tra le parti contraenti: «Sarebbe un vivissimo piacere», disse, «veder finire la guerra tra le nostre due famiglie; ma perché la riconciliazione sia since­ ra, è necessario spiegarsi e non lasciare nulla in dubbio. Signor prefetto, la dichiarazione di Tomaso Bianchi mi riusciva giusta­ mente sospetta, provenendo da un uomo di pessima fama. Ho detto che forse i vostri figli hanno visto quell’uomo nella prigio­ ne di Bastia». «E falso», interruppe Orlanduccio, «non l’ho visto». 315

Colomba gli gettò un’occhiata sprezzante e continuò, appa­ rentemente molto calma: «Avete spiegato l’interesse, che Tomaso poteva avere a minac­ ciare il signor Barricini nel nome di un temibile bandito, con il desiderio di conservare al fratello Teodoro il mulino che mio pa­ dre gli affittava per pochi soldi?...». «È evidente», disse il prefetto. «Da parte di un miserabile, come sembra essere questo Bian­ chi, tutto si spiega», disse Orso, ingannato dall’aria di modera­ zione della sorella. «La lettera falsa», proseguì Colomba, gli occhi della quale co­ minciavano a brillare di una luce più viva, «è datata 11 luglio. To­ maso allora, si trovava al mulino, dal fratello». «Sì», disse un po’ inquieto il sindaco. «Che interesse aveva dunque Tomaso Bianchi?», esclamò Co­ lomba con aria di trionfo. «Il contratto del fratello era scaduto; mio padre lo aveva licenziato il 1° luglio. Ecco il registro di mio padre, la minuta della disdetta, la lettera di un uomo d’affari di Ajaccio che ci proponeva un nuovo mugnaio». Così parlando, consegnò al prefetto le carte che aveva in mano. Vi fu un momento di stupore generale. Il sindaco impallidì vi­ sibilmente; Orso aggrottando le sopracciglia, si fece avanti per prendere visione delle carte che il prefetto leggeva con molta at­ tenzione. «Si burlano di noi!», gridò di nuovo Orlanduccio, alzandosi con rabbia. «Andiamocene, padre mio, non saremmo mai dovuti venire qui!». Fu sufficiente un solo istante al signor Barricini per riprende­ re il suo sangue freddo. Chiese di esaminare le carte; il prefetto gliele consegnò senza dire una parola. Allora, alzando gli occhia­ li verdi sulla fronte, le percorse con aria indifferente, mentre Co­ lomba lo osservava con gli occhi di una tigre che vede un daino avvicinarsi alla tana dei suoi piccoli. «Ma», disse il signor Barricini riabbassando gli occhiali e resti­ tuendo le carte al prefetto, «conoscendo la generosità del signor colonnello... Tomaso ha pensato... ha dovuto pensare... che il si­ gnor colonnello avrebbe ripensato la sua decisione di licenziarlo... Di fatto, è rimasto in possesso del mulino, dunque...». 316

«Sono io», disse Colomba con tono sprezzante, «che gliel’ho conservato. Mio padre era morto, e nella mia posizione, dovevo tener buoni i clienti della mia famiglia». «Però», disse il prefetto, «quel Tomaso riconosce di aver scrit­ to la lettera... questo è chiaro». «Quel che è chiaro per me», interruppe Orso, «è che in tutta questa faccenda ci sono grandi infamie nascoste». «Devo ancora controbattere un’asserzione di questi signori», disse Colomba. Aprì la porta della cucina, e subito entrarono nella sala Brandolaccio, il laureato in teologia e il cane Brusco. I due banditi era­ no senza armi, per lo meno visibili; avevano la cartucciera alla cin­ tura, ma senza la pistola che ne era il complemento d’obbligo. Entrando nella sala si tolsero rispettosamente i berretti. Si può immaginare l’effetto che produsse quella subitanea ap­ parizione. Il sindaco per poco non cadde all’indietro; i figli si get­ tarono davanti a lui, le mani in tasca, cercando gli stiletti. Il pre­ fetto fece un movimento verso la porta, mentre Orso, agguanta­ to Brandolaccio per il collo, gli gridò: «Che vieni a fare qui, miserabile?». «È un tranello!», gridò il sindaco cercando di aprire la porta; ma Saveria l’aveva chiusa dall’esterno a doppia mandata, per or­ dine dei banditi, come si seppe in seguito. «Buona gente!», disse Brandolaccio, «non abbiate timore di me. Non sono così diavolo come sono nero. Non abbiamo nes­ suna cattiva intenzione. Signor prefetto, sono vostro servitore, lenente mio, un po’ di garbo, mi strangolate. Veniamo qui come testimoni. Su, parla tu, curato, tu hai la lingua sciolta». «Signor prefetto», disse il laureato, «io non ho l’onore di esse­ re conosciuto da voi. Mi chiamo Giocanto Castriconi, meglio no­ to con il nome di Curato... Ah! vi ricordate di me! La signorina, che non avevo il beneficio di conoscere, mi ha fatto pregare di darle qualche notizia su di un certo Tomaso Bianchi, con il quale sono stato detenuto, tre settimane fa, nelle carceri di Bastia. Ecco ciò che ho da dirvi...». «Non ve ne prendete fastidio», disse il prefetto, «non ho nul­ la da ascoltare da uno come voi... Signor delle Rebbia, voglio cre­ dervi del tutto estraneo a questo odioso complotto. Ma siete al­ 317

meno padrone in casa vostra? Fate aprire questa porta. Vostra so­ rella dovrà forse rispondere delle strane relazioni che mantiene con dei banditi». «Signor prefetto», esclamò Colomba, «degnatevi di ascoltare quanto sta per dirvi quest’uomo. Voi siete qui per rendere giusti­ zia a tutti, e il vostro dovere è ricercare la verità. Parlate Giocanto Castriconi». «Non lo ascoltate!», gridarono in coro i tre Barricini. «Se tutti parlano insieme», disse il bandito sorridendo, «non ci sarà modo di capirsi. In prigione dunque, avevo per compagno, non per amico, il Tomaso in questione. Riceveva frequenti visite del signor Orlanduccio...». «È falso», gridarono insieme i due fratelli. «Due negazioni equivalgono a un’affermazione», osservò pla­ cidamente Castriconi. «Tomaso aveva del denaro; mangiava e be­ veva meglio. Mi è sempre piaciuta la buona tavola (è il più picco­ lo dei miei difetti) e, nonostante la ripugnanza a frequentare quel buffone, cedetti più volte alla tentazione di cenare con lui. Per gratitudine, gli offrii di fuggire con me... Una piccola... cui ave­ vo dimostrato una certa benevolenza, me ne aveva procurato i mezzi... Non voglio compromettere nessuno. Tomaso rifiutò, mi disse che era certo dell’affar suo, che l’avvocato Barricini lo ave­ va raccomandato a tutti i giudici, che sarebbe uscito di là come candido come neve, e con i soldi in tasca. Io, invece, credetti di dover prendere il volo. Dixi». «Tutto quello che sta raccontando quest’uomo è un mucchio di bugie», ripete risolutamente Orlanduccio. «Non parlerebbe così se fossimo in aperta campagna, entrambi con il nostro fucile». «Ecco una sciocchezza!», esclamò Brandolaccio. «Non vi gua­ state con il Curato, Orlanduccio». «Mi lascerete uscire, alla fine, signor della Rebbia?», disse il prefetto pestando i piedi con impazienza. «Saveria! Saveria!», gridò Orso. «Aprite la porta, per tutti i diavoli!». «Un momento», disse Brandolaccio. «Spetta prima a noi svi­ gnarcela per i fatti nostri. Signor prefetto, è nell’uso, quando ci si incontra presso comuni amici, di concedersi una mezz’ora di tre­ gua nel lasciarci». 318

Il prefetto gli lanciò un’occhiata sprezzante. «Servo di tutta la compagnia», disse Brandolaccio. Poi, sten­ dendo il braccio orizzontalmente: «Andiamo, Brusco!», disse al cane, «salta per il signor prefetto!». Il cane saltò; i banditi raccolsero in fretta le loro armi in cuci­ na, fuggirono attraverso il giardino, e a un fischio acuto, la porta della stanza si aprì, come per magia. «Signor Barricini», disse Orso con rattenuto furore, «vi repu­ to un falsario. Oggi stesso sporgerò querela contro di voi al pro­ curatore del re, per falso e complicità con Bianchi. Forse formu­ lerò contro di voi un’accusa anche più terribile». «E io, signor della Rebbia», disse il sindaco, «sporgerò quere­ la contro di voi per agguato e complicità con i banditi. Nell’atte­ sa, il signor prefetto vi raccomanderà ai gendarmi». «Il prefetto farà il proprio dovere», disse questi in tono seve­ ro. «Veglierà perché non si turbi l’ordine a Pietranera, curerà che sia fatta giustizia. Parlo per tutti voi, signori». Il sindaco e Vincentello erano già fuori della sala, e Orlanduccio li seguiva, camminando a ritroso, quando Orso gli disse sot­ tovoce: «Vostro padre è un vecchio che spiaccicherei con un solo schiaffo: è a voi che ne farò assaggiare, a voi e a vostro fratello». Per tutta risposta, Orlanduccio tirò fuori lo stiletto e si av­ ventò su Orso come un forsennato; ma prima che potesse fare uso dell’arma, Colomba gli afferrò il braccio e glielo torse con (orza, mentre Orso, colpendolo con un pugno sul viso, lo fece ar­ retrare di alcuni passi e urtare rudemente contro lo stipite della porta. Lo stiletto sfuggì dalla mano di Orlanduccio, ma Vincen­ tello aveva il suo e rientrava nella stanza, quando Colomba, im­ possessatasi di un fucile, gli provò che la partita non era pari. Nel­ lo stesso tempo il prefetto si gettò tra i contendenti. «A presto, Ors’ Anton’!», gridò Orlanduccio; e tirandosi die­ tro con violenza la porta della stanza, la chiuse a chiave per avere il tempo di ritirarsi. Orso e il prefetto rimasero un quarto d’ora senza parlare, ognuno a un’estremità della stanza, Colomba, con l’orgoglio del trionfo in fronte, osservava ora l’uno ora l’altro, appoggiata al fu­ cile che aveva deciso la vittoria. 319

«Che paese! che paese!», esclamò alla fine il prefetto, alzando­ si con impeto. «Signor della Rebbia, avete avuto torto. Vi chiedo la vostra parola d’onore che vi asterrete da qualsiasi atto di vio­ lenza e che aspetterete che la giustizia decida su questa maledetta faccenda». «Sì, signor prefetto, ho avuto torto a colpire quel miserabile; ma infine l’ho colpito, e non posso negargli la soddisfazione che mi ha chiesto». «Eh! no, costui non vuole battersi con voi!... Ma se vi assassi­ na... avrete fatto l’occorrente per incoraggiarlo». «Ci guarderemo», disse Colomba. «Orlanduccio», disse Orso, «mi sembra un giovane di fegato e spero meglio da lui, signor prefetto. È stato pronto a tirar fuo­ ri lo stiletto, ma, al posto suo, non mi sarei forse comportato di­ versamente; e sono contento che mia sorella non abbia un polso da donnicciola». «Voi non vi batterete!», esclamò il prefetto. «Ve lo proibisco!». «Permettetemi di dirvi, signore, che in fatto d’onore non rico­ nosco altra autorità all’infuori della mia coscienza». «Vi dico che non vi batterete!». «Potete farmi arrestare, signore... cioè, se mi lascio cogliere. Ma se ciò accadesse, non riuscireste che a rimandare un incontro ormai inevitabile. Siete un uomo d’onore, signor prefetto, e sape­ te bene che non può essere diversamente». «Se faceste arrestare mio fratello», aggiunse Colomba, «la metà del paese si schiererebbe dalla nostra parte, e si sentirebbe un bel concerto di fucilate». «Vi prevengo, signore», disse Orso, «e vi supplico di credere che non parlo per spavalderia; vi prevengo, che se il signor Barricini abusasse della sua autorità di sindaco per farmi arrestare, io mi difenderò». «Da oggi», disse il prefetto, «il signor Barricini è sospeso dal­ le sue funzioni... Si giustificherà, spero... Ecco, signore, voi m’interessate. Quanto vi chiedo è ben poca cosa: restate a casa vostra tranquillo fino al mio ritorno da Corte. Rimarrò assente solo tre giorni. Ritornerò con il procuratore del re, e districhere­ mo allora completamente questa triste faccenda. Mi promettete di astenervi fino a quel momento ogni ostilità?». 320

«Non posso prometterlo, signore, se, come penso Orlanduccio mi chiederà uno scontro». «Come! signor della Rebbia, voi, un soldato francese, voi vo­ lete battervi con uno che sospettate di falso?». «Io l’ho percosso, signore». «E se colpiste un galeotto, e quegli ve ne chiedesse ragione, vi battereste con lui, dunque? Via, signor Orso! Ebbene, vi chiederò ancora meno: non cercate Orlanduccio... Vi permetto di battervi se è lui a chiedervi un incontro». «Mi cercherà lui, non ne dubito, ma vi prometto di non dargli altri schiaffi per indurlo a battersi». «Che paese!», ripeteva il prefetto camminando a lunghi. «Quand’è che me ne tornerò in Francia?». «Signor prefetto», gli disse Colomba con il suo tono di voce più dolce, «si fa tardi, ci fareste l’onore di fare colazione qui?». Il prefetto non potè trattenersi dal ridere. «Sono rimasto qui fin troppo... ciò somiglia a un altro atto di parzialità... E questa maledetta pietra! Bisogna che io me ne vada... Signorina della Rebbia..., quanti guai avete forse preparato oggi!». «Almeno, signor prefetto, sareste abbastanza giusto con mia sorella da riconoscere che le sue convinzioni sono profonde; e ne sono sicuro ora, anche voi le ritenete fondate». «Arrivederci, signore», disse il prefetto salutandolo con un cenno della mano. «Vi avverto che vado a dar ordine al brigadie­ re dei gendarmi di seguire tutte le vostre mosse». Quando il prefetto fu uscito: «Orso», disse Colomba, «qui non siete sul continente. Orlan­ ti uccio non sa niente dei vostri duelli, e d’altronde quell’assassino non deve cadere di morte onorata». «Mia buona Colomba, tu sei una donna forte. Ti sono obbli­ gatissimo per avermi salvato da una buona coltellata. Dammi la tua manina che la baci. Però, sentimi, lascia fare a me. Ci sono certe cose non che non puoi capire. Dammi la colazione; e, appe­ na il prefetto si sarà messo in viaggio, fammi venire qui la picco­ la Chilina, che sembra assolvere a meraviglia le incombenze che riceve. Avrò bisogno di lei per recapitare una lettera». Mentre Colomba sorvegliava preparativi della colazione, Or­ so salì in camera sua e scrisse il seguente biglietto: 321

«Sarete ansioso d’incontrarmi; io non lo sono meno di voi. Domani mattina possiamo trovarci alle sei nella valle d’Acquaviva. Io sono abilissimo nel tirare con la pistola, e non vi propongo tale arma. Dicono che maneggiate bene il fucile: prendiamo cia­ scuno un fucile a due colpi. Io verrò con un uomo del paese. Se vostro fratello vuole accompagnarvi, chiamate un secondo padri­ no e avvisatemi. Solo in tal caso verrò con due testimoni. Orso Antonio Della Rebbia». Il prefetto, dopo essere rimasto un’ora in casa dell’aggiunto, dopo essere entrato per pochi minuti dai Barricini, partì per Cor­ te, scortato da un solo gendarme. Un quarto d’ora dopo, Chilina portò la lettera che abbiamo appena letto e la consegnò nelle ma­ ni dello stesso Orlanduccio. La risposta si fece attendere e non giunse che in serata. Era fir­ mata dal signor Barricini padre, il quale annunciava a Orso che avrebbe deferito al procuratore del re la lettera minatoria indiriz­ zata al figlio. «Confortato dalla mia coscienza», aggiungeva nella chiusa, «aspetto che la giustizia si pronunzi sulle vostre calunnie». Nel frattempo cinque o sei pastori chiamati per ordine di Co­ lomba giunsero per presidiare la torre dei della Rebbia. Malgrado le recriminazioni di Orso, furono praticate le archere alle finestre verso la piazza, e tutta la serata si ebbero offerte di servigi da va­ rie persone del borgo. Giunse pure una lettera dal bandito teolo­ go, il quale prometteva, anche in nome di Brandolaccio, di inter­ venire se il sindaco si fosse fatto assistere dai gendarmi. Termina­ va con il post scriptum·. «Posso osare di chiedervi il pensiero del signor prefetto sul­ l’ottima educazione che il mio amico impartisce al cane Brusco? Dopo Chilina, io non conosco allievo più docile e che mostri di­ sposizioni più felici».

XVI

Il giorno seguente trascorse senza ostilità. Da entrambe le par­ ti si stava sulla difensiva. Orso non uscì di casa, e la porta dei Barricini rimase costantemente chiusa. Si vedevano i cinque gendarmi

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lasciati di guarnigione a Pietranera passeggiare sulla piazza o nei dintorni del paese, fiancheggiati dalla guardia campestre, unico rappresentante della milizia urbana. L’aggiunto non abbandonava la sciarpa; ma tranne le archere alle finestre delle due case nemiche, nulla indicava la guerra. Soltanto un corso avrebbe notato che sul­ la piazza, intorno alla quercia verde, non si vedevano che donne. All’ora di cena, Colomba mostrò con aria contenta al fratello la seguente lettera, che aveva appena ricevuto da miss Nevil:

«Mia cara signorina Colomba, apprendo con vivo piacere da una lettera di vostro fratello che le vostre inimicizie sono termi­ nate. Ricevete, perciò i miei rallegramenti. Mio padre non può più soffrire Ajaccio da quando non c’è più vostro fratello per par­ lare di guerra e andare a caccia con lui. Partiamo oggi, e andremo a pernottare da quella vostra parente, per la quale abbiamo una lettera. Dopo domani, verso le undici, verrò a chiedervi di farmi assaggiare quel bruccio di montagna, tanto superiore, come voi dite, di quello di città. Arrivederci, cara signorina Colomba. La vostra amica, Lydia Nevil». «Non ha dunque ricevuto la mia seconda lettera?», esclamò Orso. «Dalla data della sua, potete vedere che la signorina Lydia do­ veva essere già in viaggio quando la vostra lettera è giunta ad Ajaccio. Le dicevate di non venire?». «Le dicevo che siamo in stato d’assedio. Non mi sembra che sia una situazione adatta per ricevere gente». «Bah! questi inglesi sono persone strane. Mi diceva, l’ultima notte che ho passato in camera sua, che le sarebbe dispiaciuto la­ sciare la Corsica senza aver visto una bella vendetta. Se volete, (. )rso, le potremmo offrire lo spettacolo di un assalto contro la ca­ sa dei nemici!». «Lo sai», disse Orso, «che la natura sbagliò nel farti nascere donna, Colomba? Saresti stata un ottimo soldato». «Può darsi. A ogni modo vado a preparare il bruccio». «È inutile. Bisogna mandare qualcuno ad avvisarli prima che si mettano in viaggio».

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«Sì? volete mandare un messaggero con il tempo che fa, per­ ché qualche torrente lo travolga, insieme con la vostra lettera... Quanto compatisco i poveri banditi con questa bufera! Fortuna­ tamente hanno buoni piloni^. Sapete che cosa bisogna fare, Orso? Se il temporale cessa, partite voi domattina di buon’ora e arriva­ te dalla nostra parente prima che i vostri amici si siano messi in cammino. Vi sarà facile, miss Lydia si alza sempre tardi. Raccon­ terete ciò che è avvenuto qui; e se insistono per venire, li acco­ glieremo con grande piacere». Orso si affrettò ad accogliere tale proposta, e Colomba, dopo un breve silenzio: «Avete creduto forse, Orso», riprese lei, «che io scherzassi quando vi ho parlato di un assalto contro la casa dei Barricini? Sa­ pete che siamo in forze, almeno due contro uno? Da quando il prefetto ha sospeso il sindaco, tutti gli uomini di qui sono con noi. Potremmo farli a pezzi. Sarebbe facile provocare lo scontro. Se lo volete, potrei andare alla fontana, riderei delle loro donne; usci­ rebbero... Forse... perché sono così vili! forse mi tirerebbero ad­ dosso dalle loro archere·, non mi prenderebbero. Allora è deciso: sono loro gli aggressori. Tanto peggio per i vinti: in una zuffa, co­ me trovare coloro che l’hanno combinata più grossa? Date retta a vostra sorella, Orso; le toghe nere che stanno per arrivare spor­ cheranno un po’ di carta, diranno molte parole inutili. Non si verrà a capo di niente. La vecchia volpe troverebbe il modo di far vedere le stelle in pieno pomeriggio. Ah! se il prefetto non si fos­ se messo davanti a Vincentello, ce ne sarebbe uno di meno». Tutto ciò era detto con lo stesso sangue freddo con cui, un mi­ nuto prima, aveva accennato ai preparativi per il bruccio. Orso, stupefatto, guardava la sorella con un’ ammirazione mi­ sta di timore. «Mia dolce Colomba», disse alzandosi da tavola, «io temo che tu sia il diavolo in persona; ma stai tranquilla. Se non riesco a far impiccare i Barricini, troverò il mezzo di venirne a capo in un’al­ tra maniera. Palla calda o ferro freddo!45 46 Come vedi, non ho di­ menticato il corso». 45 Mantello di tela molto pesante fornito di cappuccio. 46 Palla calda a farru fredda, locuzione molto comune.

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«Quanto prima fosse, tanto meglio sarebbe», disse Colomba sospirando. «Che cavallo monterete domani, Ors’Anton’?». «Il nero. Perché me lo chiedi?». «Per fargli dare l’orzo». Ritiratosi Orso nella sua camera, Colomba mandò a dormire Saveria e i pastori, e rimase sola in cucina, dove si cuoceva il bruccio. Di quando in quando tendeva l’orecchio e sembrava attende­ re impaziente che il fratello fosse già coricato. Quando pensò, fi­ nalmente, che dormisse, prese un coltello, si accertò che fosse ta­ gliente, infilò i piedi in un paio di scarponi e, senza fare il mini­ mo rumore, uscì in giardino. Il giardino, cinto di muro, confinava con un terreno alquanto esteso, chiuso di siepi, nel quale si mettevano i cavalli, poiché i ca­ valli corsi non conoscono scuderia. Di solito, si sciolgono in un campo e ci si affida alla loro intelligenza perché trovino di che nu­ trirsi e ripararsi dal freddo e dalla pioggia. Colomba aprì la porta del giardino con la stessa precauzione, entrò nel recinto, e con un lieve fischio attirò a sé i cavalli, ai qua­ li portava spesso pane e sale. Quando il cavallo nero le giunse a portata di mano, lo ghermì forte per la criniera e con il coltello, gli ferì l’orecchio. Il cavallo fece un terribile balzo e fuggì emet­ tendo quel grido acuto che un vivo dolore strappa talvolta agli animali della sua specie. Contenta, Colomba rientrava nel giardi­ no, quando Orso spalancò la finestra e gridò: «Chi va là?». Nel­ lo stesso tempo, udì che armava il fucile. Fortunatamente per lei, la porta del giardino era nella più fitta oscurità, e un grande fico la copriva in parte. Dai bagliori intermittenti che vide brillare nel­ la stanza del fratello, concluse che questi cercava di accendere la lampada. Si affrettò allora a chiudere la porta del giardino, e sgat­ taiolando lungo i muri, di modo che il suo vestito nero si confon­ desse con il fogliame cupo delle spalliere, fece in tempo a rientra­ re in cucina pochi secondi prima che apparisse Orso. «Che c’è?», gli domandò. «Mi è sembrato», disse Orso, «che qualcuno aprisse la porta del giardino». «Impossibile. Il cane avrebbe abbaiato. Comunque andiamo a vedere». 325

Orso fece il giro del giardino, e dopo essersi accertato che la porta esterna fosse ben chiusa, un po’ vergognoso di quel falso al­ larme, si accinse a risalire in camera. «Mi compiaccio nel vedere, fratello mio», disse Colomba, «che diventate prudente, com’è d’obbligo nella vostra posizione». «Sei tu che mi addestri», rispose Orso. «Buonanotte!». La mattina all’alba Orso si era alzato, pronto a partire. Il suo abbigliamento rivelava quella pretesa di eleganza di un uomo che sta per presentarsi a una donna cui vuole piacere, e al tempo stes­ so la prudenza di un corso in vendetta. Sopra un attillato cappot­ to azzurro, portava a tracolla una lattina di cartucce, appesa a un cordone di seta verde; in una tasca di lato aveva lo stiletto, e in pu­ gno il bel fucile Manton caricato a palle. Mentre egli si affrettava a bere una tazza di caffè versatagli da Colomba, un pastore era uscito per sellare e imbrigliare il cavallo. Orso e la sorella lo se­ guirono ed entrarono nel recinto. Il pastore si era impadronito del cavallo, ma aveva lasciato cadere di mano sella e briglia, e sem­ brava inorridito, mentre il cavallo, che si ricordava della ferita della notte precedente e temeva per l’altro orecchio, s’impennava, scalciava, nitriva facendo il diavolo a quattro. «Su, spicciati!», gli gridò Orso. «Ah! Ors’Anton’! Ah! Ors’Anton’», gridava il pastore, «san­ gue della Madonna! ecc.». Erano interminabili imprecazioni, la maggior parte delle qua­ li intraducibili. «Che mai è successo?» chiese Colomba. Si avvicinarono tutti al cavallo, e nel vederlo sanguinante, con l’orecchio ferito, ci fu un’ esclamazione generale di stupore e sde­ gno. Bisogna sapere che mutilare il cavallo di un nemico è, per i corsi, insieme un atto di vendetta, una sfida e una minaccia di morte. «Solo un colpo di fucile può cancellare una tale furfante­ ria». E per quanto Orso, che aveva vissuto per lunghi anni sul continente, sentisse meno degli altri l’enormità dell’oltraggio, pu­ re, se in quel momento qualche barricinista gli fosse apparso, è probabile che gli avrebbe fatto espiare immediatamente quell’in­ sulto che attribuiva ai nemici. «Mascalzoni vigliacchi!», esclamò, «Si vendicano su una pove­ ra bestia, quando non osano di venirmi davanti!». 326

«Che aspettiamo?», gridò Colomba con impeto. «Vengono a provocarci, a sfregiare i nostri cavalli e noi non dovremmo ri­ spondere! Ma che uomini siete?». «Vendetta!», risposero i pastori. «Portiamo il cavallo in giro per il paese e diamo l’assalto alla loro casa». «Accanto alla loro torre c’è un granaio coperto di paglia» dis­ se il vecchio Polo Griffo, «con un colpo di mani gliela mando in fiamme». Un altro proponeva di andare a prendere le scale a pioli del campanile; un terzo di sfondare le porte di casa Barricini con una certa trave, destinata a qualche edificio in costruzione, che si tro­ vava sulla piazza del paese. In mezzo a tante voci furiose, si udì quella di Colomba, che annunciava ai suoi satelliti che prima di porre mano all’opera, ciascuno avrebbe ricevuto da lei un gran bicchiere d’anisetta. Sfortunatamente, o meglio fortunatamente, l’effetto che Co­ lomba si era ripromesso dalla crudeltà compiuta sul povero caval­ lo era in massima parte sprecata con Orso. Questi non dubitava che quella mutilazione fosse l’opera di un suo nemico, e sospetta­ va particolarmente Orlanduccio; ma non riteneva che il giovane, da lui provocato e percosso, si fosse riscattato dalla propria ver­ gogna solo con il mutilare l’orecchio di un cavallo. Al contrario, quella bassa e ridicola vendetta aumentava il suo disprezzo per gli avversari, e ora pensava come il prefetto, che gente simile non me­ ritava di misurarsi con lui. Appena riuscì a farsi ascoltare, dichiarò ai suoi partigiani confusi che essi dovevano rinunciare a ogni in­ tenzione bellicosa e che la giustizia, che stava per intervenire, avrebbe vendicato benissimo l’orecchio del cavallo. «Sono io il padrone qui», aggiunse in tono severo, «e intendo essere ubbidito. Il primo che oserà parlare ancora di uccidere o di bruciare, potrebbe essere, a sua volta, bruciato da me. Via! sella­ temi il cavallo grigio». «Come, Orso», disse Colomba traendolo in disparte, «tollera­ te che ci insultino! Finché nostro padre era vivo, i Barricini non si avrebbero osato sfregiare una nostra bestia». «Ti prometto che avranno modo di pentirsene; ma spetta ai gendarmi e ai carcerieri punire dei miserabili che hanno coraggio soltanto contro gli animali. Te l’ho già detto, la giustizia mi ven327

dicherà... altrimenti... non avrai bisogno di ricordarmi di chi so­ no figlio...». «Pazienza!» disse Colomba sospirando. «Ricordati bene, sorella mia», proseguì Orso, «che se al mio ri­ torno trovo che sia stata fatta qualche dimostrazione contro i Barricini, mai più te lo perdonerò». Poi in tono più dolce: «Potrebbe darsi, anzi è molto probabile» aggiunse, «che io ritorni qui con il co­ lonnello e la figlia; fa in modo che le loro camere siano in ordine, che il pranzo sia buono, insomma che i nostri ospiti stiano da noi il me­ no male possibile. Va benissimo, Colomba, avere coraggio, ma bi­ sogna anche che una donna sappia governare una casa. Via, dammi un bacio e sii ragionevole; ecco il cavallo grigio sellato». «Orso», disse Colomba, «non partirete da solo». «Non ho bisogno di nessuno», disse Orso, «e ti assicuro che non mi lascerò tagliare l’orecchio». «Oh! mai vi lascerò partire solo in tempo di guerra. Ehi! Polo Griffo! Gian’ Francè! Memmo! prendete i fucili; accompagnere­ te mio fratello». Dopo una discussione abbastanza vivace, Orso dovette rasse­ gnarsi a farsi seguire da una scorta. Tra i più scalmanati dei suoi pastori, scelse coloro che avevano consigliato con maggior impe­ to di cominciare la guerra; poi, dopo aver ripetuto le sue ingiun­ zioni alla sorella e ai pastori rimasti, si mise in cammino, facendo questa volta un giro più lungo per evitare la casa dei Barricini. Erano già lontani da Pietranera e andavano a briglia sciolta, quando, al passaggio di un ruscelletto che sfociava in una palude il vecchio Polo Griffo vide un gran numero di maiali beatamente distesi nel fango che gioivano del sole e dell’acqua fresca. Puntò immediatamente il più grosso e gli tirò nella testa una fucilata che lo uccise sul posto. I compagni del morto, si alzarono di colpo e fuggirono con agilità sorprendente; e benché anche l’altro pasto­ re fece fuoco, raggiunsero sani e salvi una macchia nella quale scomparvero. «Imbecilli!», gridò Orso; «scambiate maiali per cinghiali». «Nient’affatto Ors’Anton’», rispose Polo Griffo; «ma quel branco è dell’avvocato, imparerà meglio a sfregiare i nostri cavalli». «Come, farabutti!», gridò Orso trascinato dall’ira, «imitate le infamie dei nostri nemici! Lasciatemi, miserabili! Non ho biso­ 328

gno di voi. Non siete buoni che a battervi contro i maiali. Giuro su Dio che se osate seguirmi vi rompo la testa!». I due pastori si guardarono interdetti. Orso spronò il cavallo e scomparve al galoppo. «Ebbene», disse Polo Griffo, «eccone una bella davvero! Vo­ gliate bene a costoro perché vi trattino così! Il colonnello, suo pa­ dre, se l’è presa con te perché una volta puntasti il fucile contro l’avvocato... Stupido che non sparasti!... E il figlio... tu vedi ciò che ho fatto per lui... Parla di rompermi la testa, come si sfascia una zucca che non tiene più il vino. Ecco ciò che imparano sul continente, Memmo!». «Sì, e se sanno che hai ucciso un maiale, ti processeranno, e Ors’Anton’ non vorrà parlare ai giudici, né pagare l’avvocato. Per fortuna nessuno ti ha visto e santa Nega ti caverà d’impiccio». Dopo breve consiglio, i due pastori conclusero che la cosa più prudente era di gettare il maiale in un crepaccio, progetto che ese­ guirono, beninteso dopo aver preso ognuno qualche braciola dal­ l’innocente vittima dell’odio dei Barricini e dei della Rebbia.

XVII

Liberatosi della sua scorta indisciplinata, Orso continuava per la sua strada, più preoccupato dal piacere di rivedere miss Nevil dal timore di incontrare i suoi nemici. «Il processo che avrò con questi miserabili Barricini», diceva a se stesso, «mi co­ stringerà a recarmi a Bastia. Perché non potrei accompagnare miss Nevil? Perché da Bastia, non andare insieme alle acque di Orezza?». All’improvviso, i ricordi d’infanzia gli ricordarono con chiarezza quel luogo pittoresco. Si immaginò trasportato su un prato verde, ai piedi dei castagni secolari. Su un prato d’erba lucente, costellato di mille fiori azzurri che sembravano tanti oc­ chi che gli sorridessero, vedeva miss Lydia seduta accanto a lui. Ella si è tolto il cappello, e i suoi capelli biondi, più lisci e più dolci della seta, brillano come oro al sole che penetra attraverso il fogliame. I suoi occhi, di un così limpido azzurro, appaiono a Orso perfino più azzurri dello stesso firmamento. Con una guancia appoggiata alla mano, ascolta tutta pensosa le parole d’a­ 329

more che egli le rivolgeva tremante. Aveva quello stesso abito di mussola che indossava l’ultimo giorno che l’aveva vista ad Ajac­ cio. Sotto le pieghe del vestito, spuntava un piedino in una scar­ petta di raso nero. Orso diceva tra sé che sarebbe proprio felice di baciare quel piede; ma una mano di miss Lydia non portava il guanto, e teneva una margheritina. Orso le prendeva quella mar­ gheritina, e la mano di miss Lydia stringeva la sua; ed egli la ba­ ciava la margheritina, e poi la mano, e nessuno se ne impermali­ va... Tutti questi pensieri gli impedivano di fare attenzione alla strada che percorreva, pur continuando a trottare. Per la secon­ da volta, si preparava a baciare in sogno la bianca mano di miss Nevil, quando per poco, invece, non baciò la testa del cavallo, che si fermò di colpo. Era la piccola Chilina che gli sbarrava la via e gli aveva preso le redini. «Dove andate così, Ors’Anton’?», diceva. «Non sapete che il vostro nemico è qui vicino?». «Il mio nemico!», esclamò Orso furibondo per essere stato in­ terrotto in un momento così interessante. «Dov’è?». «Orlanduccio è qui vicino. Vi aspetta. Tornate, tornate indie­ tro». «Ah! mi aspetta! L’hai visto?». «Sì, Ors’Anton’, ero acquattata tra le felci quando è passato. Guardava da ogni lato con il cannocchiale». «Da che parte andava?». «Scendeva giù di là, dove andate». «Grazie». «Ors’Anton’, non sarebbe meglio, aspettare mio zio? Non può tardare, e con lui sareste al sicuro». «Non aver paura, Chili, non ho bisogno di tuo zio». «Se voi voleste, vi precederei». «Grazie, grazie». E Orso, spronando il cavallo, rapidamente si avviò nella dire­ zione che la bambina gli aveva indicato. Il suo primo impulso era stato di cieco furore, e si era detto che la fortuna gli offriva un’ottima occasione di correggere quel vile che aveva sfregiato un cavallo per vendicarsi di uno schiaffo. Poi, nell’andare avanti, quella specie di promessa che aveva fatto al prefetto, e soprattutto il timore di non giungere in tempo a in­ 330

contrare miss Nevil, mutarono i suoi proponimenti e quasi gli fe­ cero desiderare di non imbattersi in Orlanduccio. Presto il ricor­ do del padre, l’insulto fatto al cavallo, le minacce dei Barricini, riaccesero presto la sua collera, e lo incitarono a cercare il nemi­ co per provocarlo e costringerlo a battersi. Combattuto così da contrari propositi, continuava ad avanzare sempre, ma adesso con precauzione, scrutando le siepi e i cespugli, e talora anche fer­ mandosi ad ascoltare gli indistinti rumori che si odono nella cam­ pagna. Dieci minuti dopo aver lasciato la piccola Chilina (erano allora circa le nove), si trovò al sommo di una discesa ripidissima. La strada, o meglio il sentiero appena tracciato che seguiva, tra­ versava una macchia bruciata di recente. Lì il terreno, era coper­ to di ceneri bianchicce e qua e là, si ergevano ancora pochi minu­ ti arbusti è qualche grosso albero, anneriti dal fuoco e interamen­ te spogli. Vedendo una macchia incendiata si ha l’impressione di essere trasportati in un luogo del nord in pieno inverno, e il con­ trasto tra l’aridità dei luoghi che la fiamma ha percorso e la lus­ sureggiante vegetazione intorno li fa apparire ancora più tristi e desolati. Ma in quel paesaggio Orso in quel momento non vede­ va ora che una cosa, importante è vero, nella posizione in cui si trovava, la terra era nuda e non poteva celare nessuna imboscata, e chi poteva temere, a ogni istante, di veder spuntare da un ce­ spuglio di una canna da fucile diretta contro il suo petto guarda come ad una specie di oasi ad ogni radura unita ove nulla trattie­ ne lo sguardo. Alla macchia bruciata succedevano vari campi col­ tivati, cinti, secondo l’usanza della regione da muri di pietra sec­ ca ad altezza di gomito. Il sentiero passava tra questi recinti, do­ ve enormi castagni, piantati senza ordine, assumevano di lontano l’aspetto di un bosco folto. Costretto dalla ripidezza del pendio a metter piede a terra, Orso che aveva lasciata la briglia sul collo del cavallo, scendeva speditamente scivolando sulla cenere; era giunto a non più di ven­ ticinque passi da uno di questo recinti di pietra sulla destra del sentiero, quando scorse, proprio di fronte a sé, la canna di un fu­ cile, poi la testa di un uomo che sporgeva dalla cresta del muro. Il fucile si abbassò, ed egli riconobbe Orlanduccio pronto a fare luoco. Orso fu pronto a mettersi sulla difensiva, e i due nell’atto di prendere la mira si guardarono per un breve attimo con quella 331

stringente emozione che ogni uomo coraggioso prova sempre nel momento di dare o di ricevere la morte. «Vile scellerato!» gridò Orso. Parlava ancora quando vide la fiamma del fucile di Orlanduccio, e quasi nello stesso tempo un secondo colpo partì dalla sua sinistra, dall’altro lato del sentiero esploso da un uomo che fino­ ra non aveva visto e che gli tirava addosso appostato dietro un altro muro. Le due pallottole lo raggiunsero: una quella d’Orlanducccio gli perforò il braccio sinistro che era maggiormente esposto nel mirare; l’altra lo prese al petto, lacerò il vestito, ma colpendo per fortuna la lama dello stiletto vi si schiacciò sopra di modo che non gli produsse che una lieve contusione. Il braccio ferito di Orso ricadde immobile lungo la coscia, e la canna del fucile per un momento si abbassò; ma egli la risollevò quasi su­ bito e dirigendo l’arma con la sola mano destra, fece fuoco con­ tro Orlanduccio. La testa del nemico che egli scorgeva solo fino agli occhi, scomparve dietro il muro. Orso volgendosi allora a si­ nistra, tirò il secondo colpo ad un uomo attorniato da una nube di fumo che egli distingueva appena. Anche quello scomparve. Le quattro fucilate si erano susseguite con incredibile rapidità, e mai soldati esperti impiegarono intervalli più brevi in un fuoco di fila. Dopo l’ultimo colpo di Orso, tutto ripiombò nel silenzio. Il fumo sprigionatosi dal fucile saliva lentamente verso il cielo; nessun movimento dietro il muro, non il più lieve rumore. Sen­ za il dolore che provava al braccio, avrebbe potuto credere che quegli uomini sui quali aveva appena tirato fossero fantasmi del­ la sua immaginazione. Temendo una seconda scarica Orso fece alcuni passi per met­ tersi al riparo dietro uno di quegli alberi bruciati rimasti ancora nella macchia. Dietro questa protezione, si pose il fucile tra le gi­ nocchia e lo ricaricò in fretta. Intanto il braccio sinistro gli dole­ va tremendamente, e gli sembrava di sostenere un peso enorme. Che era accaduto dei suoi avversari? Non riusciva a capirlo. Se fossero scappati, se fossero rimasti feriti, avrebbe udito certa­ mente qualche rumore qualche movimento tra il fogliame. Erano dunque morti, o attendevano piuttosto in agguato dietro il muro, una nuova occasione per sparargli addosso? In questa incertezza, e sentendo le sue forse diminuire, pose il ginocchio destro a ter­ 332

ra, e appoggiando sull’altro il braccio ferito si servì di un ramo che partiva dal tronco dell’albero bruciato per sostenere il fucile. Col dito sul grilletto, lo sguardo fisso al muro, l’orecchio intento al minimo rumore, restò immobile per alcuni minuti che gli par­ vero un secolo. Finalmente un grido echeggiò in lontananza die­ tro di lui,e subito un cane, scendendo giù dal colle con la rapidità di una freccia, gli si fermò accanto dimenando la coda. Era Bru­ sco, il discepolo e il compagno dei banditi che annunciava senza dubbio l’arrivo del padrone; e mai galantuomo fu atteso con mag­ giore impazienza. Il cane, con il muso al vento, rivolto dalla par­ te del recinto più vicino fiutava l’aria con inquietudine. Ad un tratto fece sentire un brontolio sordo, saltò il muro con un balzo e quasi subito risalì sulla cresta, da dove guardò fisso Orso, per quanto possibile ad un cane con occhi pieni di meraviglia; poi fiutò ancora il vento questa volta nella direzione dell’altro recin­ to e saltò anche quel muro. Trascorso non più di un attimo riap­ parve sull’orlo mostrando la stessa aria di stupore inquieto; quin­ di saltò nella macchia, con la coda tra le gambe, e guardando sem­ pre Orso e allontanandosi da lui a passi lenti e sbiechi, fino a che fu ad una certa distanza. Allora, riprendendo nuovamente la cor­ sa, risalì per l’erta quasi con la stessa velocità con cui era disceso, incontro a un uomo che giungeva rapidamente nonostante la ri­ pidezza del terreno. «A me Brando!», gridò Orso non appena credette l’uomo a portata di voce. «Ho! Ors’Anton’! siete ferito?», gli chiese Brandolaccio nell’accorrere senza fiato. «Al corpo o alle membra?...». «Al braccio». «Al braccio! non è nulla. E l’altro?». «Credo di averlo colpito». Brandolaccio, seguendo il cane, corse al recinto più vicino e si sporse per guardare oltre il muro. Là, togliendosi il berretto: «Salutiamo messer Orlanduccio», disse. Poi, girandosi dalla parte di Orso, lo salutò con aria grave: «Ecco» disse «quello che chiamerei un uomo conciato a dovere». «Vive ancora?» chiese Orso respirando a fatica. «Oh! non oserebbe; gli dà troppo rammarico la pallottola che gli avete piantato nell’occhio. Sangue della Madonna che buco!

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Buon fucile, in fede mia! Che calibro. Questo sì che vi riduce un cervello in poltiglia! Ditemi dunque, Ors’Anton’, quando ho in­ teso prima pif! pif! mi sono detto: “Perdiana! accoppano il mio tenente”. Poi sento bum! bum! “Ah!”, mi dico, “ecco il fucile in­ glese che parla: contraccambia...”. Ma Brusco, che vuoi da me?». Il cane lo condusse all’altro recinto. «Scusate!» esclamò Brandolaccio con stupore. «Colpo dop­ pio! nient’altro che questo! Peste! Si vede proprio che la polvere è cara perché ne fate economia». «Che c’è nel nome di Dio?», chiese Orso. «Via! non fate il burlone, tenete mio! spargete a terra la sel­ vaggina, e volete che ve la raccolgano... C’è qualcuno oggi che avrà una strana sorpresa allo sparecchiar della mensa! è l’avvoca­ to Barricini. Carne da macello, ne vuoi, eccola! Ora chi diavolo erediterà?». «Come! Morto anche Vincentello?». «Stramorto. Salute a noi!47 Quello che c’è di di buono con voi, è che non li fate soffrire. Venite a vedere Vincentello: è ancora in ginocchio, con la testa appoggiata al muro. Sembra dormire. È proprio il caso di dire: Sonno di piombo. Povero diavolo!». Orso distolse il capo con orrore. «Sei certo che sia morto?». «Voi siete come Sanpiero Corso, che non dava mai più di un colpo. Vedete voi, là... nel petto, a sinistra? ecco, come Vincileone fu preso a Waterloo. Scommetterei proprio che la pallottola non è lontana dal cuore. Colpo doppio! Ah! non mi vanterò più di sparare. Due in due colpi!... a palla!... I due fratelli! Se ci fos­ se stato un terzo colpo, avrebbe ucciso il genitore... Si cercherà di far meglio un’altra volta... Che colpo Ors’Anton’!... E dire che ad un bravo ragazzo come me non capiterà mai di far colpo doppio con i gendarmi!». Così parlando, il bandito esaminava il braccio di Orso e apri­ va la manica con lo stiletto. «Non è nulla», disse. «Ecco un pastrano che darà da fare alla signorina Colomba... Ehi! Che cosa vedo? questo squarcetto sul petto?... Non è entrato nulla per di là? No, sareste meno arzillo. " Salute a noi! Esclamazione che accompagna in genere la parola morte, e che serve da correttivo.

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Vediamo, provate a muovere le dita... Sentite i miei denti quan­ do vi mordo il mignolo?... Non troppo?... Va bene lo stesso, non sarà nulla. Lasciatemi prendere il vostro fazzoletto e la vostra cra­ vatta... Ecco il pastrano rovinato... Perché diavolo vi siete fatto tanto bello? Andavate a nozze?... Ecco, bevete un goccio di vi­ no... Perché mai non portate zucca? Forse che un corso è uscito qualche volta senza zucca?». Poi, interrompendo a mezzo la medicazione, esclamò: «Colpo doppio! tutti e due morti stecchiti!... Il curato sì che riderà... Colpo doppio! Ah! eccola che giunge quella tartarughina di Chilina». Orso non rispondeva. Era pallido come un morto e tremava in tutte le membra. «Chili» gridò Brandolaccio, «vai a guardare dietro quel muro. Eh?». La bambina, aiutandosi con i piedi e con le mani, si arrampicò sul muro, e appena ebbe scorto il cadavere di Orlanduccio si fece il segno della croce. «Questo è niente», continuò il bandito; «vai a vedere più in là, laggiù». La bambina si fece un’altra volta il segno della croce. «Siete stato voi, zio mio?» chiese con timidezza. «Io? Come se non fossi diventato un vecchio buono a nulla? Chili, è opera del signore. Fagli i rallegramenti». «La signorina Colomba ne sarà proprio felice», disse Chilina, «e si dispiacerà molto di sapervi ferito, Ors’Anton’». «Andiamo, Ors’Anton’», disse al termine della medicatura il bandito, «ecco che Chilina ha riacciuffato il vostro cavallo. Mon­ tate e venite con me nella macchia della Stazzona. Sarà ben furbo colui che saprà trovarvi. Vi tratteremo del nostro meglio. Quan­ do saremo alla croce di Santa Cristina, dovrete metter piede a ter­ ra. Darete il cavallo a Chilina, che andrà ad informarne la signo­ rina Colomba, e cammin facendo, le potrete dare le vostre in­ combenze. Potete dire tutto alla piccola, Ors’Anton’: si farebbe fare a pezzi prima di tradire gli amici». E con tono di tenerezza: «Va, furfantella, disse «per scaramanzia che ti possano scomuni­ care maledetta birbante! Brandolaccio, superstizioso come sono molti banditi, temeva di attaccare il malaugurio ai bambini rivol­ 335

gendo loro benedizioni o lodi imprudenti poiché è risaputo che le potenze misteriose dell’'Annocchiatura™ hanno la pessima abi­ tudine di esaudire a ritroso tutti i vostri voti». «Dove vuoi che vada, Brando?», chiese Orso con voce spenta. «Perdinci! avete da scegliere: in prigione o alla macchia. Ma un della Rebbia non conosce la strada della prigione. Alla macchia, Ors’Anton’!». «Addio a tutte le mie speranze!», esclamò dolorosamente il ferito. «Le vostre speranze? Diamine! speravate di far meglio con un fucile a due colpi?... Ah, questo! come diavolo vi hanno potuto pizzicare? Bisogna che quegli spregiudicati abbiano sette fiati co­ me il micio». «Hanno sparato per primi», disse Orso. «È vero, dimenticavo., pif! pif! bum! bum!... colpo doppio con una mano sola48 49. Quando qualcuno farà meglio, andrò a im­ piccarmi! Andiamo, eccovi in sella... prima di partire, date alme­ no un’occhiata alla vostra opera. Non è educato lasciare la com­ pagnia così senza salutare». Orso spronò il cavallo; per nulla al mondo avrebbe voluto ve­ dere i disgraziati a cui aveva dato la morte. «Ecco Ors’ Anton’» disse il bandito afferrando le redini del cavallo «volete che vi parli francamente? Bene, senza offendervi, questi due poveri giovani mi fanno pietà. Vi prego di scusarmi... Così belli... così forti... così giovani! Orlanduccio con il quale ero stato tante volte a caccia... Quattro giorni fa, mi regalò un pacchetto di sigari... Vincentello, che era sempre così allegro!... E vero che avete fatto ciò che dovevate... e d’altronde il colpo è troppo bello per doversene pentire... Ma io, non entravo nella vostra vendetta... So che avete ragione; quando si ha un nemico occorre liberarsene. Ma i Barricini erano una vecchia famiglia... Eccone ancora una di più che se ne va... e con un colpo doppio! è strabiliante». 48 Fascinazione involontaria che si esercita sia attraverso gli occhi, sia attraverso la pa­ rola. ” Se qualche cacciatore incredulo mi contestasse il doppio colpo del signor della Reb­ bia, lo inviterei a recarsi a Sartène, e a farsi raccontare come uno dei più distinti abitanti e tra i più amabili di quella città, tirò solo, e con il braccio sinistro rotto, in una posizione più o meno così pericolosa.

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Mentre faceva così l’orazione funebre dei Barracini Brandolaccio conduceva sollecitamente Orso, Chilina, e il cane Brusco verso la macchia di Stazzona.

XVIII

Frattanto Colomba, poco dopo la partenza di Orso, aveva sa­ puto dalle sue spie che i Barricini si erano messi alla campagna e, da quel momento, fu in preda a una viva inquietudine. La si vede­ va correre per la casa in ogni senso, andava dalla cucina alle came­ re preparate per gli ospiti, senza fare nulla e tuttavia sempre indaf­ farata ed fermandosi continuamente per scorgere in paese qualche movimento insolito. Verso le undici una cavalcata alquanto nu­ merosa fece il suo ingresso a Pietranera; erano il colonnello, la fi­ glia, i loro domestici e la guida. Nel riceverli, le prime parole di Colomba furono: «Avete visto mio fratello? Poi chiese alla guida quale strada avevano seguito e a che ora erano partiti; e, dalle sue risposte non riusciva a capire perché non si fossero incontrati. «Forse vostro fratello avrà preso la strada di sopra», osservò la guida; «noi siamo venuti per quella di sotto». Ma Colomba scosse la testa e pose nuove domande. Nono­ stante la sua naturale fermezza, accresciuta ancora dall’orgoglio di nascondere ogni debolezza ai forestieri, le fu impossibile dissi­ mulare le sue apprensioni che presto furono condivise anche dal colonnello e soprattutto da miss Lydia quando li ebbe messi al corrente del tentativo di riconciliazione così miseramente fallito. Miss Lydia si agitava, voleva che si spedissero messaggeri in tutte le direzioni, e suo padre si offriva di rimontare a cavallo insieme con la guida alla ricerca di Orso. I timori degli ospiti ricordarono a Colomba i suoi doveri di padrona di casa. Si sforzò di sorride­ re, fece premura al colonnello perché si mettesse a tavola, e trovò per giustificare il ritardo del fratello venti scuse plausibili che un minuto dopo era la prima a distruggere. Il colonnello ritenendo suo dovere come uomo di cercare almeno di tranquillizzare le due donne, propose la sua spiegazione così. «Scommetto», disse, «che della Rebbia si sarà imbattuto in qualche selvaggina; non ha potuto resistere alla tentazione, e tra 337

poco lo vedremo tornare con il carniere tutto pieno. Perbacco!» aggiunse «abbiamo udito per strada quattro colpi di fucile. Due anzi erano più forti degli altri, e ho detto a mia figlia: «Giurerei che della Rebbia sta cacciando. Non può essere che il mio fucile a far tanto rumore». Colomba impallidì, e Lydia che la guardava con attenzione, capì al volo quali sospetti le suggerisse la congettura del colonnel­ lo. Dopo alcuni minuti di silenzio, Colomba chiese vivamente se le due detonazioni più forti avessero preceduto o seguito le altre. Ma né il colonnello, né sua figlia, né la guida, avevano prestato molta attenzione a questo particolare di capitale importanza. Verso l’una Colomba non vedendo ancora tornare nessuno dei messaggeri inviati alla ricerca del fratello raccolse tutto il suo coraggio e costrinse gli ospiti a mettersi a tavola, ma salvo il co­ lonnello nessuno potè mangiare. Al minimo rumore sulla piazza Colomba correva alla finestra, poi se ne tornava tristemente a se­ dere, e, con più tristezza ancora, si sforzava di continuare con i suoi amici una conversazione insignificante alla quale nessuno prestava la minima attenzione e che ogni tanto interrompevano lunghi intervalli di silenzio. Ad un tratto si udì il galoppo di un cavallo. «Ah! questa volta è mio fratello», disse Colomba alzandosi. Ma alla vista di Chilina che giungeva a cavalcioni sul cavallo di Orso: «Mio fratello è morto!», gridò con una voce straziante. Il colonnello lasciò cadere il bicchiere, miss Nevil lanciò un grido, tutti corsero alla porta di casa. Prima che Chilina potesse balzare a terra, Colomba l’aveva strappata di sella sollevandola come una piuma e la stringeva fino a soffocarla. La bambina com­ prese il suo terribile sguardo, e la prima parola che pronunciò fu quella del coro dell’OieZZo: «Vive!». Colomba allentò la stretta e Chilina saltò a terra veloce come una gattina. «Gli altri?» chiese Colomba con voce rauca. Chilina si fece il segno della croce con l’indice e il dito medio. Al pallore mortale del viso di Colomba successe di colpo un vivo rossore. Gettò uno sguardo ardente sulla casa dei Barricini e dis­ se sorridendo ai suoi ospiti: «Rientriamo a prendere il caffè». 338

L’Iride dei banditi aveva parecchie cose da riferire. Il suo rac­ conto in dialetto, tradotto da Colomba in un italiano un po’ alla buona, poi in inglese da miss Nevil, strappò più di una impreca­ zione al colonnello, più di un sospiro alla figlia; ma Colomba ascoltava con aria impassibile; torceva soltanto il suo tovagliolo damascato fino a ridurlo in brandelli. Interruppe la bambina cin­ que o sei volte per farsi ripetere ciò che Brandolaccio diceva, che cioè la ferita non era pericolosa e che il bandito ne aveva viste di peggiori. Alla fine Chilina riferì che Orso chiedeva con partico­ lare premura un po’ di carta da scrivere, e incaricava la sorella di pregare tanto una signora che forse si sarebbe trovata a casa sua, di non ripartire prima di aver ricevuto una sua lettera. «Questo», aggiunse la bambina, «lo tormentava più di tutto; ero già in cam­ mino quando mi ha richiamata per raccomandarmi di non di­ menticare questa incombenza. Era la terza volta che me la ripe­ teva». Nel ricevere quell’ordine del fratello, Colomba sorrise lie­ vemente e strinse forte la mano dell’inglese che scoppiò in lacri­ me e non ritenne opportuno tradurre al padre questa parte del racconto. «Sì, voi resterete con me, mia cara amica», esclamò Colomba baciando miss Nevil, «e ci aiuterete». Poi, tirando fuori da un armadio un bel mucchio di bianche­ ria vecchia, si mise a sdrucirla, per fare bende e filacce. Vedendo i suoi occhi sfavillanti, il suo volto acceso, quell’aria sua contem­ poraneamente preoccupata e calma, sarebbe stato difficile dire se fosse più impensierita della ferita del fratello o esultante per la morte dei nemici. Ora versava un po’ di caffè al colonnello e gli vantava la propria abilità nel prepararlo; ora nel distribuire il la­ voro a miss Nevil e a Chilina le esortava a cucire le bende ed ad arrotolarle; chiedeva per la ventesima volta se la ferita di Orso lo tacesse molto soffrire. S’interrompeva continuamente nel bel mezzo della sua occupazione per dire al colonnello: «Due uomini così accorti! così terribili!... Da solo, ferito, con un braccio solo... li ha fulminati entrambi. Che coraggio, colon­ nello! Non è forse un eroe? Ah! miss Nevil, come dev’essere fe­ lice vivere in un paese tranquillo come il vostro!... Sono certa che non conoscevate ancora mio fratello!... Io lo avevo detto: lo spar­ viero spiegherà le ali!... Vi traeva in inganno il suo aspetto così

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mite... Lo credo bene, accanto a voi miss Nevil... Ah! se vi ve­ desse lavorare per lui... povero Orso!». Miss Lydia non lavorava affatto e non trovava parole. Suo pa­ dre chiese perché non ci si affrettasse a denunciare l’accaduto a un magistrato. Parlava dell’inchiesta del coroner e a molte altre cose sconosciute in Corsica. Inoltre voleva sapere se la casa di campa­ gna di quel buon signor Brandolaccio, che aveva soccorso il feri­ to, fosse lontana da Pietranera, e se non gli sarebbe stato possibi­ le recarsi anche lui a vedere l’amico. Colomba rispondeva con la sua solita calma che Orso era alla macchia; che a curarlo c’era un bandito che correva un grande ri­ schio a mostrarsi prima che ci si fosse potuti accertare delle di­ sposizioni del prefetto e dei giudici; infine che avrebbe fatto in modo di mandargli segretamente un abile chirurgo. «Soprattutto, signor colonnello, ricordatevi bene», diceva, «che avete sentito i quattro colpi di fucile e che Orso, come mi avete detto, aveva tirato per secondo». Il colonnello non capiva nulla della faccenda, e la figlia non fa­ ceva che sospirare e asciugarsi gli occhi. Il giorno era già inoltrato quando una triste processione entrò in paese. Riportavano all’avvocato Barricini i cadaveri dei figli, coricati ognuno per traverso su di una mula che un contadino conduceva. Una folla di clienti e di oziosi seguiva il lugubre cor­ teo. Con loro c’erano anche i gendarmi, che arrivano sempre troppo tardi, e l’aggiunto, che levava le braccia al cielo, ripetendo senza fine: «Che dirà il signor prefetto!» Alcune donne, tra cui la nutrice di Orlanduccio, si strappavano i capelli mandando urla selvagge. Ma il loro rumoroso dolore destava minore impressio­ ne della muta disperazione di un personaggio che attirava tutti gli sguardi. Era lo sciagurato padre, che andando da un cadavere al­ l’altro, sollevava le loro teste lorde di terra, baciava le loro labbra violacee, sosteneva le loro membra già irrigidite, come per evita­ re loro le scosse della strada. Talvolta lo vedevano aprire la bocca per parlare, ma non ne usciva un grido, non una parola. Sempre con gli occhi fissi sopra i cadaveri, inciampava nei sassi, contro gli alberi, contro tutti gli ostacoli che incontrava. Le lamentazioni delle donne e le imprecazioni degli uomini raddoppiarono quando si trovarono davanti alla casa di Orso. 340

Qualche pastore rebbianista avendo osato levare un grido di trionfo, l’indignazione degli avversari non potè più contenersi. «Vendetta! vendetta!, gridarono alcune voci. Si scagliarono pietre e due colpi di fucile diretti contro le finestre della sala in cui si tro­ vavano Colomba e i suoi ospiti forarono le imposte e fecero vo­ lare schegge di legno fino al tavolo al quale erano sedute le due donne. Miss Lydia gettò grida di spavento, il colonnello impugnò il fucile, e Colomba, prima che questi potesse trattenerla, si slan­ ciò verso la porta di casa e l’aprì con impeto. Là, dritta sull’alta soglia, le mani protese a maledire i nemici: «Vili!», gridò «che tirate alle donne e ai forestieri! Siete corsi voi? Siete uomini? Disgraziati che sapete solo assassinare alle spalle, venite avanti! Vi sfido. Sono sola; mio fratello è lontano. Uccidetemi, uccidete i miei ospiti; sarà un atto degno di voi... Ma non osate, vili che non siete altro! Sapete che noi ci vendichiamo. Andate, andate a piangere come donnicciole, e ringraziateci di non chiedervi altro sangue!». C’era nella voce e nel gesto di Colomba qualche cosa di im­ ponente e di terribile; al suo apparire, la folla indietreggiò spa­ ventata, come all’apparizione di una di quelle fate malefiche sulle quali si narrano in Corsica tante storie paurose durante le veglie d’inverno. L’aggiunto, i gendarmi e un certo numero di donne ap­ profittarono di quel movimento per interporsi tra i due partiti; perché i pastori rebbianisti preparavano già le armi, e per un atti­ mo si potè temere che s’impegnasse sulla piazza una lotta genera­ le. Ma le due fazioni erano prive dei loro capi, e i corsi, discipli­ nati nei propri furori, raramente vengono alle mani nell’assenza dei principali autori delle guerre intestine D’altronde Colomba, resa prudente dal successo, trattenne la sua piccola guarnigione: «Lasciate piangere quella povera gente», disse; «lasciate che quel vecchio si porti via la sua carne. A che pro uccidere quella vecchia volpe che non ha più denti per mordere? Giudice Barri cini! Ricordati del due di agosto! Ricordati del libretto insangui­ nato su cui hai scritto con quella mano di falsario! Mio padre vi aveva registrato il tuo debito; i tuoi figli lo hanno saldato. Te ne do quietanza, vecchio Barricini!». Colomba, con le braccia conserte, il sorriso del disprezzo sul­ le labbra, vide portare i cadaveri nella casa dei suoi nemici, poi la 341

folla sciogliersi lentamente. Chiuse la porta, e rientrando in sala disse al colonnello: «Vi chiedo veramente scusa per i miei compatrioti, signore. Non avrei mai creduto dei corsi tirassero contro una casa nella quale siano ospiti stranieri, ne ho vergogna per il mio paese». La sera, allorché miss Lydia si fu ritirata nella sua camera, il colonnello la raggiunse, e le chiese se non avrebbero fatto bene a lasciare fin dal giorno dopo un paese dove si era continuamente esposti a ricevere qualche pallottola in testa, e il più presto possi­ bile un paese in cui non si vedevano che uccisioni e tradimenti. Miss Nevil rimase a lungo senza rispondere, ed era evidente che la proposta del padre le procurava un visibile imbarazzo. Al­ la fine disse: «Come potremmo separarci da questa infelice signorina pro­ prio nel momento in cui ha tanto bisogno di conforto? Non tro­ vate, padre mio, che sarebbe una crudele da parte nostra?». «Parlo per voi, figlia mia», disse il colonnello; «e se io vi sa­ pessi al sicuro nell’albergo di Ajaccio, vi garantisco che mi di­ spiacerebbe lasciare quest’isola maledetta senza aver stretto pri­ ma la mano a quel prode della Rebbia». «Ebbene, padre mio, aspettiamo ancora e, prima di partire, as­ sicuriamoci di non poterci rendere utili in qualche maniera». «Buon cuore!» disse il colonnello baciando la figlia in fron­ te. «Mi piace vedere come sai sacrificarti per alleviare l’infelicità degli altri. Restiamo; non ci si pente mai di aver fatto una buo­ na azione». Miss Lydia si agitava nel letto senza poter dormire. Ora i vaghi rumori che udiva le sembravano i preparativi di un assalto contro la casa; ora, sicura per se stessa, pensava al povero ferito, proba­ bilmente coricato a quell’ora sulla fredda terra, con le uniche cure che poteva attendersi dalla carità di un bandito. Cercava di raffi­ gurarselo coperto di sangue, che si agitava in terribili sofferenze; e la cosa veramente strana, è che ogni qualvolta l’immagine di Orso si affacciava alla sua mente, le appariva sempre come lo aveva vi­ sto nel momento della sua partenza, che premeva le labbra sul ta­ lismano che lei gli aveva donato.. Poi pensava al valore di lui. Si di­ ceva che il tremendo pericolo che aveva scampato e a cui si era esposto, era a causa sua, per vederla un po’ prima. Per poco non si 342

convinceva che Orso si era fatto rompere il braccio solo per di­ fendere lei. Si rimproverava la sua ferita, ma lo ammirava; e se il fa­ moso colpo doppio non aveva ai suoi occhi lo stesso pregio che agli occhi di Brandolaccio e di Colomba, trovava tuttavia che po­ chi eroi da romanzo avrebbero saputo dimostrare tanta intrepi­ dezza, tanto sangue freddo in un simile pericolo. La camera che occupava era quella di Colomba. Al di sopra di una specie di inginocchiatoio di legno di quercia, accanto a una palma benedetta, era sospesa alla parete una miniatura che raffi­ gurava Orso in uniforme di sottotenente. Miss Nevil staccò il ri­ tratto, lo contemplò a lungo e lo posò infine vicino al letto, anzi­ ché rimetterlo al suo posto. Si addormentò solo all’alba, e il sole era già molto alto sull’orizzonte quando si svegliò. Davanti al let­ to vide Colomba, che aspettava senza muoversi il momento in cui avesse aperto gli occhi. «Ebbene, signorina, non vi trovate troppo male nella nostra povera casa?», le disse Colomba. «Temo che non abbiate affatto dormito». «Avete sue notizie, mia cara amica?» disse miss Nevil alzan­ dosi a sedere sul letto. Scorse il ritratto di Orso, e si affrettò a nasconderlo gettando­ vi sopra un fazzoletto. «Sì, ho sue notizie» disse sorridendo Colomba. E prendendo il ritratto: «Lo trovate somigliante? E meglio di persona». «Mio Dio!...» disse miss Nevil tutta confusa, «ho staccato... per distrazione... questo ritratto... Ho il difetto di toccare tutto... e di non rimettere nulla a posto... Come sta vostro fratello?». «Abbastanza bene. Giocanto è venuto qui questa mattina pri­ ma delle quattro. Mi ha portato una lettera... per voi, miss Lydia; a me non ha scritto, Orso. C’è scritto sull’indirizzo: “A Colom­ ba”; ma sotto: “Per miss N***”. Le sorelle non sono gelose. Gio­ canto dice che ha sofferto molto per scrivere. Giocanto, che ha una mano magnifica, si era offerto di scrivere sotto dettatura. Non ha voluto. Scriveva con una matita, sdraiato supino. Bran­ dolaccio reggeva il foglio. Ad ogni momento mio fratello voleva alzarsi, e allora la minima mossa gli dava al braccio atroci dolori. Un vero strazio, diceva Giocanto. Ecco la sua lettera». 343

Miss Nevil lesse la lettera, che era scritta in inglese, indubbia­ mente per maggior cautela. Ecco quello che conteneva:

«Signorina, una disgraziata fatalità mi ha spinto; ignoro ciò che i miei ne­ mici diranno, quali calunnie inventeranno. Poco m’importa, se voi, signorina, non vi presterete fede. Da quando vi ho visto, mi son cullato in assurde fantasticherie. Occorreva questa catastrofe per convincermi della mia follia; ora sono ragionevole. So quale avvenire mi attende, e vi sono rassegnato. L’anello che voi mi ave­ te dato e che io credevo un talismano di felicità, non oso conser­ varlo. Ho il timore, miss Nevil, che non vi rincresca di aver così mal collocato i vostri doni, o peggio ancora temo che mi ricordi il tempo in cui ero folle. Colomba ve lo consegnerà... Addio, si­ gnorina, presto lascerete la Corsica e io non vi vedrò più: ma di­ te a mia sorella che ho ancora la vostra stima, e, io vi assicuro, la merito tuttora.». «O.D.R.».

Miss Lydia si era voltata dall’altra parte per leggere questa let­ tera, e Colomba, che la osservava attentamente, le consegnò l’a­ nello egiziano chiedendole con lo sguardo che cosa significasse. Ma miss Lydia non osava alzare la testa, e considerava con tri­ stezza l’anello che ora si metteva al dito e ora si toglieva. «Cara miss Nevil», disse Colomba «non posso sapere cosa vi dice mio fratello? Vi parla delle sue condizioni?». «Ma...» disse miss Lydia arrossendo «non ne parla... La sua lettera è in inglese... Mi incarica di dire a mio padre... Spera che il prefetto possa accomodare...». Colomba, sorridendo maliziosamente, si sedette sul letto, prese le mani di miss Nevil, e guardandola con i suoi occhi penetranti: «Sarete buona?» le disse. «Risponderete a mio fratello? Gli fa­ rete tanto bene! Per un attimo ho avuto l’idea di svegliarvi quan­ do è arrivata la sua lettera, ma poi non ho osato». «Avete proprio avuto torto», disse miss Nevil, «se una mia pa­ rola lo potesse...». «Ora non posso mandargli lettere. E arrivato il prefetto, e Pie­ tranera è piena dei suoi scagnozzi. Vedremo più tardi. Ah! se co344

nosceste mio fratello, miss Nevil, lo amereste come l’amo io... È così buono! così valoroso! pensate a quello che ha fatto! Solo contro due e ferito!. Il prefetto era di ritorno. Informato da un espresso dell’ag­ giunto, era venuto accompagnato da gendarmi e volteggiatori, portando inoltre il procuratore del re, un cancelliere e tutto il per­ sonale necessario per l’istruttoria sulla nuova terribile catastrofe che complicava, o se si vuole concludeva, le inimicizie tra le fa­ miglie di Pietranera. Poco dopo il suo arrivo, vide il colonnello Nevil e la figlia, e non nascose loro che temeva che la faccenda potesse prendere una brutta piega. «Voi sapete» disse, «che lo scontro non ha avuto testimoni; e la reputazione di dirittura e di coraggio di quei due giovani di­ sgraziati era così salda, che tutti si rifiutano di credere che il si­ gnor della Rebbia li abbia potuti uccidere senza il concorso dei banditi presso cui si dice che abbia trovato rifugio». «È impossibile», esclamò il colonnello; «Orso della Rebbia è un ragazzo pieno d’onore; rispondo di lui». «Lo credo» disse il prefetto, «ma il procuratore del re (quei si­ gnori sono sempre sospettosi) non mi sembra troppo ben dispo­ sto. Ha in mano un documento assai sfavorevole per il vostro amico. E una lettera minatoria indirizzata a Orlanduccio, nella quale gli dà un appuntamento... e questo appuntamento gli sem­ bra un’imboscata». «Quell’Orlanduccio» disse il colonnello, «ha rifiutato di bat­ tersi come un galantuomo». «Qui non usa. Ci si apposta, si tira alle spalle, è il costume del paese. C’è, è vero, una testimonianza favorevole; è quella di una bambina che asserisce di avere udito quattro detonazioni, di cui le due ultime più forti delle altre, provenienti da un’ arma di gros­ so calibro come il fucile del signor della Rebbia. Sfortunatamen­ te questa bambina è nipote di uno dei banditi sospetti di compli­ cità e può aver imparato la lezione». «Signore» lo interruppe miss Lydia arrossendo fino al bianco degli occhi «noi eravamo sulla strada quando sono stati tirati i colpi di fucile, e abbiamo udito la stessa cosa». «Davvero? Ecco un particolare importante. E voi, colonnello, avete fatto certamente la stessa osservazione?». 345

«Sì», riprese vivamente miss Nevil; «È stato mio padre che ha dimestichezza con le armi, che ha detto: “Ecco il signor della Rebbia che tira con il mio fucile”». «E questi colpi di fucile che avete riconosciuto, erano proprio gli ultimi?». «Gli ultimi due vero padre mio?». Il colonnello non aveva la memoria troppo buona; ma in ogni occasione evitava di contraddire la figlia. «Bisogna parlare subito di questo al procuratore del re, colon­ nello. Del resto, attendiamo stasera un chirurgo che esaminerà i cadaveri e stabilirà se le ferite siano state prodotte dall’arma in questione» «Sono stato io a donarla a Orso», disse il Colonnello, «e vor­ rei saperla in fondo al mare... Cioè... son ben lieto che quell’ot­ timo giovane se la sua trovata fra le mani; poiché, senza il mio Manton, non so proprio come se la sarebbe cavata».

XIX

Il chirurgo arrivò un po’ tardi. Anche a lui era toccata, strada facendo, la sua avventura. Imbattutosi in Giocanto Castriconi, il quale, con la massima cortesia, gli aveva ingiunto di recarsi a pre­ stare sue cure a un uomo ferito. Così era stato condotto da Orso, e gli aveva applicato il primo apparecchio per la riduzione della frattura. Poi il bandito lo aveva riaccompagnato lontano, edifi­ candolo alquanto col parlargli dei più famosi professori di Pisa che, diceva, erano suoi intimi amici. «Dottore», disse il teologo nell’accomiatarsi, «è troppa la sti­ ma che voi mi avete ispirato perché mi sembri necessario ricor­ darvi che un medico deve essere discreto come un confessore». E gli faceva saltellare la batteria del fucile. «Voi avete dimenticato il luogo dove abbiamo avuto l’onore di vederci. Addio, lietissimo di aver fatto la vostra conoscenza». Colomba supplicò il colonnello di assistere all’autopsia dei cadaveri. «Nessuno meglio di voi conosce il fucile di mio fratello», dis­ se, «e la vostra presenza sarà utilissima. D’altronde, ci sono così 346

tante persone malvagie qui che noi correremo gravi rischi senza qualcuno che difenda i nostri interessi». Rimasta sola con miss Lydia, si lagnò di un gran mal di testa, e le propose di fare due passi nelle vicinanze del paese. «L’aria aperta mi farà bene» diceva. «È così tanto che non l’ho respirata». Continuando a camminare, le parlava di suo fratello: e miss Lydia, che era piuttosto interessata a questo soggetto, non si accorgeva di allontanarsi molto da Pietranera. Il sole era al tramonto quando vi fece caso, e allora consi­ gliò a Colomba di rientrare. Colomba prese una traversa, di­ ceva, che avrebbe di molto abbreviato il ritorno: e, lasciando il sentiero che seguiva, ne prese un altro apparentemente assai meno frequentato. Ben presto cominciò ad arrampicarsi per un poggio talmente ripido che era continuamente obbligata ad aggrapparsi con una mano ai rami d’albero, per mantenere l’e­ quilibrio, mentre con l’altra tirava dietro di sé la compagna. In capo ad un quarto d’ora di faticosa ascensione, si trovarono su un esiguo piano coperto di mirti e di corbezzoli, in mezzo a enormi massi di granito che affioravano dal terreno ovunque. Miss Lydia era molto stanca, il paese non si vedeva, ed era quasi notte. «Sapete, mia cara Colomba» disse «che temo che noi ci siamo smarrite?». «Non abbiate paura» rispose Colomba. «Camminiamo anco­ ra, seguitemi». «Ma io vi assicuro che vi sbagliate: il paese non può essere da questa parte. Scommetterei che gli stiamo volgendo le spalle. Ec­ co, quelle luci che vediamo così lontano, là è certamente Pietra­ nera». «Mia cara amica», disse Colomba con aria agitata, «avete ra­ gione; ma, a duecento passi da qui... in quella macchia...». «Ebbene?». «C’è mio fratello; potrei vederlo e baciarlo, se voi voleste. Miss Nevil fece un gesto di sorpresa. «Sono uscita da Pietranera» proseguì Colomba, «senza essere notata, perché ero con voi... altrimenti mi avrebbero seguito... Lssergli tanto vicina, e non vederlo!... Perché non venite con me a vedere il mio povero fratello? Gli fareste tanto piacere!». 347

«Ma, Colomba... non sarebbe conveniente da parte mia». «Capisco. Voi donne di città vi preoccupate sempre di ciò che non è conveniente; noi donne di paese, noi pensiamo soltanto a ciò che è bene». «Ma è tardi!... E vostro fratello, che penserà di me? «Penserà che non è abbandonato dai suoi amici, e questo gli darà coraggio per soffrire». «E mio padre, sarà inquieto...». «Sa che siete con me... Ebbene, decidetevi... Guardavate il suo ritratto stamattina», aggiunse con un sorriso malizioso. «No... veramente, Colomba, non oso... quei banditi che so­ no là...». «E allora, quei banditi non vi conoscono, che ve ne importa? Desideravate vederne qualcuno!...». «Mio Dio!». «Su, signorina, prendete una decisione. Lasciarvi sola qui, non posso; non si sa mai quello che potrebbe accadere. Andiamo a trovare Orso, oppure torniamo insieme in paese... Vedrò mio fratello... Dio sa quando... forse mai più...». «Che dite, Colomba?... Ebbene, andiamo! Ma solo per un minuto, e ritorneremo subito». Colomba le strinse la mano e, senza rispondere, riprese a cam­ minare con passo così veloce che miss Lydia stentava a seguirla. Per fortuna, presto si fermò, dicendo alla compagna: «Non andiamo più oltre senza averli avvisati; potremmo bu­ scarci una fucilata». Si mise a fischiare con due dita in bocca; Poco dopo si udì l’ab­ baiare di un cane, e la sentinella avanzata dei banditi non tardò a comparire. Era la nostra vecchia conoscenza, il cane Brusco, che subito riconobbe Colomba e s’incaricò di farle da guida. Dopo molti giri per gli stretti sentieri della macchia, due uomini armati fino ai denti sbucarono fuori a incontrarle. «Siete voi, Brandolaccio?», chiese Colomba. «Dov’è mio fra­ tello?». «Laggiù!» rispose il bandito. «Ma piano, nell’avvicinarvi; dorme, ed è la prima volta che questo gli capita, dopo il suo in­ cidente. Vivaddio, si vede bene che dove passa il diavolo, passa anche una donna». 348

Le due donne si avvicinarono con precauzione, e, accanto a un fuoco il cui riverbero era stato prudentemente schermato con un muretto di pietre secche, videro Orso disteso su di uno stra­ to di felci e coperto da un pilone. Era pallidissimo e si udiva il suo respiro affannoso. Colomba gli si sedette vicino, e lo con­ templò in silenzio con le mani giunte, e come se pregasse men­ talmente. Miss Lydia, coprendosi il viso con il fazzoletto, si strinse a lei; ma ogni tanto alzava la testa per guardare il ferito al di sopra della spalla di Colomba. Trascorse così un quarto d’ora senza che nessuno parlasse. A un cenno del teologo, Bindolac­ elo si era furtivamente ritirato con lui nella macchia, con grande sollievo di miss Lydia, che, per la prima volta, trovava che le grandi barbe e l’equipaggiamento dei banditi avevano anche troppo colore locale. Finalmente Orso fece un movimento. Subito Colomba si chinò su di lui e lo baciò ripetutamente, tempestandolo di do­ mande sulla sua ferita, le sue sofferenze, i suoi bisogni. Dopo aver assicurato di star bene per quanto era possibile, Orso le chiese a sua volta se miss Nevil si trovasse ancora a Pietranera, e se gli avesse scritto. Colomba, china sul fratello, gli nascondeva completamente la compagna, che il buio d’altronde gli avrebbe difficilmente permesso di riconoscere. Con una mano stringeva quella di miss Nevil, e con l’altra sollevava dolcemente la testa del ferito. «No, fratello caro, non mi ha dato nessuna lettera per voi...; ma pensate sempre a miss Nevil, le volete, dunque, molto bene?». «Se l’amo, Colomba!... Ma lei, lei forse mi disprezza ora!». In quel momento, Miss Nevil fece uno sforzo per ritirare la inano; ma non era facile far allentare la stretta a Colomba; e, per quanto piccola e ben fatta, la sua mano possedeva una forza del­ la quale abbiamo avuto già qualche prova. «Disprezzare voi!» esclamò Colomba, «dopo quello che avete fatto!...Al contrario, dice bene di voi... Ah! Orso, avrei molte cose da narrarvi sul conto di lei». La mano cercava sempre di sfuggire, ma Colomba l’attirava sempre più vicino a Orso. «Ma allora» disse il ferito «perché non ha risposto?... Un rigo solo e sarei stato contento». 349

A forza di tirar la mano di miss Nevil, Colomba finì col met­ terla in quella del fratello. Allora, traendosi improvvisamente da parte e scoppiando a ridere: «Orso, esclamò, «attento a non dir male di miss Lydia, perché capisce molto bene il corso». Miss Lydia ritrasse subito la mano e balbettò alcune parole inintelligibili. Orso credeva di sognare. «Voi qui, miss Nevil! Mio Dio! come avete osato? Ah! come mi rendete felice!». E, sollevandosi a fatica, cercò di avvicinarsi a lei. «Ho accompagnato vostra sorella», disse miss Lydia, «...per­ ché non potessero sospettare dove si recava... e poi, volevo an­ che... assicurarmi... Ahimè! come state male qui!». Colomba si era seduta dietro Orso. Lo sollevò con pre­ cauzione di modo da sostenergli la testa sulle sue ginocchia. Gli cinse il collo con le braccia, e fece segno a miss Lydia di avvicinarsi. «Più vicino! più vicino!» diceva: «Un malato non deve alzare troppo la voce». E dato che miss Lydia esitava, lui le prese la ma­ no e la obbligò a sedersi tanto vicino che il suo vestito toccava Orso, e che la sua mano, che ancora stringeva, si appoggiava sul­ la spalla del ferito. «Così sta proprio bene», disse Colomba in tono allegro. «Non è vero, Orso, che si sta bene nella macchia, al bivacco, con una notte simile?». «Oh sì, che bella notte!» rispose Orso. «Non la dimenti­ cherò mai!». «Come dovete soffrire!» disse miss Nevil. «Non soffro più, disse Orso «e vorrei morire qui». E la sua mano destra si avvicinava a quella di miss Lydia, che Colomba tratteneva sempre prigioniera. «Bisogna assolutamente trasportarvi in qualche luogo dove possiate essere curato, signor Rebbia, disse miss Nevil. «Non po­ trò più dormire adesso che vi ho visto così mal ricoverato., al­ l’addiaccio... «Se non avessi temuto di incontrarvi, miss Nevil, avrei cerca­ to di rientrare a Pietranera, e mi sarei costituito prigioniero». «E perché temevate di incontrarla, Orso?» chiese Colomba. 350

«Vi avevo disubbidito, miss Nevil... e non avrei osato vedervi in quel momento». «Sapete, miss Lydia, che voi fate fare a mio fratello tutto ciò che volete?» disse ridendo Colomba. «Vi impedirò di vederlo». «Spero», disse miss Nevil, «che tutta questa disgraziata fac­ cenda sarà messa in chiaro, e che presto non avrete più nulla da temere... Sarò lieta, se quando partiremo, saprò che vi hanno re­ so giustizia e che la vostra lealtà e il vostro valore hanno avuto il meritato riconoscimento». «Voi partite miss Nevil! Non dite ancora questo». «Che volete... mio padre non può sempre andare a caccia... Vuole partire». Orso lasciò cadere la sua mano che toccava quella di miss Ly­ dia, e vi fu un attimo di silenzio. «Bah!, riprese Colomba, «non vi lasceremo partire così presto. Abbiamo ancora molte cose da farvi vedere a Pietranera... D’al­ tronde, mi avete promesso che di fare il mio ritratto, e non lo ave­ te ancora cominciato... E poi vi ho promesso anch’io di compor­ re per voi una serenata di settantacinque strofe... E poi... Ma che ha Brusco da brontolare?... Ecco Brandolaccio che gli corre die­ tro... Vediamo che cosa sta succedendo». Subito si alzò, e adagiando senza cerimonie la testa di Orso sulle ginocchia di miss Nevil, corse vicino ai banditi. Un po’ turbata nel trovarsi a sostenere così un bel giovane, so­ lo a solo con lui in mezzo alla macchia, miss Nevil non sapeva troppo come comportarsi, poiché temeva, ritraendosi all’improv­ viso, di far male al ferito. Ma Orso lasciò spontaneamente il dolce appoggio procuratogli dalla sorella e, sollevatosi sul braccio destro: «Così, partirete presto miss Lydia? Non mi era mai passata per la mente l’idea che voi aveste potuto prolungare il vostro sog­ giorno in questa terra sventurata..., eppure... da quando siete ve­ nuta qui, soffro cento volte di più nel pensare che dovrò dirvi ad­ dio... Sono un povero tenente... senza avvenire..., ora fuorileg­ ge... Che momento, miss Lydia, per dirvi che vi amo... ma forse è l’unica volta che mi sia concesso di dirvelo,e mi sembra di esse­ re meno infelice ora che ho alleggerito il mio cuore». Miss Lydia distolse la testa, come se il buio non fosse stato sufliciente a celare il suo rossore. 351

«Signor della Rebbia» disse con voce tremante — «sarei forse, venuta qui, se...». E così parlando, rimise nella mano di Orso il talismano egiziano. Poi facendo uno sforzo violento per ripren­ dere il tono allegro che le era abituale: «Non sta bene, da parte vostra, signor Orso, parlare così... In mezzo alla macchia, circondato dai vostri banditi, sapete bene che non avrei l’ardire di mostrarmi arrabbiata con voi». Orso si mosse per baciare la mano che gli restituiva il talisma­ no; e dato che miss Lydia la ritirava un po’ svelta, perse l’equili­ brio e cadde sul braccio ferito. Non potè trattenere un gemito di dolore. «Vi siete fatto male, amico mio?» esclamò lei risollevandolo; «è colpa mia! perdonatemi...» Conversarono ancora un altro po­ co sottovoce, e molto vicini l’uno all’altra. Colomba che accorre­ va di nuovo precipitosamente, li trovò nella stessa posizione nel­ la quale li aveva lasciati. «I volteggiatori!» esclamò. «Orso, cercate di alzarvi e di cam­ minare, vi aiuterò». «Lasciatemi», disse Orso. «Di’ ai banditi di mettersi in sal­ vo...; se mi prendono, non m’importa; ma conduci via miss Ly­ dia: in nome di Dio, che non la vedano qui!». «Io non vi lascerò», disse Brandolaccio che seguiva Colomba. «Il sergente dei volteggiatori è un figlioccio dell’avvocato; invece di arrestarvi, vi ucciderà, e poi dirà di non averlo fatto apposta». Orso tentò di alzarsi, fece qualche passo, ma si fermò quasi subito: «Non posso camminare» disse. «Luggite voi. Addio, miss Nevil; datemi la mano, e addio!». «Non vi lasceremo!» esclamarono le due donne. «Se non potete camminare», disse Brandolaccio «bisognerà che io vi porti. Su, tenente mio, un po’ di coraggio; avremo il tem­ po di svignarcela per quella forra, là dietro. Il signor curato li terrà occupati». «No, lasciatemi», disse Orso distendendosi a terra. «Nel no­ me di Dio, Colomba, porta via miss Nevil!». «Voi siete forte, signorina Colomba» disse Brandolaccio; «agguantatelo per le spalle, io gli afferro i piedi; bene! avanti, andiamo!». 352

Cominciarono a trasportarlo in fretta, nonostante le sue prote­ ste; miss Lydia li seguiva, orribilmente spaventata, quando si udì un colpo di fucile, cui subito cinque o sei altri fecero eco. Miss Lydia lanciò un grido e Brandolaccio un’imprecazione, ma accelerò e Colomba, dietro suo esempio, correva per la macchia, senza curar­ si dei rami che le sferzavano il viso o che le laceravano il vestito. «Chinatevi, chinatevi, mia cara», diceva alla compagna, «una pallottola vi potrebbe colpire». Camminarono o piuttosto corsero a quel modo per circa cin­ quecento passi, quando Brandolaccio dichiarò di non farcela più, e si lasciò cadere a terra, a dispetto delle esortazioni e dei rimpro­ veri di Colomba. «Dov’è miss Nevil?» chiese Orso. Miss Nevil terrorizzata dai colpi di fucile, ad ogni passo trat­ tenuta dalla macchia folta, aveva presto perduto la traccia dei fug­ gitivi, ed era rimasta sola in preda alla più viva angoscia. «E rimasta indietro» disse Brandolaccio, «ma non è persa, le donne si ritrovano sempre. Sentite appena il curato, Ors’Anton’, che baccano fa con il vostro fucile. Disgraziatamente non si vede affatto, e a scambiarsi fucilate di notte non ci si reca gran danno». «Zitto!» esclamò Colomba; «sento un cavallo, siamo salvi. Infatti un cavallo che attraversava la macchia, spaventato dal rumore dei colpi, si avvicinava dalla loro parte. «Siamo salvi!» ripete Brandolaccio. Correre al cavallo, afferrarlo per la criniera, incavezzarlo, in mancanza di meglio con un pezzo di fune fu per il bandito, aiu­ tato da Colomba, l’affare di un minuto. «Ora avvertiamo il curato» disse. Fischiò due volte; un altro fischio in lontananza rispose a quel segnale, e il fucile Manton cessò d far udire la sua grossa voce. Al­ lora Brandolaccio saltò sul cavallo. Colomba collocò il fratello davanti al bandito, che con una mano lo serrò con forza, mentre con l’altra guidava la bestia. Malgrado il doppio carico, il cavallo, stimolato da un buon paio di calci nella pancia, partì veloce e di­ scese al galoppo una ripida scarpata dove un altro cavallo che non tosse corso poteva si sarebbe ammazzato cento volte. Colomba tornò sui suoi passi, chiamando miss Nevil con tut­ te le sue forze, ma nessuna voce rispondeva alla sua... Dopo aver 353

camminato per un certo tempo alla ventura, cercando di ritrova­ re la strada che aveva già percorso nel fuggire, in un sentiero in­ contrò due volteggiatori che le gridarono: «Chi va là?». «Ebbene, signori!», disse Colomba in tono di motteggio, «vi siete fatti molto sentire. Quanti morti?». «Eravate coi banditi», disse uno dei soldati, «dovete seguirci». «Molto volentieri, rispose; ma ho un’amica da queste parti e prima la dobbiamo trovare». «La vostra amica è già presa,e andrete a dormire in prigione con lei». «In prigione? è una faccenda da vedersi; intanto conducetemi da lei». I volteggiatori la condussero all’accampamento dei banditi dove raccoglievano i trofei della spedizione, ossia il pilone che co­ priva Orso, una vecchia pentola e una brocca d’acqua. Si trovava là anche miss Nevil, incontrata dai soldati mezza morta di paura, rispondeva soltanto con le lacrime a tutte le loro domande sul nu­ mero dei banditi e sulla direzione che avevano preso. Colomba si gettò nelle sue braccia e le disse all’orecchio: «So­ no salvi. Poi, rivolgendosi al sergente dei volteggiatori: «Signore, vedete bene che la signorina non sa nulla di quanto le chiedete. Lasciateci ritornare in paese, dove ci aspettano con impazienza». «Vi ci condurremo, e più presto di quel che desideriate, bel­ lezza mia», disse il sergente, «e dovrete anche spiegare che cosa stavate facendo nella macchia a quest’ora con i briganti che sono fuggiti. Ignoro che sortilegio adoperino quei furfanti, ma è certo che affascinano le ragazze, perché si è sicuri di trovarne sempre di graziose». «Siete galante, signor sergente», disse Colomba, «ma non fa­ reste male a misurare le vostre parole. Questa signorina è paren­ te del prefetto, ed è meglio non scherzare con lei». «Parente del prefetto!» mormorò uno dei volteggiatori al suo capo; «difatti porta il cappello». «Il cappello non fa niente», disse il sergente. «Erano entrambe con il curato, che è il peggiore rubacuori del paese, ed è mio dove­ 354

re condurle via. D’altronde non ci resta più nulla da fare qui. Sen­ za quel maledetto caporale Taupin..., quell’ubriacone di un france­ se si è fatto vedere prima che avessi compiuto l’accertamento della macchia... senza di lui, li avremmo presi come in una rete». «Siete in sette?» domandò Colomba. «Sapete, signori, che se per caso i tre fratelli Gambini, Sarocchi e Théodore Poli si tro­ vassero alla croce di Santa Cristina con Brandolaccio e il curato, vi potrebbero accomodare molte faccende. Se dovete scambiare qualche parola con il Comandante della campagna™, non mi pia­ cerebbe troppo assistervi. Le pallottole non riconoscono nessuno di notte». La possibilità di un incontro con i terribili fuorilegge che Co­ lomba aveva appena nominato parve fare impressione sui volteg­ giatori. Sempre sacramentando contro il caporale Taupin, quel cane di francese, il sergente diede l’ordine della ritirata e il picco­ lo drappello prese la via di Pietranera, portandosi il pilone e la pentola. In quanto alla brocca, una pedata ne fece giustizia. Un volteggiatore tentò di prendere il braccio di miss Lydia; ma Co­ lomba lo respinse subito: «Che nessuno la tocchi!, disse. «Credete che abbiamo voglia di fuggire! Forza, Lydia, mia cara, appoggiatevi a me, e non pian­ gete come una bambina. Vi è toccata un’avventura, ma non finirà male; fra mezz’ora saremo a cena. Per conto mio, ne muoio dal desiderio». «Che penseranno di me?» mormorava miss Nevil. «Penseranno che vi siete persa nella macchia, ecco tutto». «Che dirà il prefetto?... che dirà mio padre soprattutto?». «Il prefetto?... gli risponderete che s’impicci della sua prefet­ tura. Vostro padre?... dal modo come parlavate con Orso, avrei creduto che aveste qualcosa da dire a vostro padre». Miss Nevil le strinse il braccio senza rispondere. «Non è vero», le mormorò Colomba all’orecchio, «che mio fratello merita che gli si voglia bene? Non lo amate un pochino?». «Ah! Colomba, rispose miss Nevil sorridendo malgrado la confusione, «mi avete tradito, io che avevo così tanta fiducia in voi!». 50 Era il titolo che aveva Théodore Poli.

