Tutti i libri del mondo. Dalla tavoletta di argilla alla tavoletta elettronica 9788868661090

Amati, odiati, ricercati in lungo e in largo, talvolta censurati o fatti sparire; c'è chi per un libro è finito in

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Tutti i libri del mondo. Dalla tavoletta di argilla alla tavoletta elettronica
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CESARE CAPONE

Tutti i libri del mondo dalla tavoletta di argilla alla tavoletta elettronica

Pagine d’autore Periodico quindicinale anno III, n. 36, settembre 2015 Direttore responsabile: Anna Maria Fierro Registrazione Tribunale di Napoli n. 74 del 27.11.2013 Copertina a cura di Giovanna Giannusa

Copyright © 2015 Cesare Capone Finito di stampare nel settembre 2015 da Grafica Elettronica srl per conto della Guida Editori srl www.guidaeditori.it [email protected] ISBN 978-88-6866-109-0

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% del presente volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, commi 4 e 5 della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org

I libri e io

«Ho iniziato la mia esistenza come la finirò, certamente, in mezzo ai libri [...]. Non ho mai raschiato la terra né sono mai andato a caccia di nidi o alla ricerca di erbe, né lanciato pietre agli uccelli. Ma i miei libri sono stati i miei uccelli e i miei nidi, i miei animali domestici, la mia stalla e la mia campagna. La biblioteca era il mondo colto in uno specchio; ne aveva lo spessore infinito, la varietà, l’imprevedibilità». Lo ha scritto JeanPaul Sartre (Les mots, Gallimard 1964, pp. 36-43). Anche per me. Ho passato l’infanzia a leggere tutto quello che mi capitava fra le mani: non solo libri di ogni genere (fra i quali, naturalmente, Pinocchio di Collodi e Cuore di De Amicis), ma anche il Corriere dei Piccoli e i primi fumetti, da Flash Gordon all’Uomo Mascherato, da Cino e Franco a Mandrake; e poi i manifesti, le inserzioni, le réclame, i brandelli di giornale e, a tavola, le etichette delle bottiglie. «Una curiosità insaziabile mi spingeva a scoprire quello che si nascondeva dietro le parole e le frasi, la realtà sconosciuta alla quale esse davano accesso», ricorda lo scrittore francese Jean Bonnet (I fantasmi delle biblioteche, Sellerio 2009) descrivendo questa esperienza ancora frequente fra i bambini d’oggi, nonostante il molto tempo che passano davanti allo schermo dei loro aggeggi elettronici. La mia prima biblioteca – avevo dodici anni – fu una cassa rossastra di legno grezzo colma di libri intonsi (vale a dire le pagine ancora da aprire con il tagliacarte) che mia madre aveva accumulati quando, poco più che ventenne, lavorava come redattrice dall’editore Facchi di Milano. Volumi di carta povera, ma ricchi di nomi illustri della letteratura francese, inglese, ameri5

cana, tedesca e russa, da Flaubert a Hugo, da Shakespeare a Poe, da Goethe a Nietzsche, da Cechov a Tolstoj. A quel tesoro attingevo instancabilmente leggendo fino a tarda sera sul tavolo di cucina, poi a letto. La mia seconda biblioteca fu la Comunale di Milano allora situata, suggestivamente, nel Castello Sforzesco. Avevo a disposizione un numero enorme di libri, ma ben presto avevo preferito scegliere fra quelli appena arrivati, freschi di stampa, esposti in una vetrina all’ingresso. Non più limitato (per così dire) ai grandi autori della letteratura straniera che tumultuavano nella cassa di legno, diventai un lettore onnivoro e molto disordinato, affamato da un’immensa curiosità di sapere. Spesso sfuggivo alla noia della scuola (erano gli anni delle medie), per godermi intere mattinate in biblioteca. Credo di aver trascorso molte più ora là che in aula. La mia terza biblioteca fu la Nazionale di Napoli, grande, austera, ma accogliente. Anche qui sceglievo di preferenza fra i libri appena usciti, che la mia povertà non mi avrebbe consentito di acquistare. Erano gli anni fra l’adolescenza e la prima giovinezza che l’incanto dei luoghi, sospeso fra il mito e la storia, rendeva stupendi. Mi dividevo assiduamente fra la Biblioteca Nazionale e il paradiso dei libri usati e di quelli antichi situato fra Port’Alba e via Costantinopoli, frequentato da personaggi di ogni genere, dal topo di libreria al ladruncolo semialfabeta che arraffava volumi a casaccio. L’incontro più curioso lo ebbi nel negozio di quel gran signore che era l’editore Fausto Fiorentino, dove un soldato tedesco che aveva tutta l’aria dello studente – nonostante la sua fiammante divisa coloniale dall’Africakorps in partenza per la Libia a sostegno delle nostre truppe impegnate contro gli inglesi – mi chiese informazioni in latino credendo ingenuamente che, come lui, lo avessi imparato a scuola. Maiuri, Croce, Stefanile, La Capria sono fra i personaggi dell’élite intellettuale napoletana il cui ricordo mi è più gradito nella mia avventura in mezzo ai libri. 6

La prosa ineguagliabile di Amedeo Maiuri, direttore del Museo Nazionale di Napoli, mi introdusse nel mondo affascinante dell’archeologia campana. Cominciavo a bazzicare nel giornalismo, e questo mi diede l’occasione di conoscere Maiuri intervistandolo su uno dei suoi argomenti preferiti, l’archeologia subacquea, allora agli albori, fra Baia e Miseno. Benedetto Croce, con la sua filosofia e il suo storicismo, non mi entusiasmava; ma alcune occasioni mi diedero modo di ricredermi frequentando per qualche tempo la sua casa dove Elena, la figlia di don Benedetto, mi aveva messo sotto la sua protezione. Mario Stefanile, scrittore, poeta e critico letterario de «Il Mattino», mi introdusse nel suo circolo piuttosto ottocentesco e mondano, molto frequentato da signore della buona borghesia che lo ascoltavano con devota ammirazione. Io mi tenevo in disparte e tacevo, sopraffatto dalla sua cultura e dal suo eloquio brillante. Ma prendevo buona nota degli autori italiani del Novecento, oggetto dei suoi discorsi, che mi ripromettevo di leggere. Raffaele La Capria, Dudù per gli amici, studiava come me al liceo-ginnasio Umberto I frequentato dai rampolli delle migliori famiglie napoletane e dove io, “milanese” di umili origini, mi ero trovato inizialmente come un pesce fuor d’acqua. Dudù ebbe il merito di integrarmi nel gruppo e, anni dopo, di esprimere anche per me, nei suoi libri, il rimpianto per “la bella giornata” d’estate trascorsa sul mare di Posillipo e per tanta bellezza irrimediabilmente perduta fra Napoli, Capri e i Campi Flegrei. Un rimpianto che mi è sempre presente ma al quale non mi lascio del tutto trasportare, memore dei versi gozzaniani «il bello d’altri tempi / non era che la nostra giovinezza». L’amore per il libro antico cominciò a nascere in me nella prima adolescenza, dal momento in cui, una mattina di piena estate, entrai per caso nel salone polveroso di una casa-torre seicentesca dell’Appennino reggiano, spoglio di ogni mobile ma dominato da una imponente libreria dove centinaia di volumi giacevano accatastati in gran disordine. Passai alcuni giorni meravigliosi in perfetta solitudine frugando appassionatamente 7

fra quei libri, quasi tutti stampati fra il Cinquecento e il Seicento. Molti erano irrimediabilmente forati dai tarli e rosi dai topi, ma tutti mi davano un piacere mai prima provato alla vista, al tatto, anche all’odore di muffa. Era una biblioteca formata in gran parte da tomi di teologia, medicina, farmacologia, giurisprudenza, che denotavano la professione dei loro antichi proprietari, preti, medici, farmacisti, notai, avvocati: persone che in quel mondo contadino assumevano un’importanza ben maggiore che in città. Ricordo che fra tanta desolazione notai due volumi particolarmente importanti, il De humani corporis fabrica del Vesalio (atlante di anatomia umana) e il Malleus maleficarum di Sprenger e Kramer (manuale di caccia alle streghe). Anni dopo, a Napoli, ricevetti i primi rudimenti sul libro antico da maestri come Gaspare Casella e Hermann Detken che avevano il negozio rispettivamente in piazza Municipio e in piazza Plebiscito. Ero un bravo apprendista ma un cattivo cliente perché sempre povero in canna. Ma a forza di frugare fra le bancarelle mi accadde di fare qualche buon acquisto, come le Lettere di Caterina da Siena stampate a Venezia nel 1562, rilegate in pelle con ricchi fregi in oro, lo stemma araldico e il nome della proprietaria, la gentildonna napoletana Claudia Spinosa. Un volume prezioso che avevo comperato per poche lire in via Costantinopoli. Ora possiedo tre biblioteche, sparse fra la mia abitazione, il mio studio professionale e la mia casa di campagna: qualche centinaia di volumi moderni acquistati anche per motivi di lavoro. Ma ho anche una quarta biblioteca formata da libri, stampati fra il Cinquecento e il Seicento, di materia letteraria, scientifica, religiosa e soprattutto agricola, che ho raccolti in omaggio ai miei avi contadini. Ho disposto di essere cremato e che le mie ceneri siano disperse sul pianoro di Bismantova, nell’Appennino reggiano, monte sacro ai miei antenati pagani e cristiani. Ma se avessi avuta l’ambizione di una tomba monumentale, del tutto anacro8

nistica e inadeguata alla modestia dei miei meriti, avrei chiesto di essere tumulato in un sarcofago con il coperchio che mi raffigurasse mentre leggo un libro. Idea mutuata, con molta presunzione, dal sepolcro di Eleonora d’Aquitania, morta nel 1204, esposto nell’abbazia francese di Fontevrault presso Chinon, nell’Anjou. E non sarebbe, come quello di Eleonora, un libro di preghiere. Cesare Capone

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La prima epopea

La più antica lettera d’amore finora conosciuta è incisa in scrittura cuneiforme su una delle migliaia di tavolette d’argilla trovate fra le rovine dell’assira Ninive. Reca questo messaggio: «A Sin, fiore del mio giardino. Quando giungi al convegno e ti vedo a me venire, il tuo corpo mi sembra un’anfora viva. Se ti guardo i tuoi occhi sono come gli occhi della gazzella quando è inseguita dagli arcieri di Belo. Non parli e attendi che io ti parli. Non posso dirti che “ti amo”». Che hanno di vecchio, di superato, quelle parole? Egli diceva alla sua donna, semplicemente, “ti amo”. Ma anche oggi non si è potuto sostituire, inventare, un’espressione migliore di questa. L’uomo che così scrisse alla donna del suo cuore viveva oltre 2600 anni fa e del suo corpo, come della sua città, non rimase che polvere. Anch’egli nacque, amò, soffrì e morì come è destino di uno qualunque di noi. Di lui ci resta solo questo semplice messaggio inciso su una tavoletta di argilla ben più duratura del papiro, della pergamena, della carta e degli attuali supporti di scrittura elettronica. Il sole che illuminava Ninive con le sue vie popolose, con i suoi abitanti che nascevano, amavano, soffrivano e morivano, è lo stesso sole che illumina le nostre città, l’umanità tutta accomunata nel destino del nascere, amare, soffrire e morire. Così anche oggi, infinitamente al di sopra del perenne nascere, soffrire, morire nel tempo e nello spazio, confuso nella luce di Dio per i credenti, forse lui stesso Dio, vive l’amore. È ancora a Ninive che nel 1872, fra le migliaia e migliaia di tavolette cuneiformi che facevano parte della biblioteca di Assurbanipal, l’ultimo grande re assiro, venne trovata la redazione 11

relativamente completa del più antico poema epico-eroico che si conosca, risalente a quattromila anni fa, che narra le avventure di Gilgamesh, mitico sovrano sumerico della città di Uruk, per due terzi dio e un terzo uomo, che non va alla ricerca dell’amore ma della conoscenza e dell’immortalità. Costituisce a tutt’oggi il più bel poema epico che il passato ci abbia tramandato almeno millecinquecento anni prima dell’Iliade omerica. La tradizione mesopotamica ne attribuisce la redazione al sacerdote-esorcista babilonese Sinlequinini vissuto nella prima metà del XII secolo a.C.. Ma gli studiosi moderni concordano nel collocarla fra l’800 e il ’700 a.C.. Redazione che è il rifacimento di altre molto più antiche, a cominciare da quelle in sumerico fra il 2500 e il 2000 a.C.. I sumeri furono i primi abitanti della Mesopotamia a conoscere la scrittura: le più antiche tavolette relative a Gilgamesh, quelle di Nippur, sono scritte nella loro lingua. L’epopea di Gilgamesh fu rielaborata nel corso di oltre millecinquecento anni, e il testo rinvenuto nella biblioteca di Assurbanipal, preceduto da un così lungo periodo compositivo, è considerato l’Epopea classica, la più completa, benché non priva di lacune. Le tavolette cuneiformi erano il supporto scrittorio più usato, che in Mesopotamia si protrasse per più di due millenni e mezzo, estendendosi in Siria, Asia Minore, Persia, finanche nell’isola di Creta e in Grecia. Ed è dai sumeri che viene la scrittura cuneiforme – poi adottata da accadi, babilonesi, assiri, siriani e popoli dell’Asia Minore – così chiamata perché consiste di semplici segni a forma di cuneo e di linee che potevano essere facilmente incisi per mezzo di stili, cioè cannucce di legno o di osso, sulle due facce di tavolette di argilla ancora tenera, che venivano poi cotte nel forno. Benché rozza e ingombrante, ma maneggevole, la tavoletta d’argilla ha il pregio di durare millenni, come ben sanno gli archeologi. Le più antiche tavolette a noi pervenute, scoperte nel 1924 nel sito della città sumerica di Uruk e databili fra il 4100 e il 3300 a.C., contengono semplici annotazioni contabili; successivamente il loro impiego si estese all’inventario di beni, alla registrazio12

ne di scritti amministrativi, storici e governativi, fino alla costituzione di veri e propri archivi. Meno numerose sono le raccolte di scritti utili come materiali di studio o di letteratura creativa. Celebre è l’inno che re Shulgi (2094-2047 a.C.) dedicò a una delle biblioteche da lui fondate a Ur e a Nippur: «In eterno la Casa delle tavolette sarà preservata / in eterno la Casa del sapere dovrà rimanere aperta» agli studiosi. Grande risonanza ebbe il rinvenimento nel 1975, fra le rovine della città di Ebla, a 60 chilometri da Aleppo, in Siria, di diciassettemila tavolette appartenenti all’archivio reale. Il merito della scoperta va all’archeologo italiano Paolo Matthiae che aveva proseguito nel 1968 gli scavi iniziati nel 1964 dall’archeologo Sabatino Moscati sul sito chiamato Tell Mardikh, la collina costituita dalle macerie di Ebla. Le tavolette trovate da Matthiae, risalenti al 2350-2100 a.C., riguardano testi amministrativi, economici, giuridici, lessicali, in piccola parte religiosi e letterari, che avevano resistito al fuoco appiccato all’edificio nel 1600 a.C. da Murshil I, re degli ittiti, nel corso della distruzione definitiva di Ebla. A Babilonia, nel XVIII sec. a.C., re Hammurrabi in ogni guerra di conquista saccheggiava le biblioteche e le trasferiva in quella del suo palazzo dove erano conservati i testi delle leggi insieme a migliaia di opere di letteratura, matematica, astronomia e storia. Altre biblioteche sorsero nel periodo babilonese, fra le quali quella di re Nabucodonosor (1124-1103 a.C.). Fra il 1800 e il 1200 a.C. si consolidò una delle civiltà più importanti dell’Asia Minore, quella dell’impero ittita che aveva come capitale Hattusa (oggi Bogazköy, a circa 300 chilometri da Ankara, in Turchia) ed era in possesso del più prezioso segreto industriale del mondo antico, la fabbricazione del ferro. Tra il 1906 e il 1912 due spedizioni archeologiche rinvennero nella biblioteca di Hattusa più di dodicimila tavolette cuneiformi scritte, oltre che in ittita, in almeno otto lingue diverse. Comprendevano in buona parte cicli epici sumerici e babilonesi, oltre a un catalogo di argomento religioso riguardante rituali di ogni gene13

re, inni propiziatori, cerimonie pubbliche, interpretazioni di auspici (previsione del futuro), miti e leggende. È opportuno notare che nel periodo compreso fra il 1500 e il 300 a.C. in almeno cinquanta città del Vicino Oriente esistevano centinaia di biblioteche. Il fondatore della prima biblioteca formata in modo sistematico in Mesopotamia e di gran lunga più ricca delle precedenti fu, a Ninive (la moderna Kuyunjik), il re degli assiri Assurbanipal (il Sardanapalo degli scrittori greci), che regnò quasi mezzo secolo (668-627 a.C.) eccellendo non soltanto per la bravura militare, ma anche per l’amore verso le arti e la cultura. È stata trovata un’iscrizione dove egli afferma non solo di saper leggere e scrivere, ma si vanta di essere anche un buon filologo: «Sono esperto nella lettura dei testi eruditi, dove il sumerico è oscuro e l’accadico difficile da portare alla luce. Penetro il senso delle iscrizioni su pietra anteriori al Diluvio, che sono ermetiche, sorde e ingarbugliate». È suo l’editto in cui viene ordinato agli scribi di requisire ovunque tutto il materiale scritto, anche il più antico, perché fosse conservato nella sua biblioteca. «Cerca e portami le preziose tavole di cui non esistono copie in Assiria. Quando vieni a sapere di una qualsiasi tavola che sia adatta per il palazzo, cercala, prendila e mandala qui», scrive Assurbanipal a Shadanu, uno dei suoi inviati. All’occasione, ricorre anche alle maniere forti, arricchendo la sua biblioteca con tavolette razziate durante le campagne militari o requisite dalle raccolte private. Assurbanipal raccolse così un cospicuo numero di testi appartenenti ai vari campi della cultura, sia sumerica che assirobabilonese. Si calcola che la sua biblioteca comprendesse circa 1500 opere incise su 25-30 mila tavolette. Lavoravano per lui molti eruditi e un intero consesso di “artisti della scrittura” cioè copisti. Il re mise insieme una biblioteca che rappresentava l’intero sapere del suo tempo. Vi si trovavano liste di re, annotazioni storiche, cronache politiche di palazzo, una letteratura poetica, rac14

conti epico-mitici, canti, inni. E vi erano più copie della massima opera letteraria della civiltà mesopotamica, la prima grande epopea della storia mondiale: quella di Gilgamesh. La consultazione della biblioteca era prerogativa esclusiva del re. Le tavolette, si legge, erano destinate alla sua «contemplazione», «allo studio durante la riflessione», «allo studio durante la lettura». In pratica era accessibile – su permesso del sovrano – a scribi, sacerdoti, indovini, specialisti di magia, responsabili della sicurezza spirituale del re e degli altri notabili. Ma ciò esponeva la biblioteca a un rischio comune a tutte quelle che le succedettero fino ai giorni nostri: il furto. Dal quale il re cercava di difendersi, in conformità allo spirito dei tempi, con la maledizione: «Tavoletta d’argilla di Assurbanipal, Re del mondo, Re dell’Assiria, devoto a Ashur e a Ninlil. La tua potenza, Ashur Re degli Dei non ha eguali! Che Ashur e Ninlil, furenti e spietati, possano sprofondare nella terra, cancellandone il nome e il seme, chiunque porti via la tavoletta o scriva il suo nome al posto del mio». Lo scopritore di Ninive fu, nel 1843, Paul-Emile Botta, un francese di origine italiana (figlio dello storico piemontese Carlo Botta), medico, naturalista e archeologo dilettante. Nominato nel 1840 console a Mossul, nel nord dell’Iraq, ogni sera, chiuso l’ufficio, faceva una cavalcata esplorativa nei dintorni dove cercava e comprava oggetti di antiquariato. Finché, incuriosito da un ammasso di macerie, il Tell (collina) di Kujundshik, a circa un chilometro dal fiume Tigri, di fronte a Mossul, intraprese una campagna di scavi durata un anno. Trovò scarsi reperti, ma sufficienti per proclamare la scoperta di Ninive. La capitale dell’impero assiro aveva un perimetro di dodici chilometri, palazzi, templi, piazze e strade grandiosi. Era un centro dispotico, ma anche illuminato, della politica e dell’economia, della cultura, dell’arte e della scienza. Secondo lo storico greco Strabone (65 a.C.-21 d.C.), Ninive era più grande di Babilonia. Fu ridotta a un cumulo di rovine nel 612 a.C. da Napobolassar, re di Babilonia, e da Ciassare, re dei medi. 15

La scoperta della biblioteca di Assurbanipal non fu opera di Botta. Toccò (ma l’attribuzione è controversa) a Ormudz Rassam, un cristiano caldeo di Mossul, già assistente dell’archeologo inglese Henry Layard che, fra il 1845 e il 1850, aveva trovato a Ninive un certo numero di tavolette appartenenti all’archivio centrale. Poche al confronto delle venticinquemila, provenienti in prevalenza dalla biblioteca di Assurbanipal che, fra il 1852 e il 1854, Rassam spedì al British Museum di Londra. Erano in gran parte rotte. Restava l’immane compito di ricomporle e decifrarle. Già da alcuni decenni gli studiosi avevano trovata la chiave per tradurre la scrittura cuneiforme. In Europa si cominciò a conoscerne l’esistenza nella metà del XVII secolo, quando il viaggiatore Pietro della Valle, che fra i suoi molteplici interessi culturali aveva anche quello dell’archeologia, inviò in Italia dal Vicino Oriente le prime copie di iscrizioni cuneiformi. Altre ne arrivarono in Europa per ogni sorta di vie traverse, frammentarie, mutilate, mal copiate e non sempre riconosciute come scrittura. Secondo orientalisti famosi, come l’inglese Philip Hyde, ancora nel XVIII secolo si trattava di motivi decorativi. Erano copie in gran parte provenienti non dalla Mesopotamia ma dalla Persia, dalle rovine degli enormi palazzi di Dario e Serse a Persepoli, distrutta da Alessandro Magno nel 330 a.C.. Furono proprio le iscrizioni di Persepoli, antiche di due millenni e mezzo, a fornire i primi elementi per la lettura delle varie scritture cuneiformi – sumeriche, accadiche, assire e babilonesi – che si erano avvicendate in Mesopotamia. Pioniere della loro decifrazione fu un filologo tedesco, Georg F. Grotefend (1775-1853) che a ventisette anni, durante una bicchierata, accettò la scommessa che avrebbe trovato la chiave della misteriosa scrittura. Impresa che aveva scoraggiato i maggiori eruditi del tempo. Grotefend disponeva di alcune cattive copie di iscrizioni provenienti da Persepoli; eppure, servendosi di un metodo geniale, arrivò a un inizio di traduzione e nel 1802 era già in grado di presentare i primi risultati all’Accademia delle 16

Scienze di Gottinga. Riuscì anche a stabilire che la scrittura cuneiforme è sempre in direzione orizzontale e che va letta da sinistra verso destra, come nelle scritture occidentali. Grotefend si era trovato di fronte a un problema sotto certi aspetti molto più complesso di quello che, nel 1822, il francese Jean François Champollion avrebbe risolto nella decifrazione dei geroglifici egiziani. Ci vollero più di trent’anni prima che si arrivasse a nuove e decisive scoperte. L’inglese Henry Rawlinson, senza conoscere i lavori di Grotefend ma usando il suo stesso lo stesso metodo, cominciò a sua volta un’opera di decifrazione che lo portò nel 1846 a presentare alla Royal Asiatic Society di Londra la traduzione completa di una iscrizione cuneiforme, della quale nove anni prima aveva fatto egli stesso la copia esatta da una parete di roccia calandosi con l’aiuto di una carrucola su un dirupo alto 50 metri presso Behistun, in Persia. Una scoperta di grande importanza avvenne nel 1850, quando Henry Layard trovò a Ninive un centinaio di tavolette di argilla destinate agli scolari: istruzioni per apprendere i rudimenti della scrittura cuneiforme, compendi per principianti, dizionari, abbozzi di un’enciclopedia. Un materiale prezioso per la decifrazione, ma non ancora sufficiente per completarne la conoscenza né per placare le controversie sulla validità delle traduzioni. A questo punto l’Asiatic Society di Londra si risolse a compiere un passo del tutto inconsueto: in una busta sigillata presentò contemporaneamente ai quattro maggiori esperti del tempo – fra cui Rawlinson – e senza che l’uno sapesse dell’altro, un testo cuneiforme assiro recentemente scoperto, con l’invito di decifrarlo al più presto. I quattro si misero simultaneamente al lavoro ignorandosi a vicenda e seguendo ciascuno il proprio metodo. I risultati furono spediti in busta sigillata. Una commissione li esaminò: tutte e quattro le traduzioni concordavano nei punti essenziali. Furono subito pubblicate (era il 1857) a dimostrazione chiara e convincente che, per vie separate e nonostante le grandi difficoltà, era possibile giungere a conclusioni concordi circa la 17

decifrazione della scrittura cuneiforme. Dieci anni dopo uscivano le prime grammatiche elementari della lingua assira. La scrittura cuneiforme non era più un mistero. Rawlinson, in particolare, ebbe il merito di trasferire le cognizioni intorno alle scritture cuneiformi dalle stanze di studio degli eruditi fino alle università, portandole dallo stadio della decifrazione a quello della divulgazione e rendendole così utili a tutti coloro che dovevano servirsene per lo studio delle iscrizioni che venivano alla luce in sempre maggiore quantità. Il 3 dicembre 1872, a Londra, nel corso di un’assemblea della Archaelogical Biblical Society, venne comunicata la notizia sensazionale che fra le migliaia di tavolette d’argilla scoperte nella biblioteca di Assurbanipal era stato identificato un racconto caldeo sul Diluvio universale che sembrava confermare la veridicità di quello narrato dalla Bibbia. Il grande impulso che fin dalla metà dell’Ottocento avevano avuto gli scavi archeologici di Ninive degli assiri e di Ur dei caldei era dovuto in buona parte al desiderio di dimostrare la storicità della Bibbia. Studiosi inglesi, tedeschi e francesi se ne occuparono, anche con dispute violente, fino a oltre la metà del Novecento. Nel 1949 l’archeologia biblica trovava il suo divulgatore di successo nel tedesco Werner Keller con il libro La Bibbia aveva ragione tradotto in ventiquattro lingue (nel 1952 in Italia) e venduto in milioni di copie. Ma già nell’Ottocento la scuola tedesca di Julius Wellhausen aveva negato la verità storica della Bibbia. Oggi Zeev Herzog, uno dei più noti ricercatori della Facoltà archeologica di Tel Aviv, dichiara che «ormai i risultati scientifici sono acquisiti e la grande maggioranza degli studiosi concorda che gran parte degli eventi narrati dalla Bibbia non sono fatti storici. Sono leggende, ricostruzioni teologiche prive di qualsiasi base reale (...). Per esempio, gli israeliti non erano mai stati in Egitto, non avevano mai vagato nel deserto, nei tanti documenti egiziani non c’è traccia dell’Esodo (…). E il grande regno di Davide e Salomone, che le Scritture descrivono come il culmine della potenza militare, 18

politica ed economica del popolo d’Israele, è una costruzione storiografica immaginaria. Al tempo di Davide e Salomone, Gerusalemme non era altro che un grosso villaggio dove non c’era un tempio centrale né un palazzo reale»1. Scopritore della versione più antica della leggenda biblica del Diluvio universale era stato George Smith, ex incisore della zecca di Stato inglese, un autodidatta che si era dedicato a studiare con entusiasmo e tenacia la scrittura cuneiforme e l’accadico, la lingua assiro-babilonese. Notato per la sua grande assiduità al British Museum, nel 1867 fu assunto non come traduttore ma restauratore delle tavolette d’argilla provenienti dalla biblioteca di Assurbanipal. Infatti, la maggior parte di esse era in cattivo stato e frammentarie perché, osserva Smith, «durante la distruzione di Ninive furono spezzate e molte subirono, per il calore dell’incendio del palazzo reale, fessure e segni di fuoco». Inoltre, nota ancora Smith, ulteriori danni furono causati sia da coloro che per secoli frugavano fra le rovine di Ninive alla ricerca di tesori, sia dalle piogge che penetravano nel terreno. Smith si era dunque assunto un lavoro enorme e complicatissimo. Le tavolette erano venticinquemila, occorreva rimetterle in ordine e riunire i frammenti, spesso piccolissimi, come fossero tanti puzzle. Ben presto dimostrò di essere abilissimo non solo nel restaurare e classificare le tavolette, ma anche nel leggerle, giungendo così alla scoperta, fra le tavolette inviate da Rassam nel 1852-54, del racconto del Diluvio; anzi molto di più, perché non tardò a decifrare che era inciso sull’undicesima tavoletta d’argilla delle dodici che narravano l’epopea classica di Gilgamesh. Sull’onda di questo successo, Smith si recò a Ninive tre volte, portando alla luce circa duemilatrecento tavolette. L’ultimo viaggio gli fu fatale: morì ad Aleppo in Siria, nel 1876, a soli trentasei anni. 1

«la Repubblica», 29 aprile 2014, p. 33.

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Cerca la cassetta di rame delle tavolette sbloccane la serratura di bronzo apri la porta che cela i segreti solleva la tavoletta di lapislazzuli e leggila: vi è la storia di quell’uomo, di Gilgamesh che sperimentò ogni possibile sofferenza [...] colui che attraversò l’Oceano, vasti mari, fino al punto in cui sorge il sole, colui che scrutò i confini del mondo alla disperata ricerca della vita eterna2.

Così, fin dai primi versi, si annuncia il tema dominante dell’epopea: la ricerca affannosa dell’immortalità da parte di Gilgamesh, il mitico sovrano di Uruk. Nel corso del suo viaggio, egli rifiuta, fino all’insulto, le profferte erotiche della dea Istar nella quale vede un intralcio, anzi una trappola mortale. Qui la dea babilonese dell’amore e della guerra è il prototipo della femme fatale che, fra storia e leggenda, si riduce ai giorni nostri a una protagonista del cinema noir. Centrale nell’epopea è un altro tema, l’amicizia virile: quella fra Gilgamesh e Enkidu, che nemmeno la morte può annullare. È la prima delle coppie celebri, anch’esse fra storia e leggenda, di amici o amanti divisi dalla morte, come Achille e Patroclo, Alessandro Magno ed Efestione, Eurialo e Niso, Adriano ed Antinoo, Cloridano e Medoro. Gilgamesh ed Enkidu uccidono due creature mostruose: Hubaba, il feroce guardiano della Foresta dei Cedri, e il Toro celeste dalla furia devastatrice inviato sulla terra per vendicare le oltraggiose parole che Gilgamesh aveva rivolte a Istar. Colpa gravissima quelle uccisioni secondo Enlil, il consigliere dei grandi dei, per cui uno dei due amici deve morire. La scelta cade su Enkidu, che viene colpito da una malattia letale. Gilgamesh non solo lo piange con parole disperate ma diventa consapevole, angosciosamente, che anche lui dovrà morire: 2 Questa e le seguenti traduzioni sono di Giovanni Pettinato, da La Saga di Gilgamesh, Mondadori 2004, pp. 6-7 e 5.

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L’amico mio che amo è diventato argilla Enkidu, l’amico mio che amo è diventato argilla e io non sono come lui? Non dovrò giacere pure io e non alzarmi mai più per sempre?

E affronta, ormai solo, l’impresa al di là di ogni impresa: la conquista dell’immortalità. È convinto che la risposta potrà averla soltanto dal suo antenato Utanapstin, l’unico uomo che, con la moglie, è sopravvissuto al Diluvio universale, e che gli dei hanno reso immortali. Dopo un viaggio lungo e avventuroso, Gilgamesh giunge al suo cospetto e gli chiede: «Come sei entrato nella schiera degli dei ottenendo la vita?». Utanapstin risponde raccontandogli dettagliatamente la catastrofe del Diluvio. Ma la conclusione è negativa: la morte è per tutti, come conseguenza del Diluvio stesso. E ora chi potrà far radunare per te gli dei in modo che tu trovi la vita che cerchi?

Così dice Utanapstin a Gilgamesh per costringerlo ad accettare l’amara verità, la cruda realtà che la morte è inevitabile, anche per lui. Tuttavia, per intercessione della moglie, rivela a Gilgamesh che in fondo al mare cresce la «pianta della giovinezza». Gilgamesh riesce a prenderla ed esprime il desiderio di portarla a Uruk per farla mangiare anche ai vecchi, perché il nome della pianta sarà «un uomo vecchio si trasforma in un uomo nella sua piena maturità». Dunque Gilgamesh cerca la vita eterna non solo per sé, ma anche per gli altri, facendosi paladino di tutta l’umanità per liberarla dalla morte. Ma nel viaggio di ritorno, durante una sosta, un serpente si avvicina alla pianta miracolosa e la mangia, perdendo immediatamente la sua vecchia pelle. E allora Gilgamesh si arrende e dichiara con parole irrevocabili di voler abbandonare la ricerca dell’immortalità. 21

«Gilgamesh non è un campione temporaneamente sconfitto e a cui resta solo da ritentare, ma un uomo per cui la sconfitta diventa il punto d’inizio per una nuova comprensione delle vere dimensioni umane della vita. È una conclusione malinconica e inconcludente da un punto di vista eroico. Da un punto di vista sapienziale, invece, è una conclusione piena»3. Se Gilgamesh non riuscirà a debellare la morte nel mondo – sta scritto nell’Epopea – acquisterà però una saggezza pari quasi a quella degli dei. Sono la vastità e la profondità della sua conoscenza, acquisita con immani fatiche e sofferenze, a renderlo saggio. Fin dal prologo del poema, viene posto l’accento sulla equazione conoscenza = saggezza. Colui che vide le profondità, persino le fondamenta della terra colui che apprese ogni cosa, rendendosi esperto in tutto Gilgamesh che vide le profondità, persino le fondamenta della terra in ogni cosa raggiunse la completa saggezza!

Giovanni Bucellati, Gilgamesh in chiave sapienziale, in «Oriens Antiquus» Rivista del Centro per le Antichità e la Storia dell’Arte del Vicino Oriente, X, 1972, p. 34. 3

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Volumina

Graecia capta ferum victorem cepit, «la Grecia conquistata ha conquistato il selvaggio vincitore». Con questo famoso verso delle Epistole (2,1,156) Orazio (65-8 a.C.) intendeva dire che la Grecia, conquistata da Roma, aveva saputo conquistare i rozzi romani grazie alla bellezza, alla finezza, alla profondità della propria cultura. Dopo la conquista, dalla Grecia e dal mondo ellenistico confluirono a Roma non solo letterati, filosofi, scienziati, artisti e opere d’arte (spesso trafugate), precettori colti (spesso schiavi o liberti, schiavi liberati), ma anche un gran numero di testi letterari, filosofici e scientifici in forma di rotoli papiracei manoscritti, i libri di allora, detti volumina da volvere, arrotolare. In quel tempo (II secolo a.C.) a Roma esistevano già biblioteche private, sparse presso varie famiglie e aperte a una cerchia ristretta di parenti e amici, molte delle quali si arricchirono di libri provenienti in gran parte dal bottino di guerre combattute in Grecia e in Asia Minore. Così fecero Emilio Paolo, distruttore del 168 a.C. dell’impero macedone; poi Silla che nell’86 a.C., riconquistata Atene, si impadronì della collezione del bibliofilo Apellicone di Teo nella quale spiccava nientemeno che la biblioteca di Aristotele, o meglio quel che ne restava; poi il ricchissimo Lucullo che dopo il 66 a.C., abbandonate quasi del tutto le attività pubbliche, dotò la sua casa romana e le sue ville di campagna di biblioteche traboccanti di libri razziati durante le sue spedizioni militari in Asia Minore contro Mitridate re del Ponto. Lucullo si distingueva per la grande generosità e la deliziosa munificenza con cui metteva le sue biblioteche a disposizione, 23

oltre che dei parenti e degli amici, di tutti i letterati greci residenti a Roma o in vacanza; non solo per leggere, ma anche per tenere dissertazioni alle quali, a volte, il padrone di casa amava partecipare. Sotto i portici, lungo le gallerie e nelle sale adiacenti alle sue biblioteche, riferisce Plutarco nella Vita di Lucullo, dotti e studiosi trascorrevano molto spesso l’intera giornata conversando «come in un albergo delle Muse, ben felici quando potevano essere là, districandosi dai propri affari». In quel periodo le biblioteche di Roma erano costituite anche da opere acquistate o di cui lo stesso proprietario era l’autore. Prevalevano i testi greci, perché gli scrittori latini avevano cominciato più tardi, da meno di due secoli, mentre la letteratura greca aveva esordito nell’VIII secolo a.C.. Vitruvio, architetto e scrittore (I sec. a.C.), fissa le norme per la migliore conservazione dei libri: «Le camere dove sono le biblioteche devono essere rivolte a levante, poiché il loro uso vuole la luce del mattino; oltre al fatto che in queste biblioteche i libri non si rovinano tanto quanto quelle rivolte a mezzogiorno e a ponente, dove vengono attaccati dai vermi e dall’umidità; perché la stessa umidità dei venti che genera e nutre i vermi fa anche ammuffire i libri». La biblioteca più fornita, anche per la varietà dei temi trattati, era quella di Varrone (116-27 a.C.), grande erudito e autore di settantaquattro fra saggi e monografie, per un totale di seicento volumina – dei quali restano pochi frammenti – dedicati a ogni possibile argomento, dall’agricoltura alla grammatica, dalla filosofia alla religione, dalla storia alla geografia. È all’amico Varrone che in una delle sue Lettere familiari Cicerone (106-43 a.C.) esprime in pochissime parole la sua passione per i libri: «Si hortum in bibliotheca habes, deerit nihil», se vicino alla biblioteca hai un giardino, nulla ti mancherà. Infatti anche Cicerone aveva messo insieme una grande biblioteca e tesse l’elogio dei libri come fonte di studi che sono «occupazione dell’animo, la più degna dell’uomo e la più nobile [...] spronano i giovani, dilettano i vecchi, sono un ornamento nella prosperità, 24

nelle avversità offrono rifugio e conforto; in casa sono uno svago, fuori non sono d’ostacolo; vegliano di notte con noi, ci accompagnano nei viaggi, vivono con noi nella tranquillità della campagna»1. In una delle 416 lettere inviate al suo grande amico Attico (110-32 a.C.) – uomo di grande ricchezza e di profonda cultura che parlava il greco come fosse la sua lingua madre e possedeva una biblioteca molto più ricca della sua – Cicerone così scrive dalla villa di Tuscolo, nella primavera del 67: «Bada bene di non promettere a chicchessia la tua biblioteca, anche se ti capitasse un amatore che paga a prezzo d’affezione; ci sono già io che lì sto concentrando i miei piccoli risparmi, per farne un sostegno della mia vecchiaia»2. E ancora ad Attico, un anno dopo, scrive da Roma: «Non disfarti dei tuoi libri e abbi fiducia che io ne possa divenire l’acquirente. Se raggiungo questo traguardo, mi sento superiore a Crasso per ricchezza e mi infischierò di tutte le proprietà fondiarie e di tutte le terre dei ricconi»3. Da accorto affarista, Attico sapeva trarre profitto dall’amore per i libri. Aveva radunato a casa sua un gran numero di abili copisti da lui stesso addestrati. Dopo averli fatti lavorare per sé, li faceva lavorare per gli altri e vendeva a caro prezzo i libri che essi copiavano. Così egli fu un vero editore per Cicerone, e poiché le opere del suo amico si vendevano bene, accadde che quella amicizia, che era piena di gradimento per il suo cuore, fosse utile per i suoi buoni affari. Seneca (55 a.C.-49 d.C.), a sua volta, all’elogio dei libri unisce l’ammonimento di dare preferenza alla qualità piuttosto che alla quantità. «Il riposo senza la lettura è la morte: è la sepoltura di un uomo ancor vivo»4. «Rifugiati nello studio, sfuggirai a tutti i disgusti della vita»5. «Coltiva veri amici chi cerca tutti i giorni Cicerone, Per Archia, VIII, 17, Rizzoli, Milano, 1992. Id., Lettere ad Attico, 6, Rizzoli, Milano, 1981. 3 Id, Lettere ad Attico, 9, cit.. 4 Seneca, Lettere a Lucilio, 82, Rizzoli, Milano, 1974. 5 Id., La tranquillità dell’animo, III, Rizzoli, Milano, 1997. 1 2

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di familiarizzarsi sempre più con uno Zenone, un Pitagora, un Democrito, un Aristotele, un Teofrasto e tutti gli altri sacerdoti della morale e della scienza [...]. Si suol dire che nessuno ha avuto il privilegio di scegliere i propri genitori. Sbagliato: possiamo nascere come vogliamo. Vi sono famiglie di nobili ingegni: scegli da quale vuoi essere adottato; non ne otterrai solo il nome, ma i suoi stessi beni saranno tuoi»6. Da Seneca ci giunge il primo autorevole consiglio di non accumulare libri senza costrutto: «Nulla è più nobile della spesa che si fa per procurarsi dei libri; ma questa spesa non mi sembra giudiziosa se è spinta all’eccesso. A che serve una incalcolabile quantità di volumi dei quali il proprietario potrebbe appena, in tutta la sua vita, leggere i titoli? Fra la maggior parte delle persone che non sono più istruite di uno schiavo, i libri, invece di essere mezzi di studio, servono solo da ornamento alla sala delle feste. Compriamo i libri solo per necessità, mai per arredamento»7. «Devi acquistare dimestichezza con autori scelti e nutrirti di essi, se vuoi trarne qualcosa che rimanga stabilmente nell’animo [...]. Troppi libri producono dissipazione [...]. Perciò leggi sempre i migliori autori, se talvolta vuoi passare ad altri, torna poi ai primi. Cerca ogni giorno nella lettura un aiuto per sopportare la povertà, per affrontare la morte e tutte le altre sventure umane»8. Infatti già al tempo di Seneca il lusso delle biblioteche – ritenute un ornamento necessario anche nelle fastose dimore dei nuovi ricchi di origine plebea – aveva raggiunto livelli inimmaginabili. Ce ne dà un celebre esempio Petronio, contemporaneo di Seneca, che nel romanzo Satyricon si prende gioco di Trimalcione possessore di tre lussuose biblioteche. Un altro scrittore, il greco Luciano di Samosata (120 c.a.-180 c.a. d.C.) lancia una vera e propria invettiva Contro un ignorante compratore di molti libri: «Credi di poter essere considerato anche tu uomo di cultuId., La brevità della vita, XIV, Rizzoli, Milano, 1993. Id., La tranquillità dell’animo, IX, cit.. 8 Id., Lettere a Lucilio, 2, cit.. 6 7

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ra, perché sei sempre pronto ad acquistare i libri più belli: invece hai imboccato proprio la strada sbagliata e così dimostri la tua ignoranza. Non è che tu acquisti libri più belli: ti fidi del primo venuto che fa pubblicità alla sua merce. Sei una vera manna per questi imbroglioni e un guadagno bell’e pronto per i librai. D’altronde, come faresti a distinguere i libri antichi e di valore da quelli scadenti e guasti, se il tuo criterio di valutazione è il vederli mangiati dai tarli che prendi quindi come consiglieri per il tuo giudizio?»9. Mentre Plinio il Vecchio o il Naturalista (23-79 d.C.) non si stancava di ripetere che «non vi è libro tanto cattivo dove non si possa trovare qualcosa di buono» (nullum esse librum tam malum, ut non aliqua parte prodesset), suo nipote Plinio il Giovane (62-115 d.C.) ci consiglia di leggere molto, ma non molti libri (multum legendum esse, non multa), anzi di rileggere (non legendos libros, sed lectitandos). Fedele a questo principio, nella sua villa di Laurento Plinio il Giovane aveva riunito pochi libri, ma degni di essere riletti continuamente, e scriveva: «Senza desideri, senza timori, lontano dai rumori molesti, qui nulla mi turba. Non mi intrattengo che con me stesso e con i miei libri. O vita sana e pura, o riposo dolce e onesto, quasi più bello di ogni più illustre occupazione! O mare, o spiaggia, mio vero e solitario asilo delle Muse, quante cose mi discoprite, quante mi ispirate!»10. Nelle sue lettere, particolarmente in quella dedicata agli scritti di suo zio, il Naturalista, Plinio il Giovane ci ha lasciato dei saggi precetti sul modo di leggere e di trarre profitto dalla lettura. Diciassette secoli dopo, uno dei suoi più convinti ammiratori, il celebre scrittore e critico francese Sainte-Beuve, affermerà, con una punta di esagerazione: «Mai il sentimento letterario propriamente detto, la passione degli studi e dell’onore che procurano Luciano di Samosata, Contro un bibliomane ignorante, Sellerio, Palermo, 1944, p. 49. 10 Plinio il Giovane, Lettere familiari, I, 9, Rizzoli, Milano, 1981. 9

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[...] giunsero così lontano e furono più felicemente coltivati che da Plinio il Giovane». Fino all’epoca di Giulio Cesare, le biblioteche erano per lo più in mani private. Poco prima di venire ucciso nel 44 a.C., Cesare aveva progettato di fondare una grande biblioteca aperta al pubblico per la consultazione di libri greci e latini. Progetto che dopo la sua morte fu realizzato da Pollione, comandante militare, poeta, storico e amico di Catullo, Orazio e Virgilio, i tre più grandi poeti di Roma. Pollione utilizzò i fondi ricavati dal bottino di una sua vittoriosa spedizione militare in Illiria. Il compito di organizzare la biblioteca fu affidato al celebre erudito Varrone (vedi p. 24) autore del trattato Le biblioteche che purtroppo non è giunto fino a noi. Sorta vicinissima al Foro verso il 37 a.C., la prima biblioteca pubblica di Roma comprendeva, secondo il progetto originario di Cesare, due sale di lettura, una per i libri latini, l’altra per i libri greci, adorne con statue di autori famosi, fra qui quella dello stesso Varrone ancora in vita. A questo modello si conformeranno le biblioteche pubbliche sorte negli anni e nei secoli successivi, da quelle della Roma imperiale alle più modeste, fino alle piccole raccolte delle città di provincia. Le biblioteche romane avevano ben poco a che vedere con quelle della Grecia dove non esistevano sale di lettura, ma piccole stanze per il deposito dei libri e un portico per la loro consultazione. «La natura bilingue della biblioteca romana mostrava come avesse accolto la grande eredità del Mediterraneo, sulla quale Roma intendeva porre l’accento; mentre la grande attenzione alla pratica della lettura provava le sue origine repubblicane»11. L’alfabetizzazione era assai diffusa, in tutti i principali centri abitati i maestri insegnavano il latino. Anche in Grecia, ben prima che a Roma, esistevano celebri biblioteche private come quelle di Policrate tiranno di Samo, 11 Matthew Battles, Biblioteche: una storia inquieta, Carocci, Roma, 2004, p. 43.

