Seneca fu un miscuglio di idealità e di realismo. Affascinato dalla morale stoica, la piegò alle esigenze della vita pra
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Italian Pages 2222 Year 2015
Table of contents :
Indice......Page 2219
Frontespizio......Page 5
Introduzione generale......Page 6
Bibliografia......Page 11
Nota alle traduzioni......Page 18
Dialoghi......Page 20
Premessa......Page 21
Consolatio ad Marciam......Page 26
Consolazione a Marcia......Page 45
Liber primus......Page 71
Liber secundus......Page 83
Liber tertius......Page 101
L’arte di non adirarsi......Page 124
Libro primo......Page 125
Libro secondo......Page 142
Libro terzo......Page 165
Consolatio ad Helviam matrem......Page 197
Consolazione alla madre Elvia......Page 212
Consolatio ad Polybium......Page 233
Consolazione a Polibio......Page 246
De brevitate vitae......Page 262
Come vivere a lungo......Page 276
De constantia sapientis......Page 296
La fermezza del saggio......Page 308
De vita beata......Page 326
La felicità......Page 342
De tranquillitate animi......Page 366
La serenità......Page 383
De otio......Page 409
L’ozio o della contemplazione......Page 414
De providentia......Page 422
La provvidenza......Page 431
Lettere a Lucilio e altre opere......Page 445
Liber primus......Page 446
Liber secundus......Page 460
Liber tertius......Page 474
Liber quartus......Page 486
Liber quintus......Page 498
Liber sextus......Page 512
Liber septimus......Page 527
Liber octavus......Page 543
Liber nonus......Page 558
Liber decimus......Page 574
Liber undecimus......Page 585
Liber quartus decimus......Page 605
Liber quintus decimus......Page 623
Liber sextus decimus......Page 643
Liber septimus decimus......Page 653
Liber undevicensimus......Page 675
Liber vicensimus......Page 694
Lettere a Lucilio......Page 711
Libro primo......Page 712
Libro secondo......Page 731
Libro terzo......Page 750
Libro quarto......Page 766
Libro quinto......Page 782
Libro sesto......Page 800
Libro settimo......Page 819
Libro ottavo......Page 838
Libro nono......Page 857
Libro decimo......Page 876
Libro undicesimo......Page 890
Libro quattordicesimo......Page 914
Libro quindicesimo......Page 936
Libro sedicesimo......Page 960
Libro diciassettesimo......Page 973
Libro diciannovesimo......Page 999
Libro ventesimo......Page 1022
Apokolokyntosis......Page 1043
Apocolocintosi......Page 1052
Prooemium......Page 1064
Pars prima......Page 1065
Pars secunda......Page 1066
Pars tertia......Page 1069
La clemenza......Page 1083
Proemio......Page 1084
Parte prima......Page 1087
Parte seconda......Page 1088
Parte terza......Page 1091
Liber primus......Page 1109
Liber secundus......Page 1118
Liber tertius......Page 1133
Liber quartus......Page 1149
Liber quintus......Page 1167
Liber sextus......Page 1182
Liber septimus......Page 1200
I benefìci......Page 1215
Libro primo......Page 1216
Libro secondo......Page 1229
Libro terzo......Page 1249
Libro quarto......Page 1270
Libro quinto......Page 1293
Libro sesto......Page 1312
Libro settimo......Page 1336
Liber primus......Page 1355
Liber secundus......Page 1373
Liber tertius......Page 1393
Liber quartus......Page 1412
Liber quintus......Page 1425
Liber sextus......Page 1434
Liber septimus......Page 1452
Questioni naturali......Page 1467
Libro primo......Page 1468
Libro secondo......Page 1491
Libro terzo......Page 1516
Libro quarto......Page 1540
Libro quarto B......Page 1550
Libro quinto......Page 1557
Libro sesto......Page 1569
Libro settimo......Page 1592
De matrimonio......Page 1611
Libro primo......Page 1617
Tragedie......Page 1625
Introduzione......Page 1626
Hercules furens......Page 1648
Ercole furioso......Page 1682
Troades......Page 1714
Troiane......Page 1744
Phoenissae......Page 1773
Le Fenicie ⠀漀 䰀愀 吀攀戀愀椀搀攀)......Page 1790
Medea......Page 1806
Medea......Page 1832
Phaedra......Page 1856
Fedra......Page 1888
Oedipus......Page 1916
Edipo......Page 1943
Agamemnon......Page 1968
Agamennone......Page 1994
Thyestes......Page 2019
Tieste......Page 2048
Hercules Oetaeus......Page 2074
Ercole sull’Eta......Page 2123
Octavia......Page 2168
Ottavia......Page 2194
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Titoli originali: Dialogi (Consolatio ad Marciam, De ira, Consolatio ad Helviam matrem, Consolatio ad Polybium, De brevitate vitae, De constantia sapientis, De vita beata, De tranquillitate animi, De otio, De providentia), Epistulae morales, Apokolokyntosis, De clementia, De beneficiis, Naturales quaestiones, De matrimonio: traduzione di Mario Scaffidi Abbate Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus, Octavia: traduzione di Ettore Paratore Prima edizione ebook: maggio 2015 © 2015 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-5964-8 www.newtoncompton.com
Lucio Anneo Seneca
Tutte le opere Dialoghi, Lettere a Lucilio, Apocolocintosi, La clemenza, I benefìci, Questioni naturali, Sul matrimonio Cura e traduzione di Mario Scaffidi Abbate
Tragedie Cura e traduzione di Ettore Paratore
Edizioni integrali con testo latino a fronte
Newton Compton editori
Introduzione generale
Seneca fu un miscuglio d’idealità e di realismo. Affascinato dalla morale stoica, la piegò alle esigenze della vita pratica, anche se in un primo tempo visse quasi da asceta, attenendosi, sotto l’influsso della dottrina pitagorica, a un regime vegetariano, da cui lo distolsero il padre e il timore di poter essere confuso con gli ebrei quando Tiberio prese a perseguitarne certe sette che si astenevano appunto dalla carne. Si tenne però sempre lontano dal vino e da cibi come i funghi e le ostriche, che considerava uno stimolo all’intemperanza, un «invito a mangiare ancora quando si è già sazi» (Epist. ad Luc., 108, 15 ss.). Disdegnava i profumi perché, diceva, «il miglior profumo è il non averne alcuno», e riteneva una «cosa inutile e segno di ricercatezza cuocere il corpo e stancarlo col sudore» nelle terme: Omnis sudor per laborem exeat: «il sudore esca solo con la fatica», cioè in modo naturale (op. cit.). Se non fu un oceano di difetti, com’egli stesso si definisce (De vita beata, XVI, 4), certamente ne ebbe molti, e molte furono le sue contraddizioni: si faceva l’esame di coscienza ogni sera (De ira, III, 36), mettendo a nudo i suoi peccati, e si esibiva come esempio insuperabile di vita (Giusto Lipsio ha raccolto dalle sue opere tutti i passi in cui loda se stesso, facendo di lui un modello di eroismo, Diderot ne ha esaltato il carattere morale in Essai sur le règne de Claude et de Néron, Opere, vol. III). Voleva essere un santo, ma in vetrina, esposto all’ammirazione e agli applausi di tutti. Un guazzabuglio, per dirla col Manzoni. Rimproverava il lusso, e possedeva cinquecento tripodi di cedro con i piedi d’avorio, biasimava gli adulatori, e di Nerone diceva che «poteva vantare una virtù che non aveva avuto alcun altro imperatore, cioè l’innocenza», e che «oscurava persino i tempi di Augusto» (De clementia, I, 1). Precettore e consigliere di Nerone pur in mezzo a tante nefandezze, a tante stragi, non lo abbandonò neppure dopo il matricidio compiuto da lui. (Tacito dice che accondiscese all’uccisione di Agrippina perché diversamente sarebbe morto Nerone.) Cassio Dione, che pure lo elogia, gli rimprovera quelle complicità. Il Cantù non gli perdona soprattutto di avere «vilmente oltraggiato morto colui che vilmente avea esaltato vivo», descrivendone la «metamorfosi in zucca» nell’Apokolokyntosis. «Bassezze», commenta. Certo i tempi e le circostanze non favorirono Seneca nell’attuazione dei suoi ideali, anzi lo contrastarono, sicché sotto quel peso «cadde lo spirto anelo», piegandosi a un encomio servile. Video meliora proboque, deteriora sequor: «Conosco il meglio ed al peggior m’appiglio», come traduce Foscolo, il quale, a questo proposito, osservava che «gli uomini sono perpetuamente e necessariamente mossi dalla più forte sensazione; e si opera il male presente a onta delle ragioni poste innanzi dalla esperienza del passato e dalle
previdenze del futuro pel solo motivo che le cose presenti fanno più forza all’animo nostro». Così fu di Seneca, un saggio a cui, come dice il Paratore, «le paradossali contingenze della vita pratica tarparono le ali, spruzzandole di fango». Ma da quel fango lo purgò, riscattandolo, il suicidio. Ecco, in sintesi, come Tacito descrive la sua morte: «Dopo aver ricevuto dal tribuno l’ordine dell’imperatore, senz’esitare chiese le tavolette per il testamento, e poiché queste gli vennero negate si rivolse agli amici, dicendo loro che gli lasciava l’unico bene che ancora possedeva, l’immagine della propria vita, quindi abbracciò la moglie, pregandola di frenare il dolore, e come lei dichiarò di voler morire con lui, nel timore che, sopravvivendogli, potesse essere esposta a qualche offesa, le disse: “Io t’ho insegnato gli agi della vita e tu preferisci l’onore della morte: scegli come ti sembra meglio”. Dopodiché si ferirono entrambi con lo stesso stiletto. Seneca, il cui corpo vecchio e fiaccato dalla scarsità del vitto lasciava uscire il sangue troppo lentamente, si tagliò anche le vene delle gambe e delle ginocchia, e straziato da terribili dolori, per non affliggere con l’immagine della sua sofferenza l’animo della moglie, la fece trasportare in un’altra stanza, quindi, poiché il sangue gli usciva a stento, pregò Stazio Annèo di porgergli il veleno che già da molto tempo si era preparato, lo bevve, ma invano. Allora entrò in una vasca piena d’acqua calda: il vapore di questa lo uccise. Quanto alla moglie, Nerone, che non aveva motivo per odiarla e temeva che la sua morte potesse farlo apparire ancora più crudele, ordinò che venisse salvata» (Ann., XV, 62-64).
Vita e opere Lucio Annèo Seneca nasce il 4 a.C. a Cordova, in Spagna, da Lucio (o Marco) Annèo Seneca, detto “il Vecchio” – maestro di eloquenza (autore di un manuale di retorica, Oratorum et rhetorum sententiae, divisiones, colores) – e da Elvia, donna bellissima e virtuosa, che avrà gran parte nella sua formazione morale. (Furono suoi fratelli Marco Annèo Novato, più grande di lui, che prese il nome di Gallione, e Marco Annèo Mela, padre di Lucano, l’autore del poema Pharsalia.) Venuto a Roma ancora bambino con la famiglia (Mela resta in Spagna), intraprende gli studi di grammatica e di retorica, mostrando subito, però, un vivo interesse per i grandi problemi filosofici, e dell’etica in particolare. Sotto la guida e l’influsso dei suoi maestri, gli stoici Attalo e Papirio Fabiano, il cinico Demetrio e, soprattutto, il neopitagorico Sozione, si avvia verso un ideale di vita ascetica, imponendosi rigide rinunce a mortificazione del corpo, fra cui l’astensione dalla carne. Gracile di natura e piuttosto cagionevole, affetto da una grave malattia (forse una forma acuta di asma), il 16 d.C. si trasferisce in Egitto, dove rimane per circa quindici anni presso una zia materna (moglie del prefetto del luogo
Gaio Galerio), non solo per curare la propria salute, ancora più compromessa da quel suo tenore di vita, ma anche per un bisogno di raccoglimento interiore. Nel 19 una crisi fisica e morale lo porta a meditare il suicidio. Nel 31 ritorna a Roma, dove, distolto dal padre dal suo ideale di vita, intraprende la carriera forense, rivelandosi un brillante oratore. Il Foro e gli appoggi della zia, tornata a Roma con lui, gli aprono la strada alla carriera politica e ottiene la questura (33). Affermatosi ormai come avvocato e oratore, salito al potere Caligola, la sua eloquenza suscita le gelosie del Senato e dello stesso imperatore, che la definisce arena sine calce e che dopo avere ascoltato una sua orazione (come narra Cassio Dione, LIX, 19, 7) decide di dargli la morte, ma poi lo risparmia perché convinto da una sua favorita che in breve morirà per consunzione. Nel 40 scrive la Consolatio ad Marciam, nel 41, salito al trono Claudio, nominato pretore, in seguito a un intrigo di corte e comunque a opera della gelosa Messalina, che non vede di buon occhio la sua amicizia con Giulia Livilla, sorella di Caligola e di Agrippina, viene accusato di adulterio insieme alla giovane principessa e condannato all’esilio in Corsica. Giulia Livilla, esiliata anch’essa, sarà poi messa a morte. Alcuni non escludono un suo rapporto anche con Agrippina (v. Cassio Dione, LXI, 10). Sono otto anni di una vita solitaria e triste, durante i quali scrive il De ira, la Consolatio ad Helviam matrem e la Consolatio ad Polybium (liberto dell’imperatore, al quale è morto un fratello), in cui elogia Claudio, probabilmente per ingraziarselo, definendolo «forza e consolazione», «splendido come un dio», e rivolgendo un invito alla fortuna affinché lo lasci in vita, sì che possa «rimediare ai lunghi patimenti del genere umano; sempre rifulga quest’astro sul mondo, le cui tenebre furono ricreate dalla sua luce». È la sua opera più discussa per piaggeria e incoerenza. Nel 49 è richiamato a Roma per intercessione di Agrippina, che, sposato Claudio dopo la morte di Messalina, gli affida l’educazione del figlio Domizio Enobarbo, il futuro Nerone. Si affermano il suo prestigio e il suo potere a corte. È rieletto pretore, sempre per i buoni uffici di Agrippina che ne ha ottenuto il ritorno per attirarsi i favori del popolo che lo stima e giovarsi del suo aiuto per conseguire il principato. Nel 50 scrive il De brevitate vitae. Nel 54, morto Claudio (avvelenato probabilmente dalla stessa Agrippina) e salito al trono Nerone, forse per ingraziarsi quest’ultimo, scrive l’Apokolokyntosis (tale è il titolo tramandatoci da Cassio Dione, che i copisti hanno reso con Divi Claudi apotheosis per satyram, o, più semplicemente, con Ludus de morte Cl.), in cui celebra ironicamente e con uno sfogo vendicativo a dir poco ingeneroso, la «zucchificazione», o «trasformazione in dio in forma di zucca» dell’imperatore che lo ha condannato all’esilio e che prima ha esaltato, oltre che nella Consolatio ad Polybium, in un discorso scritto per Nerone da pronunciarsi in Senato. Con l’ascesa al trono di Nerone la sua influenza a
corte cresce ancora di più, al punto da fare di lui quasi l’arbitro e il moderatore della politica imperiale, l’astuto intermediario fra l’imperatore, sempre più tirannico, e il Senato, sempre più servile. Ispiratore di saggi consigli e provvedimenti (fra cui uno a favore degli schiavi più un progetto di riforma fiscale), accondiscende tuttavia a certi atteggiamenti e misfatti di Nerone, per evitare, dice, mali peggiori. Così, ad esempio, giustifica l’assassinio di Britannico, figlio di Claudio e Messalina, ordinato dall’imperatore. Accumula immense ricchezze, con possedimenti disseminati un po’ dovunque, per un valore di trecento milioni di sesterzi, divenendo oggetto di dure critiche, tanto più perché il suo tenore di vita contrasta con i suoi insegnamenti, e viene addirittura trascinato in tribunale da un certo Publio Suillio, che lo accusa di guadagni illeciti, di traffici, e persino di essere un usuraio e cacciatore di testamenti. Comunque vince la causa e Suillio, accusato a sua volta di peculato, è condannato all’esilio. Nel 55 scrive il De constantia sapientis e il De clementia, nel 58 il De vita beata. La sua autorità va intanto indebolendosi, mentre Nerone comincia a diventare insofferente di lui, il quale non solo non riesce a trattenergli la mano dal matricidio, ma finisce col giustificarlo in nome della ragion di Stato, scrivendo probabilmente egli stesso la lettera indirizzata da Nerone al Senato per rendere conto del misfatto, nella quale si dice che Agrippina s’è uccisa di sua mano per il fallimento di una sua cospirazione contro Nerone. Nella totale e passiva accettazione solo lo stoico Trasea Peto manifesta apertamente il suo dissenso. Nel 61 scrive il De tranquillitate animi. Con la morte di Burro, prefetto del pretorio e consigliere (insieme a lui) di Nerone, e con l’elezione di Tigellino a quella carica, la sua situazione a corte si fa sempre più insostenibile. Sfuggito a un tentativo di avvelenamento da parte di Nerone, si ritira a vita privata, dopo avere offerto all’imperatore tutti i suoi beni. Tacito, in Ann., XIV, 53, descrive la scena di lui che si presenta a Nerone e gli dice: «Tu m’hai colmato di onori e ricchezze al di là d’ogni misura, e ciò mi ha reso oggetto d’immensa invidia; è ora che io mi ritiri a una condizione di vita più modesta, in cui la mia anima possa dedicarsi a se stessa e non alla amministrazione di tanti beni». Si rifugia in una sua villa in Campania, conducendo una vita da anacoreta, confortato dall’affetto della seconda moglie, Paolina, e dell’amico Lucilio, a cui indirizza il suo epistolario (che concluderà nel 65), le Epistulae morales, il suo capolavoro, contenente 124 lettere in 20 libri. Scrive intanto anche il De otio e conclude il De beneficiis. Nel 63 scrive le Naturales quaestiones, nel 64 il De providentia. Coinvolto nella congiura di Calpurnio Pisone contro Nerone, insieme ad altri noti personaggi, senatori, consoli, filosofi e poeti, per ordine dell’imperatore si toglie la vita svenandosi (65). Va incontro alla morte con
decisione e grande serenità, così come aveva insegnato, ma non senza una certa posa teatrale, che era un po’ una caratteristica della sua natura. Oltre alle opere citate (le cui date di composizione sono approssimative) Seneca scrisse pure 9 tragedie, che ci sono pervenute anch’esse in un ordine non cronologico e che non sappiamo neppure se appartengano al periodo giovanile o a quello della maturità, benché alcuni propendano per quest’ultimo, collocandole fra il 59 e il 62. Esse sono, nell’ordine riportato dal codice Etrusco-Laurenziano, le seguenti: Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus. Ci è pervenuta inoltre l’Octavia, una pretesta (l’unica di tutta la letteratura latina e per questo importante), inclusa nell’elenco come decima tragedia, che però è ritenuta spuria, perché vi è descritto il suicidio di Nerone, profetizzato dall’ombra vendicatrice di Agrippina, con particolari troppo vicini alla realtà. Ci sono giunti, ancora, circa 70 epigrammi, di cui soltanto tre portano il nome di Seneca, contenenti notizie biografiche, dell’esilio, invocazioni e celebrazioni. Le opere perdute sono: De situ et sacris Aegyptiorum, De situ Indiae, De forma mundi (in cui è affermata la sfericità del mondo), De piscium natura, De lapidum natura, De motu terrarum, Exhortationes, il trattato De officiis, il dialogo De superstitione, De matrimonio, De immatura morte, De remediis fortuitorum ad Gallionem, Quomodo amicitia continenda sit, Libri moralis philosophiae, Epistulae ad Novatum, De vita patris. È singolare come nel Medioevo il nome “Seneca” lo si facesse derivare da se necans = «colui che si uccide», e come in molti dialetti (v. Bruno Migliorini, Dal nome proprio al nome comune, Ginevra 1917) la parola abbia il significato di «persona pallida e magra». MARIO SCAFFIDI ABBATE
Bibliografia
Manoscritti Dialogorum libri: AMBROSIANUS C. 90 inf. (A), XI sec. De clementia e De beneficiis: NAZARIANUS (Vat. Pal. 1547), VIII-IX sec. Epistulae morales ad Lucilium: LAURENTIANUS 76, 40 (IX-X sec.); MARCIANUS VENETUS CCLXX arm. 22,4 (IX-X sec.); QUIRINIANUS di Brescia (B. II, 6). Naturales quaestiones: PARISINUS LAT 8624 (XII-XIII sec.); MONTEPESSULANUS 116 (XIII sec.). Tragedie: ETRUSCUS (Laurentianus 37, 13), IX-X sec. Edizioni critiche dei Dialoghi Dialogorum libri XII: M.G. GERTZ, Hauniae 1886. Dialogorum libri XII: E. HERMES, Lipsia 1905. Dialogues: R. WALTZ, A. BOURGERY, Paris 1923. Dialogorum libri XII, R.D. REYNOLDS, Oxford 1977. E inoltre l’edizione italiana dell’Istituto Editoriale Italiano, Milano, a cura di N. Sacerdoti, il cui testo latino è riprodotto nella presente edizione. Edizioni delle Epistulae morales Editio Mentelina. Strasbourg 1475, prima edizione a stampa. F. HAASE, Leipzig 1852 (edizione teubneriana). O. HENSE, Leipzig 1898, 1914. A. BELTRAMI, Roma 1916, 1931. F. PRECHAC e H. NOBLOT (Belles Lettres), Paris 1945-1964. L.D. REYNOLDS, Oxford 1965. Edizioni delle altre opere Tragedie: F. LEO, Berlino 1878-79; U. MORICCA, Torino 1917-25; R. PEIPER - G. RICHTER, Lipsia 1921; L. HERRMANN, Paris 1924-26; G.C. GIARDINA, 2 voll., Bologna 1966; O. ZWIERLEIN, Oxford 1986. Epigrammi: A. BAEHRENS, in PLM, IV, Lipsia 1881; C. PRATO, Roma 1964. De beneficiis e De clementia: C. HOSIUS, Lipsia 1900. Naturales quaestiones: A. GERCKE, Lipsia 1907; P. OLTRAMARE, Paris 1929. Epistulae morales ad Lucilium: O. MENSE, Lipsia 1914; A. BELTRAMI, Roma 1931; F. PRECHAC, Paris 1945; R.D. REYNOLDS, Oxford 1965. Apocolocyntosis: A. ROSTAGNI, Milano 1948. Studi L. F. GELPKE, De Senecae vita et moribus, Bern 1848; F. BOHM, Seneca und sein Wert auch für unsere Zeit, Berlin 1856; BROLÉN, De philosophia Senecae, Uppsala 1880; P. HOCHART, Études sur la vie de Sénèque, Paris 1885; A. DIEPENBROCK, L. Annaei Senecae philosophi vita, Amsterdam 1888; A. GERCKE, Seneca-Studien, in «Jahrbuch für Philologie», Supplementb., 1895; C. PASCAL, Seneca, Messina 1906; R. WALTZ, Vie de Sénèque, Paris 1909 (opera tuttora fondamentale); D. BASSI, Seneca morale, Firenze 1914; C. MARCHESI, Seneca, Messina 1a ediz. 1920, 2a ediz. 1934 (anch’essa fondamentale); F. HOLLAND, Seneca, London 1920; P. FAIDER, Études sur Sénèque, Gand 1921; L. CASTIGLIONI, Studi intorno a Seneca prosatore e filosofo , in «Rivista di fil. class.», 1924, pp. 350 sgg.; A. BAILLY, La vie et les pensées de Sénèque, Paris 1929; H. W. KAMP, A critical biography of L.A.S.,
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Tragedie
Edizioni A cura di R. PEIPER e G. RICHTER, Leipzig 1a ediz. 1867, 2a ediz. 1937; a cura di F. LEO, Berlin 1878-79 (fondamentale, con un complesso di studi introduttivi e accessori): da essa dipende quella particolare di G. RICHTER, Leipzig 1902 e 1921. Indi: a cura di L. HERMANN, Paris 1924-26; a cura di U. MORICCA, Torino 1a ediz. 1917-23, 2a ediz. 1947 (con introduzioni alle singole tragedie, in cui si dibattono i problemi delle fonti); a cura di G. VIANSINO, Torino 1965; a cura di E. LEFÈVRE, Darmstadt 1972; a cura di O. ZWIERLEIN, Oxford 1986; Tragedie: G.C. GIARDINA, R. CUCCIOLI MELLONI, Torino 1987; E. PARATORE, Roma, Newton Compton, 2006.
Opere concernenti tutto il teatro I fondamenti della critica sul teatro di Seneca in LESSING, Samtliche Schriften ed. Lachmann-Muncker, 3a ediz., vol. VI, pp. 167 sgg. Indi: G. BOISSIER, Les tragédies de Sénèque ont-elles été représentées?, Paris 1861; G. RICHTER, De Senecae tragoediarum auctore, Bonn 1862 (fissa in breve tutta la problematica essenziale sul teatro di Seneca); F. JONAS, De ordine librorum Senecae philosophi , Berlin 1870 (sulla cronologia delle tragedie); C. E. SANDSTROM, De L. A. Senecae tragoediis, Uppsala 1872; A. PAIS, Il teatro di L. A. Seneca, Torino 1890; C. LINDSKOG, Studien zur antiken Drama II, Lund 1897; F. LEO, Die Komposition der Chorlieder Senecas, in «Rheinisches Museum», 1897; P. SCHAEFER, De philosophiae Annaeanae in Senecae tragoediis vestigiis, Jena 1909; F. FRENZEL, Die Prologe der Tragöd. Senecas, Leipzig 1914; Index verborum delle tragedie di Seneca, a cura di W. A. OLDFATHER, A. S. PEASE e H. V. CANTER, Illinois Stud., voll. 3, 1918; K. MÜNSCHER, Senecas Werke , in «Philologus», Supplementb., 1922, pp. 84 sgg.; J. KEUNE, De L. A. Senecae arte tragica, Göttingen 1923; L. HERRMANN, Le théatre de Sénèque, Paris 1924 (con ricca bibliografia); J. HIPPLER, Annaeanae quaestiones scaenicae, Darmstadt 1924; H. V. CANTER, Rhetorical elements in the trag. of Seneca, lllinois Stud., 1925; HERZOG, Datierung der Trag. des Senecas, in «Rheinisches Museum», 1928, pp. 51 sgg. (faticosamente cervellotico); S. LANDMAN, Seneca quatenus in mulierum personis effingendis ab exemplaribus graecis recesserit, in «Eos», 1928, p. 492; J. SMEREKA, De Senecae tragoediis dinosis colore fucatis, in «Eos», 1929, pp. 615 sgg.; W. MARX, Funktion und Form der Chorlieder in Senecas Trag., Heidelberg 1931; E. CESAREO, Le tragedie di Seneca, Palermo 1932; w. H. FRIEDRICH, Untersuchungen zu Senecas dramat. Technik , Leipzig 1933; E. HANSEN, Die Stellung der Affektrede in den Tragödien des Senecas, Berlin 1934; W. SCHULZE, Untersuchungen zur Eigenart der Tragödien Senecas, Halle 1937; M. DAL MONTE-CASONI, Coro e azione nelle tragedie di Seneca, Napoli 1937; L. STRZELECKI, De Senecae trimetro iambico, Krakow 1938; M. HADAS, The Roman stamp of Seneca’s tragedies , «Amer. Journ. of. Philol.», 1939, pp. 220 sgg.; N. T. PRATT jr., Dramatic suspense in Seneca, Princeton Univ. 1939; C. W. MENDELL, Our Seneca, New Haven 1941 (il miglior bilancio del particolare influsso di Seneca sulla cultura anglosassone); B. M. MARTI, Seneca’s Tragedies, in «Transac. of Amer. Philol. Assoc.», 1945, pp. 216 sgg.; G. CARLSSON, Seneca’s Tragedies , in «Classica et Mediaevalia», 1948, pp. 39 sgg.; L. STRZELECKI, De polymetris Senecae canticis, in «Eos», 1951, pp. 93 sgg.; K. H. TRABERT, Studien zur Darstellung des Pathologischen in den Tragödien des Senecas, Erlangen 1953; F. GIANCOTTI, Saggio sulle tragedie di Seneca, Città di Castello 1953 (asciutto tentativo di rivendicare solo la coerenza del contenuto morale nelle tragedie di Seneca, sussumendole sotto la categoria dell’oratoria; il che non ha evitato che, contro le sue intenzioni, P. GRIMAL, recensendo l’opera in «Revue des ét. anc.» 1955, pp. 211-13, ne traesse ispirazione per proporre una nuova insostenibile cronologia delle tragedie); J. ANDRIEU, Le dialogue antique, Paris 1954; B. GENTILI, Il coro nel teatro romano , in «Enciclopedia dello Spettacolo», vol. III, s.v.; M. BIEBER, Wurden die Tragoedien des Seneca in Rom aufgeführt?, in «Römische Mitteilungen», 1953-54, pp. 100 sgg. (sulla base di dati archeologici e dell’arte figurativa sostiene che le tragedie di Seneca erano destinate alla scena); E. PARATORE, Storia del teatro latino, Milano 1957; ID., Originalità del teatro di Seneca, in «Dioniso» 1957, pp. 53-74; K. ANLIKER, Prologe und Akteinteilung in Senecas Tragödien , in «Noctes Romanae», 1960, pp. 98 sgg.; G. RUNCHINA, Tecnica drammatica e retorica nelle Tragedie di Seneca , in «Ann. Fac. Lett. Cagliari», 1960, pp. 103 sgg.; A. CATTIN, Les thèmes lyriques dans les tragédies de Sénèque, Neuchâtel 1963; O. REGENBOGEN, Schmerz und Tod in den Tragödien Senecas , Darmstadt 1963; E. PARATORE, Il teatro latino nei suoi rapporti col pubblico antico e nei suoi riflessi sulla spiritualità moderna, in «Dioniso», 1965, pp. 57-81; G. PETRONE, Paesaggio dei morti e paesaggio del male: il modello dell’oltretomba virgiliano nelle tragedie di Seneca , ibid., pp. 131-143; O. ZWIERLEIN, Die Rezitationsdramen Senecas, mit einem kritisch-exegetischen Anhang, Meisenheim am Glan 1966, pp. 72-
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Troiane
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Ottavia F. LADEK, De Octavia praetexta, Wien, 1891; edizione a cura di A. SANTORO, Bologna, 1919; E. FLINK, De Octaviae praetextae auctore, Helsingfors 1919; L. HERRMANN, L’Octavie prétexte, Paris 1924; A. SANTORO, L’autore e la lingua della pretesta Ottavia , in «Nuova cultura», 1927, pp. 55 sgg. (si sostiene che la tragedia è del sec. III d.C.); R. HELM, Die praetexta Octavia, in «Sitzungsber. Preuss. Akad. d. Wiss.», 1934, pp. 283 sgg. (se ne fissa la composizione al tempo di Domiziano); V. CIAFFI, Intorno all’autore dell’Octavia, in «Riv. di fil. class.», 1937, pp. 246 sgg. (tentativo di attribuire la tragedia a Cornuto). Finalmente i recenti tentativi di rivendicarla a Seneca: S. PANTZERHIELM-THOMAS, De Octavia praetexta, in «Symbolae Osloenses», 1945, pp. 48 sgg.; B. M. MARTI, Seneca’s Apocolocyntosis and Octavia: a Diptych, in «Amer. Journ. of Philol.», 1952, pp. 24 sgg.; F. GIANCOTTI, L’«Octavia» attribuita a Seneca, Torino, 1954 (con ricca bibliografia); P. RIZZA, La pretesta «Octavia», Firenze 1970. E. P.
Nota alle traduzioni
Esiste la traduzione limite? Una traduzione, cioè, al di là della quale non ne sia possibile una migliore? Madame De Staël, dopo aver letto la celebre traduzione dell’Iliade eseguita da Vincenzo Monti, esclamò: «Personne ne traduira plus l’Iliade, après lui!». Giacomo Leopardi nel Preambolo alle Operette morali di Isocrate scriveva: Nei volgarizzamenti che vengono giornalmente in luce, di buone e classiche scritture antiche, non solo non si prova diletto uguale a quello che danno le medesime opere leggendole nelle lingue loro, ma né anco si sente diletto alcuno, anzi in quella vece un tedio infinito, eccetto al più in materie di storia e in poche altre simili… Non è maraviglia che per lo più in tutte o in quasi tutte le lingue, i volgarizzamenti che si hanno o che si crede avere dei libri classici antichi, sieno poco meno che intollerabili e impossibili a leggere interi. Ora che direi dei nostri volgarizzamenti più moderni, i quali sono lodati io non so perché? dove io trovo un dire fatto di un raccozzamento in foggia mostruosa e barbara, composto tutto di errori d’intelligenza e d’interpretazione? E tuttavia, non senza nostra vergogna, è riputato universalmente in Italia per volgarizzamento non pur vero e buono, anzi egregio e classico!… Gl’Italiani oggi in universale non hanno, a voler dire il vero, alcun sentimento delle virtù e dei vizi del favellare e dello stile, e giudicano in queste materie per lo più a caso, confondendo il mediocre coll’ottimo, ed ancora il buono col tristo, e spesso anche l’ottimo col pessimo… Non si trova una traduzione che non pecchi spesso e gravemente circa la vera intelligenza ed interpretazione del testo, e che possa stare al confronto di quelle pubblicate in Inghilterra e massime in Germania: traduzioni che non lasciano una minima cosa a desiderare quanto all’esattezza e all’acutezza dell’intendere i veri sensi degli autori. Le traduzioni dei libri classici cattive e mediocri sono ingloriose a chi le scrive, inutili agli altri, le traduzioni buone e perfette oltremodo difficile a farle, rarissime a ritrovarne. Né si speri alcuno di farsi immortale con traduzioni che non sieno eccellenti. E quelli che degli autori greci o latini esprimono solo i pensieri, e non le bellezze e le perfezioni dello stile, non si può pur dire che traducano. Queste cose giova ed è a proposito il dirle, e anche il ripeterle spesso, acciocché altri non presuma (come si fa in questo secolo tutto giorno) dovere con ingegno forse meno che comunale, con poca o nessuna arte e fatica, ottenere quella medesima gloria che spesso con somma arte, con fatiche grandissime, non ottengono gl’ingegni sommi.
Ebbene, tutto ciò è tanto più vero ai giorni nostri in cui salgono di continuo alla ribalta uomini mediocri (tutti applauditi, tutti magnifici, stupendi e addirittura mitici) e basta essere già noti per potere «con poca o nessuna arte e fatica» ottenere una fama che non ottiene chi lavora davvero con arte, ingegno e fatica somma. Indubbiamente non è facile dare dei classici, latini e greci, una versione letterale che sia al tempo stesso chiara, sciolta e gradevole. Per questo quando è stato necessario io mi sono sempre attenuto più che alla lettera al concetto, per evitare quella farraginosità e quelle inesattezze da cui non sono immuni molte traduzioni. Oppure ho fatto ricorso alla parentesi quadra per completare o chiarire meglio il pensiero dell’Autore. Ho poi cercato di evitare le ripetizioni (frequenti nel testo originale come nelle traduzioni) e apportato qualche modifica lessicale, quando mi è parso che l’Autore volesse dare alla parola usata un significato diverso da quelli riportati dai vocabolari. La mia principale preoccupazione è sempre stata quella di dare alla
narrazione una prosa fluida e pulita, tenendo per così dire un occhio al passato e l’altro al presente e al futuro, rispettoso, cioè, dell’originale per quel che riguarda lo spirito del testo e la voce dell’Autore, ma al tempo stesso attento ai gusti e alle esigenze dei lettori di oggi e di domani. Questo mi sembra che debba essere il compito di un traduttore moderno che voglia mantenere desto o risvegliare negli animi l’interesse e l’amore per il mondo greco e latino. Un testo classico è come un mobile antico abbandonato in una soffitta o in una cantina: si può restaurarlo, ma non si deve togliergli la patina del tempo. M.S.A.
Dialogi Dialoghi
Consolazione a Marcia, L’arte di non adirarsi, Consolazione alla madre Elvia, Consolazione a Polibio, Come vivere a lungo, La fermezza del saggio, La felicità, La serenità, L’ozio o della contemplazione, La provvidenza Cura e versione di Mario Scaffidi Abbate
Premessa
Composti nell’arco di venticinque anni, i Dialoghi non sono stati ordinati da Seneca in una raccolta, quale a noi è pervenuta, né sappiamo da chi, quando e con quali criteri essa sia stata effettuata. Il codice più antico, che è anche il più autorevole, l’Ambrosianus (conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano), risalente all’XI secolo, li elenca in un ordine che non è cronologico e di cui ignoriamo la motivazione. Esso presenta inoltre degli errori di trascrizione, che sono stati corretti da mano ignota nel secolo successivo. Si può perciò determinare, in base al loro contenuto, il periodo in cui le singole monografie sono state scritte, ma non l’anno preciso, anche se poi, per comodità (come noi pure abbiamo fatto), se ne fissa uno ritenuto quale più probabile. Il primo dialogo, comunque, è la Consolatio ad Marciam, che risale secondo alcuni al 37, secondo altri al 40-41. Vengono poi: il De ira, collocato nel 41 (visto che vi è deplorata la crudeltà di Caligola, morto in quell’anno), la Consolatio ad Helviam, del 42-43, la Consolatio ad Polybium, del 43-44, il De brevitate vitae, del 49-50, il De constantia sapientis, del 55-56, il De vita beata, posto quasi unanimemente nel 58 (dato il riferimento personale a un’accusa mossa in quell’anno a Seneca da un certo Publio Suillio), il De tranquillitate animi, del 61, il De otio, del 62, il De providentia, del 64-65 (alcuni lo pongono invece all’inizio dell’esilio). Le opere sono 10, distribuite in 12 libri, e cioè 9 costituite da un solo libro ciascuna più il De ira che è diviso in tre libri. In realtà il titolo di dialogo può essere attribuito solo al De tranquillitate animi, giacché nelle altre monografie parla soltanto Seneca, rivolgendosi però a un dedicatario dal quale spesso fa porre alcune domande e obiezioni. Per quanto alcuni preferiscano ordinare questi dialoghi in base all’affinità dell’argomento trattato, noi, nell’esporne in sintesi il contenuto, li citeremo nell’ordine tradizionale, quale appare nel codice sopra accennato. 1. De providentia (La provvidenza). Dedicato a Lucilio, in 6 capitoli, muove dalla domanda Quare multa bonis adversa eveniunt, cioè per quale ragione anche ai buoni capitano molte avversità, a cui segue la risposta che nihil accidere bono viro mali potest: non miscentur contraria, ossia che all’uomo buono non può accadere mai alcunché che possa chiamarsi propriamente un male, inquantoché i contrari non sono mescolabili fra loro. In poche parole, nell’uomo buono il male ha lo scopo di fortificarlo, per cui si risolve praticamente in un bene. È il concetto della «provvida sventura». 2. De constantia sapientis (La fermezza del saggio). Dedicato a Sereno, in 19 capitoli, affronta il problema utrum sapientem extra indignationem an extra
iniuriam ponas, se cioè il saggio debba essere collocato al di là dello sdegno o al di là dell’offesa. La risposta è che invulnerabile est non quod non feritur, sed quod non laeditur, ovverosia che è invulnerabile non ciò che non viene colpito, ma ciò che non è danneggiato. 3. De ira (L’ira). Dedicato al fratello Novato, in tre libri, ha come argomento generale le passioni umane (già oggetto di studio in Grecia con Teofrasto e poi nella letteratura stoica del periodo ellenistico) e in particolare l’ira, definita terribile, furibonda, disumana e simile alla follia, la più pericolosa delle passioni, giacché le altre «hanno una componente di calma e di tranquillità» e in ogni caso «si notano», mentre l’ira «risalta». È infatti un vizio che non si sa utrum magis detestabile… sit an deforme, se cioè sia più detestabile o brutto, giacché trasforma anche i lineamenti del volto. Questo dialogo si può raffrontare con l’omonimo trattato Perì orghès di Plutarco, contenuto nelle sue Operette morali (Ethikà). 4. Consolatio ad Marciam (Consolazione a Marcia), in 26 capitoli. Rivolto alla figlia di Cremuzio Cordo (lo storico, autore degli Annales), che lamenta da tre anni la perdita del figlio Metilio, vuole dimostrare, in conclusione, che la morte è un bene, perché libera l’uomo dai molti mali che lo affliggono, che il saggio deve aspettare e accogliere con serenità quello che è l’evento più certo, inevitabile e improvviso della vita, cioè la morte, che nessun bene è coperto da garanzia e che perciò bisogna godere subito dei propri figli e farsi godere da loro, bere quella gioia sino all’ultima stilla, giacché nihil de hodierna nocte promittitur, nihil de hac hora: ciò che ci è dato può esserci tolto entro la prossima notte o addirittura in questo stesso momento. 5. De vita beata (La felicità). Dedicato al fratello Gallione, in 28 capitoli, vuole dimostrare, in polemica con la dottrina epicurea, che la felicità risiede non nel piacere, ma nella virtù (giacché voluptas humile, servile, imbecillum, caducum, mentre la virtù è altum quiddam, excelsum et regale, invictum, infatigabile), e che la saggezza consiste nel non allontanarsi dalla propria natura, che nell’uomo è razionale, per cui la felicità risiede nel conformarsi, appunto, alla propria natura. 6. De otio (La vita contemplativa). Dedicato a Sereno, in 8 capitoli, mutilo sia all’inizio che alla fine, è un elogio della vita contemplativa, la quale sola consente al saggio di vivere in piena comunione con Dio, giacché il mondo sensibile deve annoverarsi inter caduca et ad tempus nata, cioè fra le cose caduche e limitate nel tempo, mentre la contemplazione consente di uscire da tutto ciò che è perituro. Quanto al fatto se il saggio debba partecipare o no alla vita politica, in riferimento alla domanda posta da Sereno (Quid agis, Seneca? Deseris partes?), il filosofo, concludendo, risponde che purtroppo non esiste uno Stato in cui il sapiente possa agire coerentemente con i propri princìpi. 7. De tranquillitate animi (La tranquillità dell’animo). Dedicato ancora a Sereno, in 17 capitoli, tratta un argomento affine a quello del De otio,
ricercando quae possint tranquillitatem tueri, quae restituere, quae subrepentibus vitiis resistant, ossia quali cose possano difendere la tranquillità, quali restituirla e quali rimedi esistano contro i vizi che si annidano in noi. (A questo dialogo si richiama un’omonima monografia di Plutarco). 8. De brevitate vitae (La brevità della vita). Dedicato a Paolino, in 20 capitoli, tratta della durata della vita, che secondo l’opinione comune è breve, mentre in realtà non accipimus brevem… sed facimus, cioè essa non è breve di per sé, siamo noi che la rendiamo tale: la vita satis longa est… et in maximarum rerum consummationem large data est si tota bene collocaretur, ovvero, sarebbe bastevole e anzi anche abbondante per portare a termine grandi cose se fosse tutta spesa bene. 9. Consolatio ad Polybium (Consolazione a Polibio), in 18 capitoli. Indirizzato al potente liberto di Claudio, afflitto per la morte di un fratello, il dialogo è in realtà un pretesto per tessere un elogio sperticato dell’imperatore, allo scopo di ottenere il ritorno dall’esilio. Vi si mescolano i temi ricorrenti della letteratura consolatoria, l’ineluttabilità del destino, l’inutilità del dolore e l’esortazione a sopportare con animo forte e sereno le avversità della vita. È l’opera più discussa di Seneca. 10. Consolatio ad Helviam (Consolazione ad Elvia). Indirizzato alla madre, in 20 capitoli, con un tono ben diverso da quello del dialogo precedente e riprendendo un tema già accennato nel De vita beata (l’esilio è un «nome vano»: quid enim est mutare regiones?), vuole dimostrare che per il saggio la condizione dell’esule non è infelice, giacché per lui la vera patria è il mondo, l’esilio non è altro che un mutamento di luogo, e non può togliere all’uomo il vero bene, che è la virtù. I problemi trattati nei Dialoghi sono presenti in tutta l’opera di Seneca, perché ciò ch’egli si propone è sempre un intento morale. Sono i problemi dibattuti dallo stoicismo, da cui però l’Autore a volte si allontana per esporre il suo pensiero personale (est et mihi censendi ius, De vita beata, III, 2). Le fonti, relative a tutto il pensiero di Seneca, vanno ricercate oltre che nello stoicismo e nell’epicureismo anche nei pitagorici, nei Cinici, in Aristotele, Teofrasto, Posidonio, Panezio e Cicerone. Quella dei Dialoghi è una filosofia pratica (non priva di contraddizioni e di compromessi), che si propone di risolvere i problemi della vita, aiutare l’uomo a conoscersi, a entrare in intima comunione con se stesso, a liberarsi dalle passioni e dai timori, facendo uso della ragione, giacché questa è la prerogativa propria della nostra natura ed è lei, perciò, che bisogna seguire. Quello di Seneca è un cammino ideale – realizzabile solo nel profondo dell’animo – a cui non corrisponde, e forse non potrà mai corrispondere, sul piano pratico, una vita pienamente conforme, giacché la materia non è sorda solo all’intenzione dell’arte. In ciò sta il limite dell’uomo, nel non riuscire a fare esattamente e pienamente quello che si vuole, come nel non riuscire a dire
esattamente e pienamente quello che si pensa e si sente. Anche Seneca si trova in questa «disagguaglianza», nel senso che la parola, in quanto suono articolato convenzionale, molte volte non s’accorda, è insufficiente, «corta», al suo concetto, per cui egli risulta confuso, intricato, si ripete, compie passaggi bruschi, usa vocaboli non sempre appropriati, congiunzioni conclusive invece che dichiarative («dunque» al posto di «infatti») e viceversa. Di fronte a questi difetti un traduttore – che voglia rendere più chiaro e convincente il pensiero di Seneca (tanto più quando la sua opera è destinata al grande pubblico) – non può attenersi alla lettera. Che significa, per esempio, «Il tuo podere è più curato di quanto richiede la necessità naturale»? Sarà più esatto dire: «Il tuo podere produce più di quanto non richiedano i tuoi bisogni naturali». Così quando l’Autore dice che il saggio può non accedere alla vita politica «se la strada è impraticabile» sarà opportuno aggiungere «per lui», in quanto gli altri possono praticarla benissimo. Se poi traduciamo «Il piacere accompagni la virtù, come l’ombra che procede accanto al corpo», perché non precisare «senza confondersi con lui»? (Comunque solo gli esperti, che via via consultino il testo latino, possono comprendere le finezze e i pregi di una buona traduzione). C’è poi, nello stile di Seneca, un tono oratorio, che rispecchia non solo la cultura del suo tempo ma la sua stessa natura. Uno stile che non piacque a Quintiliano, a Frontone e a Gellio, che lo trovavano corruptum et omnibus vitiis fractum (Quint.), vedendovi verborum sordes et illuvies… verba modulate collocata et effeminate fluentia, e consideravano la sua eloquenza mollibus et febriculosis prunuleis insitam, cioè «disseminata di prugnettine sfatte e malaticce», di disgustose ripetizioni e noiose sentenze, nonché perniciosissima per i giovani, a causa dei molti e seducenti difetti. Dei quali probabilmente, sia pure in parte, era consapevole Seneca stesso, che, accanto all’analisi quotidiana del suo stile di vita, dei suoi vizi e delle sue passioni, avrà fatto anche quella del suo modo di scrivere. C’è un passo del De tranquillitate animi che, pur se messo in bocca a Sereno, il dedicatario, è sotto sotto una confessione dell’Autore. Scrive Seneca: Sono convinto che in un’opera si debba guardare principalmente al contenuto, ch’è la molla di ogni discorso, subordinando le parole all’argomento, in modo che questo possa svilupparsi senza sforzo e pervenire là dove si vuole arrivare. Scrivere in una forma semplice, per passatempo, senza battere la grancassa ma solo a nostro uso e consumo: ci si affatica di meno lavorando così, alla giornata. Questo mi dico, ma poi, quando la mente torna a innalzarsi a grandi e nobili concetti, allora ecco che mi riprende il gusto della parola forbita e non mi basta più solo pensare, voglio anche esprimermi in un modo più elevato, adeguato alla dignità del contenuto, sicché, dimentico di quelle norme e di quella semplicità che prima m’ero imposto, mi lascio trascinare dall’enfasi, parlando con un linguaggio che non è più mio.
Comunque, nell’antichità furono soprattutto i giovani a leggere Seneca e ad amarlo: solus hic fere in manibus adulescentium fuit, dice Quintiliano, il quale riconosce tuttavia che Seneca ebbe molte e grandi qualità, prontezza e
ricchezza d’ingegno, grande cultura, impegno eccezionale, ma che in filosofia fu parum diligens, ovvero poco preciso. Non c’è stata epoca che non lo abbia studiato e ammirato, perché al di là dei suoi difetti di stile, vuoi dell’uomo, vuoi dello scrittore, sprigiona una forza innegabile, che avvince e commuove. Concetto Marchesi, dopo aver esordito dicendo che Seneca «è lo scrittore più moderno della letteratura latina, ed è l’unico che ci parli ancora come fosse vivo nella lingua morta di Roma», conclude affermando che il suo stile, «fatto di frasi brevi, staccate, acute, luminose, improvvise, che incalzano spesso una medesima cosa per colpirla da più lati sino in fondo, è – fra le pagine degli scrittori latini – quello che parla a noi il linguaggio più vivo». M. S. A.
Consolatio ad Marciam
1. Nisi te, Marcia, scirem tam longe ab infirmitate muliebris animi quam a ceteris vitiis recessisse et mores tuos velut aliquod antiquum exemplar aspici, non auderem obviam ire dolori tuo, cui viri quoque libenter haerent et incubant, nec spem concepissem tam iniquo tempore, tam inimico iudice, tam invidioso crimine posse me efficere ut fortunam tuam absolveres. Fiduciam mihi dedit exploratum iam robur animi et magno experimento adprobata virtus tua. Non est ignotum qualem te in persona patris tui gesseris, quem non minus quam liberos dilexisti, excepto eo quod non optabas superstitem. Nec scio an et optaveris; permittit enim sibi quaedam contra bonum morem magna pietas. Mortem A. Cremuti Cordi parentis tui quantum poteras inhibuisti; postquam tibi apparuit inter Seianianos satellites illam unam patere servitutis fugam, non favisti consilio eius, sed dedisti manus victa, fudistique lacrimas palam et gemitus devorasti quidem, non tamen hilari fronte texisti, et haec illo saeculo quo magna pietas erat nihil impie facere. Ut vero aliquam occasionem mutatio temporum dedit, ingenium patris tui, de quo sumptum erat supplicium, in usum hominum reduxisti et a vera illum vindicasti morte ac restituisti in publica monumenta libros quos vir ille fortissimus sanguine suo scripserat. Optime meruisti de Romanis studiis: magna illorum pars arserat; optime de posteris, ad quos veniet incorrupta rerum fides, auctori suo magno inputata; optime de ipso, cuius viget vigebitque memoria quam diu in pretio fuerit Romana cognosci, quam diu quisquam erit qui reverti velit ad acta maiorum, quam diu quisquam qui velit scire quid sit vir Romanus, quid subactis iam cervicibus omnium et ad Seianianum iugum adactis indomitus, quid sit homo ingenio animo manu liber. Magnum mehercules detrimentum res publica ceperat, si illum ob duas res pulcherrimas in oblivionem coniectum, eloquentiam et libertatem, non eruisses: legitur, floret, in manus hominum, in pectora receptus vetustatem nullam timet; at illorum carnificum cito scelera quoque, quibus solis memoriam meruerunt, tacebuntur. Haec magnitudo animi tui vetuit me ad sexum tuum respicere, vetuit ad vultum, quem tot annorum continua tristitia, ut semel obduxit, tenet. Et vide quam non subrepam tibi nec furtum facere adfectibus tuis cogitem: antiqua mala in memoriam reduxi et, ut scires hanc quoque plagam esse sanandam, ostendi tibi aeque magni vulneris cicatricem. Alii itaque molliter agant et blandiantur, ego confligere cum tuo maerore constitui et defessos exhaustosque oculos, si verum vis magis iam ex consuetudine quam ex desiderio fluentis, continebo, si fieri potuerit, favente te remediis tuis, si minus, vel invita, teneas licet et amplexeris dolorem tuum, quem tibi in filii locum superstitem
fecisti. Quis enim erit finis? Omnia in supervacuum temptata sunt: fatigatae adlocutiones amicorum, auctoritates magnorum et adfinium tibi virorum; studia, hereditarium et paternum bonum, surdas aures inrito et vix ad brevem occupationem proficiente solacio transeunt; illud ipsum naturale remedium temporis, quod maximas quoque aerumnas componit, in te una vim suam perdidit. Tertius iam praeterit annus, cum interim nihil ex primo illo impetu cecidit: renovat se et corroborat cotidie luctus et iam sibi ius mora fecit eoque adductus est ut putet turpe desinere. Quemadmodum omnia vitia penitus insidunt nisi dum surgunt oppressa sunt, ita haec quoque tristia et misera et in se saevientia ipsa novissime acerbitate pascuntur et fit infelicis animi prava voluptas dolor. Cupissem itaque primis temporibus ad istam curationem accedere; leniore medicina fuisset oriens adhuc restringenda vis: vehementius contra inveterata pugnandum est. Nam vulnerum quoque sanitas facilis est, dum a sanguine recentia sunt: tunc et uruntur et in altum revocantur et digitos scrutantium recipiunt, ubi corrupta in malum ulcus verterunt. Non possum nunc per obsequium nec molliter adgredi tam durum dolorem: frangendus est. 2. Scio a praeceptis incipere omnis qui monere aliquem volunt, in exemplis desinere. Mutari hunc interim morem expedit; aliter enim cum alio agendum est: quosdam ratio ducit, quibusdam nomina clara opponenda sunt et auctoritas quae liberum non relinquat animum ad speciosa stupentibus. Duo tibi ponam ante oculos maxima et sexus et saeculi tui exempla: alterius feminae quae se tradidit ferendam dolori, alterius quae pari adfecta casu, maiore damno, non tamen dedit longum in se malis suis dominium, sed cito animum in sedem suam reposuit. Octavia et Livia, altera soror Augusti, altera uxor, amiserunt filios iuvenes, utraque spe futuri principis certa: Octavia Marcellum, cui et avunculus et socer incumbere coeperat, in quem onus imperii reclinare, adulescentem animo alacrem, ingenio potentem, sed frugalitatis continentiaeque in illis aut annis aut opibus non mediocriter admirandae, patientem laborum, voluptatibus alienum, quantumcumque inponere illi avunculus et, ut ita dicam, inaedificare voluisset laturum; bene legerat nulli cessura ponderi fundamenta. Nullum finem per omne vitae suae tempus flendi gemendique fecit nec ullas admisit voces salutare aliquid adferentis, ne avocari quidem se passa est; intenta in unam rem et toto animo adfixa, talis per omnem vitam fuit qualis in funere, non dico non ausa consurgere, sed adlevari recusans, secundam orbitatem iudicans lacrimas mittere. Nullam habere imaginem filii carissimi voluit, nullam sibi de illo fieri mentionem. Oderat omnes matres et in Liviam maxime furebat, quia videbatur ad illius filium transisse sibi promissa felicitas. Tenebris et solitudini familiarissima, ne ad fratrem quidem respiciens, carmina celebrandae Marcelli memoriae composita aliosque studiorum honores reiecit et aures suas adversus omne solacium clusit. A sollemnibus officiis seducta et ipsam magnitudinis fraternae nimis circumlucentem fortunam exosa defodit se et abdidit. Adsidentibus liberis, nepotibus lugubrem vestem non deposuit, non sine
contumelia omnium suorum, quibus salvis orba sibi videbatur. 3. Livia amiserat filium Drusum, magnum futurum principem, iam magnum ducem; intraverat penitus Germaniam et ibi signa Romana fixerat ubi vix ullos esse Romanos notum erat. In expeditione decesserat ipsis illum hostibus aegrum cum veneratione et pace mutua prosequentibus nec optare quod expediebat audentibus. Accedebat ad hanc mortem, quam ille pro re publica obierat, ingens civium provinciarumque et totius Italiae desiderium, per quam effusis in officium lugubre municipiis coloniisque usque in urbem ductum erat funus triumpho simillimum. Non licuerat matri ultima filii oscula gratumque extremi sermonem oris haurire; longo itinere reliquias Drusi sui prosecuta, tot per omnem Italiam ardentibus rogis, quasi totiens illum amitteret, inritata, ut primum tamen intulit tumulo, simul et illum et dolorem suum posuit, nec plus doluit quam aut honestum erat Caesare aut aequum salvo. Non desiit denique Drusi sui celebrare nomen, ubique illum sibi privatim publiceque repraesentare, libentissime de illo loqui, de illo audire: cum memoria illius vixit, quam nemo potest retinere et frequentare qui illam tristem sibi reddidit. Elige itaque utrum exemplum putes probabilius. Si illud prius sequi vis, eximes te numero vivorum: aversaberis et alienos liberos et tuos ipsumque quem desideras; triste matribus omen occurres; voluptates honestas, permissas, tamquam parum decoras fortunae tuae reicies; invisa haerebis in luce et aetati tuae, quod non praecipitet te quam primum et finiat, infestissima eris; quod turpissimum alienissimumque est animo tuo in meliorem noto partem, ostendes te vivere nolle, mori non posse. Si ad hoc maximae feminae te exemplum adplicueris moderatius, mitius, non eris in aerumnis nec te tormentis macerabis: quae enim, malum, amentia est poenas a se infelicitatis exigere et mala sua †non† augere! Quam in omni vita servasti morum probitatem et verecundiam, in hac quoque re praestabis; est enim quaedam et dolendi modestia. Illum ipsum iuvenem, dignissimum qui te laetam semper nominatus cogitatusque faciat, meliore pones loco, si matri suae, qualis vivus solebat, hilarisque et cum gaudio occurrit. 4. Nec te ad fortiora ducam praecepta, ut inhumano ferre humana iubeam modo, ut ipso funebri die oculos matris exsiccem. Ad arbitrium tecum veniam: hoc inter nos quaeretur, utrum magnus dolor esse debeat an perpetuus. Non dubito quin Iuliae Augustae, quam familiariter coluisti, magis tibi placeat exemplum: illa te ad suum consilium vocat. Illa in primo fervore, cum maxime inpatientes ferocesque sunt miseriae, consolandam se Areo, philosopho viri sui, praebuit et multum eam rem profuisse sibi confessa est, plus quam populum Romanum, quem nolebat tristem tristitia sua facere, plus quam Augustum, qui subducto altero adminiculo titubabat nec luctu suorum inclinandus erat, plus quam Tiberium filium, cuius pietas efficiebat ut in illo acerbo et defleto gentibus funere nihil sibi
nisi numerum deesse sentiret. Hic, ut opinor, aditus illi fuit, hoc principium apud feminam opinionis suae custodem diligentissimam: «usque in hunc diem, Iulia, quantum quidem ego sciam, adsiduus viri tui comes, cui non tantum quae in publicum emittuntur nota, sed omnes sunt secretiores animorum vestrorum motus, dedisti operam ne quid esset quod in te quisquam reprenderet; nec id in maioribus modo observasti, sed in minimis, ne quid faceres cui famam, liberrimam principum iudicem, velles ignoscere. Nec quicquam pulchrius existimo quam in summo fastigio conlocatos multarum rerum veniam dare, nullius petere; servandus itaque tibi in hac quoque re tuus mos est, ne quid committas quod minus aliterve factum velis. 5. Deinde oro atque obsecro ne te difficilem amicis et intractabilem praestes. Non est enim quod ignores omnes hos nescire quemadmodum se gerant, loquantur aliquid coram te de Druso an nihil, ne aut oblivio clarissimi iuvenis illi faciat iniuriam aut mentio tibi. Cum secessimus et in unum convenimus, facta eius dictaque quanto meruit suspectu celebramus; coram te altum nobis de illo silentium est. Cares itaque maxima voluptate, filii tui laudibus, quas non dubito quin vel inpendio vitae, si potestas detur, in aevum omne sis prorogatura. Quare patere, immo arcesse sermones quibus ille narretur, et apertas aures praebe ad nomen memoriamque filii tui; nec hoc grave duxeris ceterorum more, qui in eiusmodi casu partem mali putant audire solacia. Nunc incubuisti tota in alteram partem et oblita meliorum fortunam tuam qua deterior est aspicis. Non convertis te ad convictus filii tui occursusque iucundos, non ad pueriles dulcesque blanditias, non ad incrementa studiorum: ultimam illam faciem rerum premis; in illam, quasi parum ipsa per se horrida sit, quidquid potes congeris. Ne, obsecro te, concupieris perversissimam gloriam, infelicissima videri. Simul cogita non esse magnum rebus prosperis fortem se gerere, ubi secundo cursu vita procedit: ne gubernatoris quidem artem tranquillum mare et obsequens ventus ostendit, adversi aliquid incurrat oportet quod animum probet. Proinde ne summiseris te, immo contra fige stabilem gradum et quidquid onerum supra cecidit sustine, primo dumtaxat strepitu conterrita. Nulla re maior invidia fortunae fit quam aequo animo». Post haec ostendit illi filium incolumem, ostendit ex amisso nepotes. 6. Tuum illic, Marcia, negotium actum, tibi Areus adsedit; muta personam – te consolatus est. Sed puta, Marcia, ereptum tibi amplius quam ulla umquam mater amiserit – non permulceo te nec extenuo calamitatem tuam: si fletibus fata vincuntur, conferamus; eat omnis inter luctus dies, noctem sine somno tristitia consumat; ingerantur lacerato pectori manus et in ipsam faciem impetus fiat atque omni se genere saevitiae profecturus maeror exerceat. Sed si nullis planctibus defuncta revocantur, si sors inmota et in aeternum fixa nulla miseria mutatur et mors tenuit quidquid abstulit, desinat dolor qui perit. Quare regamur nec nos ista vis transversos auferat. Turpis est navigii rector cui gubernacula fluctus eripuit,
qui fluvitantia vela deseruit, permisit tempestati ratem; at ille vel in naufragio laudandus quem obruit mare clavum tenentem et obnixum. 7. «At enim naturale desiderium suorum est». Quis negat, quam diu modicum est? Nam discessu, non solum amissione carissimorum necessarius morsus est et firmissimorum quoque animorum contractio. Sed plus est quod opinio adicit quam quod natura imperavit. Aspice mutorum animalium quam concitata sint desideria et tamen quam brevia: vaccarum uno die alterove mugitus auditur, nec diutius equarum vagus ille amensque discursus est; ferae cum vestigia catulorum consectatae sunt et silvas pervagatae, cum saepe ad cubilia expilata redierunt, rabiem intra exiguum tempus extinguunt; aves cum stridore magno inanes nidos circumfremuerunt, intra momentum tamen quietae volatus suos repetunt; nec ulli animali longum fetus sui desiderium est nisi homini, qui adest dolori suo nec tantum quantum sentit sed quantum constituit adficitur. Ut scias autem non esse hoc naturale, luctibus frangi, primum magis feminas quam viros, magis barbaros quam placidae eruditaeque gentis homines, magis indoctos quam doctos eadem orbitas vulnerat. Atqui quae a natura vim acceperunt eandem in omnibus servant: apparet non esse naturale quod varium est. Ignis omnes aetates omniumque urbium cives, tam viros quam feminas uret; ferrum in omni corpore exhibebit secandi potentiam. Quare? Quia vires illis a natura datae sunt, quae nihil in personam constituit. Paupertatem luctum ambitionem alius aliter sentit prout illum consuetudo infecit, et inbecillum inpatientemque reddit praesumpta opinio de non timendis terribilis. 8. Deinde quod naturale est non decrescit mora: dolorem dies longa consumit. Licet contumacissimum, cotidie insurgentem et contra remedia effervescentem, tamen illum efficacissimum mitigandae ferociae tempus enervat. Manet quidem tibi, Marcia, etiamnunc ingens tristitia et iam videtur duxisse callum, non illa concitata qualis initio fuit, sed pertinax et obstinata; tamen hanc quoque tibi aetas minutatim eximet: quotiens aliud egeris, animus relaxabitur. Nunc te ipsa custodis; multum autem interest utrum tibi permittas maerere an imperes. Quanto magis hoc morum tuorum elegantiae convenit, finem luctus potius facere quam expectare, nec illum opperiri diem quo te invita dolor desinat! ipsa illi renuntia. 9. «Unde ergo tanta nobis pertinacia in deploratione nostri, si id non fit naturae iussu?». Quod nihil nobis mali antequam eveniat proponimus, sed ut immunes ipsi et aliis pacatius ingressi iter alienis non admonemur casibus illos esse communes. Tot praeter domum nostram ducuntur exequiae: de morte non cogitamus; tot acerba funera: nos togam nostrorum infantium, nos militiam et paternae hereditatis successionem agitamus animo; tot divitum subita paupertas in oculos incidit: et nobis numquam in mentem venit nostras quoque opes aeque in lubrico positas. Necesse est itaque magis corruamus: quasi ex inopinato ferimur;
quae multo ante provisa sunt languidius incurrunt. Vis tu scire te ad omnis expositum ictus stare et illa quae alios tela fixerunt circa te vibrasse? Velut murum aliquem aut obsessum multo hoste locum et arduum ascensu semermis adeas, expecta vulnus et illa superne volantia cum sagittis pilisque saxa in tuum puta librata corpus. Quotiens aliquis ad latus aut pone tergum ceciderit, exclama: «non decipies me, fortuna, nec securum aut neglegentem opprimes. Scio quid pares: alium quidem percussisti, sed me petisti». Quis umquam res suas quasi periturus aspexit? Quis umquam vestrum de exilio, de egestate, de luctu cogitare ausus est? Quis non, si admoneatur ut cogitet, tamquam dirum omen respuat et in capita inimicorum aut ipsius intempestivi monitoris abire illa iubeat? «Non putavi futurum». Quicquam tu putas non futurum quod scis posse fieri, quod multis vides evenisse? Egregium versum et dignum qui non e pulpito exiret: cuivis potest accidere quod cuiquam potest! Ille amisit liberos: et tu amittere potes; ille damnatus est: et tua innocentia sub ictu est. Error decipit hic, effeminat, dum patimur quae numquam pati nos posse providimus. Aufert vim praesentibus malis qui futura prospexit. 10. Quidquid est hoc, Marcia, quod circa nos ex adventicio fulget, liberi honores opes, ampla atria et exclusorum clientium turba referta vestibula, clarum nomen, nobilis aut formosa coniux ceteraque ex incerta et mobili sorte pendentia alieni commodatique apparatus sunt; nihil horum dono datur. Conlaticiis et ad dominos redituris instrumentis scaena adornatur; alia ex his primo die, alia secundo referentur, pauca usque ad finem perseverabunt. Itaque non est quod nos suspiciamus tamquam inter nostra positi: mutua accepimus. Usus fructusque noster est, cuius tempus ille arbiter muneris sui temperat; nos oportet in promptu habere quae in incertum diem data sunt et appellatos sine querella reddere: pessimi debitoris est creditori facere convicium. Omnes ergo nostros, et quos superstites lege nascendi optamus et quos praecedere iustissimum ipsorum votum est, sic amare debemus tamquam nihil nobis de perpetuitate, immo nihil de diuturnitate eorum promissum sit. Saepe admonendus est animus, amet ut recessura, immo tamquam recedentia: quidquid a fortuna datum est, tamquam exempto auctore possideas. Rapite ex liberis voluptates, fruendos vos in vicem liberis date et sine dilatione omne gaudium haurite: nihil de hodierna nocte promittitur – nimis magnam advocationem dedi – nihil de hac hora. Festinandum est, instatur a tergo: iam disicietur iste comitatus, iam contubernia ista sublato clamore solventur. Rapina rerum omnium est: miseri nescitis in fuga vivere. Si mortuum tibi filium doles, eius temporis quo natus est crimen est; mors enim illi denuntiata nascenti est; in hanc legem genitus est, hoc illum fatum ab utero statim prosequebatur. In regnum fortunae et quidem durum atque invictum pervenimus, illius arbitrio digna atque indigna passuri. Corporibus nostris
inpotenter contumeliose crudeliter abutetur: alios ignibus peruret vel in poenam admotis vel in remedium; alios vinciet – id nunc hosti licebit, nunc civi; alios per incerta nudos maria iactabit et luctatos cum fluctibus ne in harenam quidem aut litus explodet, sed in alicuius inmensae ventrem beluae decondet; alios morborum variis generibus emaceratos diu inter vitam mortemque medios detinebit. Ut varia et libidinosa mancipiorumque suorum neglegens domina et poenis et muneribus errabit. Quid opus est partes deflere? Tota flebilis vita est: urgebunt nova incommoda, priusquam veteribus satis feceris. Moderandum est itaque vobis maxime, quae inmoderate fertis, et in multos dolores humani pectoris vis dispensanda. 11. Quae deinde ista suae publicaeque condicionis oblivio est? Mortalis nata es mortalesque peperisti: putre ipsa fluidumque corpus et causis [morbos] repetita sperasti tam inbecilla materia solida et aeterna gestasse? Decessit filius tuus, id est decucurrit ad hunc finem ad quem quae feliciora partu tuo putas properant. Hoc omnis ista quae in foro litigat, in theatris plaudit, in templis precatur turba dispari gradu vadit: et quae diligis, veneraris et quae despicis unus exaequabit cinis. Hoc videlicet illa Pythicis oraculis adscripta vox: NOSCE TE. Quid est homo? Quolibet quassu vas et quolibet fragile iactatu. Non tempestate magna ut dissiperis opus est: ubicumque arietaveris, solveris. Quid est homo? Inbecillum corpus et fragile, nudum, suapte natura inerme, alienae opis indigens, ad omnis fortunae contumelias proiectum, cum bene lacertos exercuit, cuiuslibet ferae pabulum, cuiuslibet victima; ex infirmis fluidisque contextum et lineamentis exterioribus nitidum, frigoris aestus laboris inpatiens, ipso rursus situ et otio iturum in tabem, alimenta metuens sua, quorum modo inopia deficit, modo copia rumpitur; anxiae sollicitaeque tutelae, precarii spiritus et male haerentis, quod pavor repentinus aut auditus ex inproviso sonus auribus gravis excutit, sollicitudinis semper sibi nutrimentum, vitiosum et inutile. Miramur in hoc mortem, quae unius singultus opus est? Numquid enim ut concidat magni res molimenti est? Odor illi saporque et lassitudo et vigilia et umor et cibus et sine quibus vivere non potest mortifera sunt; quocumque se movit, statim infirmitatis suae conscium, non omne caelum ferens, aquarum novitatibus flatuque non familiaris aurae et tenuissimis causis atque offensionibus morbidum, putre causarium, fletu vitam auspicatum, cum interim quantos tumultus hoc tam contemptum animal movet, in quantas cogitationes oblitum condicionis suae venit! Inmortalia, aeterna volutat animo et in nepotes pronepotesque disponit, cum interim longa conantem eum mors opprimit et hoc quod senectus vocatur paucissimorum est circumitus annorum. 12. Dolor tuus, si modo ulla illi ratio est, utrum sua spectat incommoda an eius qui decessit? Utrum te in amisso filio movet quod nullas ex illo voluptates cepisti, an quod maiores, si diutius vixisset, percipere potuisti? Si nullas percepisse te dixeris, tolerabilius efficies detrimentum tuum; minus enim homines
desiderant ea ex quibus nihil gaudi laetitiaeque perceperant. Si confessa fueris percepisse magnas voluptates, oportet te non de eo quod detractum est queri, sed de eo gratias agere quod contigit; provenerunt enim satis magni fructus laborum tuorum ex ipsa educatione, nisi forte ii qui catulos avesque et frivola animorum oblectamenta summa diligentia nutriunt fruuntur aliqua voluptate ex visu tactuque et blanda adulatione mutorum, liberos nutrientibus non fructus educationis ipsa educatio est. Licet itaque nil tibi industria eius contulerit, nihil diligentia custodierit, nihil prudentia suaserit, ipsum quod habuisti, quod amasti, fructus est. «At potuit longior esse, maior». Melius tamen tecum actum est quam si omnino non contigisset, quoniam, si ponatur electio utrum satius sit non diu felicem esse an numquam, melius est discessura nobis bona quam nulla contingere. Utrumne malles degenerem aliquem et numerum tantum nomenque filii expleturum habuisse an tantae indolis quantae tuus fuit, iuvenis cito prudens, cito pius, cito maritus, cito pater, cito omnis officii curiosus, cito sacerdos, omnia tamquam properans? Nulli fere et magna bona et diuturna contingunt, non durat nec ad ultimum exit nisi lenta felicitas: filium tibi di inmortales non diu daturi statim talem dederunt qualis diu effici vix potest. Ne illud quidem dicere potes, electam te a dis cui frui non liceret filio: circumfer per omnem notorum, ignotorum frequentiam oculos, occurrent tibi passi ubique maiora. Senserunt ista magni duces, senserunt principes; ne deos quidem fabulae immunes reliquerunt, puto, ut nostrorum funerum levamentum esset etiam divina concidere. Circumspice, inquam, omnis: nullam tam miseram nominabis domum quae non inveniat in miseriore solacium. Non mehercules tam male de moribus tuis sentio ut putem posse te levius pati casum tuum, si tibi ingentem lugentium numerum produxero: malivolum solacii genus est turba miserorum. Quosdam tamen referam, non ut scias hoc solere hominibus accidere – ridiculum est enim mortalitatis exempla colligere – sed ut scias fuisse multos qui lenirent aspera placide ferendo. A felicissimo incipiam. L. Sulla filium amisit, nec ea res aut malitiam eius et acerrimam virtutem in hostes civesque contudit aut effecit ut cognomen illud usurpasse falso videretur, quod amisso filio adsumpsit nec odia hominum veritus, quorum malo illae nimis secundae res constabant, nec invidiam deorum, quorum illud crimen erat, Sulla tam felix. Sed istud inter res nondum iudicatas abeat, qualis Sulla fuerit – etiam inimici fatebuntur bene illum arma sumpsisse, bene posuisse: hoc de quo agitur constabit, non esse maximum malum quod etiam ad felicissimos pervenit. 13. Ne nimis admiretur Graecia illum patrem qui in ipso sacrificio nuntiata filii morte tibicinem tantum tacere iussit et coronam capiti detraxit, cetera rite perfecit, Pulvillus effecit pontifex, cui postem tenenti et Capitolium dedicanti mors filii nuntiata est. Quam ille exaudisse dissimulavit et sollemnia pontificii carminis verba concepit gemitu non interrumpente precationem et ad filii sui nomen Iove propitiato. Putasne eius luctus aliquem finem esse debere, cuius primus dies et primus impetus ab altaribus publicis et fausta nuncupatione non
abduxit patrem? Dignus mehercules fuit memorabili dedicatione, dignus amplissimo sacerdotio, qui colere deos ne iratos quidem destitit. Idem tamen, ut redit domum, et inplevit oculos et aliquas voces flebiles misit; sed peractis quae mos erat praestare defunctis ad Capitolinum illum redit vultum. Paulus circa illos nobilissimi triumphi dies quo vinctum ante currum egit Persen duos filios in adoptionem dedit, duos quos sibi servaverat extulit. Quales retentos putas, cum inter commodatos Scipio fuisset? Non sine motu vacuum Pauli currum populus Romanus aspexit. Contionatus est tamen et egit dis gratias quod compos voti factus esset; precatum enim se ut, si quid ob ingentem victoriam invidiae dandum esset, id suo potius quam publico damno solveretur. Vides quam magno animo tulerit? Orbitati suae gratulatus est. Et quem magis poterat permovere tanta mutatio? Solacia simul atque auxilia perdidit. Non contigit tamen tristem Paulum Persi videre. 14. Quid nunc te per innumerabilia magnorum virorum exempla ducam et quaeram miseros, quasi non difficilius sit invenire felices? Quota enim quaeque domus usque ad exitum omnibus partibus suis constitit, in qua non aliquid turbatum sit? Unum quemlibet annum occupa et ex eo magistratus cita, Lucium si vis Bibulum et C. Caesarem: videbis inter collegas inimicissimos concordem fortunam. L. Bibuli, melioris quam fortioris viri, duo simul filii interfecti sunt, Aegyptio quidem militi ludibrio habiti, ut non minus ipsa orbitate auctor eius digna res lacrimis esset. Bibulus tamen, qui toto honoris sui anno in invidiam collegae domi latuerat, postero die quam geminum funus renuntiatum est processit ad solita imperatoris officia. Quis minus potest quam unum diem duobus filiis dare? Tam cito liberorum luctum finivit qui consulatum anno luxerat. C. Caesar cum Britanniam peragraret nec oceano continere felicitatem suam posset, audit decessisse filiam publica secum fata ducentem. In oculis erat iam Cn. Pompeius non aequo laturus animo quemquam alium esse in re publica magnum et modum inpositurus incrementis, quae gravia illi videbantur etiam cum in commune cresceret. Tamen intra tertium diem imperatoria obit munia et tam cito dolorem vicit quam omnia solebat. 15. Quid aliorum tibi funera Caesarum referam? Quos in hoc mihi videtur interim violare fortuna ut sic quoque generi humano prosint, ostendentes ne eos quidem qui dis geniti deosque genituri dicantur sic suam fortunam in potestate habere quemadmodum alienam. Divus Augustus amissis liberis, nepotibus, exhausta Caesarum turba, adoptione desertam domum fulsit: tulit tamen tam fortiter quam cuius iam res agebatur cuiusque maxime intererat de dis neminem queri. Ti. Caesar et quem genuerat et quem adoptaverat amisit; ipse tamen pro rostris laudavit filium stetitque in conspectu posito corpore, interiecto tantummodo velamento quod pontificis oculos a funere arceret, et flente populo Romano non flexit vultum; experiendum se dedit Seiano ad latus stanti quam patienter posset suos perdere.
Videsne quanta copia virorum maximorum sit quos non excepit hic omnia prosternens casus, et in quos tot animi bona, tot ornamenta publice privatimque congesta erant? Sed videlicet it in orbem ista tempestas et sine dilectu vastat omnia agitque ut sua. Iube singulos conferre rationem: nulli contigit inpune nasci. 16. Scio quid dicas: «oblitus es feminam te consolari, virorum refers exempla». Quis autem dixit naturam maligne cum mulierum ingeniis egisse et virtutes illarum in artum retraxisse? Par illis, mihi crede, vigor, par ad honesta, libeat modo, facultas est; dolorem laboremque ex aequo, si consuevere, patiuntur. In qua istud urbe, di boni, loquimur? In qua regem Romanis capitibus Lucretia et Brutus deiecerunt: Bruto libertatem debemus, Lucretiae Brutum; in qua Cloeliam contempto et hoste et flumine ob insignem audaciam tantum non in viros transcripsimus: equestri insidens statuae in sacra via, celeberrimo loco, Cloelia exprobrat iuvenibus nostris pulvinum escendentibus in ea illos urbe sic ingredi in qua etiam feminas equo donavimus. Quod tibi si vis exempla referri feminarum quae suos fortiter desideraverint, non ostiatim quaeram; ex una tibi familia duas Cornelias dabo: primam Scipionis filiam, Gracchorum matrem. Duodecim illa partus totidem funeribus recognovit; et de ceteris facile est, quos nec editos nec amissos civitas sensit: Tiberium Gaiumque, quos etiam qui bonos viros negaverit magnos fatebitur, et occisos vidit et insepultos. Consolantibus tamen miseramque dicentibus «numquam» inquit «non felicem me dicam, quae Gracchos peperi». Cornelia Livi Drusi clarissimum iuvenem inlustris ingenii, vadentem per Gracchana vestigia inperfectis tot rogationibus intra penates interemptum suos, amiserat incerto caedis auctore. Tamen et acerbam mortem filii et inultam tam magno animo tulit quam ipse leges tulerat. Iam cum fortuna in gratiam, Marcia, reverteris, si tela quae in Scipiones Scipionumque matres ac filias exegit, quibus Caesares petit, ne a te quidem continuit? Plena et infesta variis casibus vita est, a quibus nulli longa pax, vix indutiae sunt. Quattuor liberos sustuleras, Marcia. Nullum aiunt frustra cadere telum quod in confertum agmen inmissum est: mirum est tantam turbam non potuisse sine invidia damnove praetervehi? «At hoc iniquior fortuna fuit quod non tantum eripuit filios sed elegit». Numquam tamen iniuriam dixeris ex aequo cum potentiore dividere: duas tibi reliquit filias et harum nepotes; et ipsum quem maxime luges prioris oblita non ex toto abstulit: habes ex illo duas filias, si male fers, magna onera, si bene, magna solacia. In hoc te perduc ut illas cum videris admonearis filii, non doloris. Agricola eversis arboribus quas aut ventus radicitus avolsit aut contortus repentino impetu turbo praefregit sobolem ex illis residuam fovet et in locum amissarum semina statim plantasque disponit; et momento (nam ut ad damna, ita ad incrementa rapidum veloxque tempus est) adolescunt amissis laetiora. Has nunc Metili tui filias in eius vicem substitue et vacantem locum exple et unum dolorem geminato solacio leva. Est quidem haec natura mortalium, ut nihil magis placeat quam quod amissum est: iniquiores sumus adversus relicta ereptorum desiderio. Sed si aestimare volueris quam
valde tibi fortuna, etiam cum saeviret, pepercerit, scies te habere plus quam solacia: respice tot nepotes, duas filias. Dic illud quoque, Marcia: «moverer, si esset cuique fortuna pro moribus et numquam mala bonos sequerentur: nunc video exempto discrimine eodem modo malos bonosque iactari». 17. «Grave est tamen quem educaveris iuvenem, iam matri iam patri praesidium ac decus amittere». Quis negat grave esse? Sed humanum est. Ad hoc genitus es, ut perderes ut perires, ut sperares metueres, alios teque inquietares, mortem et timeres et optares et, quod est pessimum, numquam scires cuius esses status. Si quis Syracusas petenti diceret: «omnia incommoda, omnes voluptates futurae peregrinationis tuae ante cognosce, deinde ita naviga. Haec sunt quae mirari possis: videbis primum ipsam insulam ab Italia angusto interscissam freto, quam continenti quondam cohaesisse constat; subitum illo mare inrupit et Hesperium Siculo latus abscidit. Deinde videbis (licebit enim tibi avidissimum maris verticem stringere) stratam illam fabulosam Charybdin quam diu ab austro vacat, at, si quid inde vehementius spiravit, magno hiatu profundoque navigia sorbentem. Videbis celebratissimum carminibus fontem Arethusam, nitidissimi ac perlucidi ad imum stagni, gelidissimas aquas profundentem, sive illas ibi primum nascentis invenit, sive inlapsum terris flumen integrum subter tot maria et a confusione peioris undae servatum reddidit. Videbis portum quietissimum omnium quos aut natura posuit in tutelam classium aut adiuvit manus, sic tutum ut ne maximarum quidem tempestatium furori locus sit. Videbis ubi Athenarum potentia fracta, ubi tot milia captivorum ille excisis in infinitam altitudinem saxis nativus carcer incluserat, ipsam ingentem civitatem et laxius territorium quam multarum urbium fines sunt, tepidissima hiberna et nullum diem sine interventu solis. Sed cum omnia ista cognoveris, gravis et insalubris aestas hiberni caeli beneficia corrumpet. Erit Dionysius illic tyrannus, libertatis iustitiae legum exitium, dominationis cupidus etiam post Platonem, vitae etiam post exilium: alios uret, alios verberabit, alios ob levem offensam detruncari iubebit, arcesset ad libidinem mares feminasque et inter foedos regiae intemperantiae greges parum erit simul binis coire. Audisti quid te invitare possit, quid absterrere: proinde aut naviga aut resiste». Post hanc denuntiationem si quis dixisset intrare se Syracusas velle, satisne iustam querellam de ullo nisi de se habere posset, qui non incidisset in illa sed prudens sciensque venisset? Dicit omnibus nobis natura: «neminem decipio. Tu si filios sustuleris, poteris habere formosos, et deformes poteris. Fortasse multi nascentur: esse aliquis ex illis tam servator patriae quam proditor poterit. Non est quod desperes tantae dignationis futuros ut nemo tibi propter illos male dicere audeat; propone tamen et tantae futuros turpitudinis ut ipsi maledicta sint. Nihil vetat illos tibi suprema praestare et laudari te a liberis tuis, sed sic te para tamquam in ignem inpositurus vel puerum vel iuvenem vel senem; nihil enim ad
rem pertinent anni, quoniam nullum non acerbum funus est quod parens sequitur». Post has leges propositas si liberos tollis, omni deos invidia liberas, qui tibi nihil certi spoponderunt. 18. Ad hanc imaginem agedum totius vitae introitum refer. An Syracusas viseres deliberanti tibi quidquid delectare poterat, quidquid offendere exposui: puta nascenti me tibi venire in consilium. «Intraturus es urbem dis hominibus communem, omnia complexam, certis legibus aeternisque devinctam, indefatigata caelestium officia volventem. Videbis illic innumerabiles stellas micare, videbis uno sidere omnia inpleri, solem cotidiano cursu diei noctisque spatia signantem, annuo aestates hiemesque aequalius[que] dividentem. Videbis nocturnam lunae successionem, a fraternis occursibus lene remissumque lumen mutuantem et modo occultam modo toto ore terris imminentem, accessionibus damnisque mutabilem, semper proximae dissimilem. Videbis quinque sidera diversas agentia vias et in contrarium praecipiti mundo nitentia: ex horum levissimis motibus fortunae populorum dependent et maxima ac minima proinde formantur prout aequum iniquumve sidus incessit. Miraberis collecta nubila et cadentis aquas et obliqua fulmina et caeli fragorem. Cum satiatus spectaculo supernorum in terram oculos deieceris, excipiet te alia forma rerum aliterque mirabilis: hinc camporum in infinitum patentium fusa planities, hinc montium magnis et nivalibus surgentium iugis erecti in sublime vertices; deiectus fluminum et ex uno fonte in occidentem orientemque diffusi amnes et summis cacuminibus nemora nutantia et tantum silvarum cum suis animalibus aviumque concentu dissono; varii urbium situs et seclusae nationes locorum difficultate, quarum aliae se in erectos subtrahunt montes, aliae †ripis lacu vallibus pavidae† circumfunduntur; adiuta cultu seges et arbusta sine cultore feritatis; et rivorum lenis inter prata discursus et amoeni sinus et litora in portum recedentia; sparsae tot per vastum insulae, quae interventu suo maria distinguunt. Quid lapidum gemmarumque fulgor et rapidorum torrentium aurum harenis interfluens et in mediis terris medioque rursus mari †terret† ignium faces et vinculum terrarum oceanus, continuationem gentium triplici sinu scindens et ingenti licentia exaestuans? Videbis hic inquietis et sine vento fluctuantibus aquis innare excedenti terrestria magnitudine animalia, quaedam gravia et alieno se magisterio moventia, quaedam velocia et concitatis perniciora remigiis, quaedam haurientia undas et magno praenavigantium periculo efflantia; videbis hic navigia quas non novere terras quaerentia. Videbis nihil humanae audaciae intemptatum erisque et spectator et ipse pars magna conantium: disces docebisque artes, alias quae vitam instruant, alias quae ornent, alias quae regant. Sed istic erunt mille corporum, animorum pestes, et bella et latrocinia et venena et naufragia et intemperies caeli corporisque et carissimorum acerba desideria et mors, incertum facilis an per poenam cruciatumque. Delibera tecum et perpende quid velis: ut ad illa venias, per illa exeundum est». Respondebis velle te vivere. Quidni? Immo, puto, ad id non accedes ex quo tibi aliquid decuti doles! Vive
ergo ut convenit. «Nemo» inquis «nos consuluit». Consulti sunt de nobis parentes nostri, qui, cum condicionem vitae nossent, in hanc nos sustulerunt. 19. Sed ut ad solacia veniam, videamus primum quid curandum sit, deinde quemadmodum. Movet lugentem desiderium eius quem dilexit. Id per se tolerabile esse apparet; absentis enim afuturosque dum vivent non flemus, quamvis omnis usus nobis illorum cum conspectu ereptus sit; opinio est ergo quae nos cruciat, et tanti quodque malum est quanti illud taxavimus. In nostra potestate remedium habemus: iudicemus illos abesse et nosmet ipsi fallamus; dimisimus illos, immo consecuturi praemisimus. Movet et illud lugentem: «non erit qui me defendat, qui a contemptu vindicet». Ut minime probabili sed vero solacio utar, in civitate nostra plus gratiae orbitas confert quam eripit, adeoque senectutem solitudo, quae solebat destruere, ad potentiam ducit ut quidam odia filiorum simulent et liberos eiurent, orbitatem manu faciant. Scio quid dicas: «non movent me detrimenta mea; etenim non est dignus solacio qui filium sibi decessisse sicut mancipium moleste fert, cui quicquam in filio respicere praeter ipsum vacat». Quid igitur te, Marcia, movet? Utrum quod filius tuus decessit an quod non diu vixit? Si quod decessit, semper debuisti dolere; semper enim scisti moriturum. Cogita nullis defunctum malis adfici, illa quae nobis inferos faciunt terribiles, fabulas esse, nullas imminere mortuis tenebras nec carcerem nec flumina igne flagrantia nec Oblivionem amnem nec tribunalia et reos et in illa libertate tam laxa ullos iterum tyrannos: luserunt ista poetae et vanis nos agitavere terroribus. Mors dolorum omnium exsolutio est et finis ultra quem mala nostra non exeunt, quae nos in illam tranquillitatem in qua antequam nasceremur iacuimus reponit. Si mortuorum aliquis miseretur, et non natorum misereatur. Mors nec bonum nec malum est; id enim potest aut bonum aut malum esse quod aliquid est; quod vero ipsum nihil est et omnia in nihilum redigit, nulli nos fortunae tradit. Mala enim bonaque circa aliquam versantur materiam: non potest id fortuna tenere quod natura dimisit, nec potest miser esse qui nullus est. Excessit filius tuus terminos intra quos servitur, excepit illum magna et aeterna pax: non paupertatis metu, non divitiarum cura, non libidinis per voluptatem animos carpentis stimulis incessitur, non invidia felicitatis alienae tangitur, non suae premitur, ne conviciis quidem ullis verecundae aures verberantur; nulla publica clades prospicitur, nulla privata; non sollicitus futuri pendet ex eventu semper †in certiora dependenti†. Tandem ibi constitit unde nil eum pellat, ubi nihil terreat. 20. O ignaros malorum suorum, quibus non mors ut optimum inventum naturae laudatur expectaturque, sive felicitatem includit, sive calamitatem repellit, sive satietatem ac lassitudinem senis terminat, sive iuvenile aevum dum meliora sperantur in flore deducit, sive pueritiam ante duriores gradus revocat, omnibus finis, multis remedium, quibusdam votum, de nullis melius merita quam de iis ad quos venit antequam invocaretur. Haec servitutem invito domino remittit; haec
captivorum catenas levat; haec e carcere educit quos exire imperium inpotens vetuerat; haec exulibus in patriam semper animum oculosque tendentibus ostendit nihil interesse infra quos quis iaceat; haec, ubi res communes fortuna male divisit et aequo iure genitos alium alii donavit, exaequat omnia; haec est post quam nihil quisquam alieno fecit arbitrio; haec est in qua nemo humilitatem suam sensit; haec est quae nulli non patuit; haec est, Marcia, quam pater tuus concupit; haec est, inquam, quae efficit ut nasci non sit supplicium, quae efficit ut non concidam adversus minas casuum, ut servare animum salvum ac potentem sui possim: habeo quod appellem. Video istic cruces ne unius quidem generis sed aliter ab aliis fabricatas: capite quidam conversos in terram suspendere, alii per obscena stipitem egerunt, alii brachia patibulo explicuerunt; video fidiculas, video verbera, et †membris singulis articulis† singula †docuerunt† machinamenta: sed video et mortem. Sunt istic hostes cruenti, cives superbi: sed video istic et mortem. Non est molestum servire ubi, si dominii pertaesum est, licet uno gradu ad libertatem transire. Caram te, vita, beneficio mortis habeo. Cogita quantum boni opportuna mors habeat, quam multis diutius vixisse nocuerit. Si Gnaeum Pompeium, decus istud firmamentumque imperii, Neapoli valetudo abstulisset, indubitatus populi Romani princeps excesserat: at nunc exigui temporis adiectio fastigio illum suo depulit. Vidit legiones in conspectu suo caesas et ex illo proelio in quo prima acies senatus fuit – quam infelices reliquiae sunt! – ipsum imperatorem superfuisse; vidit Aegyptium carnificem et sacrosanctum victoribus corpus satelliti praestitit, etiam si incolumis fuisset paenitentiam salutis acturus; quid enim erat turpius quam Pompeium vivere beneficio regis? M. Cicero si illo tempore quo Catilinae sicas devitavit, quibus pariter cum patria petitus est, concidisset, liberata re publica servator eius, si denique filiae suae funus secutus esset, etiamtunc felix mori potuit. Non vidisset strictos in civilia capita mucrones nec divisa percussoribus occisorum bona, ut etiam de suo perirent, non hastam consularia spolia vendentem nec caedes locatas publice nec latrocinia, bella, rapinas, tantum Catilinarum. M. Catonem si a Cypro et hereditatis regiae dispensatione redeuntem mare devorasset vel cum illa ipsa pecunia quam adferebat civili bello stipendium, nonne illi bene actum foret? Hoc certe secum tulisset, neminem ausurum coram Catone peccare: nunc annorum adiectio paucissimorum virum libertati non suae tantum sed publicae natum coegit Caesarem fugere, Pompeium sequi. Nihil ergo illi mali inmatura mors attulit: omnium etiam malorum remisit patientiam. 21. «Nimis tamen cito perit et inmaturus». Primum puta illi superfuisse – comprende quantum plurimum procedere homini licet: quantum est? Ad brevissimum tempus editi, cito cessuri loco venienti inpactum hoc prospicimus hospitium. De nostris aetatibus loquor, quas incredibili celeritate †convolvit†? Computa urbium saecula: videbis quam non diu steterint etiam quae vetustate gloriantur. Omnia humana brevia et caduca sunt et infiniti temporis nullam partem occupantia. Terram hanc cum urbibus populisque et fluminibus et ambitu maris
puncti loco ponimus ad universa referentes: minorem portionem aetas nostra quam puncti habet, si omni tempori comparetur, cuius maior est mensura quam mundi, utpote cum ille se intra huius spatium totiens remetiatur. Quid ergo interest id extendere cuius quantumcumque fuerit incrementum non multum aberit a nihilo? Uno modo multum est quod vivimus, si satis est. Licet mihi vivaces et in memoriam traditae senectutis viros nomines, centenos denosque percenseas annos: cum ad omne tempus dimiseris animum, nulla erit illa brevissimi longissimique aevi differentia, si inspecto quanto quis vixerit spatio comparaveris quanto non vixerit. Deinde sibi maturus decessit; vixit enim quantum debuit vivere, nihil illi iam ultra supererat. Non una hominibus senectus est, ut ne animalibus quidem: intra quattuordecim quaedam annos defetigavit, et haec illis longissima aetas est quae homini prima; dispar cuique vivendi facultas data est. Nemo nimis cito moritur, quia victurus diutius quam vixit non fuit. Fixus est cuique terminus: manebit semper ubi positus est nec illum ulterius diligentia aut gratia promovebit. Sic habe, te illum ex consilio perdidisse: tulit suum metasque dati pervenit ad aevi. Non est itaque quod sic te oneres: «potuit diutius vivere». Non est interrupta eius vita nec umquam se annis casus intericit. Solvitur quod cuique promissum est; eunt via sua fata nec adiciunt quicquam nec ex promisso semel demunt. Frustra vota ac studia sunt: habebit quisque quantum illi dies primus adscripsit. Ex illo quo primum lucem vidit iter mortis ingressus est accessitque fato propior et illi ipsi qui adiciebantur adulescentiae anni vitae detrahebantur. In hoc omnes errore versamur, ut non putemus ad mortem nisi senes inclinatosque iam vergere, cum illo infantia statim et iuventa, omnis aetas ferat. Agunt opus suum fata: nobis sensum nostrae necis auferunt, quoque facilius obrepat, mors sub ipso vitae nomine latet: infantiam in se pueritia convertit, pueritiam pubertas, iuvenem senex abstulit. Incrementa ipsa, si bene computes, damna sunt. 22. Quereris, Marcia, non tam diu filium tuum vixisse quam potuisset? Unde enim scis an diutius illi expedierit vivere, an illi hac morte consultum sit? Quemquam invenire hodie potes cuius res tam bene positae fundataeque sint ut nihil illi procedente tempore timendum sit? Labant humana ac fluunt neque ulla pars vitae nostrae tam obnoxia aut tenera est quam quae maxime placet, ideoque felicissimis optanda mors est, quia in tanta inconstantia turbaque rerum nihil nisi quod praeterit certum est. Quis tibi recipit illud fili tui pulcherrimum corpus et summa pudoris custodia inter luxuriosae urbis oculos conservatum potuisse tot morbos ita evadere ut ad senectutem inlaesum perferret formae decus? Cogita animi mille labes; neque enim recta ingenia qualem in adulescentia spem sui fecerant usque in senectutem pertulerunt, sed interversa plerumque sunt: aut sera eoque foedior luxuria invasit coepitque dehonestare speciosa principia, aut in
popinam ventremque procubuerunt toti summaque illis curarum fuit quid essent, quid biberent. Adice incendia ruinas naufragia lacerationesque medicorum ossa vivis legentium et totas in viscera manus demittentium et non per simplicem dolorem pudenda curantium; post haec exilium (non fuit innocentior filius tuus quam Rutilius), carcerem (non fuit sapientior quam Socrates), voluntario vulnere transfixum pectus (non fuit sanctior quam Cato): cum ista perspexeris, scies optime cum iis agi quos natura, quia illos hoc manebat vitae stipendium, cito in tutum recepit. Nihil est tam fallax quam vita humana, nihil tam insidiosum: non mehercules quisquam illam accepisset, nisi daretur ignorantibus. Itaque si felicissimum est non nasci, proximum est, puto, brevi aetate defunctos cito in integrum restitui. Propone illud acerbissimum tibi tempus, quo Seianus patrem tuum clienti suo Satrio Secundo congiarium dedit. Irascebatur illi ob unum aut alterum liberius dictum, quod tacitus ferre non potuerat Seianum in cervices nostras ne inponi quidem sed escendere. Decernebatur illi statua in Pompei theatro ponenda, quod exustum Caesar reficiebat: exclamavit Cordus tunc vere theatrum perire. Quid ergo? Non rumperetur supra cineres Cn. Pompei constitui Seianum et in monumentis maximi imperatoris consecrari perfidum militem? Consignatur subscriptio, et acerrimi canes, quos ille, ut sibi uni mansuetos, omnibus feros haberet, sanguine humano pascebat, circumlatrare hominem etiam illo periculo interritum incipiunt. Quid faceret? Si vivere vellet, Seianus rogandus erat, si mori, filia, uterque inexorabilis: constituit filiam fallere. Usus itaque balineo quo plus virium poneret, in cubiculum se quasi gustaturus contulit et dimissis pueris quaedam per fenestram, ut videretur edisse, proiecit; a cena deinde, quasi iam satis in cubiculo edisset, abstinuit. Altero quoque die et tertio idem fecit; quartus ipsa infirmitate corporis faciebat indicium. Complexus itaque te, «carissima» inquit «filia et hoc unum tota celata vita, iter mortis ingressus sum et iam medium fere teneo; revocare me nec debes nec potes». Atque ita iussit lumen omne praecludi et se in tenebras condidit. Cognito consilio eius publica voluptas erat, quod e faucibus avidissimorum luporum educeretur praeda. Accusatores auctore Seiano adeunt consulum tribunalia, queruntur mori Cordum, ut interpellarent quod coegerant: adeo illis Cordus videbatur effugere. Magna res erat in quaestione, an mortis ius rei perderent; dum deliberatur, dum accusatores iterum adeunt, ille se absolverat. Videsne, Marcia, quantae iniquorum temporum vices ex inopinato ingruant? Fles quod alicui tuorum mori necesse fuit? Paene non licuit. 23. Praeter hoc quod omne futurum incertum est et ad deteriora certius, facillimum ad superos iter est animis cito ab humana conversatione dimissis; minimum enim faecis, ponderis traxerunt. Antequam obdurescerent et altius terrena conciperent liberati leviores ad originem suam revolant et facilius quidquid est illud obsoleti inlitique eluunt. Nec umquam magnis ingeniis cara in corpore mora est: exire atque erumpere gestiunt, aegre has angustias ferunt,
vagari per omne sublimes et ex alto adsueti humana despicere. Inde est quod Platon clamat: sapientis animum totum in mortem prominere, hoc velle, hoc meditari, hac semper cupidine ferri in exteriora tendentem. Quid? Tu, Marcia, cum videres senilem in iuvene prudentiam, victorem omnium voluptatium animum, emendatum, carentem vitio, divitias sine avaritia, honores sine ambitione, voluptates sine luxuria adpetentem, diu tibi putabas illum sospitem posse contingere? Quidquid ad summum pervenit ab exitu prope est; eripit se aufertque ex oculis perfecta virtus, nec ultimum tempus expectant quae in primo maturuerunt. Ignis quo clarior fulsit citius extinguitur: vivacior est qui cum lenta ac difficili materia commissus fumoque demersus ex sordido lucet; eadem enim detinet causa quae maligne alit. Sic ingenia quo inlustriora, breviora sunt; nam ubi incremento locus non est, vicinus occasus est. Fabianus ait, id quod nostri quoque parentes videre, puerum Romae fuisse statura ingentis viri ante annos; sed hic cito decessit, et moriturum brevi nemo non prudens dixit; non poterat enim ad illam aetatem pervenire quam praeceperat. Ita est: indicium imminentis exitii nimia maturitas est; adpetit finis ubi incrementa consumpta sunt. 24. Incipe virtutibus illum, non annis aestimare: satis diu vixit. Pupillus relictus sub tutorum cura usque ad quartum decimum annum fuit, sub matris tutela semper. Cum haberet suos penates, relinquere tuos noluit et in materno contubernio, cum vix paternum liberi ferant, perseveravit. Adulescens statura, pulchritudine, certo corporis robore castris natus militiam recusavit, ne a te discederet. Computa, Marcia, quam raro liberos videant quae in diversis domibus habitant; cogita tot illos perire annos matribus et per sollicitudinem exigi quibus filios in exercitu habent: scies multum patuisse hoc tempus ex quo nil perdidisti. Numquam e conspectu tuo recessit; sub oculis tuis studia formavit excellentis ingeni et aequaturi avum nisi obstitisset verecundia, quae multorum profectus silentio pressit. Adulescens rarissimae formae in tam magna feminarum turba viros corrumpentium nullius se spei praebuit, et cum quarundam usque ad temptandum pervenisset inprobitas, erubuit quasi peccasset quod placuerat. Hac sanctitate morum effecit ut puer admodum dignus sacerdotio videretur, materna sine dubio suffragatione, sed ne mater quidem nisi pro bono candidato valuisset. Harum contemplatione virtutum filium gere quasi sinu. Nunc ille tibi magis vacat, nunc nihil habet quo avocetur; numquam tibi sollicitudini, numquam maerori erit. Quod unum ex tam bono filio poteras dolere, doluisti: cetera, exempta casibus, plena voluptatis sunt, si modo uti filio scis, si modo quid in illo pretiosissimum fuerit intellegis. Imago dumtaxat fili tui perit et effigies non simillima, ipse quidem aeternus meliorisque nunc status est, despoliatus oneribus alienis et sibi relictus. Haec quae vides circumiecta nobis, ossa nervos et obductam cutem vultumque et ministras manus et cetera quibus involuti sumus, vincula animorum tenebraeque sunt; obruitur his, offocatur inficitur, arcetur a veris et suis in falsa coiectus. Omne illi cum hac gravi carne certamen est, ne abstrahatur et sidat; nititur illo unde demissus est. Ibi illum aeterna requies manet
ex confusis crassisque pura et liquida visentem. 25. Proinde non est quod ad sepulcrum fili tui curras: pessima eius et ipsi molestissima istic iacent, ossa cineresque, non magis illius partes quam vestes aliaque tegimenta corporum. Integer ille nihilque in terris relinquens sui fugit et totus excessit; paulumque supra nos commoratus, dum expurgatur et inhaerentia vitia situmque omnem mortalis aevi excutit, deinde ad excelsa sublatus inter felices currit animas. Excepit illum coetus sacer, Scipiones Catonesque, interque contemptores vitae et mortis beneficio liberos parens tuus, Marcia. Ille nepotem suum – quamquam illic omnibus omne cognatum est – adplicat sibi nova luce gaudentem et vicinorum siderum meatus docet, nec ex coniectura sed omnium ex vero peritus in arcana naturae libens ducit; utque ignotarum urbium monstrator hospiti gratus est, ita sciscitanti caelestium causas domesticus interpres. Et in profunda terrarum permittere aciem iubet; iuvat enim ex alto relicta despicere. Sic itaque te, Marcia, gere, tamquam sub oculis patris filique posita, non illorum quos noveras, sed tanto excelsiorum et in summo locatorum. Erubesce quicquam humile aut vulgare cogitare et mutatos in melius tuos flere. Aeternarum rerum per libera et vasta spatia dimissos non illos interfusa maria discludunt nec altitudo montium aut inviae valles aut incertarum vada Syrtium: omnia in plano habent et ex facili mobiles et expediti et in vicem pervii sunt intermixtique sideribus. 26. Puta itaque ex illa arce caelesti patrem tuum, Marcia, cui tantum apud te auctoritatis erat quantum tibi apud filium tuum, non illo ingenio quo civilia bella deflevit, quo proscribentis in aeternum ipse proscripsit, sed tanto elatiore quanto est ipse sublimior dicere: «cur te, filia, tam longa tenet aegritudo? Cur in tanta veri ignoratione versaris ut inique actum cum filio tuo iudices quod integro domus statu integer ipse se ad maiores recepit suos? Nescis quantis fortuna procellis disturbet omnia, quam nullis benignam facilemque se praestiterit nisi qui minimum cum illa contraxerant? Regesne tibi nominem felicissimos futuros si maturius illos mors instantibus subtraxisset malis? An Romanos duces, quorum nihil magnitudini deerit si aliquid aetati detraxeris? An nobilissimos viros clarissimosque ad ictum militaris gladi composita cervice firmatos? Respice patrem atque avum tuum: ille in alieni percussoris venit arbitrium; ego nihil in me cuiquam permisi et cibo prohibitus ostendi tam magno me quam vivebam animo scripsisse. Cur in domo nostra diutissime lugetur qui felicissime moritur? Coimus omnes in unum videmusque non alta nocte circumdati nil apud vos, ut putatis, optabile, nil excelsum, nil splendidum, sed humilia cuncta et gravia et anxia et quotam partem luminis nostri cernentia! Quid dicam nulla hic arma mutuis furere concursibus nec classes classibus frangi nec parricidia aut fingi aut cogitari nec fora litibus strepere dies perpetuos, nihil in obscuro, detectas mentes et aperta praecordia et in publico medioque vitam et omnis aevi prospectum venientiumque? Iuvabat unius me saeculi facta componere in parte ultima mundi
et inter paucissimos gesta: tot saecula, tot aetatium contextum, seriem, quidquid annorum est, licet visere; licet surrectura, licet ruitura regna prospicere et magnarum urbium lapsus et maris novos cursus. Nam si tibi potest solacio esse desideri tui commune fatum, nihil quo stat loco stabit, omnia sternet abducetque secum vetustas. Nec hominibus solum (quota enim ista fortuitae potentiae portio est?) sed locis, sed regionibus, sed mundi partibus ludet. Totos supprimet montes et alibi rupes in altum novas exprimet; maria sorbebit, flumina avertet et commercio gentium rupto societatem generis humani coetumque dissolvet; alibi hiatibus vastis subducet urbes, tremoribus quatiet, et ex infimo pestilentiae halitus mittet et inundationibus quidquid habitatur obducet necabitque omne animal orbe submerso et ignibus vastis torrebit incendetque mortalia. Et cum tempus advenerit quo se mundus renovaturus extinguat, viribus ista se suis caedent et sidera sideribus incurrent et omni flagrante materia uno igni quidquid nunc ex disposito lucet ardebit. Nos quoque felices animae et aeterna sortitae, cum deo visum erit iterum ista moliri, labentibus cunctis et ipsae parva ruinae ingentis accessio in antiqua elementa vertemur». Felicem filium tuum, Marcia, qui ista iam novit!
Consolazione a Marcia
Premessa L’iniziatore del genere letterario delle “consolazioni” fu Crantore di Soli (morto nel 270 a.C.), che nello scritto Sul dolore (non pervenutoci) opponeva alla dottrina stoica dell’apatia quella della metriopatia (moderazione delle passioni), sostenendo che la vera forza dell’uomo risiede più che nel sopportare il dolore nella volontà di conservare la sensibilità anche nei mali fisici più atroci, «perché l’immunità dal dolore non si ottiene se non pagando un prezzo molto alto: l’abbrutimento dell’anima e la paralisi del corpo». Lo scritto di Crantore divenne il modello dei trattati che andarono sotto il nome di “consolazioni”. Marcia era una nobildonna romana, figlia di Cremuzio Cordo, senatore e storiografo, che negli Annali aveva elogiato Bruto e Cassio, uccisori di Cesare, e che per questo, accusato di lesa maestà da Seiano, prefetto del pretorio e consigliere dell’imperatore Tiberio, dopo essersi difeso, certo della condanna, si era suicidato. L’imperatore diede agli edili l’ordine di bruciare i suoi scritti, che però erano stati ben nascosti e furono poi pubblicati dalla figlia. In quell’occasione Marcia aveva dimostrato un grande coraggio nel sopportare la morte del padre. Ora, rimasta vedova (forse divorziata), dei suoi quattro figli aveva perso i due maschi, fra cui Metilio, il prediletto, morto suicida. Alla data di questa consolatoria erano passati tre anni, ma il rimpianto del figlio era ancora molto forte in Marcia, che, chiusa in un tacito dolore, si era isolata da tutti e usciva di casa solo per recarsi presso la tomba di Metilio. Seneca cerca di dimostrarle che la reazione al dolore per la perdita di una persona cara – che non esiste più – è dovuta a un impulso irrazionale, e che d’altra parte il nostro destino, compreso il momento della morte, è stabilito fin dall’atto della nostra nascita, per cui non serve prendersela con la cattiva sorte (mutari fata non possunt, dice Cicerone). La vita, aggiunge Seneca, comporta una lunga serie di mali e di sventure, e a conforto della propria tesi ricorda a Marcia molti esempi di personaggi illustri che seppero sopportare con animo forte la perdita dei loro cari, per dimostrarle che la malasorte non risparmia nemmeno i potenti. Il dolore può essere attenuato se lo si prevede, se si tiene sempre presente che le disgrazie possono colpirci in ogni momento (come dice Dante, «saetta previsa vien più lenta»). Occorre dunque conservare un ricordo sereno delle persone care che non ci sono più, pensando non al loro corpo e alla loro presenza fisica, ma alla loro anima, che, libera da qualsiasi male e da qualsiasi sofferenza, è tornata al suo luogo di origine, dove gode di una pace eterna e della contemplazione di tutto ciò che è limpido e puro, fuori dalla concretezza della materia. M. S. A.