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Colomba le passò un braccio attorno alla vita e baciandola in fronte: «Sorellina mia, disse a voce bassissima, «mi perdonate?». «Sono ben costretta, mia terribile sorella», rispose Lydia nel restituirle il bacio. Il prefetto e il procuratore del re alloggiavano in casa dell’ag­ giunto di Pietranera, e il colonnello, molto preoccupato per la fi­ glia si recava da loro a chiedere per la ventesima volta notizie, quando un volteggiatore mandato avanti dal sergente come staf­ fetta, giunse a riferire sul tremendo combattimento sostenuto contro i briganti, combattimento nel quale non vi erano stati né morti né feriti, è vero, ma che aveva permesso la cattura di una pentola di un pilone e di due ragazze che erano, diceva costui, le amanti o le spie dei banditi. Così annunziate comparvero le due prigioniere, in mezzo alla scorta armata. E facile figurarsi il con­ tegno raggiante di Colomba, la vergogna della sua compagna, la sorpresa del prefetto, la gioia e la meraviglia del colonnello. Il procuratore del re si prese il gusto maligno di far subire alla po­ vera Lydia una specie di interrogatorio che ebbe termine solo quando le ebbe fatto perdere ogni padronanza di sé. «Mi sembra» disse il prefetto «che possiamo senz’altro met­ tere tutti in libertà. Queste signorine erano andate a passeggio, nulla di più naturale con il bel tempo di oggi; hanno incontrato per caso un simpatico giovane ferito, e anche qui, nulla di più naturale». Poi, traendo Colomba in disparte: «Signorina», disse, «potete far avvisare vostro fratello che la sua faccenda si mette meglio di quanto non sperassi. L’esame dei cadaveri, la deposizione del colonnello dimostrano che egli non ha fatto che rispondere, e che era solo al momento dello scontro. Tutto si aggiusterà, ma occorre che lasci la macchia al più presto e che si costituisca». Erano circa le undici quando il colonnello, la figlia e Colom­ ba si misero a tavola davanti a una cena era già fredda. Colomba mangiava di buon appetito, burlandosi del prefetto, del procura­ tore del re e dei volteggiatori. Il colonnello mangiava ma non di­ ceva una parola, guardando continuamente la figlia che non alza­ va gli occhi dal piatto. Alla fine, con voce dolce ma grave: 356

«Lydia, le disse in inglese, «vi siete dunque scambiata qualche promessa con della Rebbia?». «Sì, padre mio, da oggi», rispose arrossendo, ma con voce ferma. Poi alzò gli occhi, e, non scorgendo nella fisionomia del padre alcun segno di contrarietà, si gettò nelle sue braccia e lo baciò, co­ me usano le signorine bene educate in simile occorrenza. «Alla buon’ora!» disse il colonnello, «È un bravo figliuolo; ma per Dio! non rimarremo nel suo indiavoltato paese! o rifiuto il mio consenso». «Non so l’inglese», disse Colomba, che li guardava entrambi con estrema curiosità; «ma scommetto che indovino quanto state dicendo». «Diciamo», rispose il colonnello «che vi porteremo a fare un viaggio in Irlanda». «Sì, volentieri ed io sarò la surella Colomba. È accettato, co­ lonnello? Ci stringiamo la mano?». «In questo caso ci si bacia», disse il colonnello.

XX

Qualche mese dopo il colpo doppio che aveva fatto piomba­ re il comune di Pietranera nella costernazione (come dissero i giornali), un giovane, con il braccio sinistro al collo, uscì a ca­ vallo da Bastia, nel pomeriggio, e si diresse verso il paese di Car­ do, celebre per la fontana che, d’estate, fornisce un’acqua deli­ ziosa alle persone delicate della città. Una giovane donna di al­ ta statura e di notevole bellezza lo accompagnava su un cavallo nero, del quale ogni intenditore avrebbe ammirato la forza e l’e­ leganza, ma che disgraziatamente aveva un orecchio lacerato a causa di uno strano incidente. In paese la giovane donna balzò svelta a terra, e, dopo aver aiutato il compagno a smontare da cavallo, staccò certe borse abbastanza pesanti dall’arcione della sella. I cavalli vennero affidati alla custodia di un contadino, e la donna con le borse che nascondeva sotto il mezzaro, e con lei il giovane che portava un fucile a due canne, presero la via della montagna seguendo un ripidissimo sentiero che non sembrava 357

condurre a nessuna abitazione. Giunti a uno dei più alti ripiani del monte Quercio, si fermarono e si sedettero sull’erba. Sem­ brava che attendessero qualcuno perché a ogni istante volgeva­ no gli occhi verso la montagna, e la giovane donna guardava spesso un grazioso orologio d’oro, forse per contemplare un gioiello che dimostrava possedere da poco, non meno che per sapere se fosse giunta l’ora di qualche appuntamento. L’attesa dei due non fu lunga. Un cane uscì dalla macchia, e, al nome di Brusco pronunciato dalla giovane donna, corse a far festa ad en­ trambi. Poco dopo spuntarono due uomini barbuti, con il fuci­ le sotto il braccio, la cartucciera alla cintura, la pistola al lato. I loro panni laceri e rattoppati contrastavano con la lucentezza delle armi uscite da una rinomata fabbrica del continente. No­ nostante l’apparente disparità della loro condizione, i quattro personaggi di questa scena si avvicinarono con familiarità e co­ me vecchi amici. «Ebbene, Ors’Anton’», disse al giovane il bandito più anzia­ no, «ecco regolata la vostra faccenda. Prosciolto in istruttoria. I miei rallegramenti. Mi dispiace che l’avvocato non sia più nell’i­ sola per vedere la sua rabbia. E il braccio?». «Tra quindici giorni», rispose il giovane «mi dicono che potrò togliere la fascia. Brando, mio prode, parto domani per l’Italia e ho voluto salutare te e il signor curato. È per questo che vi ho pregato di venire». «Avete proprio fretta», disse Brandolaccio: «vi hanno pro­ sciolto ieri e partite domani?». «Abbiamo degli affari», disse allegramente la giovane donna. «Signori, vi ho portato da cenare: mangiate e non dimenticate il mio amico Brusco». «Viziate Brusco, signorina Colomba, «ma è riconoscente. Sta­ te a vedere. Su, Brusco» disse, disponendo orizzontalmente il fu­ cile, «salta per i Barricini». Il cane non si mosse, leccandosi il muso e guardando il pa­ drone. «Salta per i della Rebbia!». E quello saltò due piedi più in alto del necessario. «Ascoltate, amici miei», disse Orso, «fate un brutto mestie­ re; e se non vi succederà di chiudere la vostra carriera su quella 358

piazza che vediamo laggiù in fondo51, il meglio che vi possa ca­ pitare, è di cadere in qualche macchia sotto la pallottola di un gendarme». «Ebbene», disse Castriconi «è una morte come un’altra, e in ogni modo è meglio della febbre che vi uccide in un letto, in mez­ zo ai piagnistei, più o meno sinceri dei vostri eredi. Quando si ha come noialtri l’abitudine all’aria aperta, non c’è nulla di meglio che morire nelle proprie scarpe come dicono i nostri paesani». «Vorrei», proseguì Orso «vedervi lasciare questo paese... e condurre una vita più tranquilla. Per esempio, non potreste, an­ dare a stabilirvi in Sardegna, come hanno fatto molti compagni vostri? Ve ne potrei agevolare il modo». «In Sardegna!» esclamò Brandolaccio «Istos Sardos'. Che il diavolo se li porti con il loro dialetto. Per noi sarebbe troppo una cattiva compagnia». «Non ci sono risorse in Sardegna» aggiunse il teologo. «Io poi disprezzo i sardi. Per dar la caccia ai banditi hanno una milizia a cavallo; il che basta per farsi un concetto esatto sia di quei bandi­ ti, sia di quel paese52. Al diavolo la Sardegna! C’è una cosa che mi stupisce, signor della Rebbia, è che voi, che siete un uomo di gu­ sto e di dottrina, non abbiate abbracciato con noi la vita della macchia, dopo averne avuto un assaggio». «Ma», disse Orso con un sorriso, «quando ebbi l’onore di es­ sere vostro commensale, non ero troppo in grado di apprezzare le attrattive della vostra condizione, e le costole mi fanno ancora male al ricordo della corsa che feci una bella notte, messo di tra­ verso come un pacco su un cavallo senza sella guidato dall’amico Brandolaccio». «E il piacere di sfuggire all’inseguimento» riprese Castriconi «non lo contate? Come potete rimanere insensibile al fascino di una libertà assoluta, sotto un bel clima come il nostro? Con que­ sto portarispetto (indicava il fucile), si è re dovunque, a tiro di pallottola. Si comanda, si correggono le ingiustizie... È un diver" La piazza dove si fanno le esecuzioni a Bastia. '·’ Devo questa critica osservazione sulla Sardegna a un mio amico, ex bandito, e a lui solo ne rimetto la responsabilità. Vuol dire che i banditi che si lasciano prendere da dei ca­ valieri sono degli imbecilli, e che una milizia a cavallo che persegue a cavallo i banditi, non ha alcuna possibilità di incontrarli.

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timento moralissimo, signore, e anche molto gradevole, del qua­ le non ci priviamo. Quale vita è più bella di quella del cavaliere errante, quando si è meglio armati e più di senno che Don Chi­ sciotte? Ecco, ieri l’altro seppi che lo zio della piccola Lilla Luigi, da quel vecchio spilorcio che è, non voleva darle una dote; gli ho scritto, senza minacce, poiché non è questo il mio modo; ebbene, ecco un uomo convinto all’istante; l’ha maritata. Ho fatto la feli­ cità di due persone. Credetemi, signor Orso, nulla è paragonabi­ le alla vita del bandito. Bah! sareste forse stato dei nostri, senza una certa inglese che io ho solo intravisto, ma di cui parlano tut­ ti con ammirazione, a Bastia». «Alla mia futura cognata non piace la macchia» disse Colom­ ba ridendo, «vi ebbe troppo paura». «Insomma», disse Orso, «volete rimanere qui? e sia! Ditemi se posso fare qualcosa per voi». «Nient’altro», disse Brandolaccio, «che conservarci un pic­ colo ricordo. Ci colmaste già di cortesie. La mia Chilina ha avu­ to una dote, e per trovar marito non avrà bisogno che il mio buon amico, il curato, scriva per lei lettere di minacce. Sappia­ mo che il vostro fattore ci darà del pane e della polvere nelle no­ stre occorrenze: così addio. Spero di rivedervi in Corsica, un giorno o l’altro». «In un momento di particolare bisogno», disse Orso, «qual­ che moneta d’oro può essere di molta utilità. Ora che siamo vec­ chie conoscenze, non rifiuterete da me questa piccola cartuccia che potrebbe anche servirvi per procurarvene altre». «Niente denaro tra noi, tenente» disse Brandolaccio in tono risoluto. «Il denaro fa tutto nel mondo», disse Castriconi; «ma nella macchia non si considerano se non un cuore impavido e un fuci­ le che non falli». «Non vorrei allontanarmi da voi», riprese Orso, «senza la­ sciarvi almeno qualche ricordo. Vediamo, che posso lasciarti, Brando?». Il bandito si grattò la testa, e, guardando in tralice il fucile d’Orso: «Diamine, tenente mio... se osassi... ma no, ci tenete troppo». «Che cosa vuoi?». 360

«Nulla... l’oggetto non conta... Ci vuole anche l’arte di ado­ perarlo. Penso sempre a quel diavolo di colpo doppio e con una sola mano... Oh! non si fa due volte». «Il fucile vuoi?... Lo avevo portato per te; ma cerca di adope­ rarlo il meno che puoi». «Oh! non vi prometto di adoperarlo come voi; ma state tran­ quillo, quando sarà in mani di un altro, allora potrete ben dire che Brando Savelli ha passato l’arma a sinistra». «E a voi, Castriconi, che cosa darò?». «Poiché volete assolutamente lasciarmi un vostro ricordo materiale, vi chiederò senza complimenti di mandarmi un Orazio del più piccolo formato possibile. Sarà per me una distra­ zione, e mi consentirà di non dimenticare il mio latino. A Bastia c’è una ragazzetta che vende sigari al porto; datelo a lei, e lei me lo recapiterà». «Avrete un elzeviro, mio saggio signore; ne posseggo per l’ap­ punto uno tra i libri che intendevo portarmi. E ora, amici miei, dobbiamo separarci. Una stretta di mano. E se un giorno pensa­ te alla Sardegna, scrivetemi; l’avvocato N*** vi darà il mio indi­ rizzo sul continente». «Tenente mio», disse Brando, «domani, quando sarete fuori dal porto, guardate sulla montagna, in questa direzione; saremo qui e sventoleremo per voi i nostri fazzoletti». Dopo queste parole la compagnia si separarono: Orso e la so­ rella presero la via di Cardo, e i banditi quella della montagna.

XXI

Una bella mattina d’aprile, il colonnello sir Thomas Nevil, la figlia sposata da pochi giorni, Orso e Colomba, uscirono da Pi­ sa in carrozza per recarsi a visitare un ipogeo etrusco, recente­ mente scoperto, che tutti i forestieri andavano a vedere. Discesi all’interno del monumento, Orso e la moglie tirarono fuori le matite da disegno e si sentirono in dovere di ritrarre le pitture; ma il colonnello e Colomba, invece, piuttosto indifferenti al­ l’archeologia, li lasciarono soli e se ne andarono a passeggio nei dintorni. 361

«Mia cara Colomba», disse il colonnello, «non faremo in tem­ po a tornare a Pisa per la prima colazione. Non avete fame voi? Ecco Orso e la moglie nelle loro antichità; quando si mettono a disegnare insieme, non la finiscono più». «Sì», disse Colomba, «e tuttavia non portano mai a casa nem­ meno uno scarabocchio». «Il mio parere», continuò il colonnello, «sarebbe di andare a bussare a quella piccola fattoria laggiù. Troveremo certamente pane, forse aleatico, e, chissà? anche panna e fragole, e così potre­ mo attendere pazientemente i nostri disegnatori». «Avete ragione, colonnello. Voi e io, che siamo le persone ra­ gionevoli di casa, avremmo torto a farci martiri di quegli inna­ morati che vivono di sola poesia. Datemi il braccio. Non è vero che mi sto ingentilendo? Sto a braccetto, porto il cappello, vesti­ ti alla moda; posseggo gioielli; imparo non so quante belle cose; non sono più affatto una selvaggia. Guardate con che grazia por­ to questo scialle... Quel biondino, quell’ufficiale del vostro reg­ gimento, che era al matrimonio... mio Dio! non riesco a tenerne a mente il nome; uno alto, riccio, che io getterei a terra con un pu­ gno...». «Chatworth?», disse il colonnello. «Sì, quello! ma il suo nome non lo pronuncerò mai. Ebbene, è innamorato cotto di me». «Ah! Colomba, diventate molto civetta. Avremo tra poco un altro matrimonio». «Io! sposarmi? E chi dunque alleverebbe mio nipote... quan­ do Orso me ne avrà dato uno? Da chi imparerebbe a parlar cor­ so? .. .Sì, parlerà corso e gli farò anche un berretto a punta per far­ vi dispetto». «Prima aspettiamo che lo abbiate un nipote; e poi gli insegne­ rete a maneggiare anche lo stiletto, se così vi piace». «Addio stiletti!», disse allegramente Colomba; «adesso ho un ventaglio, per darvelo sulle dita quando parlerete male del mio paese». Così parlando, entrarono nella fattoria, dove trovarono vino, fragole e panna. Colomba aiutò la contadina a cogliere fragole mentre il colonnello beveva àc\\’aleatico. Alla svolta di un viale, Colomba scorse un vecchio seduto al sole sopra una sedia di pa-

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glia, malato a quanto pareva; perché aveva le guance vuote, gli occhi infossati; era di una magrezza estrema, e la sua immobilità, il suo pallore, il suo sguardo fisso, lo facevano assomigliare a un cadavere più che a un essere vivente. Per parecchi minuti Co­ lomba lo contemplò con tanta curiosità da ricambiare l’attenzio­ ne della contadina. «Quel povero vecchio», disse, «è un vostro compatriota, poiché dalla parlata vostra signorina ho capito che siete corsa. Ha avuto di­ sgrazie nella sua terra; i suoi figli sono morti in una maniera terri­ bile. Dicono, vi chiedo scusa signorina, che i veri compatrioti non siano teneri nelle loro inimicizie. Perciò quel povero signore, rima­ sto solo, se n’è venuto a Pisa da una lontana parente, che è la pa­ drona di questa fattoria. Il brav’uomo è un po’ tocco; è la sventura e il dolore... Un bell’impiccio per la signora, che riceve molta gen­ te; e così lo ha mandato qui. È molto pacifico, non da noia; non di­ ce tre parole in una giornata. Però la testa va per conto suo. Il me­ dico viene tutte le settimana e dice che non avrà per molto». «Ah! è spacciato?», disse Colomba. «Nella sua condizione, fi­ nirla è un bene». «Dovreste, signorina, dirgli qualcosa in corso; forse si riscuo­ terà un poco a sentire la lingua del suo paese». «È da vedere», disse Colomba con un sorriso ironico. E si avvicinò al vecchio fino a che la sua ombra gli tolse il so­ le. Allora il povero idiota alzò la testa e guardò fisso Colomba, che lo fissava anche lei sempre sorridendo. Dopo un attimo, il vecchio si passò una mano sulla fronte, e chiuse gli occhi come per sfuggire allo sguardo di Colomba. Poi li riaprì, ma smisurata­ mente; le sue labbra tremavano; voleva tendere le mani; ma, atti­ rato da Colomba, rimaneva inchiodato alla sedia, incapace di par­ lare o di muoversi. Alla fine grosse lacrime gli sgorgarono dagli occhi, e dal petto gli sfuggì qualche singhiozzo. «È la prima volta che lo vedo così», disse la giardiniera. «La si­ gnorina è del vostro paese; è venuta a vedervi», disse al vecchio. «Pietà!», gridò con voce rauca; «pietà! Non sei soddisfatta? Quel foglietto... che avevo bruciato... come hai fatto a legger­ lo?... Ma perché tutti e due?... Orlanduccio, non hai potuto leg­ gere nulla contro di lui... Me ne doveva lasciare uno... uno so­ lo... Orlanduccio non hai potuto leggere il suo nome...». 363

«Tutti e due mi occorrevano» sussurrò Colomba nel dialetto corso. «I rami sono tagliati; e se il ceppo non fosse stato marcio, avrei sradicato anche quello. Vai, non lagnarti; non ti resta molto da soffrire. Io ho sofferto due anni!». Il vecchio mandò un grido, e la testa gli ricadde sul petto. Co­ lomba gli voltò le spalle, e se ne tornò a passi lenti verso la casa, cantando certi versi oscuri di una ballata: «Voglio la mano che ha tirato, l’occhio che ha preso la mira, il cuore che ha pensato...». Mentre la giardiniera si affannava a soccorrere il vecchio, Co­ lomba, accesa in volto, con gli occhi di fuoco, si sedeva a tavola di fronte al colonnello. «Cosa vi succede?», disse, «Vi vedo l’aspetto che avevate a Pietranera, il giorno in cui ci tirarono quelle fucilate durante il pranzo». «Sono ricordi della Corsica che mi son tornati alla mente. Ma ora è passato tutto. Sarò madrina, non è vero? Che bei nomi gli darò! Ghilfuccio Tomaso Orso Leone!». La giardiniera entrò in quel momento. «Ebbene», chiese Colomba con il più grande sangue freddo, «è morto o solo svenuto?». «Nulla di grave, signorina; ma è strano come la vostra vista lo abbia turbato». «E il medico dice che non ne ha più per molto?». «Neanche per due mesi, forse». «Non sarà una gran perdita» osservò Colomba. «Di chi diamine parlate?» chiese il colonnello. «Di uno scemo del mio paese», disse Colomba con aria indif­ ferente, «che sta in pensione qui. Ogni tanto manderò a chiedere sue notizie. Ma, colonnello, lasciate almeno qualche fragola per mio fratello e per Lydia». Quando Colomba uscì dalla fattoria per risalire in carrozza, la contadina la seguì per un bel po’ con lo sguardo. «Vedi quella signorina così graziosa?», disse alla figlia, «ebbe­ ne, sono sicura che dà il malocchio!».

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Arsène Guillot

Σε Πάρις και Φοίβος ’Απόλλων Έσθλόν έόντ’, όλεσωσιν ένί Σκαιήσι πύηεσιν1 Omero, Iliade, XXII, 360

I

A San Rocco2 era appena finita l’ultima messa, e lo scaccino3 faceva la sua ronda per chiudere le cappelle deserte. Stava per ac­ costarsi all’inferriata di uno di quei santuari aristocratici nei qua­ li alcune devote comprano il permesso di pregare Dio distinte dal resto dei fedeli, quando notò che dentro c’era ancora una donna, assorta, da quel che sembrava, in meditazione, la testa china sulla spalliera della sedia. «È madame de Piennes», disse tra sé, soffer­ mandosi all’ingresso della cappella. Madame de Piennes era ben conosciuta dallo scaccino. A quei tempi, una donna della buona società, giovane, ricca, graziosa, che restituiva il pane benedetto, che offriva tovaglie per l’altare, che elargiva grandi elemosine per mezzo del curato, aveva un certo merito ad essere devota, visto che non aveva per marito un impiegato del governo, non era at­ taccata a madame Dauphine4, e non aveva niente da guadagnare a 1 «Tu sei gagliardo, ma Paride e Febo Apollo ti uccideranno sopra le Scee». 2 [Chiesa di Saint-Roch a Parigi, rue Saint-Honoré, I arr.]. 3 [L’addetto alla pulizia e alla sorveglianza di una chiesa]. ’ [Si tratta di Marie-Thérèse Charlotte de France, figlia di Luigi xvi, nata nel 1778, che aveva sposato suo cugino, Louis-Antoine, duca d’Angoulème, figlio del conte d’Artois (Carlo X)].

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frequentare le chiese se non la salvezza della propria anima. Così era per madame de Piennes. Lo scaccino aveva molta voglia di andare a pranzo, poiché le persone della sua specie pranzano sempre alla stessa ora, ma non osò turbare il pio raccoglimento di una persona tanto con­ siderata nella parrocchia di San Rocco. Si allontanò dunque, fa­ cendo risuonare il pavimento delle sue scarpe scalcagnate, non senza la segreta speranza di ritrovare, al termine del suo giro, la cappella vuota. Era già dall’altro lato del coro, quando entrò in chiesa una giovane donna, e cominciò a camminare lungo una delle navate minori, guardandosi curiosamente intorno. Pale d’altare, stazio­ ni, acquasantiere, tutti quegli oggetti non le apparivano meno strani di quanto potrebbero sembrare a voi, madame, la santa nicchia o le iscrizioni di una moschea del Cairo. Aveva circa ven­ ticinque anni, ma bisognava osservarla con parecchia attenzione per non crederla più anziana. Benché vivissimi, gli occhi neri era­ no infossati e cerchiati da un’ombra bluastra; la carnagione di un bianco spento e le labbra scolorite denotavano sofferenza, e tut­ tavia una certa espressione audace e gioiosa nel suo sguardo con­ trastava con quell’apparenza malaticcia. Nell’acconciatura avre­ ste osservato uno strano accoppiamento di negligenza e ricerca­ tezza. Il cappellino rosa, ornato di fiori artificiali, sarebbe stato più adatto per una veste da camera. Sotto un lungo scialle di ca­ chemire, che l’occhio esperto di una donna di mondo avrebbe subito capito essere appartenuto a qualcun’altra prima di lei, si celava un vestito di tela indiana del prezzo di venti soldi l’auna5 e un po’ sgualcito. Infine, solo un uomo avrebbe potuto ammi­ rare il suo piede, con quelle calze comuni e le scarpe di prunella che parevano sopportare già da molto tempo le ingiurie del sel­ ciato. Ricordate, madame, che a quel tempo l’asfalto non era sta­ to ancora inventato6. Quella donna, di cui avete potuto indovinare la posizione so­ ciale, si avvicinò alla cappella dove si trovava ancora madame de Piennes; e, dopo averla osservata un momento con aria inquieta s [Antica misura di lunghezza: 1,20 m, abolita nel 1834]. 6 [Fu, infatti, inventato solo nel 1838].

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e impacciata, quando vide questa già in piedi e pronta a uscire le si avvicinò. «Mi potreste indicare, madame», le chiese con una voce dolce e con un sorriso di timidezza, «potreste indicarmi a chi mi debbo rivolgere per fare un cero?». Questo linguaggio suonava troppo strano all’orecchio di ma­ dame de Piennes perché la comprendesse subito. Si fece ripetere la domanda. «Sì, vorrei proprio fare un cero a san Rocco; ma non so a chi dare il denaro». Madame de Piennes aveva una fede troppo solida per condivi­ dere quelle superstizioni popolari. Tuttavia le rispettava, poiché vi è sempre qualcosa di commovente in ogni forma di adorazio­ ne, per quanto grossolana possa essere. Convinta che si trattasse di un voto o qualcosa di simile, e troppo caritatevole per trarre dal modo di vestire della giovane donna dal cappotto rosa quelle conclusioni che forse voi non avete evitato di formarvi, le indicò lo scaccino che si avvicinava. La sconosciuta la ringraziò e corse da quell’uomo che parve intenderla al volo. Mentre madame de Piennes riprendeva il suo messale e aggiustava il velo vide la da­ ma del cero tirar fuori dalla tasca un borsellino, prendervi, tra molti spiccioli, una solitaria moneta da cinque franchi, e conse­ gnarla allo scaccino con lunghe raccomandazioni sottovoce, che questi ascoltava sorridendo. Uscirono dalla chiesa nello stesso momento; ma la donna del cero camminava molto in fretta, e madame de Piennes presto la perse di vista, sebbene andasse nella stessa direzione. La incon­ trò di nuovo all’angolo della via dove abitava. Sotto il suo ca­ chemire di seconda mano, la sconosciuta cercava di nascondere un pane di quattro libbre comprato in una vicina bottega. Nel ri­ vedere madame de Piennes chinò la testa, senza poter trattenere un sorriso, e allungò il passo. Il suo sorriso diceva: «Che volete? Sono povera. Burlatevi di me. So bene che non si va a comprare del pane con un cappellino rosa e il cachemire». Quell’aria mista di vergogna e di rassegnazione e di buonumore non sfuggì a ma­ dame de Piennes. Non senza tristezza pensò alla condizione probabile di quella ragazza. «La sua devozione», si disse, «è più meritoria della mia. Certamente la sua offerta di uno scudo è un 367

sacrificio di gran lunga maggiore di quel superfluo che io cedo ai poveri, senza impormi la minima della privazione». Poi si ri­ cordò dei due oboli della vedova, più accetti a Dio delle fastose elemosine dei ricchi. «Il bene che io faccio non basta», pensò. «Non faccio tutto quello che potrei fare». Così rivolgendo a se stessa rimproveri ben lungi dal meritare, rientrò a casa. La can­ dela, il pane di quattro libbre, e soprattutto l’offerta dell’unica moneta da cinque franchi avevano impresso nella mente di ma­ dame de Piennes la figura della giovane donna, a cui guardava come ad un modello di devozione. La incontrò ancora abbastanza spesso nella strada vicino alla chiesa, ma mai alle funzioni. Tutte le volte che la sconosciuta pas­ sava davanti a madame de Piennes, chinava la testa e sorrideva dolcemente. Quel sorriso tanto umile piaceva a madame de Pien­ nes. Avrebbe voluto trovare un’occasione per fare una cosa gra­ dita alla povera ragazza, che inizialmente aveva destato il suo in­ teresse e ora eccitava la sua compassione; aveva infatti notato che il cappellino rosa stava perdendo la sua freschezza e lo scialle di cachemire era scomparso. Senza dubbio era ritornato dalla rigattiera. Era evidente che san Rocco non aveva restituito centuplica­ ta l’offerta che gli era stata indirizzata. Un giorno, madame de Piennes vide entrare a San Rocco una bara, seguita da un uomo alquanto malridotto, che non portava il lutto al cappello. Era una specie di portinaio. Era più di un mese che non vedeva la giovane donna del cero, e le venne l’idea che stesse assistendo al suo funerale. Nulla di più probabile, perché le era apparsa così pallida e magra l’ultima volta che ma­ dame de Piennes l’aveva vista. Chiese allo scaccino di prendere informazioni dall’uomo che seguiva la bara. Costui rispose che era portiere in una casa di rue Louis-le-Grand; che una sua inquilina era morta, una certa madame Guillot, la quale non ave­ va né parenti né amici, nulla fuorché una figlia, e che, per pura bontà d’animo, lui, il portiere, seguiva il funerale di una perso­ na con cui non aveva nessuna parentela. Di colpo madame de Piennes si figurò che la sua sconosciuta era morta in miseria, la­ sciando una bambina senza soccorsi, e si ripromise di mandare a chiedere informarsi un sacerdote cui ricorreva di solito per le sue opere buone. 368

Due giorni dopo, una carretta di traverso in mezzo alla strada fermò la sua carrozza per qualche istante appena uscita di casa. Guardando fuori dallo sportello con aria distratta, scorse, acco­ stata a un paracarro, la ragazza che riteneva morta. La riconobbe senza fatica, per quanto fosse più che mai pallida e magra, vestita a lutto ma poveramente, senza guanti né cappello. La sua espres­ sione era strana. Invece del suo abituale sorriso, aveva i linea­ menti contratti; i suoi grandi occhi neri apparivano stralunati; li volgeva verso madame de Piennes, ma senza riconoscerla, poiché non vedeva nulla. Da tutto il suo aspetto traspariva non il dolore, ma una furiosa determinazione. La carretta si era scansata, e la carrozza si allontanò di buon trotto; ma l’immagine della ragaz­ za e la sua espressione disperata perseguitarono per molte ore madame de Piennes. Al suo ritorno, vide un grande assembramento in strada. Tut­ te le portinaie erano sulla porta e raccontavano alle vicine un fat­ to che quelle parevano ascoltare con vivo interesse. I crocchi si stringevano soprattutto davanti a una casa vicino a quella in cui abitava madame de Piennes. Gli occhi di tutti guardavano verso una finestra aperta al terzo piano, e in ogni capannello un braccio o due si alzavano per indicarla all’attenzione pubblica; poi, di col­ po, le braccia si abbassavano verso terra, e tutti gli sguardi segui­ vano quel movimento. Doveva essere accaduto qualche fatto straordinario. Attraversando l’anticamera madame de Piennes trovò i dome­ stici sconvolti, tutti le si affrettarono intorno per avere il privile­ gio di annunziarle per primi la grande notizia del quartiere. Ma prima che potesse fare una sola domanda, la sua cameriera aveva esclamato: «Ah! madame!... Ah, madame sapesse!...». E, aprendo le porte con incredibile sveltezza, era giunta con la sua padrona nel sancta sanctorum, ossia nello spogliatoio, inac­ cessibile al resto della casa. «Ah! madame», disse mademoiselle Joséphine, sfilando lo scialle di madame de Piennes, «ne ho ancora il sangue rime­ scolato! Mai mi era capitato di veder nulla di così terrificante, cioè non ho visto, per quanto sia accorsa subito dopo... Ciò nonostante...». 369

«Cosa è accaduto, dunque? Dite, presto, mademoiselle». «Ebbene, madame, è successo che a tre portoni dal nostro una povera ragazza infelice si è gettata dalla finestra, nemmeno tre mi­ nuti fa; se madame fosse arrivata un minuto prima, avrebbe sen­ tito il botto». «Ah! mio Dio! E la sventurata si è uccisa?...». «Madame, era una cosa raccapricciante. Baptiste, che è stato in guerra, dice che non ha mai visto nulla di simile. Da un terzo pia­ no, madame!». «E morta sul colpo?». «Oh! madame, si muoveva ancora; parlava persino. “Voglio che mi diano il colpo di grazia!” diceva. Ma le sue ossa erano in poltiglia. Madame può farsi un’idea del colpo che si è presa». «Ma questa infelice... l’hanno soccorsa?... Hanno chiamato un dottore, un prete?...». «Quanto al prete... madame lo sa meglio di me... Ma se fossi un prete... Una poveretta così abbandonata da uccidersi!... D’al­ tronde, la condotta era quello che era... Si vedeva abbastanza... Era stata comparsa all’Opera a quanto mi hanno detto... Tutte quelle signorine là finiscono male... Si è messa alla finestra; si è legata le gonne con un nastro rosa e... vlan!». «E quella povera ragazza in lutto!» esclamò madame de Piennes. «Sì, madame, la madre è morta tre o quattro giorni fa. Le avrà dato di volta il cervello... Per giunta l’avrà forse piantata il suo amoroso... E poi è scaduto l’affitto... Niente soldi, e non si sa la­ vorare... Teste balzane! capita presto un fattaccio...». Mademoiselle Joséphine continuò per un po’ a quel modo senza che madame de Piennes rispondesse. Sembrava meditare tristemente sul racconto che aveva appena sentito. A un tratto chiese a mademoiselle Josephine: «Sappiamo se quella giovane disgraziata possiede quanto le occorre nel suo stato?... biancheria?... materassi?... Bisogna informarsi immediatamente». «Andrò da parte di madame, se così madame desidera», esclamò la cameriera, assai contenta di vedere da vicino una don­ na che aveva voluto uccidersi. Poi riflettendo: «Ma», aggiunse, «non so se avrò la forza di vederla, una donna che è caduta dal terzo piano!... Quando han­ 370

no levato il sangue a Baptiste mi sono sentita male. È stato più forte di me». «Ebbene! spediteci Baptiste!», esclamò madame de Piennes; «ma che qualcuno mi dica presto come sta quella sventurata». Per fortuna il suo medico personale, il dottor K***, arrivò mentre lei stava dando quell’ordine. Veniva a cena da lei, come al solito tutti i martedì, serata d’Opera italiana. «Presto, correte dottore», esclamò senza lasciargli il tempo di posare il bastone e di togliersi il soprabito. «Battista vi condurrà qui a due passi. Una povera ragazza si è appena buttata dalla fi­ nestra e non c’è nessuno a soccorrerla». «Dalla finestra?» disse il dottore. «Se era alta, probabilmente non posso fare niente». Il dottore aveva più voglia di andare a tavola che di eseguire un’operazione; ma madame de Piennes insistette e, con la pro­ messa che la cena sarebbe stata ritardata, acconsentì a seguire Baptiste. Quest’ultimo tornò da solo dopo pochi minuti. Chiedeva biancheria, guanciali ecc. Nello stesso tempo, riferì l’oracolo del dottore. «Non è nulla. Se la caverà, se non muore di... Non mi ricor­ do di che cosa ha detto che sarebbe morta, ma finiva in -no». «Di tetano?» esclamò madame de Piennes. «Esattamente, madame; comunque è una fortuna che sia ve­ nuto il signor dottore, perché vi si trovava già un cattivo medico senza pazienti, lo stesso che ha curato la piccola Berthelot dal morbillo ed è morta alla terza visita». Dopo un’ora riapparve il dottore, un po’ meno incipriato e con il suo bel fiocco di batista in disordine. «Questa gente che si ammazza», disse, «nasce con la camicia. L’altro giorno, portano al mio ospedale una donna che si era spa­ rata un colpo di pistola in bocca. Butto affare!... Si spezza tre denti, si fa un buco alla guancia sinistra!... Sarà un po’ più brut­ ta, ecco tutto! Questa si butta da un terzo piano. Se un povero diavolo dabbene cadesse, inavvertitamente, dal primo si spacche­ rebbe la testa. Questa qui si rompe una gamba... Due costole sfondate, forti contusioni e basta. C’era una tettoia sporgente, là sotto, ad attutire la caduta. È il terzo fatto del genere che vedo dal 371

mio ritorno a Parigi... Le gambe hanno battuto a terra. La tibia e il perone rifanno il callo... Il peggio è che la crosta di quel rom­ bo si è completamente rinsecchita... Ho paura per l’arrosto, e perderemo il primo atto àe\\’Otello7». «E quell’infelice vi ha detto chi l’ha spinta a...». «Oh! non do mai retta a queste storie, madame. Chiedo sol­ tanto: “Avete mangiato prima ecc. ecc.?” perché è importante per la cura... Perdinci! quando ci si ammazza, c’è sempre qualche brutta ragione. Vi lascia un amante, un padrone di casa vi sfratta; e allora salti dalla finestra per fargli dispetto. Ma appena si è in aria, si è già pentiti». «È pentita, lo spero, la povera ragazza?». «Certo, certo. Piangeva e ha fatto una scenata tale da stordir­ mi. Baptiste è un bravo aiuto chirurgo, madame; ha fatto la sua parte meglio di uno stu dentello di medicina che era là e che si grattava la testa senza sapere da dove cominciare... La cosa più incredibile per lei, è che se si fosse uccisa avrebbe avuto il benefi­ cio di non morire di petto, perché è tisica, gliel’assicuro. Non l’ho auscultata, ma \z facies non mi inganna mai! Tanta fretta, quanto bastava solo lasciar fare». «La rivedrete domani, vero dottore?». «Certo, se voi volete. Le ho già promesso che farete qualcosa per lei. La cosa più semplice sarebbe farla ricoverare in ospedale ... Le passeranno gratis un apparecchio per la riduzione della gamba... Ma alla parola ospedale, grida che le diano il colpo di grazia; tutte le comari si uniscono a lei in coro. Eppure, quando non si possiede un quattrino...». «Sosterrò io le piccole spese necessarie, dottore... Ecco, quel­ la parola, ospedale, spaventa anche me, mio malgrado, come le comari di cui parlate. D’altronde a trasportarla ora in ospedale nell’orribile stato in cui si trova, significherebbe ucciderla». «Pregiudizi! nient’altro che pregiudizi di gente di mondo! Non c’è luogo dove si stia altrettanto bene quanto in ospedale. Quando sarò malato io, sarà proprio in ospedale che dirò di por­ tarmi. Voglio scendere da quella riva nella barca di Caronte, e farò dono del mio corpo agli studenti... da qui a trenta o quarant’an7 [Opera in tre atti di Rossini].

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ni, s’intende. Sul serio, cara madame, pensateci: io non so bene se quella ragazza che proteggete meriti davvero il vostro interessa­ mento. Ha tutta l’aria di una ragazza dell’Opera... Ci vogliono gambe da Opera per eseguire così felicemente un salto simile...». «Ma io l’ho vista in chiesa... e, sentite, dottore... voi cono­ scete il mio debole; mi bastano l’espressione di un viso, uno sguardo... per costruire un’intera storia... Ridete quanto volete, m’inganno raramente. Quella povera ragazza ha fatto ultima­ mente un voto per la madre malata. La madre è morta... Allora ha perso la testa. La disperazione, la miseria l’hanno spinta a quella orribile azione». «Alla buon’ora! Sì, infatti alla sommità del cranio presenta una protuberanza che indica esaltazione. Tutto ciò che mi dite è assai probabile. Mi fate ricordare che c’era un ramoscello di bosso sopra la sua branda. E un segno decisivo per la sua pietà, non è vero?». «Una branda! Ah! mio Dio! povera ragazza!... Ma, dottore, avete quel sorriso cattivo che conosco bene. Io non parlo della devozione che ha o che non ha. Ciò che soprattutto mi spinge a interessarmi di questa ragazza è il fatto che ho un rimprovero da rivolgermi nei suoi confronti...». «Un rimprovero?... Ci sono. Forse avreste dovuto far mette­ re materassi nella strada per riceverla?...». «Sì, un rimprovero. Avevo notato le sue condizioni; avrei do­ vuto mandarle qualche soccorso; ma il povero reverendo Dubignon era a letto, e...». «Dovete avere molti rimorsi, madame, se credete che non ba­ sti dare, com’è vostra abitudine, a tutti i supplicanti. A sentir voi, bisognerebbe anche scoprire i poveri che si vergognano. Ma, ma­ dame, non parliamo più di gambe spezzate, o piuttosto, due pa­ role ancora. Se concedete la vostra alta protezione alla mia nuova malata, fate che le diano un letto migliore, qualcuno che Tassista domani, per oggi le comari basteranno. Brodini, tisane ecc. E non sarebbe male se le mandaste qualcuno dei vostri reverendi, che gliene dica un paio come si deve e le rimetta a posto il morale, co­ me io ho aggiustato la sua gamba. La ragazzina è nervosa; po­ trebbero sopravvenire complicazioni... Voi sareste... sì, in fede mia! voi sareste la migliore prédicatrice; ma dovete piazzare me373

glio i vostri sermoni... È così. Sono le otto e mezzo: per l’amor di Dio! preparatevi per l’Opera. Baptiste mi porterà il caffè e il «Journal des Débats»8. Ho corso talmente tanto tutta la giornata, che devo ancora sapere come va il mondo». Passarono alcuni giorni, e la malata stava un po’ meglio. Il dottore si lamentava solo che la sovreccitazione morale non diminuisse. «Non ho molta fiducia in tutti i vostri reverendi», diceva a madame de Piennes. «Se non aveste troppa ripugnanza per ve­ der lo spettacolo della miseria umana, e io so che non vi man­ cherebbe il coraggio, potreste calmare il cervello di quella pove­ ra bambina meglio di un prete di San Rocco, e anzi, meglio di una dose di tridace»9. Madame de Piennes non chiedeva di meglio, e gli propose di accompagnarla subito. Salirono insieme dalla malata. In una camera arredata da tre sedie di paglia e un tavolino gia­ ceva distesa sopra un buon letto mandatole da madame de Pien­ nes. Un paio di lenzuola fini, pesanti materassi, un mucchio di ampi guanciali indicavano le caritatevoli attenzioni della persona che voi, madame, non farete fatica a ravvisare. La ragazza, pauro­ samente pallida, con gli occhi ardenti, teneva un braccio fuori del letto, e la parte di quel braccio che usciva dalla camiciola era livi­ da, pesta, e faceva intuire in che stato fosse il resto del corpo. Quando vide madame de Piennes, alzò la testa e con un sorriso dolce e triste: «Sapevo bene che eravate voi, madame, ad avere pietà di me», disse. «Mi hanno detto il vostro nome, ed ero sicura che si tratta­ va della dama che incontravo vicino a San Rocco». Mi sembra di avervi già detto che madame de Piennes aveva una certa pretesa di capire le persone dalla fisionomia. Fu assai contenta di scoprire nella sua protetta un talento simile, e questa scoperta la portò a interessarsi a lei ancora di più. «State veramente male qui, mia povera bambina!», disse vol­ gendo gli occhi intorno alla misera mobilia della stanza. «Perché non vi hanno mandato delle tende?... Dovete chiedere a Baptiste i piccoli oggetti di cui potete aver bisogno». ' [Giornale di tendenze liberali]. ’ [Leggero sedativo e calmante della tosse].

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«Siete davvero buona, madame... Che cosa mi manca? Nul­ la... È finita... Un po’ meglio o un po’ peggio, che importa?». E voltando la testa, si mise a piangere. «Soffrite molto, mia povera bambina?», le chiese madame de Piennes sedendosi vicino al letto. «No, non molto... Solo che ho sempre nelle orecchie il vento di quando stavo cadendo, e poi il rumore... crac! quando sono caduta sul selciato». «Eravate folle, allora, mia cara amica; adesso ne siete pentita, non è vero?». «Sì... ma quando si è infelici, la testa non funziona più». «Mi dispiace proprio non aver conosciuto prima il vostro sta­ to. Ma, bambina mia, in nessuna circostanza della vita bisogna mai cedere alla disperazione». «Voi dite bene, madame», disse il dottore che scriveva una ri­ cetta appoggiato al tavolino. «Voi non sapete che cosa sia perde­ re un bel giovane con i baffi. Ma diavolo! per corrergli dietro non bisogna saltare dalla finestra». «Vergognatevi, dunque, dottore!» disse madame de Piennes, «la povera piccola aveva certamente altri motivi per...». «Ah! non so che cosa avessi!» esclamò la malata; «cento moti­ vi in uno. Innanzitutto quando è morta la mamma ho accusato il colpo. Poi mi sono sentita abbandonata... Nessuno che si inte­ ressava a me!... Infine, qualcuno cui pensavo sopra ogni altra co­ sa... Madame, ha dimenticato persino il mio nome! sì, mi chiamo Arsene Guillot, G, U, I, due LL; e lui mi scrive Guyot con la Y». «Dicevo bene io, un infedele!», esclamò il dottore. «E sempre la stessa cosa. Bah! bah! bella mia, dimenticatelo. Un uomo sen­ za memoria non merita che si pensi a lui». Tirò fuori l’orologio. «Le quattro?», disse alzandosi; «sono in ritardo per un consulto. Madame, vi chiedo mille e mille scuse, ma devo lasciarvi; non ho nemmeno il tempo di accompagnarvi a casa. Arrivederci, bambi­ na mia, tranquillizzatevi, non sarà nulla. Ballerete con questa gamba altrettanto bene che con l’altra. E voi, signora infermiera, andate dal farmacista con questa ricetta e fate come ieri». Il medico e l’infermiera erano usciti; madame de Piennes rima­ se sola con la malata, alquanto sconcertata di scoprire quell’amo­ re in una storia che sulle prime aveva immaginato diversamente. 375

«Così vi hanno tradito, sventurata bambina!», riprese dopo un momento di silenzio. «Me! No. Come si fa a tradire una poveretta come me?... So­ lo che non mi ha più voluto... Ha ragione, non faccio per lui. È sempre stato buono e generoso. Gli ho scritto per dirgli a che punto ero, e se voleva che mi rimettessi con lui... Allora mi ha scritto... cose che mi hanno fatto molto soffrire... L’altro ieri, quando sono tornata a casa, mi è sfuggito di mano uno specchio che mi aveva regalato, uno specchio di Venezia, diceva. Lo spec­ chio si è rotto...Mi sono detta: ecco l’ultimo segno!... Vuol dire che tutto è finito... Non mi restava più nulla di lui. Avevo porta­ to i gioielli al monte di pietà... E poi mi sono detta che se mi fos­ si uccisa, gli avrei fatto pena e mi sarei vendicata... La finestra era aperta, e mi sono buttata giù». «Ma, disgraziata che siete, il motivo era altrettanto frivolo quanto l’azione criminale». «Eh già; ma che volete? Quando si soffre, non si riflette. E molto facile per le persone felici dire: siate ragionevoli». «Lo so; la sventura è pessima consigliera. Tuttavia anche nelle prove più dolorose, vi sono cose che non bisogna dimenticare. Vi ho visto qualche tempo fa a San Rocco adempiere un atto di de­ vozione. Voi avete la felicità di credere. La religione, mia cara, avrebbe dovuto trattenervi nel momento in cui stavate per ab­ bandonarvi alla disperazione. La vostra vita, l’avete ricevuta dal buon Dio. Non vi appartiene... Ma ho torto a rimproverarvi ora, povera piccola. Siete pentita, soffrite. Dio avrà pietà di voi». Arsène chinò la testa, e alcune lacrime sgorgarono e inumidi­ rono i suoi occhi. «Ah madame!», disse con un profondo sospiro, «mi credete migliore di quanto non sia... Mi credete devota... e invece non lo sono troppo... non mi hanno istruita, e se mi avete visto in chie­ sa fare un cero... è perché non sapevo più dove sbattere la testa». «Ebbene, mia cara, pensavate bene. Nella disgrazia bisogna sempre rivolgersi a Dio». «Mi avevano detto... che se avessi fatto un cero a san Rocco... ma no, madame, non vi posso dire questo. Una signora per bene come siete voi non sa cosa si è capaci di fare quando non si ha più neppure un soldo». 376

«È soprattutto il coraggio che bisogna chiedere a Dio». «Insomma, madame, non voglio rendermi migliore di quello che sono e sarebbe come approfittare della carità che mi fate sen­ za conoscermi... Io sono una ragazza disgraziata... ma in questo mondo, si vive come si può... Per finire, madame, ho fatto un ce­ ro, perché mia madre mi diceva che quando si fa un cero a san Rocco, non passano mai otto giorni senza che si trovi un uomo con cui potersi mettere... Ma io mi son fatta brutta, sembro una mummia... nessuno mi vorrebbe più... Ebbene, non mi resta che morire. E già fatto a metà!». Tutto questo era stato detto molto rapidamente, con una vo­ ce rotta dai singhiozzi e con un tono di frenesia che in madame de Piennes suscitava più spavento che orrore. Istintivamente al­ lontanò la sua sedia dal letto della malata. Forse avrebbe anche lasciato la camera, se il senso di umanità più forte in lei del di­ sgusto che provava per quella donna perduta non l’avesse rim­ proverata di volersi allontanare nel momento in cui era in pre­ da alla più violenta disperazione. Vi fu un attimo di silenzio; poi madame de Piennes con gli occhi bassi, mormorò debolmente: «Vostra madre! infelice! Che osate dire?». «Oh! mia madre era come tutte le madri... le madri nostre, cioè... Aveva mantenuto la sua ... e anch’io ho mantenuto lei... Fortuna che non ho figli. Vedo bene, madame, che vi faccio pau­ ra... ma che volete?... Siete stata educata bene, non avete mai pa­ tito. Quando si è ricchi, è facile essere onesti. Io sarei stata onesta se ne avessi avuto i mezzi. Ho avuto molti amanti... non ho mai amato che un uomo solo. Mi ha piantata lì. Se fossi stata ricca ci saremmo sposati, avremmo fatto stirpe di gente onesta... Ecco, madame, vi parlo così, in tutta schiettezza, benché vedo bene che non la pensate come me e avete ragione... Ma siete l’unica donna onesta con la quale abbia parlato della mia vita, e avete un’aria tanto buona, tanto buona!... che io prima mi sono detta: anche quando mi conoscerà, avrà compassione di me. Sto per morire. Non vi chiedo che una cosa... Di farmi dire, quando sarò morta, una messa nella chiesa dove vi vidi la prima volta. Una preghiera sola, ecco tutto, e vi ringrazio dal profondo del cuore...». «No, non morirete!», esclamò madame de Piennes molto commossa. «Dio avrà pietà di voi, povera peccatrice. Vi pentirete

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delle vostre colpe e vi perdonerà. Se le mie preghiere potranno qualcosa per la vostra salvezza, non vi mancheranno. Coloro che vi hanno allevata sono più colpevoli di voi. Abbiate soltanto co­ raggio, e sperate. Cercate soprattutto di essere più calma, mia po­ vera bambina. Bisogna guarire il corpo; anche l’anima è malata, ma io rispondo della sua guarigione». Mentre parlava si era alzata, e arrotolava fra le dita un foglio che conteneva alcuni luigi. «Tenete», disse, «se avete qualche desiderio...». E fece scivolare sotto il guanciale il suo piccolo dono. «No, madame!», esclamò Arsène con impeto, respingendo il foglio, «non voglio nulla di vostro, all’infuori di ciò che mi avete promesso. Addio. Non ci rivedremo più. Fatemi portare in un ospedale perché possa andarmene senza infastidire nessuno. Non riuscirete mai a fare di me qualcosa di buono. Una gran dama co­ me voi avrà pregato per me; sono contenta. Addio». E, girandosi quel tanto che le consentiva l’apparecchio che la teneva fissa a letto, nascose la testa in un guanciale per non vede­ re più nulla. «Sentite, Arsene», disse madame de Piennes con voce grave. «Ho i miei progetti per voi. Voglio fare di voi una donna onesta. È il vostro pentimento che me ne dà la certezza. Vi rivedrò spes­ so, avrò cura di voi. Un giorno mi sarete debitrice della stima che avrete di voi stessa». E le prese la mano, che strinse lievemente: «Mi avete toccata!», esclamò la povera ragazza, «Mi avete stretto la mano». E prima che madame de Piennes potesse ritrarre la sua, l’ave­ va afferrata e la copriva di baci e di lacrime. «Calmatevi, calmatevi, mia cara», diceva madame de Piennes, «non mi dite più nulla. Ora so tutto e vi conosco meglio di quan­ to non vi conosciate voi stessa. Sono io il medico della vostra te­ sta... della vostra testa malsana. Mi ubbidirete, lo esigo, come al­ l’altro vostro dottore. Vi manderò un sacerdote, amico mio, e lo ascolterete. Vi sceglierò qualche buon libro, e li leggerete. Qual­ che volta discorreremo. Quando sarete guarita, allora ci occupe­ remo del vostro avvenire». L’infermiera rientrò, con una fiala che portava dal farmaci­ sta. Arsene piangeva sempre. Madame de Piennes le strinse an­ 378

cora una volta la mano, mise il rotolo di luigi sul tavolino, e uscì forse anche più favorevolmente disposta verso la sua pe­ nitente di quanto non fosse prima di aver udito la sua strana confessione. Perché, madame, si amano sempre i pessimi soggetti? Dal figliol prodigo sino al vostro cane Diamant, che morde tutti ed è la bestia peggiore che io conosca, si riesce a ispirare tanto più interesse quanto meno lo si merita. Vanità! pura vanità, mada­ me, che sentimento! il piacere di superare le difficoltà! Il padre del figliol prodigo ha sconfitto il diavolo, e gli ha sottratto la sua preda; voi avete trionfato sull’indole malvagia di Diamant a forza di ciambelline. Madame de Piennes era orgogliosa di aver vinto la perversità di una cortigiana, di aver distrutto con la propria eloquenza le barriere che vent’anni di seduzione ave­ vano innalzato attorno a una povera anima derelitta. E poi, for­ se anche, devo dirlo? all’orgoglio di quella vittoria, al piacere di aver fatto una buona azione, si aggiungeva quel sentimento di curiosità che più di una donna virtuosa prova nel conoscere una donna di altra specie. Quando una cantante entra in un sa­ lotto, ho notato strani sguardi puntati su di lei. E non sono gli uomini a osservarla di più. Voi stessa, madame, l’altra sera al Teatro Francese, non guardavate con tutta la potenza del vostro binocolo quell’attrice del Varietà che v’indicarono in un palco? Come si può essere persiani? Quante volte non ci si pongono domande simili! Dunque, madame, madame di Piennes pensava molto a made­ moiselle Arsene Guillot, e si diceva: «La salverò». Le mandò un prete, che la esortò al pentimento. Il pentimen­ to non era difficile per la povera Arsene, la quale, salvo rari mo­ menti di gioia un po’ grossolana, aveva conosciuto solo le mise­ rie della vita. Dite a un disgraziato: «La colpa è vostra» e riusci­ rete fin troppo bene a convincerlo; e se per giunta addolcirete il rimprovero dandogli qualche consolazione, vi benedirà e vi pro­ metterà tutto ciò che vorrete per l’avvenire. Un autore greco dice in qualche luogo, o piuttosto è Amyot che gli fa dire: «Il giorno stesso che si mette ai ferri un uomo libero gli si toglie metà della sua prima virtù». 379

Il che, nella vile prosa, si riduce a questo aforisma, che la sven­ tura ci rende dolci e docili come agnelli. Il prete diceva a madame de Piennes che mademoiselle Guillot era davvero ignorante, ma in fondo non era cattiva e che sperava bene per la sua salvezza. In effetti, Arsène lo ascoltava con attenzione e rispetto. Leggeva o si faceva leggere i libri che le avevano prescritto, altrettanto pun­ tuale nell’ubbidire a madame de Piennes, quanto nel seguire le ri­ cette del dottore. Ma ciò che finì di guadagnare il suo cuore al buon prete, e che parve alla sua protettrice un sintomo decisivo di guarigione spirituale, fu l’uso che Arsene Guillot fece di una parte della piccola somma lasciata nelle sue mani. Infatti chiese che una messa solenne fosse detta a San Rocco per l’anima di Pamèla Guillot, la sua defunta mamma. Sicuramente, mai anima ebbe maggior bisogno delle preghiere della Chiesa.

Il

Una mattina, madame de Piennes si stava vestendo, quando un domestico venne a bussare discretamente alla porta del san­ tuario, e porse a mademoiselle Joséphine un biglietto da visita che un giovane aveva appena portato. «Max a Parigi!» esclamò madame de Piennes dando un’oc­ chiata al biglietto; «Correte, presto, mademoiselle, dite a mon­ sieur de Salligny di aspettarmi in salotto». Un momento dopo, si udirono nel salotto risa e gridolini soffocati, e mademoiselle Joséphine ricomparve molto rossa e con la cuffia su un orecchio. «Cos’è successo, mademoiselle?», chiese madame de Piennes. «Nulla madame; è solo monsieur de Salligny che diceva che ero ingrassata». Infatti, la floridezza di mademoiselle Joséphine poteva mera­ vigliare monsieur de Salligny che era in viaggio da oltre due anni. Un tempo, era stato uno dei favoriti di mademoiselle Joséphine, e un assiduo ammiratore della sua padrona. Nipote di un amico intimo di madame de Piennes, si recava spesso da lei, allora al sé­ guito della zia. Del resto, era quasi l’unica casa seria che frequen­ tasse. Max de Salligny godeva di una cattiva fama: giocatore, at­ 380

taccabrighe, gaudente; con questo il miglior ragazzo del mondo. Era la disperazione della zia, madame Aubrée, che tuttavia lo adorava. Parecchie volte aveva tentato di strapparlo alla vita che conduceva, ma le sue cattive abitudini erano sempre state più for­ ti dei saggi consigli di lei. Max aveva circa due anni più di mada­ me de Piennes; si erano conosciuti bambini e, prima che fosse sposata, sembrava che egli la guardasse con occhio molto tenero. «Mia piccola cara», diceva madame Aubrée, «io sono certa che se voi voleste, riuscireste a domare quel carattere». A madame de Piennes - che allora si chiamava Elise de Guiscard - non sarebbe forse mancato il coraggio di tentare l’impresa, poiché Max era co­ sì allegro, spassoso, così divertente in un castello, così resistente in un ballo, che sarebbe diventato senza dubbio un buon marito; ma i genitori di Elise erano stati più lungimiranti. La stessa ma­ dame Aubrée non rispondeva troppo del nipote; si appurò che questi aveva debiti e un’amante; sopraggiunse un duello, che sol­ levò parecchio clamore, di cui un’artista di teatro fu la causa po­ co innocente. Il matrimonio, al quale madame Aubrée non aveva mai pensato tanto seriamente, fu dichiarato impossibile. Allora si presentò monsieur de Piennes, gentiluomo posato e morale, ol­ tretutto ricco e di buona famiglia. Pio poche cose da dirvi su di lui, se non che aveva la reputazione di galantuomo e che la meri­ tava. Parlava poco, ma se apriva bocca era per dire qualche gran­ de e incontestabile verità. Sulle questioni dubbie, «imitava il si­ lenzio prudente di Conrart». Se la sua presenza aggiungeva poco all’attrattiva delle riunioni cui partecipava, in nessuna si trovava meno che gradito. Era amato ovunque, a causa della moglie, ma quando era assente, - nelle sue terre, come era il caso nove mesi l’anno, e in particolare nel momento in cui ho cominciato il mio racconto, - nessuno se ne accorgeva. La moglie stessa se ne ac­ corgeva appena. Madame de Piennes, terminata in cinque minuti la propria ac­ conciatura, uscì dalla camera un po’ commossa, poiché l’arrivo di Max de Salligny le ricordava la morte recente della persona che aveva amato di più; è, io credo, il solo ricordo che si fosse presentato subito alla sua memoria, e questo ricordo era così vi­ vo da non lasciare adito a nessuna delle congetture ridicole che una persona meno ragionevole avrebbe potuto formulare sulla 381

cuffia di traverso di mademoiselle Josephine. Avvicinandosi al salotto, fu un po’ turbata nel sentire una bella voce di basso che cantava allegramente, accompagnandosi sul pianoforte questa barcarola napoletana: Addio Teresa Teresa, addio! Al mio ritorno Ti sposerò'0.

Aprì la porta e interruppe il cantante porgendogli la mano: «Mio povero monsieur Max, che piacere rivedervi!». Max si alzò di scatto e le strinse la mano, guardandola con aria sbigottita, senza poter trovare una parola. «Mi è molto dispiaciuto», proseguì madame de Piennes, «non essermi potuta recare a Roma quando si è ammalata la vostra buona zia. So con quante cure l’avete assistita, e vi ringrazio mol­ to dell’ultimo ricordo di lei che mi avete inviato». Il viso di Max, solitamente allegro, per non dire ridente, as­ sunse un’improvvisa espressione di tristezza. «Mi ha parlato molto di voi!», disse, «e fino all’ultimo mo­ mento. Vedo che avete ricevuto il suo anello, e il libro che legge­ va ancora la mattina...». «Sì, Max vi ringrazio. Nell’inviarmi questo triste dono mi an­ nunciaste che stavate per allontanarvi da Roma, ma non mi co­ municaste il vostro indirizzo; non sapevo dove scrivervi. Povera amica! Morire così lontano dal suo paese! Per fortuna siete ac­ corso subito... Siete migliore di quanto non vogliate apparire, Max... vi conosco bene». «La zia mi diceva, durante la sua malattia: “Quando non sarò più in questo mondo, non ci sarà più che madame de Piennes per rimproverarti... (E non potè trattenersi dal sorridere) Cerca di non farti rimproverare troppo spesso”. Lo vedete, madame, ese­ guite male i vostri compiti». «Spero che ora non saranno per me che una sinecura. Mi di­ cono che vi siate pentito, sistemato, diventato ragionevole». «E non v’ingannate affatto, madame; ho promesso alla mia povera zia di diventare un buon soggetto, e...». 10 [In italiano nel testo].

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«Manterrete la parola, ne sono certa!». «Ci proverò. In viaggio è più facile che a Parigi; tuttavia... Ec­ co, madame, sono qui da poche ore soltanto, e già ho resistito a qualche tentazione. Venendo da voi ho incontrato uno dei miei amici di una volta, che mi ha invitato a cena con una banda di sca­ pestrati, e ho rifiutato». «Avete fatto bene». «Sì, ma lo devo dire? è che speravo mi avreste invitato voi». «Che disgrazia! Ceno in città. Ma domani...». «In tal caso, non rispondo più di me stesso. Ricade su di voi la responsabilità della cena che farò». «Sentite, Max l’importante è cominciare bene. Non andate a quella cena di scapoli. Io ceno da madame Darsenay; venite la se­ ra e discorreremo». «Sì, ma madame Darsenay è alquanto noiosa; mi farà mille do­ mande. Non potrò dirvi una parola; dirò cose sconvenienti; e poi ha una figlia grande, tutta ossa, che forse non è ancora sposata...». «È una persona piacevole... e, a proposito di sconvenienze, non dovreste parlare di lei come fate». «Ho torto, è vero; ma... arrivato oggi, non sembrerò troppo sollecito?...». «Ebbene, farete come vorrete; ma vedete, Max - come amica di vostra zia, ho il diritto di parlarvi con schiettezza - evitate le vostre compagnie di una volta. Il tempo ha dovuto rompere in maniera del tutto naturale molte relazioni che non valevano nien­ te, non le riallacciate: io sono sicura di voi a meno che non vi la­ sciate trascinare. Alla vostra età... alla nostra età, bisogna essere ragionevoli. Ma lasciamo un po’ da parte i consigli e le prediche, e parlatemi di ciò che avete fatto da quando non ci siamo più vi­ sti. So che siete stato in Germania, poi in Italia; e basta. Mi avete scritto due volte; non di più, ricordatevene. Due lettere in due an­ ni, se vorrete concedermelo non mi hanno portato molte notizie sul conto vostro». «Mio Dio! madame, sono veramente colpevole... ma sono co­ sì... lo devo dire, così pigro!... Ho cominciato venti lettere per voi; ma che potevo dirvi di interessante?... Non so scrivere lette­ re, io... Se vi avessi scritto ogni volta che ho pensato a voi, non sarebbe stata sufficiente tutta la carta d’Italia». 383

«Ebbene, che avete fatto? come avete impiegato il vostro tem­ po? Non a scrivere, lo so già». «Impiegato!... Voi sapete bene che io non lo impiego in nulla, disgraziatamente. Ho visto, ho corso. Avevo dei progetti di pit­ tura, ma la vista di tanti bei quadri mi ha radicalmente guarito da questa passione infelice. Ah!... e poi il vecchio Nibby aveva fat­ to di me quasi un archeologo. Sì, gli ho fatto fare una follia per persuaderlo... Hanno trovato una pipa rotta e non so quanti vec­ chi cocci... E poi a Napoli ho preso lezioni di canto, ma non so­ no più abile... Ho...». «Non mi piace molto la vostra musica, benché abbiate una bella voce e cantiate bene. Vi fa incontrare persone che avete troppa simpatia a frequentare». «Vi capisco; ma a Napoli, quando mi trovavo lì, non c’era af­ fatto pericolo. La prima donna pesava centocinquanta chili, e la seconda aveva la bocca come un forno e un naso che sembrava la torre del Libano. Insomma, sono trascorsi due anni non saprei dire come. Non ho fatto nulla, non ho imparato nulla, ma ho vis­ suto due anni senza accorgermene». «Vorrei sapervi occupato; vorrei vedervi un vivo gusto in qualcosa di utile. Temo l’ozio per voi». «A dirvela sinceramente, madame, i viaggi hanno avuto que­ sto di buono per me, che pur non facendo nulla, non ero nem­ meno completamente ozioso. Quando si vedono cose belle, non ci si annoia; e io, quando mi annoio, sono proprio pronto a fare sciocchezze. Veramente sono diventato abbastanza ordinato, e ho persino dimenticato un certo numero di modi un po’ spicci che avevo di sperperare il mio denaro. La mia povera zia ha pagato i miei debiti e non ne ho più fatti; non voglio più farne. Ho di che vivere da scapolo; e, dato che non ho nessuna pretesa di apparire più ricco di quanto sia, non commetterò più stravaganze. Sorri­ dete? Torse voi non credete alla mia conversione? Vi occorrono prove? Sentite un bell’episodio. Oggi, Famin, l’amico che mi ha invitato a cena, mi ha proposto di vendermi il suo cavallo. Cin­ quemila franchi... Una bestia meravigliosa! Il primo impulso è stato quello di comprare il cavallo, poi mi sono detto che non ero abbastanza ricco per offrirmi un capriccio di cinquemila franchi, e rimarrò a piedi». 384

«Meraviglioso, Max; ma sapete cosa dovete fare per continua­ re senza intoppi in questa buona strada? Dovrete sposarvi». «Ah sposarmi?... Perché no?... Ma chi mi vorrà? Io, che non avrei il diritto di fare il difficile, vorrei una donna!... Oh! no, non c’è più quella che fa per me...». Madame de Piennes arrossì un po’ e lui continuò senza ac­ corgersene: «Una donna che mi volesse... Ma sapete, madame, che sareb­ be quasi una ragione perché io non voglia lei?». «Perché? che pazzia!». «Non dice forse Otello in qualche punto, - è, credo, per giustificare a se stesso i sospetti che ha verso Desdemona «Quella donna deve avere una testa bizzarra e gusti depravati per aver scelto me che sono nero!»? Non posso dire anch’io: «Una donna che mi volesse non potrebbe avere che una testa balzana?». «Siete stato proprio un cattivo soggetto, Max, e non occorre che adesso vi facciate peggiore di quello che siete. Badate a non parlare così di voi stesso, perché vi sono persone che vi credereb­ bero sulla parola. Quanto a me, io ne sono certa, se un giorno... sì, se voi amaste veramente una donna che meritasse tutta la vo­ stra stima... allora le sembrereste...». Madame de Piennes provava una certa difficoltà a chiudere la frase, e Max, che la fissava con estrema curiosità, non l’aiu­ tava minimamente a trovare una fine per il periodo così male iniziato. «Volete dire», riprese finalmente, «che se fossi innamorato davvero, potrei essere riamato perché allora lo meriterei?». «Sì, allora sareste degno di essere amato così». «Se bastasse soltanto amare per essere riamato... Non è trop­ po vero ciò che mi dite, madame... Bah! trovatemi una donna co­ raggiosa, e io mi sposo. Se non è troppo brutta, io non sono an­ cora tanto vecchio da non potermi infiammare ancora... Voi ri­ spondete del resto». «Da dove venite, adesso?», lo interruppe madame de Piennes in tono serio. Max parlò dei suoi viaggi assai laconicamente, ma non per que­ sto in maniera da far pensare che avesse fatto come quei turisti, di 385

cui i greci dicono: Valigia partì e valigia tornò". Le sue brevi os­ servazioni denotavano una mente giusta che non si accontentava di opinioni già fatte, perché in realtà fosse più colto di quanto non vo­ lesse apparire. Si ritirò presto, accorgendosi che madame de Piennes voltava la testa verso la pendola, e promise, non senza un lieve imbarazzo, che sarebbe venuto in serata da madame Darsenay. Tuttavia non vi andò, e madame de Piennes ne concepì un cer­ to dispetto. In compenso, la mattina dopo era a casa di lei per chiederle scusa per la stanchezza del viaggio che lo aveva costret­ to a non uscire; ma abbassava gli occhi e parlava e con un tono così malsicuro, che non occorreva l’abilità di madame de Piennes di indovinare le fisionomie, per rendersi conto che mascherava una sconfitta. Quando la penosa giustificazione ebbe fine, ella lo minacciò con il dito senza rispondere. «Non mi credete?», disse. «No. Per fortuna non sapete ancora mentire. Se ieri non siete venuto da madame Darsenay non è per riposarvi delle vostre fa­ tiche. Non siete rimasto in casa». «Ebbene», rispose Max sforzandosi di sorridere, «avete ragio­ ne. Ho cenato al Rocher-de-Cancale con quei ragazzacci, poi so­ no andato a prendere il tè da Famin; non mi hanno voluto lascia­ re, e poi ho giocato». «E avete perso, va da sé?». «No, ho vinto». «Tanto peggio. Avrei preferito aveste perso, specie se ciò aves­ se potuto disgustarvi per sempre di un’abitudine altrettanto sciocca quanto detestabile». Si chinò sul proprio lavoretto e vi si dedicò con un’applica­ zione un po’ ostentata. «C’era molta gente da madame Darsenay?» chiese timida­ mente Max. «No, poca». «Niente signorine da marito?...». «No». «Tuttavia conto su di voi, madame. Ricordate ciò che mi ave­ te promesso?». " Μπαούλο εφθασε, μπαούλο έγύρισεν.

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«Abbiamo il tempo di pensarci». Nel tono di madame de Piennes c’era un che di asciutto e di forzato, che non le era abituale. Dopo un breve silenzio, Max riprese con aria umile: «Siete scontenta di me, madame? Perché non mi rimproverate molto vivamente, come faceva mia zia e poi non mi perdonate? Su, volete che vi dia la mia parola di non giocare più?». «Quando si fa una promessa, bisogna sentirsi la forza di po­ terla mantenere». «Una promessa fatta a voi, madame, la manterrei; credo di averne la forza e il coraggio». «Ebbene, Max, accetto», disse porgendogli la mano». «Ho vinto mille e cento franchi», proseguì lui; «li volete per i vostri poveri? Mai danaro così male acquistato avrà trovato un migliore impiego». Lei esitò un attimo. «Perché no?» si disse ad alta voce. «Va bene, Max, è una lezio­ ne che ricorderete. Vi segno come mio debitore per mille e cento franchi». «La zia diceva che il migliore mezzo per non avere debiti è pa­ gare sempre in contanti». Mentre parlava, tirava fuori il portafoglio per prendere i bi­ glietti. Nel portafoglio semiaperto, madame de Piennes credette di vedere il ritratto di una donna. Max si accorse che guardava, ar­ rossì e si affrettò a chiudere il portafoglio e a porgerle i biglietti. «Mi piacerebbe molto vedere quel portafoglio... se fosse pos­ sibile», aggiunse lei sorridendo maliziosamente. Max era completamente scombussolato; balbettò qualche pa­ rola incomprensibile e cercò di sviare l’attenzione di madame de Piennes. Il primo pensiero di questa fu che il portafoglio racchiu­ desse il ritratto di qualche bella italiana; ma il visibile turba­ mento di Max e il colore della miniatura, - era tutto ciò che era riuscita a vedere, - avevano destato subito in lei un altro so­ spetto. Si ricordò di aver dato una volta il suo ritratto a mada­ me Aubrée e pensò che Max, nella sua qualità di erede legitti­ mo, aveva senza dubbio ritenuto di avere il diritto di appro­ priarsene. Le sembrò una sconvenienza enorme. Tuttavia non 387

volle far nessuna osservazione; ma quando monsieur de Salligny stava per andare via: «A proposito», gli disse, «vostra zia possedeva un mio ritrat­ to che vorrei riavere». «Non so... che ritratto?... com’era?», chiese Max con voce malsicura. Questa volta, madame de Piennes era decisa a non accorgersi che mentiva. «Cercatelo», gli disse nel tono più naturale che le fu possibile. «Mi fareste un piacere». Non era il ritratto: sarebbe stata molto contenta di provare la docilità di Max, e si riprometteva di salvare ancora una pecorella sviata. Il giorno dopo, Max aveva ritrovato il ritratto che riportò con aria indifferente. Osservò che la somiglianza non era molto fede­ le, e che il pittore le aveva dato una rigidezza nell’atteggiamento e una severità nell’espressione che non avevano niente di natura­ le. Da quel momento le sue visite a madame de Piennes furono meno lunghe, e presso di lei ostentava un’aria imbronciata che non gli aveva mai visto. Attribuì quell’umore al primo sforzo che aveva fatto per mantenere le sue promesse e resistere alle cattive inclinazioni. Una quindicina di giorni dopo l’arrivo di monsieur de Salligny, madame de Piennes come al solito si recò a visitare la sua protetta Arsène Guillot, che del resto non aveva mai dimentica­ to, come spero voi, madame. Dopo qualche domanda sulla sua salute e sulle cure che riceveva, osservando che la malata era an­ cora più oppressa dei giorni precedenti le offrì di leggerle qual­ cosa perché non si stancasse a parlare. La povera ragazza avreb­ be senza dubbio preferito discorrere che ascoltare una lettura co­ me quelle che le venivano proposte, poiché capite che si trattava di un libro molto serio e Arsène non aveva mai letto che roman­ zi da cameriere. Madame di Piennes aveva scelto un libro di de­ vozione; e io non lo nominerò, prima di tutto per non far torto all’autore, e poi perché non mi accusiate di volerne trarre qual­ che maligna conclusione rispetto a tutte le opere della stessa ca­ tegoria. E sufficiente dire che il libro in questione era di un gio­ vane di diciannove anni, e che era particolarmente adatto a ri388

conciliare con la Chiesa le peccatrici incallite; che Arsène era molto affranta, e che non aveva chiuso occhio la notte prima. Al­ la terza pagina, accadde ciò che sarebbe accaduto con qualunque libro serio o non serio; accadde ciò che era inevitabile: voglio di­ re che mademoiselle Guillot chiuse gli occhi e si addormentò. Madame de Piennes se ne accorse e si rallegrò dell’effetto cal­ mante che era riuscita ad ottenere. Abbassò prima la voce per non risvegliare la malata fermandosi all’improvviso, poi posò il libro e si alzò dolcemente per uscire in punta di piedi; ma l’in­ fermiera aveva preso l’abitudine di scendere dalla portinaia quando veniva madame de Piennes, perché le sue visite somi­ gliavano un po’ a quelle di un confessore. Madame de Piennes volle attendere il ritorno dell’infermiera; e dato che era la perso­ na al mondo più nemica dell’ozio, cercò il modo di impiegare i minuti che aveva ancora da trascorrere accanto alla dormiente. In uno stanzino dietro l’alcova vi era un tavolo con carta e in­ chiostro; vi si sedette e cominciò a scrivere un biglietto. Mentre cercava in un cassetto del tavolo un’ostia per sigillarlo, qualcuno entrò nella stanza all’improvviso e risvegliò la malata. «Mio Dio! che vedo?», esclamò Arsene con voce così alterata che madame de Piennes rabbrividì. «Ebbene, ne sento delle belle! Che vuol dir questo? Buttarsi dalla finestra come una stupida! Si è mai vista una testa come quella di questa ragazza qui?». Non so se riferisco esattamente i termini; tale era almeno il senso di quello che diceva la persona appena entrata, e che dalla voce madame de Piennes riconobbe subito come Max de Salligny. Seguirono alcune esclamazioni, alcune grida soffocate di Arsene, poi uno scambio di baci alquanto sonoro. Infine Max riprese: «Povera Arsène, in che stato ti ritrovo! Sai che non ti avrei mai scovata, se Julie non mi avesse dato il tuo ultimo indirizzo? Ma si è mai vista una pazzia simile!». «Ah! Salligny! Salligny! Come sono felice! Quanto mi pento di quello che ho fatto! Non mi troverai più carina. Non ne vor­ rai più sapere di me?». «Stupida che sei», diceva Max, «perché non scrivermi che ave­ vi bisogno di denaro? Perché non chiederne al maggiore? E il tuo russo? E partito il tuo cosacco?». 389

Riconoscendo la voce di Max, madame de Piennes era rima­ sta stupita quasi quanto Arsène. La sorpresa le aveva impedito di mostrarsi subito; poi cominciò a riflettere se dovesse o no mostrarsi, e quando si riflette ascoltando, non ci si sa decidere subito. Ne conseguì che intese l’edificante dialogo che ho rife­ rito; ma allora comprese che se fosse rimasta nello stanzino, avrebbe corso il rischio di udire ben altro. Si decise ed entrò nel­ la camera con quel contegno calmo e superbo che le persone virtuose raramente smarriscono, e che anzi sanno imporsi all’occorrenza. «Max», disse, «voi fate del male a questa povera ragazza; riti­ ratevi. Mi verrete a parlare fra un’ora». Max era diventato pallido come un cadavere nel vedere appa­ rire madame de Piennes in un luogo dove non si sarebbe mai aspettato d’incontrarla; il suo primo impulso fu di ubbidire, e fe­ ce un passo verso la porta. «Te ne vai!... non andare via!» gridò Arsene sollevandosi nel letto con uno sforzo disperato. «Bambina mia», disse madame de Piennes prendendole la ma­ no, «siate ragionevole. Ascoltatemi. Ricordatevi quanto mi avete promesso!». Poi gettò uno sguardo calmo ma imperioso verso Max, che uscì subito. Arsene ricadde sul letto; nel vederlo uscire era sve­ nuta. Madame di Piennes e l’infermiera, che rientrò poco dopo, la soccorsero con quell’abilità che le donne hanno in questo genere di occorrenze. Piano piano Arsène riprese conoscenza. Dappri­ ma volse lo sguardo per tutta la camera, come per cercarvi colui che si ricordava di aver visto là poco prima; poi, rivolse i suoi grandi occhi neri verso madame de Piennes, e fissandola: «È vostro marito?» disse. «No», rispose madame de Piennes arrossendo un po’, ma sen­ za che la dolcezza della sua voce ne fosse alterata; «Monsieur de Salligny è un mio parente». Pensò di potersi permettere quella piccola bugia per spiegare l’ascendente che aveva su di lui. «Allora», disse Arsène, «siete voi la donna che ama!». E non staccava da lei gli occhi ardenti come due fiamme. 390

«Lui!...». Un lampo illuminò la fronte di madame de Piennes. Per un attimo le sue guance si accesero di un vivo rossore, e la vo­ ce le morì sulle labbra; ma subito riprese la sua serenità. «V’ingannate, mia povera bambina», disse in tono grave. «Monsieur de Salligny ha capito che aveva torto a rievocare certi ricordi, che per fortuna sono ormai lontani dalla vostra memoria. Voi avete dimenticato...». «Dimenticato!» esclamò Arsène con un sorriso da dannata che faceva male a vedersi. «Sì, Arsene, voi avete rinunciato a tutti i pensieri folli di un tempo che non tornerà più. Riflettete, mia povera bambina, che dovete a quella relazione colpevole tutte le vostre disgrazie. Pen­ sate...». «Non vi ama!», la interruppe Arsene senza ascoltarla, «non vi ama e capisce al solo sguardo! Ho visto i vostri occhi e i suoi. Non m’inganno... d’altronde..., è giusto! Voi siete bella, giovane, brillante... io, storpia, sfigurata... prossima a morire...». Non riuscì a finire: i singhiozzi soffocarono la sua voce, così forti, così dolorosi, che l’infermiera gridò che andava a cercare il medico; perché, diceva, il signor dottore non temeva nulla quan­ to quelle convulsioni, e se fossero durate, la povera piccola sareb­ be passata a miglior vita. A poco a poco a quella specie di energia che Arsène aveva tro­ vato nella veemenza stessa del proprio dolore subentrò uno sba­ lordito abbattimento, che madame de Piennes prese per rasse­ gnazione. Continuò le proprie esortazioni; ma Arsène, immobi­ le, non sentiva tutte le belle e buone ragioni che le venivano espo­ ste perché preferisse l’amore divino all’amore terreno; i suoi oc­ chi erano asciutti, i denti convulsamente stretti. Mentre la sua protettrice le parlava del Cielo e del futuro, lei pensava al presen­ te. L’arrivo improvviso di Max aveva repentinamente ridestato in lei folli illusioni, ma lo sguardo di madame de Piennes le aveva di­ sperse ancora più velocemente. Dopo un sogno felice di un istan­ te, Arsène non ritrovava più che la triste realtà, ora mille volte più orribile per essere stata dimenticata un momento. Il vostro medico vi dirà, madame, che i naufraghi, sorpresi dal sonno fra i morsi della fame, sognano di essere a tavola e di man­ giare bene. Si risvegliano ancora più affamati e vorrebbero non 391

aver dormito. Arsène pativa un supplizio simile a quello dei nau­ fraghi. Un tempo aveva amato Max, come poteva amare lei. Era con lui che le sarebbe piaciuto andare sempre agli spettacoli, con lui che si divertiva durante una scampagnata, è di lui che parlava continuamente con le amiche. Quando Max se n’era andato, ave­ va pianto molto; tuttavia aveva gradito le premure di un russo che Max era stato lieto di avere per successore, perché lo riteneva un galantuomo, cioè un uomo generoso. Fintanto che lei riuscì a condurre la vita folle delle donne della sua specie, il suo amore per Max non fu che un ricordo piacevole che talora la faceva so­ spirare. Ci pensava come tutti pensiamo ai divertimenti dell’in­ fanzia, che tuttavia nessuno vorrebbe ricominciare; ma quando Arsène non ebbe più amanti, si trovò abbandonata, sentì tutto il peso della miseria e della vergogna, allora il suo amore per Max in un certo qual modo si purgò, perché era il solo ricordo che non risvegliava in lei né pentimenti né rimorsi. Lui la risollevava per­ sino ai suoi stessi occhi, e più si sentiva avvilita, più esaltava Max nella propria immaginazione. «Sono stata la sua amante, mi ha amato» si diceva con una specie di orgoglio, quando si sentiva sommergere dal disgusto riflettendo sulla sua vita di cortigiana. Tra le paludi di Minturno, Mario rinsaldava il proprio coraggio dicendosi: «Ho vinto i Cimbri!». La giovane mantenuta, - ahimè! non lo era più, - non aveva per resistere alla vergogna e alla di­ sperazione se non questo ricordo: «Max mi ha amata... Mi ama ancora!». Per un po’ aveva potuto pensarlo; ma adesso erano ve­ nuti a strapparle persino quei ricordi, il solo bene che le fosse ri­ masto al mondo. Mentre Arsène si abbandonava a queste tristi riflessioni, ma­ dame de Piennes le dimostrava con calore la necessità di rinun­ ciare per sempre a ciò che ella definiva aberrazioni criminali. Una convinzione molto radicata rende quasi insensibili; e come un chirurgo applica il ferro e il fuoco su una piaga senza sentire le grida del paziente, madame de Piennes perseguiva il proprio compito con spietata fermezza. Diceva che quel periodo di feli­ cità in cui la povera Arsène si rifugiava come per sfuggire a se stessa era un tempo di crimine e di vergogna che giustamente og­ gi espiava. Quelle illusioni era necessario che le detestasse e le al­ lontanasse dal suo cuore; l’uomo che considerava come il suo 392

protettore e quasi come un nume tutelare non doveva più essere ai suoi occhi che un complice pernicioso, un seduttore che dove­ va rifuggire per sempre. Quella parola, seduttore, di cui madame de Piennes non era in grado di sentire il ridicolo, fece quasi sorridere Arsène tra le la­ crime; ma la sua degna protettrice non se ne accorse. Continuò imperturbabile il suo monito, e lo chiuse con una perorazione che fece raddoppiare i singhiozzi della povera ragazza. Era: «Non lo vedrete più». L’arrivo del medico e il totale abbattimento della malata ricor­ darono a madame de Piennes che per quel giorno aveva fatto ab­ bastanza. Strinse la mano di Arsene e le disse lasciandola: «Coraggio, ragazza mia, e Dio non vi abbandonerà». Aveva già compiuto un dovere, ma gliene restava da compiere un secondo, anche più difficile. L’attendeva ora un altro colpevo­ le, del quale doveva aprire l’anima al pentimento; e nonostante la fiducia che aveva nel suo zelo pietoso, nonostante l’ascendente che esercitava su Max, e di cui aveva già buone prove, nonostante la buona opinione che in fondo al suo cuore conservava nei riguardi di quel libertino, provava un’ansietà strana al pensiero del com­ battimento che stava per impegnare. Prima di iniziare quella terri­ bile lotta, volle riprendere le proprie forze e, entrando in una chie­ sa, domandò a Dio nuove ispirazioni per difendere la sua causa. Quando rincasò, le dissero che monsieur de Salligny era in sa­ lotto e l’aspettava già da tempo. Lo trovò pallido, agitato, pieno di inquietudine. Si sedettero. Max non osava aprire bocca; e ma­ dame de Piennes, ella stessa commossa senza sapere esattamente perché, rimase qualche tempo in silenzio guardandolo solo in modo furtivo. Alla fine cominciò: «Max», disse, «non vi farò rimproveri...». Lui alzò la testa alquanto fieramente. I loro sguardi si incon­ trarono, e subito abbassò gli occhi. «Il vostro buon cuore», continuò lei, «vi parla in questo mo­ mento meglio di quel che potrei fare io. È una lezione che la Provvidenza ha voluto darvi; io spero, sono convinta... che non andrà perduta». «Madame», interruppe Max, «io ho appena saputo quello che è successo. Quella sciagurata ragazza si è buttata dalla finestra, ec­ 393

co ciò che mi hanno detto; ma io non ho la vanità... voglio dire il dolore... di credere che le nostre relazioni di un tempo abbiano potuto determinare quell’atto di follia». «Dite piuttosto, Max, che quando facevate il male, non ne ave­ vate previsto le conseguenze. Quando gettaste quella giovane ra­ gazza nel disordine, non pensavate che ella un giorno avrebbe at­ tentato alla propria vita». «Madame», esclamò Max con una certa veemenza, «consenti­ temi di dirvi che non ho sedotto affatto Arsene Guillot. Quando l’ho conosciuta, era già bell’e sedotta. È stata la mia amante, non lo nego. Lo confesserò persino, l’ho amata... come si può amare una persona di quella specie... Credo che lei abbia avuto per me un po’ più di attaccamento che per altri... Ma da tempo ogni re­ lazione era cessata tra noi senza che ella ne abbia mai dimostrato grande rimpianto. L’ultima volta che ho avuto sue notizie, le ho fatto avere un po’ di denaro; ma non ha regola... Si è vergognata di chiedermene ancora, perché ha pure una sua specie di orgo­ glio... La miseria l’ha spinta a quella tremenda decisione... Ne sono addolorato... Ma ve lo ripeto, madame, in tutta questa fac­ cenda non ho alcun rimprovero da muovermi». Madame de Piennes sgualcì il lavoro sul tavolo, poi riprese: «Certo, secondo le idee della società non siete colpevole, non siete incorso in nessuna responsabilità, ma esiste un’altra morale oltre quella della società, ed è la morale secondo le cui regole mi piacerebbe guidarvi... Ora forse non siete in condizione di capir­ mi. Lasciamo questo discorso. Oggi quello che voglio chiedervi è una promessa, che voi non mi negherete, ne sono sicura. Quella sventurata ragazza è toccata dal pentimento. Ha ascoltato con ri­ spetto i consigli di un venerabile sacerdote che ha voluto visitar­ la. Abbiamo ogni motivo di sperare nei suoi riguardi. Voi, voi non dovete più rivederla, perché il suo cuore vacilla ancora tra il bene e il male, e disgraziatamente non avete né l’intenzione, né forse il potere di esserle utile. Rivedendola, potreste farle molto male... È per questo che vi chiedo la vostra parola di non andare più da lei». Max ebbe un movimento di sorpresa. «Non me lo rifiuterete, Max; se vostra zia vivesse, vi farebbe questa preghiera. Immaginate che sia lei a parlarvi». 394

«Buon Dio! madame, cosa mi state chiedendo? Che male vo­ lete che faccia a quella povera ragazza? Non è invece un obbligo per me che... l’ho conosciuta nel periodo delle sue follie, non ab­ bandonarla ora che è malata, e anzi molto gravemente malata, se quello che mi hanno detto è vero?». «Ecco certamente la morale della società, ma non è la mia. Più è grave la sua malattia, più è necessario che non la rivediate». «Ma, madame, vogliate riflettere che nello stato in cui si trova sarebbe impossibile, anche per il puritanesimo più ombroso... Ecco, madame, se avessi un cane malato e sapessi che vedendomi provasse un po’ di gioia, crederei di commettere una cattiva azio­ ne lasciandolo crepar solo. Non può essere che la pensiate diver­ samente, voi che siete così buona e caritatevole. Riflettete, mada­ me; da parte mia sarebbe un atto crudele». «Poco fa vi chiedevo di farmi questa promessa in nome della vostra buona zia... in nome dell’amicizia che avete per me... ora, ve lo chiedo nel nome stesso di quella ragazza infelice. Se vera­ mente l’amate...». «Ah! madame, vi supplico, non fate a quel modo accosta­ menti che non possono reggere. Credetemi, soffro estremamen­ te di resistervi in questa occasione; ma realmente, madame, l’o­ nore mi costringe... La parola non vi piace? Dimenticatela. Sol­ tanto, madame, lasciatemi scongiurare per pietà di quella sfor­ tunata... e anche un po’ per pietà mia... Se ho avuto torti... se ho contribuito a metterla in imbarazzo... ora devo aver cura di lei. Sarebbe mostruoso abbandonarla. Non me lo perdonerei. No, non posso abbandonarla. Voi non potete pretendere que­ sto, madame». «Non le mancheranno altre cure. Ma rispondetemi, Max, l’amate?». «L’amo... l’amo... No, non l’amo. E una parola su cui non posso convenire qui... Amarla: ahimè! No. Ho cercato di di­ strarmi con lei di un sentimento più serio che era necessario com­ battere... Questo vi sembrerà ridicolo, incomprensibile?... La purezza della vostra anima non può ammettere che si cerchi un simile rimedio... Ebbene! Non è la peggiore azione della mia vi­ ta. Se noialtri uomini non avessimo talora la risorsa di sviare le nostre passioni... forse ora... forse dalla finestra mi sarei buttato 395

ίο... Ma, non so quel che dico, e non potete capirmi... mi com­ prendo a malapena io stesso...». «Vi chiedevo se l’amavate», riprese madame de Piennes con gli occhi chini e una certa esitazione, «perché se aveste... dell’amici­ zia per lei, avreste certamente anche il coraggio di farle un po’ di male per procurarle poi un gran bene. Senza dubbio, il dolore di non vedervi più le sarà penoso da sopportare; ma sarebbe ben più grave distoglierla oggi dalla via che quasi miracolosamente ha im­ boccato. È necessario per la sua salvezza, Max, che lei dimentichi completamente un passato che la vostra presenza le ricorderebbe con troppa vivacità». Max scosse la testa senza rispondere. Non era credente e la parola salvezza, che aveva così tanto potere su madame de Pien­ nes, non parlava altrettanto efficacemente alla sua anima. Ma su questo punto non aveva da iniziare con lei una disputa. Evitava sempre con cura di mostrarle i suoi dubbi, e anche questa volta mantenne il silenzio; tuttavia si vedeva facilmente che non era convinto. «Vi parlerò il linguaggio del mondo», proseguì madame de Piennes, «se sfortunatamente è il solo che possiate intendere; di­ scuteremo, infatti, su una questione di aritmetica. Lei non ha nul­ la da guadagnare a vedervi, e molto da perdere; ora scegliete». «Madame», fece Max con voce commossa, «non dubitiate più, spero, che da parte mia vi possa essere altro sentimento, nei ri­ guardi di Arsène, all’infuori di un interesse... molto naturale. Che pericolo vi sarebbe? Nessuno. Dubitate di me? Pensate che io voglia nuocere all’esito dei buoni consigli che le date? Eh! Mio Dio! credete che ricerchi la vista di una moribonda con intenzio­ ni colpevoli, io che odio le scene tristi, che le rifuggo con una spe­ cie di orrore? Ve lo ripeto, madame, per me è questione di dove­ re, è un’espiazione, un castigo se volete, che vado cercando pres­ so di lei». A questa parola madame de Piennes alzò la testa e lo fissò con un’aria esaltata che conferiva a tutti i suoi lineamenti un’espres­ sione sublime. «Un’espiazione, dite, un castigo?... Ebbene! sì! A vostra insa­ puta, Max, ubbidite forse a un avvertimento di lassa e avete ra­ gione a resistermi... Sì, acconsento. Vedete questa ragazza in mo­ 396

do che diventi lo strumento della vostra salvezza così come avete fallito quello della sua dannazione». Max probabilmente non capiva bene come voi, madame, che cosa sia un avvertimento di lassù. Quel mutamento improvviso lo stupiva, non sapeva a cosa attribuirlo, non sapeva se dovesse rin­ graziare o no madame de Piennes di aver finalmente accondisce­ so; ma in quel momento la sua grande preoccupazione era di sa­ pere se la sua ostinazione avesse stancato o meglio convinto la persona cui temeva sopra ogni altra cosa di dispiacere. «Soltanto, Max», proseguì madame de Piennes, «devo chie­ dervi, o meglio pretendo da voi...». Si fermò un attimo, e Max con un cenno della testa indicò che si sottoponeva a tutto. «Pretendo», riprese, «che la vediate solo in mia presenza». Ebbe un gesto di meraviglia, ma subito l’assicurò che l’avreb­ be ubbidita. «Non mi fido assolutamente di voi», continuò lei sorriden­ do. «Temo ancora che guastiate la mia opera, e io voglio con­ durla a buon termine. Sorvegliato da me, diventerete invece un utile aiuto e, ne ho la speranza, la vostra sottomissione sarà ricompensata». Nel pronunciare queste parole, gli porse la mano. Restarono d’accordo che Max si sarebbe recato il giorno seguente a vedere Arsene Guillot, e che madame de Piennes lo avrebbe preceduto per prepararla a quella visita. Voi intuite il suo piano. Prima aveva pensato di trovare Max pieno di pentimento, e avrebbe potuto facilmente tirar fuori dal­ l’esempio di Arsene eloquente sermone di contro le sue cattive passioni; invece, a dispetto delle sue aspettative, Max aveva re­ spinto ogni responsabilità. Bisognava mutare esordio, e in un momento decisivo rivoltare un’arringa già studiata diventa un’impresa quasi altrettanto pericolosa quanto l’assumere un nuovo ordine di battaglia in mezzo a un attacco improvviso. Ma­ dame de Piennes non aveva potuto improvvisare una manovra. Anziché ammonire Max, aveva discusso con lui una questione di convenienza. Poi, a un tratto, un’idea nuova si era presentata alla sua mente. I rimorsi della sua complice lo commoveranno, aveva pensato. La fine cristiana di una donna che aveva amato (e sfor397

tunatamente non poteva dubitare che lei vi fosse vicina) gli re­ cherà il colpo decisivo. Con questa speranza madame de Piennes si era subito determinata a permettere che Max rivedesse Arsène. Le offriva anche la possibilità di rimandare l’esortazione che ave­ va in mente; perché, credo di avervelo già detto, nonostante il suo vivo desiderio di salvare un uomo, un uomo di cui biasimava i traviamenti, l’idea di impegnare con lui una discussione tanto se­ ria, involontariamente la spaventava. Aveva fatto molto affidamento sulla bontà della propria cau­ sa; ma dubitava ancora del successo, e non riuscire voleva dire di­ sperare della salvezza di Max, era condannare se stessa a mutare sentimento nei confronti di lui. Il diavolo, forse, per impedire che potesse diffidare del vivo affetto che portava ad un amico d’in­ fanzia, il diavolo si era preso cura di giustificare quell’affetto con una speranza cristiana. Tutte le armi sono buone per il tentatore, e tali pratiche gli sono familiari; ecco perché il Portoghese dice con molta eleganza: «De boas intençôes esta o inferno cheio», «L’inferno è lastricato di buone intenzioni». Voi dite in francese che è lastricato di lingue di donne, ed è lo stesso, perché le don­ ne, a mio giudizio, mirano sempre al bene. Voi mi richiamate al mio racconto. Il giorno seguente dunque, madame de Piennes andò dalla sua protetta, che trovò molto de­ bole, molto abbattuta, e tuttavia più calma e più rassegnata di quanto non sperasse. Le riparlò di monsieur de Salligny, ma con maggior precauzione del giorno prima. Arsène, in verità, doveva assolutamente rinunciare a lui e non pensarvi che per deplorare il loro mutuo accecamento. Doveva ancora, e ciò costituiva una parte della sua penitenza, mostrare il proprio pentimento a Max stesso, dargli un esempio cambiando vita, e assicurargli per il fu­ turo la pace di coscienza di cui ella stessa gioiva. Madame de Piennes non tralasciò di aggiungere a quelle esortazioni tutte cri­ stiane, anche qualche argomento mondano: questo, per esempio, che se Arsène amava davvero monsieur de Salligny doveva desi­ derare innanzi tutto il bene di lui, e che dal suo cambiamento di condotta avrebbe meritato la stima di un uomo che non aveva an­ cora potuto concedergliela veramente. Tutto ciò che vi era di severo e di triste in quel discorso si di­ leguò improvvisamente, quando, alla fine, madame de Piennes le 398

annunciò che avrebbe rivisto Max, e che stava per arrivare. Nell’osservare il vivo rossore che ad un tratto colorì le sue guance, da tempo pallide per la sofferenza, nel notare la straordinaria luce che accese i suoi occhi, madame de Piennes per poco non si pentì di aver acconsentito a quell’incontro; ma ormai non era più pos­ sibile mutare risoluzione. Impiegò i pochi minuti che le restava­ no prima dell’arrivo di Max in esortazioni pietose ed energiche, ma queste erano tuttavia accolte con una visibile distrazione, per­ ché Arsene sembrava preoccupata solo di ravviarsi i capelli, ag­ giustare il nastro sgualcito della sua cuffia. Finalmente giunse monsieur de Salligny. Aveva i lineamenti del viso contratti per apparire gaio e disinvolto. Le domandò co­ me stesse con un tono di voce che si sforzava di rendere natura­ le, ma che nessun raffreddore avrebbe potuto dare. Dal canto suo, Arsène non era meno a disagio; balbettava, non le riusciva di met­ tere assieme una frase, ma poi prese la mano di madame de Pien­ nes e se la portò alle labbra come per ringraziarla. Le parole scam­ biate durante un quarto d’ora furono quelle che si usano dire ovunque tra persone imbarazzate. Soltanto madame de Piennes conservava la sua calma consueta, o piuttosto, meglio preparata, aveva più padronanza di sé. Spesso rispondeva lei per Arsène, e questa trovava che l’interprete traducesse abbastanza male i suoi pensieri. La conversazione languiva, madame de Piennes fece no­ tare che la malata tossiva molto, gli ricordò che il medico le proi­ biva di parlare, e rivolgendosi a Max, gli disse che sarebbe stato meglio fare una piccola lettura, anziché stancare Arsène con le sue domande. Max molto premuroso prese subito un libro e si avvi­ cinò alla finestra, perché la camera era alquanto buia. Lesse senza troppo capire, Arsène certamente non capiva più di lui, ma sem­ brava ascoltare con vivo interesse. Madame de Piennes si dedica­ va a un lavoretto che aveva portato, l’infermiera si pizzicava per non dormire. Gli occhi di madame de Piennes correvano di con­ tinuo dal letto alla finestra, mai Argo fece così buona guardia con i cento occhi che aveva. Trascorsi alcuni minuti, si chinò all’orec­ chio di Arsène: «Come legge bene!», le disse sottovoce. Arsène le gettò uno sguardo che contrastava in modo strano con il sorriso delle labbra: 399