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Euclide l’Ateniese, Nicocrate di Cipro, Euripide. La prima sistematica raccolta di libri nel mondo greco, opera di Aristotele e della sua scuola, dopo molte traversie, come si è già accennato venne portata a Roma da Silla. Diogene Laerzio (II sec. a.C.) ci informa che nell’Atene del IV secolo a.C. esistevano librerie che erano anche luoghi di incontro e di conversazione per gli intellettuali, proprio come accadrà a Roma. Atene ebbe la sua prima biblioteca pubblica per iniziativa di Tolomeo Filadelfo (285-245 a.C.), non già del tiranno Pisistrato (561-527 a.C.) come riferisce l’erudito latino Aulo Gellio (II sec. d.C.). La maggiore biblioteca pubblica di Atene fu donata alla città dall’imperatore Adriano (117-138 d.C.). Dopo quella del foro costruita da Pollione, la seconda biblioteca pubblica di Roma fu eretta da Augusto verso il 28 a.C. sul colle Palatino, da cui il nome di Biblioteca Palatina. Distrutta dal fuoco nel 64 d.C. (probabilmente nel grande incendio imputato a Nerone) venne ricostruita da Domiziano (81-95 d.C.). La terza biblioteca pubblica, costruita pochi anni dopo ancora per volere di Augusto, sorse nell’area sud del Campo Marzio, vicino al foro, circondata da un vasto colonnato chiamato Portico di Ottavia che Augusto aveva fatto erigere in omaggio alla sorella Ottavia: da qui la denominazione di Biblioteca Ottaviana. Incendiata nell’80 d.C., fu anch’essa ricostruita da Domiziano. Fino alla morte di Augusto, nel 14 d.C., Roma ebbe solo queste tre biblioteche pubbliche. I loro libri provenivano dal lavoro di copiatura di opere appartenenti a biblioteche private come quelle di Pollione e di Attico o dall’immensa collezione della biblioteca di Alessandria, oppure dalla confisca di intere biblioteche, come quelle di Silla, Lucullo e Varrone, perché i loro proprietari avevano fatto parte delle fazione perdente durante le guerre civili. Anche il successore di Augusto, Tiberio, fondò una grande biblioteca pubblica. Ma la maggiore fu quella di cui Traiano volle dotare il monumentale foro che porta il suo nome, inaugurato il 112-113. Chiamata Ulpiana (da Ulpius, nome di famiglia 29

dell’imperatore), aveva al centro del cortile interno la famosa Colonna Traiana. «Incredibile, ma quest’uomo d’armi e di intrighi volle erigere il più importante monumento commemorativo della sua vita d’azione al centro di una biblioteca»12. I frequentatori delle biblioteche pubbliche erano scrittori, oratori, filosofi, insegnanti, amanti delle lettere, studiosi a vario titolo e incaricati dai librai di redigere copie delle opere richieste dai loro clienti. Gli imperatori provvidero a dotare di biblioteche anche i bagni pubblici, le terme, che da luoghi di incontro e ricreazione divennero anche centri di cultura. Esistenti a Roma fin dal II secolo a.C. le terme riscossero un tale successo, che verso la metà del secolo seguente arrivavano quasi a duecento. Ma all’inizio erano solo private, riservate ai ricchi e con pagamento all’ingresso. Sotto il regno di Augusto, una serie di terme venne messa a disposizione del pubblico con ingresso gratuito a tutti, uomini e donne, ricchi e poveri, giovani e vecchi. Le prime grandi terme imperiali, non solo gratuite ma meglio attrezzate, fornite di biblioteche e decorate in modo suntuoso, furono costruite da Nerone (54-68 d.C.). Poi, in un crescendo di gigantismo, vennero quelle di Traiano, inaugurate nel 109 d.C., di Caracalla (211-217 d.C.) e di Diocleziano nel 306 d.C.. Le biblioteche delle terme, tenuto conto del pubblico eterogeneo che le frequentava e che cercava nella lettura uno svago, un passatempo piuttosto che un motivo di studio, dovevano essere dotate più di opere in latino che in greco, di autori contemporanei più che di classici, più di tipo letterario che filosofico o scientifico. Lo sviluppo e la diffusione delle biblioteche private e pubbliche nel mondo romano furono straordinari e raramente tenuti sotto il diretto controllo del potere. Stando a un catalogo di edifici importanti del 350, a Roma, che aveva circa un milione di abitanti, funzionavano ventinove biblioteche pubbliche fra le quali la Palatina e la Ulpiana erano le più considerevoli, senza 12

Ivi, p. 44.

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contare quelle sparse nel resto d’Italia e nelle province dell’impero. E c’è testimonianza che la Ulpiana esisteva ancora nel 476, alla caduta dell’impero romano di Occidente, l’anno che convenzionalmente dà inizio all’era medievale. Fiorente era a Roma, fin dai tempi di Cicerone, il commercio librario. Ma Cicerone e i suoi amici preferivano scambiarsi copie, accuratamente trascritte dai loro schiavi, delle opere raccolte nella propria biblioteca, soprattutto quelle di cui erano loro stessi autori, divenendo così editori in proprio. Questo perché diffidavano, spesso giustamente, dei librai (bibliopolae) la cui bottega (taberna libraria) funzionava anche da centro di copiatura (scriptorium) dove la fedeltà al testo originale non era sempre garantita. Quando il libraio era sprovvisto di un’opera richiesta dal cliente, gliela procurava mandando uno dei suoi copisti in una biblioteca pubblica perché la trascrivesse. A chi desiderava acquistare libri si consigliava di farsi accompagnare da una persona esperta, in grado di valutare la qualità delle copie in vendita; o meglio di rivolgersi ai librai di Alessandria, Atene e altri centri greci, ritenuti più affidabili per la maggiore competenza professionale dei loro copisti. I primi centri di copiatura erano sorti ad Atene verso la fine del V secolo a.C.. A Roma vi erano anche i venditori di libri antichi, l’equivalente dei nostri librai antiquari. Fra i più importanti vi erano i fratelli Sosii, citati da Orazio in una epistola (I,20) dedicata al suo libro desideroso di venire esposto in vendita nel loro negozio. Come già ad Atene, i letterati e i curiosi si riunivano volentieri dai librai per conversare e discutere. Le migliori informazioni sul commercio dei libri nell’epoca imperiale ci vengono dal poeta satirico Marziale (43-104 d.C.). I librai erano così numerosi da essere ormai specializzati nella vendita di opere a basso, medio e alto costo. La maggior parte di essi aveva la bottega nel quartiere di Argileta, fra la Suburra e il Foro. Il libraio fungeva anche da editore. Gli autori gli portavano i loro scritti che lui consegnava ai suoi amanuensi per farne un 31

certo numero di copie che metteva in vendita senza che l’autore guadagnasse alcunché. Infatti il diritto d’autore era sconosciuto, a intascare i profitti erano solo i librai. Uno degli autori più venduti era Marziale. Lui ancora in vita, la sua celebrità era grande, eppure lamentava di essere povero: «Che mi serve che i nostri soldati leggano i miei versi perfino fra i ghiacci dei Geti e che i miei epigrammi siano recitati nella Britannia? Che ci guadagno? La mia borsa non ne sa niente»13. Tuttavia Marziale confessa di trovare consolazione nel vasto consenso ottenuto come poeta: «Sono, lo ammetto, e sono sempre stato povero, Callistrato, ma non sono un cavaliere di scarsa o cattiva reputazione: sono assai letto in tutto il mondo e mi si mostra a dito. Io raccolgo, da vivo, la gloria che tocca, dopo la morte, a ben poche persone»14. Né a Marziale né a un altro poeta, Giovenale (60-140 d.C.), che si lagnano della miseria degli scrittori, viene in mente di mettere sotto accusa i librai. A ognuno il suo: al libraio il denaro, all’autore la gloria. Concetto chiaramente espresso da Orazio: «Ecco l’opera che fa la fortuna dei Sosio, l’opera che va anche al di là dei mari e fa vivere l’autore nella posterità»15. Marziale, Giovenale, Orazio e colleghi consegnavano volentieri i loro scritti ai librai perché sapevano che la loro vendita poteva allargare il numero dei lettori ben al di là della cerchia di amici, protettori e altri destinatari di copie omaggio. Nei versi dove si lagna che la sua borsa non risente per nulla della fortuna dei suoi libri16, Marziale non chiede che i librai corrispondano un compenso all’autore, ma che il destino regali a Roma un nuovo Mecenate (69-8 a.C.), l’animatore della politica culturale di Augusto, protettore degli intellettuali più prestigiosi e di poeti come Virgilio, Orazio e Properzio. Senza il loro sosteMarziale, Epigrammi, XI, 3, parafrasi, Rizzoli, Milano, 1996. Id., Epigrammi, V, 13, cit.. 15 Orazio, Arte poetica, 343-346, Fazi, Roma, 2000. 16 Marziale, Epigrammi, XI, 3, cit.. 13 14

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gno essi non avrebbero avuto altro da fare che inservienti alle terme, garzoni di fornai, banditori, delatori o falsi testimoni, dice Giovenale17. Anche Marziale usufruì del mecenatismo dei successori di Augusto: Tito, Domiziano soprattutto, poi Nerva e Traiano, ai quali cercò di rendersi gradito con poesie celebrative e servilismo letterario per ottenere da loro benefici economici e sociali. Visse sempre nella umiliante situazione di cliens (persona legata alla protezione di un patrono) e le sue condizioni non erano affatto misere come egli più volte le dipinge; ma non riuscì mai ad arricchirsi. Va ricordato che quando si parla di libri della Roma repubblicana e imperiale si intendono lunghi rotoli di papiro (in greco byblos, da cui biblion libro, biblioteca, bibliofilia, ecc.) ottenuto dall’omonima pianta palustre coltivata soprattutto sulle rive del Nilo. Il papiro venne usato come supporto scrittorio dapprima in Egitto fin dal terzo millennio a.C., poi in Grecia dal IV secolo a.C. e a Roma dal III secolo a.C. contemporaneamente al sorgere della letteratura latina. Composti da foglie di papiro incollate l’una accanto all’altra e avvolte intorno a bastoni di legno o di avorio, i rotoli (volumina, da cui la parola volumi, sinonimo di libri), erano alti 22-35 centimetri e lunghi fra i sette e i dieci metri. I testi erano scrivibili su una sola facciata, in colonne affiancate di 25-45 righe e si leggevano svolgendo il rotolo da sinistra a destra. Per scrivere si usava una cannuccia vegetale appuntita (calamus o arunda) e fessurata come i moderni pennini, con la quale si intingeva l’inchiostro, composto di solito con nerofumo, gomma e acqua. Plinio il Vecchio afferma che per preservare i libri dai topi basta far macerare dell’assenzio nell’inchiostro. La cannuccia rimase in uso fino al VI-VII secolo, quando venne sostituita dalla penna d’oca o di altri uccelli; l’inchiostro degli antichi fu soppiantato ancora più tardi, nel XII secolo, con un composto di solfato ferroso, noce di galla, gomma e acqua. 17

Giovenale, Satire, VI, Rizzoli, Milano, 1976.

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È impossibile che grandi opere, a cominciare da quelle di Omero o di Tucidide, si potessero riunire in un solo rotolo lungo decine di metri. Sono stati scoperti papiri egiziani lunghi fino a 45 metri; ma rotoli di quella fatta erano così poco maneggevoli, da far dire a Callimaco, poeta e bibliotecario alessandrino verso il 260 a.C.: mega biblion, mega cacón, grandi libri, grandi inconvenienti. La forma e la natura stessa dei rotoli papiracei obbligavano gli autori a pubblicare le loro opere in sezioni relativamente poco estese, per cui un rotolo rappresentava un “libro”, ovvero il capitolo di un’opera. Così per l’Iliade o l’Odissea occorrevano 48 rotoli, solo una decina per La Repubblica di Platone, circa 200 per la Storia naturale di Plinio il Vecchio. Perciò la notizia che le maggiori biblioteche greche e romane possedevano decine di migliaia o centinaia di migliaia di rotoli va correttamente interpretata, perché un solo rotolo non racchiudeva sempre un’opera completa. Quando leggiamo che la biblioteca universale di Alessandria – la più grande del mondo antico – aveva raggiunto la sbalorditiva cifra (peraltro contestabile) di cinquecentomila rotoli (ma c’è chi parla addirittura di settecentomila), calcolando che per ogni opera completa ne occorrevano in media 24, se ne deduce che quel mezzo milione di rotoli – ognuno contenente fra le 50 e le 80 delle nostre pagine – corrispondeva più o meno a ventimila dei nostri libri. Le cifre sbalorditive che ci forniscono le fonti antiche circa i rotoli librari delle maggiori biblioteche si riferiscono dunque al numero dei rotoli, non delle opere. I rotoli papiracei, specialmente nella Roma repubblicana, erano di un’austera semplicità. Ma già nel I sec. a.C. esistevano esemplari realizzati con una certa ricercatezza, come attesta Catullo a proposito di un tale Suffeno che egli ritiene un poetastro: «Appena tocca la poesia, diventa più zotico degli zotici bifolchi [...]. Credo che abbia scritto diecimila e più versi e non, come si fa di solito, ricopiati su palinsesto [papiro riciclato cancellandone il testo originario] ma carta regia, rotoli nuovi, nuovi 34

bastoncelli, stringhe rosse membranacee, il tutto rigato con la matita di piombo e pomiciato a dovere»18. All’inizio dell’epoca imperiale esistevano a Roma librerie, come quella di Atretto citato da Marziale19, dove si vendevano edizioni di pregio, riccamente decorate e molto più costose di quelle correnti. Ed è ancora Marziale, nell’86 d.C., a informarci che il libraio Secondo ha messo in vendita un’edizione delle sue poesie scritte su pergamena invece che su papiro e in forma non più di volumen (rotolo) ma di codex (codice), cioè un assemblaggio di fascicoli (o quaderni) cuciti assieme che conferivano al libro l’aspetto che ha conservato fino a oggi. «Tu che desideri che i miei libretti siano ovunque con te e ti accompagnino nel lungo viaggio, compra questi che la pergamena condensa in poche pagine. Riserva i cofanetti per i grossi libri, per me basta una mano», scrive Marziale20. Infatti i codici saranno molto apprezzati anche come comoda edizione “da viaggio”. E poiché quello con le sue poesie si trova soltanto dal libraio Secondo, Marziale si affretta a indicare l’ubicazione del negozio «dietro l’ingresso del tempio della Pace e il foro di Pallade». In un gruppo di distici scritti uno o due anni prima, Marziale certificava l’esistenza di codici di Omero, di Ovidio e di Livio: «In pelli di modesto formato è condensato lo smisurato Livio, che la mia intera biblioteca non basta a contenere completo»21. Il codice offre grandi vantaggi rispetto al rotolo: può essere scritto su entrambe le facciate, contenere l’equivalente di parecchi rotoli, è molto più maneggevole, solido, resistente all’uso e più facile da riporre. L’avvento del codice segnò un importante progresso anche per l’ordinamento e il ridimensionamento dei libri nelle biblioteche. Prima, il lettore che avesse richiesto, ad esempio, le opere di Virgilio, si vedeva consegnare un secchiello Catullo, Carmi, XXII, Bompiani, Milano, 1993. Marziale, Epigrammi, I, 17, Rizzoli, Milano, 1996. 20 Id., Epigrammi, I, 2, cit.. 21 Id., Epigrammi, XIV, 184, 192, 190 cit.. 18 19

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di cuoio o di legno (scrinium o capsa) pieno di rotoli; dopo, era sufficiente farsi portare uno o due codici. L’uso del codice si generalizzò fra il III e il IV secolo soprattutto con il diffondersi del cristianesimo. Infatti fin dai primi tempi i cristiani trascrissero le loro opere religiose su codici; una preferenza in forte contrasto con i pagani che fra il II secolo e l’inizio del III scrivevano ancora su rotolo quasi tutti i loro testi letterari e scientifici. È probabile che la predilezione dei cristiani per il codice fosse dovuta all’esigenza di consultare spesso la Bibbia, il Libro dei libri (come sarà il Corano per i musulmani), quasi come un manuale di uso corrente, molto più comodo da maneggiare rispetto al rotolo. Fin dalle sue origini, il cristianesimo concepisce e usa il libro, allora sotto forma di codice, anche come arma per attaccare e confutare scrittori pagani ed eretici. E lo farà ancor più, tra Riforma e Controriforma, dopo l’avvento del libro a stampa. «Con l’espandersi della nuova religione assistiamo parallelamente alla diffusione del codice, e quando con Costantino e i suoi successori il cristianesimo si impose progressivamente fino a diventare religione di Stato, i codici erano ormai presenti in ogni chiesa e in ogni scuola dell’impero, e ciò affrettò così la fine del rotolo»22. Furono dunque necessari più di tre secoli, dalla seconda metà del primo a oltre il quarto, perché il codice soppiantasse definitivamente il rotolo. I codici miniati, eseguiti anche da artisti laici, esistevano già dal VI secolo; si incrementarono in epoca carolingio-ottoniana (VIII-IX secolo) culminando fra il XIV e il XVI secolo soprattutto in Italia.

22 Lionel Casson, Biblioteche del mondo antico, Bonnard, Milano, 2001, p. 126.

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Case della saggezza

«Più ti immergi nella lettura di un libro, più il tuo piacere aumenta, la tua indole si affina, la tua lingua si scioglie, la tua abilità si perfeziona, il tuo vocabolario si arricchisce, la tua anima è colta dall’entusiasmo e dall’estasi e il tuo cuore è appagato». Questo elogio, uno dei più alti mai rivolti in onore del libro, fu espresso verso l’850 dallo scrittore Jâhiz di Baghdad, la “Città della pace” (Madînat as-salâm) che nei due secoli precedenti l’anno Mille divenne il massimo centro culturale e scientifico del mondo allora conosciuto, l’erede di Atene e di Alessandria. All’inizio del IX secolo, all’apice del suo splendore, Baghdad era diventata il più grande mercato di libri del mondo. Contava quasi due milioni di abitanti, mentre quelle che sarebbero state le maggiori città europee erano poco più che modesti villaggi e la stessa Parigi, il centro urbano relativamente più popolato del continente, ancora nel XIV secolo non avrebbe avuto più di due o trecentomila abitanti. Jâhiz aveva esaltato il piacere della lettura, che però era solo una parte di quell’“edonismo del libro” che pervase la civiltà islamica dopo la metà dell’VIII secolo. Da mero strumento di conoscenza e di lavoro, il libro era diventato per i suoi cultori un oggetto di godimento anche sensuale, di piacere per la vista, il tatto, l’odorato e per il gusto di possederlo. Una bibliofilia che toccò livelli mai raggiunti, né prima né dopo, nella storia del libro. Per i greci e i romani, le opere valevano di solito solo per il loro contenuto, erano oggetti d’uso, rotoli di papiro semplici e quasi sempre privi di decorazioni. Gli arabi, invece, apprezzavano moltissimo i libri belli, rari e li cercavano con una passione spesso portata al parossismo. Chiamavano la loro collezione “tesoro della sapienza” (Khizânat al-hikma). 37

La cultura islamica trasmise all’Europa cristiana medievale, umanistica e rinascimentale la sua percezione estetica del libro, che però solo in parte fu recepita e raramente toccò i vertici della bibliofilia araba dove si stabiliva un legame forte, talvolta ossessivo, tra il collezionista e il libro che diventava parte di lui e contribuiva alla costruzione della sua identità. Se le vicissitudini della vita costringevano il bibliofilo a vendere uno dei suoi libri, egli se ne separava con la sofferenza di chi, come ricorda uno di loro, «perde uno dei suoi cari». E mentre nell’Europa medievale solo la nobiltà e gli esponenti del clero potevano affrontare gli alti costi di produzione di Vangeli, messali e breviari lussuosamente miniati, nel mondo arabo era nato un vero e proprio mercato del libro di qualità, anzi d’arte – non limitato al Corano e agli altri testi religiosi – accessibile non solo a principi e a patrizi ma anche a borghesi e letterati. Per loro, gli attributi del “bel libro” erano sia il contenuto (testo) sia la forma: non solo papiro, pergamena, carta e inchiostro di qualità, rilegatura di pelle pregiata e istoriata, fermagli preziosi, ma soprattutto calligrafia, considerata l’espressione più alta dell’arte islamica in quanto espressione del verbo divino, che raggiunse un virtuosismo ignoto agli altri alfabeti (come l’ebraico, il greco, il latino) e agli amanuensi (copisti) dell’Europa cristiana. Qualcosa del genere avveniva in Cina, con la scrittura ideografica. Uno scrittore contemporaneo, Qudâma Ja‘far di Baghdad, afferma che la «bellezza della scrittura» deve essere al servizio della «bellezza del testo» per accrescerne lo «splendore» e conciliargli «i favori del cuore del lettore». Un altro contemporaneo, il copista poligrafo Ibn Qutayba, spiega che la calligrafia ha un ritmo che egli mette in relazione con la lettura. Come una pietra bella e preziosa non può essere montata su un castone qualunque, così la scrittura non può che riflettere un contenuto testuale di bellezza e preziosità eguale o superiore. Ideale che non sarà sempre seguito (una calligrafia squisita anche per un testo mediocre) ma che toccherà la sua più alta espressione nel X secolo con l’avvento della “calligrafia proporzionata” 38

(al-khatt al-mansûb), caratterizzata da una creatività anche individuale tale da fare di un manoscritto un esemplare d’autore unico e perciò maggiormente prezioso. Ancora nel XV secolo, il calligrafo Ibn a-Sâ’igh affermerà che come un corpo armonioso è oggetto dell’amore di tutti, così una bella scrittura è una gioia sia per lo spirito sia per il cuore. Questo amore per il libro suntuosamente calligrafato continuerà, molto tempo dopo il tramonto della civiltà islamica, fino ai giorni nostri. Circostanza (generalmente ignorata dalla cultura eurocentrica) alla quale i giornali occidentali hanno accennato nel maggio 2007, in occasione dell’assassinio a Baghdad, da parte di terroristi, di Khahl al-Zahawi considerato il “principe dei calligrafi”, dell’arte della scrittura in caratteri arabi classici, che aveva allievi provenienti da tutto il Medio Oriente. La cultura islamica classica nasce in Iraq nell’VIII secolo portando con sé una “civiltà del libro” che avrà i suoi principali centri a Baghdad, al Cairo e a Cordoba. È un movimento che ha come protagonista il califfo abbasside Abû Gia’far al-Mansûr, fondatore di Baghdad nel 762. «Identificandosi con un modello di sovranità che connette potere e saggezza, al-Mansûr si presenta come l’erede di una serie di fondatori di imperi e di costruttori di biblioteche a vocazione universale che va da Salomone e Artaserse (fondatore della dinastia dei Sasanidi, 180-242) passando per Alessandro»1. Desideroso di abbracciare personalmente tutti i saperi del mondo, al-Mansûr fu il califfo promotore delle traduzioni in arabo dell’eredità scritta antica, soprattutto greca, bizantina, persiana. E lasciò ai suoi successori l’impegno di costruire una cultura universale. L’islam dell’età classica è tutto un fiorire di biblioteche private che, nate dall’inclinazione sincera del principe o del potente, spesso non tardano a divenire anche biblioteche pubbliche, luoghi di lettura, di studio e di riflessione. La prima venne istituita nell’815 a Baghdad dal califfo al-Ma’mûn con il nome di “Casa 1

Houari Touati, Biblioteche di saggezza, Bonnard, Milano, 2006 p. 138.

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della saggezza” (Bayat al-hikma), un centro in cui regnava la libertà di espressione ed era luogo privilegiato di incontro tra filosofia e religione, dove si traducevano e confrontavano i lavori intellettuali di tutte le popolazioni assoggettate all’islam, dai confini dell’India alla Spagna. Sullo stesso modello era la “Casa della saggezza” di ’Alî b. Yâhiâ, un letterato entrato a far parte della cerchia di al-Ma’mûn, che nel suo magnifico palazzo dalla periferia di Baghdad, circondato da un giardino suntuoso, era riuscito a costituire una grande biblioteca pubblica: «Eruditi di tutte le discipline arrivavano da ogni dove a consultare le opere soggiornando a lungo e approfittando di cure attente a spese di ’Alî b. Yâhiâ», riferisce Tanûkî, un cronista dell’epoca. A fondamento dell’ambizione di realizzare la biblioteca universale «stava un’etica del potere che l’antichità aveva consegnato all’islam e di cui al-Ma’mûn era la personificazione perfetta. Era un’etica rivolta a un ideale di perfezionamento morale, di conoscenza di sé e del mondo, forte di enciclopedismo e di universalismo»2. Un manuale dedicato all’educazione del principe, composto a Baghdad alla fine del IX secolo, invitando il sovrano a darsi gli attributi del sapere, gli consiglia di fondare una “Casa della saggezza” che accolga tutti i libri del mondo. La sua biblioteca non deve omettere nulla, né quanto ai libri di religione (in particolare quelli propri ai musulmani) né quanto ai libri profani. Baghdad era diventata in pochi decenni un grande centro di traduzione, calligrafia e rilegatura dove dotti mussulmani, cristiani, ebrei, zoroastriani e sabei, lavoravano in armonia su ricerche di filosofia, astronomia, matematica, geometria, medicina. Fu l’inizio di una rivoluzione culturale che in poco tempo coinvolse l’intero mondo islamico dalla Persia – e successivamente dall’India – fino all’Andalusia, passando per l’Egitto. La “Casa della saggezza” di al-Ma’mûn era stata il primo anello di una catena di istituzioni pubbliche dello stesso genere; non solo 2

Ivi, p. 165.

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biblioteche, ma anche scuole di studi superiori che anticiparono di quasi quattrocento anni la nascita delle prime università europee. A metà del XIII secolo Baghdad conta ben trentasei biblioteche. Nel 1258 le orde dei mongoli si abbattono sulla città, fanno strage degli abitanti, demoliscono sistematicamente i centri di studio, incendiano o gettano nel fiume Tigri i libri di tutte le biblioteche. Nell’altro grande centro della cultura islamica, Il Cairo, il califfo fatimide al-Hakim inaugura nel 1005 la “Casa della saggezza” da lui fondata sul modello di al-Ma’mûn, prelevando un gran numero di libri dalla sua biblioteca personale. Le opere appartenevano a tutte le categorie del sapere religioso e profano; molte erano di rilevante valore artistico in quanto eseguite dai migliori specialisti in “scrittura proporzionata”. La “Casa della saggezza” era a entrata libera, aperta, senza distinzione di classe e di appartenenza religiosa, a tutti coloro che intendevano leggere libri, studiarli e anche copiarli. Il materiale per scrivere (carta, penna, calamaio e inchiostro) era disponibile gratuitamente e a volontà. Nella medesima sede si tenevano lezioni e conferenze sulle scienze religiose, l’astrologia, la grammatica, la filosofia, le matematiche e la medicina. I califfi fatimidi del Cairo furono collezionisti sfrenati di libri: nessun’altra dinastia araba ne possedeva tanti. Il loro palazzo custodiva non una ma quaranta biblioteche. Malgrado i molti saccheggi subiti nel corso della sua storia tumultuosa, conservava ancora un gran numero di opere quando, nel 1171, il condottiero curdo Salah ad-Din (Saladino), conquistato Il Cairo, mise in vendita tutti i volumi per pagare i suoi soldati. La sola biblioteca che abbia mai potuto rivaleggiare con quelle degli abbassidi a Baghdad e dei fatimidi al Cairo si trovava in Spagna nell’Alcazar (dimora reale) di Cordoba. L’aveva fondata nel 976 il califfo al-Hakam II che aveva ereditato dal padre e sviluppato il gusto e la passione dei libri per dimostrare che Cordoba poteva competere con Baghdad. Ancor prima di 41

diventare califfo, Hakam mandava i suoi inviati a Baghdad, Damasco, il Cairo e altri centri islamici di cultura per acquistare libri e copia di ogni nuova opera. «Prima di Hakam II, mai prima di lui in Spagna aveva regnato un principe così sapiente e nessuno aveva cercato con tanta passione libri rari e preziosi», riconosce il grande orientalista Reinhart Dozy3. Si stima che la biblioteca dell’Alcazar di Cordoba ospitasse circa quattrocentomila volumi, mentre le grandi biblioteche contemporanee d’Europa, di solito raccolte nei monasteri, possedevano qualche centinaia, al massimo circa un migliaio di libri. Il grande monastero irlandese di Bobbio (Piacenza) nel X secolo contava poco più di seicento volumi. Nella loro straordinaria biblioteca – la maggiore fra le settanta della città – gli abitanti di Cordoba potevano leggere, e anche prendere in prestito, opere di ogni genere, anche quelle lontane dall’ortodossia musulmana, comprese traduzioni della Bibbia e del Talmud. Alla biblioteca erano annesse scuole di grammatica, arte poetica, calligrafia e rilegatura. La città brulicava di cartai, copisti (in prevalenza donne), venditori di libri nuovi e usati e di appassionati bibliofili. È probabile che la prima carta europea sia stata fabbricata a Cordoba, in anticipo di quasi trecento anni rispetto all’Italia (Fabriano, 1268). La prima cartiera del mondo islamico era stata costruita a Baghdad nell’anno 800, dopo che il segreto di fabbricazione era stato carpito dagli arabi ai cinesi. Lo storico Edward Gibbon (1737-1794) giudica tutto questo fervore culturale incomparabilmente superiore all’ostilità verso i libri non cristiani del Medioevo europeo. Un fervore mai visto né immaginato per centinaia di anni in Europa dopo la caduta dell’impero romano. Cordoba e l’emirato indipendente di al-Andalus di cui era capitale avevano colmato il “buco nero” culturale dell’occidente cristiano. 3

Reinhart Dozy, Histoire des Musulmans d’Espagne, Leyde, 1861, p. 45.

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Diventata, già sul finire del primo millennio, il faro della civiltà islamica in Europa, Cordoba era una città grande, magnifica e potente, con un sistema di tubature che portava l’acqua alle abitazioni e a novecento bagni pubblici. Mentre per le vie di Roma, di Parigi e di Londra, si camminava ancora nel fango e di notte nel buio pesto, Cordoba aveva già le strade lastricate e illuminate da lampade a olio. Ancora a metà del XII secolo – quando la biblioteca dell’Alcazar non esisteva più, distrutta nel 980 dall’usurpatore Ibn Abi’Amir detto al-Mansur o Almanzor – si ha testimonianza che Cordoba aveva fama di metropoli intellettuale dove ogni casa di rispetto aveva una biblioteca e i libri erano considerati strumenti di prestigio e di primato sociale. Fra il XII e il XV secolo, le preziose biblioteche del mondo islamico scomparvero sotto gli assalti di mongoli, turchi e crociati, estranei a quell’amore per il sapere che l’Islam aveva espresso per oltre cinquecento anni. Ma vi erano state anche cause interne: già dopo l’anno Mille, gli scismi, i divieti per motivi religiosi e l’ortodossia, avevano indebolito la libertà di accedere a tutte le opere non islamiche e molte biblioteche, “ripulite” dei libri proibiti, erano state relegate nelle scuole coraniche, le madrase. Tuttavia il patrimonio greco-persiano della cultura araba sopravvisse, grazie alle traduzioni in latino, diventata lingua dei dotti in Europa. Il maggior impulso alle versioni in arabo di quel patrimonio era stato dato dal califfo di Baghdad al-Ma’mûn, il fondatore della “Casa della saggezza”. Utlubû-l-’ilm wa law fî-s-Sîn, «cercate la scienza, fosse pure in Cina», aveva predicato Maometto spronando i suoi fedeli a vincere l’ignoranza. È uno dei più famosi Detti che la tradizione islamica attribuisce al Profeta in riferimento alla conoscenza religiosa e sapienziale, ma estensibile alla conoscenza in genere. Come dimostrò appunto al-Ma’mûn, meritandosi il titolo di “amante della sapienza” per aver inviato i suoi emissari alla ricerca di testi di autori greci come Platone, Aristotele, Ippocrate, Galeno, Euclide, Tolomeo, oltre che a molte opere persiane e 43

indiane, da tradurre in arabo. Jâhiz, uno dei più importanti scrittori iracheni degli anni 830-840 (lo abbiamo citato all’inizio del capitolo), rivolgendosi ai bizantini, affermava: «Noi Arabi siamo più degni di voi di essere eredi dei Greci. Abbiamo riscoperto la loro saggezza sia per salvarla dall’oblio e trasmetterla agli uomini, sia per farne oggetto della nostra riflessione». I testi, tradotti subito dopo il loro arrivo, venivano riprodotti in molte copie disponibili non solo nelle biblioteche ma anche nelle botteghe dei librai. Il precursore della trasmissione del sapere arabo in Occidente fu, nell’XI secolo, un saraceno convertito al cristianesimo e battezzato con il nome di Costantino l’Africano. Prima mercante di droghe e di erbe medicinali, poi medico e raccoglitore di opere di medicina araba, imparò il latino dai monaci di Montecassino e si dedicò ad un’intensa opera di traduzione che segnò l’inizio del periodo d’oro della scuola medica salernitana e dello sviluppo della medicina in Europa. Costantino «venne a dischiudere a Salerno e all’Occidente tutti i tesori della scienza medica araba [...] che diventeranno familiarissimi per secoli alla nostra medicina, fino al Rinascimento e oltre»4. Nel 1085, due anni prima della morte di Costantino, Toledo era stata riconquistata da un re cristiano, Alfonso di Castiglia e Léon. Una data memorabile nella storia della civiltà europea. «E se lo è fu merito di Alfonso VI e dei suoi immediati successori, che ebbero l’intelligenza di mantenere a Toledo le stesse condizioni di pacifica e fruttuosa convivenza fra cristiani, ebrei e musulmani che i governanti islamici avevano da secoli instaurato. Come a Palermo nella stessa epoca stava accadendo sotto i re normanni e poi sotto Federico lo Svevo, così a Toledo – ma in ben più grande stile – si videro lavorare fianco a fianco gli studiosi di lingua araba, ebraica, castigliana e latina, in uno sforzo titanico di traduzione di traslitterazione, di interpretazione di tutti 4 Francesco Gabrieli, Arabeschi e studi islamici, Guida, Napoli, 1973, pp. 135-170.

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i grandi testi della cultura elaborata dai musulmani nei quattro secoli precedenti»5. A Toledo si era sviluppato uno speciale procedimento di traduzione collettiva: «Di norma, un ebreo traduceva ad alta voce il testo arabo nella lingua nota a tutti, il castigliano, e un cristiano scriveva poi in latino quella versione orale [...]. Nel giro di cinquant’anni i lettori latini di tutta la cristianità ebbero a disposizione meraviglie inimmaginabili»6. Si apriva così all’Occidente quell’immenso patrimonio di testi letterari, filosofici e scientifici che gli studiosi del mondo arabo avevano accumulato. Grazie ai traduttori, l’Europa veniva a conoscenza non solo delle opere di grandi autori islamici, ma anche di testi dell’antichità classica – da Aristotele a Tolomeo – ancora mal noti. Raimondo Lullo (1283-1315), teologo, filosofo e scrittore catalano, avanzò l’idea di insegnare l’arabo in alcune università europee; proposta che il concilio di Vienne (1312) tenterà di realizzare. È ancora a Toledo che nel XII secolo il canonico Domenico Gundisalvo, promotore di un’imponente opera di traduzione di testi filosofici arabi in latino, nel suo trattato De anima traccia una sintesi fra le idee dei filosofi islamici neoplatonici e quelle della tradizione mistica cristiana, che aveva in Agostino il suo punto di riferimento principale. La prima scuola di arabo era nata già nel X secolo, in Inghilterra, grazie a Roberto di Losinga, vescovo di Hereford. La prima versione latina del Corano è del 1143, commissionata a Toledo da Pietro il Venerabile, abate di Cluny. Non è una vera e propria traduzione, ma un compendio messo insieme per confutare. Lo stesso abate Pietro, nella lettera inviata all’amico Bernardo di Chiaravalle in accompagnamento alla traduzione, si Massimo Jevolella, Le radici islamiche dell’Europa, Boroli, Milano, 2005 pp. 96-97. 6 Maria Rosa Menocal, Principi, poeti e visir, Saggiatore, Milano, 2003, pp. 185-186. 5

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scaglia contro l’islamismo come «massimo degli errori, escremento di tutte le eresie nel quale sono confluiti i resti di tutte le diaboliche sette che sono apparse dall’avvento del Salvatore in poi»7. Si dovrà attendere fino al 1698 per avere la versione integrale del Corano, sempre in latino e filologicamente corretta, pubblicata a Padova a cura di Ludovico Marracci dopo quarant’anni di studio del Corano e dei suoi commentatori. Pur non riuscendo a scalfire pregiudizi ancora vivi al giorno d’oggi, costituirà per secoli il prototipo di tutte le successive edizioni europee. «Gli spiriti più acuti e chiaroveggenti dell’Occidente cristiano, dall’Inghilterra e dalla Scozia, dalla Germania e dall’Italia e dalle regioni settentrionali della stessa Spagna, lasciarono le loro città e accorsero a Toledo come api attratte da un giardino in fiore, per assimilare il nutrimento vitale che nel giro di pochi decenni avrebbe finalmente risvegliato l’Europa dal suo lungo letargo scientifico e culturale»8. Il più prolifico di quegli studiosi fu, nel XII secolo, Gherardo da Cremona che operando a Toledo per oltre trent’anni, tradusse con i suoi collaboratori più di settanta opere filosofiche e scientifiche dall’arabo in latino, fra le quali – completando la missione iniziata da Costantino l’Africano – i trattati medici di Rhazes e di Avicenna. Il Canone di Avicenna, in particolare, diventò e rimase per secoli, fino al Seicento, l’opera di riferimento per lo studio della medicina nelle università europee. Non pochi studiosi europei divennero ben consapevoli di essere debitori verso il mondo arabo in fatto di conoscenze scientifiche, anzi della loro inferiorità. È un argomento che un grande del tempo, il francescano inglese Ruggero Bacone (1214-1292), tratta nei suoi scritti inviati all’amico e ammiratore papa Clemente IV. In quegli anni la corte papale ospitava studiosi delle teorie della luce e della visione che si fondavano sulle opere di un eminente scienziato arabo, Alazeno. Antonio Malvezzi, L’islamismo e la cultura europea, Sansoni, Firenze, 1956, p. 86. 8 Massimo Jevolella, op. cit., p. 97. 7

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Nel mondo islamico non esistevano né diffidenza né ostilità nei confronti della ricerca scientifica. Ibn Rushd, più noto con il nome di Averroè (1126-1198), filosofo e scienziato arabo di Cordoba diventato celebre come commentatore di Aristotele, giunse al punto di citare il Corano a sostegno della speculazione filosofica e della ricerca scientifica. Nell’islam non è mai accaduto che uno scienziato sia stato condannato come eretico a causa delle sue ricerche e delle sue teorie, non si è mai celebrato nessun “processo a Galileo”. «Noi europei non ci rendiamo ancora del tutto conto di quanto enormemente abbia potuto influire questo atteggiamento filoscientifico dell’islam sullo sviluppo della nostra civiltà. Si è fatta strada l’idea ben chiara che senza le grandi menti dell’islam e senza l’opera grandiosa dei traduttori ebrei e cristiani che in Andalusia e in Sicilia volsero le opere arabe in latino, non avrebbe potuto verificarsi in Europa la rivoluzione scientifica di Keplero e di Galileo. E in ogni caso, il progresso scientifico dell’Occidente e lo sviluppo anche tecnologico del mondo attuale avrebbero sicuramente subito un ritardo incalcolabile»9. In una prospettiva più ampia, l’islamista Massimo Jevolella mette in rilievo che fra l’XI e il XIII secolo un’ondata di cultura si riversa sull’Europa: dalla letteratura profana a quella misticoreligiosa, dalla filosofia razionalista e alla fisica, dalla medicina all’astronomia e alla matematica, dai progressi della tecnica, della navigazione e dell’agricoltura, fino ai campi dell’arte e delle raffinatezze del vivere civile, l’influsso del mondo islamico sull’Europa cristiana è vigoroso e fecondo, proiettandola verso le conquiste dell’Umanesimo, del Rinascimento e della rivoluzione scientifica del XVII secolo. Protagonista assoluto di questa trasmissione del sapere è il libro, sia pure ancora manoscritto. Oltre un millennio di odio religioso e di arroganza eurocentrica, conclude Jevolella, hanno impedito all’Occidente di riconoscere il suo debito nei confronti dell’Islam, di ammettere che l’Islam fa parte a pieno titolo delle nostre più profonde radici. 9

Ivi, p. 89.

