Tutte le novelle

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GLI

ADELPHI

Gottfried Keller

Tutte le novelle

«Più ancora che nei romanzi, Keller si rivelò arti­ sta di prima grandezza nei racconti, che ora han­ no visto la luce in Italia in una splendida e com­ pleta raccolta pubblicata dalla casa editrice Adel­ phi. Novelle ricche di humour, di invenzione fan­ tastica, di grazia fiabesca e di acutezza realistica... In queste novelle, magnificamente tradotte e pre­ sentate, palpita la dimensione più alta, più aperta della narrativa tedesca di quegli anni». CLAUDIO MAORIS

In copertina: Albert Anker, Louise, la figlia dell’artista (1874). Museum Oskar Reinhart, Winterthur.

ISBN 978-88-459-2835-2

© MUSEUM OSKAR REINHART

€ 20,00

9 788845 928352

GLI ADELPHI 444

Se il fatto di essere svizzero ha in passato nociuto alla fortuna di Keller (Zurigo 1819 - Milano 1890) fuori del mondo tedesco - dove, invece, è sempre stata grande -, la critica internazionale riconosce ora in lui uno degli scrittori meno provinciali del suo tempo. Proprio il suo essere svizzero, cioè radicato in un’antica tradizione di libertà e di aristocratica rusticità, gli ha infatti consentito di individuare come pochi altri i falsi valori del mondo moderno al suo nascere, senza tuttavia che il suo realismo, talora aspro sino al grottesco, diventi mai pessimismo né si adombri di crudeltà, come accade in molti narratori tede­ schi del periodo romantico. Divise in gruppi, le novelle di Keller - pubblicate per la prima volta da Adelphi in due volumi nel 1963 e 1964 - for­ mano un’opera unitaria i cui temi, nella loro va­ rietà, si proseguono, approfondiscono e illumi­ nano a vicenda.

Gottfried Keller

Tutte le novelle LA GENTE DI SELDWYLA SETTE LEGGENDE NOVELLE ZURIGHESI

L’EPIGRAMMA

DUE STORIE D’ALMANACCO

Traduzioni di Lavinia Mazzucchetti, Ervino Pocar, Anita Rho e Gianni Ruschena

Prefazione di Elena Croce

ADELPHI EDIZIONI

titoli originali:

Die Leute von Seldwyla Siebend Legenden Züricher Novellen Das Sinngedicht Zwei Kalendergeschichten

Gli originali delle illustrazioni sono conservati presso la Zentralbibliothek di Zurigo a eccezione del ritratto di Keller, conservato nel Gabinetto delle Stampe della Eidg. Technische Hochschule

© 1963-1964 adelphi edizioni s.p.a. Milano

I edizione gli adelphi: settembre 2013 www.adelphi.it ISBN

978-88-459-2835-2

INDICE

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Prefazione LA GENTE DI SELDWYLA PARTE PRIMA

Introduzione Pankraz l’imbronciato Romeo e Giulietta del villaggio Regula Amrain e il suo figlio minore I tre pettinai amanti della giustizia Specchietto il gattino PARTE SECONDA

Introduzione L’abito fa il monaco II fabbro della sua fortuna Lettere d’amore smarrite Dietegen Il sorriso perduto

3 5 9 57 130 175 216 253 255 258 301 330 400 459

SETTE LEGGENDE

Prefazione Eugenia La Vergine e il Demonio

549 550 564

La Vergine al torneo La Vergine e la monaca Fra Vitalis, santo a modo suo Dorothea e il canestro di rose La breve leggenda della danza

572 582 589 608 615

NOVELLE ZURIGHESI

Novelle zurighesi Hadlaub Il pazzo di Manegg Il podestà di Greifensee La bandiera dei sette impavidi Ursula

623 637 714 736 830 895

L’EPIGRAMMA

1. Un naturalista scopre un procedimento e cavalca le terre per saggiarne la validità 2. Dove l’esperimento riesce a metà 3. Dove riesce l’altra metà 4. Dove si evita una sconfitta 5. Il signor Reinhart comincia a intuire la portata della sua intrapresa 6. Dove si pone un quesito 7. Di una vergine folle 8. Regine 9. La povera baronessa 10. Il visionario 11. Don Correa 12. Le « breloques » 13. Dove l’epigramma riceve conferma

959 963 967 970 975 979 985 996 1053 1091 1121 1168 1183

DUE STORIE D’ALMANACCO

Due diversi campioni della libertà Il giorno delle elezioni

1215 1239

Notizie sull’autore Notizie sui testi Bibliografia

1257 1262 1267

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Da un album di disegno del giovane Keller

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La sorella Regula. Disegno a matita di Keller

Da un album di disegno di Keller

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durante la stesura di «Enrico il verde



Gottfried. Keller nel 1840. Disegno di Eduard Süffert

Particolare della « Città medievale». Disegno di Keller (1843)

Ritratto di Keller da un’incisione di Karl Stauffer (1887)

PREFAZIONE

Gottfried Keller è uno scrittore che, in virtù della sua classica solidità, della sua robusta capacità di circoscri­ vere la realtà che rappresenta, penetrandone le ragioni profonde, sembra essere stato immunizzato quasi a priori contro il rischio dei riconoscimenti ambigui, delle oscilla­ zioni del gusto. Nel costatare la fortuna che egli ha avuto, bisogna tuttavia chiedersi se in questo giusto riconosci­ mento non persista (malgrado le eccezioni, che vanno dal giudizio di Nietzsche al saggio, per questo aspetto piena­ mente chiarificatore, di Lukàcs) una nota affettuosamente rivendicatrice, sottilmente apologetica, che non trova più giustificazione all’orecchio del lettore odierno; di un lettore, cioè, che scopre il narratore svizzero nel momento in cui va scomparendo la nozione ottocentesca d’Europa, nella quale si era sinora inquadrata la sua opera. Gli studiosi e gli appassionati di Keller — che anche in Italia ha avuto critici attenti e fini — lo hanno infatti sempre difeso da un sospetto di provincialismo, secondo loro inseparabile dallo sforzo valoroso per accettare e insieme superare i confini di un mondo svizzero, che a quel tempo appariva tanto più minuscolo in quanto lo si contrapponeva a una «grande» Germania. Oggi invece questa prospettiva è venuta, se mai, a rovesciarsi, perché l’ormai definitiva sconsacrazione di alcuni idoli del mondo borghese ci consente di cogliere appieno il profondo in­ segnamento umano contenuto nella critica che a quegli idoli aveva mosso lo scrittore svizzero. Per il suo libera­ lismo, radicato nell’antica tradizione repubblicana e de­ mocratica della sua patria, e quindi eccezionalmente ag­ guerrito contro i pericoli di corruzione della democrazia; per la concezione severa e aperta, refrattaria all’idillio romantico-borghese, che egli aveva della vita familiare, Keller è di fatto l’unico narratore tedesco della sua epoca che possa dirsi non provinciale. Nel microcosmo della città svizzera egli ci mostra riflessi come in uno specchio magico quelli che saranno poi i falsi valori del mondo moderno : il culto dello spirito d’intrapresa in quanto tale, quello della «personalità» come sacra coscienza di sé, che consente di imporre agli altri qualsiasi sacrificio; l’equi­

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voca confusione tra l’eccitato esibirsi in faziose congreghe e la vera popolarità, e così via. Ad essi egli contrappone la coscienza della responsabilità individuale, dell’inscindibilità della vita privata da quella pubblica, intese in uno schietto spirito liberale, la cui spregiudicatezza si riveste oggi di una singolare suggestione simbolica. Un sentimento della patria amoroso e aspro, inattacca­ bile dalle degenerazioni della coscienza nazionale, e un sentimento della solidarietà umana ben difeso dalle insi­ die della coscienza di classe, erano certamente iti Keller un patrimonio ereditario. Egli seppe però farne valere tutta la nobile solidità, su di esso edificando quella con­ cezione della libertà e dignità dell’uomo, intese da vero umanista moderno, che anima, integra e illumina la sua opera, preservando il suo realismo, spesso implacabile sino al grottesco, da ogni scadimento pessimistico, nonché dall’ombra di crudeltà affiorante nei narratori romantici che si possono contare fra i suoi maestri. È infatti da un lato agli scrittori dell’età classica, e so­ prattutto a Goethe e a Schiller, dall’altro a Jean Paul e Arnim, e più immediatamente al suo conterraneo Gotthelf, che Keller si ricollega : privilegio questo conferitogli dalla sua aristocratica rusticità svizzera, che lo preserva dall’aria spessa e soffocante del mondo Biedermeyer. La sua arte è quella di un grande prosatore che sottomette (con disciplina che non è, beninteso, mortificazione) la fantasia poetica alle esigenze razionali di una ricerca di verità morale : nel che egli ci sembra avvicinabile, sep­ pure in senso lato, al Manzoni, e non certo, come molti dicono, all’autore del Decanteront o, come in particolare afferma Lukàcs, al suo contemporaneo Tolstoi. Del resto i racconti di Keller non sono «novelle», nemmeno nel più ampio senso romanzesco della parola: sono «storie» e, quando hanno uno spunto storico, «leggende», perché un istinto preciso fa rifuggire questo scrittore dall’ibrido del romanzo storico. Essi rappresentano inoltre l’opera pienamente matura di un artista che si era già lasciato alle spalle un lungo periodo di difficile formazione. Il primo gruppo di storie, La genie di Seldwyla, si può in­

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fatti considerare come la meta raggiunta dopo una serie di esperimenti, nei quali, oltre alla sua fallita carriera di pittore e alla sua prima raccolta di versi, va in parte inclusa anche la prima stesura del suo romanzo autobiografico Enrico il Verde. Questi suoi primi racconti sono in effetti di stile più vario e sperimentale, poiché vi si passa dalla «Dorfgeschichte» {Romeo e Giulietta del villag­ gio) alla novella pedagogica di gusto settecentesco {Pan­ kraz l’imbronciato, Regula Amrain) alla fiaba ironica {Spec­ chietto il gattino). Ma già in essi vediamo raggiunta una mirabile oggettività di rappresentazione: il celebrato «realismo» di Keller, che nessuno potrebbe confondere con i vari generi naturalistici cui si applica questa desi­ gnazione. Realismo, in Keller, significa un linguaggio estremamente vitale e concreto, uno stile che è frutto di una originalissima sintesi di precisione analitica e di con­ cisione epigrafica. L’ispirazione animatrice della prosa di Keller, che pure nasce come puro artista, anzi come pittore, e a volte ar­ ricchisce la pagina come uno squisito miniaturista, è indi­ scutibilmente morale e civile. E la sua intonazione (anche qui occorre dare ragione al Lukàcs, pur non sottoscri­ vendo il termine, da lui impiegato nell’accezione marxi­ sta, di «epico») è eroica, nonostante, anzi proprio a cau­ sa della disciplina di umiltà, che spesso comporta un co­ mico castigo, da lui imposta ai suoi caratteri. Caratteri còlti nella loro individualità morale più che non perso­ naggi. La polemica contro il concetto, o feticcio, borghese della «personalità», che affiora in tanti suoi racconti (da Pankraz l’imbronciato alla storia di Salomè in L’epigramma) è uno dei motivi più originali di Keller, un motivo che da solo gli varrebbe l’investitura, non ancora pienamente conferitagli, di grande moralista. Un riconoscimento pieno della statura e dell’originalità del moralista che è in Keller consente anche di meglio individuare il contenuto del suo realismo, ossia la fede sempre presente nella conquista della verità, nella possibi­ lità sempre data all’uomo di intravvederla : così come la intrawedono i suoi Romeo e Giulietta campagnoli, quan-

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do decidono che il loro amore fuori legge non potrà vivere incorrotto in un mondo tanto crudele verso gli inermi. O come essa si chiarisce agli occhi del lettore, quando è costretto a trarre da solo la morale della tetra storia I tre pettinai amanti della giustizia, tanto aridi di cuore e di imma­ ginazione che la loro eroica avarizia non li salva dagli in­ certi inumani di una società in cui tutto è ridotto a gioco, e la cui spietatezza ci ripugna, alla fine, assai più della grettezza dei miseri pettinai. La forza di concentrazione con cui Keller riesce sempre ad afferrare il nodo moral­ mente vitale di una «storia» ha una qualità interiore, in ultima analisi religiosa, che non viene ben còlta dalla de­ signazione troppo generica di realismo, pure assai utile per segnare polemicamente il distacco del gusto classico di Keller da quello romantico-positivistico predominan­ te fra i suoi contemporanei. L’arte di Keller, cioè, non solo non si presta a esser confusa con alcuna mascherata «in costume», perché, se essa ha qualcosa di gotico, è la pungente evidenza della scultura gotica, magari lignea e riccamente dipinta; essa risente anche assai meno dei segni del tempo di quanto non avvenga invece ad altri grandi scrittori ottocenteschi, come ad esempio Maupas­ sant. Scegliamo un paragone così antitetico, perché Keller ha in comune con Maupassant la caratteristica di essere un grande autore di racconti, i cui romanzi sono di fatto racconti dilatati e squilibrati, e anche perché il divario stesso che vi è tra la disinvoltura del grande feuilletonista francese e la pazienza artigiana dello svizzero contri­ buisce a sottolineare come quest’ultimo, appunto, superi di gran lunga il primo nella libertà dagli schemi roman­ tico-positivistici. Mentre Maupassant è schiavo di un concetto della «passione» assolutamente inscindibile dal­ le fogge delle capigliature, dei baffi, dei tendaggi e dei corsetti della sua epoca, i personaggi di Keller (che anche in ciò era effettivamente un realista) sono, è vero, più lignei, ma assai meno legati a un costume, e ci appaiono oggi, per l’eterno privilegio del gusto classico, più mo­ derni. Essi non seguono i canoni psicologici dell’ultimo ottocento; non spendono ad esempio troppe parole sul

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tema del turbamento dei sensi; valutano però, in com­ penso, con un senso molto più esatto delle proporzioni, il peso degli istinti nei confronti della volontà morale: distinguono benissimo, come fa ad esempio Regula Amrain, sin dove giungono i diritti di un sangue giovane e caldo e dove invece comincerebbe la degradazione di un’accensione sensuale incrementata dalla cupidigia affa­ ristica e da un bicchiere di troppo bevuto all’osteria; op­ pure, come è il caso di Hansli Gyr, il protagonista di Ursula, fra la tentazione di aderire a un seducente quadro di intimità coniugale, già bell’e pronto, e il pericolo di un matrimonio che non sarebbe vero matrimonio, perché manca la base del rispetto delle reciproche convinzioni: desiderio e tenerezza non potranno cancellare la ripugnan­ za che Hansli prova per il fanatismo della sua promessa sposa. Attraverso Jean Paul, Keller aveva ereditato la ric­ chezza di intuizione psicologica, patrimonio della sette­ centesca filosofia del sentimento. E quella eredità era stata per lui fruttifera, anche se la sua morale liberale e terrestre andava in direzione opposta a quella di Jean Paul, che accomunava in un unico sprezzante compati­ mento quietistico le passioni e ogni forma di affaccenda­ mento umano in genere. Libero com’è da ogni tenebro­ sità, lo scrittore svizzero non condivide coi primi roman­ tici tedeschi l’elemento magico che li rende affascinanti ma talora stucchevoli. Egli è però uno scrittore estrosissimo, pieno di imprevisti, che non consente al lettore di impi­ grirsi: la chiave è lì, ben in vista, ma mai in un posto convenuto, verso il quale si possa allungare automaticamente la mano. Inoltre, benché Keller sia un autore di racconti, non è un autore da antologia: non basta, per ca­ pirlo, leggere quelli che sono considerati i suoi capolavori, Romeo e Giulietta, I tre pettinai, e altri. I racconti formano un’opera unitaria, i cui temi si proseguono, si approfondi­ scono e illuminano a vicenda. E come opera unitaria, o per lo meno come un’opera che si svolge lungo un ininter­ rotto filo conduttore, essi sono stati di fatto concepiti. È facile, quando si apre per la prima volta Keller, soggiacere al giustamente radicato pregiudizio nei con­

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fronti delle cornici di stile decameroniano usate da certi novellieri ottocenteschi, che generalmente accentuano soltanto la loro frigidità. Ma le cornici, sia di La gente di Seldwyla che delle Novelle zurighesi, esulano interamente da questo tipo, perché sono, se non necessarie a capire i singoli racconti, indispensabili a creare lo spazio in cui essi pienamente respirano. Le paginette introduttive alla prima e alla seconda parte di La gente di Seldwyla sono di fatto due capolavori di saggistica moderna. Seldwyla è quasi un simbolo di quel fanatismo della Gemütlichkeit che già contiene in nuce tutti gli orrori dell’ideale con­ temporaneo di «welfare», anche se oggetto della satira è invece il capitalismo moderno al suo stadio primitivo. Non manca, tra i caratteri altamente simbolici di Seldwyla, quello di tollerare soltanto una «aristocrazia di giovani», fra i venti e i trentasei anni : dopo di che si scompare dal mondo, ossia, dato che Keller è sempre fertile di signi­ ficati reconditi, comincia la vera vita, l’avventura, eccete­ ra. Tutti i fatti che si svolgono nell’àmbito di quella comu­ nità sono veramente fatti di Seldwyla, in quanto presup­ pongono, come si è già accennato, la disumanità di un mondo in cui l’allegro gioco delle aziende messe su e sostenute con cambiali e con un prestigio che si afferma spendendo e primeggiando alle birrerie e ai tavoli da gioco, non consente che si stenda mai la mano agli altri. Come funamboli che camminano su di una corda da cui non bisogna cadere fino a che non è giunto il momento, del resto previsto, della bancarotta, i Seldwylesi non pos­ sono chinarsi a fare elemosine. Seldwyla uccide Romeo e Giulietta, uccide il povero pettinalo Jobst. Essa non è però invincibile, perché viene domata dalla signora Amrain, la quale ha imparato a caro prezzo cosa significhi es­ sere moglie di un brillante seldwylese, e ne trae accortamente e coraggiosamente la morale educando suo figlio come un uomo responsabile, che darà filo da torcere ai concittadini. D’altra parte, Seldwyla è incorreggibile, perché nella seconda serie dei racconti la variazione è tutta esteriore : ai vecchi, gonfi e sbrindellati portafogli di un tempo, si sono sostituite le eleganti cartelle di maroc-

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chino, le maniere lisce e corrette dei moderni banchieri. Se le cornici aumentano il rilievo dei racconti, non tol­ gono comunque nulla alla loro autonomia, che nella prima parte di La gente di Seldwyla si associa a una grande varietà di generi. In Romeo e Giulietta lo sfondo ha ancora la cruda vernice della scena campestre settecentesca, e d’altra parte la risoluzione moralistica è del tutto secon­ daria rispetto a quella poetica, costituita dalla rappre­ sentazione, veramente shakespeariana, dell’amore dei due ragazzi. In Pankraz si ha il meraviglioso apologo del musone che si libera del proprio broncio ma a ben caro prezzo : la sua musoneria, anziché difenderlo, l’aveva pa­ ralizzato, esponendolo come un allocco a far da bersaglio agli esercizi di cacciatrice della sua graziosa padroncina. Ma benché egli scopra la spessa natura filistea di colei che in silenzio aveva adorato come una presenza angelica, non riuscirà mai (e anche qui Keller è realista) a scio­ gliere quell’incantesimo, o puntiglio, che lo costringe co­ stantemente a riproporsi di scoprire ciò che egli assur­ damente continua a desiderare, e cioè che, per un qual­ che mistero da svelare, «lei» non sia così come egli l’ha vista, ma come l’aveva un tempo vagheggiata, che le sue imbronciate fantasticherie siano in fin dei conti la realtà. In Regula Amrain e il suo figlio minore abbiamo in­ vece una donna energica e saggia la quale prosegue col proprio figlio quel «dialogo con l’uomo», con l’uomo a cui occorre aprire gli occhi sui suoi vari doveri familiari e pubblici e sulla vanità e pericolosità delle infatuazioni, che le era fallito con il marito. È un dialogo puramente morale, nel cui contrasto tra la saggezza femminile e l’ini­ ziativa mascolina è assente ogni implicazione di tipo freu­ diano. La signora Amrain è una madre così razionalista che dei suoi tre figli, mettendo subito da parte i primi due (da lei chiamati tra sé e sé «dormiglioni», e il cui sonno sodo, anche quando in casa c’è pericolo, dimostra quanto essi siano insensibili), elegge come interlocutore unica­ mente il terzo, e precisamente quello che, somigliando a suo marito, andava corretto, ma anche meritava di esser­ lo. Con Specchietto il gattino abbiamo non una vera e pro-

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pria fiaba, ma un’incantevole storia di animali ironica­ mente umanizzati. La seconda serie di La gente di Seldwyla è più strettamente inquadrata nella satira della società (si veda per esempio L'abitofa il monaco e Lettere d'amore perdute). Invece una divagazione giocosa, in cui la preziosità dello stile non elimina un involontario stridore parodistico, è costi­ tuita dalle Sette leggende, nelle quali sotto il gusto, fine a se stesso, del raccontare scherzoso, si può intrawedere una satira che non ha nulla di antireligioso (il pio rispetto per la vita e l’amore per le creature hanno in Keller un’in­ tonazione su cui non possiamo ingannarci), ma si ri­ volge semmai alla assoluta insensibilità con cui il bigot­ tismo moderno ha accolto senza minimamente rielaborar­ li psicologicamente gli schemi delle pie leggende, che, estratte dal contesto della loro ingenuità primitiva e ri­ cucinate in volgari edizioni moderne, diventano di una rozzezza insopportabile. Ma il significato delle Sette leg­ gende nell’opera di Keller è forse soprattutto quello di un esercizio letterario, attraverso il quale egli raggiunge quell’ulteriore maturazione del suo stile che gli consentirà di svolgere, con ritmo sostenuto e armonioso, il tema delle Novelle zurighesi, senza consentire che la materia, densa di memoria e di riflessione storica e morale, diventi mai pe­ sante né opaca. Anche nelle Zurighesi la cornice, seppure più narra­ tiva, ha una notevole importanza saggistica. Vedia­ mo per esempio Jacques, simbolo del signorino otto­ centesco, che viene amabilmente descritto in tutte le gaucheries e ingenuità di quindicenne, in cui però già spunta l’insradicabile pianta della sicumera borghese. Jacques si preoccupa, con una sensibilità tipica dell’epoca, della impossibilità che il suo tempo riserva a chi sogne­ rebbe di essere un «originale». Egli tenta, armeggiando fanciullescamente, tutte le strade che gli sembrano con­ durre all’ambita originalità, ma viene tempestivamen­ te erudito dal suo padrino sul come essere originali si­ gnifichi solo comportarsi in modo che serva di esem­ pio a molti altri; erudito ma non corretto, perché,

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non appena gli hanno raccontato per istruirlo la storia del codice dei Minnesänger, creato per iniziativa di Ru­ dolf von Manesse, egli si affretta a provvedersi di una pergamena su cui iniziare un nuovo codice da sostituire, per sua gloria, a quello perduto. E infine lo ritroviamo in veste di mecenate che, in mancanza di un proprio genio da sviluppare, coltiva il germe di quello altrui, e paga a uno scultore svizzero il viaggio a Roma perché produca, tanto per cambiare, un fauno di marmo; ma con suo grande disappunto trova l’opera incompiuta, e lo svizzero impe­ gnato a celebrare le nozze con la sua modella ciociara. Nelle Novelle zurighesi le qualità di pittore di paesaggio e di ambiente, di cui Keller è cosi ricco, assumono un risalto particolare dall’amore con cui egli va indivi­ duando, uno ad uno, i tratti del volto della sua città: dalle linee dei castelli medioevali che si indovinano nel profilo delle colline, all’acqua del lago, alla trasposizione moderna e mercantile, borghese, dell’antico profilo goti­ co, feudale. Ma la vena pittorica di Keller, il quale può veramente dirsi uno di quei grandi pittori romantici che esistono solo in letteratura e non si sono mai realizzati sulla tela, è tutt’altro che locale, anzi piuttosto eclettica e av­ venturosa. Illimitata è la bravura, la spregiudicatezza comico-simbolistica con cui egli dipinge una sposina indiana che viene tolta per i piedi, come un pesciolino dalla pa­ della, dal rogo sul quale arrostiva cantando beata con voce argentina (anche qui Keller coglie l’occasione per una puntata contro il fanatismo, in particolare contro la puerilità del fanatismo femminile) ; oppure, in L'epigram­ ma, un conte brasiliano, nero come la pece, e lungo e sotti­ le come una lancia; o ancora, raffinati grotteschi, come quello del cacciatore pellirossa che fa una danza di guerra davanti a uno sciocco, odioso rubacuori, il quale, per sua punizione esemplare, vedrà pendere da quel naso feroce un anello cui sono sospesi tutti i delicati ciondoli da lui rapiti, estorti e collezionati. Non v’è dubbio però che quando egli evoca la vecchia Zurigo suscita una parti­ colare evidenza di sensazioni: basti pensare alle descri­ zioni, che troviamo in Ursula, del passaggio del soldato che

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rimpatria sul ponte di legno ghiacciato, o a quella degli incontri col vecchio cencioso lanzichenecco, e poi con la banda dei fanatici millenaristi di cui vediamo dipinte, una a una, le fisionomie sinistre e puerili, indimenticabili. Tutte le Zurighesi sono intessute di meditazioni sul raffronto degli antichi e moderni contrasti fra poteri e fra ceti, fra la vera democrazia riformatrice e le infatua­ zioni collettive, sul tema del dissidio fra la coscienza li­ berale e la democrazia meccanicamente intesa come fatto di maggioranza. In quello che, con Ursula, è uno dei più bei racconti della raccolta, ossia La bandiera dei sette impavi­ di, si svolge anche un esemplare dibattito tra la concezione patriarcale, rappresentata dal padre di famiglia, e rac­ comodante, avventuroso e ambizioso spirito della donna: dibattito risolto con un atto di fiducia nell’avvenire, nei giovani, che hanno mostrato di saper raccogliere l’eredità morale dei vecchi, e nell’atto stesso in cui li rassicurano fanno però accettare loro un punto di vista nuovo sulle cose pratiche. Nelle Novelle zurighesi la robusta vena moralistica di Keller tocca il suo culmine e si consolida al punto di con­ sentire una nuova libertà allo scrittore : forte della propria ben provata razionalità, egli può ora abbandonarsi con fiducia a una fantasiosità trasparente, veramente pura da scorie, in quello che è insieme l’ultimo suo volume di rac­ conti e il suo capolavoro, L’epigramma, dove i singoli rac­ conti si innestano l’uno nell’altro, riassorbendosi in quello di fondo come un leggero gioco di scatole cinesi. Come av­ viene per le strutture perfettamente armoniose, in cui tutto è inscindibilmente connesso, L’epigramma non si pre­ sta a riferimenti e citazioni, che guasterebbero quella sensazione incantata, di continua sorpresa, costituente la singolare attrattiva del libro. Per tentare di definire questo racconto (si tratta, in fondo, di un racconto unico) si dovrebbe ricorrere a paragoni che al primo momento possono suonare assurdi, perché occorrerebbe citare a un tempo Goethe e Dostoevskij. Ma quel che importa è che tutto ciò è perfettamente fuso, come alternativa di saggez­ za e bizzarria, in un romanzo pedagogico, nel quale il pe-

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dagogismo raggiunge il vero e proprio sublime. L’ultimo capitolo di L?epigramma, in cui Lucia racconta del suo innamoramento, tanto precoce da parer mostruoso, per un cugino che la chiamava «mogliettina», e che poi scomparve perché si fece prete, è forse una delle pagine poetiche e morali più belle e più inedite che la letteratura moderna ci abbia dato sull’adolescenza. Forse, in realtà, vi è ancora quasi tutto da imparare da parole come quelle che Reinhardt dice alla fine a Lucia : « Ciò che Lei ha provato è molto diverso dalla sconveniente avidità d’amore dei bambini viziati, e colpisce soltanto poche creature elette la cui nobile, innata generosità di cuore precorre il tempo con inconsapevole, innocente impazien­ za. La candida fede infantile nelle parole spensieratamen­ te scherzose del sighor cardinale, da lei così a lungo ser­ bata, fa parte di questa generosità, come l’ala di una co­ lomba è connessa con l’altra ala; e con ali simili volano gli angeli in mezzo agli uomini. Un tale esempio di bontà mi fa considerare con vergogna quanto la mia vita sia stata finora vuota, indifferente, e con quale sventatezza io mi sia presentato anche al Suo cospetto ! ». Reinhardt, moderno intellettuale, e, come il dottor Faust, quasi alchimista, deve riscoprire che cosa sia la vita, dimen­ ticata per i lambicchi, ma a ciò non è sobillato dalla voce del demonio, bensì dalla malizia fatata di un epi­ gramma amoroso. Le affinità storico-letterarie che legano Keller ai mag­ giori narratori suoi contemporanei sono troppo evidenti perché occorra illustrarle. Se ci si addentrasse nel terreno comparativo si dovrebbe discutere se, fra i romanzieri inglesi, gli sia più vicino, non certo Dickens, che nella sua alternativa di umorismo e sentimentalismo è il rovescio di Keller, ma Thackeray o Meredith, col quale egli ha persino qualche analogia di temi, come quello che «l’abi­ to fa il monaco»; oppure si potrebbero analizzare i mo­ tivi che lo accostano a Gogol e a Dostoevskij ben più che a Tolstoi, a Flaubert, ma anche a Stendhal. Non meno evidente è del resto il suo rapporto con la letteratura te­ desca contemporanea, nella quale egli non era isolato

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materialmente, poiché, a parte i legami importanti con l’università di Heidelberg e con un critico del valore di Hermann Hettner, ebbe rapporti cordiali e anche ami­ chevoli con tutti gli scrittori più in voga al suo tempo, da Gustav Freytag a Paul Heyse, fino a Theodor Storm, nessuno dei quali però, anche se aggiungiamo il nome di Stifter, può essere considerato appartenente alla costella­ zione, decisamente maggiore, di Keller. Più vicini gli sono invece senza dubbio i suoi due conterranei, l’uno di una generazione antecedente, l’altro di lui alquanto più giovane, Jeremias Gotthelf e Conrad Ferdinand Meyer (e negli ultimi anni pochi scrittori della generazione se­ guente colpirono la sua attenzione come Carl Spitteler). Sempre in Svizzera erano del resto presenti, e si potevano contare tra i suoi ammiratori, gli uomini che rappresen­ tavano le maggiori forze dei tempi nuovi, Wagner e Nietzsche. Ma lo sguardo di Keller, via via che gli anni avanzavano, era sempre meno incuriosito dal futuro, sempre più rivolto a se stesso. Chiuso il periodo della sua attiva partecipazione alla vita pubblica, il vecchio sca­ polo, che come il suo Balivio aveva saputo trarre succo di saggezza senza amaro dai rifiuti che avevano sanzionato la sua sfortuna amorosa e la sua troppo bizzarra bruttez­ za, andò sempre più isolandosi. Ai salotti cosmopoliti, allora fiorenti a Zurigo, che sarebbero stati lieti di ornarsi della presenza del grande concittadino, preferiva l’osteria, e nel bere egli riscaldava quella fantasia la cui presenza toglie ogni tristezza all’immagine della sua solitudine. ELENA CROCE

LA GENTE DI SELDWYLA VERSIONE DI LAVINIA MAZZUCCHETTI

SETTE LEGGENDE VERSIONE DI ERVINO POCAR

NOVELLE ZURIGHESI VERSIONE DI LAVINIA MAZZUCCHETTI

L’EPIGRAMMA VERSIONE DI ANITA RHO

DUE STORIE D’ALMANACCO VERSIONE DI GIANNA RUSCHENA

LA GENTE DI SELDWYLA PARTE PRIMA

Seldwyla in linguaggio arcaico significa una località pia­ cevole e solatia, e tale è di fatto la cittadina di questo nome situata in qualche posto della Svizzera. È ancora circondata dalla stessa cerchia di mura e di torri antiche come trecento anni or sono, ed è pur sempre rimasta lo stesso paesino; le finalità originarie e profonde che pre­ siedettero alla sua fondazione risultano dalla circostanza che i fondatori l’hanno voluta erigere una buona mezz’ora lontano da un fiume navigabile, a chiaro indice che non se ne dovesse cavar nulla. È tuttavia proprio ben collo­ cata, in mezzo a verdi montagne aperte a mezzodì, così che vi penetrano i raggi del sole, ma non mai aspri venti. Per questo, lungo le vecchie mura, crescono viti discrete, mentre più su, sui fianchi delle montagne, si stendono foreste sconfinate, che costituiscono il patrimonio della città. Questa è infatti la sua caratteristica, la sua sorte singolare, che il Comune è ricco mentre la cittadinanza è povera, povera al punto che a Seldwyla nessuno ha un soldo e nessuno capisce di che cosa si viva, in fondo, da secoli. I Seldwylesi vivono del resto di ottimo umore, considerando l’allegria come propria specifica competen­ za, e quando giungono in un posto dove vi sono altri costumi, per prima cosa criticano l’umore locale affer­ mando che in quell’arte nessuno può dar loro dei punti. Il nucleo e il vanto della popolazione consistono nei giovanotti dai venti ai trentacinque anni: sono essi che dànno il tono, che tengono viva la socievolezza e rappre­ sentano il fasto di Seldwyla. Durante quel periodo gio­ vanile esercitano il mestiere, la professione, l’abilità, quel che insomma hanno imparato, cioè fanno lavorare per loro, sin che possono, gente estranea, valendosi intanto della propria professione per un comodo giro di debiti che costituisce la base di ogni potere e magnificenza e le­ tizia per i signori seldwylesi e che vien quindi tenuto in vita con raffinata reciprocanza e comprensione, ma, si no­ ti bene, sempre soltanto fra questa aristocrazia giovanile. Appena infatti un seldwylese raggiunge il limite degli anni fiorenti, quando altrove uno comincerebbe a raccogliersi e a rafforzarsi, a Seldwyla tutto è finito: deve cedere le

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armi e, se è uomo di poco conto, rimane sul posto esauto­ rato ed espulso dal paradiso del credito. Che se poi non è ancora del tutto ridotto allo zero, si arruola in un eser­ cito fuori del paese e impara a fare per un tiranno stra­ niero quel che non s’è degnato di fare per se stesso: ab­ bottonar la giubba stretta e tenersi ben rigido ! Costoro rimpatriano dopo parecchi anni come bravi soldati e sono fra i migliori istruttori della Svizzera, capaci di addestrare le reclute così che è una gioia vederli. Altri invece verso il quarantesimo anno vanno altrove in cerca d’avventura tanto che nei luoghi più disparati si possono incontrare Seldwylesi, che si distinguono tutti perché abilissimi a mangiar pesci, in Australia o in California, nel Texas come a Parigi o a Costantinopoli. I pochi che invece rimangono in paese e ci invecchiano, finiscono per imparare a lavorare, o meglio per dedicarsi a mille piccole disordinate faccende non mai imparate, al fine di raggranellare quattro soldi quotidiani. I Seldwy­ lesi poveri e anziani con le rispettive mogli e i figlioli, dopo aver abbandonato il mestiere regolare, diventano la gente più laboriosa del mondo e fan davvero pietà quando van­ no in caccia dei modesti mezzi per la conquista di un buon boccone di carne come in tempi passati. Tutti i cittadini hanno abbondanza di legna e il Comune ne vende an­ nualmente buona parte, sovvenendo e mantenendo la gran miseria e facendo si che per la vecchia cittadina continui immutato sino a oggi quel corso degli eventi. Sono comunque sempre vispi e allegri e se un’ombra Oscura le loro anime, se sulla città gravano troppo tenaci difficoltà finanziarie, si distraggono e si fanno coraggio con la loro grande agilità politica, altra caratteristica dei Seldwylesi. Essi infatti sono politicanti arrabbiati, revisori di costituzioni e presentatori di interpellanze, e quando son riusciti ad escogitare una mozione ben assurda da far proporre dal loro rappresentante nel Gran Consiglio, o quando emana da Seldwyla il richiamo a un mutamento costituzionale, tutti nel paese sanno che c’è carestia di soldi. Essi d’altra parte amano la varietà delle idee e dei principi e, il giorno dopo che hanno eletto un governo, so-

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gliono mettersi all’opposizione del medesimo. Si tratta di un governo radicale? Allora per dargli noia si schierano al fianco del pastore piuttosto bigotto e conservatore, che hanno sino alla vigilia schernito: gli fanno la corte affol­ lando la sua chiesa con simulato entusiasmo, lodandone le prediche e facendosi ostentatamente distributori dei suoi opuscoletti propagandistici e dei rapporti della Società Missionaria di Basilea, senza, si capisce, contribuirvi però neppur con un soldo. Se invece è al timone un governo di tinta anche solo vagamente conservatrice, subito s’af­ follano attorno ai maestri comunali, e al povero pastore tocca chiamare il vetraio per riparare finestre rotte. Se il governo si compone di giuristi liberali preoccupati delle forme oppure di finanzieri tenaci, corron subito dal socia­ lista più prossimo e irritano il governo eleggendo questi nel Consiglio con il grido di guerra : Basta col formalismo politico; al popolo stanno a cuore solo i suoi interessi materiali ! Oggi pretendono il veto e persino un autogo­ verno più immediato con assemblea popolare permanente, per la quale a vero dire i Seldwylesi avrebbero il maggior tempo disponibile; domani invece si dànno arie di stanco scetticismo in affari pubblici e permettono che le elezioni siano guidate da una mezza dozzina di vecchi relitti, falliti trent’anni avanti e giunti silenziosamente a riabilitarsi. Quando poi, stando comodamente seduti all’osteria, ve­ dono quei vecchi avviarsi verso la chiesa, se la ridono sotto i baffi, come quel ragazzo che diceva: «Ben gli sta a mio padre se mi si congelan le dita, perché non vuol comprarmi i guanti!». Ancora ieri si entusiasmavano esclusivamente per la vita federale ed erano indignati che nel Quarantotto non si fosse proclamata l’unità completa, oggi viceversa hanno l’idea fissa della sovranità cantonale e non eleggono candidati al Consiglio Nazionale. Quando però una delle loro iniziative o mozioni diventa incomoda e perturbatrice per la maggioranza del paese, il governo suole mandar loro tra capo e collo, come cal­ mante, una commissione d’inchiesta per riordinare l’am­ ministrazione dei beni comunali di Seldwyla, e allora hanno grattacapi sufficienti e il pericolo è sventato.

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Tutto questo li diverte molto, e il divertimento è su­ perato soltanto dalla gioia di ogni autunno, quando viene spillato il vinello nuovo, il mosto in fermento che essi chia­ mano Sauser. Se la qualità è ottima non si è sicuri della vita in mezzo a loro, tanto è il chiasso indemoniato : tutta la città odora di vin nuovo e i Seldwylesi perdono comple­ tamente la testa. Ma quanto meno essi son buoni di concludere qualcosa di bene a casa propria, tanto meglio sanno invece affer­ marsi, caso singolare, quando vanno militari, sia che lo facciano isolati o in compagnie; così in guerre passate sempre si son fatti onore. Anche come speculatore e imprenditore d’affari più d’uno è riuscito, appena fuori da quella calda valle solatia dove non c’era per lui ter­ reno favorevole. In una città tanto allegra e singolare non può esserci scarsità di storie e di vicende strane, visto che l’ozio è il padre di tutti i vizi. Io però in questo libriccino non vo­ glio narrare le storie connaturate col sopradescritto carat­ tere dei Seldwylesi bensì, piuttosto, alcuni fatterelli bizzar­ ri, capitati così per caso, per eccezione in certo modo, ma che tuttavia non potevan verificarsi altro che a Seldwyla.

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In una piazzetta remota, accanto alle mura, viveva la vedova di un cittadino di Seldwyla che aveva da tempo compiuto la sua giornata e giaceva sotto terra. Non era stato uno dei peggiori, anzi nutriva una così intensa aspi­ razione a diventare un uomo ammodo e posato che soffri­ va del tono da dominatore al quale da giovane non aveva potuto sottrarsi; quando poi la sua età migliore fu tra­ scorsa ed egli, secondo le consuetudini, dovette sparire dalla scena, tutto gli parve un brutto sogno, quasi una vita perduta ; gliene venne la consunzione e morì prontamente. Lasciò alla vedova una casupola cadente, un campo di patate fuori porta e due figli, un maschio e una femmina. Filando essa si guadagnava il latte e il burro per cuci­ nare le patate che coltivava, mentre un meschino sussidio vedovile, che l’assistente dei poveri le versava ogni anno, dopo essersene servito nella sua azienda per qualche set­ timana oltre il termine di scadenza, bastava appunto alle esigenze del vestiario e ad alcune altre piccole spese. Quei soldi erano sempre attesi con pena, in quanto le vesticciole dei bimbi, appunto per quelle settimane di ritardo, fini­ vano di sdruscirsi completamente e il vaso del burro lascia­ va scorgere il fondo in più punti. L’apparire del fondo ver­ de di quel recipiente era un fenomeno annuo, regolare quanto quelli del cielo, e trasformava ogni volta con pari regolarità la fredda rassegnazione della famigliola in vera ribellione. I bimbi tormentavano la mamma perché desse loro cibo migliore e più abbondante, giacché nella loro ingenuità la ritenevano in grado di farlo, vedendo in lei la potenza suprema, la loro unica protezione e autorità. La madre d’altra parte era scontenta che i ragazzi non riuscissero ad avere o più buon senso o più cibo o l’una e l’altra cosa insieme. I suddetti fanciulli mostravano peraltro indoli opposte. Il maschio era un ragazzo poco notevole di quattordici anni, dagli occhi grigi e dai lineamenti seri, che s’indu­ giava a letto la mattina, poi leggiucchiava un volume

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stracciato di storia e geografia e che ogni sera, d’inverno e d’estate, correva sulla montagna per assistere al calar del sole, unica vicenda spettacolosa e brillante che esistes­ se per lui. Pareva che il tramonto fosse per lui pressap­ poco quel che per i commercianti è il mezzodì in Borsa; egli almeno ne ritornava in stati d’animo altrettanto mutevoli, e se aveva veduto belle nuvole rosse o gialle, ma­ novranti maestose al pari di grandiosi eserciti nel sangue e nel fuoco, poteva dirsi davvero contento. Di tanto in tanto, ma solo di rado, copriva un foglio di carta di strani elenchi e di cifre, unendolo poi ad un fasci­ colo legato con un vecchio cordoncino d’oro. In esso c’era anzitutto un librettino messo insieme con un foglio ripie­ gato di carta dorata, le cui facciate bianche eran tutte zeppe di linee, di figure e puntini frammezzati a nuvole di fumo e a bombe volanti. Il ragazzo considerava spesso e con gran soddisfazione il libriccino e vi aggiungeva nuovi disegni, per lo più al tempo in cui il campo di pa­ tate era in fiore. Si stendeva allora fra il verde fiorito sotto il cielo azzurro, e dopo aver contemplato una delle pagine scarabocchiate, fissava per un tempo tre volte più lungo la contropagina dorata, nella quale si rifrangeva il sole. Egli era per il resto un ragazzo ostinato e incline a tenere il broncio, che non rideva mai e nel bel mondo di Dio non imparava né concludeva nulla. Sua sorella aveva dodici anni ed era una bimba grazio­ sissima dai folti capelli castani, dagli occhi bruni e dalla pelle candida. Era mite e tranquilla, sopportava molte cose e brontolava assai meno di suo fratello. Aveva una vocetta limpida e cantava come un usignuolo, ma benché per tutto questo fosse più leggiadra e gentile del fratello, la madre, apparentemente, dava la preferenza a lui. Essa indulgeva al suo carattere appunto perché ne aveva com­ passione, vedendo che non imparava niente e che sarebbe stato probabilmente sfortunato, mentre a parer suo la figliola non aveva grandi bisogni e se la sarebbe sempre cavata. La sorella doveva quindi filare senza posa, perché il si­ gnorino avesse più da mangiare e potesse aspettare con

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maggior agio la sua futura mala sorte. Il ragazzo accet­ tava senz’altro la situazione e si comportava come un pic­ colo indiano che fa lavorare le donne; ma sua sorella me­ desima non ne provava sdegno, persuasa che così dovesse essere. La bimba si concedeva un solo compenso, e vendetta, permettendosi ad ogni pasto, con la forza o con l’astuzia, una grave sconvenienza. La madre infatti preparava ogni mezzodì una spessa purea di patate sulla quale versava panna oppure buon burro dorato. Mangiavano questa polentina da un gran piatto, tutti e tre insieme, coi loro cucchiai di stagno, scavando ciascuno un avvallamento nel compatto monte di patate. Il ragazzino che, fra le altre stranezze, rivelava nelle faccende manducatone un ri­ gido senso di regolarità militare, curava severamente che nessuno prendesse più o meno di quanto gli spettas­ se, e badava che il latte o il burro fuso scorrente at­ torno al piatto affluisse uniformemente nelle rispettive fossette; la ragazzina invece, molto più semplice, appena le sue fonti si inaridivano, tentava con svariati scavi e fosse di derivazione di far defluire dalla sua parte i gu­ stosi rivoletti. Per quanto il fratello vi si opponesse eri­ gendo, appena si presentava una falla sospetta, non me­ no ingegnosi sbarramenti e tamponamenti, essa riusciva sempre ad aprire una nuova vena segreta nella poltiglia, oppure introduceva con aperto atto ostile il proprio cuc­ chiaio nella ricolma trincea del fratello, mentre lo guarda­ va sorridendo. Quello allora gettava il cucchiaio, borbot­ tava e metteva il broncio, sin che la buona mamma, solle­ vando un poco il piatto, faceva correre tutto il suo condi­ mento nel labirinto di canaletti e di argini dei due ragazzi. La famiglinola viveva così i suoi giorni uniformi, e ap­ punto perché tutto rimaneva immutato e i ragazzi cre­ scevano senza che si mostrasse loro un’occasione favore­ vole per entrare nel mondo e diventar qualcuno, crebbe il disagio e il rammarico della loro esistenza in comune. Pankraz, il maschio, continuò a non fare e a non imparare nulla, fuorché una raffinata e artificiosa maniera di tenere il broncio, con la quale tormentava sua madre, sua sorella

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e se medesimo. Questo diventò la sua occupazione rego­ lare e interessante, in cui prodigava le oziose energie dell’animo suo, escogitando centinaia di piccole tragedie domestiche da lui stesso provocate e in cui con pronta maestria sapeva sostenere sempre la parte della vittima. Estherchen, la sorella, veniva così indotta ad abbondanti lagrime, tra le quali però presto rispuntava il sole della sua serenità. Ma tale superficialità irritava e offendeva Pankraz al punto da indurlo a periodi sempre più lunghi di muso e persino a piangere in segreto per la rabbia da se stesso procuratasi. Simile tenor di vita rafforzò tuttavia notevolmente la sua salute e le sue energie, ed egli allora, sentendosele crescere in corpo, ampliò la cerchia della propria attività, girando per i campi e pei boschi con in mano un ramo nodoso o un manico di scopa, per vedere dove potesse procurarsi e subire qualche palese ingiustizia. Appena gli se ne offriva e sviluppava una, egli senz’altro picchia­ va ferocemente i suoi avversari, acquistando e dimo­ strando in tale attività tanta energia tattica e destrezza, sia nello scovare il nemico sia nella lotta medesima, da de­ bellare singoli giovanotti di forza molto superiore e anche interi manipoli di questi, o da compiere almeno una riti­ rata impunita. Al ritorno da una simile avventura fortunata, gustava doppiamente il pranzo e i suoi potevano compiacersi del suo buon umore. Un giorno però, invece di distribuir busse, gli toccò di prendersele e in abbondanza. Venne a casa pieno di mortificazione, di rabbia e di rancore e s’accorse che Estherchen, dopo aver filato tutto il giorno, non aveva resistito alla voglia e si era pappata una buona parte del pranzo messo in serbo per lui ed anzi, a quel che gli parve, la parte migliore. Triste e sconsolato, tratte­ nendo a stento le lagrime, osservò i miseri avanzi ormai freddi, mentre la perfida sorella, di nuovo seduta al fila­ toio, scoppiava in una risata. Questo fu troppo per lui : doveva succedere qualcosa di grosso ! Pankraz si ritirò affamato, senza toccar cibo, nella sua cameretta e quando al mattino sua madre andò a

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destarlo perché scendesse a colazione, egli era sparito e non fu possibile trovarlo. Passò quel giorno senza che ri­ tornasse, e così il seguente e un altro ancora. La madre ed Estherchen erano molto tristi e angosciate; compresero subito che era fuggito di proposito, portando con sé le poche cose sue. Piansero e gemettero a lungo vedendo rimaner infruttuosi tutti i loro sforzi per rintracciarlo, ma quando dopo un semestre Pankraz rimase irreperibile, si rassegnarono con malinconia alla loro sorte, che parve ancor più solitaria e. misera. Come par lunga una settimana, anzi una giornata sola, quando si ignora dove siano e dove vadano quelli che si amano, quando in tutto il mondo regna il silenzio su di loro, e in nessun luogo v’è la minima traccia del loro nome mentre pur si sa che son vivi e che in qualche posto essi respirano! Così per la madre e per Estherchen trascorsero cinque anni, poi dieci, poi quindici, tutti i giorni eguali, e neppur sapevano se il loro Pankraz fosse morto o vivo. Fu un broncio ben lungo ! Estherchen, che s’era fatta una bella ragazza, si trasformò nel frattempo in una zitella non priva di grazia e di finezza, che rimaneva presso la vec­ chia madre non soltanto per devozione filiale, ma anche per la curiosità di esser presente il giorno in cui il fratello sarebbe finalmente riapparso, per vedere come si sarebbe svolta la scena. Essa era di animo sereno e fermamente sperava che un giorno sarebbe tornato e che ci sarebbe stata allora ragione di buone risate. Del resto non le pesò il rimaner nubile, perché aveva buon senso e capiva che con quelli di Seldwyla v’era poco da contare su una felicità duratura, mentre essa viveva colla madre senza mutamenti, in un modesto benessere, in calma e senza crucci, essendo venuta a mancare una buona forchetta, ed essendo i loro bisogni quasi inesistenti. Era una volta un bel pomeriggio estivo, a metà setti­ mana, una di quelle giornate in cui non si pensa a nulla e la gente delle piccole città lavora di lena. Il fior fiore di Seldwyla, col bel sóle, si trovava tutto sugli ombreggiati giochi di birilli fuori porta o anche nelle fresche osterie

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della città. Quelli ridotti in malora e i vecchi invece con­ tinuavano a martellare, a cucire, a batter suole, a incolla­ re, a intagliare e a far mille piccoli lavori con assiduità per utilizzare la lunga giornata e conquistarsi una serata al­ legra, di cui apprezzavano ormai il valore. Sulla piazzetta dove abitava la vedova non c’era da vedere che il pacifico sole estivo sul selciato erboso ; presso le finestre aperte in­ vece i vecchi artigiani lavoravano e i bambini giocavano. La vedova filava dietro una cassetta di rosmarino in fiore, con di fronte Estherchen intenta a cucire. Erano già pas­ sate alcune ore dal pranzo e i vicini non si erano ancora scambiati una parola. Allora il calzolaio trovò probabil­ mente che era giunto il momento per una piccola pausa ristoratrice e lanciò uno starnuto tanto forte e baldanzoso che tutte le finestre ne tremarono e il legatore di fronte, che in realtà non era affatto un legatore di libri, bensì solamente uno che improvvisava alla meglio lavori di cartonaggio e teneva attaccata alla porta una vetri­ netta nella quale un bastone di ceralacca si deformava al sole, il legatore insomma gridò: «Alla salute!» fa­ cendo ridere tutti i vicini. L’uno dopo l’altro sporsero il capo dalle finestre, alcuni anzi si fecero sulla porta e si offrirono prese di tabacco, col che fu dato il segnale di una piccola conversazione pomeridiana e di qualche al­ legra risata durante il caffè della merenda, che già man­ dava da tutte le case il suo profumo di cicoria. Quella brava gente aveva alla fine imparato a divertirsi di po­ co. E il divertimento fu completato dal sopravvenire di un suonatore straniero con un ben lucidato organetto, il che costituisce in Isvizzera una relativa rarità, non essen­ dovi suonatori d’organetto indigeni. Suonò una nostal­ gica canzone sulla lontananza e le sue bellezze che parve a quel pubblico ammirevolissima e che strappò lagrime specialmente alla vedova, facendola pensare al suo Pankraz ormai sparito da tanti anni. Il calzolaio diede una moneta al suonatore, che se ne andò lasciando la piaz­ zetta di nuovo nel suo silenzio. Ma non molto tempo dopo arrivò un altro girovago con un grande uccello esotico in una gabbia, che egli, mentre lo descriveva, andava di

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continuo stuzzicando con un bastoncino infilato tra i ferri, non lasciando pace alla povera bestia. Era un’aquila d’A­ merica, ed alla vedova vennero in mente le regioni più re­ mote e più azzurre sulle quali l’uccello si era librato in libertà, il che la fece immelanconire, anche perché non sapeva affatto che paesi mai fossero né dove si trovasse il suo caro figlio. Per vedere l’aquila i vicini erano dovuti uscire in piazza e dopo che fu portata via fecero gruppo, coi nasi in aria, in attesa di altre novità, dato che avevano ormai voglia di sciupare il resto della giornata. Tale voglia fu accontentata, poiché non passò molto tempo che si presentò, con grande strepito e fra l’accorre­ re di tutti i bambini della borgata, uno spettacolo inau­ dito. Avanzava ondeggiando un enorme cammello, sulla cui gobba si pigiavano numerose scimmie e lo seguiva un bell’orso condotto per l’anello del naso; c’erano anche due o tre uomini e ben presto si svolse una rappresenta­ zione con danza dell’orso, il quale di tanto in tanto lan­ ciava dei brontolìi irosi da far spaventare il pacifico pub­ blico che si metteva a guardare la bestia a rispettosa di­ stanza. Estherchen rideva e si divertiva un mondo del­ l’orso che salterellava con tanta grazia reggendo il ba­ stone, e del cammello dalla faccia soddisfatta, e delle scim­ mie. La madre invece non faceva che piangere: aveva compassione dell’orso feroce e doveva ripensare al figlio scomparso. Sparito finalmente anche questo corteo e tornato il si­ lenzio sulla piazza, dopo che i vicini eccitati se ne furono andati a bere qua o là una bottiglia vespertina, Esther­ chen disse alla madre : — Ho idea che proprio oggi debba arrivare Pankraz, visto che sono accadute già tante cose impreviste e son comparsi cammelli, scimmie ed orsi ! — La madre si stizzì che il povero Pankraz venisse in certo modo messo insieme, con derisione, a quelle bestiacce, e le impose di tacere, senza rendersi conto che anche lei, coi suoi melanconici pensieri, aveva fatto la stessa cosa. Poi disse con un sospiro : — A me non sarà più dato di vederlo tornare ! Mentre pronunciava quelle parole avvenne la cosa più

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straordinaria della giornata: una carrozza aperta da viaggio con un postiglione speciale piombò nella tran­ quilla piazzetta ancora a mezzo sfiorata dal sole tramon­ tante. Nella carrozza sedeva un uomo con un berretto simile a quello degli ufficiali francesi, con baffi e barba e una faccia abbronzata e riarsa dal sole che per di più recava le tracce di fucilate e di sciabolate. Era av­ volto in un burnous simile a quelli che usan recare dal­ l’Africa i soldati di Francia e appoggiava i piedi su una immensa pelle di leone distesa sul fondo della carrozza; sul sedile di fronte erano posati una spada, una pipa ara­ ba di media lunghezza ed altri oggetti esotici. L’individuo, pur facendo la faccia seria, spalancava gli occhi cercando evidentemente lì intorno una casa, con l’aria di chi si desti da un sonno pesante. Balzò quasi in­ ciampando dalla carrozza che s’era fermata in mezzo alla piazza, ma prese poi la spada e la pelle di leone e s’awiò a passi sicuri verso la casetta della vedova, come se ne fosse uscito un’ora prima. La madre ed Estherchen vi­ dero tutto questo con grande stupore e curiosità e tesero l’orecchio per sentire se lo straniero saliva le scale. Esse infatti, pur avendo parlato poco prima di Pankraz, in quel momento non immaginavano che fosse lui, e il loro pensiero era stato anzi trascinato mille miglia lontano dal­ la sorpresa e dalla curiosità. Ma d’un tratto lo riconob­ bero alla maniera con cui superò d’un salto gli ultimi gradini, afferrando quasi subito, passato il pianerottolo, la maniglia della porta, dopo aver fulmineamente ricac­ ciato nella toppa la chiave male infilata, proprio come so­ leva sempre fare da ragazzo lo scomparso, il quale, mal­ grado la sua fannullaggine, aveva sempre serbato un vivo senso dell’ordine. Lanciarono un grido e rimasero lì, come paralizzate, accanto alle loro sedie, con la bocca spalan­ cata e gli sguardi tesi verso la porta che si apriva. E sulla porta c’era proprio lo straniero Pankraz, dal volto adusto e austero di soldato, ma con uno strano guizzo attorno agli occhi, mentre la madre tremava alla sua vista, non sa­ pendo che fare, ed Estherchen stessa per la prima volta era del tutto attonita e non osava muoversi. Ma questo

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durò un momento soltanto; il signor colonnello, giacché a tanto era giunto il figliuol prodigo, si tolse subito il ber­ retto con la cortesia e il rispetto imparati nei duri fran­ genti della vita, cosa che mai prima avrebbe fatto en­ trando nella stanza. Un’inesprimibile cordialità (come almeno parve alle due donne che mai l’avevan veduto cordiale né tale lo potevan pensare) si diffuse sul suo volto rugoso ma non vecchio di soldato, facendone bril­ lare i denti candidi mentre correva loro incontro e le stringeva ambedue fra le braccia in uno scoppio di pas­ sione. La mamma aveva a tutta prima tremato di fronte al figlio dall’aria marziale, che essa supponeva ancora cat­ tivo, ma palpitò poi di trepida beatitudine quando si sentì stringere fra le braccia del reduce, che già l’aveva incantata col suo rispettoso saluto e col lampeggiare di una nuova gentilezza, quale soltanto commozione e penti­ mento possono suscitare. Quel ragazzino aveva infatti co­ minciato ancora prima dei sette anni a sottrarsi alle sue tenerezze e sin da quel tempo, con amara ritrosia ed osti­ natezza, s’era ben guardato dallo sfiorare anche solo con un dito sua madre, senza contare le innumerevoli volte in cui era andato a coricarsi imbronciato e senza augurar la buona notte. Le parve dunque un istante incredibile e meraviglioso, tale da compendiare un’esistenza intera, quello in cui, dopo ben treni’anni, si vide per così dire per la prima volta abbracciata da suo figlio. Anche a Estherchen il mutamento d’indole del fratello parve cosi serio e importante che, mentre mille volte aveva deriso il suo broncio, non ebbe ora la forza di salutare con una risata la sua convertita gentilezza, e anzi s’avviò con gli occhi inondati di lagrime verso la sua sediolina e rimase incantata a guardare Pankraz. Questi fu il primo che dopo alcuni istanti si riprese e da buon soldato trovò una via d’uscita e una soluzione al­ l’imbarazzo andando a prendere il proprio bagaglio. La mamma voleva aiutarlo insieme a Estherchen, ma egli la riaccompagnò con estrema amorevolezza alla sua sedia e permise soltanto che la sorella scendesse alla carrozza

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caricandosi di pochi oggetti leggeri. L’ulteriore svolgi­ mento della scena fu merito di Estherchen, che riacqui­ stò presto il buon umore e non seppe trattenersi dall’afferrare la pelle di leone per la lunga coda possente, tra­ scinandosela dietro sul pavimento, ridendo a crepapelle e ripetendo di continuo: — Ma che pelliccia è mai? Che mostro è questo? — Questo — disse Pankraz ponendo un piede sulla spoglia — tre mesi or sono era ancora un leone vivo e l’ho ucciso io. È stato questo signore a istruirmi e a convertirmi tenendomi una predica di dodici ore tan­ to persuasiva che alla fine io miserello fui guarito per sempre dal fare il muso e dal serbar rancore. In memoria di ciò non mi staccherò mai da questa pelle. È stata pro­ prio una bella storia ! — aggiunse con un sospiro. Prevedendo che le due poverette, se le avesse trovate in vita, non avrebbero avuto in casa nulla di prelibato, Pankraz, passando per l’ultima città, aveva comprato una cassetta di buon vino e un cesto di cibi eccellenti, in modo che a Seldwyla non ci fosse poi bisogno di uscire per acquisti e che egli potesse cenare in piena tranquillità insieme alla madre e alla sorella. La madre non ebbe così che da apparecchiare la tavola su cui Pankraz dispose al­ cuni polli arrosto, uno splendido pasticcio in gelatina, un pacco di pasticcini ed altre leccornie. E ancora : lungo la strada aveva ricordato la povera lucemetta a olio che mandava ben scarsa luce, e come spesso s’era adirato per la misera illuminazione che gli impediva di trovare le sue coserelle, e ciò benché la madre, che pur aveva occhi più stanchi dei suoi, solesse spingergli la lucerna sotto il naso, con grande spasso di Estherchen pronta a rubar­ gliela ad ogni momento. Ah ! Una sera egli l’aveva per­ sino spenta piangendo per la stizza e quando la mamma l’aveva riaccesa con un sospiro, era stata Estherchen a spegnerla un’altra volta ridendo, dopo di che egli era corso a letto col cuore spezzato dalla rabbia. Questi e tanti altri ricordi gli eran tornati per via e, mentre con dolore ed angoscia moriva dall’impazienza di sapere se avrebbe riveduto le due abbandonate, aveva comprato

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anche alcune candele di cera ; ne accese ora due così che le donne non finivan d’ammirare tutto quello splendore. Fu dunque come un piccolo pranzo di nozze nella ca­ setta della vedova, ma più tranquillo, e Pankraz si valse della luce delle candele per studiare i volti invecchiati del­ la madre e della sorella e questa vista lo turbò più di tutti i pericoli che aveva dovuto affrontare. Si immerse in profonde meditazioni melanconiche sulla natura e sulla vita, su come proprio le nostre qualità secondarie, un’in­ dole cordiale o aspra, non soltanto determinino la nostra sorte e fortuna, ma anche quelle di chi ci circonda, po­ tendo farci colpevoli verso costoro senza che noi quasi ce ne rendiamo conto, non essendo stati noi a sceglierci il nostro carattere. Fu tuttavia distolto da queste medita­ zioni dai vicini, che non avevano più saputo dominare la curiosità e arrivavano l’uno dopo l’altro in casa della ve­ dova per vedere la bestia rara, essendosi ormai diffusa in tutta la cittadina la voce che era ricomparso Pan­ kraz, e precisamente come generale francese, in un tiro a quattro. Questo fu un caso estremamente complesso per i Seldwylesi radunati nei loro locali di divertimento, per i vec­ chi come per i giovani, e tutti si grattavano la testa per­ plessi, perché era contro l’ordine e le norme di Seldwyla che uno piovesse d’un tratto dal cielo, in veste di uomo arrivato e di generale proprio nell’età in cui si era belli e finiti. Che cosa intendeva fare? Stabilirsi davvero in città senza essere uno dei tanti decaduti e restarci per tut­ to il resto della vita, magari invecchiandoci? Ma come aveva mai fatto? Che cosa aveva combinato, per tutti i diavoli, quel ragazzo trascurabile e insignificante, du­ rante la sua giovinezza, senza ridursi male? Questo era il problema che turbava tutti gli spiriti, né trovavano la chiave per risolvere l’enigma, perché la loro conoscenza degli uomini e delle anime era troppo meschina per sa­ pere che appunto l’indole aspra ed amara, pur procuran­ do a lui e ai suoi tanti acerbi dolori, aveva d’altra parte ben conservato la sua intima essenza, come l’aceto forte conserva un pezzo di carne di montone, e l’aveva aiutato

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a superare la pericolosa età fulgente dei Seldwylesi. Per risolvere il problema, si cominciò dal porre in dubbio la verità stessa dell’evento, e per confermare tale ipotesi vennero inviati nella piazzetta parecchi vecchi falliti, così che Pankraz, i cui vicini già accorsi appartenevano a quella classe, si vide circondato da una intera assemblea di curiosi e bonari uomini mancati, come un antico eroe, sceso negli inferi, dalle ombre che accorrono verso di lui. Accese allora la sua pipa turca riempiendo la stanza del profumo esotico del tabacco orientale; le ombre, o i falliti, annusavano sempre più incuriosite quelle nuvole azzurre, ed Estherchen e la madre ammiravano stupe­ fatte la giovialità e l’abilità con cui Pankraz sapeva in­ trattenere la gente e la cortese ma ferma disinvoltura con cui sciolse alla fine l’adunata, quando gli parve ne fosse giunta l’ora. Ma poiché le gioie basate sulla felicità domestica e sui lieti eventi familiari hanno il dono, anche dopo lunghissi­ me sofferenze, di ringiovanire e ingalluzzire coloro che le godono, invece di renderli esausti come è delle eccitazioni del mondo esterno, così la vecchia madre, non meno dei due figlioli, non avvertiva stanchezza né sonnolenza, ed anzi, riscaldata dal buon vino bevuto con piacere, volle alla fine, insieme alla figlia ancor più impaziente, qualche precisa notizia sulla sorte di Pankraz. •— Non posso ora — cominciò questi — raccontarvi per esteso la mia melanconica storia, e certo ci sarà tempo per esporvi a poco a poco, nei particolari, le mie vicende. Oggi ve ne voglio dare solo alcuni accenni, quanto è necessario per giungere alla conclusione, cioè al mio ritorno e al modo in cui fu deciso, giacché esso fa da perfetto ri­ scontro alla mia fuga di un tempo e ne ha la stessa origine. Quando, allora, me la svignai in quel modo ver­ gognoso, ero pervaso da un inestinguibile sdegno e tor­ mento, non contro di voi, bensì contro me stesso, contro questo paese, questa inutile città, contro tutta la mia giovinezza. Di ciò mi son reso conto solamente più tardi. Quando mi arrabbiavo, quasi sempre per il mangiare, e vi tenevo il broncio, la ragione segreta era il mio rodi­

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mento di non guadagnarmi quel cibo, perché non studiavo e non lavoravo, anzi perché niente mi incitava a un’attività e non vi era quindi speranza che mai le cose mutassero. Tutto quel che vedevo far dagli altri mi sem­ brava pietoso e stolido; persino il vostro eterno filare mi appariva insopportabile e mi dava il mal di capo, benché esso provvedesse ai bisogni del mio ozio. Fuggii cosi in una notte di cupa disperazione e camminai per sette ore. Al levar del sole scorsi dei contadini che facevano fieno su un gran prato ; senza dire una parola né chiedere nulla, de­ posi il mio fardelletto, presi un rastrello o un forcone e lavorai come un ossesso insieme a quella gente con la massima abilità, giacché durante il mio vagabondare qui intorno avevo ben studiato tutti i gesti e i modi di chi lavorava, pensando anzi sovente che essi davan di piglio all’uno o all’altro strumento con goffaggine, e co­ me si sarebbe dovuto esser ben più svelti per potersi dire un giorno buoni operai. Quelli mi guardarono stupiti, e nessuno mi ostacolò nel mio lavoro; quando fecero il primo spuntino, fui in­ vitato, il che era stato appunto il mio scopo, e poi lavorai sino a che venne il pranzo, che mangiai pure di ottimo appetito. Ma i contadini stupirono anche più e mi segui­ rono con risatine sconcertate allorché io, invece di riaf­ ferrare il forcone, mi pulii la bocca, ripresi il fagottino e senza perdermi in parole, proseguii per la mia strada. Mi stesi a terra in un fitto e fresco boschetto di faggi e dormii sin verso il crepuscolo, poi balzai in piedi, uscii dal bosco e studiai il cielo, dove cominciavano ad occhieggiare le stelle. La posizione degli astri era fra le poche cose da me studiate durante il mio ozio, e avendovi riscontrato grande ordine e puntualità, sempre me ne ero compiaciuto, tanto più che queste creature splendenti non sembravano os­ servare tale puntualità per un salario o per una zuppa di patate, ma facevano soltanto quel che non potevano tra­ lasciar di fare, come per loro spasso, e per di più vi riu­ scivano bene. Siccome d’altra parte, avendo imparato a memoria il nostro libretto di geografia, per semplice che fosse, io conoscevo anche la terra, seppi orientarmi

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bene e decisi sull’istante di attraversare tutta la Germania dirigendomi verso nord sino a raggiungere il mare. Cam­ minai dunque la notte intera per ben otto ore e col primo sole giunsi ad una località selvatica e solitaria sul Reno, dove proprio sotto i miei occhi un barcone carico di sac­ elli di grano si incagliò in una secca, cosi che l’acqua inondava una parte della merce. Non essendoci che tre uomini sul barcone e non potendosi scorgere a quell’ora e in quel punto deserto nessun altro, fui il benvenuto quando mi diedi ad aiutare l’equipaggio a portare a riva il pesante carico e a disincagliare poi lo scafo, disponendo il grano inumidito su tavole al sole, rimestandolo bene e ricaricandolo quindi sul barcone. Questo però ci occupò buona parte della giornata ed io trovai intanto occasione di dividere parecchi ottimi pasti coi battellieri; anzi, quando ebbimo finito, mi diedero un poco di denaro e, a mia richiesta, mi traghettarono sull’altra sponda a mez­ zo della piccola scialuppa legata dietro il grosso barcone. Di là mi trovai su una montagna boscosa e dormii su­ bito sino a notte, rimettendomi poi in marcia e cammi­ nando sino all’alba successiva. Per dirvela in poche pa­ role, con questo metodo in poco più di due mesi giunsi ad Amburgo, sempre afferrando, di giorno, ogni lavoro che si offrisse, senza troppo parlare con la gente e andando­ mene non appena sazio per riprendere di notte il cam­ mino. Il mio modo di fare ogni volta lasciava la gente stupefatta, cosi che nessuno mi si opponeva e, se taluni volevan mostrarsi indispettiti o curiosi, io ero già bell’e lontano. Siccome evitavo le città e i miei rapporti di la­ voro si svolgevano tutti all’aperto, per i monti o per i boschi, dove non c’era che gente semplice e primitiva, viaggiai davvero come al tempo dei patriarchi. Non vidi mai nulla dei diversi regimi di quegli Stati che attraversavo e la mia sola cura era di passare appunto per tali terre senza elemosinare, senza sentirmi obbligato verso nessuno per il mio nutrimento, facendo quel che m’accomodava e soprattutto riposando quando volevo e marciando quando mi piaceva. Più tardi, naturalmente, ho anche imparato ad attenermi a un saldo ordinamento

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esterno a me e a una regolare continuità, ma, come avevo appreso di colpo a lavorare, così imparai subito anche quello senza sforzi particolari, appena ne compresi la necessità. La vita all’aria aperta, alternando lavoro pesante, nu­ trimento abbondante e riposo sereno, mi giovò non poco, e le mie membra vennero così esercitate che quando arri­ vai nella grande città commerciale di Amburgo ero un uomo robusto ed energico. Corsi subito al mare e mi mescolai agli uomini che là si aggiravano intenti al carico delle navi. Dato che aiutavo dappertutto senza perder tempo a guardare, ma stando attento e senza sciupare parole né torcere mai la bocca, quella gente aspra e taci­ turna mi accettò senz’altro e io trascorsi una settimana con loro, dopo la quale m’imbarcarono clandestinamente su un mercantile inglese, il cui capitano mi accolse a patto che lo aiutassi nel lavoro privato cui si dedicava durante la navigazione. Tale lavoro consisteva nel ricomporre o ri­ parare armi da fuoco d’ogni genere, vecchie e sciupate, che egli acquistava in quantità ad ogni scalo nel vecchio mondo. Erano strani e misteriosi strumenti di morte che ricostruiva con terribile passione, per barattarli poi alla prima occasione lungo le coste esotiche con preziosi pro­ dotti della pace o con miti prodotti naturali. Mi dedicai tranquillo al mio lavoro, imparandolo abbastanza presto e riducendomi ben sudicio di olio, di carta vetrata e di li­ matura, come un perfetto armaiolo. Quando una di quelle strane pistole era rabberciata alla meglio, la si provava con un colpo rimbombante, mai, però, più d’uno, la­ sciando la continuazione ai compratori pellirosse o negri nelle loro isole remote. Quella volta però la nave si recava soltanto a New York e di lì tornava in Inghilterra, dove io, ormai bene addestrato nell’arte dell’armaiolo, mi con­ gedai e mi feci senz’altro arruolare in un reggimento destinato alle Indie Orientali. A New York ero bensì sbarcato e avevo veduto per al­ cune ore la vita americana, che avrebbe in verità dovuto piacermi, poiché ognuno faceva quel che voleva e si mo­ veva a tutto suo agio e capriccio, passando da un’occupa-

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zione all’altra a seconda che gli piacesse, senza vergo­ gnarsi di alcun lavoro, né ritenerne uno più nobile dell’al­ tro. Ma, non so come fu, m’affrettai a risalire sulla mia nave invece di rimanere nel nuovo mondo, finendo cosi nella parte più antica e più fantastica della sfera ter­ restre, nell’antichissima, torrida India, e capitandoci in giubba rossa, da silenzioso soldato inglese. Non posso dire che mi spiacesse la nuova esistenza che già s’era iniziata sulla nave ove era imbarcato il nostro reggimento. Già, anzi, mi piacque moltissimo la circostanza che noi tutti, quanti eravamo, fossimo nutriti con la massima puntua­ lità e regolarità, tanto che ciascuno riceveva la sua razione con la sicurezza con cui procedono le stelle in cielo, e nessuno più o meno dell’altro, senza possibilità che l’uno facesse scapitar l’altro, e in special modo mi piacque che nessuno fosse tenuto a renderne grazie e che tutto trovasse la sua sola giustificazione nella nostra bene ordinata esi­ stenza. Benché noi reclute dovessimo essere istruite già a bordo con esercizi giornalieri, tale occupazione mi pia­ ceva oltre misura, giacché noi non dovevamo brandire la baionetta per infilare con abilità una patata, ma si tratta­ va di un mero esercizio per nulla connesso al mangiare, in cui bastava esser sempre attenti e puntuali per non avere al­ tri pensieri. Subito, al secondo giorno della traversata, vidi picchiare un soldato che, dopo essersi già reso colpevole di alcune irregolarità, aveva brontolato contro un suo supe­ riore. Mi proposi subito di non incappare in tale situazione e qui mi venne ottimamente in aiuto il mio malvezzo di fare il muso, facilitandomi una puntualità e un’attenzione silenziose e dandomi la possibilità di non cadere mai in fallo. Diventai così un ottimo e scrupoloso soldato; mi faceva piacere capir bene ogni cosa ed eseguirla come ci era prescritto e, quando ci riuscii, mi sentii finalmente abba­ stanza soddisfatto, senza però spendere più parole che in passato. Solo di rado diventavo appena un poco allegro e mi lasciavo andare a un mezzo scherzo, il che diede l’ul­ timo tocco alla mia figura di soldato come si deve, e im­ pedì in pari tempo che mi si prendesse in uggia. Insomma,

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trascorso appena un anno in quello strano e torrido paese, cominciai ad esser promosso e divenni alla fine un ap­ prezzato sottufficiale. Dopo alcuni anni ero divenuto a modo mio un pezzo grosso, ero per lo più assegnato agli uffici del comandante del reggimento e mi ero rivelato un buon amministratore, riuscendo a impratichirmi sul momento e senza alcuno sforzo mentale nelle arti in­ dispensabili, nella scrittura e nella contabilità. Tutto mi andava ormai liscio ed io mi sentivo contento di star­ mene senza fatica e senza crucci sotto quel bel cielo az­ zurro; tutto quello infatti che mi toccava di fare pareva venir da sé, e io non avvertivo differenza se andavo at­ torno per servizio o per diporto. Il cibo non era ormai più per me qualcosa di essenziale, e a malapena sapevo se e che cosa mangiavo. Due volte durante quel periodo vi avevo mandato notizie e alcuni risparmi, ma ambedue quelle navi, per uno strano caso, fecero naufragio e io ri­ nunciai irritato, proponendomi di rimpatriare io stesso appena possibile, per far buon uso in patria della mia acquisita capacità di lavoro e delle mie solide abitudini di vita. Pensavo di portar con ciò a Seldwyla un tesoro più prezioso che se ci avessi portato un milione, e già immaginavo come avrei apostrofato quei farfalloni e man­ giatori di pesci se mi fossero capitati tra i piedi. Ma doveva passar ancora del tempo e io dovevo anco­ ra imparare molte cose ed essere così trasformato e scosso nella mia natura da perder la voglia di prendermela con gli altri. Il comandante aveva fatto di me il suo factotum, e io dovevo passar quasi tutto il mio tempo da lui. Era uno strano uomo, di circa cinquant’anni, la cui moglie, poiché viveva in Irlanda in un antico maniero, doveva essere, se possibile, ancor più bizzarra di lui. Sin che ave­ vano vissuto insieme, erano andati avanti a sbuffi rabbiosi come due gatti selvatici, soffrendo ambedue dell’idea fissa di essersi reciprocamente sbagliati sposandosi, mentre in fondo nessuno meglio di loro era fatto l’uno per l’altra. Erano del resto sani e vispi e vivevano comodamente con la loro fissazione, senza la quale non avrebbero saputo co­ me passare il tempo, e, quando erano lontani, l’uno si

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preoccupava dell’altro con commovente sollecitudine. L’unica figliola, di nome Lydia, viveva invece quasi sem­ pre presso il padre e gli era devota e affezionata, poiché la differenza di sesso, anche fra padre e figlia, faceva sì che essa provasse per il padre una più tenera pietà che per la madre, benché in quella unione, ritenuta infelice, l’uno non valesse meno dell’altro. Il comandante aveva una bella e ariosa dimora fuori di città, in una valle tutta piantata a palme, cipressi e sicomori. Sotto quegli alberi, attorno alla casetta bianca, erano disposti dei giardini e degli orti ove si coltivavano in parte verdure sempre fresche e in parte innumerevoli fiori, che per vero dire in quel paese crescono selvatici in ogni cantuccio, ma che al comandante piaceva avere raccolti in gran copia vicino a lui, così che fra le ombre verdi degli alberi spiccavano chiazze splendenti di fiori bianchi e purpurei. Quando non v’era nulla da fare per il servizio, io, come uomo di fiducia, avevo anche il compito di tener in ordine quei giardini e inoltre, perché non mi abituassi troppo alle mollezze, di andare a caccia col mio colonnello, così che divenni per giunta un abile cacciatore; infatti subito dietro la valle cominciava una landa selvaggia che finiva in regioni montagnose e deserte, le quali ospitavano non soltanto abbondanti frotte di in­ nocente selvaggina, ma anche di tanto in tanto belve feroci, e specialmente grandi tigri. Quando una di queste si faceva viva, si iniziava una spedizione per darle la cac­ cia, e in tali occasioni imparai a conoscere il pericolo mol­ to prima che mi capitasse di combattere contro gli uo­ mini. Quando però non c’era altro da fare, mi toccava giocare agli scacchi col vecchio signore, sostituendo sua figlia Lydia che, non avendo alcuna disposizione e gio­ cando molto puerilmente, gli dava troppo poco gusto. Io invece mi ci ero addestrato abbastanza da tenergli testa, senza con ciò privarlo troppo spesso della vittoria e, se la mia attenzione non si fosse più tardi distratta per altri motivi, avrei presto superato il fiero vecchio. Ero diventato in tal modo la più singolare istituzione del mondo: mi aggiravo solenne e taciturno sotto quei pai-

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mizi nella mia uniforme scarlatta, con in mano una sot­ tile canna di bambù e con la testa avvolta in un bianco turbante a protezione dal sole torrido. Ero soldato, am­ ministratore, giardiniere, cacciatore, amico di casa, non­ ché damo di compagnia di qualità singolarissima, giac­ ché non pronunciavo mai parola. Infatti, pur non te­ nendo più il broncio e sentendomi discretamente soddi­ sfatto, ero ormai così avvezzo a tacere che la mia lingua non si muoveva più, se non per un comando o per una bestemmia contro un soldato indisciplinato. Ma appunto quelle maniere piacevano al colonnello e io rimasi così circa cinque anni presso di lui, un giorno dopo l’altro, con la libertà di fare quel che mi piaceva quand’ero fuori ser­ vizio. Adoperai il mio tempo libero a leggere e rileggere di contìnuo la dozzina di libri che il vecchio signore pos­ sedeva e, poiché erano tutti abbastanza grossi, da essi imparai a conoscere uno strano aspetto del mondo. Ero un lettore tranquillo e zelante, che si era formato un’istru­ zione senza ben sapere se nel mondo ciò avesse o non aves­ se valore, come dovetti di lì a poco sperimentare. Benché infatti avessi già visto e vissuto molte cose, ciò era sem­ pre avvenuto per così dire a zone, e la maggior parte del­ la realtà giaceva al di là delle zone per cui ero passato. Il mio comandante alla fine venne nominato governa­ tore di tutta la provincia ove risiedevamo ; desiderò con­ servarmi accanto a sé e ottenne il mio trasferimento dal reggimento, che stava per ritornare in Inghilterra, ad un altro in arrivo, cosicché continuai ad aver modo di star con lui tanto come militare che nelle altre mie qualità, e ciò mi tornava molto gradito perché rimanevo un uomo in­ dipendente che non aveva al di sopra di sé altro padrone fuorché la bandiera. In quell’epoca, dall’antico castello irlandese giunse an­ che la figlia, per vivere definitivamente col padre gover­ natore. Ragazza di grande bellezza, non era però soltanto avvenente, bensì anche una donna che sapeva il fatto suo e dava subito l’impressione che chi si fosse innamorato di lei non avrebbe trovato dietro ogni angolo un surrogato o una consolazione, appunto perché essa appariva una

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personalità completa e indipendente di cui non esisteva un secondo esemplare. Inoltre tale nobile indipendenza sembrava accoppiarsi alla più ingenua semplicità e bontà di carattere ; e in tale bontà c’era quella limpida spregiu­ dicatezza che, unita a decisione ed energia, conferisce una vera superiorità e, anzi, l’apparenza di una supe­ riorità arcana e geniale a chi in fondo non è che una creatura affettiva, spontanea e originale. Essa era cólta in mille belle cose, avendo trascorso l’infanzia e la giovinez­ za, come sogliono simili fanciulle, nell’imparare tutto ciò che conviene; conosceva persino quasi tutte le lingue mo­ derne, senza che lo si notasse troppo, così che gli uo­ mini ignoranti in sua compagnia non provavano subito il terribile disagio di saperne meno di una signorinella inu­ tile come una bella pianta ornamentale. In generale la sua mente sana e ben preparata si rivelava precipuamente nel suo modo di giudicare e trattare con estrema sicurezza gli eventi o gli oggetti maggiori e minori, e inoltre i suoi pen­ sieri e le sue parole erano semplici, gentili e precisi quanto il tono della sua voce e le movenze del suo corpo. E per coronamento essa era, come ho detto, tanto puerile, tanto poco astuta da non riuscire a giocare una seria partita di scacchi, pur restando alla scacchiera con serenissima pa­ zienza a subir rimbrotti dal genitore. Per questo, vicino a lei ci si sentiva a posto e come a casa propria; si pensava subito che essa fosse il vero Giacobbe fra le donne, e la miglior donna del mondo. Naturalmente a questo contri­ buivano i bei capelli biondi e gli occhi azzurro cupo, dallo sguardo quasi sempre serio e schietto, anche perché la sua bellezza, per notevole che fosse, era pervasa di modestia tutta femminea, dando in pari tempo il senso di qualcosa di unico: essa insomma, per ridirlo ancora in breve, era una personalità. O meglio, io trovo che tale sembrava, ma poi lo sa Dio se fosse proprio così o se dipendesse da me quell’apparenza ingannatrice, insomma . . . Pankraz a questo punto dimenticò di proseguire e si immerse in melanconiche riflessioni, atteggiando il volto a una espressione per nulla militare e quasi sempli­ ciotta. Le due candele eran più che dimezzate, madre e

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figlia, tutte insonnolite, ciondolavano la testa, incapaci di udire o di vedere altro ; da quando Pankraz aveva co­ minciato la descrizione della sua presunta innamorata, erano state còlte dal sonno, ed ora lo piantarono del tutto in asso, addormentandosi sul serio. Fortunatamente per la nostra curiosità, il colonnello non se ne avvide, e avendo ormai dimenticato a chi parlasse, riprese senza alzare gli occhi, simile a chi non sa più trattenersi dal confidare qualche cosa che ha lungamente taciuto. — Fino a quel tempo, non avevo mai studiato una donna da vicino e ne sapevo e ne capivo come un rino­ ceronte si intende di musica. Non che non le avessi guar­ date sempre volentieri, appena avevo potuto sbirciarle inosservato e senza fatica, ma mi ripugnava oltre misura entrare anche nella più breve conversazione con una di esse, giacché mi era sempre parso che non c’era cosa ra­ gionevole, chiara e precisa che avesse qualche importanza per una donna, e che ad esse fosse impossibile rimanere in argomento anche per sole sei parole consecutive, che il loro scopo precipuo fosse, appena formulata un’idea buo­ na e logica, di farla subito seguire da un’enorme scioc­ chezza o bizzarria. Esse fanno poi passare tutto questo per grazia e volubilità femminile, mentre si tratta in fondo di slealtà, e di slealtà tanto più riprovevole in quanto è ac­ compagnata dall’intenzione in parte cosciente di abban­ donarsi più comodamente, dietro questo schermo con­ fuso, ad ogni cattivo istinto e ad ogni stramberia. Per que­ sto serbavo rancore a tutto il sesso femminile, non degnan­ dolo mai di uno sguardo palese. In India, quando mi sen­ tivo più contento e non nutrivo quindi rancori, c’erano donne in abbondanza, sia di sangue indiano che inglesi, giacché molti commercianti, ufficiali e soldati avevano con sé le loro famiglie. Ma le indigene, che eran belle come i fiori e a vederle e sentirle sembravano buone come lo zucchero, non erano altro che belle e dolci e non mi com­ movevano affatto, poiché bontà e bellezza senza sale e sen­ za combattività mi sembravano doti noiose : pensavo che sarebbe stato molto spiacevole avere una donna, che, una volta mia, non sarebbe stata in grado di difendersi dalle



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mie musonerie. Le donne europee, da me là conosciute, quasi tutte provenienti dalla Gran Bretagna, sembravano combattive, ma non erano tanto buone o, se anche lo erano, praticavano bontà ed onestà come un’occupazione orrendamente prosaica e casalinga, e persino della loro no­ bile femminilità, di cui tanto si vantavano queste consa­ pevoli e rispettabili damine, si valevano piuttosto da me­ schini droghieri che da vere donne. Qui si pesa un’oncia di spezie e là se ne ravvolge con gran cura un’altra nel cartoccio di carta porosa della rispettabilità borghese. Avevo inoltre l’impressione che, nell’intimo di tutte queste bellezze o non bellezze occidentali, albergasse un ele­ mento di profonda volgarità, la malattia del nostro tempo, che esse non possono aver acquisito se non dal nostro sesso, da noi signori uomini europei ; ma che in esse diventa un male nuovo e doppio. Son brutti tempi, in cui i due sessi scambiano le loro malattie infettandosi l’un l’altro delle ri­ spettive debolezze. Tali erano i miei pensieri ignari ed ipocondriaci intorno alle donne, che costituivano la base della mia condotta di fronte a loro, dell’andar cioè per la mia strada senza curarmi di nessuna. Quando però arrivò da noi la bella Lydia ed io le vissi vicino giorno per giorno, tutta la mia saggezza subì un gran colpo e poi crollò. Mi sentivo subito di ottimo umore quando ella era presente, pur non sapendo bene che cosa ne avrei ricavato. Ero molto stupefatto di non provare ver­ so di lei né rancore, né disprezzo, né compatimento e nep­ pure la voglia di sbirciarla di nascosto; mi compiacevo anzi schiettamente della sua esistenza, la guardavo senza sfacciataggine ma con aperta libertà quando avevo da far qualcosa accanto a lei. Questo mi tornava tanto più facile in quanto, nella mia condizione di umile soldato, io non potevo rivolgerle mai la parola se non interrogato e quindi non avevo altro comportamento da osservare che quello di un rigido e serio graduato. Il tacere poi, specie con le donne, era diventato una seconda natura per la mia musoneria di tanti anni, così che non avrei saputo fare un’eccezione neppure se fosse stato lecito. Sentivo tuttavia una benevolenza viva e inconsueta per quella

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persona, nel mio intimo avevo per lei una grande simpa­ tia e per amor suo mutai la cattiva opinione che avevo sulle dorme, pensando che in realtà non dovessero essere poi tanto male o che, almeno in avvenire, in grazia di quell’unico esemplare, avrebbero trovato in me maggior indulgenza. Ero molto lieto quando Lydia era presente o quando io trovavo occasione di recarmi da lei; ma non facevo per questo neppure un passo che non fòsse giusti­ ficato dalla situazione; anzi, se mi trovavo nella mede­ sima stanza, non guardavo nemmeno dalla sua parte sen­ za un preciso ragionevole motivo, ma mi sentivo pervaso da un’immensa calma, come l’acqua del mare quando non v’è un alito di vento e per di più vi splende sopra il sole. Così andarono le cose per circa un semestre, un anno e forse più, non so esattamente, giacché ho perduto la nozione di quel tempo che mi appare come una sola afosa giornata d’estate attraversata da sogni. Durante quel periodo iniziale di cui ignoro la durata, tutto pro­ cedette bene e tranquillamente. La signorina, quantun­ que mi dovesse veder sovente, non aveva molto da dire o da trattare con me, ma quando lo faceva, mostrava la massima cordialità e non tralasciava mai di atteggiare il suo bel volto a un sorriso puerilmente ingenuo, che io ricambiavo riconoscente, prendendo un’aria molto rispet­ tosa e senza una piega nel mio viso, mentre le rispondevo : «Benissimo, signorina», o anche, mentre la contraddicevo con disinvoltura nei rari casi in cui si sbagliava. Quando però essa non c’era o io mi trovavo solo, pensavo molto a lei, ma per nulla da innamorato, bensì soltanto come un buon amico o un parente sinceramente affezionato che le augurasse ogni bene ed escogitasse di continuo buone cose per lei. Vi fu per me, se ben ricordo, soltanto un lieve mutamento in ciò : che nei miei rapporti col governatore osservai un maggiore riserbo, ostentando un po’ di più le mie doti di soldato dedito esclusivamente al proprio do­ vere, e serbando meglio nelle mie altre prestazioni le forme dell’indipendenza. Io non ero infatti da lui stipen­ diato e, quando avevo sbrigato il lavoro d’ufficio per cui mi si pagava, collaboravo al resto da uomo di fiducia, e

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solo quando se ne presentava l’occasione dividevo la ta­ vola con lui. Ero quindi, come già dissi, del tutto tran­ quillo e soddisfatto, ciò che, naturalmente, poteva mani­ festarsi solo nel modo a me peculiare. Accadde che un giorno, mentre accudivo a non so che lavoro sotto gli alberi ombrosi, Lydia mi raggiunse ben tre volte nel corso di un’oretta, senza che avesse niente di particolare da fare. La prima volta sedette su una cesta capovolta a mangiare un panierino di ciliegie mature, chiacchierando di continuo con me e obbligan­ domi a risponderle. La seconda volta venne, accostò la cesta all’arbusto di rose che stavo potando, poi si sedette e attaccò un nastro bianco di seta a una bella cuffietta da notte o che altro fosse; non potevo distinguer bene, perché non guardavo quasi mai dalla sua parte e le ri­ spondevo a mala pena essendo un poco imbarazzato. Se ne andò ben presto, per tornare una terza volta con un gioco di pazienza cinese artisticamente intagliato in avo­ rio: prese la cesta e la portò lontana, sedendosi poi di nuovo e voltandomi la schiena mentre cercava di risol­ vere in silenzio il suo gioco. Allora la guardai fisso, sin che essa, rimessosi in tasca il gioco, d’un tratto s’alzò e si al­ lontanò lanciando uno strano trillo armonioso, ma senza volgersi più dalla mia parte. Tutto ciò non mi pareva chiaro, non mi persuadeva, e la mia anima arricciò un poco il naso di fronte a tale contegno; però da quel mo­ mento fui innamorato di Lydia. Pervaso da un delizioso, lieve eccitamento lasciai il mio rosaio, andai a prendere il fucile a due canne e quella sera mi inoltrai nella zona selvaggia. Vidi molti animali, ma dimenticai di sparare, perché, ogni volta che mi ac­ cingevo a prender la mira, ripensavo al contegno della fanciulla e perdevo cosi di vista la selvaggina. “Che cosa vuole da te e che significa tutto ciò?” mi dicevo; però, mentre così discutevo con me stesso, già nel mio cuore divampava un’infinita gratitudine per tutte le cose possibili ed impossibili che forse si celavano dietro quel suo atteggiamento, e ciò benché il mio senso dell’ordine e la coscienza della mia modesta e poco at-

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traente persona insorgessero con il massimo vigore. Non trovando una soluzione, finii per pensare che quella donna in apparenza tanto bella e brava non fosse alla fine altro che una creatura leggera e corrotta, pronta a darsi da fare col primo venuto e tale da non disprezzare neppure un meschino intrigo con un povero sottufficiale. Questa aborrita conclusione mi diede tanto dolore e mi colpì così imprevedutamente, che, acceso di rabbia, abbattei un enorme cinghiale apparso in quel momento fra gli alti cespugli, e la mia palla si ficcò nel suo cervello con la stessa impreveduta e indesiderata rapidità con cui 10 sciagurato pensiero era penetrato nel mio. Mi parve anzi che la belva fosse invidiabile, in confronto a me, per quello che le era toccato. Sedetti sulla sua spoglia e vidi passarmi davanti agli occhi la bella immagine di Lydia: la scorsi chiaramente tornare quelle tre volte, ri­ trovai ogni suo gesto e riudii ogni parola. Ma strana­ mente questa memoria precisa risalì oltre quella giornata, sino alla prima in cui l’avevo veduta, attraverso il tempo in cui ero pur stato perfettamente tranquillo. Come, al­ lorché l’aria è trasparente per ravvicinarsi della pioggia, si scorgono sulle montagne lontane molti particolari di solito inavvertibili, come nel silenzio della notte si odono le campane più remote, così scopersi con meraviglia che di tutto quel periodo di tempo mi si era inconsciamente impresso nella memoria ogni modo ed atteggiamento del­ la sua persona, ogni suo gesto; nel silenzio di quel luogo selvaggio mi parve di riudire con estrema chiarezza quasi ogni sua parola, anche la più indifferente e fugace. Tutte queste meraviglie s’erano accumulate dunque in me nel sonno o in segreto e l’evento di quella giornata non aveva fatto che togliere il chiavistello alla porta serrata o gettare la fiaccola accesa su un fascio di paglia. Fra questi pen­ sieri dimenticai la mia ira, dandomi totalmente a sfrut­ tare la mia buona memoria e non condonandole neppure 11 minimo lineamento che essa mi potesse comunque of­ frire dell’immagine di Lydia. M’awiai così adagio ada­ gio verso la nostra dimora abbandonandomi soltanto a queste gradevoli fantasie; non seppi però più essere altret-

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tanto disinvolto e tranquillo in sua presenza, e, non sa­ pendo cosa d’altro fare, evitai per quanto possibile ogni rapporto con lei per darmi tanto più intensamente a pensarla. Trascorsero così tre o quattro settimane sen­ za che accadesse nulla di particolare, quando m’awidi che lei, pur osservando il massimo ritegno, non tralasciava l’occasione di fare o di dire qualcosa a mio favore. Comin­ ciò a darmi sempre ragione, a compiacermi, ad adope­ rare espressioni da me usate e a giudicare le cose come le solevo giudicare io. In ciò non vidi nulla di strano, perché m’era sempre parso gradevole scoprire in lei le mie identiche opinioni circa quel che è opportuno o sba­ gliato; essa rideva delle medesime cose che parevano risibili a me e si irritava delle stesse assurdità, quando se ne verificavano. Alla fine però la cosa fu molto chiara, come se lei, pur non avendo quasi da scambiar parola con me, cercasse di vivere per il mio piacere, e non al pari di una civetta smaliziata, bensì come una bimba semplice e ingenua, tanto che io piombai in un indicibile turba­ mento, non sapendo più come contenermi. Per cavarmela mi rifugiai nella mia antica e ben perfezionata arte di musone e in questa m’ostinai, anche perché mi sentivo tutt’altro che felice di quello strano rapporto. Essa ne parve sinceramente turbata e mortificata, abbattuta e intimidita, il che produceva un effetto seducente nel con­ trasto colla sua indole risoluta ed energica, poiché le donne, e tanto più quanto più sono meschine, non si è avvezzi di solito a vederle brillare e conquistare in virtù di una tale ritrosa modestia. Esse al contrario credono che nulla meglio si confaccia loro di una terribile sicurezza ed impudenza. Quando poi anche il vecchio governatore co­ minciò a stuzzicarmi e a beffarmi in modo a me incom­ prensibile e poco delicato, dicendo dieci volte in una giornata: «Ma davvero, Lydia, tu sei innamorata di Pankraz!» questo mi parve troppo; ritenevo infatti che ciò fosse un brutto scherzo sconveniente e volgare nei riguardi di sua figlia, perverso e rozzo nei miei riguardi, e fui spesso in procinto di dirglielo in faccia e di lasciarlo perdere. Realizzai, in parte, quest’ultimo proposito, rin­

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chiudendomi totalmente nel mio riserbo. Lydia divenne triste, anzi sembrava persino pallida e sofferente, il che molto mi tormentò, senza che sapessi porvi riparo. Quando però, malgrado il mio contegno, essa riprese a seguirmi e a venire con continui pretesti dove ero io, fui alla disperazione, e nella mia disperazione cominciai a intavolare con lei goffi e frammentari colloqui. Non si par­ lava di nulla, erano balbettìi inarticolati e senza nesso, come se fossimo ambedue rimbecilliti ; ma ambedue sem­ bravamo non avvedercene e ci sorridevamo come fanno i bimbi fra loro, giacché io pure dimenticavo intanto tutto il resto, felice, infine, solo di quei brevi colloqui con lei. La felicità non durava però più di due minuti, perché noi, per mancanza di calma e di riflessione, perdevamo subito il filo ed assomigliavamo poi a bambini che abbiano mes­ so insieme una collana e vedano poi con dolore sfuggire tutte le belle perle. Passavano settimane prima che riu­ scisse di nuovo una di queste imprese e non facevo mai il primo passo senza la preoccupazione di non dovermi poi rimproverare qualcosa e di non far sciocchezze con queste persone un po’ fuor del comune. Cento volte presi la de­ cisione di andarmene, ma il tempo mi passava così rapido che dovevo sempre rimandare la cosa. Ormai i miei pen­ sieri non avevano altro oggetto e il mio stato d’animo era davvero molto singolare. Avevo già quasi esaurito i libri del governatore e non sapevo più impararne nulla. Lydia, vedendomi tanto spesso leggere, approfittò dell’occasione e me ne prestò dei suoi. Fra essi vi era un volume grosso come una Bibbia di famiglia, che aveva l’aria di un libro di devozione, perché legato in pelle nera con taglio dorato. C’erano invece solo drammi e commedie stampati in minutissimi caratteri inglesi. Quel libro si chiamava lo Shakespeare, che era poi il suo autore e di cui c’era anche il ritratto sul primo foglio. Questo falso profeta seduttore mi mise in un bel pasticcio. Egli infatti rappresenta il mondo sotto tutti i suoi aspetti proprio come esso è veramente, ma solo come è negli uomini completi che nel bene e nel male tes­ sono con pienezza di carattere la trama della loro esisten-



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za e delle loro inclinazioni, e li rappresenta trasparenti come cristallo, ognuno, a modo proprio, di acqua pu­ rissima, così che mentre i cattivi imbrattacarte dominano e dipingono il mondo della mediocrità e della scolorita meschinità, traviando le teste deboli e riempiendole di mille insignificanti inganni, costui invece domina ap­ punto il mondo di quello che è completo e ben riuscito a modo proprio, cioè come dovrebbe essere, e travia così le teste sagge, quando esse s’illudono di vedere e di ritrovare nel mondo reale quel mondo essenziale. Ah, esso esiste certamente, ma non mai dove noi in quel momento ci troviamo o quando vi viviamo noi ! Vi sono ancora mol­ te donne cattive e temerarie, ma senza il bel sonnambu­ lismo di Lady Macbeth e quel suo angoscioso strofinarsi la piccola mano. Le avvelenatrici che noi incontriamo sono soltanto impudenti e senza rimorsi, e sono capaci persino di scrivere la propria storia oppure, appena scon­ tata la loro pena, aprono un negozietto. Vi sono molti ancora che credono di essere degli Amieti, e se ne vantano, senza avere un’idea degli abissi del cuore di un vero Am­ ieto. Qui vediamo un uomo sanguinario, senza però la demoniaca e tuttavia umanissima virilità di Macbeth, là un Riccardo III senza la sua arguzia e la sua facondia. Qui una Porzia senza bellezza, là una senza ingegno, là infine una terza che è intelligente, ma non saggia, e sa bensì render infelici gli altri, ma non dare la felicità a se medesima. I nostri Shylock vorrebbero una libbra della nostra carne, ma non oseranno mai arrischiare a questo scopo una spesa in contanti, e i nostri mercanti di Ve­ nezia non affrontano i pericoli per un allegro amico senza soldi, ma per uno stolido imbroglio di azioni, e non ten­ gono poi mai dei così bei discorsi melanconici, e per di più ci fanno una faccia da stupidi. In fondo, come ho già det­ to, tutta questa gente esiste nel mondo, ma non così ben raggruppata come in quelle storie : non c’è mai un completo mascalzone che si incontri con un uomo del tutto combat­ tivo, mai un pazzo perfetto unito a un allegrone di as­ soluto ingegno, tanto che non si arriva né a una vera tragedia né a una buona commedia.

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10 lessi notti intere quel libro, e mi ci sprofondai total­ mente, poiché mi sembrava scritto con tanta perfezione e concretezza, e inoltre una simile fatica mi pareva non meno nuova che meritoria. Sembrandomi tutto il resto così esatto, vero e completo e tanto che io lo scambiavo per il mondo effettivo, mi fidai dell’autore anche, in par­ ticolare, per le donne da lui rappresentate, guidato e af­ fascinato com’ero dal bell’astro di Lydia, e credetti che di là mi venisse la luce e la soluzione del mio lungo e tormentoso turbamento. Bene ! pensavo, vedendo le belle immagini di Desdemona, di Elena, di Imogene e di altre che, tutte spinte dalla sublime sovranità della loro natura femminile, se­ guivano così strani messeri aggrappandosi a loro senza ri­ tegno al pari di ingenue fanciulle, nobili, forti e fedeli al pari di eroi, immutabili e fide come le stelle del cielo. Bene ! ecco qui il caso nostro ! Questa Lydia infatti non è altro che uno di tali vascelli saldi, sicuri e veloci che gettano l’àncora una volta soltanto e in profondità inson­ dabili, ben sapendo che cosa vogliono. Tale pensiero sorse in me come un sole radioso e ardente ; nella sua luce io da allora vidi ogni moto ed ogni minima azione, ogni parola della bella creatura, né trascorse molto tempo che essa ai miei occhi superò tutto quanto il grande poeta aveva in­ ventato con la sua possente fantasia, poiché quel poema vivente esisteva in carne e ossa alla luce del sole con un vero pulsare del cuore e con una reale testolina piena di riccioli biondi. 11 tenebroso enigma era ormai sciolto ed io non avevo altro da fare che adattarmi a tale beatitudine creatami dalla fantasia in gara con Shakespeare, cercando di ac­ comodare in qualche modo la mia insignificante e non amabile persona a quel capriccio del destino, o meglio dell’anima femminile piena di regale generosità, e lo feci con mille progetti e speranze che si andavano aggiungen­ do al grande castello in aria. L’infinita gratitudine e la venerazione che io così nutrivo per la donna amata erano certamente in parte dovute al mio egoismo lu­ singato, ma ancor più al fatto che quella era l’unica



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spiegazione possibile per non dover disprezzare o com­ patire quell’essere a me diletto; l’alta stima che sentivo per lei era poi divenuta per me una necessità vitale e il mio cuore tremava in sua presenza, mentre non aveva mai tremato né di fronte ad uomini, né di fronte a belve feroci. Vissi così per un mezzo anno al pari di un sonnambulo, carico di sogni come un melo è carico di frutti e sempre senza andare innanzi di un passo con Lydia. Avevo ter­ rore del minimo avvenimento possibile, un po’ come un buon cristiano teme la morte benché sia certo di pervenire attraverso di essa all’eterna beatitudine. Ma tanto mag­ giore era la confusione nel mio cervello, dove gli eventi e le storie più eccitanti, verificandosi nelle forme più belle e indubitabili, s’accavallavano e s’espandevano alla rin­ fusa. Cominciai a trascurare i miei impegni e non ero capace di far nulla. Il peggio per me era dover sedere per ore alla scacchiera col padre, costretto a concentrare la mia attenzione sul gioco, mentre ai miei gravi pensieri amorosi non era concesso altro tempo che il breve inter­ vallo fra una partita e l’altra mentre si disponevano i pez­ zi. Mi feci dare scacco matto quanto più spesso era pos­ sibile senza che questo desse troppo nell’occhio, e mi indugiavo poi a collocare re e regina, alfieri, cavalli e pedoni, a muovere in qua e in là le torri, così che il go­ vernatore credette che fossi rimbambito e mi dilettassi a giocherellare con i pezzi. Alla fine però, tutta la mia esistenza minacciava di nau­ fragare in vani sogni ed io correvo pericolo di finire in manicomio. Per di più, malgrado tutti questi dorati ca­ stelli in aria, ero indicibilmente scoraggiato e triste, giac­ ché, prima che sia pronunciata l’ultima parola, la realtà, sempre inferiore a simili sogni lussureggianti, finisce per deprimere, e la realtà attuale ha un poco il potere di raffreddare e di allontanare. È questa in certo modo la spinosa armatura protettiva di cui si circonda la bella rosa della vita corporea. Quanto più Lydia si faceva cordiale e confidenziale, tanto più incerto e dubitoso divenivo io, perché capivo dalla mia stessa esperienza come sia dif-

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ficile mostrare un vero amore senza chiamarlo per il suo nome. Solo quando essa mi sembrava severa o triste o sof-r ferente attingevo qualche motivo a ragionevoli speranze; ma questo mi tormentava poi ancor di più, non ritenen­ domi degno che essa per cagion mia avesse anche un solo minuto di tristezza, mentre io avrei voluto mettere il mio capo sotto i suoi piedi. Mi irritavo d’altra parte che la fanciulla, per esser di buon umore, mi volesse veder ridotto come un pazzo sartorello innamorato, mentre non lo ero affatto, e anzi già a modo mio mi proponevo di diventar disinvolto per farle piacere. Insomma, andavo incontro ad una totale confusione e non ero più in grado di assolvere alcun compito ordinatamente e corsi persino il pericolo di retrocedere come soldato e di esser mandato in congedo, se non volevo legarmi alla casa del gover­ natore come un povero tappabuchi subalterno non utiliz­ zabile per null’altro. Quando dunque gli Inglesi vennero a serio conflitto con delle popolazioni indiane e si iniziò una campagna che fu poi alquanto sanguinosa per loro, io subito mi de­ cisi e, da buon combattente, rientrai nella mia compagnia, congedandomi dal governatore. Questi non voleva sentir­ ne parlare e protestò rumorosamente, mi pregò e mi lu­ singò perché rimanessi, come fanno quelli che credono che tutti siano a loro disposizione anima e corpo, nella buona e nella cattiva sorte, soltanto per far passare loro il tempo e servire ai loro comodi. Lydia invece durante i tre o quat­ tro giorni in cui si parlava della mia partenza non si fece quasi mai vedere. Se però ci incontravamo, non mi guar­ dava o mi gettava appena un rapido sguardo pieno d’ira, a quel che mi sembrava; soltanto l’occhio però pareva irato, il passo e i gesti erano invece così pacati, nobili e contegnosi, che quell’eletto sdegno mi lacerava il cuore. Seppi pure che essa scendeva molto tardi al mattino e che nessuno riusciva a spiegarsene il motivo, giacché ciò significava che passava la notte insonne. Scorgendola per caso l’ultimo giorno dietro la sua finestra, credetti di no­ tare che aveva gli occhi arrossati dal pianto; si ritrasse anche subito mentre passavo. Malgrado questo io conti­

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nuai tranquillamente per la mia strada col mio rigido passo da sergente, facendo il mio lavoro, senza guardare né a destra né a sinistra. Verso sera percorsi ancora una volta le piantagioni, per mostrarle ad un mio attendente e farne alla meglio una specie di giardiniere provvisorio, sino al momento che si fosse offerto un sostituto più adat­ to. Ci trovavamo appunto in un boschetto di arbusti di rose da me coltivati; le piantine arrivavano esattamente all’altezza del volto ed erano così fitte che girando tra esse il naso era sfiorato dalle corolle, il che era molto gra­ zioso e comodo e aveva fatto molto ridere il governatore, non più costretto a curvarsi per gustare il profumo dei bei fiori. Mentre io davo le mie disposizioni al soldato, sopraggiunse Lydia che lo mandò via con non so quale incarico, e che poi, mentre sembrava lo volesse subito se­ guire, indugiò un poco cogliendo alcune rose sin che quello fu lontano. Io cincischiai per qualche minuto un ramoscello, e quando mi voltai per allontanarmi vidi che le grondavan lagrime dagli occhi. Feci fatica a domi­ narmi, ma finsi di non aver veduto nulla e m’affrettai ad allontanarmi. Avevo però fatto appena dieci passi quando udii e intuii che essa, ora correndo, ora sostando, mi seguiva, e così fece per un buon tratto. Non resistetti più, mi voltai di colpo e dissi a lei che m’era lontana ap­ pena tre passi: «Perché mi vien dietro, signorina?». Essa si fermò, come atterrita da una serpe, e, chinando gli sguardi a terra, si fece di fiamma in volto, poi impal­ lidì penosamente e tremò in tutte le membra, mentre al­ zava su di me i grandi occhi azzurri senza pronunciare parola. Alla fine disse, con una voce in cui l’orgoglio fe­ rito lottava con un’umiliazione volentieri accettata : « Cre­ do di poter andare dove voglio nelle mie terre ! ». «Certamente!» replicai io mortificato, continuando per la mia strada. La fanciulla mi stava a fianco e mi seguiva dappresso. Io però per l’eccitazione camminavo a passi così rapidi e lunghi, che essa mi doveva tener die­ tro a fatica, nonostante si muovesse con energia, ma pure lo faceva. La sbirciai più volte e vidi che aveva di nuovo gli occhi inondati di pianto e dolorosamente e umilmente ri­

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volti a terra. Anche il mio volto bruciava e anche i miei oc­ chi s’inumidirono. La cosa era arrivata a tal punto che ero in procinto di commettere o una sciocchezza o un atto incosciente, mentre non avevo intenzione di far né l’una né l’altra cosa. Pensavo però, mentre le camminavo al fianco, coi miei poveri pensieri: “Se questa donna ti ama e tu mai giungerai onorevolmente alla sua mano, dovrai servirla sino alla morte, anche se fosse il diavolo in persona!”. Raggiungemmo intanto un posticino dove una o due dozzine di aranci riempiva l’aria del loro olezzo, mentre un venticello fresco passava attraverso i bei tronchi slan­ ciati. Se ci ripenso, mi par di risentire quell’alito e quel profumo inebriante : forse ciò esercitò lo stesso effetto anche sulla creatura che mi accompagnava, così che essa sentì ed espresse la sua strana passione, l’egoistico amore di se medesima, in misura estrema, quasi fosse un vero amore per un uomo. Si abbandonò infatti a sedere su una panchina sotto gli aranci, affondando il bel volto tra le mani: i riccioli dorati scesero a coprirlo e abbondanti lagrime stillavano fra le dita. Mi fermai davanti a lei e dissi con voce strozzata: «Ma che vuole, signorina Lydia, che cos’ha?». «Che cosa vuole lei?» replicò la fanciulla «Si è forse mai veduto maltrattare e tormentare a tal punto una donna bella e gentile? Da che paese di barbari viene mai? Che pezzo di legno ha mai in petto?». «Ma come io la maltratto e la tormento?» replicai sconcertato e perplesso, poiché quel linguaggio, che avreb­ be pur potuto avere un chiaro significato, non mi sem­ brava quello giusto. «Lei è un rozzo e un insolente!» disse Lydia senza alzar gli occhi. Allora non seppi più trattenermi e risposi: «Lei non direbbe questo, signorina, se sapesse come son lontano nel mio cuore dall’esser rozzo o insolente nei suoi ri­ guardi ! Ma è appunto la mia grande cortesia e la mia umiltà che ... .» Quando m’interruppi, ella alzò lo sguardo e, col volto

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rasserenato da un doloroso sorriso supplichevole, mi disse rapida: «Ebbene?» e mi lanciò intanto un’occhiata che mi fece perdere l’ultimo residuo di riflessione. Io che non avrei mai creduto possibile cadere ai piedi neppure della donna più amata, considerando questo una stoltezza e una smanceria, non so come mi trovai d’un tratto steso dinanzi a lei nascondendo la testa, con dedizione e con­ trizione, nel lembo della sua gonna che bagnavo di la­ grime cocenti. Essa però subito mi respinse, imponendomi di alzarmi, ma, quando l’ebbi fatto, vidi che il suo sorriso s’era fatto più intenso e luminoso, e allora esclamai: «Sì... ora voglio dirglielo ...» e così via, e le raccontai tutta la mia storia con una facondia di cui non mi sarei mai creduto capace. Essa beveva le mie parole, mentre io nulla le tacevo dal principio sino a quel momento e le abbozzavo con cuore traboccante l’immagine di lei quale viveva entro il mio animo, così come da molti mesi l’avevo elaborata e perfezionata con zelo fedele. Es­ sa rideva con gli occhi bassi, tutta compiaciuta, reggendo­ si il mento con la mano, e sempre più assomigliava a un bambino felice cui è stato regalato il giocattolo sognato, mentre apprendeva che non uno dei suoi vezzi e dei suoi meriti, non una delle sue parole era andata perduta per me. Mi porse allora la mano e mi disse, con gentile rossore, ma con soddisfatta sicurezza: «Le sono molto ricono­ scente, caro amico, della sua cordiale inclinazione ! Creda che mi addolora di sapere che per tanto tempo si è cruc­ ciato per me, ma lei è un uomo di carattere e io debbo stimarla per la sua capacità di nutrire un affetto così bello e profondo ! ». Quel discorso tranquillo cadde per vero dire come un pezzo di ghiaccio nel mio sangue bollente, ma pensai su­ bito che bisognava perdonarla e di tutto cuore di voler darsi il tono di dama contegnosa ed altera, e che dovevo rassegnarmi a tutto ciò che avesse fatto, e a qualunque tono avesse voluto scegliere. Risposi però addolorato: «Ma chi parla di me, o bella, bellissima Lydia? Che cosa conta quel che io soffro o non soffro, quel che possa aver sofferto o che soffrirò un

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giorno, in paragone anche ad un solo istante di malumore e di tormento da lei patito? Come potrò io, pover’uomo rozzo e senza meriti, compensarla mai o risarcirla per uno solo di questi?». «Ebbene» riprese Lydia, sempre con gli occhi chini e sorridendo, ma già con accento lievemente mutato «eb­ bene, debbo sinceramente confessare che il suo contegno brusco e goffo mi ha irritata e persino tormentata, non essendovi mai stata avvezza, avendo anzi diffuso sempre intorno a me, dovunque andassi, gentilezza e devozione. La sua apparente insensibilità grossolana mi ha vergogno­ samente irritata, già lo dissi, e tanto più per il gran conto che mio padre ed io facevamo di lei. Mi è tanto più caro quindi di vedere che anche lei ha un poco di sentimento e soprattutto che io non ho cagione di dubitare ulterior­ mente del mio valore, perché ciò che più mi crucciava era il dubbio che cominciava a destarsi in me, circa me stessa e i miei pregi personali. Per il resto, caro amico, io non nutro alcun affetto per lei, come per nessun altro, e spero che lei, con tutta la devozione e la cortesia di cui ha fatto ora professione, vorrà adattarsi all’irrevocabile senza serbarmene rancore!». Se aveva creduto che io dopo simile disinvolta dichia­ razione sarei rimasto davanti a lei affranto e annientato, si era ingannata. Il mio cuore aveva tremato di fronte alla donna presupposta buona ed amorosa, ma in presen­ za di quella belva di così falso e pericoloso egoismo non tremai affatto, avvezzo com’ero ad affrontare serpenti e tigri feroci. Al contrario, invece di sentirmi sconvolto e disperato e tenace nel non rinunciare all’illusione, come succede di solito in simili situazioni, divenni di colpo freddo e cauto come lo può essere soltanto un uomo ferito e oltraggiato nel modo più vergognoso, o come lo potreb­ be essere un cacciatore che si trovi di fronte inaspetta­ tamente, invece di un nobile e timido capriolo, un cin­ ghiale. Era però, lo ammetto, uno strano senso di freddo, penoso e complesso, dovendo io intanto contemplare la bellezza che mi splendeva dinanzi. Ma questo è appunto l’inquietante mistero della bellezza.