«Oh! sì», rispose. Poi abbassò le palpebre, e di quando in quando una lacrima le affiorava sull’orlo delle ciglia e scivolava sulle guance senza che se ne accorgesse. Max non voltò mai la testa. Dopo qualche pagina, madame de Piennes disse ad Arsène: «Ora, mia bambina, vi lasceremo riposare. Temo che vi abbia­ mo un po’ stancata. Torneremo a trovarvi presto». Si alzò, e Max con lei, come la sua ombra. Arsene gli disse ad­ dio senza quasi guardarlo. «Sono contenta di voi, Max», disse madame de Piennes a Max che l’aveva accompagnata fino alla sua porta, «e più ancora di lei. Quella povera ragazza è piena di rassegnazione. Vi dà un esempio». «Soffrire e tacere, madame, è dunque così difficile da impa­ rare?». «Ciò che soprattutto bisogna imparare è l’arte di chiudere il cuore ai cattivi pensieri». Max la salutò e si allontanò in fretta. Quando madame de Piennes rivide Arsene il giorno dopo, la trovò che contemplava un mazzo di fiori rari posto sopra un ta­ volino accanto al letto. «E monsieur de Salligny che me li ha mandati», disse. «Sono venuti da parte sua a chiedermi come stavo. Lui non è salito». «Questi fiori sono veramente belli», disse madame de Piennes un po’ seccamente. «Amavo molto i fiori un tempo», disse la malata sospirando, «e lui mi viziava... Monsieur de Salligny mi viziava regalandomi i più belli che riusciva a trovare... Ma ora sono una cosa che non fa più per me... L’odore è troppo forte... Dovreste accettare que­ sto mazzo, madame; non si offenderà se ve lo do». «No, mia cara; questi fiori vi fanno piacere a guardarli», ri­ prese madame de Piennes in tono più dolce, poiché era rimasta molto commossa dall’accento profondamente triste della pove­ ra Arsene. «Prenderò quelli che profumano, voi conservate le camelie». «No. Detesto le camelie... Mi ricordano l’unico litigio che avemmo ... quando ero con lui». «Non pensate più a queste follie, mia cara bambina». 400

«Un giorno», continuò Arsene fissando madame de Piennes, «un giorno trovai nella sua camera una bella camelia rosa in un bicchiere d’acqua. Volli prenderla, lui non volle. M’impedì persi­ no di toccarla. Insistetti, gli dissi delle sciocchezze. Lui lo prese, lo chiuse in un armadio, e si mise la chiave in tasca. Io feci il diavolo a quattro, e gli ruppi anche un vaso di porcellana cui teneva mol­ to. Non la spuntai. Capii che lo aveva ricevuto da una donna co­ me si deve. Non ho mai saputo chi gli avesse dato quella camelia». Parlando così Arsene non cessava di fissare con uno sguardo quasi cattivo madame de Piennes, che abbassò gli occhi senza vo­ lere. Seguì un lungo silenzio turbato solo dal respiro affannoso della malata. Madame de Piennes si era ricordata confusamente di una certa storia con una camelia. Un giorno, a pranzo da mada­ me Aubrée, Max le aveva detto che la zia aveva appena festeggia­ to il suo compleanno, e chiese anche a lei di dargli un mazzo di fiori. Ella aveva tolto ridendo una camelia dai capelli e gliel’aveva data. Ma perché un fatto così insignificante si era conservato nel suo ricordo? Madame de Piennes non riusciva a spiegarselo. Ne provava quasi sgomento. Si era appena liberata da quella specie di confusione che l’aveva colta di fronte a se stessa quando Max en­ trò e si sentì arrossire. «Grazie dei vostri fiori», disse Arsene, «ma mi disturbano... Non andranno persi; li ho dati a madame. Non mi fate parlare, me lo proibiscono. Volete leggermi qualcosa?». Max si sedette e lesse. Questa volta nessuno ascoltava, penso: ognuno, ivi compreso il lettore, seguiva il filo dei propri pensieri. Quando madame de Piennes si alzò per uscire, stava per la­ sciare il mazzo sul tavolo, ma Arsene l’avvisò della sua dimenti­ canza. Portò dunque con sé i fiori, scontenta di aver forse mo­ strato una certa affettazione a non accettare subito quella scioc­ chezza. «Che male può esserci in questo?» pensava. Ma il male stava già nel porsi questa semplice domanda. Senza essere invitato, Max la seguì fino a casa. Si sedettero e, distogliendo gli occhi l’uno dall’altro, rimasero in silenzio tanto a lungo da sentirsi imbarazzati. «Quella povera ragazza», disse alla fine madame de Piennes, «mi affligge profondamente. Da quello che sembra non c’è più speranza». 401

«Avete visto il dottore?» domandò Max. «Cosa dice?». Madame de Piennes scosse la testa: «Le restano ormai pochi giorni da passare in questo mondo. Stamattina le hanno somministrato i sacramenti». «Faceva male guardare il suo volto», disse Max avanzando verso il vano di una finestra, forse per nascondere la propria emo­ zione. «Certo è crudele morire alla sua età», riprese gravemente ma­ dame de Piennes; «ma se fosse vissuta più a lungo, chissà se non sarebbe stata una disgrazia per lei?... Nel salvarla da una morte disperata, la Provvidenza ha voluto darle il tempo di pentirsi... E un’immensa grazia e lei stessa ne apprezza ora il valore. Il reve­ rendo Dubignon è molto contento di lei. Non bisogna compian­ gerla, Max!». «Non so se bisogna compiangere quelli che muoiono giova­ ni», rispose un po’ bruscamente... «io preferirei morire giovane; ma ciò che soprattutto mi addolora è il vederla soffrire così». «La sofferenza del corpo è spesso utile all’anima...». Senza rispondere Max si diresse all’altro capo della stanza, in un angolo oscuro seminascosto da folte tende. Madame de Pien­ nes lavorava, o fingeva di lavorare, gli occhi fissi sopra un arazzo; ma le sembrava di sentire lo sguardo di Max come qualcosa che pesasse su di lei. Quello sguardo che fuggiva, credeva di sentirlo correre sulle proprie mani, sulle proprie spalle, sulla propria fron­ te. Le sembrò che indugiasse sopra il suo piede, e si affrettò a na­ sconderlo sotto le vesti. “Forse c’è qualcosa di vero in ciò che si dice del fluido magnetico, madame”. «Conoscete, l’ammiraglio de Rigny, madame?», chiese ad un tratto Max. «Sì, un poco». «Avrò forse da chiedervi un servigio presso di lui... una lette­ ra di raccomandazione...». «Perché?». «Da un po’ di giorni, madame ho fatto dei progetti», continuò con affettata allegria. «Lavoro a convertirmi, e vorrei compiere qualche azione da buon cristiano; ma confuso come sono non so da che parte rivolgermi...». Madame de Piennes gli lanciò un’occhiata un po’ severa. 402

«Ecco a cosa mi sono arreso», proseguì. «Mi rincresce molto di non aver ricevuto alcuna istruzione militare, ma si può impa­ rare... e, così che ho l’onore di dirvelo, sento un gran desiderio di andare in Grecia e cercare di ammazzarvi qualche turco, per la maggior gloria della croce». «In Grecia!», esclamò madame de Piennes, lasciando cadere il gomitolo. «In Grecia. Qui non faccio nulla; mi annoio; non sono buono a niente, non sono capace di fare nulla di utile; non c’è nessuno al mondo per cui possa essere buono a fare qualcosa. Perché non andare a mietere allori, o a farmi rompere la testa per una buona causa? D’altronde, non vedo per me altra via per giungere al Tempio della Memoria, cui aspiro così tanto. Pensate un po’, ma­ dame, che onore per me quando si leggerà sul giornale: “Ci scri­ vono da Tripolitza che monsieur Max de Salligny, giovane filelle­ no di altissima speranza, - si può sempre dire questo in un gior­ nale - di altissima speranza, è caduto vittima del proprio entusia­ smo per la santa causa della religione e della libertà. Il feroce Kurscid Pascià ha spinto l’ignoranza delle buone maniere fino a far­ gli tagliare la testa...”. Proprio ciò che ho di peggiore, secondo la società, non è così, madame?». E rideva di un riso forzato. «Parlate sul serio, Max? Andreste in Grecia?». «Molto sul serio, madame; soltanto, farò del mio meglio per­ ché il mio necrologio appaia il più tardi possibile». «Cosa andreste a fare in Grecia? Ai greci non mancano solda­ ti... Sono certa che voi sareste un ottimo soldato; ma...». «Un magnifico granatiere di cinque piedi e sei pollici!» esclamò alzandosi in piedi; «i greci sarebbero davvero schizzi­ nosi se non volessero una recluta come questa. Senza scherzi, madame», aggiunse lasciandosi cadere in una poltrona, «è che credo sia quel che ho di meglio da fare. Non posso rimanere a Parigi» (pronunciò queste parole con una certa violenza); «qui sono infelice, farò mille sciocchezze... Non ho la forza di resi­ stere... Ma ne riparleremo; non partirò immediatamente... ma partirò... Oh! sì, è necessario; l’ho proprio giurato. Sapete che da due giorni studio il greco? Ζωή μου σάς αγαπώ. È una bellis­ sima lingua, non è vero?». 403

Madame de Piennes aveva letto lord Byron e si ricordò di quella frase greca, il refrain di uno dei suoi poemetti. La tradu­ zione, come sapete, si trova in nota, è Vita mia vi amo. Sono mo­ di gentili di quei paesi. Madame de Piennes, malediceva in cuor suo la propria memoria troppo buona; si guardò bene dal chiede­ re cosa significasse quel greco, e temeva solo che la sua fisionomia non lasciasse vedere che aveva capito. Max si era avvicinato al pia­ noforte; le sue dita sfiorarono come per caso la tastiera, suonaro­ no alcune note malinconiche. Poi, a un tratto, prese il cappello; e voltandosi verso madame de Piennes, le domandò se contava di recarsi quella sera da madame Darsenay. «Penso di sì», rispose lei esitando un poco. Le strinse la mano e uscì subito, lasciandola in preda ad un’a­ gitazione che non aveva mai provato. Tutte le sue idee erano divenute confuse e si succedevano con una tale rapidità che non aveva il tempo di fermarsi su una sola. Era come il susseguirsi delle immagini che appaiono e scompaio­ no nello sportello di una carrozza ferroviaria in corsa. Ma, allo stesso modo in cui nell’impeto della corsa più impetuosa l’occhio che non distingue tutti i particolari delle cose riesce però a co­ gliere l’aspetto generale dei luoghi che sta attraversando, simil­ mente, nel disordine dei pensieri che la assediavano, madame de Piennes provava un’impressione di sgomento e si sentiva come trascinata per una ripida china tra baratri orrendi. Che Max l’a­ masse, non poteva dubitarne. Quell’amore (lei diceva: quell’affet­ to ) era di antica data; ma finora non si era mai allarmata. Fra una devota come lei e un libertino come Max si elevava una barriera insormontabile che un tempo la rassicurava. Benché non fosse in­ sensibile al piacere, o alla vanità, di ispirare un sentimento serio in un uomo così fatuo, qual era Max ai suoi occhi, non aveva mai pensato che tale affetto potesse un giorno diventare pericoloso per la sua pace. Ma ora che il cattivo soggetto si era emendato, co­ minciava a temerlo. La conversione di lui, della quale si attribui­ va il merito, stava per diventare, per entrambi, cagione di dolori e tormenti. Per il momento, cercava di convincersi che i pericoli che vagamente prevedeva non avessero nessun fondamento reale. Quel viaggio bruscamente deciso, il mutamento che aveva osser­ vato nelle maniere di monsieur de Salligny, potevano a rigor di lo­ 404

gica spiegarsi con l’amore che aveva conservato per Arsène Guillot; ma, strano a dirsi! questo pensiero le riuscì anche più intolle­ rabile degli altri, ed era quasi un sollievo per lei dimostrarsene l’inverosimiglianza. Madame de Piennes passò l’intera serata a crearsi altri fanta­ smi, a distruggerli, a formarli di nuovo. Non volle recarsi da ma­ dame Darsenay e, per non incorrere in tentazioni, diede anzi il permesso di uscire al cocchiere e volle coricarsi presto; ma appe­ na ebbe preso quella magnanima determinazione, e non ebbe più ormai modo di revocarla, se la raffigurò come una debolezza non degna di lei e se ne pentì. Soprattutto ebbe il timore che Max non ne sospettasse la causa; e siccome non poteva mascherare ai pro­ pri occhi la ragione vera per la quale non era uscita, arrivò al pun­ to di considerarsi come già colpevole, poiché anche quella sola preoccupazione riguardo monsieur de Salligny le sembrava un delitto. Pregò a lungo, ma non se ne sentì sollevata. Non so a che ora riuscì a prendere sonno; quel che è certo, è che quando si ri­ svegliò le sue idee erano altrettanto confuse del giorno preceden­ te, ed era ancora lontana dall’aver preso una decisione. Mentre faceva colazione - poiché si fa sempre colazione, ma­ dame, soprattutto quando si ha cenato male - lesse in un giorna­ le la notizia del saccheggio da parte di non so quale pascià di una città della Rumelìa. Donne e bambini erano stati massacrati; un gruppo di filelleni erano caduti con le armi in pugno, o erano sta­ ti uccisi lentamente tra supplizi orrendi. Quell’articolo di giorna­ le era poco adatto a rendere gradito a madame de Piennes il viag­ gio in Grecia cui si accingeva Max. Stava meditando tristemente sulla sua lettura, quando le portarono un biglietto di lui. La sera prima si era molto annoiato da madame Darsenay; e, in pensiero per non avervi trovato madame de Piennes, le scriveva per avere sue notizie e domandarle a che ora sarebbe andata da Arsène Guillot. Madame de Piennes non ebbe il coraggio di scrivere e fe­ ce rispondere che sarebbe andata all’ora solita. Poi le venne l’idea di andarvi subito, per non incontrarvi Max; ma, dopo riflessione, trovò che sarebbe stato un inganno puerile e vergognoso, peggio ancora della debolezza del giorno prima. Si armò dunque di co­ raggio, pregò con fervore, e, all’ora stabilita, uscì e salì con passo deciso in camera di Arsène. 405

Ill

Trovò la povera ragazza in uno stato da far pietà. Era chiaro che la sua ultima ora si avvicinava, e dal giorno prima il male era terribilmente progredito. Il respiro non era più che un rantolo doloroso. E dissero a madame de Piennes che la mattina a più ri­ prese aveva delirato, tanto che il medico non credeva che potesse arrivare al giorno dopo. Tuttavia Arsene riconobbe la sua protettrice e la ringraziò d’esser venuta a trovarla. «Non vi stancherete più a salire le mie scale», disse con voce spenta. Ogni parola sembrava costarle uno sforzo penoso e consuma­ re quelle poche forze che le restavano. Per sentirla bisognava chi­ narsi sul letto. Madame de Piennes le aveva preso la mano, ed era già fredda e come inanime. Max giunse poco dopo e si avvicinò in silenzio al letto della moribonda. Lei gli fece un leggero cenno con la testa, e accor­ gendosi che aveva in mano un libro nella sua custodia: «Oggi non leggerete più», mormorò debolmente. Madame de Piennes diede un’occhiata al supposto volume: era una carta della Grecia rilegata che aveva comprato inciden­ talmente. Il reverendo Dubignon, che era lì dal mattino al capezzale di Arsene, osservando con quanta rapidità le forze della malata si esaurivano, volle trarre il maggior profitto per la salvezza di quel­ l’anima dai pochi momenti che le rimanevano. Scostò Max e ma­ dame de Piennes e, chinandosi su quel letto di dolore, rivolse al­ la povera ragazza le parole gravi e consolanti che la religione ri­ serva per simili circostanze. Madame de Piennes inginocchiata in un angolo della camera pregava e Max, in piedi, accanto alla fine­ stra, sembrava tramutato in una statua. «Perdonate tutti coloro che vi hanno offeso, ragazza mia?» chiese il prete con voce commossa. «Sì!... Che siano felici!», rispose la moribonda facendo uno sforzo perché la udissero. «Confidate dunque nella misericordia di Dio, ragazza mia?», riprese il reverendo. «Il pentimento apre le porte del Cielo». 406

Il reverendo continuò le sue esortazioni ancora per qualche minuto; poi finì di parlare, nel dubbio che avesse davanti a sé or­ mai solo un cadavere. Madame de Piennes si alzò dolcemente e tutti rimasero per un certo tempo immobili, guardando con ansia il volto livido di Arsene. I suoi occhi erano chiusi. Tutti tratten­ nero il respiro come per non disturbare il sonno tremendo che forse era cominciato per lei, e si udiva distintamente nella camera il battito debole di un orologio posato sul comodino. «Se n’è andata, povera mademoiselle!» disse alla fine l’infer­ miera dopo che ebbe avvicinato invano la sua tabacchiera alle lab­ bra di Arsène, «guardate, il vetro non è appannato. E' morta!». «Povera bambina!», esclamò Max uscendo dallo stupore nel quale sembrava immerso. «Che felicità ha mai avuto in questo mondo?». A un tratto, e come rianimata dalla sua voce, Arsène aprì gli occhi. «Ho amato!», mormorò con voce sorda. Muoveva le dita e sembrava volesse stendere le mani. Max e madame de Piennes le presero una mano ciascuno. «Ho amato!», ripetè con un triste sorriso. Furono le sue ultime parole. Max e madame de Piennes trattennero a lungo le sue mani ge­ lide senza osare alzare gli occhi...

IV

Ebbene! madame, voi dite che il mio racconto è finito, e non volete più sentirne. Avrei creduto che sareste stata curiosa di sa­ pere se monsieur de Salligny avesse fatto o no il viaggio in Gre­ cia; se... ma è tardi, ne avete abbastanza. Finalmente! Almeno guardatevi dai giudizi temerari, io affermo di non aver detto nul­ la che potesse autorizzarvi. Soprattutto, non dubitate che questa mia storia sia vera. Ne dubitereste? Andate al Père-Lachaise12: a venti passi a sinistra dal­ la tomba del generale Foy troverete una lastra di pietra dura semu [Cimitero di Parigi].

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plicissima, attorniata da fiori sempre ben curati. Sulla lapide po­ trete leggere il nome della mia eroina inciso in grandi lettere: AR­ SÈNE Guillot. E chinandovi su quella tomba noterete, se la pioggia non ha già messo ordine, una riga tracciata a matita con una scrittura molto sottile: «Povera Arsene: ella prega per noi».

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Carmen

Πάσα γυνή χόλος εστιν εχει δ’άγαθάς δύο ώρας, Την μίαν έν θαλάμω, την μίαν έν θανάτω1. Pallada

I

Avevo sempre sospettato che i geografi non sappiano quello che dicono quando situano il campo di battaglia di Munda nel paese dei Bastuli-Poeni, presso la moderna Monda, circa due le­ ghe a nord di Marbella. Secondo le mie personali congetture, ba­ sate sul testo dell’anonimo autore del Bellum Hispaniense e su qualche altra indicazione raccolta nell’eccellente biblioteca del duca di Ossuna, pensavo che bisognasse cercare nei dintorni di Montilla il luogo memorabile dove, per l’ultima volta, Cesare giocò il tutto per tutto contro i campioni della repubblica. Tro\ uidomi in Andalusia all’inizio dell’autunno 1830, feci una lunga escursione per chiarire i dubbi che ancora mi restavano. La rela/ ione che pubblicherò prossimamente spero non lasci più alcuna incertezza nell’animo di tutti gli archeologi di buona fede. In at­ tesa che la mia dissertazione risolva finalmente il problema georafico che tiene col fiato sospeso tutta la saggia Europa, voglio I accontarvi una breve storia che non reca alcun pregiudizio alI interessante questione relativa all’ubicazione di Munda. «Ogni donna è come fiele; ma ha due soli momenti felici: il primo il letto, l’altro la II.I morte», Pallada.

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A Cordova avevo noleggiato una guida e due cavalli e mi ero messo in viaggio con il solo bagaglio dei Commentari di Cesare e qualche camicia. Un giorno, vagando nella parte più elevata della piana di Cachena, stremato dalla stanchezza, morto di sete, bru­ ciato da un sole di piombo, stavo mandando al diavolo di tutto cuore Cesare e i figli di Pompeo, quando notai, assai lontano dal sentiero che stavo seguendo, un praticello verde disseminato di giunchi e canne che mi annunciava la presenza di una fonte. Infat­ ti, avvicinandomi, vidi che quel piccolo prato era un acquitrino, in cui si perdeva un ruscello che scaturiva, a quanto sembrava, da una stretta gola fra due alti contrafforti della sierra di Cabra. Conclu­ si che risalendo avrei trovato acqua fresca, meno sanguisughe e meno rane, e forse un po’ d’ombra fra le rocce. All’entrata della gola il mio cavallo nitrì, e un altro cavallo, che però non riuscivo a vedere, gli rispose. Avevo appena fatto un centinaio di passi, quan­ do improvvisamente, la gola, allargandosi, mi rivelò una specie di anfiteatro naturale perfettamente ombreggiato dalle alte rupi che lo circondavano. Era impossibile trovare un luogo che promettes­ se al viaggiatore una sosta più piacevole. Ai piedi delle rocce a pic­ co la fonte si lanciava in gorgoglìi e ricadeva poi in un piccolo specchio d’acqua tappezzato di una sabbia bianca come la neve. Cinque o sei belle querce verdi, sempre al riparo dal vento e rin­ frescate dalla fonte, si levavano sui suoi lati e la coprivano con la loro fitta ombra; infine, attorno al laghetto, un’erba sottile, lucida, offriva un letto migliore di quelli che si sarebbero potuti trovare in qualsiasi locanda per dieci leghe attorno. Non apparteneva a me l’onore della scoperta di un luogo così bello. Quando vi penetrai vidi che un uomo già vi si riposava, e senza dubbio dormiva. Risvegliato dai nitriti, si alzò e si avvicinò al suo cavallo che aveva approfittato del sonno del padrone per fa­ re una buona scorpacciata d’erba nelle vicinanze. Era un giovane vigoroso, di media statura ma robusto, dallo sguardo cupo e fiero. La sua carnagione, che doveva essere stata chiara un tempo, era di­ venuta, per il sole, più scura dei capelli. Con una mano teneva la cavezza della sua cavalcatura, con un’altra un archibugio di rame. Confesso che da principio l’archibugio e l’aspetto selvaggio di co­ lui che lo portava mi sorpresero un po’; ma non credevo più ai bri­ ganti, a forza di sentirne parlare e di non incontrarne mai. D’al­ 410

tronde, avevo visto cosi tanti onesti coloni armarsi fino ai denti per andare al mercato che la vista di un’arma da fuoco non mi au­ torizzava a mettere in dubbio la moralità dello sconosciuto. «E poi», mi dicevo, «che se ne farebbe delle mie camicie e dei miei Commentari in elzeviro?». Salutai dunque l’uomo con l’archibu­ gio con un familiare cenno del capo e gli domandai sorridendo se avevo disturbato il suo sonno. Senza rispondermi, mi squadrò dal­ la testa ai piedi; poi, come soddisfatto del suo esame, considerò con la stessa attenzione la mia guida che veniva avanti. Vidi l’uo­ mo impallidire e fermarsi, mostrando un evidente terrore. «Brut­ to incontro!», mi dissi. Ma la prudenza mi consigliò comunque di non far trasparire alcuna inquietudine. Scesi dal cavallo; dissi alla guida di togliere le briglie e, inginocchiandomi al bordo della sor­ gente, immersi nell’acqua la testa e le mani; poi bevvi una buona sorsata, disteso bocconi, come i cattivi soldati di Gedeone2. Intanto osservavo la mia guida e lo sconosciuto. Il primo si av­ vicinava assai a malincuore; l’altro sembrava non avere cattive in­ tenzioni nei nostri confronti, poiché aveva rimesso in libertà il suo cavallo, e l’archibugio, che prima teneva in posizione oriz­ zontale, era adesso rivolto verso terra. Poiché non credevo di dovermela prendere più di tanto per il poco conto in cui era tenuta la mia persona, mi distesi sull’erba e con aria disinvolta domandai all’uomo con l’archibugio se per ca­ so avesse un acciarino. Nello stesso tempo tirai fuori il mio por­ tasigari. Lo sconosciuto, sempre senza parlare, si frugò nelle ta­ sche, prese l’acciarino e si affrettò a offrirmi del fuoco. Evidente­ mente stava diventando più socievole, perché si mise a sedere di fronte a me, senza comunque abbandonare la sua arma. Acceso il sigaro, scelsi il migliore di quelli che mi restavano e gli domandai se fumava. «Sì, signore», rispose. Erano le prime parole che faceva sentire, e notai che non pro­ nunciava la «s» alla maniera andalusa3, da cui conclusi che era un viaggiatore come me, soltanto meno archeologo. 1 [Allusione ai trecento israeliti scelti da Gedeone: Libro dei Giudici, vili, 5-6]. ' Gli andalusi aspirano la «s» e la confondono nella pronuncia con la «c» dolce e la che gli spagnoli pronunciano come il «th» inglese. Si può riconoscere un andaluso dalla sola parola senor.

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«Questo vi piacerà» gli dissi porgendogli un vero regalia del­ l’Avana. Mi fece un leggero cenno col capo, accese il suo sigaro al mio, mi ringraziò con un altro cenno, poi si mise a fumare con un’aria di grandissimo piacere. «Ah!» esclamò, lasciando uscire lentamente una prima sbuffa­ ta dalla bocca e dalle narici, «quanto tempo era che non fumavo!». In Spagna, un sigaro offerto e accettato stabilisce relazioni di ospitalità, come in Oriente la condivisione del pane e del sale. Il mio uomo si mostrò più loquace di quanto avessi sperato. Ben­ ché dicesse di abitare nel partido'' di Montilla, pareva conoscere molto male il paese. Non sapeva il nome della deliziosa vallata in cui ci trovavamo, non sapeva il nome di alcun villaggio nei din­ torni, e infine, interrogato se avesse visto nelle vicinanze delle mura in rovina, delle larghe tegole con gli orli sporgenti, delle pietre scolpite, confessò che non aveva mai fatto attenzione a co­ se del genere. In compenso, si mostrò esperto in materia di caval­ li. Criticò il mio, cosa non difficile; poi mi declamò la genealogia del suo, che proveniva dal famoso allevamento di Cordova: ani­ male nobile in verità, così resistente alla fatica, a sentire il padro­ ne, da aver fatto una volta trenta leghe in un solo giorno, al ga­ loppo e al trotto. Nel bel mezzo del suo discorso lo sconosciuto si interruppe bruscamente, come sorpreso e dispiaciuto di aver parlato troppo. «Il fatto è che avevo molta fretta di arrivare a Cordova», riprese con un certo imbarazzo. «Dovevo sollecitare i giudici per un processo...». Parlando guardava la mia guida, An­ tonio, che abbassava gli occhi. L’ombra e la sorgente mi piacevano così tanto che mi vennero in mente certe fette di ottimo prosciutto che i miei amici di Mon­ tilla avevano messo nella bisaccia della mia guida. Le feci portare e invitai lo straniero a condividere lo spuntino improvvisato. Se non aveva fumato da tempo, mi parve verosimile che non man­ giasse perlomeno da quarantotto ore. Divorava tutto come un lu­ po affamato. Pensai che l’incontro era stato provvidenziale per il povero diavolo. La mia guida, invece, mangiava poco, beveva an­ cor meno, e non parlava affatto, benché dall’inizio del nostro viag4 [Regione].

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gio si fosse rivelato un chiacchierone senza pari. La presenza del nostro ospite sembrava intimidirlo e una certa diffidenza li teneva lontani uno dall’altro senza che io potessi indovinarne il motivo. Le ultime briciole di pane e di prosciutto erano scomparse, avevamo fumato ciascuno un secondo sigaro; ordinai alla guida di imbrigliare i nostri cavalli e mentre stavo per prendere congedo dal mio nuovo amico, questi mi domandò dove contavo di tra­ scorrere la notte. Prima che mi accorgessi che la mia guida stava cercando di far­ mi capire qualcosa, avevo già risposto di essere diretto alla venta5 del Cuervo. «Cattivo alloggio per una persona come voi, signore... Ci va­ do anch’io, e se mi permettete di accompagnarvi faremo la strada insieme». «Molto volentieri», dissi montando a cavallo. La mia guida che mi teneva la staffa mi fece un nuovo segno con gli occhi. Gli risposi alzando le spalle, come per rassicurarlo che ero perfettamente tranquillo e ci mettemmo in cammino. I misteriosi ammiccamenti di Antonio, la sua inquietudine, qualche parola sfuggita allo sconosciuto, soprattutto la sua corsa di trenta leghe e la poco plausibile spiegazione che mi aveva dato, avevano già formato la mia opinione sul conto del mio compagno di viaggio. Non dubitavo che avevo a che fare con un contrab­ bandiere, forse con un brigante; che importava? Conoscevo ab­ bastanza bene il carattere spagnolo per essere certo di non aver niente da temere da un uomo che aveva mangiato e fumato con me. La sua stessa presenza era una protezione sicura contro ogni brutto incontro. E poi ero ben contento di scoprire come fosse un brigante. Non se ne vedono tutti i giorni e si prova un certo piacere nel trovarsi vicino a un essere pericoloso, soprattutto quando lo si sente dolce e ammansito. Speravo di condurre per gradi lo sconosciuto a farmi delle confidenze, e, malgrado gli ammiccamenti della guida, portai la conversazione sui ladri delle strade maestre. Ne parlai con rispet­ to, ben inteso. C’era allora in Andalusia un famoso bandito di no­ me José Maria, le cui imprese erano sulla bocca di tutti. «E se mi ' [Misera locanda isolata delle strade spagnole].

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trovassi a fianco di José Maria?», mi domandavo... Raccontai le storie che conoscevo di questo eroe, tutte a sua lode del resto, ed espressi apertamente la mia ammirazione per il suo coraggio e la sua generosità. «José Maria è solo un balordo», disse freddamente lo straniero. «Si stima per quello che è, o è solo un eccesso di modestia da parte sua?» mi domandai mentalmente; perché, a forza di osser­ vare il mio compagno, gli avevo dato ormai i connotati di José Maria di cui avevo letto la descrizione alle porte di tante città dell’Andalusia. «Sì, è proprio lui... Capelli biondi, occhi azzurri, bocca grande, bei denti, mani piccole; una camicia fine, una giac­ ca di velluto coi bottoni d’argento, ghette di pelle bianca, cavallo baio... Nessun dubbio! Ma rispettiamo il suo incognito». Arrivammo alla venta. Era tale e quale me l’aveva descritta, cioè tra le più misere che avessi mai visto. Una grande stanza ser­ viva da cucina, da sala da pranzo e da camera da letto: su una pie­ tra piatta, in mezzo alla camera, veniva acceso il fuoco e il fumo usciva da un buco aperto nel tetto, o meglio, stagnava formando una nuvola a pochi piedi dal suolo. Lungo la parete c’erano stese in terra cinque o sei vecchie coperte da mulo: i letti dei viaggiato­ ri. A venti passi dalla casa, o piuttosto dall’unica stanza che sto descrivendo, si levava una specie di rimessa che serviva da stalla. In questo incantevole soggiorno non c’erano altri esseri umani, almeno al momento, se non una vecchia e una ragazzina sui die­ ci, dodici anni, entrambe color di fuliggine e coperte da stracci or­ ribili. «Ecco tutto quello che resta», mi dissi, «della popolazione dell’antica Munda-Bætica! Oh Cesare! Oh Sesto Pompeo! che sorpresa per voi se tornaste al mondo!». Nello scorgere il mio compagno la vecchia si lasciò sfuggire un grido di sorpresa. «Ah! Signor don José!» gridò. Don José aggrottò le sopracciglia e alzò una mano con gesto autorevole che subito fermò la vecchia. Mi girai verso la guida e con un cenno impercettibile gli feci capire che non aveva nulla da insegnarmi sul conto dell’uomo col quale avrei trascorso la not­ te. La cena fu migliore di quanto mi aspettassi. Ci servirono, su un tavolino alto un piede, un vecchio gallo in fricassea con riso e peperoni a volontà, poi peperoni all’olio e infine gaspacho, una 414

specie di insalata di peperoni. Tre piatti così piccanti che ci co­ strinsero a ricorrere spesso a un otre di vino di Montilla che ci parve delizioso. Dopo aver mangiato, avendo visto un mandoli­ no appeso al muro, - in Spagna ci sono mandolini ovunque - do­ mandai alla ragazzina che ci serviva se sapeva suonare. «No», rispose; «ma don José lo suona benissimo!». «Siate gentile», gli dissi, «cantatemi qualcosa, mi piace moltis­ simo la vostra musica popolare». «Non posso rifiutare niente a un signore così rispettabile che mi offre sigari eccellenti», esclamò don José di buonumore... Così, fattosi dare il mandolino, cantò accompagnandosi. La sua voce era rude ma piacevole, il motivo malinconico e bizzar­ ro; quanto alle parole, non capii nulla. «Se non mi sbaglio», gli dissi, «non è un motivo spagnolo quello avete cantato. Somiglia agli zorcicos che ho sentito nelle Province6, e le parole devono essere basche». «Sì», rispose don José con aria tetra. Posò il mandolino a terra e con le braccia incrociate si mise a contemplare il fuoco che si spegneva, con una singolare espres­ sione di tristezza. Illuminato da una lampada posata sul tavolino, il suo viso, al tempo stesso nobile e selvaggio, mi ricordò il Sata­ na di Milton. Come lui, forse, il mio compagno pensava al paese che aveva lasciato, all’esilio che aveva conosciuto per una colpa. Cercai di rianimare la conversazione, ma non rispose, assorto com’era nei suoi tristi pensieri. La vecchia si era già coricata in un angolo della sala, al riparo di una coperta bucata stesa su una cor­ da. La ragazzina l’aveva seguita in quel ritiro riservato al gentil sesso. La mia guida, alzandosi, mi invitò a seguirlo nella stalla; ma a questa parola, don José, come svegliatosi di soprassalto, gli do­ mandò bruscamente dove andasse. «Nella stalla», rispose la guida. «Per fare che? I cavalli hanno da mangiare. Mettiti qui, il si­ gnore lo permetterà». «Temo che il cavallo del signore sia malato; vorrei che il si­ gnore lo vedesse: forse lui sa cosa si deve fare». 6 Le province privilegiate, che godono di fueros particolari, cioè l’Àvala, la Biscaglia, la Guipùzcoa e parte della Navarra. Il basco è la lingua del paese.

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Era chiaro che Antonio voleva parlarmi da solo; ma io non volevo insospettire don José e, stando così le cose, mi sembrava che il miglior partito da prendere fosse quello di mostrare la più grande fiducia. Risposi dunque ad Antonio che non me ne in­ tendevo di cavalli e che desideravo dormire. Don José lo seguì nella stalla, da cui, ben presto, ritornò da solo. Mi disse che il ca­ vallo non aveva niente, ma che la mia guida lo trovava un ani­ male così prezioso che lo massaggiava con la propria giacca per farlo traspirare e che contava di passare la notte in quella dolce occupazione. Intanto mi ero disteso sotto le coperte dei muli, ac­ curatamente avvolto nel mio mantello per non toccarle. Dopo avermi chiesto scusa per la libertà che si prendeva nel mettersi accanto a me, don José si sdraiò davanti alla porta, non senza aver controllato che l’archibugio fosse carico, che poi sistemò con cura sotto la bisaccia che gli faceva da cuscino. Cinque mi­ nuti dopo esserci augurati la buonanotte a vicenda, dormivamo entrambi profondamente. Credevo di essere abbastanza stanco da riuscire a dormire in un tale ricovero, ma dopo appena un’ora mi venne un fastidiosissimo prurito che mi strappò dal primo sonno. Appena mi fu chiaro il motivo mi alzai, persuaso che sarebbe stato meglio trascorrere il re­ sto della notte sotto le stelle piuttosto che sotto quel tetto inospi­ tale. In punta di piedi, raggiunsi la porta, scavalcai il giaciglio di don José, che dormiva il sonno del giusto, e fui tanto bravo da uscire dalla casa senza che lui si svegliasse. Accanto alla porta c’era una grande panca di legno; mi ci sdraiai facendo del mio meglio per passare la notte. Stavo per chiudere gli occhi per la seconda volta, quando mi sembrò di veder passare davanti a me l’ombra di un uo­ mo e l’ombra di un cavallo che marciavano senza far il minimo ru­ more. Mi tirai su e credetti di riconoscere Antonio. Sorpreso di ve­ derlo fuori della stalla a un’ora simile, mi alzai per andargli incon­ tro. Lui, che mi aveva visto per primo, si era fermato. «Dov’è?» mi domandò Antonio a bassa voce. «Nella venta, dorme, non ha paura delle cimici. Perché porti via il cavallo?». Allora mi accorsi che per non far rumore uscendo dalla stalla, Antonio aveva accuratamente fasciato le zampe dell’animale con i brandelli di una vecchia coperta. 416

«Parlate più piano, in nome di Dio», mi disse Antonio, «voi non sapete chi è quell’uomo. È José Navarro, il bandito più fa­ moso dell’Andalusia. Tutto il giorno vi ho fatto dei cenni che non avete voluto capire». «Bandito o no, che importa?» risposi. «Non ci ha derubato, e non credo che intenda farlo». «D’accordo; ma ci sono duecento ducati per chi lo consegnerà. So che c’è un picchetto di lancieri a una lega e mezzo da qui, e prima che sia giorno, tornerò con dei tipi robusti. Volevo prendere il suo cavallo, ma è così cattivo che solo Navarro gli si può avvicinare». «Che il diavolo vi porti!» gli dissi. «Che male vi ha fatto que­ sto poveruomo da denunciarlo? E poi siete sicuro che sia il bri­ gante che dite?». «Assolutamente sicuro. Poco fa mi ha seguito nella stalla e mi ha detto: “Hai l’aria di conoscermi; se dici chi sono a quel genti­ luomo, ti faccio saltare le cervella”. Restate, voi restate pure ac­ canto a lui; non avete niente da temere. Finché sarete lì, non so­ spetterà niente». Parlando ci eravamo allontanati dalla venta abbastanza da non temere che si potessero udire i ferri del cavallo. Antonio lo aveva liberato in un batter d’occhio dagli stracci con cui gli aveva av­ volto le zampe; si preparava a inforcare la cavalcatura. Per tratte­ nerlo tentai preghiere e minacce. «Sono un povero diavolo, signore», mi disse, «non posso la­ sciarmi sfuggire duecento ducati, soprattutto quando si tratta di liberare il paese da un tale verme. Ma fate attenzione; se Navar­ ro si risveglia, salterà sul suo archibugio e guai a voi! Io ormai ho fatto troppa strada per tornare indietro, voi arrangiatevi come potete». Il briccone era in sella; partì al galoppo e nell’oscurità ben pre­ sto lo persi di vista. Ero molto irritato con la mia guida, e molto inquieto. Dopo un attimo di riflessione, mi decisi e rientrai nella venta. Don José dormiva ancora, riposandosi senza dubbio delle fatiche e delle ve­ glie di parecchi giorni avventurosi. Fui obbligato a scuoterlo ru­ demente per svegliarlo. Non dimenticherò mai il suo sguardo sel­ vaggio e il movimento che fece per afferrare l’archibugio che, in via precauzionale, avevo allontanato dal suo giaciglio. 417

«Signore,» gli dissi, «vi domando perdono per avervi sveglia­ to, ma devo farvi una domanda sciocca: sareste contento di veder arrivare qui una mezza dozzina di lancieri?». Saltò in piedi, e con una voce terribile mi domandò: «Chi ve l’ha detto?». «Non ha importanza da dove viene la notizia, dato che è vera». «La vostra guida mi ha tradito, ma me la pagherà. Dov’è?». «Non so... Nella stalla, credo... Ma me l’ha detto...». «Chi ve l’ha detto?... La vecchia non può essere...». «Uno che non conosco... Insomma, senza perdere tempo, avete o non avete delle buone ragioni per non voler aspettare i soldati? Se ne avete, non perdete tempo; altrimenti, buona notte e scusatemi di aver interrotto il vostro sonno». «Ah! la vostra guida! La vostra guida! Ne ho diffidato fin dal­ l’inizio... ma... è un uomo morto! Addio, signore: Dio vi renda il servigio che vi devo. Non sono così malvagio come credete... sì, c’è ancora in me qualcosa che merita la pietà di un galantuo­ mo... Addio, signore... Non ho che un rimorso, non potermi sdebitare con voi». «Come compenso del servigio che vi ho reso, promettetemi, don José, di non sospettare nessuno, di lasciar perdere la vendet­ ta. Tenete, ecco dei sigari per il cammino, buon viaggio!». E gli tesi la mano. Me la strinse senza rispondere, prese l’archibugio e la bisaccia e, dopo aver detto qualche parola alla vecchia in un dialetto che non compresi, corse alla rimessa. Qualche istante dopo lo sentii galoppare attraverso la campagna. Quanto a me, mi coricai di nuovo sulla mia panca, ma non po­ tei riprendere sonno. Mi domandavo se avevo fatto bene a salva­ re dalla forca un ladro, e forse un assassino, e solo perché avevo mangiato con lui del prosciutto e del riso alla valenciana. Non avevo tradito la mia guida che sosteneva la causa della legge? Non l’avevo esposto alla vendetta di uno scellerato? Ma i doveri del­ l’ospitalità!... «Pregiudizio da selvaggio», mi dicevo; «dovrò ri­ spondere di tutti i crimini che il bandito commetterà... Eppure questo istinto della coscienza che resiste a tutti i ragionamenti è proprio un pregiudizio?». Forse, dalla situazione delicata in cui mi trovavo non potevo uscire senza rimorsi. Esitavo ancora nel­ 418

la più grande incertezza circa la moralità del mio gesto quando vi­ di comparire una mezza dozzina di cavalieri con Antonio che si teneva prudentemente nella retroguardia. Andai loro incontro e li avvertii che il bandito era scappato da più di due ore. La vec­ chia, interrogata dal brigadiere, rispose che conosceva Navarro, ma che, vivendo sola, non avrebbe mai avuto il coraggio di ri­ schiare la vita denunciandolo. Aggiunse che quando veniva da lei, era sua abitudine partire sempre nel cuore della notte. Quanto a me, mi toccò andare ad alcune leghe da lì per mostrare il mio pas­ saporto e firmare una dichiarazione dinanzi a un alcade, dopo di che mi permisero di riprendere le mie ricerche archeologiche. Antonio mi serbava rancore, sospettando che ero stato io a impe­ dirgli di guadagnarsi i duecento ducati. Tuttavia a Cordova ci se­ parammo da buoni amici; gli diedi una mancia molto alta, tanto quanto me lo potevano permettere le mie finanze.

II

Trascorsi qualche giorno a Cordova. Mi avevano indicato un certo manoscritto della biblioteca dei Domenicani, dove avrei trovato notizie interessanti sull’antica Munda. Accolto benissimo dai buoni padri, passavo la giornata nel loro convento e la sera an­ davo a passeggio per la città. A Cordova, verso il tramonto, si tro­ vano tanti oziosi per la strada che costeggia la riva destra del Gua­ dalquivir. Là si respirano le esalazioni di una conceria che con­ serva ancora la sua antica fama nel paese per la lavorazione del cuoio, ma in compenso si può godere di uno spettacolo che ha non poche attrattive. Qualche minuto prima dell’Angelus un gran numero di donne si raduna sulla riva del fiume, ai piedi dell’argi­ ne, che è abbastanza elevato. Nessun uomo oserebbe unirsi a quel gruppo. Quando suona {’Angelus viene annunciato l’inizio della notte. All’ultimo rintocco della campana tutte le donne si spo­ gliano ed entrano in acqua. Allora ci sono grida, risate, un chias­ so infernale. Dall’alto della strada gli uomini contemplano le ba­ gnanti, sgranando gli occhi, pur non vedendo granché. Tuttavia quelle forme bianche e incerte che si disegnano sull’ombra az­ zurra del fiume fanno lavorare gli animi poetici, e con un po’ 419

d’immaginazione non è così difficile raffigurarsi Diana e le sue ninfe al bagno, senza aver da temere la sorte di Atteone. Mi han­ no detto che un giorno alcuni malvagi fecero una colletta per un­ gere le mani del campanaro della cattedrale e fargli suonare VAn­ gelus venti minuti prima dell’ora stabilita. Benché fosse ancora chiaro, le ninfe del Guadalquivir non esitarono e, fidandosi più dell’Angelus che del sole, fecero con tutta coscienza il loro bagno, che è sempre dei più semplici. Io non c’ero. Ai miei tempi il cam­ panaro era incorruttibile, il crepuscolo poco chiaro, e soltanto un gatto avrebbe potuto distinguere la più vecchia venditrice di aran­ ce dalla più graziosa sartina di Cordova. Una sera, nell’ora in cui non si vede più niente, fumavo ap­ poggiato al parapetto, quando una donna, risalendo la scala che conduce alla riva, venne a sedersi accanto a me. Aveva tra i capel­ li un mazzetto di gelsomini, i cui petali esalavano nella sera un profumo inebriante. Era vestita semplicemente, forse povera­ mente, tutta di nero, come la maggior parte delle sartine di sera. Le donne perbene portano infatti il nero solo di mattina, e la se­ ra si abbigliano alla francese. Avvicinandosi, la mia bagnante la­ sciò scivolare sulle spalle la mantiglia che le copriva la testa e, «nell’oscuro chiarore che scende dalle stelle»7 vidi che era picco­ la, giovane, ben fatta, con occhi grandissimi. Subito gettai il mio sigaro. Ella apprezzò questa gentilezza tutta francese, e si affrettò a dirmi che l’odore del tabacco le piaceva molto e che anche lei fumava, quando riusciva a trovare dei papelitos* molto dolci. Per fortuna ne avevo nel mio portasigari e mi affrettai ad offrirglieli. Ebbe la compiacenza di prenderne uno e lo accese alla fiamma di uno stoppino che un ragazzo ci portò per un soldo. Mischiando il fumo dei nostri sigari parlammo così a lungo, la bella bagnante e io, che ci trovammo quasi soli sul lungofiume. Non credetti di essere sfacciato offrendole di andare a prendere un gelato alla neveria'’. Dopo una breve esitazione ella accettò, ma prima di deci­ dersi, volle sapere che ora fosse. Feci suonare il mio orologio e quella suoneria sembrò meravigliarla. ’ [«Cette obscure clarté qui tombe des étoiles», Corneille, Le Cid, atto iv, scena in]. ' [Sigarette]. ’ Caffè provvisto di una ghiacciaia, o meglio di un deposito di neve. In Spagna non c’è villaggio che non abbia la sua neveria.

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«Che invenzioni che avete voi stranieri! Di che paese siete, si­ gnore? Inglese certamente?»10. «Francese, e vostro grande servitore. E voi signorina, o signo­ ra, siete forse di Cordova?». «No». «Ma siete per lo meno andalusa. Mi sembra di indovinarlo dal­ la vostra dolce parlata». «Se notate così bene l’accento, dovreste anche indovinare chi sono». «Credo siate del paese di Gesù, a due passi dal Paradiso». (Avevo appreso questa metafora, che designa l’Andalusia, dal mio amico Francisco Sevilla, un famoso picador). «Bah! il Paradiso... la gente di qui dice che non è per noi». «Allora sarete araba, o...». Mi fermai, non osando dire: ebrea. «Andiamo, andiamo! vedete bene che sono una zingara, vole­ te che vi legga la bajii" Avete sentito parlare della Carmencita? Sono io». Allora ero un tale miscredente, sono passati circa quindici anni, che non indietreggiai d’orrore nel vedermi accanto a una strega. «Bene!» mi dissi, «la settimana scorsa ho cenato con un brigante di strada e oggi allora vado a prendere un gelato con una servitrice del diavolo. In viaggio bisogna vedere tutto». Avevo anche un altro motivo per coltivare quella conoscenza. Uscendo dal collegio, lo confesso con vergogna, avevo perso un po’ di tempo a studiare le scienze occulte e avevo anche tentato più volte di evocare lo spirito delle tenebre. Guarito ormai dal­ la passione per simili ricerche, conservavo comunque una certa curiosità per tutte le superstizioni ed ero ben contento di ap­ prendere fino a che punto fosse giunta l’arte della magia fra gli zingari. Sempre discorrendo, eravamo entrati nella neveria e ci erava­ mo seduti a un tavolino illuminato da una candela chiusa in un globo di vetro. Ebbi allora tutto il piacere di esaminare la mia gz" In Spagna, qualunque viaggiatore che non porti con sé un campionario di calicò o di seta passa per inglese, inglesito. La stessa cosa avviene in Oriente. A Calcide, ho avuto l'onore di essere annunciato come un Μιλόρδος Φραντσέσος. 11 La buona ventura.

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tana mentre alcune persone oneste trasecolavano, prendendo il gelato, nel vedermi in così buona compagnia. Dubito fortemente che la signorina Carmen fosse di razza pu­ ra, nondimeno era infinitamente più carina di tutte le ragazze del­ la sua gente che io abbia mai incontrato. Gli spagnoli dicono che perché una donna sia bella occorre riunisca in sé trenta sì, o, se si vuole, che la si possa definire almeno con dieci aggettivi applica­ bili ciascuno a tre parti della sua persona. Per esempio, deve ave­ re tre cose nere: gli occhi, le palpebre e le sopracciglia; tre cose sottili: le dita, le labbra, i capelli ecc. Leggete Brantôme12 per il re­ sto. La mia zingara non poteva ambire a tanta perfezione. La sua pelle, perfettamente liscia, si avvicinava alla tinta del rame. I suoi occhi erano obliqui, ma avevano un taglio splendido; le sue lab­ bra un po’ grosse, ma ben disegnate, lasciavano vedere denti più bianchi delle mandorle sgusciate. I suoi capelli, forse un po’ gros­ si, erano neri, dai riflessi blu come l’ala di un corvo, lunghi e lu­ centi. Per non stancarvi con una descrizione troppo prolissa, vi dirò insomma che a ciascun difetto ella abbinava una qualità, che nel contrasto prendeva ancora più risalto. Era una bellezza stra­ na e selvaggia, un volto che all’inizio ti impressionava, ma che non si poteva più dimenticare. Soprattutto i suoi occhi avevano un’espressione al tempo stesso voluttuosa e crudele che non ho più trovato in uno sguardo umano. «Occhio di zingaro, occhio di lupo, è un proverbio spagnolo che denota un acuto spirito di os­ servazione. Se non avete il tempo di recarvi al giardino zoologico a studiare lo sguardo di un lupo, osservate il gatto quando pren­ de di mira un passero. Certo sarebbe stato ridicolo farsi leggere la buona sorte in un caffè. Così pregai la bella strega di permettermi di accompagnar­ la a casa; lei acconsentì senza difficoltà, ma volle di nuovo sapere l’ora e mi pregò di far suonare ancora l’orologio. «È veramente d’oro?», mi chiese osservandolo con un’atten­ zione eccessiva. Quando ci rimettemmo in cammino, era notte inoltrata; la mag­ gior parte delle botteghe erano chiuse e le strade quasi deserte. At12 [Pierre de Bourdeille (1540 ca.-1614), signore di Brantôme, cortigiano e scrittore francese; famose le sue Vite delle dame eleganti].

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traversammo il ponte del Guadalquivir e all’estremità del sobbor­ go ci arrestammo davanti a una casa che non aveva certo l’aspetto di un palazzo. Un bambino ci aprì. La zingara gli disse qualcosa in una lingua a me sconosciuta, che poi seppi essere il rommani o chi­ pe calli, la lingua dei gitani. Il bambino scomparve immediatamen­ te, lasciandoci in una stanza abbastanza grande, arredata con un ta­ volino, due sgabelli e un baule. Non devo dimenticare una brocca d’acqua, una coppa di arance e un mazzo di cipolle. Appena restammo soli, la zingara tirò fuori dal suo baule un mazzo di carte molto consumate, un magnete, un camaleonte dis­ seccato e qualche altro oggetto necessario alle sue arti. Poi mi dis­ se di farmi una croce con una moneta sulla mano sinistra, e i riti magici iniziarono. Inutile che vi riferisca le sue predizioni, e quanto al suo modo di operare, era evidente che non si trattava di una strega a metà. Sfortunatamente fummo subito disturbati. La porta si aprì di colpo con violenza e un uomo, avvolto fino agli occhi in un man­ tello scuro, entrò nella stanza apostrofando la zingara in modo poco gentile. Non capivo quello che diceva, ma il tono della sua voce indicava che era di pessimo umore. Alla vista di lui, la zin­ gara non si mostrò né sorpresa né incollerita, ma gli corse incon­ tro e, con una volubilità straordinaria, gli rivolse qualche frase nella lingua misteriosa che già aveva usato davanti a me. La paro­ la payllo, spesso ripetuta, era la sola che comprendevo. Sapevo che gli zingari chiamano così qualunque uomo che non sia della loro razza. Supponendo che si trattasse di me, ero pronto una de­ licata spiegazione; avevo già la mano sul piede di uno sgabello e stavo in guardia per indovinare il momento giusto per colpire la testa dell’intruso. Questi respinse rudemente la zingara e avanzò verso di me; poi, facendo un passo indietro: «Ah! signore, siete voi!». Lo guardai a mia volta, e riconobbi l’amico José. In quel mo­ mento mi pentii un po’ di non averlo lasciato impiccare. «Eh! siete voi, mio buon amico», esclamai con un riso forza­ to, «avete interrotto la signorina nel momento in cui mi annun­ ciava cose molto interessanti». «Sempre la stessa cosa! Ma finirà», disse lui i denti, fissando su di lei uno sguardo feroce. 423

Intanto la zingara continuava a parlargli nella sua lingua. Ella si animava per gradi. I suoi occhi si iniettavo di sangue e diveni­ vano terribili, i tratti si contraevano, pestava i piedi per terra. Mi sembrava lo incitasse a fare qualcosa per cui lui mostrava esita­ zione. Quello che voleva dire mi sembrava di capirlo anche trop­ po bene, vedendola passare e ripassare vivamente la piccola mano sotto il mento. Ero tentato di credere che si trattasse di una gola da tagliare, e avevo qualche sospetto che questa gola fosse la mia. A tutto quel fiume di eloquenza don José non rispose che con due o tre parole pronunciate in tono reciso. Allora la zingara gli lanciò uno sguardo di profondo disprezzo, poi sedendosi alla tur­ ca in un angolo della stanza, scelse un’arancia, la sbucciò e si mi­ se a mangiarla. Don José mi prese per un braccio, aprì la porta e mi condusse in strada. Facemmo circa duecento passi nel più profondo silen­ zio. Poi, tendendo la mano, disse: «Sempre dritto, e troverete il ponte». Poi mi volse le spalle e si allontanò rapidamente. Tornai al mio albergo un po’ mortificato e di cattivo umore. Il peggio fu che spogliandomi, mi accorsi che mi mancava l’orologio. Diverse considerazioni mi impedirono di andarlo a reclamare all’indomani o di sollecitare il signor corregidore affinché avvias­ se le ricerche. Finii il mio lavoro sul manoscritto dei Domenicani e partii per Siviglia. Dopo parecchi mesi di vagabondaggi per l’Andalusia, decisi di ritornare a Madrid, e dovetti ripassare da Cordova. Non avevo intenzione di rimanere a lungo, perché ave­ vo preso in antipatia quella bella città e le bagnanti del Guadal­ quivir. Tuttavia qualche amico da rivedere e qualche commissio­ ne da fare mi avrebbero trattenuto almeno tre o quattro giorni nell’antica capitale dei principi musulmani. Quando mi ripresentai al convento dei Domenicani, uno dei padri che aveva sempre mostrato grande interesse per le mie ri­ cerche sull’ubicazione di Munda, mi accolse a braccia aperte, esclamando: «Lodato sia il nome di Dio! Siate il benvenuto, mio caro amico. Noi tutti vi credevamo morto, e io che vi parlo ho re­ citato molti pater e ave, che non rimpiango, per la salvezza della vostra anima. Così non vi hanno assassinato, perché che vi han­ no derubato lo sappiamo». 424

«Come?», gli domandai un po’ sorpreso. «Sì, sapete bene, quel bell’orologio a ripetizione che facevate suonare nella biblioteca, quando vi dicevamo che era tempo di andare al coro? Ebbene! è stato ritrovato e vi sarà restituito». «Vale a dire», lo interruppi un po’ sconcertato «che avevo smarrito...». «Il ladro è sotto chiave, e poiché si sapeva che era un uomo ca­ pace di sparare a un cristiano solo per portarli via qualche spiccio­ lo, avevamo paura che foste stato ucciso. Verrò con voi dal corregidore e vi faremo riavere il vostro bell’orologio. Che non si dica poi che la giustizia in Spagna non conosce il proprio mestiere!». «Vi confesso», gli dissi, «che preferirei perdere il mio orologio piuttosto che testimoniare in giudizio per far impiccare un pove­ ro diavolo, soprattutto perché... perché...». «Oh! non vi preoccupate, è stato già ben raccomandato, non si può impiccarlo due volte. Anzi, quando dico impiccarlo, mi sbaglio. È un hidalgo il vostro ladro, dunque sarà subirà la garrota dopodomani senza remissione13. Vedete bene che un furto in più o in meno non può cambiare di certo la sua posizione. Voles­ se Dio che avesse soltanto rubato! ma ha commesso parecchi omicidi, uno più orribile dell’altro». «Come si chiama?». «È conosciuto con il nome di José Navarro, ma ha anche un altro nome basco che né io né voi sapremmo mai pronunciare. Ebbene, è un uomo da conoscere e voi che volete scoprire tutte le singolarità del paese non dovete perdere l’occasione di apprende­ re come in Spagna i delinquenti lasciano questo mondo. E nella cappella e il padre Martinez vi condurrà da lui». Il mio domenicano insistette tanto che io vedessi i preparativi della «piccola e graziosa impiccagione»14, che non potei rifiutare. Andai a trovare il prigioniero, con un pacchetto di sigari con i quali speravo di farmi scusare l’indiscrezione. Mi introdussero da don José mentre stava mangiando. Mi fe­ ce freddamente un cenno col capo e mi ringraziò gentilmente del regalo che portavo. Dopo aver contato i sigari del pacchetto che 13 Nel 1830 la nobiltà godeva ancora di questo privilegio. Oggi, sotto il regime costi­ tuzionale, anche la plebe ha conquistato il diritto al supplizio dello strangolamento. 14 [Molière, Monsieur de Pourceaugnac, atto III, scena III].

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gli avevo messo tra le mani, ne scelse un certo numero e mi rese il resto, osservando che non aveva bisogno di prenderne di più. Gli chiesi se, con un po’ di denaro o con l’influenza dei miei amici, avrei potuto mitigare la sua sorte. Prima alzò le spalle sor­ ridendo con tristezza, poi, riprendendosi, mi pregò di far dire una messa per la salvezza della sua anima. «Vorreste», aggiunse timidamente, «vorreste farne dire un’al­ tra per una persona che vi ha offeso?». «Certamente, mio caro», gli dissi, «ma che io sappia, nessuno mi ha offeso in questo paese». Mi prese la mano e la strinse con aria grave. Dopo un mo­ mento di silenzio, riprese: «Potrei chiedervi ancora un piacere?... Quando ritornerete al vostro paese, forse passerete per la Navarra, almeno passerete per Vittoria, che non è molto lontana». «Sì», gli dissi, «passerò certamente per Vittoria, ma non è im­ possibile che svolti per Pamplona e, per voi, farei volentieri que­ sta deviazione». «Ebbene, se andate a Pamplona, vedrete tante cose che vi in­ teresseranno... È una bella città... Io vi darò questa medaglia» (mi mostrò una medaglietta d’argento che portava al collo) «l’av­ volgerete in un pezzo di carta...». Si fermò un istante per domi­ nare l’emozione... «e la consegnerete o la farete consegnare a una buona donna di cui vi darò l’indirizzo. Direte che sono morto, non direte come». Promisi di eseguire la sua commissione. Lo rividi il giorno do­ po e trascorsi una parte della giornata con lui. Dalle sue labbra appresi le tristi avventure che leggerete.

Ili

Sono nato disse a Elizondo, nella valle di Baztan. Mi chiamo don José Lizzarrabengoa, e voi conoscete abbastanza la Spagna, signore, perché il mio nome vi dica che sono basco e cristiano di vecchia data. Se uso il don è perché ne ho il diritto, e se fossi a Eli­ zondo, vi mostrerei la mia genealogia su pergamena. Volevano darmi alla chiesa e mi fecero studiare, ma non ne trassi profitto. 426

Amavo troppo giocare alla pallacorda, questa fu la mia rovina. Quando giochiamo a pallacorda, noialtri di Navarra, dimenti­ chiamo tutto. Un giorno che avevo vinto, un ragazzo di Alava mi provocò; prendemmo le nostre maquilas'5 e anche allora ebbi il sopravvento, ma fui costretto a lasciare il paese. Incontrai dei dra­ goni e mi arruolai nel reggimento di Almanza, cavalleria. La gen­ te delle nostre montagne impara in fretta il mestiere delle armi. Divenni presto brigadiere e mi promettevano di promuovermi maresciallo d’alloggio, quando, per mia sfortuna, fui messo di guardia alla manifattura dei tabacchi di Siviglia. Se siete stato a Si­ viglia, avrete sicuramente visto quel gran fabbricato, fuori le mu­ ra, vicino al Guadalquivir. Mi sembra di vedere ancora la porta e il corpo di guardia accanto. Gli spagnoli, quando sono di servi­ zio, giocano a carte o dormono; io come un vero navarrese, cer­ cavo sempre di tenermi occupato. Facevo una catena con del filo di ottone per reggere la spilletta16 del fucile. Improvvisamente i miei compagni mi dicono: «Ecco che suona la campana; le ragaz­ ze tornano al lavoro». Voi sapete, signore, che ci sono circa quattro o cinquecento donne che lavorano nella manifattura. Ci sono quelle che arroto­ lano i sigari in una grande stanza, dove gli uomini non possono entrare senza il permesso del Ventiquattro17 perché se fa caldo le donne si mettono in libertà... soprattutto le giovani). Dopo pran­ zo, quando le operaie rientrano, molti giovani le vedono passare e le stuzzicano in tutti i modi. Poche di queste signorine rifiuta­ no una mantiglia di taffetà e i corteggiatori, a una tale pesca, non hanno che da chinarsi per catturare il pesce. Mentre gli altri guar­ davano, io, io restavo seduto sulla mia panca vicino alla porta. Ero giovane allora, pensavo sempre al paese e non credevo vi po­ tessero essere belle ragazze senza la gonna azzurra e senza le trec­ ce che cadevano sulle spalle18. D’altronde le andaluse mi facevano paura, non ero ancora abituato ai loro modi: sempre a scherzare, mai una parola sensata. Me ne stavo dunque col naso sulla mia ca­ tena, quando sento dei civili che dicono: «Ecco la gitanella...». 15 Mazze ferrate dei baschi. 16 [Punteruolo che serve a forare le cartucce e a ripulire la canna delle armi da fuoco]. 17 Magistrato incaricato dei servizi di polizia e dell’amministrazione municipale. Costume abituale delle contadine di Navarra e delle province basche.

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Alzai gli occhi e la vidi. Era un venerdì, non lo dimenticherò mai. Vidi quella Carmen che voi conoscete, presso la quale vi ho in­ contrato qualche mese fa. Aveva una sottana rossa molto corta che scopriva delle calze di seta bianche con alcuni buchi, e delle scarpette di marocchino rosso allacciate con nastri color del fuoco. Si scostava la mantiglia per mettere in mostra le spalle e un grosso mazzetto di gaggia che spuntava dalla camicia. Aveva un fiore di gaggia anche all’angolo della bocca e avanzava dondolandosi sui fianchi, come una puledrina dell’allevamento di Cordova. Al mio paese, una donna ve­ stita in quel modo avrebbe fatto fare il segno della croce a tutti. A Siviglia, invece, ognuno le indirizzava qualche complimento li­ cenzioso sulle sue forme; lei rispondeva a ognuno, facendo gli oc­ chi languidi, il pugno sul fianco, sfacciata da vera zingara qual era. All’inizio non mi piacque e ripresi la mia operazione; ma lei, co­ me fanno le donne e i gatti che vengono quando non sono chia­ mati e scappano quando li si cerca, si fermò davanti a me e mi ri­ volse la parola: «Compare», mi disse alla maniera andalusa, «vuoi darmi la tua catena per tenere le chiavi della mia cassaforte?» «Mi serve per la spilletta» risposi io. «La tua spilletta!» esclamò ridendo. «Ah! il signore fa i mer­ letti, poiché ha bisogno di spilli». Tutti si misero a ridere e io mi sentii arrossire, e non trovai le parole per risponderle. «Allora cuore mio» - riprese lei, - «fammi sette aune di mer­ letto nero per una mantiglia, spillalo dell’anima mia!». E preso il fiore di gaggia che aveva in bocca, me lo lanciò con un movimento del pollice, proprio in mezzo agli occhi. Signo­ re, mi fece l’effetto di una pallottola... Non sapevo dove cac­ ciarmi, rimasi immobile come un pezzo di legno. Quando fu entrata nella manifattura, vidi il fiore di gaggia per terra tra i miei piedi; non so cosa mi prese, lo raccolsi senza che i miei compagni se ne accorgessero e lo misi gelosamente sotto la ca­ micia. Prima sciocchezza! Due o tre ore dopo ci pensavo ancora, quando arrivò al corpo di guardia un portiere tutto sottosopra, con il viso stravolto. Ci disse che nello stanzone dei sigari c’era una donna assassinata e che bisognava chiamare subito la guardia. Il maresciallo mi disse 428

di prendere due uomini e di andare a vedere. Scelgo i due uomini e vado su. Figuratevi, signore, che, entrato nella sala, trovo subi­ to trecento donne in camicia o giù di lì, che gridano, urlano, ge­ sticolano, facendo un baccano tale da non sentire nemmeno Dio tuonare. Una donna giaceva a terra, coperta di sangue, con una X sul volto procuratale da due coltellate. Di fronte alla donna feri­ ta, soccorsa dalle migliori del gruppo, vedo Carmen trattenuta da cinque o sei comari. La donna ferita gridava: «Confessione! Con­ fessione! Sono morta». Carmen non diceva niente, stringeva i denti e roteava gli occhi come un camaleonte: «Che succede?», chiesi. Ebbi difficoltà a ca­ pire ciò che era successo, perché le operaie parlavano tutte insie­ me. Sembrava che la donna ferita si fosse vantata di avere abba­ stanza soldi in tasca da comprare un asino al mercato di Triana. «Ecco - disse Carmen che aveva la lingua lunga - non ti basta una scopa?». L’altra, ferita dall’offesa, forse perché si sentiva la co­ scienza sporca, le risponde che lei di scope non se ne intende, non avendo l’onore né di essere zingara né figlia di Satana, ma che cer­ to la signorina Carmen avrebbe fatto presto conoscenza con il suo asino, quando il signor corregidore l’avrebbe condotta a pas­ seggio con due lacchè dietro per scacciare le mosche. «Ebbene dice Carmen - io ti farò due abbeveratoi per le mosche sulla guancia e ti ci voglio dipingere anche una scacchiera»19. E là zac! zac! con il coltello per spuntare i sigari, comincia a disegnarle sul­ la faccia delle croci di sant’Andrea. La faccenda era chiara; presi Carmen per il braccio: «Sorella mia - le dissi gentilmente - devi venire con me». Lei mi lanciò uno sguardo come se mi avesse riconosciuto; ma disse con aria rassegnata: «Andiamo. Ma dov’è la mia mantiglia?». Se la mise sul capo, in modo da non mostrare che solo uno dei suoi grandi oc­ chi e seguì i miei due uomini, docile come un agnello. Arrivati al corpo di guardia, il maresciallo d’alloggio disse che era grave, e che bisognava condurla in prigione. Spettava ancora a me accom­ pagnarla. La misi in mezzo a due dragoni, e io dietro come deve lare un brigadiere in simili circostanze. Ci mettemmo in cammi­ no per la città. AH’inizio la zingara era rimasta in silenzio, ma in lo,

Pintar un javeque, dipingere una scacchiera. Le scacchiere spagnole hanno, di soli­ i quadrati dipinti in rosso e bianco.

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via del Serpente - voi la conoscete, il nome è ben meritato per tut­ te quelle svolte che fa -, in via del Serpente, cominciò a lasciarsi cadere la mantiglia sulle spalle, per mostrarmi il suo visetto in­ gannatore e, girandosi verso di me quanto poteva, mi disse: «Ufficiale mio, dove mi portate?». «In prigione, mia povera piccola», le risposi il più dolcemente che potevo, come un buon soldato deve parlare a un prigioniero, soprattutto se è una donna. «Ahimè! che ne sarà di me? Signor ufficiale, abbiate pietà di me. Voi siete così giovane, così gentile!...». Poi, con un tono più basso: «Lasciatemi scappare, - disse, - io vi darò un pezzo di bar lachi, che vi farà amare da tutte le donne». La bar lachi, signore, è la pietra magnete con cui gli zingari so­ stengono si possano fare tanti sortilegi quando la si sa usare. Fa­ tene bere a una donna un pizzico in un bicchiere di vino bianco, ed ella non opporrà più alcuna resistenza. Quanto a me, le rispo­ si più seriamente che potei: «Non siamo qui per chiacchierare; bisogna andare alla prigio­ ne, questi sono gli ordini, e non c’è rimedio». Noi baschi abbiamo un accento che ci fa riconoscere facilmen­ te dagli spagnoli; in compenso non ce n’è uno che riesca a dire so­ lo bai jaona20. Carmen capì subito che venivo dalle Province. Voi saprete, signore, che gli zingari, non essendo di alcun paese e viag­ giando in continuazione, parlano tutte le lingue, e la maggior par­ te si sente a casa propria in Portogallo, in Francia, nelle Province, in Catalogna, dappertutto; anche dai mori e dagli inglesi si fanno capire. Carmen dunque conosceva abbastanza bene il basco. «Laguna ene bihotsarena, compagno del mio cuore, - mi dis­ se all’improvviso, - siete del paese?». La nostra lingua, signore, è così bella che, quando la sentiamo parlare in un paese straniero, ci fa trasalire... «Vorrei avere un confessore delle Province», aggiunse a bassa voce il bandito. Riprese dopo il silenzio: «Sono di Elizondo», - le risposi in basco, molto commosso all’udirla parlare la mia lingua. 20 Sì, signore.

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«Io, io sono di Etchalar», disse lei. (È un paese a quattro ore dal nostro). - Sono stata portata a Siviglia dagli zingari. Lavoravo alla manifattura per guadagnarmi il necessario per tornare a Na­ varra, dalla mia povera madre che non ha che me per sostenersi e un piccolo barratcea2' con venti meli da sidro! Ah! se fossi al pae­ se, davanti alla montagna bianca! Mi hanno insultato perché non sono di questo paese di ladri, di venditori d’arance fradice; e quel­ le pezzenti si sono messe tutte contro di me perché ho detto che tutti i loro Jaques21 22 di Siviglia, con i loro coltelli, non farebbero paura a uno solo dei nostri ragazzi col suo berretto azzurro e la sua maquila. Compagno, amico mio, non potreste fare niente per una paesana?». Mentiva, signore, ha sempre mentito. Non so se quella donna abbia mai detto una parola di verità, ma quando parlava, le cre­ devo: era più forte di me. Storpiava il basco, e la credetti navarrese; i suoi occhi e la sua bocca e il suo colorito rivelavano in lei una zingara. Ero folle, non facevo più attenzione a niente. Pensavo che se degli spagnoli si fossero azzardati a parlar male del paese, gli avrei spaccato la faccia, esattamente come aveva fatto lei con la sua compagna. Insomma, ero come ubriaco, cominciavo a dire sciocchezze, ero vicino a commetterle. «Se vi spingessi e voi cadeste, paesano mio, - riprese lei in ba­ sco, - non sarebbero questi due coscritti castigliani a fermarmi...». In fede mia, dimenticai gli ordini e tutto il resto e le dissi: «Va bene amica mia, compaesana, tentate, e che Nostra Signo­ ra della Montagna vi sia di aiuto!». In quel momento passavamo davanti a una di quelle stradine strette come ce ne sono tante a Siviglia. D’improvviso, Carmen si gira e mi lancia un pugno sul petto. Mi lasciai cadere apposta ri­ verso. Con un salto, ella salta oltre il mio corpo e si mette a cor­ rere mostrandoci un paio di gambe!... Si dice «gambe di basca»: le sue non erano da meno, veloci e ben tornite. Quanto a me, mi rialzo subito, ma metto la lancia23 di traverso in modo da sbarra­ re la strada, così che sul primo momento i compagni furono im­ pediti di inseguirla. Poi mi misi a correre io stesso e loro dietro di 21 Recinto, giardino. 22 Bravi, fanfaroni. 21 Tutta la cavalleria spagnola è armata di lance.

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me, ma quanto a raggiungerla! Non c’era nessun pericolo, con i nostri speroni, le nostre sciabole e le nostre lance! In men che non si dica, la prigioniera era scomparsa. D’altronde tutte le comari del quartiere favorivano la sua fuga e ci prendevano in giro, indi­ candoci false piste. Dopo svariati giri, fu inevitabile tornare al corpo di guardia senza la ricevuta del governatore della prigione. I miei uomini, per non essere puniti, dissero che Carmen mi aveva parlato in basco e a dire la verità non sembrava molto plau­ sibile che il pugno di una ragazza piccolina avesse potuto atterra­ re tanto facilmente un uomo robusto della mia forza. Tutto que­ sto parve oscuro o, piuttosto, chiaro. Smontando di guardia, fui degradato e mandato in prigione per un mese. Era la mia prima punizione da quando ero in servizio. Addio galloni di marescial­ lo d’alloggio che già credevo di avere! I miei primi giorni di prigione trascorsero molto tristemente. Diventando soldato, mi ero immaginato che sarei diventato al­ meno ufficiale. Longa, Mina, miei compatrioti, sono capitani ge­ nerali; Chapalangarra, che è un negro come Mina e come lui è ri­ fugiato nel vostro paese, Chapalangarra era colonnello, e io ho giocato alla pallacorda almeno venti volte con suo fratello, che era un povero diavolo come me. Ora mi dicevo: tutto il tempo che hai servito senza punizioni è tempo perduto. Eccoti caduto in di­ sgrazia: per poterti riabilitare agli occhi dei capi dovrai lavorare dieci volte più di quando sei arrivato come coscritto! E perché poi mi sono fatto punire? Per una zingara ladra che si è presa gio­ co di me e che in questo momento è a rubare da qualche parte della città. Eppure, non potevo fare a meno di pensare a lei. Lo credereste, signore? le calze di seta bucate che aveva mostrato fuggendo via, le avevo sempre davanti agli occhi. Attraverso le sbarre della prigione guardavo per strada e, fra tutte le donne che passavano, non ne vedevo una che valesse quel diavolo di ragaz­ za là. E poi, mio malgrado, annusavo il fiore di gaggia che mi ave­ va gettato e che, anche se secco, continuava a profumare... Se le streghe esistono, quella ragazza era una di loro! Un giorno, il carceriere entra e mi dà un pane di Alcala24. 24 Alcala de los Panaderos, un borgo a due leghe da Siviglia, dove si fanno dei panini deliziosi. Si dice che il loro pregio vada attribuito all’acqua di Alcala, e ogni giorno se ne spediscono un gran numero a Siviglia.

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«Ecco - mi dice - ecco, ve lo manda vostra cugina». Presi il pane, assai stupito, perché non avevo cugine a Siviglia. «Forse è un errore», pensai, guardando il pane, ma era così appe­ titoso, aveva un profumo così buono che, senza preoccuparmi di sapere da dove venisse e a chi fosse destinato, mi decisi a man­ giarlo. Mentre lo tagliavo, il coltello incontrò qualcosa di duro. Guardo e trovo una limetta inglese che era stata introdotta nella pasta prima che il pane venisse cotto. Nel pane c’era anche una moneta d’oro da due piastre. Senza dubbio un dono di Carmen. Per la gente della sua razza la libertà è tutto, e metterebbero a fer­ ro e fuoco una città per risparmiarsi un giorno di prigione. D’al­ tronde la donna era furba e con quel pane là ci si poteva prende­ re gioco dei carcerieri. In un’ora la sbarra più grossa era stata li­ mata con la limetta e con la moneta da due soldi avrei potuto, dal primo rigattiere, cambiare la mia vecchia uniforme con un abito borghese. Capite bene che un uomo che aveva tante volte rubato dai nidi gli aquilotti sulle nostre rupi non si imbarazzava certo a scendere nella via da una finestra alta meno di trenta piedi, ma non volevo fuggire. Avevo ancora il mio onore di soldato, e di­ sertare mi sembrava un grosso crimine. Eppure fui commosso da quel segno del suo ricordo. Quando si è in prigione ci è caro pen­ sare che là fuori un amico si interessi a noi. Mi dispiaceva un po­ co per quella moneta d’oro, avrei voluto restituirgliela, ma dove trovare il mio creditore? Non mi sembrava facile. Dopo la cerimonia della degradazione credevo di non aver al­ tro da sopportare, ma mi rimaneva ancora un'umiliazione da in­ ghiottire: una volta fuori di prigione, quando fui comandato di servizio come soldato semplice. Non potete immaginare quello che un uomo sensibile prova in una simile circostanza. Credo che avrei preferito essere fucilato. Per lo meno si cammina soli, da­ vanti al plotone, ci si sente qualcuno; la gente vi guarda. Fui messo di sentinella alla porta del colonnello. Era un gio­ vane ricco, un buon ragazzo, che amava divertirsi. Tutti i giovani ufficiali erano lì e anche i civili, le donne, attrici, a quanto si dice­ va. Quanto a me, mi sembrava che tutta la città si fosse data ap­ puntamento alla sua porta per guardarmi. Ecco che arriva la car­ rozza del colonnello, con il suo valletto da camera a cassetta. E chi vedo scendere?... la zingarella. Questa volta era ornata come 433

un reliquiario, infiocchettata e agghindata, tutta oro e nastri. Un abito a lustrini, scarpe azzurre anch’esse a lustrini, fiori e orna­ menti ovunque. Aveva un tamburo basco in mano. Con lei c’era­ no altre due zingare, una giovane e una vecchia. C’è sempre una vecchia che le accompagna; poi un vecchio con una chitarra, an­ che lui zingaro, per cantare e farle ballare. Sapete che spesso nel­ le serate mondane, ci si diverte a far venire delle zingare, perché ballino la romalis, che è il loro ballo... Carmen mi riconobbe e ci scambiammo uno sguardo. Non so, ma, in quel momento avrei voluto trovarmi a cento piedi sotto terra. «Agur laguna25», disse lei. «Ufficiale mio, tu monti la guardia come un coscritto». E, prima che avessi trovato una parola per rispondere, era già in casa. La buona società era nel patio e, malgrado la folla, vedevo pressappoco tutto ciò che succedeva attraverso la cancellata26. Udivo le nacchere, i tamburi, le risate e i «bravo»; talvolta scor­ gevo la sua testa quando saltava con il tamburo. Poi sentivo an­ cora gli ufficiali che le dicevano molte cose che mi facevano ar­ rossire. Che cosa rispondesse, non lo sapevo. Fu da quel giorno, credo, che cominciai ad amarla veramente, perché tre o quattro volte mi venne l’idea di entrare nel patio e dare sciabolate nel ven­ tre a quei farfalloni che le facevano la corte. Il supplizio durò un’ora buona; poi gli zingari uscirono e la carrozza li portò via. Carmen, passando, mi guardò ancora con gli occhi che voi cono­ scete e mi disse sottovoce: «Paesano, chi ama la buona frittura va a mangiarla a Triana, da Lillas Pastia». Leggera come un capretto, si lanciò nella vettura, il cocchiere frustò le mule e tutta la banda gioiosa se ne andò non so dove. Potete ben indovinare che, appena smontata la guardia andai a Triana, ma prima però mi feci radere e mi pettinai come per un 25 Buongiorno, compagno. 26 La maggior parte delle case di Siviglia hanno un cortile interno circondato da porti­ ci. Qui ci si trattiene d’estate. Questo cortile è coperto da una tenda che si annaffia duran­ te il giorno e che si ritira la sera. La porta sulla strada è quasi sempre aperta, e il passaggio che conduce al cortile, zaguan, è chiuso da una cancellata in ferro elegantemente lavorato.

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giorno di parata. Lei era da Lillas Pastia, un vecchio mercante di frittura, zingaro, nero come un moro, da cui molti civili andava­ no a mangiare il pesce fritto, soprattutto, credo, da quando Car­ men ci aveva messo le tende. «Lilas - disse ella appena mi vide - per oggi ho finito. Doma­ ni è un altro giorno27. Andiamo, paesano, andiamo a passeggio!». Indossò la mantiglia fin sotto il naso ed eccoci per strada, sen­ za sapere dove andare. «Signorina», le dissi,»credo di dovervi ringraziare del regalo che mi avete inviato quando ero in prigione. Ho mangiato il pa­ ne, la lima mi servirà ad affilare la lancia e la conservo come un vostro ricordo, ma il denaro, eccolo». «Ma guarda! ha conservato il denaro» esclamò scoppiando a ridere. «Meglio così del resto, non nuoto nell’oro, ma che impor­ ta? Cane che cammina non muore di fame28. Andiamo, mangia­ moci tutto. Offri tu». Avevamo ripreso la strada per Siviglia. All’inizio di via del Ser­ pente comprò una dozzina di arance che mi fece mettere nel mio fazzoletto. Un po’ più lontano, comprò ancora una pagnotta, del salame, una bottiglia di manzanilla e per finire entrò da un pasticcere. Là gettò sul banco la moneta d’oro che le avevo restituito, un’altra ancora che aveva nella tasca, con altri pezzi d’argento, e poi mi chiese tutto quello che avevo. Mi restava solo qualche mo­ netina e pochi spiccioli, che le diedi, vergognandomi molto di non avere di più. Credetti che volesse comprarsi l’intera bottega. Pre­ se tutto quello che c’era di più bello e più caro, yemas2\30turon™, frutta candita, finché il denaro bastò. Anche tutto questo dovetti portarlo via in sacchetti di carta. Forse voi conoscete la via del Candilejo, dove si trova una testa di re don Pedro il Giustiziere31. 27 Manana sera otro dia. Proverbio spagnolo. 21 Chuquel sos pirela, / Cocal terela. «Cane che cammina, osso trova». Proverbio zingaro. 29 Rossi d’uovo zuccherati. 30 Specie di torrone. " Il re don Pedro, che chiamiamo il Crudele, e che la regina Isabella la Cattolica chia­ mava solo il Giustiziere, amava passeggiare la sera per le strade di Siviglia, in cerca di av­ venture come il califfo Haroûn-al-Raschid. Una notte, in una strada appartata, litigò con un uomo che faceva una serenata. Si batterono e il re uccise il cavaliere innamorato. Al suono delle spade, una vecchia si affacciò alla finestra, e illuminò la scena con la piccola lampada, candilejo, che teneva in mano. Si deve sapere che il re don Pedro, così svelto e vigoroso, aveva però un singolare difetto di conformazione. Quando camminava, le gi-

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Essa avrebbe dovuto farmi riflettere. Ci arrestammo, in quella strada, davanti a una vecchia casa. Entrò nel portone, e bussò al pianterreno. Una zingara, una vera serva di Satana, venne ad aprir­ ci: Carmen le disse qualcosa in rommani. La vecchia cominciò a brontolare. Per placarla, Carmen le diede due arance e una man­ ciata di dolci e le permise di assaggiare il vino. Poi le mise sulle spalle la mantiglia e la condusse alla porta, che richiuse con la sbar­ ra di legno. Non appena fummo soli, si mise a ballare e a ridere co­ me una pazza, cantando: «Tu sei il mio rom, io sono la tua romi22». 10 stavo nel mezzo della stanza, carico di tutti i suoi acquisti, senza sapere dove posarli. Gettò tutto per terra e mi saltò al col­ lo dicendo: «Pago i miei debiti, pago i miei debiti! è la legge di Calés!33». Ah! Signore, che giornata! che giornata!... quando ci ripenso, mi dimentico di domani. 11 bandito tacque un istante; poi, riacceso il suo sigaro, riprese: «Trascorremmo insieme tutta la giornata, mangiando, beven­ do, e il resto. Dopo che ebbe mangiato dolci come una bambina di sei anni, ne gettò una manciata nella brocca d’acqua della vec­ chia. «È per farle il sorbetto», diceva. Schiacciava degli yemas lan­ ciandoli contro il muro. «Perché le mosche ci lascino tranquilli», diceva... Non c’è follia o sciocchezza che non abbia fatto. Le dis­ si che avrei voluto vederla danzare, ma dove trovare delle nac­ chere? Lei prende l’unico piatto della vecchia, lo rompe in pezzi, nocchia gli scricchiolavano fortemente. La vecchia, a quel rumore, non ebbe dubbi a rico­ noscerlo. L’indomani, il Ventiquattro di turno venne a fare il suo rapporto al re. «Sire, que­ sta notte, nella tale via, c’è stato un duello. Uno dei combattenti è morto». «Avete scoperto l’assassino?». «Sì, sire». «Perché non è stato ancora punito?». «Sire, aspetto vostri ordini». «Date corso alla legge». Ora il re aveva da poco emanato un decreto per cui chiunque si fosse battuto in duello sarebbe stato decapitato, e che la sua testa sarebbe stata esposta sul luogo dello scontro. Il Ventiquattro se la cavò da uomo di spirito. Fece segare la testa a una statua del re, e l’espose in una nicchia in mezzo alla via che era stata teatro dell’ucci­ sione. Il re e tutti i sivigliani approvarono pienamente la trovata. La via così prese il nome della lampada della vecchia, unico testimone dell’avventura. Ecco la tradizione popolare. Zùniga racconta la storia un po’ diversamente. (Vedi Anales de Sevilla, vol. II, p. 136) Co­ munque sia, esiste ancora a Siviglia una via del Candilejo, e lì un busto di pietra che dico­ no sia il ritratto di don Pedro. Disgraziatamente questo busto è moderno. Quello antico era molto sciupato, e nel secolo XVII il comune di allora lo fece sostituire con quello che vediamo oggi. 32 Rom, «marito»; romi, «moglie». 33 Calo-, femminile, calli', plurale, calés, letteralmente «nero», nome che gli zingari si danno nella loro lingua.

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ed ecco che balla la romalis facendo battere i pezzi di coccio co­ me fossero nacchere d’ebano o d’avorio. Non ci si annoiava af­ fatto con quella ragazza, ve ne assicuro. Venne la sera e sentii i tamburi che suonavano la ritirata. «Devo tornare in caserma per l’appello», le dissi. «In caserma?», domandò con un’aria di disprezzo, «sei forse un negro, per farti comandare a bacchetta? Sei un canarino d’abi­ to e di carattere34. Vai, hai un cuore di gallina». Rimasi, già rassegnato alla cella di punizione. Il mattino, fu lei che parlò prima di separarci. «Ascolta, Joseito - disse - ti ho pagato? Secondo la nostra leg­ ge, non ti dovevo niente, giacché sei un payllo, ma sei un bel ra­ gazzo, mi sei piaciuto. Siamo pari. Buongiorno». Le chiesi quando l’avrei rivista. «Quando sarai meno sciocco», rispose ridendo. Poi, con un tono più serio: «Sai, ragazzo mio, che credo di amarti un pochi­ no? Ma non può durare. Cane e lupo non vanno d’accordo a lun­ go. Forse, se tu accettassi la legge d’Egitto, mi piacerebbe diven­ tare la tua romi. Ma sono sciocchezze: è impossibile. Bah! ragaz­ zo mio, credimi, te la sei cavata bene. Hai incontrato il diavolo, sì, il diavolo; non è sempre nero, e non ti ha torto il collo. Sono ve­ stita di lana, ma non sono una pecora35. 36 Va’ a mettere un cero al­ la tua majari*, se l’è meritato. Andiamo, addio ancora una volta. Non pensare più a Carmencita, o lei ti farà sposare una vedova con una gamba di legno37». Così parlando, tolse il paletto dalla porta e, una volta in stra­ da, si avvolse nella mantiglia e mi voltò le spalle. E diceva la verità. Avrei dovuto essere così saggio da non pen­ sare più a lei ma, dopo quel giorno a via del Candilejo, non riu­ scivo a sognare altro. Passeggiai tutto il giorno, sperando di in­ contrarla. Chiesi notizie di lei alla vecchia e al mercante di frit­ tura. L’uno e l’altra risposero che era partita per Laloro38, è così che chiamano il Portogallo. Probabilmente parlavano secondo le 341 dragoni spagnoli sono vestiti di giallo. 35 Me aicas vriarda de jorpoy, bus ne sino braco. Proverbio zingaro. 36 La santa. La Santa Vergine. 37 La forca, sempre vedova dell’ultimo impiccato. 38 La (terra) rossa.