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I grandi cacciatori

Un gelido giorno di gennaio del 1318 ser Petracco, notaio, andò a trovare il figlio Francesco, universitario a Montpellier, in Francia, per sapere se stava facendo progressi negli studi di giurisprudenza verso i quali aveva mostrato scarso impegno. Ser Petracco aveva stabilito che Francesco doveva fare il notaio come lui. Entrato nella stanzetta del ragazzo, ispezionò i suoi libri e ne trovò alcuni di letteratura latina. Adirato, li gettò tra le fiamme del camino. Francesco scoppiò a piangere. Impietosito, ser Petracco corse vicino al fuoco e riuscì a salvare due volumi un po’ bruciacchiati, l’Eneide di Virgilio e la Retorica di Cicerone. Li porse al figlio con l’ammonimento: «Usa Virgilio come svago e Cicerone per i tuoi studi di legge»1. Il figlio di ser Petracco non divenne notaio. Toccò invece le più alte vette della poesia come cantore di Laura. Non solo: Francesco Petrarca fu uno studioso appassionato dei grandi autori latini e un cercatore accanito di codici (volumi manoscritti) delle loro opere andate perdute, sepolte per lo più nelle biblioteche di monasteri. Poco, pochissimo c’è restato delle migliaia di libri che facevano parte della cultura greca e romana. Ma quel poco o quel pochissimo lo dobbiamo alla trascrizione e conservazione da parte dei monaci. L’iniziativa di recuperare codici e di farne copie viene attribuita a Cassiodoro, scrittore e retore latino del VI secolo d.C., fondatore del monastero di Vivario in Calabria, dedicato soprattutto alla trasmissione del sapere per i posteri. Cassiodoro fonda una vera e propria scuola di amanuensi (copisti) 1

Pierre de Nolhac, Petrarque et l’umanisme, Bouillon, Paris, 1892, p. 44

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organizzati secondo regole precise perché, anche con la collazione tra diversi codici, i testi risultino attendibili oltre che ben scritti. Un’attività estremamente lunga e faticosa, quasi di tipo ascetico. Cassiodoro vuole che i testi trascritti dai suoi monaci riproducano non soltanto le conoscenze religiose, ma tutto il sapere del mondo antico. Non si limita a far copiare le Sacre Scritture e i classici della patristica, ma ogni testo degno di essere trasmesso ai posteri. Sempre più monasteri sorgono in Europa e si danno un’organizzazione di lavoro simile a quella fondata da Cassiodoro. Per secoli, quella degli amanuensi resta un’attività isolata ed esclusiva dei conventi, soprattutto dei benedettini. Solo verso il XII secolo, la copiatura dei testi cresce e si espande fuori dai monasteri, a opera di artigiani specializzati. Lo richiedono la nascente cultura urbana e l’avvento delle prime università dove i dotti continuano però a dedicare la loro attenzione soprattutto alla teologia. La Chiesa, che esercita un dominio pressoché assoluto nel campo della cultura, manifesta diffidenza e avversione, comunque ben poco interesse, verso i libri della Grecia e della Roma pagane, privilegiando gli autori cristiani, soprattutto Agostino. La letteratura classica era caduta nell’oblio anche per una causa più generale: le invasioni barbariche, che avevano distrutto biblioteche e centri del sapere. Contro di esse e contro i successori dei barbari si scaglia Petrarca nel trovare fra i suoi libri citazioni di capolavori dei quali sembra scomparsa ogni traccia: «Per ogni nome illustre che invoco, richiamo alla mente un delitto delle oscure età che seguirono. Come se la loro sterilità non foste stata bastante vergogna, lasciarono perire le opere nate dalle veglie dei nostri padri e i frutti del loro genio. Quell’epoca che nulla produsse non temette di dilapidare l’eredità paterna»2. Questa era la situazione quando il giovane Petrarca prese l’iniziativa di salvare dal grande naufragio quanto più era possi2

Francesco Petrarca, Familiari XXIV, 4, Aragno, Torino, 2007.

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bile della letteratura antica, andando a caccia di codici in tutta Europa. «Verso il venticinquesimo anno della mia vita, giunto a Liegi e avendo appreso che vi si trovava un buon numero di libri, mi sono fermato e ho trattenuto i miei compagni di viaggio fin quando ho copiato di mia mano un’orazione di Cicerone e fatta trascrivere un’altra da uno dei miei amici. Le ho poi diffuse in Italia». Ma si lamenta che «in quella barbara città facemmo una fatica incredibile a trovare inchiostro, e quando riuscimmo a procurarcelo aveva il colore dello zafferano»3. Una delle due orazioni ciceroniane era la Per Archia. Fu il fortunato inizio delle molte scoperte di codici avvenute per opera o su commissione di Petrarca. Ovunque andasse durante i suoi numerosi viaggi attraverso l’Italia e l’Europa, spinto dall’ansia di sempre nuove esperienze umane e culturali, Petrarca cercava libri: seguiva voci e indicazioni, promuoveva indagini, comprava, trascriveva, faceva eseguire copie. Appena scorgeva all’orizzonte le mura di un monastero, «cambiavo strada, mi dirigevo a quella volta, sempre con la speranza di trovare qualcosa delle opere che avidamente cercavo»4. Se balenava la più vaga possibilità di un ritrovamento, correva sul posto e spesso restava deluso. Come quando, saputo che Leonzio Pilato (un mezzo avventuriero calabrese che si atteggiava a greco e trafficava in codici) era stato ucciso nel viaggio di ritorno da Costantinopoli: benché già avanti negli anni, si precipitò al porto di Genova per frugare tra i bagagli del defunto; ma le sue speranze di trovare un Euripide o un Sofocle andarono deluse5. Cercava di facilitare le sue ricerche tramite le persone influenti con le quali aveva rapporti diretti o indiretti (anche per Id., Familiari XIII, 6, cit.. Id., Familiari XXIV, 12, cit.. 5 Edward Gibbon, Storia della decadenza e della caduta dell’impero romano, Einaudi, Milano, 1967. 3 4

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la sua attività di diplomatico), e se veniva a sapere che qualcuno possedeva un esemplare raro, non esitava a scrivergli chiedendo di farglielo leggere, copiarlo o acquistarlo. Aveva sparsa la voce che cercava opere di autori classici. Rivolgendosi all’amico Giovanni dell’Incisa, maestro di teologia e priore del convento di San Marco a Firenze, così gli scriveva: «Se mi vuoi bene, incarica qualche persona colta e degna di fiducia di girare la Toscana e frugare negli scaffali dei monasteri e di amici dello studio, per riuscire a trovare qualcosa che plachi – anche se servirà solo ad aumentarla – la mia sete. Benché tu sappia benissimo in quali acque sono solito pescare e in quali boschi ami cacciare, tuttavia, per evitare che tu incorra in errore, includo nella mia lettera l’elenco di ciò che particolarmente desidero. E perché tu sia più zelante, ricordati che ho rivolto eguali preghiere ad altri amici in Inghilterra, Francia e Spagna. Che nessuno dunque ti preceda in premura e diligenza. Datti da fare e addio»6. Fautore di quella bibliofilia che caratterizzerà la cultura umanistica e rinascimentale, Petrarca scrive ancora al suo corrispondente: «Ricerco libri di generi differenti che per gli autori o per gli argomenti siano compagni graditi e fedeli, pronti a biasimarti, a darti consigli, a insegnarti i segreti delle cose. Mentre ci arrecano tanti vantaggi, non hanno bisogno né di cibo né di bevanda e sono contenti di un cantuccio della casa». In tutto questo cercare, Cicerone era il suo pensiero dominante. Fu Cicerone a guidarlo nella sua scoperta del mondo antico. «La caccia agli scritti di Cicerone cominciò prima che il Petrarca avesse mai posato gli occhi su Laura e continuò molto tempo dopo che la passione per lei si era intiepidita. La volontà di recuperare tutte le opere del maestro diventò un’autentica ossessione che corre attraverso tutta la vita del Petrarca. Spigolando nei classici che leggeva, egli mise insieme una lunga lista di opere di Cicerone intorno alle quali i suoi contemporanei sapevano poco o nulla. Spese senza risparmio tempo, energia e denaro nel tenta6

Francesco Petrarca, Familiari, XVIII, 3, cit..

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tivo di raccogliere i resti della letteratura classica. Ma Cicerone venne sempre prima»7. «Corre voce», scriveva al grammatico Antonio Crotto di Bergamo, «che Cicerone alloggia sotto il tuo tetto e che tu possiedi molte e rare opere del suo genio. Oh felicità più grande di quella di Evandro quando ricevette Alcide! Se me ne consideri degno, permettimi di scaldarmi alla presenza di un simile ospite»8. La sua più grande scoperta Petrarca la fece a Verona, nella primavera del 1345: nella biblioteca della cattedrale trovò un codice (poi perduto) contenente i primi sedici libri delle epistole Ad Attico di Cicerone delle quali si ignorava l’esistenza. Petrarca, benché malato, si affrettò a trascriverle ricavandone un volume enorme, reso ancor più ingombrante e pesante da una grossa copertura di legno e rame. Non si sarebbe poi stancato di dire agli amici quanto sforzo gli fosse costata quella impresa, e quanta gioia gli avesse dato. Poiché il librone non poteva trovare posto nella sua biblioteca, Petrarca lo posò sul pavimento accanto alla porta, dove si rivelò ben presto pericoloso: infatti, entrando nella stanza se lo fece cadere più volte sulla gamba sinistra, e sempre nello stesso punto; tanto da produrre una piaga infetta che lo fece molto soffrire e lo costrinse a letto per molti giorni con il rischio di perdere la gamba. Il manoscritto delle lettere Ad Attico copiate da Petrarca fa ora parte della biblioteca Laurenziana di Firenze. La loro scoperta fu uno dei maggiori eventi nella storia dell’Umanesimo. Quelle epistole rivelarono al mondo la personalità fino allora poco conosciuta del grande oratore romano, con tutte le sue virtù e le sue debolezze. «Diventarono una fra le letture preferite degli uomini del Rinascimento, e non soltanto per il contenuto: il loro stile elegante e nello stesso tempo familiare rivoluzionò il latino degli umanisti. Sul modello di Cicerone, l’epistolografia diventò un genere letterario molto in voga. E 7 8

Leo Deuel, Testamenti nel tempo, Bompiani, Milano, 1968, p. 20. Francesco Petrarca, Familiari, XVIII, 13, cit..

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furono proprio le epistole Ad Attico a ispirare il Petrarca a scrivere la sua prima lettera in latino a Cicerone; e a quella ne seguirono altre, dirette a Varrone, Livio, Quintiliano, Orazio, Omero»9. «L’Umanesimo del Petrarca spicca particolarmente nel criterio rigoroso con il quale seleziona i propri libri. Il Petrarca ha fastidio per la dialettica, per i trattati scolastici, per la scienza che dimentica i problemi spirituali dell’uomo; ha in sospetto gli autori medievali che, privi di discernimento critico, non sanno distinguere il vero dal falso e riferiscono notizie inesatte o fantastiche; ha in odio, finalmente, gli scrittori che offendono con la rozzezza del loro stile il suo ideale di un latino purificato dalle asprezze medievali attraverso lo studio dei modelli classici: Seneca e Cicerone in particolare»10. A questo punto va detto che l’importanza di Petrarca consiste sì «nell’avere egli scoperto questo o quel testo, chiarito o quel particolare dell’antica vita, conquistata una padronanza del latino rispetto ai suoi predecessori prodigiosa»; ma soprattutto «nell’avere per primo [...] postulata per sé e per gli altri la necessità di sostituire all’ingenuo medievale vagheggiamento dell’antica Roma dai favolosi contorni una conoscenza diretta e critica di essa, attraverso le antiche testimonianze rigorosamente controllate e comparate fra loro»11. «Il Petrarca vedeva nell’antichità un’epoca luminosa, grande e forte: per quanto cristiano – e fedele cristiano – non si preoccupava molto del paganesimo dei suoi eroi antichi [...]. Nell’antichità soprattutto romana egli vedeva [...] un’epoca di alti fatti, di magnanimi pensieri, di grandissimi personaggi, di cui ogni particolare poteva in ogni tempo servire come exemplum [...]. E quanto successo abbia avuta codesta interpretazione, codesta nostalLeo Deuel, op. cit., p. 24. Pier Giorgio Ricci, Petrarca, in Dizionario Autori, Rizzoli, Milano, 2006, p. 3421. 11 Umberto Bosco, Francesco Petrarca, Laterza, Bari, 1968, p. 112. 9

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gia di un passato non mai esistito, è provato dal perpetuarsi di essa attraverso i secoli»12. La molla dell’Umanesimo di Petrarca è tutta nel suo impulso e nella sua responsabilità di suscitatore verso i contemporanei e verso i posteri di modelli, esemplari per alta umanità, dedotti dalla cultura classica. «L’Umanesimo petrarchesco rivalutò la funzione dell’uomo nel mondo e guardò alle libertà, da tanto tempo dimenticate, del passato. Nell’antichità classica il Petrarca e i suoi seguaci trovarono ideali di verità e di bellezza che proposero al mondo occidentale. Il passato era per loro la chiave del progresso. Chi credeva nel valore e nella perfettibilità dell’uomo non poteva essere indifferente al problema della rinascita della cultura classica; chi voleva sviluppare la propria personalità, diventare un essere razionale, acquistare un certo stile nella condotta pubblica e privata, coltivare l’eleganza del parlare e dello scrivere, doveva leggere gli antichi»13. I libri, allora soltanto manoscritti, erano considerati con venerazione, se non altro per la loro scarsità o rarità e per il loro costo; il che rendeva ogni loro possessore un bibliofilo anche inconsapevole. Petrarca va visto come bibliofilo anche nel senso espresso dal suo amico inglese Richard de Bury (1287-1345) con il quale si era incontrato in Provenza, fondatore della biblioteca di Oxford e autore del primo manuale di collezionismo bibliofilo, il Philobiblion, Tractatus pulcherrimus de amore librorum. Sulle orme di Seneca, prima ancora che di Bury, Petrarca traccia questo elogio: «Ho amici la cui compagnia mi è deliziosa. I miei libri sono genti di tutti i paesi e di tutti i secoli, abituati a essere sempre ai miei ordini. Li faccio venire quando voglio e li rimando allo stesso modo. Non sono mai di cattivo umore e rispondono a tutte le mie domande. Gli uni fanno scorrere davanti a me gli avvenimenti dei secoli passati; altri mi svelano i segreti della natura; questi mi insegnano a vivere bene e a ben morire; 12 13

Ivi, p. 115. Leo Deuel, op. cit., p. 18.

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quelli scacciano la noia con la loro allegria e mi divertono con le loro arguzie; ve ne sono che dispongono la mia anima a sopportare tutto, a non desiderare niente, e mi fanno conoscere me stesso. In una parola, mi aprono le porte di tutte le arti e di tutte le scienze; li trovo in tutte le mie necessità [...]. Per ricompensa di così grandi servizi, non mi chiedono che una stanza ben chiusa in un angolo della mia piccola casa, dove siano al riparo dai loro nemici (cioè dall’umidità, dagli insetti e dai topi, ndr). Infine li porto con me in campagna il cui silenzio conviene loro meglio che il tumulto delle città»14. E qui viene a proposito ricordare che ciò faceva parte dell’ideale idillico di Petrarca, da lui attuato con perfetta coerenza nella vita pratica: il rifiuto di ogni carica anche lucrosa che potesse continuativamente distrarlo dagli studi, i suoi ritiri a Valchiusa, Selvapiana, Arquà e, nelle stesse città dove dimorava, la scelta di case lontane dai rumori, circondate possibilmente da orti. E il genere di vita costantemente tenuto: libri, giardinaggio, qualche amico e di nuovo libri, sempre libri. Petrarca dedica un’intera operetta, La vita solitaria, a questo suo programma. «Descrive e polemicamente difende, con ricchezza di esempi e di digressioni, l’otium degli intellettuali latini che è un “ozio operoso”: giacché, secondo una sentenza di Seneca che il Petrarca cita più volte, l’ozio senza le lettere è una morte, la sepoltura di un uomo vivo; otium vuol dire respingere ogni ansietà, rifiutare di protendersi continuamente verso un domani che forse non verrà e che comunque è incerto. La vita solitaria vagheggiata dai classici: un sereno appartarsi in seno a una natura amica, con molti libri, a quanto a quanto visitato da dolci amici senza dei quali l’esistenza sembrerebbe manchevole e quasi cieca, senza stimoli esterni che costringano a fare quello che fare non si vorrebbe, cioè concessioni al “volgo”»15. 14 15

Francesco Petrarca, Familiari, XIV, 4, cit.. Umberto Bosco, op. cit., p. 103.

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Un ozio stoicamente concepito come tranquillità dell’animo, senza ambizioni né passioni, senza affanni né fatiche, ma non infingardo. Un otium, come ogni altro ideale, non totalmente raggiungibile ma al quale occorre avvicinarsi quanto più si può, insegna Petrarca. «Petrarca non solo riportò alla luce opere perdute e dimenticate, ma stabilì nuovi canoni per lo studio della letteratura e per l’amore delle lettere [...]. In tutto questo ottenne un così splendido successo, che sulle sue orme tutta una nuova generazione di umanisti cacciatori di libri mosse a salvare quanto rimaneva di salvabile in terra europea [...]. Non vi è nulla di tanto contagioso quanto un grande esempio. Ancora vivo il Petrarca, gli italiani furono presi dal desiderio febbrile di esplorare il mondo sconosciuto che egli aveva schiuso. E dopo la sua morte, la ricerca dei classici smarriti, nascosti, dimenticati diventò autentica passione»16. Va rilevato che gran parte di questa caccia ai codici avvenne nell’ambito dell’Umanesimo che ebbe la sua culla a Firenze. Il più fervido seguace di Petrarca fu Giovanni Boccaccio, di circa dieci anni più giovane, che con lui condivise la gloria di essere stato uno dei maggiori iniziatori dell’Umanesimo. Il loro primo incontro avvenne probabilmente nel 1350, anno del Giubileo, mentre Petrarca stava andando in pellegrinaggio a Roma per ottenere l’indulgenza. Boccaccio gli diede il benvenuto alle porte di Firenze. Nacque allora fra i due una calda amicizia, destinata a durare fino alla morte di Petrarca. Boccaccio, che si guadagnava da vivere lavorando da copista, trascrisse per Petrarca lunghi testi di Cicerone e di Varrone e gli donò una sua trascrizione della Commedia dantesca. Quanto ai classici greci, gli umanisti ne avevano solo una vaga idea. Li conoscevano per lo più attraverso citazioni di autori latini. La cultura ellenico-ellenistica era stata introdotta in Europa, soprattutto nel XII secolo, dalle traduzioni in latino, eseguite 16

Leo Deuel, op. cit., pp. 26-27.

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da studiosi arabi, ebrei e cristiani dell’Andalusia (la Spagna islamica), delle maggiori opere filosofiche e scientifiche della Grecia, ma con la voluta esclusione di quelle letterarie. La cultura islamica conosceva bene Aristotele, Galeno, Tolomeo, Euclide, ma ignorava totalmente Omero, i poeti lirici, i grandi tragediografi Eschilo, Sofocle, Euripide e uno storico come Erodoto. Petrarca e Boccaccio pensavano che i classici greci fossero inferiori a quelli latini. Tuttavia furono presi dal desiderio di riscoprire nella letteratura greca le radici di quella latina. Il merito di avere promosso la prima traduzione in latino dall’Iliade e dall’Odissea – solo alcuni brani ne erano stati tramandati, principalmente attraverso le opere di Macrobio e di Cicerone – spetta a Petrarca, con il sostanziale aiuto di Boccaccio17. Nel febbraio 1359, a Milano, decisero di far tradurre i due poemi epici da Leonzio Pilato, un oriundo di Salonicco bizzarro e controverso. Per convincerlo a trattenersi a Firenze, Boccaccio riuscì a ottenergli la cattedra di greco i cui corsi pubblici, primi in Italia, iniziarono nell’ottobre 1360. Lavorando su un codice comprato a Padova, contenente entrambi i poemi, Leonzio impiegò a volgerlo in latino quasi tre anni – fino al novembre 1362 – durante i quali fu ospite nella casa di Boccaccio. Tra il 1366 e il 1369, Petrarca entrò in possesso dell’Iliade e dell’Odissea tradotte da Leonzio, rubricate, miniate e rilegate, che trovarono finalmente posto tra gli scaffali della sua biblioteca. Iniziò da allora un periodo di ferventi letture omeriche, di cui Petrarca lasciò ampie tracce sia nelle sue opere più tarde, sia nelle postille da lui apportate sulle pagine dei due poemi. Morì nella notte del 23 luglio 1374, con la testa appoggiata sulla versione dell’Odissea, dopo essere giunto al verso 242 del II libro. Lo ricorda l’umanista Pier Candido Decembrio (1399-1477) con un’annotazione sul foglio di guardia del volume. Le notizie su Petrarca, Omero e la sua bilioteca sono desunte da Tiziano Rossi, Petrarca, Boccaccio, Leonzio e Omero, in «ALAI, Rivista di cultura del libro dell’Associazione librai antiquari d’Italia», numero 1, 2015, pp. 101-109. 17

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In tanti anni di ricerche, Petrarca aveva messo insieme una biblioteca che non aveva eguali, di circa duecento codici in latino, molti dei quali recuperati nel corso delle sue ricerche in tutta Europa, con la sola eccezione della Commedia dantesca, dono di Boccaccio; e poiché spesso i codici contengono più opere, il totale doveva essere molto più alto. Fra i classici, anzitutto Cicerone quasi completo, poi Seneca, Virgilio, Ovidio, Orazio, Catullo, Giovenale, Properzio, Plinio il Vecchio. Aveva espresso il desiderio di donarli a Venezia dopo la sua morte, come contributo alla costituzione di una biblioteca pubblica. In cambio chiedeva l’usufrutto a vita di una dimora per sé e per la famiglia di sua figlia a Venezia, Ca’ Molina sulla Riva degli Schiavoni dove già viveva. Ma l’accordo, stipulato nel 1362, non si realizzò. A buon fine andò invece un secolo dopo, nel 1468, la donazione a Venezia del cardinale Giovanni Bessarione (vedi più avanti a p. 68) dei codici che costituirono il nucleo originario della biblioteca Marciana. Petrarca si trasferì a Padova e infine ad Arquà, dove dimorò negli ultimi quattro anni della sua vita. Alla morte di Petrarca, la sua ricca e preziosa biblioteca andò dispersa. Si diceva che restò in deposito per secoli a Ca’ Molina, ma del tutto trascurata, tanto da rendere gran parte dei codici irrecuperabili a causa dell’umidità, delle muffe, degli insetti e dei topi. Alcuni vennero messi da parte in una stanza “dietro i cavalli di San Marco”, altri trasferiti nel Palazzo Ducale di Venezia. Oggi si sa, invece, che Petrarca lasciò alcuni libri alla figlia Francesca, al genero e ai loro discendenti; e che questi volumi subirono purtroppo varie vicende, persero i fogli esterni e i fogli di guardia ove era la nota con la quale Petrarca li destinava ai suoi familiari. Sono stati in parte recuperati e si trovano ora non solo nelle biblioteche di Milano, Padova, Firenze, Città del Vaticano, ma anche di Londra, Oxford, Berlino, Cracovia, Ginevra, Madrid e New York. Eccelle fra tutti il grande volume delle opere di Virgilio, fitto di note a margine di Petrarca e con il celeberrimo frontespizio dipinto da Simone Martini nel 1340 su commissione 59

dello stesso Petrarca. Fu acquistato da un illustre bibliofilo, il Cardinale Federigo Borromeo, per la biblioteca Ambrosiana da lui fondata nel 1607, dove è custodito tuttora. Un altro gruppo di codici – compresi i due Omero latini – fu assegnato da Petrarca a Francesco I da Carrara, signore di Padova, suo protettore negli ultimi anni di vita, che li accolse nella propria biblioteca. Da qui passarono senza danni né dispersioni in quella di Gian Galeazzo Visconti al castello di Pavia dove rimasero fino al 1499, quando Luigi XII conquistò il Ducato di Milano e li fece portare in Francia, nel castello di Blois. Infine, nel 1567, furono trasferiti a Parigi per essere poi assegnati nel 1666 nell’attuale Bibliothèque National de France. Passarono più di due secoli durante i quali i due codici con le loro traduzioni di Omero giacquero dimenticati nei magazzini della grande biblioteca parigina. Solo alla fine dell’Ottocento furono riscoperti dal filologo Pierre de Nolhac18. Come cacciatore di codici, la scoperta più importante Boccaccio la fece nel 1370 quando, durante il viaggio alla volta di Napoli, decise di sostare a Montecassino, il monastero benedettino che fin dal VI secolo era stato uno dei principali centri dove gli i monaci copiavano e custodivano, oltre che opere della cultura cristiana, quel che restava dell’immenso patrimonio letterario e filosofico del mondo greco e romano. Ricostruita più volte dopo le devastazioni operate dai barbari invasori e da catastrofi naturali, Montecassino era stata danneggiata da un terremoto circa dodici anni prima della venuta di Boccaccio. Nel suo fondamentale commento della Commedia dantesca, Benvenuto da Imola (1330-1388) così racconta: «Il mio venerabile maestro, Boccaccio di Certaldo, andò a visitare il nobile monastero di Montecassino. Desideroso di vedere la biblioteca che gli avevano descritta molto ricca, chiese cortesemente a un monaco (era sempre gentile di natura) che avesse la compiacenza di aprirgli la biblioteca. Ma il monaco gli rispose con aria arci18

Cfr. Pierre de Nolhac, op. cit., pp. 347-357.

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gna, additando una ripida scala: «Sali pure, è aperta». Boccaccio salì gioiosamente e trovò che il luogo in cui era ospitato un così prezioso tesoro era privo di porta. Entrò, e vide che le erbacce spuntavano dalle finestre e che tutto, libri e banchi, era coperto da uno spesso strato di polvere. Stupefatto, cominciò ad aprire un libro, poi un altro, e trovò una infinità di opere antiche e straniere. Ad alcuni mancavano interi fascicoli, ad altri erano stati tagliati i margini, per la maggior parte erano in vari modi mutilati. Nel vedere che i lavori e i frutti degli studi di tanti illustri geni erano caduti nelle mani di simili uomini, se ne andò addolorato e con le lacrime agli occhi. Sceso nel chiostro, chiese a un monaco che incontrò come mai quei libri preziosi fossero stati mutilati in un modo così vergognoso. Quello gli rispose che i monaci, per guadagnare qualche soldo, raschiavano i fascicoli per farne dei salteri [libretti] che vendevano ai ragazzi e che tagliavano i margini per farne brevi [foglietti] che vendevano alle donne». Benvenuto conclude, amaramente ironico: «E ora, uomo di studio, rompiti la testa per scrivere libri!». Ma proprio a Montecassino Boccaccio trovò buona parte degli Annali e delle Storie di Tacito. È curioso notare come non ne parlasse con alcuno, nemmeno con Petrarca. Ma era una segretezza allora molto frequente fra i cacciatori di codici, gelosi che i concorrenti venissero a sapere il luogo e il valore delle loro scoperte, non sempre regolarmente acquistate. Fra essi vi era chi quasi si faceva vanto di averle sottratte alla biblioteca di un convento o di uno studioso, secondo la formula si ius violandum est, librorum gratia violandum est («se la legge deve essere violata, lo sia grazie ai libri») citate in una lettera di Leonardo Bruni a Niccolò Niccoli, due umanisti fiorentini del XV secolo. Sembra che proprio il Bruni e il Niccoli abbiano rubato il codice di Tacito agli eredi di Boccaccio. Un furto provvidenziale perché la maggior parte dei suoi libri andò distrutta qualche anno dopo da un incendio. Sulle orme di Petrarca e Boccaccio, un altro insigne umanista e bibliofilo, Coluccio Salutati (1331-1406), pur non impegnan61

dosi personalmente nella caccia ai codici perduti, ne promosse la ricerca ottenendo molti successi. Il maggiore fu la scoperta delle Lettere familiari di Cicerone, fino allora del tutto sconosciute, in un codice che Gian Galeazzo Visconti gli aveva inviato da Vercelli. La ricerca si accentuò in un’atmosfera di straordinario fervore. Niccoli giunse al punto di vendere le sue terre per arricchire la propria biblioteca di manoscritti recuperati. Non solo uomini di lettere, ma anche principi, ecclesiastici e borghesi si entusiasmarono per i successi dei cacciatori di codici. L’intera Europa venne setacciata. Papi come Niccolò V e Leone X mandarono i loro agenti fino in Danimarca, in Svezia e nel Vicino Oriente. Fama ben meritata di grande cacciatore di codici ebbe un altro umanista, l’aretino Poggio Bracciolini (1380-1459), intellettuale raffinatissimo, latinista insigne e combattivo uomo di lettere oltre che, per quasi mezzo secolo, membro di primo piano della curia pontificia. La sua carriera di cacciatore di codici cominciò nel 1407 quando a Montecassino trovò un antichissimo frammento di Livio. Le sue più rilevanti scoperte le fece in occasione del concilio ecumenico di Costanza (1414-1418) che destituì papa Giovanni XXIII, riuscì a comporre il grande scisma d’Occidente e condannò come eretico il boemo Jan Hus che venne bruciato sul rogo. Ma uno dei suoi più significativi risultati fu anche la diffusione dei semi dell’Umanesimo in tutta la cristianità occidentale, grazie all’affluenza di studiosi provenienti dall’Italia. Approfittando del fatto che il concilio andava per le lunghe, Bracciolini fece quattro viaggio fuori Costanza alla ricerca di codici. Frutto del primo viaggio fu il ritrovamento, nella gloriosa abbazia di Cluny, in Borgogna, di sette orazioni ciceroniane. Trovò anche il trattato di Vitruvio L’architettura che sarà di base per ogni studio in materia nel Rinascimento. Nel secondo viaggio raggiunse l’abbazia di San Gallo, in Svizzera, risalente al VII secolo, che era stata uno dei centri intellettuali più vivi del mondo tedesco. Nel 925 subì un assalto dei 62

barbari e una monaca, Wilborada, fece in tempo a sottrarre alla distruzione i libri più importanti. Non ne rivelò il nascondiglio e per questo venne assassinata. Fatta santa, Wilborata è la patrona dei bibliofili. L’abbazia di San Gallo godeva ancora di notevole prestigio, ma grande fu la delusione di Bracciolini e degli amici italiani che lo accompagnavano, nel vedere lo stato miserando della biblioteca. Un abbandono paragonabile a quello in cui Boccaccio aveva trovata la biblioteca di Montecassino, ma senza poi raccontarlo. Scrive invece Bracciolini in una lettera all’amico Guarino Veronese, altro grande umanista, annunciandogli la riscoperta a San Gallo delle Istituzioni oratorie di Quintiliano: «Trovammo un Quintiliano sano e salvo, benché pieno di muffa e coperto di polvere. I libri, lungi dall’essere posti in una biblioteca come il loro valore meriterebbe, li abbiamo trovati accatastati in una specie di immondo e oscuro carcere al fondo di una torre, in un luogo dove non si getterebbero nemmeno i condannati a morte». Bracciolini aggiunge di avervi trovato altre opere di letteratura latina, fra cui varie orazioni di Cicerone. Forse l’“oscuro carcere” di cui scrive Bracciolini era il luogo dove Wilborada aveva sottratto i libri alla distruzione dei barbari. In Italia la riscoperta del codice Istituzioni oratorie di Quintiliano, il principale manuale latino di oratoria e retorica (il Petrarca era stato il primo a trovarne una copia, ma incompleta e in cattivo stato) suscitò l’entusiasmo degli umanisti. Uno di essi, Leonardo Dati, così scriveva a Bracciolini: «La repubblica delle lettere ha motivo di rallegrarsi non solo per le opere che hai scoperte, ma anche per quelle che devi ancora trovare. Quale gloria per te avere riportato alla luce, con le tue fatiche, gli scritti degli autori più illustri! La posterità non potrà dimenticare che manoscritti pianti come irrimediabilmente perduti, grazie a te sono stati invece recuperati. [...] Grazie a te ora possediamo tutto Quintiliano; prima ne avevamo soltanto la metà, e in un testo difettoso e corrotto. O prezioso acquisto! O gioia inaspettata! Potrò dunque davvero leggere tutto Quintiliano, 63

quel Quintiliano che, mutilato e deformato come l’abbiamo conosciuto fino a oggi, già così era il mio conforto? Ti scongiuro di mandarmelo subito, affinché possa posarvi gli occhi prima di morire». Dal terzo viaggio, fatto di nuovo a San Gallo e verso altri monasteri svizzeri e tedeschi, Bracciolini portò altre importanti opere latine. La sua maggiore scoperta avvenne nel 1417, probabilmente nel monastero di Fulda, in Germania: una copia completa del poema La natura delle cose di Lucrezio del quale sopravvivevano scarsi accenni negli autori latini. Ma Poggiolini, come quasi tutti i suoi contemporanei, non poteva rendersi conto del valore immenso di quell’opera perché le tesi filosofiche di Lucrezio, seppure contenute in versi di incantevole bellezza, apparivano incomprensibili, inaccettabili o addirittura empie a quasi tutti gli intellettuali dell’Umanesimo e del Rinascimento. In estrema sintesi, avendo come base la filosofia epicurea, Lucrezio afferma: l’universo, che non ha creatore, è composto di atomi, per cui anche noi siamo fatti della stessa materia delle stelle, ma non esseri privilegiati; lo spazio è infinito come il tempo e popolato da infiniti mondi eguali o simili al nostro; la natura si evolve sperimentando senza sosta; l’anima muore con il corpo; gli dèi esistono ma lontani e indifferenti verso di noi; le religioni organizzate sono illusioni superstiziose; scopo supremo della vita umana è il piacere – in senso non soltanto materiale – e la riduzione del dolore. Le idee di Lucrezio, che oggi appaiono di sorprendente attualità, furono raccolte e confermate soprattutto nel corso del Settecento, il secolo dell’Illuminismo. È in questo senso che un nostro insigne latinista, Concetto Marchesi, definisce Natura delle cose “il poema della luce” che contribuì a segnare una svolta nella cultura moderna. Il suo influsso su artisti e pensatori, che si riscontra già in Botticelli e in Giordano Bruno, si estende da Montaigne a Shakespeare, da Freud a Einstein. Nel suo quarto viaggio fuori Costanza a caccia di codici latini, Bracciolini tornò in Francia e in Germania. Fra la biblioteca 64

del monastero di Langres sulla Marna e la biblioteca episcopale di Colonia, scoprì tredici orazioni di Cicerone, otto delle quali fino allora completamente ignorate. «Né la rigidezza del freddo invernale, né la neve, né la lunghezza del viaggio, né l’asperità delle strade gli impedirono di portare alla luce i monumenti della letteratura antica», scrisse di lui l’umanista veneziano Francesco Barbaro. Terminato il concilio di Costanza, dopo un lungo, inconcludente e infelice soggiorno in Inghilterra, durante il ritorno in Italia Bracciolini acquistò, probabilmente a Colonia, il più importante frammento del Satyricon di Petronio. Poi a Roma, dal suo quartier generale presso la curia pontificia, diresse le ricerche fino a Treviri, Utrecht e in Portogallo. Le più fruttuose avvennero proprio a Treviri, con la scoperta di un codice contenente commedie di Plauto, dodici delle quali interamente nuove. Dopo aver saputo delle sue scoperte, Francesco Barbaro così scrive a Poggiolini: «Resuscitasti molti uomini illustri e uomini assai saggi, che erano morti per l’eternità, grazie al cui ingegno e ai cui insegnamenti non solo noi, ma anche i posteri, potremo vivere bene e con onore». Il cacciatore di codici al quale viene attribuito il merito di aver fatto per i classici greci ciò che Bracciolini aveva fatto per quelli latini, fu l’umanista siciliano Giovanni Aurispa (13761459) che insegnò greco a Bologna, a Firenze e scoprì e divulgò numerosi testi greci. A lui va il merito di avere inviato a Niccoli da Costantinopoli il famoso codice Mediceo – ora alla Laurenziana di Firenze – contenente ben sei tragedie di Eschilo, sette di Sofocle e le Argonautiche di Apollonio Rodio. Aurispa giunse al punto di vendersi i vestiti per acquistare dei codici da mercanti greci di Costantinopoli. Nel 1423, tornando da quella città, portava con sé molte casse contenenti 238 libri. Ma pochi di essi erano rari. Aurispa fu un mercante di codici più che un bibliofilo. Venne sospettato di essere un mezzo imbroglione. L’arrivo a Firenze nel 1397 dell’umanista Manuele Crisolora, che giunse da Bisanzio in Italia per insegnare le lettere greche 65

(preceduto nel 1360 da Leonzio Pilato, vedi p. 58) e fra i primi a divulgare opere di rilievo (tradusse fra l’altro la Repubblica di Platone), segnò una svolta fondamentale. Da allora la conoscenza del greco divenne un privilegio per gli umanisti, mentre molti codici continuavano ad arrivare da Costantinopoli, dalla Grecia e dall’Asia minore. Guarino Veronese e Francesco Filelfo, contemporanei di Bracciolini, si recarono a Costantinopoli per studiarvi il greco e tornarono carichi di testi fino allora ignoti, almeno in Italia. Il trasferimento su larga scala di una parte del patrimonio letterario greco in Europa, prima della caduta di Costantinopoli (1453) e di tutta la Grecia a opera dei turchi, fu una grande fortuna, anche se la Costantinopoli ottomana conservava una ricca collezione di opere greche e, per tutto il periodo del dominio turco fino ai tempi nostri, i monasteri greci hanno preservato dalla distruzione innumerevoli manoscritti. «Benché gli Aurispa e i Filelfo del tempo non possano forse definirsi né gli scopritori né i salvatori dei classici greci, il loro contributo fu importantissimo in quanto essi misero queste opere a disposizione dell’Occidente in un periodo di sua particolare ricettività, e così allargarono in misura incalcolabile la base classica dell’Umanesimo [...]. E quando papa Niccolò V varò un programma di traduzione di tutti i classici greci in latino, il Filelfo poté proclamare: “La Grecia non è morta: è migrata in Italia, il paese che fin da antichi tempi portò il nome di Magna Grecia”. Così, proprio mentre perdeva terreno in Oriente, la letteratura greca diventava oggetto di studio e ricerche in Occidente; e fu il trasferimento su larga scala di manoscritti a rendere possibile la nuova fioritura»19. Dopo Bracciolini, le scoperte di codici furono meno numerose e mancarono di quella continuità che aveva caratterizzato le ricerche di Petrarca, di Boccaccio, di Salutati e dello stesso Bracciolini. Quasi tutti i classici conosciuti fino alla metà del Cinquecento – specialmente nel campo della letteratura latina – sono gli 19

Leo Deuel, op. cit., p. 59.

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stessi che possediamo oggi. Altre scoperte avvennero specialmente all’inizio del XIX secolo grazie ai palinsesti, codici dove il testo originale, più antico e cancellato, veniva reso leggibile con vari procedimenti. Fu così che nel gennaio 1820 il filologo cardinale Angelo Mai, direttore della Biblioteca Vaticana, poté annunciare la scoperta di quasi tutti i primi due libri della Repubblica di Cicerone che Petrarca e Salutati avevano cercato invano. L’avvenimento fu prontamente celebrato da Giacomo Leopardi nella canzone Ad Angelo Mai. Non sono mancati i critici che hanno cercato di ridimensionare l’importanza delle scoperte fatte dai cacciatori di codici sostenendo che, copiati nel Medioevo nei monasteri, erano già parzialmente noti e non erano mai stati veramente perduti. È vero che fra quei ricercatori vi erano uomini vanagloriosi, arroganti, reciprocamente adulatori, invischiati in intrighi e rivalità, lontani da quella dignità “classica” di cui si professavano ammiratori. Ma «con tutto questo, i critici dimenticano che molte opere furono tramandate in un’unica copia, che molti di quei codici già rari stavano cadendo a pezzi, e che la loro sopravvivenza fu dovuta esclusivamente al tempestivo recupero. I codici antichi erano in via di sparizione; molti di quegli stessi che gli umanisti riuscirono a rintracciare e copiare sparirono più tardi, alcuni libri di cui i documenti ci attestano l’esistenza nel Medioevo e persino nel Rinascimento non sono giunti fino a noi [...] Ma è innegabile che [...] nessun termine più modesto di “scoperta” è adatto a definire il contributo degli umanisti nel restituire i testi della letteratura e della filosofia greca e latina alla conoscenza degli uomini»20. A partire dal Trecento con Petrarca, poi per tutto il Quattrocento e per la prima parte del Cinquecento, i libri diventano il mezzo per eccellenza attraverso il quale si può resuscitare il passato. Nella luce umanistica, vengono visti in modo nuovo: sono dei sopravvissuti, i pochi, gli unici miracolosamente risparmiati 20

Ivi, p. 49.