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Certo che se non fossi stato bene abbronzato dal sole, in quel momento sarei stato bianco come i fiori d’arancio che stavan sopra di me, mentre dopo un non breve silenzio le rispondevo : « Fu dunque per rafforzare la sua alta fidu­ cia nella propria personalità che ella seppe prodigare tutti i segni dell’amore e del disinteresse puro e profondo? A questo scopo soltanto ella mi corse dietro come un bimbo innocente che cerchi la madre, per questo mi ha sempre lusingato, e s’è mostrata pallida e sofferente, ha versato lagrime e si è mostrata raggiante di una gioia irrefrena­ bile se appena scambiavo una parola con lei?». «Se la mia condotta ebbe tale apparenza,» disse Lydia sempre soddisfatta di sé «sarà stato appunto così. Lei ora, uomo vanitoso, è un po’ in collera perché non è stato l’og­ getto di una devozione femminile tanto umile ed illimi­ tata, perché io miserella non sono l’agnelletto belante di struggimento per il quale lei mi ha scambiato con suo di­ vertimento?». « Io non mi sono mai divertito, signorina ! » replicai «Se però gli dèi, se Cristo stesso s’abbandonarono più volte a un infinito amore per gli uomini, se l’umanità ha sempre trovato la propria somma felicità nel rendersi degna di questo incondizionato amore divino e nell’obbedirgli, perché mai dovrei vergognarmi di essermi creduto amato in tal maniera? No, signorina Lydia ! Considero an­ zi un onore Tessermi lasciato allettare da lei e l’aver piut­ tosto creduto, dati i segni chiari e decisi, al semplice af­ fetto e alla bontà di un’anima ingenua, ben più che se non avessi perversamente intuito nient’altro che una stolida commedia. È infatti una stolida storia ! Che garanzia ha mai per la sua fede in se stessa visto che lei, la bella e ari­ stocratica dama inglese, ha dovuto sfoggiare simili mez­ zucci per accalappiare il più misero dei miseri soldati? ». «Quale garanzia?» protestò Lydia che andava ora a poco a poco facendosi smorta e imbarazzata « Ma il suo innamoramento, alla cui confessione l’ho finalmente co­ stretta ! Lei non mi vorrà negare di esser stato sedotto e mi ha pur raccontato ora che le son piaciuta sin dal prin­ cipio. Perché nella sua musoneria non me lo ha lasciato

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scorgere un pochino, come si conviene anche all’uomo più semplice e senza pretese, fosse pure un guardiano di pecore? Allora tutta questa commedia, come la chiama lei, ci sarebbe stata risparmiata ed io sarei stata paga ! ». «Se mi avesse lasciato in pace, bella mia,» replicai « ci avrebbe guadagnato di più. Lei sembra infatti dimen­ ticare che il mio sentimento benevolo deve ora trasfor­ marsi nel contrario, con mio dolore!». «Non importa,» disse lei «ormai so che le sono pia­ ciuta e che le sto nel sangue ! Ho udito la sua confessione e ho la certezza della mia conquista. Tutto il resto è indifferente : così stanno le cose, egregio signor Pankraz, e così vengon puniti coloro che peccano nel regno della regina Bellezza!». «Sembra trattarsi piuttosto» dissi io «del regno di una banda di zingari. Come può infilarsi al cappello una penna che ha rubato al pari di una ladra volgare? E contro il volere del proprietario?». Essa rispose: «In questo campo, egregio signor pro­ prietario, il furto torna a onore della ladra, e la sua stizza non fa che comprovare come l’abbia colpito bene ! ». Così disputammo una buona mezz’ora nel dolce aran­ ceto, ma con parole amare, e invano cercai di farle com­ prendere che quella avventura amorosa carpita col furto e con l’inganno non poteva avere per lei il valore che essa le attribuiva. Ne diedi la dimostrazione non soltanto per meschina suscettibilità e stupidaggine, ma anche per ri­ destare in lei almeno una scintilla di coscienza del pro­ prio torto, della immoralità del proprio agire. Ma fu va­ no ! Essa non volle ammettere che una vera inclinazione divampa in pieno e incondizionato amore soltanto quan­ do crede di aver motivo di speranza, e che concedere tale motivo senza ricambiare il sentimento rimane pur sempre un inganno volgare e immorale, tanto più perverso quan­ to più l’ingannato è semplice, leale e ingenuo. Ella con­ tinuava a insistere sul fatto della mia dichiarazione d’a­ more, buttando alla rinfusa, lei che sembrava di solito così piena di buon senso, gli argomenti e i discorsi più assurdi, meschini e sconvenienti e rivelandosi proprio una

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sciocca. In tutti gli anni della nostra convivenza non ave­ vo mai parlato così a lungo con lei come in quella disputa finale, e mi dovetti accorgere, giusto Iddio ! che essa era sì una donna di indole fuor del comune, con i modi, i gesti e le caratteristiche di una creatura realmente nobile e rara, ma ciò malgrado aveva il cervello ... di una di quelle volgari soubrettes che ho veduto poi a dozzine nei teatri d’operetta di Parigi! Durante la disputa io però la divoravo con gli sguardi e la sua bellezza incomprensibile e inutile che pareva tanto personale mi torturava il cuore non meno del dibattito che si svolgeva tra noi. Quando però alla fine disse cose affatto stolte e impudenti io, scoppiando in amare lagrime, le gridai: «O signorina, lei è il più grande somaro che io abbia mai veduto!». Lydia scosse con energia la massa dei suoi riccioli e mi guardò pallida e stupita, mentre una smorfia rabbiosa le piegava la bella bocca. Voleva forse essere un sorriso di scherno, ma divenne un’espressione di singolare imba­ razzo. «Sì,» dissi cancellando le lagrime coi pugni chiusi «sol­ tanto noi uomini possiamo esser somari di solito, è il nostro privilegio, e se la chiamo così, è ancora una sorta di di­ stinzione e un complimento per lei. Se fosse soltanto un pochino più volgare e meschina, le darei solamente dell’oca ! ». Con queste parole m’allontanai definitivamente da lei, e senza più voltarmi a guardarla, me ne andai, col senso però di lasciarmi alle spalle per sempre quel tanto di pura felicità che avrebbe potuto essermi destinata nella vita e che era invece per sempre morta in me insieme alla mia elevata fiducia in simili cose. “Questo è il frutto della tua maledetta musoneria!” dissi a me stesso “Se tu sin dal principio avessi di tanto in tanto discorso cordialmente con lei soltanto la metà di quanto hai fatto ora, non ti sarebbe potuto restare celato che testa mai avesse e non ti saresti tanto grossolanamente sbagliato. Vattene e svanisci, o bel fantasma !”. Congedandomi con pensieri smarriti dal governatore, mi avvidi che mi guardava allegro e furbesco, ammiccan-

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do ironicamente con gli occhi. Capii che sapeva la mia storia, che anzi l’aveva osservata sin dall’inizio trovandoci una specie di maligno divertimento. Dato che era per il resto un uomo leale e rispettabile, non poteva trattarsi che della candida gioia di tutti i filistei agli scherzi stolti e crudeli. Nel secolo scorso i grandi signori se la spassavano ubriacando i buffoni, i nani e gli altri loro subalterni, per gettar poi loro addosso acqua fredda o maltrattarli in altro modo. Oggigiorno usi simili non piaccion più alle persone educate, ma in compenso ci si diverte precipua­ mente con l’ordire piccoli intrighi, e quanto meno queste anime meschine son capaci di passioni forti e profonde, tanto più sentono il bisogno di suscitarne con mezzi più o meno grossolani in coloro che sono atti ad incappare in si­ mili trappole tese spietatamente. Se dunque il governatore da parte sua non disdegnava di adoperare sua figlia come boccon di lardo, non c’era più nulla da dire, ed io, ben­ ché partisse anche un buon carro delle salmerie, infilai ostinatamente il mio pesante zaino e il moschetto sulle spalle e di notte condussi un gruppo di soldati rimasti in­ dietro a raggiungere il reggimento già partito quella mattina. Dopo una penosa marcia sotto il solleone mi trovai trasferito in un mondo diverso, in cui presto si iniziò la campagna e le truppe della Compagnia delle Indie Orien­ tali dovettero combattere contro le tribù primitive delle montagne, all’estremo confine dell’impero indobritannico. Alcune compagnie del nostro reggimento erano sempre in posizione avanzata, ma un giorno la mia fu così strettamente accerchiata che ci trovammo al centro d’un gro­ viglio di cavalieri dall’aria brigantesca, di elefanti e di car­ riaggi stranamente dipinti e dorati, sui quali stavano, fermi e taciti, dei bei pseudoprincipi indostani, cioè dei fantocci che i selvaggi capi-tribù si portavano dietro in combattimento. Quel giorno caddero tutti i nostri ufficiali e la nostra compagnia si ridusse ad un terzo. Dato il mio buon comportamento e i servigi prestati, ottenni il bre­ vetto di primo tenente della compagnia e alla fine della campagna ne divenni il capitano.



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Con tale grado tenni per due anni, insieme a circa cen­ tocinquanta uomini, una piccola zona di confine che era stata conquistata per arrotondare i nostri domìni, e per tutto quel tempo ebbi il potere supremo in quel lembo di mondo selvaggio e pagano. Ero così solo quanto non lo ero mai stato in vita mia, diffidente verso tutti e abba­ stanza severo nel mio servizio, senza però diventar cattivo o ingiusto. La mia attività principale consisteva nell’introdurre una polizia cristiana e nel dar protezione efficace ai nostri missionari, in modo che potessero lavo­ rare senza pericoli. Ma soprattutto avevo da impedire il rogo delle donne indiane rimaste vedove, e siccome quella gente aveva una vera mania di trasgredire il nostro divieto inglese e di arrostirsi viva reciprocamente, in onore della fedeltà coniugale, dovevamo esser sempre in movimento per sventare simili cerimonie. Gli indigeni si mostravano allora scontenti e infastiditi, come quando da noi la polizia disturba un divertimento illecito. Una volta, in un vil­ laggio remoto, avevano preparato la faccenda con molta furberia e segretezza, tanto che il rogo ardeva già divam­ pando quando io arrivai trafelato al galoppo e dispersi l’assembramento. Sul fùoco giaceva la salma di un de­ crepito vecchietto rinsecchito, che già emanava un certo odore d’arsiccio. Ma gli stava accanto una graziosissima mogliettina di sedici anni al più, che cantava le sue pre­ ghiere con la bocca sorridente e con voce argentina. Per fortuna la poveretta non aveva ancora preso fuoco e io ebbi giusto tempo di balzare da cavallo, di afferrarla per i piedini e tirarla giù dal rogo. Ma lei si comportò come un’ossessa : voleva a tutti i costi esser bruciata insieme al suo vecchio guastafeste, così che ebbi gran difficoltà a domarla e calmarla. È vero che quelle povere vedove non ci guadagnavano molto ad esser salvate, perché cade­ vano poi fra la loro gente in uno stato di vergogna e di estremo abbandono, senza che il governatorato facesse nulla per render facile la vita loro salvata. Per quella piccina trovai però un collocamento, procurandole un corredo e facendola poi sposare a un indù battezzato al nostro servizio, di cui essa divenne affezionata compagna.

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Solo questi singolari eventi occupavano i miei pensieri e finirono per destare in me il desiderio di godere una simile incondizionata fedeltà, ma, non avendo alcuna donna a mia disposizione per quel capriccio, caddi nella senti­ mentale nostalgia di essere io stesso fedele a quella ma­ niera, e insieme nel cocente rimpianto di Lydia. Dato il grado raggiunto e le mie buone prospettive per l’av­ venire, non mi parve impossibile, agendo con accortezza, di conquistare la bella donna, nel caso fosse stata ancora libera. In quell’idea pazza mi rafforzò proprio la circo­ stanza che essa si era tanto seriamente preoccupata di farmi girar la testa. “Bisogna pure che tu abbia avuto un certo valore ai suoi occhi,” mi dicevo “altrimenti non ci si sarebbe messa a quel modo”. Detto fatto mi immersi nell’idea fissa di sposare Lydia, se mi avesse voluto, così com’era, di esser devotamente fedele, senza limiti, a lei e alla sua bella personalità che non aveva eguale, conside­ rando anche la sua perversità e le sue qualità cattive come virtù e sopportandole come fossero dolcissimo marzapane. Mi persi in tali fantasie al punto che i suoi difetti, e per­ sino la sua parziale stupidaggine, divennero per me i più desiderabili fra i beni terreni: me li ripensavo in mille variazioni e mi dipingevo un’esistenza nella quale un marito saggio ed accorto trasforma ogni giorno e ogni ora le perversità e i difetti della sua gentile consorte in avventure graziose e gradevoli, ed è capace, in grazia del­ la sua immaginazione sorretta dall’amore e dalla fedeltà, di conferire alle sue stupidaggini un aureo valore, tanto che essa avrebbe potuto poi, ridendo, menar vanto di quelle sue doti. Dio sa di dove io attingevo tanta feconda fantasia, probabilmente ancora sempre dallo sciagurato Shakespeare datomi da quella strega, col quale essa mi aveva doppiamente avvelenato. Mi stupirebbe però che lei lo avesse mai letto con devozione ! Insomma, dopo che mi fui sufficientemente ubriacato dei miei sogni, quando fui richiamato da quella guarnigio­ ne remota, chiesi una licenza e mi recai di gran furia dal governatore. Egli viveva ancora allo stesso modo e mi ri­ cevette bene, e la figlia, che ancora viveva con lui, mi ac-



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colse più gentilmente di quanto mi fossi aspettato. Ap­ pena l’ebbi riveduta ed ebbi scambiato alcune parole con lei, ne fui di nuovo innamorato morto e confermato nella mia idea fissa, senza la cui realizzazione mi pareva im­ possibile di esser mai più felice. Essa però conduceva la faccenda con morbosa sovrec­ citazione e con aperta grandiosità e cedeva al suo scia­ gurato egoismo senza alcun ritegno. Ora era circondata da una schiera di ufficiali piuttosto volgari e vanitosi, che le facevan la corte in modo molto ordinario e che le dice­ vano quel che essa aveva piacere di sentire, comunque venisse presentato. Era una vera gara di trivialità e di stolidità, in cui le licenze più grossolane venivano accettate di preferenza, purché sembrassero provenire da un’assoluta devozione e confermassero alla sciagurata la sua fiducia in se medesima. In quel momento aveva per di più fatto girar la testa con un’unica occhiata a un povero tambu­ rino, il quale se ne andava attorno tutto tronfio, standole di continuo tra i piedi, e aveva affascinato a tal punto un calzolaio che lavorava per lei, che ogni volta che le por­ tava le scarpe, traeva di tasca in anticamera una spazzolina e uno specchietto e si rassettava i capelli come un gatto, nella fiduciosa aspettativa che quella volta sarebbe accaduto finalmente qualcosa. Quando lo vedeva arri­ vare, tutta la brigata si raccoglieva in una galleria nasco­ sta, per osservare il povero diavolo così solennemente oc­ cupato. Il più strano era che nessuno si scandalizzava di simile comportamento, non sembrava cioè aspettarsi nulla di meglio da Lydia, ritenendo la sua condotta degna di lei. Ero io dunque l’unico che ne avessi in cuore così alta opinione, mentre tutti quei buffoni da me disprezzati, che la pigliavano come era, parevano più saggi di me con la mia profonda passione. “Eppure no !” mi dicevo “essa è pur come la penso io, ed è appunto perché son teste vuote che la trattano con tanta impudenza, senza sapere quel che c’è o ci potrebbe essere in lei”. E tremavo d’im­ pazienza di porgerle un giorno lo specchio da cui le sa­ rebbe venuta incontro la sua immagine migliore, can­ cellando tutto quanto era indegno intorno a lei. Tuttavia

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le convenzioni esteriori e il ritegno di cui non riuscivo a liberarmi malgrado ogni sforzo, mi rendevano impossibile mescolarmi a quel branco di scimmiotti e fare anche un sol passo per accostarla. Tornai a sentirmi confuso, impa­ ziente, e all’improvviso diedi le dimissioni dall’esercito in­ diano e presi la via del ritorno per dimenticare quella sciagurata. Arrivai così a Parigi e mi ci trattenni alcune settimane. Vedendo un gran numero di donne belle e intelligenti, pensai che il metodo migliore per liberarmi dalla mia ma­ laugurata vicenda fosse di contemplare dei bei volti fem­ minili; passai così da un teatro all’altro, dovunque se ne raccogliessero, e mi feci anche presentare in varie buone famiglie e società. Vidi in realtà molte figure piene di no­ bile slancio, nei cui occhi non eran pensieri malvagi ; ma tutto quel che vedevo non faceva che ricondurmi a Lydia, operando a suo favore. Essa era indimenticabile ed io ero e rimanevo innamorato pazzo. Se la pensavo, provavo un sentimento di singolare inquietudine: mi pareva cioè che dovesse assolutamente esistere al mondo un essere femminile che possedesse lo stesso fisico e gli stessi modi di quella Lydia, la metà migliore insomma, ma anche l’altra metà corrispondente, e che avrei avuto pace solo quando avessi trovato una Lydia completa. Altre volte invece mi pareva di avere il dovere di andare alla ricerca della vera anima per quel leggiadro mezzo fantasma : insomma, tor­ nai ad ammalarmi di desiderio, e poiché non era pos­ sibile tornare a lei ancora una volta, cercai nuovi calori torridi, nuovi pericoli e doveri assumendo servizio nel­ l’esercito africano della Francia. Mi recai senz’altro ad Algeri e mi trovai ben presto al margine estremo della co­ lonia africana, dove mi aggirai sotto la vampa del sole e sulla sabbia ardente combattendo contro i Gabili. In quel momento però l’addormentata Estherchen, destinata a comportarsi sempre male, sognò di precipitare da una scala e s’agitò quindi rumorosamente, di colpo, sulla sua sedia, così che Pankraz dovette finalmente inter­ rompersi, alzar gli occhi e accorgersi che le due ascoltatrici dormivano. Si avvide in pari tempo che sino ad allora

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non aveva in fondo raccontato che una storia d’amore, e se ne vergognò e s’augurò che non avessero udito nulla. Svegliò le due donne e le mandò a letto e cercò anche lui il suo giaciglio, dove s’assopì con un lungo ma pacifico sospiro. Rimase a letto fino a tardi, come ai tempi in cui era il piccolo Pankraz pigro e fannullone ; e come allora la mamma dovette venirlo a svegliare. Quando si ritrova­ rono insieme alla prima colazione a bere il caffè, disse, ri­ prendendo il suo racconto: — Se non aveste dormito, avreste sentito che nell’India Orientale stavo per trasformarmi da un musone in un uo­ mo estremamente gioviale e bonario per amore di una bel­ la dorma, ma che il mio broncio mi giocò un brutto tiro, impedendomi di conoscer meglio tale ragazza e facendo­ mene innamorare ciecamente ; avreste udito come fossi poi ingannato e passassi, più musone di prima, dall’India in Africa, al servizio dei Francesi, per buttar giù dalle teste dei portatori di burnous i loro ridicoli altissimi cappelli di paglia e per distribuire loro bòtte abbondanti, il che feci con tanto rabbioso zelo da avanzar di grado anche coi Francesi e diventar colonnello come sono rimasto sino ad oggiEro ridiventato taciturno e melanconico e non cono­ scevo che due piaceri: adempiere il mio dovere di sol­ dato e andare a caccia di leoni. A questa mi dedicavo tutto solo, andandomene a piedi, armato soltanto di un buon fucile, in cerca della belva, e si trattava poi o di colpirla bene o di rimetterci la pelle. Il ripetersi continuo di quell’unico grande pericolo e l’eventualità di un colpo sbagliato si confacevano alla mia indole, e mai mi sentivo più a mio agio di quando m’aggiravo solissimo per quelle alture torride ed ero sulle tracce di un tipo forte e feroce, il quale ben s’accorgeva di me e si divertiva a tenermi il broncio, proprio come io facevo con lui. Circa quattro mesi or sono era comparso in quella zona un leone di in­ consueta grandezza, quello di cui vedete qui la pelle, e saccheggiava i greggi dei beduini senza che si riuscisse a raggiungerlo ; doveva essere un furbacchione, che compiva ogni giorno lunghe marce per dritto e per traverso, tanto

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che io, col mio modo di cacciare solo e a piedi, dovetti pe­ nare a lungo prima di vederlo anche da lontano. Dopo che 10 avevo avvistato un paio di volte senza arrivare a sparar­ gli, già mi conosceva, avendo capito che meditavo un colpo contro di lui. Cominciò a ruggire spaventosamente e a ri­ tirarsi per ricomparire in un altro punto ; così per parecchi giorni noi ci facemmo la posta come due gatti che vogliono azzannarsi, io sempre muto come una tomba, lui ac­ compagnato di tanto in tanto dal suo selvaggio ruggito. Un giorno m’ero messo in cammino prima dell’alba, avviandomi in una direzione non ancora battuta, perché 11 leone il giorno innanzi s’era fatto vivo dal lato opposto con una mancata rapina; e poiché la gente di quella re­ gione s’era allontanata insieme al bestiame, supponevo che l’affamato signore quella notte avrebbe scelto il mio cammino, come infatti si constatò poi. Al sorgere del sole io traversavo piano piano una campagna collinosa giallooro le cui irregolarità gettavano lunghe ombre azzurre sul terreno dorato. Il cielo aveva l’azzurro intenso degli occhi di Lydia, che dovetti inaspettatamente ricordare; di lon­ tano si stendevano catene di montagne azzurre su cui gia­ ceva la cittadina araba ove dimoravo, mentre all’altro limite del paesaggio si vedevano alcuni boschi e praterie verdi su cui spiccavano come punti neri gli attendamenti dei beduini col loro fumo. Dovunque regnava un assoluto silenzio e non si scorgeva creatura vivente. Incontrai la costa di un burrone che attraversava tutta la regione pe­ trosa, invisibile sin che non gli si giungeva ben vicini. Sul fondo scorreva un fresco torrentello e dove io mi trovavo il declivio era pieno di cespugli d’oleandri in fiore. Nulla di più bello a vedersi che il verde fresco di quegli arbusti coi loro innumerevoli fiori rossi e al fondo la limpida acqua scorrente. Quella vista fece sorgere in me un’antica nostal­ gia e mi fece del tutto dimenticare perché fossi lì giunto. Mi venne il desiderio di scendere fra gli oleandri e di disse­ tarmi a quel ruscello, e, distratto da tali pensieri, posi a terra il fucile e scesi rapidamente nel burrone, mi gettai a terra, bevvi, mi rinfrescai il volto, sempre pensando in­ tanto alla bella Lydia. Mi domandavo dove potesse essere

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in quel momento e come stesse. Ma ecco echeggiarmi vici­ nissimo, facendo tremare il terreno, un breve ruggito del leone. Balzai in piedi come un pazzo e m’arrampicai per il pendio, ma giunto in alto rimasi come inchiodato a terra, vedendo che la belva, distante soltanto dieci passi da me, aveva appunto raggiunto il mio fucile. Rimasi dove ero, con gli occhi fissi sulla bestia. Quando essa infatti mi scorse, si acquattò preparandosi al balzo, e proprio sopra il mio schioppo a due canne, che gli giaceva sotto la pan­ cia di traverso, e se io avessi fatto il minimo movimento, si sarebbe lanciata su di me dilaniandomi senz’altro. Ma io me ne stetti immobile ore ed ore senza staccare lo sguar­ do da lui e senza che esso a sua volta lo distogliesse da me. La belva si accucciò comodamente continuando ad osser­ varmi. Il sole salì e la tremenda caldura cominciò a tor­ mentarmi e il tempo scorreva con la lentezza che deve avere l’eternità all’inferno. Dio sa tutti i pensieri che mi passarono per il capo: maledicevo Lydia il cui solo ri­ cordo mi aveva gettato in quella sciagura, facendomi dimenticare l’arma. Cento volte fui tentato di farla finita, lanciandomi inerme sulla belva, ma prevalse l’amore della vita e continuai a rimaner lì impietrito come la moglie di Lot o come il gnomone di una meri­ diana: la mia ombra infatti col passar delle ore mi girò attorno, si fece cortissima e ricominciò poi ad allungarsi. Questo fu il broncio più lungo che abbia mai tenuto, e mi proposi e feci voto allora che, se fossi sfuggito a quel pericolo, sarei diventato gioviale e bonario, sarei tornato a casa e avrei cercato di render la vita il più piacevole possibile agli altri. Mi colava il sudore lungo la persona, nello sforzo spasmodico di tenermi ritto e immobile allo stesso tempo, tremavo lievemente in tutte le membra, ma se appena accennavo a muovere le labbra inaridite, il leone s’alzava a metà movendo la parte posteriore, faceva lampeggiar gli occhi e ruggiva, costringendomi subito a richiudere la bocca e a serrare i denti. Mentre però dovevo dipanare così minuto su minuto, si spense in me ogni furore e ogni amarezza, persino contro il leone, e quanto più mi indebolivo, tanto più diventavo abile e

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quasi mi compiacevo della mia pazienza a sopportare coraggiosamente ogni tormento. A giorno avanzato la cosa non avrebbe però potuto durare ancor molto, quando mi giunse l’insperata salvezza. La belva ed io eravamo talmente presi l’uno dall’altro che nessuno di noi s’ac­ corse di due soldati sopraggiunti alle spalle della bestia a una trentina di passi di distanza al massimo. Era una pattuglia mandata a cercarmi per ragioni di servizio. I due portavano in ispalla i loro fucili d’ordinanza ed io li vidi scintillare al sole come una luce divina, proprio men­ tre anche il mio avversario avvertì nel silenzio del paesag­ gio i loro passi, benché essi, avendo già intuito qualcosa da lontano, si fossero avvicinati il più piano possibile. D’un tratto gridarono: «Guarda che bestia! Aiutiamo il co­ lonnello ! ». Il leone si voltò, balzò ritto, spalancò le fauci infuriato come un demonio e parve esitare un istante su chi dovesse prima lanciarsi. Quando però i due soldati, da bravi Francesi allegri, gli si scagliaron contro senza riflet­ tere, fece un salto contro di loro. E già un soldato si trova­ va fra le sue zampe e sarebbe finito male se l’altro non avesse immediatamente sparato col suo fucile e poi subito colpito la belva nel fianco con la baionetta una mezza doz­ zina di volte. Ma anche questi avrebbe fatto una brutta fine se io non avessi potuto finalmente afferrare la mia arma, giungere barcollando sul campo di battaglia, e, trascurando ogni prudenza, scaricare due colpi nell’orec­ chio del leone. S’adagiò a terra, ma poi tornò a balzar su e ci volle ancora un colpo dell’altro moschetto per atter­ rarlo di nuovo, e alla fine tutti e tre spezzammo i calci dei fucili su di lui, tanto tenace e selvaggia era la sua forza. Per un caso singolare nessuno di noi era colpito, per­ sino il soldato rimasto sotto il corpo della belva se l’era cavata con l’uniforme lacerata e un bel graffio alla spalla. La faccenda era finita bene per quella volta, avevamo per di più abbattuto il cercatissimo leone. Un poco di vino e di pane mi restituì tutto il mio buonumore, e risi come un matto insieme ai miei soldati, molto meravigliati ed edificati dall’insolita verbosità e giovialità del loro severo colonnello.



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Ma quella stessa settimana sciolsi il mio voto, presentai le dimissioni ed eccomi ora qui. Tale fu la storia della vita e della conversione di Pan­ kraz, e le sue donne furono non poco meravigliate delle sue idee e delle sue avventure. Egli lasciò con loro la cit­ tadina di Seldwyla, trasferendosi nella capitale del canto­ ne, dove trovò modo, con le sue esperienze e le sue cogni­ zioni, di essere e di rimanere utile al paese, meritandosi così, sia per la sua attività che per la sua immutabile cortesia, la stima e l’affetto di tutti e non ricadendo mai più nella sua musoneria d’un tempo. Estherchen e la madre si arrabbiarono solo di essersi lasciata sfuggire la storia di Lydia e ne chiedevano di continuo una ripetizione. Ma Pankraz disse che se quella notte non avessero dormito, l’avrebbero saputa, che lui l’aveva raccontata una volta e non l’avrebbe mai più ripetuta. Era la prima e l’ultima volta che aveva parlato ad anima viva di quella vicenda amorosa, e bastava. La morale della favola era del resto molto semplice: in terra straniera egli era stato guarito dal vizio della muso­ neria per opera di una donna e di una belva. Esse volevano almeno sapere il nome della donna, che per la sua esoticità avevano già dimenticato e gli chiede­ vano di continuo : — Ma come si chiamava? E Pankraz rispondeva immancabilmente: — Dovevate badarci ! Io non pronuncerò mai più quel nome ! E mantenne infatti la parola: nessuno lo ha mai più udito pronunciar quel nome e parve che finalmente l’avesse dimenticato egli stesso.

ROMEO E GIULIETTA DEL VILLAGGIO Raccontare questa storia sarebbe oziosa imitazione, se essa non s’appoggiasse a un avvenimento vero, quasi a dimostrare quanto profondamente sia radicata nella vita umana ognuna delle favole su cui sono costruite le grandi opere antiche. Il numero di tali favole non è eccessivo, ma sempre esse si ripresentano in nuova veste, costrin­ gendo la mano a fissarle. Lungo il bel fiume che passa a una mezz’ora di distanza da Seldwyla si eleva un’estesa collinetta che va a perdersi, pur essa ben coltivata, nella fertile pianura. Ai suoi piedi c’è un villaggio, il quale contiene parecchie grandi fat­ torie, e oltre la dolce altura si stendevano in passato tre splendidi e lunghi campi, simili a tre giganteschi nastri paralleli. In una soleggiata mattina di settembre due con­ tadini erano intenti ad arare due di quei campi, quelli esterni, mentre il terreno di mezzo aveva l’aria di essere da anni incólto ed abbandonato, poiché era tutto coperto di sassi e di erbaccia, ed una nuvola di moscerini gli ron­ zava sopra indisturbata. I contadini che procedevano ai due lati dietro l’aratro erano due uomini alti e magri di circa quarant’anni riconoscibili a prima vista per agri­ coltori agiati ed esperti. Portavano calzoncini cord di fustagno robusto, in cui ogni piega aveva il suo posto im­ mutabile e sembrava scolpita nella pietra. Quando, in­ contrando un ostacolo, stringevano più saldo l’aratro, le ruvide maniche delle camicie tremavano della lieve scos­ sa, mentre i volti ben rasati continuavano attend e tran­ quilli a guardare avanti, ammiccando un po’ nel sole, mi­ surando il solco o volgendosi talvolta a guardare, se un ru­ more lontano veniva a interrompere il silenzio del pae­ saggio. Procedevano con lentezza e anche con una certa grazia naturale, e nessuno pronunciava parola se non per dare qualche ordine al garzone che spingeva i robusti ca­ valli. Visti da una certa distanza si assomigliavano per­ fettamente, rappresentando la vera razza originaria della regione, e a prima vista si sarebbe potuto distinguerli so-



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lamente per il fatto che l’uno portava il fiocco del berretti­ no bianco in avanti, l’altro pendente sulla nuca. Ma in ciò si alternavano, giacché aravano in direzione opposta; quando s’incontravano su in alto e si passavano accanto, il berretto di quello che procedeva contro il fresco vento di est andava all’indietro, mentre all’altro, che aveva il vento nel dorso, esso si portava in avanti. Vi era anche ogni volta un momento di mezzo, in cui i berretti candidi ondeggiavano nell’aria, simili a due fiamme bianche le­ vate verso il cielo. Ambedue aravano con calma ed era bello vederli nel dorato silenzio del paesaggio autunnale, quando giunti sull’altura si passavano accanto, taciti e lenti, per allontanarsi poi gradatamente l’uno dal­ l’altro, sempre di più, sin che scendevano e sparivano dietro la colma della collina, simili a due stelle al tramonto per riapparire, dopo un buon tratto. Se trovavano una pietra nei loro solchi, la gettavano con gesto trascu­ rato eppur fermo nel desolato campo di mezzo, il che però accadeva di rado, poiché già vi si erano accumulati tutti i sassi che si potessero trovare nei campi circostanti. La lunga mattina era già in parte trascorsa, quando dal villaggio giunse un minuscolo e grazioso veicolo che era appena visibile allorché cominciò ad accostarsi alla lieve altura. Era una carrozzella, dipinta di verde, in cui i figlioli dei due aratori, un ragazzo e una piccolina, por­ tavano insieme la colazione antimeridiana. Per ciascuno v’era nella carrozzella una bella pagnotta ravvolta in un tovagliolo, un boccale di vino con bicchiere e ancora qualche modesta leccornia aggiunta dalla tenera massaia per il suo laborioso consorte. C’erano inoltre mele e pere rosicchiate in forme strane, raccolte dai bambini per la strada, e una bambola completamente nuda, con una gamba sola e la faccia sporca, che sedeva tra le due pagnotte come una damigella, facendosi comodamente portare a spasso. Dopo parecchi spintoni e soste il veicolo alla fine si fermò sulla cima, all’ombra di un gruppo di giovani tigli posto in margine al campo, e si poterono allo­ ra osservare i due guidatori. Erano un ragazzo di sette an­ ni e una bimbetta di cinque, sani e vispi, e non si notava

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in loro nulla di speciale se non che ambedue avevano occhi bellissimi e la piccina per di più colorito bruno e capelli crespi e scuri che le davano un aspetto vivace ed ingenuo insieme. I due aratori, giunti intanto in cima al campo, diedero ai loro cavalli un po’ di trifoglio e lasciarono gli aratri nel solco giunto a mezzo, avviandosi da buoni vicini al pasto comune e salutandosi intanto per la prima volta, giacché sino ad allora, quel giorno, non avevano scambiato parola. Mentre i due uomini consumavano piacevolmente la colazione, facendone parte benevolmente ai bambini che non si staccarono di lì finché si bevve e si mangiò, lascia­ rono vagare i loro sguardi vicino e lontano, e scorsero la cittadina che scintillava e fumava fra le sue montagne, poiché i pranzi abbondanti preparati ogni giorno dai Seldwylesi solevano far salire sopra i loro tetti una nuvo­ letta argentea, visibile da lungi, che si librava ridente lungo le loro montagne. — Quei bricconi di Seldwyla fanno al solito gran cuci­ na ! — disse Manz, uno dei due contadini, e Marti, il secondo, rispose: — Ieri è venuto uno da me per questo campo qui. — Uno del Consiglio distrettuale? È stato anche da me ! — disse Manz. — Davvero? E ti ha certo detto di adoperare la terra e di pagare un affitto alle autorità? — Già, sino a che sarà deciso a chi appartenga il campo e che cosa se ne debba fare. Io però non ci pensavo nep­ pure a mettere in sesto quella terra selvatica per un altro, e ho detto che vendessero il campo e mettessero da parte il ricavato finché non si trovi un proprietario, il che del resto non succederà mai; giacché quel che arriva negli uf­ fici di Seldwyla va sempre per le lunghe e per di più que­ sta è una faccenda difficile a decidersi. Quei bricconi vor­ rebbero volentieri aver qualcosa da rosicchiare con l’affit­ to, ma potrebbero anche farlo con una somma tratta dalla vendita. Noi però ci guarderemmo dal farla andare troppo su e sapremmo poi almeno quel che ci tocca e di chi resta la terra !

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— Penso esattamente lo stesso anch’io e ho dato un’ana­ loga risposta a quel signore ! Tacquero un poco, poi Manz riprese: — È però un peccato che quel buon terreno resti lì ; fa rabbia a vederlo, e sono ormai quasi vent’anni e nessuno ci pensa, perché qui in paese non c’è anima viva che possa aspirare a quel campo e nessuno neppure sa dove siano andati a finire i figli dello sciagurato trombettiere. — Già, — disse Marti — è una strana faccenda ! Se guardo quel violinista nero che ora sta con gli zingari, ora suona per i villaggi, giurerei che è un nipote del trombettiere, il quale, si capisce, non ha neppure il so­ spetto di esser padrone di un campo. E che cosa ne fa­ rebbe? Si ubriacherebbe per un mese e tornerebbe poi da capo ! E poi, chi ha voglia di dare un’indicazione simile, non potendo sapere nulla di sicuro? — Si potrebbe creare un bel pasticcio ! — rispose Manz — Facciamo già fatica a rifiutare al violinista il diritto di cittadinanza nel nostro Comune mentre continuano a volerci accollare questo pezzente ! Se i suoi genitori sono andati tra i senza patria, ci rimanga anche lui e suoni il violino per i suoi zingari. Come possiamo noi in fondo sa­ pere che egli è il figlio del figlio del trombettiere? Per quel che mi riguarda, pur credendo di riconoscere perfet­ tamente nella sua faccia scura quel vecchio, mi dico : erra­ re è cosa umana e per la mia coscienza servirebbe molto di più un pezzettino di carta, un frammento di fede bat­ tesimale che non dieci facce di peccatori ! — Ma sicuramente ! — disse Marti — È vero che lui sostiene di non aver colpa se non l’hanno battezzato. Ma dovremmo forse avere un fonte battesimale mobile, da portare nei boschi? No, quello sta ben fisso in chiesa, mentre in compenso è mobile la barella dei morti appesa fuori al muro. In paese abbiamo già troppa gente e presto ci occorreranno due maestri ! Con questo finì il pasto e il colloquio dei due, che si alzarono per terminare il lavoro della mattinata. I due piccoli invece, che già si erano proposti di ritornare a casa coi padri, spinsero la carrozzella sotto i giovani tigli

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e partirono per una spedizione nel campo abbandonato, il quale con le sue erbacce, gli arbusti e i mucchi di pietre, rappresentava un’interessante e inusitata terra vergine. Dopo aver camminato per un poco in mezzo al verde, tenendosi per mano e divertendosi a passar le mani unite sugli alti ciuffi di cardi, andarono finalmente a sedersi all’ombra di uno di essi e la bimba cominciò a rivestire la bambola con le lunghe foglie della sangui­ nella, confezionandole una bella sottana verde a punte; un solitario papavero rosso ancora in fiore le fu mes­ so in testa come cuffia, ben trattenuto da un filo di erba, col che la piccola persona ebbe l’aria di una maga, specie dopo che fu anche ornata di una collana e di una cintura di piccole bacche rosse. La posero poi su un alto stelo di cardo e per un poco stettero a guardarla insieme, finché il ragazzo ne ebbe abbastanza e la buttò a terra con una sassata. Questo rovinò la sua bellezza e la bimba la svestì in gran fretta per tornare ad adomarla; ma quan­ do la bambola fu di nuovo nuda, con soltanto la cuffia rossa, lo sfacciato ragazzo strappò il balocco alla compa­ gna e lo lanciò in aria. La bimba, piangendo, cercò di afferrarlo con un salto, ma l’altro fu il primo a ripren­ derlo e lo lanciò di nuovo, continuando per un bel po’ a canzonare così la piccina, che inutilmente tentava di riconquistarlo. Ma fra le sue mani la povera bambola volante fu ferita, e precisamente al ginocchio dell’unica gamba, di dove, da un piccolo buco, cominciò a piovere la crusca. Appena il torturatore s’accorse di questo buco, si tenne tranquillo e, a bocca aperta, con gran zelo, si diede ad ampliarlo colle unghie per cercare di dove la crusca venisse. Il suo silenzio parve estremamente sospetto alla povera bimba, che gli si accostò e s’accorse atterrita della sua crudele impresa. «Guarda!», gridò lui agitandole sotto il naso la gamba e facendole volare la crusca in faccia, e mentre la bimba cercava di affer­ rarla strillando e supplicando, egli scappò via e non ebbe pace sinché la gamba intera non penzolò vuota e floscia come una triste buccia inutile. Allora lanciò via il ba­ locco malmenato e quando la bimba si buttò piangendo

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sulla sua bambola e la ravvolse nel grembiulino si diede un’aria di grande impudenza e indifferenza. Poi la pic­ cina tornò a trarla fuori, considerando mestamente la po­ veretta, e vedendone la povera gamba riprese a piangere forte, perché pendeva dal torso ridotta proprio come la coda di una salamandra. Ai suoi pianti sempre più lamen­ tosi, il malfattore cominciò a sentirsi a disagio e s’accostò, spaventato e pentito, alla disperata, che, appena se ne accorse, s’interruppe di colpo per picchiarlo ripetutamente con la bambola, e poiché lui finse di sentir molto male e gridò con molta naturalezza: «Ahi, ahi!», essa ne fu soddisfatta e continuò insieme al compagno l’opera di distruzione e di smembramento. Praticarono in quel corpo di martire un gran numero di fori, facendone sgor­ gare da tutte le parti la crusca, che raccolsero con cura in un mucchietto su una pietra liscia, rimestandola e osser­ vandola poi attentamente. L’unica parte solida rimasta alla bambola era ormai la testa, che attrasse particolar­ mente l’attenzione dei bimbi. La staccarono con cura dal­ la salma svuotata e guardarono stupiti la cavità interiore. Mentre consideravano quello strano vuoto e d’altra parte la crusca, il primo naturale pensiero fu di empire quella testa con la crusca, ed ecco ora le manine dei bimbi in­ daffarate a metter crusca, a gara, nella testolina che per la prima volta in vita sua contenne qualcosa. Al ragazzo però tutto questo dovette sembrare scienza morta, per­ ché d’un tratto egli prese una bella mosca azzurra e, tenendo imprigionato fra le sue mani l’insetto ron­ zante, ordinò alla bimba di vuotare di nuovo la te­ sta. Ci misero poi dentro la mosca, tappando l’apertura con erba. I bimbi accostarono poi la testa all’orecchio e la deposero quindi con tutta solennità su una pietra. Quella testolina sonora ancora rivestita del papavero ros­ so somigliava ora al capo di una profetessa e i due bimbi stettero ad ascoltare, in profondo silenzio, tenendosi ben stretti, le sue rivelazioni e le sue fiabe. Ma non c’è profeta che non susciti terrore e ingratitudine; quel po’ di vita dentro l’immagine deforme bastò a destare l’umana crudeltà dei due bimbi, che decisero di seppellirla. Scava-

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rono così una fossa e vi deposero la testa, senza chiedere il parere del moscone prigioniero, e su quella tomba eres­ sero un notevole mausoleo di sassi. Provarono tuttavia un certo senso di raccapriccio per aver seppellito qualcosa che aveva forma e vita, e s’allontanarono d’un bel tratto da quel luogo pauroso. La bambina, ormai stanca, si di­ stese a pancia all’aria su un pezzetto di terreno compietamente coperto di erbe verdi e cominciò a canterellare con monotonia alcune parole, sempre le stesse, e il ra­ gazzo le si accoccolò vicino e l’aiutò, incerto se dovesse egli pure sdraiarsi del tutto tanto era svogliato e ozioso. Il sole entrava proprio dentro la bocca aperta della pic­ cina, illuminandone i dentini candidi e rendendo quasi trasparenti le curve labbra porporine. Il ragazzo guardò i denti e, reggendo la testolina della compagna e stu­ diandone curioso i dentini, esclamò: — Indovina, quanti denti abbiamo? La bimba ci pensò un poco, come se contasse attenta­ mente, poi disse a caso: — Cento ! — Ma no, trentadue ! — replicò lui — Aspetta, li vo­ glio contare ; — e cominciò a contare i denti della piccina, ma non arrivava ai trentadue, e ricominciava quindi sempre da capo. Per un bel po’ la bimba stette ferma, ma vedendo che lo zelante contabile non la smetteva, balzò su esclamando: — Ora voglio contare io i tuoi denti ! Fu allora il ragazzo a distendersi nell’erba, mentre la bambina, curva su di lui, gli prese il capo e contò nella sua bocca spalancata : uno, due, sette, cinque, due, uno, giacché la piccolina non sapeva ancora contare. L’amico la correggeva, insegnandole come doveva contare, e così anche lei ripigliò infinite volte da capo e quel gioco parve piacere ai due bimbi molto più di tutto quanto avevano sino ad allora intrapreso. Alla fine però la bimba cadde addosso al piccolo maestro d’aritmetica e tutt’e due si addormentarono nel chiaro sole di mezzogiorno. Nel frattempo i padri avevano finito di arare i loro cam­ pi, trasformandoli in una bruna superficie fresca e pro-

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fumata. Finito l’ultimo solco, quando uno dei garzoni voleva fermarsi, il padrone gli gridò: — Perché ti fermi? Gira un’altra volta ! — Ma se abbiamo finito ! — disse il garzone. — Sta’ zitto e fa’ quel che ti dico ! — ribattè il padrone. Voltarono infatti, tracciando un solco profondo nell’ab­ bandonato campo di mezzo, facendo volar via pietre ed erbaccia. Il contadino però non si attardò a buttar via quelle pietre, pensando forse che per quello ci sarebbe stato tempo e accontentandosi per il momento del lavoro più grossolano. L’altura saliva con una dolce curva e quando si era giunti in cima e il gentile venticello tornava a ricacciare all’indietro la punta del berretto dell’uomo, passava dall’altra parte il vicino, con la punta in avanti, scavando anche lui un energico solco nel campo di mezzo e facendo anch’egli volare ai due lati le zolle. Ciascuno vide benissimo quel che faceva l’altro, ma nessuno parve prenderne nota e tutti e due tornarono a scomparire alla vista; cosi ognuna delle stelle passò silenziosa accanto all’altra, calando poi dietro il curvo orizzonte. Cosi le spole del telaio del destino si passano accanto e nessun tessitore sa quel che tesse!

Un raccolto tenne dietro all’altro, e ognuno vide i bimbi farsi più grandi e più belli e il campo senza pa­ drone farsi più stretto fra quelli allargati dei due vicini. Ad ogni aratura esso perdeva da ambo i lati un solco, senza che se ne facesse parola, e senza che occhio umano sembrasse accorgersi di quel reato. Le pietre s’accumula­ rono sempre più e formavano ormai già una cresta ordina­ ta per tutta la lunghezza del campo e la vegetazione selva­ tica vi crebbe così alta, che i due bimbi, pur essendo cre­ sciuti, non si vedevano più se l’uno era al di qua e l’altro al di là. Ora infatti non andavano più insieme in campagna, perché il decenne Salomon o Sali, come era chiamato, se ne stava ormai fra i ragazzi grandi e gli uomini, mentre la bruna Vrenchen, pur essendo una bambina vivacis­ sima, doveva già subire la custodia del suo sesso per non essere schernita dalle compagne come un mezzo maschio.

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Però durante ogni mietitura, quando tutti erano per i campi, approfittavano dell’occasione per risalire la cresta di pietre che li divideva e divertirsi poi a buttarsi giù a spintoni. Benché non avessero ormai altri rapporti, pa­ reva che quella cerimonia annuale venisse osservata con gran cura, perché le terre dei loro genitori non erano in nessun altro punto confinanti. Finalmente un giorno il campo abbandonato dovette essere messo in vendita, e il ricavo affidato in custodia al­ le autorità. L’asta pubblica ebbe luogo sul posto, ma non vi si recarono che pochi spettatori oltre ai due contadini Manz e Marti, giacché nessuno aveva voglia di comprare quella strana striscia di terra e di andare a lavorare fra i due vicini. Benché questi infatti fossero fra i migliori agricoltori del villaggio e avessero fatto solo quello che i due terzi di loro avrebbero pur commesso in analoghe condizioni, tacitamente venivano criticati e nessuno ave­ va il desiderio di andarsi a ficcare fra i due con quel cam­ po già rimpicciolito. La maggior parte degli uomini sono capaci o pronti a commettere un’iniquità che è nell’aria, se per caso ci si imbattono; ma quando è commessa da un altro, sono in fondo contenti di non essere stati loro a cedere a quella tentazione, e fanno di quel prescelto la misura per le proprie debolezze e lo trattano con un certo riguardo, quale esecutore del male designato dagli dèi, mentre in certo modo loro hanno ancora l’acquo­ lina in bocca se pensano ai vantaggi che gli sono toccati. Manz e Marti furono dunque i soli che fecero serie of­ ferte per il campo ; dopo una gara abbastanza tenace ven­ ne aggiudicato a Manz. Funzionari e spettatori se ne andarono e i due contadini, che avevano lavorato ancora un po’ nei rispettivi campi, tornarono a incontrarsi nel partire e Marti disse: — Ora certo tu metterai insieme il tuo terreno nuovo e quello vecchio, per dividerlo poi in due parti eguali, nevvero? Io almeno avrei fatto così, se fosse toccato a me. — Lo farò sicuramente anch’io, — rispose Manz — perché per un campo solo è un appezzamento troppo grande. Ma a proposito : ho osservato che poco tempo fa,

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là alla fine del terreno che ora mi appartiene, sei entrato tu di traverso, tagliandone un buon triangolo. L’hai forse fatto pensando che saresti venuto in possesso di tutto il terreno e che era quindi comunque roba tua. Siccome però ora è mio, comprenderai bene che non posso tolle­ rare un simile cuneo nel mio terreno e non avrai nulla in contrario se tornerò a raddrizzare il confine ! Non avremo da litigare per questo ! Marti rispose con la stessa impassibilità con cui aveva parlato Manz: — Non vedo neppure io di dove verrebbe una lite ! Mi pare che tu hai comprato il campo così com’è; l’abbiamo veduto tutti insieme, e da un’ora in qua non si è certo modificato di un filo! — Storie ! — disse Manz — Non stiamo a rivangare quel che è successo in passato! Ma quel che è troppo, è troppo, e alla fine tutto deve essere raddrizzato; questi tre campi sono sempre stati così dritti e paralleli, come disegnati con la squadra, è uno scherzo ben strano da parte tua volerci fare un simile ghirigoro ridicolo e scioc­ co, e se noi ci lasciassimo quella punta storta, meriterem­ mo presto ambedue un soprannome. Bisogna toglierla via senz’altro ! Marti rise e soggiunse: — Hai tutto a un tratto una gran paura degli scherzi della gente ! Ma si può metterci riparo : a me quel che è storto non dà noia, se a te secca, bene, raddrizziamolo pure, ma non sulla parte mia; se vuoi te lo metto per iscritto ! — Non fare dei discorsi tanto buffi ! — disse Manz — Certo lo raddrizzeremo, ma dalla parte tua, puoi stame sicuro ! — Staremo a vedere ! — disse Marti, e i due uo­ mini se ne andarono senza guardarsi più in viso; anzi fissarono il cielo in direzione opposta, come se vedessero chissà quali meraviglie e fossero costretti a contemplarle prodigando tutto il loro ingegno. Già l’indomani Manz mandò un garzone, una ragazza a giornata e il suo figlioletto Sali nel nuovo campo a estir-

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pare le erbacce e i cespugli facendone dei mucchi in modo che poi si potessero più comodamente portar via le pietre con carri. Era una novità da parte sua mandarci anche il ragazzo appena undicenne, che non era mai stato costretto ad alcun lavoro, e contro il consiglio della madre. Lo fece con parole austere e untuose, quasi cercasse di sof­ focare in tale rigidità contro il suo stesso sangue l’ingiu­ stizia in cui egli medesimo viveva e che cominciava ap­ punto allora a produrre silenziosamente i suoi effetti. I tre giovani sarchiarono allegramente l’erbaccia e taglia­ rono con energia gli strani arbusti e le piante d’ogni genere che da anni vi si moltiplicavano. E poiché era un lavoro molto insolito e in certo modo selvaggio, nel qua­ le non si chiedeva né regola né accuratezza, sembrava loro quasi un divertimento. Le erbe e gli sterpi, seccati dal sole, vennero raccolti in un mucchio e accesi con grande allegria, e mentre il denso fumo si diffondeva lontano, i tre giovani vi ballavano attorno come dei mat­ ti. Fu quella l’ultima festa allegra su quel campo scia­ gurato e vi prese parte anche la piccola Vrenchen, la figlia di Marti, che era sopraggiunta quatta quatta e aveva lavorato di lena. Il lavoro insolito e l’allegra ecci­ tazione furono buona occasione ai due compagni di giochi per riavvicinarsi, e i fanciulli si sentirono infatti allegri e felici attorno al loro fuoco. Vennero anche altri bimbi e si raccolse una vispa compagnia, ma ogni volta che venivano divisi, Sali cercava di riacco­ starsi a Vrenchen, mentre questa del pari sapeva scivo­ largli accanto di continuo con un sorriso sereno, e alle due creature pareva che quella meravigliosa giornata non dovesse e non potesse avere mai fine. Ma verso sera ar­ rivò il vecchio Manz a vedere che cosa avessero fatto, e, benché trovasse finito il lavoro, disapprovò quella festic­ ciola e disperse la brigata. Alla fine comparve Marti sul suo campo e, scorgendo la figliola, la richiamò con un imperioso e acuto fischio lanciato con le dita in bocca, che la fece accorrere spaventata. Senza neppur sapere perché, le diede poi due ceffoni, tanto che ambedue i ra­ gazzi si avviarono a casa piangenti e tristissimi, senza

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capire ora la causa della loro melanconia, come non ave­ vano prima capito quella della loro allegria, giacché la rudezza dei padri, in verità piuttosto nuova, non era stata ancora compresa dalle ingenue creature e non poteva agitarle troppo. Nei giorni seguenti si trattò di un lavoro più duro, e ci vollero degli uomini quando Manz fece raccogliere e por­ tar via le pietre. Pareva che non finissero mai e che tutte le pietre del mondo si fossero date convegno lì. Manz però non le fece portare lontano, ma fece gettare ogni carrata sul triangolo conteso già accuratamente arato da Marti. Aveva prima tirato una riga diritta di con­ fine e ora caricò quel pezzetto di terreno con tutti i sassi che loro due insieme da tempo immemorabile avevano raccolto, tanto che ne sorse una grandiosa piramide, che certamente, così almeno egli pensava, il suo avver­ sario si sarebbe ben guardato dall’eliminare. Marti que­ sto non se l’era proprio aspettato; credeva che l’altro avrebbe proceduto come al solito con l’aratro, e aveva quindi atteso di vederlo uscire ad arare. Seppe del bel monumento eretto da Manz solo quando la cosa era quasi finita; accorse pieno di rabbia, vide il bel regalo e tornò indietro a volo in cerca del podestà, per prote­ stare intanto contro il mucchio di pietre e mettere il sequestro giudiziario su quel pezzo di terreno. Da quel giorno i due contadini furono intricati in processi recipro­ ci, né smisero finché non si furono rovinati ambedue. I pensieri dei due uomini, un tempo tanto saggi, non erano più lunghi della paglia trita ; ognuno di loro era per­ vaso dal più angusto senso della giustizia, poiché nessuno dei due voleva o poteva ammettere che il compagno con aperta ingiustizia arbitraria si attribuisse quel discus­ so e insignificante pezzetto di terra. Per Manz si aggiun­ geva uno strano amore per la simmetria e per le linee pa­ rallele, tanto che si sentiva davvero offeso dalla sciocca pervicacia con la quale Marti insisteva perché rimanesse quell’assurdo e impudente triangoletto. Ambedue poi concordavano nella persuasione che l’avversario, riu­ scendo con tanta sfacciata goffaggine a imbrogliare l’altro,

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lo dovesse poi anche necessariamente ritenere uno spre­ gevole imbecille, visto che cose simili si può permettersele con un povero diavolo senza carattere, ma non con un uomo capace di reggersi e di difendersi con intelligenza; ognuno si vedeva offeso nel suo amor proprio e si abban­ donava alla sfrenata passione della disputa e alla conse­ guente rovina. La loro vita assomigliò, da allora, alla tor­ tura di due dannati che, trascinati alla deriva su una stretta tavola per un cupo torrente, si combattono e colpi­ scono l’aria, si afferrano e si annientano credendo di affer­ rare la propria sventura. Data la causa sballata, finirono ambedue nelle mani di pessimi imbroglioni, i quali gonfia­ rono le loro fantasie malate al pari di mostruose vesciche, riempiendole poi delle più inutili fole. Specialmente per gli speculatori di Seldwyla quella contesa fu una bazza, e ben presto ognuno dei contendenti ebbe un sèguito di informatori, di consiglieri, e di agenti, abili nello spil­ lare denaro contante per mille vie. Il pezzetto di terra ricoperto di un mucchio di sassi, tra i quali nel frattempo era già spuntato e fiorito un boschetto di ortiche e di cardi, fu il primo germe o, diciamo, la base di una vicenda con­ fusa e di un sistema di vita in cui i due cinquantenni adottarono consuetudini e costumi, princìpi e speranze ben diversi da quelli fino ad allora avuti. Quanto più denaro perdevano, tanto più cresceva la smania di averne e quanto meno ne avevano, tanto più ostinatamente si proponevano di arricchire e di superare gli altri. Si la­ sciarono trascinare a ogni sciocchezza e puntarono anche per molti anni su tutte le lotterie forestiere, i cui bi­ glietti solevano circolare in massa a Seldwyla. Mai riu­ scivano a vedere un tallero di guadagno, ma di continuo udivano parlare dei guadagni di altri e di come loro stessi fossero stati ben vicini a una vincita, mentre quella passio­ ne costituiva una regolare perdita di denaro per ambedue. Talvolta i Seldwylesi si divertivano a far partecipare i due contadini ad una lotteria con lo stesso biglietto, senza che essi lo sapessero, in modo che basavano le loro speranze di opprimere e annientare il rivale su un’unica e identica cartella. Passavano la metà del loro tempo in città,



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dove ciascuno aveva il suo quartier generale in una taver­ na, e vi si facevano scaldar la testa e trascinare alle spese più assurde, nonché a una sciagurata e stolta smoderatez­ za, che in segreto faceva loro sanguinare il cuore, cosi che alla fine i due, i quali vivevano in lotta in fondo soltanto per non passare da stupidi, diventarono degli imbecilli di prima sorta e come tali da tutti reputati. L’altra metà del tempo la passavano immusoniti a casa, oppure lavorando, ma cercavano di riacquistare il tempo perduto con tale frettolosa pazzia e impazienza, da allontanare inevita­ bilmente ogni lavoratore fidato e regolare. In quel modo tutto andava alla rovescia e, prima che fossero passati dieci anni, erano ambedue immersi nei debiti e si regge­ vano sulla soglia dei loro possessi, simili alle cicogne che stanno su una gamba sola, col pericolo che ogni colpo d’aria li buttasse a terra. Comunque però andassero le cose, l’odio reciproco cresceva giornalmente, giacché cia­ scuno considerava l’altro quale origine della sua sventura, quale nemico ereditario e avversario irragionevole, mes­ so al mondo espressamente dal diavolo per la sua rovina. Appena si scorgevano da lontano lanciavano uno sputo; nessun membro della famiglia doveva scambiare parola con la moglie, i figli o i servi dell’altra, se voleva evitare i peggiori maltrattamenti. Le loro donne si contennero in modo diverso di fronte alla situazione di impoverimento e peggioramento generale. La moglie di Marti, di buona in­ dole, non resistette a quella decadenza, si tormentò e morì prima che sua figlia raggiungesse i quattordici anni. La moglie di Manz invece si adattò alle mutate circostanze e per rivelarsi una cattiva compagna non ebbe che ad allen­ tare le briglie ad alcuni difetti femminili da lei sempre posseduti, trasformandoli in vizi. La sua golosità si tra­ sformò in avidità smodata, la sua lingua sciolta in perfida consuetudine a lusinghe o calunnie menzognere, tanto che a ogni istante diceva il contrario di quel che pensava, aizzava gli uni contro gli altri e dava ad intendere una cosa per un’altra al suo stesso marito; l’antica schiettezza, di cui si era compiaciuta in passato chiacchierando inno­ centemente, divenne impudenza indurita nel valersi della

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sua falsità e così, invece di soffrire per il marito, si prese gioco di lui; se quello ne faceva di grosse, lei ne fece di peggio, non si fece mancare nulla e riuscì a diventare il più perfetto fiore di padrona per la casa in rovina. Andavano dunque ben male le cose per i poveri figlioli, che non potevano nutrire buone speranze per l’avvenire, né godere una serena giovinezza, non essendo circon­ dati che dalla discordia e dai crucci. Vrenchen in appa­ renza stava peggio di Sali, avendo perduto la mamma ed essendo in balia della tirannide di un padre inselva­ tichito, sola in una casa desolata. A sedici anni era già una ragazza snella e graziosa; i capelli castano scuri si inanellavano scendendo quasi sui bruni occhi lampeg­ gianti, il sangue ben rosso coloriva le guance abbronzate e ne imporporava le labbra fresche, come si vede di rado, rendendo caratteristico l’aspetto della bruna fanciulla. In ogni sua fibra vibrava l’ardente allegria e la voglia di vi­ vere; appena il tempo era un po’ benigno, cioè appena non la tormentavano troppo e non c’erano troppi crucci, essa rideva ed era pronta al gioco e allo scherzo. Ma gli affanni l’affliggevano spesso, giacché non soltanto do­ veva sopportare i dolori e la crescente miseria di casa, ma badare a sé e cercare di vestirsi con discreto ordine e cura senza riceverne dal padre il minimo aiuto. Vrenchen faceva quindi fatica ad adornare in qualche modo la sua graziosa personcina, a conquistarsi un modestissimo abito della festa e possedere un paio di scialletti colorati di scarsissimo valore. La bella e vispa giovinetta veniva così di continuo umiliata e oppressa e non correva certo peri­ colo di peccare d’alterigia. Aveva per di più assistito con intelligenza già sveglia alle sofferenze e alla morte della madre e questo ricordo era un ulteriore freno alla sua in­ dole lieta e appassionata, cosicché era uno spettacolo infinitamente leggiadro e impensato e commovente veder talvolta la buona figliola ravvivarsi malgrado questo ad ogni raggio di sole, subito pronta ad un sorriso. La sorte di Sali non era a prima vista altrettanto dura: egli era infatti un bel ragazzo robusto, capace di difen­ dersi e il cui contegno esteriore rendeva senz’altro impos­

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sibile un cattivo trattamento. Vedeva benissimo il disor­ dine dei genitori, e gli pareva di ricordare che le cose non erano andate sempre così; conservava anzi bene nella memoria l’antica immagine di suo padre come di un con­ tadino assennato, prudente e tranquillo mentre ora si ve­ deva dinanzi un pazzo dai capelli grigi, fannullone e attaccabrighe, che procedeva per cento vie stolte e fallaci millantando e smaniando e che di ora in ora andava all’indietro al pari di un gambero. Se questo gli spiaceva e lo colmava spesso di vergogna e di dolore, non renden­ dosi egli conto nella sua inesperienza di come le cose fosse­ ro giunte a tal punto, i crucci erano d’altra parte assopiti dalle lusinghe con le quali lo trattava sua madre. Essa in­ fatti, per compiere indisturbata le sue malefatte ed avere anzi un buon alleato, e anche per obbedire alla propria mania di grandezza, gli concedeva sempre quanto deside­ rava, lo vestiva con sfarzo e lo appoggiava in tutto quanto intraprendesse per suo divertimento. Sali accettava senza molta gratitudine, trovando che la madre chiacchierava e mentiva troppo, ma, pur avendone scarsa gioia, faceva sventatamente e pigramente tutto quel che gli accomo­ dava, senza commettere però alcun male, non essendo an­ cora guastato dall’esempio dei genitori e sentendo ancora in sé il bisogno giovanile di serbarsi in complesso semplice, calmo e discretamente laborioso. Egli era insomma pres­ sappoco quel che suo padre era stato a quell’età, e ciò appunto ispirava al padre un’involontaria stima per il figlio, nel quale con turbata coscienza e con torturato ri­ cordo rispettava la propria gioventù. Malgrado la libertà di cui godeva, il ragazzo non era contento della sua vita, sentendo di non avere nulla di buono in vista e di non imparare un bel nulla, giacché da un pezzo nella casa di Manz non si poteva più parlare di una vera e propria attività ragionevole e continuata. Il suo maggior conforto era quindi l’orgoglio della propria indipendenza e irre­ prensibilità e in tale orgoglio egli passava sdegnosamente i suoi giorni distogliendo gli sguardi dall’avvenire. L’unica costrizione che doveva subire era l’inimicizia di suo padre per tutto quello che si chiamava Marti e che

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a lui si riferiva. Per suo conto sapeva soltanto che Marti aveva danneggiato il padre e che in quella casa si nutri­ vano eguali sentimenti di ostilità, cosi che non gli tor­ nava difficile non guardare né Marti né la figliola e far la parte di un futuro se pur remissivo nemico. Vrenchen, invece, dovendo sopportare ben di peggio ed essendo molto più abbandonata in casa sua, si sentiva meno vitti­ ma di una vera e propria inimicizia e si riteneva soltanto disprezzata da Sali così ben vestito e apparentemente for­ tunato; per questo lo evitava, e se per caso gli capitava vicina, s’allontanava in fretta, senza che egli si desse la pena di seguirla con un’occhiata. Fu così che per un paio d’anni il ragazzo non ebbe occasione di accostarla e nep­ pure sapeva che aspetto avesse da quando era cresciuta. Se ne stupiva però talvolta non poco, e quando il discorso si riferiva a Marti, egli involontariamente pensava alla figlia, il cui aspetto presente non gli era chiaro, ma il cui ricordo gli era tutt’altro che odioso. Fu però suo padre Manz il primo dei due avversari che dovette cedere e perdere casa e podere. La precedenza derivava dal fatto che egli aveva una moglie che l’aveva aiutato a dilapidare e un figlio il quale pur consumava qualcosa, mentre Marti nel suo traballante regno era il solo a spendere, sua figlia poteva bensì lavorare come una bestia da soma, ma non pretendere nulla. Manz non seppe far di meglio che ascoltare il consiglio di alcuni suoi pro­ tettori di Seldwyla e trasferirsi in città per aprirvi un’oste­ ria. È sempre una malinconia vedere un antico contadino invecchiato sulla sua terra, che si riduce in città con i re­ sidui dei suoi averi e vi apre una bettola o un’osteria, cer­ cando l’ultima àncora di salvezza nel sostenere la parte dell’oste gioviale e spigliato mentre nell’animo è tutt’altro che sereno. Quando Manz e i suoi lasciarono il poderetto si potè vedere a che punto erano ridotti ; non caricarono che vecchi mobili ed arredi, dai quali ben si capiva che da molti anni nulla era stato acquistato o rinnovato. Tuttavia la moglie indossò le sue vesti migliori per salire in cima al carro della roba, facendo una faccia speranzosa, da futura cittadina che già disprezzava i compaesani che

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dietro alle siepi e ai cancelli guardavano pieni di compas­ sione il melanconico corteo. Essa si proponeva di incan­ tare la città intera con la sua amabilità e intelligenza e di riuscire a quello cui non sarebbe riuscito il suo sciocco marito, appena stabilita da signora ostessa in una bella locanda. Questa in realtà non era che una melanconica piccola bettola in un’angusta stradetta fuori mano, dove già un altro era andato in rovina e che i Seldwylesi affittarono a Manz, in quanto egli era creditore di al­ cune centinaia di talleri. Gli vendettero anche un paio di botti di vino tagliato e gli arredi della bottega, consi­ stenti in una dozzina di rozze bottiglie bianche, altret­ tanti bicchieri, poche tavole e panche di legno d’abete, un tempo verniciate in rosso vivo ed ora per lo più logorate. Davanti all’ingresso cigolava un cerchio di ferro appeso ad un gancio e dentro al cerchio una mano di latta versava del vino da un piccolo boccale entro un bicchiere. Inoltre sopra la porta era appeso un ciuffo di agrifoglio secco, compreso anch’esso nell’af­ fitto. Manz non era però di buon animo come sua moglie, anzi incitava pieno di rabbia e di oscuri pre­ sagi i cavallucci magri presi a prestito dal nuovo padrone del podere. L’ultimo suo misero garzone l’aveva piantato già alcune settimane avanti. Mentre partiva a quel modo, vide benissimo che Marti si tratteneva per la strada pieno di maligna gioia e di scherno e gli lanciò una maledizione, considerandolo sempre unico autore di ogni sua sventura. Sali invece, appena il veicolo si mosse, affrettò il passo; lo precedette e andò solo in città per le scorciatoie. « Eccoci arrivati ! » disse Manz, quando il carro si fermò davanti alla piccola spelonca. La moglie rimase davvero atterrita, giacché era una ben triste trattoria! La gente s’affacciò subito alle finestre e si fece sulle porte a vedere il nuovo oste-contadino, dandosi con superiorità seldwylese grandi arie di compassionevole scherno. La moglie scese dal carro e córse in casa con gli occhi lagn­ inosi per la rabbia, affilando già la lingua, ma per quel giorno preferì elegantemente non farsi più vedere, ver­ gognandosi dei vecchi arredi e dei letti mezzo rotti che

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venivano scaricati. Se ne vergognava anche Sali, ma do­ veva pur dare una mano, accatastando insieme al padre uno strano deposito nella viuzza, dove ben presto si ra­ dunarono i figlioli dei Seldwylesi falliti, divertendosi per gli stracci dei contadini. In casa la melanconia era ancora peggiore, e pareva davvero di essere in un nido di bri­ ganti. Le pareti umide e mal intonacate; oltre al locale buio dell’osteria con le tavole rosse, ora stinte, non c’e­ rano che un paio di camerette miserevoli, e dappertutto i predecessori avevano lasciato la più sconsolata sporcizia. Così cominciarono e così continuarono. La prima set­ timana, specialmente la sera, si riempì sovente una tavo­ lata di gente, per la curiosità di vedere il nuovo venuto oste di campagna, nella speranza di trovare motivo a qual­ che spasso. Ma nell’oste non c’era molto da vedere, giac­ ché Manz era goffo, rigido, scortese e melanconico, non sapeva come comportarsi e neppure voleva impararlo. Riempiva i boccali con lentezza e imperizia, li metteva immusonito davanti ai clienti, tentando di dire qualche cosa, ma senza trovar parola. Tanto più zelante, invece, sua moglie si mise al lavoro, per qualche giorno riuscendo a trattenere la gente, ma in modo tutto diverso da quel che aveva sperato. La donna, piuttosto grassa, aveva mes­ so insieme un costume col quale si credeva irresistibile. Su una gonna campagnola di lino greggio, portava una vec­ chia giacca di seta verde, un grembiule di cotone e un orribile colletto bianco. Coi suoi capelli non più folti s’era attorcigliata sulle tempie delle comiche chiocciole e nella trecciola sulla nuca aveva infilato un pettine alto. Ballon­ zolava e scodinzolava attorno con grazia forzata, facendo ridicole boccucce, che avrebbero voluto esser dolci, s’acco­ stava alle tavole con passo elastico, e porgendo un bicchiere oun piatto di formaggio salato, diceva ridendo: «Così? Così cosà ! Signorile, signorile, cari signori ! » e altre scioc­ chezze del genere, giacché, malgrado la sua lingua taglien­ te, ora non sapeva trovar nulla di intelligente, sentendosi forestiera tra gente sconosciuta. I clienti, tutti Seldwylesi di pessimo genere, tenevano la mano davanti alla bocca sof­ focando dalle risa e si davano calci sotto la tavola dicendo :

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— Perbacco ! È un incanto ! — Un angelo ! — aggiungeva un altro — Accidenti ! Val la pena di venire qui, una come questa non l’abbia­ mo vista da un pezzo ! Il marito con sguardi torvi si accorse di tutto e le diede una gomitata nelle costole, sussurrandole : — Vecchia pazza ! Che cosa fai? — Non seccarmi, — disse lei impaziente — brutto im­ becille ! Non vedi come mi do pena e come so trattar la gente? Ma questi non sono che degli straccioni del tuo genere! Lascia fare a me e avremo presto una clientela distinta ! La scena era illuminata da un paio di moccoli di sego; Sali, il figliolo, preferì andare nella cucina scura, dove sedette accanto al focolare piangendo per il padre e per la madre. I clienti però furono presto sazi del divertimento offerto dalla buona signora Manz e tornarono alle loro bettole abituali, dove si sentivano meglio e potevano ridere di quel nuovo bizzarro locale; solo di tanto in tanto compariva un isolato a bere un bicchiere e sbadigliare annoiato, oppure per eccezione c’era l’invasione di una brigata, ve­ nuta ad ingannare quei poveracci con un fugace disordine e chiasso. Si sentivano sempre più angosciati fra quelle strette mura, dove appena giungeva il sole, e Manz, ben­ ché abituato a starsene per giornate intere in città, trovava ora insopportabile quella prigione. Se ripensava alla li­ bera ampiezza dei suoi campi, si metteva a fissare cupo il soffitto o il pavimento, poi s’affacciava alla porta angusta, ma ne rientrava subito, vedendosi contemplato con cu­ riosità dai vicini, che già gli avevano messo il nomignolo di «oste cattivo». Non passò molto tempo che si ridussero alla più completa miseria, e non avevano più nulla; per mangiare un boccone dovevano aspettare che venisse un cliente a bere un po’ del vino rimasto e, se chiedeva una salsiccia o qualcos’altro, riuscivano a stento e con grande ansia a procurarla. Ben presto furono costretti a custodire il vino in un bottiglione che facevano riempire nascostamente in un’altra bettola, ridotti ormai a tenere osteria

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senza vino e senza pane, e a mostrarsi gioviali a stomaco vuoto. Erano quasi contenti se non arrivava nessuno e stavano rintanati nella loro bettola, senza riuscire né a vi­ vere né a morire. Quando la donna ebbe fatto così tristi esperienze, si spogliò della giacca verde e subì una nuova metamorfosi, mettendo fuori, come prima i difetti, così, ora, alcune virtù femminili, dato che il bisogno era or­ mai acuto. Dimostrò molta sopportazione, cercando di sorreggere il vecchio e di avviare al bene il ragazzo; si sacrificò in mille cose, esercitò insomma a modo suo una specie di benefico influsso, che non valse per vero dire a molto, né molto potè mutare, ma che era sempre meglio di nulla o meglio del contrario, ed aiutò quanto meno a ritardare la crisi, che altrimenti avrebbe dovuto scoppiare molto prima. Sapeva suggerire espedienti in cose minute, col suo buon senso, e se anche i suggerimenti poco vale­ vano e non avevano successo, sopportava paziente l’ira dei due uomini ; insomma faceva ora, diventata vecchia, quel che sarebbe stato tanto più utile se fatto prima. Per procurarsi almeno qualcosa da mangiare e per far passare il tempo, padre e figlio si diedero a pescare al­ l’amo, lanciandolo nel fiume là dove era lecito a tutti. Era anche questa una delle occupazioni predilette dei Seldwylesi falliti. Col tempo favorevole, quando i pesci abboccavano volentieri, si poteva vederli avviarsi a doz­ zine, con la canna e il secchiello; e lungo le rive del fiu­ me si scorgeva ad ogni tratto un pescatore, l’uno con una lunga giacca scura a falde e i piedi nudi nell’acqua, l’altro ritto in piedi, in marsina azzurra, su un vecchio tronco di salice, col vecchio cappello messo di traverso ; più in là ce n’era uno addirittura in vestaglia sdruscita, a fiora­ mi, non possedendo altra veste, con una lunga pipa in una mano e la canna nell’altra ; se poi si girava oltre un’ansa del fiume, appariva un grassone tutto calvo e nudo come un verme seduto su un sasso e intento a pescare: questi però, pur essendo tanto vicino all’acqua, aveva i piedi così sporchi che pareva tenesse ancora gli stivali. Ognuno aveva accanto un vasetto o una scatoletta dove brulica­ vano i lombrichi, che in altre ore era andato a dissotter­

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rare. Quando il cielo era nuvoloso e il tempo incerto e afoso prometteva pioggia, sempre più numerose si fa­ cevano lungo le rive quelle figure, immobili come una galleria di statue di santi o di profeti. I contadini passa­ vano loro accanto con le bestie e i carri senza badarvi, né li guardavano i battellieri sul fiume, mentre essi borbottavano contro le barche disturbatrici. Se dodici anni prima avessero predetto a Manz, quando arava con la sua bella coppia di cavalli sul colle sovra­ stante la riva, che un giorno egli si sarebbe unito a quegli strani santi per prender pesci, avrebbe protestato con grande ira. Anche adesso passava frettoloso alle loro spalle, risalendo il fiume come un’ostinata ombra infernale che fosse in cerca per la sua dannazione di un posticino solita­ rio lungo le acque tenebrose. Tanto lui che suo figlio non avevano però la pazienza di star lì fermi con la lenza e ricordarono altri modi in cui i contadini pigliano pesci quando sono svelti e coraggiosi, specialmente con le mani nei ruscelli; per questo prendevano le canne solo per mostra, ma risalivano poi i torrentelli, dove sapevano di trovare ottime e preziose trote. Anche per Marti, rimasto in campagna, le cose anda­ vano sempre peggio, e per di più si annoiava straordina­ riamente, così che, invece di lavorare le sue terre neglette, venne anche a lui l’idea di pescare e di passare giornate intere a diguazzare nell’acqua. Vrenchen era costretta a non allontanarsi da lui, portandogli secchiello e stru­ menti per i prati umidi, attraverso ruscelli e pozzanghere, ci fosse pioggia o bel tempo, mentre a casa veniva tra­ scurato il più necessario. Non c’era infatti più nessuno al loro servizio, e di nessuno c’era ormai bisogno, visto che Marti aveva perduto quasi tutto il suo terreno e non possedeva che pochi campi, coltivati alla peggio o addirittura per niente con l’aiuto della figlia. Accadde così che una sera, mentre seguiva un tor­ rente abbastanza profondo e impetuoso, ove le trote sal­ tavano numerose, essendo il cielo pieno di nubi in tem­ pesta, imprevedutamente egli venisse ad incontrarsi col suo nemico Manz, il quale risaliva l’altra riva. Al vederlo

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si risvegliò in lui un terribile rancore : da anni non si erano visti così da presso, fuorché in tribunale, dove non pote­ vano ingiuriarsi, e Marti cominciò rabbioso: — Che cosa vieni a fare qui, cane? Non puoi rimaner­ tene nel tuo lurido covo, straccione di un seldwylese? — Ci arriverai presto anche tu, furfante! — replicò Manz — Stai già cercando i pesci, non hai quindi più molto da perdere ! — Taci, pendaglio da forca ! — urlò Marti, poiché le onde del torrente erano lì più rumorose — Sei tu che m’hai mandato in rovina ! E poiché ora anche i salici lungo l’argine comincia­ vano a stormire impetuosamente al vento che si alzava, Manz dovette gridare ancor più forte: — Se fosse proprio così, sarei felice, povero cretino ! — Cane ! — strillava Marti da una parte; e Manz dal­ l’altra : — Asinaccio, quanto sei stupido ! — e quello saltellava lungo il torrente come una tigre, cercando di attraver­ sarlo. La ragione per cui Marti era il più furente sta­ va nella persuasione che Manz, come oste, dovesse avere almeno da bere e da mangiare a sufficienza e con­ durre una vita relativamente spassosa, mentre egli si do­ veva ingiustamente annoiare nel suo podere rovinato. Manz camminava non poco rabbioso sull’altra sponda con alle spalle il figlio, il quale, invece di seguire la disputa odiosa, sbirciava con curiosità e stupore Vrenchen, la quale teneva dietro al padre guardando a terra per vergogna, così che i riccioli bruni le piovevano sul volto. In una mano reggeva un secchiello di legno per i pesci e con l’altra portava calze e scarpe, sollevando intanto l’abito per serbarlo asciutto. Ma da quando aveva visto Sali sull’altra sponda, l’aveva lasciato rica­ dere pudica e ora si sentiva tre volte impacciata e infe­ lice, per dover portare il secchiello, per dover tener sol­ levata la sottana e per la disputa. Se avesse alzato gli occhi sul ragazzo, avrebbe scoperto che quello non era più né elegante, né superbo all’aspetto, ma al contrario anch’egli triste e mal ridotto. Mentre Vrenchen teneva

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gli occhi a terra confusa e intimidita e Sali non vedeva che quella figurina esile e graziosa malgrado tanta mi­ seria, che procedeva tanto umile e imbarazzata, i due non s’accorsero che i loro padri si erano d’un tratto taciuti, ma affrettavano il passo con rinnovato furore, avendo scorto un ponticello di legno che non molto lontano at­ traversava il torrente. I primi lampi cominciarono ad illuminare stranamente il fosco e melanconico paesaggio fluviale; dalle nubi nerastre rumoreggiava cupo il tuono e caddero pesanti gocce di pioggia quando i due energu­ meni si precipitarono insieme sullo stretto ponticello oscil­ lante sotto i loro piedi e si afferrarono di colpo, menandosi pugni sulle facce pallide e tremanti d’ira e di cruccio prorompente. Non è certo spettacolo grazioso o gentile vedere due uomini un tempo posati che, per prepoten­ za, per sventatezza o per legittima difesa giungono al punto di distribuir botte o prenderne in presenza di gente indifferente ; ma questo è ancora un gioco inno­ cente in confronto allo spettacolo di due vecchi pervasi da profonda angoscia, che ben si conoscono da lungo tempo, e che per intimo odio e per le vicende di tutta una vita si riducono a mettersi le mani addosso e a prendersi a pugni. Così fecero in quel momento i due uomini già canuti; erano forse passati cinquant’anni da quando si erano azzuffati l’ultima volta da ragazzi, per cinquanta lunghi anni poi non si erano sfiorati, se non, nel buon tempo dell’amicizia, per stringersi la mano, e anche que­ sto, data la loro indole asciutta e seria, era capitato ben di rado. Dopo due o tre colpi, si fermarono un momento e continuarono poi la lotta, avvinghiati, taciti e tre­ manti, solo mandando ogni tanto un gemito e digrignan­ do penosamente i denti, cercando di gettarsi recipro­ camente nell’acqua al di sopra dello scricchiolante pa­ rapetto. Nel frattempo i figli li avevano raggiunti e assistevano alla pietosa scenata. Sali fece un balzo per soccorrere il padre e dare il colpo decisivo all’odiato ne­ mico, che già appariva del resto il più debole e minacciava di soggiacere. Ma anche Vrenchen, gettando quanto ave­ va in mano, accorse con un alto grido e abbracciò il

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padre per difenderlo, riuscendo invece soltanto a impac­ ciarlo. Con gli occhi grondanti di lagrime guardò sup­ plichevolmente Sali, che stava per afferrare il vecchio e sopraffarlo. Egli involontariamente prese invece il proprio padre, cercando di staccarlo dall’avversario e di calmarlo, tanto che per un momento la lotta sostò, o meglio tutto il gruppo oscillò agitato in qua e in là senza potersi sciogliere. Inoltre i due giovani, insinuan­ dosi sempre più fra i contendenti, si erano trovati in diretto contatto, e in quell’istante uno squarcio fra le nuvole, lasciando filtrare la viva luce del tramonto, illuminò il volto vicino della fanciulla, che apparve a Sali tanto familiare e pur tanto mutato e più bello. In quell’attimo Vrenchen s’accorse a sua volta del suo stupore e, pur in mezzo alle lagrime e al terrore, ebbe un breve e rapido sorriso. Allora Sali, svegliato da­ gli sforzi del padre per liberarsi da lui, si fece ancor più energico e alla fine con la sua fermezza e con parole di intensa preghiera riuscì a trascinarlo lontano dal nemico. I due vecchi compari, staccandosi, trassero un gran respiro e ripresero a insultarsi e a gridare; i loro figlioli, invece, non respiravano quasi, silenziosi come la morte, ma men­ tre si voltavano per separarsi, senza che i vecchi se ne accorgessero si porsero rapidamente le mani, che erano umide e fresche d’acqua e di pesci. Quando i due gruppi contendenti ripresero la via, le nubi si erano richiuse, il buio si faceva sempre più fitto e la pioggia scendeva a torrenti. Manz andava avanti per gli oscuri sentieri bagnati, curvo sotto gli scrosci, con le mani in tasca, ancora tutto tremante nei tratti del volto, battendo i denti, mentre gli gocciolavano nella barba incólta lagrime non viste che egli lasciava scorrere per non rivelarle asciugandole. Suo figlio del resto non vedeva nulla, perché camminava perduto in dolci immagini. Non avvertiva né pioggia né tempesta, né oscurità né miseria; per lui tutto era lieve, caldo e sereno, dentro e fuori, e si sentiva ricco e sicuro come il figlio d’un re. Vedeva di continuo davanti a sé il brevissimo sorriso di quel bel volto accostato e lo ricambiava, solo in quel momento,

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con una buona mezz’ora di ritardo, sorridendo pieno d’amore nella notte e nella bufera a quel caro volto che gli si ripresentava di continuo nelle tenebre, tanto che gli pareva che Vrenchen dovesse senz’altro scorgere e sentire quel suo riso segreto.

Suo padre il giorno seguente era ridotto uno straccio e non volle uscire di casa. Tutta la vicenda e la sciagura di molti anni assunsero quel giorno un nuovo e più chiaro aspetto, si diffusero fosche nell’atmosfera opprimente della taverna, tanto che marito e moglie non fecero che girare stanchi e intimiditi attorno a quel fantasma, passando dall’osteria nelle camerette scure, di lì nella cucina, e da questa trascinandosi di nuovo nella saletta, dove non un cliente era comparso. Alla fine ciascuno si rifugiò in un angolo e cominciò per tutta la giornata a mormorare stanchi rimproveri e vane recriminazioni; a tratti si ad­ dormentavano, ridestandosi però pel tormento di inquieti sogni nati dal loro rimorso. Soltanto Sali non udiva e non vedeva nulla, perché pensava incessantemente a Vrenchen. Continuava ad avere l’impressione non soltanto di essere indicibilmente ricco, ma anche di avere final­ mente imparato qualcosa di giusto e di sapere una quan­ tità di cose belle e buone, perché sapeva con precisione e chiarezza quel che aveva veduto la vigilia. Tale scienza gli era come piovuta dal cielo e lo immergeva in un pe­ renne stupore beato, ma pure gli sembrava di averla sem­ pre posseduta, di aver sempre conosciuto quel che lo riempiva di così meravigliosa dolcezza. Nulla infatti eguaglia l’imperscrutabile ricchezza di una beatitudine che si offre all’uomo nella forma così precisa e limpida di un essere battezzato da un prete e ben munito di un suo nome particolare, che ha un suono diverso da tutti gli altri. Sali quel giorno non si sentiva né disoccupato né in­ felice, né povero né disperato; aveva anzi fin troppo da fare per rappresentarsi senza interruzione, un’ora dopo l’altra, la figura e il volto di Vrenchen, solo che nel corso di tale eccitata occupazione finì per svanirgliene quasi to­ talmente l’oggetto, vale a dire che si persuase di non sa­

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per più quale fosse il vero aspetto di Vrenchen, avendone bensì un’immagine generica nella memoria, ma non essen­ do più capace di descriverla se l’avesse voluto. La vedeva senza posa quell’immagine, come gli stesse davanti, e ne traeva una piacevole impressione, ma la scorgeva soltanto come qualcosa che ci è apparso una sola volta fugacemen­ te, di cui siamo in potere senza però ancora conoscerla. Rammentava esattamente e con grande piacere i tratti del volto di lei ancora bambina, ma non i lineamenti intravi­ sti la sera innanzi. Se non avesse incontrato mai più Vren­ chen, le facoltà della sua memoria avrebbero dovuto arran­ giarsi e ricostruire accuratamente il caro volto senza di­ menticarne un tratto. Ma in quel momento esse con perfi­ da tenacia si ricusavano di servirlo, perché gli occhi esige­ vano il loro diritto e il loro piacere, tanto che quando nel pomeriggio il sole raggiunse limpido e caldo i piani su­ periori delle case nerastre, Sali s’awiò fuori di porta, verso il suo paese natale, che gli appariva ora una Gerusa­ lemme celeste con dodici porte dorate, e gli faceva bat­ tere il cuore man mano che vi si appressava. Incontrò lungo la strada il padre di Vrenchen, che sembrava avviato verso la città. Trasandato e selvaggio, con la barba ormai grigia, non tagliata da settimane, aveva l’aspetto del contadino mal ridotto e cattivo, che ha dilapidato le sue terre e che si dispone a far del male agli altri. Sali tuttavia, passandogli accanto, non lo guardò più con odio, bensì con tremore e timidez­ za, quasi che la sua vita fosse nelle mani di colui ed egli preferisse strappargliela con le suppliche che con la violen­ za. Marti invece lo squadrò con un’occhiataccia da capo a piedi e proseguì per la sua strada. Ciò piacque a Sali, il quale, vedendo il vecchio allontanarsi dal villaggio, si rese più chiaramente conto delle proprie intenzioni. Per noti sentieri fece un giro attorno al villaggio e, percorrendo viuzze nascoste, andò a finire in faccia alla casa e al podere di Marti. Erano molti anni che non rivedeva quel luogo così da vicino, giacché quando abitavano ancora lì, i due avversari evitavano a vicenda di venirsi tra i piedi. Fu dunque stupito di quello che egli pure aveva già veduto

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nella sua casa paterna e contemplò esterrefatto la deso­ lazione che gli si presentava dinanzi. A Marti avevano sequestrato un campo dopo l’altro, tanto che non pos­ sedeva ormai più che la casa e il terreno circostante, con un po’ d’orto e con quel campo sull’altura accanto al fiu­ me, dal quale con grande ostinazione non voleva staccarsi. Di una vera coltivazione non si poteva parlare, ed an­ che il campo, un tempo ondeggiante di bel grano rego­ lare, era invece seminato a caso con avanzi di sementi di scarto, racimolate da vecchie scatole e da cartocci stracciati, e vi crescevano rape, cavoli e verdure simili, e un po’ di patate, cosi che sembrava un orto trasandato, una specie di campionario bizzarro, fatto per vivere alla giornata, e andarvi a cogliere, quando si aveva fame e non c’era altro di meglio, ora un mazzo di rape, ora un cesto di patate o di cavoli, lasciando che il resto insel­ vatichisse o marcisse a suo piacere. Ognuno ci poteva entrare a suo piacimento e la bella striscia ampia di terra aveva quasi lo stesso aspetto desolato del campo di nessu­ no da cui avevano avuto inizio tutte le disgrazie. Nella casa, del resto, non v’era più alcuna traccia di vita agri­ cola. La stalla era vuota, con la porta appesa a un solo cardine, e innumerevoli ragni crociati cresciuti du­ rante l’estate tendevano le loro reti lucenti al sole sul fondo scuro dell’ingresso. Dalla porta aperta del granaio, ove in passato entravano i frutti del buon terreno, pen­ devano vecchi strumenti da pesca a testimonianza di quell’assurdo baloccarsi con l’acqua; nel cortile non si scorgeva né una gallina né una colomba, né un gatto né un cane ; di vivo non c’era più che la fontana, e neanche l’acqua rifluiva per il cannello, ma sprizzava da una fes­ sura del terreno, sollevandosi poco da terra, formando ovunque piccole pozzanghere ed offrendo l’immagine mi­ gliore della pigrizia. Mentre sarebbe costata poca fatica al padre chiudere la fessura e riparare il cannello, Vrenchen doveva con gran disagio strappare l’acqua pulita a tanta rovina e lavare alla meglio in quelle pozzanghere invece che nell’abbeveratoio di legno secco e scheggiato. La casa medesima presentava un aspetto non meno mi-

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seranđo; le finestre avevano i vetri spezzati in più punti e rappezzati con carta, ma essi erano ancora il meglio fra tanta rovina, giacché i frammenti erano puliti, anzi veramente lustri, con la chiara lucentezza degli occhi di Vrenchen, i quali pure del resto dovevano sostituire per lei nella sua miseria ogni altra ricchezza. E come agli occhi di Vrenchen si accompagnavano i capelli ricciuti e gli scialletti di mussola gialli e rossi, così le finestre luc­ cicanti erano incorniciate dalla vegetazione che s’arram­ picava disordinata sulla casa, ondeggiante boschetto di fagioli e profumata selva di violacciocche rosse e gialle. I fagioli si reggevano alla meglio ora a un manico di ra­ strello o ad un troncone di scopa piantato in terra, ora ad una alabarda arrugginita o spuntone, com’era chia­ mato quando il nonno di Vrenchen l’aveva usato da sergente e che ora la ragazza, per necessità, aveva con­ ficcato tra i fagioli; più in là risalivano allegramente una vecchia scala a pioli appoggiata al muro da tempo immemorabile, scendendo poi giù a lambire le chiare finestrelle, come i riccioli di Vrenchen le lambivano i be­ gli occhi. Quella fattoria, più pittoresca che ospitale, era quasi isolata, senza vicini immediati, e in quel momento non si scorgeva all’intorno anima viva, cosicché Sali potè appoggiarsi tranquillamente ad una vecchia capannuccia messa lì a circa trenta passi e contemplare la tacita dimora desolata. Per un bel pezzo stette lì appoggiato a guardare, anche quando Vrenchen si affacciò alla porta, guardando fisso dinanzi a sé, come se fosse immersa con tutti i suoi pensieri in un dato oggetto. Sali non si mosse e non staccò gli occhi da lei. Quando ella finalmente diresse per caso lo sguardo da quella parte, lo vide. Si fissarono per un tratto, come se contemplassero un’allucinazione, finché Sali si raddrizzò, traversò lentamente la strada e il cortile e si avvicinò a Vrenchen. Quando le fu accanto, essa gli porse le mani mormorando: -Sali! Egli gliele strinse continuando a fissarla. Le lagrime le grondarono dagli occhi, mentre il volto si faceva di por­ pora sotto i suoi sguardi ed essa mormorò :

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— Che cosa vuoi qui? — Soltanto vederti ! — replicò — Non vogliamo tor­ nare buoni amici? — Ed i nostri genitori? — domandò Vrenchen, vol­ gendo il viso rigato di lagrime, perché non aveva le mani libere per nasconderlo. — Abbiamo colpa noi di quello che hanno fatto e di come si sono ridotti? — disse Sali — Forse potremo ripara­ re a tanta sciagura, se ci terremo uniti e ci vorremo bene ! — Non sarà mai possibile ! — rispose Vrenchen con un profondo sospiro — Va’ per la tua via, in nome di Dio, Sali ! — Sei sola? —- domandò lui —- Non posso entrare un momento? — Il babbo è andato in città, a quel che ha detto, per dare una lezione a tuo padre, ma non puoi entrare, altri­ menti forse non ti riesce di andartene poi inosservato come adesso. Per ora non c’è nessuno per strada, te ne prego, vattene! — No, a questo modo non parto ! Da ieri non ho fatto che pensare a te e non me ne vado così; bisogna che noi si discorra insieme, almeno una mezz’ora, o un’ora intera : ci farà bene ! Vrenchen rimase un momento perplessa, poi disse: — Verso sera devo andare là al campo, sai bene quale, perché ormai non ne abbiamo altri, a prendere un po’ di verdura. Son sicura che là non ci sarà nessuno, perché stanno facendo fieno altrove; se vuoi, raggiungimi là, ma ora vattene, e bada che nessuno ti veda! Benché nessuno ormai ci frequenti ne farebbero tal pettegolezzo che anche il babbo verrebbe subito a saperlo. Si lascia­ rono le mani, ma tornarono subito a riafferrarsi, dicendo a una voce: — E tu, come stai? Ma invece di darsi risposta, ripeterono la domanda e la risposta rimase nei loro occhi eloquenti, poiché essi, come sempre gli innamorati, non sapevano più dirigere le loro parole, e alla fine, senza dir altro, mezzo beati e mezzo tristi, se ne andarono rapidi.

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— Verrò presto, vacci pur subito ! — gli gridò dietro Vrenchen. Sali s’awiò infatti senz’altro verso la bella e tacita altura su cui si stendevano i due campi; e il meraviglioso placido sole estivo, le belle nubi bianche vaganti sopra l’ondeggiante campo di grano maturo, il nastro azzurro e lucido del fiume fluente rapido in basso, tutto questo lo riempì per la prima volta dopo tanti anni di felicità e contentezza invece che di corruccio, così che si gettò lungo disteso nella diafana penombra del grano, al limite del terreno inselvatichito di Marti, guardando beato l’az­ zurro. Benché avesse atteso appena un quarto d’ora fino alla venuta di Vrenchen, ed egli non pensasse che alla sua felicità e al nome di questa, tuttavia lei gli apparve insperata e improvvisa, sorridendogli dall’alto, facendolo balzare in piedi spaventato. «Vrenchen!» esclamò, e la fanciulla gli porse con un tacito sorriso ambedue le mani e così uniti procedettero costeggiando il grano mormo­ rante sin giù al fiume e risalirono poi, senza quasi par­ lare. Rifecero quella via due o tre volte, tranquilli, taciti e beati, cosicché la giovane coppia rassomigliava a una costellazione che salisse oltre la colma soleggiata del colle per tramontare dietro di essa, come facevano in passato gli aratri sicuri dei loro padri. Alzando però una volta gli occhi dai fiordalisi azzurri che stavano fissando, scorsero d’un tratto un altro fosco astro, un uomo dal volto bruno, che non capivano di dove fosse sbucato. Certo doveva aver dormito fra il grano; Vrenchen ebbe un sussulto e Sali mormorò spaventato: «Il violinista nero!». Infatti l’individuo che passava davanti a loro reggeva sotto il braccio un violino con l’archetto ed era piuttosto nero ; oltre al cappelluccio di feltro nero e al giacchettino fuligginoso che indossava, anche la sua chioma era nera come pece e così la barba incólta, di colore scuro la faccia e le mani, anche a cagione del suo lavoro, giacché egli esercitava svariati mestieri, soprattutto aggiustava pen­ tole, aiutava a far carbone e a fondere la pece nei boschi, cercando di fare bella figura col suo violino là dove i

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contadini facevano allegria e celebravano una festa. Sali e Vrenchen lo seguirono senza aprir bocca, sperando che sarebbe uscito dal campo e sparito senza voltarsi, e così sembrò che avvenisse, giacché pareva non si fosse accorto di loro. Essi si sentivano d’altronde come ipnotizzati e, non osando lasciare lo stretto sentiero, seguirono il miste­ rioso personaggio involontariamente sino alla fine del terreno, dove il famoso mucchio di pietre ancora rico­ priva il lembo conteso. Una massa di papaveri e di roso­ lacci vi si era insediata, tanto che la montagnetta sem­ brava tutta una fiamma. D’un tratto il violinista nero salì con un salto sulla piramide rossa e si volse a guardare at­ torno. La coppia si fermò osservando imbarazzata l’ap­ parizione scura; passargli accanto non potevano, perché la strada conduceva al villaggio, né volevano voltargli subito le spalle. Egli li fissò e gridò loro: «Vi conosco, siete i figli di quelli che mi hanno rubato questo terreno ! Mi fa piacere vedere a che punto siete arrivati e avrò certo ancora la consolazione che voi sarete morti prima di me ! Guardatemi pure in faccia, passeri miei ! Vi piace il mio naso? ». In realtà aveva un naso spaventoso che spor­ geva dal suo volto bruno e riarso come una squadra, o meglio assomigliava a una sbarra o ad un battacchio gettatogli in mezzo al volto, sotto il quale si stringeva stranamente un rotondo buchetto di bocca di dove usci­ vano incessanti sbuffi, fischi e sibili. Anche il cappelluccio era più che bizzarro, né rotondo né a punta, e di così singolare conformazione, che sembrava mutar foggia ad ogni istante, pur rimanendo immobile. Degli occhi dell’uomo non si vedeva quasi altro che il bianco, poiché le pupille guizzavano sempre rapidissime sal­ tellando di continuo a zig zag come due lepri. «Guar­ datemi pure in faccia,» proseguì «i vostri padri mi co­ noscono bene e tutti in questo villaggio sanno chi io sia, se appena guardano il mio naso. Anni fa fu annunciato che c’erano dei soldi per l’erede di questo campo ; io mi sono fatto avanti venti volte, ma non ho fede di battesimo né documento di cittadinanza, e i miei amici, i senza patria che hanno assistito alla mia nascita, non sono testimoni

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validi, così il termine è trascorso da un pezzo e io ho per­ duto la sommetta con la quale avrei potuto emigrare. Ho scongiurato i vostri padri che volessero attestare di do­ vermi in buona coscienza ritenere il legittimo erede; ma essi mi hanno scacciato dai loro poderi ed ora sono andati loro stessi in malora ! Così va il mondo, e io non ho nulla da ridire, anzi voglio farvi una suonatina, se avete voglia di ballare!». Così dicendo scese giù a balzi dall’altra parte del mucchio di pietre, sparendo verso il villaggio dove a sera venivano portate a casa le messi e la gente era allegra. Quando fu scomparso, la coppia si lasciò cadere turbata e scoraggiata sui sassi ; le mani intrecciate si sciolsero per sorreggere le teste melanconiche: l’appari­ re del suonatore e le sue parole infatti li avevano strappati dal beato oblio in cui si erano persi come due bimbi e ora, mentre sedevano sulla loro dura miseria, s’offuscò ogni serena luce di vita e i loro cuori si fecero pesanti come pietre. D’un tratto Vrenchen ricordò lo strano aspetto e il naso del violinista e dovette di colpo scoppiare a ridere escla­ mando : — Quel poveraccio ha un’aria proprio tanto divertente ! Che naso ! — e una deliziosa, sfavillante allegria irradiò il volto della fanciulla, quasi avesse solo aspettato il mo­ mento in cui il naso del suonatore avrebbe disperso le nu­ vole fosche. Sali guardò Vrenchen e vide la sua allegria, ma essa nel frattempo ne aveva già dimenticato la causa e rideva per conto suo fissando Sali. Questi, sempre più stupefatto, con la bocca ancor ridente, la guardò istin­ tivamente negli occhi come un affamato che avesse scorto una focaccia dolce, ed esclamò. — In nome di Dio, Vrenchen, quanto sei bella ! La ragazza continuò a sorridergli, gorgheggiando ar­ moniosamente una breve scala di risatine che sembra­ vano al povero Sali il canto di un usignolo. — Strega ! dove hai imparato questo? — esclamò — Che arti diaboliche sono queste? — Oh, Dio mio ! — disse la ragazza con voce tenera e prendendogli la mano — Non sono certo arti diaboliche !

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Ma è tanto tempo che avevo voglia di ridere! Spesso, quand’ero sola, ero costretta a ridere di qualcosa, ma non era vera allegria; ora invece avrei una smania di riderti sempre in faccia, appena ti vedo, e ti vorrei anche sempre vedere. Ma tu mi vuoi pure un pochino di bene? — Oh, Vrenchen ! — disse lui fissandola negli occhi con schietta devozione — Non ho ancora mai guardato una ragazza; avevo sempre l’impressione che un giorno ti avrei dovuto voler bene, e anche senza volerlo o saperlo ho sempre avuto te in testa ! — E io avevo te, — disse Vrenchen — e ancor di più, perché tu non mi hai mai guardata e nemmeno sapevi come ero diventata, mentre io di tanto in tanto da lon­ tano, e qualche volta da vicino, di nascosto, ti ho osser­ vato benissimo e ho sempre ben saputo che aspetto avevi ! Ti ricordi quante volte da bambini siamo venuti quassù? Rammenti il nostro carretto? Com’eravamo piccini, e quanti armi sono passati ! Si direbbe che siamo già vecchi. — Quanti anni hai tu ora? — domandò Sali felice e soddisfatto — Credo che siano circa diciassette ! — Diciassette e mezzo ! — replicò Vrenchen — E tu? Ma lo so già, ne avrai presto venti ! — Come lo sai? — domandò Sali. — Se credi che te lo dica ! — Ma non lo vuoi dire? -No! — Proprio no? — No, no ! — Lo devi dire ! — Mi vuoi forse costringere? — Oh, la vedremo ! Sali teneva questi sciocchi discorsi solo per dar da fare alle sue mani e per assediare la bella fanciulla con goffe ca­ rezze che volevano sembrare busse. Anch’essa, difenden­ dosi, tirò in lungo con molta tolleranza la sciocca disputa, che malgrado la sua vacuità sembrava loro dolce e arguta, sinché Sali si mostrò stizzito e audace abbastanza per im­ padronirsi delle mani di Vrenchen e premerla sul letto di papaveri. Così essa ora giaceva ammiccando con gli

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occhi accecati dal sole e la bocca semiaperta lasciava intravedere due file di bianchi dentini scintillanti. Le so­ pracciglia scure si confondevano in una bella linea sottile, e le sue guance erano rosse come porpora e il giovane petto palpitava sotto il gioco delle quattro mani che vi si incontravano in confusa e tenera lotta. Sali non stava in sé dalla gioia di vedersi fra le braccia una cosi bella crea­ tura, sapendola sua, e gli pareva di possedere un gran regno. — Hai ancora tutti i tuoi dentini bianchi ! — disse ri­ dendo — ti ricordi quante volte quel giorno li abbiamo contati? Hai imparato adesso a contare? — Ma questi non sono gli stessi, sciocco ! — disse Vrenchen — quelli son caduti da un pezzo ! Sali nel suo candore voleva riprendere l’antico gioco e contare le perline scintillanti; ma Vrenchen serrò ad un tratto la boccuccia rossa, si rizzò a sedere e cominciò ad in­ trecciare una ghirlanda di papaveri che si pose poi sul capo. La ricca e ampia ghirlanda conferì alla bella bru­ netta una grazia indicibile, e il povero Sali tenne tra le sue braccia quel che molti ricchi avrebbero pagato caro anche per poterlo soltanto vedere dipinto su una parete; Ma d’un tratto Vrenchen balzò in piedi esclamando: « Cielo, che caldo ! E noi stiamo qui come sciocchi a farci arrostire. Vieni, caro! Nascondiamoci nel grano alto!». Si insinuarono con tanta cautela e abilità, da non lasciare quasi traccia del loro passaggio, e tra le spighe dorate si costruirono un angusto carcere che sorpassava le loro teste quando furono seduti, così che non videro più nulla del mondo, fuorché il cielo di un intenso azzurro. S’abbracciarono e si baciarono senza sosta sinché non sentirono un poco di stanchezza, o come la si vuol chia­ mare, quando il baciarsi di due innamorati si esaurisce per un minuto o due e fa intuire, pur fra l’ebbrezza della fioritura, la fugacità di ogni cosa viva. Udirono le allo­ dole che cantavano alte sopra di loro, le cercarono con gli occhi acuti e quando pareva loro di averne scorta una guizzare nel sole simile a una stella che improvvisa si accende ed attraversa il cielo azzurro, si premiavano

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tornando a baciarsi e cercavano poi di ingannarsi l’un l’altra per rubare altri baci. — Guarda, là ne passa una ! — sussurrava Sali, e Vrenchen rispondeva altrettanto piano: — Io la sento, ma non la vedo ! — Ma sì, sta’ attenta, là dove c’è la nuvoletta bianca, un poco più a destra ! E tutti e due guardavano smaniosi, spalancando i bec­ cucci come quagliette nel nido, per tornare a ricongiun­ gersi appena s’immaginavano di aver veduto un’allodola. D’un tratto Vrenchen s’interruppe per dire: — È ormai una cosa intesa, dunque, che ciascuno di noi due ha il suo amoroso, non ti pare? — Sì, — disse Sali — mi pare proprio ! — E ti piace la tua amorosetta? — continuò Vren­ chen — che ragazza è, che cosa puoi dirmene? — È una bella ragazza, — disse Sali — ha due occhi bruni, la bocca rossa, e cammina su due piedi; ma del­ l’animo suo ne so meno che del papa a Roma! E che cosa sapresti dirmi tu del tuo amoroso? — Ha due occhi azzurri, una bocca briccona e due braccia forti e ardite; ma i suoi pensieri mi sono più sconosciuti dell’imperatore di Turchia! — In fondo — ammise Sali — ci conosciamo meno che se non ci fossimo mai veduti prima, tanto ci hanno reso estranei i lunghi anni trascorsi da quando eravamo pic­ cini ! Che cosa è mai avvenuto nella tua testolina, bimba cara? — Oh, non molto ! Volevano spuntare mille pazzie, ma sono sempre stata fra tante disgrazie che non sono riu­ scite a sbucar fuori ! — Povero tesorino ! — disse Sali — Credo però che tu sia una bricconcella, no? — Te ne accorgerai a poco a poco, se mi vuoi proprio bene ! — Quando sarai mia moglie? A queste ultime parole Vrenchen ebbe un lieve tremito e si strinse ancor più fra le braccia di Sali, tornandolo a baciafe a lungo con tenerezza. Le si riempirono gli occhi

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di lagrime e ambedue si fecero tristi d’un tratto ripen­ sando all’ostilità dei genitori e al loro avvenire povero di speranze. Vrenchen sospirò dicendo: «Vieni, bisogna che me ne vada ! » e insieme si alzarono e uscirono dal campo di spighe tenendosi per mano, quando d’un tratto si videro di fronte il padre di Vrenchen. Questi, incon­ trando Sali, aveva cominciato a rimuginare, con l’acu­ tezza meschina della miseria oziosa, che cosa mai il gio­ vanotto andasse a cercare al villaggio e, ripensando alla scenata della vigilia, ritrovò alla fine, sempre scendendo verso la città, la giusta traccia, ispirato dal rancore e dall’inane perfidia senza meta che nutriva in cuore. A poco a poco il sospetto assunse forma precisa, tanto che, giunto a Seldwyla, prese d’un tratto la via del ritor­ no, sino al villaggio, dove invano cercò la figlia in casa o lì presso. Corse con curiosità crescente al loro campo e, vedendo in terra il canestro che serviva di solito a Vrenchen per la verdura, ma non scoprendò la ragazza da nessuna parte, stava appunto spiando tra il grano del campo vicino, nel momento in cui ne sbucarono fuori i due ragazzi spaventati. Questi stettero lì impietriti e anche Marti a tutta pri­ ma rimase interdetto a fissarli con sguardi biechi, livido e plumbeo; poi cominciò a inveire spaventosamente, ge­ sticolando, ingiuriando e tentando alla fine di serrare il ragazzo alla gola; Sali gli sfuggì, arretrò di qualche passo esterrefatto da quel furore, ma balzò poi subito avanti quando vide che il vecchio afferrava invece la fanciulla tremante e le dava uno schiaffo, facendo cadere a terra la ghirlanda rossa e attorcigliandosi i suoi capelli attorno alla mano, per trascinarsela dietro continuando a malme­ narla. Senza riflettere, Sali raccolse una pietra e colpì il vecchio alla testa, un po’ per difendere Vrenchen e un po’ per l’ira improvvisa. Marti vacillò un istante, poi s’abbattè privo di sensi sul cumulo di pietre, trascinan­ dosi dietro la figlia che urlava da far pietà. Sali le liberò i riccioli dalla mano del caduto e la rimise in piedi, poi rimase lì come una statua, smarrito e intontito. La ra­ gazza, vedendo il padre disteso e come morto, si passò

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le mani sul volto stralunato, esclamando con un brivido : — Lo hai ammazzato? — Sali annuì in silenzio e Vrenchen urlò : — Oh Dio, Dio mio ! È mio padre ! Pover’uomo ! — e si gettò come pazza sul suo corpo, ne sollevò la testa, dal­ la quale però non usciva sangue. La lasciò ricadere, men­ tre Sali si inginocchiava dall’altra parte, e ambedue, in un silenzio sepolcrale e con le mani paralizzate, rimasero a fissare quel volto inanimato. Tanto per dir qualcosa, Sali alla fine balbettò: — Ma non è poi detto che sia già morto ! Vrenchen strappò un petalo da un rosolaccio, l’appog­ giò sulle labbra livide e vide che si muoveva lievemente. — Respira ancora ! — esclamò — corri dunque giù al villaggio a chiedere aiuto. Quando Sali fece per correr via, lo trattenne ancora per la mano richiamandolo : — Tu però non tornare qui, e non dire come è acca­ duto ; tacerò anch’io, da me non sapranno nulla ! — e il suo viso, rivolto verso quello del povero ragazzo interdetto, era inondato di lagrime di dolore. — Vieni, baciami ancora una volta ! No, vattene, scap­ pa ! È finita, è finita per sempre, noi non potremo mai es­ sere uniti ! — Lo mandò via ed egli corse come un automa verso il villaggio. Incontrò un ragazzino che non lo cono­ sceva, e a quello diede l’incarico di chiamare gente, descrivendogli esattamente dove dovessero portare soc­ corso. Poi s’allontanò disperato, rimanendo per tutta la notte a vagabondare nei boschi. L’indomani, celandosi fra i campi, cercò di sapere che cosa fosse accaduto e da contadini mattinieri che ciarlavano fra loro apprese che Marti era ancora in vita, ma fuor di conoscenza, e che tutti trovavano strana la vicenda, poiché nessuno sa­ peva che cosa gli fosse capitato. Allora tornò in città e si rintanò nella cupa miseria della sua casa.

Vrenchen mantenne la parola, nessuno le cavò altro di bocca, se non che aveva trovato il padre in quello stato, e poiché questi il giorno seguente riprese a muoversi e a

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respirare meglio, sia pure senza coscienza, e non c’era inoltre alcuno a far denuncia, si pensò che fosse caduto ubriaco sul mucchio di pietre e non ci si occupò della cosa. Vrenchen lo curò, non allontanandosi se non per andare a prender le medicine dal dottore e per prepararsi una minestra alla meglio; essa viveva ormai di nulla, benché dovesse vegliare notte e giorno senza che nessuno l’aiutasse. Passarono quasi sei settimane prima che il ma­ lato ritornasse gradatamente in sé, benché già prima fosse abbastanza vispo nel suo letto e mangiasse normal­ mente. Non ritrovò però la sua antica ragione, fu anzi sempre più chiaro, quanto più parlava, che era di­ venuto scemo, e nel modo più strano. Rammentava l’accaduto molto vagamente, come qualcosa di alle­ gro che non lo riguardasse più, rideva spesso come un pazzo ed era di ottimo umore. Ancora costretto a letto, borbottava idee assurde e bizzarre, faceva smorfie, si ti­ rava il berretto di lana néra sugli occhi e poi sul naso, il quale sporgeva come una bara sotto il drappo funebre. La povera Vrenchen, pallida ed esausta, lo ascoltava pazientemente, lagrimando sulla sua imbecillità, che l’an­ gosciava ancor più della cattiveria di un tempo ; ma quando il vecchio talvolta si comportava in modo troppo ridicolo, essa irresistibilmente, malgrado le sue sofferenze, scoppiava in una risata, giacché la sua indole compressa era sempre pronta a scattare verso la gioia, come un arco teso, ripiombando però poi in ancor più profonda tristez­ za. Quando il vecchio fu in grado di alzarsi, non si sape­ va come prenderlo; non faceva che sciocchezze: rideva e gironzolava attorno alla casa, si sedeva al sole tiran­ do fuori la lingua o tenendo lunghe concioni ai fagioli. In quel periodo finirono anche i residui del suo an­ tico possesso e il disordine giunse al punto che anche la casa e l’ultimo campo, da tempo ipotecati, andarono in vendita giudiziaria. Il contadino che aveva comprato i due campi di Manz approfittò della totale rovina e della malattia di Marti per condurre a fine con rapida deci­ sione l’antico processo circa il triangolo dei sassi e la scon­ fitta determinò l’estrema rovina di Marti, che intanto,



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scemo come era, non si rendeva più conto di nulla. Tutto andò all’asta e Marti venne internato dal Comune a spese pubbliche in un ricovero per simili disgraziati. Quell’isti­ tuto si trovava nel capoluogo del cantone ; il povero men­ tecatto, sano di corpo e sempre affamato, venne ben rim­ pinzato ancora una volta, poi caricato su un carretto tirato da buoi, che un povero contadino conduceva in città per vendervi alcuni sacchi di patate, e Vrenchen sedette accanto al padre sul carro, per accompagnarlo nella sua ultima spedizione verso la triste sepoltura dei vivi. Fu un viaggio davvero amaro e doloroso, però Vren­ chen ebbe sempre cura del padre, non lasciandogli man­ car nulla, senza guardarsi attorno e non spazientendosi anche se la gente, resa attenta dai lazzi dell’infelice, inse­ guiva spesso il carretto per dove passavano. Alla fine giun­ sero in città nell’ampio edificio dove i lunghi corridoi, i va­ sti cortili e un bel giardino erano popolati da una quantità di simili sciagurati, tutti vestiti di giubbe bianche e con dei resistenti berrettini di cuoio sulle teste dure. Anche Marti, ancora in presenza di Vrenchen, venne rivestito di quella uniforme e se ne compiacque come un bambino, metten­ dosi a ballare e a canterellare. «Salute a voi, egregi si­ gnori!» gridò ai suoi nuovi compagni «avete un bel pa­ lazzo ! Toma a casa, mia piccola Vrenchen, di’ alla mam­ ma che io non ci torno più, qui sto troppo bene ! Evviva ! C’è un riccio nel boschetto, l’ho sentito abbaiare ! Bimba mia, non baciare mai un vecchio, bacia soltanto i bei giovanotti ! Tutte le acque vanno nel Reno, gli occhi az­ zurri io voglio almeno! Te ne vai, piccina? Sembri la morte in piedi, mentre io sto tanto bene ! La volpe grida per la campagna oho, oho ! Il cuor risponde aha, aha ! ». Un guardiano gli ordinò di tacere e lo condusse ad un facile lavoro, mentre Vrenchen usciva in cerca del car­ retto. Vi si sedette, tolse di tasca un pezzo di pane e si mise a mangiarlo, poi si addormentò e dormì finché venne il contadino e con lui rientrò nel villaggio. La ragazza s’av­ viò verso la casa dove era nata e dove aveva il permesso di stare ancora due giorni e vi fu per la prima volta in vita sua perfettamente sola. Accese il fuoco per prepararsi un

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rimasuglio di caffè che ancora possedeva e sedette al fo­ colare, perché non si reggeva in piedi. Aveva una gran nostalgia di vedere un’unica volta ancora Sali, e pensava a lui intensamente, ma il dolore e le preoccupazioni ama­ reggiavano quella nostalgia, che a sua volta inacerbiva le sue pene. Se ne stava lì cosi con la testa fra le mani, quando qualcuno si affacciò alla porta aperta. — Sali ! — gridò Vrenchen alzando gli occhi e gettandoglisi fra le braccia; poi ambedue si guardarono spa­ ventati esclamando insieme: — Che brutta cera ! Sali infatti non era meno pallido e consunto di Vren­ chen. Questa, di tutto dimentica, se lo fece sedere accanto al focolare, dicendogli: — Sei stato malato oppure hai avuto anche tu tanti dispiaceri? Sali rispose: — No, non sono malato, se non per la nostalgia di te ! Da noi le cose vanno a gonfie vele ; il babbo ha ora clien­ tela e ricovero di canaglie forestiere e, a quel che vedo, credo sia diventato un manutengolo. Perciò adesso nella nostra taverna regna l’abbondanza, finché durerà e finché non finirà in una catastrofe. La mamma, per la trista cupi­ digia di veder qualche cosa in casa, dà il suo aiuto, e crede di rendere la situazione accettabile con un po’ di sorveglianza e di ordine ! Io non sono interpellato e nep­ pure me ne occupo, perché non faccio che pensare a te giorno e notte. Dato che vengono molti vagabondi, ab­ biamo avuto ogni giorno notizia di quel che accadeva in casa vostra e mio padre se ne compiaceva come un bam­ bino. Abbiamo anche saputo che oggi hanno portato tuo padre all’ospizio e ho pensato che saresti rimasta sola e sono venuto per vederti ! Vrenchen si sfogò allora con lui di tutto quanto l’op­ primeva ed aveva sofferto, ma lo fece con parole serene e confidenziali, quasi descrivesse una grande fortuna, tanto si sentiva felice di avere Sali al suo fianco. Nel frat­ tempo riuscì a preparare una ciotola di caffè caldo, co­ stringendo l’amato a dividerlo con lei.



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— Dopodomani dunque dovrai andartene? — disse Sali — ma che cosa sarà di te, in nome del cielo? — Non lo so, — disse Vrenchen — dovrò andare a ser­ vizio per il mondo ! Ma non ci resterò senza di te, eppure non potrò mai averti, anche se non ci fosse tutto il resto, perché tu hai colpito mio padre e gli hai tolto la ragione ! Questo sarebbe sempre un cattivo fondamento per il no­ stro matrimonio e noi non potremmo mai essere sereni ! Sali sospirò e disse : — Anch’io volevo già tante volte farmi soldato o pren­ der servizio come garzone in un paese lontano, ma sinché tu sei qui non riesco ad andarmene, e dopo la lontananza mi consumerà. Credo che la disgrazia renda il mio amore per te ancor più forte e doloroso, cosicché si tratta di vita o di morte ! Non avevo mai conosciuto sentimenti simili ! Vrenchen lo fissava sorridendo amorosamente ; s’appog­ giarono con le spalle alla parete e non parlarono più, ab­ bandonandosi silenziosi al senso beato, superiore ad ogni pena, di volersi bene con profonda serietà e di sapersi ri­ cambiati. S’addormentarono cosi pacificamente su quel­ l’incomodo focolare, senza un cuscino o piumini, e dormi­ rono con la calma dolcezza di due bambini in culla. Già spuntava l’alba allorché Sali si destò per primo e svegliò Vrenchen quanto più dolcemente potè, ma quella, an­ cora intontita, gli ricadeva addosso, non riuscendo a uscire dal sonno. Egli allora la baciò forte sulla bocca e Vrenchen balzò su, spalancò gli occhi e, scorgendo Sali, esclamò : — Buon Dio ! Stavo proprio sognando di te ! Sognavo che ballavamo insieme alle nostre nozze, per ore e ore ! Ed eravamo tanto felici, ben vestiti, e non ci mancava nulla ! Ma finalmente volevamo baciarci e ne avevamo una gran sete, e invece c’era sempre qualcosa che ci di­ videva ed eri invece tu, che mi disturbavi e mi trattenevi. Ma che bella cosa averti qui ! Gli cadde fra le braccia appassionatamente e lo baciò come se non dovesse mai più finire. — E tu, che cosa hai sognato? — domandò accarezzan­ dogli le guance e il mento.