1. Carissima Marcia, se non sapessi che sei lontana non solo dalle debolezze tipiche delle donne ma anche dai difetti degli altri in generale e che i tuoi costumi sono considerati quasi un esempio dell’antica virtù, non oserei contrastare il tuo dolore, tanto più perché anche gli uomini si lasciano prendere facilmente, sino a compiacersene, dal rimpianto delle persone care, né avrei concepito la speranza che tu stessa, da sola – in un momento così difficile, con un giudice tanto ostile e una tanto odiosa imputazione – potessi liberarti dalla sofferenza che ti ha inflitto la sorte. Di ciò mi hanno fatto sicuro la tua sperimentata forza d’animo e la tua virtù già confermata in una dura prova. Tutti sanno, infatti, come ti sei comportata di fronte a tuo padre,1 che amavi quanto i tuoi figli, non al punto, però, da desiderare che ti sopravvivesse, o forse lo
desideravi, perché l’affetto quando è grande può permettersi anche di opporsi alle leggi della natura. Hai cercato di impedire con tutte le tue forze il suicidio di lui, Aulo Cremuzio Cordo. Ma quando ti fu chiaro che di fronte agli sgherri di Seiano2 quello era per tuo padre il solo modo di sfuggire alla schiavitù, se non assecondasti il suo proposito, rinunciasti però a contrastarlo e, soffocando i tuoi gemiti ma senza nasconderli dietro un volto giulivo, versasti lacrime davanti a tutti, quando in quegli anni era un atto di grande rispetto il trattenersi dal pianto per non offendere l’imperatore. Non appena le mutate circostanze te ne offrirono l’occasione mettesti a disposizione di tutti l’ingegnosa opera di tuo padre, ch’era stata il pretesto per la sua condanna, e lo sottraesti così alla vera morte, restituendo alle pubbliche memorie i libri che quell’uomo tanto coraggioso aveva scritto col suo sangue. Sei davvero una benemerita della cultura romana (gran parte di quei libri era stata distrutta dal fuoco): benemerita al cospetto dei posteri, ai quali arriverà una fedele testimonianza dei fatti, pagata a così caro prezzo dal suo autore; benemerita di fronte a lui, la cui memoria vive e vivrà, finché sarà un vanto conoscere tutto ciò che è romano, finché esisterà qualcuno desideroso di risalire alle gesta dei padri, qualcuno che vorrà sapere cosa significhi essere romano, essere un uomo indomito quando tutti avevano piegato la testa e subìto il giogo di Seiano; un uomo libero di mente, d’animo e di azione. Se tu non lo avessi strappato all’oblio, mettendone in luce le doti migliori, l’eloquenza e la libertà, lo Stato, per Ercole, ne avrebbe avuto un danno non indifferente! Ora, invece, lo si legge, ritorna vivo, sta fra le mani e nei cuori di tutti, non teme più il tempo; dei suoi carnefici, invece, ben presto non si narreranno più nemmeno i delitti, che sono le sole azioni per cui sono ricordati. Questa tua grandezza d’animo è tale che io quasi non bado al tuo essere donna, al tuo volto segnato, come per tanti anni in passato, da un’ombra di continua tristezza. E guarda che io non cerco d’introdurmi di nascosto nei tuoi sentimenti per rubarti qualcosa: ti ho ricordato antiche sventure, mostrandoti la cicatrice di una ferita profonda affinché tu sappia che anche questa piaga può essere sanata. Altri usino carezze e blandizie, io intendo lottare contro il tuo dolore e porre un argine alle lacrime dei tuoi occhi ormai stanchi ed esausti, le quali scorrono, se vuoi sapere la verità, più per abitudine che per un bisogno effettivo. E lo farò col tuo aiuto, se sarà possibile, altrimenti contro la tua volontà, anche se ti terrai stretta al dolore che hai fatto tuo quasi per riempire il posto lasciato vuoto da tuo figlio. Non so come possa finire diversamente, visto che tutti i rimedi adottati sono stati vani: inutili le esortazioni degli amici, che hanno cercato di consolarti sino all’esaurimento, dei personaggi illustri della tua parentela, che hanno esercitato tutto il loro ascendente verso di te, inutili gli studi letterari, il bene più grande lasciatoti in eredità da tuo padre: le tue orecchie sono state sorde a tutto questo, o vi hanno prestato una fugace attenzione, tale da procurare al tuo animo solo un breve sollievo. Anche il tempo, la medicina più naturale, che riesce a placare gli affanni più gravi, non ha avuto alcuna presa su di te. Tre anni sono trascorsi,
ormai, e il dolore nulla ha perso del suo vigore iniziale, anzi, si rinnova di giorno in giorno e si ravviva, accampando così il suo diritto di durare a lungo e considerando un disonore abbandonare il campo. Come tutti i vizi, se non vengono estirpati al loro insorgere, si radicano nel profondo, così anche questi sentimenti tristi e miserevoli, che incrudeliscono contro sé stessi, si nutrono della loro stessa amarezza, finché il dolore diventa per l’animo infelice una voluttà cieca e perversa. Per questo motivo avrei voluto iniziare questa cura fin dall’insorgere del male, perché nella sua fase iniziale si sarebbe potuto circoscriverne la forza con una medicina più blanda, mentre contro i mali inveterati bisogna lottare più duramente. Così è anche per le ferite, che sono più facili da guarire quando il sangue è ancora fresco, quando invece si sono infettate, degenerando in piaghe purulenti, occorre cauterizzarle, esplorarle con le dita sino in fondo. Ora io non posso trattare un dolore così duro e resistente, qual è il tuo, con riguardo e delicatezza: bisogna che lo spezzi. 2. Generalmente quando si vogliono dare dei consigli si comincia con delle massime e si conclude con degli esempi. A volte, però, conviene invertire questa consuetudine, perché ci sono persone e persone: alcuni si lasciano guidare dai ragionamenti, altri hanno bisogno di esempi d’uomini illustri o autorevoli che siano in grado di far presa su di loro. A te piacciono le belle azioni, e allora io ti metterò davanti agli occhi due massimi esempi del tuo sesso e del tuo tempo, il primo di una donna che si lasciò vincere dal dolore, il secondo di un’altra che, colpita da un’analoga disgrazia e con un danno maggiore, non si lasciò dominare a lungo dal dolore, ma seppe riacquistare ben presto il suo stato d’animo abituale. Ottavia e Livia – rispettivamente sorella e moglie di Augusto – persero i propri figli ancor giovani, quando ciascuna di esse era certa che il suo sarebbe diventato imperatore. Ottavia aveva perduto Marcello, sul quale lo zio-suocero3 aveva già cominciato a fare affidamento addossandogli il peso del governo: un giovane portato all’azione, d’ingegno brillante, di una frugalità e di una continenza davvero ammirevoli per quell’età e per gli agi di cui godeva, tollerante delle fatiche, alieno dai piaceri e capace di sostenere qualsiasi carico gli fosse stato imposto o, per così dire, accumulato sulle spalle dallo zio. Augusto aveva oculatamente individuato in lui le fondamenta adatte a reggere qualunque peso. Ottavia per tutto il resto della sua vita non smise mai di piangere e di dolersi, né accettò parole di conforto da chicchessia, e nemmeno distrazioni, presa com’era da un solo pensiero e fissata unicamente in esso. Insomma, restò sempre quella che era stata il giorno del funerale, non perché le mancasse la forza di risollevarsi, ma perché rifiutò ogni conforto, convinta che se avesse smesso di piangere avrebbe come perso il figlio una seconda volta. Rifiutò di tenere presso di sé qualunque ritratto di lui, che pure aveva tanto amato, e non volle nemmeno sentirne parlare. Detestava tutte le madri e s’infuriava soprattutto contro Livia, convinta che al figlio di costei fosse passata quella felicità che lei si era augurata per il suo. Dedita al buio e alla solitudine e priva di riguardo
anche verso il fratello, disdegnava persino i versi composti per celebrare la memoria di Marcello e tutte le altre iniziative in onore di lui, sorda a ogni parola di conforto. Rifiutandosi di partecipare alle cerimonie ufficiali e detestando persino la gloria troppo splendida della grandezza fraterna, si ritirò isolandosi dal mondo, circondata solo dai figli e dai nipoti, senza mai deporre l’abito da lutto e provocando il risentimento di tutti i suoi familiari, perché pur essendo questi ancora vivi lei si comportava come se fossero morti. 3. Livia aveva perduto il figlio Druso, che doveva diventare un grande imperatore ed era già famoso come generale. Penetrato nel cuore della Germania, aveva piantato le insegne di Roma in una regione dove poco o nulla si sapeva dell’esistenza stessa dei Romani. Nel corso della spedizione si era guadagnato la simpatia dei nemici, i quali, dopo aver indetto una tregua per la sua malattia, ne avevano seguito rispettosamente il decorso senza nemmeno curarsi se quell’evento potesse tornare a loro vantaggio. Quando morì fu vivamente compianto da tutti i cittadini, dagli abitanti delle province e di tutta l’Italia, attraverso la quale le sue spoglie furono trasportate sino a Roma con un corteo funebre che sembrava un trionfo, mentre le popolazioni dei municipi e delle colonie si riversavano in massa lungo la strada per rendergli l’estremo omaggio. La madre non poté dunque ricevere gli ultimi baci del figlio e le estreme parole d’affetto dalla sua bocca. Dopo aver seguito in un lungo viaggio attraverso l’Italia le spoglie mortali di Druso, rinnovando via via il suo dolore davanti ai roghi eretti lungo la strada in onore del figlio, quasi che ogni volta ne intravedesse la morte, non appena lo ebbe deposto nel sepolcro, seppellì con lui anche il suo lutto, né si dolse più del lecito per il rispetto dovuto all’imperatore, né più del giusto per il fatto che le restava un altro figlio.4 Non cessò poi di celebrare il nome di Druso, di nominarlo sia in pubblico che in privato, di parlarne molto volentieri e di sentirne parlare: visse, insomma, col ricordo di lui, un ricordo che non si può custodire e ravvivare degnamente se lo si trasforma in un assillo crudele. Scegli, dunque, fra questi due esempi quello che ti sembra più apprezzabile. Se decidi di seguire il primo, ti escluderai dal numero dei viventi, respingerai i figli degli altri, i tuoi e quello stesso che rimpiangi; sarai un triste presagio per le madri che incontrerai, rifiuterai i piaceri onesti e leciti, come se fossero disdicevoli alla tua sorte, odierai la luce del giorno e detesterai la tua vita perché non ti precipita al più presto verso la fine, e – cosa assai più vergognosa e lontanissima dal tuo animo certamente migliore – dimostrerai di non voler vivere e di non saper morire. Se invece accetterai il secondo esempio, più moderato e più mite, dell’altra nobilissima donna, non vivrai più nell’angoscia né ti struggerai nel tormento. Che follia, insomma, è quella di aggiungere sofferenze all’infelicità, aumentando da sé stessi i propri mali? Conserva anche in questa circostanza quella probità di costumi e quella riservatezza che hai
osservato in tutta la tua vita, perché pure la sofferenza richiede un certo pudore. Quello stesso giovane, molto più degno se potrà allietarti ogni volta che lo nominerai o lo penserai, potrai onorarlo maggiormente se verrà incontro a sua madre ilare e gioioso quale soleva essere da vivo. 4. Non ti darò consigli troppo duri, tali da indurti a sopportare i casi umani in modo disumano: sarebbe come se pretendessi di asciugare gli occhi di una madre nel giorno stesso dei funerali del figlio. Andremo insieme da un arbitro e discuteremo fra noi se il dolore debba essere intenso o duraturo. Sono certo che l’esempio di Giulia Augusta, di cui sei stata intima amica, ti sarà maggiormente gradito: accetta dunque il consiglio che lei stessa ti dà. In un primo momento, quando il dolore nel suo impeto iniziale – come suole accadere – era più insopportabile e feroce, Giulia Augusta chiese conforto ad Areo, 5 il filosofo di suo marito, e alla fine confessò che i suoi insegnamenti le avevano giovato molto, più del popolo romano, che lei non voleva turbare con la sua tristezza, più di Augusto, il quale, privato di uno dei suoi due sostegni, vacillava e non poteva essere afflitto ancora di più dal pianto dei suoi familiari; più del figlio Tiberio, il cui affetto, in quella morte prematura e compianta da tutti, era tale che lei sentiva la mancanza del figlio solo perché ne aveva perso uno. Io penso che Areo, trovandosi di fronte a una donna tanto riservata e attenta alla propria reputazione, abbia introdotto il suo discorso in questo modo, cominciando più o meno così: «Cara Giulia, per quanto mi risulta, visto che frequento spesso tuo marito e conosco non solo ciò che la gente dice di voi due ma anche i vostri più segreti moti interiori, tu sino a oggi ti sei comportata in modo che nessuno potesse muoverti il minimo rimprovero, non solo nelle cose di grande importanza ma anche in quelle di poco conto, evitando così di dovertele poi far perdonare dall’opinione pubblica, che è la voce più critica e più schietta nei confronti dei potenti. E io credo che l’atto più bello per chi sta al di sopra di tutti sia il poter perdonare molte cose senza mai dover chiedere perdono per alcuna. Anche in questa circostanza, dunque, devi attenerti al tuo costume, quello, cioè, di non fare cosa che in seguito potresti rimproverarti, o che vorresti aver fatto diversamente. 5. Inoltre ti prego e ti scongiuro di non essere scontrosa e intrattabile con gli amici. Tieni presente, infatti, che tutti costoro non sanno come comportarsi in tua presenza, se parlare di Druso oppure no, in quanto se non ne fanno menzione temono di recare offesa alla sua memoria, visto ch’era un giovane molto famoso, se invece lo ricordano temono di fare un torto a te. Io e i miei amici, quando ci ritiriamo e ci riuniamo fra noi, commemoriamo le sue azioni e le sue parole con l’ammirazione che meritano, ma in tua presenza osserviamo su di lui un profondo e rispettoso silenzio. Tu ti neghi, così, le lodi di tuo figlio, che per te sarebbero la gioia più grande, lodi che tu, ne sono certo, vorresti si tramandassero nei secoli, possibilmente anche a prezzo della tua vita. Accetta, dunque, che si parli di lui, anzi, prendine tu stessa l’iniziativa e porgi volentieri le orecchie al nome e
al ricordo del tuo figliuolo: non prenderlo come un fatto doloroso, al pari di coloro che in situazioni analoghe considerano le parole di conforto un ingrediente della sventura. Ora tu sei tutta concentrata sul versante opposto, quello del dolore, e guardi la tua sorte dal lato peggiore, dimentica di quelli buoni, non volgi il tuo pensiero a quando tuo figlio viveva con te, a tutte le volte in cui ti veniva incontro felice, alle sue tenerezze di bimbo, ai suoi progressi nello studio: tu guardi e fissi solo l’ultimo aspetto della sua vita, accumulando pena su pena, come se la cosa non fosse già di per sé abbastanza terribile. Ti prego, non atteggiarti alla donna più infelice del mondo, che è la gloria più perversa a cui si possa aspirare! Al tempo stesso rifletti che non è un vanto mostrarsi forti nella prospera fortuna, quando la vita scorre liscia come l’olio: non è con un mare tranquillo e un vento favorevole che il timoniere rivela la sua abilità, occorre che intervenga qualche turbamento perché egli possa dimostrare tutta la sua bravura. Non abbatterti, dunque, anzi, poggia il piede ben fermo sul terreno, pronta a reggere qualunque peso stia per caderti addosso, spaventandoti, se mai, solo al suo primo schianto. Niente fa più dispetto alla malasorte che un animo sereno o rassegnato». Dopo queste parole Areo le ricordò che aveva ancora un figlio vivo e dei nipoti, figli del morto. 6. Questo, o Marcia, è anche il tuo caso, ed è come se Areo avesse assistito te. Mettiti dunque al posto di quella donna: Areo ha consolato te. Ora, però, immagina che ti sia stato tolto più di quanto abbia mai perduto una madre. Non cerco di lusingarti né intendo sottovalutare la tua disgrazia. Se il destino si vince con le lacrime, piangiamo pure, si trascini di giorno in giorno il nostro dolore e le notti passino insonni e piene di tristezza, anzi, squarciamoci il petto con le mani, sfiguriamoci il volto, magari, e diamo sfogo a un dolore così salutare con ogni genere di sevizie. Ma se non c’è pianto che possa resuscitare i morti, se non c’è sventura, per quanto disumana, che possa mutare il destino, fermo e scolpito nell’eternità, e la morte si tiene ciò che ci ha rapito, cessi, allora, il dolore, destinato anch’esso a perire. Controlliamoci, dunque, affinché questa forza non ci travolga! Indegno è quel nocchiero che si fa portar via il timone dalle onde, che lascia le vele svolazzare al vento e abbandona la nave alla tempesta; ammirevole, invece, è quello che il mare travolge e ricopre ancora stretto e abbracciato al timone. 7. «Ma rimpiangere i propri cari è cosa naturale», obietterai. Non lo nego: purché non si ecceda. Pure una partenza, un semplice distacco, provoca una stretta al cuore, un senso di amarezza, anche in un animo forte: non avviene soltanto con la morte. Ma l’opinione, cioè l’idea che uno si fa delle cose, aggiunge al dolore più di quanto richieda la legge di natura. Guarda come negli animali il dolore, anche se violento, sia di breve durata: il muggito delle mucche dura un giorno o due e non di più quell’errabondo e forsennato scorrazzare delle
cavalle, le fiere, dopo aver errato per la foresta in cerca delle orme dei loro piccoli e fatto inutilmente avanti e indietro dalle tane vuote, estinguono in breve tempo il loro furore; anche gli uccelli vanno con grandi strida sbattendo le ali di qua e di là attorno ai nidi vuoti ma poi, tranquilli, riprendono subito i loro voli. Fra tutte le creature soltanto l’uomo rimpiange a lungo i propri figli, restando attaccato al suo dolore e affliggendosi non per quel che soffre veramente ma per l’opinione che ha del dolore. Quanto sia innaturale lasciarsi abbattere dalle sventure puoi rilevarlo dal fatto che sono più le donne che gli uomini a piangere per la perdita di un figlio, più i barbari che le popolazioni civili e istruite, più gli ignoranti che i dotti. Del resto la forza che si riceve dalla natura resta in tutti sempre uguale, variano il modo e la misura in cui essa si esprime, che pertanto non sono naturali. Il fuoco non distingue fra persona e persona, brucia tutti indipendentemente dall’età, maschi e femmine, abitanti di ogni città; analogamente il ferro mostra su tutti i corpi indifferentemente la sua capacità di tagliare. Perché? Perché il fuoco e il ferro hanno ricevuto la loro forza dalla natura, che nelle sue leggi non fa distinzioni per nessuno. La povertà, il lutto, il disprezzo, invece, non tutti li sentono nello stesso modo e nella stessa misura, ciascuno li percepisce in base all’abitudine, o alla debolezza e all’intolleranza proprie della sua personalità, derivanti da una falsa opinione che porta a temere cose che in sé stesse non hanno nulla di spaventoso. 8. Inoltre tutto ciò che è naturale non diminuisce col tempo, mentre il dolore col passare dei giorni si attenua, anche quello più ostinato, che si rinnova quotidianamente e si ribella a ogni cura, è svigorito dal tempo, che è il rimedio più efficace contro qualsiasi eccesso. Anche in te, Marcia, persiste ancora una profonda tristezza che sembra ormai incallita, ma non è più violenta com’era all’inizio, però è tenace, ostinata, e tuttavia il tempo a poco a poco porterà via anche questa. Ogni volta che ti distrarrai, impegnandoti in qualche faccenda, il tuo animo si rasserenerà. Ora stai sempre all’erta, ma c’è già una grande differenza fra il piangere deliberatamente e il lasciarsi andare. Sarebbe più conforme alla nobiltà dei tuoi costumi se fossi tu stessa a porre fine al tuo lutto invece di aspettare che se ne vada lui. Meglio che non venga mai il giorno in cui il dolore ti abbandoni senza che tu ne sia cosciente! Lascialo dunque tu stessa! 9. Mi chiederai: «Da dove viene, allora, tutta questa nostra ostinazione nel piangere, se non è una legge di natura?». Dal fatto che il male ci coglie all’improvviso perché non pensiamo preventivamente che ci possa colpire: è come se ce ne ritenessimo immuni e percorressimo una strada più agevole di quella degli altri, senza renderci conto che le disgrazie altrui possono capitare a tutti. Quanti funerali passano davanti alla nostra casa, e tuttavia noi non pensiamo alla morte. Tanti muoiono prematuramente, ma noi pensiamo alla toga che un giorno indosseranno i nostri bambini, al loro servizio militare, ai beni che erediteranno dal padre. Vediamo coi nostri occhi molti ricchi impoverire
all’improvviso, ma non ci viene in mente che le nostre ricchezze sono altrettanto instabili. Ecco perché il crollo ci risulta più grave, perché la ferita ci coglie quando non ce l’aspettiamo: quelle previste molto tempo prima, invece, ci toccano più debolmente. Ti rendi conto che sei esposta a tutti i colpi possibili e che gli strali destinati agli altri potevano colpire anche te? Comportati, dunque, come se andassi disarmata e lungo una salita all’assalto di un muro o di un caposaldo presidiato da molti nemici: aspettati di essere colpita e pensa che i sassi, le frecce e i giavellotti che volano sopra la tua testa sono stati scagliati contro il tuo corpo. E ogni volta che uno cade al tuo fianco o dietro di te grida: «Non mi coglierai di sorpresa, o Fortuna, né mi abbatterai perché imprevidente o noncurante! So quello che mi prepari: hai colpito un altro, ma miravi a me». Quanti guardano ai loro beni come a cose passeggere? Chi di noi ha mai pensato di poter andare in esilio, diventare povero, subire un lutto familiare? E se mai gli prospettassero questa ipotesi chi non la respingerebbe considerandola un cattivo auspicio e scaricando il malaugurio sulla testa dei suoi nemici o dello sconsiderato che ha osato dargli un tale consiglio? «Non credevo che potesse accadere!», dirà qualcuno. Ma può mai non accadere nulla di ciò che sappiamo che può accadere e che vediamo già accaduto a molti altri di noi? C’è un bellissimo verso, degno di miglior provenienza che non da un palcoscenico: Può accadere a chiunque ciò che accade a qualcuno.6 Uno ha perduto i figli: puoi perderli anche tu; un altro è stato condannato: anche la tua innocenza può essere colpita. L’errore che c’inganna e ci rende senza difesa è quello di non aver pensato ieri a ciò per cui oggi soffriamo. Un male previsto perde la sua forza. 10. Quale che sia, o Marcia, tutto ciò che di provvisorio ci brilla intorno, i figli, gli onori, le ricchezze, le vaste sale e i vestiboli zeppi di clienti a cui non abbiamo potuto dare ascolto, un nome illustre, una moglie nobile o bella e tutte le altre cose che dipendono da una sorte incerta e mutevole, sono ornamenti che abbiamo avuto in prestito. Niente di tutto questo ci appartiene come se fosse un dono. La scena è arredata con suppellettili raccolte qua e là, che devono tornare ai loro padroni: alcune saranno restituite il primo giorno, altre il secondo, ben poche resteranno sino all’ultimo. Non abbiamo dunque motivo di vantarcene, come se fossimo circondati da beni di nostra proprietà: sono cose prestate, le abbiamo in usufrutto per un tempo stabilito non da noi ma da chi ce le ha date, e dobbiamo essere sempre pronti a restituirle dietro richiesta del proprietario in qualunque momento, senza sapere quando e senza protestare: è un pessimo debitore quello che litiga col suo creditore. Tanto più, dunque, dobbiamo amare i nostri cari, sia quelli che desideriamo ci sopravvivano per legge di nascita, sia quelli che giustamente si augurano di precederci, perché nessuno ci ha promesso la loro immortalità, e neppure la loro longevità. Dobbiamo ricordarci
continuamente di amare le cose che ci sono state date, proprio perché sappiamo che ci verranno tolte, anzi, che già stiamo per perderle. Insomma, tutto ciò che la fortuna ci ha dato lo possediamo senza alcuna garanzia. Gioite in fretta dei vostri figli e a vostra volta fate che loro godano di voi, assaporate senza indugio ogni possibile gioia, poiché nulla vi è promesso, neppure la notte che sta per arrivare, anzi, questo limite è già lungo, non vi è garantita nemmeno l’ora presente. Bisogna affrettarsi a vivere, c’incalza alle spalle il destino: presto questa compagnia sarà dispersa, questo gruppo sarà spazzato via in mezzo a un nugolo di grida, la vita è tutta una rapina, e in questa eterna fuga la vita stessa vi sfugge, o miseri mortali! Tu piangi la morte di tuo figlio, ma il delitto si è consumato il giorno stesso della sua nascita: è allora che gli è stata notificata la sentenza di morte. Ti era stato dato, infatti, a questa condizione, e quel destino lo ha accompagnato fin dal grembo materno. Siamo nati sotto il dominio duro e inflessibile della sorte e a suo arbitrio dobbiamo subire cose buone e cose cattive. Essa abuserà dei nostri corpi con atti di violenza, ingiurie e crudeltà: alcuni li brucerà col fuoco, per punirli o per sanarli, altri li sconfiggerà, per mezzo di stranieri o di concittadini; altri li sballotterà indifesi per mari infidi, e dopo che avranno lottato coi marosi non li getterà su una spiaggia o su una sponda ma li seppellirà nel ventre di qualche enorme mostro marino; altri ancora li lascerà a lungo sospesi tra la vita e la morte, consumati da malattie di ogni genere. Come una padrona volubile e capricciosa, che non si cura dei suoi schiavi, distribuirà premi e castighi, giusti o sbagliati che siano. Ma a che vale versare lacrime sui casi singoli? Tutta la vita è da compiangere: saremo assaliti da mali sempre nuovi prima ancora di avere smaltito quelli vecchi. Dobbiamo dunque imporci una regola di condotta, soprattutto voi, o donne, che siete particolarmente sensibili, distribuendo le forze del nostro compassionevole cuore fra i nostri tanti dolori. 11. Cos’è, poi, questo dimenticarti della tua condizione e di quella degli altri? Sei nata mortale e hai generato dei mortali; sei un corpo fragile e caduco, pieno di mali, come hai potuto sperare che una materia così debole potesse contenere degli esseri forti e immortali? Tuo figlio è morto: ciò significa che è giunto a quella meta verso la quale si affrettano tutti coloro che stimi più felici della tua creatura. Là si dirige, con passo diverso, tutta codesta gente che litiga nel foro, che assiste agli spettacoli teatrali, che prega nei templi: una medesima cenere livellerà chi ami e chi detesti. È questo il significato della frase attribuita all’oracolo di Apollo Pizio: 7 CONOSCI TE STESSO. Che cos’è l’uomo? Un vaso che può andare in frantumi alla minima scossa e al minimo urto. Non c’è bisogno di una grande tempesta per distruggerti: dovunque andrai a sbattere ti sfascerai. Che cos’è l’uomo? Un corpo debole e fragile, nudo, indifeso per sua stessa natura, bisognoso dell’aiuto altrui, esposto a tutte le offese della sorte; anche se ha i muscoli bene allenati e rinforzati una belva qualunque potrà ucciderlo e divorarlo. È un insieme di tessuti deboli e corruttibili, bello solo nei
suoi lineamenti esteriori, intollerante del freddo, del caldo, della fatica, soggetto al disfacimento anche se non si muove e non fa nulla; sempre occupato e preoccupato nel procurarsi il cibo, che se è scarso lo fa venir meno, se è eccessivo lo fa scoppiare; sempre agitato per il suo istinto di conservazione, dal respiro così precario e instabile che può essere bloccato da un rumore forte e improvviso che gl’infastidisca l’orecchio: insomma, un motivo di pericolo per sé stesso, continuo, inutile e dannoso. E ci meravigliamo che un essere simile muoia quando basta un singhiozzo a farlo morire? Ci vuole forse un grande sforzo per farlo cadere? Un odore, un sapore, la stanchezza, la veglia, una bevanda, un cibo, una qualunque di quelle cose senza le quali non può vivere possono farlo morire. Già solo come si muove si rende conto della sua debolezza: non sopporta tutti i climi, si ammala se beve un’acqua a cui non è abituato o se respira un’aria diversa da quella consueta, e così pure se va incontro anche al più piccolo o fastidioso accidente. È un essere corruttibile, soggetto a invalidità, che accoglie la vita piangendo, e tuttavia quanti sconvolgimenti provoca questo essere spregevole, quali cose non arriva a concepire, dimentico della sua condizione! Fantastica di immortalità e di eternità, fa progetti persino per i nipoti e i pronipoti, e nel momento stesso in cui è tutto proiettato verso il futuro lo ghermisce la morte. Anche la vecchiaia non è che un brevissimo volgere di anni. 12. Il tuo dolore, per poco ragionevole che sia, riguarda il danno arrecato a te o quello subìto dal morto? Cosa ti turba nella perdita di tuo figlio, il non aver avuto da lui alcuna gioia, o il pensiero che avresti potuto averne delle maggiori se fosse vissuto più a lungo? Se ritieni di non averne avuta nessuna il tuo danno sarà più sopportabile: l’uomo, infatti, prova minor rimpianto per quelle cose di cui non ha goduto o usufruito minimamente. Se invece riconosci di aver avuto da lui grandi soddisfazioni, più che dolerti di ciò che ti è stato tolto, devi essere grata per ciò che ti è toccato. Hai raccolto infatti frutti proporzionati alle tue fatiche già dalla sua buona educazione, poiché, come per chi alleva cagnolini, uccelli e altre analoghe frivolezze il piacere consiste nel vederli, nel toccarli e nel ricevere le loro carezze di bestie, così per chi educa i figli la ricompensa sta appunto nel vederli bene educati. Perciò, anche se la sua attività non ti ha recato alcuna soddisfazione, la sua diligenza non ti ha protetto abbastanza e la sua saggezza non t’ha elargito alcun consiglio, il solo averlo avuto e averlo amato è una ricompensa. «Ma avrei potuto riceverne di più». Certo, ma ciò che ne hai avuto è sempre meglio di niente: dovendo scegliere fra l’essere felici per breve tempo e il non esserlo mai ben venga un bene passeggero piuttosto che non aver nulla di cui godere. Avresti preferito un tipo degenere, che si limitasse solo a portare il nome di figlio e ad aumentare la tua prole, o uno pieno di doti come il tuo? Un giovane precocemente saggio e devoto, sposo e padre prima del tempo e prima del tempo sollecito a tutti i suoi doveri, precoce anche nella sua veste di sacerdote, come uno, insomma, che volesse fare tutto in fretta. Quasi a nessuno toccano contemporaneamente beni grandi e duraturi: solo una felicità tarda e
disinteressata può durare e giungere sino alla fine. Gli dèi immortali ti hanno concesso di avere subito – anche se non per molto tempo – un tale figlio quale può diventare solo uno che riesca a vivere a lungo. Non puoi nemmeno dire che gli dèi hanno scelto te quale madre a cui negare la gioia di godere del proprio figlio. Guarda la folla che ti sta d’intorno, persone che conosci e che non conosci: dovunque vedrai gente che ha sofferto più di te. Perdite come la tua le hanno patite grandi condottieri, le hanno avute principi e re, il mito non ha risparmiato neppure gli dèi, forse perché ci fosse di sollievo sapere che le nostre disgrazie toccano anche la divinità. Guardali tutti, ripeto: non troverai nessuna famiglia tanto disgraziata da non potersi consolare vedendone una più infelice di lei. Per Ercole, non stimo i tuoi costumi così poco da credere che sopporteresti meglio la tua sventura se ti facessi sfilare davanti un corteo di gente che piange: è da persone malevole trarre motivo di conforto ai propri guai dalle disgrazie di una moltitudine! Ma ti citerò alcuni casi, non per dimostrarti che la tua sventura è comune a tutti i mortali (è ridicolo raccogliere esempi di gente che ha avuto a che fare con la morte), ma perché tu sappia che sono molti coloro che mitigarono le loro pene sopportandole con animo sereno. Comincerò dal più felice. Lucio Silla perse un figlio, ma ciò non indebolì la sua crudeltà e la sua sfrenata spavalderia contro nemici e concittadini, né egli ritenne di essersi attribuito ingiustamente il soprannome di «Felice»8 dopo la morte del figlio, poiché non temeva l’odio degli uomini, dalle cui disgrazie derivava la sua fortuna, e neppure la collera degli dèi, perché riteneva che su di loro ricadesse la causa di quella sua «felicità». Ma il caso di Silla mettiamolo da parte, visto che rientra fra quelli non ancora risolti (i suoi avversari stessi, infatti, riconosceranno ch’egli prese le armi opportunamente e che opportunamente le depose), tuttavia del nostro discorso resterà evidente questa verità: non è poi così grande e insopportabile un male che colpisce anche gli uomini più felici. 13. I Greci non vadano troppo fieri di quel padre che, informato della morte del figlio mentre stava celebrando un sacrificio, non si scompose e, toltasi dal capo la corona e fatto tacere il flautista, portò a termine la cerimonia secondo quanto richiedeva il rito. Allo stesso modo si comportò il pontefice Pulvillo che, informato della morte del figlio mentre con la mano appoggiata allo stipite della porta9 dedicava a Giove il tempio capitolino, finse di non aver sentito e invocata nel nome del figlio la protezione del dio, pronunciò la formula rituale del carme pontificio senza che un solo gemito interrompesse la sua preghiera. Pensi che il dolore di quel padre dovesse fermarsi lì, quando al suo primo assalto non lo aveva distolto dai pubblici altari e dalle preghiere propiziatorie? Veramente degno, per Ercole, di quel rito memorabile e del suo alto sacerdozio fu questo padre che non smise di venerare gli dèi anche se incolleriti. E però, tornato a casa, versò copiose lacrime e proruppe in gemiti e lamenti. Ma non appena ebbe compiuto le onoranze che si usano per i morti, atteggiò nuovamente il volto nell’espressione che aveva tenuto in Campidoglio.
Paolo Emilio,10 all’epoca in cui celebrò quel suo grandioso trionfo durante il quale condusse Perseo in catene davanti al suo cocchio, aveva dato in adozione due dei suoi figli, tenendo gli altri, che si era riservati, sino alla loro morte. Pensa quali dovessero essere questi ultimi se fra quelli che aveva ceduto c’era Scipione! Ebbene, il popolo romano, vedendo che nel cocchio di Paolo non c’erano i suoi figli,11 non riuscì a trattenere la commozione. Tuttavia egli pronunciò il discorso e rese grazie agli dèi perché il suo desiderio era stato esaudito: aveva infatti chiesto che se per quella vittoria si doveva pagare un prezzo ciò avvenisse a carico suo, non a spese dello Stato. Vedi con quale forza d’animo sopportò quella tragedia: ringraziò gli dèi di esser rimasto senza figli! Eppure chi più di lui avrebbe dovuto abbattersi per un così tragico rovesciamento della sorte? Aveva perduto in un solo colpo il conforto e il sostegno dei suoi figli. Ma non diede a Perseo la soddisfazione di vederlo addolorato. 14. Ma a che pro passare in rassegna tanti esempi di uomini illustri per cercare fra loro gl’infelici quando è più difficile trovare quelli felici? Quante famiglie hanno conservato in vita tutti i loro componenti sino alla fine? Prendi un anno a caso e citamene i magistrati: Lucio Bibulo e Gaio Cesare.12 Due colleghi che si avversavano durissimamente accomunati da una medesima sorte. Lucio Bibulo, uomo più buono che coraggioso, perse contemporaneamente due figli, uccisi in Egitto dopo essere stati esposti al ludibrio dei soldati, e questo fu per il padre motivo di pianto ancor più della loro morte stessa. Bibulo, che per tutto l’anno del suo consolato era rimasto chiuso in casa per l’odio che nutriva verso il collega, il giorno successivo a quello in cui gli fu data notizia di quella duplice morte, uscì per adempiere ai consueti doveri che gl’imponeva la sua carica. Chi può dedicare meno di una giornata a due figli? Ebbene, quest’uomo che per un anno intero aveva osservato il lutto per il suo consolato tanto poco lo portò per la morte dei suoi figli! Gaio Cesare, mentre percorreva la Britannia, senza che neppure l’Oceano potesse porre un freno alla sua fortuna, venne a sapere che gli era morta la figlia,13 la quale insieme al suo si portava dietro il destino della repubblica. Egli sapeva che Pompeo non avrebbe tollerato di buon grado che nello Stato ci fosse un altro grande come lui, e che si sarebbe opposto a quei successi che, pur se volti all’interesse comune, avrebbero potuto metterlo in ombra. Tuttavia nel giro di tre giorni riprese nelle sue mani il comando supremo e vinse il dolore con la stessa rapidità con cui vinceva tutte le battaglie. 15. A che scopo elencarti i lutti degli altri Cesari? Credo che talvolta la cattiva sorte si abbatta su di loro affinché anche così possano essere utili all’umanità, dimostrando che pure loro, che si dicono nati dagli dèi e destinati a generare dèi, non hanno sul proprio destino quel potere che esercitano su quello degli altri. Il divino Augusto, perduti i figli e i nipoti e vista estinta la stirpe dei Cesari, rimediò al vuoto della sua casata con l’adozione, accettando l’idea della
propria morte con la forza di chi sente ormai che la cosa riguarda pure lui, e preoccupandosi principalmente che nessuno si lagnasse degli dèi.14 Tiberio Cesare, oltre a quello da lui generato, perse anche il figlio adottivo,15 e tuttavia ne pronunciò egli stesso dai Rostri l’elogio funebre, ritto davanti alla salma, dalla quale lo separava soltanto il velo che doveva nascondere al pontefice la vista dei cadaveri; e mentre il popolo piangeva lui rimase impassibile, dimostrando a Seiano che gli stava accanto con quale forza d’animo si possa sopportare la perdita dei propri cari. Vedi quanto sia lungo l’elenco degli uomini illustri che non furono risparmiati da questo evento a cui niente e nessuno può sottrarsi? Ed erano uomini colmi di tante virtù e di benemerenze sia nella vita pubblica che in quella privata. Perché questo flagello imperversa in tutto il pianeta e devasta ogni cosa senza eccezione alcuna, trascinandola come se fosse sua. Chiedi a ciascuno il resoconto: nessuno nasce senza doverne pagare lo scotto. 16. So cosa potresti dirmi: «Ti sei dimenticato che stai consolando una donna, e mi citi esempi di uomini!». Ma chi oserebbe affermare che la natura è stata avara con l’indole delle donne, limitandone le doti? Ti assicuro che esse posseggono lo stesso vigore degli uomini, altrettanta capacità di azioni onorevoli, se soltanto lo vogliano, e, con l’abitudine, altrettanta resistenza al dolore e alla fatica. Di quale città, buon dio, stiamo parlando? Di quella in cui una Lucrezia e un Bruto16 tolsero un re di dosso ai Romani: a Bruto dobbiamo la libertà, a Lucrezia siamo debitori di Bruto; della città in cui Clelia,17 a dispetto del fiume e del nemico, è stata così coraggiosa da essere ricordata quasi come un uomo: dall’alto della sua statua equestre, eretta sull’affollatissima via Sacra, rimprovera ai nostri giovani, che scendono dalle lettighe, di entrare in quel modo femmineo in una città in cui anche alle donne si regalava un cavallo. Per citarti esempi di donne che hanno sopportato con animo virile la perdita di loro familiari non ho bisogno di andare a cercarli di porta in porta. Da una sola famiglia ti citerò due Cornelie: la prima, figlia di Scipione, è la madre dei Gracchi. La sua vita registrò ben dodici parti e altrettanti funerali. Di tutti gli altri figli c’è poco da dire, visto che la città non ne avvertì né la nascita né la morte, ma Gaio e Tiberio 18 – dei quali si potrà negare la bontà ma non la grandezza – la madre li vide uccisi e insepolti. E a coloro che la consolavano chiamandola infelice rispondeva: «Mai potrò dirmi infelice, io che ho generato i Gracchi!». L’altra Cornelia, moglie di Livio Druso, perse un figlio 19 di notevole ingegno e molto famoso, che seguiva le orme dei Gracchi: fu ucciso nella sua abitazione da un assassino sconosciuto, lasciando in sospeso tanti progetti di legge. Ebbene, la madre ne sopportò la morte immatura e invendicata con lo stesso coraggio con cui il figlio aveva proposto le sue leggi. A questo punto, Marcia, devi riappacificarti con la fortuna e ringraziarla, visto che ti ha colpito con quegli stessi strali che ha scagliato contro gli Scipioni, le madri e le figlie degli Scipioni, e coi quali ha ferito persino i Cesari. La vita è
piena di disgrazie d’ogni genere, che concedono a stento qualche breve tregua, mai una pace durevole. Tu hai generato quattro figli. Ebbene, non c’è freccia scagliata contro una folta schiera di soldati che non colpisca qualcuno: che meraviglia, dunque, se una famiglia così numerosa ha incontrato lungo il suo cammino qualche incidente e qualche ostilità? «Ma la sorte», dirai, «è stata più crudele perché non solo mi ha portato via dei figli ma se li è pure scelti». D’accordo. Ma non si può parlare di offesa quando questa è condivisa con chi è più potente di noi. Del resto la sorte ti ha lasciato due figlie e i nipoti che quelle ti hanno dato; anche il figlio che piangi maggiormente, dimenticandoti del più anziano, non te lo ha portato via del tutto: hai le sue due figlie, che ti peseranno molto se mal sopporterai il tuo dolore, ma che saranno per te una grande consolazione se saprai sopportarlo con coraggio. Quando le guardi pensa a tuo figlio, non al tuo dolore. Il contadino, quando vede a terra le piante sradicate dal vento o spezzate dalla furia improvvisa di un uragano, cura i rami superstiti e appronta subito le talee e i germogli di quelli perduti, e presto (il tempo, infatti, è ugualmente rapido e pronto sia nel distruggere che nel far crescere) le piante rinverdiscono più rigogliose di quelle perdute. Rimpiazza, dunque, il tuo Metilio con queste due figlie, colma il vuoto lasciato da lui e allevia un dolore singolo con una duplice consolazione. La nostra natura è tale che spesso apprezziamo di più le cose che abbiamo perduto, e il rimpianto di ciò che ci è stato tolto ci rende ingiusti con quel che ci è rimasto. Ma se poni mente a ciò che di buono, pur nella sua crudeltà, ti ha lasciato la sorte, ti accorgerai che ti è rimasto molto di più di un semplice conforto: guarda quanti nipoti, oltre alle sue due figlie! E di’ anche questo, Marcia: «Sarebbe quasi un’ingiustizia se la sorte distribuisse fortune e disgrazie in base alla condotta di ciascuno e se il male non toccasse mai i buoni: ora capisco che buoni e cattivi sono trattati allo stesso modo, senza alcuna discriminazione». 17. «Non si può negare, tuttavia, che sia duro perdere un figlio dopo che l’hai allevato e proprio quando è di sostegno e di aiuto al padre e alla madre». Nessuno nega che sia duro. Ma tale è la vita degli uomini, ed è per questo che si nasce: per perdere quel che si ha, per andare in rovina, per sperare, per temere, per affliggere sé stessi e gli altri, per aver paura della morte o per desiderarla e, quel ch’è peggio, senza nemmeno sapere il perché di questa condizione. Sarebbe come se a uno che si accinge a partire per Siracusa si facesse questo discorso: «È bene che tu conosca in anticipo tutti i disagi e tutti i piaceri del viaggio che intendi fare, dopodiché imbarcati pure. Queste sono le cose che potrai ammirare: prima di tutto vedrai l’isola, separata dall’Italia da un angusto stretto di mare e che un tempo era unita al continente, finché all’improvviso vi irruppe il mare che divise il lido esperio da quello siculo.20 Poi (visto che a quel punto ti sarà lecito solcare l’insaziabile vortice
marino), vedrai la mitica Cariddi, calma quando non è battuta dall’Austro, ma pronta, se quel vento soffia con una certa violenza, a ghermire le navi di passaggio trascinandole nella sua vasta e profonda voragine. Vedrai la fonte Aretusa, cantata da moltissimi poeti, versare in uno stagno limpidissimo e trasparente sino al fondo le sue acque gelidissime, vuoi raccolte da sorgenti che sgorgano sul posto, vuoi riemerse da un fiume21 che, passato sotto tante terre e sotto un così vasto tratto di mare, sia rimasto intatto, senza mescolarsi con altre acque di peggior natura. Vedrai il porto più tranquillo fra tutti quelli naturali o costruiti dall’uomo a rifugio delle flotte, tanto sicuro che non lascia entrare nemmeno le più furiose tempeste. Vedrai il luogo in cui, dopo che fu sconfitta la potenza di Atene, vennero rinchiusi a migliaia i prigionieri, un carcere naturale fatto di rocce tagliate di grandissima altezza e profondità;22 vedrai quella grande città e il suo territorio, più vasto di quello costituito da molte città messe insieme, in cui gl’inverni sono mitissimi e non v’è un solo giorno senza sole. Ma dopo che avrai ammirato tutto questo, un’estate opprimente e malsana annullerà i benefìci del clima invernale; là vi sarà Dionigi,23 il tiranno distruttore della libertà, della giustizia, delle leggi, avido di dominio anche dopo l’incontro con Platone, desideroso di vivere pure dopo l’esilio: farà bruciare vive alcune persone, altre le farà frustare, altre decapitare anche per un’inezia; per soddisfare la sua libidine riunirà insieme maschi e femmine e nella turpitudine di quel gregge dissoluto poca cosa saranno gli accoppiamenti contemporanei di due uomini con una donna. Questo è ciò che può attirarti e dissuaderti: ora, o t’imbarchi, o rimani». Ecco, se dopo un avvertimento del genere uno decidesse di partire per Siracusa, con chi altro dovrebbe poi lamentarsi se non con sé stesso, visto che in quella città c’è andato non per caso ma di proposito e ben consapevole di quel che vi avrebbe trovato? La natura ci dice: «Io non inganno nessuno. Se vorrai dei figli potranno essere belli o brutti, deformi e forse anche minorati, fra di loro potrà esserci tanto un salvatore della patria quanto un traditore. Naturalmente tu puoi sperare che col tempo possano raggiungere una tale reputazione che nessuno osi maledirti per causa loro, ma prospettati anche l’ipotesi che diventino tanto malvagi da essere essi stessi per te una maledizione. Niente impedisce che siano loro a seppellire te, rendendoti gli estremi onori e pronunciando l’elogio funebre, ma preparati anche a dover essere tu a portarne qualcuno sul rogo, ancora bambino o giovinetto o nell’età matura: in questo caso non è questione di anni, un funerale seguìto da un genitore è sempre prematuro». Se questi sono i patti e tu, conoscendoli, metti al mondo dei figli, non dare poi colpa agli déi per non averti dato su di loro alcuna garanzia. 18. Applichiamo ora la stessa similitudine all’ingresso dell’uomo nella vita. Nell’esempio del viaggio a Siracusa ti ho esposto tutto ciò che di piacevole e di spiacevole poteva capitare. Adesso immagina di essere sul punto di nascere e che io ti faccia questo discorso: «Stai per entrare nella città che è comune agli uomini e agli dèi, che contiene ogni cosa ed è soggetta a leggi eterne e
immutabili, che col suo moto partecipa all’incessante orbitare dei corpi celesti. Qui vedrai brillare innumerevoli stelle di vario splendore e un astro che da solo illumina tutto: è il sole, che col suo giro quotidiano24 determina la durata del giorno e della notte e, con quello annuale, il regolare avvicendarsi dell’estate e dell’inverno. Vedrai succedergli di notte la luna che, incontrandosi col fratello, prende a prestito da lui una luce mite e discreta, e che ora si nasconde, ora domina la terra con tutto il suo volto, variabile a seconda che si trovi in fase crescente o calante, sempre diversa da quella del giorno prima. Vedrai cinque pianeti percorrere vie diverse rispetto a quelle degli astri e muoversi in direzione contraria al rapidissimo moto dell’universo, dai movimenti dei quali, anche se minimi, dipendono i destini dei popoli: sia gli eventi più importanti che quelli più insignificanti derivano dal modo di procedere, favorevole o sfavorevole, di ogni singolo astro. Vedrai l’addensarsi delle nubi, il cadere delle piogge, lo zigzagare dei fulmini, il rombo dei tuoni. Quando poi, sazia dello spettacolo delle cose celesti, volgerai gli occhi alla terra, ti colpirà un altro tipo di bellezza altrettanto meravigliosa: da un lato vaste distese di campagne che si aprono all’infinito, dall’altro cime di montagne che s’innalzano al cielo da immensi gioghi innevati, uno scorrere di fiumi che, sgorgati da un’unica fonte, si spandono a oriente e a occidente, foreste dalle cime ondeggianti e tanti boschi pieni di animali e risonanti delle varie voci degli uccelli, e poi città collocate in luoghi diversi, popolazioni chiuse in zone inaccessibili, alcune delle quali si rifugiano su ripidi monti, altre, per paura, si circondano con acque paludose, campi colmi di messi e alberi dai frutti spontanei; e il lieve scorrere dei ruscelli fra i prati, le amene insenature e i lidi che s’incurvano a formare dei porti, e, per finire, innumerevoli isole sparse per il mare immenso, che, spuntando qua e là, gli fanno da ornamento. Che dirti, poi, del fulgore delle pietre preziose e delle gemme, del luccichio dei rapidi torrenti che trascinano oro fra la sabbia, delle colonne di fuoco che si alzano nell’aria levandosi dal centro della terraferma e del mare, dell’oceano che circonda la terra e coi suoi tre golfi divide fra loro le genti e sempre ribolle con sfrenata violenza?25 In quelle acque irrequiete e burrascose anche senza vento vedrai nuotare animali ben più grandi di quelli terrestri, quali pesantissimi e che si muovono guidati da altri, quali più veloci e più rapidi di una barca spinta da incalzanti remi, altri che aspirano l’acqua e la soffiano con grande pericolo per i naviganti, e ancora navi in cerca di terre sconosciute. Vedrai che non c’è limite all’audacia degli uomini: tu stessa, oltre che spettatrice, sarai partecipe attiva di quegli sforzi, imparerai e insegnerai nuove arti che educano alla vita, altre che l’abbelliscono, altre che la governano. Ma vi saranno anche innumerevoli malanni per il corpo e per l’animo: guerre, rapine, avvelenamenti, naufragi, intemperie, febbri, perdite premature di persone care e la morte, che non sai se naturale o fra pene e tormenti. Pensaci, dunque, e soppesa bene la tua decisione: per giungere a quelle cose meravigliose devi passare per tutte le altre». Risponderai che vuoi vivere: come no? Anzi, credo che non potresti non
accettare alcunché di cui poi debba lamentarti perché te ne è stata tolta una parte! Vivi allora come convenuto. «Ma nessuno ci ha interpellati prima che nascessimo!», obietterai. Ci hanno pensato i nostri genitori, che, fatti esperti della vita, ci hanno dato la vita. 19. Ma, per tornare al tema della consolazione, vediamo prima quale sia il male da curare, poi il modo. Nel nostro caso è la perdita della persona amata che ci fa soffrire: la cosa di per sé appare tollerabile, visto che non ha senso piangere per persone che non ci sono più o che staranno lontane per tutta la vita, anche se ci si sente privati sia della loro vista che della loro compagnia. Il nostro dolore, dunque, è frutto di suggestione: ogni disgrazia vale per come la sentiamo noi, e, analogamente, il rimedio dipende da noi: dobbiamo pensare, cioè, che i nostri morti siano soltanto degli assenti e distogliere così il nostro animo dalla realtà. Ci siamo semplicemente congedati da loro, anzi, li abbiamo mandati avanti e li raggiungeremo. Ma c’è un altro particolare che c’induce a piangere i nostri morti: senza di loro – pensiamo – non avremo più chi ci difenda e ci protegga dalla noncuranza degli altri. Ebbene, farò ricorso a un tipo di conforto che, pur se poco apprezzabile, è tuttavia concreto ed efficace. Nella nostra città la perdita dei figli più che togliere considerazione ai genitori l’accresce, e la solitudine, che un tempo distruggeva la vecchiaia, ora le dà una tale forza che alcuni fingono l’odio dei figli e li rinnegano, immaginando di non averli più e di vivere così in solitudine.26 So cosa potresti dirmi: «Non piango per un danno mio personale». Capisco. Non merita consolazione chi si duole per la morte di un figlio come se fosse quella di uno schiavo e chi guarda al proprio figlio come se fosse un estraneo. Cos’è dunque, Marcia, che ti fa soffrire? Il fatto che tuo figlio è morto o che non è vissuto abbastanza? Se ne piangi la morte avresti dovuto piangere sempre, perché da sempre sapevi che sarebbe morto. Rifletti allora che chi è morto non soffre più alcun male, che sono favole quelle secondo cui l’aldilà sarebbe qualcosa di terribile: nessuna tenebra incombe sui morti, non ci sono prigioni né torrenti che ribollono di fuoco, né un fiume dell’Oblio, non ci sono tribunali e imputati, non c’è nessun tiranno in quella assoluta e totale libertà. Sono i poeti ad avere inventato tutte queste cose, spaventandoci con vani terrori. La morte è la soluzione di tutti i dolori, il confine che i nostri mali terreni non possono varcare; essa ci rimette in quella tranquillità in cui giacevamo prima di nascere. Chi piange i morti deve piangere anche coloro che, concepiti, non sono venuti al mondo. La morte non è né un bene né un male. Per poter parlare di bene o di male bisogna che vi sia qualcosa a cui attribuire quelle prerogative, ma il niente e ciò che si riduce a niente ci sottrae a qualsivoglia sorte: il male e il bene, infatti, agiscono solo su ciò che esiste, la sorte non ha presa su ciò che la natura ha licenziato, né può essere infelice chi non esiste più. Tuo figlio è uscito dai confini entro i quali si è schiavi ed è stato accolto in una grande ed eterna pace. Né più lo assalgono il timore della povertà, l’assillo della ricchezza, l’impulso della libidine che corrompe le anime con la
voluttà; non prova invidia per la felicità altrui e non è odiato per la propria, i suoi orecchi verecondi non sono più colpiti da alcuna offesa, nessuna calamità, pubblica o privata, si prospetta per lui, nessuna ansia per un futuro che promette cose sempre incerte. Egli, insomma, ormai si trova in un luogo da dove nulla può scacciarlo e dove nulla può spaventarlo. 20. Oh, come ben conoscono i loro mali coloro che apprezzano la morte e l’attendono come la migliore invenzione della natura! Sia che ponga fine a una vita felice, sia che ne tronchi una infelice, che giunga dopo una stanca e fastidiosa vecchiaia o si porti via la giovinezza in fiore nel momento in cui sono più belle le speranze, o, prima ancora, la puerizia, sottraendola alle prove più dure, la morte è per tutti la fine della vita, per molti un rimedio, per alcuni una grazia e mai più opportuna se non per chi non arriva al punto di doverla invocare! Essa libera lo schiavo anche senza il consenso del padrone, libera i prigionieri dalle catene e manda fuori dal carcere coloro a cui un potere tirannico aveva impedito di uscirne, dimostra agli esuli, che tengono sempre il cuore e gli occhi rivolti alla patria, che non importa sotto quale terra si sia sepolti; essa rende tutti uguali dopo che la fortuna ha suddiviso male i beni comuni e sottomesso gli uomini gli uni agli altri, quando essi sono nati tutti con i medesimi diritti. Dopo la morte nessuno soggiace all’arbitrio di altri, né si sente un reietto: lei ha sempre accolto tutti indiscriminatamente, è lei, o Marcia, che tuo padre ha sempre desiderato, è lei che dissolve nel suo seno il supplizio della nascita, che m’impedisce di abbattermi di fronte alle minacce della malasorte e mi dà la forza di conservare l’animo saldo e padrone di sé, perché so a chi posso appellarmi alla fine. Qui vedo strumenti di tortura di ogni genere, costruiti quali in un modo quali in un altro, condannati che vengono appesi a testa in giù, altri impalati con una pertica conficcata nelle parti basse, altri con le braccia aperte inchiodate sul patibolo; vedo corde e flagelli, e strumenti specifici approntati per ogni parte del corpo. Ma vedo anche la morte. Qui ci sono nemici sanguinari e cittadini prepotenti, ma vedo anche la morte. La schiavitù non ti pesa se, quando sei stanco del padrone, puoi, con un solo passo, raggiungere la libertà. Mi sei gradita, o vita, proprio per via della morte! Pensa ai vantaggi di una morte che giunge al momento opportuno e a quanti ha nociuto l’essere vissuti troppo. Gneo Pompeo, gloria e sostegno di questo impero, se fosse morto del suo male a Napoli, se ne sarebbe andato con la fama indiscussa di primo cittadino del popolo romano. Invece quel poco in più di vita lo fece precipitare dall’altezza che aveva raggiunto: si vide sterminare sotto gli occhi intere legioni, e da quella battaglia,27 che ebbe tutti i senatori nella prima schiera, fra quegli unici resti vide sopravvivere il comandante supremo, vide il carnefice egiziano e offrì a uno scherano il suo corpo che persino i vincitori consideravano inviolabile. Ma anche se ne fosse uscito incolume se ne sarebbe pentito: quale maggiore vergogna, per un Pompeo, di una vita risparmiata per concessione di un re? Marco Cicerone, se fosse morto quando sfuggì ai pugnali
di Catilina, che attentavano alla vita non solo di lui ma dello Stato stesso, se dopo aver liberato la repubblica, lui, salvatore della patria, avesse seguito la figlia28 nella tomba, sarebbe ancora potuto morire felice: non avrebbe visto le spade sguainate sulle teste dei cittadini, né gli uccisori dividersi i beni delle vittime, che così morivano a proprie spese, né vendere all’asta le spoglie dei consoli, né le stragi, le rapine appaltate dallo Stato, né le guerre, i saccheggi e tanti altri Catilina. E se il mare avesse inghiottito Marco Catone al suo ritorno da Cipro, dove aveva dato esecuzione al testamento del re,29 o se fosse affondato proprio con quel denaro che serviva a finanziare la guerra civile, non sarebbe forse stato un bene per lui? Avrebbe portato con sé la certezza che nessuno osava compiere un delitto in presenza di Catone. Ebbene, l’aggiunta di pochissimi anni di vita costrinse quest’uomo, nato non solo per la sua libertà ma anche per quella dello Stato, a fuggire Cesare per seguire Pompeo. Dunque la morte prematura non ha recato alcun male a tuo figlio, anzi, lo ha dispensato dal peso di tutti i mali possibili. 21. «Sì, però è morto troppo presto e impreparato». Prima di tutto immagina che gli rimassero tanti anni quanti al massimo può viverne un uomo. Quanti? Siamo destinati a una vita che già è brevissima di per sé, per lasciare poi il posto, non certo tranquillo, agli altri ospiti che verranno, come in un albergo. Questa è la nostra vita e, come tutti sanno, scorre rapidissimamente. Calcola gli anni delle città: vedrai quanto poco tempo siano durate persino quelle che si vantavano della loro antichità. Tutte le cose umane sono brevi e caduche e del tempo infinito non occupano che una porzione insignificante. Di fronte all’universo questa nostra terra, con le sue città, i suoi popoli, i suoi fiumi e l’Oceano che la circonda, non è che un punto, e meno ancora di un punto è la nostra vita, se la confrontiamo con l’eternità, la quale è ben più vasta dell’universo, che si rinnova, sì, continuamente, ma sempre all’interno dell’eternità. Che giova, quindi, estendere una cosa che, per quanto la si accresca, non sarà molto lontana dal nulla? Non c’è che un modo per prolungare la nostra vita: ritenerla comunque sufficiente. Anche la longevità degli uomini ricordàti per essere vissuti più degli altri, a un massimo, diciamo, di centodieci anni, paragonata all’eternità dimostra che non c’è differenza fra la vita più lunga e la più breve, soprattutto se si confronta la quantità del tempo che si vive con quella che non si è vissuta e non si vivrà. E poi tuo figlio è morto al tempo giusto per lui, altro non gliene restava, è vissuto quanto doveva vivere, la vecchiaia non è uguale per tutti gli uomini, come non lo è per gli animali: per alcuni di questi la fine viene a quattordici anni, un tempo lunghissimo per loro, che per l’uomo costituisce la prima età. A ciascuna vita è assegnata una durata diversa. Di nessuno si può dire che sia morto troppo presto, perché nessuno sarebbe potuto vivere più di quanto è vissuto. C’è una scadenza per ciascuno e resterà sempre quella stabilita in partenza: non c’è favore o espediente che possa prolungare la durata della vita. Convinciti che hai perduto tuo figlio per eterno decreto della
mente divina: egli ha avuto la sua giusta parte ed è giunto al termine del tempo a lui concesso.30 Non hai dunque motivo di affliggerti pensando: «Poteva vivere di più». La sua vita non è stata interrotta: il caso non può interrompere gli anni prima del tempo stabilito, a ciascuno è dato quanto gli è stato promesso, il destino va per la sua strada e non aggiunge e non toglie nulla a quanto una volta per tutte ha stabilito. È inutile pregare e desiderare: ciascuno avrà quanto gli è stato assegnato nel suo giorno di nascita; dal momento in cui ha visto per la prima volta la luce è entrato nella strada che conduce alla morte e si è avvicinato sempre più al suo destino finale: gli anni che si aggiungevano alla sua fanciullezza venivano al tempo stesso sottratti alla durata della sua vita. Cadiamo tutti nello stesso errore, quello di credere che alla morte si avviino solo i vecchi ormai decrepiti quando invece ci si va subito fin dall’infanzia, poi dall’adolescenza e da tutte le altre età. Il fato fa quel che deve: ci toglie il senso della morte, e questa, per insinuarsi in noi più facilmente, si nasconde sotto il nome di vita. La puerizia si succhia l’infanzia, la pubertà la puerizia, la vecchiaia la giovinezza. Se fai il conto, ogni guadagno è una perdita. 22. Ti lamenti, o Marcia, perché tuo figlio non è vissuto tanto quanto avrebbe potuto. Ma come puoi sapere se per lui sarebbe stato meglio vivere più a lungo o se, essendo morto in quell’età, non gli sia invece giovato? Puoi trovare forse qualcuno che goda di una posizione così stabile e sicura da non dover temere nulla in futuro? Le cose umane vacillano e si dileguano, e nessun periodo della nostra vita è tanto esposto e fragile quanto quello che più ci è gradito, perciò i più felici devono desiderare la morte, perché in tanta incertezza e confusione solo il passato è sicuro. Chi ti garantisce che quel bellissimo corpo di tuo figlio, così diligente nel conservare intatto il suo pudore di fronte a una città dissoluta, sarebbe riuscito a sfuggire a tante malattie e a portare inalterata sino alla vecchiaia la sua bellezza? Pensa alle mille brutture che possono corrompere l’animo: neppure le indoli più oneste conducono al traguardo della vecchiaia le speranze che da giovani avevano suscitato negli altri, per lo più si lasciano deviare, o li afferra una lussuria tarda e perciò più vergognosa, che comincia ad avvilire quel bell’inizio, o cedono completamente al bere e alla fame del ventre, che diventano la loro più grave preoccupazione. A tutto questo aggiungi gl’incendi, i crolli, i nubifragi e le operazioni dei medici che frugano nella carne viva per cercare un osso malato, o affondano l’intera mano nelle viscere, o curano le parti intime infliggendo dolori su dolori. Poi c’è l’esilio, e tuo figlio non era più innocente di Rutilio, c’è il carcere, e tuo figlio non era certo più saggio di Socrate, c’è il suicidio, e tuo figlio non era più virtuoso di Catone. Se consideri tutto ciò converrai che la natura è benevola con coloro che mette anzitempo al riparo da questo ulteriore tributo da dover pagare alla vita. Nulla è
tanto ingannevole o insidioso quanto la vita umana: nessuno di noi, per Ercole, l’accetterebbe se non ci fosse data a nostra insaputa. In definiva se la cosa migliore è non nascere, ciò che sta quasi alla pari con quella non esistenza è il ritornarci al più presto possibile. Pensa a quel tempo, per te dolorosissimo, in cui Seiano offrì tuo padre in pasto al suo cliente Satrio Secondo. Ce l’aveva con lui per una o due sue battute pronunciate in tutta libertà: tuo padre, infatti, non aveva sopportato in silenzio che Seiano non solo ci stesse alle spalle ma che addirittura ci salisse sopra. Si votava l’erezione di una statua in onore di lui nel teatro di Pompeo, che Cesare stava ricostruendo dopo l’incendio: a un certo punto Cordo esclamò: «Stavolta sì che il teatro crolla davvero!». E che? Poteva non scoppiare vedendo porre la statua di Seiano sulle ceneri di Pompeo e consacrare un soldato traditore accanto al monumento di un grande generale? Ebbene, si sottoscrive l’atto di accusa contro Cordo, e quei cani rabbiosi che Seiano nutriva di sangue umano per renderli feroci con tutti e mansueti con sé stesso incominciarono a latrare attorno a un uomo che anche in quel caso restava imperturbabile. Che cosa poteva fare? Se voleva vivere doveva pregare Seiano, se voleva morire doveva pregare sua figlia: ma entrambi erano irremovibili. Così decise d’ingannare la figlia. Fece un bagno per ridurre il più possibile le sue forze, si ritirò in camera, come se volesse mangiare, e, congedati gli schiavi, gettò dalla finestra parte del cibo, per far credere di aver pranzato. Alla sera non cenò, sostenendo di avere abbastanza mangiato in camera sua. L’indomani fece altrettanto, e così pure il giorno seguente. Al quarto non poté più nascondere la sua debolezza. Allora ti abbracciò e ti disse: «Figlia carissima, in tutta la mia vita ti ho nascosto solo questo: sono entrato nel sentiero della morte e mi trovo a metà strada. Non devi farmi tornare indietro, né più lo potresti, ormai». Quindi ordinò di chiudere le finestre e si nascose alla vista di tutti. La notizia di quella sua decisione fu un sollievo per i familiari, perché Cordo si sottraeva alle fauci di quegli avidissimi lupi. Ma gli accusatori, vedendosi sfuggire la preda, su istigazione di Seiano, si rivolsero al tribunale dei consoli protestando che Cordo cercava la morte per vanificare la loro iniziativa. La questione era controversa, non essendo chiaro se all’accusato fosse lecito morire di propria mano. Mentre si discuteva e gli accusatori si presentavano nuovamente in tribunale, Cordo era già libero. Vedi, Marcia, quante vicende impensabili ci piombano addosso in questi tempi crudeli? Tu piangi perché a uno dei tuoi toccò in sorte di morire, ma c’è stato chi per poco non lo poté neppure di sua mano. 23. A parte il fatto che il futuro è incerto e più propenso al peggio, la via verso il cielo è facilissima per le anime che si sono staccate presto dai rapporti con gli uomini, perché portano con sé una minore quantità di residui terreni. Liberatesi prima di indurirsi e assorbire troppo gli elementi terrestri, spiccano più leggere il volo verso la loro origine e si spogliano più facilmente di ciò che le insozza e le contamina. Inoltre ai grandi spiriti non è gradito un lungo
soggiorno nel corpo: essi sono impazienti di uscirne, di balzar fuori, mal sopportano queste strettoie, abituati come sono a innalzarsi al cielo per spaziarvi e guardare dall’alto le vicende umane. È per questo – dice Platone – che l’animo del saggio si protende tutto verso la morte, questo egli vuole, questo egli medita continuamente, spinto da un tale desiderio verso l’aldilà. E che? Quando tu, o Marcia, vedevi in quel giovane una saggezza degna di un vecchio, un animo che aveva trionfato su tutti i piaceri, senza macchie, senza vizi, che cercava sì la ricchezza ma senza avidità, gli onori ma senza ambizione, i piaceri ma senza lussuria, pensavi che avresti potuto tenertelo a lungo sano e salvo? Tutto ciò che giunge a perfezione è vicino alla fine, una virtù perfetta non è più visibile ai nostri occhi, i frutti precocemente maturi non aspettano la fine della stagione. Il fuoco, quanto più splendidamente sfolgora, tanto più presto si spegne, mentre se è alimentato da un legname resistente e poco combustibile e soffocato dal fumo dura di più, ma la sua luce è fuligginosa, lo tiene in vita proprio quel materiale che fa fatica a nutrirlo. Anche gl’ingegni quanto più sono brillanti tanto più poco durano, poiché dove non c’è più spazio o incremento per la crescita il tramonto è vicino. Fabiano31 racconta, e l’hanno visto anche i nostri genitori, che a Roma c’era un bambino di grande statura e molto robusto che però morì presto: l’avevano previsto tutti, perché non poteva più raggiungere quell’età che aveva raggiunto in anticipo. È così: una precocità eccessiva è indizio di morte precoce, la fine si avvicina quando la crescita è compiuta. 24. Comincia dunque a valutare tuo figlio sulla base delle sue virtù, non su quella degli anni, e ti renderai conto ch’è vissuto abbastanza a lungo. Rimasto orfano di padre, fu affidato ai tutori sino all’età di quattordici anni, ma sempre sotto la tutela di sua madre. Pur avendo una casa propria, non volle lasciare la tua e convisse con te per tutta l’adolescenza, l’età in cui i figli stentano ad accettare la convivenza col padre. Per la sua statura, la bellezza e la prestanza fisica, sembrava nato per la vita militare, ma vi rinunciò per non allontanarsi da te. Calcola, o Marcia, quanto poco vedano i propri figli quelle madri che non coabitano con loro, considera quanti anni risultino perduti o trascorrano nell’ansia per quelle madri i cui figli sono sotto le armi: ti renderai conto che è stato molto lungo quel tempo, del quale non hai perduto un solo momento: tuo figlio non si è mai allontanato da te, sotto i tuoi occhi ha plasmato con gli studi quell’ingegno straordinario che avrebbe eguagliato quello del nonno se non si fosse frapposta la modestia, che nasconde sotto il silenzio i progressi di molti. Giovane di eccezionale bellezza, non si offrì mai alle speranze di quelle numerosissime donne che corrompono gli uomini, e quando qualcuna di esse maliziosamente tentò di adescarlo ne arrossì, come se l’essere piaciuto gli sembrasse una colpa. Per questa santità di costumi ancora fanciullo parve degno del sacerdozio, certamente con l’appoggio di sua madre, che però non sarebbe valso a nulla se il candidato non fosse risultato idoneo. Riabbraccia dunque tuo figlio, se così posso dire, contemplando queste sue
virtù. Proprio ora egli sarà tutto tuo, perché ora non c’è nulla che possa allontanartelo, non avrai mai motivo di ansie e di pianto. Da un figlio tanto buono hai avuto il solo dolore che potevi avere, tutto il resto, sottratto a qualsiasi evento terreno, è colmo di gioia, purché tu sappia godere di tuo figlio e capire quanto in lui ci fosse di sommamente prezioso. Ti è venuta a mancare solo la sua immagine, che peraltro non corrispondeva pienamente al suo ritratto interiore, ora, invece, è eterno e in condizione migliore, libero da pesi non suoi e restituito a sé stesso: tutto ciò che ci è stato messo attorno, infatti, le ossa, i nervi, la pelle che ricopre il corpo e il volto, le mani operose e ogni altra cosa sono catene e tenebre per l’anima, che ne è sopraffatta, strozzata, contaminata, allontanata dalla sua verità e spinta all’errore. Tutta la sua lotta è rivolta contro il peso di questa carne; per non esserne coinvolta e paralizzata, essa tende a salire al luogo da cui è discesa, là l’attende una pace eterna, la contemplazione di tutto ciò che è limpido e puro, fuori dalla concretezza della materia. 25. Dunque non hai più motivo di piangere sulla tomba di tuo figlio: lì giace la parte deteriore e ingombrante di lui, proprio quella che gli fu più molesta, ossa e cenere, che ormai non gli appartiene più, come il corpo, le vesti e gli altri indumenti. Se n’è fuggito integro e senza lasciare nulla di sé sulla terra, se n’è andato completamente. Si è soffermato brevemente in uno spazio che sta sopra di noi per purificarsi e scuotersi di dosso tutte le imperfezioni della vita terrena, poi si è innalzato nella parte più alta del cielo e colà si muove liberamente, tra le anime felici. È stato accolto nella sacra compagnia degli Scipioni e dei Catoni e tra coloro che hanno disprezzato la vita e si sono dati da sé la libertà, come tuo padre, o Marcia, il quale tiene vicino a sé il nipote (sebbene lì formino tutti un’unica famiglia), lo vede godere della nuova luce, gli spiega i moti delle stelle vicine, non per ipotesi ma per esperienza diretta, e lo inizia con gioia ai misteri della natura. Come l’ospite è grato a colui che va mostrandogli città sconosciute, così tuo figlio, che lo interroga sulle cause dei fenomeni celesti, è grato a questo suo familiare che gli fa da interprete. E lo invita anche a volgere lo sguardo giù, verso gli abissi che cingono la terra, perché è bello rivedere dall’alto ciò che si è lasciato. Continua dunque a vivere, o Marcia, come se fossi ancora sotto lo sguardo di tuo padre e di tuo figlio, non però quali li hai conosciuti ma posti molto più in alto, nel luogo più sublime che vi sia; arrossisci di qualunque atteggiamento meschino o volgare, come quello di piangere i tuoi cari, ora che si sono fatti migliori. Entrati nei liberi e immensi spazi dell’eternità, entrambi non sono più divisi fra loro dagli interposti mari, da alte catene di monti, da valli impervie o dalle secche infìde delle Sirti: tutto è pianeggiante per loro, che, spostandosi con naturale agilità e scioltezza, si compenetrano reciprocamente e si mescolano con le stelle. 26. E ora immagina, o Marcia, che da quella rocca celeste ti parli tuo padre –
che su di te aveva tanta autorità quanta ne avevi tu su tuo figlio – non con quell’animo con cui pianse le guerre civili e condannò per l’eternità coloro che avevano scritto le lettere di proscrizione, e con ispirazione tanto più elevata in quanto è ancora più in alto, egli ti dica: «Perché, o figlia, ti lasci prendere così a lungo dalla tristezza? Perché persisti nel credere che sia stato fatto un torto a tuo figlio quando, senza arrecare alcun danno alla sua famiglia e incolume egli stesso, se n’è tornato dai suoi antenati? Non sai con quali tempeste la sorte sconvolga ogni cosa? E che non mostra benevolenza ad alcuno se non soltanto a coloro che non hanno avuto rapporti con lei? Vuoi che ti nomini dei re che sarebbero stati felicissimi se una morte precoce li avesse sottratti ai mali che incombevano su di loro? O dei condottieri romani che nulla perderebbero della loro grandezza se togliessi qualche anno alla loro vita? O uomini di grandissima nobiltà e fama, lasciati in vita dalla sorte per poter offrire il loro collo alla spada di un soldato? Ripensa a tuo padre e a tuo nonno: questi fu vittima di un sicario straniero, io non mi sono lasciato offendere da nessuno e, astenendomi dal cibo, ho mostrato nella mia vita lo stesso coraggio che aveva ispirato i miei scritti. Perché nella nostra famiglia si piange più a lungo chi ha avuto la morte più felice? Noi siamo tutti qui riuniti e, non più circondati dal buio della notte, vediamo che nel vostro mondo, contrariamente a quanto voi credete, nulla è degno di essere desiderato, nulla è elevato, nulla risplende, ma tutto è vile, pesante, angoscioso e riceve una ben piccola parte della luce che splende quassù. Qui non ci sono eserciti che infuriano gli uni contro gli altri, flotte che s’infrangono contro altre flotte, parricidi progettati e meditati, fori che strepitano di processi per intere giornate; qui nulla è nascosto, i pensieri sono palesi, il cuore è aperto, la vita si svolge in mezzo a tutti e davanti a tutti e si ha cognizione dei fatti di ogni tempo e di ogni paese. Quando stavo sulla terra amavo raccogliere gli avvenimenti di una sola epoca, svoltisi in una parte infinitesima del mondo e tra pochissimi uomini: ora posso vedere l’intera sequenza e l’intreccio di tanti secoli, di tante età, di tutti gli anni, posso vedere i regni che attendono di nascere e quelli che stanno per crollare, la caduta delle grandi città e il futuro fluire del mare. Quindi, se può recare consolazione al tuo rimpianto il fatto che siamo tutti accomunati da un medesimo destino, sappi che il tempo abbatterà tutto ciò che sulla terra adesso si trova, trascinandolo con sé. E non si befferà solo degli uomini (che sono una piccolissima parte del dominio della sorte), ma anche delle città, delle regioni e dei continenti: schiaccerà intere montagne e innalzerà altrove nuove rupi verso il cielo, prosciugherà i mari, devierà il corso dei fiumi e interrompendo i rapporti fra le genti scioglierà ogni alleanza e ogni società umana, seppellirà città in profonde voragini, le scuoterà con terremoti, farà schizzare dal profondo esalazioni pestifere, ricoprirà con alluvioni ogni luogo abitato sommergendo la terra e facendo morire ogni essere vivente, e con immensi fuochi incendierà e ridurrà in cenere ogni cosa mortale. Poi, quando starà per giungere l’alba di un mondo nuovo, il vecchio si distruggerà interamente con le sue stesse forze, le stelle si scontreranno fra loro e
in una universale conflagrazione della materia tutti i corpi celesti che ora splendono in bell’ordine ciascuno al suo proprio posto arderanno in un immenso fuoco. Anche noi, anime felici dall’eterno destino, quando dio riterrà giunto il momento di una nuova creazione, nata dalla distruzione dell’universo, noi, che siamo una piccola parte accessoria in quell’immenso e totale sconvolgimento, saremo ritrasformati negli elementi primordiali». Felice tuo figlio, o Marcia, che già conosce tutto questo!
1. Cremuzio Cordo, senatore e storico, autore di Annales, di cui si parla più avanti. 2. Lucio Elio Seiano, prefetto del pretorio e consigliere di Tiberio, si macchiò di molti delitti e tramò contro l’imperatore stesso, che lo fece giustiziare. 3. È l’imperatore Ottaviano Augusto, di cui Marcello aveva sposato la figlia Giulia. 4. Il futuro imperatore Tiberio. 5. Areo Didimo, filosofo stoico e consigliere spirituale di Augusto. 6. Il verso è di Publilio Siro di Antiochia, attore e autore di mimi del I secolo a.C. 7. Pizia è la nota sacerdotessa del tempio di Apollo a Delfi. 8. Nel De providentia Seneca ironizza sulla «felice èra di Silla» (III 7). 9. Era il gesto con cui il sacerdote consacrava il tempio. 10. Emilio Paolo è il vincitore di Perseo, re di Macedonia, nella battaglia di Pidna (168 a.C.). 11. Secondo la consuetudine i figli seguivano il trionfo sul cocchio del padre. 12. Lucio Calpurnio Bibulo e Caio Giulio Cesare furono colleghi nel consolato del 59 a.C. 13. È Giulia, che Cesare, per motivi politici, diede in sposa a Gneo Pompeo. 14. Perché Augusto alla sua morte sarebbe stato assunto fra gli dèi. 15. Si tratta di Germanico. Druso, figlio legittimo di Tiberio, morì avvelenato da Seiano. 16. Lucrezia, moglie del console Collatino, si diede la morte dopo essere stata violentata da Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo. Il suo sacrificio fu uno dei motivi che determinarono la cacciata da Roma dei Tarquini e la conseguente fine della monarchia. 17. Clelia, data in ostaggio al re etrusco Porsenna, riuscì a fuggire passando a nuoto il Tevere. 18. Tiberio Sempronio e Caio Sempronio Gracco, figli di Cornelia e nipoti di Scipione l’Africano, furono i tribuni della plebe che si batterono per le leggi agrarie contro l’aristocrazia romana. 19. M. Livio Druso, tribuno della plebe nel 91 a.C., proseguì l’opera dei Gracchi e si batté per la concessione della cittadinanza romana agli Italici. 20. È una citazione dall’Eneide (III 418). 21. Da Alfeo, il fiume del Peloponneso che sfocia nel Mar Ionio, è derivata la leggenda della ninfa Aretusa, che fu mutata in fonte affinché potesse sottrarsi alle brame amorose di lui. 22. Sono le Latomie, dove, dopo la disfatta di Atene da parte di Siracusa (413 a.C.) durante la guerra del Peloponneso, furono rinchiusi migliaia di ateniesi. 23. È Dionigi il Giovane, a cui Platone consigliò invano di attuare riforme politiche. 24. Secondo la teoria tolemaica è il Sole che gira intorno alla terra, immobile al centro dell’universo, con tutti gli altri pianeti. 25. Gli antichi ritenevano che l’Oceano fosse un fiume che circondava la terra e che da lui avessero avuto origine tutte le acque. I tre golfi sono formati dal Mar Mediterraneo, dal Mar Caspio e dal Mar Rosso. 26. I coniugi senza figli, o che fingevano di non averne, erano corteggiati da coloro che andavano a caccia di eredità e che perciò si mostravano premurosi verso di loro. 27. È la battaglia di Farsalo (48 a.C.), in cui Pompeo fu sconfitto da Cesare. 28. È Tullia, figlia di Cicerone, morta nel 45 a.C. 29. Si tratta dell’immenso patrimonio di Tolomeo, re d’Egitto, lasciato in eredità a Roma. Catone ebbe l’incarico di definire la questione. 30. Citazione dall’Eneide (X 472).
31. Papirio Fabiano, autorevole retore, fu maestro di Seneca, che lo ricorda anche nel De brevitate vitae.
De ira
Liber primus 1. Exegisti a me, Novate, ut scriberem quemadmodum posset ira leniri, nec inmerito mihi videris hunc praecipue affectum pertimuisse maxime ex omnibus taetrum ac rabidum. Ceteris enim aliquid quieti placidique inest, hic totus concitatus et in impetu est, doloris armorum, sanguinis suppliciorum minime humana furens cupiditate, dum alteri noceat sui neglegens, in ipsa inruens tela et ultionis secum ultorem tracturae avidus. Quidam itaque e sapientibus viris iram dixerunt brevem insaniam; aeque enim inpotens sui est, decoris oblita, necessitudinum immemor, in quod coepit pertinax et intenta, rationi consiliisque praeclusa, vanis agitata causis, ad dispectum aequi verique inhabilis, ruinis simillima quae super id quod oppressere franguntur. Ut scias autem non esse sanos quos ira possedit, ipsum illorum habitum intuere; nam ut furentium certa indicia sunt audax et minax vultus, tristis frons, torva facies, citatus gradus, inquietae manus, color versus, crebra et vehementius acta suspiria, ita irascentium eadem signa sunt: flagrant ac micant oculi, multus ore toto rubor exaestuante ab imis praecordiis sanguine, labra quatiuntur, dentes comprimuntur, horrent ac surriguntur capilli, spiritus coactus ac stridens, articulorum se ipsos torquentium sonus, gemitus mugitusque et parum explanatis vocibus sermo praeruptus et conplosae saepius manus et pulsata humus pedibus et totum concitum corpus magnasque irae minas agens, foeda visu et horrenda facies depravantium se atque intumescentium. Nescias utrum magis detestabile vitium sit an deforme. Cetera licet abscondere et in abdito alere: ira se profert et in faciem exit, quantoque maior, hoc effervescit manifestius. Non vides ut omnium animalium, simul ad nocendum insurrexerunt, praecurrant notae ac tota corpora solitum quietumque egrediantur habitum et feritatem suam exasperent? Spumant apris ora, dentes acuuntur adtritu, taurorum cornua iactantur in vacuum et harena pulsu pedum spargitur, leones fremunt, inflantur inritatis colla serpentibus, rabidarum canum tristis aspectus est: nullum est animal tam horrendum tam perniciosumque natura ut non appareat in illo, simul ira invasit, novae feritatis accessio. Nec ignoro ceteros quoque affectus vix occultari, libidinem metumque et audaciam dare sui signa et posse praenosci; neque enim ulla vehementior intrat agitatio quae nihil moveat in vultu. Quid ergo interest? Quod alii affectus apparent, hic eminet. 2. Iam vero si effectus eius damnaque intueri velis, nulla pestis humano generi pluris stetit. Videbis caedes ac venena et reorum mutuas sordes et urbium clades et totarum exitia gentium et principum sub civili hasta capita venalia et
subiectas tectis faces nec intra moenia coercitos ignes sed ingentia spatia regionum hostili flamma relucentia. Aspice nobilissimarum civitatum fundamenta vix notabilia: has ira deiecit. Aspice solitudines per multa milia sine habitatore desertas: has ira exhausit. Aspice tot memoriae proditos duces mali exempla fati: alium ira in cubili suo confodit, alium intra sacra mensae iura percussit, alium intra leges celebrisque spectaculum fori lancinavit, alium filii parricidio dare sanguinem iussit, alium servili manu regalem aperire iugulum, alium in cruce membra diffindere. Et adhuc singulorum supplicia narro: quid si tibi libuerit, relictis in quos ira viritim exarsit, aspicere caesas gladio contiones et plebem inmisso milite contrucidatam et in perniciem promiscuam totos populos capitis damnatos… … tamquam aut curam nostram deserentibus aut auctoritatem contemnentibus. Quid? Gladiatoribus quare populus irascitur, et tam inique ut iniuriam putet quod non libenter pereunt? Contemni se iudicat et vultu gestu ardore ex spectatore in adversarium vertitur. Quicquid est tale, non est ira, sed quasi ira, sicut puerorum qui, si ceciderunt, terram verberari volunt et saepe ne sciunt quidem cur irascantur, sed tantum irascuntur, sine causa et sine iniuria, non tamen sine aliqua iniuriae specie nec sine aliqua poenae cupiditate. Deluduntur itaque imitatione plagarum et simulatis deprecantium lacrimis placantur et falsa ultione falsus dolor tollitur. 3. «Irascimur» inquit «saepe non illis qui laeserunt, sed iis qui laesuri sunt, ut scias iram non ex iniuria nasci». Verum est irasci nos laesuris, sed ipsa cogitatione nos laedunt, et iniuriam qui facturus est iam facit. «Ut scias» inquit «non esse iram poenae cupiditatem, infirmissimi saepe potentissimis irascuntur nec poenam concupiscunt quam non sperant». Primum diximus cupiditatem esse poenae exigendae, non facultatem; concupiscunt autem homines et quae non possunt. Deinde nemo tam humilis est qui poenam vel summi hominis sperare non possit: ad nocendum potentes sumus. Aristotelis finitio non multum a nostra abest: ait enim iram esse cupiditatem doloris reponendi. Quid inter nostram et hanc finitionem intersit, exequi longum est. Contra utramque dicitur feras irasci nec iniuria inritatas nec poenae dolorisve alieni causa, nam etiam si haec efficiunt, non haec petunt. Sed dicendum est feras ira carere et omnia praeter hominem; nam cum sit inimica rationi, nusquam tamen nascitur nisi ubi rationi locus est. Impetus habent ferae, rabiem feritatem incursum, iram quidem non magis quam luxuriam, et in quasdam voluptates intemperantiores homine sunt. Non est quod credas illi qui dicit: non aper irasci meminit, non fidere cursu cerva nec armentis incurrere fortibus ursi. Irasci dicit incitari, inpingi; irasci quidem non magis sciunt quam ignoscere.
Muta animalia humanis affectibus carent, habent autem similes illis quosdam impulsus: alioqui, si amor in illis esset et odium, esset amicitia et simultas, dissensio et concordia; quorum aliqua in illis quoque extant vestigia, ceterum humanorum pectorum propria bona malaque sunt. Nulli nisi homini concessa prudentia est, providentia diligentia cogitatio, nec tantum virtutibus humanis animalia sed etiam vitiis prohibita sunt. Tota illorum ut extra ita intra forma humanae dissimilis est; regium est illud et principale aliter ductum. Ut vox est quidem sed non explanabilis et perturbata et verborum inefficax, ut lingua, sed devincta nec in motus varios soluta, ita ipsum principale parum subtile, parum exactum. Capit ergo visus speciesque rerum quibus ad impetus evocetur, sed turbidas et confusas. Ex eo procursus illorum tumultusque vehementes sunt, metus autem sollicitudinesque et tristitia et ira non sunt, sed his quaedam similia: ideo cito cadunt et mutantur in contrarium et, cum acerrime saevierunt expaveruntque, pascuntur, et ex fremitu discursuque vesano statim quies soporque sequitur. 4. Quid esset ira satis explicitum est. Quo distet ab iracundia apparet: quo ebrius ab ebrioso et timens a timido. Iratus potest non esse iracundus: iracundus potest aliquando iratus non esse. Cetera quae pluribus apud Graecos nominibus in species iram distinguunt, quia apud nos vocabula sua non habent, praeteribo, etiam si amarum nos acerbumque dicimus, nec minus stomachosum rabiosum clamosum difficilem asperum, quae omnia irarum differentiae sunt; inter hos morosum ponas licet, delicatum iracundiae genus. Quaedam enim sunt irae quae intra clamorem considant, quaedam non minus pertinaces quam frequentes, quaedam saevae manu verbis parciores, quaedam in verborum maledictorumque amaritudinem effusae, quaedam ultra querellas et aversationes non exeunt, quaedam altae gravesque sunt et introrsus versae: mille aliae species sunt mali multiplicis. 5. Quid esset ira quaesitum est, an in ullum aliud animal quam in hominem caderet, quo ab iracundia distaret, quot eius species essent: nunc quaeramus an ira secundum naturam sit et an utilis atque ex aliqua parte retinenda. An secundum naturam sit manifestum erit, si hominem inspexerimus. Quo quid est mitius, dum in recto animi habitus est? Quid autem ira crudelius est? Quid homine aliorum amantius? Quid ira infestius? Homo in adiutorium mutuum genitus est, ira in exitium; hic congregari vult, illa discedere, hic prodesse, illa nocere, hic etiam ignotis succurrere, illa etiam carissimos petere; hic aliorum commodis vel impendere se paratus est, illa in periculum, dummodo deducat, descendere. Quis ergo magis naturam rerum ignorat quam qui optimo eius operi et emendatissimo hoc ferum ac perniciosum vitium adsignat? Ira, ut diximus, avida poenae est, cuius cupidinem inesse pacatissimo hominis pectori minime secundum eius naturam est. Beneficiis enim humana vita constat et concordia, nec terrore sed mutuo amore in foedus auxiliumque commune constringitur.
6. «Quid ergo? Non aliquando castigatio necessaria est?». Quidni? Sed haec sine ira, cum ratione; non enim nocet sed medetur specie nocendi. Quemadmodum quaedam hastilia detorta ut corrigamus adurimus et adactis cuneis, non ut frangamus sed ut explicemus, elidimus, sic ingenia vitio prava dolore corporis animique corrigimus. Nempe medicus primo in levibus vitiis temptat non multum ex cotidiana consuetudine inflectere et cibis potionibus exercitationibus ordinem imponere ac valetudinem tantum mutata vitae dispositione firmare. Proximum est ut modus proficiat. Si modus et ordo non proficit, subducit aliqua et circumcidit; si ne adhoc quidem respondet, interdicit cibis et abstinentia corpus exonerat; si frustra molliora cesserunt, ferit venam membrisque, si adhaerentia nocent et morbum diffundunt, manus adfert; nec ulla dura videtur curatio cuius salutaris effectus est. Ita legum praesidem civitatisque rectorem decet, quam diu potest, verbis et his mollioribus ingenia curare, ut facienda suadeat cupiditatemque honesti et aequi conciliet animis faciatque vitiorum odium, pretium virtutium; transeat deinde ad tristiorem orationem, qua moneat adhuc et exprobret; novissime ad poenas et has adhuc leves, revocabiles decurrat; ultima supplicia sceleribus ultimis ponat, ut nemo pereat nisi quem perire etiam pereuntis intersit. Hoc uno medentibus erit dissimilis, quod illi quibus vitam non potuerunt largiri facilem exitum praestant, hic damnatos cum dedecore et traductione vita exigit, non quia delectetur ullius poena (procul est enim a sapiente tam inhumana feritas) sed ut documentum omnium sint, et quia vivi noluerunt prodesse, morte certe eorum res publica utatur. Non est ergo natura hominis poenae adpetens; ideo ne ira quidem secundum naturam hominis, quia poenae adpetens est. Et Platonis argumentum adferam – quid enim nocet alienis uti ea parte qua nostra sunt? Vir bonus inquit non laedit. Poena laedit: bono ergo poena non convenit, ob hoc nec ira, quia poena irae convenit. Si vir bonus poena non gaudet, non gaudebit ne eo quidem affectu cui poena voluptati est: ergo non est naturalis ira. 7. «Numquid, quamvis non sit naturalis ira, adsumenda est, quia utilis saepe fuit? Extollit animos et incitat, nec quicquam sine illa magnificum in bello fortitudo gerit, nisi hinc flamma subdita est et hic stimulus peragitavit misitque in pericula audaces. Optimum itaque quidam putant temperare iram, non tollere, eoque detracto quod exundat ad salutarem modum cogere, id vero retinere sine quo languebit actio et vis ac vigor animi resolvetur». Primum facilius est excludere perniciosa quam regere et non admittere quam admissa moderari; nam cum se in possessione posuerunt, potentiora rectore sunt nec recidi se minuive patiuntur. Deinde ratio ipsa, cui freni traduntur, tam diu potens est quam diu diducta est ab affectibus; si miscuit se illis et inquinavit, non potest continere quos summovere potuisset. Commota enim semel et excussa mens ei servit quo impellitur. Quarundam rerum initia in nostra potestate sunt, ulteriora nos vi sua rapiunt
nec regressum relinquunt. Ut in praeceps datis corporibus nullum sui arbitrium est nec resistere morarive deiecta potuerunt, sed consilium omne et paenitentiam irrevocabilis praecipitatio abscidit et non licet eo non pervenire quo non ire licuisset, ita animus, si in iram amorem aliosque se proiecit affectus, non permittitur reprimere impetum; rapiat illum oportet et ad imum agat pondus suum et vitiorum natura proclivis. 8. Optimum est primum inritamentum irae protinus spernere ipsisque repugnare seminibus et dare operam ne incidamus in iram. Nam si coepit ferre transversos, difficilis ad salutem recursus est, quoniam nihil rationis est ubi semel affectus inductus est iusque illi aliquod voluntate nostra datum est: faciet de cetero quantum volet, non quantum permiseris. In primis, inquam, finibus hostis arcendus est; nam cum intravit et portis se intulit, modum a captivis non accipit. Neque enim sepositus est animus et extrinsecus speculatur affectus, ut illos non patiatur ultra quam oportet procedere, sed in affectum ipse mutatur ideoque non potest utilem illam vim et salutarem proditam iam infirmatamque revocare. Non enim, ut dixi, separatas ista sedes suas diductasque habent, sed affectus et ratio in melius peiusque mutatio animi est. Quomodo ergo ratio occupata et oppressa vitiis resurget, quae irae cessit? Aut quemadmodum ex confusione se liberabit in qua peiorum mixtura praevaluit? «Sed quidam» inquit «in ira se continent». Utrum ergo ita ut nihil faciant eorum quae ira dictat an ut aliquid? Si nihil faciunt, apparet non esse ad actiones rerum necessariam iram, quam vos, quasi fortius aliquid ratione haberet, advocabatis. Denique interrogo: valentior est quam ratio an infirmior? Si valentior, quomodo illi modum ratio poterit inponere, cum parere nisi inbecilliora non soleant? Si infirmior est, sine hac per se ad rerum effectus sufficit ratio nec desiderat inbecillioris auxilium. At irati quidam constant sibi et se continent. Quando? Cum iam ira evanescit et sua sponte decedit, non cum in ipso fervore est; tunc enim potentior est. «Quid ergo? Non aliquando in ira quoque et dimittunt incolumes intactosque quos oderunt et a nocendo abstinent?». Faciunt; Quando? Cum affectus repercussit affectum et aut metus aut cupiditas aliquid impetravit. Non rationis tunc beneficio quievit, sed affectuum infida et mala pace. 9. Deinde nihil habet in se utile nec acuit animum ad res bellicas. Numquam enim virtus vitio adiuvanda est se contenta. Quotiens impetu opus est, non irascitur sed exsurgit et in quantum putavit opus esse concitatur remittiturque, non aliter quam quae tormentis exprimuntur tela in potestate mittentis sunt in quantum torqueantur. «Ira» inquit Aristoteles «necessaria est, nec quicquam sine illa expugnari potest, nisi illa implet animum et spiritum accendit; utendum autem illa est non ut duce sed ut milite».
Quod est falsum; nam si exaudit rationem sequiturque qua ducitur, iam non est ira, cuius proprium est contumacia; si vero repugnat et non ubi iussa est quiescit sed libidine ferociaque provehitur, tam inutilis animi minister est quam miles qui signum receptui neglegit. Itaque si modum adhiberi sibi patitur, alio nomine appellanda est, desit ira esse, quam effrenatam indomitamque intellego; si non patitur, perniciosa est nec inter auxilia numeranda: ita aut ira non est aut inutilis est. Nam si quis poenam exigit non ipsius poenae avidus sed quia oportet, non est adnumerandus iratis. Hic erit utilis miles qui scit parere consilio; affectus quidem tam mali ministri quam duces sunt. 10. Ideo numquam adsumet ratio in adiutorium inprovidos et violentos impetus apud quos nihil ipsa auctoritatis habeat, quos numquam comprimere possit nisi pares illis similisque opposuerit, ut irae metum, inertiae iram, timori cupiditatem. Absit hoc a virtute malum, ut umquam ratio ad vitia confugiat! Non potest hic animus fidele otium capere, quatiatur necesse est fluctueturque, qui malis suis tutus est, qui fortis esse nisi irascitur non potest, industrius nisi cupit, quietus nisi timet: in tyrannide illi vivendum est in alicuius affectus venienti servitutem. Non pudet virtutes in clientelam vitiorum demittere? Deinde desinit quicquam posse ratio, si nihil potest sine affectu, et incipit par illi similisque esse. Quid enim interest, si aeque affectus inconsulta res est sine ratione quam ratio sine affectu inefficax? Par utrumque est, ubi esse alterum sine altero non potest. Quis autem sustineat affectum exaequare rationi? Ita inquit utilis affectus est, si modicus est. Immo si natura utilis est. Sed si inpatiens imperii rationisque est, hoc dumtaxat moderatione consequetur, ut quo minor fuerit minus noceat: ergo modicus affectus nihil aliud quam malum modicum est. 11. «Sed adversus hostes» inquit «necessaria est ira». Nusquam minus: ubi non effusos esse oportet impetus sed temperatos et oboedientes. Quid enim est aliud quod barbaros tanto robustiores corporibus, tanto patientiores laborum comminuat nisi ira infestissima sibi? Gladiatores quoque ars tuetur, ira denudat. Deinde quid opus est ira, cum idem proficiat ratio? An tu putas venatorem irasci feris? Atqui et venientis excipit et fugientis persequitur, et omnia illa sine ira facit ratio. Quid Cimbrorum Teutonorumque tot milia superfusa Alpibus ita sustulit ut tantae cladis notitiam ad suos non nuntius sed fama pertulerit, nisi quod erat illis ira pro virtute? Quae ut aliquando propulit stravitque obvia, ita saepius sibi exitio est. Germanis quid est animosius? Quid ad incursum acrius? Quid armorum cupidius, quibus innascuntur innutriunturque, quorum unica illis cura est in alia neglegentibus? Quid induratius ad omnem patientiam, ut quibus magna ex parte non tegimenta corporum provisa sint, non suffugia adversus perpetuum caeli rigorem? Hos tamen Hispani Gallique et Asiae Syriaeque molles bello viri, antequam legio visatur, caedunt ob nullam aliam rem opportunos quam
iracundiam. Agedum illis corporibus, illis animis delicias luxum opes ignorantibus da rationem, da disciplinam: ut nil amplius dicam, necesse erit certe nobis mores Romanos repetere. Quo alio Fabius affectas imperii vires recreavit quam quod cunctari et trahere et morari sciit, quae omnia irati nesciunt? Perierat imperium, quod tunc in extremo stabat, si Fabius tantum ausus esset quantum ira suadebat: habuit in consilio fortunam publicam et aestimatis viribus, ex quibus iam perire nihil sine universo poterat, dolorem ultionemque seposuit, in unam utilitatem et occasiones intentus; iram ante vicit quam Hannibalem. Quid Scipio? Non relicto Hannibale et Punico exercitu omnibusque quibus irascendum erat bellum in Africam transtulit, tam lentus ut opinionem luxuriae segnitiaeque malignis daret? Quid alter Scipio? Non circa Numantiam multum diuque sedit et hunc suum publicumque dolorem aequo animo tulit, diutius Numantiam quam Carthaginem vinci? Dum circumvallat et includit hostem, eo compulit ut ferro ipsi suo caderent. Non est itaque utilis ne in proeliis quidem aut bellis ira; in temeritatem enim prona est et pericula, dum inferre vult, non cavet. Illa certissima est virtus quae se diu multumque circumspexit et rexit et ex lento ac destinato provexit. 12. «Quid ergo?» inquit «Vir bonus non irascitur, si caedi patrem suum viderit, si rapi matrem?». Non irascetur, sed vindicabit, sed tuebitur. Quid autem times ne parum magnus illi stimulus etiam sine ira pietas sit? Aut dic eodem modo: «Quid ergo? Cum videat secari patrem suum filiumve, vir bonus non flebit nec linquetur animo?». Quae accidere feminis videmus, quotiens illas levis periculi suspicio perculit. Officia sua vir bonus exequetur inconfusus, intrepidus, et sic bono viro digna faciet ut nihil faciat viro indignum. Pater caedetur: defendam; caesus est: exequar, quia oportet, non quia dolet. Cum hoc dicis, Theophraste, quaeris invidiam praeceptis fortioribus et relicto iudice ad coronam venis: quia unusquisque in eiusmodi suorum casu irascitur, putas iudicaturos homines id fieri debere quod faciunt; fere enim iustum quisque affectum iudicat quem agnoscit. «Irascuntur boni viri pro suorum iniuriis». Sed idem faciunt, si calda non bene praebetur, si vitreum fractum est, si calceus luto sparsus est. Non pietas illam iram sed infirmitas movet, sicut pueris, qui tam parentibus amissis flebunt quam nucibus. Irasci pro suis non est pii animi sed infirmi: illud pulchrum dignumque, pro parentibus liberis amicis civibus prodire defensorem ipso officio ducente, volentem iudicantem providentem, non impulsum et rabidum. Nullus enim affectus vindicandi cupidior est quam ira, et ob id ipsum ad vindicandum inhabilis: praerapida et amens, ut omnis fere cupiditas, ipsa sibi in id in quod properat opponitur. Itaque nec in pace nec in bello umquam bono fuit; pacem enim similem belli efficit, in armis vero obliviscitur Martem esse communem
venitque in alienam potestatem dum in sua non est. Deinde non ideo vitia in usum recipienda sunt quia aliquando aliquid effecerunt; nam et febres quaedam genera valetudinis levant, nec ideo non ex toto illis caruisse melius est: abominandum remedi genus est sanitatem debere morbo. Simili modo ira, etiam si aliquando ut venenum et praecipitatio et naufragium ex inopinato profuit, non ideo salutaris iudicanda est: saepe enim saluti fuere pestifera. 13. Deinde quae habenda sunt, quo maiora eo meliora et optabiliora sunt. Si iustitia bonum est, nemo dicet meliorem futuram si quid detractum ex ea fuerit; si fortitudo bonum est, nemo illam desiderabit ex aliqua parte deminui. Ergo et ira quo maior hoc melior; quis enim ullius boni accessionem recusaverit? Atqui augeri illam inutile est; ergo et esse; non est bonum quod incremento malum fit. «Utilis» inquit «ira est, quia pugnaciores facit». Isto modo et ebrietas: facit enim protervos et audaces multique meliores ad ferrum fuere male sobrii; isto modo dic et phrenesin atque insaniam viribus necessariam, quia saepe validiores furor reddit. Quid? Non aliquotiens metus ex contrario fecit audacem, et mortis timor etiam inertissimos excitavit in proelium? Sed ira ebrietas metus aliaque eiusmodi foeda et caduca irritamenta sunt nec virtutem instruunt, quae nihil vitiis eget, sed segnem alioqui animum et ignavum paulum adlevant. Nemo irascendo fit fortior, nisi qui fortis sine ira non fuisset. Ita non in adiutorium virtutis venit, sed in vicem. Quid quod si bonum esset ira, perfectissimum quemque sequeretur? Atqui iracundissimi infantes senesque et aegri sunt, et invalidum omne natura querulum est. 14. «Non potest» inquit «fieri» Theophrastus «ut non vir bonus irascatur malis». Isto modo quo melior quisque, hoc iracundior erit: vide ne contra placidior solutusque affectibus et cui nemo odio sit. Peccantis vero quid habet cur oderit, cum error illos in eiusmodi delicta conpellat? Non est autem prudentis errantis odisse, alioqui ipse sibi odio erit. Cogitet quam multa contra bonum morem faciat, quam multa ex iis quae egit veniam desiderent: iam irascetur etiam sibi. Neque enim aequus iudex aliam de sua, aliam de aliena causa sententiam fert. Nemo, inquam, invenietur qui se possit absolvere, et innocentem quisque se dicit respiciens testem, non conscientiam. Quanto humanius mitem et patrium animum praestare peccantibus et illos non persequi sed revocare! Errantem per agros ignorantia viae melius est ad rectum iter admovere quam expellere. 15. Corrigendus est itaque qui peccat et admonitione et vi, et molliter et aspere, meliorque tam sibi quam aliis faciendus non sine castigatione, sed sine ira; quis enim cui medetur irascitur? «At corrigi nequeunt nihilque in illis lene aut spei bonae capax est». Tollantur e coetu mortalium facturi peiora quae contingunt, et quo uno modo
possunt desinant mali esse, sed hoc sine odio. Quid enim est cur oderim eum cui tum maxime prosum cum illum sibi eripio? Num quis membra sua tunc odit cum abscidit? Non est illa ira, sed misera curatio. Rabidos effligimus canes et trucem atque inmmansuetum bovem occidimus et morbidis pecoribus, ne gregem polluant, ferrum demittimus; portentosos fetus extinguimus, liberos quoque, si debiles monstrosique editi sunt, mergimus; nec ira sed ratio est a sanis inutilia secernere. Nil minus quam irasci punientem decet, cum eo magis ad emendationem poena proficiat, si iudicio lata est. Inde est quod Socrates servo ait: «Caederem te, nisi irascerer». Admonitionem servi in tempus sanius distulit, illo tempore se admonuit. Cuius erit temperatus affectus, cum Socrates non sit ausus se irae committere? 16. Ergo ad coercitionem errantium sceleratorumque irato castigatore non opus est; nam cum ira delictum animi sit, non oportet peccata corrigere peccantem. «Quid ergo? Non irascar latroni? Quid ergo? Non irascar venefico?». Non; neque enim mihi irascor, cum sanguinem mitto. Omne poenae genus remedi loco admoveo. «Tu adhuc in prima parte versaris errorum, nec graviter laberis sed frequenter: obiurgatio te primum secreta deinde publicata emendare temptabit; tu longius iam processisti quam ut possis verbis sanari: ignominia contineberis; tibi fortius aliquid et quod sentias inurendum est: in exilium et loca ignota mitteris; in te duriora remedia iam solida nequitia desiderat: et vincula publica et carcer adhibebitur; tibi insanabilis animus et sceleribus scelera contexens, et iam non causis, quae numquam malo defuturae sunt, impelleris, sed satis tibi est magna ad peccandum causa peccare, perbibisti nequitiam et ita visceribus immiscuisti ut nisi cum ipsis exire non possit, olim miser mori quaeris: bene de te merebimur, auferemus tibi istam qua vexas vexaris insaniam et per tua alienaque volutato supplicia id quod unum tibi bonum superest repraesentabimus, mortem». Quare irascar cui cum maxime prosum? Interim optimum misericordiae genus est occidere. Si intrassem valetudinarium exercitatus et sciens aut domus divitis, non idem imperassem omnibus per diversa aegrotantibus; varia in tot animis vitia video et civitati curandae adhibitus sum, pro cuiusque morbo medicina quaeratur: hunc sanet verecundia, hunc peregrinatio, hunc dolor, hunc egestas, hunc ferrum. Itaque et, si perversa induenda magistratui vestis et convocanda classico contio est, procedam in tribunal non furens nec infestus sed vultu legis et illa sollemnia verba leni magis gravique quam rabida voce concipiam et agi iubebo non iratus sed severus; et cum cervicem noxio imperabo praecidi et cum parricidas insuam culleo et cum mittam in supplicium militare et cum Tarpeio proditorem hostemve publicum imponam, sine ira eo vultu animoque ero quo serpentes et animalia venenata percutio. «Iracundia opus est ad puniendum».
Quid? Tibi lex videtur irasci iis quos non novit, quos non vidit, quos non futuros sperat? Illius itaque sumendus est animus, quae non irascitur sed constituit. Nam si bono viro ob mala facinora irasci convenit, et ob secundas res malorum hominum invidere conveniet. Quid enim est indignius quam florere quosdam et eos indulgentia fortunae abuti quibus nulla potest satis mala inveniri fortuna? Sed tam commoda illorum sine invidia videbit quam scelera sine ira; bonus iudex damnat improbanda, non odit. «Quid ergo? Non, cum eiusmodi aliquid sapiens habebit in manibus, tangetur animus eius eritque solito commotior?» Fateor: sentiet levem quendam tenuemque motum; nam, ut dicit Zenon, in sapientis quoque animo, etiam cum vulnus sanatum est, cicatrix manet. Sentiet itaque suspiciones quasdam et umbras affectuum, ipsis quidem carebit. 17. Aristoteles ait affectus quosdam, si quis illis bene utatur, pro armis esse. Quod verum foret, si velut bellica instrumenta sumi deponique possent induentis arbitrio: haec arma quae Aristoteles virtuti dat ipsa per se pugnant, non expectant manum, et habent, non habentur. Nihil aliis instrumentis opus est, satis nos instruxit ratione natura. Hoc dedit telum, firmum perpetuum obsequens, nec anceps nec quod in dominum remitti posset. Non ad providendum tantum, sed ad res gerendas satis est per se ipsa ratio; etenim quid est stultius quam hanc ab iracundia petere praesidium, rem stabilem ab incerta, fidelem ab infida, sanam ab aegra? Quid quod ad actiones quoque, in quibus solis opera iracundiae videtur necessaria, multo per se ratio fortior est? Nam cum iudicavit aliquid faciendum, in eo perseverat; nihil enim melius inventura est se ipsa quo mutetur: ideo stat semel constitutis. Iram saepe misericordia retro egit; habet enim non solidum robur sed vanum tumorem violentisque principiis utitur, non aliter quam qui a terra venti surgunt et fluminibus paludibusque concepti sine pertinacia vehementes sunt: incipit magno impetu, deinde deficit ante tempus fatigata, et, quae nihil aliud quam crudelitatem ac nova genera poenarum versaverat, cum animadvertendum est, iam fracta lenisque est. Affectus cito cadit, aequalis est ratio. Ceterum etiam ubi perseveravit ira, nonnumquam, si plures sunt qui perire meruerunt, post duorum triumve sanguinem occidere desinit. Primi eius ictus acres sunt: sic serpentium venena a cubili erepentium nocent, innoxii dentes sunt cum illos frequens morsus exhausit. Ergo non paria patiuntur qui paria commiserant, et saepe qui minus commisit plus patitur, quia recentiori obiectus est. Et in totum inaequalis est: modo ultra quam oportet excurrit, modo citerius debito resistit; sibi enim indulget et ex libidine iudicat et audire non vult et patrocinio non relinquit locum et ea tenet quae invasit et eripi sibi iudicium suum, etiam si pravum est, non sinit. 18. Ratio utrique parti tempus dat, deinde advocationem et sibi petit, ut excutiendae veritati spatium habeat: ira festinat. Ratio id iudicare vult quod
aequum est: ira id aequum videri vult quod iudicavit. Ratio nil praeter ipsum de quo agitur spectat: ira vanis et extra causam obversantibus commovetur. Vultus illam securior, vox clarior, sermo liberior, cultus delicatior, advocatio ambitiosior, favor popularis exasperant; saepe infesta patrono reum damnat; etiam si ingeritur oculis veritas, amat et tuetur errorem; coargui non vult, et in male coeptis honestior illi pertinacia videtur quam paenitentia. Cn. Piso fuit memoria nostra vir a multis vitiis integer, sed pravus et cui placebat pro constantia rigor. Is cum iratus duci iussisset eum qui ex commeatu sine commilitone redierat, quasi interfecisset quem non exhibebat, roganti tempus aliquid ad conquirendum non dedit. Damnatus extra vallum productus est et iam cervicem porrigebat, cum subito apparuit ille commilito qui occisus videbatur. Tunc centurio supplicio praepositus condere gladium speculatorem iubet, damnatum ad Pisonem reducit redditurus Pisoni innocentiam: nam militi fortuna reddiderat. Ingenti concursu deducuntur complexi alter alterum cum magno gaudio castrorum commilitones. Conscendit tribunal furens Piso ac iubet duci utrumque, et eum militem qui non occiderat et eum qui non perierat. Quid hoc indignius? Quia unus innocens apparuerat, duo peribant. Piso adiecit et tertium. Nam ipsum centurionem qui damnatum reduxerat duci iussit. Constituti sunt in eodem illo loco perituri tres ob unius innocentiam. O quam sollers est iracundia ad fingendas causas furoris! «Te» inquit «duci iubeo, quia damnatus es; te, quia causa damnationis commilitoni fuisti: te, quia iussus occidere imperatori non paruisti». Excogitavit quemadmodum tria crimina faceret, quia nullum invenerat. 19. Habet, inquam, iracundia hoc mali: non vult regi. Irascitur veritati ipsi, si contra voluntatem suam apparuit; cum clamore et tumultu et totius corporis iactatione quos destinavit insequitur adiectis conviciis maledictisque. Hoc non facit ratio, sed si ita opus est, silens quietaque totas domus funditus tollit et familias rei publicae pestilentes cum coniugibus ac liberis perdit, tecta ipsa diruit et solo exaequat et inimica libertati nomina exstirpat: hoc non frendens nec caput quassans nec quicquam indecorum iudici faciens, cuius tum maxime placidus esse debet et in statu vultus cum magna pronuntiat. «Quid opus est» inquit Hieronymus «cum velis caedere aliquem, tua prius labra mordere?». Quid si ille vidisset desilientem de tribunali proconsulem et fasces lictori auferentem et suamet vestimenta scindentem, quia tardius scindebantur aliena? Quid opus est mensam evertere? Quid pocula affligere? Quid se in columnas impingere? Quid capillos avellere, femur pectusque percutere? Quantam iram putas, quae, quia in alium non tam cito quam vult erumpit, in se revertitur? Tenentur itaque a proximis et rogantur ut sibi ipsi placentur. Quorum nil facit quisquis vacuus ira meritam cuique poenam iniungit. Dimittit saepe eum cuius peccatum deprendit: si paenitentia facti spem bonam pollicetur, si intellegit non ex alto venire nequitiam sed summo, quod aiunt, animo inhaerere, dabit impunitatem nec accipientibus nocituram nec dantibus; nonnumquam magna scelera levius quam minora compescet, si illa lapsu, non
crudelitate commissa sunt, his inest latens et operta et inveterata calliditas; idem delictum in duobus non eodem malo adficiet, si alter per neglegentiam admisit, alter curavit ut nocens esset. Hoc semper in omni animadversione servabit, ut sciat alteram adhiberi ut emendet malos, alteram ut tollat; in utroque non praeterita sed futura intuebitur (nam, ut Plato ait, «nemo prudens punit quia peccatum est, sed ne peccetur; revocari enim praeterita non possunt, futura prohibentur») et quos volet nequitiae male cedentis exempla fieri palam occidet, non tantum ut pereant ipsi, sed ut alios pereundo deterreant. Haec cui expendenda aestimandaque sunt, vides quam debeat omni perturbatione liber accedere ad rem summa diligentia tractandam, potestatem vitae necisque: male irato ferrum committitur. 20. Ne illud quidem iudicandum est, aliquid iram ad magnitudinem animi conferre. Non est enim illa magnitudo: tumor est; nec corporibus copia vitiosi umoris intentis morbus incrementum est sed pestilens abundantia. Omnes quos vecors animus supra cogitationes extollit humanas altum quiddam et sublime spirare se credunt: ceterum nihil solidi subest, sed in ruinam prona sunt quae sine fundamentis crevere. Non habet ira cui insistat. Non ex firmo mansuroque oritur, sed ventosa et inanis est, tantumque abest a magnitudine animi quantum a fortitudine audacia, a fiducia insolentia, ab austeritate tristitia, a severitate crudelitas. Multum, inquam, interest inter sublimem animum et superbum. Iracundia nihil amplum decorumque molitur, contra mihi videtur veternosi et infelicis animi, imbecillitatis sibi conscii, saepe indolescere, ut exulcerata et aegra corpora quae ad tactus levissimos gemunt. Ita ira muliebre maxime ac puerile vitium est. «At incidit et in viros». Nam viris quoque puerilia ac muliebria ingenia sunt. Quid ergo? Non aliquae voces ab iratis emittuntur quae magno emissae videantur animo veram ignorantibus magnitudinem? Qualis illa dira et abominanda: «Oderint, dum metuant». Sullano scias saeculo scriptam. Nescio utrum sibi peius optaverit ut odio esset an ut timori. «Oderint». Occurrit illi futurum ut execrentur insidientur opprimant. Quid adiecit? Di illi male faciant, adeo repperit dignum odio remedium. «Oderint…» Quid? Dum pareant? Non. Dum probent? Non. Quid ergo? «Dum timeant». Sic ne amari quidem vellem. Magno hoc dictum spiritu putas? Falleris; nec enim magnitudo ista est sed immanitas. Non est quod credas irascentium verbis, quorum strepitus magni, minaces sunt, intra mens pavidissima. Nec est quod existimes verum esse quod apud disertissimum virum T. Livium dicitur: «Vir ingenii magni magis quam boni». Non potest istud separari: aut et bonum erit aut nec magnum, quia magnitudinem animi inconcussam intellego et introrsus solidam et ab imo parem firmamque, qualis inesse malis ingeniis non potest. Terribilia enim esse et tumultuosa et exitiosa possunt: magnitudinem quidem, cuius firmamentum roburque bonitas est, non habebunt. Ceterum sermone, conatu et omni extra paratu facient magnitudinis
fidem; eloquentur aliquid quod tu magni putes, sicut C. Caesar, qui iratus caelo quod obstreperetur pantomimis, quos imitabatur studiosius quam spectabat, quodque comessatio sua fulminibus terreretur (prorsus parum certis), ad pugnam vocavit Iovem et quidem sine missione, Homericum illum exclamans versum: h[ m∆ ajnaveir∆ h] ejgw; sev. Quanta dementia fuit! Putavit aut sibi noceri ne ab Iove quidem posse aut se nocere etiam Iovi posse. Non puto parum momenti hanc eius vocem ad incitandas coniuratorum mentes addidisse: ultimae enim patientiae visum est eum ferre qui Iovem non ferret. 21. Nihil ergo in ira, ne cum videtur quidem vehemens et deos hominesque despiciens, magnum, nihil nobile est. Aut si videtur alicui magnum animum ira producere, videatur et luxuria: ebore sustineri vult, purpura vestiri, auro tegi, terras transferre, maria concludere, flumina praecipitare, nemora suspendere; videatur et avaritia magni animi: acervis auri argentique incubat et provinciarum nominibus agros colit et sub singulis vilicis latiores habet fines quam quos consules sortiebantur; videatur et libido magni animi: transnat freta, puerorum greges castrat, sub gladium mariti venit morte contempta; videatur et ambitio magni animi: non est contenta honoribus annuis; si fieri potest, uno nomine occupare fastus vult, per omnem orbem titulos disponere. Omnia ista, non refert in quantum procedant extendantque se, angusta sunt, misera depressa; sola sublimis et excelsa virtus est, nec quicquam magnum est nisi quod simul placidum.
Liber secundus Primus liber, Novate, benigniorem habuit materiam; facilis enim in proclivi vitiorum decursus est. Nunc ad exiliora veniendum est; quaerimus enim ira utrum iudicio an impetu incipiat, id est utrum sua sponte moveatur an quemadmodum pleraque quae intra nos insciis nobis oriuntur. Debet autem in haec se demittere disputatio ut ad illa quoque altiora possit exsurgere: nam et in corpore nostro ossa nervique et articuli, firmamenta totius et vitalia, minime speciosa visu, prius ordinantur, deinde haec ex quibus omnis in faciem aspectumque decor est; post haec omnia, qui maxime oculos rapit, color ultimus perfecto iam corpore adfunditur. Iram quin species oblata iniuriae moveat non est dubium; sed utrum speciem ipsam statim sequatur et non accedente animo excurrat, an illo adsentiente moveatur quaerimus. Nobis placet nihil illam per se audere sed animo approbante; nam speciem capere acceptae iniuriae et ultionem eius concupiscere et utrumque coniungere, nec laedi se debuisse et vindicari debere, non est eius
impetus qui sine voluntate nostra concitatur. Ille simplex est, hic compositus et plura continens: intellexit aliquid, indignatus est, damnavit, ulciscitur: haec non possunt fieri, nisi animus eis quibus tangebatur adsensus est. 2. «Quorsus» inquis «haec quaestio pertinet?». Ut sciamus quid sit ira. Nam si invitis nobis nascitur, numquam rationi succumbet. Omnes enim motus qui non voluntate nostra fiunt invicti et inevitabiles sunt, ut horror frigida adspersis, ad quosdam tactus aspernatio; ad peiores nuntios surriguntur pili et rubor ad improba verba suffunditur sequiturque vertigo praerupta cernentis: quorum quia nihil in nostra potestate est, nulla quominus fiant ratio persuadet. Ira praeceptis fugatur; est enim voluntarium animi vitium, non ex his quae condicione quadam humanae sortis eveniunt ideoque etiam sapientissimis accidunt, inter quae et primus ille ictus animi ponendus est qui nos post opinionem iniuriae movet. Hic subit etiam inter ludicra scaenae spectacula et lectiones rerum vetustarum. Saepe Clodio Ciceronem expellenti et Antonio occidenti videmur irasci. Quis non contra Mari arma, contra Sullae proscriptionem concitatur? Quis non Theodoto et Achillae et ipsi puero non puerile auso facinus infestus est? Cantus nos nonnumquam et citata modulatio instigat Martiusque ille tubarum sonus; movet mentes et atrox pictura et iustissimorum suppliciorum tristis aspectus; inde est quod arridemus ridentibus et contristat nos turba maerentium et effervescimus ad aliena certamina. Quae non sunt irae, non magis quam tristitia est quae ad conspectum mimici naufragii contrahit frontem, non magis quam timor qui Hannibale post Cannas moenia circumsidente lectorum percurrit animos, sed omnia ista motus sunt animorum moveri nolentium, nec affectus sed principia proludentia affectibus. Sic enim militaris viri in media pace iam togati aures tuba suscitat equosque castrenses erigit crepitus armorum. Alexandrum aiunt Xenophanto canente manum ad arma misisse. 3. Nihil ex his quae animum fortuito impellunt affectus vocari debet: ista, ut ita dicam, patitur magis animus quam facit. Ergo affectus est non ad oblatas rerum species moveri, sed permittere se illis et hunc fortuitum motum prosequi. Nam si quis pallorem et lacrimas procidentis et irritationem umoris obsceni altumve suspirium et oculos subito acriores aut quid his simile indicium affectus animique signum putat, fallitur nec intellegit corporis hos esse pulsus. Itaque et fortissimus plerumque vir dum armatur expalluit et signo pugnae dato ferocissimo militi paulum genua tremuerunt et magno imperatori antequam inter se acies arietarent cor exiluit et oratori eloquentissimo dum ad dicendum componitur summa riguerunt. Ira non moveri tantum debet sed excurrere; est enim impetus; numquam autem impetus sine adsensu mentis est, neque enim fieri potest ut de ultione et poena agatur animo nesciente. Putavit se aliquis laesum, voluit ulcisci, dissuadente aliqua causa statim resedit: hanc iram non voco, motum animi rationi parentem:
illa est ira quae rationem transsilit, quae secum rapit. Ergo prima illa agitatio animi quam species iniuriae incussit non magis ira est quam ipsa iniuriae species; ille sequens impetus, qui speciem iniuriae non tantum accepit sed approbavit, ira est, concitatio animi ad ultionem voluntate et iudicio pergentis. Numquam dubium est quin timor fugam habeat, ira impetum: vide ergo an putes aliquid sine adsensu mentis aut peti posse aut caveri. 4. Et ut scias quemadmodum incipiant affectus aut crescant aut efferantur, est primus motus non voluntarius, quasi praeparatio affectus et quaedam comminatio; alter cum voluntate non contumaci, tamquam oporteat me vindicari cum laesus sim, aut oporteat hunc poenas dare cum scelus fecerit; tertius motus est iam impotens, qui non si oportet ulcisci vult sed utique, qui rationem evicit. Primum illum animi ictum effugere ratione non possumus, sicut ne illa quidem quae diximus accidere corporibus, ne nos oscitatio aliena sollicitet, ne oculi ad intentationem subitam digitorum comprimantur: ista non potest ratio vincere, consuetudo fortasse et adsidua observatio extenuat. Alter ille motus, qui iudicio nascitur, iudicio tollitur. 5. Illud etiamnunc quaerendum est, ii qui vulgo saeviunt et sanguine humano gaudent, an irascantur cum eos occidunt a quibus nec acceperunt iniuriam nec accepisse ipsos existimant: qualis fuit Apollodorus aut Phalaris. Haec non est ira, feritas est; non enim quia accepit iniuriam nocet, sed parata est dum noceat vel accipere, nec illi verbera lacerationesque in ultionem petuntur sed in voluptatem. «Quid ergo?». Origo huius mali ab ira est, quae ubi frequenti exercitatione et satietate in oblivionem clementiae venit et omne foedus humanum eiecit animo, novissime in crudelitatem transit: rident itaque gaudentque et voluptate multa perfruuntur plurimumque ab iratorum vultu absunt, per otium saevi. Hannibalem aiunt dixisse, cum fossam sanguine humano plenam vidisset: «O formosum spectaculum!». Quanto pulchrius illi visum esset, si flumen aliquod lacumque complesset! Quid mirum si hoc maxime spectaculo caperis, innatus sanguini et ab infante caedibus admotus? Sequetur te fortuna crudelitati tuae per viginti annos secunda dabitque oculis tuis gratum ubique spectaculum; videbis istud et circa Trasumennum et circa Cannas et novissime circa Carthaginem tuam. Volesus nuper, sub divo Augusto proconsul Asiae, cum trecentos uno die securi percussisset, incedens inter cadavera vultu superbo, quasi magnificum quiddam conspiciendumque fecisset, graece proclamavit: «O rem regiam!». Quid hic rex fecisset? Non fuit haec ira sed maius malum et insanabile. 6. «Virtus» inquit «ut honestis rebus propitia est, ita turpibus irata esse debet». Quid si dicat virtutem et humilem et magnam esse debere? Atqui hoc dicit qui
illam extolli vult et deprimi, quoniam laetitia ob recte factum clara magnificaque est, ira ob alienum peccatum sordida et angusti pectoris est. Nec umquam committet virtus ut vitia dum compescit imitetur; iram ipsam castigandam habet, quae nihilo melior est, saepe etiam peior iis delictis quibus irascitur. Gaudere laetarique proprium et naturale virtutis est: irasci non est ex dignitate eius, non magis quam maerere: atqui iracundiae tristitia comes est et in hanc omnis ira vel post paenitentiam vel post repulsam revolvitur. Et si sapientis est peccatis irasci, magis irascetur maioribus et saepe irascetur: sequitur ut non tantum iratus sit sapiens sed iracundus. Atqui si nec magnam iram nec frequentem in animo sapientis locum habere credimus, quid est quare non ex toto illum hoc affectu liberemus? Modus enim esse non potest, si pro facto cuiusque irascendum est; nam aut iniquus erit, si aequaliter irascetur delictis inaequalibus, aut iracundissimus, si totiens excanduerit quotiens iram scelera meruerint. 7. Et quid indignius quam sapientis affectum ex aliena pendere nequitia? Desinet ille Socrates posse eundem vultum domum referre quem domo extulerat? Atqui si irasci sapiens turpiter factis debet et concitari contristarique ob scelera, nihil est aerumnosius sapiente: omnis illi per iracundiam maeroremque vita transibit. Quod enim momentum erit quo non improbanda videat? Quotiens processerit domo, per sceleratos illi avarosque et prodigos et inpudentis et ob ista felices incedendum erit; nusquam oculi eius flectentur ut non quod indignentur inveniant: deficiet si totiens a se iram quotiens causa poscet exegerit. Haec tot milia ad forum prima luce properantia, quam turpes lites, quanto turpiores advocatos habent! Alius iudicia patris accusat quae mereri satius fuit, alius cum matre consistit, alius delator venit eius criminis cuius manifestior reus est, et iudex damnaturus quae fecit eligitur et corona proclamat pro mala causa, bona patroni voce corrupta. 8. Quid singula persequor? Cum videris forum multitudine refertum et saepta concursu omnis frequentiae plena et illum circum in quo maximam sui partem populus ostendit, hoc scito, istic tantundem esse vitiorum quantum hominum. Inter istos quos togatos vides nulla pax est: alter in alterius exitium levi compendio ducitur; nulli nisi ex alterius iniuria quaestus est; felicem oderunt, infelicem contemnunt; maiorem gravantur, minori graves sunt; diversis stimulantur cupiditatibus; omnia perdita ob levem voluptatem praedamque cupiunt. Non alia quam in ludo gladiatorio vita est cum isdem viventium pugnantiumque. Ferarum iste conventus est, nisi quod illae inter se placidae sunt morsuque similium abstinent, hi mutua laceratione satiantur. Hoc uno ab animalibus mutis differunt, quod illa mansuescunt alentibus, horum rabies ipsos a quibus est nutrita depascitur. 9. Numquam irasci desinet sapiens, si semel coeperit: omnia sceleribus ac vitiis plena sunt; plus committitur quam quod possit coercitione sanari; certatur
ingenti quidem nequitiae certamine. Maior cotidie peccandi cupiditas, minor verecundia est; expulso melioris aequiorisque respectu quocumque visum est libido se impingit, nec furtiva iam scelera sunt: praeter oculos eunt, adeoque in publicum missa nequitia est et in omnium pectoribus evaluit ut innocentia non rara sed nulla sit. Numquid enim singuli aut pauci rupere legem? Undique velut signo dato ad fas nefasque miscendum coorti sunt: non hospes ab hospite tutus, non socer a genero; fratrum quoque gratia rara est. Imminet exitio vir coniugis, illa mariti; lurida terribiles miscent aconita novercae, filius ante diem patrios inquirit in annos. Et quota ista pars scelerum est? Non descripsit castra ex una parte contraria et parentium liberorumque sacramenta diversa, subiectam patriae civis manu flammam et agmina infestorum equitum ad conquirendas proscriptorum latebras circumvolitantia et violatos fontes venenis et pestilentiam manu factam et praeductam obsessis parentibus fossam, plenos carceres et incendia totas urbes concremantia dominationesque funestas et regnorum publicorumque exitiorum clandestina consilia, et pro gloria habita quae, quam diu opprimi possunt, scelera sunt, raptus ac stupra et ne os quidem libidini exceptum. Adde nunc publica periuria gentium et rupta foedera et in praedam validioris quicquid non resistebat abductum, circumscriptiones furta fraudes infitiationes quibus trina non sufficiunt fora. Si tantum irasci vis sapientem quantum scelerum indignitas exigit, non irascendum illi sed insaniendum est. 10. Illud potius cogitabis, non esse irascendum erroribus. Quid enim si quis irascatur in tenebris parum vestigia certa ponentibus? Quid si quis surdis imperia non exaudientibus? Quid si pueris, quod neglecto dispectu officiorum ad lusus et ineptos aequalium iocos spectent? Quid si illis irasci velis qui aegrotant senescunt fatigantur? Inter cetera mortalitatis incommoda et hoc est, caligo mentium nec tantum necessitas errandi sed errorum amor. Ne singulis irascaris, universis ignoscendum est, generi humano venia tribuenda est. Si irasceris iuvenibus senibusque quod peccant, irascere infantibus: peccaturi sunt. Numquis irascitur pueris, quorum aetas nondum novit rerum discrimina? Maior est excusatio et iustior hominem esse quam puerum. Hac condicione nati sumus, animalia obnoxia non paucioribus animi quam corporis morbis, non quidem obtusa nec tarda, sed acumine nostro male utentia, alter alteri vitiorum exempla: quisquis sequitur priores male iter ingressos, quidni habeat excusationem, cum publica via erraverit? In singulos severitas imperatoris destringitur, at necessaria venia est ubi totus deseruit exercitus. Quid tollit iram sapientis? Turba peccantium. Intellegit quam et iniquum sit et periculosum irasci publico vitio.