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dalla catastrofe che ha inghiottito il mondo mirabile dell’antichità classica. «E tuttavia vivi e vitali, direttamente parlanti a noi. Proprio per la loro esiguità, l’essere dei fortunati superstiti, li rende unici e preziosi. C’è nell’umanesimo una corrente affettiva profonda e fortissima, una felicità, come chi ritrovi vivi i propri cari che si credevano periti in una immane sciagura. I libri sono amati come mai prima lo erano stati e come di rado lo saranno dopo»21. «I libri sono pieni delle parole dei saggi, degli esempi degli antichi, dei costumi delle leggi, della religione. Vivono, discorrono, parlano con noi, ci insegnano, ci ammaestrano, ci consolano, ci fanno presenti ponendole sotto gli occhi cose remotissime dalla nostra memoria. Tanto grande è la loro dignità, la loro maestà, e infine la loro santità, che se non ci fossero i libri noi saremmo tutti rozzi e ignoranti, senza alcun ricordo del passato, senza alcun esempio; non avremmo conoscenza alcuna delle cose umane e divine; la stessa urna che accoglie i corpi cancellerebbe anche la memoria degli uomini». È la parte saliente della famosa lettera che il 31 maggio 1468 il greco cardinale Giovanni Bessarione, umanista raffinatissimo e rappresentante più alto dell’ormai esule cultura bizantina (Costantinopoli è caduta in mamo ai turchi nel 1453) indirizza al doge Cristoforo Moro nell’offrire in dono a Venezia la sua biblioteca di 746 codici (482 greci e 264 latini) che costituiscono il nucleo originario della Biblioteca Marciana. Una lettera in cui i libri, ben più che oggetti da collezione secondo una certa bibliofilia, sono oggetti d’amore per la cultura secondo gli ideali dell’umanesimo. I libri non sono solo una eredità, il lascito del passato, ma l’unica forma di memoria durevole, in grado di varcare il tempo e la morte. In più, i libri sono vivi, sono una presenza animata e vitale, non un immoto deposito di sapere, ma una sua parlante epifania. Con l’avvento della stampa, Venezia conta in breve 151 tipografie – quante ne avevano Parigi e Lione messe insieme – che 21

Gian Arturo Ferrari, Libro, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, pp. 57-58.

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negli anni Novanta del Quattrocento stampano 1.491 titoli, più di un quarto dell’intera produzione europea. Nel 1489-90 giunge a Venezia Aldo Manuzio, che qui diventerà il principe degli editori moderni, con la precisa intenzione di pubblicare i codici donati da Bessarione. Fra i suoi molti meriti, Manuzio va ricordato come il primo a ideare e realizzare il libro non solo per lo studio o la preghiera, ma anche per il piacere della lettura: concetto attualissimo ai nostri giorni, allora una vera e propria rivoluzione intellettuale. È un autentico innovatore: inaugura il carattere corsivo ancor oggi usatissimo, istituisce la punteggiatura moderna, struttura il frontespizio, i capitoli e l’indice. Inoltre rende il libro tascabile riducendolo ai formati in 8° e in 12° (tuttora utilizzati dall’industria editoriale) e il suo successo è tale che le prostitute, a Venezia, girano con il suo Petrarca in tasca, autore diventato popolare. Molte di esse, ricorda beffeggiandosene Pietro Aretino, si davano le arie di intellettuali «recando spesso il Petrarchetto in mano». Alla sua morte, avvenuta nel 1515, Manuzio ha pubblicato non meno di centocinquanta volumi con il marchio del delfino attorcigliato a un’ancora, quasi tutti classici in latino e in greco, sia antichi che contemporanei, all’insegna dell’eleganza e della bellezza. Le sue edizioni sono un monumento elevato alla divulgazione della cultura nel periodo più alto della civiltà europea. Degna conclusione di una così eccezionale carriera di editore è l’ultimo libro stampato da Manuzio, il De rerum natura di Lucrezio, fortunosamente riscoperto nel 1417 da Poggio Bracciolini nel monastero tedesco di Fulda (vedi a p. 64). Ma il suo volume più celebre edito resta l’Hypnerotomachia Poliphili edito nel 1499, il più bello e il più ricercato degli incunaboli. L’elogio del libro non deve però sottacerne gli aspetti negativi, come quello di un certo collezionismo di ieri e di oggi che può sembrare bibliofilia e in realtà è una specie di feticismo che riduce il libro a oggetto di culto da godere in privato e da esibire in pubblico. Inoltre vi è una considerazione di fondo, oggi più che mai attuale, da mettere in rilievo. 69

Sottintendendo, in linea di principio, il valore positivo del libro, pedagoghi, educatori e filantropi lo consigliano come medicina per lo spirito. «Però bisogna ammetterlo: la retorica un po’ stucchevole dell’esortazione alla lettura, gli appelli virtuosi a leggere, le campagne per l’acquisto di libri si fondano sempre su un’antropologia troppo ottimistica, cioè sull’idea che leggendo ci si elevi e si attinga una dimensione più nobile dell’esistenza, e che la lettura di un libro renda gioiosamente una persona migliore. Non è vero, e i primi a saperlo sono i censori e quelli che fanno i falò di libri. I libri rendono diversi, questo sì, ma diversi non significa necessariamente migliori, più buoni, più civili, più gentili, più garbati. La letteratura popolare è piena di eroi fuorilegge, prostitute, mascalzoni, vagabondi, ladri, assassini, violenti. Che piacciono, attirano, suscitano simpatia e ammirazione»22. Qualche esempio. Prototipo dell’uomo rovinato dai libri è il Don Chisciotte di Cervantes, che la lettura accanita dei poemi e dei romanzi di cavalleria ha indotto a scambiare la fantasia con la realtà. È noto, ad esempio, che best seller del romanticismo come I dolori del giovane Werther e Le ultime lettere di Jacopo Ortis provocarono un’ondata di suicidi emulativi fra i giovani di tutta Europa; che la pubblicazione di un falso come I protocolli dei Savi di Sion contribuì a potenziare la persecuzione degli ebrei; che il Mein Kamps di Hitler, uscito nel 1925, divenne la Bibbia del nazismo e ancor oggi ha molti lettori.

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Pierluigi Battista, I libri sono pericolosi, Rizzoli, Milano, 2014, p. 96.

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Al rogo

La sera del 10 maggio 1933, a Berlino – i nazisti erano andati al potere solo quattro mesi prima – tra i venti e i venticinquemila libri di autori definiti “degenerati”, dispregiatori del popolo, di orientamento marxista, comunista, pacifista, nonché romanzi popolari d’amore e gialli (definiti “bordelli letterari”), sequestrati in biblioteche scolastiche, pubbliche, private e librerie, andarono al rogo nella grande Opernplatz (ora Bebelplatz) per opera del gruppo studentesco filonazista Studentenschaft. Bertold Brecht, uno degli scrittori incriminati, in una poesia dell’esilio immagina con sarcasmo l’ira di un autore alla constatazione che i suoi libri sono stati dimenticati dai nazisti nel grande falò. Josef Goebbels, il futuro ministro della cultura del nuovo Reich, non aveva organizzato né ordinato il rogo dei libri. Arrivato a mezzanotte, espresse tuttavia la sua entusiastica approvazione con un discorso alla folla: «Uomini e donne tedeschi! Fate bene, in quest’ora solenne, a gettare alle fiamme la spazzatura intellettuale del passato. È un atto forte, grande e simbolico, un atto di testimonianza agli occhi del mondo. Da queste ceneri si leverà vittoriosa la fenice di uno spirito nuovo». Il falò della Opernplatz fu il principale fra i trenta e più che fra il marzo e il luglio 1933 i nazisti inscenarono sistematicamente in Germania. Gli studenti dovevano anzitutto “ripulire” i propri scaffali, quelli di parenti e conoscenti e poi quelli di tutte le librerie possibili. Furono novantaquattro gli scrittori tedeschi di rilievo e trentasette gli stranieri i cui volumi vennero dati alle fiamme. Fra essi spiccavano i nomi di Karl Marx, Sigmund Freud, Albert Einstein, Thomas e Heinrich Mann, Arnold e Stefan Zweig. Anche quello di Erich Maria Remarque, autore di 71

All’Ovest niente di nuovo, il libro tedesco di maggior successo del XX secolo con i suoi venti milioni di copie vendute nel mondo; un testo antimilitarista pubblicato nel 1929 dal quale era stato tratto, un anno dopo, il film americano omonimo. Alcuni degli scrittori tedeschi inclusi nella “lista nera” nazista si uccisero o trovarono la morte in un lager, la maggior parte trovò rifugio all’estero. Era solo l’inizio di un’opera di censura culminante alla fine degli anni Trenta e oltre. Bruciare libri divenne non soltanto una manifestazione di piazza, ma anche un atto privato preventivo da parte di chi aveva in casa opere proibite o ritenute tali, come era già avvenuto in Europa fra il XV e il XVII secolo sotto il dominio dell’Inquisizione. Ma bruciare libri «non era poi così facile né veloce», nota lo storico Leonidas E. Hill. «Bisognava aprire le pagine, affinché vi passasse l’aria e il fuoco potesse compiere il suo lavoro [...]. Altrimenti si consumavano solo in parte [...]. Bruciare grandi volumi nei caminetti o nelle stufe era una operazione lenta e noiosa»1. Di fronte a queste difficoltà, molti non trovavano di meglio che disfarsi dei loro libri gettandoli in un fiume, in mare, disperdendoli nei boschi o inviandoli a pacchi a indirizzi inesistenti. I comunisti non furono da meno. Durante il regime staliniano vennero dati alle fiamme milioni di libri di scrittori imprigionati, inviati nei gulag o fucilati, comunque ridotti in tutti i sensi a “non persone”, individui estinti come tali. Nel dopoguerra Stalin rastrella nelle biblioteche della Germania sconfitta dodici milioni di libri molti dei quali andranno perduti o distrutti. Sigmund Freud, incluso fra gli autori di opere “degenerate” per aver fatto una «degradante esaltazione della natura animale nell’uomo», sembra abbia così commentato il falò di Berlino: «Soltanto i nostri libri? Come è avanzato il mondo, un tempo ci avrebbero bruciati con essi». Freud morì sei anni dopo, senza fare in tempo a sapere che chi bruciava i suoi libri avrebbe finito 1

Matthew Battles, op. cit., p. 134.

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per bruciare milioni di ebrei come lui. Forse Freud aveva dimenticato, o non conosceva, l’intervento dello scrittore tedesco Heinrich Heine sul tema. Nel 1817 a Iena, nel castello della Walburg, gli studenti delle corporazioni patriottiche (avi degli studenti incendiari di libri del 1933), che chiedevano l’eliminazione di tutti gli scritti a loro avviso estranei alla “cultura germanica”, inscenarono un grande rogo simbolico mettendo insieme vecchi quaderni sulla cui copertina avevano scritto i titoli dei libri da distruggere. Tre anni dopo il ventenne Heine compose la tragedia in versi Almansor dove, ispirandosi anche al falò di Iena, immaginò un dialogo tra Almansor e Hassan sulla distruzione del Corano a Granada, in cui Hassan dice: «Là dove si comincia a dare alle fiamme i libri, si finisce col bruciare anche gli uomini». Il che era già avvenuto più volte con i roghi che la Chiesa aveva acceso non solo dei libri eretici, ma anche dei loro autori. Riferendosi al falò del 1817, Heine aveva aggiunto: «È stato solo un preludio». La sua profezia doveva avverarsi in un senso ben più ampio: nei dodici anni che seguirono quella sera del 10 maggio 1933, «circa cento milioni di libri avrebbero accompagnato sei milioni di esseri umani nelle fiamme dell’Olocausto»2. Nel dopoguerra emerge la notizia, incerta e apparentemente contradditoria, che Hitler era un bibliofilo proprietario di circa sedicimila volumi andati in gran parte dispersi. Solo nel 2008 esce il libro inchiesta di Timothy W. Ryback (La biblioteca di Hitler, Milano, Mondadori) che mette in chiaro la faccenda: Hitler aveva cominciato a comprare libri nel 1920, quando era un giovane piuttosto povero, senza arte né parte, e continuato per tutta la vita, con acquisti sempre piuttosto consistenti. Le sue preferenze andavano ai saggi filosofici e politici e alle biografie di grandi condottieri che postillava spesso con dissensi. Che Hitler fosse un lettore accanito e un amante dei libri, è una di quelle verità scomode che ancor oggi si preferisce passare sotto silenzio. 2

Ivi, p. 133.

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Il falò dei libri compiuto dai nazisti nel maggio 1933 aveva avuto più di un precedente da parte germanica. Il 25 agosto 1914 le truppe tedesche entrate in Belgio transitavano per la gloriosa città universitaria di Lovanio. Agli spari di alcuni franchi tiratori, i soldati reagirono con l’uccisione di duecento uomini e l’incendio della città. Andarono così in cenere non solo edifici di impareggiabile architettura gotica e straordinari tesori d’arte, ma anche la preziosissima biblioteca che conteneva circa trecentomila fra libri a stampa e manoscritti raccolti nel corso di circa cinquecento anni. Il 16 maggio 1940, all’inizio della seconda guerra mondiale, i tedeschi giunsero di nuovo in vista di Lovanio, diventata ora obiettivo militare perché sede di una guarnigione inglese che stava per unirsi alla ritirata verso Dunquerque e il canale della Manica. La biblioteca – rinata fra le due guerre grazie alla cooperazione internazionale con una ricca collezione di circa quattrocentomila volumi, manoscritti medioevali e incunaboli, molti dei quali confiscati ai tedeschi sconfitti nel primo conflitto mondiale – fu ridotta nuovamente in cenere, di proposito, dall’artiglieria germanica. Un altro esempio di distruzione intenzionale fu l’incendio, a Sarajevo nel 1992, della Vijecnica, la splendida biblioteca nazionale e universitaria bosniaca, che custodiva due milioni fra libri e manoscritti in ebraico, greco, latino, cirillico, arabo e altre lingue, che andarono in gran parte perduti. Dopo un bombardamento a tappeto sulla città, nella tarda sera del 25 agosto l’artiglieria dei nazionalisti serbi comandata dal criminale di guerra generale Ratk Mladic concentrò i suoi tiri sulla biblioteca con proiettili al fosforo. Bruciò per tre giorni. Lo scopo era chiaro: distruggerla per cancellare il carattere multietnico e multiculturale della Bosnia di cui essa era il simbolo. Il rogo della biblioteca di Sarajevo fu l’episodio saliente del più ampio attacco, sferrato dai nazionalisti serbi, fino al 1999 con la loro ritirata dal Kosovo, contro le prove materiali – libri, documenti, musei, opere d’arte, istituzioni culturali – «che avrebbero potuto rammentare alle 74

generazioni future come gente di diverse etnie e religioni condividessero una volta un’eredità comune»3. Ma questi non sono che episodi recenti nella storia, lunga più di cinquemila anni, della distruzione di intere biblioteche o di singoli libri sgraditi al potere dominante. Il primato assoluto, soprattutto come “effetto collaterale” delle incursioni aeree ma anche di proposito, spetta alla seconda guerra mondiale. Si è potuto fare solo un bilancio approssimativo: venti milioni di libri in Inghilterra, dieci milioni in Germania, quattro milioni solo in Ucraina, due milioni in Francia e due in Italia. «Quella che state per leggere è una storia ininterrotta: non c’è stato regime, ideologia e religione immune da questa ossessione distruttiva. Hanno bruciato libri i reazionari e i rivoluzionari, i seguaci delle tradizioni minacciate e gli adepti di nuovi culti ansiosi di cancellare i vecchi, le inquisizioni cattoliche e le ortodossie ebraiche, i califfi islamici e i pastori protestanti, i nazisti e i comunisti ma anche le democrazie liberali, almeno in certe loro periferie ideologiche. Sono stati bruciati i libri degli illuministi e subito dopo quelli dei nemici della Rivoluzione francese. Nel Novecento totalitarismi diversi hanno applicato la stessa radicale cura del fuoco che è affiorata perfino nella più nobile delle lotte, quella contro l’apartheid»4. Chi brucia o fa bruciare un libro, non importa quale, non fa altro che svelare il proprio timore della forza insita nella parola scritta. «I libri non sono per nulla cose morte, bensì contengono in sé una potenza di vita [...] Essi preservano come in una fiala la più pura forza ed essenza di quel vivente intelletto che li generò [...]. Chi uccide un uomo uccide una creatura ragionevole, immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione stessa, uccide l’immagine di Dio nella sua essenza», afferma nel 1644 il poeta e politico inglese John Milton nelAndrás Riedlmayer, in Matthew Battles, op. cit., p. 149. Marino Sinibaldi, Presentazione a Fernando Báez, Storia universale della distruzione dei libri, Viella Libreria Editrice, Roma, 2007, p. XI. 3 4

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l’Areopagitica, discorso per la libertà di stampare senza licenza5. Nemici naturali dei libri sono umidità, muffe, insetti, topi, incendi e inondazioni; ma i più pericolosi sono gli uomini, per incuria, ignoranza, volontà di distruzione. I libri vengono distrutti di proposito non in quanto oggetti materiali, ma in quanto strumenti di memoria, cioè patrimonio di idee di un’intera cultura. Il rogo dei libri è per eccellenza l’estinzione dell’individuo, della memoria, della storia, l’estremo atto di un’autorità che pretende di cancellare il passato. Le prime notizie risalgono al 1358 a.C., in Egitto, quando il faraone monoteista Akhenaton distrusse la biblioteca di Tebe dove erano raccolti i testi scritti dai sacerdoti di Amon, politeisti. Akhenaton fece costruire una nuova biblioteca che però, alla sua morte, venne incendiata dai sacerdoti tebani che avevano ripristinato il politeismo. Nabopolassar, re babilonese del VIII secolo a.C., fece distruggere tutti i testi che narravano le storie dei suoi predecessori. Un repulisti dello stesso genere fu fatto nel 213 a.C. dall’imperatore Shih-Huang-Ti, fondatore della dinastia Ch’in, unificatore della Cina e costruttore della Grande Muraglia, che ordinò di dare alle fiamme tutti i libri, esclusi quelli che narravano le vicende della sua famiglia, le opere di agricoltura, medicina e astrologia, con la pretesa che «la storia cominciasse con lui»6. L’imperatore fece seppellire vivi i dotti confuciani della sua corte contestualmente al rogo dei loro libri. Pochi anni prima, nel 207, Xiang Yu, leader della rivolta che rovesciò la dinastia Qin, aveva fatto bruciare tutti i libri antichi di Pechino. Nel 1966, ancora in Cina, durante la Rivoluzione culturale voluta da Mao Tse Tung, un numero incalcolabile di libri fu distrutto dalle Guardie Rosse che costringevano i proprietari a indossare John Milton, Aeropagitica, Rcs Libri, Milano, 2002, pp. 15-16. Jeorge Louis Borges, La muraglia e i libri, in Altre inquisizioni, Adelphi, Milano, 2000. 5 6

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cappelli da asino, li percuotevano e obbligavano a pentirsi. Centinaia di migliaia di libri erano stati bruciati nel 1959 in Tibet, durante l’insurrezione contro gli occupanti cinesi. Quella maoista è stata «una oscena campagna contro la cultura, l’istruzione l’intelligenza che non ha paragoni nella storia del Novecento», osserva lo storico inglese Eric Hobsbawm, una deflagrazione di fanatismo di dimensioni gigantesche durato anni. Akhenaton, Nabopolassar e Shih-Huang-Ti ci offrono i primi, più ragguardevoli esempi di una distruzione di libri che «comporta la volontà di imporre un’unica verità, attraverso un gesto di rifondazione della storia»7. Anche Seleuco I di Siria (358-281 a.C.) «divenuto re, fece bruciare tutti i libri del mondo perché il calcolo del tempo cominciasse con lui», scrive lo storico Mar Ibas (II sec. a.C.) riferendosi a una tradizione armena. Bruciare il passato per rinnovare il presente con il fuoco purificatore. La storia parla anche di grandi biblioteche andate distrutte come conseguenza bellica dell’incendio dei palazzi reali a cui erano annesse; oppure a causa di catastrofi naturali o di errori umani. Famoso è rimasto il rogo, avvenuto nel 48 a.C., di circa quarantamila rotoli librari depositati nei magazzini del porto di Alessandria d’Egitto: “danno collaterale” dell’incendio che Giulio Cesare aveva fatto appiccare alla flotta egiziana mentre era assediato nel Bruchion (l’area del palazzo reale della città) dopo essere accorso in aiuto di Cleopatra contro suo fratello, il faraone Tolomeo XIII. L’episodio è memorabile anche perché autorevoli storici antichi e moderni avevano localizzato l’incendio in tutta la Biblioteca Universale, la più famosa del mondo antico, raccolta nel Museo (casa delle Muse) che faceva parte del Bruchion. Oggi prevale la versione che Cesare ne aveva requisito quarantamila rotoli, poi andati in fumo, per spedirli a Roma, destinati al ricco ed esigente mercato librario; o fors’anche come bottino che 7

Alberto Castoldi, Bibliofollia, Bruno Mondadori, Milano, 2006, p. 55.

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Cesare stesso intendeva utilizzare per la prima biblioteca pubblica romana che voleva fondare. Certo è che egli non aveva alcuna intenzione di distruggere la favolosa biblioteca di Alessandria, che infatti rimase indenne durante il conflitto. All’opinione che proprio la biblioteca ne fu coinvolta, si connette l’episodio (citato da Plutarco) di Antonio che avrebbe risarcito Cleopatra donandole duecentomila volumi sottratti alla biblioteca di Pergamo, in Asia Minore, fatti in prevalenza non di papiro ma di un materiale relativamente nuovo, la pergamena, che secondo la tradizione fu inventata appunto a Pergamo per superare l’embargo del papiro egiziano decretato dal faraone Tolomeo V. A partire dalla conquista dell’Egitto da parte di Roma nel 30 a.C., gli imperatori mantennero in funzione la biblioteca di Alessandria finché nel 272-73 d.C., dopo quasi sei secoli di ininterrotta vitalità, fu distrutta durante la guerra fra la regina Zenobia, araba di Palmira (oggi Tadmor, in Siria) che, pretendendosi discendente di Cleopatra, aveva conquistata la città, e l’imperatore Aureliano che l’aveva riconquistata. Verso il 279, l’imperatore Diocleziano fece bruciare tutti i libri ancora in circolazione ad Alessandria, specialmente quelli di magia, alchimia e i testi cristiani. Per lungo tempo la scomparsa definitiva della leggendaria biblioteca alessandrina fu attribuita agli arabi. Certo è che nel 391 la biblioteca del Serapeo (tempio di Serapide), contemporanea e seconda per importanza a quella del Bruchion, venne devastata da una turba di cristiani fanatizzati dal vescovo Teofilo. «La ricca biblioteca fu saccheggiata o distrutta, e circa vent’anni dopo la vista degli scaffali vuoti eccitava il rimpianto e lo sdegno di ogni spettatore che non avesse la mente del tutto ottenebrata da pregiudizi religiosi»8. L’episodio è emblematico della «guerra dei cristiani contro la vecchia cultura e i suoi santuari: contro le 8 Edward Gibbon, Storia della decadenza e della caduta dell’impero romano, Einaudi, Milano, 1967, p. 89.

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biblioteche appunto [...]. Il rogo dei libri è parte della cristianizzazione»9. La notizia che la biblioteca universale di Alessandria venne distrutta nel 642 dall’emiro musulmano ’Amir Ibn al-’As dopo la conquista della città, fu data da due cronisti arabi vissuti tra i secoli XI e XIII, dunque sei o settecento anni dopo l’evento. Ma fin dal 1776-78 Gibbon, nella sua Storia e decadenza dell’impero romano «aveva espresso alcuni dubbi nei confronti dei due storici, per la loro distanza cronologica dai fatti e perché nel mondo islamico era costume conservare i libri e non bruciarli»10. Oggi questa tesi trova il maggiore credito fra gli studiosi. A Roma, nell’epoca imperiale, grandi biblioteche andarono distrutte dopo incendi scoppiati per cause ora accidentali ora dolose, a volte naturali. Furono distrutte dal fuoco la Palatina, fondata da Augusto, probabilmente nel 64 d.C. durante il grande incendio attribuito a Nerone; nell’80 quella del Portico d’Ottavia che Domiziano cercò di risarcire pescando nelle collezioni di Alessandria copie delle opere perdute; nel 188 un fulmine colpì il tempio di Giove Capitolino e distrusse l’annessa biblioteca «radunata con cura e zelo dagli antenati», riferisce lo storico latino cristiano Paolo Orosio. Fra le biblioteche colpite da catastrofi naturali spicca, per la sua unicità, quella privata della Villa dei Papiri a Ercolano, fondata da Lucio Calpurnio Pisone Cesonimo, suocero di Giulio Cesare, sepolta da una colata di fango ardente nell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.. Scoperta nel 1750-52, conteneva circa 650700 rotoli, per la maggior parte testi greci di filosofia, in particolare stoica ed epicurea. Dal loro rinvenimento a oggi sono stati fatti vari tentativi di srotolarli senza distruggerli, ma con scarsi o nulli risultati. Solo in piccola parte è stato possibile riuscirvi recuperando, tra l’altro, frammenti del De rerum natura di 199.

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Luciano Canfora, La biblioteca scomparsa, Sellerio, Palermo, 2004, p. Fernando Báez, op. cit., p. 56.

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Lucrezio. È in via di sviluppo una tecnica “virtuale” per riuscire a leggerli senza aprirli. I risultati più promettenti sono stati ottenuti dai ricercatori dell’Istituto per la microelettronica e microsistemi del Cnr di Napoli utilizzando una tecnica simile a una Tac medica: la tomografia a raggi X a contrasto di fase. Nell’antichità greca e romana, dare alle fiamme libri invisi al potere dominante era una pratica piuttosto diffusa. Tipico il caso del sofista Protagora, bandito da Atene come ateo e le sue opere bruciate sulla pubblica piazza nel 411 a.C., per avere scritto: «Riguardo agli dei, non ho la possibilità di accertare né che sono né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita umana». Alle fiamme furono dati anche i libri pitagorici e le Massime di Epicuro. Un’eccezione di rilievo: nel 260 d.C. ad Atene arrivano i goti, vuotano le biblioteche e fanno una catasta di libri. Ma uno dei loro capi li convince che è meglio non bruciarli: finché i greci saranno schiavi della lettura saranno inadatti alle armi. Racconta Svetonio che nel 27 a.C. Augusto, appena diventato imperatore, «dopo aver accumulato tutte le raccolte di profezie greche e latine che, con poca o nessuna autorità, erano in voga nell’Impero, vale a dire oltre duemila opere, le fece bruciare conservando solo i Libri Sibillini, anzi solo una scelta di essi». E non mancano episodi tragici. Come quello dell’oratore Tito Labieno che nel 12 d.C., obbligato ad assistere al rogo delle sue Storie, decretato dal Senato, non volle sopravvivere a esse e andò a seppellirsi vivo nella tomba di famiglia. Nel 25 d.C. l’imperatore Tiberio condannò a morte lo storico Cremuzio Cordo dopo averne fatto bruciare l’intera opera, e Cordo scelse il suicidio per fame. Così Tacito commenta la vicenda: «Ma alcuni di quei libri rimasero in vita segretamente custoditi e occultati. È perciò lecito ridere della stoltezza di coloro che credono, con la potenza di cui dispongono oggi, di poter soffocare persino il ricordo delle generazioni future. Al contrario, accade che il talento perseguitato acquisti maggiore autorità. E i re stranieri, e quelli che ne hanno seguito l’esempio spietato, non hanno ottenuto 80

altro che procurare a se stessi vergogna e gloria ai perseguitati»11. E ancora, nell’89 d.C. l’imperatore Domiziano fece crocifiggere lo storico Ermogene di Tarso, che aveva scritto un libro a lui non gradito, insieme con il copista e il libraio che lo aveva messo in vendita. Nella sua biografia su Caligola, Svetonio mette in luce non senza ironia (cap. 34) il dissennato proposito dell’imperatore di distruggere i poemi omerici e di far scomparire dalle biblioteche le opere di Virgilio e Livio; ma non trascura di ricordare l’opposto provvedimento di Caligola di rimettere in giro le opere di Labieno e di Cordo. A volte queste censure erano motivate da ragioni più politiche che religiose, come quella di Diocleziano che nel 303 ordinò fossero bruciati tutti i libri cristiani. Anche la Chiesa, diventata da perseguitata a persecutrice, fece largo uso del fuoco contro i libri non ortodossi, e a volte contro i loro stessi autori. Diedero il via, fin dal I secolo, durante la predicazione dell’apostolo Paolo a Efeso, gli stessi fedeli: «Molti di coloro che avevano esercitato le arti magiche radunarono i loro libri e li bruciarono in piazza. Il loro valore fu stimato in cinquantamila dramme d’argento. In tal modo la parola di Dio cresceva e si rafforzava»12. Il termine “arti magiche” sarà spesso adottato come pretesto per distruggere libri, e volte uomini, non obbedienti alla dottrina cristiana o al potere politico. Ecco alcune tappe significative. L’imperatore Costantino ordina la distruzione dei libri dell’eretico Ario e dei suoi seguaci, secondo le decisioni del concilio di Nicea del 325; nel 455 Marciano, successore di Teodosio, condanna al rogo i libri di vari autori dichiarati eretici; nel 590 papa Gregorio Magno fa bruciare tutti i libri dell’antica Roma; l’imperatore Basilio I manda al rogo i libri di Fozio, in base alle disposizioni, nell’870, del concilio di Costantinopoli. Tacito, Annali, IV 35,5 cit.; Luciano Canfora, Libro e libertà, Sellerio, Palermo, 2005, p. 52. 12 Atti degli apostoli, 19,19. 11

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In tema di rogo dei libri, di solito non viene ricordato che ebbe come motivo anche l’iconoclastia, il movimento eretico contro il culto delle immagini religiose, sostenuto nel 726 dall’editto dell’imperatore bizantino Leone III, che per più di un secolo imperversò nelle chiese cristiane d’Oriente. Domenico Bernini, nella sua Istoria di tutte le eresie13, narra che l’imperatore convocò i dodici dotti che costituivano il collegio insegnante fondato da Costantino, ordinando di distruggere tutti i libri contenenti immagini sacre, cioè la maggior parte della loro biblioteca che per quantità e ricchezza di volumi deteneva il primato nell’Oriente cristiano. I dodici si rifiutarono fermamente. «Allora», racconta Bernini, «l’Imperatore non è credibile quanto furiosamente si mostrasse sdegnato di una così generosa resistenza e per dar esempio di terrore che facesse tremare tutto il mondo, incontamente fece racchiudere que’ Professori dentro il loro collegio e circondare il Collegio di legna e paglia e con orrendo spettacolo bruciare tutti quivi vivi con il loro palazzo e libreria. Fenici gloriose ridotte in cenere per la fede e quindi risorte più rinomate che mai nella memoria de’ Fedeli. Ma la perdita dei libri fu irreparabile e deplorabile in ogni secolo in cui rimarrà sempre detestata la memoria della bestialità inaudita di questo esecrando Imperatore, che con questo fatto comprovò che li più deboli a fare il bene sono bene spesso li più potenti a fare il male». Il principio che gli scritti degli eretici meritavano il rogo trovò la sua pia esemplificazione nel 1207, con il miracolo del “libro santo” con il quale san Domenico passò indenne tra le fiamme, mentre quelli degli eretici bruciarono subito. Nel 1140 vengono inceneriti i libri del teologo Abelardo e nel 1154 quelli dell’eretico Arnaldo da Brescia, processato, impiccato e arso. Nel 1184 il concilio di Verona istituisce l’Inquisizione degli eretici con il potere di condannarli al rogo con le loro opere. 13 Domenico Bernini, Istoria di tutte le eresie, Baglioni, Venezia, 1717, tomo II, p. 343.

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Disposizione applicata anche contro il poeta Cecco d’Ascoli, messo al rogo nel 1327 con i suoi libri. Lo stesso accade nel 1415 all’eretico Jan Hus, nonostante un salvacondotto che doveva garantirgli l’immunità. Nel 1487 papa Innocenzo VIII con la costituzione Inter multiplices stabilisce la necessità dell’esame preventivo, da parte dell’autorità ecclesiastica, di tutti i libri e la distruzione delle opere contrarie alla religione: è il primo intervento ufficiale della Chiesa in materia di libri a stampa. A Firenze, durante il carnevale del 1497 e del 1498, Girolamo Savonarola inserisce nei pubblici “bruciamenti delle vanità” anche testi letterari come quelli di poeti latini, di Boccaccio e di Petrarca. Nel 1515 il concilio Lateranense V decreta che, al fine di sradicare «gli errori troppo numerosi del passato e ancor più temibili in futuro», verranno «bruciate tutte le opere in grado di far vacillare la fede». Con l’avvento della Riforma, il rogo purificatore dei libri diventa per la Chiesa cattolica un disperato tentativo di difesa. Nel 1520, con la bolla Exurge Dominum, papa Leone X condanna alla distruzione tutte le opere presenti e future di Lutero. Lutero risponde bruciando la bolla di scomunica e alcuni testi di teologia scolastica e diritto canonico. Ma anche i protestanti e gli anglicani non sono da meno nel mandare al rogo i libri contrari alla loro dottrina. Michele Serveto, teologo, umanista e medico spagnolo, autore di un’opera il cui attacca il clero, il dogma della Trinità e i calvinisti, viene bruciato vivo nel 1553 a Ginevra con il suo libro, su denuncia dello stesso Calvino. È da notare che la sentenza poteva essere emessa dall’autorità civile senza essere preceduta da quella ecclesiastica: come nella vicenda memorabile di Etienne Dolet, tipografo, editore, traduttore e letterato coltissimo, torturato, impiccato e bruciato nel 1546 a Parigi, su sentenza del Parlamento che aveva condannati al rogo alcuni dei suoi libri mentre era ancora in vita. Nel 1563, un editto promulgato da Carlo IX di Francia prevede impiccagione o strangolamento per chi stampi o faccia stampare qualsiasi cosa senza licenza. Fra i 83

casi bizzarri, il primato spetta probabilmente al polacco Casimiro Liszinsky, bruciato vivo a Grozno nel 1689 e le cui ceneri, mescolate con quelle di un suo libro sull’ateismo, sono disperse in aria con un colpo di cannone. Innumerevoli roghi di libri si accendono in varie città d’Italia e d’Europa. A Venezia, uno dei maggiori centri editoriali del continente, nel 1553 vengono bruciate in piazza San Marco alcune migliaia di libri e nel 1559 quasi diecimila. L’esempio veneziano è seguito in altre località italiane. Numerosi sono anche i libri dati alle fiamme segretamente da singoli proprietari, per eliminare un materiale che a partire dagli anni Quaranta del Cinquecento diventa sempre più pericoloso tenere in casa. Lo stesso accadrà nel Novecento sia nella Russia comunista che nella Germania nazista. Tra le copie sfuggite ai roghi, alcune diventeranno, per la loro rarità, tra i libri più ricercati dai bibliofili. Negli anni 1588-89, i falò dei libri proibiti vengono illustrati sulle pareti del grande salone della Biblioteca Sistina in Vaticano, e a partire dal 1665 i frontespizi di molte edizioni dell’Indice dei libri proibiti sono illustrati da una xilografia rappresentante San Paolo che incita gli efesini a bruciare i loro libri. «Condanniamo, reprobamo et prohibemo tutti li sopradetti et altri tuoi libri et scritti come heretici et erronei et continenti molte heresie et errori, ordinando che tutti quelli che sin hora si sono havuti, et per l’avenire verranno in mano del Santo Offitio siano pubblicamente guasti et abbrugiati nella piazza di San Pietro, avanti le scale, et come tali che siano posti nell’Indice de’ libri prohibiti...». Così recitava la sentenza di condanna a morte dell’Inquisizione contro Giordano Bruno. Ai librai di Roma «e a ogni altro di che condizione esser si voglia» furono minacciate le punizioni più gravi se avessero continuato a vendere i libri del frate «abbrugiato vivo» nel Campo dei Fiori, a Roma, il 17 febbraio 1600, mentre la città era piena di pellegrini per l’Anno Santo appena cominciato. La diffusione dei libri proibiti fu più volte paragonata a quella di un’infezione come la lue, la “vergognosa” sifilide che imper84

versava in Europa dal tempo della scoperta dell’America. L’epiteto “lue dei libri” è inciso sulla lapide, murata nella cattedrale di Palermo alla fine del Settecento, in lode dello spagnolo Lopez y Rojo, monsignore e viceré, che aveva “curato” quella lue facendo bruciare i libri “infetti” per mano del boia sulla pubblica piazza. Agli umanisti di Firenze e Venezia, che tentavano di convincerlo a impedire i roghi dei libri, il cardinale Antonio Michele Ghisleri, poi divenuto papa Pio V (1504-1572), rispose che nelle città colpite dalla peste i governanti ordinavano di bruciare le suppellettili dove vi era pericolo di contagio, e la gente era disposta a sopportare tutto questo per salvarsi dall’epidemia: lo stesso doveva valere per la peste dell’eresia propagata dai libri. I numerosi roghi di libri ebraici, accesi a partire dal XIII secolo, hanno un precedente nel 167 a.C. con la loro distruzione ordinata dal re di Siria Antioco Epifane nel tentativo di ellenizzare gli ebrei. Tentativo così violento da provocare la rivolta dei Maccabei. Nel 1238 il tribunale dell’Inquisizione condanna alle fiamme il Talmud. A Roma e a Parigi vengono bruciati, con il Talmud, migliaia di volumi ebraici. Ancora a Parigi, nel 1248, sono dati alle fiamme venti carri di libri ebraici. Nel 1505 l’imperatore Massimiliano d’Asburgo fa distruggere tutti i testi ebraici, eccetto la Bibbia. Nel 1553, papa Giulio II emana la bolla che obbliga la consegna e la distruzione immediata dei libri ebraici, in particolare del Talmud. Il 9 settembre, giorno del Capodanno ebraico, un grande falò di volumi sacri per l’ebraismo viene innalzato nel Campo dei Fiori a Roma, dove sette anni dopo sarà bruciato Giordano Bruno. Lo stesso avviene in varie città italiane, soprattutto a Venezia, leader europea nella stampa dei libri ebraici. Qui erano stati pubblicati, nel 1517 la prima Bibbia rabbinica, e nel 1523 il primo Talmud della storia. Ancora a Venezia, nel 1559 vengono arsi in piazza San Marco fra i 10 mila e i 12 mila volumi di vario genere, caduti sotto la censura ecclesiastica. Nel 1564, Pio IV permette la stampa del Talmud, purché censurato e senza la parola Talmud sul frontespizio. Nel 1593 papa 85

Clemente VIII condanna al rogo immediato i libri degli ebrei, in particolare il Talmud. Alla fine del Cinquecento una relativa tolleranza permetterà agli ebrei di possedere libri, purché ogni volume rechi l’approvazione del rabbinato che testimoni l’assenza di qualsiasi offesa nei confronti sia della religione ebraica sia di quella cristiana. Gli ultimi roghi del Talmud e di altri libri ebraici avvengono nella seconda metà del Settecento in Renania e in Polonia. Il bando ecclesiastico contro il Talmud del resterà in vigore fino al XVIII secolo. Tanto accanimento da parte delle autorità cattoliche era dettato non solo dal fatto che il Talmud era il libro sacro degli ebrei, il popolo “deicida” per aver messo a morte Gesù, ma anche dal pregiudizio che nascondesse pratiche magiche e stregonesche. Se le prime tre parti erano tollerabili, la quarta conteneva «favole ingiuriose nei confronti di Cristo , la Vergine, i santi e la fede cristiana». Si temeva che i cristiani fossero contaminati e contagiati dalla lettura. C’era soltanto un rimedio: requisire i Talmud presenti nelle sinagoghe e nelle case per mandarli al rogo, mentre i cristiani che leggessero o peggio stampassero i testi talmudici venivano scomunicati. Si giunse al punto che, per tollerarne la circolazione, alcuni Talmud vennero espurgati da censori, spesso di origine ebraica. Il fuoco non risparmiò neppure il Corano. Maometto era morto nel 632 e una dozzina di anni dopo il terzo califfo Osman, in considerazione che esistevano diverse versioni del Corano, decretò che la versione autorizzata era una sola: quella in possesso di Hafsa, quarta moglie di Maometto, che sarà imposta in tutto l’islam, mentre le altre andranno confiscate e subito bruciate. Lo stesso accadrà in Europa fra il XV e il XVI secolo alla Bibbia tradotta in volgare (lingua locale correntemente parlata), poiché l’unica autorizzata era quella tradotta in latino da San Gerolamo fra il IV e il V secolo, passata alla storia sotto il nome di Vulgata. Tutte le altre, anche se tradotte in latino, vennero messe all’Indice per essere incenerite su ordine dell’Inquisizione romana. Una vicenda a suo modo paradossale, visto che a inaugurare il libro 86

stampato a caratteri mobili era stata proprio una Bibbia, quella di Gutenberg. Nel 1538 l’intera tiratura del primo Corano a stampa, prodotto a Venezia dal tipografo Alessandro Paganini, fu data alla fiamme subito dopo la sua importazione a Costantinopoli; e solo grazie all’intervento dell’ambasciatore veneziano Paganini riuscì a scampare alla morte, ma fu condannato al taglio della mano destra. Questa è la versione di un suo contemporaneo, il filosofo e giurista francese Jean Bodin. Comunque è verosimile che Paganini avesse pensato di realizzare un grande affare vendendo il suo Corano nella capitale dell’impero ottomano, poiché in tutto l’Islam del Libro circolavano solo copie manoscritte. Ma ignorava che la sua stampa era stata proibita, pena la morte, fin dal 1483. E il Corano di Paganini aveva l’aggravante di essere zeppo di errori, ritenuti sacrileghi già quando erano commessi dai copisti arabi. Del Corano di Paganini sopravvive una sola copia, scoperta nel 1985 dalla studiosa Angela Nuovo nella biblioteca dei frati Minori del convento dell’isola di San Michele, a Venezia. Anche le grandi biblioteche dell’Islam andarono al rogo. Il più assurdo accadde, nel 980, alla leggendaria e immensa biblioteca dei califfi di Cordoba, non per opera di nemici cristiani, ma dell’usurpatore al-Mansur o Almanzor, per assicurarsi l’appoggio dei capi religiosi più intransigenti, che andavano a caccia dei libri “dei materialisti e dei filosofi” per bruciarli sul posto con grande divertimento del popolino. Ancora a Cordoba, nel 1109, su ordine dell’emiro fu bruciato in piazza un libro di Al-Ghazali, grande teologo, filosofo e mistico persiano. La cosa straordinaria è che mentre il volume veniva consumato dalle fiamme il popolo tumultuò e si ribellò per difenderlo. Le Crociate lasciarono dietro di sé le ceneri di innumerevoli libri. Il rogo maggiore fu, nel 1109, quella della grande biblioteca di Tripoli di Siria che si era arresa senza spargimento di sangue. Un cronista dell’epoca, l’arabo Fu ’ad Sayyd, racconta: «Un prete, Allah lo maledica, si spaventò vedendo tanti libri. Ne apre uno: è il Corano, un altro, è ancora il Corano. Al ventesimo dice: 87

“Questo posto contiene solo Corani. Che sia bruciato!”». Quando nel 1202 la quarta Crociata, anziché puntare sulla Terrasanta, conquistò Costantinopoli, inflisse alle preziose raccolte librarie di quella città perdite tali da rimanere per sempre nel ricordo dei posteri. Una fonte narra di crociati che infilzavano manoscritti preziosi nelle loro lance e li additavano come simboli della mollezza dei greci. Fra il XIII e il XIV secolo numerose e preziose biblioteche del mondo musulmano scomparvero per opera dei conquistatori mongoli, turchi e cristiani. La distruzione più grave avvenne nel 1258, quando i mongoli rasero al suolo le trentasei biblioteche di Baghdad, fin dal IX secolo massimo centro culturale del mondo islamico. Come dissero testimoni attoniti, gli invasori fecero tingere il fiume Tigri di rosso per il sangue di migliaia di abitanti e di nero per l’inchiostro di migliaia di manoscritti. Lo stesso accadrà nel 2003 quando, fra incendi e saccheggi da parte della popolazione, si perse un milione di libri senza che gli invasori americani muovessero un dito. Una storia che si è ripetuta nel 2015 con la distruzione, da parte dei fanatici dell’Is, di un gran numero di manoscritti antichi arabi, siriaci, greci, della biblioteca di Mosul. Nel 1453 furono i musulmani a distruggere la biblioteca imperiale della cristiana Bisanzio. In Spagna, nel 1492, dopo la loro cacciata, ha inizio la grande corsa per la distruzione dei manoscritti arabi. A Granada, nel 1499, il cardinale Jiménez de Cisneros, consigliere della regina Isabella di Castiglia, manda al rogo migliaia di volumi islamici, soprattutto Corani, magnificamente calligrafati e miniati, risparmiando solo qualche opera di medicina. Sempre in Spagna, nel 1508 il cardinale Ximenés fa eliminare con il fuoco cinquemila libri scritti in arabo, ritenuti sacrileghi. Scoppia una rivolta fra i musulmani che, come risposta, vengono tutti battezzati a forza. Alla presa di Tunisi nel 1536, l’imperatore Carlo V ordina di dare alle fiamme tutti i libri in arabo. Due anni prima, in Inghilterra, re Enrico VIII, in conseguenza del suo scisma dalla Chiesa di Roma, aveva decretato lo scio88

glimento degli ordini religiosi cattolici, la confisca dei loro patrimoni, la chiusura di ottocento monasteri e la distruzione dei trecentomila volumi lì conservati. Gli ultimi grandi roghi di libri compiuti in nome del cristianesimo furono accesi in Messico nel XVI secolo. Subito dopo la conquista spagnola, i monaci incaricati di convertire le popolazioni ritenevano i libri maya e aztechi una minaccia per la fede cattolica, e perciò ne andavano a caccia indiscriminatamente. Gli incendi appiccati da Cortez durante la conquista (1519) di Città del Messico avevano provocato anche la distruzione di gran parte dei libri sacri raccolti nei templi. Fra il 1536 e il 1543 Juan de Zumárraga, vescovo di Città del Messico, fece bruciare sulla piazza intere biblioteche. Lo stesso Bartolomé de Las Casas – il domenicano che si era scagliato contro la condotta inumana dei conquistatori e colonizzatori con la sua Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie, scritta nel 1539 – aveva mandato al rogo tutti i manoscritti maya e aztechi che aveva potuto trovare, considerati opera del Diavolo. Nella sua Relazione sulle cose dello Yucatan, il francescano Diego de Landa Calderòn, scrive: «Trovammo un gran numero di libri [...] e, poiché non ce n’era uno dove non fossero superstizioni e falsità del Demonio, li bruciammo tutti». In sovrappiù de Landa fece infliggere numerose frustate a ogni nobile del paese, costretto ad assistere al falò. Era il 1561. Riuscì a distruggere in un sol colpo quasi tutti gli scritti maya che erano stati nascosti proprio per sottrarli alla furia devastatrice dei conquistatori e dei predicatori spagnoli. Si sono salvati solo tre libri maya e quattro aztechi. «Vista nel suo insieme, la storia delle biblioteche antiche appare come una catena ininterrotta di fondazioni, distruzioni, ricostruzioni, catastrofi: come dominata dall’attrazione mortale tra il libro e il fuoco»14. E non solo le biblioteche antiche. L’inte14

Luciano Canfora, Il copista come autore, Sellerio, Palermo, 2002, p. 87.