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— Ho sognato di camminare per una lunga strada sen­ za fine, attraverso un bosco, e tu mi precedevi sempre da lontano; di tanto in tanto ti voltavi a guardarmi, mi fa­ cevi cenno, ridevi e allora mi pareva di essere in cielo. Ecco tutto ! Si fecero sulla porta della cucina rimasta spalancata, che dava immediatamente nel cortile e dovettero ridere guar­ dandosi in volto. Infatti la guancia destra di Vrenchen e la sinistra di Sali, appoggiate l’una all’altra’durante il sonno, erano rimaste molto arrossate dalla pressione, men­ tre il freddo della notte aveva aumentato il pallore dell’al­ tra metà. Stropicciarono teneramente l’uno all’altro la guancia fredda e pallida perché ridiventasse rosea; la fresca aria del mattino, la calma rugiadosa distesa su tutto il paesaggio, le prime luci rosee, li rendevano felici e dimentichi di sé, e soprattutto Vrenchen sembrava per­ vasa da un lieto spirito di spensieratezza. — Domani sera dovrò dunque lasciare questa casa — disse — e cercare un altro asilo. Prima però vorrei essere per una volta, per una volta sola, molto allegra, e proprio con te; mi piacerebbe ballare in qualche posto a lungo e di gusto, perché il ballo del sogno mi è rimasto ancora in mente ! — Ad ogni modo voglio star con te e vedere come riuscirai a collocarti — disse Sali — e anch’io ballerei volentieri con te, cara piccina, ma dove? — Domani c’è festa in due paesetti non lontani di qui, — rispose Vrenchen. — dove ci conoscono e ci os­ servano meno: ti aspetterò fuori, lungo il fiume, e poi andremo dove vorremo a divertirci, una volta, una volta sola! Ma, ahimè, noi non abbiamo soldi! — aggiunse d’un tratto con tristezza — e dobbiamo rinunciare ! — Lascia fare, — disse Sali — porterò io qualche cosa ! — Ma non di tuo padre, non ... roba rubata? — No, sta’ pur tranquilla ! Ho conservato il mio oro­ logio d’argento e lo venderò. — Non posso sconsigliartelo — disse Vrenchen arros­ sendo — perché credo che ne morirei, se domani non potessi ballare con te.

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— Il meglio sarebbe che potessimo morire insieme tutti e due ! — disse Sali. Si abbracciarono con dolorosa melan­ conia congedandosi, ma nell’andarsene si sorrisero dolce­ mente nella sicura speranza deU’indomani. — Ma quando verrai? — gli gridò ancora Vrenchen. — Al più tardi alle undici, — replicò lui — faremo insieme un buon pranzetto a mezzogiorno ! — Benissimo ! Vieni piuttosto già alle dieci e mezzo ! — Ma quando Sali già s’era avviato, ella lo richiamò ancora una volta e gli mostrò d’un tratto una faccia sconvolta e disperata. — Non se ne fa nulla ! — disse piangendo amaramente — non ho più le scarpe della domenica. Già ieri ho do­ vuto mettere queste scarpacce per venire in città ! Non posso trovarne altre ! Sali disse sconcertato : — Non hai scarpe? — Dovrai adattarti a venire con queste ! — Ma no, con queste non posso ballare ! — Allora ne compreremo un paio ! — Dove? Con che cosa? — A Seldwyla ce ne sono anche troppi di negozi di scarpe e in meno di due ore troverò del denaro. — Ma io non posso girare con te a Seldwyla, e poi il denaro non basterà per comperare anche le scarpe ! — Bisogna che basti ! Voglio comprare le scarpe e por­ tartele domattina! — Scioccone, se le compri tu non andranno bene ! — Dammi allora una scarpa vecchia o, meglio an­ cora, ti prenderò io le misure : non è poi una cosa tanto difficile ! — Prender le misure? Davvero, a questo non ci avevo pensato ! Vieni, vieni, ti cercherò una cordicella ! — Se­ dette di nuovo sul focolare, sollevò un poco la sottana e si tolse la scarpa rimanendo con la calza bianca che aveva per il viaggio del giorno prima. Sali si inginocchiò e prese come potè le misure, circondando il grazioso pie­ dino con lo spago per il largo e per il lungo e facendovi poi accuratamente dei nodi.

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— Bravo calzolaio ! — disse Vrenchen chinandosi su di lui rossa in volto e gentile. Anche Sali però arrossì e tenne tra le sue mani quel piedino più a lungo del necessario, sinché Vrenchen, sempre più imbarazzata, lo ritrasse e tornò ad abbracciare e baciare impetuosamente il confuso amico, ordinandogli però poi di partire. Appena giunto in città Sali portò l’orologio da un orologiaio che gli diede sei o sette fiorini, e anche per la catena d’argento ottenne qualche fiorino, così che si cre­ dette un riccone, non avendo mai posseduto da quando era nato tanto denaro in una volta. Fosse solo passata questa giornata e venuta già la domenica, pensava, per comprarsi con quei soldi tutta la felicità che si ripromet­ teva ! Se anche dopodomani dovesse essere un giorno fosco e pieno di incognite, il divertimento agognato di domani non ne avrebbe tratto se non più raro ed alto splendore. Fece passare piacevolmente il tempo cercando un paio di scarpette per Vrenchen, l’occupazione più allegra che mai avesse avuto. Andò da un negozio all’altro, facendosi mo­ strare tutte le scarpe da donna esistenti, e alla fine ne comprò un paio molto leggero ed elegante, bello come Vrenchen non ne aveva certo mai avuti. Nascose le scarpe sotto il farsetto e non se ne staccò per il resto del giorno, anzi la sera le mise sotto il guanciale. Avendo visto la ragazza quella mattina stessa e dovendola rivedere all’in­ domani, dormì sodo e tranquillo, ma era già sveglio all’al­ ba e cominciò a mettere in ordine e a ripulire come po­ teva le sue modeste cose della domenica. Sua madre se ne accorse e gli domandò stupita che progetti avesse, dato che da un pezzo non si era vestito con tanta cura. Rispose che intendeva andare a fare un giro in campagna; per non ammalarsi in quella casa. — Da un po’ di tempo in qua fai una vita strana ! — borbottò il padre — giri attorno con mistero ! — Lascialo andare, — disse invece la madre — forse gli farà bene, fa spavento a vedersi la sua brutta cera! — Hai denaro per una gita? E come ne hai? — disse il vecchio. — Non ne ho bisogno ! — disse Sali.

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— Eccoti un fiorino ! — replicò il padre gettandogli la moneta — Dovresti andare all’osteria del nostro paese e mangiare là, perché non credano che noi si sia troppo pitocchi. — Non voglio andare in paese e non ho bisogno del fio­ rino, tenetevelo pure! — È come se lo avessi avuto, sarebbe un peccato dar­ telo, testa dura che sei ! — esclamò Manz rimettendo in tasca il suo fiorino. Sua moglie invece, che non sapeva perché, ma provava quel giorno una certa melanconia e commozione di fronte al figliolo, gli portò un gran fazzo­ letto da collo di seta di Milano, nero con l’orlo rosso, che lei aveva rare volte portato e che al figliolo era piaciuto, Sali se lo mise attorno al collo, lasciando svolazzare i due lunghi capi, e in un accesso di vanità contadinesca alzò anche per la prima volta sino agli orecchi, con serietà da uomo, il collo della camicia, che soleva invece portare rovesciato. Infine, con le scarpette nella tasca interna della giacca, si avviò che erano ancora le sette del mattino. La­ sciando la casa, fu còlto dallo strano bisogno di dar la mano al padre e alla madre e giunto in istrada si volse ancora una volta a guardare. — Direi quasi — Osservò Manz — che il ragazzo corra dietro a qualche donna: ci mancherebbe anche quello! La moglie osservò: — Volesse Iddio ! Farebbe forse la sua fortuna ! Ne avrebbe bisogno il povero figliolo ! — Si capisce ! — schernì il marito — sicuro ! Sarà una fortuna straordinaria, se ha poi la disgrazia di incap­ pare in una lingua di vipera ! Ne avrebbe bisogno il po­ vero figliolo! Si capisce! Sali diresse dapprima i suoi passi verso il fiume ove si era dato ritrovo con Vrenchen; ma per via mutò idea e andò diritto al villaggio, per trovarla a casa, sembrandogli troppo lungo aspettare fino alle dieci e mezzo. “Che cosa ci importa della gente!” pensò. “Nessuno ci aiuta e io sono un ragazzo onesto che non ha paura di nessuno!” Così arrivò inaspettato nella stanza di Vrenchen e inaspet­ tatamente la trovò vestita di tutto punto in attesa dell’ora

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della partenza, priva soltanto delle scarpe. Sali rimase a bocca aperta in mezzo alla stanza scorgendo la ragazza, tanto bella gli apparve. Aveva un abito semplicissimo di lino di colore azzurro, ma era fresco e pulito e le fasciava molto bene il corpo snello. Su di esso portava un collo a scialle di mussolina candida ed era questo tutto il suo lusso. I capelli bruni e ricciuti erano disposti con gran cura, i riccioli, non disordinati e selvaggi come al solito, incor­ niciavano il volto con finezza e grazia; non essendo uscita di casa da molte settimane, l’incarnato di Vrenchen s’era fatto più pallido e trasparente, anche per i dispiaceri, ma a quella trasparenza l’amore e la gioia aggiungevano ora pennellate rosee ; e sul petto le spiccava un mazzolino di rose, di rosmarino e di splendidi astri. Sedeva accanto alla finestra aperta, respirando con calma soave la fre­ sca e splendente aria mattutina; quando vide apparire Sali, gli tese le belle braccia, nude sino al gomito, esclamando: «Hai fatto proprio bene a venir già ora e sin qui ! Mi hai portato le scarpe? Davvero? Non mi alzo finché non le ho messe ! ». Egli trasse di tasca il so­ spirato dono e lo porse alla bella fanciulla desiderosa che, scagliando lontano le sue vecchie scarpe, infilò le nuove che le stavano a pennello. Solo allora s’alzò dalla sedia, passeggiando beata più volte in su e in giù con le scar-* pette nuove. Sollevava un poco la lunga veste azzurra e ammirava i bei legacci di lana rossa che adornavano le calzature, mentre Sali non cessava di contemplare la de­ liziosa figurina, che gioiosamente gli si agitava dinanzi. «Hai visto i miei fiori?» disse Vrenchen «Non ho fatto un bel mazzolino? Devi sapere che sono proprio gli ultimi fiori trovati in questo deserto. Qui una rosel­ lina, là un astro, ma messi così insieme nessuno si accor­ gerebbe che sono raccolti fra tanta rovina ! Ora però è proprio tempo che io me ne vada; non c’è più un fiorelli­ no in giardino e anche la casa è vuota!». Sali si guardò attorno e solo allora s’accorse che tutti i mobili e gli arredi erano stati portati via. — Povera piccina, — disse — ti hanno già preso tutto? — Ieri — disse lei — sono venuti a ritirare tutto quan-

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to era trasportabile e m’hanno lasciato a malapena il letto. Però l’ho venduto subito anche quello e ho anch’io del denaro, guarda ! — Trasse dalla tasca dell’abito alcuni talleri lucenti e glieli mostrò. Continuò poi: — L’ufficio di tutela ha mandato qui uno a dirmi che con questi soldi andassi a cercare un servizio in città e che partissi oggi stesso ! — Ma qui non c’è proprio più niente ! — disse Sali dopo un’occhiata alla cucina — Non vedo né legna, né una padellina, né una posata ! Non hai fatto colazione? — No ! — disse Vrenchen — avrei potuto andare a prendere qualcosa, ma ho preferito restare con la fame per mangiare poi molto insieme noi due ; ci penso con tanto piacere, non puoi immaginarti quanto ne sono felice ! — Se potessi soltanto toccarti, — disse Sali — ti farei vedere io quel che ho in cuore, mia bella ! — Fai bene a stare lontano, guasteresti tutto il mio lusso, e se avremo riguardo per questi fiori, sarà meglio anche per la mia povera testa, che tu di solito metti tanto in disordine ! — Vieni dunque, andiamocene ! — Dobbiamo ancora aspettare che vengano a pren­ dere il letto, poi chiudo la casa vuota e non ci ritorno più ! Lascio il mio fagottino in deposito alla donna che ha comprato il letto. Sedettero così l’uno di fronte all’altra in attesa, e presto venne la contadina, un donnone tarchiato dalla voce stri­ dula, accompagnata da un garzone per portare la lettiera. Scorgendo l’innamorato di Vrenchen e la ragazza così tutta in ghingheri, la donna spalancò la bocca e gli occhi, inarcò le mani sui fianchi e gridò: — Ma guarda un po’ Vrenchen ! Non perdi tempo ! Hai visite e sei ornata come una principessa ! — Non è vero? — disse Vrenchen con un sorriso gio­ viale — e sapete chi è? — Credo bene che sia Sali Manz ! Monti e valli non si incontrano mai, si suol dire, ma gli uomini sempre ! Sta’ però attenta, ragazza, e pensa come sono finiti i vostri genitori !

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— Oh, le cose sono mutate e tutto è ormai accomo­ dato, — replicò Vrenchen sorridendo gentile e cordiale, quasi con condiscendenza — vedete, Sali mi sposa ! — Ti sposa? Che cosa mi racconti ! — Sì, è un riccone, ha vinto centomila fiorini alla lot­ teria ! Pensate un po’, cara donna ! Quella fece un salto, giunse le mani atterrita gridando : — Cento . . . centomila fiorini ! — Centomila fiorini !— confermò Vrenchen con gran serietà. — Signore Iddio ! Ma non è vero, tu mi racconti delle frottole, bimba mia! — Ebbene, credete quel che vi pare ! — Ma se è vero e se tu lo sposi, che cosa ne farete di tanto denaro? Vuoi proprio far la signora? — Si capisce, fra tre settimane celebreremo le nozze ! — Vattene, sei proprio un’imbrogliona di prima forza ! — Ha già comprato la più bella casa di Seldwyla, con un gran giardino e un vigneto; dovrete venirmi a trovare, quando saremo a posto, ci conto! — Certo, streghetta del diavolo ! — Vedrete come è bello ! Vi farò un ottimo caffè e vi offrirò la focaccia d’uova, con burro e miele ! — Oh, bricconcella, fa’ pur conto che ci verrò ! — escla­ mò la donna con faccia ingorda e con l’acquolina in bocca. — Ma se verrete verso mezzogiorno, stanca del mer­ cato, troverete sempre pronto un buon brodo di carne e un bicchiere di vino ! — Mi farà bene ! — E non mancheranno dolci o panini bianchi per i vostri piccini a casa ! — Mi sento già un languore ! — Un bel fazzolettino o un ritaglio di seta o un nastro antico per le sottane o uno scampolo per un grembiule nuovo lo troveremo pure, andando a frugare nelle mie casse, in un’ora di confidenze ! La donna girò sui tacchi, agitando con piccoli strilli di gioia le sottane. — E se vostro marito volesse concludere un affare van-

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taggioso di bestiame o di terreni, ma mancasse di denaro, sapete dove chiedere aiuto. Il mio caro Sali sarà ben lieto di collocare un po’ di capitale in modo sicuro e piacevole ! Anch’io del resto avrò sempre qualche risparmio per aiu­ tare un’amica fidata! La donna perdette del tutto la testa e disse com­ mossa: — L’ho sempre proclamato che tu sei una brava e bella e buona bambina ! Che Dio sempre te ne rimuneri e ti benedica in eterno per quello che vuoi fare per me ! — In compenso però desidero che anche voi non vi dimentichiate di me ! — Sempre lo potrai pretendere ! — Dovrete in ogni caso, prima di andare al mercato, mostrare a me la vostra merce, sia frutta che patate o ver­ dura, in modo che io sia certa di avere una contadina sulla quale posso contare ! Quel che un altro paga per la merce, lo pagherò io pure con piacere, mi conoscete ! Non c’è nulla di più bello che quando una cittadina ricca, co­ stretta a starsene tra le sue mura e necessitando di tante cose, stringe una buona e durevole amicizia con un’onesta contadina, pratica di tutte le cose utili e importanti ! Ne derivano vantaggi in cento casi, nelle disgrazie e nelle for­ tune, nei battesimi e alle nozze, quando i bambini vanno a scuola o alla confermazione; quando cominciano a im­ parare un mestiere o debbono lasciare il paese ! Anche in tempi di cattivo raccolto, di inondazioni, di incendi o grandinate, che Dio ce ne guardi ! — Che Dio ce ne guardi ! — ripetè la buona donna sin­ ghiozzando e asciugandosi gli occhi col grembiule. — Che sposina assennata e intelligente sei mai, certo avrai fortuna, altrimenti non ci sarebbe giustizia a questo mondo ! Sei bella, linda, saggia e previdente, laboriosa e abile in ogni cosa ! Non ce n’è una più fine e migliore di te, dentro e fuori del villaggio, e chi ti possiede deve credere di essere in paradiso, altrimenti è un briccone che l’avrà a che fare con me. Bada, Sali ! Sii ben grazioso con la mia piccola Vrenchen, se no te la farò vedere io, tu che hai la fortuna di cogliere una rosellina pari a questa !

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— Ecco, prendete anche il mio fagotto come mi avete promesso, sino a quando lo farò ritirare ! Ma forse verrò io stessa a prenderlo in carrozza, se non avete nulla in contrario. Non mi rifiuterete allora una tazza di latte: ed una bella torta con le mandorle da mangiarci insieme la porterò io ! — Benedetta figliola ! Dammi il fagottino ! Vrenchen caricò, sopra il materasso ripiegato che la donna già reggeva in capo, un sacco bislungo nel quale aveva ficcato tutta la sua poca roba, così che quella se ne stette lì con una torre oscillante in testa. — Mi par che sia troppo pesante tutto in una volta, — disse — non potrei fare due viaggi? — No, no ! Noi dobbiamo andarcene subito, perché ci aspetta un lungo cammino, visite a parenti di riguardo che si sono fatti avanti ora che siamo ricchi ! Sapete come vanno le cose! — Lo so benissimo ! Che Dio vi protegga, e pensa a me nella tua fortuna ! La contadina s’allontanò con la sua torre di fagotti, serbando a fatica l’equilibrio, seguita dal garzone, il quale si era infilato nella lettiera, un tempo dipinta a co­ lori, della bella Vrenchen, puntando il capo contro il bal­ dacchino disseminato di stelle impallidite, e afferrando, nuovo Sansone, le due colonne anteriori graziosamente scolpite. Mentre Vrenchen, appoggiata a Sali, seguiva con lo sguardo il piccolo corteo, osservando quel tempio ondeggiante fra gli orti, gli disse: — Si potrebbe fame una bella capannetta o una per­ gola, piantandolo in mezzo a un giardino, con dentro un piccolo tavolo e una panchina e seminando tutto all’in­ torno vilucchi ! Non ti piacerebbe starci dentro con me, Sali? — Certo, piccina! Specialmente se i vilucchi fossero cresciuti ben fitti! — Ma perché stiamo ancora qui? — disse Vrenchen — Niente più ci trattiene ! — Vieni allora, e chiudiamo la casa ! A chi vuoi dare la chiave?

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La fanciulla si guardò attorno. — Vogliamo appenderla qui a questa vecchia alabarda? è in questa casa, come ho sentito spesso dire dal babbo, da più di cent’anni, e ora resta qui a far l’ultima guardia ! Appesero la chiave arrugginita a un ricciolo arrugginito della vecchia arma avviluppata dai fagioli, e se ne anda­ rono. Vrenchen però impallidì e per qualche momento si coprì gli occhi, così che Sali dovette guidarla sin che furono lontani d’un buon tratto. Non si voltò mai a guar­ dare, ma chiese: — Dove andiamo ora? — Prima ce la godremo in campagna — replicò Sali — tutto il giorno dove ci piacerà, senza alcuna fretta, e verso sera troveremo bene un posto dove si balla ! — Bene ! — disse Vrenchen — staremo insieme tutto il giorno andando dove ci accomoda. Ora però mi sento molto debole, andremo subito al paese vicino a bere un caffè! — Si capisce ! — disse Sali — Usciamo soltanto alla svelta da questo villaggio ! Ben presto furono in aperta campagna e traversarono in silenzio i bei prati l’uno accanto all’altro; era una limpida mattina domenicale di settembre, non una nuvola era nel cielo, le cime dei monti e i boschi erano ravvolti in una tenue nebbia che rendeva il paesaggio più misterioso e solenne, e da ogni parte giungeva la voce dei campanili, qui il suono armonicamente profondo di una ricca bor­ gata, là il tenue chiacchierio della campanella d’una po­ vera cappelletta. La coppia innamorata dimenticò quel che l’attendeva alla fine della giornata per abbandonarsi al gioioso senso di inespresso sollievo nel godere la dome­ nica ben vestiti e liberi al pari di due persone felici che le­ gittimamente si appartengono. Ogni suono che rompeva il silenzio festivo e ogni richiamo remoto destavano un’e­ co commossa nell’anima loro; l’amore infatti è una cam­ pana che fa riecheggiare ciò che vi è di più lontano e indif­ ferente e lo trasforma in una particolare armonia. Benché avessero fame, la mezz’ora di cammino sino al villaggio più prossimo parve loro un salto, ed entrarono esitando

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nella locanda all’ingresso del paese. Sali ordinò una buo­ na colazione e, mentre la preparavano, essi osservarono in perfetto silenzio l’andamento ordinato e gentile del grande e lindo locale. L’oste era infatti in pari tempo fornaio, e il pane appena portatovi in forme di ogni tipo in ceste sovrapposte profumava deliziosamente la casa in­ tera, poiché dopo la chiesa la gente soleva venire a pren­ dere il pane bianco e a bere un bicchierino. La padrona, una donna graziosa e pulita, stava adornando tranquilla e gentile i suoi bambini per la festa, ed essi, via via che la mamma li lasciava andare, si accostavano confidenzial­ mente a Vrenchen per mostrarle le loro eleganze e raccon­ tarle le loro gioie. Quando arrivò finalmente il caffè forte e profumato, i due poverini si accostarono timidi alla ta­ vola come fossero invitati. Ma presto ripresero animo e cominciarono a parlottare fra loro, modesti ma beati. Ah, come gustava Vrenchen, riprendendosi, il buon caffè, la panna densa, i panini ancor caldi, il bel burro e il miele, la focaccia e tutte le altre delizie loro servite ! Le piacevano perché intanto poteva guardarsi il suo Sali, e mangiava con l’entusiasmo di chi non abbia mangiato da un anno. Intanto si rallegrava pure della fine porcellana, dei cuc­ chiaini d’argento, giacché la padrona li doveva aver giu­ dicati buoni clienti da trattare con riguardo, e di tanto in tanto si sedeva a chiacchierare vicino a loro, che risponde­ vano giudiziosamente, con sua soddisfazione. Vrenchen era solo incerta, non sapendo se avrebbe preferito tornare all’aperto e vagabondare fra prati e boschi col suo diletto, oppure se le sarebbe piaciuto di più rimanersene in quell’ospitale ambiente per sognare almeno poche ore una sua casa comoda e agiata. Sali le facilitò la scelta invitandola rispettosamente e con una certa premura alla partenza, come se avessero in vista una meta precisa e importante. Padrone e padrona li accompagnarono sin fuori della porta, congedandosi molto cordialmente per il loro buon contegno, malgrado l’evidente povertà, e i due giovani salutarono con le migliori maniere del mondo, allonta­ nandosi tranquilli e composti. Ma anche quando furono di nuovo all’aperto, e furono penetrati in una vastissima

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querceta, continuarono a camminare a lato, sprofondati in sogni gradevoli, come non provenissero da famiglie ro­ vinate, piene di litigi e di miseria, ma fossero figlioli di brava gente, ricchi di liete speranze. Vrenchen chinò la testolina meditabonda sul petto ornato di fiori e, tenendo le mani accuratamente appoggiate alla veste, procedeva sul terreno umido e liscio del bosco, mentre Sali cammi­ nava agile ed eretto, rapido e pensieroso, con gli occhi ri­ volti ai saldi tronchi, quasi fosse un contadino intento a scegliere gli alberi più convenienti da abbattere. Alla fine si ridestarono dai vani sogni, si guardarono in volto e si accorsero che serbavano ancora l’atteggiamento con cui avevano lasciato la locanda, del che arrossirono abbas­ sando melanconici il capo. Ma la giovinezza è spen­ sierata, il bosco era verde, il cielo azzurro, essi erano soli nell’ampio mondo e ben presto s’abbandonarono di nuo­ vo a tale sentimento. Non rimasero però molto a lungo soli, poiché il bel sentiero boscoso si popolò presto di gruppi di giovani a passeggio e anche di coppie che pas­ savano le ore dopo la messa cantando e scherzando. Anche la gente di campagna ha le sue passeggiate ricer­ cate e i suoi parchi come quella di città, con la sola diffe­ renza che questi non costano nulla e sono più belli ; i cam­ pagnoli non soltanto s’aggirano con un senso particolare della domenica per i loro campi che fioriscono e matura­ no, ma fanno raffinate passeggiate per i boschi e lungo i verdi pendìi, fermandosi ora su una graziosa altura dal­ l’ampia veduta, ora ai margine di un bosco, cantando le loro canzoni e subendo con piacere l’influsso di quella schietta natura ; e poiché evidentemente non fanno tutto questo per penitenza, ma per piacere, è da ritenersi che abbiano senso della natura, anche a prescindere da ogni sua utilità. Tutti colgono qualcosa di verde, i giovanotti come le vecchiette che ripercorrono le vecchie strade della loro giovinezza, e persino certi rigidi contadini, nel fiore degli anni e degli affari, quando sono in campagna e attra­ versano un bosco amano tagliarsi un rametto snello, al quale poi tolgono le foglie lasciando solo in alto un ciuf­ fo verde. Reggono quel bastoncino come uno scettro e, se

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entrano in un ufficio o in una cancelleria, depongono ac­ curatamente il ramo in un angolo, non dimenticando di riprenderselo dopo le più serie sedute e di portarlo con ogni cautela, sano e salvo, a casa, dove soltanto al bimbo più piccolo verrà concesso di farlo a pezzi. Quando Sali e Vrenchen videro i molti viandanti, risero sotto i baffi e si compiacquero di essere essi pure in coppia, ma devia­ rono cercando sentierini laterali, per perdersi in assoluta solitudine. Sostavano dove più piaceva loro, prosegui­ vano per tornare a riposare, e come non vi era una nuvola nel cielo limpido, così nessuna cura turbò in quelle ore la loro anima: dimenticarono di dove venissero e dove an­ dassero e si comportarono con tanta finezza e riserbo, che la graziosa e semplice eleganza di Vrenchen, malgrado il lieto eccitamento e la passeggiata, rimase fresca e intatta come era stata al mattino. Sali non si comportò come un contadinotto quasi ventenne o come il figlio di un bettoliere rovinato, ma come se fosse stato ancor più giovane di qualche anno e avesse goduto ottima educazione. Era quasi comico vederlo rimirare di continuo la sua allegra Vrenchen con tenerezza, con attenzione e rispetto. I due poveretti, in quell’unica giornata loro concessa, dovevano passare attraverso tutti gli aspetti e le sfumature dell’amo­ re, recuperando i giorni perduti della tenerezza e antici­ pando la fine passionale col sacrificio della loro vita. A furia di camminare tornò la fame e furono felici di ve­ dere, dall’alto di una montagna ricca d’ombre, il bian­ cheggiare di un villaggio, dove intendevano pranzare. Scesero svelti ed entrarono in quella nuova località con la stessa aria ammodo con cui avevano lasciato la prece­ dente. Non c’era nessuno attorno che li avesse riconosciuti, perché soprattutto Vrenchen nel corso degli ultimi anni s’era ben poco mostrata tra la gente e, ancor meno, nei villaggi dei dintorni. Avevano dunque l’aria di una cor­ retta e graziosa coppia diretta a qualche interessante meta. Scelsero la prima trattoria del posto e Sali ordinò un’ottima colazione; fu loro apparecchiato festivamente un tavolino privato, dove sedettero modesti e silenziosi, guardando le pareti rivestite di noce lucido, la campagno-

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la ma splendente e ben provvista credenza dello stesso legno, e le bianche e linde cortine alle finestre. Arrivò la padrona zelante e depose sulla loro tavola un vaso di fiori freschi dicendo: «Sinché vien la minestra, potrete, se ne avete voglia, saziar gli occhi con questi fiori. All’apparen­ za, se è lecita la domanda, siete una coppia di fidanzati, certo avviata in città per sposarvi domani?». Vrenchen arrossì senza osare una risposta, anche Sali tacque e l’o­ stessa continuò: «Già, per vero dire siete molto giovani, ma chi si sposa da giovane vive a lungo, si suol dire, e voi almeno siete bellini e sembrate buoni, e non avete bisogno di nascondervi. Due persone come si deve, se si uniscono tanto giovani e sono attive e fedeli, giungono certo a qualcosa. Ma bisogna esserlo davvero perché il tempo è breve e lungo insieme, e ne vengono poi dei giorni, tanti giorni ! Se si è bravi nell’usarli, sono belli e divertenti ! Scusatemi, ma mi ha fatto piacere vedervi, siete una coppia così graziosa!». La servetta portò la minestra e, poiché aveva sentito una parte di quel discorso, e avrebbe voluto trovar marito anche lei, diede una occhiata invi­ diosa a Vrenchen, la quale a suo parere aveva tanta for­ tuna. Quando fu nella stanza di servizio, quell’antipatica sfogò la sua stizza e disse alla padrona lì venuta, così forte che l’avrebbero potuta udire in sala: — Ecco un’altra coppia di straccioni, che se ne va senz’altro in città a sposarsi senza un soldo, senza amici, senza corredo e senza avvenire, senz’altro avvenire che la miseria e la mendicità ! Dove si arriverà, se si sposano an­ che delle ragazzine che non sanno ancora vestirsi da sé né fare una minestra? Mi fa compassione quel bel giovanot­ to, già invischiato con la sua bella ! — Zitta ! Chiudi il becco, lingua maligna, — disse la padrona — non me li toccare ! Quelli sono due bravi e onesti giovani venuti dalla montagna, da dove ci sono gli opifici, sono vestiti modestamente, ma in ordine, e se si vogliono bene e sono laboriosi faranno più strada di te con la tua linguaccia ! Tu puoi aspettare un pezzo prima che ti prendano, se non diventi meno acida, o vaso d’aceto ! Vrenchen godette così tutte le gioie di una sposa che si

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reca a nozze : l’incoraggiamento benevolo di una donna assennata, l’invidia di una cattiva zitella smaniosa di ma­ rito, che per rabbia compassiona e loda l’innamorato, nonché un eccellente pranzo al fianco del predetto inna­ morato. Aveva il volto fiammante come un garofano rosso e le batteva il cuore, tuttavia mangiava e beveva di buon appetito ed era sempre più cortese con la servente, senza poter tuttavia tralasciare dal fissare teneramente Sali e dal cinguettare con lui, così che anch’egli aveva l’animo in subbuglio. Rimasero a lungo e comodamente a tavola, quasi esitassero a staccarsi da quella dolce illusione. La padrona portò dopo le frutta delle paste e Sali ordinò al­ lora un vino più fine e più forte, che infiammò le vene di Vrenchen appena ne bevve un sorso. Essa però fu pru­ dente, centellinò solo qualche goccia e se ne stette timida e pudica come una vera sposa. Un poco sosteneva quella parte per malizia, per vederne l’effetto, un poco era dav­ vero in quello stato d’animo, sentendosi il cuore scoppiare d’amore ardente e d’angoscia, sinché le parve di soffocare tra le quattro pareti e desiderò riprender la via. Parve che ambedue temessero di trovarsi troppo soli e appartati, giacché senza intesa proseguirono sullo stradone in mezzo alla folla, non guardando né a destra né a sinistra. Quan­ do ebbero però lasciato il villaggio e si diressero verso l’altro paese dove c’era fiera e ballo, Vrenchen s’aggrap­ pò al braccio di Sali, sussurrandogli con parole tremanti : — Sali, perché non dovremmo unirci ed essere felici ! — Non lo so neppur io il perché ! — replicò il giovane fissando il mite sole autunnale che dolcemente splendeva sui prati, costretto a dominarsi e a contrarre stranamente la faccia. Si fermarono per darsi un bacio : ma sopravven­ ne gente e ci rinunciarono riprendendo la strada. La gros­ sa borgata dove c’era festa già si affollava di gente allegra, e dalla trattoria principale giungeva una fragorosa mu­ sica da ballo, poiché tutti i giovani paesani avevano già cominciato a danzare sin da mezzodì. Sulla piazza davanti all’osteria c’era un piccolo mercato, con ban­ carelle di dolci e un paio di baracche di chincaglie­ rie attorno alle quali si pigiavano i bimbi e quella

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parte di folla che si limitava a guardare. Anche Sali e Vrenchen diedero un’occhiata a quegli splendori, ambe­ due con la mano in tasca, ognuno desiderando di fare un dono al compagno, visto che per la prima e unica volta si trovavano insieme a una fiera. Sali comprò una casa di panforte tutta imbiancata di zucchero, con un tetto verde su cui stavano appollaiate delle colombe bianche, mentre dal camino spuntava un piccolo Amore in veste da spazza­ camino ; alle finestre aperte s’abbracciavano due person­ cine paffute con boccucce minuscole e rosse, e si baciavano davvero, giacché il pittore, pratico e frettoloso, con uno zuccherino solo aveva fatto tutte e due le bocche fuse in­ sieme. Dei puntini neri segnavano occhietti arguti e sulla porta color di rosa si leggevano le seguenti strofette:

Entra pur, senza sgomento ! Ma t’avverto già sin d’ora: Solo a baci in tal dimora Sarà fatto il pagamento !

Gli risponde la diletta: Non m’arresta alcun timore; Già da tempo questo cuore Ogni gioia da te aspetta ! E se meglio ci ripenso Son venuta qui per questo! Entra allora presto, presto, Da’ al bel rito il tuo consenso !

Un signore in marsina azzurra e una dama dal petto molto sporgente, dipinti a destra e a sinistra sulla facciata, scambiavano questi complimenti poetici invitandosi a entrare in casa. Vrenchen in cambio donò a Sali un cuore che aveva appiccicata da un lato una strisciolina con il motto : Mandorle dolci stan dentro il cuore, Ma ben più dolce sarà il mio amore !

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e dall’altro: Non obliare il motto, dopo mangiato il cuore ! Chiuso sarà il mio ciglio ma eterno vivrà amore !

Lessero con passione questi versetti e nulla di rimato o di stampato parve mai più bello e più profondo di quelle iscrizioni sui dolci; i due ragazzi consideravano rivolte personalmente a loro le parole lette, tanto sembravano adatte. — Ahimè ! — sospirò Vrenchen — tu mi regali una casa ! Anch’io te n’ho donata una, e quella vera; perché il nostro cuore è ora la nostra casa in cui viviamo, e la portiamo con noi proprio come le lumache. Non ne ab­ biamo altra! — Allora però siamo due lumache, di cui ciascuna por­ ta la casa dell’altra! — disse Sali, e Vrenchen replicò: — Tanto meno ci potremo lasciare, dovendo ognuno rimanere accanto a casa sua! Ma non sapevano di comporre coi loro discorsi gli stessi scherzi che andavano leggendo sui dolci di miele dalle svariate forme, e continuarono a studiare quella pri­ mitiva letteratura amorosa, esposta loro dinanzi su una quantità di cuori grandi e piccini. Ogni rima appariva loro bella e insuperabile; quando Vrenchen lesse su un cuore dorato, sul quale erano tese delle corde come su una lira: Somiglia a una cetra il mio cuore: più tu lo sfiori, più canta amore ! si sentì così pervasa di musica, da sembrarle che il suo cuore stesso risuonasse. C’era persino un ritratto di Na­ poleone, costretto esso pure a farsi portatore di un motto amoroso, giacché ci si poteva leggere:

Napoleone fu grande eroe: d’acciaio il brando, d’argilla il cuore; Ma la mia bella, cinta di rose, fede d’acciaio serba nel cuore !

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Mentre però si fingevano ambedue immersi nella lettura, ognuno ne approfittò per fare un acquisto segreto. Sali comprò per Vrenchen un anellino dorato con una pietruzza verde e Vrenchen un anellino di corno di camoscio nero, sul quale era fissato un non-ti-scordar-di-me d’oro. Probabilmente ebbero ambedue il pensiero di donarsi quei poveri ricordi nel momento del distacco. Mentre si immergevano in queste cose, erano tanto assorti, che non s’avvidero di essere a poco a poco circondati da un gruppo di persone che li osservavano at­ tente e curiose. Essendoci infatti a quella fiera una quan­ tità di giovani del loro villaggio, erano stati riconosciuti e tutti ora li guardavano un po’ da lontano, stupiti di quella coppia graziosa, che nella sua fervida intimità sembrava obliare completamente il mondo circostante. «Guardate!» dicevano «son proprio la Vrenchen di Marti e il Sali di Seldwyla ! Come si sono incontrati e messi insieme ! E guardate quanta tenerezza ed amicizia ! Guardate un po’! Ma dove vorranno andare a finire?». Lo stupore degli spettatori era uno strano miscuglio di compassione per la sventura, di disprezzo per la cattiveria dei genitori, e di invidia per la beatitudine e la concordia della coppia, la quale appariva innamorata in modo af­ fatto insolito e quasi nobile, riuscendo ai rozzi contadini non meno estranea per quella sua dimentica e assoluta dedizione reciproca, che per la sua miseria desolata. Quando essi infine, come ridestandosi, si guardarono at­ torno, non videro che facce curiose; nessuno li salutò ed essi non sapevano se dovessero salutare qualcuno, il che da ambedue le parti era piuttosto effetto di imbarazzo che non di scortesia. Vrenchen si sentì le fiamme al volto per l’angoscia, impallidì e poi arrossì di nuovo. Sali le prese la mano e condusse via la poveretta che gli tenne dietro docile con la sua casa in mano, benché le trombe dell’osteria richiamassero allegramente alla dan­ za, cui Vrenchen tanto volentieri si sarebbe unita. — Qui non possiamo ballare ! — disse Sali, dopo che furono un poco lontani — mi pare che qui non ci diver­ tiremmo molto!

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— Comunque, — disse Vrenchen triste — sarà meglio che ci rinunciamo addirittura e che io cerchi un modo di collocarmi ! — No ! — esclamò Sali — devi ballare una volta con me, per questo ti ho portato le scarpe ! Andremo dove si divertono i poveri, come noi, e quelli non ci disprezzeran­ no; anche nel «Giardinetto del Paradiso» si balla tutte le volte che qui c’è fiera, perché è proprietà comunale; andremo là e tu potrai poi al caso anche passarci la notte. Vrenchen rabbrividì all’idea di pernottare per la prima volta in un luogo sconosciuto, ma tenne dietro passiva alla sua guida, che era ormai tutto quanto essa possedesse al mondo. Il «Paradiso» era una trattoria ben situata su un pendio solitario, con un’ampia veduta a valle, dove però in simili giorni di festa non si recavano che i più poveri, i figli dei piccoli possidenti, i braccianti e anche gente vagabonda. Cento anni prima era stato costruito come villa da un ricco originale, ma dopo di lui nessuno aveva voluto abitarci, e, non essendo il posto altrimenti utilizzabile, la strana villa, andata in rovina, finì nelle mani di un oste che vi esercitò il suo mestiere. Era rima­ sto però ancora il nome antico e la costruzione ad esso corrispondente aveva il solo pianterreno, con una loggia il cui tetto era sorretto ai quattro angoli da statue di arenaria che rappresentavano i quattro arcangeli ed era­ no ormai del tutto in rovina. Sul cornicione del tetto erano disposti all’intorno degli angioletti musicanti^ anch’essi di pietra, con testoline e pancette grassocce, che suonavano il triangolo, il violino, il flauto, il cem­ balo e il tamburino, strumenti in origine dorati. Il soffitto interno, come pure la balaustrata della loggia e gli altri muri della casa, erano ricoperti di affreschi ormai sbiaditi, rappresentanti liete schiere di angeli o di santi danzanti e cantanti. Tutto però ormai era svanito e con­ fuso come un sogno, e per di più largamente rivestito dai rami della pergola, mentre scuri grappoli maturi pende­ vano da ogni parte tra il fogliame. Attorno alla casa si ergevano dei castagni inselvatichiti e qua e là soprav­ vivevano forti e nodosi rosai selvatici come altrove i sam-

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buchi. La gran terrazza serviva da salone da ballo; quan­ do Sali e Vrenchen vi giunsero, scorsero già da lontano le coppie che volteggiavano lassù, mentre intorno alla casa una folla di clienti beveva e faceva chiasso allegramente. Vrenchen, che reggeva con melanconica devozione la sua casa d’amore, sembrava in quel momento una delle sante patronesse che figurano sui quadri antichi con in mano il modello di un duomo o di un monastero da loro fondati, ma quella pia fondazione sognata dalla poverina non si sarebbe realizzata mai. Udendo però la musica vivace che giungeva dall’alto, dimenticò il suo dolore e non ebbe al­ tro desiderio che ballare con Sali. Si fecero strada attraver­ so ai clienti fermi davanti alla casa e dentro il locale, tutti straccioni di Seldwyla che si concedevano una gita a buon mercato e poveracci di altri paesi, salirono la scala e su­ bito girarono cullati da un bel valzer, senza staccarsi gli occhi di dosso. Solo quando il valzer fu finito si guarda­ rono attorno: Vrenchen aveva schiacciato e rotto la sua casina e stava per rattristarsene, quando fu còlta da ben più grave spavento scorgendo lì vicino il violinista nero. Questi sedeva su una panca issata sopra una tavola ed era nero come al solito; quel giorno aveva però infilato nel suo cappelluccio un rametto di abete, aveva ai piedi una bottiglia di vino e un bicchiere che non rovesciava mai, benché suonando continuasse a dimenar le gambe, quasi eseguisse una danza delle uova. Gli stavano accanto un giovane bello e melanconico con un corno da caccia e un gobbetto che suonava il contrabbasso. Anche Sali rimase spaventato scorgendo il violinista, ma questi li sa­ lutò molto cordialmente, gridando: «L’ho sempre sa­ puto che avrei suonato una volta per voi ! State allegri, cari sposini ! Alla vostra salute ! ». Offrì a Sali il bicchiere pieno e Sali lo vuotò salutandolo. Quando il suonatore s’accorse quanto fosse atterrita Vrenchen, cercò di in­ coraggiarla gentilmente con alcuni scherzi quasi graziosi che la fecero ridere. Così i due si rianimarono e furono anzi contenti di avere un conoscente e di stare in certo modo sotto la speciale protezione del violinista. Ballarono ininterrottamente, dimenticarono se stessi e il mondo fra i

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giri, i canti e il chiasso che risuonavano fuori e dentro la casa e dal monte si perdevano lontano nel paesaggio che andava intanto avvolgendosi negli argentei vapori della sera autunnale. Ballarono finché fu buio e finché la mag­ gior parte degli allegri clienti, canticchiando più o meno ubriachi, si dispersero in ogni direzione. I pochi rimasti erano i cosiddetti miserabili, i senza tetto che dopo la gior­ nata volevano godersi anche una notte allegra. Fra essi ta­ luni dall’aspetto di forestieri e dagli strani abbigliamenti, sembravano in buona amicizia col suonatore. Si faceva no­ tare specialmente un giovanotto con una giacca di velluto verde e un vecchio cappello di paglia spiegazzato, intor­ no al quale aveva posto una ghirlanda di sorbe. Egli era in compagnia di una ragazza dall’aspetto selvaggio, con una sottana rosso ciliegia a pallini bianchi e con attorno alla testa una corona di pampini da cui scendeva su cia­ scuna tempia un grappolo scuro. Era la coppia più sfre­ nata; ballava, cantava senza posa, presente in tutti gli angoli. C’era anche una fanciulla esile e graziosa, con un abito di seta nera stinta e un fazzoletto bianco attorno al capo, la cui punta le scendeva fin sul dorso. Il fazzo­ letto aveva striature rosse intessute e non era altro che un buon asciugamani o un tovagliolo di lino. Ma sotto di esso scintillava un bel paio d’occhi d’un azzurro violaceo. At­ torno al collo e sul petto scendevano sei collane di sorbe rosse infilate, surrogato del più bel vezzo di coralli. Que­ sta figurina ballava di continuo da sola, rifiutando osti­ natamente di accettare un cavaliere. Tuttavia si muoveva con grazia e leggerezza, sorridendo ogni volta che passava vicino ai melanconico suonatore di corno, il quale però sempre volgeva il capo dall’altra parte. C’erano anche altre donnine allegre coi loro protettori, tutte di aspetto piuttosto miserando, ma vivaci e in ottima armonia fra loro. Quando fu buio del tutto, l’oste rifiutò di accendere lumi, affermando che il vento li avrebbe spenti mentre stava per sorgere la luna piena, e che tanto, per quel che gli rendevano quei clienti, bastava la sua luce. Tale no­ tizia fu accolta con grande piacere; l’intera brigata s’ap­ poggiò alla balaustrata del salone aereo per assistere al

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sorgere della luna, di cui già si scorgeva il riflesso all’oriz­ zonte, ed appena il disco si alzò gettando i suoi raggi di sbieco nella loggia del «Paradiso» continuarono a ballare a quella luce, tranquilli, composti e soddisfatti, come se danzassero al riflesso di cento candele. La strana illumi­ nazione creava un’atmosfera confidenziale, e anche Sali e Vrenchen non poterono fare a meno di unirsi all’allegria comune, ballando anche con altri. Ma ogni volta che erano rimasti divisi per pochi momenti, tornavano a corrersi in­ contro, festeggiando quel rivedersi come se si fossero cer­ cati e finalmente ritrovati dopo anni. Sali, quando bal­ lava con un’altra, aveva una faccia melanconica e scon­ trosa e continuava a voltarsi verso Vrenchen, che non lo guardava passandogli accanto, ma, ardente come una ro­ sa porporina, sembrava felicissima con chiunque bal­ lasse. — Sei geloso, Sali? — gli domandò quando i musicanti ormai stanchi si interruppero. — Dio me ne guardi ! — disse — non saprei nemmeno come cominciare ad esserlo! — Perché allora sei tanto arrabbiato quando ballo con gli altri? — Non è che sia arrabbiato, ma è perché devo ballare io con altre ! Non posso sopportare nessun’altra ragazza, mi pare d’avere tra le braccia un pezzo di legno, se non sei tu ! Non è così anche per te? — Oh, io mi sento come in paradiso, purché balli e sappia che tu mi sei vicino ! Ma credo che cadrei morta di colpo se te ne andassi lasciandomi qui sola! Erano scesi davanti alla casa; Vrenchen lo strinse fra le braccia, premendo il suo corpo snello contro di lui, ap­ poggiando al suo volto la propria guancia ardente, umida di lagrime cocenti, e disse fra i singhiozzi: — Noi non possiamo essere uniti, ma io non mi posso staccare da te, non per un minuto, non per un istante ! Sali abbracciò la ragazza impetuosamente, stringendola forte e coprendola di baci. I suoi pensieri confusi cerca­ vano una via d’uscita senza trovarla. Se anche avesse po­ tuto superare la miseria disperata della sua famiglia, la

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sua giovinezza e la sua passione inesperta non erano in grado di accettare e di superare un lungo periodo di prova e di rinuncia, e ci sarebbe poi sempre stato il padre di Vrenchen da lui rovinato per tutta la vita. Il sentimento di non poter essere felice entro il mondo borghese se non con un matrimonio onesto e regolare, era presente in lui non meno che in Vrenchen; per i due derelitti esso rap­ presentava l’ultima fiamma di quell’onore che in tempi remoti aveva riscaldato le loro case e che i loro padri ave­ vano poi spento e distrutto con una follia, quando, sen­ tendosi sicuri e illudendosi di accrescere appunto tale onore aumentando la proprietà, s’erano stoltamente ap­ propriati i beni di un disperso credendo di farlo sen­ za pericolo. Ciò accade in realtà ogni giorno, ma tal­ volta il destino istituisce un esempio, fa che si incon­ trino due simili individui avidi di onore e di posses­ so, destinati immancabilmente a distruggersi o divorar­ si al pari di due belve. Gli ambiziosi che vogliono ingran­ dire il proprio regno non sbagliano i loro calcoli soltanto sui troni, ma talvolta anche nelle più umili capanne, e perven­ gono a una meta perfettamente opposta a quella dove avevano sperato di giungere, cosicché l’insegna dell’ono­ re si trasforma in un batter d’occhio in un’insegna d’ob­ brobrio. Sali e Vrenchen nella tenera infanzia avevano ancora conosciuto l’onore della famiglia e rammenta­ vano di essere stati bimbi ben curati, di aver veduto i loro babbi stimati e sicuri come gli altri uomini. Poi erano ri­ masti per lunghi anni divisi e ritrovandosi vedevano in se stessi anche la perduta felicità della casa, e tanto più inten­ samente s’aggrappavano l’imo all’altra col loro affetto. Avrebbero voluto esser lieti e felici, ma soltanto su una base salda e buona, e questo appariva loro irraggiungibile, mentre il loro sangue ribollente sentiva il bisogno di unirsi senz’indugio. — Ormai è notte ! — esclamò Vrenchen — e dobbia­ mo dividerci! — Ed io dovrei andare a casa e lasciarti sola? — pro­ testò Sali — no, non lo posso fare ! — Ma poi tornerà giorno e saremo allo stesso punto !

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«Vi voglio dare un buon consiglio, ragazzi senza te­ sta ! » disse una voce acuta alle loro spalle, e il violinista apparve ai loro occhi. «Ve ne state qui» proseguì «sen­ za saper che fare e volendovi un gran bene. Vi consi­ glio di prendervi così come siete, senza perder tempo. Venite con me e coi miei buoni amici in montagna, dove non avrete bisogno del parroco, né di denaro, non di do­ cumenti né di onore, né di un letto, dove basterà la vo­ stra buona voglia ! Non si sta tanto male da noi, l’aria è buona e c’è da mangiare se si lavora; le foreste verdi sono la nostra casa, dove ci vogliamo bene come ci accomoda, e in inverno ci prepariamo dei rifugi ben caldi o andiamo a cacciarci fra il fieno dei contadini. Siate risoluti e fe­ steggiate addirittura qui le vostre nozze, venite con noi, così vi sarete liberati di ogni preoccupazione e resterete l’uno dell’altra per l’eternità, o almeno sino a quando lo vorrete. Poiché nella nostra libera esistenza diventerete vecchi, credetelo a me ! Non pensiate che io voglia farvi colpa di quel che i vostri padri mi han fatto ! No ! È vero che mi fa piacere vedervi giunti al punto in cui siete, ma questo mi basta e, se voi ascoltate il mio consiglio, vi sarò volentieri d’aiuto». Disse tutto questo in un tono vera­ mente schietto e cordiale. «Ebbene, pensateci per un po’ ma seguitemi, se il mio consiglio vi par buono ! Mandate alla malora il mondo, amatevi e non domandate a nessu­ no il permesso! Pensate a un allegro letto nuziale nel denso del bosco o, se vi par troppo freddo, in un fienile ! ». Così dicendo rientrò nella casa. Vrenchen tremava tutta fra le braccia di Sali, e questi le domandò: — Che cosa ne dici? A me pare che non sarebbe male dimenticare il mondo intero e in cambio amarci senza ostacoli e senza limiti ! — ma lo disse piuttosto col tono di uno scherzo disperato che sul serio. E Vrenchen replicò ingenua con candore, baciandolo: — No, lassù non vorrei vivere, perché là le cose non vanno a mio talento. Quel giovanotto che sonava il corno da caccia e la ragazza dalla sottana di seta si apparten­ gono così e pare siano stati molto innamorati. Ma si dice che la settimana scorsa quella donna gli sia stata per la

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prima volta infedele, del che lui non voleva persuadersi, e per questo è tanto triste ed è in collera con lei e con gli altri che lo deridono. Lei invece fa penitenza per ischerzo ballando sola e non parlando con nessuno, e in questo modo non fa che schernirlo. Ma si capisce che quel povero suonatore finirà ancor oggi per rappacificarsi con lei. Dove le cose vanno a questo modo non vorrei essere, per­ ché non vorrei mai mancarti di fede, mentre saprei sop­ portare ogni altra cosa purché tu sia mio ! Intanto però la povera Vrenchen tremava febbrici­ tante fra le braccia di Sali; già da quando a mezzodì la padrona della trattoria l’aveva scambiata per una sposa ed essa ne aveva sostenuta la parte senza contraddirla, le bruciava nel sangue il desiderio di nozze, tanto più in­ tenso e indomabile quanto più svaniva la speranza. Sali non stava meglio, poiché i consigli del suonatore, anche se non voleva seguirli, gli avevano però turbato la mente, cosicché disse smarrito e balbettante: — Vieni dentro, dobbiamo almeno mangiare e bere ancora qualcosa. Entrarono nella sala della locanda, dove c’era ormai soltanto la piccola brigata degli zingari, già raccolti at­ torno a una tavola per un modico pasto. «Ecco i no­ stri sposi!» esclamò il violinista «Siate allegri che noi ora si festeggia la vostra unione ! ». Vennero fatti sedere a forza a quella tavola, dove del resto cercarono quasi ri­ fugio da se stessi, lieti di essere per un momento in mezzo alla gente. Sali ordinò vino e vivande più abbondanti e l’allegria riprese. L’amante imbronciato s’era riconciliato con la sua infedele e già la coppia si vezzeggiava con sma­ niosa beatitudine; l’altra coppia cantava e beveva non risparmiando manifestazioni amorose mentre il violinista e il gobbetto facevano gran chiasso fra loro. Sali e Vren­ chen tacevano tenendosi stretti; d’un tratto il violinista impose silenzio e celebrò un rito scherzoso parodiando un matrimonio. I due dovettero porgersi la mano mentre tutta la compagnia si alzava e sfilava davanti a loro per congratularsi e salutarli benvenuti nella loro confrater­ nita. Essi lasciarono fare senza dir parola, considerandolo

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uno scherzo, ma sentendosi però fremere da brividi caldi e freddi. La piccola compagnia si fece sempre più chiassosa e sfrenata, accesa dal vino generoso, sinché d’un tratto il violinista esortò tutti alla partenza. «La strada è lunga» esclamò «e la mezzanotte è passata! Suvvia, vogliamo accompagnare la coppia dei nostri sposi e io li precederò col mio violino, e sarà una bellezza ! ». I due poveri de­ relitti non sapevano qual altro partito prendere, ed erano ormai tanto confusi, che si lasciarono passivamente col­ locare in testa ad un corteo formato dalle altre due coppie e chiuso dal gobbetto col contrabbasso sulle spalle. Il violinista nero li precedette, sonando come un invasato, e scese a valle mentre gli altri gli tenevan dietro cantando, saltando e ridendo. Il pazzo corteo notturno attraversò così le campagne silenziose e poi il villaggio nativo di Sali e di Vrenchen, dove tutti erano già immersi nel sonno. Passando per quelle viuzze silenti e davanti alle per­ dute case paterne, i due furono còlti da un impetuoso e doloroso tormento e si diedero a ballare a gara con gli altri, baciandosi fra lagrime e risa. Risalirono, sempre danzando, l’altura verso cui li guidava il violinista, dove c’erano i tre famosi campi, e lassù il nero suonatore si abbandonò come un fantasma a una ridda di danze e di melodie ancor più violente, mentre i suoi compagni cer­ cavano di superarlo con furia sfrenata, tanto che la tacita collina si trasformò in un vero monte delle streghe; persino il gobbo saltellava ansimante col suo strumento sul dorso, né più si vedevano l’un l’altro. Sali afferrò più stretta Vrenchen, costringendola a fermarsi, poiché era stato il primo a ritornare in sé. La baciò forte sulla bocca, per indurla a tacere, poiché la fanciulla, di tutto dimentica, s’era messa a cantar forte. Ma alla fine lo sentì e ambedue si fermarono in ascolto, mentre il folle corteo procedeva per il sentiero perdendosi lungo la riva del fiume, senza neppure accorgersi della loro mancanza. Il violino, le strida delle donne e gli evviva dei giovani, echeggiarono per un bel pezzo nella notte, sinché ogni voce svanì e ritornò il silenzio.

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— A questi siamo sfuggiti, — disse Sali — ma come sfuggire a noi stessi? Come dividerci? — Vrenchen non era in grado di rispondergli, abbandonata ansante al suo pet­ to. — Non è meglio che ti riconduca al villaggio e svegli qualcuno perché ti ospiti? Domani potrai riprendere la tua via e certamente avrai fortuna, tu trovi dappertutto da vivere ! — Vivere senza di te ! — Devi dimenticarmi ! — Non lo farò mai ! E lo potresti far tu? — Non si tratta di questo, cuor mio ! — disse Sali ac­ carezzandole le guance infiammate, mentre essa appas­ sionatamente si gettava sul suo petto — ora si tratta solo di te ; sei ancora tanto giovane e puoi avere ancora tanta fortuna ! — E tu no, vecchione? — Vieni — disse Sali trascinandosela dietro. Ma non proseguirono che pochi passi per fermarsi di nuovo e ab­ bracciarsi e baciarsi più comodamente. Il silenzio del mon­ do cantava armonioso nelle loro anime, non si udiva che il lieve e dolce mormorio del fiume fluente. — Come è bello qui tutt’attorno ! Non senti una mu­ sica, come un canto o un suono di campane? — È la voce dell’acqua ! Del resto tutto tace. — No, c’è qualche cos’altro, qua e laggiù, dappertutto è una musica! — Credo che sentiamo rombare nelle orecchie il no­ stro sangue! Stettero così per un poco in ascolto di quelle armonie immaginarie o reali, provenienti dal gran silenzio not­ turno o scambiate da loro con i magici effetti della luce lunare diffusa dovunque sulle candide basse nebbie d’au­ tunno. D’un tratto a Vrenchen venne in mente qualcosa; cercò in seno e disse: — Ti ho comperato un piccolo ricordo che ti voglio dare ! — e gli porse il semplice anello, infilandoglielo ella stessa al dito. Anche Sali prese il suo anellino e lo mise alla mano di Vrenchen dicendole : — Abbiamo avuto lo stesso pensiero ! —Vrenchen alzò

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la mano nella pallida luce argentea per ammirare il suo anello : — Che bellezza ! — disse ridendo — ora però siamo davvero fidanzati e promessi, tu sei mio marito e io tua moglie ; vogliamo almeno pensarlo per un momento, solo finché quella striscia di nebbia sia passata davanti alla luna, o finché avremo contato sino a dodici ! Baciami do­ dici volte! Sali amava certo non meno intensamente di Vrenchen, ma in lui il problema delle nozze non era così intensa­ mente vivo come un preciso dilemma, come un assoluto essere o non essere, mentre Vrenchen, capace di un solo sentimento, nel suo appassionato assolutismo vedeva in quello la vita o la morte. Ora finalmente, però, il giovane comprese, e quel che nella fanciulla era femmineo istinto divenne d’un tratto in lui desiderio impetuoso e violento, e una chiarezza rovente gli illuminò i sensi. Se anche già prima aveva abbracciato e carezzato vivamente la sua Vrenchen, lo fece ora ben diversamente, con veemenza, coprendola di baci. Vrenchen, pur nella sua passione, intuì senz’altro quel mutamento e un tremito intenso la pervase tutta, ma ancor prima che la striscia di nebbia fosse passata davanti alla luna, ne fu trascinata essa stessa. Le loro mani inanellate si cercarono vezzeggiandosi e combattendo e si afferrarono poi, strette come a consa­ crare spontanee nozze, senza l’imposizione di volontà al­ cuna. Il cuore di Sali ora pulsava violento, martellante, ora sembrava fermarsi: trasse un profondo sospiro e poi le sussurrò: — Vi è una strada sola per noi, piccola Vrenchen: celebriamo le nozze in quest’ora e poi ce ne andiamo dal mondo . . . Laggiù vi è l’acqua profonda . . . laggiù nes­ suno più ci dividerà e noi saremo pur stati uniti... se per poco o per molto, può esserci indifferente. Vrenchen gli disse subito: — Sali... quel che tu mi dici, l’ho già da un pezzo pensato e deciso fra me, cioè che noi potremmo morire e che tutto sarebbe allora passato . . . giurami dunque di volerlo fare con me !

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— È ormai già quasi compiuto, nessuno può strapparti più dalle mie mani, fuorché la morte ! — esclamò Salì fuor di sé. Vrenchen respirò profondamente e lagrime di gioia le sgorgarono dagli occhi; staccandosi da lui s’av­ viò rapida come un uccello oltre i campi, verso il fiu­ me. Sali la seguì in fretta, pensando che volesse sfug­ girgli, mentre Vrenchen credeva che fosse lui a voler­ la trattenere. Si rincorsero così e Vrenchen rideva come una bimba che non vuol farsi acchiappare. — Te ne penti già? — gridarono entrambi quando, giunti al fiume, tornarono a riunirsi. — No ! Ne son sempre più felice ! — ripeterono ambe­ due. Liberi da ogni affanno s’avviarono verso la riva, seguendola poi più rapidi della corrente, tanto erano im­ pazienti di trovare un posto ove adagiarsi. La loro passio­ ne non vedeva ormai che l’ebbrezza e la beatitudine del loro congiungimento e tutto il valore e il contenuto del­ la vita confluiva in esso ; quello che sarebbe venuto poi, morte e annientamento, non era per loro che un alito, un nulla; non ci pensavano più di quanto lo spensierato si chieda di che cosa vivrà l’indomani mentre sciupa il suo ultimo soldo. — I miei fiori mi precedono, — esclamò Vrenchen — guarda, son già morti e appassiti ! Li tolse dal petto, li gettò nell’acqua, cantando: — Ma ben più dolce sarà il mio amore ! — Fermati ! — gridò Sali — ecco il tuo letto di nozze ! Erano giunti ad una strada che dal villaggio portava al fiume, dove c’era un approdo con ormeggiato un bar­ cone carico di fieno. Egli cominciò senz’altro, con impeto, a slegare le grosse corde, ma Vrenchen gli si gettò tra le braccia ridendo e dicendo: — Che cosa vuoi fare? Rubare il barcone ai contadi­ ni per finire in bellezza? — Questa sarà la dote che ci dànno: un letto galleg­ giante e piume come non ne ha mai avute una sposa ! Del resto ritroveranno la loro proprietà a valle, dove deve arrivare, e non sapranno neppure come ci sia giunta. Guarda, dondola già, vuol partire !

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La barca era un poco discosta dalla riva, nell’acqua fonda. Sali sollevò Vrenchen sulle braccia e s’awiò a guado verso l’imbarcazione; ma la ragazza, abbraccian­ dolo con impeto e dimenandosi come un pesciolino, non gli permetteva quasi di tenersi ritto nell’acqua corrente. Cercava di immergere le mani e il volto, gridando : — Voglio sentire anch’io l’acqua fresca ! Ti ricordi co­ me erano fredde ed umide le nostre mani quando ce le stringemmo la prima volta? Allora prendevamo pesci ed ora saremo pesci noi stessi, e due pesci grandi e belli ! — Sta’ fermo, demonietto ! — disse Sali che faceva fa­ tica a tenersi ritto fra l’impeto della corrente e della sua diletta — altrimenti il fiume mi trascina via ! — Issò il suo dolce carico sulla barca e vi si arrampicò poi egli stesso, quindi sollevò la ragazza sul fieno alto, morbido e profumato e vi salì egli pure, e quando furono lassù, il barcone cominciò a spingersi nel mezzo del fiume e a scendere poi, con un lento giro su se stesso, a valle. Il fiume attraversava ora boschi densi che lo ombreg­ giavano, ora l’aperta campagna; passava dinanzi a villaggetti tranquilli e a capanne isolate ; talvolta rallentava, simile a un placido laghetto, così che la barca quasi s’ar­ restava, tal’altra lambiva rocce e scogli, lasciandosi dietro rapido le rive addormentate, e quando l’aurora fu alta, dalle sue nebbie argentine spuntò una città con le sue torri. La luna calante, rossastra come oro, tracciava una scia luminosa in mezzo al fiume, che la barca, scendendo lenta, tagliava diagonalmente. Mentre si avvicinava alla città, nel gelo del mattino autunnale due figure pallide, strettamente abbracciate, scivolarono giù da quella massa cupa nelle gelide onde. La barca, poco più avanti, si inceppò contro un ponte e vi si fermò. Quando più tardi le salme furono trovate oltre la città e se ne stabilì la provenienza, si potè leggere nei giornali che due giovani, figli di due poverissime fa­ miglie andate in rovina e tra loro inconciliabilmente ne­ miche, avevano cercato la morte nel fiume, dopo aver bal­ lato allegramente tutto un pomeriggio, ed essersi divertiti a una sagra rusticana. Tale fatto era da ritenersi con-

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nesso col ritrovamento di un barcone da fieno della stessa regione approdato in città senza barcaioli; si riteneva che i due gióvani se ne fossero appropriati per celebrarvi le loro nozze empie e disperate, il che era un nuovo sintomo della crescente immoralità e del degenerare delle passioni.

REGULA AMRAIN E IL SUO FIGLIO MINORE Regula Amrain era la moglie di un seldwylese assente; questi era stato proprietario di una grande cava di pietre situata dietro la cittadina e per un certo tempo l’aveva sfruttata secondo i metodi di Seldwyla. Quasi tutto il grosso borgo era fabbricato con l’ottima arenaria di cui era composta la montagna; ma sin dal principio il com­ plesso dei debiti gravanti sulle case aveva cominciato pro­ prio dalle pietre di cui erano costruite : nulla infatti parve ai Seldwylesi tanto adatto quale materia e oggetto di intenso traffico quanto una simile cava, ed essa somiglia­ va a un teatro romano scavato nella roccia, sulla quale passavano rapidi, rincorrendosi, i successivi possessori. Il signor Amrain, un bel pezzo d’uomo costretto a con­ sumare una considerevole quantità di carne, pesce e vino e ampi tagli di seta azzurra, rosso vivo o a grossi quadri, per i suoi grandi ed eleganti panciotti, era stato inizial­ mente un fabbricante di bottoni e per qualche ora al giorno li aveva persino ricoperti con le sue mani. Dive­ nuto però col passar degli anni tanto grasso e grosso, non gli si confece più la vita sedentaria : dopo aver raggiunto le insegne del perfetto gaudente, il panciotto di velluto rosso, la catena d’oro all’orologio e l’anello a sigillo, li­ quidò la bottoneria e in una seduta importante degli speculatori seldwylesi comprò la cava di pietre. Aveva trovato così la vita movimentata che faceva al caso suo : se il tempo era bello, faceva una passeggiatina fino alla cava, con una borsa rossa gonfia di carte e un’elegante canna su cui era applicato un metro con chiodi d’argento, e con quel bastone cincischiava i depositi delle pietre, già sotto sequestro, poi guardava il bel paesaggio asciugando­ si il sudore della fronte e rientrava svelto in città per atten­ dere agli affari veri e propri, cioè a spostare le svaria­ te carte nella borsa, il che avveniva di preferenza nella frescura delle osterie. Insomma, egli era un seldwylese perfetto, anche nella incostanza politica, che fu però ca-

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gione della sua prematura caduta. Infatti un capitalista conservatore di una città commerciale, il quale non sop­ portava scherzi, aveva investito una piccola somma in quella cava credendo di venire in tal modo in aiuto di un compagno di partito. Quando invece il signor Amrain, in un accesso di sventatezza assoluta, si lasciò sfuggire ac­ centi di molto compromettente liberalismo, che subito vennero propalati, quel signore se ne adontò a buon dirit­ to, poiché la mancanza di precise opinioni politiche non potrà mai essere più sconveniente che in un uomo grande e grosso con un panciotto di velluto colorato! L’adi­ rato finanziatore ritirò di colpo i suoi soldi, quando nes­ suno se lo aspettava, e a quel modo costrinse anzi tempo il povero Amrain ad abbandonare la cava di pietre per il vasto mondo. Di rado gli uomini grandi e grossi sono sfortunati, per­ ché essi hanno il dono efficace e convincente di saper provvedere alle esigenze del loro fisico: i cibi non pos­ sono sottrarsi loro a lungo, ma sono anzi possentemente attirati dalla montagna magnetica della loro pancia. Co­ si il povero esule Amrain se la cavava felicemente in re­ moti lidi e, benché non concludesse nulla di grande, man­ giava e beveva in terra straniera non peggio che a casa sua. I Seldwylesi però che stavano discutendo quale di loro fosse il più adatto a fare per un certo tempo gli onori di casa fra quei sassi, fecero i conti senza l’oste, giacché la moglie abbandonata del signor Amrain mise inaspet­ tatamente un piede sull’arenaria e, in grazia della dote investitavi, si attribuì la cava, dichiarando di voler con­ tinuare l’azienda e anche, se possibile, soddisfare i cre­ ditori del marito. Fece questo passo soltanto dopo che il detto consorte fu al di là dell’oceano Atlantico e impos­ sibilitato al ritorno. Tutto si tentò per dissuaderla e per ostacolarla, ma la donna diede prova di tale fermezza, energia e prudenza, che non si potè far nulla e che essa divenne realmente proprietaria della cava di pietre. Il lavoro fu ripreso con assiduità e regolarità sotto la dire­ zione di un buon capo, venuto da fuori; e per la prima

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volta l’impresa si basò, invece che. su un traffico fittizio, sull’effettiva produzione. In questo soprattutto vollero ostacolarla, ma con lei non c’era modo di spuntarla : come donna e madre economa non aveva, in confronto ai signo­ ri Seldwylesi, grandi spese, ed era cosi in grado di parare le peggiori tempeste nel modo più semplice, pagando tutte le legittime pretese. Non fu tuttavia cosa facile, e per af­ fermarsi ella dovette dedicarvisi notte e giorno con co­ raggio, furberia ed energia. La signora Regula, stabilitasi a Seldwyla dopo il ma­ trimonio, era una donna energica, alta e robusta, con belle trecce nere e occhi fermi e scuri. Aveva avuto da suo marito tre ragazzi, allora di circa dieci, otto e cinque anni, e spesso li guardava seria e attenta, domandandosi se valeva la pena tenere in piedi la ditta per loro, dato che essi eran pure, e sarebbero sempre rimasti, dei Seld­ wylesi. Ma i ragazzi erano suoi e l’amor materno, insieme a un poco di amor proprio, le faceva sempre ritrovare il coraggio nella speranza che anche in questo, alla fine, avrebbe saputo manovrare il timone diversamente da quel che fosse l’uso di Seldwyla. Immersa in tali pensieri una sera dopo cena sedeva con davanti il libro mastro e una quantità di conti. I ragazzi erano a letto e dormivano nella cameretta di cui era aperta la porta : poco prima era andata a guardare i pic­ cini addormentati con la lampada in mano, osservando particolarmente il minore, quello che meno le somigliava. Era biondo, aveva un nasino ardito all’insù, mentre lei aveva un naso serio, dritto e lungo, e al posto della sua bocca dal taglio severo il piccolo Fritz mostrava anche nel sonno labbra sdegnosette e sporgenti. Tutto questo gli veniva dal padre, era quel che le era tanto piaciuto al tempo del matrimonio e che ora anche le piaceva nel piccolo, ma che le suggeriva anche così gravi preoccupa­ zioni. Quando ad uno piace un certo taglio di faccia, non c’è rimedio; per questo la signora Amrain era contenta che il marito fosse lontano e che lei non lo vedesse più; però nel figlio minore le aveva lasciato una copia fedele del suo aspetto esteriore, ed essa non poteva saziarsene.

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Il dirigente della cava, o capo-operaio, che entrò in quel momento per esaminare con lei lo stato degli affari e di­ scutere parecchie cose importanti, la trovò appunto im­ mersa in tali pensieri. Era un giovanotto piacente e in­ traprendente, di figura snella e robusta, equilibrato nel suo modo di vivere, laborioso e tenace, e in pari tempo con una certa furberia primitiva nei suoi pensieri, che, unita alle notevoli doti della sua padrona, faceva andar avanti bene la ditta e sconfiggeva le stolte scaltrezze dei Seldwylesi. Egli era con tutto questo un uomo, pensava quindi anzitutto a se stesso, e in tali pensieri non avrebbe trovato sgradevole esser lì da vero padrone fissandovisi in modo durevole, per il che aveva ripetutamente e rispet­ tosamente suggerito alla signora Regula di promuovere un regolare divorzio dal suo lontano consorte. Essa lo aveva compreso benissimo, ma al suo orgoglio ri­ pugnava dividersi pubblicamente, e con motivazione mor­ tificante, da un uomo che una volta le era piaciuto, col quale aveva vissuto e dal quale aveva avuto tre figli. Per amore di quei figlioli poi non voleva mettere a capo della famiglia un estraneo, preferendo conservarne almeno l’unità esteriore fino a quando i figli sarebbero stati adulti e avrebbero potuto ricevere dalle sue mani un’eredità in­ tatta, che essa sperava di mettere insieme ad onta delle difficoltà, mostrando alla gente del luogo quali fossero gli usi dei paesi donde era venuta lei. Teneva quindi a freno il suo collaboratore e così facendo andò a mettersi in un maggiore imbarazzo ; giacché quello, avvertendone la resistenza e il saldo carattere, s’innamorò davvero di lei e più che mai si propose di arrivare a quel che desiderava. Mutò condotta, e invece di aspirare, come aveva fatto sin allora, molto correttamente alla mano della padrona, si mise a far il patito per la sua persona, seguendola do­ vunque e guardandola con occhi innamorati appena c’era l’occasione. Questo pareva un mutamento a lui giovevole, poiché chi mostra di innamorarsi davvero di una persona, con ciò la seduce e la vince ben meglio che con le più rispettabili intenzioni matrimoniali. Benché la signora Amrain non perdesse la testa e non s’innamorasse di lui,

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divenne per lei sempre più difficile difendersene senza provocare una rottura e senza perderlo, e si sa che è una delle passioni delle donne conservarsi amici e alleati preziosi appena lo possono fare senza gravi sacrifici. Quando il capo-operaio entrò nella stanza, i suoi occhi splendevano di una luce insolita, perché trattando e di­ scutendo energicamente con alcuni clienti, nell’interesse della padrona, aveva bevuto una bottiglia di vino gene­ roso. Mentre le riferiva e faceva i conti con lei, la guar­ dò più volte all’improvviso, si fece distratto ed ecci­ tato, come chi covi qualche cosa. Essa trasse un poco in­ dietro la sua sedia e cominciò a stare in guardia, pur soffocando un risolino, quasi schernisse l’improvvisa intra­ prendenza del giovanotto. Ma questi le afferrò di colpo le mani e cercò di attirare a sé la bella donna, mentre, con la stessa voce sommessa con cui per riguardo ai bambini addormentati avevano condotto la discussione d’affari, la lusingava con infiammato ardore e voleva persuaderla a non lasciare passare vuota e inutile la sua esistenza, ma ad essere saggia e non rifiutare la sua fedele devozione. Essa non osò né un gesto vivace né una parola ad alta voce, per timore di svegliare i bambini fuori tempo, ma gli sussurrò adirata di lasciarle libere le mani e di uscire im­ mediatamente. Egli tuttavia non le ubbidì, anzi l’afferrò più stretta, ricordandole con parole insistenti la sua giovi­ nezza, la sua bellezza e la pazzia che commetteva lascian­ do passare quei beni tanto preziosi senza goderli. Re­ gula, ben misurando il suo avversario, i cui occhi splen­ devano non meno di gioia di vivere che di furberia, si rese conto che quello mirava soltanto a soggiogarla e subordi­ narsela per la via dei sensi e della passione, preparando una ben triste fine alla sua indipendenza. Non mancò di farglielo capire con sguardi di scherno, mentre conti­ nuava a cercare, il più silenziosamente possibile, di libe­ rarsi dalla sua stretta, al che egli s’opponeva con aumen­ tata energia e ostinazione. Lottò così per un bel pezzo col robusto giovanotto, senza che all’una o all’altra parte riuscisse di progredire, mentre di tanto in tanto la tavola smossa o un’esclamazione di sdegno repressa o un sospiro

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facevano un po’ di rumore. La povera donna era penosa« mente divisa fra il triplice oggetto delle sue preoccupazioni che dormiva nella cameretta e gli ardenti assalti della vita anche troppo desta. Non aveva che trent’anni, era già da parecchio abbandonata dal marito e il suo sangue scorre­ va caldo e vivo come non mai : non v’è certo da stupirsi che alla fine sostasse un momento con un profondo sospiro e che in quell’istante la cogliesse il dubbio che non valesse la pena di vivere con cosi fedele perseveranza nella ri­ nuncia e nel lavoro, mentre forse in fondo la sua vita era la cosa essenziale e sarebbe stato più saggio fare come gli altri, cioè concedere non a quell’intruso impudente, bensì a se stessa quel che le avrebbe potuto dar gioia e sol­ lievo ; tanto le faccende a Seldwyla avrebbero comunque seguito il loro corso ! Mentre per un attimo pensò tutto questo, le mani le tremarono fra quelle del capo-operaio, e appena egli avvertì tale piacevole mutamento d’atmo­ sfera, raddoppiò i suoi sforzi, e sarebbe forse giunto alla vittoria, malgrado la rinnovata difesa della valorosa don­ na, se non fosse intervenuto un aiuto imprevisto. Col grido angosciato e infuriato: «Mamma! C’è un ladro!» balzò nella stqnza il figlio minore, il piccolo Fritz, in tutto simile ad un piccolo San Giorgio. I riccioli d’oro gli ondeggiavano attorno al volto arrossato dal son­ no, ma gli occhi azzurri ardevano di adorabile indigna­ zione e la bocca sdegnosa aveva una piega ardita. La corta camiciola candida svolazzante sembrava la tunica d’un crociato e il minuscolo cavaliere reggeva con le braccine nude un lungo ferro da tenda con un grosso pomo dorato, e lo picchiò a tutta forza sulla testa dell’uo­ mo che, balzando subito in piedi, cominciò, imbarazzato, a fregarsi il bernoccolo che gli spuntava mentre gli si riempivano gli occhi di lagrime. Regula Amrain, arros­ sendo vivamente, trattenne il ragazzo gridandogli : « Ma che ti prende, Fritz? È Florian e non ci fa nulla di male ! ». Il ragazzino scoppiò in dirotto pianto, aggrappandosi im­ barazzato alle ginocchia della madre; questa se lo prese in braccio e stringendoselo al petto congedò con un riso appena trattenuto lo sconcertato Florian, che, benché

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avesse una gran voglia di dar scapaccioni al ragazzo, dovette far buon viso a cattivo giuoco e ritirarsi mortifi­ cato. La donna chiuse rapidamente la porta alle sue spalle, poi sostò con un sospiro di sollievo, restando però pensie­ rosa in mezzo alla stanza, sempre con in braccio il bravo bimbo che le aveva messo il braccìno sinistro attorno al collo e con la manina destra teneva ancora, puntato a terra, il lungo ferro da tenda dal pomo dorato. Essa fissò il volto del fanciullo, lo coprì di baci, poi riprese la lampada e s’awiò nella cameretta a vedere che facessero i due mag­ giori. Quelli dormivano come marmotte e non avevano udito nulla. Sembravano dunque dei dormiglioni, benché assomigliassero a lei, nelle fattezze, mentre il minore, così simile al padre, s’era rivelato sveglio, sensibile e coraggioso e prometteva di diventare un giorno ciò che avrebbe do­ vuto essere il genitore e che essa in passato aveva invano cercato in lui. Mentre meditava su tale misterioso giuoco della natura, non sapendo se compiacersi che il ritratto del marito un tempo amato fosse migliore delle due pigre creature fatte a sua immagine, riportò il piccino nel suo letto, lo ricoprì bene e decise di riporre da quel momento tutta la sua fiducia e la sua speranza in quel minuscolo San Giorgio, ricompensandolo della sua precoce caval­ leria. “Se i due dormiglioni, che son pure sempre miei figli” pensò “voglion venire con noi per la buona stra­ da, tanto meglio, lo facciano pure”. L’indomani parve che il piccolo Fritz avesse già dimen­ ticato l’incidente, e per vecchi che diventassero madre e figlio, mai con una sillaba ne fecero menzione tra loro. Il figlio tuttavia lo serbò chiaramente nella memoria, pur dimenticando del tutto, col tempo, molti altri eventi posteriori. Ricordava esattamente di essersi destato già all’arrivo di Florian, perché, malgrado il sonno sodo, era un ragazzino svelto e vigile che udiva tutto. Ave­ va così sentito ogni parola del colloquio, sinché se ne era spaventato, intuendo anche, senza comprender­ lo, qualcosa di sconveniente e di pericoloso. L’aveva còlto un vivo terrore per la mamma, tanto che, avverten­ do più per istinto che con l’udito la tacita lotta dei due,

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era balzato in suo soccorso. E chi può seguire le vie mi­ steriose di certe facoltà che si nascondono nell’anima in­ fantile? Quand’ebbe ben riconosciuto Florian, chi in­ segnò all’ometto la fulminea, incosciente e riguar­ dosa finzione? Chi gli suggerì di far come se vedesse un ladro e gli fece così prontamente colpire l’avversario sulla testa? Sua madre mantenne la parola e l’allevò in modo che di­ ventò un brav’uomo a Seldwyla, e fu uno dei pochi che co­ sì seppe conservarsi sino alla morte. Difficile sarebbe dire come avviasse e portasse a termine quest’impresa, poiché di fatto essa lo educò il meno possibile e l’opera sua consi­ stette quasi esclusivamente nel lasciar crescere accanto a sé e secondo il suo esempio l’alberello fatto dello stesso suo legno. La brava gente laboriosa fa molto meno fatica a educare bene i propri figli, di quanta ne farebbe per esem­ pio uno stupido analfabeta per insegnare a leggere al suo bambino. In complesso tutta la sua pedagogia consistette nel far capire al piccino, pur senza sentimentalismi, quan­ to essa gli volesse bene, suscitando così in lui il bisogno di piacerle sempre e ottenendo che in ogni occasione pensas­ se a lei. Senza incepparne i liberi movimenti, teneva il piccolo molto con sé, così che esso assunse i modi e i pen­ sieri di lei e spontaneamente non fece poi nulla che non fosse del gusto della madre. Essa lo vestì sempre sempli­ cemente, ma bene, e con una certa raffinatezza, cosicché egli si sentì sicuro, comodo e soddisfatto nei suoi abiti, senza che mai dovesse pensarci, il che lo salvò dalla va­ nità e gli fece ignorare la smania di vestirsi meglio o di­ versamente dal solito. Analogamente si comportò per il cibo ; consentì a tutti i desideri equi e non dannosi dei suoi tre figlioli e nessuno in casa sua mangiava una cosa di cui essi non avessero parté: però, malgrado la regolarità e l’abbondanza, trattava i cibi con tale trascuratezza e qua­ si dispregio, che il piccolo Fritz imparò a sua volta a non attribuirvi particolare peso e a non ripensare appena sazio a qualche straordinario buon boccone. Soltanto la tre­ menda e prolissa importanza che quasi tutte le buone mas­ saie conferiscono ai cibi e al modo di cucinarli, suscita di

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solito nei bambini la golosità e l’ingordigia, che si trasfor­ ma poi, quando sono adulti, in tendenza alla vita gauden­ te e spendereccia. È strano come presso i popoli germanici sia considerata come la migliore e la più virtuosa massaia quella che fa più chiasso con le sue pentole e non si presen­ ta mai senza avere in mano qualcosa di commestibile; non c’è da stupirsi se poi i signori germanici son diventati dei gran ghiottoni, se tutta la felicità dell’esistenza si basa su un’ottima cucina e se si dimentica totalmente quale cosa secondaria sia in fondo il mangiare nel nostro fugace viaggio mortale. Allo stesso modo si comportò per quello che di solito invece i genitori trattano come cosa tre­ mendamente solenne: il denaro. Appena possibile fece conoscere al figlio le loro condizioni patrimoniali, gli fece contare somme di denaro, gliele fece riporre nella cassa, e, appena fu in grado di distinguere le monete, gli lasciò un piccolo salvadanaio a sua completa disposizione. Se commetteva poi una sciocchezza o cedeva a una tenta­ zione della gola, non ne faceva un gran delitto, ma gliene dimostrava con poche parole la sconvenienza e il ridi­ colo. Se si appropriava di qualcosa che non gli spettasse o si permetteva una di quelle compere segrete che tanto atterriscono i genitori, non ne nasceva una catastrofe ; essa lo mortificava semplicemente e apertamente, come un ragazzo sventato e sciocchino. Tanto più severa si mostra­ va invece quando egli si comportava con meschinità e con volgarità nelle parole o nei gesti, il che però accadeva solo di rado : allora gli faceva una sfuriata senza riguardi e gli dava degli scapaccioni così energici che la faccenda non poteva cadere in dimenticanza. Di solito si agisce proprio in modo opposto: quando il bambino commette un peccato di denaro o arriva persino ad appropriarsi di una somma, genitori e maestri sono còlti dalla strana paura di un avvenire scellerato, come se essi medesimi sapessero quanto sia difficile non diventare un ladro o un imbroglione ! Quel che su cento casi è novantanove volte la mera bizzarria improvvisa e inspiegabile di un bam­ bino trasognato, diventa così oggetto di un terribile pro­ cesso, in cui si parla addirittura di forca e di galera. Come

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se queste care pianticine, con il destarsi della ragione, non fossero protette dal voler diventare ladri e bricconi dal loro stesso egoismo umano, o anche solo dalla vani­ tà. Come vengono invece trattati con indulgenza be­ nevola e persino favoriti mille altri tratti e sintomi minori dell’invidia, della gelosia, della vanità, dell’arroganza, dell’egoismo e della presunzione ! È ben difficile che i si­ gnori educatori scoprano in un bambino un’indole preco­ cemente ipocrita e falsa, mentre si scagliano con infernale sdegno su quello che per imbarazzo o per birichineria ha detto con tutta ingenuità un’unica e sfacciata menzogna ! Qui essi trovano un pretesto comodo e ben chiaro per ur­ lare nelle orecchie stupite del piccolo genio inventivo il loro comandamento: «Non mentirei». Quando Fritz osava una bugia di quel genere, la signora Regula gli diceva semplicemente, fissandolo: «Che scherzi mi fai, stupidello? Perché inventi simili sciocchezze? Credi di poter prendere a gabbo i grandi? Stai contento se non la dànno a bere a te, e lascia perdere tali scherzi ! ». Quando invece ricorreva a una bugia per dissimula­ re il peccato commesso, gli dimostrava con parole serie ma affettuose che in tal modo la faccenda non era tolta di mezzo, e riusciva a fargli comprendere che sarebbe stato meglio per lui confessare con aperta lealtà il suo fallo; non istruiva però un nuovo processo per la menzogna, ma considerava il peccato senza tener conto se avesse poi mentito o no, cosicché il bimbo presto comprese l’inutilità e la meschinità di quei ripieghi e finì per sentirsi troppo orgoglioso per ricorrervi. Se invece mostrava la minima tendenza ad attribuirsi qualità che non possedeva o ad esagerare quel che sembrava promet­ tere bene in lui, o a menar vanto di ciò di cui era capace, lo biasimava con parole dure e taglienti e arrivava anche a dargli qualche scappellotto se la cosa le sembrava trop­ po grave e antipatica. Anche quando s’accorgeva che giocando ingannava altri bambini per trarne piccoli van­ taggi, lo puniva con maggior severità che se avesse ne­ gato qualche sua più grave mancanza. Nell’insieme però tutta l’educazione non costava forse le

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parole che ci son volute qui per esporla e si basava co­ munque più sul carattere della signora Amrain che su un sistema predisposto o ancor peggio tratto da letture. Per questo una parte di quel procedimento non potrà essere seguito da chi non possegga il suo carattere, mentre un altro aspetto, ad esempio il suo modo di fare circa le vesti, il nutrimento e il denaro, non potrà servire a gente troppo povera. Dove infatti non c’è nulla da mangiare, il cibo diventa naturalmente di capitale importanza a ogni istante e sarà difficile disabituare dalla ghiottoneria bambini cresciuti in simili condizioni, poiché tutti gli sforzi e le preoccupazioni della famiglia si concentrano sul nutrimento. Specialmente durante l’infanzia del ragazzo, lo sforzo pedagogico fu molto lieve per la madre, poiché, come di­ cemmo, l’educazione procedette piuttosto con la sua per­ sonalità che con la lingua, e andò a confondersi così con la sua consueta esistenza. Se volessimo chiedere in che cosa consistesse, date la facilità e la semplicità del compito, la sua particolare tenacia e il suo proponimento, potremmo rispondere : soltanto nell’amore che gli prodigava, impri­ mendo alla personalità del fanciullo la propria e facendo diventar suoi i propri istinti. Non mancò però l’ora in cui le toccò applicare alcune misure educative decise ed energiche, quando cioè il bravo Fritz, ormai giovanotto, si ritenne completamente educa­ to, mentre la madre stava più che mai all’erta, dovendosi proprio allora decidere se avrebbe imboccato la via giusta o sbagliata. Non furono che pochi i momenti in cui intra­ prese passi decisivi ed energici contro la sua giovane indipendenza, ma lo fece sempre al momento giusto e così all’improvviso, in modo tanto significativo e persuasivo, che non mancò mai un durevole effetto. A diciott’anni Fritz era un bel giovinetto, piacevole a vedersi coi suoi capelli biondi, i suoi occhi azzurri, molto sicuro e disinvolto in ogni sua attività. Aveva già assunto la direzione dell’azienda per quel che riguardava il la­ voro all’aperto, dopo aver lavorato sin dal suo quattordi­ cesimo anno alla cava. Aveva una faccia seria e intei-

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ligente, pur serbandosi sereno e di buon umore, e quel che più piaceva a sua madre era la capacità di trattare con tutti senza imitarne i modi. Non lo trattenne dall’andare a passeggio quando si annoiava troppo a casa né dallo stringere amicizia con altri compagni, ma l’acuta osser­ vatrice vide con piacere che non prendeva troppo gusto a stare coi giovani di Seldwyla, coi quali a volte si in­ tratteneva : ne misurava il carattere e con loro ingannava soltanto il tempo, finché gli accomodava. Vide anche con soddisfazione che non era tirchio e in compagnia of­ friva volentieri qualche bottiglia, senza però risentirne per proprio conto cattive conseguenze, e che non veniva im­ plicato in alcun pasticcio sporco o sgradevole, pur dandosi dattorno dappertutto e sapendo sempre come si erano svolte le cose, anche senza essere un ipocrita o un delatore. Aveva una certa opinione di sé senza cadere nell’alterigia e sapeva difendersi quando era necessario. La signora Regula stava quindi di buon animo, persuasa che quella fosse la maniera giusta e che il suo rampollo non fosse certo uno stupido. Una volta s’accorse che cominciava a farsi rosso in­ contrando delle belle ragazze, che osservava con critica attenzione persino quelle brutte e che si mostrava imba­ razzato quando una vispa donnina grassottella entrava in casa, pur divorandosela in segreto con gli occhi. Da que­ sti tre sintomi dedusse due cose : in primo luogo che non si era ancora guastato, in secondo che, se c’era per lui il pe­ ricolo di inciampare sulla larga strada della città, questo pericolo poteva venirgli soltanto da parte delle dame di Seldwyla, e disse in cuor suo: “È a quello che vorresti arrivare, briccone?”. Le belle della città non erano peggiori dei loro mariti, e, giunte a una certa età, pensavano a conservare molte cose che quelli invece avrebbero preferito ancora disperdere. Siccome però i mariti volentieri si divertivano, esse non volevano restare indietro sinché potevano, e nel bel sesso, come è noto, tutte le deviazioni e le mancanze hanno un’unica conclusione, il che è una vecchia storia che ha molteplici ripercussioni sulla fortuna o la sfortuna dei si-

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gnori loro compEci. Perciò anche sotto questo rapporto le cose a Seldwyla procedevano un po’ più allegramente che in altri posti. Allorché la signora Amrain, tenendo bene aperti i suoi occhi neri, s’accorse con irata preoccupazione del come e quando si tentasse di corromperle il suo ragazzo, si pre­ sentò presto un’occasione al suo intervento materno. Si fe­ steggiarono delle nozze solenni in municipio e la nuova coppia faceva parte di quella gente troppo rumorosa ed al­ legra che era appunto allora in auge. Come in altri luoghi della Svizzera, anche nelle feste nuziali di Seldwyla, quando v’è banchetto e ballo serale, ci sono ospiti di due qualità: i veri invitati alle nozze e poi gli amici e i parenti di questi, che recano umoristici doni per la festa o per il pranzo, con svariati scherzi, con poesie e allusioni. Per far ciò indossano allegri travestimenti di vario genere, in corrispondenza al dono offerto, mantengono la maschera, mentre vanno a cercare ciascuno il proprio amico o pa­ rente, mettendosi poi dietro la sua sedia e tenendo un discorso allorquando offrono il regalo. Fritz Amrain ave­ va l’intenzione di offrire alcuni doni a una sua cuginetta e la mamma non vi si era opposta, dato che la ragazzina era ancora molto giovane e di buona indole. Ma Fritz era attratto, più che dalla cuginetta, dall’indistinto desi­ derio di sfogarsi una volta, a piacere, fra le allegre dame seldwylesi, la cui esuberanza, quando erano in numerosa brigata, gli era stata molte volte piacevolmente descritta. Non aveva però ancora deciso quale maschera scegliere per presentarsi alla festa, e solo verso sera si convinse, dietro il consiglio di alcuni conoscenti, a travestirsi da donna. Sua madre era per caso uscita quando egli rientrò con quell’allegro proposito e subito cominciò ad attuarlo. Senza cattive intenzioni, diede l’assalto all’armadio del­ la mamma, e buttò tutto alla rinfusa, aiutato da una do­ mestica ridanciana, sinché ebbe trovato le vesti migliori dai colori vivaci e se le fu prese. Indossò il più bell’abito di sua madre, quello che essa non portava che in occasioni solen­ ni e frugò per di più nelle scatole piene di collarini, di na­ stri e di altri ornamenti. Alla fine cinse persino la collana

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della mamma e si uni in quella guisa, ornato alla meglio, ai suoi compagni, che si erano nel frattempo travestiti essi pure. Trovò là due allegre sorelle che completarono il suo costume pettinandogli con molta grazia la testa bionda e perfezionando il suo busto con un adeguato seno femmi­ nile. Mentre stava seduto su una sedia subendo le manipo­ lazioni delle ragazze per nulla timide, il volto gli si faceva di fuoco e il cuore gli batteva di impaziente piacere, ma d’altra parte si destava in lui la cattiva coscienza, insi­ nuante che la faccenda non fosse poi del tutto in ordine. Mentre si avviava quindi con la sua brigata verso il mu­ nicipio, reggendo un cestello coi doni, aveva davvero l’aspetto confuso e pudico di un’autentica fanciulla e quando apparve così, con gli occhi abbassati, alla festa di nozze, suscitò il plauso generale, specialmente delle signore ivi raccolte. Nel frattempo però sua madre era tornata a casa e aveva visto l’armadio spalancato e il saccheggio operato nelle scatole e nei cassetti. Quando venne infine a sapere per qual scopo ciò fosse accaduto e le dissero che il suo ram­ pollo era uscito con abiti femminili, e per di più coi suoi migliori, fu còlta prima da grande rabbia, poi da ancor più grande inquietudine. Nulla infatti le sembrava più adatto ad iniziare un giovanotto alla vita scapestrata che una spedizione in abiti femminili a nozze seldwylesi. Ri­ nunciò quindi alla sua cena, aggirandosi in grande ansia per la casa per un’ora intera, senza sapere come avrebbe potuto sottrarre il figliuolo ai pericoli che lo minacciava­ no. Le ripugnava farlo semplicemente chiamare in­ dietro, infliggendogli così una mortificazione; temeva inoltre, a buona ragione, che lo avrebbero trattenu­ to o che egli medesimo si sarebbe rifiutato di venire. D’altra parte intuiva come in quella sola notte lo po­ tevano far piegare in modo decisivo sulla via del male. Alla fine, non trovando pace, si decise ad andare in per­ sona a prendere suo figlio e poiché, con le sue molteplici relazioni, aveva un mezzo pretesto per fare una comparsa di un’oretta alla festa, si vestì rapidamente, scegliendo un abito un po’ più elegante di quello di tutti i giorni, ma non

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tanto solenne da rivelare eccessivo rispetto per l’allegra brigata. Si avviò dunque verso il municipio accompagnata soltanto dalla domestica, che la precedeva reggendo la lanterna. Entrò nel salone del banchetto, ma la cena e l’allegra cerimonia dei doni erano già passate; i do­ natori avevano ormai tolto le maschere, mescolandosi agli altri invitati. Nel salone non si vedevano altro che dei gruppi di uomini, in parte intenti a giocare a carte, in parte a bere, ed essa salì allora la scaletta che condu­ ceva ad una antiquata galleria, di dove si poteva ben dominare il salone in cui si svolgeva il ballo. La galleria era affollata di gente varia, non in vista, che si acconten­ tava di assistere alle danze come gli abitanti di una sede principesca alle nozze dei loro sovrani. Regula potè così osservare inavvertita il ballo, che si svolgeva con una cer­ ta solennità, dissimulando alla meglio la generale bramo­ sia amorosa con il ridicolo di un rigido cerimoniale. Non diversamente si sarebbero mai comportati i Seldwylesi, fedeli al motto: Tutto a suo tempo. Se con poca fatica potevano offrire e godere lo spettacolo di un ballo, per i loro criteri molto aristocratico, perché avrebbero do­ vuto rinunciarvi? Frizt Amrain non era però fra i ballerini, e più sua madre lo cercava, tanto meno le riusciva di scovarlo. Ma quanto più a lungo non lo trovava, tanto più cresceva in lei il desiderio di vederlo, e non soltanto per la paura, ma per constatare davvero che figura facesse e se non avesse aggiunto scioccamente alla sventatezza il ridicolo, girando attorno, Dio sapeva dove, come una donnaccia goffa e mal conciata. Durante le sue ricerche capitò in un cor­ ridoio laterale della galleria, chiuso da una finestra muni­ ta di tenda e destinata a dar luce appunto a quel corri­ doio. La finestra però dava sul salone minore del munici­ pio, un’antica stanza gotica, e si apriva in alto sulla pa­ rete. Scostando un poco la tenda e guardando giù nella sala scarsamente illuminata da strani lampadari pieni di fronzoli, scorse una piccola comitiva che sembrava diver­ tirsi in tutta tranquillità e allegria. Guardando meglio, la signora Regula riconobbe sette o otto signore, i cui

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rispettivi mariti aveva già visto giocare nell’altro salone, sfoggiando grosse puntate. Le signore sedevano in uno stretto semicerchio, avendo di fronte altrettanti giovanot­ ti intenti a far loro la corte. Ma neanche fra questi si tro­ vava Fritz e la mamma ne fu ben felice, poiché il gruppo di quelle dame non era certamente rassicurante. Osser­ vandole infatti una ad una, vide che erano tutte sposine considerate, ognuna a suo modo, pericolose, e che in città godevano di una nomea se non cattiva, per lo meno miste­ riosa, il che, data la tolleranza generale, era pur sempre abbastanza. Riconobbe per prima la non brutta Adele Anderau, appetitosa a vedersi, senza che si sapesse bene il perché, e che nei momenti di bonaccia sapeva guardare i giovanotti a occhi semichiusi in un certo modo da cacciar loro in cuore una strana scintilla di speranzoso desiderio. Essa ne lasciava però andare dieci senza riguardi, anzi con un certo clamore, per concedere poi la felicità tanto più regolarmente, in un’ora sicura, all’undicesimo. Vi era poi Julie Haider, la passionale, che vezzeggiava pubblica­ mente con grande impeto e in presenza di quanti testimoni era possibile il proprio marito, ostentando la più infiam­ mata gelosia e accusandolo di continuo di infedeltà, sinché un terzo qualunque, invidioso dell’insensibile consorte, aspirava a condividere tanta passione. Vi era lì anche la mite e melanconica Emmeline Ackerstein, una povera vit­ tima maltrattata dal marito perché non sapeva far nulla e trascurava la casa; sempre pallida e languida s’abban­ donava lagrimosa tra le braccia di chi fosse disposto a con­ solarla. Né mancava la perfida Lieschen Aufdermaur, capace di ordire intrighi e pettegolezzi sinché un calun­ niato, preso dall’ira, non la metteva alle strette a quat­ tr’occhi e non si vendicava su di lei. Seguiva poi, oltre a due o tre vispe creature che senza alcuna ulteriore motiva­ zione facevano senz’altro il piacer loro, la taciturna Theresa Gut, sempre inerte e impassibile, che di nessuno s’occupava e a mala pena rispondeva se interpellata, ma che, se per caso capitava in un’avventura e veniva aggre­ dita, si metteva inaspettatamente a ridere come una pazza rinunciando a ogni difesa. Si trovava infine nel gruppo

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anche la frivola Käthchen Amhag, sempre oberata da una quantità di colpe segrete. Riconosciuta la qualità di quella comitiva femminile, la signora Amrain stava per ringraziare il buon Dio che almeno lì non ci fosse suo figlio, quando scoprì tra le donne una figura che al primo momento non riconobbe, pur sembrandole di averla già spesso veduta. Era una matrona alta e di bella persona, con l’atteggiamento di un’amaz­ zone e un’ardita testa di riccioli biondi, che se ne stava però fra quelle donne allegre in leggiadra confusione, come innamorata, e che tutte trattavano con grandi ri­ guardi. La seconda occhiata però le bastò a riconoscere suo figlio e insieme il proprio abito di seta violetta, che gli stava a pennello, tanto che dovette subito ammettere che si era acconciato con molta grazia e abilità. Ma nello stesso momento vide anche che una vicina gli dava un bacio, conseguenza di un giuoco di società cui l’allegra compagnia era intenta, mentre egli a sua volta baciava una vicina, e ritenne allora che fosse giunto il momento in cui ricambiargli quel servigio che egli, bimbo di cinque anni, le aveva reso un giorno. Scese rapida la scaletta ed entrò nella sala, salutando con distaccata cortesia la brigata stupefatta. Tutti si alza­ rono imbarazzati: benché infatti in città se ne dicessero abbastanza anche sul suo conto, ella ispirava pur sempre molta stima dovunque apparisse. I giovanotti la saluta­ rono con sincera riverenza imbarazzata, tanto più sincera quanto più essi erano teste calde; delle donne poi nes­ suna voleva darsi l’aria di essere in cattivi rapporti con la più rispettabile dama della città, o di non saper abbor­ darla, per il che le si affollarono tutte intorno con gran chiasso, appena si furono un poco rimesse dalla sorpresa. Il più sconcertato era tuttavia Fritz, che non sapeva più co­ me comportarsi nell’abito di sua madre; questo fu infatti il suo primo spavento, e l’occhiata severa da lei lanciatagli per il momento l’attribuì soltanto alla seta preziosa della sottana. Non erano ancora sorti in lui ulteriori scrupoli, giacché fra l’allegria generale lo scherzo poteva sembrare lecito e consueto. Allorché tutti ebbero ripreso posto e do-

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po che la signora Amrain si fu intrattenuta un quarto d’ora cordialmente con i giovani, fece cenno al figliuolo e gli chiese di volerla accompagnare a casa, desiderando rientrare. Quando egli si disse subito pronto a obbedirle, gli sussurrò severamente : « Se volevo farmi accompa­ gnare da una donna, potevo trattenere Grete, che mi ha fatto lume sin qui ! Farai la cortesia di andare prima a casa a indossare abiti che meglio ti si convengono di questi ! ». Solo allora si rese conto che la cosa non era giusta; s’allontanò arrossendo e, mentre correva per la strada sen­ tendosi impacciato dall’insolito fruscio della veste fra i piedi, mentre il guardiano notturno gli mandava occhiate sospettose, ancor più si accorse che quello non era un abbigliamento adatto per un giovane repubblicano e che con esso non si poteva guardare in faccia nessuno. Men­ tre, giunto a casa, mutava in fretta il vestito, gli venne in mente che la madre intanto era rimasta sola tra la folla in municipio e questo pensiero lo rese di colpo estremamente irritato e preoccupato del suo onore, tanto che cer­ cò di arrivarci il più presto possibile per riaccompagnarla. Gli parve di renderle un vero servizio da cavaliere ricom­ parendo molto puntualmente e di appianare così nel modo migliore le eventuali difficoltà. Ma la signora Amrain si congedò dalla compagnia e si avviò seria e taciturna verso casa, a fianco di suo figlio. Ivi giunta sedette con un sospiro nella sua solita poltrona e tacque un momento* poi si alzò, prese la sua bella veste di seta e la fece a pezzi dicendo : — Ormai posso gettarla via, tanto non la porterò mai più ! — Ma perché mai? — disse Fritz stupito e di nuovo intimidito. — Come potrei — replicò Regula — portare ancora una veste che mio figlio ha indossato tra donne scostu­ mate, fingendo di essere una di loro? — E ruppe in lagri­ me ordinandogli di andare a letto. — Infine — disse lui andandosene — non sarà poi una cosa tanto pericolosa ! — Ma non potè addormentarsi,

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perché la sua testa era eccitata e dal divertimento inter­ rotto e dalle parole della madre. Ebbe quindi agio di meditare sulla faccenda e trovò che la mamma in un certo senso aveva ragione, ma lo ammise soltanto perché egli stesso disprezzava quella gente con cui poco prima s’era divertito. Si sentiva poi un poco lusingato nel suo orgoglio da quell’interpretazione, e soltanto quando la madre la mattina e i giorni seguenti rimase seria e triste, comprese meglio e sino in fondo la cosa. Non se ne parlò mai più fra loro, ma Fritz fu salvo, perché si vergognava di fronte a sua madre più che di fronte al mondo intero. Per alcuni mesi Regula non ebbe motivo di nuove pre­ occupazióni, finché un giorno, quando si presentò una bella e fiorente ragazza di campagna per cercar servizio da lei, Fritz si diede senz’altro ad osservarla e poi le si avvicinò, dimenticando ogni cosa dintorno, e le accarezzò le guance. Ne fu subito spaventato egli stesso, e corse via, ma anche la mamma si spaventò, la ragazza arrossì irri­ tata e si volse per andarsene senz’altro. Regula vedendo questo la trattenne e riuscì a convincerla a entrare al suo servizio. “Qui bisogna decidersi”, pensò, sentendo in pari tempo che non era possibile dominare più a lungo quel sangue caldo in modo solo negativo. Si avvicinò quin­ di quello stesso giorno a suo figlio, quando questi si fu accomodato colla sua merenda dietro la casa, sotto un ombroso pergolato di uva, di dove guardava lontano nella valle, verso le linee azzurre dei monti abitati da gente diversa. Gli circondò le spalle col braccio e guardandolo affettuosamente negli occhi disse: — Caro Fritz ! Sii ancora docile e obbediente per due o tre annetti, ed io poi ti procurerò la più bella e la più buona mogliettina del mio paese, della quale potrai an­ dare orgoglioso ! Fritz abbassò gli occhi arrossendo, còlto da vivo im­ barazzo, e replicò sgarbato: — Ma chi dice che voglia avere una moglie? — Ma la devi prendere ! — replicò la madre — e, co­ me ti dico, una buona e bella, ma solo se la meri­ terai, perché mi guarderò bene dal render disgraziata

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una brava figliola! — Così dicendo baciò suo figlio, il che non aveva fatto da tempo immemorabile, e rientrò in casa. Il giovane provò una strana impressione e da quell’ora tutti i suoi pensieri erano rivolti alla moglie buona e bella, ed erano pensieri che durevolmente lo occupavano e lo lusingavano, così che non ebbe più occhi per nessuna donna di Seldwyla. La tenerezza con la quale la mamma gli aveva suggerito simile idea conferì ai suoi desideri un indirizzo più intimo e più nobile, ed egli si sentì ben si­ curo fra tanta benevolenza. Non aspettò però i due anni e i preparativi della madre, ma cominciò presto, nelle do­ meniche di bel tempo, a far gite in campagna e ad aggi­ rarsi specialmente nel paese della mamma. Prima d’ali lora c’era stato sì e no una volta e ci trovò la più cordiale accoglienza da parte dei parenti: e degli amici materni, che si compiacquero altamente di quel bel giovanotto e 10 considerarono per di più una specie di miracolo, es­ sendo un Seldwylese ben riuscito, di indole posata e non spaccone. Divenne familiare in quella regione, del che sua madre ben si accorse senza opporvisi; non immagi­ nava però che avesse già, prima di ogni suo sospetto, una vera e propria innamorata, che gli sembrava corrispon­ dere esattamente alle promesse fattegli dalla madre. Quando Regula ne ebbe notizia, corse a vedere molto preoccupata chi mai potesse essere, ma con suo lieto stu­ pore constatò che egli era su di un’ottima strada: non potè infatti che lodare il gusto e la scelta del figlio, non­ ché la limpida serenità e la fedeltà con cui esso amava la fanciulla prescelta, così che si vide finalmente sollevata da ogni ulteriore astuzia o costrizione. Aveva appena superato con fortuna quello scoglio, quando se ne presentò un altro, che minacciava di farsi ancora più pericoloso e che porse un’altra volta a Regula l’occasione di mettere alla prova la sua saggezza. Era ar­ rivato cioè il tempo in cui il figlio Fritz cominciò a far della politica e a venire così a contatto, più che per ogni altra ragione, con i suoi concittadini. Per la sua giovinezza, 11 suo senno, la sua buona coscienza quanto all’adempi-

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mento dei doveri personali e per l’intelligenza ereditata dalla madre era di sensi liberali. Secondo le idee più con­ suete e superficiali si sarebbe potuto supporre che la signora Amrain nutrisse sentimenti aristocratici, perché costretta a disprezzare la maggioranza delle persone tra cui viveva, ma così non era, giacché più alta e importante che la disistima è la stima del mondo nel suo insieme. Chi è li­ berale si aspetta qualcosa di buono da sé e dal mondo ed è virilmente cosciente che bisogna darsi per questo scopo, mentre il conservatorismo antiliberale si basa sulla paura e sull’angustia mentale, le quali sono difficilmente conciliabili con la vera energia virile. Or sono mill’anni, s’iniziò l’età in cui era considerato perfetto eroe e cavaliere soltanto chi fosse anche un buon cristiano, giacché nel cristianesimo stavano allora il senso di umanità e il pro­ gresso. Oggi si può dire : per valoroso ed energico che uno sia, se non sa essere liberale non è un uomo completo. E la signora Regula, dopo essersi tanto sbagliata col pro­ prio marito, aveva adottato troppo rigidi criteri, circa quelle che per il suo gusto erano le virtù virili, per fare a meno di un solido e sicuro liberalismo. Quando del resto suo marito l’aveva chiesta in isposa, brillava nel pieno splendore del suo giovanile radicalismo, che per vero dire egli maneggiava con la stessa importanza con cui un giovanetto maneggia il suo primo orologio d’argento. Anche a prescindere del resto dalle ragioni di gusto, essa proveniva da un paese in cui da tempi immemora­ bili tutti erano stati sempre liberali e che nel corso del tempo e ad ogni occasione s’era distinto quale borgata decisa, energica e perseverante, tanto che quando si dice­ va : « Quelli di X. . . hanno detto questo o fatto quest’altro», un’intera regione veniva trascinata da quel vi­ goroso impulso. Se per esempio la signora Amrain aveva occasione di esporre la sua opinione circa un caso contro­ verso, non badava a quel che ne dicevano i Seldwylesi, bensì al parere della gente del suo paese nativo e a quello ispirava i suoi pensieri. Tutto ciò per Fritz era spinta sufficiente ad essere un buon liberale, anche senza aver fatto studi speciali.