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istruzioni di Carmen, ma non tardai a capire che mentivano. Qualche settimana dopo la mia giornata in via del Candilejo, fui messo di guardia a una delle porte della città. A poca distanza da questa porta c’era una breccia nel muro di cinta; ci lavoravano di giorno, mentre di notte ci mettevano una sentinella per impedi­ re il contrabbando. Per tutto il giorno vidi Lillas Pastia passare e ripassare davanti al corpo di guardia e discorrere con qualche mio compagno; tutti lo conoscevano, e ancora meglio i suoi pe­ sci e le sue frittelle. Mi si avvicinò e mi domandò se avessi noti­ zie di Carmen. «No», risposi. «Ebbene, ne avrete, compare». Non si sbagliava. La notte fui messo di sentinella alla breccia. Appena il brigadiere si fu ritirato, vidi venire verso di me una donna. Il cuore mi diceva che era Carmen. Tuttavia gridai: «Al largo! Non si passa!». «Non fate il cattivo», disse lei facendosi riconoscere. «Come! siete voi Carmen!». «Sì, compaesano. Poche parole, ma buone. Vuoi guadagnare un duro? Verranno delle persone con dei fagotti, lasciale passare». «No» risposi «devo impedire il passaggio; sono gli ordini». «Gli ordini, gli ordini! Non ci pensavi mica a via del Can­ dilejo». «Ah!», risposi tutto sconvolto a quel solo ricordo, «allora è valsa la pena dimenticare gli ordini, ma non voglio il denaro dei contrabbandieri». «Vediamo, se non vuoi denaro, vuoi forse che andiamo a man­ giare ancora dalla vecchia Dorotea?». «No!», dissi mezzo soffocato per lo sforzo che facevo. «Non posso!». «Va bene. Se fai così il difficile, so io a chi rivolgermi. Pro­ porrò al tuo ufficiale di andare da Dorotea. Ha l’aria di un buon ragazzo, e farà mettere di sentinella uno in gamba che vedrà solo quello che bisognerà vedere. Addio, canarino! Riderò il giorno in cui gli ordini saranno di impiccarti!». Ebbi la debolezza di richiamarla, e promisi di lasciar passare tutti gli zingari, se fosse stato necessario, pur di ottenere la sola ri­ compensa che desideravo. Mi giurò allora che l’indomani avreb438

be mantenuto la parola, e corse ad avvertire i suoi amici, che era­ no a due passi. Ce n’erano cinque, fra cui Pastia, ben carichi di mercanzie inglesi. Carmen faceva il palo. Doveva suonare le sue nacchere quando avesse scorto la ronda, ma non ne ebbe bisogno. I contrabbandieri sistemarono i loro affari in un attimo. L’indomani, andai in via del Candilejo. Carmen si fece atten­ dere, e arrivò di cattivo umore. «Non mi piacciono quelli che si fanno pregare» mi disse. «La prima volta mi hai reso un servigio più grande, senza sapere se ci avresti guadagnato qualcosa. Ieri, hai mercanteggiato con me. Non so perché sono venuta, non ti amo più. Ecco, vattene, tieni un duro per il disturbo». Ci mancò poco che non le gettassi in faccia la moneta e do­ vetti fare uno sforzo tremendo su me stesso per non picchiarla. Dopo aver litigato per un’ora, me ne andai furioso. Vagavo per la città, girando qua e là come un pazzo, infine entrai in una chiesa e, nell’angolo più buio, piansi calde lacrime. A un tratto sentii una voce: «Lacrime di dragone! Voglio farne un filtro!». Alzai lo sguardo: Carmen mi stava di fronte. «Ebbene, compaesano, me ne volete ancora?» mi disse. «De­ vo proprio amarvi, nonostante tutto, perché, da quando mi avete lasciato, non so cos’ho. Vedete, ora sono io che ti chiedo se vuoi venire in via del Candilejo». Facemmo dunque la pace, ma Carmen aveva l’umore com’è il tempo da noi. Sulle nostre montagne mai il temporale è più vicino di quando il sole splende più forte. Mi aveva promesso che ci saremmo incontrati un’altra volta da Dorotea, e non ven­ ne. E Dorotea mi disse che se ne era andata a Laloro per gli af­ fari d’Egitto. Sapendo per esperienza quanto poco dovessi dar peso a quel­ le parole, cercavo Carmen ovunque credevo potesse essere, e pas­ savo venti volte al giorno in via del Candilejo. Una sera, ero da Dorotea, che ormai avevo quasi addomesticato pagandole di tan­ to in tanto qualche bicchiere di anisetta, quando Carmen entrò seguita da un giovane, un tenente del nostro reggimento. «Vattene subito», mi disse in basco. Rimasi stupito, la rabbia nel cuore. 439

«Che ci fai qui?» mi disse il tenente. «Sloggia, fuori!». Non potevo fare un passo, ero come paralizzato. L’ufficiale, in collera, vedendo che non me ne andavo, e che non mi ero nem­ meno tolto il berretto, mi afferrò per il colletto e mi scosse rude­ mente. Non so cosa gli dissi. Lui tirò fuori la spada, io sfoderai la mia. La vecchia mi prese per il braccio e il tenente mi sferrò un colpo in fronte, di cui porto ancora il segno. Indietreggiai, e con un colpo di gomito gettai a terra Dorotea; poi, siccome il tenente m’inseguiva, gli puntai contro la lancia e lo trafissi. Carmen allo­ ra spense la lampada e disse nella sua lingua a Dorotea di scappa­ re. Anch’io scappai nella via e mi misi a correre senza sapere do­ ve. Mi sembrava che qualcuno mi seguisse. Quando tornai in me, vidi che Carmen non mi aveva lasciato. «Idiota di un canarino!» mi disse. «Non sai fare altro che sciocchezze. Del resto te l’ho detto che ti avrei portato sfortuna. Andiamo, c’è un rimedio a tutto, quando abbiamo come buona amica una fiamminga di Roma39. Comincia a metterti un fazzo­ letto sulla testa, e getta questo cinturone. Aspettami nel viale. Torno tra due minuti». Sparì e presto mi portò un mantello a strisce che era andata a cercare non so dove. Mi fece togliere l’uniforme e mettere il man­ tello sotto la camicia. Così acconciato, con il fazzoletto con cui mi aveva fasciato la ferita che avevo alla testa, sembravo un contadi­ no valenciano, come ce ne sono a Siviglia, dove vengono a vende­ re la loro orzata di chufas^. Poi mi condusse in una casa molto si­ mile a quella di Dorotea, in fondo a una stradina. Lei e un’altra zingara mi lavarono, mi medicarono meglio di quanto avrebbe potuto fare un chirurgo militare, mi diedero da bere non so cosa; infine mi fecero stendere su un materasso, e mi addormentai. Probabilmente quelle donne avevano mischiato alla bevanda qualche droga soporifera di cui custodiscono il segreto perché non mi risvegliai che il giorno dopo, tardi. Avevo un gran mal di testa e un po’ di febbre. Ci volle del tempo perché mi tornasse in mente la terribile scena cui avevo preso parte il giorno prima. Do” Flamenca di Roma. Termine dialettale che designa gli zingari. Roma non indica qui la Città Eterna, ma la nazione dei Romi, cioè delle persone sposate, nome che si danno gli zingari. I primi che si videro in Spagna venivano probabilmente dai Paesi Bassi, da cui de­ riva il loro nome di Fiamminghi. 40 Radice bulbosa con cui si fa una bevanda abbastanza gradevole.

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po aver medicato la ferita, Carmen e la sua amica, entrambe ac­ coccolate sui talloni vicino al mio materasso, si scambiarono qualche parola in chipe calli, che sembrava essere un consulto me­ dico. Poi tutte e due mi assicurarono che sarei guarito in fretta, ma che dovevo lasciare Siviglia il prima possibile, perché se mi avessero preso, sarei stato senz’altro fucilato. «Ragazzo mio», disse Carmen, «bisogna che tu faccia qualco­ sa; ora che il re non ti dà più né riso né merluzzo41, bisogna che pensi a guadagnarti la vita. Sei troppo stupido per rubare a paste­ sas42,*ma sei veloce e forte, se hai coraggio, vattene sulla costa e di­ venta contrabbandiere. Non ti ho forse promesso di farti impic­ care? E meglio che essere fucilati. D’altronde, se ci saprai fare, vi­ vrai come un principe, fino al giorno in cui i minons44 e i guarda­ coste non ti metteranno le mani al collo». In questo modo incoraggiante quel diavolo di ragazza mi mo­ strò la nuova carriera cui mi destinava; la sola, a dire il vero, che mi restasse, ora che ero incorso nella pena di morte. Ve lo devo dire, signore? mi persuase senza tanta fatica. Ero convinto che quella vita di azzardo e ribellione mi avrebbe unito a lei più inti­ mamente. Insomma, credetti di essermi assicurato il suo amore. Avevo spesso udito parlare di contrabbandieri che percorrevano l’Andalusia, montando un buon cavallo, l’archibugio in pugno, la loro amante in groppa. Già mi vedevo girare per monti e valli con la gentile zingara dietro di me. Quando gliene parlai, rise a più non posso, e mi disse che non c’è niente di più bello di una notte al bivacco, quando ogni rom si ritira con la sua romi nella sua pic­ cola tenda formata da tre cerchi con una coperta sopra. «Se mai potrò portarti in montagna» le dicevo io, «sarò sicuro di te! Là non ci sono tenenti con cui spartirti». «Ah! sei geloso» rispondeva lei. «Tanto peggio per te. Come puoi essere così stupido? Non vedi che ti amo, dato che non ti ho chiesto denaro?». Quando parlava così, mi veniva voglia di strangolarla. Per farla breve, signore, Carmen mi procurò un abito borghe­ se, con il quale uscii da Siviglia senza essere riconosciuto. Mi recai 41 Vitto ordinario di un soldato spagnolo. 42 Ustilar a pastesas, rubare con destrezza, derubare senza violenza. 45 Specie di corpo franco.

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a Jerez con una lettera di Pastia per un mercante di anisetta pres­ so il quale si riunivano dei contrabbandieri. Fui presentato agli uo­ mini, il cui capo, soprannominato Dancai're, mi accolse nella sua banda. Partimmo per Gaucin, dove ritrovai Carmen, che mi ave­ va dato appuntamento. Nelle spedizioni faceva da spia alla nostra gente, mai ve ne fu una migliore. Tornava da Gibilterra, e già ave­ va combinato col padrone di una nave da carico l’imbarco di mer­ ci inglesi che dovevamo ricevere sulla costa. Andammo ad aspet­ tarle vicino a Estepona, poi ne nascondemmo una parte in monta­ gna; caricato il resto, ci dirigemmo a Ronda. Carmen ci aveva pre­ ceduto. Fu ancora lei a indicarci il momento di entrare in città. Questo primo viaggio e alcuni altri dopo furono fortunati. La vi­ ta del contrabbandiere mi piaceva più di quella del soldato; facevo dei regali a Carmen. Avevo denaro e un’amante. Non avevo ri­ morsi, perché, come dicono gli zingari: La rogna non prude quan­ do c’è il piacere44. Dovunque andassimo eravamo ben accolti; i miei compagni mi trattavano bene e anzi mi testimoniavano con­ siderazione. La ragione era che avevo ucciso un uomo, e tra loro c’era chi non aveva una simile prodezza sulla coscienza. Ma quel che più contava in quella nuova vita era che vedevo spesso Car­ men. Mi mostrava più amicizia che mai; tuttavia, davanti ai com­ pagni, non faceva vedere che era la mia amante, e anzi mi aveva fat­ to giurare con ogni giuramento, di non dire nulla sul suo conto. Ero così debole di fronte a questa creatura che obbedivo a tutti i suoi capricci. D’altronde, era la prima volta che si mostrava a me col riserbo di una donna onesta, e io ero così ingenuo da credere che si fosse realmente ravveduta dei suoi modi di un tempo. La nostra banda, che era composta da otto o dieci uomini, non si riuniva che nei momenti decisivi, e di solito noi eravamo spar­ pagliati a due a due, a tre a tre, nelle città e nei villaggi. Ognuno di noi ostentava di avere un mestiere: uno era calderaio, un altro sensale, io vendevo articoli di merceria, ma non mi facevo mai ve­ dere nei luoghi affollati a causa del brutto affare di Siviglia. Un giorno, o meglio una notte, il nostro appuntamento/ era sotto Véger. Il Dancairo e io ci trovammo là prima degli altri. Lui sem­ brava molto allegro. Sarapia sat pesquital ne punzava.

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«Avremo un compagno in più, mi disse. Carmen ha appena fatto uno dei suoi colpi migliori. Ha fatto fuggire il suo rom che era nel presidio di Tarifa». Cominciavo a capire la lingua zingara che parlavano quasi tut­ ti i miei compagni, e quella parola rom mi fece trasalire. «Come! suo marito! È sposata, dunque?», domandai al mio capitano. «Sì» rispose lui, «Garcia il Guercio, uno zingaro astuto quan­ to lei. Il povero ragazzo era in galera. Carmen ha saputo abbin­ dolare il chirurgo del presidio tanto da ottenere la libertà del suo rom. Ah! quella ragazza vale tanto oro quanto pesa. Sono due an­ ni che cerca di farlo evadere. Non c’è stato nulla da fare finché non si sono decisi a sostituire il maggiore. Con quello, sembra che abbia trovato molto presto il modo di intendersi». Potete immaginare il piacere che mi fece quella notizia. Vidi presto Garcia il Guercio, era davvero il più ributtante mostro che la famiglia degli zingari avesse nutrito: nero di pelle e ancor più ne­ ro d’anima, era il più perfetto scellerato che avessi incontrato in vi­ ta mia. Carmen venne con lui e quando davanti a me lo chiamava il suo rom, bisognava vedere gli occhi che mi faceva e le sue smor­ fie quando Garcia girava la testa. Ero indignato e non le rivolsi la parola per tutta la notte. La mattina avevamo fatto i nostri fagotti ed eravamo già in strada quando ci accorgemmo di avere alle spal­ le una dozzina di cavalieri. Quei fanfaroni andalusi, che non par­ lavano d’altro che di massacri, fecero subito una pietosa figura. Fu un fuggi fuggi generale. Il Dancario, Garcia, un bel ragazzo di Ecija, che si chiamava il Remendado, e Carmen non persero la te­ sta. Gli altri avevano abbandonato i muli e si erano buttati per i burroni, dove i cavalli non potevano seguirli. Noi non potevamo certo tenerci le bestie, e ci affrettammo a liberare il meglio del bot­ tino e a caricarcelo sulle spalle, poi tentammo di metterci in salvo attraverso le rocce per i pendìi più ripidi. Gettavamo davanti a noi i fagotti e li seguivamo alla meglio scivolando sui talloni. Intanto, il nemico ci teneva sotto tiro; era la prima volta che sentivo fi­ schiare le pallottole, e non mi fece grande impressione. Quando hai una donna davanti, non c’è merito a burlarsi della morte. Riu­ scimmo a scampare, eccetto il povero Remendado, che ricevette un colpo alla schiena. Gettai il mio involto e tentai di sollevarlo. 443

«Imbecille!» mi gridò Garcia, «che ce facciamo di una caro­ gna? Finiscilo e non dimenticarti del gruzzolo». «Lascialo! lascialo!» mi gridava Carmen. La fatica mi obbligò ad appoggiarlo un momento al riparo di una roccia: Garcia avanzò e gli scaricò l’archibugio nella testa. «Adesso è bravo chi lo riconosce», disse guardando quel vol­ to spappolato da dodici pallottole. Ecco, signore, la bella vita che ho condotto. La sera ci ritro­ vammo in una macchia, stremati dalla stanchezza, senza niente da mangiare e rovinati dalla perdita dei muli. Che fece allora quel de­ monio di Garcia? tirò fuori un mazzo di carte dalla tasca, e si mise a giocare con il Dancario al bagliore del fuoco che li illuminava. Mentre io me ne rimasi sdraiato a guardare le stelle, pensando a Remendado e dicendomi che avrei preferito essere al posto suo. Carmen se ne stava accoccolata vicino a me, e di tanto in tanto, bat­ teva le nacchere canticchiando. Poi, accostandomi come per par­ larmi all’orecchio, mi baciò, quasi mio malgrado, due o tre volte. «Sei il diavolo», le dicevo. «Sì», mi rispose. Dopo qualche ora di riposo, se ne andò a Gaucin e l’indoma­ ni mattina un piccolo capraio venne a portarci del pane. Restam­ mo là tutto il giorno, e la notte ci avvicinammo a Gaucin. Aspet­ tavamo notizie di Carmen. Niente. Di giorno, vedemmo un mu­ lattiere che portava una donna ben vestita, con un parasole, e una bambina che sembrava la sua domestica. Garcia disse: «Ecco due muli e due donne che san Nicola ci manda; prefe­ rirei fossero quattro muli; non importa, me ne incarico io!». Prese l’archibugio e discese verso il sentiero, nascondendosi fra i cespugli. Noi lo seguivamo, il Dancario e io, a poca distanza. Quando fummo a tiro, ci mostrammo, e gridammo al mulattiere di fermarsi. La donna, vedendoci, invece di spaventarsi, - e sarebbe bastato a farlo il nostro abbigliamento - proruppe in una risata. «Ah! i lillipendi che mi prendono per una erani45\». Era Carmen, ma così ben travestita, che se avesse parlato un’al­ tra lingua non l’avrei riconosciuta. Saltò giù dalla mula, e parlottò a bassa voce per un po’ con il Dancario e Garcia, poi mi disse: " Gli imbecilli che mi prendono per una donna perbene.

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«Canarino, ci rivedremo prima che ti impicchino. Vado a Gi­ bilterra per gli affari d’Egitto. Sentirete presto parlare di me». Ci separammo dopo che lei ci ebbe indicato il luogo dove avremmo potuto trovare riparo per qualche giorno. Quella ra­ gazza era la provvidenza della nostra banda. Presto ricevemmo da lei anche un po’ di denaro e un’informazione ancora più prezio­ sa: che il tal giorno sarebbero partiti da Gibilterra verso Granada due milord inglesi, seguendo un certo cammino. A buon intenditor poche parole. Avevano con sé belle e buone ghinee. Garcia voleva ucciderli, ma il Dancario e io ci opponemmo. Non gli to­ gliemmo che il denaro e gli orologi, oltre alle camicie, di cui ave­ vamo un gran bisogno. Signore, si diventa furfanti senza pensarci. Una ragazza carina vi fa perdere la testa, ci si batte per lei, capita un fattaccio, biso­ gna darsi alla macchia, e da contrabbandieri si diventa ladri prima di averci riflettuto. Dopo l’affare dei milord ritenemmo che i din­ torni di Gibilterra non fossero più sicuri per noi, e ci inoltrammo nella sierra di Ronda. Mi avete parlato di José Maria; ecco, è là che io lo conobbi. Portava con sé la sua amante nelle imprese. Era una ragazza carina, saggia, modesta, di buone maniere; mai una paro­ la indegna, e una tale dedizione!... In cambio, lui la rendeva infe­ lice, la picchiava, e talvolta faceva il geloso. Una volta le diede una coltellata. Ebbene, non per questo lei lo amava di meno. Le don­ ne sono fatte così, soprattutto le andaluse. Quella era fiera della cicatrice che aveva al braccio, e la mostrava come la cosa più bel­ la del mondo. E per di più José Maria era il peggiore dei compa­ gni!... In una spedizione che facemmo, dispose così bene la fac­ cenda, che tenne per sé tutto il bottino; a noi le botte e il distur­ bo. Ma torno alla mia storia: Non sentivamo più parlare di Car­ men. Il Dancario disse: «Bisogna che uno di noi vada a Gibilterra per avere notizie; deve aver preparato qualche colpo. Andrei io, ma sono troppo conosciuto a Gibilterra». Il Guercio disse: «Conoscono anche me, ho fatto tanti di quei tiri ai Gamberi46 e, dato che ho un occhio solo, mi è difficile camuffarmi». 4" Nome che gli spagnoli danno agli inglesi a causa del colore della loro uniforme.

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«Devo andare io, allora?», chiesi a mia volta, felice alla sola idea di rivedere Carmen. «Vediamo, che bisogna fare?». Gli altri mi risposero: «Cerca di imbarcarti o di passare per San Rocco, come prefe­ risci e, quando sarai a Gibilterra, domanda al porto dove abita una venditrice di cioccolato che si chiama la Rollona; quando l’a­ vrai trovata, saprai da lei cosa succede laggiù». Si decise che saremmo partiti tutti e tre per la sierra di Gaucin, che avrei lasciato i miei due compagni, e che mi sarei reca­ to a Gibilterra come mercante di frutta. A Ronda, uno dei no­ stri mi aveva procurato un passaporto; a Gaucin mi diedero un asino; lo caricai di arance e di meloni e mi misi in cammino. Ar­ rivato a Gibilterra, scoprii che tutti conoscevano bene la Rollo­ na, ma che era morta o, come si dice, era andata a finibus ter­ rae*7, e la sua scomparsa spiegava, a mio avviso, perché avessimo perduto il contatto con Carmen. Misi l’asino in stalla e, prese le mie arance, me ne andai per la città come per venderle, ma in ef­ fetti per vedere se trovavo qualche volto conosciuto. Là c’è tut­ ta la canaglia di tutti i paesi del mondo, ed è la torre di Babele, perché non puoi fare dieci passi senza sentir parlare altrettante lingue. Vedevo anche gente d’Egitto, ma non osavo fidarmi; li studiavo, e loro mi studiavano. Sapevamo bene di essere dei fur­ fanti; l’importante era capire se eravamo della stessa banda. Do­ po due giorni trascorsi in giri inutili, non avevo saputo niente che riguardasse la Rollona né Carmen, e pensavo già di ritorna­ re dai miei compagni dopo aver fatto qualche spesa, quando, passeggiando per una via, al tramonto, udii una voce di donna da una finestra che mi disse: «Mercante d’arance!...». Alzai la testa e vidi Carmen a un balcone, appoggiata a un ufficiale in rosso, spalline d’oro, capelli arricciati, aria da gran signore. Quanto a lei, era splendidamente vestita: uno scialle sulle spal­ le, un pettine d’oro, tutta di seta; e quella buona canaglia, sem­ pre la stessa! rideva da tenersi i fianchi. L’inglese, storpiando lo spagnolo, mi gridò di salire, che la signora voleva delle arance; e Carmen mi disse in basco: «Sali, e non ti stupire di niente». 47 In galera, o meglio al diavolo.

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Nulla infatti mi poteva più stupire di lei. Non so se provai più gioia o dolore nel ritrovarla. All’ingresso c’era un gran domesti­ co inglese, incipriato, che mi condusse in una salone magnifico. Carmen mi disse subito in basco: «Tu non sai una parola di spagnolo, tu non mi conosci». Poi rivolgendosi all’inglese: «Ve lo dicevo bene, ho capito subito che era un basco; ora sen­ tirete che lingua buffa. Che aria da sciocco, no? Sembra un gatto sorpreso in una dispensa». «E tu» le dissi nella mia lingua, «tu hai l’aria di una sfacciata briccona, avrei proprio voglia di sfregiarti il visino davanti al tuo spasimante». «Il mio spasimante!» fece lei. «Ecco, ci sei arrivato da solo? E sei geloso di questo imbecille? Sei ancora più sciocco di quel che eri prima delle nostre serate in via del Candilejo. Non capisci, stupido che sei, che sto facendo gli affari d’Egitto, e nel modo più brillante. Questa casa è mia, le ghinee del Gambero saranno mie; lo prendo per il naso; lo condurrò in un luogo da dove non uscirà più». «Quanto a me», le dissi, «se farai ancora gli affari d’Egitto in questo modo, farò di tutto per non farti più ricominciare». «Ah! sì! Sei forse il mio rom, per comandarmi? Il Guercio è d’accordo, che c’entri tu? Non sei ben contento invece di essere il solo che possa dirsi il mio minchorròì»'". «Che dice?» domandò l’inglese. «Dice che ha sete e berrebbe un sorsetto» rispose Carmen. E si abbandonò su un divano, scoppiando a ridere per la sua traduzione. Signore, quando quella ragazza rideva, non c’era più modo di ragionare. Tutti ridevano con lei. Anche questo grande inglese si mise a ridere, da imbecille qual era, e ordinò che mi venisse por­ tato da bere. Mentre bevevo: «Vedi quell’anello che ha al dito?!» disse lei, «se lo vuoi te lo regalerò». “ Il mio amante, o meglio il mio capriccio.

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Le risposi: «Darei un dito per tenere in montagna il tuo milord, ognuno con una maquila in pugno». «Maquila, cosa vuol dire?» domandò l’inglese. «Maquila», disse Carmen sempre ridendo «è un’arancia. Non è una parola sciocca per un’arancia? Dice che vorrebbe farvi man­ giare la maquila». «Sì?» disse l’inglese.»Ebbene? torna domani a portare la maquila». Mentre parlavamo, entrò il domestico e disse che il pranzo era pronto. Allora l’inglese si alzò, mi diede una piastra e offrì il brac­ cio a Carmen, come se non avesse potuto camminare da sola. Carmen, sempre ridendo disse: «Ragazzo mio, non posso invitarti a pranzo, ma domani, ap­ pena senti il tamburo per la parata, vieni qui con le arance. Tro­ verai una camera ammobiliata meglio di quella di via del Candilejo, e vedrai se sono sempre la tua Carmencita. E poi parleremo degli affari d’Egitto». Non le risposi niente, ed ero per strada quando l’inglese mi gridò: «Domani portate la maquila\». Sentii le risate di Carmen. Uscii non sapendo cosa fare; non riuscii a dormire e il matti­ no mi sentivo così in collera contro questa traditrice che avevo pensato di partire da Gibilterra senza rivederla; ma, al primo rul­ lo di tamburi, tutto il mio coraggio mi abbandonò; presi il mio canestro di arance e corsi da Carmen. La sua persiana era soc­ chiusa e io vidi il suo grande occhio nero che mi spiava. Il do­ mestico incipriato mi introdusse subito; Carmen gli affidò una commissione, e quando fummo soli, scoppiò in una di quelle ri­ sate da coccodrillo, e mi si gettò al collo. Non l’avevo mai vista così bella. Sembrava una madonna, profumata... mobili coperti di seta, tende ricamate... ah! e io conciato come il ladro che ero. «Minchorròl» diceva Carmen. «Ho voglia di rompere tutto, di appiccare il fuoco alla casa e di fuggirmene nella sierra!». E certe tenerezze!... e poi le risate!... e ballava e stracciava i suoi falpalà; mai ci fu una scimmia che facesse tanti gesti, tante smorfie, tante diavolerie. Quando tornò seria disse: 448

«Ascolta, si tratta dell’Egitto. Voglio che lui mi conduca a Ronda, dove ho una sorella monaca...» - (Qui nuovi scoppi di ri­ sa). - «Passiamo per un indirizzo che ti farò sapere. Voi gli piom­ bate addosso: piazza pulita. La cosa migliore sarebbe ammazzar­ lo, ma - soggiunse con quel sorriso diabolico che aveva in certi momenti, e quel sorriso lì nessuno avrebbe voglia di imitarlo - sai che bisognerebbe fare? Bisognerebbe che il Guercio uscisse per primo. Voi tenetevi un po’ indietro; il Gambero è coraggioso e abile: ha buone pistole... Capisci?». Si interruppe per un nuovo scoppio di risa che mi fece rab­ brividire. «No» le dissi: «Odio Garcia, ma è un mio compagno. Un giorno forse ti libererò da lui, ma regoleremo i conti al modo del mio paese. Io non sono Egiziano che per caso; quanto a certe co­ se sarò sempre un navarrese sincero, come dice il proverbio»49. Lei riprese: «Sei una bestia, uno sciocco, un vero payllo. Sei come il nano che si crede grande quando ha potuto sputare lontano50. Tu non mi ami, vattene». Quando mi diceva «Vattene!» io non potevo mai andarmene. Promisi così di partire, di ritornare dai compagni e di aspettare l’in­ glese; da parte sua, lei mi promise di darsi malata fino al momento di lasciare Gibilterra per Ronda. Rimasi a Gibilterra ancora due giorni. Carmen non ebbe nessun timore di venire a trovarmi trave­ stita nel mio albergo. Partii; anch’io avevo un progetto. Tornai al nostro appuntamento, sapendo bene il luogo e l’ora in cui l’inglese e Carmen dovevano passare. Trovai il Dancario e Garcia che mi aspettavano. Passammo la notte in un bosco, accanto a un fuoco di pigne che bruciava a meraviglia. Proposi a Garcia di giocare a car­ te. Accettò. Alla seconda partita gli dissi che barava; si mise a ride­ re. Gli gettai le carte in faccia. Fece per prendere l’archibugio, io ci misi il piede sopra e gli dissi: «Si dice che sai maneggiare il coltello come il migliore jaque di Malaga; vuoi provarci con me?». Il Dan­ cario cercò di separarci. Avevo dato due o tre pugni a Garcia. La collera lo aveva reso coraggioso; aveva tirato fuori il coltello, io il *’ Navarro fino. 50 Or esorjié de or narsichislé, sin chismar lachinguel. «La prodezza di un nano è di sputare lontano». Proverbio zingaro.

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mio. Entrambi dicemmo al Dancario di lasciarci campo libero e li­ bertà di azione. Vide che non poteva fermarci, e si scostò. Garcia già si era piegato in due come un gatto pronto a lanciarsi su un to­ po. Teneva il cappello nella mano sinistra per parare e spingeva il coltello avanti. All’andalusa. Io mi misi alla navarrese, dritto in fac­ cia a lui, il braccio sinistro alzato, la gamba sinistra un po’ in avan­ ti, il coltello lungo la coscia destra. Mi sentivo più forte di un gi­ gante. Si lanciò su di me come una saetta; io girai sul piede sinistro e lui non trovò più niente davanti, ma io lo colpii alla gola, e il col­ tello penetrò a tal punto, che mi trovai la mano sotto il mento. Gi­ rai la lama con tanta forza che si spezzò. Era finita. La lama uscì dalla ferita spinta fuori da un fiotto di sangue grosso come un brac­ cio. Cadde sul naso, rigido come un palo. «Che hai fatto?» mi disse il Dancario «Ascolta» gli dissi «non potevamo vivere insieme. Amo Car­ men, e voglio essere solo. D’altronde Garcia era un furfante, e mi ricordo quello che ha fatto al povero Remendado. Siamo solo due, ma siamo due bravi ragazzi. Su, mi vuoi per amico, per tut­ ta la vita, fino alla morte?». Il Dancario mi tese la mano. Era un uomo di cinquant’anni. «Al diavolo gli amorazzi!» gridò. «Se gli avessi chiesto Car­ men, te l’avrebbe venduta per una piastra. Ora siamo rimasti so­ lo in due, come faremo domani?». «Lascia fare a me, da solo» gli risposi. «Me ne infischio del mondo intero». Seppellimmo Garcia, e andammo ad accamparci duecento passi più lontano. L’indomani, Carmen e il suo inglese passarono con due mulattieri e un domestico. Dissi al Dancario: «All’inglese ci penso io. Tu spaventa gli altri, non sono armati». L’inglese aveva fegato. Se Carmen non gli avesse spinto il brac­ cio, mi avrebbe ucciso. In breve, quel giorno riconquistai Carmen e le mie prime parole furono per dirle che era vedova. Quando seppe com’era successo, mi disse: «Sarai sempre un lillipendi\ Garcia avrebbe dovuto ucciderti. La tua difesa navarrese non è che una sciocchezza, e lui ne ha mandati all’altro mondo tanti più abili di te. Il fatto è che era ve­ nuto il suo tempo. Verrà anche il tuo». 450

«E il tuo», le risposi «se non sarai per me una vera romi». «Va bene», disse lei «più di una volta ho visto nei fondi di caffè che siamo destinati a finire insieme. Bah! sarà quel che sarà!». E fece schioccare le nacchere, come sempre quando voleva scacciare qualche pensiero sgradevole. Quando si parla di noi stessi ci si lascia andare. Senza dubbio tutti questi dettagli vi annoiano, ma avrò presto finito. La vita che conducevamo durò a lungo. Il Dancario e io prendemmo come soci alcuni compagni più sicuri dei primi, e ci occupammo di con­ trabbando, e talvolta, bisogna confessarlo, rapinavamo la gente sulla strada, ma solo in casi estremi e quando non si poteva fare altrimenti. Ma non maltrattavamo i viaggiatori, ci limitavamo a prendere loro il denaro. Per qualche mese fui contento di Car­ men; continuava a esserci utile per le nostre operazioni, avverten­ doci dei buoni colpi che potevamo fare. Stava sia a Malaga che a Cordova, sia a Granada; ma a una mia parola, lasciava tutto e ve­ niva a trovarmi in una venta isolata, o anche al bivacco. Una vol­ ta soltanto - era a Malaga - mi diede qualche inquietudine. Sape­ vo che aveva adocchiato un negoziante molto ricco, con il quale probabilmente si proponeva di ripetere lo scherzetto di Gibilter­ ra. Nonostante tutto quello che il Dancario mi disse per tratte­ nermi, partii e arrivai a Malaga in pieno giorno, cercai Carmen e la portai via subito con me. Ci scontrammo duramente. «Sai» mi disse «che da quando sei il mio rom per davvero, ti amo meno di quando eri il mio minckorròt Non voglio essere tormentata né soprattutto comandata. Quello che voglio è essere libera e fare quello che mi pare. Attento a non farmi arrabbiare. Se mi infastidisci, troverò qualche bravo ragazzo che ti farà quel­ lo che hai fatto al Guercio». Il Dancario ci riconciliò; ma ci eravamo detti delle cose che restavano nel cuore e non eravamo più come prima. Poco do­ po, ci capitò una disgrazia. L’esercito ci sorprese. Il Dancario fu ucciso, così come due compagni; altri due furono catturati. Io fui gravemente ferito e, senza il mio buon cavallo sarei rimasto nelle mani dei soldati. Spossato dalla fatica, con una pallottola in corpo, andai a nascondermi in un bosco con l’unico compa­ gno che mi rimaneva. Svenni scendendo dal cavallo, e credetti che sarei crepato in mezzo ai cespugli come una lepre impalli­ 451

nata. Il mio compagno mi portò in una grotta che conosceva­ mo, poi andò a cercare Carmen. Era a Granada, e accorse subi­ to. Per quindici giorni non mi lasciò un istante. Non chiuse oc­ chio; mi curò con un’abilità e con attenzioni che mai una don­ na ebbe per l’uomo più amato. Quando fui in grado di tenermi sulle gambe, mi condusse a Granada, nel più grande segreto. Gli zingari trovano asilo sicuro ovunque, e trascorsi più di sei settimane in una casa a due porte dal corregidore che mi cerca­ va. Più di una volta, da dietro un’imposta, lo vidi passare. Infi­ ne mi ristabilii, ma avevo riflettuto molto nel mio letto di do­ lore, e progettavo di cambiare vita. Parlai a Carmen di lasciare la Spagna, e di cercare di vivere onestamente nel Nuovo Mon­ do. Si burlò di me. «Non siamo fatti per piantare il cavolo» disse, «il nostro de­ stino è di vivere a spese àcipayllos. Guarda, ho combinato un af­ fare con Nathan Ben-Joseph di Gibilterra. Ha un carico di coto­ ne che aspetta solo te per passare. Sa che sei vivo. Conta su di te. Che direbbero i nostri corrispondenti di Gibilterra se tu mancas­ si di parola?». Mi lasciai trascinare, e ripresi il mio sporco commercio. Mentre stavo nascosto a Granada, ci furono delle corse di to­ ri e Carmen vi andò. Tornando, parlò di un picador molto bra­ vo, di nome Lucas. Conosceva il nome del suo cavallo e quanto costava il vestito ricamato. Non ci feci attenzione. Juanito, il compagno che mi era rimasto, mi disse qualche giorno dopo, che aveva visto Carmen con Lucas da un negoziante dello Zacatin. Mi misi in allarme. Domandai a Carmen come e perché aveva fatto conoscenza col picador. «È un ragazzo» rispose «con cui si può fare un affare. Fiume che fa rumore ha acqua o sassi51. Ha guadagnato duecento reali al­ la corrida. Delle due, l’una: o dobbiamo prendere il denaro, o me­ glio, dato che è un buon cavaliere e un giovane coraggioso, lo possiamo arruolare nella nostra banda. Quello e quell’altro sono morti, tu hai bisogno di rimpiazzarli. Prendilo con te». «Non voglio», risposi io «né il suo denaro, né lui, e ti proibi­ sco di parlargli». Len sos sonsi abela. / Pani o reblendani terela. Proverbio zingaro.

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«Attento a te» mi disse. «Quando mi vietano di fare una cosa, la faccio subito!». Per fortuna il picador partì per Malaga e io, io mi preparai a far entrare il cotone dell’ebreo. Ebbi molto da fare in quel­ l’impresa e anche Carmen; dimenticai Lucas; forse lo dimen­ ticò anche lei, per il momento. È stato allora, signore, che vi ho incontrato, prima vicino Montilla, poi, dopo, a Cordova. Non vi parlerò del nostro ultimo colloquio. Ne sapete forse più di me. Carmen vi rubò l’orologio; voleva ancora il vostro denaro e soprattutto quell’anello che vi vedo al dito, e che lei dice che è un anello magico che avrebbe voluto possedere. Litigammo furiosamente e la picchiai. Impallidì e pianse. Era la prima vol­ ta che la vedevo piangere, e mi fece un effetto terribile. Le chiesi perdono, ma mi tenne il broncio per tutto un giorno e, quando ripartii per Montilla, non volle baciarmi. Avevo il cuo­ re gonfio, quando, tre giorni dopo, mi venne a trovare tutta ri­ dente e gaia come un fringuello. Tutto era dimenticato e noi sembravamo innamorati da due giorni. Al momento di sepa­ rarci mi disse: «C’è una festa a Cordova, vado a vederla; poi saprò chi se ne va con del denaro, e te lo dirò». La lasciai partire. Solo, pensai a questa festa e al cambiamento d’umore di Carmen. «Dev’essersi già vendicata», mi dicevo, «poi­ ché è tornata da me come prima». Un contadino mi disse che a Cordova c’erano dei tori. Ecco il mio sangue ribollire e, come un folle, parto, corro sul posto. Qualcuno mi indicò Lucas e, sulla panca contro lo steccato, riconobbi Carmen. Mi fu sufficiente ve­ derla un minuto per essere sicuro del fatto mio. Lucas, al primo toro, fece il galante, come avevo previsto. Strappò la coccarda52 al­ l’animale e la portò a Carmen che subito se ne ornò. Il toro si in­ caricò di vendicarmi. Lucas fu rovesciato col cavallo sul petto e il toro sopra tutti e due. Guardai Carmen: già non era più al suo po­ sto. Mi era impossibile andarmene da dove mi trovavo e fui ob­ bligato ad attendere la fine della corrida. Allora andai nella casa che conoscete, e me ne stetti zitto tutta la sera e una parte della 52 La divisa, il fiocco il cui colore indica l’allevamento da cui provengono i tori. Que­ sto fiocco è puntato sulla pelle del toro per mezzo di un uncino, ed è il massimo della ga­ lanteria strapparlo all’animale ancora vivo, per offrirlo a una donna.

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notte. Verso le due del mattino Carmen ritornò, e rimase appena stupita nel vedermi. «Vieni con me», le dissi. «Bene» disse lei «partiamo!». Andai a prendere il mio cavallo, la misi in groppa e proce­ demmo tutto il resto della notte senza dirci una sola parola. A giorno fatto ci arrestammo in una venta isolata, non lontano da un romitorio. Là dissi a Carmen: «Ascolta, dimentico tutto. Non ti parlerò di niente; ma giurami una cosa: che verrai con me in America e te ne starai tranquilla». «No», disse risentita «non voglio andare in America. Mi tro­ vo bene qui». «E perché sei vicina a Lucas: ma pensaci bene, se guarisce, non è per invecchiare. Del resto, perché prendermela con lui? Sono stanco di uccidere i tuoi amanti; stavolta ucciderò te». Mi guardò fissa con il suo sguardo selvaggio e mi disse: «Ho sempre pensato che mi avresti ucciso. La prima volta che ti ho visto, avevo appena incontrato un prete sulla porta di casa. E questa notte, uscendo da Cordova, non hai visto? Una lepre ha attraversato la strada tra le zampe del tuo cavallo. È scritto». «Carmencita» le domandai, «non mi ami più?». Non rispose niente. Sedeva su una stuoia con le gambe incro­ ciate e tracciava a terra dei segni col dito. «Cambiamo vita, Carmen», le dissi con tono supplichevole. «Andiamocene a vivere da qualche parte dove non saremo più separati. Sai che non lontano da qui, sotto una quercia, abbiamo centoventi once... Poi abbiamo ancora dei fondi dell’ebreo Ben-Joseph». Si mise a sorridere, e mi disse: «Prima io, e dopo tu. So bene che deve andare così». «Rifletti,» ripresi io «la mia pazienza e il mio coraggio sono agli sgoccioli; prendi le tue decisioni e io prenderò le mie». La lasciai e me ne andai a passeggiare nei pressi del romitorio. Trovai l’eremita che pregava. Aspettai che avesse finito la pre­ ghiera; avrei voluto pregare, ma non potevo. Quando si rialzò, andai da lui. «Padre mio», gli dissi «volete pregare per qualcuno che è in grave pericolo?». «Prego per tutti gli afflitti», disse lui. 454

«Potete dire una messa per un’anima che forse comparirà da­ vanti al suo Creatore?». «Sì», rispose lui guardandomi fisso. E poiché c’era nel mio aspetto qualcosa di strano, volle farmi parlare: «Mi sembra di conoscervi», disse. Misi una piastra sul banco. «Quando direte la messa?» gli domandai. «Fra una mezz’ora. Viene a servirla il figlio dell’albergatore. Ditemi, giovanotto, non avete qualcosa sulla coscienza che vi tor­ menta? Volete ascoltare i consigli di un cristiano?». Mi sentii prossimo alle lacrime. Gli dissi che sarei tornato, e scappai. Andai a distendermi sull’erba fino a che non sentii la campana. Allora mi avvicinai, ma rimasi fuori della cappella. Quando la messa finì, ritornai alla venta. Sperai che Carmen fos­ se fuggita; avrebbe potuto prendere il mio cavallo e salvarsi... ma la ritrovai. Non voleva che si potesse dire che le avevo fatto pau­ ra. Durante la mia assenza, aveva disfatto l’orlo della gonna per toglierne il piombo. Adesso stava dinanzi a un tavolo, guardan­ do in una terrina piena d’acqua il piombo che aveva fatto fonde­ re e che vi aveva gettato. Era così occupata nella sua magia che non si accorse subito del mio ritorno. Ora prendeva un pezzet­ to di piombo e lo girava da tutti i lati con aria triste, ora cantava una delle sue canzoni magiche in cui invocava Maria Padilla, l’a­ mante di don Pedro, che fu, dicono, la Bari Crallisa, cioè la gran­ de regina degli zingari53. «Carmen,» le dissi «volete venire con me?». Lei si alzò, gettò la scodella, e si mise la mantiglia sul capo co­ me pronta a partire. Mi portarono il cavallo, ella montò in grop­ pa e ci allontanammo. «Così,» le dissi «mia Carmen, dopo un tratto di strada, tu mi seguirai, non è vero?». «Io ti seguo alla morte, sì, ma non vivrò più con te». Eravamo in una gola solitaria; fermai il cavallo. «È qui?» disse lei. 53 Hanno accusato Maria Padilla di aver stregato il re don Pedro. Una tradizione po­ polare racconta che ella abbia donato alla regina Bianca di Borbone una cintura d’oro, che agli occhi affascinati del re apparve come un serpente vivo. Da lì la ripugnanza che sem­ pre mostrò per l’infelice principessa.

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E con un salto fu a terra. Si levò la mantiglia, la gettò ai piedi, e stette immobile col pugno sul fianco, guardandomi fisso. «Tu vuoi uccidermi, lo vedo bene» disse lei. È scritto, ma non mi farai cedere». «Te ne prego,» le dissi «sii ragionevole. Ascoltami! tutto il pas­ sato è dimenticato. E poi, lo sai, è per te che mi sono perduto; è per te che sono diventato un ladro e un assassino. Carmen! mia Carmen! Lascia che io ti salvi e mi salvi con te». «José,» rispose lei «mi chiedi l’impossibile. Io non ti amo più; tu mi ami ancora, è per questo che mi vuoi uccidere. Potrei con­ tinuare a raccontarti bugie; ma non voglio darmene più pena. E tutto finito tra noi. Come mio rom, hai il diritto di uccidere la tua romi; ma Carmen sarà sempre libera. Calli è nata, calli morirà». «Ami Lucas, dunque?» le domandai. «Sì, l’amo, come te, per un istante, meno di te forse. Adesso non amo più niente e mi odio per averti amato». Mi gettai ai suoi piedi, le presi le mani, gliele bagnai con le mie lacrime. Le ricordai tutti i momenti di felicità che avevamo tra­ scorso insieme. Le offrii di restare brigante per piacerle. Tutto, si­ gnore, tutto; le offrii tutto, purché volesse amarmi ancora! Mi disse: «Amarti ancora non posso e vivere con te non lo voglio». Ero posseduto dal furore. Tirai fuori il coltello. Avrei voluto che avesse paura e mi implorasse la grazia, ma quella donna era un demonio. «Per l’ultima volta» gridai «vuoi restare con me?». «No! no! no!» disse lei pestando i piedi. E si sfilò dal dito l’anello che le avevo regalato e lo gettò tra i cespugli. La colpii due volte. Era il coltello del Guercio che avevo pre­ so quando il mio si era rotto. Cadde al secondo colpo senza gri­ dare. Mi pare ancora di vedere il suo grande occhio nero guar­ darmi fisso; poi si appannò e si chiuse. Rimasi come annientato per un’ora buona davanti al cadavere. Poi mi ricordai che Carmen mi aveva detto spesso che le sarebbe piaciuto essere sepolta nel bosco. Le scavai una fossa con il mio coltello e la seppellii. Cer­ cai a lungo il suo anello e alla fine lo trovai. Lo misi nella fossa ac­ canto a lei con una piccola croce. Forse ho avuto torto. Quindi 456

montai a cavallo, galoppai fino a Cordova, e al primo corpo di guardia mi costituii. Ho detto che avevo ucciso Carmen; ma non ho voluto dire dov’era il suo corpo. L’eremita era un sant’uomo. Ha pregato per lei! Ha detto una messa per la sua anima... Pove­ ra bambina! La colpa è dei Calés per averla allevata così».

IV

La Spagna è uno di quei paesi dove ancora oggi si trovano in gran numero quei nomadi che sono dispersi in tutta Europa, e noti con i nomi di Bohémiens, Gitanos, Gypsies, Zigeuner, ecc. La maggior parte abita, o meglio conduce una vita errante nelle pro­ vince del Sud e dell’Est, in Andalusia, in Estremadura, nel regno di Murcia; ce ne sono molti in Catalogna. Questi ultimi passano spesso in Francia. Li si incontra in tutte le fiere del Midi. In ge­ nere gli uomini esercitano il mestiere di mediatore, di veterinario, e di tosatore di muli; vi aggiungono l’arte di accomodare le pen­ tole e gli utensili di rame, senza parlare del contrabbando e di al­ tre pratiche illecite. Le donne dicono la buona ventura, mendica­ no e vendono ogni sorte di droga innocente e non. I caratteri fisici degli zingari sono più facili da distinguere che da descrivere, e quando se ne è visto anche uno solo, si ricono­ scerebbe tra mille uno di questa razza. La fisionomia, l’espressio­ ne: ecco ciò che soprattutto li separa dalla gente che abita lo stes­ so paese. Il loro incarnato è bruno, sempre più scuro di quello della popolazione tra cui vivono. Da qui il nome Calés, i neri, col quale vengono spesso chiamati54.1 loro occhi, sensibilmente obli­ qui, ben tagliati, nerissimi, sono ombreggiati da ciglia lunghe e folte. Si può paragonare il loro sguardo solo a quello di una be­ stia feroce. Vi sono segnate al tempo stesso l’audacia e la timidez­ za, e da questo punto di vista gli occhi rivelano abbastanza bene il carattere della razza, scaltra, ardita, ma che «teme per natura le percosse», come Panurge55. Gli uomini sono per lo più ben fatti, snelli, agili; non ricordo di averne mai visto uno appesantito dal­ 54 Mi è sembrato che gli zingari tedeschi, benché comprendano perfettamente la parola Calés, non amino essere chiamati in questo modo. Tra di loro si chiamano Romane tchavé. 55 [L’amico di Pantagruel nel Gargantua e Pantagruel di Rabelais].

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la pinguedine. In Germania le zingare sono spesso graziose; la bellezza invece è assai rara tra le gitane spagnole. Molto giovani possono passare per delle bruttine piacevoli; ma quando diventa­ no madri, diventano ripugnanti. La sporcizia dei due sessi è in­ credibile, e chi ha visto i capelli di una matrona zingara, non se ne può fare un’idea, anche se immagina i crini più ruvidi, più untuo­ si, più polverosi. In qualche grande città dell’Andalusia, alcune ragazze, un po’ più graziose delle altre, si prendono maggior cu­ ra della propria persona. Queste spesso ballano per denaro dan­ ze che somigliano a quelle proibite nei nostri balli pubblici di Carnevale. Il signor Borrow, missionario inglese, autore di due opere molto interessanti sugli zingari di Spagna che aveva inizia­ to a convertire a spese della Società biblica, afferma che non c’è alcun esempio di gitana che abbia provato qualche debolezza per un uomo estraneo alla sua razza. Credo si esageri molto riguardo alla loro castità. Innanzitutto, la maggior parte di loro si trova nella condizione della donna brutta di Ovidio: «Casta quam ne­ mo rogavit»56. Quanto a quelle più graziose, sono come tutte le spagnole, difficili nella scelta dei loro amanti. Bisogna piacer lo­ ro, bisogna meritarle. Il signor Borrow cita come prova della lo­ ro virtù un tratto che in realtà fa onore alla sua, soprattutto alla sua ingenuità. Un uomo immorale di sua conoscenza offrì inutil­ mente parecchie once a una graziosa gitana. Un andaluso, al qua­ le raccontai questo aneddoto, sostenne che quell’uomo immora­ le avrebbe avuto miglior successo mostrando due o tre piastre, e che offrire delle once d’oro a una zingara era un mezzo sbagliato di persuasione, come promettere un milione o due a una came­ riera d’albergo. In ogni caso, è certo che le gitane dimostrano ai loro mariti una devozione straordinaria. Non c’è rischio né miseria che non affrontino per soccorrerli nelle loro necessità. Uno dei nomi che gli zingari si danno, Romé cioè «sposi», mi pare attestare il ri­ spetto della razza per il vincolo del matrimonio. In generale, si può dire che la loro principale virtù sia il patriottismo, se così si può definire la fedeltà che osservano nelle loro relazioni con gli individui della loro stessa origine, la loro sollecitudine ad aiutar­ 56 «Casta è colei a cui nessuno fece proposta», Ovidio, Amores, I, vili, 43.

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si l’un l’altro, il segreto inviolabile che conservano negli affari compromettenti. Del resto, in tutte le associazioni segrete e fuo­ ri della legge, si osserva qualcosa di simile. Ho visitato qualche mese fa un gruppo di zingari che si era sta­ bilito nei Vosgi. Nella capanna di una vecchia donna, l’anziana della tribù, c’era uno zingaro estraneo alla sua famiglia, afflitto da una malattia mortale. Quest’uomo aveva lasciato un ospedale dov’era ben curato, per andare a morire fra i suoi compagni. Da tredici settimane giaceva infermo presso i suoi ospiti, ed era trat­ tato molto meglio dei figli e della gente che viveva nella stessa ca­ sa. Aveva un buon letto di paglia e di muschio, con lenzuola ab­ bastanza bianche, mentre il resto della famiglia, undici persone, dormiva su delle tavole lunghe tre piedi. Ecco, questo per il loro senso dell’ospitalità. La stessa donna, così umana con il suo ospi­ te, mi diceva davanti al malato: «Singo, singo, homte hi mulo. Fra poco, fra poco gli tocca morire». Dopo tutto, la vita di questa gente è così misera, che l’annuncio della morte non ha niente di spaventoso per loro. Un tratto interessante del carattere degli zingari è la loro in­ differenza in materia di religione; non che siano spiriti liberi o scettici. Non hanno mai fatto professione di ateismo. Lontani da questo, la religione del paese che abitano diventa la loro; ma la cambiano cambiando patria. Inoltre, le superstizioni che presso i popoli grossolani sostituiscono i sentimenti religiosi sono loro ugualmente estranee. Come potrebbero esistere infatti delle su­ perstizioni presso un popolo che vive per lo più della credulità degli altri? Eppure, ho notato presso gli zingari spagnoli un sin­ golare orrore per il contatto con un cadavere. Ve ne sono pochi che per denaro si presterebbero a portare un morto al cimitero. Ho detto che la maggior parte delle zingare si dedica a predi­ re la buona sorte. E vi riescono benissimo. Ma la loro maggiore fonte di guadagno è la vendita di incantesimi e di filtri d’amore. Non solo posseggono zampe di rospi per imprigionare cuori vo­ lubili o polvere di pietra di magnete per farsi amare dagli indiffe­ renti; ma, se occorre, fanno anche potenti esorcismi con i quali costringono il diavolo a prestare loro soccorso. L’anno passato, una spagnola mi raccontava questa storia. Se ne andava un gior­ no per la via di Alcalà, molto triste e preoccupata; una zingara ac­ 459

coccolata sul marciapiede le grida: «Mia bella signora, il vostro amante vi ha tradito». Era la verità. «Volete che ve lo faccia ritor­ nare?». Si può capire con quale gioia la proposta venne accettata e che fiducia ispirava una persona capace di indovinare così, con un colpo d’occhio, gli intimi segreti del cuore. Vista l’impossibi­ lità di procedere a operazioni magiche nella via più frequentata di Madrid, si stabilì un incontro per l’indomani. «Niente di più fa­ cile che riportare l’infedele ai vostri piedi» disse la gitana. «Avre­ ste un fazzoletto, una sciarpa, una mantiglia che vi ha donato?». Le fu dato un fisciù di seta. «Adesso cucite con del filo cremisi una piastra in un angolo del fisciù. In un altro angolo cucite mez­ za piastra; qui una peseta; là un pezzo da due reali. Poi bisogna cucire al mezzo una moneta d’oro. Un doblone sarebbe meglio». Fu cucito il doblone e il resto. «Adesso datemi il fisciù, lo porto al Camposanto quando scocca la mezzanotte. Venite con me se volete vedere una bella riunione di diavoli. Vi prometto che do­ mani rivedrete l’uomo che amate». La zingara andò sola al Cam­ posanto, perché la signora aveva troppa paura dei diavoli per ac­ compagnarla. Ora vi lascio immaginare se la povera amante abbia più rivisto il suo fisciù e l’infedele. Nonostante la loro miseria e quella sorta di avversione che ispirano, gli zingari godono comunque di una certa considera­ zione presso la gente meno colta, e di questo si vantano molto. Si sentono una razza superiore per intelligenza e disprezzano di cuore il popolo che li ospita. «I gentili sono così stupidi», mi dis­ se una zingara dei Vosgi, «che non c’è nessun merito a prenderli in trappola. L’altro giorno, una contadina mi chiama per la stra­ da, entro in casa sua. La sua stufa faceva fumo, e mi domandò un sortilegio per farla funzionare. Io, prima mi faccio dare un buon pezzo di lardo. Poi mi metto a borbottare alcune parole in rommani. “Sei stupida”, dicevo, “sei nata bestia, bestia morirai...”. Quando fui sulla porta, le dissi in buon tedesco: “Il metodo in­ fallibile per impedire che la stufa faccia fumo, è di non accender­ la”. E me la diedi a gambe levate». La storia degli zingari è tuttora un problema. In verità si pensa che le loro prime orde, poco numerose, comparvero nell’Est del­ l’Europa verso l’inizio del XV secolo; ma non si può dire né da dove vengano, né perché siano venute in Europa e, cosa ancor più 460

straordinaria, si ignora come abbiano potuto moltiplicarsi in poco tempo, in un modo così prodigioso, in parecchie contrade, lonta­ nissime le une dalle altre. Gli zingari stessi non hanno conservato alcuna tradizione sulla propria origine, e se la maggior parte par­ lano dell’Egitto come della loro patria primitiva è perché hanno accolto una leggenda anticamente molto diffusa sul loro conto. La maggior parte degli orientalisti che hanno studiato la lingua degli zingari crede che siano originari dell’India. In effetti, sem­ bra che un gran numero di radici come molte forme grammaticali del rommani si ritrovino negli idiomi derivati dal sanscrito. Si capisce, del resto, che nelle loro lunghe peregrinazioni, gli zinga­ ri abbiano adottato molte parole straniere. In tutti i dialetti del rommani, si trovano parole greche. Per esempio: cocal, «osso», da κόκκαλον; petalli, «ferro di cavallo», da πέταλον; cafi, «chiodo», da καρφί ecc. Oggi gli zingari hanno tanti differenti dialetti quan­ te sono le tribù della loro razza, divise le une dalle altre. Dovun­ que parlano la lingua del paese in cui abitano: e la parlano più fa­ cilmente del loro stesso idioma, di cui fanno uso per poter con­ versare liberamente in presenza di estranei. Se si confronta il dia­ letto degli zingari tedeschi con quello degli zingari spagnoli, che da secoli non hanno più comunicazione con i primi, si rileva una grandissima quantità di parole comuni; ma la lingua originaria, dappertutto, benché a differenti gradi, si è notevolmente alterata al contatto con le lingue più colte, di cui questi nomadi sono sta­ ti costretti a servirsi. Il tedesco da un lato, lo spagnolo dall’altro, hanno talmente modificato l’essenza del rommani che a uno zin­ garo della Foresta Nera non sarebbe possibile conversare con uno dei suoi fratelli andalusi, sebbene sia sufficiente per loro scambiare qualche parola per riconoscere che entrambi parlano un dialetto derivato dallo stesso idioma. Alcune parole di uso molto frequente sono comuni, credo, a tutti i dialetti; così in tut­ ti i vocabolari che ho potuto vedere: pani significa «acqua», mari­ no, «pane», mas, «carne», lon, «sale». I nomi dei numeri sono dappertutto quasi gli stessi. Il dialetto tedesco mi sembra molto più puro del dialetto spagnolo perché ha conservato molte forme grammaticali primitive, mentre i gita­ ni hanno adottato quelle del castigliano. Tuttavia, ci sono alcuni vocaboli che fanno eccezione e attestano l’antica comunanza di 461

lingua. I tempi del passato nel dialetto tedesco si formano ag­ giungendo -ium all’imperativo, che è sempre la radice del verbo. I verbi, nel rommani spagnolo, si coniugano tutti sul modello della prima coniugazione. Dall’infinito jamar, «mangiare», si do­ vrebbe regolarmente farejamé. «ho mangiato», da lillar, «pren­ dere», si dovrebbe fare lillé, «ho preso». Eppure, qualche vecchio zingaro dice eccezionalmente: jayon, lillon. Non conosco altri verbi che abbiano conservato una forma così antica. Mentre faccio sfoggio delle mie misere conoscenze della lin­ gua rommani, devo notare alcune parole del gergo francese che i nostri ladri hanno preso dagli zingari. I misteri di Parigi57 hanno insegnato ai buoni borghesi che chourin voleva dire «coltello». È rommani puro: tcbouri è uno di quei vocaboli comuni a tutti i dialetti. Il signor Vidocq chiama un cavallo grès: è ancora una pa­ rola zingara, gras, gre, graste, gris. Aggiungete ancora la parola romanichel, che nel gergo parigino indica gli zingari. E la corru­ zione di romané tchavé, «giovani zingari». Ma un’etimologia di cui vado fiero, è quella di frimousse, «viso, faccia», parola di cui si servono tutti gli scolari, o di cui almeno ci si serviva ai miei tem­ pi. Osservate inanzitutto che Oudin58, nel suo curioso dizionario del 1640 scriveva firlimousse. Ora, firla,fila, in rommani vuol di­ re «viso», mui ha lo stesso significato, è esattamente l’os dei lati­ ni. La combinazione firlamui è stata subito compresa da uno zin­ garo purista e io la credo conforme allo spirito della sua lingua. Quanto ho detto è davvero abbastanza perché i lettori di Car­ men si facciano un’idea lusinghiera dei miei studi sul rommani. Fi­ nirò con questo proverbio che giunge a proposito: «En retudipan­ da nasti abela macha». Nella bocca chiusa non entrano le mosche.

1845

57 [Di Marie-Joseph, detto Eugène, Sue (1804-1857), il romanzo è del 1842]. 5‘ [Antoine Oudin, autore presunto dei Veri misteri di Parigi, maestro di italiano e se­ gretario di Luigi XIV; qui Mérimée allude all’opera Curiosités françaises, pour supplément aux Dictionnaires].

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Il reverendo Aubain

È inutile raccontare come queste lettere sono arrivate nelle no­ stre mani. Ci sono sembrate curiose, morali e istruttive. Le pub­ blichiamo senza altro cambiamento che la soppressione di alcuni nomi propri e qualche passaggio che non si riferisce all’avventu­ ra del reverendo Aubain.

LETTERA I DA MADAME DE P*** A MADAME DE G***

Noirmoutiers... novembre 1844 Ti ho promesso di scriverti, mia cara Sophie, e mantengo la pa­ rola; dato inoltre che non ho nient’altro di meglio da fare in que­ ste lunghe serate. La mia ultima lettera ti rendeva noto come im­ provvisamente mi sono accorta di avere trent’anni e di essere ro­ vinata. Alla prima di queste disgrazie, ahimè! non c’è rimedio. Alla seconda, ci rassegniamo malissimo, ma alla fine ci rassegnia­ mo. Per risanare i nostri affari ci vogliono due anni almeno nel­ l’oscuro maniero da cui ti scrivo. Sono stata benissimo. Appena sono venuta a conoscenza dello stato delle nostre finanze, ho proposto a Henri di andare a fare economie in campagna, e otto giorni dopo eravamo a Noirmoutiers. Non ti racconterò nulla del viaggio. Erano anni che non mi trovavo così a lungo da sola con mio marito. Naturalmente eravamo entrambi di cattivo umore; 463

ma dato che ero assolutamente decisa a mostrare fermezza, è an­ dato tutto bene. Conosci le mie grandi decisioni, e sai che le man­ tengo. Eccoci sistemati. Per esempio, Noirmoutiers, per quanto riguarda il paesaggio, non lascia altro da desiderare. Boschi, fale­ sie, il mare a un quarto di lega. Abbiamo quattro grosse torri con muri di quindici piedi di spessore. Ho sistemato uno studio nel vano di una finestra. Il mio salotto, lungo sessanta piedi, è deco­ rato con una tappezzeria a personaggi animali-, è veramente ma­ gnifica, illuminata da otto candele: l’illuminazione della domeni­ ca. Muoio di paura ogni volta che ci passo vicina dopo che il so­ le è tramontato. Tutto quanto è mal ammobiliato, come puoi im­ maginare. Le porte non combaciano, il rivestimento di legno scricchiola, il vento fischia e il mare muggisce nel modo più lu­ gubre. Eppure comincio ad abituarmi. Sistemo, riparo, pianto; prima dei grandi freddi mi sarò costruita un accampamento sop­ portabile. Puoi stare sicura che la tua visita sarà pronta per la pri­ mavera. Chissà che io riesca a trattenerti! Il merito di Noirmoutier è che non abbiamo vicini. Completa solitudine. Ho altri visi­ tatori, grazie a Dio, oltre il mio curato, il reverendo Aubain. È un giovane molto dolce, benché abbia sopracciglia arcuate e assai folte, e grandi occhi neri come un traditore da melodramma. Do­ menica scorsa, ci ha fatto un sermone, non troppo male per un sermone di provincia, e che colava come cera: «Che la disgrazia era un beneficio della Provvidenza per purificare le nostre ani­ me». E sia! A ogni buon conto, dobbiamo ringraziare quell’onesto agente di cambio che ha ben voluto purificarci, portandoci via la nostra fortuna. Addio, mia cara amica. Arriva il mio pianofor­ te e molti bauli. Vado a far sistemare tutto. P. S. Riapro la lettera per ringraziarti del tuo invio. Ma è trop­ po bello. Davvero troppo bello per Noirmoutiers. Il cappellino grigio mi piace. Ho riconosciuto il tuo gusto. Lo metterò dome­ nica per la messa; forse passerà un commesso viaggiatore per am­ mirarlo. Ma per chi mi prendi con i tuoi romanzi? Voglio essere, io sono una persona seria. Non ne ho buoni motivi? Voglio istruirmi. Al mio ritorno a Parigi, fra tre anni (avrò trentatre an­ ni, santo cielo!), voglio essere una Philaminte1. A dire il vero, 1 [Personaggio di Les femmes savantes di Molière].

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non so che libri chiederti. Che mi consigli di imparare? il tede­ sco o il latino? Sarebbe gradevole leggere Wilhelm Meister in ori­ ginale, o i Racconti di Hoffmann. Noirmoutiers è il proprio il luogo per racconti fantastici. Ma come imparare il tedesco a Noirmoutiers? Il latino mi piacerebbe molto, perché trovo in­ giusto che solo gli uomini lo sappiano. Ho il desiderio di farmi dare lezioni dal mio curato...

LETTERA II LA STESSA ALLA MADRE

Noirmoutiers... dicembre 1844 Hai un bello stupirti, il tempo passa più velocemente di quan­ to tu non creda, più veloce di quanto io stessa non abbia creduto. Ciò che soprattutto sostiene il mio coraggio è la debolezza del mio signore e maestro. In verità, gli uomini sono ben inferiori a noi. È di un abbattimento, di un avvilimento1 che supera il limi­ te. Si alza il più tardi possibile, sale a cavallo o va a caccia, oppu­ re fa visita alla gente più noiosa del mondo, notai o procuratori del re che abitano in città, cioè a sei leghe da qui. Lo si vede quan­ do piove! Ecco che otto giorni fa ha iniziato Mauprat\ ed è al pri­ mo volume. «È meglio lodare se stessi che dire male di altri». E uno dei tuoi proverbi. Lo lascio dunque per parlarti di me. L’aria di campagna mi fa un bene infinito. Sto a meraviglia, e quando mi guardo allo specchio (che specchio!), non mi darei trent’anni; e poi passeggio molto. Ieri tanto ho fatto che Henri è venuto con me in riva al mare. Mentre lui tirava ai gabbiani, ho letto il «Can­ to dei pirati» nel GiaouM. Sulla spiaggia, davanti a un mare liscio come l’olio, quei bei versi sembravano ancora più belli. Il nostro mare non vale quello dei greci, ma possiede una sua poesia come ogni mare. Sai quello che mi colpisce in lord Byron? E che sa ve­ dere e comprendere la natura. Non parla del mare per aver man­ giato del rombo e delle ostriche. Ha navigato; ha visto tempeste. 2 [In italiano nel testo]. 3 [Romanzo di George Sand, pubblicato nel 1837]. 4 [Il canto si trova in effetti in Le Corsaire e non in Le Giaour}.

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Tutte le sue descrizioni sono dagherrotipi. Per i nostri poeti: pri­ ma la rima, poi il buonsenso, se c’è posto nei versi. Mentre pas­ seggiavo, leggendo, guardando e ammirando, il reverendo Aubain - non so se ti ho parlato del mio prete, è il curato del mio vil­ laggio - mi ha raggiunto. È un giovane prete che viene spesso. Possiede un’istruzione e sa «parlare delle cose con le persone am­ modo»5. Del resto, dai suoi grandi occhi neri e dal volto pallido e malinconico, vedo bene che ha una storia interessante, e voglio farmela raccontare. Abbiamo parlato di mare, poesia; e, cosa che ti sorprenderà in un curato di Noirmoutiers, ne parla bene. Poi mi ha guidato tra le rovine di una vecchia abbazia, su una falesia, e mi ha mostrato un grande portale interamente scolpito di ado­ rabili mostri. Ah! se avessi denaro, farei restaurare tutto questo! Poi, malgrado le rimostranze di Henri, che voleva andare a cena­ re, ho insistito per passare dal presbiterio, per vedere un curioso reliquiario che il curato ha trovato da un contadino. È bellissimo, in effetti: un reliquiario in smalto di Limoges, che potrebbe esse­ re un delizioso cofanetto dove mettere i gioielli. Ma che casa, gran Dio! E noialtri che ci sentiamo poveri! Figurati, una piccola stan­ za al pianterreno, mal pavimentata, dipinta a calce, ammobiliata con un tavolo e quattro sedie, più una poltrona di paglia con un cuscinetto piatto come una gaiette1*, imbottita di non so che noc­ cioli di pesca e coperta da una tela a quadri bianchi e rossi. Sul ta­ volo c’erano tre o quattro grandi in folio greci o latini. Sono i Pa­ dri della Chiesa, e sotto, come nascosto, ho scoperto Jocelyn7. È arrossito. Del resto, era bravissimo a fare gli onori di casa in quel suo miserabile tugurio; né orgoglio, né vergogna. Sospettavo che avesse la sua storia romanzesca. Ora ne ho la prova. Nel reliquia­ rio bizantino che ci ha mostrato c’era un mazzolino di fiori ap­ passiti da almeno cinque o sei anni. «È una reliquia?», gli ho domandato. «No», ha risposto un po’ imbarazzato. «Non so perché si tro­ vi là». Poi ha preso quel mazzolino e l’ha posato preziosamente sul tavolo. È chiaro?... Sono rientrata al castello con tristezza e co’ [Molière, Le Bourgeois gentilhomme, atto III, scena III]. ‘ [Focaccia, galletta], ' [Di A.-M.-L. Prat de Lamartine, pubblicato nel 1836].

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raggio: tristezza per aver visto tanta povertà; coraggio per sop­ portare la mia, che per lui sarebbe un’opulenza asiatica. Se avessi visto il suo stupore, quando Henri gli ha consegnato venti fran­ chi per una donna che ci raccomandava! Quella poltrona di pa­ glia dove mi sono seduta è troppo dura. Voglio dargli una di quel­ le poltrone in ferro che si piegano come quelle che avevo portato in Italia. Me ne sceglierai una, e me la invierai al più presto...

LETTERA III LA STESSA ALLA STESSA

Noirmoutiers... febbraio 1845

Indubbiamente non mi annoio a Noirmoutiers. Del resto ho trovato un’occupazione interessante, ed è al mio reverendo che la devo. Il mio reverendo conosce tutto, sicuramente, e in aggiunta anche la botanica. Mi sono ricordata delle Lettres di Rousseau, sentendo il nome in latino di una volgare cipolla che, colpa mia, avevo messo sul caminetto. «Conoscete la botanica, dunque?». «Molto male» rispose. «Eppure abbastanza per indicare alla gente di questo paese le piante officinali che possono essere utili; abbastanza soprattutto, lo devo confessare, per dare qualche in­ teresse alle mie passeggiate solitarie». Ho capito subito che sarebbe stato molto divertente cogliere dei bei fiori durante le mie lezioni, e farli seccare e sistemarli nel «nella copertina del mio vecchio Plutarco»8. «Insegnatemi la botanica», gli dissi. Voleva aspettare primavera, perché non ci sono fiori in questa stagione villana. «Ma avete dei fiori secchi», gli ho detto. «Li ho visti da voi». Credo di averti parlato di un vecchio mazzolino di fiori preziosamente conservato. Se avessi visto la sua faccia!... Po­ vero disgraziato! Mi sono pentita ben presto della mia indi­ screta allusione. * [Molière, Les Femmes savantes, atto π, scena Vil].

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Per fargliela dimenticare mi sono affrettata a dirgli che doveva avere una collezione di piante secche. Si chiama erbario. Ha con­ venuto con me; e, l’indomani, mi ha portato in un fagotto di car­ ta grigia, un mucchio di piante graziose, ciascuna con la sua eti­ chetta. Il corso di botanica è iniziato; ho fatto immediatamente progressi stupefacenti. Ma quello che ignoravo è l’immoralità di questa botanica, e la difficoltà di spiegare, anche i primi rudimen­ ti, soprattutto per un reverendo. Saprai, mia cara, che le piante si sposano proprio come noi, ma la maggior parte ha più mariti. Queste si chiamano fanerogame, se ricordo bene quel nome barbaro. Viene dal greco, che vuol di­ re sposate ufficialmente, legalmente. Ci sono poi le crittogame, sposate segretamente. I funghi che mangi si sposano in segreto. Tutto ciò è davvero scandaloso, ma non ne esce male, meglio di me, che ho avuto la stupidità di scoppiare a ridere, una volta o due, nei passaggi più difficili. Ma ora, sono diventata prudente, e non faccio più domande. LETTERA IV LA STESSA ALLA STESSA

Noirmoutiers... febbraio 1845 Vuoi assolutamente sapere la storia di questo mazzolino così preziosamente conservato; ma, in verità non oso domandargliela. Innanzitutto è più probabile che non vi sia nessuna storia; poi, se ce ne fosse una, sarebbe forse una storia che non vorrebbe rac­ contare. Quanto a me, sono convinta... Su! nessuna bugia. Sai bene che non posso avere segreti con te. La conosco, questa storia, e te la dirò in due parole; niente di più semplice. «Com’è, signor reverendo», un giorno gli ho chiesto, «che con lo spirito che avete, e tanta istruzione, vi siete rassegnato a diven­ tare il curato di un piccolo villaggio?». Lui, con un sorriso triste: «È più facile», ha risposto, «essere il pastore di poveri conta­ dini che pastore di cittadini. Ognuno di noi deve misurare il pro­ prio compito alle proprie forze». 468

«È per questo», gli dissi, «che dovreste essere sistemato me­ glio». «Mi avevano detto, al tempo», continuò lui, «che monsignor il vescovo di N***, vostro zio, si era degnato di pensare a me per affidarmi la parrocchia di Sainte-Marie: è la migliore delle dioce­ si. Una mia vecchia zia, l’unica parente che mi sia rimasta, abita­ va a N***, dicevano che per me sarebbe stata una buona situa­ zione. Ma qui sto bene e ho saputo con piacere che monsignore aveva scelto diversamente Cosa mi manca? Non sono felice a Noirmoutiers? Se riesco a fare un po’ di bene, è il mio posto; non lo devo lasciare. E poi la città mi ricorda...». Si fermò, gli occhi cupi e distratti, poi riprendendo improvvi­ samente: «Non lavoriamo», disse, «e la nostra botanica?...». Non pensavo affatto allora alle vecchie felci sparse sul tavolo e continuai con le domande. «Quando siete stato ordinato?». «Nove anni fa». «Nove anni... ma mi sembra che dovevate avere già l’età in cui si ha una professione. Non so, ma mi sono sempre immaginata che vi avesse portato a fare il prete una vocazione di gioventù». «Ahimè! no», disse con aria vergognosa; «ma se la mia voca­ zione è stata tardiva, se è stata determinata da cause... da una causa...». Si imbarazzava e non poteva finire. Presi io il coraggio. «Scommetto», gli dissi, «che quel mazzolino che ho visto ave­ va qualcosa a che fare con quella determinazione». Appena lanciata quella domanda impertinente, mi mordevo la lingua per averla spinta così; ma era tardi. «Ebbene! sì, madame, è vero; ve lo dirò, ma non ora... Un’al­ tra volta. Ecco che sta per suonare l’Angelus». E se ne era andato prima del primo rintocco di campana. Mi aspettavo qualche storia terribile. Ritornò il giorno dopo e fu lui che riprese la conversazione della vigilia. Mi confessò che aveva amato una persona di N’:'*::"; ma aveva poca fortuna, e lui, studente, non aveva altra risorsa che la sua intelligenza... Lui le disse: «Parto per Parigi, dove spero di ottenere un posto; ma mentre io lavorerò notte e giorno per rendermi degno di voi, non mi dimenticherete?». 469

La giovane aveva sedici o diciassette anni ed era molto ro­ mantica. Gli donò il suo mazzolino in segno della sua fede. Un anno dopo, venne a sapere del suo matrimonio con il notaio di N***, precisamente quando stava per avere una cattedra in un collegio. Questo colpo lo prostrò, rinunciò a continuare il con­ corso. Dice che per anni non ha potuto pensare ad altro; e ricor­ dandosi di quest’avventura così semplice, sembrava commosso come se quella fosse per arrivare da lui. Poi, tirando fuori il maz­ zolino dalla tasca: «Era una cosa infantile conservarlo», disse, «forse era anche un male». E lo gettò nel fuoco. Quando i poveri fiori ebbero finito di scricchiolare e di ardere, riprese con più calma: «Vi ringrazio di avermi domandato di questa storia. Grazie a voi mi sono separato da un ricordo che non era affatto conve­ niente conservare». Ma aveva il cuore grosso, ed era evidente che sacrificio gli co­ stasse. Che vita, mio Dio, quella dei poveri preti! I pensieri più innocenti sono interdetti. Sono obbligati a bandire dal loro cuo­ re tutti quei sentimenti che rendono felici gli altri uomini... fino ai ricordi che legano alla vita. I preti somigliano a noialtre, pove­ re donne: ogni sentimento vivo è un crimine. Non ci è permesso che soffrire, purché non traspaia. Addio, mi rimprovero la mia curiosità come una cattiva azione, ma ne sei tu la causa.

(Omettiamo parecchie lettere nelle quali non si fa cenno del reverendo Aubain) LETTERA V LA STESSA ALLA STESSA

Noirmoutiers... maggio 1845 E tanto che voglio scriverti, mia cara Sophie, e non so quale cattiva vergogna me l’ha sempre impedito. Quello che voglio dir­ ti è così strano, ridicolo e triste insieme, che non so se ne sarai col­ pita, o se riderai. Io stessa ancora non ho capito nulla. Ti ho par­ lato diverse volte, nelle mie lettere, del reverendo Aubain, il cu­ 470

rato del nostro villaggio di Noirmoutiers. Ti ho anche racconta­ to quella certa avventura che è stata la causa del suo mestiere. Nella solitudine in cui vivo, e con le idee così tristi che conosci, l’amicizia con un uomo di spirito, istruito, amabile, mi era estre­ mamente preziosa. Probabilmente, gli ho lasciato capire che mi interessava, e in pochissimo tempo era da noi come un vecchio amico. Lo confesso, era un piacere tutto nuovo per me parlare con un uomo superiore, la cui ignoranza del mondo avvalorava ancora di più la distinzione di spirito. Forse ancora, perché ti de­ vo dire tutto, e non posso certo nascondere a te qualche difetto del mio carattere, forse ancora ingenuità della mia civetteria (è una parola tua), che spesso mi hai rimproverato, si è esercitata a mia insaputa. Amo piacere alle persone che mi piacciono, voglio essere amata da coloro che amo... A questo esordio, ti vedo spa­ lancare gli occhi, e mi sembra di sentir dire: «Julie!...». Rassicu­ rati, non comincio a quest’età a fare follie. Ma vado avanti. Si è stabilita tra noi una sorta di intimità, senza che mai, mi affretto a dirlo, avesse detto o fatto qualcosa che non fosse adatto all’abito sacro di cui è rivestito. Stava bene da me. Parlavamo spesso della sua giovinezza, e più di una volta ho avuto il torto di mettere sul tappeto quella romantica passione che gli è valsa un mazzolino di fiori (ora in cenere nel mio camino) e il triste abito che porta. Non ho tardato ad accorgermi che non pensava più alla sua infe­ dele. Un giorno, l’aveva incontrata in città e le aveva anche parla­ to. Mi raccontò tutto questo al suo ritorno, e mi disse senza emo­ zione, che lei era felice e che aveva dei bambini deliziosi. Il caso lo ha reso testimone di alcune insofferenze di Henri. Da lì le con­ fidenze, in qualche modo forzate da parte mia e, dalla sua, un rad­ doppiamento d’interesse. Conosce mio marito come se l’avesse frequentato per dieci anni. D’altronde, era un consigliere buono come te, e più imparziale, perché crede sempre che i torti siano condivisi. Mi dava sempre ragione, ma raccomandandomi pru­ denza e diplomazia. In una parola, si mostrava un amico devoto. In lui c’è qualcosa di femminile che mi incanta. È uno spirito che mi ricorda il tuo. Un carattere esaltato e fermo, sensibile e con­ centrato, fanatico del dovere... Attacco le frasi le une alle altre per ritardare la spiegazione. Non posso parlare francamente; questo foglio di carta mi intimidisce. Quanto vorrei trattenerti in un an­ 471

golo del fuoco, con un piccolo telaio tra noi due, ricamando la stessa tenda! Infine, infine, mia Sofia, bisogna che ti dica le cose come stanno. Il povero disgraziato si era innamorato di me. Ridi, o forse sei scandalizzata? Vorrei vederti in questo momento. Non mi ha detto nulla, beninteso, ma non ci sbagliamo, e i suoi gran­ di occhi neri!...Credo che stai ridendo per il colpo. Che leoni vorrebbero avere quegli occhi là che parlano senza volere! Ho vi­ sto tanti di quei signori che avrebbero voluto far parlare i loro e che non dicono che sciocchezze. Quando ho riconosciuto lo sta­ to del malato, la malignità della mia natura, te lo confesserò, ha prima di tutto gioito. Una conquista alla mia età, una conquista innocente come questa!... E una bella cosa suscitare una tale pas­ sione, un amore impossibile!... Basta dunque! questo volgare sentimento mi è passato presto. Ecco un galantuomo, mi sono detta, cui la mia sventatezza potrebbe nuocere. È orribile, biso­ gna assolutamente che tutto questo finisca. Cercherò nella mia te­ sta come poterlo allontanare. Un giorno, stavamo passeggiando sulla spiaggia, con la bassa marea. Non osava dirmi una parola, e anch’io ero imbarazzata. C’erano dei silenzi mortali di cinque minuti, durante i quali, per darmi un contegno, raccoglievo con­ chiglie. Alla fine gli ho detto: «Mio caro reverendo, bisogna assolutamente che vi diano una parrocchia migliore di questa. Scriverò a mio zio il vescovo; se occorre andrò a trovarlo». «Lasciare Noirmoutiers!», gridò lui giungendo le mani, «ma se sono così felice! Che posso desiderare di più da quando voi sie­ te qui? Mi avete esaudito e il mio piccolo presbiterio è diventato un palazzo». «No», ripresi, «mio zio è molto vecchio; se avessi la disgrazia di perderlo, non saprei a chi rivolgermi per farvi avere un posto conveniente». «Ahimè! madame, avrei un tale rimpianto a lasciare questo vil­ laggio!... Il curato di Sainte-Marie è morto... ma ciò che mi ras­ sicura, è che sarà rimpiazzato dal reverendo Raton. E un prete ben degno, e mi fa piacere; perché se monsignore avesse pensato a me...». «Il curato di Sainte-Marie è morto!», esclamai io. «Oggi stes­ so vado a N*** a vedere mio zio». 472

«Ah! madame, non fatene niente. Il reverendo Raton è ben più degno di me; e poi lasciare Noirmoutiers!...». «Signor reverendo», dissi con tono fermo, «bisogna!». A questa parola, abbassò la testa e non osò più resistere. Tor­ nai al castello quasi di corsa. Mi seguì due passi indietro, il po­ veruomo, così agitato, che non osava aprire la bocca. Era an­ nientato. Non ho perso un minuto. Alle otto ero da mio zio. L’ho trovato molto deciso per il suo Raton; ma mi vuole bene, e cono­ sco il mio potere. Alla fine dopo lunghi dibattiti, ho ottenuto ciò che volevo. Raton è stato allontanato, e il reverendo Aubain è cu­ rato di Sainte-Marie. Da dieci giorni è in città. Il poveruomo ha compreso il mio: bisogna. Mi ha gravemente ringraziato, e non ha parlato d’altro che della sua riconoscenza. Gli sono stata grata di aver lasciato Noirmoutiers al più presto e di avermi detto che aveva fretta di andare a ringraziare Monsignore. Andando via, mi ha inviato il suo grazioso cofanetto bizantino e mi ha chiesto il permesso di scrivermi qualche volta. Ebbene! mia bella? «Sei contento Coucy?»9. E una lezione. Non la dimenticherò quando tornerò in società. Ma allora avrò trentatre anni, e, e non avrò da temere di essere amata... e di un amore come questo!... Certo, questo è impossibile. - Non importa; di tutta questa fol­ lia mi rimane un grazioso cofanetto e un vero amico. Quando avrò quarant’anni, quando sarò nonna, mi interesserò perché il reverendo Aubain abbia una parrocchia a Parigi. Lo vedrai, mia cara, e sarà lui che farà la prima comunione a tua figlia.

LETTERA VI IL REVERENDO AUBAIN AL REVERENDO BRUNEAU, PROFESSORE DI TEOLOGIA A SAINT-A***

N***, maggio 1845

Mio caro maestro, è il curato di Saint-Marie che vi scrive, non più l’umile vicario parrocchiale di Noirmoutiers. Ho lasciato le mie paludi ed eccomi cittadino, in una bella parrocchia, in una ’ [Voltaire, Adélaïde du Guesclin, atto v, scena Vi].

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grande via di N***, curato di una grande chiesa, ben costruita, ben sostentata, magnifica architettura, disegnata in tutti gli album di Francia. La prima volta che vi ho detto messa, davanti a un al­ tare di marmo, tutto risplendente di dorature, mi sono domanda­ to se andasse bene per me. Niente di più vero. Una delle mie gioie è di pensare che durante le prossime vacanze verrete a trovarmi; che avrò una buona camera da offrirvi, un buon letto, senza par­ lare di un certo bordeaux, che chiamo il mio bordeaux di Noirmoutiers e che, oso dirlo, è degno di voi. Ma, vi domanderete, perché da Noirmoutiers a Sainte-Marie? Mi avete lasciato all’en­ trata della navata, mi ritrovate al campanile. O Meliboee, deus nobis haec otiafecit'°.

Mio caro maestro, la Provvidenza ha portato a Noirmoutiers una gran dama di Parigi, che alcune disgrazie, come capitano sem­ pre, l’hanno momentaneamente costretta a vivere con diecimila scudi l’anno. È una persona amabile e buona, sfortunatamente un po’ guastata da letture frivole e dalla compagnia di damerini della capitale. Annoiandosi a perire con un marito, mi ha fatto l’onore di affezionarsi a me. Erano regali senza fine, continui inviti, poi ogni giorno qualche nuovo progetto in cui io ero necessario. «Re­ verendo, voglio imparare il latino... Reverendo voglio imparare la botanica». Horresco referens", non ha voluto che le insegnassi la teologia? Dove eravate, mio caro maestro? In breve, per questa se­ te d’istruzione ci sarebbero voluti tutti i professori di Saint-A***. Fortunatamente le sue fantasie non duravano, e raramente i corsi si prolungavano fino alla terza lezione. Quando le avevo detto che in latino rosa significa rosa·. «Ma, reverendo», esclamò lei, «siete un pozzo di scienza! Perché vi siete fatto seppellire a Noirmou­ tiers?». Se devo proprio dirvi tutto, mio caro maestro, la buona donna, a forza di leggere quei libracci che si fabbricano oggi, si era messa in testa delle idee ben strane. Un giorno mi prestò un’ope­ ra che aveva appena ricevuto da Parigi e che l’aveva molto presa, Abélard, di monsieur de Rémusat12 10. Sicuramente * l’avrete letto, e 10 [Virgilio, Bucoliche, I, v. 6]. " [Virgilio, Eneide, II, v. 204]. 12 [I due volumi àeW’Abélard di Charles de Rémusat erano apparsi rispettivamente nel maggio e nel luglio 1845].

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avrete ammirato le sagge ricerche dell’autore, sfortunatamente di­ rette da un cattivo spirito. Io sono saltato subito al secondo volu­ me, alla Philosophie d’Abélard, ed è solo dopo averlo letto con il più vivo interesse che sono ritornato al primo, alla vita del grande eresiarca. Era, beninteso, tutto quello che la mia gran dama si era degnata di leggere. Mio caro maestro, quello mi aprì gli occhi. Compresi che era pericoloso frequentare la compagnia di belle da­ me tanto amanti delle scienze. Questa avrebbe dato dei punti a Eloisa per l’esaltazione. Una situazione così nuova per me che mi imbarazzava molto, quando improvvisamente mi dice: «Reveren­ do, bisogna che voi siate il curato di Sainte-Marie; il titolare è mor­ to. Dovete farlo!». Poi monta velocemente in carrozza, va a tro­ vare Monsignore; e qualche giorno dopo ero il curato di SainteMarie, un po’ vergognoso di aver ottenuto questo titolo grazie a un favore, ma tutto sommato, felice di vedermi lontano dalle grin­ fie di una leonessa della capitale. Leonessa, mio caro maestro, è in dialetto parigino, una donna di moda. "Ω Ζεΰ, γυναικών οίον ώπασας γένος1311 *

Bisognava dunque respingere la fortuna per sfidare il perico­ lo? Che sciocco! San Thomas Beckett di Canterbury non accettò i castelli Enrico II?14 Addio, mio caro maestro, spero di filosofeg­ giare con voi fra qualche mese, ognuno in una comoda poltrona, davanti a una grassa pollastra e a una bottiglia di bordeaux, more philosophorum. Vale et me ama.

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11 Verso, credo, dei Sette contro Tebe di Eschilo: «O Zeus! le donne!... che razza ci hai regalato!». Il reverendo Aubain e il suo maestro, il reverendo Bruneau sono buoni umanisti. 14 [Thomas Beckett fu prima l’amico di re Enrico II Plantageneto che lo colmò di fa­ vori, ne fece il suo cancelliere e nel 1162 lo nominò arcivescovo di Canterbury. Caduto poi in disgrazia per aver difeso i diritti del clero contro lo stesso Enrico II, fu assassinato nella cattedrale, probabilmente per ordine dello stesso re nel 1170].

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Il viccolo1 di donna Lucrezia

Avevo ventitré anni quando partii per Roma. Mio padre mi diede una dozzina di lettere di raccomandazione, tra cui una, lun­ ga non meno di quattro pagine, era sigillata. L’indirizzo era: «Al­ la marchesa Aldobrandi». «Mi scriverai» mi disse mio padre «se la marchesa è ancora bella». Ora, dalla mia infanzia, vedevo nel suo studio, appeso sopra il caminetto, il ritratto in miniatura di una donna bellissima, la ca­ pigliatura incipriata incoronata di edera, con una pelle di tigre sulle spalle. Sullo sfondo, si leggeva: Roma 18**. Poiché quell’ac­ conciatura mi sembrava strana, mi era venuto spesso da chiedere chi fosse quella signora. Mi rispondevano: «È una baccante». Ma questa risposta non mi convinceva; sospettavo che celasse anche un segreto; perché, a quella domanda tanto semplice, mia madre stringeva le labbra, e mio padre assumeva un’aria seria. Stavolta, nel consegnarmi la lettera sigillata, guardò di sfuggi­ ta il ritratto; feci come lui involontariamente, e mi venne l’idea che questa baccante incipriata poteva anche essere la marchesa Aldobrandi. Dato che cominciavo allora a capire le cose di que­ sto mondo, non mancai di trarre ogni sorta d’illazioni dalla faccia di mia madre e dallo sguardo di mio padre. ' [Sic],

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Arrivato a Roma, la prima lettera che volli recapitare fu quel­ la per la marchesa. Abitava in un bel palazzo, vicino Piazza San Marco. Consegnai la lettera e il mio biglietto a un domestico in livrea gialla che mi fece entrare in un ampio salone, buio e triste, piut­ tosto mal arredato. Però, in tutti i palazzi di Roma, si trovano quadri di grandi maestri. Quel salone ne conteneva un gran nu­ mero, molti dei quali di notevole fattura. Distinsi per primo un ritratto femminile che mi sembrò un Leonardo da Vinci. Dalla ricchezza della cornice, dal cavalletto di palissandro sul quale era posato, non si poteva dubitare che si trattava del pezzo principale della collezione. Poiché la marchesa tardava, ebbi tutto il tempo di esaminarlo. Lo portai persino ac­ canto a una finestra per poterlo osservare in una luce migliore. Era visibilmente un ritratto, non un’opera di fantasia, poiché non si inventano volti come quello che avevo davanti: una bella don­ na con le labbra un po’ tumide, le sopracciglia quasi riunite, lo sguardo altero e carezzevole insieme. Sullo sfondo si vedeva uno scudo gentilizio, sovrastato da una corona ducale. Ma ciò che più mi colpì fu l’acconciatura: salvo la cipria, era né più né meno quella della baccante di mio padre. Tenevo ancora in mano il ritratto quando la marchesa entrò. «Giusto come il padre!», esclamò dirigendosi verso di me. «Ah! i francesi! i francesi! Appena arrivato, e già sequestra Don­ na Lucrezia». Mi affrettai a porgerle le mie scuse per la mia indiscrezione, e m’imbarcai in sperticati elogi sul capolavoro di Leonardo che avevo avuto la temerarietà spostare. «È proprio un Leonardo», disse la marchesa, «ed è il ritratto della famigerata Lucrezia Borgia. Tra tutti i miei quadri era quel­ lo che vostro padre ammirava di più... Ma, buon Dio! che somi­ glianza! Mi sembra di vedere vostro padre, com’era venticinque anni fa. Come sta? Che fa? Non verrà, una volta o l’altra, a ve­ derci a Roma?». Benché la marchesa non portasse né cipria né pelle di tigre, al­ la prima occhiata, con la mia geniale penetrazione, riconobbi in lei la baccante di mio padre. Non erano bastati venticinque anni a cancellare i segni di una grande bellezza. Solo l’espressione del 478

viso era cambiata, come l’acconciatura. Era vestita tutta di nero, e dal suo triplo mento, dal suo grave sorriso, dall’aspetto solenne e radioso, capii che era diventata una donna devota. Mi accolse, del resto, nel modo più affettuoso. In due parole, mi offrì la sua casa, la sua borsa, i suoi amici, tra i quali mi no­ minò molti cardinali. «Fate conto», disse «ch’io sia vostra madre...». Chinò modestamente gli occhi. «Vostro padre mi incarica di vegliare su di voi e di consigliarvi». E subito, per provarmi che non intendeva considerare la sua nuova missione come una sinecura, cominciò con il mettermi in guardia contro i pericoli che Roma poteva presentare per un gio­ vane della mia età, e mi esortò vivamente a evitarli. Dovevo te­ nermi lontano dalle cattive compagnie, soprattutto gli artisti, e frequentare soltanto le persone che lei mi avrebbe indicato. In breve, ricevetti un breve sermone. Al quale risposi con il massi­ mo riguardo e la dovuta ipocrisia. Quando mi alzai per prendere congedo: «Sono dolente», mi disse «che il marchese mio figlio sia ora nelle nostre terre di Romagna, ma vi presenterò l’altro mio figlio, don Ottavio, che sarà presto un monsignore. Spero che vi piacerà e che diventerete amici come dovete esserlo...». E aggiunse precipitosamente: «Perché siete su per giù della stessa età, ed è un ragazzo dol­ ce e serio come voi». Subito mandò a chiamare don Ottavio. Vidi un gran giovane pallido, dall’aria malinconica, gli occhi sempre bassi, avvertendo già il suo magone. Senza dargli tempo di parlare, la marchesa mi fece, in nome suo, tutte le più affettuose profferte di servigi. Lui confermava con grandi inchini ogni frase della madre, e restammo intesi che il giorno dopo sarebbe venuto a prendermi per andare un po’ in giro insieme e cenare poi in famiglia a palazzo Aldobrandi. Avevo appena fatto una ventina di passi in strada, quando qualcuno gridò dietro di me con voce imperiosa: «Dove andate solo a quest’ora, don Ottavio?». Mi voltai e vidi un grasso reverendo che mi squadrava da ca­ po a piedi spalancando gli occhi dallo stupore. 479

«Non sono don Ottavio» gli dissi. Il reverendo, salutandomi nel modo più ossequioso, si profu­ se in scuse e, un momento dopo, lo vidi entrare nel palazzo Aldobrandi. Proseguii per la mia strada, assai poco lusingato che mi avessero scambiato per un monsignore in erba. Nonostante gli avvertimenti della marchesa, e forse, anzi, per quella cagione, la prima cosa che feci fu di andare a scovare la di­ mora di un pittore di mia conoscenza, e passai un’ora con lui nel suo studio, a parlare dei modi di divertirsi, leciti e non, che Roma mi poteva fornire. Feci cadere il discorso sugli Aldobrandi. La marchesa, mi disse, dopo essere stata molto leggera, si era gettata a corpo morto nella più profonda devozione, quando eb­ be riconosciuto di aver varcato l’età delle conquiste galanti. Il fi­ glio maggiore era un vero bruto, che passava il tempo a caccia, quando non era occupato a incassare il denaro che gli portavano i fattori dei suoi latifondi. Stavano per istupidire anche l’altro fi­ glio, don Ottavio, del quale volevano fare a suo tempo un cardi­ nale. Intanto, l’avevano consegnato ai gesuiti. Vietato guardare le donne, fare un passo senza avere alle calcagna un certo reverendo che l’aveva allevato per servire a Dio, che, dopo esser stato l’ulti­ mo amico1 della marchesa, governava ora la sua casa con autorità quasi dispotica. Il giorno dopo, don Ottavio, seguito da don Negroni, lo stes­ so che la sera prima mi aveva scambiato per il proprio discepolo, venne a prendermi in carrozza, e mi offrì i suoi servigi anche da cicerone. La prima visita che facemmo fu a una chiesa. Sull’esempio del suo reverendo, don Ottavio s’inginocchiò, si batté il petto, si fece non so quante volte il segno della croce. Dopo essersi al­ zato, mi fece vedere gli affreschi e le statue, e me ne parlò da uo­ mo assennato e di buon gusto. Fui lietamente sorpreso. Comin­ ciammo a chiacchierare e la sua conversazione mi piacque. Per un po’ abbiamo parlato in italiano. Improvvisamente mi sentii dire in francese: «Il mio precettore non capisce una parola della vostra lingua. Parliamo francese, saremo più liberi». 2 [In italiano nel testo].