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ra storia del libro è indissociabile da quella di un autentico “bibliocausto” sempre rinnovato, che va ben oltre il rogo perpetuato fino ai giorni nostri: anche ignoranza, stupidità, negligenza, distrazione sono stati, e ancora lo sono, altrettanti fattori di distruzione. Un settore del tutto particolare è quello dei libri parzialmente bruciati, attribuiti ad apparizioni ammonitrici di defunti, documentato a Roma nel museo del Purgatorio. Il più importante di questi cimeli è un volume di prediche mariane di Giorgio Pistorio, stampato nel 1652 e nel 1670 toccato dallo spirito del vicario inglese Cristoforo Wallbach, morto nel 1605, che lasciò l’impronta infuocata del suo pollice sulla legatura e nel libro fino alla pagina 80. C’è anche una Imitazione di Cristo in tedesco che su 15 pagine reca una bruciatura causata dalle dita di una donna morta da più di trent’anni, apparsa a sua nuora nel 1814 a Ellingen, presso Aquisgrana. Altri libri bruciacchiati da anime del Purgatorio sono esposti nel museo romano, suscitando curiosità ma scarso credito fra i fedeli. «I romani bruciarono le biblioteche degli ebrei, dei cristiani e dei filosofi; gli ebrei bruciarono i libri dei cristiani e dei pagani; e i cristiani bruciarono quelli dei pagani e degli ebrei». Autore di questo fiammeggiante girotondo è lo scrittore inglese Isaac d’Israeli (1766-1849). «Coloro che bruciavano le biblioteche dell’antichità credevano di aver distrutto ogni traccia dei manoscritti che vi si trovavano. Ma dopo l’invenzione della stampa, la cosa è ormai impossibile. Bruciare uno, due, anche cento copie di un libro stampato non significa farlo sparire. Altre copie saranno probabilmente presenti in biblioteche private e pubbliche»15. Tuttavia il gesto resta simbolico: purificare con il fuoco una cultura che quel libro ha infettato. Ancora nel corso dei secoli XVII e XVIII una lunga lista di condanne al rogo per motivi non sempre dichiaratamente religio15 Jean-Philippe de Tonnac, in J. C. Carrière e U. Eco, Non sperate di liberarvi dei libri, Bompiani, Milano, 2009, p. 208.

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si, politici o morali – emesse dall’autorità civile – colpisce tutta una serie di opere specialmente francesi, in particolare di autori insigni dell’illuminismo come Voltaire, Diderot, Rousseau, Hélvetius, Holbach. Un’ecatombe di libri si compie con la Rivoluzione dal 2 novembre 1789, quando tutti i beni ecclesiastici, reali e nobiliari, vengono confiscati. Nel 1792, a Parigi, un testimone tedesco annota nel suo diario che «un’immensa quantità di volumi fu bruciata in piazza Vendôme, davanti alla statua di Luigi XIV. Vi andai e trovai la cenere ancora rovente. C’era molta gente intorno che si scaldava mani e piedi. Poiché soffiava un vento molto freddo da nord, anch’io mi scaldai con gli altri». Fra il 1789 e il 1803 il saccheggio delle biblioteche francesi comporta lo spostamento, la perdita e la distruzione di 10-12 milioni di volumi. E non basta: nel 1871, quando i versagliesi invadono Parigi, i comunardi incendiano molti grandi edifici pubblici mandando in cenere ottantamila preziosi volumi conservati al Louvre. L’Ottocento è probabilmente il secolo in cui più si distinguono i nemici dei libri in nome del buon costume. Uno dei primi è il medico inglese Thomas Bowler, al cui nome si ispira il verbo bowdlerize (espurgare), che nel 1807 pubblica la prima edizione di uno Shakespeare espurgato, a suo parere più adatto a donne e bambini rispetto all’originale con il suo linguaggio licenzioso e i suoi volgari doppi sensi. Ma il campione dei censori ottocenteschi è Anthony Comstock che nel 1873 fonda a New York la Società per l’eliminazione del vizio e arriva a far distruggere centoventi tonnellate di libri che giudica immorali. Roghi si accendono nel XX secolo anche per singoli libri. Nel 1957 il Tribunale di Milano condanna alle fiamme la traduzione di una raccolta di racconti di Sade: sentenza eseguita nel cortile della questura di Varese. Nel 1985, al Cairo, tremilacinquecento copie de Le mille e una notte vengono sequestrate e bruciate sulla pubblica piazza in quanto «testi scandalosi». Ed è del 1989 la “fatwa”, tuttora valida, emessa dall’ayatollah Khomeini che condanna al rogo (eseguito in varie località del mondo 91

arabo) il libro Versetti satanici e alla morte il suo autore Salman Rushdie. Per converso, è del 2010 l’iniziativa, annunciata con clamore da un oscuro pastore pentecostale, Terry Jones di Gainsville in Florida, di bruciare pubblicamente l’11 settembre 2011 duecento copie del Corano per commemorare i tremila morti delle Torri Gemelle di New York. Jones aveva poi rinunciato al falò per l’immediata protesta della Casa Bianca e del Vaticano, molto preoccupati che la certamente violenta reazione dei musulmani per il rogo del libro sacro alla loro religione avrebbe coinvolto sia le truppe americane in Afghanistan sia le minoranze cristiane nei paesi islamici. Ma il 20 marzo 2011 un altro pastore, l’evangelico Wayne Sapp di Tampa, sempre in Florida, inscena un miniprocesso al Corano condannandolo al rogo – condanna eseguita bruciandone una copia – sotto la supervisione del collega Terry Jones. Dieci giorni dopo, a Mazr-I-Shariff nel nord del Afghanistan, una folla di musulmani prende d’assalto il quartier generale dell’Onu provocando venti morti. Il giorno seguente a Kandahar, ancora in Afghanistan, un’altra manifestazione di protesta lascia una decina di vittime. In occasione di questo rogo del Corano, nel mondo Occidentale nessuna enfasi, anzi, nessuna considerazione si è letta o udita che bruciare un libro, anche se per protesta o dispregio, è un atto di intolleranza e di violenza contro i principi della libertà democratica. Anche quando si tratta del testo di una religione estranea o avversa. All’inizio del nostro secolo, il primato di stupidità in fatto di rogo dei libri è stato raggiunto ad Alamogordo, Nuovo Messico, davanti alla chiesa della Comunità di Cristo, dove nel 2002 è stato bruciato Il signore degli anelli, la trilogia di Tolkien, giudicata “satanica”. I libri vengono dunque distrutti, molto più spesso che per cause accidentali, per interventi umani allo scopo di sopprimere un’idea, una cultura, una memoria di cui il potere dominante vuole sbarazzarsi. È una pratica non riconducibile a uno specifi92

co, a un particolare credo religioso o politico, che continua a manifestarsi, come abbiamo visto, anche oggi. Il 15 febbraio 1910, nel teatro Lirico di Milano, Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del futurismo, nel corso della grande serata inaugurale del suo movimento, rifacendosi al manifesto futurista dell’anno precedente affermò essere necessario dar fuoco a tutte le biblioteche, suscitando fischi, urla e un fitto lancio di ortaggi. Era evidentemente una provocazione; ma in effetti il Novecento fu costellato, come abbiamo visto, da grandi roghi di libri. Durante il millennio appena iniziato, questo genere di incendi non avverrà più? Nel 1771, lo scrittore francese Louis-Sébastien Mercier, così profetizzava nel suo libro L’anno 2240: «Noi abbiamo raccolto d’unanime consenso, su una vasta pianura, tutti quei libri che abbiamo giudicati o frivoli o inutili o perniciosi. Ne abbiamo formata una piramide che nella sua altezza e larghezza rassomigliava a una nuova torre di Babele. I Giornali coronavano la sommità di questo bizzarro edificio fiancheggiato per ogni parte da lettere pastorali di Vescovi, da rimostranze di Parlamenti, da requisitorie e da orazioni funebri. Era composto da cinque o seicentomila dizionari, da centomila volumi di giurisprudenza e di critica ingiuriosa, da centomila poemi, da un milione e seicentomila viaggi e da un miliardo di romanzi. Abbiamo dato fuoco a questa massa spaventosa come un sacrificio espiatorio offerto alla verità, al buon senso e al vero gusto»16. Ben più dirompente è l’americano Ray Bradbury, autore del romanzo fantascientifico Fahrenheit 451 (la temperatura di combustione della carta, corrispondente a quasi 233 gradi centigradi) uscito nel 1953. Il volume racconta la storia di Montag, un pompiere che non ha l’incarico di spegnere gli incendi ma, con i suoi colleghi, di dare fuoco ai libri, per fare in modo che la gente non legga e possa, quindi, «vivere felice». Montag, però, scopre che 250.

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Louis-Sébastien Mercier, L’An 2440, Ducros, Bordeaux, 1971, pp. 249-

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nei libri c’è molta più vita di quanta non gliene offra la società in cui vive, una società controllata e ipertecnologica, dove non c’è spazio alcuno per il libero pensiero. Perciò si unisce agli “Uomini-libro”, i resistenti, ognuno dei quali memorizza, per tramandarlo ai posteri, un singolo testo fra quelli che contano, sottraendolo alla distruzione totale. Montag sceglierà di mandare a memoria i racconti di Poe. Qualcosa del genere è avvenuto realmente: nell’Unione Sovietica, Nadezna Maldel’stam, la moglie del poeta Osip assassinato nel 1938 per i suoi versi contro Stalin, mentre il marito era ancora sotto tortura nei sotterranei della Lubianka, li imparò tutti a memoria e ne distrusse i manoscritti per evitare che li trovassero durante le continue perquisizioni notturne. «Sì, se c’è un libro che riscriverei, è proprio Fahrenheit 451», ha detto Bradbury in occasione del cinquantenario della sua uscita. «E non perché sia invecchiato, anzi. Perché non è solo una profezia, un avvertimento, non è solo un libro di fantascienza, ma un monito contro la censura, per ricordare i roghi dei libri che abbiamo già visto, con i nostri occhi, nella storia. Ognuno deve esserne cosciente, in modo che in nessun luogo del mondo ci possa essere qualcuno che imponga agli altri cosa leggere e cosa scrivere». I libri fanno così paura al potere «perché il pensiero libero fa paura e perché c’è sempre chi vuole decidere per qualcun altro cosa è bene e cosa no»17. Ancor oggi oltre la metà della popolazione mondiale vive in regimi in cui i libri avversi al potere dominante sono proibiti e distrutti e i loro autori perseguitati o uccisi. Nemmeno l’immensa biblioteca universale oggi disponibile su Internet è al riparo dalla distruzione. A parte l’obsolescenza del supporto (la registrazione elettronica è destinata ad avere una durata di gran lunga inferiore a quella della carta utilizzata per i libri fra il Quattrocento e il Cinquecento) già da oggi decine di hackers, i pirati informatici, hanno in programma, al posto del 17

«la Repubblica», 20 maggio 2003, p. 43.

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fuoco, azioni devastanti. «La Rete rappresenta un primo passo verso la globalizzazione della conoscenza e rende probabilmente più difficile l’opera dei nemici dei libri; ma certamente non riuscirà a impedire che la censura e le organizzazioni terroristiche attuino azioni contro i centri [che gestiscono la biblioteca universale di internet]. La distruzione dei libri non è ancora finita»18. Una prima iniziativa per mettere la biblioteca digitale universale al riparo da cyberattacchi è il progetto Alexandria. Secondo il suo fondatore, l’americano Devon Read, si basa sulla “catena di blocchi”, una tecnologia che permette lo scambio di dati attraverso una rete di computer senza un centro principle. Questa decentralizzazione permetterebbe alla biblioteca digitale universale di diventare così diffusa da renderla difficilmente attaccabile da un hacker. «Contro i libri non valgono persecuzioni», ha detto Garcia Lorca. «Né gli eserciti, né l’oro, né le fiamme possono nulla contro di essi. Voi potete far sparire un’opera, ma non potete tagliare la testa a tutti coloro che se ne sono nutriti, perché sono troppi; oppure, se sono pochi, non sapetedovesono»19.

Fernando Báez, op. cit., p. 312. Federico Garcia Lorca, Libri, libri! Discorso al paese di Fuente Vaqueros, Edizioni Estemporanee, Roma 2014, p. 23. 18 19

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All’Indice

Come potente strumento di diffusione di dottrine “alternative”, e quindi temibili, il libro era stato combattuto in più occasioni nel mondo antico. Ma nella lunga storia della censura organizzata il primato assoluto di durata – oltre quattrocento anni, dal XVI al XX secolo – spetta alla Chiesa cattolica che fin dalle origini, con la progressiva formazione del Nuovo Testamento canonico (Vangeli di Matteo, Marco, Luca, Giovanni, Atti degli Apostoli, Epistole, Apocalisse) approvò certi libri e altri ne respinse. I primi divieti ecclesiastici di leggere libri ritenuti pericolosi risalgono al IV e V secolo. Qualche esempio: 325, il concilio di Nicea bandisce un’opera di Ario, Thalia; 401, il concilio di Cipro proibisce le opere di Origene; 405, papa Innocenzo I vieta una serie di scritti apocrifi; 443, a Roma vengono mandati al rogo gli scritti manichei; 494, papa Gelasio I pubblica quello che si può considerare il primo elenco dei libri proibiti dalla Chiesa. Censure che, in coerenza con l’ormai affermata collusione fra potere religioso e potere politico, trovano l’alleato più severo nell’imperatore Giustiniano (482-565) fondatore del diritto civile, che decretò fossero mozzate le dita a chi era sospettato di aver preso in mano libri proibiti. In epoca tardomedioevale iniziò un processo di laicizzazione del sapere che preoccupava le autorità ecclesiastiche ed ebbe la sua più importante conseguenza nel conflitto tra le prime Università e la Chiesa che interveniva con una serie di proibizioni stabilite nel sinodo del 1210. Significativo lo scontro, nel 1215, con l’università di Parigi alla quale la Chiesa impose, fra l’altro: «Non si leggano la Metafisica e i libri naturali di Aristotele, o sintesi di essi». Altri interventi repressivi si susseguirono. Come 97

quello dell’arcivescovo di Magonza che nel 1485, con l’avvento del libro a stampa, ne denunciò la minaccia e pubblicò un bando che ne regolamentava la produzione. Il potere laico fa di più: nel 1521, sempre in Francia (ma altri esempi in Europa non mancano) interviene pesantemente con un primo insieme di leggi, volute da Francesco I, emanate per sorvegliare stamperie e librai. Poco dopo la sua apparizione nel 1455 il libro a stampa, molto più dei testi manoscritti di opere greche, romane e medievali, affascina le classi colte e turba perché può diffondere in breve tempo e su larga scala nuove idee: soprattutto, per la Chiesa di Roma, quelle ereticali in genere; e poi quelle della Riforma protestante in particolare per la quale diventa l’alleato più valido del suo successo. Prima bastava semplicemente bruciare l’originale manoscritto dell’opera incriminata e le poche copie in circolazione. Poi la faccenda diventa più complicata. Si calcola che solo negli anni 1455-1500 vengono pubblicate in Europa circa trentamila opere con una tiratura media di duecento copie, in tutto circa sei milioni di incunaboli, come oggi vengono chiamati i libri stampati in quel periodo. Un fenomeno eccezionale al quale nessuna repressione riesce tenere testa; e ancor peggio andrà nei secoli successivi con l’esplosiva produzione, prima ancora artigianale e infine industriale, del libro stampato. Già nel 1468 Giovanni Andrea Bussi, vescovo di Aleria in Corsica, scrive al papa Paolo II una lettera in cui elogia l’invenzione della stampa, a cominciare dal costo dei volumi «che in altri tempi si potevano a stento comperare con cento monete d’oro, mentre oggi si ottengano con venti e anche meno, per di più ben confezionati e non ricolmi di errori. Aggiungi che tutte quelle opere dell’ingegno che languivano celate, preda della polvere e dei tarli, a causa delle immense fatiche e dei prezzi eccessivi dei copisti, hanno cominciato a zampillare e fluire come da fecondissima fonte. Tale è l’abilità e l’arte dei nostri stampatori e degli incisori dei caratteri, che fra le invenzioni umane, non solo fra quelle moderne ma anche fra le antiche, è difficile trovare una invenzione più eccellente. È davvero da onorare nei secoli 98

e da esaltare….». Per converso, alla fine del Quatrrocento il frate predicatore Filippo della Strada afferma che una medesima idea è «virgo haec penna, meretrix est si stampificata, vergine se espressa con la penna, puttana se stampata. «E in questa arte de’ stampatori riesce al mondo chiara e illustre, perché ella solo ci rende vivi quegli uomini che giacerebbero senz’essa in perpetue tenebre sopiti e immersi (…) E si può dir che la stampa sia stata quella che ha risvegliato i spiriti dell’uomo, ch’erano addormentati veramente nel sonno dell’ignoranza»: elogio che Tomaso Garzoni dedica agli stampatori nel suo vendutissimo La piazza universale di tutte le professioni del mondo (1585) dove evidenzia l’importanza sociale e culturale di un mestiere che ha reso possibile uno straordinario ampliamento del numero dei lettori e degli scrittori. Prima dell’invenzione della stampa, infatti, si contavano «molto pochi letterati» perché «la spesa de’ libri era intolerabile» e «nessun poteva studiare, se non era ricco e facoltoso». Due secoli dopo c’è ancora qualche fiero avversario. Nel 1671, in America, il governatore della Virginia, William Berkeley, scrive al governo britannico in questi termini: «Grazie a Dio qui in Virginia non ci sono né scuole né stampa e spero che non ce ne siano per cent’anni. L’istruzione ha portato nel mondo disobbedienza, eresie e sette e la stampa le ha divulgate, insieme con libelli contro il governo. Dio ci guardi da entrambe!». Invece nel Settecento la rapida crescita delle colonie nell’America del Nord e l’accesissimo dibattito politico avranno sul libro un effetto esplosivo. L’abbandono della scrittura a mano e l’adozione della stampa che permette la riproduzione potenzialmente illimitata di testi e in tempi relativamente brevi, determinano la rapida e impetuosa diffusione del libro in tutta Europa. Una enorme produzione nella quale i volumi di contenuto religioso, sia cattolico che protestante, sono fra i più numerosi. E tali resteranno non solo per il XVI, ma il XVII e, in misura più contenuta, il XVIII e gran arte del XIX secolo. È la religione la protagonista della produzione libraria fino all’Ottocento inoltrato. 99

La Riforma, a partire dal 1517, è uno dei principali agenti della diffusione e del successo della stampa. La libera, vertiginosa moltiplicazione dei libri indebolisce l’autorità clericale cattolica abilitata al controllo delle coscienze, democratizza il sapere in misura intollerabile per chi detiene le chiavi di un’ortodossia che si pretende depositaria di un’unica Verità. La Chiesa, sentendosi gravemente minacciata, mette in atto una massiccia e capillare opera di censura per impedire la stampa, la vendita, la lettura e il semplice possesso di libri che ritiene contrari alla fede e alla morale. È nel corso del Cinquecento che nascono e si definiscono le direttive principali della censura cattolica destinate a durare nei secoli successivi. In un’altra parte del mondo, nell’Islam, accade di peggio. Nel 1483 un decreto del califfo ottomano Beyazit, reiterato nel 1515 dal suo successore Selim II, stabilisce il divieto, pena la morte, di stampare qualsiasi libro in lingua araba o turca, soprattutto il Corano. Divieto che soltanto nel 1727 viene revocato dal sultano ottomano Ahmed III; ma solo in parte, perché ribadisce esplicitamente che il Corano, gli Hadith (i detti di Maometto) e tutti i libri attinenti in qualche modo la religione e la teologia, così come quelli di diritto islamico, possono essere riprodotti in arabo o in turco soltanto se manoscritti. Per tre secoli e più, tutto il mondo musulmano è rimasto totalmente privo del veicolo che nel mondo occidentale aveva dato l’avvio alla più grande rivoluzione culturale di tutti i tempi: la stampa dei libri. E solo nel 1923, ben oltre 450 anni dopo l’invenzione della stampa e 385 dopo la sfortunata edizione di Paganini, il Corano è finalmente stampato in un paese islamico, al Cairo. Questo ritardo di secoli si spiega con la grande avversione che l’Islam ebbe nei confronti della stampa in generale, in quanto la scrittura a mano, anzi l’arte calligrafica, coltivata come in nessun altra parte del mondo, era sentita come veicolo di unità culturale, oltre che di artistico e spirituale senso estetico; e in particolare, come arte religiosa. Per gli islamici l’arabo classico è la lingua di Dio espressa nella sacralità del Corano. 100

Nulla certifica la vastità del potere diffusivo della stampa più e meglio dell’impellente bisogno, da parte del potere, di tenerla sotto controllo in forme sempre diverse, principalmente sul terreno religioso, politico e sessuale. In Europa, le prime commissioni censorie vengono istituite già nel Quattrocento, all’inizio nella stessa Magonza di Gutenberg. Nel 1515 il concilio Lateranense IV sancisce la necessità di una censura preventiva sulla circolazione dei libri mediante l’approvazione ecclesiastica, ben presto adottata anche dalle autorità statali. Il più solerte è l’imperatore Carlo V del Sacro Romano Impero che, autoproclamatosi «protettore della Chiesa universale», nel 1521 dispone la censura preventiva degli scritti antiecclesiastici e antipapali e nel 1523 proibisce la pubblicazione delle opere di Lutero. Lo stesso fa, in Francia, re Francesco I che estende poi la censura a tutte le opere di medicina, giurisprudenza, letteratura, storia e geografia. Nel 1529, in Inghilterra, re Enrico VIII pubblica un elenco di 85 libri proibiti, prevalentemente di argomento religioso. Per questo suo impegno censorio contro Lutero in particolare, papa Clemente VII insignisce Enrico del titolo onorifico di “difensore della Fede” (due anni dopo, in risposta al papa che gli aveva negato il divorzio da Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena e lo aveva scomunicato, Enrico sopprime gli ordini religiosi, chiude i monasteri e si fa proclamare dai vescovi inglesi capo della Chiesa anglicana, dando così inizio allo scisma d’Inghilterra). Monsignor Giovanni Della Casa, oggi noto soltanto per il suo Galateo, pubblica nel 1549 a Venezia il Catalogo di diverse opere, compositioni et libri, li quali come eretici, sospetti, impii et scandalosi si dichiarano dannati et prohibiti in questa inclita città di Vinegia. Al controllo preventivo del potere ecclesiastico si affiancò sempre più spesso quello del potere laico che nei paesi europei sia cattolici sia protestanti mise in atto molte misure per combattere i libri che mettevano in discussione non solo l’autorità costituita, ma anche la morale e la religione, secondo l’antica e ben collaudata alleanza fra Stato e Chiesa. La censura, anche preven101

tiva, si istituzionalizzò anzitutto nelle università, più spesso nelle facoltà di teologia, estendendosi a libri pubblicati da altri autori in altri luoghi. Intesa come censura dello Stato, doveva agire a tutela della religione e delle sue istituzioni, dell’ordine politico e dei buoni costumi. Nel 1501 papa Alessandro VI, con la bolla Inter multiplices promulgò il primo elenco di libri proibiti. Il primo Index librorum prohibitorum fu pubblicato nel 1544 per iniziativa di teologi dell’università di Parigi. Altri elenchi uscirono fra il 1546 e il 1554 in Belgio, in Portogallo, in Spagna e in Italia. Ma erano iniziative locali destinate a non avere seguito. L’Index librorum prohibitorum universale, a cura dell’Inquisizione romana o Sant’uffizio, uscì per la prima volta nel 1558, regnando papa Paolo IV, già cardinale Carafa e capo dell’Inquisizione, ma lui stesso incluso in una prima stesura dell’Indice come autore di una proposta di riforma della Curia romana. L’Indice era preceduto da un decreto che prescriveva, pena la scomunica, «che nessuno osi ancora scrivere, pubblicare, stampare o far stampare, vendere, comprare, dare in prestito, in dono o con qualsiasi altro pretesto, ricevere, tenere per sé, conservare o far conservare qualsiasi dei libri o scritti elencati in questo Indice del Sant’Uffizio». In quel tempo, la scomunica significava non solo essere esclusi dai sacramenti, in particolare dalla Comunione, ma anche portare un marchio sociale e politico. Con le sue 1107 condanne, l’Indice era severissimo, non risparmiava neppure i papi se avevano scritto un testo giudicato eretico, come quello di Pio II (1458-64) sul concilio di Basilea, che nell’elenco compare però sotto il suo nome borghese di Enea Silvio Piccolomini e tale rimane nell’Indice per secoli. Quel primo Indice dell’Inquisizione romana includeva perfino trenta edizioni integrali della Bibbia tradotte in latino e dieci edizioni del Nuovo Testamento, oltre a tutte le loro traduzioni tedesche, francesi, spagnole, italiane, inglesi e fiamminghe. Il concilio di Trento (1545-1563, convocato da papa Paolo III per affrontare il problema della Riforma e assicurare l’unità della Chiesa) aveva 102

dichiarato versione autentica della Bibbia – e quindi la sola di cui era consentita la lettura – quella tradotta in latino da san Girolamo (348-420) passata alla storia sotto il nome di Vulgata, e non il testo originale greco ed ebraico. Ma la scarsa efficacia del divieto di può misurare con la costatazione che entro la fine del Cinquecento la Bibbia e il Nuovo Testamento supereranno la cifra di duecento edizioni integrali vietate. Fino alla prima metà del Cinquecento, fra tutte le città italiane Venezia brilla per una libertà di stampa quasi assoluta. È diventata una multinazionale del libro, con le sue grandi tipografie in grado di stampare in qualsiasi lingua la metà dei volumi pubblicati nell’intera Europa. Fino al 1553 la censura ecclesiastica non ha alcuna efficacia su Venezia, finché l’Inquisizione romana riesce a estendere la propria influenza anche lì. La prima traduzione a stampa della Bibbia in italiano, pubblicata a Venezia nel 1471, aveva avuto subito molto successo con undici edizioni fino al 1494, accompagnata da un gran numero di testi derivati, anch’essi in italiano. Pure una seconda traduzione in volgare della Bibbia, uscita ancora a Venezia nel 1530-32 e ristampata più volte, penetrò non solo in tutti gli strati della società colta italiana, ma anche fra le classi subalterne che non capivano il latino e alle quali il suo traduttore, Antonio Brucioli, intendeva soprattutto rivolgersi. Nella prefazione alla ristampa del 1538, Brucioli così argomentava il senso del suo lavoro: «Né so come non paia a ciascuno cosa ridicola che le donne e gli uomini, a guisa di pappagalli, bisbiglino i loro psalmi e le loro preci in lingua latina o greca, e niente intendino di quello che dichino, onde edificare ne possino di cosa alcuna la mente». È doveroso ricordare che Brucioli era anche stampatore. Nel 1540 aveva aperta a Venezia, con i fratelli Alessandro e Franco, una tipografia alla quale otto anni dopo venne imposta la chiusura sotto l’accusa di avere divulgato opere e idee protestanti. Chiusura decretata dall’Inquisizione veneziana che fra il 1548 e il 1558 processò per ben tre volte Brucioli, che fu incarcerato, torturato, costretto all’abiura e all’esilio, tutti i suoi scritti di 103

argomento religioso mandati al rogo con l’ordine di non stampare alcunché senza l’autorizzazione preventiva dell’Inquisizione. Sulla liceità delle traduzioni bibliche in lingua locale che andavano diffondendosi in Europa, le autorità ecclesiastiche avevano espresso ben presto dubbi e sospetti. Proibizioni vi erano state in Spagna, Francia e Inghilterra, finché anche la Chiesa romana si mosse dapprima decidendo al concilio di Trento di sottoporre le Bibbie in volgare al controllo dei vescovi e infine nel 1559, con il primo Indice, di vietarle del tutto, salvo speciale permesso di lettura del Sant’Uffizio, comunque non rilasciabile alle donne. Veniva così accolta anche la forte preoccupazione di arginare le idee protestanti, ben presto associate alla Bibbia in volgare e al “libero esame”, cioè alla libertà di interpretazione del testo sacro. In lingua locale erano infatti le Bibbie adottate dalle Chiese protestanti, a cominciare da quella di Lutero. Nel 1567 ne veniva sancita la proibizione, poi riconfermata dall’Indice del 1596. Al tempo delle guerre di religione scoppiate in Europa nella seconda metà del Cinquecento fra cattolici e protestanti, era pratica non rara mettere in bocca al protestante ucciso pagine della Bibbia proibita. La lettura della Bibbia tradotta e commentata nelle lingue locali sarà permessa solo nel 1758 da Benedetto XIV, purché autorizzata dall’Inquisizione o da un’altra autorità ecclesiastica competente. Permesso che non sarà più richiesto dal 1897 con Papa Leone XIII. Per la prima traduzione italiana completa dai testi originali approvata dalla Chiesa cattolica si è dovuto attendere il 1959 con l’edizione in dieci volumi a cura del Pontificio istituto biblico. Ma è solo nel 1971 che si è giunti alla versione ufficiale della Conferenza episcopale italiana pubblicata in volume unico e quindi adatto alla divulgazione. Le interdizioni comunque non riguardavano solo opere di argomento religioso o dottrinale, ma investivano tutta la produzione scritta, di cui l’Inquisizione diventava giudice unico, dato che l’autorizzazione laica perdeva di importanza. Così potevano essere condannati Aretino e Rabelais per la loro oscenità, 104

Machiavelli per l’anticurialismo, Boccaccio perché immorale, e così via con Pulci, Della Casa e buona parte della produzione in volgare cinquecentesca, in particolare quella burlesca. In definitiva, qualsiasi opera potesse in qualche modo suscitare inquietudini intellettuali o offendere la morale veniva identificata come pericolosa, nonostante che solo due anni prima dell’uscita del primo Indice romano, nel 1557, lo stesso intransigente cardinale Michele Ghislieri, domenicano, grande inquisitore e futuro papa Pio V, avesse scritto: «Di prohibire Orlando, Orlandino e Cento Novelle [rispettivamente Boiardo, Ariosto, Folengo, Boccaccio] et simili altri libri più presto daressimo a ridere che altrimenti, perché simili libri non si leggono come a cose a qual si habbi da credere, ma come fabule et come si leggono anche molti libri dè gentili»1. Il troppo rigoroso esordio dell’Indice romano suscitò una così forte reazione da parte di librai, letterati e governi, da indurre l’autorità ecclesiastica ad accantonarne l’applicazione. Comunque, da allora si sviluppò maggiormente l’autocensura, cioè la distruzione in privato del libro proibito o la sua consegna al confessore, piuttosto che all’inquisitore, ottenendo in cambio uno sconto della pena che poteva arrivare altrimenti fino alla scomunica se si trattava di un’opera ereticale o sospetta di eresia. L’Indice del 1558 fu sostituito nel 1564 dall’Indice di Pio IV, meno severo del precedente, elaborato da un’apposita Congregazione di vescovi nominati dal concilio di Trento con il compito di tenerlo aggiornato, corredato da dieci regole generali di censura che includevano libri proibiti non solo in materia religiosa, ma anche osceni, di magia, astrologia e arte divinatoria. Regole rimaste valide fino al 1896. Ne usciranno trentadue edizioni fino all’ultima del 1948. Ma la Congregazione verrà sciolta solo nel 1996. Nuova era la disposizione che alcuni testi potevano essere parzialmente “espurgati” (“puliti” con un intervento censorio) in modo da permetterne la ristampa e quindi recuperarli alla libera 1

Federico Barbierato, Libro e censura, Bonnard, Milano, 2002, p. 119.

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circolazione. Lo stesso concilio tridentino stabilì che anche il Talmud ebraico doveva essere espurgato, in quanto palesemente in contraddizione con la Sacra Scrittura, di «tutti gli oltraggi e le blasfemie contro la Chiesa cattolica», di «ogni elemento osceno» o in contrasto con i buoni costumi. Dopo un gran numero di riunioni, quasi trent’anni dopo, nel 1590, la Congregazione dell’Indice riconosceva con rassegnazione che «a rigore, una espurgazione del Talmud è diventata impossibile per l’estrema esattezza richiesta dal modo di procedere». All’Indice del 1564 seguirono nuove edizioni ufficiali. Con l’uscita dell’Indice 1596 venivano stabilite definitivamente le caratteristiche e le norme dell’espurgazione e aumentava il numero delle opere che ne erano soggette. I passi da censurare, indicati con la formula donec corrigantur o donec expurgantur (finché sia corretto o epurato) erano quelli, recitava la regola VIII, «che tendono all’eresia, all’empietà, all’immoralità, alla divinazione o alla superstizione». In pratica, dalla Bibbia alla teologia, alla letteratura colta e popolare, nessun genere era risparmiato, finanche i classici greci e latini, in particolare poeti come Catullo e Marziale, pubblicabili dopo essere stati diligentemente espurgati delle loro oscenità. Nel 1572 la Congregazione dell’Indice, istituita da Pio V e formata da cardinali, diventa l’organismo specifico e permanente della censura cattolica. Subito si impegna in un gigantesco programma di controllo totale del mercato librario dal quale non vengono sottratti nemmeno i santi, i padri della Chiesa, i cardinali e gli stessi papi. Sono inoltre colpiti da epurazione quasi tutti gli autori della letteratura classica come Cicerone, Ovidio, Virgilio, Orazio, Livio, Plutarco, Plinio, Tacito, Plauto e perfino le favole di Esopo; storici come Erodoto e Tucidide; filosofi come Aristotele e Platone; gli autori di opere fondamentali della matematica a partire da Euclide; padri della medicina come Ippocrate, Galeno, Avicenna, Paracelso. Ben presto le circa 150 sedi vescovili impegnate nella espurgazione si trovano di fronte a una mole di lavoro che a stento rie106

scono a contenere. Tanto che «la santa Chiesa havria più bisogno che per molti anni non vi fusse stampa», dichiara un compilatore dell’Indice nel 1575. Nella sua prima fase di attività, la Congregazione dell’Indice si trovò di fronte all’inefficienza dell’epurazione: delle molte “pulizie” iniziate, relativamente poche furono portate a termine. Ma poi l’intervento censorio migliorò quantitativamente. Infatti gli addetti all’espurgazione non avevano la mano leggera. I loro interventi si dimostravano spesso poco attenti, superficiali, rozzi, contradditori; e altrettanto spesso erano il prodotto di uno zelo che andava ben oltre le norme stabilite. Disponevano di un enorme potere discrezionale, per cui non solo cancellavano, coprivano con inchiostro o con strisce di carta, strappavano intere pagine dei libri incriminati, ma operavano con integrazioni e riscritture non immediatamente riconoscibili, al punto da stravolgere il pensiero dell’autore e fargli dire l’opposto di ciò che voleva comunicare, denunciava Paolo Sarpi (1552-1623) uno storico messo all’Indice: «Li scritti [...] sono stati con agiunte, detrazioni e alterazioni, mutati in sensi contrari alla sentenzia dell’autore; e chi ha conservato delle stampe vecchie e le confronta con quelle moderne, vede che li libri adesso parlano in contrario di ciò che gli autori scrissero». La dicitura “con diligenza corretta”, stampata all’inizio del volume, attestava che l’operazione espurgatoria era stata bene eseguita anche quando, in realtà, non lo era affatto. «Tali integrazioni erano forse più pericolose e di sicuro più subdole di quelle visibili, tanto che non è possibile stabilire il numero e l’entità degli interventi, mentre è da mettere in discussione tutta la letteratura del primo Cinquecento ristampata dopo gli anni ’60 del secolo»2. Inoltre, molte delle opere che l’Indice imponeva di espurgare vennero ritirate dal mercato e scomparvero dalle biblioteche sia pubbliche che private, diventando rare o introvabili per la gioia e lo sconforto dei bibliofili. Come nel caso 2

Federico Barbierato, op. cit., p. 105.