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Quanto all’altro pericolo che nasce per chi si appassioni alla politica là dove c’è libertà di parola e di azione, e dove la gente sceglie la propria strada, il pericolo cioè di diventare un ozioso frequentatore di osterie, esso era senza dubbio anche più grande a Seldwyla che in altri luo­ ghi della Svizzera, che serbano fedeli insieme a tutto il vec­ chio mondo il comodo metodo germanico di voler discu­ tere e rimuginare le faccende importanti in serena calma trasognata, accanto alle sorgenti delle bevande e comun­ que a un qualche godimento. Non dovrebbe essere così, giacché bere un buon bicchiere in calma serena è scopo, compenso, frutto, mentre, a volerlo considerare in un senso più profondo, l’esercizio dei diritti politici non è che un mezzo per pervenirvi. Questo pericolo peraltro non era grave per Fritz, già troppo avvezzo all’ordine e al lavoro e non incline ad imitare proprio i Seldwylesi. Maggiore era invece per lui il pericolo di diventare un chiacchierone e un fanfarone che ripete sempre le stesse cose ed è con­ tento di ascoltare se stesso; infatti in gioventù nulla può più facilmente sedurre che il vivo senso di princìpi e di idee da poter sfoggiare liberamente e senza riguardi, es­ sendo essi rivolti al bene e all’utile di tutti. Ma quando cominciò davvero a parlare di politica gior­ no e notte, a stiracchiare il medesimo argomento, e as­ sunse il vezzo puerile di intontirsi con cieche affermazioni, illudendosi che le cose debbano davvero procedere secon­ do quel che si desidera e si afferma, sua madre una volta lo interruppe in pieno entusiasmo del tutto inaspettatamente dicendogli : « Che cosa sono queste eterne chiacchiere da politicante? Non mi accomodano per nulla ! Se non puoi farne a meno vai in piazza o all’osteria, qui in casa non voglio tanto chiasso!». Fu una parola detta al momento giusto ; Fritz si fermò sconcertato a mezzo della sua conclone, non sapendo più che dire. Uscì, e rimuginando sul singolare incidente cominciò a vergognarsene, tanto che una buona mezz’ora dopo ne arrossì sino alle orecchie, e da quell’ora fu bell’e guarito e s’awezzò a liquidare la sua politica con poche parole e con più pensieri. A ciò era bastato il rimprovero

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fattogli una volta da una bocca femminile di essere un chiacchierone politicante. Ben più grave si rivelò il terzo pericolo, quello opposto, di rovinarsi mal collocando le sue energie. Se infatti i Seldwylesi erano mutevoli e incostanti nelle loro idee politiche, rimanevano invece pervicaci nel partecipare ad ogni impresa soldatesca e ribelle, e quando nella regione si trattava di abbattere con la violenza un governo d’op­ posizione, di intimidire una debole maggioranza o di ap­ poggiare a mano armata una minoranza insofferente e ribelle, sempre da Seldwyla, qualunque fosse l’idea do­ minante, partiva per il luogo dei disordini una schiera di gente armata, di notte e per vie traverse e nascoste, o in pieno giorno e sullo stradone, a seconda del pericolo. Nulla sembrava loro tanto divertente come girare il mondo per alcuni giorni in sessanta o settanta, bene ar­ mati di fucile, ben provvisti di minacciose e pesanti palle di piombo e di preziosi talleri d’argento, coi quali ultimi si ■poteva godersela nelle osterie affollate, alzando col bic­ chiere in mano rumorosi brindisi ad altri militi, che pure prendevano la cosa più o meno sul serio. Dato che a com­ pletare la vita e a farla procedere ci vogliono la legalità e la passione, la norma e la spontaneità naturale, la tradizione e la rivoluzione, non v’era in questo campo da dir nulla se non: «Badate voi a quel che combinate!». Ma i Seld­ wylesi nelle loro spedizioni avevano la particolare sfor­ tuna di arrivare sempre o troppo presto o troppo tardi e al posto sbagliato, e di non poter mai tirare un colpo, se non durante il ritorno, al quale si inducevano dopo com­ plesse discussioni e abbondanti bevute e durante il quale sparavano almeno in aria per proprio divertimento alcune cartucce. Questo tuttavia bastava ad accontentarli : erano stati in qualche modo della partita; e in paese si diceva che anche i Seldwylesi erano accorsi in perfetta forma­ zione, tutti uomini coi fucili pronti e con gli orologi d’oro in tasca. Quando accadde la prima volta che Fritz Amrain sentì parlare di simili spedizioni in età da potervisi unire, egli, trattandosi di una causa giusta, corse subito a casa impa-

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ziente, perché era già l’ultimo momento e il gruppo era già sulle mosse. A casa indossò l’abito migliore, prese de­ naro sufficiente, si mise a tracolla la cartuccera e prese il suo fucile di soldato, sempre tenuto in perfetto stato, giacché era un ottimo ed energico giovane capofila che non pensava di sfoggiare un’arma senza saperla ma­ neggiare, ma si proponeva con sincero zelo di cari­ care e scaricare il suo schioppo leggero appena se ne presentasse l’occasione, anzi già con la fantasia non ve­ deva altro che l’ultima collina, l’ultima svolta, oltrepas­ sando la quale si sarebbe scorto l’avversario odiato e sa­ rebbe cominciata la sparatoria. Non prese con sé alcun bagaglio e si congedò a mala­ pena dalla madre, che lo guardava sdegnata e col cuore in tumulto, ma senza dir parola. «Addio!» disse «do­ mani o dopodomani mattina al più tardi siamo di ri­ torno ! ». E se ne andò senza stenderle la mano, come se si recasse soltanto alla cava per sorvegliare i suoi operai. Essa lo lasciò andare senza proteste, ripugnandole di trat­ tenere quel ragazzo nella sua prima giovanile manifesta­ zione di coraggio, prima che il tempo e l’esperienza lo avessero ammaestrato. Lo seguì anzi dalla finestra con compiacenza, vedendolo marciare baldanzoso e allegro. Non s’accostò però del tutto alla finestra, ma rimase a guardarlo dal centro della stanza. Era ella stessa del resto di indole coraggiosa e non si preoccupava eccessivamente, ben sapendo come solevano risolversi quelle spedizioni seldwylesi. Fritz tornò infatti già all’indomani di buon mattino, sgattaiolando timido in casa. Era stanco, assonnato, stor­ dito, fiacco per il troppo vino bevuto e di pessimo umore, non avendo fatta altra esperienza né concluso altro che rovinare la sua bella giacca vagabondando e vuotare il borsellino. Quando sua madre se ne accorse e vide inoltre che non faceva come gli altri reduci che giungevano man mano a gruppi, cioè non mutava soltanto l’abito per prender poi nuovo denaro e correre all’osteria a discutere la spedi­ zione sfortunata e a confortarsi delle stanchevoli imprese

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mancate, ma che andò invece a dormire un’oretta e s’av­ viò poi silenzioso al suo lavoro, s’allietò in cuor suo, pen­ sando che s’accorgeva da solo di come stessero le cose. Non passò però un semestre, che s’offrì nuova occasione di partire per altra meta, e infatti i Seldwylesi tornarono a partire. Si trattava di abbattere un governo vicino che s’appoggiava alla piccola maggioranza di una popolazione campestre fervidamente cattolica. Siccome però questi contadini sostenevano le loro pie convinzioni e le loro idee politiche con la stessa energica passione dei loro illuminati avversari, e nelle vicende elettorali osservavano la me­ desima concorde e manesca prontezza, quelli arsero di impaziente e intenso sdegno e decisero di far vedere con un coraggioso colpo di mano a quelle zucche ostinate chi comandasse in paese. Numerosi compagni di partito dei cantoni confinanti avevano promesso l’intervento, come se un’aringa potesse diventare un salmone a morderle via la testa e a dirle: «Tu sarai un salmone!». Ma nei tempi di rivolta, quando si diffonde uno spirito nuovo, il vecchio guscio del diritto tradizionale non ha più valore, essendosene già perduto il nocciolo. Una nuova coscienza giuridica va però prima conquistata con lo studio e con l’abitudine affinché “la legalità abbia massima durata”, cioè sino a quando vivrà e durerà quel nuovo spirito per poi a sua volta invecchiare, facendo ricominciare le di­ scussioni e le lotte per il guscio della giustizia. Allorché, secondo le consuetudini, alcune dozzine di Seldwylesi si riunirono per partire quale valorosa milizia a strappare di carica l’odiato governo dei vicini, la signora Regula Amrain era di ottimo umore, pensando che quella volta i politicanti armati sarebbero stati ben delusi se credevano che suo figlio li avrebbe seguiti. In base alle sue precedenti esperienze, secondo cui il buon sangue si corregge sempre dopo un primo insegnamento, a Fritz non avrebbe do­ vuto venire in mente di accompagnarli. Ma guarda in­ vece ! Inaspettatamente, mentre essa lo credeva alla cava, Fritz apparve in casa, spazzolò bene la solida stoffa del suo abito da lavoro, mise la spazzola insieme a poca biancheria e ad alcuni oggetti militari in un tascapane

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che infilò a tracolla dall’altra parte della cartuccera ri­ colma, riprese poi il fucile e lo abbassò per andarsene, do­ po aver però fatto ripetutamente scattare col pollice il cane per provare se la molla funzionava. «Questa volta» disse «affronteremo diversamente la faccenda, addio!», e partì, non ostacolato dalla madre, la quale ancora una volta, vedendo la serietà dei suoi propositi, non seppe trattenerlo. Ma fu molto più spa­ ventata questa volta, presa di sprovvista, e per un mo­ mento impallidì, pur constatando con compiacenza la sua decisa energia. La schiera dei Seldwylesi ritornò al­ l’indomani come di consuetudine, senza neppur sapere che cosa fosse successo sul campo di battaglia: superato di un passo il confine avevano trovato il paesetto in grande eccitazione e i contadini molto sdegnati che si osasse presentarsi sul loro territorio come ai tempi del di­ ritto del più forte. Senza fare tuttavia opposizione, si ten­ nero lungo le strade con volti di scherno, che sembravano dire che gli intrusi li lasciavano entrare, per il momento, ma che al ritorno li avrebbero guardati in faccia. Tutto questo era garbato ben poco ai Seldwylesi, che avevano perciò stabilito, prima di procedere oltre, d’attendere il promesso intervento di altre schiere. Quando queste non vennero e si diffuse la voce che la rivolta era già finita favorevolmente, tutti presero la via del ritorno, ad ecce­ zione di Fritz Amrain, il quale, solo soletto, con sdegnosa temerità, si staccò da loro e continuò la marcia attraverso la regione nemica, verso il capoluogo. Egli infatti, mentre lasciava che i suoi compagni bevessero e chiacchierassero, aveva preso informazioni e saputo che ad alcune ore da lì avrebbe incontrato un gruppo di giovanotti del luogo di nascita di sua madre, ai quali pensò di unirsi. Li raggiunse infatti senza incidenti, poiché se ne andava disinvolto e rapido per la sua strada, e con quelli proce­ dette senz’altro. La cosa però finì male. Quel governo tentennante, in seguito a coincidenze favorevoli, si affermò per quella volta ancora e, appena ciò fu chiaro, la popo­ lazione di campagna accorse verso la capitale, in gara con i volontari, per sbarrare a questi le vie, cosicché Fritz e i

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suoi compagni, prima ancora di raggiungere la cittadina, vennero a trovarsi tra due forti nuclei di contadini armati e, decisi come erano ad aprirsi un varco, si determinò im­ mediatamente uno scontro. Fritz si vide così in faccia a villaggi e a campanili sconosciuti, intento a scaricare e ri­ caricare la sua arma, mentre le campane a stormo sembra­ vano piangere e protestare contro l’impudente invasione e l’offesa al patrio suolo. Dovunque si volgesse la piccola schiera, i contadini indietreggiarono con grandi grida, giacché i loro elementi giovani erano già stati avviati in città in uniforme, mentre queste truppe che assalivano gli invasori non erano formate che da vecchi o da ragazzi, su incitamento di preti, di sacrestani e persino di donne. Essi tuttavia si radunarono sempre più fitti e, dopo che alcuni di loro furono feriti, quella schiera cupa di vecchi atterriti, di donne e di preti, vera leva in massa del po­ polo, fu la rappresentante del paese esasperato e offeso, le cui campane, superando ogni altro rumore, proclama­ vano il suo sdegno per tutto il territorio. Le file minac­ ciose si strinsero sempre più attorno ai giovani combat­ tenti, alcuni vecchi energici si fecero avanti e dopo non molto tempo il gruppo era prigioniero. Si arresero senz’al­ tro quando videro che avevano contro tutti gli abitanti. Venir presi prigionieri in guerra aperta dal nemico del paese è una disgrazia come un’altra, che non offende troppo il soldato; venire invece catturato dai propri con­ cittadini quale avversario politico violento, è la cosa più umiliante e avvilente che possa accadere a questo mondo. Appena disarmati e circondati dalla folla, si sentirono piovere addosso tutti gli insulti immaginabili: violatori della pubblica tranquillità, franchi tiratori, masnadieri e furfanti erano le grida più miti che toccò loro di udire. Erano per di più squadrati da tutte le parti quasi fossero bestie feroci e, quanto più l’aspetto e il contegno erano impeccabili, tanto più i contadini sembravano arrab­ biarsi che gente simile si prendesse di quegli spassi. Non potevano far altro che star fermi o camminare in qua e in là, dove e come veniva loro imposto dal capriccio di quel sovrano dalle molte teste al quale avevano voluto

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strappare i suoi diritti. Esso ora li esercitava abbondante­ mente, non risparmiando pizzichi e urtoni appena i signo­ ri prigionieri facevano gli sdegnosi o rifiutavano obbedien­ za. Ognuno gridava loro un buon consiglio: «Foste ri­ masti a casa, non avreste bisogno di obbedirci ! Chi vi ha chiamati? Poiché voi venivate a governarci, penseremo ora a governare voi, bricconi ! Che stipendio prendete per questo lavoro, che paga per la vostra milizia? Dove avete la cassa e il generale? Andate spesso in campo senza trombettiere, in gran silenzio? O avete già mandato a casa il trombettiere ad annunziare la vittoria? Credevate che qui da noi l’aria fosse peggiore che la vostra, visto che siete venuti a farvi fischiare le palle di piombo? Avete già fatto colazione, signorini? O vorreste morder l’erba? Ve lo sareste ben meritato ! Avete creduto che noi non avessimo un governo regolare, che non valessimo nulla nel nostro paesetto, che ci vagabondavate in truppa senza permesso? Volevate prender volpi o conigli? Bei confede­ rati questi che vorrebbero privarci dei nostri diritti con lo schioppo in mano! Andate a ringraziare quelli che v’hanno chiamato, perché vi prepareremo un buon pran­ zo ! Per ora assaggerete il rancio delle nostre carceri ; c’è una decisa maggioranza di ottimi piselli, conditi col sale di un ottimo codice contro l’alto tradimento, e, dopo che avrete scontato un annetto, vi permetteranno, a celebra­ zione della gloriosa entrata, di sopraffare persino una pic­ cola minoranza di lardo, ma badate di non perderci i denti ! Non vi è nulla di meglio di una sana passeggiata ; è ottima per la salute, specie quando pare non si abbia lavoro e moto regolare ; bisogna però stare attenti quando si va a spasso; è scortesia entrare col cappello in testa in una chiesa o con l’arma in mano in uno Stato pacifico ! O avete forse creduto che noi non costituissimo uno Stato perché abbiamo ancora una religione e ci permettiamo di rispettare i nostri preti? Così ci accomoda di fare, e noi stia­ mo qui di casa in questo paese da tanto tempo come voi, brutti scimuniti che ora siete lì incapaci di sbrigarvela ! ». Simili frasi echeggiavano incessantemente attorno a loro e la facondia dei vincitori era tanto più inesauribile

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in quanto essi stessi avevano commesso le medesime colpe di cui accusavano gli avversari, ed erano pronti a commet­ terle ad ogni istante, se le circostanze e la capacità per­ sonale l’avessero permesso, proprio come un ladro sfog­ gia lo sdegno più eloquente quando gli viene sottratto un gioiello da lui stesso rubato. L’uomo infatti trasferisce addirittura nel campo morale la disinvolta impudicizia dell’animale e, confidando nell’utile legalità del proprio arbitrio, si comporta con tanta ingenuità, come i cani per le strade. I volontari prigionieri dovevano per il mo­ mento sopportare ogni cosa, preoccupati solo di non pro­ vocare con atti di sfida anche maltrattamenti fisici. Non avevano altra scelta, e i più esperti o anziani fra loro sop­ portarono la disgrazia di buon animo, ben prevedendo che la faccenda non sarebbe finita così pericolosamente come sembrava. L’uno o l’altro di essi riconosceva in un bifolco urlante chi aveva un giorno comprato nel suo ne­ gozio rimanendo poi debitore di una falce o di una misu­ ra di semente di trifoglio, e si riprometteva di restituirgli a suo tempo i commenti ingiuriosi con gli interessi; e se il contadino poi s’accorgeva di quelle occhiate e se ne riconosceva a sua volta il mittente, non cessava senz’altro dall’inveire, ma indirizzava improvvisamente gli oc­ chi e le parole a qualcun altro del gruppo e si ritirava intanto gradatamente dietro il fronte, giacché le piccole passioni umane si intrecciano ben intimamente e strana­ mente. Fritz Amrain invece rimaneva estremamente de­ presso e sconsolalo. Due o tre suoi compagni erano morti, e giacevano ancora a terra, altri erano feriti ed egli ve­ deva il terreno tutto all’intorno lordo di sangue; gli avevano tolto fucile, tascapane e cartuccera; non vedeva in giro che volti minacciosi. Si era così destato all’im­ provviso dalla sua febbrile e sconsiderata eccitazione, il sole di quella allegra giornata di lotta era scomparso, svanita l’eco dei colpi e la piacevole musica della breve battaglia. Quando poi, alla fine, le autorità locali usci­ rono dalla folla confusa e si iniziò la regolare suddivi­ sione dei prigionieri che dovevano venire arrestati, Fritz si sentì come uno scolaretto, il quale venga d’un tratto

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strappato dal più odioso dei maestri ad un allegro diver­ timento che gli pareva fondato per l’eternità e perfetta­ mente legittimo e messo in castigo; nella sua dispera­ zione egli credeva che tutto fosse perduto e che fosse arrivata la fine del mondo! Si vergognava senza sa­ pere di fronte a chi, disprezzava i suoi nemici, ma era in mano loro. Era partito con entusiasmo per attaccarli, ma pure essi erano nel loro buon diritto sotto ogni rispetto; giacché anche la loro stupidaggine e la loro angustia mentale era un loro legittimo possesso, contro il quale non vi era mandato alcuno, fuorché il successo che purtroppo era venuto a mancare. I volti rabbiosi e appassionati di quei contadini vecchi e rugosi, alteri della vittoria riporta­ ta, gli si presentavano agli occhi con strana chiarezza nella penombra del suo sconforto ; dappertutto dove lo facevano passare vi erano nuove facce ignote che egli guardava contro voglia e mai uno per uno, ma che tuttavia gli si im­ primevano come in una nitida luce, quasi fossero altret­ tanti rimproveri, improperi e accuse. Man mano che il corteo di prigionieri si avvicinava al capoluogo, crebbe il movimento; la città stessa era affollata di soldati e di contadini in armi schieratisi attorno al rafforzato governo, e i prigionieri furono fatti sfilare in trionfo. Dell’opposizione, che la vigilia era stata ancora abbastanza forte da aspirare al governo e del tutto libera nei suoi movimenti, non restava la minima traccia; era un mondo grossolano e ostile, ben diverso da quello immaginato, che si presentava a Fritz come si­ curo, ben fondato, e che sembrava addirittura stupito che mai lo si fosse potuto mettere in discussione e attaccare. Ognuno infatti balla quando suonano la sua melodia, e quando molti uomini insieme si mettono in mente qual­ cosa, quella loro illusione si gonfia all’infinito. Da ultimo i prigionieri furono acquartierati nelle carceri e in altri edifici, già tutti zeppi di simili campioni intraprendenti; anche Fritz si trovò così sotto chiavistello, dal che si spie­ ga come non fosse fra i reduci seldwylesi. Questi si vendicarono della spedizione fallita attribuen­ do senz’altro agli avversari vittoriosi il più vergognoso e

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disumano spirito di vendetta. Ogni scampato si diceva sicuro che i prigionieri sarebbero stati fucilati. Vi fu gente, di solito non così sciocca, che credette, con tutta serietà, e poi ripete, che i contadini fanatici avevano le­ gato alcuni catturati fra due tavole per segarli poi in due e che ne avevano crocifissi alcuni. Appena la signora Regula udì queste esagerazioni e questa smoderata diffidenza, le passò la metà della pau­ ra a tutta prima provata, giacché la stoltezza della gente finisce sempre per regolare e rendere innocua la sua in­ fluenza sui più saggi. Se i Seldwylesi avessero solo espres­ so il timore che i prigionieri potessero forse venire fucilati secondo la legge di guerra, sarebbe rimasta in mortale an­ goscia; quando le dissero invece che li avevano segati in due e crocifissi, non credette neppure al primo peri­ colo. Ricevette in compenso ben presto una breve lettera da suo figlio, da cui risultava che era veramente imprigio­ nato e la pregava di versare subito una cauzione per essere messo in libertà. La informava pure che parecchi came­ rati erano già tornati liberi in quel modo. Il governo vittorioso, trovandosi in gravi difficoltà finanziarie, si procurava infatti per quella via provvidenziali redditi straordinari, trasformando le somme di cauzione versate in altrettante multe. La signora Amrain ripose tutta lieta quella lettera in seno, poi con tutto comodo e senza fretta cominciò a raccogliere i fondi necessari, tanto che pas­ sarono ben otto giorni prima che si disponesse a portarli. Venne allora una seconda lettera che Fritz aveva tro­ vato modo di far spedire in segreto, in cui la scongiurava di far presto, essendo davvero insopportabile vedere la propria persona in potere di uomini odiati. Erano rin­ chiusi come bestie feroci, senz’aria e senza moto, dove­ vano mangiare con cucchiai di legno zuppa d’avena e di piselli, pescando tutti in comune da un solo mastello di le­ gno. Ella allora rimandò sorridendo la partenza ancora di qualche giorno, e solo quando l’intraprendente prigionie­ ro ebbe scontato due intere settimane, prese una carrozza, preparò una sacca con biancheria pulita, abiti buoni e il denaro della cauzione e si pose in viaggio. Arrivando

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però apprese che era imminente un’amnistia per tutti quelli che non si erano distinti come caporioni e specialmente per i forestieri, che non si aveva più voglia di nutri­ re inutilmente e per i quali non si aspettavano ormai più somme di riscatto. Ella si trattenne allora altri due o tre giorni in un albergo, pronta ad ogni istante a liberare il fi­ glio, del quale, del resto, per la sua giovinezza poco si cu­ ravano. L’amnistia venne infatti proclamata, poiché que­ sta volta il partito vittorioso seguì per parsimonia il giusto metodo di trovare compiacimento e soddisfazione nella vittoria medesima, non nella vendetta o nella punizione. Il povero Fritz trovò quindi sua madre che lo aspettava all’uscita della prigione. Gli diede da bere e da mangiare, lo rivestì a nuovo e se ne partì con lui e col denaro risparmiato. Quando si sentì ben sicuro e ristorato al fianco di sua madre, le domandò perché mai l’avesse lasciato così a lungo in prigione. Ella replicò brevemente, ma a quel che gli parve con una certa allegria, di non aver potuto trovare prima la somma richiesta. A lui però era troppo noto lo stato degli affari per non sapere dove si potevano cercare e trovare i mezzi. Non s’accontentò quindi del pretesto e ripetè la domanda. Ella l’ammonì allora a star contento di avere guadagnato una bella sommetta col suo soggiorno in carcere e di avere per di più avuto occasione di fare un’ottima esperienza. Certo non gli doveva esser mancato il tempo per ragionevoli meditazioni. «Alla fine tu mi hai lasciato là di proposito, » ribattè Fritz sgranandole gli occhi in faccia «e col tuo spirito ma­ terno mi hai tu stessa affibbiato la prigionia ! ». A ciò essa non rispose nulla, ma scoppiò a ridere nella carroz­ za sobbalzante, com’egli non l’aveva veduta ridere mai. Fritz, non sapendo che faccia fare, arricciò il naso comi­ camente e la madre, che rideva sempre più forte, lo ab­ bracciò e gli diede un bacio. Il giovane non pronunciò più parola e da quel momento si vide che in realtà la pri­ gione gli aveva insegnato qualcosa. Tutta la sua indole apparve infatti da quel giorno più seria e più concentrata e non gli venne più la tentazione

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di sfidare con delle iniziative illegali o imprudenti un potere costituito, dandogli in balìa la propria persona, con suo scorno e senza utile altrui. Non già che si prefiggesse senz’altro di non partecipare ad imprese, giacché non si possono prevedere gli eventi, e nessuno può comandare al proprio sangue di arrestarsi quando scorre rapido, ma era ormai al riparo da ogni litigiosità superficiale e sven­ tata. L’esperienza ebbe tale efficacia sul giovanotto, che egli parve progredire in ogni campo, dirigendo ad ap­ pena vent’anni gli affari come un uomo fatto. La si­ gnora Amrain gli diede quindi la moglie che deside­ rava e dopo un anno, quando era già padre di un bel piccino, Fritz era bensì sempre di buon umore, ma altrettanto serio e misurato nelle sue occupazioni quanto era allegra e ridanciana sua moglie, che amava straordi­ nariamente la nuova casa e se la intendeva benissimo con la suocera, pur essendo da lei differente e con un buon carattere di altro tipo. L’opera educativa della signora Regula, sembrava or­ mai coronata in modo da farle aspettare con calma l’av­ venire; anche gli altri due figli, indolenti per natura ma buoni, li aveva discretamente trascinati dietro all’e­ nergico Fritz e quando s’erano fatti adulti aveva usato la prudenza di mandarli apprendisti in altre città, dove essi poi rimasero e fondarono la loro ulteriore esistenza, da brave persone un poco pigre ma ammodo di cui ben poco ci fu sempre da dire. Fritz invece, benché diventato degno padre di famiglia, dovette andare ancora una volta a scuola dalla mamma, e proprio per un argomento di cui le madri di solito non sogliono occuparsi. Il figlio era sposato da circa due anni quando il cantone cui apparteneva Seldwyla do­ vette rinnovare il suo governo e indire perciò le elezioni quadriennali, in base alle quali si nominavano anche le autorità amministrative e giudiziarie. Alle ultime elezioni generali, Fritz non era ancora ammesso al voto; era quin­ di questa la prima volta che vi avrebbe partecipato. Nel paese regnava una grande bonaccia; i contrasti sembra­ vano acquietati e tra i partiti si erano appianati i punti

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d’attrito: dovunque si lavorava assiduamente, si ripu­ liva il codice dagli antichi particolarismi creandone con diligenza dei nuovi, buoni e cattivi; si erigeva­ no opere pubbliche, ci si addestrava ad un’ammini­ strazione abile, senza imprudenze ma anche senza anticaglie; si cercava di assegnare a ciascuno la giu­ sta funzione da lui compresa e fedelmente assolta, e infine di mostrarsi gentili e giusti verso chiunque a suo modo dimostrasse buon volere e non fosse prepotente o astioso. Tutto questo per i Seldwylesi era noiosissimo, giacché un simile sviluppo tranquillo non provocava al­ cun eccitamento. Delle elezioni senza confusione, senza adunate preliminari, senza bevute, discorsi e manifesti, senza disordini e crisi acute, non sembravano loro vere elezioni. Quella volta insomma era decisamente di cattivo gusto parlare di elezioni a Seldwyla, mentre i cittadini si davano l’aria di molto preoccuparsi per istituire una società per azioni per fabbricare birra e iniziare una piantagione di luppolo, essendosi messi d’un tratto in mente che una tale importante fabbrica di birra con vaste cantine, mescite e terrazze avrebbe dato nuova vita alla città, rendendola celebre e visitata. Fritz Amrain non concorreva a quegli sforzi, ma si preoccu­ pava anche ben poco delle elezioni, quantunque quat­ tro anni prima tanto avesse desiderato parteciparvi. Pensava che, dato che tutto procedeva bene nel pae­ se, non c’era ragione di occuparsi della cosa pubblica e che la macchina non si sarebbe fermata per il fatto che lui non andava a votare. Non gli riusciva comodo stare seduto in chiesa coi vecchi in una bella giornata; e a considerarlo bene, pareva persino che un velo di pe­ dantesco ridicolo si stendesse quell’anno sulle elezioni, ridotte a un adempimento regolare e tranquillo del do­ vere. Non che Fritz temesse il dovere ma, come fanno tutti i giovani, odiava i doveri minori, che ci costringono a indossare la giacca buona in un’ora incomoda, a pren­ dere il cappello migliore e a recarci in un luogo estre­ mamente uggioso e melanconico, quale è per esempio un fonte battesimale, un camposanto o un’aula di tribunale.

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La signora Amrain invece trovava insopportabile e im­ pudente proprio quel modo di fare seldwylese, e poiché nessuno ci andava, doppiamente desiderò che lo facesse suo figlio. Si valse quindi della giovane moglie, incari­ cando questa di persuaderlo a recarsi regolarmente, nel giorno delle elezioni, all’assemblea, per dare il suo voto ad un uomo meritevole, anche se dovesse trovarsi solo. Forse però la mogliettina non possedeva sufficiente elo­ quenza per una causa a lei stessa indifferente, o forse il giovane marito non intendeva nutrire e crescere in lei una seconda educatrice : fatto sta che nel giorno in que­ stione egli partì di buon mattino per la sua cava e vi ri­ mase a lavorare al caldo sole di maggio con tanto zelo e serietà, come se proprio in tal giornata fosse stato ne­ cessario sbrigare tutto il lavoro del mondo e non avesse dovuto l’indomani più sorgere il sole. Sua madre allora s’impazientì e s’impuntò a farlo andare in chiesa. Av­ volse attorno al capo le sue trecce ancor nere e lu­ centi, vi pose sopra un ampio cappello di paglia, prese sul braccio la giacca e il cappello di Fritz e s’avviò frettolosa fuor della cittadina, verso il colle dove era l’ampia cava di pietre. Mentre risaliva il lungo e curvo stradone dove si trasportavano i carichi, notò quanto profonda­ mente in quei vent’anni la cava si fosse addentrata nel monte e andò calcolando l’indubitabile buona eredità da lei raccolta e conservata. A diversi livelli martellavano numerosi operai da tempo diretti da Fritz, senza bisogno di un capo, e più in alto di tutti, dove faggi verdi incoro­ navano il candore della cava, riconobbe il figliolo dalla sua camicia ancor più candida, poiché si era liberato di panciotto e giubba, curvo su di un punto insieme a un gruppetto d’altra gente. In quello stesso momen­ to la videro arrivare e le gridarono di stare attenta. Si riparò sotto una roccia e dopo breve silenzio seguì in alto un forte rimbombo e piovve tutt’intorno una massa di pietruzze e di terra. “Chissà quali eroismi crede di compiere” disse a se medesima “stando qui a scagliar pietre contro il cielo, invece di compiere il suo dovere di buon cittadino !” Quando fu giunta su ed ebbe ripreso

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fiato, Fritz, dopo aver dato una sbirciatina alla giacca e al cappello che portava sul braccio, finse di non badarle e continuò a studiare i fori appena praticati, girando attor­ no col metro in mano. Non potendola però evitare, finì per dirle: — Buon giorno, mamma ! Fai una passeggiata? È pro­ prio il tempo giusto ! — e stava per andarsene. Ma Re­ gula gli prese la mano, lo trasse in disparte e gli disse : — Ti ho portato la giacca e il cappello, fammi ora il piacere di andare alle elezioni. È una vergogna che nes­ suno ci vada dalla città! — Ci mancherebbe proprio — replicò Fritz impaziente — di tornare con questo bel tempo in quella noiosissima chiesa a distribuire schede. Naturalmente tu poi avrai già pronto per il pomeriggio qualche funerale che io deb­ ba seguire, cosicché tutta la giornata ne resti rovinata ! Che voi donne abbiate sempre la mania di spedirci alle sepolture e ai battesimi è comprensibile, ma che vi occupiate anche tanto di politica è per me cosa nuova ! — Bella vergogna — disse la madre — che siano le don­ ne a dovervi incitare a far quel che si conviene, quel che è vostro santo obbligo e dovere ! — Non esagerare ! — replicò Fritz — Da quando in qua il paese si fermerà perché vota uno di più o di meno, e da quando in qua è proprio necessario che io sia dap­ pertutto? — Non è modestia questa che ti fa parlare, — rispose la madre — ma è anzi celato orgoglio ! Voi credete di dover sempre comparire quando c’è qualcosa di grosso e solo perché disprezzate il procedere calmo delle cose non vi degnate di esserci! — È in realtà ridicolo andarci da soli, — disse Fritz — ognuno ci vede andar là dove non c’è proprio che il cane in chiesa. Ma la signora Amrain non cedette e replicò : — Non basta tralasciare quel che ti sembra ridicolo nei Seldwylesi ! Devi anche fare quello che essi ritengono invece ri­ dicolo; se qualche cosa è giudicata tale da quegli asini, deve essere senz’altro buona e ragionevole ! Si ricono-

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scono gli uccelli dalle penne e i Seldwylesi da ciò che essi giudicano ridicolo. In tutte le piccole occasioni, in ogni stupida storia, nei vani divertimenti e nelle sciocchez­ ze, negli scherzi e nei pettegolezzi fra parenti, ci si sforza di essere estremamente puntuali; ma recarsi una volta al completo e puntualmente, ogni quattro anni, ad una ele­ zione che è la base della nostra vita pubblica e del nostro governo, quello deve essere invece noioso, insopportabile e ridicolo ! Ciò dipenderà dal capriccio e dalla comodità del singolo, che invoca sempre i suoi diritti, ma che ap­ pena quei diritti puzzano solo un poco anche di dovere, cerca il diritto di non esercitarne alcuno ! Voi vorreste rap­ presentare un libero Stato e siete poi troppo pigri per sa­ crificare ogni quattro anni mezza giornata, per mostrare un po’ d’attenzione, dirvi soddisfatti o insoddisfatti del go­ verno da voi legittimamente istituito? Non venite a dire che ci sareste sempre nel momento necessario ! Chi è pre­ sente solo quando gli fa piacere o la sua passione è alletta­ ta, finirà per essere lontano e farsi giocare un tiro proprio quando meno ci pensa. Ogni lavoratore merita il suo compenso, cosi anche chi lavora per il bene del paese e ne cura gli affari pubbli­ ci, che con le istituzioni e con le leggi penetrano profonda­ mente in ogni casa. Già la più esteriore cortesia e corret­ tezza verso gli uomini in carica esigerebbe di presentarsi al completo almeno in questa giornata, perché essi si accor­ gano di non stare sospesi nel vuoto. Anche la convenienza di fronte ai vicini e l’esempio da dare ai figli esigono che questo atto si compia con energia e con dignità, ma questi eroi lo trovano incomodo e ridicolo, gli stessi che ogni giorno osservano la massima puntualità nell’assistere ad una partita di birilli o a qualche altra insulsa e inutile storia. E che diresti se le autorità, offese da tanta scortesia, vi piantassero in asso andandosene tutte in una volta? Non dire che ciò non accadrà mai ! Sarebbe pur possibile, e allora la vostra presunzione rimarrebbe come il burro al sole, giacché la vostra presuntuosa compiacenza di voi me­ desimi può farsi sentire soltanto in tempi di pace, con buo-

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ne consuetudini, ordine, avvicendamenti regolari o ener­ giche approvazioni. Per lo meno la sua applicazione o la sua manifestazione più assurda è il non mostrarsi affatto perché così le accomoda ! Non avertela a male, questi sono pensieri puerili e fisime da donna; se voi credete che simile condotta vi si confaccia, siete in errore. Ma voi siete stanchi della pace e della comodità; e affinché le cose sembrino in ogni caso tanto mal fondate nel vuoto, anche se non sapete opporvi a nulla, non andate a votare o affidate la funzione ai guar­ diani notturni, perché, come si è detto, in caso di bisogno si gridi dal vostro borgo di Seldwyla che i poteri pubblici non hanno salda base nel popolo. Ma questa è una inde­ gnità, ed è bene che il vostro potere non vada più oltre della vostra miserabile cinta cittadina ! — Voi e sempre voi ! — disse Fritz irritato — Che cosa ho a che fare io con questa gente? Se costoro hanno simili moventi e capricci, quanto mi riguarda ciò? — Benissimo, — esclamò la signora Regula — allora compòrtati diversamente da loro in questa faccenda, e va’ ai seggi elettorali ! — Già, — replicò il figlio con un sorriso — perché si possa poi dire che l’unico Seldwylese il quale vi ha parte­ cipato ci fu mandato dalle donne? La signora Regula Amrain posò la mano sulla spalla del figlio dicendogli: — Se diranno che è stata tua madre a mandarti, questo non è una vergogna per te, ed è per me un onore se un cosi brav’uomo ascolta sua madre ! Io ne sarei orgogliosa e tu puoi in fondo farmi questo piccolo favore per il mio piacere, non ti pare? Fritz non seppe opporre altro, indossò la giacca e mise il cappello da città. Mentre scendeva dalla collina con l’ottima sua madre, disse: — Non ti ho mai sentito parlar tanto di politica in tutta la mia vita come poco fa, mamma ! Non ti avrei mai rite­ nuta capace di così lunghi discorsi ! Essa rise, ma poi replicò tutta seria: — Quel che ho detto non è in fondo politica, ma eco­

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nomia domestica. Se tu non avessi già moglie e un figlio, non mi sarebbe venuto in mente di stare a convincerti; ma così, potendo sperare in una ben conservata famiglia del mio sangue, ritengo sia parte importante del patrimo­ nio di simile casa che in essa si osservi in ogni cosa la giu­ sta misura. Se i figlioli di una casa vedono e imparano per tempo come gli affari pubblici siano da rispettarsi in giu­ sto modo, questo basterà forse a salvarli dal commette­ re poi atti ingiusti o sventati. E se sono fedeli e rispettosi verso l’una cosa, lo saranno anche verso il resto; io, in­ somma, non ho agito in fondo che da prudente nonnina, mentre mi si dirà che sono un’accanita vecchia poli­ ticante ! Nella chiesa Fritz invece di sei o settecento cittadini ne trovò appena quattro dozzine, e questi erano quasi tutti contadini delle fattorie periferiche, ammessi però al voto coi Seldwylesi. Anche quei campagnoli avrebbero dovuto essere sei volte più numerosi, ma poiché i non presenti lavoravano davvero nei campi col sudore della fronte, la loro assenza era piuttosto un’innocente sventatezza o un segno di contadinesca avarizia di fronte al bel tempo, men­ tre la lunga via che avevano da fare rendeva tanto più meritevole la presenza degli altri. Della città non era com­ parso che il presidente del Comune per dirigere le ele­ zioni, il segretario per redigere il protocollo, poi la guardia notturna e due o tre altri poveri diavoli che non avevano soldi abbastanza per la bevuta antimeridiana degli allegri Seldwylesi. Il signor presidente era però un oste che anni prima aveva fatto fallimento e da allora continuava l’a­ zienda col nome della moglie. In ciò veniva aiutato dai suoi concittadini, giacché egli era un uomo fatto apposta per loro, gran chiacchierone e sempre presente in tutti i pasticci, da vero oste esperto. Che egli però fosse lì in ca­ rica a presiedere le elezioni, era uno dei peccati di Seldwyla, che andavano di volta in volta sempre moltiplican­ dosi finché il governo non piombava addosso con un’in­ chiesta. I contadini si rendevano conto, in parte, che quel presidente non andava bene, ma erano troppo lenti e ri­ trosi per intraprendere qualcosa a suo danno, così che,

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quando Fritz giunse, quello si era già appropriato in un batter d’occhio di tutto il lavoro della giornata insieme a tre o quattro altri suoi concittadini. Vedendo il gruppetto dei bravi votanti di campagna, Fritz si compiacque al­ meno di non essere solo e fu pervaso d’un tratto da uno spirito di intraprendenza, così che chiese subito la parola per protestare contro il presidente, in quanto egli era fallito e civilmente morto. Fu un fulmine a ciel sereno. L’oste fece la faccia di uno che sia stato seppellito per mille anni e torni a resuscitare ; tutti si voltarono a guardare quell’ardito oratore, ma la cosa era di tale puerile evidenza, che nessuno in alcun modo potè opporvisi e non ne sorse la minima discussione. Quanto più inaudito e imprevisto era l’evento, tanto più esso appariva ormai comprensibile e naturale, ma quanto più comprensibile risultava, tanto più si sdegnarono quei pochi Seldwylesi. Appunto per tale chiarezza si adirarono di se stessi, del giovane Amrain, della perfida volgarità del mondo che s’aggrappa alle cose più trascurabili e vicine per far crollare la grandezza e sconvolgere le situa­ zioni. Il signor presidente usurpatore, dopo qualche mi­ nuto di sconcertato silenzio, che lo lasciò al punto di prima, non seppe dire altro se non: — Qualora . .. qualora ci siano riserve . . . circa la mia persona... insomma, io non mi impongo a nessuno e invito la spettabile assemblea a procedere ad una nuova elezione del presidente, e invito i controllori dei voti a di­ stribuire le rispettive schede. — Voi non avete da proporre qui un bel nulla, né dare ordini ai controllori dei voti ! — interruppe Fritz Amrain, e al grande magnate ed oste non restò altro che trovare una volta di più comprensibile quella vicenda inaudita e quasi triviale, e senza pronunciare parola lasciò la chiesa, se­ guito dalla guardia notturna costernata e dai pochi altri straccioni. Rimase soltanto il segretario per redigere il protocollo, e Fritz Amrain gli si accostò subito per con­ trollare quel che scriveva. I contadini finalmente si desta­ rono dallo stupore e approfittarono dell’occasione per concludere alla svelta l’elezione, nominando al posto dei

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membri precedenti due uomini in gamba della loro zona, che avrebbero già da un pezzo volentieri veduto nel con­ siglio, se i Seldwylesi avessero loro fatto posto. Questo non era affatto nei calcoli dei Seldwylesi assenti; essi avevano infatti pensato che il loro presidente, insieme alla guardia notturna, non avrebbe mancato dall’eleggere infallibilmente i due vecchi fantocci, come era già stato ben predisposto in una breve intesa conclusa in qualche cantuccio recondito. Come si meravigliarono allorché, messi in allarme dal falso presidente scacciato, accorsero in frotta e trovarono il protocollo legittimamente chiuso col suo risultato ! I paesani se ne andarono con un sorriso tranquillo, Fritz Amrain invece, che si avviava verso casa sua, venne raggiunto dai concittadini, e considerato con imbarazzo e con scherno, con sbirciatine o con oc­ chi sbarrati. L’uno esclamava: «Ah!», l’altro invece: «Oh !». Fritz capiva di avere per la prima volta dei veri nemici e ben più pericolosi di quelli contro cui una volta aveva marciato armato di piombo e di polvere. Si rendeva pure conto di avere pronunciato un giudizio inesorabile contro un uomo più vecchio di vent’anni di lui, e che avrebbe dovuto star doppiamente in guardia, per non cadere a sua volta in fallo, e a quel modo la vita prese per lui un aspetto ben diverso da quel che avesse avuto due ore avanti. Entrò in casa sua con questi gravi pensieri e, per rasserenarsi, si propose di vedere se a sua madre pia­ cesse la svolta presa dalle cose, visto che era stata lei sola a spingerlo ad affrontare quel pericolo. Mentre però entrava nell’andito, gli venne incontro la madre e gli cadde piangente tra le braccia dicendo: — È tornato tuo padre ! — S’accorse però che quella notizia rendeva il figlio ancora più imbarazzato e incerto di quanto fosse ella stessa, e riprendendosi, dopo averlo di nuovo stretto al cuore, aggiunse: — Vedrai che per noi non muterà nulla ! Sii gentile con lui, come deve esserlo un figlio. A quel modo tutto si era un’altra volta mutato : ancora pochi minuti prima, mentre camminava per la strada, gli sembrava molto preoccupante l’ostilità di una città

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intera, ma cos’era quel timore in confronto al trovarsi all’improvviso in faccia a un padre mai conosciuto, del quale sapeva solo che era un uomo vanitoso, impetuoso e sventato, che per di più aveva girato il mondo vent’anni e sa Iddio che tipo insopportabile ed estraneo poteva es­ sere divenuto? — Di dove viene? Che cosa vuole, che aspetto ha, che cosa cerca alla fine? — domandò Fritz, e la madre rispose : — Sembra che gli sia toccata non so che fortuna e ab­ bia pescato qualcosa, e ora si presenta con l’aria di chi vo­ glia mangiarci d’amore ! L’aspetto è forestiero e selvatico, ma lui è rimasto quello d’una volta, me ne sono accorta subito. Fritz s’era intanto incuriosito e salì con passo fermo la scala, avviandosi verso il salotto, mentre la madre, pas­ sando per la cucina, vi entrava quasi contemporanea­ mente. Essa infatti considerava la miglior ricompensa e il miglior trionfo per tutte le sue fatiche vedere come il figlio da lei educato avrebbe accolto suo marito. Aprendo la porta ed entrando, Fritz vide un uomo corpulento e alto, seduto alla tavola, e gli parve di veder se stesso con vent’anni di più sulle spalle. Lo straniero era vestito con lusso ma con disordine, aveva nell’atteggiamento qualcosa di fermo e di ostinato, ma pure qualcosa di inquieto nello sguardo quando s’alzò e vide con spavento entrare una giovane copia di se stesso, ben ritto e non più basso di un filo di quanto egli fosse. Intorno al capo del giovanotto però c’era un’aureola di folti riccioli biondi, e se anche il volto esprimeva la stessa ferma ostinazione del vecchio, egli però arrossì con ingenuità e modestia. Quando il vecchio, fissandolo con l’imbarazzata sfacciataggine degli sventati, gli disse: — Tu saresti dunque mio figlio? — il giovane abbassò gli occhi e rispose : — Sì, e voi siete dunque mio padre? Sono contento di vedervi finalmente ! — Poi alzò gli occhi curiosi e os­ servò pacatamente il vecchio, ma quando questi porgen­ dogli la mano gliela scosse con ostentata energia, quasi per dimostrargli la sua grande forza e violenza, il figlio

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ricambiò senz’altro la stretta, cosi che quella forza risalì come una scarica elettrica su per il braccio del vecchio, scuotendone tutta la persona. Quando poi il giovane riaccompagnò con pacata cortesia il padre verso la sua sedia, obbligandolo gentile e deciso a sedervisi, il reduce ebbe la strana impressione di trovarsi dinanzi un’imma­ gine perfetta di se stesso, che era ben lui, ma nello stesso tempo anche qualcuno di molto diverso. La signora Re­ gula non pronunciò quasi parola, ricorrendo alla saggia scappatoia di fare onore al consorte a suo modo, con un trattamento festoso, preoccupandosi di offrirgli e di versargli il suo vino migliore. A quel modo, mentre se ne stava tra la moglie e il figlio, si attenuò in parte l’imba­ razzo del vecchio e le lodi per il buon vino furono spunto ad esprimere la supposizione che le cose andassero bene per loro, a quel che vedeva con piacere, e ciò portò nel miglior modo a discutere lo stato dei loro affari. Moglie e figlio non cercarono di celare o dissimulare con paura la verità, ma gli esposero con chiarezza la situazione della loro ditta e del loro patrimonio; Fritz andò a prendere mastri e documenti e gli espose le cose con tale giudizio e chiarezza, che quello spalancò gli occhi stupito per la perfetta amministrazione e per l’inattesa agiatezza della sua famiglia. S’alzò allora in piedi e disse : — Voi state ottimamente e avete fatto le pose per bene, del che molto mi compiaccio. Ma anch’io non arrivo a mani vuote e col lavoro e l’intraprendenza ho fatto quat­ tro soldi ! — Trasse fuori così dicendo alcuni assegni e anche una cintura zeppa di monete d’oro che gettò sulla tavola: erano di fatto alcune migliaia di fiorini o di tal­ leri. Però egli non li aveva guadagnati a poco a poco, e tacque prudentemente di aver ottenuto quel capitale di colpo, per un caso di fortuna, dopo aver vagabondato per molti anni in miseria negli stati del Nordamerica. — Metteremo anche questo nell’azienda e riprendere­ mo il lavoro con forze riunite, — disse — poiché sento un vivo desiderio, visto che è possibile, di far qualcosa e dimostrare di che sono capace a quei cani che un giorno mi hanno mandato via.

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Suo figlio però gli versò con tutta calma un altro bicchiere di vino e gli disse poi: — Padre, mi permetto di darvi il consiglio di riposarvi per un poco e di godere la vostra vita. I vostri debiti sono pagati da un pezzo e potete così far uso del vostro denaro come vi aggrada, e inoltre non vi mancherà mai nulla qui da noi ! Per quel che riguarda però l’azienda, io la cono­ sco sin dalla prima giovinezza e ormai so la ragione per cui non avete avuto successo allora. Bisogna però che abbia le mani libere, se non si vuole tornare indietro. Se vi fa piacere di tanto in tanto dare una mano e guardare come vanno le cose, è per vostro passatempo che lo farete. Ma se anche voi foste, invece che mio padre, un angelo del cielo, io non vi accetterei come vero comproprietario, perché non avete imparato questo lavoro e, perdonatemi la scortesia, non lo capite ! Il vecchio fu non poco seccato e imbarazzato da quel discorso, ma non potè replicare nulla, perché era stato tenuto con molta energia, cosicché subito s’accorse che suo figlio sapeva quel che voleva. Radunò quindi le sue ricchezze ed uscì a fare un giro in città. Entrò in parec­ chie osterie, ma s’accorse che all’ordine del giorno v’era una nuova generazione e che i suoi antichi compagni erano quasi tutti spariti. Inoltre l’America gli aveva dato abitudini diverse. Aveva dovuto avvezzarsi a bere il bic­ chierino in piedi per riprendere senza sosta l’incessante caccia della vita; aveva quanto meno assistito al lavoro ininterrotto ed intenso degli altri e si era un poco modifi­ cato fra gli americani, in modo da non trovar più gusto a quell’eterno star fermi chiacchierando. S’accorse che nella sua casa ben tenuta c’era da star meglio che nelle osterie e involontariamente vi ritornò, senza ben sapere se restarci o ripartire. Andò nella camera che gli avevano preparato e lì il pover’uomo ormai vecchio gettò disgustato in un can­ to i suoi denari,sedette a ch'alcioni di una sedia, appoggiò il testone melanconico si a spalliera e scoppiò a pian­ gere amaramente. Entrò intanto sua moglie, che lo vide infelice e fu costretta ad aver rispetto della sua infelicità. Ma appena ebbe qualcosa da rispettare in lui, rinacque

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anche il suo antico affetto. Non stette a parlargli, ma ri­ mase per il resto della giornata nella sua camera, prima disponendo l’una e l’altra cosa per la sua comodità, poi mettendosi con un lavoro a maglia accanto alla finestra, in silenzio. Solo a poco a poco nacque un colloquio tra i due coniugi da tanto tempo divisi e sarebbe ben difficile ripetere quel che si dissero, ma più tardi si sentirono am­ bedue più a loro agio ed anche in seguito il vecchio si lasciò un pochino educare e guidare dal suo tanto bene educato figliolo, senza che questi lo contraddicesse o gli mancasse mai di rispetto. La strana situazione non durò neppure troppo a lungo, poiché il vecchio finì per divenire un socio tranquillo e sicuro dell’azienda, con molte soste di riposo e piccole deviazioni, senza però mai procurare danni o disonore alla sua florida famiglia. Vissero tutti soddisfatti e ben fomiti, e la stirpe della signora Regula Amrain attecchì così vigorosa in quella casa, che neanche i numerosi figlioli di Fritz correvano pericolo di vederla finire. Regula nell’ora della morte si allungò in tutta la sua imponenza sul suo letto, e mai infatti a Seldwyla fu portata in chiesa una bara così lunga per una donna e che ospitasse una salma tanto onorata.

I TRE PETTINAI AMANTI DELLA GIUSTIZIA

Gli abitanti di Seldwyla hanno dato la dimostrazione che, se necessario, una città intera di gente ingiusta o sventata può perpetuarsi, nel mutare dei tempi e delle condizioni ; i tre pettinai dimostrarono invece che tre uomini giusti non possono vivere sotto un medesimo tetto senza acca­ pigliarsi. Qui non si parla però della giustizia celeste né della naturale giustizia della coscienza umana, bensì di quell’anemica giustizia che ha cancellato dal Padre nostro la preghiera: «rimetti a noi i nostri debiti co­ me noi li rimettiamo ai nostri debitori» perché essa non fa debiti e non ha crediti ; quella giustizia che non vive a danno di nessuno, ma neppure a vantaggio di nessuno, che vuole bensì lavorare e guadagnare, ma non mai spendere, e che nella laboriosità trova solo un profitto, ma non una gioia. Gli uomini giusti di questo tipo non tira­ no sassate ai lampioni, ma neppure ne accendono, e da lo­ ro non irradia luce alcuna ; esercitano molti mestieri e per loro l’uno vale l’altro, purché non vi sia connesso un ri­ schio; amano stabilirsi dove vi sono molte persone a loro giudizio ingiuste, giacché, se di quei furfanti non ve ne fossero, essi finirebbero col consumarsi tra di loro, al pari di macine fra le quali non vi siano chicchi di grano. Quan­ do li coglie una sventura, sono molto stupiti e levano alti lai come se arrostissero allo spiedo, non avendo essi mai fatto male ad alcuno. Considerano infatti il mondo come una istituzione in cui la polizia sia bene organizzata, dove nessuno ha da temere una multa se scopa bene davanti alla sua porta, non tiene sul balcone vasi di fiori incu­ stoditi e non ne lascia gocciolare l’acqua. A Seldwyla esisteva una fabbrica di pettini, i cui pro­ prietari solitamente mutavano ogni cinque o sei anni, no­ nostante fosse stata, se ben condotta, un’ottima azienda, poiché riforniva i mereiai frequentatori delle fiere circo­ stanti. Ivi si fabbricavano, oltre ai soliti pettini di corno d’ogni genere, i più raffinati pettini ornamentali per le

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belle dei villaggi e per le servette, fatti con buon corno trasparente di bue, nel quale l’arte dei lavoranti a secon­ da della loro fantasia (i padroni non lavoravano mai), incideva belle nuvolette rossobrune tipo tartaruga, tanto che a tenere quei pettini contro luce pareva di vedere le più belle albe e i più splendidi tramonti, cieli rossi a pe­ corelle, bufere tempestose e altri fenomeni naturali a chiazze. D’estate, quando i lavoranti amavano girova­ gare e si facevano rari, venivano trattati con cortesia, con buone paghe e buon vitto; d’inverno invece, quando cer­ cavano un ricovero e se ne potevano avere in abbondan­ za, dovevano adattarsi a far pettini a più non posso e per un salario minimo. La padrona metteva ogni giorno in tavola un piatto di cavoli agri e il mastro pettinalo dice­ va: «Questi sono pesci!», e se uno dei lavoranti osava replicare: «Domando scusa, ma è cavolo acido!» era senz’altro licenziato e doveva mettersi in viaggio in pieno inverno. Appena invece i prati tornavano a verdeggiare e le strade erano praticabili, essi dicevano : « Ma è cavolo acido ! » e facevano fagotto. Se anche la massaia s’affret­ tava a gettare fette di prosciutto sui cavoli e il padrone di­ ceva : « In coscienza credevo che fossero pesci ! Però que­ sto è davvero prosciutto ! », quelli avevano sempre smania di partire. I tre lavoranti dovevano fra l’altro dormire in­ sieme in un letto a due piazze, e alla fine di un inverno, a furia di gomitate e di fianchi congelati, ne avevano proprio abbastanza. Una volta, però, da un paese della Sassonia arrivò un lavorante docile e zelante, che si adattò ad ogni cosa; lavorava come una bestia e non si fece mai licenziare, diventando alla fine un arredo fisso nell’azienda, e più volte vide mutare il padrone perché in quegli anni gli affari furono più burrascosi del solito. Jobst a letto si stendeva il più rigido possibile affermando d’inverno e d’estate il suo diritto al posto contro la parete; ac­ cettava mansueto cavoli per pesci e salutava in pri­ mavera, con modesta gratitudine, un pezzetto di pro­ sciutto. Metteva da parte la paga magra comò quella più abbondante, giacché non spendeva mai un soldo

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e tutto risparmiava. Non viveva come gli altri lavo­ ranti, non beveva mai un bicchiere, non bazzicava quelli del suo paese né altri colleghi, ma sedeva la sera sotto il portone a chiacchierare con le vecchie, aiutandole, se era di umor generoso, a porsi in capo le secchie d’acqua e andava a letto con le galline, a meno che non ci fosse lavoro straordinario da poter fare di notte per speciale compenso. Lavorava anche la domenica fin nel pome­ riggio, persino quando il tempo era splendido ; ma non si creda che lo facesse con gioia e soddisfazione come Johann, rallegro saponaio; al contrario, era sempre av­ vilito da quella fatica volontaria e si lagnava senza posa di quanto stancante fosse la vita. Giunto il po­ meriggio della domenica, traversava la strada con gli abiti da lavoro sporchi e ciabattando andava a riti­ rare dalla lavandaia la camicia pulita, lo sparato ina­ midato, il colletto alto o il fazzoletto migliore e portava poi tutte queste meraviglie sino in casa, sulla mano tesa, con l’elegante andatura dei garzoni. Infatti, malgrado il grembiule da fatica e le ciabatte, molti lavoranti ser­ bano un passo strano e ricercato, come se fossero librati in più alte sfere, e cosi fanno specialmente i dotti legatori di libri, gli allegri calzolai e i pochi e strani pettinai. Giunto nella sua cameretta, Jobst stava ancora a meditare se gli convenisse proprio mettere la camicia o lo sparato (giac­ ché, malgrado la sua mitezza e la sua rettitudine, era un vero porcellino) o se ancora per una settimana potesse far servizio la biancheria vecchia e se infine non gli con­ venisse starsene a casa e lavorare ancora un pochino. In questo caso, sospirando sulle difficoltà e le pene del mondo, tornava a sedersi al lavoro, a tagliare immusonito i denti dei suoi pettini o a trasformare il corno in scaglia di tartaruga, nel che si dimostrava però cosi prosaico e privo di fantasia da non saperci mettere altro che le so­ lite misere tre macchie; quando infatti non aveva ordini assoluti non prodigava la minima fatica in un lavoro. Se si decideva invece ad andare a passeggio, stava per due o tre ore a ripulirsi e adornarsi, prendeva un baston­ cino da passeggio e s’avviava tutto rigido fuori porta,

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dove stava poi a bighellonare intimidito e annoiato, tenendo annoiati discorsi con altri bighelloni che non sapevano che cosa fare di meglio, per lo più Seldwylesi vecchi e poveri che non avevano più soldi per frequentare l’osteria. Con essi amava piantarsi davanti a una casa in costruzione, o a un campo, o a un melo danneggiato dalla tempesta o a una nuova filanda, e stava a criticare vivace­ mente queste cose, la loro utilità, il loro prezzo, le previ­ sioni del raccolto e lo stato della campagna, tutti argomen­ ti di cui non si intendeva affatto. Neppure del resto gliene importava, ma il tempo passava così nel modo più econo­ mico e rapido per il suo gusto, e i vecchi lo chiamavano poi sempre il sassone gentile e assennato, perché anche loro non se ne intendevano meglio. Quando i Seldwylesi im­ piantarono una grande fabbrica di birra, ripromettendo­ sene notevole incremento alla vita cittadina, e quando co­ minciarono a sorgere dal terreno le ampie fondamenta, egli ci passò spesso le serate della domenica, studiando i progressi della fabbrica, con occhiate da conoscitore e con l’apparenza di un vivo interessamento, come se fosse stato un competente di edilizia e uno dei più forti bevitori· di birra. «Ma davvero!» continuava ad esclamare «è una fabbrica splendida ! Avremo un insieme grandioso ! Però quanti denari ci vogliono, quanti denari! Peccato: qui le arcate le vorrei un po’ più basse e il muro un poco più robusto!». Mentre cianciava così, pensava soltanto ad andare a cena in tempo prima di buio ; questo era infatti l’unico torto che facesse alla sua padrona, di non rinun­ ciare mai al suo pasto la sera della domenica, come gli al­ tri lavoranti, così che essa doveva rimanere in casa solo per lui o comunque a lui provvedere. Mangiato il suo pezzetto d’arrosto o di salsiccia, si baloccava ancora un pochino in camera e andava poi a letto: quella era stata per lui una piacevole domenica. Malgrado questa sua indole modesta, mansueta, e ir­ reprensibile, non gli mancava un lieve tratto d’interiore ironia, quasi schernisse in segreto la leggerezza e la va­ nità del mondo, e ponesse chiaramente in dubbio la gran­ dezza e l’importanza delle cose, covando in sé ben più

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profondi pensieri. In realtà aveva talvolta un’espressione così saputa, specie durante le sue competenti concioni domenicali, che pareva di leggergli in faccia quali ben più importanti cose serbasse in segreto dentro di sé, al cui confronto tutto quanto altri intraprendeva, costruiva o erigeva non era che giuoco da fanciulli. Il grande piano da lui covato giorno e notte, sua tacita stella polare du­ rante i lunghi anni passati come lavorante a Seldwyla, era di metter da parte la sua paga sino a poter un bel giorno acquistare l’azienda, quando fosse di nuovo anda­ ta in vendita, e diventare così proprietario e maestro. A questo mirava ogni suo sforzo, avendo ben compreso che in quel paese un uomo attivo e parsimonioso doveva pro­ sperare, un uomo che andasse tranquillo per la sua strada e sapesse trarre dalla leggerezza degli altri l’utile ma non i danni. Una volta diventato maestro e padrone, avrebbe guadagnato tanto da ottenere la cittadinanza, e si pro­ poneva di vivere allora con saggezza e furberia, come non aveva mai fatto un cittadino di Seldwyla, non cu­ rando che il proprio benessere, non spendendo un soldo ma assicurandosene quanti era possibile nel turbine di sventatezza di quella città. Il piano era tanto facile quan­ to giusto ed ovvio, specialmente data la sua bravura e tenacia nell’attuario; egli aveva infatti già messo da parte una bella sommetta, che custodiva con cura e che, secon­ do i suoi precisi calcoli, con l’andar del tempo doveva diventare abbastanza grossa per concedergli di raggiun­ gere il suo fine. In quel suo tacito e pacifico progetto era soltanto mostruoso il fatto che proprio Jobst se lo fosse proposto: non vi era infatti nulla nel suo cuore che lo costringesse a vivere a Seldwyla, non una predilezione per il paesaggio o per la gente, per le istituzioni politiche del paese o per i suoi costumi. Tutto era per lui indiffe­ rente quanto il suo stesso paese natale, di cui mai sentiva la nostalgia; con la sua diligenza e la sua impeccabilità avrebbe potuto fissarsi in cento altri posti del mondo ; ma gli mancava la libera scelta, e con la sua mente vacua s’aggrappava al primo casuale filo di speranza che gli si offrisse e da questo traeva ampio nutrimento. «Dove

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sto bene è la mia patria!» si suol dire; e tale motto valga anche per quelli che in realtà trovano nella nuo­ va patria una ragione migliore e necessaria al loro benessere o per quelli che sono andati deliberatamen­ te nel mondo a conquistarsi con energia qualche van­ taggio per ritornarsene, poi, bene a posto. Valga per quanti» fuggono a schiere una situazione penosa e si uni­ scono, seguendo la moda del tempo, alla nuova migra­ zione di popoli oltre oceano ; oppure per quelli che hanno trovato altrove amici più fedeli che in patria, o condi­ zioni più rispondenti alle loro intime simpatie, o che vi sono trattenuti comunque da un più bel vincolo umano. Però tutti costoro, dovunque siano, dovranno almeno amare la nuova terra del loro benessere e in caso di bi­ sogno ad essa anche offrirsi. Jobst invece sapeva appena dove fosse ; le istituzioni e gli usi degli Svizzeri gli riusci­ vano incomprensibili, solo talvolta mormorava: «Già, già, gli Svizzeri sono dei politicanti ! La politica, penso, è certo una bella cosa quando uno se ne intende! Per parte mia non me ne intendo e al mio paese non era in uso». I costumi dei Seldwylesi gli ripugnavano ·ε lo preoccupavano; quando essi preparavano una dimostra­ zione o una spedizione, si nascondeva tremante in fondo al laboratorio, temendo che succedessero tragedie. Tut­ tavia il suo unico pensiero e il suo grande segreto era di rimaner lì sino alla fine dei suoi giorni. In tutti i punti della terra sono sparsi di questi uomini impeccabili che vi sono capitati per la semplice ragione di aver lì incon­ trato per caso una cannuccia di prosperità da succhiare, ed essi continuano a succhiare tranquillamente, senza no­ stalgia per la patria antica, senza amore per quella nuova, senza guardar lontano né vicino, e assomigliano così, in­ vece che ad uomini liberi, a quegli organismi inferiori, a quegli strani animaletti o a quelle sementi che vengono trasportati dall’aria e dall’acqua nel punto fortuito in cui poi prospereranno. Jobst visse a quel modo un annetto dopo l’altro a Seldwyla, accumulando il suo gruzzolo che teneva celato sotto un mattone del pavimento di camera sua. Non

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c’era un sarto che potesse vantarsi di aver guadagnato un soldo da lui, perché l’abito delle feste con cui era arri­ vato trovavasi nello stesso stato di allora. Non un calzo­ laio aveva riscosso da lui un centesimo, perché non erano ancora consumate le suole degli stivali che al suo arrivo pendevano fuori del suo zaino; l’anno ha infatti soltanto cinquantadue domeniche, e di queste solo la metà era dedicata ad una passeggiatina. Nessuno poteva vantarsi di aver mai visto in mano sua una moneta grande o pic­ cola : quando riceveva il salario, esso spariva immediata­ mente nel modo più misterioso; e anche se andava fuori porta non metteva un soldo in tasca, cosicché non gli era affatto possibile far spese. Se venivano al laboratorio don­ ne ad offrire ciliegie, prugne o pere, e gli altri lavoranti soddisfacevano le loro voglie, anch’egli ne provava mille e una, ma sapeva placarle dirigendo le trattative con massi­ ma attenzione, accarezzando le belle ciliegie e le prugne e lasciando poi partire sconcertate le donne, che l’avevano scambiato per il migliore dei clienti. Si compiaceva allora della sua astinenza e guardava con piacere soddisfatto i colleghi che mangiavano, dando loro mille piccoli consigli sul modo di far cuocere o di sbucciare le frutta comprate. Se però per nessuno egli aveva una moneta, per nessuno aveva una parola brusca, una richiesta sconveniente, o una faccia scontenta; egli anzi evitava con la massima cura ogni disputa e non se ne aveva a male di nessuno scherzo che si permettessero con lui ; per quanto curioso di osservare e di giudicare lo svolgimento di molti pettego­ lezzi e conflitti, i quali gli fornivano pur sempre un pas­ satempo gratuito, mentre i compagni andavano ai loro rozzi festini, egli si guardava però dall’immischiarsi in qualche affare e dal lasciarsi cogliere in peccato d’im­ prudenza. Insomma, egli era la più strana mistura di una saggezza e di una perseveranza veramente eroiche con la più placida e vile insensibilità. Una volta gli capitò di restare per molte settimane unico lavorante nella ditta, e così indisturbato stava bene come un pesce nell’acqua. Specialmente la notte godeva dell’ampio spazio a letto e impiegava molto saggiamente

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quel bel tempo, per compensarsi dei giorni futuri, tripli­ cando in certo modo la propria persona, mutando con­ tinuamente di posto, e immaginandosi di essere in tre a letto, dei quali due invitavano di continuo il terzo a non prender riguardi e a fare i propri comodi. Quel terzo era proprio lui, e ad ogni invito si ravviluppava voluttuosa­ mente nella coperta intera, oppure apriva le gambe, o si metteva di traverso sul letto o addirittura, con inno­ cente allegria, vi faceva le capriole. Un giorno però, che già era coricato prima di buio, arrivò inaspettatamente un lavorante forestiero, che fu mandato su, nella came­ retta, dalla padrona. Jobst teneva con raffinato piacere la testa in fondo al letto e i piedi invece sul capezzale, quando il forestiero entrò, posò il pesante zaino e comin­ ciò, stanchissimo, a spogliarsi. Jobst scattò svelto e si stese ben rigido al suo antico posto lungo la parete, dicendosi : “Costui se ne andrà presto, visto che siamo in estate e che è il tempo buono per chi cammina !”. Con questa speranza si rassegnò sospirando al suo destino, in attesa delle gomi­ tate notturne e dell’inevitabile lotta per la coperta. Non fu poco stupito invece quando il sopravvenuto, pur essendo bavarese, gli si venne a coricar vicino con un cortese sa­ luto, pacifico e bene educato non meno di lui, e si tenne al­ l’altra estremità del letto, senza disturbarlo affatto du­ rante tutta la notte. Tale inaudita avventura gli tolse tanto la pace, che, mentre il bavarese dormiva tranquillo, egli in quella notte non chiuse occhio. L’indomani osservò con estrema attenzione il suo compagno e vide che era egli pure un lavorante anziano, il quale si informò con parole calme della situazione e della vita del posto, proprio allo stesso modo con cui l’avrebbe fatto egli stesso. Appena se ne accorse, si fece riservato, tacendo anche le cose più semplici quasi fossero un gran mistero e cercando invece di scoprire il segreto del bavarese; infatti che questi ne avesse pur uno, era evidente; perché sarebbe stato per­ sona cosi assennata, tranquilla e ponderata, se non si pro­ poneva qualche oscuro vantaggio? Cercarono cosi di son­ darsi a vicenda, con la massima prudenza e pacatezza, a mezze parole e con cortesi rigiri. Nessuno dei due diede

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una risposta chiara, eppure, passate poche ore, ciascuno fu certo che il compagno non fosse altro che il suo perfetto sosia. Quando nel corso della giornata Fridolin, il bava­ rese, si recò ripetutamente in camera a far non si sa che cosa, Jobst approfittò dell’occasione per andarci a sua vol­ ta mentre l’altro lavorava e fare una rapidissima rivista al bagaglio di Fridolin : non scoprì però che le stesse coserelle da lui medesimo possedute, se non che l’agoraio di legno era in forma di pesce, mentre Jobst ne possedeva uno dalla forma scherzosa di un neonato in fasce, e al posto della lacera grammatica francese per il popolo che Jobst scartabellava di tanto in tanto, trovò dal bavarese un libretto ben legato dal titolo II bagno caldo e freddo, indi­ spensabile manuale del tintore. Sul libro stava poi scritto a matita: «Pegno per tre soldi da me prestati a quello di Nassau». Da ciò dedusse che l’amico fosse un uomo par­ simonioso : spiò involontariamente il pavimento e scoprì ben presto una mattonella che pareva di recente spostata; sotto di essa v’era infatti, ravvolto in una vecchia pezzuola e legato con lo spago, un tesoretto di peso quasi eguale al suo, che, a differenza di questo, era nascosto in una calza. Rimise a posto il mattone, tremando d’eccitamento e di ammirazione per quella grandezza straniera, ma anche molto spaventato di veder scoperto il suo segreto. Corse giù subito in laboratorio e si diede a sgobbare come do­ vesse rifornir di pettini il mondo intero, mentre il bavarese faticava come ci fosse da pettinare anche il cielo. Gli otto giorni successivi confermarono pienamente la prima im­ pressione reciproca; se Jobst era laborioso e parco, Frido­ lin era assiduo e astinente ed esalava gli stessi gravi sospiri sulle difficoltà di tali virtù; se Jobst era saggio e sereno, Fridolin si mostrava scherzoso e prudente ; se l’uno era mo­ desto, l’altro era umile, se l’uno arguto e ironico, il secon­ do scaltro e quasi satirico e se Jobst faceva una faccia di pacifica innocenza davanti a una cosa che lo spaventasse, Fridolin assumeva un’insuperabile aria di asino. Non era una gara, ma era piuttosto l’esercizio di una cosciente maestria ad animarli, e nessuno dei due sdegnava di pren­ dere a modello l’altro e imitarne i tratti più raffinati anco­

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ra a lui mancanti per così perfetta condotta di vita. Appa­ rivano tanto uniti e concordi che parevano avere una cau­ sa comune, e assomigliavano a due valenti eroi che si com­ portano cavallerescamente e si incoraggiano a vicenda prima di combattersi. Ma dopo appena otto giorni arrivò di lontano un terzo, venuto dalla Svevia, di nome Die­ trich, del che i due provarono tacito compiacimento, come di una divertente misura per la loro grandezza, e si proposero di prendere in mezzo fra le loro virtù quel po­ veretto di uno svevo, che era di certo un buono a nulla, come due leoni prendono una scimmietta per baloccarsi. Ma indescrivibile fu lo stupore quando lo svevo si com­ portò esattamente come loro, e si ripetè per i tre la consta­ tazione già verificatasi tra i due, col che non soltanto essi vennero a trovarsi in un’imprevista situazione di fronte al terzo, ma anche in un ben diverso stato reciproco. Già quando a letto lo presero in mezzo, lo svevo si ri­ velò perfettamente alla loro altezza : giacque rigido e quie­ to come uno zolfanello, tanto da lasciare ancora un po’ di spazio per ciascuno dei lavoranti, mentre la coperta si stendeva su di loro come un foglio di carta su tre aringhe. La situazione si fece più seria : i tre si stavano di fronte in perfetta parità, come gli angoli di un triangolo equilate­ ro, né era più possibile tra due di essi un rapporto di confi­ denza, un armistizio o una piacevole gara, mentre tutti tendevano con gran serietà ad espellersi reciprocamente dal letto e dalla casa. Quando il padrone s’accorse che quei tre originali sopportavano ogni cosa pur di non an­ darsene, abbassò il salario e peggiorò il vitto ; ma quelli la­ voravano con ancor più intenso zelo e lo misero in grado di gettare sul mercato grandi riserve di merce a buon merca­ to, di evadere ordinazioni aumentate, facendo soldi a pa­ late per merito di quei lavoranti in cui aveva trovato una vera miniera d’oro. Egli allora allentò la cintola di alcuni fori, assunse cariche importanti nella vita cittadina, men­ tre i suoi stolti operai sgobbavano giorno e notte nell’o­ scuro laboratorio, sperando così di eliminarsi a vicenda. Dietrich, lo svevo, pur essendo il più giovane, si mostrò tagliato nello stesso legno degli altri due, solo che non

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possedeva ancora risparmi, essendo in giro da troppo poco tempo. Questa sarebbe stata una circostanza molto grave per lui, dato che Jobst e Fridolin acquistavano un vantaggio eccessivo, se egli da piccolo svevo ingegnoso non si fosse valso di una nuova stregoneria per controbi­ lanciare la superiorità degli altri. Avendo l’animo libero da ogni passione, libero quanto quello dei colleghi, ma non dalla passione di fissarsi in quel paese e proprio in nessun altro e di trarne vantaggio, ricorse all’idea d’innamorarsi e di chiedere la mano di una persona che possedesse a un dipresso quel medesimo capitale che il sassone e il bavare­ se tenevano sotto il pavimento. Fra le caratteristiche mi­ gliori dei Seldwylesi, v’era quella di non voler sposare per soldi donne brutte o sgradevoli ; non erano indotti del re­ sto in grandi tentazioni, perché nella loro città non esiste­ vano ricche ereditiere, né belle né brutte. Essi si riservava­ no almeno la prodezza di disprezzare i bocconi peggiori e di unirsi piuttosto a graziose creature allegre, di cui potes­ sero per alcuni anni fare sfoggio. Non fu quindi difficile al­ lo svevo, che stava in vedetta, trovar modo d’arrivare ad una virtuosa fanciulla abitante nella sua stessa strada e della quale, da saggi discorsi con le vecchie, aveva saputo che era in possesso di una cartella di credito di ben sette­ cento fiorini. Costei era Züs Bünzlin, una zitella di ventott’anni convivente con la madre lavandaia ma padrona assoluta dell’eredità paterna. Teneva il titolo in una picco­ la scatola di lacca, e anche i rispettivi interessi, la sua fede di battesimo, il certificato della confermazione, un uovo di Pasqua dipinto e dorato, nonché mezza dozzina di cucchiaini d’argento, un paternostro stampato in oro su una specie di vetro trasparente che ella chiamava pelle d’uomo, un nocciolo di ciliegia su cui era incisa la passione di Cristo e un astuccio d’avorio traforato e foderato di taffetà rosso con dentro uno specchietto e un ditale d’argento; vi era poi un secondo nocciolo di ciliegia nel quale si agitava un minuscolo giuoco di birilli, una noce contenente una Madonnina sotto vetro, un cuore d’argen­ to che celava una spugnetta profumata, una scatoletta per dolci fatta in buccia di limone, sul cui coperchio era di-

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pinta una fragola e dentro la quale stava appoggiata sulla bambagia una spilla d’oro in forma di non-ti-scordar-dime e un medaglione con una ciocca di capelli; inoltre un pacchetto di carte ingiallite con ricette e segreti, un flaconcino di gocce calmanti, un altro d’acqua di Colo­ nia e un astuccetto di muschio, uno scatolino con un po’ di liquerizia, un cestino intessuto di steli odorosi e uno fatto invece con perline di vetro e chiodi di garofano; infine un libretto legato in azzurro, dal taglio d’argento, e intitolato Auree regole di vita per la fanciulla quale sposa, moglie, e madre-, un libretto di sogni, un segretario galante, cinque o sei lettere d’amore e un bisturi da salasso, giac­ ché Züs una volta aveva avuto un legame con un bar­ biere o aiutante chirurgo che intendeva sposarla, ed essendo donna abile e intelligente, aveva imparato dal­ l’innamorato a salassare, ad applicar sanguisughe e ven­ tose e roba del genere e persino a sbarbare lo sposo di sua mano. Egli però si era dimostrato uomo indegno, col quale forse sarebbe stata in giuoco tutta la sua felicità, ed essa al­ lora, con melanconica ma saggia risolutezza, aveva inter­ rotto la relazione. I regali erano stati restituiti da ambo le parti, ad eccezione del bisturi, che essa trattenne quale compenso per un fiorino e quarantotto centesimi da lei prestatigli in contanti. Quell’indegno affermava però di non essere debitore, avendogli lei messo in mano quei soldi in occasione di un ballo, per coprire le spese, ed avendo poi mangiato il doppio di lui. Così egli si tenne il fiorino e i quarantotto centesimi, e lei il bisturi, col quale salas­ sava in privato tutte le donne di sua conoscenza e si guadagnava dei buoni soldi. Tutte le volte però che usava lo strumento era costretta a ripensare con dolore all’ani­ mo meschino di colui che le era stato tanto caro e che era stato per diventare suo consorte ! Tutto ciò trovava posto dentro la scatola di lacca, ben chiusa, conservata a sua volta in un antico armadio di noce, la cui chiave Züs Bünzlin portava immancabil­ mente in tasca. La zitella aveva capelli fini e rossicci ed occhi azzurro chiari non privi d’attrattiva, che talvolta assumevano un’espressione di mite saggezza; possedeva \ ■ i

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una quantità di abiti, pur indossandone sempre pochi e i più vecchi, ma era accurata e pulita, e non meno or­ dinata e ben tenuta era la sua camera. Aiutava con grande assiduità sua madre nella lavanderia, stirando le cose più fini, lavando le cuffie e i polsini delle Seldwylesi, col che faceva buoni guadagni. Da tale attività derivava forse che in tutti i giorni della settimana in cui c’era da lavare serbava quell’umore austero e contenuto che invade le donne il giorno del bucato, e tale stato d’animo era in lei ben fisso in quei giorni, mentre soltanto con la stiratura subentrava grande allegria, che in Züs era condita poi, sempre, da un grano di saggezza. Lo spi­ rito ordinato della casa si manifestava anche nel suo principale ornamento, una ghirlanda di pezzi di sapone quadrangolari e di esatta misura, disposti ad asciugare tutt’intorno alla cornice del rivestimento d’abete, per es­ sere meglio utilizzati. Questi pezzi di sapone erano ogni tanto segnati col compasso e tagliati poi dalla massa ancor fresca a mezzo di un filo d’ottone da Züs medesima. Il filo, per essere più comodamente affer­ rato e maneggiato nel sapone tenero, aveva ai due ca­ pi due traversine di legno; un fabbro, col quale era stata un giorno quasi fidanzata, le aveva preparato e do­ nato un bel compasso per far le parti dal pezzo grande. Da lui proveniva anche un bel mortaio piccolo e lucido, che adornava la testata dell’armadio, fra la teiera azzurra e il vaso da fiori dipinto. Per lungo tempo un simile gra­ zioso mortaio era stato un suo desiderio, e il fabbro gen­ tile fu il benvenuto presentandosi il giorno del suo ono­ mastico con quel dono e con insieme qualcosa da pestarvi : una scatola piena di cannella, di zucchero, di chiodi di garofano e di pepe. Aveva allora tenuto il mortaio appeso al mignolo sulla soglia della stanza, prima di entrarvi, facendolo risuonare col pestello al pari di una campana, e fu una mattina molto serena. Poco tempo dopo però quell’ipocrita abbandonò il paese e non si seppe mai più nulla di lui. Per di più il suo padrone pretese la restitu­ zione del mortaio, che il fuggiasco si era appropriato in bottega senza pagarlo. Züs però non cedette quel caro ri­

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cordo, anzi sostenne un energico piccolo processo, difen­ dendosi in persona davanti alla giustizia in base ad un conto per lavatura di biancheria del disertore. Quelli in cui dovette lottare per il mortaio furono i giorni più me­ morabili e dolorosi della sua esistenza, giacché essa, con la sua profonda intelligenza, comprendeva e sentiva più intensamente di altra gente superficiale la pena di pre­ sentarsi in giudizio per così delicata faccenda. Tuttavia conseguì la vittoria e conservò il mortaio. Se però la graziosa galleria di pçzzi di sapone attestava la sua operosità e la sua indole ordinata, un mucchietto di libri vari, disposti in bell’ordine presso la finestra e da lei assiduamente letti la domenica, non ne vantava meno lo spirito edificante e istruito. Züs possedeva anco­ ra, dopo tanti anni, tutti i suoi libri di scuola, non ne aveva perduto uno, così come ricordava ancora tutta quell’antica povera erudizione; sapeva a memoria il cate­ chismo e la grammatica, l’aritmetica e la geografia, la storia biblica e i racconti profani; possedeva inoltre alcune delle graziose storielle di Christoph Schmid, e le sue novelline coi bei versetti alla fine, nonché almeno una mezza dozzina di florilegi e testi popolari da consultare, una raccolta di calendari ricchi di sicura e provata sag­ gezza ed esperienza, alcune singolari profezie, un avvia­ mento al giuoco delle carte, un manuale di edificazione destinato alle fanciulle assennate per tutti i giorni dell’an­ no e un antico esemplare dei Masnadieri di Schiller, che rileggeva appena le sembrava di averli abbastanza di­ menticati, lasciandosi ogni volta di nuovo commuovere, ma commentandoli poi in modo ragionevole e prudente. Tutto quello che c’era in quei libri c’era anche nella sua testa, ed essa era in grado di parlarne molto bene e di parlare anche di molte altre cose. Quand’era soddisfat­ ta e non troppo indaffarata, dalla sua bocca fluiva­ no ininterrotti discorsi, e su tutto ella sapeva dare un parere o una sentenza. Giovani e vecchi, umili e grandi, dotti o ignoranti dovevano imparare da lei e sottoporsi al suo giudizio, dopo che essa, sorridente o meditabonda, aveva per un poco considerato di che

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cosa si trattasse. Qualche volta parlava con l’untuo­ sità e l’abbondanza di una dotta cieca, che non vede nulla del mondo e il cui unico piacere è stare ad ascol­ tarsi. Dalla scuola elementare e dall’istruzione religiosa aveva conservato ininterrotta la consuetudine di scrivere composizioni e brani edificanti e massime schematiche di ogni tipo, cosi che ancora nelle lunghe domeniche di riposo spesso redigeva i temi più bizzarri, infilan­ do le frasi più strane ed' assurde, sotto qualunque ti­ tolo sonoro che avesse udito o letto, per fogli interi, così come sbocciavano dal suo bizzarro cervello, per esempio sull’utilità di una malattia, sulla morte, sul be­ neficio salutare della rinuncia, sulla grandezza del mon­ do visibile e sul mistero di quello invisibile, sulla vita cam­ pestre e le sue gioie, sulla natura, sui sogni, sull’amo­ re; oppure pensieri sull’opera redentrice di Cristo, idee sulla presunzione, meditazioni sull’immortalità. Leggeva poi ad alta voce quei lavori ai suoi amici ed ammiratori e a quelli che aveva più cari faceva dono di uno o due di tali scritti, imponendo loro di conservarli dentro la Bibbia se ne possedevano una. Questo suo lato spirituale le aveva attirato una volta l’affetto profondo e sincero di un giovane legatore di libri, il quale leggeva tutti i volumi che legava ed era uomo pieno di aspirazioni e di buoni sentimenti e molto inesperto. Quando portava il suo fagottino di biancheria alla mamma di Zùs gli pareva di essere in cielo, tanto gli piaceva ascoltare quei bei discorsi, che già parecchie volte aveva rimuginati idealmente fra sé e sé senza avere il coraggio di metterli fuori. Con timi­ do rispetto accostava la fanciulla ora severa ed ora facon­ da, e questa gli concesse la sua amicizia e lo legò a sé per un anno, non senza però ben chiaramente escluderlo da ogni speranza, entro limiti che essa gli segnava con mano dolce ma inesorabile. Egli era infatti di nove anni più gio­ vane di lei, povero in canna e inetto al guadagno (sempre scarso del resto per un legatore a Seldwyla, dove la gente non leggeva e faceva legare pochi libri) ed essa quindi non gli celava neppure per un istante l’impossibilità di un matrimonio e cercava in tutti i modi di educare il suo

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spirito alla sua stessa capacità di rinuncia, imbalsamando­ lo in una nuvola di frasi multicolori. Egli l’ascoltava con fervore e osava persino di tanto in tanto una bella senten­ za, che essa però gli ammazzava appena nata con un’altra ancor più bella. Questo fu per lei l’anno più sublime e intellettuale, non velato da alcuna ombra di volgarità, e il giovanotto in quel tempo le rilegò a nuovo tutti i suoi libri e per di più, nel corso di molte notti e di molti giorni festivi, le eresse un prezioso e raffinato monumento della sua venerazione. Era un gran tempio cinese in cartone, con innumerevoli cassettini e riparti segreti, scomponibile in molti pezzi, tappezzato di carta martellata a colori e guernito da tutte le parti di galloncini d’oro. Vi si alter­ navano pareti a specchio e colonne, e se si alzava uno scompartimento o si apriva un vano, si scoprivano nuovi specchietti e figurine seminascoste, mazzi di fiori o cop­ pie amorose; alle punte dei tetti a pagoda erano appesi dovunque campanellini. C’era dentro anche un portaorologio per signora con graziosi gancetti alle colonne per appendervi la catenina d’oro e farla serpeggiare lungo l’edificio, ma fino ad allora non s’era fatto avanti alcun orologiaio né alcun orefice a deporre su quell’altare un orologio o una catena. In quell’ingegnoso tempio erano prodigati un lavoro e un’abilità senza fine, e il suo progetto non era stato meno arduo della precisa esecu­ zione. Quando quel monumento di un anno di felicità fu portato a termine, Züs Bünzlin vincendo se stessa per­ suase il bravo legatore a strapparsi da lei e a ripigliare il suo bordone, dato che il mondo gli era aperto dinanzi e che a lui, ora che aveva tanto nobilitato il suo cuore alla scuola e nella vicinanza di lei, avrebbe certo arriso ancora la più bella felicità, mentre essa, senza mai dimenticarlo, si sarebbe data alla solitudine. Quando, dopo quel con­ gedo, dovette partire dalla cittadina, il poverino versò vere lagrime, ma la sua opera troneggiò da quel giorno sull’antico cassettone di Züs, protetta da un velo di garza verde mare che la sottraeva alla polvere e agli sguardi profani. Era per lei così sacra che la serbò nuova e inuti­ lizzata, senza riporre mai nulla in quei cassettini. Al suo

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autore attribuì nel ricordo il nome di Emanuel, mentre in realtà si chiamava Veit, e andava ripetendo ad ognuno che soltanto Emanuel l’aveva compresa e aveva intuito la sua natura. Con lui in persona però non lo aveva che ben di rado ammesso, tenendolo anzi severamente a stecchet­ to e dimostrandogli spesso, per spronarlo a più alte mete, che egli tanto meno la capiva quanto più si illudeva di riuscirvi. In compenso anch’egli le giocò un piccolo tiro : ripose in un doppio fondo, nella parte più nascosta del tempio, una splendida lettera, bagnata di lagrime, nella quale le confessava l’indicibile tormento, l’amore, la vene­ razione e l’eterna fedeltà del suo cuore con parole così spontanee e leggiadre, quali le trova soltanto il vero senti­ mento andato a smarrirsi in un vano labirinto. Cose così belle non aveva mai potuto esprimerle, perché lei non l’a­ veva mai lasciato parlare. Siccome però Züs non aveva al­ cun sospetto di quel tesoro nascosto, si diede il caso che la sorte fu giusta, non concedendo a quella falsa innamorata ciò che non meritava di vedere. E fu come un simbolo che toccasse proprio a lei non comprendere la natura un po’ pazza, ma pur fervida e sincera del bravo legatore. Già da un pezzo Züs aveva avuto parole di lode per la condotta dei tre pettinai, chiamandoli uomini giusti e assennati; giacché non aveva mancato di osservarli. Quando dunque Dietrich, lo svevo, cominciò a trattenersi più a lungo con lei nel portarle o riprenderle la sua ca­ micia e si diede a farle la corte, essa lo accolse benigna­ mente, trattenendolo per ore intere con saggi conversari. Dietrich, pieno d’ammirazione, assentiva con entusiasmo a tutto più energicamente che poteva ed essa era ca­ pace di sopportare lodi smaccate, anzi amava que­ sta droga quanto più forte era, e se uno magnificava la sua saggezza, lei taceva sinché quello aveva vuotato il cuore, per poi riprendere il filo con maggiore untuosi­ tà e completare qua e là l’immagine che di lei era stata abbozzata. Non era passato molto tempo dalle prime visite di Dietrich, che essa già gli aveva mostrato la fa­ mosa cartella di rendita, ed egli era speranzoso e serbava coi suoi compagni l’aria di mistero di chi abbia scoperto

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il moto perpetuo. Jobst e Fridolin tuttavia trovarono le sue piste e non poco stupirono del suo profondo genio e della sua abilità. Specialmente Jobst si diede dell’asino, giacché anch’egli da anni frequentava quella casa e mai gli era venuto in mente di cercarvi altro che la biancheria; al contrario odiava quasi quella gente, le sole persone che settimanalmente riuscissero a carpirgli qualche soldo. Ad un matrimonio non aveva mai pensato; per lui una donna non rappresentava altro che un essere pronto ad esigere qualcosa che non le spetta. Non pensava d’altra parte a pretenderne a sua volta qualcosa di utile, avendo fede soltanto in se stesso e non sapendo spingere i propri angusti pensieri oltre l’àmbito prossimo e limitatissimo del suo gran segreto. Ora però si trattava di farla allo svevo, il quale coi settecento fiorini della giovane Biinzlin avrebbe potuto impiantare una brutta storia, se toccavano a lui, mentre quei settecento fiorini cominciavano di colpo ad assumere uno splendore trasfigurato agli occhi del sassone e del bavarese. Dietrich, l’ingegnoso, aveva dunque sco­ perto soltanto un continente che ben presto divenne bene comune. Gli toccò l’aspra sorte di tutti gli scopritori; i due compagni infatti seguirono le sue orme e frequentarono a loro volta Züs Bünzlin, che si vide circondata da un’intera corte di pettinai assennati e rispettabili. Questo le piaceva straordinariamente ; non aveva mai posseduto tanti ado­ ratori in una volta, così che divenne per lei un ottimo eser­ cizio spirituale trattare i tre uomini con massima pruden­ za e imparzialità, tenendoli a bada e animandoli con mi­ rabili parole alla rinuncia e al disinteresse sino al giorno in cui il cielo avrebbe voluto manifestare la sua immuta­ bile decisione. Siccome infatti ciascuno dei tre le aveva confidenzialmente rivelato il suo segreto e il suo pro­ getto, essa si propose senz’altro di render felice colui che avesse raggiunto la meta e fosse diventato proprietario dell’azienda. Escluse senz’altro lo svevo, che non avrebbe potuto vincere se non in grazia di lei, e si propose di non sposarlo. Siccome però era il più giovane, il più intelli­ gente e simpatico dei lavoranti, gli diede qualche tacito segno di speranza e, fingendo di sorvegliarlo e dirigerlo

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con particolare cordialità, spronò gli altri due a farsi ancor più zelanti, tanto che il povero Colombo, scopritore della bella terra, divenne il vero zimbello della partita. I tre an­ darono a gara nella devozione, nella modestia, nella ragio­ nevolezza e nell’arte gentile di lasciarsi guidare dall’auste­ ra fanciulla, ammirandola disinteressatamente, cosi che quando l’intera brigata era raccolta, assomigliava ad una strana conventicola, in cui si tenessero i più bizzarri discorsi. Malgrado la devozione e l’umiltà, capitava tutti i momenti che l’uno o l’altro, deviando all’improvviso dal magnificare la comune signora, tentasse invece di lodare e, di mettere in luce se stesso, ma si vedeva dolcemente ripreso, doveva interrompersi mortificato e stare a sen­ tirla, mentr’essa gli esaltava le virtù degli altri due, che egli tosto riconosceva e confermava. Era una dura esistenza per i tre poveri pettinai ; malgra­ do la freddezza della loro indole, da quando c’era una donna in giuoco, sorgevano inusitate eccitazioni nate da gelosie, preoccupazioni, paure e speranze; il lavoro e la parsimonia li consumavano facendoli visibilmente dima­ grire, si fecero melanconici, e mentre in pubblico e specialmente con Ziis ostentavano concordia ed eloquenza, quan­ do lavoravano insieme o erano in camera loro non scam­ biavano quasi parola e si coricavano nel letto comune con un sospiro, sempre silenziosi e pazienti come tre matite. Un unico sogno, sempre lo stesso, si librava ogni notte su quella triade, finché una volta fu tanto intenso che Jobst si spostò urtando Dietrich, il quale spinto indietro, urtò Fridolin. Ecco che fra i tre compagni mezzo intontiti dal sonno scoppiò un terribile rancore, e nel letto si svolse una lotta tremenda : per tre minuti tanto si picchiarono, scal­ ciando con tale violenza, che le sei gambe formarono un groviglio e il gruppo intero finì a terra tra altissime stri­ da. Svegliandosi del tutto, credettero che il diavolo fosse venuto a pigliarli o che i ladri fossero entrati in camera : balzarono in piedi e sùbito Jobst andò a mettersi sul suo mattone, Fridolin sul proprio, anche Dietrich su quello che proteggeva già i suoi miseri risparmi, e mentre se ne stavano così formando triangolo, tremavano e dimena­

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vano le braccia, invocando aiuto ed urlando: «Fuori! Fuori ! », finché il padrone spaventato si precipitò in ca­ mera a calmare i suoi lavoranti impazziti. Ancora treman­ ti di paura, di sdegno e di mortificazione, si ricacciarono alla fine sotto le coperte e vi rimasero l’uno accanto all’al­ tro sino al mattino senza parlare. Ma la scena notturna non era stata che un preannuncio del più grave spavento che li attendeva, quando il giorno dopo, durante la prima colazione, il padrone dichiarò che non poteva più tenere tre operai e che due di essi avrebbero dunque dovuto par­ tire. Essi infatti avevano esagerato producendo una tal quantità di merce che una parte era rimasta invenduta; dal canto suo il padrone s’era valso dell’aumentato gua­ dagno per rovinare di nuovo l’azienda quando era nel massimo rigoglio, facendo una cosi bella vita da contrarre debiti per il doppio delle sue entrate. Per questo i tre ope­ rai, pur così laboriosi e parchi, erano diventati d’un tratto un peso superfluo. Per consolarli disse loro che li aveva ca­ ri tutti e tre, e che lasciava loro decidere chi dovesse rima­ nere e chi riprendere la via. Essi però non decisero nulla ma rimasero lì pallidi come la morte, sorridendosi l’un l’altro, e poco dopo furono còlti da terribile inquietudine, essendo giunta l’ora fatale : l’avvertimento del padrone era infatti un sintomo chiaro che egli non avrebbe resistito a lungo e che la piccola fabbrica di pettini sarebbe stata una buona volta rivenduta. La meta a cui tutti avevano aspirato appariva dunque vicina, luminosa come una Ge­ rusalemme celeste, ma davanti alle sue porte due di loro avrebbero dovuto prender la via del ritorno e volgerle le spalle. Senza alcuna esitazione, tutti e tre dichiararono di voler rimanere anche lavorando gratuitamente. Ma il padrone non sapeva che farsene e confermò che comun­ que due di loro dovevano andarsene; essi gli caddero ai piedi torcendosi le mani, lo scongiurarono, e ciascuno in­ vocava in particolare per se stesso di tenerlo ancora due mesi soltanto, ancora soltanto quattro settimane. Ma il padrone sapeva benissimo a che cosa mirassero, tanto che se ne irritò e volle prenderli a gabbo, proponendo d’un tratto un modo divertente di risolvere la questione. « Se

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non potete mettervi d’accordo» disse «su chi debba li­ cenziarsi vi indicherò io un modo di decidere la faccenda, in modo definitivo! Domani è domenica, io vi do la solita paga, voi fate il vostro fagotto, prendete il vostro bastone, e ve ne andate tutti e tre di buon accordo fuor di città, per una buona mezz’ora, dalla parte che preferite. Vi riposate poi un pochino, e se ne avete voglia bevete un bicchierino; fatto questo rientrate in città, e quello che sarà allora il primo a tornarmi a chieder la­ voro, io lo riprenderò; gli altri invece dovranno inesora­ bilmente andarsene dove a loro piaccia ! ». Essi tornarono a inginocchiarsi davanti a lui, scongiurandolo di rinun­ ciare a quel crudele proposito, ma fu vano : egli rimase fer­ mo e inesorabile. D’un tratto lo svevo balzò in piedi e corse come un forsennato da Züs Bünzlin; ma appena Jobst e il bavarese se ne accorsero, interruppero i loro lamenti per corrergli dietro, così che la scena di dispera­ zione si trasferì ben presto nella dimora dell’atterrita donzella. Questa era molto colpita e preoccupata dell’inattesa avventura; fu però la prima a riprender animo e, domi­ nando la situazione, decise di legare la propria sorte alla bizzarra pensata del principale, considerandola una ispi­ razione celeste; andò a prendere commossa uno dei suoi florilegi poetici, puntò uno spillo su una pagina e vide che il motto da questo segnato si riferiva alla tenacia nel perseguire una buona meta. Fece ripetere la prova dai tre operai conturbati e tutti i motti da loro se­ gnati trattavano dello zelo nel procedere su uno stret­ to cammino, dell’andare innanzi senza guardarsi alle spalle, di una pista, insomma sempre di camminare o di correre, tanto che la gara podistica mattutina appariva chiaramente prescritta dal cielo. Temendo però che Dietrich, il più giovane, potesse troppo fa­ cilmente conquistare la palma, decise di accompa­ gnarsi ai suoi innamorati, per vedere che cosa avrebbe potuto fare a proprio vantaggio. Essa infatti desiderava che vincitore fosse uno dei due anziani, e le era del tutto indifferente quale. Impose quindi calma e rassegnazione

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ai tre che piagnucolavano e si bisticciavano, dicendo: «Sappiate, amici miei, che nulla accade senza una ra­ gione, e per quanto singolare e inconsueta sia l’idea del vostro principale, noi dobbiamo considerarla come una provvidenza e assoggettarci a quest’improvvisa decisione con una saggezza superiore, della quale quell’uomo petu­ lante non ha neppure idea. La nostra convivenza ragio­ nevole e pacifica era troppo bella perché potesse prolun­ garsi in modo così edificante, giacché, ahimè !, ogni cosa bella ed utile è breve e fugace, e nulla a lungo sussiste fuorché il male, la pervicacia, e la solitudine dell’anima, come noi ben possiamo osservare e considerare con la nostra devota saggezza. Perciò, prima che fra noi insorga il demone maligno della discordia, vogliamo piuttosto separarci spontaneamente e disperderci come le grade­ voli aurette primaverili, quando iniziano il loro corso veloce nel cielo, per non staccarci invece come i venti tempestosi dell’autunno. Io stessa vi accompagnerò per quel penoso cammino e vorrò esser presente quando ini­ zierete la gara di corsa, affinché siate animati da sereno coraggio e abbiate dietro di voi lo sprone più bello, mentre davanti vi arride la meta della vittoria. Ma come il vin­ citore non deve troppo insuperbirsi della sua fortuna, così i vinti non devono disperare e serbare cruccio o rancore, ma andar sicuri del nostro affettuoso ricordo e riprendere le vie del mondo quali allegri giovani lavoratori ; giacché gli uomini hanno edificato molte città altrettanto belle o ancor più belle di Seldwyla ; Roma è una grande e singola­ re città, dove vive il Santo Padre, e Parigi è una potentis­ sima città di molte anime e con mirabili palazzi, e a Costantinopoli regna il sultano, di fede turca, mentre Lisbona, una volta distrutta dal terremoto, è stata rico­ struita ancor più bella. Vienna, detta città imperiale, è la capitale dell’Austria, e Londra la più ricca città del mondo, situata in Inghilterra, su un fiume che ha nome Tamigi. Ben due milioni di uomini vi abitano ! Ma Pie­ troburgo è la capitale e la residenza del sovrano della Russia, così come Napoli è la capitale del regno dello stesso nome, con un monte Vesuvio il quale erutta fuoco

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e sul quale un giorno ad un capitano di mare inglese apparve un’anima dannata, come io ho letto in una strana descrizione di viaggi, un’anima che aveva appartenuto ad un tale John Smidt, che era stato un secolo e mezzo prima uomo empio e che affidò al detto capitano un incarico per i suoi posteri in Inghilterra, onde essere salvato ; giac­ ché tutta quella montagna di fuoco è dimora di dannati, come può leggersi sul trattato del dotto Peter Hasler intorno alla presumibile ubicazione dell’inferno. Vi sono ancora molte altre città,.fra le quali voglio citare soltanto ancora Milano, Venezia, tutta costruita sull’acqua, Lione, Marsiglia, Strasburgo, Colonia ed Amsterdam ; di Parigi ho già parlato, ma non ancora di Norimberga, di Augusta e di Francoforte, di Basilea, Berna e Ginevra, tutte belle città, nonché della bella Zurigo, e ve ne sarebbe ancora una quantità, che non finirei mai di elencare. Tutto ha infatti i suoi limiti, non però lo spirito inventivo degli uo­ mini, i quali in ogni direzione si diffondono per intra­ prendere quanto loro sembra utile. Se essi sono uomini giusti riusciranno, ma l’ingiusto svanirà come l’erba dei campi o come il fumo. Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti. Per tutte queste ragioni e sotto altri riguardi im­ postici dal dovere e dalla virtù della nostra pura co­ scienza, noi vogliamo assoggettarci alla voce del destino. Perciò andate e preparatevi al vostro pellegrinaggio, ma da uomini giusti e mansueti, che portano in sé il loro va­ lore dovunque essi vadano e il cui bordone dovunque potrà metter radici, uomini che, qualunque cosa facciano, potranno dirsi: “Ho scelto la parte migliore!”». I pettinai non volevano però sentir ragione e insiste­ vano con la dotta Züs perché scegliesse uno di loro, impo­ nendogli di restare, e naturalmente ciascuno pensava a se stesso. Ma ella si guardò bene dal fare una scelta, anzi proclamò seria e imperiosa che dovevano obbedirle, altrimenti avrebbe tolto loro per sempre la sua amicizia. Jobst allora, il più anziano, tornò a scappar via verso la casa del padrone, e al galoppo gli tennero dietro gli altri, nel timore che intraprendesse qualcosa a loro danno, e così girarono per tutto il giorno, simili a comete, finendo

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per odiarsi come tre ragni nella stessa ragnatela. Mezza città notò lo strano spettacolo dei pettinai impazziti, mentre erano sempre stati tanto quieti e tranquilli, e i vecchi se ne spaventarono, scorgendo nel fenomeno il mi­ sterioso preannuncio di gravi eventi. Verso sera erano stanchi ed esausti, senza essere riusciti ad escogitare o a decidere nulla di meglio, e battendo i denti andarono a coricarsi nel loro vecchio letto. Uno dopo l’altro si caccia­ rono sotto le coperte e si distesero come fossero morti, coi pensieri confusi finché un sonno pietoso non li colse. Jobst fu il primo a destarsi all’alba e vide che una serena mat­ tina di primavera illuminava la cameretta dove dormiva 'da ormai sei anni. Per misera che fosse, gli parve un pa­ radiso, che era costretto ad abbandonare, e tanto ingiu­ stamente. Lasciò vagare lo sguardo sulle pareti, studiando le tracce familiari lasciatevi dai molti lavoranti che vi ave­ vano abitato più o meno a lungo ; lì uno soleva sfregare la testa e ci aveva lasciato una macchia scura, là un altro ave­ va infitto un chiodo per appendervi la pipa, e c’era ancora il nastrino rosso. Che bravi ragazzi erano stati quelli, pron­ ti ad andarsene tranquillamente mentre i due che gli dor­ mivano accanto non volevano cedere il posto ! Fermò poi l’occhio sulla zona più prossima alla sua faccia e considerò i piccoli oggetti già mille volte veduti quando la mattina o la sera prima di buio giaceva a letto, compiacendosi della sua beata e non costosa esistenza. C’era una scre­ polatura nell’intonaco che aveva l’aspetto di una terra pon laghi e città, in cui un mucchietto di granelli di sab­ bia più grossi rappresentava un gruppo di isole beate; più in là si stendeva una lunga setola caduta dal pennello e rimasta ficcata nell’azzurro; Jobst infatti l’autunno pre­ cedente aveva trovato, una volta, un avanzo di quella tinta a calce, e, perché non andasse sciupata, aveva di­ pinto un pezzo della sua parete, quel che era venuto, scegliendo il posto più vicino al suo letto. Al di là della setola c’era un minuscolo rialzo, una specie di collinetta azzurra che proiettava la sua ombra delicata oltre la se­ tola, sino alle isole beate. Già tutto l’inverno era stato a meditare su quel monte, che gli sembrava non ci fosse

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stato prima. Mentre lo andava cercando quel mattino coi suoi occhi assonnati e melanconici, d’un tratto non lo trovò più e non volle credere ai propri sensi scoprendo al suo posto una piccola macchia chiara della parete, men­ tre vide che la minuscola montagna azzurra si muoveva e sembrava allontanarsi. Jobst balzò a sedere stupito, co­ me si trattasse di un miracolo, e scoprì che era una ci­ mice, che certo nell’autunno egli aveva distrattamente ricoperto con la tinta mentre già era in letargo. Ora inve­ ce, rianimata dal calore primaverile, s’era messa in mo­ vimento e proprio in quell’istante risaliva intrepida la parete con la sua schiena azzurra. La seguì con lo sguardo commosso e ammirato: sinché procedette entro l’azzurro non la si distingueva quasi dalla parete, ma quando uscì dalla parte dipinta e si lasciò alle spalle le ultime spruzza­ ture, l’animaletto azzurro continuò molto visibilmente la sua via nelle regioni più fosche. Jobst si lasciò ricadere tri­ stemente sui cuscini ; benché di solito non pensasse a cose simili, quella vista ridestò in lui uno strano sentimento* quasi fosse anch’egli costretto a riprendere il cammino, e gli parve buon insegnamento a rassegnarsi all’inevitabile, e ad avviarsi almeno di buona voglia. Fra tali pensieri più pacati gli tornò anche la sua naturale, impassibile prudenza; considerando più da vicino la cosa, si disse che, se si mostrava modesto e rassegnato, se si sottopo­ neva alla dura prova mantenendosi cauto ed accorto^ aveva pur sempre le maggiori possibilità di superare gli avversari. Scese pian piano dal letto, cominciò a mettere ordine fra le sue cose e anzitutto a prender fuori il suo tesoro per riporlo in fondo al vecchio zaino. Nel frattempo si svegliarono i suoi compagni e, vedendolo preparare così rassegnato il bagaglio, si stupirono molto, e ancor più quando Jobst rivolse loro parole concilianti e augurò il buon giorno. Non disse però altro, ma continuò quieto e tranquillo il suo lavoro. Subito i compagni, anche senza saper quello che preparasse, sospettarono nel suo conte­ gno un’astuzia di guerra e lo imitarono prestando una, estrema attenzione a quel che avrebbe poi fatto. Lo strano si fu che tutti e tre, per la prima volta, andarono a pren­

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dere i loro gruzzoli sotto le mattonelle e li riposero senza neppure contarli negli zaini. Sapevano infatti da un pezzo che ognuno aveva indovinato il segreto degli altri e non diffidavano nel senso di temere un’offesa alla pro­ prietà: ciascuno era certo che i colleghi non l’avrebbero derubato, e si dice infatti che nelle camerate dei lavoran­ ti, dei soldati e simili non vi siano mai né serrature né diffidenza. I tre furono ben presto pronti alla partenza, il padrone consegnò loro la paga e i rispettivi libretti di lavoro, in cui le autorità civiche e il principale stesso avevano re­ datto i più begli attestati sulla loro buona condotta e abilità, e giunsero così melanconicamente davanti alla casa di Züs Bünzlin, con le loro lunghe giacche brune ri­ coperte da vecchie spolverine stinte e coi cappelli, benché già vecchi e spelacchiati, accuratamente ricoperti da un pezzo di tela cerata. Ognuno aveva fissato al proprio ba­ gaglio un carrello destinato a portarlo in caso di lungo viaggio ; ma non pensavano di usar quelle ruote, che in­ fatti, per intanto, si ergevano alte sui loro dorsi. Jobst s’appoggiava a una rispettabile canna di bambù, Fri­ dolin a un bastone di frassino dipinto in rosso e nero, Dietrich a un fantastico gran bordone, attorno a cui si avvolgeva il disordinato intrico di molti rami. Quasi però si vergognava di quell’oggetto sfarzoso, proveniente an­ cora dal primo dei suoi pellegrinaggi, quando non era certo ragionevole e ammodo come al presente. Molti del vicinato, coi loro bimbi, s’erano raccolti attorno ai tre poveri pettinai, per augurare loro un viaggio fortunato. In quel momento apparve sulla porta Züs con aria so­ lenne, e s’awiò coraggiosamente fuori porta alla testa dei tre amici. Si era vestita in loro onore con sfarzo insolito: portava un cappellone con vistosi nastri gialli, una veste di cotonina rosa tutta sbuffi e rigonfi, una sciarpa di velluto nero con una gran fibbia di simi­ loro e scarpe di marocchino rosso a frange. Per di più reggeva un’ampia borsa di seta verde che aveva riempito di pere e prugne secche e teneva aperto un picco­ lo parasole, che aveva sulla punta una grande lira d’avo­

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rio. Aveva anche appeso al collo il medaglione con la cioc­ ca di capelli biondi, si era appuntata la spilla d’oro a non-ti-scordar-di-me e infilati guanti bianchi a maglia. Tutto quel lusso le conferiva un aspetto delicato e gentile; il volto era lievemente arrossato e il petto le ansimava più del consueto, tanto che i tre rivali si struggevano di me­ lanconia e di dolore, giacché l’estrema tensione degli animi, la bella giornata primaverile, che illuminava la lo­ ro partenza, e il fasto di Züs aggiungevano ai loro senti­ menti un tantino di quello che si chiama veramente amo­ re. Giunti alla porta della città, la gentile donzella esortò i suoi innamorati a mettere il bagaglio sulle rotelle e a tirarselo dietro per non stancarsi inutilmente. Così essi fecero e quando, usciti dalla cittadina, s’avviarono verso le montagne, parevano quasi un piccolo drappello di arti­ glieri che salisse a piazzare una batteria. Dopo una buona mezz’ora si fermarono su una bella collinetta da cui si dipartiva un bivio e sedettero in semicerchio sotto un ti­ glio di dove si godeva un’ampia veduta oltre boschi, laghi e paesi. Züs aprì la sua borsa e diede a ciascuno una manciata di pere e prugne per ristoro, ed essi conti­ nuarono a sedere per un bel pezzo seri e taciturni, ma schioccando la lingua e producendo un mite fruscio nel masticare i dolci frutti. Poi Züs, mentre gettava lontano un nocciolo di prugna e si ripuliva la punta delle dita nell’erba novella, co­ minciò a parlare: «Cari amici! Vedete come è bello e ampio il mondo, pieno tutt’attorno di cose splendide e di dimore umane ! Scommetterei tuttavia che in que­ st’ora solenne in nessun luogo di quest’ampio mondo stanno radunate quattro anime così rette e buone come siamo noi, così sensate e ponderate, così dedite ad ogni attività e virtù laboriosa, al riserbo, alla parsimonia, alla socievolezza e all’intima amicizia. Quanti fiori non ci stanno dintorno, di tutte le specie prodotte dalla prima­ vera, e specialmente le gialle primule che possono dare un tè eccellente e salutare, ma sono essi forse retti e laboriosi? Sono essi parsimoniosi, prudenti, capaci di pensieri saggi e istruttivi? No, sono creature ignoranti e senza spirito,

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prive di anima, che sciupano incoscientemente e stolta­ mente il lotto tempo e, per quanto belle siano, non se ne ca­ va che fieno morto, mentre noi con la nostra virtù di tanto le superiamo e non cediamo loro per la grazia dell’aspetto, giacché Dio ci ha creato a sua somiglianza e ci ha conces­ so il suo divino afflato. Oh, potessimo starcene qui per sempre in questo paradiso e in questa innocenza ! Sì, amici miei, mi sembra che siamo tutti nello stato dell’innocenza, nobilitati da una conoscenza scevra di peccato; giacché tutti noi, grazie a Dio, sappiamo però leggere e scrivere ed abbiamo appreso un mestiere a noi adatto. Per molti lavo­ ri avrei abilità e disposizione, mi sentirei anzi capace di far cose che la più erudita damigella non sa fare, se volessi an­ dare al di là del mio stato, ma modestia e umiltà sono le prime virtù di una brava fanciulla e a me basta sapere che il mio spirito non è senza valore e non viene disprezzato da una superiore saggezza. Già molti mi hanno desiderata che di me non erano degni, ed ora vedo tre degni scapoli rac­ colti insieme attorno a me, di cui ciascuno sarebbe egual­ mente meritevole di possedermi! Misurate da questo quanto il mio cuore, pur nella singolare sovrabbondanza, debba languire: prendete esempio da me e immaginate che ciascuno di voi sia circondato da tre fanciulle di pari merito che a lui aspirino e che appunto per ciò non gli sia possibile decidersi per alcuna, né alcuna ottenere ! Rap­ presentatevi con tutta evidenza che intorno ad ognuno di voi stiano tre giovani Bünzlin, sedute attorno a voi, tutte vestite come lo sono io, e dello stesso volto, e che io sia in certo modo qui, nove volte ripetuta, intenta a rimirarvi da tutte le parti e a struggermi per voi! Ve lo imma­ ginate?». I bravi giovanotti interruppero meravigliati la masti­ cazione e cercarono con facce imbambolate di risolvere lo strano problema. Lo svevo ci arrivò per il primo ed esclamò col volto eccitato: — Masi, spettabilissima madamigella ! Se lei me lo vuol benignamente concedere, io me la vedo non soltanto tri­ plicata, ma centuplicata girarmi attorno con occhi be­ nevoli ed offrirmi mille bacini !

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— Ma no ! — protestò Züs severamente — Non in ma­ niera così sconveniente ed esagerata! Che cosa le viene in mente, o indiscreto Dietrich! Non vi ho permesso di vedermi centuplicata ad offrir baci, ma soltanto in tre copie per ognuno, e in aspetto pudico e rispettabile, cosicché io non corra alcun rischio ! — Sì, — esclamò alla fine Jobst facendo segni all’in­ torno col picciolo di una pera rosicchiata — io vedo la carissima signorina Biinzlin solo tre volte, e con grande rispettabilità, che mi passeggia d’intorno e mi fa cenni benevoli, appoggiandosi una mano sul cuore! La rin­ grazio, la ringrazio devotamente ! — aggiunse sorridendo e inchinandosi in tre direzioni, come se veramente avesse quella visione. — Così va bene ! — disse Züs sorridendo, e riprese — Se una differenza è possibile, siete voi, caro Jobst, il più in­ telligente, o almeno il più ragionevole ! Il bavarese Fridolin non era ancora arrivato alla sua visione, ma sentendo far tante lodi a Jobst prese paura ed esclamò in fretta: — Vedo anch’io la diletta signorina Bünzlin triplicata, che mi passeggia attorno molto rispettabilmente e mi fa dei cenni voluttuosi mettendo la mano sul. . . — Vergogna, bavarese ! — gridò Züs volgendo la fac­ cia — Non una parola di più ! Di dove trae lei il coraggio di parlare di me con così smodate parole e di immaginare simili porcherie? Vergogna, vergogna! Il povero bavarese fu quasi còlto da un accidente e si fece di fiamma, senza saperne la ragione, giacché non aveva pensato un bel niente, ed aveva ripetuto soltanto pressappoco, seguendo il suono delle parole, quanto ave­ va udito dire da Jobst, vedendolo lodato per quel suo di­ scorso. Züs tornò a volgersi a Dietrich dicendogli: — Ebbene, caro Dietrich, non ci è riuscito finalmente in modo più modesto? — Sì, con vostra licenza, — replicò quello, felice che gli rivolgesse di nuovo la parola — adesso la vedo solo tre volte attorno a me, gentile e contegnosa, che mi guar­ da e mi offre tre mani bianche che io bacio !

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— Benissimo ! — disse la Biinzlin — E lei, Fridolin? Non è ancora uscito dalla sua aberrazione? Il suo san­ gue impetuoso non può placarsi in un’immagine decente? — Domando perdono ! — disse Fridolin mortificato — ora mi par di veder tre damigelle che mi offrono pere secche e che non sembrano maldisposte verso di me. Una è bella quanto l’altra e credo che scegliere tra loro sarà un affar serio. — Ebbene, — disse Züs— ora che nella vostra fantasia siete circondati da tali nove meritevoli persone e pur fra così graziosa abbondanza soffrite carestia nei vostri cuori, provate da ciò a misurare il mio stato; e come vedeste che io so dominarmi con saggio e modesto cuore, così prendete esempio dalla mia forza e giurate a me ed a voi stessi di rimanere concordi per l’avvenire, e di separarvi come io amorevolmente da voi mi congedo, con altret­ tanto amore, comunque vorrà decidere la sorte che vi attende! Stendete le vostre mani insieme qui sulla mia mano e giurate ! — Davvero ! — esclamò Jobst — Lo voglio ben fare, non mancherò! E gli altri due si affrettarono ad aggiungere: — E neppure io, certamente ! — e congiunsero le ma­ ni, mentre ciascuno però si riprometteva di correre a buon conto quanto meglio avrebbe potuto. — In verità non mancherò ! — ripetè Jobst — Io del resto sono sempre stato sin dalla gioventù di in­ dole generosa e conciliante. Non ho mai avuto dispute e non ho mai potuto veder soffrire una bestia; dovunque sia stato, ho vissuto in pace e raccolto le migliori lodi per la mia condotta tranquilla ; benché me ne intenda un po­ chino di tante cose e sia un uomo ragionevole, non si vide mai che io mi impicciassi in cose che non mi riguardava­ no, mentre ho sempre adempiuto al mio dovere con molta prudenza. Posso lavorare quanto voglio senza che mi fac­ cia male, giacché sono sano e robusto e nel fiore dell’età ! Tutte le mogli dei miei padroni han detto sempre che io sono un prodigio, un portento, che con me c’era sempre da andar d’accordo ! Ah ! sono io stesso persuaso che con

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lei, diletta madamigella Züs, vivrei come in paradiso! — Oh ! — intervenne con zelo il bavarese — lo credo bene, e non sarebbe gran merito vivere con la signorina come in paradiso ! Ci riuscirei anch’io, perchè non sono mica uno stupido! Il mio mestiere lo conosco a fondo e so tener le cose in ordine senza far parole inutili. Non ho mai avuto brighe, pur lavorando in grandi città, non ho mai picchiato un gatto né ucciso un ragno. Sono parco e morigerato e contento di ogni cibo e so divertirmi con pochissimo ed esserne sempre soddisfatto. Sono an­ che sano e vispo e molto resistente, poiché una coscienza tranquilla è il migliore elisir di lunga vita ; tutte le bestie mi voglion bene e mi corron dietro, sentendo che ho la coscienza a posto, giacché esse non amano invece vivere con un uomo ingiusto. Un barbone una volta mi ha se­ guito per tre giorni quando uscii dalla città di Ulm, e fui costretto ad affidarlo poi ad un contadino perché da po­ vero artigiano non ero in grado di nutrire una bestia si­ mile, e quando attraversai la foresta di Boemia i cervi e i caprioli si fermavano a venti passi senza paura. È strano come anche gli animali selvatici riconoscano gli uomini e sappiano chi ha buon cuore ! — Certo, dev’esser vero ! — esclamò lo svevo — Non vedete quel fringuello che già da un pezzo mi va svolaz­ zando intorno e cerca di awicinarmisi? E quello scoiattolino là sull’abete si volta di continuo a guardarmi e qui c’è un maggiolino che mi si arrampica su per la gamba e non si lascia staccare. Evidentemente sta bene qui con me quella cara bestiolina ! Ma a questo punto si svegliò la gelosia di Züs, che disse un po’ piccata: — Ma da me vogliono rimanere tutte le bestie ! Ho avuto un uccello per otto anni e gli dispiacque molto di lasciarmi quando mori ; il nostro gatto mi corre dietro do­ vunque io vada, e le colombe del vicino s’affollano a bi­ sticciarsi davanti alla mia finestra quando do loro briciole di pane ogni mattina ! Singolari doti hanno le bestie, a se­ conda della loro specie ! Il leone segue volentieri i sovrani e gli eroi, mentre l’elefante accompagna il principe e il vaio-

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roso guerriero; il cammello porta il mercante attraverso il deserto, conservando l’acqua fresca nella sua pancia, e il cane accompagna il padrone attraverso ogni pericolo e si precipita per lui anche in mare ! Il delfino ama la musica e tien dietro ai bastimenti, l’aquila segue gli eserciti. La scimmia è una creatura simile agli uomini che imita tutto quanto vede fare da questi, mentre il pappagallo com­ prende la nostra lingua e chiacchiera con noi come un vecchio ! Persino i serpenti si lasciano domare e danzano sulla punta della loro coda; il coccodrillo piange lagrime umane e viene dai cittadini di quel paese stimato e ri­ sparmiato; lo struzzo si lascia sellare e cavalcare come un destriero, il bufalo selvaggio trascina il carro dell’uo­ mo e la renna cornuta le sue slitte. Il liocorno gli fornisce il candido avorio e la tartaruga le sue ossa trasparenti. . . — Con permesso, — interruppero in coro i tre petti­ nai — in questo certamente lei si sbaglia: l’avorio lo si trae dai denti degli elefanti e i pettini di tartaruga si fanno non con le ossa, ma con il guscio della bestia ! Züs si fece di fiamma e disse : — Non si tratta di questo, giacché voi non avete certo veduto di dove lo si prenda, ma lavorate soltanto i pezzi : è raro che io mi sbagli, ma ad ogni modo lasciatemi finire : non soltanto gli animali hanno strane caratteristiche loro imposte da Dio, ma persino le morte pietre che si estrag­ gono dalle montagne. Il cristallo è trasparente come ve­ tro, il marmo invece duro e venato, ora bianco e ora nero; l’ambra ha proprietà elettriche e attira il fulmine ma poi brucia ed emana odore d’incenso. La calamita attira il ferro, sulle tavole di ardesia si può scrivere, ma non sul diamante perché questo è duro come acciaio; lo adopera infatti il vetraio per tagliare i vetri, perché è piccolo e aguzzo. Voi vedete, cari amici, che io pure so dirvi qualcosa degli animali ! Ma quanto ai miei rap­ porti con loro vi è da osservare : il gatto è una bestia scal­ tra e astuta che ama perciò soltanto la gente scaltra e astuta; la colomba è simbolo di semplicità e inno­ cenza e può sentirsi attratta soltanto da anime semplici e innocenti. Dato che sia i gatti che le colombe mi ama­

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no, ne deriva che io sono saggia e semplice, scaltra e nello stesso tempo innocente, come sta scritto infatti: Siate astuti come serpenti e semplici come colombe ! In questo modo noi ben possiamo degnamente apprezzare gli ani­ mali e i loro rapporti con noi e impararne molte cose, se sappiamo bene osservarli. I poveri pettinai non osarono pronunciar più parola ; Ziis li aveva sgominati e continuava ad esporre le sue idee altisonanti, così da lasciarli intontiti. Tuttavia essi am­ miravano l’ingegno e l’eloquenza della fanciulla e in tale ammirazione ognuno credeva di poter aspirare al possesso di quella gemma, tanto più che tale ornamento di una casa costava tanto poco e consisteva soltanto in una lingua sempre in moto. Simili allocchi in fondo non si chiedono affatto, o solo all’ultimo, se son meritevoli di quel che apprezzano e se saprebbero servirsene, ma so­ migliano ai bambini che vogliono afferrare tutto quanto luccica, leccare i colori di ogni oggetto variopinto e mettersi in bocca un intero sonaglio, invece di avvici­ narlo soltanto alle orecchie. A quel modo essi sempre più si eccitavano nella fantasia e nel desiderio di conquistare quell’eccezionale persona, e quanto più le assurde frasi della Bünzlin si facevano vacue, aride e vanitose, tanto più commossi e depressi erano i tre pettinai. In pari tempo la frutta secca mangiata aveva loro riarso la gola: Jobst e il bavarese andarono a cercare acqua nel bosco, e trovata una sorgente si riempirono di acqua fredda. Lo svevo in­ vece aveva astutamente portata con sé una borraccia di acquavite di ciliegie allungata con acqua e zucchero, gra­ devole bevanda destinata a dargli forza e vantaggio nella corsa, giacché sapeva che gli altri erano troppo parsimo­ niosi per portar qualcosa o entrare in un’osteria. Mentre quelli dunque si gonfiavano d’acqua, egli trasse fuori la sua grappa e ne offrì alla signorina Züs. Questa gliene bev­ ve metà, e tanto le piacque e la ristorò che gettò a Dietrich leggiadre occhiate di traverso, facendogli sembrare il ri­ manente gustoso al pari di vin di Cipro. Sentendosi molto rinvigorito non potè trattenersi dall’afferrare la mano di Züs e dal baciarle graziosamente la punta delle dita;

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essa gli diede sulle labbra un buffetto con l’indice ed egli finse di volerlo mordere, spalancando la bocca come una carpa sorridente; la ragazza fece una smorfietta falsa e gentile, Dietrich un’altra furba e dolciastra; eran seduti a terra l’uno di fronte all’altra e di tanto in tanto si sfiora­ vano con le suole delle scarpe, come volessero darsi la ma­ no coi piedi. Ziis si chinò un poco verso di lui, appoggian­ dogli la mano sulla spalla, e Dietrich volle ricambiare quel bel giuoco e anche continuarlo, quando riapparvero, pal­ lidi e gementi, il sassone col bavarese. La troppa acqua versata sulle pere secche li aveva fatti star male di colpo e il corruccio che provarono vedendo la coppia intenta a vezzeggiarsi, unito al grave malessere del ventre, fece im­ perlare le loro fronti di sudor freddo. Züs però non si scom­ pose ed anzi li chiamò con un cenno gentile, esclamando: «Venite, carissimi, sedetevi ancora un pochino qua vici­ no a me, cosicché si possa godere un altro poco e per l’ulti­ ma volta la nostra amichevole concordia ! ». Jobst e Fri­ dolin s’accostarono di furia stendendo anch’essi le gambe; Züs lasciò una mano allo svevo, diede l’altra a Jobst e coi piedi sfiorò le suole degli stivali di Fridolin, mentre la fac­ cia distribuiva sorrisi l’un dopo l’altro. Vi sono allo stesso modo dei virtuosi capaci di suonare parecchi strumenti in una volta : scuotono per esempio una sonagliera con la te­ sta, soffiano nell’ocarina con la bocca, grattano la chitarra con le mani, battono i piatti con le ginocchia, fan tintinna­ re il triangolo col piede e picchiano con i gomiti il tam­ buro appeso alle spalle. Ma d’un tratto la donna si alzò da terra, rassettò la veste che prima aveva già accuratamente rialzata, e disse : «È venuto il momento, cari amici, di porci in cammino perché vi accingiate a quella seria prova che il vostro padrone, nella sua stoltezza, vi ha imposta, ma che noi consideriamo predestinata da un fato superiore ! Avviatevi per quella strada pieni di santo zelo, ma senza ostilità o in­ vidia reciproca, pronti a concedere di buon animo la co­ rona al vincitore!». I tre compagni balzarono in piedi come punti da una vespa. Eccoli lì costretti ad una gara di corsa con quelle

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loro brave gambe, che sino ad allora avevano sempre camminato a passo giudizioso e rispettabile ! Nessuno riusciva a ricordarsi di aver mai fatto corse o salti; il più fiducioso sembrava lo svevo, che cominciò addirittura a razzolare lievemente e ad agitare i piedi impaziente. Si lanciavano occhiate strane e sospettose, erano pallidi e sudavano come se già corressero disperatamente. — Datevi ancora una volta la mano ! — comandò Züs, ed essi lo fecero, ma così di malavoglia e pigramente, che le tre mani si staccarono freddamente e caddero come fossero di piombo. — Dobbiamo proprio cominciare la stolida gara? — domandò Jobst asciugandosi gli occhi che volevano lagrimare. — Già, — aggiunse il bavarese — dobbiamo proprio metterci a correre e saltare? — e scoppiò a piangere. — E lei, carissima damigella Bünzlin, — disse Jobst sin­ ghiozzando — che cosa farà lei? — A me si conviene, — replicò quella avvicinando il fazzoletto agli occhi — a me si conviene tacere, soffrire e guardare ! Lo svevo aggiunse, cortese ma malizioso: — Ma poi, signorina Züs? — Oh Dietrich ! — replicò lei dolcemente — Non sa­ pete che la sentenza del destino è la voce del cuore? — e così dicendo gli scoccò un’occhiata di traverso che gli fece venir voglia di partire subito al trotto. Mentre i due rivali mettevano in ordine i carrelli col bagaglio e Dietrich faceva la stessa cosa, essa più volte lo sfiorò col gomito o gli pigiò un piede; poi spolverò il suo cappello, ma nello stesso tempo si voltò verso gli altri in modo da non esser veduta da lui e sorrise loro come se prendesse a gabbo lo svevo. Tutti e tre a quel punto gonfiarono le gote mandando gran sospiri. Si guardarono intorno in tutte le direzioni, si tolsero i cappelli, si asciugarono il sudore dalla fronte, ricacciarono i ciuffi appiccicati e tornarono a mettere i loro copricapi. Poi si guardarono ancora una volta attorno cercando di prender fiato. Züs aveva pietà di loro ed era commossa al punto di piangere essa stessa.