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Si sarebbe detto che il cambiamento d’idioma avesse trasfor­ mato quel giovane. Nulla di pretesco nei suoi discorsi. Mi sem­ brava di ascoltare uno dei nostri liberali di provincia. Notai che snocciolava tutto con la stessa voce monotona, e che spesso il suono della frase contrastava in modo curioso con la vivacità del­ le espressioni. Si capiva che era un’abitudine presa apparente­ mente per sviare don Negroni, il quale, ogni tanto, si faceva spie­ gare quello che dicevamo. S’intende che le nostre traduzioni era delle più libere. Vedemmo passare un giovane con delle calze viola. «Ecco», mi disse don Ottavio «i nostri patrizi di oggi. Infame livrea! e quella sarà la mia tra qualche mese! Che fortuna», ag­ giunse dopo un momento di silenzio, «che fortuna vivere in un paese come il vostro! Se fossi francese, forse un giorno diventerei deputato!». Quella sua nobile ambizione mi diede una gran voglia di ride­ re, e poiché il nostro reverendo se ne avvide, fui costretto a spie­ gargli che parlavamo dell’errore di un archeologo, il quale aveva scambiato per antica una statua del Bernini. Ritornammo a pranzare al palazzo Aldobrandi. Quasi subito dopo il caffè, la marchesa mi chiese di scusare il figlio, costretto da certe sue devozioni a ritirarsi nel suo appartamento. Rimasi solo con lei e con don Negroni, il quale, sprofondato in un’am­ pia poltrona, dormiva il sonno del giusto. La marchesa mi interrogò minutamente su mio padre, su Pa­ rigi, sulla mia vita passata, sui miei progetti per l’avvenire. Mi sembrò affabile e buona, ma un po’ troppo curiosa e soprattutto un troppo preoccupata della mia salvezza. D’altronde, parlava l’i­ taliano in modo ammirevole, e feci con lei un’ottima lezione di pronuncia che mi ripromisi di ripetere. Ritornai spesso a farle visita. Quasi ogni mattina andavo a ve­ dere le antichità con il figlio e con l’onnipresente Negroni, e la se­ ra cenavo con loro, a palazzo Aldobrandi. La marchesa riceveva poca gente, e quasi tutti ecclesiastici. Una volta, però, mi presentò una signora tedesca, da poco convertita, una sua amica intima. Era questa una signora di Strah­ lenheim, una bellissima creatura, stabilitasi già da molti anni a Roma. Mentre le due amiche parlavano insieme di un predicato481

re famoso, io consideravo, alla luce di una lampada, il ritratto di Lucrezia, quando mi sembrò di dover dire la mia: «Che occhi!», esclamai; «si direbbe che le palpebre stiano per muoversi!». A questa lode iperbolica e un po’ pretenziosa, che avevo ar­ rischiato per darmi l’aria d’intenditore con la signora di Strah­ lenheim, questa trasalì per lo spavento e nascose il viso nel faz­ zoletto. «Che avete, mia cara?», disse la marchesa. «Ah! nulla, ma quello che il signore ha appena detto!...». Fu bersagliata di domande e, appena ci disse che l’espressione da me usata le ricordava una storia terrificante, fu costretta a rac­ contarcela. Eccola in due parole: La signora di Strahlenheim aveva una cognata, di nome Wilhelmine, fidanzata con un giovane della Westfalia, Julius di Katzenellenbogen3, volontario nella divisione del generale Kleist4. Mi dispiace di dover ripetere tanti nomi barbari, ma le storie straordinarie non capitano mai che alle persone con nomi diffici­ li da pronunciare. Julius era un simpatico giovane, imbottito di patriottismo e di metafisica. Nel partire per la guerra, aveva dato il proprio ritratto a Wilhelmine, e Wilhelmine gli aveva dato il suo, che lui portava sempre sul cuore. Sono cose che si fanno molto in Germania. Il 13 settembre 1813, Wilhelmine era a Kassel5, nel suo salot­ to, verso le cinque di sera, intenta a far la maglia con la madre e con la cognata. Sferruzzando, guardava il ritratto del fidanzato, su un tavolino da lavoro, di fronte a lei. A un tratto, lancia un grido spaventoso, porta la mano al cuore e sviene. Ci vollero tut­ te le fatiche del mondo per farle riprendere conoscenza, e quan­ do potè parlare: «Julius è morto!», gridò, «Julius è stato ucciso!». ' [Katzenellenbogen: antica contea tedesca sul Reno e il Main], * [F. H., F..E. Kleist, conte di Nollendorf, feldmaresciallo prussiano (1762-1823) nella battaglia di Lipsia comandò la divisione prussiana all’ala sinistra dell’armata de­ gli Alleati]. 5 [Città della Germania occidentale, antica capitale della Hesse, sulla Fulda, a più di 20 km a ovest di Lipsia].

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Asserì, e l’orrore dipinto sui suoi tratti non lasciava dubbi sul­ la sua sincerità, che aveva visto chiudere gli occhi al ritratto, e che al tempo stesso aveva provato un dolore atroce come se un ferro rovente le avesse trapassato il cuore. Ciascuno tentò invano di farle capire che quella sua visione non aveva niente di reale e che non doveva darle alcuna impor­ tanza. La povera bambina era inconsolabile; passava la notte in la­ crime, e il giorno dopo volle vestirsi a lutto, come se qualcuno le avesse già confermato la disgrazia che le era stata rivelata. Due giorni dopo ricevettero la notizia della cruenta battaglia di Lipsia6. Julius scriveva alla fidanzata un biglietto, con la data del 13 e l’indicazione delle ore tre pomeridiane. Non era stato fe­ rito, si era fatto onore ed era rientrato in città, dove contava di passare la notte nel quartier generale, e dunque lontano da ogni pericolo. Questa lettera così rassicurante non riuscì a calmare Wilhelmine, che, osservando che era stata scritta alle tre, si osti­ nava a credere che il suo promesso sposo fosse morto alle cinque. La sventurata non si ingannava. Giunse presto la notizia che Julius, incaricato di portare un ordine, era uscito da Lipsia alle quattro e mezzo, e che a tre quarti di lega dalla città era stato uc­ ciso oltre l’Elster, con una scoppiettata, da un nemico allo sban­ do, appostato in un fosso. La pallottola, prima di passargli il cuo­ re, aveva infranto il ritratto di Wilhelmine». «E che ne fu quella povera ragazza?», chiesi alla signora di Strahlenheim. «Oh! è stata molto male. Ora è sposata con il signor consi­ gliere di giustizia di Werner, e se andaste a Dessau7, vi mostrereb­ be il ritratto di Julius». «In tutto questo c’è sempre lo zampino del diavolo», disse il reverendo, che aveva dormito con un occhio solo durante il rac­ conto della signora di Strahlenheim. «Colui che faceva parlare gli oracoli dei pagani può anche far muovere gli occhi ad un ritratto quando gli pare. Nemmeno vent’anni fa, a Tivoli, un inglese fu strozzato da una statua». 6 [Dove le truppe di Napoleone furono vinte dagli Alleati, fra il 16 e il 19 ottobre 1813; l’edizione francese ci indica che Mérimée sbaglia mese e giorno]. 7 [Città tedesca, antica capitale dell’Anhalt, sulla Mulde].

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«Da una statua!», esclamai; «e come avvenne?». «Era un milord che aveva fatto certi scavi a Tivoli. Là trovò la statua di un’imperatrice, Agrippina, Messalina... poco importa. Tanto ha fatto, che se la fece portare a casa, e che a forza di guar­ darla e di ammirarla, ne diventò pazzo. Tutti quei signori prote­ stanti il cervello non ce l’hanno tutto. Si rivolgeva alla statua co­ me a sua moglie, alla sua milady, e se la baciava, per quanto fosse di marmo. Diceva che la statua prendeva vita ogni notte, per il suo piacere. Certo è che una mattina trovarono il nostro milord morto stecchito nel letto. Eppure, lo credereste? Si è trovato un altro inglese per comprare la statua. Io, ne avrei fatto calce». Quando si intavola una conversazione sulle avventure sopran­ naturali non ci si ferma più. Ognuno aveva la sua storia da rac­ contare. Io stesso feci la mia parte in quel concerto di storie ter­ rificanti; di modo che, al momento di separarci, eravamo tutti al­ quanto scossi e pieni di rispetto per la potenza del diavolo. Me ne tornai a casa a piedi, e per raggiungere la via del Corso presi un vicolo tortuoso per il quale non mi era ancora mai capi­ tato di passare. Era deserto. Non si vedevano che lunghe mura di giardini, e certe catapecchie senza luci. Era appena suonata mez­ zanotte; il tempo era scuro. Ero al centro della strada, cammi­ nando spedito, quando udii un lieve brusio, al di sopra della mia testa, un si/ e, nello stesso istante, una rosa cadde ai miei piedi. Al­ zai gli occhi, e nonostante il buio vidi, a una finestra, una donna vestita di bianco, con il braccio teso verso di me. Noialtri france­ si siamo molto presuntuosi in un paese straniero, e i nostri padri, vincitori dell’Europa, ci hanno cullati nel racconto di leggende quanto mai lusinghiere per il nostro orgoglio nazionale. Io cre­ devo religiosamente alla facile infiammabilità delle donne tede­ sche, spagnole e italiane alla sola vista di un francese. A dirla in breve, in quel tempo ero fermamente ancorato ai pregiudizi del mio paese, e d’altronde, la rosa non parlava chiaro? «Signora», dissi sottovoce nel raccogliere la rosa, «avete la­ sciato cadere il fiore...». Ma la donna era già scomparsa e la finestra si era richiusa sen­ za fare il minimo rumore. Feci quello che avrebbe fatto qualun­ que giovane al posto mio. Cercai la porta più vicina; era a due passi dalla finestra; la trovai, e attesi che venissero ad aprirmi. 484

Passarono cinque minuti nel più profondo silenzio. Allora tossii, poi grattai piano; ma la porta non si aprì. Guardai con più atten­ zione, sperando di trovare una chiave o un paletto; con mia viva sorpresa trovai un lucchetto chiuso. «Dunque il geloso non è rincasato ancora», mi dissi. Raccolsi un sassolino e lo tirai contro la finestra. Batté contro un’imposta di legno e ricadde ai miei piedi. «Diavolo!», pensai, «le signore romane credono forse che si vada in giro con le scale in tasca? Non mi avevano mai parlato di questa usanza». Aspettai ancora per parecchi minuti, ma inutilmente. Solo che mi parve una o due volte di veder tremare appena lo scuro, come se dall’interno qualcuno avesse tentato di schiuderlo, per guarda­ re in strada. In capo a un quarto d’ora avevo esaurito la mia pa­ zienza, accesi un sigaro e proseguii il mio cammino, non senza avere esattamente osservato, per poterla riconoscere poi, la casa chiusa col lucchetto. Il giorno dopo, riflettendo su questa avventura, arrivai alle conclusioni seguenti. Una giovane signora romana, probabil­ mente di grande bellezza, mi aveva scorto nelle mie passeggiate in città, e si era invaghita della mia modesta persona. Se non mi aveva dichiarato il suo ardore che attraverso il dono di un fiore misterioso era perché un onesto pudore l’aveva trattenuta, o me­ glio era stata sviata dalla presenza di una governante, forse da un maledetto tutore come il Bartolo di Rosina. Decisi pertanto di condurre un assedio in piena regola davanti alla casa abitata da quella infanta. Con questo bel proposito uscii di casa, dopo essermi ravviati i capelli con il mio colpo di spazzola dei giorni di conquista. Ave­ vo infilato il pastrano nuovo e i guanti gialli. Così vestito, con il cappello sulle ventitré, la rosa appassita all’occhiello, mi diressi al vicolo dal nome ancora ignoto per me, ma che non feci fatica a ri­ trovare. Da una scritta, sopra una madonna, seppi che si chiama­ va il viccolo di Madama Lucrezia. Quel nome suscitò la mia meraviglia. Ricordai subito il ritrat­ to di Leonardo da Vinci, e le storie di presentimenti e diavolerie che si erano narrate il giorno prima dalla marchesa. Poi pensai che esistono amori predestinati dal cielo. Non poteva chiamarsi Lu­ 485

crezia? E non poteva anche somigliare alla Lucrezia della galleria Aldobrandi? Faceva giorno, ero a due passi da una leggiadra creatura, e nes­ sun pensiero sinistro poteva influire sull’emozione che provavo. Ero davanti alla casa. Aveva il numero 13. Cattivo presagio... Ahimè! non rispondeva neppure all’idea che me n’ero fatto ve­ dendola di notte. Non era un palazzo, tutt’altro. Vedevo ora una cinta di muri anneriti dal tempo, coperti di muschio, dietro i qua­ li sporgevano i rami di alcuni alberi da frutto, mal potati. In un angolo del recinto sorgeva una palazzina di un solo piano; con due finestre sulla strada, tutte e due fermate da vecchie imposte protette di fuori da strisce di ferro. La porta era bassa, sovrastata da uno stemma corroso, chiusa come il giorno prima da un gros­ so lucchetto attaccato a una catena. Sulla porta, si leggeva, scritto con il gesso: vendesi o affittasi. Eppure, non mi ero sbagliato. Da quel lato del vicolo le case non erano molte e non c’era da confondersi. Era il mio lucchetto, e, per giunta, sul selciato vicino alla porta, due petali di rosa sta­ vano ancora a segnare il luogo preciso dove avevo ricevuto la mu­ ta dichiarazione della mia amata, e provavano che non si puliva spesso davanti alla casa. Chiesi alla povera gente del vicinato per sapere dove abitasse il guardiano di quella misteriosa dimora. «Non sta qui» mi rispondevano bruscamente. Sembrava che la mia domanda dispiacesse a coloro che inter­ rogavo, e questo aumentava maggiormente la mia curiosità. An­ dando di porta in porta, finii per entrare in una specie di cantina buia, dove scorsi una vecchia che si sarebbe potuto sospettare di stregoneria, poiché aveva un gatto nero e faceva cuocere non so che intrugli in un paiolo. «Volete vedere la casa di donna Lucrezia?» mi disse, «sono io che ho la chiave». «Ebbene, mostratemela». «Forse la vorreste affittare?» chiese sorridendo con aria in­ credula. «Sì, se mi conviene». «Non vi converrà. Ma, vediamo, mi darete un paolo se ve la faccio vedere?». 486

«Molto volentieri». A quella promessa, si alzò velocemente dallo sgabello, staccò dal muro una chiave tutta arrugginita e mi accompagnò al numero Î3. «Perché», le domandai, «chiamano questa casa la casa di Lu­ crezia?». Allora la vecchia sogghignando: «Perché», disse, «vi chiamano straniero?». «Bene; ma chi era questa donna Lucrezia? Era una signora romana?». «Come! venite a Roma e non avete sentito parlare di donna Lucrezia! Vi racconterò la sua storia quando saremo entrati. Ma guarda un’altra diavoleria! Non so che cos’abbia questa chiave, non gira. Provate voi». Infatti, il lucchetto e la chiave non si erano mai visti da parec­ chio. Pure, in mezzo a tre imprecazioni e arrotando i denti, riu­ scii a far girar la chiave; ma lacerai i miei guanti gialli e mi slogai il palmo della mano. Entrammo in un corridoio buio che dava su alcune stanze del pianterreno. I soffitti, curiosamente rivestiti di legno, coperti di ragnatele, mostravano appena qualche resto di doratura. Dal tanfo che ve­ niva da ogni dove era chiaro che quelle stanze erano da molto tempo disabitate. Non si vedeva un mobile. Qua e là, strisce di vecchio cuoio penzolavano dalle pareti sainitrose. Dalle sculture di alcune mensole e dalla forma dei camini, arguii che la casa do­ veva risalire al XV secolo, ed è probabile che una volta fosse sta­ ta decorata con una certa eleganza. Le finestre, dai vetri piccoli e rotti per la maggior parte, davano sul giardino, adorno di un ro­ saio in fiore, di alcuni alberi da frutto e da molti broccoli. Dopo aver percorso tutte le camere del pianterreno, salii al piano di sopra, dove avevo visto la mia sconosciuta. La vecchia tentò di trattenermi, dicendomi che non c’era nulla da vedere e che la scala era pericolante. Ma, vista la mia testardaggine, mi se­ guì, sebbene con forte ripugnanza. Le camere del piano somiglia­ vano molto alle altre; erano solo meno umide; il pavimento e le finestre erano in uno stato migliore. Nell’ultima stanza dove en­ trai c’era un ampia poltrona di pelle nera che, strano a dirsi, non era coperta di polvere. Mi ci sedetti, e trovandola comoda per 487

ascoltare una storia, pregai la vecchia di raccontarmi quella di donna Lucrezia; ma prima, tuttavia, le regalai qualche paolo per rinfrescarle la memoria. La vecchia tossì, si soffiò il naso, e co­ minciò così: «Al tempo dei pagani, quando Alessandro era imperatore, aveva una figlia, bella come il sole, che chiamavano donna Lucre­ zia. Eccola là!...». Mi voltai di colpo. La vecchia mi indicò una mensola scolpita che sorreggeva la trave maestra del soffitto. Era una sirena rozza­ mente lavorata. «La dama», continuò la vecchia, «amava divertirsi. E poiché il padre avrebbe anche potuto trovare da ridere, si era fatta co­ struire questa casa dove ci troviamo. Tutte le notti, scendeva dal Quirinale e veniva qui per divertirsi. Si affacciava a questa finestra, e quando passava per la strada un bel cavaliere come voi ora, signore, lo chiamava; come lo accogliesse, lo capite voi. Ma gli uomini sono chiacchieroni, almeno alcuni, e avrebbero potuto nuocerle con le chiacchiere. Così faceva pulizia. Quan­ do aveva salutato il galante, i suoi sgherri lo aspettavano nella scala per la quale siamo saliti. Ve lo spedivano, e poi lo interra­ vano nelle aiuole di broccoli. Hanno trovato così tante ossa in quel giardino! Quell’andazzo durò a lungo. Ma ecco che una sera il fratello, che si chiamava Sisto Tarquinio8, passò sotto la sua finestra. Non lo riconobbe. Lo chiama. Lui sale. La notte tutti i gatti sono gri­ gi. Gli succede come agli altri. Ma aveva lasciato in camera il faz­ zoletto, sul quale c’era scritto il suo nome. Appena Lucrezia si accorse della sua ultima perfidia è colta dalla disperazione. E allora che fa? Si slaccia una giarrettiera, e s’impicca a quel travetto là. Ebbene, un bell’esempio per la gio­ ventù!». Mentre la vecchia confondeva così tutti i tempi e mescolava i Tarquini con i Borgia, avevo gli occhi fissi sul pavimento. Vi ave­ vo scoperto alcuni petali di rosa ancora freschi, che mi davano molto da pensare. «Chi è che coltiva il giardino?», domandai alla vecchia. s [Sisto Tarquinio che violò Lucrezia, la moglie di Tarquinio Collatino].

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«È mio figlio, signore, il giardiniere del signor Vanozzi, il pa­ drone del giardino accanto. Il signor Vanozzi è sempre in Ma­ remma; non viene spesso a Roma. Ecco perché il giardino non è troppo ben tenuto. Mio figlio è con lui. Temo che non ritorni tan­ to presto», aggiunse sospirando. «È molto occupato con il signor Vanozzi?». «Ah! è un uomo strano che lo adopera in troppe cose... Temo sempre che succeda qualcosa di male... Ah! mio povero figlio!». Fece un passo verso la porta, come per tagliar il discorso. «Nessuno abita qui dunque?», ripresi, trattenendola. «Proprio nessuno». «E perché?». Alzò le spalle. «Sentite», le dissi, offrendole uno scudo «ditemi la verità. Qui ci viene una donna». «Una donna, divino Gesù!». «Sì, l’ho vista ieri sera. Le ho parlato». «Santa Madonna!», gridò la vecchia correndo verso la scala. «Dunque era donna Lucrezia? Usciamo, usciamo, mio buon signore! Veramente, mi avevano detto che tornava qui, di notte, ma non ho voluto dirvelo per non recar danno al padrone, perché pensavo che aveste voglia di affittarla». Mi fu impossibile trattenerla. Aveva fretta di lasciare la casa, e di portare un cero, mi disse, alla chiesa più vicina. Uscii anch’io, e la lasciai andare, disperando di non poter sa­ pere altro. Si può indovinare che non raccontai la mia storia in casa Aldobrandi: la marchesa era troppo puritana, e don Ottavio era troppo preso dalla sua passione per la politica per essere di buon consiglio in un amoretto. Ma corsi dal mio amico pittore, che sa­ peva tutto della vita di Roma, dal cedro all’issopo, e gli chiesi che cosa ne pensasse. «Penso», mi disse «che avete visto il fantasma di Lucrezia Bor­ gia. Che pericolo avete corso! Se era così pericolosa da viva, figu­ riamoci quello che deve essere da morta! Fa venire i brividi!». «A parte gli scherzi, chi può essere?». «Il signore è ateo e filosofo, e non crede alle cose più rispetta­ bili. Benone; allora, che direste di quest’altra ipotesi? Supponia­ 489

mo che la vecchia presti la casa a delle donne capaci di chiamare la gente che passa nella strada. Si sono viste vecchie abbastanza depravate da fare questo mestiere». «Ottimamente» dissi; «ma ho forse l’aria di un santo perché la vecchia non mi abbia offerto i suoi servigi. Questo mi offende e poi, mio caro, ricordatevi dell’arredamento della casa. Bisogne­ rebbe avere il diavolo in corpo per accontentarsene». «Allora, è un fantasma, non ci sono dubbi. Ma, un momento! Ancora un’altra ipotesi. Vi sarete sbagliato di casa. Perdinci! ora che ci penso: accanto a un giardino! una piccola porta bassa?... Ebbene, è la mia grande amica Rosina. Non saranno diciotto me­ si, era l’ornamento della strada. È vero che è diventata guercia, ma è un dettaglio... Ha ancora un bellissimo profilo». Tutte quelle spiegazioni non mi convincevano. Venuta sera, passai lentamente davanti alla casa di Lucrezia. Non vidi niente. Ripassai, nulla ancora. Per tre o quattro sere di fila, feci il palo sotto le sue finestre, uscendo da palazzo Aldobrandi, sempre sen­ za risultato. Cominciavo a dimenticare la misteriosa inquilina della casa n. 13, quando una sera, nell’attraversare il vicolo verso mezzanotte, potei distinguere una risatina femminile dietro le im­ poste della finestra dove era apparsa la donna del fiore. Due vol­ te intesi quella risatina, e non riuscii a dominare un certo senso di terrore quando, nello stesso momento, vidi sbucare dall’altro ca­ po del vicolo una processione di penitenti incappucciati, con i ce­ ri in mano, che andavano a seppellire un morto. Quando furono passati, mi piantai sotto la finestra, ma non intesi più niente. Pro­ vai a tirare qualche sassolino, chiamai persino con voce più o me­ no chiara; ma non apparve nessuno e un acquazzone improvviso mi costrinse a ritirarmi. Mi vergogno a dire quante volte mi fermai davanti a quella ca­ sa maledetta, senza riuscire mai a risolvere l’enigma che mi tor­ mentava. Una volta sola, però, passai nel vicolo di donna Lucre­ zia con don Ottavio e il suo inevitabile reverendo. «Ecco», dissi «la casa di Lucrezia». Lo vidi che cambiava colore. «Sì», rispose, «una tradizione popolare incertissima, vuole che Lucrezia Borgia abbia avuto qui la casa dei suoi svaghi. Se quei muri potessero parlare, chissà quanti orrori ci rivelerebbero! Pu­ 490

re, amico mio, quando paragono quei tempi ai nostri, mi avviene di rimpiangerli. Sotto Alessandro vi, c’era ancora qualche roma­ no. Adesso, non ce ne sono più. Cesare Borgia9 era un mostro, ma un grand’uomo. Voleva cacciare i barbari dall’Italia, e forse se non fosse morto il padre, sarebbe riuscito nel suo grande proponi­ mento. Ah! che il cielo ci mandi un tiranno come Borgia e che ci liberi dai despoti umani che ci abbrutiscono!». Quando don Ottavio si lanciava nelle diatribe politiche, era impossibile fermarlo. Eravamo a Piazza del Popolo e il suo pane­ girico del dispotismo illuminato durava ancora. Ma eravamo cen­ to leghe lontani dalla mia Lucrezia. Una sera che ero andato molto tardi a ossequiare la marchesa, questa mi disse che il figlio non si sentiva bene e mi pregava di sa­ lire nella sua stanza. Lo trovai disteso sul letto tutto vestito, che leggeva un giornale francese che gli avevo mandato la mattina, na­ scosto con cura in un volume dei Padri della Chiesa. Da qualche tempo, la collezione dei Santi Padri ci serviva per quelle comuni­ cazioni che dovevamo nascondere al reverendo e alla marchesa. I giorni di corriere dalla Francia, mi portavano un in folio. Io ne re­ stituivo un altro nel quale nascondevo un giornale che mi presta­ vano i segretari dell’ambasciata. Tutto questo mi poneva in gran concetto di devozione presso la marchesa e il suo direttore, che talvolta cercava di farmi parlare di teologia. Dopo aver discorso un po’ con don Ottavio, accorgendomi che era molto irrequieto e che persino la politica non riusciva a fissare la sua attenzione, lo consigliai di svestirsi e lo salutai. Fa­ ceva freddo e non avevo il mantello. Don Ottavio mi pregò di prendere il suo; l’accettai e mi feci dare una lezione sulla difficile arte di drappeggiarsi da vero romano. Imbacuccato fino al naso, uscii da palazzo Aldobrandi. Avevo fatto appena qualche passo sul marciapiede di Piazza San Marco, quando fui avvicinato da un popolano che avevo visto poco pri­ ma seduto su un banco fuori dal portone del palazzo, si avvicinò a me e mi porse un pezzo di carta tutto spiegazzato: «Per l’amor di Dio, leggete questo», disse. Subito disparve, correndo a gambe levate. ’ [Cesare Borgia (1474-1507), figlio di papa Alessandro vi Borgia e fratello di Lucre­ zia Borgia].

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Avevo preso il foglio e cercavo un po’ di luce per leggerlo. Al chiarore del lume di una Madonna, vidi che era un biglietto scrit­ to a matita, e, da quanto sembrava, con mano tremante. Decifrai a stento queste parole: «Non venire stasera, o siamo perduti! Sanno tutto, eccetto il tuo nome, nulla ci potrà dividere. La tua LUCREZIA». «Lucrezia!» esclamai «ancora Lucrezia! che diavolo di mistifi­ cazione c’è qua sotto? «Non venire». Già, ma che strada si pren­ de per venire da voi, bellezza mia?». Così rimuginando l’affare del biglietto, imboccai istintiva­ mente la strada verso il vicolo di donna Lucrezia, e poco dopo mi ritrovai di fronte alla casa n. 13. La via era deserta come al solito, e il rumore dei miei passi di­ sturbavano il profondo silenzio che regnava in tutto il vicinato. Mi fermai e alzai gli occhi verso una finestra ben nota. Questa volta non mi ingannavo. L’imposta si apriva. Ecco la finestra tutta spalancata. Mi parve di vedere una forma umana che si stagliava sullo sfondo nero della stanza. «Lucrezia, siete voi?» dissi sottovoce. Nessuno rispose, ma udii un piccolo scricchiolio, di cui lì per lì non capii la causa. «Lucrezia, siete voi?» tornai a chiedere un po’ più forte. In quello stesso momento, ricevetti un colpo tremendo in pet­ to, si udì una detonazione, e mi ritrovai disteso per terra. Una voce rauca mi gridò: «Da parte della signora Lucrezia!». E l’imposta si richiuse senza rumore. Mi alzai subito barcollando, e per prima cosa mi palpai, cre­ dendo di trovare un gran buco nel mezzo stomaco. Il mantello era forato, anche la giubba, ma la pallottola era stata attutita dal­ le pieghe del panno e mi accorsi di essermela cavata con una gran contusione. Pensai al pericolo che mi dessero un altro colpo, mi trascinai verso quella casa inospitale, rasente ai muri in modo che non mi potessero scorgere. Tutto trafelato, mi allontanai con tutta la fretta possibile, quando fui raggiunto da un uomo che finora non avevo notato 492

dietro di me, che mi prese per un braccio e mi chiese premurosa­ mente se fossi ferito. Dalla voce riconobbi don Ottavio. Non era il momento di far­ gli domande, per quanto mi potesse stupire il vederlo solo, e per strada a quell’ora di notte. In poche parole, gli dissi che mi ave­ vano tirato un colpo d’arma da fuoco dalla tal finestra e che ero soltanto contuso. «C’è uno sbaglio!», esclamò. «Ma sento venir gente. Potete camminare? Se ci trovassero insieme, sarei perduto. Tuttavia, non vi abbandonerò». Mi prese il braccio e mi trascinò in fretta. Camminammo, o piuttosto corremmo fino a che potei; ma dovetti presto sedermi su un paracarro, per riprendere fiato. Per fortuna ci trovavamo allora a poca distanza da una grande casa dove davano un ballo. C’erano molte carrozze davanti alla porta. Don Ottavio ne andò a cercare una, mi fece salire, e mi condusse al mio albergo. Un gran bicchiere d’acqua che bevvi mi rimise in sesto, dopo di che narrai per filo e per segno tutto ciò che mi era successo da­ vanti alla casa fatale, dal dono di una rosa a quello di una pallot­ tola di piombo. Don Ottavio mi ascoltava con la testa china, per metà nasco­ sta da una mano. Quando gli mostrai il biglietto che mi avevano dato poco prima, lo prese, lo lesse con avidità e esclamò ancora: «E uno sbaglio! un tremendo sbaglio!». «Riconoscerete, mio caro, che è molto spiacevole per me e per voi. È mancato poco che non mi uccidessero, e hanno fatto dieci o dodici buchi nel vostro bel mantello. Perdinci! Come sono ge­ losi i vostri concittadini!». Don Ottavio mi strinse le mani con aria afflitta, e rileggendo il biglietto senza rispondermi. «Cercate», gli dissi, «di spiegarmi voi tutta questa faccenda, poiché il diavolo mi porti se riesco a capirci qualcosa!». Alzò le spalle. «Almeno», ripresi, «che devo fare? A chi mi rivolgerò, in que­ sta vostra santa città, per avere giustizia da quel signore che im­ pallina i passanti senza neanche chiedere come si chiamino? Vi as­ sicuro che sarei lieto di farlo impiccare». 493

«Guardatevene bene!» esclamò. «Non conoscete questo pae­ se. Non dite nulla a nessuno di quanto vi è successo. Vi esporre­ ste molto». «Come sarebbe a dire, mi esporrei?... Perdiana! Pretendo di avere la mia rivincita. Se avessi offeso il furfante, non dico; ma, per aver raccolto una rosa... in tutta coscienza, non meriterei una pallottola». «Lasciate fare a me», disse don Ottavio; «forse riuscirò a chia­ rire il mistero. Ma ve lo chiedo come una grazia, come una vera prova della vostra amicizia per me, non ne parlate con anima vi­ va. Me lo promettete?». Nel farmi questa preghiera aveva un’aria così triste che non ebbi l’animo di resistere, e gli promisi tutto ciò che voleva. Mi ringraziò con vivo fervore, e dopo avermi applicato egli stesso una compressa d’acqua di colonia sul petto, mi strinse la mano e mi salutò». «A proposito», gli chiesi mentre apriva la porta per uscire, «spiegatemi come vi siete trovato là, giusto in tempo per soc­ corrermi?». «Ho udito lo sparo», rispose non senza qualche imbarazzo, «e subito sono uscito, temendo per voi qualche guaio». Mi lasciò precipitosamente, dopo avermi di nuovo raccoman­ dato il segreto. La mattina mi venne a visitare un chirurgo, mandato certa­ mente da don Ottavio. Mi prescrisse un cataplasma, ma non fece alcuna domanda sulla causa che aveva mescolato viole ai gigli del­ la mia bellezza. A Roma sono discreti, e volli uniformarmi all’u­ so del paese. Trascorsero alcuni giorni senza che io potessi parlare libera­ mente con don Ottavio. Era pensieroso, ancora più tetro del so­ lito, e, d’altronde, sembrava che volesse evitare le mie domande. Nei rari momenti che passai con lui, non disse una parola sugli strani inquilini del viccolo di donna Lucrezia. Ma, poiché il gior­ no fissato per la sua ordinazione sacerdotale era vicino, attribui­ vo la sua malinconia alla ripugnanza che aveva per lo stato che era costretto ad abbracciare. Quanto a me, mi preparavo a lasciare Roma per andare a Fi­ renze. Dopo che annunciai la mia partenza alla marchesa Aldo494

brandi, don Ottavio mi pregò, non so più con quale pretesto, di salire nella sua stanza. Là prendendomi le due mani: «Mio caro amico» disse «se non mi concederete la grazia che sto per chiedervi, mi brucerò certamente le cervella, perché non ho altra via per uscire d’impiccio. Sono irriducibilmente deciso a non indossare mai l’abito non gradito che pretendono di farmi in­ dossare. Voglio fuggire da questo paese. Quello che ho da chie­ dervi, è di portarmi con voi. Mi farete passare per il vostro do­ mestico. Un semplice nome aggiunto al vostro passaporto per agevolare la fuga sarà sufficiente». Tentai dapprima di allontanarlo dal proposito, parlandogli del dolore che avrebbe dato alla madre; ma, visto che era irremovibi­ le nella sua decisione, finii per promettergli di prenderlo con me, e di far rettificare convenientemente il mio passaporto. «Ma questo non è tutto. La mia partenza dipenderà anche dal buon successo di un’impresa nella quale sono implicato. Volete partire dopodomani. Dopodomani, forse sarò riuscito nei miei intenti, e allora sarò tutto per voi». «Non sarete tanto pazzo», gli chiesi non senza una certa in­ quietudine «da esservi immischiato in qualche cospirazione?». «No», rispose; «si tratta d’interessi meno gravi della sorte del­ la mia patria, però abbastanza seri perché dall’esito di quanto sto per fare dipendono la mia vita e la mia felicità. Non posso dirvi altro per ora. Fra due giorni, saprete tutto». Cominciavo ad abituarmi ai misteri, e mi rassegnai. Restammo intesi che saremmo partiti alle tre del mattino e che ci saremmo fermati solo dopo aver raggiunto il territorio toscano. Convinto che fosse inutile andare a dormire, dovendo par­ tire così presto, impiegai l’ultima sera che dovevo passare a Roma a fare visite in tutte le case dov’ero stato ricevuto. An­ dai a prendere commiato dalla marchesa, e a stringere la mano al figlio ufficialmente, e per pro forma. Sentii che tremava nel­ la mia. Mi disse sottovoce: «In questo momento, la mia vita si gioca a testa e croce. In al­ bergo troverete una mia lettera. Se alle tre precise non sarò da voi, non mi aspettate». 495

L’alterazione del suo viso mi colpì; ma l’attribuii a uno stato di commozione naturalissimo visto che stava per separarsi, fors’anche per sempre, dalla famiglia. Verso l’una circa rincasai. Volli ripassare ancora una volta per il viccolo di donna Lucrezia. Qualcosa di bianco penzolava dalla finestra dove avevo avuto già due apparizioni tanto diverse. Mi avvicinai con prudenza. Era una corda con nodi. Forse un invito per non partire senza salutare la signora? Ne aveva tutta l’aria, e la tentazione era forte. Tuttavia seppi resistere, ricordandomi la promessa fatta a don Ottavio, e anche, bisogna dirlo, l’accoglien­ za sgradevole che mi era capitata, pochi giorni prima, per una te­ merarietà molto meno grande. Proseguii per la mia strada, ma con lentezza e dolente di la­ sciarmi sfuggire l’ultima occasione di scoprire i misteri della casa al n. 13. A ogni passo, mi rivoltavo a guardare se qualche forma umana non salisse o scendesse per quella corda. Ma non vidi nul­ la. Giunsi così in fondo al viccolo·, stavo per entrare sul Corso. «Addio donna Lucrezia», dissi, salutando con il cappello la ca­ sa che scorgevo ancora. «Ricorrete, vi prego, a un altro, per ven­ dicarvi del geloso che vi tiene imprigionata». Quando rientrai in albergo, suonavano le due. La carrozza era nel cortile, già carica. Uno dei camerieri mi porse una lettera. Era di don Ottavio, e poiché mi sembrò lunga, pensai di leggerla più comodamente nella mia stanza e dissi al cameriere di farmi luce. «Signore», mi disse, «il domestico che aspettava, quello che deve viaggiare con il signore...». «Ebbene, è venuto?». «Nossignore...». «E alla posta; verrà con i cavalli». «Signore, è venuta poco fa una signora che ha chiesto di par­ lare con il domestico del signore. È voluta salire ad ogni costo in camera del signore, e mi ha incaricato di dire al domestico del signore, appena fosse arrivato, che la signora Lucrezia era di sopra...». «In camera mia?», esclamai, stringendo forte la ringhiera del­ le scale. «Sissignore. E sembra che parta anche lei, perché mi ha dato un piccolo pacchetto; l’ho collocato sul baule dell’imperiale». 496

Il cuore mi batteva forte. Non so dire quale senso misto di ter­ rore superstizioso e di curiosità si fosse impadronito di me. Salii scala un gradino alla volta. Arrivato al primo piano (stavo era al secondo), il cameriere che mi precedeva fece un passo falso e la candela che portava in mano cadde e si spense. Mi chiese scusa mille volte e scese per riaccenderla. Io, tuttavia, continuai a salire. Avevo già la mano sulla chiave della camera. Esitavo. Quale nuova visione mi si sarebbe offerta? Più di una volta, nell’oscu­ rità, mi era tornata in mente la storia della monaca insanguinata10. Ero forse posseduto da qualche demonio come don Alonso? Mi sembrò che il cameriere tardasse terribilmente. Aprii la porta. Grazie al cielo! c’era una luce nella camera da letto. Attraversai rapidamente il salottino che la precedeva. Mi bastò un’occhiata per vedere che in camera non c’era nessuno. Ma subito sentii alle mie spalle un passo leggero e un fruscio di vesti. Credo che i capelli mi si fossero drizzati in testa. Mi vol­ tai di colpo. Una donna vestita di bianco, con una mantiglia nera sulla te­ sta, mi veniva incontro con le braccia tese: «Eccoti, finalmente, amore», esclamò afferrandomi una mano. La sua era fredda come ghiaccio, e il suo viso aveva il pallore della morte. Indietreggiai fino al muro. «Santa Madonna, non è lui!... Ah! signore, siete l’amico di don Ottavio?». Questa parola mi spiegò tutto. Per quanto pallida, la giovane non aveva affatto l’aria di uno spettro. Chinava gli occhi, cosa che di solito non fanno i fantasmi, e teneva le mani incrociate all’al­ tezza della cintura, in un atteggiamento la cui modestia mi fece pensare che il mio don Ottavio non fosse il grande politico che mi ero figurato. A farla corta, era tempo di rapire Lucrezia, e per mia disavventura, la parte di confidente era l’unica che mi fosse destinata in questa avventura. Poco dopo arrivò don Ottavio travestito. Giunsero anche i ca­ valli, e partimmo. Lucrezia non aveva passaporto, ma una donna, e per di più una donna graziosa, non desta sospetti. Eppure, un 10 [Allusione al noto episodio del romanzo di M. G. Lewis, Ambrosio o il monaco (1796).

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gendarme fece il difficile. Gli dissi che era un valoroso e che cer­ tamente aveva servito sotto il grande Napoleone. Lo ammise. Gli regalai l’effige, in oro, del grand’uomo, e gli dissi che avevo l’abi­ tudine di viaggiare con un’amica-, e che ogni tanto le cambiavo, perciò non mi sembrava il caso di farle mettere sul passaporto. «Questa» aggiunsi, «mi accompagna fino alla prossima città. Là, mi hanno detto che ne troverò altre che valgano quanto lei». «Sbagliereste a cambiare», mi disse il gendarme, chiudendo ri­ spettosamente la portiera. Se volete che vi dica tutto, signora, quel traditore di don Ot­ tavio aveva conosciuto quella graziosa creatura, sorella di un cer­ to Vanozzi, ricco coltivatore noto alla polizia per essere un po’ li­ berale e molto contrabbandiere. Don Ottavio sapeva bene che, quand’anche la sua famiglia non lo avesse destinato agli ordini sa­ cri, non gli avrebbe mai dato il consenso di sposare una ragazza di condizione tanto inferiore alla sua. Amore è maestro di invenzione. Il discepolo del reverendo Negroni riuscì a entrare in corrispondenza segreta con l’amata. Ogni notte, usciva dal palazzo Aldobrandi e, poiché non sarebbe stato prudente scalare la casa di Vanozzi, i due amanti si davano convegno in quella di donna Lucrezia, la cui pessima reputazio­ ne li proteggeva. Una porticina, nascosta dietro il fogliame di un fico, permetteva il passaggio tra i due giardini. Giovani e inna­ morati, Lucrezia e Ottavio non si dolevano della scarsezza della mobilia, che si riduceva, credo di averlo già detto, a un’unica pol­ trona di pelle. Una sera, mentre aspettava don Ottavio, Lucrezia mi scambiò per lui, facendomi il dono che ho riferito. E vero che per la statu­ ra e la prestanza della persona don Ottavio ed io ci somigliavamo alquanto, e certe male lingue che avevano conosciuto mio padre durante il suo soggiorno romano sostenevano che qualche ragio­ ne ci fosse. Avvenne che il fratello malvagio scoprì l’intrigo; ma le sue minacce non poterono costringere Lucrezia a rivelare il nome del seduttore. Si sa quale fu la sua vendetta e poco mancò che io non pagassi per tutti. È inutile dire come i due amanti, ciascuno dalla sua parte, fuggissero entrambi. Conclusione: giungemmo insieme a Firenze. Don Ottavio sposò Lucrezia, e partì subito con lei per Parigi. Mio padre lo ac­ 498

colse come la marchesa aveva accolto me. Si incaricò di negozia­ re la sua riconciliazione, e ci riuscì non senza fatica. Il marchese Aldobrandi si buscò molto a proposito la malaria, di cui morì. Ottavio ha ereditato il titolo e il patrimonio, e io ho tenuto a bat­ tesimo il suo primogenito.

27 aprile 1846

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La camera azzurra A madame de La Rhune1

Un giovane dall’aria irrequieta passeggiava nell’atrio di una stazione. Aveva occhiali azzurri e, benché non fosse raffreddato, si premeva di continuo il naso con il fazzoletto. Nella mano sini­ stra portava una borsa nera che conteneva, come poi ho saputo, una veste da camera di seta e un paio di pantaloni alla turca. Ogni tanto andava al portone d’ingresso, guardava per strada, poi tirava fuori l’orologio e lo confrontava con quello della sta­ zione. Il treno non sarebbe partito che fra un’ora; ma vi sono uo­ mini che hanno sempre paura di essere in ritardo. Quel treno non era di quelli che prende la gente quando ha fretta; poche carroz­ ze di prima classe. L’ora non era quella che permette agli agenti di cambio di partire, una volta terminati gli affari, per pranzare nel­ la loro casa di campagna. Quando i viaggiatori cominciarono ad affluire, un parigino avrebbe riconosciuto dal portamento molti agricoltori e piccoli commercianti della periferia. Tuttavia, ogni qualvolta entrava una donna, ogni qualvolta che una vettura si fermava all’ingresso il cuore del giovane dagli occhiali azzurri si gonfiava come un pallone, gli tremavano le ginocchia e per poco non gli sfuggiva di mano la borsa e gli occhiali non gli cadevano dal naso, dove, per dirla di sfuggita, erano collocati di traverso. Ma il bello fu quando, al termine di una lunga attesa, sbucò da una porta laterale, cioè dal solo punto verso cui il giovane guardas­ se continuamente, una donna vestita di nero con un velo pesante 1 [Si tratta dell’Imperatrice Eugenia. La Rhune è una montagna di 900 m a 25 km a sud di Biarritz, vicino alla frontiera con la Spagna].

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sul volto e in mano una borsetta di marocchino scuro, contenente come poi ho scoperto una stupenda veste da camera e due pan­ tofole di raso azzurro. La donna e il giovane si diressero l’uno ver­ so l’altro, guardando a destra e a sinistra, mai di fronte. Si raggiun­ sero, si presero la mano e stettero per alcuni minuti senza dire una parola, trafelati, palpitanti, in preda a una di quelle struggenti emo­ zioni per le quali darei, io, cent’anni della vita di un filosofo. Quando ritrovarono la forza di parlare: «Léon», disse la giovane donna (ho dimenticato di dire che era giovane e graziosa). «Léon, che felicità! Mai vi avrei riconosciuto con questi occhiali azzurri». «Che felicità!» disse Léon. «Mai vi avrei riconosciuto con quel velo nero». «Che felicità!» riprese lei. «Occupiamo subito i posti; se il tre­ no partisse senza di noi!...». (E gli strinse forte il braccio). «Non ho destato il minimo sospetto. In questo preciso momento mi trovo con Clara e con suo marito, diretti alla loro casa di campa­ gna, che domani saluterò per sempre... E», aggiunse ridendo e abbassando la testa, «è già partita da un’ora, e domani... dopo quest’ultima serata passata con lei...» (gli strinse ancora il brac­ cio) «domani, in mattinata, mi accompagnerà alla stazione dove troverò ad attendermi Ursule che ho già spedito avanti da mia zia... Oh! ho calcolato tutto! Prendiamo i biglietti... Non è pos­ sibile che ci scoprano! Oh! e se ci chiedono il nome all’albergo? mi sono già dimenticata...». «Monsieur e madame Duru». «Oh! no. Non Duru. Nella nostra pensione c’era un calzolaio che si chiamava così». «Allora, Dumont». «Daumont». «Va bene, ma non ci chiederà nulla nessuno». La campana suonò, la porta della sala d’aspetto si aprì e la gio­ vane donna, sempre accuratamente velata saltò in una carrozza, con il giovane compagno. Lo squillo della campana risuonò una seconda volta; la portiera dello scompartimento si chiuse. «Siamo soli!» gridarono con gioia. Ma, quasi nello stesso momento, un uomo sulla cinquantina, tutto vestito di nero, dall’aria seria e annoiata entrò in carrozza e 502

si accomodò in un angolo. La locomotiva fischiò e il treno si mos­ se. I due giovani, ritiratisi quanto più lontano era stato loro pos­ sibile dal loro scomodo vicino, cominciarono a chiacchierare sot­ tovoce e in inglese per maggior prudenza. «Monsieur», disse l’altro viaggiatore nella stessa lingua e con l’accento britannico assai più spiccato, «se avete qualche segreto da dirvi, farete bene a non dirvelo in inglese in mia presenza. So­ no inglese. Dolente d’incomodarvi, ma nell’altro scompartimen­ to c’era un uomo solo e ho per principio di non viaggiare mai con un uomo solo... Questo poi aveva una faccia da Giuda. E questo forse avrebbe potuto tentarlo». Indicò la sua borsa da viaggio che aveva buttato davanti a sé, su un cuscino. «Ad ogni modo, se non dormo, leggerò». Infatti, cercò lealmente di dormire. Aprì la borsa, ne tirò fuori un comodo berretto, se lo mise in testa, e tenne gli occhi chiusi per alcuni minuti; poi li riaprì, con un gesto d’impa­ zienza, frugò ancora nella borsa ne tirò fuori un paio d’oc­ chiali, poi un libro greco; finalmente cominciò a leggere con molta attenzione. Per prendere il libro nella borsa dovette ro­ vistare fra molti oggetti messi alla rinfusa. Tra gli altri ag­ guantò nel fondo della borsa un mazzo rispettabile di biglietti della banca d’Inghilterra, lo depose sulla panchetta davanti a sé, e prima di riporlo nuovamente nella borsa, lo mostrò al giovane chiedendogli se sarebbe stato possibile cambiare ban­ conote a N***. «Probabilmente. Siamo sulla strada d’Inghilterra». N*** era il luogo ove i due giovani erano diretti. A N*** vi è un alberghetto abbastanza discreto, dove ci si ferma soltanto il sa­ bato sera. Le camere, a quanto si dice, sono buone. Il padrone e il personale non sono così lontani da Parigi da cedere al vizio del­ la provincia. Il giovane, che ho chiamato Léon, era già stato in quell’albergo qualche tempo prima, senza occhiali azzurri, e, se­ condo quanto ne aveva riferito, anche la sua amica aveva provato il desiderio di visitarlo. Ella si trovava, del resto, quel giorno, in una tale disposizione di spirito, che le stesse mura di una prigione le sarebbero apparse incantevoli, a patto di starvi rinchiusa con Léon. 503

Il treno continuava a camminare; l’inglese leggeva il suo greco senza volgere la testa verso i compagni di viaggio, che discorre­ vano così piano, che solo degli amanti avrebbero potuto inten­ dersi. Non stupirò forse i miei lettori dicendo loro che erano amanti in tutta la forza del termine, e non solo non erano sposa­ ti, ma anzi non mancavano serie ragioni perché non lo fossero. Arrivarono a N***. L’inglese scese per primo. Mentre Léon aiutava l’amica a uscire dalla carrozza senza far vedere le gam­ be, un uomo saltò sulla piattaforma dallo scompartimento vici­ no. Era pallido, quasi giallo, gli occhi infossati e iniettati di san­ gue, la barba mal rasata, segno da cui si riconoscono spesso i grandi delinquenti. I suoi vestiti erano puliti ma lisi all’estremo. La sua redingote, un tempo nera e adesso grigia sulla schiena e ai gomiti, era abbottonata fino al mento, probabilmente per na­ scondere un gilet anche più consumato. Si avvicinò all’inglese, e, in tono umilissimo: «Uncle!»2, gli disse. «Leave me alone, you wretch»3, gridò l’inglese con gli occhi grigi accesi dall’ira. E fece un passo per uscire dalla stazione. «Don’t drive me to despair»4, riprese l’altro con voce lamente­ vole e al tempo stesso quasi minacciosa. «Siate tanto cortese da dare un’occhiata alla mia borsa», disse il vecchio inglese, gettando la borsa da viaggio ai piedi di Léon. Subito dopo prese per il braccio l’uomo che lo aveva avvicina­ to, lo accompagnò o per essere più esatti, lo spinse in un angolo dove sperava di non essere udito, e là gli parlò un attimo con to­ no assai rude, da quel che sembrava. Poi tirò fuori dalla tasca al­ cune carte, le spiegazzò e le mise nelle mani dell’uomo che lo ave­ va chiamato zio. L’altro prese le carte senza ringraziare e quasi su­ bito si allontanò e scomparve. A N*** vi è soltanto un albergo, dunque non ci si deve stupi­ re se di lì a pochi minuti tutti i personaggi di questa veridica sto­ ria vi si ritrovarono. In Francia ogni viaggiatore che si presenti al braccio di una donna ben messa è sicuro di avere la migliore stan­ 2 [Zio, in inglese]. 3 [«Lasciatemi in pace, mascalzone]». 4 [«Non mi spingete alla disperazione]».

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za in tutti gli alberghi; così è certo che noi siamo la nazione più garbata d’Europa. Se la camera che diedero a Léon era la migliore, sarebbe av­ ventato concludere che fosse ottima. Vi era un gran letto di noce, con certe tende di tela di Persia su cui si vedeva stampata in viola la magica storia di Piramo e Tisbe5. I muri erano tappezzati da una carta a colori che rappresentava una veduta di Napoli anima­ tissima di personaggi; sfortunatamente, alcuni viaggiatori oziosi e maleducati avevano aggiunto baffi e pipe a tutte le figure maschi­ li e femminili; vergate a matita molte sciocchezze in prosa e in versi si leggevano inoltre sul cielo e in mare. Sullo sfondo erano appese un certo numero di stampe: Luigi Filippo che presta giuramento di fedeltà alla carta costituzionale del 1830', Il primo incontro di Giulia e di Saint-Preux', L’attesa della felicità e i rimpianti, di monsieur Dubuffe6. Questa camera si chiamava «camera azzurra», perché le due poltrone a destra e a sinistra del camino erano di velluto di Utrecht di quella tinta; ma ormai da molti anni erano rivestite con fodere di percallina grigia a galloni amaranto. Mentre le cameriere dell’albergo assediavano con le loro pre­ mure la nuova arrivata e le facevano le loro offerte di servigi, Léon, cui l’amore non aveva tolto un certo senso pratico, passa­ va in cucina a ordinare il pranzo. Dovette impiegare tutta la sua eloquenza e qualche mezzo di corruzione per strappare al cuoco la promessa di un pasto separato; ma non fu poco il suo terrore quando apprese che, nella grande sala da pranzo, cioè attigua al­ la sua camera, i signori ufficiali del III ussari dovevano dare il cambio ai signori ufficiali del III cacciatori a e si sarebbe­ ro quello stesso giorno riuniti con questi ultimi per una cena d’addio delle più cordiali. L’oste giurò e spergiurò che salvo l’al­ legria naturale di tutti i militari francesi, i signori ussari e i signori cacciatori erano noti in città per la posatezza e la saggezza, e che la loro vicinanza non avrebbe arrecato il minimo fastidio a ma­ dame, i signori ufficiali essendo soliti alzarsi da tavola prima di mezzanotte. 5 [Favola raccontata da Ovidio, Metamorfosi, iv, 55 sgg.]. 6 [C.-M. Dubuffe (1760-1864), allievo di David].

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Léon ritornando nella camera azzurra dopo quest’assicurazio­ ne che lo lasciava un po’ perplesso, si accorse che il suo inglese occupava la stanza vicina. La porta era aperta. L’inglese, seduto a un tavolo davanti a un bicchiere e una bottiglia, guardava il sof­ fitto con molta attenzione, come se stesse contando le mosche che vi passeggiavano. «Che importano i vicini!» si disse Léon. «L’inglese sarà presto ubriaco, e gli ussari se ne andranno prima di mezzanotte». Entrando nella camera azzurra, la sua prima preoccupazione fu quella di accertarsi che le porte di comunicazione fossero ben chiuse e munite di chiavistelli. Dalla parte dell’inglese vi era una doppia porta; e il muro era spesso. Dalla parte degli ussari la pa­ rete era più sottile, ma la porta era chiusa a chiave e a catenaccio. Tutto considerato, sarebbe stata contro la curiosità una difesa ben più efficace delle tende di una carrozza, e quanta gente si crede isolata dal mondo in una semplice vettura! Certo è che la più fervida immaginazione è incapace di raffi­ gurarsi una felicità più completa di quella di due giovani amanti che, dopo una lunga attesa, si trovano soli, lontano dai gelosi e dai curiosi, liberi di raccontarsi tutte le ansie passate e assaporare le delizie di una perfetta unione. Ma il diavolo trova sempre il mez­ zo di versare la sua goccia d’assenzio nel calice della felicità. Johnson7 ha scritto, ma non era il primo, e lo aveva preso da un greco, che nessun uomo può dire a se stesso: oggi sarò felice. Questa grande verità, nota già in tempi remotissimi ai maggiori filosofi è ancora sconosciuta a non pochi mortali e specie alla maggior parte degli innamorati. Cenarono bene, nella camera azzurra, con qualche piatto sottratto al banchetto dei cacciatori e degli ussari, Léon e l’ami­ ca ebbero modo di partecipare alla conversazione cui i signori si abbandonavano nella stanza accanto. Erano discorsi del tutto estranei alla strategia e alla tattica, e che io mi guarderò bene dal riferire. Era un continuo di storie strampalate, quasi tutte boccacce­ sche, accompagnate da risate fragorose, cui pure ai nostri amanti riusciva talora difficile non associarsi. L’amica di Léon non era 7 [Samuel Johnson (1709-1784) moralista e critico inglese].

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certo timida, ma ci sono certe cose non si ascoltano sempre vo­ lentieri, nemmeno quando ci si trova a tu per tu con l’uomo che si ama. La situazione si faceva sempre più imbarazzante, e nel momento in cui ai signori ufficiali stava per essere portato il dol­ ce, Léon pensò bene di dover scendere in cucina per pregare l’o­ ste di andare a far presente a quei signori che nella stanza accan­ to c’era una donna che non si sentiva bene, e che pertanto si spe­ rava che nella loro cortesia volessero fare un po’ meno rumore. Il padrone dell’albergo, come succede nei pranzi d’arma, era completamente stordito e non sapeva a chi dar retta. Mentre Léon gli affidava il suo messaggio per gli ufficiali, un ragazzo gli chiedeva del vino di Champagne per gli ussari, una cameriera del porto per l’inglese. «Gli ho detto che non c’era», aggiunse costei. «Sei una stupida. Qui ci sono tutti i vini. Adesso glielo trovo io, il porto! Dammi la bottiglia di ratafià8, una bottiglia da quin­ dici’ e un caraffone d’acquavite». Dopo aver fabbricato del porto in quattro e quattr’otto, l’oste andò in sala a portare l’incombenza che Léon gli aveva dato. Da principio scatenò una furiosa tempesta. Poi una voce da baritono che dominava tutte le altre chiese che specie di donna fosse la vicina. Si fece quasi silenzio mentre l’oste rispondeva: «In fede mia! signori, non saprei che dire. È molto graziosa e molto timida, Marie-Jeanne dice che ha la fede al dito. Potrebbe anche darsi che sia una sposa, che viene qui in viaggio di nozze, come ne vengono a volte». «Una sposa?» gridarono quaranta voci, «bisogna che venga a brindare con noi! Berremo alla sua salute, e insegneremo al mari­ to i suoi doveri coniugali!». A queste parole si udì un gran rumore di speroni, e i nostri amanti rabbrividirono, pensando che la stanza stesse per essere presa d’assalto. Ma all’improvviso si alzò una voce che fermò tut­ to quel movimento. Era evidente che aveva preso la parola un su­ periore. Rimproverò agli ufficiali la loro scostumatezza e intimò ’ [Liquore composto da acquavite, zucchero, succo di frutti o aroma di fiori]. , [Di mediocre qualità].

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loro di sedersi e di parlare in modo decente e senza gridare. Poi aggiunse qualcos’altro, tuttavia in tono troppo basso per essere udito dalla camera azzurra. Fu ascoltato con deferenza, ma non senza una certa trattenuta ilarità. Da quel momento vi fu nella sa­ la degli ufficiali un relativo silenzio, e i nostri amanti, benedicen­ do il salutare imperio della disciplina, cominciarono a parlarsi con maggior confidenza... Ma, dopo tanto frastuono, un po’ di tempo era necessario per ritrovare le tenere emozioni che l’in­ quietudine, i fastidi del viaggio e soprattutto la chiassosa allegria dei vicini avevano così vivamente turbato. Alla loro età, tuttavia, la faccenda non è poi tanto difficile, e dimenticarono presto il la­ to spiacevole della loro avventurosa spedizione per non pensar più che ai suoi risultati più tangibili. Si credevano in pace con gli ussari; ahimè! non era che una tregua. Nel momento in cui meno se lo aspettavano, quando erano ormai a mille leghe da questo mondo sublunare, ecco ventiquattro trombe, con alcuni tromboni di rinforzo, che suo­ nano il noto motivo dei soldati francesi: «La vittoria è nostra!». Come resistere a quella tempesta? I poveri amanti erano pro­ prio da compatire.

No, non tanto da compatire, perché finalmente gli ufficiali la­ sciarono la sala da pranzo, sfilando davanti alla porta della came­ ra azzurra con vivo strepito di sciabole e di speroni, e gridando uno dopo l’altro: «Buonasera, madame sposa!». Poi tacque ogni rumore. Sbaglio: l’inglese uscì nel corridoio e gridò: «Cameriere! Un’altra bottiglia dello stesso porto!». Nell’albergo di N*** era tornata la calma. La notte era dolce, la luna piena. Da tempo immemorabile gli amanti provano gioia a guardare il nostro satellite. Léon e l’amica aprirono la finestra che dava su un giardinetto, e aspirarono con piacere l’aria fresca che profumava dalle piccole clematidi. Tuttavia non vi si trattennero a lungo. Un uomo passeggiava nel giardino, a testa china, con le braccia conserte, un sigaro in bocca. A Léon parve di riconoscere il nipote dell’inglese così amante del vino di Porto. 508

Odio i particolari inutili, e, d’altronde non mi credo affatto obbligato a riferire al lettore tutto ciò che può facilmente im­ maginare, per filo e per segno, avvenne quella notte nell’albergo di N***. Dirò dunque che la candela che ardeva sul caminetto senza fuoco della camera azzurra era già quasi interamente consumata, quando nella stanza dell’inglese già silenziosa si udì un rumore strano, come il tonfo di un corpo pesante che cade. A questo ru­ more seguì una specie di scricchiolio non meno strano, seguito da un grido soffocato e da poche parole indistinte, che potevano sembrare un’imprecazione. I due giovani abitanti della camera azzurra trasalirono. Forse si erano svegliati di soprassalto. Tanto su di lui che su di lei quel rumore che non si spiegavano aveva prodotto un’impressione quasi sinistra. «È il nostro inglese che sogna», disse Léon sforzandosi di sor­ ridere. Ma voleva rassicurare la sua compagna, e involontariamente rabbrividì. Due o tre minuti dopo, una porta si aprì nel corridoio, cautamente, da quanto sembrava; poi si richiuse molto dolce­ mente. Avvertirono un passo lento e malsicuro che, secondo ogni apparenza, cercava di non farsi sentire. «Maledetto albergo!» gridò Léon. «Ah! è il paradiso!...», rispose la giovane donna lasciando ri­ cadere la testa sulla spalla di Léon. «Sto morendo dal sonno...». Sospirò e quasi subito si riaddormentò. Un illustre moralista ha detto che gli uomini non sono mai loquaci quando non hanno più nulla da chiedere. Perciò non desterà meraviglia se Léon non fece nessun tentativo per rial­ lacciare la conversazione, o disquisire sui rumori dell’albergo di N***. Suo malgrado ne era preoccupato e la sua immagina­ zione vi ricollegò molte circostanze a cui, in una diversa dispo­ sizione di mente, non avrebbe prestato la minima attenzione. La figura sinistra del nipote dell’inglese gli tornava alla memo­ ria. Lo sguardo che gettava allo zio era carico di odio, benché gli parlasse con voce umile, senza dubbio perché gli chiedeva denaro. Che cosa sarebbe stato più facile per un uomo ancore giovane e robusto, in più disperato, dell’arrampicarsi dal giardino alla fi­ 509

nestra della camera accanto? Del resto, alloggiava nell’albergo, poiché la notte passeggiava nel giardino. Forse,... con una certa probabilità, sapeva che la borsa dello zio conteneva un grosso fa­ scio di biglietti di banca... E quel tonfo sordo, come una mazza­ ta su una testa calva!... quel grido soffocato!... quell’orribile be­ stemmia! e quei passi dopo! Quel nipote aveva la faccia da assas­ sino... Ma non si assassina in un albergo pieno di ufficiali. Senza dubbio quell’inglese si era certamente chiuso a catenaccio da uo­ mo prudente, specie sapendo che il furfante era nei paraggi... Diffidava di lui, poiché non lo aveva voluto avvicinare con la bor­ sa in mano... Perché abbandonarsi a quei pensieri odiosi quando si è tanto felici? Ecco quello che Léon si diceva mentalmente. Fra tutti quei pensieri, che io mi guarderò bene dall’analizzare più a lungo e che gli si presentavano confusi come un brutto sogno, guardava fisso d’istinto verso la porta di comunicazione tra la camera azzurra e quella dell’inglese. In Francia le porte chiudono male. Tra questa e il pavimento correva una striscia vuota di almeno due centimetri. Ad un trat­ to in quell’intervallo, illuminato appena dai riflessi del pavi­ mento, si vide qualcosa di nerastro, piatto, simile a una lama di coltello, perché l’orlo, colpito dai raggi della candela, presenta­ va un filo sottile, brillantissimo. Era una cosa che si muoveva lentamente verso una delle pantofole di raso azzurro scaraven­ tata a caso vicino alla porta. Forse un insetto come un millepie­ di?... No; non è un insetto. Non ha una forma distinta.. Due o tre strisce brune, ognuna con il suo filo di luce sull’orlo, sono penetrate nella stanza. Il loro movimento accelera grazie all’in­ clinazione del pavimento... Avanzano rapidamente, arrivano a sfiorare la piccola pantofola. Nessun dubbio! E un liquido e, quel liquido - se ne distingue perfettamente il colore alla luce della candela - è sangue! E mentre Léon, immobile guardava inorridito quei rivoletti spaventosi, la giovane donna continua­ va a dormire un sonno tranquillo e il suo respiro regolare ri­ scaldava il collo e la spalla dell’amante. La premura di Léon nell’ordinare subito la cena al suo arrivo nell’albergo di N*** prova abbastanza chiaramente che aveva la 510

testa a posto, una bella intelligenza, e che era capace di prevedere le cose. In questa nuova occasione non smentì quelle doti del ca­ rattere che già gli abbiamo riconosciuto. Non si mosse e concen­ trò tutta la forza della sua mente nella ricerca della via migliore per sottrarsi alla grave disgrazia che lo minacciava. Immagino che la maggior parte dei miei lettori, e più ancora delle mie lettrici, colmi di sentimenti eroici rimprovereranno in questa circostanza la condotta e l’immobilità di Léon. Avrebbe dovuto, mi diranno, precipitarsi in camera dell’inglese e arresta­ re l’assassino, o per lo meno attaccarsi al campanello e dare l’al­ larme a tutto il personale dell’albergo. A tutto questo risponderò innanzi tutto che negli alberghi, in Francia i campanelli delle stanze sono oggetti puramente decorativi e che i cordoni rara­ mente corrispondono a un apparecchio metallico. Molto rispet­ tosamente, ma con fermezza, aggiungerò poi che se non sta be­ ne a lasciar morire un inglese accanto a sé, non sarebbe un’azio­ ne lodevole sacrificargli una donna che dorme con la testa ap­ poggiata sulla vostra spalla. Cosa sarebbe accaduto se Léon aves­ se fatto un baccano da risvegliare tutto l’albergo? I gendarmi, il procuratore imperiale e il cancelliere sarebbero arrivati subito. E prima ancora di chiedergli quello che poteva aver visto o sentito, quei signori sono di professione tanto curiosi che avrebbero su­ bito domandato: «Come vi chiamate? I vostri documenti? E madame? Che fa­ cevate insieme nella camera azzurra? Dovreste comparire in cor­ te d’assise per dire che il giorno tale di tal mese a tale ora della notte foste testimoni di tal fatto». Ora, è proprio quell’idea del procuratore imperiale e di quei signori della giustizia ad affacciarsi per prima alla mente di Léon. Vi sono talvolta nella vita casi di coscienza difficili da risolvere; è meglio lasciar scannare un viaggiatore sconosciuto, o disonorare e perdere la donna che si ama? E sgradevole doversi porre un ta­ le problema. Io do tutto il tempo di scegliere tra dieci soluzioni al più abile. Léon fece dunque ciò che molti di noi avrebbero forse fatto al suo posto: non si mosse. Gli occhi fissi sulla pantofola azzurra e al piccolo rigagnolo rosso che la lambiva, rimase a lungo come incantato, mentre le 511

tempie gli si inumidivano di un sudore freddo e il cuore gli bat­ teva nel petto sino a farlo scoppiare. Un turbinio di pensieri e di immagini bizzarre e orribili lo os­ sessionavano, e una voce interiore gli gridava a ogni momento: tra un’ora tutto si saprà e la colpa è tua! Tuttavia, a forza di ripeter­ si: «Cosa ci vado a fare in questa galera?» si finisce sempre per scorgere qualche raggio di speranza. Si disse infine: «Se lasciamo questo maledetto albergo prima che scoprano quello che è suc­ cesso nella stanza accanto, forse potremo far perdere le nostre tracce. Qui nessuno ci conosce; non mi hanno visto che con gli occhiali azzurri; lei l’hanno vista soltanto velata. Siamo a due pas­ si da una stazione, e basta un’ora di viaggio per essere ben lonta­ ni da N***». Poi, dato che aveva studiato a fondo l’orario ferroviario per organizzare la sua spedizione, si ricordò che alle otto sarebbe passato un treno per Parigi. Poco dopo, si sarebbero persi nel­ l’immensità di quella città dove si nascondono tanti colpevoli. Chi vi avrebbe scoperto due innocenti? Ma se fossero entrati in camera dell’inglese prima delle otto? Questo era il problema. Convintissimo di non avere altra via di scampo, cercò dispe­ ratamente di scuotersi dal torpore che lo aveva inchiodato lì da ormai troppo tempo; ma al primo movimento che fece, la sua gio­ vane compagna si svegliò e lo baciò da stordirlo. Al contatto del­ la sua guancia gelata, si lasciò sfuggire un piccolo grido: «Che avete?» gli disse inquieta. «La vostra fronte è fredda co­ me il marmo». «Non è nulla», rispose con voce malsicura. «Ho sentito un ru­ more nella stanza accanto...». Si svincolò dalle sue braccia e per prima cosa allontanò la pan­ tofola azzurra e trascinò una poltrona davanti alla porta di mez­ zo in modo da nascondere all’amica il liquido spaventoso che, non scorrendo più, formava una chiazza assai larga sul pavimen­ to. Poi dischiuse la porta che dava sul corridoio e rimase in ascol­ to; osò anche avvicinarsi alla porta dell’inglese. Era chiusa. Nel­ l’albergo cominciava ad esserci un certo movimento. Si era fatto giorno. Gli stallieri nel cortile accudivano i cavalli e, dal secondo piano, si sentiva scendere dalle scale un ufficiale che faceva risuo­ nare gli speroni. Andava a presiedere quell’interessante operazio­ 512

ne, assai più gradita ai cavalli che agli uomini, e che in linguaggio tecnico viene detta la botte'0. Léon rientrò nella camera azzurra, e, con tutte le cautele che l’amore può inventare, con gran sforzo di circonlocuzioni e di eufemismi, espose all’amica la situazione in cui si trovavano. Era pericoloso restare; pericoloso partire troppo in fretta; an­ cor più pericoloso aspettare in albergo che venisse scoperta la ca­ tastrofe della stanza accanto. Inutile dire lo spavento cagionato da questa confidenza, le la­ crime che seguirono, le proposte insensate; quante volte i due po­ veretti si gettarono nelle braccia l’uno dell’altro, dicendo: «Perdo­ nami! perdonami!». Ognuno di loro si credeva il più colpevole. Si promisero reciprocamente di morire insieme, poiché la giovane donna non dubitava che la giustizia li avrebbe ritenuti colpevoli dell’assassinio dell’inglese e, siccome non erano sicuri di potersi ancora baciare sul patibolo, si baciavano ora a perdifiato, irroran­ dosi di lacrime. Finalmente, dopo aver detto tanti spropositi e as­ surdità e parole dolci e strazianti, si convinsero, tra mille baci, che il piano meditato da Léon, e cioè la partenza con il treno delle ot­ to, era realmente il solo possibile e il migliore da seguire. Ma do­ vevano ancora passare due ore mortali. A ogni passo nel corridoio, rabbrividivano in tutte le membra. Ogni scricchiolio di stivali gli annunciava l’arrivo del procuratore imperiale. Il loro piccolo bagaglio fu pronto in un batter d’occhio. La gio­ vane donna voleva bruciare nel camino la pantofola azzurra ma Léon la raccolse, e dopo averla asciugata con lo scendiletto, la ba­ ciò e se la mise in tasca. Rimase sorpreso che odorasse di vaniglia; la sua amica usava lo stesso profumo dell’imperatrice Eugenia. Nell’albergo erano già tutti alzati. Si udivano i camerieri che ridevano, le cameriere che cantavano, i soldati che spazzolavano le giubbe degli ufficiali. Erano appena suonate le sette. Léon vol­ le costringere l’amica a prendere una tazza di caffellatte, ma lei di­ chiarò di sentirsi la gola chiusa, che sarebbe morta se solo avesse provato a bere qualcosa. Léon, armato dei suoi occhiali azzurri, scese per pagare il con­ to. L’oste gli chiese scusa per il rumore che avevano fatto e che 10 [Particolare suono di tromba].

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non riusciva ancora a spiegarsi; i signori ufficiali erano sempre co­ sì tranquilli! Léon assicurò di non avere sentito nulla e di aver dormito benissimo. «Per esempio, il vostro vicino dell’altra stanza», continuò l’o­ ste, «non vi ha incomodati. Non fa molto rumore, quello. Scom­ metto che dorme ancora fra due guanciali». Léon si appoggiò forte al banco per non cadere, e la giovane donna, che aveva voluto seguirlo, gli si attaccò al braccio, strin­ gendosi il velo sugli occhi. «E un milord», continuò l’oste implacabile. «Gli occorre sem­ pre quanto c’è di meglio. Ah! è un uomo come si deve! Ma non tutti gli inglesi sono come lui. Ne abbiamo qui uno così spilorcio! Trova tutto troppo caro, la camera, il pranzo. Voleva pagarmi i centoventicinque franchi con una banconota della banca d’In­ ghilterra da cinque sterline... purché sia buona, almeno! Ecco, monsieur, dovete intendervene voi, poiché vi ho sentito parlare inglese con madame... E buona?». Così dicendo, gli mostrava una banconota da cinque sterline. In un angolo c’era una piccola macchia rossa che Léon si spiegò subito. «Credo che sia buonissima», disse con voce strozzata. «Oh! prendetevela pure con comodo», riprese l’oste; «il treno non passa che alle otto, ed è sempre in ritardo. Vogliate sedervi, madame; sembrate stanca...». In quel momento entrò una grossa fantesca. «Presto, acqua calda» disse, «per il tè di milord. Datemi anche una spugna! Ha rotto la bottiglia e la camera è tutta inondata». A queste parole Léon si lasciò cadere su una sedia; lo stesso fece la sua compagna. Li prese un forte desiderio di ridere, e si trattennero a stento. La giovane donna gli strinse allegramente la mano. «Sicuramente,» disse Léon all’oste «partiremo con il treno delle due. Preparateci un buon pranzo per mezzogiorno».

Biarritz, settembre 1866

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Lokis Manoscritto del professor Wittembach

I.

«Teodoro», disse il signor professore Wittembach, «datemi, per piacere, quel quaderno legato in pergamena, sulla seconda mensola, sopra lo scrittoio; no, non quello, il piccolo in ottavo. È lì che ho raccolto tutte le note del mio diario del 1866 o, per lo meno, le note che si riferiscono al conte Szemioth». Il professore si mise gli occhiali e nel più profondo silenzio lesse quel che segue: LOKIS

con questo proverbio lituano in epigrafe: Miszka su Lokiu Abu du tokiu'.

Quando uscì a Londra la prima traduzione lituana delle Sacra Scritture, pubblicai nella «Gazzetta di Scienze e Lettere» di Kö­ nigsberg, un articolo nel quale, pur rendendo giustizia agli sfor­ zi del dotto interprete e alle pie intenzioni della Società Biblica, credetti di dover segnalare qualche lieve errore, non senza osser­ vare, per giunta, come tale versione non potesse essere utile in definitiva che a una parte soltanto delle popolazioni lituane. In1 «Due fanno un paio»; parola per parola, Michon (Michel) con Lokis, entrambi gli stessi. Michaelium cum Loki.dc, ambo (duo) ipsissimi.

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fatti, il dialetto che utilizzano sarebbe stato difficilmente com­ preso dagli abitanti dei distretti in cui si parla la lingua zemaitica, volgarmente detta samogica, cioè del Palatinato di Samogizia2, lingua che si avvicina al sanscrito forse anche più dell’alto li­ tuano. Questa osservazione, a dispetto delle critiche furibonde che mi procurò da parte di un noto professore dell’Università di Dorpat3, illuminò sull’argomento gli onorevoli membri del con­ siglio di amministrazione della Società Biblica e questo non esitò a propormi il lusinghiero incarico di dirigere e sorvegliare la re­ dazione del Vangelo di san Matteo in samogizio. Ero allora trop­ po preso dai miei studi sulle lingue transmuraliche per accinger­ mi a un lavoro più ampio che comprendesse i quattro vangeli. Rimandai dunque il mio matrimonio con la signorina Gertrude Weber, mi recai a Kovno {Kaunas) con l’intenzione di raccoglie­ re tutti i monumenti linguistici stampati o manoscritti in lingua samogitica che mi fosse possibile procurarmi, senza escludere, beninteso, le poesie popolari o daïnos, i racconti o leggende, pasakos che mi avrebbero fornito gli elementi per un glossario zemaitico, lavoro questo che doveva per necessità di cose precede­ re quello della traduzione. Mi avevano dato una lettera per il giovane conte Michele Szemioth, il cui padre, a quanto mi assicuravano, aveva posseduto il famoso Catechismus Samogiticus di padre Lawicki, così raro, che la sua stessa esistenza ne fu posta in dubbio, in particolare dal professore di Dorpat al quale ho fatto cenno. Secondo le infor­ mazioni che mi avevano dato, nella sua biblioteca si trovava una vecchia collezione di daïnos, così come una raccolta di poesie in prussiano antico. Avendo scritto al conte Szemioth per esporgli lo scopo della mia visita, ne ricevetti il più cortese invito di tra­ scorrere nel suo castello di Medintiltas tutto il tempo richiesto dalle mie ricerche. Terminava la lettera dicendomi nel modo più gentile che aveva la pretesa di parlare samogizio quasi altrettanto bene dei suoi contadini, e che sarebbe stato lieto di unire le sue fa­ tiche alle mie per un’impresa che definiva grande e interessante. Come alcuni tra i più ricchi latifondisti della Lituania professava 2 [Contrada della Lituania, situata a ovest di quella ai bordi del mar Baltico]. 3 [In estone Tortu, città dell’Estonia].

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la religione evangelica, della quale mi onoro di essere ministro. Mi avevano detto che il conte non era estraneo a una certa biz­ zarria di carattere, molto ospitale, tuttavia, amico delle scienze e delle lettere, e pieno di una speciale benevolenza per coloro che le coltivano. Partii dunque per Medintiltas. Fui ricevuto sulla scalinata del castello dall’intendente del con­ te, il quale mi accompagnò immediatamente nell’appartamento preparato per ricevermi. «Il signor conte», mi disse, «è desolato di non poter cenare sta­ sera con il signor professore. È tormentato dal mal di testa, un di­ sturbo cui disgraziatamente va un po’ soggetto. Se il signor pro­ fessore non vuole essere servito nella sua camera, cenerà con il si­ gnor dottor Froeber, medico della signora contessa. Si cena fra un’ora, senza cambiare abito. Se il signor professore ha ordini da darmi, ecco il campanello». Si ritirò facendomi un profondo inchino. L’appartamento era spazioso, ben arredato, ornato di specchi e ori. Da una parte dava su un giardino, o meglio sul parco del ca­ stello, dall’altra sull’ampio cortile d’onore. Nonostante l’avviso: senza cambiare d’abito, credetti di dover tirar fuori dal baule il ve­ stito nero. Ero in maniche di camicia, intento a disfare il mio pic­ colo bagaglio, quando un rumore di carrozza mi fece correre alla finestra che dava sul cortile. Era entrato in quel momento un bel calesse. Conteneva una signora vestita di nero, un signore e una donna vestita come le contadine lituane, ma così alta e forte che all’inizio fui tentato di prenderla per un uomo travestito. Scese a ter­ ra per prima; due altre donne, non meno robuste in apparenza, erano già sulla scalinata. Il signore si chinò verso la donna in nero, e, con mia grande sorpresa, slacciò un’ampia cintura di cuoio che la teneva legata sul calesse. Notai che quella signora aveva i lunghi capelli bianchi molto in disordine, e che i suoi occhi, compietamente spalancati, sembravano senza vita: si sarebbe detto un vol­ to di cera. Dopo averla sciolta, il suo compagno le rivolse la paro­ la, con il cappello in mano, con molto rispetto; ma lei non mostrò di farvi la minima attenzione. Allora, si volse alle domestiche con un lieve cenno della testa. Subito le tre donne afferrarono la si­ gnora in nero e nonostante gli sforzi per agguantarsi al calesse, queste la sollevarono come una piuma, e la portarono nell’interno 517

del castello. Alla scena assistevano parecchi servi di casa, i quali sembravano non scorgervi nulla di meno che ordinario. L’uomo che aveva diretto l’operazione tirò fuori l’orologio e chiese se si andava a cena. «Tra un quarto d’ora, signor dottore», gli fu risposto. Non feci fatica a indovinare che si trattava dottor Frœber e che la dama in nero era la contessa. Dalla sua età, conclusi che era la madre del conte Szemioth, e le precauzioni usate nei suoi ri­ guardi annunciavano che la sua ragione era alterata. Qualche minuto dopo, il dottore in persona entrò nella mia stanza. «Dato che il signor conte non si sente bene», mi disse, «sono costretto a presentarmi da solo al signor professore. Il dottor Frœber, per riverirla. Sono lieto davvero di conoscere uno scien­ ziato il cui merito è noto a tutti coloro che leggono la «Gazzetta di Scienze e Lettere» di Kònisberg. Vi tornerebbe gradito che si porti in tavola?». Risposi del mio meglio ai suoi convenevoli e gli dissi che se quella era l’ora della cena ero pronto a seguirlo. Appena entrammo nella sala da pranzo un maggiordomo ci presentò, secondo le usanze del nord, un vassoio d’argento cari­ co di liquori e di alcuni antipasti salati e molto piccanti adatti a stimolare l’appetito. «Permettetemi, signor professore», mi disse il dottor Frœber «di raccomandarvi, nella mia qualità di medico, un bicchiere di questa starka\ vera acquavite di cognac, con quarant’anni di sta­ gionatura. È la madre dei liquori. Prendete anche un’acciuga di Drontheim45; nulla è più indicato per aprire e preparare il tubo di­ gerente, organo importantissimo... E ora, a tavola! Perché non parliamo tedesco? Siete di Königsberg, io di Memel6, ma ho stu­ diato a Jena. Così saremo più liberi, e la servitù che conosce solo il polacco e il russo, non ci capirà». Mangiammo dapprima in silenzio; poi, dopo aver preso un primo bicchiere di madera, chiesi al dottore se il conte era spesso afflitto dal disturbo che ci privava oggi della sua presenza. 4 [Parola polacca che significa vecchina, qui designa una vodka invecchiata]. 5 [O Trondheim, porto della Norvegia centrale], ‘ [Porto della Samogizia, in Lituania].

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«Sì e no», rispose il dottore. «Dipende dalle escursioni che fa». «Cioè?». «Quando va per la strada di Rosienie7, per esempio, ritorna con il mal di testa e di umore scontroso». «Anch’io sono stato a Rosienie senza simili incidenti». «Ciò dipende, signor professore», rispose ridendo, «dal fatto che non siete innamorato». Sospirai pensando alla signorina Gertrude Weber. «È dunque a Rosienie», dissi, «che abita la fidanzata del si­ gnor conte?». «Sì, nei dintorni. Fidanzata?...non ne so nulla. Una vera ci­ vetta! Gli farà perdere la testa, com’è già successo alla madre». «Ah, già credo che la signora contessa sia... malata?». «È pazza, mio caro signore, pazza! E il più pazzo di tutti so­ no io, che son venuto qui!». «Speriamo che le vostre cure le ridaranno la salute». Il dottore scosse la testa, esaminando attentamente il colore di un bicchiere di vino di Bordeaux che aveva in mano. «Quale mi vedete, signor professore, ero maggiore chirurgo nel reggimento di Kaluga8. A Sebastopoli, dalla mattina alla sera non facevamo che tagliare braccia e gambe; non parlo delle bom­ be che ci arrivavano come le mosche a un cavallo scorticato; ep­ pure, male alloggiato, mal nutrito, come ero allora, non mi an­ noiavo come qui, dove mangio e bevo quanto c’è di meglio, dove sono alloggiato come un principe, pagato come un medico di cor­ te... Ma la libertà, mio caro signore!... Figuratevi che con quella diavolessa, non si ha un attimo per sé!». «È affidata da molto tempo alla vostra esperienza?». «Da meno di due anni; ma sono almeno ventisette che è paz­ za, da prima della nascita del conte. Non vi hanno raccontato tut­ to questo a Rosienie né a Kovno? Allora ascoltate, perché è un ca­ so su cui voglio un giorno scrivere un articolo sul «Giornale me­ dico di San Pietroburgo». È pazza per uno spavento...». «Uno spavento? Com’ è possibile?». 7 [Raseiniai, capoluogo del distretto della Samogizia, a nord-ovest di Kovno, forma russa del nome della città lituana di Kaunas]. • [Città russa a 300 km a ovest di Mosca; è verso K. che la Grande Armata si dirigeva lasciando Mosca].

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«Uno spavento che ha avuto. È della famiglia dei Keystut... Oh!, qui in questa casa, non ci si sposa con gente di poca condi­ zione! Discendiamo noi da Gédymin... Dunque, signor profes­ sore, tre giorni... o due giorni dopo il matrimonio, che fu cele­ brato nel castello ove ceniamo (alla vostra salute!)..., il conte, pa­ dre del conte attuale, se ne va a caccia. Le nostre dame lituane so­ no amazzoni come sapete. Va a caccia anche la contessa... Rima­ ne indietro o supera i cacciatori... non so cosa... Bene! improv­ visamente il conte vede accorrere a tutto sprone il piccolo cosac­ co della contessa, un bambino di dodici o quattordici anni». «Padrone», disse, «un orso porta via la padrona». «Dove?» disse il conte. «Di là», disse il piccolo cosacco. Tutta la brigata corre dove indica; niente contessa! Il suo ca­ vallo sgozzato da una parte, dall’altra la pelliccia a brandelli. Cer­ cano, battono il bosco in ogni direzione. Alla fine un cacciatore grida: «Ecco l’orso!». Infatti, l’orso attraversava una radura, sem­ pre trascinandosi la contessa, evidentemente per andare a divo­ rarla con comodo nel folto del bosco, perché quegli animali là so­ no ghiotti. Come i frati amano mangiare tranquilli. Sposato da due giorni, il conte era molto cavalleresco, voleva scagliarsi sul­ l’orso, con il coltello da caccia in pugno; ma, mio caro signore, un orso lituano non si lascia infilzare come un cervo. Per fortuna, il porta archibugio del conte, un tipaccio poco di buono, ubriaco quel giorno da non distinguere un coniglio da un capriolo, fa fuo­ co con la carabina a più di cento passi, senza preoccuparsi di sa­ pere se la pallottola avrebbe colto la belva o la donna...». «E uccise l’orso?». «Morto stecchito. Non ci sono che gli ubriachi per questi col­ pi. Vi sono anche delle pallottole predestinate, signor professore. Abbiamo qui certi stregoni che le vendono a un prezzo giusto... La contessa era tutta graffiata, priva di sensi, naturalmente, con una gamba rotta. La portano a casa, rinviene; ma la ragione se n’era andata. La portano a San Pietroburgo. Gran consulto, quattro dottori decorati di tutti gli ordini. Dicono: “La signora contessa è incinta, e può darsi che il parto determini una crisi benefica. Sarà bene tenerla all’aria aperta, in campagna,siero di latte, codei­ na...”. Gli danno cento rubli ciascuno. Nove mesi dopo, la con­ 520

tessa dà alla luce un maschio ben formato; ma la crisi benefica? ah bene, sì!... Le sue furie raddoppiano. Il conte le mostra il figlio. Fa sempre effetto... nei romanzi. «Uccidetelo! Uccidete la be­ stia!» grida lei; per poco non gli torce il collo. Da quel giorno, un alternarsi di stupida follia o di pazzia furiosa. Forte propensione al suicidio. Per farle prendere un po’ d’aria, si è costretti a legar­ la. Per tenerla ci vogliono tre serve robuste. Tuttavia, signor pro­ fessore, vogliate notare questo particolare: quando sono stanco di sprecare il tempo con lei senza poter farmi ubbidire, ho un mez­ zo per calmarla. La minaccio di tagliarle i capelli. Credo che un tempo li avesse bellissimi. La civetteria! ecco l’ultimo sentimento umano che è rimasto. Non è un curioso? Però, se potessi trattar­ la a modo mio, forse la guarirei». «E come?». «Picchiandola a sangue. Ho guarito così venti contadine in un villaggio dov’era scoppiata la furiosa pazzia russa l’ululato'’: una donna si mette a urlare, la sua comare urla. In capo a tre giorni ur­ la tutto il villaggio. Io, a forza di botte, le ho fatte rinsavire». (Prendete una pollastrella sono tenere). «Con lei il conte non ha mai voluto che ci provassi». «Come! volevate che acconsentisse alla vostra orribile cura?». «Oh! ha conosciuto tanto poco la madre, e poi è per il suo be­ ne; ma ditemi, signor professore, avreste mai creduto che la pau­ ra potesse far perdere la ragione?». «La situazione della contessa era spaventosa... Trovarsi tra le unghie di un animale così feroce!». «Ebbene, il figlio non le somiglia. Meno di un anno fa si è tro­ vato esattamente nella stessa posizione, e, grazie al suo sangue freddo, se l’è cavata a meraviglia». «Tra le unghie di un orso?». «Di un’orsa, ed era la più grande che si fosse mai vista da tan­ to tempo. Il conte ha voluto attaccarla con lo spiedo in mano. Bah! con un rovescio, svia lo spiedo, afferra il signor conte e lo getta per terra come potrei sbatacchiare io questa bottiglia. Lui, furbo, fa il morto... L’orsa l’ha fiutato, fiutato, e poi, invece di ’ Così si chiama, in russo, una posseduta: una «urlatrice», klikucha [klikučka], la cui radice è klik, clamore, urlo.

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sbranarlo gli dà una linguata. Ha avuto la presenza di spirito di non muoversi, e quella se n’è andata per la sua strada». «L’orsa ha creduto che fosse morto. Infatti, ho sentito dire che quelle bestie non divorano i cadaveri»10. «Meglio crederlo che fare un’esperienza personale; ma, a proposito di paura, lasciate che io vi racconti una storia di Se­ bastopoli. Eravamo in cinque o in sei attorno a una brocca di birra che ci avevano portato proprio allora dietro l’ambulato­ rio del famoso bastione n. 5. La sentinella grida: «Una bom­ ba!». Ci buttiamo tutti a pancia a terra; no, non tutti: un cer­ to..., ma è inutile dire il suo nome..., un giovane ufficiale arri­ vato di fresco rimase in piedi, con il bicchiere pieno in mano, proprio nel momento in cui la bomba esplose. Questa portò via la testa al mio povero compagno Andrea Speranski, un ragaz­ zo coraggioso, e ruppe la brocca; fortunatamente era quasi vuota. Quando ci rialzammo, dopo l’esplosione, vedemmo tra il fumo il nostro amico che si scolava l’ultimo sorso di birra, come niente fosse. Lo credemmo tutti un eroe. Il giorno dopo incontro il capitano Gedeonov, il quale usciva dall’ospedale. Mi dice: «Oggi pranzo con voi, e, per festeggiare il mio ritorno offro lo champagne». Ci sediamo a tavola. C’era il giovane uf­ ficiale della birra. Non sapeva nulla dello champagne. Gli stu­ rano la bottiglia accanto... Paf! il tappo lo colpisce alla tempia. Lui manda un grido e sviene. Credetemi pure, il nostro eroe il giorno prima aveva avuto una paura tremenda, e se aveva be­ vuto la birra invece di scansarsi, è semplicemente perché aveva perduto la testa; non gli restava che un movimento automatico del quale non aveva coscienza. Infatti, signor professore, la macchina umana...». «Signor dottore», disse, entrando in sala, un domestico «la Sdanova dice che la signora contessa non vuole mangiare». «Che il diavolo se la porti!» borbottò il dottore. «Ci vado. Quando la mia diavolessa avrà mangiato, se vi tornasse gradito, signor professore, potremmo fare una partitina a préferénce, o durački"...». [Cfr. La Fontaine, L’Ours et les deux compagnons, " [Giochi di carte diffusi ancora oggi in Russia],

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20].

Mi rammaricai con lui della mia ignoranza, e quando si recò a visitare la malata, mi ritirai nella mia camera e scrissi alla signori­ na Gertrude.

II

La notte era calda, e avevo lasciato aperta la finestra che dava sul parco. Scritta la mia lettera, non avendo ancora voglia di dor­ mire, mi misi a ripassare i verbi irregolari lituani e a ricercare nel sanscrito le ragioni delle loro singole peculiarità. In mezzo a quel lavoro che mi assorbiva, un albero abbastanza vicino alla mia fi­ nestra fu scosso con una certa violenza. Udii scricchiolare dei ra­ mi secchi, e mi sembrò che qualche animale molto pesante vi si arrampicasse. Ancora tutto impressionato dalle storie di orsi che il dottore mi aveva raccontato, mi alzai, non senza una certa emo­ zione, e ad alcuni piedi dalla finestra, scorsi nel fogliame dell’al­ bero, un volto umano rischiarato in pieno dalla luce della mia lampada. L’apparizione non durò che un attimo, ma la luce sin­ golare degli occhi che incontrarono il mio sguardo mi colpì più di quanto non saprei esprimere. Mi ritrassi involontariamente, poi corsi di alla finestra e con voce severa chiesi all’intruso che cosa volesse. Ma già quello si affrettava a scendere, e afferrando un grosso ramo tra le mani, si lasciò pendere, poi cadere a terra, e su­ bito scomparve. Suonai; entrò un domestico. Gli raccontai ciò che era successo. «Sicuramente il signor professore si sarà sbagliato». «Sono certo di quello che dico», replicai. «Temo che vi sia un ladro nel parco». «Impossibile, signore». «Allora è qualcuno di casa?». Il domestico spalancava gli occhi senza rispondermi. Alla fine mi chiese se avessi ordini da dargli. Gli dissi di chiudere la fine­ stra e mi misi a letto. Dormii benissimo, senza sognare orsi, né ladri. La mattina do­ po mi stavo vestendo quando bussarono alla porta. Aprii e mi ri­ trovai a tu per tu con un bel giovane, di alta statura in veste da ca­ mera bukhara, una lunga pipa turca in mano. 523

«Vengo a chiedervi scusa, signor professore», disse, «di aver così male accolto un ospite come voi. Sono il conte Szemioth». Mi affrettai a rispondere che dovevo, al contrario, ringraziar­ lo umilmente per la magnifica ospitalità, e gli chiesi se si fosse li­ berato del suo mal di testa. «Non c’è male» disse. «Fino a una nuova crisi», aggiunse con un’espressione di tristezza. «Vi pare sopportabile il soggiorno? Vogliate ricordarvi che siete in mezzo ai barbari. Non bisogna fa­ re i difficili in Samogizia». Gli assicurai che mi trovavo a meraviglia. Mentre gli parlavo, non potei trattenermi dall’osservarlo con una curiosità che sem­ brò anche a me impertinente. Il suo sguardo aveva un che di stra­ no che mio malgrado mi ricordava quello dell’uomo che avevo visto arrampicarsi sull’albero il giorno prima... ma come può es­ sere, mi dicevo, che il signore conte di Szemioth si arrampichi di notte sugli alberi? Aveva la fronte alta e ben formata, per quanto un po’ stretta. I lineamenti erano di una grande regolarità; solo che gli occhi era­ no troppo vicini, e mi sembrò che fra le due ghiandole lacrimali non c’era lo spazio di un altro occhio, come esige il canone degli scultori greci. Il suo sguardo era penetrante. I nostri occhi si in­ contrarono più volte nostro malgrado, e li distogliemmo entram­ bi con un certo imbarazzo. A un tratto il conte scoppiando a ri­ dere esclamò: «Mi avete riconosciuto!». «Riconosciuto ?». «Sì, mi avete sorpreso ieri, sera che facevo il vero monello». «Oh! signor conte!...». «Avevo passato tutta la giornata malissimo, chiuso nel mio studio. La sera, stando meglio, sono uscito a fare una passeggiata in giardino. Ho visto la luce accesa in camera vostra, e non ho re­ sistito a un istinto di curiosità... Avrei dovuto dire chi ero e pre­ sentarmi, ma la situazione era così ridicola... Mi sono vergogna­ to e sono fuggito... Mi perdonerete di avervi scomodato nel mez­ zo del vostro lavoro?». Tutto questo era detto con un tono che pretendeva di essere scherzoso; ma arrossiva ed era visibilmente a disagio. Feci del mio meglio per convincerlo di non aver serbato nessuna spiacevole 524

impressione del nostro primo incontro, e, per tagliare corto, gli chiesi se era vero che possedesse il Catechismo samogitico di pa­ dre Lawicki. «Può darsi; ma, a dirvi la verità, non conosco troppo bene la biblioteca di mio padre. Amava i libri antichi e le rarità. Io non leggo che opere moderne; ma faremo tutte le ricerche, signor pro­ fessore. Volete dunque farci leggere il vangelo in samogizio?». «Non pensate, signor conte, che una traduzione delle Scrittu­ re nella lingua di questo paese sia auspicabile?». «Certamente; per quanto, se mi permettete una piccola osser­ vazione, vi dirò che, tra le persone che conoscono soltanto il sa­ mogizio, non ce n’è una che sappia leggere». «Forse; ma domando a Vossignoria Chiarissima12 il permesso di farle notare che la principale difficoltà di imparare a leggere è proprio la mancanza di libri. Quando i paesi samogitici dispor­ ranno di un testo a stampa, vorranno leggerlo e impareranno a leggere... È quello che è accaduto già per molti selvaggi..., non che io voglia dare questo appellativo agli abitanti di questa pae­ se... D’altronde, aggiunsi, non è una cosa deplorevole che una lingua scompaia senza lasciare tracce? Da una trentina d’anni il prussiano è una lingua morta. L’ultimo individuo che sapesse il comico è morto l’altro ieri». «Triste!» interruppe il conte. «Alexandre di Humboldt13 nar­ rava a mio padre che aveva conosciuto in America un pappagal­ lo, che era l’unico essere vivente che sapesse ancora qualche pa­ rola della lingua di una tribù oggi interamente distrutta dal vaio­ lo. Vi dispiace se dico di portare il tè qui?». Mentre prendevamo il tè, la conversazione si concentrò sulla lingua samogitica. Il conte criticava il metodo di trascrizione del lituano seguito dai tedeschi, e aveva ragione. «Il vostro alfabeto», diceva, «non va bene per la nostra lingua. Non avete né la nostra J né la nostra L né la nostra Y o la nostra E. Ho una collezione di dainos pubblicati a Königsberg l’anno scorso, con grandissima fatica riesco a decifrare le parole, tanto sono scritte in modo strano». 12 Siatelstvo. «Vossignoria chiarissima» è il titolo che si dà a un conte. 13 [F.-H.-A. barone di Humboldt (1769-1859), naturalista, chimico, geografo, viaggia­ tore e filologo tedesco].