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curioso del volume Sacro Arsenale overo prattica dell’Officio della Santa Inquisitione di Eliseo Masini pubblicato a Genova nel 1621 da Giuseppe Pavoni, dove sono elencati ben 200 metodi di tortura con i vari strumenti e il suo svolgimento minuziosamente descritto: l’intera edizione venne distrutta per ordine del Sant’Uffizio. I censori rivendicavano orgogliosamente la bontà del loro lavoro di pulitura e riscrittura che giudicavano moralmente necessario e corretto, al punto da rendere “perfetto” il libro espurgato anche se era di illustre autore, perfino se assente nell’Indice. Come Dante del quale, nel 1573, uscì una Vita nova costellata da punti di sospensione o da sinonimi che cancellavano ogni riferimento a Dio e alle Scritture. Come Boccaccio con il suo Decamerone più volte stravolto dal moralismo conformistico, culminante con l’edizione “ricorretta et emendata” che apparve a Firenze nel 1573, diretta dal grammatico e filologo Vincenzo Borghini secondo le direttive di papa Pio V che «per niun modo si parlasse entro le Novelle in male o scandalo de’ Preti, Frati, Abbati, Abbadesse, Monaci, Monache, Piovani, Preposti, Vescovi, o altre cose sacre; ma si mutassero i nomi o si facesse in altro modo». Nel 1582 usciva a Venezia un’altra “rassettatura” del Decamerone, questa volta a cura del filologo e linguista Leonardo Salviati, con i religiosi trasformati in laici e i racconti ambientati in contesti estranei alla cristianità. L’edizione del Decamerone di Salviati ebbe molto più successo della precedente: ben diciotto ristampe fino al 1638 perfino in sedi editoriali, come Lione e Amsterdam, non vincolate dalla censura romana. Pesantissimo l’intervento non richiesto, nel 1536, di frate Girolamo Malipetro, monaco veneziano dell’ordine dei Minori, che trasformò il Canzoniere di Petrarca in un Petrarcha spirituale, ridotto al 17 per cento dei versi dei sonetti e al 26 per cento di quelli delle canzoni originali, dove “donna” era elevata a “Madonna” e “amore” spiritualizzato in “Amore”. Peraltro il 108

Canzoniere petrarchesco finì nell’Indice del 1596 per tre sonetti contro Avignone. E con Petrarca, Dante per La Monarchia e Machiavelli per tutte le opere. L’origine dell’imprimatur, cioè del “visto si stampi”, risale al 1487, quando papa Innocenzo VIII conferisce valore universale alla pratica del controllo librario, stabilendo che funzionari del Vaticano e singoli vescovi in tutto il mondo esaminino i libri prima della loro pubblicazione (censura preventiva) e ne approvino la stampa con la formula nihil obstat quod imprimatur posta all’inizio o alla fine del libro, che diventa obbligatorio a partire dal 1559, con la pubblicazione del primo Indice romano. L’imprimatur poteva essere accompagnato o sostituito dalle formule superiorum permissu, “con licenza dei superiori” o “con l’approvazione dei superiori”. Moltissimi volumi pubblicati in Italia o all’estero dall’inizio della stampa a tutta l’età moderna recano ancora l’imprimatur. Nel Cinquecento, in concomitanza con lo sviluppo dell’imprimatur ecclesiastico, i singoli Stati reclamarono a loro volta il controllo preventivo della produzione a stampa e il diritto di rilasciare il permesso di pubblicazione con la formula, posta di norma sul frontespizio del libro, “con privilegio” o “con licenza dei superiori”, entrambe in conflitto con l’autorità ecclesiastica che usava la stessa formula, e perciò poteva dare luogo a equivoci. Ma si trattava soprattutto di una questione di potere, poiché le autorità laiche avevano sistemi propri di sorveglianza sulla produzione e sulla circolazione dei libri. Un conflitto più o meno evidente che durò a lungo e che spesso si concludeva a favore della Chiesa, quando uno Stato si adeguava a confermare la licenza solo ai libri che avessero già ricevuto l’imprimatur vescovile. Nel 1644 John Milton, nel suo trattato Areopagitica, la prima opera apparsa in Occidente contro la censura libraria preventiva, definirà l’imprimatur «una fortezza eretta contro la libertà d’espressione» che egli voleva fosse incondizionata. L’Indice del 1596 – che riprendeva la severità e lo spirito di quello del 1559 – si può considerare il maggiore sforzo fatto 109

dalla Chiesa per combattere la diffusione delle opere ritenute pericolose, il culmine del tentativo cattolico di controllare le coscienze attraverso la proibizione dei libri non conformi alla dottrina ufficiale. Si arrivò perfino alla pretesa che i librai giurassero obbedienza all’Indice di fronte al vescovo o all’inquisitore, come se fossero sudditi pontifici. Ma l’accettazione e l’applicazione pratica anche di questo e dei successivi Indici romani, in Italia e negli altri Stati cattolici, non fu né semplice né facile. Fra il Seicento e il Settecento la soggezione verso la censura cattolica andò sempre più attenuandosi. L’Indice di Benedetto XIV del 1758, riveduto e corretto molto meglio dei precedenti, segnerà una svolta; tuttavia senza intaccare il principio che la Chiesa cattolica aveva il diritto di controllare preventivamente la stampa e di vietare la lettura dei libri eterodossi. Ma ormai, travolgendo ogni censura ecclesiastica, fra il XVII e il XVIII secolo il libro era diventato, come già per la Riforma, l’arma principale con cui la filosofia dei Lumi, reclamando il rispetto della libertà di opinione e di stampa in quanto diritti umani, guidava il cammino culturale e scientifico delle classi intellettuali europee, preparando il terreno alla Rivoluzione francese del 1789 e a quelle dei due secoli seguenti. Rivoluzione che tuttavia concedeva al libro una libertà non assoluta, come recita l’articolo 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino: «La libera circolazione dei pensieri e delle idee è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può parlare, scrivere, stampare liberamente, ed è tenuto a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi previsti dalla legge». Nell’Ottocento, mentre gli Indici continuavano a uscire, l’efficacia delle proibizioni ecclesiastiche diminuiva sempre più con l’affermarsi del pensiero laico. Nel 1869 Pio IX aboliva la pena della scomunica stabilita per gli stampatori, gli editori, i lettori e i possessori di libri che avessero contravvenuto alle disposizioni stabilite dagli Indici precedenti. L’ultima edizione dell’Index librorum prohibitorum, la ventesima, fu pubblicata nel 1948 sotto Pio XI, lo stesso Index abolito nel 1966 da Paolo VI, e con 110

l’Index decadute anche le pene ecclesiastiche per la lettura di opere proibite. Il miglior commento fu il titolo di una rivista cattolica tedesca: l’Indice è morto di morte naturale. Infatti l’accettazione della censura libraria del Vaticano da parte della popolazione cattolica – tanto dei sacerdoti quanto dei laici – si era ridotta al minimo. Fra i cattolici colti che tenevano in seconda fila negli scaffali della loro biblioteca qualche opera vietata dalla Chiesa, ora molti tendevano a ostentarla. Il cardinale Alfredo Ottaviani, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (ex Sant’Uffizio) dopo aver detto che «per lo più i libri posti all’Indice sono dei secoli passati, poco noti e non vengono più letti, tranne che da alcuni specialisti», riconosceva che «l’enorme produzione libraria del nostro tempo non viene rilevata dall’Indice, non per dolo o trascuratezza, bensì perché manca completamente l’organizzazione adeguata a questo compito e si richiedono mezzi di cui la Congregazione per la dottrina della fede non dispone [...] Inoltre oggi la parola scritta non è più l’unico strumento di diffusione delle idee»3. Infatti, al confronto con la radio, il cinema, la televisione – e Internet non aveva ancora fatto la sua comparsa – l’Index librorum prohibitorum era diventato ancor più anacronistico. L’elenco di tutti i libri proibiti dall’Inquisizione romana tra il 1559 e il 1948 è raccolto in un volume curato da Jesùs M. De Bujanda e pubblicato nel 2003 dalle edizioni Groz di Ginevra. De Bujanda ha curato anche l’edizione, uscita nel 1966, di tutti gli Indici pubblicati nel corso del Cinquecento dalle Inquisizioni pontificia, spagnola e portoghese. Gli elenchi dei libri proibiti, puntualizza De Bujanda, sono solo la punta dell’iceberg della censura ecclesiastica: ne facevano parte anche il controllo preventivo dell’accesso alla stampa, il sospetto generalizzato sul libro, la propaganda cattolica soprattutto attraverso i sermoni nelle chiese e l’autocensura. 3

«L’Osservatore Romano», 10 giugno 1966.

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Ora diamo uno sguardo panoramico agli autori e alle loro opere in parte o del tutto colpiti dalla censura ecclesiastica fra il Cinquecento e il Novecento. Di Dante, Boccaccio e Petrarca si è già parlato. Finirono all’Indice Giordano Bruno, l’“inveterato eretico”; Copernico, per il suo eliocentrismo; Galilei il cui Dialogo dei Massimi Sistemi fu molto venduto, e a prezzo elevato, al mercato nero, proprio perché proibito; Erasmo da Rotterdam con motivazioni che restano poco chiare; Niccolò Machiavelli, altro “abominevole eretico”; Cartesio, condannato in blocco nonostante che le sue Meditationes si ispirassero a Sant’Ignazio di Loyola; Voltaire, al quale la condanna non impedì di avere un ammiratore come papa Benedetto XIV per il suo Il fanatismo o il profeta Maometto; e poi, una valanga di filosofi come Hume, Leibniz, Locke, Kant, Spinoza, fino a Bergson, Rosmini, Croce, Gentile, Sartre. Stranamente, nessun censore si accorse degli scritti di pensatori ottocenteschi molto “pericolosi” come Hegel o Marx; o di scienziati ancor più “pericolosi”, come Darwin che con la teoria dell’evoluzione biologica affossava il mito della creazione dell’uomo secondo la Bibbia. Anche storici illustri come Gregorovius, Gibbon e Michelet incorsero nell’Indice. Molti i condannati eccellenti fra i maggiori autori dell’Ottocento e del Novecento, specialmente francesi: da Stendhal a Hugo, da Balzac a Dumas padre e figlio, da Flaubert a Zola e a Gide. Fra gli italiani, l’illuminista Beccaria che con il suo Dei delitti e delle pene si era espresso contro la condanna a morte; Leopardi, qualificato «astutia di Satanasso, fedele suo servitore per espugnare gli animi oziosi, cattivo spirito che sparge i suoi diabolici semi, lupo che minaccia le nostre pecore»; Manzoni, censurato al primo apparire dei Promessi sposi, salvo poi chiedere di farlo santo, qualche decennio dopo la morte, da parte dello stesso L’Osservatore romano; poi quasi tutti gli eroi del Risorgimento, da Pellico a Maroncelli; ma anche i cattolicissimi Tommaseo, Gioberti, Settembrini e Rosmini condannato due volte, una da vivo e una da morto ma beatificato nel 2007. Nel Novecento, Fogazzaro condannato per il suo modernismo, D’Annunzio per le 112

sue opere «odoranti di sperma», Ada Negri per le sue poesie socialisteggianti, Moravia per il suo immoralismo borghese. Ma D’Annunzio e Moravia facevano già parte di un’epoca che usava questa condanna come la miglior recensione per diffondere le proprie opere. Vanto già espresso apertamente dallo storico protestante Gregorovius che così annotò nel suo diario del 1 marzo 1874: «La mia Storia della città di Roma nel Medioevo è stata inclusa nell’Indice dei libri proibiti [...] La mia opera è compiuta e si sta diffondendo nel mondo. Adesso il papa le fa pubblicità». Si può citare un curioso precedente, avvenuto circa duecento anni prima. Francesco La Mothe-le-Vayer, letterato e filosofo francese del XVII secolo, avendo scritto un libro che assolutamente non si vendeva, il suo editore andò da lui a lamentarsi per il danno che risentiva e a pregarlo di scrivere qualche altra opera di più sicura vendita. «Ah, non si vende il mio libro?», rispose La Mothe, «lasciate fare a me che troverò il modo di esaurirlo. Ho aderenze abbastanza influenti a Corte per ottenere un decreto che vieti la vendita della mia opera, e allora vedrete….». Venne il decreto che proibiva il libro come pericoloso per l’ordine pubblico, e allora la sua vendita clandestina assunse proporzioni tali che in pochi giorni non ne restarono più copie. Negli Indici novecenteschi si cerca invano la bibbia del nazionalsocialismo, il Mein Kampf (1925-1927) di Hitler; mentre la condanna cade su Il mito del XX secolo (1930) di Alfred Rosenberg, uno dei maggiori ideologi del nazismo, che era in più evidente contrasto con la dottrina cattolica. Le ragioni della mancata condanna di Mein Kampf sono tuttora oscure. Ma è probabile che prevalesse il criterio di non suscitare l’ira di Hitler. Del resto, nell’Indice dei libri proibiti non finirono nemmeno le opere di Lenin, Stalin o Mussolini. Nel Novecento, sul finire dell’Indice, gli ultimi volumi incriminati sembrano scelti svogliatamente e distrattamente a caso, da un frequentatore occasionale di librerie romane. Significativo dell’effetto ormai debole delle proibizioni ecclesiastiche è 113

l’aneddoto attribuito a Graham Greene e al suo celebre romanzo Il potere e la gloria pubblicato nel 1940 che Greene si era rifiutato di emendare. Nel 1965, incontrando Paolo VI, Greene gli aveva ricordato la condanna e il papa aveva risposto: «Signor Greene è indubbio che qualche passo del suo libro possa offendere alcuni cattolici, ma lei non deve farci caso». Non è possibile vantare le “radici cristiane” dell’Europa senza ricordare i quattrocento anni di ininterrotta censura ecclesiastica della stampa, unita alla pressione sulle coscienze. È sulle sue rovine che si è impiantata la moderna concezione della libertà del sapere. Eppure, come ha scritto Adriano Prosperi, uno dei più autorevoli studiosi dell’Inquisizione, «al vertice delle istituzioni di controllo ecclesiastico nella fase iniziale e più dura della reazione romana all’offensiva della Riforma, troviamo grandi figure di intellettuali, bibliofili appassionati, uomini che avevano per il libro un vero e proprio culto». «Del resto l’amore per i libri, per la loro conservazione attenta e scrupolosa, è stato all’origine delle magnifiche biblioteche ecclesiastiche, imponenti e silenziose che, nella frescura di sale dalle altissime pareti tappezzate di libri, restano ancora oggi, nella dittatura del digitale, una meta obbligata per chiunque in Italia voglia impegnarsi negli studi umanistici […]. E chissà quanti altri santuari del libro sparsi in ogni angolo del mondo toccato dalla predicazione cristiana. Un galleria di monumenti della cultura concepiti e costruiti con tale entusiasmo per i libri, da rendere sbalorditiva l’idea che gli eredi o i sodali di quei bibliofili si siano macchiati di una persecuzione inflessibile nei confronti di altri libri, e dei loro autori, da mettere al bando e tacitare per sempre»4. D’altra parte non va taciuto che anche la censura laica ha continuato a operare nell’Ottocento fino ai giorni nostri mettendo sotto processo capolavori della letteratura come Madame Bovary 49.

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Pierluigi Battista, I libri sono pericolosi, Rizzoli, Milano, 2014, pp. 48-

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di Flaubert, Ulisse di Joyce, L’amante di Lady Chatterly di Lawrence, Lolita di Nabokov. Senza contare le migliaia di libri proibiti nel secolo scorso dai totalitarismi sovietico, nazista e fascista.

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Bibliofilia/Bibliomania

La bibliofilia, definibile come «amore per i libri, specialmente antichi, rari e di pregio, nonché desiderio di collezionarli e conservarli»1 ha avuto cultori in tutte le civiltà dell’Oriente e dell’Occidente. Per secoli e secoli prima dell’avvento della stampa, essere bibliofili significava anzitutto salvare i libri facendoli copiare. Aulo Gellio2 ci fa intendere che due filosofi come Platone e Aristotele furono anche bibliofili appassionati, tanto da acquistare a carissimo prezzo libri scritti da loro colleghi come Filolao (Platone) e Pseusippo (Aristotele). Nel mondo latino, la bibliofilia ebbe cultori insigni come Cicerone e Attico. Molto diffusa fu la bibliofilia nella civiltà islamica, a partire dall’VIII secolo, fra Baghdad e Cordoba (vedi il capitolo Case della saggezza). L’amore per il libro si affermò nel Medioevo focalizzandosi sia sui manoscritti della letteratura latina per merito di umanisti come Petrarca, Boccaccio, Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini, sia sui manoscritti miniati che esistevano già dal VI secolo d.C., si incrementarono in epoca carolingia-ottoniana e culminarono dal XIV al XVI secolo. Risale al 1344 il Philobiblion, Tractatus pulcherrimus de amore librorum, scritto dall’inglese Richard de Bury, che si può considerare il più antico testo di bibliofilia lasciatoci dal tardo Medioevo e culminante nell’affermazione: «L’amore per i libri è l’amore stesso per la saggezza», in coincidenza con quella, espressa fin dall’inizio del IX secolo dalla cultura islamica, che 1 2

Manuale enciclopedico della bibliofilia, Bonnard, Milano, 1997, p. 96. Aulo Gellio, Notti Attiche, Rizzoli, Milano, 2001, I p. 335.

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la biblioteca è la “Casa della saggezza”, più ancora che “della sapienza”. Ed è durante il Rinascimento che la bibliofilia predomina nelle raccolte librarie delle grandi famiglie principesche. Le corti europee si contendevano la supremazia anche attraverso la creazione di biblioteche sempre più ricche di testi rari o splendidamente illustrati. Uno dei maggiori bibliofili del tempo fu Federico da Montefeltro, duca di Urbino (1422-1482) che aveva messo insieme una biblioteca famosa per ricchezza, con volumi coperti di velluto cremisi, angoli e borchie d’argento e fregi d’oro. Scrive Vespasiano da Bisticci, letterato ideatore e fondatore della Biblioteca Vaticana, che vi lavorò: «In quella libraria i libri sono tutti belli in superlativo grado, tutti iscritti a penna, e non ve n’è ignuno a stampa, che se ne sarebbe vergognato, tutti miniati elegantissimamente, e non ve n’è ignuno che non sia iscritto in cavretto [pergamena]»3. A Firenze, presso il Bargello, Bisticci conduceva una “libraria” in cui era giunto ad avere fino a duecento copisti e forniva anche manoscritti di altissimo pregio a una clientela internazionale che comprendeva re, papi e le maggiori famiglie del tempo. Con l’avvento della stampa, Bisticci si ritirò sdegnosamente a vita privata. Come riferisce Bisticci, Federico da Montefeltro si «sarebbe vergognato» di avere nella sua biblioteca uno di quei primi libri a stampa che dopo la Bibbia di Gutenberg avevano cominciato a circolare in tutta Europa. Lo spregio per i libri stampati è caratteristico dell’Umanesimo che per lungo tempo considerò la tipografia un ripiego, un surrogato vile e plebeo della divina arte della scrittura. Proprio nel 1455, mentre Gutenberg ultimava la sua Bibbia di 1282 pagine fitte di caratteri gotici nerissimi, cominciava la realizzazione di quel capolavoro assoluto della miniatura rinascimentale italiana che è la Bibbia di Borso d’Este, duca di Ferrara. 3 Vespasiano da Bisticci, Vita di uomini illustri del sec. XV, UTET, Torino, 1862, I, p. 302

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Niccolò Machiavelli, in una celebre lettera del 10 dicembre 1513 indirizzata all’amico Francesco Vettori, fa della sua biblioteca il luogo privilegiato per rigenerarsi nella lettura dei classici. Prima di entrarvi, si spoglia dei suoi abiti contadineschi per indossare quelli migliori come per rendersi degno di frequentare gli illustri autori suoi ospiti e di rendere loro omaggio. È un luminoso esempio di bibliofilia umanistica: «Venuta la sera», scrive Machiavelli, «mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella vesta cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antichi huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per quattro hora di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottiscie la morte; tutto mi trasferisco in loro». Il rapidissimo diffondersi della stampa rende possibile la moltiplicazione delle copie per cui il libro, diventando merce anche in splendide edizioni come quelle di Manuzio, di Plantin, di Elzevier, perde la sua aura di sacralità e si democratizza progressivamente. Ma la bibliofilia non entra in crisi, anzi si riafferma, cresce sempre più e si caratterizza fra il Seicento e il Settecento valorizzando sia gli aspetti materiali del libro come carta, stampa, legatura, condizione dell’esemplare, sia quelli commerciali come tipografo rinomato, tiratura limitata, rarità. Aspetti che si sono estesi al libro dell’Ottocento e del Novecento, a volte diventato più ricercato e più costoso di un volume antico. L’affermarsi della bibliofilia non più riservata a pochi cultori segna l’ascesa dei mercanti specializzati nel libro antico e raro, che inaugurano nuovi sistemi di vendita come le aste pubbliche con l’offerta, tramite catalogo, di volumi singoli o di intere biblioteche. Ogni bibliofilo segue canoni personali legati a proprie scelte estetiche e culturali che non sempre includono il contenuto del libro. Il bibliofilo non si affanna tanto a leggere quanto a collezionare. 119

Vi sono poi i falsi bibliofili, presenti da secoli e secoli accanto a quelli veri, che acquistano e accumulano libri senza criterio e senza competenza per utilizzarli quasi sempre come oggetti per arredare intere biblioteche da mostrare ostentatamente ai propri ospiti dandosi arie da intellettuali. La loro figura ha cominciato a essere stigmatizzata, già più di duemila anni fa, con parole pienamente valide ancora oggi, da letterati come Seneca4, Petronio5 con Trimalchione ricco e ignorante che esibisce ben tre sfarzose e raffazzonate biblioteche; Luciano da Samosata6 che parla anche degli imbroglioni, spacciatori a caro prezzo come antichi e rari di volumi tutti tarlati, sporchi e consunti. Ma anche senza spacciarsi per bibliofili, molti sono coloro che utilizzano i libri più che altro in funzione dell’arredamento. Osserva un giornalista di spirito come Beppe Severgnini: «Quando sono ospite, butto un’occhiata ai libri e capisco molte cose sui padroni di casa. Ecco i più preoccupanti. 1) quelli che mettono i libri in ordine di altezza 2) quelli che li dispongono tutti in ordine alfabetico 3) quelli che li dividono per colore 4) quelli che mettono in evidenza i classici della letteratura (non li hanno mai aperti) 5) quelli che sfoggiano tutte le novità, ma hanno letto solo i risvolti di copertina (se va bene)». Di fronte a una biblioteca privata con centinaia o a volte migliaia di libri, in chi è estraneo alla passione bibliofila sorge spesso la domanda, inespressa o esplicita, rivolta al proprietario: «Quanti libri, li ha letti tutti?». Ricchissima l’aneddotica delle risposte più o meno spiritose dell’interpellato. Umberto Eco che ha messo insieme, si dice, una biblioteca di cinquantamila volumi di cui circa millecinquecento antichi e moderni da collezione, taglia corto dicendo: «Ma sa, io non leggo, scrivo». L’inesperto ignora che la biblioteca di un intellettuale anche bibliofilo comprende sia i libri da lui acquistati per conoscenza e Seneca, La tranquillità dell’anima, Rizzoli, Milano, 1997. Petronio, Satyricon, Rizzoli, Milano, 1995. 6 Luciano di Samosata, Contro un ignorante compratore di libri, Sellerio, Palermo, 1995. 4 5

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studio o ricevuti in omaggio, sia quelli rari e preziosi che egli ha comprato per leggerli, in parte o per intero, oppure solo per il piacere di possederli, vederli, toccarli, sfogliarli, annusarli. Il rapporto con la propria biblioteca è fisico: i volumi sono funzionali non solo alla lettura, ma anche alla vista, al tatto e persino all’olfatto. Spesso possedere libri è più una consolazione dei sensi che un bisogno culturale. La biblioteca «è una farmacia morale; vi sono gli scaffali per i giorni foschi, quelli per i giorni sereni, quelli per i giorni di fiaccona, quelli per i giorni in cui mi piglia la furia del lavoro [...]. L’amore dei libri crescendo a poco a poco, finisce poi di diventare un sentimento affatto distinto dall’amore della lettura, e fonte, per sé solo, di mille piaceri vivissimi, piaceri della vista, del tatto, dell’odorato. Certi libri si gode a palparli, a lisciarli, a sfogliarli, a fiutarli [...]. A occhi chiusi, fiutando, si riconosce se un libro è antico o soltanto vecchio, o recente, o recentissimo»7. «Esistono biblioteche deliziose che esalano un odor di cantina, di muffa, di funghi, di muschio, di felci. Libri che odorano d’autunno, altri d’estate. Che profumano di gariga o di sottobosco [...] C’è, soprattutto, quel discreto odor di polvere. I libri l’amano e la calamitano [...] Tutto fa musica nel libro, per poco che si abbia orecchio: il dorso di un volume cucito emette, quando lo si apre, leggeri crepitii; quello di un vecchio tascabile, un sinistro scricchiolio che ne preannuncia lo scompaginamento; la grana della carta miagola e la copertina vibra sotto le dita dell’impaziente. Ma il rumore più bello è quello che si fa quando si tagliano le pagine intonse»8. Alla “libridine”, l’emozione sensuale che il bibliofilo prova per il libro antico si possono riferire anche i versi di Salvatore Di Giacomo: «E nun ve saccio dì comme è sensuoso/ ’o senso e cierta carta staggiunata/ a chi da’ carta nova ha perzo ’ll’uso». Edmondo De Amicis, L’amore dei libri in Pagine sparse, Omodei Zorini, Milano 1896, pp. 232-233. 8 Annie François, La lettrice, Guanda, Milano, 2000, pp. 43, 45-47. 7

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A molti una biblioteca ben fornita dà un senso di sicurezza e di protezione, specialmente se comprende libri classici in edizioni antiche anche di modesto valore. Una sensazione di trovarsi in buona compagnia bene espressa da un’iscrizione della vetusta biblioteca del convento di San Domenico a Bologna: «Qui vivono gli uomini superstiti a se stessi, qui parlano tacendo, qui odono e stanno zitti, qui sono interrogati e rispondono muti». Quando ti senti un po’ isolato, un po’ depresso, puoi rivolgerti a loro. Ma la bibliofilia può degenerare in bibliomania, o bibliodipendenza, quella forma esasperata di collezionismo definito «furore di avere libri e di raccoglierne», della voce Bibliomanie nel II volume della grande Encyclopédie di Diderot e d’Alembert uscito a Parigi nel 1751, dove stranamente manca la voce Bibliophilie. Il bibliomane raccoglie affannosamente libri senza curarsi né del loro contenuto né di leggerli. Figura paradigmatica di bibliomane è quella descritta dal poeta tedesco Sebastian Brant in La nave dei folli stampata nel 1494, dove critica con parole taglienti la mania di ammassare libri senza alcuna competenza né discernimento; e illustrata da una xilografia attribuita a Dürer che mostra il “pazzo per i libri” seduto su uno scranno e circondato da una massa di volumi che spolvera e non legge. Testo con illustrazioni che fanno parte della serie di «stolti e pazzi» descritti nel libro e quasi tutti raffigurati da Dürer, che ebbe grande successo con le sue venti edizioni uscite solo nei sei anni successivi alla prima. «Dei folli sono il primo, il più eminente/ io governo la nave e la sua gente/ i moltissimi libri che posseggo/ li guardo, ma li ignoro e non li leggo»: è con questi versi che Brant pone il bibliomane all’inizio dell’opera, stando alla diffusione che aveva assunto questo “morbo”, potentemente favorito dall’esplosione della stampa tipografica che avrebbe reso i libri sempre più numerosi e sempre meno costosi, accumulabili anche molto al di là delle necessità professionali o degli specifici interessi culturali del maniaco. 122

«L’innocente e deliziosa febbre del bibliofilo è, nel bibliomane, una malattia spinta fino al delirio [...]. Dal sublime al ridicolo, non c’è che un passo»9. I confini fra bibliofilia e bibliomania sono molto labili, come ammette lo stesso Petrarca: «Mi possiede una passione insaziabile che fino a oggi non ho saputo né voluto frenare. Non so saziarmi di libri. L’ottenere ciò che si desidera stimola il desiderio. E sì che ne possiedo un numero probabilmente superiore al necessario; ma succede anche coi libri come con altre cose: la fortuna nel cercarli è di sprone a una maggiore avidità nel possederne»10. Ma nella stessa lettera Petrarca non manca di criticare aspramente la mania di collezionare libri a scopi poco o niente culturali. La bibliomania entra in piena letteratura nel 1605 con il Don Chisciotte di Cervantes, perfetto “pazzo dei libri” non tanto perché li accumula, quanto perché crede in modo assoluto a tutto quello che raccontano come fossero tesori di verità e di sapienza, a prescindere dal loro aspetto esteriore e dai loro eventuali pregi bibliografici. Sul falso bibliofilo e sul bibliomane si appuntano le critiche e le ironie di molti autori moderni e contemporanei, non sempre del tutto esenti, a loro volta, dal “morbo libresco”. Una molto strana figura di bibliomane fu il fiorentino Antonio Magliabechi (1633-1714), bibliotecario della Palatina sotto il granduca Cosimo III dei Medici, incarico che svolse con grande professionalità grazie anche alla sua memoria prodigiosa, posta al servizio della collocazione dei libri e del loro contenuto. Era un lettore insaziabile e viene ricordato anche per aver fatto eseguire copie di molti manoscritti della biblioteca Laurenziana. Ma sotto altri aspetti era una persona rimasta famosa per bizzarria e mania di accumulare libri da cima a fondo nella sua casa. Un biografo lo descrive come «l’uomo più brutto, più trascurato, più sudicio, più erudito del suo tempo». Era anche deforme di aspetto oltre che deforme nella persona. Il suo abbigliamento 9

Charles Nodier, Les Français peints par eux-mêmes, Paris, s.d. II, p. 84. Petrarca, Lettera da Valchiusa al frate domenicano Giovanni Anchiseo.

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consisteva in una camicia sudicia che teneva sempre indosso, una grande cravatta impiastricciata di tabacco, un paio di pantaloni spiegazzati, una giacca scura che gli scendeva alle ginocchia, un mantello nero pieno di toppe e cuciture, un cappello informe a larghe falde tutto bucherellato. Viveva solitario ed era estremamente sobrio: pane, uova, qualche fetta di salame (che usava anche come segnalibro) e sola acqua di pozzo. L’arredamento della sua casa era di due seggiole e un lettuccio. Aveva a tal punto riempito di libri il suo appartamento, da ridursi a dormire su una delle seggiole o fra le carte e i volumi che coprivano il suo giaciglio. Mangiava sui libri, dormiva sui libri e si separava da essi solo per il tempo strettamente necessario al suo lavoro nella biblioteca del granduca. Aveva fatto un foro nella porta di entrata dal quale spiava sospettosamente chiunque venisse a battere a essa, e se non era una persona nota e che gli garbasse di ricevere, poteva continuare a battere invano. Riceveva i visitatori fra enormi pile di libri che occupavano interamente le poche stanze, il corridoio e la scala. Li aveva tanto ammonticchiati, che lo spazio per muoversi si era ridotto a uno stretto camminamento percorribile stando di sbieco. Tutto questo ammasso apparentemente confuso non impediva a Magliabechi di trovare i libri che man mano gli occorrevano. Questo strano personaggio tanto studioso ed erudito quanto maniaco, era molto stimato nel mondo della cultura. Ricevette offerte allettanti da alcuni potenti del tempo fra i quali lo stesso papa Innocenzo XI, ma le rifiutò, ben deciso a non lasciare Firenze e la sua abitazione zeppa di libri. Il granduca gli aveva fatto preparare nel palazzo un comodo appartamento, anche in vista dell’avanzare dell’età. Magliabechi vi soggiornò per breve tempo e trovò un pretesto per tornare a casa propria. Aveva messo insieme una biblioteca personale di circa trentamila volumi che lasciò per testamento a Firenze, allo scopo di «promuovere gli studi, le virtù, le scienze, e con quelle la pietà e il bene universale, a beneficio della città e specialmente ai poveri, chierici, sacerdoti e secolari che non hanno modo di comprar 124

libri e di poter studiare». La biblioteca, aperta al pubblico nel 1747, costituisce il nucleo originario dell’odierna Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, originariamente detta Magliabecchiana11. Ma la bibliomania, a suo modo intelligente, di Antonio Magliabechi, è subissata da quella – allo stato puro – del parigino Antoine Marie Henri Boulard (1754-1825), notaio, deputato, uomo di lettere, storico e buon traduttore. Aveva iniziato come bibliofilo, collezionando manoscritti medievali e prime edizioni di Aldo Manuzio e altri grandi tipografi del Cinquecento e del Seicento. Sua moglie gli consigliava di leggere i libri acquistati prima di cercarne altri perché «vero bibliofilo è colui che ha già letto tutti i libri che possiede»12. Ma Boulard non se ne dava per inteso. Si era messo a comprare libri all’ingrosso, anzi a metro cubo, dai bouquinistes (venditori di libri usati) della Senna, servendosi di un bastone da passeggio graduato che aveva fatto fare apposta. Indossava un’enorme redingote blu con grandi tasche cucite su misura secondo i diversi formati dei libri. Riuscì così ad accumulare, in otto case dalle quali aveva sfrattato gli inquilini, fra i seicentomila e gli ottocentomila volumi, la collezione privata ancor oggi insuperata per numero. Alla sua morte, centocinquantamila furono venduti a peso di carta straccia; gli altri, catalogati in cinque volumi, vennero ceduti in un’asta durata cinque anni, dal 1828 al 1833, che riempì le librerie e le bancarelle dei bouquinistes facendo crollare il mercato librario. Uno dei loro più assidui frequentatori fu, pochi decenni dopo, lo scrittore Saverio Marmier che nel suo testamento lasciò questa clausola: «In memoria dei bei momenti passati in mezzo ai bouquinistes, momenti che io annovero fra i più squisitamente moviLa maggior parte di queste notizie su Magliabechi è tratta da Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena 1772-82, tomo VIII, libro I, capitolo IV. 12 Tenant de Latour, Mémoires d’un bibliophile, Paris, 1875, p. 256. 11

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mentati della mia vita, lascio a quei librai la somma di mille franchi. Desidero che questi denari siano impiegati da quei buoni e bravi commercianti (che sono circa una cinquantina) a pagarsi un pranzo e a passare qualche ora uniti pensando a me. Questo sarà il mio ringraziamento per le tante ore che ho vissuto intellettualmente nelle mie passeggiate quasi quotidiane lungo i Quais della Senna, da Pont Royal a Pont Saint Michel». Torniamo a Boulard. I libri elencati nel quinto volume del catalogo, comprendenti storia e viaggi, furono acquistati in blocco da un altro grande raccoglitore maniacale, l’inglese Sir Richard Heber (1775-1833). Comprava libri, anche per corrispondenza, in tutta Europa. Ne possedeva oltre trecentomila, suddivisi fra cinque biblioteche in Inghilterra, Francia e Belgio, dove non si recava mai, venendo così a trovarsi proprietario di miriadi di volumi che non aveva mai visti. Un altro maniaco, noto per aver coinvolto rovinosamente le sue due mogli, fu Sir Thomas Phillips (1792-1872). Possedeva una collezione di quarantamila libri e sessantamila manoscritti che superava di gran lunga – correva voce probabilmente esagerata – perfino quella del British Museum. Come Boulard, li acquistava all’ingrosso, accumulando nelle sue molte case anche una grande quantità di volumi scadenti. Non solo ridusse la moglie e la figlia a vivere in ristrettezze, ma le obbligò a catalogare tutto ciò che comprava. Caduta in depressione, la moglie si uccise, ma Sir Thomas non si perse d’animo: andò subito alla ricerca di una sostituta che gli portasse almeno cinquantamila sterline di dote. Gli ci vollero dieci anni e infine trovò una seconda moglie che disponeva di tremila sterline l’anno. Ieri come oggi, vi sono bibliofili più o meno maniaci che ricorrono all’appropriazione indebita (libri presi in prestito e non restituiti) o di autorità, oppure al furto nelle botteghe dei librai o addirittura nelle biblioteche. Come nel caso del cardinale Domenico Passionei (1682-1761) che nella sua residenza al Quirinale aveva messo insieme una ricca collezione ricorrendo anche a sistemi scorretti. Narra di lui il famoso presidente francese Char126

les de Brosses, storico e umanista: «Lo si accusa di aver fatto spesso man bassa in Germania, dove frugava le biblioteche dei conventi e si faceva consegnare molti libri curiosi o rari. Condiva tutto con bei complimenti [...]. Si era molto imbarazzati a rifiutare qualcosa a Sua Eccellenza Monsignore il Nunzio» il quale, per tutto ringraziamento impartiva «una solenne benedizione che i poveri frati ricevevano prosternati»13. «Riguardo poi ai frati sospettosi o recalcitranti, Passionei aveva escogitato un sistema di appropriazione più spiccio. Prendeva il pretesto di dover completare studi importanti e che gli erano necessarie lunghe ricerche nelle loro biblioteche. Vi si faceva chiudere dentro a chiave per non essere disturbato e gettava dalla finestra a un suo servitore fidato, nascosto di sotto, i volumi che più lo allettavano, i più preziosi, beninteso»14. Del caso forse più clamoroso di furto librario continuato fu protagonista il fiorentino Guglielmo Bruto Icilio, conte Libri di Sommaia (1803-1869) che volle farsi chiamare semplicemente Guglielmo Libri: nomen omen, un nome, un presagio. Matematico insigne e attivista politico della Massoneria, si rifugiò a Parigi, dal 1833 diventò un eminente cittadino francese, membro dell’Institut, del Collège de France e insignito della Legion d’Onore. Come ispettore generale delle biblioteche aveva il pieno accesso a tutti i testi più preziosi del patrimonio librario francese. Ritrovò e classificò opere rarissime che giacevano abbandonate nelle biblioteche di provincia sopravvisute ai saccheggi della Rivoluzione. Ma ben presto Libri venne accusato di rubare libri. Denuncia subito bloccata dal presidente della Repubblica François Guizot, suo amico e testimone di nozze. Nel 1848, con la sconfitta politica di Guizot, per sottrarsi al processo Libri si rifugiò in Inghilterra portando con sé diciotto casse contenenti gran parte dei cinquantottomila testi antichi, fra libri e manoscritti, tutti rari o di gran 13 14

Charles de Brosses, L’Italie d’il y a cent ans, Paris, 1836, vol. II, p. 273. François Fertiault, Les légendes du livre, Paris, 1870, pp. 91 e 198.

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pregio, che aveva sottratti. Nel 1850 un tribunale della Seconda Repubblica lo condannò in contumacia a dieci anni. Sembra che avesse iniziato la sua carriera di ladro librario già a Firenze, quando aveva ventidue anni, nella biblioteca dell’Accademia dei Georgofili, poi nell’Archivio Mediceo e nella biblioteca Laurenziana, per continuare alla grande nelle biblioteche di varie città francesi come Tours, Orléans, Lione, Carpentras, Autun e altre. A Londra, tuttavia, Libri non visse in ristrettezze e godette della stima degli studiosi, frequentò l’esule italiano Antonio Panizzi, fondatore e direttore della British Library, e questo gli permise di organizzare la vendita, suddivisa in diverse aste, dei volumi della sua collezione. Per capirne l’importanza e la rarità, basti ricordare che due sole aste nel 1861 diedero un provento in sterline pari a più di un milione di franchi, una somma enorme per tempi in cui uno stipendio medio annuale non superava i millecinquecento franchi. Nel 1868 Libri tornò malato in Italia, a Fiesole, dove morì un anno dopo. Aveva avuto dalla sua alcuni dei più bei nomi della cultura italiana (come Guerrazzi e Gioberti) e francese (come Lacroix e Mérinée), convinti che fosse vittima di una persecuzione politica. «Per me, che ho sempre detto che l’amore per il collezionismo può indurre persino al delitto», scriveva Mérinée, «Libri è il più onesto dei collezionisti, e non conosco nessun altro all’infuori di lui che potrebbe restituire alle biblioteche i volumi che altri hanno rubato»15. Umberto Eco non è innocentista, ma commenta con ironia: «Libri era certamente un bibliofilo: ha pensato che quei libri stavano meglio a casa sua, coccolati ed amati, che in qualche biblioteca di provincia dove nessuno li avrebbe mai cercati. Ma per averne amati troppi non avrà certo potuto amarli uno per uno. Seppelliti all’origine, ritornavano seppelliti alla meta. Per questo era anche un bibliomane»16. Alberto Manguel, Dans la forêt du miroir, Editions Actes Sud, Arles 2003, pp. 248-249. 16 Umberto Eco, Riflessioni sulla bibliofilia, Rovello, Milano, 2001, p. 20. 15

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Il primato di bibliofilia che induce non solo al furto, ma anche al falso, spetta probabilmente a un ingegnere belga di cui si occuparono le cronache nel 1933, che da vari anni era impegnato a sottrarre i libri più preziosi della Biblioteca Reale di Bruxelles. Agiva così: chiedeva in lettura il libro che voleva rubare, ne studiava e annotava accuratamente la legatura, i timbri, le etichette e la segnatura. Tornato a casa, con grande perizia riproduceva minuziosamente tutti quei particolari su un altro volume, di solito un’edizione più recente, dell’opera che intendeva sottrarre. Poi nascondeva il volume truccato sotto la giacca e tornava in biblioteca dove gli era facile sostituirlo con quello originale. Le sue contraffazioni erano così perfette, che andò avanti alcuni anni senza essere scoperto. Finché un volume non perfettamente imitato destò i sospetti di un bibliotecario e le indagini portarono all’identificazione del bibliofilo falsario. Quando la polizia si recò a casa sua, trovò ben allineati e conservati nella libreria tutti i volumi da lui rubati, restaurati con grande abilità, spesso arricchiti di legature nuove e pregiate. Confessò tutto e si giustificò di essere stato indotto a quei furti perché, soffrendo troppo nel vedere dei volumi preziosi mal conservati, se li era portati a casa solo per restaurarli con amore. Anche lui era senza dubbio un bibliofilo che l’incontenibile passione per i libri aveva reso bibliomane e la frenesia del loro possesso aveva reso bibliocleptomane falsario. Ma non scoppiò alcuno scandalo, l’autore di questa singolare impresa rimase anonimo perché «in fondo, la Biblioteca Reale non solo non ci ha perso nulla, ma ci ha guadagnato poiché ha riavuti, meravigliosamente riparati, i suoi volumi più preziosi, e ha acquisiti pure quelli, molto meno pregiati ma tuttavia non senza valore, che l’ingegnere le aveva lasciati in sostituzione»17. Emulo attuale sia di Guglielmo Libri che dell’anonimo ingegnere belga è Marino Massimo De Caro che nel 2012 è stato scoperto come autore del furto di almeno quattromila volumi antichi 17

Giuseppe Fumagalli, Aneddoti bibliografici, Bietti, Milano, 1939, pp. 80-82.