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— Ecco ancora tre prugne secche, — disse — pren­ detene una in bocca, e tenetecela per ristoro! Ed ora partite e trasformate la stoltezza dei malvagi in saggezza dei giusti ! Quel che essi hanno escogitato per scherno voi trasformerete in una edificante opera di purificazione, nella ingegnosa conclusione di una lunga e tenace gara di virtù ! — Ficcò ad ognuno la prugna in bocca, ed essi si misero a succhiarla. , Jobst si premette la mano sullo stomaco esclamando: — Se così dev’essere andiamo, in nome di Dio ! — E d’un tratto, alzando il bastone, cominciò a marciare energicamente con le ginocchia molto piegate, trascinan­ dosi dietro il suo bagaglio. Appena Fridolin vide questo, lo seguì a lunghi passi, e i due, senza più guardarsi attor­ no, s’awiarono con discreta velocità giù per la strada. Lo svevo fu l’ultimo a muoversi, e camminò con faccia fur­ bescamente allegra, ostentando grande calma, accanto a Züs, come fosse sicuro del fatto suo e volesse lasciare un vantaggio ai due compagni. Züs lodò la sua cortese im­ passibilità e lo prese confidenzialmente sotto braccio di­ cendogli con un sospiro : — È pur bello avere un saldo appoggio nella vita ! Anche se si ha sufficiente ingegno e si procede con sag­ gezza e prudenza, per la via della virtù, quello stesso cammino è ben più gradevole al braccio fidato di un amico ! — Diavolo, si capisce, lo dico bene anch’io ! — replicò Dietrich ficcandole il gomito nel fianco e guardando in­ tanto se i suoi avversari non guadagnassero un vantaggio eccessivo — Lo vede, egregia signorina, conosce final­ mente i suoi polli? — Oh, Dietrich, caro Dietrich, — riprese lei con un sospiro ancor più profondo — spesso mi sento proprio sola ! — Evviva, così deve essere ! — gridò lui sentendosi il cuore balzare in petto come un leprottino tra i cavoli. — Oh, Dietrich ! — ripetè la donna stringendosi ancor più a lui. Egli si sentì soffocare e il cuore gli voleva scoppiare dalla gioia, però in pari tempo s’accorse di non

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scorgere più i due già spariti oltre la svolta. Cercò di strap­ parsi dalle braccia di Züs per inseguirli, ma quella lo serrava così saldo che non ci riuscì, anzi gli si aggrappava addosso come se svenisse. — Dietrich ! — mormorò stralunando gli occhi — Non mi lasci sola, io confido in lei, mi sorregga ! — In nome di tutti i diavoli, mi lasci andare, signorina ! gridò lui spaventato — altrimenti arrivo tardi e allora è finita ! — No, no ! non mi deve lasciare, sento che mi vien male ! — gemeva l’altra. — Male o non male ! — gridò il compagno strappan­ dosi a forza; balzò su un’altura, si guardò attorno e scorse i due corridori che scendevano in volata molto lontano. Si dispose a balzare avanti, ma prima lanciò un’ultima occhiata a Züs, e vide che essa lo chiamava con cenni allettanti seduta all’inizio di uno stretto sentierino om­ broso. A quella vista non seppe resistere, e invece che giù per la china, corse di nuovo da lei. Vedendolo venire, ella s’alzò e si addentrò nel bosco, sempre voltandosi a guar­ darlo, col proposito di impedirgli in tutti i modi la corsa, trattenendolo in maniera da farlo giungere troppo tardi, perché non potesse restare a Seldwyla. L’ingegnoso svevo però in quello stesso momento mutò pensiero e si propose di conquistare la sua vittoria lassù, e così fu che le cose si svolsero ben diversamente da quanto l’astuta damigella aveva sperato. Appena Dietrich l’ebbe raggiunta e si trovò solo con lei in un posticino recondito, le cadde ai piedi investendola con le più ardenti dichia­ razioni d’amore che mai un pettinaio abbia fatto. Dap­ prima essa cercò di calmarlo senza respingerlo e di fargli perdere tempo coi buoni modi, sfoggiando la sua saggezza e le sue grazie. Ma quello invocò il cielo e l’inferno con magiche parole suggeritegli dal suo spirito intraprendente già eccitato e commosso, la colmò di tenerezze d’ogni genere, cercando di impadronirsi ora delle sue mani e ora dei suoi piedi, lodando ed esaltando il corpo e l’anima e tutto quanto era in lei, così da fare impallidire il sole, e poiché per di più la natura e il bosco li circondavano

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con tanto silenzio gentile, Züs finì per perdere la bussola. In fondo era una creatura i cui pensieri non andavano più in là dei suoi sensi ; il cuore le si agitò inerme e impaurito come un povero maggiolino rovesciato sul dorso e Dietrich la vinse su tutta la linea. Essa l’aveva attirato nel boschet­ to per tradirlo, ma fu in un momento conquistata dal piccolo svevo, né ciò accadde perché fosse particolarmente innamorata, ma perché la sua mente limitata, malgrado la presunta saggezza, non le permetteva di vedere al di là del proprio naso. Rimasero senz’annoiarsi in quella so­ litudine abbracciandosi e baciandosi mille volte. Si giu­ rarono eterna fedeltà e con tutta sincerità decisero di spo­ sarsi ad ogni costo. Nel frattempo in città s’era diffusa la notizia della stra­ na gara dei tre lavoranti ed era stato il maestro pettinaio medesimo a render nota la cosa per proprio divertimento. I Seldwylesi si compiacevano dello spettacolo imprevisto ed erano ansiosi di veder correre e arrivare con loro spasso gli austeri e impeccabili pettinai. Una gran folla s’awiò verso la porta della città e si dispose ai due lati dello stra­ done, come quando si attende un corridore. I ragazzi s’ar­ rampicarono sugli alberi, i vecchi e gli anziani sedettero sull’erba fumando la pipa, soddisfatti che si offrisse loro un divertimento così a buon mercato. Si erano mossi persino i signori del luogo, per non mancare allo scherzo, e sede­ vano in ameni conversari nei giardinetti e sotto le pergole delle osterie imbastendo una quantità di scommesse. Nelle strade per le quali dovevano passare i corridori tutte le finestre erano aperte, le donne avevano esposto cuscini bianchi e rossi a quelle dei salotti per appoggiarvi le brac­ cia e ricevevano numerose visite; si erano così improv­ visate liete brigate e le servette erano affaccendate a ser­ vire il caffè con paste e biscotti. In quel momento i ra­ gazzi saliti sugli alberi più alti fuori porta videro avvi­ cinarsi una nuvoletta di polvere e cominciarono a gri­ dare: «Arrivano, arrivano!». Non passò gran tempo ed ecco che Fridolin e Jobst arrivarono davvero, rapidi come l’uragano, sollevando in mezzo alla strada una gran nuvola di polvere. Con una mano trascinavano i carret­

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tini sobbalzanti pazzamente sulle pietre, con l’altra te­ nevano fermi i cappelli ricacciati verso la nuca, mentre le falde delle loro giubbe svolazzavano a gara al vento. Erano ambedue coperti di sudore e di polvere, con la bocca spalancata e ansimante, non vedevano né udivano più nulla di quanto li circondava e grosse lagrime roto­ lavano sulle guance dei poveracci che non avevano tempo di asciugarle. Si stavano proprio alle calcagna, ma il bava­ rese aveva una spanna di vantaggio. Al loro apparire si le­ vò ed echeggiò uno spaventoso coro di urla e di risate. Tut­ ti balzarono in piedi affollandosi verso la strada e da tutte le parti si gridava: «Benone ! Benone ! Correte ! Tieni du­ ro, sassone ! Coraggio bavarese ! Uno ha già rinunciato, non ce ne sono che due !». I signori nei giardini salirono sui tavoli, squassati dalle risa. E le risate echeggiarono co­ me il tuono al di sopra dello smodato vocio della folla ac­ campata sulla strada e diede il via ad una giornata di fe­ sta inaudita. I monelli e la plebaglia si confusero in un’u­ nica disordinata colonna dietro i due poveri lavoranti, su­ scitando un’immensa nuvola che procedette con loro sin verso la porta; persino donne e ragazze s’unirono alla corsa, mischiando le loro vocette stridule agli strilli dei maschi. Già erano in vicinanza della porta, le cui torrette erano gremite di curiosi che agitavano i berretti; i due correvano come cavalli impazziti, col cuore pieno d’an­ goscia e di tormento, ma un monello balzò come uno gnomo sul carrettino di Jobst, facendosi trascinare tra gli applausi della folla. Jobst si voltò e lo scongiurò di scen­ dere, tentando anche di colpirlo col bastone, ma il bir­ bante s’abbassò svelto facendogli boccacce. Intanto Fri­ dolin guadagnò maggior vantaggio, e Jobst accorgendo­ sene gli gettò il bastone fra i piedi e lo fece cadere. Mentre questi cercava di balzare avanti, il bavarese lo afferrò per le falde della giubba, tirandosi così in piedi; Jobst lo pestò sulle mani strillando : « Lasciami, lasciami ! », ma quello non mollava e Jobst allora afferrò a sua volta le falde dell’altro e così, tenendosi stretti a vicenda e sempre rigirandosi s’avvicinavano lentamente alla porta, tentan­ do di tanto in tanto un salto per svincolarsi. Piangevano,

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singhiozzavano e gemevano come bambini e andavano gridando con indicibile angoscia: «Oh Dio! Lasciami! Oh, Gesù benedetto, lasciami, Jobst ! Via, Fridolin ! Vat­ tene, Satana ! » e intanto si davano gran colpi sulle mani, e riuscivano in qualche modo ad avanzare un poco. Ave­ vano perduto cappelli e bastoni che due monelli portava­ no gli uni infilati sugli altri, e tutt’attorno si assiepava e procedeva la folla urlante. Le finestre erano gremite di donne che riversavano le loro risate argentine sulle onde tempestose della folla: da molto tempo non c’era stata si­ mile allegria in città. Il chiassoso spettacolo tanto piaceva ai Seldwylesi, che nessuno mostrò ai due campioni la me­ ta, cioè la casa del pettinalo alla quale finalmente erano giunti. I poverini non la videro, essi non vedevano più nulla, così che il pazzo corteo si trascinò per tutta la citta­ dina uscendo per la porta opposta. Il padrone era rimasto ad aspettarli ridendo sotto la sua finestra, e dopo avere at­ teso per un’oretta il vincitore, stava appunto per andarse­ ne a godere i frutti della sua bella trovata, quando entra­ rono in casa sua, tranquilli e inattesi, Dietrich e Züs. I due infatti nel frattempo avevano raccolto le loro idee e si erano detti che certo il padrone del laboratorio, non potendo tirar avanti ancora a lungo, non sarebbe stato alieno dal vendere la sua azienda per una somma in con­ tanti. Züs voleva dare la sua cartella e lo svevo i suoi po­ chi soldi, col che sarebbero stati signori della situazione e avrebbero potuto ridere dei due colleghi. Esposero il loro disegno al maestro stupito, ma questi si compiacque subi­ to all’idea di concludere l’affare alla svelta, alle spalle dei suoi creditori, prima di arrivare ad una crisi, appro­ priandosi cioè insperatamente della somma in contanti. Tutto fu rapidamente stabilito, e prima che calasse il sole madamigella Bünzlin era la legittima proprietaria della fabbrica di pettini e il suo fidanzato locatario della casa in cui essa aveva sede. A quel modo Züs, senza che lo avesse supposto al mattino, fu finalmente conquistata e legata dall’energia del giovane svevo. Jobst e Fridolin giacevano mezzo morti di vergogna, di stanchezza e di rabbia nell’osteria dove li avevano ri­

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coverati dopo che alla fine eran caduti a terra, ancora stretti in un groviglio. Tutta la città, ormai eccitata, aveva già dimenticato la prima ragione della festa, pur prolun­ gandola l’intera notte. In molte case si ballò e nelle oste­ rie si bevve e si cantò come nelle maggiori ricorrenze seldwylesi; giacché a Seldwyla non occorreva molto per creare con maestria un grandioso divertimento. Quando i due poveri diavoli videro che la loro bravura, con la quale s’erano illusi di sfruttare la follia del mondo, aveva inve­ ce servito soltanto a farla trionfare e a renderli oggetto dello scherno generale, ne ebbero il cuore spezzato: essi infatti vedevano fallito e annientato il saggio piano di molti anni, non solo, ma perdevano insieme la fama di persone giudiziose, rette e tranquille. Jobst, il più anziano, che aveva vissuto sette anni a Seldwyla, si sentì completamente perduto e non seppe tro­ vare via d’uscita. Prima dell’alba, immerso in profonda tristezza, andò fuori di città e si impiccò ad un albero, proprio dove il giorno avanti s’eran seduti tutti insieme. Quando il bavarese, un’ora più tardi, passò di lì e lo vide, fu còlto da tale orrore, che si mise a fuggire come impaz­ zito : mutò completamente la propria indole e, a quel che si seppe poi, diventò un uomo dissoluto e un vecchio operaio vagabondo e misantropo. Soltanto Dietrich, lo svevo, rimase uomo giusto e si tenne a galla nella cittadina. Non ne trasse però una gran gioia, giacché Zùs non gliene lasciò mai il merito, ma lo dominò e lo oppresse sempre, considerando se stessa quale unica sorgente di ogni bene.

SPECCHIETTO IL GATTINO FIABA

Quando un seldwylese ha concluso un affare gramo o è stato imbrogliato, a Seldwyla dicono: «Ha comprato il grasso al gatto!». Questo proverbio è in uso anche al­ trove, ma in nessun posto lo si sente tanto spesso come là, il che forse deriva dal fatto che in quella città esiste una leggenda sull’origine e il significato di tale detto. Or sono parecchi secoli, si racconta, viveva sola a Seld­ wyla una donna attempata con un bel gattino grigio e nero, che stava con lei in tutta saggezza e allegria, senza far male a nessuno che lo lasciasse in pace. La sua unica passione era la caccia, ma la soddisfaceva con misura e con giudizio, senza lasciarsi sedurre dalla circostanza che quella passione aveva pure un utile fine e ben piaceva alla sua padrona, né lasciarsi troppo trascinare alla crudeltà. Acchiappava e uccideva quindi soltanto i topi più sfac­ ciati e importuni, che si facevano cogliere in una data zona della casa, e quelli con sicura abilità: solo di rado, invece, inseguiva un topo specialmente scaltro, che avesse eccitata la sua ira, oltre quella cerchia, e in tal caso in­ vocava con molta cortesia dai signori vicini la licenza di caccia nelle loro case, il che gli veniva volentieri concesso, poiché Specchietto lasciava in pace i bricchi del latte, non s’arrampicava su per i prosciutti che eventualmente pendessero alle pareti, ma si dedicava tranquillo e at­ tento al suo lavoro e appena finito s’allontanava com­ posto col suo topolino in bocca. Il gattino non era poi né timido né sgarbato, ma anzi gioviale con tutti, e non rifuggiva dalle persone ragionevoli, anzi da queste tol­ lerava uno scherzo e si lasciava persino tirare un pochino le orecchie senza graffiare. Non sopportava invece la minima confidenza da quel tipo di gente sciocca la cui stupidaggine, come egli affermava, derivava da un cuore arido e vuoto : la evitava, oppure, se lo molestavano con goffaggine, tirava una buona zampata. Specchietto, tale era il nome del gattino per il suo pelo

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liscio e lucente, viveva i suoi giorni grazioso e contem­ plativo, in decorosa agiatezza e senza superbia. Non sa­ liva troppo spesso sulla spalla della sua gentile padrona per ghermirle i bocconi dalla forchetta, ma soltanto quan­ do s’accorgeva che era disposta al gioco ; durante la gior­ nata ben di rado dormiva o giaceva sul suo cuscino caldo dietro la stufa, preferendo tenersi desto e star piuttosto sulla stretta balaustrata delle scale o nella gronda, ab­ bandonandosi a filosofiche considerazioni e all’osser­ vazione del mondo. Soltanto ogni primavera e ogni au­ tunno quella tranquilla esistenza s’interrompeva per una settimana, quando fiorivano le viole o i miti calori del­ l’estate di San Martino scimmiottavano il tempo delle viole. Allora Specchietto andava per conto suo, vagabon­ dava con innamorato entusiasmo su per i tetti più remoti e cantava i suoi canti più belli. Notte e giorno, da vero Don Giovanni, affrontava le più scabrose avventure, e se per eccezione si lasciava vedere un momento a casa, ci veniva con un aspetto tanto temerario e goliardico, anzi dissoluto e arruffato, che la sua tranquilla padrona gli gridava quasi adirata: «Ma Specchietto! Non ti ver­ gogni di condurre una vita simile?». Chi non si vergo­ gnava era proprio Specchietto ! Da uomo di princìpi, ben conscio di quel che gli fosse lecito concedersi per benefica variazione, si dedicava con tutta calma a ristabilire la lu­ centezza del suo pelo e l’innocente serenità del suo aspetto, e si passava le zampine umide sul naso, impassibile come se nulla fosse accaduto. Quella vita regolare fu però bruscamente troncata. Proprio quando il micio Specchietto era nel fiore dei suoi anni, la padrona morì inaspettatamente di debolezza se­ nile, lasciando il bel gattino orfano e abbandonato. Fu la prima sventura che gli toccasse, ed egli accompagnò la ba­ ra fin sulla strada con quei lamenti laceranti che esprimo­ no l’angoscioso dubbio circa la causa reale e legittima di un grande dolore, e s’aggirò poi smarrito per il resto della giornata dentro e fuori della casa. Tuttavia la sua buona indole, la sua ragione e la sua filosofia gli imposero ben presto di farsi animo, di sopportare l’irrevocabile e di di­

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mostrare la sua grata devozione alla casa della morta pa­ drona offrendo i suoi servigi agli allegri eredi, e apprestan­ dosi ad assisterli col consiglio e con l’azione, tenendo in iscacco i topi e facendo loro più d’una saggia comunica­ zione, che gli stolti non avrebbero disprezzata, se non fos­ sero stati appunto uomini irragionevoli. Ma quella gente non permise al micio di dire una parola: gli lanciavano sulla testa pantofole e il grazioso sgabellino della povera morta appena si faceva vedere. Dopo otto giorni di grandi liti fra loro, iniziarono un processo per l’eredità, e chiu­ sero sino a nuovo ordine la casa, nella quale non abitò, co­ sì, più nessuno. II povero Specchietto se ne stava ora triste e abban­ donato sul gradino di pietra dinanzi alla porta e non aveva nessuno che gli aprisse. Di notte arrivava per vie traverse fin sotto il tetto della casa, e da principio vi si tenne nascosto anche una buona parte del giorno, cer­ cando di far passare i crucci dormendo; ma la fame lo riportò ben presto alla luce e lo costrinse a ricomparire al caldo sole e tra la gente, per esser pronto là ove si of­ frisse un boccone di qualunque cibo. Quanto più di rado ciò succedeva, tanto più attento si fece il bravo Spec­ chietto, e in tale preoccupazione andarono perdute tutte le sue doti morali, tanto che ben presto non assomigliò più a se stesso. Faceva gite numerose dalla porta della sua casa, attraversando la strada rapido e impaurito, per ritornare talvolta con in bocca un pezzetto di robaccia ripugnante che in passato neppure avrebbe guardato, e talvolta addirittura con niente. Di giorno in giorno di­ ventò più magro e arruffato, e insieme ingordo, stri­ sciante e codardo. Tutto il suo coraggio, la sua bella di­ gnità felina, la sua ragione e la sua filosofìa erano morti. All’uscita dei ragazzi dalla scuola, appena li sentiva ve­ nire, si nascondeva in un cantuccio, spiando se nessuno di loro gettava una crosta di pane e notando subito il posto ove era caduta. Se arrivava di lontano anche il più brutto botolo, balzava via, mentre prima aveva guardato impassibile il pericolo in faccia e non di rado aveva dato una lezione a cani prepotenti. Solo quando

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passava un uomo rozzo e goffo, uno di quelli che un tem­ po usava saggiamente scansare, rimaneva al suo posto, benché il povero gattino, con l’ultimo residuo della sua esperienza umana, riconoscesse in lui il briccone; ma la necessità costringeva Specchietto all’illusione e alla spe­ ranza che quel malvagio eccezionalmente lo avrebbe ac­ carezzato e gli avrebbe offerto del cibo. Anche se veniva invece picchiato e tirato per la coda, non graffiava, ma si rannicchiava silenzioso in un angolo voltandosi ancora a guardare desideroso la mano che l’aveva pizzicato o col­ pito, ma che odorava di salsiccia o di aringa. Quando già il nobile e saggio Specchietto era decaduto a tal punto, se ne stava un giorno magrissimo e triste su una pietra ammiccando al sole. Passò di lì lo stregone ci­ vico Pineis, vide il micio e gli si fermò dinanzi. Sperando in qualcosa di buono, benché conoscesse l’uomo miste­ rioso, Specchietto rimase umilmènte sulla sua pietra, in attesa di quel che il signor Pineis avrebbe detto o fatto. Ma quando questi lo apostrofò: — Orsù, gatto ! Vuoi che compri il tuo grasso? — per­ dette ogni speranza, persuaso che lo stregone volesse scher­ nirlo per la sua magrezza. Tuttavia replicò modesto e sor­ ridente, per non guastarsi con nessuno: — Oh, al signor Pineis piace scherzare ! — Niente affatto, — esclamò Pineis — parlo con tutta serietà ! Ho bisogno di grasso di gatto per le mie strego­ nerie, ma deve essermi ceduto spontaneamente e per contratto dagli egregi signori gatti, altrimenti è inefficace. Mi pare che se mai un bravo gattino fu in condizione di concludere un affare vantaggioso, quello sei tu ! Vieni al mio servizio: io ti manterrò da signore, ti farò grasso e tondo con salsiccette e quaglie arrosto. Sull’antico tetto della mia casa, di inaudita altezza, il quale tra parentesi è anche uno dei più deliziosi tetti del mondo per un gatto, pieno di angoli e di zone interessanti, cresce sulle cuspidi più soleggiate un’eccellente erba aguzza, verde come smeraldo, che ondeggia esile e sottile al vento, invitan­ doti a gustarne le tenere punte quando le mie leccornie t’avessero procurato qualche leggera indigestione. Così

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rimarrai in ottima salute e mi fornirai un giorno grasso sostanzioso e adatto! Specchietto aveva già da un po’ aguzzato le orecchie, ascoltando con l’acquolina in bocca, ma alla sua intel­ ligenza un po’ indebolita la faccenda non riusciva chiara, ed egli quindi replicò : — Non sarebbe certo male tutto questo, signor Pineis ! Sapessi soltanto come potrò poi incassare e godere il prezzo pattuito, se, per cedervi il mio grasso, dovrò ri­ metterci la vita, e non ci sarò più? — Incassare il prezzo? — disse lo stregone con stu­ pore — Ma lo godi già con i cibi abbondanti e sontuosi con cui ti ingrasso, è ben chiaro! Non voglio del resto costringerti all’affare ! — e fece l’atto di andarsene. Ma Specchietto lo trattenne con ansia frettolosa: — Dovreste concedermi almeno un ragionevole lasso di tempo oltre il momento della massima rotondità rag­ giunta, in modo che non me ne debba andare così di colpo, quando tale istante così gradevole e purtroppo così triste sarà arrivato e constatato. — Sia pure ! — disse il signor Pineis con apparente bonarietà — Potrai godere il tuo piacevole stato sino al successivo plenilunio, ma non oltre! Non dobbiamo en­ trare in luna calante, perché il suo influsso diminuirebbe l’efficacia del mio legittimo possesso. Il gattino s’affrettò ad accettare e a sottoscrivere il contratto che lo stregone aveva con sé, con la sua decisa scrittura, ultimo residuo e indice di giorni migliori. — Puoi venire da me per il pranzo, gatto, — disse lo stregone — si mangia alle dodici in punto. — Ci verrò, con vostra licenza ! — disse Specchietto e a mezzodì si recò infatti puntualmente dal signor Pineis. Là iniziarono alcuni mesi di vita veramente deliziosa per il gattino, il quale non aveva da fare altro al mondo che mangiare le buone cose che gli offrivano, guardare il padrone intento alle sue stregonerie quando gli era per­ messo e passeggiare sul tetto. Questo assomigliava ad un enorme «spartinebbia» nero o a un cappello a tre tubi, come son detti i cappelloni dei contadini svevi, e, come un

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simile copricapo ombreggia un cervello pieno di simula­ zioni e di capricci, cosi quel tetto ricopriva una grande casa fosca e bizzarra, colma di stregonerie e di incante­ simi. Il signor Pineis era un factotum che teneva cento uf­ fici: curava la gente, distruggeva le cimici, strappava i denti e prestava denaro a interesse; era tutore di tutti gli orfani e di tutte le vedove, nelle ore libere affilava pen­ ne, un soldo la dozzina, e preparava dell’inchiostro nero; trafficava in zenzero e pepe, in unto da ruote e rosolio, in ganci e chiodi da scarpe, riparava l’orologio del campa­ nile e redigeva ogni anno il calendario con la meteoro­ logia, le regole agricole e l’omino dipinto per indicare il tempo dei salassi. Faceva insomma alla luce del sole dieci­ mila cose legittime, per scarso compenso, e solo al buio e per passione privata ne aggiungeva alcune illegittime, op­ pure appiccicava in fretta a quelle legittime, prima di staccarsene, un codino di illegittimità, non più grande del­ la piccola coda di un ranocchio, quasi soltanto per amore del comico. Inoltre esorcizzava il tempo in periodi diffi­ cili, con la sua arte sorvegliava le streghe e quand’erano mature le mandava al rogo; da parte sua esercitava la stregoneria soltanto come tentativo scientifico e per uso personale, e allo stesso modo esperimentava e deformava le leggi civiche da lui redatte e trascritte in bella copia per stabilirne la resistenza. Dato che i Seldwylesi avevano sempre bisogno d’un cittadino che facesse per loro tutte le piccole e grandi cose sgradevoli, era stato nominato stre­ gone civico e già da molti anni rivestiva quella carica da mattina a sera, con instancabile dedizione ed abilità. Per questo la sua dimora era piena zeppa da cima a fondo di tutte le cose più impensabili e Specchietto molto si di­ vertiva a guardare e annusare tutto. Da principio però non ebbe attenzione che per il man­ giare. Divorava ingordo tutto quello che Pineis gli offriva, resistendo appena ad attendere da un pasto all’altro. Si caricò così lo stomaco che fu davvero costretto a salir sul tetto per mordicchiare le erbette fresche e curarsi di sva­ riati malesseri. Il maestro si compiacque osservando quel­ l’ingordigia e pensò che il gattino a quel modo sarebbe

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ben presto ingrassato e che egli, spendendo di più, sa­ rebbe però stato più furbo e avrebbe finito per rispar­ miare nell’insieme. Costruì quindi un vero paesaggio nella stanza di Specchietto, impiantandovi un boschetto di piccoli abeti, con collinette di pietre e di muschio e disponendovi persino un laghetto. Sugli alberi pose allo­ dole profumatamente arrostite, oppure, a seconda della stagione, fringuelli, cingallegre e passeri, così che al gatto non mancava mai qualcosa da prendere e da mangiuc­ chiare. Nascose nelle collinette, entro topaie artificiali, degli splendidi sorcetti da lui accuratamente ingrassati a farina bianca, poi sventrati, farciti di listerelle di lardo e ben arrostiti. Alcuni di questi topi erano a portata di zampa per Specchietto, altri invece, per aumentare il suo spasso, erano nascosti più profondi, ma legati a un filo, col quale il gattino li doveva accortamente tirare fuori, se voleva godersi l’imitazione di una caccia. Il laghetto ve­ niva riempito ogni giorno da Pineis con latte fresco, perché Specchietto in quella dolcezza spegnesse la sua sete, e vi metteva anche a nuotare dei ghiozzi fritti, ben sapendo che talvolta i gatti amano anche la pesca. Specchietto, che menava ora una vita magnifica, potendo fare o tralasciare, bere o mangiare quel che gli accomo­ dava e quando gliene veniva l’estro, prosperò visibilmente in tutto il corpo: la pelliccia ridiventò liscia e lucida e l’occhio vispo; in pari tempo però, aumentando le sue energie intellettuali in ugual misura, riprese migliori usan­ ze; la selvaggia ingordigia si placò e, avendo egli una triste esperienza passata, seppe essere più prudente di prima. Si moderò nelle sue voglie e non mangiò più di quanto fosse giovevole, dandosi di nuovo a sagge e pro­ fonde considerazioni e tornando a vedere ben chiare le cose del mondo. Un giorno s’era tirato giù dai rami un bel tordo e, mentre lo trinciava meditabondo, trovò il suo piccolo stomaco gonfio come una palla di cibo an­ cora fresco e intatto. Erbette verdi graziosamente arro­ tolate, semi bianchi e neri e una bacca rossa lucente sta­ vano lì leggiadramente premuti insieme, come se una mammina avesse preparato la bisaccia per il viaggio del

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suo figliolo. Dopo che Specchietto ebbe lentamente di­ vorato l’uccello, osservando filosoficamente la piccola sac­ ca dello stomaco riempita in modo tanto piacevole che gli stava tra le zampe, si sentì commosso dalla sorte del povero tordo, il quale dopo un così pacifico pasto aveva dovuto lasciar la vita senza neppure digerire il suo ba­ gaglio. “Che profitto gliene è mai venuto, povero dia­ volo,” disse Specchietto “dall’essersi nutrito con assiduo zelo, così che questo sacchetto sembra proprio una gior­ nata bene spesa? È stata questa bacca rossa ad allettarlo dal bosco sicuro entro il laccio dell’uccellatore. Egli pen­ sava d’essere più furbo e di prolungare la sua vita con que­ ste bacche, mentre io, che ho appena finito di mangiare la sciagurata bestiola, non mi sono così che avvicinato di un passo alla morte! Come conchiudere un patto più disastroso e codardo del prolungare la propra esistenza ancora di un breve tratto, per poi perderla immancabil­ mente? Non sarebbe stata preferibile una morte rapida e volontaria per un gatto di carattere? Ma io sono stato uno spensierato, e ora che so pensare, non vedo da­ vanti a me altro che il destino di questo tordo; quan­ do sarò tondo abbastanza, dovrò andarmene, proprio per la sola ragione d’essere diventato ben tondo. Bella ragione per un gatto che ama la vita e ha la testa sulle spalle! Ah, se riuscissi soltanto a cavarmela da questa trappola !”. Si immerse in complesse meditazioni sul modo di riu­ scirvi, ma non essendo il momento del pericolo ancora imminente, non ci vide chiaro e non trovò via d’uscita. Tuttavia, da gatto saggio, osservò da allora la virtù della continenza che è sempre il miglior preludio e il miglior uso del tempo quando si deve giungere a una decisione. Ripudiò il cuscino morbido che Pineis gli aveva messo a disposizione perché vi dormisse e vi ingrassasse, prefe­ rendo andare a riposare sugli stretti cornicioni o nei punti più alti e pericolosi. Ripudiò anche gli uccelli arrosto e i topi farciti, acchiappando invece con abile astuzia sui tet­ ti, dove aveva di nuovo una sua legittima bandita, un semplice passero vivo, o anche un agile topo dei solai, e

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quella selvaggina la gustava più della cacciagione arrostita dei boschetti artificiali di Pineis, mentre essa d’altra parte non lo impinguava. Anche il movimento e il coraggio, nonché il ritrovato esercizio della virtù e della filosofia, ostacolarono una troppo rapida corpulenza, così che Spec­ chietto aveva bensì un’aria sana e lustra, ma, con stupore di Pineis, rimase fermo a un certo grado di grassezza, ben lontana da quella cercata dallo stregone con la sua cura; egli infatti sognava una bestia ben tonda e impi­ grita, che non si muovesse dal suo cuscino e fosse fatta tutta di adipe. In questo però la sua stregoneria aveva sbagliato i conti, ed egli non s’era detto, malgrado fosse furbo, che quando si dà da mangiare a un asino, quello rimane pur sempre un asino, e se si ciba una volpe, quella non cessa di essere una volpe, poiché ogni creatura cresce a modo suo. Quando Pineis scoprì che Specchietto si fer­ mava allo stesso stadio di snellezza ben portante, ma pur sempre agile e robusta, senza voler mettere pancia, una sera gliene chiese bruscamente conto dicendogli: — Che c’è, Specchietto? Perché non mangi le buone pietanze che io ti preparo e ti manipolo con tanta arte e accuratezza? Perché non acchiappi sugli alberi gli uccel­ letti arrostiti e non cerchi dentro la montagna i sorcetti squisiti? Perché non peschi più nel lago? E perché non hai cura di te? Non dormi sul cuscino? Perché ti strapazzi e non ingrassi? — Oh, signor Pineis, — rispose Specchietto — per­ ché mi sento meglio a questo modo! Non dovrei forse passare il po’ di vita che mi resta nella maniera più piacevole? — Come ! — protestò Pineis — Tu devi vivere in modo da farti grasso e tondo, non faticare a quella maniera! Lo vedo bene a che cosa miri ! Credi di imbrogliarmi e di farmi perdere tempo, perché io ti lasci girare attorno in eterno in questo stato intermedio? Non ci riuscirai mai ! Tuo dovere è mangiare, bere e curarti per ingrassare e metter lardo ! Rinuncia quindi immediatamente a questa tua sobrietà perfida e anticontrattuale, oppure l’avrai a che fare con me!

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Specchietto, che aveva cominciato a far le fusa per darsi un contegno, si interruppe per dire: — Non ho proprio mai saputo che nel contratto ci sia il mio obbligo di rinunciare alla sobrietà e a un sano tenore di vita ! Se il signor stregone civico ha calcolato che io sia un ingordo fannullone, non è colpa mia! Voi nel corso della giornata fate mille cose legittime : aggiungetevi dun­ que anche questa e restiamo ambedue nella regola, poi­ ché voi sapete benissimo che il mio grasso vi serve solo se è cresciuto per via legittima! — Vuoi forse darmi una lezione — esclamò Pineis in­ furiato — con le tue chiacchiere? Fammi un po’ vedere a che punto sei grasso, o buono a nulla ! Forse si potrebbe ammazzarti presto ! — Afferrò il gattino per la pancia, ma quello, sentendosi sgradevolmente solleticato, diede un bel graffio alla mano dello stregone. Pineis se la guardò attentamente, poi disse: — Siamo a questo punto fra noi, brutta bestia? Bene, allora ti dichiaro solennemente, in grazia del contratto, già abbastanza grasso ! M’accontento di questo risultato e saprò bene assicurarmelo! Fra cinque giorni abbiamo luna piena e sino ad allora puoi godere la vita, secondo quanto sta scritto, ma non un momento di più ! — Così dicendo volse le spalle e lo lasciò ai suoi pensieri. Questi erano molto tristi e preoccupati. Era dunque vicina l’ora in cui il bravo Specchietto avrebbe dovuto lasciarci la pelle? E non v’era proprio nulla da fare, mal­ grado la sua saggezza? Salì sospirando sull’alto tetto, i cui comignoli spiccavano foschi sul cielo nel bel vespro au­ tunnale. La luna saliva sulla città mandando la sua luce alle tegole scure e muscose del vecchio tetto, un dolce canto risuonò all’orecchio di Specchietto e una gattina candida attraversò luminosa un comignolo vicino. Subito Specchietto dimenticò le previsioni di morte in cui viveva e ricambiò l’inno della bella col suo più raffinato canto fe­ lino. Le si affrettò incontro, incappando in una violenta tenzone con tre altri gatti forestieri, che valorosamente seppe battere in fuga. Fece poi la corte alla dama con devozione e ardore e passò con lei giorno e notte, senza

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pensare a Pineis né farsi vedere in casa. Cantò come un usignolo per tutte quelle belle notti di luna, rincorrendo la sua bianca innamorata lungo i tetti e per i giardini, rotolando più d’una volta nell’impeto del giuoco amoroso o in lotta coi rivali giù dagli alti tetti, cadendo sulla strada, ma soltanto per rimettersi sulle zampe, scuotere la pellic­ cia e riprendere la ridda selvaggia delle sue passioni. Ore di calma e di fervore, dolci sentimenti e dispute irose, col­ loqui leggiadri, arguto scambio di idee, astuzie e scherzi d’amore e di gelosia, baruffe e tenerezze, la violenza della felicità e la sofferenza della sventura misero l’innamorato Specchietto fuor di sé, e quando il disco della luna fu pieno, egli per tanti eccitamenti e passioni era ridotto più miseramente scarno e arruffato che mai. In quello stesso istante Pineis da una torretta lo chiamò: «Specchiettino, Specchiettino! Dove sei? Vieni un momento in casa!». Specchietto si congedò allora dalla bianca amica, che se n’andò per la sua strada miagolando fredda e soddisfatta e s’awiò orgoglioso verso il suo carnefice. Questi scese in cucina facendo frusciare il foglio del contratto e gli disse: «Vieni Specchietto, vieni Specchietto!», e il gattino gli tenne dietro nella cucina dello stregone, e si pose dinanzi al maestro in tutta la sua irsuta magrezza, con aria di sfida. Quando il signor Pineis si vide defraudato in tal modo del suo profitto, balzò in piedi come un ossesso ur­ lando: «Che cosa vedo! Briccone, infame canaglia! Che cosa mi hai fatto?». Fuor di sé per l’ira afferrò una scopa tentando di picchiare Specchietto, ma questi in­ curvò il dorso nero rizzando i peli in modo che vi passò un breve crepitante bagliore, poi tirò indietro le orecchie, sbuffò e mandò lampi così feroci che il vecchio esterrefatto e atterrito balzò indietro tre passi. Cominciò a temere di aver di fronte un altro stregone più abile di lui e pronto a schernirlo. Disse dunque malcerto e intimidito : — Forse che lo spettabile signor Specchietto è uno del mestiere? Forse che qualche dotto mago s’è compiaciuto di travestirsi nella sua forma esteriore, visto che riesce a dominare il proprio fisico a piacere e può ingrassare quan­ to gli fa comodo, né troppo né troppo poco, o anche im-

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prowisamente ridursi a uno scheletro per sfuggire alla morte? Specchietto si calmò e disse lealmente: — No, non sono un mago ! È soltanto il dolce potere della passione che m’ha ridotto a questo punto e che con mio piacere si è portato via il vostro grasso. Se però cre­ dete di ricominciare da capo il nostro accordo, io mi ci atterrò coraggiosamente ! Datemi solo intanto una bella salsiccia arrosto, perché sono proprio esausto e affa­ mato! Pineis allora prese rabbiosamente Specchietto per il collo, lo ficcò nella stia delle oche sempre vuota e gli urlò: — Vedi un po’ se il dolce potere della passione riu­ scirà a farti uscire e sarà più forte che il potere degli in­ cantesimi e del mio legittimo contratto ! Ora, come si suol dire: «Uccello, mangia o muori!». Arrostì subito una lunga salsiccia, tanto appetitosamente profumata che non potè trattenersi dall’assaggiarne un pezzettino alle due punte prima di introdurla fra le sbarre. Spec­ chietto la divorò da un capo all’altro e, mentre si ripuliva contento i baffi e si leccava il pelo, andava dicendosi: “Per l’anima mia ! Che bella cosa è l’amore ! Per questa volta mi ha salvato dalla trappola ! Ora voglio riposarmi un poco e cercare, con la vita contemplativa e con buon nutrimento, di ritrovare i miei saggi pensieri ! Tutto a suo tempo ! Oggi un pochino di passione, domani un po’ di meditazione e di calma : l’una e l’altra valgono a modo lo­ ro. Questa prigione non è poi troppo brutta e ci si potranno certamente escogitare idee profittevoli!”. Pineis si mise d’impegno e preparò ogni giorno con tutta la sua arte tali leccornie e con tale affascinante varietà e convenienza che il prigioniero non vi sapeva resistere. In realtà le sue provviste di grasso felino volontario e legittimo scema­ vano di giorno in giorno minacciando di esaurirsi, e il povero stregone senza quell’ingrediente necessario sa­ rebbe stato un uomo finito. Ma Pineis insieme al corpo di Specchietto ne continuava a nutrire anche lo spirito, e non riuscendo a liberarsi da questa incomoda aggiunta, la sua stregoneria si rivelava sempre insufficiente.

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Quando alla fine gli parve che il gattino nella stia fosse pingue abbastanza, non indugiò oltre, ma predispose sotto gli occhi del gatto molto attento le diverse pentole e at­ tizzò un bel fuoco sul focolare per mettere a cuocere il premio così a lungo agognato. Affilò poi un coltellaccio, aprì la stia, ne trasse Specchietto dopo aver ben richiuso la porta della cucina, e gli disse di ottimo umore: — Vieni qua, briccone, vogliamo anzitutto tagliarti la testa, poi ti scorticheremo ! La pelliccia mi darà un bel berretto caldo, al che io scioccamente non avevo pensato ! O sarà meglio che prima ti levi la pelle e poi ti tagli la testa? — No, se vi piace — disse umilmente il gattino — pre­ ferirei che tagliaste prima la testa ! — Hai ragione, poverino ! — disse il signor Pineis — Non stiamo a torturarti inutilmente ! Quel che è giusto è giusto ! — Avete detto una verità ! — disse Specchietto con un sospiro straziante, piegando il capo con rassegnazione — Oh, avessi sempre fatto quel che è giusto, non trascurando una così importante faccenda, ora potrei morire con la coscienza più leggera ! Io muoio volentieri, ma vi è un’in­ giustizia che mi amareggia la morte del resto desiderata, dato che ormai cosa mi può offrire la vita? Soltanto paura, affanni e miseria, e quale diversivo una tempesta di passione deleteria, ancor peggiore della tacita e trepida paura ! — Di quale torto e di quale importante faccenda vai parlando? — domandò Pineis incuriosito. — Che giova ormai il parlare? — sospirò Specchietto — Quel che è fatto è fatto, e il pentimento è tardivo! — Vedi, o briccone, che razza di peccatore sei mai? — disse Pineis — Vedi come meriti di morire? Ma che cosa diavolo hai combinato? Mi hai forse rubato, sottratto o guastato qualcosa? Hai forse commesso a mio danno un orribile torto di cui nulla ancora io so, intuisco o suppon­ go, Satana? Belle storie mi fai ! Fortuna che ti ho scoper­ to ! Confessa immediatamente, altrimenti ti scortico e ti metto a cuocere bell’e vivo ! Parlerai o no?

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— Ah, no certo ! — disse Specchietto — Non ho nulla da rimproverarmi nei riguardi vostri. Si tratta dei dieci­ mila fiorini d’oro della mia povera padrona ... ma a che giova discorrere? Veramente... a pensarci bene, forse potrebbe anche non essere troppo tardi ... Se vi guardo, vedo bene che siete ancora un uomo bello e in gamba, nel fiore degli anni. . . Ditemi un po’, signor Pineis : non avete mai sentito il desiderio di fare un matrimonio ono­ revole e vantaggioso? Ma cosa sto a chiacchierare ! Quan­ do mai un uomo di tanta saggezza e abilità avrebbe simili oziose idee ! Quando mai un maestro preso da cosi utili occupazioni penserà a stupide femmine? È vero che in fondo anche la peggiore ha qualcosa in sé che può giovare a un uomo, questo non lo si può negare ! E se anche non vai molto, una brava massaia sarà pur sempre bianca di corpo, accurata di mente, affettuosa di indole, fedele di cuore, assennata nell’amministrare, ma prodiga nel cu­ rare il marito, divertente nelle parole, gradevole negli atti, lusinghiera sempre ! Bacia il marito con la bocca e gli ac­ carezza la barba, lo circonda con le braccia e lo gratta un pochino dietro le orecchie, come a lui piace ; insomma fa mille cose che non sono certo da disprezzare ! Gli si tiene ben vicina oppure in discreta lontananza, a seconda del­ l’umore di lui, e quando egli è immerso nei suoi affari, non lo disturba, ma nel frattempo va cantandone le lodi dentro e fuori della casa; perché essa non tollera che lo si biasimi e tutto di lui esalta. Ma la cosa più leggiadra è la conformazione mirabile della sua tenera esistenza corpo­ rea, che la natura ha fatto tanto dissimile dall’essere no­ stro, malgrado l’apparente somiglianza umana, così che in un felice connubio suscita un miracolo perenne e na­ sconde in se stessa la più raffinata arte magica ! Ma che cosa sto a chiacchierare come uno stolto sulla soglia della morte ! Quando mai un saggio baderà a simili vanità? Per­ donatemi, signor Pineis, e mozzatemi la testa ! Pineis replicò impaziente: — Fermati una buona volta, ciarlone ! E dimmi piut­ tosto: dove è una moglie simile, e ha proprio diecimila fiorini d’oro?

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— Diecimila fiorini d’oro? — disse Specchietto. — Ma sì, — replicò Pineis impaziente — non ne stavi parlando or ora? — No, — rispose il gatto — quella è un’altra faccenda ! Sono seppelliti in un posto! — E che cosa ci fanno, a chi appartengono? — gridò Pineis. — Non appartengono a nessuno: di qui appunto il mio caso di coscienza, perché sarebbe spettato a me collocarli. In fondo appartengono a colui che sposerà una donna quale l’ho descritta io. Ma come trovare unite in questa città empia tre cose simili: diecimila fiorini d’oro, una massaia saggia, fine e buona e un marito saggio ed onesto? Per questo il mio peccato non è troppo grave: esso era un compito davvero eccessivamente arduo per un povero gatto! — Se ora — gridò Pineis — tu non mi rimani in argo­ mento e non racconti tutto in modo comprensibile e or­ dinato, comincio dal tagliarti la coda e le orecchie! Avanti! — Poiché me lo comandate, bisogna che racconti per bene, — disse Specchietto accomodandosi placidamente sulle zampe posteriori — benché questo ritardo non fac­ cia che aumentare i miei dolori ! Pineis pose a terra, fra sé e il gatto, il coltellaccio ta­ gliente, poi sedette incuriosito su di una botticella per ascoltare il racconto e Specchietto continuò: — Voi sapete, signor Pineis, che la mia defunta e brava padrona è morta nubile, da vecchia zitella, che aveva fatto molto bene in segreto, senza mai tornar discara a nessuno. Non sempre però c’era stata intorno a lei quella pace, e benché essa non fosse di indole maligna, aveva in passato provocato molti dolori e molti danni; nella sua giovinezza infatti essa era la più bella ragazza del paese, e tutti i giovani signori e gli arditi popolani che qui vi­ vevano o per di qui passavano, si innamoravano di lei, ostinandosi a volerla sposare. Ella aveva bensì gran voglia di nozze e di prendersi un marito bello, rispettabile e in­ telligente, e le rimaneva la scelta, giacché indigeni e fore-

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stieri gareggiavano per conquistarla, e più di una volta si ficcarono la spada in corpo per ottenere la precedenza. Chiesero la sua mano e le si raccolsero intorno aspiranti arditi e timidi, astuti e bonari, ricchi e poveri, taluni con florida azienda, altri che vivevano da cavalieri solo delle proprie rendite: l’uno ricco di certi meriti, eloquente o taciturno, l’altro vispo e gioviale, un terzo, pur dall’aspet­ to di sempliciotto, sembrava uomo di meriti. Insomma, la signorina aveva una scelta perfetta, quale una ragazza da marito può soltanto sognare ! Essa possedeva però, oltre alla sua bellezza, un bel patrimonio di molte migliaia di fiorini, e questa era la cagione per cui mai si indusse a fare una scelta e a prendere un marito. La damigella am­ ministrava i suoi beni con grande accortezza e prudenza, attribuendo loro gran valore, ma, poiché l’uomo dalle proprie tendenze giudica quelle altrui, accadde che, ap­ pena le si avvicinava un aspirante rispettabile che un po­ chino le piacesse, subito ella si metteva in mente che quegli la desiderasse soltanto per gli averi. Di uno ricco era persuasa che non l’avrebbe richiesta se non fosse stata ricca anche lei, mentre dei poveri era addirittura certa che mirassero solo ai fiorini e pensassero a godersela. Insomma, la povera signorina, che attribuiva tanto valore ai possessi terreni, non era in grado di discernere nei suoi innamorati l’amore del denaro e degli averi dall’amore per la sua persona o non era almeno capace di un indul­ gente perdono quando tal debolezza veramente fosse esi­ stita. Più volte era già stata molto vicina al fidanzamento, e il suo cuore aveva battuto più forte; poi d’un tratto credeva di dedurre da qualche sintomo che la si volesse tradire mirando solo ai suoi beni, ed eccola rompere di colpo la relazione, ritrarsi con molto rammarico, ma ine­ sorabilmente. Metteva alla prova in cento modi tutti quelli che non le spiacevano, tanto che occorreva non po­ ca abilità per non cadere in trappola, e alla fine non potè avvicinarla con qualche speranza se non chi fosse uomo straordinariamente falso e raffinato, il che finì per rendere la scelta in realtà difficile, visto che uomini simili suscitano pur sempre una misteriosa inquietudine e, quan­

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to più abili e astuti si mostrano, tanto più lasciano in una donna la più penosa incertezza. Il primo modo di mettere alla prova i suoi adoratori era misurarne il disinteresse inducendoli ogni giorno a grandi spese, a ricchi regali e ad atti di munificenza. Comunque però si comportas­ sero, non la imbroccavano mai giusta; se si mostravano generosi e pronti al sacrificio, se davano feste brillanti, offrivano regali, le affidavano cospicue somme da distri­ buire ai poveri, ella ad un tratto diceva che tutto ciò era solo il modo di pescare un salmone con un lombrico, o, come si suol dire, di acchiappare un quarto di lardo con un salsicciotto. Distribuiva i doni e il denaro affidatole a monasteri o a fondazioni benefiche, sfamando i poveri, ma respingeva poi spietatamente i delusi aspiranti. Se questi d’altra parte si mostravano esitanti o peggio spi­ lorci, era pronta la condanna, perché di ciò ancor più si sdegnava, credendo di riconoscervi la più assoluta ed egoistica mancanza di riguardo. Accadde cosi che essa, mentre cercava un cuore puro e soltanto a lei devoto, fini per circondarsi di adoratori tutti ipocriti, astuti ed egoisti, dei quali non capiva nulla, e che le amareggia­ vano l’esistenza. Un giorno si senti tanto scoraggiata e infelice che espulse tutta la sua corte, chiuse casa e partì per Milano, dove aveva una parente. Valicando il San Gottardo in groppa a un asinelio, l’animo suo era cupo e tetro come le rocce che si ergevano dagli abissi, e sentiva impetuosa la tentazione di precipitarsi dal Ponte del Dia­ volo nelle acque tumultuose della Reuss. Solo con gran pena le due cameriere che aveva con sé e che io ho ancora conosciuto ma che ora sono morte da un pezzo, e con esse la guida, riuscirono a calmarla e a distoglierla da quei foschi propositi. Giunse però pallida e triste nella bella terra italiana, e, benché il cielo vi fosse cosi azzurro, i suoi neri pensieri non si volevano rasserenare. Dopo alcuni giorni trascorsi presso la sua parente, echeggiò tuttavia per lei una nuova melodia e sbocciò una primavera da lei sino ad allora quasi ignorata. Nella casa della parente giunse un giovane compaesano che le piacque a prima vista a tal pun­ to da potersi dire che si innamorò spontaneamente e per la

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prima volta. Era un bel giovanotto, di buona educazione e di nobile condotta, né povero né ricco a quell’epoca, poi­ ché possedeva soltanto diecimila fiorini d’oro ereditati dai genitori defunti, coi quali, avendo fatto studi di com­ mercio, intendeva fondare un’azienda di sete a Milano. Era uomo intraprendente, dalle vedute chiare e dalla mano felice, come accade spesso a persone candide e disinvolte: tale era infatti e quantunque bene istruito appariva semplice e innocente al pari di un fanciullo. Pur essendo commerciante e di indole leale e sincera, il che è già una rarità preziosa, restava energico e caval­ leresco nel suo contegno e portava la spada al fianco con la stessa baldanza di un esperto uomo d’armi. Tutto questo, insieme alla fresca e avvenente giovinezza, con­ quistò a tal punto il cuore della fanciulla, che essa a mala­ pena sapeva dominarsi e già lo trattava con la massima cordialità. Si fece sempre più serena, e se anche di tanto in tanto si immelanconiva, non era che l’alternarsi fra speranza e trepidazione amorosa, il che significava pur sempre un sentimento più nobile e più piacevole che non l’imbarazzo della scelta tra i numerosi spasimanti che l’aveva un tempo tormentata. Non conosceva ormai che una cura e un affanno: piacere al giovane buono e av­ venente. Quanto più bella era lei medesima, tanto più si faceva umile e incerta nutrendo per la prima volta un ve­ ro affetto. Anche il giovane commerciante però non aveva mai veduto una simile beltà, o almeno mai l’aveva così avvicinata e ne era stato trattato con sì viva gentilezza. Non v’è da stupirsi dunque, visto che la fanciulla era non solo bella ma anche buona di animo, e fine di educazione, che il giovane schietto, dal cuore ancor liberissimo e inesperto, si innamorasse del pari di lei, e con tutto l’ab­ bandono e l’energia che era dell’indole sua. Forse pe­ rò nessuno mai l’avrebbe saputo, se il giovane non fos­ se stato incoraggiato nel suo candore dai modi insinuan­ ti della signorina, che egli, ignaro di ogni ipocrisia, osò con segreto timore interpretare quale corrispondenza al suo affetto. Resistette alcune settimane, convinto di tener segreta la cosa ; ma ognuno gli leggeva in faccia che era

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innamorato morto, e appena era in vicinanza della da­ migella o di questa solo si faceva il nome, era chiaro a tutti di chi fosse innamorato. Ma non gli bastò a lungo andare essere innamorato; cominciò ad amare davvero, e con tutta l’intensità della sua giovinezza, così che la fan­ ciulla divenne per lui quel che di più alto e di meglio v’era al mondo, in cui riponeva una volta per sempre la salute e il valore di tutto se stesso. Di ciò la signorina si com­ piacque oltre misura, poiché in tutto quanto egli diceva o faceva c’era un tono diverso da quello da lei sin lì spe­ rimentato, il che la persuase e commosse al punto che ella stessa cadde in preda alla più ardente passione, senza pen­ sar più ad una scelta. Ognuno assisteva alla vicenda di cui si parlava apertamente e variamente si scherzava. Ciò era ragione di alta compiacenza per la signorina, la quale, mentre il cuore le voleva scoppiare di ansiosa attesa, con­ tribuì da parte sua a complicare e ad ampliare un poco il romanzo, per poterlo ben centellinare e godere. Il gio­ vanotto infatti nel suo turbamento commetteva deliziose e puerili ingenuità, quali mai le era toccato di vedere e che la lusingavano e la soddisfacevano meglio d’ogni altra cosa. Egli però nella sua leale dirittura non potè reggere così a lungo; sentendo che tutti si permettevano allusioni e scherzi, gli parve che la cosa degenerasse in commedia, mentre la donna amata era troppo sacra per lui per esser­ ne oggetto. Quel che lei gradiva dava invece a lui cruccio, imbarazzo e inquietudine per l’amata. Era poi persuaso di offenderla e d’ingannarla portando attorno a lungo una così viva passione per lei, pensandola ininterrottamente, senza che lei ne avesse il sospetto, cosa davvero sconve­ niente e per lui stesso intollerabile ! Un mattino si capì da lontano che aveva qualcosa in petto, e infatti le confessò il suo amore in poche parole, per dirlo una volta e non ripe­ terlo la seconda, nel caso avesse avuto sfortuna. Non era infatti avvezzo a pensare che una damigella di tanta bel­ lezza e bontà non potesse senz’altro esprimere il suo vero responso, dando subito di primo acchito un sì o un no irre­ vocabile. Egli era non meno tenero d’animo che violente­ mente innamorato, non meno scontroso che ingenuo, or­

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goglioso che schietto e per lui era subito questione di morte o di vita, di sì o di no, di botta e risposta. Ma mentre ap­ punto udiva la sua confessione tanto ansiosamente attesa, la signorina fu còlta dall’antica diffidenza, e nel momen­ to più inopportuno ricordò che l’innamorato era un com­ merciante, il quale alla fine avrebbe potuto aspirare al suo patrimonio per sviluppare le proprie imprese. Che anche poi fosse un tantino preso della sua persona, non era gran merito, data la sua bellezza ; la esasperava ancor più l’idea di rappresentare solo una giunta desiderabile unita al suo denaro. Invece, quindi, di confessare il suo amore e di ac­ coglierlo benigna, come le sarebbe pur piaciuto di fare, escogitò di colpo una nuova astuzia per mettere alla prova la devozione del giovane. Con aria severa e quasi triste gli confidò di essere fidanzata al suo paese con un giovanotto da lei teneramente amato. Glielo avrebbe voluto dire già più volte, poiché essa per lui, per il commerciante, nutriva un affetto da amica, come doveva aver capito dal suo contegno, e gli si affidava come a un fratello. Ma l’improntitudine degli scherzi sorti in società sul loro con­ to aveva reso difficile ogni spiegazione; ora che egli stesso l’aveva sorpresa schiudendole il suo nobile cuore, ella non poteva meglio ringraziarlo del suo affetto che confi­ dandosi altrettanto schiettamente a lui. «Sì» proseguì, essa poteva appartenere soltanto all’uomo scelto e mai le sarebbe stato possibile concedere il cuore ad un altro; ciò stava scritto a lettere d’oro e di fuoco nell’anima sua e quell’uomo amato ignorava egli stesso quanto le fosse ca­ ro, pur conoscendola bene. Purtroppo una stella maligna li perseguitava; il suo fidanzato era commerciante, ma po­ vero in canna, e perciò si erano decisi a fondare un’azien­ da coi mezzi della fidanzata. Già l’inizio era compiuto e tutto bene avviato, le nozze avrebbero anzi dovuto ce­ lebrarsi in quei giorni, quando un’imprevista sventura aveva a un tratto minacciato il suo patrimonio, metten­ dolo in pericolo forse di andar per sempre perduto, mentre d’altra parte il povero promesso sposo aveva da fare prossimi pagamenti a gente d’affari di Milano e di Venezia, dal che dipendeva il suo credito, la sua prospe-

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rità e il suo onore, anche a non parlare della loro felice unione! Essa era corsa a Milano, dove aveva parenti agiati, per trovare via di scampo, ma vi era giunta in un momento non propizio ; nulla pareva giungere a con­ clusione, mentre s’awicinava sempre più il termine, e se non fosse riuscita ad aiutare l’amato, ne sarebbe morta di tristezza. Egli era infatti l’uomo più diletto e stimabile del mondo; sarebbe certamente diventato un grande uo­ mo d’affari se trovava appoggio, mentre per lei non esi­ steva altra felicità in terra fuorché diventarne la consorte ! Alla fine di tal racconto il bel giovanotto era ridotto bian­ co come un cencio. Non si lasciò tuttavia sfuggire una parola di lamento, non disse più motto di sé e del suo amore, ma domandò soltanto con melanconia a che cifra ammontassero gli impegni assunti dallo sposo felice e sfor­ tunato insieme. «A diecimila fiorini d’oro!» replicò lei ancor più melanconica. Il giovane commerciante si con­ gedò tristemente, esortando la fanciulla a star di buon animo, perché si sarebbe certo trovato un rimedio. S’allontanò senza osar di guardarla in volto, tanto era col­ pito e umiliato per aver aspirato a una dama che con cosi fedele passione amava un altro. Naturalmente l’in­ felice aveva creduto ad ogni parola del suo racconto come a un Vangelo. Si recò poi senza indugio dai suoi amici d’affari e, pregando e rinunciando a una certa somma, li indusse ad annullare alcuni acquisti e ordinazioni che avrebbe dovuto saldare proprio in quei giorni coi suoi diecimila fiorini, affari ai quali s’appoggiava tutta la sua carriera. Prima che fossero trascorse sei ore, si ripre­ sentò alla signorina con l’intero patrimonio e le chiese che per amor di Dio volesse da lui accettare quell’aiuto. Al vederlo, le lampeggiarono gli occhi di gioiosa sorpresa ed il cuore le martellò in petto come in una fucina; gli chiese di dove avesse preso tale capitale ed egli replicò di averlo avuto in prestito sul suo buon nome e di poterlo rendere senza disagio, dato il buon avviamento dei suoi affari. Essa gli lesse chiaramente in faccia che mentiva e che sa­ crificava alla sua felicità tutto il suo avere e tutte le spe­ ranze, ma finse tuttavia di credere a quelle parole. Lasciò

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libero corso ai suoi sentimenti, fingendo con crudeltà che si riferissero alla fortuna di poter salvare e sposare il suo diletto e non le bastarono le parole per esprimere la sua gratitudine. D’un tratto però si riprese per dichiarare che accettava l’atto generoso solo a un patto, e che in caso diverso nulla sarebbe valso a persuaderla. Richiesta in che cosa consistesse tale condizione, pretese la solenne promessa che egli si sarebbe recato da lei, in un giorno prestabilito, per assistere alle sue nozze e diventare amico e protettore del suo futuro consorte, cosi come era stato il più fedele amico protettore e consigliere di lei medesima. Egli la pregò arrossendo di rinunciare a tale richiesta, ma invano espose tutte le ragioni per farla desistere, invano le assicurò che i suoi commerci non gli permettevano di ri­ tornare in Svizzera e che tale viaggio gli avrebbe arre­ cato notevoli danni. Essa insistette tenace nella richiesta, respingendo anzi il suo oro se non vi consentiva. Alla fine egli promise, e dovette darle la mano, giurandolo sul suo onore e sull’anima sua. La signorina gli indicò con esattezza il giorno e l’ora in cui avrebbe dovuto arrivare e tutto fu sigillato da un giuramento in nome della sua fede cristiana e della sua beatitudine eterna. Solo dopo di ciò accettò il suo dono e fece portare lietamente il te­ soro nella sua camera dove lo rinchiuse di sua mano in un cofano da viaggio, infilando la chiave nel petto. Essa non si trattenne oltre a Milano, ma rivalicò il San Got­ tardo, tanto allegra quanto era stata melanconica alla venuta. Giunta al Ponte del Diavolo, di dove aveva vo­ luto precipitarsi, rise come una sventata e con grida giu­ bilanti della sua voce armoniosa gettò nella Reuss un mazzo di fiori di melograno che portava al petto; insom­ ma la sua gioia era irrefrenabile e quello divenne il più lieto viaggio che mai avesse compiuto. Tornata in patria, aperse e arieggiò la sua casa da cima a fondo, ornandola come per l’attesa di un principe. A capo del letto mise il sacchetto coi diecimila fi< mi e la notte appoggiava bea­ tamente la testa a quel mucchietto duro e vi dormiva come fosse stato il più morbido piumino. A malapena po­ teva aspettare il giorno fissato in cui lo attendeva infalli­

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bilmente, ben sapendo che egli mai avrebbe infranto una semplice promessa e tanto meno un giuramento, quan­ d’anche ne fosse andato della sua vita. Ma sorse il giorno e l’amato non comparve e trascorsero altri giorni e setti­ mane senza che desse notizia di sé. Allora cominciò a tremare in tutte le membra, còlta dalla massima ango­ scia ; mandò lettere su lettere a Milano, ma nessuno seppe dirle dove fosse sparito. Alla fine però venne in luce per puro caso che il giovane mercante s’era fatto confezionare, da una pezza di damasco rosso sangue che già aveva in casa e già aveva pagato al principio del suo commercio, un’uniforme da guerriero, arruolandosi poi tra gli Svizze­ ri che combattevano allora la guerra di Milano al soldo del re Francesco di Francia. Dopo la battaglia di Pavia, nella quale tanti Svizzeri lasciarono la vita, fu trovato, fra un cumulo di Spagnoli uccisi, col corpo crivellato da molte ferite mortali e con la sua bella veste di seta a brandelli. Prima di esalare l’ultimo respiro affidò alla memoria di un seldwylese che gli giaceva al fianco, ma era meno malconcio di lui, questo messaggio, pregandolo di trasmet­ terlo se avesse avuta salva la vita: «Diletta signorina! Benché avessi giurato sul mio onore, sulla mia fede cri­ stiana e sulla mia beatitudine eterna di presenziare alle vostre nozze, non mi è stato tuttavia possibile rivedervi sapendo un altro partecipe della felicità più alta che sa­ rebbe esistita per me. Di questo mi sono persuaso solo in vostra assenza, non avendo prima saputo quale grave e mi­ steriosa cosa sia un amore simile al mio per voi, ché in ca­ so diverso avrei senza dubbio saputo meglio difenderme­ ne. Ma stando così la faccenda, ho preferito perdere l’ono­ re del mondo e la beatitudine spirituale e affrontare la dannazione eterna quale spergiuro piuttosto che ricom­ parire alla vostra presenza con una fiamma in cuore che è più forte e più inestinguibile del fuoco dell’inferno e che varrà a non farmelo quasi sentire. Non pregate per me, bellissima damigella, perché io non potrò mai essere beato senza di voi, né qui né là, e con ciò siate felice e abbiate il mio saluto ! ». Così, in quella battaglia, dopo la quale re Francesco disse: «Tutto è perduto fuorché l’onore !» l’in­

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felice amante perdette tutto, la speranza, l’onore, la vita e la beatitudine eterna ma non l’amore che lo struggeva. Il seldwylese se la cavò con fortuna, e appena si fu un poco ripreso e si vide fuor di pericolo, scrisse le parole del fedele defunto sulla sua tavoletta, per non dimenticarle. Tor­ nò in patria, si fece annunciare all’infelice madamigella e le lesse il messaggio con la rigidezza militare con cui, poiché era tenente, era avvezzo a far la chiamata del suo drappello. La signorina si strappò i capelli, si lacerò le vestì, e cominciò a piangere e a urlare, cosicché la sen­ tirono per la strada e si adunò la folla. Essa andò a pren­ dere come pazza i diecimila fiorini, li sparse per terra, vi si gettò distesa baciando le monete lucenti. Cercò poi, fuor di senno, di radunare il tesoro che le rotolava via, di abbracciarlo come se in esso fosse stato presente l’uo­ mo amato che essa aveva perduto. Rimase così notte e giorno adagiata sul gruzzolo, rifiutando cibo e bevanda, vezzeggiava e baciava senza posa il gelido metallo, sinché una notte s’alzò all’improvviso, portò a più riprese il te­ soro nel giardino e ivi con lagrime amare lo buttò nel pozzo profondo, pronunciando una maledizione, perché non dovesse mai più appartenere a nessuno. Quando Specchietto fu giunto a questo punto del di­ scorso, Pineis lo interruppe: — E quella bella somma è ancora giù nel pozzo? — Già, dove dovrebbe essere? — replicò Specchietto — Solo io potrei cavarla di là, ma sino ad ora non l’ho fatto ! — È vero, hai ragione, — disse Pineis — me lo ero del tutto dimenticato ascoltando la tua storia ! Non te la cavi male a raccontare, brutto demonio ! E m’è quasi venuta la voglia d’una donnetta che avesse per me lo stesso affetto; ma dovrebbe essere molto bella ! Raccontami ancora in fretta come la cosa è poi finita ! — Passarono parecchi anni — disse Specchietto — pri­ ma che la signorina, dopo amari tormenti, si rimettesse al punto da cominciare a diventare quella vecchia e tranquilla zitella che io ho conosciuta. Posso vantarmi di essere stato nella sua vita solitaria e sino alla sua placida

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morte il suo unico conforto e il suo amico più fidato. Quand’essa però si sentì prossima a morire, rievocò ancora una volta l’epoca della sua remota gioventù e bellezza, e sofferse ancora una volta, ma con pensieri più miti e rassegnati, le dolci emozioni e gli amari dolori di quel tempo, pianse silenziosamente per sette giorni e sette notti sull’amore del giovane, da lei non goduto per la sua dif­ fidenza, così che i suoi poveri occhi poco prima di mori­ re persero la vista. Si pentì poi della maledizione lanciata sul tesoro e mi disse, affidandomi l’importante incarico: «Ora decido altrimenti, caro Specchietto! E ti do pieni poteri di attuare le mie disposizioni. Guardati attorno e vedi di trovare una ragazza bellissima e senza mezzi, alla quale per la sua povertà manchino aspiranti. Se si dovesse poi trovare un galantuomo, assennato e di bella persona, con un buon reddito, che desideri quella fan­ ciulla ad onta della miseria, mosso solo dalla sua bellezza, costui dovrà impegnarsi coi più sacri giuramenti ad esserle non meno fedele, disinteressato e devoto di quanto sia stato il mio infelice amante, e di condiscendere in tutto e per tutta la vita a questa donna. Tu darai allora in dote alla sposa i diecimila fiorini d’oro che giacciono nel pozzo, perché essa ne faccia una sorpresa allo sposo la mattina delle nozze!». Così disse quella benedetta, e io fra le mie malaugurate vicende ho invece trascurato di tener dietro alla cosa e debbo temere che la poverina non abbia pace nella sua tomba, il che potrà avere ben sgradevoli conseguenze anche per me. Pineis contemplò Specchietto sospettosamente e gli disse: — Saresti capace, bricconcello, di darmi una piccola prova oculare del tesoro? — Sempre a disposizione ! — replicò Specchietto — Ma dovete sapere, signor stregone civico, che non vi sarà lecito ripescare senz’altro quell’oro. Vi torcerebbero im­ mancabilmente il collo, perché giù nel pozzo c’è qual­ cosa che non va: ne ho gli indizi sicuri, anche se non posso trattarne più a lungo, per certi riguardi ! — Ma chi dice di ripescarlo? — disse Pineis non senza

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paura — Conducimi soltanto a vedere il tesoro. O meglio ti ci condurrò io, tenendoti legato a un buon laccio per­ ché non mi scappi ! — Come volete ! — disse Specchietto — ma prendete anche un’altra corda lunga e una lanterna cieca da po­ ter calare nel pozzo, il quale è molto profondo e oscuro ! Pineis seguì il consiglio e accompagnò il vispo gattino nel giardino della povera defunta. Scavalcarono insieme il muro e Specchietto mostrò al mago la via che condu­ ceva al pozzo, semicelato tra cespugli inselvatichiti. Pi­ neis calò il lanternino, seguendolo con lo sguardo cupido, mentre non lasciava scappare il gatto al guinzaglio. Vide realmente scintillare l’oro sul fondo, sotto l’acqua verda­ stra ed esclamò: — Certo che lo vedo, c’è proprio ! Specchietto, sei un vero diavolo ! — Poi, tornando a guardar giù eccitato, aggiunse — Saranno proprio diecimila? — Quello non lo si può giurare ! — disse il gatto — Io non ci sono mai stato laggiù, e non li ho contati ! È anche possibile che la signora abbia perduto qualche moneta per la strada, portando qui il tesoro tanto eccitata ! — Che siano anche una dozzina più o meno — riprese Pineis — a me poco importa ! — Sedette sull’orlo del pozzo e anche il gattino s’accomodò leccandosi le zampette. — Qui ci sarebbe il tesoro ! — mormorò Pineis grattandosi il capo — e qui ci sarebbe anche il marito adatto, manca soltanto la bellissima moglie! — Come? — domandò Specchietto. — Dico — riprese l’altro — che manca soltanto colei che dovrà ricevere le diecimila monete in dote per far­ mene una sorpresa la mattina delle nozze, e possiede in­ sieme tutte quelle gradevoli virtù di cui tu hai parlato ! — Ehm ! — replicò Specchietto — la cosa non sta proprio così come dite voi ! Il tesoro c’è, come voi giusta­ mente constatate, e la bella donna, ad esser sincero, l’ho già scovata; ma è il marito disposto a sposarla in così difficili circostanze che è arduo trovare giacché oggigiorno la bellezza deve essere per di più rivestita d’oro, come le noci di Natale, e più vuote sono le teste, più si

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sforzano a riempire la vuotaggine con ricchezze muliebri per passare poi meglio il loro tempo. Ecco che ora si va a vedere con aria di importanza un cavallo, o si compra una pezza di velluto, si va in cerca correndo e girando di una buona balestra e l’armaiolo ti mette radici in casa. Il pri­ mo dice di dover imbottigliare il suo vino e ripulire i suoi barili, potare i suoi alberi e far ricoprire il suo tetto, il se­ condo deve mandare ai bagni la moglie malaticcia che gli costa un occhio, deve spedire il suo legname e far incas­ sare i suoi crediti; uno ha acquistato un paio di levrieri in cambio dei suoi bracchi, un altro ha comprato un bel tavolo di quercia allungabile dando in cambio il suo gran­ de armadio di noce; un terzo ha tagliato le pertiche dei fagioli cacciando il suo giardiniere, ha venduto il suo fieno e seminato la sua insalata, sempre suo e sua, da mattina a sera. Taluni dicono persino: «La settimana prossima ho il mio bucato, devo dar aria ai miei letti, prendere una domestica e avere un nuovo macellaio, perché voglio liberarmi di quello vecchio; ho fatto acquisto, per caso, di una piccola, graziosissima forma per le cialde, ven­ dendo in cambio il mio bossolo d’argento per la cannella, che tanto non mi serviva». Tutto questo, si capisce, è roba della moglie, e un tipo simile passa il suo tempo ru­ bando le giornate al buon Dio ed enumerando tutte le sue occupazioni senza far mai nulla. Al più al più, se uno di costoro deve usar discrezione, forse dirà: «Le nostre mucche e i nostri maiali, ma . ..». Pineis diede uno strappo al guinzaglio di Specchietto, facendolo miagolare, e urlò: — Ma smettila, chiacchierone! Dimmi senza indugi: dove è quella che tu conosci? — L’enumerazione di tutti gli splendori e i lussi che vanno uniti alla dote di una moglie avevano fatto venire ancor più l’acquolina in bocca al magro stregone. Specchietto rispose stupito: — Ma vorreste veramente buttarvi nell’impresa, signor Pineis? — Si capisce che lo vogliose chi meglio di me? Dimmi dunque: dove è la donna?

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— Perché voi andiate a chiederla in sposa? — Senza dubbio ! — Sappiate allora che l’affare passa soltanto per mano mia. È con me che dovete parlare, se volete denaro e moglie ! — disse Specchietto con aria impassibile e indif­ ferente, passandosi ambedue le zampette dietro le orec­ chie, dopo averle un poco inumidite. Pineis meditò parecchio, trasse un sospiro e disse poi: — Capisco : tu vuoi annullare il nostro contratto e sal­ vare la testa! — Vi sembrerebbe forse cosa non equa e naturale? — Ma alla fine tu mi inganni e mi imbrogli da bric­ cone ! — Questo è anche possibile! — ammise Specchietto. — Bada bene : non ingannarmi ! —- esclamò Pineis con tono di comando. — Sia, allora non vi inganno ! — disse il gatto. — Ma se lo fai ! — È segno che lo faccio. — Non starmi a tormentare, Specchietto ! — disse Pi­ neis quasi piangendo, al che il gatto replicò facendosi serio : — Siete un uomo ben strano, signor Pineis ! Mi tenete a una corda e la tirate da togliermi il respiro ! Tenete so­ spesa su di me da più di due ore la spada della morte, ma che dico, da un semestre intero, e poi mi venite a dire: «Non tormentarmi, Specchietto!». Se mi date li­ cenza, vi dirò in breve: a me può far piacere assolvere quel dovere d’affetto verso la morta e trovare un marito adatto per la predetta fanciulla, e voi mi sembrate con­ veniente sotto ogni riguardo; non è cosa facile collocare bene una donna, benché lo sembri, e io tomo a ripetere : sono contento che voi ci siate disposto ! Ma che non costi nulla, non c’è che la morte ! Prima di pronunciare una sola parola o di fare un passo, prima anzi di tornare ad aprire la bocca, voglio riavere la mia libertà e la vita as­ sicurata ! Staccate quindi quella corda, e deponete il con­ tratto qui sul pozzo, su questa pietra, oppure mozzatemi addirittura la testa : una delle due !

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— Oh, pazzo furioso! — disse Pineis — quanta fretta; non saremo tanto alle strette? Son cose che vanno ben discusse e comunque bisogna concludere un nuovo con­ tratto ! Specchietto non diede più risposta e se ne rimase 11 im­ mobile per uno, per due, per tre minuti. Il maestro stregone prese allora paura, trasse il portafoglio, ne cavò con un sospiro il documento, lo rilesse ancora una volta e lo depose poi esitante davanti al gattino. Ma appena veduta la carta, Specchietto l’afferrò e ne fece un bocco­ ne; e benché non fosse facile da inghiottire, gli parve la pietanza più gradita e profittevole che mai avesse man­ giato, nella fiducia che essa gli avrebbe giovato ancora a lungo e l’avrebbe reso vispo e grassottello. Terminato quel simpatico pasto, riverì cortesemente il mago, e gli disse: — Avrete presto mie nuove, signor Pineis, e non vi sfug­ giranno né moglie né denaro. Preparatevi piuttosto ad essere bene innamorato, per poter giurare e adempiere le condizioni di un’inviolabile dedizione nei riguardi di vo­ stra moglie che ormai già può dirsi veramente vostra! E con ciò per ora vi ringrazio del trattamento e del vitto che mi avete offerto e prendo congedo ! Così dicendo Specchietto se ne andò, compiacendosi tra sé della stupidaggine dello stregone, il quale pensava di poter ingannare se stesso e il mondo intero, in quanto egli non voleva certo sposare la sognata fanciulla con disinteresse, per solo amore della bellezza, ma conosceva in anticipo la circostanza dei diecimila fiorini. Specchietto però aveva già sott’occhi una tale da regalare allo stolto stregone, in cambio dei suoi tordi, topi e salsicciotti. Di fronte alla casa del signor Pineis c’era un’altra casa, con la facciata accuratamente imbiancata e le finestre sempre scintillanti di pulizia. Le modeste cortine erano sempre candide e ben stirate e non meno candidi erano il fazzoletto e le bende di una vecchia beghina che ivi abitava, tanto che la sua acconciatura monacale, scen­ dente fin sul petto, sembrava carta da lettere ripiegata, e sulla quale si poteva scrivere, il che del resto si sa­ rebbe comodamente potuto fare sul suo petto piatto e

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duro come una tavola. Se aguzze e taglienti erano le pie­ ghe e gli spigoli della sua veste, non meno lo erano anche il naso e il mento della beghina, la sua lingua e lo sguar­ do cattivo dei suoi occhi ; parlava però poco con la lingua e guardava anche poco con gli occhi, non amando lo spre­ co e usando di tutto a tempo debito con gran prudenza. Ogni giorno si recava tre volte in chiesa e, quando attra­ versava la strada con la sua acconciatura candida e scric­ chiolante e col naso bianco appuntito, i bambini scappa­ vano spaventati e persino gli adulti, se erano ancora in tempo, si rifugiavano dietro le porte. Essa era bensì fa­ mosa per la rigida religiosità e riservatezza, specialmente presso il clero, ma i preti stessi preferivano trattare con lei per iscritto piuttosto che a voce e, quando andava a confessarsi, il parroco usciva poi ogni volta dal confes­ sionale grondante di sudore, come venisse da un forno. La pia beghina di austeri sentimenti viveva così in pace profonda, da tutti indisturbata. Non s’occupava a sua volta di nessuno e lasciava che la gente, purché le stesse alla larga, facesse a modo suo ; solo contro il vicino Pineis pareva nutrire un odio particolare, giacché ogni volta che questi s’affacciava a una finestra, gli lanciava un’occhia­ taccia, abbassando immediatamente le sue candide cor­ tine. Pineis d’altra parte la temeva come il fuoco e sol­ tanto ben tappato in casa osava pronunciare qualche frizzo contro di lei. Se la dimora della beghina era bianca e chiara verso strada, essa aveva in compenso un aspetto nero e fumoso, misterioso e strano, nella parte posteriore, non visibile peraltro se non agli uccelli dal cielo e ai gatti sui tetti, perché inserita in un vicolo oscuro con muraglioni altissimi e senza finestre, dove non compariva mai faccia umana. Sotto quel tetto pendevano vecchie gonne lacere, cesti e sacchi d’erbe, mentre sopra il tetto cresce­ vano ordinatamente tassi e pruni e un gran comignolo fu­ ligginoso si ergeva fosco nell’aria. Non di rado però, nelle tenebre della notte, da quel comignolo volava fuori, a ca­ vallo della sua scopa, una hella e giovane strega, nuda come Dio ha fatto le donne e come Satana volentieri le guarda. Uscendo dal comignolo, aspirava la fresca aria

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notturna col suo nasino gentile e con le sorridenti labbra porporine e procedeva poi nel candido riflesso del suo corpo, mentre alle spalle le ondeggiava, simile a una fosca bandiera, la lunga chioma corvina. In un cavo del fumaiolo abitava una vecchia civetta e da essa si recò appunto Specchietto appena libero, tenendo in bocca un topolino grasso, acchiappato lungo la strada. — Vi auguro la buona sera, cara signora civetta ! Sempre di guardia? — disse, e la civetta rispose : — Per forza ! Ricambio la buona sera ! Non vi siete fatto vedere da un pezzo, signor Specchietto ! — Ho avuto le mie buone ragioni, ve le racconterò. Ecco, vi ho portato un topolino, quel che si trova in que­ sta stagione, se vi volete degnare di accettarlo ! La pa­ drona è fuori? — Non ancora, credo voglia fare una volatina di un’oretta soltanto verso il mattino. Grazie del bel topo ! Siete sempre quel gentile Specchietto! Avevo messo qui da parte un modesto passerotto che oggi m’è volato troppo vicino: se vi fa voglia, assaggiatelo ! E che è stato di voi? — Cose strane, — replicò Specchietto — volevano far­ mi la pelle. State ad ascoltarmi, se non vi dispiace. Mentre i due cenavano piacevolmente, Specchietto rac­ contò all’attenta civetta tutto quel che gli era toccato e il modo con cui era riuscito a sottrarsi alle mani del signor Pineis. La civetta commentò: — Mi congratulo mille volte con voi, ormai siete un uomo a posto e potete andar lontano, avendo raccolto non poche esperienze. — La cosa non è finita, — disse Specchietto — Pineis deve trovare la moglie e i suoi fiorini ! — Ma avete perduto la testa? Far del bene a quella canaglia che voleva scorticarvi? — Infine egli l’avrebbe potuto fare legittimamente, a termini di contratto, e se io lo posso servire di pari moneta, perché dovrei rinunciarvi? Chi dice che gli voglia far del bene? Tutto il racconto è stato una mera invenzione; la mia defunta padrona era una povera donna semplice, che mai in vita sua era stata innamorata né circondata da

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adoratori, e quel tesoro è denaro ingiusto da lei una volta ereditato e gettato poi nel pozzo perché non le portasse sventura. Essa aveva dichiarato: «Sia maledetto chi lo toglie e lo adopera ! ». Quanto al beneficio ci sarebbe dun­ que da discutere! — Allora la faccenda cambia ! Ma da dove volete prendere la moglie adatta? — Qui dal fumaiolo ! Per questo sono venuto, per scam­ biare quattro parole sensate con voi ! Non vorreste liberar­ vi una buona volta dagli incantesimi di questa strega? Stu­ diate un po’ come potremmo acchiapparla e farla sposare al vecchio briccone ! — Oh, Specchietto, basta che voi vi avviciniate perché si destino in me fecondi pensieri ! — Lo sapevo bene, che voi siete una testa fine ! Io ho fatto la mia parte, è meglio che ora ci aggiungiate la vo­ stra, impiegandovi tutte le forze, e il successo non potrà mancare ! — Poiché tutto coincide ottimamente, non ho bisogno di meditare a lungo : il mio piano è pronto da un pezzo ! — Come la accalappiamo? — Con una nuova rete da beccacce fatta con corde so­ lide di canapa; deve essere intrecciata da un figlio di cac­ ciatore ventenne che non abbia mai guardato una donna, e tre volte deve averla bagnata la rugiada notturna senza che abbia preso una beccaccia; e il movente di tutto ciò dev’essere stato per tre volte una buona azione. Simile rete è forte abbastanza per pigliare la strega. — Sono curioso ora di sapere dove andrete a prenderla, — disse Specchietto — giacché ben so che voi non state a far parole vane. — È già trovata, come·fatta per noi; in un bosco non lontano di qui c’è un figlio di cacciatore, ventenne, che non ha mai veduto donna, perché è nato cieco. Appunto per questo non può far altro che intrecciar reti e pochi giorni fa ha finito una bellissima rete da beccacce. Quan­ do il padre cacciatore volle tenderla per la prima volta, passò di lì una donna che tentò di indurlo in peccato ; era però tanto brutta, che il vecchio scappò via spaventato,

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lasciando cadere a terra la rete. Per questo ci si è posata la rugiada, senza che prendesse una beccaccia, e la causa ne fu una buona azione. Quando tornò il giorno seguente per tenderla di nuovo, passò un cavaliere che aveva alle spalle un pesante sacco bucato dal quale, di tanto in tan­ to, cadeva a terra una moneta d’oro. Il cacciatore lasciò di nuovo a terra la sua rete per rincorrere zelantemente il cavaliere, e stava raccogliendo appunto le monete nel suo cappello quando il cavaliere si voltò, lo scorse e ri­ volse adirato la sua lancia contro di lui. Il cacciatore si chinò impaurito, e gli porse il cappello dicendogli: «Scu­ sate, signore, avete perduto molto oro e io ve l’ho rac­ colto con cura!». Questa fu un’altra buona azione, anzi restituire il trovato è una delle più ardue e migliori ! Si era ormai tanto allontanato dalla sua rete che la lasciò una seconda notte nel bosco, avviandosi a casa per la strada più breve. Il terzo giorno, finalmente, cioè ieri, mentre era in cammino, il vecchio incontrò una graziosa sua co­ mare che soleva far la vezzosa con lui e alla quale già àveva regalato più di un leprotto. L’incontro gli fece totalmente dimenticare i beccaccini e l’indomani mat­ tina disse: «Ho condonato la vita alle povere beccacce: bisogna esser pietosi anche verso gli animali !». E in gra­ zia di queste tre buone azioni, si ritenne troppo buono per questo mondo e stamattina per tempo si è ritirato in ùn convento. Per questo la rete è ancora inadoperata nel bosco e non ho che andare a prenderla. — Andateci subito!— disse Specchietto — servirà ot­ timamente ai nostri fini! — Io ci vado, — disse la civetta — voi intanto fate la sentinella per me quassù e se la padrona chiedesse dal basso se non ci sono pericoli, rispondete, imitando la mia voce : «Non c’è ancor puzza nella sala d’armi ! ». Specchietto si collocò nella nicchia e la civetta volò tacita oltre la città, verso il bosco. Tornò ben presto con la rete, e gli chiese: — Ha già chiamato? — Non ancora! — rispose Specchietto. Tesero allora la rete sul fumaiolo e si posero lì accanto in

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silenzio: l’aria era scura e alitava un venticello mattutino in cui tremolavano un paio di stelle. — Vedrete — sussurrò la civetta — con quanta abilità sa sbucar fuori dal camino senza sporcarsi le spalle nude ! — Non l’ho mai veduta tanto da vicino; — replicò Specchietto sottovoce — purché non riesca ad acchiap­ parci ! In quel momento la strega domandò dal basso: — Nessun pericolo? — e la civetta rispose: — Nessuno, c’è una puzza meravigliosa nella sala d’ar­ mi ! — E subito sbucò fuori la strega, incappando nella rete, che gatto e civetta serrarono e legarono con gran prontezza. — Tieni saldo ! — disse Specchietto. — Lega bene ! — gridò la civetta. La strega si dibat­ teva furiosa, ma in perfetto silenzio, come un pesce nella rete. A nulla però le giovò, perché la canapa resistette. Solo il manico della scopa sporgeva dalle maglie. Spec­ chietto cercò di tirarlo fuori pian piano, ma gli toccò un tal colpo sul naso, che quasi cadde svenuto e constatò quanto fosse pericoloso avvicinarsi troppo a una leonessa sia pure in gabbia. Alla fine la strega s’acquietò e chiese : — Che cosa volete da me, o strane bestioline? — Mi dovete licenziare dal vostro servizio, restituen­ domi la libertà — disse la civetta. — Quanto chiasso per nulla ! — replicò la strega — Sei libera, apri la rete ! — Non ancora ! — disse Specchietto, continuando a sfregarsi il muso — Dovete impegnarvi a sposare il vostro vicino, lo stregone civico Pineis, nel modo che noi vi in­ segneremo, e a non lasciarlo mai più ! La strega cominciò a dimenarsi e a sbuffare di nuovo come un diavolo e la civetta disse: — Non accetta ! Specchietto però aggiunse: — Se non state tranquilla e non fate quel che deside­ riamo, appendiamo la rete col suo contenuto là al ma­ scherone della grondaia, verso la strada, in modo che do­ mani tutti vi vedranno e riconosceranno la strega. Ditemi

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dunque: preferite venir arrostita agli ordini del signor Pineis, oppure mandare lui arrosto sposandolo? La strega replicò con un sospiro: — Parlate allora: come vedete voi la faccenda? Specchietto le espose con precisione quel che volevano e quel che a lei sarebbe toccato di fare. — È cosa tollerabile, se non c’è altra via ! — disse lei, arrendendosi poi con le formule più solenni che pos­ sano impegnare una strega. Allora le due bestie aprirono la rete e la lasciarono libera. Essa inforcò subito la scopa, la civetta si accomodò con lei sul manico e Specchietto in fondo, sul fascio di saggina, tenendosi ben saldo, e a quel modo cavalcarono sino al pozzo, dentro il quale si calò la strega per cavarne il tesoro. L’indomani mattina Specchietto si presentò al signor Pineis, annunciandogli che avrebbe potuto conoscere e domandare in sposa la ben nota persona ; questa era però ridotta in tale miseria da trovarsi, derelitta e scacciata, lì sotto un albero davanti al portone di città, immersa in un amaro pianto. Subito il signor Pineis indossò lo sdruscito giubbetto di velluto giallo che serbava per le occa­ sioni solenni, mise il berretto buono di pelo di can bar­ bone e affibbiò la spada. Prese poi in mano un vecchio guanto verde, un flaconcino in cui c’era stato del balsamo e che ancora ne serbava il profumo e un garofano di carta, e s’avviò così con Specchietto fuori porta a prender la sposa. Trovò seduta in lagrime sotto un salice una donna di straordinaria bellezza, come non ne aveva vedute mai; la sua veste era tanto lacera e mal ridotta che, malgrado i suoi gesti pudichi, ne sbucava qua e là il corpo candi­ dissimo. Pineis spalancò gli occhi mentre l’impetuoso ra­ pimento gl’impediva quasi di formulare la sua domanda. La bella donna, sentendolo, asciugò le lagrime, gli porse la mano con un dolce sorriso, lo ringraziò della sua ma­ gnanimità con una voce da campana celeste, giurando di essergli eternamente fedele. Nello stesso istante però Pineis fu còlto da tale furiosa gelosia per la sua sposa, che decise di non lasciarla mai vedere ad alcun occhio umano. Fece celebrare le nozze da un vecchissimo eremita

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e festeggiò il banchetto nella propria casa, senz’altri ospiti che Specchietto e la civetta, che il gatto aveva chie­ sto licenza di portare con sé. I diecimila fiorini d’oro stavano sulla tavola entro un gran piatto, e di tanto in tanto Pineis vi immergeva la mano, poi tornava a guar­ dare la bella donna che gli sedeva accanto in una veste di velluto azzurro mare col bianco collo cinto di perle e coi capelli ravvolti in una rete d’oro ed ornati di fiori. Cer­ cava di continuo di baciarla, ma quella sapeva rifiutarsi con pudico ritegno, con un sorriso seducente, giurandogli che non l’avrebbe mai fatto davanti a testimoni e prima del calar della notte. Ciò non faceva che renderlo più innamorato e beato, mentre Specchietto faceva saporoso il banchetto con piacevoli conversari, ripresi dalla bella donna con le parole più argute e lusinghiere, tanto che lo stregone era fttor di sé dalla gioia. Quando però si fece buio, civetta e gatto chiesero discretamente congedo e il signor Pineis li accompagnò sino alla porta di casa con un lume, ringraziando di nuovo Specchietto, che pro­ clamò persona eccellente e cortese. Ma, di ritorno nella sala, vide seduta alla tavola la vecchia bianca beghina sua vicina di casa, intenta a fissarlo con uno sguardo fe­ roce. Pineis esterrefatto lasciò cadere il lume e s’appoggiò tremando alla parete. Gli pendeva fuori la lingua e la faccia gli era divenuta livida e aguzza come quella della beghina. Questa intanto si alzò, gli si accostò e lo spinse dinanzi a sé verso l’alcova, dove con arti infernali lo mise a una tortura quale nessun mortale ha mai conosciuto. Egli fu così indissolubilmente accoppiato alla vecchia, e in città, quando lo si seppe, si disse: «Guarda come son profonde le acque chete ! Chi avrebbe pensato che la pia beghina e il signor stregone civico avrebbero finito per sposarsi! Bene, è una coppia legittima e rispettabile, se anche non troppo graziosa!». Pineis condusse da quel giorno una vita miseranda : la sua consorte si era impossessata di tutti i suoi segreti e lo dominava assolutamente. Non la minima libertà o il mi­ nimo svago gli eran concessi: doveva fare a tutti i costi incantesimi da mattina a sera, e quando Specchietto pas-

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sando di là lo vedeva faticare, gli diceva gentilmente: «Sempre al lavoro, nevvero signor Pineis?». Da quel tempo a Seldwyla si suol dire: «Quello ha comprato il grasso al gatto ! », specialmente quando qual­ cuno per cupidigia s’è presa una moglie cattiva e ri­ pugnante.

LA GENTE DI SELDWYLA PARTE SECONDA

Da quando è comparsa la prima metà di questi raccon­ ti, ben sette città della Svizzera discutono a quale di esse si sia voluto alludere con Seldwyla, e poiché per antica esperienza l’uomo vanitoso preferisce essere ritenuto cat­ tivo, fortunato e divertente piuttosto che ammodo, ma golfo e sempliciotto, cosi ciascuna di quelle cittadine ha offerto all’autore la cittadinanza onoraria per il caso che egli si dichiarasse per lei. Dato però che già possiede una città natale, non in­ feriore ad alcuna di quelle ambiziose comunità, l’autore ha cercato di ammansirle facendo loro credere che in ogni città e in ogni valle della Svizzera si erge un piccolo cam­ panile di Seldwyla e che questa località è quindi in certo modo da considerarsi una sintesi di quei piccoli cam­ panili, una città ideale segnata soltanto nelle nebbie della montagna, destinata perciò a migrare con esse dal­ l’uno all’altro distretto, superando forse anche, qua e là, i confini della cara patria, oltre il vecchio Reno. Mentre però alcune di quelle città continuano tena­ cemente a volersi assicurare il loro Omero ancora viven­ te, nell’autentica Seldwyla s’è determinata una tale meta­ morfosi, che il suo carattere specifico, rimasto identico attraverso i secoli, in meno di un decennio ha mutato, sino a minacciare di diventare l’opposto. Oppure, per esser più sinceri, la vita del paese in ge­ nere si è foggiata in maniera che in essa possono svilup­ parsi mirabilmente le particolari doti e bizzarrie degli ottimi' Seldwylesi, i quali vi trovano una corrente favo­ revole, un terreno propizio ove si sentono maestri e dove si trasformano in gente bene arrivata e pacifica che per nulla più si distingue dal resto del saggio mondo. È stato particolarmente il partecipare alla specula­ zione, ovunque diffusasi, in valori noti e ignoti ciò che aprì ai Seldwylesi un campo il quale parve sin dai pri­ mordi creato per essi e che li ha di colpo parificati a mi­ gliaia di seri uomini d’affari. Discutere in pubblico tali valori, darsi attorno per av­ viare un affare che non implica altro lavoro fuorché subire complesse emozioni, aprire e spedire telegrammi e

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compiere cento cose del genere fatte per riempire la gior­ nata : ecco proprio quel che faceva per loro ! Ogni seldwylese è ora un agente nato, o qualcosa di simile; emi­ grano anzi in tal veste, come i confettieri dell’Engadina, i gessaiuoli ticinesi e gli spazzacamino savoiardi. Invece dello spesso portafogli di un tempo, gonfio di ricevute spiegazzate e di miserabili cambialette, essi ora tengono in tasca degli eleganti taccuini dove vengono segnati brevemente gli ordini per azioni e per obbliga­ zioni, per seta o cotone. Appena nasce una qualunque impresa, subito accorrono alcuni di loro e le svolazzano attorno come passeri, aiutandola ad ampliarsi. Se a uno riesce di agguantare un guadagno, subito si fa da parte, come la carpa col verme in bocca, per riaffiorare alle­ gramente in un altro punto di attrazione. Sono sempre in moto ed entrano in rapporti col mondo intero. Giocano a carte con gli uomini d’affari più quotati e sono abilissimi nel lanciare fra una mano e l’altra ra­ pide risposte a domande d’affari o nel conservare un si­ gnificativo silenzio. Si son fatti intanto già più laconici e asciutti: ridono meno che in passato e non trovano quasi più tempo per escogitare beffe o divertimenti. Già qua e là si accumula un poco di patrimonio, che al sopravvenire di crisi commerciali trema invero ancora come una foglia, oppure anche si dissolve tacitamente al vento, come fa un comizio illegale al sopravvenire della polizia. Ma non vi sono più, come in passato, comodi e volgari fallimenti e reciproche rovine, bensì signorili concordati con distinti creditori stranieri, o rovesci di fortuna medita­ tamente discussi, che hanno, quasi quasi, una parvenza di legalità; così pure vi sono ritorni di fortuna ed è ben raro che uno debba sparir dalla scena. Alla politica hanno quasi del tutto rinunciato, persuasi che essa porti sempre alla guerra ; quali aspiranti al pos­ sesso, ora temono e odiano ogni eventualità di guerra al pari del diavolo, mentre un tempo, dietro i loro boc­ cali di birra, muovevano guerra a tutta l’antica pen-

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tarchia. Così gli ardenti politicanti di un tempo so­ no arrivati al punto di evitare, paurosi, ogni giudizio sulle faccende pubbliche, per non appoggiarvi, volutamente o no, alcun affare, ritenendo ben più salda base la loro cieca fiducia nel caso. Ma appunto per tal via la natura dei Seldwylesi si va trasformando; essi, come già si disse, hanno ormai l’aspet­ to di tutte le altre persone; non accade più fra loro cosa alcuna degna di essere annotata e meditata, ed è quindi ormai giunta l’ora di spigolare un poco nell’allegro pas­ sato della città, lavoro al quale debbono appunto la loro vita le cinque storie che qui seguono.

L’ABITO FA IL MONACO In una uggiosa giornata di novembre un povero sartorello s’avviava sullo stradone che conduce a Goldach, una fiorente cittadina distante solo poche ore da Seldwyla. Non aveva in tasca che un ditale e, in mancanza di mo­ neta, lo rigirava senza posa tra le dita quando per il gran freddo ficcava le mani nei pantaloni, così che per il troppo rigirarlo le dita gli dolevano. In seguito al fallimento di uno dei grandi sarti di Seldwyla, aveva perduto il lavoro insieme con la paga ed era stato costretto a emigrare. Per colazione non aveva mangiato che qualche fiocco di neve entratogli in bocca e non sapeva immaginare di dove gli potesse arrivare un sia pur modesto spuntino. Il chiedere aiuto gli riusciva straordinariamente penoso, gli sembrava anzi impossibile, forse anche perché sull’abi­ to nero della domenica, l’unico suo vestito, indossava un ampio mantello grigio scuro con colletto di velluto nero, il quale gli conferiva un’aria austera e romantica; aveva lunghi capelli neri e baffetti ben curati e poteva andare orgoglioso di un volto pallido, ma dai tratti regolari. Tale abbigliamento era divenuto ormai un’esigenza per lui, senza che si proponesse per questo alcun male o alcun inganno; era anzi contento se spltanto lo lasciavano lavo­ rare in pace; però avrebbe preferito morire di fame che separarsi dal suo mantellone e dal berretto di pelo alla polacca, che sapeva pure portare con grande dignità. Poteva quindi lavorare soltanto nelle città di una certa importanza, dove quel costume non dava nell’occhio: quando invece viaggiava a piedi e senza un soldo cadeva in situazioni molto imbarazzanti. Se si avvicinava a una casa, la gente lo osservava un po’ stupita e incuriosita, ma ben lungi dall’aspettarsi che venisse ad elemosinare; per questo, non essendo egli poi per nulla facondo, gli mori­ vano le parole in bocca e finiva per essere il martire del suo mantello e per soffrire una fame ancor più nera del­ la fodera di velluto di quest’ultimo. Mentre, debole e crucciato, risaliva una collina, gli pas-

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sò accanto una carrozza da viaggio comoda e nuova che un cocchiere privato era andato a prendere in consegna a Basilea, per portarla al suo padrone, un conte forestiero il quale viveva in qualche angolo della Svizzera orientale in un castello comprato o affittato. La carrozza era bene attrezzata per trasportar bagagli e sembrava quindi molto carica, benché fosse in realtà vuota. Il cocchiere proce­ deva nella ripida salita accanto ai cavalli e quando, giun­ to in cima, risalì a cassetta, domandò al sarto se volesse prender posto nella carrozza vuota. Cominciava a pio­ vere ed egli s’era accorto alla prima occhiata che quel viandante andava per il mondo stanco e preoccupato. Quello naturalmente accolse l’offerta con modestia e gratitudine, il cocchio partì al galoppo e in meno di un’o­ ra entrò maestoso e rumoroso per la porta di Goldach. L’elegante veicolo s’arrestò di colpo davanti alla prima locanda, detta della Bilancia, e subito il facchino alla porta diede un tale strappo al cordone del campanello da farlo quasi andare in pezzi. Accorsero padrone e personale ad aprire Io sportello, mentre già bambini e vicini circonda­ vano la carrozza lussuosa, curiosi di vedere quale nocciolo uscisse da simile guscio straordinario, così che, quando fi­ nalmente ne saltò fuori il sarto intontito, ravvolto nel suo gran mantello, pallido e avvenente, con lo sguardo melan­ conico rivolto a terra, egli dovette apparir loro per lo me­ no un principe misterioso, o un figlio di nobili. Scarso era lo spazio fra la carrozza e l’ingresso della locanda, nonché quasi tutto ingombro dalla folla degli spettatori. Gli man­ casse la presenza di spirito o il coraggio di rompere il cerchio della gente per svignarsela . . . fatto è che non lo fece ma si lasciò accompagnare passivamente entro la casa, su per le scale, rendendosi conto della strana situa­ zione solo quando si vide accomodato in un’ospitale sala da pranzo e gli fu premurosamente tolto dalle spalle il solenne mantello. — Il signore desidera pranzare? — gli dissero — Sarà servito tra poco, è tutto pronto ! Senza aspettare risposta, l’oste della Bilancia corse in cucina gridando:

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— Per tutti i diavoli ! E ora non abbiamo che manzo lesso e una coscia di montone ! Il pasticcio di pernice non lo posso intaccare, perché è destinato ai clienti di questa sera ed è stato loro promesso. È sempre così! L’unico giorno in cui non aspettiamo nessuno e non abbiamo nul­ la ci deve capitare un tale signore ! Il cocchiere ha lo stemma sui bottoni e la carrozza sembra quella di un duca ! E il giovanotto non apre quasi bocca, tanto è di­ stinto ! Ma la saggia cuoca replicò: — Perché tanti piagnistei, signor padrone? Metta pure in tavola con coraggio il pasticcio: non lo mangerà poi tutto ! Lo daremo ai signori di stasera suddiviso a porzio­ ni e ne caveremo benissimo ancora sei fette ! — Sei porzioni ! Ma voi dimenticate che i signori sono avvezzi a mangiare a sazietà ! — osservò l’oste, ma la cuoca insistette impassibile: — Mangino pure ! Mandiamo a prendere in fretta una mezza dozzina di costolette, ché tanto ne abbiamo biso­ gno per il forestiero, e quel che avanza lo trituro bene e lo mescolo poi al pasticcio : lasci fare a me ! Ma il bravo albergatore l’ammonì austeramente: — Cuoca, vi ho già detto più di una volta che simili ri­ pieghi non vanno in questa città e in questa locanda! Noi qui siamo gente seria e onorata, e ce lo possiamo per­ mettere ! — Diavolo, diavolo ! Va bene ! — riprese la cuoca, per­ dendo finalmente la sua calma — Ma se non ci si sa ar­ rangiare si corra un po’ di rischio ! Ecco qui due beccacce che ho comprato proprio ora da un cacciatore e che po­ tremmo benissimo aggiungere al pasticcio. Speriamo che quei ghiottoni non avranno nulla a ridire contro un pa­ sticcio di pernici adulterato a base di beccacce ! Ci sono poi anche le trote : ho gettato la più grossa nell’acqua bol­ lente appena ho visto arrivare quello strano equipaggio, e la salsetta cuoce già nella padellina: abbiamo quindi pesce, manzo, verdura e costolette, arrosto di montone e pasticcio; mi dia soltanto la chiave perché vada a prende­ re i sottaceti e la frutta. Quella chiave del resto, padrone,

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potrebbe affidarmela con tutto onore e fiducia, così non si sarebbe costretti a correrle dietro ogni momento con gran confusione! — Cara cuoca ! Non dovete serbarmene rancore, ma io ho dovuto giurare al letto di morte della mia povera moglie che avrei sempre tenuto in mano mia le chiavi; questo lo faccio dunque per principio e non per sfiducia. Eccovi i cetrioli e le ciliegie, eccovi le mele e le albicocche ; però non si può portare in tavola dei biscotti vecchi, la Lise corra subito dal pasticciere a prenderne tre piatti freschi, e se ha una buona torta ve l’aggiunga ! — Ma padrone ! Lei non può mettere tanta roba in conto a un solo cliente, non ci guadagna neppure col più buon volere ! — Non importa, ne va dell’onore ! Non mi rovinerò per questo ma, in compenso, un gran signore passando per la nostra città deve poter dire che ha trovato una buona tavola, pur capitandoci inaspettato e in pieno in­ verno ! Non voglio che si parli di noi come degli alberga­ tori di Seldwyla, che mangiano loro il meglio e offrono gli ossi ai clienti ! Coraggio dunque ed energia e sbrigatevi tutti! Durante questi prolungati preparativi il sarto era in preda alla più penosa angoscia. Vedendo la tavola ap­ parecchiata con gran lusso, il povero affamato, che po­ chi minuti avanti aveva sognato una qualunque pietanza, desiderava ora con altrettanto ardore di sfuggire alla mi­ naccia d’un pranzo. Alla fine si fece animo, tornò a rav­ volgersi nel mantello, mise il berrettone e s’awiò in cerca di un’uscita. Siccome però nella sua confusione non trovò subito la scala del vasto edificio, il cameriere, sempre af­ faccendato da quelle parti, credette che andasse in cerca di un certo localino e gli gridò: «Permetta signore, le indicherò subito io la strada!», e lo accompagnò infatti per il lungo corridoio, il quale finiva dinanzi a una porta ben verniciata su cui spiccava una nitida iscrizione. L’uomo dal mantello, docile come un agnellino, non potè che rassegnarsi ad entrare e rinchiuse la porta alle sue spalle. S’appoggiò con un amaro sospiro alla parete,

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invocando la preziosa libertà della strada, che in quel mo­ mento, malgrado il maltempo, gli appariva come la mas­ sima felicità. Ma fu proprio allora, indugiando qualche minuto nello stanzino chiuso, che incappò automaticamente nella pri­ ma menzogna e pose quindi piede sulla sdrucciolevo­ le via del peccato. L’oste intanto, che l’aveva visto passare col mantello sulle spalle, gridava : « Ma il signore ha freddo ! Riscal­ date meglio la sala ! Dov’è Lise, dove si è cacciata Anne? Qua svelte: una cesta di legna nella stufa e alcune ma­ nate di trucioli perché attacchi bene ! Perbacco, forse che i clienti della Bilancia dovran stare a tavola intabarrati?». Quando il sarto ricomparve dal lungo corridoio, melan­ conico come l’antenato fantasma di un castello avito, l’oste fra mille complimenti e fregatine di mano lo riac­ compagnò nel maledetto salone. Ivi venne senz’altro in­ dugio condotto a tavola, gli fu accomodata la sedia e, anche perché il profumo da tanto tempo non gustato della sostanziosa minestra gli toglieva ogni volontà, egli si lasciò andare sulla sedia in nome di Dio e immerse senz’altro il pesante cucchiaio nel brodo dorato. Ristorò i suoi languenti spiriti vitali in profondo silenzio e venne servito con rispettoso e tacito zelo. Quand’ebbe vuotato il piatto, l’oste, accorgendosi che l’aveva gustata, l’incoraggiò cortese a prendere un altro cucchiaio di zuppa, salutare con quel tempaccio. Venne poi servita la trota inghirlandata di verde e il padrone stesso gli mise sul piatto il pezzo migliore. Ma il sarto, tormentato dai suoi pensieri, non osava per lo smarri­ mento servirsi del lucido coltello e, timido e schizzinoso, cincischiava il pesce con la forchettina d’argento. Se ne accorse la cuoca, venuta a spiare dalla porta quel gran cliente e disse agli astanti: «Sia lodato Gesù Cristo! Quello si è capace di mangiare un pesce fino come si con­ viene ! Non ci dà dentro col coltello nella carne delicata, quasi dovesse ammazzare un vitellino! È un signore di sangue nobile, ne farei giuramento, se questo non fosse proibito ! E come è bello e melanconico ! Senza dubbio è

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innamorato di una damigella povera, che non gli lasciano sposare ! Ahimè, anche i gran signori hanno i loro dispia­ ceri ! ». Nel frattempo l’oste s’accorse che il cliente non beveva e gli domandò ossequioso: «Il signore non ama il vino da pasto? Desidera forse un bicchiere di buon Bordeaux che le posso proprio raccomandare?». E qui il sarto commise automaticamente la seconda col­ pa, dicendo per obbedienza «sì», invece di «no», al che il padrone corse tosto personalmente in cantina a prendere una bottiglia speciale, giacché ci teneva che si raccontasse che in paese c’era roba buona. Quando poi il cliente, per­ ché la coscienza lo rimordeva, non sorbì che piccoli sorsi del vino versatogli, l’oste tornò allegro in cucina e disse facendo schioccare la lingua: — Che il diavolo mi pigli, se quello non è un inten­ ditore ! Sorbisce il vino buono in punta di lingua, co­ me si metterebbe un ducato sul bilancino dell’oro ! — Sia lodato Gesù Cristo ! — fece eco la cuoca — L’ho detto anch’io che se ne intende ! Il pranzo s’àvviò a quel modo, dapprima con molta lentezza, perché il povero sartorello mangiava e beveva schizzinoso e malsicuro e il padrone, per lasciargli tem­ po, non affrettava il servizio. Ben poco era in complesso quel che il cliente aveva consumato sino a quel momento ; ma la fame, pericolosamente stuzzicata, finì per superare la paura e, quando comparve il pasticcio di pernice, lo stato d’animo del sarto si mutò di colpo e si impadronì di lui un preciso pensiero : “Ormai la cosa è fatta,” si disse, riscaldato ed eccitato da un altro goccio di vino “sarei proprio uno sciocco se subissi lo scandalo e la persecuzione inevitabile senza almeno essermi ben saziato ! Provvedia­ mo così finché è tempo ! Questa bella torretta che mi han­ no messo dinanzi è probabile sia l’ultima portata e a que­ sta mi attaccherò, avvenga quel che può! Quel che ho in corpo non me lo potrà poi rubare neppure un re !”. Detto fatto, col coraggio della disperazione, attaccò l’appetitoso pasticcio, senza concedersi soste, così che in meno di cinque minuti era sparito a metà e il problema

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cominciava a presentarsi grave per i clienti della sera. Carne, tartufi, pasta, crosta e fondo, tutto divorò senza discriminazione, preoccupato soltanto di riempire bene la sua bisaccia prima che il fato lo colpisse. Insieme beveva vino a lunghi sorsi e ficcava in bocca gran pezzi di pane; fu insomma un carico frettoloso e intenso, co­ me quando, mentre s’addensa un temporale, si mette in salvo il fieno a precipizio, portandolo col forcone dal prato vicino sino alla cascina. Il padrone scese un’altra volta in cucina a commentare: — Cuoca ! Mangia tutto il pasticcio, mentre non ha quasi intaccato l’arrosto ! E beve il Bordeaux a mezzi bic­ chieri ! — Buon pro’ a lui ! — disse la cuoca — Lo lasci fare, che quello sa cosa sono le pernici ! Se fosse un cliente da poco, si sarebbe tenuto all’arrosto! — Lo dico anch’io ! — annuì il padrone — Non è forse un modo di mangiare molto elegante ma, quando giravo per imparare il mestiere, ho visto mangiare a questa ma­ niera soltanto generali e canonici ! Nel frattempo il cocchiere aveva fatto dare la biada ai cavalli e si era goduto a sua volta un buon pranzo nel locale per la gente del paese; poi, siccome aveva gran fretta, fece subito attaccare. I domestici della Bilancia non seppero allora trattenersi, e chiesero all’elegante vettu­ rino, prima che fosse troppo tardi, chi mai fosse il suo pa­ drone su in salotto e come si chiamasse. Il cocchiere, un bel tipo di burlone, replicò: — Non l’ha ancor detto da sé? — No ! — gli risposero. E allora soggiunse : — Lo credo, quello non dice molte parole in fin d’una giornata ! Ebbene è il Conte Strapinski ! si fermerà oggi e forse qualche giorno ancora, poiché mi ha dato ordine di precederlo con la carrozza. Egli si permise quello scherzo sciocco per vendicarsi del sartorello, il quale, com’egli credeva, invece di dirgli una parola di congedo e di gratitudine per la sua cortesia, era entrato in albergo a far la parte del signore senza nem­ meno voltarsi. Per condurre a termine la beffa, il cocchiere

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risalì poi in carrozza senza chiedere il conto per sé e per i cavalli, fece schioccare la frusta e uscì dalla città. Tutti intanto trovarono la cosa naturale e misero il debito in conto al sarto. Ma il caso volle che questi, oriundo della Slesia, avesse davvero il nome di Strapinski, Wenzel Strapinski, sia che questa fosse una coincidenza o che il sarto avesse dimen­ ticato in carrozza il suo libretto di lavoro e che il coc­ chiere se lo fosse preso. Comunque, quando il padrone gli si accostò stropicciandosi le mani e gli chiese se il signor conte Strapinski desiderava dopo tavola un bicchiere di vecchio Tokay oppure una coppa di Champagne e gli co­ municò intanto che le camere erano già pronte, l’infelice Strapinski impallidì, tornò a confondersi ma non seppe che cosa replicare. “Interessantissimo!” l’oste brontolò fra sé tornando a correre in cantina per cavare da uno scaffale segreto non soltanto una bottiglietta di Tokay, ma anche un boccale di Bocksbeutel e ficcandosi sotto il braccio una bottiglia di Champagne. Strapinski si vide d’un tratto sorgere dinanzi una piccola selva di bicchieri, fra i quali si ergeva al pari di un pioppo l’alto calice dello Cham­ pagne. Era uno scintillio, un tintinnio, un profumo ben strano che ravvolgeva e, cosa ancor più singolare, quel­ l’uomo povero ma non goffo s’addentrò con abilità nella piccola selva e, vedendo che l’oste aggiungeva una goc­ cia di vin rosso al suo Champagne, versò un po’ di Tokay nel proprio calice. Nel frattempo erano sopraggiunti il se­ gretario comunale e il notaio per giocare come di con­ sueto la tazza di caffè ; venne pure il figlio maggiore della ditta Haberlein & Co., il cadetto della ditta PütschliNievergelt, il contabile di una grande filanda, signor Melcher Böhni. Invece di accingersi alla loro partita, tutti quei signori giravano però attorno al conte polacco con le mani nelle tasche, ammiccando e sorridendo a fior di labbro. Erano membri di buone famiglie costretti a passare la vita a casa loro, ma con parenti o amici sparsi per il mondo, e persuasi quindi di conoscere benissimo l’universo intero.