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«Vostra Eccellenza parla certamente dei dainos di Lessner!». «Sì. È una poesia proprio piatta, non è così?». «Forse avrebbe potuto trovare di meglio. Ne convengo che così come si presenta la raccolta non ha che un interesse pura­ mente filologico; ma credo che cercando bene si arriverebbe a raccogliere senza dubbio fiori più soavi fra le vostre poesie po­ polari». «Ahimè! ne dubito assai, malgrado tutto il mio patriottismo». «Qualche settimana fa, mi hanno dato a Vilno una ballata ve­ ramente bella, e per giunta storica... L’afflato poetico è veramen­ te degno di nota.. Posso leggervela? Ce l’ho nel portafoglio». «Molto volentieri». Sprofondò nella poltrona, dopo avermi domandato il permes­ so di fumare. «Non comprendo la poesia se non fumando», disse. «È intitolata.· I tre figli di Budris»". «I tre figli di Budrisl», esclamò il conte con un gesto di sor­ presa. «Sì. Budris, Vostra Eccellenza sa meglio di me che è un perso­ naggio storico». Il conte mi fissava con occhi strani. Qualcosa di indefinibile, al contempo timido e selvaggio, che dava un’impressione quasi penosa a chi non vi era abituato. Mi affrettai a leggere per libe­ rarmene: I TRE FIGLI DI BUDRIS

Nel cortile del suo castello, il vecchio Budris chiama i suoi tre figli, tre veri lituani come lui. Dice loro: «Figli, fate mangiare i vo­ stri cavalli da guerra, preparate le vostre selle; affilate le vostre sciabole e le vostre chiaverine. Dicono che a Vilno la guerra è di­ chiarata contro i tre angoli del mondo. Olgerd marcerà contro i russi, Skirghello contro i nostri vicini polacchi, Keystut si avven­ terà sui Teutoni14 15. Voi siete giovani, forti, arditi, andate a combat­ tere: che gli dei della Lituania vi proteggano! Quest’anno non 14 [Ballata composta da Mickiewicz nel 1829. Tradotta in russo da Puškin nel 1833]. 151 cavalieri dell’ordine teutonico.

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farò più campagne, ma voglio darvi un consiglio. Voi siete tre, tre strade vi si offrono. Che uno di voi accompagni Olgerd in Russia, ai bordi del la­ go Ilmen, sotto le mura di Novgorod. Ricca di pelli di ermellini, di stoffe broccate. Dai mercanti, più rubli che ghiaccioli nel fiu­ me. Che il secondo segua Keystut durante la sua cavalcata. Che faccia a pezzi la marmaglia crociata! L’ambra, là, è sabbia di ma­ re; i loro drappi, per la loro lucentezza e per i loro colori, sono senza pari Ci sono rubini sui paramenti dei loro preti. Che il terzo passi il Niemen con Skirghello. Sull’altra riva tro­ verà vili strumenti da lavoro. In compenso potrà scegliere buone lance e forti scudi, e mi porterà una nuora. Le donne di Polonia, figli, sono le prigioniere più belle. Bea­ to colui che le impalma! - Gaie come gatte, bianche come la panna! - sotto le loro nere sopracciglia, i loro occhi brillano co­ me due stelle. Quando ero giovane, mezzo secolo fa, ho porta­ to dalla Polonia una bella prigioniera che fu mia moglie. Da tan­ to non c’è più, ma non posso guardare da quella parte del foco­ lare senza pensare a lei!». Dà la sua benedizione ai giovani, che sono già armati e in sel­ la. Se ne vanno; arriva l’autunno, poi l’inverno... Non tornano. Il vecchio Budrisi li considera già morti. Arriva una tormenta di neve; un cavaliere si avvicina, copren­ do con la sua burka16 nera un prezioso fardello. «È un sacco!» dice Budris. «È pieno di rubli di Novgo­ rod?...». «No, padre. Vi porto una nuora dalla Polonia...». In mezzo a una tormenta di neve, si avvicina un cavaliere e la sua burka si gonfia su qualche prezioso fardello. «Cos’è, figlio? Ambra gialla dalla Germania». «No, padre. Vi porto una nuora dalla Polonia». La neve cade in raffiche; un cavaliere avanza nascondendo sot­ to la sua burka un prezioso fardello... Ma prima che mostrasse il suo bottino, Budris ha invitato gli amici per le terze nozze. “ Mantello di feltro.

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«Bravo signor professore!», esclamò il conte: voi pronunciate il samogizio a meraviglia; ma da chi avete avuto questa graziosa dainaì». «Da una nobile fanciulla, che ebbi l’onore di conoscere a Vilno, dalla principessa Katazina Paç». «E si chiama?...». «Là panna Iwinska». «La signorina Iulka!»17 esclamò il conte. Quella pazzerella! L’avrei dovuto immaginare! Mio caro professore, voi conoscete il samogizio e tutte le lingue dotte, avete letto tutti i vecchi libri; ma vi siete lasciato mistificare da una ragazzina che ha letto solo ro­ manzi. Vi ha tradotto, in samogizio più o meno corretto, una gra­ ziosa ballata di Mickiewicz18, che voi non avete letto, perché non è più vecchia di me. Se lo desiderate, ve la mostrerò in polacco o, se preferite un’ottima traduzione russa, vi darò Puskin». Confesso che rimasi interdetto. Che gioia per il professore di Dorpat, se avessi pubblicato come originale la daina dei figli di Budris! Invece di divertirsi del mio imbarazzo, il conte si affrettò con una squisita cortesia, a cambiare discorso. «Così», disse, «conoscete la signorina Iulka?». «Ho avuto l’onore di esserle presentato». «E che ne pensate? Siate sincero». «E una signorina molto simpatica...». «Vi piace dire così». «Graziosissima». «Oh!». «Come? non ha forse i più begli occhi del mondo?». «Sì...». «Una carnagione di un candore veramente straordinario?... Mi ricordo un ghazel''’ persiano, in cui un amante celebra la deli­ catezza della pelle dell’amata: “Quando beve vino rosso”, dice, “lo si vede passare per la gola”. La panna Iwinska mi ha fatto pensare a questi versi persiani». 17 Julienne. 18 [Adam Mickiewicz, poeta polacco (1798-1855)]. ” [Poesia turca o persiana, composta da cinque o sette strofe di due versi su soggetti erotici, bacchici o mistici].

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«Forse la signorina Iulka presenta lo stesso fenomeno; ma non so davvero se ha sangue nelle vene... Non ha cuore... È bianca come la neve e come lei fredda!...». Si alzò e passeggiò qualche minuto per la camera senza parla­ re, da come mi sembrava, per nascondere la sua emozione; poi fermandosi di colpo: «Scusate», disse, «stavamo parlando, se non erro, di poesie popolari...». «Già, signor conte». «Bisogna riconoscere dopo tutto che ha tradotto Mickiewicz con molto garbo... «Gaia come una gatta..., bianca come la pan­ na..., i suoi occhi brillano come due stelle». E il suo ritratto. Non trovate?». «Proprio così, signor conte». «In quanto a questo scherzo... assai fuori posto sicuramen­ te... la povera bambina si annoia da quella vecchia zia... Fa una vita da convento». «A Wilno, andava in società. L’ho vista a un ballo offerto da­ gli ufficiali del reggimento di...». «Ah sì, dei giovani ufficiali, ecco la società che fa per lei! Ri­ dere con uno, sparlare con l’altro, civettare con tutti... Volete ve­ dere la biblioteca di mio padre, signor professore?». Lo seguii fino a un’ampia galleria dove si trovavano molti li­ bri ben rilegati, ma raramente aperti, come si poteva giudicare dalla polvere che ne copriva il taglio. Figuratevi la mia gioia, quando tra i primi volumi che tirai fuori da uno scaffale mi capitò in mano il Catechismus Samogiticus\ Non potei trattenere un gri­ dolino di piacere... Si deve credere che una misteriosa forza di at­ trazione eserciti la sua influenza a nostra insaputa... Il conte pre­ se il libro e, dopo averlo sfogliato con noncuranza, scrisse sulla prima pagina di guardia; Al signor professor Wittembacb, offerto da Michel Szemiotb. Non sarei capace di esprimere tutto il tra­ sporto della mia riconoscenza, e mi promisi mentalmente che do­ po la mia morte il prezioso volume sarebbe andato a ornare la bi­ blioteca dell’università nella quale mi addottorai. «Vi prego di considerare questa libreria come il vostro ga­ binetto di lavoro», mi disse il conte. «Qui non sarete mai infa­ stidito». 529

ni Il giorno seguente, dopo colazione, il conte mi propose di fa­ re una passeggiata. Si trattava di visitare un kapas™ (è così che i li­ tuani chiamano i tumuli ai quali i russi danno il nome di kurgarì) famosissimo nel paese, dove un tempo i poeti e gli stregoni, era un tutt’uno, vi si riunivano in certe occasioni solenni. «Ho», mi disse, «un cavallo docilissimo da offrirvi; mi rincre­ sce non potervi portare in carrozza; ma, in verità, la strada che se­ guiremo non è affatto carreggiabile». Avrei preferito rimanere in biblioteca a prendere appunti, ma non mi parve conveniente esprimere un desiderio diverso da quello del mio generoso ospite, e accettai. I cavalli ci aspettavano ai piedi della scalinata; nel cortile un valletto teneva un cane al guinzaglio. Il conte si fermò un attimo, e, voltandosi verso di me: «Signor professore, conoscete i cani?». «Pochissimo Vostra Eccellenza». «Lo starosta2' di Zorany22 20,23 dove 21 ho una tenuta, mi manda que­ sto épagneul22’ del quale dice meraviglie. Permettete che gli dia un’occhiata?». Chiamò il valletto, che gli portò il cane. Era una gran bella be­ stia., Avendo già familiarizzato con quell’uomo, saltava allegra­ mente e sembrava pieno di fuoco; ma a pochi passi dal conte, mi­ se la coda tra le gambe, si ritrasse di colpo e sembrò colpito da un terrore subitaneo. Il conte lo accarezzò, il che lo fece guaire in modo lamentevole, e, dopo averlo osservato per un attimo con occhio da intenditore, disse: «Credo che sarà un buono. Abbiatene cura». Poi balzò in sella. «Signor professore», mi disse il conte appena fummo nel via­ le del castello, «avete visto la paura di quel cane. Ho voluto che ne foste testimone voi stesso... Nella vostra qualità di scienzia­ to, sapreste sciogliere gli enigmi... Perché gli animali hanno pau­ ra di me?». 20 21 22 23

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[Tomba in lituano]. [Governatore]. [Nome polacco di Zarénai, villaggio situato in Samogizia]. [Cane da ferma dal pelo lungo ondulato e le orecchie pendenti].

«In verità, signor conte, mi fate l’onore di scambiarmi per un Edipo. Non sono che un povero professore di linguistica compa­ rata. Si potrebbe...». «Notate», interruppe, «che non batto mai i cavalli né i cani. Mi farei scrupolo di dare una frustata a una povera bestia che fa una sciocchezza senza saperlo. Eppure, non potete credere quale av­ versione ispiro ai cavalli e ai cani. Per abituarli a me devo sempre sprecare il doppio del tempo e della fatica che normalmente si ri­ chiederebbero a un altro. Ecco, quel cavallo che montate, ci ho impiegato non so quanto a ridurlo com’è; adesso è mansueto co­ me un agnello». «Credo, signor conte, che gli animali siano fisionomisti e che si accorgano subito se una persona che vedono per la prima vol­ ta abbia o no qualche simpatia per loro. Credo che amiate gli ani­ mali solo per i servizi che vi rendono; al contrario, altre persone invece hanno una predilezione naturale per certe bestie, che se ne accorgono all’istante. Io, per esempio, ho dall’infanzia una prefe­ renza istintiva per i gatti. E i gatti assai di rado fuggono quando mi avvicino per accarezzarli; nessun gatto mi ha mai graffiato». «E possibilissimo», disse il conte. «Infatti, io non ho quello che si dice il gusto degli animali... Non valgono affatto più degli uomini. Intanto, signor professore, vi sto conducendo in una fo­ resta nella quale vige tuttora il regno delle bestie, la matecznik, la grande matrice, la grande fabbrica degli esseri viventi. Sì, secondo le nostre tradizioni nazionali, nessuno ne ha sondato mai le profondità, nessuno ha mai potuto raggiungere il centro di que­ sti boschi e di queste paludi, eccetto, beninteso, i signori poeti e stregoni, che arrivano dappertutto... Là vivono gli animali in re­ pubblica... o sotto qualche altro governo costituzionale, non sa­ prei dire quale dei due. I leoni, gli orsi, le alci, gli jubr - sono i no­ stri uri - tutti vivono bene insieme. Il mammut, che là si è con­ servato, gode di grande considerazione. È, credo, maresciallo del­ la Dieta. Hanno una polizia molto severa, e quando trovano qualche bestia viziosa, la giudicano e la esiliano. Questa viene co­ sì a cadere dalla padella alla brace. È obbligata ad avventurarsi nel paese degli uomini, e poche ne scampano»24. Si veda Messire Thaddée, di Mickiewicz; La Pologne captive, di M. Charles Edmond.

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«Leggenda molto curiosa!», esclamai; «ma, signor conte, ave­ te parlato dell’uro; questo nobile animale che Cesare ha descritto nei suoi Commentari15, e che i re merovingi cacciavano nella fo­ resta di Compiègne, esiste realmente ancora in Lituania, come ho sentito dire?». «Certamente. Mio padre stesso ha ucciso uno jubr, con un permesso del governo, s’intende. Ne avete potuto vedere la testa nel salone. Io finora non ne ho mai visti, e credo che gli uri siano molto rari. In compenso, abbiamo qui lupi e orsi a iosa. È per un probabile incontro con uno di questi signori che ho portato con me questo strumento (mostrava una cèccola2h circassa che aveva a tracolla), e il mio groom17 porta una doppietta all’arancione». Cominciavamo a inoltrarci nella foresta. Presto il sentiero molto stretto che seguivamo scomparve. Ad ogni piè sospinto, eravamo costretti ad aggirare alberi enormi, i cui rami bassi ci im­ pedivano il passaggio. Qualcuno, già caduto per la vecchiaia, ci opponeva una specie di bastione, munito di un invalicabile sbar­ ramento di cavalli di Frisia. Altrove incontravamo profonde pa­ ludi coperte di ninfee e lenticchie d’acqua. Più in là vedevamo ra­ dure la cui erba brillava come smeraldo; ma guai a chi vi si av­ venturava, perché quella ricca e ingannevole vegetazione nascon­ de solitamente certe voragini di melma dove cavallo e cavaliere sprofonderebbero per sempre... La difficoltà del cammino aveva interrotto la nostra conversazione. Io facevo del mio meglio per seguire il conte, e ammiravo l’imperturbabile avvedutezza con cui si orientava senza bussola, e ritrovava sempre la direzione ideale che occorreva seguire per arrivare al kapas. Era evidente che do­ veva cacciava da tanto tempo in quelle foreste selvagge. Scorgemmo infine il tumulo al centro di un’ampia radura. Era molto alto, circondato da un fosso ancora riconoscibile nono­ stante i cespugli e le frane. Sembrava l’avessero già scavato. In ci­ ma notai i resti di una costruzione in pietra, parte della quale in rovina. Da un cospicuo mucchio di ceneri miste a carbone e a cocci di rozzo vasellame si poteva arguire che in cima al tumulo 25 [Commentarli de bello gallico, VI, 28]. 26 Custodia di fucile circasso. 27 [Letteralmente «fattorino d’albergo», anche nel racconto II vaso etrusco].

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il fuoco era stato tenuto acceso per un periodo considerevole. Se si volesse prestare fede alle tradizioni volgari, sembra che antica­ mente sui kapas si celebrassero sacrifici umani; ma non c’è reli­ gione scomparsa alla quale non si siano imputati questi abomine­ voli riti, e dubito che si possa giustificare simile opinione nei con­ fronti degli antichi lituani, come da testimonianze storiche. Ridiscendevamo dal tumulo, il conte e io, per riprendere i ca­ valli che avevamo lasciato dall’altra parte del fosso, quando ve­ demmo avvicinarsi una vecchia che si appoggiava a un bastone, con un cesto in mano. «Miei buoni signori», disse raggiungendoci, «fatemi la carità per l’amore del buon Dio. Datemi da comprarmi un bicchiere d’acquavite per riscaldare il mio povero corpo». Il conte le gettò una moneta d’argento e le chiese cosa facesse nel bosco, così lontano da ogni luogo abitato. Per tutta risposta, gli mostrò il cesto, che era pieno di funghi. Benché le mie cono­ scenze di botanica fossero molto limitate, mi sembrò che parec­ chi di quei funghi appartenessero a specie velenose. «Buona donna», le dissi, «non contate, spero di mangerete quella roba?». «Mio buon signore», rispose la vecchia con un sorriso triste, «la povera gente mangia tutto ciò che il buon Dio le dà». «Non conoscete il nostro stomaco lituano», riprese il conte; «è foderato di latta. I nostri contadini mangiano tutti i funghi che trovano e meglio di così non potrebbero stare». «Impeditele almeno di assaggiare Vagaricus necator che vedo nel suo cesto», esclamai. E tesi la mano per prendere un fungo tra i più velenosi; ma la vecchia ritrasse lestamente il cesto. «Bada», mi disse con voce spaventata; «sono protetti... Pirkuns\ Pirkunsl·». Pirkuns, sia detto di sfuggita, è il nome samogizio della divi­ nità che i russi chiamano Perurr, è il Giove tonans degli slavi. Se fui sorpreso di sentire la vecchia invocare un dio pagano, lo fui ancora di più nel vedere i funghi sollevarsi. Ne spuntò fuori la te­ sta nera di un serpente, e si alzò di un piede almeno fuori del ce­ sto. Feci un balzo indietro, e il conte sputò al di sopra della spal­ la, secondo l’usanza superstiziosa degli slavi, che credono di

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scongiurare così i malefici, come già gli antichi romani. La vec­ chia posò il cesto a terra e si accoccolò; poi, con la mano tesa ver­ so il serpente, pronunciò certe parole incomprensibili che aveva­ no l’aria di un incantesimo. Il serpente rimase immobile per un minuto; poi arrotolandosi al braccio rinsecchito della vecchia, scomparve nella manica della mantellina di pelle di pecora, che, insieme a una brutta camicia, costituiva, credo, tutto il vestiario di quella circe lituana. La vecchia ci guardava con un risolino di trionfo, come un giocoliere che ha appena eseguito un gioco di prestigio. C’era sul suo volto un’espressione mista di astuzia e stupidità, che non è rara nei pretesi stregoni, il più delle volte im­ broglioni e bugiardi. «Ecco», mi disse il conte in tedesco, «un bel saggio di colore locale·, una strega che incanta un serpente, ai piedi di un kapas, in presenza di un dotto professore e di un ignorante gentiluomo li­ tuano. Sarebbe un bel soggetto per un quadro di maniera del vo­ stro conterraneo Knaus28... Non avete il desiderio di farvi legge­ re la ventura? Avete qui una buona occasione». Gli risposi che mi sarei ben guardato dall’incoraggiare simili pratiche. «Preferisco», aggiunsi, «chiederle se non sappia qualche parti­ colare sulla curiosa tradizione di cui mi avete fatto parlato. Buo­ na donna», dissi alla vecchia, «non hai sentito parlare di un ango­ lo di questa foresta dove le bestie vivono in comunità, ignorando l’impero dell’uomo?». La vecchia fece un cenno affermativo con la testa e con quel ri­ solino metà ingenuo e metà astuto: «Ne torno ora», disse. «Le bestie hanno perso il re. Nobile, il leone è morto; le bestie stanno per eleggere un altro re. Vacci tu, sarai re, forse». «Che dici, madre?», esclamò il conte, scoppiando a ridere. «Sai con chi parli? Ignori forse che il signore è... (come diavolo si di­ ce professore in samogizio?)... il signore è un uomo molto istrui­ to, un saggio, un waidelote^». La vecchia lo guardò con attenzione. 28 [Ludwig Knaus (1829-1910) pittore tedesco, vissuto a Parigi dal 1852 al I860]. 2’ Cattiva traduzione della parola professore, i waidelotes erano bardi lituani.

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«Sbaglio», disse; «sei tu che devi andare laggiù. Tu sarai il loro re, non lui; tu sei grande, forte; hai artigli e denti...». «Che dite degli epigrammi di cui ci gratifica?» mi chiese il con­ te. «Conosci la strada, mammina?», le domandò. Con un cenno della mano quella indicò una parte della foresta. «Sì?», riprese il conte, «e la palude, come fai a passarla? Dove­ te sapere, signor professore, che dalla parte che indica si trova una palude impraticabile, un lago di melma liquida ricoperto di erba verde. L’anno scorso, un cervo da me ferito si gettò in quel dia­ volo di pantano. L’ho visto affondare lentamente... In capo a die­ ci minuti, non se ne vedevano più se non le corna; poi, tutto è scomparso; e due dei miei cani con lui». «Io, però non sono pesante», disse la vecchia ridacchiando. «Credo che attraverseresti la palude senza fatica, su un mani­ co di scopa». Gli occhi della vecchia lampeggiarono per la collera. «Mio buon signore», disse riprendendo il tono strascicato e nasale dei mendicanti, «non avresti una pipa30 di tabacco da rega­ lare a una povera donna?». «Faresti meglio», aggiunse abbassan­ do la voce, «a cercare il passaggio della palude anziché andare a Dowghielli». «Dowghielli!», esclamò arrossendo il conte. «Che vuoi dire?». Non potei trattenermi dal notare che quel nome produceva su di lui uno strano effetto. Era visibilmente imbarazzato; abbassò la testa, e, per nascondere il proprio turbamento, si affannò più del necessario per aprire la borsa del tabacco, appesa all’impugnatu­ ra del coltello da caccia. «No, non andare a Dowghielli», riprese la vecchia. «La co­ lombella bianca non è roba per te. Non è così, Pirkuns?». In quel momento, la testa del serpente sbucò dal collo della vecchia mantellina e si spinse fino all’orecchio della padrona. Il rettile, indubbiamente addestrato per quel compito, muoveva le mandibole come se parlasse. «Dice che ho ragione», aggiunse la vecchia. Il conte le mise in mano una manciata di tabacco. «Mi conosci?» le domandò. [Antica misura di capacità francese].

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«No, mio buon signore». «Sono il padrone di Medintiltas. Vieni a trovarmi uno di que­ sti giorni. Ti darò tabacco e acquavite». La vecchia gli baciò la mano e si allontanò a grandi passi. In un attimo la perdemmo di vista. Il conte rimase pensoso, legando e sciogliendo i cordoni del suo sacco, senza accorgersi troppo di quello che stava facendo. «Signor professore», mi disse dopo un silenzio piuttosto lun­ go «vi burlerete di me. Quella vecchia birbona mi conosce più di quanto voglia dare a intendere, e la strada che mi ha appena indi­ cato... Dopo tutto, non c’è niente di così straordinario in tutto questo. Sono conosciuto nel paese come il lupo bianco. La bir­ bante mi ha visto più di una volta sulla strada del castello di Dow­ ghielli... Laggiù abita una fanciulla da marito: ne ha concluso che io fossi innamorato... Inoltre, qualche bel ragazzo le avrà unto la mano perché mi predicesse una sinistra ventura... Tutto questo salta agli occhi... eppure..., mio malgrado, le sue parole mi toc­ cano. Ne sono quasi spaventato... voi ridete e avete ragione... La verità è che avevo progettato di andare a chiedere un invito a pranzo al castello di Dowghielli, e ora esito... Sono un gran paz­ zo! Vediamo, signor professore, decidete voi stesso. Andremo?». «Mi guarderò bene dall’esprimere un’opinione», risposi ri­ dendo. «In fatto di matrimonio non do mai consigli». Avevamo raggiunto i nostri cavalli. Il conte balzò svelto in sel­ la, e, lasciando cadere le redini esclamò: «Il cavallo sceglierà per noi!». Il cavallo non esitò: infilò subito un piccolo sentiero che dopo molti giri andò a sboccare in una strada ferrata e questa strada conduceva a Dowghielli. Una mezz’ora dopo eravamo alla scali­ nata del castello. Al rumore che fecero i nostri cavalli, una graziosa testa bion­ da apparve a una finestra tra due tende. Riconobbi la perfida tra­ duttrice di Mickiewicz. «Siate il benvenuto!» disse. «Non potevate capitare più a pro­ posito, conte Szemioth. Mi è arrivato ora un vestito da Parigi. Non mi riconoscerete, per quanto sarò bella». Le tende si richiusero. Nel salire la scalinata il conte diceva tra i denti: 536

«Certo non per me si preparava a indossare il vestito...». Mi presentò alla signora Dowghiello, zia della panna Iwinska, che mi accolse affabilmente e mi parlò degli ultimi articoli sulla «Gazzetta di Scienze e Lettere» di Königsberg. «Il signor professore», disse il conte «è venuto a lagnarsi con voi della signorina Julienne, che gli ha giocato un tiro pessimo». «È una bambina, signor professore. Bisogna scusarla. Mi fa spesso disperare con le sue pazzie. A sedici anni io avevo più giu­ dizio di quanto ne ha lei a venti; ma, in fondo, è una brava ragaz­ za e ha tutte le più solide qualità. È un’ottima musicista, dipinge i fiori divinamente, parla bene tanto il francese, il tedesco, l’italia­ no... Ricama...». «E compone versi in samogizio!», aggiunse ridendo il conte. «Non ne è capace!», esclamò la signora Dowghiello a cui do­ vemmo narrare la birichinata della nipote. La signora Dowghiello era colta e conosceva le antichità del suo paese. La sua conversazione mi piacque enormemente. Leg­ geva molto le nostre riviste tedesche e aveva discrete nozioni di linguistica. Confesso che non mi accorsi del tempo che la signo­ rina Iwinska impiegò nel vestirsi: ma parve lungo al conte Szemioth, il quale si alzava, tornava a sedersi, guardava dalla fine­ stra, e tamburellava con le dita sui vetri come un uomo che non ha pazienza. Finalmente, dopo tre quarti d’ora, la signorina Julienne appar­ ve seguita dalla governante francese, Portando, con grazia e fie­ rezza, un abito la cui descrizione richiederebbe conoscenze supe­ riori alle mie. «Non sono forse bella?», chiese al conte girandosi lentamente su se stessa perché potesse osservarla da ogni lato. Lei non guardava né il conte né me, guardava l’abito. «Come, Iulka!», disse la signora Dowghiello «non dai il buon­ giorno al signor professore che è venuto a lagnarsi di te?». «Ah! signor professore!», esclamò con una smorfietta grazio­ sa, «che ho fatto? Volete dunque mettermi in castigo?». «Ci metteremmo in castigo noi stessi, signorina», le risposi, «se ci privassimo della vostra presenza. Non solo non mi lagno; ma mi rallegro, al contrario, di aver appreso, grazie a voi, che la musa lituana rinasca più brillante che mai». 537

Chinò la testa e, coprendosi il viso con le mani, avendo cura tuttavia di non scomporre la sua pettinatura: «Perdonatemi, non lo farò più!», disse con il tono del bambi­ no che ha appena rubato la marmellata. «Non vi perdonerò, cara pani»'', le dissi «se non quando avre­ te mantenuto una certa promessa che avete voluto farmi a Wilno, dalla principessa Katazyna Paç». «Quale promessa?», disse, rialzando il viso e ridendo. «L’avete già dimenticata? Mi avete promesso che se ci fossimo ritrovati in Samogizia, mi avreste fatto vedere un certo ballo del paese, di cui mi dicevate meraviglie». «Oh! la russalka'. Sono affascinante ed ecco proprio l’uomo che ci vuole». Corse a un tavolo dove si trovavano dei quaderni di musica, ne sfogliò uno velocemente, lo pose sul leggio del pianoforte e, ri­ volgendosi alla governante: «Ecco, anima mia, allegro presto». E accennò lei stessa, senza sedersi, il ritornello per indicare il tempo. «Venite qui, conte Michel; siete troppo lituano per non ballare bene la russalka...:, ma ballate come un contadino, siamo intesi?». La signora Dowghiello tentò un’obiezione, ma invano. Il con­ te e io insistemmo. Lui aveva le sue buone ragioni, poiché la sua parte era, come si vedrà presto, delle più piacevoli. La governan­ te, dopo alcune note di prova, disse che credeva di poter suonare quella specie di valzer, per quanto strano fosse, e la signorina Iwinska, dopo aver tolto alcune sedie e un tavolo che le avrebbe­ ro potuto dare fastidio, afferrò il suo cavaliere per il bavero della giubba e lo condusse in mezzo al salotto. «Saprete, signor professore, che sono una russalka per servirvi». Fece un profondo inchino. «Una russalka è una ninfa delle acque. Ognuno di quei ma­ ri neri che abbelliscono le nostre foreste ha la sua. Non vi av­ vicinate! La russalka esce, ancora più bella di me, se possibile; vi trascina in fondo, dove, secondo ogni apparenza, vi sgra­ nocchia...». 31 [Pan, in polacco «signore»; pani, «signora»].

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«Lui», proseguì la signorina Iwinska, indicando il conte Szemioth, «è un pescatorello molto ingenuo che si espone alle mie grinfie, e io per far durare il piacere lo ammalierò ballando un po’ attorno a lui... Ah! per riuscirvi come si deve mi occorrerebbe un sarafan52. Che peccato!... Vogliate scusare questo vestito che non ha carattere e colore locale... Oh! e ho delle scarpe! impossibile ballare la russalka con le scarpe!... e con tacchi poi!». Sollevò il vestito e, scuotendo con molta grazia un bel piede, a rischio di far vedere un po’ la gamba, mandò la scarpa in fondo al salone. L’altra seguì la prima, e lei rimase sul pavimento con le calze di seta. «Tutto è pronto», disse alla governante. E il ballo iniziò. La russalka gira e rigira intorno al cavaliere. Questi stende le braccia e vuole afferrarla, lei passa sotto e gli sfugge. È molto gra­ zioso, e la musica ha ritmo e originalità. La figura si chiude quan­ do il cavaliere, credendo di stringere la russalka per darle un ba­ cio, lei fa un salto, lo colpisce sulla spalla, e cade ai suoi piedi co­ me morto... Ma il conte improvvisò una variante, che fu di strin­ gere la birichina fra le sue braccia e di baciarla realmente. La si­ gnorina Iwinska lanciò un piccolo, grido, arrossì molto e andò a cadere su un divano con aria imbronciata, lagnandosi che l’aveva stretta come un orso qual era. Vidi che il paragone non piacque al conte, perché gli ricordava la disgrazia di famiglia; la sua fronte si rabbuiò. Quanto a me, ringraziai vivamente la signorina Iwinska e lodai la sua danza, che mi sembrò avere un carattere molto an­ tico, ricordando le danze sacre dei Greci. Fui interrotto da un domestico che annunciava il generale e la principessa Veliaminov. La signorina Iwinska fece un balzo dal divano alle scarpe, in cui infilò in fretta i piedini e corse subito incontro alla principessa cui fece lì per lì due profondi inchini. Notai che ogni volta sollevava agilmente il tacco. Il generale portava con sé anche due aiutanti di campo, e, come noi, veniva a invitarsi a cena. In qualunque altro paese penso che la padrona di casa si sarebbe trovata alquanto in imbarazzo a ricevere all’improvviso sei ospiti inattesi di buon ap­ petito; ma tale era l’abbondanza e l’ospitalità delle case lituane “ Vestito delle contadine, senza corsetto.

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che la cena non fu ritardata, penso, non più di mezz’ora. Solo che vi erano un po’ troppi paté caldi e freddi.

IV

La cena fu molto allegra. Il generale ci diede ragguagli inte­ ressantissimi sulle lingue che si parlano nel Caucaso, parte del­ la quali sono arie e parte turaniche, benché esista una notevole similitudine di modi di vita e di usanze. Fui obbligato io stesso a parlare dei miei viaggi, perché, il conte Szemioth avendomi elogiato sul modo in cui montavo a cavallo, e avendo detto che non aveva mai incontrato un ministro del culto né un professo­ re capace di cavarsela con tale onore in una galoppata come quella che avevamo appena fatto, gli dovetti spiegare che, inca­ ricato dalla Società biblica di un lavoro sulla lingua dei char­ mas11, avevo passato tre anni e mezzo nella repubblica dell’U­ ruguay sempre a cavallo e vivendo nella pampa con gli indios. È così che venni a raccontare come mi smarrii in quelle sconfina­ te pianure tre giorni senza viveri né acqua, costretto a fare come i gauchos1’"' che mi accompagnavano, e cioè ad aprire una vena al cavallo e a berne il sangue. Tutte le donne lanciarono un grido di orrore. Il generale os­ servò che i calmucchi si comportavano allo stesso modo in simi­ li estremi. Il conte mi chiese come avessi trovato quella bevanda. «Dal lato morale» risposi «mi ripugnava enormemente; ma, fi­ sicamente mi trovai bene, ed è a questo che devo l’onore oggi di cenare. Molti europei, voglio dire bianchi, che hanno a lungo vis­ suto con gli indios, vi si abituano ed anzi vi prendono gusto. Il mio ottimo amico, don Fructose Rivero, presidente della repub­ blica, tralascia raramente di soddisfarlo. Mi ricordo che un gior­ no, mentre si recava ad un congresso in alta uniforme passò da­ vanti ad un rancho dove salassavano un puledro. Si fermò, scese da cavallo per chiedere un chujon, cioè una succhiata; dopo di che pronunciò uno dei discorsi più eloquenti. ” [Indios che vivevano al confine tra Argentina e Uruguay, sterminati dagli spagnoli]. ” [Gauchos: meticci].

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«Il vostro presidente è un mostro orribile!» esclamò la signo­ rina Iwinska. «Perdonatemi, cara pani35», le dissi «è un uomo assai distinto, di spirito superiore. Parla a meraviglia parecchie lingue indiane diffi­ cilissime, il charrua soprattutto, a causa delle innumerevoli forme che prende il verbo, secondo il caso diretto o indiretto, e anche se­ condo i rapporti sociali esistenti tra le persone che lo parlano». Stavo per offrire qualche dettaglio assai curioso sul meccani­ smo del verbo charrua, ma il conte m’interruppe chiedendomi in che punto si dovesse salassare i cavalli, quando si desideri berne il sangue. «Per l’amor di Dio, mio caro professore», esclamò la signori­ na Iwinska con un’aria di terrore comico, «non glielo dite! È uo­ mo da sgozzare tutta la sua scuderia e da divorare anche noi quando non avrà più cavalli!». Dopo questa battuta, le signore lasciarono la tavola ridendo, per andare a preparare il tè e il caffè, mentre noi fumavamo. In ca­ po a un quarto d’ora, dal salotto mandarono a chiamare il signor generale. Lo volevamo seguire tutti; ma ci dissero che le signore desideravano solo un uomo per volta. Un attimo dopo, udimmo risuonare nel salotto grandi scrosci di risa e battimani. «La signorina Iulka ne fa qualcuna delle sue», disse il conte. Vennero a chiamare lui; nuove risate, nuovi applausi. Poi toccò a me. Quando entrai in salotto, i visi di tutti i presenti si erano atteggiati a una gravità che non prometteva nulla di buono. Mi aspettavo qualche burla. «Signor professore», mi disse il generale nel tono più ufficiale, «le signore sostengono che abbiamo fatto troppo onore al loro champagne, e non vogliono ammetterci da loro se non dopo una prova. Si tratta di andarsene con gli occhi bendati dal centro del salotto fino a quella parete, e di toccarla col dito. Vedete bene che la cosa è semplice, basta camminare diritto. Vi sentite capace di seguire la linea retta?». «Lo penso, signor generale». Subito la signorina Iwinska mi pose un fazzoletto sugli occhi e lo strinse dietro con tutta la forza. ” [Cfr. nota 31].

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«Siete nel bel mezzo del salotto», disse, «stendete la mano... Bene! Scommetto che non toccherete il muro». «Avanti marsc!», disse il generale. Non vi erano da fare più di cinque o sei passi. Avanzai molto lentamente, convinto che avrei incontrato qualche corda o qual­ che sgabello messo a tradimento sulla mia strada per farmi in­ ciampare. Sentivo delle risa soffocate che accrescevano il mio im­ barazzo. Finalmente, pensavo di essere vicino al muro, quando il dito che tenevo dritto davanti a me, toccò improvvisamente in qualcosa di freddo e di viscido. Feci una smorfia e un salto indie­ tro che fecero sbellicare i presenti. Mi tolsi la benda e vidi di fron­ te a me la signorina Iwinska che reggeva in mano un barattolo di miele nel quale avevo ficcato il dito, pensando di toccare il muro. La mia consolazione fu di vedere i due aiutanti di campo passare per la stessa prova, e non fare miglior viso di me. Per tutto il resto della serata la signorina Iwinska non smise un istante di dar libero corso alla sua indole scherzosa. Sempre motteggiatrice, sempre birichina, bersagliava ora questo ora quello con i suoi scherzi. Notai però che se la prendeva soprattutto con il conte, il quale, devo riconoscerlo, non si offendeva mai e sem­ brava anzi prendere gusto alle sue punzecchiature. Invece quan­ do la giovane pigliava di mira uno o l’altro degli aiutanti di cam­ po, aggrottava le sopracciglia e negli occhi vedevo allora brillare quel fuoco cupo che davvero aveva un che di terrificante. «Gaia come una gatta e bianca come la panna». Mi sembrava che Mickiewicz in quel verso avesse voluto ritrarre \a. panna Iwinska.

V

Vegliammo fino a tardi. In molte grandi case lituane, si vedo­ no magnifiche argenterie, bei mobili, preziosi tappeti persiani, e non si hanno come nella nostra cara Germania buoni letti di piu­ ma da offrire a un ospite stanco. Ricco o povero, nobile o conta­ dino, uno slavo è sempre capace di dormire su una tavola. Il ca­ stello di Dowghielli non faceva eccezione alla regola. Nella stan­ za dove ci condussero, il conte e io, non c’erano che due divani ricoperti di marocchino. Ma questo non mi impressionava, poi­ 542

ché nei miei viaggi, avevo spesso dormito sulla nuda terra, e per­ ciò risi un po’ delle esclamazioni del conte sulla mancanza di ci­ viltà dei suoi compatrioti. Venne un servo a toglierci gli stivali e diede a ciascuno una veste da camera e un paio di pantofole. Il conte dopo essersi tolto la giubba, passeggiò un po’ in silenzio; poi, fermatosi di fronte al divano sul quale mi ero steso: «Che ve ne pensate», mi disse, «di Iulka?». «La trovo incantevole». «Sì, ma è così civetta!... Credete che abbia veramente una sim­ patia per quel piccolo capitano biondo?». «L’aitante di campo?...come potrei saperlo?». «È un vanesio!... dunque, deve piacere alle donne». «Non approvo la conclusione, signor conte. Volete che vi dica la verità? la signorina Iwinska è assai più desiderosa di piacere al conte Szemioth che a tutti gli aiutanti di campo del­ l’esercito». Arrossì senza rispondermi; ma mi sembrò che le mie parole gli avessero fatto un vivo piacere. Passeggiò ancora un po’ senza par­ lare; poi guardando l’orologio: «In fede mia», disse «faremo assai meglio a dormire, perché è tardi». Prese il fucile e il coltello da caccia, che erano stati portati nel­ la nostra stanza e li chiuse in un armadio da cui tolse la chiave. «Volete tenerla?», mi disse nel consegnarmela con mio vivo stupore; «potrei dimenticarla. Sicuramente voi avete più memo­ ria di me». «Il miglior mezzo per non dimenticare le vostre armi», gli dis­ si, «sarebbe di metterle su quel tavolo accanto al vostro divano». «No... Ecco, a essere sinceri, non mi piace tenere armi vicino quando dormo... E la ragione, eccola. Quando ero negli ussari di Grodno36, dormii una volta nella stessa camera con un compagno: le mie pistole erano su una sedia accanto a me. Durante la notte mi sono svegliato per una detonazione. Avevo una pistola in ma­ no; avevo fatto fuoco e la pallottola era passata a due dita dalla te­ sta del mio compagno... non mi sono mai potuto ricordare il so­ gno che avevo fatto». 36 [Città russa situata non lontano dalla Polonia, sul Niemen].

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L’aneddoto un poco mi turbò. Ero convinto che a me non sa­ rebbe toccata nessuna pallottola in testa; ma se consideravo l’alta statura, le spalle erculee del mio compagno, le sue braccia nerbo­ rute coperte di nera lanugine, non potevo fare a meno di ricono­ scere che sarebbe stato in grado di strozzarmi con le sue mani se avesse fatto un brutto sogno. Tuttavia, mi guardai dal mostrargli la minima inquietudine e mi limitai a porre un candeliere su una sedia vicino al mio divano e mi misi a leggere il Catechismo di Lawicki che avevo portato con me. Il conte mi augurò la buona­ notte, si distese sul divano, si rivoltò cinque o sei volte; infine par­ ve assopirsi raggomitolato come l’amante di cui Orazio, che rin­ chiuso in una cassa, tocca la testa con le ginocchia: ... Turpi clausus in arca, Contractum genibus tangas caput...”

Ogni tanto sospirava con forza, o faceva sentire una specie di rantolo nervoso che attribuivo alla sua strana posizione. Sarà tra­ scorsa così un’ora. Anch’io stavo per addormentarmi. Chiusi il libro e mi sistemai alla meglio sul mio giaciglio, quando uno sghignazzamento singolare del mio vicino mi fece traslatare. Guardai il conte. Aveva gli occhi chiusi, tutto il suo corpo sus­ sultava, e dalle labbra semiaperte gli uscivano poche parole arti­ colate appena: «Freschissima!... bianchissima!... il professore non sa quello che dice... Il cavallo non vale nulla... Che ghiotto boccone!». Poi si mise a mordere selvaggiamente il cuscino su cui posava la testa e, nello stesso tempo, emise una specie di ruggito così for­ te che si svegliò. Quanto a me, rimasi fermo sul mio divano,e finsi di dormire. Però lo osservavo. Si alzò a sedere, si stropicciò gli occhi, sospirò tristemente e rimase circa un’ora senza cambiare posizione, as­ sorto come sembrava, nelle sue riflessioni. Mi sentivo molto a di­ sagio, e in cuor mio mi ripromettevo che non avrei mai più dor­ mito vicino al signor conte. A lungo andare, tuttavia, la stanchez­ za prevalse sull’inquietudine e quando la mattina dopo vennero a svegliarci dormivamo entrambi profondamente. 17 [«...rannicchiato nell’arca sudicia / che le ginocchia ti toccano il capo», Orazio, Sa­ tire, II, VII, w. 60-62J.

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VI

Dopo colazione, rientrammo a Medintiltas. Là, essendomi trovato solo con il dottor Frœber, gli dissi che credevo il conte malato, che aveva sogni spaventosi, che forse era sonnambulo, e che poteva anche essere pericoloso in quello stato. «Mi sono accorto di tutto questo», mi disse il medico. «Con quella sua complessione atletica, è nervoso come una bella signora. Forse ha preso dalla madre... Lei stamattina è sta­ ta di un’inquietudine indiavolata... Io non credo molto alle sto­ rie di paura e delle voglie delle donne incinte; ma quello che è certo, è che la contessa è maniaca, e la mania si trasmette con il sangue...». «Ma il conte», ripresi «è perfettamente ragionevole; è assenna­ to, molto più colto, lo confesso, di quanto io l’avrei creduto, ama la lettura...». «D’accordo, d’accordo, mio caro signore; ma è spesso biz­ zarro. Si chiude in camera per parecchi giorni di seguito; spesso gira di notte; legge libri incredibili..., metafisica tedesca... fisio­ logia... che so io! Ieri ancora, gli è arrivato un pacco da Lipsia. Devo parlare chiaro? un Ercole ha bisogno di un’Ebe38. Qui ci sono contadine graziosissime... Il sabato sera, dopo il bagno si scambierebbero per principesse... E non ve n’è una sola che non sarebbe fiera di distrarre sua signoria. Alla sua età, io, che il dia­ volo mi porti!... No, lui non ha amanti, non si sposa, sbaglia. Gli ci vorrebbe un diversivo». Il materialismo grossolano del dottore mi urtava enormemen­ te, così tagliai corto il nostro dialogo, dicendogli che mi augura­ vo che il conte Szemioth trovasse una sposa degna di lui. Non è senza sorpresa, lo confesso, che avevo appreso dal dottore il gu­ sto del conte per gli studi filosofici. Che quell’ufficiale degli ussa­ ri, che quell’appassionato cacciatore leggesse opere di metafisica tedesca e si occupasse di fisiologia era un fatto che capovolgeva tutte le mie idee. Il dottore, tuttavia, aveva detto il vero, come ne ebbi la prova quel giorno stesso. [Figlia di Zeus ed Era, la dea personificava la giovinezza].

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«Come spiegate, signor professore», mi disse improvvisamen­ te il conte Szemioth verso la fine del pranzo, «come spiegate la dualità, o meglio la duplicità della nostra natura?...». E, poiché si avvide che non capivo perfettamente, riprese: «Non vi siete mai trovato in cima a una torre, oppure sull’or­ lo di un precipizio, combattuto contemporaneamente fra la ten­ tazione di slanciarvi nel vuoto e un senso di terrore assolutamen­ te opposto?». «Si può spiegare mediante ragioni meramente fisiche», disse il dottore; «1° la stanchezza che si prova dopo una marcia ascen­ sionale determina un afflusso di sangue al cervello che...». «Lasciamo il sangue, dottore», esclamò il conte con impazien­ za, «e prendiamo un altro esempio. Avete un’arma da fuoco cari­ ca. Il vostro migliore amico è lì. Vi prende l’idea di piantargli una pallottola in testa. Concepite il più vivo orrore per un assassinio, eppure ne avete la tentazione. Io credo, signori miei, che se tutti i pensieri che ci vengono in testa in meno di un’ora..., credo, che se tutti i vostri pensieri, signor professore, che io ritengo assai dotto, fossero scritti, riempirebbero forse un volume in folio, in base al quale non c’è avvocato che non riuscirebbe a ottenere la vostra interdizione, né giudice che non vi manderebbe in carcere o al manicomio». «Quel giudice, signor conte, non mi condannerebbe certa­ mente per il delitto di aver indagato stamattina, per più di un’o­ ra, la legge misteriosa secondo cui i verbi slavi prendono il senso del futuro nel combinarsi con una preposizione; ma, se per caso avessi avuto altri pensieri, quale prova addurreste contro di me? Io non sono padrone dei miei pensieri più di quanto lo sia degli accidenti esteriori che me li suggeriscono. Da un pensiero, non deriva necessariamente un principio di esecuzione, né una risolu­ zione. Non ho mai avuto l’idea di uccidere nessuno; ma, se anche mi venisse l’idea di un assassinio, la mia ragione non è qui pre­ sente per scartarla?». «Parlate della ragione con molto agio; ma è sempre là presen­ te, come dite voi, per dirigerci? Perché la ragione parli e si faccia ubbidire, è necessaria la riflessione, cioè tempo e sangue freddo. Si hanno sempre l’uno e l’altro? In un combattimento, sul più bello vedo arrivare una palla di cannone che rimbalza, mi scanso 546

e vedo il mio amico per il quale avrei dato la vita se avessi avuto il tempo di riflettere...». Cercavo di ricordargli i nostri doveri di uomini e di cristiani, della necessità in cui ci troviamo di imitare il guerriero della Scrit­ tura, sempre pronto al combattimento; infine gli feci vedere che lottando continuamente contro le nostre passioni, acquistiamo sempre nuove forze per indebolirle e dominarle. Non riuscii, te­ mo, che a ridurlo al silenzio e non sembrava convinto. Mi trattenni al castello ancora una decina di giorni. Feci an­ che una visita a Dowghielli, ma non vi pernottammo. Come la prima volta, la signorina Iwinska si mostrò birichina e bambina viziata. Esercitava sul conte una specie di malia, e non dubitai più che egli ne fosse profondamente innamorato. Tuttavia, lui conosceva bene i suoi difetti e non si faceva illusioni. La sapeva civetta, frivola, indifferente per tutto ciò che non fosse un diver­ timento. Spesso mi accorgevo che soffriva interiormente nel ve­ derla così poco ragionevole; ma bastava che quella gli facesse qualche moina, che dimenticava tutto, il viso, dalla gran gioia, gli si illuminava. Il giorno prima della mia partenza, il conte volle trascinarmi una volta ancora a Doweghielli, forse perché restas­ si a conversare con la alla zia mentre lui sarebbe andato a pas­ seggiare con la nipote nel giardino; però avevo molto da fare e dovetti scusarmi, nonostante la sua insistenza. Ritornò per la ce­ na, benché ci avesse detto di non aspettarlo. Si mise a tavola, e non riuscì a mangiare. Per tutto il pasto, fu cupo e di pessimo umore. Ogni tanto aggrottava le sopracciglia, e i suoi occhi pren­ devano un’espressione sinistra. Quando il dottore uscì per re­ carsi dalla contessa, mi seguì nella mia stanza e mi disse tutto quello che aveva in cuore. «Mi pento amaramente», esclamò «di avervi lasciato per anda­ re a vedere quella pazzerella, che si burla di me e non ama che fac­ ce nuove; ma, per fortuna, tutto è finito tra noi, ne sono profon­ damente disgustato, non la vedrò più...». Passeggiò per un po’ su e giù come al solito, poi riprese: «Avete creduto forse che io ne fossi innamorato? È quello che pensa anche quell’imbecille di dottore. No, non l’ho mai amata. Il suo viso ridente mi divertiva. Mi piaceva vedere la sua pelle bianca... Ecco tutto ciò che c’è di buono in lei... la pelle soprat547

tutto... Niente cervello. Non ho mai visto in lei che una bella bambola, che fa piacere guardare quando ci si annoia e non si ha un libro nuovo... Certo, si può dire che è una bellezza... La pel­ le è meravigliosa!... signor professore, il sangue che corre sotto quella pelle dev’essere migliore di quello di un cavallo... che ne pensate?». Scoppiò in una gran risata, ma quel riso era penoso a sentirsi. Il giorno dopo mi accomiatai da lui per proseguire le mie in­ dagini nel nord del Palatinato.

VII

Passarono circa due mesi e posso dire che non c’è villaggio, in Samogizia, dove non mi sia fermato e non abbia raccolto qualche documento per il mio lavoro. Che mi sia permesso cogliere l’oc­ casione per ringraziare gli abitanti di questa provincia, e in parti­ colare i signori ecclesiastici, per l’aiuto davvero premuroso che hanno accordato alle mie ricerche, e per gli ottimi contributi che hanno arricchito il mio dizionario. Dopo un soggiorno di una settimana a Szawlé39, mi propone­ vo di andare a imbarcarmi a Klaipeda40 (porto che noi chiamiamo Memel) per ritornare a casa, quando ricevetti dal conte Szemioth la seguente lettera, portatami da un suo fattorino: «Signor professore, permettetemi di scrivervi in tedesco. Commetterei ancora più solecismi, se vi scrivessi in samogizio, e perderei ogni vo­ stra considerazione per me. Non so quanta ne possiate avere e la notizia che sto per comunicarvi forse non l’aumenterà. Senz’altro preambolo, mi sposo, e voi sapete bene con chi. Giove se la ride dei giuramenti degli innamorati". Così fa Pirkuns, il nostro Giove samogizio. È dunque la signorina Ju­ lienne Iwinska che sposo l’8 del mese prossimo. Voi sarete il ” [In lituano: Siaulai, città della Samogizia al confine con la Lettonia]. * [Nome lituano del porto sul Baltico, Memel in tedesco]. " [Ovidio, L’arte di amare, I, 633],

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più amabile degli uomini se voleste partecipare alla cerimonia. Tutti i contadini di Medintiltas e dintorni verranno a casa mia a mangiare alcuni buoi e innumerevoli maiali e, quando saran­ no ubriachi, danzeranno sul prato, a destra del viale che voi co­ noscete. Vedrete costumi e costumi degni vostra attenzione. Voi mi farete un grandissimo piacere, e così a Julienne. Ag­ giungerò che un vostro rifiuto ci metterebbe nel più triste im­ barazzo. Sapete, infatti, che appartengo alla comunità evangeli­ ca, così come la mia fidanzata; ora, il nostro ministro, che ri­ siede a una trentina di leghe da qui, è inchiodato a casa dalla gotta, ho osato sperare che officiaste al suo posto. Credetemi, mio caro professore, il vostro devotissimo, Michele Szemioth».

In calce, a guisa di post scriptum, una mano femminile piutto­ sto graziosa aveva aggiunto in samogizio: «Io, musa della Lituania, scrivo in samogizio. Michel è un im­ pertinente quando dubita della vostra approvazione. Quale altra donna, infatti, all’infuori di me, potrebbe essere tanto pazza da prendersi un ragazzo come lui? Vedrete, signor professore, l’8 del mese prossimo, una sposa alquanto chic. Non è un vocabolo sa­ mogizio; è francese. Vi prego, almeno, di non distrarvi durante la cerimonia».

Non mi piacquero né la lettera, né il post scriptum. Trovai che i fidanzati mostrassero un’imperdonabile leggerezza in un’occa­ sione tanto solenne. Però, come rifiutare? Confesserò ancora che lo spettacolo annunciato mi induceva alquanto in tentazione. Se­ condo ogni apparenza, nella folla dei nobili convitati nel castello di Medintiltas non sarebbero mancate persone colte che mi avrebbero fornito utili indicazioni. Il mio glossario samogizio era ricchissimo; ma il senso di molte parole raccolte dalla bocca di volgari contadini rimaneva tuttora avvolto per me in una parzia­ le oscurità. Tutte queste considerazioni concorsero a farmi accet­ tare l’invito del conte, e gli risposi che la mattina dell’8 sarei sta­ to a Medintiltas. Quanto ebbi da pentirmene! 549

vin Entrando per il viale del castello vidi un gran numero di si­ gnore e signori in abito da mattino, raggruppati sulla scalinata o che passeggiavano nel parco. Il cortile era pieno di contadini con i vestiti della domenica. Il castello aveva un’aria di festa; fiori dap­ pertutto, ghirlande, bandiere e festoni. L’intendente mi accompa­ gnò alla stanza che mi era stata preparata al pianterreno, scusan­ dosi di non potermene offrire una migliore; ma c’era così tanta gente al castello che non era stato possibile riservarmi l’apparta­ mento che avevo occupato durante il mio primo soggiorno, e che adesso era destinata alla moglie del maresciallo della nobiltà; la mia nuova camera, d’altronde, situata sotto quella del conte, era assai decorosa, con vista sul parco. Mi vestii in fretta per la ceri­ monia, indossai l’abito pastorale; ma né il conte né la sua fidan­ zata si vedevano ancora. Il conte era andato a prenderla a Dowghielli. Sarebbero dovuti arrivare da un pezzo, ma la vestizione di una sposa non è affare di poco conto, e il dottore avvertiva gli in­ vitati che il pranzo si sarebbe tenuto dopo il servizio religioso; gli appetiti troppo impazienti avrebbero fatto bene a prendere le lo­ ro precauzioni a un certo tavolo guarnito di dolci e di ogni sorta di liquori. Notai, in quella occasione, come l’attesa disponga gli animi alla maldicenza; due madri di graziose donzelle invitate al matrimonio non finivano di malignare sul conto della sposa. Era passato mezzogiorno, quando un salve di mortaretti e di fucilate annunciò il suo arrivo, e, subito dopo, una carrozza di gala entrò per il viale, tirata da quattro splendidi cavalli. Dalla schiuma che copriva il petto degli animali, era facile capire che il ritardo non era colpa loro. In carrozza non vi erano che la spo­ sa, la signora Dowghiello e il conte. Questi scese e offrì la mano alla signora Dowghiello. La signorina Iwinska, con un movi­ mento pieno di grazia e di civetteria infantile, fece l’atto di na­ scondersi con lo scialle per sottrarsi agli sguardi curiosi che da ogni parte la attorniavano. Si alzò in piedi nella carrozza, e stava per prendere la mano del conte, quando i cavalli del timone, for­ se spaventati dalla pioggia di fiori che i contadini lanciavano sul­ la sposa, forse anche in preda allo strano terrore che il conte Szemioth ispirava agli animali, s’impennarono sbuffando; una ruo550

ta urtò il paracarro ai piedi della scalinata, e per un attimo vi fu da temere qualche accidente. La signora Iwinska si lasciò scap­ pare un piccolo grido... Fummo rassicurati. Il conte, prenden­ dola fra le braccia, la trascinò in una volata in cima della scalina­ ta, non meno facilmente che se fosse pesata quanto una colom­ ba. Applaudimmo tutti la sua prontezza e la sua cavalleresca ga­ lanteria. I contadini eruppero in formidabili evviva, la sposa, tutta rossa, rideva e tremava insieme. Il conte, che non era per nulla impaziente di disfarsi del grazioso fardello, sembrava trionfare mostrandola alla folla che lo attorniava... All’improvviso, una donna di alta statura, pallida, magra, con le vesti in disordine, i capelli sparsi e tutti i lineamenti del volto contratti dal terrore, comparve in cima alla scalinata, senza che nessuno potesse sapere da dove venisse. «All’orso!», gridava con voce stridula; «all’orso! i fucili!... Porta una donna! uccidetelo! uccidetelo! Fuoco! Fuoco!». Era la contessa. L’arrivo della sposa aveva richiamato tutti quanti sulla scalinata, nel cortile o alle finestre del castello. Anche le donne che custodivano la povera folle avevano dimenticato la propria consegna; quella era fuggita e, senza essere vista era piombata in mezzo a noi. Fu una scena penosissima. Bisognò al­ lontanarla a forza, nonostante le sue urla e la sua resistenza. Mol­ ti invitati, non conoscevano la sua malattia. Si dovette dare loro spiegazioni. Sussurrarono a lungo sottovoce. Tutti i visi erano rattristati. «Cattivo presagio!» dicevano le persone superstiziose; e sono in gran numero in Lituania. Intanto, la signorina Iwinska chiese cinque minuti per metter­ si l’abito e il velo nuziali, operazione che durò un’ora buona. Era più di quanto sarebbe occorso perché gli invitati che ignoravano la malattia della contessa ne apprendessero la causa e i particolari. Finalmente riapparve la sposa, magnificamente vestita e co­ perta di diamanti. La zia la presentò a tutti gli invitati, e quando arrivò il momento di passare in cappella, con mia grande sorpre­ sa, la signora Dowghiello assestò alla nipote in presenza di tutti, uno schiaffo così sonoro sulla sua guancia da far rivoltare anche quelli che avessero avuto qualche distrazione. Lo schiaffo venne ricevuto con la massima rassegnazione, tra l’indifferenza genera­ le; solo un uomo vestito di nero scarabocchiò qualcosa su un fo­ 551

glio di carta che aveva portato con sé; quindi alcuni dei presenti sottoscrissero quella specie di verbale con la più assoluta noncu­ ranza. Soltanto alla fine della cerimonia fui in grado di risolvere l’enigma. Se l’avessi indovinato, non avrei tralasciato di oppormi con tutta la forza del mio ministero sacro, contro quell’odiosissima usanza, che ha lo scopo di predisporre un caso di divorzio, si­ mulando che il matrimonio non ha avuto luogo che a sèguito di una violenza materiale contro una delle parti contraenti. Dopo il servizio religioso, credetti mio dovere rivolgere alla giovane coppia alcune parole, cercando di metterle davanti agli occhi la gravità e la santità del vincolo che adesso la univa, e, poi­ ché mi stava ancora sul cuore il frivolo post scriptum della signo­ rina Iwinska, le ricordai che aveva ora abbracciato una nuova vi­ ta, non più contrassegnata da piaceri e da svaghi giovanili, ma pie­ na di obblighi seri e di gravi prove. Mi sembrò che questa parte della mia allocuzione avesse molto effetto sulla sposa, non meno che su tutti coloro che capivano il tedesco. Uscendo dalla cappella il corteo fu accolto da salve di armi da fuoco c grida di gioia, poi si passò in sala. Siccome il pranzo era magnifico, l’appetito acuto, sulle prime non si udì altro che il ru­ more dei coltelli e delle forchette; ma poi, grazie anche ai vini del­ la Champagne e di Ungheria, si cominciò a discorrere, a ridere, anche a gridare. I commensali bevvero con entusiasmo alla salute della sposa. Appena si sedettero, un vecchio pan dai baffi bianchi, si alzò e, con voce formidabile: «Vedo con dolore», disse, «che le nostre antiche usanze si perdono. Mai i padri nostri avrebbero fatto questo brindisi in bicchieri di cristallo. Una volta, si beveva nella scarpa della spo­ sa, e anche nel suo stivaletto; poiché, ai tempi miei, le signore portavano stivaletti di marocchino rosso. Facciamo vedere, ami­ ci miei, che siamo ancora veri lituani. E tu, signora, degnati di darmi la scarpa». La sposa gli rispose arrossendo, con un risolino soffocato: «Vieni a prenderla, signore...; ma io non berrò nel tuo stivale». Il pan non se lo fece ripetere due volte, si mise galantemente in ginocchio, prese una scarpetta di raso bianco dal tacco rosso, la riempì di champagne e bevve così velocemente e abilmente da non rovesciarsene che solo metà indosso. Da una mano all’altra, 552

la scarpetta fece il giro della tavola e tutti gli uomini vi bevvero, ma non senza fatica. Il vecchio gentiluomo reclamò la scarpa co­ me una reliquia preziosa, e la signora Dowghiello fece dire a una cameriera di venire a riordinare l’acconciatura della nipote. Quel brindisi fu seguito da molti altri, e presto i convitati di­ ventarono così rumorosi che non mi sembrò decente trattenermi tra loro. Senza che nessuno se ne accorgesse, mi alzai per andare a prendere una boccata d’aria fuori del castello; ma anche là fuo­ ri trovai uno spettacolo poco edificante. Domestici e contadini, a cui la birra e l’acquavite erano state somministrate senza rispar­ mio, erano già quasi tutti ubriachi. Vi erano state dispute e teste rotte. Qua e là, sul prato del castello, degli ubriachi si rotolavano privi di sentimento, e l’aspetto generale della festa era quello di un campo di battaglia. Sarei stato molto curioso di vedere da vicino le danze popolari; ma erano quasi tutte dirette da zingare sfaccia­ te, e non mi parve sensato avventurarmi in quella gazzarra. Rien­ trai dunque nella mia stanza, lessi un po’, poi mi svestii e quasi su­ bito mi addormentai. Quando mi svegliai, l’orologio del castello batteva le tre. La notte era chiara, benché la luna fosse in parte velata da una legge­ ra bruma. Mi sforzai di riprendere sonno; non ci riuscii. Secondo il mio solito in simili casi volli prendere un libro e studiare, ma non trovai i fiammiferi sotto mano. Mi alzai e girai un po’ a ten­ toni per la camera, quando un corpo scuro, molto grosso, passò davanti alla mia finestra e cadde con un tonfo sordo nel giardino. La mia prima impressione fu che si trattasse di un uomo, e pen­ sai che qualche ospite ubriaco fosse precipitato dalla finestra. Aprii la mia e guardai; non vidi nulla. Finalmente accesi una can­ dela e, sistematomi di nuovo a letto, ripassai il mio glossario fino al momento in cui mi portarono il tè. Verso le undici, mi recai nel salotto, ove trovai molti occhi sbattuti e molti visi sfatti; seppi, in effetti, che a tavola si erano fatte le ore piccole. Né il conte né la giovane contessa si erano ancora visti. Alle undici e mezzo, dopo molti scherzi di pessimo gusto, gli invitati cominciarono a mormorare, prima sottovoce, poi a voce alta. Il dottor Froeber si prese la briga di mandare un valletto a bussare alla porta del padrone. Trascorso un quarto d’ora, l’uomo ridiscese e, un po’ commosso, riferì al dottor 553

Frœber che aveva bussato più di una dozzina di volte, senza ot­ tenere risposta. Ci consigliammo, la signora Dowghiello, il dot­ tore e io. Il cameriere mi aveva contagiato con la sua inquietu­ dine. Salimmo tutti e quattro insieme con lui. Davanti alla por­ ta trovammo la cameriera della contessa tutta sconvolta, che af­ fermava che doveva esser successa qualche disgrazia, poiché la finestra della sua padrona era spalancata. Mi ricordai con racca­ priccio il corpo pesante caduto davanti alla mia finestra. Bus­ sammo a grandi colpi. Nessuna risposta. Alla fine, il valletto portò una sbarra di ferro e sfondammo la porta... No! mi man­ ca il coraggio di descrivere lo spettacolo che si offrì ai nostri oc­ chi. La giovane contessa era distesa sul letto morta stecchita, il viso orrendamente lacerato, la gola squarciata, inondata di san­ gue. Il conte era scomparso, e da quel giorno nessuno ne ha più avuto notizia. Il dottore esaminò l’orribile ferita della giovane sposa. «Non è una lama d’acciaio», esclamò «che ha prodotto questa ferita... È un morso!». Il professore Wittembach richiuse il libro, e guardò il fuoco, con aria pensosa. «E la storia è finita?», domandò Adelaide. «Finita», rispose il professore con voce lugubre. «Ma», riprese, «perché l’avete intitolata Lokis\ Nessuno dei personaggi si chiama così». «Non è un nome di persona», disse il professore. «Vediamo, Teodoro, mi sapete dire che cosa significa Lokis'i». «Non ne ho idea». «Se aveste approfondito come si deve la legge della trasforma­ zione dal sanscrito al lituano, avreste riconosciuto in lokis il san­ scrito arksha o riksha. Si chiama lokis, in lituano, l’animale che i greci chiamavano άρκτος, i latini ursus e i tedeschi bar. Ed ora po­ tete comprendere l’epigrafe:

Miskza su Lokiu Abu du tokiu. Voi sapete che nel Roman de Renard, l’orso ha il nome di damp Brum. Gli slavi lo chiamano Michel, Miszka in lituano, e 554

tale soprannome rimpiazza quasi sempre il nome generico, lokis. Allo stesso modo, i francesi hanno dimenticato, a proposito del­ la volpe, il nome neolatino di goupil o gorpil, sostituendovi quel­ lo di renard. Ne ne farò altri esempi». Ma Adelaide fece osservare che era tardi, e si separarono.

1869

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Federigo1

C’era una volta un giovane signore che si chiamava Federigo, bello, ben fatto, cortese e bonario, ma di costumi molto dissolu­ ti, perché amava all’eccesso il gioco, il vino e le donne, soprattut­ to il gioco; non si confessava mai, e frequentava le chiese soltan­ to per trovarvi qualche occasione di peccare. Ora avvenne che Fe­ derigo, dopo aver rovinato al gioco dodici figli di famiglia (che di­ vennero in seguito furfanti e morirono senza confessione in com­ battimento accanito contro i condottieri2 del re), perse anch’egli, in men che non si dica, tutto quello che aveva vinto e più tutto il suo patrimònio, salvo un piccolo maniero, dove andò a nascon­ dere la propria miseria, dietro le colline di Cava. Erano trascorsi tre anni da che viveva in solitudine, cacciando il giorno e facendo la sera la partita a hombre0 con il mezzadro. Un giorno, appena rientrato dopo una caccia, la meglio riuscita che avesse mai fatto, Gesù Cristo, seguito dai santi apostoli ven­ ne a bussare alla sua porta e gli chiese ospitalità. Federigo, che era d’animo generoso, fu rallegrato di veder arrivare ospiti in un gior­ no in cui aveva di che soddisfarli abbondantemente. Fece dunque entrare i pellegrini nella sua casa, offrì loro con la migliore buona 1 Questo racconto è popolare nel Regno di Napoli. Vi si nota, così come in altre no­ velle originarie della stessa terra, un bizzarro miscuglio della mitologia greca con le cre­ denze del cristianesim.; pare che sia stato composto verso la fine del Medioevo. 2 [In italiano nel testo]. ’ [Gioco di carte di origine spagnola, cfr. anche Colomba].

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grazia del mondo vitto e alloggio, e li pregò di scusarlo se non li trattava secondo il loro merito, essendo stato preso così alla sprovvista. Nostro Signore, che sapeva come pensarla sull’oppor­ tunità della visita, perdonò a Federigo quel piccolo atto di vanità, in grazia delle sue disposizioni ospitali. «Ci accontenteremo di quello che avete», gli disse; «ma fate preparare la cena al più presto, visto che è tardi, e che questi ha una gran fame», aggiunse accennando a san Pietro. Federigo non se lo fece dire due volte, e volendo offrire agli ospiti qualcosa di più del prodotto della caccia, ordinò al mezza­ dro di uccidere il suo ultimo capretto, che fu immediatamente messo allo spiedo. Quando la cena fu pronta e la compagnia a tavola, Federigo non aveva che un rimpianto, che il suo vino non fosse del migliore. «Messere», disse a Gesù Cristo, «Messere, vorrei davvero che il vino fosse migliore, Pare, così com’è, ve l’offro di gran cuore». Al che, Nostro Signore, dopo aver assaggiato il vino: «Di che vi lamentate?» disse a Federigo; «il vostro vino è per­ fetto; me ne appello a quest’uomo (accennando con il dito all’a­ postolo san Pietro)». San Pietro, dopo averlo assaggiato, lo dichiarò eccellente {pro­ prio stupendo^, e pregò l’ospite di bere con lui. Federigo prendeva tutto ciò come una cortesia, pure aderì al­ la preghiera dell’apostolo; ma quale non fu la sua sorpresa nel tro­ vare quel vino più delizioso di qualsiasi altro avesse mai assapo­ rato al tempo della più grande fortuna! Riconoscendo tale mira­ colo alla presenza del Salvatore, subito si alzò come indegno di mangiare in così santa compagnia; ma Nostro Signore gli ordinò di tornare a sedere: cosa che egli fece senza tanti complimenti. Dopo la cena, che venne servita dal mezzadro e dalla moglie, Ge­ sù Cristo si ritirò con gli apostoli nell’appartamento che gli era stato preparato. Quanto a Federigo, rimasto solo con il mezza­ dro, fece come di solito la sua partita a homhre, bevendo quello che era rimasto del vino miracoloso. 4 [In italiano nel testo].

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Il giorno seguente, mentre i santi viaggiatori erano riuniti nel­ la sala al pianterreno con il padrone di casa, Gesù Cristo disse a Federigo: «Siamo contentissimi dell’accoglienza che ci hai fatto, e vo­ gliamo ricompensarti. Domandaci tre grazie a tua scelta, e ti sa­ ranno accordate; perché ci è stata data l’onnipotenza in Cielo, in Terra e all’Inferno». Allora, Federigo, togliendosi di tasca il mazzo di carte che portava sempre con sé: «Maestro», disse, «fate che io vinca infallibilmente tutte le vol­ te che giocherò con queste carte». «Così sia!», disse Gesù Cristo. (Ti sia concesso)5. Ma san Pietro, che era vicino a Federigo, gli diceva a bassa voce: «A che pensi, disgraziato peccatore? tu dovevi chiedere al maestro la salvezza della tua anima». «Me ne preoccupo poco», rispose Federigo. «Hai ancora due grazie da ottenere», disse Gesù Cristo. «Maestro», proseguì l’ospite, «poiché siete così buono, fate, per favore, che chiunque salga sull’albero di arance che ombreg­ gia la mia porta non ne possa discendere senza il mio permesso». «Così sia!», disse Gesù Cristo. A tali parole, l’apostolo san Pietro, dando una forte gomitata al vicino: «Disgraziato peccatore», gli disse, «non temi l’inferno desti­ nato ai tuoi misfatti? chiedi dunque al maestro un posto nel suo santo paradiso; sei ancora in tempo...». «Non c’è fretta», rispose Federigo allontanandosi dall’aposto­ lo; e poiché Nostro Signore diceva: «Che desideri per terza grazia?». «Desidero», rispose, «che chiunque si sieda su questo sgabello, nell’angolo del camino, non possa alzarsi senza il mio commiato». Nostro Signore, avendo esaudito questo voto come i due pri­ mi, se ne andò con i suoi discepoli. L’ultimo apostolo era appena uscito dalla casa, che Federigo, volendo sperimentare la virtù delle sue carte, chiamò il mezzadro 5 [In italiano nel testo].

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e fece con lui una partita a bombre, senza neanche fare attenzio­ ne al gioco. La vinse di getto, così una seconda e una terza. Sicu­ ro allora del fatto suo partì per la città, e discese nella migliore lo­ canda, dove prese in affitto l’appartamento più bello. Subito si sparse la notizia del suo arrivo, i suoi antichi compagni di bagor­ di vennero in massa a fargli visita. «Ti credevamo perduto per sempre», esclamò don Giuseppe; «si dava per certo che ti eri fatto eremita». «E avevano ragione», rispose Federigo. «Che diavolo hai fatto in questo tempo, è da tre anni che non ti si vede?», chiesero insieme tutti gli altri. «Pregando, miei cari fratelli,», rispose Federigo in tono devo­ to; «ed ecco le mie Ore», aggiunse, tirando fuori dalla tasca il mazzo di carte che aveva preziosamente conservato. Questa risposta eccitò le risa di tutti, e ognuno rimase convin­ to che Federigo avesse rifatto la propria fortuna in un paese stra­ niero, alle spalle di giocatori meno abili di quelli con cui si trova­ va allora, e che bruciavano dalla voglia di rovinarlo per la secon­ da volta. Alcuni, senza attendere altro, volevano trascinarlo a un tavolo da gioco. Ma Federigo, dopo averli pregati di rimandare la partita alla sera, fece passare la compagnia in una sala, dove, per suo ordine, era stato approntato un delicato banchetto, che fu lie­ tamente accolto. Quel pranzo fu più allegro della cena degli apostoli: è vero che non si bevve se non malvasia e lacrimachristi; ma i convitati, tran­ ne uno, non conoscevano vino migliore. Prima dell’arrivo degli ospiti, Federigo si era munito di un mazzo di carte perfettamente simile al primo, per potere, al biso­ gno, sostituirlo all’altro, e perdendo una partita su tre o quattro, allontanare ogni sospetto dalla mente dei suoi avversari. Uno lo aveva messo a destra, l’altro a sinistra. Dopo che ebbero pranzato, e la nobile schiera si sedette al tap­ peto verde, Federigo mise per prime sulla tavola le carte profane, e fissò le scommesse per tutta la durata della seduta in una somma ragionevole. Volendo allora dedicarsi al gioco, e conoscere la mi­ sura della sua forza, fece del suo meglio nelle due prime partite e le perse entrambe, non senza un intimo disappunto. Fece poi por­ tare del vino, e approfittò del momento in cui i vincitori beveva­ 560

no ai loro successi passati e futuri, per riprendere con una mano le carte profane, e sostituirle con l’altra con quelle benedette. Iniziata la terza partita, Federigo, non facendo più attenzione al proprio gioco, ebbe il tempo di osservare quello degli altri, e lo trovò sleale. Tale scoperta gli fece gran piacere. Da quel momen­ to poteva svuotare con coscienza tranquilla le borse dei suoi av­ versari. La sua rovina era stata opera della loro frode, non della loro abilità nel gioco o della fortuna. Poteva avere dunque un’o­ pinione migliore della propria forza, opinione giustificata dai suoi precedenti successi. La stima in se stesso (e a che mai non si attacca?), la certezza della vendetta e quella del guadagno, sono tre sentimenti ben dolci al cuore dell’uomo. Federigo li provò tutti insieme; ma, pensando alla sua passata fortuna, si ricordò dei dodici figli di famiglia alle cui spese si era arricchito; e, persuaso che quei giovani erano i soli giocatori onesti con i quali avesse mai avuto a che fare, si pentì per la prima volta delle vittorie riporta­ te su di loro. Una nube oscura succedette sul suo viso ai raggi del­ la gioia che ne traspariva, e trasse un profondo sospiro vincendo la terza partita. Questa fu seguita da molte altre, e Federigo fece in modo di vincerne il più possibile, in modo che raccolse in quella prima se­ rata di che pagare il pranzo e un mese di affitto dell’appartamen­ to. Per quel giorno era quanto voleva. I suoi compagni, delusi, promisero, nel lasciarlo, di ritornare l’indomani. Il giorno dopo e i seguenti, Federigo seppe vincere e perdere così a proposito, che in poco tempo acquisì una considerevole for­ tuna, senza che nessuno ne sospettasse la vera causa. Allora lasciò l’albergo per andare ad abitare in un grande palazzo, dove di tan­ to in tanto dava magnifiche feste. Le più belle donne si contende­ vano un suo sguardo; i vini più squisiti coprivano tutti i giorni la sua tavola, e la sua casa venne considerata il fulcro dei piaceri. Dopo un anno di gioco discreto, stabilì di rendere completa la vendetta, mettendo all’asciutto i principali signori del paese. A questo scopo, dopo aver convertito in pietre preziose la maggior parte del suo oro, li invitò otto giorni prima a una festa straordi­ naria, per la quale si accaparrò i migliori musicisti, saltimbanchi ecc., e che doveva concludersi con un gioco dei più ricchi. Quel­ li che erano privi di denaro, ne estorsero agli ebrei; gli altri porta­ 561

rono quello che avevano, e tutto fu arraffato. Federigo partì nel­ la notte con l’oro e i diamanti. Da quel momento s’impose di giocare a colpo sicuro soltanto con giocatori in malafede, sentendosi abbastanza forte per trarsi d’impaccio con gli altri. Percorse così tutte le città della terra, gio­ cando ovunque, vincendo sempre, e assaporando in ogni luogo ciò che il paese aveva di più eccellente. Tuttavia, il ricordo delle sue dodici vittime gli veniva in men­ te senza tregua e avvelenava tutte le sue gioie. Finalmente, un bel giorno decise di liberarle o di perdere se stesso insieme con loro. Presa tale decisione, partì per l’Inferno con un bastone in ma­ no e un sacco sulla schiena, senza altra scorta che la sua levriera favorita, che si chiamava Marchesella. Arrivato in Sicilia, scalò il Mongibello, e discese poi nel vulcano, tanto al di sotto quanto la montagna stessa si innalzava sopra Piamonte. Di là, per andare da Plutone, bisogna attraversare un cortile custodito da Cerbero. Federigo lo attraversò senza difficoltà, mentre Cerbero faceva fe­ sta alla levriera, e andò a bussare alla porta di Plutone. Quando l’ebbero condotto alla sua presenza: «Chi sei?» gli chiese il re dell’abisso. «Sono il giocatore Federigo». «Che diavolo vieni a fare qui?». «Plutone», rispose Federigo, «se stimi che il primo giocatore della terra sia degno di esserti avversario in una partita di hombre, ecco quello che ti propongo: noi giocheremo quante partite vor­ rai; che io ne perda una sola, e la mia anima ti apparterrà legitti­ mamente, insieme a tutte quelle che popolano i tuoi Stati; ma se vinco, avrò il diritto di sceglierne una, tra quelle a te soggette, per ogni partita che avrò vinta, e di portarla con me». «E sia», disse Plutone. E ordinò un mazzo di carte. «Eccone uno», disse subito Federigo, tirando fuori dalla tasca il mazzo miracoloso. E cominciarono a giocare. Federigo vinse una prima partita, e chiese a Plutone l’anima di Stefano Pagani, uno dei dodici che voleva salvare. Subito gli fu data; ed egli, dopo averla ricevuta, la mise nel sacco. Vinse ugual­ mente una seconda partita, poi una terza e così fino a dodici, fa­ 562

cenciosi ogni volta consegnare e mettendola nel sacco una delle anime alle quali si interessava. Quando ebbe completata la dozzi­ na, offrì a Plutone di continuare. «Volentieri», disse Plutone (che tuttavia era seccato di perde­ re); «ma usciamo un attimo; non so quale fetido odore si è venu­ to diffondendo qui». Ora, egli cercava un pretesto per sbarazzarsi di Federigo; per­ ché appena questi fu di fuori con il sacco e le anime, Plutone gridò con tutta la sua forza di chiudere la porta dietro di lui. Federigo, dopo aver nuovamente attraversato la corte dell’in­ ferno, senza che Cerbero vi badasse, tanto era affascinato dalla levriera, raggiunse faticosamente la vetta del Mongibello. Poi chiamò Marchesella, che non tardò a raggiungerlo, e ridiscese verso Messina, più lieto della sua conquista spirituale di quanto lo fosse mai stato per nessun successo mondano. Arrivato a Messi­ na, vi s’imbarcò per ritornare in terraferma, e terminare la sua car­ riera nell’antico maniero.

(Alcuni mesi dopo, Marchesella partorì una figliata di mo­ striciattoli, alcuni dei quali avevano fino a tre teste. Li affogaro­ no tutti).

Trent’anni dopo (Federigo ne aveva allora settanta), la Morte entrò in casa sua, e lo avvertì di mettere in regola la coscienza, perché la sua ora era venuta. «Sono pronto», disse il moribondo; «ma prima di portarmi via, o Morte, dammi ti prego, un frutto dell’albero che om­ breggia la mia porta. Ancora questo piccolo piacere, e morirò contento». «Se vuoi solo questo», disse la Morte, «voglio soddisfarti». E salì sull’albero delle arance per cogliere un frutto. Ma, quan­ do volle discenderne, non potè farlo: Federigo si opponeva. «Ah! Federigo, mi hai ingannato», esclamò, «ora sono in tuo potere; ma rendimi la libertà, e ti prometto dieci anni di vita». «Dieci anni! ecco, che gran cosa!», disse Federigo. «Se vuoi scendere, bella mia, bisogna che tu sia più generosa». «Te ne darò venti». «Tu scherzi!». «Te ne darò trenta». 563

«Nemmeno un terzo di quello che vorrei». «Vuoi dunque vivere un secolo?». «Proprio così, mia cara». «Federigo, non sei ragionevole». «Che vuoi! mi piace vivere». «Va bene, vada per cent’anni», disse la Morte, «devo accettare per forza». E subito potè discendere. Appena se ne fu andata, Federigo si alzò in perfetta salute e cominciò una nuova vita, con la forza di un giovane e l’esperien­ za di un vecchio. Tutto quello che si sa di quella nuova esistenza è che egli continuò a soddisfare con cura tutte le sue passioni, e in modo particolare gli appetiti carnali, facendo un po’ di bene quando se ne presentava l’occasione, ma senza pensare alla sal­ vezza dell’anima più che nella prima vita. Trascorsi i cento anni, la Morte venne di nuovo a bussare alla sua porta e lo trovò a letto. «Sei pronto?», gli chiese. «Ho mandato a chiamare il confessore», rispose Federigo; «siediti vicino al fuoco, fino a che verrà. Non aspetto che l’asso­ luzione per slanciarmi con te nell’eternità». La Morte, che era una bonacciona, andò a sedersi sullo sga­ bello e attese un’ora intera senza veder arrivare il prete. Comin­ ciando infine a seccarsi, disse al suo ospite: «Vecchio, per la seconda volta non hai avuto il tempo di met­ terti in regola, non ci vediamo da un secolo?». «In fede mia, avevo ben altro da fare», disse il vecchio con un sorriso canzonatorio. «Ebbene», riprese la Morte indignata della sua empietà, «non ti resta un minuto da vivere». «Bah!», disse Federigo, mentre essa cercava invano di alzarsi, «so per esperienza che sei troppo accomodante per non accor­ darmi ancora alcuni anni di respiro». «Alcuni anni! miserabile!» (Ed essa faceva inutili sforzi per al­ lontanarsi dal camino). «Sì, certo; ma stavolta non sarò esigente e, siccome non tengo più alla vecchiaia, mi accontenterò di quarant’anni, per la terza corsa». 564

La Morte comprese bene che, come l’altra volta sull’albero, era trattenuta sullo sgabello da una potenza soprannaturale; ma, presa dal furore, non voleva accordare nulla. «Conosco un mezzo per renderti ragionevole», disse Federigo. Fece gettare tre fascine sul fuoco. In un momento la fiamma invase il camino, di modo che la Morte era al supplizio. «Grazia! grazia!», urlò sentendosi bruciare le vecchie ossa; «ti prometto quarant’anni di salute». A tali parole, Federigo sciolse l’incantesimo, e la Morte se ne fuggì, mezzo arrostita. Alla scadenza del termine, tornò a cercare il suo uomo, che la attendeva di piè fermo, un sacco sulla schiena. «Finalmente, la tua ora è giunta», gli disse entrando brusca­ mente; «non c’è più modo di ritirarsi. Ma che vuoi fare con quel sacco?». «Contiene le anime di dodici giocatori miei amici, che ho li­ berato un tempo dall’Inferno». «Che vi rientrino con te!», disse la Morte. E, afferrando Federigo per i capelli, si slanciò nell’aria, volò verso mezzogiorno, e si sprofondò con la preda nella voragine del Mongibello. Arrivata alle porte dell’inferno, batté tre colpi. «Chi è là?» disse Plutone. «Federigo il giocatore», rispose la Morte. «Non aprite», urlò Plutone, ricordandosi delle dodici partite che aveva perso; «quel furfante spopolerebbe il mio impero». E dato che Plutone si rifiutava di aprire, la Morte trasportò il prigioniero alle porte del Purgatorio; ma l’angelo di guardia glie­ ne vietò l’ingresso, essendosi accorto che quello si trovava in pec­ cato mortale. Bisognò allora a ogni costo, e con gran dispetto del­ la Morte, che ce l’aveva con Federigo, dirigere la rotta verso le re­ gioni celesti. «Chi sei?», disse san Pietro a Federigo, quando la Morte lo eb­ be deposto all’ingresso del paradiso. «Il vostro antico ospite», rispose, «colui che un tempo vi fece gustare i prodotti della caccia». «E osi presentarti qui nello stato in cui ti vedo?», esclamò san Pietro. «Non sai che il Cielo è chiuso per i tuoi pari? Che! non sei degno nemmeno del Purgatorio, e vuoi un posto in Paradiso!». 565

«San Pietro», disse Federigo, «è forse così che vi ricevetti quando veniste con il vostro divino maestro, circa centottanta an­ ni fa, a chiedermi ospitalità?». «Tutto ciò va bene», ribatte san Pietro in tono di rimprovero, benché intenerito; «ma non posso prendermi la responsabilità di lasciarti entrare. Vado a informare Gesù Cristo del tuo arrivo; ve­ dremo quello che dirà». Nostro Signore, che era stato avvertito, venne alla porta del Paradiso, dove trovò Federigo in ginocchio sulla soglia, con le sue dodici anime, sei per parte. Allora, lasciandosi muovere a com­ passione: «Passi ancora per te», disse a Federigo; «ma queste dodici anime, che l’inferno reclama, non saprei in coscienza lasciarle entrare». «E che! Signore», disse Federigo; «quando ebbi l’onore di ri­ cevervi in casa mia, non eravate accompagnato da dodici viaggia­ tori che io accolsi, al pari di voi, quanto meglio mi fu possibile?». «Non c’è modo di resistere a quest’uomo», disse Gesù Cristo. «Entrate, dunque, poiché siete qui; ma non vantatevi della grazia che vi faccio; sarebbe un cattivo esempio».

1829

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Djouman1

Il 21 maggio del 18**, rientravamo a Tlemcen2. La spedizione era stata fortunata; portavamo buoi, montoni, cammelli, prigio­ nieri e ostaggi. Dopo trentasette giorni di campagna, o meglio di continua caccia, i nostri cavalli erano deperiti, sfiancati, ma avevano an­ cora l’occhio vivo e pieno di fuoco; neppure una traccia di scor­ ticato sotto la sella. Noi uomini, abbronzati dal sole, i capelli lunghi, le bandoliere sporche, le giubbe lise, mostravamo quel­ la noncuranza di fronte al pericolo e alla miseria che distingue il vero soldato. Per fare una bella carica, quale generale non avrebbe preferito i nostri cacciatori agli squadroni più freschi e vestiti di nuovo? Dal mattino, pensavo a tutte le piccole gioie che mi aspettavano. Come avrei dormito in branda, dopo trentasette notti passa­ te su un rettangolo di tela cerata! Avrei cenato su una sedia, avrei avuto pane fresco, e sale a volontà! Poi mi domandavo se la signorina Concha mi si sarebbe presentata con un fiore di me­ lograno o di gelsomino nei capelli, e se intanto avesse mantenu­ to i giuramenti pretesi il giorno della mia partenza; ma, fedele o infedele, sentivo che poteva fare affidamento sulla grande riser­ va di tenerezza che riportiamo sempre dal deserto. In tutto lo squadrone, non c’era nessuno che non avesse i suoi progetti per la serata. 1 [Djouman, antica parola araba di origine persiana, che indica una perla o un bijou]. 2 [In Algeria. La città era stata occupata dai francesi il 30 gennaio del 1842].

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Il colonnello ci accolse molto paternamente, e ci disse persino che era contento di noi; poi chiamò in disparte il maggiore e, per cinque minuti, gli tenne un discorso visibilmente poco gradevo­ le, da quanto potevamo giudicare dall’espressione dei loro volti. Osservavamo i movimenti dei baffi del colonnello, che si al­ zavano all’altezza delle sopracciglia, mentre i baffi del maggiore scendevano pietosamente allisciati fino al petto. Un giovane cac­ ciatore, che finsi di non ascoltare, sostenne che il naso del mag­ giore cresceva a vista d’occhio; ma anche i nostri non tardarono ad allungarsi, quando il maggiore venne a dirci: «Diamo da man­ giare ai cavalli e teniamoci pronti a partire al calare del sole! Gli ufficiali cenano dal colonnello alle cinque; tenuta di campagna; si va in sella dopo il caffè... Forse, per caso, non sareste contenti, signori?...». Ne convenimmo e lo salutammo in silenzio, mandandolo però al diavolo, da parte nostra, insieme al colonnello. Avevamo poco tempo per i nostri piccoli preparativi. Mi af­ frettai a cambiarmi, e dopo essermi vestito, ebbi il pudore di non sedermi nella mia poltrona, per la paura di addormentarmi. Alle cinque, entrai dal colonnello. Abitava in una grande casa moresca, il cui cortile interno era gremito di gente, in parte fran­ cesi e in parte indigeni, assiepati intorno a una banda di pellegri­ ni o saltimbanchi provenienti dal sud. Dirigeva la rappresentazione un vecchio, brutto come una scimmia, mezzo nudo sotto a un burnus' bucato, la pelle color di cioccolata annacquata, tutto coperto di tatuaggi; i capelli crespi e folti tanto da far credere ai più lontani che avesse un colbacco in testa, la barba bianca ed ispida. Era, dicevano, un santone e uno stregone. Davanti a lui, sedeva un’orchestra di due flauti e tre tamburi, che faceva un baccano infernale, degno dello spettacolo che non tardò ad avere inizio. Il vecchio diceva di aver ricevuto da un fa­ mosissimo marabutto ogni potere sui dèmoni e sulle bestie fero­ ci, e dopo un breve convenevole dedicato al colonnello e al rispettabile pubblico, procedette a una sorta di preghiera o incan­ tesimo, a suon di musica, mentre ai suoi cenni gli attori saltavano, ' [Parola araba che designa un grande mantello di lana con cappuccio].