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(il primato è ancora di Libri con quarantamila) fra quelli della biblioteca napoletana dei Girolamini (di cui era direttore) e quelli saccheggiati in altre biblioteche italiane. Come l’anonimo ingegnere, De Caro era giunto al punto di cercare di farla franca sostituendo alcuni dei volumi più preziosi (fra cui la prima edizione del Sidereus Nuncius di Galilei) con copie abilmente falsificate. Ma mentre Libri e l’anonimo ingegnere rubavano libri per passione, De Caro li rubava esclusivamente per venderli come aveva cominciato a fare, e alla grande. Il primato mondiale spetta a tale Stephen Blumberg di Ottumwa, Iowa, Stati Uniti, processato nel 1991 per il furto di 23.600 libri antichi e moderni, valutati 5,3 milioni di dollari, compiuto in 327 fra biblioteche pubbliche, musei e altri centri culturali di 45 Stati dell’Unione, del distretto di Columbia e del Canada. Non li vendeva, ma da appassionato bibliofilo, o meglio bibliomane, li collezionava coscienziosamente per “proteggerli dal degrado”. Condannato a sei anni di carcere e 200 mila dollari di ammenda, venne rilasciato nel 1995, ma continuò a rubare libri e venne arrestato di nuovo più volte. La bibliofilia può indurre perfino al delitto. Come nel caso di Johann Georg Tinius, nato in Sassonia nel 1764, diventato assassino e rapinatore per procurarsi il denaro con cui soddisfare il suo amore per i libri. Nel 1813, dopo un processo indiziario, se la cavò con dodici anni di reclusione. Nel 1836, la Gazette des Tribunaux di Parigi aveva pubblicato una corrispondenza anonima sull’atroce caso di Don Vincente, ex monaco cistercense e libraio di Barcellona, condannato al patibolo come pluriomicida confesso per furto e rapina di libri. Era andato a morte con l’unico rammarico di aver saputo che del Furs de Valencia, un rarissimo libro stampato nel 1482 da lui ritenuto unico e da lui rapinato a un altro libraio dopo averlo ucciso, esisteva un secondo esemplare. Solo nel 1928 si ebbe la conferma definitiva che Don Vincente non era mai esistito, nessun fatto del genere era mai accaduto a Barcellona o altrove. Erauna storia inventata dalla prima all’ultima parola, forse uno 130

scherzo dell’eminente e ben noto bibliofilo francese Charles Nodier. Il capitolo più bizzarro e insieme macabro della storia del libro è quello della “bibliolegia antropodermica”, cioè dei libri rilegati con pelle umana ricercati da bibliofili senza pregiudizi anche per la loro rarità. Se ne trova qualche esemplare nelle biblioteche pubbliche europee e americane o molto eccezionalmente nelle aste. Il più antico sembra essere una Bibbia del XIII secolo conservata nella Bibliothèque Nationale di Parigi. La pelle proveniva di solito da uno sconosciuto deceduto in ospedale o per indigenza oppure da un condannato alla pena capitale. A volte il “donatore” non è anonimo. Memorabile il caso del gesuita inglese Henry Garnet, messo a morte con l’accusa di essere stato complice della cosiddetta Congiura delle Polveri (1605) con cui si voleva uccidere re Giacomo I con tutti i membri del parlamento inglese. Padre Garnet aveva raccolto le confessioni di alcuni cospiratori e, rifiutando di rivelarle in nome della segretezza del sacramento, era stato condannato, impiccato, il suo cadavere squartato e la sua pelle consegnata allo stampatore reale che la utilizzò per rilegare un volume sulla storia del processo. Un’inchiesta condotta nelle principali biblioteche pubbliche degli Stati Uniti ha fatto emergere la presenza di vari libri rilegati con pelle umana non anonima. A Denver si conserva una copia con le poesie di Milton rilegata con la pelle di tale George Cudmore, impiccato nel 1830 per l’uccisione della moglie. A Boston si annovera una copia dell’autobiografia del famoso bandito James Allen Walton, morto in prigione nel 1837, rilegata con la pelle dell’autore, come si legge sulla copertina. In qualche altro caso, era l’autore stesso a decidere di lasciare ai posteri le proprie memorie insieme con la propria pelle. A Cleveland è stato censito un Corano rilegato con la pelle del suo proprietario, un capo tribale arabo. La pelle umana è stata utilizzata anche per rilegare libri di medicina, anatomia in particolare, quasi in omaggio al defunto da cui proveniva. In Italia si ha notizia di un esemplare del gene131

re in vendita all’Esposizione Libraria milanese del 1879. Un altro esemplare, pubblicato a Bruxelles nel 1861, si trova nella Biblioteca Ambrosiana di Milano. La Francia è il paese europeo più segnalato per le rilegature di pelle umana. Ecco tre esempi significativi. Il corpo del poeta Jacques Delille, morto nel 1813, venne trafugato e la pelle utilizzata per rilegare una copia della sua celebre traduzione delle Georgiche virgiliane. Il museo Carnevalet di Parigi possiede una copia rilegata in pelle umana della Costituzione francese del 1793. Il celebre astronomo Camille Flammarion ricevette, come lascito testamentario dalla contessa di Saint Ange, la cute delle sue spalle che egli aveva tanto ammirate, con la richiesta di usarla per rilegare il primo libro che egli avrebbe pubblicato dopo la sua morte. Flammarion, infatti, ne fece rilegare una copia di Le terre del cielo (1877). Il volume è conservato nella biblioteca dell’osservatorio di Jusivy da lui fondato nel 1883.

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Per il libro e per la patria

Nel maggio del 1823 il giovane avvocato Antonio Panizzi di Brescello (Reggio Emilia) sbarcava in Inghilterra per sfuggire al mandato di cattura e al processo per cospirazione intentatigli dal tribunale speciale istituito dal duca di Modena Francesco IV contro sessantasette dei suoi oppositori, fra i quali il giovane sacerdote Giuseppe Andreoli, giustiziato dopo che il duca aveva respinto la sua domanda di grazia. Panizzi era già a Londra da un anno quando, nel 1824, fu raggiunto dalla notifica del governo estense della sua condanna a morte in contumacia e dall’intimazione di pagare 225 franchi e 25 centesimi a rimborso delle spese occorse per il processo, la sentenza e l’impiccagione in effigie, compresa la mancia per il boia. In una lettera scritta alcuni mesi dopo, Panizzi affermerà: «La mia condanna fu il mio elogio e mi rende degno della stima degli uomini di tutti i partiti e di tutte le nazioni». Aveva 26 anni quando giunse a Londra, meta di tanti esuli italiani, senza un penny in tasca e con una scarsa conoscenza della lingua. Ugo Foscolo, pure lui esiliato in Inghilterra, gli consigliò di andare a Liverpool dove, grazie all’interessamento di importanti amici dello scrittore, trovò lavoro come insegnante privato di italiano: impararlo era allora considerato obbligatorio per una educazione liberale. Panizzi aveva il dono di coltivare amicizie negli ambienti politici e culturali più qualificati. Grazie ad esse, nel 1828 tornò a Londra per ricoprire la carica di lingua e letteratura italiana al neonato University York College. Un incarico di prestigio ma poco remunerativo, dato che un professore si pagava con le iscrizioni degli studenti, e i suoi erano pochi. 133

Tre anni dopo, 1831, Panizzi fu felice di accettare la raccomandazione di un amico ben introdotto e diventare, con un buon stipendio, assistente bibliotecario aggiunto al British Museum, presso la sezione dei libri a stampa (British Museum Library) suscitando però obiezioni fra i Tory (del partito conservatore), secondo i quali quell’incarico doveva essere affidato a qualcuno che non fosse uno straniero, appartenente per di più alla Chiesa cattolica romana. Panizzi rispose presentando subito domanda di cittadinanza inglese che ottenne in poco tempo. Nel 1845, durante uno dei suoi viaggi all’estero per documentarsi sul sistema di catalogazione delle altre biblioteche, Panizzi, sul quale pendeva ancora una taglia, inapplicabile perché ora possedeva un passaporto britannico, avrà occasione di incontrare a Vienna il duca Francesco IV di Modena, che tuttavia gli negherà il perdono. Benché riconosciuto come importante istituzione culturale, il British Museum era considerato da una parte dell’opinione pubblica il rifugio “per anziani ecclesiastici o stranieri indigenti” i quali, una volta assunti, “passavano le giornate a sonnecchiare a spese dello Stato”. L’arrivo di Panizzi vi suscitò un’ondata di attivismo e di novità che doveva durare ben trentacinque anni, cioè fino a quando, nel 1866, egli lasciò il suo incarico per raggiunti limiti di età. Il giorno dell’inaugurazione, avvenuta nel 1793, la British Museum Library – che in seguito si staccò dal British Museum – conteneva circa 51 mila volumi. Pur trattandosi della Biblioteca nazionale britannica, era modesta rispetto agli standard di altre biblioteche consimili in Europa, fra le quali spiccava la Bibliothèque Nationale di Francia, a Parigi, che alla fine del XVIII secolo contava oltre 300 mila volumi, mentre quelli della British Library erano ridotti a 41 mila. Al primato francese aveva contribuito la confisca di intere biblioteche appartenenti ad aristocratici ed ecclesiastici in seguito alla Rivoluzione del 1793. Alla fine del XIX secolo la Biblioteca nazionale britannica raggiungerà la consorella francese senza mai superarla. 134

Nell’Ottocento la stampa, cambiata di poco fra il Cinquecento e il Settecento, cessa di essere un prodotto artigianale, si meccanizza e anche il libro diventa un prodotto di massa nel contesto della rivoluzione industriale. La smisurata crescita numerica dei libri e la loro straordinaria varietà investono anche le biblioteche pubbliche e private. Nel 1833, due anni dopo l’arrivo di Panizzi, la British Library possedeva 250 mila volumi; si era dunque quintuplicata rispetto a trent’anni prima o poco più. Nel 1836 il suo patrimonio aveva raggiunto i 320 mila e nel 1852 i 470 mila volumi. Oggi supera i dieci milioni di libri, i 100 mila manoscritti di notevole valore ed è, anche sul piano qualitativo, una delle maggiori del mondo. Qualche tempo dopo la sua assunzione alla British Library, Panizzi ebbe l’incarico di compilare un nuovo catalogo. Il primo, del 1810, era di sette volumi, 48 all’arrivo di Panizzi del 1831 a causa dell’enorme aumento dei libri acquisiti. Nel 1991 il catalogo arriverà ai 2300 volumi, con numerosi supplementi e appendici. Il catalogo a schede entrò per la prima volta in uso pubblico nel 1860 all’Harvard College, negli Stati Uniti, e fu subito adottato in tutto il mondo. Panizzi non si accontentò di una revisione parziale del catalogo, ne volle il completo rifacimento formulando ben 91 regole che saranno applicate dalla British Library fino agli anni Cinquanta del secolo scorso e che rimarranno per decenni un modello insuperato della moderna biblioteconomia. Regole che trasformarono il catalogo da mero inventario a uso dei bibliotecari a utile strumento di ricerca per i lettori. Panizzi volle che di ogni libro entrato in catalogo fossero riportati in modo più preciso il titolo, il nome dell’autore e dell’editore, il luogo e la data di pubblicazione, il formato, il numero delle pagine e la segnatura, vale a dire la sigla di collocazione del libro fra gli scaffali. Così il lettore non doveva più limitarsi a fare una semplice richiesta del libro per titolo e autore, ma conoscerne la segnatura per riportarla sulla scheda da consegnare al bibliotecario. Una procedura poi così consolidata da sembrare 135

semplice, ovvia, oggi superata dal catalogo on-line ormai diffuso nelle biblioteche di tutto il mondo e che ha modificato radicalmente il modo di cercare e richiedere i libri in lettura. Scopo principale della riforma realizzata da Panizzi era quella di aiutare i lettori a trovare e ricevere i libri che cercavano nel più breve tempo possibile. Panizzi volle creare non solo un nuovo tipo di catalogo, ma anche un nuovo tipo di lettore, più indipendente e meglio informato. Egli fu, a suo modo, un innovatore della biblioteca che stava sviluppandosi sempre più, in Europa e in America, come servizio pubblico. Un innovatore la cui nomina, nel 1837, a conservatore della sezione libri a stampa, suscitò ancora la diffidenza e le critiche di coloro che, anche fra gli amministratori e i dipendenti del British Museum, male accettavano il fatto che un bibliotecario non inglese, cattolico e di orientamento liberale, ricoprisse una carica di notevole rilievo e ben retribuita. Ma diffidenze e critiche freneranno comunque ben poco l’entusiasmo di Panizzi e i suoi progressi. Il suo lavoro di catalogazione diventò un impegno continuo come è oggi, anche con l’avvento dell’informatica, la catalogazione in ogni biblioteca. Nel 1856 Panizzi raggiunse il culmine della carriera diventando bibliotecario capo. L’anno dopo venne inaugurata la Round Reading Room, la nuova, grandiosa sala di lettura, circolare e a cupola, ideata da Panizzi. In riconoscimento della sua opera, nel 1867 fu nominato Sir dalla regina Vittoria, dopo aver rifiutato l’onorificenza per ben due volte. Nonostante il suo lavoro fosse stato ostacolato da continue noie e ostilità dovute specialmente al fatto che era straniero, Panizzi le raccontò senza amarezza, ma senza veli, in un ben documentato opuscolo1. «Il mio ideale», scrive Panizzi nel 1836 agli amministratori della British Library, «è che lo studente povero abbia, come il più ricco uomo del regno, i mezzi per appagare le proprie curiosità 1 Antonio Panizzi, Cenni intorno alla mia vita ufficiale in Inghilterra, Treves, Milano, 1875.

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intellettuali, perseguire le proprie inclinazioni culturali, consultando gli stessi testi magistrali, approfondendo le più complesse questioni [...] ed io mi batterò affinché il governo si senta in obbligo di fornirgli al riguardo la più liberale e incondizionata assistenza». «Sir Anthony Panizzi, lo stravagante, prometeico rivoluzionario italiano, onorò il buon senso del suo paese d’adozione, creando non solo per i suoi dotti lord, ma anche per i poveri studenti e per la gente comune, una delle più grandi biblioteche del mondo»2. Panizzi fu un rivoluzionario non solo come bibliotecario, ma anche come patriota, attivo sostenitore dell’unità e dell’indipendenza italiane. Era questo l’altro lato della sua personalità forte e complessa. Il molto impegnativo lavoro professionale non gli impedì di utilizzare tutta l’influenza che stava conquistandosi negli ambienti politici inglesi per sostenere la causa della sua patria di origine, anche se da anni era diventato cittadino britannico. Diede aiuto e trovò lavoro a rifugiati italiani come Ugo Foscolo e Giuseppe Mazzini, che si trovavano anch’essi sul suolo inglese stretti da necessità economiche o da difficoltà politiche, nonostante le divergenze anche personali che lo separavano da loro. Durante la rivoluzione del 1848, i lombardi avevano nominato Panizzi loro ambasciatore presso la regina Vittoria a Londra. Il conte di Cavour, che gli aveva fatto visita nel 1852, lo usava spesso come intermediario del molto filoitaliano Lord Palmerston, ministro degli esteri nel 1848-49 e primo ministro nel 1860. Nel 1851 Panizzi aveva fatto visita ai patrioti Luigi Settembrini, Carlo Poerio e Silvio Spaventa, imprigionati nell’isola di Ponza da Francesco II re delle Due Sicilie. Deciso ad aiutarli, iniziò una corrispondenza segreta tramite lettere consegnate loro di nascosto e contenenti messaggi scritti con inchiostro invisibile. Poi cominciò a prospettare un piano per liberarli con la forza e a 2 Matthew Battles, Biblioteche: una storia inquieta, Carocci, Milano, 2004, p. 109

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finanziarlo con buona parte del suo stipendio, la sottoscrizione di alcune personalità inglesi filoitaliane e un contributo dal fondo dei servizi segreti britannici. Denaro che doveva servire in parte per l’acquisto di una nave, The Isle of Thanet. Panizzi tentò di coinvolgere, come comandante, l’amico Giuseppe Garibaldi, che però espresse dei dubbi sul successo dell’impresa. Tutto finì nel 1856, prima ancora di cominciare, con l’affondamento della nave in una tempesta. Settembrini, Poerio e Spaventa saranno rilasciati per essere deportati in America, dopo tre anni di rottura, per protesta da parte dell’Inghilterra, delle relazioni diplomatiche con il governo delle Due Sicilie. Ma grazie all’intervento di Raffaele Settembrini, figlio di Luigi e discepolo londinese di Panizzi, riusciranno a raggiungere il suolo inglese e a riconquistare la completa libertà. Nel 1860, mentre la spedizione dei Mille era al culmine, Panizzi scrisse a Garibaldi: «Ho sentito dire, cosa che non posso credere ma sta bene che tu sappia essersi sparsa la ciarla, che alcuni degli amici da cui sei circondato han proposto che si abbrucino i monasteri insieme con le raccolte che contengono – e che possono essere preziose – e di libri e d’altro perché sono asili di fanatici. Son certo che tu non ascolterai mai tali consigli, ma è una vergogna che mai siansi dati; ripeto che non lo posso credere». Infatti la notizia non era vera. Panizzi chiudeva la lettera a Garibaldi con queste parole: «Addio, mio caro illustre amico. Possa l’Italia mostrarti un giorno la gratitudine che ti deve». Durante la sua trionfale visita a Londra nel 1864, Garibaldi volle cenare con Panizzi e visitare con lui la tomba di Foscolo a Chiswich. Per il suo lavoro pubblico e segreto in favore dell’indipendenza italiana, Panizzi fu insignito nel 1852 con la Legion d’Onore dall’imperatore francese Luigi Napoleone, e nel 1868 con la carica di senatore dal re d’Italia Vittorio Emanuele II. Panizzi interpretò nel modo migliore la figura del bibliotecario dedito al servizio del pubblico. Seppe conciliare nella propria persona e nella propria vita le migliori caratteristiche dello spiri138

to italiano e di quello inglese. «Panizzi sarà stato pure un inglese d’adozione ma nel suo cuore, e nelle sue azioni, rimase un patriota italiano»3.

3 Richard Newbury, Panizzi, il patriota in esilio, «Corriere della sera», 12 settembre 2003.

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Il libro elettronico

Il sogno di raccogliere in un unico luogo tutto ciò che è stato scritto nel mondo percorre l’intera storia del libro, sia esso di argilla, di papiro, di pergamena o di carta. Dalla Mesopotamia alla Cina, dall’India all’Egitto, vi furono re, imperatori, conquistatori che ambivano possedere i testi dell’intero scibile umano non solo come simbolo e affermazione di prestigio e di potere, ma anche come mezzo di conoscenza dei popoli sottomessi o no, contigui o lontani. La città che più si avvicinò a questo sogno fu Alessandria d’Egitto, fondata da Alessandro il Grande nel 331 a.C.. A lui si deve l’idea della biblioteca universale, realizzata intorno al 300 a.C. o pochi decenni dopo da Tolomeo II e da Tolomeo III sotto la direzione di Demetrio di Falero, allievo di Aristotele. Tolomeo II concepì una lettera «a tutti i sovrani e i governanti della Terra» in cui chiedeva che «non esitassero a inviargli» le opere di qualunque genere di autori: «poeti e prosatori, retori e sofisti, medici e indovini, storici e tutti gli altri ancora»1. L’intento era non solo di radunare tutti i libri del mondo allora conosciuto, ma anche di copiarli traducendoli in greco, considerata la lingua del sapere. Come accadrà a Baghdad nell’VIII secolo dopo Cristo, con l’impegno di tradurre in arabo “tutti i libri del sapere”. Fra le imprese maggiori della biblioteca universale di Alessandria restano memorabili la traduzione degli oltre due milioni di versi dei testi iranici attribuiti a Zoroastro (rispetto ai quali le poche migliaia di esametri dell’Iliade e dell’Odissea erano misera cosa) e quelle dell’intero Antico Testamento da 1

Luciano Canfora, La biblioteca scomparsa, Sellerio, Palermo, 2004, p. 28.

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parte di ben settanta specialisti fatti venire appositamente da Gerusalemme (la Bibbia dei Settanta). È da notare che i Tolomei non andavano tanto per il sottile nell’intento di arricchire la biblioteca di Alessandria, ricorrendo anche al sequestro, all’inganno e alla contraffazione. L’episodio più clamoroso: ottenuta in prestito da Atene, dietro versamento di una forte cauzione, la raccolta ufficiale dei tre grandi tragici – Eschilo, Sofocle, Euripide – per farne delle copie, Alessandria rinunciò alla cauzione e si tenne i manoscritti originali. Metodo adottato più volte per impadronirsi di opere importanti. Ad Alessandria furono attratte o reclutate schiere di artisti, letterati, scienziati, provenienti da vari paesi che fecero della città il faro della civiltà ellenistica, il più grande centro di conoscenza del mondo antico, fitto crocevia di religioni, culture e lingue diverse sotto il segno della tolleranza e della globalizzazione, che per seicento anni attirò le menti più illuminate dell’Oriente e dell’Occidente. Uno straordinario laboratorio del sapere dagli esiti impareggiabili. Cuore pulsante di tutto questo fervore culturale era il Museo, la casa delle Muse posta entro le mura del Brucheion, la residenza reale. Qui i dotti, rigorosamente selezionati, alloggiati, nutriti, stipendiati, esentati dalle tasse, erano liberi di scrivere, coltivare studi, ricerche e di accedere alla favolosa annessa Biblioteca Universale, che secondo la tradizione arrivò al primato dei cinquecentomila rotoli preconizzato da Demetrio di Falero (ma non era aperta al pubblico, per il quale ve n’era un’altra minore, quella del Serapeo, il tempio di Serapide, con poco più di 40 mila volumi). Una vita non del tutto idilliaca, se è vero che gli illustri ospiti, oltre che a essere tenuti a non uscire dal Brucheion, avevano qualche problema di convivenza fra loro, come afferma un po’ malignamente un contemporaneo, il filosofo scettico Timone di Fliunte, secondo il quale ad Alessandria «vengono allevati degli scarabocchiatori libreschi che si beccano eternamente nella gabbia delle Muse». Fatto sta che qui, milleottocento anni prima di Copernico, Aristarco sostenne la teoria eliocentrica (la Terra in moto attorno 142

al Sole); qui Eratostene fece la prima misura del meridiano terrestre provando che la Terra è sferica; qui Euclide scrisse i suoi primi elementi di geometria; qui Archimede scoprì l’idrostatica, la leva e la vite continua tuttora in uso per innalzare l’acqua irrigua dal Nilo; qui lavorarono Erofilo, pioniere degli studi di anatomia e fisiologia, e Stratone, il più insigne fisico dell’epoca. (sulla distruzione della Biblioteca Universale di Alessandria, vedi da pag. 77 a pag. 79). Ma ecco che il mito, o meglio l’utopia della Biblioteca Universale sta rinascendo, in misura immensamente maggiore di quella dell’antica Alessandria, su internet dove è in corso di allestimento la più grande raccolta di libri mai realizzata nel mondo. Una megabiblioteca immateriale, virtuale, di libri elettronici, gli ebook. Una biblioteca planetaria da mettere a disposizione del genere umano, costruita digitalizzando in modo sistematico miliardi di pagine per mettere in Rete il testo integrale o parziale di milioni e milioni di volumi antichi e moderni di ogni lingua e paese perché siano leggibili e riproducibili gratuitamente o a pagamento da chiunque possieda un computer, un tablet (tavoletta elettronica multimediale) o meglio ancora un ereader (lettore specifico di ebook). Il patrimonio delle antiche biblioteche, messo insieme lungo i secoli con enorme dispendio di denaro e di lavoro, potrà essere digitalizzato, almeno nella sua parte più preziosa, con una spesa che, anche se ragguardevole, sarà di gran lunga inferiore a quella che la sua raccolta ha comportato. Un compito colossale, avviato fin dal 1971 dall’americano Michael Hart con il suo progetto internazionale Gutenberg (a cui partecipa anche l’Italia) che nel 2011 era in grado di offrire circa quarantamila ebook scaricabili gratuitamente in quanto testi mai coperti da diritto d’autore o perché il copyright è scaduto, digitalizzati da collaboratori volontari, con l’intento di arrivare a dieci milioni di ebook. Ma il progetto è diventato molto più ambizioso: «Vogliamo giungere a un miliardo di ebook disponibili gratis», aveva detto Hart pochi mesi prima della sua scomparsa nel 2011. 143

È il padre del libro elettronico non ancora inteso come prodotto editoriale e commerciale. In Italia fin dal 1994 è diventato operativo il progetto Manuzio, dedicato prevalentemente alla trascrizione in formato ebook dei classici della letteratura italiana, che nel 2011 contava milleduecento collaboratori volontari e offriva l’accesso libero e gratuito a oltre duemila testi fuori diritti o con autorizzazione dei detentori di copyright. Il primato va a Google che nel 2004 aveva presentato il suo progetto Book Search di digitalizzazione libraria su scala globale. Lavorando con oltre quaranta grandi biblioteche nel mondo per mettere in rete i loro libri più importanti e preziosi, e con oltre trentacinquemila partner editoriali, nel 2013 Google aveva trasferito sul web quasi trenta milioni di libri, tra quelli di pubblico dominio (fuori diritti di autore) e quelli sotto copyright. Così un’azienda privata qual è Google è riuscita ad avviare un progetto che nessuna istituzione pubblica di alcun paese del mondo occidentale ha avuto la forza, le risorse e la capacità di affrontare in maniera altrettanto determinata ed efficace. Nel 2012 Google è sbarcata in Italia con il sito Google Play che offre oltre due milioni di ebook nelle varie lingue, oltre migliaia in italiano, preceduta l’anno prima da Amazon con la sua piattaforma digitale di sedicimila titoli in italiano. Molti Paesi sembrano determinati a gareggiare con Google nella digitalizzazione parziale delle loro biblioteche nazionali. Nel 2010 Europeana, la biblioteca digitale europea, aveva già reso gratuitamente accessibili online oltre quindici milioni di documenti provenienti da biblioteche, archivi, musei, raccolte audiovisive. Nel 2011 ha preso il via il grandioso progetto Nuovo Rinascimento, che prevede di mettere in rete, e scaricabili gratis, i libri di tutti gli Stati dell’UE non coperti da copyright. A Roma, nella Apostolica Vaticana istituita da papa Sisto IV nel 1475, la biblioteca umanistico-rinascimentale più preziosa del mondo, sono in corso di digitalizzazione i suoi ottantaduemila manoscritti paleocristiani, greci, latini, ebraici, arabi, persiani e di altre lin144

gue, per un totale di quarantadue milioni di pagine, da offrire alla libera consultazione su internet. Nel 2010 Robert Darnton, insigne storico del libro, ha lanciato il progetto Digital Public Library of America che, puntando su una coalizione di fondazioni private, si propone di rendere accessibile gratuitamente, via internet, il meglio del patrimonio librario degli Stati Uniti, non solo agli americani, ma al mondo intero. Centinaia di istituzioni grandi e piccole stanno procedendo a digitalizzare ingenti patrimoni librari in tutti i rami del sapere, spesso a libero accesso. La marea della digitalizzazione libraria su scala mondiale è inarrestabile. Sono i primi passi verso quella biblioteca davvero universale – che richiederà molti anni di lavoro con i suoi scaffali proiettati nell’infinito – evocata nel 1941 da Jorge Luis Borges nel racconto visionario La biblioteca di Babele: un archivio della memoria e della conoscenza così vasto da «coincidere con l’universo stesso». Lo scibile umano accessibile con un clic in tutto il mondo e gran parte gratuitamente, grazie all’ebook, il libro smaterializzato e reso ancor più “democratico” di quello cartaceo, che produrrà, prevede Darnton, «un nuovo Illuminismo»: quello che ha origine nel Settecento con l’idea della conoscenza globale da diffondere nel mondo, che tutto il sapere deve essere messo a disposizione di ciascun individuo, nel nome di una conoscenza che ambisce a essere il più diffusa possibile. L’antica biblioteca universale di Alessandria era riservata ai dotti, la nuova biblioteca universale digitale sarà aperta a tutti, anche nel più remoto villaggio del mondo raggiunto da internet, per avere libero accesso alle stesse fonti di informazione, di cultura e di svago di cui dispone uno studioso, uno scienziato, un lettore qualsiasi che vive in un Paese emergente. Un prospettiva affascinante realizzabile, però, quando il web sarà disponibile globalmente. Infatti su una popolazione mondiale di 7,1 miliardi di persone, sono poco meno di 3 miliardi quelle che possono avere accesso alla Rete. Il 61% degli abitanti del pianeta – soprattutto chi 145

vive nei Paesi in via di sviluppo è ancora tagliato fuori da internet. Per colmare questa grande lacuna sono in atto investimenti plurimiliardari allo scopo di estenderlo su tutta la Terra con l’impegno di numerosi satelliti. La biblioteca universale digitale (in pratica le varie librerie online) offre almeno tre vantaggi: è aperta tutti i giorni, 24 ore su 24; offre enormi possibilità di ricerca e di scelta fra i titoli (e di prezzi, se l’ebook è a pagamento); consegna in pochi secondi il libro prescelto. È in atto la seconda rivoluzione democratica della conoscenza dopo quella dell’invenzione della stampa – tratto caratteristico e dominante della modernità – che fino a oggi ha permesso di rendere il libro accessibile a un numero sempre maggiore di lettori, grazie alle tirature sempre più alte e ai prezzi sempre più bassi. L’intento è certamente nobile, anzi quasi rinascimentale con il suo mecenatismo da nuovi ricchi, a cominciare da Google che, dopo aver accumulato profitti per miliardi di dollari, vuol fare qualcosa di memorabile per la cultura globale. Tutto questo ha, beninteso, anche la sua ricaduta commerciale, sia perché l’accesso a molti testi integrali o parziali è o sarà a pagamento, sia perché più spazi di consultazione e di lettura libraria da internet, anche quando sono gratuiti, significano più spazi pubblicitari. L’economia della conoscenza non può emanciparsi dal compromesso del denaro. Fornendo eventualmente, per i libri più richiesti, non il testo completo ma solo brevi estratti, il server, anche se non è sua intenzione, indirizza il navigatore verso librerie e biblioteche pubbliche. Ne risulta un forte impatto culturale per i giovani ancor più che per gli adulti. I “nativi digitali”, i ragazzi che fanno uso abituale di computer, smartphone, tablet, tendono sempre più a leggere su questi supporti che su carta (l’espressione “nativi digitali” è stata utilizzata per la prima volta dallo scrittore statunitense Marc Prensky in un suo libro del 2001; negli Stati Uniti le persone nate dopo il 1985 sono considerate appartenente alla categoria dei nativi digitali). Secondo i dati del gigante dell’editoria tedesca Bertele146

smann, i giovani europei consumano digitalmente il 78 per cento dell’informazione scritta. Ma, osserva Umberto Eco, «internet paradossalmente è uno stimolo alla lettura su libro, perché nessuno leggerà mai tutta la Divina Commedia su uno schermo elettronico, quantomeno per ragioni oftalmiche. Però, grazie a internet, i nostri ragazzi scoprono autori e libri. Sono costretti a leggere velocemente, e così si diffonde la cultura e i giovani andranno a cercare nelle librerie e nelle biblioteche quello che internet gli ha fatto solo intravedere»2. La possibilità di leggere, senza possederli, su uno schermo elettronico, un numero elevatissimo di libri, potrebbe spingere all’acquisto, in formato ebook o di carta, di quelli che in un modo o nell’altro hanno segnato la nostra vita. La digitalizzazione della parola scritta non fa altro che accrescere la pratica della lettura, in qualsiasi forma. «I giovani leggono molto di più di quanto non leggano i loro padri e i loro nonni, fra i quali è ancora frequente l’analfabetismo», conferma il linguista Tullio De Mauro. Nelle generazioni digitali non ci sono analfabeti di ritorno, in quella dei loro genitori sì. Nelle generazioni digitali anche chi non ha a portata di mano una biblioteca può avere accesso alla cultura, in quella dei loro genitori no. La diffusione dell’ebook è ancora agli inizi, ma c’è già chi prevede il declino, se non la scomparsa, delle librerie come luogo di ricerca e di acquisto dei libri. Invece, osserva Eco, «un motivo per essere ottimisti è che sempre più persone oggi hanno accesso alla visione di una grande quantità di libri […]. Non si sono mai avute nella storia della cultura tante librerie quante ce ne sono oggi, belle, luminose, in cui si può andare e venire, sfogliare i libri, fare scoperte. E se vado in questi posti, vedo che sono pieni di ragazzi. Non è necessario che comprino e neanche che leggano. Basta che sfoglino, diano un colpo d’occhio alla quarta di copertina»3. «la Repubblica», 7 novembre 1994. Jean-Claude Carrière-Umberto Eco, Non sperate di liberarvi dei libri, Bompiani, Milano, 2009, p. 254. 2 3

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Oggi la libreria non si presenta più come un luogo sacro, un santuario dove molti entravano con soggezione, ma uno spazio dove chiunque può accedere a suo piacimento, magari sedersi, scegliere in pace o non scegliere affatto e andarsene dopo un’anonima coda di cassa. Nell’ebook è assente il fascino della libreria con la sua miriade di titoli, copertine colorate, libri da toccare e sfogliare. Una ricerca Censis 2013 ha rilevato che i giovani fra i 18 e i 24 anni sono quelli che più desiderano avere in casa un libro, preferibilmente bello; e che oltre il 42 per cento degli italiani considera importante per un libro avere una bella stampa, il 48 per cento belle illustrazioni, il 30 per cento una bella rilegatura. Intanto sono entrate in funzione le prime librerie che mettono in vendita, oltre che i libri a stampa, anche gli ereader cioè i supporti di lettura specifici degli ebook sotto forma di tavolette elettroniche. La libreria resterà il luogo dove si potrà scegliere un libro, ammirarne la forma, la carta, la copertina, la rilegatura. E infatti per questo motivo l’ebook non ucciderà il libro di carta o il piacere di chi semplicemente lo vorrà conservare nella propria biblioteca. Un libro immesso su internet, che sarebbe faticoso leggere su uno schermo elettronico, si può sempre riprodurre in parte o per intero con la propria stampante: nato su carta, torna alla carta. Da leggere subito o tenere comodamente a disposizione. Oppure si può ricorrere a un servizio di stampa ultrarapida come l’Espresso Book Machine in grado di riprodurre e rilegare in cinque minuti un volume di 300 pagine, scelto da un catalogo di un milione di titoli, che verrà spedito rapidamente per posta a domicilio. Senza contare che il computer offre anche la possibilità di scrivere e stampare in proprio una o più copie di qualunque testo di cui l’utente è autore. L’ereader è stato “profetizzato” fin dal 1818 dalla fantasia dello scrittore tedesco Ernst Hoffmann nel racconto La scelta della sposa come un volumetto di pagine bianche che, messo in tasca, si trasforma di volta in volta in qualunque libro, anche 148

raro, che il suo possessore voglia leggere, «la più completa biblioteca che nessuno abbia mai avuto, e inoltre ve lo potete portar dietro costantemente». Un’anticipazione sorprendente dell’attuale ereader con le sue centinaia di titoli. Ereader ed ebook sono stati immaginati da scrittori di fantascienza come Robert Heinlein nel 1948, Isaac Asimov nel 1951, Stanislaw Lem nel 1961, Arthur Clark nel 1968. La prima prefigurazione di un oggetto informatico pensato per leggere i libri è dell’americano Alan Kay nel 1972, ma la sua realizzazione pratica dovrà attendere la fine degli anni Novanta per affermarsi nel 2007 con il lancio dell’ereader Kindle. Un altro scrittore di fantascienza, Ben Bova, è l’autore nel 1989 del romanzo Cyberbooks dove l’idea dominante è l’avvento della biblioteca digitale. Carl Lewis, il suo giovane inventore, afferma che i libri «saranno trasmessi quasi all’istante in ogni angolo della terra, direttamente al personal computer del cliente» e costeranno pochi centesimi. «Non ci sarà più bisogno di tagliare alberi, fabbricare la carta e trasportarne tonnellate fino alle tipografie e poi trasportare tonnellate di libri stampati ai negozi. Muoverai protoni ed elettroni, anziché carta!»4. Qualcuno ritiene che l’ebook sia importante anche sul piano ecologico, perché il passaggio del libro di carta a quello elettronico significherebbe la salvezza di intere foreste. In realtà meno del quindici per cento del legno ricavato dagli alberi alimenta l’industria cartaria, e un terzo di quel legno è ottenuto con tagli di mantenimento (funzionali alla rigenerazione del manto boschivo) o riciclando gli scarti delle segherie. Non c’è dubbio, invece, che l’avvento dell’ebook è vantaggioso sul piano economico, perché scompaiono i costi del libro tradizionale come carta, stampa, legatura, magazzinaggio, distribuzione, sconto al libraio, giacenza, gestione delle rese. Il 2010 ha segnato l’affermazione dell’ereader la cui tecnologia aveva preso avvio fin dal 1991. Il modello più avanzato pesa 4

Ben Bova, Cyberbooks, Tor Books, New York, 1989, pp. 60-61.

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solo duecento grammi, è maneggevole (misura 16,5 x 11,5 cm come volume di medio formato), può ricevere un ebook in meno di sessanta secondi, contenere oltre un migliaio di libri; permette di leggere comodamente in qualunque momento, senza riflessi anche alla luce del sole, anche al buio senza sforzare le vista; la batteria è in grado di durare settimane con una singola carica considerando una media di mezz’ora al giorno di lettura. Il successo dell’ereader ha trascinato quello dell’ebook. La sua maggiore piattaforma di lancio è Google eBooks, che all’inizio del 2011 offriva già 3,3 milioni di testi, di cui 3 milioni gratuiti. Libri non reperibili su Google si possono scaricare da altre piattaforme, ma su abbonamento mensile di circa nove dollari, come Kindle Unlimited (600.000 titoli), Oyster (500.000 mila) e Scribd (400.000 mila) con ottanta milioni di lettori attivi al mese diffusi in cento paesi e quaranta lingue diverse. Nel 2014 Kindle Unlimited è sbarcata anche in Italia con un catalogo di 700 mila titoli, tra cui 80 mila in italiano (molti i self-publishing, i libri digitalizzati in proprio, senza editore) scaricabili con un abbonamento mensile di 9,99 euro. La prospettiva, che ancora di recente poteva apparire fantatecnologica, di avere a disposizione un’intera biblioteca, migliaia di volumi da scegliere su uno strumento di lettura che si può tenere in mano come un libro, è dunque solida realtà. Dalla tavoletta di argilla al papiro, dalla pergamena alla carta, ecco la tavoletta elettronica ereader, ultimo, forse estremo, supporto della parola scritta. Con un semplice tocco, il libro è quasi subito pronto da leggere, cosa che non accade mai quando lo si cerca nella propria biblioteca, in quella pubblica o in libreria. Oggi, in Italia, l’ereader ha un diffusione ancora molto modesta, ma è prevedibile che nei prossimi anni diventerà di uso comune. Sarà abituale partire in vacanza con un’intera biblioteca stipata in un oggetto pesante come un solo libro tascabile. Ma è dubbio che potremo leggere pazientemente, da cima a fondo, su un ereader, opere narrative di grande respiro anche se accattivanti, come Guerra e pace di Tolstoi o La ricerca del tempo perduto di Proust. 150

Leggere su uno schermo collegato a internet sta trasformando radicalmente le modalità di fruizione del testo, favorendo una lettura sempre più erratica e frammentaria, motivo per cui occorre chiedersi se le nuove generazioni sapranno ancora leggere in maniera intensiva, per periodi prolungati e senza navigare, opere che richiedono una lettura impegnata e concentrata. La lettura di un ebook viene abbandonata più spesso che quella di un libro di carta perché si può passare con più velocità e disinvoltura da un volume all’altro, come si fa leggiucchiando qua e là in una libreria. Internet informa che fra gli ebook di narrativa lasciati più spesso a metà o appena all’inizio primeggiano opere come Moby Dick di Melville, Ulisse di Joyce, La ricerca del tempo perduto di Proust e perfino Cento anni di solitudine di Marquez. Fra gli autori italiani, I Malavoglia di Verga, Quel pasticciaccio brutto di Gadda, Il pendolo di Foucault di Eco, Gomorra di Saviano. Lo stesso Bill Gates, il fondatore di Microsoft, ammette che «la lettura su video rimane un surrogato molto inferiore rispetto alla lettura su carta». Cartacei o digitali, tuttavia «i libri sono straordinariamente pazienti e ci aspettano per tutto il tempo che sarà necessario», commenta ironicamente lo scrittore argentino Alberto Manguel in Una storia della lettura (1996). L’ereader è diventato non solo sempre più leggero, maneggevole e gradevole alla lettura, ma anche sempre più versatile grazie alle sue numerose applicazioni, come cercare e trovare in pochi secondi all’interno di un testo un nome, una singola frase o un argomento (il che lo rende insuperabile rispetto al libro cartaceo), sottolineare, evidenziare, prendere appunti e fare note a margine, mettere un segnalibro, ingrandire o ridurre la pagina, passare da un testo all’altro con facilità, sfogliare e leggere giornali e periodici. Numerosi link (collegamenti), consentendo di accedere rapidamente a immagini, audio, film, video, opere, personaggi e situazioni a cui il testo fa riferimento, rendono i libri elettronici aperti a infiniti percorsi di approfondimento didattico e culturale. 151

Si può interagire come non mai con ciò che si legge. «Il passaggio dal cartaceo all’elettronico è un salto dalla stasi al movimento, dall’illustrazione all’azione, dal descrittivo al performativo, dal regno astratto delle parole scritte all’universo multisensoriale dei nuovo incroci di parole, suoni, immagini»5. In occasione di un Natale o di un compleanno, piuttosto che «ti regalo un libro» si comincia a dire «ti regalo un ereader», un’esile tavoletta elettronica specifica per la lettura, con la sua capacità mnemonica di centinaia di libri, un’intera biblioteca virtuale da mettere in tasca e consultare quando e come si vuole. L’impalpabile ebook si materializza, diventa leggibile sullo schermo di qualsiasi dispositivo connesso a internet, dal computer fisso a quello mobile, dallo smartphone al tablet, anche se la loro resa non è sempre paragonabile a quella dell’ereader. Con la semplicità d’uso touch screen (lo schermo tattile), la miriade delle applicazioni e la multimedialità sempre più vasta, la libertà di informazione, di comunicazione, di stampa diventa completamente portatile, in un universo che continua a espandersi ogni giorno. L’avvento dell’ereader e dell’immensa biblioteca digitale in corso di formazione rappresenta la più grande rivoluzione dopo Gutenberg, segna una svolta epocale che coinvolge editori, librai, bibliotecari. Assisteremo al declino della biblioteca pubblica tradizionale nata per favorire la conoscenza, una conoscenza sempre più aperta, democraticamente, a tutti? «Il futuro», risponde Bruno Racine, direttore della Bibliothèque Nationale de France, «non sarà un mondo senza biblioteche. Ci sarà sempre un luogo dove conservare i libri fisici, dove poter studiare. Il contatto con il libro di carta continuerà, in certi casi, a essere indispensabile, ma accanto alla biblioteca tradizionale ci sarà quella online aperta a tutti e a tutte le ore»6. 5 6

Derrick De Kerkhove, «La Repubblica», 11 dicembre 2011. «Corriere della Sera», 3 giugno 2011.