Heraclitus quotiens prodierat et tantum circa se male viventium, immo male pereuntium viderat, flebat, miserebatur omnium qui sibi laeti felicesque occurrebant, miti animo, sed nimis inbecillo: et ipse inter deplorandos erat. Democritum contra aiunt numquam sine risu in publico fuisse; adeo nihil illi videbatur serium eorum quae serio gerebantur. Isticcine irae locus est ubi aut ridenda omnia aut flenda sunt? Non irascetur sapiens peccantibus: quare? Quia scit neminem nasci sapientem sed fieri, scit paucissimos omni aevo sapientis evadere, quia condicionem humanae vitae perspectam habet; nemo autem naturae sanus irascitur. Quid enim si mirari velit non in silvestribus dumis poma pendere? Quid si miretur spineta sentesque non utili aliqua fruge conpleri? Nemo irascitur ubi vitium natura defendit. Placidus itaque sapiens et aequus erroribus, non hostis sed corrector peccantium, hoc cotidie procedit animo: «Multi mihi occurrent vino dediti, multi libidinosi, multi ingrati, multi avari, multi furiis ambitionis agitati». Omnia ista tam propitius aspiciet quam aegros suos medicus. Numquid ille cuius navigium multam undique laxatis conpagibus aquam trahit nautis ipsique navigio irascitur? Occurrit potius et aliam excludit undam, aliam egerit, manifesta foramina praecludit, latentibus et ex occulto sentinam ducentibus labore continuo resistit, nec ideo intermittit quia quantum exhaustum est subnascitur. Lento adiutorio opus est contra mala continua et fecunda, non ut desinant, sed ne vincant. 11. «Utilis est» inquit «ira, quia contemptum effugit, quia malos terret». Primum ira, si quantum minatur valet, ob hoc ipsum quod terribilis est et invisa est; periculosius est autem timeri quam despici. Si vero sine viribus est, magis exposita contemptui est et derisum non effugit; quid enim est iracundia in supervacuum tumultuante frigidius? Deinde non ideo quaedam, quia sunt terribiliora, potiora sunt, nec hoc sapienti dici velim: «Quod ferae, sapientis quoque telum est, timeri». Quid? Non timetur febris, podagra, ulcus malum? Numquid ideo quicquam in istis boni est? At contra omnia despecta foedaque et turpia, ipsoque eo timentur. Sic ira per se deformis est et minime metuenda, at timetur a pluribus sicut deformis persona ab infantibus. Quid quod semper in auctores redundat timor nec quisquam metuitur ipse securus? Occurrat hoc loco tibi Laberianus ille versus qui medio civili bello in theatro dictus totum in se populum non aliter convertit quam si missa esset vox publici affectus: necesse est multos timeat quem multi timent. Ita natura constituit ut quicquid alieno metu magnum est a suo non vacet. Leonum quam pavida sunt ad levissimos sonos pectora! acerrimas feras umbra et vox et odor insolitus exagitat: quicquid terret et trepidat. Non est ergo quare concupiscat quisquam sapiens timeri, nec ideo iram magnum quiddam putet quia
formidini est, quoniam quidem etiam contemptissima timentur, ut venena et ossa pestifera et morsus. Nec mirum est, cum maximos ferarum greges linea pinnis distincta contineat et in insidias agat, ab ipso affectu dicta formido: vanis enim vana terrori sunt. Curriculi motus rotarumque versata facies leones redegit in caveam, elephantos porcina vox terret. Sic itaque ira metuitur quomodo umbra ab infantibus, a feris rubens pinna. Non ipsa in se quicquam habet firmum aut forte, sed leves animos movet. 12. «Nequitia» inquit «de rerum natura tollenda est, si velis iram tollere; neutrum autem potest fieri». Primum potest aliquis non algere, quamvis ex rerum natura hiems sit, et non aestuare, quamvis menses aestivi sint: aut loci beneficio adversus intemperiem anni tutus est aut patientia corporis sensum utriusque pervicit. Deinde verte istud: necesse est prius virtutem ex animo tollas quam iracundiam recipias, quoniam cum virtutibus vitia non coeunt, nec magis quisquam eodem tempore et iratus potest esse et vir bonus quam aeger et sanus. «Non potest» inquit «omnis ex animo ira tolli, nec hoc hominis natura patitur». Atqui nihil est tam difficile et arduum quod non humana mens vincat et in familiaritatem perducat adsidua meditatio, nullique sunt tam feri et sui iuris affectus ut non disciplina perdomentur. Quodcumque sibi imperavit animus optinuit: quidam ne umquam riderent consecuti sunt; vino quidam, alii venere, quidam omni umore interdixere corporibus; alius contentus brevi somno vigiliam indefatigabilem extendit; didicerunt tenuissimis et adversis funibus currere et ingentia vixque humanis toleranda viribus onera portare et in immensam altitudinem mergi ac sine ulla respirandi vice perpeti maria: mille sunt alia in quibus pertinacia impedimentum omne transcendit ostenditque nihil esse difficile cuius sibi ipsa mens patientiam indiceret. Istis quos paulo ante rettuli aut nulla tam pertinacis studii aut non digna merces fuit (quid enim magnificum consequitur ille qui meditatus est per intentos funes ire, qui sarcinae ingenti cervices supponere, qui somno non summittere oculos, qui penetrare in imum mare?) et tamen ad finem operis non magno auctoramento labor pervenit; nos non advocabimus patientiam, quos tantum praemium expectat, felicis animi immota tranquillitas? Quantum est effugere maximum malum, iram, et cum illa rabiem saevitiam crudelitatem furorem, alios comites eius affectus! 13. Non est quod patrocinium nobis quaeramus et excusatam licentiam, dicentes aut utile id esse aut inevitabile; cui enim tandem vitio advocatus defuit? Non est quod dicas excidi non posse: sanabilibus aegrotamus malis ipsaque nos in rectum genitos natura, si emendari velimus, iuvat. Nec, ut quibusdam visum est, arduum in virtutes et asperum iter est: plano adeuntur. Non vanae vobis auctor rei venio. Facilis est ad beatam vitam via: inite modo bonis auspiciis ipsisque dis bene iuvantibus. Multo difficilius est facere ista quae facitis. Quid
est animi quiete otiosius, quid ira laboriosius? Quid clementia remissius, quid crudelitate negotiosius? Vacat pudicitia, libido occupatissima est. Omnium denique virtutum tutela facilis est, vitia magno coluntur. Debet ira removeri (hoc ex parte fatentur etiam qui dicunt esse minuendam): tota dimittatur, nihil profutura est. Sine illa facilius rectiusque scelera tollentur, mali punientur et transducentur in melius. Omnia quae debet sapiens sine ullius malae rei ministerio efficiet nihilque admiscebit cuius modum sollicitius observet. 14. Numquam itaque iracundia admittenda est, aliquando simulanda, si segnes audientium animi concitandi sunt, sicut tarde consurgentis ad cursum equos stimulis facibusque subditis excitamus. Aliquando incutiendus est iis metus apud quos ratio non proficit: irasci quidem non magis utile est quam maerere, quam metuere. «Quid ergo? Non incidunt causae quae iram lacessant?» Sed tunc maxime illi opponendae manus sunt. Nec est difficile vincere animum, cum athletae quoque, in vilissima sui parte occupati, tamen ictus doloresque patiantur ut vires caedentis exhauriant, nec cum ira suadet feriunt, sed cum occasio. Pyrrhum, maximum praeceptorem certaminis gymnici, solitum aiunt iis quos exercebat praecipere ne irascerentur; ira enim perturbat artem et qua noceat tantum aspicit. Saepe itaque ratio patientiam suadet, ira vindictam, et qui primis defungi malis potuimus in maiora devolvimur. Quosdam unius verbi contumelia non aequo animo lata in exilium proiecit, et qui levem iniuriam silentio ferre noluerant gravissimis malis obruti sunt, indignatique aliquid ex plenissima libertate deminui servile in sese adtraxerunt iugum. 15. «Ut scias» inquit «iram habere in se generosi aliquid, liberas videbis gentes quae iracundissimae sunt, ut Germanos et Scythas». Quod evenit quia fortia solidaque natura ingenia, antequam disciplina molliantur, prona in iram sunt. Quaedam enim non nisi melioribus innascuntur ingeniis, sicut valida arbusta et laeta quamvis neglecta tellus creat et alta fecundi soli silva est: itaque et ingenia natura fortia iracundiam ferunt nihilque tenue et exile capiunt ignea et fervida, sed imperfectus illis vigor est ut omnibus quae sine arte ipsius tantum naturae bono exsurgunt, sed nisi cito domita sunt, quae fortitudini apta erant audaciae temeritatique consuescunt. Quid? Non mitioribus animis vitia leniora coniuncta sunt, ut misericordia et amor et verecundia? Itaque saepe tibi bonam indolem malis quoque suis ostendam; sed non ideo vitia non sunt si naturae melioris indicia sunt. Deinde omnes istae feritate liberae gentes leonum luporumque ritu ut servire non possunt, ita nec imperare; non enim humani vim ingenii, sed feri et intractabilis habent; nemo autem regere potest nisi qui et regi. Fere itaque imperia penes eos fuere populos qui mitiore caelo utuntur: in frigora septemtrionemque vergentibus immansueta ingenia sunt, ut ait poeta,
suoque simillima caelo. 16. «Animalia» inquit «generosissima habentur quibus multum inest irae». Errat qui ea in exemplum hominis adducit quibus pro ratione est impetus: homini pro impetu ratio est. Sed ne illis quidem omnibus idem prodest: iracundia leones adiuvat, pavor cervos, accipitrem impetus, columbam fuga. Quid quod ne illud quidem verum est, optima animalia esse iracundissima? Feras putem, quibus ex raptu alimenta sunt, meliores quo iratiores: patientiam laudaverim boum et equorum frenos sequentium. Quid est autem cur hominem ad tam infelicia exempla revoces, cum habeas mundum deumque, quem ex omnibus animalibus, ut solus imitetur, solus intellegit? «Simplicissimi» inquit «omnium habentur iracundi». Fraudulentis enim et versutis comparantur et simplices videntur quia expositi sunt. Quos quidem non simplices dixerim sed incautos: stultis luxuriosis nepotibusque hoc nomen inponimus et omnibus vitiis parum callidis. 17. «Orator» inquit «iratus aliquando melior est». Immo imitatus iratum; nam et histriones in pronuntiando non irati populum movent, sed iratum bene agentes; et apud iudices itaque et in contione et ubicumque alieni animi ad nostrum arbitrium agendi sunt, modo iram, modo metum, modo misericordiam, ut aliis incutiamus, ipsi simulabimus, et saepe id quod veri affectus non effecissent effecit imitatio affectuum. «Languidus» inquit «animus est qui ira caret». Verum est, si nihil habeat ira valentius. Nec latronem oportet esse nec praedam, nec misericordem nec crudelem: illius nimis mollis animus, huius nimis durus est; temperatus sit sapiens et ad res fortius agendas non iram sed vim adhibeat. 18. Quoniam quae de ira quaeruntur tractavimus, accedamus ad remedia eius. Duo autem, ut opinor, sunt: ne incidamus in iram, et ne in ira peccemus. Ut in corporum cura alia de tuenda valetudine, alia de restituenda praecepta sunt, ita aliter iram debemus repellere, aliter compescere. Ut vitemus, quaedam ad universam vitam pertinentia praecipientur: ea in educationem et in sequentia tempora dividentur. Educatio maximam diligentiam plurimumque profuturam desiderat, facile est enim teneros adhuc animos componere, difficulter reciduntur vitia quae nobiscum creverunt. 19. Opportunissima ad iracundiam fervidi animi natura est. Nam cum elementa sint quattuor, ignis aquae aeris terrae, potestates pares his sunt, fervida frigida arida atque umida: et locorum itaque et animalium et corporum et morum varietates mixtura elementorum facit, et proinde aliquo magis incumbunt ingenia
prout alicuius elementi maior vis abundavit. Inde quasdam umidas vocamus aridasque regiones et calidas et frigidas. Eadem animalium hominumque discrimina sunt: refert quantum quisque umidi in se calidique contineat; cuius in illo elementi portio praevalebit, inde mores erunt. Iracundos fervida animi natura faciet: est enim actuosus et pertinax ignis: frigidi mixtura timidos facit: pigrum est enim contractumque frigus. Volunt itaque quidam ex nostris iram in pectore moveri effervescente circa cor sanguine; causa cur hic potissimum adsignetur irae locus non alia est quam quod in toto corpore calidissimum pectus est. Quibus umidi plus inest, eorum paulatim crescit ira, quia non est paratus illis calor sed motu adquiritur: itaque puerorum feminarumque irae acres magis quam graves sunt levioresque dum incipiunt. Siccis aetatibus vehemens robustaque est ira, sed sine incremento, non multum sibi adiciens, quia inclinaturum calorem frigus insequitur: senes difficiles et queruli sunt, ut aegri et convalescentes et quorum aut lassitudine aut detractione sanguinis exhaustus est calor; in eadem causa sunt siti fameque tabidi et quibus exsangue corpus est maligneque alitur et deficit. Vinum incendit iras, quia calorem auget; pro cuiusque natura quidam ebrii effervescunt, quidam saucii. Neque ulla alia causa est cur iracundissimi sint flavi rubentesque, quibus talis natura color est qualis fieri ceteris inter iram solet; mobilis enim illis agitatusque sanguis est. 20. Sed quemadmodum natura quosdam proclives in iram facit, ita multae incidunt causae quae idem possint quod natura: alios morbus aut iniuria corporum in hoc perduxit, alios labor aut continua pervigilia noctesque sollicitae et desideria amoresque; quicquid aliud aut corpori nocuit aut animo, aegram mentem in querellas parat. Sed omnia ista initia causaeque sunt: plurimum potest consuetudo, quae si gravis est alit vitium. Naturam quidem mutare difficile est, nec licet semel mixta nascentium elementa convertere; sed in hoc nosse profuerit, ut calentibus ingeniis subtrahas vinum, quod pueris Plato negandum putat et ignem vetat igne incitari. Ne cibis quidem implendi sint; distendentur enim corpora et animi cum corpore tumescent. Labor illos citra lassitudinem exerceat, ut minuatur, non ut consumatur calor nimiusque ille fervor despumet. Lusus quoque proderunt; modica enim voluptas laxat animos et temperat. Umidioribus siccioribusque et frigidis non est ab ira periculum, sed inertiora vitia metuenda sunt, pavor et difficultas et desperatio et suspiciones. Mollienda itaque fovendaque talia ingenia et in laetitiam evocanda sunt. Et quia aliis contra iram, aliis contra tristitiam remediis utendum est nec dissimillimis tantum ista sed contrariis curanda sunt, semper ei occurremus quod increverit. 21. Plurimum, inquam, proderit pueros statim salubriter institui; difficile autem regimen est, quia dare debemus operam ne aut iram in illis nutriamus aut indolem retundamus. Diligenti observatione res indiget, utrumque enim et quod
extollendum et quod deprimendum est, similibus alitur, facile autem etiam adtendentem similia decipiunt. Crescit licentia spiritus, servitute comminuitur; assurgit si laudatur et in spem sui bonam adducitur, sed eadem ista insolentiam et iracundiam generant; itaque sic inter utrumque regendus est ut modo frenis utamur modo stimulis. Nihil humile, nihil servile patiatur: numquam illi necesse sit rogare suppliciter nec prosit rogasse, potius causae suae et prioribus factis et bonis in futurum promissis donetur. In certaminibus aequalium nec vinci illum patiamur nec irasci; demus operam ut familiaris sit iis cum quibus contendere solet, ut in certamine adsuescat non nocere velle sed vincere; quotiens superaverit et dignum aliquid laude fecerit, attolli non gestire patiamur: gaudium enim exultatio, exultationem tumor et nimia aestimatio sui sequitur. Dabimus aliquod laxamentum, in desidiam vero otiumque non resolvemus et procul a contactu deliciarum retinebimus; nihil enim magis facit iracundos quam educatio mollis et blanda. Ideo unicis quo plus indulgetur, pupillisque quo plus licet, corruptior animus est. Non resistet offensis cui nihil umquam negatum est, cuius lacrimas sollicita semper mater abstersit, cui de paedagogo satisfactum est. Non vides ut maiorem quamque fortunam maior ira comitetur? In divitibus et nobilibus et magistratibus praecipue apparet, cum quicquid leve et inane in animo erat secunda se aura sustulit. Felicitas iracundiam nutrit, ubi aures superbas adsentatorum turba circumstetit: «Tibi enim ille respondeat? Non pro fastigio te tuo metiris; ipse te proicis», et alia quibus vix sanae et ab initio bene fundatae mentes restiterunt. Longe itaque ab adsentatione pueritia removenda est: audiat verum. Et timeat interim, vereatur semper, maioribus adsurgat. Nihil per iracundiam exoret: quod flenti negatum fuerit quieto offeratur. Et divitias parentium in conspectu habeat, non in usu. Exprobrentur illi perperam facta. Pertinebit ad rem praeceptores paedagogosque pueris placidos dari: proximis applicatur omne quod tenerum est et in eorum similitudinem crescit; nutricum et paedagogorum rettulere mox adulescentium mores. Apud Platonem educatus puer cum ad parentes relatus vociferantem videret patrem: «Numquam» inquit «hoc apud Platonem vidi». Non dubito quin citius patrem imitatus sit quam Platonem. Tenuis ante omnia victus sit et non pretiosa vestis et similis cultus cum aequalibus: non irascetur aliquem sibi comparari quem ab initio multis parem feceris. 22. Sed haec ad liberos nostros pertinent; in nobis quidem sors nascendi et educatio nec vitii locum nec iam praecepti habet: sequentia ordinanda sunt. Contra primas itaque causas pugnare debemus; causa autem iracundiae opinio iniuriae est, cui non facile credendum est. Ne apertis quidem manifestisque statim accedendum; quaedam enim falsa veri speciem ferunt. Dandum semper est tempus: veritatem dies aperit. Ne sint aures criminantibus faciles: hoc humanae naturae vitium suspectum notumque nobis sit, quod quae inviti audimus libenter
credimus et antequam iudicemus irascimur. Quid quod non criminationibus tantum sed suspicionibus impellimur et ex vultu risuque alieno peiora interpretati innocentibus irascimur? Itaque agenda est contra se causa absentis et in suspenso ira retinenda; potest enim poena dilata exigi, non potest exacta revocari. 23. Notus est ille tyrannicida qui, imperfecto opere comprehensus et ab Hippia tortus ut conscios indicaret, circumstantes amicos tyranni nominavit quibusque maxime caram salutem eius sciebat. Et cum ille singulos, ut nominati erant, occidi iussisset, interrogavit ecquis superesset: «Tu» inquit «solus; neminem enim alium cui carus esses reliqui». Effecit ira ut tyrannus tyrannicidae manus accommodaret et praesidia sua gladio suo caederet. Quanto animosius Alexander! Qui cum legisset epistulam matris, qua admonebatur ut a veneno Philippi medici caveret, acceptam potionem non deterritus bibit: plus sibi de amico suo credidit. Dignus fuit qui innocentem haberet, dignus qui faceret! Hoc eo magis in Alexandro laudo quia nemo tam obnoxius irae fuit; quo rarior autem moderatio in regibus, hoc laudanda magis est. Fecit hoc et C. Caesar ille qui victoria civili clementissime usus est: cum scrinia deprendisset epistularum ad Cn. Pompeium missarum ab iis qui videbantur aut in diversis aut in neutris fuisse partibus, combussit. Quamvis moderate soleret irasci, maluit tamen non posse; gratissimum putavit genus veniae nescire quid quisque peccasset. 24. Plurimum mali credulitas facit. Saepe ne audiendum quidem est, quoniam in quibusdam rebus satius est decipi quam diffidere. Tollenda ex animo suspicio et coniectura, fallacissima inritamenta: «Ille me parum humane salutavit; ille osculo meo non adhaesit; ille inchoatum sermonem cito abrupit; ille ad cenam non vocavit; illius vultus aversior visus est». Non deerit suspicioni argumentatio: simplicitate opus est et benigna rerum aestimatione. Nihil nisi quod in oculos incurret manifestumque erit credamus, et quotiens suspicio nostra vana apparuerit, obiurgemus credulitatem: haec enim castigatio consuetudinem efficiet non facile credendi. 25. Inde et illud sequitur, ut minimis sordidissimisque rebus non exacerbemur. Parum agilis est puer aut tepidior aqua poturo aut turbatus torus aut mensa neglegentius posita: ad ista concitari insania est. Aeger et infelicis valetudinis est quem levis aura contraxit, affecti oculi quos candida vestis obturbat, dissolutus deliciis cuius latus alieno labore condoluit. Mindyriden aiunt fuisse ex Sybaritarum civitate qui, cum vidisset fodientem et altius rastrum allevantem, lassum se fieri questus vetuit illum opus in conspectu suo facere; bilem habere saepius questus est, quod foliis rosae duplicatis incubuisset. Ubi animum simul et corpus voluptates corrupere, nihil tolerabile videtur,
non quia dura sed quia mollis patitur. Quid est enim cur tussis alicuius aut sternutamentum aut musca parum curiose fugata in rabiem agat aut obversatus canis aut clavis neglegentis servi manibus elapsa? Feret iste aequo animo civile convicium et ingesta in contione curiave maledicta cuius aures tracti subsellii stridor offendit? Perpetietur hic famem et aestivae expeditionis sitim qui puero male diluenti nivem irascitur? Nulla itaque res magis iracundiam alit quam luxuria intemperans et impatiens: dure tractandus animus est ut ictum non sentiat nisi gravem. 26. Irascimur aut iis a quibus ne accipere quidem potuimus iniuriam, aut iis a quibus accipere iniuriam potuimus. Ex prioribus quaedam sine sensu sunt, ut liber quem minutioribus litteris scriptum saepe proiecimus et mendosum laceravimus, ut vestimenta quae, quia displicebant, scidimus: his irasci quam stultum est, quae iram nostram nec meruerunt nec sentiunt! «Sed offendunt nos videlicet qui illa fecerunt». Primum saepe antequam hoc apud nos distinguamus irascimur. Deinde fortasse ipsi quoque artifices excusationes iustas adferent: alius non potuit melius facere quam fecit, nec ad tuam contumeliam parum didicit; alius non in hoc ut te offenderet fecit. Ad ultimum quid est dementius quam bilem in homines collectam in res effundere? Atqui ut his irasci dementis est quae anima carent, sic mutis animalibus, quae nullam iniuriam nobis faciunt, quia velle non possunt; non est enim iniuria nisi a consilio profecta. Nocere itaque nobis possunt ut ferrum aut lapis, iniuriam quidem facere non possunt. Atqui contemni se quidam putant, ubi idem equi obsequentes alteri equiti, alteri contumaces sunt, tamquam iudicio, non consuetudine et arte tractandi quaedam quibusdam subiectiora sint. Atqui ut his irasci stultum est, ita pueris et non multum a puerorum prudentia distantibus; omnia enim ista peccata apud aequum iudicem pro innocentia habent imprudentiam. 27. Quaedam sunt quae nocere non possunt nullamque vim nisi beneficam et salutarem habent, ut di immortales, qui nec volunt obesse nec possunt; natura enim illis mitis et placida est, tam longe remota ab aliena iniuria quam a sua. Dementes itaque et ignari veritatis illis imputant saevitiam maris, immodicos imbres, pertinaciam hiemis, cum interim nihil horum quae nobis nocent prosuntque ad nos proprie derigatur. Non enim nos causa mundo sumus hiemem aestatemque referendi: suas ista leges habent, quibus divina exercentur. Nimis nos suspicimus, si digni nobis videmur propter quos tanta moveantur. Nihil ergo horum in nostram iniuriam fit, immo contra nihil non ad salutem. Quaedam esse diximus quae nocere non possint, quaedam quae nolint. In iis erunt boni magistratus parentesque et praeceptores et iudices, quorum castigatio sic accipienda est quomodo scalpellum et abstinentia et alia quae profutura torquent. Adfecti sumus poena: succurrat non tantum quid patiamur sed quid fecerimus, in consilium de vita nostra mittamur; si modo verum ipsi nobis dicere
voluerimus, pluris litem nostram aestimabimus. 28. Si volumus aequi rerum omnium iudices esse, hoc primum nobis persuadeamus, neminem nostrum esse sine culpa; hinc enim maxima indignatio oritur: «Nihil peccavi» et «Nihil feci». Immo nihil fateris! Indignamur aliqua admonitione aut coercitione nos castigatos, cum illo ipso tempore peccemus, quod adicimus malefactis arrogantiam et contumaciam. Quis est iste qui se profitetur omnibus legibus innocentem? Ut hoc ita sit, quam angusta innocentia est ad legem bonum esse! Quanto latius officiorum patet quam iuris regula! Quam multa pietas humanitas liberalitas iustitia fides exigunt, quae omnia extra publicas tabulas sunt! Sed ne ad illam quidem artissimam innocentiae formulam praestare nos possumus: alia fecimus, alia cogitavimus, alia optavimus, aliis favimus; in quibusdam innocentes sumus, quia non successit. Hoc cogitantes aequiores simus delinquentibus, credamus obiurgantibus; utique bonis ne irascamur (cui enim non, si bonis quoque?), minime diis; non enim illorum, sed lege mortalitatis patimur quicquid incommodi accidit. «At morbi doloresque incurrunt». Utique aliquo defungendum est domicilium putre sortitis. Dicetur aliquis male de te locutus: cogita an prior feceris, cogita de quam multis loquaris. Cogitemus, inquam, alios non facere iniuriam sed reponere, alios pro nobis facere, alios coactos facere, alios ignorantes, etiam eos qui volentes scientesque faciunt ex iniuria nostra non ipsam iniuriam petere: aut dulcedine urbanitatis prolapsus est, aut fecit aliquid, non ut nobis obesset, sed quia consequi ipse non poterat, nisi nos reppulisset; saepe adulatio dum blanditur offendit. Quisquis ad se rettulerit quotiens ipse in suspicionem falsam inciderit, quam multis officiis suis fortuna speciem iniuriae induerit, quam multos post odium amare coeperit, poterit non statim irasci, utique si sibi tacitus ad singula quibus offenditur dixerit: «Hoc et ipse commisi». Sed ubi tam aequum iudicem invenies? Is qui nullius non uxorem concupiscit et satis iustas causas putat amandi quod aliena est, idem uxorem suam aspici non vult; et fidei acerrimus exactor est perfidus, et mendacia persequitur ipse periurus, et litem sibi inferri aegerrime calumniator patitur; pudicitiam servulorum attemptari non vult qui non pepercit suae. Aliena vitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt: inde est quod tempestiva filii convivia pater deterior filio castigat, et nihil alienae luxuriae ignoscit qui nihil suae negavit, et homicidae tyrannus irascitur, et punit furta sacrilegus. Magna pars hominum est quae non peccatis irascitur sed peccantibus. Faciet nos moderatiores respectus nostri, si consuluerimus nos: «Numquid et ipsi aliquid tale commisimus? Numquid sic erravimus? Expeditne nobis ista damnare?». 29. Maximum remedium irae mora est. Hoc ab illa pete initio, non ut ignoscat sed ut iudicet: graves habet impetus primos; desinet, si expectat. Nec universam
illam temptaveris tollere: tota vincetur, dum partibus carpitur. Ex iis quae nos offendunt alia renuntiantur nobis, alia ipsi audimus aut videmus. De iis quae narrata sunt non debemus cito credere: multi mentiuntur ut decipiant, multi quia decepti sunt; alius criminatione gratiam captat et fingit iniuriam ut videatur doluisse factam; est aliquis malignus et qui amicitias cohaerentis diducere velit; est aliquis suspicax et qui spectare ludos cupiat et ex longinquo tutoque speculetur quos collisit. De parvula summa iudicaturo tibi res sine teste non probaretur, testis sine iureiurando non valeret, utrique parti dares actionem, dares tempus, non semel audires; magis enim veritas elucet quo saepius ad manum venit: amicum condemnas de praesentibus? Antequam audias, antequam interroges, antequam illi aut accusatorem suum nosse liceat aut crimen, irasceris? Iam enim, iam utrimque quid diceretur audisti? Hic ipse qui ad te detulit desinet dicere, si probare debuerit: «Non est» inquit «quod me protrahas; ego productus negabo; alioqui nihil umquam tibi dicam». Eodem tempore et instigat et ipse se certamini pugnaeque subtrahit. Qui dicere tibi nisi clam non vult, paene non dicit: quid est iniquius quam secreto credere, palam irasci? 30. Quorundam ipsi testes sumus: in his naturam excutiemus voluntatemque facientium. Puer est: aetati donetur, nescit an peccet. Pater est: aut tantum profuit ut illi etiam iniuriae ius sit, aut fortasse ipsum hoc meritum eius est quo offendimur. Mulier est: errat. Iussus est: necessitati quis nisi iniquus suscenset? Laesus est: non est iniuria pati quod prior feceris. Iudex est: plus credas illius sententiae quam tuae. Rex est: si nocentem punit, cede iustitiae, si innocentem, cede fortunae. Mutum animal est aut simile muto: imitaris illud, si irasceris. Morbus est aut calamitas: levius transiliet sustinentem. Deus est: tam perdis operam cum illi irasceris quam cum illum alteri precaris iratum. Bonus vir est qui iniuriam fecit: noli credere. Malus: noli mirari; dabit poenas alteri quas debet tibi, et iam sibi dedit qui peccavit. 31. Duo sunt, ut dixi quae iracundiam concitant: primum, si iniuriam videmur accepisse, de hoc satis dictum est; deinde, si inique accepisse, de hoc dicendum est. Iniqua quaedam iudicant homines quia pati non debuerint, quaedam quia non speraverint. Indigna putamus quae inopinata sunt; itaque maxime commovent quae contra spem expectationemque evenerunt, nec aliud est quare in domesticis minima offendant, in amicis iniuriam vocemus neglegentiam. «Quomodo ergo» inquit «inimicorum nos iniuriae movent?». Quia non expectavimus illas aut certe non tantas. Hoc efficit amor nostri nimius: inviolatos nos etiam inimicis iudicamus esse debere, regis quisque intra se animum habet, ut licentiam sibi dari velit, in se nolit. Itaque nos aut insolentia iracundos facit aut ignorantia rerum: quid enim mirum est malos mala facinora edere? Quid novi est, si inimicus nocet, amicus offendit, filius labitur, servus
peccat? Turpissimam aiebat Fabius imperatori excusationem esse «Non putavi», ego turpissimam homini puto. Omnia puta, expecta: etiam in bonis moribus aliquid existet asperius. Fert humana natura insidiosos animos, fert ingratos, fert cupidos, fert impios. Cum de unius moribus iudicabis, de publicis cogita. Ubi maxime gaudebis, maxime metues. Ubi tranquilla tibi omnia videntur, ibi nocitura non desunt sed quiescunt. Semper futurum aliquid quod te offendat existima: gubernator numquam ita totos sinus securus explicuit ut non expedite ad contrahendum armamenta disponeret. Illud ante omnia cogita, foedam esse et execrabilem vim nocendi et alienissimam homini, cuius beneficio etiam saeva mansuescunt. Aspice elephantorum iugo colla summissa et taurorum pueris pariter ac feminis persultantibus terga impune calcata et repentis inter pocula sinusque innoxio lapsu dracones et intra domum ursorum leonumque ora placida tractantibus adulantisque dominum feras: pudebit cum animalibus permutasse mores. Nefas est nocere patriae: ergo civi quoque, nam hic pars patriae est (sanctae partes sunt, si universum venerabile est), ergo et homini, nam hic in maiore tibi urbe civis est. Quid si nocere velint manus pedibus, manibus oculi? Ut omnia inter se membra consentiunt quia singula servari totius interest, ita homines singulis parcent quia ad coetum geniti sunt, salva autem esse societas nisi custodia et amore partium non potest. Ne viperas quidem et natrices et si qua morsu aut ictu nocent effligeremus, si in reliquum mansuefacere possemus aut efficere ne nobis aliisve periculo essent: ergo ne homini quidem nocebimus quia peccavit, sed ne peccet, nec umquam ad praeteritum sed ad futurum poena referetur; non enim irascitur sed cavet. Nam si puniendus est cuicumque pravum maleficumque ingenium est, poena neminem excipiet. 32. «At enim ira habet aliquam voluptatem et dulce est dolorem reddere». Minime: non enim ut in beneficiis honestum est merita meritis repensare, ita iniurias iniuriis. Illic vinci turpe est, hic vincere. Inhumanum verbum est et quidem pro iusto receptum ultio. Non multum differt nisi ordine qui dolorem regerit: tantum excusatius peccat. M. Catonem ignorans in balineo quidam percussit imprudens (quis enim illi sciens faceret iniuriam?). Postea satis facienti Cato: «Non memini» inquit «me percussum». Melius putavit non agnoscere quam vindicare. «Nihil» inquis «illi post tantam petulantiam mali factum est?». Immo multum boni: coepit Catonem nosse. Magni animi est iniurias despicere; ultionis contumeliosissimum genus est non esse visum dignum ex quo peteretur ultio. Multi leves iniurias altius sibi demisere dum vindicant: ille magnus et nobilis qui more magnae ferae latratus minutorum canum securus exaudit. 33. «Minus» inquit «contemnemur, si vindicaverimus iniuriam». Si tamquam ad remedium venimus, sine ira veniamus, non quasi dulce sit
vindicari, sed quasi utile; saepe autem satius fuit dissimulare quam ulcisci. Potentiorum iniuriae hilari vultu, non patienter tantum ferendae sunt: facient iterum, si se fecisse crediderint. Hoc habent pessimum animi magna fortuna insolentes: quos laeserunt et oderunt. Notissima vox est eius qui in cultu regum consenuerat: cum illum quidam interrogaret quomodo rarissimam rem in aula consecutus esset, senectutem: «Iniurias» inquit «accipiendo et gratias agendo». Saepe adeo iniuriam vindicare non expedit ut ne fateri quidem expediat. C. Caesar Pastoris splendidi equitis Romani filium cum in custodia habuisset munditiis eius et cultioribus capillis offensus, rogante patre ut salutem sibi filii concederet, quasi de supplicio admonitus duci protinus iussit; ne tamen omnia inhumane faceret adversum patrem, ad cenam illum eo die invitavit. Venit Pastor vultu nihil exprobrante. Propinavit illi Caesar heminam et posuit illi custodem: perduravit miser, non aliter quam si fili sanguinem biberet. Unguentum et coronas misit et observare iussit an sumeret: sumpsit. Eo die quo filium extulerat, immo quo non extulerat, iacebat conviva centesimus et potiones vix honestas natalibus liberorum podagricus senex hauriebat, cum interim non lacrimam emisit, non dolorem aliquo signo erumpere passus est: cenavit tamquam pro filio exorasset. Quaeris quare? Habebat alterum. «Quid ille Priamus? Non dissimulavit iram et regis genua complexus est, funestam perfusamque cruore fili manum ad os suum rettulit, cenavit?» Sed tamen sine unguento, sine coronis, et illum hostis saevissimus multis solaciis ut cibum caperet hortatus est, non ut pocula ingentia super caput posito custode siccaret. Contempsissem Romanum patrem, si sibi timuisset: nunc iram compescuit pietas. Dignus fuit cui permitteretur a convivio ad ossa fili legenda discedere; ne hoc quidem permisit benignus interim et comis adulescens: propinationibus senem crebris, ut cura leniretur admonens, lacessebat; contra ille se laetum et oblitum quid eo actum esset die praestitit: perierat alter filius, si carnifici conviva non placuisset. 34. Ergo ira abstinendum est, sive par est qui lacessendus est sive superior sive inferior. Cum pare contendere anceps est, cum superiore furiosum, cum inferiore sordidum. Pusilli hominis et miseri est repetere mordentem: mures formicaeque, si manum admoveris, ora convertunt; imbecillia se laedi putant, si tanguntur. Faciet nos mitiores, si cogitaverimus quid aliquando nobis profuerit ille cui irascimur, et meritis offensa redimetur. Illud quoque occurrat, quantum nobis commendationis allatura sit clementiae fama, quam multos venia amicos utiles fecerit. Ne irascamur inimicorum et hostium liberis. Inter Sullanae crudelitatis exempla est quod ab re publica liberos proscriptorum submovit: nihil est iniquius quam aliquem heredem paterni odii fieri. Cogitemus, quotiens ad ignoscendum difficiles erimus, an expediat nobis omnes inexorabiles esse. Quam saepe veniam qui negavit petit! Quam saepe eius pedibus advolutus est quem a suis reppulit! Quid est gloriosius quam iram amicitia mutare? Quos populus Romanus fideliores habet socios quam quos
habuit pertinacissimos hostes? Quod hodie esset imperium, nisi salubris providentia victos permiscuisset victoribus? Irascetur aliquis: tu contra beneficiis provoca: cadit statim simultas ab altera parte deserta; nisi paria non pugnant. Sed utrimque certabit ira, concurritur: ille est melior qui prior pedem rettulit, victus est qui vicit. Percussit te: recede; referiendo enim et occasionem saepius feriendi dabis et excusationem; non poteris revelli, cum voles. Numquid velit quisquam tam graviter hostem ferire ut relinquat manum in vulnere et se ab ictu revocare non possit? Atqui tale ira telum est: vix retrahitur. Arma nobis expedita prospicimus, gladium commodum et habilem: non vitabimus impetus animi † hiis graves funerosos † et irrevocabiles? Ea demum velocitas placet quae ubi iussa est vestigium sistit nec ultra destinata procurrit flectique et cursu ad gradum reduci potest; aegros scimus nervos esse, ubi invitis nobis moventur; senex aut infirmi corporis est qui cum ambulare vult currit: animi motus eos putemus sanissimos validissimosque qui nostro arbitrio ibunt, non suo ferentur. 35. Nihil tamen aeque profuerit quam primum intueri deformitatem rei, deinde periculum. Non est ullius affectus facies turbatior: pulcherrima ora foedavit, torvos vultus ex tranquillissimis reddit; linquit decor omnis iratos, et sive amictus illis compositus est ad legem, trahent vestem omnemque curam sui effundent, sive capillorum natura vel arte iacentium non informis habitus, cum animo inhorrescunt; tumescunt venae; concutietur crebro spiritu pectus, rabida vocis eruptio colla distendet; tum artus trepidi, inquietae manus, totius corporis fluctuatio. Qualem intus putas esse animum cuius extra imago tam foeda est? Quanto illi intra pectus terribilior vultus est, acrior spiritus, intentior impetus, rupturus se nisi eruperit! Quales sunt hostium vel ferarum caede madentium aut ad caedem euntium aspectus, qualia poetae inferna monstra finxerunt succincta serpentibus et igneo flatu, quales ad bella excitanda discordiamque in populos dividendam pacemque lacerandam deae taeterrimae inferum exeunt, talem nobis iram figuremus, flamma lumina ardentia, sibilo mugituque et gemitu et stridore et si qua his invisior vox est perstrepentem, tela manu utraque quatientem (neque enim illi se tegere curae est), torvam cruentamque et cicatricosam et verberibus suis lividam, incessus vesani, offusam multa caligine, incursitantem vastantem fugantemque et omnium odio laborantem, sui maxime, si aliter nocere non possit, terras maria caelum ruere cupientem, infestam pariter invisamque. Vel, si videtur, sit qualis apud vates nostros est sanguineum quatiens dextra Bellona flagellum, aut scissa gaudens vadit Discordia palla aut si qua magis dira facies excogitari diri affectus potest.
36. Quibusdam, ut ait Sextius, iratis profuit aspexisse speculum. Perturbavit illos tanta mutatio sui, velut in rem praesentem adducti non agnoverunt se: et quantulum ex vera deformitate imago illa speculo repercussa reddebat! Animus si ostendi et si in ulla materia perlucere posset, intuentis confunderet ater maculosusque et aestuans et distortus et tumidus. Nunc quoque tanta deformitas eius est per ossa carnesque et tot inpedimenta effluentis: quid si nudus ostenderetur? Speculo quidem neminem deterritum ab ira credideris. «Quid ergo?». Qui ad speculum venerat ut se mutaret, iam mutaverat: iratis quidem nulla est formosior effigies quam atrox et horrida qualesque esse etiam videri volunt. Magis illud videndum est, quam multis ira per se nocuerit. Alii nimio fervore rupere venas et sanguinem supra vires elatus clamor egessit et luminum suffudit aciem in oculos vehementius umor egestus et in morbos aegri reccidere. Nulla celerior ad insaniam via est. Multi itaque continuaverunt irae furorem nec quam expulerant mentem umquam receperunt: Aiacem in mortem egit furor, in furorem ira. Mortem liberis, egestatem sibi, ruinam domui imprecantur, et irasci se negant non minus quam insanire furiosi. Amicissimis hostes vitandique carissimis, legum nisi qua nocent immemores, ad minima mobiles, non sermone, non officio adiri faciles, per vim omnia gerunt, gladiis et pugnare parati et incumbere. Maximum enim illos malum cepit et omnia exsuperans vitia. Alia paulatim intrant, repentina et universa vis huius est. Omnis denique alios affectus sibi subicit: amorem ardentissimum vincit, transfoderunt itaque amata corpora et in eorum quos occiderant iacuere complexibus; avaritiam, durissimum malum minimeque flexibile, ira calcavit, adactam opes suas spargere et domui rebusque in unum collatis inicere ignem. Quid? Non ambitiosus magno aestimata proiecit insignia honoremque delatum reppulit? Nullus affectus est in quem non ira dominetur.
Liber tertius 1. Quod maxime desiderasti, Novate, nunc facere temptabimus, iram excidere animis aut certe refrenare et impetus eius inhibere. Id aliquando palam aperteque faciendum est, ubi minor vis mali patitur, aliquando ex occulto, ubi nimium ardet omnique inpedimento exasperatur et crescit; refert quantas vires quamque integras habeat, utrum reverberanda et agenda retro sit an cedere ei debeamus dum tempestas prima desaevit, ne remedia ipsa secum ferat. Consilium pro moribus cuiusque capiendum erit; quosdam enim preces vincunt, quidam insultant instantque summissis, quosdam terrendo placabimus; alios obiurgatio, alios confessio, alios pudor coepto deiecit, alios mora, lentum praecipitis mali remedium, ad quod novissime descendendum est. Ceteri enim affectus dilationem recipiunt et curari tardius possunt, huius incitata et se ipsa rapiens violentia non
paulatim procedit sed dum incipit tota est; nec aliorum more vitiorum sollicitat animos, sed abducit et impotentes sui cupidosque vel communis mali exagitat, nec in ea tantum in quae destinavit sed in occurrentia obiter furit. Cetera vitia impellunt animos, ira praecipitat. Etiam si resistere contra affectus suos non licet, at certe affectibus ipsis licet stare: haec, non secus quam fulmina procellaeque et si qua alia irrevocabilia sunt quia non eunt sed cadunt, vim suam magis ac magis tendit. Alia vitia a ratione, hoc a sanitate desciscit; alia accessus lenes habent et incrementa fallentia: in iram deiectus animorum est. Nulla itaque res urget magis attonita et in vires suas prona et sive successit superba, sive frustratur insana; ne repulsa quidem in taedium acta, ubi adversarium fortuna subduxit, in se ipsa morsus suos vertit. Nec refert quantum sit ex quo surrexerit; ex levissimis enim in maxima evadit. 2. Nullam transit aetatem, nullum hominum genus excipit. Quaedam gentes beneficio egestatis non novere luxuriam; quaedam, quia exercitae et vagae sunt, effugere pigritiam; quibus incultus mos agrestisque vita est, circumscriptio ignota est et fraus et quodcumque in foro malum nascitur: nulla gens est quam non ira instiget, tam inter Graios quam inter barbaros potens, non minus perniciosa leges metuentibus quam quibus iura distinguit modus virium. Denique cetera singulos corripiunt, hic unus affectus est qui interdum publice concipitur. Numquam populus universus feminae amore flagravit nec in pecuniam aut lucrum tota civitas spem suam misit, ambitio viritim singulos occupat, impotentia non est malum publicum. Saepe in iram uno agmine itum est: viri feminae, senes pueri, principes vulgusque consensere, et tota multitudo paucissimis verbis concitata ipsum concitatorem antecessit; ad arma protinus ignesque discursum est et indicta finitimis bella aut gesta cum civibus; totae cum stirpe omni crematae domus, et modo eloquio favorabili habitus in multo honore iram suae contionis excepit; in imperatorem suum legiones pila torserunt; dissedit plebs tota cum patribus; publicum consilium senatus non exspectatis dilectibus nec nominato imperatore subitos irae suae duces legit ac per tecta urbis nobiles consectatus viros supplicium manu sumpsit; violatae legationes rupto iure gentium rabiesque infanda civitatem tulit, nec datum tempus quo resideret tumor publicus, sed deductae protinus classes et oneratae tumultuario milite; sine more, sine auspiciis populus ductu irae suae egressus fortuita raptaque pro armis gessit, deinde magna clade temeritatem audacis irae luit. Hic barbaris forte irruentibus in bella exitus est: cum mobiles animos species iniuriae perculit, aguntur statim et qua dolor traxit ruinae modo legionibus incidunt, incompositi interriti incauti, pericula appetentes sua; gaudent feriri et instare ferro et tela corpore urgere et per suum vulnus exire. 3. «Non est» inquis «dubium quin magna ista et pestifera sit vis: ideo quemadmodum sanari debeat monstra». Atqui, ut in prioribus libris dixi, stat Aristoteles defensor irae et vetat illam
nobis exsecari: calcar ait esse virtutis, hac erepta inermem animum et ad conatus magnos pigrum inertemque fieri. Necessarium est itaque foeditatem eius ac feritatem coarguere et ante oculis ponere quantum monstri sit homo in hominem furens quantoque impetu ruat non sine pernicie sua perniciosus et ea deprimens quae mergi nisi cum mergente non possunt. Quid ergo? Sanum hunc aliquis vocat qui velut tempestate correptus non it sed agitur et furenti malo servit, nec mandat ultionem suam sed ipse eius exactor animo simul ac manu saevit, carissimorum eorumque quae mox amissa fleturus est carnifex? Hunc aliquis affectum virtuti adiutorem comitemque dat, consilia sine quibus virtus nihil gerit obturbantem? Caducae sinistraeque sunt vires et in malum suum validae in quas aegrum morbus et accessio erexit. Non est ergo quod me putes tempus in supervacuis consumere, quod iram, quasi dubiae apud homines opinionis sit, infamem, cum sit aliquis et quidem de illustribus philosophis qui illi indicat operas et tamquam utilem ac spiritus subministrantem in proelia, in actus rerum, ad omne quodcumque calore aliquo gerendum est vocet. Ne quem fallat tamquam aliquo tempore, aliquo loco profutura, ostendenda est rabies eius effrenata et attonita apparatusque illi reddendus est suus, eculei et fidiculae et ergastula et cruces et circumdati defossis corporibus ignes et cadavera quoque trahens uncus, varia vinculorum genera, varia poenarum, lacerationes membrorum, inscriptiones frontis et bestiarum immanium caveae: inter haec instrumenta conlocetur ira dirum quiddam atque horridum stridens, omnibus per quae furit taetrior. 4. Ut de ceteris dubium sit, nulli certe affectui peior est vultus, quem in prioribus libris descripsimus: asperum et acrem et nunc subducto retrorsus sanguine fugatoque pallentem, nunc in os omni calore ac spiritu verso subrubicundum et similem cruento, venis tumentibus, oculis nunc trepidis et exilientibus, nunc in uno obtutu defixis et haerentibus; adice dentium inter se arietatorum ut aliquem esse cupientium non alium sonum quam est apris tela sua attritu acuentibus; adice articulorum crepitum cum se ipsae manus frangunt et pulsatum saepius pectus, anhelitus crebros tractosque altius gemitus, instabile corpus, incerta verba subitis exclamationibus, trementia labra interdumque compressa et dirum quiddam exsibilantia. Ferarum mehercules, sive illas fames agitat sive infixum visceribus ferrum, minus taetra facies est, etiam cum venatorem suum semianimes morsu ultimo petunt, quam hominis ira flagrantis. Age, si exaudire voces ac minas vacet, qualia excarnificati animi verba sunt! Nonne revocare se quisque ab ira volet, cum intellexerit illam a suo primum malo incipere? Non vis ergo admoneam eos qui iram summa potentia exercent et argumentum virium existimant et in magnis magnae fortunae bonis ponunt paratam ultionem, quam non sit potens, immo ne liber quidem dici possit irae suae captivus? Non vis admoneam, quo diligentior quisque sit et ipse se circumspiciat, alia animi mala ad pessimos quosque pertinere, iracundiam etiam eruditis hominibus et in alia sanis inrepere? Adeo ut
quidam simplicitatis indicium iracundiam dicant et vulgo credatur facillimus quisque huic obnoxius. 5. «Quorsus» inquis «hoc pertinet?» Ut nemo se iudicet tutum ab illa, cum lenes quoque natura et placidos in saevitiam ac violentiam evocet. Quemadmodum adversus pestilentiam nihil prodest firmitas corporis et diligens valetudinis cura (promiscue enim inbecilla robustaque invadit), ita ab ira tam inquietis moribus periculum est quam compositis et remissis, quibus eo turpior ac periculosior est quo plus in illis mutat. Sed cum primum sit non irasci, secundum desinere, tertium alienae quoque irae mederi, dicam primum quemadmodum in iram non incidamus, deinde quemadmodum nos ab illa liberemus, novissime quemadmodum irascentem retineamus placemusque et ad sanitatem reducamus. Ne irascamur praestabimus, si omnia vitia irae nobis subinde proposuerimus et illam bene aestimaverimus. Accusanda est apud nos, damnanda; perscrutanda eius mala et in medium protrahenda sunt; ut qualis sit appareat, comparanda cum pessimis est. Avaritia adquirit et contrahit, quo aliquis melior utatur: ira inpendit, paucis gratuita est. Iracundus dominus quot in fugam servos egit, quot in mortem! Quanto plus irascendo quam id erat propter quod irascebatur amisit! Ira patri luctum, marito divortium attulit, magistratui odium, candidato repulsam. Peior est quam luxuria, quoniam illa sua voluptate fruitur, haec alieno dolore. Vincit malignitatem et invidiam: illae enim infelicem fieri volunt, haec facere, illae fortuitis malis delectantur, haec non potest expectare fortunam: nocere ei quem odit, non noceri vult. Nihil est simultatibus gravius: has ira conciliat. Nihil est bello funestius: in hoc potentium ira prorumpit; ceterum etiam illa plebeia ira et privata inerme et sine viribus bellum est. Praeterea ira, ut seponamus quae mox secutura sunt, damna insidias perpetuam ex certaminibus mutuis sollicitudinem, dat poenas dum exigit; naturam hominis eiurat: illa in amorem hortatur, haec in odium; illa prodesse iubet, haec nocere. Adice quod, cum indignatio eius a nimio sui suspectu veniat, ut animosa videatur, pusilla est et angusta; nemo enim non eo a quo se contemptum iudicat minor est. At ille ingens animus et verus aestimator sui non vindicat iniuriam, quia non sentit. Ut tela a duro resiliunt et cum dolore caedentis solida feriuntur, ita nulla magnum animum iniuria ad sensum sui adducit, fragilior eo quod petit. Quanto pulchrius velut nulli penetrabilem telo omnis iniurias contumeliasque respuere! Ultio doloris confessio est; non est magnus animus quem incurvat iniuria. Aut potentior te aut imbecillior laesit: si imbecillior, parce illi, si potentior, tibi. 6. Nullum est argumentum magnitudinis certius quam nihil posse quo instigeris accidere. Pars superior mundi et ordinatior ac propinqua sideribus nec in nubem cogitur nec in tempestatem impellitur nec versatur in turbinem; omni
tumultu caret: inferiora fulminantur. Eodem modo sublimis animus, quietus semper et in statione tranquilla collocatus, omnia infra se premens quibus ira contrahitur, modestus et venerabilis est et dispositus; quorum nihil invenies in irato. Quis enim traditus dolori et furens non primam reiecit verecundiam? Quis impetu turbidus et in aliquem ruens non quicquid in se venerandi habuit abiecit? Cui officiorum numerus aut ordo constitit incitato? Quis linguae temperavit? Quis ullam partem corporis tenuit? Quis se regere potuit immissum? Proderit nobis illud Democriti salutare praeceptum, quo monstratur tranquillitas si neque privatim neque publice multa aut maiora viribus nostris egerimus. Numquam tam feliciter in multa discurrenti negotia dies transit ut non aut ex homine aut ex re offensa nascatur quae animum in iras paret. Quemadmodum per frequentia urbis loca properanti in multos incursitandum est et aliubi labi necesse est, aliubi retineri, aliubi respergi, ita in hoc vitae actu dissipato et vago multa inpedimenta, multae querellae incidunt: alius spem nostram fefellit, alius distulit, alius intercepit; non ex destinato proposita fluxerunt. Nulli fortuna tam dedita est ut multa temptanti ubique respondeat; sequitur ergo ut is cui contra quam proposuerat aliqua cesserunt impatiens hominum rerumque sit, ex levissimis causis irascatur nunc personae, nunc negotio, nunc loco, nunc fortunae, nunc sibi. Itaque ut quietus possit esse animus, non est iactandus nec multarum, ut dixi, rerum actu fatigandus nec magnarum supraque vires appetitarum. Facile est levia aptare cervicibus et in hanc aut illam partem transferre sine lapsu, at quae alienis in nos manibus imposita aegre sustinemus, victi in proximo effundimus; etiam dum stamus sub sarcina, impares oneri vacillamus. 7. Idem accidere in rebus civilibus ac domesticis scias. Negotia expedita et habilia sequuntur actorem, ingentia et supra mensuram gerentis nec dant se facile et, si occupata sunt, premunt atque abducunt administrantem tenerique iam visa cum ipso cadunt: ita fit ut frequenter irrita sit eius voluntas qui non quae facilia sunt adgreditur, sed vult facilia esse quae aggressus est. Quotiens aliquid conaberis, te simul et ea quae paras quibusque pararis ipse metire; faciet enim te asperum paenitentia operis infecti. Hoc interest utrum quis fervidi sit ingenii an frigidi atque humilis: generoso repulsa iram exprimet, languido inertique tristitiam. Ergo actiones nostrae nec parvae sint nec audaces et improbae, in vicinum spes exeat, nihil conemur quod mox adepti quoque successisse miremur. 8. Demus operam ne accipiamus iniuriam, quia ferre nescimus. Cum placidissimo et facillimo et minime anxio morosoque vivendum est; sumuntur a conversantibus mores et ut quaedam in contactos corporis vitia transsiliunt, ita animus mala sua proximis tradit: ebriosus convictores in amorem meri traxit, impudicorum coetus fortem quoque et (si liceat) virum emolliit, avaritia in
proximos virus suum transtulit. Eadem ex diverso ratio virtutum est, ut omne quod secum habent mitigent; nec tam valetudini profuit utilis regio et salubrius caelum quam animis parum firmis in turba meliore versari. Quae res quantum possit intelleges, si videris feras quoque convictu nostro mansuescere nullique etiam immani bestiae vim suam permanere, si hominis contubernium diu passa est: retunditur omnis asperitas paulatimque inter placida dediscitur. Accedit huc quod non tantum exemplo melior fit qui cum quietis hominibus viuit, sed quod causas irascendi non invenit nec vitium suum exercet. Fugere itaque debebit omnis quos irritaturos iracundiam sciet. «Qui sunt» inquis «isti?». Multi ex variis causis idem facturi: offendet te superbus contemptu, dicax contumelia, petulans iniuria, lividus malignitate, pugnax contentione, ventosus et mendax vanitate; non feres a suspicioso timeri, a pertinace vinci, a delicato fastidiri. Elige simplices faciles moderatos, qui iram tuam nec evocent et ferant; magis adhuc proderunt summissi et humani et dulces, non tamen usque in adulationem, nam iracundos nimia adsentatio offendit: erat certe amicus noster vir bonus sed irae paratioris, cui non magis tutum erat blandiri quam male dicere. Caelium oratorem fuisse iracundissimum constat. Cum quo, ut aiunt, cenabat in cubiculo lectae patientiae cliens, sed difficile erat illi in copulam coniecto rixam eius cui cohaerebat effugere; optimum iudicavit quicquid dixisset sequi et secundas agere. Non tulit Caelius assentientem et exclamavit: «Dic aliquid contra, ut duo simus!». Sed ille quoque, quod non irasceretur iratus, cito sine adversario desit. Eligamus ergo vel hos potius, si conscii nobis iracundiae sumus, qui vultum nostrum ac sermonem sequantur: facient quidem nos delicatos et in malam consuetudinem inducent nihil contra voluntatem audiendi, sed proderit vitio suo intervallum et quietem dare. Difficiles quoque et indomiti natura blandientem ferent: nihil asperum tetricumque palpanti est. Quotiens disputatio longior et pugnacior erit, in prima resistamus, antequam robur accipiat: alit se ipsa contentio et demissos altius tenet; facilius est se a certamine abstinere quam abducere. 9. Studia quoque graviora iracundis omittenda sunt aut certe citra lassitudinem exercenda, et animus non inter dura versandus, sed artibus amoenis tradendus: lectio illum carminum obleniat et historia fabulis detineat; mollius delicatiusque tractetur. Pythagoras perturbationes animi lyra componebat; quis autem ignorat lituos et tubas concitamenta esse, sicut quosdam cantus blandimenta quibus mens resolvatur? Confusis oculis prosunt virentia et quibusdam coloribus infirma acies adquiescit, quorundam splendore praestringitur: sic mentes aegras studia laeta permulcent. Forum advocationes iudicia fugere debemus et omnia quae exulcerant vitium, aeque cavere lassitudinem corporis; consumit enim quicquid in nobis mite placidumque est et acria concitat. Ideo quibus stomachus suspectus est, processuri ad res agendas
maioris negotii bilem cibo temperant, quam maxime movet fatigatio, sive quia calorem in media compellit et nocet sanguini cursumque eius venis laborantibus sistit, sive quia corpus attenuatum et infirmum incumbit animo; certe ob eandem causam iracundiores sunt valetudine aut aetate fessi. Fames quoque et sitis ex isdem causis vitanda est: exasperat et incendit animos. Vetus dictum est a lasso rixam quaeri; aeque autem et ab esuriente et a sitiente et ab omni homine quem aliqua res urit. Nam ut ulcera ad levem tactum, deinde etiam ad suspicionem tactus condolescunt, ita animus affectus minimis offenditur, adeo ut quosdam salutatio et epistula et oratio et interrogatio in litem evocent: numquam sine querella aegra tanguntur. 10. Optimum est itaque ad primum mali sensum mederi sibi, tum verbis quoque suis minimum libertatis dare et inhibere impetum. Facile est autem affectus suos, cum primum oriuntur, deprehendere: morborum signa praecurrunt. Quemadmodum tempestatis ac pluviae ante ipsas notae veniunt, ita irae amoris omniumque istarum procellarum animos vexantium sunt quaedam praenuntia. Qui comitiali vitio solent corripi iam adventare valetudinem intellegunt, si calor summa deseruit et incertum lumen nervorumque trepidatio est, si memoria sublabitur caputque versatur; solitis itaque remediis incipientem causam occupant, et odore gustuque quicquid est quod alienat animos repellitur, aut fomentis contra frigus rigoremque pugnatur; aut, si parum medicina profecit, vitaverunt turbam et sine teste ceciderunt. Prodest morbum suum nosse et vires eius antequam spatientur opprimere. Videamus quid sit quod nos maxime concitet: alium verborum, alium rerum contumeliae movent; hic vult nobilitati, hic formae suae parci; hic elegantissimus haberi cupit, ille doctissimus; hic superbiae impatiens est, hic contumaciae; ille servos non putat dignos quibus irascatur, hic intra domum saevus est, foris mitis; ille rogari iniuriam iudicat, hic non rogari contumeliam. Non omnes ab eadem parte feriuntur; scire itaque oportet quid in te imbecillum sit, ut id maxime protegas. 11. Non expedit omnia videre, omnia audire. Multae nos iniuriae transeant, ex quibus plerasque non accipit qui nescit. Non vis esse iracundus? Ne fueris curiosus. Qui inquirit quid in se dictum sit, qui malignos sermones etiam si secreto habiti sunt eruit, se ipse inquietat. Quaedam interpretatio eo perducit ut videantur iniuriae: itaque alia differenda sunt, alia deridenda, alia donanda. Circumscribenda multis modis ira est; pleraque in lusum iocumque vertantur. Socratem aiunt colapho percussum nihil amplius dixisse quam «molestum esse quod nescirent homines quando cum galea prodire deberent». Non quemadmodum facta sit iniuria refert, sed quemadmodum lata; nec video quare difficilis sit moderatio, cum sciam tyrannorum quoque tumida et fortuna et licentia ingenia familiarem sibi saevitiam repressisse. Pisistratum certe, Atheniensium tyrannum, memoriae proditur, cum multa in crudelitatem eius
ebrius conviva dixisset nec deessent qui vellent manus ei commodare et alius hinc alius illinc faces subderent, placido animo tulisse et hoc irritantibus respondisse, non magis illi se suscensere quam si quis obligatis oculis in se incucurrisset. 12. Magna pars querellas manu fecit aut falsa suspicando aut levia aggravando. Saepe ad nos ira venit, saepius nos ad illam. Quae numquam arcessenda est: etiam cum incidit, reiciatur. Nemo dicit sibi: «Hoc propter quod irascor aut feci aut fecisse potui»; nemo animum facientis sed ipsum aestimat factum: atqui ille intuendus est, voluerit an inciderit, coactus sit an deceptus, odium secutus sit an praemium, sibi morem gesserit an manum alteri commodaverit. Aliquid aetas peccantis facit, aliquid fortuna, ut ferre ac pati aut humanum sit aut utile. Eo nos loco constituamus quo ille est cui irascimur: nunc facit nos iracundos iniqua nostri aestimatio et quae facere vellemus pati nolumus. Nemo se differt: atqui maximum remedium irae dilatio est, ut primus eius fervor relanguescat et caligo quae premit mentem aut residat aut minus densa sit. Quaedam ex his quae te praecipitem ferebant hora, non tantum dies molliet, quaedam ex toto evanescent; si nihil egerit petita advocatio, apparebit iam iudicium esse, non iram. Quicquid voles quale sit scire, tempori trade: nihil diligenter in fluctu cernitur. Non potuit inpetrare a se Plato tempus, cum servo suo irasceretur, sed ponere illum statim tunicam et praebere scapulas verberibus iussit, sua manu ipse caesurus; postquam intellexit irasci se, sicut sustulerat manum suspensam detinebat et stabat percussuro similis; interrogatus deinde ab amico qui forte intervenerat quid ageret: «Exigo» inquit «poenas ab homine iracundo». Velut stupens gestum illum saevituri deformem sapienti viro servabat, oblitus iam servi, quia alium quem potius castigaret invenerat. Itaque abstulit sibi in suos potestatem et ob peccatum quoddam commotior: «Tu» inquit «Speusippe, servulum istum verberibus obiurga; nam ego irascor». Ob hoc non cecidit propter quod alius cecidisset. «Irascor;» inquit «plus faciam quam oportet, libentius faciam: non sit iste servus in eius potestate qui in sua non est». Aliquis vult irato committi ultionem, cum Plato sibi ipse imperium abrogaverit? Nihil tibi liceat dum irasceris. Quare? Quia vis omnia licere. 13. Pugna tecum ipse; si vis vincere iram, non potest te illa. Incipis vincere, si absconditur, si illi exitus non datur. Signa eius obruamus et illam quantum fieri potest occultam secretamque teneamus. Cum magna id nostra molestia fiet (cupit enim exilire et incendere oculos et mutare faciem), sed si eminere illi extra nos licuit, supra nos est. In imo pectoris secessu recondatur, feraturque, non ferat. Immo in contrarium omnia eius indicia flectamus: vultus remittatur, vox lenior sit, gradus lentior; paulatim cum exterioribus interiora formantur. In Socrate irae signum erat vocem summittere, loqui parcius. Apparebat tunc illum sibi obstare. Deprendebatur itaque a familiaribus et coarguebatur, nec erat illi exprobratio latitantis irae ingrata. Quidni gauderet quod iram suam multi intellegerent, nemo
sentiret? Sensissent autem, nisi ius amicis obiurgandi se dedisset, sicut ipse sibi in amicos sumpserat. Quanto magis hoc nobis faciendum est! Rogemus amicissimum quemque ut tunc maxime libertate adversus nos utatur cum minime illam pati poterimus, nec assentiatur irae nostrae; contra potens malum et apud nos gratiosum, dum consipimus, dum nostri sumus, advocemus. Qui vinum male ferunt et ebrietatis suae temeritatem ac petulantiam metuunt, mandant suis ut e convivio auferantur; intemperantiam in morbo suam experti parere ipsis in adversa valetudine vetant. Optimum est notis vitiis impedimenta prospicere et ante omnia ita componere animum ut etiam gravissimis rebus subitisque concussus iram aut non sentiat aut magnitudine inopinatae iniuriae exortam in altum retrahat nec dolorem suum profiteatur. Id fieri posse apparebit, si pauca ex turba ingenti exempla protulero, ex quibus utrumque discere licet, quantum mali habeat ira ubi hominum praepotentium potestate tota utitur, quantum sibi imperare possit ubi metu maiore compressa est. 14. Cambysen regem nimis deditum vino Praexaspes unus ex carissimis monebat ut parcius biberet, turpem esse dicens ebrietatem in rege, quem omnium oculi auresque sequerentur. Ad haec ille «Ut scias» inquit «quemadmodum numquam excidam mihi, approbabo iam et oculos post vinum in officio esse et manus». Bibit deinde liberalius quam alias capacioribus scyphis et iam gravis ac vinolentus obiurgatoris sui filium procedere ultra limen iubet allevataque super caput sinistra manu stare. Tunc intendit arcum et ipsum cor adulescentis (id enim petere se dixerat) figit rescissoque pectore haerens in ipso corde spiculum ostendit ac respiciens patrem interrogavit satisne certam haberet manum. At ille negavit Apollinem potuisse certius mittere. Di illum male perdant animo magis quam condicione mancipium! Eius rei laudator fuit cuius nimis erat spectatorem fuisse. Occasionem blanditiarum putavit pectus filii in duas partes diductum et cor sub vulnere palpitans: controversiam illi facere de gloria debuit et revocare iactum, ut regi liberet in ipso patre certiorem manum ostendere. O regem cruentum! O dignum in quem omnium suorum arcus verterentur! Cum execrati fuerimus illum convivia suppliciis funeribusque solventem, tamen sceleratius telum illud laudatum est quam missum. Videbimus quomodo se pater gerere debuerit stans super cadaver fili sui caedemque illam cuius et testis fuerat et causa: id de quo nunc agitur apparet, iram supprimi posse. Non male dixit regi, nullum emisit ne calamitosi quidem verbum, cum aeque cor suum quam fili transfixum videret. Potest dici merito devorasse verba; nam si quid tamquam iratus dixisset, nihil tamquam pater facere potuisset. Potest, inquam, videri sapientius se in illo casu gessisse quam cum de potandi modo praeciperet quem satius erat vinum quam sanguinem bibere, cuius manus poculis occupari pax erat. Accessit itaque ad numerum eorum qui magnis cladibus ostenderunt quanti
constarent regum amicis bona consilia. 15. Non dubito quin Harpagus quoque tale aliquid regi suo Persarumque suaserit, quo offensus liberos illi epulandos apposuit et subinde quaesiit an placeret conditura; deinde, ut satis illum plenum malis suis vidit, afferri capita illorum iussit et quomodo esset acceptus interrogavit. Non defuerunt misero verba, non os concurrit: «Apud regem» inquit «omnis cena iucunda est». Quid hac adulatione profecit? Ne ad reliquias invitaretur. Non veto patrem damnare regis sui factum, non veto quaerere dignam tam truci portento poenam, sed hoc interim colligo, posse etiam ex ingentibus malis nascentem iram abscondi et ad verba contraria sibi cogi. Necessaria ista est doloris refrenatio, utique hoc sortitis vitae genus et ad regiam adhibitis mensam: sic estur apud illos, sic bibitur, sic respondetur, funeribus suis arridendum est. An tanti sit vita videbimus: alia ista quaestio est. Non consolabimur tam triste ergastulum, non adhortabimur ferre imperia carnificum: ostendemus in omni servitute apertam libertati viam. Is aeger animo et suo vitio miser est, cui miserias finire secum licet. Dicam et illi qui in regem incidit sagittis pectora amicorum petentem et illi cuius dominus liberorum visceribus patres saturat: «Quid gemis, demens? Quid expectas ut te aut hostis aliquis per exitium gentis tuae vindicet aut rex a longinquo potens advolet? Quocumque respexeris, ibi malorum finis est. Vides illum praecipitem locum? Illac ad libertatem descenditur. Vides illud mare, illud flumen, illum puteum? Libertas illic in imo sedet. Vides illam arborem brevem retorridam infelicem? Pendet inde libertas. Vides iugulum tuum, guttur tuum, cor tuum? Effugia servitutis sunt. Nimis tibi operosos exitus monstro et multum animi ac roboris exigentes? Quaeris quod sit ad libertatem iter? Quaelibet in corpore tuo vena!». 16. Quam diu quidem nihil tam intolerabile nobis videtur ut nos expellat e vita, iram, in quocumque erimus statu, removeamus. Perniciosa est servientibus; omnis enim indignatio in tormentum suum proficit et imperia graviora sentit quo contumacius patitur. Sic laqueos fera dum iactat astringit; sic aves viscum, dum trepidantes excutiunt, plumis omnibus illinunt. Nullum tam artum est iugum quod non minus laedat ducentem quam repugnantem: unum est levamentum malorum ingentium, pati et necessitatibus suis obsequi. Sed cum utilis sit servientibus affectuum suorum et huius praecipue rabidi atque effreni continentia, utilior est regibus: perierunt omnia ubi quantum ira suadet fortuna permittit, nec diu potest quae multorum malo exercetur potentia stare; periclitatur enim ubi eos qui separatim gemunt communis metus iunxit. Plerosque itaque modo singuli mactaverunt, modo universi, cum illos conferre in unum iras publicus dolor coegisset. Atqui plerique sic iram quasi insigne regium exercuerunt, sicut Dareus, qui primus post ablatum mago imperium Persas et magnam partem orientis obtinuit. Nam cum bellum Scythis indixisset orientem
cingentibus, rogatus ab Oeobazo nobili sene ut ex tribus liberis unum in solacium patri relinqueret, duorum opera uteretur, plus quam rogabatur pollicitus omnis se illi dixit remissurum et occisos in conspectu parentis abiecit, crudelis futurus si omnis abduxisset. At quanto Xerses facilior! Qui Pythio quinque filiorum patri unius vacationem petenti quem vellet eligere permisit, deinde quem elegerat in partes duas distractum ab utroque viae latere posuit et hac victima lustravit exercitum. Habuit itaque quem debuit exitum: victus et late longeque fusus ac stratam ubique ruinam suam cernens medius inter suorum cadavera incessit. 17. Haec barbaris regibus feritas in ira fuit, quos nulla eruditio, nullus litterarum cultus imbuerat: dabo tibi ex Aristotelis sinu regem Alexandrum, qui Clitum carissimum sibi et una educatum inter epulas transfodit manu quidem sua, parum adulantem et pigre ex Macedone ac libero in Persicam servitutem transeuntem. Nam Lysimachum aeque familiarem sibi leoni obiecit. Numquid ergo hic Lysimachus felicitate quadam dentibus leonis elapsus ob hoc, cum ipse regnaret, mitior fuit? Nam Telesphorum Rhodium amicum suum undique decurtatum, cum aures illi nasumque abscidisset, in cavea velut novum aliquod animal et inusitatum diu pavit, cum oris detruncati mutilatique deformitas humanam faciem perdidisset; accedebat fames et squalor et illuvies corporis in stercore suo destituti; callosis super haec genibus manibusque, quas in usum pedum angustiae loci cogebant, lateribus vero attritu exulceratis non minus foeda quam terribilis erat forma eius visentibus, factusque poena sua monstrum misericordiam quoque amiserat. Tamen, cum dissimillimus esset homini qui illa patiebatur, dissimilior erat qui faciebat. 18. Utinam ista saevitia intra peregrina exempla mansisset nec in Romanos mores cum aliis adventiciis vitiis etiam suppliciorum irarumque barbaria transisset! M. Mario, cui vicatim populus statuas posuerat, cui ture ac vino supplicabat, L. Sulla praefringi crura, erui oculos, amputari linguam manus iussit, et, quasi totiens occideret quotiens vulnerabat, paulatim et per singulos artus laceravit. Quis erat huius imperii minister? Quis nisi Catilina iam in omne facinus manus exercens? Is illum ante bustum Quinti Catuli carpebat gravissimus mitissimi viri cineribus, supra quos vir mali exempli, popularis tamen et non tam immerito quam nimis amatus, per stilicidia sanguinem dabat. Dignus erat Marius qui illa pateretur, Sulla qui iuberet, Catilina qui faceret, sed indigna res publica quae in corpus suum pariter et hostium et vindicum gladios reciperet. Quid antiqua perscrutor? Modo C. Caesar Sex. Papinium, cui pater erat consularis, Betilienum Bassum quaestorem suum, procuratoris sui filium, aliosque et senatores et equites Romanos uno die flagellis cecidit, torsit, non quaestionis sed animi causa; deinde adeo impatiens fuit differendae voluptatis, quam ingentem crudelitas eius sine dilatione poscebat, ut in xysto maternorum hortorum qui porticum a ripa separat, inambulans quosdam ex illis cum matronis
atque aliis senatoribus ad lucernam decollaret. Quid instabat? Quod periculum aut privatum aut publicum una nox minabatur? Quantulum fuit lucem expectare denique, ne senatores populi Romani soleatus occideret! 19. Quam superba fuerit crudelitas eius ad rem pertinet scire, quamquam aberrare alicui possimus videri et in devium exire; sed hoc ipsum pars erit irae super solita saevientis. Ceciderat flagellis senatores: ipse effecit ut dici posset «Solet fieri»; torserat per omnia quae in rerum natura tristissima sunt, fidiculis talaribus, eculeo igne vultu suo. Et hoc loco respondebitur: «Magnam rem, si tres senatores quasi nequam mancipia inter verbera et flammas divisit homo qui de toto senatu trucidando cogitabat, qui optabat ut populus Romanus unam cervicem haberet, ut scelera sua tot locis ac temporibus diducta in unum ictum et unum diem cogeret?». Quid tam inauditum quam nocturnum supplicium? Cum latrocinia tenebris abscondi soleant, animadversiones quo notiores sunt plus in exemplum emendationemque proficiunt. Et hoc loco respondebitur mihi: «Quod tanto opere admiraris isti beluae cotidianum est; ad hoc vivit, ad hoc vigilat, ad hoc lucubrat». Nemo certe invenietur alius qui imperaverit omnibus iis in quos animadverti iubebat os inserta spongea includi, ne vocis emittendae haberent facultatem. Cui umquam morituro non est relictum qua gemeret? Timuit ne quam liberiorem vocem extremus dolor mitteret, ne quid quod nollet audiret; sciebat autem innumerabilia esse quae obicere illi nemo nisi periturus auderet. Cum spongeae non invenirentur, scindi vestimenta miserorum et in os farciri pannos imperavit. Quae ista saevitia est? Liceat ultimum spiritum trahere, da exiturae animae locum, liceat illam non per vulnus emittere. Adicere his longum est quod patres quoque occisorum eadem nocte dimissis per domos centurionibus confecit, id est, homo misericors luctu liberavit. Non enim Gai saevitiam sed irae propositum est describere, quae non tantum viritim furit sed gentes totas lancinat, sed urbes et flumina et tuta ab omni sensu doloris converberat. 20. Sic rex Persarum totius populi nares recidit in Syria, unde Rhinocolura loco nomen est. Pepercisse illum iudicas quod non tota capita praecidit? Novo genere poenae delectatus est. Tale aliquid passi forent et Aethiopes, qui ob longissimum vitae spatium Macrobioe appellantur; in hos enim, quia non supinis manibus exceperant servitutem missisque legatis libera responsa dederant, quae contumeliosa reges vocant, Cambyses fremebat et non provisis commeatibus, non exploratis itineribus, per invia, per arentia trahebat omnem bello utilem turbam. Cui intra primum iter deerant necessaria, nec quicquam subministrabat sterilis et inculta humanoque ignota vestigio regio: sustinebant famem primo tenerrima frondium et cacumina arborum, tum coria igne mollita et quicquid necessitas cibum fecerat; postquam inter harenas radices quoque et herbae defecerant apparuitque inops etiam animalium solitudo, decimum quemque sortiti alimentum habuerunt fame saevius. Agebat adhuc regem ira praecipitem, cum
partem exercitus amisisset, partem comedisset, donec timuit ne et ipse vocaretur ad sortem: tum demum signum receptui dedit. Servabantur interim generosae illi aves et instrumenta epularum camelis vehebantur, cum sortirentur milites eius quis male periret, quis peius viveret. 21. Hic iratus fuit genti et ignotae et inmeritae, sensurae tamen: Cyrus flumini. Nam cum Babylona oppugnaturus festinaret ad bellum, cuius maxima momenta in occasionibus sunt, Gynden late fusum amnem vado transire temptavit, quod vix tutum est etiam cum sensit aestatem et ad minimum deductus est. Ibi unus ex iis equis qui trahere regium currum albi solebant abreptus vehementer commovit regem; iuravit itaque se amnem illum regis comitatus auferentem eo redacturum ut transiri calcarique etiam a feminis posset. Hoc deinde omnem transtulit belli apparatum et tam diu adsedit operi donec centum et octoginta cuniculis divisum alveum in trecentos et sexaginta rivos dispergeret et siccum relinqueret in diversum fluentibus aquis. Periit itaque et tempus, magna in magnis rebus iactura, et militum ardor, quem inutilis labor fregit, et occasio aggrediendi imparatos, dum ille bellum indictum hosti cum flumine gerit. Hic furor (quid enim aliud voces?) Romanos quoque contigit. C. enim Caesar villam in Herculanensi pulcherrimam, quia mater sua aliquando in illa custodita erat, diruit fecitque eius per hoc notabilem fortunam; stantem enim praenavigabamus, nunc causa dirutae quaeritur. 22. Et haec cogitanda sunt exempla quae vites, et illa ex contrario quae sequaris, moderata, lenia, quibus nec ad irascendum causa defuit nec ad ulciscendum potestas. Quid enim facilius fuit Antigono quam duos manipulares duci iubere, qui incumbentes regis tabernaculo faciebant quod homines et periculosissime et libentissime faciunt, de rege suo male existimabant? Audierat omnia Antigonus, utpote cum inter dicentes et audientem palla interesset; quam ille leviter commovit et «Longius» inquit «discedite, ne vos rex audiat». Idem quadam nocte, cum quosdam ex militibus suis exaudisset omnia mala imprecantis regi, qui ipsos in illud iter et inextricabile lutum deduxisset, accessit ad eos qui maxime laborabant et cum ignorantis a quo adiuvarentur explicuisset: «Nunc» inquit «male dicite Antigono, cuius vitio in has miserias incidistis; ei autem bene optate qui vos ex hac voragine eduxit». Idem tam miti animo hostium suorum male dicta quam civium tulit. Itaque cum in parvulo quodam castello Graeci obsiderentur et fiducia loci contemnentes hostem multa in deformitatem Antigoni iocarentur et nunc staturam humilem, nunc conlisum nasum deriderent: «Gaudeo» inquit «et aliquid boni spero, si in castris Silenum habeo». Cum hos dicaces fame domuisset, captis sic usus est ut eos qui militiae utiles erant in cohortes discriberet, ceteros praeconi subiceret, idque se negavit facturum fuisse, nisi expediret iis dominum habere qui tam malam haberent linguam.
23. Huius nepos fuit Alexander, qui lanceam in convivas suos torquebat, qui ex duobus amicis quos paulo ante rettuli alterum ferae obiecit, alterum sibi. Ex his duobus tamen qui leoni obiectus est vixit. Non habuit hoc avitum ille vitium, ne paternum quidem; nam si qua alia in Philippo virtus, fuit et contumeliarum patientia, ingens instrumentum ad tutelam regni. Demochares ad illum Parrhesiastes ob nimiam et procacem linguam appellatus inter alios Atheniensium legatos venerat. Audita benigne legatione Philippus: «Dicite» inquit «mihi facere quid possim quod sit Atheniensibus gratum». Excepit Demochares et «Te» inquit «suspendere». Indignatio circumstantium ad tam inhumanum responsum exorta erat; quos Philippus conticiscere iussit et Thersitam illum salvum incolumemque dimittere. «At vos» inquit «ceteri legati, nuntiate Atheniensibus multo superbiores esse qui ista dicunt quam qui inpune dicta audiunt». Multa et divus Augustus digna memoria fecit dixitque ex quibus appareat iram illi non imperasse. Timagenes historiarum scriptor quaedam in ipsum, quaedam in uxorem eius et in totam domum dixerat, nec perdiderat dicta; magis enim circumfertur et in ore hominum est temeraria urbanitas. Saepe illum Caesar monuit, moderatius lingua uteretur, perseveranti domo sua interdixit. Postea Timagenes in contubernio Pollionis Asini consenuit ac tota civitate direptus est: nullum illi limen praeclusa Caesaris domus abstulit. Historias quas postea scripserat recitavit et libros acta Caesaris Augusti continentis in ignem imposuit; inimicitias gessit cum Caesare: nemo amicitiam eius extimuit, nemo quasi fulguritum refugit, fuit qui praeberet tam alte cadenti sinum. Tulit hoc, ut dixi, Caesar patienter, ne eo quidem motus quod laudibus suis rebusque gestis manus attulerat; numquam cum hospite inimici sui questus est. Hoc dumtaxat Pollioni Asinio dixit: «Qhriotrofei'"»; paranti deinde excusationem obstitit et «Fruere» inquit «mi Pollio, fruere!» et cum Pollio diceret «Si iubes, Caesar, statim illi domo mea interdicam», «Hoc me» inquit «putas facturum, cum ego vos in gratiam reduxerim?». Fuerat enim aliquando Timageni Pollio iratus nec ullam aliam habuerat causam desinendi quam quod Caesar coeperat. 24. Dicat itaque sibi quisque, quotiens lacessitur: «Numquid potentior sum Philippo? Illi tamen inpune male dictum est. Numquid in domo mea plus possum quam toto orbe terrarum divus Augustus potuit? Ille tamen contentus fuit a conviciatore suo secedere». Quid est quare ego servi mei clarius responsum et contumaciorem vultum et non pervenientem usque ad me murmurationem flagellis et compedibus expiem? Quis sum, cuius aures laedi nefas sit? Ignoverunt multi hostibus: ego non ignoscam pigris neglegentibus garrulis? Puerum aetas excuset, feminam sexus, extraneum libertas, domesticum familiaritas. Nunc primum offendit: cogitemus quam diu placuerit; saepe et alias offendit: feramus quod diu tulimus. Amicus est: fecit quod noluit; inimicus: fecit quod debuit.
Prudentiori credamus, stultiori remittamus; pro quocumque illud nobis respondeamus, sapientissimos quoque viros multa delinquere, neminem esse tam circumspectum cuius non diligentia aliquando sibi ipsa excidat, neminem tam maturum cuius non gravitatem in aliquod fervidius factum casus impingat, neminem tam timidum offensarum qui non in illas dum vitat incidat. 25. Quomodo homini pusillo solacium in malis fuit etiam magnorum virorum titubare fortunam et aequiore animo filium in angulo flevit qui vidit acerba funera etiam ex regia duci, sic animo aequiore fert ab aliquo laedi, ab aliquo contemni, cuicumque venit in mentem nullam esse tantam potentiam in quam non occurrat iniuria. Quod si etiam prudentissimi peccant, cuius non error bonam causam habet? Respiciamus quotiens adulescentia nostra in officio parum diligens fuerit, in sermone parum modesta, in vino parum temperans. Si iratus est, demus illi spatium quo dispicere quid fecerit possit: ipse se castigabit. Denique debeat poenas: non est quod cum illo paria faciamus. Illud non veniet in dubium, quin se exemerit turbae et altius steterit quisquis despexit lacessentis: proprium est magnitudinis verae non sentire percussum. Sic immanis fera ad latratum canum lenta respexit, sic irritus ingenti scopulo fluctus adsultat. Qui non irascitur, inconcussus iniuria perstitit, qui irascitur, motus est. At ille quem modo altiorem omni incommodo posui tenet amplexu quodam summum bonum, nec homini tantum sed ipsi fortunae respondet: «Omnia licet facias, minor es quam ut serenitatem meam obducas. Vetat hoc ratio, cui vitam regendam dedi. Plus mihi nocitura est ira quam iniuria. Quidni plus? Illius modus certus est, ista quo usque me latura sit dubium est». 26. «Non possum» inquis «pati; grave est iniuriam sustinere». Mentiris: quis enim iniuriam non potest ferre qui potest iram? Adice nunc quod id agis ut et iram feras et iniuriam. Quare fers aegri rabiem et phrenetici verba, puerorum protervas manus? Nempe quia videntur nescire quid faciant. Quid interest quo quisque vitio fiat imprudens? Imprudentia par in omnibus patrocinium est. «Quid ergo» inquis «impune illi erit?». Puta velle te, tamen non erit; maxima est enim factae iniuriae poena fecisse, nec quisquam gravius adficitur quam qui ad supplicium paenitentiae traditur. Deinde ad condicionem rerum humanarum respiciendum est, ut omnium accidentium aequi iudices simus; iniquus autem est qui commune vitium singulis obiecit. Non est Aethiopis inter suos insignitus color, nec rufus crinis et coactus in nodum apud Germanos virum dedecet: nihil in uno iudicabis notabile aut foedum quod genti suae publicum est. Et ista quae rettuli unius regionis atque anguli consuetudo defendit: vide nunc quanto in iis iustior venia sit quae per totum genus humanum vulgata sunt. Omnes inconsulti et improvidi sumus, omnes incerti queruli ambitiosi (quid lenioribus verbis ulcus publicum abscondo?)
omnes mali sumus. Quicquid itaque in alio reprenditur, id unusquisque in sinu suo inveniet. Quid illius pallorem, illius maciem notas? pestilentia est. Placidiores itaque invicem simus: mali inter malos vivimus. Una nos res facere quietos potest, mutuae facilitatis conventio. «Ille iam mihi nocuit, ego illi nondum». Sed iam aliquem fortasse laesisti, sed laedes. Noli aestimare hanc horam aut hunc diem, totum inspice mentis tuae habitum: etiam si nihil mali fecisti, potes facere. 27. Quanto satius est sanare iniuriam quam ulcisci! Multum temporis ultio absumit, multis se iniuriis obicit dum una dolet; diutius irascimur omnes quam laedimur. Quanto melius est abire in diversum nec vitia vitiis opponere! Numquis satis constare sibi videatur, si mulam calcibus repetat et canem morsu? «Ista» inquis «peccare se nesciunt». Primum quam iniquus est apud quem hominem esse ad impetrandam veniam nocet! Deinde, si cetera animalia hoc irae tuae subducit quod consilio carent, eodem loco tibi sit quisquis consilio caret; quid enim refert an alia mutis dissimilia habeat, si hoc quod in omni peccato muta defendit simile habet, caliginem mentis? Peccavit: hoc enim primum? Hoc enim extremum? Non est quod illi credas, etiam si dixerit: «Iterum non faciam» et iste peccabit et in istum alius et tota vita inter errores volutabitur. Mansuete immansueta tractanda sunt. Quod in luctu dici solet efficacissime, et in ira dicetur: utrum aliquando desines an numquam? Si aliquando, quanto satius est iram relinquere quam ab ira relinqui! An semper haec agitatio permanebit? Vides quam inpacatam tibi denunties vitam? Qualis enim erit semper tumentis? Adice nunc quod, cum bene te ipse succenderis et subinde causas quibus stimuleris renovaveris, sua sponte ira discedet et vires illi dies subtrahet: quanto satius est a te illam vinci quam a se! 28. Huic irasceris, deinde illi; servis, deinde libertis; parentibus, deinde liberis; notis, deinde ignotis: ubique enim causae supersunt nisi deprecator animus accessit. Hinc te illo furor rapiet, illinc alio, et novis subinde irritamentis orientibus continuabitur rabies: age, infelix, ecquando amabis? O quam bonum tempus in re mala perdis! Quanto nunc erat satius amicos parare, inimicos mitigare, rem publicam administrare, transferre in res domesticas operam, quam circumspicere quid alicui facere possis mali, quod aut dignitati eius aut patrimonio aut corpori vulnus infligas, cum id tibi contingere sine certamine ac periculo non possit, etiam si cum inferiore concurses! Vinctum licet accipias et ad arbitrium tuum omni patientiae expositum: saepe nimia vis caedentis aut articulum loco movit aut nervum in iis quos fregerat dentibus fixit; multos iracundia mancos, multos debiles fecit, etiam ubi patientem est nancta materiam. Adice nunc quod nihil tam imbecille natum est ut sine elidentis periculo pereat: imbecillos valentissimis alias dolor, alias casus exaequat. Quid quod pleraque
eorum propter quae irascimur offendunt nos magis quam laedunt? Multum autem interest utrum aliquis voluntati meae obstet an desit, eripiat an non det. Atqui in aequo ponimus utrum aliquis auferat an neget, utrum spem nostram praecidat an differat, utrum contra nos faciat an pro se, amore alterius an odio nostri. Quidam vero non tantum iustas causas standi contra nos sed etiam honestas habent: alius patrem tuetur, alius fratrem, alius patriam, alius amicum; his tamen non ignoscimus id facientibus quod nisi facerent improbaremus, immo, quod est incredibile, saepe de facto bene existimamus, de faciente male. At mehercules vir magnus ac iustus fortissimum quemque ex hostibus suis et pro libertate ac salute patriae pertinacissimum suspicit et talem sibi civem, talem militem contingere optat. 29. Turpe est odisse quem laudes; quanto vero turpius ob id aliquem odisse propter quod misericordia dignus est, si captivus in servitutem subito depressus reliquias libertatis tenet nec ad sordida ac laboriosa ministeria agilis occurrit, si ex otio piger equum vehiculumque domini cursu non exaequat, si inter cotidiana pervigilia fessum somnus oppressit, si rusticum laborem recusat aut non fortiter obiit a servitute urbana et feriata translatus ad durum opus! Distinguamus utrum aliquis non possit an nolit: multos absolvemus, si coeperimus ante iudicare quam irasci. Nunc autem primum impetum sequimur, deinde, quamvis vana nos concitaverint, perseveramus, ne videamur coepisse sine causa, et, quod iniquissimum est, pertinaciores nos facit iniquitas irae; retinemus enim illam et augemus, quasi argumentum sit iuste irascentis graviter irasci. 30. Quanto melius est initia ipsa perspicere quam levia sint, quam innoxia! Quod accidere vides animalibus mutis, idem in homine deprendes: frivolis turbamur et inanibus. Taurum color rubicundus excitat, ad umbram aspis exsurgit, ursos leonesque mappa proritat: omnia quae natura fera ac rabida sunt consternantur ad vana. Idem inquietis et stolidis ingeniis evenit: rerum suspicione feriuntur, adeo quidem ut interdum iniurias vocent modica beneficia, in quibus frequentissima, certe acerbissima iracundiae materia est. Carissimis enim irascimur quod minora nobis praestiterint quam mente concepimus quamque alii tulerunt, cum utriusque rei paratum remedium sit. Magis alteri indulsit: nostra nos sine comparatione delectent, numquam erit felix quem torquebit felicior. Minus habeo quam speravi: sed fortasse plus speravi quam debui. Haec pars maxime metuenda est, hinc perniciosissimae irae nascuntur et sanctissima quaeque invasurae. Divum Iulium plures amici confecerunt quam inimici, quorum non expleverat spes inexplebiles. Voluit quidem ille (neque enim quisquam liberalius victoria usus est, ex qua nihil sibi vindicavit nisi dispensandi potestatem) sed quemadmodum sufficere tam improbis desideriis posset, cum tantum omnes concupiscerent quantum unus poterat? Vidit itaque strictis circa sellam suam gladiis commilitones suos, Cimbrum Tillium, acerrimum paulo ante partium
defensorem, aliosque post Pompeium demum Pompeianos. Haec res sua in reges arma convertit fidissimosque eo compulit ut de morte eorum cogitarent pro quibus et ante quos mori votum habuerant. 31. Nulli ad aliena respicienti sua placent: inde dis quoque irascimur quod aliquis nos antecedat, obliti quantum hominum retro sit et paucis invidentem quantum sequatur a tergo ingentis invidiae. Tanta tamen importunitas hominum est ut, quamvis multum acceperint, iniuriae loco sit plus accipere potuisse. «Dedit mihi praeturam, sed consulatum speraveram; dedit duodecim fasces, sed non fecit ordinarium consulem; a me numerari voluit annum, sed deest mihi ad sacerdotium; cooptatus in collegium sum, sed cur in unum? Consummavit dignitatem meam, sed patrimonio nihil contulit: ea dedit mihi quae debebat alicui dare, de suo nihil protulit». Age potius gratias pro his quae accepisti; reliqua expecta et nondum plenum esse te gaude: inter voluptates est superesse quod speres. Omnes vicisti: primum esse te in animo amici tui laetare. Multi te vincunt: considera quanto antecedas plures quam sequaris. Quod sit in te vitium maximum quaeris? Falsas rationes conficis: data magno aestimas, accepta parvo. 32. Aliud in alio nos deterreat: quibusdam timeamus irasci, quibusdam vereamur, quibusdam fastidiamus. Magnam rem sine dubio fecerimus, si servulum infelicem in ergastulum miserimus! Quid properamus verberare statim, crura protinus frangere? Non peribit potestas ista, si differetur. Sine id tempus veniat quo ipsi iubeamus: nunc ex imperio irae loquemur; cum illa abierit, tunc videbimus quanto ista lis aestimanda sit. In hoc enim praecipue fallimur: ad ferrum venimus, ad capitalia supplicia, et vinculis carcere fame vindicamus rem castigandam flagris levioribus. «Quomodo» inquis «nos iubes intueri quam omnia per quae laedi videamur exigua misera puerilia sint!». Ego vero nihil magis suaserim quam sumere ingentem animum et haec propter quae litigamus discurrimus anhelamus videre quam humilia et abiecta sint, nulli qui altum quiddam aut magnificum cogitat respicienda. 33. Circa pecuniam plurimum vociferationis est: haec fora defetigat, patres liberosque committit, venena miscet, gladios tam percussoribus quam legionibus tradit, haec est sanguine nostro dilibuta, propter hanc uxorum maritorumque noctes strepunt litibus et tribunalia magistratuum premit turba, reges saeviunt rapiuntque et civitates longo saeculorum labore constructas evertunt ut aurum argentumque in cinere urbium scrutentur. Libet intueri fiscos in angulo iacentis: hi sunt propter quos oculi clamore exprimantur, fremitu iudiciorum basilicae resonent, evocati ex longinquis regionibus iudices sedeant iudicaturi utrius iustior avaritia sit. Quid si ne propter fiscum quidem sed pugnum aeris aut imputatum a servo denarium senex sine
herede moriturus stomacho dirrumpitur? Quid si propter usuram vel milesimam valetudinarius fenerator distortis pedibus et manibus ad computandum non relictis clamat ac per vadimonia asses suos in ipsis morbi accessionibus vindicat? Si totam mihi ex omnibus metallis quae cum maxime deprimimus pecuniam proferas, si in medium proicias quicquid thesauri tegunt, avaritia iterum sub terras referente quae male egesserat, omnem istam congeriem non putem dignam quae frontem viri boni contrahat. Quanto risu prosequenda sunt quae nobis lacrimas educunt! 34. Cedo nunc, persequere cetera, cibos potiones horumque causa paratas in ambitionem munditias, verba contumeliosa, motus corporum parum honorificos, contumacia iumenta et pigra mancipia, et suspiciones et interpretationes malignas vocis alienae, quibus efficitur ut inter iniurias naturae numeretur sermo homini datus: crede mihi, levia sunt propter quae non leviter excandescimus qualiaque pueros in rixam et iurgium concitant. Nihil ex iis quae tam tristes agimus serium est, nihil magnum: inde, inquam, vobis ira et insania est, quod exigua magno aestimatis. Auferre hic mihi hereditatem voluit; hic me diu in spem supremam captato criminatus est; hic scortum meum concupivit: quod vinculum amoris esse debebat seditionis atque odi causa est, idem velle. Iter angustum rixas transeuntium concitat, diffusa et late patens via ne populos quidem conlidit: ista quae appetitis, quia exigua sunt nec possunt ad alterum nisi alteri erepta transferri, eadem affectantibus pugnas et iurgia excitant. 35. Respondisse tibi servum indignaris libertumque et uxorem et clientem: deinde idem de re publica libertatem sublatam quereris quam domi sustulisti. Rursus, si tacuit interrogatus, contumaciam vocas. Et loquatur et taceat et rideat! «Coram domino?» inquis. Immo coram patre familiae. Quid clamas? Quid vociferaris? Quid flagella media cena petis quod servi loquuntur, quod non eodem loco turba contionis est, silentium solitudinis? In hoc habes aures, ut non modulata tantum et mollia et ex dulci tracta compositaque accipiant: et risum audias oportet et fletum, et blanditias et lites, et prospera et tristia, et hominum voces et fremitus animalium latratusque. Quid miser expavescis ad clamorem servi, ad tinnitum aeris aut ianuae inpulsum? Cum tam delicatus fueris, tonitrua audienda sunt. Hoc quod de auribus dictum est transfer ad oculos, qui non minus fastidio laborant si male instituti sunt: macula offenduntur et sordibus et argento parum splendido et stagno non ad solum perlucente. Hi nempe oculi, qui non ferunt nisi varium ac recenti cura nitens marmor, qui mensam nisi crebris distinctam venis, qui nolunt domi nisi auro pretiosiora calcare, aequissimo animo foris et scabras lutosasque semitas spectant et maiorem partem occurrentium squalidam, parietes insularum exesos rimosos inaequales. Quid ergo aliud est quod illos in publico non offendat, domi moveat, quam opinio illic aequa et patiens, domi morosa et
querula? 36. Omnes sensus perducendi sunt ad firmitatem: natura patientes sunt, si animus illos desit corrumpere, qui cotidie ad rationem reddendam vocandus est. Faciebat hoc Sextius, ut consummato die, cum se ad nocturnam quietem recepisset, interrogaret animum suum: «Quod hodie malum tuum sanasti? Cui vitio obstitisti? Qua parte melior es?». Desinet ira et moderatior erit quae sciet sibi cotidie ad iudicem esse veniendum. Quicquam ergo pulchrius hac consuetudine excutiendi totum diem? Qualis ille somnus post recognitionem sui sequitur, quam tranquillus, quam altus ac liber, cum aut laudatus est animus aut admonitus et speculator sui censorque secretus cognovit de moribus suis! Utor hac potestate et cotidie apud me causam dico. Cum sublatum e conspectu lumen est et conticuit uxor moris iam mei conscia, totum diem meum scrutor factaque ac dicta mea remetior; nihil mihi ipse abscondo, nihil transeo. Quare enim quicquam ex erroribus meis timeam, cum possim dicere: «Vide ne istud amplius facias, nunc tibi ignosco. In illa disputatione pugnacius locutus es: noli postea congredi cum imperitis; nolunt discere qui numquam didicerunt. Illum liberius admonuisti quam debebas, itaque non emendasti sed offendisti: de cetero vide, non tantum an verum sit quod dicis, sed an ille cui dicitur veri patiens sit: admoneri bonus gaudet, pessimus quisque rectorem asperrime patitur. 37. In convivio quorundam te sales et in dolorem tuum iacta verba tetigerunt: vitare vulgares convictus memento; solutior est post vinum licentia, quia ne sobriis quidem pudor est. Iratum vidisti amicum tuum ostiario causidici alicuius aut divitis quod intrantem summoverat, et ipse pro illo iratus extremo mancipio fuisti: irasceris ergo catenario cani? Et hic, cum multum latravit, obiecto cibo mansuescit. Recede longius et ride! Nunc iste se aliquem putat quod custodit litigatorum turba limen obsessum nunc ille qui intra iacet felix fortunatusque est et beati hominis iudicat ac indicium difficilem ianuam: nescit durissimum esse ostium carceris. Praesume animo multa tibi esse patienda: numquis se hieme algere miratur? Numquis in mari nausiare, in via concuti? Fortis est animus ad quae praeparatus venit. Minus honorato loco positus irasci coepisti convivatori, vocatori, ipsi qui tibi praeferebatur: demens, quid interest quam lecti premas partem? Honestiorem te aut turpiorem potest facere pulvinus? Non aequis quendam oculis vidisti, quia de ingenio tuo male locutus est: recipis hanc legem? Ergo te Ennius, quo non delectaris, odisset et Hortensius simultates tibi indiceret et Cicero, si derideres carmina eius, inimicus esset. Vis tu aequo animo pati candidatus suffragia!». 38. Contumeliam tibi fecit aliquis: numquid maiorem quam Diogeni philosopho Stoico, cui de ira cum maxime disserenti adulescens protervus inspuit? Tulit hoc ille leniter et sapienter: «Non quidem» inquit «irascor, sed
dubito tamen an oporteat irasci». Quanto Cato noster melius! Qui cum agenti causam in frontem mediam quantum poterat attracta pingui saliva inspuisset Lentulus ille patrum nostrorum memoria factiosus et inpotens, abstersit faciem et «Adfirmabo» inquit «omnibus, Lentule, falli eos qui te negant os habere». 39. Contigit iam nobis, Novate, bene componere animum: aut non sentit iracundiam aut superior est. Videamus quomodo alienam iram leniamus; nec enim sani esse tantum volumus, sed sanare. Primam iram non audebimus oratione mulcere: surda est et amens; dabimus illi spatium. Remedia in remissionibus prosunt; nec oculos tumentis temptamus vim rigentem movendo incitaturi, nec cetera vitia dum fervent: initia morborum quies curat. «Quantulum» inquis «prodest remedium tuum, si sua sponte desinentem iram placat!». Primum, ut citius desinat efficit; deinde custodit, ne recidat; ipsum quoque impetum, quem non audet lenire, fallet: removebit omnia ultionis instrumenta, simulabit iram ut tamquam adiutor et doloris comes plus auctoritatis in consiliis habeat, moras nectet et, dum maiorem poenam quaerit, praesentem differet. Omni arte requiem furori dabit: si vehementior erit, aut pudorem illi cui non resistat incutiet aut metum; si infirmior, sermones inferet vel gratos vel novos et cupiditate cognoscendi avocabit. Medicum aiunt, cum regis filiam curare deberet nec sine ferro posset, dum tumentem mammam leniter fovet, scalpellum spongea tectum induxisse: repugnasset puella remedio palam admoto, eadem, quia non expectavit, dolorem tulit. Quaedam non nisi decepta sanantur. 40. Alteri dices: «Vide ne inimicis iracundia tua voluptati sit», alteri: «Vide ne magnitudo animi tui creditumque apud plerosque robur cadat. Indignor mehercules et non invenio dolendi modum, sed tempus exspectandum est; dabit poenas. Serva istud in animo tuo: cum potueris, et pro mora reddes». Castigare vero irascentem et ultro obirasci incitare est: varie adgredieris blandeque, nisi forte tanta persona eris ut possis iram comminuere, quemadmodum fecit divus Augustus, cum cenaret apud Vedium Pollionem. Fregerat unus ex servis eius crustallinum: rapi eum Vedius iussit ne vulgari quidem more periturum: murenis obici iubebatur, quas ingentis in piscina continebat. Quis non hoc illum putaret luxuriae causa facere? Saevitia erat. Evasit e manibus puer et confugit ad Caesaris pedes, nihil aliud petiturus quam ut aliter periret, ne esca fieret. Motus est novitate crudelitatis Caesar et illum quidem mitti, crustallina autem omnia coram se frangi iussit complerique piscinam. Fuit Caesari sic castigandus amicus; bene usus est viribus suis. «E convivio rapi homines imperas et novi generis poenis lancinari? Si calix tuus fractus est, viscera hominis distrahentur? Tantum tibi placebis ut ibi aliquem
duci iubeas ubi Caesar est?». Sic cui tantum potentiae est ut iram ex superiore loco adggredi possit, male tractet, at talem dumtaxat qualem modo rettuli, feram immanem sanguinariam, quae iam insanabilis est nisi maius aliquid extimuit. 41. Pacem demus animo quam dabit praeceptorum salutarium adsidua meditatio actusque rerum boni et intenta mens ad unius honesti cupiditatem. Conscientiae satis fiat, nil in famam laboremus: sequatur vel mala, dum bene merentis. «At vulgus animosa miratur et audaces in honore sunt, placidi pro inertibus habentur». Primo forsitan aspectu; sed simul aequalitas vitae fidem fecit non segnitiem illam animi esse sed pacem, veneratur illos populus idem colitque. Nihil ergo habet in se utile taeter iste et hostilis affectus, at omnia ex contrario mala, ferrum et ignes. Pudore calcato caedibus inquinavit manus, membra liberorum dispersit, nihil vacuum reliquit a scelere, non gloriae memor, non infamiae metuens, inemendabilis cum ex ira in odium obcalluit. 42. Careamus hoc malo purgemusque mentem et exstirpemus radicitus quae quamvis tenuia undecumque haeserint renascentur, et iram non temperemus sed ex toto removeamus (quod enim malae rei temperamentum est)? Poterimus autem, adnitamur modo. Nec ulla res magis proderit quam cogitatio mortalitatis. Sibi quisque atque alteri dicat: «Quid iuvat tamquam in aeternum genitos iras indicere et brevissimam aetatem dissipare? Quid iuvat dies quos in voluptatem honestam inpendere licet in dolorem alicuius tormentumque transferre? Non capiunt res istae iacturam nec tempus vacat perdere. Quid ruimus in pugnam? Quid certamina nobis arcessimus? Quid imbecillitatis obliti ingentia odia suscipimus et ad frangendum fragiles consurgimus? Iam istas inimicitias quas implacabili gerimus animo febris aut aliquod aliud malum corporis vetabit geri; iam par acerrimum media mors dirimet. Quid tumultuamur et vitam seditiosi conturbamus? Stat supra caput fatum et pereuntis dies imputat propiusque ac propius accedit, istud tempus quod alienae destinas morti fortasse circa tuam est. 43. Quin potius vitam brevem colligis placidamque et tibi et ceteris praestas? Quin potius amabilem te dum vivis omnibus, desiderabilem cum excesseris reddis? Quid illum nimis ex alto tecum agentem detrahere cupis? Quid illum oblatrantem tibi, humilem quidem et contemptum sed superioribus acidum ac molestum, exterere viribus tuis temptas? Quid servo, quid domino, quid regi, quid clienti tuo irasceris? Sustine paulum: venit ecce mors quae vos pares faciat. Videre solemus inter matutina harenae spectacula tauri et ursi pugnam inter se conligatorum, quos, cum alter alterum vexarunt, suus confector expectat: idem facimus, aliquem nobiscum adligatum lacessimus, cum victo victorique finis et quidem maturus immineat. Quieti potius pacatique quantulumcumque superest
exigamus! Nulli cadaver nostrum iaceat invisum. Saepe rixam conclamatum in vicinia incendium solvit et interventus ferae latronem viatoremque diducit: conluctari cum minoribus malis non vacat, ubi metus maior apparuit. Quid nobis cum dimicatione et insidiis? Numquid amplius isti cui irasceris quam mortem optas? Etiam te quiescente morietur. Perdis operam: facere vis quod futurum est. «Nolo» inquis «utique occidere, sed exilio, sed ignominia, sed damno adficere». Magis ignosco ei qui vulnus inimici quam qui pusulam concupiscit; hic enim non tantum mali animi est sed pusilli. Sive de ultimis suppliciis cogitas sive de levioribus, quantulum est temporis quo aut ille poena sua torqueatur aut tu malum gaudium ex aliena percipias! Iam istum spiritum expuemus. Interim, dum trahimus, dum inter homines sumus, colamus humanitatem; non timori cuiquam, non periculo simus; detrimenta iniurias, convicia vellicationes contemnamus et magno animo brevia feramus incommoda: dum respicimus, quod aiunt, versamusque nos, iam mortalitas aderit».
L’arte di non adirarsi
Premessa Dedicato al fratello maggiore L. Anneo Novato (che prenderà in seguito il nome di Giunio Gallione dal retore che lo adotterà), il De ira è una delle prime opere di Seneca. Il punto di partenza è l’affermazione aprioristica che l’ira è una passione naturale solo nel suo moto iniziale, nella reazione immediata e istintiva di chi è stato o si è sentito offeso, alla quale non può sottrarsi neppure il saggio, che però riesce a trattenersi e a non infierire su chi ha recato l’offesa. Come Platone, ad esempio, che adiratosi contro uno schiavo incaricò un altro di bastonarlo perché lui l’avrebbe picchiato più del giusto. Quanto a Plutarco si racconta che un giorno, mentre faceva frustare uno schiavo, questi gli rinfacciò quello scatto d’ira, ricordandogli come biasimasse nei suoi scritti quel sentimento, al che lui, calmo e candido rispose: «Ho forse il viso infiammato? Mi è forse sfuggita una parola di cui debba vergognarmi? Sono questi i segni dell’ira che non si convengono agli uomini saggi». E poiché l’aguzzino nel frattempo s’era fermato gli disse: «Continua pure il tuo ufficio, mentre io e costui discutiamo». Sarebbe comunque stolto quel saggio che di fronte all’aggressione mortale o al rapimento di un suo familiare, trovandosi solo, se ne stesse imperturbabile senza muovere un dito. Del resto l’amore per il Padre suo non spinse Cristo ad adirarsi contro i mercanti che ne profanavano il tempio, a prenderli a frustate rovesciando i banchi con tutte le merci? L’ira vera, prosegue Seneca, viene in un secondo tempo, quando si passa all’offensiva, quando minacciamo, insultiamo e aggrediamo fisicamente chi ci ha offeso. Come dire che in un primo momento l’ira ha ragione, in quanto chi riceve l’offesa non può non risentirsi, e successivamente ha torto. Il fatto è che Seneca considera lo spirito (e in ciò si accosta alla visione cristiana) come un’entità distinta e divisa dal corpo, che possa quindi padroneggiarlo; ma al tempo stesso giudica il vizio come una schiavitù dello spirito. Per lui, quali che siano le condizioni fisiche di un uomo, il suo spirito, se vuole, può e quindi deve conservare la più lucida e tranquilla padronanza di sé. In realtà le cose non stanno così. A quella padronanza si può arrivare a sessanta, a ottant’anni, ma allora non è tanto la ragione che si rafforza quanto la passione che s’indebolisce, a causa della vecchiaia. La parte più interessante del dialogo è l’analisi che l’Autore fa dei fenomeni interiori dell’iracondo, a cui si aggiungono i consigli pratici e l’atteggiamento che si deve avere nel giudicare i colpevoli e nell’infliggere le pene. Nel punire un malfattore – spiega Seneca a Novato – non si deve essere adirati, giacché se l’ira è un vizio dell’animo non è giusto correggere un errore con un altro errore. La pena, poi, dev’essere considerata come una medicina e perciò adattata a ogni singolo caso, per cui se il reo è un principiante basterà un rimprovero, prima in privato e successivamente in pubblico, se è andato troppo avanti per poter essere guarito con una semplice ammonizione ci vorrà la gogna, poi l’esilio in luoghi lontani e sconosciuti, la prigione con le catene e infine, se il reo ha la malvagità talmente diffusa nel sangue e radicata nelle viscere e lui stesso pensa di farla finita, bisognerà dargli l’unica cosa buona che gli rimane: la morte. «Sì, la morte», conclude Seneca. «Perché dovrei essere adirato con uno a cui posso dispensare un così grande bene? Talvolta uccidere è la più alta forma di pietà». I delitti, dice Seneca, sono una conseguenza dell’ira, quindi l’ira è da condannarsi; ma nel malfattore si deve colpire non tanto la persona quanto il male stesso. Così a proposito di Caligola, dopo averne elencato i più atroci misfatti (faceva frustare i senatori con le verghe, li torturava con gli strumenti più terribili, corde, stringicaviglie, cavalletti e carboni accesi, e ordinava di uccidere anche i padri dei condannati perché così, diceva, li liberava dal dolore per la morte dei figli), aggiunge di aver voluto descrivere non tanto la crudeltà di Caligola quanto quella dell’ira. In questo suo atteggiamento nei confronti dei delitti e delle pene, Seneca anticipa Cesare Beccaria e quanti, positivisti o no, riversano sull’ambiente o sulla società la responsabilità di chi commette il male (cancellando di fatto il libero arbitrio, ma continuando a parlare di libertà). Dopo aver detto che chi ha il compito di punire deve fare come il medico o come chi governa una città, che non prescrive gli stessi rimedi a tutti, così continua:
Se io dovessi indossare la toga scura del magistrato e convocare con squilli di tromba l’assemblea, mi recherei in tribunale non con aria furiosa e ostile, ma col volto della legge, pronuncerei le formule di rito con voce calma e grave, non piena di rabbia, ordinerei che si proceda con tono severo ma non adirato. E quando dovessi imporre di tagliare la testa a un criminale, di cucire in un sacco un parricida, d’infliggere il supplizio militare, o di gettare dalla rupe Tarpeia un traditore o un nemico dello Stato, non sarei spinto dall’ira ma manterrei lo stesso animo e lo stesso volto di quando abbatto un serpente velenoso o un altro animale del genere. Poi, come Novato obietta che per punire bisogna pur essere adirati, risponde che l’uomo virtuoso potrà provare un lieve turbamento, perché anche nel saggio, quando la ferita si è rimarginata, resta la cicatrice. Ma sarà solo un sospetto, come l’ombra di una passione, come un fantasma, nient’altro. Nel De constantia sapientis Seneca paragona il saggio a quei corpi che il fuoco non riesce a distruggere, all’acciaio, contro cui si spuntano gli attrezzi che cercano di scalfirlo, o ancora a certi scogli che, per quanto flagellati per secoli dalle onde, non mostrano alcuna traccia della loro violenza. Le offese, aggiunge, le fanno gli sprovveduti e perciò non possono essere prese in considerazione, così come non si ritengono offensive le parole ingiuriose di un bambino. Cita poi Socrate, che accettò di buon animo e ridendovi sopra gli scherzi salaci rivoltigli nelle commedie, mostrandosi non meno tollerante di quando la moglie Santippe gli rovesciò addosso un secchio d’acqua sporca. E consiglia di tenere nello stesso conto sia le ingiurie che le lodi provenienti dal volgo, senza dolersi delle une e rallegrarsi delle altre. Le offese, dice, le parole oltraggiose, le infamie e tutti gli altri simili affronti vanno sopportati come si sopportano le urla dei nemici, i dardi scagliati da troppo lontano, e perciò meno pericolosi, come i sassi che crepitano sull’elmo senza recare alcuna ferita. Naturalmente non sempre Seneca è coerente coi consigli che dà, se solo si pensa che sfogò la sua ira contro l’imperatore Claudio, ch’era appena morto, scrivendo l’ Apocolocintosi, in cui, dopo aver esordito dicendo di voler consegnare alla memoria dei posteri il giorno di quell’evento, «inizio di un’epoca fortunatissima», aggiunge: «Non sarà fatta alcuna concessione né all’offesa né alla compiacenza: queste cose sono vere così». Poi dà del «cretino» a Claudio (sia pure per bocca di Ercole), dice che gli dèi non capiscono il suo strano linguaggio e che non sono nemmeno certi ch’egli sia un essere umano, lo fa giocare ai dadi con un bussolotto bucato e alla fine lo fa diventare schiavo di un liberto. Ma ciò non toglie valore al suo insegnamento. Già nel 1878 Nietzsche in Umano, troppo umano scriveva: «Bisogna confessare che il nostro tempo è povero di grandi moralisti, che Pascal, Epittèto, Seneca, Plutarco sono poco letti, che lavoro e attività – normalmente al seguito della gran dea Salute – sembrano a volte infuriare come una malattia. Poiché manca il tempo per pensare e la calma nel pensare, non si medita più sulle opinioni divergenti: ci si accontenta di odiarle». Il fine di ogni uomo dovrebbe essere la saggezza, la quale non consiste nel chiudere la porta alle passioni, in una aprioristica e sterile imperturbabilità: lo spirito progredisce non tanto nell’elevarsi, quanto nel chiarire tutto ciò che l’ingombra. È vero, chi si metta su questa strada in un primo tempo invece della luce scoprirà le tenebre, invece della pace troverà la guerra, ma è solo così che la vita si trasforma davvero, altrimenti, come dice un grande saggio, «resteremo a poetare e a spiritualizzare sulle cime, mentre al di sotto la vita traballa». M. S. A.