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Quello dunque era un conte polacco? Avevano già ve­ duto passar la carrozza stando nei loro uffici; ora non si capiva bene se era l’albergatore che invitava il conte o viceversa. Però l’oste della Bilancia non aveva mai fatto burle sciocche, era anzi conosciuto come una testa fine, così che i curiosi signori strinsero sempre più i loro giri attorno al forestiero, finché vennero a sedersi confiden­ zialmente alla sua stessa tavola e si invitarono senz’altro a quel convito, cominciando a giocare ai dadi una bot­ tiglia. Non bevvero molto, essendo ancora troppo presto, ma ordinarono un sorso di ottimo caffè e si disposero ad of­ frire al polacco, come già chiamavano fra loro il sarto, del buon tabacco, perché si rendesse ben conto di dove era capitato. — Posso offrire al signor conte un buon sigaro? L’ho ricevuto direttamente da mio fratello, da Cuba ! — disse l’uno. — I signori di Polonia amano anche una buona siga­ retta, ed ecco qui vero tabacco di Smirne mandatoci dal mio socio — intervenne un altro porgendogli una busta di seta rossa. — Questo di Damasco è ancor meglio, signor conte, — esclamò un terzo — il nostro procuratore di là me l’ha fatto avere lui stesso ! Un quarto gli mise dinanzi un enorme sigaro gri­ dando : — Se vuole qualcosa di straordinario, provi questo si­ garo di un piantatore della Virginia, coltivato e confe­ zionato in casa, assolutamente fuori commercio! Strapinski tacque con un sorrisetto agrodolce e si tro­ vò ben presto ravvolto in nuvolette di fumo odoroso, inar­ gentate leggiadramente dai raggi del sole riapparso. In meno d’un quarto d’ora il cielo si rasserenò annunciando il più bel pomeriggio autunnale. Tutti dissero allora che bisognava godere quell’ora fortunata, visto che l’anno non ne avrebbe forse regalate ancora molte, e fu deciso di re­ carsi in gita al podere di un allegro pretore che aveva pigiato il vino pochi giorni innanzi, per assaggiare il suo

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nuovo prodotto, il celebre Sauser rosso. Pütschli-Nievergelt figlio mandò a prendere il suo calesse da caccia e ben presto due giovani cavalli grigio ferro scalpitarono davanti alla Bilancia. Anche l’oste fece attaccare e il conte fu premurosamente invitato ad unirsi alla brigata per co­ noscere un poco il paese. Il vino gli aveva aguzzato l’ingegno: si rese subito conto che in tale occasione avrebbe potuto meglio svignarsela e continuare poi il viaggio, lasciando il danno a quei signori sciocchi e indiscreti. Accettò quindi l’invito con parole cortesi e salì sulla carrozza del giovane Pütschli. Per un’altra singolare coincidenza, il sarto non solo da ragazzo nel suo villaggio aveva per qualche tempo servito il castellano, ma aveva poi fatto il soldato negli usseri, impratichendosi così a sufficienza di cavalli. Quan­ do il compagno gli domandò cortesemente se non deside­ rasse eventualmente guidare, prese senz’altro le redini e la frusta e partì con scuola impeccabile al trotto, attra­ versando la porta della città e avviandosi rapido per lo stradone, mentre gli altri guardandosi l’un l’altro si sus­ surravano: «Non c’è dubbio, è senz’altro un signore!». In mezz’ora raggiunsero la tenuta del pretore; Strapinski entrò con una splendida voltata, facendo poi fer­ mar di colpo la focosa pariglia: balzarono tutti a terra, sopraggiunse il pretore che invitò la comitiva ad entrare e a sedersi attorno a una tavola che presto fu coperta da una mezza dozzina di caraffe colme di bel Sauser color di corniola. Il vinello ancora caldo e in fermento venne prima assaggiato, discusso e lodato, poi attaccato lieta­ mente, mentre il padrone diffondeva in casa sua l’annun­ cio dell’arrivo di un gran conte di Polonia e provvedeva ad una più larga ospitalità. La compagnia nel frattempo s’era divisa in due grup­ pi, per recuperare la partita mancata, giacché in quel paese gli uomini, probabilmente per innato bisogno d’at­ tività, non sanno stare insieme senza fare un giuoco. Strapinski, dovendo per varie ragioni rinunciare alla par­ tita, venne invitato a far da spettatore, il che sembrò importante agli altri, avvezzi a sfoggiare alle carte tanta

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intelligenza e presenza di spirito. Egli dovette così met­ tersi fra i due gruppi avversari, che miravano soltanto a giocare con grazia e scaltrezza e ad intrattenere in pari tempo il loro ospite. Questi se ne stava lì come un prin­ cipe malaticcio al quale i cortigiani offrano uno spetta­ colo gradevole e raccontino intanto i casi del mondo. Gli spiegarono le mosse, i colpi di mano e gli avvenimenti più importanti e quando uno dei partiti era costretto a rivol­ gere per un certo tempo la propria attenzione soltanto al giuoco, l’altro tanto più calorosamente si dedicava a in­ trattenerlo. Supposero che gli argomenti migliori fossero i cavalli, la caccia e simili, e Strapinski in quel campo era a posto, giacché gli bastavà rievocare i modi di dire ascol­ tati un tempo da ufficiali o proprietari terrieri e che tanto gli erano sempre piaciuti. Pur servendosi di tali formule con parsimonia e con un certo ritegno, accompagnato dal solito melanconico sorriso, ottenne il massimo effetto. Quando due o tre dei giocatori si alzavano e si ritirava­ no tra loro in disparte, non facevano che ripetersi: «È un perfetto signore!». Soltanto Melcher Biffini, il contabile, uno scettico in­ veterato, si fregava le mani soddisfatto, mormorando tra sé: “Vedo già che ci avviamo a uno dei nostri tipici sub­ bugli, anzi, ci siamo quasi già ! Era ben tempo, poiché dall’ultima storia sono passati ben due anni! Costui ha delle dita ben stranamente punzecchiate, che vengono forse da Praga o da Ostrolenka ! Per parte mia, mi guar­ derò dal turbare il corso degli eventi !”. Il giuoco volgeva alla fine, anche il gusto per il vin nuo­ vo era placato e i signori preferirono rinfrescarsi coi vini vecchi che il pretore aveva intanto fatto servire. Ma fu un rinfresco piuttosto eccitante, dato che subito, nel ti­ more di cadere in ozio vergognoso, fu proposto un giuoco d’azzardo. Mischiarono le carte e ognuno mise fuori un tallero ; quando però fu la volta di Strapinski, questi non avrebbe certo potuto puntare il suo ditale. «Non ho di questa moneta» mormorò arrossendo, ma già nel frat­ tempo Melcher Biffini, che non l’aveva perduto di vista, aveva puntato per lui, senza che neppure gli altri vi ba-

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dassero, troppo ricchi per concepire il sospetto che qual­ cuno a questo mondo fosse privo di denaro. Un momento dopo vennero spinte verso il sarto, rimasto vincitore, tutte le puntate; confuso egli lasciò lì il denaro e Böhni puntò per lui al secondo giro in cui vinse un altro, come pure al terzo. Ma il quarto e il quinto toccarono di nuo­ vo al polacco, che a poco a poco si ingalluzzì e capì il gioco. Serbandosi sempre tranquillo e taciturno, giocò con fortuna alterna; una volta si ridusse a un solo tallero che fu costretto a puntare, ma tornò a vincere e alla fine, quando ne ebbero abbastanza della partita, si trovò in possesso di alcuni luigi d’oro, più di quanto mai avesse posseduto in vita sua, e vedendo che ognuno intascava i suoi denari, li prese senz’altro, pur temendo ancora che fosse tutto un sogno. Böhni, che lo studiava senza posa acutamente, era ormai ben sicuro sul suo conto e si di­ ceva: “Ma costui non ha mai viaggiato in tiro a quat­ tro !”. Osservando d’altra parte che il misterioso forestiero non manifestava avidità di denaro, ma s’era anzi compor­ tato con pacato riserbo, nutrì simpatia per lui e decise di lasciar che le cose andassero per la loro strada. Il conte Strapinski, però, mentre si facevano due passi prima di cena, raccolse i suoi pensieri e ritenne fosse giunto il momento opportuno per un discreto congedo. Aveva fondi sufficienti e si propose di pagare al padrone della Bilancia, dalla prossima città, il conto per l’ottimo pranzo che gli aveva a forza largito. Si ravvolse pitto­ rescamente nel gran mantello, calcò sugli occhi il berret­ tone di pelo e s’aggirò lento al sole vespertino in un viale di alte acacie, considerando il bel paesaggio, o meglio stu­ diando la via che voleva infilare. Era proprio bello a ve­ dersi nell’ondeggiare dell’ampio mantello, con la fronte corrugata, i baffetti leggiadri e pur melanconici, i lucidi riccioli neri e gli occhi scuri ! Il riflesso del tramonto e il fruscio degli alberi completavano il quadro, così che la comitiva lo osservava di lontano con attenta benevo­ lenza. S’allontanò sempre più dalla casa, attraversò una boscaglia dietro cui passava un sentiero, e quando si sentì al riparo dagli sguardi della compagnia, stava

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appunto per avviarsi rapido attraverso ai campi, quando d’un tratto sbucò e gli si fece incontro il pretore insieme a sua figlia Nettchen. Questa era una graziosa signorina, vestita con gran lusso, un po’ troppo vistosamente e con abbondanza di gioielli. «Siamo in cerca di lei, signor conte!» esclamò il pretore «Volevo anzitutto presentarle mia figlia, e pre­ garla poi di volerci fare l’onore d’accettare una modesta cena in famiglia: gli altri signori sono già in casa». Il fuggiasco si tolse in fretta il berretto e s’inchinò ripe­ tutamente, con intimidito rispetto, mentre il volto gli si faceva di bragia. Era una nuova svolta nel suo destino: una damigella entrava sulla scena degli eventi. Ma il suo impaccio e il suo eccessivo ossequio non gli furon di danno presso quella dama; al contrario, essa trovò com­ movente, anzi addirittura affascinante la timidezza, l’u­ miltà e la devozione di un nobile signore tanto distinto e interessante. “È proprio cosi, pensò la fanciulla: quanto più uno è nobile, tanto più rimane candido e modesto. Ricordatevene, voi bellimbusti di Goldach, che quasi di­ menticate di levare il cappello in presenza di una si­ gnorina !”. Salutò quindi molto amabilmente il suo cavaliere, arrossendo con grazia e si diede subito a conversare con gran fretta di mille cose, come sogliono fare le signorine di provincia per mostrarsi mondane con i forestieri. Strapinski invece subì in breve tempo una vera trasfor­ mazione : mentre fino ad allora non aveva fatto nulla per sostenere comunque la parte impostagli, ora cominciò involontariamente a parlare con una certa ricercatezza, e a mescolare nel suo discorso qualche parola polacca; in­ somma, in vicinanza di una donna, il sangue del sartorello cominciò a far salti e a prendere la mano al suo pa­ drone. A tavola gli toccò il posto d’onore accanto alla padroncina, la madre essendo morta. Tornò, è vero, ben presto melanconico poiché pensava che avrebbe dovuto o andar con gli altri in città o svignarsela in qualche modo nella notte e capiva quanto fosse fugace la fortuna di cui in quel

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momento godeva. Tuttavia gustava quella felicità e si disse: “Pazienza, almeno per una volta in vita tua sarai stato qualcuno e avrai potuto sedere accanto a un simile essere superiore !”. Non era poca cosa infatti vedersi scintillare vicino un braccio ornato di tre o quattro braccialetti tintinnanti e scorgere a ogni occhiata di sottecchi una testolina dalla più strana e vezzosa acconciatura, che graziosamente ar­ rossiva e ricambiava gli sguardi. Qualunque cosa facesse o non facesse, tutto era interpretato come eccezionale e squisito; la sua stessa goffaggine fu giudicata segno di biz­ zarra disinvoltura da quella signorina, che di solito era capace di criticare per ore intere minimi peccati contro le convenienze sociali. Nel buonumore generale alcuni invi­ tati intonarono le canzoni che erano di moda intorno al 1840. Il conte fu pregato di cantare una canzone polacca e alla fine il vino superò la sua timidezza, se non le sue paure. Egli aveva lavorato una volta per alcune settimane in territorio polacco e conosceva alcune parole della lin­ gua, e persino una canzonetta popolare, che ripeteva però come un pappagallo, senza comprenderne il senso. Cantò quindi in polacco con nobile accento, più esitante che bal­ danzoso, con una voce in cui sembrava tremare un se­ greto tormento: Sulla Desna e sulla Vistola Centomila porci stabbiano E Kathinka, la porcella, Ci diguazza nello sterco !

Sui bei paschi di Volinia Centomila bovi mugghiano ! E Kathinka, sì Kathinka, Mi vorrebbe per suo damo ! «Bravo! Bravo!» esclamarono tutti insieme, batten­ do le mani, e Nettchen aggiunse commossa: «Ah, come sono sempre belli i canti nazionali ! ». Per fortuna nessu­ no domandò la traduzione del testo polacco. Passato quel punto culminante della serata, la compa­

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gnia si dispose a partire, il sarto venne accuratamente issato in carrozza e riportato a Goldach, non senza aver dovuto promettere che sarebbe ritornato. Alla Bilancia gli amici bevvero ancora un bicchiere di ponce, ma Stra­ pinski era sfinito e chiese di ritirarsi. Lo accompagnò l’albergatore medesimo alle sue camere, al cui lusso egli quasi non badò, malgrado fosse avvezzo a pernottare in misere camerucce d’osteria. Se ne stava lì senza nulla in mano su un ricco tappeto, quando di colpo il padrone s’ac­ corse della totale mancanza di bagaglio, e si batté la fronte. Corse fuori, suonò il campanello, facendo accorrere camerieri e facchini, confabulò con loro e tornò poi di­ cendo : — È proprio così, signor conte, hanno dimenticato di scaricare il suo bagaglio. Manca anche l’indispensabile ! — Non c’è neppure un pacchettino che avevo entro la carrozza? — domandò Strapinski preoccupato, pensando al fagottino lasciato sul sedile e contenente un fazzoletto, una spazzola per capelli, un pettine, un vasetto di pomata e un bastone di cera per barba. — Manca anche questo, non c’è proprio nulla ! — dis­ se il buon padrone spaventato, supponendo che il pac­ chetto contenesse cose della massima importanza — Biso­ gnerà mandare immediatamente un messo in cerca del cocchiere, — aggiunse zelante — ci penserò io ! Ma il signor conte, non meno spaventato, lo trattenne per un braccio e gli disse con voce commossa : — Lasci stare, non lo faccia ! Conviene che per qualche tempo si perdano le mie tracce — aggiunse poi, sorpreso egli stesso della sua trovata. L’oste scese meravigliato dai vecchi clienti che stavano ancora bevendo il ponce e narrò loro l’incidente, conclu­ dendo con l’ipotesi che il conte fosse senz’altro vittima di una persecuzione politica o familiare. In quei tempi ap­ punto molti Polacchi venivano espulsi dal paese per azio­ ni violente, mentre taluni invece erano spiati o irretiti da agenti stranieri. Strapinski fece un’ottima dormita e destandosi molto tardi vide per prima cosa, distesa su una sedia, la lussuosa

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veste da camera domenicale dell’oste, nonché un tavo­ lino gremito di tutti i più impensabili oggetti di toeletta. Vi erano poi ad attenderlo parecchi domestici che reca­ vano cesti e valigie piene di biancheria, di abiti, di sigari, di libri, di stivali, di scarpe, di sproni, di scudisci, di pel­ licce, di berretti, di cappelli, di calze e calzerotti, di pipe, di flauti e violini: eran tutti mandati dagli amici della vigilia, con la preghiera vivissima di volersi tempora­ neamente servire di tali comodità! Essendo trattenuti dai loro affari nelle ore antimeridiane, quei signori prean­ nunciavano le loro visite per il pomeriggio. Quei signori non erano per nulla ridicoli o ingenui, era­ no al contrario abili uomini d’affari, più furbi che igno­ ranti ; ma poiché la loro cittadina troppo piccola li annoia­ va, avevano sempre la smania d’una varietà, d’un qua­ lunque avvenimento a cui potersi dedicare senza riserve. La carrozza a due pariglie, l’arrivo del forestiero, il suo gran pranzo, le rivelazioni del cocchiere, erano fatti tanto semplici e naturali che gli abitanti di Goldach, non av­ vezzi a perder tempo con inutili sospetti, ci si appoggia­ rono come su una salda roccia. Quando Strapinski vide il magazzino di merci che gli si stendeva dinanzi, ebbe come primo istinto il bisogno di mettere la mano in tasca, per capire se sognava o era de­ sto. Se in tasca c’era ancora solitario il suo ditale, tutto era un sogno. Ma no, il ditale s’affratellava col denaro guadagnato al giuoco, strusciandosi amichevolmente coi talleri ! Allora anche il suo padrone si rassegnò alla realtà, uscì dalle sue camere e scese in istrada per visitare quella città dove aveva tanta fortuna. Sulla porta della cucina c’era la cuoca che gli fece un profondo inchino e lo seguì con uno sguardo di viva compiacenza; nell’atrio e sulla porta d’ingresso stavano altri addetti all’albergo, tutti col berretto in mano, e Strapinski uscì dignitoso e modesto, raccogliendo con aria ammodo le pieghe del suo mantello. Il destino lo rendeva ad ogni minuto più grande. Visitò la città con occhi ben diversi che se l’avesse gi­ rata in cerca di lavoro. Essa consisteva in gran parte di begli e solidi edifici ornati da immagini scolpite o dipinte

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e muniti tutti di un nome. In tali denominazioni delle ca­ se si rivelava chiaramente il costume dei diversi secoli. Il Medio Evo si rispecchiava nelle più antiche oppure nelle modernissime che avevano sostituite quelle vecchie con­ servando il vecchio nome dall’epoca delle leggende e dei bellicosi scabini. Si chiamavano per esempio : Alla Spada, All’Elmo, Alla Corazza, Alla Balestra, Allo Scudo Az­ zurro, Alla Daga Svizzera, Al Cavaliere, Alla Pietra Fo­ caia, Al Turco, Al Mostro di Mare, Al Drago d’Oro, Al Tiglio, Al Bordone, Alla Sirena, All’Uccello del Paradiso, Al Melograno, Al Liocorno e simili. L’epoca dell’illumi­ nismo umanitario era facile a riconoscersi nei concetti morali che spiccavano in belle lettere d’oro su certe porte, per esempio : Alla Concordia, All’Onestà, All’Antica Indi­ pendenza, Alla Nuova Indipendenza, Alla Virtù Civile A, Alla Virtù Civile B, Alla Fiducia, All’Amore, Alla Spe­ ranza, All’Allegria, A Rivederci numero 1 e 2, Alla Giu­ stizia Interiore, Alla Giustizia Esteriore, Al Bene del Paese (una casetta linda, dove sedeva, accanto a una gab­ bietta da canarini tutta inghirlandata di crescione, una graziosa vecchina dalla cuffietta bianca intenta a filare lino), Allo Statuto (vi abitava un bottaio, il quale metteva cerchi con gran fracasso e zelo a secchi e botticelle, mar­ tellando senza posa) ; una casa aveva il terrificante nome : Alla Morte, e un immenso scheletro sbiadito si tendeva dal basso sino alle finestre più alte, e ivi abitava il giudice conciliatore. Nella casa della Pazienza viveva l’esattore dei crediti, un poveraccio sempre affamato, perché in quella città nessuno aveva debiti. Negli edifici più recenti infine si rivelava la poesia dei fabbricanti, dei banchieri, degli spedizionieri e dei loro imitatori coi nomi sonori di: Valle di Rose, Valle del Mattino, Monte del Sole, Rocca delle Viole, Giardino di Giovinezza, Monte della Gioia, Valle di Enrichetta, Alla Camelia, Rocca di Guglielmina, e simili. Le valli e le rocche dedicate a nomi femminili significavano sempre per il bene informato una cospicua sostanza portata in dote. Ad ogni angolo di strada v’era una vecchia torre, con

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orologio, tetto variopinto e banderuola dorata. Queste torri erano conservate con gran cura, perché a Goldach ci si compiaceva a buon diritto così del passato che del presente. Tutto quello splendore però era limitato da bastioni circolari che, per quanto non servissero ormai a nulla, erano serbati per bellezza, tutti ravvolti di vecchia edera e formanti una fìtta ghirlanda sempreverde attor­ no all’intera cittadina. Tutto ciò fece una singolare impressione a Strapinski, che si credette trasportato in un mondo nuovo. Leggendo le iscrizioni delle case, quali non ne aveva mai vedute, si persuase che si riferissero ai particolari segreti e costumi di ciascun edifìcio e che dietro ogni porta si vivesse in realtà secondo quei motti, tanto che stava per immergersi in una specie di utopia morale. Era indotto a credere che la strana accoglienza incontrata fosse a tutto questo connessa, che, per esempio, il simbolo della bilancia della sua locanda volesse dire che lì si soppesava e si compensava l’ingiusto destino, trasformando talvolta un sartorello va­ gabondo in un conte. Durante la sua peregrinazione giunse oltre le porte del­ la cittadina e, vedendosi dinanzi l’aperta campagna, gli si presentò per l’ultima volta il doveroso proposito di ri­ prendere senz’altro il cammino. Splendeva il sole, la stra­ da era bella, solida, non troppo arida e non troppo umida, proprio fatta per una buona marcia. Aveva anche un gruzzolo in tasca e avrebbe potuto ristorarsi a suo pia­ cere, così che non sussisteva ostacolo alcuno. Se ne stava a un vero crocicchio come Ercole al bivio; dalla corona di tigli che circondava la città salivano ospi­ tali colonne di fumo, le palle dorate delle torri occhieg­ giavano luccicanti in mezzo alle fronde; felicità, godi­ mento, colpevolezza e un destino misterioso lo chiamava­ no di qua; dall’altra parte lo allettava la libera ampiezza dei campi, l’attendevano lavoro, rinunce, povertà e oscu­ rità, ma anche la coscienza tranquilla e un cammino sereno. Ben rendendosene conto egli stava per avviarsi de­ ciso verso la pianura, quando nello stesso istante gli passò rapida accanto una carrozza: era la signorina della vi-

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gilia che, seduta tutta sola in un elegante calessino, con un gran velo azzurro ondeggiante, guidava un bel cavallo, diretta verso la città. Appena Strapinski si tolse il ber­ retto, portandolo umilmente e tutto sorpreso sino al petto, la fanciulla chinò il capo verso di lui facendosi tutta rossa e sparì poi molto emozionata lanciando il cavallo al galoppo. Ma allora Strapinski involontariamente fece dietro­ front e s’avviò rincuorato in città. Quello stesso giorno galoppava poi sul miglior cavallo della città, alla testa di tutto un gruppo di cavalieri, lungo il viale che segue i verdi bastioni, e le foglie di tiglio, cadendo, danzavano come una pioggia d’oro attorno al suo capo trasfigurato. Ormai lo spirito l’aveva invasato: si trasformava di giorno in giorno al pari di un arcobaleno, sempre più multicolore man mano che sale il sole. Apprese in poche ore, in pochi momenti, quello che altri non imparano in anni, perché tutto era già insito in lui, come l’essenza dei colori nella goccia di pioggia. Osservò attentamente i modi dei suoi ospiti e osservandoli li trasformò in qual­ cosa di nuovo e di esotico. Cercò soprattutto di intuire quello che essi pensavano veramente di lui e l’immagi­ ne che se ne facevano, ed elaborò poi quell’immagine a proprio gusto, con compiacenza e soddisfazione degli uni, smaniosi di novità, e con stupore di altri, specialmen­ te delle donne, assetate di esempi edificanti. Divenne così ben presto l’eroe di un amabile romanzo al quale collaborava fervidamente tutta la città, il cui nucleo tutta­ via rimaneva sempre un mistero. Ciò malgrado Strapinski passava, come non gli era mai accaduto nei suoi tempi oscuri, le notti insonni, e bisogna ammettere e deplorare che lo tenevano desto tanto la paura dello scandalo nel caso l’avessero scoperto povero sartorello quanto i morsi della coscienza. Il suo bisogno innato di apparire persona graziosa ed eccezionale, sia pure soltanto nella scelta delle vesti, l’aveva portato a questo conflitto e provocava così il suo terrore, mentre la coscienza riusciva soltanto a suggerirgli il continuo pro­ posito di cercare al momento buono un pretesto per par­

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tire e di guadagnare poi a una lotteria o in modo ana­ logo i mezzi per restituire da una misteriosa lontananza le somme di cui veniva truffando gli ospitali goldachesi. Si faceva intanto mandare, da tutte le città dove si tenevano lotterie, cartelle di più o meno modesto va­ lore, e la corrispondenza derivatane, l’arrivo di molte lettere, fu a sua volta interpretato come sintomo delle sue alte relazioni. Aveva già guadagnato più d’una volta alcuni fiorini, in­ vestendoli subito nell’acquisto di nuove cartelle, quando un giorno, da un collettore forestiero che si faceva però chiamar banchiere, ricevette una somma cospicua, suf­ ficiente all’attuazione dei suoi piani di salvamento. Non era ormai più stupito della propria fortuna, che gli pareva cosa ovvia, tuttavia provò un gran sollievo, specialmente nei riguardi dell’ottimo albergatore, verso il quale in grazia del buon trattamento nutriva gran simpatia. Ma invece di troncare ogni impegno, di pagar senz’altro i suoi debiti e partire, pensò di fingere un breve viaggio d’af­ fari e di annunciare poi da qualche grande città come l’inesorabile destino gli vietasse il ritorno. In quel modo avrebbe soddisfatto i suoi obblighi, lasciato buona me­ moria di sé e si sarebbe di nuovo dedicato al suo mestiere di sarto con maggior accortezza e fortuna, oppure avrebbe fors’anche trovato un’altra rispettabile carriera. In fondo gli sarebbe piaciuto restarsene a Goldach, sia pure come sarto, e avrebbe ormai avuto i mezzi per fondare una modesta esistenza, ma era chiaro che in quella città non poteva vivere che da conte. La visibile preferenza e simpatia che gli manifestava in ogni occasione la bella Nettchen, avevano già provo­ cato non pochi commenti, ed egli aveva persino osservato che la signorina veniva chiamata di quando in quando la contessa. Ma come avrebbe potuto causare a quella crea­ tura sì triste sorpresa? Come smentire il destino che l’ave­ va di colpo innalzato, svergognando se stesso? Dal suo collettore di lotterie, pseudobanchiere, aveva ricevuto un assegno che riscosse in una banca di Goldach, e tale operazione consolidò le benevole opinioni circolanti

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sulla sua persona e sulle sue condizioni, giacché quei solidi commercianti erano ben lungi dal pensare a premi o a lotterie. In quella stessa giornata Strapinski si recò a un fastoso ballo al quale era stato invitato. Si presentò tutto vestito di nero e comunicò subito a chi lo salutava che era costretto a partire. Dieci minuti dopo la notizia s’era diffusa fra tutti gli invitati e Nettchen, il cui sguardo Strapinski cercava an­ siosamente, parve volerlo evitare esterrefatta, impalliden­ do e arrossendo. Ballò poi più volte di seguito con alcuni giovanotti, sedette quindi distratta e ansimante e ri­ fiutò un invito del polacco, che le si era finalmente ac­ costato, con un cenno breve, senza neppure guardarlo. Quegli se ne andò singolarmente preoccupato e dolente, ravvolto nel suo celebre mantello e si mise a passeggiare in su e in giù, con i riccioli al vento, in un viale del giar­ dino. Si rese conto allora che in fondo era rimasto tanto tempo a Goldach soltanto per quella donna, inconscia­ mente spintovi dall’imprecisa speranza di starle vicino, ma che tutta l’avventura non era che una follia delle più disperate. Mentre così camminava, udì alle spalle rapidi passetti, lievi e tuttavia inquieti. Era Nettchen che gli passava accanto e che, a giudicare dalle parole da lei gridate, era in cerca della sua carrozza, la quale però si trovava dalla parte opposta della casa, mentre lì non c’erano che cavoli invernali e cespugli di rose ben ravviluppati immersi nel sonno dei giusti. La fanciulla ritornò poi sui suoi passi e, incontrandosi con lui che col cuore in tumulto le tendeva le mani imploranti, gli cadde senz’altro tra le braccia, scoppiando in doloroso pianto. Egli coperse le sue guance ardenti coi suoi lunghi e bruni riccioli profumati, e il mantello ravvolse la snella, candida e superba figura della ragazza fra due nere ali di aquila: era un quadro veramente splendido, che pareva recare la propria giusti­ ficazione soltanto in se stesso. Ma Strapinski in quell’avventura perdette la ragione e conquistò invece la fortuna, che è spesso benigna ai meno ragionevoli. Nettchen infatti quella stessa notte, mentre

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tornava a casa, rivelò a suo padre che nessun altro fuorché il conte polacco avrebbe potuto diventare suo sposo, e il conte l’indomani si presentò a chiederne la mano con la solita sua grazia timida e melanconica. Il genitore gli ten­ ne il seguente discorso : « Ecco che si adempiono la sorte e il volere di quella pazzerella ! Già da piccina dichiarava a tutti che avrebbe sposato soltanto un italiano o un po­ lacco, un gran pianista o un capo di briganti con dei bei riccioli! Ora ci siamo! Ha rifiutato i migliori partiti del paese, anche poco tempo fa dovetti deludere il bravo Melcher Böhni, che farà ottima carriera in affari, ma che essa ha disprezzato solo perché ha la barbetta rossastra e annusa tabacco da una tabacchiera d’argento! Dio sia lodato che ci arriva dalla più remota lontananza un conte polacco! Se la prenda pure quest’ochetta, signor conte, e me la rimandi a casa se mai un giorno nella sua Polonia patirà troppo freddo, si sentirà infelice e si metterà a piagnucolare! Ahimè, come sarebbe stata esultante la sua povera mamma, se avesse potuto vedere quella sua bimba viziata diventare contessa!». Vi fu gran confusione in casa e fu deciso di celebrare pochi giorni dopo il fidanzamento, poiché il pretore so­ steneva che il futuro genero non doveva lasciarsi osta­ colare negli affari e nei viaggi già predisposti a cagione delle nozze, ma anzi conveniva li sbrigasse subito, affret­ tando il matrimonio. Strapinski per il fidanzamento offrì alla sposa dei regali che dimezzarono il suo patrimonio, mentre l’altra metà servì a una festa che intendeva dare in onore della fi­ danzata. Era carnevale e il cielo serbatosi limpido of­ friva un tardo inverno luminoso. Le strade gelate offri­ vano ottime piste da slitta, come di rado capita, così che il conte Strapinski pensò di organizzare una corsa di slitte e un ballo nella splendida locanda preferita per tali feste, posta su un altipiano con bella vista a circa due ore di cammino, a mezza strada fra Goldach e Seldwyla. Si diede il caso che proprio in quei giorni il signor Böhni avesse da sbrigare degli affari a Seldwyla, dove si recò in una piccola slitta pochi giorni prima della gran

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festa, fumando il migliore dei suoi sigari, e si diede pure il caso che anche i Seldwylesi organizzassero per la stessa giornata una festa in costume e un corteo di maschere per quella stessa località. Il corteo di slitte di Goldach partì attraversando la città verso il mezzogiorno, fra gran chiasso di sonagli, di trombe e di fruste, mentre dalle facciate delle antiche case le immagini simboliche guardavano stupite. Nella prima slitta stava Strapinski con la sposa, indossando una giacchetta alla polacca di velluto verde ad alamari, foderata e riccamente guarnita di pelliccia. Nettchen era avvolta in una pelliccia candida e aveva il volto coperto da veli azzurri a riparo dall’aria fredda e dal riflesso della neve. Il pretore era stato trattenuto da un improvviso contrattempo e gli sposi erano nella sua slitta, trainata da una bella pariglia e adornata da una donna dorata, una statuina raffigurante la Fortuna, dato che la dimora del pretore aveva appunto il nome di Casa della Fortuna. Seguivano quindici o sedici slitte, ciascuna con una coppia, tutte allegre e bene adorne, nessuna però tanto bella ed elegante come quella degli sposi. Ogni slitta re­ cava, come si usa per le navi, l’emblema della casa rispet­ tiva, tanto che la folla vedendole esclamava : « Guardate, arriva il Valore ! Come è bello il Lavoro ! La Concordia è stata riverniciata a nuovo, e il Risparmio l’hanno do­ rato ! Guarda la Fontana di Giacobbe e la Piscina di Bethesda ! ». Nella Piscina di Bethesda, modesta slitta a un cavallo che chiudeva il corteo, c’era Melcher Böhni, pacifico e contento. Aveva come stemma del suo veicolo il ritratto di un omino ebreo che aveva saputo aspettare trent’anni la salute sulle rive del succitato laghetto. Così la squadra navigò nel sole e apparve ben presto sull’altura scintillante, avvicinandosi alla sua meta. Ma in pari tem­ po echeggiò dalla direzione opposta un’allegra musi­ chetta. Da un boschetto brinato fece irruzione un ammasso va­ riopinto di colori e di figure che snodandosi formò un corteo di slitte e si disegnò nitido lungo il margine can­ dido dei campi sul cielo azzurro, scivolando esso pure ver­

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so il centro della regione, con fantastico effetto. Parevano per lo più grandi e rustiche slitte da carico, legate a due a due per sorreggere strani fantocci. Sul primo veicolo si ergeva una statua colossale rappresentante la dea Fortuna pronta a spiccare il volo nell’etere. Era un gigantesco bambolotto di paglia tutto orpelli luccicanti con le vesti di velo svolazzanti al vento. Sul secondo carro c’era un caprone non meno colossale, fosco e nero, che inseguiva a corna abbassate la Fortuna. Veniva poi una strana costruzione che rappresentava un gran ferro da stiro alto quindici piedi e immense forbici spalancate che si chiu­ devano e si aprivano tirate da una corda, quasi volessero adoperare il cielo come tessuto di seta per un panciotto azzurro. Seguivano altre allusioni popolari alla professio­ ne del sarto. Ai piedi delle figure, su delle spaziose slitte trainate da due pariglie, stavano i Seldwylesi con le ma­ schere più varie, ridendo e cantando sonoramente. Quando i due cortei arrivarono contemporaneamente sulla piazza prospiciente la locanda, ci fu gran confu­ sione e grande intrico di uomini e di cavalli. I Goldachesi erano sorpresi e stupiti dell’incontro avventuroso; qùelli di Seldwyla, invece, assunsero a tutta prima un tono di modesta cordialità. La loro prima slitta con la dea For­ tuna recava l’iscrizione «L’uomo fa l’abito» e si comprese poi che l’intera brigata coi suoi costumi raffigurava sarti di tutti i paesi e di tutte le epoche. Era in certo modo un grandioso corteo storico-etnografico di quell’arte e si chiu­ deva con un’altra iscrizione esplicativa: «L’abito fa l’uo­ mo». Nell’ultimo carro recante tale scritta figuravano in­ fatti, quale frutto del lavoro di sartoria dei pagani e cri­ stiani di prima, venerandi imperatori e re, magistrati e alti ufficiali, prelati e badesse estremamente dignitose. Tutto quel mondo delle forbici seppe allinearsi ordina­ tamente nella confusione, lasciando modestamente che i signori e le dame di Goldach, con la coppia di fidanzati in testa, entrassero nella locanda, per occupare dopo di essi le sale a pian terreno già loro riservate, mentre gli altri salivano l’ampia scala e prendevano possesso del sa­ lone da ballo. Gli ospiti del signor conte trovarono tale

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contegno molto corretto e la loro sorpresa si trasformò così in allegra compiacenza per l’inesauribile buon umore dei Seldwylesi. Soltanto il conte nutriva cupi presagi che non gli garbavano affatto, benché in questo presentimento dell’animo suo non concepisse ancora un preciso sospetto e non si rendesse neppur conto di dove venisse tutta quella gente. Melcher Böhni, che aveva messo accuratamente al riparo la sua Piscina di Bethesda e si teneva alle costole di Strapinski, aveva dichiarato ad alta voce, perché quello lo sentisse, che il gran corteo mascherato proveniva da tutt’altra cittadina. Poco dopo le due comitive, ciascuna al proprio piano, sedevano alle tavole imbandite scambiando allegri di­ scorsi e scherzi vivaci in attesa di gioie ulteriori. Queste si annunziarono presto per i signori di Goldach, appena passarono a coppie nel salone, dove già i musi­ canti accordavano i loro violini. Mentre tutti eran disposti in cerchio e stavano per formare le coppie del ballo, si presentò un’ambasceria dei Seldwylesi con la richiesta e la proposta cordiale di render visita ai signori e alle dame di Goldach, offrendo per loro diletto lo spettacolo di una danza figurata. Non si poteva agevolmente ricusare tale offerta e per di più dagli allegri Seldwylesi ci si ripro­ metteva un buon divertimento. Tutti si posero quindi, su indicazione degli ambasciatori, in gran semicerchio, al cui centro brillavano quali astri principeschi il conte Strapinski e la sua Nettchen. Avanzarono l’uno dopo l’altro i gruppi di sarti già de­ scritti. Ciascuno interpretava con graziosa pantomima il motto «L’uomo fa l’abito» e anche il suo contrario. Essi infatti prima fingevano di confezionare con gran zelo un indumento fastoso, per esempio un manto principesco o una pianeta sacerdotale e cose simili, vestendone poi un poveraccio che, trasformato di colpo, si dava grandi arie e si metteva a marciare solennemente al suono della mu­ sica. Vennero interpretate allo stesso modo anche alcune storie di animali ; comparve cioè una gran cornacchia che adornata di penne di pavone ballonzolava attorno grac­ chiando, poi un lupo che si aggiustava addosso una pelle

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di pecora e alla fine un asino con un terribile vello di leone fatto di stoppa, in cui si drappeggiava con piglio eroico come in un mantello di carbonaro. Tutti, dopo la loro pantomima, si ritirarono, dispo­ nendosi in modo che il semicerchio dei Goldachesi si tra­ sformò in un gran circolo di spettatori vuoto al centro. In quel momento la musica passò ad una melodia seria e me­ lanconica e intanto si fece avanti una figura su cui con­ versero tutti gli occhi. Era uno snello giovanotto con un mantello scuro, bei riccioli neri e un berretto alla polacca; non era altri che il conte Strapinski, cosi come in quella giornata di novembre camminava per lo stradone prima di salire sul fatale equipaggio. L’intera compagnia, senza una parola, come incantata, fissava la maschera, che accennò con solenne austerità al­ cuni passi al ritmo della musica e, messasi poi al centro del circolo, distese a terra il suo mantello, vi si accoccolò nella posa caratteristica dei sarti e aprì il suo fagotto. Ne trasse una giacca da conte quasi pronta, simile in tutto a quella che indossava Strapinski alla festa, vi cucì con gran furia e abilità fiocchi e passamani, la stirò a regola d’arte, fingendo di provare il ferro scottante con le dita timide. Poi si alzò lentamente, si tolse il giacchettino sdruscito, infilò l’abito fastoso, trasse uno specchietto per pettinarsi e accomodarsi meglio, e finì per riprodurre l’esatta immagine del conte. Immediatamente la musica assunse un ritmo vivace, l’uomo raccolse le sue robe nel mantello e lanciò l’involto in un angolo della sala, al di sopra delle teste degli ospiti, quasi per staccarsi total­ mente dal suo passato. Dopo di che percorse con abili passi di danza tutto il circolo in atteggiamento nobile e altero, inchinandosi benevolmente ora all’uno ora al­ l’altro, finché giunse di fronte ai due fidanzati. D’un tratto ficcò gli occhi con immenso stupore in faccia al polacco e gli si piantò dinanzi fermo come una statua, mentre, come per un’intesa, la musica s’interrompeva e subentrava, come un fulmine senza rumore, un silenzio terrificante. «Guarda, guarda!» esclamò con voce ben distinta,

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puntando l’indice verso l’infelice «guarda il caro fra­ tello di Slesia, il nostro polacco di Polonia ! Mi ha pian­ tato in asso, credendo che per una piccola crisi com­ merciale io fossi bell’e spacciato ! Mi fa piacere vederlo in tanta allegria festeggiare un così bel carnevale ! Ha forse trovato lavoro a Goldach?» Così dicendo porse la mano al falso conte, che se ne stava lì con un pallido sorriso, e che passivamente la prese quasi fosse una sbarra arroventata, mentre il suo sosia riprendeva: «Venite amici, guardate il nostro dol­ ce lavorante: sembra un Raffaello e piaceva per questo alle nostre servette, persino alla figlia del pastore, che però è un po’ pazzerella ! ». Sopravvennero allora tutti i Seldwylesi affollandosi in­ torno a Strapinski e al suo antico padrone e strinsero tutti cordialmente la mano al conte in modo da farlo vacillare e tremare sulla sedia. La musica riprese intanto con una energica marcia e i Seldwylesi, dopo essere passati da­ vanti alla coppia dei fidanzati, si allinearono per l’uscita e uscirono marciando e cantando un ben strumentato e diabolico coro di risate, mentre quelli di Goldach, rapi­ damente illuminati da Böhni sul fatto stupefacente, si uni­ vano disordinatamente e in gran tumulto ai partenti. Cessato il disordine, il salone apparve quasi vuoto ; sol­ tanto pochi, tenendosi accanto alle pareti, confabulavano tra loro perplessi; alcune giovani dame esitavano, non molto discoste da Nettchen, se dovessero avvicinarla o no. I due sposi rimasero seduti, immobili, sulle due sedie, come una coppia di faraoni egiziani di pietra, silenziosi e isolati: pareva di sentire attorno l’immensa e ardente distesa del deserto sabbioso. Nettchen, bianca come marmo, volse lentamente il viso verso il fidanzato, guardandolo in modo strano. Egli allora s’alzò lento e uscì a passi grevi, chinando a terra gli occhi da cui cadevano fitte lagrime. Attraversò i gruppi dei Goldachesi e dei Seldwylesi che affollavano le scale, come il fantasma di un morto che s’allontani da una festa, e tutti lo lasciarono passare proprio come fosse un morto, cedendogli il passo senza

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ridere né insultarlo. Andò oltre le slitte e i cavalli di Gol­ dach, già pronti alla partenza, mentre quelli di Seldwyla si disponevano a spassarsela ancora un bel po’, e continuò a camminare quasi incoscientemente, col solo istinto di non ritornare più a Goldach, avviandosi cioè per la strada di Seldwyla, dalla quale era giunto alcuni mesi prima. Scomparve ben presto nell’oscurità del bosco per cui passava lo stradone. Era a capo scoperto, avendo la­ sciato il berrettone di pelo e i guanti sullo sporto d’una finestra, nel salone da ballo; camminava quindi a capo chino, riparando le mani gelide sotto le braccia conserte, mentre tentava di raccogliere e di ordinare i suoi pensieri. Il primo sentimento di cui ebbe coscienza fu quello d’una tremenda vergogna, quasi egli fosse stato veramente un uomo di alta situazione rovinato da un’improvvisa e fa­ tale sciagura. Questa vergogna si trasformò poi nel vago senso di aver subito un’ingiustizia. Egli infatti, sino al­ l’arrivo fastoso in quella città incantata, non era mai in­ corso in colpa alcuna : per quanto i suoi ricordi risalissero sino alla fanciullezza, non rammentava di essere mai stato punito o rimproverato per un inganno o una bugia; ed eccolo invece diventato un imbroglione per il fatto che la stoltezza umana l’aveva per così dire assalito in un istante di inerme distrazione, facendone il suo trastullo. Gli parve d’essere un bambino che sia stato indotto da un perfido compagno a rubare il calice da un altare : si odiava e si disprezzava, ma nel tempo medesimo aveva pietà di se stesso e del suo sciagurato traviamento. Quando un principe si appropria terre e popolazioni, quando un sacerdote professa senza convinzione la dot­ trina della sua chiesa, ma ne consuma i benefici con dignità; quando un presuntuoso docente accetta e gode gli onori e i vantaggi di un’alta cattedra senza avere il minimo concetto della nobiltà della sua disciplina e senza farla minimamente progredire; quando un artista senza valore riesce a diventar di moda con la sua leggerezza e il suo vacuo istrionismo, rubando il pane e la fama al vero lavoro; quando infine un imbroglione, avendo ereditato o comunque acquisito un gran nome commerciale, truffa

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con le sue pazzie e la sua mancanza di coscienza i rispar­ mi e i gruzzoli di innumerevoli persone, tutti costoro non piangono su di se medesimi, ma al contrario si compiac­ ciono della propria fortuna e non trascorrono una serata senza allegra compagnia di buoni amici. Il nostro sartorello invece piangeva amaramente su se stesso, o meglio cominciò a farlo quando i suoi pensieri, superati parecchi anelli della pesante catena che li incep­ pava, giunsero d’improvviso alla Sposa abbandonata e lo lasciarono umiliato ai piedi della donna lontana. La sven­ tura e la vergogna gli rivelarono con una luce improvvisa la felicità perduta e trasformarono il confuso peccatore superficialmente innamorato in un amante ripudiato. Egli tese le braccia verso la fredda luce delle stelle e continuò barcollante per la sua strada, fermandosi di tanto in tanto e scotendo il capo. All’improvviso un riflesso ros­ sastro colorò la neve intorno a lui, mentre si udì un tintin­ nar di sonagli e scoppi di risa. Erano i Seldwylesi che tor­ navano a casa con slitte e fiaccole. Già gli erano alle spalle i primi cavalli, quando egli trovò l’energia di portarsi con un salto da un lato della strada, andando a rifugiarsi dietro i primi tronchi del bosco. Lo sfrenato corteo passò oltre svanendo nell’oscurità, senza scoprire il povero fug­ giasco, e questi, dopo essere rimasto per un buon tratto immobile in ascolto, sopraffatto dal freddo e anche dalle bibite eccitanti bevute poco prima, nonché dal cruccio per, la propria stupidità, si lasciò cadere a terra e s’ad­ dormentò sulla neve scricchiolante, mentre da oriente s’alzava un gelido venticello. Nel frattempo anche Nettchen s’alzava dalla sua pol­ trona solitaria. Aveva attentamente seguito con lo sguar­ do lo sposo che usciva, ma poi era rimasta lì immobile per più di un’ora e adesso scoppiò a piangere amara­ mente e si avviò disorientata verso la porta. Due amiche le si accostarono con ambigue parole di conforto. Essa le pregò di portarle il mantello, gli scialli, il cappello e così via, li indossò poi, sempre muta, asciugandosi impetuosa­ mente gli occhi col velo. Ma poiché chi piange è di solito costretto anche a soffiare il naso, dovette cavare il fazzo­

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letto e darsi un’energica soffiata, girando attorno uno sguardo d’irosa alterigia. Con quell’occhiata incontrò Melcher Biffini, il quale le si avvicinò subito con un sor­ riso umilmente cordiale, dicendole che le occorreva avere un accompagnatore e una guida per il ritorno alla casa paterna. Aggiunse che avrebbe lasciato lì alla locanda la sua Piscina di Bethesda, riaccompagnando la stimatissima e sventurata amica sino a Goldach sulla Fortuna. Nettchen senza rispondergli lo precedette con passo energico giù nel cortile dove già l’aspettava la slitta, una delle ultime rimaste, coi cavalli ben pasciuti e impa­ zienti. Vi salì rapida, afferrò le redini e la frusta, e men­ tre Biffini, senza badarle, dandosi grandi arie soddisfatte, traeva di tasca la mancia per lo stalliere che aveva prov­ veduto ai cavalli, essa frustò le bestie e partì veloce, con grandi balzi che si trasformarono presto in un regolare galoppo. Non si diresse però verso la città natale, bensì per lo stradone di Seldwyla. Solo quando l’agile slitta era svanita ai suoi sguardi, il signor Biffini se ne accorse e le corse dietro, in direzione di Goldach però, lanciando grandi grida per arrestarla, poi ritornò e con la sua slitta si diede all’inseguimento della dama, a suo parere non fuggita, ma involontariamente trascinata via dai cavalli. Giunse così sino alle porte della cittadina in subbuglio, dove lo scandalo aveva già messo in moto tutte le lingue. Perché mai Nettchen avesse scelto quella via, se di propo­ sito o per mera confusione, non è facile a stabilirsi. Due cir­ costanze possono gettare un po’ di luce. In primo luogo il berretto di pelliccia e i guanti di Strapinski, rimasti sulla finestra dietro le poltrone dei due sposi, giacevano ora sul sedile della Fortuna accanto alla guidatrice: come e quando essa avesse raccolto quegli oggetti, era sfuggito a tutti e forse a lei medesima, che aveva agito quasi come una sonnambula. Ancora in quel momento non si rendeva conto di averli accanto. Andava inoltre ripetendosi di con­ tinuo : “Bisogna che gli dica due parole, due parole sole !”. Questi due fatti sembrano dimostrare che non era stato il caso a guidare gli ardenti destrieri. Fu pure strano che, appena la Fortuna s’awiò per il bosco ora illuminato dalla

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luce lunare, Nettchen moderò la corsa dei cavalli e tirò le redini, facendoli procedere quasi al passo, mentre la guidatrice fissava ansiosamente i suoi occhioni tristi ma acuti sulla strada, non trascurando né a destra né a si­ nistra il minimo particolare. Nello stesso tempo però l’animo suo era immerso in un profondo e doloroso smarrimento: che cosa sono mai la fortuna e la vita ! Da che dipendono? Che cosa siamo noi stessi, se una meschina e ridicola beffa carnevalesca ci può rendere felici o sventurati? Qual è la nostra colpa, per meritarci la vergogna e la disperazione in cambio di un affetto fiducioso e sereno? Chi ci manda questi fantasmi ingannatori, che sconvolgono il nostro destino, dissolven­ dosi al pari di tenui bolle di sapone? Tali angosciose domande, piuttosto sognate che for­ mulate, occupavano l’anima di Nettchen, quando i suoi occhi scorsero d’un tratto un oggetto lungo e scuro che spiccava a un lato della strada sulla neve scintillante nel chiarore lunare. Era proprio il povero Wenzel, i cui riccioli scuri si confondevano con le ombre degli alberi, mentre la snella figura spiccava ben distinta nella luce. Nettchen fermò istintivamente i cavalli, col che un pro­ fondo silenzio invase la foresta. Continuò a guardare quel corpo abbandonato, finché esso fu fuor di dubbio ricono­ scibile al suo occhio perspicace, e delicatamente allora fissò le redini, scese dalla slitta, acquietò i cavalli con una carezza e si avvicinò poi tacita e cauta al dormiente. Era proprio lui. Il velluto verde cupo della giacca spic­ cava bello ed elegante persino sulla neve nella notte; la snella persona dalle agili membra, ben attillata e ornata, sembrava proclamare anche nell’immobilità, nell’abban­ dono, sull’orlo della rovina: «L’abito fa il monaco». Quando la bella solitaria si curvò meglio su di lui, ri­ conoscendolo definitivamente, s’accorse anche subito del pericolo in cui versava la sua vita e temette che fosse ormai assiderato. Gli afferrò una mano, che le parve gelida e inerte. Dimentica di ogni riguardo, si diede a scuotere il poveretto gridandogli all’orecchio: «Wenzel! Wen­ zel ! ». Ma fu inutile ; quello non si mosse, respirando solo

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debolmente e tristemente. Nettchen allora gli si buttò addosso, gli passò la mano sul volto e nella sua angoscia diede energici schiaffetti alla punta sbiancata del suo naso. Questo le suggerì l’ottimo pensiero di prendere delle manate di neve e di sfregargli con energia naso, fac­ cia e mani, sinché quel fortunato infelice si riebbe, si ri­ destò e a poco a poco si rizzò in piedi. Guardandosi attorno scorse la sua salvatrice, che aveva buttato all’indietro il velo, così che riconobbe ogni tratto del volto pallidissimo intento a fissarlo con occhi sbarrati. Wenzel le si gettò ai piedi baciandole l’orlo del man­ tello e gridando: — Perdonami ! Perdonami ! — Vieni, forestiero ! — disse lei con voce vibrante e repressa — voglio parlar con te e poi ti farò partire ! Gli accennò di salire sulla slitta, il che egli fece ob­ bediente; gli porse il berretto e i guanti, macchinalmente come li aveva presi con sé, afferrò le redini e la frusta e ripartì. Oltre il bosco, non lontano dallo stradone, c’era la fat­ toria di una contadina rimasta vedova da poco. Nettchen aveva tenuto a battesimo uno dei suoi bimbi, e suo padre era il padrone dei terreni. La donna si era recata di re­ cente da loro, in città, per far gli auguri alla sposa e chie­ der qualche consiglio, e certamente non poteva ancora avere notizia della mutata situazione. Nettchen, deviando dallo stradone, s’avviò verso quella casa e si fermò con una buona schioccata di frusta. Trape­ lava luce dalle finestrelle, poiché la contadina lavorava ancora dopo che i bimbi e i servi dormivano da un pezzo. Aprì la finestra e guardò fuori stupita. «Sono io, siamo noi;» gridò Nettchen «ci siamo smar­ riti a cagione della nuova strada alta, di cui non sono pratica: fateci un buon caffè, cara comare, e permet­ teteci di entrare un momento prima di ripartire». La contadina, riconoscendo subito Nettchen, scese lieta e frettolosa, mostrandosi ad un tempo felice e intimidita all’idea di vedere anche il gran personaggio, il conte fo­ restiero. Ai suoi occhi, con quelle due persone varcavano

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la soglia di casa sua la felicità e lo splendore del mondo, e l’imprecisa speranza di parteciparvi un pochino, di trarne sia pur modestissimo vantaggio per sé e per i pro­ pri figli, animava la brava donna, rendendola molto sol­ lecita a servire i due signorini. Destò in fretta un gar­ zone perché badasse ai cavalli e in fretta preparò un buon caffè caldo, recandolo nella stanza semibuia dove Wenzel e Nettchen sedevano l’uno di fronte all’altra, con sulla tavola una lucernetta dalla fiamma tremolante. Wenzel aveva chinato la testa fra le mani e non osava alzare gli sguardi. Nettchen s’appoggiava allo schienale della sedia con gli occhi chiusi e tenendo serrata anche la bella bocca amara, dal che si capiva che non era affatto addormentata. Appena la donna ebbe posto sulla tavola il caffè, Nettchen s’alzò per dirle sottovoce: — Lasciateci soli pochi minuti e andate a riposare, bra­ va donna; abbiamo avuto una piccola disputa e dob­ biamo cogliere il buon momento per una spiegazione. — Capisco, capisco ; giustissimo ! — disse la donna la­ sciandoli soli. — Beva, — disse Nettchen che s’era rimessa a sedere — le farà bene ! — Per conto suo non prese nulla. Wenzel Strapinski, lievemente tremante, si rizzò, prese una delle tazze e la vuotò, piuttosto per obbedirle che per ristorarsi. La guardava intanto, e quando i loro occhi si incontra­ rono e Nettchen potè scrutare quelli dell’uomo, scosse il capo e gli chiese: — Ma chi è lei? E a che cosa mirava? — Non sono quel che sembro ! — replicò lui melanconicamente — Sono un povero sciocco, ma saprò riparare tutto e darle soddisfazione e uscire ben presto da questo mondo ! — Pronunciò tali parole con viva sincerità e senza alcuna affettazione, così che gli occhi di Nettchen ebbero un breve lampo. Tuttavia ripetè severa: — Desidero sapere chi è lei, di dove viene e a che cosa tende ! — Tutto è accaduto come le racconterò ora veridica­ mente — replicò lui, e cominciò ad esporle i fatti dall’ar­

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rivo a Goldach. Insistette specialmente nello spiegarle che si era ripetutamente proposto la fuga, ma che ogni volta l’apparizione di lei l’aveva trattenuto, come in un sogno stregato. Nettchen ebbe più volte l’impulso di ridere, ma la gra­ vità della sua situazione era tale che si trattenne. Conti­ nuò invece l’interrogatorio: — E sin dove pensava di condurmi e che cosa inten­ deva fare più tardi? — Non lo so neppur io, — replicò Strapinski — spe­ ravo in nuovi eventi straordinari o fortunati, e talvolta anche pensavo alla morte, che avrei dovuto cercare, dopo che ... A questo punto Wenzel s’interruppe e la sua faccia pallida si fece di fiamma. — Avanti, continui ! — disse Nettchen impallidendo e sentendo un gran ‘battito di cuore. Allora gli occhi di Wenzel s’illuminarono di ardente dolcezza, ed egli esclamò: — Sì, ora lo vedo ben chiaro dinanzi a me quel che sarebbe accaduto! Sarei andato per il mondo con te, e dopo aver passato insieme alcuni brevi giorni felici, ti avrei confessato l’inganno, dandomi in pari tempo la morte! Tu saresti ritornata da tuo padre, dove nulla ti sarebbe mancato e ben presto m’avresti dimenticato. Non c’era bisogno che nessuno sapesse: io sarei sparito senza lasciar traccia. Invece di tormentarmi tutta una vita aspirando a un’esistenza degna, a un cuore affettuoso, a un po’ d’amore, — continuò melanconicamente — sarei stato grande e felice per un momento, più in alto di tutti coloro che non sanno essere né felici né infelici e pur non vogliono mai morire ! Oh, se lei mi avesse lasciato là sulla neve gelata, come mi sarei addormentato tran­ quillo ! Tornò a immergersi nel silenzio, guardando cupo e meditabondo dinanzi a sé. Dopo qualche tempo Nettchen, che l’aveva conside­ rato in silenzio, lasciò che il battito del cuore, accelerato dai discorsi di Wenzel, si placasse, e riprese:

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— Lei ha mai tentato imprese eguali o somiglianti in passato? Ha mentito con persone che non le avevano fatto nulla di male? — Me lo son chiesto anch’io in questa notte tremenda, e non riesco a ricordare d’essere mai stato bugiardo ! Non m’è mai toccata un’avventura di questo genere ! An­ zi, in quei tempi remoti in cui era sorto in me, ancor quasi fanciullo, il desiderio d’essere o di sembrare qualcosa di meglio, ho saputo dominarmi e ho rinunciato ad una fortuna che sembrava a me destinata. — Come fu? — domandò Nettchen. — Mia madre, prima di sposarsi, era stata al servizio d’una padrona di estese tenute e l’aveva seguita viaggian­ do in grandi città e acquistando così modi più signorili che non le altre donne del villaggio. Essa era anche un po’ ambiziosa, amava vestir se stessa e me, suo unico bimbo, con un poco più di grazia é di ricercatezza di quanto usasse da noi. Ma il babbo, un povero maestrucolo, mori giovane, e nella nostra estrema miseria non avevamo certo la probabilità di quei fortunati eventi che la mamma si compiaceva spesso di sognare. Doveva al contrario caricarsi di lavoro per nutrirci, sacrificando quanto essa prediligeva, cioè le abitudini e le vesti accu­ rate. Inaspettatamente la sua ex padrona, rimasta vedova nel frattempo, quando io ebbi sedici anni decise di trasfe­ rirsi definitivamente in città e propose a mia madre che mi mandasse con lei, essendo un peccato lasciarmi di­ ventare lì, nel villaggio, bracciante o contadino, mentre essa intendeva farmi imparare un mestiere fine e di mio gusto, tenendomi in casa sua ed esigendo da me soltanto un facile servizio. Questa sembrava la miglior fortuna che ci potesse capitare, e tutto era già infatti predisposto e accordato, quando mia madre si fece triste e medita­ bonda, e un giorno, tra molte lagrime, mi supplicò di non abbandonarla e di rimaner povero accanto a lei. Mi disse che sentiva di dover morire giovane e che io certo sarei giunto a qualche buon risultato anche dopo la sua fine. La padrona, alla quale riferii molto dolente queste cose, venne e fece grandi rimproveri a mia madre, ma

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questa si eccitò e cominciò a gridare e a ripetere che non si sarebbe lasciata rubare suo figlio. Chi lo cono­ sceva ... A questo punto Wenzel Strapinski s’interruppe di nuo­ vo e non seppe proseguire. Nettchen gli chiese: — Che cosa intendeva la mamma dicendo: «chi lo conosceva ... »? Perché non continua? Wenzel arrossì e rispose: — Disse una cosa strana che non compresi bene e che ad ogni modo non ho da allora mai constatato. Ma essa era persuasa che chi conosceva suo figlio non poteva più staccarsene, e con ciò voleva forse dire che ero un bravo ragazzo o qualcosa di simile. Insomma, era tanto eccitata che, malgrado i consigli della signora, io finii per rinun­ ciare e per rimanere con la mamma. Essa raddoppiò il suo affetto e mille volte mi chiese poi perdono di essere d’ostacolo alla mia fortuna. Ma quando si trattò di met­ tersi a guadagnare, fu chiaro che al villaggio non c’era molta scelta, fuorché entrare nel laboratorio del nostro sarto. A me non piaceva, ma mia madre tanto pianse che finii per rassegnarmi. Ecco la mia storia. Quando Nettchen gli chiese poi perché avesse più tardi lasciato la mamma, Wenzel le spiegò: — Fui chiamato al servizio militare e messo fra gli us­ seri; diventai un bell’ussero rosso, per quanto fossi forse il più tonto del reggimento, o almeno certo il più tran­ quillo. Dopo un anno mi fu data finalmente una licenza di poche settimane e corsi a casa da mia madre, ma essa era morta da poco. Per questo, finita la ferma, cominciai a girare il mondo da solo, per incappare poi in questa disgraziata avventura. Mentre egli così esponeva i suoi dolori, Nettchen l’os­ servava attentamente con un lieve sorriso. Per un certo tempo regnò il silenzio nella stanza, ma d’un tratto la donna parve còlta da un pensiero improvviso: — Poiché lei fu sempre tanto apprezzato e gentile — disse con un certo riserbo piccato — avrà certo avuto le sue avventure amorose e avrà anche senza dubbio

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più d’una povera ragazza sulla coscienza ... anche a non parlar di me? — Ahimè ! — ribattè Wenzel rosso come un gambero — Prima di incontrarmi con lei non ho mai neppur sfio­ rato la punta delle dita d’una ragazza, fuorché . . . — Ebbene? — disse Nettchen. — Ebbene, — riprese Wenzel — quella signora che mi voleva portar con sé per farmi educare, aveva una bim­ ba di sette o otto anni, una strana piccina, impetuosa ma pur buona come lo zucchero e bella come un angelo. Io avevo dovuto spesso farle da servitore e da protettore, ed essa mi si era affezionata. L’accompagnavo regolar­ mente alla parrocchia un po’ lontana, dove il vecchio pastore le faceva scuola, e andavo poi a riprenderla. Spesso dovevo anche portarla fuori quando nessuno po­ teva accompagnarla. Questa bimba, quando la ricondussi l’ultima volta a casa attraversando la campagna al tra­ monto, cominciò a parlare della sua partenza imminente e mi dichiarò che io avrei dovuto seguirli ad ogni costo, chiedendomi se consentivo. Le spiegai che non era pos­ sibile, ma la bimba continuò a supplicarmi più vivamente, prendendomi per il braccio e impedendomi di camminare, come sogliono fare i bambini, tanto che inavvertitamente finii per liberarmene con uno strappo un po’ brusco. Allo­ ra la ragazzina chinò il capo e cercò di soffocare le lagrime che le scendevano sulle guance, ma non riuscì a soffocare i singhiozzi. Io tentai tutto confuso di calmarla, ma essa si voltò irosa e mi mandò via sdegnata. Da quella sera la bella bimba m’è rimasta sempre in mente e il cuore le è rimasto fedele, benché non ne abbia più saputo nulla... D’un tratto Wenzel, che s’era lasciato prendere da una dolce commozione, s’interruppe spaventato e fissò impal­ lidendo la sua compagna. —Ebbene, — disse Nettchen, che a sua volta era im­ pallidita, con voce strana — perché mi guarda così? Ma Wenzel tese il braccio e puntò l’indice verso di lei, come se gli apparisse uno spettro, gridando: — Ma questo l’ho già veduto ! Quando quella piccina s’arrabbiava, i suoi bei capelli si rizzavano sulla fronte

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e sulle tempie proprio come a lei ora, in modo che si ve-« devano vibrare, e così fu anche quella sera fra i lampi, al riflesso del tramonto! In realtà i riccioli di Nettchen attorno alle tempie e alla fronte s’erano lievemente rizzati, come mossi da un alito leggero. Madre natura, sempre un po’ civettuola, s’era valsa di uno dei suoi segreti per portare a una soluzione quella complicata vicenda. Dopo un breve silenzio, col petto palpitante, Nettchen s’alzò, girò attorno alla tavola e gli buttò le braccia al collo, esclamando : — Non ti voglio abbandonare ! Sei mio e io voglio stare con te, sfidando il mondo intero ! Celebrò così il suo vero fidanzamento con profonda decisione del cuore. La dolce passione le diede forza per addossarsi il peso di un destino e per serbarsi fedele. Non era però così ingenua da non tentare qualche ritocco à quel destino, anzi prese nuove risoluzioni con rapida au­ dacia, dicendo al buon Wenzel, già immerso nei sogni della ritrovata felicità: — Ed ora andremo proprio a Seldwyla, per mostrare a quelli che vollero rovinarci che essi ci hanno invece riuniti e resi felici ! Il bravo Wenzel non ne era molto persuaso; egli avreb­ be preferito sparire in remote lontananze, creandosi un’esistenza misteriosa e romantica di tranquilla beati­ tudine. Ma Nettchen esclamò: — Basta coi romanzi ! Voglio prenderti come sei, un povero artigiano vagabondo, ma voglio esser tua moglie nel mio paese, sfidando tutti i superbi e i befleggiatori. Andremo a Seldwyla e là con l’assiduità e l’intelligenza sapremo dominare proprio coloro che ci hanno schernito ! Detto fatto ! Richiamarono la contadina, che ebbe un buon dono da Wenzel, già compreso della sua nuova si­ tuazione, poi ripresero la via. Questa volta fu Wenzel a tenere le redini e Nettchen gli si appoggiava soddisfatta, come se egli fosse il pilastro d’un tempio. Si sa che il pa-

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radiso dell’uomo è la sua volontà; Nettchen aveva ap­ pena raggiunto l’età maggiore, così che poteva senz’altro seguire il proprio volere. A Seldwyla fermarono la slitta davanti alla locanda dell’Arcobaleno, dove buona parte dei partecipanti alla mascherata sedeva ancora davanti al bicchiere. Veden­ do arrivare la coppia, corse rapida come il fulmine la notizia: «Ecco, abbiamo un ratto romantico; siamo pro­ prio stati abili nell’avviare una splendida avventura!». . Wenzel attraversò la sala senza voltarsi, con la sua fi­ danzata, e dopo che questa fu salita in camera, passò alla locanda del Selvaggio, un altro buon albergo, at­ traversando di nuovo un buon gruppo di Seldwylesi per giungere in camera sua, e lasciandoli ai loro stupiti con­ ciliaboli, che li indussero a procurarsi un terribile mal di capo per il troppo bere. Anche a Goldach a quell’ora circolava già la scanda­ losa parola: «Ratto!». Di buon mattino la Piscina di Bethesda arrivò a Seld­ wyla portandovi l’eccitatissimo Böhni con l’avvilitissimo padre di Nettchen. Quasi quasi, per la gran premura, avrebbero attraversato la città senza fermarsi, quando scorsero a tempo, dinanzi all’Arcobaleno, la Fortuna, deducendone che almeno la bella pariglia non poteva esser troppo lontana. Fecero staccare i loro cavalli appena l’ipotesi fu confermata e, sentendo che Nettchen era in quell’albergo, vi scesero essi pure. Passò qualche tempo prima che Nettchen facesse chie­ dere a suo padre di volerla raggiungere in camera, dove voleva parlargli da sola a solo. Si seppe pure che aveva già fatto chiamare il migliore avvocato della città, il quale era atteso nel corso della mattinata. Il pretore, molto preoccupato, salì da sua figlia, domandandosi come avrebbe potuto trattenere dalla sua follia quella testa di­ sperata, e disponendosi a scene passionali. Nettchen lo accolse invece con calma e pacata risolu­ tezza. Cominciò col ringraziare il padre in termini com­ mossi di tutto l’affetto e la bontà prodigatile e dichiarò poi in forma precisa : in primo luogo non intendeva, dopo

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quel che era accaduto, almeno per i prossimi anni, risie­ dere a Golđach; in secondo luogo desiderava entrare in possesso della cospicua eredità materna, che il padre già da tempo teneva a sua disposizione per l’eventualità di sue nozze; in terzo luogo, e in ciò era irremovibile, inten­ deva sposare Wenzel Strapinski; in quarto luogo aveva deciso di stabilirsi con lui a Seldwyla, aiutandolo a fon­ dare una buona azienda; in quinto e ultimo luogo, tutto sarebbe finito per il meglio, giacché ella s’era ben per­ suasa che Wenzel era un brav’uomo che l’avrebbe resa felice. Il signor pretore iniziò il suo compito di dissuasione, ricordandole, come Nettchen già sapeva, che egli aveva sempre desiderato rimetterle al più presto il suo patri­ monio per fondare la sua vera felicità. Le rappresentò poi, con tutto l’affanno che lo dominava dal momento della terribile catastrofe, quanto fosse inconcepibile il connubio su cui ella insisteva, e le indicò infine il gran rimedio che avrebbe potuto degnamente risolvere il grave con­ flitto. Si trattava di Melcher Böhni, il quale era disposto a soffocare immediatamente con la propria persona il pe­ noso scandalo, difendendo e salvando di fronte a tutto il mondo l’onore della fanciulla col suo nome inattaccabile. Ma la parola «onore» suscitò l’eccitazione più viva della figlia. Essa gridò che era appunto l’onore a imporle di non sposare il signor Böhni, a lei insopportabile, e a serbarsi invece fedele a quel povero forestiero al quale aveva dato la sua promessa e che, in fondo in fondo, le piaceva ! Ci fu ancora un inutile dibattito, che alla fine fece ver­ sare lagrime alla bella ostinata. Proprio in quel punto sopravvennero Wenzel e Mel­ cher, che s’erano incontrati sulla scala. Minacciava così di succedere un gran pasticcio, quando per fortuna si presentò l’avvocato, persona ben nota al pretore, che indusse i presenti a una conciliante ragionevolezza. Ra­ pidamente informato della situazione, ordinò anzitutto che Wenzel si ritirasse nel suo albergo del Selvaggio e vi si tenesse quieto quieto, e che anche il signor Böhni se ne

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andasse senza immischiarsi di nulla. A Nettchen consigliò poi di serbare sino alla fine della vicenda tutte le forme della correttezza borghese, mentre il padre doveva ri­ nunciare a ogni tentativo di costrizione, visto che la libertà della figliola era giuridicamente fuor di dubbio. Si giunse così a un armistizio e a una separazione provvisoria di alcune ore. In città, dove l’avvocato seppe far correre la vaga noti­ zia che forse l’incidente avrebbe portato a Seldwyla un vistoso patrimonio, ci fu gran chiasso. Gli umori dei Seldwylesi si trasformarono di colpo a favore del sarto e della sua fidanzata : tutti decisero di proteggere la cop­ pia a costo del loro sangue, garantendo nella loro città i diritti e le libertà dell’individuo. Quando corse quindi la voce che si volesse riportare a forza la fanciulla a Goldach, ne nacque quasi una rivolta, fu messa davanti all’Arco­ baleno e al Selvaggio una guardia d’onore e di protezione armata e ci si abbandonò con grandiosa allegria alla splen­ dida avventura che faceva da bizzarra continuazione a quella della vigilia. Il padre, intimorito e irritato, mandò il suo Böhni a chiedere aiuto a Goldach. Questi vi si recò al galoppo, e l’indomani giunsero di là in aiuto del genitore un buon numero di uomini con una notevole scorta di poli­ ziotti, e quasi parve che Seldwyla dovesse diventare una novella Troia. I due partiti stavano di fronte minacciosi; il tamburino civico girava già la vite per tendere bene il suo tamburo e accennava qualche colpetto col ba­ stoncino di destra. Ma si intromisero funzionari supe­ riori, laici ed ecclesiastici, e le trattative portarono al ri­ sultato che Nettchen tenne duro e che pure Wenzel non si lasciò intimidire, incoraggiato dai Seldwylesi. Venne quindi deciso di fare le pubblicazioni di nozze appena radunati i documenti necessari, con tutte le forme, e di aspettare poi se e quali legali impedimenti sarebbero stati elevati contro tale procedura e con quale esito. Però, data la maggiore età di Nettchen, un impedi­ mento poteva derivare soltanto dalla dubbia moralità dello pseudo conte Wenzel Strapinski.

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Invece l’avvocato, che rappresentava lui e la sua sposa, potè stabilire che quel giovanotto forestiero, né al suo paese nativo, né durante le sue peregrinazioni, non aveva riportato sulla fedina neppure l’ombra d’una macchia e che anzi sul suo conto pervenivano soltanto testimo­ nianze favorevoli. Circa quel che era avvenuto a Goldach, l’avvocato di­ mostrò che in fondo Wenzel non s’era fatto passare per conte, ma che tal titolo gli era stato quasi violentemente conferito da altri, mentr’egli in tutti i documenti scritti aveva firmato col suo autentico nome di Wenzel Strapinski, senza aggiunta alcuna. A suo carico sussisteva so­ lo la colpa di aver fruito di una stolta ospitalità che non gli sarebbe stata concessa se non fosse arrivato in quella bella carrozza, e se il cocchiere non si fosse permesso quello stolido scherzo. La guerra finì col matrimonio, che i Seldwylesi ac­ compagnarono generosamente con spari delle cosiddette «teste di gatto», a dispetto dei Goldachesi, i quali li po­ tevano udire benissimo perché tirava vento di ponente. Il pretore versò alla figlia l’intero patrimonio ed essa di­ chiarò che Wenzel doveva diventare un grande marchandtailleur e, come si diceva ancora a Seldwyla, un pannaiolo. Così avvenne, in modo però ben diverso da quel che i Seldwylesi avevano sognato. Wenzel si rivelò modesto, economico e laborioso nella sua azienda, cui seppe dare grande sviluppo. Confezionò ai cittadini i panciotti di velluto color viola oppure a scacchi bianchi e azzurri, le marsine da ballo a bottoni dorati, i mantelli guarniti di rosso e li ebbe tutti debitori, ma non mai per molto tempo. Giacché per ottenere indumenti nuovi e più belli, da lui importati o confezionati, bisognava gli pagassero gli arretrati, tanto che tra loro borbottavano, dicendo che spillava il sangue dalle unghie. Intanto egli si fece grassotto e aitante, perdendo quasi la sua aria di sognatore: di anno in anno divenne più esperto e più abile negli affari, e insieme al suocero, ormai riconciliato, ebbe tanto successo in certe speculazioni da raddoppiare il patrimonio e da potersi, dopo dieci o

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dodici anni, trasferire a Goldach con altrettanti figlioli regalatigli nel frattempo da Nettchen Strapinska, per di­ venirvi un personaggio molto stimato. A Seldwyla però non lasciò neppure un soldo, forse per ingratitudine, forse per vendetta.

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John Kabys, un brav’uomo di circa quarantanni, soleva dire che ognuno può e deve essere il fabbro della propria fortuna, senza troppo chiasso e agitazione. Un uomo come si deve sa fabbricarsi la sua sorte tran­ quillamente, con pochi colpi da maestro ! Su questo chio­ do batteva spesso e con ciò non intendeva alludere sol­ tanto alla conquista del necessario, bensì anche di tutto ciò che è desiderabile e superfluo. Già nella sua tenera giovinezza egli aveva pertanto giocato il primo colpo magistrale, trasformando il pro­ prio nome, Johannes, nell’inglese John, tanto per prepa­ rarsi a vicende inusitate e fortunate staccandosi da tutti i semplici «Hans» e circondandosi di un’avventurosa au­ reola anglosassone. Dopo di ciò se ne stette tranquillo per alcuni anni, senza lavorare né imparare gran che, ma anche senza permet­ tersi bizzarrie, in prudente attesa. Quando però la fortuna non parve voler abboccare al­ l’esca lanciata, egli giocò il secondo colpo maestro e tra­ sformò anche Fi del suo cognome in un y. A questo modo la parola Kabis (altrove anche Kapes), che signi­ fica cavolo bianco, assunse un aspetto ben più nobile ed esotico, e John Kabys rimase in ancor più legittima attesa della sua fortuna. Passarono tuttavia ancora parecchi anni senza che essa si presentasse, e già egli era prossimo al trentunesimo della sua vita quando si trovò, malgrado la sua amministrazio­ ne parsimoniosa, ad avere consumato la non cospicua ere­ dità. A questo punto cominciò a darsi seriamente dattor­ no e ad escogitare un’impresa da non prendersi a gabbo. Già spesso aveva invidiato molti Seldwylesi per le loro imponenti ditte, conquistate aggiungendo al proprio il casato della moglie. Era t l’usanza sorta all’improvviso, non si sapeva come né di dove, ma che ormai pareva ac­ cordarsi ottimamente ai panciotti di velluto rosso di quei signori, e l’intera cittadina risonava in ogni canto di

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pomposi duplici nomi. Targhe grandi e piccole, diciture alle porte, ai campanelli, tazze da caffè e cucchiaini da tè assumevano quell’iscrizione, e la gazzetta settimanale per un po’ di tempo fu piena di avvisi e di dichiarazioni che avevano l’unico scopo di comunicare la nuova ditta collettiva. Era una delle prime soddisfazioni delle giovani coppie poter varare una simile inserzione. Non mancarono casi di invidia o di sdegno; se per esempio un ciabatti­ no dalle mani sudicie o qualche altro poveraccio tenuto in poco conto tentava di partecipare alla rispettabilità comune assumendo il doppio cognome, gli altri arriccia­ vano il naso, benché anch’egli fosse in legittimo pos­ sesso dell’altra metà coniugale. Non era comunque del tutto indifferente che individui più o meno indegni pe­ netrassero con questo mezzo nell’allegra rete del vasto credito, giacché quel prolungamento del nome ottenuto per parentado s’era rivelato per esperienza uno degli ele­ menti più efficaci e insieme più delicati nel meccanismo del credito stesso. Per John Kabys tuttavia non vi poteva esser dubbio circa l’esito di simile trasformazione. Le difficoltà erano in quel momento tanto grandi da imporre alla giusta ora il colpo maestro tenuto in serbo da lungo tempo, come ben si conviene a un esperto fabbro della sua fortuna, il quale non adopera il martello a casaccio. John si guardò dunque attorno, tacito ma deciso, in cerca di una moglie, ed ecco che già la sola risoluzione parve richiamare final­ mente la fortuna. Quella stessa settimana infatti arrivò e si stabilì a Seldwyla una signora anziana con una figlia in età da marito: essa si chiamava madama Oliva e la figlia madamigella Oliva. John sentì risonare all’orecchio e nell’animo l’accordo Kabys-Oliva ! Fondare un’azienda modesta con quell’insegna significava senz’altro vederla divenire in pochi anni una grande casa. Si mise quindi saggiamente all’opera armato di tutti i suoi attributi. Questi consistevano in un paio di occhiali a stanghette dorate, in tre bottoni da camicia a smalto riuniti tra loro da catenelle d’oro, in una lunga catena d’oro da orologio attraversante il panciotto a fiorami e ricca di molteplici

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ciondoli, in una grandiosa spilla da cravatta, ove una miniatura rappresentava la battaglia di Waterloo, in­ fine in tre o quattro cospicui anelli, in un rispettabile bastone, la cui impugnatura era formata da un binocolo da teatro che aveva la forma d’una botticina di madreperla. In tasca poi teneva sempre, e lo cavava ponen­ doselo dinanzi appena seduto, un grande astuccio di cuoio in cui riposava un bocchino di schiuma intagliato, rap­ presentante Mazeppa legato al suo cavallo ; questo grup­ po, quando fumava, gli giungeva sino alle sopracciglia ed era un vero pezzo da museo. Aveva inoltre un porta­ sigari rosso a chiusura dorata, con dentro bei sigari a fascetta screziata bianco-rossa, un accendisigari d’inau­ dita eleganza, una tabacchiera d’argento e un taccuino ricamato. Non gli mancava il più complicato e raffinato dei portamonete, con scompartimenti innumerevoli e mi­ steriosi. Tutto questo armamentario gli sembrava il corredo ideale di un uomo fortunato : se lo era procurato, quale cornice audacemente prevista per la sua vita, in anticipo, nel tempo, cioè, in cui andava ancora rosicchiando il suo patrimonietto, non mai però senza idee lungimiranti. Quell’ammassamento di roba non era tanto il lusso senza gusto d’un uomo vanitoso, quanto piuttosto una scuola di pazienza, di perseveranza e di consolazione per il tempo della sfortuna, nonché una preparazione degna alla buona sorte, la quale avrebbe dovuto arrivare una bella volta all’improvviso, come un ladro di notte. Avrebbe pre­ ferito morir di fame che vendere o impegnare il più pic­ colo di quegli ornamenti : a quel modo non poteva passare per uno straccione né di fronte al mondo né di fronte a se stesso ed era in grado di tollerare le peggiori avversità senza rimetterci lo splendore esterno. Inoltre, per non perdere o guastare, rompere o mettere in disordine tutta quella roba, era costretto sempre a un contegno di calma dignitosa. Non poteva concedersi una modesta sbornia o una subitanea commozione; possedeva in realtà il suo Mazeppa da ben dieci anni, senza che il cavallo avesse perso un orecchio o che si fosse staccato un pezzetto della

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coda svolazzante, mentre le fibbie e gli anellini dei suoi astucci e necessaires chiudevano perfettamente, come nel giorno della loro creazione. Insieme a tutti gli aggeggi, do­ veva pur tenere con riguardo abito e cappello, e, per met­ tere in bella mostra sullo sfondo bianco i bottoni, le ca­ tenine e la spilla, era necessario possedere sempre uno sparato di camicia di impeccabile candore. È vero che tutto ciò esigeva maggior fatica di quanto egli volesse ammettere nei suoi discorsi a proposito dei pochi colpi maestri ; ma è sempre stato un errore giudi­ car facili le opere di un genio. Se dunque le due donne rappresentavano la fortuna, questa si fece prendere docilmente nella rete tesa dal mae­ stro; il quale anzi, cosi rassettato e ingioiellato, sembrò loro proprio l’uomo ch’erano venute a cercare. La sua vita di ozio regolare pareva indicare un tranquillo e si­ curo piccolo proprietario, uno che vivesse di rendita te­ nendo i suoi titoli in un simpatico cofanetto. Allusero qualche volta alla propria agiatezza, ma quando si ac­ corsero che il signor Kabys non pareva darvi gran peso, preferirono tacere, persuase che fosse la loro personalità ad attrarre il brav’uomo. A farla breve, in poche settimane John era bell’e fidanzato con la signorina Oliva e contem­ poraneamente partiva per la capitale, a fare incidere un elegante biglietto da visita a fregi col duplice nome, non­ ché a ordinare una splendida insegna e a iniziare al­ cune trattative commerciali a credito per un negozio di stoffe e merceria. Pieno di baldanza si comprò anche due o tre misure da un braccio, di legno di susino ben levi­ gato, alcune dozzine di formulari da cambiali con ricchi emblemi di Mercurio, listini per i prezzi e cartellini a orlo dorato da incollare, libri mastri e altre cose del genere. S’affrettò poi a tornare soddisfatto nel suo borgo natio, dalla sposa, il cui solo difetto era di avere una testa spro­ porzionatamente grande. Venne accolto con cordiale te­ nerezza e le notizie del suo viaggio furono ricambiate con quella che erano arrivati i documenti della sposa necessari alle nozze. Questo gli fu però detto con sorridente ritegno,

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come se dovessero prepararlo a un particolare non troppo regolare, anche se secondario. Finalmente venne a sa­ pere che la madre era bensì una vedova Oliva, la figlia in­ vece un frutto illegittimo dei suoi anni giovanili, il quale portava quindi nei documenti ufficiali il cognome ma­ terno. E questo sonava: «Häuptle», testolina! La fidan­ zata dunque era una madamigella Häuptle e la futura azienda avrebbe dovuto intitolarsi «John Kabys-Häuptle», il che significava pressappoco «Hans Testolina di Cavolo»!. Lo sposo rimase per un buon tratto senza fiato, consi­ derando la sciagurata metà del suo recentissimo capo­ lavoro, ma alla fine esclamò: «E con una zucca simile, ci si può chiamare testolina ! ». La povera fidanzata chi­ nò il capo umilmente per lasciar passare la bufera, giac­ ché ella non sospettava che il suo bel nome avesse rappre­ sentato la maggior attrattiva per John. Il signor Kabys senza far più parole andò difilato a ca­ sa sua, per meditare sull’accaduto, ma già per strada i suoi concittadini sempre burloni gli gridarono «Hans Testa di Cavolo», essendosi il segreto ormai diffuso. Per tre notti e tre giorni cercò in assoluta solitudine di rab­ berciare l’opera mal riuscita. Al quarto aveva preso una decisione : ritornò dalle due signore e chiese in matrimo­ nio la madre al posto della figlia. L’indignata matrona peraltro aveva intanto scoperto che il signor Kabys non possedeva alcun cofanetto di mogano pieno di titoli, e lo mise rudemente alla porta, partendo poi subito con sua figlia per un’altra città. Così il signorJohn vide svanire il radioso « Oliva» al pari di un’iridescente bolla di sapone nelle azzurrità dell’etere e rimase molto sconcertato, con in mano il suo martello per forgiare la fortuna. La faccenda gli aveva consumato le ultime riserve in pecunia, così dovette finalmente deci­ dersi a fare un lavoro concreto, o almeno a porre una base alla sua esistenza. Studiandosi e ristudiandosi, constatò che l’unica sua abilità era di far la barba meravigliosa­ mente, nonché di tenere in buono stato e affilare bene i ra­ soi. Si sistemò dunque in una stanzuccia terrena con una

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catinella da barbiere, mise alla porta l’insegna «John Kabys», che aveva di persona ritagliato con una sega, non senza melanconia, dall’elegante tavola preparata per l’insegna con il perduto Oliva. Ma il nomignolo di «Te­ sta di Cavolo» gli rimase appiccicato in città e servì pu­ re a portargli vari clienti, cosicché egli vivacchiò pas­ sabilmente per parecchi anni, sbarbando guance e af­ filando rasoi, dimentico ormai del suo motto orgoglioso. Un giorno entrò in bottega un concittadino appena ri­ tornato da lunghi viaggi e gli domandò distrattamente, mentre si accomodava per farsi insaponare: — A quanto vedo dalla sua insegna, a Seldwyla vi sono ancora dei Kabys ! — Sono l’ultimo della mia stirpe — replicò il barbiere non senza dignità — ma perché lei me lo chiede, se è lecita la domanda? Il forestiero non rispose finché non fu ben sbarbato e ri­ pulito, e soltanto a cose fatte, dopo aver versato il suo obolo, continuò: — Conobbi ad Augusta un vecchio originale molto ricco, il quale spesso raccontava che sua nonna era ima Kabis di Seldwyla, in Svizzera, e che sarebbe stato gran­ demente stupito di sentire che esistevano ancora persone di quella famiglia. Detto questo il cliente se ne andò. Hans Testolina di Cavolo se ne stette a meditare, e meditando sempre più si eccitò, allorché gli tornò vaga­ mente alla memoria che molti anni prima una sua proava era andata a sposarsi in Germania, senza poi dar più notizia di sé. Si ridestò a un tratto in lui un patetico senso familiare, un interesse romantico per gli alberi genealogici, e si angosciò chiedendosi se quel forestiero sarebbe poi tornato. A tener conto della qualità della sua barba, avrebbe dovuto ricomparire due giorni dopo, ed ecco che in realtà l’amico comparve puntuale. John lo insaponò ben bene e lo sbarbò con mani quasi tremanti di ansiosa curiosità. Quand’ebbe finito non seppe tratte­ nersi dal domandargli qualche particolare più preciso. L’altro rispose che si trattava di un certo signor Adam

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Litumléi, ammogliato ma senza figlioli, abitante in via tal dei tali ad Augusta. John ci dormì su ancora una notte, attingendovi il co­ raggio di ricercare energicamente la propria fortuna. L’indomani chiuse la botteguccia, ripose l’abito della do­ menica in un vecchio zaino, i suoi ben conservati gioielli e ornamenti in un pacchettino speciale, poi, munitosi saggiamente di attestati scritti e di estratti del registro parrocchiale, iniziò senz’altro il suo pellegrinaggio ad Augusta, modesto e tranquillo come un non più giovane apprendista. Quando scorse i campanili e i verdi bastioni della città, contò il suo capitaletto e si disse che avrebbe dovuto serbarsi molto economo per avere, in caso di esito sfavo­ revole, la possibilità del ritorno. Scese quindi alla locanda più modesta che gli riuscì di trovare dopo lunghe ricer­ che; entrò e vide appese al di sopra delle singole tavole le insegne artigiane, fra le quali anche quella dei fabbri. Per buon augurio, considerandosi fabbro della propria fortuna, andò a sedersi proprio sotto a quella e si ristorò con una colazioncina, essendo ancora buon mattino. Do­ mandò poi una stanzetta e mutò d’abito. Si acconciò nel modo migliore, caricandosi di tutti i suoi ornamenti e non mancò di avvitare sul bastone la botticella-binocolo. Uscì a quel modo dalla stanzetta, facendo sbalordire col suo splendore la brava ostessa. Gli ci volle parecchio tempo prima di trovare la strada ambita dal suo cuore, ma alla fine giunse a un corso piuttosto ampio, con case antiche e imponenti, dove però non si scorgeva anima viva. Finalmente gli passò svelta accanto una ragazzina con un lucido boccale di birra spumeggiante, ed egli la trattenne domandandole ove abitasse il signor Adam Litumléi e la fanciulla gli additò proprio la casa davanti a cui si era fermato. Alzò incuriosito lo sguardo. Sopra un bel portone si ergevano parecchi piani con alte finestre, i cui cornicioni e profili offrivano all’occhio del povero cacciatore di for­ tuna un mare verticale di audaci scorci. Egli s’impres­ sionò, temendo di essersi accinto a troppo grandiosa im­

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presa, visto che si trovava di fronte a un vero e proprio palazzo. Tuttavia spinse pian piano il pesante battente, sgattaiolò dentro e si trovò su un magnifico scalone. Una doppia gradinata di pietra saliva con ampi pianerottoli, affiancata da una splendida balaustrata di ferro battuto. Ai piedi dello scalone e oltre la porta interna, aperta, si vedevano aiuole fiorite al sole. John si avviò senza ru­ more da quella parte, sperando di incontrare un servitore o un giardiniere, ma non vide altro che un gran giardino in stile tedesco antico, pieno dei più bei fiori, nonché una fontana di pietra con molte statue. Tutto appariva come morto e abbandonato ed egli ritornò sui suoi passi e salì le scale. Alle pareti erano ap­ pese grandi carte geografiche ingiallite, piante di antiche città imperiali con le rispettive fortificazioni e con figure allegoriche agli angoli. Una delle tante porte di quer­ cia sembrava solo accostata : l’intruso l’aprì a metà e vide, distesa sopra un divano, una donna piuttosto graziosa alla quale era sfuggito di mano il lavoro a maglia, immersa in un tranquillo sonnellino, benché fossero soltanto le dieci antimeridiane. John Kabys, essendo la stanza mol­ to spaziosa, accostò col cuore in tumulto il suo bastone agli occhi per considerare meglio col binocolo di madreperla quella dolce apparizione. La veste di seta, le forme opulente della dormiente, gli fecero sempre più apparire quella dimora come un castello incantato, tanto che si ri­ trasse estremamente incuriosito e risalì le scale, lento e prudente. All’ultimo piano lo scalone si trasformava in una vera armeria, poiché le pareti erano tutte guarnite di armi e di armature d’ogni secolo: giachi di maglia arrugginiti, el­ mi, corazze di gala settecentesche, spadoni, bacchette da miccia dorate : tutto disposto alla rinfusa, mentre agli an­ goli spiccavano dei cannoncini assai graziosi, verdi per l’antichità. Insomma quello era senz’altro lo scalone di un ricco patrizio e il signor John assunse un’aria molto solenne. All’improvviso si fece intendere, vicinissimo, una spe­ cie di grido, come di un bambino grandicello, e, poiché

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non cessava, John si indusse ad andare a cercarlo, speran­ do così di trovar gente. Aprì la porta più vicina e vide un ampio salone, tutto tappezzato dal basso all’alto di ri­ tratti d’antenati. Il pavimento era composto di matto­ nelle esagonali multicolori, il soffitto aveva stucchi con figure in rilievo, in grandezza naturale, di uomini e di animali, quasi librati nel vuoto, di ghirlande di frutti e di stemmi. Davanti a una specchiera da camino alta dieci piedi stava ritto un vecchierello minuscolo e grigio, non più pesante di un capretto, ravvolto in una veste da ca­ mera di velluto scarlatto e con la faccia insaponata. Pesta­ va i piedi impaziente, gemeva piagnucoloso e ripeteva: «Non posso più radermi ! Non posso più radermi ! Il mio rasoio non taglia ! E nessuno mi aiuta, oh, povero me ! ». Scorgendo nello specchio un forestiero, tacque, si voltò e contemplò sconcertato, col rasoio in mano, non senza ti­ more il signor John, il quale avanzò fra ripetuti inchini, tenendo il cappello nella destra, lo depose, tolse di mano con un sorriso al vecchietto il suo rasoio, mettendosi a provarne il filo. Lo passò alcune volte sul cuoio degli sti­ vali, poi sulla palma, infine considerò il sapone, sbattè una schiuma più densa e finì insomma di sbarbare l’omet­ to disperato, in meno di tre minuti, a tutta perfezione. «Perdoni, stimatissimo signore!» disse poi Kabys «la libertà che mi son preso! Ma vedendola in tanto im­ barazzo, pensai di fare a questo modo naturalissimo la sua conoscenza, qualora almeno io abbia veramente l’o­ nore di trovarmi di fronte al signor Adam Litumlei!». Il vecchietto non cessava dal fissare stupito lo scono­ sciuto; poi si guardò nello specchio e gli parve di esser rasato meglio del solito, dopo di che, oscillando tra com­ piacenza e diffidenza, tornò a considerare l’artista della barba, constatando soddisfatto che si trattava di un fo­ restiero rispettabile. Gli chiese però ancora con una vocetta sgarbata chi fosse e che cosa volesse. John si schiarì la voce e rispose di essere un certo signor Kabys di Seldwyla che, passando per caso durante un viaggio per quella città, non aveva voluto rinunciare a far ricerche e a portare un saluto al discendente di una

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sua ava. E assunse un tono come se egli avesse sentito parlare del signor Litumlei sin dall’infanzia. Questi ne fu gradevolmente sorpreso ed esclamò con cordiale al­ legria : — Guarda ! Allora la stirpe dei Kabis non è spenta ! È forse numerosa e prospera? John, quasi fosse un apprendista artigiano in pellegri­ naggio di lavoro, che si presentasse al daziere all’ingresso di una città, aveva tratto fuori i suoi documenti e por­ gendoli disse serio: — Numerosa non è più davvero: io sono l’ultimo della famiglia ! Ma il suo onore è sempre intatto ! Il vecchio, stupito e commosso da quelle parole, gli porse la mano e gli diede il benvenuto. I due se la intesero presto circa il grado della loro parentela ; Litumlei conti­ nuava a esclamare: «Ma come si toccano da vicino i rami della nostra vita! Venga, caro cugino, qui può vedere la sua nobile ed eccellente prozia, la mia povera nonna ! ». Lo accompagnò lungo l’immenso salone, fin­ ché si trovarono in faccia a un ritratto di dama vestita alla moda del secolo precedente. Difatti il cartellino fissato in un angolo della cornice precisava il nome della dama, e anche moltissimi altri dipinti eran muniti di analoghi cartoncini. I ritratti recavano per vero dire altre iscri­ zioni in lingua latina, poco concordanti coi biglietti ag­ giunti. Ma John Kabys rimaneva estatico a guardare, dicendo intanto a se stesso: “Questa volta hai fatto un buon la­ voro! Qui infatti ti guarda dall’alto con cordiale beni­ gnità la progenitrice di questa fortuna in un ricco sa­ lone cavalleresco!”. Con questo monologo s’accordarono armoniose le pa­ role del signor Litumlei, il quale dichiarava non potersi ormai discorrere di proseguir subito il viaggio. Il degno signor cugino doveva rimanere ed esser suo ospite, per stabilire più intimi rapporti sintanto almeno che gli af­ fari glielo permettevano. Gli ornamenti vistosi del proni­ pote, che già l’avevano colpito, assolsero così ottimamen­ te il loro compito, ispirandogli la massima fiducia.

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Il vecchio diede uno strappo energico al campanello, al che sopraggiunsero senza fretta alcuni domestici per vedere che cosa volesse il piccolo padrone, e alla fine comparve anche la signora addormentata del primo pia­ no, ancora un po’ rossa e ad occhi semichiusi per quel sonnellino. Quando però l’ospite inatteso le fu presentato li aprì del tutto, curiosa e divertita, a quanto sembrava, per la novità. John fu accompagnato in altre sale e costretto ad accettare uno spuntino, al quale partecipò di buona voglia anche la coppia, come sogliono fare i bam­ bini, che hanno appetito a tutte le ore. Questo piacque infinitamente all’ospite, poiché lo persuase di essere capi­ tato fra gente che non si faceva mancare nulla, e che anzi sapeva apprezzare la roba buona. Da parte sua non mancò di fare un’impressione sempre più gradevole, anzi già durante il pranzo del mezzodì, che seguì poco dopo, il successo fu ben chiaro, poiché ciascuno dei due coniugi fece servire le sue pietanze predilette e John Kabys man­ giò di tutto, trovò tutto eccellente, conferendo ancor più alto valore al proprio giudizio con la calma dignitosa a lui abituale. Si mangiò e si bevve insomma gloriosamente e mai tre brave persone ebbero a godere insieme una vita più lussuosa e in pari tempo più innocente. Per John fu un paradiso dal quale pareva escluso il pericolo del peccato originale. Insomma, ogni cosa procedette nel modo migliore: erano già otto giorni che Kabys viveva in quella vene­ randa dimora, conoscendone ormai ogni cantuccio. Fa­ ceva passare il tempo al suo ospite in mille modi, andava a passeggio con lui, lo rasava con la lievità di uno zeffiro, il che piaceva enormemente al vecchietto. Poi s’ac­ corse che il signor Litumlei cominciava a rimuginare qualche pensiero e si spaventava sentendolo parlare della sua partenza, il che egli faceva di tanto in tanto con serie allusioni. Pensò allora che fosse tempo di tentare un piccolo colpo maestro e alla fine dell’ottava giornata annunziò più chiaramente al suo protettore l’imminente partenza, pren­ dendo a motivo il desiderio di non rendersi più difficile

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e penoso, con un ulteriore ritardo, il congedo e l’adatta­ mento a una esistenza molto più semplice. Voleva sop­ portare da uomo il suo destino, la sorte di un ultimo rampollo della sua stirpe, cui toccava il compito di ser­ bare alto l’onore della famiglia sino al suo estinguersi, con austerità di lavoro e con riserbo. «Venga un po’ su nella sala dei cavalieri insieme con me!» replicò il signor Adam Litumlei, e i due si av­ viarono. Dopo che, là giunto, il vecchio si fu alquanto ag­ girato solennemente in su e in giù, riprese: «Ascolti la mia decisione e la mia proposta, o caro pronipote ! Lei è l’ultimo della sua gente e questo è un grave destino, ma non meno grave è il destino a me imposto ! Mi guardi, orsù ! Io sono il primo della mia stirpe ! ». Così dicendo si rizzò orgoglioso, e John lo guardò, senza riuscire a capire a che cosa alludesse. Ma quello continuò : «Se dico che sono il primo, ciò significa soltanto che ho deciso di fondare una stirpe gloriosa, pari a quella che lei vede raffigurata lungo le pareti di questa sala ! Costoro infatti non sono i miei antenati, bensì i membri di una gente patrizia ormai estinta di questa città. Quando im­ migrai una trentina d’anni or sono, era in vendita il pa­ lazzo con tutto il suo arredo e le sue opere d’arte e io acquistai subito tutto per attuare la mia idea prediletta. Io possedevo infatti un grande patrimonio, ma non avevo né nome né antenati : neppur conosco il nome di battesi­ mo di mio nonno, il quale aveva sposato una Kabis. Da principio mi consolai dichiarando miei antenati i signori e le dame qui dipinti, assegnandone una parte ai Litumlei e una parte ai Kabis, per mezzo dei cartoncini che ella ha veduto. Ma i miei ricordi familiari bastavano appena per sei o sette persone ; il rimanente dei quadri, frutto di quattro secoli, sembrava schernire ogni mio sforzo. Tanto più vivamente ero così spinto verso il futuro, verso la ne­ cessità di dare origine a una famiglia duratura, di cui volevo essere il celebrato progenitore. Ho già fatto pre­ parare da tempo il mio ritratto, nonché un albero genea­ logico che reca alla radice il mio nome. Ma son per­

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seguitato da una maligna stella ! È già la terza moglie che prendo e nessuna mi ha dato né una bambina, né tanto meno un erede maschio. Le due prime mogli, dalle quali divorziai, hanno in seguito, per mera perfidia, procreato con altri mariti numerosi figlioli e quella attuale, che ho già da sette anni, non mancherebbe di imitarle se io la lasciassi andare. «La sua comparsa, o caro pronipote, mi ha suggerito una idea, l’idea di un artificio, quale fu adottato ripetu­ tamente nel corso della storia da piccole e grandi dinastie. Che ne direbbe lei di questo progetto? Lei viene a star con noi come un figlio e io la nomino mio erede legit­ timo ! In cambio ecco quel che dovrebbe fare : sacrificare esteriormente la sua tradizione familiare, visto che ella è l’ultimo della sua gente, e assumere alla mia morte, cioè insieme all’eredità, il mio nome! Io nel frattempo faccio correre la voce che ella sia un mio figlio naturale, frutto di un’avventura giovanile ; lei accetta questa storia senza contraddirla ! Forse sarà possibile più tardi confer­ marla con una documentazione scritta, con delle memo­ rie, per esempio un romanzetto o una memorabile storia d’amore nella quale a me tocchi una parte appassionata, seppur sconsiderata, in cui io semino sventura, per ripa­ rarvi però in vecchiaia. Infine lei si impegna ad accettare da me in sposa quella moglie che io le troverò tra le più stimate fanciulle della città, per continuare nel mio, in­ tento. Eccole la mia proposta nell’insieme e nei par­ ticolari ! ». John durante quel discorso si era fatto ora rosso e ora smorto, non certo per la paura o la vergogna, ma per la gioia e lo stupore di fronte al sospirato arrivo della for­ tuna, e alla propria saggezza nell’essersela saputa atti­ rare. Non si lasciò tuttavia affatto sorprendere, finse anzi di decidersi solo a stento al sacrificio del suo onorato nome di famiglia e della sua nascita legittima. Chiese, con parole cortesi e ponderate, ventiquattr’ore per ri­ fletterci recandosi poi a passeggiare meditabondo lungo i viali del bel giardino. I fiori leggiadri, le violacciocche, i garofani e le rose, i gigli e i giaggioli, le aiuole di geràni

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e le pergole di gelsomino, gli arbusti di mirto ed oleandro, tutti occhieggiavano cortesi, quasi per rendere omaggio al nuovo padrone. Dopo aver goduto per una mezz’oretta quel profumo e quel sole, nonché l’ombrosa frescura della fontana, John uscì sempre serio sulla strada, voltò l’angolo ed entrò in una pasticceria dove mangiò tre focaccette calde e bevve due calici di ottimo vino. Ritornò poi in giardino e riprese a passeggiare un’altra mezz’ora, ma questa volta fumando un sigaro. Scoprì allora un’aiuola piena di pic­ coli e teneri ravanelli: ne trasse un mazzetto dal terreno, li risciacquò alla fontana i cui tritoni di pietra gli facevano umilmente l’occhietto e s’awiò con essi in una fresca birreria, ove li accompagnò con un boccale di birra spu­ mosa. Se la intese ottimamente con la gente del luogo e tentò persino di trasformare il suo dialetto in quello più morbido della terra sveva, prevedendo che sarebbe dive­ nuto un personaggio importante in mezzo a quei signori. Di proposito arrivò con ritardo al pranzo di mezzodì. Per sfoggiare meglio una critica inappetenza, si premunì mangiando tre salsicce bianche di Monaco con una se­ conda birra, che gustò ancor meglio della prima. Alla fine aggrottò la fronte e si presentò a tavola, dandosi a fissare pensieroso la minestra. Il povero Litumlei, che di fronte a ostacoli inattesi soleva lasciarsi cogliere da accessi di appassionata cocciu­ taggine, e che era incapace di sopportare una qualsiasi contraddizione, già era pieno di irosa paura che la sua estrema speranza di fondare una genealogia andasse in fumo, e osservava l’incorruttibile ospite con occhio dif­ fidente. Alla fine non potè tollerare l’incertezza di sapere se sarebbe divenuto capostipite o no, e invitò l’irresoluto ad abbreviare la dilazione chiesta e a decidersi senz’altro. Temeva che la rigida virtù del cugino crescesse d’ora in ora. Andò a prendere di sua mano una bottiglia di vec­ chissimo vino del Reno da una cantina della quale John non aveva ancora avuto alcuna idea. Quando gli spiritelli solari di quel nettare si irradiarono invisibili e profumati oltre i calici di cristallo dal lieve tintinnio, quando a

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ogni gocciola di quell’oro liquido che giungeva alla lingua parve sbocciare sotto il naso un giardinetto di fiori, si rammorbidì perfino il rude animo di John Kabys, il quale accordò il suo consenso. Venne presto chiamato un notaio e, mentre si sorbiva uno squisito caffè, fu pre­ disposto un valido testamento. Alla fine il figlio naturale e artificiale e il patriarca che stava fondando una stirpe si abbracciarono, ma non fu un caldo abbraccio di carne e di sangue, bensì qualcosa di molto più solenne, rincon­ tro di due grandi princìpi che s’imbattono lungo le loro traiettorie. John era ormai un uomo felice. Non aveva altro da fare che osservare il gradito compito di comportarsi ri­ guardosamente verso il suo signor padre e di consumare nel modo più piacevole un abbondante sussidio mensile. Tutto si svolse nel modo più corretto e tranquillo, e in­ tanto egli potè vestire col lusso di un barone. Non dovette acquistare nuovi gioielli o ornamenti, anzi si rivelò ora appunto il suo genio, giacché quelli comprati molti an­ ni innanzi bastavano tuttora ed erano come uno schema prestabilito che solo ora si realizzava completamente con la pienezza della sua felicità. La battaglia di Waterloo ba­ lenava e tuonava su un petto sereno ; catene e ciondoli bal­ lonzolavano su una pancetta ben sazia, attraverso all’occhialetto d’oro guardava una pupilla allegra e orgogliosa, il bastone serviva più di ornamento che di appoggio a un uomo esperto e la bella busta dei sigari era gonfia di ottime marche, che egli fumava con intelligenza col suo bocchino di Mazeppa. Il cavallo selvaggio era già di un bel bruno lucente, il povero Mazeppa cominciava ap­ pena a essere rossastro, quasi color carne, cosicché la du­ plice arte dell’intagliatore e del fumatore suscitava ovun­ que la legittima ammirazione degli esperti. Anche papà Litumlei ne fu entusiasta e imparò dal figlio adottivo a imbrunire con zelo la schiuma. Si procurò tutta una rac­ colta di pipe e di bocchini, ma era troppo inquieto e impa­ ziente per quell’arte raffinata; toccava al giovane interve­ nire e riparare, il che a sua volta ispirava nuovo rispetto e nuova fiducia al vegliardo.

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Ben presto però intervenne una occupazione ancora più importante per i due uomini, quando cioè il paparino insistette perché inventassero e redigessero insieme il ro­ manzo con cui John sarebbe stato elevato al grado di figlio naturale. Avrebbe dovuto divenire un documento se­ greto di famiglia in forma di frammentari «memorabili». Per evitare inquietudini o gelosia da parte della signora Litumlei bisognava compilarlo in sedute segrete, rinchiu­ derlo poi misteriosamente nell’archivio di famiglia non ancora iniziato, in modo che venisse in luce soltanto in tempi futuri, per narrare la storia del sangue dei Litumlei, quando la casata fosse in piena prosperità. John s’era già proposto di assumere dopo la morte del vecchio non già il semplice nome di Litumlei, bensì quello di Kabys de Litumley, poiché egli nutriva per il proprio co­ gnome, già così abilmente trasformato, una perdonabile predilezione. Si propose del pari di bruciare senz’altro il documento in preparazione, destinato ad attribuirgli una nascita illegale da una madre immorale. Malgrado ciò, per il momento era costretto a collaborarvi, il che rap­ presentò un leggero turbamento al suo benessere. S’adat­ tò tuttavia saggiamente all’inevitabile, e un mattino si rinchiuse insieme al vecchio nella stanza che dava sul parco per iniziare l’opera. Erano seduti a una tavola l’uno di fronte all’altro allorché scopersero che il loro pro­ getto era di men facile attuazione di quanto avessero pre­ visto, giacché nessuno dei due aveva mai scritto in vita sua cento righe di seguito. Non riuscivano a trovare un principio, e quanto più stavano a rimuginarci, tanto meno li soccorreva la fantasia. Alla fine al figlio venne in mente che era anzitutto necessario allo scopo avere un fascicolo di carta bella e resistente, se volevano compilare un docu­ mento davvero durevole. La cosa era evidente e i due si recarono insieme in città. Dopo aver trovato quel che cercavano si consigliarono l’uno l’altro, essendo una gior­ nata calda, di andare in un’osteria a cercarvi frescura e raccoglimento. Ci rimasero allegramente a bere parecchi quartucci e a mangiar noci, panini, salsiccette, sinché John esclamò d’un tratto di aver finalmente trovato il

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principio della storia e volle correre di gran fretta a casa, per non dimenticarla. «Corri, corri,» gli disse il vec­ chio «io nel frattempo me ne sto qui a inventare la continuazione: già m’accorgo che sta per arrivare!». John corse davvero in camera sua col quaderno nuovo e scrisse: «Fu nell’anno 17 . . ., un anno benedetto. Un barile di vino costava sette fiorini, un barile di sidro mezzo fio­ rino e un barile di acquavite di ciliegie sedici soldi. Un pane di due libbre costava quattro soldi, uno di segale la metà e un sacco di patate trentadue soldi. Anche il fieno era venuto bello e uno staio di avena costava due fiorini. Erano riusciti bene anche i piselli e i fagioli, ma andavano male la canapa ed il lino, al contrario pure bene le olive e il sego, così che in complesso si verificava la notevole situazione per cui la società civile era assai ben nutrita e abbeverata, scarsamente vestita, ma bene illuminata. Così l’anno si avviava alla fine e ognuno era giustamente cu­ rioso di vedere in qual modo si sarebbe iniziato l’anno nuovo. L’inverno si rivelò un regolare e autentico inverno, limpido e freddo: una calda coperta di neve proteggeva sui campi le giovani sementi. Tuttavia alla fine si veri­ ficò un caso singolare. Tornò a nevicare, a disgelare e a rigelar di nuovo nel mese di febbraio, con così frequente alternanza, che non solo molte persone si ammalarono, ma ne derivò anche tal quantità di ghiacciuoli, che tut­ ta la regione assunse l’aspetto di un grande magazzino di vetri, e ognuno teneva in capo un’assicella per non esser ferito dalle punte che cascavano. Del resto, i prez­ zi dei viveri si mantennero ancora come si è detto so­ pra, oscillando alla fine incontro a una singolare pri­ mavera». A questo punto arrivò di corsa e con gran zelo il vec­ chietto, gli strappò di mano il foglio e, senza neppure leg­ gere quel che c’era già, né dire una parola, continuò a scrivere : «Allora giunse Lui e si chiamava Adam Litumlei. Non intendeva scherzi ed era nato nell’anno 17... Venne d’impeto, come un temporale d’aprile. Era uno di quelli.

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Portava una giacca di velluto rosso, un cappello a piume, e una spada. Indossava anche un panciotto d’oro con il motto: “Gioventù non ha virtù !”. Portava sproni d’oro e cavalcava un destriero bianco; lasciò il medesimo nella prima locanda e gridò: “Non me ne importa un corno, perché è primavera e i giovani debbono sfogarsi !”. Pa­ gava tutto a contanti e ognuno lo ammirava stupefatto. Bevve il vino, mangiò l’arrosto, poi disse: “Tutto questo poco mi gusta!”. Quindi disse: “Vieni, o mio leggiadro amore, tu mi gusti meglio del vino e dell’arrosto, dell’oro e dell’argento! Che me ne importa! Pensa a quel che vuoi, quel che dev’essere, sarà”». Qui il vecchio si inceppò a un tratto e non riuscì ad andare avanti. Rilessero insieme quel che avevano scritto, lo trovarono discreto e per i seguenti otto giorni si riuni­ rono conducendo intanto una vita piuttosto allegra. Si recavano spesso in birreria per prendere nuovo slancio, ma non tutti i giorni arrideva loro la fortuna. Alla fine però John tornò ad afferrarla per il ciuffo, corse a casa e continuò : «Queste parole erano rivolte dal giovin signore Litumlei a una certa damigella Liselein Federspiel, la quale abitava nelle ultime case della città, dove comin­ ciano i giardini e c’è anche subito un boschetto. Essa era una delle più attraenti bellezze che la città mai avesse prodotto, con gli occhi azzurri e i piedi molto piccolini. Era di così bella corporatura che non aveva bisogno di busto e per questo risparmio, pur essendo piuttosto po­ vera, potè poi comprarsi un abito di seta violetta. Ma tutto ciò era trasfigurato da una melanconia generale, che tremava non soltanto sui leggiadri lineamenti del volto, bensì su tutta l’armonia delle membra della damigella Federspiel, così che al tacer del vento pareva di udire gli accordi dolorosi di un’arpa eolia. Era cominciato infatti un mese di maggio davvero singolare, nel quale pare­ vano convergere tutte le stagioni dell’anno. Vi fu al principio ancora una nevicata, cosicché gli usignoli can­ tarono con i fiocchi di neve sulla testolina, quasi portas­ sero un candido berrettino, poi sopraggiunse tale caldura,

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che i bambini facevano i bagni all’aperto e le ciliegie ma­ turavano, e la cronaca ci ha tramandato i versetti: C’è la neve nello stagno, i bambini fanno il bagno, rosse ciliegie e mosto in fermento un mese di maggio ch’è un vero portento.

«Tali fenomeni naturali rendevano meditabondi gli uomini che agivano in modo disparato. La giovane Liselein Federspiel che, particolarmente riflessiva, andava pure ponderando, per la prima volta si rese conto di te­ nere in propria mano la sua buona e la sua cattiva sorte, la sua virtù e la sua caduta, e mentre reggeva quella bi­ lancia e considerava la responsabilità della sua libertà, non faceva che rattristarsene. Mentre se ne stava lì a quel modo giunse l’audace cavaliere dalla giacca rossa e le dis­ se senz’altro : “Federspiel, io t’amo !”. Al che essa, per sin­ golare destino, mutò di colpo il corso dei propri pensieri e scoppiò in una clamorosa risata ! ». — Ora lascia che continui io ! — esclamò sopravve­ nendo con grande smania il vecchio che aveva letto alle spalle del giovane quella pagina — è proprio il mo­ mento buono ! — E continuò la storia nel modo seguente: «“Non c’è nulla da ridere !” disse il cavaliere “perché io non ammetto scherzi !”. Insomma le cose andarono co­ me dovevano andare; là dove c’era il boschetto sull’al­ tura se ne stette fra il verde Liselein Federspiel che con­ tinuava a ridere, ma già il cavaliere balzava sul suo bian­ co destriero e rapido si allontanava, così che, grazie alla legge della prospettiva, pochi momenti dopo prese un colore azzurrastro. Sparì per non mai più tornare, perché era davvero un tizzone d’inferno!». — Ah, è fatta ! — esclamò Litumlei gettando la pen­ na ! — ora ho assolto la mia parte, pensa tu a finire, io sono addirittura esausto da queste invenzioni infernali. Per tutti i diavoli! Non mi stupisco più che si stimino tanto i fondatori di grandi famiglie e che vengano dipinti in grandezza naturale, perché ora comprendo quale fa­

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tica mi costi il fondare la mia casata. Non ho però dimo­ strato audacia? John continuò la redazione: «La povera damigella Federspiel provò grande scon­ tentezza quando s’accorse d’un tratto che il giovane se­ duttore era sparito quasi contemporaneamente allo strano mese di maggio. Ebbe però la presenza di spirito di di­ chiarare dentro il suo cuore la cosa come non avvenuta e di ristabilire in questo modo lo stato di equilibrio della sua bilancia. Ma non godé che per breve tempo questo finale della sua innocenza. Giunse l’estate, si mietè il gra­ no ; dovunque si volgesse lo sguardo, si vedeva giallo tanta era l’aurea abbondanza; i prezzi calarono di nuovo note­ volmente; Liselein Federspiel se ne stava sulla collina a rimirare, ma tanto era il dolore e il pentimento che non vedeva più nulla. Giunse l’autunno; ogni vite era una fontana fluente, il terreno tambureggiava ininterrotta­ mente per la caduta delle mele e delle pere; tutti beve­ vano, cantavano, compravano e vendevano. Ognuno si provvedeva di roba, il paese intero era un gran mercato, ma per quanto abbondante e a buon prezzo fosse ogni merce, tuttavia anche le cose superflue eran lodate, vez­ zeggiate e accolte con gratitudine. Soltanto il dono che Liselein portava in sé non aveva valore e non trovava chi lo volesse, come se tutta quella massa di gente immersa nell’abbondanza non sapesse cosa farsi di una bocca di più. Essa allora si ravvolse entro la sua virtù e partorì, con l’anticipo di un mese, un vispo maschietto, il quale era veramente destinato a divenire il fabbro della propria fortuna. «Questo figlio seppe conservarsi valorosamente per tutta una movimentata esistenza, riunendosi alla fine, dopo meravigliose vicende, a suo padre, da questi te­ nuto in onore e rimesso in possesso dei suoi diritti; e questo è il secondo e noto capostipite della stirpe dei Litumlei». Sotto questo documento il vecchio scrisse di suo pu­ gno: «Visto e confermato, Johann Polycarpus Adam Li­ tumlei». John firmò a sua volta, poi il signor Litumlei vi

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appose il suo sigillo, il cui stemma mostrava tre mezzi ami d’oro in campo azzurro e sette cingallegre a qua­ dretti bianchi e rossi su di una sbarra verde messa di traverso. Furono tuttavia stupiti che il manoscritto non fosse divenuto più lungo, giacché erano riusciti a riempire a malapena uno dei quinterni del librone. Lo misero tutta­ via nell’archivio destinandovi provvisoriamente una vec­ chia cassetta di metallo e rimasero soddisfatti e di ottimo umore. Fra queste e altre occupazioni il tempo passò nel modo più gradevole; il fortunatissimo John si sentiva quasi a disagio, accorgendosi di non aver più nulla da sperare o da temere, da escogitare o da forgiare. Mentre si guardava attorno in cerca di una nuova attività, gli parve di accorgersi che la consorte del padron di casa avesse un atteggiamento piuttosto scontento e sospetto nei suoi ri­ guardi; gli pareva soltanto, non avendo ragioni per af­ fermarlo decisamente. Immerso nelle sue diverse preoc­ cupazioni, poco aveva osservato la donna, che quasi sem­ pre dormiva, oppure, se sveglia, mangiava un buon boc­ cone, anche perché essa di nulla si immischiava e pareva soddisfatta di ogni cosa, purché non si disturbasse la sua pace. Ma d’un tratto lo colse la paura che ella potesse preparargli un mutamento della situazione, facendo cambiar parere al marito o facendo qualcosa di simile. S’appuntò un dito sul naso e disse a se stesso : “Attento ! Mi pare che qui converrebbe dar l’ultima rifinitura al­ l’opera ! Come mai ho potuto trascurare per tanto tempo una partita di simile importanza? Il bene è bene, ma il meglio è meglio !”. Il vecchio era appena uscito per dedicarsi discreta­ mente a trovare una consorte adatta al suo capostipite, del che teneva il segreto anche con lui stesso. John decise senz’altro di recarsi dalla signora, col proposito indeter­ minato di farle in qualche modo la corte, di ingraziarsela, riparando così alla sua trascuratezza. Scese lo scalone con estrema cautela, sino alla camera, dove quella soleva trattenersi, e trovò al solito la porta appena accostata,

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perché la signora, malgrado la sua pigrizia, era abbastan­ za curiosa e desiderava udire quel che accadeva in casa. Entrò prudente e la vide di nuovo distesa e assopita, con in mano una tortina di lampone a mezzo sbocconcellata. Senza ben sapere che cosa gli convenisse di fare, s’accostò in punta di piedi, afferrò la tonda manina e la baciò rispettosamente. Quella non si mosse per nulla, ma aprì a mezzo gli occhi e lo fissò, senza storcer la bocca, con uno sguardo davvero singolare. John alla fine non seppe che ritirarsi confuso e balbettante e rifugiarsi in camera sua, dove sedette in un angolo, sentendosi sempre addosso quella strana sbirciatina a occhi socchiusi. Tornò a scen­ dere e la donna si mantenne immobile come prima, ma al suo avvicinarsi gli occhi tornarono a socchiudersi. Presa la fuga ancora una volta, John andò a sedersi in un an­ golo della sua stanza, ma poi balzò in piedi, scese una terza volta la scala, s’introdusse nella camera e vi rimase finalmente sino al ritorno del patriarca. Non passava ormai un giorno senza che i due non si incontrassero per ingannare il vecchio. La bella sonnac­ chiosa si fece vispa a suo modo, mentre John s’abbando­ nò a un’appassionata sconoscenza per il suo benefattore, sempre preoccupato di rassodare la sua situazione e di inchiodare definitivamente la fortuna. I due peccatori intanto moltiplicavano cordialità e de­ vozione verso l’ingannato Litumlei, che si sentiva a suo agio, convinto di aver messo a posto le cose nel modo mi­ gliore. Sarebbe stato difficile dire chi, dei due uomini, fosse il più soddisfatto di sé. Una mattina tuttavia parve che al vecchio toccasse la palma, e questo dopo un collo­ quio confidenziale avuto con la moglie. Se ne andava in­ fatti attorno con aria strana, senza riuscire a star fermo, tentando di fischiettare canzoncine allegre, il che non gli riusciva per mancanza dei denti. Pareva fosse cresciuto di un palmo da un giorno all’altro; insomma, era il ri­ tratto dell’uomo soddisfatto. Quello stesso giorno tuttavia la vittoria tornò a volgersi verso il più giovane, quando improvvisamente il vecchio gli domandò se non avesse voglia per caso di far un bel viaggio, per imparare a co-

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noscere il mondo e in particolare, mentre educava se stesso, studiare anche vari metodi di educazione infantile negli altri paesi, informandosi almeno dei princìpi pre­ dominanti in rapporto soprattutto alle classi aristo­ cratiche. Nulla poteva tornargli più gradito di simile meravi­ gliosa offerta, che accettò quindi con gran gioia. Furono presto compiuti i preparativi, gli furono date le lettere di credito ed egli se ne andò col massimo entusiasmo. Vide prima Vienna, Dresda, Berlino, e Amburgo, poi osò spingersi anche a Parigi, conducendo ovunque una vita di splendore e di saggezza. Passò in rivista tutti i luoghi di divertimento, i teatrini popolari estivi, percorse i gabinetti di rarità dei diversi castelli e aspettò ogni mez­ zodì sotto il sole cocente nelle piazze per vedere le parate, ascoltare la musica e rimirare gli ufficiali prima di anda­ re a pranzo. Quando vedeva quegli splendori insieme a migliaia di altre persone, provava uno speciale orgoglio e ascriveva a se stesso il merito di tutto quel fasto e ru­ more, giudicando poveri e ignoranti tutti quelli che non c’erano. Univa però al rapido godimento anche la più grande prudenza, per dimostrare al suo protettore che non aveva mandato per il mondo uno sciocco. Non dava un soldo a un mendicante, non comprava neppure una bazzecola a un bimbo povero, riusciva tenacemente a evi­ tare le mance al personale delle locande senza averne dan­ no e in genere discuteva ogni prezzo prima di risolversi. Lo divertiva oltre ogni dire prendere a gabbo ed eludere quelle povere creature perdute con cui si divertiva ai balli pubblici in lieta brigata con altri due o tre del suo stampo. Insomma: viveva con rallegra sicurezza di un provetto rappresentante di vini. Alla fine non volle rinunciare a una giterella nella nativa Seldwyla. Prese alloggio nel primo albergo, sedette misterioso e taciturno alla tavola comune, lasciando che i suoi concittadini si scervellassero per indovinare quel che fosse diventato. Erano persuasi che in fondo fosse tutta ap­ parenza, però per il momento egli viveva evidentemente nell’agiatezza, così che trattennero lo scherno e, pur ar­

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ricciando il naso, sbirciavano le monete d’oro che gli ve­ devano apertamente maneggiare. Egli d’altra parte non offrì nemmeno una bottiglia di vino, pur bevendone del migliore in loro presenza, e andava soltanto escogitando la maniera di far loro dispetto. Alla fine del suo viaggio ripensò di colpo all’incarico avuto di occuparsi delle istituzioni pedagogiche nei paesi visitati, per stabilire i criteri in base ai quali i figli della stirpe fondata da Litumlei e proseguita da Kabys avreb­ bero dovuto essere allevati. Gli riuscì molto comodo ri­ solvere tale problema a Seldwyla, giacché ciò gli permise di darsi le arie di una specie di ispettore scolastico inve­ stito di una misteriosa missione e di prendere così ancor meglio a gabbo i suoi concittadini. Era del resto nel posto giusto, giacché costoro da qualche tempo si erano dedi­ cati a una lucrosa speculazione, facendo di tutte le loro ragazze delle governanti da esportare. Venivano prepa­ rate a tal uopo figliole intelligenti o sciocche, sane o ma­ laticce, per mezzo di speciali istituti destinati a ogni esi­ genza. Allo stesso modo che si possono variamente cu­ cinare le trote, in bianco, fritte o farcite e così via, si pote­ vano preparar quelle brave ragazze in salsa ora netta­ mente cristiana e ora mondana, qui linguistica e là piutto­ sto musicale, indirizzandole o alle case signorili o alle famiglie borghesi, a seconda dei paesi da cui venivano le richieste a cui erano destinate. Il fatto curioso era che i Seldwylesi si serbavano perfettamente neutrali di fronte a quelle diverse destinazioni e neppure avevan cognizione di quei remoti ambienti, ma l’ottimo smercio era spiega­ bile in quanto gli acquirenti dell’articolo di esportazione non erano meno ignari e indifferenti. Un seldwylese che si dava arie di anticlericale deciso era capace di far pre­ parare le sue ragazze destinate all’Inghilterra alle pre­ ghiere e alle pie funzioni domenicali ; un altro che nei suoi discorsi in pubblico esaltava le virtù della schilleriana consorte di Stauffacher, ornamento di ogni libera casa elvetica, aveva esiliato quattro o cinque sue figlie nelle steppe della Russia o in altre regioni inospitali dove le poverine languivano in desolata solitudine.