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ballavano, giravano su un piede solo, e si battevano il petto a grandi pugni. Intanto, i tamburi e i flauti acceleravano sempre più il ritmo. Quando la stanchezza e il capogiro ebbero fatto perdere ai sal­ timbanchi il poco cervello che avevano, il capo stregone tirò fuo­ ri da alcune ceste che teneva lì vicine scorpioni e serpenti e, dopo aver mostrato che erano vivi, li gettò a quegli energumeni, sui quali questi si avventarono come tanti cani su un osso, e li sbra­ narono con i denti, se non vi dispiace. Noi guardavamo da un’altra galleria il singolare spettacolo che ci offriva il colonnello, credo per prepararci a mangiare be­ ne. Quanto a me, distolti gli sguardi da quei furfanti che mi di­ sgustavano, mi divertivo a osservare una ragazzina sui tredici o quattordici anni, che si cacciava tra la folla per avvicinarsi allo spettacolo. Aveva gli occhi più belli del mondo, e i capelli le ricadevano sul­ le spalle in trecce minute terminanti in monetine d’argento, che fa­ ceva tintinnare scuotendo graziosamente la testa. Era vestita con più ricercatezza rispetto alla maggior parte delle ragazze del paese: un fazzoletto di seta e d’oro sulla testa, giacca di velluto ricamata, pantaloni corti di raso azzurro, che lasciavano vedere le gambe nu­ de ornate di cerchi d’argento. Nessun velo sul viso. Era un’ebrea, un’idolatra? o forse apparteneva a una di quelle tribù erranti d’in­ certa origine, non turbate da nessun pregiudizio religioso? Mentre seguivo tutti i suoi movimenti con vivo interesse, era riuscita ad arrivare alla prima fila del cerchio dove quegli ossessi eseguivano i loro esercizi. Volendo avvicinarsi un po’ di più fece cadere una lunga cesta, dal fondo un po’ stretto, che prima non era stata aperta. Quasi immediatamente, lo stregone e la bambina fecero sentire un gri­ do terribile, e vedemmo un gran movimento prodursi in quel cer­ chio, tutti indietreggiavano con orrore. Un serpente enorme era uscito dal paniere, e la ragazzina lo aveva pestato con il piede. In un istante, il rettile le si attorcigliò alla gamba. Vidi colare alcune gocce di sangue sotto l’anello che portava alla caviglia. Cadde lunga distesa, piangendo, arrotando i denti. Si rotolava nella polvere, le labbra coperte da una schiu­ ma bianca. 569

«Correte, dunque, caro dottore!» gridai al nostro chirurgo maggiore. «Per l’amor di Dio, salvate quella povera bambina». «Ingenuo!», rispose il maggiore alzando le spalle. «Non vede­ te che fa parte del programma? D’altronde, il mio mestiere è di tagliarvi le braccia e le gambe. È affare del mio collega laggiù gua­ rire le ragazze morse dai serpenti». Il vecchio stregone era accorso, e per prima cosa si era impa­ dronito del serpente. «Djouman! Djouman!» gli diceva in tono di amichevole rim­ provero. Il serpente si divincolò, lasciò la preda e cominciò a stri­ sciare. Lo stregone fu veloce a prenderlo per la punta della co­ da e, tenendolo con il braccio teso, fece il giro del cerchio, mo­ strando il rettile che si contorceva e sibilava, senza potersi rad­ drizzare. Voi certamente saprete che un serpente, quando è tenuto per la coda, si trova molto impedito. Può tutt’al più sollevarsi per un quarto della sua lunghezza, e perciò non può mordere la mano che lo ha afferrato. Un attimo dopo, il serpente fu riposto nella cesta, il mago, as­ sicurato bene il coperchio, si occupò della ragazzina, che piange­ va e continuava a sgambettare. Le mise sulla piaga un pizzico di una polvere bianca che tirò fuori dalla cintura, poi le mormorò al­ l’orecchio un incantesimo del quale non si tardò a vedere l’effet­ to. Le convulsioni cessarono; la ragazzina si asciugò la bocca, rac­ colse il fazzoletto di seta, ne scosse la polvere, se lo rimise in te­ sta, si alzò, e quasi subito la vedemmo uscire. Passò un attimo e ce la trovammo nella nostra galleria, a far la questua, e le applicammo in fronte e sulle spalle un mucchio di monete da cinquanta centesimi. Questa fu la fine della rappresentazione, e andammo a cena. Mi sentivo un buon appetito e mi preparavo a far onore a una magnifica anguilla alla tartara, quando il nostro dottore, vicino al quale ero seduto, mi disse che riconosceva il serpente di poc’an­ zi. Non mi fu più possibile assaggiarne un solo boccone. Il dottore, dopo essersi fatto beffe dei miei pregiudizi, pretese anche la mia porzione di anguilla e mi assicurò che il serpente aveva un gusto squisito. 570

«Quei bricconi che avete appena visto», mi disse, «se ne in­ tendono. Vivono nelle caverne come trogloditi, con i loro ser­ penti. Hanno delle bambine graziose, prova ne sia la piccola dai pantaloncini azzurri. Non si sa che religione abbiano; ma son fur­ bi e voglio conoscere il loro sceicco». Durante la cena, venimmo a sapere il motivo per cui riprende­ vamo la campagna. Sidi-Lala4, incalzato dal colonnello R***, cer­ cava di raggiungere le montagne del Marocco. Due strade da scegliere: una a sud di Tlemcen, passando a gua­ do la Mulaia, nel solo punto in cui i dirupi la rendono inaccessi­ bile; l’altra per la pianura, a nord dei nostri accantonamenti. Là avrebbe trovato il nostro colonnello e il grosso del reggimento. Il nostro squadrone era incaricato di fermarlo al passaggio del fiume, qualora lo avesse tentato; ma era poco probabile. Dovete sapere che la Mulaia scorre tra due muri di rocce, e che solo in un punto si trova una specie di breccia, piuttosto stretta, dove possono passare i cavalli. Conoscevo il luogo benissimo, e non so perché non vi avessero ancora stabilito un blockhous5. Fat­ to sta che il colonnello era quasi sicuro di incontrare il nemico e, noi, di fare una corsa inutile. Prima che finisse la cena, numerosi cavalieri del Maghzen6 ci portarono dei dispacci del colonnello R***. Il nemico aveva preso posizione e mostrava una certa voglia di battersi. Aveva perso tem­ po. La fanteria del colonnello R*** stava per arrivare e sbaragliarlo. Ma da che parte sarebbe fuggito? Non ne sapevamo niente, e perciò bisognava attenderlo sulle due strade. Non parlo di un’ul­ tima soluzione che poteva prendere, gettarsi nel deserto; il suo bestiame e la smala7 del capo vi sarebbero presto morti di fame e di sete. Ci accordammo su alcuni segnali per avvisarci a vicenda di ogni mossa del nemico. Tre cannonate sparate da Tlemcen ci avrebbero detto se SidiLala si fosse affacciato in pianura, e portavamo, noi, dei razzi per ' [Uno dei capi dell’insurrezione che ebbe luogo tra il 1864 e il 1868, combattuta pri­ ma dal generale Deligny, poi dal luogotenente colonnello de Sonis]. 5 [Termine militare: fortino]. 6 [O Makhzen (arabo Makhzan) in Marocco designa il governo del sultano e in Alge­ ria un corpo di cavalleria costituito da alcune tribù]. ’ [Anche smalah, arabo: famiglia e séguito di un capo potente].

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far sapere che avevamo bisogno di essere sostenuti. Verosimil­ mente, calcolavamo che il nemico non si sarebbe comunque fat­ to vedere prima dell’alba, e le nostre due colonne erano di parec­ chie ore in anticipo su di lui. Era notte inoltrata quando salimmo a cavallo. Comandavo il plotone d’avanguardia. Mi sentivo stanco, avevo freddo; indossai il mantello, rialzai il bavero, infilai le staffe, e me ne andai tran­ quillamente al passo lungo della mia giumenta, ascoltando di­ strattamente il maresciallo d’alloggio Wagner, che mi narrava la storia dei suoi amori, sfortunatamente finita con la fuga di un’in­ fedele, che, oltre a rubargli il cuore, gli aveva portato via anche l’orologio d’argento e un paio di stivali nuovi. Conoscevo già quella storia, e mi sembrava ancora più lunga del consueto. Sorgeva la luna quando ci mettevamo in cammino. Il cielo era terso, ma dal suolo si alzava una bianca nebbiolina, rasente la ter­ ra, che sembrava coperta di cardi di cotone. Su quello sfondo bianco la luna proiettava lunghe ombre, e tutti gli oggetti pren­ devano un aspetto fantastico. Ora credevo di vedere cavalieri ara­ bi alle vedette: mi avvicinavo, trovavo tamarischi in fiore; ora mi fermavo, credendo di udire i colpi di cannone del segnale: Wagner mi diceva che era un cavallo che correva. Arrivammo al guado, e il maggiore adottò le misure del caso. Il luogo era meraviglioso per la difesa, e il nostro squadrone sarebbe stato sufficiente per fermare là un corpo considerevole. Solitudine completa dall’altra parte del fiume. Dopo una lunga attesa, udimmo il galoppo di un cavallo, e pre­ sto scorgemmo un arabo che si dirigeva verso di noi su un magni­ fico animale. Il cappello di paglia con grandi penne di struzzo, la sella ricamata da cui pendeva una gebira* ornata di corallo e fiori d’oro, mostravano che era un capo; la nostra guida ci disse che era Sidi-Lala in persona. Era un bel giovane, snello e vigoroso, che ca­ valcava a meraviglia. Andava la galoppo, gettava in aria il lungo fu­ cile e lo riafferrava al volo, gridandoci non so che parole di sfida. I tempi della cavalleria sono tramontati, e Wagner chiedeva un fucile per fare la festa al marabutto, a quanto diceva; ma io mi op’ [Una sorta di cartella a zaino che i cavalieri algerini portano sospesa al pomo del­ la sella].

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posi, e perché non si dicesse che i francesi avevano rifiutato di combattere in campo chiuso con un arabo, chiesi al maggiore il permesso di passare il guado e di incrociare il ferro con Sidi-Lala. Mi fu concesso, e subito passai il fiume, mentre il capo nemi­ co si allontanava al trotto per prendere spazio. Appena mi vide sull’altra sponda, mi corse incontro con il fu­ cile a spalla. «Attenti!» mi gridò Wagner. Io non temo le fucilate di un uomo a cavallo, e d’altronde, do­ po la fantasia eseguita, il fucile di Sidi-Lala non doveva essere troppo in condizione di far fuoco. Infatti, strinse il grilletto a tre passi da me, ma il fucile, come prevedevo, s’inceppò. Subito il mio uomo fece girare il cavallo così rapidamente, che invece di piantargli la sciabola in petto non colsi che le pieghe svolazzanti del suo baracano. Ma gli stavo alle costole, tenendolo sempre alla mia destra, e sospingendolo, per forza o per amore, verso gli strapiombi che costeggiano il fiume. Egli cercava invano, ogni tanto, di cambiar bruscamente direzione, io lo incalzavo sempre più. Dopo pochi minuti di corsa furibonda vidi il cavallo dell’ara­ bo impennarsi all’improvviso, e lui che tirava le redini a due ma­ ni. Senza chiedermi perché lo facessi, gli piombai addosso come una palla di cannone, gli piantai il ferro nel bel mezzo della schie­ na nello stesso momento in cui lo zoccolo della mia giumenta lo colpiva sulla coscia sinistra. Uomo e cavallo scomparvero; la mia giumenta e io, cademmo dietro di loro. Senza essercene accorti, eravamo arrivati sull’orlo di un preci­ pizio ed eravamo lanciati... Mentre ero ancora in aria, - il pen­ siero va veloce! - mi dissi che il corpo dell’arabo avrebbe attutito la mia caduta. Vidi distintamente sotto di me un baracano bianco con una grande chiazza rossa: è là che caddi a testa in giù. Grazie all’altezza dell’acqua, il salto non fu così terribile come avevo creduto; finii sotto con tutte le orecchie, annaspai per un attimo tutto stordito e, non so bene come, mi ritrovai in piedi tra le canne, sulla riva del fiume. Non so nemmeno dove fossero andati a finire Sidi-Lala e i ca­ valli. Ero inzuppato, intirizzito, affondavo nella melma, tra due muri di rocce. Feci qualche passo, sperando di trovare un punto 573

dove la salita fosse meno ripida; più avanzavo, più mi sembrava­ no aspri e inaccessibili. A un tratto, intesi al di sopra della mia testa dei passi di caval­ li e il fragore dei foderi delle sciabole che urtavano contro le staf­ fe e gli speroni. Senza dubbio, era il nostro squadrone. Volli chia­ mare, ma non un suono uscì dalla mia gola; senza dubbio, nella caduta, mi ero rotto il petto. Figuratevi la mia situazione! Sentivo le voci dei nostri, le ri­ conoscevo, e non potevo chiamarli in mio aiuto. Il vecchio Wa­ gner diceva: «Se mi avesse lasciato fare, sarebbe arrivato al grado di co­ lonnello». Presto il rumore diminuì, si fece più debole, finché non intesi più nulla. Al di sopra della mia testa pendeva una grossa radice, e spe­ rai, se avessi potuto afferrarla, di arrampicarmi sull’argine. Con uno sforzo disperato, mi slanciai, e... sss!... la radice si torce e mi sguscia tra le mani con un sibilo orrendo... Era un enorme serpente... Ricaddi nell’acqua: il serpente, scivolando tra le gambe, si gettò nel fiume, dove mi sembrò che lasciasse una striscia come di fuoco... Un minuto dopo avevo ritrovato il mio sangue freddo, e quel­ la luce tremolante sull’acqua non era scomparsa. Era, come notai, il riflesso di una fiaccola. A circa venti passi da me, una donna riempiva con una mano una brocca nel fiume, e con l’altra tene­ va un pezzo di legno resinoso che ardeva. Non sospettò della mia presenza. Posò tranquillamente la brocca sulla testa e, con la tor­ cia in mano, scomparve tra i canneti. La seguii e mi trovai all’en­ trata di una caverna. La donna avanzava molto tranquillamente, saliva per un pen­ dio piuttosto ripido, una specie di scala ricavata nella parete di una sala immensa. Al bagliore della fiaccola, vedevo il pavimento di quella sala, che non superava il livello del fiume, ma non riu­ scivo a distinguerne esattamente l’ampiezza. Senza sapere bene quello che facevo, mi avviai per la rampa, dietro la donna che por­ tava la fiaccola e la seguii a distanza. Ogni tanto la sua luce spari­ va dietro gli anfratti della roccia, e poi la ritrovavo. 574

Credetti di scorgere anche la scura apertura di grandi gallerie comunicanti con la sala principale. Si sarebbe detta una città sot­ terranea, con le sue strade e i suoi incroci. Mi fermai, stimando pericoloso l’avventurarmi solo in quell’immenso labirinto. All’improvviso, una delle gallerie sottostanti si rischiarò di vi­ va luce. Vidi un gran numero di fiaccole che sembravano uscire dai fianchi della roccia per formare come una grande processio­ ne. Al tempo stesso si innalzava un canto monotono, che ricor­ dava il salmodiare degli arabi che recitano le preghiere. Poco dopo vidi avvicinarsi lentamente una gran moltitudine di gente. Alla sua testa marciava un uomo nero, quasi nudo, con la testa coperta da un enorme massa di capelli irti. La lunga barba bianca che ricadeva sul petto risaltava sulla pelle bruna, interseca­ ta di tatuaggi azzurrognoli. Riconobbi subito il mio stregone del giorno prima e subito dopo trovai al suo fianco la ragazzina che aveva sostenuto la parte di Euridice, con i suoi begli occhi, i pan­ taloni di seta e il fazzoletto ricamato in testa. Seguivano donne, bambini, uomini di ogni età, tutti muniti di torce, con indosso costumi bizzarri dai colori vivi, o vesti a stra­ scico, cappelli alti, alcuni in metallo, che riflettevano in ogni dire­ zione la luce delle fiaccole. Il vecchio stregone si fermò proprio sotto di me, e con lui l’in­ tera processione. Si fece un profondo silenzio. Mi trovavo a un’altezza di una ventina di piedi, protetto da certe grosse pietre, dietro le quali speravo di vedere tutto senza essere visto. Ai piedi del vecchio notai una larga lastra quasi rotonda, con un anello di ferro al centro. Pronunciò alcune parole in una lingua a me sconosciuta, che ritengo, ne sono sicuro, non fosse né arabo, né berbero. Una cor­ da con carrucole, sospesa non so dove, gli cadde ai piedi; qualcu­ no dei presenti la infilò nell’anello e, a un cenno, venti braccia ro­ buste tirarono insieme su la lastra, che sembrava molto pesante, e la posero da una parte. Scorsi allora come l’apertura di un pozzo, con l’acqua che era quasi a un metro dal margine. L’acqua, ho detto? Non so che li­ quido infame fosse, ricoperto di una pellicola iridata, qua e là in­ terrotta da squarci che lasciavano trasparire una melma immon­ da e nera. 575

Dritto sul margine del pozzo, lo stregone teneva la mano sini­ stra sulla testa della ragazzina, con la destra faceva strani segni mentre recitava una specie di incantesimo magico tra il raccogli­ mento generale. A tratti, alzava la voce come se chiamasse qualcuno: «Djouman! Djouman!» gridava; ma non veniva nessuno. Intanto stra­ volgeva gli occhi, arrotava i denti, e faceva sentire grida rauche che sembrava impossibile potessero provenire da un petto uma­ no. Le buffonate di quel vecchio furfante mi irritavano e mi indi­ gnavano; ero tentato di scaraventargli sulla testa una delle pietre che avevo sotto mano. Era forse la trentesima volta che urlava il nome di Djouman, quando vidi tremolare la pellicola iridata, e a quel segno, tutta la folla dei presenti si ritrasse; il vecchio restò so­ lo con la ragazzina sull’orlo del buco. A un tratto si alzò dal pozzo un gran rigurgito di melma az­ zurrastra, e ne uscì l’enorme testa di un serpente, di un grigio li­ vido e con occhi fosforescenti... Involontariamente, feci un salto indietro; udii un piccolo gri­ do, e il rumore di un corpo pesante che cadeva nell’acqua... Quando riguardai in basso, era passato, forse, un decimo di secondo, vidi lo stregone solo al bordo del pozzo, la cui acqua gorgogliava ancora. In mezzo ai frammenti della pellicola iridata galleggiava il fazzoletto che ricopriva i capelli della ragazzina. La grande lastra di pietra si stava già muovendo e ricadeva sul­ l’apertura dell’orrida voragine. Allora, tutte le fiaccole si spense­ ro a un tempo, e rimasi avvolto nelle tenebre, in un silenzio così profondo che udivo distintamente i battiti del mio cuore... Dopo che mi fui un po’ rianimato da quella orrenda scena, volli uscire dalla caverna, giurando a me stesso che se avessi po­ tuto raggiungere i miei compagni sarei ritornato a sterminare gli abominevoli ospiti di quei luoghi, uomini e serpenti. Si trattava di ritrovare la strada; avevo fatto, a quanto ritene­ vo, un centinaio di passi nell’interno della grotta, camminando sempre con il muro della roccia alla mia destra. Invertii la rotta; ma non vidi nessuna luce che mi indicasse l’apertura del sotter­ raneo; ma questo non si dipanava in linea retta, e d’altronde ero andato sempre salendo dal bordo del fiume; con la mano sinistra tastavo la roccia, con la destra tenevo la sciabola e sondavo il ter­ 576

reno, avanzando lentamente e con precauzione. Per un quarto d’ora, venti minuti..., una mezz’ora forse, camminai senza tro­ vare l’ingresso. Mi prese l’inquietudine. Non mi sarò introdotto, senza accor­ germene, in una galleria laterale, invece di riprendere la via che avevo seguito all’inizio?... Camminavo sempre, tastando la roccia, quando invece della fredda pietra, toccai una tenda, che cedendo sotto la mia mano, la­ sciò entrare un raggio di luce. Raddoppiando le precauzioni, sco­ stai senza far rumore il tessuto e mi ritrovai in un piccolo corri­ doio che dava in una stanza molto illuminata, la cui porta era aper­ ta. Vidi che questa era arredata di una stoffa a fiori di seta e d’oro. Distinsi un tappeto turco, uno scorcio di divano in velluto. Sul tappeto, c’era un narghilè d’argento e alcune profumiere. Insom­ nia, una camera sontuosamente arredata alla maniera araba. Mi avvicinai a passi furtivi fino alla porta. Accoccolata sul di­ vano vidi una giovane donna, e, accanto, un tavolinetto basso in­ tarsiato, con un grande vassoio d’argento dorato carico di tazze, boccette e mazzi di fiori. Entrando in quel salottino sotterraneo, ci si sentiva inebriare da non so quale delizioso profumo. Un senso di voluttà emanava da ogni cosa intorno; dovunque vedevo brillare l’oro, le stoffe preziose, i fiori rari e i più diversi colori. In un primo momento, la giovane donna non si accorse della mia presenza; chinava la te­ sta e con un’aria pensosa sgranava tra le dita un lungo rosario di ambra gialla. Era una vera bellezza. I lineamenti del volto somi­ gliavano a quelli della sventurata bambina che avevo visto poco prima per l’ultima volta, ma più formati, più regolari, più volut­ tuosi. Nera come l’ala di un corvo la sua capigliatura, Lunga come un mantello regale,

si effondeva sulle sue spalle, sul divano e fin sul tappeto ai suoi piedi. Una camicia di seta trasparente, a larghe strisce, lasciava trasparire braccia e seno mirabili. Un giacca di velluto guarnita d’oro le stringeva la vita, e dai pantaloni corti di raso azzurro usciva un piede meravigliosamente piccolo, da cui pendeva una babbuccia dorata che faceva dondolare con un movimento ca­ priccioso e pieno di grazia. 577

I miei stivali scricchiolarono; alzò la testa, e mi vide. Senza scomodarsi, né mostrare la minima sorpresa alla vista di uno straniero con la sciabola in pugno, batté le mani con gioia e mi fece cenno di avvicinarmi. La salutai portando la mano al cuo­ re e alla fronte, perché vedesse che conoscevo il cerimoniale mu­ sulmano. Mi sorrise, e con le mani raccolse i capelli, che copriva­ no il divano; era per dirmi di sedermi accanto a lei. Mi sembrò che tutti i profumi dell’Arabia esalassero da quei bei capelli. Mi sedetti all’estremità del divano, con aria umile, ripromet­ tendomi però di avvicinarmi meglio non appena possibile. La donna prese una tazza sul vassoio, e tenendola con il piattino di filigrana vi versò una crema di caffè, e dopo averla sfiorata con le labbra, me la offrì: «Ah! Rumi? Rumiì...» disse...

«Non vogliamo bere un bicchierino, mio tenente?...». A queste parole, spalancai gli occhi come fanali. La giovane donna aveva due baffi enormi, era il vero ritratto del maresciallo d’alloggio Wagner... In effetti, Wagner era in piedi, davanti a me, e mi presentava una tazza di caffè, mentre io, chino sul collo del cavallo, lo guardavo completamente sbigottito. «Sembra che abbiamo fatto la nanna lo stesso, tenente mio. Eccoci finalmente al guado e il caffè è bollente».

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’ [Nome con cui i musulmani designano un cristiano, più generalmente un europeo].

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I

I combattimenti di tori

Madrid, 25 ottobre 1830

Signore, Le corse di tori sono ancora molto in voga in Spagna; ma, tra gli spagnoli di classe elevata, non ve n’è uno che non provi una sorta di vergogna nel confessare l’apprezzamento verso un tale genere di spettacolo così tanto crudele; perciò cercano di trovare parecchi altri motivi per giustificarlo. Per prima cosa è un diver­ timento nazionale. Questa parola, nazionale, sarebbe da sola suf­ ficiente, perché il patriottismo d’anticamera è forte in Spagna co­ me in Francia. Poi, dicono, i romani erano ancor più barbari di noi, poiché facevano combattere uomini contro uomini. Infine, aggiungono gli economisti, l’agricoltura trae vantaggio da questa consuetudine, poiché l’alto prezzo dei tori da combattimento spinge i proprietari ad allevare numerosi branchi. Bisogna sapere che non tutti i tori hanno il merito di attaccare gli uomini e i ca­ valli e che, su venti, se ne trova appena uno abbastanza forte da figurare in un’arena, gli altri diciannove servono all’agricoltura. Il solo argomento che non osano presentare, e che tuttavia si trove­ rebbe senza replica, è che, crudele o no, questo spettacolo è così interessante, così avvincente, produce emozioni così forti che non vi si può più rinunciare quando si è riusciti a resistere all’ef­ fetto della prima volta. Gli stranieri, che entrano nell’arena con un po’ di terrore, e solo per mettere a tacere la loro coscienza di 581

viaggiatori, gli stranieri, dicevo, si appassionano ben presto alle corse dei tori proprio come gli spagnoli. Bisogna convenire, con vergogna dell’umanità, che la guerra, con tutti i suoi orrori, pos­ siede un fascino straordinario, soprattutto per coloro che la con­ templano al sicuro. Sant’Agostino racconta che, durante la sua giovinezza, prova­ va una forte ripugnanza per i combattimenti dei gladiatori, che non aveva mai visto. Obbligato una volta ad accompagnare a una di queste pompose carneficine un suo amico, aveva giurato a se stesso che avrebbe chiuso gli occhi per tutto il tempo dello spet­ tacolo. All’inizio tenne fede alla promessa e si sforzò di pensare ad altro; ma, a un grido che tutto il popolo emise nel veder cade­ re un celebre gladiatore, aprì gli occhi; li aprì e non potè più ri­ chiuderli. Da allora e fino alla conversione, fu uno dei più appas­ sionati amanti dei giochi circensi. Dopo un santo così illustre, ho vergogna di citarmi, eppure sa­ pete che non ho gusti da antropofago. La prima volta che entrai nel circo di Madrid, ho temuto di non poter sopportare la vista del sangue che si fa scorrere con tanta liberalità; temevo soprat­ tutto che la mia sensibilità, di cui diffidavo, mi rendesse ridicolo di fronte agli amanti incalliti che mi avevano offerto un posto nel loro palco. Non successe niente. Il primo toro che apparve fu uc­ ciso; non pensavo più ad andarmene. Erano trascorse due ore senza il minimo contrattempo, e non ero ancora stanco. Nessuna tragedia al mondo mi aveva interessato a tal punto. Durante il soggiorno in Spagna non ho mancato un solo combattimento e, lo confesso arrossendo, preferisco i combattimenti a morte a quelli in cui ci si accontenta di tormentare i tori che portano del­ le palle all’estremità delle corna. La stessa differenza si trova fra i combattimenti a oltranza e i tornei con lance provviste di punta­ li. I due tipi di corride sono molto simili, ma solo nel secondo ti­ po il pericolo per gli uomini è pressoché nullo. La vigilia di una corrida è già una festa. Per evitare incidenti, i tori vengono condotti nella scuderia del circo (encierro) solo di notte; e la vigilia del giorno prefissato per il combattimento pa­ scolano in un pascolo a poca distanza da Madrid (eZ arrayo'). Merita una gita, l’andare a vedere questi tori, che spesso vengo­ no da molto lontano. Arrivano aWarroyo un gran numero di 582

vetture, di cavalieri e di gente a piedi. Molti giovani in quest’oc­ casione indossano l’elegante costume del majo andaluso1, e ostentano una magnificenza e un lusso che non consentono la semplicità dei nostri vestiti ordinari. Del resto, questa gita non è priva di pericoli: i tori sono liberi, i loro condottieri non rie­ scono a farsi facilmente obbedire e sta ai curiosi cercare di evi­ tare i colpi di corna. Ci sono circhi (plazas) in quasi tutte le più grandi città di Spa­ gna. Questi sono costruzioni tirate su con grande semplicità, per non dire assai rozze. In genere non sono altro che grandi barac­ che di tavole, e si cita come una meraviglia l’anfiteatro di Ronda perché è interamente costruito in pietra. E il più bello della Spa­ gna, come il castello di Thunder-ten-Tronkh era il più bello della Westfalia perché aveva porta e finestre. Ma che importanza ha la decorazione di un teatro, quando lo spettacolo è eccellente? Il circo di Madrid può contenere circa settemila spettatori, che entrano ed escono senza confusione da un gran numero di porte. Ci si siede sui banchi di legno o di pietra2; alcuni palchi hanno le sedie. Quello di Sua Maestà Cattolica è l’unico che sia elegante­ mente decorato. L’arena è stretta da una solida palizzata, alta circa cinque pie­ di e mezzo. A due piedi dal terreno gira tutt’intorno, e sui due lati della palizzata, una pedana di legno, una specie di marcia­ piede, o di rialzo, che serve al torero inseguito a passare più fa­ cilmente sotto la barriera. Uno stretto corridoio la separa dai gradini degli spettatori, alto come la barriera stessa, e fissato inoltre da una doppia corda tirata da forti picchetti. È una pre­ cauzione recente. Un toro aveva saltato non solo la barriera, co­ sa che succede di frequente, ma si era slanciato fino ai gradini dove aveva ucciso o storpiato un gran numero di curiosi. Si ri­ tiene che la corda tesa sia sufficiente a prevenire il ripetersi di un simile incidente. Sboccano sull’arena quattro porte. Una comunica con la scu­ deria dei tori (toni), l’altra conduce al macello (matadero), dove si scorticano e si fanno seccare i tori. Le altre due servono agli at­ tori umani di questa tragedia. ' Fashionable delle classi basse. 2 Da qualche anno tutte le gradinate sono in pietra. 1840.

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Un po’ avanti nella corrida, i toreri si riuniscono in una sala at­ tigua al circo. Subito dopo si trovano le scuderie per i cavalli. Più lontano, c’è un’infermeria. Un chirurgo e un prete si tengono nel­ le vicinanze, pronti a prodigare le loro cure ai feriti. La sala che serve da ingresso è ornata da una Madonna dipin­ ta, davanti alla quale bruciano le candele; al di sotto, si può vede­ re una tavola con un piccolo fornello che contiene carboni acce­ si. Ogni torero, entrando, prima di tutto si toglie il cappello da­ vanti all’immagine, mormora ad alta voce l’inizio di una preghie­ ra, poi tira fuori un sigaro dalla tasca, l’accende al fornello, e fu­ ma chiacchierando in compagnia dei suoi compagni e degli ap­ passionati che vengono a discutere con lui il merito dei tori che stanno per combattere. In un cortile interno i cavalieri che devono gareggiare a caval­ lo si preparano al combattimento provando gli animali. Così, li lanciano al galoppo contro un muro che urtano con una lunga asta a guisa di picca; senza lasciare questo punto d’appoggio, ca­ valcano girando rapidamente e il più vicino possibile al muro. Ve­ drete subito come quest’esercizio non sia inutile. I cavalli di cui si servono sono dei ronzini di scarto che si comprano a poco. Pri­ ma di entrare nell’arena, per paura che le grida della massa e la vi­ sta dei tori li impauriscano, bendano loro gli occhi e gli chiudo­ no le orecchie con tappi umidi. L’aspetto del circo è molto animato. L’arena, prima del combattimento, è piena di gente, e le gradinate e i palchi of­ frono una massa confusa di teste. Ci sono due tipi di posti: i più cari e i più comodi sono quelli all’ombra, ma la parte espo­ sta al sole è sempre gremita di intrepidi appassionati. Si vedo­ no più uomini che donne, e la maggior parte appartengono al­ la classe delle manolas (sartine). Nei palchi, si vedono talvolta abbigliamenti eleganti, ma poche ragazze3. I romanzi francesi e inglesi hanno pervertito da poco gli spagnoli, e tolgono loro il rispetto per gli antichi costumi. Non credo che sia vietato agli ecclesiastici assistere a questi spettacoli; eppure ne ho vi­ sto uno solo con la tonaca (a Siviglia). Mi hanno detto che molti ci vanno travestiti. ’ Al contrario di oggi. 1860.

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Al segnale dato dal presidente della corrida, un alguazil mayor, accompagnato da due alguazil vestiti da Crispino, tutti e tre a cavallo e seguiti da una compagnia di cavalleria, fanno eva­ cuare l’arena e lo stretto corridoio che la separa dalle gradinate. Quando si sono ritirati insieme al seguito, un araldo, scortato da un notaio e da altri alguazil a piedi, arrivano nel mezzo dell’anfi­ teatro per leggere un bando che vieta di gettare alcunché nell’are­ na, di infastidire i combattenti con grida o segni ecc. Ma ecco che appena compare e malgrado la formula degna di rispetto: In no­ me del re, nostro signore, che Dio lo conservi a lungo... da ogni parte si levano urla e fischi che durano per tutto il tempo della let­ tura dei divieti, che del resto non vengono mai osservati. Nel cir­ co, e solamente lì, il popolo regna sovrano e può dire e fare tutto ciò che vuole4. Ci sono due classi principali di toreri: i picadores, che combat­ tono a cavallo, armati di lancia, e i chulos, a piedi, che tormenta­ no il toro agitando dei drappi dai colori brillanti. Tra questi ulti­ mi ci sono i banderilleros e i matadores, di cui vi parlerò presto. Tutti indossano il costume andaluso, simile a quello di Figaro nel Barbiere di Siviglia, ma al posto dei pantaloni di seta i picadores hanno spessi pantaloni di cuoio muniti di borchie di ferro per proteggere le gambe e le cosce dai colpi di corna. Marciano a pie­ di, con gli occhi sgranati come compassi e se vengono gettati a terra possono risollevarsi solo con l’aiuto dei chulos. Le loro sel­ le sono molto alte, di tipo turco, con staffe di ferro, simili a san­ dali e che coprono interamente il piede. Per farsi obbedire ai ron­ zini hanno degli speroni a punta di due pollici di lunghezza. La lancia è grossa, molto forte e termina con una punta di ferro acu­ minatissima; ma, dato che bisogna far durare il piacere, questa punta è munita di una guarnizione di corda che permette di far penetrare nel corpo del toro solo un pollice circa del ferro. Uno degli alguazil a cavallo riceve nel cappello una chiave che il presidente dei giochi gli getta. Questa chiave non apre niente; ma questi la consegna comunque all’uomo che ha il compito di aprire il toril, e scappa poi al galoppo, accompagnato dalle urla * Dal ristabilimento della Costituzione non si legge più il bando del re, nostro signo­ re. 1842.

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della folla, che gli grida che il toro è già fuori e che lo sta inse­ guendo. Questo scherzo si rinnova a ogni corrida. I picadores prendono il loro posto. Ce ne sono in genere due a cavallo nell’arena, altri due o tre si tengono in disparte pronti a rimpiazzarli in caso di incidenti, come la morte, o gravi fratture ecc. Una dozzina di chulos a piedi sono distribuiti nella piazza per aiutarsi a vicenda. II toro, probabilmente irritato di proposito nella gabbia, esce furioso. In genere con uno slancio arriva fino a metà della piaz­ za, e là si ferma di botto, sbigottito dal rumore che sente e dallo spettacolo che lo circonda. Sul collo porta un nastro annodato e fissato da un piccolo gancio che entra nella pelle. Il colore del na­ stro indica la provenienza (vacada); ma un esperto appassionato alla sola vista dell’animale riconosce a quale provincia e a quale razza appartenga. I chulos si avvicinano, agitano le cappe brillanti e tentano di at­ tirare il toro verso uno dei picadores. Se la bestia è coraggiosa, at­ tacca senza esitare. Il picador, tenendo il cavallo ben fermo, si è piazzato, con la lancia sotto il braccio, proprio in faccia al toro; aspetta il momento in cui questo abbassa la testa, pronto a colpi­ re con le corna, per assestargli un colpo di lancia sul collo, e non altrove5·, colpisce con tutta la forza del suo corpo e nello stesso tempo fa partire il cavallo a sinistra, in modo da lasciarsi il toro sulla destra. Se tutti i movimenti sono eseguiti bene, se il picador è robusto e il suo cavallo docile, il toro, trasportato dal suo im­ peto, lo oltrepassa senza sfiorarlo. Allora il dovere dei chulos è di tenere occupato il toro, in modo da lasciare al picador il tempo di allontanarsi; ma spesso l’animale riconosce troppo bene colui che l’ha ferito: si gira bruscamente, raggiunge velocemente il cavallo, gli infilza le corna nel ventre e lo getta a terra insieme al cavalie­ re. Questi viene subito soccorso dai chulos-, alcuni lo rialzano, gli altri lanciando le loro cappe sulla testa del toro lo sviano, attiran­ dolo verso di loro, e gli sfuggono guadagnando di corsa la barrie­ ra che scalano con un’agilità sorprendente. I tori spagnoli corro­ 5 Vidi, un giorno, un picador gettato a terra che stava per essere ucciso se il compagno non l’avesse liberato e non avesse fatto indietreggiare il toro dandogli un colpo di lancia sul naso. La circostanza serviva da scusa. Eppure sentii vecchi appassionati gridare: «È una vergogna! Un colpo di lancia sul naso! Bisognerebbe cacciare via quest’uomo».

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no veloci come un cavallo, e se il chulo è molto lontano dalla bar­ riera, difficilmente gli scappa. Così, è raro che i cavalieri, la cui vi­ ta dipende sempre dall’abilità dei chulos, si azzardino al centro della piazza; quando lo fanno, questo passa per un gesto di straordinaria audacia. Rimessosi in piedi, il picador rimonta a cavallo, se può rialzar­ si così. Poco importa se la povera bestia perde fiotti di sangue, se le sue viscere si trascinano a terra e si attorcigliano alle zampe; fi­ no a che un cavallo è in grado di marciare, deve presentarsi al to­ ro. Rimasto a terra, il picador esce dalla piazza, e vi rientra un istante dopo in sella a un cavallo fresco. Ho detto che i colpi di lancia possono ferire il toro solo leg­ germente, e hanno l’unico scopo di irritarlo. I colpi del cavallo e del cavaliere, il movimento che fa, soprattutto le reazioni che ha fermandosi bruscamente sui garretti, lo affaticano velocemente. Spesso il dolore causato dai colpi di lancia lo scoraggia, e allora non osa più attaccare i cavalli, o per parlare nel gergo tauromachico, rifiuta di entrare. Se è vigoroso, ha già ucciso quattro o cin­ que cavalli. I picador allora si riposano, e viene dato il segnale per piantare le banderillas. Queste sono costituite da bastoni di circa due piedi e mezzo, avviluppate da carta ritagliata e terminanti con una punta acumi­ nata, dentata perché rimanga fissa nella ferita. I chulos hanno un dardo in ciascuna mano. Il modo più sicuro di servirsene è avan­ zare dolcemente dietro al toro, poi di eccitarlo improvvisamen­ te percuotendo con fracasso le banderillas una contro l’altra. Il toro spaventato si gira e carica il nemico senza esitare. Quando sta per toccarlo, quando abbassa la testa per colpirlo, il chulo gli infilza le due banderillas ai due lati del collo, cosa che non può fare se non tenendosi per un istante vicinissimo al toro, quasi con il volto tra le corna; poi si ritira, lo fa passare e guadagna la bar­ riera per mettersi in salvo. Una distrazione, un gesto di esitazio­ ne o di spavento sarebbero sufficienti per perderlo. Eppure gli esperti considerano le funzioni del banderillero come le meno pericolose di tutte. Se, per disgrazia, cade nel piantare le bande­ rillas, non deve cercare di rialzarsi; rimane immobile nel luogo dov’è caduto. Il toro raramente colpisce a terra, non tanto per generosità, quanto perché caricando chiude gli occhi e passa sul­ 587

l’uomo senza rendersene conto. Tuttavia, talvolta si ferma, lo an­ nusa come per assicurarsi che sia proprio morto; poi, indietreg­ giando di qualche passo, abbassa la testa per portarlo via con le corna; ma a quel punto i compagni del banderillero lo circonda­ no e lo tengono occupato tanto che questo è costretto ad abban­ donare il preteso cadavere. Quando il toro mostra segni di stanchezza, quando cioè i colpi di lancia non sono stati gagliardi, c’è il numero di rigore, gli spettatori, giudici sovrani, lo condannano per acclamazione a una specie di supplizio, che è al tempo stesso un castigo e un modo per risvegliare la sua collera. Da tutte le parti si leva il gri­ do fuego! fuego! (fuoco! fuoco!). Allora vengono distribuite ai chulos al posto delle armi ordinarie, delle banderillas il cui ma­ nico è cinto da fuochi d’artificio. La punta è munita da un pez­ zo di esca accesa. Appena penetra nella carne, l’esca viene re­ spinta sulla miccia dei razzi; questi prendono fuoco e la fiamma, che è diretta contro il toro, lo brucia vivo e gli fa fare dei salti e dei balzi che divertono molto il pubblico. Effettivamente, è uno spettacolo ammirevole vedere quest’enorme animale schiumare dalla rabbia, scuotere le banderillas ardenti agitandosi in mezzo al fuoco e al fumo. A dispetto dei signori poeti, devo dire che di tutti gli animali che ho osservato, in nessuno c’è meno espres­ sione come negli occhi del toro. Bisognerebbe dire che non cambia espressione; perché la sua è quasi sempre quella della stupida e selvaggia brutalità. Raramente esprime il dolore con gemiti: le ferite lo irritano o lo spaventano, ma mai, passatemi l’espressione, ha l’aria di riflettere sulla propria sorte; mai pian­ ge come il cervo. In questo modo non ispira pietà se non quan­ do si è fatto notare per il suo coraggio6. Quando il toro porta al collo tre o quattro paia di banderillas, è tempo di finire con lui. Si sente un rullo di tamburi; poi uno dei chulos, precedentemente designato, il matador, esce dal gruppo dei compagni. Vestito riccamente, ricoperto d’oro e di seta, tiene una lunga spada e un mantello scarlatto attaccato a un bastone, 6 Talvolta, e nelle occasioni solenni, l’asta della banderilla è avvolta da un lungo filo di seta nel quale sono imprigionati degli uccellini vivi. La punta della banderilla, una volta infilzata nel collo del toro, taglia il nodo che ferma la trappola e gli uccelli volano via, do­ po essersi a lungo dibattuti tra le orecchie dell’animale.

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perché possa maneggiarlo più agevolmente. Si chiama muleta. Avanza sotto il palco del presidente e gli chiede con una profon­ da riverenza il permesso di uccidere il toro. E una formalità che spesso avviene una sola volta durante la corrida. Il presidente, ov­ viamente, risponde in modo affermativo con un cenno della testa. Allora il matador emette un Viva, fa una piroetta, getta il cappel­ lo a terra e avanza contro il toro. In queste corride esistono delle leggi come in un duello; tra­ sgredirle sarebbe infamante come uccidere l’avversario a tradi­ mento. Per esempio, il matador può colpire il toro solo sulla de­ stra, nel punto in cui il collo si congiunge al dorso, punto che gli spagnoli chiamano la croce. Il colpo deve essere inferto dall’alto in basso, come si direbbe in seconda-, mai da sotto. Sarebbe mille volte meglio perdere la vita che colpire un toro da sotto, di lato o da dietro. La spada che usano i matador è lunga, forte, affilata ai due lati; l’impugnatura, molto corta, termina con una pallina che si appoggia al palmo della mano. Bisogna avere una grande fami­ liarità e un’abilità particolari per servirsene. Per uccidere bene un toro bisogna conoscere a fondo il suo carattere. Da questa conoscenza dipende non solo la gloria, ma la vita del matador. È vero, fra i tori ci sono diversi caratteri co­ me fra gli uomini; tuttavia si possono distinguere in due parti nette: i chiari e gli scuri. - Parlo ora la lingua del circo. - I chiari attaccano direttamente; gli scuri, al contrario, sono furbi e cerca­ no di prendere l’uomo a tradimento. Questi ultimi sono molto pericolosi. Prima di infierire il colpo di spada a un toro, il matador gli presenta la muleta, la agita, e osserva con attenzione se questo vi si precipita direttamente appena la vede, o se si avvicina dol­ cemente per guadagnare terreno, e caricare il suo avversario so­ lo nel momento in cui sembra essere troppo vicino da evitare il colpo. Spesso si può vedere un toro scuotere la testa con aria di minaccia, grattare la terra con il piede senza voler avanzare, o anche indietreggiare a passi lenti, nel tentativo di attirare l’uo­ mo al centro della piazza, dove non gli potrà sfuggire. Altri, in­ vece di attaccare in linea retta, si avvicinano in marcia obliqua, lentamente e fingendo di essere stanchi; ma appena calcolata la distanza, partono come una freccia. 589

Per uno che s’intenda un po’ di tauromachia, è uno spettaco­ lo interessante osservare gli avvicinamenti del matador e del to­ ro, i quali, come due abili generali, sembrano indovinare l’uno le intenzioni dell’altro e variano le loro manovre a ogni istante. Un movimento di testa, uno sguardo di lato, un orecchio che si ab­ bassa, per un matador sono segnali inequivocabili delle inten­ zioni del nemico. Infine il toro, impaziente, si slancia contro il drappo rosso con cui il matador si copre di proposito. La sua forza è tale che potrebbe buttar giù un muro colpendolo con le corna; ma l’uomo lo schiva con un leggero movimento del cor­ po; sparisce come per incantesimo e non gli lascia che un legge­ ro drappeggio al di sotto delle corna, evitando il suo furore. L’impetuosità del toro gli fa superare di molto il suo avversario; allora si ferma bruscamente irrigidendo le zampe, e queste rea­ zioni brusche e violente lo affaticano a tal punto che se questa manovra si prolungasse, sarebbe da sola sufficiente ad ucciderlo. Così, il famoso professore Romero, dice che un bravo matador deve uccidere otto tori in sette colpi di spada. Uno degli otto muore di fatica e di rabbia. Dopo parecchi passi, quando il matador crede di conoscere bene il suo antagonista, si prepara a infliggergli l’ultimo colpo. Saldo sulle gambe, gli si piazza di fronte e lo aspetta, immobile, a una distanza adatta. Il braccio destro, armato di spada, è piega­ to all’altezza della testa; il sinistro, teso in avanti, tiene la muleta che, toccando quasi terra, eccita il toro ad abbassare la testa. È questo il momento in cui il matador gli dà il colpo di grazia, con tutta la forza del braccio, aumentata dal peso del corpo e dal­ l’impetuosità stessa del toro. La spada, lunga tre piedi, penetra spesso fino all’elsa e, se il colpo è ben assestato, l’uomo non ha più niente da temere: il toro si ferma improvvisamente, il sangue cola appena, alza la testa, le gambe gli tremano, e improvvisa­ mente cade a terra come un peso morto. Subito da tutte le gradi­ nate partono dei Viva assordanti, i fazzoletti si agitano, i cappel­ li dei majos volano nell’arena, e l’eroe vincitore invia con mode­ stia baci a destra e a manca. Un tempo, si dice, non si dava mai più di una stoccata; ma tut­ to degenera e oggi è raro che un toro cada al primo colpo. Se sem­ bra ferito a morte, il matador non ricomincia; aiutato dai chulos, 590

lo fa girare in circolo eccitandolo con i mantelli in modo da stor­ dirlo in poco tempo. Quando cade, un chulo lo finisce con un col­ po di pugnale sulla nuca; l’animale spira all’istante. È stato sottolineato che quasi tutti i tori nel circo hanno un luogo in cui tornano sempre. La si chiama querencia. In genere è la porta attraverso la quale sono entrati nell’arena. Spesso si vede il toro, con nel collo la spada fatale di cui solo l’el­ sa esce dalla spalla, attraversare la piazza a passi lenti, disdegnando i chulos e i loro drappeggi con cui lo perseguitano. Pensa solo a mo­ rire il più comodamente possibile. Cerca il luogo cui è affezionato, si inginocchia, si sdraia, stende la testa e muore tranquillamente, se un colpo di pugnale non arriva ad affrettarne la fine. Se il toro rifiuta di attaccare, il matador corre verso di lui, sem­ pre nel momento in cui l’animale abbassa la testa, lo infilza con la spada {estocada de volapié)', ma, se non abbassa la testa, o se con­ tinua a sfuggire, per ucciderlo bisogna impiegare un mezzo più crudele. Un uomo, armato di una lunga pertica terminante con un ferro affilato a forma di corno {media luna), gli taglia a tradimen­ to i garretti da dietro, e, quando è a terra, lo finisce con un colpo di pugnale. È l’unico episodio di questo genere di combattimenti che ripugna a tutti. È una specie di assassinio. Per fortuna è raro che si renda necessario arrivare a questo per uccidere un toro. Le fanfare annunciano la sua morte. Poi un tiro di tre muli en­ tra a gran trotto nel circo; viene fissato fra le corna del toro un no­ do di corde, vi si passa un gancio, e i muli lo trascinano al galop­ po. Nell’arco di due minuti i cadaveri dei cavalli e quello del to­ ro scompaiono dall’arena. Ogni combattimento dura pressappoco venti minuti, e, in ge­ nere, in un pomeriggio vengono uccisi otto tori. Se il divertimen­ to è stato mediocre, a richiesta del pubblico, il presidente delle corride accorda uno o due combattimenti supplementari. Vedete bene che il mestiere di torero è molto pericoloso. Ne muoiono in media all’anno due o tre in tutta la Spagna. Pochi di loro raggiungono la vecchiaia. Se non muoiono nel circo, sono obbligati a rinunciarvi ben presto a causa delle ferite. Il famoso Pepe Ilio ricevette durante la sua vita ventisei colpi di corna; l’ul­ timo lo uccise. Il loro salario assai elevato non è il solo motivo che gli fa abbracciare questo mestiere. La gloria, gli applausi gli fanno 591

sfidare la morte. È così dolce trionfare davanti a cinque o seimila persone! Così non è raro da vedere appassionati di nobili natali condividere i pericoli e la gloria dei toreri di professione. A Sivi­ glia ho visto un marchese e un conte ricoprire in una corrida le funzioni di picador. E vero che il pubblico non si mostra indulgente verso i toreri. Il minimo segno di timidezza è punito con urla e fischi. Le più atroci ingiurie piovono da tutte le parti; talvolta per ordine del popolo, ed è il peggiore segno d’indignazione, un alguazil si av­ vicina al toreador e gli ingiunge, sotto pena della prigione, di at­ taccare al più presto il toro. Un giorno, l’attore Maiquez, indignato nel vedere un matador esitare davanti a molti scuri fra i tori, lo ricoprì di ingiurie. «Si­ gnor Maiquez», gli disse il matador, «qui non ci sono bugie co­ me sulle vostre scene». Gli applausi e il desiderio di farsi una reputazione, o di con­ servare quella già acquisita, obbligano i toreri a rincarare la dose sui pericoli ai quali sono naturalmente esposti. Pepe Ilio e Rome­ ro dopo di lui si presentavano al toro con i ferri ai piedi. Il san­ gue freddo di questi uomini nei pericoli più pressanti ha qualco­ sa di miracoloso. Negli ultimi tempi un picador di nome Franci­ sco Sevilla, fu disarcionato dal cavallo sventrato da un toro anda­ luso, con una forza e un’agilità prodigiose. Invece di lasciarsi di­ strarre dai chulos, il toro si accanì sull’uomo, lo calpestò e gli inferse un gran numero di colpi di corna nelle gambe, ma, accor­ gendosi che queste erano molto ben difese dai pantaloni di cuoio guarniti di ferro, si girò e abbassò la testa per infilzare le sue cor­ na nel petto. Allora Sevilla, sollevandosi con uno sforzo dispera­ to, prese con una mano il toro per l’orecchio, con l’altra gli spin­ se le dita nelle narici, tenendo la sua testa incollata sotto quella della bestia furiosa. Invano il toro cercò di scuoterlo, lo calpestò, lo sbatte a terra; non riuscì a fargli lasciare la presa. Guardavamo con viva apprensione questa lotta impari. Era l’agonia di un co­ raggioso: rimpiangevamo quasi che non durasse di più; non si po­ teva gridare, respirare, togliere gli occhi da quella scena orribile: durò quasi due minuti. Infine il toro, vinto dall’uomo in questo combattimento corpo a corpo, lo abbandonò per seguire i chulos. Tutti si aspettavano di vedere Sevilla portato via a braccia dal re­ 592

cinto. Lo rialzarono; si era appena rimesso in piedi che prese una cappa e volle attirare il toro, malgrado i suoi grossi stivali e la sco­ moda armatura delle gambe. Fu necessario strappargli la cappa, altrimenti questa volta si sarebbe fatto uccidere. Gli portarono un cavallo; si slanciò sopra, ribollendo di collera, e attaccò il toro in mezzo alla piazza. Il colpo di questi due validi avversari fu così terribile, che cavallo e toro caddero sulle ginocchia. Oh! se aveste sentito i Viva, se aveste visto la gioia frenetica, quella specie di ebbrezza della folla nel vedere un così grande coraggio e tanta fe­ licità, anche voi, come me, avreste invidiato la sorte di Sevilla! Quest’uomo è diventato immortale a Madrid...

giugno 1842

P. S. Ahimè! Cosa ho appena sentito! Francisco Sevilla è mor­ to l’anno scorso. Non è morto nel circo, dove doveva finire, ma per una malattia del fegato. È morto a Caravanchel, vicino a quei begli alberi che amo tanto, lontano da quel pubblico per il quale tante volte aveva rischiato la vita. Lo rivedo a Madrid, nel 1840, così coraggioso, così temerario come quando scrivevo la lettera che ho appena letto. L’ho visto ancora più di venti volte rotolarsi nella polvere sotto il suo caval­ lo sventrato; l’ho visto rompere tante lance, e gareggiare con i ter­ ribili tori di Gavira. «Se Francisco Sevilla avesse le corna», dice­ vano nel circo, «non si troverebbe un torero che osasse mettersi contro di lui». Quando si presentava davanti a un toro, s’indi­ gnava se la bestia non aveva paura di lui. «Allora non mi cono­ sci?», gli gridava con furore. Certo ben presto gli mostrava con chi aveva a che fare. I miei amici mi offrirono il piacere di cenare con Sevilla; man­ giava e beveva come un eroe omerico, ed era il più allegro com­ pagno che si potesse incontrare. I suoi modi andalusi, il suo umo­ re gioviale e il suo dialetto ricco di pittoresche metafore possede­ vano un fascino tutto particolare in questo colosso che sembrava essere stato creato per sterminare tutto. Una dama spagnola, fuggendo da Madrid quando infuriava il colera, arrivò a Barcellona con una diligenza nella quale si trova593

va Sevilla, che si recava nella stessa città per una corrida annun­ ciata molto tempo prima. Durante la strada, la gentilezza, la ga­ lanteria, le piccole attenzioni di Sevilla non si smentirono un istante. Arrivati a Barcellona, la Giunta della Sanità, bestie tutti quanti, annunciò ai viaggiatori che avrebbero dovuto rimanere in quarantena dieci giorni, eccetto Sevilla, la cui presenza era trop­ po richiesta perché le leggi sanitarie gli venissero applicate; ma il generoso picador rifiutò questa eccezione per lui così vantaggio­ sa. «Se la signora e i miei compagni non sono liberi», disse con ri­ solutezza, «non gareggerò!». Fra il timore del contagio e quello di perdere una corrida, non si poteva esitare. La Giunta cedette, e fece bene: perché, se si fos­ se ostinata, il popolo avrebbe bruciato il lazzaretto e le persone in quarantena. Dopo aver pagato il mio tributo di lodi e rimproveri ai mani di Sevilla, devo parlare di un’altra gloria che oggi regna senza ri­ vali nel circo. Si conosce così male in Francia quello che succede in Spagna, che forse al di qua dei Pirenei esistono persone per le quali il nome di Montes è ancora ignoto. Tutto quello che la fama ha divulgato di vero o di falso sui ma­ tador classici, Pepe Ilio e Pablo Romero, Montés lo fa vedere tut­ ti i lunedì nel circo nazionale, come si dice oggi. Coraggio, gra­ zia, sangue freddo, portamento meraviglioso, riunisce tutto. La sua presenza nel circo, anima, trasporta attori e spettatori. Non esistono tori cattivi, nemmeno ckalos timidi; supera tutti. I toreri di dubbio coraggio diventano eroi quando Montés li guida, per­ ché sanno che con lui nessuno corre pericoli. Un suo gesto è suf­ ficiente a far girare il toro più furioso quando sta per infilzare un picador caduto a terra. Non si è mai vista una media lana nella piazza dove ha combattuto Montés. Chiari, scuri, tutti i tori so­ no buoni per lui; li affascina, li trasforma, li uccide quando e co­ me vuole lui. È il primo matador che io abbia visto gallear el to­ ro, presentarsi di schiena all’animale furioso per farlo passare sot­ to il braccio. Si degna appena di girare la testa che il toro gli si pre­ cipita contro. Talvolta, gettando un mantello sulle sue spalle, at­ traversa il circo seguito dal toro; la bestia, arrabbiata, lo segue senza poterlo raggiungere, ed è così vicino a Montés che ogni col­ po di corna alza l’estremità del mantello. Tale è la confidenza che 594

Montés ispira, che per gli spettatori l’idea di pericolo è scompar­ sa, hanno solo un sentimento di ammirazione. Montes passa per avere delle opinioni poco favorevoli in me­ rito a come stanno le cose oggi. Si dice che sia stato volontario realista, e che sia gambero, cangrejo, cioè moderato. Se i bravi pa­ trioti se ne affliggono, non possono comunque sottrarsi all’entu­ siasmo generale. Ho visto dei descalzos (sanculotti) gettargli i cappelli con trasporto e supplicarlo di metterli almeno un minu­ to sulla testa: ecco i costumi del XVI secolo. Brantôme dice da qualche parte: «Ho conosciuto molti gentiluomini, che prima di portare le calze di seta pregavano le loro signore e amanti di pro­ varle e indossarle prima di loro otto dieci giorni più o meno; e poi le indossavano con grande venerazione e soddisfazione di spirito e di corpo». Montes ha il portamento di un uomo come si deve. Vive no­ bilmente, e si dedica alla sua famiglia, che ha un avvenire assicu­ rato dal suo talento. I suoi modi aristocratici dispiacciono ad al­ cuni toreri, che ne sono gelosi. Mi ricordo che rifiutò di pranza­ re con noi quando invitammo Sevilla. In quell’occasione, Sevilla ci diede il suo parere sul conto di Montes con la sua solita fran­ chezza: «Montes no fue realista; es buen companero, Indente ma­ tador, attende a los picadores, pero es un p...». Che vuol dire che fuori del circo porta un frac, che non frequenta le taverne, e ha modi troppo distinti. Sevilla è il Mario della tauromachia, Montés ne è il Cesare.

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II

Un’esecuzione

Valencia, 15 novembre 1830

Signore, Dopo avervi descritto i combattimenti dei tori, per seguire l’ammirevole regola del teatro delle marionette «ho qualcosa di ancora più forte», vi dico, non mi rimane che parlarvi di un’ese­ cuzione. Ne ho appena vista una e ve ne renderò conto, se avrete il coraggio di leggermi. Prima di tutto è necessario che io vi spieghi perché ho assisti­ to a un’esecuzione. In un paese straniero si è obbligati a vedere tutto, e si ha sempre paura che un momento di noia o di disgusto vi possa far perdere un tratto di costumi curiosi. Del resto, la sto­ ria del disgraziato che avevano impiccato mi aveva incuriosito: volevo vedere il suo volto, poi volevo sperimentare i miei nervi. Ecco la storia del mio impiccato (ho dimenticato di chiedere il suo nome). Era un contadino dei dintorni di Valencia, stimato e temuto per il suo carattere ardito e intraprendente. Era il gallo della Checca. Nessuno ballava meglio di lui, né gettava più lonta­ no la barra, né conosceva meglio di lui vecchie storie. Non era at­ taccabrighe, ma si sapeva che sarebbe bastato poco per riscaldar­ lo. Se accompagnava dei viaggiatori con il trombone sulle spalle, nessun ladro avrebbe osato fermarli, anche se le valigie fossero state piene di dobloni. Così era un piacere vedere questo giovane, con la giacca di velluto sulle spalle, rilassarsi per le strade e don597

dolarsi con aria di superiorità. In una parola era un majo, in tut­ ta la pregnanza del termine. Un majo è insieme un dandy della classe inferiore e un uomo eccessivamente sensibile dal punto di vista dell’onore. I castigliani hanno un proverbio contro i valenciani, un pro­ verbio che secondo me è completamente falso. Eccolo: «A Valen­ cia la carne è erba; l’erba, acqua. Gli uomini sono donne, e le don­ ne sono - niente». Posso confermare che la cucina di Valencia è eccellente, e che le donne sono estremamente graziose e più bian­ che che in qualsiasi altro regno di Spagna. Vedrete che uomini so­ no questi, di questo paese. C’era un combattimento di tori. Il majo volle vederlo; ma non aveva un reale in tasca. Faceva affidamento sul fatto che un suo amico, un volontario realista, di guardia quel giorno, lo avrebbe lasciato entrare. Niente affatto. Il volontario era inflessibile sul suo dovere. Il majo insiste, il volontario persiste: ingiurie da una parte e dall’altra. In breve, il volontario lo respinge rudemente con un colpo del calcio del fucile nello stomaco. Il majo si ritira; ma coloro che videro il pallore diffuso sul suo volto, che osserva­ rono i suoi pugni stretti con violenza, le narici gonfie e l’espres­ sione degli occhi, immaginarono che ben presto sarebbe accadu­ ta qualche disgrazia. Dopo quindici giorni, il brutale volontario fu inviato insieme a un distaccamento all’inseguimento di alcuni contrabbandieri. Dormì in una locanda isolata (venta). Di notte, si fece sentire una voce che chiamava il volontario: «Aprite, è da parte di vostra mo­ glie». Il volontario scende semivestito. Ha appena aperto la por­ ta, che un colpo di spingarda dà fuoco alla sua camicia e gli asse­ sta una dozzina di palle nel petto. L’omicida scompare. Chi lo ha colpito? Nessuno lo può immaginare. Certamente non il majo, perché troverà una dozzina di donne devote e buone realiste che giureranno in nome dei santi e baciando il loro pollice che hanno visto il suddetto, ognuna nel suo villaggio, esattamente nell’ora, nel minuto in cui è stato commesso il crimine. II majo si mostrerà in pubblico con la fronte alta e l’aria tran­ quilla di un uomo che si è appena tolto un’incresciosa preoccu­ pazione. È così che a Parigi ci si mostra da Tortoni la sera di un duello in cui si ha coraggiosamente rotto il braccio a un imperti­ 598

nente. Osservate, tra l’altro, che l’omicidio qui è il duello dei po­ veri; duello molto più serio del nostro, poiché generalmente è se­ guito da due morti, mentre le persone di buona compagnia si graffiano più che uccidersi. Tutto andò bene finché un certo alguazil in un eccesso di zelo (per alcuni, perché era di nuovo nelle sue funzioni, per altri per­ ché era innamorato di una donna che gli preferiva il majo), decise di voler arrestare quest’uomo amabile. Fino a che si limitò alle mi­ nacce, il suo rivale non fece che riderne; ma quando alla fine volle arrestarlo, questi gli fece inghiottire una lingua di bue. È un’e­ spressione del paese che indica una coltellata. La legittima difesa potrebbe permettere di rendere vacante un posto da alguazil! In Spagna gli alguazil sono molto rispettati, quasi come i con­ tabili in Inghilterra. Maltrattarne uno è un’azione assai riprove­ vole. Così il majo venne fermato, messo in prigione, giudicato e condannato dopo un lungo processo; perché le forme della giu­ stizia qui sono ancora più lente che da noi. Con un po’ di buona volontà, converrete con me che que­ st’uomo non meritava la sua sorte, che era stato vittima di una di­ sgraziata fatalità e che, senza troppo caricare la coscienza, i giudi­ ci potevano restituirlo alla società, di cui doveva essere l’orna­ mento (stile da avvocato). Ma i giudici non fanno considerazioni poetiche ed elevate: l’hanno condannato a morte all’unanimità. Una sera, passando per caso nella piazza del Mercato, avevo visto degli operai occupati a innalzare con le fiaccole dei travetti disposti in modo strano, quasi a formare un Π. Alcuni soldati in cerchio attorno a loro respingevano i curiosi. Ecco per quale ra­ gione. La forca (perché questo era) viene elevata per dovere, e gli operai posti in requisizione non possono, a meno di rendersi col­ pevoli di ribellione, rifiutarsi a questo servizio. Per una sorta di compensazione, l’autorità si prende cura che riescano a svolgere il loro compito, che l’opinione pubblica rende quasi disonorevo­ le, quasi in segreto. Per questo vengono circondati da soldati che allontanano la folla, e lavorano solo di notte: in modo da non ri­ schiare il giorno dopo di essere chiamati i carpentieri della forca. A Valencia si trova un’antica torre gotica che serve da prigio­ ne. L’architettura è bella, soprattutto la facciata, che dà sul fiume. È situata a un’estremità della città e costituisce una delle porti 599

principali. Viene chiamata lapuerta de los Serranos. Dall’alto del­ la piattaforma si osserva il corso del Guadalquivir, i cinque ponti che lo attraversano, le passeggiate di Valencia e la ridente campa­ gna che la circonda. È un piacere triste vedere i campi quando si è chiusi tra quattro mura, ma alla fine è sempre un piacere, e bi­ sogna essere grati al carceriere che permette ai detenuti di salire su questa piattaforma. Per dei prigionieri la più piccola gioia ha un prezzo. È da questa prigione che il condannato doveva uscire per arri­ vare, attraverso le vie più frequentate della città, in groppa a un asi­ no, alla piazza del Mercato, dove avrebbe lasciato questo mondo. Mi sono trovato di buonora davanti allapKerta de los Serranos con uno dei miei amici spagnoli che aveva la bontà di accompa­ gnarmi. Mi aspettavo di trovare una folla considerevole riunita fin dal mattino; ma mi sbagliavo. Gli artigiani lavoravano tran­ quillamente nelle loro botteghe, i contadini uscivano dalla città dopo aver venduto i loro legumi. Niente preannunciava che stes­ se er accadere qualcosa di straordinario, se non una dozzina di dragoni disposti accanto alla porta della prigione. La scarsa solle­ citudine del valenciani nel vedere le esecuzioni non deve essere attribuita, credo, a un eccesso di sensibilità. Non so più se devo pensare, come la mia guida, che siano stanchi di questo spettaco­ lo che non suscita in loro più nessuna attrattiva. Forse questa in­ differenza proviene dalle abitudini laboriose del popolo di Valen­ cia. L’amore per il lavoro e il guadagno lo distingue non solo da tutte le altre popolazioni della Spagna, ma anche d’Europa. Alle undici la porta della prigione si è aperta. Si è presentata subito una numerosa processione di francescani. Era preceduta da un grande crocifisso portato da un penitente scortato da due accoliti, ciascuno con una lanterna issata su un grande bastone. Il crocifisso, a grandezza naturale, era di cartone dipinto con un ta­ lento imitativo straordinario. Gli spagnoli, che cercano di rende­ re la religione terribile, eccellono nel rendere le ferite, le contu­ sioni, le tracce delle torture sofferte dai loro martiri. Su quel cro­ cifisso, che doveva presenziare a un supplizio, non erano stati ri­ sparmiati sangue e lividi tumori. Era il più orrido pezzo d’anato­ mia che si potesse vedere. Il portatore di questa figura orribile si è fermato davanti alla porta. I soldati si erano avvicinati. Un cen­ 600

tinaio di curiosi circa erano raggruppati dietro, tanto vicini da non perdere nulla di quello che si stava per fare e dire, quando è apparso il condannato accompagnato dal confessore. Non di­ menticherò mai il volto di quell’uomo. Era molto grande e mol­ to magro, e sembrava sui trent’anni. La sua fronte era alta, i ca­ pelli forti, neri come carbone e dritti come crini di una spazzola. Gli occhi grandi, ma infossati nel volto, sembravano fiammeggia­ re. Era a piedi nudi, vestito con una lunga tunica nera sulla quale era stata cucita sul cuore una croce azzurra e rossa. È il simbolo degli agonizzanti. Il colletto della camicia, arricciato come un bargiglio, gli ricadeva sulle spalle e sul petto. Una corda sottile, biancastra, che si distingueva nettamente sulla stoffa nera della tu­ nica, girava più volte attorno al suo corpo, e dei nodi molto com­ plicati gli giungevano le braccia e le mani nella posizione di colui che prega. Tra le mani aveva un piccolo crocifisso e un’immagine della Vergine. Il suo confessore era grosso, tozzo, grassoccio, molto colorito, un brav’uomo, ma con l’aria di chi da tempo fa quel mestiere e che ha visto ben altro. Dietro il condannato stava un uomo pallido, debole e gracile, dal volto dolce e timido. Portava un vestito scuro con pantaloni e calze nere. L’avrei scambiato per un notaio o un alguazil dimesso, se non avesse avuto in testa un cappello dai grandi bordi, come lo portano i picador nei combattimenti dei tori. Alla vista del croci­ fisso, si tolse il cappello con rispetto, e notai allora una piccola sca­ la d’avorio fissata sulla forma come una coccarda. Era il boia. Mettendo la testa fuori della porta, il condannato, che era sta­ to obbligato a curvarsi per passare sotto lo sportello, si raddrizzò di tutta la sua altezza, aprì gli occhi di una grandezza smisurata, abbracciò la folla con uno sguardo rapido e respirò profonda­ mente. Mi sembrò che aspirasse l’aria con piacere, come uno che è stato a lungo in una segreta stretta e soffocante. La sua espres­ sione era strana: non era di paura, ma di inquietudine. Sembrava rassegnato. Nessun sussiego, né ostentazione di coraggio. Mi dis­ si che anch’io in una simile circostanza avrei voluto avere un tale contegno. Il confessore gli ingiunse di mettersi in ginocchio davanti al crocifisso: obbedì e baciò i piedi di quell’orrida immagine. In quel momento tutti coloro che assistevano erano commossi e serbava601

no un profondo silenzio. Il confessore, accorgendosene, alzò le mani per liberarle dalle lunghe maniche che avrebbero ostacolato i movimenti per la preghiera, e iniziò a recitare un discorso che probabilmente gli era servito più di una volta, con una voce for­ te e accentata, tuttavia monotona a causa della frequente ripeti­ zione delle stesse intonazioni. Pronunciava chiaramente ogni pa­ rola, il suo accento era puro, e si esprimeva in un buon castigliano, che forse il condannato capiva male. Cominciava ogni frase con un tono di voce stridulo, e arrivava al falsetto, ma finiva con toni gravi e bassi. In sostanza, diceva al condannato che chiamava fratello: «Ave­ te meritato di morire; sono stati indulgenti nel condannarvi alla forca, perché i vostri crimini sono enormi». Qui disse due parole sugli omicidi commessi, ma si dilungò sull’irreligione nella quale il penitente aveva trascorso la sua giovinezza, e che da sola l’ave­ va condotto a perdersi. Poi, animandosi a gradi: «Ma quale sup­ plizio giustamente meritato soffrirete, comparato a quello che il vostro Divino Salvatore ha sofferto a causa vostra? Guardate questo sangue, queste piaghe ecc.». Dettagli lunghissimi di tutti i dolori della Passione descritti con tutta l’esagerazione che com­ porta la lingua spagnola, e commentati per mezzo della statua di cui vi ho parlato. La perorazione valeva mille volte l’esordio. Di­ ceva, ma dilungandosi troppo, che la misericordia di Dio era in­ finita, e che un vero pentimento poteva disarmare la sua collera. Il condannato si alzò, guardò il prete con un’aria un po’ sel­ vaggia e gli disse: «Padre mio, è sufficiente che mi diciate che va­ do in gloria; andiamo!». Il confessore rientrò nella prigione molto soddisfatto del suo discorso. Due francescani presero il suo posto accanto al con­ dannato; dovevano abbandonarlo solo alla fine. Prima lo distesero su una stuoia che il boia tirò un po’ verso di sé, ma senza violenza, e come per un tacito accordo tra il pa­ ziente e l’esecutore. È una cerimonia pura, per eseguire alla lette­ ra la sentenza che dice: «Impiccato dopo essere stato trascinato sul graticcio». Fatto questo, il disgraziato fu issato su un asino che il boia conduceva per la cavezza. Ai lati marciavano i due francescani, preceduti da due lunghe file di monaci di quest’ordine e da laici 602

che facevano parte della confraternita dei Desamparados. Né ve­ nivano dimenticati gli stendardi, le croci. Dietro l’asino venivano un notaio e due alguazil vestiti di nero, alla francese, pantaloni e calze di seta, con la spada al lato, in sella a cattivi cavalli mal bar­ dati. Un picchetto di cavalleria chiudeva la marcia. Mentre la pro­ cessione avanzava molto lentamente, i monaci cantavano le lita­ nie con voce sorda, e alcuni uomini in mantello circolavano at­ torno al corteo, tendendo dei piatti d’argento agli spettatori e chiedendo un’elemosina per il povero disgraziato (por el pobre). Questo denaro serve a dire messe per il riposo della sua anima; e per un buon cattolico che sta per essere impiccato dev’essere una consolazione vedere i piatti riempirsi così rapidamente di denaro. Tutti danno qualcosa. Ateo come sono, feci la mia offerta con un sentimento di rispetto. In verità, amo queste cerimonie cattoliche, e vorrei credervi. In quell’occasione, possiedono il vantaggio di colpire la folla in­ finitamente di più della nostra carretta, dei nostri gendarmi, e di quel meschino e ignobile corteo che accompagna in Francia le esecuzioni. Poi, ed è soprattutto per questo che amo le croci e le processioni, devono contribuire enormemente ad addolcire gli ultimi momenti di un condannato. Questa lugubre pompa lusin­ ga la sua vanità, l’ultimo sentimento che muore in noi. Poi i mo­ naci che riverisce dall’infanzia e che pregano per lui, i canti, e la voce degli uomini che fanno la questua perché gli si dicano delle messe, tutto questo deve stordirlo, distrarlo, impedirgli di riflet­ tere sulla sorte che lo attende. Gira la testa a destra, e il france­ scano da quella parte gli parla dell’infinita misericordia di Dio. A sinistra, un altro francescano è tutto sollecito a vantargli la po­ tente intercessione di monsignor san Francesco. Cammina al sup­ plizio come un coscritto tra due ufficiali che lo sorvegliano e lo esortano. Non ha un minuto di riposo, esclamerebbe il filosofo. Tanto meglio. La continua agitazione in cui viene tenuto gli im­ pedisce di liberarsi ai propri pensieri che lo tormenterebbero in modo ben peggiore. Ho capito allora perché i monaci, e soprattutto quelli degli or­ dini dei mendicanti, esercitino tanta influenza sul basso popolo. Non dispiacciano ai liberali intolleranti, sono in realtà l’appoggio e la consolazione dei disgraziati dalla loro nascita fino alla morte. 603

Che servizio orribile, per esempio, questo: intrattenere per tre giorni un uomo che dovrà morire! Credo che se avessi la disgra­ zia di essere impiccato, non sarei infastidito ad avere due france­ scani per parlare con me. La strada che la processione seguiva era molto tortuosa, per poi passare su vie più larghe. Con la mia guida presi una via più diretta per ritrovarmi ancora una volta al passaggio del condan­ nato. Osservai che, nell’intervallo di tempo trascorso tra la sua uscita di prigione e l’arrivo nella strada dove lo rivedevo, la sua fi­ gura si era curvata parecchio. Si affaticava poco a poco; la testa gli ricadeva sul petto, come se fosse sostenuta solo dalla pelle del col­ lo. Ma non vidi sul suo volto un’espressione di paura. Guardava fisso l’immagine che aveva fra le mani e, se girava lo sguardo, era per ritornare ai due francescani che sembravano ascoltarlo con interesse. Avrei dovuto andarmene allora; ma mi costrinsero a prosegui­ re fino alla piazza grande, e salire da un mercante, dove avrei avu­ to tutta la libertà di vedere il supplizio dall’alto di un balcone, op­ pure di sottrarmi a quello spettacolo rientrando nell’appartamen­ to. Ci andai. La piazza non era piena. I mercanti di frutta e verdura non si erano spostati. Si circolava ovunque facilmente. La forca, sor­ montata dallo stemma di Aragona, era posta di fronte a un ele­ gante edificio moresco, la Borsa della Seta (la Lonja de Seda). La piazza del Mercato è lunga. Le case che la costeggiano sono pic­ cole, anche se sovraccariche di piani, e ogni fila di finestre ha il suo balcone di ferro. Da lontano, si direbbero delle grandi gab­ bie. Un gran numero di questi balconi erano sprovvisti di spet­ tatori. Su quello in cui dovevo prendere posto, trovai due giovani si­ gnorine tra i sedici e i diciotto anni, comodamente sedute su del­ le sedie, che si sventagliavano con l’aria più disinvolta del mondo. Erano entrambe molto carine e dai loro vestiti di seta nera molto puliti, dalle scarpe di satin e dalle mantiglie ricamate, giudicai che dovevano essere le figlie di qualche borghese agiato. Questa opi­ nione mi venne confermata dal fatto che benché si servissero fra loro del dialetto valenciano, capivano e parlavano correttamente lo spagnolo. 604

A un lato della piazza era stata tirata su una piccola cappella. Questa cappella e la forca, che non era molto lontana, erano chiu­ se in un grande quadrato formato da volontari realisti e da trup­ pe di linea. Dopo che i soldati avevano aperto i ranghi per far passare la processione, il condannato venne fatto scendere dall’asino e condotto davanti all’altare di cui vi dirò qualcosa. I monaci lo circondavano; era in ginocchio, baciava ripetutamente gli scali­ ni dell’altare; ignoro cosa gli dicessero. Nel frattempo il boia esaminava la corda, la scala, e, dopo il controllo, si avvicinò al paziente sempre prostrato, gli mise la mano sulla spalla, e gli disse secondo l’usanza: «Fratello, è giunta la tua ora». Tutti i monaci, con una sola eccezione, l’avevano abbando­ nato e, a quanto pareva, il boia potè prendere possesso della sua vittima. Nel condurlo verso la scaletta (o piuttosto la scala di ta­ vole), aveva cura, mettendogli il suo grande cappello davanti agli occhi, di nascondergli la vista della forca; ma il condannato sembrava respingere il cappello con dei colpi della testa, deside­ rando mostrare che aveva il coraggio di guardare in faccia lo strumento del suo supplizio. Suonava mezzogiorno quando il boia montò sulla scala fata­ le, trascinando il paziente che saliva con difficoltà perché cam­ minava all’indietro. La scala era larga, con la rampa solo da una parte. Il monaco si trovava dalla parte della rampa, il boia e il condannato salivano dall’altra. Il monaco continuava a parlare, gesticolando molto. Arrivati in cima alla scala, nello stesso mo­ mento in cui l’esecutore passava la corda attorno al collo del pa­ ziente con una velocità straordinaria, mi dissero che il monaco gli faceva recitare il Credo. Poi, alzando la voce, esclamò: «Fra­ telli miei, unite le vostre preghiere a quelle del povero peccato­ re». Sentii una voce dolce pronunciare accanto a me con emo­ zione: «Amen»; girai la testa e vidi una delle mie belle valenciane con le guance un po’ più colorite, e che agitava velocemente il ventaglio. Guardava con molta attenzione dalla parte della forca. Voltai lo sguardo in quella direzione: il monaco scendeva la scala, e il condannato era sospeso in aria, il boia sulle sue spal­ le e il suo valletto gli tirava i piedi. 605

P. S. Non so se il vostro patriottismo vorrà perdonarmi la mia parzialità per la Spagna. Dato che siamo nel capitolo dedi­ cato ai supplizi, vi dirò che se preferisco le esecuzioni spagnole alle nostre, preferisco ancora di più le loro galere alle celle dove ogni anno spediamo circa duecento furfanti. Badate bene che non parlo dei presidios dell’Africa, che non ho visto. A Toledo, a Siviglia, a Granada, a Cadice ho potuto vedere un gran nume­ ro di presidiarios (galeotti) che non mi sono sembrati troppo malmessi. Lavoravano per costruire o riparare delle strade. Era­ no mal vestiti; ma i loro volti non palesavano quella cupa dispe­ razione che ho osservato nei galeotti nostrani. Mangiavano in grandi marmitte un punchero simile a quello dei soldati che li avevano in consegna, e poi fumavano il loro sigaro all’ombra. Ma quello che mi è piaciuto di più, è che il popolo qui non li re­ spinge come fa in Francia. La ragione è semplice: in Francia ogni uomo che è stato in galera ha rubato, o peggio; in Spagna, al contrario, persone onestissime, in epoche diverse, sono state condannate a passarvi tutta la vita per non aver avuto opinioni conformi a quelle dei loro governanti. Sebbene il numero delle vittime politiche sia infinitamente piccolo, questo è tuttavia suf­ ficiente per far cambiare opinione nei confronti di tutti i prigio­ nieri. È più importante trattare bene un furfante che mancare di riguardo nei confronti di un gentiluomo. Così gli offrono del fuoco per accendere i loro sigari, li chiamano amico mio, com­ pagno. Le loro guardie non gli fanno sentire che sono uomini di un’altra razza. Se questa lettera non vi sembra troppo lunga, vi racconterei di un incontro che ho avuto poco tempo fa e che vi mostrerà quali sono i modi del popolo con i presidiarios. Lasciando Granada per andare a Baylen, lungo la strada in­ contrai un uomo grande che calzava alpargates, che camminava con un buon passo militare. Era seguito da un cagnolino spaniel. I suoi vestiti erano di foggia singolare e diversi da quelli dei con­ tadini che avevo incontrato. Benché il mio cavallo andasse al trot­ to, mi seguiva senza fatica, e intavolò una conversazione. Presto diventammo buoni amici. La mia guida gli diceva «signore», «Vo­ stra Grazia» (Usted). Fra loro parlavano di un tale signore di Granada, comandante di presidio, che entrambi conoscevano. 606

Giunse l’ora del pranzo, ci fermammo davanti a una casa dove trovammo del vino. L’uomo con il cane tirò fuori da un sacco un pezzo di merluzzo salato e me l’offrì. Gli dissi di aggiungere il suo pranzo al mio, e mangiammo tutti e tre di buon appetito. De­ vo confessarvi che bevemmo dalla stessa bottiglia, per il fatto che non c’era un bicchiere a una lega intorno. Gli chiesi perché si fos­ se caricato di un cane così giovane nel viaggio. Mi disse che viag­ giava solo per quel cane, e che il suo comandante lo aveva invia­ to a Jaen per consegnarlo a uno dei suoi amici. Vedendolo senza uniforme e sentendolo parlare di comandante: «Siete michelet­ to?», gli dissi. «No, presidiarlo». Fui un poco sorpreso. «Come, non l’avete visto dal suo abito?», chiese la mia guida. Per il resto, i modi di quest’uomo, che era un onesto mulattie­ re, non cambiarono affatto. Mi offrì per primo la bottiglia, nella mia qualità di caballero-, poi l’offrì al galeotto e bevve dopo di lui; lo trattò con tutta la gentilezza che la gente del popolo ha tra sé in Spagna. «Perché siete stato nelle galere?», chiesi al mio compagno di viaggio. «Oh! signore, per una disgrazia. Mi sono trovato con un po’ di morti (Fué por una desgracia. Me hallé en unas muertes)». «Come diavolo?». «Ecco com’è successo. Ero micheletto. Con una ventina di compagni scortavo un convoglio di presidiarios di Valencia. Per strada, i loro amici vollero liberarli, e nello stesso tempo i nostri prigionieri si ribellarono. Il nostro capitano era molto imbaraz­ zato. Se i prigionieri fossero fuggiti, sarebbe stato responsabile di tutti i disordini che avrebbero commesso. Prese la sua decisione e gridò: “Fuoco sui prigionieri!”. Sparammo, e ne uccidemmo quindici, dopo di che respingemmo i loro compagni. Accadeva ai tempi di quella famosa costituzione. Quando i francesi sono tor­ nati e l’hanno levata, ci fecero il processo, a noialtri micheletti, perché tra i presidiarios morti c’erano parecchi signori (caballeros) realisti che i costituzionali avevano messo là. Il nostro capi­ tano era morto, e se la presero con noi. Il mio tempo sta per fini­ re; e dato che il mio comandante ha fiducia in me perché mi com­ porto bene, mi ha spedito a Jaen per consegnare questa lettera e il cane al comandante del presidio». 607

La mia guida era realista, ed era evidente che il galeotto era co­ stituzionale; tuttavia erano persone intelligenti. Quando ci rimet­ temmo in cammino, lo spaniel era così affaticato, che il galeotto fu costretto a portarlo in spalla avviluppato nella giacca. La conver­ sazione di quest’uomo mi piaceva tantissimo; da parte sua, i siga­ ri che gli davo, e il pranzo che aveva condiviso con me, lo aveva­ no talmente tanto affezionato che voleva seguirmi fino a Baylen. «La strada non è sicura», mi diceva, «troverò un buon fucile a Jaen, da un mio amico e quando di sicuro incontreremo una mezza dozzina di briganti, non vi porteranno via neppure un fazzoletto». «Ma», gli dissi, «se non rientrate al presidio non rischiate un aumento dei giorni, forse di un anno?». «Bah! che importa? E poi voi mi farete un certificato attestan­ te che vi ho accompagnato. Del resto non sarei tranquillo se vi la­ sciassi andare tutto solo per quella strada là... ». Avrei acconsentito a farmi accompagnare, se non si fosse ini­ micato la mia guida. Ecco in quale occasione. Dopo aver seguito, per circa otto leghe spagnole, i nostri cavalli, che andavano al trotto, tutte le volte che la strada lo permetteva, si azzardò a dire che li avrebbe seguiti anche se fossero andati al galoppo. La mia guida lo prese in giro. I nostri cavalli non erano certo dei ronzi­ ni; avevamo un quarto di lega di pianura davanti a noi, e il ga­ leotto portava il cane sulla schiena. Fu sfidato. Partimmo, ma quel diavolo d’uomo aveva davvero gambe da micheletto, e i no­ stri cavalli non riuscirono a superarlo. L’amor proprio del loro padrone non potè perdonare al presidiarlo l’affronto che gli ave­ va arrecato. Smise di parlargli; e, arrivati che fummo a Campillo de Arenas, tanto fece che il galeotto, con la discrezione che carat­ terizza gli spagnoli, comprese che la sua presenza era inopportu­ na, e andò via.

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Ill

I ladri

Madrid, novembre 1830

Eccomi di ritorno a Madrid, dopo aver percorso in lungo e in largo per parecchi mesi l’Andalusia, terra classica di ladri, senza incontrarne uno. Me ne vergogno quasi. Mi ero preparato a un at­ tacco di ladri, non per difendermi, ma per poter parlare con loro e informarmi gentilmente sul loro genere di vita. Guardando il mio vestito usato, consumato ai gomiti, e il mio scarso bagaglio, temo di aver mancato questi signori. Il piacere di incontrarli va­ leva il prezzo della perdita di un leggero portamantello. Ma, se non ho visto ladri, in compenso ho sentito parlare di al­ tre cose. I postiglioni, gli albergatori vi raccontano delle storie raccapriccianti di viaggiatori assassinati, di donne rapite, a ogni sosta che si fa per cambiare i muli. L’avvenimento che raccontano è accaduto sempre il giorno prima e sulla parte di strada che do­ vrete percorrere voi. Il viaggiatore che ancora non conosce la Spa­ gna e che non ha avuto il tempo di acquisire la sublime spensie­ ratezza castigliana, la flema castellana, qualche incredulo stranie­ ro, non si lascia impressionare da tutti questi racconti. Il giorno cade, e con molta più rapidità che nel nostro clima del nord; qui il crepuscolo non dura che un istante: allora sopraggiunge, so­ prattutto in vicinanza di montagne, un vento che a Parigi sareb­ be sicuramente dolce, ma che comparandolo al calore bruciante del giorno, vi sembra freddo e sgradevole. Mentre vi avviluppate 609

nel vostro mantello e calcate sugli occhi il vostro cappello da viaggio, osservate che gli uomini della vostra scorta (escopeteros) gettano l’innesco dei loro fucili senza rinnovarlo. Stupiti da que­ sta singolare manovra, vi chiedete il perché e i bravi che vi ac­ compagnano rispondono, dall’alto dell’imperiale da dove si spor­ gono, che hanno tutto il coraggio possibile, ma che non possono resistere da soli a tutta una banda di ladri. «Se ci attaccano, po­ tremo salvarci solo provando che non abbiamo mai avuto inten­ zione di difenderci». «Allora, perché ingombrarsi di quegli uomini e dei loro inuti­ li fucili?». «Oh! Sono eccellenti contro i rateros, cioè i briganti di­ lettanti, che depredano i viaggiatori quando se ne presenta l’occa­ sione; si incontrano sempre a gruppi di due o tre». Il viaggiatore si pente allora di aver portato con sé tanto dena­ ro. Controlla l’ora sull’orologio di Bréguet, che crede di consul­ tare per l’ultima volta. Sarebbe felice di saperlo tranquillamente appeso al suo caminetto di Parigi. Chiede al mayoral (conducen­ te) se i ladri prendono gli abiti dei viaggiatori. «A volte, signore. Il mese passato, la diligenza di Siviglia è sta­ ta fermata vicino alla Cariota, e tutti i viaggiatori sono entrati a Ecija come angioletti». «Angioletti! Che intendete dire?». «Voglio dire che i banditi gli avevano preso i vestiti, e non gli avevano lasciato neanche la camicia». «Diavolo!», grida il viaggiatore abbottonandosi la redingote. Ma si rassicura un po’, e riuìesce perfino a sorridere quando vede una giovane andalusa, sua compagna di viaggio, che si bacia devotamente il pollice sospirando: Jésus! Jésus! (si sa che coloro che si baciano il pollice dopo essersi fatto il segno della croce non mancano di trovarsi bene). La notte è scesa completamente; ma per fortuna la luna si leva brillante in un cielo senza nuvole. Si comincia a scoprire da lon­ tano l’entrata di una gola spaventosa, a meno di una mezza lega di distanza. «Mayoral, è quello il luogo dov’è stata fermata la diligenza?», «Sì signore, e ucciso un viaggiatore. Postiglione», prosegue il mayoral, «non far suonare la tua frusta, per paura di avvertirli». «Chi?», chiede il viaggiatore. 610

«I ladri», risponde il mayoral. «Diavolo!», grida il viaggiatore. «Signore, guardate laggiù, al tornante della strada... Non sono degli uomini? si nascondono nell’ombra di quella grande roccia». «Sì, signora; uno, due, tre, sei uomini a cavallo!». «Ah! Jésus! Jésus!...» (segno della croce e bacio al pollice). «May oral, vedete laggiù?». «Sì». «Eccone uno che ha un grande bastone, forse un fucile?». «E un fucile». «Credete che siano brave persone (buena gente)?», chiede con ansia la giovane andalusa. «Chi lo sa!» risponde il mayoral, alzando le spalle e abbassan­ do l’angolo della bocca. «Allora, che Dio ci perdoni tutto!» e la donna si nasconde il volto nel gilet del viaggiatore, doppiamente commosso. La vettura va come il vento: otto muli vigorosi al gran trotto. I cavalieri si arrestano: si dispongono su una linea: è per sbarrare il passaggio. No, si aprono; tre prendono a sinistra, tre a destra della strada: vogliono circondare la vettura da tutti i lati. «Postiglione, fermate i muli se quella gente ve lo comanda; non fateci attirare una scarica di colpi di fucile!». «State tranquillo, signore, sono più interessato io di voi». Alla fine sono così vicini che si possono distinguere i grandi cappelli, le selle turche e le ghette di cuoio bianco dei sei cavalie­ ri. Se avessero potuto vedere i loro tratti, che occhi, che barbe! che cicatrici avrebbero intravisto! Non c’è più alcun dubbio, so­ no ladri, perché hanno i fucili. Il primo ladro tocca il bordo del suo grande cappello e dice con tono di voce grave e dolce: «Vayan Vds. con Dios! (Andate con Dio)». E il saluto che i viaggiatori si scambiano per strada. «Vayan Vds. con Dios!» dicono a loro volta gli altri cavalieri, scansandosi gentilmente per far passare la vettura; perché sono onesti fattori attardati al mercato di Ecija, che tornano al loro vil­ laggio e viaggiano in gruppo e armati, per la grande preoccupa­ zione dei ladri di cui ho già parlato. Dopo alcuni incontri di questo tipo si arriva facilmente a non credere più ai ladri. Ci si abitua talmente all’aspetto un po’ sei­

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vaggio dei contadini, che i veri briganti non vi sembreranno più che onesti lavoratori che non si sono fatti la barba da tempo. Un giovane inglese, con cui avevo fatto conoscenza a Granada, aveva percorso a lungo senza incidenti le peggiori strade della Spagna, ed era giunto a negare con ostinazione l’esistenza dei ladri. Un giorno, viene fermato da due uomini di brutto aspetto, armati di fucili. Subito immagina trattarsi di contadini brilli che volevano divertirsi a mettergli paura. A tutte le loro ingiunzioni di dare lo­ ro il denaro rispondeva ridendo e dicendo che non era il loro gonzo. Fu necessario, per toglierlo dall’errore, che uno di questi veri banditi gli assestasse in testa un colpo con il calcio del fucile, di cui mostrava la cicatrice ancora tre mesi dopo. Eccetto qualche rarissimo caso, i briganti spagnoli non mal­ trattano mai i viaggiatori. Spesso si accontentano di prendere lo­ ro il denaro che hanno con sé, senza aprire i loro bauli, o anche senza perquisirli. Ma non bisogna esserne fieri. Un giovane ele­ gante di Madrid andava a Cadice con due dozzine di belle cami­ cie che aveva fatto venire da Londra. I briganti lo fermarono nei pressi della Carolina, e dopo avergli preso tutte le once che ave­ va nella borsa, senza contare gli anelli, le catene, ricordi d’amore che un uomo così versatile non poteva non avere, il capo dei la­ dri gli fece osservare con gentilezza che la biancheria della sua banda, obbligata ad evitare i luoghi abitati, aveva un gran biso­ gno di un bucato. Le camicie sono in mostra, ammirate, e il ca­ pitano dicendo come Hali del Siciliano·. «Fra cavalieri, tale libertà è permessa», ne mise qualcuna nella sua bisaccia, poi si tolse i ne­ ri stracci che portava da almeno sei settimane, e indossò con gioia la più bella camicia di batista del suo prigioniero. Ogni la­ dro fece altrettanto; di modo che lo sfortunato viaggiatore si trovò in un istante spogliato di tutto il guardaroba e in possesso di un mucchio di stracci che non avrebbe osato toccare neanche con la punta del bastone. Dovette sopportare ancora le battute dei briganti. Il capitano, con quell’aria beffarda che gli andalusi ostentano così bene, gli disse, congedandosi, che non avrebbe mai dimenticato il servizio che aveva ricevuto, che si sarebbe af­ frettato a restituirgli le camicie che quegli aveva loro gentilmen­ te prestato, e che avrebbe ripreso le sue appena avesse avuto l’o­ nore di rivederlo. 612

«Soprattutto», aggiunse, «non dimenticate di far lavare le camicie di questi signori. Le riprenderemo al vostro ritorno a Madrid». Il giovanotto che mi raccontò di questo furto, di cui era stato vittima, mi confessava che riusciva a scusare ai ladri più la sottra­ zione delle camicie che le battute pesanti. In diverse epoche, il governo spagnolo si è seriamente occu­ pato di depurare le grandi strade dai ladri che, da tempo imme­ morabile, hanno il privilegio di percorrerle. I suoi sforzi non han­ no mai potuto avere risultati decisivi. Una banda è stata distrutta, ma subito dopo se n’è formata un’altra. Talvolta un capitano ge­ nerale è riuscito a cacciare tutti i ladri dal suo stato; ma a quel punto le province vicine traboccavano. La natura del paese, irta di montagne, priva di strade frequen­ tate, rende molto difficile il completo sterminio dei briganti. In Spagna, come in Vandea, vi sono un gran numero di fattorie iso­ late, aldeas, lontane mille miglia da ogni luogo abitato. Control­ lando tutte le fattorie, tutte le piccole frazioni, i ladri si trovereb­ bero costretti a consegnarsi alla giustizia per non morire di fame; ma dove trovare denaro e soldati sufficienti? I proprietari delle aldeas sono interessati, si sa, a conservare buoni rapporti con i briganti, la cui vendetta è temibile. Dall’al­ tra parte questi, che contano su di loro per la propria sussisten­ za, li risparmiano, pagano loro bene gli oggetti di cui hanno bi­ sogno, e talvolta li rendono partecipi alla divisione del bottino. E necessario inoltre aggiungere che la professione di ladro non è considerata disonorevole. Rubare per le grandi strade, davan­ ti agli occhi di molti, è fare opposizione, protestare contro leggi tiranniche. L’uomo che possiede solo un fucile e si sente abba­ stanza ardito da sfidare un governo, è un eroe che tutti rispetta­ no e che le donne ammirano. E fiero di poter esclamare, come nell’antica romanza: A todos los desafio, Pues à nadie tengo miedo

Un ladro inizia generalmente come contrabbandiere. Il suo commercio è ostacolato dagli impiegati della dogana. È un’ingiu­ stizia palese per i nove decimi della popolazione che si tormenti 613

un galantuomo che vende, a buon mercato, sigari migliori di quelli del re, che porta alle donne tessuti di seta, mercanzie ingle­ si e tutti i pettegolezzi di dieci leghe intorno. Se un doganiere ar­ riva ad uccidere o a prendere il suo cavallo, ecco che il contrab­ bandiere è rovinato; c’è una vendetta allora da esercitare: diven­ tare ladri. Ci si domanda cos’è successo di un bravo ragazzo si ve­ deva fino a qualche mese prima e che era il gallo del suo villaggio. «Ahimè!», risponde una donna, «l’hanno costretto alla mac­ chia. Non è colpa sua, povero ragazzo! Era così dolce! Dio lo protegga!». Gli animi buoni accusano il governo di essere responsabile di tutti i disordini commessi dai ladri. «È lui», dicono, «che spinge all’estremo gente che non chiede nient’altro che rimanere tran­ quilla a vivere del suo mestiere». Il modello del brigante spagnolo, il prototipo d’eroe da stra­ da, il Robin Hood, il Roque Guinar dei nostri tempi, è il famoso José Maria, soprannominato el Temprando, il Mattiniero. E l’uo­ mo di cui si parla di più da Madrid a Siviglia, da Siviglia a Mala­ ga. Bello, coraggioso, gentile come può esserlo un ladro, questo è José Maria. Se ferma una diligenza, porge la mano alle dame per aiutarle a scendere e fa in modo che siano comodamente sedute all’ombra, perché è di giorno che compie la maggior parte delle sue imprese. Mai un’ingiuria, mai una parolaccia; al contrario, sguardi quasi rispettosi e una gentilezza naturale che non si smen­ tisce mai. Toglie un anello dalla mano di una donna: «Ah! signo­ ra, una così bella mano non ha bisogno di ornamenti». E facendo scivolare l’anello dal dito, le bacia la mano con un’aria da far cre­ dere, secondo l’espressione di una dama spagnola, che il bacio per lui aveva più valore dell’anello. L’anello, lo prendeva come per di­ strazione; il bacio, al contrario, lo faceva durare a lungo. Mi han­ no assicurato che lascia sempre ai viaggiatori denaro sufficiente per arrivare alla città più vicina, e che non ha mai rifiutato a nes­ suno il permesso di conservare un gioiellino che dei ricordi ren­ devano prezioso. Mi hanno dipinto José Maria come un giovanottone tra i ven­ ticinque e i trent’anni, ben fatto, il volto aperto e ridente, denti bianchi come perle e occhi molto espressivi. In genere indossa un costume di majo, molto ricco. La sua biancheria è sempre di un 614

bianco scintillante, e le sue mani farebbero onore a un uomo ele­ gante di Parigi o di Londra. Sono solo cinque o sei anni che attraversa le grandi strade. Era stato destinato dai suoi genitori alla chiesa, e studiava teologia al­ l’università di Granada; ma la sua vocazione non era molto profonda, come si vedrà, perché una notte si introdusse a casa di una signorina di buona famiglia... Dicono che l’amore scusa mol­ te cose...; ma si parla di violenza, di un domestico ferito...; non sono mai riuscito a vederci chiaro in questa storia. Il padre fece un gran rumore, e venne iniziato un processo penale. José Maria fu costretto a fuggire e ad andare in esilio a Gibilterra. Là, dato che non aveva denaro, iniziò un mercato con un negoziante in­ glese per introdurre di contrabbando un gran quantità di mer­ canzie proibite. Fu tradito da un uomo a cui aveva confidato il suo progetto. I doganieri seppero la strada che doveva prendere e s’imboscarono al suo passaggio. Tutti i muli che portava furono presi; ma egli li abbandonò solo dopo un accanito combattimen­ to nel quale uccise o ferì parecchi doganieri. Da quel momento, non ebbe più altra risorsa se non quella di derubare i viaggiatori. Una fortuna straordinaria l’ha accompagnato fino ad oggi. C’è una taglia sulla sua testa, i suoi dati segnaletici sono affissi alla porta di tutte le città, con la promessa di ottomila reali a chi lo consegnerà vivo o morto1. Eppure José Maria continua impune­ mente il suo pericoloso mestiere, e le sue incursioni si estendono al di là delle frontiere del Portogallo fino al regno di Murcia. La sua banda non è numerosa, ma è composta da uomini la cui fe­ deltà e risolutezza sono saggiate da tempo. Un giorno, alla testa di una dozzina di uomini di sua scelta, sorprese alla venta de Ga­ zin settanta volontari realisti inviati al suo inseguimento, e li di­ sarmò tutti. Lo si vide poi raggiungere le montagne a passo len­ to, spingendo davanti a sé due muli carichi di settanta tromboni che portava come per un trofeo. Si raccontano meraviglie sulla sua abilità a sparare. Su un ca­ vallo lanciato al galoppo, tocca un tronco d’olivo a centocin­ quanta passi. Il tratto seguente farà conoscere insieme la sua abi­ lità e la sua generosità. 1 Quando ero a Siviglia, un mattino trovarono sulla porta di Triana, alla base dei dati segnaletici di José Maria queste parole scritte a matita: Firma del sottoscritto: José Maria.