Libro primo 1. Caro Novato, il fatto che tu mi chieda come si possa placare l’ira è segno che temi in modo particolare, e giustamente, questa passione, che è la più sfrenata e la più spaventosa di tutte. Le altre, infatti, offrono almeno qualche spiraglio di calma e di respiro, mentre l’ira è tutta foga, come un’esplosione impetuosa e incontenibile di rabbia, una furia disumana assetata di battaglie e di
sangue, che pur di nuocere agli altri non esita a far del male a sé stessa con le sue stesse armi, avida di una vendetta che finisce col travolgere anche il vendicatore. Perciò alcuni saggi definiscono l’ira una breve follia1 perché anch’essa non sa dominarsi, dimentica ogni decoro, infrange i legami sociali, ostinata e decisa a portare a termine quel che ha intrapreso, chiusa alla voce della ragione e a qualsiasi consiglio, pronta a scattare al più futile motivo, incapace di distinguere il vero e il giusto, simile a quelle macerie che crollano e si sgretolano su ciò che hanno travolto. Per capire che uno preso dall’ira è uscito di senno basta guardarlo, poiché presenta gli stessi e indubitabili sintomi della follia: come il pazzo ha un’espressione insolente e minacciosa, la fronte accigliata, lo sguardo torvo, il passo nervoso, le mani irrequiete, il colorito alterato, il respiro affannoso e frequente, così l’adirato ha gli occhi accesi e fiammeggianti, il viso arrossato per via del sangue che sale e ribolle fin dai precordi, le labbra tremanti, i denti serrati, ispidi e dritti i capelli, il respiro faticoso e stridente, le articolazioni contorte e scricchiolanti, la voce spezzata e confusa mista di gemiti e brontolii, frequenti colpi delle mani, un pestar la terra coi piedi, mentre dal corpo tutto eccitato «schizzano grandi e minacciosi segnali»:2 turpe e orrendo è l’aspetto di un uomo sfigurato dall’ira. Tu non puoi sapere se questo vizio sia più detestabile o più vergognoso: gli altri si possono nascondere e coltivare in segreto, l’ira, invece, si mostra, prorompe sul viso, e quanto più è grande tanto più palesemente avvampa. Guarda gli animali: prima di assalire la preda mandano dei cenni, il corpo perde il consueto atteggiamento tranquillo, la loro bestialità tocca le punte più alte. I cinghiali schiumano dalla bocca e aguzzano i denti affilandoli, i tori dànno cornate nel vuoto e con lo zoccolo raspano e spargono la sabbia, i leoni fremono, i serpenti, irritati, gonfiano il collo, le cagne, rabbiose, assumono un aspetto malvagio: non c’è insomma animale, fra quelli terribili e pericolosi, che quando è in preda all’ira non manifesti un ulteriore aumento di ferocia. So bene che anche le altre passioni si fa fatica a tenerle nascoste, che la libidine, la paura, l’audacia hanno anch’esse i loro sintomi e si possono prevedere: non c’è infatti emozione, quando sia viva e intensa, che non alteri i lineamenti del volto. Qual è allora la differenza? Le altre passioni si vedono, l’ira risalta. 2. Se poi vuoi renderti conto dei suoi effetti rovinosi, sappi che nessuna peste ha procurato più danni all’umanità: stragi, avvelenamenti, accuse reciproche e infamanti, saccheggi, genocidi, teste di re e di personaggi eccellenti messe all’asta e vendute, case bruciate, incendi non solo dentro le mura cittadine ma in territori immensi balenanti di fiamme nemiche. Guarda le fondamenta di città famosissime riconoscibili a stento: è l’ira che le ha distrutte; guarda quante distese deserte per miglia e miglia senza un solo abitante: è l’ira che le ha spopolate; guarda quanti condottieri passati alla storia come esempi di un destino
funesto ha fatto fuori l’ira: uno lo ha pugnalato nel letto, un altro mentre banchettava, violando le sacre leggi dell’ospitalità, un altro lo ha sbranato nel foro zeppo di folla quando ancora il processo non si era concluso,3 un altro lo ha trucidato per mano del figlio parricida, un altro lo ha spinto a offrire la gola regale alla lama di uno schiavo, un altro a spaccarsi le membra sulla croce. E ho parlato solo di supplizi individuali: che penserai se da questi volgi lo sguardo su intere assemblee passate a fìl di spada, su plebi trucidate da soldataglie sfrenate, su intere popolazioni condannate a una morte sommaria?…4 … come se cessassero di occuparsi di noi o non tenessero in alcun conto la nostra autorità. E che dire del popolo che inveisce contro i gladiatori e così iniquamente da ritenersi offeso quando non accettano di buon grado la morte? Si sente sminuito e da spettatore, col volto, col gesto e tutto preso dall’eccitazione, si trasforma in nemico. Fatti di questo genere, tuttavia, non sono attribuibili propriamente all’ira: sono dovuti piuttosto a una specie di ira, simile a quella dei bambini che quando cadono vogliono che si picchi la terra e spesso non sanno nemmeno con chi arrabbiarsi, si adirano così, senza un motivo, senza aver ricevuto alcun affronto, e però si comportano come se fossero stati offesi e nutrissero non so che desiderio di vendetta. Perciò i familiari li placano picchiando con finte percosse la terra e simulando lacrime di scusa: un falso castigo pone fine a un cruccio inconsistente. 3. «Spesso, però, ci adiriamo non con chi ci ha offeso ma con chi sta per farlo, dunque l’ira non nasce necessariamente da un’offesa». È vero, ma chi dimostra di volerci offendere in realtà ci offende per il solo fatto che lo vuole, quindi l’offesa è già nell’intenzione. «Ma allora l’ira non consiste nell’impulso di punire chi ci ha offeso, visto che i più deboli si adirano con i potenti ma non per questo pensano d’infliggere loro una punizione, anzi, non lo sperano nemmeno». Io ho detto che l’ira nasce dal desiderio di vendicare l’offesa, non che ne abbia in concreto la capacità. E poi, come niente può impedire a uno di desiderare anche cose che non può ottenere, così non c’è uomo per quanto debole o di infime condizioni che non coltivi almeno l’idea di punire chi l’ha ingiuriato, fosse anche la persona più potente del mondo: tutti, infatti, siamo pronti a far del male. Aristotele dà dell’ira una spiegazione che non è poi tanto diversa, quando dice che l’ira è desiderio di ricambiare il male.5 Io non voglio sottilizzare sulla differenza fra la sua definizione e la mia, anche perché sarebbe un discorso troppo lungo. Dico solo che a entrambe viene mossa l’obiezione che le bestie si infuriano anche senza essere state offese e che non intendono infliggere ad altri un castigo o un dolore: il fatto che lo provochino non significa che l’hanno voluto. Va però precisato che le bestie e tutti gli altri animali non conoscono l’ira, la quale, pur essendo nemica della ragione, nasce proprio e soltanto là dove c’è la ragione, ovverosia nell’uomo. Le bestie seguono l’istinto, sono
soggette a moti di rabbia, di ferocia, di aggressività, ma non all’ira, e tanto meno alla lussuria, anche se in certi piaceri sono più sfrenate dell’uomo. Non devi prendere alla lettera Ovidio quando dice: l’ira il cinghiale oblìa, non ardisce correre il cervo, più non muove l’orso incontro ai robusti giovenchi.6 Per ira egli intende l’eccitazione, lo slancio, perché le bestie ignorano l’ira, così come il perdono. Gli animali, che non hanno il dono della parola, non conoscono i sentimenti, diversamente, oltre all’amore e all’odio, dovrebbero avere amicizia e inimicizia, discordia e concordia e così via: è vero, alcuni loro istinti somigliano ai moti dell’animo umano e magari ne hanno pure qualche traccia, ma in ogni caso i sentimenti, nel bene come nel male, sono tipici dell’uomo. Solo a lui la natura ha concesso doti come la prudenza, la preveggenza, la diligenza, la riflessione, mentre gli animali sono immuni da virtù e da vizi, che sono appunto una prerogativa umana. La loro stessa struttura, sia esterna che interna, è diversa da quella dell’uomo: la voce è inarticolata e incapace di tradursi in parola, la lingua non è in grado di sciogliersi in vari movimenti, la facoltà che li regge e li governa è poco raffinata e poco sviluppata, per cui le immagini e le percezioni delle cose, che stimolano gl’impulsi, sono agitate e confuse. Per questo i loro slanci e i loro turbamenti hanno una certa dose di violenza, ma non sono né paure né angosce, né avvilimenti, né ire, anche se vi somigliano, e perciò cessano presto e si mutano nel loro contrario: da eccessivamente furibondi o spaventati gli animali tornano a pascolare e subito ai loro fremiti e alle loro folli corse subentrano il sonno e il riposo. 4. Da quanto sin qui detto risulta evidente che l’ira differisce dall’irascibilità nella misura in cui l’ubriaco si differenzia dall’ubriacone e l’impaurito dal pauroso. Chi monta in collera non ha necessariamente un carattere collerico, e chi è iroso per natura può talora non essere adirato. Non sto qui a elencarti tutte le suddivisioni che con diversi nomi i Greci fanno dell’ira, anche perché in latino non ci sono vocaboli corrispondenti; del resto pure noi usiamo aggettivi come “mordace”, “sgarbato”, “collerico”, “rabbioso”, “strillone”, “intrattabile”, “aspro”, che sono tutti aspetti diversi dall’ira vera e propria: fra questi puoi anche mettere “brontolone”, che è una specie raffinata di irascibilità. Ci sono infatti ire che si limitano alle grida, altre ostinate e frequenti, altre avare di parole ma di fatto violente; alcune si sfogano con l’asprezza delle offese verbali, altre non vanno al di là della protesta e del disgusto, altre ancora sono profonde, cupe, introverse: mille sono insomma le sottospecie di questo male multiforme. 5. A questo punto, esaurita la prima parte della nostra ricerca sull’ira – se sia un male esclusivo dell’uomo, in che differisca dall’irascibilità e in quali forme si manifesti – chiediamoci se sia compatibile con la nostra natura, se presenti
qualche utilità e se, sia pure in misura ridotta, dobbiamo per forza tenercela dentro. Per vedere se sia conforme alla nostra natura basterà osservare attentamente l’uomo. In condizioni normali egli è senza dubbio il più mite fra tutti gli esseri: l’ira, invece, è la cosa più crudele che ci sia. L’uomo è portato ad amare più di qualunque altro essere: l’ira è l’esatto contrario dell’amore. L’uomo soccorre i suoi simili, l’ira distrugge tutto, l’uomo unisce, l’ira divide, l’uomo vuole essere utile agli altri, l’ira vuol nuocere, l’uomo è portato a prestare aiuto anche a chi non conosce, l’ira si getta nel baratro, pur di travolgere gli altri. Chi, dunque, si allontana di più dalla natura se non colui che scarica su di lei questo feroce e dannosissimo vizio come se fosse la più bella e la più perfetta delle sue creazioni? La natura non poteva inculcare nel pacifico cuore dell’uomo una tale passione, avida di vendetta e di castigo: la vita umana è fondata sul bene e sulla concordia, stretta in un vincolo di alleanza e di mutuo soccorso, non già per paura, ma in forza di un vicendevole amore. 6. «Allora la punizione non è necessaria, qualche volta?». Come no! A condizione che sia inflitta senza animosità e a ragion veduta, con l’intento non di nuocere, ma di guarire, dando però l’impressione di voler fare del male. Come per raddrizzare i giavellotti storti li mettiamo sul fuoco e strettili fra due zeppe li distendiamo, ma senza spezzarli, così col dolore, fisico o morale, correggiamo i caratteri corrotti dal vizio. Anche il medico, quando siamo lievemente indisposti, in un primo tempo cerca di rispettare le nostre abitudini quotidiane, limitandosi a regolare il cibo, le bevande, la nostra attività fisica, in modo, insomma, da rafforzare la nostra salute mutando semplicemente il nostro tenore di vita: queste restrizioni producono subito un miglioramento. Ma se a un certo punto si accorge che la regola e la misura imposteci sono insufficienti a debellare il male allora ci riduce o ci toglie qualche altro alimento; se poi neppure così ottiene un risultato ci proibisce di mangiare affinché il nostro corpo si liberi con l’astinenza. Infine se questi rimedi piuttosto blandi si sono rivelati inefficaci ci fa un salasso, cioè incide una vena e opera manualmente su quelle membra che danneggiano le vicine diffondendovi il male: nessuna terapia risulta dura se il suo effetto è salutare.7 Analogamente chi tutela le leggi e governa una città deve curare l’indole del popolo, prima con le parole, in modo benevolo e mite, inducendolo al bene e instillandogli il desiderio dell’onestà e della giustizia, l’odio dei vizi e la stima delle virtù; successivamente usi pure un linguaggio severo, ammonendo e rimproverando, e alla fine faccia ricorso alle pene, limitandosi alle più lievi e revocabili, e adotti quella capitale solo in casi estremi per i delitti più gravi, a condizione, però, che nessuno sia messo a morte se tale pena non giova anche al condannato. L’unica differenza fra il medico e il governante sta nel fatto che il primo, quando non c’è alcuna possibilità di salvargli la vita, dispensa ai pazienti la morte, una morte dolce e serena, il secondo infligge ai condannati una morte
disonorevole ed esposta al pubblico scherno, e non perché ciò gli faccia piacere (il saggio è alieno da una così disumana ferocia), ma affinché un tale esempio costituisca un monito per tutti e lo Stato stesso possa trarre un giovamento sicuro dalla morte di quelle persone che non hanno voluto giovare ad alcuno. Se dunque l’uomo, per sua natura, non è portato a punire, ne consegue che l’ira, bramosa com’è di castigare, non è conforme alla natura umana. Per dimostrarlo riporterò un ragionamento di Platone (non è un delitto tirare in ballo altri quando concordano con noi). L’uomo buono – egli dice – non fa del male, punire uno significa fargli del male, dunque all’uomo buono non si addice il punire e di conseguenza neppure l’ira, perché l’ira è legata alla punizione.8 Così se l’uomo buono non gioisce del castigo, non gioirà neppure di quel sentimento che comporta il piacere di castigare: ergo, l’ira non è conforme alla natura. 7. «D’accordo, l’ira non si addice alla natura, ma non è comunque accettabile, visto che spesso risulta utile? Intanto ci esalta e ci sprona, e poi in guerra il coraggio senza la spinta dell’ira non compirebbe alcuna nobile impresa: è necessario, infatti, che quella fiamma si accenda, perché solo in virtù di tale stimolo si può osare e lanciarsi contro il nemico. Per questo alcuni ritengono che l’ira non sia da eliminare del tutto e che si debba piuttosto moderarla togliendone il superfluo e riducendone la misura a quel tanto che possa tornare utile per dare slancio all’azione e caricare gli animi di quella forza e di quel vigore che diversamente verrebbero a mancare». Ebbene: cominciamo col dire che è più facile eliminare le passioni pericolose piuttosto che controllarle, tenerle lontane piuttosto che governarle dopo averle lasciate entrare, perché se riescono a sfondare le porte dell’animo è segno che sono più forti di chi presume di poterle poi dominare, e non si lascerebbero estirpare o diminuire. E poi anche la ragione, che tiene in mano le redini, esercita in pieno il suo potere solo finché rimane staccata dalle passioni, ma una volta che ne sia stata contagiata non è più in grado di controllarle. La mente, infatti, può bloccare il male, ma quando questo sia riuscito a violentarla e a indebolirla diventa schiava delle sue sollecitazioni. Ci sono in noi delle forze su cui la natura ci ha dato un potere iniziale, ma che se abbandonate a sé stesse finiscono con l’afferrarci e non ci consentono di tornare indietro. Come un corpo che precipita perde il controllo di sé, né può arrestare o rallentare la caduta perché questa è irrevocabile e perciò rende inutile qualsiasi ripensamento e la possibilità di non finire là dove prima era possibile non arrivare, così l’animo, se si abbandona all’ira, all’amore sfrenato e ad altre simili passioni, non è più in grado di trattenerne l’impeto, per cui fatalmente il peso stesso del vizio, che per natura tende verso il basso, lo trascina a precipizio nel fondo. 8. La cosa migliore, dunque, è rintuzzare subito il primo assalto dell’ira,
attaccandola alle radici e facendo di tutto per non cadere nelle sue grinfie, perché se si comincia a sbandare diventa poi difficile rimettersi in carreggiata: nulla può infatti la ragione una volta che quella follia ci si è infilata nell’animo, occupando col nostro beneplacito un margine di potere: da quel momento farà ciò che vorrà lei, non quel che vorremo noi. Bisogna quindi tenere il nemico lontano dai confini, perché se oltrepassa le porte saremo suoi prigionieri e nessun patto sarà possibile con lui. L’animo non è un cantuccio isolato che guardi le passioni dall’esterno impedendo loro di avanzare più del necessario, ma ne assume esso stesso i connotati e perciò non può sperare alcun aiuto da quella forza utile e salutare che è la ragione, visto che anch’essa è contagiata dal male e ridotta pressoché all’impotenza: come ho già detto, passione e ragione non sono due entità distinte e separate, che dimorino in due sedi diverse, esse altro non sono che due aspetti dell’animo, che muta ora verso il meglio, ora verso il peggio. Come può dunque la ragione, espugnata e schiacciata dal vizio, riscattarsi dall’ira? In che modo si libererà una volta che si trovi impastata in un ibrido e confuso miscuglio di elementi in cui i peggiori la fanno da padroni? «Ma alcuni, pur posseduti dall’ira, riescono a controllarsi». Sì, ma il controllo non impedisce all’ira di operare in qualche misura. Se uno non fa nulla di ciò che l’impulso gli suggerisce evidentemente non è l’ira che lo spinge, quell’ira a cui poc’anzi si pretendeva di far ricorso per certe imprese come a una forza maggiore della ragione. E allora la domanda è questa: l’ira è più forte o più debole della ragione? Se è più forte quale regola può imporle la ragione quando di solito sono i più deboli a ubbidire? E se è più debole che motivo avrebbe la ragione di far ricorso a lei quando è in grado di sistemare tutto da sola? Non ha senso, dunque, sostenere che alcuni, pur se afferrati dall’ira, si controllano e si frenano: in questo caso è l’ira stessa che si è raffreddata, perché se fosse nel pieno del suo bollore sarebbe più forte. «Ma come? Non è forse vero che alcuni proprio quando sono al colmo dell’ira lasciano andare indenni e intatti quelli che odiano, astenendosi dal fargli del male?». È vero, ma questo avviene perché all’ira si è sovrapposta un’altra passione, e la brama o il timore si sono appagati: non è stata la ragione a placare l’ira, ma la tregua, subdola e falsa, delle passioni. 9. Fra l’altro l’ira non ha in sé niente di utile e non è vero che accende l’animo in guerra: sarebbe come dire che la virtù non può sussistere senza la presenza del vizio. Non è l’ira che provoca quegli slanci, è la virtù, che s’innalza, che si stimola o si acquieta, a seconda della necessità, come accade coi giavellotti, la cui gittata dipende da chi li scaglia o da come è regolata la macchina preposta a quello scopo. «Aristotele dice che in guerra l’ira è necessaria, che nessuna vittoria è possibile se quella fiamma non accende e non riempie l’animo infondendogli
coraggio, ma che bisogna servirsene come di un soldato, non come di un capo». Non è vero: se quell’impulso ascolta la ragione, e la segue colà dove lei lo porta, non è più ira, poiché la prerogativa dell’ira è l’ostinazione, il persistere nel suo proposito; se invece la contrasta e, lungi dal calmarsi e dall’obbedire, si lascia trascinare dalla sua sfrenata ferocia, è un aiutante inutile, come un soldato che non rispetti il segnale della ritirata. Perciò se quello stimolo accetta di sottostare a certe regole bisogna dargli un altro nome, perché – ripeto – non è ira, o cessa di essere quella furia sfrenata e indomabile di cui appunto parlavo: l’ira fa solo disastri e non può essere annoverata fra i mezzi di soccorso. Dunque, o non è ira, o non serve: se uno, infatti, infligge un castigo non perché ne provi piacere ma solo perché lo ritiene necessario non può essere annoverato fra gli adirati. Soldato valido è quello che sa obbedire agli ordini, mentre le passioni non sono capaci né di servire né di comandare. 10. Per questo motivo la ragione non assumerà mai come aiutanti gl’impulsi folli e violenti, sui quali non ha alcun potere e che non sarebbe in grado di debellare se non opponendo loro altri impulsi equivalenti o simili, come il timore all’ira, l’ira all’indolenza, la cupidigia al timore. Stia lontana dalla virtù questa idea sciagurata di una ragione che fa ricorso ai vizi! Un animo che si sente protetto da passioni malvagie, che trova la sua forza solo nell’ira, che non sa lavorare senza la spinta di desideri smodati e starsene in pace senza timori, non potrà mai godere di una quiete sicura, ma sarà sempre agitato e indeciso: è come vivere sotto una tirannide, quando si è schiavi di una passione. E non è vergognoso ridurre tutte le virtù sotto la protezione dei vizi? Quale potere ha la ragione se non può fare nulla senza la passione e diventa uguale o simile a lei? Dov’è la differenza se la passione è sconsiderata perché priva di ragione e la ragione è debole senza la spinta della passione? Se l’una non può sussistere senza l’altra significa che sono uguali. Ma chi può sostenere una cosa del genere? Né serve obiettare che la passione è utile se controllata, in quanto quella utilità non deriva dalla sua intrinseca natura: poiché la passione non tollera il governo della ragione, se questa riuscirà comunque a indebolirla il risultato sarà che nocerà di meno. Come dire che una modica quantità fa meno male: ma sempre male fa. 11. «Ma l’ira, ripeto, è indispensabile nell’affrontare i nemici». E invece mai come in quel caso è inopportuna, perché è proprio allora che bisogna controllare tutti gl’impulsi e tenerli a freno. Cos’altro, infatti, rende deboli i barbari, pur così vigorosi e resistenti alla fatica, se non l’ira, che si ritorce rovinosamente contro sé stessa? Guarda i gladiatori: è la scaltrezza la loro difesa, l’ira invece li accèca e li disarma. A che serve poi l’ira, quando si può ottenere lo stesso risultato facendo ricorso alla ragione? È con l’ira che cattura la preda il cacciatore? Egli ne spia l’arrivo aspettandola al varco, e se gli sfugge le tiene dietro con accorto zelo:
ciò lo fa la ragione, non l’ira. E cosa fu se non l’ira a rovinare i Cimbri e i Teutoni,9 che a mille a mille, messo da parte il valore, erano calati giù dalle Alpi? Fu una tale strage che non ne scampò uno solo, sì che la fama stessa, non un messaggero, ne portò la voce alla loro gente. Anche se a volte abbatte e rovescia ciò che incontra sul suo cammino, assai più spesso l’ira causa la propria rovina. Quale popolo è più coraggioso dei Germani? Chi altrettanto irruente nell’attaccare il nemico? Chi più agguerrito di loro, che nascono e crescono fra le armi, a cui solo si dedicano senza curarsi di altro? Chi è più allenato a sopportare ogni disagio, visto che non si coprono più di tanto e non hanno riparo che li scampi dall’eterno rigore del clima? Con tutto ciò Ispani, Galli e soldati d’Asia e di Siria, pur così deboli in battaglia, li fanno a pezzi prima ancora che se ne veda una legione, sfruttando appunto nient’altro che la loro irascibilità. Ebbene, prova a dare una ragione, una disciplina, a quei corpi, a quegli animi che non conoscono agi, lusso e ricchezze. Ma basta a questo riguardo, e torniamo ai costumi romani. Con quale mezzo Fabio10 rianimò le forze indebolite della potenza di Roma se non temporeggiando, tirandola per le lunghe e sapendo aspettare il momento opportuno? Chi è in preda all’ira non conosce simili espedienti. Se Fabio avesse osato fare ciò che gli suggeriva l’ira, quella supremazia, che allora stava per declinare, sarebbe certamente finita. Egli invece non pensò ad altro che al bene dello Stato e dopo aver riflettuto che un’ulteriore perdita di soldati avrebbe provocato una catastrofe generale, mise da parte il dolore e la vendetta, preoccupandosi solo di sfruttare le occasioni favorevoli. Prima ancora che Annibale, egli sconfisse l’ira. E che dire di Scipione?11 Accantonati Annibale, l’esercito cartaginese e tutti coloro contro i quali avrebbe dovuto rivolgere la sua ira, portò la guerra in Africa e con una flemma tale che i maligni la presero per debolezza e indolenza. E l’altro Scipione?12 Se ne rimase a lungo tutt’intorno a Numanzia, sopportando serenamente il cruccio, suo e dello Stato, che per vincere Numanzia ci volesse più tempo di quel ch’era servito per piegare Cartagine. Ma intanto, serrandolo da ogni parte, chiuse al nemico ogni via di fuga, costringendolo a un suicidio generale. L’ira, dunque, non giova neppure in guerra perché è sconsiderata e mentre cerca di nuocere agli altri non vede i danni che può recare a sé stessa. Decisamente sicura è invece quella virtù che esamina a lungo e attentamente ogni cosa e sa controllarsi e procedere con calma e determinazione. 12. «Ma l’uomo virtuoso non deve adirarsi se gli malmenano il padre o gli rapiscono la madre?» No, non deve arrabbiarsi: deve difenderli e punire i colpevoli. Non credi che l’amore di un figlio sia già di per sé stesso un impulso sufficiente senza l’aggiunta dell’ira? E ti dirò di più. Quand’anche vedesse fare a pezzi suo padre o suo figlio neppure allora l’uomo virtuoso deve cedere alle lacrime e perdere il
controllo di sé. Queste sono cose che capitano alle donne quando le coglie il semplice sospetto di un pericolo. L’uomo virtuoso assolverà ogni suo compito senza minimamente turbarsi o trepidare, e nient’altro farà se non ciò che sia degno di un uomo buono e virtuoso. Vogliono uccidergli il padre? Lo difenderà. Gliel’hanno ucciso? Perseguirà i colpevoli, non per spirito di vendetta ma perché è suo dovere. O Teofrasto,13 quando dici così [che all’uomo virtuoso è lecito adirarsi], cerchi di screditare quelle norme che sono proprie degli animi forti, e, smessa la veste del giudice, porgi l’orecchio al volgo: visto che tutti si adirano quando casi di questo genere capitano ai propri cari, lasci che siano gli uomini a giudicare se sia giusto o non giusto quello che fanno; ciascuno, infatti, ritiene legittime le proprie passioni. «L’ira degli uomini virtuosi riguarda non già chi oltraggia i loro cari, quanto piuttosto l’offesa». Ma essi reagiscono così anche se non gli si porge l’acqua calda nel modo dovuto, se si rompe un bicchiere, se uno stivaletto si è sporcato di fango. Dunque non è l’amore filiale che suscita quell’ira, è la debolezza, come accade ai bambini, che piangono tanto la perdita dei genitori quanto quella delle noci. Chi monta in collera per un’offesa recata ai propri cari compie un gesto d’impotenza, non di pietà: è il dovere che deve spingerci e guidarci – come un imperativo categorico – in difesa dei genitori, dei figli, degli amici, dei concittadini, con giudizio e con prudenza, non con rabbiosa impulsività: questa è la condotta, bella e dignitosa, che si deve tenere. Nessuna passione, infatti, è assetata di vendetta più dell’ira, la quale proprio per questo in realtà non riesce a punire: impetuosa e dissennata, come in genere tutte le passioni, si dà la zappa sui piedi, poiché la troppa fretta le impedisce di raggiungere il fine che si propone. Perciò non ha mai prodotto nulla di buono, né in pace né in guerra: rende infatti la pace simile alla guerra, dimentica che quando si combatte è battaglia da entrambe le parti, e, incapace di dominare sé stessa, finisce col cadere sotto il dominio altrui. Il fatto che talvolta le passioni conseguano un buon risultato non deve spingerci a praticarle: anche le febbri alleviano certe indisposizioni, tuttavia è meglio non averne: dover la salute a una malattia è una ben detestabile cura. Lo stesso dicasi dell’ira, la quale, anche se a volte porta un giovamento del tutto inaspettato, come un veleno, una caduta, un naufragio, non per questo è da ritenersi salutare: anche dalla rovina può nascere la salvezza. 13. E ora ascolta. I beni – quelli che si devono possedere – quanto più sono grandi tanto più sono buoni e desiderabili. Se la giustizia è un bene non migliora se le si toglie qualcosa; se la fortezza d’animo è un bene non è desiderabile che perda un po’ del suo vigore. Ora, se l’ira è un bene, il suo accrescimento dovrebbe renderla migliore: questo è appunto ciò che vuole chi possiede qualcosa di buono. Ma un aumento dell’ira non porta alcun giovamento, ergo la
sua stessa esistenza è perfettamente inutile. D’altra parte ciò che aumentando diventa un male non può definirsi un bene. «Ma l’ira è utile, perché rende più energici, più combattivi».14 Per questo anche l’ubriachezza: chi beve troppo diventa spavaldo, arrogante, e molti se sono un po’ ebbri maneggiano meglio le armi. Ma se si ragiona così bisogna dire che anche il delirio e la pazzia sono utili, visto che spesso il furore rende più forti. E allora? La paura non rende a volte audaci per reazione? E il timore della morte non spinge a battersi anche i più indolenti? Ma l’ira, l’ubriachezza e la paura, come altri stati emotivi di questo genere, sono impulsi vergognosi e momentanei, che tirano un po’ su un animo pigro e codardo, ma nulla aggiungono alla virtù, che non ha bisogno di vizi. L’ira rende più forte soltanto chi non potrebbe diventarlo senza l’impulso di quella passione. Essa, dunque, non aiuta la virtù, la sostituisce. Ma poi se l’ira fosse un bene si accompagnerebbe con tutti gli uomini saggi. D’altra parte i bambini, i vecchi e i malati sono irritabilissimi, i deboli lagnosi per natura. 14. «L’uomo virtuoso, dice Teofrasto, non può non adirarsi contro i malvagi». Se fosse così si dovrebbe concludere che quanto più uno è buono tanto più è soggetto all’ira. E invece guarda tu se non è tutto il contrario: più uno è buono più è tranquillo, libero dalle passioni e incapace di odiare chicchessia. Per quale motivo l’uomo virtuoso dovrebbe odiare i malfattori quando è l’errore che li spinge al male? Chi ha senno e giudizio non odia chi sbaglia, altrimenti dovrebbe avere in odio sé stesso, se pensa alle cattive azioni che compie anche lui e a tutte quelle che dovrebbero essergli perdonate. Un giudice onesto non emette due sentenze diverse a seconda che la causa riguardi lui o altri. Voglio dire che nell’intimo nessuno potrà mai assolvere sé stesso, e chi si dichiara innocente guarda al testimone, non alla propria coscienza. Quanto è più umano mostrarsi mite e paterno con quelli che sbagliano, e non punirli, ma distoglierli dal male! Se c’imbattiamo in uno che si è smarrito per i campi dobbiamo rimetterlo sulla sua strada, non mandarlo alla malora. 15. Chi compie il male, dunque, è uno che sbaglia, e bisogna correggerlo o con l’ammonimento, o con la forza, con dolcezza o con durezza, al solo scopo di migliorarlo, per il bene suo e degli altri, punendolo, se occorre, ma senza ira, come si fa con un malato. «Ma i malfattori sono incorreggibili, in loro non c’è un minimo di bontà, nulla che possa far sperare in un cambiamento!». Allora si isolino dal contesto sociale, quando infettano tutto ciò su cui mettono le mani, e si distolgano dal male nell’unico modo che si ritenga possibile, ma senza odio. Perché, infatti, dovrei odiare una persona a cui faccio del bene sottraendolo alla sua rovina? Si odiano forse le proprie membra quando si è costretti a farsele amputare? In quel caso non si può parlare di ira: si tratta di
un rimedio penoso. Abbattiamo i cani rabbiosi, uccidiamo il bue selvaggio e feroce, trafiggiamo col ferro le bestie malate perché non infettino il gregge, sopprimiamo i parti mostruosi, anneghiamo persino i nostri figli se sono nati inabili e deformi, ma non è l’ira, è la ragione che c’induce a separare gli esseri inutili da quelli sani.15 Non l’ira deve spingerci a infliggere una punizione, dal momento che la pena serve a correggere, e tanto più se imposta con giudizio. Per questo Socrate disse al suo schiavo: «Se non fossi adirato ti picchierei».16 E rinviò il castigo a quando l’ira gli fosse passata, limitandosi, per il momento, a correggere sé stesso. Ora, se Socrate non volle compiere quel gesto sotto l’effetto dell’ira, perché non dev’essere possibile trovare un uomo che sia capace di frenare le proprie passioni? 16. Nel castigare un malfattore non si deve dunque essere adirati, giacché se l’ira è un vizio dell’animo non è giusto correggere un errore con un altro errore. «Ma come? Non devo adirarmi con un brigante? Con un avvelenatore?». Assolutamente no. Io mi arrabbio forse con me stesso quando mi tolgo del sangue facendomi un salasso? Quale che sia la pena la considero come una medicina. Così a uno dirò: «Tu sei ancora un principiante, sbagli spesso, ma non ti sei smarrito del tutto: per correggerti basterà un rimprovero, prima in privato, poi, se necessario, in pubblico». A un altro: «Tu sei già andato troppo avanti per poter essere guarito con una semplice ammonizione: ti metterò alla gogna, così ti calmerai». E ancora: «Tu devi essere punito con qualcosa di più forte, che ti si imprima come un marchio: sarai mandato in esilio, in luoghi lontani e sconosciuti». Oppure: «Tu sei un recidivo, un malvagio così incallito che per te ci vogliono pene ancora più dure: la prigione e le catene». Infine: «Tu non guarirai mai, passi da un delitto all’altro, e non ti spinge un qualche motivo specifico, che pur non manca ai malvagi, ma solo la volontà di far male, e già questo ti basta. Sei tanto intriso di malvagità, ce l’hai talmente nel sangue, così radicata nelle viscere, che bisogna strappartele per liberarti, e tu stesso, del resto, sciagurato, da molto tempo pensi di farla finita. Dunque ti farò un favore liberandoti da questa follia che tormenta te e gli altri: dopo tutti i supplizi in cui ti sei avvoltolato, fatti a te stesso e agli altri, ti darò l’unica cosa buona che ti rimane: la morte». Perché dovrei essere adirato con uno a cui posso dispensare un così grande bene? Talvolta uccidere è la più alta forma di pietà. Se fossi un medico, esperto e saggio, e mi trovassi in un ospedale, o nella casa di un ricco, non prescriverei gli stessi farmaci a tutti gl’infermi, se sono afflitti da malattie diverse. Così, se dovessi prendermi cura di una città, visto che i difetti sono tanti e che ogni animo ha i suoi, prescriverei un rimedio specifico per ciascuno: a chi un rimprovero, a chi un soggiorno in un paese lontano, a chi una qualche afflizione, a chi la povertà, a chi la spada. Analogamente, se dovessi indossare la toga scura del magistrato e convocare con squilli di tromba l’assemblea, mi recherei in tribunale non con aria furiosa e ostile, ma col volto
della legge, pronuncerei le formule di rito con voce calma e grave, non piena di rabbia, ordinerei che si proceda con tono severo ma non adirato. E quando dovessi imporre di tagliare la testa a un criminale, di cucire in un sacco un parricida, d’infliggere il supplizio militare, o di gettare dalla rupe Tarpeia un traditore o un nemico dello Stato, non sarei spinto dall’ira ma manterrei lo stesso animo e lo stesso volto di quando abbatto un serpente velenoso o un altro animale del genere.17 «Ma bisogna pur essere adirati per punire qualcuno!». Che cosa?! Come può la legge adirarsi contro individui che non conosce, che non ha mai visto e che non vorrebbe nemmeno ch’esistessero? La legge non si adira, sancisce: chi l’applica deve assumerne lo spirito, il senso vero e profondo. Se si ritiene giusto che un uomo buono si adiri per le azioni cattive, si dovrebbe anche ammettere che provi invidia per la fortuna che capita ai malvagi: cosa c’è di peggio, infatti, che il veder prosperare e godere della benevolenza della sorte degli individui per i quali non si potrebbe inventare un destino abbastanza crudele? Eppure l’uomo virtuoso non invidierà mai le fortune di costoro, così come riuscirà a guardare i loro misfatti senza adirarsi: il buon giudice condanna le azioni riprovevoli, ma non odia chi le compie. «E che dunque? L’uomo saggio che si trovi di fronte a fatti del genere non ne sarà toccato? Non si commuoverà più di quanto non sia solito?» Sì, certo: proverà un qualche lieve e sottile turbamento, perché – come dice Zenone – anche nel saggio, quando la ferita si è rimarginata, resta la cicatrice. Ma sarà solo un sospetto, come l’ombra di una passione, come un fantasma, nient’altro. 17. Aristotele dice che certe passioni, se bene utilizzate, sono come le armi. Lo sarebbero se al pari di quelle si potessero prendere e deporre a proprio piacimento. Ma le armi di cui parla Aristotele, attribuite alla virtù, combattono da sole, non aspettano una mano: si sostengono da sé, non sono sostenute.18 Non abbiamo bisogno di altri strumenti: la natura ci ha dato la ragione, e questa ci basti. È un’arma solida, durevole, ubbidiente, non a doppio taglio, tale che possa ritorcersi contro il suo padrone. Essa è di per sé sufficiente non solo a prevedere le cose ma anche a realizzarle. Nulla di più insensato, dunque, se la ragione chiedesse aiuto all’ira, lei stabile a una incostante, lei leale a una perfida, lei sana a una malata. D’altronde anche in quelle azioni che sembrano richiedere il concorso dell’ira la ragione è sempre molto più forte: quando infatti ha deciso che una cosa dev’essere fatta va sino in fondo, poiché niente può farle cambiare idea se non lei stessa, sicché una volta che ha preso una decisione lì resta. Spesso l’ira è vinta dalla compassione, perché la sua forza è fittizia, un gonfiore sterile: soltanto all’inizio è violenta, come certi venti che si levano dal suolo e mulinellano sui fiumi e sulle paludi, impetuosi ma di breve durata. Comincia con grande foga ma poi perde vigore, fiaccandosi prima del tempo, e
dopo avere architettato crudeltà a tutto spiano e supplizi mai visti e sentiti, quando viene il momento di mettere in atto i suoi folli progetti, si ammoscia e si spezza. La passione crolla subito, la ragione è costante. Peraltro non è raro che l’ira, pur se ostinata, quando i condannati a morte sono parecchi, smetta di uccidere dopo due o tre esecuzioni. I suoi primi colpi sono incisivi, come i denti velenosi dei serpenti quando si levano dai loro giacigli, che poi, però, a furia di mordere, diventano innocui. Perciò a delitti uguali, compiuti sotto l’impulso dell’ira, non corrispondono pene uguali e spesso uno meno grave paga di più perché commesso in una fase più recente [in cui si ha maggiore consapevolezza]. L’ira, poi, è sempre contraddittoria: ora trabocca più di quanto non serva al suo scopo, ora, invece, non supera il limite che si è proposto: procede infatti a casaccio, non segue un metro di giudizio; insensibile a ogni voce, non lascia spazio nemmeno alla difesa, tenendolo tutto per sé, e anche se sbaglia non accetta che le sia tolto l’errore. 18. Mentre in un processo la ragione dà alle due parti il tempo [di esprimere il loro punto di vista], e poi ne chiede un poco per sé onde accertare la verità, l’ira è frettolosa. La ragione vuol prendere la decisione giusta, l’ira vuole che sembri giusta la decisione che ha già preso in partenza. La ragione si tiene stretta ai fatti, l’ira si perde in divagazioni inutili e che niente hanno a che vedere con l’oggetto del dibattimento. La esasperano un volto troppo sereno, una voce troppo brillante, un linguaggio franco, un abbigliamento elegante, una Difesa ampollosa e il favore popolare. Spesso condanna l’imputato solo perché le è antipatico il difensore; anche se la verità balza evidente ai suoi occhi ama e sostiene l’errore; non vuole essere contraddetta e se vede vacillare le sue argomentazioni e le riconosce sbagliate ritiene più onorevole ostinarsi nell’errore piuttosto che cedere. Gneo Pisone,19 per tenerci ai tempi nostri, fu uomo di pochi vizi ma cattivo, e scambiava il rigore per fermezza d’animo. Ebbene, un giorno, in preda all’ira, ordinò che fosse messo a morte un soldato perché, partito con un commilitone per un rifornimento di viveri, era tornato senza di lui e perciò pensava che lo avesse ucciso. Il soldato, non essendo in grado di dimostrare che non era vero, chiese a Pisone di mandare qualcuno a cercare il compagno e di rinviare l’esecuzione. Ma quello non ne volle sapere. Il condannato fu condotto fuori del recinto e già stava per essere decapitato quando improvvisamente apparve il commilitone che si presumeva fosse stato assassinato. A quel punto il centurione incaricato dell’esecuzione ordinò alla guardia di riporre la spada e ricondusse il condannato da Pisone per rimettergli nelle mani la sua innocenza: al soldato l’aveva già restituita la buona sorte. I due militari, circondati dai compagni e abbracciati l’uno all’altro, si avviano fra l’esultanza di tutto l’accampamento. Pisone, allora, furibondo, sale sul palco e ordina che siano messi a morte entrambi, sia il soldato che non aveva ucciso, sia quello che non era morto. Quale atto più indegno di questo? Poiché uno si era rivelato innocente ne
morivano due. Ma Pisone ve ne aggiunse un terzo: ordinò infatti che fosse giustiziato anche il centurione che aveva ricondotto il condannato. Così, per l’innocenza di uno, furono schierati alla morte nel medesimo posto tre uomini. Oh, quanto è scaltra l’ira nell’inventare motivi per infuriarsi! «Ordino la tua morte perché sei stato condannato; la tua perché sei stato la causa della sua condanna; la tua, perché, incaricato di eseguire la sentenza, non hai ubbidito al tuo comandante». Così Pisone riuscì a compiere tre delitti, perché non ne aveva trovato nessuno. 19. L’ira ha questo di male: non vuole essere guidata, protesta anche contro la verità, se è contraria al suo volere, investe le sue vittime con grida, schiamazzi e movimenti scomposti di tutto il corpo, aggiungendovi ingiurie e insolenze. Queste cose la ragione non le fa, ma se è necessario, calma e silenziosa, demolisce dalle fondamenta interi quartieri, stermina famiglie con mogli e figli se sono funeste allo Stato, ne abbatte le case e le rade al suolo, cancella i nomi di coloro che attentano alla libertà: tutto questo senza digrignare i denti, senza scuotere il capo, senza far nulla che possa intaccare minimamente la dignità di un giudice, il cui volto dev’essere quanto mai sereno e impassibile, specialmente quando pronuncia sentenze severe. «Che bisogno hai di morderti le labbra», dice Geronimo,20 «quando stai per colpire qualcuno?». E cosa avrebbe detto se avesse visto un proconsole saltar giù dalla tribuna, strappare di mano i fasci ai littori, lacerare le proprie vesti perché ci voleva troppo tempo per stracciare quelle degli altri? A che serve rovesciare la tavola, fracassare bicchieri, dare del capo nelle colonne, strapparsi i capelli, prendersi a pugni sui fianchi e sul petto? Ti pare grande quell’ira che non potendo abbattersi sugli altri tanto presto come vorrebbe si sfoga contro sé stessa? Per questo chi s’infuria è trattenuto dai vicini e invitato a calmarsi. Nulla di tutto ciò fa una persona assennata quando, senza adirarsi, infligge a uno un giusto castigo. Spesso un giudice assolve un malfattore che è stato colto in flagrante: se vede che si pente e lascia bene sperare, o se capisce che la malvagità non viene dal profondo ma è rimasta, come si dice, attaccata alla superficie dell’animo, non punisce il colpevole, convinto che in quel caso l’impunità non può nuocere né a chi la riceve né a chi la concede. Talvolta mostrerà maggiore indulgenza verso i grandi delitti che non verso i più lievi, quando quelli siano stati commessi per errore, non per crudeltà, e questi nascondano una malizia subdola e inveterata; infliggerà pene diverse per un medesimo delitto quando uno dei colpevoli l’abbia commesso per disattenzione, l’altro con l’intento di nuocere. Nel comminare le pene terrà sempre conto che alcune sono volte a correggere i cattivi, altre a eliminarli, e più che al passato guarderà al futuro, perché, come dice Platone, «un uomo assennato punisce non perché si è commesso un errore ma affinché non lo si commetta più: il passato non si cancella, il futuro si può prevenire, impedendo [che si verifichino cose sgradite»].21 E quando renderà
pubblica un’esecuzione capitale il giudice lo farà per dimostrare chiaramente a tutti quale sia la fine riservata alla malvagità: non tanto perché i colpevoli muoiano, quanto perché la loro morte serva di esempio e di dissuasione agli altri. Vedi bene, dunque, come debba essere assolutamente libera da qualsiasi turbamento una persona a cui sia affidato il compito di soppesare e valutare casi di questo genere, un compito che dev’essere assolto con la massima diligenza, perché si tratta di decidere della vita e della morte: è da incoscienti mettere la spada della giustizia nelle mani di un iracondo.22 20. Non si deve neppure pensare che l’ira possa contribuire in qualche modo alla grandezza d’animo, perché quella non è grandezza, è gonfiore, spocchia, ampollosità: anche i corpi ingrossati da un eccesso di liquido marcio sono tali non perché semplicemente cresciuti ma perché gravati da un soprappeso pestifero. Molti, il cui animo esaltato vola al di sopra di ogni pensiero umano, credono di sprigionare chissà quali cose grandi e sublimi, ma quella è una crescita sterile, destinata a crollare, come tutto ciò che è inconsistente e senza fondamento. Così è l’ira: poggia sul vuoto, è volubile, non nasce da qualcosa di solido e di duraturo, ed è tanto lontana dalla grandezza d’animo quanto la temerarietà dal coraggio, la presunzione dalla sicurezza, il malumore dall’austerità, la crudeltà dal rigore. C’è molta differenza fra nobiltà d’animo e superbia. L’ira non costruisce nulla di grande e di bello, anzi, io credo che chi ne è affetto si renda conto di questa sua debolezza, tipica di un animo insoddisfatto e avvilito, e se ne lamenti, così come un malato che abbia il corpo cosparso di piaghe soffre e geme se qualcuno lo tocca. Per questo l’ira è un vizio tipicamente femminile e bambinesco. «Ma v’incappano anche gli uomini». Infatti: e sono appunto quelli che hanno un carattere effeminato e puerile. D’altra parte chi è in preda all’ira non dice a volte parole che per un profano sembrano veramente provenire da grandezza d’animo? Come l’espressione, crudele e detestabile, «Mi odino purché mi temano». Una massima che risale ai tempi di Silla.23 Non so quale delle due cose che si augurava [l’autore di quella frase] sia peggiore, se l’essere odiato o l’essere temuto. «Mi odino»: dunque [chi la pronunciava] era consapevole che sarebbe stato odiato, insidiato e magari ucciso. Perciò avrebbe dovuto aggiungere: «Che gli dèi mi stramaledicano per aver trovato una così odiosa soluzione!». «Mi odino, purché…». Purché che cosa? Purché mi obbediscano? No. Purché mi approvino? No. E allora? «Purché mi temano». Io a questo prezzo non vorrei neppure essere amato. Pensi che queste siano parole di un animo grande? Ti sbagli: questa non è grandezza d’animo, è mostruosità. Non devi credere a uno che parla sotto l’effetto dell’ira, perché per quanto baccano faccia, per quanto grandi siano le sue minacce, dentro è il più pavido
uomo che ci sia. E non devi credere nemmeno a quel modello di eloquenza che è lo storico Tito Livio, quando parla di un «uomo d’animo grande più che d’animo buono», perché queste due doti sono inscindibili: la grandezza d’animo comporta la bontà, e per me è qualcosa di solido e incrollabile, che alberga nel profondo, un che di compatto e di stabile, quale non può trovarsi in un malvagio: costui, infatti, può essere agitato, terribile, funesto, ma non sarà mai magnanimo, perché la magnanimità si regge appunto sulla bontà. I malvagi sembrano grandi all’apparenza, nel loro modo di parlare, negli sforzi che fanno, in ogni gesto esteriore; potranno anche dire cose molto apprezzabili da alcuni, come Caligola, il quale, adirato contro il cielo perché coi suoi tuoni disturbava i pantomimi (che sapeva imitare con una cura maggiore di quella che mostrava nel guardarli) e perché con i fulmini (piuttosto dubbi, in verità) gettava la paura e lo scompiglio nelle sue gozzoviglie, sfidò Giove a duello, sino all’ultimo sangue, addirittura, gridando quel famoso verso di Omero: Uccidimi, o io ucciderò te.24 Quanto fu pazzo! Pensò che neppure Giove potesse toccarlo, o che lui potesse nuocere addirittura a Giove. Sono convinto che quella battuta non sia stata estranea alla congiura ordita contro di lui, che anzi abbia contribuito non poco a infiammare gli animi dei cospiratori, ai quali, evidentemente, dovette sembrare il colmo della pazienza sopportare un uomo che non sapeva sopportare Giove. 21. Nulla di grande, dunque, nulla di nobile ha l’ira, nemmeno quando disprezza boriosamente gli uomini e gli dèi. E se sembra che possa indurre qualcuno alla magnanimità si dovrebbe pensare la stessa cosa del lusso, visto che anch’esso ama la magnificenza: si stende infatti sull’avorio, si veste di porpora, si copre d’oro, muove grandi distese di terre, imprigiona i mari, devìa il corso dei fiumi, s’inventa ingegnose cascate e boschi sospesi per aria. Idem dell’avarizia: se ne sta sdraiata su mucchi d’oro e d’argento, coltiva campi così vasti che prendono i nomi di province e dà da amministrare terreni più estesi di quelli toccati in sorte ai consoli. E a questo punto si dovrebbe pensare che anche l’amore sfrenato possa indurre alla magnanimità, quando vediamo alcuni attraversare a nuoto gli stretti,25 castrare intere schiere di fanciulli, finire sotto la spada di un marito ridendosene della morte. Lo stesso dovrebbe dirsi dell’ambizione: questa, infatti, non si accontenta di rivestire una carica all’anno, ma se potesse vorrebbe occupare tutti i giorni del calendario con un solo nome e inciderlo su apposite lapidi da piazzare in ogni angolo della terra. Tutte codeste passioni possono crescere quanto vogliono e abbracciare il mondo, ma sono e resteranno sempre anguste, basse e meschine: solo la virtù vola in alto, sino a toccare il cielo, né c’è alcunché di grande se non è anche mite e sereno.
Libro secondo 1. L’argomento del primo libro, caro Novato, era abbastanza facile, come lo è lo scendere lungo i pendii dei vizi. Ora dobbiamo affrontare questioni più sottili, cominciando col chiederci se l’ira sia frutto di un convincimento interiore o se invece nasca da un impulso spontaneo, come quei fenomeni che ci colgono all’improvviso senza alcuna iniziativa e consapevolezza da parte nostra. È da qui che dobbiamo partire, dal basso, per portare poi la discussione a livelli più alti e più degni, come avviene nel nostro corpo, in cui prima si dispongono ordinatamente le ossa, i nervi e le articolazioni, che non hanno nulla di bello a vedersi, ma che servono a sostenere tutte le parti vitali, poi si forma ciò che si conviene alla figura e all’aspetto esteriore, infine, dopo tutte queste cose, quando il corpo è ormai completo, si diffonde il colorito, che costituisce la principale attrattiva. Ora, dato per scontato che l’ira insorge nel momento in cui si riceve l’offesa, si tratta di vedere se la reazione sia istantanea e se lo sfogo avvenga con o senza la partecipazione e la consapevolezza dell’animo. Io credo che l’ira da sola non possa osare nulla e che per agire abbia bisogno del consenso dell’animo. Non è possibile, infatti, che un impulso spontaneo, insorto senza la nostra consapevolezza e la nostra volontà, possa concepire l’idea di aver ricevuto un’offesa e il desiderio della vendetta, collegando insieme i due elementi [in un rapporto logico], che cioè non dovevamo essere offesi e che dobbiamo vendicarci. L’impulso è semplice, la reazione è molteplice, poiché comporta diversi fattori: la percezione del fatto, lo sdegno, il senso di condanna e di vendetta, cose che non possono sussistere se l’animo, che ne è stato colpito, non ha dato loro il suo assenso. 2. «Mi chiedo a cosa miri questo tuo ragionamento». A farti sapere che cos’è l’ira. Se essa esplode senza che noi lo vogliamo non cederà mai alla ragione. Infatti tutti i moti che nascono al di fuori della nostra volontà sono inevitabili e insopprimibili, come il brivido che insorge a un getto di acqua fredda, la ripugnanza a certi contatti, il rizzarsi dei capelli alle cattive notizie, l’arrossire alle parole sfacciate, la vertigine di fronte a un precipizio. Poiché nessuna di queste reazioni è sotto il nostro controllo non esiste ragione che possa impedirle. L’ira, invece, può essere scacciata con una buona educazione, in quanto è un vizio volontario dell’animo, non una di quelle reazioni che derivano dal nostro stato di natura e a cui perciò sono soggetti anche i più saggi: tale è appunto quell’iniziale moto dell’animo che ci turba alla sola idea di essere stati offesi, e che ci coglie anche nel corso di divertenti spettacoli teatrali o alla lettura di storie del passato. Così, ad esempio, ci sentiamo presi da un moto di rabbia contro Clodio quando caccia in esilio Cicerone, o contro
Antonio che lo fa assassinare.26 E chi non si indigna per le violenze di Mario o le proscrizioni di Silla? Chi non prova avversione per Teodoto e Achilla, o per quel fanciullo che osò commettere un crimine tutt’altro che puerile?27 Spesso ci eccitiamo nell’ascoltare un canto, al ritmo di una melodia o al suono marziale delle trombe, ci turbiamo di fronte a un quadro raccapricciante, alla vista di supplizi anche se ben meritati, ed è per questo che sorridiamo a chi ci sorride, ci rattristiamo davanti a una folla di persone tristi, ci entusiasmiamo di fronte alle contese altrui. Ma tutti questi moti non sono riconducibili all’ira, così come non ha niente a che vedere con la tristezza il corrugare la fronte quando il mimo rappresenta un naufragio, e non è paura quel brivido che afferra il lettore quando Annibale, dopo Canne, assedia le mura di Roma. Tutti questi sono moti involontari dell’animo, sintomi che preludono alle passioni ma che non possono considerarsi propriamente delle passioni. Così lo squillo di una tromba, in un sereno clima di pace, fa sussultare un veterano che indossa ormai la toga da cittadino, e uno strepito d’armi ridesta gli ardori bellicosi in un cavallo da guerra. Dicono che Alessandro, udendo cantare Senofanto, ponesse mano alla spada.28 3. Non bisogna dunque chiamare passione nessuno di quegli impulsi involontari, i quali sono per così dire subìti dall’animo più che provocati. La passione consiste non nel turbamento che si prova di fronte a qualcosa d’imprevisto, ma nel lasciarsi prendere e trascinare da quella sensazione, assecondando un impulso del tutto casuale. È infatti errato pensare che il pallore del viso, lo sgorgare delle lacrime, l’eccitazione dovuta allo stimolo del liquido sessuale, un sospiro profondo, un subitaneo sguardo acceso più del consueto e altri fenomeni del genere siano la manifestazione di uno stato d’animo e perciò sintomi di una passione: chi così crede non capisce che sono impulsi del corpo. Anche l’uomo più coraggioso si fa pallido in volto mentre indossa le armi, al soldato più temerario tremano un poco le ginocchia al segnale della battaglia, persino il comandante supremo ha come un tuffo al cuore prima dello scontro e l’oratore più eloquente, quando si appresta a parlare, sente gelarsi le estremità del corpo. L’ira non solo dev’essere provocata ma ha bisogno di sfogarsi, perché è un impulso violento, e non c’è violenza senza l’avallo dell’animo: non è infatti possibile concepire a sua insaputa un’idea di vendetta e di punizione. Se uno si è sentito offeso e ha meditato di vendicarsi, ma subito, per un motivo qualsiasi, si è trattenuto e calmato non si può dire che il suo sia stato un moto d’ira, dal momento che ha obbedito alla ragione: l’ira la ragione la scavalca e se la trascina dietro. Insomma, quel turbamento dell’animo provocato dalla botta iniziale dell’offesa non è ira più di quanto non lo sia la percezione che se n’è avuta; ira è invece il momento successivo, quando quell’impulso non si limita a registrare la percezione dell’offesa ma l’approva, e l’animo, eccitato, muove alla vendetta con volontà e determinazione. Nessuno ha mai messo in dubbio che il
timore provochi la fuga, l’ira, l’attacco: vedi dunque se uno possa assalire o schivare qualcosa senza l’assenso della ragione. 4. Ora, affinché tu sappia come nascono, come crescono e come si esasperano le passioni, ti dirò che il moto iniziale è involontario, una sorta di preparazione o un’avvisaglia della passione; il secondo si accompagna a una volontà ancora capace di controllo, cioè l’idea che se sono stato offeso devo vendicarmi, o che chi mi ha offeso deve essere punito; il terzo ha ormai perso ogni freno e, soggiogata la ragione, esige la vendetta a ogni costo, anche se non necessaria. Ora al primo impulso non possiamo sottrarci con la ragione, così come non possiamo evitare quelle reazioni fisiche di cui abbiamo parlato, o di sbadigliare quando sbadigliano gli altri, di chiudere gli occhi quando qualcuno ci punta contro le dita: questi sono moti spontanei e quindi la ragione non può vincerli; forse possono attenuarli l’abitudine e una costante attenzione. Il secondo impulso, che nasce dalla riflessione, può essere vinto dalla riflessione stessa. 5. Ora dobbiamo chiederci se chi abitualmente è crudele e gode del sangue umano sia soggetto all’ira quando uccide una persona da cui non ha ricevuto né pensa di aver subìto alcuna offesa: come Apollodoro o Falaride. 29 Ebbene, questa non è ira, è ferocia, perché ha come fine il male per il male, al punto che chi lo compie, lungi dal vendicare un’offesa, che non ha ricevuto, accetterebbe di essere offeso pur di poter nuocere ad altri, e infligge frustate e torture non per vendicarsi ma per puro godimento. «Ma come può accadere ciò?». In realtà la ferocia è riconducibile all’ira, nel senso che questa, quando sia praticata costantemente sino alla sazietà e dopo che dall’animo siano stati banditi ogni residuo di clemenza e ogni vincolo di convivenza umana, sfocia appunto nella crudeltà; perciò chi infierisce sugli altri come per svago, ridendo, godendo e provandone un grande piacere, è molto dissimile da uno che agisce sotto l’impulso dell’ira. Dicono che Annibale, vedendo una fossa piena di sangue umano, esclamasse: «Che bello spettacolo!». E ancora di più ne avrebbe goduto se il sangue avesse riempito un lago o l’intero corso di un fiume! In verità non deve sorprendere che godesse di un tale spettacolo, visto ch’era nato in mezzo al sangue e fin da bambino aveva assistito a stragi su stragi. Per vent’anni, favorito dalla sorte, avrebbe saziato quella sua crudeltà beandosi alla vista di tali spettacoli: al Trasimeno, a Canne e finalmente presso la sua Cartagine. In tempi recenti Voleso,30 proconsole d’Asia sotto il divino Augusto, dopo aver fatto massacrare a colpi di scure in un solo giorno trecento persone, camminando tra i cadaveri con fiero cipiglio, come se avesse compiuto un’azione magnifica e stupenda, in lingua greca esclamò: «Soltanto un re avrebbe potuto compiere una simile impresa!». E che avrebbe fatto se re lo fosse stato davvero? Questa non era ira, ma un male più grave e inguaribile.
6. «Sì, però l’uomo virtuoso, com’è portato alle azioni oneste, così deve adirarsi di fronte a quelle disoneste». Già. È come dire che la virtù si comporta ora in un modo ora in un altro, che è nobile ma anche meschina. Questo lo dice chi vuole esaltarla e umiliarla, perché gioire per una bella azione è un sentimento elevato e che fa onore, mentre adirarsi per un errore altrui è cosa ignobile e gretta. La virtù non si permetterà mai di imitare quei vizi che reprime; il suo compito è quello di tenere a freno proprio l’ira, che non è per nulla migliore dei misfatti contro i quali si scaglia, e di cui anzi il più delle volte è di gran lunga peggiore. Gioire e rallegrarsi sono le prerogative specifiche e naturali della virtù; l’adirarsi è contrario alla sua dignità, e così pure il rattristarsi: l’ira, invece, si accompagna alla tristezza, in cui sempre ricade dopo ogni suo atto, vuoi per rimorso, vuoi per aver fallito lo scopo. D’altra parte, se fosse vero che il saggio si adira contro i misfatti, quanto più questi sono gravi tanto più grande e più frequente dovrebbe essere la sua ira, sicché egli non sarebbe soltanto uno che monta in collera saltuariamente, ma un irascibile abituale. Se dunque si ritiene che nell’animo del saggio non possano albergare né un’ira grande né un’ira frequente, perché non liberarlo del tutto da questa passione? Non si può infatti fissargli una misura a seconda che si arrabbi per l’azione di questo o di quello, altrimenti se si adira allo stesso modo per delitti diversi è un saggio ingiusto, se va in escandescenze a ogni misfatto è un uomo irascibilissimo. 7. Nulla è più sconveniente e contrario alla natura del saggio che il far dipendere i suoi sentimenti dalla malvagità altrui. Se fosse così quel grande Socrate non sarebbe mai potuto rientrare in casa con lo stesso volto pacato con cui ne era uscito. E in verità se il saggio dovesse adirarsi contro le cattive azioni e agitarsi e rattristarsi per ogni misfatto sarebbe l’uomo più travagliato del mondo: passerebbe tutta la vita fra l’ira e lo sconforto, perché dovunque e in qualsiasi momento vedrebbe azioni riprovevoli. Ogni volta che uscisse di casa gli toccherebbe camminare in mezzo a una folla di malvagi, di avari, di prodighi, di spudorati, tutti felici e soddisfatti di queste infami passioni; in qualunque angolo posasse lo sguardo troverebbe sempre un motivo per arrabbiarsi: sarebbe la fine per lui se si lasciasse prendere dall’ira ogni volta che la circostanza lo richiedesse. Tutte quelle migliaia di persone che di prima mattina si affrettano verso il foro in quali processi vergognosi si trovano implicate, e quanto ancora più vergognosi sono gli avvocati che le difendono! Uno impugna le disposizioni testamentarie del padre, quando avrebbe dovuto cercare di meritarne la stima, un altro si scaglia contro la propria madre, e c’è chi accusa altri di un delitto di cui egli stesso è notoriamente colpevole, mentre il magistrato ch’è stato eletto a giudice condanna azioni che ha commesso anche lui. Da parte sua la folla che fa corona al processo, sedotta dalla bella arringa della Difesa, va applaudendo una
causa sbagliata. 8. Ma perché raccontarti questi casi isolati? Quando vedrai il foro pieno di gente, i recinti elettorali stracolmi di folla, e soprattutto il circo31 dove il popolo si presenta al gran completo, ebbene, sappi che lì si trovano tanti vizi quante sono le persone. Tutti questi cittadini sono in continua guerra fra loro: per un piccolo vantaggio non si fanno scrupolo di rovinarsi a vicenda, nessuno di essi guadagna se non a danno di altri, odiano chi è felice, disprezzano chi soffre, oppressi dai più forti, si rifanno sui più deboli, eccitati da opposte passioni, non si peritano di fracassare ogni cosa per il piacere di ricavarne un bottino misero e caduco. Il mondo è come un’arena di gladiatori, in cui la vita lotta contro sé stessa. Una consorteria di animali, con la differenza che gli animali non combattono e non azzannano i propri simili, mentre gli uomini si sbranano a vicenda, perché solo così soddisfano la loro fame. Le bestie si ammansiscono di fronte a chi le nutre, gli uomini sfogano la loro rabbia contro quegli stessi che l’alimentano: in ciò sta la distinzione fra gli esseri umani e quelli che non hanno il dono della parola. 9. Dunque, una volta che avesse cominciato ad adirarsi, il saggio non potrebbe più smetterla, visto che il mondo è pieno di vizi e di misfatti e se ne producono più di quanti se ne possano sanare con la forza. È come una grande gara di iniquità: di giorno in giorno più cresce la smania della trasgressione, la volontà d’infrangere qualsiasi legge, più diminuisce il ritegno; bandito ogni riguardo per ciò ch’è migliore e più giusto, l’arbitrio si spinge dovunque gli pare, i delitti, che prima erano furtivi, ormai si compiono alla luce del sole, passano sotto i nostri occhi, la dissolutezza si è diffusa a tal punto fra la gente ed è così radicata nell’animo di tutti, che l’innocenza, nonché rara, è ormai del tutto scomparsa. Né sono solo singoli individui o piccoli gruppi a infrangere la legge. Da ogni parte, come a uno squillo di tromba, spuntano intere categorie di persone a mescolare il lecito con l’illecito: dell’ospite dubita l’ospite, teme il genero il suocero, tra fratelli incostante è l’affetto. Spiano dell’uno e dell’altro la morte il marito e la moglie; turpi veleni ai figliastri apprestano infami matrigne, conta in anticipo il figlio gli anni che restano al padre.32 E questa è solo una piccola parte dei misfatti: il poeta non parla di coloro che invece di essere uniti militano in campi contrapposti, di genitori e figli che hanno fedi diverse, delle fiamme appiccate alla patria dalle mani stesse dei suoi; non descrive le infeste schiere di cavalieri che scorrazzano di qua e di là cercando i nascondigli dei proscritti, sorgenti avvelenate, epidemie diffuse dalla mano stessa dell’uomo, figli che mettono sotto assedio i genitori scavandogli
intorno la fossa, incendi che bruciano intere città, funeste tirannidi, congiure segrete per abbattere regni e repubbliche, azioni di cui si mena gran vanto come di nobili imprese ma che una volta represse assumono l’aspetto di veri e propri delitti; e rapimenti, stupri, atti di libidine che non risparmiano neppure la bocca. A tutto ciò aggiungi i pubblici spergiuri dei popoli, i patti infranti, le rapine da parte dei più forti ai danni dei deboli e degli indifesi, e i soprusi, i furti, le frodi, le malversazioni, per cui non basterebbero i tre Fori.33 Ecco: se vuoi che il saggio si adiri nella misura che richiede l’infamia dei delitti, ebbene, più che adirarsi, egli dovrebbe impazzire. 10. Quanto agli errori sarai abbastanza assennato se riterrai che non ci si debba adirare contro di essi. Cosa diresti, infatti, se vedessi uno arrabbiarsi con chi brancola al buio? O con dei sordi che non sentono i comandi? Con dei ragazzi che, trascurando i loro doveri, si mettono a guardare i passatempi e i futili giochi dei coetanei? E potresti mai pensare di adirarti contro un malato, un vecchio, un debilitato? Fra i tanti inconvenienti della condizione umana c’è anche questo: l’ottenebrarsi della mente, che può rendere l’errore non solo inevitabile ma persino deliberato. E per non adirarti con i singoli devi assolvere tutti, perdonare l’intera umanità. Se ti adiri con i giovani e con i vecchi perché sbagliano, devi adirarti anche con i bambini, perché sbaglieranno. Ma ci si può arrabbiare con i bambini, quando l’età non gli consente ancora di distinguere bene le cose? È più giusto e più serio che si scusi un uomo piuttosto che un bambino. La nostra condizione è quella di esseri soggetti a malattie dell’animo non meno numerose di quelle del corpo, non già perché siamo ottusi e tardi, ma perché facciamo cattivo uso della nostra intelligenza, essendo ciascuno di noi un esempio di vizi per un altro; chi segue coloro che prima di lui hanno imboccato un non retto cammino non deve forse essere scusato per aver preso quella strada sbagliata quando la percorrono tutti? Un generale riversa sui singoli la sua severità, ma quando diserta l’intero esercito egli deve necessariamente perdonare. Cos’è che impedisce a un saggio di adirarsi? La folla innumerevole di quelli che sbagliano: egli infatti comprende quanto sia ingiusto e pericoloso adirarsi per un vizio ch’è comune a tutti. Eraclito ogni volta che usciva di casa, nel vedere intorno a sé tanta gente che se la passava male, e che anzi faceva una brutta fine, si metteva a piangere e provava compassione per tutti quelli che gli si facevano incontro contenti e felici, tanto era mite d’animo; ma anche troppo debole, e perciò pure lui era degno di commiserazione. Democrito, invece, dicono che ridesse sempre quando si trovava in mezzo alla gente, tanto non gli sembravano serie le cose che venivano fatte con serietà. Credi dunque che vi sia posto per l’ira dove tutto è da ridere o da piangere? Il saggio non si adirerà mai con chi sbaglia. E sai perché? Perché saggi non si nasce, si diventa, e lui, che ha studiato a fondo la condizione della vita umana,
sa che di saggi ne spuntano assai pochi in tutto il corso dei secoli e che nessuna persona assennata si adira con la natura. Sarebbe come stupirsi perché dai cespugli selvatici non pendano fichi o ciliegie. O perché i rovi e le siepi non si riempiano di frutti mangerecci. Nessuno si arrabbia quando un difetto rientra nelle leggi stesse della natura. Perciò il saggio, sereno ed equanime di fronte agli errori e non nemico ma critico verso chi li commette, esce ogni giorno di casa con questa disposizione d’animo, dicendo a sé stesso: «Incontrerò molti ubriaconi, molti dissoluti, molti ingrati, molti avari, molti agitati dalla smania dell’ambizione». E guarderà tutti questi difetti con quella benevolenza che mostra il medico per i malati. Forse che il padrone di una nave che imbarca acqua da ogni parte perché le tavole della fiancata si sono aperte se la prende con i marinai o con la nave stessa? No: cerca invece di porvi rimedio, scaricando l’acqua che è entrata, bloccando quella che viene da fuori, tappando tutte le falle che vede e opponendosi con indefessa fatica a quelle nascoste che zitte zitte gli allagano la stiva; e non demorde anche se vede che quanta acqua rigetta da sopra altrettanta ne sgorga da sotto. Contro mali che proliferano continuamente non bisogna mai smettere di intervenire, non con la presunzione di debellarli, ma affinché non ci sommergano del tutto. 11. «L’ira, però, ha una sua utilità, perché sfugge al disprezzo e perché spaventa i cattivi». Innanzitutto, se ha tanta forza quanta ne sprizza dalle sue minacce, per il fatto stesso di incutere terrore risulta detestabile, ed è più pericoloso essere temuti che disprezzati. Se invece non ha forza è maggiormente esposta al disprezzo e diventa persino ridicola: niente, infatti, è più insulso di un’ira che strepita a vuoto. D’altra parte il fatto che certe cose suscitano più timore che disprezzo non comporta che sia meglio essere temuti che disprezzati: sarebbe come mettere il saggio sullo stesso piano della bestia perché si serve dell’arma della paura. E che? Non temiamo noi la febbre, la gotta, la piaga maligna? E c’è forse qualcosa di buono in queste cose? Al contrario, esse sono spregevoli, turpi e disgustose. Così l’ira: di per sé è vergognosa e non ha nulla di temibile, però ai più fa paura, come ai bambini una maschera ripugnante. Che dire poi del fatto che il timore ricade sempre su chi lo provoca e che nessuno di quelli che incutono paura hanno una vita tranquilla? A questo proposito ti soccorra quel verso di Laberio, che, recitato in teatro nel bel mezzo della guerra civile, richiamò su di sé l’attenzione di tutti gli spettatori, risuonando come la voce unanime di un sentimento popolare: Molti deve temere colui che da molti è temuto.34 È legge di natura che chi costruisce il proprio potere sulla paura che incute negli altri debba temere anche lui. Quanto non trema il cuore di un leone al più
leggero rumore! Bastano un’ombra, un grido, un odore insolito a mettere in agitazione le belve più feroci: chi fa paura ha paura. Perché mai dunque il saggio dovrebbe desiderare di essere temuto, o ritenere l’ira qualcosa di forte e di grande per il fatto che incute timore, quando si temono anche le cose che si disprezzano, come i veleni, le fitte e le infezioni ossee? Né c’è da stupirsi se intere mandrie di animali selvatici si lasciano accalappiare in massa e spingere in trappola da una cordicella munita di penne chiamata spauracchio35 dal turbamento che provoca: gli sciocchi si spaventano per delle sciocchezze. La vista di una biga in movimento, delle ruote che girano, risospinge i leoni nelle gabbie,36 il grugnito di un porco atterrisce gli elefanti. Insomma, i più temono l’ira come i bambini un’ombra e le belve una piuma rossa. Priva di forza e instabile, essa impressiona solo chi è debole di carattere. 12. «Per eliminare l’ira bisognerebbe togliere dalla natura la cattiveria, il che, purtroppo, non è possibile». A parte il fatto che si può non aver freddo d’inverno e caldo d’estate, che pure sono due eventi naturali, sia perché ci si trova in un luogo protetto dal clima tipico delle due stagioni, sia perché il corpo riesce a tollerare o a controllare le sensazioni del freddo e del caldo, la tua obiezione potrebbe essere rovesciata così: affinché l’animo possa accogliere l’ira bisogna che prima elimini la virtù, dato che questa non può coabitare coi vizi e non si può essere buoni e al tempo stesso adirati, sani e malati contemporaneamente. «Ma se l’ira è un fatto naturale non è possibile eliminarla dall’animo completamente!». Eppure la natura umana riesce a superare anche le cose più difficili e faticose, rendendole familiari con l’uso di un esercizio continuo, e non esistono passioni così violente ed esclusive da non poter essere domate con una corretta educazione. Tutto ciò che l’animo impone a sé stesso l’ottiene: c’è chi riesce a non ridere mai, chi a non bere vino, chi a non fare l’amore, chi a non assumere qualsiasi tipo di bevanda, chi a dormire poco, dedicando più tempo al lavoro; alcuni hanno imparato a correre avanti e indietro su funi sottilissime e a portare pesi enormi pressoché insostenibili dalla forza dell’uomo, a immergersi a grandissime profondità marine trattenendo a lungo il respiro. E mille altri casi ancora ci sono in cui l’ostinazione riesce a superare ogni ostacolo, dimostrando che nulla è difficile quando la mente si è imposta di sopportarlo. E le persone a cui si riferiscono gli esempi sopra citati non hanno ricevuto alcuna ricompensa per un impegno così tenace, o ne hanno avuta una inadeguata (quale grande onore può pensare infatti di conseguire chi si mette in testa di camminare su delle funi tese, di caricarsi sulle spalle dei pesi enormi, di non concedere gli occhi al sonno o di immergersi nelle profondità marine?), e tuttavia quelle persone si sono impegnate per portare a termine un’impresa da cui non hanno ricavato un gran guadagno. E noi non dovremmo fare appello a tutta la nostra perseveranza in vista di un premio così grande qual è la stabile e serena tranquillità di un animo
felice? Che incomparabile cosa è fuggire l’ira, il più grande dei mali, e con essa la rabbia, la ferocia, la crudeltà, il furore e le altre passioni che l’accompagnano! 13. Non abbiamo bisogno d’inventarci delle scuse per giustificare i nostri vizi, dicendo che uno è utile, un altro è inevitabile, visto che non c’è vizio a cui sia mai mancato un avvocato difensore. Né vale sostenere che certi vizi non si possono estirpare, dato che vi sono malattie perfettamente guaribili, e del resto la natura stessa, che ci ha creati al bene, ci dà una mano, se vogliamo emendarci. Non è poi vero, come sembra ad alcuni, che il cammino verso la virtù sia erto e difficile: è piano e agevole, invece. Non vi dico cose infondate: la via della felicità è facile, bisogna solo intraprenderla sotto buoni auspici e confidando nell’aiuto degli dèi. È molto più difficile fare quello che fate. Cosa c’è di più inoperoso che starsene in pace, cosa di più faticoso che dare ascolto all’ira? Di più distensivo della clemenza, di più impegnativo della crudeltà? La pudicizia non ha alcun impegno, la libidine è sempre indaffarata. Insomma, tutte le virtù sono facili da mantenere, mentre i vizi si fa molta fatica a coltivarli. L’ira va estirpata, e in ciò concorda, sia pure in parte, anche chi ritiene che si debba piuttosto controllarla: togliamola di mezzo, allora, poiché non potrà darci alcuna utilità. Una volta eliminata lei, sarà più facile e più normale debellare i delitti, punire i cattivi e renderli migliori, e il saggio [che deve giudicare] svolgerà il suo dovere senza ricorrere ad alcunché di male e senza l’aggiunta di correttivi che poi debba più o meno preoccuparsi di regolare. 14. Non bisogna dunque mai lasciarsi prendere dall’ira, anche se a volte è necessario simularla, quando, ad esempio, occorre destare l’attenzione di ascoltatori svogliati, così come si eccitano alla corsa i cavalli con gli sproni e con fiaccole ai fianchi; o per incutere timore a chi non sa far buon uso della ragione: ma l’adirarsi non porta alcuna utilità, come l’affliggersi e l’avere paura. «Ma come? Non vi sono dunque motivi che provochino l’ira?». Ed è proprio allora che bisogna contrastarla quanto più possibile. Non è difficile vincere gl’impulsi dell’animo, visto che gli atleti, interessati soprattutto alla cura del corpo, che è l’aspetto materiale del nostro essere, sopportano colpi e dolori, pur di fiaccare le forze dell’avversario, e colpiscono al momento giusto, non quando lo vuole l’ira. Dicono che Pirro, il più grande maestro di atletica, fosse solito raccomandare ai suoi allievi di non lasciarsi prendere dall’ira [nel corso delle gare], perché per causa sua si sovverte ogni regola e si pensa solo a come nuocere agli altri. La ragione ci suggerisce di sopportare, l’ira di vendicarci, e noi, che inizialmente avremmo potuto sbarazzarci di un grosso guaio, rotoliamo in mali peggiori. Alcuni, per non aver saputo sopportare serenamente una sola parola ingiuriosa, sono finiti in esilio, altri, incapaci di tacere di fronte a una trascurabile offesa, sono stati sommersi da un cumulo di disgrazie, altri ancora, sdegnati per aver perso una piccola parte della loro
sfrenata libertà, si sono imposti con le proprie mani il vile giogo della schiavitù. 15. «Non si può negare, tuttavia che l’ira abbia una sua nobiltà: basta vedere i Germani e gli Sciti, che, come tutti i popoli liberi, sono molto irascibili». Ciò accade perché i caratteri forti e saldi per natura, prima di essere ammorbiditi dall’educazione, sono propensi all’ira. Certe inclinazioni naturali sbocciano solo in uomini superiori, così come in un terreno abbandonato crescono piante robuste e rigogliose e da un suolo fertile si sviluppa un alto bosco. Analogamente i caratteri forti per natura sono portati all’ira: pieni di fuoco e passione, non hanno nulla di fragile e delicato; ma la loro forza è imperfetta, incompiuta, come in chi cresce senza una regola, col solo aiuto della natura. Ora, se tali tendenze non sono prontamente addomesticate, questi individui, invece di sviluppare la forza di cui la natura li ha forniti, diventano per abitudine imprudenti e temerari. E poi, come le indoli più miti portano con sé difetti più lievi – la misericordia, il pudore, l’amore appassionato –, così anche in un buon carattere puoi trovare spesso dei difetti, i quali, pur essendo indizi di una natura migliore, non per questo cessano di essere vizi. D’altra parte, tutte queste popolazioni che sono libere in virtù della loro selvatichezza, alla stregua dei lupi e dei leoni, come non si assoggettano alla schiavitù, così non sono capaci di comandare, perché hanno una forza bruta e intrattabile, non quella dell’ingegno, che è tipica dell’uomo: non sa infatti comandare chi non sa anche ubbidire. Per questo motivo lo scettro del dominio e della conquista è quasi sempre nelle mani dei popoli che vivono in climi più temperati: quelli che sono esposti ai freddi del Settentrione hanno un carattere selvaggio, che, come dice il poeta, è quanto mai conforme al loro cielo.37 16. «Fra gli animali i più nobili sono quelli molto inclini all’ira». Non si può stabilire un confronto fra gli animali e l’uomo: gli animali hanno l’istinto al posto della ragione, l’uomo ha la ragione al posto dell’istinto. D’altra parte anche l’istinto non è lo stesso in tutti gli animali: ai leoni giova l’irascibilità, ai cervi la paura, allo sparviero lo slancio, alla colomba la fuga. E se ti dicessi che non è neppure vero che gli animali migliori sono i più irascibili? Ammetto che le belve, per il fatto che si procurano il cibo con la rapina, tanto sono migliori quanto più agiscono sotto l’impulso dell’ira, però vorrei anche lodare la pazienza dei buoi e dei cavalli che ubbidiscono al morso. Ma poi perché applichi all’uomo esempi così infelici quando puoi metterlo a confronto col mondo intero e soprattutto con dio, che solo l’uomo, tra tutti gli esseri viventi, è in grado di comprendere e imitare? «Ma gl’iracondi sono ritenuti gli esseri più schietti e più spontanei». Di fronte ai furbi e agl’imbroglioni senza dubbio, perché sono espliciti, aperti. Io, però, più che schietti li direi sprovveduti: è l’epiteto che diamo agli
sciocchi, ai dissoluti, agli scialacquatori e a tutti quei vizi che mancano di avvedutezza. 17. «Talvolta, però, un oratore è più efficace quando è adirato». Io direi quando finge di esserlo: come gli attori, che quando recitano riescono a commuovere il pubblico non perché siano delle persone adirate ma perché svolgono bene quella parte. Così anche davanti a un giudice, in un’assemblea e dovunque vogliamo piegare al nostro volere l’animo altrui simuleremo ora lo sdegno, ora la paura, ora la pietà, per suscitare negli altri quei sentimenti, anzi, spesso una passione simulata ottiene un risultato che una passione autentica non riuscirebbe a ottenere. «Ma un animo che non s’infiamma è fiacco». Lo è solo se non ha qualcosa di più efficace dell’ira. Non bisogna essere né ladri né derubati, né crudeli né compassionevoli, né troppo teneri né troppo duri: l’uomo saggio sia moderato e usi la forza, non l’ira, se vuole fare le cose con maggiore energia. 18. Ora, esaurito il discorso su tutto ciò che riguarda l’ira, passiamo ai rimedi. Che secondo me si riducono a due: non incorrere nell’ira e, se vi si cade, non commettere sbagli. Come per il corpo vi sono cure preventive per mantenergli la buona salute e altre per restituirgliela, così ce n’è una per tener lontano l’ira e un’altra per frenarla. Per evitarla esistono delle prescrizioni che riguardano l’intero arco della nostra vita e che qui distribuiremo in due momenti: il periodo dell’educazione e quello degli anni successivi. L’educazione richiede la massima diligenza, che gioverà moltissimo in seguito: è facile, infatti, plasmare gli animi in tenera età, difficile è invece recidere i vizi che sono cresciuti con noi. 19. Un temperamento focoso per natura è il più portato all’ira. Infatti, come gli elementi del mondo fisico sono quattro, il fuoco, l’acqua, l’aria e la terra, altrettante sono le forze corrispondenti: il caldo, il freddo, il secco e l’umido. La diversa combinazione degli elementi determina le differenze dei luoghi, degli esseri viventi, dei corpi e dei comportamenti, e i caratteri hanno questa o quella inclinazione a seconda che in loro prevalga l’uno o l’altro elemento. Perciò diciamo che vi sono regioni umide, aride, calde e fredde. Ebbene, le stesse differenze si trovano nell’uomo e negli animali, ed è importante la quantità di umido e di caldo che ciascuno di essi possiede, giacché la porzione dell’elemento che prevale ne determina il comportamento. Così un animo focoso per natura renderà irascibili, perché il fuoco è sempre in movimento e ostinato, una combinazione in cui prevalga il freddo renderà timidi, perché il freddo è inerte e chiuso in sé stesso. Per questo alcuni della nostra scuola sostengono che l’ira insorge nel petto quando il sangue ribolle intorno al cuore, il quale sarebbe la sede dell’ira per il solo fatto che il petto è la parte più
calda di tutto il corpo. In quelli in cui prevale l’umido l’ira cresce a poco a poco, perché in loro il calore non è ancora pronto ad agire ma si produce via via col movimento: perciò gli scatti d’ira dei bambini e delle donne inizialmente sono più leggeri e comunque più violenti che dannosi. Nell’età asciutta, infatti, l’ira è impetuosa e robusta ma non cresce e non fa in tempo a potenziarsi d’altro perché sopravviene subito il freddo che ne smorza il calore. I vecchi sono intrattabili e lagnosi, come gli ammalati, i convalescenti e tutti quelli in cui il calore si è esaurito per spossatezza o perdite di sangue; nelle stesse condizioni si trovano i rabbiosi per fame e per sete e in genere gli anemici, i denutriti e i soggetti a svenimenti. Il vino accende l’ira perché aumenta il calore, e c’è chi ribolle perché ubriaco, chi perché ferito: dipende dalla natura di ciascuno. Il motivo per cui i biondi e i rossi sono particolarmente collerici sta nel fatto che in loro quel colore è naturale – e per questo hanno il sangue veloce e agitato – mentre gli altri di solito si arrossano quando sono in preda all’ira. 20. Ora, se da un lato la natura crea degli individui già inclini all’ira, dall’altro sopravvengono molte cause che producono i medesimi effetti: c’è chi è condotto a quel vizio da una malattia o da una menomazione fisica, chi dalla fatica, dalle veglie continue, dalle ansie notturne e dai desideri d’amore: tutto ciò che nuoce al corpo o all’animo porta lo spirito malato a sfogarsi. Ma questi sono gl’inizi e le cause dell’ira: un notevole apporto le fornisce l’assuefazione, che quando è ostinata alimenta il vizio. Certo è difficile cambiare la natura di un individuo, perché una volta mescolatisi i vari elementi nel periodo della gestazione non è più possibile mutarne la combinazione; ma a tale scopo, per fare un esempio, giova l’aver scoperto che ai temperamenti caldi non si deve somministrare il vino, una bevanda che Platone vieta ai fanciulli perché, dice, non si deve alimentare il fuoco con altro fuoco. E non si dovrebbe neppure ingozzarli di cibo, perché ingrossandosi il corpo si gonfia anche l’animo. Il lavoro li tenga pure impegnati ma non sino all’estremo della fatica, inquantoché il calore deve diminuire, non estinguersi del tutto, e l’ardore eccessivo ha bisogno di sfogo. Anche i giochi potranno aiutare, perché il piacere, quando sia misurato, rilassa e ritempra gli animi. I temperamenti piuttosto umidi o secchi e quelli freddi sono generalmente immuni dagli attacchi dell’ira, ma devono guardarsi da vizi maggiori, come la paura, l’intrattabilità, la disperazione e il sospetto. Questi caratteri vanno addolciti, stimolati e richiamati a una visione lieta della vita. E poiché i rimedi contro l’ira e contro la tristezza sono differenti, per non dire addirittura opposti, dovremo prendere di petto il vizio che si è sviluppato di più. 21. Gioverà moltissimo impartire subito ai bambini una buona e sana educazione, con l’accortezza, però, dato che non è facile governarli, di non alimentare in loro l’ira e al tempo stesso di non limarne il carattere. Ciò comporta uno studio attento e meticoloso, perché i mezzi per eccitare e per
reprimere sono simili e le cose simili possono trarre in inganno anche le persone più scrupolose. La libertà arricchisce lo spirito, la schiavitù lo impoverisce; le lodi lo esaltano e lo inducono ad aver fiducia in sé stesso, ma possono anche renderlo irascibile e intollerante: perciò bisogna guidare il bambino fra questi due estremi, usando ora il morso, ora lo sprone. Non bisogna mai umiliarlo con cose ignobili o servili, mai metterlo in condizione di dover chiedere supplicando o che gli giovi averlo fatto: meglio che gli sia dato per merito suo, per quello che ha fatto in precedenza e per ciò che di buono si propone di fare in futuro. Nelle gare con i coetanei non gli sia consentito né di lasciarsi vincere, né di adirarsi; gli sia dato di frequentare coloro con i quali è solito gareggiare affinché si abitui a gareggiare per vincere, non per nuocere agli altri, e quando avrà vinto o fatto qualcosa degno di lode lasciamo che se ne compiaccia ma senza vantarsene: la gioia, infatti, accende l’entusiasmo, l’entusiasmo può diventare arroganza, presunzione ed eccessiva stima di sé. Gli concederemo qualche svago, facendo però in modo che non si svigorisca nella pigrizia e nell’ozio, e lo terremo lontano dall’influsso dei piaceri, poiché niente rende più irascibili che un’educazione debole e blanda: è per questo che i più corrotti d’animo sono i figli unici, che godono di maggior indulgenza, e gli orfani adottati, a cui tutto viene concesso. Non saprà sopportare un’offesa, una contrarietà, chi non s’è visto negare mai nulla, chi ha sempre avuto una madre pronta ad asciugargli le lacrime o a cui sia stata data soddisfazione davanti al suo pedagogo. Non vedi come a un maggior benessere si accompagni una maggiore irascibilità? Essa si manifesta soprattutto nei ricchi, nei nobili, in coloro che rivestono alte cariche, quando al minimo soffio di vento favorevole anche ciò che di insignificante e di inutile era nel loro animo cresce e s’innalza. La prosperità alimenta l’ira allorché una turba di adulatori assedia le orecchie di un presuntuoso: «E tu ti fai rimbeccare da quello lì? Ma come osa? Non ti stimi quanto meriti, ti mortifichi da te!». E altre cose del genere dicono, a cui a stento sanno resistere menti sane e ben salde da sempre. I fanciulli stiano alla larga dagli adulatori e prestino le orecchie al vero. Abbiano timore talvolta, siano sempre rispettosi e si alzino in piedi davanti agli adulti. Nulla ottengano con l’ira: ciò che chiedono piangendo glielo si dia solo quando si saranno calmati. Abbiano davanti agli occhi le ricchezze dei genitori, ma non sia loro concesso di usarle. E quando sgarrano si abbia il coraggio di rimproverarli. È inoltre opportuno che gli si mettano accanto precettori e maestri pacati, perché i fanciulli si appoggiano facilmente a chi gli sta vicino e crescono conformandosi a lui; poi, fattisi adolescenti, rispecchieranno i costumi delle nutrici e dei pedagoghi. Un giorno un ragazzo, che i genitori avevano mandato da Platone affinché fosse educato da lui, al suo ritorno in famiglia, vedendo il padre strillare, esclamò: «In casa di Platone non ho mai visto nulla del genere!». Ebbene, sono certo che di lì a poco avrà smesso d’imitare il filosofo e seguito l’esempio del padre.
Si diano infine ai fanciulli un vitto frugale innanzitutto, abiti non raffinati e un tenore di vita conforme a quello dei coetanei, così non si adireranno quando si dovessero fare dei paragoni fra loro e gli altri, visto che tutti, fin dall’inizio, sono stati messi sullo stesso piano. 22. Ma ciò riguarda i nostri figli; per noi, ormai, sia per la condizione di nascita che ci è toccata, sia per l’educazione ricevuta, non c’è più spazio né per i vizi né per gl’insegnamenti: dobbiamo solo pensare a darci una regola per il tempo che ci resta da vivere, affrontando l’ira alle origini, e poiché ciò che scatena l’ira è l’idea di essere stati offesi la prima cosa da fare è quella di non crederci. Né dobbiamo prestar subito fede a indizi che ci appaiono evidenti e inconfutabili, visto che spesso il falso si presenta sotto l’aspetto del vero. Bisogna insomma aspettare: col tempo la verità viene sempre fuori. Non dobbiamo credere facilmente alle accuse: diffidiamo, tenendolo sempre presente, di quel difetto, tipico dell’umana natura, che c’induce a prestar fede volentieri a tutto ciò che nostro malgrado ascoltiamo e che ci manda l’animo in bestia prima ancora che la mente abbia formulato un giudizio. Che dire poi del fatto che reagiamo non soltanto alle accuse ma anche ai sospetti, e che, scambiando un sorriso o una frase ingenua per un’offesa, ci adiriamo con degli innocenti? Dobbiamo dunque tenere l’ira in sospeso e assumere contro noi stessi le ragioni di chi riteniamo che ci abbia offeso: una punizione, infatti, può essere inflitta anche in ritardo, mentre una volta inflitta non può essere revocata. 23. È noto quel [mancato] tirannicida,38 che, fallita l’impresa di uccidere Ippia, catturato e messo alla tortura dal tiranno affinché denunciasse i suoi complici, fece i nomi degli amici di lui che gli facevano da guardia del corpo e che sapeva sommamente interessati alla sua salvezza. E quando Ippia, dopo averli fatti uccidere a uno a uno via via che lui li nominava, gli chiese se ce ne fosse ancora qualcun altro, rispose: «Tu solo: non ho lasciato infatti nessuno che ti fosse caro». Ebbene, l’ira indusse il tiranno a prestare al tirannicida la propria mano perché uccidesse con la sua stessa spada quelli che lo proteggevano. Ben più coraggioso fu Alessandro! Il quale, benché la madre 39 gli avesse inviato una lettera in cui lo esortava a guardarsi dal veleno del medico Filippo, per nulla spaventato, prese la pozione e la trangugiò, credendo più al proprio giudizio, riguardo alla lealtà dell’amico, che a quello della madre. Quanto più degno fu lui, che ritenne innocente l’amico e compì un simile gesto! E ancor di più lo lodo perché nessuno fu soggetto all’ira come lo era Alessandro: quanto più rara, infatti, è la moderazione nei re, tanto più è da lodare. Così si comportò anche Gaio Cesare, che dopo la vittoria nella guerra civile fu molto clemente coi vinti: impadronitosi degli scrigni contenenti le lettere spedite a Gneo Pompeo da persone che si diceva avessero militato nel partito avversario o fossero stati neutrali, le bruciò [senza nemmeno leggerle].40
Nonostante fosse solito controllarsi quando si adirava, quella volta preferì evitare di farsi prendere dall’ira, ritenendo che ignorare quale colpa avesse commesso ciascuno di loro fosse il più gradito genere di perdono. 24. La credulità è causa di moltissimi inconvenienti. Spesso non si dovrebbe nemmeno ascoltarle certe cose perché in quei casi è meglio l’inganno che il sospetto. Gli stimoli più insidiosi che si devono scacciare dall’animo sono proprio i sospetti e le congetture: «Quello mi ha salutato poco amabilmente, quello non ha ricambiato il mio bacio, quello m’ha tolto subito la parola, quello non mi ha invitato a cena, quello mi è parso che non mi guardasse nemmeno». Troveremo sempre qualche motivo per diffidare di qualcuno. Dobbiamo dunque guardare i fatti e valutarli con animo semplice e ben disposto, non credere a niente se non a ciò che ci balza agli occhi e ci appare ben chiaro, e ogni volta che i nostri sospetti si riveleranno infondati recitiamo il mea culpa per la nostra credulità: questo biasimo ci abituerà a non credere facilmente. 25. Da ciò consegue che non dobbiamo irritarci per cose banali e meschine. Lo schiavetto è poco sveglio, l’acqua da bere che mi ha portato non è fresca, il letto è in disordine, la tavola è apparecchiata male: è da dementi arrabbiarsi per cose del genere. Chi si raggomitola per una leggera corrente d’aria è malato o cagionevole di salute, sono sofferenti quegli occhi che restano infastiditi dal candore di una veste e un debosciato è colui che sente male ai fianchi nel vedere faticare gli altri. A questo proposito si narra di un certo Mindiride, 41 nativo di Sibari, che diede segni di stanchezza nel vedere uno zappare la terra e sollevare in alto il rastrello, e per questo gli vietò di fare quel lavoro in sua presenza. Spesso accusò un travaso di bile per aver dormito su petali di rosa sgualciti. Quando i piaceri insieme al corpo hanno corrotto anche l’animo nulla sembra più sopportabile, non perché siano moleste le cose ma perché chi se ne lamenta è un rammollito. Che motivo c’è di arrabbiarsi perché uno tossisce o starnuta, o è poco zelante nel cacciare una mosca, perché s’incontra un cane o perché al servo sbadato è caduta di mano la chiave? Un individuo simile potrà mai sopportare pazientemente le liti dei tribunali e le imprecazioni che volano nelle assemblee o nel senato se le sue orecchie si sentono offese dallo stridio di uno sgabello che viene spostato? Sopporterà la fame e la sete in una spedizione estiva se si arrabbia col servo che non gli scioglie bene il ghiaccio nel bicchiere? Non c’è cosa che alimenti l’ira più del lusso sfrenato e intemperante: l’animo va trattato con durezza, dimodoché fra i colpi che riceve senta solo quelli tosti. 26. Spesso ci adiriamo anche con cose o con persone che non hanno alcuna capacità di offenderci, o che lo potrebbero solo teoricamente. Fra le prime ci sono quelle prive di sentimenti, come un libro che a volte buttiamo in quanto è scritto con caratteri troppo piccoli, o che laceriamo perché zeppo di errori; così come strappiamo un vestito che non ci piace: quanto è sciocco arrabbiarsi con
degli oggetti, che non meritano e non possono neppure sentire la nostra ira! «Ma ci offendono quelli che li hanno fatti!». Innanzitutto questa distinzione la facciamo dopo, quando già ci siamo adirati. In secondo luogo anche gli artigiani che hanno prodotto quegli oggetti potrebbero addurre delle plausibili giustificazioni: uno non era in grado di far meglio e se ha imparato male il mestiere non lo ha certo fatto per offendere te; un altro non ha lavorato con quello scopo. E infine, cosa c’è di più stupido che scaricare sulle cose la bile accumulata contro gli uomini? E com’è irragionevole adirarsi con gli oggetti inanimati così lo è con gli animali, che non ci arrecano alcuna offesa perché non possono volerlo: l’offesa infatti è tale solo quando vi sia l’intenzione. Le bestie possono farci del male, come un ferro o una pietra, ma non ferirci nell’animo. Eppure c’è chi si ritiene offeso se un cavallo, docile con un altro cavaliere, fa il ribelle con lui: come se certi animali fossero più obbedienti con alcuni per deliberato proposito e non per abitudine o per il modo in cui sono trattati. E com’è irragionevole adirarsi con gli animali, così è sciocco prendersela con i bambini e con chi ha l’animo di un fanciullo: un giudice onesto, infatti, ritiene scusabili i loro errori perché dovuti a una scarsa capacità di riflessione. 27. Ci sono esseri che non possono fare alcun male e il cui potere, anzi, è solo benefico e salutare. Tali sono gli dèi immortali, la cui natura è mite e tranquilla, tanto aliena dal nuocere agli altri quanto a loro stessi. Sono dunque stolti e lontani dal vero quelli che imputano agli dèi la furia del mare, le piogge eccessive, il protrarsi della stagione invernale, quando in effetti nessuno dei fenomeni che ci danneggiano o ci giovano è propriamente indirizzato a noi: non siamo infatti noi la causa per cui sulla terra si alternano l’estate e l’inverno, questi eventi sono soggetti alle stesse leggi che governano i corpi celesti. Abbiamo di noi un concetto troppo alto se ci riteniamo tali che una così grande forza si muova per noi. Nulla di tutto questo è fatto per colpirci, nulla per aiutarci. Fra gli esseri che, come abbiamo detto, non possono nuocere o che non lo vogliono ci sono i buoni magistrati, i genitori, gli educatori e i giudici, le cui punizioni devono essere accettate come i ferri del chirurgo, la dieta e altre cose che ci fanno soffrire in vista di un bene futuro. Se siamo stati puniti non dobbiamo pensare soltanto a ciò che stiamo soffrendo ma anche a quel che abbiamo fatto, mettendo in discussione la nostra vita: se appena appena saremo capaci di confessare a noi stessi la verità, giudicheremo più severamente la questione che ci riguarda. 28. Se vogliamo essere sempre onesti nel giudicare le cose dobbiamo innanzitutto convincerci che nessuno è senza colpa. Il nostro maggiore risentimento è infatti quello che nasce dalla presunzione di non avere sbagliato: «Io non ho fatto niente!», protestiamo. La verità è che non vogliamo ammetterlo!
Ci indigniamo se siamo stati rimproverati o puniti, commettendo così un’altra colpa, perché al mal fatto aggiungiamo l’arroganza e la ribellione. Nessuno può dichiararsi innocente davanti a tutte le leggi. E anche se ciò fosse possibile, che innocenza ristretta è quella che induce a comportarsi rettamente solo per via della legge! Quanto è più estesa rispetto a questa la regola dei doveri! Quanti obblighi esigono la pietà, l’umanità, la liberalità, la giustizia, la lealtà, tutti valori che non sono inscritti nelle tavole della legge! Ma noi non riusciamo nemmeno a rispettare quella formula restrittiva dell’innocenza, poiché oltre alle colpe realmente commesse ne abbiamo anche pensate, desiderate, favorite, e di certe azioni siamo innocenti solo perché non hanno avuto alcun risultato. Riflettiamo, dunque, e siamo più giusti con chi sbaglia, confidiamo in chi ci rimprovera, non adiriamoci con i buoni (se lo facciamo con loro, con chi non dovremmo adirarci?), e soprattutto non prendiamocela con gli dèi, poiché non è per colpa loro, è per la nostra condizione di mortali che soffriamo i guai che ci accadono. «Ma ci piombano addosso malattie e dolori!». Comunque dovremo pure abbandonarla questa putrida dimora che ci è toccata in sorte. Ci dicono che Tizio ha parlato male di noi? Chiediamoci se non l’abbiamo fatto noi per primi, visto che parliamo di tante persone. Riflettiamo che alcuni in realtà non ci hanno offeso, ma si sono limitati a ricambiare l’offesa che gli abbiamo fatto noi, che altri ci offendono per il nostro bene, o perché vi sono costretti o perché non se ne accorgono, e che spesso anche chi ci ha offeso volutamente e consapevolmente non ne aveva l’intenzione, ma lo ha fatto o perché si è lasciato trascinare dal gusto di una battuta, o perché non poteva fare una determinata cosa senza offenderci: spesso l’adulazione mentre blandisce offende. Se teniamo a mente quante volte abbiamo nutrito sospetti infondati, quante volte le nostre attenzioni sono potute sembrare agli altri un’offesa e quante persone abbiamo preso ad amare dopo averle detestate, ebbene, allora possiamo evitare di adirarci, soprattutto se ogni volta che ci sentiamo offesi pensiamo: «Questo l’ho fatto anch’io». Ma dove lo trovi un giudice così onesto? Come uno che s’incapriccia solo di donne sposate, ritenendo che il motivo più giusto per innamorarsene sia proprio il fatto che sono mogli di altri, e poi si arrabbia se qualcuno guarda la sua: chi è sleale è il più esigente nel pretendere la lealtà, lo spergiuro non tollera le menzogne, il calunniatore non sopporta che gli si faccia causa e chi è senza pudore non vuole che si attenti a quello dei suoi schiavetti. I vizi altrui li abbiamo davanti agli occhi, i nostri dietro le spalle: ecco così che un padre crapulone rimprovera il figlio perché trascina a lungo i suoi banchetti, che un libertino impenitente nulla perdona alla lussuria degli altri, che il tiranno s’infuria con l’omicida e il sacrilego punisce i ladri. La maggior parte degli uomini si adira non contro i peccati ma contro i peccatori. Diventeremo più moderati se sapremo analizzare noi stessi
chiedendoci: «Forse che anche noi non abbiamo commesso qualcosa di simile? Non abbiamo sbagliato allo stesso modo? Ci conviene, dunque, condannare questi comportamenti?». 29. Il miglior rimedio dell’ira è l’indugio, l’attesa. All’inizio chiedile non di perdonare ma di riflettere: i suoi primi impulsi sono pesanti, ma se saprà aspettare si calmerà. E non cercare di scacciarla tutta in una volta, perché l’ira si piega soltanto se la s’indebolisce a poco a poco. Fra le cose che ci offendono, alcune ci vengono riferite, altre le ascoltiamo o le vediamo di persona. Alle prime non dobbiamo prestar subito fede: molti mentono per ingannare, molti perché sono stati ingannati, c’è chi cerca di entrare nelle tue grazie accusando qualcuno e s’inventa un’offesa per farsi vedere dispiaciuto che ti sia stata fatta; c’è poi il maligno, che vuole rompere le tue amicizie più strette, il sospettoso, colui che, come se si trattasse di un gioco, ama fare lo spettatore, guardando da lontano, e standosene al sicuro, quelli che ha fatto azzuffare. Se dovessi processare uno per il furto di una piccola somma di denaro non riterresti vero il fatto senza alcuna prova testimoniale, non accetteresti una testimonianza non giurata, ascolteresti entrambe le parti, e non una sola volta, ma concedendo loro il tempo necessario, perché la verità ci risulta più chiara ed evidente quanto più la giriamo fra le mani: tu lo condanneresti un amico seduta stante? Ti arrabbieresti prima di ascoltarlo, d’interrogarlo, prima che gli sia concesso di conoscere il suo accusatore o l’accusa che gli viene mossa? Hai già sentito le due parti? Se chiederai al delatore di addurre le prove lui la smetterà, dicendoti: «È inutile che tu mi tiri in ballo, se mi chiamerai a testimoniare io negherò tutto, e da quel momento non ti riferirò più nulla». Così nello stesso tempo quello provoca e si sottrae al rischio del confronto. Chi riporta una notizia ma di nascosto è come se non la raccontasse. Non c’è nulla di più ingiusto che credere a una notizia riferita in tutta segretezza e adirarsi pubblicamente. 30. Quanto alle offese di cui siamo testimoni diretti dobbiamo vagliare l’indole e le intenzioni di chi le fa. È un ragazzo? Lo si perdoni per l’età, poiché non si rende conto che sbaglia. È un padre? O lui ci ha già fatto tanto bene da avere anche il diritto di offenderci, o noi scambiamo per offesa un suo favore. È una donna? Sbaglia. È uno a cui l’offesa è stata imposta da altri? Solo una persona irragionevole può adirarsi con l’esecutore di un ordine. È uno che hai offeso? Non è un’offesa subire ciò che tu hai fatto per primo. È un giudice? Devi dare più credito al suo giudizio che al tuo. È un re? Se ti punisce perché sei colpevole, arrenditi alla giustizia, se invece sei innocente, arrenditi alla cattiva sorte. È un animale, o qualcosa di simile che ignora l’uso della parola? Se ti adiri diventi uguale a lui. È una malattia o una disgrazia? Passerà, e ti farà meno male se saprai sopportarla. È un dio? È fatica sprecata adirarsi con lui, quanto il pregarlo di adirarsi con altri. È un galantuomo colui che ti ha offeso? Fa’ conto
che non sia vero. È un malvagio? Non dartene pensiero: pagherà a un altro lo scotto che doveva pagare a te: a sé stesso lo ha già pagato, per il fatto di avere sbagliato. 31. Come ho detto, due sono le cause dell’ira: la prima nasce dall’idea di aver ricevuto un’offesa, e di questo abbiamo già parlato abbastanza, la seconda dalla convinzione di averla subìta ingiustamente, e questo è l’argomento che dobbiamo trattare. Noi giudichiamo ingiusti certi fatti che ci riguardano per due motivi: o perché riteniamo che non avremmo dovuto subirli, o perché non ce li aspettavamo: l’imprevisto, insomma, non ci appartiene, non lo meritiamo. Perciò ci turba moltissimo tutto ciò che accade contro le nostre attese e le nostre speranze, mentre non ci sentiamo offesi da quei piccolissimi sgarbi che riceviamo abitualmente fra le pareti domestiche, e ci guardiamo dal chiamare offesa la negligenza dimostrataci da un amico. «E perché allora ci turbano le offese dei nemici?». Perché non ce le aspettavamo, o certamente non così gravi. Ciò deriva dal nostro eccessivo amor proprio: pretendiamo, infatti, di non essere molestati nemmeno dai nostri nemici. Ciascuno ha l’animo di un re: massima libertà nei confronti degli altri, ma zero degli altri nei suoi confronti. L’inesperienza o l’ignoranza delle cose: ecco ciò che ci rende irascibili. Che meraviglia se i malvagi compiono azioni malvagie? Che c’è di strano se un nemico fa del male, se un amico offende, un figlio sbaglia, un servo commette qualcosa di storto? Quinto Fabio Massimo soleva ripetere che per un generale la scusa più vergognosa consiste nel dire: «Non ci avevo pensato». Ebbene, io la ritengo vergognosissima per ogni uomo. Bisogna pensare e aspettarsi di tutto: anche nei buoni costumi può esserci un che di sgradito. La natura umana non manca di animi perfidi, ingrati, avidi ed empi, perciò nel giudicare il comportamento di uno solo pensa a quello di tutti. Dove più avrai motivo di rallegrarti più dovrai stare in guardia. Dove tutto ti appare calmo e tranquillo c’è sempre qualcosa che cova ai tuoi danni: non lo vedi perché sonnecchia. Fa’ conto, insomma, che puoi sempre imbatterti in qualche malanno. Un nocchiero non spiega mai tranquillamente tutte le vele senza tenere pronti gli attrezzi necessari per ammainarle alla svelta. Ma soprattutto convinciti di questo, che la volontà di nuocere è vergognosa, esecrabile e del tutto estranea all’uomo, a cui la natura ha concesso il privilegio di rendere mansuete anche le bestie feroci, sicché si vedono elefanti che piegano il collo al giogo, tori che si lasciano cavalcare impunemente da ragazzi e da donne che vi saltellano sopra, serpenti che strisciano innocui fra le coppe e sui petti delle persone, mentre fra le mura domestiche orsi e leoni si fanno tranquillamente accarezzare il muso e terribili fiere blandiscono i loro padroni: pensa a tutto ciò e ti vergognerai di comportarti come gli animali. Come non è lecito nuocere alla patria così non si deve offendere un cittadino,
in quanto è parte della patria stessa: se infatti la comunità è sacra e inviolabile lo sono anche le parti che la compongono. Dunque non si deve nuocere ad alcuno, poiché tutti gli uomini sono nostri concittadini in una patria più grande. Cosa accadrebbe se le mani decidessero di nuocere ai piedi, o gli occhi alle mani? Come tutte le membra sono fra loro in armonia, perché l’efficienza di ognuna giova a tutto l’insieme, così gli uomini devono proteggere i singoli, perché sono stati generati per vivere in società, e una società non può reggersi se non sul rispetto e sull’amore fra le parti. Noi non ammazzeremmo neppure le vipere, le bisce acquatiche o le altre bestie dal morso o dalla puntura letale se potessimo renderle mansuete o fare in modo che non fossero pericolose per noi o per gli altri. Analogamente non faremo del male all’uomo se non per punirlo, e non perché ha sbagliato ma affinché non sbagli più, giacché il castigo deve guardare al futuro, non al passato: si punisce, infatti, non perché mossi dall’ira, ma per far sì che l’errore non si ripeta. D’altra parte, se si dovessero punire tutti coloro che sono d’indole empia o malvagia nessuno sfuggirebbe alla pena. 32. «È anche vero, però, che l’ira provoca un certo piacere ed è gratificante restituire il male che si è ricevuto». Assolutamente no, non deve accadere così: se infatti è bello ricambiare beneficio con beneficio non lo è altrettanto rendere offesa con offesa. Nel primo caso è sconveniente lasciarsi superare, nel secondo lo è il superare. La parola «vendetta» non si addice all’uomo, anche se è ritenuta giusta. Il contrappasso, l’occhio per occhio, differisce dall’offesa solo in quanto si verifica in un secondo momento: anche colui che ricambia il male commette una colpa, la differenza sta nel fatto che è più scusato. Un tale ai bagni percosse Marco Catone senza sapere chi fosse (nessuno, infatti, conoscendolo, lo avrebbe offeso), e quando poi si scusò, Catone gli rispose: «Non ricordo d’esser stato colpito», preferendo così ignorare l’offesa piuttosto che vendicarla. «Ma come, quel tizio non ha subìto alcun danno dopo tanta insolenza?». Al contrario, ne ha ricevuto un bene, poiché ha imparato a conoscere Catone. Non curarsi delle ingiurie ricevute è segno di magnanimità: la vendetta più infamante è far vedere all’offensore che non lo si ritiene meritevole di vendetta. La quale spesso fa apparire un’offesa di poco conto più grave di quanto non sia stata in realtà. Grande e nobile è colui che si mostra insensibile alle offese, come una grossa belva che ascolta senza battere ciglio l’abbaiare di innocui cagnolini. 33. «Ma se non ci vendichiamo andiamo incontro a un’offesa maggiore». Se pensiamo che la vendetta sia un rimedio, prendiamocela pure, ma senza adirarci, in vista della sua utilità, non per nostra personale soddisfazione. Spesso, però, è meglio fingere di ignorare l’offesa piuttosto che vendicarsi. Le ingiurie dei potenti vanno sopportate pazientemente e col sorriso sulle labbra, onde evitare che quelli, se ci mostriamo offesi, ci provino gusto. Chi insuperbisce della sua buona sorte ha questo pessimo difetto: odia tutti quelli che
offende. È nota la storiella di quel tale che, giunto alla vecchiaia dopo aver servito un re dietro l’altro, a uno che gli aveva chiesto come fosse arrivato a quell’età – visto che invecchiare, per chi viveva a corte, era piuttosto raro – rispose: «Ricevendo offese e ringraziando». Spesso, poi, la vendetta è così sconveniente che non giova nemmeno dire di essere stati offesi. Caligola aveva fatto incarcerare il figlio di Pastore, un illustre cavaliere romano, solo perché si sentiva offeso dalla sua eleganza e dalla sua accurata capigliatura. Avendolo il padre pregato di liberarlo, ordinò che il prigioniero venisse subito ucciso, come se il vecchio invece della grazia gli avesse chiesto la condanna a morte. Poi, per non incrudelire del tutto su di lui, in quello stesso giorno lo invitò a cena. Pastore vi andò senza mostrare nel volto alcuna espressione di rimprovero. Cesare ordinò che gli fosse versato mezzo litro di vino e gli mise accanto uno che lo sorvegliasse. Ebbene, quel poveretto ebbe la forza di resistere e trangugiò il liquido come se bevesse il sangue del figlio. Caligola gli fece portare unguenti e corone, sempre ordinando di controllare se accettava quei doni, e lui se li prese. Nel giorno stesso del funerale del figlio, anzi, nel giorno in cui gli era stato vietato di seppellirlo, se ne stava seduto a banchetto fra cento commensali, lui, vecchio e malato di podagra, trangugiando bevande che sarebbero state eccessive persino per festeggiare la nascita dei figli. E non versò una lacrima, non permise al dolore di manifestarsi minimamente: cenò come se avesse ottenuto la grazia per il figlio. Vuoi sapere perché? Gliene restava un altro. «E Priamo, allora? Non nascose l’ira anche lui, non abbracciò le ginocchia di Achille, non ne baciò l’infausta mano ancora intrisa del sangue del figlio, non si sedette anch’egli alla sua mensa?» Sì, ma senza unguenti, profumi e corone di fiori, e quel nemico spietato, pur nella sua crudeltà, lo esortò con molte parole di conforto a prender cibo, non lo costrinse a prosciugare enormi coppe di vino sotto lo sguardo di un controllore che incombeva sopra la sua testa. Quel padre romano sarebbe da disprezzare se avesse agito così perché temeva per la propria vita: fu invece l’amore per il figlio che l’indusse a comportarsi in quel modo e lo trattenne dall’ira. Però, almeno dopo il banchetto avrebbe meritato di andare a raccogliere le ossa del figlio, ma il giovane Caligola, che pur sapeva a volte essere benevolo e gentile, non gli permise neppure questo: continuava a provocare il vecchio con un brindisi dietro l’altro per lenire il suo dolore; ma quello si mostrò sereno e dimentico di ciò ch’era accaduto in quel giorno: se non fosse stato un commensale così garbato il carnefice gli avrebbe ucciso anche l’altro figlio. 34. Bisogna dunque non lasciarsi mai prendere dall’ira, chiunque sia colui contro cui vorremmo scagliarci, un nostro pari, un superiore o un inferiore. Nel primo caso, infatti, l’esito dello scontro è incerto, nel secondo sarebbe un’impresa pazzesca, nel terzo meschina. Mordere chi ci ha morso è cosa gretta e spregevole: i topi e le formiche come accosti la mano scappano; i deboli si
ritengono offesi se soltanto li sfiori con un dito. Pensiamo invece se la persona contro cui è rivolta la nostra ira ci è stata utile qualche volta: ciò ci renderà più indulgenti e i suoi meriti riscatteranno l’offesa. Non dimentichiamo poi il favore popolare che potrà procurarci la fama della nostra clemenza e quanti amici utili ci acquisterà il perdono. Tanto meno dobbiamo adirarci coi figli dei nostri nemici o avversari: nulla, infatti, è più esecrabile che il far ricadere sui figli l’odio che si ha per i padri. Come fece Silla, che fra i tanti esempi di crudeltà annovera anche quello di aver mandato in esilio i figli dei proscritti. Quando ci riesce difficile perdonare chiediamoci che cosa mai ci guadagniamo a essere tutti inesorabili: quante volte chi l’ha negato ha poi dovuto chiedere il perdono! O si è gettato ai piedi di colui che aveva respinto dai suoi! Cosa c’è di più nobile che trasformare l’ira in amicizia? Il popolo romano non ha forse tra i suoi più fedeli alleati quelli ch’erano stati i suoi più acerrimi nemici? Che impero sarebbe il nostro se una salutare lungimiranza non avesse fuso insieme vinti e vincitori? Uno si adira contro di te? E tu provocalo con un gesto di bontà. Una sfida se l’altra parte non la raccoglie cade subito nel vuoto: non si può combattere, infatti, se non si è in due. Ma se l’uno e l’altro fanno a gara a chi è più adirato lo scontro è inevitabile. Il migliore è quello che cede per primo: in pratica vince chi perde. Se ti colpisce, ritirati, se controbatti gli dài l’occasione e il pretesto per continuare a colpire e a quel punto non servirà più che tu decida di mollare. Nessuno vorrebbe colpire il nemico così pesantemente da lasciare la mano nella ferita senza potersi ritrarre dal colpo vibrato. L’ira, invece, è come un’arma che una volta lanciata diventa poi difficile ritirare. Nello scegliere un’arma la prima cosa a cui badiamo è la praticità: una spada dev’essere maneggevole ed efficace. Analogamente noi cerchiamo di evitare quegli impulsi dell’animo che sono pesanti, funesti e irrevocabili. Lodevole è infine quella velocità che quando riceve l’ordine di fermarsi si arresta, che non va oltre la meta stabilita, che sa cambiare direzione e passare dalla corsa all’andatura normale. È noto che i nervi si affaticano se li muoviamo contro voglia, e chi volendo camminare si mette a correre o è vecchio o è malato: sono da ritenersi quanto mai validi e sani quei moti dell’animo che seguono la nostra volontà, non quelli che vanno per conto loro. 35. Nulla, però, ci sarà tanto utile quanto il considerare prima di tutto l’aspetto ripugnante di questo vizio, poi il pericolo che ne deriva. L’ira è fra le passioni la più sconvolgente a vedersi: sfigura i visi più belli e rende torvi quelli più sereni. L’adirato perde ogni decoro: se prima portava il mantello sì che le pieghe cadessero a regola d’arte, ora invece se lo trascina dietro senza alcun riguardo; i capelli, che prima, per natura o per arte, stavano bene adagiati intorno alla testa, all’insorgere dell’ira si rizzano; le vene si ingrossano, il petto è scosso da un respiro affannoso, il collo si gonfia per il rabbioso erompere della voce, gli arti si fanno tremanti, le mani irrequiete, il corpo è tutto un
fremito. E dentro? Come pensi che sia l’animo di un uomo che offre esternamente un’immagine così ripugnante? Quanto dev’essere più terribile il suo volto interiore, quanto più furioso il respiro, più violenta la tensione, pronta a farlo scoppiare se non riesce a trovare uno sfogo! Quale è l’aspetto dei nemici o degli animali feroci quando sono intrisi di sangue o si dispongono alla strage, quali sono i mostri infernali raffigurati dai poeti col corpo avvolto da serpenti e con la bocca di fuoco, quali le più spaventose divinità degli inferi che erompono dal sottosuolo per suscitare guerre, seminare discordie e infrangere paci fra i popoli, tale dobbiamo immaginarci l’ira: strepitante di sibili, di muggiti, di gemiti, di grida e di ogni altro insopportabile suono, gli occhi ardenti di fiamme, irte e vibranti di strali entrambe le mani (poiché, tutta tesa a offendere, nulla porta a sua protezione), torvo lo sguardo, imbrattata di sangue, coperta di cicatrici, livida dei colpi che lei stessa si è inferti, furiosa nell’incedere, avvolta in un denso fumo, pronta ad assalire, a devastare, a volgere in fuga, agitata da un odio indiscriminato contro chiunque, e, se non può nuocere ad altri, persino contro sé stessa, smaniosa di distruggere terre, mari e cielo, ostile e osteggiata insieme. Così è l’ira. Ma, se si vuole, va anche bene la descrizione che ne fanno i nostri poeti: … e con la veste sbrindellata esulta la Discordia, seguita da Bellona col suo rosso flagello insanguinato.42 O qualunque altra, ancora più terribile, che si convenga a questa spaventevole passione. 36. «Sestio dice che guardarsi allo specchio quando si è adirati può essere di grande aiuto. Così è capitato ad alcuni, che messi come di fronte a un fatto nuovo e improvviso sono rimasti letteralmente sconvolti da quel loro totale cambiamento e non si sono riconosciuti. E l’immagine riflessa nello specchio dava solo una pallida idea della bruttezza reale. Se l’animo potesse mostrarsi, luccicando in qualcosa di materiale, ci stupiremmo [quando sia mosso dall’ira] nel vederlo tutto nero, pieno di macchie, ribollente, gonfio e deformato. Per quanto, anche in condizioni normali, a giudicare da quel che affiora attraverso le ossa, la carne e tutti gli altri impacci del corpo, non si può dire che faccia una bella figura. Come sarebbe se potesse mostrarsi senza tutti questi impedimenti?». In verità non è credibile che uno possa essere distolto dall’ira guardandosi in uno specchio. «E perché?». Perché chi va a mettersi davanti allo specchio per cambiarsi in effetti è già cambiato. Gli adirati, invece, tali sono e tali vogliono apparire: per loro nessun aspetto è più piacevole di quello atroce e terribile che hanno. Ma vediamo piuttosto quante sono le vittime provocate direttamente dall’ira.
La foga eccessiva fa scoppiar le vene, il gridare al di sopra delle proprie forze provoca emorragie, un flusso troppo violento agli occhi offusca la vista e frequenti sono negli ammalati le ricadute. Non c’è via più veloce alla pazzia: è così che molti vi sono arrivati, e non hanno più recuperato il senno perduto. Aiace Telamonio, preso dall’ira [perché privato delle armi di Achille], impazzì e si tolse la vita.43 Quelli che si adirano augurano la morte ai propri figli, la miseria a sé stessi, la rovina alla propria casa e negano di essere adirati, così come i pazzi negano di essere pazzi. Nemici dei loro amici più intimi, pericolosi per le persone più care, immemori delle leggi (ma non di quelle che prescrivono pene), mutevoli per un nonnulla, chiusi a ogni discorso e a ogni gesto di cortesia, fanno tutto con la violenza, pronti a metter mano alla spada, per nuocere agli altri o a sé stessi, schiavi come sono del più grande dei mali, che li supera tutti. Gli altri vizi, infatti, si insinuano nell’animo a poco a poco, mentre questo scatta istantaneo, con una forza totale. L’ira, infine, riduce in suo potere tutte le altre passioni: vince anche l’amore più ardente, visto che alcuni arrivano persino a uccidere la persona amata, per poi giacere abbracciati accanto a lei. Calpesta addirittura l’avarizia, che è il più duro dei vizi e per nulla disposto a piegarsi, costringendola a disfarsi delle ricchezze e a dare alle fiamme la casa con tutto quel che c’è dentro. E per lei l’ambizioso non getta via le insegne, che prima aveva tanto stimato, e non rifiuta le onorificenze che gli vengono offerte? Non c’è insomma passione che l’ira non riesca a padroneggiare.
Libro terzo 1. Ora, caro Novato, ti farò vedere – questo è infatti ciò che tu sommamente desideri – come si possa estirpare l’ira dall’animo, o quantomeno frenarla e contenerne l’impeto. È una cosa che a volte si deve fare in modo palese e al cospetto di tutti, quando la minore violenza del male lo consente, a volte, invece, di nascosto, quando l’ira è troppo accesa e ogni ostacolo la esaspera e l’accresce. È importante conoscere l’entità delle sue forze, se siano integre, se bisogna affrontarla e respingerla, o se si debba cederle, per dar modo alla tempesta di placarsi, visto ch’è ancora nella fase iniziale: ciò per evitare che una volta esplosa in tutta la sua potenza si porti via anche i rimedi. Occorre inoltre tenere presente il carattere delle singole persone e regolarsi di conseguenza: c’è infatti chi si lascia vincere dalle preghiere, chi si sfoga aggredendo i deboli; chi si placa con le minacce, chi con un rimprovero, chi desiste dall’ira confessandola o perché ne prova vergogna, chi, infine, ha bisogno di tempo per uscirne, e a questo rimedio, troppo lento per un male così pericoloso e sconvolgente, bisogna affidarsi solo come ultima ratio. Le altre passioni, infatti, consentono una dilazione e si possono curare con calma, mentre l’ira, che è tutta eccitazione e sconvolgimento, ha una violenza che quando insorge è già al suo massimo, non va crescendo via via. Inoltre non stuzzica gli animi come fanno gli
altri vizi, ma li strappa a sé stessi, rendendoli incapaci di dominarsi e desiderosi di nuocere, sia agli altri che a sé stessi, e si scaglia non solo contro i diretti interessati ma contro tutto ciò che incontra sul suo cammino. Gli altri vizi eccitano gli animi, l’ira li travolge precipitosamente. Anche se non è possibile resistere alle proprie passioni, tuttavia si può imporre loro un limite, mentre l’ira – come i fulmini, le tempeste e tutti gli altri fenomeni che sono inarrestabili in quanto non avanzano ma cadono dall’alto – va accrescendo la sua forza sempre di più. Gli altri vizi distolgono l’uomo dalla giusta condotta, l’ira lo allontana dalla ragione; gli altri vizi crescono lentamente e senza che ce ne accorgiamo, l’ira precipita l’animo in un baratro. Nessuna passione, dunque, è più insensata e schiava delle sue stesse forze quanto l’ira: superba se ha successo, folle se non raggiunge lo scopo, non cede neppure alla sconfitta, e se la sorte le ha sottratto l’avversario rivolge i suoi morsi contro sé stessa. E la sua reazione non è mai commisurata all’entità della causa che l’ha scatenata, ma pur muovendo da banalissimi motivi raggiunge le vette più alte. 2. Nessuna età, nessuna razza umana le sfugge. Ci sono popolazioni così povere che non sanno nemmeno cosa sia il lusso, altre che per essere nomadi e sempre in azione ignorano la pigrizia, altre che, avvezze a una vita primitiva e contadina, non conoscono l’inganno, la frode e tutti i mali del foro, ma non c’è popolo che non sia istigato dall’ira, la quale esercita il suo potere tanto fra i Greci quanto fra i barbari, non meno pericolosa per chi rispetta le leggi che per chi fonda il diritto sulla forza. Inoltre gli altri vizi colpiscono gl’individui, l’ira è l’unica passione capace di afferrare tutta una nazione. Non è mai accaduto che un popolo intero si sia innamorato di una stessa e unica donna o che tutta una città abbia riposto le sue speranze nel denaro o nel guadagno; parimenti l’ambizione prende gli uomini singolarmente e la prepotenza non è un male di massa. L’ira, invece, molte volte afferra in un colpo solo uomini e donne, vecchi e bambini, nobili e volgo, e questa enorme massa di persone, come una schiera unanime e concorde, eccitata da poche parole, supera persino colui che l’ha istigata, mettendo tutto a ferro e fuoco, dichiarando guerra ai popoli confinanti o addirittura combattendo all’interno di sé stessa, cittadini fra cittadini. Così si bruciano le case con dentro intere famiglie, e chi poco prima è stato tenuto in grande onore per la sua convincente eloquenza finisce col subire il furore di quelli stessi che l’hanno applaudito; si vedono eserciti ribellarsi e scagliare i giavellotti contro il loro generale, intere masse di popolo in discordia con i nobili, senatori che in barba a regolari arruolamenti e nomine legali di comandanti si scelgono capi improvvisati a servizio della propria ira, e che dopo aver dato la caccia, di casa in casa, a personaggi illustri si fanno giustizia da sé, membri di ambasciate percossi, in pieno dispregio del diritto delle genti, città intere travolte e trascinate da una rabbia feroce e indescrivibile, navi che scendono in mare cariche di soldati arruolati alla rinfusa sotto la spinta di un furore popolare a cui non si dà il tempo di placarsi. Così, senza alcun rispetto
per la tradizione e senza i preventivi auspici, in preda all’ira il popolo afferra e usa come armi qualunque cosa gli capiti fra le mani o riesca a rubare, per poi scontare con la sua stessa rovina l’impulso di un’ira sfrontata e temeraria. Questa è la fine degna di uomini barbari, che in guerra vanno all’assalto sconsideratamente: irritabili come sono per natura, si sentono colpiti anche solo dall’idea o dalla più piccola parvenza di un’offesa, s’inalberano subito e spinti dalla rabbia si gettano sulle legioni come una valanga, in disordine, senza timori e precauzioni di sorta, anzi, sfidando deliberatamente il pericolo, in quanto godono di esser colpiti, di gettarsi sulle spade nemiche, di fermare col proprio corpo i proiettili e di morire così, per le ferite ch’essi stessi hanno cercato. 3. «Non c’è dubbio che l’ira è una forza immensa e funesta. Dimmi dunque in che modo la si debba guarire». Ebbene, visto che Aristotele, come ho accennato nei libri precedenti, la difende e sconsiglia di debellarla, sostenendo ch’è uno sprone alla virtù e che senza di lei l’animo è inerme, pigro e incapace di compiere grandi imprese, bisogna prima rivelarne tutta la bruttezza e la ferocia, mostrando chiaramente quanto sia bestiale un uomo che si adira contro un suo simile e come l’impeto lo porti a nuocere agli altri anche a costo di far male a sé stesso, quando l’aggredito non può precipitare nell’abisso se non insieme a colui che ve lo spinge. E non è un folle chi, sorpreso da un uragano, invece di procedere attentamente si lascia travolgere dalla furia della tempesta? Tale è l’uomo preso dall’ira, che disdegnando di lasciare ad altri il compito di vendicarlo infierisce personalmente, con deliberato proposito, su chi l’ha offeso, facendosi spesso carnefice persino delle persone più care, di cui poco dopo piangerà la perdita. Come si fa a ritenere compagna e sostegno della virtù questa passione che distoglie la mente dalle decisioni assennate, senza le quali la virtù stessa non potrebbe realizzare nulla? Effimere, infauste e capaci solo di danneggiarlo sono quelle forze che ridanno vigore al malato, quando provengono dall’aggravarsi della malattia. Non credere ch’io stia perdendo tempo in discorsi inutili o superflui nel mettere l’ira sotto accusa, visto che gli uomini non hanno dubbi a tale riguardo: [mi sono dilungato in tutte queste considerazioni] solo perché c’è qualcuno – un filosofo, per giunta, e tra i più illustri – che le assegna una funzione e la invoca nelle battaglie, nelle azioni importanti e in tutto ciò che richiede un certo entusiasmo, ritenendola utile e capace d’infondere coraggio. Affinché l’ira non inganni nessuno, con l’idea di poter giovare in qualche caso o in qualche condizione particolare, bisogna che se ne mostri il furore sfrenato e sbigottito, elencando a uno a uno tutti gli strumenti di cui dispone: cavalletti, corde, lavori forzati, crocifissioni, roghi accesi sotto i corpi legati ai pali,44 l’uncino per trascinare i cadaveri, i vari tipi di catene, di supplizi, lo squarcio delle membra, il marchio sulla fronte, le gabbie di animali feroci. Facciamola vedere in mezzo a tutti questi attrezzi mentre stride sinistramente, orribile e disgustosa più degli
strumenti stessi del suo tetro furore. 4. Se mai ci sono dubbi su tutto il resto, è certo che nessuna passione mostra nell’uomo un aspetto peggiore di quello che genera l’ira. Ne abbiamo già parlato nei libri precedenti: volto aspro e crudele, ora pallido per il ritrarsi e il rifluire del sangue, ora rossastro per il calore e la collera che vi si riversano, o tutto insanguinato per il gonfiarsi delle vene; occhi ora tremuli e oscillanti di qua e di là, quasi a voler schizzare fuori dalle orbite, ora, invece, smarriti, immobili e fissi in un solo punto. Mettici poi i denti, che stridono e si arrotano come se volessero sbranare qualcuno, facendo lo stesso rumore di quello dei cinghiali quando affilano, sfregandole, le loro zanne; e lo schiocco delle dita per il torcersi delle mani fra loro, i ripetuti colpi sul petto, il respiro affannoso, i rantoli che salgono dal profondo, il corpo sempre in movimento, le parole inarticolate e incomprensibili per le improvvise esclamazioni, le labbra tremule e strette in un sibilo foriero di chissà quali orribili disastri. In fede mia l’aspetto di un uomo ribollente d’ira è più spaventoso di quello di una belva oppressa dalla fame, o che abbia il fianco trafitto da una lancia o, peggio ancora, che, ferita a morte, cerchi, in extremis, di azzannare il cacciatore. Ebbene, queste, se hai voglia di ascoltarle, sono le grida e le minacce che escono da un animo tormentato da una tale passione. Ed è possibile che uno non faccia nulla per liberarsene quando sia consapevole che il primo danno lo farà a sé stesso? Non credi che si debbano mettere in guardia quelli che pongono al servizio dell’ira tutte le proprie energie, convinti che sia una prova di forza e che l’avere una vendetta così a portata di mano sia una delle più grandi fortune? Che si debba dir loro che un uomo adirato non solo non è affatto potente, ma non può dirsi neppure libero? Non vuoi che li avverta – affinché siano più attenti e circospetti – che, mentre le altre passioni si diffondono solo negli animi malati, l’ira s’insinua anche nelle persone colte e sane sotto tutti gli aspetti? Anche perché alcuni ritengono che l’ira sia un segno di spontaneità e comunemente si crede che i più malleabili siano proprio coloro che vi si assoggettano. 5. «Ma dove vuoi arrivare con questo discorso?» A impedire che qualcuno si ritenga al sicuro dall’ira, visto che possono essere spinte alla ferocia e alla violenza anche le persone calme e tranquille per natura. Come la pestilenza colpisce indiscriminatamente i deboli e i forti, e a nulla giovano contro di lei un fisico robusto e un’attenta cura della salute, così l’ira aggredisce sia i temperamenti inquieti che quelli calmi e remissivi, salvo che con questi ultimi si mostra ancora più turpe e pericolosa perché in loro il cambiamento è più evidente. Ora, considerato che il primo punto della questione è non lasciarsi prendere dall’ira, il secondo allontanarla e il terzo aiutare anche gli altri a guarirne, vediamo innanzitutto come evitarla, poi come liberarsene, infine come frenare chi è adirato, come placarlo e restituirlo alla ragione.
Riusciremo a non adirarci se avremo ben chiari davanti agli occhi tutti gli aspetti negativi dell’ira e la valuteremo secondo giustizia. Dobbiamo processarla nell’intimo della nostra coscienza e condannarla. Dopo averne ricercato, esaminato e confessato apertamente i misfatti, la metteremo a confronto con i vizi peggiori affinché appaia in tutta la sua realtà. Così, ad esempio, mentre l’avarizia induce ad acquistare e accumulare beni di cui poi si gioveranno altri che non sono avari, l’ira, invece, è dispendiosa e solo a pochi non costa nulla: pensa quanti schiavi ha perduto un padrone per i suoi attacchi di collera, o perché sono scappati o perché sono morti per colpa sua! Quella perdita ha superato di gran lunga il valore della cosa per cui egli si era arrabbiato. L’ira a un padre può portare un lutto, a un marito il divorzio, a un magistrato l’odio, a un politico la sconfitta elettorale. L’ira è peggiore anche della lussuria, perché il collerico gode del dolore altrui, mentre il lussurioso gioisce del proprio piacere. Supera pure la malignità e l’invidia, perché mentre il malevolo e l’invidioso si limitano a desiderare l’infelicità altrui e gioiscono di disgrazie fortuite, l’adirato si adopera egli stesso per rendere gli altri infelici e non aspetta l’intervento del caso o del destino perché sia colpito chi odia ma vuole essere lui a fargli del male. Non c’è poi cosa più triste delle rivalità, che trovano appunto nell’ira il loro alimento: la guerra, ch’è il malanno di tutti i malanni, nasce dall’ira dei potenti; ma anche l’ira del volgo anonimo e dei privati è una guerra, sia pure senz’armi e senza esercito. Inoltre l’ira, anche a non prenderne in considerazione gli effetti immediati, come i danni, le insidie, l’ansia continua per le liti e gli scontri fra le due parti, nel momento stesso in cui cerca di punire resta punita, perché rinnega la natura umana: questa, infatti, invita all’amore, quella all’odio, l’una impone che si faccia del bene, l’altra del male. Per di più l’indignazione che fa scattare l’ira, pur sembrando un segno di magnanimità, in quanto nasce da un’elevata stima di sé, è un impulso gretto e meschino, poiché chi si ritiene snobbato da uno in realtà vale meno di lui. Un animo veramente grande e ben consapevole del proprio valore non raccoglie l’offesa, non la sente, e perciò non si vendica. Come una freccia rimbalza quando cade su una superficie solida, o come noi ci facciamo male se urtiamo contro qualcosa di duro, così l’offesa non è avvertita da un animo grande, perché è più debole di ciò che colpisce. Quanto è più bello lasciar cadere tutte le ingiurie e le contumelie, come se si fosse impenetrabili a ogni arma! Vendicarsi significa ammettere di essere stati feriti, e non è grande quell’animo che si lascia piegare dall’offesa. Chi ti offende o è più potente o è più debole di te: se è più debole, risparmialo, se è più potente, risparmia te stesso. 6. Non c’è prova più certa di grandezza del non lasciarsi toccare da qualunque cosa possa accadere. La parte superiore del cielo, quella che è più ordinata e vicina alle stelle, non si addensa in nuvole, non prorompe in tempeste, né si rivolge in vorticosi mulinelli d’aria, ma è priva di qualsiasi turbamento: è
nelle zone più basse che scoppiano tuoni e fulmini. Allo stesso modo uno spirito elevato, che sia sempre sereno e in continuo stato di tranquillità, capace di reprimere dentro di sé ogni impulso che possa risolversi in un accesso d’ira, si mantiene equilibrato, rispettabile e bene ordinato: niente di tutto questo si trova in un uomo soggetto a un attacco di collera. Chi, infatti, quando è in preda al dolore e s’infuria, non getta via il primitivo pudore? Chi, scagliandosi contro qualcuno perché sconvolto da una passione, non perde il suo consueto contegno? Chi, quando è eccitato, resta cosciente della quantità e della scala dei suoi doveri? Chi sa frenare la lingua, tener ferma una sola parte del corpo, controllarsi, insomma, una volta partito a briglia sciolta? Seguiamo quel salutare precetto di Democrito secondo cui la serenità, nella vita pubblica come in quella privata, consiste nel non fare cose eccessive o superiori alle nostre forze. Chi corre sempre ininterrottamente di qua e di là per sbrigare un affare dietro l’altro non riesce a passare un solo giorno tranquillo senza che qualcuno o qualche cosa gli procuri una contrarietà che lo disponga all’ira. Come chi si affretta per le strade affollate della città è inevitabile che si scontri con molte persone, e qui riesce a svicolare, là invece è bloccato da qualcuno o imbrattato [da un carro che passa], così, in questo nostro vivere dissipato e vagabondo c’imbattiamo in molti ostacoli e inconvenienti: uno delude una nostra speranza, un altro la rimanda, un altro ce la toglie del tutto: i nostri piani non sono andati come volevamo. Non c’è persona a cui la sorte sia così propizia da corrispondere sempre alle sue aspettative, per cui chi vede andare in fumo i suoi progetti diventa intollerante, degli uomini e delle cose, e se la prende per un nonnulla, coi suoi affari, con chi li tratta, col posto, con la sfortuna o con sé stesso. Perciò se vogliamo vivere tranquilli – come ho accennato poc’anzi – non dobbiamo affaticarci e impelagarci in tante faccende e per giunta al di sopra delle nostre forze: è facile caricarsi sulle spalle pesi non eccessivi e portarli da una parte e dall’altra senza cadere, mentre quei pesi che ci sono stati imposti da altri facciamo fatica a sostenerli e ben presto, sfiniti, li lasciamo andare; ma anche mentre li portiamo, se il carico è eccessivo, vacilliamo. 7. Come ho già detto, queste cose accadono sia nella vita pubblica che in quella privata. Gli affari semplici e di poco peso si fanno sbrigare facilmente, mentre quelli impegnativi e superiori alle nostre possibilità, che già sono difficili in partenza, appena li abbiamo avviati ci sovrastano e ci confondono, noi crediamo di padroneggiarli e quelli crollano insieme a noi. Così avviene che spesso la volontà di chi affronta imprese non facili con la presunzione di trovare facile tutto ciò che si accinge a fare, se ne va in frantumi. Ogni volta che vorrai fare qualcosa soppesa bene te stesso, l’impresa a cui ti accingi e i mezzi con cui affrontarla, perché poi il rammarico di non aver portato a termine l’opera non ti renda intrattabile. Tieni presente che c’è differenza fra un temperamento focoso e uno freddo o dimesso, che in un animo nobile
l’insuccesso provoca l’ira, in uno languido e inerte la tristezza. Le nostre azioni, dunque, non siano né meschine, né temerarie, né sproporzionate, la speranza ci stia sempre vicino, e asteniamoci da tentativi ardui il cui esito debba poi sorprenderci perché sono andati a buon fine. 8. Se non sappiamo tollerare le offese facciamo in modo di non riceverle, frequentando persone quanto più possibile calme, cordiali e per nulla ansiose o stravaganti: l’uomo, infatti, modella i suoi comportamenti su quelli di coloro che gli vivono intorno, e come certe malattie del corpo si trasmettono per contatto, così un animo infetto contagia quelli che gli stanno vicino: l’ubriaco trascina chi lo frequenta all’amore per il vino, una congrega di dissoluti rammollisce anche un uomo forte (se in quel caso si può parlare di uomo), l’avaro diffonde il suo veleno in quelli che lo circondano. Lo stesso, ma in senso opposto, accade con la virtù, la quale rende migliore tutto ciò che le sta accanto: una zona benefica o un clima salubre non giova tanto alla salute quanto a un carattere debole lo stare insieme con spiriti forti e risoluti. Per renderti conto del potere e dell’efficacia di un tale contatto, guarda come le belve si ammansiscono se vivono con noi. Non v’è infatti animale feroce che conservi il suo istinto violento dopo una lunga convivenza con l’uomo: in un ambiente tranquillo ogni sua asprezza si attenua e a poco a poco scompare. A questo aggiungi che chi vive in compagnia di gente calma diventa migliore non solo per l’esempio che ha davanti ma anche perché non trova occasioni e motivi per adirarsi e tirar fuori quel suo difetto. Egli, dunque, dovrà evitare tutte quelle persone che ritiene capaci di irritarlo. «Che tipi di persone?». Sono tanti quelli che possono offenderti, e per vari motivi: l’arrogante col disprezzo, lo sfrontato con la villania, l’insolente con l’insulto, l’invidioso con la malignità, il litigioso con la provocazione, lo spaccone e il bugiardo con la vanità; e tu non potrai tollerare di essere temuto da un sospettoso, messo a tacere da un testardo, snobbato da uno schizzinoso. Scegliti dunque amici semplici, affabili ed equilibrati, che non suscitino da parte tua alcuno scatto d’ira, o che comunque sappiano sopportarlo; ancora di più potranno giovarti i caratteri miti, amabili e indulgenti, non però sino all’adulazione, perché l’eccessiva condiscendenza infastidisce le persone irascibili: come quel nostro amico, indubbiamente buono ma molto facile all’ira, che quando montava in collera non sapevi se prenderlo con le buone o con le cattive. È noto che l’oratore Celio era sommamente irascibile.45 Ebbene, un suo cliente, ch’era dotato di un notevole spirito di sopportazione e sapeva quanto gli fosse difficile non litigare con chi gli stava accanto, invitato a cena da lui nella sua camera da letto, si era proposto di approvare tutto ciò che Celio avrebbe detto e di assecondarlo, come se questa fosse la cosa migliore. Ma Celio a un certo punto, stanco di tanta arrendevolezza, montando in collera esclamò: «Contraddicimi almeno in qualche cosa, così ci accorgeremo di essere in due!».