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L’importante per quei bravi cittadini era spedire il più rapidamente possibile le misere fanciulle, armate di pas­ saporto e di ombrello, godendo poi i guadagni che esse mandavano a casa. Da tutto questo tuttavia era venuta formandosi una certa tradizione e abilità nel modo esteriore di educare le donne e John Kabys ebbe non poco lavoro per racco­ gliere e fissare i curiosi criteri vigenti con la sua ancor più curiosa capacità comprensiva. Visitò le diverse fabbriche ove si confezionavano le future istitutrici, interpellò di­ rettrici e maestre e cercò di formarsi una idea del come dovesse svolgersi in una grande famiglia l’allevamento di un maschietto sin dal suo inizio, e sempre a carico e fatica della gente a ciò pagata, senza pena o disagio dei rispettivi genitori. Compilò al proposito uno strano memorandum, che in pochi giorni, in grazia dei suoi zelanti appunti) divenne un grosso fascicolo col quale fece non poca impressione. Serbava il promemoria arrotolato in un astuccio di me­ tallo e lo portava sempre appeso al fianco con una cinghietta. Quando i Seldwylesi se ne accorsero, pensarono che fosse stato mandato a carpire il segreto della loro fio­ rente industria per trapiantarla all’estero. Allora insorsero contro di lui e lo cacciarono con insulti e minacce. Lietissimo di averli potuti irritare, se ne partì e arrivò ad Augusta sano e vispo come un pesce. Giunto così alle­ gro a casa, la trovò altrettanto animata e serena. La pri­ ma persona che incontrò fu una bella contadinotta dal petto prosperoso : portava una scodella d’acqua calda ed egli la credette una nuova cuoca e la considerò non senza simpatia. Era però impaziente di salutare la padrona, ma questa non riceveva ed era a letto, benché la casa echeg­ giasse di uno strano rumore. Questo proveniva dal vec­ chio Litumlei che girava attorno cantando, gridando, ri­ dendo e facendo chiasso, con gli occhi sbarrati, tutto rosso per la gioia, l’orgoglio e la soddisfazione. Porse il ben­ venuto al suo protetto con giovialità e insieme con dignità, affrettandosi però a scappar via, giacché pareva avesse un gran daffare.

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Di tanto in tanto si udiva da un certo punto della casa un sommesso squittire, come di una trombettina da bimbi ; la contadinotta dal petto prosperoso ripassò sulla scena con un mazzo di pannolini bianchi in mano gridando con la sua voce chiara: «Subito, tesoruccio mio! Subito, subito, piccino!». «Accidenti!» disse John «che bel bocconcino!». Ma tornò a tender l’orecchio verso il misterioso squit­ tio che non voleva cessare. — Ebbene? — gridò Litumlei, arrivando a passetti fret­ tolosi — non canta bene il nostro uccellino? Che ne dici, figliuolo mio? — Che uccellino? — domandò John. — Oh, buon Dio ! Infine tu non sai ancora nulla? — esclamò il vecchio — Finalmente ci è nato un figliolo, abbiamo nella culla un maschio, vispo come un porcelli­ no ! Tutti i miei desideri, tutti i miei antichi progetti sono ormai adempiti ! Il fabbro della sua fortuna rimase lì come una statua di sale, senza peraltro comprendere ancora tutte le con­ seguenze dell’evento, per semplici che fossero; intuì sol­ tanto di trovarsi in un bell’impiccio, sbarrò gli occhi e aguzzò le labbra come se avesse dovuto dare un bacio a un porcospino. — Suvvia, — continuò allegramente il vecchio — non stare a prendertela: si capisce che i nostri rapporti ven­ gono a trasformarsi un pochino; ho infatti già annullato è bruciato il testamento, e anche quell’allegro romanzo di cui non abbiamo più bisogno, ma tu rimarrai in casa nostra e dirigerai l’educazione del mio figliolo. Sarai mio consigliere e aiutante in ogni cosa e non mancherai di nulla finché io sarò al mondo. Ora va a riposarti, io intanto debbo cercare un bel nome per quel demonietto ! Ho già letto tre volte il calendario e voglio studiare anche qualche vecchia cronaca, dove ci sono degli alberi genea­ logici con nomi molto bizzarri! John si ritirò finalmente in camera sua e andò a sedersi nel solito angolo. Aveva ancora appeso al fianco l’astuccio di latta col suo memoriale pedagogico e in quel momento

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senza badarci lo teneva stretto fra le ginocchia. Si rese conto di come stavan le cose, maledisse la donna che gli aveva giocato quel brutto scherzo preparandogli un ere­ de, maledisse il vecchio che s’illudeva di aver un figlio­ lo legittimo, ma non seppe maledire se stesso che era pure l’unico e solo autore del minuscolo urlatore e che s’era per quella via diseredato da sé. Si sentiva impigliato in una rete inestricabile, ma fu tanto sciocco da correre di nuovo dal vecchio, tentando di aprirgli gli occhi. — E lei crede davvero — gli disse con voce soffocata — che quel bambino sia suo? — Come? Che dici? — rispose il signor Litumlei al­ zando gli occhi dalla sua cronaca. John cercò di fargli comprendere a mezze parole che egli non sarebbe mai stato in grado di diventar padre, che sua moglie doveva essersi resa colpevole di infedeltà e così via. Appena il vecchio ebbe capito di che cosa si trattava, balzò su come un ossesso, batté i piedi e si dimenò, urlando infine: «Fuori di qui, mostro sconoscente, canaglia e calun­ niatore ! Perché mai non dovrei essere in grado di mettere al mondo un figliolo? Parla, sciagurato ! È questo il rin­ graziamento per tutti i benefici ricevuti? Macchiar l’onore di mia moglie e il mio con la tua lingua malefica? Quale fortuna che io m’accorga a tempo di aver nutrito una mala serpe in seno ! È proprio vero che le grandi famiglie vengono subito assalite sin nella culla dall’invidia e dal­ l’egoismo! Vattene subito fuori dalla mia casa!». Così dicendo corse tremando di rabbia al suo scrittoio, ne trasse una manciata di monete d’oro, le ravvolse in un pezzo di carta e le gettò ai piedi del malcapitato. «Eccoti un po’ di viatico e con questo liberami di te per sempre!». Così dicendo s’allontanò, mandando si­ bili rabbiosi al pari di una vipera. John raccattò il pacchettino, ma non lasciò la casa, bensì si ritirò più morto che vivo in camera sua, si spogliò sino alla camicia e, benché non fosse ancora sera, si coricò battendo i denti e gemendo pietosamente. Malgrado la

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disperazione, non1 riuscendo a trovar sonno, contò il de­ naro ricevuto e quello risparmiato dal suo viaggio. “È inutile,” disse alla fine “io non penso ad andarmene: voglio e debbo rimanere !”. In quel momento due agenti di polizia bussarono alla porta, entrarono e gli ordinarono di alzarsi e di vestirsi. Egli obbedì impaurito e quelli gli imposero anche di fare i bagagli; il che fu facile, perché erano ancora tutti in ordine, dal suo viaggio. Lo accompagnarono poi fuori di casa, seguiti da un ser­ vo che portava la sua roba : costui la pose in mezzo alla strada e gli chiuse la porta in faccia. I due allora gli lessero da una carta il divieto di rientrare in quella casa e s’al­ lontanarono. John rimase lì fermo a guardare ancora una volta la dimora della sua perduta felicità, quando s’avvide che si apriva una delle finestre alte, e che la bella balia ritirava dei pannolini asciutti, mentre si faceva di nuovo sentire la vocetta del neonato. Allora finalmente cercò rifugio con tutta la sua roba in una vicina locanda, tornò a spogliarsi e si mise a letto indisturbato. Il giorno seguente corse in preda alla disperazione da un avvocato per sentire se non ci fosse proprio nulla da fare. Ma appena questi ebbe ascoltato una metà dell’espo­ sizione, gli gridò iroso: «Faccia presto a levarsi di torno, pezzo d’asino, con la sua estorsione di eredità, altrimenti dovrò farla arrestare!». Tutto scombussolato, si decise a tornare alla sua brava Seldwyla, di dove era partito non molti giorni prima. Tornò al buon albergo e per qualche tempo consumò meditabondo il suo peculio, ma quanto più quello si liquefaceva, tanto più scorato egli diventava. I Seldwylesi fecero allegramente brigata con lui e quando, trovandolo ormai molto più affabile, ne ebbero appresa la mise­ randa sorte e lo seppero in possesso di un piccolissimo capitale, gli vendettero una modesta e vecchia fabbri­ ca di chiodi fuori porta, che secondo le loro assicura­ zioni dava da campare. Per mettere insieme il prezzo d’acquisto John dovette tuttavia sacrificare tutti i suoi

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gioielli e ornamenti, il che fece senza troppo sforzo, perché ormai non vi fondava più alcuna speranza: lo avevano sempre ingannato e, ormai, non voleva più cu­ stodirli. Insieme alla fabbrichetta, che produceva tre o quattro qualità di chiodi semplici, era compreso nell’acquisto un vecchio operaio, dal quale John imparò senza troppa fa­ tica il mestiere, diventando un buon fabbro, che si diede a martellare prima con poca voglia, ma poi con piena contentezza, imparando tardi a conoscere la fortuna del lavoro semplice e indefesso, che seppe liberarlo davvero da ogni preoccupazione e purificarlo dalle sue male passioni. Riconoscente, lasciò che delle belle foglie di zucca coi loro viticci si arrampicassero sulla sua oscura casupola, ombreggiata anche da un grosso sambuco, mentre la pic­ cola fucina brillava sempre di un buon focherello. Solo in certe notti tranquille ripensava ancora un poco al suo destino, e talvolta, quando tornava l’anniversario di quel pomeriggio in cui aveva sorpreso la signora Litumlei con la tortina di lampone in mano, al fabbro della sua fortuna veniva voglia di sbattere il capo contro l’incudine, tanto era il pentimento per l’inetto aiuto dato alla sua sorte. Ma anche questi eccessi di rimpianto cessarono a poco a poco, man mano che gli riuscivano meglio i chiodi che andava forgiando.

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Viktor Störteler, dai concittadini di Seldwyla chiamato senz’altro Viggi Störteler, conduceva una vita comoda e ordinata, possedendo una redditizia azienda di spedizioni e commercio, nonché una mogliettina graziosa, sana e di buona indole. Questa, oltre alla gradevole personcina, gli aveva portato un discreto patrimonio toccatole in eredità e viveva quieta e affettuosa con suo marito. Quel denaro gli era stato molto utile per l’ampliamento dei suoi affari, ai quali si dedicava con assiduità e ac­ cortezza, facendoli ottimamente prosperare. In ciò gli giovava una sua qualità insolita in quel paese, che gli tornava talvolta di vantaggio. Egli infatti aveva trascorso il periodo del suo tirocinio, e poi alcuni anni ancora, in una città abbastanza grande, dove era divenuto membro di una «Associazione fra giovani ragionieri» che aveva per fine l’allargamento della loro cultura scientifica ed estetica. Quei giovanotti, affidati esclusivamente a se stes­ si, erano naturalmente incorsi in eccessi, commettendo sciocchezze d’ogni sorta. Leggevano i libri più astrusi dedicandovi poi le discussioni più caotiche; recitavano nel loro teatrino Faust e Wallenstein, Amleto, Re Lear e Nathan il saggio-, davano difficili concerti e si leggevano l’un l’altro saggi terrificanti: insomma non vi era auda­ cia che essi non osassero. Di là Viggi Störteler aveva attinto e recato poi a Seld­ wyla il suo amore per la cultura e l’erudizione; ma, date quelle sue tendenze, disdegnava di dividere gli usi e i costumi dei suoi concittadini ; si diede anzi a procurarsi li­ bri, a farsi socio di ogni biblioteca circolante e di ogni cir­ colo di lettura della capitale; si abbonò alla «Garten­ laube» e divenne sottoscrittore di ogni pubblicazione a dispense, giacché queste offrivano uno studio continuativo e ben distribuito. A quel modo serbò se stesso al riparo da ogni danno nella vita domestica e anche nella sua azienda. Dopo aver condotto di lena e con prudenza i suoi affari giornalieri, accendeva la pipa, allungava il naso e si

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sprofondava nella lettura, mare ove navigava con gran perizia. Ma andò ancor oltre. Scrisse egli medesimo pa­ recchie dissertazioni che definì a sua moglie Essays, ri­ petendo sovente che riteneva di essere per disposizione un saggista. Quando però i suoi saggi vennero cestinati dalle riviste alle quali li mandava, si diede a scriver novelle e ad avviarle verso i più svariati gazzettini domenicali, sotto il nome di «Corrado della Selva». Con queste ebbe maggior fortuna: le sue opere comparvero realmente e solennemente col suo splendido pseudonimo nelle regioni più disparate dell’impero tedesco, tanto che ben presto qua un Rodrigo Della Valle, là un Ugo Dell’Isola, altrove un Genserico del Prato cominciarono ad ac­ cusare acute trafitture di gelosia per quel nuovo intruso. Partecipò anche in segreto a tutti i concorsi per novelle aumentando non poco in tal maniera la gradevole varietà della sua vita ritirata. Traeva sempre nuova spinta dai suoi più o meno brevi viaggi d’affari, durante i quali incontrava nei piccoli alberghi numerosi spiriti affini con cui scambiare una parola cólta; anche le visite alle salette di redazione di fogli amici nelle diverse pro­ vince segnavano un nobile sollievo in mezzo agli affari, benché di tanto in tanto gli costassero una bottiglia di vino. Un’avventura capitale gli toccò una volta in una cit­ tadina della Germania centrale alla tavola di ritrovo se­ rale d’una trattoria, dove sedevano, accanto ai vecchi clienti locali, parecchi giovani viaggiatori di commercio forestieri. I degni signori dai capelli canuti discutevano pianamente di opere svariate, parlavano di Cervantes, di Rabelais, di Sterne e di Jean Paul, nonché di Goethe e di Tieck, vantando il fascino che viene dal poter seguire il segreto della composizione e dello stile, senza che ne sia attenuato il godimento per il contenuto. Stabilivano ade­ guati confronti, cercando il filo conduttore che circola in tutte le opere simili; ora ridevano insieme di un ricordo, ora con faccia austera si compiacevano d’una nuova bel­ lezza scoperta, ma tutto senza chiasso ed eccitazione, e alla fine, dopo che l’uno ebbe bevuto la sua tazza di tè,

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l’altro vuotato il suo quartino, liberarono della cenere le loro pipe di gesso e s’awiarono con passi un poco gottosi al consueto riposo. Uno soltanto si ritrasse inosservato in un angolo a leggere il giornale e bere un bicchiere di ponce. Ma ecco che allora si sviluppò una conversazione fra gli avventori più giovani, che se ne erano stati ad ascol­ tare in silenzio. Uno cominciò a lanciare un commento ironico sui discorsi venerandi dei vecchi, che certamente otto lustri avanti erano stati gli astri del luogo. La sua os­ servazione fu accolta con vivacità: una parola tirò l’al­ tra e ne derivò una seconda discussione d’argomento let­ terario ma di intonazione del tutto diversa. Intorno agli antiquati argomenti di quei vecchi ricordavano a mala­ pena certe frasi fatte di cattivi manuali di storia letteraria, ma in compenso venne in luce la conoscenza più estesa ed esatta di quelle pubblicazioni di genere leggero che sboc­ ciavano quotidianamente, e anche di tutte le personalità o personcine che ad ogni ora trovavano sfogo sotto i più singolari nomi d’arte in mille giornalucoli. Fu presto chia­ ro che essi non erano, come quelli, vecchi ignoranti giu­ dici a riposo o eruditi senza carica: no, eran gente del me­ stiere ! Non passò molto tempo infatti, che già si udirono le parole editore, compenso, cricca, camorra, tutte in­ somma le cose atte a eccitare l’ira e a nutrire la fantasia di simile gente. Già il tono era alto e il vocìo confuso come se fossero in venti a parlare, già gli occhi scintillavano ma­ ligni, né poteva tardare una scena di generale e glorioso riconoscimento. Ecco che l’uno si smascherò quale Guido Casadauro, l’altro, era Oskar Stella Polare, un terzo Cu­ niberto dell’Oceano. Anche Viggi allora non conobbe più esitazioni: mentre sin lì non aveva quasi parlato, seppe ora farsi riconoscere, non senza timidezza, come Corrado della Selva. E tutti sapevano di lui, come egli sapeva de­ gli altri, giacché codesti signori, che lasciavano intonso per decenni un buon libro, divoravano invece senza ri­ tardo ogni prodotto dei loro simili, facendone ricerca in tutti i caffè, non certo per interessamento vero, ma per una specie di singolare vigilanza»

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«Ah! Lei è Corrado della Selva?» chiesero con voci tonanti «Ah! Benvenuto!». Furon tosto fatte venire alcune bottiglie di un vinello fatturato e agro, di poco prezzo, il più a buon mercato fra quelli in bottiglia, e co­ minciò a levarsi un gran baccano. Bisognava far mostra della propria spregiudicatezza ! Tutti i galantuomini che avevano un qualunque successo e che in quel momento, cento miglia lontani, dormivano probabilmente il sonno del giusto, vennero spietatamente demoliti; ognuno af­ fermava di aver le notizie più esatte sul conto loro, e non vi fu obbrobrio che non fosse a loro attribuito, e il ri­ tornello conclusivo era per tutti la frasettina pronunciata con apparente indifferenza: «Fra l’altro è un ebreo!», alla quale faceva eco, con la stessa intonazione asciutta, il coro: «Già, già, si dice sia ebreo !». Viggi Störteler si fregava le mani entusiasta, pensando : “Sei proprio arrivato al tuo mulino ! Scrittore fra scrittori ! E che teste fini! Quanta intelligenza e quale santo sdegno !”. In quella notte, con l’aiuto di quel vino solforoso, per rivoluzionare il malo mondo e suscitare una novella aurora, fu decisa la formale e solenne fondazione di un nuovo periodo di Sturm und Drang, con intenzioni e attua­ zioni ben definite, per creare ad arte quei fermenti dai quali solo sarebbero potuti scaturire i classici dell’età moderna. Dopo aver peraltro concluso quel grandioso accordo, non ne poterono più: le loro teste stanche caddero sui petti ed essi dovettero cercare riposo; giacché questi pro­ feti non sopportavano il vin buono e tanto meno quello cattivo, e scontavano ogni anche piccolo disordine con grande debolezza e con nausea. Quando se ne furono andati, il vecchio cliente rimasto, che si era divertito un mondo a quella scena, chiese al ca­ meriere che gente mai fossero. — Due di loro — rispose il cameriere — sono viaggia­ tori di commercio, un signor Störteler e un signor Huberl ; il terzo si chiama Stralauer, ma io conosco bene solo il quarto, che si fa chiamare dottor Mewes e ha soggiornato

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qui alcune settimane durante lo scorso inverno. Nella sala da ballo del «Luccio Azzurro», dove ero io, tene­ va conferenze sulla letteratura tedesca, copiandole paro­ la per parola da un libro. Questo doveva essere stato sot­ tratto a qualche biblioteca, a giudicar dalla copertina, ed era tutto pieno di orecchie, di macchie d’inchiostro e d’unto. Oltre a questo libro possedeva un manuale sle­ gato e gualcito di conversazione francese e delle carte da giuoco che, a guardarle contro luce, rivelavano figurine oscene. Soleva copiare dal suo libro a letto per rispar­ miare il riscaldamento, ma finì per rovesciare il cala­ maio sulla trapunta e il lenzuolo, e quando gli fu messo in conto un modesto indennizzo, minacciò di diffamare nei suoi scritti e nei suoi articoli il «Luccio Azzurro». Aveva anche altre cattive abitudini, così che alla fine fu messo alla porta. Scrive sotto il nome di Cuniberto dell’Oceano una quantità di storie dolciastre di seconda mano. — Guarda guarda ! — osservò il vecchio — Voi par­ late di simili cose come un uomo del mestiere, caro Georg ! Il cameriere arrossì, esitò un momento, poi disse: — Le confesserò che io medesimo per un anno e mezzo sono stato scrittore. — Perbacco, perbacco ! — esclamò il vecchio — E che cosa avete mai scritto? — Non saprei dirlo con precisione ormai, — replicò l’altro — ero di servizio in un caffè affollato tutto il giorno da un gran numero di persone della stessa qualità di que­ sti clienti d’oggi. Si stendevano qua e là, girondolavano, discutevano, sfogliavano i giornali, s’arrabbiavano delle fortune altrui, si rallegravano delle altrui disgrazie e di quando in quando scappavano a casa a buttar giù con la massima leggerezza una dozzina di pagine; non avendo nulla imparato, non avevano neppure il concetto di una qualsiasi responsabilità. Divenni ben presto il confidente di questi signori, la loro esistenza mi parve di gran lunga preferibile alla mia condizione subalterna e mi feci anch’io scrittore. Nella mia cameretta serbavo un pacco di vecchi giornali francesi raccolti nelle diverse osterie, dove avevo servito in passato, per avvezzarmi un poco alla lingua,

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così come si conviene a un giovane cameriere. Da quelle gazzette dimenticate tradussi un miscuglio di storie e di chiacchiere d’ogni genere, anche intorno a personalità che non conoscevo affatto. Per ignoranza della lingua te­ desca mantenni sovente non soltanto la costruzione e la sintassi francese, ma anche tutti i gallicismi; poi aggiunsi alcune sbrodolature di testa mia in quel gergo che io ri­ tenevo caratteristico dei letterati. Dopo aver riempito di simili scarabocchi un libro intero, l’affidai come opera originale ai miei clienti ed amici, ed ecco che quelli lo accolsero con molti incoraggiamenti, riuscendo subito a darlo alle stampe. È proprio strana la sorte dei cattivi scribacchini ! Quantunque siano le persone più maligne e litigiose del mondo, hanno una tendenza invincibile ad associarsi e a moltiplicarsi in formazioni di massa, quasi per esercitare cosi una pressione meccanica sugli strati superiori. Il mio libretto fu subito annunciato come il notevole esordio di un giovane autore d’ingegno, il quale conciliava l’acutezza di giudizio tedesca con l’eleganza francese, il che derivava certamente dal suo soggiorno di parecchi anni a Parigi. In realtà io ero stato in quella città sei mesi a servire un oste tedesco. Poiché fra quella robaccia tradotta v’erano parecchi aneddoti piccanti or­ mai dimenticati, questi presero a circolare assieme al no­ me del mio libro, in un gran numero di giornali. Sulla copertina mi ero fatto chiamare George d’Osan, inver­ sione del mio onorato nome Giorgio Naso. E subito si dis­ se da tutte le parti: «George d’Osan nel suo interessante libro racconta quanto segue del tale o del tal altro», così che io montai in superbia e divenni tanto sfacciato da continuare per quella via senza una sosta, come una palla di cannone quando è lanciata. — Ma per tutti i diavoli ! — esclamò allora il vecchio — che materiale avevate mai da trattare? Non potevate continuare a pescarlo nel pacco dei vostri giornali vecchi ! — No ! Non avevo altro argomento, per così dire, che lo scrivere medesimo. Mentre intingevo la penna nell’in­ chiostro scrivevo su questo inchiostro. Appena mi vidi proclamato scrittore scrissi sulla dignità, sui doveri, sui di­

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ritti e i bisogni della classe dei letterati, sulla necessità di essere solidali di fronte alle altre classi : scrissi intorno al vocabolo stesso Schriftsteller, «scrittore», senza sapere che è un’antica, genuina parola tedesca, e ne chiesi l’abolizio­ ne, andando a scovare altri termini che a me parevano molto più intelligenti ed esatti, proponendoli alla consi­ derazione, come ad esempio «scriba» o «inchiostrere», «libraro» o «brandipenna» e via dicendo. Insistetti pure per un’associazione di tutti coloro che scrivono, sì da con­ seguire la garanzia di un reddito buono e sicuro per ciascun membro : insomma con tutte queste sciocchezze feci gran chiasso e per un certo tempo fra gli altri scribac­ chini ebbi la fama di un furbacchione. Tutto riferivamo ai nostri problemi e sempre tornavamo agli «interessi» della letteratura. Io continuai a scrivere, pur essendo il più in­ cólto uomo del mondo, esclusivamente intorno agli scrit­ tori, senza conoscerne il carattere per esperienza diretta, e misi assieme Un’oretta con X, Una visita a N., o Un incontro con P., oppure Una serata con la Q_. e altre cose ancora, ar­ rangiandomi con indicibile petulanza, impudenza, e bam­ binaggine. Avevo inoltre organizzato una vera industria con: «Ci scrivono da ...» di ogni provenienza, diffon­ dendo qualsiasi meschina novità e pettegolezzo. Quan­ do non trovavo proprio materia nel presente, tradu­ cevo per la ventesima volta l’idillio di Sesenheim dalla bella lingua goethiana nel mio volgare gergo e lo man­ davo come frutto di nuove ricerche a qualche oscura gazzetta di provincia. Oppure estraevo da autori noti quei passi intorno ai quali in tempi recenti si era poco discusso, almeno che io sapessi, e li facevo circolare con alcune stupide osservazioni come fossero scoperte. Altre volte copiavo da un libro di recente pubblica­ zione una lettera o una poesia e la mettevo in circolazione come manoscritto inedito, e sempre avevo il compiaci­ mento di vederla fare fresca fresca il giro della stampa in­ tera. Più di ogni altro fu il poeta Heine a fornirmi sostan­ zioso nutrimento: sul suo letto di malato io prosperavo proprio come le rape su di un mucchio di letame. — Ma voi siete stato un autentico briccone ! — esclamò

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stupefatto il vecchio signore, e messer Giorgio replicò: — Non ero un briccone, ma soltanto un povero diavolo, che trasferiva le sue consuetudini di cameriere in un’atti­ vità e in rapporti dei quali non aveva proprio nessun con­ cetto né morale né immorale. Del resto il mio procedere non recava danno effettivo ad alcuno. — E come avete poi rinunciato a quella bella vita? — domandò il vecchio. — Altrettanto facilmente e rapidamente come ci ero en­ trato; — rispose l’ex scrittore — non mi trovavo a mio agio, malgrado l’esito brillante, e sentivo soprattutto la mancanza dei buoni cibi e degli avanzi di vini prelibati inerenti al mio stato precedente. Ero anche molto mal vestito, dovendo indossare estate e inverno una vecchia marsina di servizio celata da un leggero soprabito. Ina­ spettatamente mi toccò dal mio paese nativo una piccola somma, e, avendo sempre avuto la smania di vestire bene, ordinai subito a un sarto un’elegante marsina nuova e un bel panciotto, comprai una catenina dorata da oro­ logio, nonché una camicia fine con gala. Ma quando mi guardai allo specchio così in ghingheri, mi cadde il velo dagli occhi : mi giudicai d’un tratto troppo bello per uno scrittore e in compenso maturo per esser primo came­ riere in un ristorante di seconda categoria: mi cercai quindi un posto del genere. — Ma come si spiega — chiese ancora il cliente — che sappiate giudicare tanto assennatamente la vostra vita di allora? — Si spiega forse col fatto — replicò Giorgio Naso con un sorriso — che adesso io nelle ore libere cerco di eru­ dirmi, ma solo per mio piacere personale ! A questo punto finalmente il vecchio pagò il conto e se ne andò, dopo aver esortato il cameriere a interloquire in futuro nelle discussioni dei clienti, non lasciandosi sfuggire l’occasione di narrare tutto quel che rammentava delle proprie allegre imprese e vicende. Così avvenne che in quella trattoria i clienti fissi e il rispettivo cameriere posse­ dessero più cultura e preparazione che il piccolo congresso di scrittori che a quell’ora dormiva sotto il medesimo tetto.

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L’indomani quei signori si dispersero in tutte le direzio­ ni, non senza aver ancora discusso con la massima energia l’importante fondazione di un « nuovo periodo di Sturm und Drang». Cominciarono già a distribuirsi provvisoriamente alcune delle parti, e magnificarono come felice circo­ stanza il trovar ottimamente avviate in Viggi Störteler le relazioni con la Svizzera. Questi infatti si assunse di fare intanto la parte di Bodmer e di Lavater insieme, per offrire ospitalità e incoraggiamento ai novelli Klopstock, Wieland e Goethe che sarebbero giunti in Svizzera. Egli tornò quindi al suo paese pieno di speranze e di piani. Si lasciò crescere i capelli, ricacciandoli dietro le orecchie, inforcò occhiali di purissimo vetro e si fece cre­ scere una barbettina a punta, perché l’esterno corri­ spondesse all’importanza del contenuto, cui egli era giun­ to di colpo, in grazia delle sue nuove conoscenze. Fedele alla missione assuntasi, cominciò a guardarsi attorno in cerca di adepti fra i concittadini. Se appena udiva che un tale aveva mandato una novellina a un almanacco o messo insieme quattro versetti satirici, unica letteratura che fiorisse a Seldwyla, cercava di acquisire un membro al novello Sturm und Drang. Ma appena quella brava gente notava le sue intenzioni e comprendeva i suoi inviti biz­ zarri, lo faceva oggetto di risa e di nuove rime burlesche, che venivan poi lette a suo dileggio nelle osterie locali. Quando poi, durante un banchetto civico, chiese velata­ mente al segretario comunale che opinione egli nutrisse su Corrado della Selva e quegli gli rispose: «Corrado della Selva? Che razza d’asino è?», ne ebbe abbastanza e tornò a rinchiudersi nell’intimità della sua casa. Ivi si diede a osservare sua moglie e, vedendo la leg­ giadra Gridi seduta all’arcolaio con la sua cuffietta, la bocca rosea, il petto dal calmo respiro, i piedini graziosi, gli venne un’ispirazione: decise di innalzarla facendone la propria musa. Da quel momento le fece metter da parte l’arcolaio tutto ornato di anelli di avorio e di campanelline e togliere il nastro di seta verde dalla conocchia. In compenso le mise in mano un vecchio trattato di an­ tropologia, imponendole di leggerlo mentre lui lavorava

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in ufficio, tanto perché la grande causa non rimanesse neppure in quel tempo abbandonata. Se ne andò poi per i suoi affari, soddisfattissimo della trovata. Ma quando tornò a pranzo, impaziente del primo colloquio spirituale con la sua musa, questa scosse solo il capo e non seppe dir­ gli un bel nulla. “Debbo cominciare con maggior delicatezza” pensò, e dopo tavola le diede un volume, Lettere primaverili di una solitaria, con l’obbligo di leggerle prima di sera. Si recò poi nel suo magazzino per la spedizione di una partita di legno da tintoria, poi nel bosco, dove doveva presenziare a un’asta di corteccia di quercia. Concluse un buon af­ fare, il che lo indusse a una passeggiata, non priva tut­ tavia di nuova utilità. Ripose infatti il libretto dei conti, cavandone di tasca un altro più piccolo e munito di un fermaglio di acciaio. Si piantò davanti al primo albero incontrato, lo rimirò esattamente, poi scrisse: «Tronco di faggio. Grigio chiaro con chiazze e striature ancor più chiare. Due muschi di­ versi lo rivestono, uno quasi nerastro e un altro dai ri­ flessi di velluto lucente verde. Inoltre licheni giallastri, rossastri e bianchi che spesso si confondono. Da un lato sale sul tronco un tralcio d’edera. La luce sarà da studiare altra volta, giacché ora l’albero è in ombra. Forse utiliz­ zabile per scene con masnadieri». Si fermò poi davanti a un paletto conficcato nel ter­ reno, al quale un ragazzo aveva appeso una biscia morta, e scrisse : « Interessante particolare. Piccolo bastone infisso nel terreno. Cadavere di serpe grigiastro ravvolto attorno ad esso; irrigidito nella convulsione della morte. Delle formiche entrano o escono dalla cavità interna, portando vita nella scena di morte. Le ombre di sbieco di alcuni esili steli ondeggianti, le cui cime sono fornite di spighe rossastre, giocano sull’insieme. È forse morto Mercurio facendo infiggere in questa terra il suo bastone con le serpi morte? Quest’ultima allusione più adatta a novella di soggetto commerciale. N.B. Il paletto o bastone è vec­ chio e consunto, ha lo stesso colore della biscia: dove il sole lo illumina appare rivestito di peluria grigia-

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stra (quest’ultima osservazione dovrebbe esser nuova)». Anche davanti a una carreggiata si fermò e scrisse: «Motivo per racconto paesano: solco di carro semiriem­ pito d’acqua, ove nuotano piccoli insetti. Sentiero. Terre­ no umido, bruno scuro. Anche le orme sono colme d’acqua rossastra e ferrosa. Grande pietra sulla strada, in parte con tracce di recenti scalfitture, come da ruote di carrozza. Qui si potrebbe inserire la descrizione di una carrozza ribaltata, di lotte e violenze». Procedendo incontrò una povera contadinella, la trat­ tenne, le diede qualche soldo e la pregò di star ferma cin­ que minuti; dopo di che, guardandola da capo a piedi, scrisse: «Figura rozza, scalza, impolverata fin sopra le caviglie : vesticciuola azzurra a righe, corsetto nero, avan­ zo di costume nazionale. Testa ravvolta in fazzoletto rosso a scacchi bianchi.. .», ma d’un tratto la ragazza corse via a gambe levate, quasi avesse il diavolo alle calcagna. Viktor, seguendola con cupidi sguardi, scrisse svelto: «Magnifico! Figura popolare-demoniaca, essere elemen­ tare». Solo giunta ben lontano, quella si fermò e si volse a guardare : vedendo che continuava a scrivere, gli volse le spalle e si diede con il palmo aperto parecchie manate dietro le anche, scomparendo poi nel bosco. Viggi tornò a casa, carico della sua preda al pari di un’ape. — Ebbene, mia piccola musa, — gridò arrivando da sua moglie — hai letto il tuo libro? Io ho fatto un’ottima passeggiata, porto a casa studi eccellenti, della cui utiliz­ zazione parleremo questa sera stessa ! — Ma la sposa non sapeva che rispondergli, giacché aveva trascorso il po­ meriggio in giardino a sgusciare tranquillamente piselli. Questa volta il marito scosse solo il capo pensando tra sé: “Strano! Ma forse è meglio cominciare subito con la pratica e affidarsi all’acutezza femminile !”. Seguendo tal metodo le lesse durante la cena le annotazioni della gior­ nata, avviò un discorso sull’utilità di tali osservazioni, e mentre le dava il consiglio di fissare anche lei per iscritto analoghe percezioni e di comunicargli poi quanto avrebbe raccolto, la invitò a esprimere la sua idea su tutto questo.

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— Io non ci capisco nulla! — fu la sua unica risposta. Imponendosi di esser paziente, lui disse: — Vogliamo allora considerare subito un insieme, che forse ti riuscirà più chiaro, e nel quale tu forse saprai co­ gliere l’inserimento di quelle parti, per raffinato che sia? Andò quindi a prendere il suo ultimo manoscritto e co­ minciò a leggerlo ad alta voce, spesso interrotto dagli in­ ciampi causati dalle cancellature e dalle correzioni, non­ ché dagli spostamenti degli occhiali che lo abbagliavano. Si accorse tuttavia soltanto dopo una mezz’ora che sua moglie s’era assopita. Fece allora tintinnare energicamente il coltello contro il candelabro d’ottone e, alla brava Gridi destatasi con un sussulto, disse in tono di severo rimprovero: — Così non si può continuare, cara moglie ! Vedi co­ me io faccio ogni sforzo per elevarti sino alla mia cultura e tu invece non mi aiuti neppure un pochino ! Sai che ho iniziato la spinosa carriera del poeta, che ho quindi bi­ sogno della comprensione, della spinta entusiasmante, della partecipazione affettuosa di una creatura femminile, di una consorte di affini sentimenti, e tu mi lasci in asso, tu ti addormenti ! — Ma, mio caro marito — replicò la signora Gritli ar­ rossendo a quei discorsi — a me pare che un vero poeta debba sapere la sua arte senza bisogno di simile suggeritrice ! — Bene ! — gridò Viggi — Scherniscimi anche, invece di sollevarmi e di confortarmi ! Benone ! Procederò solo, in nome di Dio, per la mia strada ! Andò a letto rannuvolato e imbronciato e sua moglie gli si coricò accanto con la paura che egli stesse per per­ dere la ragione. Tenne il broncio parecchi giorni, proce­ dendo solo per il suo cammino : ma poi non ci resistette e decise di imporre il proprio volere con severità virile, co­ stringendo cioè la moglie a quel che un giorno sarebbe stato per lei motivo di gratitudine. Abbozzò in fretta un piano di educazione, preparò un certo numero di libri, affrontò la consorte ordinandole di leggere senza alcun fallo e di imparare quel che egli le assegnava. Essa si trovò

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in un grave frangente : comprese che la pace domestica cor­ reva pericolo di esser distrutta; d’altra parte non osava chieder consiglio a nessuno per non tradire il marito espo­ nendolo allo scherno della gente, alla quale tutta la storia sarebbe stata di grande spasso. Si rassegnò quindi, benché con cuore irato, e fece quanto lui desiderava : prese cioè in mano quei libri, cercando di leggerli quanto più attenta­ mente le fosse possibile. Ascoltò pure con zelo i suoi discor­ si e ammaestramenti, si guardò dall’assopirsi, e fece persin mostra di provar gusto e comprensione per talune cose, illudendosi che a quel modo sarebbe più presto sfuggita alla disgrazia. Ma in segreto versava lagrime amare; aveva onta di se medesima in quella situazione stolta e umiliante, e spesso scagliava lontano i libri o li calpe­ stava. Suo marito aveva infatti la mania di farle leggere proprio tutto quel che riusciva a radunare di roba noiosa o aridamente artificiosa e affettata. Sulle prime lui fu abbastanza soddisfatto della sua do­ cilità, ma quando dopo alcune settimane osservò che la donna non irradiava alcun eccitamento entusiasmante, un bel mattino le disse: «A questo modo non arrive­ remo lontano! Chiamiamo dunque in soccorso la vita stessa, la bella passione! Oggi io debbo partire per un viaggio abbastanza lungo, dato che bisogna avviare gli affari dell’autunno. Ebbene: ci scambieremo un carteg­ gio che un giorno si potrà far leggere ! Si tratta dunque, mia cara mogliettina, di dar moto ai tuoi pensieri e ai tuoi sentimenti! Io ti scriverò subito dalla vicina città una prima lettera e tu risponderai nello stesso tono. Non ve­ nirmi però a raccontare che hai già trinciato i crauti o ordinato le mie camicie da notte nuove, e che al mio ri­ torno mi vuoi tirar le orecchie, o che una notte hai dor­ mito con la mia berretta, dimenticandotene poi al mat­ tino, tanto da fare la prima colazione senza toglierla, o altre trivialità del genere, come sei usa scrivere tu ! Ah, no ! Coraggio ! Cioè, sii donna finalmente, starei per dire, metti in luce la tua superiore femminilità e lascia echeg­ giare piene e pure quelle armonie che certo dormono in te, così come in un bel corpo deve vivere una bell’anima.

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Insomma: osserva il tono, lo spirito delle mie lettere é regolati in conformità ... né altro ho da dirti ! ». Quando il marito fu nel salotto pronto alla partenza, Gridi lo sorprese col dono di una graziosissima valigetta di giunco a colori nella quale trovavano posto nel modo più comodo e appetitoso un pollo arrosto, alcuni panini, due bottigliette di cristallo piene di vino vecchio e di li­ quore, un bicchiere d’argento, una posata e due tovagliolini. L’aveva fatta confezionare lei su proprie indicazioni, ricordando che spesso il marito si era lamentato di dover soffrire la fame e la sete negli interminabili viaggi in fer­ rovia. Egli, dominato dalle proprie idee, prese distrattamente il dono e congedandosi disse ancora una volta con fredda severità: «Distogli i tuoi pensieri da queste cose materiali e medita su quel che ti ho detto ! Considera che da quest’ultima prova dipendono la pace e la felicità del nostro avvenire ! ». Cosi dicendo s’allontanò e, prima che fossero trascorse due ore, aprì la valigetta e si diede a consumare un pasto appetitoso e stuzzicante per i suoi compagni di viaggio. Il pollo era trinciato perfettamente e poi ricomposto con arte; i panini eran di giusta cottura: rimaneva soltanto l’incertezza se bere il vecchio Sherry o l’eccellente grap­ pa di ciliege, ma fini per prendere di tutt’e due. Se la go­ dette lietamente e alla fine accese un sigaro togliendolo dall’astuccio ben fornito che sua moglie gli aveva rica-i mato. Questa intanto stava a casa tutt’altro che di buon umore: era piena di preoccupazioni, giacché quell’osti­ nato originale di un signor Viggi Störteler aveva esco­ gitato una via meravigliosa per tormentarla anche da lontano, e la sua partenza, invece di liberarla da un incubo, pensiero che del resto esso pure era per lei nuo­ vo e conturbante, le faceva attendere il portalettere co­ me un fantasma di terrore. Che tutta la faccenda si fa­ cesse ormai seria, lo dimostravano le ultime parole del marito. Aspettava dunque angosciata gli eventi, propo­ nendosi, se appena le fosse stato possibile, di rispondere alle lettere di suo marito secondo le proprie forze migliori.

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Ed ecco, che, passate sessanta ore, arrivò la seguente epistola: «Diletta amica dell’anima mia! Quando due stelle si baciano, si inabissano due mondi ! Quattro labbra rosee s’irrigidiscono, se sul loro bacio cade una goccia di veleno! Ma l’inabissarsi e l’irrigidirsi so­ no beatitudine e il loro attimo vale quanto un’eternità ! Molto ho pensato e meditato senza trovar fine al mio pon­ derare. A che la separazione? Una cosa soltanto so op­ porre a questo tremendo interrogativo e scaglio la pa­ rola sul piatto della bilancia : l’ardore della mia volontà di amare è più forte della separazione, e se anch’essa fosse la negazione primigenia ... sin che questo cuore batte, l’universo non ha ancora perduto la primigenia affermazione ! Amata ! Lontano da te sono immerso nel­ l’ombra .. . Sono davvero stanco ! Cerco solitario il mio giaciglio ... Dormi bene ! ». A questa lettera era unito un bigliettino: «P.S. Ho di proposito, cara moglie, mantenuto breve questa prima lettera, perché il principio non ti apparisse troppo difficile. Vedi che in queste righe si tratta sempre di un sol motivo, del concetto di “separazione”. Esprimi i tuoi sentimenti in proposito e aggiungi un nuovo sti­ molo, che toccherà al tuo cuore e alla tua buona volontà farti trovare. Oggi per la prima volta dalla mia partenza riposo in un letto, speriamo che non ci siano cimici! Il giovane Müller della Burggasse, qui incontrato, mi ha chiesto quaranta franchi in prestito, così en passant e in presenza di altri viaggiatori, tanto che nella fretta non ho potuto ricusarglieli. Sapendo che i suoi genitori hanno ancora una partita di semi oleosi, sarà bene che il nostro commesso vada a comprarli facendoli mettere in conto. Ma subito, prima che essi sappiano che il ragazzo mi deve qualcosa, altrimenti non avremo né semi oleosi né de­ naro». «N.B. Scriveremo le notizie domestiche e d’affari su foglietti extra come questo, in modo da poterli poi tener

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distinti. In attesa della tua sollecita risposta, sono il tuo marito e amico Viktor». Gridi se ne stava ora lì con la lettera in mano e non sa­ peva che cosa rispondere. Sebbene fosse riuscita a met­ tere insieme alcuni prosaici pensieri sulla crudeltà o l’utilità della separazione, le mancava ogni trovata per il nuovo stimolo che avrebbe dovuto aggiungere, e se anche qualcosa le si presentava alla mente, era ben lontana dalle stelle baciantisi e dall’affermazione primigenia; impalli­ divano pure nel confronto le sue consuete considerazioni sul distacco relative soltanto alla necessità e alla reddi­ tizia efficacia d’un giro d’affari, giacché per lei non esi­ stevano altri moventi. Scese in giardino con la lettera e si mise a passeggiare in su e in giù con crescente angoscia : vide passare il com­ messo di suo marito, e le venne l’idea di confidarsi con lui esponendogli i suoi crucci e inducendolo ad aiutarla. Ma rinunciò subito a quell’idea, per non distruggere in lui il dovuto rispetto verso il principale. In quel momento il suo sguardo si volse al giardinetto della casa attigua, di­ viso dal suo soltanto da una siepe, e d’un tratto la sua astu­ zia femminile escogitò una strana via di salvezza, per la quale essa, poi, si avviò senz’altro, senza pensarci a lungo e come ispirata da una luce superiore. Nella casetta abitava un povero maestro supplente della città, di nome Wilhelm, un giovane considerato di scarso giudizio e di corta mente, che aveva però begli occhi scuri e sentimentali. Egli guardava con gran gioia le donne, ma era eccezionalmente timido e taciturno e inoltre, dato il suo modestissimo impiego, non poteva pensare a sposarsi o comechessia a far la corte al bel sesso. S’accon­ tentava quindi di ammirare la bellezza da lontano e, poi­ ché per la sua brama non c’era alcuna possibilità di suc­ cesso, sia che l’oggetto della sua ammirazione fosse signora o ragazza, egli con tutta onestà si permetteva di variare, scegliendo or l’una or l’altra quale meta dei suoi pensieri. Viveva così dentro il suo cuore come un pascià e a lui appartenevano tutte le bellezze che a Seldwyla bevevano

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caffè, facevano calze o anche semplicemente andavano a passeggio. Per dare una base o una giustificazione scien­ tifica a questa sua condotta in certo modo frivola, il buon Wilhelm s’era anche staccato dal cristianesimo e avviato verso una filosofia veramente pagana, e ciò sebbene ogni domenica dovesse far intonare ai bambini i canti in chiesa e sentirsi intanto spiegare il catechismo. Egli faceva rivivere tutti gli dèi e le dee della mitologia che aveva letto, e per suo spasso ne popolava il paesaggio. A seconda dell’aspet­ to del cielo di Seldwyla, si sentiva un germano, un greco o un indiano e in segreto trattava le sue donne al modo di quei suoi compatrioti. Solo quando il tempo era trop­ po desolato, il pane troppo scarso e in nessun canto gli appariva un benigno occhio femminile, soffiava via di colpo tutte quelle divinità, affermando tra sé e sé che per una simile esistenza non c’era bisogno di dio alcuno. Proprio questo maestrino era stato scelto dalla bella donna come suo salvatore, appena venutole in mente. Da parecchio sapeva che egli la guardava volentieri e che doveva essere persona tranquilla e timida, se sempre ar­ rossiva e abbassava gli occhi incontrandola. Le sembrò insomma l’uomo adatto a serbare un segreto. Essa copiò la lettera di suo marito, mutando però alcune parole e al­ tre aggiungendone, in modo che sembrasse scritta da una donna a un uomo. Poi piegò graziosamente il foglietto e lo suggellò senza apporvi alcun indirizzo. La sera tornò in giardino, proprio mentre Wilhelm an­ naffiava i suoi pochi fiori lungo la siepe. Si accostò ad essa quanto possibile e lo chiamò sottovoce per nome. Esitante e furtiva gli mostrò la letterina e quand’egli alzò lo sguardo, gli chiese, lanciandogli un’occhiata radiosa, se fosse capace di tacere. Stavolta egli dimenticò di abbas­ sare Io sguardo, anzi senza rendersene conto le rise di ri­ mando come fa un bimbo di sei mesi al quale si mostri un oggetto lucente, e stava quasi per lasciar cadere l’annaf­ fiatoio e cercar di afferrare la sua testa e di avvicinarla alla propria bocca, come fanno i bimbi ancora incapaci di rendersi conto delle distanze. Ma non rispose sin che

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essa ripetè la domanda, al che egli assentì seriamente; «Prendete allora questa letterina, quando nessuno vi vede, e mettetemi lì in cambio una graziosa risposta ! Si tratta di uno scherzo e a voi non ne verrà alcun danno ! » disse ficcando la sua lettera fra il fogliame della siepe e allontanandosi di corsa, come se l’avesse morsa una serpe, per andare a nascondersi nel suo salotto. Wilhelm la seguì con lo sguardo, come uno che avesse visto un fantasma, poi prese pian piano la lettera dal biancospino, fece un giro, quale il minuscolo giardino glielo permetteva e si rifugiò nella sua cameretta che dava immediatamente sul giardino. Lesse una, due volte, in gran fretta, l’epistola, ed esclamò, mentre il cuore comin­ ciava a battergli potentemente: “Oh Gesù! È proprio una lettera d’amore !”. Tosto coprì di baci il foglio, poi ebbe un momento di paura, ma infine, ricordando lo sguardo lanciatogli da Gridi, si ritenne amato. Si guardò attorno nella cameretta. Un fitto intrico di convolvoli a fiori azzurri e rossi copriva quasi completamente le basse finestre, pure il sole al tramonto si faceva strada gettando le sue luci dorate sulla parete, sul suo lettuccio, sui suoi tre o quattro testi mitologici e sullo scrittoio. Il primo pen­ siero che gli pervase l’animo riconoscente fu il buon Dio, e precisamente il solo Dio cristianamente rispettabile. “Na­ turalmente !” esclamava aggirandosi su e giù con la lette­ ra in mano, quasi fosse un dispaccio “si capisce che c’è un Dio, naturalmente!”. E si sentiva beato di poter rappa­ cificarsi in quel modo piacevolissimo col Creatore che aveva creato anche le belle donne. Ma di colpo si fermò come spaventato. “Ma diavolo! Che faccio ora? Essa ha un marito !... Però ... quello è affar suo ! Io faccio quel che lei comanda ! Se lo vuole, non le rivolgerò mai una parola, e, se lo esige, mi sprofondo con lei nelle viscere della terra, e, se lo desidera, mi ci sprofondo da solo!”. Poi sedette sul letto e si abbandonò a sogni incantevoli; alla fine, nell’ultimo chiaror del tramonto, rilesse ancora una volta la letterina, che gli parve tuttavia un poco biz­ zarra e pazzerella. “Ah!” concluse, sorridendo tra sé “anche per un cuore donato vale il proverbio: A cavai

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donato non si guarda in bocca! Scriverò la risposta al modo suo, che essa ama e capisce!”. Accese un moccolo, cercò un foglio e stese una rispo­ sta alla lettera di Viggi, proprio come quello avrebbe desiderato, non senza spirito, e insieme pervasa dal cor­ diale fervore che sentiva in quel momento. Poi ripiegò il foglietto e uscì a nasconderlo nella siepe. Subito rientrò e andò dalla sua padrona di casa a mangiare la solita mi­ nestra, ma guarda ! fu ben stupito di non poterne inghiot­ tire che poche cucchiaiate, tanto si sentiva già sazio di tutte le delizie gustate, mentre in passato, nelle sue avven­ ture amorose soltanto sognate, aveva sempre serbato il miglior appetito. Si coricò subito smanioso di vedere se avrebbe sognato la sua diletta; senza di che le lunghe ore del sonno gli sarebbero apparse un imperdonabile danno e perditempo. Appena a letto cominciò, per la prima volta da tanto tempo, a pregare e a porgere sentitissimi ringra­ ziamenti al buon Dio per il dono prezioso, toccatogli così inaspettatamente, di una bella innamorata. Però, mentre pregava, s’interruppe intimidito, ricordandosi che la fac­ cenda non era certamente adatta a una preghiera, e quasi quasi deplorò di aver rimesso in trono così imprudente­ mente il Dio cristiano della sua infanzia, che non si la­ sciava trattare con allegra disinvoltura al pari delle divi­ nità che figuravano come «voci» nelle sue enciclopedie. Era tuttavia pervaso da un gioioso senso di vita, poiché egli, anche nei periodi più difficili, non aveva mai pregato per chiedere a Dio un tozzo di pane. A questo modo pensò, per così dire di straforo, alla bella donna fin che giunse l’alba e potè addormentarsi profondamente. Ebbe allora un sogno. Sognò di star macinando una libbra di buon caffè profumato, e il suo macinino suonava una melodia dolce, celestiale, che gli dava un senso di infinita beati­ tudine; però non gli apparve in sogno la signora Gridi. Questa nel frattempo aveva cercato e trovato la sua lettera e l’aveva ricopiata la notte medesima con le ne­ cessarie variazioni. Nel far questo due cose le accaddero : anzitutto il cuore le batteva piuttosto appassionatamente, ben avvertendo il calore che ardeva nelle parole di

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Wilhelm da lei accuratamente trascritte; in secondo luogo non le venne neppur da lontano in mente di introdurre nella lettera stessa o nel poscritto richiestole per le no­ tizie d’affari una delle sue allegre trovate, come la tiratina d’orecchi o la berretta da notte, così che il divieto del consorte si dimostrò del tutto superfluo. Essa però non stette a badare a quelle due circostanze, tutta compresa nella cura di accontentare lo sposo. Il poscritto diceva: «Il nostro commesso è andato oggi stesso dai Müller nella Burggasse e ha comprato i semi oleosi, ma appena due minuti dopo, ancor prima che li avessimo portati in casa, mandarono a prendere loro per lo stesso importo ioo pietre da cote azzurre. Nel frattempo debbono aver avuto dal figliolo la notizia che ti aveva chiesto in prestito quaranta franchi ; infatti, quando andammo a ri­ tirare i semi, si scusarono dicendo che la padrona, all’in­ saputa di suo marito, li aveva già venduti due giorni or sono a un contadino. Così essi ora hanno i quaranta fran­ chi e in più le pietre da cote. Voglia Iddio che la mia let­ tera non ti dispiaccia troppo: essa mi è costata un certo sforzo, ma non troppo però e mi accorgo che la cosa po­ trà avviarsi». Spedì la lettera con la prima posta e già due giorni dopo ebbe una replica di quattro pagine con allegato il seguente foglietto: «Eccoti la seconda lettera da parte mia, cara moglie! Sono davvero orgoglioso di aver finalmente scelto la via giusta: infatti, senza volerti adulare, tu hai dato ottima prova ! Ma ora bisogna tener duro ! Vedi come io mi ci metto e come ho riempito quattro pagine di pensieri e di immagini vigorose. Non ti sto a dire altro, fuorché: mettiti di buona voglia ! Quanto ai Müller, che il diavolo se li porti appena vengo a casa! Il loro modo di fare mi ha offeso, mi ha guastato una buona giornata in cui avevo fatto delle conoscenze interessantissime. Ho dimen­ ticato di firmare la prima lettera. Scrivi tu in calce, ma esattamente: Corrado D. S. O meglio, lascia stare: ri­ vedrò io tutto il carteggio più tardi». Nel corso degli ultimi due giorni Gridi aveva seria-

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mente ponderato tutta la faccenda, e decise di rompere Con Wilhelm. Voleva dirgli sin che era in tempo come si fosse trattato di uno scherzo, che si proponeva di giusti­ ficargli poi in qualche modo; copiando le due lettere si era anche fatta animo e sperava di potersela in seguito cavar da sola. Ma quando ebbe tra le mani la nuova fila­ strocca, le venne il capogiro e, al pensiero che le cose sarebbero diventate sempre più pazze, perdette ogni spe­ ranza : ripresa dalla paura, s’affrettò a ricopiare le quat­ tro pagine e a portarle nel posto solito. Wilhelm, che aveva trascorso due cattive giornate, non vedendo né sapendo nulla della sua dama, si precipitò come un falco sulla preda e in men di un’ora redasse una risposta che per slancio e tenerezza superò di gran lunga il capolavoro di Viggi. Nel copiarla Gridi si sentì molto commossa e le caddero persino alcune lagrime sulla carta, giacché mai nessuno le aveva detto qualcosa di simile. Le pareva quasi che, se avesse avuto da scrivere cose del genere a un uomo come Wilhelm, il compito sarebbe stato meno diffìcile : ma a Viggi? Rinunciò compietamente all’idea di portare avanti da sola il carteggio e la­ sciò che gli eventi avessero il loro corso, affidandosi alla propria astuzia, che in caso di necessità avrebbe ben sa­ puto trovare una nuova via di uscita. Questa volta ag­ giunse il seguente poscritto: «Non ho nulla di nuovo da dirti di qui, fuorché una strana storia che non ho osato mettere nella lettera prin­ cipale. Il povero Schorenhans di fuori porta, che, come ben sai, ha più scherzi in testa che bocconi in bocca, domenica scorsa doveva andare in città a versare un gra­ voso affìtto. Siccome non gli sarebbe rimasto neppure abbastanza per entrare in una trattoria a mangiar qual­ cosa, disse a sua moglie: “Mi alzerò alle quattro del mattino e camminerò svelto, così che, essendoci sette ore di strada, arriverò verso mezzogiorno e potrò certa­ mente avere dal padrone un piatto di minestra e forse anche un bicchier di vino”. Così fece infatti e corse col suo denaro come un ossesso. Ma verso le dieci sentì tale appetito che non credette di farcela e domandò quindi

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alla gente che incontrava quanta strada ci fosse ancora. “Se andate di buon passo” gli risposero “ci arrivate in un’ora !”. “E a che ora si pranza in città?” chiese preoccu­ pato. “La domenica alle undici” dissero. Il poveraccio corse a tutta forza perché lo aspettava un lungo ritorno e non aveva un soldo in tasca. Arrivò finalmente, proprio mentre battevano le undici ed entrò affannato nel salotto dietro la domestica che lo annunciava, facendo tintinnare i suoi sacchetti di denaro. La famiglia sedeva già a tavola e stavano portando via la minestra. Il padrone, un poco irritato di quella intrusione, gli disse : “Bene, brav’uomo ! Sedetevi lì sulla panca della stufa e abbiate un poco di pazienza !”. Egli sedette esausto e melanconico sulla pan­ ca e stette a guardare i signori che mangiavano e beve­ vano, e udì i bambini chiacchierare e ridere e sentì il profumo del grandioso arrosto che stavano appunto ser­ vendo. Nessuno pensava a lui, sin che per caso il padrone voltandosi gli domandò: “Che cosa c’è di nuovo da voi in campagna, caro amicò?”. “Nulla di particolare!” replicò Schorenhans con ra­ pido accorgimento “se non che per combinazione que­ sta settimana una scrofa ha avuto tredici porcellini !”. A queste parole la padrona congiunse le mani al di sopra del capo ed esclamò in tono di gran compassione : “Dio buono! Che cosa ne fanno mai del tuo mondo! Una scrofa non ha che dodici tette, e dove potrà succhiare il tredicesimo porcellino?”. Schorenhans si strinse nelle spalle sorridendo e replicò: “Farà come me: starà a guardare !”. Della risposta molto rise il padrone, poi escla­ mò: “Moglie mia, fa’ portare un piatto al contadino e dàgli da mangiare di tutto quanto abbiamo avuto noi !”. Così fu fatto e gli toccò minestra, arrosto e ogni buona cosa e il padrone gli versò vino vecchio nel bicchiere e gli diede anche una mancia generosa alla partenza. Caro marito, ti racconto questo scherzo solo perché mi è ve­ nuta un’idea. Vorrei cioè che tu, avendo tante relazioni, redigessi questa storiella come graziosa collaborazione per uno dei tuoi giornali, adattandola e ornandola un po­ chino, in modo che diventasse abbastanza importante.

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Allora tu, dicendone lo scopo, potresti farti pagare un piccolo compenso, per esempio dieci franchi, e questi noi li daremmo al bravo Schorenhans, che certo se la go­ drebbe un mondo intascando il reddito della sua bella pensata ! ». A questa lettera seguì da parte di Viggi un’epistola ancor più lunga con il seguente allegato: «La cosa va bene, cara Gridi! Ormai possiamo pro­ cedere arditamente e scriverci ogni giorno, capisci? ogni giorno ! Forse fra qualche tempo due volte al giorno, per far buon uso della mia assenza e mettere insieme una co­ spicua raccolta. Sto già pensando a un nome ideale per te, giacché il tuo prosaico nome consueto non ci serve in questo caso. Ti piacerebbe Isidora o Alwine? La tua sto­ ria di Schorenhans ha avuto il solo risultato di farmi paga­ re doppia tassa postale, poiché da simili storie scipite non si cava niente, e quand’anche poi fosse, non puoi preten­ dere che io intrattenga la mia musa con simili meschi­ nità ! Di una iniziativa benefica' pubblica si potrebbe di­ scorrere: anch’io sono già impegnato con alcune di queste onorevoli istituzioni. Se tu però vuoi far pervenire a quella povera gente qualche franco, non ho nulla in con­ trario, ché non vorrei contrastare il tuo spirito soccor­ revole. Desidero che tu ti decida per il nome di Alwine». Da allora lo strano carteggio continuò quotidianamente e in realtà, dopo qualche tempo, due volte il giorno. Gridi doveva ormai copiare ogni giorno quattro lunghe epistole, tanto che i suoi ditini rosei erano quasi sempre macchiati d’inchiostro. Sospirava non poco durante quella inusitata fatica ; le veniva ora da ridere e ora da piangere di fronte alle trovate dei due epistolografi che passavano tra le sue mani. Firmava Alwine le lettere a Viggi e Gridi quelle a Wilhelm, il che le faceva pensare : questo almeno si accontenta del mio povero nome ! Da qualche tempo aveva notato che Wilhelm non era troppo ben fornito di carta, così che utilizzava colori e formati diversi. Comprò quindi un pacco di bella carta da lettere e gliela lasciò nella siepe con l’avvertimento: « Ora bisognerà scrivere due volte al giorno ! Non chie-

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detemi il perché, non mostrate di conoscermi, non cer­ catemi. Il mistero sarà un giorno chiarito!». Contava fermamente sulla sua bonarietà, la sua sem­ plicità e la sua tacita devozione, certa che, se pure deluso, avrebbe sempre conservato il segreto, lieto di possederne uno. Così la vicenda procedette con ritmo ossessivo e in tre luoghi andarono accumulandosi tre mucchi di appassio­ nate lettere amorose. Viggi raccoglieva con gran cura le presunte epistole della moglie, Gritli serbava gli originali di ambedue le parti e Wilhelm radunava in un grosso portafogli, che teneva sul suo petto, le graziose copie di Gritli, mentre non si curava affatto delle proprie risposte. In un poscritto Viggi osservò: « Con piacere ho veduto che si distinguono fra le righe tracce di lagrime da te versate (a meno che tu abbia avuto il raffreddore!). Comunque sto ora pensando se in una eventuale pubblicazione a stampa non si potreb­ bero riprodurre con delicati colori quelle lagrime. Ma invero, converrebbe allora stampare in facsimile tutta la raccolta, un’idea da non scartare». Wilhelm scriveva invece in una delle sue lettere: «O mio cuore diletto, è pur triste essere così inesorabil­ mente divisi e dover parlare col nero inchiostro mentre si vorrebbe far parlare il rosso sangue! Oggi ho già due volte dovuto prendere un foglio nuovo, perché mi erano sgorgate le lagrime e ho salvato il terzo soltanto rico­ prendolo svelto con la mano. Se tu mi ami anche solo un pochino, non mi disprezzerai per questa debolezza». Simili passi, che a parer suo la riguardavano particolar­ mente, Gritli li toglieva con cura dalle copie ; in compenso scambiava talvolta nelle sue missive a Wilhelm le apo­ strofi solenni «Caro amico dell’anima mia» e simili, con apostrofi confidenziali, quali «mio caro ragazzo» o «mio caro ometto», il che la riempiva poi di nuovo di preoccu­ pazioni e di pentimenti ; mentre lasciava che nelle lettere al marito rimanessero le grandi parole vuote. Insomma: desiderava ardentemente il ritorno del coniuge, perché tutti i rischi finissero e potessero venir portati a soluzione. Ma ecco che il marito scrisse imprevedutamente che ave-

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va sbrigato i suoi affari, ma che, vedendo il carteggio così bene avviato, intendeva rimaner fuori ancora una quin­ dicina di giorni perché questa faccenda che gli stava tanto a cuore potesse meglio svilupparsi e venir portata felice­ mente a compimento. Da parte sua nelle due prossime settimane non si sarebbe occupato d’altro e la esortava a voler essa pure resistere con zelo, per conseguire la meta che le avrebbe assicurato un posto nella file delle donne preclare. Così continuarono a scrivere e a scrivere ; le penne vola­ vano. Gridi si fece pallida e sciupata, poiché doveva co­ piare più di uno scrivano; il maestrino dimagrì a vista d’occhio e non sapeva più ove avesse la testa, tanto più che egli scriveva spinto da vera passione e non ci si raccapez­ zava più nella strana vicenda. Gridi non osava più trat­ tenersi in giardino, per non vederlo; se si incontravano per caso in strada, egli a sua volta non aveva il coraggio di guardarla, come fosse stato lui il colpevole. Viggi invece, pur scrivendo molto, se la spassava bene e viveva sotto ogni riguardo come un vero giramondo; egli era del resto avvezzo, come molti sogliono fare, a con­ siderare i suoi viaggi d’affari quale stato d’eccezione in cui sia lecito ricrearsi di ogni regolarità domestica. Ogni sera accompagnava una donnina diversa a teatro o ai balli pubblici, avendo però la mania di farsi raccontare da tutte la storia del loro destino, cioè di farsi imbro­ gliare da molte bugie. Verso la fine diventava regolar­ mente sentimentale, trovava ogni cosa molto notevole, cominciava a prendere appunti, mentre lo schernivano dietro le spalle e bevevano il suo Champagne. Alla fine però prese la via del ritorno, dopo aver avuto occasio­ ne di concludere un buon affare in manufatti di paglia. All’ultima stazione prima di Seldwyla scese dal treno : in quel bel giorno d’autunno voleva raggiungere la città a piedi, col libretto degli appunti in mano, facendo studi per un Ritomo del pellegrino ed escogitando in quella dorata aria vespertina un titolo d’effetto per il carteggio. Era soddi­ sfatto di se stesso, del mondo, di sua moglie, del cielo, e aveva in testa un cappellino alquanto bizzarro, mezzo di

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paglia e mezzo di seta, con un nastro che gli ricadeva sul dorso. “In fondo” disse fra sé “non c’è bisogno di alcun titolo speciale ! Il più semplice sarà il migliore. Per esem­ pio una fusione dei due nomi darebbe un ottimo vocabolo armonioso: Corralwino. Lettere di due contemporanei. Buono, ottimo !”. Tutto lieto e baldanzoso, mentre attra­ versava un boschetto, cominciò a un tratto a cantare sul motivo della romanza di Rinaldo Rinaldini1 : Corralwino, disse allegra, Corralwino, destati ! Già si sveglia la tua gente, alto è il sole in cielo già.

Con questa sua stramba canzone fece sussultare uno snello giovanotto che se ne stava seduto sotto un abete col capo appoggiato alla mano e gli sguardi assorti vólti verso la valle. Era Wilhelm, che alle prime note del can­ to del signor Störteler si alzò e fuggì via. Al suo posto s’accomodò Viggi, allorché scorse un grosso portafogli certamente lì dimenticato dal giovane. “Che avrà mai da fare”, disse tra sé “qui all’aperto quel morto di fame, in­ vece di correggere i compiti dei suoi scolari? E che sorta d’archivio si portava dietro?”. Senz’altro aprì il pacchetto di carte e trovò tutto il fascio di lettere di Gritli che, seb­ bene scritte su carta molto fine, stavano a stento insieme. Aprì subito la prima, pensando di scoprire chi sa quale interessante segreto, quale buono studio ! La lettera incominciava: «Quando due stelle si baciano», eccetera. Guardò meglio la scrittura: era proprio quella di sua moglie. Aprì un secondo fogho, poi un terzo : erano le sue lettere. Cominciò dalla fine e incontrò proprio l’ultima epistola da lui scritta; erano tutte accuratamente copiate e indirizzate al maestro. Balzò in piedi gridando: “Per tutti i diavoli ! Ma che cosa accade? Sono pazzo o no?”. Per alcuni minuti restò lì come intontito, poi cacciò disordinatamente portafogli e carte nella valigetta da viaggio che portava a tracolla, agitò il bastone, calcò il cappellino sugli occhi tanto da guastarlo e storiarlo e s’avI. Protagonista di un popolare romanzo d’avventure di Christian August Vulpius (1762-1827).

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viò con passi severi verso la sua casa. Lungo la strada gli passò accanto di corsa il maestrino, che evidentemente tornava a cercare le sue lettere. Viggi finse di non vederlo e proseguì. Attraversando la città stupì i suoi concittadini coll’at­ teggiamento rigido e col non salutare nessuno. « È tornato Viggi Störteler!» si disse «se ne va tutto d’un pezzo! Perbacco, che arie ! ». Egli s’affrettava senza soste verso casa. Vide che la porticina della cantina era aperta, entrò e scorse sua moglie con un candeliere in mano intenta a scegliere alcune mele. Le si parò dinanzi così inaspettato, che essa si spaventò un poco e si fece ancor più pallida. Ben se ne avvide Viggi e la osservò un momento: essa pure lo fissò e nessuno dei due pronunciò parola. D’un tratto egli le tolse il lume di mano, le strappò il mazzo di chiavi dalla cintura, uscì, chiuse la porta della cantina e si ficcò in tasca la chiave. Poi salì nel salotto dove era lo scrittoio della moglie, un mobiletto grazioso e leggero donatole per il suo onomastico e non certo adatto a celare pericolosi segreti. Non ebbe neppur bisogno del mazzo di chiavi : i cassetti si aprirono da soli al giusto tocco. In un cassettino c’erano infatti le sue lettere, ma con nuova meraviglia rinvenne in un altro gli originali delle lettere della moglie, di mano estranea, anzi con la firma del maestro. Le guardò ad una ad una, le aprì, le ripiegò, tornò ad aprirle, le gettò infine tutte sulla tavola rotonda al centro della stanza. Poi trasse dalla valigetta le lettere del maestrino, tornò a osservarle e finì per gettarle esse pure sulla tavola: facevano insieme un bel mucchio! Infine si mise a girare con sguardo stravolto attorno alla tavola, battendo di tanto in tanto gran bastonate sul mucchio di carte e facendone volar via alquante. Alla fine riprese fiato e mormorò: “Corralwino, Corralwino! Addio, o bel sogno svanito !”. Dopo alcuni altri giri attorno alla tavola, si fermò, tese il braccio munito di bastone e proseguì: “Una perfida druda dalle guance morbide e dalla testa vuota, troppo sciocca per mettere in parole la propria onta, troppo igno­ rante per eccitare il suo ganzo con una qualunque epistola

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d’amore, ma pur astuta abbastanza per il più inaudito intrigo che mai il sole abbia mirato! Essa prende gli sfoghi sinceri e fedeli, le lettere del consorte, deforma i sessi e sposta i nomi e di tutto fa dono, adornandosi di penne trafugate, al sedotto complice del suo peccato! Così gli estorce analoghe effusioni, ardenti di peccami­ nosa fiamma, vi gozzoviglia, nutrendosi come vampiro, nella sua povertà, di quella estranea ricchezza ; e non ba­ sta! Essa ancora una volta inverte il sesso, ancora una volta scambia i nomi e inganna con anima perfida l’igna­ ro consorte, inviandogli le nuove carpite missive amorose, ancora una volta ornando la propria testa vuota, e pur astutissima, di penne altrui ! Così due uomini, senza conoscersi, il legittimo marito e il drudo sedotto, si bef­ fano l’un l’altro, schermendo a vuoto con il sangue del loro cuore divenuto inchiostro: l’uno supera l’altro, ma viene a sua volta superato in amore e in passione; ognun d’essi crede di rivolgersi a una donna soave, mentre que­ sto demonio ignorante e pur lussurioso se ne sta invisibile nel mezzo, compiacendosi del proprio giuoco infernale ! Oh ! Ben lo capisco, ma pur non so concepirlo !... Chi potesse ora, da estraneo disinteressato, considerare questa bella storia, potrebbe in verità dire di aver trovato un buon argomento per . . .”. A questo punto s’interruppe e si scosse, avendo final­ mente intuito di essere diventato egli stesso soggetto di una vera storia, il che non gli accomodava, giacché a lui piaceva condurre una vita tranquilla e indisturbata. “Dove è finita la mia calma, la mia allegria,” si disse “turbata appena da lievi preoccupazioni d’affari da me facilmente superate? Questa donna mi distrugge resi­ stenza, ora come prima ! La credevo un’oca; ed essa ben lo è, ma un’oca con artigli da avvoltoio!”. Rise e continuò : “Un’oca con artigli da avvoltoio ! Ben detto ! Perché cosette simili non mi vengono alla penna quando scrivo? Ma io diventerò pazzo: bisogna finirla !”. Così dicendo uscì, chiuse il salotto e lasciò la casa. Per le scale urtò la domestica che cercava stupita e sconcer­ tata la sua padrona.

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Pieno di irritazione e di dolore per il colpo alla sua va­ nità e al suo egoismo, si avviò per le strade scure. La pena principale, il perduto affetto della moglie, non pareva turbarlo gran che; o almeno mangiò una grossa porzione di trota al ristorante del municipio, dove i no­ tabili della città usavano trascorrere la serata del sabato e passare anche la notte bevendo. Ivi rimase taciturno e turbato, mischiandosi di tanto in tanto all’improvviso nella conversazione con argomenti estranei ed attirandosi così gli scherzi altrui, anche perché era una figura insolita che disturbava la compagnia. Portava ancora in testa il suo cappellino ultimo modello, che non accomodava a quei signori. Benché essi infatti adottassero pronti ogni moda appena affermatasi, non potevano mai soffrire le assolute primizie e in genere si tenevano lontani da fogge troppo aggraziate o bizzarre. Proprio poco tempo avanti uno tornando da Parigi aveva introdotto lo scherzo di chiamare il cappello maschile duro e alto «copricorna», boîte à cornes, denominazione accolta con gran giubilo. Da allora per ogni sorta di cappello usavano, invece dei mille altri termini scherzosi, quali coperchio, tubo della stufa, padella dei pidocchi, noli me tangere, secchiello, staio, portascherzi, feltro o simili, la sola indicazione di copri­ corna. Naturalmente il copricapo di Viggi fu giudicato una graziosa scatola per corna, e si disse subito che dove­ vano esser cornetti ancora ben giovani, piccoli e teneri, altrimenti ci sarebbe voluta una scatola più solida. Egli credette allora che la sua disgrazia fosse già la favola della città e che tutti alludessero a quanto appunto lo turbava. Tese le orecchie, li stuzzicò per indurli a maggiori chiac­ chiere e sostenne per parecchie ore una tormentosa ten­ zone, solo contro tutta la comitiva, senza altro risultato fuorché di essere alla fine ubriaco e pieno di irosa melan­ conia. Non arrivando ad altro risultato, fini per far capire ai suoi interlocutori che li considerava tutti una massa di mascalzoni, al che essi reagirono con grande sdegno but­ tandolo fuori dal ristorante. Egli s’aggiustò sul capo il cappellino malmenato e barcollò piangendo amaramente verso casa, si buttò sul letto e dormì come una marmotta

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sin che suonarono le campane della messa. Avrebbe certo dormito ancora più a lungo, se non l’avessero destato la serva e il domestico chiedendogli con gran lamenti della signora. D’un tratto gli si ripresentarono alla mente tutte le esperienze della vigilia, ampliate e deformate dalla gran confusione della sua testa: balzò dal letto con tre­ mendo furore e con gesti impetuosi, ma poi si grattò il capo e stette a meditare sin che gli venne alla memoria la chiave della cantina. Aveva l’impressione d’aver im­ prigionato la moglie da settimane, tanto era fuor di sen­ no, ma questo gli parve solo tanto più importante e gran­ dioso, e si affrettò con sguardi roteanti a portare a termine il gran processo. Aprì la cantina, dove Gridi stava seduta, pallidissima e intirizzita, su un vecchio sgabello. Essa se ne era rimasta tranquilla tutto quel tempo nella speranza che il marito venisse ad aprirle senza testimoni e le desse modo di spiegarsi; al suo primo apparire aveva infatti ben intuito che Viggi aveva scoperto lo scambio di lettere, ma non poteva indovinare per quale via ci fosse giunto. Quando dunque lo scorse, si alzò, gli afferrò la mano, pronta a scongiurarlo di ascoltarla anche solo pochi mi­ nuti. Ma vide che alle sue spalle stavano i domestici e non potè dir nulla, e per di più egli la prese subito per un braccio e la accompagnò di malagrazia fuori sulla strada con le parole : « Così io ti ripudio e ti scaccio, o sciagura­ ta femmina ! Mai più varcherai la soglia di questa casa ! », Così dicendo sbatte la porta e mandò bruscamente le persone di servizio alle loro faccende. Poi, essendo già svanita la sua lena, tornò a gettarsi sul letto e dormì come un ghiro sino al pomeriggio. Davanti alla sua casa già da un’ora s’era radunata una piccola folla di vicine, che circondavano curiose la ripu­ diata e la accompagnavano con gran lamenti ad ogni suo passo. Essa credette proprio di dover sprofondare nelle viscere della terra per la vergogna e la confusione: non osava alzar gli sguardi e si volgeva ora da una parte, ora dall’altra; a Seldwyla non aveva più né i genitori né parenti, fuorché una vecchia cugina, della quale alla fine però si rammentò. Si avviò tosto verso la sua casa e

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vi giunse senza neppur vedere le facce dei fedeli diretti alla chiesa, attraverso i cui gruppi si affrettava. Presso una parte della popolazione si verificava allora di nuovo una grande corrente di religiosità, il che tuttavia non im­ pedì che alcuni deviassero dal tempio di Dio e, col libro da messa in mano, corressero dietro alla povera errabonda. Gritli del resto trovò da parte della vecchia accoglienze cordiali e premurose. Dopo essersi un poco riposata, co­ minciò a singhiozzare violentemente, e quando anche questo accesso fu passato, giurò che mai avrebbe riposto piede nella casa di Viggi Störteler, e la cugina, con rapida decisione, mandò quel giorno stesso a prendere gli effetti più necessari della scacciata. Quando Viggi finalmente fu sazio di sonno, sentì un terribile appetito e volle mettersi subito a tavola; ma la serva disorientata non aveva preparato nulla e la tavola, invece che di pietanze, era ingombra del carteggio di due contemporanei. Viggi tornò a strepitare, ordinò che si cu­ cinasse subito tutto quel che c’era in casa e chiuse per intanto le lettere nel suo scrittoio. Dopo cena, tornato un poco più tranquillo, cominciò a rendersi conto della sua solitudine, e solo allora si sentì molto a disagio, tanto più che dopo gli eventi dell’ultima notte non poteva neppure cercar rifugio nella compagnia dei suoi concittadini. Quando poi venne una donna ed egli fu costretto a conse­ gnare, traendola dagli armadi, la roba profumata della moglie, gli occhi gli si riempirono di lagrime e quasi desi­ derava d’averla ancora lì con sé, e chiedeva a se stesso se dopo più attenta analisi il delitto non sarebbe stato per­ donabile. Attese due giorni, se mai lei non desse notizia, ma poi­ ché non giunse nulla, si recò dal pastore della città per avviare le pratiche di divorzio. Pensava che forse la fac­ cenda avrebbe potuto chiarirsi, durante i tentativi di ri­ conciliazione ai quali le autorità ecclesiastiche sono te­ nute. Fu però molto stupito quando apprese che già Gritli vi si era recata poco prima per la stessa ragione e quando il parroco gli spiegò come si erano svolte le vicende del carteggio, come Gritli ammettesse bensì il suo errore, ma

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10 ritenesse anche già scontato e, per l’eccesso della pu­ nizione e per il trattamento irragionevole, desiderasse or­ mai separarsi da lui. Ritenne questo pensiero un’astuzia e, convinto di per­ suadere la peccatrice, lasciò libero corso alla causa. Tor­ nato a casa vi trovò una lettera di una donna, di nome Käthchen Ambach. Costei era una signorina fra i trentasei e i trentott’anni che dai quattordici in su aveva sostenuto le parti di prima amorosa in tutte le compagnie di dilet­ tanti filodrammatici successivamente costituitesi a Seldwyla, e ciò non propriamente per la bellezza della figura, bensì per il suo superiore ingegno e la sua ardita disin­ voltura. Quanto alla figura infatti, possedeva un busto lungo lungo, sorretto da due gambette corte corte, così che la vita segnava il terzo inferiore della sua persona. Aveva inoltre una mandibola inferiore sproporzionata, con la quale era in grado di macinare rispettabili masse di carne e di pane, ma che trasformava per così dire tutta la faccia in un mento, cosicché esso pareva un grandioso zoccolo per una casetta minuscola, con cupola angusta e con un microscopico balconcino, cioè un naso di minime proporzioni, che si ritraeva come annientato dalla massa mandibolare. Da ciascun lato del volto pendeva un unico lungo ricciolo a cavatappi, mentre sulla nuca si arrotolava un codino di topo con l’estremità sempre ribelle e sfuggen­ te a pettine e forcine : se vi si infilava una forcina, si divi­ deva biforcuto come una lingua di vipera, mentre riusciva sempre a scivolare fra i denti del pettine più fitto. Quanto al suo ingegno, era, come già si disse, di qualità superiore, come del resto si vedrà tosto dal suo scritto, che Viggi Stòrteler trovò a casa. «Nobile signore! Vi sono situazioni che ci fanno dimenticare i riguardi dell’angusta vita quotidiana e che ispirano anche alla più timida delle donne il coraggio, anzi le impongono 11 dovere, di uscire da se stessa e rivolgere apertamente la sua più elevata partecipazione là dove si consuma fra immeritato cordoglio un’incompresa e maltrattata gran­

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dezza virile. In simile situazione credo di trovarmi io in calce sottoscritta, che, superiore ad ogni meschino scru­ polo, sia per la mia conoscenza del mondo che per la mia cultura, oso pertanto accostarmi a Lei, egregio signore, nel più nobile degli intenti ! Io oso offrirLe liberamente quei servigi che potrebbero forse lenire la Sua sventura! Da lungo tempo ho tacitamente ammirato i fiori del Suo inge­ gno, e tanto più intimamente in me li accoglievo, in quan­ to deploravo che un uomo par Suo fosse abbandonato alla incomprensione e alla solitudine in questo barbaro paese. Tanto più sereno e felice, mi dicevo, dovrà essere nel sa­ crario della Sua casa, al fianco di una sposa piena di sen­ timento ! Ora anche la Sua casa è deserta, una penosa no­ vella corre per la nostra città — perdoni, se a questo pun­ to io faccio scendere il velo del nobile riserbo femminile ! Ma sarò breve : se Ella nel Suo presente abbandono sen­ tisse il bisogno della partecipazione di un cuore pietoso, del consiglio ordinatore e dell’opera di una solerte mano di donna, io La pregherei di concedermi una grande gioia, disponendo senza riguardo alcuno del mio tempo e delle mie forze, giacché io sono del tutto libera nell’uso del mio tempo e facilmente potrei ogni giorno dedicare qual­ che oretta alle Sue esigenze. Senza dubbio, anche se il Suo forte spirito non ha bisogno di compagnia che lo sollevi, il governo della Sua casa tanto più abbisognerà invece di una sorveglianza attenta; il tatto sicuro delle donne cólte sa questo meglio che non lo possa intuire il rozzo istinto di quelle donne volgari. Io non rinuncerò quindi ad appa­ rire oggi o domani in persona al Suo focolare deserto per conoscere i Suoi eventuali desideri e bisogni. Appena le Sue condizioni si saranno felicemente ristabilite, mi ri­ tirerò subito con il più nobile disinteresse nel sacrale si­ lenzio del mio studio. Gradisca la più cordiale assicurazione della mia stima più sincera, con la quale mi firmo Sua devotissima Käthchen Ambach».

Quando Viggi ebbe letto questa missiva, fu pervaso da sentimenti molto confusi. Era avvezzo, come tutti in città,

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a ridere della Käthchen e non aveva certo il ricordo più gradevole del suo aspetto esteriore. Tuttavia gli pareva di aver atteso da un pezzo una lettera di quel genere, quasi fosse una voce di un mondo migliore, quasi gli si rivelasse un’anima piena di comprensione. Intanto che meditava così fra sé e sé, comparve Käthchen in persona. Indossava un abito di velluto di cotone nero, una sciarpa rossa e un cappellino tondo, grigio con una piu­ ma. Tale apparizione lo conquistò di colpo, e quand’essa gli porse in silenzio la mano, rivolgendogli uno sguar­ do di mesta compassione, dimenticò completamente di averla mai derisa, anzi, subito si intonò bene al suo atteg­ giamento. Non è possibile descrivere il colloquio che si svolse fra quei due spiriti : basti dire che alla fine Viggi si sentì conso­ lato e senz’altro preso da simpatia per Käthchen. Lo ave­ va soprattutto commosso quando, mentre le raccontava la vicenda delle lettere e gliene mostrava il gran mucchio, essa, senza pronunciare parola, aveva solo sospirato, e ver­ sato alcune lagrime silenziose, e lagrime sincere, poiché pensava a quanto sarebbe stata più abile e saggia lei in una simile fortunata contingenza, visto che lo scriver lettere era sempre stata la sua passione. Alla fine Käthchen sottopose la domestica a un inter­ rogatorio; ispezionò la cucina, impartì alcune superflue disposizioni, e in ultimo, sollevando la gonna, con grandi gesti e parlando ad alta voce, scese l’ampia scala di Störteler che a lei, in paragone alla scaletta angusta di casa sua, piaceva in modo particolare. Il quasi-vedovo l’ac­ compagnò fin sulla strada, dove ebbe luogo un compli­ mentoso e solenne commiato. «Dio li fa e poi li appaia» disse un seldwylese che per caso, passando di lì, assistette a quella scena im­ ponente. Il più infelice di tutti era Wilhelm, il maestrino. Si era fatto un po’ di coraggio e aveva cercato di parlare con la signora Gridi, ma non c’era affatto riuscito, poiché questa non la si vedeva in nessun posto, né dava notizia di sé. Le scrisse allora una lettera spiegandole come era avvenuta la

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disgrazia del portafogli e chiedendole che cosa avrebbe potuto mai fare per lei. Non osò scriverle nient’ altro, se non di esser pronto a fare qualunque cosa essa giudicasse opportuna. Andò a imbucare la lettera in un paese lonta­ no parecchie ore e ricevette solo poche righe di risposta che gli dicevano di star tranquillo sino al momento dell’in­ terrogatorio in giudizio, e allora avrebbe dovuto dichia­ rare quel che sapeva, né più né meno, cioè di aver scritto per espresso desiderio di lei le risposte alle lettere fattegli pervenire. Il poveraccio, abbandonato a se stesso, torturato da mille dicerie, nell’assoluta incertezza circa il vero senso degli eventi, non aveva neppur più il coraggio di uscir dalla porta per curare il suo giardinetto, e il valoroso epistolografo nutriva una paura non ingiustificata per tutto quanto accadeva in casa del vicino Viggi. I due peccatori accusati non si vedevano dunque mai, mentre Käthchen e Störteler presto entrarono in rapporti confidenziali. Essa si recava due volte al giorno da lui e per tutta la città si dava l’aria di dovere almeno salvare dal peggio, per puro spirito di sacrificio, il pover’uomo ridot­ to in tristissime condizioni. Descriveva intanto come orri­ bile il disordine lasciato da Gridi, e in realtà aveva messo a soqquadro la casa di Viggi, mutando posto a tutti i mobili, disponendo rami d’edera in tutti gli angoli, rita­ gliando le belle tende per farne degli strani straccetti smer­ lati. Col pretesto di voler mettere ordine, vuotò tutti gli armadi e frugò specialmente nel ricco corredo di Gridi rimasto ancora in casa. Spadroneggiava anche in cucina. Viggi era stupito e beato di aver sempre servita carne cu­ cinata di fresco e di non vedere mai verdure riscaldate; Käthchen infatti mangiava i resti di carne fredda in cu­ cina con dei gran pezzi di pane, e se non c’era altro spal­ mava sul pane il grasso dell’arrosto. Divorava pure piatti interi di fagioli, di cavoli-rapa e di patate fredde; e sei grossi recipienti lasciati da Gridi pieni di frutta in con­ serva furono vuotati, ma sino in fondo, in meno di quat­ tro settimane. Dopo tali imprese sedeva per un’oretta ac­ canto a Viggi, lo confortava, rivedeva con lui i suoi lavori,

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con lui si entusiasmava e riusciva, senza averne l’aria, ad aizzarlo contro la moglie, finché un giorno si portò via la sua ultima opera letteraria per studiarla durante la notte. Si trasportava a casa anche, smaniosa di ap­ prendere, molti dei suoi libri, quanti ne reggeva sotto brac­ cio, ma ne leggeva soltanto le parti più divertenti, come fanno i bimbi che piluccano l’uva passa da un panet­ tone. Dato questo stato di cose non vi è da stupire che i ten­ tativi di riconciliazione delle autorità non avessero suc­ cesso e che si avvicinasse la discussione della causa di divorzio. La signora Gritli non fu per nulla risparmiata, anzi furono interrogati parecchi testimoni, che Käthchen Ambach era andata a scovare. Fu interrogato ripetutamente anche Wilhelm, ma tutto questo non fornì alcuna aggravante contro i due rei. Soltanto un bambino aveva visto qualche volta portare o ritirare le lettere alla siepe, ma i rapporti epistolari erano già ammessi da Gritli e da Wilhelm. Si giunse così al gran giorno del processo e Viggi pro­ nunciò una severa ed eloquente requisitoria. Espose con grande abilità le sue nobili aspirazioni intellettuali, e con quanto santo zelo avesse tentato di farvi partecipare la consorte, per raggiungere quella armonia degli spiriti sen­ za la quale è impossibile una felice alleanza coniugale, ma come essa gli avesse amareggiato la vita, pervicacemente insistendo nell’ignoranza e nell’ignavia intellettuale e più tardi ingannandolo con astuta finzione, e come essa alla fine, durante i suoi faticosi viaggi d’affari che egli aveva cercato di alleviarsi con un intimo e cólto carteggio con la sposa, fosse passata al più autentico adulterio, recitando la più vergognosa commedia col credulo consorte ! Da par­ te sua lasciava con piena fiducia che i giudici sentenziasse­ ro se fosse mai possibile la vita in comune con una simile oca dagli artigli di avvoltoio ! Chiuse la sua conclone on questa perfida formula cui non seppe rinunciare. Gli fece eco una generale risata sommessa; la moglie offesa nascose per qualche momento il volto e pianse. Ma poi si alzò e si difese con sdegno ed

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eloquenza, tali da far non poco stupire e vergognare il vanitoso consorte. Essa dichiarò di non poter ella stessa giudicare se fosse veramente rozza e ignorante; erano comunque ancora al mondo tutti i maestri e i sacerdoti che l’avevano edu­ cata, non essendo passato gran tempo dalla sua infanzia. Suo marito l’aveva sposata come brava ragazza borghese e lei aveva preso lui come commerciante e non come dotto o intellettuale. Non era certo stata lei a mutar carattere, bensì il marito, e sino a quel giorno essa era vissuta felice e contenta con lui, ed egli in apparenza contento di lei. Anche quando egli aveva cominciato con le sue nuove bizzarrie, tutti lo potevano dire, non ne aveva riso con la gente; anzi, vedendo che ne andava della pace dome­ stica, s’era onestamente sforzata di adattarsi alle sue idee sin dove le era stato possibile, malgrado la situazione sgradevole e poco gloriosa in cui era venuta a trovarsi. Ma alla fine egli aveva preteso da lei l’impossibile, cioè di costringere i suoi sentimenti di donna in un linguaggio ampolloso e innaturale e in lunghe lettere destinate alla pubblicità, l’aveva obbligata a passare il suo tempo in un’attività a lei estranea, ripugnante e inutile, invece di accudire ai suoi doveri di massaia. Non era stata lei ad usare l’inganno, bensì proprio lui, che, pur essendo per indole arido e per nulla sentimentale, aveva forzato se me­ desimo e lei insieme a sostenere per lettera una commedia veramente ridicola. Tuttavia essa, intimidita da lui e spe­ ranzosa d’altra parte d’abbreviare così quel perturba­ mento, aveva cercato di soddisfarlo, sia pure scegliendo nel duro frangente e nella confusione una via sbagliata, come era apertamente disposta ad ammettere. Ogni donna di Seldwyla sapeva che il giovane maestro era uomo non meno innamorato che discreto, timido e riguardoso, col quale si poteva osare in caso di necessità uno scherzo innocente senza con ciò mettersi in una situa­ zione pericolosa. Tanto più aveva ritenuto lecita una can­ dida astuzia incaricandolo di rispondere alle epistole del marito, dandogliene anzi ordine formale, come sovente si fanno redigere lavori scritti e specialmente lettere d’a­

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more da maestri di scuoia, per il che poteva invocare la testimonianza di tante brave servette. Non era stata lei a compilare le lettere che attendevano risposta, bensì Störteler, col che rimaneva senz’altro troncata ogni accusa di infedeltà. A suo modesto criterio, tutta la faccenda avreb­ be dovuto esser portata piuttosto davanti a un tribunale letterario che a quello dei divorzi. Essa tuttavia a quest’ul­ timo si sottoponeva, perché i fatti avvenuti avevano por­ tato una luce inattesa sulle condizioni intime della loro unione matrimoniale. Essa non sentiva più inclinazione alcuna per il signor Störteler e questo era motivo suf­ ficiente, dato il punto cui erano arrivate le cose, per insi­ stere anche da parte sua sulla completa separazione. Il tribunale, in quanto rigida e tradizionale corte ma­ trimoniale, non avrebbe dovuto pronunciare sentenza di divorzio, dato che il presunto adulterio si era rivelato in­ vece soltanto un traviamento esteriore, ma quei signori, e insieme l’intera città, troppo si divertivano a privare il povero Viggi di una mogliettina tanto graziosa e svelta per farlo finire con la ridicola Käthchen, ed essi quindi emisero sentenza di divorzio. Questo venne proclamato per inconciliabilità di carattere e di consuetudini, per maltrattamenti da parte del marito, quali il rinchiuderla in cantina e il gettarla in strada; e per errori di sventa­ tezza della moglie, quale il carteggio col maestrino. La moglie però era da considerarsi intemerata, illibata e in­ sospettabile; ciascuna delle parti doveva conservare il proprio patrimonio senza essere tenuta ad alcun assegno, cioè Störteler doveva senza indugio rendere o investire con garanzia il patrimonio portatogli in dote da Gridi. Viggi tornò a casa più depresso che rasserenato, del che si meravigliò egli stesso, dato che si era liberato dal peso opprimente di una consorte indegna e ottusa. Non gli mancarono spiegazioni e commenti : già sotto il portone del tribunale alcuni fra il pubblico gli gridarono : — Pazzo furioso che sei ! Dovevi proprio aver presa una sbornia d’inchiostro, per lasciarti scappare una don­ nina di quel genere ! Con quel simpatico patrimonio, e quelle spalle rotondette e quell’impeccabile contegno !

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— Hai visto — diceva l’uno all’altro — che riccioli lu­ centi le piovevano sotto l’ala del cappello? — Ma certamente, — ribatteva quello — e hai osserva­ to com’era carina nell’ira, e che dolce fiamma le ardeva ancora negli occhi ridenti? Davvero, se l’avessi io, la farei arrabbiare ogni giorno, solo per rappacificarla a furia di baci ! Bene, Dio sia lodato, ora quella troverà di certo un buon conoscitore! Lungo la strada una voce gridò: — Passa uno che getta le albicocche dalla finestra e mangia mele selvatiche. — Gli faccian buon pro ! — fece eco un’altra voce. Un ciabattino disse: — Quello dà uno schiaffo a una mosca e crede di esser spadaccino ! E un bottonaio commentò: — Lascia fare ! Quello è un gran pensatore : ce ne sono di molte qualità, ci sono anche quelli che ponzano sul letame ! Il ramaio infine, che stava ripulendo con la stoppa una pentola stagnata, aggiunse: — Quello fa come il diavolo, che una volta per cambia­ re prese una bragia sotto la coda e andò a sedersi su un ba­ rile di polvere! Questi discorsi ferivano e addoloravano Viggi oltre misura; rientrò nel suo salotto proprio scoraggiato e afflitto. Ma presto quelle nuvole furono disperse dal sole che poi apparve : Kätchen Ambach si presentò in un ele­ gante abito di taffetà e con sul petto un orologetto d’oro dalla cassa sottile e malandata, che da quindici anni non era stato caricato perché da ancor più tempo non aveva dentro di sé molla alcuna. Si tolse lo scialle e si venne a se­ dere sul divano accanto a Viggi, afferrandogli le mani, piena di compassione. Lo abbindolò ben bene e l’eccel­ lente coppia fu concorde nel decidere le nozze per offrire l’esempio di un perfetto matrimonio spirituale e ap­ passionato. A quel modo l’allegra Käthchen era diventata felicemente una fidanzata ; si trattenne intanto a colazio­ ne e i due si fecero tante moine che la serva, molto affezio­ nata alla prima padrona, dovette vergognarsene. Un po­

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chino inebriati dal miglior vino di Viggi, uscirono nel po­ meriggio a braccetto, andando a finire nella casa della sposa, dove radunarono alla svelta alcuni conoscenti per festeggiare il fidanzamento. Il meglio della festa fu che la vecchia madre di Käthchen in quell’occasione vide arri­ vare in casa cibi e bevande in abbondanza, cosi che per la prima volta in tanti anni potè saziarsi : infatti da trent’anni la sua gran preoccupazione era stata di saziare la figlia sempre affamata, dovendola poi stare a guardare, invece di sfamarsi essa stessa. Ora che finalmente Käthchen le aveva portato in casa un genero ben fornito, le pareva di poter morire volentieri, non lasciando senza appoggio la figliola incapace di qualsiasi lavoro. Così ogni mostruo­ sità è pur legata con un nastrino d’oro a un sentimento umano. Le nozze furon celebrate con gran fretta, e riuscirono brillanti, sfarzose e rumorose, giacché Käthchen voleva godersi lo spettacolo in tutti i suoi particolari, ed essere il centro leggiadro d’una grande festa, mentre Viggi invi­ tando una massa di gente approfittò dell’occasione per ristabilire migliori rapporti con quei suoi concittadini generosamente ospitati. La nuova signora Störteler non aveva certo l’intenzione di condurre una tranquilla esi­ stenza casalinga, anzi indusse il marito a continuare i divertimenti iniziatisi con le nozze, a frequentare con lei tutte le feste, ad aprire la propria casa e a procedere in­ somma a gran galoppo. Egli del resto ci si trovava a suo agio ed era contento di vivere fra tanta confusione, poiché lei lo esaltava dovun­ que quale un gran genio e lo faceva centro delle conver­ sazioni, tutto riferendo a lui e chiamandolo sempre sol­ tanto Corrado. «Il mio Corrado ha detto questo, ha osservato quest’altro,» diceva ad ogni momento «Come ti sei espres­ so quel giorno, Corrado? Eri delizioso ! Debbo ammirarti, caro, che tu non sia del tutto esausto dopo il tuo gran stu­ diare e lavorare ! Ahimè ! Ben sento il mio difficile dovere ; quel che la moglie può e deve essere per un uomo par tuo ! Non sarà meglio andare a casa, mio buon Corrado?

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Mi sembri stanco; ravvolgiti bene nello scialle, figliolo! Ma oggi non ti permetto più di scrivere dopo che saremo arrivati a casa, te lo dico già ora!». Così chiacchierava in presenza della gente e Viggi sorbiva ogni cosa come fosse miele e in cambio chiamava la moglie «la mia donna ardita» o «la mia fida consorte» e si fingeva ora sofferente ora infiammato, a seconda dei discorsi della sua Fama dalle gambe corte. Per gli abitanti di Seldwyla tutto ciò era più appetitoso che ostriche e insalata di gamberi, anzi forse neppure un fagiano arrosto li avrebbe indotti ad abbandonare il cam­ po dove Viggi e Käthchen davano spettacolo. Per anni erano ormai provvisti di nuovo materiale umoristico; tuttavia quei raffinati bricconi si comportavano con estre­ ma prudenza per prolungare lo spasso, ed ebbero anzi una trovata : quando proprio i muscoli della bocca non pote­ vano più frenarsi, veniva lanciato un frizzo che permet­ teva a tutti di scoppiare a ridere. Si tenne una vera riserva di simili scherzi, che, aumentata e migliorata, venne a formare una raccolta di cospicuo valore. Vi erano citta­ dini di Seldwyla, artigiani e impiegati, capaci di passare giornate, anzi settimane intere, inventando e limando una nuova facezia. Quando sembrava abbastanza ben pen­ sata e rifinita, si teneva prima una prova in una piccola osteria, per vedere se faceva il suo effetto e, a seconda dell’esito, spesso consultando competenti, si introducevano correzioni secondo le migliori regole della composizione artistica. Ripetizioni, prolissità ed esagerazioni erano se­ veramente proibite o considerate lecite soltanto quando perseguivano uno scopo speciale. Viggi non aveva alcun sospetto di tale coscienziosa as­ siduità. Quando, per deviare il riso da lui, veniva lanciata una di queste storielle, egli ostentava un’aria altezzosa e diceva a sua moglie: «Come ci si può vantar felici, quando si è superiori a simili puerilità e si conosce qual­ cosa di più elevato!». Verso tali sublimità si dirigeva a gonfie vele, sospinto dall’alito possente della consorte. Navigò tanto bene che con l’aiuto di Käthchen, dopo un certo tempo, approdò

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là dove era predestinato alla maggior parte dei Seldwylesi di approdare, tanto più che anche il suo capitale, cioè la dote di Gridi, aveva fatto divorzio dall’azienda. In­ vece di badare agli affari, si uni a un gruppetto di teste storte del suo genere da lui pescate in paese, e si diede a produrre una letteratura puerile e disordinata, ai mar­ gini del mondo ragionevole, che si proclamava con eterne ripetizioni come qualcosa di nuovissimo e di inaudito, mentre non faceva che ruminare rimasugli rifiutati da altri e creare assurdità. Se appena uno non accettava la sua fama indiscreta, ci si vendicava accusandolo di rappre­ sentare una conventicola maligna e ostile. Fra di loro però si disprezzavano segretamente, e Viggi, che aveva prima avuto una esistenza tanto tranquilla e serena, era ora tribolato non soltanto da crucci e intrighi, ma anche da stolte passioni e dai tormenti della vanità schernita e impotente. Già lo irritavano le spese postali per tutte le lettere inutili, per i manifesti, i prospetti, gli appelli stam­ pati o litografati che arrivavano e partivano ogni giorno e non avevano il minimo valore. Ritagliava con un so­ spiro i francobolli dalla strisciolina che s’accorciava di giorno in giorno, mentre sempre più rare si facevano le buone, solide e redditizie lettere d’affari munite di affran­ catura. Alla fine rimase del tutto sprovvisto di bolli e Käthchen, in conformità alla sua missione, ebbe il com­ pito di andare alla posta con quella roba per affrancarla, ma essa gettava senz’altro la corrispondenza nella cas­ setta e sprecava poi il denaro in leccornie. Al mattino an­ dava dal salumiere a mangiare un piedino di porco, nel pomeriggio invece entrava in una pasticceria e prendeva una torta di mele. In compenso a Viggi perveniva dai corrispondenti vendicativi doppia quantità di lettere e plichi non affrancati, con scritto «Saluti e strette di ma­ no», ma con molte tacite maledizioni per lui. Durante quel periodo pareva che Gridi fosse sparita dal mondo. Non la si vedeva in nessun posto e nulla si udiva di lei, tanto faceva vita ritirata. Quando lasciava la casa, usciva dalla porticina posteriore, posta presso alle mura della città, e faceva passeggiate solitarie; si assentava so-

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vente, talvolta per mesi interi, probabilmente per ripo­ sarsi e godere la propria libertà in altri luoghi. A Seldwyla nessun aspirante poteva avvicinarla, però corse ripetu­ tamente la voce che si fosse fidanzata altrove, senza che si avessero precise notizie. Che essa non sembrasse curarsi affatto di Wilhelm e mai lo incontrasse, non stu­ piva alcuno, giacché nessuno aveva creduto a una sua seria inclinazione per quel povero giovanotto. Per quest’ultimo le cose andavano invece proprio male ! Nessuno metteva in dubbio che egli fosse innamorato mor­ to di Gridi, e tanto gli uomini che le donne non gli per­ donavano di aver osato mettere l’occhio su di lei, mentre d’altra parte lo schernivano per la sua credula mania epistolare. Persino le ragazze alla fontana, vedendolo pas­ sare, canterellavano: Non son tue, maestrino, quelle mele del vicino! Egli molto si vergognava, ma non tanto di fronte alla gente come di fronte a se stesso. Il modo in cui Gridi lo aveva trattato in tribunale era stato per lui un colpo al cuore, gli aveva aperto, o almeno lo credeva, gli occhi su se medesimo e sulle donne, così che da allora le aveva scacciate tutte insieme dai suoi pensieri. Si richiuse in sé, rinunciò alle sue bizzarrie e si dedicò con amore e assi­ duità agli scolaretti. Ma quando le cose cominciavano ad andar meglio, venne a scadere il termine del suo incarico giacché egli era supplente e non aveva un impiego fisso. Quando avrebbe dovuto essergli rinnovata la nomina, al parroco, quale presidente del consiglio scolastico, non fu difficile mandarla a monte esponendo in un rapporto all’autorità che Wilhelm era stato implicato in una in­ cresciosa causa di divorzio e invocando per lui una puni­ zione salutare. Il parroco odiava il maestro per la sua irre­ ligiosità e le sue pratiche mitologiche, non sapendo che Wilhelm si era convertito al Dio vero e unico appena s’era illuso d’essere amato. Così fu sospeso dall’ufficio per due anni e rimase senza pane né lavoro. Fece quindi fagotto per andare a cercare altrove un ri­

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fugio e nel suo pentimento decise di nascondersi, di gua­ dagnarsi il pane da povero bracciante col lavoro dei campi. Egli infatti, figliolo di una famiglia di agricoltori dei dintorni, ormai estinta, aveva sin da bambino dovuto apprendere le faccende campestri. Con questa intenzione una triste mattina di marzo si pose in cammino per valica­ re la montagna; giunto però alla colma, la nebbiolina umida si trasformò in acquazzone violento : Wilhelm cer­ cò un ricovero vicino, nella speranza che il maltempo sa­ rebbe presto passato. Notò a poca distanza una casupola posta in cima a un grande vigneto al margine del bosco. Il tetto sporgente di questa casetta da vignaiolo offriva buon riparo, ed egli vi si diresse, per sedersi sulla scaletta di pietra. Era una casina vecchia e pittoresca, con una bandieruola sul tetto e vetri tondi alle finestre. La spor­ genza del tetto si appoggiava su due colonne di legno e la scala aveva una balaustrata di ferro che formava al tempo stesso un balcone, dal quale, col tempo buono, si ammira­ va un ampio paesaggio, a sud e ovest, sino alle montagne nevose. Le travi e le imposte recavano pitture a colori; tutto però era già consumato e sbiadito dal tempo. Mentre se ne stava lì al riparo, s’udì un rumore entro la casa e comparve sulla porta il proprietario del vigneto, invitando Wilhelm a entrare e ad aspettare con lui che la pioggia cessasse. Sulla tavola vi era una bottiglia di grappa di ciliegie, l’uomo tolse da un armadietto a muro un altro bicchierino e lo riempì per l’ospite. «Pane quassù non ne ho,» disse «ma possiamo fare insieme una pipata». Così dicendo trasse dall’armadio anche due lunghe pipe di terracotta e buon tabacco, perché allora gli uomini di Seldwyla, disgustati dei sigari, erano tornati con gran dignità alle antiche pipe di terracotta, come fossero commercianti olandesi. Questo seldwylese, benché di mestiere fosse cimatore, aveva avuto il capriccio di dedicarsi all’agricoltura, per­ ché i prodotti agricoli erano alti di prezzo e perché quel lavoro gli avrebbe dato occasione a frequenti passeggiate. Quel vigneto, insieme a parecchi grandi prati e ad alcuni campi, era un’antica terra demaniale da lui acquistata.

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Ci era venuto quel giorno per vedere in che condizioni fossero le viti, dato che bisognava cominciare i lavori primaverili. Non sapendo ancora nulla della sua destitu­ zione, chiese a Wilhelm dove fosse diretto e che progetti avesse. Wilhelm gli rispose che voleva cercare impiego presso contadini, aiutandoli in tutti i lavori : era uomo di pochi bisogni e sperava di cavarsela in pace. Il cimatore si stupì di quel piano e insistette sin che apprese la causa che aveva spinto il maestrino ad andarsene, poi disse : — Questo è un colpo mancino di quel prete, che non sa distinguere una bambinata da una cattiva azione. Pen­ seremo noi del resto a fargli smettere quel suo eterno tene­ rume con le scolare del catechismo : quelle belle e graziose se le tiene ben vicine, le gobbe, guerce o tristanzuole le mette nelle ultime file e non rivolge loro quasi mai la pa­ rola, e questo è scandalo ben maggiore che non tutto il vostro scarabocchiar lettere. Se quegli esercizi di stile son parsi a lui sconvenienti, per noi è ancor meno oppor­ tuno il suo amore per la bellezza ! Ma voi avete davvero cognizione dei lavori campestri e di simili cose? — Oh sì, discretamente ! — replicò Wilhelm — du­ rante la malattia dei miei poveri genitori facevo tutto io e solo a diciotto anni, quando i miei genitori morirono e il nostro podere venne venduto, entrai, col poco denaro ri­ masto, alle scuole magistrali : sono passati solo cinque anni da allora, e del resto anche alla scuola facevamo pratica di agricoltura. — Ma perché non volete piuttosto trar profitto dalle vostre cognizioni e cercare un’attività migliore che non sia star al servizio di contadini? — domandò quello, ma Wilhelm aveva preso il suo partito e non era disposto a discutere di nuovo tutta la sua situazione con quel­ l’uomo. Nel frattempo la pioggia era cessata e il sole tornava già ad illuminare l’ampio paesaggio. Il proprietario si di­ spose a fare un giro nel suo vigneto e invitò Wilhelm a fargli compagnia un’ora, ché tanto per quella giornata avrebbe fatto poi abbastanza cammino.