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Un certo capitano Castro, ufficiale pieno di coraggio e di atti­ vità, che perseguì, dicono, i ladri, più per soddisfare una vendet­ ta personale che per adempiere il dovere militare, apprese da una delle sue spie che José Maria si sarebbe trovato il tal giorno in unaldeas fuori mano dove aveva un’amante. Castro, nel giorno indicato, sale a cavallo e, per non destare sospetti mettendo trop­ pi uomini in giro per la campagna, prende con sé solo quattro lancieri. Nonostante le precauzioni che prese per nascondere la sua marcia, non potè fare in modo che José Maria non ne fosse al corrente. Nel momento in cui Castro, dopo aver superato una profonda gola, entrava nella vallata dove era situata Valdeas del­ l’amante del suo nemico, dodici cavalieri ben montati apparvero improvvisamente al suo fianco, molto più vicini della gola unico luogo dove si sarebbe potuto ritirare. I lancieri si credettero per­ duti. Un uomo su un cavallo baio si stacca al galoppo dalla trup­ pa di ladri, e ferma il cavallo proprio a cento passi da Castro. «Non si sorprende José Maria», grida. «Capitano, che vi ho fatto perché mi volete consegnare alla giustizia? Potrei uccidervi, ma gli uomini sensibili sono diventati rari, e vi risparmio la vita. Ecco un ricordo che vi insegnerà ad evitarmi. Al vostro sciaccò!». E così dicendo, lo sistema e con una pallottola trapassa la par­ te alta dello sciaccò del capitano. Subito gira la briglia e scompa­ re con la sua gente. Ecco un altro esempio della sua gentilezza. Si celebravano le nozze in una fattoria dei dintorni di Andujar. Gli sposi avevano già ricevuto i complimenti dei loro amici, e sta­ vano per mettersi a tavola sotto un grande fico davanti alla porta di casa; ognuno era in buona disposizione, e le esalazioni dei gel­ somini e degli aranci in fiore si mescolavano piacevolmente ai più sostanziosi profumi delle numerose portate che facevano piegare la tavola sotto il loro peso. Improvvisamente apparve un uomo a cavallo, che usciva da dietro una catasta di legna a portata di pi­ stola della casa. Lo sconosciuto saltò velocemente a terra, salutò i convitati con la mano, e guidò il cavallo alla scuderia. Non aspet­ tavano nessuno; ma, in Spagna, ogni passante è il benvenuto per condividere un banchetto di festa. D’altronde lo straniero, dal suo abbigliamento, sembrava essere un uomo importante. Il sin­ daco si alzò subito per invitarlo a pranzare. 616

Mentre si domandavano a bassa voce chi fosse quello stranie­ ro, il notaio di Andujar, che era presente alle nozze, si era fatto pallido come la morte. Tentava di alzarsi dalla sedia che occupa­ va accanto alla sposa; ma le ginocchia gli si piegavano, e le gambe non riuscivano a sorreggerlo. Uno dei convitati, sospettato da tempo di occuparsi di contrabbando, si avvicinò alla sposa: «È José Maria», disse. «Non vorrei sbagliarmi, ma è qui per fare qualche fattaccio {para hacer una muerte). Ce l’ha con il notaio. Ma che fare? Farlo scappare? Impossibile; José Maria lo raggiungerebbe subito. Arrestare il brigante? Sicuramente la sua banda è nei dintorni; e poi porta delle pistole alla cintura e non dimentica mai il pugnale. Ma signor notaio, che gli avete fatto?». «Ahimè! Niente, assolutamente niente!». Qualcuno mormorò sottovoce che il notaio aveva detto al suo fattore, due mesi prima, che, se José Maria fosse mai venuto a chiedergli da bere, avrebbe dovuto mettergli una dose di arsenico nel vino. Si stava ancora decidendo senza aver cominciato la olla, quan­ do lo sconosciuto si accomodò seguito dal sindaco. Nessun dub­ bio, era José Maria. Passando gettò uno sguardo da tigre al no­ taio, il quale si mise a tremare come se avesse i brividi della feb­ bre; poi salutò con grazia la sposa, e le chiese il permesso di bal­ lare. Ella non osò rifiutarsi né fargli un cattivo viso. José Maria prese allora un sgabello di sughero, l’avvicinò alla tavola, e si se­ dette accanto alla sposa, tra lei e il notaio, il quale sembrava do­ vesse svenire da un momento all’altro. Cominciarono a mangiare. José Maria era pieno di attenzioni e di cure per la sua vicina. Quando servivano del vino extra, la sposa, prendendo un bicchiere di mondila (che secondo me è me­ glio dello xeres) lo sfiorò con le labbra, e poi lo offrì al bandito. E una gentilezza che si fa a tavola con le persone di cui si ha sti­ ma. Si chiama una fineza. Sfortunatamente questa consuetudine si perde nella buona società, tanto pressata qui come fuori da spo­ gliarsi di tutte le tradizioni popolari. José Maria prese il bicchiere, ringraziò e dichiarò alla sposa di considerarlo come un suo servitore, e che avrebbe fatto con gioia tutto ciò che lei avrebbe voluto comandargli. 617

Allora questa, tutta tremante e chinandosi timidamente all’o­ recchio del suo terribile vicino: «Fatemi una grazia», disse. «Mille!», esclamò José Maria. «Dimenticate, vi scongiuro, le cattive intenzioni che vi hanno portato qui. Promettetemi, che, per amor mio, perdonerete ai vo­ stri nemici, e che non ci sarà nessuno scandalo alle mie nozze». «Notaio!», disse José Maria girandosi verso l’uomo di legge che tremava, «ringraziate la signora; senza di lei, vi avrei ucciso prima che tutti voi avreste digerito il pranzo. Non abbiate più paura, non vi farò del male». E versandogli un bicchiere di vino, aggiunse con un sorriso un po’ cattivo: «Suvvia, notaio, alla mia salute! il vino è buono e non è avvelenato». Il disgraziato notaio credette di ingoiare cento spille. «Su, ragazzi!», gridò il ladro, «allegria! (vaya de bromo) vi­ va la sposa!». E, alzandosi con vivacità, corse a cercare una chitarra e si mi­ se a improvvisare una strofa in onore dei novelli sposi. In breve, durante il resto del pranzo e del ballo che seguì, si ri­ velò così tanto amabile, che le donne avevano le lacrime agli oc­ chi al pensiero che un ragazzo così affascinante un giorno forse sarebbe finito sulla forca. Ballò, cantò, fece di tutto. Verso mez­ zanotte, una ragazzina di dodici anni, vestita di stracci, si avvicinò a José Maria, e gli disse alcune parole nel gergo degli zingari. Jo­ sé Maria trasalì: corse alla scuderia, da dove tornò quasi subito con il suo buon cavallo. Poi avvicinandosi alla sposa, con un brac­ cio nella briglia: «Addio!», disse, «figlia dell’anima mia (hija de mi alma), non dimenticherò mai i momenti che ho passato da voi. Sono stati i più felici che abbia mai vissuto da anni. Siate così gentile da ac­ cettare questa sciocchezza da un povero diavolo che vorrebbe possedere una miniera da offrirvi». Nello stesso tempo le donò un bell’anello. «José Maria», esclamò la sposa, «fino a che in questa casa ci sarà del pane, la metà apparterrà a voi». Il ladro strinse la mano a tutti i convitati, anche quella del no­ taio, abbracciò tutte le donne; poi, saltando velocemente in sella, raggiunse le montagne. Solo allora, il notaio respirò liberamente. 618

Una mezz’ora dopo arrivò un distaccamento di micheletti; ma nessuno aveva visto l’uomo che cercavano. Il popolo spagnolo, che conosce a memoria le romanze di Douze Pairs, che canta le gesta di Renaud de Montauban, deve per forza interessarsi molto all’unico uomo che, in tempi più prosaici dei nostri, fa rivivere le virtù cavalleresche degli antichi prodi. Un altro motivo contribuisce ancora ad aumentare la po­ polarità di José Maria: la sua generosità. Il denaro non gli costa niente, e lo spende con facilità gli sfortunati. Dicono che mai, nessun povero si sia rivolto a lui senza ricevere un’abbondante elemosina. Un mulattiere mi raccontava che avendo perso un mulo, che era tutta la sua fortuna, fosse sul punto di gettarsi nel Guadalqui­ vir, quando uno sconosciuto portò alla moglie una scatola con sei once d’oro. Non dubitò affatto che fosse un dono di José Maria a cui aveva indicato un guado un giorno in cui era inseguito dai micheletti. Concluderò questa lunga lettera con un esempio della libera­ lità del mio eroe. Un povero venditore ambulante dei dintorni di Campillo de Arenas portava in città un carico di aceto. Quest’aceto era conte­ nuto in grossi otri, secondo l’uso locale, e portato da un asino magro, pelle e ossa, quasi morto di fame. In uno stretto sentiero, uno straniero che dall’abbigliamento si sarebbe potuto prendere per un cacciatore, incontra il venditore di aceto; e appena vede l’a­ sino scoppia a ridere. «Che ronzino hai, compagno!», esclamò. «Siamo a carne­ vale?». E le risate non finivano più. «Signore», rispose tristemente l’asinaio punto sul vivo, «que­ sta bestia, sporca com’è, mi fa ancora guadagnare il mio pane. So­ no un disgraziato, io, e non ho denaro per comprarne un’altra». «Come!», esclamò continuando a ridere, «quest’orrida asina che ti impedisce di morire di fame? ma creperà ancor prima di una settimana. Tieni», continuò offrendogli un sacchetto molto pesante, «dal vecchio Herrera vendono un bel mulo; vuole millecinquecento reali, eccoteli. Compra il mulo oggi, al più tardi, e non mercanteggiare. Se domani ti ritrovo per strada con quest’a619

sina spaventosa, vi getterò entrambi da un precipizio, com’è vero che mi chiamo José Maria». L’asinaio, rimasto solo, con il sacchetto in mano, credeva di sognare. I millecinquecento reali erano contati. Sapeva cosa vole­ va dire un giuramento di José Maria, e si recò subito da Herrera, dove si affrettò a scambiare i reali con un bel mulo. La notte seguente, Herrera si risvegliò di soprassalto. Due uo­ mini gli puntavano al volto un coltello e una lanterna smorzata. «Forza, presto, il tuo denaro!». «Ahimè! miei buoni signori, non ho un quarto con me». «Menti; hai venduto ieri un mulo a millecinquecento reali, ti ha pagato uno di Campillo».. Avevano argomenti talmente tanto convincenti, che i millecin­ quecento reali furono subito dati, o, se si preferisce, restituiti.

P. S. José Maria è morto da parecchi anni. Nel 1833, in occasione del giuramento alla giovane regina Isa­ bella, il re Ferdinando accordò un’amnistia generale di cui il cele­ bre bandito volle approfittare. Il governo gli diede anche una pensione di due reali al giorno perché rimanesse tranquillo. Dato che la somma non era sufficiente alle necessità di un uomo che aveva molti vizi costosi, si vide costretto ad accettare un posto che gli offriva l’amministrazione delle diligenze. Diventò escopetero e si incaricò di proteggere quelle vetture che così spesso ave­ va svaligiato. Tutto andò bene per un po’: i suoi ex compagni lo temevano o lo aiutavano. Ma, un giorno, alcuni banditi più riso­ luti fermarono la diligenza di Siviglia, benché portasse José Ma­ ria. Dall’alto dell’imperiale, li arringò; e l’ascendente che aveva su uno dei suoi vecchi complici era tale, che sembravano disposti a ritirarsi senza violenza, quando il capo dei ladri, noto con il no­ me di Zingaro (el Gitano), un tempo luogotenente di José Maria, gli tirò una fucilata e lo uccise sul posto. 1842

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IV

Le streghe spagnole

Valencia, 1830

Le antichità, soprattutto le antichità romane, mi commuovo­ no poco. Non so come mi sono lasciato convincere ad andare a Murviedro, a vedere quel che resta di Sagunto. Ho fatto molta fatica, ho pranzato male, e non ho visto nien­ te. In viaggio uno è continuamente tormentato dal timore di non poter rispondere a queirinevitabile domanda che vi aspetta al ri­ torno: «Avete visto sicuramente...?». Perché dovrei essere forza­ to a vedere quello che hanno visto altri? Non viaggio con uno scopo particolare; non sono un antiquario. I miei nervi si sono in­ duriti nei confronti delle emozioni sentimentali, e non so se mi ri­ cordo con più piacere del vecchio cipresso dei Zegris al Généralife piuttosto che dei melograni e dell’uva eccellente senza semi che ho mangiato sotto quel venerabile albero. La mia gita Murviedro non mi ha annoiato. Ho noleggiato un cavallo e un contadino valenciano per accompagnarmi a pie­ di. L’ho trovato (il valenciano) un gran chiacchierone, passabil­ mente ladro, ma nel complesso un buon compagno e assai pia­ cevole. Dispensava con abbondanza eloquenza e diplomazia per tirarmi fuori un reale in più rispetto al prezzo stabilito tra noi per il noleggio del cavallo, e nello stesso tempo sosteneva i miei interessi nella locanda con tanta vivacità e calore che si sarebbe detto che fosse lui a pagare di tasca propria. Il conto che mi pre­ 621

sentava tutte le mattine esibiva una terribile sfilza di item per si­ stemazioni delle cinghie, nuovi chiodi, vino per frizionare il ca­ vallo, e che lui sicuramente beveva, e con tutto questo non ho mai pagato di meno. Possedeva l’arte di farmi comprare, ovun­ que passassimo, non so quante inutili sciocchezze, soprattutto coltelli del paese. Mi insegnava come mettere il pollice sulla la­ ma per sventrare in modo conveniente il proprio uomo senza tagliarsi le dita. Poi questi maledetti coltelli mi sembravano sporchi. Si urtavano nelle mie tasche, battevano sulle mie gam­ be, in breve mi infastidivano così tanto che per sbarazzarmene non avevo altra soluzione che donarli a Vicente. Il suo ritornel­ lo era: «Come saranno felici gli amici di Vostra Signoria quan­ do vedranno tutte le belle cose che avrà portato loro dalla Spa­ gna!». Non dimenticherò mai un sacchetto di ghiande dolci che la Mia Signoria comprò per portare ai suoi amici, e che mangiò tutto intero, con l’aiuto della sua fedele guida, prima ancora di essere arrivato a Murviedro. Vicente, sebbene conoscesse il mondo, poiché aveva vendu­ to orzo a Madrid, aveva la sua buona dose delle superstizioni dei suoi compatrioti. Era molto devoto, e nei tre giorni che passammo insieme ebbi modo di vedere quanto fosse diver­ tente la sua religione. Il buon Dio non lo inquietava, e ne par­ lava con indifferenza. Ma i santi e soprattutto la Vergine ave­ vano tutti i suoi omaggi. Mi faceva pensare a quei vecchi sol­ lecitatori consumati nel mestiere, la cui massima è che vale di più avere amici negli uffici che la protezione del ministro in persona. Per comprendere la sua devozione alla buona Vergine bisogna sapere che in Spagna c’è Vergine e Vergine. Ogni città ha la sua e si fa beffe di quella dei vicini. La Vergine di Peniscola, cittadina che aveva dato i natali all’onorevole Vicente, secondo lui valeva tutte le altre messe insieme. «Ma», gli dissi un giorno, «ci sono tante Vergini?». «Certo; ogni provincia ne ha una». «E nel cielo, quante ce ne sono?». La questione era imbarazzante per lui evidentemente, ma il suo catechismo gli venne in aiuto. «Ce n’è una sola», rispose con l’esitazione di un uomo che ripete una frase che non capisce. 622

«E allora!», proseguii io, «se vi rompete una gamba, a quale Vergine vi rivolgete? A quella del cielo o a un’altra?». «Alla santissima Vergine Nostra Signora di Peniscola, è chia­ ro (por supuesto)». «Ma perché non a quella del Pilier, a Saragozza, che fa tanti miracoli?». «Bah! Va bene per gli aragonesi». Volli prenderlo dal suo lato debole: il patriottismo provinciale. «Se la Vergine di Peniscola», gli dissi, «è più potente di quella del Pilier, ciò proverebbe che i valenciani sono più sciocchi degli aragonesi, perché hanno bisogno di una patrona più potente per­ ché gli vengano rimessi i loro peccati». «Ah! signore, gli aragonesi non sono migliori di altri; solo, noialtri valenciani, conosciamo il potere di Nostra Signora di Pe­ niscola, e ci affidiamo troppo». «Vicente, ditemi: non credete che Nostra Signora di Peniscola parli valenciano al buon Dio quando prega Sua Maestà di non dannarvi per i vostri misfatti?». «Valenciano? No, signore», replicò Vicente. «Vostra Signoria sa bene che lingua parla la Vergine». «Veramente, no». «Ma latino, è chiaro!». Le montagne poco elevate del Regno di Valencia sono spesso costellate da castelli in rovina. Mi decisi un giorno, passando ac­ canto a una di quelle catapecchie, di chiedere a Vicente se là ci fos­ sero degli spettri. Sorrise, e mi rispose che ce n’erano nel paese; poi aggiunse, facendo l’occhiolino con l’aria di un uomo che fa una battuta: «Vostra Signoria sicuramente ne ha visti nel suo paese?». In spagnolo non c’è una parola che traduca esattamente il termine francese di revenant. Duende, che trovate nel diziona­ rio, corrisponde piuttosto al nostro «folletto», e si riferisce, co­ me in francese, a un bambino birichino. Duendecito (piccolo duende) si potrebbe chiamare un giovanotto che si nasconde dietro la tenda della camera di una ragazzina per farle paura, o con tutt’altra intenzione. Ma quanto a quei grandi spettri palli­ di, vestiti con un lenzuolo che trascinano le catene, non se ne vedono in Spagna e non se ne parla. Ci sono ancora dei Mori in­ cantati di cui si racconta il girovagare nei dintorni di Granada, 623

ma in generale sono spettri buoni, che appaiono di pieno gior­ no per chiedere molto umilmente il battesimo che non hanno avuto il piacere di farsi amministrare in vita. Se si accorda loro questa grazia, per la fatica fatta, vi mostreranno un bel tesoro. A questo aggiungete una specie di lupo mannaro tutto peloso che chiamano el velludo, che è dipinto all’Alhambra, e un certo ca­ vallo senza testa' che, nonostante questo, galoppa molto veloce­ mente in mezzo alle pietre che ingombrano il burrone tra l’Alhambra e il Généralife, avreste una lista pressappoco com­ pleta di tutti i fantasmi con cui si spaventano o si divertono i bambini. Per fortuna, si crede ancora agli stregoni, e soprattutto alle streghe. A una lega da Murviedro c’è una piccola taverna isolata. Mo­ rivo dalla sete, e mi fermai alla porta. Una ragazza molto carina, per niente troppo scura, mi portò una grande brocca fatta di quel­ la terra porosa che tiene fresca l’acqua. Vicente, che non passava mai davanti a una taverna senza aver sete e offrirmi qualche buo­ na ragione per entrarvi, non sembrava aver gran desiderio di fer­ marsi in quel luogo lì. Si stava facendo tardi, diceva; «abbiamo molta strada da fare»; a un quarto di lega da là c’era una locanda migliore dove avremmo trovato il più famoso vino del regno, ec­ cezione fatta per quello di Peniscola. Fui inflessibile. Bevvi l’ac­ qua che mi offrivano, mangiai del gazpacho preparato dalle mani della signorina Carmencita, e feci anche il suo ritratto nel mio al­ bum di schizzi. Vicente tuttavia strigliava il cavallo davanti alla porta, fischiando con aria impaziente, e sembrava provare ripu­ gnanza a entrare nella casa. Ci rimettemmo in cammino. Parlavo spesso di Carmencita, Vicente scuoteva la testa. «Brutta casa!», diceva. «Brutta? perché? Il gazpacho era eccellente». «Non è incredibile, forse l’ha preparato il diavolo». «Il diavolo! Lo dite perché non risparmia peperoncino, oppu­ re quella brava ragazza avrebbe il diavolo per cuoco?». «Chi lo sa?». «Così... è una strega?». 1 El caballo descabezado.

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Vicente girò la testa con aria inquieta per vedere di non essere osservato; affrettò il passo del cavallo con un colpo della bac­ chetta, e sempre correndo accanto a me alzava leggermente la te­ sta, spalancando la bocca e levando gli occhi al cielo, segno di af­ fermazione tipico delle persone che si sarebbe tentati di credere silenziose per la difficoltà che si prova ad avere una risposta a una domanda precisa. La mia curiosità si era risvegliata e vedevo con vivo piacere che la mia guida non era, come avevo temuto, uno spirito forte. «Così è una strega?», dissi riportando al passo il cavallo. «E la figlia, che è?». «Vostra Signoria conosce il proverbio: «Primevo p..., luego, alcabueta, pues bruja1. * Comincia la figlia, la madre è già arrivata al porto». «Come fate a sapere che è una strega? Cosaha fatto per pro­ varlo?». «Quello che fanno tutte. Dà il malocchio3, che fa seccare i bambini; brucia gli olivi, fa morire i muli, e altre cattiverie». «Ma conoscete qualcuno che è stato vittima dei suoi male­ fici?». «Se lo conosco? Mio cugino germano, per esempio, cui ha gio­ cato un brutto tiro». «Raccontatemelo, vi prego». «Mio cugino non ama che si racconti questa storia. Ma ora si trova a Cadice e spero che non gli succeda nessuna disgrazia se vi dico...». Calmai gli scrupoli di Vicente regalandogli un sigaro. Trovò l’argomento irresistibile e cominciò così: «Dovete sapere, signore, che mio cugino si chiama Henri­ quez, e che è nato a Grao di Valencia, marinaio e pescatore del suo stato onest’uomo e padre di famiglia, cristiano di lunga da­ ta come tutta la sua razza; e posso vantarmi di esserlo, povero come sono, quando ci sono tante persone più ricche di me che 1 Prima p..., poi mezzana, poi strega. 1 Mal de ojos. Non è un male che gli occhi ricevono, ma che gli occhi procurano; è la fascinazione dell’occhio cattivo. Spesso, nel regno di Valencia, si attacca al polso dei bam­ bini un piccolo braccialetto scarlatto per preservarli dal malocchio.

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sentono il marrano. Dunque, mio cugino era pescatore in una piccola frazione di Peniscola, perché, pur essendo nato a Grao, aveva la sua famiglia a Peniscola. Era nato nella barca di suo pa­ dre; così, essendo nato sul mare, non ci si deve stupire che fos­ se un buon marinaio. Era stato nelle Indie, in Portogallo, do­ vunque. Quando non era imbarcato su un grande vascello, ave­ va la sua barca e andava a pesca. Al ritorno attaccava la barca con un con una cima ben solida a un grosso palo, poi se ne an­ dava a dormire tranquillamente. Ecco che un mattino, partendo per andare a pescare, va a disfare il nodo della cima, e che ve­ de?... Al posto del nodo che aveva fatto, un nodo come lo sa fa­ re un buon marinaio, vede un nodo come potrebbe farlo una donna vecchia per attaccare la sua asina. “Dei piccoli monelli si saranno divertiti nella mia barca, ieri sera”, pensò; “se li ac­ chiappo, li striglierò come si deve”. Si imbarcò, pescò e tornò. Ormeggiò poi la sua barca, e per precauzione, questa volta fece un doppio nodo. Bene! L’indomani, il nodo era disfatto. Mio cugino si arrabbiò; ma indovina chi ha fatto il colpo?... Tutta­ via, prende una corda nuova, e, senza scoraggiarsi, ormeggia an­ cor più solidamente la sua barca. Bah! l’indomani, non c’è più la corda nuova, e al suo posto un piccolo pezzetto di spago, resto di un cavo tutto marcio. In più, la vela era lacerata, segno che era stata spiegata durante la notte. Mio cugino si disse: “Non sono monelli che la notte prendono la mia barca; non oserebbero spiegare la vela per paura di rovesciarsi. E sicuramente un la­ dro”. Che fa? La sera si va a nascondere nella barca, si accuccia nel luogo dove metteva il pane e il riso quando s’imbarcava per più giorni. Si getta addosso, per nascondersi meglio, un vecchio mantello ed eccolo tranquillo. A mezzanotte, ricordatevi bene l’ora, improvvisamente sente delle voci come se molte persone venissero di corsa al bordo del mare. Alza la punta del naso e vede... non ladri, Gesù! ma una dozzina di vecchie a piedi nudi e con i capelli al vento. Mio cugino è un uomo risoluto, e tene­ va un coltello ben affilato nella cintura per servirsene contro i ladri; ma quando vede che aveva a che fare con delle streghe, il coraggio lo abbandonò; si mise il mantello sulla testa e si racco­ mandò a Nostra Signora di Peniscola, affinché impedisse a quel­ le donne cattive di vederlo. 626

Era dunque tutto raggomitolato, tutto rannicchiato nel suo angolo, e molto in pena per se stesso. Ecco che le streghe stac­ cano la corda, mollano la vela e volano sul mare. Andava, anda­ va con tanta velocità che il fischio dell’acqua gli tagliava le orec­ chie, che il catrame fondeva!4 E non c’era da stupirsi, perché le streghe hanno il vento quando vogliono, dato che è il diavolo a soffiare. Mio cugino le sentiva parlare, ridere, dimenarsi, van­ tarsi di tutto il male che avevano fatto. Ce n’erano alcune che conosceva, altre era evidente che venissero da lontano e che lui non aveva mai visto. La Ferrer, questa vecchia strega da cui vi siete fermato così a lungo, reggeva il timone. Poi, in capo a un po’ di tempo, si fermarono, toccarono terra, le streghe saltaro­ no fuori dalla barca e la attaccarono alla riva a una grossa pietra. Quando mio cugino Henriquez non sentì più le loro voci, si az­ zardò a uscire dal suo buco. La notte non era molto illuminata, tuttavia riuscì a vedere bene a un lancio di pietra dalla riva, dei grandi giunchi agitati dal vento, e più lontano un grande fuoco. State certo che è là che si teneva il sabba. Henriquez ebbe il co­ raggio di saltare a terra e tagliare alcuni giunchi, poi si mise di nuovo nel suo nascondiglio con i giunchi che aveva preso, e aspettò tranquillo il ritorno delle streghe. In capo a un’ora, più o meno, queste ritornarono, si imbarcarono, girarono la barca, e navigarono veloci come la prima volta. “Con l’andatura con cui andiamo”, si diceva mio cugino, “saremo presto a Peniscola”. Tutto stava andando bene quando improvvisamente una di quelle donne si mise a dire: “Sorelle mie, ecco che suonano le tre”. Non fece in tempo a dirlo che tutte presero il volo e di­ sparvero. Pensate che è proprio solo a quell’ora che hanno il po­ tere di andare in giro per il paese. La barca non andava più, e mio cugino fu costretto a remare. Dio solo sa quanto tempo ri­ mase in mare prima di poter raggiungere Peniscola. Più di due giorni. Arrivò sfiancato. Dopo che ebbe mangiato un pezzo di pane e bevuto un bicchiere d’acquavite, andò dal farmacista di Peniscola, che è un uomo molto saggio e conosce le piante offi4 Non osai interrompere la mia guida per avere la spiegazione di questo fenomeno. Forse la velocità del movimento produceva un calore tale da fondere il catrame? È evi­ dente che il mio amico Vicente, che non era mai stato marinaio, non riusciva a utilizzare il colore locale con abilità.

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cinali. Gli mostrò i giunchi che aveva con sé. “Da dove vengo­ no?”, chiese al farmacista. “Ce ne sono parecchie in America, e avrete un bel piantare qui i semi, non ne nascerebbe nulla”. Mio cugino, senza aggiungere una parola al farmacista, se ne va drit­ to dalla Ferrer. “Paca”, disse entrando «sei una strega». L’altra protesta e dice: “Gesù! Gesù!”. “La prova che sei una strega è che vai in America e ritorni in una notte. Sono venuto con te, la tale notte, ed eccone la prova. Ecco, ecco dei giunchi che ho rac­ colto là”». Vicente, che mi fatto narrato la storia fino a quel momento con voce commossa e accalorandosi, tese allora la mano verso di me, accompagnando il racconto con una pantomima appropriata e mi offrì un pugno d’erba che aveva raccolto. Non potei impe­ dirmi di fare un movimento, credendo di vedere i giunchi ameri­ cani. Vicente riprese: «La strega disse: “Non fate rumore; ecco un sacco di riso, prendetelo e lasciatemi tranquilla”. Henriquez disse: “No, non ti lascio tranquilla se tu non mi fai avere a volontà un vento come quello che ci ha portato in America”. Allora la strega gli ha dato una pergamena in una zucca, che lui porta sempre con sé in ma­ re; ma al posto suo avrei gettato la pergamena e tutto nel fuoco da tempo; o meglio, l’avrei data a un prete, perché chi tratta con il diavolo è sempre un cattivo mercante». Ringraziai Vicente per la sua storia, e aggiunsi, per ripagarlo con la stessa moneta, che nel mio paese le streghe facevano a me­ no delle barche, e che il mezzo di trasporto abituale era una sco­ pa su cui queste dame si mettevano a cavalcioni. «Vostra Signoria sa bene che questo è impossibile», rispose freddamente Vicente. Rimasi esterrefatto della sua incredulità. Non credere a me, io che non avevo sollevato il minimo dubbio sulla veridicità della storia dei giunchi. Gli manifestai tutta la mia indignazione, e gli dissi con tono severo di non parlare di cose che non poteva com­ prendere, aggiungendo che se fossimo stati in Francia avrei tro­ vato tanti testimoni quanti ne poteva desiderare. «Se Vostra Signoria l’ha visto, allora è vero», rispose Vicente. «Ma se non l’ha visto continuerò a dirvi che non è possibile che delle streghe possano montare a cavalcioni di una scopa; perché 628

non è possibile che in una scopa non ci sia qualche legnetto che s’incrocia ed ecco fatta una croce; e allora come potete pretende­ re che delle streghe possano servirsene?». L’argomento era senza replica. Me ne tirai fuori dicendo che ci sono scope e scope. Era impossibile riconoscere che una strega montasse su una scopa di betulla; ma su una scopa di ginestra, i cui steli sono dritti e rigidi, su una scopa di crine, niente di più fa­ cile. Tutti possono capire senza fatica che si può andare in capo al mondo su un tale manico di scopa. «Ho sempre sentito dire, signore», disse Vicente, «che ci sono molti stregoni e streghe nel vostro paese». «Questo è dovuto al fatto, amico mio, che da noi non c’è In­ quisizione». «Allora Vostra Signoria avrà sicuramente visto quelli che ven­ dono sortilegi per ogni tipo di cosa. Ne ho visto gli effetti, io che vi parlo». «Parlate come se non conoscessi quelle storie là; poi vi dirò se sono vere». «Ebbene! signore, mi hanno detto che nel vostro paese esisto­ no persone che vendono sortilegi a persone che li comprano. Con un buon sacco di monetine, vi vendono un pezzo di giunco con un nodo da una parte e un buon tappo dall’altra. In questo giun­ co ci sono dei piccoli animali (animalitos') per mezzo dei quali si può ottenere tutto ciò che uno chiede. Ma voi sapete meglio di me come si devono nutrire... Carne di bambino non battezzato, si­ gnore; e quando non ci si può procurare, il padrone del giunco è costretto a tagliare un pezzo della propria carne... (I capelli di Vi­ cente si drizzarono sulla testa). Bisogna dargli da mangiare una volta ogni ventiquattro ore, signore». «Avete visto uno di questi giunchi?». «No, signore, per non dire bugie; ma ho conosciuto un certo Romero; ho bevuto mille volte con lui (quando non lo conosce­ vo per quello che era come adesso). Questo Romero faceva lo zagal5 di professione. Si ammalò e dopo perse il vento, non poteva ’ Lo ZđgđZ è una specie di postiglione a piedi. Tiene per le briglie i due muli davanti di un tiro e li guida in corsa quando sono lanciati al galoppo. Se si ferma, la vettura gli passa sul corpo. Nelle nuove diligenze si chiama impropriamente zagal un uomo che attacca gli zoccoli, aiuta a caricare la vettura ecc. È il caa delle vetture inglesi.

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più correre. Gli dicevano di andare in pellegrinaggio per ottenere la guarigione, ma lui diceva: “Mentre sarò in pellegrinaggio, chi guadagnerà il denaro per dar da mangiare ai miei bambini?”. Non sapendo comunque dove sbattere la testa, si intrufolò tra le stre­ ghe e altre canaglie simili, che gli vedettero uno di quei pezzetti di giunco di cui ho parlato a Vossignoria. Signore, da quel mo­ mento, Romero avrebbe catturato una lepre in corsa. Non esiste­ va zagal che potesse paragonarsi a lui. Sapete che mestiere è, e quanto è pericoloso e faticoso. Oggi corre davanti ai suoi muli senza perdere una sbuffata del suo sigaro. Correva da Valencia a Murcia senza fermarsi, tutto d’un fiato. Ma bisogna vederlo per giudicare quanto gli costi. Le ossa gli bucano la pelle, e se gli oc­ chi continueranno a scavarsi, presto vedrà dietro la testa. Quelle bestie se lo mangiano». «Ci sono dei sortilegi che sono buoni ad altro che a far corre­ re. .. sortilegi che garantiscono piombo e acciaio, che vi rendono duro, come si dice. Napoleone ne aveva un uno, è questo che ha fatto in modo che non venisse ucciso in Spagna; ma c’era anche un mezzo più facile...». «Si trattava di far fondere una pallottola d’argento», lo inter­ rupt, ricordandomi della pallottola con cui un coraggioso whig bucò la scapola di Claverhouse. «Una pallottola d’argento potrebbe essere buona», riprese Vicente, «se venisse fusa con un pezzo di moneta su cui ci fos­ se la croce, come su una vecchia monetina; ma funziona anco­ ra di più prendere semplicemente un cero che è stato sull’alta­ re durante la messa. Fate fondere questo cero benedetto in uno stampo per le pallottole, e state certo che non esiste sortilegio, né diavoleria, né corazza che possa salvare uno stregone contro una tale pallottola. Juan Coll, che ha fatto tanto rumore al tem­ po nei dintorni di Tortose, è stato ucciso da una pallottola di cera che gli sparò un coraggioso micheletto, e quando fu mor­ to e il micheletto lo spogliò, gli trovò il petto tutto coperto di figure e segni fatte con la polvere di cannone, pergamene attac­ cate al collo e non so quante altre diavolerie. José Maria, che ha fatto tanto parlare di sé in Andalusia, ha un incantesimo contro le pallottole; ma guai a lui se gli scaricano pallottole di cera! Sa­ pete come maltratta i preti e i monaci che cadono nelle sue ma630

ni: il fatto è che sa che un prete deve benedire la cera che lo uc­ ciderà”. Vicente ne avrebbe dette ancora di più, se in quel momento il castello di Murviedro, che scorgemmo dopo una svolta della strada, non avesse fatto prendere un altro corso alla nostra con­ versazione.

1833

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Storia di Rondino

Si chiamava Rondino. Orfano dall’infanzia, venne affidato al­ le cure dello zio, balivo del suo villaggio, un uomo avaro, che lo trattava malissimo. Quando fu in età di tirare per la milizia, il ba­ livo andava dicendo pubblicamente: «Spero che Rondino diventi soldato, e che il paese se ne sba­ razzi. Quel ragazzo non può fare nulla di buono. Presto o tar­ di, diventerà il disonore della famiglia. Sicuramente finirà per perdersi». L’odio di quest’uomo verso Rondino lo si doveva a un moti­ vo vergognoso. Suo nipote aveva ereditato una piccola fortuna che il balivo amministrava, e di cui non aveva fretta a render con­ to. Comunque sia, il destino volle che Rondino fosse coscritto, e lasciò il paese, persuaso che lo zio avesse organizzato nella tratta una frode di cui lui era la vittima. Arrivato al reggimento, spesso non era presente all’appello, e mostrava una tale insubordinazione che lo spedirono in un batta­ glione disciplinare. Parve estremamente colpito da questa puni­ zione, giurò di mutare condotta e mantenne la parola. In capo a qualche mese, fu richiamato al reggimento. Da quel momento in poi adempì i suoi doveri di soldato con esattezza, e mise ogni sua cura per farsi notare dai superiori. Sapeva leggere e scrivere; era molto intelligente. In poco tempo lo fecero caporale, poi sergen­ te. Un giorno il suo colonnello gli disse: «Rondino, il vostro servizio sta per finire; ma posso contare sul fatto che rimarrete con noi?». 635

«No, mio colonnello, desidero ritornare nel mio paese». «Avete torto. State bene qui. Gli ufficiali e i compagni vi sti­ mano. Eccovi sergente; e, se continuerete a comportarvi bene, sa­ rete presto sergente maggiore. Rimanendo al reggimento avete una condizione sicura, invece se ritornate al vostro villaggio mo­ rirete di fame o sarete a carico sui vostri genitori». «Mio colonnello, ho dei beni nel mio paese...». «Vi sbagliate. Vostro zio mi ha scritto che per la vostra educa­ zione ha fatto delle spese che voi non potrete mai rimborsare. Del resto, se voi sapeste ciò che pensa di voi, non avreste tutta questa fretta di ritornare da lui. Mi scrive di trattenervi con tutti i mezzi possibili; dice che siete un buono a nulla, che tutti vi detestano, e che nessun fattore del paese vi darebbe un lavoro». «Ha detto così!». «Ho la lettera». «Non importa! Voglio ritornare nel mio paese». Lo dovettero congedare: lo accompagnarono onorevoli cer­ tificati. Rondino si recò al più presto da suo zio balivo, gli rimproverò l’ingiustizia e gli chiese con grande insolenza di rendergli i suoi beni, che tratteneva a torto. Il balivo replicò, andò in collera, gli fece vedere dei conti falsi, e la discussione si riscaldò a tal punto che colpì Rondino. Questi lo colpì subito con lo stiletto e lo vide morire sul colpo. Dopo l’assassinio, lasciò il villaggio e chiese asi­ lo a uno dei suoi amici che abitava in un fondo isolato in mezzo alle montagne. Ben presto partirono tre gendarmi per cercarlo. Rondino li attese a un crocicchio, ne uccise uno, ne ferì un altro, e il terzo prese la fuga. Dalla persecuzione dei carbonari, i gendarmi non sono amati in Piemonte e si applaude sempre a chi li colpisce. Così Rondino passò per un eroe tra i contadini del vicinato. Al­ tri incontri con la forza armata furono fortunati come il primo, e accrebbero la sua reputazione. Si racconta che in due o tre an­ ni avesse ucciso o ferito una quindicina di gendarmi. Cambiava spesso rifugio, ma non si allontanava mai più di sette-otto leghe dal villaggio. Non voleva; solo, quando aveva quasi finito le mu­ nizioni, chiedeva al primo passante un quarto di scudo per com­ prare polvere e piombo. In genere dormiva in fattorie isolate. 636

Abitualmente allora chiudeva tutte le porte, e portava via le chia­ vi della stanza che gli avevano dato. Aveva le armi con sé e fuori della casa lasciava come sentinella un enorme cane che lo segui­ va dappertutto e che, più di una volta, aveva fatto sentire i suoi temibili denti ai nemici del suo padrone. Giunta l’alba, Rondino restituiva le chiavi, ringraziava gli ospiti e, ancor più frequente­ mente, i suoi ospiti lo pregavano alla partenza di accettare alcu­ ne provviste. M.A***, ricco proprietario di mia conoscenza, lo vide tre anni fa. Facevano la mietitura, e sorvegliava i suoi operai, quando vide venire verso di sé un uomo ben fatto, robusto, dal volto virile, ma non feroce; aveva un fucile, ma a cinquanta passi dai mietitori lo depose ai piedi di un albero, ordinò al cane di sorvegliarlo, e avanzò verso M.A***, lo pregò di volergli fare un’elemosina. «Perché non lavorate con gli operai?», gli disse M.A***, che lo prendeva per un semplice mendicante. Il proscritto sorrise e disse: «Sono Rondino». Subito gli offrì alcune doppie1. «Non prendo mai che un quarto di scudo», disse Rondino; «è sufficiente per riempire la mia fiaschetta della polvere. Se volete fare qualcosa per me, abbiate la bontà di darmi qualcosa da man­ giare, perché ho fame». Prese un pane e del lardo, e voleva andarsene subito portan­ do via la cenai quando M.A*** lo trattenne ancora qualche istante, curioso di osservare a suo piacimento un uomo di cui si parlava tanto. «Dovreste lasciare il paese», disse al proscritto; «presto o tar­ di vi prenderanno. Andate a Genova o in Francia; di là passerete in Grecia, vi troverete dei militari, nostri compatrioti, che vi rice­ veranno bene. Vi darei volentieri i mezzi per viaggiare». «Vi ringrazio», rispose Rondino dopo aver un po’ riflettuto. «Non potrei vivere altrove se non nel mio paese, e mi sforzerò di farmi impiccare il più tardi possibile». Un giorno, alcuni ladri di professione cercarono Rondino e gli dissero: 1 [Antiche monete].

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«Questa notte deve passare in tale luogo un consigliere di To­ rino; ha 40000 franchi nella carrozza; se ci vuoi accompagnare, noi lo fermeremo e tu avrai la tua parte da capitano». Rondino alzò con fierezza la testa e, guardandoli con di­ sprezzo: «Per chi mi prendete?», disse, «sono un onesto proscritto, e non un ladro. Non mi fate più simili proposte, o ve ne pentirete». Li lasciò, e andò incontro al consigliere. Avendolo incontrato appena si era fatta notte, fece fermare la carrozza, salì a cassetta e ordinò al cocchiere di proseguire il cammino. Il consigliere però, tremando, a ogni istante si aspettava di essere assassinato. All’improvviso, in mezzo a una gola, apparvero i ladri; Rondino grida subito: «Questa carrozza è sotto la mia protezione; mi conoscete e se l’attaccherete, dovrete risponderne a me». Aveva sollevato il fucile, e il cane non aspettava che un cenno per slanciarsi contro i briganti. Quelli lasciarono passare la car­ rozza, che ben presto fu al sicuro. Il consigliere offrì un conside­ revole regalo al suo liberatore, ma Rondino rifiutò «Ho fatto solo il mio dovere di ogni uomo onesto», disse; «oggi, non ho bisogno di niente; tuttavia, se volete provarmi la vostra riconoscenza, dite solo ai vostri fattori di darmi un quarto di scudo quando non avrò più polvere, e da mangiare quando avrò fame». Rondino fu preso due anni fa, nel modo seguente. Una notte andò a dormire in un presbiterio; chiese tutte le chiavi, ma il cu­ rato ebbe l’accortezza di conservarne una, con la quale, una vol­ ta che il brigante fu addormentato, potè inviare un ragazzo che lo serviva a chiamare la più vicina brigata dei gendarmi. Il cane di Rondino era dotato di uno straordinario istinto per sentire da lontano l’arrivo dei nemici. Il suo abbaiare risvegliò il padrone, che tentò di uscire dal villaggio; ma tutte le strade erano sorve­ gliate. Salì sul campanile e vi si barricò. Venuto giorno, cominciò a sparare dalle finestre, e presto obbligò i gendarmi a guadagna­ re le case vicine, e a rinunciare a dare l’assalto. Le fucilate dura­ rono gran parte della giornata. Rondino non era ferito, e aveva già messo fuori combattimento tre gendarmi; ma non aveva né pane né acqua, e il caldo era soffocante; capì che era giunta la sua 638

ora. Improvvisamente lo videro apparire da una finestra dell’e­ sterno, sventolando un fazzoletto bianco in cima al fucile. Smi­ sero di sparare. «Sono stanco», disse, «della vita che faccio; voglio arrendermi, ma non voglio che i gendarmi abbiano il merito di avermi preso. Fate venire un ufficiale di linea, mi arrenderò a lui». Proprio in quel momento un distaccamento comandato da un ufficiale entrava nel villaggio; acconsentirono a ciò che Rondino chiedeva. I soldati si misero in posizione di battaglia davanti al campanile, e Rondino uscì all’istante. Avanzò verso l’ufficiale, e gli disse con voce ferma: «Signore, accettate il mio cane, ne sarete contento; promette­ temi di aver cura di lui». L’ufficiale glielo promise. Subito dopo ruppe il calcio del fucile, e senza fare resistenza venne condotto via dai soldati, che lo trattarono con molto riguardo. Attese il giu­ dizio per due anni; ascoltò la sentenza con molto sangue freddo e subì il supplizio senza debolezza o spacconate.

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H. B.

C’è un passaggio dell’Odissea che spesso mi torna alla memo­ ria. Lo spettro di Elpenor appare a Ulisse, e gli chiede gli onori funebri: Μή μ’ «κλαυτόν, αθαπτον, ιών οπιθεν καταλείπειν «Non mi lasciare senza essere pianto, senza essere sepolto».

Oggi il funerale non manca a nessuno, grazie a un regola­ mento di polizia; ma noialtri pagani abbiamo anche dei doveri nei confronti dei morti, che non consistono solo nell’adempi­ mento di un’ordinanza di alta nettezza urbana. Ho assistito a tre funerali pagani: quello di Sautelet, che si era bruciato le cervella. Il suo maestro, grande filosofo, e i suoi amici, ebbero paura del­ le persone oneste, e non osarono parlarne. Quello di monsieur Jacquemont. Aveva difeso i discorsi. Infine quello di Beyle. Ci trovammo in tre, e così mal preparati, che ignoriamo le sue ulti­ me volontà. Ogni volta, ho sentito che abbiamo mancato in qualcosa, se non verso la morte, almeno verso noi stessi. Se uno dei nostri amici muore in viaggio, avremo un vivo rimpianto per non averlo salutato al momento della partenza. Una partenza, una morte devono essere celebrate con una certa cerimonia, per­ ché vi è qualcosa di solenne. Non foss’altro che un pranzo, un’associazione di pensieri adeguati, è necessario qualcosa. Que­ sto qualcosa è ciò che domanda Elpenor: non reclama solo un po’ di terra, è un ricordo. 641

Scrivo le pagine seguenti per supplire al fatto che non fummo presenti ai funerali di Beyle. Voglio condividere con qualcuno dei suoi amici le mie impressioni e i miei ricordi. Beyle, originale in tutto, cosa degna di merito in quest’epoca di monete false, si piccava di essere liberale, ma in fondo all’ani­ ma era un perfetto aristocratico. Non poteva tollerare gli scioc­ chi; per le persone che lo annoiavano provava un odio furioso, e nella sua vita non è mai riuscito a distinguere nettamente un mal­ vagio da un seccatore. Ostentava un profondo disprezzo per il carattere francese, ed era eloquente nel far risaltare tutti quei di­ fetti di cui si accusa, a torto senza dubbio, la nostra grande na­ zione: leggerezza, distrazione, incongruenza nelle parole e nei fatti. In fondo, teneva in grande considerazione questi difetti e, per non parlare che della distrazione, un giorno scrisse da Civita­ vecchia a monsieur de Broglie, Ministro degli Affari esteri, una lettera cifrata, e gli trasmise le cifre nella stessa lettera. Tutta la sua vita fu dominata dall’immaginazione, e non fece nulla se non d’impulso e sull’onda dell’entusiasmo. Eppure si pic­ cava di agire solo in conformità della ragione. «Si deve in tutto es­ sere guidati dalla LO-GICA», diceva, facendo un intervallo fra la prima sillaba della parola e il resto. Ma sopportava con impazien­ za che la logica degli altri non fosse la sua. Non discuteva però. Coloro che non lo conoscevano attribuivano ad eccessi d’orgo­ glio quello che non era forse che rispetto per le convinzioni altrui. «Voi siete un gatto; io sono un ratto», diceva spesso per porre fi­ ne alle discussioni. Un giorno, volemmo scrivere insieme un dramma. I nostri eroi avevano commesso un crimine ed erano tormentati dai ri­ morsi. «Per liberarsi di un rimorso», disse Beyle, «cosa bisogna fare?». Rifletté un istante. «Bisogna fondare una scuola di mutuo insegnamento». Il nostro dramma rimase là. Non aveva alcuna idea religiosa, o se ne aveva, adduceva un sentimento di collera contro la Provvidenza. «Quello che scusa Dio», diceva, «è che non esiste». Una volta, a casa di madame Pa­ sta, ci illustrò la seguente teoria cosmogonica: «Dio era un mec­ canismo molto abile. Lavorava notte e giorno alle sue faccende, parlando poco, e trovando nuove invenzioni continuamente, ora un sole, ora una cometa. Gli dicevano: «Ma scrivetele, dunque, le 642

vostre invenzioni. Non devono andare perdute». «No», rispon­ deva; «niente è ancora esattamente come desidero. Lasciatemi perfezionare le mie scoperte, e allora...». Un bel giorno morì im­ provvisamente. Si corse a cercare il figlio unico che studiava dai gesuiti. Era un ragazzo dolce e studioso, che non sapeva una pa­ rola di meccanica. Lo condussero all’altare di fuoco di suo padre. «Su, all’opera! si tratta di governare il mondo». Eccolo del tutto imbarazzato; domanda: «Come faceva mio padre?». «Girava questa ruota, faceva così, faceva cosà». Gira la ruota, e le macchi­ ne vanno tutte per traverso». Beyle mi disse che aveva scritto un dramma sulla vita di Ge­ sù Cristo. L’aveva presentato come un’anima semplice, ingenua, piena di sensibilità e di tenerezza, ma incapace di comandare agli uomini. Gesù Cristo, in questo dramma, giustificava a suo fine la dottrina di Socrate. «C’è l’amore nel vostro dramma?», gli domandai. «Molto. E san Giovanni il discepolo prediletto?». Sosteneva che tutti i grandi uomini hanno gusti bizzarri, e cita­ va Alessandro, Cesare, venti papi italiani; pretendeva che lo stesso Napoleone avesse avuto un debole per uno dei suoi aiu­ tanti di campo. Era difficile sapere cosa pensasse di Napoleone. Quasi sempre era dell’opinione contraria a quella che aveva davanti. Ora ne par­ lava come di un nuovo ricco abbagliato dagli orpelli, che conti­ nuamente mancava alle regole della LO-GICA. Altre volte, aveva un’ammirazione che sfiorava l’idolatria. Volta per volta era fron­ dista come Courier, e servile come Les Cases. Gli uomini del­ l’Impero non erano trattati diversamente dal loro maestro. Conveniva con la fascinazione che esercitava l’imperatore su tutti quelli che lo avvicinavano. «E anch’io», diceva «ebbi il fuo­ co sacro». «Mi avevano inviato a Brunswick per chiedere un’im­ posta straordinaria di 5 milioni. Ne ho fatti rientrare 7, e sono sta­ to quasi accoppato dalla canaglia che insorse, esasperato dall’ec­ cesso del mio zelo. Ma l’imperatore chiese chi era l’uditore che aveva fatto quello, e disse: “Bene”». Amavamo sentirlo parlare delle campagne che aveva fatto con l’imperatore. I suoi racconti non somigliavano alle relazioni uffi­ ciali. Si giudicherà. In un affare assai scottante, Murat arringava i soldati per disperderli; ecco in quali termini: «Avanti! s.n.d.D. 643

Ho il culo tondo come una mela, soldati!». «Nel momento del pericolo», diceva Beyle, «sembrava un’arringa normale, e sono convinto che anche Cesare e Alessandro in simili occasioni han­ no detto parole grosse». Partito da Mosca, Beyle si trovò la sera del terzo giorno della ritirata con circa millecinquecento uomini, separato dal grosso dell’armata da un considerevole corpo russo. Passarono una par­ te della notte a lamentarsi, poi gli energici arringarono i pigri, e a forza di retorica, li convinsero ad aprirsi un varco con la spada sguainata, quando il giorno avrebbe permesso di distinguere il nemico. Altro tipo di allocuzione militare: «Razza di canaglie, sa­ rete tutti morti domani perché siete troppo j.-f. per prendere un fucile e servirvene ecc.!». Queste sublimi parole produssero il lo­ ro effetto, all’alba del giorno marciarono con risolutezza contro i russi di cui si vedeva ancora brillare il fuoco del bivacco. Vi arri­ varono senza essere scoperti, e trovano un cane tutto solo. I rus­ si erano partiti durante la notte. Durante la ritirata non aveva troppo sofferto di fame, ma gli era assolutamente impossibile rammentare come avesse mangiato e cosa avesse mangiato, se non un pezzetto di lardo che aveva pa­ gato 20 franchi, e di cui si ricordava ancora con delizia. Aveva portato da Mosca il volume delle Facezie di Voltaire, ri­ legato in marocchino rosso, che aveva preso in una casa che bru­ ciava. I suoi compagni trovarono quest’azione un po’ avventata: «Scompagnare una magnifica edizione!». Lui stesso ne provava una sorta di rimorso. Una mattina, nei pressi di Berezina, si presentò a monsieur Daru, rasato e vestito con cura: «Vi siete fatto la barba!», gli dis­ se monsieur Daru, «siete un uomo coraggioso». Monsieur Bergonié, uditore al Consiglio di Stato, mi ha detto che doveva la vita a Beyle, che, prevedendo l’ingorgo dei ponti, l’aveva obbligato a passare la Berezina, la sera che precedette la rotta. Dovette usare quasi la forza per ottenere che facesse qual­ che centinaio di passi. Monsieur Bergonié elogiava il sangue fred­ do di Beyle, e il buon senso che non lo abbandonava un istante quando i più risoluti perdevano la testa. Nel 1813, Beyle fu testimone involontario della rotta di un’in­ tera brigata caricata inopinatamente da cinque cosacchi. Beyle vi­ 644

de correre circa duemila uomini, fra cui cinque generali, ricono­ scibili dai cappelli bordati. Corse come gli altri, ma male, dato che aveva un piede un piede calzato e uno stivale in mano. In tutto il corpo francese non si trovarono che due eroi che fecero testa ai cosacchi: un gendarme di nome Menneval, e un coscritto, che uc­ cise il cavallo del gendarme volendo tirare sui cosacchi. Beyle fu incaricato di raccontare questo panico all’imperatore, che lo ascoltava con un furore concentrato, facendo girare una delle macchine di ferro che servivano a fissare le persiane. Cercarono il gendarme per dargli la croce; ma si nascondeva, e negò all’inizio di aver partecipato all’azione, persuaso che non ci sia niente di peggio che l’essere notati durante una rotta. Era convinto che lo volessero fucilare. Sull’amore, Beyle era ancora più eloquente che sulla guerra. L’ho sempre visto innamorato, o almeno credeva di esserlo; ma aveva avuto due amori-passioni (mi servo di uno dei suoi termi­ ni), da cui non era mai guarito. Il primo cronologicamente, cre­ do, gli era stato ispirato da madame Curial, allora all’apice della sua bellezza. Aveva come rivali uomini molto potenti, fra gli altri un generale molto favorito che un giorno approfittò della sua po­ sizione per obbligare Beyle a cedergli il suo posto presso la dama. La sera stessa, trovò il modo di fargli sentire una piccola favola che aveva scritto, nella quale allegoricamente gli proponeva un duello. Non so se la favola fosse compresa; ma non ne accettaro­ no la morale, e Beyle ricevette un’aspra ramanzina da monsieur Daru, suo parente e protettore; nondimeno continuò nei suoi propositi. Nel 1836, Beyle mi raccontava questa avventura, la se­ ra, sotto i grandi alberi della passeggiata di Laon. Aggiungeva che aveva appena visto madame Curial, che allora aveva quarantasette anni, che si era scoperto innamorato come il primo giorno. Sia l’uno che l’altra avevano avuto altre passioni nell’intervallo. «Co­ me potete amarmi ancora alla mia età?», diceva lei. Glielo dimo­ strò per bene, e non l’ho mai visto mostrare tanta emozione. Ave­ va le lacrime agli occhi mentre mi parlava. L’altro suo amore-passione fu per una bella milanese, di no­ me madame Grua. Malgrado l’onestà delle italiane, alla quale continuamente contrapponeva la civetteria delle nostre, mada­ me Grua lo tradiva indegnamente. Aveva avuto l’arte di persua­ 645

derlo che suo marito, il più bonario degli uomini, fosse un mo­ stro di gelosia; e obbligava Beyle a nascondersi a Torino, perché la sua presenza a Milano l’avrebbe perduta, diceva. Una volta ogni dieci giorni, nel cuore dell’inverno, Beyle andava a Milano nel più stretto incognito, si nascondeva in un pessimo albergo e, di notte, veniva fatto entrare nella casa della sua bella da una ca­ meriera che pagava bene. Questa storia durò un po’ di tempo, sempre con precauzioni infinite. La cameriera però ebbe un ri­ morso, e gli confessò che lo tradiva, e che aveva tanti amanti di­ versi quanto i giorni che lui passava esilio. All’inizio non volle credervi; alla fine però accettò un esperimento. Lo fecero na­ scondere in uno studio; e là, dal buco della serratura, vide, a due passi da lui, la più mostruosa opera di convinzione. Beyle mi disse che la singolarità della cosa e il ridicolo della situazione gli diedero all’inizio una folle allegria, e che soffrì tutte le pene del mondo per non allarmare i colpevoli scoppiando a ridere. Sol­ tanto in seguito si rese conto della sua sciagura. L’infedele, che per vendetta aveva un po’ canzonato, tentò di piegarlo doman­ dandogli grazia in ginocchio, e a questo seguì tutta una lunga serie del genere. L’orgoglio gli impedì di perdonarla, e se ne ac­ cusava con amarezza, ricordandosi dell’aria appassionata di ma­ dame Grua. Mai ella gli era apparsa tanto desiderabile, mai ave­ va avuto così tanto amore. Aveva sacrificato all’orgoglio il più grande piacere che potesse godere con lei. Gli ci vollero diciot­ to mesi per consolarsi. «Ero abbrutito», diceva. «Non riuscivo più a pensare. Ero oppresso da un peso insopportabile, senza potermi rendere pienamente conto di quello che provavo. È il dispiacere più grande; priva di tutte le energie. Poi, dopo esser­ mi un po’ ripreso da quell’opprimente languore, provavo una singolare curiosità di conoscere tutte le sue infedeltà. Me ne fa­ cevo raccontare tutti i dettagli. Sentivo un male terribile, ma provavo anche un certo piacere fisico a immaginarla in tutte quelle situazioni che mi descriveva». Beyle mi è sempre sembrato convinto di questa idea, molto diffusa durante l’Impero, che una donna possa sempre essere pre­ sa d’assalto, e che sia dovere di ogni uomo tentare. «Prendetela; è la prima cosa che le dovete», mi diceva quando gli parlai di una donna di cui ero innamorato. Una sera, a Roma, mi raccontò che 646

la contessa Cini gli aveva dato del tu al posto del t>of, e mi chiese se non dovesse prenderla. «Lo feci». Non ho conosciuto nessuno più galantuomo di lui nel riceve­ re le critiche sulle proprie opere. I suoi amici gli parlavano sem­ pre senza il minimo riguardo. Parecchie volte mi inviò dei mano­ scritti che aveva già fatto avere a V. Jacquemont, e che ritornava­ no con note a margine come queste: «Detestabile, Stile da portie­ re» ecc. Quando fece la sua comparsa il suo libro De l’Amour, vi fu chi lo prese in giro (in fondo, molto ingiustamente). Queste critiche non alterarono mai le sue relazioni d’amicizia. Scriveva molto e lavorava a lungo sulle proprie opere. Ma, in­ vece di correggerne l’esecuzione, ne rifaceva il piano. Se correg­ geva gli errori di una prima redazione, era per farne altri; perché, che io sappia, non ha mai cercato di correggere il suo stile. Per quante cancellature ci fossero sui suoi manoscritti, si poteva dire che erano sempre scritti di getto. Le sue lettere erano incantevoli; così la sua conversazione. Era molto allegro in società, folle qualche volta, dimenticando le convenienze e le suscettibilità. Spesso aveva un tono cattivo, ma sempre spirituale e originale. Benché non usasse riguardi per nessuno, era facilmente ferito dalle parole sfuggite senza malizia. «Sono un cagnolino che gioca», mi diceva, «e mi mordono». Di­ menticava che lui stesso talvolta mordeva, e anche forte. Non comprendeva affatto che si potessero avere opinioni diverse dal­ le sue sulle cose e sugli uomini. Per esempio, non ha mai potuto credere che esistessero veri devoti. Un prete e un realista per lui erano sempre degli ipocriti. Le sue opinioni sull’arte e la letteratura sono passate per te­ merarie eresie quando le ha rese note. Oggi, alcuni dei suoi giu­ dizi hanno l’aria di verità di monsieur de la Palisse. Quando po­ neva Mozart, Cimarosa, Rossini al di sopra dei compositori di opere comiche della nostra giovinezza, sollevava tempeste. Allo­ ra c’era chi lo accusava di sentimenti francesi. In effetti è molto francese nelle sue opinioni sulla pittura, ben­ ché pretenda di giudicarla in italiano. Apprezza i pittori con idee francesi, cioè, dal punto di vista letterario. I quadri di scuola ita­ liana sono esaminati da lui come drammi. È ancora questo il mo­ do di giudicare in Francia, dove non si ha né il sentimento della 647

forma, né un gusto innato per il colore. È necessaria una partico­ lare sensibilità e un esercizio prolungato per amare e comprende­ re la forma e il colore. Beyle attribuisce passioni drammatiche a una Vergine di Raffaello. Ho sempre sospettato che amasse i grandi pittori di scuola lombarda e fiorentina, perché le loro ope­ re lo facevano pensare a ben altro che a ciò che senza dubbio pen­ savano i maestri. È tipico dei francesi giudicare tutto con lo spi­ rito. E giusto aggiungere che non vi è lingua che possa esprimere la finezza delle forme o la varietà degli effetti di colore. Manca la capacità di esprimere ciò che si sente, si descrivono altre sensa­ zioni che possono essere comprese da tutti. Beyle mi è sempre parso indifferente all’architettura, e su que­ sta arte aveva delle idee false. Credo di avergli insegnato a distin­ guere una chiesa romanica da una chiesa gotica, e, la cosa più im­ portante, a guardare l’una e l’altra. Rimproverava alle nostre chie­ se di essere tristi. Apprezzava soprattutto la scultura di Canova, anche più delle statue greche; forse perché Canova ha lavorato per uomi­ ni di lettere. Si è molto più occupato delle idee che avrebbe fat­ to nascere in uno spirito colto piuttosto che dell’impressione che avrebbe potuto produrre su un occhio che ama e conosce la forma. Per Beyle la poesia era lettera chiusa. Spesso gli succedeva di storpiare, citandoli, dei versi francesi. Non conosceva né la me­ trica, né l’accentazione dei versi inglesi e italiani, e invece era dav­ vero sensibile a certe bellezze di Shakespeare e di Dante, che so­ no intimamente unite alla forma del verso. Ha detto l’ultima pa­ rola sulla poesia nel suo libro De L'Amour. «I versi furono in­ ventati per aiutare la memoria; conservarli nell’arte drammatica, è una barbarie». Racine non gli piaceva affatto. Il più grande rim­ provero che gli facevamo verso il 1820 era che mancasse assolu­ tamente di moralità, o di quello che, nel nostro gergo romantico, chiamavamo allora colore locale. Shakespeare, che noi opponeva­ mo sempre a Racine, ha fatto in questo campo errori cento volte più grossolani di Racine. «Ma», diceva Beyle, «Shakespeare ha conosciuto meglio il cuore umano. Non c’è passione o sentimen­ to che non abbia dipinto con un’ammirevole verità. La vita e l’in­ dividualità dei suoi personaggi lo mettono al di sopra di tutti i 648

drammaturgi». «E Molière?» rispondevano. «Molière è un furbo che non ha voluto rappresentare il cortigiano, perché Luigi XIV non lo trovava buono». Nella vita pratica, Beyle aveva un insieme di regole generali che dovevano, diceva, essere osservate infallibilmente senza di­ scussione, una volta che uno le aveva trovate comode. A mala­ pena concedeva di esaminare per un attimo se il caso particola­ re rientrava in una delle sue teorie generali. Fino all’età di trent’anni pretendeva che un uomo, trovandosi con una donna sola, tentasse di avvicinarla. Questo riesce, diceva, una volta su dieci. Ora, per quest’una su dieci vale la pena di su­ bire nove sgarberie. «Non perdonare mai una bugia; mai pentir­ si; prendere al volo la prima occasione di litigio, quando si entra in società», ecco alcune delle sue massime. Mi prendeva in giro quando mi vedeva studiare il greco a ven­ ticinque anni. «Siete in un campo di battaglia; non è più tempo di pulire il fucile; bisogna sparare». Aveva sofferto, come tanti altri, di eccessivo pudore in gio­ ventù. È una cosa difficile per un giovane entrare in un salotto. Pensa sempre di essere guardato e teme sempre di non essere corretto. «Vi consiglio», mi diceva, «di entrare con l’aria che il caso vi ha fatto prendere nell’anticamera: che sia o no adatta, non importa. Siate come la statua del commendatore, e non cambiate contegno se non quando l’emozione dell’ingresso sarà scomparsa». Aveva un’altra ricetta per i duelli: «Quando siete sotto tiro, guardate un albero, e concentratevi a contarne le foglie». Amava mangiare bene: eppure gli sembrava perso il tempo de­ dicato a mangiare, e pretendeva che avendo inghiottito un boc­ cone la mattina, uno fosse a posto con la fame per tutta la gior­ nata. Oggi siamo golosi e ne siamo fieri. Al tempo di Beyle un uomo aspirava soprattutto all’energia e al coraggio. Come poter fare campagne, se si è gastronomi? La polizia dell’Impero era dappertutto, a quanto si dice; e Fouché sapeva tutto quello che si diceva nei salotti di Parigi. Bey­ le era convinto che questo gigantesco spionaggio avesse conser­ vato tutto il suo potere occulto. Così si proteggeva con ogni tipo di precauzione per le più indifferenti azioni. 649

Non scriveva mai una lettera senza firmarla con un nome fit­ tizio: Cesar Bombet, Cototonet ecc. Come luogo scriveva nelle sue lettere, Ape, invece di Civitavecchia, e spesso le cominciava con questa frase: «Ho ricevuto le vostre sete grezze e le ho im­ magazzinate aspettando il loro imbarco». Tutti i suoi amici ave­ vano un nome da battaglia e non li chiamava mai in altro modo. Nessuno ha saputo esattamente che persone frequentasse, che li­ bri avesse scritto, che viaggi avesse fatto. Mi immagino che qualche critico del XX secolo scoprirà i li­ bri di Beyle nel guazzabuglio della letteratura del XIX, e che gli renderà quella giustizia che non ha avuto presso i suoi contem­ poranei. Così la reputazione di Diderot è cresciuta nel XIX seco­ lo; così Shakespeare, dimenticato al tempo di Saint-Évremond, è stato scoperto da Garrick. Sarebbe auspicabile che le lettere di Beyle venissero un giorno pubblicate; farebbero conoscere e ap­ prezzare un uomo il cui spirito e le eccellenti qualità vivono ora solo nella memoria di un piccolo numero di amici.

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Un duello

«Thou! Why thou wilt quarrel with a man that hath a hair more or a hair less in his beard, than thou hast... ...A villain that fights by the book of arithmetic»'. Romeo e Giulietta.

All’indomani del mio arrivo a Parigi mi presentai da madame d’Étanges12. Aveva riunito un po’ di amici e quando entrai si face­ va della musica. Fui ricevuto come uno di casa, e madame d’Étan­ ges mi fece leggere una lettera di Jules, spedita da***, a sei leghe da Cambrai, dove il reggimento di Jules aveva la sua guarnigione. Dopo tre settimane passate da uno zio a Compiègne, Jules aveva avuto l’onore di cacciare un cervo con il principe di Condé3, e i dettagli di questa caccia con molti castelli in Spagna riempivano la lettera del giovane ufficiale. Il reggimento dei dra­ goni di Chevreuse riuniva il meglio degli ufficiali: quasi tutti giovani amabili e ricchi, coraggiosi come leoni, e chiassosi come scolari di quinta. Jules si riproponeva di non essere da meno de­ gli altri. In capo a due giorni contava di offrire un pranzo di 1 [«Tu! Ma se litighi con un uomo perché ha un pelo di più o un pelo di meno di te nella barba... Un furfante che combatte con le regole del manuale», W. Shakespeare, Ro­ meo e Giulietta, atto III, scena i]. 1 [L’eroina del romanzo La nouvelle Héloïse di J.-J. Rousseau si chiama Julie d’É­ tanges]. 3 [Louis-Joseph de Bourbon, principe di Condé (1736-1818),].

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benvenuto a tutti i suoi nuovi compagni, e di ubriacarli perbene di champagne. Concludeva, chiedendo del denaro per compra­ re un cavallo inglese, datosi che gli ufficiali di Chevreuse non ne montano altri. Monsieur d’ Étanges fece qualche battuta su questa epistola, e dato che gli rammentava la sua giovinezza, ci fece allegramen­ te il racconto di quando entrò a far parte delle guardie francesi; dal grande pranzo dove non aveva tralasciato di rompere un so­ lo piatto o un bicchiere, al seguito di quel pranzo, che a tre uf­ ficiali era costato un sonno di dodici ore sotto la tavola, e a lui un colpo di spada nel braccio, infertogli da un luogotenente che lo voleva mettere alla prova, come d’abitudine. Quest’ultima parte della storia colpì molto madame d’Étanges, malgrado tutti i nostri sforzi nel rassicurarla, nel dirle che l’u­ so di mettere alla prova i nuovi venuti era scomparso da tempo. Monsieur d’Étanges non ci smentiva, ma distruggeva l’effetto delle nostre consolanti bugie ripetendo con aria tranquilla: «Do­ po tutto, che cos’è un colpo di spada?». Poi la conversazione cambiò argomento; si parlò di musica, spettacolo, poesia, pittura. «A proposito di pittura», disse mon­ sieur d’Étanges, «Auguste4 mi ha detto che voi dipingete come Raffaello» e io a difendermi! Volente o nolente, dovetti mostra­ re il mio album di viaggio che avevo la cattiva abitudine di por­ tare con me. Portarono un tavolino a mademoiselle Henriette, che si era impadronita dell’album, ne girava le pagine e, nelle ca­ ricature che passavano in rassegna, ognuno pretendeva di ravvi­ sare una persona nota. Mademoiselle Henriette non tentò di in­ dovinare e non fece osservare a nessuno uno schizzo che si tro­ vava ripetuto più volte. Era il mezzo busto di una giovane a una finestra che dava da mangiare a un uccello. Dirò a mio merito che fra tutti i miei ritratti era il più rassomigliante, eppure non lo riconobbero. Stavamo tutti per ridere, e monsieur d’Étanges vedendo che gli schizzi erano riusciti, volle andare a cercare una cartella piena di caricature inglesi che ci annunciava come molto divertente. * [L’edizione francese rileva un lapsus. Mérimée inverte i nomi: da questo momento in poi il giovane d’Étanges si chiamerà Auguste e non Jules, e il narratore Jules],

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Stava per uscire dal salone, quando un domestico gli consegnò una lettera. La lesse nel vano di una finestra, l’accartocciò subito e si lanciò fuori dell’appartamento, chiudendo bruscamente la porta dietro di sé. Mentre la leggeva, girava le spalle a tutti, nes­ suno potè accorgersi dell’alterazione dei suoi tratti. Pensai che qualche seccatore lo avesse disturbato e inoltre il mio amor pro­ prio di artista mi faceva attribuire il suo cattivo umore al dispia­ cere di lasciare i miei schizzi. Trascorse un buon quarto d’ora e monsieur d’Étanges non era ancora tornato. Mademoiselle Henriette corse per aiutarlo nelle ricerche, ma ben presto tornò dicendo con aria un po’ af­ franta che suo padre si era chiuso nella sua camera e che non le aveva risposto, benché lo avesse chiamato più volte. Madame d’Étanges impallidì. Ci guardavamo con inquietudine. Poi en­ trò il domestico; portava un biglietto scritto a matita che con­ segnò alla padrona, il cui imbarazzo e la cui inquietudine rad­ doppiarono. Comprendendo allora che monsieur d’Étanges aveva una cattiva notizia da darle, ci ritirammo tutti il più ve­ locemente possibile. Per strada, ritornai con la mente all’incidente che aveva così improvvisamente concluso la serata, e dato che un signore che fe­ ce alcuni passi con me aveva suggerito che una perdita di denaro fosse la causa del cattivo umore di monsieur d’Étanges, adottai questa idea senza esaminarla, e dato che non avevo mai badato al denaro, il fatto sminuì le mie inquietudini. Rientrato a casa, presi un volume di Shakespeare che trovai sotto mano e aprii a caso su Romeo e Giulietta e sul litigio tra Tebaldo e Mercuzio. Fu un’il­ luminazione. Mi ricordai tutto quello che monsieur d’Étanges ci aveva detto a proposito di quei litigi che gli ufficiali hanno il pia­ cere di provocare con i nuovi venuti. Mi ricordai i timori di ma­ dame d’Étanges, del turbamento di suo marito e non ebbi più al­ cun dubbio che ad Auguste fosse accaduta una qualche disgrazia. Con quest’idea, passai la notte nella più grande agitazione, e ap­ pena fu giorno andai dal portiere di casa d’Étanges a chiedere se non avessero ricevuto notizie del mio amico. Non potè darmi una risposta soddisfacente, ma mi disse che la famiglia d’Étanges sa­ rebbe partita quella mattina stessa per la campagna, e che aveva­ no dato ordine di non far entrare nessuno. 653

Il rapporto del portiere raddoppiò i miei timori. Non sapevo se dovevo scrivere a monsieur d’Étanges, oppure fargli avere il mio biglietto chiedendo di vederlo. Nel frattempo, una vettura comple­ tamente chiusa uscì dalla casa e presto la persi di vista. Passai la giornata a correre da tutti gli amici di Auguste che potevano aver ricevuto delle notizie, ma tutte le mie ricerche fu­ rono vane, e la giornata trascorse tristemente come la notte pre­ cedente. Per fortuna la stanchezza che mi prostrava mi offrì qualche istante di riposo durante la notte, ma come fu triste il mio risveglio! Mademoiselle Girard mi portò una lunga lettera con un sigil­ lo nero e nel consegnarmela mi invitò ad essere paziente e fermo. Ne avevo bisogno. La lettera mi annunciava la morte di monsieur Auguste d’Étanges, deceduto a Cambrai il.... 178... Non parlerò del mio dolore; solo coloro che hanno perso un amico possono immaginare quello che dovetti soffrire. Per più di otto giorni rimasi chiuso nella mia camera senza ve­ dere nessuno, cercando di distrarmi con del lavoro forzato. Un mattino bussò con precauzione alla mia porta mademoiselle Gi­ rard e mi chiese se potevo ricevere un ufficiale che chiedeva di parlarmi. Lo fece entrare. Era il capitano Fleury. Il capitano si ac­ comodò e mi informò che era ufficiale nel reggimento di Chevreuse e che monsieur d’Étanges l’aveva incaricato di darmi un pacchetto; nello stesso tempo mi consegnò una lettera e una pic­ cola scatola.

Ecco ciò che conteneva la sua lettera: Cambrai, addì...

«Mio caro Jules, una specie di spadaccino di nome Tourville, ha attaccato briga senza un valido motivo. Domani ci batteremo. Dicono che è una lama eccellente, ma spero bene di fare onore al metodo del nostro maestro d’armi fiammingo. Tuttavia, dato che bisogna pensare a tutto, faccio testamento e ti lascio qualche sciocchezza che ti prego di accettare. So che ami mia sorella Henriette, e scrivo a mio padre perché non sia destinata ad altri che a te. Se verrò ucciso, questa preghiera avrà 654

qualche effetto, però preferirei ballare alle tue nozze, dovessi ancora aspettare qualche anno. Il tuo amico AUGUSTE D’E.»

«P. S. Consegnerai questa scatola nelle mani di madame F. È inutile parlarne ai miei genitori». Dopo averla letta scoppiai in lacrime, e anche il capitano Fleury sembrava profondamente commosso. Fece un movimen­ to per uscire, ma per una triste curiosità, lo trattenni per cono­ scere i dettagli della morte del mio amico. «Monsieur», gli dissi, «quel Tourville, quello scellerato, quel...». «Monsieur», rispose lui, «Tourville è un bravo ragazzo, che è stato molto sfortunato. Non dubitava affatto che ciò che credeva una gentilezza avrebbe avuto un seguito così funesto». «Come! Quale gentilezza?», gridai. «Chiamate gentilezza un assassinio?». «Monsieur», replicò con vivacità il capitano, «il vostro amico non è stato assassinato. Monsieur de Tourville ha fatto tutto ciò che poteva per evitarlo, ma monsieur d’Étanges era cieco per il furore e non ha potu...». «Ma è stato Tourville a provocarlo, e ha abusato della sua su­ periorità nella scherma...». «Ascoltate, monsieur, quando un ufficiale entra in un reggi­ mento, è cosa buona assicurarsi se ha coraggio. Sapete che non è piacevole trovarsi in un combattimento gomito a gomito con un vigliacco. È per questo che quando arriva una recluta che non ha ancora annusato l’odore della polvere, noi gli sleghiamo un bur­ lone che lo mistifica a tal punto che è obbligato ad arrivare a un duello, altrimenti è costretto a filarsela in fretta». «Ma perché dopo i primi passi non separarli?», gli dissi con aria di rimprovero, perché indovinai che Tourville5 era stato il pa­ drino di Auguste. 5 [Altro lapsus di Mérimée. Il capitano Fleury doveva essere il padrino di Auguste nel duello con Tourville].

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«Prima di tutto», proseguì monsieur Fleury, «la questione non è facile, e poi, ascoltatemi, e voi stesso giudicherete. Abbiamo scelto Tourville perché si battesse con monsieur d’Étanges, per­ ché è abile ed è sicuro che avrebbe disarmato il suo uomo senza fargli del male, o, tutt’al più, lo avrebbe ferito leggermente al braccio o nella carne. Il vostro amico ci offrì un buon pranzo e gli facemmo onore, in fede mia, in modo così galante che al dolce lo amavamo già come un nostro compagno. Portarono lo champagne, e lo versarono a tutti. È bene che voi sappiate che Tourville aveva con sé una bottiglia di aceto che ver­ sò a monsieur d’Étanges. D’Étanges se ne accorse subito e gli dis­ se con la çiù grande gentilezza: “Vi sbagliate, monsieur, attento a versarlo. È aceto”. “Non mi sbaglio, monsieur”, gli disse Tourville. “Desidero che voi prendiate un bicchiere colmo di questo aceto e vi invito a berlo alla salute di questi signori. Ve ne saranno grati”.. “Oh! i signori vorranno scusarmi”. “No, monsieur, bisogna assolutamente che voi beviate”. D’Étanges all’inizio non lo capiva affatto. Gli dissi all’orec­ chio: “Vuole che voi vi battiate, gettategli il bicchiere in faccia”. Tuttavia non fece nulla. “Monsieur”, disse freddamente, “il vostro scherzo è insulso, e se vi ostinate a continuarlo a lungo, al­ lora...”. “Ebbene, allora” gli disse Tourville con aria beffarda e facen­ dogli il verso. “Allora”, riprese d’Étanges, “vi pregherò di accompagnarmi fuori dal cancello”. “Bravo! bravo!”, dissero in coro tutti gli ufficiali e si concordò l’appuntamento. Ci alzammo da tavola e ognuno se ne andò per conto suo. Ri­ masi con monsieur d’Étanges per sondare un po’ il suo coraggio. Con mio grande piacere, vidi che non si era indebolito, ed ero si­ curo che sarebbe diventato un eccellente ufficiale. L’indomani uscimmo insieme e ci dirigemmo verso il bosco di... Tourville e monsieur de La Farre, il suo padrino, ci aspetta­ vano, con il chirurgo maggiore del reggimento, il quale, veden­ doci, dispiegò gravemente tutti i suoi strumenti diabolici, senza riuscire a far perdere il contegno al giovane ufficiale. 656

In due minuti, Tourville fece saltare la spada di d’Etanges e gli disse ridendo: “Eh! monsieur, tenete meglio la vostra spada”. Nuovo passo e Tourville gli fece ancora saltare l’arma dal pu­ gno. Questa volta, abbassò la spada e tese la mano a d’Etanges fa­ cendogli i complimenti per il suo coraggio e gli chiese scusa per il brutto scherzo del giorno prima. Ma Auguste era stizzito, accol­ se molto male le sue scuse, gli disse delle parole dure, e ci mandò a quel paese, noialtri, che volevamo che la cosa finisse là. In verità se fossi stato suscettibile, avrei preso il posto di Tourville. Co­ munque sia, d’Etanges stringendo la spada con tutta la sua forza, si slanciò come un leone sull’avversario che presto fu costretto a presentargli la punta per evitare di essere ferito. Fu allora che il vostro amico che avanzava in preda a tutte le furie si infilzò sulla spada di Tourville che lo trapassò da parte a parte. Sospirò profondamente e cadde nel suo sangue. Corsi a rialzarlo, ma il colpo era mortale. Il chirurgo constatò che era stato forato il pol­ mone e che non c’erano speranze. Tuttavia, salassò il ferito, che allora riuscì a dire qualche parola; fino a quel momento il sangue che lo soffocava gli impediva di parlare. Mi raccomandò il suo testamento e questo pacchetto, disse a Tourville che lo perdonava di averlo ucciso, e quasi subito dopo spirò. Spero di avervi dato una debole consolazione informando­ vi che non ha quasi sofferto. Quanto a Tourville, era come folle. Ora si gettava sul morto, succhiava la sua ferita e gli chiedeva per­ dono, ora ci ricopriva di imprecazioni, e si torceva le braccia e si strappava i capelli gridando che era l’unico colpevole. Passato il primo momento di stupore, dissi a Tourville che do­ veva andarsene al più presto, o le cose si sarebbero messe male. Ero venuto con un buon cavallo inglese. Gli dissi di salire e di ta­ gliare la corda con il mio domestico, che è un ragazzo sicuro e di­ screto. Fummo obbligati a strapparlo dal corpo del vostro sven­ turato amico, che stringeva con forza e bagnava di lacrime. Alla fine riuscimmo a farlo ragionare. Lo mettemmo in sella dopo avergli tolto la spada, e partì al galoppo, scortato dal mio dome­ stico e da monsieur de La Farre. La Farre ritornò il giorno stesso al quartiere, aveva lasciato Tourville a... più tranquillo, ma sem­ pre in uno stato pietoso. Per finire, il mio domestico l’ha lasciato 657

solo al castello di monsieur Le Grand, amico di Tourville, e che abita a... Là trascorre le notte e i giorni a lamentarsi, talvolta cre­ de di essere inseguito dal fantasma di d’Étanges; non è da dubita­ re che una volta o l’altra decida di mettere fine ai suoi giorni». Questo fu il racconto del capitano; prese congedo da me, pro­ mettendomi di tornare a trovarmi. Non potevo smettere di inter­ rogarlo, sebbene ognuna delle sue risposte fosse una pugnalata.

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La battaglia

I

La battaglia

All’inizio della guerra tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra, nel 1812, nell’armata del generale Wayne c’era un giovane capitano di milizia di nome Auguste Seymour. Era alto, ben fatto, pieno di sentimenti cavallereschi. Amante della libertà, si era messo in te­ sta di servire la causa non solo con la spada e a questo proposito aveva scritto la tragedia Guglielmo Teli, oltre un poema epico in­ titolato Washington. Dato che di quest’ultima opera non si sono potuti trovare che frammenti tra le carte di Auguste Seymour, ci asterremo dal par­ larne. Quanto alla tragedia, ci si può facilmente immaginare l’o­ pera di un uomo di vent’anni, che non aveva visto altro paese che il suo ,e che aveva inesatte nozioni sulla Svizzera e sul suo libe­ ratore. Molta enfasi, tirate a perdita d’occhio sulla libertà, im­ precazioni contro i tiranni e soprattutto molti versi sentenziosi e repubblicani, ecco che cosa vi si poteva trovare. Come Alonso de Ercilla', Seymour scriveva in mezzo ai campi, ed era persuaso con tutta la bonomia dell’età che i suoi canti sarebbero stati an­ noverati tra quelli di Tirteo1 2 per gli americani, e che la sua spada 1 [Alonso de Ercilla y Zuniga (1533-1594), autore di un poema epico, La Araucaria, rimasto incompiuto]. 2 [Scrittore ateniese (VII see. a.C.)].

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sarebbe stata per gli inglesi più terribile di quella della famosa pulzella di Francia. Tuttavia, il direttore del teatro di *** aveva rifiutato la sua opera. Seymour l’aveva corretta e presentata di nuovo, e aspettava la sentenza quando accadde un avvenimento che ne affrettò la ricezione. Il colonnello di Seymour era un ricco mercante di zucchero, il quale, dotato di grande prudenza, si teneva il più lontano pos­ sibile dalla portata dei cannoni. Un giorno, però, dovette obbe­ dire all’ordine imperativo del generale, e marciare contro una batteria. Sospirando, ordinò di avanzare, quando, essendosi sfortunatamente allentate le cinghie del suo cavallo, mise il pie­ de a terra e impiegò un quarto d’ora a stringerle mentre la co­ lonna dei miliziani marciava sotto la guida del maggiore. A ven­ ti passi dalla batteria, gli inglesi caricarono furiosamente e ab­ batterono il primo rango degli americani. Il maggiore venne uc­ ciso, una parte dei miliziani venne sbaragliata. Un vecchio ser­ gente, gettandosi quasi da solo sugli inglesi, rianimò gli altri. Seymour trovò un drappello e si lanciò alle costole del corag­ gioso sergente. Una volta dato l’impulso, la batteria fu invasa dai miliziani e i cannonieri nemici vennero uccisi sui loro pezzi. Nella mischia Seymour fu sbattuto su un cannone con il brac­ cio forato da una pallottola e la testa spaccata a metà da un col­ po di scovolo3.

II

La prima rappresentazione Da qualche tempo le armate americane non riportavano suc­ cessi. La presa di quella batteria fu strombazzata in tutti i gior­ nali degli Stati Uniti, e la gloria di Seymour si accrebbe di tutta la vergogna di cui fu ricoperto il povero colonnello per aver pensato troppo tardi a cinghiare il suo cavallo. E dato che in tut­ ti i paesi del mondo, anche i meno aristocratici, si preferisce am­ mirare un giovane e bell’ufficiale piuttosto che un laido e vec­ 3 [Lunga spazzola di forma cilindrica utilizzata per pulire l’interno delle bocche da fuoco].

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chio sergente, il povero diavolo che per primo si era gettato sul­ la batteria fu completamente dimenticato. Il direttore del teatro, da uomo sensato qual era, pensando a ragion veduta che un giovanotto che è capace di prendere le bat­ terie necessariamente scriva buone tragedie, si affrettò a far ini­ ziare le prove dell’opera, annunciandola come il componimento del giovane eroe. Il giovane eroe si trovava nel suo letto, e legge­ va, per svagarsi, il Guglielmo Teli di Schiller. Dato che era un poe­ ta aveva più gusto e meno vanità di quanto è comune avere. Comparò la sua opera con quella di Schiller e fu tentato, come Platone, di bruciare i suoi versi. Scrisse per ritirare l’opera, ma era troppo tardi, stava per essere messa in scena. La sala piena di spettatori sembrò crollare al rumore degli ap­ plausi quando il nome del giovane ufficiale fu pronunciato dal­ l’attore che aveva la parte di Guglielmo Teli. Ogni spettatore aveva immaginato di raffigurare Washington nel Guglielmo Teli, era stata colta ogni minima allusione. Mai successo fu più bril­ lante. Benché un po’ intimidito dal vedersi applaudire per quel­ l’opera che considerava detestabile, alla notizia Seymour sentì una viva gioia che affrettò la sua guarigione. Mi ricordo che un articolo del «National Interviewer» commentava così: «La Co­ lumbia4 poteva mostrare a tutti un grande guerriero, un grande politico, un grande filosofo. Gli mancava un poeta... ma, alla fi­ ne, l’ha trovato. Piangi, Inghilterra, Seymour ha detronizzato il tuo Shakespeare». Seymour non poteva comparire in una strada con la sua fascia senza che un mormorio d’ammirazione si levasse attorno a lui. Una testa meno turbata della sua non avrebbe potuto sottostare a una simile prova.

III.

Il matrimonio

Entrando un giorno in un salotto, in mezzo a due file di dame che si assiepavano per vederlo meglio, Seymour notò in un ango­ 4 [Tra il Maryland e la Virginia].

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lo della sala una giovane che era stata l’unica a non alzarsi e che non aveva neppure girato lo sguardo. Più stizzito dallo sdegno che soddisfatto dalle attenzioni di tutte le altre dame, Seymour andò a sedersi accanto alla bella sconosciuta e si sforzò di far mo­ stra del suo spirito e della sua modestia, cercando di sviare la con­ versazione che all’inizio trattava dell’incomparabile Guglielmo Teli. Parlò degli attori e fece loro, come è d’uso, i più grandi elo­ gi. «Che dite voi di W***?», chiese alla vicina. «Amico mio», ri­ spose, «non ho visto l’opera e non vado agli spettacoli». A questa risposta, riconobbe una quacchera e decise di trionfare sulla sua apparente indifferenza facendola innamorare follemente di lui. Si occupò solo di lei, parlò solo a lei, e benché fosse difficile far par­ lare miss Rebecca Griffith, ebbe la gioia di sentirsi dire che non aveva mai parlato tanto a nessuno. Dopo qualche giorno, fu presentato nella casa della signorina e in capo a un mese era diventato suo devoto ammiratore. Seymour, che all’inizio aveva solo l’intenzione di trionfare sul­ la sua indifferenza, era seriamente innamorato. Una sera, mentre passeggiava con la sua bella sulle rive del Delaware, le fece la di­ chiarazione formale, e la strinse forte a sé, chiedendole se lui le piacesse. La signorina, senza sbilanciarsi, gli confessò che lo ama­ va più di suo fratello «ma», aggiunse, «non sarò mai la moglie di un uomo che per mestiere uccide i suoi simili». A queste parole Seymour gettò la spada nel fiume e giurò alla bella Rebecca che si sarebbe limitato ad esprimere solo desideri per il bene del suo paese. I due amanti caddero uno nelle braccia dell’altra e il giorno dopo la signorina Griffith era diventata la si­ gnora Seymour e il signor Seymor aveva inviato al Congresso le sue dimissioni. 29 aprile 1824

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Finito di stampare il 6 ottobre 2004 per conto di Donzelli editore s.r.l. presso la Società Tipografica Romana Via Carpi, 19 - 00040 Pomezia (Roma)