Poi anche lui, che si arrabbiava perché in mancanza di un contestatore non poteva arrabbiarsi, smise di arrabbiarsi. Dunque, se sappiamo di essere facili all’ira, è meglio che ci scegliamo come compagni delle persone che accettino i nostri atteggiamenti e le nostre parole. È vero che la loro frequentazione ci renderà sofistici e c’indurrà nella cattiva abitudine di non voler sentire nulla che sia contrario al nostro modo di pensare, ma servirà a dare un po’ di tregua e un po’ di pace al vizio dell’ira. Anche gli scontrosi e i ribelli per natura accettano chi li blandisce: una carezza non è mai sgradita o pericolosa. Quando ci rendiamo conto, fin dall’inizio, che la discussione tende ad andare per le lunghe e a farsi troppo accesa, fermiamoci prima che acquisti forza, poiché la disputa si alimenta da sé e [come un mare vorticoso] trascina avviluppati nel profondo quelli che vi si sono immersi: è più facile astenersi dalla lotta che venirne fuori. 9. Bisogna poi che chi è soggetto all’ira eviti le applicazioni troppo gravose, o quanto meno vi si dedichi senza arrivare alla stanchezza. Né egli deve impegnare la mente in varie attività ma la tenga occupata solo in quelle piacevoli, rasserenandola con la lettura di poesie e intrattenendola con narrazioni storiche: la tratti, insomma, con garbo e delicatezza. Pitagora placava con la lira i turbamenti dell’animo: è noto, infatti, che il suono dei corni e delle trombe è eccitante, mentre certi canti accarezzano la mente rilassandola. E come il verde fa bene agli occhi annebbiati e certi colori sono riposanti per una vista debole, mentre altri, per il loro splendore, l’abbagliano, così le occupazioni gradevoli placano le menti agitate. Per questo bisogna evitare le attività del foro, la professione di avvocato, i processi e tutto ciò che può esasperare il vizio dell’ira; parimenti occorre guardarsi dalla stanchezza fisica, che disperde quanto in noi c’è di mite e di tranquillo ed eccita la parte aspra dell’animo. Come i deboli di stomaco, se devono dedicarsi ad affari di un certo impegno, seguono una dieta idonea a calmare la bile – la quale viene eccitata soprattutto dalla stanchezza, che spinge il calore verso il centro del corpo rallentando la circolazione del sangue nelle vene affaticate – e come un corpo sfibrato e indebolito pesa sull’animo, così chi è fiaccato dalla malattia o dall’età è più propenso all’ira. Per lo stesso motivo si devono evitare la fame e la sete, che eccitano e infiammano l’animo. Un vecchio proverbio dice che chi è stanco cerca la lite: lo stesso fa chi ha fame, sete o qualche cosa che gli brucia dentro. Come un uomo coperto di piaghe prova dolore se lo si tocca, o anche solo al timore di essere sfiorato, così un animo che soffre si risente per un nonnulla, basta un saluto, una lettera, un discorso o una domanda per farlo arrabbiare: non puoi, insomma, toccare una parte malata senza provocare un lamento. 10. Bisogna dunque curarsi ai primi sintomi del male, cercando di parlare quanto meno possibile e contenendo lo sfogo. Non è difficile trattenere le proprie
passioni al loro primo insorgere: come le malattie, la pioggia e la burrasca, così anche l’ira, l’amore e tutte quelle tempeste che tormentano gli animi hanno dei segni premonitori. Chi è soggetto ad attacchi di epilessia percepisce l’arrivo del male quando le estremità del corpo diminuiscono di calore, e se gli gira la testa e sta per perdere la coscienza gli prende un tremito nervoso e gli si offusca la vista.46 Egli cerca così di prevenire il male ricorrendo ai rimedi consueti: rimuove tutto ciò il cui odore o il cui sapore provoca la perdita dei sensi e reagisce al freddo e all’irrigidimento con dei fomenti, e se quella cura non basta, per non farsi vedere dai presenti, si allontana e cade a terra lasciandosi andare. È utile conoscere le proprie malattie e soffocarne la forza prima che questa si espanda. Cerchiamo dunque di capire cos’è che ci eccita maggiormente: chi monta in collera per una parola, chi per un gesto, chi per una mancanza di riguardo, alla sua nobiltà o alla sua bellezza, chi perché vuol essere ritenuto più raffinato degli altri, chi più dotto, chi non sopporta l’arroganza, chi l’indisciplina. C’è poi chi ritiene che non valga la pena adirarsi con gli schiavi, chi è violento in casa sua e mite fuori, chi si offende se qualcuno lo prega, perché considera quel gesto un segno d’invidia, chi, al contrario, giudica un’offesa il non essere pregato. Inoltre non tutti sono vulnerabili dallo stesso lato: devi dunque sapere qual è il tuo punto debole per poter proteggere principalmente quello. 11. Non bisogna dar peso a tutto ciò che si vede e che si ascolta. Chiudiamo dunque gli occhi di fronte a certe offese, pensiamo che la maggior parte di esse ci sono sconosciute e quindi non ci toccano. Non vuoi adirarti? Non essere curioso: chi s’informa di tutto ciò che si dice di lui, chi va a scavare i discorsi malevoli, fatti magari in via del tutto privata e quindi chiusi nel segreto, si tormenta da sé. Se ci mettiamo a interpretare questo e quello finiamo col trovare offese dappertutto: perciò talvolta dobbiamo prender tempo, talvolta sorriderne, talvolta lasciar perdere. Restringiamo i confini dell’ira: possiamo farlo in molti modi. Il più delle volte una situazione può essere risolta con una battuta allegra, spiritosa, come fece Socrate, che ricevuto uno schiaffo esclamò: «È un guaio che gli uomini non sappiano quando devono uscire con l’elmo!». Più che il modo in cui l’offesa viene fatta bisogna vedere come la si sopporta, e io non credo che sia difficile controllarsi quando è noto che persino dei tiranni, gonfi di superbia per il potere o per la buona sorte, hanno saputo reprimere la loro abituale crudeltà. Si racconta che Pisistrato, tiranno d’Atene, avendo un suo invitato, alquanto brillo, sciorinato una sfilza di accuse contro la sua crudeltà – e chi era pronto a dargli una mano, chi in un modo o nell’altro lo incoraggiava – sopportò in tutta calma l’offesa e benché i suoi lo istigassero a reagire esclamò: «Costui non mi ha irritato più di quanto potrebbe fare uno che mi urtasse con gli occhi bendati».
12. Molti si fanno del male con le proprie mani, o perché s’inventano sospetti infondati o perché dànno peso a cose di scarsa importanza. Spesso è l’ira che viene da noi, ma più spesso siamo noi che andiamo da lei. E invece non dobbiamo mai cercarla, e anche quando c’imbattiamo in lei dobbiamo respingerla. Non c’è nessuno che dica a sé stesso: «Mi sono adirato per una cosa che ho fatto anch’io, o che avrei potuto fare». Bisogna poi considerare non solo l’offesa in sé stessa, ma anche l’intenzione con cui è stata arrecata, cosa che nessuno generalmente fa: occorre infatti vedere se l’autore ha agito volontariamente o accidentalmente, se perché costretto o perché ingannato, per odio o in vista di un qualche utile, se ha seguito un proprio impulso o ha posto la sua mano al servizio di altri, tenere presente la sua età, la sua condizione sociale o lo stato in cui si trova in quel momento, per poter dire se sopportare e rassegnarsi sia segno non di viltà, ma di umanità. Se ci mettiamo nella condizione della persona contro cui ci adiriamo vedremo che il nostro atteggiamento è dovuto a un’errata valutazione di noi stessi, al fatto che ci rifiutiamo di subire ciò che pure noi abbiamo avuto in mente di fare. Il miglior rimedio contro l’ira è prender tempo, perché ciò permette di smorzarne il bollore iniziale e di dissolvere o attenuare quella nebbia che ci offusca la mente. Basterà un’ora, nemmeno un giorno, perché alcuni di quegli impulsi precipitosi si plachino, altri, invece, svaniranno del tutto. Se poi il temporeggiare che ci siamo imposti non avrà alcun effetto vorrà dire che la nostra reazione, al di là di uno scatto d’ira istintivo, era già un processo con una sentenza bella e pronunciata. Se vuoi avere una conoscenza esatta di una cosa rimettiti al tempo: non si può distinguere chiaramente un oggetto in movimento. Un giorno Platone, adiratosi con un suo schiavo, non seppe aspettare, e dopo aver ordinato al colpevole di togliersi la tunica e di porgere le spalle alla frusta, alzò la mano, pronto a colpire. Ma in quel momento, accortosi di essersi lasciato trascinare dall’ira, si bloccò, e così rimase, tenendo la mano sospesa in aria, nell’atteggiamento, appunto, di chi sta per colpire. «Che cosa stai facendo?», gli domandò un amico sopraggiunto per caso. «Sto per punire un uomo adirato», rispose il filosofo. E come inebetito se ne stava in quell’atteggiamento aggressivo, disdicevole a un uomo saggio, senza pensare più allo schiavo, perché aveva trovato un altro che meritava di essere punito. Così rinunciò al potere che aveva sui suoi schiavi e piuttosto turbato per quella sua colpa, disse: «Ti prego, Speusippo, castiga tu con la frusta questo schiavo: io sono adirato». Ebbene, il motivo che lo indusse a non picchiare fu lo stesso che avrebbe indotto altri a farlo. «Sono adirato», si disse, «perciò farei più di quanto sia necessario, e lo farei troppo volentieri: questo schiavo non deve essere in potere di uno che non è padrone di sé». Come dunque si può affidare la vendetta a un uomo adirato quando Platone se ne tolse il diritto egli stesso? Niente ti sia lecito finché sei adirato. Vuoi sapere per quale ragione? Perché [in quel momento] vorresti che ti fosse lecito tutto.
13. Lotta con te stesso: l’ira non può vincerti se tu sei deciso a vincere lei. Ed è già una vittoria quando riesci a nasconderla, a non darle sfogo. Soffochiamone i sintomi e, per quanto ci è possibile, teniamola occulta e segreta. Ciò ci costerà non poca fatica, perché l’ira tende a esplodere, a infiammare gli occhi e stravolgere il viso, ma se la lasciamo uscir fuori prenderà il sopravvento. Sotterriamola nei bassifondi del cuore, sì che non sia lei a possederlo ma lui a possedere lei. Anzi, volgiamo al contrario ogni suo indizio, distendendo il volto, addolcendo la voce, rallentando il passo, così il nostro aspetto interiore a poco a poco si conformerà a quello esteriore. Socrate quando abbassava la voce e diventava sobrio nel parlare lasciava intravedere ch’era stato preso dall’ira, e allora era evidente che combatteva con sé stesso. Gli amici se ne accorgevano e lo biasimavano, ma a lui non dispiaceva il rimprovero per un’ira che riusciva a nascondere. E perché non avrebbe dovuto rallegrarsi che molti intuissero la sua ira quando nessuno ne subiva gli effetti? Se non avesse concesso loro il diritto di rimproverarlo – un diritto reciproco, che si era preso anche lui – allora sì gli amici ne avrebbero sentite le conseguenze! Ebbene, a maggior ragione noi dobbiamo fare lo stesso: concedere ai nostri migliori amici la più ampia libertà d’intervenire, specialmente quando siamo meno disposti a tollerarla, disapprovando i nostri scatti d’ira: chiamiamoli in nostro soccorso contro un male così potente e gratificante mentre siamo pienamente consapevoli e padroni di noi stessi. Chi non sopporta il vino e teme di poter incorrere nelle sventatezze e nelle insolenze tipiche degli ubriachi, prega gli amici di portarlo via dal banchetto, chi sa di essere sregolato nel cibo, e ne ha pagate le spese durante una malattia, chiede che quando sta male non si dia ascolto alle sue richieste. La miglior cosa da fare, dunque, è crearci degli ostacoli ai vizi che sappiamo di avere, e predisporre l’animo in modo che, per quanto sia scosso da eventi gravissimi e inattesi, o non si lasci prendere dall’ira o, se questa è scoppiata in conseguenza di un’offesa pesante e improvvisa, la rimandi giù, nel profondo, senza manifestare alcun risentimento. Per dimostrare chiaramente come ciò sia possibile prenderò dal gran mucchio pochi esempi che ci insegnano due cose: quanto male sia capace di produrre l’ira se utilizza tutti i mezzi di cui dispongono uomini potentissimi, e quanto riesca a contenersi sotto l’influsso di un timore più forte di lei. 14. Il re Cambise era troppo dedito al vino e perciò Prexaspe, uno dei suoi più cari amici, lo esortava a bere di meno:47 «L’ubriachezza», gli diceva, «è sconveniente per un re, il quale, qualunque cosa dica o faccia, è sempre spiato da tutti». Cambise allora gli rispose: «Affinché tu sappia che io non perdo mai il controllo di me stesso, ti dimostrerò che anche dopo aver bevuto i miei occhi e le mie mani assolvono al loro compito in modo inappuntabile». Dopodiché bevve più abbondantemente del solito e in coppe molto grandi,
poi, stordito completamente dal vino, ordinò al figlio del suo censore di entrare nella sala e di fermarsi tenendo la mano sinistra alzata sopra la testa. Allora tese l’arco e puntato dritto al cuore dell’adolescente, così come aveva detto, lo centrò in pieno, quindi, apertogli il petto, fece notare che la freccia s’era conficcata proprio lì dov’egli aveva mirato. Poi si rivolse al padre del ragazzo e gli chiese: «Ti sembra che la mia mano sia abbastanza ferma?». E lui: «Neppure Apollo avrebbe potuto tirare con maggior precisione». Maledetto sia sempre quell’uomo, così servile d’animo più di quanto non lo fosse per la sua condizione! Tessé l’elogio di un gesto a cui era già troppo ch’egli avesse assistito: il petto del figlio spaccato in due e il suo cuore palpitante sotto la ferita furono per lui lo spunto per una ennesima adulazione! Avrebbe invece dovuto contestargli quella bravura e chiedergli di ripetere il tiro per far vedere quanto fosse ancora più sicura la sua mano verso di lui che ne era il padre. Quanto fu sanguinario quel re! Degno che tutti gli archi dei suoi gli si volgessero contro! Ma se il gesto di quest’uomo, che concludeva i suoi banchetti con uccisioni e torture, ci lascia inorriditi, chi lodò quella freccia fu certamente più infame di colui che la scagliò. Dopo vedremo come avrebbe dovuto comportarsi quel padre davanti al cadavere del figlio, della cui morte era stato testimone e causa: per ora ciò che balza evidente [da quella sua condotta] – e che costituisce il tema del nostro discorso – è che l’ira può essere repressa. Quell’uomo, infatti, non insultò il re, non si lasciò sfuggire nemmeno un’espressione di dolore, anche se sentiva il suo cuore trafitto come quello del figlio. Si può giustamente dargli atto di essersi ingoiato le parole [che gli venivano alle labbra], perché se come uomo preso dall’ira poteva dire qualcosa, come padre non poteva far nulla. Io dico che in questa circostanza si dimostrò più saggio di quando dava a Cambise consigli di sobrietà, perché era meglio che bevesse vino piuttosto che sangue, e finché teneva in mano il bicchiere c’era la pace [per lui e per gli altri]. Così Prexaspe è entrato nel numero di coloro che con i propri lutti testimoniano quanto caro costino i buoni e amichevoli consigli dati a un re. 15. Anche Arpago, ministro di Astiage, re dei Persiani, 48 dovette consigliare qualcosa del genere al suo sovrano, il quale, risentito, gli fece imbandire le carni dei figli e gli chiese più volte se il modo in cui erano condite fosse di suo gradimento, e alla fine, quando lo vide abbastanza sazio dei suoi mali, fece portare le loro teste e gli domandò: «Che te n’è parso di questa mia ricetta?». Quel miserabile, invece di tenere chiusa la bocca, non esitò a rispondere: «Alla mensa di un re qualunque pasto è gradito». Forse questa adulazione gli evitò che il re lo invitasse a mangiare anche le teste dei figli. Ora, io non dico che un padre non debba condannare un atto del suo re, non gl’impedisco di chiedere un giusto castigo per una così orribile
mostruosità, ma intanto ne traggo [anche qui] la conclusione che persino quando è provocata dai mali più grandi e più dolorosi l’ira può essere tenuta nascosta e costretta a pronunciare parole contrarie al suo consueto modo di esprimersi. Saper frenare il dolore è necessario soprattutto a coloro che hanno avuto in sorte un tale genere di vita e sono invitati alla mensa dei re: questo è il prezzo che si paga quando si mangia, si beve e si conversa con loro: il dover ridere dei propri lutti. Se poi valga la pena pagare un tale prezzo per aver salva la vita, questa è un’altra questione, e ne parleremo più avanti. Io non intendo fornire un rimedio a consolazione di una così triste prigionia, non esorto ad accettare e sopportare la tirannia dei carnefici, voglio mostrare che in ogni schiavitù c’è una via verso la libertà. Chi è sofferente e infelice di per sé stesso, non per colpa di altri, può porre fine alla sua vita e al suo dolore. Lo dico sia a quelli che si sono messi al servizio di un re che scaglia frecce ai petti degli amici, sia a quelli il cui signore pasce i padri con le carni dei loro figli: «Sciocco, perché ti lamenti? Aspetti forse che venga un nemico a liberarti dalle tue sofferenze, uccidendo, insieme a te, tutta la tua gente, o che un re potente accorra in tuo aiuto da terre lontane? Guardati intorno: la fine dei tuoi mali è a portata di mano. Vedi quel precipizio? Per di lì si scende verso la libertà. Vedi quel mare, quel fiume, quel pozzo? Lì, sul fondo, sta la libertà. Vedi quell’albero, piccolo, rinsecchito e sterile? Da lì pende la libertà. Vedi il tuo collo, la tua gola, il tuo cuore? Sono vie di fuga dalla schiavitù. Ti sembrano soluzioni troppo faticose, che richiedono molto coraggio e molta forza fisica? Ebbene, una qualunque vena del tuo corpo può essere la strada della libertà». 16. Ma finché nulla ci sembra tanto intollerabile da indurci ad abbandonare la vita, teniamo lontana l’ira, quale che sia la nostra condizione. Essa è funesta a chi è costretto a servire, perché ogni sua irritazione gli accresce il tormento, e più egli si ribella agli ordini, più questi gli pesano: come una belva, quando, nel tentativo di liberarsi dai lacci che la imprigionano, finisce con lo stringerli ancora di più, e come gli uccelli, che mentre cercano di scrollarsi di dosso il vischio [usato per catturarli] se lo spargono su tutte le penne. Non c’è giogo tanto stretto che non ferisca egualmente chi lo sopporta e chi gli si ribella. C’è un solo sollievo ai grandi mali: sopportarli, facendo buon viso alla cattiva sorte. Ora, se a coloro che sono costretti a servire torna utile contenere le proprie passioni, e soprattutto l’ira, che è rabbiosa e sfrenata, maggior giovamento può venirne a un re: quando infatti si lascia che l’ira esprima tutte le sue potenzialità, chi ne è posseduto non ha più alcuno scampo, perché quel potere malefico – che non può durare a lungo giacché coinvolge molte persone – comincia a vacillare non appena il timore comune unisce coloro che gemono separatamente. Perciò molti tiranni sono stati uccisi, chi da individui isolati, chi dall’intera popolazione, quando il risentimento generale ha fatto di tutte quelle singole una collera sola. Ciononostante la maggior parte di loro considerarono l’ira un privilegio della regalità, come Dario I, il quale, tolto il regno al[l’usurpatore
Gaumata il] Mago, s’impadronì della Persia e di gran parte dell’Oriente. Poiché aveva dichiarato guerra agli Sciti, che accerchiavano l’Oriente, il nobile e vecchio Eobazio lo pregò di lasciargli a casa, a suo sostegno, uno dei tre figli e di prendersi gli altri due. «Farò più di quanto mi chiedi», gli rispose Dario: «te li rimanderò entrambi». Dopodiché li fece uccidere e gettare ai piedi del padre, esclamando: «Sarei troppo crudele se te li portassi via tutti e tre». Ma quanto più benevolo fu Serse! Pregato da Pizio, padre di cinque figli, di risparmiargliene almeno uno, prima glielo fece scegliere, poi ordinò che il giovane fosse squarciato in due e ne piazzò i tronconi sui lati della strada, facendone il capro espiatorio di tutto l’esercito. Ma ebbe la fine che si meritava: sconfitto e sbaragliato in lungo e in largo, dovette passare fra i cadaveri dei suoi, con negli occhi l’immagine di quella sua rovina disseminata da tutte le parti. 17. Tale era la ferocia dei re barbari quando si adiravano: essi, infatti, non avevano alcuna istruzione ed erano privi di qualsiasi cultura letteraria. Ma ora ti porterò l’esempio del re Alessandro, il quale, nonostante fosse cresciuto alla scuola di Aristotele, durante un banchetto trafisse di sua mano Clito,49 il suo più caro amico e condiscepolo, perché non lo adulava abbastanza e non voleva assoggettarsi – macedone e uomo libero com’era – all’ossequio servile dei Persiani. Un’altra volta gettò in pasto a un leone Lisimaco,50 che pure era suo amico, il quale, sfuggito per un pelo ai denti dell’animale, diventato re, non fu meno crudele di lui. Fece infatti tagliare il naso e gli orecchi a Telesforo di Rodi e lo tenne chiuso a lungo in una gabbia come una bestia strana e sconosciuta: e in verità quel volto orrendo, così mutilato, aveva perso l’aspetto umano. E a renderlo ancora più bestiale si aggiungevano la fame, l’incuria e la sporcizia di un corpo abbandonato sui suoi stessi escrementi. La gabbia era così stretta e lo spazio così esiguo che il poveretto per muoversi, invece dei piedi, doveva usare le ginocchia e le mani, che a lungo andare gli si erano fatte callose, oppure strisciare sui fianchi, tutti piagati per il continuo strofinio. A vederlo non sapevi se fosse più ripugnante o più spaventoso: ridottosi a un mostro, per quella sua penosa condizione, non faceva più nemmeno pietà. Ma se lui, che pativa quel castigo, non sembrava affatto un essere umano, ancor meno lo era chi glielo aveva inflitto. 18. E magari una simile crudeltà fosse solo un’usanza straniera! Purtroppo anche questa barbarie di supplizi e di furori è entrata nei nostri costumi, insieme con altri vizi importati da fuori. Lucio Silla, per esempio, a Marco Mario51 – a cui il popolo aveva eretto statue in tutti i quartieri di Roma e offriva suppliche con incenso e con vino – fece spezzare le gambe, cavare gli occhi, tagliare la lingua e le mani e, come a volerlo uccidere tante volte quante lo feriva, lo fece sbranare lentamente, membro dopo membro. E chi era l’esecutore di quell’ordine? Chi, se non Catilina, che fin da allora esercitava il suo braccio a ogni genere di delitti? Era lui che lo faceva a pezzi davanti alla tomba di Quinto
Catulo,52 spettacolo empio e irriguardoso per le ceneri di un uomo tanto mite, sulle quali colava a goccia a goccia il sangue di un altro uomo che s’era stato di cattivo esempio aveva però goduto del consenso popolare, amato forse troppo ma non immeritatamente. Era giusto che Mario patisse quel supplizio, come pure che Silla l’ordinasse e Catilina lo eseguisse, ma la repubblica non meritava di subire sul proprio corpo le spade di quegli uomini ch’erano al tempo stesso suoi nemici e suoi vendicatori. Ma perché andare tanto lontano? Recentemente Caligola in un solo giorno fece frustare e torturare, per capriccio, non per un fatto di giustizia, Sesto Papinio, il cui padre era stato console, Betilieno Basso, il suo questore, figlio di un suo procuratore, e alcuni senatori e cavalieri romani, poi, impaziente e desideroso di sfogare subito quel piacere incontenibile che la sua crudeltà richiedeva, sul far della notte ne fece decapitare altri, mentre insieme con delle matrone e dei senatori passeggiava sulla terrazza dei giardini materni, che divide il portico dal fiume. Quale pericolo così imminente lo minacciava, quale trama, privata o pubblica, poteva consumarsi contro di lui nel giro di una sola notte? In ogni caso non poteva pazientare un poco e aspettare che facesse giorno, evitando di uccidere, in pantofole, dei senatori del popolo romano? 19. È bene che si sappia quanto fu sfrontata la sua crudeltà, e non sembri che mi allontani dall’argomento perdendomi in digressioni inutili, perché anche questo è un tema che rientra nell’ira, quando essa incrudelisce più di quanto generalmente suole. Caligola faceva frustare i senatori con le verghe e la sua ferocia arrivò a tal punto che la gente finì col dire: «Sono cose che succedono!». Li torturava con gli strumenti che sono i più terribili fra quelli che si trovano in natura: corde, stringicaviglie, cavalletti, carboni accesi e persino la sua testa. Qualcuno potrebbe osservare che non è poi una cosa tanto orripilante se quest’uomo – che meditava di trucidare il senato intero e voleva che il popolo romano avesse una sola testa per potere con un colpo solo e in un solo giorno concentrare in una esecuzione unica tutti i delitti che aveva sparso in ogni luogo e in ogni circostanza – fece squartare con frusta e fiamme, come del resto si fa con gli schiavi, tre senatori. Ma cosa c’è di più inaudito, di più vergognoso, di una tortura eseguita di notte! I furti, di solito, si fanno di nascosto, col favore delle tenebre, ma le punizioni quanto più sono visibili tanto più servono di esempio e di lezione. A questo punto qualcuno mi dirà: «Di che ti meravigli? Ciò che fa questa belva è per lei un fatto abituale: Caligola vive per questo, per questo veglia e a questo pensa durante la notte». Certo, sarà molto difficile trovare un altro che abbia ordinato di mettere una spugna in bocca ai condannati a morte per impedirgli di gridare: a quale moribondo, infatti, viene negata la possibilità di lamentarsi? Ma Caligola temeva che il dolore giunto all’estremo potesse fare uscire di bocca al condannato qualche parola di troppo, che lui non voleva ascoltare: egli sapeva che soltanto in punto di morte uno poteva rinfacciargli gli innumerevoli delitti che aveva commesso. Una volta, poiché non si trovavano
spugne, strappò le vesti di dosso ai condannati e gli riempì la bocca con quegli stracci. Che crudeltà è mai questa? Che sia consentito almeno di esalare l’ultimo respiro, di lasciare all’anima una via di uscita, libera, non attraverso una ferita. Sarebbe troppo lungo aggiungere che in una sola notte egli fece uccidere da centurioni sguinzagliati per le case anche i padri dei condannati, come per dire che lui, compassionevole com’era, li liberava dal dolore. Con tutto ciò io ho voluto descrivere non tanto la crudeltà di Caligola quanto quella dell’ira, la quale non infuria solo contro i singoli, ma strazia intere popolazioni e flagella città, fiumi e ogni altra cosa che sia insensibile al dolore. 20. Così in Siria un re di Persia fece tagliare il naso a un’intera popolazione, tanto che il luogo prese il nome di Rinocolura. Ritieni tu che sia stato benevolo dal momento che non ordinò di tagliare le teste? Egli si compiacque di un supplizio così originale. E una cosa del genere si dice che abbiano subìto gli Etiopi, che per la loro straordinaria longevità sono chiamati Macrobi. Cambise si infuriò contro di loro perché invece di accettare la schiavitù a mani tese [con le palme rivolte al cielo] avevano risposto ai suoi ambasciatori con voce franca e schietta, una cosa che ai re suona come un’offesa. Così, senza nemmeno provvedersi di viveri, egli si tirò dietro attraverso un territorio ancora inesplorato, impraticabile e privo di acqua, tutta quella moltitudine di gente da utilizzare per la sua guerra. Fin dall’inizio di quella spedizione vennero a mancargli le cose necessarie, né poteva fornirgliene quella terra sterile, incolta e mai calpestata dal piede dell’uomo. In un primo momento quei disgraziati ingannarono la fame mangiando le foglie più tenere e i germogli delle piante, poi si cibarono con pezzi di cuoio bollito e con tutto ciò che la necessità poteva rendere commestibile. Alla fine, quando in quella distesa di sabbia vennero a mancare anche le radici e le erbe e si vide che il deserto era privo di animali, tirarono a sorte su ogni dieci uno di loro per ricavarne un cibo ancora più orrendo della fame stessa. L’ira, intanto, spingeva come un folle il re, il quale ormai aveva perso quasi tutto l’esercito, una parte perché stremata dalla fame, l’altra perché era stata mangiata. Alla fine fu preso dal timore di poter essere sorteggiato anche lui: solo allora ordinò la ritirata. Nel frattempo, mentre i suoi soldati tiravano a sorte chi di loro dovesse morire di quella orribile morte e chi vivere una vita ancora peggiore, a lui venivano riservati uccelli pregiati e stoviglie trasportate con i cammelli per i suoi banchetti.53 21. Se Cambise si adirò contro una popolazione sconosciuta e innocente, ma sensibile, Ciro s’infuriò contro un fiume. Mentre andava ad assediare Babilonia, conducendo quella spedizione in tutta fretta perché l’esito di una guerra è dovuto in massima parte a circostanze casuali, a un certo punto dovette guadare il Ginde,54 il quale, essendo straripato, rendeva quell’impresa pericolosa anche d’estate, quando è in secca e ridotto al minimo. E infatti all’improvviso uno dei
cavalli bianchi, che di solito trainavano il carro regale, fu travolto dalla corrente. Ebbene, Ciro, adiratosi come una furia, giurò che avrebbe ridotto quel fiume, che s’era ingoiato il suo seguito, in condizioni tali che anche le donne potessero attraversarlo a piedi, quindi trasferì lì tutto l’apparato bellico e attese a lungo ai lavori finché non ebbe diviso l’alveo del fiume in centottanta canali e disperso le acque in trecentosessanta ruscelli, riducendolo così in secca, poiché le acque scorrevano in tutte le direzioni. Quel ritardo – il tempo è un fattore molto importante nelle grandi imprese – smorzò l’entusiasmo dei soldati, sfiniti da un lavoro inutile, e fece svanire la possibilità di cogliere i nemici impreparati: Ciro, insomma, fece a un fiume la guerra che aveva dichiarato al nemico. Quella follia (non potrei infatti usare una parola diversa) contagiò anche i Romani, se si pensa che Caligola fece demolire una sua bellissima villa nei pressi di Ercolano solo perché in precedenza vi era stata tenuta prigioniera la madre.55 Così, però, la rese famosa, visto che quando era in piedi quelli che vi passavano davanti con le loro imbarcazioni non vi facevano caso, mentre ora tutti si chiedono perché sia stata demolita. 22. Ma questi sono esempi su cui riflettere per evitarli. Sono invece da seguire quelli di moderazione e di umanità, anche se non vi mancano motivi per adirarsi e il diritto di vendicarsi, come nel caso del re Antigono. 56 Due soldati sparlavano di lui standosene appoggiati alla sua tenda, una cosa che gli uomini fanno spesso e volentieri, non senza rischio e pericolo. Ebbene, il re avrebbe potuto facilmente mandarli al supplizio, poiché aveva udito tutto, essendoci di mezzo tra lui e i soldati soltanto un telo. Egli invece scostò appena il lembo della tenda e disse: «Andate più lontano, affinché il re non vi senta». Un’altra volta, di notte, avendo sentito alcuni soldati lanciare contro di lui ogni sorta di imprecazioni perché li aveva costretti a quella marcia forzata in mezzo a un pantano che non mostrava alcuna via di uscita, si avvicinò, senza farsi riconoscere, a quelli che si trovavano in maggiore difficoltà, e dopo averli tratti d’impaccio esclamò: «Adesso parlate pure male di Antigono, che ha commesso l’errore di cacciarvi in questo guaio, ma augurategli anche del bene perché vi ha tirati fuori da questo ingorgo melmoso». Egli sapeva sopportare con indulgenza sia le ingiurie dei nemici che quelle dei suoi sudditi. Una volta, mentre assediava un piccolo fortino occupato dai Greci, avendo udito che questi, forti della loro posizione, disprezzavano il nemico e prendevano in giro lui per la sua bruttezza, deridendo ora la sua bassa statura, ora il suo naso schiacciato, alla fine [riferendosi a sé stesso] esclamò: «Sono contento, e spero proprio che le cose mi vadano bene, visto che ho un Sileno nel mio accampamento».57 Dopo aver piegato per fame quei maldicenti, così trattò i prigionieri: distribuì nelle sue coorti quelli che erano abili al servizio militare, gli altri li fece vendere all’asta, precisando che non lo avrebbe fatto se non avesse ritenuto
giusto che delle lingue così malvagie dovessero avere un padrone. 23. Questo vizio l’aveva anche Alessandro, nipote di Antigono, 58 il quale scagliava lance contro i suoi commensali e una volta, come ho detto più sopra, gettò in pasto a un leone un amico, che riuscì a scamparla, mentre un altro l’uccise di sua mano. Ma non lo ereditò né dal nonno né dal padre Filippo, il quale fra le altre virtù aveva quella di sopportare le offese, che è una grande risorsa per un re che voglia mantenersi sul trono. Un giorno giunsero da Atene degli ambasciatori, fra i quali Democare, uno che per la sua lingua sfacciata e provocante era chiamato Parresiaste.59 Filippo, dopo averli ascoltati benevolmente, gli chiese: «Che cosa posso fare per gli Ateniesi?». «Impiccarti!», sbottò Democare. Quella risposta così sfrontata provocò una indignazione generale, ma Filippo, invitati tutti a tacere, lasciò che quel Tersite se ne andasse via sano e salvo. E rivolto agli altri ambasciatori disse: «Quanto a voi, riferite agli Ateniesi che chi offende in questo modo è molto più arrogante di chi lo ascolta senza infierire su di lui». Anche il divino Augusto diede spesso prova, con le parole e coi fatti, di non lasciarsi prendere dall’ira, e molti sono gli episodi degni di essere ricordati. Lo storico Timagene,60 per esempio, era solito sparlare di lui, della moglie e di tutta la famiglia: la sua maldicenza non andava a vuoto, poiché le battute più audaci circolano facilmente e finiscono sulla bocca di tutti. L’imperatore stesso lo aveva più volte pregato di tenere a freno quella sua linguaccia, finché, visto che non la smetteva, lo mise alla porta. Timagene invecchiò in casa di Asinio Pollione,61 conteso da tutta la città: l’essere stato cacciato dall’imperatore, infatti, non gli sbarrò nessun’altra porta. Egli poté leggere pubblicamente le opere storiche che compose in seguito, bruciò i libri in cui aveva narrato le gesta di Cesare Augusto e compì atti di aperta ostilità contro di lui, senza che alcuno avesse paura di tenerselo amico o di sfuggirlo come se fosse colpito da un fulmine, anzi ci fu chi gli diede ospitalità dopo ch’era caduto da tanta altezza. Ebbene, come ho detto, l’imperatore sopportò tutto con pazienza e non si arrabbiò neppure perché aveva manipolato la verità sulle sue imprese meritorie, né mai si lamentò con chi ospitava quel suo nemico. Ad Asinio Pollione disse soltanto: «Tu nutri una belva». E come quello cercava di trovare una scusa, interrompendolo, aggiunse: «Goditelo pure, Pollione mio, goditelo!». Al che Pollione rispose: «Se me lo ordini lo caccio subito da casa mia». Ma lui: «E tu pensi che io possa chiedertelo dopo che vi ho riconciliati?». Pollione, infatti, un tempo era stato in collera con Timagene, poi lo aveva perdonato, ma solo perché in collera con lui c’era andato Augusto. 24. Perciò, quando riteniamo che uno ci abbia offeso, diciamo a noi stessi: «Sono io forse più potente di Filippo? Eppure, lui si è lasciato insultare senza reagire. Ho più potere io che comando solo in casa mia di quanto non ne ebbe il
divino Augusto sul mondo intero? Nonostante ciò, egli si limitò ad allontanare dalla sua casa colui che lo ingiuriava. Per quale motivo, dunque, dovrei fare scontare a un mio schiavo, a suon di frustate e di catene, una sua risposta schietta, un atteggiamento che io non condivido, un brontolio che in effetti non mi tocca? Chi sono io per ritenermi offeso da una parola che mi ferisce solo l’orecchio? Molti perdonano i loro nemici e io non devo perdonare dei fannulloni, degli sprovveduti, dei chiacchieroni?».62 Un bambino sia scusato per l’età, una donna per il sesso, un forestiero perché è indipendente, un domestico perché è della famiglia. Alla prima volta che uno di costoro ci offende pensiamo a tutto il tempo in cui ci è stato simpatico, se ci ha offeso altre volte e spesso: sopportiamo come abbiamo fatto sino a quel momento. Se è un amico lo ha fatto involontariamente, se è un nemico ha fatto ciò che doveva. Ascoltiamo i più saggi, perdoniamo i più sciocchi, riflettiamo, a beneficio di tutti, che anche i più saggi spesso commettono errori, che nessuno è così accorto da non perdere qualche volta, almeno in parte, la sua prudenza, nessuno è così maturo da non incorrere mai, neppure casualmente, in qualche atto inconsulto, nessuno è così timoroso di offendere da non commettere egli stesso un’offesa proprio mentre cerca di evitarla. 25. Come a un poveruomo a cui capita una disgrazia è di conforto pensare che anche con i grandi la sorte non sempre è favorevole, come in un angolo della sua casa un padre piange con animo rassegnato la morte di un figlio quando sa che pure in una reggia ci sono fanciulli che muoiono, così se pensiamo che l’offesa può colpire anche i più potenti sopporteremo con maggior serenità di essere offesi o addirittura disprezzati. Se persino i più prudenti sbagliano, potrà mai esserci uno che commetta un errore senza avere bella e pronta la sua scusa? Pensiamo a quante volte da ragazzi siamo stati poco diligenti nell’adempiere ai nostri doveri, smodati nel parlare, poco temperanti nel bere. Ebbene, se uno si adira contro di noi, diamogli il tempo di rendersi conto del suo gesto: alla fine sarà egli stesso a punirsi. E non intestardiamoci a voler pareggiare i conti se siamo in credito con lui. Chi non si cura delle offese non solo si distingue dalla massa, ma si erge molto più in alto di chi invece vi dà peso: la vera grandezza di un uomo sta proprio nel non avvertire il colpo. Così una grossa belva si volta svogliata al latrare dei cani, così una forte ondata si rovescia invano contro un grande scoglio. Chi non si adira rimane saldo e immobile di fronte all’offesa, chi si adira ne resta ferito. Ma il saggio, che come ho detto si erge al di sopra degli eventi e tiene tra le braccia il sommo bene, così risponde agli uomini e alla sorte: «Fate quello che volete, siete troppo piccoli per potere intaccare la mia serenità. Merito della mia ragione, alla quale ho affidato il governo della mia vita. L’ira mi nuocerebbe più dell’offesa, perché l’offesa ha un limite, mentre l’ira non posso sapere fin dove potrebbe portarmi».
26. «Ma io non sono capace di sopportare un’offesa: è difficile, costa fatica tollerarla!». Tu menti: se si sopporta l’ira come si può non sopportare un’offesa? Aggiungo che in questo modo sopporti sia l’ira che l’offesa. Perché sopportiamo la rabbia di un ammalato, le parole di un pazzo, le mani sfacciate dei bambini? Evidentemente perché loro non sanno quello che fanno. Né serve distinguere tra vizio e vizio quando l’incoscienza è una scusante valida per tutti. «Dunque chi offende non deve essere punito?». Qualunque castigo è in sostanza inutile, perché la più grande punizione dell’offesa è la coscienza di averla fatta, e nessuna punizione è più grave di quella subìta da colui che è preso e tormentato dal rimorso. E poi, per poter giudicare obiettivamente ciò che accade bisogna tener conto delle varie situazioni: non è giusto, per esempio, addebitare a un singolo un vizio che è comune a tutti. In una folla di Etiopi tu non badi al colore della pelle di questo o di quello, così come tra i Germani non disdicono agli uomini i capelli biondi e annodati: non è mai criticabile e tanto meno vergognoso in un individuo ciò che rientra nell’uso comune della sua gente. E se giustifichiamo questi casi, che riguardano i costumi di una regione o di un angolo del mondo, pensa quanto sia più giusto perdonare quei difetti che appartengono all’intera umanità. Siamo tutti sconsiderati e sprovveduti, tutti indecisi, brontoloni, ambiziosi (perché nascondere con giri di parole una piaga comune?): siamo tutti dei malvagi. Ciò che oggi rimproveriamo agli altri domani ce lo ritroveremo in noi stessi. Perché vai segnando a dito il pallore di questo o la magrezza di quello? Siamo tutti appestati. Cerchiamo quindi di essere tolleranti l’uno con l’altro: siamo dei malvagi che vivono in mezzo ad altri malvagi. Una sola cosa può renderci sereni, uniti e concordi: la comprensione reciproca. «Ma se uno mi ha recato un danno senza che io gli abbia fatto nulla?». Forse hai offeso qualcun altro, o l’offenderai. Non guardare quest’ora o questo giorno, pensa al tuo comportamento in generale, rifletti che se non hai fatto nulla di male può sempre accaderti di farlo. 27. Ma poi è meglio sanare un’offesa piuttosto che vendicarla. La vendetta si espone a sua volta a molte offese, pur lamentandone una sola, e si trascina nel tempo. L’ira dura più della ferita che ne riceviamo. È meglio allora prendere un’altra strada e non combattere un vizio con un altro vizio. Ti sembrerebbe assennato uno che restituisse i calci alla sua mula o i morsi al suo cane?63 «Ma gli animali non sanno di fare del male!». Innanzitutto chi pensa che l’essere uomini renda impossibile o difficile il perdono sbaglia. In secondo luogo, se non ti adiri con tutti gli animali perché agiscono inconsciamente, devi comportarti allo stesso modo con chiunque non si renda conto di quello che fa. Uno può essere diverso dagli animali per tanti altri aspetti, ma se gli somiglia per l’incoscienza del male o degli errori che essi
fanno, per il loro cervello ottenebrato, in questo caso dov’è la differenza? Ha sbagliato, tu dici. È la prima volta? È l’ultima? Anche se dice «Non lo farò più» non devi credergli: egli sbaglierà ancora, così come gli altri sbaglieranno nei suoi confronti, e tutta la vita in questo modo volerà via fra gli sbagli. Chi non è buono va trattato con bontà. Si dica anche nell’ira ciò che si suole dire a sé stessi con efficacia nella sventura: la smetterai una buona volta, o no? Se la devi finire, quanto è più conveniente che abbandoni tu l’ira piuttosto che sia lei a lasciare te! O dovremo essere sempre in agitazione? Non vedi che vita tormentata ti prepari? E come sarà la vita di un uomo sempre infuriato? Aggiungi che quando ti sarai infiammato ben bene e avrai trovato sempre nuovi motivi per arrabbiarti, l’ira finirà con l’andarsene via da sé, perché il tempo le toglierà ogni forza. E allora? Meglio che sia sconfitta da te piuttosto che da sé stessa. 28. Ci si adira con tutti: si comincia con i domestici, poi con i genitori, con i figli, con le persone che si conoscono e con gli sconosciuti: i motivi sono tanti e si trovano sempre e dovunque, se non ci si mette l’animo a tenerli lontani. La collera trascina in tutte le direzioni, e a provocazione si aggiunge provocazione, sicché la rabbia non si ferma. Sventurato, non troverai mai, dunque, uno spazio per l’amore? Quanto tempo perduto, che avresti potuto utilizzare per una buona azione! Come sarebbe stato meglio se lo avessi speso procurandoti degli amici, rappacificandoti con i nemici, dedicandoti all’amministrazione dello Stato o agli affari di casa, invece di darti da fare studiando come ferire qualcuno nel suo prestigio, nei suoi beni e nella sua persona fisica! E per fare tutto questo devi lottare, andare incontro a rischi, anche se hai da fare con uno che vale meno di te. Pur s’egli fosse incatenato e sotto la tua completa volontà, a forza di infierire su di lui potresti anche slogarti un braccio, spezzarti un nervo rimasto impigliato nei suoi denti. Anche quando ha incontrato dei soggetti passivi, l’ira ha reso molte persone monche o invalide. Aggiungi che nessuno nasce così debole da morire senza pericolo di chi lo schiaccia: certe volte il dolore o le circostanze mettono i deboli alla pari coi più forti. Fra l’altro, nella maggior parte dei casi ciò che provoca la nostra ira sono le offese non le ferite. C’è differenza fra chi si oppone alla mia volontà e chi non la condivide, fra chi mi ruba e chi non mi dà. E invece noi mettiamo sullo stesso piano chi ci deruba e chi non ci dà, chi manda a monte i nostri progetti e chi li rinvia, chi agisce contro di noi e chi a proprio vantaggio, per amore di altri o per odio verso di noi. Alcuni poi si arrabbiano per motivi che sono non solo giusti ma anche nobili, come la difesa del proprio padre, del fratello, della patria o di un amico, eppure noi neppure in questo caso li giustifichiamo: se però non lo facessero li biasimeremmo, anzi – e ciò è davvero incredibile – molte volte giudichiamo bene un’azione e male la persona che la fa. Ma perdinci, dico, l’uomo magnanimo e giusto ammira anche i suoi nemici quando sono molto coraggiosi e difendono tenacissimamente la libertà e la salvezza della patria, e sono questi i concittadini e i soldati ch’egli desidera
avere. 29. È vergognoso odiare chi è meritevole di lode, ma ancor più vergognoso è odiare uno che dovrebbe ispirare compassione, come un prigioniero, che caduto improvvisamente in schiavitù, e perciò ancora memore della libertà di cui godeva, stenta ad accettare mansioni umilianti e faticose; o come uno schiavo, che infiacchito dal riposo non ce la fa a correr dietro al cavallo e alla carrozza del padrone, o cade dal sonno perché sfinito da giorni e giorni di veglia; così chi è passato dalla riposante schiavitù della città alla dura fatica dei campi si rifiuta di lavorare la terra o lo fa con fiacca e di malavoglia. Distinguiamo dunque chi non può da chi non vuole. Se prima di montare in collera esaminiamo le cose con giudizio ne assolveremo molti. Invece noi seguiamo il primo impulso, e anche quando riconosciamo che i motivi della nostra eccitazione erano futili non la smettiamo, per non dare l’impressione che abbiamo cominciato senza un motivo. Infine – e questa è l’ingiustizia più grave – l’iniquità della nostra ira ci rende più ostinati; ce la teniamo e l’aumentiamo, come se l’essere sommamente adirati fosse la prova che avevamo una buona ragione per adirarci. 30. È meglio quindi tenere sempre presente che l’ira al suo insorgere è legata a motivi futili e innocui. Anche l’uomo in certi casi si comporta come gli animali: ci turbiamo infatti per cose di nessun conto o campate in aria: il toro si eccita al colore rosso, il serpente si drizza per un’ombra, orsi e leoni si irritano alla sola vista di un fazzoletto; tutti gli esseri feroci e rabbiosi per natura si spaventano per cose da nulla. Lo stesso accade a chi è inquieto o sciocco per carattere: si sente ferito da un sospetto, tanto da giudicare offese persino quei piccoli benefìci che sono proprio la molla dell’ira più frequente e sconsiderata. Ci adiriamo, infatti, con le persone più care perché ci hanno dato meno di quanto noi pensavamo o di quanto ci hanno dato altri; eppure in entrambi i casi abbiamo un rimedio a portata di mano. Uno è stato più generoso con un altro? Rallegriamoci di ciò che abbiamo noi, senza fare confronti: non sarà mai felice chi si tormenta perché un altro è più felice. Ho meno di quanto speravo? Forse ho sperato troppo. Queste sono le cose che più si devono temere, perché è da lì che nascono le ire più funeste e capaci di intaccare anche gli affetti più sacri. Il divino Giulio ebbe tra i suoi uccisori più amici che nemici, perché non aveva soddisfatto le loro insaziabili brame. Ma per quanto egli lo volesse (nessuno fu più liberale di lui dopo una vittoria per la quale non chiese altro premio che quello di donare agli altri), non avrebbe mai potuto esaudire desideri così sfrenati, visto che ciascuno degli amici desiderava ciò che poteva essere dato a uno soltanto di loro. Così egli vide i suoi compagni d’armi circondare il suo seggio con le spade in pugno: Tillio Cimbro, 64 che sino a poco prima era stato un suo acceso sostenitore, e tanti altri, diventati pompeiani all’ultimo momento, quando Pompeo era ormai morto. L’ira è una passione che ha spinto interi eserciti a ribellarsi contro i loro re e uomini fidatissimi a progettare la
morte di coloro per i quali e al cospetto dei quali avevano giurato di morire. 31. L’uomo non si accontenta di ciò che possiede quando vede che altri hanno di più. Per questo ce la prendiamo anche con gli dèi se qualcuno ci passa davanti, dimenticando quanti sono quelli che ci seguono e quanta invidia si tira dietro chi ha pochi da invidiare. Ma gli uomini sono così sfrontati che anche quando hanno avuto molto si sentono offesi perché presumono di meritare di più. E così dicono «Mi ha dato la pretura, ma io aspiravo al consolato; mi ha dato i dodici fasci, ma non mi ha fatto console ordinario; ha voluto che si datasse l’anno col mio nome, ma mi ha negato il sacerdozio; sono stato eletto in un collegio, ma perché in uno solo?65 Mi ha fatto avere il massimo degli onori, ma non ha aggiunto un soldo al mio patrimonio: mi ha dato ciò che doveva pur dare a qualcuno, ma di suo non ci ha messo nulla». Ringrazia piuttosto per quello che hai ricevuto: il resto aspettalo e consolati di non essere pienamente soddisfatto: tra i piaceri c’è anche quello di aspettarsi ancora qualcosa. Hai superato tutti? Rallegrati di occupare il primo posto nell’animo del tuo amico. Molti ti passano davanti? Pensa che quelli che ti vengono dietro sono molto più numerosi di quelli che ti precedono. Vuoi sapere qual è il tuo più grande difetto? Sbagli nel fare i conti, valutando molto quello che dài e poco quel che ricevi. 32. Varie sono le ragioni che devono trattenerci dall’ira: con alcuni dobbiamo astenercene per timore, con altri per rispetto, con altri per disprezzo. Che bella impresa mandare in carcere per tutta la vita un povero schiavo! Perché affrettarsi a farlo frustare, a fargli spezzare subito le gambe? Avremo sempre la possibilità di farlo in un secondo momento. Aspettiamo di essere noi a dominare l’ira, perché ora obbediremmo ai suoi ordini: quando lei se ne sarà andata, allora vedremo quanto peso si debba dare alla questione. È questo, soprattutto, il nostro errore: mettiamo subito mano alla spada, condanniamo a morte o puniamo con catene, carcere e fame, una colpa che dovrebbe essere punita con qualche colpo di frusta. «Ma come? Vuoi farci vedere quanto siano insignificanti, misere e puerili cose che invece ci feriscono?». In verità il miglior consiglio che posso darvi è quello di essere magnanimi, facendovi capire quanto siano vili e meschine tutte queste cose per cui litighiamo e ci affanniamo, correndo di qua e di là: un animo nobile ed elevato non deve nemmeno prenderle in considerazione. 33. Ma è per il denaro che si litiga di più: è lui che dà lavoro ai tribunali, che semina la zizzania fra i padri e figli, che sparge veleni, che mette la spada in mano agli assassini e alle legioni, che si bagna del nostro sangue; è per lui che le notti risuonano degli alterchi di mogli e mariti, che masse di gente affollano le tribune dei magistrati, che i re incrudeliscono, saccheggiano e distruggono città,
costruite dalla fatica di intere generazioni, per frugare fra le loro ceneri l’oro e l’argento. Guarda gli scrigni accantonati in un angolo della casa: è per quelli che si grida fino a farsi uscire gli occhi dalle orbite, è per quelli che le basiliche risuonano dello strepito dei processi e che magistrati, venuti dalle regioni più lontane, si riuniscono per giudicare quale delle due avidità sia più giusta. Che dire, poi, se non si tratta nemmeno di uno scrigno, se un vecchio senza eredi crepa di bile per un pugno di monete o per un denaro messo in più nel conto da uno schiavo? Che dire se per un misero uno per mille di interesse un usuraio, malandato, coi piedi storti e le mani ormai incapaci di contare il denaro, grida e reclama negli accessi del male, i soldi che gli sono stati promessi, versati in tribunale come cauzione? Se tu mi portassi davanti tutta la ricchezza che si estrae dalla profondità delle miniere, se mettessi a mia disposizione tutto ciò che si cela nei tesori (gli avari rimettono sotto terra ciò che non doveva uscirne), io non riterrei che tutto quel mucchio meriti di far corrugare la fronte a un uomo virtuoso. Quante lacrime ci lasciamo strappare da cose che invece dovremmo accogliere con grandi risate! 34. E ora passiamo in rassegna tutte le altre cose [che possono spingerci all’ira]: il mangiare e il bere, con le loro ambiziose apparecchiature, le suppellettili, le parole offensive, i gesti irriguardosi, gli animali pigri e gli schiavi indolenti, i sospetti e le interpretazioni malevole dei discorsi altrui (per cui verrebbe da pensare che la natura ha concesso all’uomo la parola per farne un’arma di offesa). Credimi, non valgono nulla i motivi per i quali ci lasciamo andare in violente escandescenze; come quelli che spingono i bambini a litigare e a insultarsi. Di quel che facciamo quando siamo in collera nulla è serio e importante, perciò, ripeto, la vostra ira, la vostra pazzia, nasce dal fatto che date un valore eccessivo a cose da nulla. Costui – voi dite – ha voluto portarmi via un’eredità, quello mi ha calunniato presso persone che mi ero fatte amiche con tanta fatica, sperando che si ricordassero di me nei loro ultimi istanti; quell’altro si è invaghito della mia amante. Così ciò che dovrebbe unirci e affratellarci in un desiderio comune diventa motivo di odio e di discordia. Una strada stretta provoca risse tra i passanti, una strada larga e spaziosa fa sì che nemmeno le folle vi si scontrino. Ebbene, le cose che desideriamo perché sono scarse e che possiamo avere solo sottraendole ad altri suscitano liti e scontri fra coloro che se le contendono. 35. Ti indigni perché un tuo schiavo, un tuo liberto, tua moglie o un tuo cliente ti ha rimbeccato, e poi ti lamenti perché lo Stato ha soppresso quella libertà che tu hai abolito in casa tua. Se invece uno non risponde alle tue domande dici che è un arrogante. Ma lascialo parlare! Lascia che taccia, o che rida, se vuole! «Anche davanti al suo padrone?».
Anzi, davanti al padre di famiglia. Perché gridi, perché strilli, perché durante la cena fai frustare gli schiavi che parlano, quando dove c’è una folla da comizio non si può pretendere un silenzio da deserto? Gli orecchi ti sono stati dati affinché tu possa ascoltare non solo armoniose e languide melodie, dal suono dolce e modulato, ma anche risa e pianti, complimenti e litigi, notizie buone e notizie cattive, voci di uomini e muggiti e latrati di animali. Perché ti spaventi, miserabile, al grido di uno schiavo, al tintinnare di un vaso di bronzo, allo sbattere di una porta? I tuoni ci vogliono per te, visto che sei tanto delicato! Ciò che ho detto degli orecchi vale anche per gli occhi, che non sono meno schifiltosi se non hai saputo educarli. Si risentono per una macchiolina, per un po’ di sporcizia, per l’argento non lucidato a dovere, per una vasca che non lascia trasparire il fondo. E questi occhi, che non sopportano la vista di un marmo se non è ben chiazzato e lucidato, o di una tavola il cui legno non abbia tante venature, che in casa non vogliono che si calpestino pavimenti meno preziosi dell’oro, sono poi capaci di guardare in tutta tranquillità strade dissestate e fangose, passanti per lo più sporchi, muri di isolati corrosi, pieni di crepe e di sporgenze. Quale altro motivo può rendere uno calmo in pubblico e nervoso in privato se non una disposizione d’animo che fuori è benevola e tollerante, in casa invece bisbetica e lagnosa? 36. Dobbiamo indirizzare tutti i nostri sensi alla fermezza che gli ha dato la natura: essi, infatti, sono di per sé stessi resistenti, se non li guasta l’animo. Il quale, dunque, va chiamato quotidianamente a rapporto affinché renda conto del suo operato. È ciò che faceva Sestio: alla fine della giornata, non appena si era ritirato per dormire, interrogava la sua coscienza: «Quale tuo male hai guarito oggi? A quale vizio ti sei opposto? In che cosa sei migliorato?». Chi sa di dover comparire ogni giorno davanti al giudice si farà più moderato e l’ira cesserà. Cosa c’è di più bello di questa consuetudine di passare in rassegna un’intera giornata! Che sonno tranquillo, libero e profondo, dopo questa indagine interiore, dopo che l’animo è stato lodato o ammonito, e, fattosi esaminatore e censore intimo di sé stesso, ha preso atto del suo comportamento! Anch’io mi avvalgo di questa usanza e mi faccio ogni giorno il processo. Quando il lume è stato portato via e mia moglie,66 che sa di questa mia abitudine, tace, io comincio a indagare tutta la mia giornata e ripenso a quello che ho detto e che ho fatto, senza nulla nascondermi o tralasciare. Nessun mio errore mi turba o mi spaventa, se posso dire: «Questo cerca di non farlo più; per ora ti perdono. In quella discussione sei stato troppo polemico: d’ora in poi lascia perdere gli ignoranti, perché chi non ha mai imparato non vuole imparare. Hai rimproverato quel tale con eccessiva franchezza, sicché, invece di correggerlo, l’hai offeso; d’ora in avanti non guardare soltanto se dici la verità, ma chiediti anche se chi ti ascolta è disposto a tollerarla». L’uomo virtuoso accetta di buon grado un ammonimento, mentre il malvagio sopporta con animo ostile chi cerca di guidarlo.
37. Mettiamo che durante un pranzo ti abbiano colpito gli scherzi di alcuni e certe parole buttate lì per ferirti. Ebbene, ricordati di stare lontano dalla mensa di persone volgari, anche perché, dopo aver bevuto, la loro licenziosità, visto che non parlano pulito nemmeno quando sono sobri, si fa ancora più sboccata. Hai visto il tuo amico adirarsi col portinaio di un avvocato o di un ricco perché non lo aveva lasciato entrare, e anche tu ti sei adirato per lui con l’ultimo degli schiavi? È come se te la fossi presa con un cane da guardia: anche lui, dopo avere abbaiato molto, se gli getti del cibo, si calma. Vattene via, dunque, e facci sopra una risata. Quel custode si crede qualcuno perché fa la guardia a una porta assediata da una folla di litigiosi, mentre l’altro, che sta in casa, si sente felice e fortunato, convinto che sia segno di benessere e di potenza una porta difficile da aprirsi: non sa che quella della prigione rende ancora più difficile l’uscita.67 Tieni sempre presente che devi sopportare molte cose: ci meravigliamo forse di avere freddo d’inverno? Se ci viene la nausea quando andiamo per mare o se durante un viaggio per terra siamo sballottati di qua e di là? L’animo sa resistere a qualunque male se vi è preparato. Poiché a tavola ti è stato assegnato un posto di minor prestigio te la sei presa col padrone di casa, con chi ha fatto gli inviti, con quello stesso commensale che ti è stato anteposto: sei uno sciocco, che importa su quale parte del divano stai sdraiato? Un cuscino può forse renderti più nobile o più spregevole? Hai guardato di traverso un tale che ha parlato male del tuo ingegno. Secondo questo principio Ennio, che non ti piace, dovrebbe detestarti, Ortensio68 dichiararti il suo rancore e Cicerone, se deridessi i suoi versi, esserti ostile. Insomma, se ti candidi a qualche posto devi accettare di buon animo l’esito delle votazioni. 38. Se hai ricevuto un’offesa pensa che non è più grave di quella fatta allo stoico Diogene,69 il quale, proprio mentre stava discutendo animatamente sull’ira, ricevette in pieno viso uno sputo da un giovane insolente. Ebbene, il filosofo sopportò la cosa con serenità e saggiamente disse: «Non mi arrabbio, però ho i miei dubbi se sia giusto o no». Meglio ancora si comportò il nostro Catone! Mentre stava discutendo un processo, Lentulo,70 che i nostri padri ricordano come uomo fazioso e prepotente, tirata su una bella dose di saliva, gli sputò in piena fronte. Al che Catone, ripulitosi il viso, esclamò: «Davanti a tutti, o Lentulo, ti dico: sbaglia chi afferma che tu non hai la bocca».71 39. Sin qui, caro Novato, ti ho indicato la giusta condotta che l’animo deve tenere nei confronti dell’ira: o schiacciarla o non darle retta. Ora vediamo come calmare quella altrui, poiché vogliamo non soltanto essere sani noi, ma anche guarire gli altri. Non sprecheremo parole per dire come calmare l’ira al suo insorgere, perché in quella prima fase essa è pazza e sorda. Dobbiamo darle tempo: le medicine
giovano nei periodi di calma: quando gli occhi sono gonfi non stiamo lì a toccarli per scioglierne la rigidezza massaggiandoli. Tutte le malattie allo stato virulento vanno curate inizialmente col riposo. «Ma quanto può giovare un rimedio che placa l’ira quando già sta calmandosi da sé?». In primo luogo ne accelera la fine, poi ne evita le ricadute; trarrà persino in inganno quel primo impulso che non è facile placare; allontanerà tutti gli strumenti di vendetta, simulerà addirittura l’ira per avere così maggiore autorità nel dare consigli in qualità di sostenitore e partecipe del risentimento, inventerà rinvii, e fingendo di cercare vendette più dure ritarderà quella immediata. Farà insomma ricorso a ogni mezzo per dare una pausa al furore, e se questo sarà troppo violento gl’incuterà vergogna o un tale timore a cui non saprà resistere; se invece sarà piuttosto debole gli terrà discorsi piacevoli o insoliti e lo distrarrà incuriosendolo e stimolando in lui il desiderio di sapere. Si narra che un medico, dovendo curare la figlia del re e non potendo farlo senza operarla, mentre le applicava dei calmanti sulla mammella gonfia, vi affondò il bisturi che teneva nascosto sotto una spugna: se lo avesse accostato allo scoperto la fanciulla avrebbe reagito, ma poiché non se lo aspettava, sopportò il dolore. Ci sono dei mali che si guariscono solo con l’inganno. 40. A uno dirai: «Bada che la tua ira non rallegri i tuoi nemici!». A un altro: «Sta’ attento che la tua magnanimità e la tua ben nota reputazione non vadano in frantumi! Anch’io, diamine, sono indignato e non so contenere il mio risentimento, ma bisogna aspettare: chi ti ha offeso sarà punito, tieniti per ora il tuo rammarico, quando ti sarà possibile lo ricambierai con gl’interessi». Punire chi è adirato e adirarsi addirittura con lui è come eccitarlo ancora di più: devi invece prenderlo diversamente, con dolcezza; ammenoché tu non sia una persona così autorevole da spezzare la collera, come fece il divino Augusto un giorno in cui si trovava a pranzo da Vedio Pollione.72 Uno degli schiavi aveva rotto una coppa di cristallo, Vedio lo fece prendere per dargli una morte esemplare: buttarlo in pasto alle grosse murene che teneva in un vivaio. Qualcuno poteva pensare che lo facesse per eccentricità, invece era un vero atto di crudeltà. Lo schiavo riuscì a svincolarsi dalle mani di chi lo teneva e si rifugiò ai piedi dell’imperatore, non chiedendo altro che di morire in un modo diverso, di non fare cioè da esca ai pesci. Augusto rimase colpito da quel tipo di crudeltà e ordinò che lo schiavo fosse lasciato libero, che tutte le coppe di cristallo fossero rotte in sua presenza e gettate nel vivaio. Così l’imperatore punì un amico e fece buon uso della sua autorità. «Fai allontanare un uomo da un banchetto», gli disse, «per straziarlo con un supplizio insolito? Perché si è rotta una tua coppa devono essere sbranate le viscere di un uomo? Ti credi tanto importante da poter pronunciare una condanna a morte in presenza dell’imperatore?». Chi dunque è tanto potente da potersi permettere di aggredire l’ira dall’alto
lo faccia, a condizione che si tratti di un’ira quale quella che ho descritto sopra, feroce, brutale, sanguinaria, che non si piega se non l’afferra il timore di qualcosa ancora più forte di lei. 41. Diamo dunque al nostro animo quella pace che potrà venirgli dalla continua meditazione sui salutari insegnamenti, dalle buone azioni e da una mente concentrata solo nel desiderio della virtù. Pensiamo a soddisfare la nostra coscienza e non affatichiamoci per conseguire la fama, e anche se questa dovesse essere cattiva non importa: basterà che siano buone le nostre azioni. «Ma la gente ammira le imprese coraggiose e onora gli audaci: le persone tranquille le giudica indolenti». Forse a prima vista. Ma quando con un metodico tenore di vita hanno dimostrato che la loro non è pigrizia ma pace dell’animo, quella gente stessa le rispetta e le onora. Niente di utile ha in sé questa passione tetra e ostile, non porta altro che male, incendi e stragi. Calpestando ogni ritegno, si lorda le mani di sangue, disperde le membra dei figli, tutto quello che fa è criminoso; incurante della gloria e dell’infamia finisce col diventare incorreggibile quando, ormai incallita, si è trasformata in odio. 42. Teniamoci dunque alla larga da questo malanno, purifichiamo la nostra anima ed estirpiamo alla radice quei germogli che, per quanto esili possano essere, rinasceranno, trovando sempre un terreno in cui attecchire. E non limitiamoci a contenere l’ira, ma allontaniamola del tutto: come si può infatti moderare una cosa che è in sé stessa cattiva? Ce la faremo, basta un piccolo sforzo e niente ci aiuterà di più quanto il riflettere che siamo votati alla morte. Diciamo a noi stessi e agli altri: «Non siamo nati per l’eternità: a che serve adirarsi, perché sciupare una vita tanto breve? A che giova impiegare i nostri giorni nel far male agli altri quando possiamo utilizzarli in piaceri onesti? Queste attività non comportano perdite e noi non abbiamo tempo da sciupare. Perché ci gettiamo nella mischia? Perché andiamo a impelagarci in dispute verbali? Perché, immemori della nostra debolezza, ci attiriamo inimicizie enormi e, fragili come siamo, ci mettiamo a distruggere? Non passerà molto tempo che una qualche febbre o malattia ci impedirà di portarci dentro più oltre questi rancori che coviamo implacabilmente nell’animo; ben presto si frapporrà la morte tra questi due accanitissimi nemici. A che giova agitarsi e turbare la vita come dei rivoltosi? Il fato incombe sulle nostre teste, conta i giorni che passano e si fa sempre più vicino, e forse quell’ora che tu hai destinato alla morte di un altro è prossima alla tua. 43. È meglio, dunque, che ci teniamo stretti a questa nostra breve esistenza, cercando di stare in pace con noi stessi e con gli altri, rendendoci degni di essere amati da tutti finché viviamo e rimpianti quando non ci saremo più. Perché vuoi abbassare chi ti tratta troppo dall’alto? Perché vuoi schiacciare con tutte le tue
forze chi ti abbaia contro, quando non solo è un essere abietto e spregevole, ma infastidisce e avvelena anche quelli che stanno più in alto? Perché ti arrabbi col tuo schiavo, col padrone, col tuo re, col tuo cliente? Abbi un po’ di pazienza ed ecco che verrà la morte e vi farà tutti uguali. Come l’orso e il toro, che, legati insieme negli spettacoli mattutini, dopo avere inutilmente lottato nell’arena ed essersi tormentati a vicenda, vengono insieme uccisi dall’abbattitore. Così facciamo noi: ci azzuffiamo con chi ci sta legato accanto, senza pensare che siamo entrambi destinati alla morte, il vinto e il vincitore. Trascorriamo invece tranquilli e in pace con tutti quel poco tempo che ci resta, e quando saremo morti le nostre spoglie non siano invise ad alcuno. Spesso le grida per un incendio vicino hanno posto fine a una rissa e il sopraggiungere di una belva ha separato il viandante dal ladro. Non c’è tempo di lottare con i mali minori quando un timore più grande ci assale. E che c’entriamo noi con i combattimenti e gli agguati? A colui contro il quale ti adiri puoi forse augurare un male maggiore della morte? Egli morirà, comunque, anche se tu non muovi un dito. È una fatica sprecata la tua: vuoi fare ciò che comunque accadrà». «Ma io non penserei mai di ucciderlo: vorrei solo infliggergli l’esilio, l’infamia, nuocergli, insomma». Io perdono più facilmente chi minaccia al suo nemico una ferita che chi gli augura una pustola, poiché quest’ultimo non è soltanto malvagio, è anche vile. Che tu pensi di infliggere a uno il massimo o il minimo dei supplizi, la durata della sua pena sarà pari a quella dell’amara gioia che tu ne provi. Siamo nati e già stiamo esalando il respiro. Ma intanto, finché respiriamo, finché siamo fra gli uomini, comportiamoci da uomini: facciamo in modo di non essere mai motivo di paura o di pericolo per alcuno! Ignoriamo i danni, le offese, gl’insulti e gli scherni e sopportiamo con magnanimità le molestie passeggere. Come dice il proverbio: non facciamo in tempo a voltarci, a guardare indietro, che già ci sorprende la morte».
1. Orazio definisce l’ira un furor brevis . Significativo è l’intero passo: «Qui non moderabitur irae / infectum volet esse dolor quod suaserit et mens, / dum poenas odio per vim festinat inulto. / Ira furor brevis est: animum rege, qui nisi paret, / imperat; hunc frenis, hunc tu compesce catena»: «Chi cede all’ira vorrà poi sopprimere / ciò che lo sdegno e l’odio hanno prodotto. / Un breve fuoco è l’ira: frena dunque / l’animo tuo, non essere suo schiavo». (A Lollio, Epist. I, 2, 59-63). 2. L’espressione «schizzano grandi e minacciosi segnali» è forse ripresa da un verso di autore ignoto. 3. Si tratta forse del processo di Seiano (De tranquillitate animi, 11, 11). 4. Il passo è lacunoso: probabilmente continuava la descrizione dei mali provocati dall’ira. 5. Aristotele, L’anima, 403a 30. 6. Ovidio, Metamorfosi, VII 545-546. 7. Vedi Celso, Sulla medicina, proemio. 8. Platone, Repubblica, 1335D. 9. La prima vittoria fu sui Teutoni, sconfitti da Gaio Mario nel 102 a.C. alle Aquae Sextiae, la seconda,
riportata sempre da Gaio Mario sui Cimbri, avvenne nel 103 ai Campi Raudii. 10. Quinto Fabio Massimo, il Temporeggiatore. 11. Scipione l’Africano Maggiore. 12. Scipione l’Africano Minore: nel 133 espugnò Numanzia, che si era ribellata, e subì un’inchiesta per aver portato troppo a lungo l’assedio. 13. Teofrasto, famoso anche come naturalista, fu il più grande discepolo di Aristotele. Seneca qui si richiama alla obiezione espressa all’inizio del capitolo. 14. Aristotele, Etica Nicomachea (3, 8): Seneca non sembra tener conto della distinzione che lo Stagirita fa tra combattività e valore, forse perché attinge ad altri testi. 15. Tale soppressione era frutto di superstizione poiché si credeva che gli esseri mostruosi o menomati fossero una manifestazione dell’ira divina, da espiarsi appunto con la loro uccisione. Cicerone (De divinatione, 2, 60) non condivide la giustificazione avanzata da Seneca. 16. Cicerone, Tusculanae disputationes, IV 78. 17. I parricidi venivano flagellati, cuciti dentro un sacco e gettati in mare. Nel sacco venivano infilati anche una vipera (perché questa, nascendo, uccide la madre), un gallo (perché è solito beccare la madre), un cane (in quanto simboleggia la rabbia) e una scimmia (perché è l’immagine più bestiale dell’uomo). Il supplizio militare consisteva nella flagellazione e decapitazione. Dalla rupe Tarpeia venivano gettati i traditori. Quanto ai magistrati anche Plutarco scrive che devono giudicare con serenità, non spinti da odi privati e personali. (Consigli politici, 32). 18. La citazione è tratta da fonti indirette, non da Aristotele, nelle cui opere non appare. 19. Definito violento e crudele anche da Tacito, Gneo Pisone, governatore della Siria al tempo di Tiberio, fu costretto a suicidarsi perché sospettato di avere avvelenato Germanico, ch’era suo ospite. (Tacito, Annali, II 69). 20. Geronimo di Rodi era un filosofo peripatetico del III sec. a.C. 21. Platone, Leggi, XI 934A-B. 22. È un proverbio citato anche da Publilio Siro, un mimografo ricordato da Seneca nel De tranquillitate animi (11, 8) e nella Consolatio ad Helviam (9, 5). 23. La frase, ripresa da Cicerone (De officiis, I 97) dall’Atreo del poeta tragico Lucio Accio, era ripetuta spesso da Caligola e da altri imperatori. 24.Iliade, XXIII 724. 25. Allusione al mito di Ero e Leandro. 26. Seneca ne parla anche nel De constantia sapientis, laddove dice che Publio Clodio Pulcro (tribuno della plebe, autore della Lex Clodia, con cui fece appunto condannare all’esilio Cicerone), «insieme a Vatinio e a tutti gli altri peggiori», vendeva all’asta lo Stato. 27. Il fanciullo è Tolomeo XIII, fratello e marito di Cleopatra, che nel 48 a.C., dietro suggerimento di Teodoto e Achilla, suoi consiglieri, fece uccidere Pompeo, che si era rifugiato in Egitto dopo la sconfitta di Farsalo. 28. Si tratta di Alessandro Magno. Altre fonti riportano del cantore un nome diverso. 29. Apollodoro divenne nel 279 a.C. tiranno di Cassandria (l’antica Potidea, colonia di Corinto), la quale prese quel nome da Cassandre, che l’aveva ricostruita nel 316. Falaride era tiranno di Agrigento. Seneca lo cita anche nel De tranquillitate animi. 30. È Lucio Valerio Messalla Voleso, console nel 5 d.C. Fu messo sotto accusa da Augusto davanti al Senato (Tacito, Annali, III 68). 31. I recinti elettorali sono quelli del Campo Marzio, il circo è il Circo Massimo. 32. Ovidio, Metamorfosi, I 144-148. 33. Sono il Forum Romanum, il Forum Iulium e il Forum Augustum. 34. Il verso di Laberio (cavaliere e mimografo, in gara con Publilio Siro) allude alla tirannide di Cesare. 35. Lo «spauracchio» (formido) era un attrezzo costituito da penne rosse tenute insieme da una corda, anch’essa di color rosso, che veniva agitato dai cacciatori. 36. Plinio scrive che i leoni hanno paura della cresta e del canto dei galli (Naturalis Historia, VIII 52), Plutarco che il leone teme il gallo e l’elefante il porco (L’invidia e l’odio, 4). 37. Verso di poeta ignoto. 38. Zenone di Elea; del tiranno si tramandano diversi nomi, ma quanto a Ippia i tempi non corrispondono. 39. Altri, fra cui Plutarco, dicono Parmenione (il miglior generale di Filippo che seguì Alessandro e partecipò a tutte le grandi battaglie): la lettera avvertiva Alessandro che Filippo era stato corrotto da Dario con la promessa di grandi doni e della mano di sua figlia affinché appunto lo uccidesse. Alessandro, letta la lettera, la pose sotto il cuscino, poi, quando entrò Filippo recando la coppa con la pozione, tirò fuori la lettera
e gliela porse, quindi, tranquillamente, bevve la medicina (Plutarco, Vita di Alessandro, 19). 40. Scrive Plutarco: «Finite le guerre civili, Cesare… risparmiò molti di coloro che avevano combattuto contro di lui e ad alcuni conferì persino cariche e onori… Né tollerò che le statue di Pompeo fossero state abbattute o rimosse, ma le fece raddrizzare e rimettere al loro posto» (Vita di Cesare , 57). Quando hanno lottato, in buona fede, nell’interesse del proprio Paese, anche i vinti vanno rispettati («E tu onore di pianti, Ettore, avrai…»). 41. Mindiride era una fonte di aneddoti sui Sibariti (abitanti di Sibari, sul golfo di Taranto), noti appunto per la vita lussuosa ed effeminata. 42. Virgilio, Eneide, VIII 702-703. 43. Ma la morte gli rese giustizia. Dice Foscolo nei Sepolcri: «Né senno astuto, né favor di regi / all’Itaco le spoglie ardue serbava, / ché alla poppa raminga le ritolse / l’onda incitata dagl’inferni Dèi», portando «alle prode retèe l’armi d’Achille / sovra l’ossa d’Aiace». 44.Circumdati defossis corporibus ignes: non si tratta di «corpi sotterrati», ma di corpi legati a un palo che poi veniva drizzato e interrato alla base, intorno a cui si accendeva il fuoco, che quindi lambiva il corpo da sotto. Lo stesso supplizio veniva inflitto ai cristiani ma con la croce (vedi Tacito, Annali, XV 46). 45. È M. Celio Rufo, in difesa del quale Cicerone nel 56 a.C. pronunciò la nota orazione Pro Celio. 46. L’epilessia (di cui, come narra Plutarco, soffriva anche Cesare) era chiamata morbus comitialis, non perché si verificasse nei comizi ma perché al suo insorgere venivano sospese le operazioni elettorali. Era ritenuta una malattia sconveniente. 47. Cambise, re di Persia (529-521 a.C.), era figlio di Ciro il Grande. Prexaspe era suo corriere (vedi Erodoto, Le storie, III 34). 48. Astiage (584-549 a.C.) fu l’ultimo re dei Medi. Arpàgo, secondo una leggenda raccolta da Erodoto, fu incaricato da Astiage di sopprimere Ciro appena nato, ma, impietosito, lo fece invece esporre su un monte da un pastore, che lo salvò e lo allevò. Astiage, per vendicarsi, sgozzò il figlio di Arpago e ne imbandì le membra al padre, il quale si unì a Ciro e, conquistato il regno, ebbe il governo della Lidia. 49. Della morte di Clito, oltre a Cicerone (Tusculanae Disputationes, IV 79), parla anche Plutarco, il quale ne riporta la frase che gli fu fatale: «Beati quelli che sono morti prima di vedere i Macedoni battuti dalle fruste dei Medi e costretti a supplicare i Persiani per poter avvicinare il loro re!» (Vita di Alessandro , 51). 50. Si tratta di una leggenda. Lisimaco era un generale di Alessandro. 51. È Marco Mario Gaditano, nipote di Gaio Mario, il vincitore dei Cimbri e dei Teutoni. 52. Quinto Catulo fu console con Mario nella guerra contro i Cimbri. 53. L’episodio è riportato da Erodoto (Le storie, III 25). 54. Il Ginde è un affluente del Tigri (anche qui vedi Erodoto, I 189). 55. La demolizione della villa di Agrippina (la madre di Caligola) fu forse la conseguenza di una delle tante persecuzioni di Tiberio contro di lei, che fu poi mandata in esilio a Mandataria (Ventotene). 56. Si tratta forse di Antigono Gonata, re di Macedonia (283 a.C.). 57. Sileno, deforme e sempre ubriaco, accompagnava Bacco. Fu sfruttato come maschera nella Commedia. 58. In realtà Alessandro Magno, in quanto figlio di Filippo, era nipote di Aminta, non di Antigono. 59. Democare era oratore e storico: parresiaste in greco è il «parlare schietto». 60. Timagene, di Alessandria, fu condotto prigioniero a Roma (55 a.C.), dove insegnò retorica. 61. Caio Asinio Pollione, amico di Antonio e di Ottaviano, fu un grande personaggio nella vita politica e culturale del tempo: seguì Cesare e combatté in Spagna contro Pompeo. Virgilio gli dedicò la IV Egloga per aver avuto salvo dalla confisca il podere. Il figlio Asinio Gallo è il presunto puer profetizzato da Virgilio nella IV Egloga, in cui molti individueranno Gesù Cristo. 62. Sulla comprensione che si deve avere nei confronti degli schiavi Seneca obietta: «Non sono schiavi, sono uomini che vivono nella nostra stessa casa, sono umili amici, compagni di schiavitù. Ma a loro non è permesso neppure muovere le labbra per parlare: il più piccolo bisbiglio viene represso col bastone e non sfuggono alle percosse neppure i rumori casuali, come la tosse, gli starnuti e il singhiozzo. Così, non potendo parlare in presenza del padrone ne parlano male, mentre quelli che possono parlare non solo in presenza del padrone ma col padrone stesso sono pronti a dare la vita per lui». 63. Plutarco attribuisce questo gesto a un lottatore di nome Ctesifonte (Del trattenere l’ira, 5). 64. Seneca cita l’episodio anche nelle Lettere a Lucilio (83), inserendolo in una riflessione sui sillogismi falsi, del tipo: «Nessuno confida a un ubriaco un segreto, lo confida a un uomo onesto, dunque l’uomo onesto non sarà mai ubriaco». Ebbene, obietta Seneca, «per l’assassinio di Cesare ci si affidò sia a C. Cassio, ch’era completamente astemio, sia a Tillio Cimbro, ch’era un ubriacone e un attaccabrighe».
65. I consoli eletti per la prima volta entravano in carica il primo gennaio e davano il loro nome all’anno. 66. Probabilmente si tratta della prima moglie, non di Paolina. 67. Seneca dice solo «difficile», e così traducono tutti. Ma la porta della prigione è difficile ad aprirsi per uscirne, non per entrarvi! Cambia la prospettiva: prima è la porta chiusa vista dall’esterno, dove sta il portinaio, poi è la porta chiusa vista dall’interno, dove sta il padrone di casa, il quale, in realtà, così sembra dire Seneca, vive come in una prigione. Un altro esempio, fra i tantissimi, di imprecisione e superficialità. 68. Quinto Ortensio Ortalo (114-50 a.C.), famoso oratore e rivale di Cicerone (vedi Bruto, 228-230, 301-329). 69. Diogene di Babilonia, filosofo stoico (Seleucia, II sec. a.C.), fu discepolo di Crisippo e di Zenone di Tarso. 70. Si tratta probabilmente di P. Cornelio Lentulo Sura, che partecipò alla congiura di Catilina e fu condannato a morte da Cicerone. 71.Os non habere significa anche «essere sfacciato». 72. Di Vedio Pollione si sa che era un liberto a cui toccò la fortuna di diventare cavaliere, ma che non per questo smise di essere rozzo e crudele.
Consolatio ad Helviam matrem
1. Saepe iam, mater optima, impetum cepi consolandi te, saepe continui. Ut auderem multa me inpellebant: primum videbar depositurus omnia incommoda, cum lacrimas tuas, etiam si supprimere non potuissem, interim certe abstersissem; deinde plus habiturum me auctoritatis non dubitabam ad excitandam te, si prior ipse consurrexissem; praeterea timebam ne a me victa fortuna aliquem meorum vinceret. Itaque utcumque conabar manu super plagam meam inposita ad obliganda vulnera vestra reptare. Hoc propositum meum erant rursus quae retardarent: dolori tuo, dum recens saeviret, sciebam occurrendum non esse ne illum ipsa solacia inritarent et accenderent – nam in morbis quoque nihil est perniciosius quam inmatura medicina; expectabam itaque dum ipse vires suas frangeret et ad sustinenda remedia mora mitigatus tangi se ac tractari pateretur. Praeterea cum omnia clarissimorum ingeniorum monumenta ad compescendos moderandosque luctus composita evolverem, non inveniebam exemplum eius qui consolatus suos esset, cum ipse ab illis comploraretur; ita in re nova haesitabam verebarque ne haec non consolatio esset sed exulceratio. Quid quod novis verbis nec ex vulgari et cotidiana sumptis adlocutione opus erat homini ad consolandos suos ex ipso rogo caput adlevanti? Omnis autem magnitudo doloris modum excedentis necesse est dilectum verborum eripiat, cum saepe vocem quoque ipsam intercludat. Utcumque conitar, non fiducia ingenii, sed quia possum instar efficacissimae consolationis esse ipse consolator. Cui nihil negares, huic hoc utique te non esse negaturam, licet omnis maeror contumax sit, spero, ut desiderio tuo velis a me modum statui. 2. Vide quantum de indulgentia tua promiserim mihi: potentiorem me futurum apud te non dubito quam dolorem tuum, quo nihil est apud miseros potentius. Itaque ne statim cum eo concurram, adero prius illi et quibus excitetur ingeram; omnia proferam et rescindam quae iam obducta sunt. Dicet aliquis: «Quod hoc genus est consolandi, obliterata mala revocare et animum in omnium aerumnarum suarum conspectu conlocare vix unius patientem?». Sed is cogitet, quaecumque usque eo perniciosa sunt ut contra remedium convaluerint, plerumque contrariis curari. Omnis itaque luctus illi suos, omnia lugubria admovebo: hoc erit non molli via mederi, sed urere ac secare. Quid consequar? Ut pudeat animum tot miseriarum victorem aegre ferre unum vulnus in corpore tam cicatricoso. Fleant itaque diutius et gemant, quorum delicatas mentes enervavit longa felicitas, et ad levissimarum iniuriarum motus conlabantur: at quorum omnes anni per calamitates transierunt, gravissima quoque forti et inmobili constantia perferant. Unum habet adsidua infelicitas bonum, quod quos semper vexat novissime indurat. Nullam tibi fortuna vacationem dedit a gravissimis luctibus, ne natalem
quidem tuum excepit: amisisti matrem statim nata, immo dum nasceris, et ad vitam quodam modo exposita es. Crevisti sub noverca, quam tu quidem omni obsequio et pietate, quanta vel in filia conspici potest, matrem fieri coegisti; nulli tamen non magno constitit etiam bona noverca. Avunculum indulgentissimum, optimum ac fortissimum virum, cum adventum eius expectares, amisisti; et ne saevitiam suam fortuna leviorem diducendo faceret, intra tricesimum diem carissimum virum, ex quo mater trium liberorum eras, extulisti. Lugenti tibi luctus nuntiatus est omnibus quidem absentibus liberis, quasi de industria in id tempus coniectis malis tuis ut nihil esset ubi se dolor tuus reclinaret. Transeo tot pericula, tot metus, quos sine intervallo in te incursantis pertulisti: modo modo in eundem sinum ex quo tres nepotes emiseras ossa trium nepotum recepisti; intra vicesimum diem quam filium meum in manibus et in osculis tuis mortuum funeraveras, raptum me audisti: hoc adhuc defuerat tibi, lugere vivos. 3. Gravissimum est ex omnibus quae umquam in corpus tuum descenderunt recens vulnus, fateor; non summam cutem rupit, pectus et viscera ipsa divisit. Sed quemadmodum tirones leviter saucii tamen vociferantur et manus medicorum magis quam ferrum horrent, at veterani quamvis confossi patienter ac sine gemitu velut aliena corpora exsaniari patiuntur, ita tu nunc debes fortiter praebere te curationi. Lamentationes quidem et eiulatus et alia per quae fere muliebris dolor tumultuatur amove; perdidisti enim tot mala, si nondum misera esse didicisti. Ecquid videor non timide tecum egisse? Nihil tibi subduxi ex malis tuis, sed omnia coacervata ante te posui. 4. Magno id animo feci; constitui enim vincere dolorem tuum, non circumscribere. Vincam autem, puto, primum si ostendero nihil me pati propter quod ipse dici possim miser, nedum propter quod miseros etiam quos contingo faciam; deinde si ad te transiero et probavero ne tuam quidem gravem esse fortunam, quae tota ex mea pendet. Hoc prius adgrediar quod pietas tua audire gestit, nihil mihi mali esse. Si potuero, ipsas res quibus me putas premi non esse intolerabiles faciam manifestum; sin id credi non potuerit, at ego mihi ipse magis placebo, quod inter eas res beatus ero quae miseros solent facere. Non est quod de me aliis credas: ipse tibi, ne quid incertis opinionibus perturberis, indico me non esse miserum. Adiciam, quo securior sis, ne fieri quidem me posse miserum. 5. Bona condicione geniti sumus, si eam non deseruerimus. Id egit rerum natura ut ad bene vivendum non magno apparatu opus esset: unusquisque facere se beatum potest. Leve momentum in adventiciis rebus est et quod in neutram partem magnas vires habeat: nec secunda sapientem evehunt nec adversa demittunt; laboravit enim semper ut in se plurimum poneret, ut a se omne gaudium peteret. Quid ergo? Sapientem esse me dico? Minime; nam id quidem si profiteri possem, non tantum negarem miserum esse me, sed omnium fortunatissimum et in vicinum deo perductum praedicarem: nunc, quod satis est ad omnis miserias
leniendas, sapientibus me viris dedi et nondum in auxilium mei validus in aliena castra confugi, eorum scilicet qui facile se ac suos tuentur. Illi me iusserunt stare adsidue velut in praesidio positum et omnis conatus fortunae, omnis impetus prospicere multo ante quam incurrant. Illis gravis est quibus repentina est: facile eam sustinet qui semper expectat. Nam et hostium adventus eos prosternit quos inopinantis occupavit: at qui futuro se bello ante bellum paraverunt, compositi et aptati primum qui tumultuosissimus est ictum facile excipiunt. Numquam ego fortunae credidi, etiam cum videretur pacem agere; omnia illa quae in me indulgentissime conferebat, pecuniam honores gratiam, eo loco posui unde posset sine motu meo repetere. Intervallum inter illa et me magnum habui; itaque abstulit illa, non avulsit. Neminem adversa fortuna comminuit nisi quem secunda decepit. Illi qui munera eius velut sua et perpetua amaverunt, qui se suspici propter illa voluerunt, iacent et maerent cum vanos et pueriles animos, omnis solidae voluptatis ignaros, falsa et mobilia oblectamenta destituunt: at ille qui se laetis rebus non inflavit nec mutatis contrahit. Adversus utrumque statum invictum animum tenet exploratae iam firmitatis; nam in ipsa felicitate quid contra infelicitatem valeret expertus est. Itaque ego in illis quae omnes optant existimavi semper nihil veri boni inesse, tum inania et specioso ac deceptorio fuco circumlita inveni, intra nihil habentia fronti suae simile: nunc in his quae mala vocantur nihil tam terribile ac durum invenio quam opinio vulgi minabatur. Verbum quidem ipsum persuasione quadam et consensu iam asperius ad aures venit et audientis tamquam triste et execrabile ferit: ita enim populus iussit, sed populi scita ex magna parte sapientes abrogant. 6. Remoto ergo iudicio plurium, quos prima rerum species, utcumque credita est, aufert, videamus quid sit exilium. Nempe loci commutatio. Ne angustare videar vim eius et quidquid pessimum in se habet subtrahere, hanc commutationem loci sequuntur incommoda, paupertas ignominia contemptus. Adversus ista postea confligam: interim primum illud intueri volo, quid acerbi adferat ipsa loci commutatio. «Carere patria intolerabile est». Aspice agedum hanc frequentiam, cui vix urbis inmensae tecta sufficiunt: maxima pars istius turbae patria caret. Ex municipiis et coloniis suis, ex toto denique orbe terrarum confluxerunt: alios adduxit ambitio, alios necessitas officii publici, alios inposita legatio, alios luxuria opportunum et opulentum vitiis locum quaerens, alios liberalium studiorum cupiditas, alios spectacula; quosdam traxit amicitia, quosdam industria laxam ostendendae virtuti nancta materiam; quidam venalem formam attulerunt, quidam venalem eloquentiam. Nullum non hominum genus concucurrit in urbem et virtutibus et vitiis magna pretia ponentem. Iube istos omnes ad nomen citari et «unde domo» quisque sit quaere: videbis maiorem partem esse quae relictis sedibus suis venerit in maximam quidem ac pulcherrimam urbem, non tamen suam. Deinde ab hac civitate discede, quae veluti communis potest dici, omnes
urbes circumi: nulla non magnam partem peregrinae multitudinis habet. Transi ab iis quarum amoena positio et opportunitas regionis plures adlicit, deserta loca et asperrimas insulas, Sciathum et Seriphum, Gyaram et Cossuran percense: nullum invenies exilium in quo non aliquis animi causa moretur. Quid tam nudum inveniri potest, quid tam abruptum undique quam hoc saxum? Quid ad copias respicienti ieiunius? Quid ad homines inmansuetius? Quid ad ipsum loci situm horridius? Quid ad caeli naturam intemperantius? Plures tamen hic peregrini quam cives consistunt. Usque eo ergo commutatio ipsa locorum gravis non est ut hic quoque locus a patria quosdam abduxerit. Invenio qui dicant inesse naturalem quandam inritationem animis commutandi sedes et transferendi domicilia; mobilis enim et inquieta homini mens data est, nusquam se tenet, spargitur, et cogitationes suas in omnia nota atque ignota dimittit, vaga et quietis inpatiens et novitate rerum laetissima. Quod non miraberis, si primam eius originem aspexeris: non est ex terreno et gravi concreta corpore, ex illo caelesti spiritu descendit; caelestium autem natura semper in motu est, fugit et velocissimo cursu agitur. Aspice sidera mundum inlustrantia: nullum eorum perstat. Sol labitur adsidue et locum ex loco mutat et, quamvis cum universo vertatur, in contrarium nihilo minus ipsi mundo refertur, per omnis signorum partes discurrit, numquam resistit; perpetua eius agitatio et aliunde alio commigratio est. Omnia volvuntur semper et in transitu sunt; ut lex et naturae necessitas ordinavit, aliunde alio deferuntur; cum per certa annorum spatia orbes suos explicuerint, iterum ibunt per quae venerant: i nunc et humanum animum, ex isdem quibus divina constant seminibus compositum, moleste ferre transitum ac migrationem puta, cum dei natura adsidua et citatissima commutatione vel delectet se vel conservet. 7. A caelestibus agedum te ad humana converte: videbis gentes populosque universos mutasse sedem. Quid sibi volunt in mediis barbarorum regionibus Graecae urbes? Quid inter Indos Persasque Macedonicus sermo? Scythia et totus ille ferarum indomitarumque gentium tractus civitates Achaiae Ponticis inpositas litoribus ostentat: non perpetuae hiemis saevitia, non hominum ingenia ad similitudinem caeli sui horrentia transferentibus domos suas obstiterunt. Atheniensis in Asia turba est; Miletus quinque et septuaginta urbium populum in diversa effudit; totum Italiae latus quod infero mari adluitur maior Graecia fuit. Tuscos Asia sibi vindicat; Tyrii Africam incolunt, Hispaniam Poeni; Graeci se in Galliam inmiserunt, in Graeciam Galli; Pyrenaeus Germanorum transitus non inhibuit – per invia, per incognita versavit se humana levitas. Liberos coniugesque et graves senio parentes traxerunt. Alii longo errore iactati non iudicio elegerunt locum sed lassitudine proximum occupaverunt, alii armis sibi ius in aliena terra fecerunt; quasdam gentes, cum ignota peterent, mare hausit, quaedam ibi consederunt ubi illas rerum omnium inopia deposuit. Nec omnibus eadem causa relinquendi quaerendique patriam fuit: alios excidia urbium suarum hostilibus armis elapsos in aliena spoliatos suis expulerunt; alios domestica
seditio summovit; alios nimia superfluentis populi frequentia ad exonerandas vires emisit; alios pestilentia aut frequentes terrarum hiatus aut aliqua intoleranda infelicis soli vitia eiecerunt; quosdam fertilis orae et in maius laudatae fama corrupit. Alios alia causa excivit domibus suis: illud utique manifestum est, nihil eodem loco mansisse quo genitum est. Adsiduus generis humani discursus est; cotidie aliquid in tam magno orbe mutatur: nova urbium fundamenta iaciuntur, nova gentium nomina extinctis prioribus aut in accessionem validioris conversis oriuntur. Omnes autem istae populorum transportationes quid aliud quam publica exilia sunt? Quid te tam longo circumitu traho? Quid interest enumerare Antenorem Patavi conditorem et Evandrum in ripa Tiberis regna Arcadum conlocantem? Quid Diomeden aliosque quos Troianum bellum victos simul victoresque per alienas terras dissipavit? Romanum imperium nempe auctorem exulem respicit, quem profugum capta patria, exiguas reliquias trahentem, necessitas et victoris metus longinqua quaerentem in Italiam detulit. Hic deinde populus quot colonias in omnem provinciam misit! ubicumque vicit Romanus, habitat. Ad hanc commutationem locorum libentes nomina dabant, et relictis aris suis trans maria sequebatur colonos senex. Res quidem non desiderat plurium enumerationem; unum tamen adiciam quod in oculos se ingerit: haec ipsa insula saepe iam cultores mutavit. Ut antiquiora, quae vetustas obduxit, transeam, Phocide relicta Graii qui nunc Massiliam incolunt prius in hac insula consederunt, ex qua quid eos fugaverit incertum est, utrum caeli gravitas an praepotentis Italiae conspectus an natura inportuosi maris; nam in causa non fuisse feritatem accolarum eo apparet quod maxime tunc trucibus et inconditis Galliae populis se interposuerunt. Transierunt deinde Ligures in eam, transierunt et Hispani, quod ex similitudine ritus apparet; eadem enim tegmenta capitum idemque genus calciamenti quod Cantabris est, et verba quaedam; nam totus sermo conversatione Graecorum Ligurumque a patrio descivit. Deductae deinde sunt duae civium Romanorum coloniae, altera a Mario, altera a Sulla: totiens huius aridi et spinosi saxi mutatus est populus! Vix denique invenies ullam terram quam etiamnunc indigenae colant; permixta omnia et insiticia sunt. Alius alii successit: hic concupivit quod illi fastidio fuit; ille unde expulerat eiectus est. Ita fato placuit, nullius rei eodem semper loco stare fortunam. 8. Adversus ipsam commutationem locorum, detractis ceteris incommodis quae exilio adhaerent, satis hoc remedii putat Varro, doctissimus Romanorum, quod quocumque venimus eadem rerum natura utendum est; M. Brutus satis hoc putat, quod licet in exilium euntibus virtutes suas secum ferre. Haec etiam si quis singula parum iudicat efficacia ad consolandum exulem, utraque in unum conlata fatebitur plurimum posse. Quantulum enim est quod perdimus! duo quae pulcherrima sunt quocumque nos moverimus sequentur, natura communis et propria virtus. Id actum est, mihi crede, ab illo, quisquis formator universi fuit, sive ille deus est potens omnium, sive incorporalis ratio ingentium operum
artifex, sive divinus spiritus per omnia maxima ac minima aequali intentione diffusus, sive fatum et inmutabilis causarum inter se cohaerentium series – id, inquam, actum est ut in alienum arbitrium nisi vilissima quaeque non caderent. Quidquid optimum homini est, id extra humanam potentiam iacet, nec dari nec eripi potest. Mundus hic, quo nihil neque maius neque ornatius rerum natura genuit, et animus contemplator admiratorque mundi, pars eius magnificentissima, propria nobis et perpetua et tam diu nobiscum mansura sunt quam diu ipsi manebimus. Alacres itaque et erecti quocumque res tulerit intrepido gradu properemus, emetiamur quascumque terras: nullum inveniri exilium intra mundum potest; nihil enim quod intra mundum est alienum homini est. Undecumque ex aequo ad caelum erigitur acies, paribus intervallis omnia divina ab omnibus humanis distant. Proinde, dum oculi mei ab illo spectaculo cuius insatiabiles sunt non abducantur, dum mihi solem lunamque intueri liceat, dum ceteris inhaerere sideribus, dum ortus eorum occasusque et intervalla et causas investigare vel ocius meandi vel tardius, dum spectare tot per noctem stellas micantis et alias inmobiles, alias non in magnum spatium exeuntis sed intra suum se circumagentis vestigium, quasdam subito erumpentis, quasdam igne fuso praestringentis aciem, quasi decidant, vel longo tractu cum luce multa praetervolantis, dum cum his sim et caelestibus, qua homini fas est, inmiscear, dum animum ad cognatarum rerum conspectum tendentem in sublimi semper habeam, quantum refert mea quid calcem? 9. «At non est haec terra frugiferarum aut laetarum arborum ferax; non magnis nec navigabilibus fluminum alveis inrigatur; nihil gignit quod aliae gentes petant, vix ad tutelam incolentium fertilis; non pretiosus hic lapis caeditur, non auri argentique venae eruuntur». Angustus animus est quem terrena delectant: ad illa abducendus est quae ubique aeque apparent, ubique aeque splendent. Et hoc cogitandum est, ista veris bonis per falsa et prave credita obstare. Quo longiores porticus expedierint, quo altius turres sustulerint, quo latius vicos porrexerint, quo depressius aestivos specus foderint, quo maiori mole fastigia cenationum subduxerint, hoc plus erit quod illis caelum abscondat. In eam te regionem casus eiecit in qua lautissimum receptaculum casa est: ne tu pusilli animi es et sordide se consolantis, si ideo id fortiter pateris quia Romuli casam nosti. Dic illud potius: «istud humile tugurium nempe virtutes recipit? Iam omnibus templis formosius erit, cum illic iustitia conspecta fuerit, cum continentia, cum prudentia, pietas, omnium officiorum recte dispensandorum ratio, humanorum divinorumque scientia. Nullus angustus est locus qui hanc tam magnarum virtutium turbam capit; nullum exilium grave est in quod licet cum hoc ire comitatu». Brutus in eo libro quem de virtute composuit ait se Marcellum vidisse Mytilenis exulantem et, quantum modo natura hominis pateretur, beatissime viventem neque umquam cupidiorem bonarum artium quam illo tempore. Itaque adicit visum sibi se magis in exilium ire, qui sine illo rediturus esset, quam illum in exilio relinqui. O fortunatiorem Marcellum eo tempore quo exilium suum
Bruto adprobavit quam quo rei publicae consulatum! Quantus ille vir fuit qui effecit ut aliquis exul sibi videretur quod ab exule recederet! Quantus vir fuit qui in admirationem sui adduxit hominem etiam Catoni suo mirandum! Idem Brutus ait C. Caesarem Mytilenas praetervectum, quia non sustineret videre deformatum virum. Illi quidem reditum inpetravit senatus publicis precibus, tam sollicitus ac maestus ut omnes illo die Bruti habere animum viderentur et non pro Marcello sed pro se deprecari, ne exules essent si sine illo fuissent; sed plus multo consecutus est quo die illum exulem Brutus relinquere non potuit, Caesar videre. Contigit enim illi testimonium utriusque: Brutus sine Marcello reverti se doluit, Caesar erubuit. Num dubitas quin se ille tantus vir sic ad tolerandum aequo animo exilium saepe adhortatus sit: «quod patria cares, non est miserum: ita te disciplinis inbuisti ut scires omnem locum sapienti viro patriam esse. Quid porro? Hic qui te expulit, non ipse per annos decem continuos patria caruit? Propagandi sine dubio imperii causa; sed nempe caruit. Nunc ecce trahit illum ad se Africa resurgentis belli minis plena, trahit Hispania, quae fractas et adflictas partes refovet, trahit Aegyptus infida, totus denique orbis, qui ad occasionem concussi imperii intentus est: cui primum rei occurret? Cui parti se opponet? Aget illum per omnes terras victoria sua. Illum suspiciant et colant gentes: tu vive Bruto miratore contentus». 10. Bene ergo exilium tulit Marcellus nec quicquam in animo eius mutavit loci mutatio, quamvis eam paupertas sequeretur; in qua nihil mali esse, quisquis modo nondum pervenit in insaniam omnia subvertentis avaritiae atque luxuriae intellegit. Quantulum enim est quod in tutelam hominis necessarium est! et cui deesse hoc potest ullam modo virtutem habenti? Quod ad me quidem pertinet, intellego me non opes sed occupationes perdidisse. Corporis exigua desideria sunt: frigus summoveri vult, alimentis famem ac sitim extinguere; quidquid extra concupiscitur, vitiis, non usibus laboratur. Non est necesse omne perscrutari profundum nec strage animalium ventrem onerare nec conchylia ultimi maris ex ignoto litore eruere: di istos deaeque perdant quorum luxuria tam invidiosi imperii fines transcendit! Ultra Phasin capi volunt quod ambitiosam popinam instruat, nec piget a Parthis, a quibus nondum poenas repetimus, aves petere. Undique convehunt omnia nota fastidienti gulae; quod dissolutus deliciis stomachus vix admittat ab ultimo portatur oceano; vomunt ut edant, edunt ut vomant, et epulas quas toto orbe conquirunt nec concoquere dignantur. Ista si quis despicit, quid illi paupertas nocet? Si quis concupiscit, illi paupertas etiam prodest; invitus enim sanatur et, si remedia ne coactus quidem recipit, interim certe, dum non potest, illa nolenti similis est. C. Caesar, quem mihi videtur rerum natura edidisse ut ostenderet quid summa vitia in summa fortuna possent, centiens sestertio cenavit uno die; et in hoc omnium adiutus ingenio vix tamen invenit quomodo trium provinciarum tributum una cena fieret. O miserabiles, quorum palatum nisi ad pretiosos cibos non excitatur! Pretiosos autem non eximius sapor aut aliqua faucium dulcedo sed raritas et
difficultas parandi facit. Alioqui, si ad sanam illis mentem placeat reverti, quid opus est tot artibus ventri servientibus? Quid mercaturis? Quid vastatione silvarum? Quid profundi perscrutatione? Passim iacent alimenta quae rerum natura omnibus locis disposuit; sed haec velut caeci transeunt et omnes regiones pervagantur, maria traiciunt et, cum famem exiguo possint sedare, magno inritant. Libet dicere: «quid deducitis naves? Quid manus et adversus feras et adversus homines armatis? Quid tanto tumultu discurritis? Quid opes opibus adgeritis? Non vultis cogitare quam parva vobis corpora sint? Nonne furor et ultimus mentium error est, cum tam exiguum capias, cupere multum? Licet itaque augeatis census, promoveatis fines, numquam tamen corpora vestra laxabitis. Cum bene cesserit negotiatio, multum militia rettulerit, cum indagati undique cibi coierint, non habebitis ubi istos apparatus vestros conlocetis. Quid tam multa conquiritis? Scilicet maiores nostri, quorum virtus etiamnunc vitia nostra sustentat, infelices erant, qui sibi manu sua parabant cibum, quibus terra cubile erat, quorum tecta nondum auro fulgebant, quorum templa nondum gemmis nitebant; itaque tunc per fictiles deos religiose iurabatur: qui illos invocaverant, ad hostem morituri, ne fallerent, redibant. Scilicet minus beate vivebat dictator noster qui Samnitium legatos audit cum vilissimum cibum in foco ipse manu sua versaret – illa qua iam saepe hostem percusserat laureamque in Capitolini Iovis gremio reposuerat – quam Apicius nostra memoria vixit, qui in ea urbe ex qua aliquando philosophi velut corruptores iuventutis abire iussi sunt scientiam popinae professus disciplina sua saeculum infecit». Cuius exitum nosse operae pretium est. Cum sestertium milliens in culinam coniecisset, cum tot congiaria principum et ingens Capitolii vectigal singulis comisationibus exsorpsisset, aere alieno oppressus rationes suas tunc primum coactus inspexit: superfuturum sibi sestertium centiens computavit et velut in ultima fame victurus si in sestertio centiens vixisset, veneno vitam finivit. Quanta luxuria erat cui centiens sestertium egestas fuit! i nunc et puta pecuniae modum ad rem pertinere, non animi. Sestertium centiens aliquis extimuit et quod alii voto petunt veneno fugit. Illi vero tam pravae mentis homini ultima potio saluberrima fuit: tunc venena edebat bibebatque cum inmensis epulis non delectaretur tantum sed gloriaretur, cum vitia sua ostentaret, cum civitatem in luxuriam suam converteret, cum iuventutem ad imitationem sui sollicitaret etiam sine malis exemplis per se docilem. Haec accidunt divitias non ad rationem revocantibus, cuius certi fines sunt, sed ad vitiosam consuetudinem, cuius inmensum et incomprensibile arbitrium est. Cupiditati nihil satis est, naturae satis est etiam parum. Nullum ergo paupertas exulis incommodum habet; nullum enim tam inops exilium est quod non alendo homini abunde fertile sit. 11. «At vestem ac domum desideraturus est exsul». Haec quoque ad usum tantum desiderabit: neque tectum ei deerit neque velamentum; aeque enim exiguo tegitur corpus quam alitur; nihil homini natura quod necessarium faciebat fecit operosum. Sed desiderat saturatam multo conchylio purpuram, intextam auro variisque et coloribus distinctam et artibus: non fortunae iste vitio sed suo pauper
est. Etiam si illi quidquid amisit restitueris, nihil ages; plus enim restituto deerit ex eo quod cupit quam exsuli ex eo quod habuit. Sed desiderat aureis fulgentem vasis supellectilem et antiquis nominibus artificum argentum nobile, aes paucorum insania pretiosum et servorum turbam quae quamvis magnam domum angustet, iumentorum corpora differta et coacta pinguescere et nationum omnium lapides: ista congerantur licet, numquam explebunt inexplebilem animum, non magis quam ullus sufficiet umor ad satiandum eum cuius desiderium non ex inopia sed ex aestu ardentium viscerum oritur; non enim sitis illa sed morbus est. Nec hoc in pecunia tantum aut alimentis evenit; eadem natura est in omni desiderio quod modo non ex inopia sed ex vitio nascitur: quidquid illi congesseris, non finis erit cupiditatis sed gradus. Qui continebit itaque se intra naturalem modum, paupertatem non sentiet; qui naturalem modum excedet, eum in summis quoque opibus paupertas sequetur. Necessariis rebus et exilia sufficiunt, supervacuis nec regna. Animus est qui divites facit; hic in exilia sequitur, et in solitudinibus asperrimis, cum quantum satis est sustinendo corpori invenit, ipse bonis suis abundat et fruitur: pecunia ad animum nihil pertinet, non magis quam ad deos inmortalis. Omnia ista quae imperita ingenia et nimis corporibus suis addicta suspiciunt, lapides aurum argentum et magni levatique mensarum orbes, terrena sunt pondera, quae non potest amare sincerus animus ac naturae suae memor, levis ipse, expeditus, et quandoque emissus fuerit ad summa emicaturus; interim, quantum per moras membrorum et hanc circumfusam gravem sarcinam licet, celeri et volucri cogitatione divina perlustrat. Ideoque nec exulare umquam potest, liber et deis cognatus et omni mundo omnique aevo par; nam cogitatio eius circa omne caelum it, in omne praeteritum futurumque tempus inmittitur. Corpusculum hoc, custodia et vinculum animi, huc atque illuc iactatur; in hoc supplicia, in hoc latrocinia, in hoc morbi exercentur: animus quidem ipse sacer et aeternus est et cui non possit inici manus. 12. Ne me putes ad elevanda incommoda paupertatis, quam nemo gravem sentit nisi qui putat, uti tantum praeceptis sapientium, primum aspice quanto maior pars sit pauperum, quos nihilo notabis tristiores sollicitioresque divitibus: immo nescio an eo laetiores sint quo animus illorum in pauciora distringitur. Transeamus [a pauperibus, veniamus] ad locupletes: quam multa tempora sunt quibus pauperibus similes sint! Circumcisae sunt peregrinantium sarcinae, et quotiens festinationem necessitas itineris exegit, comitum turba dimittitur. Militantes quotam partem rerum suarum secum habent, cum omnem apparatum castrensis disciplina summoveat! Nec tantum condicio illos temporum aut locorum inopia pauperibus exaequat: sumunt quosdam dies, cum iam illos divitiarum taedium cepit, quibus humi cenent et remoto auro argentoque fictilibus utantur. Dementes! hoc quod aliquando concupiscunt semper timent. O quanta illos caligo mentium, quanta ignorantia veritatis exercet, quam voluptatis causa imitantur! Me quidem, quotiens ad antiqua exempla respexi, paupertatis uti
solaciis pudet, quoniam quidem eo temporum luxuria prolapsa est ut maius viaticum exulum sit quam olim patrimonium principum fuit. Unum fuisse Homero servum, tres Platoni, nullum Zenoni, a quo coepit Stoicorum rigida ac virilis sapientia, satis constat: num ergo quisquam eos misere vixisse dicet ut non ipse miserrimus ob hoc omnibus videatur? Menenius Agrippa, qui inter patres ac plebem publicae gratiae sequester fuit, aere conlato funeratus est. Atilius Regulus, cum Poenos in Africa funderet, ad senatum scripsit mercennarium suum discessisse et ab eo desertum esse rus, quod senatui publice curari dum abesset Regulus placuit: fuitne tanti servum non habere ut colonus eius populus Romanus esset? Scipionis filiae ex aerario dotem acceperunt, quia nihil illis reliquerat pater: aequum mehercules erat populum Romanum tributum Scipioni semel conferre, cum a Carthagine semper exigeret. O felices viros puellarum quibus populus Romanus loco soceri fuit! Beatioresne istos putas quorum pantomimae deciens sestertio nubunt quam Scipionem, cuius liberi a senatu, tutore suo, in dotem aes grave acceperunt? Dedignatur aliquis paupertatem, cuius tam clarae imagines sunt? Indignatur exul aliquid sibi deesse, cum defuerit Scipioni dos, Regulo mercennarius, Menenio funus, cum omnibus illis quod deerat ideo honestius suppletum sit quia defuerat? His ergo advocatis non tantum tuta est sed etiam gratiosa paupertas. 13. Responderi potest: «Quid artificiose ista diducis quae singula sustineri possunt, conlata non possunt? Commutatio loci tolerabilis est, si tantum locum mutes; paupertas tolerabilis est, si ignominia abest, quae vel sola opprimere animos solet». Adversus hunc, quisquis me malorum turba terrebit, his verbis utendum erit: «Si contra unam quamlibet partem fortunae satis tibi roboris est, idem adversus omnis erit. Cum semel animum virtus induravit, undique invulnerabilem praestat. Si avaritia dimisit, vehementissima generis humani pestis, moram tibi ambitio non faciet; si ultimum diem non quasi poenam sed quasi naturae legem aspicis, ex quo pectore metum mortis eieceris, in id nullius rei timor audebit intrare; si cogitas libidinem non voluptatis causa homini datam sed propagandi generis, quem non violaverit hoc secretum et infixum visceribus ipsis exitium, omnis alia cupiditas intactum praeteribit. Non singula vitia ratio sed pariter omnia prosternit: in universum semel vincitur». Ignominia tu putas quemquam sapientem moveri posse, qui omnia in se reposuit, qui ab opinionibus vulgi secessit? Plus etiam quam ignominia est mors ignominiosa: Socrates tamen eodem illo vultu quo triginta tyrannos solus aliquando in ordinem redegerat carcerem intravit, ignominiam ipsi loco detracturus; neque enim poterat carcer videri in quo Socrates erat. Quis usque eo ad conspiciendam veritatem excaecatus est ut ignominiam putet Marci Catonis fuisse duplicem in petitione praeturae et consulatus repulsam? Ignominia illa praeturae et consulatus fuit, quibus ex Catone honor habebatur. Nemo ab alio contemnitur, nisi a se ante contemptus est. Humilis et proiectus animus est isti
contumeliae opportunus; qui vero adversus saevissimos casus se extollit et ea mala quibus alii opprimuntur evertit, ipsas miserias infularum loco habet, quando ita adfecti sumus ut nihil aeque magnam apud nos admirationem occupet quam homo fortiter miser. Ducebatur Athenis ad supplicium Aristides, cui quisquis occurrerat deiciebat oculos et ingemescebat, non tamquam in hominem iustum sed tamquam in ipsam iustitiam animadverteretur; inventus est tamen qui in faciem eius inspueret. Poterat ob hoc moleste ferre quod sciebat neminem id ausurum puri oris; at ille abstersit faciem et subridens ait comitanti se magistratui: «admone istum ne postea tam inprobe oscitet». Hoc fuit contumeliam ipsi contumeliae facere. Scio quosdam dicere contemptu nihil esse gravius, mortem ipsis potiorem videri. His ego respondebo et exilium saepe contemptione omni carere: si magnus vir cecidit, magnus iacuit, non magis illum contemni quam aedium sacrarum ruinae calcantur, quas religiosi aeque ac stantis adorant. 14. Quoniam meo nomine nihil habes, mater carissima, quod te in infinitas lacrimas agat, sequitur ut causae tuae te stimulent. Sunt autem duae; nam aut illud te movet quod praesidium aliquod videris amisisse, aut illud quod desiderium ipsum per se pati non potes. Prior pars mihi leviter perstringenda est; novi enim animum tuum nihil in suis praeter ipsos amantem. Viderint illae matres quae potentiam liberorum muliebri inpotentia exercent, quae, quia feminis honores non licet gerere, per illos ambitiosae sunt, quae patrimonia filiorum et exhauriunt et captant, quae eloquentiam commodando aliis fatigant: tu liberorum tuorum bonis plurimum gavisa es, minimum usa; tu liberalitati nostrae semper inposuisti modum, cum tuae non inponeres; tu filia familiae locupletibus filiis ultro contulisti; tu patrimonia nostra sic administrasti ut tamquam in tuis laborares, tamquam alienis abstineres; tu gratiae nostrae, tamquam alienis rebus utereris, pepercisti, et ex honoribus nostris nihil ad te nisi voluptas et inpensa pertinuit. Numquam indulgentia ad utilitatem respexit; non potes itaque ea in erepto filio desiderare quae in incolumi numquam ad te pertinere duxisti. 15. Illo omnis consolatio mihi vertenda est unde vera vis materni doloris oritur: «Ergo complexu fili carissimi careo; non conspectu eius, non sermone possum frui. Ubi est ille quo viso tristem vultum relaxavi, in quo omnes sollicitudines meas deposui? Ubi conloquia, quorum inexplebilis eram? Ubi studia, quibus libentius quam femina, familiarius quam mater intereram? Ubi ille occursus? Ubi matre visa semper puerilis hilaritas?». Adicis istis loca ipsa gratulationum et convictuum et, ut necesse est, efficacissimas ad vexandos animos recentis conversationis notas. Nam hoc quoque adversus te crudeliter fortuna molita est, quod te ante tertium demum diem quam perculsus sum securam nec quicquam tale metuentem digredi voluit. Bene nos longinquitas locorum diviserat, bene aliquot annorum absentia huic te malo praeparaverat: redisti, non
ut voluptatem ex filio perciperes, sed ut consuetudinem desiderii perderes. Si multo ante afuisses, fortius tulisses, ipso intervallo desiderium molliente; si non recessisses, ultimum certe fructum biduo diutius videndi filium tulisses: nunc crudele fatum ita composuit ut nec fortunae meae interesses nec absentiae adsuesceres. Sed quanto ista duriora sunt, tanto maior tibi virtus advocanda est, et velut cum hoste noto ac saepe iam victo acrius congrediendum. Non ex intacto corpore tuo sanguis hic fluxit: per ipsas cicatrices percussa es. 16. Non est quod utaris excusatione muliebris nominis, cui paene concessum est inmoderatum in lacrimis ius, non inmensum tamen; et ideo maiores decem mensum spatium lugentibus viros dederunt ut cum pertinacia muliebris maeroris publica constitutione deciderent. Non prohibuerunt luctus sed finierunt; nam et infinito dolore, cum aliquem ex carissimis amiseris, adfici stulta indulgentia est, et nullo inhumana duritia: optimum inter pietatem et rationem temperamentum est et sentire desiderium et opprimere. Non est quod ad quasdam feminas respicias quarum tristitiam semel sumptam mors finivit (nosti quasdam quae amissis filiis inposita lugubria numquam exuerunt): a te plus exigit vita ab initio fortior; non potest muliebris excusatio contingere ei a qua omnia muliebria vitia afuerunt. Non te maximum saeculi malum, inpudicitia, in numerum plurium adduxit; non gemmae te, non margaritae flexerunt; non tibi divitiae velut maximum generis humani bonum refulserunt; non te, bene in antiqua et severa institutam domo, periculosa etiam probis peiorum detorsit imitatio; numquam te fecunditatis tuae, quasi exprobraret aetatem, puduit, numquam more aliarum, quibus omnis commendatio ex forma petitur, tumescentem uterum abscondisti quasi indecens onus, nec intra viscera tua conceptas spes liberorum elisisti; non faciem coloribus ac lenociniis polluisti; numquam tibi placuit vestis quae nihil amplius nudaret cum poneretur: unicum tibi ornamentum, pulcherrima et nulli obnoxia aetati forma, maximum decus visa est pudicitia. Non potes itaque ad optinendum dolorem muliebre nomen praetendere, ex quo te virtutes tuae seduxerunt; tantum debes a feminarum lacrimis abesse quantum a vitiis. Ne feminae quidem te sinent intabescere vulneri tuo, sed leviori necessario maerore cito defunctam iubebunt exsurgere, si modo illas intueri voles feminas quas conspecta virtus inter magnos viros posuit. Corneliam ex duodecim liberis ad duos fortuna redegerat: si numerare funera Corneliae velles, amiserat decem, si aestimare, amiserat Gracchos. Flentibus tamen circa se et fatum eius execrantibus interdixit ne fortunam accusarent, quae sibi filios Gracchos dedisset. Ex hac femina debuit nasci qui diceret in contione, «Tu matri meae male dicas quae me peperit?». Multo mihi vox matris videtur animosior: filius magno aestimavit Gracchorum natales, mater et funera. Rutilia Cottam filium secuta est in exilium et usque eo fuit indulgentia constricta ut mallet exilium pati quam desiderium, nec ante in patriam quam cum filio rediit. Eundem iam reducem et in re publica florentem tam fortiter amisit quam secuta est, nec quisquam lacrimas eius post elatum filium notavit. In expulso virtutem ostendit,
in amisso prudentiam; nam et nihil illam a pietate deterruit et nihil in tristitia supervacua stultaque detinuit. Cum his te numerari feminis volo; quarum vitam semper imitata es, earum in coercenda comprimendaque aegritudine optime sequeris exemplum. 17. Scio rem non esse in nostra potestate nec ullum adfectum servire, minime vero eum qui ex dolore nascitur; ferox enim et adversus omne remedium contumax est. Volumus interim illum obruere et devorare gemitus; per ipsum tamen compositum fictumque vultum lacrimae profunduntur. Ludis interim aut gladiatoribus animum occupamus; at illum inter ipsa quibus avocatur spectacula levis aliqua desiderii nota subruit. Ideo melius est vincere illum quam fallere; nam qui delusus et voluptatibus aut occupationibus abductus est resurgit et ipsa quiete impetum ad saeviendum colligit: at quisquis rationi cessit, in perpetuum componitur. Non sum itaque tibi illa monstraturus quibus usos esse multos scio, ut peregrinatione te vel longa detineas vel amoena delectes, ut rationum accipiendarum diligentia, patrimonii administratione multum occupes temporis, ut semper novo te aliquo negotio inplices: omnia ista ad exiguum momentum prosunt nec remedia doloris sed inpedimenta sunt; ego autem malo illum desinere quam decipi. Itaque illo te duco quo omnibus qui fortunam fugiunt confugiendum est, ad liberalia studia: illa sanabunt vulnus tuum, illa omnem tristitiam tibi evellent. His etiam si numquam adsuesses, nunc utendum erat; sed quantum tibi patris mei antiquus rigor permisit, omnes bonas artes non quidem comprendisti, attigisti tamen. Utinam quidem virorum optimus, pater meus, minus maiorum consuetudini deditus voluisset te praeceptis sapientiae erudiri potius quam inbui! non parandum tibi nunc esset auxilium contra fortunam sed proferendum. Propter istas quae litteris non ad sapientiam utuntur sed ad luxuriam instruuntur minus te indulgere studiis passus est. Beneficio tamen rapacis ingenii plus quam pro tempore hausisti; iacta sunt disciplinarum omnium fundamenta: nunc ad illas revertere; tutam te praestabunt. Illae consolabuntur, illae delectabunt, illae si bona fide in animum tuum intraverint, numquam amplius intrabit dolor, numquam sollicitudo, numquam adflictationis inritae supervacua vexatio. Nulli horum patebit pectus tuum; nam ceteris vitiis iam pridem clusum est. 18. Haec quidem certissima praesidia sunt et quae sola te fortunae eripere possint. Sed quia, dum in illum portum quem tibi studia promittunt pervenis, adminiculis quibus innitaris opus est, volo interim solacia tibi tua ostendere. Respice fratres meos, quibus salvis fas tibi non est accusare fortunam. In utroque habes quod te diversa virtute delectet: alter honores industria consecutus est, alter sapienter contempsit. Adquiesce alterius fili dignitate, alterius quiete, utriusque pietate. Novi fratrum meorum intimos adfectus: alter in hoc dignitatem excolit ut tibi ornamento sit, alter in hoc se ad tranquillam quietamque vitam recepit ut tibi vacet. Bene liberos tuos et in auxilium et in oblectamentum fortuna disposuit: potes alterius dignitate defendi, alterius otio frui. Certabunt in te
officiis et unius desiderium duorum pietate supplebitur. Audacter possum promittere: nihil tibi deerit praeter numerum. Ab his ad nepotes quoque respice: Marcum blandissimum puerum, ad cuius conspectum nulla potest durare tristitia; nihil tam magnum, nihil tam recens in cuiusquam pectore furit quod non circumfusus ille permulceat. Cuius non lacrimas illius hilaritas supprimat? Cuius non contractum sollicitudine animum illius argutiae solvant? Quem non in iocos evocabit illa lascivia? Quem non in se convertet et abducet infixum cogitationibus illa neminem satiatura garrulitas? Deos oro, contingat hunc habere nobis superstitem! In me omnis fatorum crudelitas lassata consistat; quidquid matri dolendum fuit, in me transierit, quidquid aviae, in me. Floreat reliqua in suo statu turba: nihil de orbitate, nihil de condicione mea querar, fuerim tantum nihil amplius doliturae domus piamentum. Tene in gremio cito tibi daturam pronepotes Novatillam, quam sic in me transtuleram, sic mihi adscripseram, ut possit videri, quod me amisit, quamvis salvo patre pupilla; hanc et pro me dilige. Abstulit illi nuper fortuna matrem: tua potest efficere pietas ut perdidisse se matrem doleat tantum, non et sentiat. Nunc mores eius compone, nunc forma: altius praecepta descendunt quae teneris inprimuntur aetatibus. Tuis adsuescat sermonibus, ad tuum fingatur arbitrium: multum illi dabis, etiam si nihil dederis praeter exemplum. Hoc tibi tam sollemne officium pro remedio erit; non potest enim animum pie dolentem a sollicitudine avertere nisi aut ratio aut honesta occupatio. Numerarem inter magna solacia patrem quoque tuum, nisi abesset. Nunc tamen ex adfectu tuo qui illius in te sit cogita: intelleges quanto iustius sit te illi servari quam mihi inpendi. Quotiens te inmodica vis doloris invaserit et sequi se iubebit, patrem cogita. Cui tu quidem tot nepotes pronepotesque dando effecisti ne unica esses; consummatio tamen aetatis actae feliciter in te vertitur. Illo vivo nefas est te quod vixeris queri. 19. Maximum adhuc solacium tuum tacueram, sororem tuam, illud fidelissimum tibi pectus, in quod omnes curae tuae pro indiviso transferuntur, illum animum omnibus nobis maternum. Cum hac tu lacrimas tuas miscuisti, in huius primum respirasti sinu. Illa quidem adfectus tuos semper sequitur; in mea tamen persona non tantum pro te dolet. Illius manibus in urbem perlatus sum, illius pio maternoque nutricio per longum tempus aeger convalui; illa pro quaestura mea gratiam suam extendit et, quae ne sermonis quidem aut clarae salutationis sustinuit audaciam, pro me vicit indulgentia verecundiam. Nihil illi seductum vitae genus, nihil modestia in tanta feminarum petulantia rustica, nihil quies, nihil secreti et ad otium repositi mores obstiterunt quominus pro me etiam ambitiosa fieret. Hoc est, mater carissima, solacium quo reficiaris: illi te quantum potes iunge, illius artissimis amplexibus alliga. Solent maerentes ea quae maxime diligunt fugere et libertatem dolori suo quaerere: tu ad illam te, quidquid cogitaveris, confer; sive servare istum habitum voles sive deponere, apud illam invenies vel finem doloris tui vel comitem. Sed si prudentiam perfectissimae feminae novi, non patietur te nihil profuturo maerore consumi et
exemplum tibi suum, cuius ego etiam spectator fui, narrabit. Carissimum virum amiserat, avunculum nostrum, cui virgo nupserat, in ipsa quidem navigatione; tulit tamen eodem tempore et luctum et metum evictisque tempestatibus corpus eius naufraga evexit. O quam multarum egregia opera in obscuro iacent! Si huic illa simplex admirandis virtutibus contigisset antiquitas, quanto ingeniorum certamine celebraretur uxor quae oblita inbecillitatis, oblita metuendi etiam firmissimis maris, caput suum periculis pro sepultura obiecit et, dum cogitat de viri funere, nihil de suo timuit! Nobilitatur carminibus omnium quae se pro coniuge vicariam dedit: hoc amplius est, discrimine vitae sepulcrum viro quaerere; maior est amor qui pari periculo minus redimit. Post hoc nemo miretur quod per sedecim annos quibus Aegyptum maritus eius optinuit numquam in publico conspecta est, neminem provincialem domum suam admisit, nihil a viro petit, nihil a se peti passa est. Itaque loquax et in contumelias praefectorum ingeniosa provincia, in qua etiam qui vitaverunt culpam non effugerunt infamiam, velut unicum sanctitatis exemplum suspexit et, quod illi difficillimum est cui etiam periculosi sales placent, omnem verborum licentiam continuit et hodie similem illi, quamvis numquam speret, semper optat. Multum erat, si per sedecim annos illam provincia probasset: plus est quod ignoravit. Haec non ideo refero ut laudes eius exequar, quas circumscribere est tam parce transcurrere, sed ut intellegas magni animi esse feminam quam non ambitio, non avaritia, comites omnis potentiae et pestes, vicerunt, non metus mortis iam exarmata nave naufragium suum spectantem deterruit quominus exanimi viro haerens non quaereret quemadmodum inde exiret sed quemadmodum efferret. Huic parem virtutem exhibeas oportet et animum a luctu recipias et id agas ne quis te putet partus tui paenitere. 20. Ceterum quia necesse est, cum omnia feceris, cogitationes tamen tuas subinde ad me recurrere nec quemquam nunc ex liberis tuis frequentius tibi obversari, non quia illi minus cari sunt sed quia naturale est manum saepius ad id referre quod dolet, qualem me cogites accipe: laetum et alacrem velut optimis rebus. Sunt enim optimae, quoniam animus omnis occupationis expers operibus suis vacat et modo se levioribus studiis oblectat, modo ad considerandam suam universique naturam veri avidus insurgit. Terras primum situmque earum quaerit, deinde condicionem circumfusi maris cursusque eius alternos et recursus; tunc quidquid inter caelum terrasque plenum formidinis interiacet perspicit et hoc tonitribus fulminibus ventorum flatibus ac nimborum niuisque et grandinis iactu tumultuosum spatium; tum peragratis humilioribus ad summa perrumpit et pulcherrimo divinorum spectaculo fruitur, aeternitatis suae memor in omne quod fuit futurumque est vadit omnibus saeculis.