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A San Antonio del Texas è sorta Bibliotech, la prima biblioteca pubblica degli Stati Uniti che non ha alcun libro di carta, ma dove il lettore può accedere a circa diecimila titoli scaricando quelli di sua scelta su uno dei novecento ereader di cui la biblioteca è dotata, oppure sul proprio computer portatile o sul tablet. È possibile anche l’accesso diretto agli ebook da casa propria. Sempre negli Stati Uniti, l’università Drexel di Filadelfia, una delle migliori del mondo, ha una biblioteca solo digitale: nella sua sala di lettura ci sono solo computer che offrono un accesso immediato a un archivio di oltre centosettanta milioni di prodotti culturali digitalizzati fra libri, riviste, film e file musicali. Anche in Italia le biblioteche pubbliche hanno cominciato a scaricare sull’ereader del lettore i libri chiesti in prestito gratuito, che alla scadenza non saranno più leggibili. C’è anche il prestito a pagamento, promosso da librerie online, di testi digitalizzati o nati digitali. Le biblioteche, a loro volta, possono accedere alle copie digitalizzate per ottenere copie cartacee di libri danneggiati o perduti. Sotto tali aspetti, quella del bibliotecario sta diventando una delle professioni più interessanti e con maggiori prospettive di sviluppo. Le biblioteche pubbliche sono sempre state e sempre saranno luoghi di cultura. E ora la loro posizione centrale nel mondo del sapere le rende idealmente adatte a mediare fra le due modalità di comunicazione, a stampa e digitale. Siano prodotti su carta o immagazzinati su un server elettronico, i libri costituiscono il corpo del sapere e la loro autorevolezza deriva da elementi che trascendono la tecnologia usata per produrli. Vi è poi da mettere in rilievo che, da ambienti solo di studio e di lettura, le biblioteche pubbliche si stanno trasformando in spazi socioculturali. A partire dal 2010, anche in Italia sia i grandi gruppi editoriali che i medi e i piccoli editori sono scesi decisamente in campo convertendo in formato digitale migliaia di libri, dai bestseller ai classici. È possibile che una parte degli esordienti venga pubblicata prima in ebook e i migliori passino alla carta. È anche possibile trasferire su internet opere fuori catalogo che non sarebbe 153

conveniente ristampare, ma che troverebbero una seconda vita come ebook. Mentre si prevede (con molto ottimismo) che negli Stati Uniti saranno venduti più ebook che libri di carta, in Italia nel 2014 gli ebook erano solo il 2,5 per cento del mercato complessivo del libro e il corrispettivo fatturato solo l’1,5 per cento dei ricavi complessivi. Sempre nel 2014, i titoli degli ebook disponibili in italiano erano 25 mila, contro 120 mila della Germania, 100 mila della Francia, 1,75 milioni della Gran Bretagna e due milioni degli Stati Uniti. Comunque, il mercato dell’ebook italiano ha ormai gettato le sue fondamenta ed è destinato a crescere. A differenza di quanto accade nell’editoria tradizionale, il formato elettronico elimina il costo industriale (carta, stampa e legatura), quelli di magazzinaggio e distribuzione, di vendita e invenduto. Ciò offre agli autori la possibilità di diventare indipendenti, scavalcare del tutto gli editori che di solito li hanno rifiutati, gestirsi pubblicando in formato ebook le proprie opere immediatamente distribuibili, scaricabili a pagamento da siti individuali o associativi, istituendo così un rapporto diretto con i lettori; o meglio rivolgendosi sia ad un agente letterario che si occupi dell’editing e della promozione, sia ad un’apposita piattaforma di vendita digitale, come Amazon Direct Publishing, che ne detiene il primato mondiale. Scrivere un testo e metterlo in rete con un clic conviene anzitutto, è ovvio, a scrittori già affermati, autori di bestseller, o a personaggi già famosi o molto noti. Come nel caso del romanziere inglese Stephen Leather che, nel 2010, ha venduto in cinque mesi un milione di copie del suo ebook The Basement, grazie a una semplice operazione di “fai da te” e al prezzo estremamente basso di 75 centesimi di sterlina. Fra gli autori autopubblicatisi che nel 2011 hanno superato il milione di libri digitali venduti spicca John Locke, autore americano di western e di thriller, che aveva intrapreso con successo la carriera di scrittore appena due anni prima. Nello stesso anno, l’americana Amanda Hocking ha venduto due milioni di copie del suo romanzo Switched autopubblicato in 154

ebook. Il primato assoluto spetta alla scrittrice inglese El James, autrice della serie soft porno Cinquanta sfumature di grigio, che ha venduto dieci milioni di copie di ebook pubblicati in proprio nel 2009 e poi ha trovato un editore che gliene ha vendute molti altri milioni in formato cartaceo. Ma si tratta sempre di eccezioni. Negli Stati Uniti, in Europa e nella stessa Italia, sta crescendo una nuova generazione di scrittori (o presunti tali) che si affida a internet e debutta in solitudine per emergere dall’anonimato. L’autopubblicazione sul web, oggi alla portata di tutti, è diventata così il trionfo della vanità per i molti che, privi di autocritica, credono di essere romanzieri, poeti, saggisti senza averne le doti. A titolo di incoraggiamento, i promotori dell’autopubblicazione, che in un modo o nell’altro è a pagamento, fanno il nome, oltre che di autori come quelli sopra citati, di altri molto più famosi che fra l’Ottocento e il Novecento hanno esordito o comunque si sono affermati con opere fatte stampare a proprie spese: solo per citarne alcuni, da Edgar Allan Poe a Walt Whitman, da Marcel Proust a Italo Svevo, da Umberto Saba e Dino Campana e Alberto Moravia. In realtà si tratta pur sempre di eccezioni di fronte alla miriade di libri autoprodotti da illustri sconosciuti ancor prima dell’avvento dell’editoria digitale. Si ignora che la storia della letteratura è anche la storia del rapporto (intimo e spesso conflittuale) tra autore ed editore. Dice lo scrittore Paolo Di Stefano, che ha anche un’esperienza di editor: «Senza il filtro selettivo dell’editore, avremmo una marea indistinta di ego-libri fluttuanti nella bibliosfera, la cui unica possibilità di rendersi visibili starebbe nella capacità dell’autore di promuoversi, di trasformarsi in soggetto-marketing (di se stesso)». Per partire bene, gli autori, affidandosi o meno ad agenti letterari, avranno sempre bisogno di rivolgersi ad un editore, alla sua organizzazione redazionale, promozionale, pubblicitaria e commerciale. Tre sono i passi da compiere per un autore indipendente: scrivere un buon libro, pubblicare rispettando gli standard professionali e usufruire di un adeguato mandatario che solo un’impresa editoriale può assicurargli. 155

Scrive Francesco M. Cataluccio, già direttore delle case editrici Bruno Mondadori e Bollati Boringhieri: «Gli editori saranno sempre necessari, anche in assenza di libri di carta. La loro fondamentale funzione di scoperta, scelta, sollecitazione, azzardo, consiglio, correzione, sarà ancora essenziale per produrre buone opere, per tramandare, rinnovandola, la tradizione e allargare l’orizzonte culturale [...]. L’editore e il suo editor, saranno le figure che renderanno possibile e garantiranno la qualità dell’opera letteraria o saggistica»7. Nel mondo digitale, la funzione di mandatario, di mediatore culturale o meno, tipica dell’editore, non solo non scompare, ma viene esaltata. «Pensare che possano esistere libri, di carta o elettronici, senza editori, è una ricorrente puerilità, una colossale sciocchezza8. Nella lavorazione tradizionale, il libro di carta, stampato, copertinato e rilegato, costituisce una cristallizzazione del lavoro dell’autore, che si può modificare solo nell’eventualità di una o più edizioni. L’avvento dell’ebook cambia la natura stessa della comunicazione scritta che per millenni è stata immobile, fissata sulla pagina, e che ora diventa aggiungibile, modificabile, interattiva. La rivoluzione sarà epocale. Cataluccio: «Il libro elettronico è un manufatto rivoluzionario perché il suo testo può essere sempre ritoccato e cambiato, sottoposto a un numero infinito di passaggi, di revisione e correzione. Per i libri stampati nel passato, che verranno digitalizzati, si tratterà soltanto della possibilità di correggere i refusi e di inserire eventuali aggiornamenti bibliografici. Ma per i libri futuri, almeno fino a quando saranno vivi gli autori, sarà possibile intervenire per trasformarli in continuazione, anche radicalmente, in pratica senza costi. Muterà quindi, sta già mutando, la natura stessa del libro. Il libro cartaceo è un’opera chiusa, quello elettronico è aperta e modificabile»9. L’ebook è la nuova frontiera Francesco M. Cataluccio, Che fine faranno i libri?, Nottetempo, Roma, 2010, pp. 14-16. 8 Gian Arturo Ferrari, op. cit., p. 204. 9 Francesco M. Cataluccio, op. cit., p. 32. 7

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dell’editoria, tutta la filiera editoriale sta cercando di cambiare i propri connotati e di ridefinire il ruolo dell’autore e dell’editore. Internet, computer, ebook, ereader, tablet, stanno dando un impulso potente, fino a pochi anni fa inimmaginabile, alla Conoscenza come bene comune disponibile per tutti gli esseri umani, al pari dell’aria o dell’acqua, titolo e argomento del volume di Charlotte Hess e Elinor Ostrom, vincitrice, quest’ultima, del premio Nobel per l’economia nel 2009. Detto tutto questo, dobbiamo renderci conto che siamo ancora nell’infanzia dell’era digitale, una rivoluzione che però non segnerà la rapida fine del libro di carta in favore del libro da leggere su uno schermo elettronico. L’uno e l’altro sono destinati a convivere, anzi, a integrarsi, su un mercato parallelo e con reciproco vantaggio, per chi sa quanto tempo. Un’alleanza vincente secondo i principi della democratizzazione del sapere. Nota Darnton: «Si sente spesso parlare della estinzione del libro a stampa, e io sono invitato a una quantità di conferenze sulla “morte del libro” tale da far sospettare che sia vivo, eccome». Parallelamente all’affermarsi dell’ebook e dell’ereader, «si stampano sempre più libri: a livello mondiale presto arriveremo a un milione di nuovi titoli all’anno»10. Fra cartaceo ed elettronico, il libro sta vivendo una nuova, più democratica vita. E sarà proprio l’ebook a farcelo apprezzare di più. Non sperate di liberarvi dei libri, è il titolo significativo del volume (edito da Bompiani nel 2009) che riporta una lunga conversazione di Umberto Eco e Jean-Claude Carrière sull’argomento. È però in atto il declino, se non la scomparsa, di manuali, enciclopedie, dizionari tradizionali, a fronte della facile e rapida consultabilità attraverso internet. Una comodità enorme, inimmaginabile fino a pochi anni. L’esempio più rilevante ci viene dalla Encyclopaedia Britannica (prima edizione 1768) che non è più pubblicata nella sua forma cartacea di trentadue volumi per uscire soltanto in formato digitale con aggiornamenti in tempo reale. Lo 10

Robert Darnton, op. cit., p. 245.

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stesso accade ai venti volumi dell’Oxford English Dictionary. La maggiore enciclopedia italiana, la celebre Treccani, è ormai consultabile su internet, e così anche le sue 127 mila voci del vocabolario e le 25 mila del dizionario biografico. Nel 2010 Zanichelli aveva già digitalizzato quasi tutti i suoi dizionari costituendo la banca dati linguistica più grande del mondo. Le nuove tecnologie digitali stanno rivoluzionando anche la didattica. L’uso dell’ebook nella scuola è appena cominciato. Non è azzardato pensare nei prossimi decenni a un vero e proprio boom dell’alfabetizzazione, dell’istruzione e, come loro mezzo elettivo, dell’ebook. Poco meno della metà della popolazione mondiale non ha mai avuto contatto con alcun libro, neppure in un’edizione per la prima scuola elementare. «Se l’ebook avrà una gloria, e può averla, sarà quella di diventare il più efficace strumento di emancipazione dall’ignoranza, di liberazione delle potenzialità umane che la storia abbia conosciuto»11. I veri “nativi digitali” non saranno i figli delle società affluenti dell’Occidente, svezzati tra gli ultimi gingilli dell’industria elettronica, «ma i figli dei poveri e dei dannati della terra. Quelli che attraverso l’ebook e solo attraverso l’ebook varcheranno per la prima volta l’invisibile frontiera, si alfabetizzeranno e potranno da lì iniziare il loro viaggio non solo verso migliori condizioni di vita ma verso quella superiore forma di umanità che chiamiamo cultura. Al centro della quale – mascherato, trasformato, irriconoscibile, ma vitalissimo – resterà ancora lui, il libro»12. Resta il fatto che ebook ed ereader non avranno mai il fascino, anche sensoriale, della carta stampata. Eco osserva che «il libro appartiene a quei miracoli di una tecnologia eterna di cui fanno parte la ruota, il coltello, il cucchiaio, il martello, la pentola, la bicicletta. Che bello un libro, che è stato pensato per essere preso in mano anche a letto, anche in barca, anche là dove non ci sono spine elettriche, anche dove e quando qualsiasi batteria si è 11

12

Gian Arturo Ferrari, op. cit., p. 199. Ibidem.

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scaricata, e sopporta segnacci e orecchie, può essere lasciato cadere per terra o abbandonato sul petto o sulle ginocchia quando ci prende il sonno, sta in tasca, si sciupa, registra l’intensità, l’assiduità o la regolarità delle nostre letture»13. Un’invenzione perfetta, fatta con la carta che resta ancora la materia prima grazie alla quale si conserva gran parte della memoria e della cultura dell’umanità. A differenza dall’ebook, il libro non richiede alcun software per essere letto, ma usa come software i nostri occhi che sono di una tecnologia insuperata. D’altra parte, «quel che ci insegna l’esperienza di questi anni è che la digitalizzazione libraria è un’ impresa costosa, complessa, per molti versi controversa, ma preziosa e necessaria: portare in rete il nostro patrimonio librario vuol dire garantirne vitalità e fruizione anche nell’era digitale, allargarne la reperibilità, renderlo (per la prima volta) pienamente integrato e ricercabile»14. Ma c’è un grande problema da considerare: quello della conservazione. È preoccupante la rapida obsolescenza, dovuta all’incessante evoluzione tecnologica, dei materiali di registrazione in digitale dei testi e dei loro strumenti di lettura elettronici. Si è visto che supporti come nastri magnetici audio e video, schede di memoria, floppy disk e cd-rom hanno avuto vita relativamente breve, fra i cinque e vent’anni. (Lo stesso è accaduto alle pellicole cinematografiche e ai microfilm). Inoltre ci scontriamo con la difficoltà di mantenere in efficienza quegli strumenti, ormai superati e fuori produzione, che sono gli unici in grado di leggere quel che resta di supporti di scrittura non compatibili con i dispositivi delle ultime generazioni. Tutto ciò mette in evidenza la fondamentale fragilità, oggi come ieri, insita nei nostri strumenti di memoria e di cultura e delle tecnologie che li sostengono. Il mondo digitale è ancora troppo giovane per offrire garanzie assolute di conservazione a 203.

13 14

Umberto Eco, Riflessioni sulla bibliofilia, Rovello, Milano, 2001, p. 31. Gino Roncaglia, La quarta rivoluzione, Laterza, Roma-Bari, 2010, p.

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lungo periodo. Si ritiene che gli attuali dischetti cd e dvd possano durare, secondo la qualità dei materiali usati, dai venti ai cento anni, ma nessuno ha idee chiare in proposito. È stato messo in vendita l’M-Disk, il primo dvd “indistruttibile”, in grado, assicura il produttore, di conservare i propri dati per almeno un secolo. Ma chi ci garantisce che fra trenta o quarant’anni ci sarà ancora un ereader (o simile) in grado, appunto, di farcelo leggere? Oggi è tecnicamente possibile realizzare un dischetto “superdvd” con un contenuto informatico di un milione di gigabyte ad alta definizione (gli attuali non raggiungono i cinque megabyte in definizione standard) in grado di memorizzare molte migliaia di libri o non meno di cinquantamila film. La dimostrazione è venuta da un gruppo di ricercatori del centro per la microfotonica della Swimburne University di Melbourne, in Australia. Ma la sua entrata in uso è ancora al di là da venire perché occorrerebbero dispositivi del tutto diversi dagli attuali, più potenti, con connessioni molto più veloci, nuovi software di lettura dati, oltre all’utilità di produrre il dischetto con un materiale che lo renda durevole per un centinaio o più di anni. Un problema non da poco per chi è abituato alla concreta, tangibile affidabilità dei libri su carta. È da escludere che uno degli attuali ebook si manterrà valido per una durata paragonabile a quella di un libro stampato nel XV secolo e ancora splendidamente leggibile. Questo sopravvive da oltre cinquecento anni, quello invecchia in un paio di decenni. «I librai antiquari trattano oggetti che durano da cinquecento anni, e spesso in ottimo stato. Sarà altrettanto vegeto fra cinquecento anni uno degli attuali iPod?», si chiede Eco. D’altra parte non esiste al mondo una memoria di durata illimitata, nemmeno nei supporti mnemonici di internet, normali dischi fissi destinati a esaurirsi per essere sostituiti in modo automatico da altri. È noto che col tempo i bit si degradano, che hardware e software di estinguono a un ritmo allarmante. Gli ebook potrebbero andare smarriti nel cyberspazio a causa dell’obsolescenza del formato in cui sono codificati. Tutti i testi digitalizza160

ti, e quelli “nati digitali” in particolare, rischiano di scomparire se non sarà risolto il problema della loro sopravvivenza elettronica. Per conservare il più a lungo possibile gli ebook (oltre che documenti e video in formato digitale) ci si sta attrezzando con hard disk esterni, “nuvole” del web, dvd resistentissimi, archivi elettronici assemblati da volontari, metodiche di unificazione, in un incessante rincorrere gli aggiornamenti tecnologici. La digitalizzazione libraria comporta dunque, inevitabilmente, un lavoro continuo nel quale gli stessi testi saranno probabilmente digitalizzati più volte. C’è, in prospettiva, un procedimento che sembra ottimale, risolutivo: trascrivere il testo di tutti i libri che si vogliono traducendolo, invece che su cip di silicio, nel linguaggio fatto di solo quattro lettere del Dna, sintetizzarne le molecole per poi convertirle in bit digitali e infine in ebook. Oggi per scrivere un testo elettronico si organizzano in un cip di silicio sequenze di “zero” e “1”. Nel Dna si manipolano invece le quattro lettere del suo codice A, C, G, T così che il testo si trasforma in una stringa di basi genetiche poi lette da un sistema laser e i cui dati vengono trasmessi e riconvertiti nel testo originale. È un passo importante verso il computer in grado di elaborare e contenere una quantità di informazioni enormemente più grande rispetto a oggi. Grazie al supporto biologico costituito dal Dna, i testi non solo vengono compattati all’estremo, ma si conserveranno intatti per molte migliaia di anni, forse fino a quattrocentomila circa, ben oltre l’esistenza dell’uomo sulla Terra. Saranno sufficienti pochi miliardesimi di milligrammi di Dna per salvare definitivamente un libro e pochi milligrammi per milioni e milioni di libri, ben oltre la più grande delle attuali biblioteche. La tecnica del Dna-book è stata ideata e sperimentata con successo nel 2012 dal genetista George Church con il suo gruppo dell’Harvard Medical School, Stati Uniti, e replicata dal suo collega Nick Goldam nel laboratorio dell’European Bioinformatics Institute di Hixon, Inghilterra, che in un campione di Dna ha memorizzato i 161

Sonetti di Shakespeare. Ma è ancora troppo presto per prevedere se e quando questa tecnica che ha del prodigioso potrà avere applicazione pratica. «La conservazione a lungo termine delle opere digitali è una delle sfide più grandi del nostro tempo, ma è un processo costoso, più della digitalizzazione stessa», dice Bruno Racine. «Per questo è fonte di preoccupazione delle biblioteche nazionali che stanno digitalizzando le loro opere. Si arriva addirittura, paradossalmente, a fare una copia stampata di ciò che è stato digitalizzato, per maggiore sicurezza»15. Un libro è un libro al di là del suo supporto di lettura. Qualunque sia la forma che assumerà in futuro, il libro resta, per definizione, il prolungamento dell’intelletto di chi desidera comunicare stabilmente il proprio pensiero a grandi distanze e nel tempo a venire. Il libro continuerà a essere l’estensione infinita della memoria umana.

15

«Corriere della Sera», 3 giugno 2011.

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APPENDICE

Il vecchio libro meglio del tablet

Sorpresa, i nativi digitali preferiscono leggere e studiare sul libro di testo tradizionale, ovvero sul vecchio volume a stampa, quello inventato cinque secoli fa da Gutenberg e Manuzio, piuttosto che avere a che fare con lo schermo di un computer. I cosiddetti «Millennials» [i nati fra il 1980 e il 2000, ndr] non resistono al fascino dell’odore della carta e del fruscio dei fogli, non vogliono rinunciare alla possibilità di sottolineare e di scarabocchiare a margine né al piacere di fare le orecchie alle pagine. Amano persino le macchie di caffè sul bianco della carta. È il risultato di un sondaggio condotto presso librerie e studenti dalla linguista Naomi S. Baron, della American University di Washington, autrice di un recente libro sul destino della lettura nell’era digitale (Words Onscreen). Un altro dato che sorprende è quello emerso in settembre da una ricerca del Washington Post, secondo cui soltanto il nove per cento degli studenti universitari americani si affida agli ebook. Si aggiunga, come ha rivelato domenica lo stesso quotidiano in un ampio servizio di Michael S. Rosenwald, che un quarto degli studenti preferisce sborsare decine di dollari per libri di carta (nuovi o usati) la cui versione digitale sarebbe gratuita. Se fossero cinquantenni, sarebbero bollati come ottusi nostalgici. Invece no, niente struggimenti malinconici, solo la constatazione che la carta è meglio, per varie ragioni: pratiche, fisicotattili e probabilmente tecnico-mnemoniche, poco importa se i libri pesano negli zaini. In lunghi anni di indagini sull’argomento, la Baron ha chiesto ai giovani quali fossero gli aspetti meno gradevoli della lettura su carta. La risposta ricorrente (e la più interessante)? Eccola: 165

«L’aspetto sgradevole è che ci vuole più tempo, perché si legge con più attenzione». È questo il punto. «Non riesco a studiare Tocqueville sul tablet», ha detto alla Baron uno studente di Scienze politiche. Solo il sedici per cento legge un testo parola per parola sullo schermo: la stragrande maggioranza si sofferma su una pagina digitale poco più di un minuto. Un’indagine dell’università norvegese di Stavanger, qualche mese fa, ha fatto il giro del mondo: affidando la lettura dello stesso racconto a due gruppi di ragazzi, su carta agli uni e su Kindle agli altri, si è scoperto che la memorizzazione è nettamente superiore per i primi. Del resto, già nel 2008 la neuroscienziata Maryanne Wolf, nel suo studio Proust e il calamaro, aveva sottolineato il pericolo, per i nativi digitali, di perdere la capacità di una «lettura profonda». Ora, è ovvio che il «ritorno» delle giovani generazioni al cartaceo si presta a molte riflessioni. E magari suggerisce se non proprio il dietrofront precipitoso dei più entusiasti ipermodernisti, almeno qualche cautela, se è vero che anche Don Kilburn, il presidente americano della Pearson (leader mondiale dell’editoria scolastica e universitaria), sostiene che il passaggio al digitale non è propriamente una rivoluzione ma un’evoluzione ancora indecifrabile. Forse spingere gli studenti, sin dalle prime classi scolastiche, verso l’ebook è una delle tante forme d’irresponsabilità adolescenziale degli adulti (educatori e istituzioni). I ragazzi ce lo dicono a modo loro imparando ad annusare la carta e a fare le orecchie alle pagine. Paolo Di Stefano «Corriere della Sera», 25 febbraio 2015

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Si può restituire un ebook?

Quando ero ragazzo e vivevo ad Alessandria, andavo spesso nella libreria più grande della città. Il libraio si chiamava Cesarino Fissore ed era un uomo molto generoso. Evitava di riprezzare i libri più importanti, i saggi che a noi ragazzi interessavano. E potevamo comprare edizioni importanti di molti editori a prezzi compatibili con le nostre possibilità. Con poco o niente ti portavi a casa autori e titoli che sarebbero entrati nella propria biblioteca, e che ti avrebbero fatto compagnia per anni. Compagnia nel senso che i libri non servono a essere letti. O meglio, il leggerli è una delle cose che si possono fare. I libri alle volte si nascondono per svelarsi al momento giusto. Si leggono in parte, per essere poi ripresi chissà quando, quando meno te lo aspetti. Ti chiamano e ti cercano, ti indicano corto circuiti mentali che hanno tutta una loro storia e una loro logica. Negli anni a seguire accadeva ogni tanto che venisse qualcuno a trovarmi, e sorpreso della quantità di libri che occupavano un’intera casa mi chiedesse se li avevo letti tutti. Rispondevo sempre che me ne mancava uno, ma non riuscivo più a trovarlo. Era un modo scherzoso per far capire che i libri si tengono non solo per leggerli, ma per ritrovarli e riscoprirli, e che il libro più importante è quello che non hai ancora deciso di leggere, quello che nella tua biblioteca è andato a nascondersi da qualche parte. Di recente è partito il servizio Kindle Unlimited di Amazon. Come tutti sanno Kindle è un dispositivo per leggere ebook e Amazon è la più grande libreria del mondo. Se spendi 9,99 euro al mese, in forma di abbonamento, puoi leggere un catalogo sterminato di centinaia di migliaia di titoli. E puoi scaricarne fino a 167

dieci alla volta. Non è prevista una data di restituzione. Puoi tenerli anche un anno, ma se vuoi scaricare l’undicesimo titolo devi renderne almeno uno. Sennò non è possibile. Ora, tutto questo mi fa impressione e mi procura incertezza. Il possesso del libro e il feticismo del libro non hanno a che fare direttamente con la cultura e la conoscenza, ma hanno a che fare con il rapporto che possiamo avere con un’opera d’arte, con un bell’oggetto. Possedere un bel libro, avere tra le mani una cinquecentina, o un incunabolo, è un piacere estetico, fisico, non è un’esigenza intellettuale. Ma il possesso del libro non è solo bibliofilia. È molto più spesso una necessità che obbedisce al tempo. Un libro puoi leggerlo, e puoi aver bisogno di leggerlo ancora, puoi tenerlo sapendo che ti servirà, puoi farlo aspettare. Non ha un tempo di resa. Mi si potrebbe obbiettare che prendere a prestito un libro in biblioteca è esattamente la stessa cosa. Lo leggo e poi lo restituisco. Ma di solito non pago. È un servizio, anche se le biblioteche sono private o fanno parte di università o fondazioni. Con Amazon pago, ricevo, ma non possiedo più quello che leggo. Ha un senso? Per Kindle ha un senso. Per i lettori molto meno. Soprattutto per quelli che hanno bisogno di sapere dove andarlo a trovare un libro, di sapere che esiste. Già il modo di cercare i libri su Amazon ha cambiato la maniera di pensare le librerie e le biblioteche, già il modo di sottolineare e prendere appunti su Kindle è più complesso e meno immediato che farlo sulla carta. Ma avere un abbonamento e rendere un libro è qualcosa di molto ardito. Anche perché si rende qualcosa di elettronico, che non ha una sua fisicità. Non si restituisce qualcosa che si può toccare e che ci si porta dietro. Si rende, paradosso, qualcosa di non restituibile, perché non ha una realtà. Si rende il diritto di lettura, non il corpo del libro. Non si rende il libro, si rende il testo: che è l’unica cosa che dovremmo tenere sempre con noi. E ho paura che rendere i testi sia un modo per dimenticarli molto più facilmente. La lettura 168

diventa un episodio e non un’avventura o un cammino personale. E questo dovrebbe preoccuparci. Perché può farci diventare tutti più poveri di idee. Roberto Cotroneo «Sette», supplemento del «Corriere della Sera», 14 novembre 2014, p. 46

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Elogio della lentezza

[...] Quando abbiamo tempo libero a disposizione, la rete è sempre pronta a rubarcelo con novità da farci leggere, e dopo un’ora o due di navigazione la sensazione comune è di non aver concluso nulla. C’è un modo migliore di impiegare il tempo: leggere per profondo piacere piuttosto che per il veloce diversivo usa e getta che ci propone il web. E, che preferiate leggere un libro di carta o un ebook, esiste un metodo per imparare a leggere meglio: lo Slow Reading, particolarmente importante per noi che viviamo in un’epoca digitale la cui lettura è diventata incostante e spesso superficiale. È infatti un periodo duro per noi lettori, con tutti gli stimoli digitali che ci circondano. Ma attraverso la pratica possiamo imparare, o imparare nuovamente, a immergerci in un libro in modo che riesca a emozionarci [...]. Quando si legge, si deve essere costanti: se ci si distrae ogni dieci minuti per controllare email, non si è in grado di comprendere un libro. La regola più importante di tutte è la pazienza: non abbiate paura di leggere lentamente e con attenzione. Abituatevi al ritmo del libro, al suo particolarissimo passo. Riflettete su quanto avete appena letto e dialogate con ciò che l’autore sta cercando di dirvi, non solo nella vostra mente ma, per esempio, provando a prendere note ai margini [...]. Essere un buon lettore richiede attenzione, pratica e soprattutto tempo, quello necessario per migliorarsi. Una sana lentezza – regalandosi il privilegio di dedicare del tempo alla lettura – aumenterà enormemente il piacere che un libro susciterà in voi. Cosa si sta leggendo conta meno di come lo si fa. Siate pronti a notare i piccoli ma più significativi dettagli nascosti nel testo, per 170

poi arrivare a comprendere il pensiero di fondo dell’autore e la sua visone del mondo. Prima o poi, se vi impegnate nello Slow Reading, vi imbatterete in un libro che vi cambierà la vita. Molti di noi hanno fatto questa esperienza al liceo o all’università. Ma può accadere ancora, se continuiamo a leggere con la rapita attenzione di quando eravamo più giovani [...]. Chi ha più tempo da perdere in un romanzo lungo? Mi viene chiesto più volte. La risposta è semplice. Io ho il tempo, e ce l’ha chiunque decida di averlo. Le ricompense delle grandi letture sono lì, pronte per essere afferrate in ogni istante. David Mikics* «La lettura», supplemento al «Corriere della Sera», 17 maggio 2015, p. 5

© David Mikics, traduzione dall’inglese di Michele Fusilli. David Mikics è l’autore del saggio Slow Reading. Leggere con lentezza nell’epoca della fretta, Garzanti, Milano, 2015. *

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Hanno detto...

Leggere, come io l’intendo, vuol dire profondamente pensare (Vittorio Alfieri). Leggere nuoce gravemente all’ignoranza (Alì, genero di Maometto) Prestai un libro, benché anch’io me ne pento / a uno, e quando ei l’ebbe assai tenuto / ed ei mi disse che me l’avea renduto / onde convenne a me esser contento (Anonimo) Un libro vero non è quello che si legge, ma quello che ci legge (Wystan Hugh Auden) Alcuni libri vanno assaggiati, altri divorati, pochissimi masticati e digeriti (Ruggero Bacone) Non ho amato che i libri, appassionatamente (Honoré de Balzac) Libri e puttane si possono portare a letto (Walter Benjamin) Se non ci fossero i libri, noi saremmo tutti rozzi e ignoranti, senza alcun ricordo del passato, senza alcun esempio; non avremmo conoscenza alcuna delle cose umane e divine (Giovanni Bessarione) Mi sono sempre immaginato il paradiso come una specie di biblioteca (Jorge Luis Borges) Per distruggere una civiltà non c’è bisogno di bruciare i libri, basta creare una società dove nessuno legge (Ray Bradbury) Ci sono crimini peggiori del bruciare libri. Uno di questi è non leggerli (Josif Brodskij) Vivere nel mondo senza avere consapevolezza del suo significato è come vagabondare in una immensa biblioteca senza toccare un libro (Dan Brown) 173

Quando una lettura eleva il vostro spirito e vi ispira sentimenti nobili e coraggiosi, non cercate nessun’altra regola per giudicare il libro: è un buon libro, e fatto da un artista (Jean La Bruyère) Guardati dall’uomo di un solo libro (Tommaso d’Aquino) Il destino di molti uomini dipese dall’esserci o non esserci stata una biblioteca nella loro casa paterna (Edmondo De Amicis) L’amore per i libri è l’amore stesso per la saggezza (Richard de Bury) Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che deve dire (Italo Calvino) Quanti libri tiene il mondo / non saziâr l’appetito mio profondo / quanto ho mangiato! e del digiun pur moro (Tommaso Campanella) Nei libri che ricordiamo c’è tutta la sostanza di quelli che abbiamo dimenticato (Elias Canetti) Nei libri vive l’anima di tutto il passato, l’articolata percettibile voce del passato, quando ciò che fu, per così dire, il suo corpo e la sua sostanza materiale è, come un sogno, interamente svanita (Thomas Carlyle) Non avrai mai freddo in seno alla tua biblioteca. Eccoti protetto, almeno dai pericoli dell’ignoranza (Jean-Claude Carrière) La maggior parte dei libri di adesso sembra fatta in un giorno con libri letti il giorno prima (Nicolas de Chamfort) Se accanto alla biblioteca hai un giardino, nulla ti mancherà (Marco Tullio Cicerone) Se vogliamo conoscere il senso dell’esistenza, dobbiamo aprire un libro: là in fondo, nell’angolo più oscuro del capitolo, c’è una frase scritta apposta per noi (Pietro Citati) Di tutte le creazioni dell’uomo, i libri sono le più vicine a noi, perché contengono i nostri più veri pensieri, le vere ambizioni, le illusioni, la fedeltà al vero (Joseph Conrad) I libri si tengono non solo per leggerli, ma per ritrovarli e riscoprirli (Roberto Cotroneo) 174

Quanta gente, sulla cui biblioteca si potrebbe scrivere “per uso esterno”, come sulle parafe di farmacia! (Alphonse Daudet) La lettura di tutti i buoni libri è come una conversazione con gli uomini migliori dei secoli andati (René Descartes) Non vi sono libri cattivi per gli uomini di buon senso, nello stesso modo che non vi è alcun libro buono per gli imbecilli (Denis Diderot) Nei morti sempre leggevo qualche cosa nuova, e nei vivi udivo replicar mille volte mille cose vecchie (Anton Francesco Doni) Non scrivo mai il mio nome sui libri che compro se non dopo averli letti, perché allora soltanto posso dirli miei (Carlo Dossi) Una biblioteca raccoglie i libri che abbiamo letto o che possiamo leggere. O che potremmo leggere. Anche se poi non li leggeremo mai (Umberto Eco) I libri sono gli amici più tranquilli e costanti, gli insegnanti più pazienti (Charles William Eliot) Non leggere mai un libro che non sia vecchio di un anno (Ralph Emerson) Quanto più si allarga la nostra conoscenza dei buoni libri, tanto più si restringe la cerchia degli uomini la cui compagnia ci è gradita (Ludwig Feuerbach) La bellezza del libro come oggetto non può prescindere al suo contenuto. Non c’è infatti sopruso maggiore di un libro stupido rilegato lussuosamente (Ennio Flaiano) Non leggete, come fanno i bambini, per divertirvi o, come gli ambiziosi, per istruirvi. No, leggete per vivere (Gustave Flaubert) Perch’io cultor di pochi libri vivo (Ugo Foscolo) Un dizionario è l’universo per ordine alfabetico; è il libro per eccellenza: tutti gli altri vi sono già dentro, basta tirarli fuori (Anatole France) 175

La cultura ha guadagnato soprattutto da quei libri per cui gli editori hanno perso (Thomas Fuller) I libri non sostituiscono la vita, ma neppure la vita sostituisce i libri (Joan Fuster) Questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo) è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile intenderne umanamente parola (Galileo Galilei) Il fare un libro è meno che niente/ se il libro fatto non rifà la gente (Giuseppe Giusti) Ogni libro è un capitale che silenziosamente ci dorme accanto, ma che produce interessi incalcolabili (Wolfgang Goethe) Dai genitori impari come mettere un piede dopo l’altro. Ma quando apri un libro, scopri di avere le ali (Helen Hayes) Dove si bruciano i libri si finisce col bruciare anche gli uomini (Heinrich Heine) Non c’è nessun amico più leale di un libro (Ernst Hemingway) I libri devono essere l’ascia per rompere il mare ghiacciato dentro di noi (Franz Kafka) Dappertutto cercai pace: non la trovai che appartandomi con un libro (Tommaso da Kempis) I libri si offendono quando vengono dati in prestito, per questo spesso non ritornano (Oskar Kokoschka) I libri pensano per me (Charles Lamb) La biblioteca ci permette di conversare con i morti, con gli assenti, con quelli che non sono mai nati, al di là del tempo e dello spazio (Abramo Lincoln) Contro i libri si sono accanite tutte le forme di stato e di religione, ma questo odio non è niente in confronto a quanto sono stati amati (Federico García Lorca) 176

(Leggendo i classici) non sento per quattro hora di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottiscie la morte (Niccolò Machiavelli) Il mondo è fatto per finire in un bel libro (Stéphane Mallarmé) Trovo che la televisione sia molto educativa. Ogni volta che qualcuno l’accende, vado in un’altra stanza a leggere un libro (Groucho Marx) Non ho mai avuto un dolore che un’ora di lettura non abbia dissipato (Guy de Maupassant) Sebbene gli editori proclamino di essere sempre alla ricerca di scrittori originali, niente potrebbe essere più lontano dal vero. Ciò che essi vogliono davvero è roba sempre eguale, solo leggermente camuffata. Ciò che il pubblico vuole nessuno lo sa. Nemmeno gli editori (Henry Miller) Chi uccide un uomo uccide una creatura razionale, immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro, uccide la ragione stessa (John Milton) Non viaggio senza libri né in pace né in guerra. È il miglior viatico che io abbia trovato in questo viaggio umano (Michel De Montaigne) Lo studio è stato per me il rimedio principale contro i travagli della vita; non avendo io mai avuto un dispiacere che non mi sia passato dopo un’ora di lettura (Charles Louis Montesquieu) L’innocente e deliziosa febbre del bibliofilo è, nel bibliomane, una malattia acuta fino al delirio. Dal sublime al ridicolo, non vi è che un passo (Charles Nodier) Chi accumula libri accumula desideri; e chi ha molti desideri è molto giovane, anche a ottant’anni (Ugo Ojetti) Nel tempo che mi resta, se per grazia di Dio ancora me ne resta: una buona scorta di libri (Orazio Flacco) I libri migliori sono proprio quelli che ci dicono ciò che già sappiamo (George Orwell) 177

I libri sono dei rifugi, una sorta di chiostro protetto dalle volgarità del mondo (Walter Pater) Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma (Cesare Pavese) L’uomo costruisce case perché è vivo, ma scrive libri perché si sa mortale (Daniel Pennac)

I libri condussero alcuni alla sapienza, altri alla pazzia (Francesco Petrarca)

Non siamo noi che leggiamo i libri. No, sono i libri che leggono noi. Ci conoscono, anche se sono stati scritti cent’anni fa. Ci scrutano dentro. Ci rivelano (Beniamino Placido) Non c’è libro tanto brutto che non giovi in qualche cosa (Plinio il Vecchio)

L’enorme moltiplicarsi dei libri è uno dei peggiori flagelli della nostra epoca (Edgar Allan Poe)

Dobbiamo difendere la lettura come esperienza che non coltiva l’ideale della rapidità, ma della ricchezza, della profondità, della durata (Giuseppe Pontiggia)

Quel che c’è di terribile nella parola scritta, Fedro, è la sua somiglianza con la pittura: i prodotti di questa, infatti, non si presentano forse come esseri vivi, per poi tacere maestosamente quando li si interroga? (Platone)

L’incontro casuale di un buon libro può cambiare il destino di un’anima (Marcel Prévost)

Non esistono forse giorni della nostra infanzia che abbiamo vissuti intensamente quanto quelli trascorsi in compagnia di un libro molto caro (Marcel Proust)

Sono qui seduto e leggo un poeta. Nella sala ci sono molte persone, ma non si fanno sentire. Qualche volta si muovono tra un foglio e l’altro, come uomini che si rivoltano nel sonno, tra un 178

sogno e l’altro. Come si sta bene in mezzo agli uomini quando leggono (Rainer Maria Rilke) Tutti sappiamo che i libri bruciano, ma sappiamo anche che i libri non possono essere uccisi dal fuoco. Gli uomini muoiono, i libri non muoiono mai (Franklin Delano Roosevelt)

A che di libri più crescer lo stuolo? / Purché insegnasse a vivere e morire / sorverchierebbe al mondo un libro solo (Salvator Rosa) Ammiro il libro che mi obbliga a leggerlo (Jean Rostand)

Troppe letture servono solo a creare ignoranti presuntuosi (Jean-Jacques Rousseau)

Se un libro cade, lo raccolgo come fosse fatto di pane. Un cibo elementare per sfamare il mondo (Roberto Roversi)

I libri si dividono in due categorie: i libri per adesso e i libri per sempre (John Ruskin)

Ho cercato il riposo da per tutto, e l’ho trovato solo in un cantuccio con un piccolo libro (Francesco di Sales)

Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle (Jerome David Salinger)

Un libro, anche uno solo, è capace di sconvolgere la vita di un uomo (Arthur Schopenhauer)

Il nome di uno scrittore, il titolo di un libro possono, a volte e per alcuni, suonare come quello di una patria (Leonardo Sciascia)

Troppi libri sono dispersivi: dal momento che non puoi leggere tutti i volumi che potresti avere, basta possedere quanti puoi leggere (Lucio Anneo Seneca)

La verità perfetta, l’amore e la bellezza, l’umanità le ho conosciute solo nei libri (George Bernard Shaw)

I libri migliori sono quelli che ci consentono di leggere ciò che sta scritto in noi stessi (Giovanni Soriano) 179

Leggere è vedere per procura (Stephen Spender)

I libri sono abbastanza buoni in sé, ma un ben pallido sostituto della vita (Robert Louis Stevenson) Leggi per primi i libri migliori: potresti non avere l’occasione di leggerli tutti (Henry David Thoreau) Se trovi un libro sulla scrivania / puoi leggerlo e studiarlo fin che vuoi / ma mi secca moltissimo se poi / lo metti in tasca e te lo porti via (Trilussa) I libri che scrivo sono come acqua; quelli dei grandi geni come vino. Ma l’acqua la bevono tutti (Mark Twain) I libri hanno gli stessi nemici che l’uomo: il fuoco, l’umido, le bestie, il tempo e il loro stesso contenuto (Paul Valéry) Felici fien quelli che presteranno orecchi alle parole dei morti: leggere le buone opere e osservarle (Leonardo da Vinci) Non esistono libri morali o immorali. I libri o sono scritti bene o sono scritti male. Questo è tutto (Oscar Wilde) Fondare biblioteche è come costruire granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito (Marguerite Yourcenar) I libri sono specchi: riflettono ciò che abbiamo dentro (Carlos Maometto Zafon) La vera letteratura non viene creata da diligenti e affidabili impiegati, ma da pazzi, eremiti, eretici, sognatori, ribelli e scettici (Evgeny Zamyatin)

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Bibliografia degli autori citati nel testo

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Indice

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I libri e io

La prima epopea Volumina Case della saggezza I grandi cacciatori Al rogo All’Indice Bibliofilia/Bibliomania Per il libro e per la patria La rivoluzione dell’ebook

APPENDICE

Il vecchio libro meglio del tablet Si può restituire un ebook? Elogio della lentezza Hanno detto...

Bibliografia degli autori citati nel testo

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