Consolazione alla madre Elvia
Premessa In questa consolatoria il tema è il dolore non per la morte ma per la lontananza della persona cara, e più precisamente per l’esilio. Qui, però, la situazione è rovesciata, perché colui che dovrebbe essere consolato si fa consolatore di chi soffre per la sua condizione. E il dolore è quello di una madre. La sventura non ha colpito solo Seneca, ma ha lasciato un vuoto nella sua famiglia, in cui gli affetti domestici sono molto sentiti, e quindi forte è il rimpianto per la lontananza dell’esule, che della famiglia era il centro. Elvia non ha potuto godere dell’affetto materno, poiché, come ricorda Seneca, non ha fatto in tempo a venire al mondo che ha perduto la madre. Poi le sono morti il marito e un nipotino. Ora vive con gli altri due figli, Novato e Mela, e si prende cura del figlioletto di Mela, Marco Lucano, bimbo allegro e vivace, e della figlia di Novato, Novatilla, la prediletta di Seneca che ha da poco perso la madre e si avvicina all’età delle nozze. Altra componente della famiglia è la sorella della madre, vedova anch’essa, che ha tenuto in braccio Seneca bambino durante il viaggio di trasferimento da Cordova a Roma, e lo ha assistito nel periodo di una lunga malattia, sicché per il filosofo la zia è come una seconda madre, tanto più amata perché, con un gesto eroico e a costo della propria vita, ha salvato il corpo del marito, morto in un naufragio, per rendergli l’onore della sepoltura. Seneca cerca di consolare la madre dicendole che l’esilio non è un male, e gliene spiega le ragioni, cominciando col dire che l’uomo per sua stessa natura è un nomade, un viaggiatore desideroso di conoscere non solo la sua terra natia ma anche il mondo a lui sconosciuto. Egli, dunque, tanto più perché è un uomo saggio, non prova rimpianto per la sua terra natale poiché la sua patria è il mondo («Come Antonino la mia patria è Roma, ma come uomo è il mondo», così dirà anche Marco Aurelio). L’esilio, dunque, conclude Seneca, è una sorte comune a tutti gli uomini e va sopportato con forza e coraggio perché ciò che conta non sono i beni materiali, sono le doti interiori e le virtù morali che l’uomo si porta dietro, dovunque egli vada. Seneca esorta la madre a ritrovare il coraggio e la forza d’animo che ha sempre dimostrato, e poiché è donna colta e sensibile, oltre che affidarsi all’affetto degli altri due figli, dei nipoti e della sorella, trovi conforto negli studi interrotti. D’altra parte egli è sereno e felice, perché ora può dedicarsi interamente allo studio e alla contemplazione delle cose divine. Non mancano, anche in questa consolatoria, esempi di personaggi illustri, quali Varrone, secondo cui «dovunque ci rechiamo continuiamo a vivere dentro la medesima natura», e Marco Bruto, che nel suo libro Sulla virtù, parlando dell’esilio di Marcello, scriveva: «Chi va in esilio può portare con sé la propria virtù». M. S. A.
1. Molte volte, mia ottima madre, ho sentito l’impulso di scriverti per consolarti e altrettante l’ho trattenuto. Diversi motivi mi spingevano ad assecondarlo, innanzitutto perché pensavo che se soltanto fossi riuscito ad asciugare per un momento le tue lacrime, visto che porvi fine non mi è possibile, mi sarei liberato da tutte le mie sofferenze; poi perché ero convinto che se prima avessi in qualche modo tranquillizzato me stesso avrei potuto rincuorarti più facilmente e con maggiore efficacia. Dall’altro lato temevo che, scrivendoti, la cattiva sorte, da me sconfitta, potesse rivalersi su qualcuno dei miei familiari. Per questo esitavo, e intanto mi sforzavo in tutti i modi di alleviare il mio dolore
per poter meglio curare le tue ferite. Ma c’erano altri motivi che m’inducevano ad aspettare prima di mettere in atto il mio proposito. Sapevo, cioè, che essendo il tuo dolore nella sua fase iniziale, e perciò molto intenso, le mie parole di conforto, invece di lenirlo, lo avrebbero irritato ancora di più, così come nelle malattie non c’è nulla di più dannoso che un rimedio intempestivo. Perciò aspettavo che il dolore stesso indebolisse le proprie forze, in modo che, reso dal tempo più disponibile alle cure, si lasciasse toccare e governare. Perdipiù, in tutti i libri da me consultati, in cui illustri studiosi insegnano come contenere e mitigare i dolori, non ho trovato un solo esempio di persona che consoli un suo familiare di un dolore per il quale è compianta lei stessa. Ecco perché esitavo di fronte alla singolarità di quella mia condizione, preso com’ero dal timore che invece di consolarti potessi inasprire la tua sofferenza. D’altra parte chi solleva il capo dal suo stesso rogo per consolare i suoi non può usare il banale linguaggio quotidiano, ma ha bisogno di parole insolite, anche se la violenza di un dolore eccessivo inevitabilmente ci inibisce la scelta delle parole, visto che non di rado ci toglie anche la voce. Ad ogni modo io ci proverò, non perché confidi nelle mie capacità, ma perché in definitiva il mio impulso consolatorio è di per sé stesso la più efficace delle consolazioni. Spero che tu, da cui nessun rifiuto potrebbe venirmi, non vorrai negarmi neppure questo gesto, e che, per quanto un dolore possa essere ostinato, accetterai che io cerchi di arginare in qualche misura il tuo rimpianto. 2. Vedi quanto io confidi nella tua comprensione: ho tanta forza da credere di poter aver ragione del tuo dolore, anche se questo per gli sventurati è il potere più forte che ci sia. Perciò non lo affronterò subito in campo aperto: prima lo asseconderò, fornendogli anzi materia perché si ravvivi, metterò a nudo le tue ferite e riaprirò quelle che sono già cicatrizzate. Qualcuno dirà: «Che razza di consolazione è questa? Riesumare dolori già dimenticati e sbattere in faccia all’animo tutte le sue disgrazie, quando a mala pena riesce a sopportarne una?». Ebbene, chi pensa così sappia che il male quando è tanto forte da crescere contro qualunque rimedio spesso va curato con medicine contrarie. Perciò io chiamerò a raccolta per la mia ammalata tutti i suoi lutti, tutte le sue disgrazie: sarà tutto un incidere e un bruciare, non una cura pietosa e delicata. Quale sarà il risultato? Che l’animo, dopo aver superato vittoriosamente tante battaglie contro il dolore, si vergognerà di non riuscire a sopportare una sola ferita in un corpo tutto coperto di cicatrici. Continuino dunque a piangere e a lamentarsi gli animi infiacchiti da una lunga felicità, crollino pure all’urto della più piccola offesa: quelli che hanno trascorso la vita in mezzo alle disgrazie sapranno sopportare con forte e stabile costanza anche i mali più gravi. Questo è il privilegio, unico, di una continua e insistente infelicità, quello, cioè, di rendere ancora più forti coloro che ne sono sempre vessati. La sorte non ha concesso un solo istante di tregua ai tuoi gravissimi lutti, neppure nel giorno della tua nascita: non hai fatto in tempo a venire alla luce che
hai perduto tua madre, sicché in un certo senso sei venuta al mondo in balìa della vita. Sei stata allevata da una matrigna, che tu hai reso madre riversando su di lei tutto il rispetto e tutta la devozione che solo una figlia può dare; né può aversi una buona matrigna se non a caro prezzo. Avevi uno zio 1 che ti era molto affezionato, uomo onestissimo e assai coraggioso, e lo perdesti mentre ne aspettavi l’arrivo; poi, come se la cattiva sorte non volesse alleviare la sua crudeltà distanziando i suoi colpi, meno di trenta giorni dopo conducesti alla tomba il tuo adorato marito,2 che ti aveva reso madre di tre figli: ti fu annunciata in pieno lutto questa nuova disgrazia, mentre tutti i tuoi figli erano lontani, talché sembrava che le sventure avessero deliberato di pioverti addosso tutte quante insieme per non dare neppure il minimo appiglio al tuo dolore. Non parlo dei tanti pericoli, dei tanti timori di cui hai sopportato gli assalti senza tregua. Ultimamente, in quel medesimo seno da cui si erano allontanati, hai raccolto le ossa di tre tuoi nipoti, finché, dopo appena venti giorni dalla morte di mio figlio, spirato fra le tue braccia e i tuoi baci, hai avuto notizia che anch’io ero stato strappato al tuo affetto. Solo questo ti mancava: dover piangere i vivi. 3. So bene che quest’ultima è la ferita più grave fra tutte quelle che hanno trafitto il tuo corpo: ti ha lacerato il cuore e le viscere, dopo averti strappato la pelle. Ma come le reclute, anche se colpite di striscio, urlano e temono più le mani dei medici che non il ferro nemico, mentre i veterani, benché trapassati da parte a parte, si lasciano operare pazientemente e senza gemito alcuno, quasi che il corpo non gli appartenga, così tu, con altrettanto coraggio, devi sottoporti alla mia cura. Metti da parte i lamenti, le grida e gli altri sfoghi con cui le donne abitualmente manifestano il proprio dolore: avresti sofferto inutilmente se non avessi imparato a essere infelice. Come vedi, non ho avuto tanti riguardi con te, se invece di nasconderti i tuoi mali te li ho ammucchiati davanti uno per uno. 4. L’ho fatto con grande coraggio, perché il mio scopo è vincere il tuo dolore, non circoscriverlo. E sono certo di vincerlo, se riuscirò a dimostrare prima di tutto che nulla di quanto mi accade può rendermi infelice e, di conseguenza, far soffrire i miei familiari. Dopodiché, venendo al caso tuo, dimostrerò che anche la tua sorte, legata alla mia vita, non è intollerabile. E affronterò subito la questione che ti sta più a cuore, dicendoti, cioè, che io non soffro alcun male, e spero di poterti dimostrare come le cose che tu ritieni per me motivo di sofferenza non siano poi insopportabili. Tu potrai pure non credermi, ma sappi per certo che io mi sento felice anche in quelle condizioni che di solito sono motivo d’infelicità. Perciò non dare retta a ciò che gli altri ti dicono di me, quando io stesso, per toglierti ogni dubbio di fronte a voci assolutamente prive di fondamento, ti assicuro che qui non sono affatto infelice. E a tua maggiore tranquillità aggiungerò che non è neppure possibile ch’io lo diventi.
5. La condizione umana, quando si nasce, è di per sé stessa buona, e tale resterebbe se non fossimo noi ad abbandonarla. La natura ha fatto in modo che ci fosse bisogno di poco per vivere bene: ciascuno basta a sé stesso per essere felice. I fattori esterni non contano, non influiscono più di tanto, sia nel bene che nel male: chi è saggio non si esalta nella buona sorte, come non si abbatte nella cattiva, proprio perché fa affidamento solo su stesso e in sé stesso si sforza di trovare ogni ragione per essere felice. Con ciò non dico di essere saggio, non me lo sogno nemmeno, inquantoché se soltanto potessi dire una cosa del genere non solo negherei di essere infelice ma andrei gridando ai quattro venti di essere l’uomo più fortunato del mondo, quasi alla pari con dio. Però ho rimesso tutta la mia vita nelle mani degli uomini saggi, e questo basta ad alleviare tutti i miei mali: non essendo ancora in grado di difendermi da solo, mi sono rifugiato in terre altrui, negli accampamenti di quelli che sanno come difendere sé stessi e i propri cari, e loro m’hanno consigliato di stare sempre all’erta, come una sentinella, per prevedere, prima che mi piombino addosso, tutti gli assalti della malasorte. Questa, infatti, è difficile da battersi solo per quelli a cui giunge improvvisa, ma chi sta sempre sul piede di guerra e sa che può arrivare da un momento all’altro la sostiene facilmente. Allo stesso modo l’assalto dei nemici travolge quelli che non se lo aspettano, mentre coloro che sono sempre pronti allo scontro e bene armati resistono con efficacia al primo urto, che è sempre il più impetuoso. Io non mi sono mai fidato della fortuna, nemmeno quando sembrava che mi portasse la pace, e tutti quei beni che mi elargiva generosamente, ricchezze, onori, favori, non me li sono mai tenuti stretti, ma ne ho fatto così poco conto che lei avrebbe potuto riprenderseli senza che io ne fossi minimamente toccato. Ho sempre guardato quei beni con grande distacco, a debita distanza, talché la fortuna, quando è accaduto, non me li ha strappati di mano, se li è semplicemente ripresi. La cattiva sorte stritola solo chi si è fidato troppo della buona, chi si è lasciato ingannare dai beni ricevuti come se fossero doni durevoli e personali, e per i quali voleva farsi bello agli occhi degli altri, sicché poi, una volta privato da queste false ed effimere gioie, il suo animo vuoto e puerile, che ignora i beni veri e duraturi, si abbatte e si dispera. Chi invece non insuperbisce nella prosperità non si scoraggia nell’avversità, ma in entrambi i casi conserva quella fermezza d’animo che ha già sperimentato nella buona sorte in quanto previdente e consapevole di ciò che serviva per far fronte a quella cattiva. È per questo che io ho sempre considerato vuote, perché rivestite di colori appariscenti e ingannevoli, tutte quelle cose che in genere gli uomini vedono e desiderano come se fossero beni reali, mentre dentro non hanno nulla che corrisponda al loro aspetto esteriore. Ora in quelle cose che gli altri chiamano mali non trovo nulla di così terrificante e insopportabile, come vorrebbe far credere e temere la gente comune. Anche la parola «esilio», per via di un giudizio e un consenso generale, suona dura all’orecchio, e chi l’ascolta ne rimane colpito, come da qualcosa di
odioso e di sinistro, perché codesta, appunto, è la voce del popolo. Ma i saggi non ne tengono conto, loro si fanno beffe dei decreti del volgo. 6. Scartata, dunque, l’opinione dei più, la quale, priva di un fondamento critico, è fallace in partenza in quanto muove dall’aspetto esteriore delle cose, vediamo ora che cos’è propriamente l’esilio. Sicuramente è un cambiamento di luogo. Ma, affinché non sembri che io con questa affermazione voglia diminuirne il valore e sottrargli tutto ciò che ha in sé di deteriore, dirò che questo cambiamento di luogo comporta dei disagi, come infamia, stenti e disprezzo. Ma questo lo vedremo dopo. Per ora mi limiterò a esaminare innanzitutto cosa vi sia di sgradevole in questo cambiamento. «Vivere lontano dalla patria è cosa intollerabile», si dice. Ebbene, guarda la gran folla di gente che le case di un’immensa città riescono a malapena a contenere: la maggior parte di quelle persone sono lontane dalla loro patria, sono confluite qui dai loro municipi, dalle loro colonie, da ogni angolo del mondo. Alcune ve le ha spinte l’ambizione, altre la necessità di un impiego pubblico, altre quella di un’ambasceria, altre perché cercavano un luogo in cui spadroneggiano i vizi e la lussuria, oppure per amore degli studi liberali, degli spettacoli, per crearsi più facilmente delle amicizie, o perché convinte di potervi esprimere e sviluppare maggiormente il proprio talento; alcune ancora vi sono venute per prostituirsi, altre per trarre profitto dalla loro eloquenza. Non c’è insomma razza umana che non sia affluita in questa grande città così generosa nel remunerare i vizi e le virtù. Prendi uno per uno tutti costoro, chiamali per nome e chiedi a ciascuno di quale paese sia: vedrai che la maggior parte di essi hanno lasciato la propria patria per venire in questa città grandissima e stupenda, che può dirsi comune a tutta l’umanità, ma che non è la loro. Fa’ poi il giro delle altre: non ce n’è una i cui abitanti non siano per lo più stranieri. Lascia stare quelle che attirano molti per l’amenità del luogo e la mitezza del clima, guarda le regioni deserte e le isole più selvagge, come Sciato, Serifo, Giaro, Cossira:3 non troverai nessuna terra d’esilio in cui qualcuno risieda di sua volontà. Cosa pensi che possa esserci al mondo di più squallido e più dirupato di questo scoglio in cui mi trovo? Quale luogo più sterile per chi voglia coltivarlo? Che cosa di più inospitale per gli uomini e di più orrendo a vedersi e con un clima più rigido? Eppure, qui vivono più forestieri che indigeni. Evidentemente il cambiamento di luogo non è poi di per sé così gravoso se persino un posto come questo ha strappato gente dalla sua terra natale. Alcuni sostengono che il cambiar sede e il trasferire il proprio domicilio sia un bisogno connaturato nell’animo dell’uomo, dovuto alla sua indole volubile e irrequieta: l’uomo, infatti, non sta mai fermo, si sparpaglia, è tutto un frantumarsi interiore, come se la sua mente fosse proiettata in mille direzioni, verso il mondo conosciuto ma anche verso l’ignoto; incostante, non ama l’immobilità e gode di tutto ciò che gli risulta insolito e nuovo. Non c’è da meravigliarsene se si considera la sua prima origine, che appartiene al cielo, non alla terra: l’uomo
non è composto di materiale pesante, ma discende da quello spirito celeste tipico degli astri, che per loro natura sono sempre in movimento, sempre in fuga, in una corsa incessante e vertiginosa. Guarda le stelle che illuminano il mondo: nessuna è stabile, il sole si muove continuamente passando da un luogo all’altro e pur ruotando insieme all’universo gira in senso contrario a quello del cielo stesso, attraversa tutte le costellazioni senza mai fermarsi in un moto perpetuo, come perpetuo è il suo migrare da una parte all’altra. Tutti i corpi celesti girano senza posa e sono sempre in movimento, si spostano da un luogo all’altro secondo una legge ineluttabile fissata dalla natura, e quando, dopo un certo numero di anni, avranno compiuto la loro orbita, ritorneranno indietro, rifacendo il cammino già percorso. Pensa dunque se l’animo dell’uomo, composto della stessa sostanza di quei corpi celesti, possa sentirsi a disagio nei suoi trasferimenti e mutamenti di sede, quando la divina natura degli astri si compiace di questo assiduo e rapidissimo movimento mediante il quale si conserva intatta. 7. Ora dal mondo celeste passa a quello degli uomini: vedrai quanti popoli in massa e quante generazioni hanno cambiato sede. Che significano le città greche situate in pieno territorio barbaro? E la lingua macedone che si parla in India e in Persia? Nella Scizia e in tutta quella regione abitata da genti indomite e selvagge sorgono città greche, erette sui lidi del Ponto: né il rigore del lungo inverno, né l’indole degli abitanti, aspra come il loro clima, hanno ostacolato gli uomini che trasferivano lì le loro case. L’Asia è piena di Ateniesi, la sola Mileto ha popolato la bellezza di settantacinque città sparse un po’ dovunque, tutta la costa dell’Italia bagnata dal Mare Inferiore4 ha creato la Magna Grecia. L’Asia rivendica gli Etruschi come suoi abitanti, i Tirii si sono insediati in Africa, i Cartaginesi in Spagna, i Greci si sono introdotti in Gallia e i Galli in Grecia, i Pirenei non hanno impedito ai Germani di attraversarli. Nel suo nomadismo l’uomo si è aperto strade attraverso l’impraticabile e l’ignoto, portandosi dietro i figli, le mogli, i genitori oppressi dalla vecchiaia. Alcuni, sballottati di qua e di là in un lungo peregrinare, non ebbero la possibilità di scegliersi a loro piacere la sede, ma, vinti dalla stanchezza, occuparono quella più vicina, mentre altri dovettero lottare con le armi per conquistarsi il diritto sopra una terra straniera. Per non parlare di quelle genti che, avventurandosi verso terre sconosciute, furono inghiottite dal mare, o si stabilirono là dove la totale mancanza di risorse li aveva fatti approdare. Varie furono le ragioni che spinsero tutti costoro a lasciare la loro patria e cercarsene un’altra: alcuni, sfuggiti allo sterminio delle proprie città e alle armi nemiche, spogliati d’ogni cosa, migrarono in terre altrui; altri dovettero sloggiare in seguito a lotte intestine, altri furono costretti ad andarsene per alleggerire il peso di una popolazione troppo numerosa, altri per sottrarsi ai rischi di pestilenze o di terremoti troppo frequenti, o a flagelli insopportabili di una terra disgraziata; altri, infine, perché incantati dalle voci di contrade fertili spacciate come migliori.
Comunque un fatto è certo: quali che siano stati i motivi per cui ognuno ha lasciato la propria casa, nessuna cosa è rimasta di quelle che lì sono nate. Incessante è il peregrinare dell’uomo. In un mondo così grande è inevitabile che ogni giorno cambi qualcosa: si pongono le fondamenta di nuove città, nascono popolazioni dai nomi nuovi, perché quelli vecchi o si estinguono di per sé o vengono assorbiti al sopraggiungere di una popolazione più forte. E cos’altro sono tutti questi spostamenti di popoli se non esilii in massa? Ma perché trascinarti in un giro così lungo? A che serve ch’io ti elenchi Antenore, fondatore di Padova, o Evandro, che portò il regno degli Arcadi sulla riva del Tevere? O Diomede e gli altri che la guerra di Troia, non solo tra i vinti ma anche tra i vincitori, disperse in terre straniere? Certo, l’impero romano ha come suo fondatore un esule che, profugo dopo la caduta della sua patria e portandosi dietro i pochi superstiti, spinto dalla necessità e dal timore dei vincitori a cercare terre lontane, approdò alla fine in Italia.5 E in seguito quel popolo quante colonie ha fondato in ogni sua provincia! Dovunque vinca, il Romano, lì pianta un’altra sua sede. E per questi cambiamenti di luogo si arruolavano volontari, fra cui c’erano anche dei veterani, che, lasciati i propri altari, seguivano i coloni attraversando i mari. Ma a che serve girare intorno e aggiungere elenchi a elenchi? Ti basti un solo esempio, che ho proprio qui davanti e mi s’imprime negli occhi. Quest’isola in cui mi trovo ha cambiato spesso i suoi abitanti. Tralasciando le popolazioni più antiche, di cui il tempo ormai ha cancellato il ricordo, i Greci che ora abitano Marsiglia, lasciata la Focide,6 si insediarono dapprima in quest’isola, da cui poi se ne andarono per motivi che noi non conosciamo, forse per l’inclemenza del clima, per le minacce che sembravano incombere su di lei dall’Italia troppo vicina, o per il mare privo di approdi naturali. Certo non fu lo stato selvaggio degli abitanti ad allontanarli, visto che da lì andarono a stabilirsi tra le fiere e rozze popolazioni della Gallia. Successivamente in quest’isola passarono i Liguri, quindi gli Ispani, come si ricava da certe usanze comuni: portano infatti gli stessi copricapo e gli stessi calzari dei Cantabri e ne conservano anche certe parole (ma sotto l’influsso dei Greci e dei Liguri la loro lingua è molto mutata rispetto a quella originaria). In seguito vi si installarono due colonie di cittadini romani, fondate una da Mario, l’altra da Silla.7 Sono tante le volte in cui è cambiata la popolazione di questo scoglio arido e tutto coperto di sterpi. In definitiva difficilmente potresti trovare una terra che sia abitata ancora oggi dagli aborigeni. Non c’è popolo che non abbia subìto incroci e mescolanze: gli uni si sono succeduti agli altri, e al nuovo venuto è piaciuto ciò che aveva finito col disgustare il precedente; uno viene cacciato da dove prima a sua volta aveva cacciato un altro. Così vuole il destino: che le cose non restino sempre nel medesimo posto, o nel medesimo stato. 8. Quanto al rimedio contro il cambiamento di luogo, a parte gli altri inconvenienti connessi con l’esilio, secondo Varrone, che è il più dotto dei
Romani,8 basta tener presente che, dovunque ci rechiamo, il nostro rapporto col mondo esterno resta immutato, poiché continuiamo a vivere sempre dentro i confini della natura. Per Marco Bruto,9 invece, l’antidoto dell’esilio sta nel portarsi dietro le proprie virtù. Presi singolarmente, questi due rimedi possono sembrare poco adatti a consolare un esule, ma se si mettono insieme bisogna riconoscere che sono efficacissimi. È ben poco, infatti, ciò che perdiamo quando ci spostiamo da un luogo all’altro: due cose ci seguono sempre, dovunque ci rechiamo, e sono i beni più belli: la natura, che è comune a tutti, e la virtù personale. Così ha stabilito – credimi – il creatore dell’universo, chiunque egli sia, un dio signore di tutte le cose, o una mente incorporea artefice di opere meravigliose, oppure uno spirito divino diffuso uniformemente in tutti gli esseri, grandi o piccoli che siano, o ancora il fato, quale serie immutabile di cause collegate tra loro; e tutto questo è stato fatto in modo che solo le cose e gli esseri più vili cadano sotto l’arbitrio altrui. Pertanto la parte migliore della natura umana non dipende da noi, e quaggiù non può esserci né data né tolta, perché insieme all’universo, che è la più grande e la più splendida creazione della natura, il nostro animo, che tale universo contempla e ammira e di cui rappresenta la parte più meravigliosa, ci è assegnato da sempre e per sempre e resterà con noi tanto più a lungo quanto più a lungo vivremo. Affrettiamoci, allora, solerti e fiduciosi, con passo pronto e sicuro, verso qualunque luogo ci sospinga la sorte. Potremo percorrere tutta la terra: nessun esilio ci sarà per noi perché non c’è luogo nel mondo che sia straniero all’uomo. In qualunque parte ci troviamo, se volgiamo lo sguardo al cielo, la distanza che intercorre fra noi e il divino è sempre la medesima. Dunque, purché in ogni momento io possa volgere gli occhi verso quello spettacolo divino che non mi stancherò mai di contemplare, guardare il sole e la luna, fissare gli astri e studiarne la nascita, il tramonto, le distanze, indagare le cause del loro moto, più lento o più veloce, ammirare le tante stelle che brillano nella notte, alcune fisse, altre che si spostano non già nell’infinito ma nell’ambito di una loro propria orbita, altre ancora che spuntano all’improvviso, altre che con un guizzo di fuoco abbagliano e sembra che stiano per cadere, oppure passano oltre lasciando una lunga scia luminosa; purché, dovunque mi trovi, io possa avere come compagni tutti questi corpi celesti e, per quanto possibile a un uomo, partecipare alla vita divina sino a confondermi con essa, purché, insomma, l’animo mio, che tende a tutto ciò ch’è nato con lui, sia sempre rivolto al cielo, che m’importa su quale terra poggi i miei piedi? 9. Ma questa terra, si dice, non produce né fiori né alberi da frutto, non è bagnata da grandi o navigabili corsi d’acqua, non ha nulla di ciò che richiedano altre popolazioni, anzi, fornisce appena quanto basta alla sopravvivenza dei suoi abitanti; non ha cave di marmi pregiati, miniere d’oro o d’argento. Ebbene, meschino è quell’animo che si compiace di beni terreni, invece di volgersi verso quelli che sono uguali dappertutto e che dovunque hanno il medesimo valore. Per
non dire che i beni terreni, per gli errori e i pregiudizi che comportano, sono di ostacolo alla conquista di quelli autentici. Quanto più si estendono i portici di un palazzo, s’innalzano le torri e crescono i caseggiati, quanto più profonde si scavano le grotte per ripararsi dal caldo dell’estate e più carichi di rivestimenti e di orpelli sono i soffitti nelle sale da pranzo, tanto meno si vede il cielo. Poniamo che la sorte ti abbia spinto in una regione in cui l’alloggio più sontuoso è una capanna. Ebbene, se ti adatti e sopporti la cosa con coraggio solo perché pensi che Romolo visse in una capanna,10 hai un animo meschino, che si accontenta di misere consolazioni. Di’ invece così: «Forse che anche un umile tugurio non può accogliere delle virtù? Sarà più bello e più accogliente di qualunque tempio, se vi si potranno vedere la giustizia, la continenza, la prudenza, la pietà, un retto criterio nella distribuzione dei compiti, la conoscenza delle cose umane e di quelle divine. Non è angusto un luogo che contiene una folla di così grandi virtù. E non v’è esilio che pesi quando vi si vada con una simile scorta». Nel suo libro Sulla virtù Bruto racconta di aver visto Marcello11 in esilio, a Mitilene, condurre una vita tranquilla e felice, quanto almeno è possibile all’uomo, e che mai prima di allora si era dedicato alle belle arti con tanta passione. E aggiunge che per questo motivo, nel congedarsi dall’amico, più che allontanarsi da un esule, gli parve di essere lui che se ne andava in esilio. Quanto più fortunato fu Marcello nel ricevere l’elogio di Bruto per il suo esilio che non quello della repubblica per il suo consolato! E che grande uomo fu quello che diede a un esule l’impressione di andarsene in esilio nel momento in cui si congedava da lui! Quanto grande ancora Marcello per essersi conquistato l’ammirazione di un uomo che godeva addirittura della stima e dell’amicizia di Catone!12 Bruto dice poi che Cesare non si fermò a Mitilene perché non sopportava di dover vedere un tale uomo umiliato in quel modo. E quando il Senato, con una supplica ufficiale13 rivolta a Cesare, chiese il ritorno di Marcello, tutti erano così ansiosi e così tristi, quel giorno, che sembravano condividere lo stato d’animo di Bruto e pregare non per Marcello ma per sé stessi, come se, risultando vana la supplica, dovessero continuare loro a subire l’esilio invece di lui. Ma il giorno in cui Marcello ottenne molto di più fu quello in cui Bruto non sopportò di dover partire lasciandolo in esilio e Cesare non osò vederlo. Si ebbe infatti da entrambi questa testimonianza: Bruto si dolse di dover tornare senza Marcello, Cesare se ne vergognò. Io credo che quell’uomo così grande, per farsi coraggio e poter sopportare serenamente l’esilio, abbia fatto queste riflessioni: «Essere privato della propria patria non è cosa miserevole per te, poiché i tuoi studi ti hanno insegnato che per il saggio la patria è il mondo. Dunque? Chi ti ha mandato in esilio non è stato forse anche lui un senza patria per dieci anni di seguito? D’accordo, se n’è andato per conquistare nuove terre all’impero, ma comunque ne è stato lontano. E ora lo chiama a sé l’Africa, minacciata dal riaccendersi di una guerra, lo chiama la Spagna, messa in subbuglio dalle fazioni vinte e umiliate, lo chiama l’infìdo Egitto, e infine il
mondo intero, sempre pronto a cogliere la minima occasione per abbattere il nostro dominio. Quale nemico affronterà per primo? A quale parte del mondo opporrà la sua spada? Ogni vittoria sarà una nuova terra per lui. I popoli lo esaltino e l’onorino: a te basti l’ammirazione di Bruto!». 10. Marcello, dunque, sopportò bene l’esilio: il cambiamento di luogo non mutò affatto il suo animo, pur nella povertà che ne conseguì. La quale di per sé stessa non è un male, come può capire chiunque, salvo che non si giunga a una tale avidità e dissolutezza da travisare ogni cosa. Quanto poco serve, infatti, per i bisogni materiali di un uomo! E quel poco non può mancare a chi abbia quel tanto di virtù necessaria. Quanto a me non le ricchezze sento di aver perduto ma gl’impegni e le preoccupazioni. Le esigenze del corpo sono ridotte al minimo: un riparo dal freddo e un’alimentazione che basti a placare la fame e la sete. Quel di più che si desidera riguarda i vizi, non le necessità materiali, né vale la pena affannarsi. Non è necessario scrutare tutto il fondo del mare, appesantire lo stomaco con una strage di animali, raccattar conchiglie su spiagge sconosciute dei mari più lontani. Gli dèi confondano coloro la cui dissolutezza travalica i confini di un così invidiabile regno! Pretendono che si catturi di là dal fiume Fasi14 ciò che serve ad arricchire la loro ambiziosa cucina e non si vergognano di chiedere uccelli ai Parti, coi quali abbiamo ancora dei conti in sospeso.15 Per i loro palati schizzinosi si fanno portare da tutti i paesi del mondo i cibi più prelibati, dal lontanissimo Oceano gliene arrivano di così strani che il loro stomaco, rovinato da tanta raffinatezza, a mala pena riesce a tollerare. Vomitano per mangiare, mangiano per vomitare, non degnandosi nemmeno di digerire quei cibi che mandano a cercare in tutto il mondo. Che danno può arrecare la povertà a chi disprezza tutti questi eccessi? Anzi, giova anche a chi li desidera, perché suo malgrado ne sta lontano, e quindi ne guarisce: infatti, pur se non accetta quel rimedio in quanto lo considera una costrizione, volente o non volente, si trova nelle stesse condizioni di chi si astiene volontariamente. Caligola – che la natura ha generato per dimostrare agli uomini sino a che punto possano giungere i vizi quando sono accompagnati da un’immensa fortuna – per una sola cena spese dieci milioni di sesterzi, e, sostenuto dall’estro inventivo di tutti, trovò il modo, anche se con fatica, di spendere per una sola cena le entrate di tre province. Infelici coloro il cui palato è sensibile solo ai cibi pregiati! I quali costano tanto non per il gusto squisito o la dolcezza che lasciano in bocca, ma per la loro rarità e la difficoltà di procurarseli. Ma se tutta questa gente riacquistasse l’uso della ragione si renderebbe conto che è una pazzia mettere tante arti al servizio del ventre. Che bisogno c’è di scambi commerciali, di devastare foreste, di scrutare il fondo del mare? Tutti possiamo attingere a quei cibi che la natura ha disseminato dovunque, in ogni angolo del mondo. Ma costoro passano oltre, come se non avessero occhi per vedere, percorrono tutte le regioni, valicano i mari e, pur potendo sedare la fame con poco, la stimolano con delle grandi abbuffate. Viene voglia di dirgli: «Perché mettete in mare le navi? Perché vi
armate contro le fiere e contro gli uomini? Perché correte di qua e di là con tanta ansia e fatica? Perché accumulate ricchezze su ricchezze? Non vi passa nemmeno per la mente quanto sia piccolo il vostro corpo? Non è follia, non è l’estremo inganno della ragione questo desiderare molto, quando puoi mettere dentro tanto poco? Potete accrescere le vostre entrate, estendere i confini delle vostre proprietà, ma non ingrandire il vostro corpo. Per quanto tu possa arricchirti nel campo del commercio, con la vita militare o con l’ammucchiare cibi scovati in ogni parte del mondo, non ci sarà spazio sufficiente per tutte le provviste che avrai accumulato. Perché, dunque, cercare tante cose? Dovremmo pensare, allora, che i nostri antenati, grazie alla cui virtù possiamo permetterci i nostri vizi, fossero degli infelici perché si procuravano il cibo con le loro mani, dormivano per terra, non avevano case dorate e templi luccicanti di pietre preziose? A quei tempi i giuramenti religiosi si facevano su statuette di argilla e chi aveva invocato gli dèi tornava a combattere disposto anche a morire per non tradire la parola data.16 Evidentemente quel nostro dittatore17 che ascoltò gli ambasciatori Sanniti – mentre sul focolare si cucinava un cibo poverissimo con quelle stesse mani che più di una volta avevano vinto il nemico e deposto la corona d’alloro nel grembo di Giove Capitolino – doveva condurre una vita assai meno felice di quella che, a nostra memoria, poteva permettersi Apicio,18 il quale, maestro di scienza culinaria nella capitale, da cui erano stati espulsi i filosofi perché accusati di corrompere la gioventù,19 infettò tutta un’epoca col suo bell’insegnamento!». E vale la pena conoscerne la fine. Dopo aver sperperato in cucina cento milioni di sesterzi e divorato, cena dopo cena, le innumerevoli largizioni degli imperatori e l’ingente tributo del Campidoglio, oberato dai debiti, fu costretto, per la prima volta, a fare i conti, e visto che gli restavano solo dieci milioni di sesterzi, come se con una simile cifra, da quel momento, fosse votato alla fame, si avvelenò. Quanto dev’essere grande la dissolutezza di un uomo che considera una miseria dieci milioni di sesterzi! Non venirmi dunque a dire che la ricchezza sta nelle cose, non nei beni dello spirito. Uno che teme per la sua sopravvivenza davanti a dieci milioni di sesterzi e fugge, avvelenandosi, ciò che tutti ardentemente desiderano! Certo, per quell’uomo dal cervello malato l’ultima bevanda fu quanto mai salutare, ma i veri veleni se li mangiava e se li beveva quando non solo si compiaceva dei suoi smodati banchetti ma se ne vantava pure, quando ostentava i suoi vizi e trascinava nella sua dissolutezza tutta la città, quando spingeva i giovani, già così facili a guastarsi anche senza cattivi esempi, a imitarlo. Questo capita a chi affida le proprie ricchezze non alla ragione, che ha limiti ben precisi, ma alla consuetudine del vizio, il cui arbitrio è immenso e incontrollato. All’ingordigia non c’è nulla che possa bastare, mentre alla natura anche il poco è sufficiente. La povertà, dunque, non arreca alcun disagio all’esule: non c’è luogo d’esilio, infatti, tanto sterile da non produrre più di quanto occorra per mantenere un uomo.
11. L’esule può sentire la mancanza di un vestito e di una casa, ma se li desidera solo perché gli sono necessari non gli mancheranno mai né un tetto né un panno per coprirsi: basta poco, infatti, per riparare il corpo, come poco è sufficiente a nutrirlo. La natura non ha mai reso difficile all’uomo procurarsi ciò che gli è indispensabile. Ma quando uno rimpiange una veste stracarica di porpora, intessuta d’oro, o variopinta e ricamata ad arte, se è povero la colpa è sua non certo della fortuna. E anche se tu gli restituissi tutto ciò che ha perduto per lui sarebbe sempre poco, perché continuerebbe ad avere nuovi desideri e a sentirsi egualmente più povero rispetto a un esule che ha perduto i suoi beni. E uno che desideri di possedere una suppellettile splendente di vasi d’oro e pezzi d’argenteria firmati dai più famosi artisti dell’antichità, bronzi diventati preziosi per la mania di pochi, una folla di schiavi che farebbe sembrare piccola anche la casa più grande, bestie da soma ben rimpinzate costrette a ingrassare ancora di più e marmi provenienti da ogni parte del mondo, anche se riuscisse ad accumulare tutto questo ben di dio non potrà mai saziare la sua anima insaziabile, così come non ci sarà mai acqua sufficiente a uno che senta il bisogno di bere non perché abbia sete ma perché divorato da un fuoco che gli brucia le viscere: quella, infatti, non è sete, è malattia. Ciò non accade solo col cibo e col denaro, è una prerogativa tipica di ogni desiderio che nasce non dal bisogno ma dal vizio, sicché per quanto si cerchi di soddisfare un simile desiderio l’avidità non si esaurisce, anzi, il vizio cresce ancora di più. Chi dunque saprà contenersi entro i limiti segnati dalla natura non sentirà la povertà, mentre chi li supererà l’avrà sempre come compagna, persino in mezzo alle più grandi ricchezze. Al necessario può provvedere anche un esilio, al superfluo non basta nemmeno un regno. È l’animo che ci fa ricchi. Ci segue nell’esilio e nei deserti più desolati, e quando ha trovato ciò che basta a sostentare il corpo si sente ricco dei suoi beni e ne gode: il denaro non riguarda l’animo, perché non tocca gli dèi. Tutte quelle cose che le persone ignoranti e troppo schiave del proprio corpo ammirano, come i marmi, l’oro, l’argento e le grandi tavole rotonde ben levigate, sono pesi terreni che un animo puro e consapevole della sua natura divina non può amare, perché è senza macchia e sa che una volta libero spiccherà il volo verso le sfere celesti. Nel frattempo, per quanto gli è consentito dall’ingombro delle membra e dal peso di questa grave soma che lo avvolge, va percorrendo con pensiero agile e alato le sedi degli dèi. Per questo un animo libero e imparentato con gli dèi, compagno indissolubile dell’universo e dell’eternità, non può mai sentirsi esule, in quanto il suo pensiero penetra tutto il cielo e tutto il tempo, presente, passato e futuro. Questo povero corpo, invece, prigione e catena dell’anima, è sbattuto ininterrottamente di qua e di là: su di lui si cimentano e si sfogano ogni tipo di tormenti, le violenze, le malattie: l’animo, al contrario, è per sua stessa natura sacro ed eterno e dunque tale che nulla può violentarlo. 12. Affinché tu non creda che per sminuire i danni di una povertà, gravosa
solo per chi la ritiene tale, io mi serva soltanto dei precetti di uomini saggi, ti faccio osservare in primo luogo che la grande maggioranza dei poveri non sono affatto più infelici o più preoccupati dei ricchi, anzi, forse sono più felici proprio perché il loro animo è meno afflitto da preoccupazioni. Ma lasciamo i poveri e veniamo ai ricchi: in quanti casi costoro somigliano ai poveri! Quando viaggiano devono dimezzare i loro bagagli e tutte le volte che per qualche necessità sono costretti ad affrettarsi licenziano il corteo degli accompagnatori. Sotto le armi quanta parte dei loro beni si portano dietro visto che la disciplina militare vieta ogni cosa superflua? E non sono solo situazioni particolari o le scarse risorse dei luoghi a porre i ricchi nella stessa condizione dei poveri: a volte, annoiati e stanchi di vivere in mezzo a tanta ricchezza e a tanta abbondanza, mangiano per terra e sdegnando l’oro e l’argento, usano stoviglie di coccio. Sono proprio pazzi. Hanno il terrore di ciò che spesso desiderano. Quanta nebbia c’è nelle loro menti, quanta ignoranza gl’impedisce di cogliere il valore di quella verità che imitano solo per il piacere di divertirsi! Io se penso agli esempi degli antichi mi vergogno di cercare motivi di consolazione alla mia povertà, perché il lusso della nostra epoca è tale che le spese necessarie al mantenimento di un esule superano il patrimonio dei grandi di una volta. Sappiamo con certezza che Omero ebbe un solo schiavo, Platone tre, Zenone, il fondatore della rigorosa e virile filosofia stoica, nemmeno uno. Ebbene, solo l’ultimo dei miserabili potrebbe dire che costoro sono vissuti miseramente! Menenio Agrippa,20 che aveva fatto da paciere tra il Senato e la plebe, non ebbe nemmeno i soldi per pagarsi il funerale, tanto che per seppellirlo si dovette fare una sottoscrizione. Attilio Regolo, mentre in Africa sgominava i Cartaginesi, scrisse al Senato che il bracciante addetto alla cura del suo podere se n’era andato lasciando il fondo in abbandono, al che il Senato lo fece coltivare a spese pubbliche finché Regolo non tornò. Gli pesò tanto non possedere uno schiavo quando si ebbe come colono il popolo romano? Le figlie di Scipione21 ricevettero la dote dall’erario, perché il padre non aveva lasciato nulla: era giusto, per Ercole, che il popolo romano pagasse, almeno una volta, un tributo a Scipione, visto che lo aveva sempre riscosso dai Cartaginesi. Beati gli sposi di quelle fanciulle che ebbero il popolo romano come suocero! Credi che siano più felici certi uomini di oggi le cui ballerine si sposano con un milione di sesterzi di dote, o Scipione, le cui figlie ricevettero in dote dal Senato, loro tutore, una moneta di rame?22 E di fronte a una povertà che vanta esempi di antenati così illustri c’è ancora chi la disdegna? Come può un esule indignarsi perché gli manca qualcosa quando Scipione non ebbe la dote per le figlie, Regolo un bracciante per il suo podere, Menenio il denaro per il suo funerale? Quando tutti costoro furono ricompensati dignitosamente con ciò che gli era mancato? Di fronte a simili esempi la povertà risulta non soltanto esente da preoccupazioni ma persino gradita. 13. A questo punto qualcuno potrebbe rispondermi: «Perché separi
artificiosamente delle cose che prese una per una sono tollerabili ma messe insieme non lo sono più? Il cambiamento di luogo di per sé stesso è sopportabile, così pure la povertà se non vi si aggiunge l’infamia, che basta da sola ad avvilire l’animo». A chi pensasse di spaventarmi mettendomi davanti una sequela di inconvenienti risponderò così: «Se hai forza sufficiente per resistere a qualunque tipo di sventura l’avrai anche contro tutte, perché l’animo, una volta irrobustito dalla virtù, sarà invulnerabile sempre». Se ti sei liberato dalla cupidigia, che è la piaga più terribile del genere umano, l’ambizione non ti metterà il bastone fra le ruote. Se guardi al tuo ultimo giorno non come a una pena, ma come a una legge di natura, nel tuo cuore, da cui hai bandito la paura della morte, non entrerà nessun altro timore. Se pensi che lo stimolo sessuale sia stato dato all’uomo non per un semplice piacere, ma per propagare la specie, e se di conseguenza non ti lascerai corrompere dalla peste della libidine che si annida insidiosa nelle nostre viscere stesse, nessun’altra passione ti guasterà. La ragione non sconfigge i vizi uno alla volta, li sgomina tutti insieme e in modo completo e definitivo. Credi che il disonore possa turbare il saggio che ripone tutto in sé stesso e si distacca dalle opinioni del volgo? Una morte infamante è più che un’infamia. Nonostante ciò, Socrate entrò nel carcere con lo stesso volto con cui poco prima aveva da solo riportato all’ordine i trenta tiranni, e con la sua presenza riscattò quel luogo dal disonore: non poteva infatti sembrare un carcere se c’era dentro Socrate. E chi è così lontano dalla verità da ritenere che i due insuccessi elettorali di Marco Catone, candidato alla pretura e al consolato, siano stati ignominiosi? Furono la pretura e il consolato a doversene vergognare, onorati com’erano stati dalla candidatura di Catone. L’offesa non tocca se non colui che tiene in poco conto sé stesso. Lascia che la senta un animo mediocre e avvilito, ma chi si erge contro le avversità e abbatte quei mali, da cui gli altri si lasciano sopraffare, considera le sue miserie come un ornamento sacro e inviolabile, perché noi siamo istintivamente portati ad ammirare più di ogni altro un uomo che sa esser forte nella miseria. Mentre Aristide, 23 ad Atene, veniva condotto a morte, tutti quelli che lo incontravano abbassavano gli occhi e piangevano, come se si stesse condannando non solo un giusto ma la giustizia stessa. Un tale, però, gli sputò in faccia, al che lui, che legittimamente poteva ritenersi offeso, convinto com’era che nessun uomo di bocca pura avrebbe osato tanto, invece di reagire, si ripulì il volto e sorridendo disse al magistrato che lo accompagnava: «Avverti costui che un’altra volta sia meno sgarbato quando sbadiglia». Fu questa la sua offesa a chi lo aveva offeso. So bene che per alcuni non c’è cosa più grave del disprezzo e che piuttosto di subirlo sarebbe meglio morire. A costoro rispondo che spesso pure l’esilio è esente da qualunque tipo di offesa, giacché un grand’uomo è tale anche se cade, e tutti lo rispettano, come colui che non disprezza le rovine di un tempio sulle quali cammina, ma prova per loro la stessa venerazione di quando l’edificio era in piedi.
14. Dunque, madre carissima, se non c’è nulla che possa indurti a versare tante lacrime per causa mia, evidentemente ti spingono motivi tuoi personali, e allora due sono le cose: o ti turba il pensiero di aver perduto un sostegno, o è la mia mancanza che non riesci a sopportare. Il primo caso mi basterà toccarlo solo di sfuggita, visto che conosco bene i tuoi sentimenti e so che ami i tuoi cari di per sé stessi, non per ciò che possiedono. A questo pensino quelle madri che, con dispotismo tipicamente femminile, sfruttano il potere dei loro figli, quelle che, non potendo ricoprire cariche pubbliche perché sono donne, sfogano la propria ambizione per mezzo di loro, quelle che arraffano e dilapidano il patrimonio dei figli o ne sfruttano l’eloquenza mettendola a servizio di altri. Tu hai sempre gioito moltissimo delle ricchezze dei tuoi figli, ma non te ne sei minimamente servita; hai sempre imposto un limite alla nostra liberalità, mai alla tua; per quanto ancora sotto tutela, hai contribuito ad arricchire i tuoi figli; hai amministrato i nostri patrimoni con la stessa cura che avresti avuto nei confronti dei tuoi e rispettandoli come se appartenessero a estranei; non hai mai approfittato dei successi riportati da noi, quasi che fossero d’altri, e dei nostri onori non ti sono toccati che il piacere e le spese: mai, insomma, la tua benevolenza è stata interessata. Non puoi dunque rimpiangere, in un figlio che ti è stato strappato, quelle cose che non hai mai pensato che ti riguardassero quando egli ti era vicino. 15. Bisogna che tutta la mia azione consolatrice io la diriga là dove nasce l’impulso autentico del tuo dolore di madre: «Eccomi priva dell’abbraccio del mio carissimo figlio!», tu dici. «Non posso gioire della sua vista, della sua voce! Dov’è colui alla cui sola presenza il mio volto si rasserenava e nel quale deponevo tutti i miei affanni? Dove sono quei suoi discorsi che mai mi rendevano sazia? Dove i suoi studi, ai quali partecipavo più volentieri di qualunque altra donna e con una familiarità che non trova riscontro in una madre? Dov’è quel suo venirmi incontro, quella giocondità fanciullesca che illuminava il suo viso ogni volta che mi vedeva?». A questi pensieri si aggiunge la vista dei luoghi in cui siamo vissuti insieme e felici, dei segni che testimoniano la nostra recente intimità, che sono i più efficaci a suscitare tormenti nell’animo. La sorte, infatti, ha predisposto per te anche questa crudeltà, che cioè tu partissi tranquilla e senza sospetto alcuno due giorni prima che io fossi colpito dalla condanna. Ed è stato un bene che in passato siamo vissuti divisi e lontani, che l’assenza di qualche anno ti abbia preparato a questa sventura. E poi sei tornata non per godere della presenza di tuo figlio ma per perdere l’abitudine di lamentarne l’assenza. Se fossi partita molto prima avresti potuto sopportare la mia mancanza con maggior forza, perché il tempo attenua il rimpianto. Però se non fossi partita avresti avuto l’estremo conforto di vedere tuo figlio per altri due giorni. Ora, invece, un crudele destino ha voluto che tu non fossi presente al momento della mia disgrazia, né ti ha dato il tempo di abituarti alla mia assenza. Ma quanto più
dolorose sono per te queste prove, tanto maggiore dev’essere il coraggio con cui affrontarle. Lotta come se avessi a che fare con un nemico già noto e sconfitto tante altre volte, poiché il tuo sangue sgorga non da un corpo indenne da ferite ma da colpi inferti sulle cicatrici. 16. Non addurre a tua scusa il fatto di essere donna, alla quale è concesso il diritto a un pianto smodato ma sempre entro certi limiti. Per questo i nostri padri diedero alle donne un periodo di dieci mesi per piangere i loro mariti, circoscrivendo con una legge dello Stato l’ostinazione del pianto femminile. Non vietarono il lutto, ma ne stabilirono un termine, giacché abbandonarsi a un dolore senza fine per la perdita di una tra le persone più care è un cedimento insensato, così come il non provarne alcuno è una crudeltà disumana: la giusta misura fra la pietà e la ragione sta nel sentire il rimpianto e saperlo soffocare. Non devi guardare quelle donne che una volta colpite da un lutto hanno finito di piangere solo con la morte. Tu ne conosci alcune che indossata la veste funebre per la morte dei figli non se la tolsero più: da te la vita pretende uno sforzo maggiore, visto che sei stata più forte fin dall’inizio. La scusa della femminilità non si conviene a una donna che è sempre stata immune dalle debolezze femminili. La spudoratezza, che è il male peggiore della nostra epoca e che porta a seguire la condotta dei più, non ti ha mai contagiato, né gemme e perle ti hanno sedotto, non ti hanno mai abbagliato le ricchezze, «bene supremo del genere umano», e – anche per la buona educazione che hai ricevuto in una famiglia severa e all’antica – ti sei sempre guardata dall’imitare le donne peggiori (un rischio che corrono anche le oneste); non ti sei mai vergognata della tua fecondità, quasi che potesse suonare come un rimprovero alla tua età; non hai mai nascosto, come fanno le donne che badano solo alla bellezza esteriore, il ventre gonfio per le tue gravidanze, come se queste fossero un peso vergognoso, né ti sei mai disfatta del promettente frutto del concepimento che portavi in grembo; non ti sei imbrattata il volto con colori e belletti; non ti sono mai piaciute quelle vesti che quando si tolgono non denudano più di tanto: tuo unico ornamento – bellezza somma, per nulla condizionata dall’età e tuo massimo titolo di onore – è sempre stata la pudicizia. Non puoi dunque, a difesa del tuo dolore, chiamare in causa la tua condizione di donna, dalla quale ti discosti per le tue virtù; devi tenerti lontana dalle lacrime femminili così come dai difetti. Anche le donne non ti permetteranno di struggerti nel tuo dolore, e dopo che avrai sfogato un giusto, breve e necessario pianto, ti inviteranno a risorgere, sempre che tu voglia ascoltare quelle donne che una riconosciuta virtù ha posto fra gli uomini grandi. Cornelia aveva dodici figli, la sorte gliene lasciò due. Se li conti, i suoi lutti furono dieci, se li pesi devi dire: «Erano i Gracchi!». Con tutto ciò, a quanti le piangevano intorno maledicendo il suo destino lei proibì di accusare la fortuna, che le aveva dato come figli i Gracchi. Non poteva nascere che da una simile donna colui che in pubblica assemblea esclamò: «Tu insulti Cornelia, colei che ha partorito Tiberio!». A me,
però, sembra molto più piena d’orgoglio la frase della madre, quando disse che il figlio si vantava della nascita dei Gracchi, lei anche della loro morte. Rutilia seguì il figlio Cotta24 in esilio: lo amava infatti a tal punto che preferì sopportare il peso di quella condizione piuttosto che la sua mancanza; né fece ritorno in patria se non quando vi rientrò lui. Poi, come il figlio fu ritornato e divenuto un personaggio eminente nella vita pubblica, ne accettò la morte con lo stesso coraggio con cui l’aveva seguito in esilio e nessuno la vide piangere dopo il suo funerale: coraggiosa quando il figlio fu esiliato, saggia quando lo perse. Nulla, infatti, la distolse dal suo affetto materno e nulla la trattenne in una sciocca e inutile tristezza. Fra queste donne voglio che tu sia annoverata: poiché ne hai sempre imitato la vita, ne seguirai ottimamente l’esempio contenendo e reprimendo il tuo dolore. 17. So che ciò non è in nostro potere, perché non c’è sentimento profondo che si possa piegare, tanto meno se nasce dal dolore: in questo caso è spietato e refrattario a ogni rimedio. Talvolta cerchiamo di soffocarlo e di inghiottire i nostri singhiozzi, ma anche se manteniamo un’espressione composta e impassibile le lacrime sgorgano sul nostro volto. Ogni tanto ci distraiamo recandoci ai giochi o alle lotte dei gladiatori, ma proprio durante lo spettacolo, che dovrebbe distrarci, basta un piccolo cenno a turbarci. Perciò è meglio vincerlo il dolore, piuttosto che ingannarlo, perché se lo distraiamo e lo allontaniamo coi piaceri o con altre attività, quello poi risorge, incrudelendo ancora di più per via dell’impulso che ha dovuto soffocare in quel periodo di tregua. Se invece cede alla ragione, resta sotto controllo per sempre. Non voglio dunque indicarti quei rimedi a cui so che ricorrono molti, come un lungo viaggio che ti porti lontano dalla tua casa e ti distragga con quelle amenità che comporta, un impegno che ti tenga occupata nel rivedere attentamente i tuoi conti, nell’amministrazione del tuo patrimonio o in qualche nuova attività: tutte queste cose giovano per poco tempo e più che un rimedio sono un ostacolo al dolore. Io, invece, non ho intenzione di ingannarlo, voglio farlo cessare, il dolore. Perciò ti conduco là dove si rifugiano coloro che vogliono evitare la cattiva sorte: agli studi umanistici. Essi guariranno la tua ferita e scacceranno da te ogni tristezza. È bene che tu vi faccia ricorso, anche se non ti ci sei mai accostata, per quanto, nei limiti imposti dalla severità di mio padre, ch’era un uomo all’antica, tu abbia avuto dimestichezza con tutte le materie di studio, pur senza approfondirle. Magari mio padre, che pure fu ottimo marito, fosse stato meno legato alle consuetudini dei suoi avi e ti avesse consentito di approfondire i precetti della filosofia, invece di lasciartene solo una infarinatura! Ora non avresti bisogno di preparartelo questo rimedio contro la sorte, dovresti solo tirarlo fuori. È stato a causa delle donne di oggi, che si dànno alle lettere non per farsi una cultura ma per poter entrare nei salotti mondani, che non ti ha permesso di dedicarti agli studi un po’ più del necessario. Tu, però, hai tratto un profitto maggiore dalla vivacità del tuo ingegno che non dal tempo che ti era concesso, per cui hai le
basi di tutte le discipline. Torna dunque a quegli studi: ti daranno sicurezza, diletto e conforto. Se il tuo animo troverà per loro un posto propizio non potranno più entrarvi il dolore, la preoccupazione, l’inutile tormento di una vana afflizione. Nessuno di questi mali potrà ferire il tuo cuore, visto che a ogni altra debolezza è già chiuso da tempo. 18. Queste sono le difese più valide e sicure, le sole capaci di sottrarti ai colpi che ti ha inferto la sorte. Ma poiché, fino a quando non sarai giunta a quel porto di serenità che gli studi ti promettono, hai bisogno di qualche altro appoggio, voglio mostrarti come puoi nell’attesa consolarti. Guarda i miei fratelli:25 finché ci sono loro, e stanno bene, non hai il diritto di prendertela col destino. In entrambi, per meriti diversi, puoi trovare motivo per rallegrarti: il primo, con la sua attività, ha conseguito importanti cariche pubbliche, l’altro, da uomo saggio, non se n’è curato. Godi degli onori del primo, della vita appartata del secondo e dell’affetto di entrambi. Conosco bene i sentimenti intimi dei miei fratelli: uno svolge la sua attività pubblica perché ciò ti sia motivo di orgoglio, l’altro è rimasto raccolto nella quiete della sua vita privata per dedicarsi a te. Bene ha disposto il destino affinché i tuoi figli ti fossero di sollievo e di aiuto, sicché tu puoi trovare nel primo una protezione materiale per l’attività che svolge, nel secondo un conforto morale per la sua vita tranquilla e libera da impegni. Faranno a gara nell’assisterti e col loro affetto ripagheranno il rimpianto che hai per il figlio lontano. Ti assicuro senza alcuna esitazione che per te, quanto ai tuoi figli, sarà solo questione di numero. Guarda poi i nipoti che hai avuto da loro: Marco,26 un bambino tenerissimo, la cui sola presenza basta per allontanare ogni tristezza. Non c’è dolore che incrudelisca nei nostri cuori, per quanto grande o recente, ch’egli non sappia lenire coi suoi abbracci e con le sue carezze. Quali lacrime non asciuga la sua gioia, quale animo angosciato non rasserena la sua vivacità? Chi non è coinvolto nei suoi giochi da quella sua gaiezza? Chi, per quanto preso dai suoi pensieri, non riesce quel bimbo a incantare, distraendolo con la sua instancabile loquacità? Ci concedano gli dèi che questo bimbo ci sopravviva! Che tutta la crudeltà del destino si sfoghi su di me sino a stancarsi. Che ogni dolore riservato a sua madre e a sua nonna si riversi su di me, e che tutta quanta la famiglia continui a vivere prospera e felice! Non mi lamenterò della perdita di mio figlio, né della mia condizione, se col mio sacrificio potrò evitare ai miei altri dolori. Tieniti ben stretta Novatilla, 27 che presto ti darà dei pronipoti: l’avevo assunta dentro di me e la sentivo così mia che ora, avendomi perduto, può sembrare orfana anche se il padre è vivo. Amala pure per me. Da poco la sventura le ha portato via la madre: il tuo affetto può far sì che lei ne soffra la perdita ma non la mancanza. Educala e plasma i suoi costumi: gli insegnamenti ricevuti in tenera età hanno più profonde radici. Si abitui al tuo parlare, impari a obbedirti: le darai molto, anche col tuo solo esempio. Un compito così impegnativo sarà già un rimedio al tuo dolore: un animo che soffre per l’affetto verso i suoi cari non può essere distolto dal suo
dolore se non con la ragione o con una nobile attività. Fra i grandi motivi di consolazione annovererei anche tuo padre, se non fosse lontano. Tuttavia dal tuo affetto per lui puoi dedurre quello ch’egli prova per te: capirai così quanto sia più giusto che tu ti conservi per lui piuttosto che consumarti per me. Ogni volta che il dolore ti afferrerà con maggior forza e misura e cercherà di trascinarti con sé, pensa a tuo padre. Con tutti i nipoti e i pronipoti che gli hai dato tu certamente non sei più l’unica per lui, ma è da te che dipende la possibilità ch’egli conduca felicemente a termine la sua esistenza. Finché vivrà lui non avrai il diritto di lamentarti d’essere vissuta. 19. E non ti ho ancora parlato di quello che può essere il tuo più grande conforto, cioè di tua sorella, quel cuore a te devotissimo che condivide in eguale misura ogni tuo dispiacere, un animo materno per tutti quanti noi. Hai mescolato alle sue lacrime le tue, ed è fra le sue braccia che hai ritrovato la vita. Ha sempre partecipato ai tuoi sentimenti, ma per quanto riguarda la mia persona non si limita solo a soffrire per te. Mi ha portato a Roma28 fra le sue braccia, per le sue affettuose cure materne sono guarito da una lunga malattia, ha usato tutta la sua influenza per farmi avere la questura, vincendo la sua timidezza per amor mio, lei che non ha mai avuto il coraggio di parlare o salutare ad alta voce. La sua vita appartata, il suo riserbo, che fra la sfacciataggine di tante donne sembra quasi un affronto, i suoi costumi, riservati alla casa e a una vita tranquilla, non le impedirono di darsi da fare per i miei successi. Questo, madre carissima, è il conforto che può risollevarti: stalle vicina il più possibile, tienila stretta fra le tue braccia. Di solito chi soffre evita la compagnia delle persone più care per dare libero sfogo al proprio dolore, ma tu, qualunque cosa decida, recati da lei: sia che intenda persistere in questo tuo atteggiamento, sia che lo voglia lasciare, la troverai sempre disposta o a liberarti dal tuo dolore o a farsene compagna. Ma, se ben conosco la saggezza di questa donna straordinaria, lei non ti permetterà di consumarti in un dolore inutile e dannoso e ti riferirà il suo esempio, di cui io sono stato testimone. Durante un viaggio per mare le morì l’amatissimo marito, un nostro zio, che aveva sposato giovinetta. Ebbene, vinto il dolore e la paura e cessata la tempesta, sfidando il naufragio, ne portò a terra la salma. Quante nobili azioni di donne restano sconosciute! Se le fosse toccato di vivere in quei tempi antichi in cui era così naturale l’amore per la virtù, con quale gara d’ingegni sarebbe stata celebrata quella moglie che, immemore della sua debolezza di donna e incurante di un mare terribile anche per i più coraggiosi, mise a repentaglio la propria vita per dare sepoltura al marito, e, preoccupata del funerale di lui, non ebbe timore del proprio! Tutti i poeti hanno celebrato Alcesti,29 colei che si offrì di morire al posto del suo sposo, ma è cosa ancora più ammirevole cercare una sepoltura per il marito a costo della propria vita: più grande è quell’amore che, a parità di rischio, trae un vantaggio minore. Di fronte a un simile esempio non c’è da meravigliarsi se nei sedici anni in cui suo marito amministrò l’Egitto non si fece mai vedere in pubblico, non ricevette
in casa alcun abitante della provincia, non chiese favori al marito e non lasciò che se ne chiedessero a lei. Perciò quella provincia, pettegola e capace solo di denigrare i suoi governanti, che calunniava persino coloro ch’erano immuni da colpe, la ammirò come esempio unico di integrità, e – cosa difficilissima per chi ama la satira pericolosa che può ritorcersi contro lui stesso – frenò ogni licenza verbale e ancora oggi, benché ormai non lo speri, continua a desiderare una donna simile a lei. Sarebbe stato molto se quella provincia l’avesse apprezzata per tutti quei sedici anni, ma è ancora più sorprendente che l’abbia ignorata per un periodo così lungo. Ti ho narrato questi fatti non per fare le sue lodi, che a volerle illustrare così brevemente sarebbe un diminuirle, ma affinché tu comprenda la magnanimità di questa donna, che non si lasciò vincere né dall’ambizione, né dalla cupidigia, compagne e flagelli di ogni potere, e neppure dal timore della morte, quando, con la nave distrutta e alla deriva, di fronte a quella rovina, si aggrappò al cadavere del marito non per salvare sé stessa ma per sottrarre lui al naufragio. Mostra dunque una virtù pari a quella di lei, risolleva il tuo animo dal lutto e comportarti in modo che nessuno ti creda pentita della tua condizione di madre. 20. Per concludere, visto che inevitabilmente, comunque tu decida di comportarti, i tuoi pensieri voleranno a me più di quanto non corrano agli altri tuoi figli (non perché questi ti siano meno cari, ma perché è naturale che si porti spesso la mano laddove più urge il dolore), pensami così: lieto e di buon animo come quando tutto va per il meglio. E tutto va davvero a gonfie vele, perché il mio animo, libero da ogni occupazione, attende alle sue attività più congeniali, e ora si diletta di studi poco impegnativi, ora s’innalza, avido di verità, a contemplare la sua natura e quella dell’universo. Prima studia le terre e la loro distribuzione, poi il comportamento del mare circostante e il suo alterno fluire e rifluire, quindi osserva lo spazio fra la terra e il cielo, pieno di fenomeni spaventosi e agitato da tuoni, fulmini, soffiar di venti, scrosci di piogge, di grandine e di nevi. Infine, dopo aver esplorato le zone meno elevate, si slancia verso le più eccelse e contempla estasiato il meraviglioso spettacolo delle cose divine: allora, memore della sua eternità, passa da un secolo all’altro, immergendosi in tutto ciò che fu e che sarà.
1. Nulla conosciamo di questo zio se non la data della morte, avvenuta intorno al 39 d.C. 2. È L. Anneo Seneca, detto il Vecchio. 3. Sono nomi di isole del Mar Egeo, dove venivano deportati gli esuli. 4. Il Mare Inferiore è il Mar Tirreno, a cui anticamente veniva dato quel nome. 5. Si tratta di Enea, l’eroe troiano, che dopo molto peregrinare approdò in Italia. 6. Non è la Focide, regione della Grecia settentrionale, ma Focea, città della Ionia, i cui abitanti fondarono Marsiglia.
7. Alesia fu la colonia fondata da Silla, Mariana quella fondata da Mario. 8. È Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), autore di numerose opere, fra cui De lingua latina e De re rustica. 9. Il pensiero attribuito a Bruto, il figlio adottivo di Giulio Cesare e capo della congiura contro di lui, è tratto dalla sua opera De virtute, citata più avanti. 10. I Romani amavano ricordare le umili origini del fondatore della loro città e ne veneravano la sede in cui secondo la leggenda aveva abitato. 11. M. Claudio Marcello fu mandato in esilio da Cesare. Cicerone pronunciò in sua difesa una delle più famose orazioni. 12. Il personaggio è Bruto. 13. Le suppliche erano rivolte a Cesare affinché usasse clemenza a Marcello. 14. Il Fasi è un fiume della Colchide, regione del Mar Nero. 15. Si riferisce alla sfortunata campagna dei Romani guidati da Crasso nel 53 a.C. 16. Un richiamo frequente alle antiche virtù dei padri e alla sobrietà dei loro costumi. 17. Curio Dentato fu console e non dittatore: combatté contro i Sanniti, i Lucani, i Sabini e Pirro, re dell’Epiro. 18. Apicio, il famoso gastronomo autore di molte ricette, visse nel I sec. d.C. 19. Il bando con cui furono allontanati da Roma tutti i filosofi è del 161 a.C. 20. È il noto autore dell’apologo dello stomaco e delle membra, che convinse i plebei ritiratisi sull’Aventino a rientrare a Roma (494 a.C.). 21. Le due figlie di Publio Scipione, stando a Tito Livio, andarono spose a P. Sempronio Nasica e a T. Sempronio Gracco. 22. Le monete dell’antica Roma erano di rame. 23. Non Aristide, ma Focione, lo stratega ateniese accusato ingiustamente di tradimento e condannato a morte. 24. Aurelio Cotta era un politico ragguardevole del I secolo a.C. 25. I fratelli sono Novato e Mela. 26. Marco Lucano (figlio di Mela), autore della Farsaglia. 27. La figlia di Novato. 28. Seneca, nato a Cordova, in Spagna, fu portato a Roma ancora bambino. 29. È Alcesti, la mitica sposa di Admeto, re di Tessaglia, il cui amore spinto sino al sacrificio ispirò i grandi poeti tragici greci, fra cui Euripide.
Consolatio ad Polybium
* * * nostrae compares, firma sunt; si redigas ad condicionem naturae omnia destruentis et unde edidit eodem revocantis, caduca sunt. Quid enim inmortale manus mortales fecerunt? Septem illa miracula et si qua his multo mirabiliora sequentium annorum extruxit ambitio aliquando solo aequata visentur. Ita est: nihil perpetuum, pauca diuturna sunt; aliud alio modo fragile est, rerum exitus variantur, ceterum quidquid coepit et desinet. Mundo quidam minantur interitum et hoc universum quod omnia divina humanaque complectitur, si fas putas credere, dies aliquis dissipabit et in confusionem veterem tenebrasque demerget: eat nunc aliquis et singulas comploret animas, Carthaginis ac Numantiae Corinthique cinerem et si quid aliud altius cecidit lamentetur, cum etiam hoc quod non habet quo cadat sit interiturum; eat aliquis et fata tantum aliquando nefas ausura sibi non pepercisse conqueratur. Quis tam superbae inpotentisque adrogantiae est ut in hac naturae necessitate omnia ad eundem finem revocantis se unum ac suos seponi velit ruinaeque etiam ipsi mundo imminenti aliquam domum subtrahat? Maximum ergo solacium est cogitare id sibi accidisse quod omnes ante se passi sunt omnesque passuri; et ideo mihi videtur rerum natura quod gravissimum fecerat commune fecisse, ut crudelitatem fati consolaretur aequalitas. 2. Illud quoque te non minimum adiuverit, si cogitaveris nihil profuturum dolorem tuum, nec illi quidem quem desideras nec tibi; noles enim longum esse quod inritum est. Nam si quicquam tristitia profecturi sumus, non recuso quidquid lacrimarum fortunae meae superfuit tuae fundere; inveniam etiamnunc per hos exhaustos iam fletibus domesticis oculos quod effluat, si modo id tibi futurum bono est. Quid cessas? Conqueramur, atque adeo ipse hanc litem meam faciam: «Iniquissima omnium iudicio fortuna, adhuc videbaris eum hominem continuo fovisse, qui munere tuo tantam venerationem receperat ut, quod raro ulli contigit, felicitas eius effugeret invidiam. Ecce eum dolorem illi quem salvo Caesare accipere maximum poterat impressisti, et cum bene illum undique circuisses, intellexisti hac parte tantummodo patere ictibus tuis. Quid enim illi aliud faceres? Pecuniam eriperes? Numquam illi obnoxius fuit; nunc quoque quantum potest illam a se abigit et in tanta facilitate adquirendi nullum maiorem ex ea fructum quam contemptum eius petit. Eriperes illi amicos? Sciebas tam amabilem esse ut facile in locum amissorum posset alios substituere; unum enim hunc ex eis quos in principali domo potentes vidi cognovisse videor quem omnibus amicum habere cum expediat, magis tamen etiam libet. Eriperes illi bonam opinionem? Solidior est haec apud eum quam ut a te quoque ipsa concuti possit. Eriperes bonam valetudinem? Sciebas animum eius liberalibus disciplinis, quibus non innutritus tantum sed innatus est, sic esse fundatum ut supra omnis corporis
dolores emineret. Eriperes spiritum? Quantulum nocuisses! Longissimum illi ingeni aevum fama promisit; id egit ipse ut meliore sui parte duraret et compositis eloquentiae praeclaris operibus a mortalitate se vindicaret. Quam diu fuerit ullus litteris honor, quam diu steterit aut latinae linguae potentia aut graecae gratia, vigebit cum maximis viris quorum se ingeniis vel contulit vel, si hoc verecundia eius recusat, adplicuit. Hoc ergo unum excogitasti quomodo maxime illi posses nocere; quo melior est enim quisque, hoc saepius ferre te consuevit sine ullo dilectu furentem et inter ipsa beneficia metuendam. Quantulum erat tibi immunem ab hac iniuria praestare eum hominem in quem videbatur indulgentia tua ratione certa pervenisse et non ex tuo more temere incidisse!». 3. Adiciamus, si vis, ad has querellas ipsius adulescentis interceptam inter prima incrementa indolem. Dignus fuit ille te fratre: tu certe eras dignissimus qui ne ex indigno quidem quicquam doleres fratre. Redditur illi testimonium aequale omnium hominum; desideratur in tuum honorem, laudatur in suum. Nihil in illo fuit quod non libenter agnosceres; tu quidem etiam minus bono fratri fuisses bonus, sed in illo pietas tua idoneam nancta materiam multo se liberius exercuit. Nemo potentiam eius iniuria sensit, numquam ille te fratrem ulli minatus est; ad exemplum se modestiae tuae formaverat cogitabatque quantum tu et ornamentum tuorum esses et onus: suffecit ille huic sarcinae. O dura fata et nullis aequa virtutibus! antequam felicitatem suam nosset, frater tuus exemptus est. Parum autem me indignari scio; nihil est enim difficilius quam magno dolori paria verba reperire. Etiamnunc tamen, si quid proficere possumus, conqueramur: «quid tibi voluisti, tam iniusta et tam violenta fortuna? Tam cito te indulgentiae tuae paenituit? Quae ista crudelitas est in medios fratres impetum facere et tam cruenta rapina concordissimam turbam imminuere? Tam bene stipatam optimorum adulescentium domum, in nullo fratre degenerantem, turbare et sine ulla causa delibare voluisti? Nihil ergo prodest innocentia ad omnem legem exacta, nihil antiqua frugalitas, nihil felicitatis moderatio, nihil in summa potentia summa conservata abstinentia, nihil sincerus et tutus litterarum amor, nihil ab omni labe mens vacans? Luget Polybius et in uno fratre quid de reliquis possit metuere admonitus etiam de ipsis doloris sui solaciis timet. Facinus indignum! luget Polybius et aliquid propitio dolet Caesare! Hoc sine dubio, inpotens fortuna, captasti, ut ostenderes neminem contra te ne a Caesare quidem posse defendi». 4. Diutius accusare fata possumus, mutare non possumus: stant dura et inexorabilia; nemo illa convicio, nemo fletu, nemo causa movet; nihil umquam ulli parcunt nec remittunt. Proinde parcamus lacrimis nihil proficientibus; facilius enim nos illis dolor iste adiciet quam illos nobis reducet; qui si nos torquet, non adiuvat, primo quoque tempore deponendus est et ab inanibus solaciis atque amara quadam libidine dolendi animus recipiendus est. Nam lacrimis nostris nisi ratio finem fecerit, fortuna non faciet. Omnis agedum mortalis circumspice, larga
ubique flendi et adsidua materia est: alium ad cotidianum opus laboriosa egestas vocat, alium ambitio numquam quieta sollicitat, alius divitias quas optaverat metuit et voto laborat suo, alium sollicitudo, alium labor torquet, alium semper vestibulum obsidens turba; hic habere se dolet liberos, hic perdidisse: lacrimae nobis deerunt antequam causae dolendi. Non vides qualem nobis vitam rerum natura promiserit, quae primum nascentium hominum fletum esse voluit? Hoc principio edimur, huic omnis sequentium annorum ordo consentit. Sic vitam agimus, ideoque moderate id fieri debet a nobis quod saepe faciendum est et respicientes quantum a tergo rerum tristium immineat, si non finire lacrimas, at certe reservare debemus. Nulli parcendum est rei magis quam huic cuius tam frequens usus est. 5. Illud quoque te non minimum adiuverit, si cogitaveris nulli minus gratum esse dolorem tuum quam ei cui praestari videtur: torqueri ille te aut non vult aut non intellegit. Nulla itaque eius officii ratio est quod ei cui praestatur, si nihil sentit, supervacuum est, si sentit, ingratum. Neminem esse toto orbe terrarum qui delectetur lacrimis tuis audacter dixerim. Quid ergo? Quem nemo adversus te animum gerit, eum esse tu credis fratris tui, ut cruciatu tui noceat tibi, ut te velit abducere ab occupationibus tuis, id est a studio et a Caesare? Non est hoc simile veri; ille enim indulgentiam tibi tamquam fratri praestitit, venerationem tamquam parenti, cultum tamquam superiori; ille desiderio tibi esse vult, tormento esse non vult. Quid itaque iuvat dolori intabescere quem, si quis defunctis sensus est, finiri frater tuus cupit? De alio fratre, cuius incerta posset voluntas videri, omnia haec in dubio ponerem et dicerem: «sive te torqueri lacrimis numquam desinentibus frater tuus cupit, indignus hoc adfectu tuo est; sive non vult, utrique vestrum inhaerentem dolorem dimitte; nec impius frater sic desiderari debet nec pius sic velit». In hoc vero, cuius tam explorata pietas est, pro certo habendum est nihil esse illi posse acerbius quam si tibi hic casus eius acerbus est, si te ullo modo torquet, si oculos tuos, indignissimos hoc malo, sine ullo flendi fine et conturbat idem et exhaurit. Pietatem tamen tuam nihil aeque a lacrimis tam inutilibus abducet quam si cogitaveris fratribus te tuis exemplo esse debere fortiter hanc fortunae iniuriam sustinendi. Quod duces magni faciunt rebus adfectis, ut hilaritatem de industria simulent et adversas res adumbrata laetitia abscondant ne militum animi, si fractam ducis sui mentem viderint, et ipsi conlabantur, id nunc tibi quoque faciendum est: indue dissimilem animo tuo vultum et, si potes, proice omnem ex toto dolorem, si minus, introrsus abde et contine, ne appareat, et da operam ut fratres tui te imitentur, qui honestum putabunt quodcumque te facientem viderint, animumque ex vultu tuo sument. Et solacium debes esse illorum et consolator; non poteris autem horum maerori obstare, si tuo indulseris. 6. Potest et illa res a luctu te prohibere nimio, si tibi ipse renuntiaveris nihil horum quae facis posse subduci. Magnam tibi personam hominum consensus inposuit: haec tibi tuenda est. Circumstat te omnis ista consolantium frequentia et
in animum tuum inquirit ac perspicit quantum roboris ille adversus dolorem habeat et utrumne tu tantum rebus secundis uti dextere scias an et adversas possis viriliter ferre: obseruantur oculi tui. Liberiora sunt omnia iis quorum adfectus tegi possunt: tibi nullum secretum liberum est. In multa luce fortuna te posuit; omnes scient quomodo te in isto tuo gesseris vulnere, utrumne statim percussus arma summiseris an in gradu steteris. Olim te in altiorem ordinem et amor Caesaris extulit et tua studia eduxerunt; nihil te plebeium decet, nihil humile; quid autem tam humile ac muliebre est quam consumendum se dolori committere? Non idem tibi in luctu pari quod tuis fratribus licet; multa tibi non permittit opinio de studiis ac moribus tuis recepta, multum a te homines exigunt, multum expectant. Si volebas tibi omnia licere, ne convertisses in te ora omnium: nunc tantum tibi praestandum est quantum promisisti. Omnes illi qui opera ingenii tui laudant, qui describunt, quibus, cum fortuna tua opus non sit, ingenio opus est, custodes animi tui sunt. Nihil umquam ita potes indignum facere perfecti et eruditi viri professione ut non multos admirationis de te suae paeniteat. Non licet tibi flere inmodice, nec hoc tantummodo non licet; ne somnum quidem extendere in partem diei licet aut a tumultu rerum in otium ruris quieti confugere aut adsidua laboriosi officii statione fatigatum corpus voluptaria peregrinatione recreare aut spectaculorum varietate animum detinere aut ex tuo arbitrio diem disponere. Multa tibi non licent quae humillimis quoque et in angulo iacentibus licent: magna servitus est magna fortuna. Non licet tibi quicquam arbitrio tuo facere: audienda sunt tot hominum milia, tot disponendi libelli; tantus rerum ex orbe toto coeuntium congestus, ut possit per ordinem suum principis maximi animo subici, exigendus est. Non licet tibi, inquam, flere: ut multos flentes audire possis, ut periclitantium et ad misericordiam mitissimi Caesaris pervenire cupientium, lacrimae tibi tuae adsiccandae sunt. 7. Haec tamen etiamnunc levioribus te remediis adiuvabunt: cum voles omnium rerum oblivisci, Caesarem cogita. Vide quantam huius in te indulgentiae fidem, quantam industriam debeas: intelleges non magis tibi incuruari licere quam illi, si quis modo est fabulis traditus, cuius umeris mundus innititur. Caesari quoque ipsi, cui omnia licent, propter hoc ipsum multa non licent: omnium somnos illius vigilia defendit, omnium otium illius labor, omnium delicias illius industria, omnium vacationem illius occupatio. Ex quo se Caesar orbi terrarum dedicavit, sibi eripuit, et siderum modo, quae inrequieta semper cursus suos explicant, numquam illi licet subsistere nec quicquam suum facere. Ad quendam itaque modum tibi quoque eadem necessitas iniungitur: non licet tibi ad utilitates tuas, ad studia tua respicere. Caesare orbem terrarum possidente impertire te nec voluptati nec dolori nec ulli alii rei potes: totum te Caesari debes. Adice nunc quod, cum semper praedices cariorem tibi spiritu tuo Caesarem esse, fas tibi non est salvo Caesare de fortuna queri: hoc incolumi salvi tibi sunt tui, nihil perdidisti, non tantum siccos oculos tuos esse sed etiam laetos oportet; in hoc tibi omnia sunt, hic pro omnibus est. Quod longe a sensibus tuis prudentissimis
piissimisque abest, adversus felicitatem tuam parum gratus es, si tibi quicquam hoc salvo flere permittis. 8. Monstrabo etiamnunc non quidem firmius remedium sed familiarius. Si quando te domum receperis, tunc erit tibi metuenda tristitia. Nam quam diu numen tuum intueberis, nullum illa ad te inveniet accessum, omnia in te Caesar tenebit; cum ab illo discesseris, tunc velut occasione data insidiabitur solitudini tuae dolor et requiescenti animo tuo paulatim inrepet. Itaque non est quod ullum tempus vacare patiaris a studiis: tunc tibi litterae tuae tam diu ac tam fideliter amatae gratiam referant, tunc te illae antistitem et cultorem suum vindicent, tunc Homerus et Vergilius, tam bene de humano genere meriti quam tu et de omnibus et de illis meruisti, quos pluribus notos esse voluisti quam scripserant, multum tecum morentur: tutum id erit omne tempus quod illis tuendum commiseris. Tunc Caesaris tui opera, ut per omnia saecula domestico narrentur praeconio, quantum potes compone; nam ipse tibi optime formandi condendique res gestas et materiam dabit et exemplum. Non audeo te usque eo producere ut fabellas quoque et Aesopeos logos, intemptatum Romanis ingeniis opus, solita tibi venustate conectas. Difficile est quidem ut ad haec hilariora studia tam vehementer perculsus animus tam cito possit accedere; hoc tamen argumentum habeto iam corroborati eius et redditi sibi, si poterit a severioribus scriptis ad haec solutiora procedere. In illis enim quamvis aegrum eum adhuc et secum reluctantem avocabit ipsa rerum quas tractabit austeritas: haec quae remissa fronte commentanda sunt non feret, nisi cum iam sibi ab omni parte constiterit. Itaque debebis eum severiore materia primum exercere, deinde hilariore temperare. 9. Illud quoque magno tibi erit leuamento, si saepe te sic interrogaveris: «Utrumne meo nomine doleo an eius qui decessit? Si meo, perit indulgentiae iactatio et incipit dolor, hoc uno excusatus quod honestus est, cum ad utilitatem respicit, a pietate desciscere; nihil autem minus bono viro convenit quam in fratris luctu calculos ponere. Si illius nomine doleo, necesse est alterutrum ex his duobus esse iudicem. Nam si nullus defunctis sensus superest, euasit omnia frater meus vitae incommoda et in eum restitutus est locum in quo fuerat antequam nasceretur et expers omnis mali nihil timet, nihil cupit, nihil patitur: quis iste furor est, pro eo me numquam dolere desinere qui numquam doliturus est? Si est aliquis defunctis sensus, nunc animus fratris mei velut ex diutino carcere emissus, tandem sui iuris et arbitrii, gestit et rerum naturae spectaculo fruitur et humana omnia ex loco superiore despicit, divina vero, quorum rationem tam diu frustra quaesierat, propius intuetur. Quid itaque eius desiderio maceror qui aut beatus aut nullus est? Beatum deflere invidia est, nullum dementia». An hoc te movet, quod videtur ingentibus et cum maxime circumfusis bonis caruisse? Cum cogitaveris multa esse quae perdidit, cogita plura esse quae non timet: non ira eum torquebit, non morbus adfliget, non suspicio lacesset, non edax
et inimica semper alienis processibus invidia consectabitur, non metus sollicitabit, non levitas fortunae cito munera sua transferentis inquietabit. Si bene computes, plus illi remissum quam ereptum est. Non opibus fruetur, non tua simul ac sua gratia; non accipiet beneficia, non dabit: miserum putas quod ista amisit, an beatum quod non desiderat? Mihi crede, is beatior est cui fortuna supervacua est quam is cui parata est. Omnia ista bona quae nos speciosa sed fallaci voluptate delectant, pecunia dignitas potentia aliaque complura ad quae generis humani caeca cupiditas obstupescit, cum labore possidentur, cum invidia conspiciuntur, eos denique ipsos quos exornant et premunt; plus minantur quam prosunt; lubrica et incerta sunt, numquam bene tenentur; nam ut nihil de tempore futuro timeatur, ipsa tamen magnae felicitatis tutela sollicita est. Si velis credere altius veritatem intuentibus, omnis vita supplicium est. In hoc profundum inquietumque proiecti mare, alternis aestibus reciprocum et modo adlevans nos subitis incrementis, modo maioribus damnis deferens adsidueque iactans, numquam stabili consistimus loco, pendemus et fluctuamur et alter in alterum inlidimur et aliquando naufragium facimus, semper timemus; in hoc tam procelloso et ad omnes tempestates exposito mari navigantibus nullus portus nisi mortis est. Ne itaque invideris fratri tuo: quiescit. Tandem liber, tandem tutus, tandem aeternus est. Superstitem Caesarem omnemque eius prolem, superstitem te cum communibus habet fratribus. Antequam quicquam ex suo favore fortuna mutaret, stantem adhuc illam et munera plena manu congerentem reliquit. Fruitur nunc aperto et libero caelo; ex humili atque depresso in eum emicuit locum, quisquis ille est qui solutas vinculis animas beato recipit sinu, et nunc libere illic vagatur omniaque rerum naturae bona cum summa voluptate perspicit. Erras: non perdidit lucem frater tuus sed sinceriorem sortitus est. Omnibus illo nobis commune est iter: quid fata deflemus? Non reliquit ille nos sed antecessit. Est, mihi crede, magna felicitas in ipsa necessitate moriendi. Nihil ne in totum quidem diem certi est: quis in tam obscura et involuta veritate divinat utrumne fratri tuo mors inviderit an consuluerit? 10. Illud quoque, qua iustitia in omnibus rebus es, necesse est te adiuvet cogitantem non iniuriam tibi factam quod talem fratrem amisisti, sed beneficium datum quod tam diu tibi pietate eius uti fruique licuit. Iniquus est qui muneris sui arbitrium danti non relinquit, avidus qui non lucri loco habet quod accepit, sed damni quod reddidit. Ingratus est qui iniuriam vocat finem voluptatis, stultus qui nullum fructum esse putat bonorum nisi praesentium, qui non et in praeteritis adquiescit et ea iudicat certiora quae abierunt, quia de illis ne desinant non est timendum. Nimis angustat gaudia sua qui eis tantummodo quae habet ac videt frui se putat, et habuisse eadem pro nihilo ducit; cito enim nos omnis voluptas relinquit, quae fluit et transit et paene antequam veniat aufertur. Itaque in praeteritum tempus animus mittendus est, et quidquid nos umquam delectavit reducendum ac frequenti cogitatione pertractandum est: longior fideliorque est memoria voluptatum quam praesentia. Quod habuisti ergo optimum fratrem, in
summis bonis pone: non est quod cogites quanto diutius habere potueris, sed quam diu habueris. Rerum natura illum tibi sicut ceteris fratres suos non mancipio dedit sed commodavit; cum visum est deinde repetit nec tuam in eo satietatem secuta est sed suam legem. Si quis pecuniam creditam solvisse se moleste ferat, eam praesertim cuius usum gratuitum acceperit, nonne iniustus vir habeatur? Dedit natura fratri tuo vitam, dedit et tibi: quae suo iure usa si a quo voluit debitum suum citius exegit, non illa in culpa est, cuius nota erat condicio, sed mortalis animi spes avida, quae subinde quid rerum natura sit obliviscitur nec umquam sortis suae meminit nisi cum admonetur. Gaude itaque habuisse te tam bonum fratrem, et usum fructumque eius, quamvis brevior voto tuo fuerit, boni consule. Cogita iucundissimum esse quod habuisti, humanum quod perdidisti; nec enim quicquam minus inter se consentaneum est quam aliquem moveri quod sibi talis frater parum diu contigerit, non gaudere quod tamen contigit. 11. «At inopinanti ereptus est». Sua quemque credulitas decipit et in eis quae diligit voluntaria mortalitatis oblivio: natura nulli se necessitatis suae gratiam facturam esse testata est. Cotidie praeter oculos nostros transeunt notorum ignotorumque funera, nos tamen aliud agimus et subitum id putamus esse quod nobis tota vita denuntiatur futurum. Non est itaque ista fatorum iniquitas, sed mentis humanae pravitas insatiabilis rerum omnium, quae indignatur inde se exire quo admissa est precario. Quanto ille iustior qui nuntiata filii morte dignam magno viro vocem emisit: Ego cum genui, tum moriturum scivi. Prorsus non mireris ex hoc natum esse qui fortiter mori posset. Non accepit tamquam novum nuntium filii mortem; quid enim est novi hominem mori, cuius tota vita nihil aliud quam ad mortem iter est? Ego cum genui, tum moriturum scivi. Deinde adiecit rem maioris et prudentiae et animi: et huic rei sustuli. Omnes huic rei tollimur; quisquis ad vitam editur, ad mortem destinatur. Gaudeamus eo quod dabitur, reddamusque id cum reposcemur. Alium alio tempore fata comprendent, neminem praeteribunt: in procinctu stet animus et id quod necesse est numquam timeat, quod incertum est semper expectet. Quid dicam duces ducumque progeniem et multis aut consulatibus conspicuos aut triumphis sorte defunctos inexorabili? Tota cum regibus regna populique cum gentibus tulere fatum suum; omnes, immo omnia in ultimum diem spectant. Non
idem universis finis est: alium in medio cursu vita deserit, alium in ipso aditu relinquit, alium in extrema senectute, fatigatum iam et exire cupientem, vix emittit; alio quidem atque alio tempore, omnes tamen in eundem locum tendimus. Utrumne stultius sit nescio mortalitatis legem ignorare an inpudentius recusare. Agedum illa quae multo ingenii tui labore celebrata sunt in manus sume utriuslibet auctoris carmina, quae tu ita resolvisti ut, quamvis structura illorum recesserit, permaneat tamen gratia (sic enim illa ex alia lingua in aliam transtulisti ut, quod difficillimum erat, omnes virtutes in alienam te orationem secutae sint): nullus erit in illis scriptis liber qui non plurima varietatis humanae incertorumque casuum et lacrimarum ex alia atque alia causa fluentium exempla tibi suggerat. Lege quanto spiritu ingentibus intonueris verbis: pudebit te subito deficere et ex tanta orationis magnitudine desciscere. Ne commiseris ut quisquis exempto modo scripta tua mirabitur quaerat quomodo tam grandia tamque solida tam fragilis animus conceperit. 12. Potius ab istis te quae torquent ad haec tot et tanta quae consolantur converte ac respice optimos fratres, respice uxorem, filium respice: pro omnium horum salute hac tecum portione fortuna decidit. Multos habes in quibus adquiescas: ab hac te infamia vindica, ne videatur omnibus plus apud te valere unus dolor quam haec tam multa solacia. Omnis istos una tecum perculsos vides nec posse tibi subvenire, immo etiam ultro expectare ut a te subleventur intellegis; et ideo quanto minus in illis doctrinae minusque ingeni est, tanto magis obsistere te necesse est communi malo. Est autem hoc ipsum solacii loco, inter multos dolorem suum dividere; qui quia dispensatur inter plures, exigua debet apud te parte subsidere. Non desinam totiens tibi offerre Caesarem: illo moderante terras et ostendente quanto melius beneficiis imperium custodiatur quam armis, illo rebus humanis praesidente non est periculum ne quid perdidisse te sentias; in hoc uno tibi satis praesidii, solacii est. Attolle te, et quotiens lacrimae suboriuntur oculis tuis, totiens illos in Caesarem derige: siccabuntur maximi et clarissimi conspectu numinis; fulgor eius illos, ut nihil aliud possint aspicere, praestringet et in se haerentes detinebit. Hic tibi, quem tu diebus intueris ac noctibus, a quo numquam deicis animum, cogitandus est, hic contra fortunam advocandus. Nec dubito, cum tanta illi adversus omnes suos sit mansuetudo tantaque indulgentia, quin iam multis solaciis tuum istud vulnus obduxerit, iam multa quae dolori obstarent tuo congesserit. Quid porro? Ut nihil horum fecerit, nonne protinus ipse conspectus per se tantummodo cogitatusque Caesar maximo solacio tibi est? Di illum deaeque terris diu commodent. Acta hic divi Augusti aequet, annos vincat! Quam diu inter mortales erit, nihil ex domo sua mortale esse sentiat. Rectorem Romano imperio filium longa fide adprobet et ante illum consortem patris quam successorem aspiciat. Sera et nepotibus demum nostris dies nota sit qua illum gens sua caelo asserat! 13. Abstine ab hoc manus tuas, fortuna, nec in isto potentiam tuam nisi ea
parte qua prodes ostenderis. Patere illum generi humano iam diu aegro et adfecto mederi, patere quidquid prioris principis furor concussit in suum locum restituere ac reponere. Sidus hoc, quod praecipitato in profundum et demerso in tenebras orbi refulsit, semper luceat. Hic Germaniam pacet, Britanniam aperiat, et paternos triumphos ducat et novos; quorum me quoque spectatorem futurum, quae ex virtutibus eius primum optinet locum, promittit clementia. Nec enim sic me deiecit ut nollet erigere, immo ne deiecit quidem, sed inpulsum a fortuna et cadentem sustinuit et in praeceps euntem leniter divinae manus usus moderatione deposuit: deprecatus est pro me senatum et vitam mihi non tantum dedit sed etiam petit. Viderit: qualem volet esse existimet causam meam; vel iustitia eius bonam perspiciat vel clementia faciat bonam: utrumque in aequo mihi eius beneficium erit, sive innocentem me scierit esse sive voluerit. Interim magnum miseriarum mearum solacium est videre misericordiam eius totum orbem pervagantem; quae cum ex hoc ipso angulo in quo ego defixus sum complures multorum iam annorum ruina obrutos effoderit et in lucem reduxerit, non vereor ne me unum transeat. Ipse autem optime novit tempus quo cuique debeat succurrere; ego omnem operam dabo ne pervenire ad me erubescat. O felicem clementiam tuam, Caesar, quae efficit ut quietiorem sub te agant vitam exules quam nuper sub Gaio egere principes! Non trepidant nec per singulas horas gladium expectant nec ad omnem navium conspectum pavent; per te habent ut fortunae saevientis modum ita spem quoque melioris eiusdem ac praesentis quietem. Scias licet ea demum fulmina esse iustissima quae etiam percussi colunt. 14. Hic itaque princeps, qui publicum omnium hominum solacium est, aut me omnia fallunt aut iam recreavit animum tuum et tam magno vulneri maiora adhibuit remedia. Iam te omni confirmavit modo, iam omnia exempla quibus ad animi aequitatem compellereris tenacissima memoria rettulit, iam omnium praecepta sapientium adsueta sibi facundia explicuit. Nullus itaque melius has adloquendi partes occupaverit: aliud habebunt hoc dicente pondus verba velut ab oraculo missa; omnem vim doloris tui divina eius contundet auctoritas. Hunc itaque tibi puta dicere: «Non te solum fortuna desumpsit sibi quem tam gravi adficeret iniuria: nulla domus in toto orbe terrarum aut est aut fuit sine aliqua comploratione. Transibo exempla vulgaria, quae etiam si minora, tamen multa sunt, ad fastus te et annales perducam publicos. Vides omnes has imagines quae inplevere Caesarum atrium? Nulla non harum aliquo suorum incommodo insignis est; nemo non ex istis in ornamentum saeculorum refulgentibus viris aut desiderio suorum tortus est aut a suis cum maximo animi cruciatu desideratus est. Quid tibi referam Scipionem Africanum, cui mors fratris in exilio nuntiata est? Is frater, qui eripuit fratrem carceri, non potuit eripere fato; et quam impatiens iuris et aequi pietas Africani fuerit cunctis apparuit; eodem enim die Scipio Africanus, quo viatoris manibus fratrem abstulerat tribuno quoque plebis privatus intercessit. Tam magno tamen fratrem desideravit hic animo quam defenderat. Quid referam Aemilianum Scipionem, qui uno paene eodemque tempore
spectavit patris triumphum duorumque fratrum funera? Adulescentulus tamen ac propemodum puer tanto animo tulit illam familiae suae super ipsum Pauli triumphum concidentis subitam vastitatem quanto debuit ferre vir in hoc natus, ne urbi Romanae aut Scipio deesset aut Carthago superesset. 15. Quid referam duorum Lucullorum diremptam morte concordiam? Quid Pompeios? Quibus ne hoc quidem saeviens reliquit fortuna, ut una denique conciderent ruina. Vixit Sextus Pompeius primum sorori superstes, cuius morte optime cohaerentis Romanae pacis vincula resoluta sunt, idemque hic vixit superstes optimo fratri, quem fortuna in hoc evexerat, ne minus alte eum deiceret quam patrem deiecerat; et post hunc tamen casum Sextus Pompeius non tantum dolori sed etiam bello suffecit. Innumerabilia undique exempla separatorum morte fratrum succurrunt, immo contra vix ulla umquam horum paria conspecta sunt una senescentia. Sed contentus nostrae domus exemplis ero; nemo enim tam expers erit sensus ac sanitatis ut fortunam ulli queratur luctum intulisse quam sciet etiam Caesarum lacrimas concupisse. Divus Augustus amisit Octaviam sororem carissimam, et ne ei quidem rerum natura lugendi necessitatem abstulit cui caelum destinaverat. Immo vero idem, omni genere orbitatis vexatus, sororis filium successioni praeparatum suae perdidit; denique, ne singulos eius luctus enumerem, et generos ille amisit et liberos et nepotes, ac nemo magis ex omnibus mortalibus hominem esse se dum inter homines erat sensit. Tamen tot tantosque luctus cepit rerum omnium capacissimum eius pectus victorque divus Augustus non gentium tantummodo externarum sed etiam dolorum fuit. Gaius Caesar, divi Augusti avunculi mei nepos, circa primos iuventae suae annos Lucium fratrem carissimum sibi princeps iuventutis principem eiusdem iuventutis amisit in apparatu Parthici belli et graviore multo animi vulnere quam postea corporis ictus est; quod utrumque et piissime idem et fortissime tulit. Ti. Caesar patruus meus Drusum Germanicum patrem meum, minorem natu quam ipse erat fratrem, intima Germaniae recludentem et gentes ferocissimas Romano subicientem imperio in complexu et in osculis suis amisit; modum tamen lugendi non sibi tantum sed etiam aliis fecit ac totum exercitum non solum maestum sed etiam attonitum, corpus Drusi sui sibi vindicantem, ad morem Romani luctus redegit iudicavitque non militandi tantum disciplinam esse servandam sed etiam dolendi. Non potuisset ille lacrimas alienas compescere, nisi prius pressisset suas. 16. M. Antonius avus meus, nullo minor nisi eo a quo victus est, tunc cum rem publicam constitueret et triumvirali potestate praeditus nihil supra se videret, exceptis vero duobus collegis omnia infra se cerneret, fratrem interfectum audivit. Fortuna inpotens, quales ex humanis malis tibi ipsa ludos facis! eo ipso tempore quo M. Antonius civium suorum vitae sedebat mortisque arbiter, M. Antonii frater duci iubebatur ad supplicium. Tulit hoc tamen tam triste vulnus eadem magnitudine animi M. Antonius qua omnia alia adversa toleraverat, et hoc fuit eius lugere, viginti legionum sanguine fratri parentare. Sed ut omnia alia
exempla praeteream, ut in me quoque ipso alia taceam funera, bis me fraterno luctu adgressa fortuna est, bis intellexit laedi me posse, vinci non posse: amisi Germanicum fratrem, quem quomodo amaverim intellegit profecto quisquis cogitat quomodo suos fratres pii fratres ament; sic tamen adfectum meum rexi ut nec relinquerem quicquam quod exigi deberet a bono fratre, nec facerem quod reprehendi posset in principe». Haec ergo puta tibi parentem publicum referre exempla, eundem ostendere quam nihil sacrum intactumque sit fortunae, quae ex eis penatibus ausa est funera ducere ex quibus erat deos petitura. Nemo itaque miretur aliquid ab illa aut crudeliter fieri aut inique; potest enim haec adversus privatas domos ullam aequitatem nosse aut ullam modestiam cuius inplacabilis saevitia totiens ipsa funestavit pulvinaria? Faciamus licet illi convicium non nostro tantum ore sed etiam publico, non tamen mutabitur; adversus omnis se preces omnisque querimonias eriget. Hoc fuit in rebus humanis fortuna, hoc erit: nihil inausum sibi reliquit, nihil intactum relinquet; ibit violentior per omnia, sicut solita est semper, eas quoque domos ausa iniuriae causa intrare in quas per templa aditur, et atram laureatis foribus induet vestem. Hoc unum optineamus ab illa votis ac precibus publicis, si nondum illi genus humanum placuit consumere, si Romanum adhuc nomen propitia respicit: hunc principem lassis hominum rebus datum, sicut omnibus mortalibus, sibi esse sacratum velit; discat ab illo clementiam fiatque mitissimo omnium principum mitis. 17. Debes itaque eos intueri omnes quos paulo ante rettuli, aut adscitos caelo aut proximos, et ferre aequo animo fortunam ad te quoque porrigentem manus, quas ne ab eis quidem per quos iuramus abstinet; debes illorum imitari firmitatem in perferendis et evincendis doloribus, in quantum modo homini fas est per divina ire vestigia. Quamvis in aliis rebus dignitatum ac nobilitatum magna sint discrimina, virtus in medio posita est: neminem dedignatur qui modo dignum se illa iudicat. Optime certe illos imitaberis qui, cum indignari possent non esse ipsos exsortes huius mali, tamen in hoc uno se ceteris exaequari hominibus non iniuriam sed ius mortalitatis iudicaverunt tuleruntque nec nimis acerbe et aspere quod acciderat nec molliter et effeminate; nam et non sentire mala sua non est hominis et non ferre non est viri. Non possum tamen, cum omnes circumierim Caesares quibus fortuna fratres sororesque eripuit, hunc praeterire ex omni Caesarum numero excerpendum, quem rerum natura in exitium opprobriumque humani generis edidit, a quo imperium adustum atque eversum funditus principis mitissimi recreat clementia. C. Caesar amissa sorore Drusilla, is homo qui non magis dolere quam gaudere principaliter posset, conspectum conversationemque civium suorum profugit, exequiis sororis suae non interfuit, iusta sorori non praestitit, sed in Albano suo tesseris ac foro et †pervocatis† et huiusmodi aliis occupationibus acerbissimi funeris elevabat mala. Pro pudor imperii! principis Romani lugentis sororem alea solacium fuit! Idem ille Gaius furiosa inconstantia modo barbam capillumque
summittens modo Italiae ac Siciliae oras errabundus permetiens et numquam satis certus utrum lugeri vellet an coli sororem, eodem omni tempore quo templa illi constituebat ac pulvinaria eos qui parum maesti fuerant crudelissima adficiebat animadversione; eadem enim intemperie animi adversarum rerum ictus ferebat qua secundarum elatus eventu super humanum intumescebat modum. Procul istud exemplum ab omni Romano sit viro, luctum suum aut intempestivis avocare lusibus aut sordium ac squaloris foeditate inritare aut alienis malis oblectare minime humano solacio. 18. Tibi vero nihil ex consuetudine mutandum est tua, quoniam quidem ea instituisti amare studia quae et optime felicitatem extollunt et facillime minuunt calamitatem eademque et ornamenta maxima homini sunt et solacia. Nunc itaque te studiis tuis inmerge altius, nunc illa tibi velut munimenta animi circumda, ne ex ulla tui parte inveniat introitum dolor. Fratris quoque tui produc memoriam aliquo scriptorum monumento tuorum; hoc enim unum est in rebus humanis opus cui nulla tempestas noceat, quod nulla consumat vetustas. Cetera, quae per constructionem lapidum et marmoreas moles aut terrenos tumulos in magnam eductos altitudinem constant, non propagant longam diem, quippe et ipsa intereunt: inmortalis est ingeni memoria. Hanc tu fratri tuo largire, in hac eum conloca; melius illum duraturo semper consecrabis ingenio quam inrito dolore lugebis. Quod ad ipsam fortunam pertinet, etiam si nunc agi apud te causa eius non potest – omnia enim illa quae nobis dedit ob hoc ipsum quod aliquid eripuit invisa sunt – tunc tamen erit agenda cum primum aequiorem te illi iudicem dies fecerit; tunc enim poteris in gratiam cum illa redire. Nam multa providit quibus hanc emendaret iniuriam, multa etiamnunc dabit quibus redimat; denique ipsum quod abstulit ipsa dederat tibi. Noli ergo contra te ingenio uti tuo, noli adesse dolori tuo. Potest quidem eloquentia tua quae parva sunt adprobare pro magnis, rursus magna attenuare et ad minima deducere; sed alio ista vires servet suas, nunc tota se in solacium tuum conferat. Et tamen dispice ne hoc iam quoque ipsum sit supervacuum; aliquid enim a nobis natura exigit, plus vanitate contrahitur. Numquam autem ego a te ne ex toto maereas exigam. Et scio inveniri quosdam durae magis quam fortis prudentiae viros qui negent doliturum esse sapientem: hi non videntur mihi umquam in eiusmodi casum incidisse, alioqui excussisset illis fortuna superbam sapientiam et ad confessionem eos veri etiam invitos compulisset. Satis praestiterit ratio, si id unum ex dolore quod et superest et abundat exciderit: ut quidem nullum omnino esse eum patiatur nec sperandum ulli nec concupiscendum est. Hunc potius modum servet qui nec impietatem imitetur nec insaniam et nos in eo teneat habitu qui et piae mentis est nec motae: fluant lacrimae, sed eaedem et desinant, trahantur ex imo gemitus pectore, sed idem et finiantur; sic rege animum tuum ut et sapientibus te adprobare possis et fratribus. Effice ut frequenter fratris tui memoriam tibi velis occurrere, ut illum et sermonibus celebres et adsidua recordatione repraesentes tibi, quod ita demum consequi poteris, si tibi memoriam eius iucundam magis quam flebilem feceris;
naturale est enim ut semper animus ab eo refugiat ad quod cum tristitia revertitur. Cogita modestiam eius, cogita in rebus agendis sollertiam, in exequendis industriam, in promissis constantiam. Omnia dicta eius ac facta et aliis expone et tibimet ipse commemora. Qualis fuerit cogita qualisque sperari potuerit; quid enim de illo non tuto sponderi fratre posset? Haec, utcumque potui, longo iam situ obsoleto et hebetato animo composui. Quae si aut parum respondere ingenio tuo aut parum mederi dolori videbuntur, cogita quam non possit is alienae vacare consolationi quem sua mala occupatum tenent, et quam non facile latina ei homini verba succurrant quem barbarorum inconditus et barbaris quoque humanioribus gravis fremitus circumsonat.
Consolazione a Polibio
Premessa Polibio era il potente segretario e consigliere dell’imperatore Claudio, il liberto a libellis, incaricato di esaminare e giudicare le pratiche che giungevano da tutto il mondo. Secondo Svetonio era il liberto a studiis, l’archivista imperiale. Molto odiato dal popolo, che non ne sopportava lo strapotere, fu uno degli amanti di Messalina, che lo fece uccidere nel 47. Su questa consolatoria sono stati espressi dei dubbi, soprattutto perché contiene una smaccata adulazione dell’imperatore, a cui Seneca si rivolge indirettamente per ottenere il ritorno in patria. La morte di un fratello di Polibio avrebbe dunque offerto al filosofo il pretesto per chiedere la grazia. La supplica è molto scoperta e non fa onore a Seneca, tanto più dopo le sue dichiarazioni sulla sopportabilità dell’esilio e sulla sua condizione di uomo felice e sereno che vive nella contemplazione delle cose divine. Per questo motivo alcuni, fra cui Diderot, hanno negato l’autenticità di questa consolatoria. Anche qui ricorrono i temi dell’ineluttabilità del destino e dell’inutilità del dolore, nonché l’esortazione a sopportare coraggiosamente le avversità della vita. La supplica e le lodi all’imperatore sono introdotte in modo apparentemente spontaneo e naturale (molto può l’oratoria in certi casi). Prima di entrare nell’argomento che più gli preme, la grazia per il ritorno, Seneca, indicando a Polibio il rimedio più valido al suo dolore per la morte del fratello, gli dice: «Finché Cesare continuerà a governare il mondo, dimostrando quanto i benefìci concessi ai popoli valgano più delle armi a mantenere su di esso il comando, finché egli continuerà a presiedere ai destini dell’umanità, non ci sarà pericolo che tu ti accorga di aver perduto qualcosa: in lui solo troverai sufficiente difesa e sufficiente conforto. Risollevati, dunque, e ogni volta che gli occhi ti si riempiranno di lacrime, volgili a Cesare, ed essi si asciugheranno alla vista di quel sommo e fulgido dio». Poi, dopo un elenco delle benemerenze di Claudio, «balsamo a questa umanità già così lungamente ammalata e sofferente», Seneca arriva al punto e scrive: «La sua clemenza, che è la prima delle sue virtù, mi fa bene sperare. Egli, infatti, non mi ha abbattuto per non farmi più rialzare, anzi, non mi ha nemmeno abbattuto, mi ha sorretto quando, colpito dalla sorte, stavo cadendo e mentre precipitavo ha steso la sua mano divina abituata alla moderazione e dolcemente mi ha deposto a terra e, implorato il Senato in mio favore, mi concesse la vita. Ora giudichi lui, valuti la mia causa come ritiene opportuno: se la sua giustizia non la considera buona, sia la sua clemenza a renderla tale. Da parte mia farò di tutto affinché lui non debba arrossire di giungere sino a me». M. S. A.
1. [Le opere create dall’uomo]1 in confronto alla nostra vita sono durature, ma in rapporto alle leggi della natura, che distrugge tutte le cose riconducendole al nulla da cui le ha tratte, sono anch’esse caduche. Cos’hanno creato infatti di immortale le mani mortali? Le sette meraviglie e le opere più stupende che l’ambizione delle età successive ha saputo e saprà ancora innalzare le vedremo un giorno rase al suolo. È così: non c’è nulla di eterno, poche cose sono durevoli, ciascuna, in vario modo, è caduca e giunge a una sua particolare conclusione, ma tutto ciò che ha un principio è destinato a perire. C’è chi paventa anche la fine del mondo: un giorno – se così è lecito credere – questo universo, che abbraccia tutte le cose umane e divine, si dissolverà e sarà nuovamente sommerso nell’antico caos e nel buio primordiale. E noi piangiamo le morti di
singoli esseri, versiamo lacrime sulle ceneri di Cartagine, di Numanzia, di Corinto o di altre città crollate da un’altezza ancora maggiore, quando l’intero universo, che non ha dove cadere, un giorno rovinerà! Ci lamentiamo perché quel destino che oserà compiere un tale scempio non ha alcun riguardo per noi! Di fronte a questa legge di necessità implicita nella natura stessa, che riconduce tutte le cose a una medesima fine, chi sarà tanto superbo e arrogante da pretendere che lui solo, insieme ai suoi familiari, venga risparmiato e che da una catastrofe, che incombe sull’intero universo, si salvi una qualche dimora? Pensiamo, dunque – e ciò ci sia di grandissimo conforto – che a noi capiterà quel ch’è accaduto o accadrà a tutti quanti gli altri, sicché credo di poter dire che la natura ci ha resi tutti parimenti soggetti alla più dura delle sue leggi proprio perché questa uguaglianza ci consolasse della crudeltà del nostro destino. 2. Anche questo potrà esserti di non piccolo aiuto, il fatto che il tuo dolore non gioverà a nessuno, né a te, né alla persona che piangi, dunque a che serve prolungare una cosa sterile e vana? Se il nostro pianto potesse produrre qualcosa io non esiterei a versare per la tua sventura tutte le lacrime che mi restano dopo aver pianto la mia: potrei infatti trovarne ancora che scorrano attraverso questi occhi ormai esausti per i miei tanti lutti familiari, se ciò potesse in qualche modo giovarti. Su, non cessare di piangere, anzi, piangiamo insieme, e facciamo causa comune, con questo capo d’accusa: «Tu, per giudizio unanime, iniquissima sorte, che sino a poco fa sembravi aver favorito quest’uomo mantenendogli una tale venerazione che la sua felicità – cosa rara per un uomo – era sfuggita all’invidia, hai avuto l’ardire d’infliggergli, sotto il regno di Cesare!, il più grande dolore che potesse capitargli. Dopo averlo ben bene esaminato girandogli intorno, hai capito che questa era l’unica parte che potevi colpire. Quale altro malanno, infatti, avresti potuto assegnargli? Portargli via il suo denaro? Non ne è stato mai schiavo, e anche ora, per quanto gli è possibile, se ne tiene lontano e, pur potendo procurarsene con molta facilità, il maggior vantaggio che ne ricava nei suoi confronti è il disprezzo. Potevi forse togliergli gli amici? No: sapevi ch’era così benvoluto da poterne trovare facilmente altri con cui sostituire quelli perduti. Fra quanti ho visto acquistare potere e ricchezza nel palazzo imperiale solo costui era corteggiato più che per interesse per il puro piacere dell’amicizia. Potevi togliergli la buona reputazione? La sua è così solida che nemmeno tu avresti potuto intaccarla. La buona salute? Sapevi che il suo animo era talmente imbevuto di studi umanistici, non solo perché se n’era nutrito ma perché ne aveva una vocazione innata, da essere in grado di vincere ogni dolore fisico. La vita, forse? Lo avresti appena scalfito: la fama del suo ingegno gli ha già accordato l’immortalità, ed è lui stesso ad aver fatto in modo di sopravvivere nella sua parte migliore, affrancandosi dalla morte, con la composizione di splendide opere letterarie. Finché le lettere saranno in qualche modo onorate, fintantoché resterà il vigore della lingua latina o l’eleganza di quella greca, egli vivrà, insieme a quei sommi uomini di cui ha emulato l’ingegno, o – vista la sua
modestia – ai quali si è ispirato. Dunque tu hai escogitato la sola cosa che potesse nuocergli al massimo. Ma quanto più si è buoni, tanto più ci si abitua a sopportarti, perché tu non scegli le tue vittime ma colpisci alla cieca e sai farti temere anche quando elargisci dei benefìci. Non ti costava nulla risparmiare questa ingiuria a un uomo sul quale sembrava che tu avessi rivolto il tuo favore a ragion veduta, non a caso, com’è tuo costume!». 3. A queste lagnanze, se credi, possiamo aggiungerne un’altra, quella, cioè, di una vita stroncata nel periodo dell’adolescenza, al suo primo fiorire, e tuo fratello, già allora, si mostrava degno di te; anche se tu certamente non meritavi di soffrire un tale dolore nemmeno per un fratello indegno. Ora tutti unanimemente gli rendono testimonianza; lo rimpiangono in tuo onore e lo lodano per i suoi meriti. Tutto ciò ch’egli faceva o pensava trovava sempre la tua sincera approvazione, per quanto tu, a dire il vero, saresti stato così benevolo anche con un fratello meno buono; ma il tuo affetto per lui poté esprimersi in modo libero e spontaneo per una sorta di affinità elettiva che vi accomunava. Nessuno mai si sentì offeso da lui per una sua presunta superiorità, né lui, da parte sua, minacciò mai qualcuno approfittando dell’autorità del fratello: si era formato sull’esempio della tua discrezione e sapeva quanto tu fossi un vanto per i tuoi, ma anche un onere da parte loro, e questo peso egli assunse sopra di sé. O dura sorte, ingiusta di fronte a ogni virtù! Tuo fratello fu strappato alla vita prima di poter conoscere la sua felicità, e ciò m’indigna a tal punto che mi riesce difficile esprimere con parole appropriate un così grande dolore. A questo punto, però, se ciò può consolarci, lamentiamoci insieme: «Cosa pensavi di guadagnarci, o Sorte ingiusta e violenta? Tanto presto ti sei pentita della tua benevolenza? Che crudeltà è la tua? T’intrometti con prepotenza fra due fratelli e dimezzi con una rapina così sanguinosa una coppia affiatatissima? Hai voluto turbare e intaccare senza alcun motivo una famiglia piena di ottimi giovani dove nessun fratello tralignava. A nulla giova, dunque, l’integrità morale di chi osserva con scrupolo tutte le leggi, a nulla una vita vissuta frugalmente secondo il costume degli avi, il disinteresse mantenuto intatto anche al colmo del potere e della prospera fortuna, a nulla il retto e sincero amore delle lettere, una mente immune da ogni macchia? Polibio piange e, spinto dalla morte di un fratello a pensare a ciò che può accadere anche agli altri, teme pure per questi, che sono l’unico conforto al suo dolore! Quale indegno misfatto! Polibio piange e si dispera, pur essendo benvoluto da Cesare! Hai proprio colto questa occasione, insolente Fortuna, per dimostrare che contro di te non c’è difesa, nemmeno per chi gode dei favori di Cesare». 4. Possiamo lanciare al destino tutte le accuse che vogliamo, ma cambiarlo giammai: fermo e inflessibile resta, nella sua cruda realtà. Ingiurie, pianti, querele: niente e nessuno lo smuove, niente e nessuno egli risparmia, nessuna grazia concede. Asteniamoci dunque dalle lacrime, che non servono a nulla: un
dolore come questo è più facile che conduca noi tra i morti, piuttosto che i morti fra noi. Se invece di giovarci ci tormenta, dobbiamo desistere al più presto e liberare l’animo dagli sfoghi inutili e dall’amaro compiacimento del pianto. E chi se non la ragione può porre fine alle nostre lacrime? Non sarà certo il destino a farle cessare. Su, guarda gli uomini che ti stanno intorno, osserva, dovunque, incessante, quanta larga messe di pianto! C’è chi, costretto da una penosa povertà, è chiamato giorno dopo giorno a un faticoso lavoro, chi è sempre sotto il pungolo di un’ambizione che non si appaga mai, chi teme per le sue ricchezze che ha tanto desiderato e di cui perpetua il desiderio in uno stato d’ansia continuo; c’è chi è tormentato dalla solitudine, chi dal successo o dalla folla che sempre assedia l’ingresso della sua casa; chi si duole di aver figli e chi di averli perduti. I motivi, insomma, sono tanti che cesseremmo di piangere prima di elencarli tutti. Non vedi che genere di esistenza ci promette la natura, quando la nostra vita inizia con un pianto? È così che veniamo al mondo, e su quel primo pianto si accordano tutta la serie degli anni successivi. Così passiamo la vita. Dobbiamo dunque fare con moderazione ciò che ci tocca fare spesso: risparmiare le lacrime, dal momento che non possiamo sopprimerle di fronte alle tante sventure che incombono alle nostre spalle. Non c’è cosa che più meriti di essere risparmiata, visto che ne facciamo un uso così frequente. 5. Può esserti di grande aiuto anche il riflettere che la persona a cui meno è gradito il tuo dolore è proprio quella per la quale dimostri di soffrire, o perché non vuole che tu patisca per lei, o perché non ne sa nulla. E non è affatto ragionevole un’esternazione che al destinatario risulta o sgradita, quando gli giunga, direttamente o indirettamente, o del tutto inutile, quando non ne sia a conoscenza. Ti dirò con tutta franchezza che nel mondo intero non c’è una sola persona che si compiaccia delle tue lacrime. E allora? Vuoi attribuire a tuo fratello un sentimento che nessun altro prova verso di te, ovverosia la volontà di nuocerti facendoti soffrire e tenendoti per questo lontano dalle tue occupazioni, dallo studio e da Cesare stesso? È assurdo! Egli, infatti, non solo ti ha sempre amato come un fratello, ma ti ha anche venerato come un padre e onorato come un superiore. Vuole dunque essere per te un rimpianto, non un tormento. A che serve consumarsi in un dolore che, se i morti hanno ancora coscienza di noi, tuo fratello desidera che finisca? Se si trattasse di un fratello di cui non conoscessi bene i sentimenti, metterei in discussione tutto questo mio discorso e direi: «Se desidera che tu ti tormenti, piangendo senza fine, tuo fratello è indegno di tanto affetto; ma se non lo vuole, poni fine a un dolore che vi tormenta entrambi, poiché un fratello indegno non merita d’essere rimpianto così e un fratello buono non può volerlo». Ma quanto a questo tuo fratello, il cui affetto è ben conosciuto, dobbiamo essere certi che nulla gli è più penoso del sapere che tu soffri per la sua morte, o che comunque te ne lamenti, e che un pianto senza fine affligge e stanca i tuoi occhi che non meritano questa sofferenza. Tuttavia, poiché sei tanto sensibile agli affetti, non c’è cosa che possa distoglierti da queste tue lacrime,
anche se inutili, quanto il pensiero che devi essere di esempio ai tuoi fratelli, sopportando con coraggio questa ingiuria della sorte. Devi comportarti come i grandi condottieri, che nelle situazioni difficili simulano deliberatamente il buon umore nascondendo le loro preoccupazioni dietro una finta serenità, affinché l’animo dei soldati non si avvilisca nel veder vacillare quello del loro comandante. Assumi dunque un atteggiamento che dissimuli i tuoi sentimenti, anzi, se ne sei capace, liberati del tutto dal tuo dolore, o per lo meno nascondilo e cerca di tenertelo dentro, in modo che i tuoi fratelli, non vedendolo, facciano altrettanto, giudicando giusto il tuo agire e conformando l’animo al tuo aspetto esteriore. Tu per i tuoi fratelli devi essere conforto e consolatore insieme: se indulgi al tuo dolore non sei in grado di contrastare il loro. 6. C’è anche un’altra cosa che può trattenerti da uno sfogo eccessivo del tuo dolore, la consapevolezza che nessuna delle tue azioni può restare nascosta, visto che, per consenso unanime, rivesti una carica molto importante, da conservare in modo degno e rispettabile. Sei circondato da una gran folla di persone che fanno a gara per consolarti, ma che al tempo stesso scrutano il tuo animo per vedere quanta forza tu abbia contro il dolore, se sai solo sfruttare abilmente le occasioni propizie o se sei anche capace di sopportare virilmente le avversità; e ti osservano, se mai dai tuoi occhi trapeli un cenno, un sospetto. Chi può nascondere agli altri i propri sentimenti è certamente più libero, ma tu non hai questa libertà, neppure per i tuoi segreti privati, poiché il tuo successo pubblico ti ha messo pienamente in luce. Così tutti sapranno come hai reagito a questa ferita, se cioè, appena colpito, hai abbassato le armi o sei rimasto a piè fermo. Da tempo l’amicizia di Cesare ti ha innalzato a un gradino sociale più alto e i tuoi studi ti hanno reso famoso, perciò non ti si addice un atteggiamento mediocre o volgare, e nulla è così umiliante e tipicamente femminile quanto il lasciarsi consumare dal dolore. Pur colpito dal medesimo lutto, non puoi permetterti ciò che è concesso ai tuoi fratelli. Tante cose non si conciliano con la stima che tutti hanno della tua cultura e dei tuoi costumi: gli uomini esigono e si aspettano molto da te. Se volevi poter agire liberamente, secondo i tuoi desideri, non dovevi importi all’attenzione di tutti; ora devi mantenere quanto hai promesso. Il tuo animo è nelle mani di coloro che lodano le opere del tuo ingegno, che le trascrivono, che hanno bisogno della tua intelligenza, non già della tua fortuna, sicché non puoi fare alcuna cosa che contrasti col tuo ruolo di uomo colto e perfetto, diversamente molti potrebbero pentirsi di averti ammirato. E non solo non ti è concesso di piangere smodatamente, ma non puoi nemmeno protrarre il sonno sino al mattino avanzato, fuggire il traffico convulso degli affari ritirandoti nella tranquilla quiete della campagna, ristorare con un viaggio di piacere il tuo corpo affaticato dai continui impegni di lavoro, distrarti la mente con questo o quello spettacolo, o disporre la giornata a tuo piacimento. Sono tante le cose a cui non hai diritto e che possono invece permettersi le persone comuni, che hanno un luogo appartato in cui rincantucciarsi: una grande
fortuna è una grande schiavitù. Nulla puoi fare a tuo piacimento: devi ricevere migliaia di persone, esaminare altrettante richieste, sbrigare l’enorme cumulo di pratiche che arrivano da tutto il mondo per sottoporle, in ordine di precedenza, all’esame del sommo principe. In poche parole, piangere a te non è permesso: per prenderti a cuore le molte lacrime di coloro che ti chiedono udienza, che sono in bilico fra la vita e la morte e si affidano alla misericordia del più clemente fra gl’imperatori, devi asciugare le tue. 7. E ora ascolta quali rimedi possano più agevolmente giovarti. Quando vuoi azzerare tutte le tue preoccupazioni, pensa a Cesare, considera quanta devozione e quanto impegno gli devi in cambio della sua benevolenza e ti renderai conto che non puoi piegarti sotto il peso del tuo dolore più di colui che, per dirla col mito, regge il mondo sulle sue spalle.2 Del resto anche Cesare non può permettersi tutto, proprio perché tutto è in suo potere: deve cioè difendere con le sue veglie i nostri sonni, assicurare con la sua fatica la nostra tranquillità, col suo lavoro i nostri divertimenti, col suo impegno il nostro tempo libero. Da quando si è dedicato al mondo ha rinunciato a sé stesso e, come le stelle percorrono senza tregua le proprie orbite, così lui non può mai fermarsi o fare alcunché che lo riguardi. Entro certi limiti, anche tu sei soggetto a una analoga legge di necessità. Fintantoché Cesare è padrone del mondo non ti è concesso pensare ai tuoi interessi e ai tuoi bisogni privati, non puoi abbandonarti né al piacere, né al dolore, né ad altra cosa alcuna: tu devi a Cesare tutto te stesso. E poiché vai ripetendo che Cesare ti è più caro della tua vita stessa, non ti è lecito lamentarti della tua sorte, finché Cesare è vivo. Salvo lui, sono salvi tutti i tuoi cari, e tu nulla hai perduto. Perciò i tuoi occhi non solo devono essere asciutti, ma anche sprizzare di gioia. Ogni tua cosa è in lui, ed egli è tutto, per te. Quanto saresti in contrasto con la tua saggezza e con la tua bontà, e poco grato alla tua fortuna, se ti permettessi di emettere un solo lamento mentre Cesare è in vita! 8. Voglio indicarti anche un altro rimedio, non dico più efficace, ma più a portata di mano. Ogni volta che rientri in casa tua devi stare attento a non lasciarti prendere dalla tristezza: finché infatti sarai in presenza del tuo dio, ne sarai immune, perché Cesare impegnerà ogni tuo moto e ogni tuo pensiero, ma quando ti allontanerai da lui il dolore, approfittando di quella occasione, insidierà la tua solitudine e a poco a poco si insinuerà nel tuo animo inoperoso. Perciò non devi mai concedere un momento di tregua ai tuoi studi, e sarà soprattutto allora che le lettere, da te amate così lungamente e con tanta fedeltà, ti ricompenseranno, proclamandoti loro cultore e sacerdote; sarà allora che Omero e Virgilio – benemeriti dell’umanità come tu lo sei nei confronti di loro e di tutti quelli che hai voluto far conoscere a molti più popoli di quelli per i quali essi avevano scritto – si intratterranno a lungo con te: nulla dovrai temere nei momenti in cui ti troverai sotto la loro protezione. Descrivi allora, con quanta cura ti è possibile, le imprese del tuo Cesare, affinché siano tramandate per tutti i
secoli attraverso la voce di un suo familiare: egli stesso ti fornirà la materia e il modello per dar forma e struttura a quell’opera. Non oso spingermi al punto da consigliarti di comporre, con l’eleganza che ti è consueta, anche favolette e racconti alla maniera di Esopo, un genere in cui nessuno scrittore romano si è ancora cimentato:3 è difficile, infatti, che un animo così duramente colpito possa dedicarsi subito a queste frivolezze. Ma se saprai passare da opere più impegnative ad altre più leggere sarà questa la prova che hai riacquistato le tue forze e il dominio su te stesso. Le prime, infatti, per la serietà dei loro contenuti, distrarranno il tuo animo, benché ancora afflitto e riluttante, mentre le altre, i cui argomenti vanno affrontati con la fronte distesa, libera da preoccupazioni, bisogna che tu le lasci da parte finché non ti sarai ristabilito del tutto. Inizialmente, dunque, tieni la tua mente impegnata su temi più seri, dopodiché potrai rilassarla con argomenti più leggeri. 9. Potrà esserti di grande sollievo anche questa costante riflessione: «Per chi soffro, per me o per il morto? Se mi dolgo per me non posso menar vanto del mio affetto, perché il dolore vale solo se è nobile e distaccato, mentre se chi lo prova soddisfa in qualche modo un suo bisogno interiore non ha niente a che vedere con la compassione: è come ricevere un tornaconto dalla morte di un fratello, e ciò non è da galantuomini. Se invece mi dolgo per lui, due sono le ipotesi, dalle quali non si scappa: o i morti non hanno coscienza, e quindi mio fratello si è liberato da tutti gl’inconvenienti della vita ed è tornato laddove si trovava prima di nascere, sicché, essendo immune da ogni male, non teme, non desidera e non soffre nulla, e allora è una pazzia continuare a piangere per uno che non soffre; oppure con la morte la coscienza non si perde, e allora l’anima di mio fratello, come uscita da una lunga prigionia, è divenuta finalmente libera e padrona di sé e quindi gode dello spettacolo della natura, contempla dall’alto tutte le cose umane e penetra più da vicino quelle divine, di cui aveva invano ricercato a lungo una spiegazione. Perché, dunque, devo consumarmi nel rimpianto di uno che o è beato o è svanito nel nulla? Piangere chi è felice è invidia, piangere il nulla è follia». O forse ti rattristi perché gli mancano tutti quei grandi beni che lo circondavano? Ebbene, se così credi, rifletti che sono molto più numerosi i mali a cui è sfuggito. L’ira, per esempio, non lo tormenterà più, non lo affliggeranno le malattie, non lo assalirà il sospetto, non lo perseguiterà l’invidia vorace e sempre nemica dei successi altrui, non lo turberà il timore, non lo inquieterà la volubilità della fortuna, che trasferisce i suoi favori di qua e di là. A conti fatti, i guai da cui si è liberato sono più numerosi dei beni che ha perduto. D’accordo, non gioirà più delle ricchezze e del prestigio di cui godevate entrambi, non riceverà benefìci e non ne farà; ma tu lo reputi infelice perché ha perduto queste cose, o felice perché non le desidera più? Credimi, chi può fare a meno della fortuna è più contento di chi ce l’ha a portata di mano. Tutti questi beni che ci dànno un piacere illusorio, il denaro, l’autorità, il potere e tante altre cose di
fronte a cui la cieca cupidigia degli uomini rimane estasiata, costano fatica a mantenersi, suscitano invidia e finiscono con l’assillare proprio coloro che ne fanno mostra, più che un vantaggio sono un’ansia continua per i rischi che comportano, instabili e sfuggenti, non si godono mai con sicurezza, e anche se costituiscono una garanzia per il futuro la tutela di una così grande fortuna è fonte di ansie continue e continue preoccupazioni. Se vuoi credere a chi sa vedere più a fondo la verità, tutta la vita è un supplizio. Gettàti in questo mare profondo e tempestoso, agitato da continui marosi che ora ci sollevano ad altezze impreviste, ora ci buttano giù, causandoci più perdite che guadagni, siamo sballottati senza tregua e senza un approdo in cui sostare, sospesi e fluttuanti, sbattiamo gli uni contro gli altri, talvolta facciamo naufragio, ma ne abbiamo sempre timore. Per chi naviga in questo mare così burrascoso e aperto a tutte le intemperie non c’è altro porto che la morte. Non compiangere dunque tuo fratello: egli riposa, finalmente libero, finalmente eterno e sicuro. Dietro di sé lascia vivo Cesare con tutta la sua prole, lascia vivo te con gli altri tuoi fratelli: prima che la fortuna volgesse altrove i suoi favori e mentre ancora gli elargiva a piene mani i suoi doni, egli l’ha abbandonata. Ora gode del cielo libero e aperto. Dal luogo più umile e basso è volato in quello che accoglie nel suo felice seno le anime sciolte dalle catene: non importa quale sia quel luogo, egli vaga libero lassù e contempla con infinita gioia tutti i beni della natura. Sbagli dunque: tuo fratello non ha perso la vita, ne ha trovata una più pura. Siamo tutti in cammino verso quel luogo comune. Perché piangere la sua morte? Egli non ci ha lasciati: ci ha preceduti. Credimi, grande felicità è morire nel pieno della felicità. Nessuna cosa è sicura, neppure nello spazio di un giorno. Chi può indovinare, in una verità così oscura e intricata, se la morte di tuo fratello sia stata una cattiveria o una provvidenza? 10. Visto poi che valuti ogni cosa secondo giustizia, potrà giovarti anche questa riflessione, che con la perdita di un tale fratello non hai ricevuto un torto, al contrario, ti è stato fatto un grande favore poiché hai potuto godere a lungo del suo affetto. Ingiusto è colui che non lascia a chi vuol donare qualcosa la scelta del regalo, avido chi non considera un guadagno il dono ricevuto e una perdita la sua restituzione. È ingrato chi giudica un’offesa la fine di un piacere, stolto colui che gode solo dei beni del presente e non anche di quelli del passato, quando questi sono più sicuri degli altri perché ormai non c’è alcun timore di poterli perdere. Gioire solo dei beni che si hanno e che si vedono e non mettere nel conto anche quelli che si sono avuti è come limitarne il godimento. Il fatto è che tutti i piaceri sono di breve durata, scorrono e passano via così velocemente che quasi ci sembrano tolti prima ancora che ci vengano dati. Perciò dobbiamo rivolgere la nostra mente al passato, rievocare tutto ciò che una volta ci ha reso felici e fissarvi continuamente il nostro pensiero: i piaceri che si ricordano sono più duraturi e più fedeli di quelli reali che si vivono al presente. Poni dunque fra i tuoi beni più grandi l’aver avuto un ottimo fratello, e pensa non quanto avresti
potuto ancora goderne ma quanto ne hai goduto. La natura, come fa coi fratelli degli altri, non te lo ha dato in proprietà, te l’ha prestato, e quando lo ha ritenuto opportuno se l’è ripreso, in base alla sua legge, non al tuo desiderio. Uno che si dispiace di dover restituire il denaro ricevuto in prestito, per giunta senza interessi, secondo te non dev’essere giudicato ingiusto? La natura ha dato la vita a tuo fratello, come l’ha data a te; se a un certo punto, esercitando un suo diritto, ha chiesto il pagamento del debito a uno dei due, colpevole non è lei, di cui era noto il patto, ma l’insaziabile speranza dell’uomo, che dimentica spesso cosa sia la natura e non ricorda la propria condizione se non quando gli arriva l’avviso. Rallegrati, dunque, di aver avuto un fratello così buono e ritieniti fortunato se hai potuto goderne anche se per un tempo più breve di quanto desideravi. Cosa divina è l’averlo avuto, umana l’averlo perduto. Sarebbe il massimo dell’incoerenza affliggersi di aver goduto per poco tempo di un tale fratello e tuttavia non gioire di averlo avuto. 11. «Ma mi è stato tolto inaspettatamente», obietterai. Il fatto è che ci lasciamo ingannare dalle nostre illusioni, dimenticando che anche le persone a noi care sono mortali. E dove sta scritto che la natura può apportare delle modifiche alla sua legge quando questa è di per sé stessa ineluttabile? Ogni giorno ci passano davanti agli occhi funerali di persone note e sconosciute, ma noi pensiamo ad altro, e poi giudichiamo improvviso un fatto che nel corso di tutta la vita ci saremmo dovuti aspettare. Non c’entra, dunque, la crudeltà del destino, siamo noi che per una deformazione o difetto della nostra mente non ci accontentiamo mai di nulla e ci riteniamo offesi di dover lasciare ciò che solo temporaneamente c’era stato concesso. Quanto più giusto fu colui che all’annuncio della morte del figlio pronunciò queste parole, degne di un grande uomo: Quando lo generai ero ben certo che sarebbe morto.4 Non c’è da meravigliarsi che da un tale uomo sia nato uno che seppe morire da eroe. Quel padre non si mostrò impreparato all’annuncio della morte del figlio. Che novità è infatti la morte di un uomo quando tutta la vita altro non è che un andare verso la morte? Quando lo generai ero ben certo che sarebbe morto. Poi quel padre, con maggiore saggezza e coraggio, aggiunse: Ed è per questo che l’ho messo al mondo. Siamo nati per la morte. Chi nasce alla vita è destinato a morire. Godiamo dunque di ciò che c’è dato e restituiamolo quando ci verrà richiesto. Chi prima,
chi dopo, il destino ci coglierà tutti, perciò il nostro animo deve tenersi sempre pronto, non temere mai ciò che è inevitabile e aspettarsi in ogni momento anche ciò che è imprevedibile. Devo ricordarti i condottieri, i loro figli, i grandi personaggi, famosi per i molti consolati o per i molti trionfi, stroncati da un destino inesorabile? Interi regni con i loro re, intere nazioni con le loro popolazioni hanno subìto la sorte loro assegnata. Tutti gli uomini, anzi, tutte le cose tendono al loro ultimo giorno. Certo, la scadenza non è la stessa per tutti: la vita lascia alcuni nel mezzo del cammino, altri proprio all’inizio, altri ancora quando ormai sono stremati da una decrepita vecchiaia e desiderosi di andarsene, ma chi in un tempo, chi in un altro, tutti tendiamo alla medesima meta. Non so se sia più stolto chi ignora la legge della morte, o più impudente chi la rifiuta. Suvvia, riprendi in mano i celebri poemi dell’uno o dell’altro dei due autori che con tanta geniale fatica hai divulgato volgendoli in prosa e mutandone il ritmo ma conservandone intatta la bellezza (e infatti, pur trasferendoli in un’altra lingua, sei riuscito a riversare nella tua traduzione – e questa era la difficoltà maggiore – tutti i pregi dell’originale): in questi poemi non c’è un canto che non ti fornisca infiniti esempi di vicende umane, di eventi imprevisti, di lacrime versate per i più diversi motivi. Rileggi quei passi in cui hai saputo infondere tutto il tuo slancio poetico e subito ti vergognerai della tua debolezza e di non aver più creduto nella grandezza di una così alta espressione linguistica. Non costringere chi ammirerà senza riserve i tuoi scritti a domandarsi come un animo tanto debole abbia potuto concepire espressioni così grandiose e ben costruite. 12. Abbandona dunque questi pensieri che ti tormentano e volgiti a cose che possano consolarti: guarda quante ce ne sono, guarda i tuoi ottimi fratelli, guarda tua moglie e tuo figlio. Per l’incolumità di tutti costoro la sorte te ne ha tolto uno soltanto: ne hai molti, perciò, in cui poter trovare conforto. Riscattati da questa tua umiliante condizione, affinché a tutti non sembri che il dolore per uno solo valga più di tutte queste consolazioni. Sai bene che i tuoi cari sono stati anch’essi colpiti dalla medesima sventura, né possono offrirti alcun aiuto, anzi, devi riconoscere che sono loro ad averne bisogno, perché, disponendo di una cultura e di un’intelligenza inferiori alla tua, si aspettano che sia tu ad assumere maggiormente il peso di una disgrazia comune. Del resto il dividere con altri il proprio dolore è già un conforto, perché, essendo distribuito tra molti, te ne resta una piccola parte. Non cesserò mai di citarti l’esempio di Cesare. Finché egli continuerà a governare il mondo, dimostrando quanto i benefìci concessi ai popoli valgano più delle armi a mantenere su di esso il comando, finché egli continuerà a presiedere ai destini dell’umanità, non ci sarà pericolo che tu ti accorga di aver perduto qualcosa: in lui solo troverai sufficiente difesa e sufficiente conforto. Risollevati, dunque, e ogni volta che gli occhi ti si riempiranno di lacrime, volgili a Cesare, ed essi si asciugheranno alla vista di quel sommo e fulgido dio: il suo splendore li abbaglierà al punto che non
potranno vedere altro e continueranno a fissarlo. È a lui che devi pensare, giorno e notte, senza mai distrarti, è a lui che devi chiedere soccorso contro la malasorte. Tanto sono grandi la sua bontà e la sua benevolenza verso tutti i suoi ch’egli avrà già rimarginato con molti conforti – non ne ho il minimo dubbio – questa tua ferita, approntando ogni rimedio possibile contro il tuo dolore. Ma quand’anche non avesse fatto nulla di tutto ciò, non bastano a tuo massimo conforto la sola vista di Cesare, il solo pensiero di lui? Che gli dèi e le dee lo mantengano a lungo sulla terra! Possa egli uguagliare le gesta del divino Augusto e superarlo nel numero degli anni! Finché sarà tra i mortali senta nella sua casa la presenza costante della divinità, riconosca nel figlio, dopo tanta stima accordatagli, la capacità di reggere degnamente l’impero romano e lo abbia compagno nel governo, prima che successore! Venga tardi quel giorno, e lo vedano solo i nostri nipoti, quando la sua famiglia divina lo assumerà nel cielo! 13. Tieni le tue mani lontano da lui, o Fortuna, e mostra su di lui il tuo potere intervenendo solo a suo favore. Lascia ch’egli sia balsamo a questa umanità già così lungamente ammalata e sofferente, lascia che restauri e rimetta al suo posto tutto ciò che la follia del suo predecessore ha abbattuto! Possa sempre risplendere questa stella che ha brillato su un mondo precipitato nel baratro e sommerso nelle tenebre! Che egli possa pacificare la Germania e conquistare la Britannia, ripetere i trionfi del padre e ve ne aggiunga di nuovi! La sua clemenza, che è la prima delle sue virtù, mi fa bene sperare che potrò esserne spettatore anch’io. Egli, infatti, non mi ha abbattuto per non farmi più rialzare, anzi, non mi ha nemmeno abbattuto, mi ha sorretto quando, colpito dalla sorte, stavo cadendo e mentre precipitavo ha steso la sua mano divina abituata alla moderazione e dolcemente mi ha deposto a terra e, implorato il Senato in mio favore, mi ha concesso la vita. Ora giudichi lui, valuti la mia causa come ritiene opportuno: se la sua giustizia non la considera buona, sia la sua clemenza a renderla tale. In entrambi i casi, che la mia innocenza sia riconosciuta o stabilita da un decreto, per me sarà comunque un beneficio. Nel frattempo è di grande conforto nella mia sventura il vedere che la sua misericordia si diffonde in tutto il mondo: da questo stesso angolo in cui sono confinato ha dissotterrato e riportato alla luce parecchie persone che da anni giacevano sepolte nella loro rovina, perciò non temo che tralasci me solo. Egli sa bene in quale momento soccorrere ciascuno. Da parte mia farò di tutto affinché lui non debba arrossire di giungere sino a me. Sia benedetta la tua clemenza, o Cesare, che sotto il tuo principato permette agli esuli di vivere una vita più tranquilla di quella che poco tempo fa conducevano sotto Gaio i personaggi più ragguardevoli! Essi non hanno paura, non si aspettano di ora in ora un colpo di spada, non tremano ogni volta che vedono giungere una nave: grazie alla tua clemenza, come la sorte avversa pone dei limiti alla sua crudeltà, così c’è per loro la tranquillità del presente e la speranza di un futuro migliore. Io ti sono appunto testimone che i fulmini, quando vengono onorati anche da chi ne è stato colpito, sono quanto mai giusti e legittimi.
14. Dunque, se non m’inganno, questo principe, pubblico conforto dell’umanità, ha già rinfrancato il tuo animo e medicato la tua grave ferita con rimedi ancora più efficaci. Ti ha ridato coraggio in tutti i modi possibili, la sua tenacissima memoria ti ha messo davanti tutti gli esempi che potevano rasserenarti e la sua abituale eloquenza ti ha illustrato i precetti di tutti i saggi del mondo. Nessuno potrebbe svolgere meglio il compito di consolarti; pronunciate da lui, le parole hanno il peso di un oracolo, la sua autorità divina è capace di frantumare tutta la forza del tuo dolore. Immagina ch’egli ti parli così: «Non sei il solo a essere stato scelto dalla sorte per ricevere una simile offesa: in tutto il pianeta non c’è mai stata e non c’è famiglia che non abbia avuto motivo di piangere. Tralascerò gli esempi comuni che, per quanto meno importanti, sono anch’essi degni di nota: ti condurrò davanti al calendario della Storia.5 Vedi tutte queste statue che riempiono l’atrio dei Cesari? Ebbene, fra i personaggi che ciascuna di esse rappresenta non ce n’è uno che non sia noto per qualche grave disgrazia familiare; nessuno, fra questi uomini che rifulgono a ornamento dei secoli, che non abbia patito il tormento per la perdita dei suoi cari o che non sia stato egli stesso rimpianto dai suoi col più profondo dolore. Devo ricordarti Scipione Africano, il quale apprese in esilio la notizia che gli era morto il fratello?6 Lui, che lo aveva strappato al carcere, non poté strapparlo alla morte. Allora apparve chiaro a tutti quanto l’Africano, di fronte agli affetti più cari, disdegnasse persino le leggi e la giustizia. Infatti in quel medesimo giorno in cui aveva strappato dalle mani del messo il fratello, si oppose, da privato cittadino, anche al tribuno della plebe. Nondimeno egli pianse la morte del fratello con la stessa grandezza d’animo con cui lo aveva difeso. E Scipione Emiliano,7 che quasi contemporaneamente assistette al trionfo del padre e al funerale di due fratelli? Eppure, ancora giovinetto, anzi quasi bambino, sopportò quell’improvvisa tragedia della sua famiglia, che si abbatteva sul trionfo stesso di Paolo,8 col coraggio di un uomo ch’era venuto al mondo affinché Roma non fosse privata di uno Scipione e Cartagine non sopravvivesse a Roma. 15. E devo ricordarti l’amicizia dei due Luculli9 spezzata dalla morte? E i figli di Pompeo,10 a cui la sorte crudele non concesse nemmeno di cadere insieme, nel medesimo crollo? Sesto Pompeo dapprima sopravvisse alla sorella, la cui morte aveva rotto i vincoli della salda pace romana, poi sopravvisse anche all’ottimo fratello, che la Fortuna aveva innalzato tanto per farlo precipitare da un’altezza non inferiore a quella da cui aveva precipitato il padre. Eppure, anche dopo questa disgrazia, Sesto Pompeo seppe reggere non solo il peso del dolore, ma anche l’onere di una guerra. Sono innumerevoli gli esempi di fratelli che la morte ha separato, anzi, quasi mai si sono visti due fratelli invecchiare insieme. Mi limiterò a quelli della famiglia imperiale, di fronte ai quali credo che nessuno sarà così dissennato o privo di buon senso da rinfacciare alla sorte il lutto di qualcuno quando essa è avida persino delle lacrime dei Cesari. Il Divo Augusto
perse Ottavia, sua sorella carissima, il che dimostra come la natura non abbia sottratto alla legge del dolore neppure l’uomo che aveva destinato al cielo. Anzi, a dire il vero, egli fu afflitto da ogni genere di perdite: vide morire il figlio della sorella destinato a succedergli,11 poi, per non fare a uno a uno l’elenco di tutti i suoi lutti, perse generi, figli e nipoti, e nessuno fra tutti i mortali sperimentò più di lui cosa significhi essere un uomo, finché fu uomo fra gli uomini. E comunque il suo cuore, così grande da contenere e dominare ogni genere di eventi, riuscì a sopportare tutti quei lutti, vincitore non solo di tanti popoli stranieri, ma anche del dolore. Gaio Cesare,12 nipote del Divo Augusto, mio prozio materno, agli albori della sua giovinezza perse il carissimo fratello Lucio, primo anch’egli fra i giovani, nel momento in cui si apprestava alla guerra contro i Parti, e ne riportò nell’animo una ferita molto più profonda di quella che in seguito trafisse il suo corpo, ma seppe sopportarle entrambe con grande forza e serenità. Tiberio Cesare,13 mio zio paterno, vide morire fra le sue braccia e i suoi baci mio padre Druso Germanico,14 suo fratello minore, mentre stava per inoltrarsi nelle regioni più interne della Germania e assoggettare al dominio di Roma il più feroce di tutti i popoli. Tuttavia riuscì a dare un contegno non solo al proprio dolore ma anche a quello degli altri, riconducendo tutto l’esercito – che, addolorato e sbigottito, reclamava il corpo del suo Druso – al tradizionale costume del lutto romano, poiché pensava che bisogna mantenere la disciplina non solo sotto le armi ma anche nel dolore. E non avrebbe potuto frenare le lacrime degli altri se non avesse prima trattenuto le sue. 16. Mio nonno Marco Antonio,15 che non fu inferiore ad alcuno se non a colui che lo vinse, ebbe notizia della morte di suo fratello proprio mentre stava riorganizzando lo Stato e, insignito della potestà di triumviro, non aveva nessuno al di sopra di sé, anzi, a parte i due colleghi, tutti gli erano sottomessi. Tracotante Fortuna, come ti fai gioco delle sciagure umane! Nel tempo stesso in cui sedeva arbitro della vita e della morte dei suoi concittadini il fratello di Marco Antonio veniva ucciso!16 E tuttavia Marco Antonio sopportò questa ferita dolorosissima con la stessa grandezza d’animo con cui aveva sopportato tutte le altre disgrazie, e il suo pianto fu il sangue di venti legioni offerte in sacrificio alla morte del fratello.17 Ma non voglio citare tutti gli altri esempi e tacerò anche di quelli che riguardano me: la sorte mi ha colpito due volte con un lutto fraterno e due volte ha preso atto che io potevo essere ferito ma non vinto. Ho perso mio fratello Germanico, e chiunque può comprendere quanto io lo amassi se solo pensa all’affetto che intercorre fra i buoni fratelli. Eppure io seppi controllare il mio sentimento, tanto da non trascurare nessuno dei doveri che competono a un buon fratello e da non fare nulla che potesse risultare sconveniente in un principe». Immagina dunque che il nostro padre comune ti ricordi questi esempi, dimostrandoti che nulla è sacro e inviolabile per la fortuna quando essa si spinge
al punto da far uscire dei funerali da quella casa da cui avrebbe tratto degli dèi. Nessuno si meravigli se fa qualcosa che l’uomo ritiene ingiusto o crudele: potrebbe mai mostrare equità e misura verso le famiglie private quando con implacabile ferocia ha funestato tante volte i sacri letti imperiali? Anche se la coprissimo di ingiurie, e non solo singolarmente ma tutti quanti insieme, non per questo la Fortuna cambierà, anzi, ogni supplica e ogni lamento la renderanno ancora più spavalda. Tale essa sempre è stata e tale sempre sarà nelle vicende umane; nulla non c’è che lei non possa osare, né mai ci sarà nulla d’intoccabile per lei; entrerà dappertutto con smisurata violenza, com’è solita fare, oserà entrare, per colpirle, persino in quelle case alle quali si accede passando per i templi e ornerà di drappi funebri le porte fregiate di alloro. Cerchiamo dunque di ottenere da lei almeno questo, con pubblici voti e preghiere, se non ha ancora deciso di distruggere tutto il genere umano e guarda ancora con una qualche benevolenza al nome di Roma: che questo principe, donato alle incerte vicende degli uomini, le sia sacro quanto lo è a tutti i mortali! Impari da lui a essere clemente e sia mite col più mite di tutti i principi! 17. Segui dunque l’esempio di tutti i grandi personaggi che ti ho appena elencato, alcuni dei quali sono già saliti al cielo, altri vi saliranno, e sopporta con animo giusto e sereno la sorte che stende su te le sue mani e non le tiene lontane neppure da coloro sui quali giuriamo. Imita la loro forza s’animo nel sopportare e vincere il dolore, per quanto è lecito a un uomo seguire le orme degli dèi. Sebbene in altri campi la dignità e la nobiltà comportino grandi differenze fra gli uomini, la virtù è alla portata di tutti e non disdegna nessuno, purché in qualche modo ci si ritenga degni di lei. Sono certo che tu saprai imitare alla perfezione questi personaggi, i quali, pur avendo avuto motivo di risentirsi per non essere stati esenti da simili mali, considerarono non già un’ingiustizia ma una legge propria della condizione umana l’essere in questo uguali agli altri uomini, e perciò sopportarono ogni accidente senza abbandonarsi eccessivamente all’ira e al risentimento, né con fragilità e debolezza femminili. Se infatti è umano sentire i propri mali, non è da uomo il non saperli sopportare. Ora, però, dopo aver ricordato tutti i Cesari a cui la sventura ha tolto fratelli e sorelle, non posso tralasciare colui che dovrebbe essere cancellato dal novero dei Cesari, generato dalla natura a rovina e vergogna del genere umano, il quale incendiò e distrusse dalle fondamenta l’impero, che ora sta risorgendo per la clemenza del più mite tra i principi. Quando gli morì la sorella Drusilla, Gaio Cesare,18 quest’uomo incapace di sopportare il dolore e di gioire come la dignità di un principe richiede, si sottrasse alla vista dei suoi concittadini, troncando ogni rapporto con loro, non partecipò ai funerali della sorella e non le rese gli estremi onori, ma ritiratosi nella sua villa di Alba alleviò il dolore di questo gravissimo lutto giocando a dadi e a scacchi, o impegnato in altre simili facezie. Quale vergogna per l’impero! Furono i dadi la consolazione di un principe romano per la morte della sorella! E sempre questo Gaio, con la volubilità di un
pazzo, ora si lasciava crescere la barba e i capelli, ora scorrazzava senza meta lungo le coste dell’Italia e della Sicilia, e assillato continuamente dal dubbio se fosse meglio veder la sorella compianta o venerata, mentre le faceva innalzare templi e santuari, condannava alle pene più crudeli chi non si fosse dimostrato abbastanza addolorato. Mostrava infatti la stessa incoerenza nel reagire tanto agli eventi sfavorevoli quanto a quelli propizi, i quali ultimi lo eccitavano e lo insuperbivano in modo smisurato e disumano. Stia lontano da ogni romano l’esempio di quest’uomo, che distrasse il proprio dolore con divertimenti indecorosi, esasperandolo con un aspetto sordido e vergognoso, o alleviandolo coi mali altrui, la più disumana delle consolazioni. 18. Ma in fin dei conti tu non hai affatto bisogno di cambiare le tue abitudini, perché ti sei sempre dedicato amorevolmente a quegli studi che conducono a una giusta e opportuna felicità e facilmente alleviano il dolore: essi sono per l’uomo l’ornamento migliore e la più grande consolazione. Immergiti dunque col massimo ardore in questi tuoi studi, ergili a tua difesa come una corazza affinché il dolore non trovi accesso al tuo animo da nessuna parte. Dedica poi a tuo fratello qualche scritto che ne perpetui il ricordo, perché questa è fra le opere umane l’unica che nessuna tempesta danneggi e che il tempo non consumi. Tutte le altre, costruite con pietre o blocchi di marmo, o formate da altissimi cumuli di terra, non conservano a lungo il nostro ricordo, perché esse stesse rovinano: solo il ricordo destato dall’ingegno umano è immortale. Offri dunque questo ricordo a tuo fratello e fa che in esso egli continui a vivere: meglio eternarlo col tuo genio immortale che piangerlo con un dolore sterile e vano. Quanto al resto non è possibile per il momento prendere davanti a te le difese della sorte (quando, infatti, ci ha tolto l’unico bene ci diventano odiosi tutti gli altri che ci ha elargito), ma bisognerà pur affrontarlo questo argomento non appena il tempo avrà reso più imparziale il tuo giudizio: allora potrai anche riconciliarti con lei. Che d’altronde ti è stata provvida di molti beni con cui compensare questa sua offesa, e molti altri ancora te ne darà per sdebitarsi: dopotutto, anche ciò che ti ha tolto era un suo dono. Non usare dunque il tuo ingegno contro te stesso, non cedere al dolore. Sei così abile nel parlare da far sembrare grandi le cose piccole e rimpicciolire le grandi sino a renderle insignificanti: usa quindi questo tuo potere anche in altri casi, come in questo, volgendolo interamente a tua consolazione. Bada, però, di non esagerare, poiché la natura esige un limite per ogni cosa che facciamo, tutto ciò ch’è superfluo è frutto di vanità. Insomma, io non pretendo che tu ti sottragga al dolore, anche se ci sono uomini, dal temperamento rigido più che forte, secondo i quali l’uomo saggio non deve mai piangere. Io non so se costoro abbiano mai vissuto un’esperienza analoga alla tua, ma sono certo che in un simile caso la malasorte gli avrebbe strappato la maschera della loro saggezza presuntuosa, costringendoli a confessare la verità. La ragione ha il compito di eliminare dal dolore solo ciò ch’è superfluo e sovrabbondante, ma non si può né sperare né desiderare che lo annulli del tutto.
Essa piuttosto deve osservare una via di mezzo, fare in modo, cioè, che il dolore non abbia l’aspetto né del cinismo, né della follia, suggerendoci un contegno che sia indice di un animo commosso ma non sconvolto. Scorrano pure le lacrime, ma abbiano una fine: escano pure i gemiti dal profondo del cuore, ma sappiano anche tacere. Domina, insomma, il tuo animo, sì che ti apprezzino i saggi e i tuoi fratelli. Cerca anche di richiamare spesso alla tua mente l’immagine di tuo fratello, di celebrarlo nei tuoi discorsi, di mantenerlo vivo col tuo costante pensiero, e ciò potrai ottenerlo solo se il ricordo di lui ti sarà lieto anziché doloroso: l’animo, infatti, istintivamente rifugge da tutto ciò che gli provoca tristezza. Pensa quanto era modesto, con quale sollecitudine e con quale prontezza conduceva e concludeva gli affari, alla sua lealtà nel mantenere la parola data, ricorda a te stesso e racconta agli altri tutte le sue parole e le sue azioni, pensa a quello che è stato e che prometteva di essere: che cosa, infatti, non avrebbe potuto garantirti un simile fratello? Tutto questo l’ho scritto come ho potuto, con la mente intorpidita e indebolita dalla lunga inattività. Se gli argomenti trattati ti sembreranno poco degni del tuo ingegno e insufficienti ad alleviare il tuo dolore, pensa quanto sia difficile consolare gli altri per chi è afflitto dai propri mali, e come non sia facile trovare parole ed espressioni latine quando tutt’intorno risuona lo strepito del rozzo parlare di barbari, sgradito anche a loro stessi, se mai hanno un po’ di cultura.
1. L’inizio è mutilo, ma è molto probabile che siano i monumenti il soggetto della frase. 2. Si tratta di Atlante, condannato da Zeus a reggere il mondo sulle spalle per aver aiutato i Giganti contro il dio. 3. La favola era già entrata in Roma nel I secolo d.C. a opera di Fedro, autore di cinque libri in versi da lui chiamati Esopiche in onore del poeta greco Esopo (VI sec. a.C.). 4. Il verso è tratto da un dramma (Telamone) di Quinto Ennio (239-169 a.C.), il famoso autore degli Annali, poema epico in esametri sulla storia di Roma. 5. Si riferisce propriamente ai Fasti, i giorni in cui il pretore amministrava la giustizia e che in seguito costituirono il calendario romano. 6. È Cornelio Scipione Asiatico, fratello dell’Africano che lo difese in un processo per corruzione. 7. Scipione Emiliano (185-129 a.C.), distruttore di Cartagine, detto l’Africano Minore. 8. Paolo Emilio, che vinse a Pidna (168 a.C.) Perseo, ultimo re di Macedonia. 9. Sono Licinio Lucullo (106-57 a.C.), proconsole romano vincitore di Mitridate il Grande, re dei Parti, e Marco Licinio Lucullo, suo fratello minore. 10. Sesto e Gneo Pompeo. 11. Marcello, forse scelto da Augusto come suo successore, morì a diciannove anni. 12. Figlio di Agrippa e di Giulia, figlia di Augusto. 13. Tiberio Cesare è il futuro imperatore. 14. Druso Germanico, fratello di Tiberio, morì durante una spedizione in Germania nel 9 d.C. 15. Famoso triumviro sconfitto da Ottaviano ad Azio (31 a.C.). 16. È Caio Antonio: catturato da Bruto, fu giustiziato nel 42 a.C. 17. Sono le legioni di Bruto e Cassio, sconfitte da Ottaviano e Antonio a Filippi nel 42 a.C. 18. Caligola.
De brevitate vitae
1. Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aevi gignimur, quod haec tam velociter, tam rapide dati nobis temporis spatia decurrant, adeo ut exceptis admodum paucis ceteros in ipso vitae apparatu vita destituat. Nec huic publico, ut opinantur, malo turba tantum et imprudens vulgus ingemuit; clarorum quoque virorum hic affectus querellas evocavit. Inde illa maximi medicorum exclamatio est; «vitam brevem esse, longam artem». Inde Aristotelis cum rerum natura exigentis minime conveniens sapienti viro lis: «aetatis illam animalibus tantum indulsisse, ut quina aut dena saecula educerent, homini in tam multa ac magna genito tanto citeriorem terminum stare». Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus. Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, si tota bene collocaretur; sed ubi per luxum ac neglegentiam diffluit, ubi nulli bonae rei impenditur, ultima demum necessitate cogente, quam ire non intelleximus transisse sentimus. Ita est; non accipimus brevem vitam sed facimus, nec inopes eius sed prodigi sumus. Sicut amplae et regiae opes, ubi ad malum dominum pervenerunt, momento dissipantur, at quamvis modicae, si bono custodi traditae sunt, usu crescunt; ita aetas nostra bene disponenti multum patet. 2. Quid de rerum natura querimur? Illa se benigne gessit; vita, si uti scias, longa est. Alium insatiabilis tenet avaritia; alium in supervacuis laboribus operosa sedulitas; alius vino madet, alius inertia torpet; alium defetigat ex alienis iudiciis suspensa semper ambitio, alium mercandi praeceps cupiditas circa omnis terras, omnia maria spe lucri ducit; quosdam torquet cupido militiae numquam non aut alienis periculis intentos aut suis anxios; sunt quos ingratus superiorum cultus voluntaria servitute consumat; multos aut affectatio alienae formae aut suae cura detinuit; plerosque nihil certum sequentis vaga et inconstans et sibi displicens levitas per nova consilia iactavit; quibusdam nihil quo cursum derigant placet, sed marcentis oscitantisque fata deprendunt, adeo ut quod apud maximum poetarum more oraculi dictum est erum esse non dubitem: «Exigua pars est vitae qua vivimus». Ceterum quidem omne spatium non vita sed tempus est. Urgent et circumstant vitia undique nec resurgere aut in dispectum veri attollere oculos sinunt. Et immersos et in cupiditiam infixos premunt, numquam illis recurrere ad se licet. Si quando aliqua fortuito quies contigit, velut profundo mari, in quo post ventum quoque volutatio est fluctuantur nec unquam illis a cupiditatibus suis otium stat. De istis me putas dicere, quorum in confesso mala sunt? Aspice illos ad quorum felicitatem concurritur: bonis suis effocantur. Quam multis divitiae graves sunt! Quam multorum eloquentia et cotidiana ostentandi ingenii sollicitatio sanguinem educit! Quam multi continuis voluptatibus pallent! Quam multis nihil liberi reliquint cincumfusus clientium populus! Omnis denique
istos ab infimis usque ad summos pererra: hic advocat, hic adest, ille periclitatur, ille defendit, ille iudicat, nemo se sibi vindicat, alius in alium consumitur. Interroga de istis quorum nomina ediscuntur, his illos dinosci videbit notis: ille illus cultor est, hic illius; suus nemo est. Deinde dementissima quorundam indignatio est: queruntur de superiorum fastidio, quod ipsis adire volentibus non vacaverint! Audet quisquam de alterius superbia queri, qui sibi ipse numquam vacat? Ille tamen te, quisquis es, insolenti quidem vultu sed aliquando respexit, ille aures suas ad tua verba demisit, ille te ad latus suum recepit: tu non inspicere te umquam non audire dignatus es. Non est itaque quod ista officia cuiquam imputes, quoniam quidem, cum illa faceres, non esse cum alio volebas, sed tecum esse non poteras. 3. Omnia licet quae umquam ingenia fulserunt in hoc unum consentiant, numquam satis hanc humanarum mentium caliginem mirabuntur: praedia sua occupari a nullo patiuntur et, si exigua contentio est de modo finium, ad lapides et arma discurrunt; in vitam suam incedere alios sinunt, immo vero ipsi etiam possessores eius futuros inducunt; nemo invenitur qui pecuniam suam dividere velit, vitam unusquisque quam multis distribuit! Adstricti sunt in continendo patrimonio, simul ad iacturam temporis ventum est, profusissimi in eo cuius unius honesta avaritia est. Libet itaque ex seniorum turba comprendere aliquem: «Pervenisse et ad ultimum aetatis humanae videmus, centesimus tibi vel supra premitur annus: agedum ad computationem aetatem tuam revoca. Duc quantum ex isto tempore creditor, quantum amica, quantum rex, quantum cliens abstulerit, quantum lis uxoria, quantum servorum coercitio, quantum officiosa per urbem discursatio; adice morbos quos manu fecimus, adice quod et sine usu iacuit: videbis te pauciores annos habere quam numeras. Repete memoria tecum quando certus consilii fueris, quotus quisque dies ut destinaveras recesserit, quando tibi usus tui fuerit, quando in statu suo vultus, quando animus intrepidus, quid tibi in tam longo aevo facti operis sit, quam multi vitam tuam diripuerint te non sentiente quid perderes, quantum vanus dolor, stulta laetitia, avida cupiditas, blanda conversatio abstulerit, quam exiguum tibi de tuo relictum sit: intelleges te immaturum mori». Quid ergo est in causa? Tamquam semper victuri vivitis, numquam vobis fragilitas vestra succurrit, non observatis quantum iam temporis transierit; velut ex pleno et abundanti perditis, cum interim fortasse ille ipse qui alicui vel homini vel rei donatur dies ultimus sit. Omnia tamquam mortales timetis, omnia tamquam immortales concupiscitis. Audies plerosque dicentes: «A quinquagesimo anno in otium secedam, sexagesimus me annus ab officiis dimittet». Et quem tandem longioris vitae praedem accipis? Quis ista sicut disponis ire patietur? Non pudet te reliquias vitae tibi reservare et id solum tempus bonae menti destinare quod in nullam rem conferri possit? Quam serum est tunc vivere incipere cum desinendum est? Quae tam stulta mortalitatis oblivio in quinquagesimum et sexagesimum annum differre sana consilia et inde velle vitam inchoare quo pauci perduxerunt?
4. Potentissimis et in altum sublatis hominibus excidere voces videbis quibus otium optent, laudent, omnibus bonis suis praeferant. Cupiunt interim ex illo fastigio suo, si tuto liceat, descendere: nam ut nihil extra lacessat aut quatiat, in se ipsa fortuna ruit. Divus Augustus, cui dii plura quam ulli praestiterunt, non desiit quietem sibi precari et vacationem a re publica petere; omnis eius sermo ad hoc semper revolutus est, ut speraret otium: hoc labores suos, etiam si falso, dulci tamen oblectabat solacio, aliquando se victurum sibi. In quadam ad senatum missa epistula, cum requiem suam non vacuam fore dignitatis nec a priore gloria discrepantem pollicitus esset, haec verba inveni: «Sed ista fieri speciosius quam promitti possunt. Me tamen cupido temporis optatissimi mihi provexit, ut quoniam rerum laetitia moratur adhuc, praeciperem aliquid voluptatis ex verborum dulcedine». Tanta visa est res otium, ut illam, quia usu non poterat, cogitatione praesumeret. Qui omnia videbat ex se uno pendentia, qui hominibus gentibusque fortunam dabat, illum diem laetissimus cogitabat quo magnitudinem suam exueret. Expertus erat quantum illa bona per omnis terras fulgentia sudoris exprimerent, quantum occultarum sollicitudinum tegerent: cum civibus primum, deinde cum collegis, novissime cum affinibus coactus annis decernere mari terraque sanguinem fudit. Per Macedoniam, Siciliam, Aegyptum, Syriam Asiamque et omnis prope oras bello circumactus Romana caede lassos exercitus ad externa bella convertit. Dum Alpes pacat immixtosque mediae paci et imperio hostes perdomat, dum ultra Rhenum et Euphraten et Danuvium terminos movet, in ipsa urbe Murenae, Caepionis, Lepidi, Egnati, aliorum in eum mucrones acuebantur. Nondum horum effugerat insidias: filia et tot nobiles iuvenes adulterio velut sacramento adacti iam infractam aetatem territabant Iullusque et iterum timenda cum Antonio mulier. Haec ulcera cum ipsis membris absciderat: alia subnascebantur; velut grave multo sanguine corpus parte semper aliqua rumpebatur. Itaque otium optabat, in huius spe et cogitatione labores eius residebant, hoc votum erat eius qui voti compotes facere poterat. 5. M. Cicero inter Catilinas, Clodios iactatus Pompeiosque et Crassos, partim manifestos inimicos, partim dubios amicos, dum fluctuatur cum re publica et illam pessum euntem tenet, novissime abductus, nec secundis rebus quietus nec adversarum patiens, quotiens illum ipsum consulatum suum non sine causa sed sine fine laudatum detestatur! Quam flebiles voces exprimit in quadam ad Atticum epistula iam victo patre Pompeio, adhuc filio in Hispania facta arma refovente! «Quid agam», inquit, «hic, quaeris? Moror in Tusculano meo semiliber». Alia deinceps adicit, quibus et priorem aetatem complorat et de praesenti queritur et de futura desperat. Semiliberum se dixit Cicero: at me hercules numquam sapiens in tam humile nomen procedet, numquam semiliber erit, integrae semper libertatis et solidae, solutus et sui iuris et altior ceteris. Quid enim supra eum potest esse qui supra fortunam est?
6. Livius Drusus, vir acer et vehemens, cum leges novas et mala Gracchana movisset stipatus ingenti totius Italiae coetu, exitum rerum non pervidens, quas nec agere licebat nec iam liberum erat semel incohatas relinquere, exsecratus inquietam a primordiis vitam dicitur dixisse: uni sibi ne puero quidem umquam ferias contigisse. Ausus est enim et pupillus adhuc et praetextatus iudicibus reos commendare et gratiam suam foro interponere tam efficaciter quidem, ut quaedam iudicia constet ab illo rapta. Quo non erumperet tam immatura ambitio? Scires in malum ingens et privatum et publicum evasuram tam praecoquem audaciam. Sero itaque querebatur nullas sibi ferias contigisse a puero seditiosus et foro gravis. Disputatur an ipse sibi manus attulerit; subito enim vulnere per inguen accepto collapsus est, aliquo dubitante an mors eius voluntaria esset, nullo an tempestiva. Supervacuum est commemorare plures qui, cum aliis felicissimi viderentur, ipsi in se verum testimonium dixerunt perosi omnem actum annorum suorum; sed his querellis nec alios mutaverunt nec se ipsos: nam cum verba eruperunt, affectus ad consuetudinem relabuntur. Vestra me hercules vita, licet supra mille annos exeat, in artissimum contrahetur: ista vitia nullum non saeculum devorabunt; hoc vero spatium, quod quamvis natura currit ratio dilatat, cito vos effugiat necesse est; non enim apprenditis nec retinetis velocissimae omnium rei moram facitis, sed abire ut rem supervacuam ac reparabilem sinitis. 7. In primis autem et illos numero qui nulli rei nisi vino ac libidini vacant; nulli enim turpius occupati sunt. Ceteri, etiam si vana gloriae imagine teneantur, speciose tamen errant; licet avaros mihi, licet iracundos enumeres vel odia exercentes iniusta vel bella, omnes isti virilius peccant: in ventrem ac libidinem proiectorum inhonesta tabes est. Omnia istorum tempora excute, aspice quam diu computent, quam diu insidientur, quam diu timeant, quam diu colant, quam diu colantur, quantum vadimonia sua atque aliena occupent, quantum convivia, quae iam ipsa officia sunt: videbis quemadmodum illos respirare non sinant vel mala sua vel bona. Denique inter omnes convenit nullam rem bene exerceri posse ab homine occupato, non eloquentiam, non liberales disciplinas, quando districtus animus nihil altius recipit sed omnia velut inculcata respuit. Nihil minus est hominis occupati quam vivere: nullius rei difficilior scientia est. Professores aliarum artium vulgo multique sunt, quasdam vero ex his pueri admodum ita percepisse visi sunt, ut etiam praecipere possent: vivere tota vita discendum est et quod magis fortasse miraberis, tota vita discendum est mori. Tot maximi viri, relictis omnibus impedimentis, cum divitiis, officiis, voluptatibus renuntiassent, hoc unum in extremam usque aetatem egerunt ut vivere scirent; plures tamen ex his nondum se scire confessi vita abierunt, nedum ut isti sciant. Magni, mihi crede, et supra humanos errores eminentis viri est nihil ex suo tempore delibari sinere, et ideo eius vita longissima est, quia, quantumcumque patuit, totum ipsi vacavit. Nihil inde incultum otiosumque iacuit, nihil sub alio fuit, neque enim quicquam repperit dignum quod cum tempore suo permutaret custos eius parcissimus. Itaque satis illi fuit: iis vero necesse est defuisse ex quorum vita
multum populus tulit. Nec est quod putes hinc illos aliquando non intellegere damnum suum: plerosque certe audies ex iis quos magna felicitas gravat inter clientium greges aut causarum actiones aut ceteras honestas miserias exclamare interdum: «Vivere mihi non licet». Quidni non liceat? Omnes illi qui te sibi advocant tibi abducunt. Ille reus quot dies abstulit? Quot ille candidatus? Quot illa anus efferendis heredibus lassa? Quot ille ad irritandam avaritiam captantium simulatus aeger? Quot ille potentior amicus, qui vos non in amicitiam sed in apparatum habet? Dispunge, inquam, et recense vitae tuae dies: videbis paucos admodum et reiculos apud te resedisse. Assecutus ille quos optaverat fasces cupit ponere et subinde dicit: «Quando hic annus praeteribit?». Facit ille ludos, quorum sortem sibi obtingere magno aestimavit: «Quando», inquit, «istos effugiam?». Diripitur ibi toto foro patronus et magno concursu omnia ultra quam audiri potest complet: «Quando», inquit, «res proferentur?». Praecipitat quisque vitam suam et futuri desiderio laborat, praesentium taedio. At ille qui nullum non tempus in usus suos confert, qui omnes dies tamquam vitam ordinat, nec optat crastinum nec timet. Quid enim est quod iam ulla hora novae voluptatis possit afferre? Omnia nota, omnia ad satietatem percepta sunt. De cetero fors fortuna ut volet ordinet: vita iam in tuto est. Huic adici potest, detrahi nihil, et adici sic quemadmodum saturo iam ac pleno aliquid cibi: quod nec desiderat capit. Non est itaque quod quemquam propter canos aut rugas putes diu vixisse: non ille diu vixit, sed diu fuit. Quid enim, si illum multum putes navigasse quem saeva tempestas a portu exceptum huc et illuc tulit ac vicibus ventorum ex diverso furentium per eadem spatia in orbem egit? Non ille multum navigavit, sed multum iactatus est. 8. Mirari soleo cum video aliquos tempus petentes et eos qui rogantur facillimos; illud uterque spectat propter quod tempus petitum est, ipsum quidem neuter: quasi nihil petitur, quasi nihil datur. Re omnium pretiosissima luditur; fallit autem illos, quia res incorporalis est, quia sub oculos non venit ideoque vilissima aestimatur, immo paene nullum eius pretium est. Annua, congiaria homines carissime accipiunt et illis aut laborem aut operam aut diligentiam suam locant: nemo aestimat tempus; utuntur illo laxius quasi gratuito. At eosdem aegros vide, si mortis periculum propius admotum est, medicorum genua tangentes, si metuunt capitale supplicium, omnia sua, ut vivant, paratos impendere! Tanta in illis discordia affectuum est! Quodsi posset quemadmodum praeteritorum annorum cuiusque numerus proponi, sic futurorum, quomodo illi qui paucos viderent superesse trepidarent, quomodo illis parcerent! Atqui facile est quamvis exiguum dispensare quod certum est; id debet servari diligentius quod nescias quando deficiat. Nec est tamen quod putes illos ignorare quam cara res sit: dicere solent eis quos valdissime diligunt paratos se partem annorum suorum dare: dant nec intellegunt: dant autem ita ut sine illorum incremento sibi detrahant. Sed hoc ipsum an detrahant nesciunt; ideo tolerabilis est illis iactura detrimenti latentis. Nemo restituet annos, nemo iterum te tibi reddet. Ibit qua
coepit aetas nec cursum suum aut revocabit aut supprimet; nihil tumultuabitur, nihil admonebit velocitatis suae: tacita labetur. Non illa se regis imperio, non favore populi longius proferet: sicut missa est a primo die, curret, nusquam devertetur, nusquam remorabitur. Quid fiet? Tu occupatus es, vita festinat; mors interim aderit, cui velis nolis vacandum est. 9. Potestne quicquam stultius esse quam quorundam sensus, hominum eorum dico qui prudentiam iactant? Operosius occupati sunt. Ut melius possint vivere, impendio vitae vitam instruunt. Cogitationes suas in longum ordinant; maxima porro vitae iactura dilatio est: illa primum quemque extrahit diem, illa eripit praesentia dum ulteriora promittit. Maximum vivendi impedimentum est exspectatio, quae pendet ex crastino, perdit hodiernum. Quod in manu fortunae positum est disponis, quod in tua, dimittis. Quo spectas? Quo te extendis? Omnia quae ventura sunt in incerto iacent: protinus vive. Clamat ecce maximus vates et velut divino horrore instinctus salutare carmen canit: Optima quaeque dies miseris mortalibus aevi prima fugit. «Quid cunctaris?», inquit, «Quid cessas? Nisi occupas, fugit». Et cum occupaveris, tamen fugiet: itaque cum celeritate temporis utendi velocitate certandum est et velut ex torrenti rapido nec semper ituro cito hauriendum. Hoc quoque pulcherrime ad exprobrandam infinitam cogitationem quod non optimam quamque aetatem sed diem dicit. Quid securus et in tanta temporum fuga lentus menses tibi et annos in longam seriem, utcumque aviditati tuae visum est, exporrigis? De die tecum loquitur et de hoc ipso fugiente. Num dubium est ergo quin prima quaeque optima dies fugiat mortalibus miseris, id est occupatis? Quorum puerilis adhuc animos senectus opprimit, ad quam imparati inermesque perveniunt; nihil enim provisum est: subito in illam necopinantes inciderunt, accedere eam cotidie non sentiebant. Quemadmodum aut sermo aut lectio aut aliqua intentior cogitatio iter facientis decipit et pervenisse ante sciunt quam appropinquasse, sic hoc iter vitae assiduum et citatissimum quod vigilantes dormientesque eodem gradu facimus occupatis non apparet nisi in fine. 10. Quod proposui si in partes velim et argumenta diducere, multa mihi occurrent per quae probem brevissimam esse occupatorum vitam. Solebat dicere Fabianus, non ex his cathedrariis philosophis, sed ex veris et antiquis, «contra affectus impetu, non subtilitate pugnandum, nec minutis vulneribus sed incursu avertendam aciem». Non probabat cavillationes: «enim contundi debere, non vellicari». Tamen, ut illis error exprobretur suus, docendi non tantum deplorandi sunt. In tria tempora vita dividitur: quod fuit, quod est, quod futurum est. Ex his quod agimus breve est, quod acturi sumus dubium, quod egimus certum. Hoc est enim in quod fortuna ius perdidit, quod in nullius arbitrium reduci potest. Hoc
amittunt occupati; nec enim illis vacat praeterita respicere, et si vacet iniucunda est paenitendae rei recordatio. Inviti itaque ad tempora male exacta animum revocant nec audent ea retemptare quorum vitia, etiam quae aliquo praesentis voluptatis lenocinio surripiebantur, retractando patescunt. Nemo, nisi quoi omnia acta sunt sub censura sua, quae numquam fallitur, libenter se in praeteritum retorquet; ille qui multa ambitiose concupiit superbe contempsit, impotenter vicit, insidiose decepit, avare rapuit prodige effudit, necesse est memoriam suam timeat. Atqui haec est pars temporis nostri sacra ac dedicata, omnis humanos casus supergressa, extra regnum fortunae subducta, quam non inopia, non metus, non morborum incursus exagitet; haec nec turbari nec eripi potest; perpetua eius et intrepida possessio est. Singuli tantum dies, et hi per momenta, praesentes sunt; at praeteriti temporis omnes, cum iusseritis, aderunt, ad arbitrium tuum inspici se ac detineri patientur, quod facere occupatis non vacat. Securae et quietae mentis est in omnes vitae suae partes discurrere; occupatorum animi, velut sub iugo sint, flectere se ac respicere non possunt. Abit igitur vita eorum in profundum; et ut nihil prodest, licet quantumlibet ingeras, si non subest quod excipiat ac servet, sic nihil refert quantum temporis detur, si non est ubi subsidat: per quassos foratosque animos transmittitur. Praesens tempus brevissimum est, adeo quidem ut quibusdam nullum videatur; in cursu enim semper est, fluit et praecipitatur; ante desinit esse quam venit, nec magis moram patitur quam mundus aut sidera, quorum irrequieta semper agitatio numquam in eodem vestigio manet. Solum igitur ad occupatos praesens pertinet tempus, quod tam breve est ut arripi non possit, et id ipsum illis districtis in multa subducitur. 11. Denique vis scire quam non diu vivant? Vide quam cupiant diu vivere. Decrepiti senes paucorum annorum accessionem votis mendicant: minores natu se ipsos esse fingunt; mendacio sibi blandiuntur et tam libenter se fallunt quam si una fata decipiant. Iam vero cum illos aliqua imbecillitas mortalitatis admonuit, quemadmodum paventes moriuntur, non tamquam exeant de vita sed tamquam extrahantur. Stultos se fuisse ut non vixerint clamitant et, si modo evaserint ex illa valetudine, in otio victuros; tunc quam frustra paraverint quibus non fruerentur, quam in cassum omnis ceciderit labor cogitant. At quibus vita procul ab omni negotio agitur, quidni spatiosa sit? Nihil ex illa delegatur, nihil alio atque alio spargitur, nihil inde fortunae traditur, nihil neglegentia interit, nihil largitione detrahitur, nihil supervacuum est: tota, ut ita dicam, in reditu est. Quantulacumque itaque abunde sufficit, et ideo, quandoque ultimus dies venerit, non cunctabitur sapiens ire ad mortem certo gradu. 12. Quaeris fortasse quos occupatos vocem? Non est quod me solos putes dicere quos a basilica immissi demum canes eiciunt, quos aut in sua vides turba speciosius elidi aut in aliena contemptius, quos officia domibus suis evocant ut alienis foribus illidant, aut hasta praetoris infami lucro et quandoque suppuraturo exercet. Quorundam otium occupatum est: in villa aut in lecto suo, in media
solitudine, quamvis ab omnibus recesserint, sibi ipsi molesti sunt: quorum non otiosa vita dicenda est sed desidiosa occupatio. Illum tu otiosum vocas qui Corinthia, paucorum furore pretiosa, anxia subtilitate concinnat et maiorem dierum partem in aeruginosis lamellis consumit? Qui in ceromate (nam, pro facinus! ne Romanis quidem vitiis laboramus) spectator puerorum rixantium sedet? Qui iumentorum suorum greges in aetatum et colorum paria diducit? Qui athletas novissimos pascit? Quid? Illos otiosos vocas quibus apud tonsorem multae horae transmittuntur, dum decerpitur si quid proxima nocte succrevit, dum de singulis capillis in consilium itur, dum aut disiecta coma restituitur aut deficiens hinc atque illinc in frontem compellitur? Quomodo irascuntur, si tonsor paulo neglegentior fuit, tamquam virum tonderet! Quomodo excandescunt si quid ex iuba sua decisum est, si quid extra ordinem iacuit, nisi omnia in anulos suos reciderunt! Quis est istorum qui non malit rem publicam turbari quam comam suam? Qui non sollicitior sit de capitis sui decore quam de salute? Qui non comptior esse malit quam honestior? Hos tu otiosos vocas inter pectinem speculumque occupatos? Quid illi qui in componendis, audiendis, discendis canticis operati sunt, dum vocem, cuius rectum cursum natura et optimum et simplicissimum fecit, in flexus modulationis inertissimae torquent, quorum digiti aliquod intra se carmen metientes semper sonant, quorum, cum ad res serias, etiam saepe tristes adhibiti sunt, exauditur tacita modulatio? Non habent isti otium, sed iners negotium. Convivia me hercules horum non posuerim inter vacantia tempora, cum videam quam solliciti argentum ordinent, quam diligenter exoletorum suorum tunicas succingant, quam suspensi sint quomodo aper a coco exeat, qua celeritate signo dato glabri ad ministeria discurrant, quanta arte scindantur aves in frusta non enormia, quam curiose infelices pueruli ebriorum sputa detergeant: ex his elegantiae lautitiaeque fama captatur et usque eo in omnes vitae secessus mala sua illos sequuntur, ut nec bibant sine ambitione nec edant. Ne illos quidem inter otiosos numeraveris qui sella se et lectica huc et illuc ferunt et ad gestationum suarum, quasi deserere illas non liceat, horas occurrunt, quos quando lavari debeant, quando natare, quando cenare alius admonet: usque eo nimio delicati animi languore solvuntur, ut per se scire non possint an esuriant. Audio quendam ex delicatis (si modo deliciae vocandae sunt vitam et consuetudinem humanam dediscere), cum ex balneo inter manus elatus et in sella positus esset, dixisse interrogando: «Iam sedeo?». Hunc tu ignorantem an sedeat putas scire an vivat, an videat, an otiosus sit? Non facile dixerim utrum magis miserear, si hoc ignoravit an si ignorare se finxit. Multarum quidem rerum oblivionem sentiunt, sed multarum et imitantur; quaedam vitia illos quasi felicitatis argumenta delectant; nimis humilis et contempti hominis videtur scire quid facias: i nunc et mimos multa mentiri ad exprobrandam luxuriam puta. Plura me hercules praetereunt quam fingunt et tanta incredibilium vitiorum copia ingenioso in hoc unum saeculo processit, ut iam mimorum arguere possimus neglegentiam. Esse aliquem qui usque eo deliciis interierit ut an sedeat alteri credat! Non est ergo hic otiosus, aliud illi nomen imponas; aeger est, immo
mortuus est; ille otiosus est cui otii sui et sensus est. Hic vero semivivus, cui ad intellegendos corporis sui habitus indice opus est, quomodo potest hic ullius temporis dominus esse? 13. Persequi singulos longum est quorum aut latrunculi aut pila aut excoquendi in sole corporis cura consumpsere vitam. Non sunt otiosi quorum voluptates multum negotii habent. Nam de illis nemo dubitabit quin operose nihil agant, qui litterarum inutilium studiis detinentur, quae iam apud Romanos quoque magna manus est. Graecorum iste morbus fuit quaerere quem numerum Ulixes remigum habuisset, prior scripta esset Ilias an Odyssia, praeterea an eiusdem esset auctoris, alia deinceps huius notae, quae sive contineas nihil tacitam conscientiam iuvant, sive proferas non doctior videaris sed molestior. Ecce Romanos quoque invasit inane studium supervacua discendi; his diebus audivi quendam referentem quae primus quisque ex Romanis ducibus fecisset: primus navali proelio Duilius vicit, primus Curius Dentatus in triumpho duxit elephantos. Etiamnunc ista, etsi ad veram gloriam non tendunt, circa civilium tamen operum exempla versantur; non est profutura talis scientia. Est tamen quae nos speciosa rerum vanitate detineat. Hoc quoque quaerentibus remittamus quis Romanis primus persuaserit navem conscendere (Claudius is fuit, Caudex ob hoc ipsum appellatus quia plurium tabularum contextus caudex apud antiquos vocatur, unde publicae tabulae codices dicuntur etnaves nunc quoque ex antiqua consuetudine quae commeatus per Tiberim subvehunt codicariae vocantur); sane et hoc ad rem pertineat, quod Valerius Corvinus primus Messanam vicit et primus ex familia Valeriorum, urbis captae in se translato nomine, Messana appellatus est paulatimque vulgo permutante litteras Messala dictus: num et hoc cuiquam curare permittes quod primus L. Sulla in circo leones solutos dedit, cum alioquin alligati darentur, ad conficiendos eos missis a rege Boccho iaculatoribus? Et hoc sane remittatur: num et Pompeium primum in circo elephantorum duodeviginti pugnam edidisse commissis more proelii noxiis hominibus, ad ullam rem bonam pertinet? Princeps civitatis et inter antiquos principes (ut fama tradit) bonitatis eximiae memorabile putavit spectaculi genus novo more perdere homines. Depugnant? Parum est. Lancinatur? Parum est: ingenti mole animalium exterantur! Satius erat ista in oblivionem ire, ne quis postea potens disceret invideretque rei minime humanae. O quantum caliginis mentibus nostris obicit magna felicitas! Ille se supra rerum naturam esse tunc credidit, cum tot miserorum hominum catervas sub alio caelo natis beluis obiceret, cum bellum inter tam disparia animalia committeret, cum in conspectum populi Romani multum sanguinis funderet mox plus ipsum fundere coacturus; at idem postea Alexandrina perfidia deceptus ultimo mancipio transfodiendum se praebuit, tum demum intellecta inani iactatione cognominis sui. Sed, ut illo revertar unde decessi et in eadem materia ostendam supervacuam quorundam diligentiam, idem narrabat Metellum, victis in Sicilia Poenis triumphantem, unum omnium Romanorum ante currum centum et viginti captivos elephantos duxisse; Sullam ultimum Romanorum protulisse
pomerium quod numquam provinciali sed Italico agro adquisito proferre moris apud antiquos fuit. Hoc scire magis prodest quam Aventinum montem extra pomerium esse, ut ille affirmabat, propter alteram ex duabus causis, aut quod plebs eo secessisset aut quod Remo auspicante illo loco aves non addixissent, alia deinceps innumerabilia quae aut farta sunt mendaciis aut similia? Nam ut concedas omnia eos fide bona dicere, ut ad praestationem scribant, tamen cuius ista errores minuent? Cuius cupiditates prement? Quem fortiorem, quem iustiorem, quem liberaliorem facient? Dubitare se interim Fabianus noster aiebat an satius esset nullis studiis admoveri quam his implicari. 14. Soli omnium otiosi sunt qui sapientiae vacant, soli vivunt; nec enim suam tantum aetatem bene tuentur: omne aevum suo adiciunt; quicquid annorum ante illos actum est, illis adquisitum est. Nisi ingratissimi sumus, illi clarissimi sacrarum opinionum conditores nobis nati sunt, nobis vitam praeparaverunt. Ad res pulcherrimas ex tenebris ad lucem erutas alieno labore deducimur; nullo nobis saeculo interdictum est, in omnia admittimur et, si magnitudine animi egredi humanae imbecillitatis angustias libet, multum per quod spatiemur temporis est. Disputare cum Socrate licet, dubitare cum Carneade, cum Epicuro quiescere, hominis naturam cum Stoicis vincere, cum Cynicis excedere. Cum rerum natura in consortium omnis aevi patiatur incedere, quidni ab hoc exiguo et caduco temporis transitu in illa toto nos demus animo quae immensa, quae aeterna sunt, quae cum melioribus communia? Isti qui per officia discursant, qui se aliosque inquietant, cum bene insanierint, cum omnium limina cotidie perambulaverint nec ullas apertas fores praeterierint, cum per diversissimas domos meritoriam salutationem circumtulerint, quotum quemque ex tam immensa et variis cupiditatibus districta urbe poterunt videre? Quam multi erunt quorum illos aut somnus aut luxuria aut inhumanitas summoveat! Quam multi qui illos, cum diu torserint, simulata festinatione transcurrant! Quam multi per refertum clientibus atrium prodire vitabunt et per obscuros aedium aditus profugient, quasi non inhumanius sit decipere quam excludere! Quam multi hesterna crapula semisomnes et graves illis miseris suum somnum rumpentibus ut alienum exspectent, vix allevatis labris insusurratum miliens nomen oscitatione superbissima reddent! Hos in veris officiis morari putamus, licet dicant, qui Zenonem, qui pythagoran cotidie et Democritum ceterosque antistites bonarum artium, qui Aristotelen et Theophrastum volent habere quam familiarissimos. Nemo horum non vacabit, nemo non venientem ad se beatiorem, amantiorem sui dimittet, nemo quemquam vacuis a se manibus abire patietur; nocte conveniri, interdiu ab omnibus mortalibus possunt. 15. Horum te mori nemo coget, omnes docebunt; horum nemo annos tuos conterit, suos tibi contribuit; nullius ex his senno periculosus erit, nullius amicitia capitalis, nullius sumptuosa observatio. Feres ex illis quicquid voles; per illos non stabit quominus quantum plurimum cupieris haurias. Quae illum felicitas,
quam pulchra senectus manet, qui se in horum clientelam contulit! Habebit cum quibus de minimis maximisque rebus deliberet, quos de se cotidie consulat, a quibus audiat verum sine contumelia, laudetur sine adulatione, ad quorum se similitudinem effingat. Solemus dicere non fuisse in nostra potestate quos sortiremur parentes, forte nobis datos: nobis vero ad suum arbitrium nasci licet. Nobilissimorum ingeniorum familiae sunt: elige in quam adscisci velis; non in nomen tantum adoptaberis, sed in ipsa bona, quae non erunt sordide nec maligne custodienda: maiora fient quo illa pluribus diviseris. Hi tibi dabunt ad aeternitatem iter et te in illum locum ex quo nemo deicitur sublevabunt. Haec una ratio est extendendae mortalitatis, immo in immortalitatem vertendae. Honores, monumenta, quicquid aut decretis ambitio iussit aut operibus exstruxit cito subruitur, nihil non longa demolitur vetustas et movet; at iis quae consecravit sapientia nocere non potest; nulla abolebit aetas, nulla deminuet; sequens ac deinde semper ulterior aliquid ad venerationem conferet, quoniam quidem in vicino versatur invidia, simplicius longe posita miramur. Sapientis ergo multum patet vita; non idem illum qui ceteros terminus cludit; solus generis humani legibus solvitur omnia illi saecula ut deo serviunt. Transiit tempus aliquod? Hoc recordatione comprendit; instat? Hoc utitur; venturum est? Hoc praecipit. Longam illi vitam facit omnium temporum in unum collatio. 16. Illorum brevissima ac sollicitissima aetas est qui praeteritorum obliviscuntur, praesentia neglegunt, de futuro timent: cum ad extrema venerunt, sero intellegunt miseri tam diu se dum nihil agunt occupatos fuisse. Nec est quod hoc argumento probari putes longam illos agere vitam, quia interdum mortem invocant: vexat illos imprudentia incertis affectibus et incurrentibus in ipsa quae metuunt; mortem saepe ideo optant quia timent. Illud quoque argumentum non est quod putes diu viventium, quod saepe illis longus videtur dies, quod, dum veniat condictum tempus cenae tarde ire horas queruntur; nam si quando illos deseruerunt occupationes, in otio relicti aestuant nec quomodo id disponant ut extrahant sciunt. Itaque ad occupationem aliquam tendunt et, quod interiacet omne tempus grave est, tam me hercules quam cum dies muneris gladiatorii edictus est, aut cum alicuius alterius vel spectaculi vel voluptatis expectatur constitutum, transilire medios dies volunt. Omnis illis speratae rei longa dilatio est: at illud tempus quod amant breve est et praeceps breviusque multo suo vitio; aliunde enim alio transfugiunt et consistere in una cupiditate non possunt. Non sunt illis longi dies, sed invisi; at contra quam exiguae noctes videntur, quas in complexu scortorum aut vino exigunt! Inde etiam poetarum furor fabulis humanos errores alentium, quibus visus est Iuppiter voluptate concubitus delenitus duplicasse noctem; quid aliud est vitia nostra incendere quam auctores illis inscribere deos et dare morbo exemplo divinitatis excusatam licentiam? Possunt istis non brevissimae videri noctes quas tam care mercantur? Diem noctis exspectatione perdunt, noctem lucis metu.
17. Ipsae voluptates eorum trepidae et variis terroribus inquietae sunt subitque cum maxime exsultantis sollicita cogitatio: «Haec quam diu?». Ab hoc affectu reges suam flevere potentiam, nec illos magnitudo fortunae suae delectavit, sed venturus aliquando finis exterruit. Cum per magna camporum spatia porrigeret exercitum nec numerum eius sed mensuram comprenderet Persarum rex insolentissimus lacrimas profudit, quod intra centum annos nemo ex tanta iuventute superfuturus esset; at illis admoturus erat fatum ipse qui flebat perditurusque alios in mari alios in terra, alios proelio alios fuga, et intra exiguum tempus consumpturus illos quibus centesimum annum timebat. Quid quod gaudia quoque eorum trepida sunt? Non enim solidis causis innituntur, sed eadem qua oriuntur vanitate turbantur. Qualia autem putas esse tempora etiam ipsorum confessione misera, cum haec quoque quibus se at tollunt et super hominem efferunt parum sincera sint? Maxima quaeque bona sollicita sunt nec ulli fortunae minus bene quam optimae creditur; alia felicitate ad tuendam felicitatem opus est et pro ipsis quae successere votis vota facienda sunt. Omne enim quod fortuito obvenit instabile est: quod altius surrexerit, opportunius est in occasum. Neminem porro casura delectant; miserrimam ergo necesse est, non tantum brevissimam vitam esse eorum qui magno parant labore quod maiore possideant. Operose assequuntur quae volunt, anxii tenent quae assecuti sunt; nulla interim numquam amplius redituri temporis ratio est: novae occupationes veteribus substituuntur, spes spem excitat, ambitionem ambitio. Miseriarum non finis quaeritur, sed materia mutatur. Nostri nos honores torserunt? Plus temporis alieni auferunt; candidati laborare desiimus? Suffragatores incipimus; accusandi deposuimus molestiam? Iudicandi nanciscimur; iudex desiit esse? Quaesitor est; alienorum bonorum mercennaria procuratione consenuit? Suis opibus distinetur. Marium caliga dimisit? Consulatus exercet; Quintius dictaturam properat pervadere? Ab aratro revocabitur. Ibit in Poenos nondum tantae maturus rei Scipio; victor Hannibalis victor Antiochi, sui consulatus decus fraterni sponsor, ni per ipsum mora esset, cum Iove reponeretur: civiles servatorem agitabunt seditiones et post fastiditos a iuvene diis aequos honores iam senem contumacis exilii delectabit ambitio. Numquam derunt vel felices vel miserae sollicitudinis causae; per occupationes vita trudetur; otium numquam agetur, semper optabitur. 18. Excerpe itaque te vulgo, Pauline carissime, et in tranquilliorem portum non pro aetatis spatio iactatus tandem recede. Cogita quot fluctus subieris, quot tempestates partim privatas sustinueris, partim publicas in te converteris; satis iam per laboriosa et inquieta documenta exhibita virtus est; experire quid in otio faciat. Maior pars aetatis, certe melior rei publicae datast: aliquid temporis tui sume etiam tibi. Nec te ad segnem aut inertem quietem voco, non ut somno et caris turbae voluptatibus quicquid est in te indolis vividae mergas; non est istud adquiescere: invenies maiora omnibus adhuc strenue tractatis operibus, quae repositus et securus agites. Tu quidem orbis terrarum rationes administras tam abstinenter quam alienas, tam diligenter quam tuas, tam religiose quam publicas.
In officio amorem consequeris, in quo odium vitare difficile est; sed tamen, mihi crede, satius est vitae suae rationem quam frumenti publici nosse. Istum animi vigorem rerum maximarum capacissimum a ministerio honorifico quidem sed parum ad beatam vitam apto revoca, et cogita non id egisse te ab aetate prima omni cultu studiorum liberalium ut tibi multa milia frumenti bene committerentur; maius quiddam et altius de te promiseras. Non derunt et frugalitatis exactae homines et laboriosae operae; tanto aptiora portandis oneribus tarda iumenta sunt quam nobiles equi, quorum generosam pernicitatem quis umquam gravi sarcina pressit? Cogita praeterea quantum sollicitudinis sit ad tantam te molem obicere: cum ventre tibi humano negotium est; nec rationem patitur nec aequitate mitigatur nec ulla prece flectitur populus esuriens. Modo modo intrapaucos illos dies quibus C. Caesar periit (si quis inferis sensus est); hoc gravissime ferens quod decedebat populo Romano superstite; septem aut octo certe dierum cibaria superesse! Dum ille pontes navibus iungit et viribus imperi ludit, aderat ultimum malorum obsessis quoque, alimentorum egestas; exitio paene ac fame constitit et, quae famem sequitur, rerum omnium ruina furiosi et externi et infeliciter superbi regis imitatio. Quem tunc animum habuerunt illi quibus erat mandata frumenti publici cura, saxa, ferrum, ignes, Gaium excepturi? Summa dissimulatione tantum inter viscera latentis mali tegebant, cum ratione scilicet: quaedam enim ignorantibus aegris curanda sunt, causa multis moriendi fuit morbum suum nosse. 19. Recipe te ad haec tranquilliora, tutiora, maiora! Simile tu putas esse, utrum cures ut incorruptum et a fraude advehentium et a neglegentia frumentum transfundatur in horrea, ne concepto umore vitietur et concalescat, ut ad mensuram pondusque respondeat, an ad haec sacra et sublimia accedas sciturus quae materia sit dei, quae voluntas quae condicio, quae forma, quis animum tuum casus exspectet ubi nos a corporibus dimissos natura componat; quid sit quod huius mundi gravissima quaeque in medio sustineat, supra levia suspendat, in summum ignem ferat, sidera vicibus suis excitet; cetera deinceps ingentibus plena miraculis? Vis tu relicto solo mente ad ista respicere! Nunc, dum calet sanguis, vigentibus ad meliora eundum est. Exspectat te in hoc genere vitae multum bonarum artium, amor virtutum atque usus, cupiditatum oblivio, vivendi ac moriendi scientia, alta reum quies. 20. Omnium quidem occupatorum condicio misera est, eorum tamen miserrima, qui ne suis quidem laborant occupationibus, ad alienum dormiunt somnum, ad alienum ambulant gradum, amare et odisse, res omnium liberrimas, iubentur. Hi si volent scire quam brevis ipsorum vita sit, cogitent ex quota parte sua sit, Cum videris itaque praetextam saepe iam sumptam, cum celebre in foro nomen, ne invideris: ista vitae damno parantur. Ut unus ab illis numeretur annus, omnis annos suos conterent, Quosdam antequam in summum ambitionis eniterentur, inter prima luctantis aetas reliquit; quosdam, cum in consummationem dignitatis per mille indignitates erepsissent, misera subiit cogitatio laborasse
ipsos in titulum sepulcri; quorundam ultima senectus dum in novas spes ut iuventa disponitur, inter conatus magnos et improbos invalida defecit. Foedus ille quem in iudicio pro ignotissimis litigatoribus grandem natu et imperitae coronae assensiones captantem spiritus liquit; turpis ille qui vivendo lassus citius quam laborando inter ipsa officia collapsus est; turpis quem accipiendis immorientem rationibus diu tractus risit heres. Praeterire quod mihi occurrit exemplum non possum: Turannius fuit exactae diligentiae senex, qui post annum nonagesimum, cum vacationem procurationis ab C. Caesare ultro accepisset, componi se in lecto et velut exanimem a circumstante familia plangi iussit. Lugebat domus otium domini senis nec finivit ante tristitiam quam labor illi suus restitutus est. Adeone iuvat occupatum mori? Idem plerisque animus est; diutius cupiditas illis laboris quam facultas est; cum imbecillitate corporis pugnant, senectutem ipsam nullo alio nomine gravem iudicant quam quod illos seponit. Lex a quinquagesimo anno militem non legit, a sexagesimo senatorem non citat: difficilius homines a se otium impetrant quam a lege. Interim dum rapiuntur et rapiunt; dum alter alterius quietem rumpit, dum mutuo miseri sunt, vita est sine fructu, sine voluptate, sine ullo profectu animi; nemo in conspicuo mortem habet, nemo non procul spes intendit, quidam vero disponunt etiam illa quae ultra vitam sunt, magnas sepulcrorum et operum publicorum dedicationes et ad rogum munera et ambitiosas exsequias. At me hercules istorum funera, tamquam minimum vixerint, ad faces et cereos ducenda sunt.
Come vivere a lungo
Premessa Nel De brevitate vitae – dedicato a Paolino (forse il padre della sua seconda moglie, praefectus annonae, cioè sovrintendente agli approvvigionamenti) e composto secondo alcuni fra il 49 e il 50, dopo il ritorno dall’esilio, secondo altri verso il 62, dopo il ritiro dalla vita politica – Seneca nega che la vita sia breve, sostenendo che essa appare tale a chi non ne fa buon uso, ma che in effetti è satis longa, abbastanza lunga, anzi, large data, anche troppo abbondante, per coloro che sanno spenderla bene. E precisa che siamo noi che rendiamo breve la vita, impegnando in attività pubbliche o private e dedicando agli altri quel tempo che dovremmo invece dedicare a noi stessi. Torna il tema dell’ otium, della vita meditativa, la quale, mentre nel De otio costituisce un’alternativa a quella attiva, qui risulta essere l’unica ed esclusiva via per vivere una vita lunga e spesa bene. Il dialogo sembra un elogio dell’egoismo. «Tutti quelli che ti chiamano in loro aiuto ti allontanano da te», dice Seneca, e ci presenta il prossimo come una massa di ladri che «ci derubano del nostro tempo». Sembra che per Seneca qualunque attività svolta al servizio degli altri sia inutile, se definisce «miserie» (per quanto «decorose», VII, 6) persino i processi, cioè la professione di avvocato. Certo, la vita dev’essere spesa bene, perché il tempo è denaro, e Seneca, con l’aria più di un ragioniere che di un filosofo, fa il conto di tutti i pezzetti di tempo, sprecati, che diamo agli altri e sottraiamo a noi, concludendo che anche morendo centenari in realtà non viviamo che pochi anni e che riserviamo a noi stessi gli scarti, i rimasugli della nostra vita. In sostanza Seneca non fa che ripetere lo stesso concetto, che la vita non è breve e che bisogna spenderla a nostro esclusivo uso e consumo, e ciò allungando il discorso con digressioni lunghe e inutili, che allontanano dal tema e fanno perdere il filo. Ma gli faremmo un torto se non riconoscessimo che in questo dialogo non mancano delle belle pagine, quali quelle sugli affaccendati, che ci offrono il quadro come di un grande circo in cui si esibiscono nelle loro varie specialità gli acrobati della vita, dai più ai meno impegnati, dai più ai meno spericolati, tutti lì a mettere in mostra le loro capacità. E però su di loro non si stende un sorriso bonario, di comprensione, d’indulgenza e d’amore, e la satira, se c’è, è più vicina al disprezzo, è un sarcasmo pungente, che suona solo biasimo e condanna. Quanto allo stile, anche qui, forse più accentuati, gli stessi inconvenienti, che, a voler offrire una visione chiara, pulita e precisa del testo, inducono ad andare al di là di una semplice traduzione letterale. Valga un esempio per tutti: l’espressione nobis vero ad suum arbitrium nasci licet non può essere tradotta «a noi (virtuosi) è lecito nascere come vogliamo», o «gli uomini buoni hanno la facoltà di nascere per propria scelta»; il senso è che «chi segue la virtù può eleggere a suoi genitori chiunque voglia». Non inorridiscano dunque gli esperti se ci siamo permessi certe libertà, in questa come nelle altre traduzioni di Seneca. M. S. A.
1. La maggior parte degli uomini, o Paolino, rimprovera alla natura di essere stata avara con noi per averci dato una vita così breve e così veloce che, salvo pochissime eccezioni, ci abbandona proprio mentre ci accingiamo a sperimentarla. Questo fatto, che tutti considerano una disgrazia, provoca il risentimento e le lamentele non solo del volgo ignorante ma persino di uomini colti e famosi, che hanno la medesima sensazione della gente comune. Da qui quel celebre detto di Ippocrate1 il più grande dei medici: «La vita è breve, l’arte è lunga». Da qui l’accusa – sciocca per un sapiente – che Aristotele mosse alla natura, rimproverandole di essere stata tanto generosa con gli animali da
consentir loro un’esistenza lunga anche più di cinque o dieci generazioni delle nostre e di aver dato all’uomo, che pur ha destinato a imprese tanto grandi e numerose, un periodo assai più corto.2 Ma il tempo che ci è stato assegnato non è poco, di per sé, siamo noi che ne perdiamo molto. La vita è sufficientemente lunga, anzi più che abbondante anche per realizzare le più grandi e difficili imprese, purché si sappia spenderla bene dall’inizio alla fine. Ma quando la passiamo fra gli agi e l’indolenza o non la utilizziamo per niente di buono e vantaggioso, giunti alla resa dei conti, mentre prima non la sentivamo nemmeno scorrere, allora sì ci sembra che sia volata in un lampo. È proprio così: la nostra vita non è breve, siamo noi che la rendiamo tale; non è che lei sia tirchia, siamo noi che la dissipiamo. Come immense e regali ricchezze, se capitano in mano di un cattivo padrone, spariscono in un battibaleno, mentre capitali anche modesti, se affidati a un buon amministratore, aumentano, per gli utili che se ne sanno trarre, così la nostra vita riesce molto lunga a chi sa farla fruttare. 2. Perché dunque ci lamentiamo della natura? Lei si è comportata bene con noi, ci ha dato una vita lunga, se sappiamo spenderla bene. Senonché accade che uno non è mai sazio di niente, un altro si applica con frenetica operosità a lavori superflui, un altro ancora si sbronza dalla mattina alla sera, e c’è chi è intorpidito dall’inerzia, chi si macera per l’ambizione, sempre condizionata ai giudizi degli altri, chi smania per il commercio e va in giro per terre e per mari nella speranza di far quattrini; alcuni, spiriti bellicosi, sono sempre attenti ai pericoli del prossimo o preoccupati dei propri, altri si consumano in una volontaria schiavitù, adulando i loro superiori senza ricavarne la minima gratitudine, molti sono presi dalla bellezza altrui o si danno pensiero della propria; parecchi, poi, non avendo uno scopo preciso, incostanti e scontenti di sé stessi, passano da un proposito all’altro senza concludere niente, oppure vagano a caso, insoddisfatti di tutto, sì che la morte alla fine li coglie così spossati e pieni di sonno che mi sembra verissimo quanto, a mo’ d’un oracolo, dice il sommo poeta, che cioè «Noi viviamo veramente solo una piccola parte della nostra vita»:3 tutto il resto, infatti, non è un vivere ma un passare il tempo. I vizi incalzano e ci aggrediscono da ogni parte, né ci consentono di sollevarci e alzare gli occhi alla luce del vero. Essi opprimono a tal punto coloro che sono immersi e tesi nelle proprie passioni che non gli permettono di tornare in sé stessi, e se mai hanno un minuto di respiro, costoro continuano a ondeggiare, come fa il mare profondo, dove, anche quando il vento è cessato, le acque restano agitate. Non c’è tregua alle loro passioni. E non parlo di quelli i cui mali sono evidenti e sotto gli occhi di tutti, ma di coloro che richiamano gente intorno a sé perché ritenuti felici, mentre in realtà sono soffocati dai loro stessi beni. A quanti non sono di peso le ricchezze! A quanti ancora l’eloquenza e la continua preoccupazione di mettere in mostra il proprio ingegno non fanno sputar sangue! Alcuni diventano addirittura cadaverici per i continui piaceri e altri non hanno più un briciolo di libertà, attorniati come sono quotidianamente dalla folla
incalzante dei clienti. Ebbene, passali in rassegna tutti costoro, dai più umili ai più potenti; uno fa l’avvocato, un altro lo cerca, questo è accusato, quello lo difende e quell’altro lo giudica: nessuno è libero di badare a sé stesso ma ognuno si dà da fare e si consuma per un altro. Prendi quei personaggi dai nomi altisonanti, informati su di loro e vedrai che ciò che li distingue è il fatto che ciascuno di loro si dedica a un altro, ma nessuno di essi si appartiene, nessuno è padrone di sé stesso. È dunque irragionevole chi s’indigna e si duole perché il suo superiore non si cura di lui né trova il tempo di riceverlo quando chiede di parlargli: con quale coraggio si lamenta del disinteresse che gli dimostra il suo capo se lui non ha neppure un momentino da dedicare a sé stesso? Quello, almeno, sia pure con fare sprezzante, qualche occhiata gliela lancia, ascolta la sua voce, lascia persino che gli cammini al fianco, mentre lui non si degna e non si è mai degnato d’intrattenersi un poco con sé stesso, di guardarsi dentro, di ascoltarsi. Non possiamo dunque pretendere che gli altri si occupino di noi, dal momento che quando noi ci occupiamo degli altri lo facciamo unicamente perché non sappiamo o non vogliamo prenderci cura di noi stessi. 3. I più splendidi ingegni del passato, per quanto concordino tutti su questo argomento e lo diano per scontato, non finirebbero mai di stupirsene e di rilevare con meraviglia quanto sia ottusa e incoerente la mente degli uomini, i quali da un lato non permettono agli altri d’invadere le loro proprietà e se mai sorge la minima lite per questioni di confine come niente reagiscono a colpi di pietre o di spada, dall’altro gli consentono di entrare nella loro vita, anzi, di farne man bassa come se ne fossero i padroni, non sono disposti a dividere con nessuno il proprio denaro e poi distribuiscono la loro esistenza a centinaia di persone, tirchi coi propri beni materiali, prodighi del loro tempo, quando invece dovrebbero esserne avari. Prendi a caso uno dei più vecchi e digli: «Ora che sei giunto al limite estremo della vita umana, dato che hai cent’anni e forse più, torna un po’ indietro e calcola quanto di tutto questo tempo ti ha tolto un creditore, quanto l’amante, quanto il tuo capo, quanto i tuoi dipendenti4 e i litigi con tua moglie, le punizioni inflitte alla servitù, l’andare in giro per la città a render visite di cortesia, e ancora tutti quegli accidenti che ti sei procurato con le tue stesse mani, nonché il tempo che hai lasciato inutilizzato: tira le somme e guarda quanto sono pochi gli anni in cui sei vissuto per te, di fronte a quelli che hai. Cerca poi di ricordare quante volte sei stato fermo nei tuoi propositi, quanti giorni ti sono trascorsi come avevi stabilito, quanto tempo hai dedicato a te stesso e quante volte è rimasto impassibile il tuo volto e intrepido il tuo animo, che cos’hai in concreto realizzato in così lungo tempo, quante persone ti hanno derubato della tua vita senza che tu nemmeno ti accorgessi di ciò che perdevi, quanto tempo ti hanno sottratto un dolore vano, una gioia stupida, un desiderio insaziabile, una conversazione frivola, e vedrai quanto poco ti è rimasto del tuo: comprenderai allora che pur con una vita così lunga la tua morte è precoce». Ora, qual è la causa di tutto questo? È il fatto che noi viviamo come se
dovessimo vivere sempre, non riflettiamo mai che siamo esseri fragili, non consideriamo quanto tempo è passato ma lo consumiamo come se lo avessimo sempre tutto intero e persino in abbondanza, senza pensare che quel giorno che regaliamo a qualcuno o a qualche cosa potrebbe essere l’ultimo della nostra esistenza. Abbiamo paura di tutto in quanto esseri mortali ma nello stesso tempo vogliamo avere tutto come se fossimo immortali. «A cinquant’anni mi ritirerò dagli affari, a sessanta non muoverò più un dito!». Così dice la maggior parte. Ma chi ci garantisce di vivere più a lungo, o solo di arrivarci, a quell’età? Chi mai può assicurarci che le cose ci vadano secondo i nostri piani? Non è vergognoso che riserviamo a noi stessi solamente gli scarti, i rimasugli della nostra vita e ci volgiamo a nobili pensieri solo perché non possiamo più dedicarci ad alcuna attività pratica? Non è tardivo il pensare di poter cominciare a vivere proprio quando è giunta l’ora di togliere il disturbo? Quale grande sciocchezza dimenticarsi d’essere mortali e rinviare i saggi propositi a cinquanta o a sessant’anni, pretendendo d’iniziare la vita a un’età a cui solo pochissimi riescono ad arrivare! 4. Uomini potentissimi, che sono giunti alle più alte vette, vagheggiano una vita tranquilla e ritirata, preferendola persino a tutti i loro beni; se potessero farlo senza riceverne danno scenderebbero volentieri dal loro piedistallo, perché, anche se niente la minaccia o la scuote dal di fuori, la buona sorte a un certo punto crolla per il suo stesso peso. Il divino Augusto, ch’ebbe dalla fortuna più di qualunque altro mortale, non smise mai di desiderare la quiete di una vita dedicata interamente a sé stesso,5 di chiedere anzi l’esonero dagli affari politici e non c’era un suo discorso in cui non tornasse a battere sempre su questo chiodo: il pensiero, anche se illusorio, di potere un giorno vivere soltanto per sé stesso gli era già motivo di conforto e alleviava le sue fatiche. In una sua lettera al Senato, in cui assicurava che il suo ritiro non sarebbe stato privo di dignità né in contrasto con quella gloria che s’era ormai conquistato, ho trovato queste parole: «So benissimo che questo mio desiderio è più facile a concepirsi che a realizzarsi, e tuttavia l’attesa di quel momento tanto sognato si è fatta in me così viva che, se mi tarda la gioia, m’è già dolce il solo parlarne». La quiete di una vita privata gli sembrava una tale conquista che non potendo metterla in atto la pregustava col pensiero. Lui, che vedeva tutto dipendere solo dalla sua volontà, lui, che fissava i destini di singoli uomini e di popoli interi, si beava al pensiero che un giorno si sarebbe spogliato di tutta quella grandezza. Sapeva, per averlo sperimentato sulla sua pelle, quanto sudore e quanta fatica si nascondano dietro quei beni che splendono in ogni parte del mondo, quante segrete apprensioni: costretto a impugnare le armi prima contro i suoi concittadini, poi contro i colleghi e infine contro i parenti, sparse sangue per terra e per mare. Spinto attraverso la Macedonia, la Sicilia, l’Egitto, la Siria, l’Asia e quasi per il mondo intero, volse i suoi molti eserciti, stanchi di stragi fraterne, a guerre esterne e lontane. E mentre placava le Alpi e domava i nemici annidati nell’impero ormai
pacificato e spostava i confini dello Stato oltre il Reno, l’Eufrate e il Danubio, proprio a Roma si affilavano contro di lui i pugnali di Murena, di Cepione, di Lepido, di Egnazio e di altri. E non aveva ancora sventato le insidie di costoro che la figlia e molti giovani dell’aristocrazia, uniti nell’adulterio come da un vincolo sacro, riempivano di timori la sua già debole vecchiaia, e poi Iullo con la sua donna, una nuova coppia temibile come quella di Antonio e Cleopatra. 6 Non aveva esitato a troncarsi le membra per togliersi di dosso quelle piaghe incancrenite, ma altre se ne formavano, così come in un corpo gravato dal troppo sangue c’è sempre qualche punto in cui scoppia una nuova emorragia. Perciò voleva ritirarsi e unico sollievo alle sue pene era il pensiero di poterlo fare. Questo il desiderio di uno che poteva appagare tutti quelli degli altri. 5. E Cicerone? Sballottato fra Clodii, Crassi, Pompei e Catilina, quali aperti nemici, quali amici malsicuri, lui che in mezzo alla tempesta s’aggrappava al timone della repubblica perché questa non affondasse, e alla fine fu travolto insieme a lei, lui mai contento nella buona sorte e insofferente nelle avversità, quante volte maledisse, dopo averne tessuto le lodi (giustamente ma senza misura), quel suo famoso consolato! Senti quanta tristezza in una sua lettera indirizzata ad Attico quando, vinto Pompeo, il figlio di questi riaccendeva in Spagna la lotta: «Tu mi domandi», scrive, «che cosa faccio ora? Vivo attendendo gli eventi, qui, nella mia villa di Tuscolo, dimezzato della mia libertà». E altro dice ancora, da cui balza evidente che rimpiange il passato, si duole del presente, dispera del futuro.7 «Libero solo a metà»: così si definiva Cicerone! Ma, perdìo, come può un saggio degradarsi a tal punto da dichiarare dimezzata la sua libertà, quando egli è sempre interamente e saldamente libero, indipendente, padrone di sé e signore di tutti gli altri? Nulla infatti può esserci al di sopra di chi è al di sopra della sorte stessa. 6. E Livio Druso? Uomo duro e violento, dopo aver dato il via a nuove leggi8 e a nuovi disastri, che ricordavano il tempo dei Gracchi, attorniato da una folla immensa proveniente da ogni parte d’Italia, incapace di prevedere l’esito di una situazione che gli era sfuggita di mano e che una volta avviata non lo lasciava più libero di ritirarsi, maledisse quella sua vita sempre agitata, esclamando – così dicono – che neppure da bambino aveva avuto un giorno di riposo. Era infatti ancora sotto tutela e indossava la pretesta quando si prese a cuore la sorte di alcuni imputati al punto che osò raccomandarli ai giudici, sui quali esercitò una tale influenza da trarre dalla sua parte più di un verdetto. Un’ambizione così precoce sarebbe certo andata molto lontano ed era prevedibile che quella sua sfrontatezza di adolescente avrebbe provocato molti e seri guai non solo ai singoli cittadini ma all’intera collettività. Troppo tardi perciò si lamentava di non avere avuto neppure un giorno di vacanza fin da ragazzo, lui, istigatore di disordini e molesto alla giustizia. È dubbio se si sia ucciso, vibrando il colpo di propria mano, sappiamo solo che improvvisamente piombò a terra per una ferita
all’inguine, mentre qualcuno si domandava se la sua morte fosse volontaria, nessuno però se cadesse a proposito. Non serve ch’io riporti qui altri esempi di uomini che, felicissimi in apparenza, fecero aperta confessione di sé, maledicendo pubblicamente tutto ciò che avevano fatto nell’intero corso degli anni, e però tutte le loro lacrime di coccodrillo non valsero a modificarli, né a cambiare la condotta degli altri: solo a parole, infatti, riusciamo a liberarci dalle nostre passioni; dopo lo sfogo verbale ce le ritroviamo addosso come prima. Campassimo pure più di mille anni la nostra vita ci sembrerà sempre breve, se non sapremo spenderla bene: con simili difetti qualunque età si logora troppo presto. La natura fa scorrere rapidamente il tempo della nostra esistenza, ma la ragione può prolungarlo: è inevitabile che la vita scivoli via veloce a chi non cerca di acchiapparla, di trattenerla, o perlomeno di farla procedere più lentamente, ma la lascia passare così, lei, la più rapida di tutte le cose, come un bene superfluo o recuperabile. 7. Primi fra tutti vengono coloro che passano il tempo fra i piaceri del vino e della carne: non c’è infatti occupazione più degradante di questa. Quanto a quelli che sono accecati da vani sogni di gloria, essi sbagliano, sì, ma, almeno apparentemente, non mancano di una certa nobiltà d’animo; aggiungi a questi gli avari, gl’iracondi, i fomentatori di odi feroci e di guerre: ebbene tutti costoro, anche nel peccato, sono sempre uomini, ma quelli che si «abbassano ai piaceri del ventre e della carne, che cedono agl’istinti più brutali, non hanno alcuna giustificazione, la loro colpa è la più infame. E guarda come passano la giornata, conta il tempo che spendono nel fare calcoli, nel macchinare imbrogli, nel nutrire le loro paure, nel dare e nel ricevere onoranze e cortesie, nell’impegnarsi, ancora, nei processi, a garanzia degli altri o di sé stessi, e, infine, nei banchetti, che a quel punto diventano degli obblighi: vedrai come tutti questi impegni, buoni o cattivi che siano, non gli lascino un attimo di respiro. Tieni poi presente – e in ciò sono tutti d’accordo – che chi è troppo indaffarato non può svolgere bene nessuna attività e tanto meno alcune, come l’eloquenza e gli studi liberali, perché una mente impegnata in mille cose non può concepire nobili pensieri, o li respinge, come se le venissero ficcati dentro a forza. Per l’uomo sempre occupato niente conta così poco quanto la vita: perché non la conosce; e in verità l’arte del vivere è certamente la più difficile. Quanto alle altre, di maestri ce ne sono molti e dovunque, né mancano bambini, a quel che sembra, che riescono ad apprenderle e così bene da poterle persino insegnare. Per imparare a vivere, invece, ci vuole una vita intera, ma la cosa più sorprendente è che per tutta la vita bisogna imparare a morire. Tanti uomini illustri, dopo essersi sbarazzati di tutto ciò che poteva intralciarli, ricchezze, impegni, piaceri, dedicarono gli ultimi anni unicamente ad apprendere l’arte del vivere, e tuttavia molti di essi nel partirsi da questo mondo confessarono di non averla ancora imparata. Figurarsi dunque quelli che sono sempre affaccendati! Credi a me, è proprio di un animo grande, che sta al di sopra di ogni errore umano, non lasciarsi sottrarre nemmeno
la più piccola parte del tempo che gli appartiene, e perciò la sua vita alla fine gli risulta lunghissima, perché l’ha spesa interamente come un bene tutto suo, ne ha sfruttato ogni più piccolo spazio, non ha poltrito un solo momento, non è mai stato in balìa di altri, perché da buon risparmiatore non ha trovato nulla che meritasse d’essere scambiato col suo tempo, e questo, quindi, gli è bastato. Non basta invece a coloro che si lasciano portare via dalla gente molta parte della propria esistenza. Non credere però che essi qualche volta non si rendano conto di quello che perdono: ve ne sono molti, infatti, che sotto il peso di un’eccessiva fortuna, fra clienti che gli si accalcano intorno, nel bel mezzo di un processo o fra altre simili miserie, anche se decorose, non di rado se ne vengono fuori esclamando: «A me non è permesso vivere!». E chi te lo impedisce? Tutti quelli che ti chiamano in loro aiuto ti allontanano da te. Quanti giorni ti ha portato via quell’imputato? Quanti quel candidato? Quanti quella vecchietta, stanca di seppellire i suoi eredi? E quel tale che si fingeva ammalato per saggiare e stuzzicare l’ingordigia dei cacciatori di testamenti?9 E quell’amico ultrapotente che ti teneva impegnato accanto a sé, insieme ad altri bellimbusti, unicamente per pavoneggiarsi? Ebbene, fa’ l’elenco e poi tira le somme, vedrai quanti pochi giorni, e solo quelli di scarto, sono rimasti per te stesso. Uno, ottenuti i fasci che tanto desiderava, non vede l’ora di restituirli e va ripetendo: «Ma quando finisce quest’anno?», un altro organizza i giochi e considera una gran fortuna l’essere stato prescelto a quello scopo, e intanto si va chiedendo: «Quando potrò liberarmene?», un altro ancora, conteso da tutti per la sua fama di avvocato, raccoglie nei processi una tale folla di gente che quelli che stanno in fondo non riescono nemmeno a sentirlo, eppure dice: «Ma quando arrivano queste ferie?». Sprechiamo la nostra vita accelerandone la fine, e, disgustati del presente, ci angustiamo per il futuro. Ma chi dedica ogni istante del suo tempo ad arricchire sé stesso, chi organizza le sue giornate come se ciascuna di esse fosse una vita intera non ha bisogno di sperare nel domani, né tanto meno lo teme: quale nuovo piacere potrebbe infatti apportargli? Tutto gli è noto, tutto ha già gustato, sino alla sazietà, ormai si è messo al sicuro: del tempo che gli resta disponga, come vuole, la Fortuna, la quale non può più togliere nulla alla sua vita, può solo aggiungervi qualcosa, come un poco di cibo a chi ne è già pieno, e lui lo prende, ma senz’alcun desiderio. La lunghezza della vita non si misura quindi dai capelli bianchi o dalle rughe: non è un vivere questo, è solo un esistere a lungo. Così non si può dire che abbia navigato molto chi, appena uscito dal porto, incappato in una tempesta e spinto da venti contrari, non ha fatto altro che girare su sé stesso entro il medesimo spazio: questo non si chiama navigare, ma essere molto sballottato. 8. Mi meraviglio sempre quando vedo uno chiedere a un altro di concedergli un po’ del suo tempo e la facilità con cui questo viene accordato. Entrambi guardano solo allo scopo a cui quel tempo è destinato, non al tempo in sé stesso: lo si chiede e lo si dà come se fosse una cosuccia da niente, si scherza col bene
più prezioso che ci sia, di cui non ci si rende conto perché è immateriale, perché non lo si vede, e perciò lo si stima pochissimo, anzi non gli si dà nessun valore. Le pensioni, le donazioni, quelle sì che hanno un prezzo e si ricevono volentieri, e per ottenerle si spendono lavoro, fatica e ogni cura; al tempo invece non si riconosce alcun valore, nessuno ne fa il conto, tutti lo usano con troppa larghezza, quasi che fosse un bene da nulla. Quando però sono malate, o si trovano in pericolo di morte, quelle stesse persone che sino a poco prima non si curavano del tempo, vedi come s’attaccano alle ginocchia dei medici, scongiurandoli di guarirle, e se magari temono di poter essere giustiziate per qualche colpa commessa sono pronte a sacrificare tutti i loro beni pur di continuare a vivere. Tale è l’incoerenza dell’animo umano! Se si potesse conoscere il numero degli anni futuri, come avviene per quelli passati, quante persone tremerebbero vedendo che gliene restano pochi, e con quale parsimonia li spenderebbero! È facile gestire un bene, per quanto piccolo, quando è sicuro, ma con uno di cui non si conosce la durata si dovrebbe usare maggiore diligenza. Tu mi dirai che, sotto sotto, tutti, chi più chi meno, riconoscono il valore del tempo. Sì, ma in che modo? Quelli che dichiarano, per esempio, di essere disposti a dare la propria vita per le persone che amano, in realtà non sanno quel che dicono, non si rendono conto che morendo si privano di un bene senza che se ne giovino gli altri, anzi, non possono nemmeno sapere, una volta morti, che si sono tolti qualcosa, sicché accettano una perdita che in effetti non c’è. Nessuno può rifonderti i tuoi anni perduti, nessuno mai potrà restituirti nuovamente a te stesso. La vita di ognuno prosegue il suo cammino lungo la strada segnata e non s’arresta né ritorna indietro: non fa rumore, non dà segno alcuno della sua rapidità, scivola via in silenzio. Né potere di re né favore di popolo potranno prolungarla, rispetterà la sua andatura così com’è iniziata il primo giorno, senza deviazioni e senza ritardi di sorta. Cosa accadrà in avvenire nessuno può saperlo. Indugiamo su questo e su quello e la vita invece ha fretta, e un bel momento arriverà la morte, alla quale, volenti o non volenti, siamo votati tutti. 9. Non c’è poi cosa più sciocca che il programmarsi la vita:10 in questo modo si è ancora più affaccendati. E ce ne sono di persone che si comportano così: per poter vivere meglio passano il tempo a organizzarsi la vita, con gran dispendio della vita stessa, fanno progetti a lungo termine e non si rendono conto che il maggiore spreco di tempo sta proprio nel dilazionare le cose, nel rimandare al futuro la loro attuazione. Il rinvio, infatti, ci toglie un giorno dietro l’altro e mentre ci promette il futuro, perché lo abbiamo già programmato, ci porta via il presente. L’attesa è ciò che più c’impedisce di vivere, perché dipende dal domani e ci fa perdere l’oggi. Programmiamo con cura ciò che è nelle mani del destino e ci lasciamo sfuggire ciò che sta nelle nostre. A che guardi? Dove ti spingi? Il tuo futuro è incerto: vivi subito. Ascolta il canto di salvezza che, percorso da un fremito divino, intona il sommo poeta:
I più bei giorni della vita fuggono sempre per primi ai miseri mortali.11 «Perché indugi», egli dice, «perché ti arresti? Il tempo fugge, afferralo!» E poiché anche quando lo avrai afferrato non cesserà di fuggire, usalo in fretta, come se attingessi l’acqua da una corrente rapida e precaria: solo così puoi gareggiare con lui in velocità. Molto opportunamente il poeta, nel biasimare questa vana ed eterna programmazione, parla di «giorni più belli», non dell’età più bella. Ma come fai a sciorinare davanti a te, e con tanta sicurezza, una sfilza di mesi e di anni, lunga quanto la tua avidità, in un tempo che corre così veloce? E quando parla di giorni vuol dire uno per uno, e che ciascuno di essi se ne fugge veloce. Né c’è dubbio che per «miseri mortali» intende gli uomini affaccendati, ed è per loro che «ogni più lieto / giorno di nostra età primo s’invola». La vecchiaia sorprende i loro animi impreparati e inermi, perché sono rimasti infantili e nulla hanno previsto a questo riguardo, sicché v’incappano all’improvviso, senza che l’abbiano attesa, senza essersi accorti che giorno per giorno si avvicinava. Come durante un viaggio, se siamo immersi in una conversazione, in una lettura o in un pensiero più intenso degli altri, ci troviamo giunti alla meta prima ancora di accorgerci che stavamo avvicinandoci, così questa corsa della vita, rapida e ininterrotta, che non muta il suo ritmo, sia che dormiamo sia che stiamo svegli, se siamo sempre impegnati non l’avvertiamo se non quando è giunta alla fine. 10. Se volessi dividere per argomenti questa mia chiacchierata potrei addurre molti esempi per dimostrare quanto sia brevissima la vita di quelle persone che sono sempre affaccendate. Papirio Fabiano12 – che non era uno di quei filosofi che montano in cattedra come certi nostri di oggi, ma un pensatore vero e all’antica – diceva che «le passioni vanno prese di petto, non con i guanti» e che il loro fronte va sgominato non con piccole e sporadiche scaramucce ma con un attacco massiccio in piena regola: non andava insomma tanto per il sottile, per lui l’avversario doveva essere «annientato, non punzecchiato». Però, per far capire a uno che ha sbagliato non basta riprenderlo, bisogna anche educarlo. Tre sono i periodi della vita: passato, presente, futuro. Di essi il presente è breve, il futuro incerto, il passato certo. Su quest’ultimo la fortuna non può più esercitare alcun diritto: ciò che è stato non può tornare sotto il potere di chicchessia. Per gli eterni affaccendati il passato è davvero perduto, come se non esistesse, perché essi non hanno tempo di volgersi indietro a guardarlo, e anche ammesso che lo facciano gliene torna sgradito il ricordo, in quanto pieno di rimorsi. Non amano ripensare a quei momenti che hanno speso male, né osano rievocare fatti di cui allora non riuscivano a vedere la meschinità – nascosta com’era nelle pieghe di un piacere temporaneo – ma che ora, nel ricordo, appaiono nella loro effettiva realtà. Solo chi ha sempre sottoposto ogni suo atto al vaglio di una critica attenta e severa, che non fallisce mai, si volge
volentieri al proprio passato, ma chi è stato troppo ambizioso o altezzosamente sprezzante, chi ha vinto con la prepotenza o ha tramato perfidi inganni, chi ha rubato con avarizia o sperperato con prodigalità, è inevitabile che abbia paura dei propri ricordi. Eppure il passato è la parte sacra e inviolabile della nostra vita, che sta al di sopra degli eventi umani e fuori dal dominio della fortuna, imperturbabile, esente da povertà, timori e malattie; niente può portarcelo via, il suo possesso è stabile e continuo. Il presente è fatto di giorni singoli, e ciascuno di essi è suddiviso in tanti momenti, ma i giorni del passato, a un tuo cenno, accorrono tutti in una volta, e puoi trattenerli e contemplarli quanto tu voglia. È un privilegio, questo, che chi consuma il tempo in tutt’altre faccende affaccendato, disgraziatamente non ha. Solo chi possiede una mente libera e serena può passare in rassegna tutti i momenti della sua esistenza, quelli invece che l’hanno sempre impegnata non possono volgersi indietro, come le bestie al giogo. La loro vita, dunque, si perde in un abisso, e come a nulla serve versare acqua in un vaso senza fondo, così, per quanto tempo possa scorrere, esso diventa niente se non ha dove posarsi: passa attraverso animi sconnessi e pieni di buchi. Il presente è così breve che alcuni ne negano persino l’esistenza: è sempre in moto, fugge via, precipita, non ci ha ancora toccato che già non c’è più, è senza sosta, come il cielo e le stelle, il cui moto incessante non consente loro di fissarsi in un punto preciso nemmeno per un istante. Ebbene, agli eterni affaccendati appartiene solo il presente, un tempo così breve da non potersi afferrare, anzi, essi, distratti per via dei troppi impegni, non hanno nemmeno questo. 11. E vuoi sapere quanto vivono poco? Guarda come si affannano a voler prolungare la vita: già vecchi decrepiti vanno mendicando a forza di preghiere un supplemento di anni, fingono, anche di fronte a sé stessi, di essere più giovani, si lusingano con inganni e bugie, compiacendosi di questi stupidi sotterfugi, come convinti di poterla fare in barba al destino. Poi, quando qualche malanno li avverte che sono mortali, gli si dipinge nel volto un tale terrore che la morte in loro non sembra un semplice uscire dalla vita ma un esserne strappati a dura forza. Allora gridano che sono stati sciocchi a non vivere e giurano che se mai la scamperanno si daranno alla contemplazione, vedono, finalmente, quanto sia stato inutile darsi tanto da fare per delle cose di cui poi non avrebbero potuto godere, quanto vana sia stata ogni loro fatica. Perché, invece, non dovrebbe essere lunga una vita libera da ogni impegno? Nessuna parte di questa è delegata ad altri, niente viene disperso di qua e di là, nulla è lasciato al caso o perduto per negligenza, niente le viene tolto per largizioni o rimane inutilizzato: è, insomma, come se tutta la vita fosse una rendita continua, istante per istante. Dunque, per quanto breve, una simile esistenza è più che sufficiente, e l’uomo saggio, in qualunque momento lo colga il giorno supremo, andrà incontro alla morte sereno e con passo sicuro.
12. Quanto agli affaccendati non devi credere che io mi riferisca soltanto a quelle persone che per farle uscire dal tribunale bisogna ricorrere ai cani sguinzagliandoglieli addosso, o a quelli che si lasciano schiacciare a bella posta dalla folla dei propri clienti o, poco decorosamente, restano soffocati da quella dei clienti altrui, quelli che impegni esterni portano a battere alle porte degli altri, o che con le vendite all’asta13 indetta dal pretore ricavano guadagni disonorevoli che gli rimorderanno: molti sono indaffarati anche nel tempo libero; si trovino nella loro villa in campagna, a letto o in piena solitudine, benché lontani e appartati da tutti, sono sempre tormentati. Il loro non è un vivere ritirati ma un ozioso darsi da fare. Si può forse ritenere un meditativo chi passa il tempo a carezzare e a mettere in ordine con maniacale pignoleria dei bronzi di Corinto o consuma la maggior parte delle giornate a contemplare delle monetuzze di metallo arrugginite? O chi sta seduto in palestra ad ammirare (che vergogna, ci lasciamo contagiare anche dai vizi stranieri!) dei giovinetti che fanno la lotta? O chi suddivide in coppie le sue mandrie di giumenti secondo il colore e l’età, e chi alleva i nuovi atleti? Me li chiami meditativi quelli che passano ore e ore dal barbiere a farsi togliere quei pochi peli che gli sono cresciuti durante la notte, a discettare su ogni singolo capello, a farsi riordinare la chioma spettinata o riportare i capelli da ogni parte sopra la fronte perché sono quasi calvi? E come si arrabbiano se il barbiere, pensando di avere a che fare con un uomo, non è andato tanto per il sottile! Prorompono in escandescenze per un capello tagliato o fuori posto o se i riccioli non ricadono poi tutti ordinati. Preferirebbero vedere sottosopra lo Stato piuttosto che la loro capigliatura! Poco gl’importa se la testa è malata, basta che faccia bella figura: meglio essere ben pettinati che dignitosi e onesti. Sono dunque non occupati questi individui che stanno sempre davanti allo specchio e col pettine in mano? Che dire poi di quelli che passano il tempo a comporre, ascoltare o imparare canzonette, forzando in languidi e assurdi gorgheggi la loro voce a cui la natura ha dato un tono lineare, ottimo e semplicissimo, o accompagnando il ritmo del canto con lo schioccar delle dita? Persino quando sono impegnati in cose serie, magari spiacevoli e dolorose, li senti canticchiare sottovoce. Altro che ozio! Il loro è un negozio continuo, che non produce niente. Nemmeno i loro banchetti li metterei fra i momenti di svago, vedendo con quale sollecitudine dispongono in bell’ordine l’argenteria, aggiustano le gonnelle succinte ai loro adorati schiavetti, controllano se il cuoco ha cucinato a puntino il cinghiale, se i servi depilati14 svolgono celermente le loro mansioni, se i volatili vengono tagliati ad arte in pezzi regolari e se i poveri garzoni eseguono con cura il loro compito di asciugare gli sputi dei commensali ubriachi: da tutto ciò s’illudono di procacciarsi un’immagine di splendore e di eleganza, e questi difetti li accompagnano a tal punto che non riescono a fare senza ostentazione neppure le cose più intime e riservate, come il bere e il mangiare. Né sono meno impegnate di loro quelle persone che si fanno portare a spasso di qua e di là, vuoi sulla sedia vuoi nella lettiga, che aspettano con ansia i momenti dedicati alle loro passeggiate quotidiane, quasiché cascasse il mondo se
dovessero saltarne una, e hanno sempre a portata di mano un servo che le avverte di tutto ciò che devono fare, quando è l’ora del bagno, quando del nuoto, quando della cena: sono talmente rammollite da quella loro debolezza d’animo che da sole non riescono a capire nemmeno se hanno fame. Ho sentito di uno, immerso in tutte queste delizie (se si possono chiamare così il non saper vivere e l’ignoranza di quelle abitudini che sono proprie dell’uomo), che portato a braccia fuori dal bagno e piazzato sopra una sedia chiese dubbioso: «Sono già seduto?». Come può sapere se è vivo, se vede, se sta in pace o in guerra, uno che non sa nemmeno se è seduto? Mi chiedo se lo ignori veramente o faccia finta, ma in un caso o nell’altro, non so in quale di più, mi fa pietà. Queste persone, infatti, molte cose le dimenticano ma molte fingono di dimenticarle, e si compiacciono di questo difetto come se fosse una prova di spensieratezza e di felicità: ritengono cosa troppo meschina e da uomo comune sapere quel che si fa. Pensa pure che ci sia molta invenzione nelle critiche che i mimi rivolgono al lusso, ma perdio sono più i difetti che tralasciano che quelli che s’inventano! Tanta è l’abbondanza d’incredibili vizi nella nostra epoca, ingegnosa solo in questo campo, che possiamo accusare i mimi di negligenza: chi avrebbe mai potuto pensare che ci sono persone così sfinite dalla mollezza dei loro costumi da dover ricorrere ad altri per sapere se sono sedute o no? Dunque chi vive così non è meditativo, dagli un altro nome, chiamalo malato, anzi, morto, addirittura. Libero è colui che possiede anche il senso della sua libertà, ma questo semivivo, che ha bisogno di un consigliere per sapere se il suo corpo sta in piedi, seduto o coricato, come può essere padrone di un solo minuto della sua vita? 13. Non parlo poi di quelli – sarebbe infatti troppo lungo elencarli – che passano la loro vita giocando a scacchi, a palla o a rosolarsi il corpo sotto il sole: non si può dire che vivano una vita tranquilla se i loro piaceri costano tanta fatica. Quanto a quelli che si dedicano agli studi ma solo per ricavarne una vuota e sterile erudizione – ormai pure Roma ne è piena – non c’è dubbio che anche loro, pur non concludendo nulla, si danno tanto da fare. Una volta questa smania di notizie inutili era un vizio tipico dei Greci, che si fissavano di voler sapere il numero dei marinai di Ulisse, se fosse stata scritta prima l’Iliade o l’Odissea, se i due poemi appartenessero al medesimo autore, e altre simili notiziole che se le tieni chiuse dentro di te non giovano a nulla ma se le vai raccontando in giro ti fanno sembrare pedante, non “più colto”. E ora anche i Romani sono stati contagiati da questo stupido vizio del nozionismo. Proprio alcuni giorni fa ho sentito un tizio ch’elencava le imprese inedite di tutti i nostri condottieri: Duilio – diceva – è stato il primo a vincere in una battaglia navale,15 Curio Dentato il primo a far sfilare elefanti in un trionfo, e così via. E perlomeno queste notizie, anche se non ti fanno vedere la vera gloria dei personaggi, riguardano la nostra città, non daranno una cultura ma almeno avvincono per la loro speciosità. E ammetto pure che si possa indagare su chi per primo convinse i Romani a salire su una nave (fu Claudio,16 detto Caudice dal nome con cui gli antichi
designavano un insieme di assi connesse fra loro: perciò le tavole delle leggi sono dette «codici», e «codicarie» sono chiamate ancora oggi, secondo l’antica consuetudine, le navi che trasportano viveri lungo il Tevere); così pure può essere utile sapere che Valerio Corvino 17 fu il primo a vincere Messana e che, primo della famiglia dei Valeri, prese dalla città conquistata il soprannome di Messana, che col tempo divenne Messala per uno scambio di lettere, come spesso avviene nel parlare. E concediamo che possa interessare il fatto che Lucio Silla fu il primo a esibire nel circo dei leoni sciolti (mentre sino ad allora apparivano legati), e questo perché il re Bocco aveva inviato per ucciderli degli arcieri infallibili. Passi anche questo. Ma a cosa giova sapere, per esempio, che Pompeo offrì per primo nel circo un combattimento fra diciotto elefanti e un gruppo di condannati?18 Primo cittadino e uomo di particolare bontà fra i grandi personaggi del passato – come vuole la tradizione – ritenne degno di essere ricordato un genere di spettacolo in cui degli uomini venivano massacrati in un modo inconsueto: che combattessero era poco per lui, che fossero dilaniati non gli bastava, dovevano essere schiacciati, e perdipiù da una massa enorme di animali. Un fatto del genere sarebbe stato meglio dimenticarlo, anche per evitare che in seguito qualche potente venisse a conoscerlo e provasse invidia per un gesto così disumano. Vedi come la fortuna offusca le menti degli uomini, tanto più quando è eccessiva. Quell’uomo credette di poter scavalcare la natura dando in pasto a delle belve provenienti da altri paesi caterve di uomini sventurati, facendo combattere fra loro degli esseri così disuguali e scorrere tanto sangue al cospetto del popolo romano, a cui ben presto, con le sue guerre, ne avrebbe fatto spargere di più. Ma alla fine, ingannato dalla perfidia alessandrina, si lasciò ammazzare dal più ignobile dei servi e allora si rese conto di quanto fosse stato inutile quel suo pomposo soprannome.19 Ma per tornare al nostro argomento e dimostrare la vanità di questa diligente ricerca di notizie, dirò che quel tale, a cui poc’anzi ho accennato, raccontava ancora che Metello, dopo aver vinto in Sicilia i Cartaginesi, nel trionfo che ne riportò fece sfilare davanti al suo cocchio, unico fra tutti i Romani, centoventi elefanti da lui catturati, che Silla fu l’ultimo della nostra gente ad ampliare il pomerio,20 che per antica consuetudine era lecito allargare solo in seguito a conquiste territoriali fatte in Italia e non nelle province. È più utile sapere questo o la causa per cui l’Aventino si trova fuori dal pomerio (un fatto che, sempre secondo quel tizio, potrebbe essere dovuto a due motivi, o perché vi si è ritirata la plebe, o perché Remo in quel luogo non trasse auspici a lui favorevoli dal volo degli uccelli)? O altre innumerevoli notiziole che se non sono bugie ne hanno però l’aria? Ammettiamo pure che costoro le dicano in buona fede, facendosene garanti nei loro scritti, ma queste nozioni potranno mai servire a eliminare gli errori degli uomini, a frenarne le passioni, a renderli più forti, più giusti, più generosi? Fabiano, il mio maestro, si domandava se fosse meglio non studiare per niente piuttosto che impegolarsi in studi di questo genere.
14. Solo quelli che si dedicano al conseguimento della saggezza fanno buon uso del loro tempo e sono gli unici che vivono veramente perché non solo spendono bene la propria vita ma vi aggiungono pure l’eternità: infatti oltre agli anni vissuti in prima persona acquisiscono anche, come un patrimonio ereditario, tutto il tempo passato prima della loro nascita. Se non vogliamo peccare d’ingratitudine verso di loro, dobbiamo riconoscere che i grandi fondatori di nobili dottrine sono nati per noi, nel senso che ci hanno preparato la vita. È merito loro se possiamo pervenire alle più alte verità, emerse dalle tenebre alla luce. Se siamo saggi nessuna epoca ci è preclusa, possiamo accedere liberamente a tutte, ed è uno spazio di tempo incalcolabile, se il nostro animo, di per sé stesso infinito, riesce a liberarsi dalle strettoie della vita materiale che tenta d’infiacchirlo. Possiamo così discutere con Socrate, dubitare con Carneade,21 raggiungere con Epicuro la serenità, dominare con gli stoici la nostra umana natura e coi Cinici addirittura superarla. E se ciascuno di noi può farsi compartecipe della storia di tutti, non solo nel presente ma anche nel passato e nel futuro, perché non uscire, allora, da questo spazio di tempo angusto e passeggero e abbandonarci con tutto il nostro animo a pensieri eterni e infiniti, che sono propri degli spiriti eletti? Quelli che corrono affannosamente da un’occupazione all’altra, affliggendo sé stessi e il prossimo, dopo che si sono tanto scervellati, che hanno bussato a tutte le porte, portando i loro saluti interessati fin nelle case più lontane, alla fine che numero esiguo di persone avran potuto vedere (di fronte a un uomo saggio che abbraccia l’intera umanità), in questa città pur così grande, divisa da mille passioni! Per non dire che molti non li ricevono nemmeno, o perché stanno dormendo, o perché ineducati, o perché intenti a spassarsela nella loro sfrenata lussuria. E quanti, dopo averli fatti aspettare tenendoli in ansia, li piantano in asso, facendo finta di aver fretta, quanti, invece di uscire dall’ingresso principale affollato di clienti, se la svignano zitti zitti per la porta di servizio o per qualche passaggio segreto della casa, per evitare d’incontrarli, dimostrandosi così più sgarbati nell’illuderli che nell’allontanarli personalmente! Altri ancora, mezzo addormentati e appesantiti per i bagordi del giorno prima, dopo che quelli hanno interrotto il loro sonno per aspettarne il risveglio, gli rispondono villanamente con uno sbadiglio, mentre essi vanno mormorando continuamente il proprio nome con la bocca appena schiusa. Veramente impegnati saranno invece quelli che ogni giorno vorranno avere come compagni Zenone, Pitagora, Democrito e tutti gli altri maestri di virtù, oppure Aristotele e Teofrasto. Nessuno di questi potrà mai rispondere ad alcuno che non ha tempo di riceverlo, e chi si recherà da loro ne uscirà più felice e meglio disposto verso sé stesso e gli altri, non se ne andrà via a mani vuote: tutti, insomma, giorno e notte, possono incontrarli e conversare con loro. 15. Di questi nessuno ti farà morire e tutti t’insegneranno come si muore, nessuno ti porterà via una sola briciola del tuo tempo, ma tutti, anzi, vi aggiungeranno il proprio. A conversare con loro non corri alcun pericolo, né il
fatto di essergli amico può comportarti una condanna a morte; rendergli omaggio non costa nulla. Potrai prendere da loro tutto ciò che vorrai, né essi t’impediranno di attingere quanto più tu possa desiderare. Che felicità, che serena vecchiaia sono riservate a chi si affida a loro! Potrai avere sempre a portata di mano una persona con cui discutere di qualunque argomento, dai più banali ai più importanti, da consultare sulle tue faccende in ogni momento della giornata, da cui sentirti dire la verità senza offenderti minimamente, una persona le cui lodi siano prive di adulazione e che possa essere presa come modello. Abbiamo il vezzo di dire che i genitori non ce li siamo scelti noi, che è stato il caso a farci nascere da loro invece che da altri, ma chi segue la virtù può eleggere a suoi genitori chiunque voglia. I più nobili ingegni formano delle famiglie: scegli per te quella che vuoi, non ne prenderai soltanto il nome, ma anche tutti i beni, né avrai bisogno di custodirli, gelosamente o con avarizia: dividili con gli altri e ti cresceranno, tanto più quanti più ne distribuirai. Queste anime elette ti apriranno la strada all’immortalità, innalzandoti a un punto da cui nessuno precipita giù. Solo così la nostra vita mortale può essere prolungata, o meglio ancora eternarsi. Gli onori, le memorie, tutto ciò che è dettato dall’ambizione, si tratti di cariche pubbliche o di monumenti, è di breve durata, non c’è nulla che il tempo prima o poi non incenerisca o faccia crollare, ma ciò che la saggezza ha consacrato non può essere minimamente scalfito, nessuna epoca lo cancellerà, nessuna lo diminuirà, anzi, le età future lo faranno via via sempre più sacro: l’invidia, infatti, si volge alle cose vicine, mentre quelle lontane sono guardate con animo schietto e sincero. La vita del saggio, dunque, spazia per ogni dove, è senza tempo, non è limitata, come quella degli altri mortali; il saggio sfugge, lui solo, alle leggi del genere umano, e domina, simile a dio, tutte le epoche della storia, dentro di sé il passato perché lo ricorda, il presente perché lo vive, il futuro perché lo prevede: la facoltà di mettere insieme e collegare questi tre momenti gli rende lunga la vita. 16. Brevissima, invece, e assai tormentata è la vita di coloro che dimenticano il passato, trascurano il presente e temono il futuro: troppo tardi quei poveretti, solo quando ormai sono giunti al termine della loro esistenza, si rendono conto di aver passato il tempo occupati nel non far nulla. Né il fatto che ogni tanto invocano la morte può essere preso come prova di una vita lunga o sufficientemente vissuta: si dibattono infatti sconsideratamente fra sentimenti contrastanti, che li spingono proprio a desiderare ciò che in effetti temono, e per questo invocano la morte, perché ne hanno paura. Né tanto meno si può ritenere che essi vivano lungamente solo perché il tempo non gli passa mai, perché le giornate gli sembrano interminabili e aspettano con ansia che giunga l’ora di cena: il fatto è che, smessi i loro impegni, in quello spazio libero che gli rimane si agitano, non sapendo come organizzarsi per far passare il tempo. Ecco perché hanno sempre bisogno d’impegnarsi in qualcosa e ogni intervallo tra una faccenda e l’altra gli diventa una pena, come accade quando, fissata la data per
un combattimento di gladiatori o per qualche altro spettacolo o divertimento, si vorrebbe che i giorni che intercorrono se ne volassero via. Ciò che è lungo per loro non è il tempo, è il rinvio, il dover aspettare; il tempo che amano, invece, quello sì che è breve, precipitoso, e loro stessi lo rendono ancora più corto, perché passano da un desiderio all’altro, incapaci come sono di soffermarsi su un solo piacere. Perciò non è che le giornate siano lunghe, per loro, semplicemente gli risultano odiose, mentre brevi, anzi brevissime, gli sembrano le notti che passano in mezzo al vino e tra le braccia delle prostitute. Da qui proviene l’insensata immaginazione dei poeti, che con le loro favole alimentano gli errori degli uomini, quando raccontano che Giove, eccitato dal piacere che gli dava un suo notturno rapporto amoroso, raddoppiò la durata di quella notte.22 Non è forse un incrementare i nostri vizi questo farli risalire alla divinità e sfogarli e giustificarli sull’esempio di lei? Come possono quindi non sembrare brevissime le notti a quegli individui, quando le pagano così care? Perdono il giorno nell’attesa della notte e la notte nell’ansia e nel timore del giorno. 17. Anche i loro piaceri materiali, infatti, sono pieni di apprensione e turbati da mille paure, e proprio al culmine del godimento ecco che fa capolino questo angoscioso pensiero: «Quanto, quanto durerà?». Questa sensazione indusse molti re a compiangere la propria potenza e a ridimensionare la loro fortuna, nel terrore della fine che un giorno o l’altro sarebbe avvenuta. Serse, il più superbo re dei Persiani, mentre in una pianura sconfinata andava schierando i suoi soldati – che poteva valutare solo in base allo spazio che occupavano ma non numericamente – scoppiò in lacrime al pensiero che nel giro di cento anni non uno fra tutti quei giovani sarebbe rimasto vivo.23 Eppure proprio lui che ne piangeva la fine al tempo stesso l’affrettava, mandandoli incontro alla morte, per mare, sulla terraferma, in battaglia oppure in fuga, annientando in breve tempo quegli uomini di cui temeva una morte distribuita nell’arco di cento anni. E le loro gioie? Non sono anch’esse piene di trepidazioni? Non poggiano infatti su basi solide, ma sono instabili, ondeggiano, perché provengono da motivi futili, inconsistenti. E pensa un po’ come devono essere quei momenti che loro stessi confessano tristi se persino quelli che li riempiono di orgogliosa soddisfazione e li fanno sentire al di sopra di tutto il genere umano non brillano, in fondo, di autentica gioia. Anche il possesso dei beni più grandi non è privo di preoccupazioni, anzi, quanto maggiore è la fortuna tanto minore è la sua credibilità: per mantenere un successo ne occorre sempre un altro e soddisfatto un desiderio bisogna trovarne uno nuovo. I beni fortuiti sono infatti instabili e quanto più in alto si sale tanto più si rischia di cadere, e poiché l’idea di una caduta non rallegra nessuno è inevitabile che sia non solo brevissima ma infelicissima la vita di chi è costretto a una ulteriore e maggiore fatica per mantenere un bene che glien’è costata già tanta. Soddisfare un desiderio comporta sempre uno sforzo e ciò che si è ottenuto tiene sempre in apprensione, per il timore che si ha di perderlo, e intanto non si pensa che il tempo andato non
ritorna più, nuovi impegni subentrano a quelli passati e una dietro l’altra si succedono le speranze e le ambizioni. Non si cerca una fine alle proprie miserie, si va solo cambiandone il tipo, la sostanza. Le cariche che abbiamo raggiunto non ci preoccupano più? Ecco che dedichiamo il tempo a quelle degli altri: così da candidati ci trasformiamo in elettori, da accusatori in giudici, da giudici in investigatori, da amministratori dei beni altrui in curatori dei nostri nella vecchiaia. Mario ha lasciato la milizia?24 Ecco che aspira al consolato. Quinzio si affretta a dimettersi da dittatore? Ecco che già pensa all’aratro. E Scipione, dopo aver combattuto – non ancora maturo per una simile impresa – contro i Cartaginesi, dopo aver vinto Annibale e Antioco, lui, gloria del suo consolato e garante di quello del fratello e che se non si fosse opposto di persona sarebbe stato divinizzato, lui, salvatore della patria, coinvolto nelle guerre civili, che già in gioventù aveva rifiutato onori divini, scelse da vecchio un disdegnoso esilio. Sia nella buona che nella cattiva sorte si è sempre in ansia, le preoccupazioni incalzano la vita e il tempo libero da dedicare a sé stessi resta sempre una pura aspirazione. 18. Sfuggi dunque la folla, carissimo Paolino, e ritirati finalmente in un porto tranquillo, visto che già sei stato sballottato anche troppo, rispetto alla tua età. Pensa quanti marosi hai affrontato, quante tempeste, pubbliche e private, hai dovuto subire o ti sei accollato personalmente: hai già dato prove sufficienti della tua virtù, sostenendo dure e angosciose fatiche, ora sperimenta ciò che essa può fare in una vita ritirata. I tuoi anni migliori li hai dedicati allo Stato, ora pensa un po’ a te. Non ti esorto a un ozio pigro e inerte, a spegnere nel sonno e nei piaceri volgari il tuo vigore ancora valido e pronto: codesto non è riposarsi; ma dedicarsi a occupazioni più nobili di quelle del nostro vivere comune, alle quali si può attendere solo, e serenamente, nella quiete di una vita meditativa, questo è il vero riposo. Tu amministri i beni della comunità con lo stesso disinteresse con cui curi quelli dei singoli, con la stessa diligenza con cui governi i tuoi, con lo stesso scrupolo con cui badi a quelli dello Stato, riesci a farti amare in un incarico in cui è difficile evitare l’odio, ma nondimeno, credimi, è meglio tenere i conti della propria vita che quelli dei granai cittadini. Distogli questa tua energia, capace di nobilissime imprese, da un impegno che per quanto onorifico è poco adatto a rendere felice la vita, ricordati che quando ti dedicasti, ancora ragazzo, agli studi liberali non miravi certo a diventare lo zelante amministratore di molte migliaia di moggi di frumento, ambivi a cose ben più grandi ed elevate. Non mancheranno altri uomini come te, di provata onestà e altrettanto instancabili nel lavoro: sono più abili ai pesi le lente bestie da soma che non i cavalli di razza, di cui nessuno si è mai sognato di mortificare l’innata agilità con dei pesanti bagagli. Pensa poi a tutte le preoccupazioni che ti costa un così faticoso lavoro: hai a che fare con lo stomaco umano, e il popolo quand’è affamato non sente ragioni, non si placa con l’equità, né si lascia piegare dalle preghiere. Recentemente, nei pochi giorni in cui Caligola moriva, indignato di
doversene andare da questo mondo (come se poi quello sdegno potesse portarselo dietro nell’aldilà), il popolo romano, che per sua fortuna gli sopravviveva, aveva viveri per non più di una settimana. Mentre quello costruiva ponti di barche e scherzava con la potenza dell’impero, si prospettava l’ultima sciagura che possa toccare a degli assediati, la carestia. Quel suo voler imitare un re pazzo, straniero e rovinosamente superbo, per poco non ci costò morte, fame e, conseguenza di questa, la perdita di tutto. Pensa quale fosse allora l’animo di coloro che avevano in custodia gli approvvigionamenti, all’idea di dover subire assalti di pietre, di armi, incendi e l’ira di Caligola stesso! Con somma dissimulazione tenevano nascosto nel fondo delle proprie viscere un così grande male, e ciò non senza ragione: certe malattie, infatti, vanno curate senza che gli ammalati le conoscano, visto che molti di essi muoiono proprio per averle apprese. 19. Volgiti dunque a queste occupazioni più serene, più nobili, più sicure! Non credi che vi sia una bella differenza fra l’aver cura che il frumento sia stipato nei granai indenne dalle frodi o dalla negligenza dei trasportatori, che non fermenti e si guasti a causa dell’umidità, che corrisponda, nel peso e nella misura, alla quantità dovuta, e l’accostarsi invece a queste sacre e sublimi meditazioni, per indagare quale sia l’essenza di dio, il suo aspetto, il suo stato, la sua volontà, e quale sorte attenda la nostra anima, dove andrà dopo che si sarà staccata dal corpo, cos’è che attrae i gravi verso il centro della terra, tiene sospeso in aria ciò che è leggero, spinge il fuoco verso l’alto, muove le stelle nelle loro rotazioni, e tutti gli altri fenomeni che ci lasciano a bocca aperta? Volgi la mente da questa bassa aiuola a così eccelse meditazioni! Fallo adesso, finché il tuo sangue è caldo e sei ancora pieno di vigore, questo è il momento per guardare più in alto! In tale genere di vita ti attendono molte nobili attività, l’amore e la pratica delle virtù, l’oblio delle passioni, la scienza del vivere e del morire, nonché una quiete profonda, in cui tacciono tutte le cose. 20. Se triste è la condizione degli eterni affaccendati, ancora più misera è quella di coloro che non sono nemmeno impegnati in proprio ma dipendono in tutto dagli altri, regolano il loro sonno su quello altrui, camminano secondo il passo altrui e provano a comando amore e odio, che sono i più spontanei di tutti i sentimenti. Queste persone, se vogliono sapere quanto sia breve la loro vita, devono solo fare il conto di quel poco spazio di tempo che gli appartiene. Non invidiare dunque chi è molto conosciuto perché il suo nome viene ripetuto continuamente nel foro o perché indossa spesso la pretesta: simili onori si ottengono rubando tempo alla propria vita. Pensa che uno, per dare il suo nome a un solo anno, divenendo console, spende un’intera esistenza, che alcuni sono morti prima di giungere al colmo della loro ambizione, anzi, mentre si accingevano a compiere la scalata, che altri, dopo essere arrivati alle più alte cariche, magari con mezzi disonesti, sono presi dall’amaro sospetto di aver
lavorato tanto solo per avere un’iscrizione sulla propria tomba, che altri ancora, già vecchi e tuttavia animati da nuove speranze, come se fossero dei giovinetti, sono morti per sfinimento nei loro tentativi faticosi e sproporzionati all’età. Come non provare disgusto di fronte a uno che, già avanzato negli anni, esala l’ultimo respiro nel bel mezzo di un processo, difendendo per giunta dei litiganti da strapazzo e fra gli applausi di un pubblico zotico e ignorante? O di fronte a chi schiatta sul lavoro, stanco più per il suo modo frenetico di vivere che per la fatica in sé, o mentre magari sta facendosi dare il resoconto delle entrate e delle uscite, con grande gioia dell’erede che già da tempo lo aspetta al varco? Mi viene in mente Turannio, 25 un vecchio diligente e preciso che a novant’anni e passa, esonerato dai suoi incarichi da Caligola, e non dietro sua richiesta, si fece sistemare ben bene sul suo letto e comandò ai familiari e ai servi raccolti intorno a lui che lo piangessero come morto. La casa intera risuonava di quella lamentazione funebre, perché il padrone era stato dimesso dal suo lavoro, e smise il lutto solo quando Caligola lo reintegrò nell’incarico. Ma è proprio tanto piacevole morire in piena attività? Eppure i più la pensano così, smaniano di lavorare anche quando non ne hanno più la capacità, lottano contro la debolezza fisica e ritengono insopportabile la vecchiaia solo perché li mette in disparte. La legge non richiama alle armi i cittadini che abbiano più di cinquant’anni, non convoca alle sedute i senatori dopo i sessanta,26 ma gli uomini hanno maggiore difficoltà a mettersi in riposo da sé stessi che non per legge, e intanto, mentre vanno trascinando la loro vita, coinvolgendovi gli altri e rendendosi vicendevolmente pieni di affanni e d’infelicità, non raccolgono alcun frutto, alcuna soddisfazione, alcun bene che giovi al loro animo, non pensano alla morte, spingono al di là del possibile le proprie speranze, pretendono magari di predisporre cose che sono oltre la vita, come tombe gigantesche, opere pubbliche dedicate a loro, spettacoli funebri, esequie sontuose, quando invece meriterebbero solo funerali con torce e ceri, come chi muore bambino o comunque di morte precoce.
1. Ippocrate è il grande medico greco vissuto fra il V e il IV secolo a.C., sostenitore del principio secondo cui i rimedi contro le malattie sono nella stessa natura. 2. In realtà il rimprovero mosso alla natura di aver concesso agli animali una vita più lunga rispetto a quella degli uomini è di Teofrasto, a quanto almeno riferisce Cicerone in Tusc. III 69. 3. Anche l’espressione «viviamo veramente solo una brevissima parte della nostra vita», che qui sembra attribuita a Omero, maximum poetarum, è di altri. 4. Col termine rex è qui indicato il capo, il superiore, con quello di cliens il dipendente, l’inferiore. 5. Anche nel De clementia (I 9, 6) Seneca parla degl’impegni e delle preoccupazioni di Augusto. Delle congiure contro di lui vi sono cenni in Svetonio, Cassio Dione e Velleio Patercolo. 6. La coppia Iullo (figlio di Antonio) e Giulia (figlia di Augusto) richiama, con l’adulterio dei due, quella di Antonio e Cleopatra, funesta all’impero. Orazio dedicò a Iullo l’ode seconda del IV libro. 7. La lettera di Cicerone a cui accenna Seneca non ci è pervenuta.
8. Le leggi di Livio Druso si riferiscono alle distribuzioni di terra e frumento e all’estensione ai socii del diritto di cittadinanza romana (91 a.C.). Sulla sua morte non si hanno notizie certe. Cicerone (De nat. deor. III 23) dice che fu pugnalato da un certo Vario. 9. Dei cacciatori di testamenti parlano anche Orazio e Petronio. 10. Di coloro che programmano la propria vita Seneca parla anche nelle Lettere a Lucilio (24, 1). 11. L’intero passo (Virgilio, Georg. III 66 sgg.) è il seguente: Optima quaeque dies miseris mortalibus aevi / prima fugit; subeunt morbi tristisque senectus / et labor, et durae rapit inclementia mortis. Così lo rese il Leopardi nell’Ultimo canto di Saffo: «Ogni più lieto / giorno di nostra età primo s’invola. / Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra / della gelida morte». 12. Papirio Fabiano, retore e filosofo stoico, fu maestro di Seneca. 13. Sono le aste pubbliche in cui venivano messi in vendita il bottino di guerra o i beni confiscati ai proscritti: perciò il loro acquisto era ritenuto disonorevole. 14. Dei servi «depilati» Seneca parla anche nelle Lettere a Lucilio (47, 2). 15. Caio Duilio vinse la flotta cartaginese a Milazzo durante la prima guerra punica, nel 260 a.C., Curio Dentato vinse Pirro nel 275. 16. Claudio, detto Caudex, Caudice, è Appio Claudio, sotto il cui consolato, nel 264 a.C:, iniziarono le guerre puniche. È da notare come Seneca, mentre da un lato condanna l’erudizione, ne faccia poi sfoggio in una serie di notizie da lui stesso definite inutili. 17. Valerio Corvino fu console nel 263 a.C. 18. Della battaglia fra uomini ed elefanti parla anche Cicerone. 19. A Pompeo era stato attribuito il soprannome di Magno. 20. Il «pomerio» era lo spazio consacrato che si trovava al di qua e al di là delle mura. 21. «Carneade! Chi era costui?»: così il Manzoni nei Promessi Sposi (cap. VIII). Filosofo e grande oratore nativo di Cirene e vissuto fra il 214 e il 129 a.C., seguace dell’indirizzo scettico sosteneva l’impossibilità di poter pervenire a una verità certa e riusciva a dimostrare con eguale convinzione e capacità persuasiva due tesi completamente opposte. Era talmente preso dalla sua professione (soleva parlare nelle pubbliche piazze) che si dimenticava persino di mangiare. 22. Allude all’amore di Giove per Alcmena, di cui parla anche Plauto in Amph. 113 sgg. 23. L’episodio di Serse che compiange la futura morte dei suoi soldati è narrato anche da Erodoto (VII 45). 24. La caliga, calzatura dei soldati, indica qui il servizio militare. 25. È forse il Caio Turannio, prefetto dell’annona sotto Tiberio, di cui parla Tacito ( Ann. I 7 e XI 31). 26. In verità i militari andavano in pensione a 45 anni e, stando a Seneca il Vecchio ( Controv. I 8, 4), i senatori erano dispensati dal partecipare alle sedute a 65 anni.
De constantia sapientis
1. Tantum inter Stoicos, Serene, et ceteros sapientiam professos interesse quantum inter feminas et mares non immerito dixerim, cum utraque turba ad vitae societatem tantundem conferat, sed altera pars ad obsequendum, altera imperio nata sit. Ceteri sapientes molliter agunt et blande, ut fere domestici et familiares medici aegris corporibus non qua optimum et celerrimum est medentur, sed qua licet; Stoici, virilem ingressi viam, non ut amena ineuntibus videatur curae habent, sed ut quam primum nos eripiat et in illum editum verticem educat, qui adeo extra omnem teli iactum surrexit ut supra fortunam emineat. «At ardua per quae vocamur et confragosa sunt». Quid enim? Plano aditur excelsum? Sed ne tam abrupta quidem sunt quam quidam putant. Prima tantum pars saxa rupesque habet et invii speciem, sicut pleraque ex longinquo speculantibus abscisa et conexa videri solent, cum aciem longinquitas fallat, deinde propius adeuntibus eadem illa, quae in unum congesserat error oculorum, paulatim adaperiuntur, tum illis quae praecipitia ex intervallo apparebant redit lene fastigium. 2. Nuper, cum incidisset mentio M. Catonis, indigne ferebas, sicut es iniquitatis impatiens, quod Catonem aetas sua parum intellexisset, quod supra Pompeios et Caesares surgentem infra Vatinios posuisset, et tibi indignum videbatur quod illi dissuasuro legem toga in foro esset erepta quodque, a Rostris usque ad Arcum Fabianum per seditiosae factionis manus traditus, voces improbas et sputa et omnes alias insanae multitudinis contumelias pertulisset. Tum ego respondi habere te quod rei publicae nomine movereris, quam hinc P. Clodius, hinc Vatinius ac pessimus quisque venundabat et, caeca cupiditate correpti, non intellegebant se, dum vendunt, et venire; pro ipso quidem Catone securum te esse iussi: nullum enim sapientem nec iniuriam accipere nec contumeliam posse, Catonem autem certius exemplar sapientis viri nobis deos immortales dedisse quam Ulixen et Herculem prioribus saeculis. Hos enim Stoici nostri sapientes pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrorum. Cato non cum feris manus contulit, quas consectari venatoris agrestisque est, nec monstra igne ac ferro persecutus est, nec in ea tempora incidit quibus credi posset caelum umeris unius inniti, excussa iam antiqua credulitate et saeculo ad summam perducto sollertiam. Cum ambitu congressus, multiformi malo, et cum potentiae immensa cupiditate, quam totus orbis in tres divisus satiare non poterat, adversus vitia civitatis degenerantis et pessum sua mole sidentis stetit solus, et cadentem rem publicam, quantum modo una retrahi manu poterat, tenuit, donec abstractus comitem se diu sustentatae ruinae dedit simulque exstincta sunt quae nefas erat dividi: neque enim Cato post libertatem vixit, nec libertas post Catonem. Huic tu putas iniuriam fieri potuisse a populo, quod aut praeturam illi detraxit aut togam, quod sacrum illud caput
purgamentis oris aspersit? Tutus est sapiens, nec ulla affici aut iniuria aut contumelia potest. 3. Videor mihi intueri animum tuum incensum et effervescentem. Paras acclamare: «Haec sunt quae auctoritatem praeceptis vestris detrahant: magna promittitis etquae ne optari quidem, nedum credi possint; deinde, ingentia locuti, cum pauperem negastis esse sapientem, non negatis solere illi et servum et tectum et cibum deesse; cum sapientem negastis insanire, non negatis et alienari et parum sana verba emittere et quicquid vis morbi cogit audere; cum sapientem negastis servum esse, idem non itis infitias et veniturum et imperata facturum et domino suo servilia praestaturum ministeria. Ita, sublato alte supercilio, in eadem quae ceteri descenditis, mutatis rerum nominibus. Tale itaque aliquid et in hoc esse suspicor, quod prima specie pulchrum atque magnificum est, nec iniuriam nec contumeliam accepturum esse sapientem. Multum autem interest utrum sapientem extra indignationem an extra iniuriam ponas. Nam, si dicis illum aequo animo laturum, nullum habet privilegium: contigit illi res vulgaris et quae discitur ipsa iniuriarum assiduitate, patientia. Si negas accepturum iniuriam, id est neminem illi tentaturum facere, omnibus relictis negotiis, Stoicus fio». Ego vero sapientem non imaginario honore verbomm exornare constitui, sed eo loco ponere quo nulla permittatur iniuria. Quid ergo? Nemo erit qui lacessat, qui tentet? Nihil in rerum natura tam sacrum est quod sacrilegum non inveniat. Sed non ideo divina minus in sublimi sunt, si exsistunt qui magnitudinem multum ultra se positam non tacturi appetant. Invulnerabile est non quod feritur, sed quod non laeditur: ex hac tibi nota sapientem exhibebo. Numquid dubium est quin certius robur sit quod non vincitur quam quod non lacessitur, cum dubiae sint vires inexpertae, at merito certissima firmitas habeatur quae omnes incursus respuit? Sic tu sapientem melioris scito esse naturae si nulla illi iniuria nocet quam si nulla fit. Et illum fortem virum dicam quem bella non subigunt nec admota vis hostilis exterret, non cui pingue otium est inter desides populos. Hoc igitur dico, sapientem nulli esse iniuriae obnoxium. Itaque non refert quam multa in illum coiciantur tela, cum sit nulli penetrabilis. Quomodo quorundam lapidum inexpugnabilis ferro duritia est nec secari adamas aut caedi vel deteri potest, sed incurrentia ultro retundit, quemadmodum quaedam non possunt igne consumi, sed flamma circumfusa rigorem suum habitumque conservant, quemadmodum proiecti quidam in altum scopuli mare frangunt nec ipsi ulla saevitiae vestigia tot verberati saeculis ostentant, ita sapientis animus solidus est et id roboris collegit, ut tam tutus sit ab iniuria quam illa quae rettuli. 4. «Quid ergo? Non erit aliquis qui sapienti facere tentet iniuriam?». Tentabit, sed non perventuram ad eum: maiore enim intervallo a contactu inferiorum abductus est quam ut ulla vis noxia usque ad illum vires suas perferat. Etiam cum potentes et imperio editi et consensu servientium validi nocere intendent, Tam citra sapientiam omnes eorum impetus deficient quam quae nervo
tormentisve in altum exprimuntur, cum extra visum exsilierint, citra caelum tamen flectuntur. Quid? Tu putas tum, cum stolidus ille rex multitudine telorum diem obscuraret, ullam sagittam in solem incidisse, aut demissis in profundum catenis Neptunum potuisse contingi? Ut caelestia humanas manus effugiunt et ab iis qui tempIa dimunt ac simulacra conflant nihil divinitati nocetur, ita quicquid fit in sapientem proterve, petulanter, superbe, frustra tentatur. «At satius erat neminem esse qui facere vellet». Rem difficilem optas humano generi, innocentiam; et non fieri eorum interest qui facturi sunt, non eius qui pati, ne si fiat quidem, potest. Immo nescio an magis vires sapientia ostendat tranquillitate inter lacessentia, sicut maximum argumentum est imperatoris armis virisque pollentis tuta securitas in hostium terra. 5. Dividamus, si tibi videtur, Serene, iniuriam a contumelia. Prior illa natura gravior est, haec levior et tantum delicatis gravis, qua non laeduntur homines, sed offenduntur. Tanta est tamen animorum dissolutio et vanitas, ut quidam nihil acerbius putent. Sic invenies servum qui flagellis quam colaphis caedi malit et qui mortem ac verbera tolerabiliora credat quam contumeliosa verba. Ad tantas ineptias perventum est ut non dolore tantum, sed doloris opinione vexemur, more puerorum, quibus metum incutit umbra et personarum deformitas et depravata facies, lacrimas vero evocant nomina parum grata auribus et digitorum motus et alia quae impetu quodam erroris improvidi refugiunt. Iniuria propositum hoc habet, aliquem malo afficere. Malo autem sapientia non relinquit locum: unum enim illi malum est turpitudo, quae intrare eo ubi iam virtus honestumque est non potest. Ergo, si iniuria sine malo nulla est, malum nisi turpe nullum est, turpe autem ad honestis occupatum pervenire non potest, iniuria ad sapientem non pervenit. Nam, si iniuria alicuius mali patientia est, sapiens autem nullius mali est patiens, nulla ad sapientem iniuria pertinet. Omnis iniuria deminutio eius est in quem incurrit, nec potest quisquam iniuriam accipere sine aliquo detrimento vel dignitatis vel corporis vel rerum extra nos positarum. Sapiens autem nihil perdere potest: omnia in se reposuit, nihil fortunae credidit, bona sua in solido habet, contentus virtute, quae fortuitis non indiget ideoque nec augeri nec minui potest (nam et in summum perducta incrementi non habent locum, et nihil eripit fortuna nisi quod dedit; virtutem autem non dat, ideo nec detrahit: libera est, inviolabilis, immota, inconcussa, sic contra casus indurata ut ne inclinari quidem, nedum vinci possit; adversus apparatus terribilium rectos oculos tenet; nihil ex vultu mutat, sive illi dura sive secunda ostentantur). Itaque nihil perdet quod perire sensurus sit; unius enim in possessione virtutis est, ex qua depelli numquam potest. Ceteris precario utitur: quis autem iactura movetur alieni? Quod si iniuria nihil laedere potest ex iis quae propria sapientis sunt, quia, virtute salva, sua salva sunt, iniuria sapienti non potest fieri. Megaram Demetrius ceperat, cui cognomen Poliorcetes fuit. Ab hoc Stilpon philosophus interrogatus num aliquid perdidisset: «Nihil» inquit «omnia mea mecum sunt». Atqui et patrimonium eius in praedam cesserat, et filias rapuerat hostis, et patria in
alienam dicionem pervenerat, et ipsum rex circumfusus victoris exercitus armis ex superiore loco rogitabat. At ille victoriam illi excussit et se, urbe capta, non invictum tantum, sed indemnem esse testatus est. Habebat enim vera secum bona, in quae non est manus iniectio. At quae dissipata et direpta ferebantur non iudicabat sua, sed adventicia et nutum fortunae sequentia; ideo ut non propria dilexerat. Omnium enim extrinsecus affluentium lubrica et incerta possessio est. 6. Cogita nunc an huic fur aut calumniator aut vicinus impotens aut dives aliquis regnum orbae senectutis exercens facere iniuriam possit, cui bellum et hostis et ille egregiam artem quassandarum urbium professus eripere nihil potuit. Inter micantes ubique gladios et militarem in rapina tumultum, inter flammas et sanguinem stragemque impulsae civitatis, inter fragorem templorum super deos suos cadentium, uni homini pax fuit. Non est itaque quod audax iudices promissum, cuius tibi, si parum fidei habeo, sponsorem dabo. Vix enim credis tantum firmitatis in hominem aut tantam animi magnitudinem cadere. Sed, si prodit in medium qui dicat: «Non est quod dubites an attollere se homo natus supra humana possit, an dolores, damna, ulcerationes, vulnera, magnos motus rerum circa se frementium securus aspiciat, et dura placide ferat et secunda moderate, nec illis cedens nec his fretus unus idemque inter diversa sit, nec quicquam suum nisi seputet esse. En adsum hoc vobis probaturus, sub isto tot civitatum eversore munimenta incussu arietis labefieri et turrium altitudinem cuniculis ac latentibus fossis repente desidere et aequaturum editissimas arces aggerem crescere, at nulla machinamenta posse reperiri quae bene fundatum animum agitent. Erepsi modo e ruinis domus et, incendiis undique relucentibus, flammas per sanguinem fugi; filias meas quis casus habeat, an peior publico, nescio; solus et senior et hostilia circa me omnia videns, tamen integrum incolumemque esse censum meum profiteor: teneo, habeo quicquid mei habui. Non est quod me victum victoremque te credas: vicit fortuna tua fortunam meam. Caduca illa et dominum mutantia ubi sint nescio; quod ad res meas pertinet, mecum sunt, mecum erunt. Perdiderunt isti divites patrimonia, libidinosi amores suos et magno pudoris impendio dilecta scorta, ambitiosi curiam et forum et loca exercendis in publico vitiis destinata; feneratores perdiderunt tabellas, quibus avaritia falso laeta divitias imaginatur: ego quidem omnia integra illibataque habeo. Proinde istos interroga qui flent, qui lamentantur, strictis gladiis nuda pro pecunia corpora opponunt, qui hostem onerato sinu fugiunt». Ergo ita habe, Serene, perfectum illum virum, humanis divinisque virtutibus plenum, nihil perdere, Bona eius solidis et inexsuperabilibus munimentis praecincta sunt. Non Babylonios illis muros contuleris, quos Alexander intravit; non Carthaginis aut Numantiae moenia, una manu capta; non Capitolium arcemve, habent ista hostile vestigium. Illa, quae sapientem tuentur, et a flamma et ab incursu tuta sunt, nullum introitum praebent, excelsa, inexpugnabilia, diis aequa. 7. Non est quod dicas, ita ut soles, hunc sapientem nostrum nusquam inveniri.
Non fingimus istud humani ingenii vanum decus nec ingentem imaginem falsae rei concipimus, sed qualem conformamus exhibuimus, exhibebimus, raro forsitan magnisque aetatum intervallis unum (neque enim magna et excedentia solitum ac vulgarem modum crebro gignuntur); ceterum hic ipse M. Cato, a cuius mentione haec disputatio processit, vereor ne supra nostrum exemplar sit. Denique validius debet esse quod laedit eo quod laeditur. Non est autem fortior nequitia virtute: non potest ergo laedi sapiens. Iniuria in bonos nisi a malis non tentatur: bonis inter se pax est. Quod si laedi nisi infirmior non potest, malus autem bono infirmior est, nec iniuria bonis nisi a dispari verenda est, iniuria in sapientem virum non cadit. Illud enim iam non es admonendus, neminem bonum esse nisi sapientem. «Si iniuste» inquis «Socrates damnatus est, iniuriam accepit». Hoc loco intellegere nos oportet posse evenire ut faciat aliquis iniuriam mihi et ego non accipiam: tamquam si quis rem quam e villa mea subripuit in domo mea ponat, ille furtum fecerit, ego nihil perdiderim. Potest aliquis nocens fieri, quamvis non nocuerit. Si quis cum uxore sua tamquam cum aliena concumbat, adulter erit, quamvis illa adultera non sit. Aliquis mihi venenum dedit, sed vim suam remixtum cibo perdidit: venenum ille dando scelere se obligavit, etiam si non nocuit. Non minus latro est, cuius telum opposita veste elusum est. Omnia scelera etiam ante effectum operis, quantum culpae satis est, perfecta sunt. Quaedam eius condicionis sunt et hac vice copulantur, ut alterum sine altero esse possit, alterum sine altero non possit. Quod dico conabor facere manifestum. Possum pedes movere, ut non curram; currere non possum, ut pedes non moveam. Possum, quamvis in aqua sim, non natare; si nato, non possum in aqua non esse. Ex hac sorte et hoc est de quo agitur: si iniuriam accepi, necesse est factam esse; si est facta, non est necesse accepisse me. Multa enim incidere possunt quae summoveant iniuriam: ut intentatam manum deicere aliquis casus potest et emissa tela declinare, ita iniurias qualescumque potest aliqua res repellere et in medio intercipere, ut et factae sint nec acceptae. 8. Praeterea iustitia nihil iniustum pati potest, quia non coeunt contraria; iniuria autem non potest fieri nisi iniuste: ergo sapienti iniuria non potest fieri. Nec est quod mireris si nemo illi potest iniuriam facere: ne prodesse quidem quisquam potest. Et sapienti nihil deest quod accipere possit loco muneris et malus nihil potest dignum tribuere sapiente: habere enim prius debet quam dare; nihil autem habet quod ad se transferri sapiens gavisurus sit. Non potest ergo quisquam aut nocere sapienti aut prodesse, quoniam divina nec iuvari desiderant nec laedi possunt, sapiens autem vicinus proximusque diis consistit, excepta mortalitate similis deo. Ad illa nitens pergensque excelsa, ordinata, intrepida; aequali et concordi cursu fluentia, secura, benigna, bono publico nata, et sibi et aliis salutaria, nihil humile concupiscet, nihil flebit. Qui, rationi innixus, per humanos casus divino incedit animo, non habet ubi accipiat iniuriam: ab homine me tantum dicere putas? Ne a fortuna quidem, quae, quotiens cum virtute congressa est, numquam par recessit. Si maximum illud ultra quod nihil habent
iratae leges ac saevissimi domini quod minentur, in quo imperium suum fortuna consumit, aequo placidoque animo accipimus et scimus mortem malum non esse ob hoc ne iniuriam quidem, multo facilius alia tolerabimus, damna et dolores, ignominias, locorum commutationes, orbitates discidia, quae sapientem, etiam si universa circumveniant, non mergunt, nedum ut ad singulorum impulsus maereat. Et, si fortunae iniurias moderate fert, quanto magis hominum potentium, quos scit fortunae manus esse! 9. Omnia itaque sic patitur ut hiemis rigorem et intemperantiam caeli, ut fervores morbosque et cetera forte accidentia, nec de quoquam tam bene iudicat ut illum quicquam putet consilio fecisse, quod in uno sapiente est. Aliorum omnium non consilia, sed fraudes et insidiae et motus animorum inconditi sunt, quos casibus adnumerat. Omne autem fortuitum circa nos saevit: et iniuria. Illud quoque cogita, iniuriarum latissime patere materiam illis per quae periculum nobis quaesitum est, ut accusa tore submisso aut criminatione falsa aut irritatis in nos potentiorum odiis quaeque alia inter togatos latrocinia sunt. Est et illa iniuria frequens, si lucrum alicui excussum est aut praemium diu captatum, si magno labore affectata hereditas aversa est et quaestuosae domus gratia erepta. Haec effugit sapiens, qui nescit nec in spem nec in metum vivere. Adice nunc quod iniuriam nemo immota mente accipit, sed ad sensum eius perturbatur, caret autem perturbatione vir ereptus erroribus, moderator sui, altae quietis et placidae. Nam, si tangit illum iniuria, et movet et impellit; caret autem ira sapiens, quam excitat iniuriae species, nec aliter careret ira nisi et iniuria, quam scit sibi non posse fieri. Inde tam erectus laetusque est, inde continuo gaudio elatus. Adeo autem ad offensiones rerum hominumque non contrahitur, ut ipsa illi iniuria usui sit, per quam experimentum sui capit et virtutem tentat. Faveamus, obsecro vos, huic proposito aequisque et animis et auribus adsimus, dum sapiens iniuriae excipitur! Nec quicquam ideo petulantiae vestrae aut rapacissimis cupiditatibus aut caecae temeritati superbiaeque detrahitur: salvis vitiis vestris haec sapienti libertas quaeritur. Non ut vobis facere non liceat iniuriam agimus, sed ut ille omnes iniurias inultas dimittat patientiaque se ac magnitudine animi defendat. Sic in certaminibus sacris plerique vicerunt caedentium manus obstinata patientia fatigando: ex hoc puta genere sapientem, eorum qui exercitatione longa ac fideli robur perpetiendi lassandique. Omnem inimicam vim consecuti sunt. 10. Quoniam priorem partem percucurrimus, ad alteram transeamus, qua quibusdam propriis, plerisque vero communibus contumeliam refutabimus. Est minor iniuria, quam queri magis quam exsequi possumus, quam leges quoque nulla dignam vindicta putaverunt. Hunc affectum movet humilitas animi contrahentis se ob dictum factumve inhonorificum: «Ille me hodie non admisit, cum alios admitteret», et: «Sermonem meum aut superbe aversatus est aut palam risit», et: «Non in medio me lecto, sed in imo collocavit», et alia huius notae, quae quid vocem nisi querellas nausiantis animi? In quae fere delicati et felices
incidunt; non vacat enim haec notare cui peiora instant. Nimio otio ingenia natura infirma et muliebria et inopia verae iniuriae lascivientia his commoventur, quorum pars maior constat vitio interpretantis. Itaque nec prudentiae quicquam in se esse nec fiduciae ostendit qui contumelia afficitur. Non dubie enim contemptum se iudicat, et hic morsus non sine quadam humilitate animi evenit supprimentis se ac descendentis. Sapiens autem a nullo contemnitur: magnitudinem suam novit, nullique tantum de se licere renuntiat sibi, et omnes has quas non miserias animorum, sed molestias dixerim non vincit, sed ne sentit quidem. Alia sunt quae sapientem feriunt, etiam si non pervertunt, ut dolor corporis et debilitas aut amicorum liberorumque amissio et patriae bello flagrantis calamitas: haec non nego sentire sapientem, nec enim lapidis illi duritiam ferrive asserimus. Nulla virtus est, quae non sentias perpeti. Quid ergo est? Quosdam ictus recipit, sed receptos evincit et sanat et comprimit; haec vero minora ne sentit quidem nec adversus ea solita illa virtute utitur dura tolerandi, sed aut non adnotat aut digna risu putat. 11. Praeterea, cum magnam partem contumeliarum superbi insolentesque faciant et male felicitatem ferentes, habet quo istum affectum inflatum respuat, pulcherrimam virtutem omnium, animi magnitudinem. Illa quicquid eiusmodi est transcurrit, ut vanas species somniorum visusque nocturnos nihil habentes solidi atque veri. Simul illud cogitat, omnes inferiores esse quam ut illis audacia sit tanto excelsiora despicere. Contumelia a contemptu dicta est, quia nemo nisi quem contempsit tali iniuria notat; nemo autem maiorem melioremque contemnit, etiam si facit aliquid quod contemnentes solent. Nam et pueri os parentium feriunt, et crines matris turbavit laceravitque infans et sputo aspersit, aut nudavit in conspectu suorum tegenda et verbis obscenioribus non pepercit, et nihil horum contumeliam dicimus. Quare? Quia qui facit contemnere non potest. Eadem causa est cur nos mancipiorum nostrorum urbanitas in dominos contumeliosa delectet, quorum audacia ita demum sibi in convivas ius facit, si coepit a domino, et, ut quisque contemptissimus et in ludibrium est, ita solutissimae linguae est. Pueros quidam in hoc mercantur procaces, et illorum impudentiam acuunt ac sub magistro habent, qui probra meditate effundant, nec has contumelias vocamus, sed argutias. Quanta autem dementia est iisdem modo delectari, modo offendi, et rem ab amico dictam maledictum vocare, a servulo ioculare convicium! 12. Quem animum nos adversus pueros habemus, hunc sapiens adversus omnes, quibus etiam post iuventam canosque puerilitas est. An quicquam isti profecerunt, quibus animi mala sunt auctique in maius errores, qui a pueris magnitudine tantum formaque corporum differunt, ceterum non minus vagi incertique, voluptatum sine dilectu appetentes, trepidi, et non ingenio, sed formidine quieti? Non ideo quicquam inter illos puerosque interesse quis dixerit, quod illis talorum nucumve et aeris minuti avaritia est, his auri argentique et urbium, quod illi inter ipsos magistratus gerunt et praetextam fascesque ac
tribunal imitantur, hi eadem in Campo Foroque et in Curia serio ludunt, illi in litoribus harenae congestu simulacra domuum excitant, hi, ut magnum aliquid agentes in lapidibus ac parietibus et tectis moliendis occupati, tutelae corporum inventa in periculum verterunt. Ergo par pueris longiusque progressis, sed in alia maioraque error est. Non immerito itaque horum contumelias sapiens ut iocos accipit, et aliquando illos tamquam pueros malo poenaque admonet, non quia accepit iniuriam, sed quia fecerunt et ut desinant facere. Sic enim et pecora verbere domantur, nec irascimur illis cum sessorem recusaverunt, sed compescimus, ut dolor contumaciam vincat. Ergo et illud solutum scies, quod nobis opponitur: quare, si non accepit iniuriam sapiens nec contumeliam, punit eos qui fecerunt? Non enim se ulciscitur, sed illos emendat. 13. Quid est autem quare hanc animi firmitatem non credas in virum sapientem cadere, cum tibi in aliis idem notare, sed non ex eadem causa liceat? Quis enim phrenetico medicus irascitur? Quis febricitantis et a frigida prohibiti maledicta in malam partem accipit? Hunc affectum adversus omnes habet sapiens, quem adversus aegros suos medicus, quorum nec obscena, si remedio egent, contrectare nec reliquias et effusa intueri dedignatur, nec per furorem saevientium excipere convicia. Scit sapiens omnes hos qui togati purpuratique incedunt valentes coloratos esse, quos non aliter videt quam aegros intemperantes. Itaque ne succenset quidem si quid in morbo petulantius ausi sunt adversus medentem et, quo animo honores eorum nihilo aestimat, eodem parum honorifice facta. Quemadmodum non placebit sibi si illum mendicus coluerit, nec contumeliam iudicabit si illi homo plebis ultimae salutanti mutuam salutationem non reddiderit, sic ne se suspiciet quidem si illum multi divites suspexerint (scit enim illos nihil a mendicis differre, immo miseriores esse: illi enim exiguo, hi multo egent), et rursus non tangetur si illum rex Medorum Attalusve Asiae salutantem silentio ac vultu arroganti transierit. Scit statum eius non magis habere quicquam invidendum quam eius cui in magna familia cura obtigit aegros insanosque compescere. Num moleste feram, si mihi non reddiderit nomen aliquis ex his qui ad Castoris negotiantur, nequam mancipia ementes vendentesque, quorum tabernae pessimorum servorum turba refertae sunt? Non, ut puto. Quid enim is boni habet, sub quo nemo nisi malus est? Ergo, ut huius humanitatem inhumanitatemque neglegit, ita et regis: «Habes sub te Parthos et Medos et Bactrianos, sed quos metu contines, sed propter quos remittere arcum tibi non contigit, sed hos deterrimos, sed venales, sed novum aucupantes dominium». Nullius ergo movebitur contumelia: omnes enim inter se differant, sapiens quidem pares illos ob aequalem stultitiam omnes putat. Nam, si semel se demiserit eo ut aut iniuria moveatur aut contumelia, non poterit umquam esse securus; securitas autem proprium bonum sapientis est. Nec committet ut iudicando contumeliam sibi factam honorem habeat ei qui fecit; necesse et enim, a quo quisque contemni moleste ferat, suspici gaudeat.
14. Tanta quosdam dementia tenet, ut sibi contumeliam fieri putent posse a muliere. Quid refert quam adeant, quot lecticarios habentem, quam oneratas aures, quam laxam sellam? Aeque imprudens animal est et, nisi scientia accessit ac multa eruditio, ferum, cupiditatum incontinens. Quidam se a cinerario impulsos moleste ferunt et contumeliam vocant ostiarii difficultatem, nomenclatoris superbiam, cubicularii supercilium. O quantus inter ista risus tollendus est, quanta voluptate implendus animus ex alienorum errorum tumultu contemplanti quietem suam! «Quid ergo? Sapiens non accedet adfores quas durus ianitor obsidet?». Ille vero, si res necessaria vocabit, experietur, et illum, quisquis erit, tamquam canem acrem obiecto cibo leniet, nec indignabitur aliquid impendere ut limen transeat, cogitans et in pontibus quibusdam pro transitu dari. Itaque illi quoque, quisquis erit, qui hoc salutationum publicum exerceat donabit: scit emere venalia. Ille pusilli animi est, qui sibi placet quod ostiario libere respondit, quod virgam eius fregit, quod ad dominum accessit et petiit corium. Facit se adversarium qui contendit, et, ut vincat, par fuit. «At sapiens colapho percussus quid faciet?». Quod Cato, cum illi os percussum esset: non excanduit, non vindicavit iniuriam, ne remisit quidem, sed factam negavit; maiore animo non agnovit quam ignovisset. Non diu in hoc haerebimus: quis enim nescit nihil ex his quae creduntur mala aut bona ita videri sapienti ut omnibus? Non respicit quid homines turpe iudicent aut miserum; non it qua populus, sed, ut sidera contrarium mundi iter intendunt, ita hic adversus opinionem omnium vadit. 15. Desinite itaque dicere: «Non accipiet ergo sapiens iniuriam, si caedetur, si oculus illi eruetur? Non accipiet contumeliam, si obscenorum vocibus improbis per forum agetur, si in convivio regis recumbere infra mensam vescique cum servis ignominiosa officia sortitis iubebitur, si quid aliud ferre cogetur eorum quae excogitari pudori ingenuo molesta possunt?». In quantumcumque ista vel numero vel magnitudine creverint, eiusdem naturae erunt: si non tangent illum parva, ne maiora quidem; si non tangent pauca, ne plura quidem. Sed ex imbecillitate vestra coniecturam capitis ingentis animi, et, cum cogitastis quantum putetis vos pati posse, sapientis patientiae paulo ulteriorem terminum ponitis. At illum in aliis mundi finibus sua virtus collocavit, nihil vobiscum commune habentem. Quaere et aspera et quaecumque toleratu gravia sunt audituque et visu refugienda: non obruetur eorum coetu et, qualis singulis, talis universis obsistet. Qui dicit illud tolerabile sapienti, illud intolerabile et animi magnitudinem intra certos fines tenet, male agit: vincit nos fortuna, nisi tota vincitur. Ne putes istam stoicam esse duritiam, Epicurus, quem vos patronum inertiae vestrae assumitis putatisque mollia ac desidiosa praecipere et ad voluptates ducentia: «Raro, inquit, sapienti fortuna intervenit». Quam paene emisit viri vocem! Vis tu fortius loqui et illam ex toto summovere! Domus haec sapientis angusta, sine cultu, sine strepitu, sine apparatu, nullis asservatur ianitoribus turbam venali fastidio digerentibus, sed per hoc limen vacuum et ab ostiariis liberum fortuna non transit: scit non esse illic sibi locum, ubi sui nihil est.
16. Quod si Epicurus quoque qui corpori plurimum indulsit, adversus iniurias exsurgit, quid apud nos incredibile videri potest aut supra humanae naturae mensuram? Ille ait iniurias tolerabiles esse sapienti, nos iniurias non esse. Nec enim est quod dicas hoc naturae repugnare: non negamus rem incommodam esse verberari et impelli et aliquo membro carere, sed omnia ista negamus iniurias esse; non sensum illis doloris detrahimus, sed nomen iniuriae, quod non potest recipi virtute salva. Uter verius dicat videbimus; ad contemptum quidem iniuriae uterque consentit. Quaeris quid inter duos intersit? Quod inter gladiatores fortissimos, quorum alter premit vulnus et stat in gradu, alter respiciens ad clamantem populum significat nihil esse et intercedi non patitur. Non est quod putes magnum quo dissidemus: illud quo de agitur, quod unum ad nos pertinet, utraque exempla hortantur, contemnere iniurias et quas iniuriarum umbras ac suspiciones dixerim, contumelias, ad quas despiciendas non sapiente opus est viro, sed tantum consipiente, qui sibi possit dicere: «Utrum merito mihi ista accidunt an immerito? Si merito, non est contumelia, iudicium est; si immerito, illi qui iniusta facit erubescendum est». Et quid est illud quod contumelia dicitur? In capitis mei levitatem iocatus est et in oculorum valetudinem et in crurum gracilitatem et in staturam: quae contumelia est, quod apparet audire? Coram uno aliquid dictum ridemus, coram pluribus indignamur, et eorum aliis libertatem non relinquimus, quae ipsi in nos dicere assuevimus; iocis temperatis delectamur, immodicis irascimur. 17. Chrysippus ait quendam indignatum quod illum aliquis vervecem marinum dixerat. In senatu flentem vidimus Fidum Cornelium, Nasonis Ovidii generum, cum illum Corbulo struthocamelum depilatum dixisset: adversus alia maledicta mores et vitam convulnerantia frontis illi firmitas adversus hoc tam absurdum lacrimae prociderunt. Tanta animorum imbecillitas est, ubi ratio discessit! Quid quod offendimur si quis sermonem nostrum imitatur, si quis incessum, si quis vitium aliquod corporis aut linguae exprimit? Quasi notiora illa fiant alio imitante quam nobis facientibus! Senectutem quidam inviti audiunt et canos et alia ad quae voto pervenitur. Paupertatis maledictum quosdam perussit, quam sibi obiecit quisquis abscondit. Itaque materia petulantibus et per contumeliam urbanis detrahitur, si ultro illam et prior occupes: nemo risum praebuit qui ex se cepit. Vatinium, hominem natum et ad risum et ad odium, scurram fuisse venustum ac dicacem memoriae proditum est: in pedes suos ipse plurima dicebat et in fauces concisas; sic inimicorum, quos plures habebat quam morbos, et in primis Ciceronis urbanitatem effugerat. Si hoc potuit ille duritia oris, qui assiduis conviciis pudere dedidicerat, cur is non possit qui studiis liberalibus et sapientiae cultu ad aliquem profectum pervenerit? Adice quod genus ultionis est eripere ei qui fecit factae contumeliae voluptatem. Solent dicere: «O miserum me! Puto, non intellexit». Adeo fructus contumeliae in sensu et indignatione patientis est. Deinde non deerit illi aliquando par: invenietur qui
te quoque vindicet. 18. C. Caesar, inter cetera vitia quibus abundabat contumeliosus, mira libidine ferebatur omnes aliqua nota feriendi, ipse materia risus benignissima: tanta illi palloris insaniam testantis foeditas erat, tanta oculorum sub fronte anili latentium torvilas, tanta capitis destituti et emendicaticiis capillis aspersi deformitas. Adice obsessam saetis cervicem, et exilitatem crurum, et enormitatem pedum. Immensum est si velim singula referre per quae in parentes avosque suos contumeliosus fuit, per quae in universos ordines; ea referam quae illum exitio dederunt. Asiaticum Valerium in primis amicis habebat, ferocem virum et vix aequo animo alienas contumelias laturum. Huic in convivio, id est in contione, voce clarissima qualis in concubitu esset uxor eius obiecit. Di boni! hoc virum audire! Et usque eo licentiam pervenisse ut, non dico consulari, non dico amico, sed tantum marito princeps et adulterium suum narret et fastidium! Chaereae contra, tribuno militum, sermo non pro manu erat, languidus sono et, ni facta nosses, suspectior. Huic Gaius signum petenti modo Veneris, modo Priapi dabat, aliter atque aliter exprobrans armato mollitiam; haec ipse perlucidus, crepidatus, auratus. Coegit itaque illum uti ferro, ne saepius signum peteret. Ille primus inter coniuratos manum sustulit, ille cervicem mediam uno ictu decidit. Plurimum deinde undique publicas ac privatas iniurias ulciscentium gladiorum ingestum est, sed primus vir fuit qui minime visus est. At idem Gaius omnia contumelias putabat, ut sunt ferendarum impatientes faciendarum cupidissimi. Iratus fuit Herennio Macro quod illum Gaium salutaverat, nec impune cessit primipilari quod Caligulam dixerat: hoc enim in castris natus et alumnus legionum vocari solebat, nullo nomine militibus familiarior umquam factus; sed iam Caligulam convicium et probrum iudicabat cothurnatus. Ergo hoc ipsum solacio erit, etiam si nostra facilitas ultionem omiserit, futurum aliquem qui poenas exigat a procace et superbo et iniurioso, quae vitia numquam in uno homine et in una contumelia consumuntur. 19. Respiciamus eorum exempla quorum laudamus patientiam, ut Socratis, qui comoediarum publicatos in se et spectatos sales in partem bonam accepit risitque non minus quam cum ab uxore Xanthippe immunda aqua perfunderetur. Antistheni mater barbara et Thraessa obiciebatur; respondit et deorum matrem Idaeam esse. Non est in rixam colluctationemque veniendum. Procul auferendi pedes sunt, et quicquid horum ab imprudentibus fiet (fieri autem nisi ab imprudentibus non potest) neglegendum, et honores iniuriaeque vulgi in promiscuo habendae, nec his dolendum nec illis gaudendum. Alioqui multa timore contumeliarum aut taedio necessaria omittemus publicisque et privatis officiis, aliquando etiam salutaribus, non occurremus, dum muliebris nos cura angit aliquid contra animum audiendi. Aliquando etiam, obirati potentibus, detegemus hunc affectum intemperanti libertate. Non est autem libertas nihil pati: fallimur; libertas est animum superponere iniuriis et eum facere se ex quo solo
sibi gaudenda veniant, exteriora diducere a se, ne inquieta agenda sit vita omnium risus, omnium linguas timenti. Quis enim est qui non possit contumeliam facere; si quisquam potest? Diverso autem remedio utetur sapiens affectatorque sapientiae. Imperfectis enim et adhuc ad publicum se iudicium dirigentibus hoc proponendum est, inter iniurias ipsos contumeliasque debere versari: omnia leviora accident exspectantibus. Quo quisque honestior genere, fama, patrimonio est, hoc se fortius gerat, memor in prima acie lectos ordines stare. Contumelias et verba probrosa et ignominias et cetera dehonestamenta velut clamorem hostium ferat et longinqua tela et saxa sine vulnere circa galeas crepitantia. Iniurias vero ut vulnera, alia armis, alia pectori infixa, non deiectus, ne motus quidem gradu, sustineat. Etiam si premeris et infesta vi urgeris, cedere tamen turpe est: assignatum a natura locum tuere. Quaeris quis hic sit locus? Viri. Sapienti aliud auxilium est, huic contrarium: vos enim rem geritis, illi parta victoria est. Ne repugnate vestro bono, et hanc spem, dum ad verum pervenitis, alite in animis, libentesque meliora excipite et opinione ac voto iuvate: esse aliquid invictum, esse aliquem in quem nihil fortuna possit, e re publica est generis humani.
La fermezza del saggio
Premessa Il De constantia sapientis affronta un aspetto particolare del saggio e cioè il suo atteggiamento di fronte alle offese. Composto fra il 55 e il 56 e dedicato ad Anneo Sereno, sovrintendente delle guardie imperiali (un epicureo che Seneca si propone di convertire allo stoicismo e a cui dedicherà anche il De otio e il De tranquillitate animi), il dialogo reca già indicato il contenuto nel sottotitolo, in cui è detto nec iniuriam nec contumeliam accipere sapientem, cioè che il saggio non può essere toccato da alcun tipo di offesa, un tema che, per ciò che riguarda l’impassibilità del saggio, ricorre anche nel De providentia e nella Consolatio ad Helviam matrem. Cosa sono l’iniuria e la contumelia? L’iniuria (da in-ius, o in-iustitia) è un’offesa «contro il diritto», o «contro la giustizia», la contumelia è anch’essa un’offesa, consistente, però, in parole o invettive rivolte ad altri direttamente, a voce o per iscritto, allo scopo di lederne l’onore: un vilipendio, dunque, un atto di disprezzo, come testimonia la derivazione del vocabolo da contemnere, che significa appunto «disprezzare». Seneca la considera meno grave dell’ingiuria, precisando, a dimostrazione di ciò, che «le leggi non la ritengono passibile di alcuna sanzione». Tradurre dunque contumelia col termine generico di «offesa» (come fanno alcuni) non è esatto. C’è chi rende iniuria con «offesa grave» e contumelia con «offesa lieve», ma è una distinzione inutile, tantopiù che i Romani generalmente – e non alcuni, come dice Seneca – ritenevano la contumelia più grave, appunto perché muoveva da un sentimento di disprezzo. Noi, tagliando la testa al toro, abbiamo reso iniuria e contumelia con i loro esatti corrispondenti «ingiuria» e «contumelia», ricorrendo a volte, anche per evitare ripetizioni, al termine generico di «offesa», ma solo riguardo all’iniuria. Per dare subito un’idea del suo modello di saggezza, Seneca dice che fra il saggio stoico e tutti quanti gli altri saggi c’è la stessa differenza che passa fra i maschi e le femmine, nel senso che gli uni sono nati per comandare, le altre per obbedire, e paragona i saggi non stoici ai medici di famiglia, che curano le malattie non come dovrebbero, ma come vogliono i malati. I saggi stoici, invece, virilem ingressi viam, non si preoccupano che la «cura» sia gradevole, ma mirano solo a liberarci al più presto dalla schiavitù dei nostri mali. Parlando poi del saggio in generale, Seneca dice che egli non può essere toccato da nessuna ingiuria o contumelia, perché, attraverso l’esercizio continuo della virtù che lo ha abituato a sopportare ogni sorta di offese, ha raggiunto l’imperturbabilità. Egli è simile a quei corpi che il fuoco non riesce a distruggere, o all’acciaio, contro cui si spuntano gli attrezzi che cercano di scalfirlo, o ancora a certi scogli che, per quanto flagellati per secoli dalle onde, non mostrano alcuna traccia della loro violenza. E cita gli esempi di Catone Uticense – che, preso a schiaffi, non reagì, né perdonò l’offesa, ma negò semplicemente che gli fosse stata fatta (dimostrando così, con l’ignorarla, maggiore magnanimità che perdonandola) – e del filosofo greco Stilpone, il quale, avendo perso ogni cosa nella distruzione della sua città, dichiarò che nulla aveva perduto, dal momento che i suoi veri beni – la virtù, la saggezza, l’imperturbabilità – erano sempre con lui. Di fronte alle offese, precisa Seneca, l’atteggiamento degli epicurei è sostanzialmente diverso da quello degli stoici, giacché i primi sostengono che per il saggio esse sono tollerabili, i secondi che non esistono neppure. Le offese, dice poi, le fanno gli sprovveduti e perciò non possono essere prese in considerazione, così come non si ritengono offensive le parole ingiuriose di un bambino. Bambini, infatti, sono considerati da Seneca tutti quelli che offendono. Quanto alla donna, egli si chiede (XIV), quale offesa può recare «un essere irriflessivo, selvatico e incapace di controllare le proprie passioni?». Eppure – osserva meravigliato – «alcuni arrivano a tal punto di stupidità da ritenere di poter essere offesi da una donna» (cioè da un essere inferiore, che, come ha detto all’inizio del dialogo, è nato per obbedire). Rimprovera poi coloro che offendono, ma aggiunge che proprio perché le offese ci sono la saggezza mostra la sua forza (se non ci fossero le tentazioni non ci sarebbe la virtù). Ci esorta infine a consolarci pensando che prima o poi qualcuno, punendo chi l’ha offeso, vendicherà anche noi, e, a conferma di ciò, cita l’esempio di Caligola, che a furia d’insultare la gente ebbe la morte che meritava. Anche in questo dialogo non sempre le argomentazioni di Seneca a sostegno del suo pensiero sono chiare e convincenti. La stessa immagine che egli ci dà del saggio non è del tutto coerente, ma il
dialogo è molto vivo, sia per gli esempi felici e appropriati ricavati dalla vita quotidiana, sia per il rapporto che Seneca riesce a instaurare con le persone di qualunque ceto e cultura, specialmente nella parte finale, in cui ci esorta a sopportare serenamente qualunque tipo di offesa, mostrandoci degni del nome di uomini. M. S. A.
1. Si può giustamente affermare, o Sereno, che fra gli stoici e quelli che come loro professano la saggezza c’è la stessa differenza che passa tra i maschi e le femmine, nel senso che entrambi i gruppi contribuiscono in uguale misura alla vita sociale, ma i maschi sono nati per comandare, le femmine per obbedire. Tutti gli altri saggi sono miti e indulgenti e si comportano perlopiù come quei medici di famiglia che curano le malattie non nel modo migliore e più rapido, ma come piace al malato; gli stoici, invece, che seguono una condotta davvero degna dell’uomo, non si preoccupano che essa appaia gradevole agli iniziati, a coloro, cioè, che hanno scelto di mettersi su quella strada, ma pensano solo a liberarsi al più presto dalle pastoie della vita, sollevandosi a una vetta così alta, al di là di qualunque gettata di dardo, da porsi al di sopra del loro stesso destino. Obietterai che quella indicata dagli stoici è una strada ripida e piena di precipizi. E con ciò? Forse che in alto si arriva facilmente, tenendosi rasoterra? Ma poi questo cammino non è neppure così ripido e dirupato come generalmente si crede. Solo il primo tratto è cosparso di sassi e di rupi, e perciò sembra impraticabile, così come, a colpo d’occhio, se si guardano da lontano, tutti i sentieri di una montagna appaiono perlopiù tortuosi e collegati fra loro in una massa uniforme, inquantoché la distanza inganna la vista, ma poi, via via che ci si avvicina, quello che l’occhio umano aveva per errore mescolato in un tutto unico e confuso, a poco a poco si fa chiaro e distinto e quelli che da lontano sembravano precipizi diventano lievi e facili pendii. 2. Qualche tempo fa, essendo il nostro discorso caduto su Catone,1 ti mostrasti sdegnato – tu che non tolleri le ingiustizie – per il fatto che quel grand’uomo fu capito poco dai suoi contemporanei, i quali lo giudicavano addirittura al di sotto di Vatinio, lui che era al di sopra di Cesare e di Pompeo, e ti sembrava vergognoso che nel Foro, poiché era contrario all’approvazione di una legge, gli fosse stata strappata di dosso la toga e che, trascinato dai Rostri sino all’Arco di Fabio da una banda di facinorosi, avesse dovuto sopportare gl’insulti, gli sputi e ogni altro genere di offese da parte della folla inferocita. Ebbene, allora io ti risposi che avevi ragione a sdegnarti per la sorte dello Stato – che Publio Clodio2 da un lato e Vatinio da un altro, insieme a tutti i peggiori, stavano vendendo all’asta, senza rendersi conto, accecati com’erano dalla loro avidità, che vendendo lo Stato vendevano anche sé stessi – ma per ciò che riguardava Catone ti dissi di stare tranquillo, giacché nessun uomo saggio può
subire alcuna ingiuria o contumelia, e Catone ci era stato dato dagli dèi immortali quale esempio di saggezza, ancora più sicuro di quello offerto da Ulisse e da Ercole alle nostre passate generazioni. Costoro furono definiti saggi dai nostri antichi stoici perché invincibili nelle fatiche, sprezzanti dei piaceri e vincitori di tutte le paure, Catone, invece, non combatte contro le belve – un compito, questo, riservato ai cacciatori e ai contadini – né assalì mostri col ferro o col fuoco, né gli toccò di vivere in un tempo in cui ancora si poteva credere che il mondo poggiasse sulle spalle di un gigante, giacché ormai le vecchie superstizioni erano crollate e la gente s’era fatta estremamente scaltra. Lottando contro l’ambizione, mostro dai mille volti, e contro la smisurata brama di potere – tale che nemmeno il mondo intero, diviso fra tre sole persone, Cesare, Crasso e Pompeo,3 poteva saziare – lui solo si levò contro i vizi di una città corrotta che stava per crollare sotto il suo stesso peso, ritardando così la caduta della repubblica, per quanto poteva farlo con la sua sola mano, sino a quando, travolto anche lui, volle partecipare a quella rovina che aveva cercato a lungo di evitare, e così perirono insieme due cose che non era possibile separare: né Catone, infatti, sopravvisse alla libertà, né la libertà sopravvisse a Catone. Credi dunque che il volgo abbia recato offesa a quest’uomo quando gli tolse la pretura, gli strappò di dosso la toga o coprì il suo sacro capo di sputi? Il saggio è imperturbabile di fronte a ogni male e non può essere raggiunto da alcuna ingiuria o contumelia. 3. A questo punto mi sembra di vederti fremere dentro e ribollire di sdegno. «Ecco», stai per sbottare, «sono questi i discorsi che tolgono credibilità ai vostri insegnamenti: promettete cose tanto grandi che non si possono né credere né desiderare, poi, dopo averne dette tante, dopo avere affermato che il saggio non può essere povero, siete costretti a riconoscere che spesso non ha uno schiavo, non ha un tetto, né cibo, addirittura; dopo avere proclamato che il saggio non può diventare pazzo, ammettete che può perdere il lume della ragione, dire parole insensate e comportarsi di conseguenza, non potendo sottrarsi agl’impulsi della sua malattia; così da un lato dite che il saggio non può essere schiavo, dall’altro confessate che può essere venduto o costretto a eseguire degli ordini e a compiere lavori servili per un padrone, sicché in sostanza, con tutta la vostra boria, finite col dire le stesse cose che dicono gli altri: cambiate i nomi, ma il contenuto resta tale e quale. E mi viene il sospetto che il vostro ragionamento non funzioni nemmeno per quel che riguarda l’idea, bella e magnifica a prima vista, secondo cui il saggio non può ricevere né ingiurie né contumelie. Perché un conto è ritenere il saggio immune da ogni risentimento (in quanto questo dipende da lui), un conto è ritenerlo esente da ogni ingiuria (in quanto questa dipende dagli altri). Se infatti dici che sopporta ogni cosa con animo sereno non gli dai alcun privilegio sugli altri, gli conferisci solo una virtù abbastanza comune, che si acquista proprio con la frequenza delle ingiurie ricevute, la sopportazione; se invece mi dimostri che non riceverà mai alcuna offesa, nel senso che nessuno
tenterà di fargliene, allora pianto baracca e burattini e mi faccio stoico». Ascoltami bene. Io non mi sono mai sognato d’incensare il saggio con delle lodi sperticate, attribuendogli delle doti immaginarie, ho solo voluto collocarlo in un posto in cui non possa giungergli alcuna offesa. In che senso?, mi domandi. Nel senso che non ci sarà mai nessuno che lo provochi, che lo aggredisca? In questo mondo non c’è niente di tanto sacro che non possa essere soggetto agli attacchi di un empio, ma non per questo le cose divine sono meno sublimi, per il fatto, cioè, ch’esiste qualcuno desideroso di colpirle; senza però riuscire a toccarle, giacché si trovano a una tale altezza che va ben oltre la portata delle nostre forze. In poche parole, è invulnerabile non chi non viene colpito, ma chi non si sente ferito: in questo è il privilegio del saggio, e te ne farò il ritratto partendo proprio da qui. C’è forse da dubitare se dia più affidamento una forza che non si lascia mai vincere o una che non viene mai attaccata? Nessuna certezza ci offrono quelle energie che non sono mai state messe alla prova, mentre è da considerarsi, e giustamente, saldissima quella fermezza che respinge tutti gli assalti. Allo stesso modo devi considerare più saggio chi non sente le ingiurie che non colui al quale non ne viene mai fatta alcuna. Così come è più forte chi non si lascia piegare dalle guerre o non si turba al sopraggiungere del nemico, che non chi vive in un piacevole ozio fra pacifiche popolazioni. È questo, dunque, ciò che intendo dire quando affermo che il saggio non è soggetto ad alcuna ingiuria. Perciò non importa quante e quali frecciate gli si lancino addosso: egli è impenetrabile a tutte. Come certe pietre per la loro durezza non vengono intaccate dal ferro,4 come l’acciaio non può essere tagliato o spezzato o consumato con l’uso, ma respinge gli attrezzi che lo aggrediscono, come certi corpi non sono distrutti dal fuoco ma anche avvolti dalle fiamme mantengono la loro forma e la loro consistenza, come certi scogli che, protesi verso il mare aperto, frangono le onde e, benché flagellati per tanti secoli, non mostrano alcuna traccia di quella violenza, così l’animo del saggio se ne sta saldo e sicuro e accoglie in sé una forza tale che lo pone al riparo da ogni ingiuria, come le cose che perlappunto ho citato. 4. «In conclusione, nessuno tenterà di fare ingiuria al saggio: è questo che vuoi dire?». Dico che l’ingiuria può anche essergli fatta, ma non lo tocca: egli è talmente lontano da ogni contatto con le cose volgari che nessuna forza maligna può praticamente raggiungerlo ed esercitare su di lui i suoi effetti nocivi. Siano pure i potenti ad attaccarlo – quelli che stanno in alto e comandano, forti del servilismo dei sudditi – tutti i loro assalti sono destinati a fallire di fronte alla sua saggezza prima ancora di sfiorare il bersaglio, come dei proiettili scagliati in alto da un arco o da una catapulta, che salgono, salgono sino a perdita d’occhio ma a un certo punto ricadono giù senz’avere raggiunto il cielo. Credi forse che quando quel pazzo del re Serse5 oscurò il giorno scagliando in aria una gran moltitudine di frecce ce ne sia stata fra tante almeno una che abbia colpito il sole? O che quando calò delle catene nel profondo del mare abbia potuto
acchiappare Nettuno? Come le cose divine sfuggono alla mano dell’uomo e quelli che distruggono templi e fondono statue degli dèi non nuocciono affatto alla divinità, così qualunque atto di malvagità, d’insolenza e di superbia compiuto contro il saggio è sforzo vano. Mi obietterai che sarebbe meglio se nessuno l’offendesse. D’accordo, ma tu pretendi dagli uomini una cosa difficile, l’incapacità di fare del male; e d’altronde questo problema, se astenersi o no dalle offese, riguarda solo coloro che sono in grado di poterle fare, ma non chi non può esserne toccato, chi non sente le ingiurie che gli vengono rivolte, ed è proprio in questo caso, se cioè le offese ci sono, che la saggezza mostra meglio la sua forza, restandosene tranquilla pur in mezzo agli assalti, così come un comandante, forte d’armi e di uomini, dà prova di un coraggio autentico, vero, in territorio nemico. 5. E adesso, Sereno, se sei d’accordo, vediamo che differenza passa fra l’ingiuria e la contumelia. La prima è per sua natura più grave, la seconda più leggera e risulta molesta solo alle persone permalose, non procura praticamente alcun danno, genera solo irritazione. Tuttavia la debolezza e la vanità dell’animo umano sono tali che alcuni considerano la contumelia come la cosa più terribile che vi sia, per cui può capitare che uno schiavo preferisca essere preso a frustate piuttosto che a pugni o ritenga la morte e le percosse più sopportabili delle parole offensive: siamo infatti arrivati all’assurdo che persino l’idea del dolore ci procura risentimento, come accade ai bambini, che si spaventano alla vista di un’ombra, di una maschera deforme o di un volto alterato, e che di fronte a una parola dal suono poco gradevole, a un movimento delle dita o a qualunque altro fatto che, per la loro inesperienza, istintivamente respingono, scoppiano subito a piangere. L’ingiuria mira a fare del male, ma questo non ha presa sul saggio: per lui l’unico male sarebbe l’infamia, ma anche questa non può entrare dove risiedono la virtù e l’onestà. Dunque, se non c’è ingiuria dove non c’è male, se non c’è male dove non c’è infamia, e l’infamia non può toccare chi è tutto preso dal bene, ne consegue che l’ingiuria non può raggiungere il saggio. Se essa infatti consiste nel patire qualcosa di male, e il saggio non può patire alcun male, è evidente che nessuna ingiuria potrà toccarlo. L’ingiuria reca danno a chi la riceve, il danno consiste in una qualche menomazione fisica o morale o nella perdita di beni esterni, ma il saggio non può perdere nulla in quanto ha tutto dentro di sé, non affida niente alla fortuna, ha i suoi beni al sicuro, pago della virtù, che non ha bisogno di cose fortuite e che perciò, essendo tutto per lui, non può né aumentare né diminuire: infatti ciò che ha raggiunto il massimo del suo sviluppo non può crescere ulteriormente, e d’altra parte la sorte può togliere solo quello che ha dato, ma non la virtù, che non è elargita da lei, in quanto è libera, inviolabile, immutabile, irremovibile, così fortificata di fronte alle disgrazie che non si lascia né piegare né vincere, osserva con occhio fermo, imperturbabile, senza battere ciglio, anche gli eventi più terribili che stanno per accadere e lo svolgersi di essi, siano pure i più spaventosi, le portino sventure o felicità. Il
saggio, quindi, non può perdere nulla di cui possa poi sentire la mancanza: il suo unico e vero bene, infatti, è la virtù, di cui, come ho già detto, non potrà mai essere privato; di tutto il resto si serve come di cosa precaria, accordatagli da altri a titolo di favore e perciò revocabile a discrezione di chi gliel’ha data, e chi mai si scompone per la perdita di un bene non suo? Ergo, se l’ingiuria non può danneggiarlo in niente di ciò che è esclusivamente suo – e se è salva la sua virtù sono salvi tutti i suoi beni – ne consegue che il saggio non può ricevere ingiuria. Il filosofo Stilpone, interrogato da Demetrio Poliorcete6 – che aveva conquistato Megara, la sua città – se mai avesse perso qualcosa: «Nulla», rispose, «tutti i miei beni sono con me». Eppure il nemico gli aveva depredato l’intero patrimonio, portato via le figlie, la sua patria era caduta sotto il dominio straniero, e ora il re vincitore, attorniato da tutto il suo esercito in armi, lo interrogava dall’alto del suo seggio. Ma lui gli tolse la soddisfazione di averlo vinto, gridandogli chiaro in faccia che nonostante la presa della città egli non solo rimaneva invitto ma ne usciva immune da qualsiasi danno, giacché aveva con sé i beni veri, autentici, su cui nessuno può mettere le mani: gli altri, che gli venivano saccheggiati e portati via, non li considerava suoi ma stranieri e soggetti al capriccio della sorte, per cui non li aveva mai amati come propri. Incerto, infatti, e sfuggevole è il possesso di tutto ciò che ci viene dal di fuori. 6. Se dunque né la guerra, né i nemici, né quel maestro famoso nell’arte egregia di distruggere le città poterono togliere nulla a quel grande saggio, pensa un po’ se potevano fargli ingiuria un ladro, un calunniatore, un vicino di casa arrogante o un riccone gonfio di autorità soltanto perché vecchio e senza figli. Fra le spade che balenavano da ogni parte e il tumulto dei soldati intenti al saccheggio, tra le fiamme, il sangue e le stragi di una città in rovina, tra il fragore dei templi che crollavano sui loro dèi, un solo uomo era in pace.7 Non hai motivo, quindi, di considerare avventata la mia promessa, a sostegno della quale non ti do solo la mia parola ma ti offro anche un garante, visto che ancora stenti a credere che in un uomo possano esserci tanta fermezza e tanta magnanimità. Ecco che lo stesso Stilpone ti si fa avanti e ti dice: «Non hai ragione di dubitare che un uomo possa innalzarsi al di sopra delle vicende umane e guardare imperterrito i dolori, le sventure, le piaghe, le ferite, i grandi cambiamenti che gli si agitano intorno; che possa accettare tranquillamente le avversità e con moderazione la buona sorte, non lasciandosi vincere da quelle né confidando troppo in questa, mantenendo insomma il medesimo atteggiamento pur nel variare delle situazioni e ritenendosi proprietario di niente altro che di sé stesso. Ecco, guarda: mentre a opera di questo distruttore di città ogni difesa materiale crolla sotto i colpi dell’ariete, le alte torri all’improvviso sprofondano nei cunicoli e nei fossi sotterranei e i bastioni innalzati per l’assedio raggiungono le difese più alte, non c’è macchina che possa atterrire un animo così saldo. Sono appena scampato alla rovina della mia casa e con gl’incendi che divampano da ogni parte ho evitato le fiamme attraversando laghi di sangue; ignoro la sorte delle mie figlie, forse
peggiore di quella toccata alla città; vecchio e solo, attorno a me non vedo che nemici, e tuttavia dichiaro apertamente che il mio patrimonio non ha subìto alcun danno: tutto quello che avevo m’è rimasto. Non puoi perciò considerarmi vinto, né, per quel che mi riguarda, ritenere vincitore quel re: non è lui, infatti, semmai, che mi ha sconfitto, è la sua sorte, di cui egli non è che uno strumento, che ha avuto ragione della mia. Non so dove siano quei beni caduchi, destinati a mutare padrone, ma i miei, quelli autentici, veri, sono con me, né mai potranno lasciarmi. I ricchi perdono interi patrimoni, i libertini gli amori lascivi, di cui si compiacciono con grave danno per la propria reputazione, gli ambiziosi il Foro, il Senato e gli altri posti riservati al pubblico esercizio delle umane debolezze, gli usurai perdono i registri, su cui la loro avarizia, che va beandosi a torto, sogna ricchezze a non finire; io, invece, conservo intatta e integra ogni cosa. Interroga questi vinti che piangono, che si lamentano di aver perduto qualcosa, che per salvare il denaro oppongono alle spade sguainate il corpo nudo, che fuggono davanti al nemico col grembo pieno di roba». Convinciti dunque, o Sereno, che chi è perfetto, ricco, cioè, di virtù umane e divine, non può perdere nulla. I suoi beni sono protetti da difese solide e inespugnabili. Niente sono al confronto di queste le mura di Babilonia, nelle quali Alessandro riuscì a penetrare,8 né quelle di Cartagine e di Numanzia, espugnate da un solo braccio, né la rocca del Campidoglio, che porta ancora i segni dell’assalto nemico. Le mura che difendono il saggio sono a prova d’incendi e d’incursioni, né offrono il minimo accesso; inattaccabili, eccelse, s’alzano sino agli dèi. 7. E ora, come al solito, non dirmi che questo saggio non lo si trova da nessuna parte. Noi stoici non c’inventiamo una gloria impossibile per l’uomo, non concepiamo l’immagine sublime di qualcosa che non esiste: questo saggio, quale noi lo rappresentiamo, si è già realizzato e si realizzerà ancora, raramente, forse, magari ne verrà fuori uno ogni tanto, a lunghi intervalli di tempo, perché gli uomini eccezionali, che superano il livello comune, non nascono spesso, ma verrà; e d’altra parte penso che Marco Catone stesso, dal cui ricordo ha preso inizio questa nostra discussione, sia andato addirittura al di là del modello che noi stoici proponiamo. Considera infine che ciò che ferisce deve necessariamente essere più forte di ciò che viene ferito, e poiché la malvagità non è più forte della virtù ne consegue che il saggio non può esserne ferito. È ovvio, infatti, che solo i cattivi possono tentare di nuocere ai buoni, giacché questi sono in pace, fra loro, e se può sentirsi ferito soltanto chi è più debole del feritore – e il malvagio è più debole del buono – è evidente che il saggio non può essere toccato dall’ingiuria. Quando dico saggio mi riferisco naturalmente a un uomo buono, giacché la bontà – non c’è bisogno ch’io te lo ricordi – è propria della saggezza. Mi obietterai: «Ma se Socrate, ch’era un uomo buono, ha scontato, e ingiustamente, una condanna, vuol dire che l’ingiuria l’ha subita». Non è così: il fatto che uno mi lanci un insulto non comporta necessariamente che io lo riceva. È come se un ladro rubasse un oggetto della mia villa di campagna e
andasse a riporlo nella mia casa di città: il furto è stato commesso, ma io non ho perduto niente. Quanto al ladro, egli rimane sempre un malfattore, anche se, praticamente, non ha recato alcun male. Se un marito, mentre fa l’amore con la sua donna, pensa a un’altra, si comporta da adultero, ma sua moglie non può certo dirsi infedele. Mettiamo che uno mi somministri del veleno mescolandolo nel cibo e che per questa ragione quello non faccia alcun effetto: bene, quel tizio, nel darmi il veleno, ha commesso un crimine, anche se all’atto pratico non m’ha ammazzato. Un delinquente non è meno assassino per il fatto che io ho impedito alla sua arma di uccidermi facendomi scudo con la veste. Tutti i delitti sussistono anche prima della loro esecuzione materiale, quando, naturalmente, vi sia un motivo sufficiente di colpa. Alcune cose, poi, sono di tale natura e collegate fra loro in modo che una può stare senza l’altra ma non viceversa. Cercherò di chiarirti il mio concetto. Io posso muovere i piedi senza per questo camminare, ma non posso camminare senza muovere i piedi. Così se sto in acqua posso non nuotare, ma se nuoto devo per forza essere in acqua. Lo stesso vale per ciò di cui stiamo parlando: se ho ricevuto un’ingiuria è segno ch’è stata commessa, ma, se mi è stata indirizzata, non necessariamente io devo averla raccolta. Per non dire che possono intervenire molti fattori esterni a impedire che l’ingiuria mi arrivi: come un fatto accidentale può bloccare la mano che tenta di colpirmi, o deviare una freccia già scagliata, così un evento qualsiasi può respingere o intercettare a metà strada l’offesa, di qualunque genere sia, con la conseguenza che essa risulta commessa ma non ricevuta. 8. D’altra parte la giustizia non può subire alcuna ingiustizia per la semplice ragione che i contrari non sono compatibili fra loro, non possono fondersi insieme, tanto è vero che l’ingiuria non può essere fatta se non ingiustamente: ergo, il saggio, che è un uomo giusto, è immune da ogni ingiuria. E se ti meravigli che nessuno possa nuocergli, pensa che, per la stessa ragione, non c’è alcuno che possa giovargli. A lui, infatti, non manca nulla, nulla, intendo, che possa essergli dato come un dono, o come un favore, e il malvagio cosa può offrire che sia degno del saggio? Innanzitutto dovrebbe avere qualcosa di utile da poter dare, e poi, quand’anche ce l’avesse e glielo desse, il saggio non potrebbe mai rallegrarsene. Insomma, come gli esseri divini non hanno bisogno di aiuto e non possono essere offesi, così nessuno può nuocere o giovare al saggio, il quale è molto vicino agli dèi, simile appunto a un dio, se si eccettua la sua condizione mortale. Nel tendere con tutte le sue forze a quelle sfere sublimi, ordinate, imperturbabili, dal moto regolare e armonico, serene, amorevoli, create per il bene di tutti, salutari per sé stesse e per gli altri, il saggio non potrà mai concepire niente di meschino né rimpiangere alcunché. Chi, sorretto dalla ragione, passa tra le vicende umane con l’animo di un dio non può ricevere offese, e non dico soltanto da parte dell’uomo: non ne riceverà nemmeno dalla sorte, la quale, ogni volta che ha ingaggiato battaglia con la virtù, non ne è mai uscita vittoriosa. Se noi accettiamo con animo calmo e sereno quello che è il
peggiore di tutti i guai, al di là del quale nulla possono più minacciarci delle leggi ingiuste e crudeli né i tiranni più spietati e contro cui diventa vano tutto il potere della fortuna, se siamo convinti che la morte, la morte, dico, non è un male e perciò neppure un’ingiuria, a maggior ragione potremo sopportare le altre avversità, le disgrazie, i dolori, le infamie, gli esilii, le perdite dei nostri cari, le separazioni, mali, questi, che quand’anche assalissero il saggio e lo stringessero in cerchio tutti insieme non riuscirebbero a sommergerlo, e tanto meno lo potrebbero singolarmente. E se egli sopporta con animo equilibrato le offese della fortuna, quanto più facilmente sopporterà quelle degli uomini potenti, i quali sono per lui nient’altro che strumenti della fortuna stessa. 9. Il saggio accetta tutto, come accetta i rigori dell’inverno, le intemperie, le febbri, le malattie e qualunque altro accidente che possa capitargli, ne giudica gli altri così ottimisticamente da crederli capaci di agire con giudizio, poiché questo è solo del saggio. Quelle di tutti gli altri non sono azioni assennate, sono inganni, insidie, sregolati moti dell’animo, che il saggio pone nel numero degli eventi fortuiti. Come l’ingiuria, appunto. Siamo accerchiati da una folla di cose occasionali, che infuriano da tutte le parti. Pensa quanti tipi e possibilità di offese possono venirci dagli altri, tali da mettere addirittura in pericolo la nostra vita, come prezzolare un delatore perché ci muova una falsa accusa, o scatenare contro di noi l’odio dei potenti, e tutte quelle altre ribalderie che sono in uso fra la cosiddetta gente civile. È ingiuria anche il privare uno di un giusto guadagno o di un successo a lungo sognato, soffiargli un’eredità ricercata con grande fatica o togliergli il favore di una famiglia ricca. Ma il saggio è esente da tutto ciò, inquantoché nella vita non ha né speranze né timori. Infatti, mentre chi riceve un’ingiuria l’avverte e si turba, il saggio, che è riuscito a sottrarsi alle lusinghe e agl’inganni della vita, che sa controllarsi e mantenersi in uno stato di placida e profonda serenità, è immune da ogni turbamento. Inoltre chi è ferito da un’ingiuria non solo ne resta scosso ma si arrabbia, cosa che non avviene al saggio, il quale non potrebbe essere immune dall’ira – che molte volte nasce alla sola idea di poter ricevere un’offesa – se non lo fosse anche dall’ingiuria, e ciò perché è consapevole che essa non può toccarlo. Per questo il suo animo è così elevato e sereno, per questo è sorretto da una letizia che non lo abbandona mai. Sino a tal punto egli non cede di fronte ai colpi degli eventi e degli uomini che l’ingiuria stessa finisce per essergli utile, nel senso che gli consente di mettere alla prova sé stesso e di sperimentare la sua virtù. Assecondiamo, vi prego, tale proposito, e prestiamo benevola attenzione all’uomo saggio, che riesce a sottrarsi all’ingiuria! Non per questo sarà tolto qualcosa alla vostra sfacciataggine, alle vostre brame insaziabili, alla cieca sconsideratezza e alla vostra superbia: noi stoici rivendichiamo per il saggio questa libertà senza toccare i vostri vizi. Il nostro intento non è quello d’impedire le offese, noi chiediamo soltanto che il saggio possa lasciarle passare tutte senza vendicarsene, che se ne difenda con la tolleranza e la magnanimità. È così che nelle gare sacre
molti ottengono la vittoria, stancando con una lunga e meditata pazienza le energie dell’avversario, e il saggio è della stessa tempra di coloro che con assiduo e coscienzioso esercizio hanno conseguito una forza tale da sostenere e fiaccare ogni violenza nemica. 10. Esaurita la prima parte del nostro discorso, relativa all’ingiuria, passiamo ora alla seconda, nella quale, con argomentazioni specifiche e generali insieme, dimostreremo l’inconsistenza della contumelia nei confronti del saggio. Cominciamo col dire che essa è meno grave dell’ingiuria e che, più che vendicarci di lei, possiamo lamentarcene, se, com’è vero, le leggi non la ritengono passibile di alcuna sanzione. È proprio di un animo mediocre risentirsi e chiudersi in sé stesso per una frase o per un’azione sgarbata. «Quel tizio oggi non mi ha ricevuto, ma altre persone le riceveva.» Oppure: «Mentre gli parlavo ostentava un superbo disprezzo o mi rideva in faccia pubblicamente». E ancora: «Invece di darmi un posto di riguardo, mi ha assegnato il peggiore». Come chiamare queste e altre simili frasi se non lamentele, proprie di un animo permaloso? Generalmente sono gli schizzinosi e quelli che vivono nell’agiatezza a imbattersi in situazioni del genere, che non capitano invece a chi ha cose ben più importanti a cui pensare. Quando non hanno niente da fare, le persone deboli per natura o effeminate e suscettibili, perché non hanno mai conosciuto le offese vere, si risentono e si turbano di fronte a simili bazzecole, che il più delle volte sono frutto di un’errata interpretazione. Perciò chi si sente colpito da una contumelia mostra di non avere né giudizio né consapevolezza di sé, dal momento che si ritiene suscettibile di disprezzo: la sua amarezza è lo specchio di un animo mediocre, che tende ad abbassarsi, a umiliarsi. Il saggio, invece, non si sente mai disprezzato, perché è consapevole della propria grandezza e non gli viene neppure in mente che qualcuno possa osare tanto contro di lui, perciò queste molestie dell’animo – non le chiamerei infatti sofferenze – non è che riesce a superarle, non le avverte proprio. Ben altre sono le cose che possono colpire il saggio, senza però abbatterlo, come il dolore fisico, l’invalidità, la perdita dei figli e degli amici, la rovina della patria incendiata dalla guerra: questi mali io non nego che il saggio li avverta – non vogliamo infatti attribuirgli la durezza e l’insensibilità del ferro o della pietra, né c’è virtù nel sopportare una cosa che non si sente. Allora? Allora li avverte, sì, ma nel medesimo istante li domina, ne guarisce, ne cancella le tracce. Le piccolezze, invece, non le sente nemmeno, né scomoda contro di esse la sua consueta virtù, avvezza a sostenere prove ben più dure: non le tiene insomma in alcun conto, o le considera degne di riso. 11. Inoltre, visto che generalmente le contumelie le fanno i presuntuosi, gl’insolenti e gli eterni insoddisfatti, per respingere questo contegno arrogante il saggio possiede la più bella delle virtù, la magnanimità, la quale passa sopra le offese come se fossero delle vane immagini di sogno, fantasmi notturni privi di
consistenza e di verità. Al tempo stesso egli ritiene che gli altri stiano troppo in basso per poter disprezzare degli esseri di gran lunga superiori a loro. La parola contumelia deriva da contemptus, che significa «disprezzo», e infatti non si reca una tale offesa se non a chi si disprezza, e un uomo non disprezza chi è più grande o migliore di lui, anche se a volte usa nei suoi confronti un atteggiamento che è tipico di chi disprezza. I bambini, per esempio, picchiano sul volto i genitori, i più piccoli spettinano la madre o le strappano i capelli, le sputano addosso o si scoprono davanti ai familiari quelle parti del corpo che dovrebbero restare coperte e non risparmiano parole oscene, eppure nessuno di questi atti li consideriamo un’offesa. E sai perché? Perché chi li compie non è capace di provare disprezzo. E come sorridiamo di fronte a tali gesti, così ci dilettiamo dell’arguzia dei nostri schiavi, un’arguzia che spesso, in realtà, diventa offensiva nei confronti dei padroni, anzi molti di loro sono così insolenti che dopo avere attaccato impunemente il padrone si sentono in diritto di punzecchiare anche gli ospiti e quanto più sono essi stessi disprezzati e derisi, tanto più hanno la lingua sciolta e si permettono certe libertà. C’è persino chi compra a tale scopo degli schiavetti procaci e li affida alle cure di un maestro che ne stimoli e ne perfezioni l’impertinenza in modo che sappiano lanciare insolenze ben studiate, e queste, tuttavia, noi non le chiamiamo contumelie, ma facezie. Che strana pazzia è la nostra: le medesime cose ora ci offendono, ora ci divertono, la stessa frase se è detta da un amico la chiamiamo maldicenza, se la dice invece uno schiavo è una battuta di spirito. 12. Ora, il saggio mostra verso tutti i suoi simili l’atteggiamento che noi abbiamo nei confronti dei bambini, perché l’uomo, anche quando non è più giovane e ha i capelli bianchi, resta sempre un po’ infantile: non si può dire infatti che abbia compiuto dei progressi se il suo animo è malato e i suoi errori, i suoi pregiudizi, invece di diminuire, sono andati crescendo. Gli adulti non differiscono dai fanciulli se non per la grandezza e l’aspetto fisico, ma in tutto il resto non sono meno volubili e incerti di loro, avidi di piaceri, di cui poi non sanno nemmeno godere, sempre pieni di trepidazione, e se se ne stanno buoni buoni è solo per paura, non per disposizione naturale. Non c’è dunque tanta differenza fra gli adulti e i bambini, perché questi sono attaccati ai dadi, alle noci, alle monetine, e quelli all’oro, all’argento, alle città, e se i bambini giocano a fare i magistrati e simulano la pretesta,9 i fasci e il tribunale, gli adulti fanno lo stesso, anche se sul serio, in Campo Marzio, nel Foro e nel Senato; gli uni, sulla spiaggia, costruiscono casette di sabbia, gli altri, convinti di fare chissà che cosa, tirano su pietre, muri e tetti, che poi, magari, invece di proteggerli finiscono per rovinargli addosso. Gli adulti, dunque, si comportano come i bambini, con la differenza che i loro errori sono diversi e più gravi. Per questo il saggio prende come scherzi le loro offese, e se a volte li ammonisce, li rimprovera, o magari li punisce, lo fa con l’atteggiamento che hanno gli adulti verso i bambini e non perché abbia raccolto l’ingiuria ma perché loro l’hanno
fatta e devono smettere di farne.10 È così che domiamo anche le bestie, le bastoniamo, se non si lasciano cavalcare, ma senza adirarci con loro: le percuotiamo affinché il dolore delle bastonate vinca il loro rifiuto. Eccoti dunque servito anche per l’obiezione che ci viene mossa, cioè per quale motivo, se non riceve né ingiurie né contumelie, il saggio punisce quelli che le fanno. Li punisce, ripeto, non per vendicarsi contro di loro, ma per correggerli. 13. D’altra parte perché non dovresti credere che al saggio si convenga questa fermezza d’animo, quando tu stesso la riscontri in altri, anche se dettata da un motivo diverso? Nessun medico si arrabbia con un pazzo, né si offende se un ammalato febbricitante lo insulta perché gli ha proibito l’acqua fredda. Ebbene, il saggio mostra verso tutti lo stesso atteggiamento che il medico ha nei confronti dei suoi pazienti, dei quali non disdegna di toccare le parti intime, se hanno bisogno di cure, di esaminare gli escrementi o altri rifiuti, né di subire gl’insulti quando li prende il delirio. Il saggio sa che tutti quelli che offendono, siano essi togati o porporati, benché all’aspetto sembrino sani, in realtà sono simili a dei malati che non sanno controllarsi, per cui, come il medico non se la prende se uno, sotto l’effetto della malattia, osa dirgli qualche frase sgradevole, così egli rimane indifferente di fronte alle loro villanie, allo stesso modo in cui non tiene in alcun conto gli elogi che essi gli fanno. Analogamente non si compiace se un mendicante lo riverisce, né si ritiene offeso se un plebeo non gli restituisce il saluto, e neppure monta in superbia se molti ricchi lo guardano con ammirazione, in quanto sa che costoro non differiscono affatto dai mendicanti, anzi sono più miserabili, perché a chi vive di elemosina basta poco, loro, invece, hanno bisogno di molto. Così pure non si offende se il re dei Medi, per dire, oppure Attalo d’Asia,11 non risponde al suo saluto e tira dritto in silenzio e con fare arrogante: egli sa che la loro condizione non è più invidiabile di quella di chi in una grande famiglia ha il compito di sorvegliare gl’infermi e i malati di mente. Credi che io me l’abbia a male se non ricambiano il mio saluto i trafficanti che bazzicano nel tempio di Castore o i commercianti che comprano e vendono schiavi di poco conto, le cui botteghe sono zeppe di servi della peggiore specie? Direi proprio di no. Cosa può avere infatti di buono uno che sotto di sé ha solo dei cattivi? Perciò il saggio, come si mostra indifferente di fronte alla cortesia o alla scortesia di simili persone, così fa anche con un re, al quale dice: «Hai sotto di te i Parti, i Medi e i Battriani,12 ma li domini con la paura e perciò non ti è consentito di allentare l’arco; e quelli sono pessimi, venali, sempre in cerca di un nuovo padrone». Il saggio, in conclusione, non si lascerà mai turbare dalle offese di chicchessia, giacché, sebbene diversi fra loro, gli uomini per lui sono tutti uguali, in quanto tutti parimenti stolti. Se infatti dovesse cedere anche una sola volta e turbarsi di fronte a un’ingiuria o a una contumelia, non potrebbe mai essere sicuro di sé, e la sicurezza, invece, è un bene proprio del saggio. E non commetterà mai l’errore di riconoscere apertamente di aver ricevuto un’offesa, per non dare importanza a colui che gliel’ha fatta: chi si duole di essere
disprezzato dimostra infatti che sarebbe lieto di essere apprezzato, e ciò non è del saggio. 14. C’è poi chi arriva a tal punto di stupidità da ritenersi offeso se una donna gli rivolge delle parole sgradevoli. Ebbene, può essere pure di alto rango, avere un gran numero di lettighieri, portare appesa agli orecchi tutta la sua oreficeria e stare seduta sopra un trono, la donna è un essere irriflessivo e, a meno che non abbia un’istruzione e una buona dose di cultura, selvatico e incapace di controllare le proprie passioni. Che offesa dunque può recare? Altri ancora si risentono se per caso vengono urtati dal barbiere e considerano contumelie il modo di fare poco urbano di un portinaio, la boria di un maestro di casa o di un semplice cameriere. Oh quanto invece ride di queste sciocchezze, quanto gioisce nell’animo colui che nel trambusto degli errori umani si mantiene sereno! «Ma allora», mi dirai, «il saggio non si accosterà mai a una porta sorvegliata da un custode sgarbato?». Se ha un serio motivo per farlo, sì, e cercherà di ammansire quell’uomo, chiunque egli sia, come si fa con un cane rabbioso gettandogli del cibo, né disdegnerà di dargli qualche moneta per poter varcare la soglia, considerando che anche per attraversare certi ponti bisogna pagare il pedaggio. Così darà pure la mancia a quel maestro di casa che si fa pagare una tassa per le visite al suo padrone: il saggio non si vergogna di comprare ciò che è in vendita. È un pusillanime chi si compiace di aver risposto per le rime a un custode scortese, di avergli spezzato la bacchetta e di essere andato egualmente dal suo padrone, chiedendogli di frustarlo. Chi litiga si mette sullo stesso piano dell’avversario, e vi resta anche se vince. «E se si piglia un ceffone, il saggio che cosa fa?». Quello che fece Catone quando fu schiaffeggiato: non andò in escandescenze, non si vendicò dell’ingiuria, e nemmeno la perdonò; negò semplicemente che gli fosse stata fatta. Ignorandola mostrò maggiore magnanimità che se l’avesse perdonata. Non c’è bisogno che ci soffermiamo a lungo su questo argomento: è noto, infatti, che il saggio la pensa in modo completamente diverso da quello degli altri su quel che è bene e su quel che è male. Non s’interessa di ciò che gli uomini considerano turpe o meschino, ma, come le stelle ruotano in senso contrario al moto del cielo, così egli procede nella direzione opposta a quella degli altri. 15. Smettetela dunque di chiedere: «Ma allora il saggio non riceverà ingiuria se verrà bastonato o se, mettiamo, gli si caverà un occhio? E se nel Foro sarà bersagliato dalle grida insolenti di persone spudorate, se al banchetto di un re sarà confinato all’ultimo posto e costretto a mangiare fra gli schiavi adibiti ai servizi più umili, o se dovrà subire qualunque altro di quegli atti molesti che si possono inventare contro un’anima candida e virtuosa, non riterrà che gli sia stata fatta una contumelia?». Simili affronti, per quanto possano essere gravi e numerosi, sono tutti della stessa natura: essi non toccano il saggio, siano leggeri o pesanti, siano pochi o parecchi. Voi vi costruite un’idea della magnanimità
sulla base della vostra debolezza e una volta che avete giudicato fin dove può arrivare la vostra capacità di sopportazione attribuite a quella del saggio un limite di poco più alto. Ma egli è stato posto dalla sua virtù in ben altri confini del mondo e non ha più niente in comune con voi. Mettetelo pure di fronte alle situazioni più difficili e intollerabili, quelle che non si vogliono nemmeno vedere o sentir nominare, egli non si lascerà abbattere da loro, che lo assalgano tutte insieme o singolarmente. Sbaglia chi pensa che il saggio alcune cose le sopporti e altre no, che la sua magnanimità giunga sino a determinati limiti: non si vince la sorte se non si riesce a vincerla in tutto. E non dirmi che questo è rigore stoico, perché Epicuro, che voi avete assunto ingiustamente a patrono della vostra inerzia, convinti che v’insegni le mollezze, la pigrizia e tutto ciò che conduce al piacere, ha detto: «Raramente la sorte s’intromette nella vita del saggio». Che grande massima è questa, quasi da vero uomo! Basta spingersi un po’ più avanti e cancellarla del tutto, la sorte. Guarda la casa del saggio, piccola, senza ricercatezze, senza rumori, senza pompa, non custodita da portinai che regolano l’entrata della gente con venale arroganza, e tuttavia da quella soglia aperta e priva di custodi la sorte non passa: sa che per lei non c’è posto dove non c’è nulla di suo. 16. Ora, se anche Epicuro, che pur fa molte concessioni al corpo, assume di fronte all’ingiuria un atteggiamento di superiorità, cosa può esserci per noi stoici di incredibile o che sembri andare al di là della natura umana? Egli afferma che le ingiurie sono tollerabili per il saggio, noi che non esistono affatto, per lui. E non dirmi che ciò è contrario alla natura: noi infatti non neghiamo che sia spiacevole essere bastonati, malmenati e persino privati di qualche parte del corpo, diciamo solo che queste non sono ingiurie; non sosteniamo che non fanno male, semplicemente non le chiamiamo ingiurie, perché l’ingiuria non è compatibile con la virtù. Vediamo quale delle due dottrine è più vicina al vero, premesso che stoici ed epicurei sono entrambi concordi nel detestare l’ingiuria. Se vuoi saperlo, fra loro c’è la stessa differenza che passa fra due gladiatori molto forti, l’uno dei quali si comprime la ferita restando fermo al suo posto, l’altro, rivolto alla folla urlante, fa segno che la sua è cosa da nulla e non accetta che s’intervenga. Non credere che fra noi il dissenso sia grande: entrambe le scuole concordano su questo punto, l’unico che ci riguardi, che cioè non si devono tenere in alcun conto le ingiurie, comprese quelle che si potrebbero chiamare ombre o sospetti di ingiurie, vale a dire le contumelie, per respingere le quali non c’è bisogno di essere saggi, basta avere un po’ di buon senso e dire a sé stessi: «Questi affronti che mi vengono fatti li merito o non li merito? Se li merito non sono un’offesa, sono un atto di giustizia, se non li merito non sono io che devo vergognarmi ma chi ha commesso questa ingiustizia». Ma poi, in definitiva, che cos’è la contumelia? Quando uno scherza sul mio cranio pelato, sulla mia vista corta, sulle mie gambe magre come due stecchini o sulla mia bassa statura, dove sta l’offesa? È una contumelia rimarcare a uno un suo difetto
evidente? Se uno ce lo dice a tu per tu ci ridiamo sopra, se di fronte a molti ci arrabbiamo, e neghiamo agli altri la libertà di ripeterci quelle cose che noi stessi siamo soliti dire sul nostro conto. Gli scherzi, se sono moderati ci divertono, se passano la misura ci fanno andare in bestia. 17. Crisippo narra di un tale che montò su tutte le furie perché uno lo aveva chiamato «montone marino». In Senato abbiamo visto piangere Fido Cornelio, genero di Ovidio Nasone,13 quando Corbulone lo chiamò «struzzo spennacchiato». Lui, ch’era rimasto imperterrito di fronte a ben altri insulti, che ferivano i suoi costumi e la sua vita stessa, scoppiò in lacrime per una cosa tanto assurda. Com’è debole l’animo umano quando viene a mancare la ragione! Ci offendiamo persino se uno imita il nostro modo di parlare o di camminare, se rifà un nostro difetto fisico o di pronuncia. Come se questi difetti fossero più evidenti quando vengono imitati da altri che non quando li mostriamo noi stessi. C’è poi chi non vuole sentir parlare di vecchiaia, di capelli bianchi o di altre cose proprie di quell’età a cui tutti si augurano di arrivare. Ad alcuni scotta sentirsi rinfacciare la propria povertà, quando è evidente che se uno cerca di nasconderla vuol dire che se ne fa un rimprovero. L’unico modo per togliere agl’insolenti e agli spiritosi la possibilità di offenderci è di prenderli in contropiede, canzonandoci da noi: chi ride per primo di sé stesso non viene preso in giro da nessuno. Vatinio, che sembrava nato per essere deriso e detestato, era – a quanto si racconta – un motteggiatore spiritoso e mordace: ne diceva tante anche su sé stesso, sui suoi piedi e sulle cicatrici che aveva alla gola, che con questo sistema riusciva a evitare le stilettate dei suoi nemici, che erano ancora più numerosi dei suoi difetti, e specialmente quelle di Cicerone. Se con la sua sfrontatezza quest’uomo – che a furia d’insultare aveva smesso di arrossire – è potuto giungere a tanto, perché non può arrivarvi chi con gli studi liberali e la pratica della saggezza ha già ottenuto qualche risultato? Aggiungi poi che non dare soddisfazione a chi ti ha insultato, riconoscendo l’offesa fatta, è già un modo di vendicarsi. In questo caso chi offende è solito dire: «Che sfortuna! Credo che non abbia capito». Ciò perché lo scopo della contumelia è proprio quello di attirare l’attenzione e suscitare lo sdegno di chi la riceve. Comunque sta’ tranquillo, un giorno o l’altro qualcuno gli renderà la pariglia, ai tuoi denigratori, vendicando anche te. 18. Caligola – che possedeva vizi in abbondanza – era pure insolente: provava un piacere matto nell’insultare la gente, proprio lui che col suo aspetto fisico offriva non poche occasioni di riso. Era infatti di un pallore così turpe che bastava solo quello a dimostrare ch’era pazzo, aveva occhi torvi nascosti sotto una fronte da vecchia, una testa deforme, pelata, con dei capelli sparsi qua e là che sembrava glieli avessero dati in elemosina. Aggiungi una nuca folta di peli, gambe magrissime e dei piedoni enormi. Ebbene, se io volessi riferire a una a una tutte le contumelie da lui rivolte ai genitori, ai nonni e a ogni categoria di
cittadini, non la finirei mai: ricorderò soltanto quelle che lo portarono alla morte. Tra i suoi amici più importanti c’era Valerio Asiatico, uomo violento e intollerante delle offese altrui. Caligola, durante un banchetto, che è come dire in una pubblica assemblea, parlando ad alta voce, sì che tutti potessero udirlo, gli rinfacciò il modo in cui sua moglie faceva l’amore. Per gli dèi, cosa doveva sentire un marito! L’imperatore che arriva a tal punto di sfacciataggine da raccontare, non dico a un ex console o a un amico, qual era per Caligola Valerio Asiatico, ma a un marito il suo rapporto amoroso con la moglie di lui, nonché il disgusto che ne ha provato! Cherea,14 invece, tribuno militare, parlava in un modo che non rispecchiava il suo valore: aveva infatti, nella voce, un’inflessione languida, che per chi non conoscesse le sue imprese guerresche poteva anche insospettire. Ebbene, quando andava a chiedere la parola d’ordine, Caligola gli dava a volte «Venere», a volte «Priapo», intendendo così rinfacciare a quell’uomo d’armi la sua effeminatezza, proprio lui che indossava vesti trasparenti, calzava i sandali e si copriva di monili d’oro. Per questo Cherea lo ammazzò, per non dover più chiedere parole d’ordine. Egli fu il primo fra i congiurati a levare il braccio contro Caligola, fu lui che gli staccò la testa, di netto. Dopo gli furono inferti da ogni parte numerosi colpi di spada, a vendetta d’ingiurie pubbliche e private, ma il primo a comportarsi da uomo in quell’occasione fu Cherea, lui che uomo non sembrava. Caligola vedeva insulti a ogni angolo, contro di sé, ed è naturale che i primi a voler offendere siano proprio quelli che non riescono a sopportare le offese. S’infuriò, per esempio, con Erennio Macro perché lo aveva salutato col nome di Gaio, e non la passò liscia neppure un centurione che lo aveva chiamato Caligola, quando questo appellativo era il più caro ai soldati, che solitamente lo chiamavano così inquantoché era nato in un accampamento ed era cresciuto fra i legionari. Ma lui, che ormai indossava i coturni, e non più le caligae, giudicava ingiurioso e offensivo quel nome. Perciò, anche se la nostra indulgenza ci farà rinunciare alla vendetta, potrà esserci di conforto pensare che alla fine ci sarà qualcuno che, in un modo o nell’altro, punirà la sfacciataggine, l’arroganza e l’insolenza di chi ci offende, vizi che non si consumano mai contro un solo uomo, né con una sola contumelia. 19. Guardiamo ora gli esempi di coloro di cui ammiriamo la pazienza, come Socrate, che accettò di buon animo e ridendovi sopra gli scherzi salaci a lui rivolti nelle commedie, rappresentate dinanzi a tutto il pubblico, mostrandosi non meno tollerante di quando la moglie Santippe gli rovesciò addosso un secchio d’acqua sporca. Antistene, a cui veniva sempre rinfacciato di avere una madre straniera, nativa della Tracia, rispondeva che lo era anche Cibele, la Madre degli dèi, perché del monte Ida.15 Mai litigare, dunque, o venire alle mani. Bisogna stare alla larga o far finta di niente, quali che siano le offese rivolteci dagli sprovveduti, che sono i soli a comportarsi così; tenere nello stesso conto sia le ingiurie che le lodi provenienti dal volgo, senza dolersi delle une e
rallegrarsi delle altre. Diversamente, per timore degli insulti o perché punti da essi, finiremo col non prendere più nessuna iniziativa, anche se necessaria, trascureremo i nostri doveri, pubblici e privati, a volte anche certe decisioni che potrebbero essere per noi d’importanza vitale, e ciò, ripeto, per la paura, tipicamente femminile, di poterci sentir dire qualcosa che ci disturbi. Talvolta, magari, se ci capita di prendercela con i potenti, manifestiamo pure il nostro risentimento senza peli sulla lingua, ma teniamo presente che la libertà non consiste nel non soffrire niente – sbagliamo se la pensiamo così – bensì nel metterci al di sopra delle offese e nel sentirci tali da godere solo di ciò che ci deriva da noi stessi, nel dare un taglio netto a tutte le cose che ci sono estranee, per non essere costretti a passare la vita nel timore che tutti ci deridano e ci sparlino addosso. C’è infatti qualcuno che possa non offenderci, quando tutti ne hanno la possibilità? Il rimedio del saggio, tuttavia, è diverso da quello di chi aspira alla saggezza. Quelli che sono sulla strada, che non hanno ancora raggiunto la perfezione e si regolano sul giudizio della gente, devono avere ben chiaro che gli toccherà vivere fra le ingiurie e le contumelie e che se sapranno prevederle, se avranno l’animo già disposto a riceverle, le sentiranno più leggere. E tanto più dovranno mostrarsi forti quanto più sono in vista per nascita, per buona reputazione e ricchezza: si ricordino che le truppe scelte stanno in prima fila. Le contumelie, le parole oltraggiose, le infamie e tutti gli altri simili affronti li sopportino come si sopportano le urla dei nemici, i dardi scagliati da troppo lontano, e perciò meno pericolosi, come i sassi che crepitano sull’elmo senza recare alcuna ferita. Le ingiurie, invece, le sopportino come i colpi che si abbattono sulle armi o sulla corazza, ma che non riescono a buttare a terra o a far recedere di un passo. Anche se si è incalzati e spinti da una forza avversa, è vergognoso battere in ritirata: bisogna difenderlo il posto che la natura ci ha assegnato. «Quale posto?», mi chiederai. Quello che è proprio dell’uomo. Quanto al saggio, come dicevo, il rimedio è diverso, opposto a quello che consiglio a voi, che vi trovate sulla strada della saggezza: voi, infatti, siete ancora in guerra, lui ha già ottenuto la vittoria. Non opponetevi al vostro bene e, mentre procedete lungo il cammino che conduce al vero, alimentate nei vostri animi questa speranza, accogliete di buon grado i retti insegnamenti e coltivateli con convinzione e con fede: che vi siano degli uomini invitti, che non si lasciano mai piegare dalla sorte, è cosa utile al vivere civile dell’intera umanità.
1. È Marco Porcio Catone, detto l’Uticense (95-46 a.C.), morto suicida per non sottostare alla dittatura di Cesare. Esaltato da tutti come uno dei più grandi esempi di libertà, oltre che di integrità morale, è citato da Seneca anche nel De providentia (II 9-12) e in altre opere. Vatinio, uomo dappoco e corrotto, rivestì le più alte cariche pubbliche (fu questore, tribuno della plebe, pretore e console). Cicerone scrisse contro di lui una celebre orazione, in cui, fra l’altro, lo definisce nimium vehemens feroxque natura… tamquam serpens e latibulis, oculis eminentibus, inflato collo, tumidis cervicibus (In Vat. , 2), e Catullo, a
dimostrare la bassezza dei tempi, dice (52, 3-4): per consulatum perierat Vatinius , e conclude: Quid est, Catulle, quid moraris emori? («Che aspetti dunque a morire, o Catullo?»). Degli episodi riguardanti gl’insulti mossi a Catone dalla folla non si trova notizia presso altri scrittori. 2. Publio Clodio Pulcro, un altro uomo corrotto e arruffapopolo: eletto tribuno, condannò Cicerone all’esilio. Fu ucciso nel 52 a.C. da Milone (che sarà difeso da Cicerone). 3. I tre uomini a cui Seneca si riferisce, «che nemmeno il possesso del mondo intero poteva saziare», sono Cesare, Pompeo e Crasso, che, costituito il primo triumvirato, nel 60 a.C., si spartirono i territori della repubblica. 4. Seneca non avrebbe potuto trovare un paragone più calzante («come certe pietre, come l’acciaio», ecc.) per mettere in risalto la fermezza e la resistenza del saggio di fronte alle offese, di qualunque natura esse siano. 5. Lo stolto re a cui qui si allude è Serse I, re dei Persiani (519-465 a.C.), che, dopo avere conquistato l’Egitto e assalito la Grecia varcando l’Ellesponto su un ponte di barche, fu sconfitto prima a Salamina (480) e poi a Platea (479). 6. Demetrio, re della Macedonia, soprannominato Poliorcete (che in greco significa «conquistatore di città») espugnò Megara nel 307 a.C. Stilpone di Megara fu il fondatore di una scuola filosofica (detta scuola megarica) precorritrice di quella stoica per quanto riguarda l’impassibilità. 7. Questo di Stilpone, l’unico uomo sereno e in pace in mezzo al fragore e alle devastazioni della guerra, è uno dei passi lirici non infrequenti in Seneca. 8. Alessandro Magno occupò Babilonia nel 331 a.C. Cartagine (Africa) e Numanzia (Spagna) furono espugnate e distrutte l’una nel 146, l’altra nel 133 a.C., da P. Cornelio Scipione l’Africano Minore. Quanto al Campidoglio, Seneca allude all’assalto portato alla rocca dai Galli nel 387 a.C. 9. La pretesta listata di porpora era la toga che indossavano i magistrati e i sacerdoti, i fasci simboleggiavano l’autorità dello Stato. Nel Campo Marzio, posto sulla riva del Tevere, i Romani si esercitavano alle armi. 10. Per Seneca la punizione doveva avere sempre una funzione educativa. 11. Attalo, re di Pergamo, era famoso per le sue strabilianti ricchezze. Lo ricorda, fra gli altri, Orazio, laddove dice che l’agricoltore nemmeno attalicis condicionibus (cioè neppure se gli si offrissero tutte le ricchezze di Attalo) oserebbe sfidare i pericoli del mare (Odi, I 1, 11-14). Qui Attalo è ricordato per la sua arroganza, anch’essa proverbiale. 12. I Parti, i Medi e i Battriani erano dei popoli fieri che abitavano ai confini orientali dell’Impero. 13. Ovidio Nasone (43 a.C.-17 d.C.) è il famoso poeta, autore, fra altre opere, delle Metamorfosi. 14. Cherea era comandante dei pretoriani e capeggiò la congiura contro Caligola, colpendolo per primo. Fu condannato a morte dall’imperatore Claudio. 15. Antistene fu un filosofo ateniese (IV-III a.C.). Discepolo di Socrate, fondò la scuola cinica. Il monte Ida, in Asia Minore, era sede del culto di Cibele, la Gran Madre degli dèi.
De vita beata
1. Vivere, Gallio frater, omnes beate volunt, sed ad pervidendum quid sit quod beatam vitam efficiat caligant; adeoque non est facile consequi beatam vitam, ut eo quisque ab ea longius recedat quo ad illam concitatius fertur, si via lapsus est; quae ubi in contrarium ducit, ipsa velocitas maioris intervalli causa fit. Proponendum est itaque primum quid sit quod appetamus; tunc circumspiciendum qua contendere illo celerrime possimus, intellecturi in ipso itinere, si modo rectum erit, quantum cotidie profligetur quantoque propius ab eo simus ad quod nos cupiditas naturalis impellit. Quamdiu quidem passim vagamur non ducem secuti sed fremitum et clamorem dissonum in diversa vocantium, conteretur vita inter errores brevis; etiam si dies noctesque bonae menti laboremus. Decernatur itaque et quo tendamus et qua, non sine perito aliquo cui explorata sint ea in quae procedimus, quoniam quidem non eadem hic quae in ceteris peregrinationibus condicio est: in illis com prensus aliquis limes et interrogati incolae non patiuntur errare, at hic tritissima quaeque via et celeberrima maxime decipit. Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem, pergentes non quo eundum est sed quo itur. Atqui nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur, optima rati ea quae magno assensu recepta sunt, quodque exempla nobis multa sunt nec ad rationem sed ad similitudinem vivimus. Inde ista tanta coacervatio aliorum super alios ruentium. Quod in strage hominum magna evenit cum ipse se populus premit (nemo ita cadit ut non et alium in se attrahat, primique exitio sequentibus sunt), hoc in omni vita accidere videas licet: nemo sibi tantummodo errat, sed alieni erroris et causa et auctor est; nocet enim applicari antecedentibus et, dum unusquisque mavult credere quam iudicare, numquam de vita iudicatur, semper creditur, versatque nos et praecipitat traditus per manus error. Alienis perimus exemplis; sanabimur, separemur modo a coetu. Nunc vero stat contra rationem defensor mali sui populus. Itaque id evenit quod in comitiis, in quibus eos factos esse praetores idem qui fecere mirantur cum se mobilis favor circumegit: eadem probamus, eadem reprehendimus; hic exitus est omnis iudicii, in quo secundum plures datur. 2. Cum de beata vita agetur, non est quod mihi illud discessionum more respondeas: «Haec pars maior esse videtur»; ideo enim peior est. Non tam bene cum rebus humanis agitur ut meliora pluribus placeant: argumentum pessimi turba est. Quaeramus ergo quid optimum factu sit non quid usitatissimum, et quid nos in possessione felicitatis aeternae constituat non quid vulgo veritatis pessimo interpreti probatum sit. Vulgum autem tam chlamydatos quam coronatos voco; non enim colorem vestium quibus praetexta sunt corpora aspicio; oculis de homine non credo, habeo melius et certius lumen quo a falsis vera diiudicem;
animi bonum animus inveniat. Hic, si umquam respirare illi et recedere in se vacaverit, o quam sibi ipse verum tortus a se fatebitur ac dicet: «Quicquid feci adhuc infectum esse mallem, quicquid dixi cum recogito, mutis invideo, quicquid optavi inimicorum exsecrationem puto, quicquid timui, di boni! quanto levius fuit quam quod concupii! Cum multis inimicitias gessi et in gratiam ex odio (si modo ulla intra malos gratia est) redii: mihi ipsi nondum amicus sum. Omnem operam dedi ut me multitudini educerem et aliqua dote notabilem facerem: quid aliud quam telis me opposui et malevolentiae quod morderet ostendi? Vides istos qui eloquentiam laudant, qui opes sequuntur, qui gratiae adulantur, qui potentiam extollunt? Omnes aut sunt hostes aut, quod in aequo est, esse possunt: quam magnus mirantium tam magnus invidentium populus est. Quin potius quaero aliquod usu bonum quod sentiam, non quod ostendam? Ista quae spectantur, ad quae consistitur, quae alter alteri stupens monstrat, foris nitent, introrsus misera sunt». 3. Quaeramus aliquod non in speciem bonum sed solidum et aequale et a secretiore parte formosius; hoc eruamus. Nec longe positum est: invenietur, scire tantum opus est quo manum porrigas; nunc velut in tenebris vicina transimus, offensantes ea ipsa quae desideramus. Sed ne te per circumitus traham, aliorum quidem opiniones praeteribo (nam et enumerare illas longum est et coarguere): nostram accipe. Nostram autem cum dico, non alligo me a unum aliquem ex Stoicis proceribus: est et mihi censendi ius. Itaque aliquem sequar, aliquem iubebo sententiam dividere, fortasse et post omnes citatus nihil improbabo ex iis quae priores decreverint et dicam: «Hoc amplius censeo». Interim, quod inter omnis Stoicos convenit, rerum naturae assentior; ab illa non deerrare et ad illius legem exemplumque formari sapientia est. Beata est ergo vita conveniens naturae suae, quae non aliter contingere potest quam si primum sana mens est et in perpetua possessione sanitatis suae, deinde fortis ac vehemens, tunc pulcherrime patiens, apta temporibus, corporis sui pertinentiumque ad id curiosa non anxie, tum aliarum rerum quae vitam instruunt diligens sine admiratione cuiusquam, usura fortunae muneribus, non servitura. Intellegis, etiam si non adiciam, sequi perpetuam tranquillitatem, libertatem, depulsis iis quae aut irritant nos aut territant; nam voluptatibus et illiciis, quae parva ac fragilia sunt et ipsis fragantiis noxia, ingens gaudium subit inconsussum et aequale, tum pax et concordia animi et magnitudo cum mansuetudine; omnis enim ex infirmitate feritas est. 4. Potest aliter quoque definiri bonum nostrum, id est eadem sententia non eisdem comprendi verbis. Quemadmodum idem exercitus modo latius panditur modo in angustum coartatur et aut in cornua sinuata media parte curvatur aut recta fronte explicatur, vis illi, utcumque ordinatus est, eadem est et voluntas pro eisdem partibus standi: ita finitio summi boni alias diffundi potest et exporrigi alias colligi et in se cogi. Idem itaque erit si dixero: «Summum bonum est animus fortuita despiciens virtute laetus» aut «Invicta vis animi, perita rerum, placida in
actu cum humanitate multa et conversantium cura». Licet et ita finire ut beatum dicamus hominem eum cui nullum bonum malumque sit nisi bonus malusque animus, honesti cultorem, virtute contentum, quem nec extollant fortuita nec frangant, qui nullum maius bonum eo quod sibi ipse dare potest noverit, cui vera voluptas erit voluptatum contemptio. Licet, si evagari velis, idem in aliam atque aliam faciem salva et integra potestate transferre; quid enim prohibet nos beatam vitam dicere liberum animum et erectum et interritum ac stabilem, extra metum extra cupiditatem positum, cui unum bonum sit honestas unum malum turpitudo, cetera vilis turba rerum nec detrahens quicquam beatae vitae nec adiciens, sine auctu ac detrimento summi boni veniens ac recedens? Hoc ita fundatum necesse est, velit nolit, sequatur hilaritas continua et laetitia alta atque ex alto veniens, ut quae suis gaudeat nec maiora domesticis cupiat. Quidni ista bene penset cum minutis et frivolis et non perseverantibus corpusculi motibus? Quo die infra voluptatem fuerit, et infra dolorem erit; vides autem quam malam et noxiosam servitutem serviturus sit, quem voluptates doloresque, incertissima dominia