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Tra i filari delle viti il seldwylese constatò che Wilhelm aveva nozioni sicure in quel ramo e insieme buon senso, e quando poi qua e là, per illustrargli la sua idea, egli potò o legò una vite, dimostrò anche una mano esperta. Si fece quindi accompagnare anche ai pascoli e ai campi, chiedendogli sempre il suo parere. Wilhelm consigliò senz’altro di ridurre di nuovo i campi a prati, come era evidentemente stato in passato, poiché il grano che si po­ teva ottenere a quell’altezza non era quasi da contare, mentre dal bosco veniva umidità sufficiente a dare dei buoni pascoli. In quel modo si sarebbe potuto tenere be­ stiame che, col latte e con capi di vendita, prometteva ottimo reddito, mentre il foraggio autunnale sarebbe stato guadagno netto. Tutto questo persuase il cimatore: egli meditò un poco e poi senz’altro fece al maestro la pro­ posta di entrare al suo servizio. Avrebbe dovuto fare solo il lavoro leggero e per il resto mantenere in ordine e sor­ vegliare bene il podere. Gli avrebbe dato quel che a lui sarebbe parso di dover guadagnare, e inoltre l’avrebbe trattato con ogni riguardo. Wilhelm stette a pensarci qualche minuto, poi gli tese la mano accettando, a condi­ zione però che potesse vivere nella casupola, senza ob­ bligo di scendere in città. Questo piacque al padrone, così che Wilhelm già al principio del pellegrinaggio trovò il suo rifugio. Il cimatore fece trasportare quel giorno stesso su al vi­ gneto un letto e un po’ di viveri che sarebbero stati rinno­ vati di tempo in tempo : non mancava una piccola cucina per poter nei giorni della vendemmia cuocere e arrostire; a terreno vi era una stanzetta delle provviste e sotto la sca­ la fu facile preparare una specie di stalla per una capretta che desse il latte. In questo modo Wilhelm si trovò trasfor­ mato d’un tratto in eremita e contadino e si adattò alla sua sorte con abilità e buon volere. Fece preparare i ter­ reni con cura dai braccianti mandatigli dal padrone, badando che fossero tolti i sassi, e vi seminò poi del fieno. Alle viti provvide quasi del tutto da solo, finendo prima del previsto : è infatti spesso così, che chi eseguisce un la­ voro per eccezione o dopo lunga pausa, conclude nel

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primo zelo più di chi vi si dedica abitualmente. Dopo poche settimane trovò tempo di preparare un orticello àccanto alla casupola, per far bollire un po’ di cavoli e di carote con la carne che gli veniva mandata su due volte la settimana. Una notte buia scese persino in città a prender germogli dei suoi garofani e delle violacciocche e ne mise dovunque gli si offrisse un poco di spazio : attorno al giardinetto tirò una siepe di roselline selvatiche; lungo la balaustrata e su per le colonne di legno fece salire il caprifoglio, così che al giungere dell’estate la casina aveva l’aspetto multicolore e leggiadro d’una figurina d’album. Ogni giorno, ancor prima che il sole si alzasse, era in piedi, cercando la propria pace in un’attività ininterrotta sino a quando l’ultimo riflesso rosato era sparito sulle vette alpine. In quel modo ebbe molto tempo a disposi­ zione e si sentì libero di usarne anche senza trascurare i doveri assunti. Per assicurarsi il fabbisogno di legna fa­ ceva grandi giri nel bosco, dove un carico era presto rac­ colto. Approfittava per tali passeggiate delle ore calde, per stare all’ombra e in pari tempo per cercare un contrappe­ so al pesante lavoro manuale. Il bosco era ormai la sua aula e la stanza dove studiava, se non con gran dottrina, però applicando attentamente quel poco che sapeva. Spiava la vita degli uccelli e degli altri animali ; non rien­ trava mai senza mettere ben accuratamente dentro la sua fascina qualche dono della natura, un muschio raro, un nido abbandonato d’artistica fattura, una pietra strana, o una interessante anomalia nelle forme di piante o ar­ busti. Da una cava in disuso trasse alcuni antichissimi fossili con l’impronta di piante e di insetti. Iniziò inoltre una raccolta completa delle cortecce di tutti gli alberi da foresta nei diversi periodi della loro vita, tagliandone e raccostandone pezzi quadrati coperti di muschi e di li­ cheni, scegliendo quelli di conifere con gocce lucenti di resina, e formandone delle belle figure. Coi suoi tesori ornava, in mancanza d’altro posto, le pareti e persino il soffitto della sua stanzetta. Non portò però mai a casa alcun essere vivente : quanto più bella e rara gli sembrava una farfalla — e in quella regione ve ne erano svariate

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specie - con tanto maggior rispetto la lasciava libera. “So io” si diceva “se la poveretta ha già potuto accop­ piarsi? E se non fosse, che orrore annientare in un attimo la stirpe di un animale così leggiadro e innocente, che costituisce un ornamento del paese e una gioia per gli occhi ! Annullare, uccidere la progenie di un tenero fiore volante, che si è conservato dal principio del mondo at­ traverso tanti millenni, che è forse l’ultimo campione della sua specie in tutta la regione ! Chi può infatti con­ tare i nemici e i pericoli che la minacciano?”. A compensarlo di questi suoi pii sentimenti fu una stirpe estinta. Egli infatti, scavando nel bosco un rialzo di terra che gli era parso sospetto, rinvenne la tomba di un guerriero celtico. Apparve ai suoi sguardi un lungo scheletro con indosso armi ed ornamenti. Ricoprì la fossa con cura, senza parlarne ad alcuno, perché non deside­ rava uscire dal suo rifugio. Studiò però attentamente il bosco e scoprì altri di quei tumuli ricoperti di pietre e si riservò di avvertirne più tardi chi di dovere. Gli ornamenti e le armi della prima tomba andarono ad unirsi alle biz­ zarrie del suo romitaggio. In questo modo sperimentò i conforti e la distrazione che il regno vegetale può offrire a chi è abbandonato, e apprese che la solitudine è scuola benedetta per chiun­ que non sia di indole vacua e volgare. Era molto svelto a nascondersi appena il cimatore saliva al vigneto con una gran comitiva, alla quale offrire l’ospi­ talità della casina facendola poi scorrazzare allegramente nei pascoli circostanti. Specialmente le allegre signore cercavano di vedere il misterioso eremita tanto abile e che nella libertà del sole e dell’aria di montagna era anche diventato un bel ragazzo abbronzato. Parve d’un tratto che valesse la pena di non permettere al fuggiasco di sot­ trarsi del tutto al potere dei loro occhi. Di quando in quando una più ardita spingeva da sola le sue passeggiate sino a quell’altura e s’aggirava come per caso nei pressi della casupola. Ma Wilhelm era ormai trasformato: inve­ ce di abbassare gli occhi e di innamorarsene in segreto, guardava le pellegrine con calma e con una lieve aria di

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scherno, proseguendo nelle sue faccende senza la minima tentazione. Anche questo era un miracolo nuovo che au­ mentò le chiacchiere della città sul suo conto. Il cimatore era soddisfatto del suo podere. Giù al piano, dove possedeva pure un po’ di terra, aveva costruito un’ampia stalla e un fienile e ci teneva il bestiame, in­ torno al cui allevamento e commercio Wilhelm gli dava consigli molto assennati. Anche il doppio raccolto del fie­ no fu da lui messo felicemente al coperto e la vendem­ mia che seguì dimostrò che le viti erano state ottimamente curate. Quando il cimatore fece i suoi conti, constatò che, se le cose fossero continuate cosi, sarebbe stato bene a posto per l’avvenire, e invece di prenderci un gusto fugace, come era uso del luogo, decise di insistere con serietà, cercando di giungere a buon fine. Benché egli fosse un allegro cimatore, celava in se stesso una buona disposi­ zione, venutagli chissà di dove, così che pose attenzione al buon volere, al buon senso e alla perseveranza di Wilhelm, soprattutto quando vide che il maestrino innamorato e sentimentale aveva messo fuori quelle virtù all’improv­ viso, quasi le avesse trovate per la strada. Quel che sa fare un altro, riuscirà a me pure, pensò, e a quel modo, per puntiglio di vanità, divenne accurato e vigile. Si alzò di buon mattino e si dedicò con ordine ai suoi affari. Invece di abbandonare l’azienda nelle mani degli operai, vi ac­ cudì in persona, affrettò il lavoro che procedette rapido, e acquistò così anche tempo per la sua azienda agricola. Abbreviò sempre più le soste nelle adunanze e nelle oste­ rie, dove stavano i burloni, e si avvezzò ad alzarsi e a con­ gedarsi in qualunque momento, ma senza diventare un cosiddetto peso massimo. Osservò che la vera allegria vie­ ne a lavoro terminato, e che chi resta sempre nell’atmo­ sfera dell’osteria e in quelle consuetudini, diventa alla fine uno zoticone, che il borghesuccio dalla vita sregolata non vai certo di più di quello morigerato, e che in genere amici avvezzi a vedersi più volte al giorno finiscono per scambiare solo scipitaggini. La sua conversione incontrò tuttavia grandi difficoltà, ed egli dovette fare i più eroici

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sforzi per non ricadere. Quando però la tentazione o le chiacchiere erano troppo forti, lasciava la città e si rifu­ giava da Wilhelm, per il quale aveva preso affezione e che aveva fatto suo confidente. Da ciò Wilhelm fu a sua volta spinto a non affievolirsi nelle sue lodevoli abitudini. Ma il diavolo cercò di nuovo di seminar zizzania ! La moglie del cimatore non voleva lasciar la vita solita e rianno­ dava di continuo i rapporti con i fannulloni e i burloni. Quando il marito narrò all’eremita le sue difficoltà, que­ sti stette un poco sopra pensiero, poi gli consigliò di rasare i capelli alla sua donna, in modo che per un anno non potesse uscir di casa. Egli si considerava ormai gran ne­ mico delle donne ed era contento di far fare penitenza ad una. Il cimatore gli spiegò che non era possibile, i capelli di sua moglie eran troppo belli, formavano in certo modo, dato che per il resto essa poco valeva, un elemento im­ portante del suo inventario. Allora Wilhelm ci ripensò e consigliò di affidare alla moglie lo smercio del latte, la­ sciandole una parte del profitto. A quel modo si sarebbe svegliata la sua cupidigia, essa non avrebbe mancato di mischiar acqua al latte, si sarebbe così inimicata mezza città, finendo in un benefico isolamento. Questo progetto fu trovato abbastanza buono e tale si mostrò anche al­ l’attuazione. La donna si compiacque del guadagno e fu inoltre costretta a casa la sera per sorvegliare la mungi­ tura e badare che non le venisse danno. Nel frattempo era giunto l’autunno e Wilhelm non aveva altro lavoro fuorché badare alle bestie mandate al pascolo. Non volle rinunciare a quell’umile ufficio e volle trascorrere almeno un autunno solo sull’alpe con la sua bel­ la mandria. Ma proprio questo eccesso, giacché egli non aveva che il compito di un qualunque pastorello, non gli fece buon pro, lo privò anzi d’un tratto della libertà e della serenità che si era conquistate col lavoro. Mentre infatti stava sui colli soleggiati e fra il suono delle campane delle sue mucche guardava la città distesa ai suoi piedi nel dorato vapore dell’autunno, l’immagine di Gritli gli riapparve sempre più distinta, quasi a conferma del vec­ chio detto che l’ozio è padre dei vizi ! In fondo era una

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faccenda non giunta a soluzione, destinata, al pari delle gambe amputate, a dolere ad ogni mutamento di tempo o di stagione. Ogni minimo residuo di speranza in una felicità perduta rinnova mille sofferenze, appena l’animo cade nell’ozio, e permette al sole di infiltrarvisi. Un giorno, mentre dalle valli giungeva lo scampanio del mezzogiorno, Wilhelm s’avviava verso la casina per preparare il suo semplice pasto, quando scoprì all’im­ provviso una graziosa figura di donna in piedi all’ombra del tetto, con lo sguardo rivolto lontano. A circa duecento passi gli parve di riconoscere Gritli e, con intenso terrore, si fermò chiedendosi: “Che vuole mai qui? Che fa qui?”. Si nascose dietro un pero selvatico e per cinque minuti almeno non osò volger lo sguardo da quella parte. Quando infine trovò il coraggio di farlo, la donna si era voltata e guardava attraverso la finestra nell’interno della casina e sembrava osservare con attenzione la stanza. Si pose poi a sedere sul gradino più alto, trasse di tasca, a quel che parve, un panino o qualcosa di simile e cominciò a mangiare : non sembrava probabile che volesse andarsene tanto presto. Wilhelm fece dietrofront e, poiché la sua di­ mora era sotto quella sorveglianza, tornò alla sua mandria senza voltarsi e senza aver mangiato. Rimase fuori in grande eccitamento sino a sera, ma poi la fame lo fece scendere; s’accostò con prudenza al suo romitaggio e trovò che la via era libera. L’angelo dalla spada fiam­ meggiante era partito dalla soglia. Wilhelm osservò ogni cosa con attenzione, la finestra e la scala, e trovò che tutto era come prima, placido e innocente. Ma la sua pace era perduta, benché neppure sapesse con certezza se era stata proprio Gritli. Senza volerselo confessare, da quel giorno si vestì con maggior cura, così da aver quasi un aspetto troppo ele­ gante per un mandriano, e non di rado s’avvicinava cauto alla casetta, ma l’apparizione non si ripete. In compenso tutta la montagna si popolò di quell’immagine, che ad ogni momento gli si presentava e lo guardava attraverso la finestrella dai vetri tondi: gli parve insopportabile viverle tanto vicino, ma d’altra parte non avrebbe voluto

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allontanarsene, giacché la circostanza che essa era ormai libera e sola accresceva il disordine dei suoi pensieri. Ma alla fine riuscì a padroneggiarsi e a ritrovare la propria energia. Al cadere della prima neve, la vita da pastore finì; il cimatore avrebbe voluto prendersi in casa Wilhelm. Ma questi si schermì e lo pregò di lasciarlo in montagna. Il padrone non volle ostacolarlo in quel capriccio; gli mandò su una stufetta e gli procurò vario lavoro per sé e per altri. Wilhelm comprò col suo salario alcuni libri, che il pa­ drone gli fece venire perché curasse le sue facoltà intel­ lettuali, e così rimase ben presto sepolto tra la neve, più solitario che mai. In realtà solitario soltanto come lo può essere un ere­ mita autentico, al quale non manca una svariata affluenza di fedeli. Anche a Wilhelm toccò una bizzarra clientela. I contadini della regione, anche a parecchie ore di distan­ za, parlavano di lui come di un mezzo sapiente e mezzo profeta, il che derivava soprattutto dal suo armeggiare nel bosco e dal singolare adornamento della sua stanza. Ap­ pena i contadini credono di scoprire un simile santo, che, còlto da pentimento per qualche misterioso errore, cerca di salvarsi per vie eccezionali, rifugiandosi nella solitudine e conducendo vita inconsueta, essi sentono la fantasia eccitarsi e attribuiscono a queiroriginale idee e facoltà speciali, che essi sentono l’irresistibile bisogno di sfrut­ tare, proprio in contrasto con la gente molto illuminata di città, la quale chiede invece consiglio a chi non ha mai deviato dall’aurea via di mezzo e non ha mai pas­ sato la misura. Venne prima una povera vedova con un figliolo discolo che a scuola non voleva studiare e combinava mille bi­ richinate, e gli chiese consiglio, amaramente lagnandosi in presenza del ragazzo. Wilhelm parlò col peccatore gentilmente, chiedendogli perché mai facesse certe cose e non ne facesse certe altre, e lo esortò a correggersi as­ sicurandolo che si sarebbe trovato meglio. La lunga pas­ seggiata, il solenne atto d’accusa materno, l’arredo strava­ gante della casina del profeta e le sue parole benigne e

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austere fecero tale impressione al fanciullo, che in realtà si corresse e la vedova andò diffondendo la gloria di Wilhelm. Giunse poco dopo un’altra donna a lagnarsi di una vicina maligna, poi un vecchio contadino che voleva li­ berarsi dall’annusar tabacco ritenendolo peccato; Wil­ helm lo incoraggiò a fiutar pure, non essendo peccato, e quegli lodò e magnificò il consigliere ovunque andava. Alla fine non passò giorno senza una simile visita e a lui si rivelarono tutte le magagne morali e domestiche. Veni­ vano soprattutto ragazze e donne per farsi scrivere lettere segrete, cui attribuivano particolare efficacia, e compar­ vero persino dei superstiziosi ai quali avrebbe dovuto far ritrovare oggetti rubati o perduti, oppure suggerire far­ machi misteriosi contro mali fisici o addirittura fare pronostici. La cosa finì per diventare tediosa e preoccupante, ed egli cercò di liberarsi degli importuni con scherzi o con parole brusche. Ma si disse allora più che mai che aveva i suoi capricci e non accontentava ognuno, e di questo fu lodato. Più che altro gli piaceva occuparsi dei bambini che non riuscivano a far progressi a scuola, e che venivano ripetutamente acompagnati da lui, sin che tro­ vavano poi la strada da soli. A questi si dedicava affet­ tuosamente, lieto di averne spesso attorno uno o pa­ recchi. Riusciva quasi sempre a rimetterli in carreggiata, conquistandosi così gratitudine e rispetto e un gran séguito devoto tra i piccoli che talvolta, nelle domeniche di bel tempo, si recavano in massa a trovarlo portandogli regali puerili, per esempio una mela ciascuno, cosicché tutte as­ sieme riempivano un cestino, o anche dieci noci a testa, così che alla fine ne riempivano un cassetto. Li faceva poi cantare in coro e li accompagnava per un tratto sulla via del ritorno. La bella Griffi udiva spesso raccontare tali imprese e molto se ne interessava, senza tuttavia darlo a vedere. Era curiosissima e desiderava vivamente poter vedere con i propri occhi la sua dimora e sentirlo parlare. Quan­ do la venne a trovare un’amica fidata di un’altra città, per aiutarla a passare il tempo, le due donne decisero di re-

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carsi dall’eremita. Si travestirono da contadinelle, si scu­ rirono la pelle con arte e ravvolsero il capo in ampie pezzuole. Così camuffate si posero in via in una chiara mattina invernale e salirono la montagna che spiccava candida sull’azzurro del cielo. Giunte di fronte alla ca­ setta del vigneto, si fermarono ad osservarla curiose e stupite. Tutto scintillava come fosse d’argento e di cri­ stallo. Dal tetto spiovente scendevano grossi ghiaccioli appuntiti, lunghi talvolta quasi sino a terra. La bande­ ruola sul tetto, gli ornamenti in ferro battuto della balau­ strata, ancora del Settecento, come pure i rami del capri­ foglio, tutto era ricoperto di brina e tutto era illuminato dal rifrangersi dei raggi solari nei sette colori dell’iride. Sotto la sporgenza del tetto, sulle lastre di pietra, c’era una gran quantità di uccelli grandi e piccini intenti a beccare il loro cibo e a saltellare allegramente : erano tanto dome­ stici che appena fecero posto ai piedi delle visitatrici, an­ dando l’un dopo l’altro a posarsi sulla balaustrata o sul da­ vanzale della finestrella. Ciascuna delle due donne invitò l’altra con un colpetto di gomito a picchiare alla porta: una tossicchiò, l’altra parlottò, ma nessuna voleva bussare. Alla fine però l’amica di Gritli si fece animo e picchiò addirittura con l’energia di un contadino, aprendo sen­ z’altro la porta e facendosi avanti con goffa andatura. Wilhelm era intento a osservare un librone con disegni di piante : non fu molto contento di essere disturbato di buon’ora, e tanto meno scorgendo due belle donnine. Ma Ännchen, l’amica, snocciolò subito una tiritera, mi­ schiandovi alla rinfusa una quantità di domande e di preghiere. Voleva che le correggesse un conto di paglia venduta in cambio di una mucca pregna, poi trasse di tasca un cartoccio pieno di piombo fuso e ne chiese l’inter­ pretazione ; poi gli domandò l’avvenire dalla lettura della mano, poi quando mai fosse meglio seminare l’avena, e se fosse lecito promettersi in nozze due volte in un armo, e se lui fosse capace di riparare un macinino da caffè stregato nel quale si era ficcato un demonietto. Alla fine gli porse un fascetto di penne di pollo, d’oca e di anitra, pregandolo di temperargliele dietro compenso, che sa-

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rebbe venuta a riprenderle, giacché lei aveva la passione dello scrivere, ma era senza penne, e alla fine volle sa­ pere se l’anno prossimo sarebbe stato favorevole al ma­ trimonio per una contadina giovane e illibata. Tutto questo, paglia, mucca, avena, piombo, macinino, diavo­ letto, penne e matrimonio, lo buttò in faccia all’interlo­ cutore con tale rapida confusione, che nessuno avrebbe potuto risponderle. Appena Wilhelm apriva bocca, lo contraddiceva spiegando che non aveva voluto dir quello, ma quest’altro, recitando insomma una scenetta grazio­ sissima. Gritli nel frattempo se ne stette lì con le mani sotto il grembiule, non movendosi per la paura di tra­ dirsi. Guardava di soppiatto la strana dimora di Wilhelm, che dentro aveva un aspetto ancor più fiabesco che di fuori. Le pareti erano rivestite di corteccia muscosa, di ammoniti, di nidi d’uccelli, di quarzi lucenti, mentre dal soffitto pendevano rami e radici d’albero dalle forme biz­ zarre e ogni sorta di frutti del bosco, come pigne o mazzi di bacche rosse o nere. Le finestre erano splendidamente ghiacciate: ciascuno dei dischi tondi di vetro mostrava un disegno diverso : un fiore o un paesaggio o uno slancia­ to gruppo di alberi o una stella o un damasco d’argento : vi eran forse cento di quei dischetti e non uno era uguale all’altro, proprio come fossero opera di un architetto go­ tico che costruisca un chiostro e per le cento ogive trovi sempre nuovi disegni. Tutto questo piacque oltre misura alla donna che Viggi e Käthchen avevano calunniato come natura piatta e prosaica, ma essa lanciava di tanto in tanto anche un’oc­ chiata all’abitatore della casetta, che non le piaceva me­ no. Indossava un pellicciotto di volpe rossiccia che il ci­ matore gli aveva dato per l’inverno ; i capelli scuri erano divenuti folti e lunghi, sul labbro superiore erano cre­ sciuti dei baffetti bruni e tutta la persona aveva acquisito maniere spigliate e sicure. Una lunga sciarpa rossa che portava sciolta attorno al collo aumentava l’aria franca del suo aspetto, che sarebbe però certo stata meno ardita se egli avesse saputo chi gli stava di fronte. Ma Ännchen recitava così bene la sua parte, che non

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gli sorsero sospetti, e credette di aver a che fare con una mezza pazza, accompagnata da un’amica timida e un po’ sciocca. Quando la storia cominciò a seccarlo troppo, interruppe la chiacchierona con violenza dicendole: — Il vostro conto della paglia ammonta a tanto; tutte le altre son sciocchezze che farete bene ad andare a rac­ contare dove volete, cara la mia donna ! — Davvero? — mormorò Ännchen con un tono deli­ zioso, e Wilhelm di rimando: — Davvero ! Andatevene, in nome di Dio e lasciatemi in pace ! — Ma che modi ! — rispose Ännchen — Davvero dav­ vero . . . Bene ! Tante grazie, signor stregone ! E non pren­ detevela tanto ! Che Dio vi protegga e non arrabbiatevi ! Venite, Barbel! Ma giunta sulla porta, si volse ancora indietro e gridò: — Già, quasi dimenticavo di farvi dei saluti ! O ve li ho già fatti? — No. E di chi? — Ah ! Di una bella donnina, che voi dovete conoscer meglio di me, perché io non saprei dirvene il nome. — Non so nulla e non conosco signore ! — Ma pensateci bene: abita lungo le mura, non è troppo grande, ma di bella figura, e ha una testa tutta ricci bruni come un can barbone! Già, Barbel e io le abbiamo portato delle uova e le abbiamo detto che vo­ levamo venir quassù a farci legger la fortuna, e fu così che lei ci incaricò dei suoi saluti! Wilhelm si fece di fiamma ed esclamò con furia: — Non so di chi parlate ! — e si immerse di colpo nel suo libro, senza degnar più le donne di uno sguardo. Que­ ste se ne andarono, facendo gran chiasso sulla scaletta con i loro scarponi. Appena un poco lontano, Ännchen esclamò : — Sai, se io non avessi già marito, ti ruberei proprio quello lì ! È un ragazzo simpatico, benché faccia lo zotico ! — Ah ! — sospirò Gritli — mi piace anche troppo, ma non mi fido di lui ! Malgrado l’aria seria che ora ha preso, potrebbe tornare facilmente ad essere lo scapato

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sentimentale di una volta, pronto a perdersi con tutte, e allora cascherei dalla padella nella brace. Bisognerebbe metterlo in qualche modo alla prova! — Mettiamocelo pure ! — esclamò l’amica. Discus­ sero la via da tenere e Ännchen promise di tentare la cosa appena passato l’inverno. Ma Gritli tornò a sospi­ rare: — Ahimè ! Manca ancora tanto tempo ... e per la primavera dovrebbe esser tutto fatto ! Ännchen replicò ridendo: — In questo non posso aiutarti, carissima ! Ora debbo prima tornare da mio marito, né del resto avrei voglia di risalire spesso con questa neve sino alla dimora del sel­ vaggio, per bella che sia, così guarnita di ghiaccio! Abbi dunque pazienza ! Ma appena fioriranno le viole, ri­ tornerò e metterò alla prova il tuo merlotto di montagna, però a tuo rischio e pericolo ! Gritli si rassegnò : passò il resto dell’inverno molto riti­ rata, ma le pareva che la neve non finisse mai e talvolta era incerta se far quella prova o condurre invece la cosa a termine da sola. Alla fine venne il buon vento del sud a riversare sulla montagna e sulle valli i suoi tiepidi acquaz­ zoni. Le masse nevose si sciolsero in fuga frettolosa e l’ac­ qua sprizzò ridendo, chiacchierando e cantando con mille lingue giù per tutte le chine. Gritli ascoltava quelle voci quasi fossero scampanio di nozze, e appena il prato vicino fu asciutto, corse in cerca di viole. Non ne trovò ancora, ma in compenso alcuni bucaneve, e al suo ritorno l’amica era arrivata con una grossa valigia in cui c’erano tutti gli strumenti per la loro impresa. Era lo sfarzoso costume festivo di una donna di cam­ pagna, con parecchi capi di ricambio ; tutto era nuovo e grazioso, quasi prezioso, anzi. La prima domenica, di buon mattino, Ännchen si vestì con gran cura, aiutata da Gritli, e fece risplendere con calcolo ardito tutta la sua bellezza, che non era poca. Sopra una sottanella corta, di panno scarlatto, ne indossò una nera della stessa lun­ ghezza, in modo che il rosso apparisse visibile soltanto ad ogni rapida mossa, facendo ancor più graziosamente

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spiccare il candore delle calze. Dorso, spalle e braccia tondeggianti erano ben modellate da una giacchettina di seta attillata, che lasciava libero il petto, stretto a sua volta in un busto di velluto nero trattenuto da nastri ana­ loghi infilati in ganci d’argento. Sulla fronte fece cadere alcuni riccioli civettuoli alla moda contadinesca, mentre il resto dei capelli scendeva quasi fino a terra in grosse trecce, legate ai capi da nodi di velluto ornati di pizzo. Man mano che Gritli aiutava l’amica allegrissima a in­ dossare un indumento, si faceva sempre più seria e preoc­ cupata. Quando alla fine l’amica baldanzosa e tutta or­ nata si specchiò, ben conscia della sua bellezza, Gritli si pentì della trovata e sollevò mille difficoltà. Ma Ännchen le rise in faccia esclamando: — Quel che si vuol fare dev’essere fatto bene ! Come indurre l’eremita in tentazione con uno spaventapasseri? I santi di quella sorta hanno sempre avuto gusto fine! Gritli disse che almeno avrebbe dovuto metter calze di lana nera al posto di quelle di filo bianco, visto che era ancora umido e freddo! — Ho le scarpe robuste ! — disse Ännchen — e i pol­ pacci delle donne non prendono mai il raffreddore, lo sai bene, tesoro! — In ogni caso devi proteggere meglio il collo ! — disse supplichevolmente la poverina; ma l’altra incorreggibile rispose : — Hai proprio ragione ! Dammi quel fazzolettino di seta : lo potrò mettere in tasca appena sarò al sole caldo ! Aprì poi la finestra e guardò fuori nel mattino festivo : regnava ancora il silenzio e pareva fosse il momento adatto per scappar via. Gritli la trattenne quanto le fu possibile con la colazione, offrendole tutte le sue leccornie preferite, pur di rimandare la partenza, ma il momento di questa venne, e quando Ännchen se ne andò, la pove­ retta scoppiò in lagrime. L’amica allora tornò sui suoi passi con grandi occhi stupiti e le disse seria seria: — Senti, pazzerella ! Se davvero credi che non ci sia da fidarsi, rinunciamo addirittura ! Deciditi ! Io faccio pre­ sto a mutar d’abiti !

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Gridi piangeva sempre più forte, ma seppe lottare con se stessa ed esclamò risoluta: — No ! Fa’ pure e fa’ quel che credi sia bene ! È neces­ sario ! La signora Ännchen s’avviò dunque di buon animo nel paesaggio primaverile e immerse allegramente la sua figura in quell’aria lucente. Camminando agitava le sottanelle facendo balenare ad ogni passo la balza scarlatta della sottana; recava in braccio una ciambella appena sfornata e una lavagna ravvolta in una stoffa a quadra­ tini biancazzurri. Così giunse alla casina del vigneto, bussò con discreta energia alla porta ed entrò con buone maniere. Wilhelm non la riconobbe subito, ma fu colpito dalla bella apparizione. Stava appunto preparandosi il caffè della domenica, che spandeva il suo gradevole pro­ fumo nella casa. Ännchen fece un inchino grazioso e disse : — Arrivo proprio a tempo ! Avete temperato le mie penne, signor stregone? Son venuta a prenderle e ho qui un piccolo dono per il vostro disturbo, solo per dimo­ strarvi la mia buona volontà! Così dicendo aprì il fagottino della ciambella e la pose sulla tavola. — Potete riprendervi il regalo ! — replicò Wilhelm — perché le vostre non erano penne da scrivere e io le ho gettate via! — Davvero? Allora bisognerà che compri penne in città, ma non importa, vi lascio egualmente la ciambella e ne mangerò un pezzettino, se mi offrite una tazza di caffè ! Lo farete, non è vero? — Sedette senza compli­ menti alla tavola e cominciò a tagliare la ciambella. Wilhelm non sapeva come comportarsi: aveva l’im­ pressione che uno spirito pericoloso si fosse introdotto nella sua tranquilla dimora, e il sole primaverile scintil­ lava attraverso le finestrelle, illuminando la bella conta­ dina. Si rassegnò, andò a prendere una delle tazze di por­ cellana che il cimatore teneva riposte, e divise equamente il suo caffè con l’intrusa. — Sapete fare un caffè davvero eccellente, signor stre­ gone ! — gli disse — Dove avete mai imparato?

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— Son contento che vi piaccia, — rispose Wilhelm — ma vi prego di non chiamarmi sempre stregone, perché io purtroppo non so fare alcuna stregoneria ! — No? Io l’avevo creduto invece, — disse Ännchen con un sorriso, lanciandogli un’occhiatina scintillante — o almeno con me vi è già un poco riuscito, benché non siate certo il più gentile dei cavalieri ! Ma un bell’uomo lo siete! Non vi annoiate, così sempre solo? — Par di no ! — borbottò Wilhelm arrossendo — altri­ menti andrei fra la gente; ma voi sembrate di buon umo­ re, bella donna ! — Bella donna? Guarda, guarda... Va già meglio ! Do­ vreste andare ancora un pochino a scuola e credo che ar­ rivereste a un buon profitto ! Ma purtroppo debbo andare a scuola io stessa. Ho un altro desiderio, prima che me ne dimentichi : è anzi la ragione principale della mia venuta, se permettete ! Il conto per la paglia, che mi avete fatto l’ultima volta in un batter d’occhio, mi ha reso buoni ser­ vigi. Io ho un vasto podere e non ho marito che tenga ordine e faccia i conti ; da bambina non sono mai stata at­ tenta e non ho imparato molto ; in genere sono una buona a nulla ! Ora mi tocca di farne la penitenza, perché non so mai a che punto sono e se vengo ingannata o meno ! Bene ! mi son detta: tu non sei così vecchia a venticinque o ventisei anni da non poter imparare, va’ dunque dal signor stregone e pregalo che ti insegni come si fanno certi conteggi. Se ben ricompensato, lo farà certamente, e tu non avrai paura di dargli un sacco di patate o un quarto di lardo, se arriva a farti prender confidenza con quei be­ nedetti numeri. Ecco : ho portato con me una lavagna e un gessetto . . . Già, dove è andato a finire il gesso? Depose la lavagna sulla tavola e cacciò la mano nella tasca della gonna frugandovi impaziente. Ne cavò una manata di roba, gettandola sulla tavola: un temperino miserello, un ditale di ferro, alcuni soldoni, briciole di pane, un fischietto per i cani, una pera secca e un pez­ zettino di gesso. Ficcò in bocca la pera ed esclamò ma­ sticando ancora: — Ecco quel gesso del diavolo ! Ora si comincia ! —

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E intanto gli si spinse vicino con la sedia, guardandolo con una faccia piena di attesa. — Veramente io non sono avvezzo a scolare così gran­ di, — disse Wilhelm imbarazzato, scostandosi un poco — ma se volete stare attenta, vedrò quel che si può fare. — Cominciò subito a spiegare alla donna le quattro opera­ zioni, e la donna finse di sentire cose nuove di zecca. Gli si avvicinava sempre più, ad ogni momento gli toglieva il gesso di mano, gli confondeva i calcoli e faceva mille buf­ fonate, interrompendosi di tanto in tanto per sbarrargli gli occhi in faccia. Egli la guardava allora stupito e con una certa compiacenza, senza tuttavia perder le staffe. Anche quando era china sulla lavagna, osservava tranquillo la bella testolina, come si guarderebbe una pianta nobile. Però qualche volta ammutoliva all’improvviso, dimenti­ cando di risponderle. Di colpo essa si alzò dicendo: — Per oggi basta, altrimenti divento troppo sapiente ! Tornerò dopodomani verso sera, se avete tempo, e che Dio vi guardi, signore! Senza aspettare risposta s’allontanò inaspettatamente come era arrivata. Wilhelm la seguì con lo sguardo, senza alzarsi dal­ la sedia. Poi andò rimuginando i suoi pensieri e con­ cluse : — Alla fine dovrò andarmene anche di qui ! Mi sembra che quella donna non sia del tutto a posto ! La signora Ànnchen si compiaceva tanto del suo co­ stume campagnolo, che prolungò la passeggiata per sen­ tieri solitari sino alle campane del mezzogiorno. Osservava ora un campo appena seminato, ora il corso d’un ruscel­ letto, non pensando però né al campo né all’acqua, ma soltanto meditando tra sé sino a che punto le convenisse spingere la prova con quel giovanotto. Credeva di avere il successo in suo potere, ed esitava soltanto se trame dapprima un poco di sollazzo per sé, oppure se agire da donna e amica leale. L’eremita le sembrava fatto apposta per un comodo capriccio e per una commedia a sue spe­ se. Se Wilhelm si lasciava allettare, l’amica evitava un marito poco fedele e le si recava un servizio prezioso,

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mentre egli trovava giusto castigo in un allegro ingannoi Ännchen era accanto a un minuscolo laghetto formato da un torrentello e vi rimirava la propria immagine. Le pareva di essere quasi troppo bella per il suo indifferente consorte, ma d’altra parte l’avventura non le appariva priva di rischi: avrebbe potuto costarle cara e buttare all’aria la sua placida tranquillità; inoltre l’amica ben si meritava una buona sorte, ed essa sapeva che Gritli sa­ rebbe poi riuscita a tener saldo quel merlotto, se le riu­ sciva di acchiapparlo ancora illeso. Le sue considerazioni si tenevano quindi in equilibrio: fini per affidare la de­ cisione a una foglia secca che nuotava lenta alla super­ ficie del piccolo specchio d’acqua cercando una via. Se fosse andata a finire sulla riva destra, lei avrebbe servito l’amica, se sulla sinistra, avrebbe pensato solo a se stessa ! Ma la foglia si mise d’un tratto a scendere rapida verso la foce e Ännchen decise di lasciare che la faccenda se­ guisse il suo corso. In quel momento appunto risuonò il mezzogiorno e la giovane donna, non vista da alcun oc­ chio umano, s’awiò verso la porta posteriore delle mura: era l’ora infatti in cui nel mondo antico dormiva il gran Pan e nel mondo moderno gli abitanti di Seldwyla, al gran completo, sedevano con tutta la famiglia attorno al­ l’arrosto domenicale, lasciando le strade più deserte che nel buio della mezzanotte. Gli occhi di Gritli parvero divorare con angosciosa im­ pazienza l’amica baldanzosa che entrava ridendo nella sua stanza. Ma quella subito le gettò le braccia al collo e la baciò esclamando: — Vieni ! A star col tuo amico m’è venuta una gran vo­ glia di distribuir baci! — Oh ! Non essere così cattiva ! Non avrai commesso pazzie! Come è andata? Come si è comportato? — Sta’ tranquilla: si è comportato come un pezzo di legno ! — replicò Ännchen, al che Gritli esclamò: — Dio sia lodato ! Smettiamola allora ! — Smetterla? Questa sarebbe bella ! — interruppe Ännchen — Allora ne sapremmo meno di prima ! Lui era un pezzo di legno, ma adesso comincia il bello. Ora

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potrebbe arrivare il peggio, ma anche però voltarsi tutto in bene ! Insomma : si avrà quel che si meriterà ! Ancora una volta Gritli si fece animo e disse: — Hai ragione: bisogna andare sino in fondo ! Se sfug­ ge alle tue armi diaboliche, si è proprio corretto e sarà tanto più degno di premio! La tentatrice riprese dunque il cammino il giorno se­ guente, e precisamente sul calar del sole. Indossava lo stesso costume, con qualche modificazione e maggior sem­ plicità, come è uso delle donne di campagna nei giorni feriali quando devono mettersi in viaggio. Ma si era tut­ tavia preoccupata che tutto le stesse bene. I capelli però li aveva curiosamente acconciati all’uso cittadino e co­ perti con un fazzoletto. Wilhelm era appositamente uscito, col proposito di far fare un’inutile gita alla bella originale, se davvero essa fosse tornata da lui. Ma quando scese la sera, affrettò il passo oltre il necessario, rientrando a casa, sia per cu­ riosità che per bisogno di svagarsi un poco con l’allegra donna. La incontrò proprio sulla porta, alla quale essa aveva inutilmente bussato. — Ah, eccovi ! — disse con dolcezza — avevo già cre­ duto che mi aveste lasciato in asso! Già, son tornata, se permettete: di giorno non mi fu possibile esser Ubera. Wilhelm accese il lume e disse: — Come va? Avete ritenuto qualcosa di quanto vi in­ segnai l’ultima volta, o avete già tutto dimenticato? — Non lo so bene neppure io, — replicò lei mode­ stamente, e parve essere di umore dolce e mite, così che il maestro non ci si raccapezzava. Quando cominciarono a far conteggi, la donna si fece taciturna e distratta, e nella sua distrazione non soltanto cessò dallo sbagliare, ma, come per caso, fece i calcoli sempre giusti e ne diede anche la controprova da sola. D’un tratto si rivelò abile a far conteggi quanto il maestro, ma pareva non rendersene conto. Wilhelm per un poco stette a guardarla, mentre si sentiva invaso da una strana inquietudine. Finalmente osservò che manine bianche avesse mai quella campagnola e s’accorse che i suoi ca-

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pelli intrecciati con arte gli esalavano proprio sotto il naso uno squisito profumo. Di botto le disse: — Lei non è una contadina ! Di dove viene? E che cosa cerca qui? Ännchen depose spaventata il gesso, lo guardò intimi­ dita, poi abbassò gli occhi incrociando le mani. Regnava un gran silenzio. Alla fine cominciò con un lieve sospiro e a bassa voce: — Sono una giovane vedova, che per la noia ha già commesso più d’una sciocchezza. Poco tempo fa combinai con un’amica di venire a vedere il saggio eremita di cui tanto si discorreva. Avete veduto come abbiamo attuato il nostro proposito, ma la curiosità non mi ha fatto buon pro ! — Perché no? — chiese Wilhelm ridendo, benché co­ minciasse a sentirsi soffocare. Ella continuò ancora più piano: — Purtroppo mi sono innamorata di lei. . . — e cosi dicendo gli alzò in volto gli occhi sorridenti. Non era uno sguardo schietto e spontaneo, ma piuttosto uno sguardo fabbricato, un brillante di vetro, ben lo sentì Wilhelm; tuttavia era ardente abbastanza per ridestare in lui una serie di sentimenti e di pensieri che reciproca­ mente si attizzarono come lampi. “Alla fin fine bisogna prendere le donne come gli scor­ pioni : si guarisce dal morso di uno con l’umore che si ot­ tiene schiacciandone un altro ! A che serve spregiare la dolcezza delle donne, perché esse sono deboli e inganna­ trici? Cogli le rose con prudenza, senza sfiorarne il gambo, e non ti pungerai ! Bevi il vino e getta il calice, e vivrai in pace ! Chi procede attraverso il deserto, si disseti alla sor­ gente che incontra, e chi è solo chiami il merlo ! Ecco ! l’una va, l’altra viene, questa è bruna e quella è bionda : buona è soltanto quella che ti bacia!”. Non queste espresse parole, ma il loro senso peccami­ noso pervase l’animo di Wilhelm mentre afferrava irre­ soluto ma sorridente la mano di Ännchen. I suoi atti erano certamente più esitanti dei suoi pensieri, e così ac-

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cadde che dopo un minuto non fa lui a tener fra le braccia la bella, ma lei à tener lui. Stava appunto per imprimergli un lungo bacio sul volto, quando un’altra ondata di pen­ sieri e di immagini venne a confluire in quell’attimo nel­ l’animo di Wilhelm. “Questa è dunque la tanto sospirata felicità fra le braccia di una donna ! Bene, è davvero abbastanza bella e piacevole. Sia ringraziato Iddio che finalmente ne tengo stretta una ! Che direbbe Gritli se mi vedesse ora?”. Ma intanto gli parve di veder Gritli, prima in piedi, poi seduta sulla scaletta davanti alla casa. “E se lei ti aves­ se davvero cercato? Se ti volesse davvero bene?”. Fu còlto da grande pietà di lei, rimase atterrito della propria durezza di cuore; insomma, distratto e svagato da tanti pensieri, si ritrasse, sottraendo intanto inaspettatamente la propria bocca al bacio che Ännchen voleva deporvi. Guardò fuori e sempre più distinta gli apparve la va­ gheggiata figura di Gritli, assisa in silenzio sulla sua so­ glia, quasi lo aspettasse. Poi gli venne un’idea e chiese di botto ad Ännchen: — Che intendevate con quel saluto che alla vostra pri­ ma visita mi recaste da un’altra donna? Che cosa fa quella, come sta? — Che donna? Che saluto? — chiese Ännchen un po­ co sconcertata e imbarazzata, e dopo le sue più precise spiegazioni, aggiunse freddamente: — Ah ! È stato uno scherzo mio ! Non la conosco af­ fatto quella donna ! — La risposta fredda e sdegnosa non gli piacque e lo offese: istintivamente si liberò dall’ab­ braccio, s’avvicinò alla finestra e l’aprì fissando lo sguar­ do irritato nel buio. Il cielo stellato dominava la valle, ove le luci di Seldwyla splendevano fitte : egli a quella vista dimenticò quel che v’era nella stanza e i suoi pensieri vagarono laggiù attorno alle mura. Trasse un profondo sospiro mentre sotto la sua finestra passava una figura di donna e una voce gli diceva : — Buona notte, signor stregone ! — Era Ännchen che era sgattaiolata fuori della casetta e che s’avviava saitei-

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landò rapida e ridendo giù per la discesa. Egli fece per muoversi e una voce interna gli suggerì: “Non lasciartela sfuggire !”. Tuttavia non si staccò dalla finestra e il suo de­ siderio tormentoso non andò alla falsa contadina, ma giù nella valle, dove c’era Gritli. Tutti gli spiriti della pas­ sione erano ormai ridesti e s’agitavano come ebbri nel suo cuore, così che trascorse la notte in un’inquieta in­ sonnia. “Dobbiamo pensare al rimedio,” esclamò quando già il sole era alto, destandosi dal breve sonno mattu­ tino “me ne andrò di qui per qualche tempo a cercare un’altra aria !”. Detto fatto ! Infilò per la seconda volta la bisaccia, prese un bastone, chiuse porta e finestre e si mise in cammino per riportare la chiave al cimatore e chiedergli un congedo. Un passo lieve e rapido lo destò dallo stato di intonti­ mento in cui aveva fatto ogni cosa. Conosceva quel passo e per qualche momento stette in ascolto, prima di trovar il coraggio per alzare lo sguardo. Già il sole mattutino gettava sulla strada lucida, proprio sotto i suoi occhi, quasi l’ombra lieve d’un velo e questa aureola nebulosa circonfondeva due spalle rotonde. Wilhelm si sentì a un tratto come in un purgatorio, ma, pur nel suo gran turba­ mento, s’accorse che quel ritmico passo rallentava quasi impercettibilmente. Alla fine alzò gli occhi e scorse vicino la bella Gridi, che a sua volta arrossì e tenne gli occhi sorridenti fissi davanti a sé. Ambedue nella confusione si misero quasi a correre, passandosi accanto, per non in­ contrarsi probabilmente mai più. Ma in quel punto Wilhelm si tolse il cappello e Gritli ricambiò il saluto con un rapido inchino. Come tirato da un filo invisibile, ciascuno dei due si voltò a guardare, si fermò e si avviò con moti più 0 meno lenti sin che andò a scontrarsi coll’altro come fanno due pezzetti di legno natanti su uno specchio d’acqua. Proseguirono senz’altro insieme la via: «Ma lei sta forse per partire, poiché vedo che ha la bisaccia e il bastone?» domandò Gritli. Wilhelm replicò che pensava infatti di andarsene, e quand’essa gli chiese dove e perché, parlò d’affari, di bel tempo e di cose diverse; e Gritli

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intrecciò alle sue risposte discorsi non meno vuoti, ma sempre con la più profonda commozione. Camminavano rapidi, respiravano forte e si gettavano sguardi furtivi: arrivarono così senza avvedersene a un sentiero nel profondo del bosco, quando Gridi esclamò: — Ma dove siamo venuti a finire? È questa la sua strada? — La mia? — domandò tutto serio — no certo ! — Benone ! — esclamò Gritli ridendo — allora dovre­ mo vedere di uscir dal bosco! — Attraversiamo da questa parte ! — disse Wilhelm e s’awiò per uno stretto viottolo. Dopo poco giunsero ad una piccola radura circondata da alberi, le cui corone si intrecciavano altissime. Sotto quei pini silvestri si am­ mucchiavano grandi pietre rossastre, poiché ivi appunto c’era la tomba del guerriero celta e tutt’attorno il terreno era costellato dalle candide corolle degli anemoni. — Com’è bello qui ! — esclamò Gritli — voglio ripo­ sare un poco, perché mi sento stanca! — S’accomodò sulle pietre e Wilhelm rimase ritto dinanzi a lei. — Fate che non si svegli colui che dorme lì sotto — disse, e Gritli gli chiese spaventata a che cosa volesse allu­ dere, al che Wilhelm rispose narrandole la storia della tomba. Dopo un poco, Gritli osservò: — Dove sarà mai sepolta sua moglie? Certo non lon­ tano ! — Questo non lo possiamo sapere ! — replicò Wilhelm ridendo — forse giace su un campo di battaglia della Gallia, forse su un’altra collina di questa regione, pro­ prio qui accanto, e forse, anche, il guerriero non ha mai avuto moglie ! Seguì un silenzio tra i due e ciascuno parve profonda­ mente immerso nei suoi pensieri. Gritli s’era tolto il cap­ pellino e mostrava d’un tratto, invece dei riccioli che avevano ferito il cuore del maestro, una testolina rotonda, pettinata liscia liscia e lucente. Questo lo sconcertò com­ pletamente, poiché l’inattesa trasformazione gliela fece apparire più bella che mai. Era inoltre vestita con straor­ dinaria eleganza e grazia, pur nella sua semplicità; tutto

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era fresco e accurato, nulla era vistoso e ogni cosa susci­ tava però un’impressione gradevole, subordinata tuttavia alla bella testa fiorente. Si vedeva che quella donna nelle proprie vesti si sentiva comodamente a casa sua, e chi ravvicinava non si trovava in una baracca da mercato. Tutto ciò immerse Wilhelm in profonda melanconia : egli guardava la bella donna che gli stava di fronte come si fissa l’azzurra lontananza della primavera, che non si potrà mai raggiungere. Dopo che il silenzio fu durato per alcuni minuti, e in­ tanto il petto di Gridi si sollevava inquieto, echeggiò dal fitto del bosco la voce del cuculo : una volta sola, ma con un richiamo lungo e distinto. I due si guardarono e Gridi, senza perdere altro tempo, disse col suo sorriso gentile : , — Mi è caro averla incontrata, perché avevo quasi quasi l’intenzione di venirla a cercare nella sua casina ! Wilhelm le spalancò gli occhi in faccia: quelle parole lo strapparono al suo oblio, facendogli presente la situazione in cui si trovava con quella donna. Non riuscì che a bor­ bottare in risposta un laconico: — Perché? — e temette, arrossendo irritato, una nuo­ va commedia. Ma ella continuò: — Volevo domandarle se mi serba rancore per quella storia delle lettere d’amore ... — Io non le ho mai serbato rancore, — replicò Wil­ helm — bensì soltanto a me stesso, però quel che lei disse di me al tribunale non fu giusto, e fu anche scono­ scente, giacché io ho avuto cosi grande stima della sua grazia e della sua bellezza, da non saper far altro che credere in quel Dio che l’aveva creata per farmene do­ no ... un pensiero certamente vanitoso e stolto ! - Uno splendido rossore illuminò il viso di Gridi. —Io non fui ingrata — replicò sfilandosi i guanti e guardandosi la punta delle dita — quando pronunciai quelle parole . .. pensavo ... — qui si interruppe e Wil­ helm insistette con voce quasi afona: — Ebbene, che cosa pensava? . . . . — Io pensavo, — mormorò Gridi abbassando gli oc-

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chi — insomma, in cuor mio mi dicevo che in compenso la mia persona, così come è, avrebbe dovuto un giorno appartenerle per sempre, quando fosse giunto il suo tem­ po ! Ed ora eccomi qui ! Così dicendo gli porse ambedue le mani e alzò gli occhi verso di lui. Non fu un’occhiata lampeggiante come quella che un giorno gli aveva lanciato oltre la siepe, ma ben più limpida e profonda. Egli le afferrò le mani e la fece alzare, ma quel gran pascià che nelle sue fantasie aveva dominato tutta una città di belle donne, al momento buono e con quell’unica non seppe far altro che andare su e giù per la radura, sorridendole senza lasciare la sua mano. Alla fine ripresero il cammino; Wilhelm la precedeva, ma si voltava di tanto in tanto, per vedere se lo seguiva lungo lo stretto sentiero, e sempre ne incontrava il sorriso. Ad un certo punto essa si nascose dietro a un grosso faggio, così che voltandosi Wilhelm non la scorse più. Incerto e spaventato, si fermò un attimo, poi, non sentendola né vedendola, rifece il cammino per circa venti passi, e ad ogni passo rallentava, sentendo sorgere in sé il cupo ti­ more d’esser stato oggetto di una nuova burla, per invero­ simile che fosse. Egli infatti non riusciva ancora a sentirsi sicuro nella sua parte di amante felice. Ma ecco che die­ tro il faggio si udì un colpo di tosse scherzosa e, quando egli accorse, la bella smarrita gli aprì le braccia. Questa volta finalmente egli l’afferrò e la coprì di baci che di se­ condo in secondo gli riuscivano meglio, mentre lei se ne sta­ va quieta e silenziosa, sentendo che sino a quel momento aveva saputo ben poco dell’amore. Dopo che Wilhelm si fu un poco quietato, sedette con la sua amata sulla grossa radice muschiosa del faggio, le carezzò le guance e le chiese se non fosse già salita una volta d’autunno alla sua casetta. «Mi avevi dunque ve­ duto?» replicò lei vivacemente. Egli le raccontò l’av­ ventura e anche, con tutta sincerità, quella con la si­ gnora Ännchen, e le spiegò come soltanto il ricordo di Gritli seduta sulla scala davanti alla sua porta lo avesse salvato dalla caduta. Gritli lo accarezzò a sua volta, lo baciò e disse: «Tu

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sei proprio uno di quelli giusti, e coi quali nessuna fatica va perduta ! ». Al giungere del maggio festeggiarono liete nozze sotto alberi in fiore. E durante il loro viaggetto il cimatore cercò nella regione un bel podere che essi al ritorno com­ prarono e nel quale andarono ad abitare. Wilhelm lo am­ ministrò con attività e con oculatezza, accrescendo i suoi beni, tanto da diventare persona autorevole e saggia, mentre sua moglie conservò la sua grazia benedetta. Quando un’ombra di malumore calava sul marito o sor­ geva una piccola disputa, Gritli scioglieva i suoi riccioli e, se questi non avevano potere sufficiente, tornava a petti­ narli lisci lisci dietro le orecchie, al che Wilhelm sempre si dava per vinto. Ebbero dei figli bene educati, i quali a loro volta, quan­ do furono adulti, sposarono giovanette di buona educa­ zione. Anche il cimatore rimase loro unito in amicizia e si conservò uomo solido; così a poco a poco si venne for­ mando una piccola colonia di benestanti che, senza ri­ nunciare ai sereni piaceri della vita, seppero però tener la misura ed ebbero prosperità. Venivano chiamati ironi­ camente dai Seldwylesi «i benestanti mezzo allegri» oppure «i furbacchioni», ma erano stimati, anche perché tornavano utili in varie contingenze e accrescevano ri­ nomanza al paese. Invece Viktor Störteler e la sua Käthchen erano da lungo tempo spariti e dimenticati, e insieme le lettere d’amore, che essi, spinti dalla fame e dalla miseria, ave­ vano riesumate e attribuite a se stessi e accresciute di numero fra grandi litigi.

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Sui pendìi settentrionali di quelle stesse boscose colline, su cui, esposta a mezzodì, giace Seldwyla, prosperava, ancora verso la fine del Quattrocento, ira dense ombre, la citta­ dina di Ruechenstein. Grigio e fosco era il nucleo serrato delle sue mura e delle sue torri, non scadenti erano i con­ siglieri e i cittadini, ma rigidi e imbronciati, e la loro occupazione nazionale consisteva nell’esercitare l’auto­ rità giudiziaria, nel maneggiare leggi e decreti, mandati e regolamenti, dispense ed esecuzioni. Il loro supremo or­ goglio era il possesso di una propria giurisdizione crimi­ nale, grande e massiccia, che essi nel corso dei tempi, con grande zelo e sacrifici, erano riusciti a conquistare e a com­ pletare riunendola da sparsi tribunali criminali dell’Im­ pero, così come altre città ricercano la propria libertà e i beni terreni. Sulle rocce sporgenti attorno alla città si ergevano forche, ruote di tortura e patiboli di vario genere; il municipio era pieno di catene e di collari di ferro, gabbie robuste pendevano dalle torri e a ogni canto di strada vi erano le berline girevoli di legno per ficcarci le donne. Persino lungo il fiume azzurro cupo che ba­ gnava la città, erano state istituite speciali stazioni ove si buttavano e si facevano annegare i delinquenti, coi piedi e le mani legate, oppure dentro sacchi, a seconda delle sottili distinzioni della sentenza. Gli abitanti di Ruechenstein non erano però figure ferree, terrificanti e robuste, come si potrebbe dedurre dalle loro simpatie; appartenevano anzi a un tipo di gente dall’aspetto volgaruccio e filisteo, con le pancette tonde e le gambe esili, ma avevano tutti dei gran nasi lun­ ghi e giallicci, proprio i nasi con cui per tutto l’anno re­ ciprocamente brontolavano e si apostrofavano. Nessuno, giudicando da questo loro aspetto filisteo, avrebbe loro at­ tribuito i nervi robusti che son pure indispensabili per as­ sistere di continuo a simili spettacoli crudeli. Ma erano in essi qualità nascoste. Essi tenevano quindi la loro giurisdizione tesa sul di­

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stretto civico, come una rete sempre avida di preda; e in realtà in nessun luogo v’erano così curiosi e originali reati da perseguire come a Ruechenstein. La loro inesauribile fantasia nell’inventare nuove pene pareva mettere real­ mente alla prova quella dei peccatori, incitandoli a una gara. Ché se malgrado ciò interveniva poi scarsità di rei, non si smarrivano per questo, ma senz’altro acchiappa­ vano e punivano i bricconi di altre città, così che chiunque traversava il loro territorio doveva proprio avere la co­ scienza pulita. Appena infatti essi avevano notizia di un delitto consumato in una lontana regione, catturavano il primo viandante che capitasse loro sotto mano, lo lega­ vano alla ruota sinché quello non confessava, oppure non risultava, per un caso fortuito, che tal delitto non era stato per nulla commesso. Conflitti di competenza li mette­ vano di continuo in lite con la Confederazione e con altre località e non di rado subivano ammonizioni. Per le loro impiccagioni, i loro roghi e annegamenti prediligevano un tempo sereno e senza vento, tanto che era soprattutto nelle più belle giornate estive che da loro succedeva qualche cosa. Un viandante poteva allora scor­ gere non di rado da un campo remoto, fra il grigiore del paesotto roccioso, il lampeggiare improvviso di una man­ naia, la colonna di fumo di un rogo, oppure, nel fiume, qualcosa come il balzar luccicante di un grosso pesce, quando una strega condannata cercava dibattendosi di uscire dalle acque. La parola di Dio non sarebbe loro piaciuta senza almeno lo spettacolo di una povera coppia di amanti davanti all’altare con la ghirlanda di paglia e senza la lettura dei più feroci mandati sul malcostume. Non v’erano per loro altre gioie, feste o sagre, poiché tutto era vietato da un numero infinito di decreti. È facile immaginare che questa città non poteva aver vicini più sgradevoli che la gente di Seldwyla, la quale sta­ va loro alle spalle dietro il bosco, come la voce della co­ scienza. Ogni seldwylese che si lasciasse cogliere in terri­ torio di Ruechenstein veniva arrestato e messo sotto in­ chiesta per l’ultimo delitto del momento. In compenso i Seldwylesi acchiappavano tutti i sudditi di Ruechenstein

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che capitassero loro sotto mano e a tutti infliggevano senza ulteriore indagine, solo perché erano di quel posto, sei vergate sul deretano nella piazza del mercato. Erano queste le uniche verghe da loro consumate, perché fra concittadini non amavano farsi del male. Poi prendevano il malcapitato, gli dipingevano con un nero indelebile il lungo naso gialliccio e lo rimandavano a casa tra alti e gioiosi schiamazzi. Per questo a Ruechenstein si potevano sempre vedere alcuni tipi particolarmente imbronciati andare attorno con nasi ancora nerastri e solo lentamente tornanti al pallore, che, austeri e taciturni, giravano in cerca di poveri peccatori. I Seldwylesi tenevano la vernice nera sempre pronta in un secchiello di ferro su cui era dipinto lo stemma di Rue­ chenstein; chiamavano questo secchiello «il vicino gen­ tile» e lo lasciavano appeso insieme al pennello al por­ tone di città per cui si andava a Ruechenstein. Quando la tintura era seccata o consumata, la si rinnovava con un gran corteo umoristico per far dispetto ai poveri vicini. Quelli, una volta, tanto se ne adontarono che uscirono in armi col gonfalone per punire i Seldwylesi. Ma questi, tempestivamente avvertiti, andarono a incontrarli e li attaccarono impavidi. Quelli di Ruechenstein però ave­ vano messo come avanguardia dei vecchi lanzichenecchi dalle barbe grigie, con nuove corde all’elsa degli spadoni e i Seldwylesi furon còlti da tanta paura, che eran lì lì per ritirarsi e sarebbero stati perduti senza una trovata improvvisa, che fu la loro salvezza. Avevano portato con sé, in segno di scherno, «il vicino gentile», e, invece del gonfalone, un lunghissimo pennello. L’alfiere che lo reggeva, con grande presenza di spirito, lo intinse subito nella vernice nera, balzò con esso incontro ai primi ne­ mici e riuscì con gran rapidità a impiastricciare loro la faccia, così che i più vicini, minacciati dell’aborrito sfregio, si diedero alla fuga e nessuno volle mantenersi in prima Enea. La schiera vide così vacillare le sue file: un panico imprecisato colse quelli della retroguardia, mentre i Seldwylesi, ripreso animo, avanzavano tra gran­ di risate e respingevano gli avversari entro Ruechenstein.

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Appena quelli tentavano di difendersi, arrivava il temuto pennello dal lungo stelo; e non senza vero e proprio eroismo, giacché per ben due volte i temerari verni­ ciatori eran caduti trafitti dalle frecce, ma sempre un nuovo seldwylese era intervenuto ad afferrare la strana arma e ad attaccare nuovamente il nemico. Alla fine però quelli di Ruechenstein vennero total­ mente respinti e fuggirono alla rinfusa col loro gonfalone attraverso il bosco, e i Seldwylesi alle calcagna. A stento poterono raggiungere la città e chiuderne il portone, che insieme al ponte levatoio fu poi dagli inseguitori così a lungo imbrattato di nero col maledetto pennello, sinché gli altri poterono tornare a radunarsi e a bombardare i rumorosi pittori con secchi di calce. Siccome nell’ardore della lotta alcuni cospicui Seldwy­ lesi erano capitati nella città e vi erano stati chiusi den­ tro, e in cambio una dozzina degli aggressori era rimasta in mano dei Seldwylesi, dopo pochi giorni si venne a patti per lo scambio dei prigionieri, dal che derivò un vero e proprio trattato di pace. Ambedue le parti si erano sfogate e sentivano il bisogno di una più tranquilla vici­ nanza. Vi fu quindi promessa di un contegno di buon vicinato, e per cominciare i Seldwylesi promisero la con­ segna del secchiello di ferro, che sarebbe stato abolito, mentre quelli di Ruechenstein da parte loro si impegna­ vano solennemente a rinunziare ad ogni procedura puni­ tiva contro Seldwylesi a passeggio e venivano pure aboliti gli eventuali diritti a questo riguardo. Per confermare tale patto venne fissato un giorno e per l’incontro si scelse quella stessa radura sulla montagna ove si era svolta la lotta. Da parte di Ruechenstein inter­ vennero alcuni consiglieri giovani, giacché gli anziani non sapevano adattarsi a trattare con affettuosità quelli di Seldwyla. Questi si presentarono realmente in nume­ rosa delegazione; portarono con allegro cerimoniale il «vicino gentile» e insieme una botticella del loro vino più vecchio con alcune pregevoli coppe argentate e dora­ te. Con questo sedussero i giovani signori dell’austera cit­ tadina, per i quali spuntò un sole sconosciuto che li rese

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tanto felici da indurli, invece che a un pronto ritorno, a seguire i loro seduttori sino a Seldwyla. Ivi furono ac­ compagnati in municipio dove li attendeva un eccellente banchetto; sopravvennero belle dame e damigelle, furono recati sempre più numerosi i boccali, le coppe e i bicchieri, così che, fra tanto luccichio di occhi ardenti e di nobile metallo, i poveri giovani di Ruechenstein finirono col per­ dere la testa e col diventare di ottimo umore. Cantarono, non sapendo di meglio, un salmo latino dopo l’altro per alternare le canzoni e i brindisi dei Seldwylesi e alla fine commisero l’imprudenza d’invitare questi ultimi a resti­ tuire la visita insieme alle loro mogli e figliole, prometten­ do ottima accoglienza. La proposta fu accettata all’unani­ mità, ne seguì gran giubilo e, per farla breve, i rappre­ sentanti di Ruechenstein partirono in perfetta beatitudine, ritenendosi poi per di più, ridendo, dei conquistatori for­ tunati, quando le belle e gioiose signore vollero accom­ pagnarli fino alla porta di città. Certo che il piacevole aspetto dell’avventura si trasfor­ mò l’indomani, allorché gli allegri messeri si destarono nella loro fosca città nativa e dovettero far rapporto di tutta la loro missione. Poco mancò, quando giunsero a confessare l’invito, che non li si facesse arrestare e sotto­ porre ad inchiesta perché stregati. D’altra parte anch’essi sentivano scorrere nelle loro vene il sangue di alte autori­ tà civiche, cosicché, pur deplorando ormai l’accaduto, in­ sistettero nel voler mantenere la loro parola spiegando ai vecchi come fosse senz’altro un’esigenza dell’onore civico offrire buona ospitalità ai Seldwylesi. Trovarono appoggio fra la cittadinanza, specialmente descrivendo i ricchi arre­ di sfoggiati da quelli di Seldwyla ed esaltando le loro don­ ne e le vesti eleganti. Gli uomini giudicarono che la situa­ zione non era tollerabile, che bisognava far vedere a quei signori la propria ricchezza, la quale stava a luccicare rinchiusa nelle casseforti, mentre le donne smaniavano all’idea di poter trasgredire il rigido regolamento contro il lusso e di potersi una volta tanto adornare e ingioiellare col pretesto della politica. Non mancavano loro nei cas­ soni le belle vesti, altrimenti tutti quei regolamenti sa­

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rebbero riusciti loro da un pezzo insopportabili ed esse avrebbero già provveduto coi loro poteri a sbarazzarsene. Fu quindi deciso di ricevere gli antichi avversari e no­ velli amici, con grande rabbia dei più anziani. Questi subito escogitarono di solennizzare la giornata scandalosa con un’impiccagione, in modo da moderare salutarmente e con dignità ogni eccesso d’allegria. Mentre i più gio­ vani s’occupavano di preparare la festa, gii anziani pre­ sero in gran .segretezza le loro misure, acchiappandosi un povero delinquente, un giovane minorenne che pro­ prio allora si dibatteva nella rete. Era un ragazzino un­ dicenne di bellissime fattezze, i cui genitori erano scom­ parsi in tempi di guerra e alla cui educazione aveva prov­ veduto la città. O per meglio dire, questa l’aveva messo a dozzina da una sciagurata e perfida guardia municipale, che teneva quel fanciullo avvenente, snello e robusto, qua­ si al pari di una bestia da soma, in ciò ben coadiuvata dalla sua consorte. Il ragazzo aveva nome Dietegen e questo nome era tutto quanto possedesse, era la sua bene­ dizione serale e mattutina, il suo viatico per l’avvenire. Miseramente vestito, non aveva mai posseduto un abito della festa, e la domenica, quando tutti han qualcosa di meglio addosso, avrebbe avuto l’aria di uno spaventa­ passeri se non fosse stato tanto bello di persona nel suo misero abituccio. A lui toccava sfregare, scopare e com­ piere ogni sorta di simili fatiche donnesche, e quando la padrona non aveva alcun mesti eraccio da assegnargli, lo dava a prestito alle vicine per denaro, perché sbrigasse le più brutte faccende da quelle desiderate. Esse, pur vedendolo volonteroso, lo credevano uno sciocco, perché obbediva in silenzio, senza mai fare opposizione, tuttavia non lo potevano guardare a lungo negli occhi ardenti, quand’egli con inconscia audacia girava intorno lo sguar­ do lampeggiante. Alcuni giorni prima avevano mandato Dietegen dal bottaio verso sera, a prendere dell’aceto, perché i suoi genitori adottivi avevano voglia di mangiare l’insalata. L’aceto era da tempi lontani tenuto in un boccalino anne­ rito e creduto quindi di latta, comprato per pochi soldi

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con altro ciarpame dalla madre della padrona, ma che in realtà era d’argento. Il bottaio che preparava l’aceto abitava in una parte solitaria della città, dietro le mura. Mentre il ragazzo passava con il boccale, gli strisciò ac­ canto un vecchio ebreo con un sacco e gettò una rapida occhiata al recipiente sporco, ma di fine fattura, do­ mandando al ragazzo con parole insinuanti il per­ messo di osservarlo meglio. Dietegen glielo porse, l’e­ breo senza farsi scorgere provò a scalfire il metallo con l’unghia del pollice, e subito offri in compenso allo stupefatto fanciullo una balestra dall’apparenza mol­ to graziosa, che trasse dal sacco insieme ad alcune frecce contenute in un astuccio di pelle di lontra molto sdruscita. Il ragazzo afferrò l’arma smanioso, subito la tese con mano abile e robusta, mentre l’ebreo se la svi­ gnava senza che l’altro s’occupasse di lui. Al contrario, co­ minciò immediatamente a mirare alla porta di una tor­ retta costruita sulle mura e, senza che alcuno venisse a disturbarlo, dimentico del mondo intero, proseguì nel suo giuoco sino a buio, tirando poi ancora al riflesso della luna nascente. Nel frattempo la guardia aveva fatto un ultimo giro d’ispezione per la città e aveva còlto l’ebreo mentre tentava di sgattaiolare fuori mura. Perquisendo il suo sacco, riconobbe con stupore il boccale per l’aceto, con­ segnato poco prima al figlio adottivo. L’ebreo, per paura di rimetterci la pelle, confessò senz’altro che era d’argento e inventò che glielo aveva voluto cedere a tutti i costi un giovanetto in cambio di una magnifica balestra, che però forse era di minor valore. La guardia corse a chiamare un orefice, questi vide il boccale e confermò che si trattava di un antico oggetto d’argento di eccellente fattura. Allora la guardia e sua moglie, sopraggiunta nel frattempo, fu­ rono còlti da grande eccitamento e furore, in primo luogo per aver posseduto senza saperlo un recipiente tanto pre­ zioso e in secondo luogo per aver arrischiato di perderlo. Il mondo parve loro pieno di orribili torti, il fanciullo addirittura un demonio, che stava per defraudarli della lo­ ro beatitudine eterna, in cambio delle loro infinite cure

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e benemerenze. Finsero d’un tratto di aver sempre saputo che il boccale era d’argento e di averlo sempre pregiato in casa. Con le più aspre maledizioni accusarono il ra­ gazzo di grave furto, e mentre quello, ignaro, continuava a baloccarsi con le frecce, centrando sempre meglio con ogni colpo il bersaglio, già due schiere di sgherri parti­ vano per cercare il fuggiasco, con alla testa la guardia e la moglie, che per nulla aveva voluto rinunciarvi. Incontrarono così da due direzioni diverse, dopo non molto, il tiratore, che continuava a lume di luna e parve destarsi da un sogno quando si vide di colpo circondato e preso. Solo in quel momento si rese conto della sua ne­ gligenza e insieme della mancanza del boccale. Credette però di aver fatto un buon baratto e porse con un sorriso la balestra al patrigno per rabbonirlo. Venne tuttavia subito legato, trascinato in carcere e interrogato, e am­ mise senz’altro il fatto, senza sapere per nulla difendersi. Il povero fanciullo fu condannato alla forca e l’esecu­ zione fissata per il giorno in cui sarebbero venuti in visita i Seldwylesi. Essi giunsero infatti in maestoso corteo, con colori sgar­ gianti e le trombe civiche in testa. Erano tutti armati di buone spade e pugnali e recavano con sé una dozzina delle loro donne più giovani e audaci, in grande ele­ ganza, e persino alcuni fanciulli con i colori della città, recanti dei doni. I giovani consiglieri di Ruechenstein, i loro amici, andarono ad accoglierli un tratto fuor della porta, porsero il benvenuto e li riaccompagnarono un poco esitanti in città. La porta era stata ripulita il meglio possibile, verniciata a nuovo e decorata con modeste ghirlande. Ma all’interno della porta c’erano allineate tutte le guardie civiche in uniforme e ben armate, che ac­ compagnarono il corteo, con gran tintinnare metallico, lungo le buie e anguste vie cittadine. Dalle finestre la gente guardava muta ma incuriosita, come se passasse un serpente di mare, e quando un seldwylese alzava lo sguar­ do e salutava allegramente, le donne ritraevano il capo intimidite. I mariti invece schiacciavano curiosamente la punta del naso contro i piccoli vetri verdastri, per osser­

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vare meglio l’inusitato spettacolo di colli femminili nudi. Il corteo raggiunse così la grande sala del municipio, fastosa ma cupa, con le pareti e il soffitto rivestiti di quercia dipinta in nero con lievi fregi d’oro. Vi stava una lunga tavola apparecchiata con tovaglie di lino intessute di seta verde e fili d’oro, a figure rappresentanti bo­ schetti con cervi, cani e cacciatori. Sopra quella stoffa v’erano delle tovagliette di finissimo tessuto bianco da­ mascato che, ad osservarle da vicino, mostravano un raffinato disegno di allegre storie mitologiche, quali non si sarebbero mai aspettate in un così austero ambiente. La splendida imbandigione offriva tutto quanto costi­ tuisce un pubblico banchetto ; quindi anche un gran nu­ mero di coppe preziose, lavorate a cesello, ora a mezzo rilievo, ora a tutto tondo, che rappresentavano un mon­ do brillante di ninfe, di naiadi e di altre divinità. Persino il trofeo centrale, una specie di gran bastimento da guer­ ra in argento con alta velatura, in sé molto dignitoso e aulico, aveva per polena una bella Galatea dalle forme audacissime. Lungo questa tavola andava in su e in giù un gruppetto di mogli dei consiglieri, tutte vestite di rigida seta nera o granata, con merletti inamidati che le coprivano fino al mento. Recavano numerose collane d’oro, cinture e cuffiette preziose, e avevano sopra i guanti a ogni dito una quantità d’anelli. Queste donne non erano brutte, pote­ vano anzi dirsi graziose, o almeno erano dotate tutte di un incarnato tenero e trasparente e di guance rosee ; erano però d’aspetto tanto rigido, aspro e scostante, che ci si chiedeva se avessero mai riso in vita loro, o per lo meno una sola volta, nel buio della notte, quando avevano in­ dotto il marito ad accettare il primo berretto da notte. I saluti riuscirono piuttosto imbarazzati e tutti furono contenti di sedersi a tavola, per dissipare l’imbarazzo mangiando e bevendo. I Seldwylesi furono i primi a ri­ trovare la loro serenità naturale, ammirando la ricchezza con cui era apparecchiata la tavola. Ciò non dispiacque a quelli di Ruechenstein, e stavano per iniziare una conversazione piuttosto stentata, quando l’incontro prese

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una piega che non avrebbero mai sognato. I Seldwylesi infatti, che sapevano far buon uso dei loro occhi, non tardarono a scoprire le figure graziose e allegre delle to­ vaglie damascate e delle artistiche coppe e lasciarono scor­ rere i loro sguardi pieni di lieto compiacimento sulle sce­ ne piuttosto libere e voluttuose, indicandosele l’un l’altro, interpretando e definendo con grazia scherzosa quanto era rappresentato, nel far che le donne non erano da meno dei loro cavalieri. Ciò parve alquanto puerile ai loro ospiti, che si diedero a considerare anch’essi più attentamente quel che gli altri ammiravano. Rimasero tutti a bocca aperta ! Essi, con la loro mentalità piuttosto limitata, non si erano mai indugiati a guardare quegli arredi, pensando che gli oggetti di lusso son fatti apposta per il lusso, senza che però la gente seria debba degnarli di sguardi più attenti. S’accorsero inorridendo di avere sotto i loro occhi pudichi tutto il mondo degli orrori pa­ gani. Erano peraltro sdegnati del modo curioso e indi­ screto con cui i Seldwylesi mettevano in luce quelle frivolità insignificanti, invece di trascurarle dignitosamente, limitandosi ad ammirare la preziosità del materiale. Gli uomini abbozzarono un sorriso forzato e agrodolce quan­ do l’uno scopriva una Leda e un altro un’Europa, mentre le signore si facevano rosse oppure pallide d’ira e stavano appunto per alzarsi sdegnose, quando venne a calmarle d’improvviso il suono triste di una campana. Era la cam­ panella dei condannati di Ruechenstein; un brusìo lon­ tano annunciava dalla strada che stavano per accompa­ gnare alla forca il giovane Dietegen. Tutta la brigata dei banchettanti s’alzò e corse verso le finestre, dove quelli di Ruechenstein con un sorriso maligno fecero posto ai loro ospiti. Passavano un prete, il boia col suo aiutante, alcuni addetti al tribunale, poche guardie, e alla testa del pic­ colo corteo procedeva il buon Dietegen a piedi scalzi, vestito soltanto del camice bianco con orlo nero dei con­ dannati a morte. Aveva le mani legate sul dorso ed era tenuto per una fune dal carnefice. I bei capelli gli cadeva­ no sul candido collo nudo, aveva l’aria confusa e supplì-

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chevole e alzava gli sguardi, invocando aiuto e compassio­ ne, verso le finestre delle case. Sotto il portone del munici­ pio stavano allineati in abiti festivi i fanciulli e le fanciulle seldwylesi, che, come sogliono fare i ragazzi, erano scap­ pati da tavola per correre fuori a vedere. Quando il po­ vero condannato scorse quei giovanetti belli e fortunati, come non ne aveva visti mai, volle fermarsi davanti a lo­ ro, mentre giù per le guance gli grondavano calde lagrime, ma il carnefice lo spinse avanti con un urtone e il corteo fu presto sparito. Su nella sala le donne di Seldwyla erano impallidite e anche i loro mariti erano còlti da profondo orrore, non essendo per nulla amanti di simili spettacoli. Si sentirono sempre più a disagio fra quella gente, tanto che cedettero all’insistenza delle loro mogli impazienti, e chiesero licenza quanto più cortesemente poterono. I signori di Ruechenstein invece, giocata la loro carta, si sentivano soddisfatti e pressoché allegri, così che accompagnarono i loro spettabili ospiti, come dissero, fra galanti e loquaci discorsi fuori città. Giunta però alla porta, la schiera degli ospiti incontrò il gruppo dei giudici che tornavano con facce imbron­ ciate. Li seguiva subito dopo un solo garzone, il quale spingeva un carretto ove era deposto in una rozza bara il giustiziato. Il povero diavolo si fermò timido e rispettoso, e si trasse in disparte per lasciar passare la brillante bri­ gata, e intanto rimetteva a posto il coperchio della cassa, che, sempre sul punto di cascare, lasciava scorgere l’im­ piccato. Ma fra i giovani seldwylesi vi era una ragazzina di sette anni, ardita, bella e ricciuta, che non aveva smesso di piangere dal momento in cui aveva veduto portar via quel poverino e che non poteva ancora consolarsi. Quando il corteo passò accanto al carretto, la piccola vi si accostò d’un balzo, s’appoggiò con un piede sulla ruota e scoper­ chiò la bara, in modo che tutti poterono vedere il povero Dietegen inanimato. Ma in quello stesso momento egli aprì gli occhi e trasse un lieve sospiro, giacché nella con­ fusione di quella giornata lo avevano impiccato male e staccato troppo presto dalla forca, forse perché gli addetti al tribunale speravano di arraffare ancora i resti del ban-

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chetto. L’impetuosa fanciullina mandò un grido: «Vive ancora ! Vive ancora ! ». Subito le donne di Seldwyla s’af­ follarono attorno alla bara, e quando videro che il bel fan­ ciullo esanime cominciava a muoversi, se ne impadroni­ rono senz’altro, traendolo giù dal carro e richiamandolo in vita con massaggi, spruzzi d’acqua, sorsi di vino e altre cure. Gli uomini le aiutarono in ciò, mentre i cittadini di Ruechenstein se ne stavano inerti d’attorno, non sa­ pendo che pesci pigliare. Quando finalmente il ragazzo fu rimesso in piedi e si guardò attorno, credendosi quasi ridesto in Paradiso, scorse all’improvviso il boia che gli aveva messo il cappio intorno al collo, ed esterrefatto al pensiero che avesse potuto seguirlo in cielo, tornò a rifu­ giarsi fra il gruppo delle donne. Esse pregarono allora commosse i severi vicini di far loro dono, in segno di buo­ na amicizia, di quel ragazzo; i mariti si unirono nella preghiera e ai signori di Ruechenstein, dopo breve consi­ glio, non rimase che dichiararsi disposti a lasciar loro prendere il piccolo peccatore, che volentieri regalavano insieme alla sua vita. Le belle dame ed i loro figli ri­ masero felicissimi e Dietegen se ne partì, così come era, cioè col camice dei condannati, insieme ai Seldwylesi. Era una bella sera estiva, tanto che essi, giunti al cri­ nale della montagna su territorio proprio, decisero di spassarsela ancora un poco nel bel bosco per proprio conto, rifacendosi così dello spavento preso, tanto più che dalla città veniva loro incontro una discreta folla, curiosa di sapere come fossero andate le cose. I musicanti dovettero riprendere a suonare e le coppe recate alla festa circolarono finalmente in perfetta letizia. Dietegen si guardava attorno con tanta beatitudine, curiosità e ingenuità che ognuno capiva da lontano come fosse un povero innocente, ciò che fu poi confermato dal suo racconto. Le Seldwylesi non si saziavano di rimirarlo, gli intrecciarono e gli posero sul capo una ghirlanda di fo­ glie e di fiori alpestri, che insieme al lungo e ampio camice bianco gli diede un leggiadro aspetto, e se lo sba­ ciucchiarono l’una dopo l’altra, e quando l’ultima lo la­ sciava libero, la prima lo riprendeva per la testa.

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Ma quella fanciullina che era stata la vera salvatrice di Dietegen uscì d’un tratto dal gruppo e, mettendosi sde­ gnosa fra il fanciullo e la dama che stava per baciarlo, glie­ lo strappò di mano, portandoselo nel gruppo dei fanciulli, al che la brigata con uno scoppio d’allegria commentò: — Benissimo ! La piccola Küngolt non si lascia scap­ pare la sua conquista ! E ha buon gusto : guardate come quell’ometto ben le si adatta ! Il padre di Küngolt, il guardaboschi della città, in­ tervenne dicendo: — Quel ragazzo mi piace, ha degli occhi buoni ! Se i signori son d’accordo, lo prendo per ora in casa mia, visto che non ho che una figliola e voglio vedere se non ne potrò fare un buon cacciatore ! La proposta ottenne il consenso dei Seldwylesi e la piccola Küngolt, ben contenta, non staccò la sua dalla mano di Dietegen e se lo tenne ben vicino. La piccola coppia era davvero graziosa; anche la fanciulla aveva sulla testolina una bella ghirlanda di fiori ed era vestita di verde e di rosso e i due passavano davanti alla folla serena come un’immagine di favole antiche, mentre essa s’avviava finalmente, nel tramonto di fuoco, verso la città. Poco dopo il guardaboschi si staccò dalla compa­ gnia, avviandosi con i ragazzi alla sua dimora, posta un po’ fuori porta, ai margini del bosco. Un viale alberato e scuro conduceva verso la casa, dove la tranquilla moglie del guardaboschi vide stupita l’arrivo dei due fanciulli. Accorse subito la servitù e, mentre la donna dava da man­ giare ai due ragazzi ormai stanchi, il marito le narrò l’avventura di Dietegen. Questi era sfinito e anche in­ freddolito in quel suo camice troppo leggero. Subito si domandò chi voleva per quella prima notte prendere nel suo letto quel nuovo ospite. Ma tanto i garzoni che le do­ mestiche si ritrassero intimoriti, rifuggendo anche sol­ tanto dal toccare una creatura appena staccata dalla for­ ca. Küngolt allora esclamò vivace: — Verrà a dormire nel mio lettino dove c’è posto per tutti e due ! Tutti scoppiarono a ridere, ma la madre disse benevola :

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— Benissimo, cara figliola ! — Poi, osservando affet­ tuosamente il sopravvenuto, aggiunse — Appena entrato quel poverino, ho avuto lo strano presagio di vedermi apparire un angelo, destinato a essere la nostra fortuna. Questo almeno sento con certezza, che da lui non ci ver­ rà disgrazia! Così dicendo accompagnò i ragazzi nella cameretta accanto al salotto e li fece coricare. Dietegen, che non ci vedeva più dal sonno, abbozzò i gesti abituali per svestirsi, ma essendo in certo modo già in camicia, i suoi tentativi assonnati fecero un effetto molto comico alla sua compagna, che nel frattempo s’era già rifugiata sotto le coperte e che, scoppiando a ridere divertita, gridò: — Guardate l’uomo in camicia ! Vorrebbe svestirsi ma non trova né giubbetto né stivali! Anche la madre dovette ridere e disse: — In nome di Dio, vattene pure a letto, povero figliolo, con la camiciola dei condannati! Almeno è nuova e di buona tela ! Bisogna dire che quella brutta gente di Ruechenstein se non altro commette i suoi orrori con un certo lusso! Così dicendo rimboccò il letto e non seppe trattenersi dal baciare ambedue i fanciulli; così che Dietegen era ormai più felice di quanto non fosse mai stato in vita sua. Ma aveva gli occhi già chiusi e l’anima era immersa nel sonno. — Non ha neppur detto la preghiera ! — osservò sotto­ voce e addolorata Küngolt, e la mamma le ribattè: — Prega allora anche per lui, figliola mia — e se ne tornò in salotto. Difatti la fanciulla recitò due Pater noster, uno per sé e l’altro per il compagno di letto, dopo di che scese il silenzio nella cameretta buia. Parecchio tempo dopo mezzanotte Dietegen si destò, poiché solo allora cominciò a sentir male al collo per quella brutta corda. La camera era tutta illuminata dalla luce della luna, ma il bimbo non riuscì a comprendere dove si trovasse e che cosa gli fosse accaduto. Capì sol­ tanto che, ad onta del male al collo, era felicissimo. La fine­ stra era aperta e giungeva la voce gentile di una fontana,

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mentre la notte argentea mandava i suoi sussurri fra le chiome degli alberi del bosco accarezzate dalla luna: tutto questo gli parve miracoloso e inaudito, giacché mai, né di notte né di giorno, aveva visto il bosco. Guardò, stette in ascolto, poi si rizzò a sedere e si vide accanto la piccola Kiingolt, sul cui volto si posava appunto un rag­ gio di luna. Essa taceva, ma era ben desta, perché la gioia e l’eccitamento le impedivano il sonno. Per questo gli occhi spalancati brillavano e la bocca era atteggiata al sorriso quando Dietegen la guardò e ritrovò il ricordo dell’accaduto. «Perché non dormi? Devi dormire!» disse la fan­ ciulla, ma egli si lagnò allora del male al collo. Subito Kiingolt gli buttò al collo le sue tenere braccine e accostò piena di compassione le guance alle sue, tanto che egli credette davvero di non avvertir più dolore a quella salu­ tare medicazione. Cominciarono a chiacchierare sottovo­ ce; lei voleva che Dietegen parlasse di sé, ma il fanciullo era laconico, non avendo nulla da dire che lo allietasse e non potendo esporle le miserie vissute senza conoscere an­ cora nulla che vi facesse contrasto, ad eccezione di quella sera stessa. Ma gli venne d’un tratto in mente il piacere provato con la balestra, di cui s’era nel frattempo dimen­ ticato, e le raccontò del vecchio ebreo, che l’aveva messo negli impicci, e come avesse tirato splendidamente per oltre un’ora e quanto desiderasse soltanto riavere una si­ mile balestra. «Di armi e di balestre mio padre ne ha quante ne vuoi e puoi cominciare sin da domattina a ti­ rare a segno a piacimento ! » disse la piccina e cominciò a sua volta a enumerargli tutte le belle e buone cose che c’erano in casa sua e a parlargli poi di quelle preziosissime che teneva in un suo piccolo cofano : due scodelline d’oro iridate, una collana di ambra, un libriccino di leggende con tutti i santi colorati e anche una splendida lumaca con dentro una Madonnina tutta oro e seta rossa, protetta da una lastrina di vetro. Era sua proprietà anche un cuc­ chiaino d’argento dorato col manico ritorto, ma con quello le avrebbero permesso di mangiare soltanto quando fosse grande e avesse un marito. Allora le sarebbero toc­

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cati per le nozze anche i gioielli da sposa della mamma e il suo abito di broccato azzurro che stava ritto da solo, anche senza che nessuno lo indossasse. Tacque per un pezzetto; poi aggiunse attirando a sé più strettamente il compagno e sussurrando piano: — Ascolta, Dietegen ! — Che c’è? — domandò l’altro, ed essa replicò: — Quando siamo grandi devi diventare mio marito, tu mi appartieni! Sei disposto? — Ma certo ! — disse lui. — Allora dammi la mano per il patto ! — disse la pic­ cola aspirante al matrimonio, e il ragazzo l’accontentò, e dopo quel fidanzamento finalmente i bimbi si riaddor­ mentarono placidi per non svegliarsi che quando il sole era già alto in cielo. La brava mamma, per permettere al ragazzo di riposarsi, non aveva neppure svegliato la sua figliola. Ma ora entrò premurosa nella cameretta, recando sul braccio un abito completo da ragazzo. Due anni prima un suo figliolo era stato ucciso da una quercia abbattuta, e i suoi abiti dovevano andar bene a Dietegen malgrado que­ sti fosse minore di un anno, perché aveva proprio la corporatura del ragazzo perduto. Era un abito festivo che la povera donna aveva conservato non senza melan­ conia. Si era levata all’alba per staccarne alcuni nastri colorati che l’adornavano e per ricucire le fenditure che lasciavano vedere una fodera di seta. Mentre lavorava le eran tornate le lagrime, man mano che la seta rossa, splen­ dente come una primavera sprecata, andava sparendo sotto il panno nero del giacchettino e dei piccoli calzoni a sbuffo. Fu pervasa tuttavia da una dolce consolazione, vedendo che il destino le mandava una così bella creatura strappata alla morte, perché indossasse l’abito scuro del suo figliolo, e non fu soltanto per la fretta, ma con inten­ zione, che non tolse la chiara seta della fodera, quasi fiamma celata del suo cuore materno ; giacché quella don­ na aveva molto più cuore e gentilezza per tutti di quanto, così riservata, poteva mostrare. Se il ragazzo si compor­ terà bene, disse tra sé, tornerò ad aprire le fenditure,

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tanto quel bell’abito non dovrà portarlo che per pochi giorni, sinché non gli abbia preparato qualche indu­ mento più solido e pratico. Mentre spiegava al ragazzo come indossare quelle vesti per lui inconsuete, la bimba era sgusciata fuori dal letto e si era per caso trovato tra le mani il camice del condannato. Se l’era infilato per ischerzo e ora girava così per la cameretta strascicandolo sul pavimento. Teneva le mani intrecciate sul dorso, fingendo fossero legate e salmodiava: — Sono un povero condannato, e le calze non ho indossato ! La moglie del guardaboschi a quella vista impallidì di spavento, ma disse tuttavia con dolcezza: — In nome di Cristo chi ti insegna simili cattivi scher­ zi? — E portò via alla birichina il triste camice dei condannati. Ma Dietegen fu pronto a impadronirsene pieno di rabbia e in quattro e quattr’otto lo ridusse a brandelli. Quando i fanciulli furono finalmente vestiti, andarono nel tinello per la colazione. Quel mattino si era fatto il pane e v’erano quindi, come accompagnamento della tazza di latte, focacce con l’anice, e invece dell’unico panino, identico nella forma alle grosse pagnotte ma preparato e cotto con cura per Kiingolt, ne avevano pre­ parati quel giorno due simili. La padroncina non ebbe requie sinché Dietegen non si fu scelto il più perfetto. Mangiava senza timidezza tutto quello che gli offrivano, come se fosse ritornato alla casa paterna, dopo essere stato tra gente cattiva e sconosciuta, ma se ne stava tutto silen­ zioso, continuando a guardare la mite e gentile padrona, la stanza chiara e i ricchi arredi. Dopo mangiato continuò le sue osservazioni: le pareti erano rivestite d’abete e dipinte a fiori di vario colore e alle finestre brillavano due vetri colorati con gli stemmi del marito e della moglie. Dopo aver guardato attento i lucidi bricchi di peltro sulla credenza, gli venne d’improvviso alla memoria il piccolo e sporco bricco d’argento che gli aveva portato sventura e ricordò il triste tugurio dov’era cresciuto, e timoroso di doverci ritornare, domandò preoccupato :

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— Ma dovrò tornare a casa? Non so più la strada! — Non hai bisogno di saperla, — disse la madre com­ mossa accarezzandogli il mento — non ti sei ancora ac­ corto che devi ormai rimanere con noi? Suvvia, bambina, fagli fare il giro della casa e del bosco e mostragli bene ogni cosa, ma non andate troppo lontano ! Küngolt lo prese per mano e lo condusse anzitutto nel piccolo locale dove suo padre teneva le armi. Vi stavano appese sei o sette belle balestre e inoltre spiedi da caccia, pugnali e coltelli, e in un angolo c’era anche il lungo spadone del guardaboschi. Dietegen contemplò ogni co­ sa senza aprir bocca, ma con gli occhi ardenti; Küngolt salì su una sedia per porgergli le balestre, di cui talune erano ornate di artistici intarsi. Il ragazzo ammirava tutto con occhi rispettosi, come farebbe un giovanetto pieno di talento visitando in sua assenza lo studio di un gran pit­ tore. La promessa della ragazzina, che presto avrebbe potuto cominciare a lanciar frecce, non potè a dir vero essere mantenuta, perché le frecce erano chiuse in un cassetto; in compenso però gli diede in mano una bella lancia corta, tanto perché fosse armato, e con quella lo condusse nel bosco. Attraversarono prima una riserva cintata, dove la città teneva allevamento di cervi dome­ stici, affinché nei banchetti pubblici non mancasse mai un buon boccone d’arrosto. La bimba fece accostare un cer­ vo e alcuni caprioli, animali che sino ad allora Dietegen non aveva mai veduto se non già morti, così che se ne stava estatico con la sua lancia appoggiata alla spalla, senza saziarsi di guardare l’andirivieni delle belle bestie. Stese con desiderio la mano verso un cervo superbo per accarezzarlo, e quando quello d’un balzo fuggì al galop­ po, gli corse dietro con grida di giubilo, seguendolo a gara per un ampio giro. Era forse la prima volta in vita sua che esercitava in quel modo il suo corpo e che prova­ va la gioia di vivere; il cervo, pieno di grazia e di forza, pareva attirare per suo spasso il fanciullo e sfoggiare nella fuga i suoi balzi più rapidi. Ma Dietegen tornò a farsi silenzioso e pensieroso quan­ do entrarono nel bosco d’alto fusto, dove gli abeti e le

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querce, i pini e i faggi, gli aceri e i tigli si ergevano fitti e alti verso il cielo. Gli scoiattoli balenavano rossastri di ramo in ramo, s’udiva il martellare del picchio e dall’alto lo stridere degli uccelli rapaci, e mille segreti pareva sus­ surrassero invisibili fra le verdi corone e i densi cespugli. Küngolt rideva come una pazza constatando che il po­ vero Dietegen non capiva e non sapeva nulla di nulla, pur essendo cresciuto in una cittadina posta fra boschi e mon­ tagne, e si compiacque di istruirlo in ogni cosa dicendoglie­ ne il nome. Gli mostrò la ghiandaia appollaiata sui rami più alti e il picchio variopinto proprio mentre si arrampi­ cava su un tronco, e di tutto il fanciullo molto si stupiva e anche che alberi e arbusti avessero tanti e tanti nomi. Egli non sapeva neppur distinguere le piante di nocciole o di more. Passarono accanto ad un ruscelletto sonante men­ tre, svegliata dai loro passi, una biscia guizzava via rapi­ da, tuffandosi nell’acqua e allontanandosi a nuoto o ce­ landosi poi fra le pietre del fondo. Subito la fanciulla gli strappò di mano la lancia, cercando con essa di frugar nell’acqua per scovare la biscia. Ma quando Dietegen vide che stava per maltrattare la sua bell’arma lucente, gliela ritolse subito, facendole notare che quelle pietre avrebbero guastato la bella punta lucente. «Hai proprio ragione e di te si potrà far qualcosa!» disse improvvisamente il guardaboschi che stava con un suo garzone alle spalle dei ragazzi, senza che essi, per il rumore del torrente, l’avessero sentito. Il garzone portava un gallo cedrone da loro preso a caccia, poiché erano già usciti di buon mattino. Dietegen ebbe il permesso di ap­ pendere lo splendido volatile alla sua lancia e di portarlo sulla spalla, in modo che le ali spiegate gli nascondevano gli agili fianchi, e il guardaboschi osservava con compia­ cimento il bel giovanetto, ripromettendosi di fame un buon aiutante. Per il momento però, bisognava che imparasse alla me­ glio a leggere e a scrivere e a questo scopo doveva recarsi ogni mattina insieme a Küngolt in città, ove, in un con­ vento di suore e in uno di frati, i figli dei cittadini riceve­ vano una prima istruzione. Ma l’insegnamento migliore

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fu per Dietegen quel che gli impartiva durante l’andata e il ritorno la sua compagna, schiudendogli il mondo, infor­ mandolo di tutto quello che incontravano per via. La pic­ cola maestra in ciò seguiva un metodo pedagogico di strana invenzione. In un primo tempo prendeva a gabbo il povero ragazzo credulo e ignorante, infinocchiandolo in mille modi, ma quando poi quello accettava bonario le sue storie e le sue bugie, manifestando il proprio stupore, lei lo mortificava dichiarandogli che erano tutte fandonie, e dopo averlo schernito per la sua cieca fede gli rivelava con grande sapienza la vera realtà del mondo, per quel che ne sapeva la sua testolina di bimba, e il compagno si proponeva arrossendo di essere più accorto un’altra volta, ma ricadeva poi nella trappola successiva. A poco a poco però, così ammaestrato, imparò l’andar del mondo, e se ne accorse con suo spavento un ragazzo che aveva tentato di imitare Küngolt volendo dar da bere a Dietegen una im­ pudente fandonia e ricevendone in cambio un improvviso pugno sul naso. Küngolt, sconcertata dalla scena, era cu­ riosa di sapere se quell’ira si sarebbe sfogata anche contro di lei e mise subito alla prova il suo scolaro con nuove menzogne, ma non senza prudenza. Da lei invece accet­ tava ogni cosa ed essa potè continuare sfacciatamente il suo insegnamento, finché s’accorse che il compagno comin­ ciava a scherzare bonariamente delle sue fandonie e inizia­ va anche una contropartita, ricambiando le sue mali­ ziose trovate con delle bizzarre invenzioni abbastanza argute, tanto che fu lei a trovarsi non di rado nell’im­ barazzo. Pensò allora che era giunto il momento di licenziarlo da quella scuola e fargli fare un passo avanti. Cominciò a tiranneggiarlo in tal misura che egli sofferse quasi più rigida schiavitù che non un tempo in casa dei suoi tutori ; toccava a lui sempre portare, alzare, andare a prendere ed eseguire tutto. Non un momento gli era per­ messo lasciarla, doveva attingere acqua, coglier frutti, sgusciar le noci, tenerle il cestello o affibbiarle le scarpette ; tentò persino di insegnargli a pettinare e a intrecciare i suoi capelli, ma qui il ragazzo si ribellò. Essa gli tenne il broncio e litigò con lui, e quando anche la mamma prese

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le parti del ragazzo e la ammoni a farla finita, giunse persino a mancarle di rispetto. Dietegen però non ricambiava le scortesie né le parole stizzose e si serbava sempre docile e paziente. La padrona di casa vedeva tutto questo con grande compiacimento e per ricompensarlo allevava il fanciullo come un figliolo, dandogli tutti quei consigli tanto delicati e fini e quei sug­ gerimenti inavvertiti che si tramandano di solito soltanto al proprio sangue e coi quali gli si conferisce il bel colore di tradizionali buone costumanze. Ella ebbe per vero dire il vantaggio di trovare nel fanciullo un vero e proprio modello di tutte le virtù per quella sfacciatella d’una fi­ gliola ; era veramente divertente osservare l’inquieta Kiingolt che talvolta si sforzava di imitare contrita quel buon esempio e che tal altra invece ne era irritata e stizzita. Un giorno tanto si arrabbiò che gli andò contro impetuosa­ mente con le forbici : Dietegen le afferrò con rapida ener­ gia il polso e senza farle male e senza neppure un’occhia­ taccia, le tolse di mano, con dolce violenza, le forbici. La scena commosse tanto la madre, che vi aveva assistito non vista, che essa accorse e strinse fra le braccia il fanciullo amorevolmente baciandolo. La bimba usci dalla stanza senza parole, pallida di eccitazione, e la madre gli disse: «Va’, riconciliati con lei, rabbonisci quell’ostinata! Tu sei il suo buon angelo!». Dietegen andò a cercarla e la trovò dietro la casa, sotto un albero di sambuco : piangeva disperatamente e convul­ samente e aveva rotto la sua collanina stringendola attorno alla gola come per strangolarsi e ora calpestava le perline di vetro cadute a terra. Quando Dietegen le si accostò, tentando di prenderle le mani, essa gridò fra i singhiozzi: «Nessuno fuor di me deve baciarti! Tu sei mio, mio possesso soltanto, io sola ti ho liberato da quella bara ove saresti rimasto per sempre ! ».

Il ragazzo s’era fatto robusto e un giorno il guardabo­ schi dichiarò che era ormai venuto il momento di portarlo nella foresta con sé a imparare l’arte della caccia. Venne così strappato dal fianco di Küngolt e passò quasi tutte le

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sue giornate, dall’alba al calar della no tte, nei boschi, nella landa e fra le paludi, insieme agli uomini. Solo allora le sue membra si svilupparono agili e forti che era un piacere a vederlo; rapido e duttile come un cervo obbediva al­ l’istante, correndo dovunque lo mandassero. Docile e si­ lenzioso, era sempre a disposizione, per portare gli arnesi, aiutare a porre le reti, superare a salti coste e fossati per spiare ove fosse la selvaggina. Imparò presto a conoscere le orme degli animali, a imitare i richiami degli uccelli, e prima che ci fosse tempo d’accorgersene, avviò un gio­ vane cinghiale verso lo spiedo che l’aspettava. Il guarda­ boschi diede allora anche a lui una balestra e con questa il giovanetto s’addestrò sia al bersaglio che contro la selvaggina, tanto che quando raggiunse sedici anni era ormai un buon cacciatore cui si poteva affidare ogni compito e già il guardaboschi lo mandava solo a guidare i garzoni o a sorvegliare le riserve di caccia della città. Si poteva quindi vedere Dietegen per la montagna, non munito soltanto della balestra sulla spalla, ma anche di carta e penna alla cintura; e così divenne coi suoi occhi vigilanti e con la sua memoria vergine un ottimo aiuto del suo padre adottivo. Questi, vedendolo farsi sempre più esperto, lo prendeva ogni giorno più in affezione e diceva che il giovane avrebbe dovuto diventare un perfetto cittadino capace di difendersi. Ben si comprende che Dietegen era devoto coll’anima e col corpo al suo buon protettore, giacché nulla è pa­ ragonabile all’affetto di un adolescente per colui che è disposto a tramandargli e a insegnargli il meglio di sé e che da lui è ritenuto modello impeccabile. Il guardaboschi era un uomo di circa quarant’anni, al­ to e vigoroso, dalle spalle ampie e dal bel volto. I suoi ca­ pelli biondi erano già velati da una sfumatura d’argento, mentre erano giovanili il colorito del volto roseo e fresco e gli occhi azzurri, grandi, aperti e pieni di fuoco. Da gio­ vane era stato uno dei più allegri e bizzarri Seldwylesi, sempre pronto a giocare i tiri più strani, ma, dopo sposata la giovane moglie, s’era mutato d’un tratto, divenendo l’uomo più tranquillo e posato del mondo. La moglie era

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infatti di complessione estremamente delicata, piena di timida bontà e, benché fosse tutt’altro che sciocca, non avrebbe saputo replicare a un’ingiuria neppure con una parola aspra. Probabilmente ima donna energica e com­ battiva avrebbe spinto il marito a nuove imprese ; ma di fronte a quella debolezza piena di grazia della sua mogliettina egli si comportò da vero uomo forte, custoden­ dola come le sue pupille, facendo ogni cosa che le desse piacere e rimanendo tranquillo presso il focolare dopo aver compiuto il lavoro del giorno. Soltanto nelle solennità maggiori della città, tre o quattro volte l’anno, scendeva fra i magistrati e i cittadi­ ni, prendeva la direzione della baldoria con fresca ener­ gia e, dopo aver ubriacato i più forti bevitori l’uno dopo l’altro, partiva ultimo dall’osteria municipale, risalendo ritto ed energico su alle sue foreste. Il divertimento maggiore era però quello dell’indo­ mani, quando la testa gli ronzava dolcemente e si destava con l’umore mezzo allegro e mezzo minaccioso di un buon leone, tanto lontano da quella depressione da gatti in cui sono immersi oggigiorno i bevitori, quanto è ap­ punto lontano un leone da un gatto. Compariva nel chia­ ro sole mattutino alla prima colazione e, dominando ogni malessere, la iniziava con una facezia gettata brontolando o un’allegra trovata. Sua moglie, sempre desiderosa di parole scherzose da parte di quel marito di solito tacitur­ no, rideva subito con un trillo così limpido che non ci si sarebbe mai aspettati da una creatura tanto delicata ; ridevano anche i bimbi, i cacciatori e i domestici. Così continuava la giornata, si lavorava fra risa ininterrotte e il padrone era sempre davanti a tutti, maneggiando la scure o sollevando grossi pesi. In una di quelle giornate era una volta scoppiato un incendio in città; al di sopra dei tetti in fiamme si ergeva un solaio di legno irraggiungi­ bile, dal quale una povera vecchia dimenticata invocava aiuto tenendo sulle spalle uno storno addomesticato, pie­ toso e ridicolo nel suo spavento. Nessuno osò spingersi sino a lei, fuorché il guardaboschi subito accorso in aiuto. Que­ sti s’arrampicò su una sporgenza di un alto muro di fronte,

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portandosi dietro con forza sovrumana una scala e, solle­ vatala in aria, la spinse sino alla finestra della povera di­ sgraziata. Attraversò quella specie di aereo ponte e se ne ritornò, reggendo la vecchia tra le braccia, con l’uccello posato sul capo mentre le lingue di fuoco stavano già per lambirlo. Fece tutto questo come fosse una burla, accom­ pagnandosi con parole e gesti scherzosi. Quando aveva portato a termine un buon lavoro, in­ vitava generosamente i suoi familiari a un allegro festi­ no, e in quei casi dimostrava una insolita tenerezza per la moglie, prendendola persino sulle ginocchia con gran­ de divertimento dei figli, chiamandola il suo uccellino, la sua rondinella, mentre essa, con le braccia incrociate in estasi di beatitudine, ridendo, non staccava gli occhi dal marito. Fu in una di queste giornate che egli organizzò un bal­ lo, essendo per giunta proprio il primo giorno di maggio. Mandò a chiamare un musicante e invitò qualche giovane della città. Si ballò leggiadramente sul prato appena fal­ ciato, sotto gli alberi in fiore accanto alla casa, e il padro­ ne aprì le danze con sua moglie, che, adornata con mo­ destia, volteggiava, sorridendo, con la sua fine personcina’. Dietegen, che in quegli ultimi anni era sempre stato ze­ lantemente fra gli uomini, s’accorse allora come Küngolt cominciasse a diventare una bella ragazza. Il volto dai lineamenti delicati e graziosi ricordava quello della ma­ dre, ma nella persona somigliava piuttosto al padre, giac­ ché cresceva alta come un giovane abete e l’ossatura del torace era così robusta da farla quasi sembrare formosa, malgrado i suoi quattordici anni; i riccioli dorati scende­ vano abbondanti sul dorso nascondendo le spalle ancora un poco ossute, ma già di bella linea. Era vestita quel giorno di verde e aveva sul collo nudo la collana d’ambra e in testa, seguendo come le altre fanciulle l’uso del tempo, una ghirlandetta di rose. Gli occhi giravano attorno fe­ stosi e lucenti, ma d’un tratto mandarono lampi birichini, colpendo come con delle frecce il gruppo dei giovanotti, per sostare un poco su Dietegen e passar poi oltre tranquilli. Dietegen non distolse lo sguardo da lei, essa si voltò ancora

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una volta a guardarlo, al che egli abbassò gli occhi arros­ sendo, mentre Küngolt si diede ad aggiustarsi i capelli. Fu la prima volta che si guardarono con qualche imbarazzo, ma poco dopo si trovarono vicini e si unirono dandosi la mano in una danza a girotondo. Un nuovo senso di dol­ cezza pervase Dietegen e non l’abbandonò neppure quando Fanello si sciolse. Küngolt da parte sua se ne staccò come da una cosa sua, della quale si è ben sicuri. Solo di tanto in tanto gli gettava uno sguardo, e allorché egli capitava vicino ad altre ragazze ella compariva im­ provvisamente nel gruppo. Regnò dunque perfetta beatitudine fino a tarda sera: i giovani divennero vispi e arditi come colombacci, su­ perando presto l’allegro padron di casa, mentre questi si specchiava compiaciuto nei lieti successori, occupandosi però soprattutto della moglie, evidentemente felice di ve­ derla tanto contenta, soprattutto quand’essa cominciò ad affibbiargli per scherzo tutta una serie di soprannomi ri­ dicoli. Per quanto la festa si serbasse nei limiti onesti, ai cittadini di un’altra città sarebbe potuto forse sem­ brare di un filo troppo calda; il vino drogato offerto agli invitati era stato preparato secondo tutte le regole, ma vi era forse un po’ troppo zucchero, e così nella loro gioia un eccesso di dolcezza. Le mani delle fanciulle si appog­ giavano ininterrottamente alle spalle dei giovani e molti della brigata non si trattenevano dal prendersi le ragazze in grembo, scambiandosi qua e là un bacetto, senza bi­ sogno di giustificarlo con giuochi di penitenze come usan fare oggigiorno i nostri filistei. Insomma, mancava loro quella certa fredda ritenutezza, di cui Dietegen, quale oriundo di Ruechenstein, era anche troppo provvisto. Ben­ ché egli infatti fosse già innamorato, si teneva lontano dalle moine, che quasi tutti avevano cominciato a scam­ biarsi, come dal fuoco, restando prudentemente fuori dal­ la linea del pericolo. Tanto più audace e confidenziale divenne invece Küngolt la quale, come sogliono fare le adolescenti ancora inesperte, non sapeva dominarsi e andò anzi a cercare il contegnoso compagno, che se ne stava seduto all’ombra di grandi alberi, mettendosi ac­

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canto a lui, afferrandogli la mano e giocherellando quasi puerilmente con le sue dita. Quando egli la lasciò fare e anzi, con un’aria da protettore, quasi fosse il suo padrino, si diede a passarle leggermente la mano fra i riccioli, essa senz’altro gli pose un braccio attorno al collo e lo vezzeg­ giò con la disinvoltura e anche con l’impeto incontrollato di una bimba, mentre in lei era già la donna a destarsi. Dietegen, che non era più un fanciullo, volle essere ra­ gionevole per due, e stava appunto preoccupandosi di sciogliersi dalle sue braccia quando sopravvenne la ma­ dre della fanciulla, che fu lieta di vedere i due ragazzi insieme. — Fate bene a tenervi uniti — disse stringendoli fra le braccia ambedue insieme — e tu, figliola mia, cerca di essere buona con Dietegen ! Egli merita davvero di trovare una patria non soltanto nella nostra casa, ma anche nel tuo cuore, e tu, Dietegen, sii sempre un buon custode e protettore per la mia piccina e non perderla mai di vista, poiché di te mi fido! — Lui appartiene a me sola, ed è già un pezzo — disse Küngolt quasi in tono di sfida, e intanto lo baciò ardi­ tamente e alla leggera su una guancia, un po’ come fareb­ be una fanciulla col fidanzato e un po’ come una bimba bacia il suo gattino. A questo punto il povero giovanotto restò troppo confuso fra madre e figlia : si liberò quasi bru­ scamente da loro e s’allontanò alcuni passi, ma Kün­ golt lo inseguì ridendo, e quand’egli nella corsa si trovò vicino alla bella mammina, questa lo afferrò scherzando e lo trattenne con le parole: — Eccotelo, figlioletta mia ! Corri a tenerlo saldo ! Quand’egli fu di nuovo così prigioniero, sentì il cuore battergli di grande emozione, e mentre gli pareva d’essere così in un asilo sicuro, provò allora per la prima volta il senso della sua solitudine nel mondo. Gli pareva di essere un’anima perduta, caduta dall’albero della vita, rac­ colta bensì da tenere mani soccorritrici, ma privata per sempre di una propria libera esistenza. Perciò, mentre in lui la coscienza della libertà personale lottava con la te­ nera simpatia, rimase lì trepido e silenzioso, da una parte

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ribelle alla prepotente affettuosità delle donne, dall’altra tentato di trarre impetuosamente a sé la ragazza e di prenderla per i capelli. Voleva bene alla madre con devo­ zione riconoscente e fedele, ma quell’invito spregiudicato alla tenerezza gli riuscì strano e perturbante; si considera­ va, è vero, legato alla fanciulla, ma sentiva con molta se­ rietà la responsabilità dei suoi buoni costumi, e quando Küngolt in quel momento tentò di baciarlo sulla bocca, interpose rapido la mano, dicendo con benevolenza, ma col tono di un vecchio pedagogo: — Sei troppo giovane per far questo ! Non sta bene ! La fanciulla impallidì di stizza e di mortificazione, poi si allontanò, andando a unirsi alla brigata, dove prima ballò attorno con sfrenatezza eccitata, e andò poi a se­ dersi rabbuiata in un canto. La madre accarezzò sorri­ dendo la guancia del giovane censore e gli disse: — Sei proprio un compagno ben rigido ! Ma tanto più fedelmente ti occuperai della mia figliuola ! Promettimi di non abbandonarla mai ! Vedi, noi siamo tutti gente al­ legra che forse pensa troppo poco all’avvenire ! Dietegen, con gli occhi umidi di pianto, le porse la ma­ no ed essa lo riaccompagnò tra la folla. Ma Küngolt gli volse dispettosa le spalle, mentre con vero sdegno e dolore fissava gli occhi nella notte di maggio. Strano ! A un tratto la bimba era cresciuta abbastan­ za da procurar crucci amorosi al giovane tanto conte­ gnoso; egli pure infatti se ne rimase in un canto, triste e imbarazzato, più vergognoso ancora della ragazza. Quan­ do l’allegro guardaboschi se ne accorse, domandò: — Che cosa succede? Perché tanta melanconia? — E Küngolt scoppiò a piangere appassionatamente, gridando in faccia a tutti: — Mi è stato regalato dai giudici, quando non era che un cadavere, che io sola avevo richiamato in vita ! Non tocca quindi a lui giudicarmi, ma a me sola giudicar lui, e deve fare tutto quel che desidero, e se a me piace di baciarlo, la cosa riguarda me sola e lui ha da star zitto ! Tutti risero a quella strana uscita, ma la madre prese

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il giovane per mano, e l’accompagnò verso la fanciulla dicendogli : — Vieni, fa’ la pace con lei e permettile per questa volta che ti baci ! Più tardi sarai tu a comandare e a de­ cidere in simili faccende ! Dietegen, arrossendo per la quantità degli spettatori, offrì a mezzo la bocca alla fanciulla: questa lo afferrò prepotentemente per i capelli e lo baciò e poi, gettandogli un’ultima occhiataccia irosa, corse via così rapida e piena di sdegno, che la massa dorata dei suoi riccioli ondeggiò nell’aria della notte andando a sfiorare il volto di Die­ tegen. Divampò allora anche in lui una fiamma di pas­ sione; si staccò poco dopo dalla brigata e si diede a cercare sempre più impetuoso quella ragazza selvaggia, finché la trovò dall’altro lato della casa, seduta meditabonda pres­ so la fontana e intenta a giocherellare con la sua collana d’ambra. Le afferrò le mani, stringendole nella sua destra, mentre con la sinistra le serrava la spalla cosicché la splendida, ancora acerba creatura sussultò sotto la sua stretta, e le disse precipitosamente: — Ascolta, bambina ! Non voglio che ci si prenda giuo­ co di me ! Da oggi tu sei mia quanto io son tuo e nessun altro uomo ti dovrà mai aver viva ! Ricordatene quando avrai l’età per pensarci ! — Guarda quest’uomo grande e vecchio ! — disse Kün­ golt con un risolino, ma impallidendo un poco — Tu sei mio e non io son tua ! Ma non preoccuparti perché non ti lascerò mai libero! Così dicendo si alzò, e senza più guardare il compagno d’infanzia girò attorno alla casa. La buona moglie del guardaboschi in quella fresca notte di maggio prese freddo e si guadagnò una malattia mor­ tale, cui soccombette dopo pochi mesi. Sul suo letto di morte si torturava per il marito e per la figlia; cercava di negare ostinatamente la causa del suo male ben sen­ tendo che quella sua non era la giusta morte di una brava massaia, ma una morte procurata dall’imprudenza e fra i divertimenti. Quando giacque nella bara, tutti si rattristarono e

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l’intera città la compianse, perché non aveva un nemico. Il marito pianse la notte nel suo letto, ma durante la giornata non disse una parola; s’accostava di tanto in tan­ to alla bara a contemplare la salma immobile e s’allon­ tanava poi scuotendo il capo. Fece intrecciare una greve ghirlanda con ramoscelli d’abete e la pose sulla bara, e sopra la figliola vi ac­ cumulò una montagna di fiori selvatici, e a quel modo la morta fu portata giù alla chiesa, seguita dai parenti, dagli amici e dai garzoni cacciatori. Quand’essa fu a riposare nella terra fredda, il guarda­ boschi accompagnò il corteo sino alla locanda dove aveva fatto allestire un abbondante banchetto funebre. Aveva cacciato lui stesso la selvaggina, un capriolo e due splen­ didi galli cedroni, pieno di dolore per la sua perdita, e mentre i due uccelli con le loro belle penne giunsero in tavola, egli dovette ripensare alla foresta sulla monta­ gna dove li aveva cacciati e che nei verdi anni del suo amore aveva tante volte percorsa con l’immagine della morta amata nel cuore. Ma il guardaboschi non potè abbandonarsi a lungo a simili ricordi, giacché quando il chiaretto e la malvasia vennero serviti e la tavola fu in­ vasa da un gran cesto di dolciumi, gli ospiti ritrovarono la loro vivacità; così in breve la mesta cerimonia non parve differire molto da un banchetto per battesimo. Il guardaboschi sedeva fra Dietegen e Küngolt, i quali per via della sua robusta persona non avrebbero potuto vedersi se non chinandosi innanzi oppure guardandosi dietro le spalle di lui, ma non lo facevano, essendo i soli, in mezzo alla rinascente allegria, che restassero seri e melanconici. Gli stava di fronte una donna di circa trent’anni, una sua cugina di nome Violande. Questa signora si faceva notare per le vesti strane e ricercate, che sembravano essere non l’abbigliamento di una donna soddisfatta e felice, ma di un’anima vuota e inquieta. Era bella e sapeva lanciare occhiate graziose, quando non le passava improvvisa sulla fisionomia un’espressione di falsità e di egoismo.

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Già a quattordici anni era stata innamorata del futuro guardaboschi, perché era allora il più alto e il più bello dei ragazzi che le eran capitati sott’occhio. Egli però non s’era accorto della precoce passione, non badando affatto alla cuginetta e avendo già la mente rivolta alle ragazze più grandi che gli piacevano. Invidiosa e gelosa e già piena di malizia, la giovinetta era riuscita a mandare in fumo due o tre piccole relazioni amorose del guardaboschi, de­ formando e confondendo le cose col riferirle impercettibil­ mente alterate. Quando egli era in procinto di conqui­ stare una bella ragazza, l’ipocrita fanciulla inventava e diffondeva sottomano con tutta disinvoltura dei tratti o dei fatti che sembravano dimostrare come egli, in fondo, non avesse alcuna simpatia per la persona in questione, ma pensasse anzi a un’altra e fosse in genere un giovane astuto e insincero. Egli non potè quindi più volte capire perché mai la donna da lui amata s’allontanava d’un tratto con diffidenza, mentre un’altra, alla quale egli non aveva mai pensato, di colpo lo onorava delle sue grazie e, una volta cominciato, non smetteva prima che la gente co­ minciasse a parlare di loro due. Egli allora piantava indi­ spettito e confuso la prima e la seconda concedendosi una breve vacanza. In questo modo, benché egli fosse un bel giovanotto in gamba, tutto gli andò sempre male, finché non s’incontrò con la ora defunta sua moglie. Questa se lo tenne ben saldo, perché era leale e aperta quanto lui, e tutte le arti della piccola strega riuscirono vane; essa neppure le avvertì, perché non guardava altro che gli occhi del suo amato. Di ciò egli le aveva serbato gratitudine, rimanendole fedele e considerandola, sinché fu viva, una preziosa conquista. Violande invece, quando vide finalmente a posto l’a­ mico, esercitò le apprese raffinatezze, tanto perché non rimanessero inutilizzate, in altra direzione, con sempre maggior ingegno e successo, quanto più vecchia si fece, ma senza fortuna per se stessa. Rimase infatti zitella, e gli uomini che riusciva a sottrarre alle amiche si guar­ davano dal rivolgersi a lei, anzi parevano sentir per lei piuttosto odio e disprezzo. Si rivolse allora al cielo e

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disse di volere farsi monaca, ma poi ci ripensò e all’ultima ora, invece di entrare in un convento, entrò in un Ordine dal quale avrebbe potuto uscire prendendo anche marito. Sparì così dagli occhi della gente, passando dall’una casa religiosa all’altra in città diverse, senza trovare mai pace. D’un tratto, mentre la moglie del guardaboschi era ma­ lata, ricomparve in abiti secolari a Seldwyla e fu così che venne a sedere di fronte al povero vedovo durante il banchetto funebre. Dominò la propria inquietudine, e in certi momenti ebbe un’aria modesta e quasi infantile. Quando le donne s’alzarono per girare attorno mentre gli uomini conti­ nuavano a bere seduti a tavola, essa s’accostò a Küngolt, la baciò e le si mostrò amica. La ragazza si sentì onorata dagli approcci di una dama, quasi di una religiosa, che aveva visto tanti paesi e pareva conoscere il mondo: s’immersero subito in una lunga chiacchierata confiden­ ziale, come se si conoscessero da anni, e quando tutti se ne andarono Küngolt chiese al padre di invitare Violande a guidare la sua casa; poiché ella si sentiva ancora troppo giovane e inesperta per quel compito. Il padre, che si tro­ vava in uno stato d’animo singolarmente ondeggiante fra il lutto e l’ebrezza, mentre i suoi pensieri andavano tutti alla morta, diede il suo consenso senza riflessione, per quanto non avesse gran simpatia per la cugina e la rite­ nesse una persona bizzarra. Nei giorni seguenti ella salì dunque alla casa forestale e prese posto dignitosamente e non senza commozione presso quel focolare, dove pareva che dovessero adem­ piersi una buona volta, dopo lungo errare, i sogni della sua prima giovinezza. Aprì modesta gli armadi di colei che l’aveva preceduta, vide le tele e le provviste bene or­ dinate e in profonda pace; vasi e pentole, bricchi e reci­ pienti stavano in file precise, mentre dal tetto pendevano tranquilli i fascetti di lino. Ella lasciò che quella pace re­ gnasse ancora per un paio di settimane, ma poi cominciò a poco a poco a mettere i pentolini tra i pentoloni, a mischiare le pezze di tela, ad arruffare il lino, e quan­ do ebbe finito quel lavoro, aveva nel frattempo por­

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tato il disordine anche fra le persone di quella casa. Avendo intenzione di riuscire a sposare il padrone, per mettersi a posto, le parve anzitutto necessario stac­ care per sempre la sua figliola dal giovane Dietegen, del quale aveva subito compreso la situazione. A buona ra­ gione si disse che Dietegen, se avesse ottenuto in moglie la ragazza, sarebbe rimasto in casa del guardaboschi come suo successore e che questi, data la sua devozione per la moglie morta, non si sarebbe risposato, il che invece sarebbe agevolmente accaduto qualora i due gio­ vani se ne fossero andati, facendogli sentire la solitudine della sua casa. Mentre Küngolt si faceva di giorno in giorno più bella, essa risvegliò in lei la coscienza precoce di tale bellezza e uno spirito di civetteria, sia pure ancora puerile, riu­ scendo, senza che alcuno lo notasse, a mettere con poche parole la ragazza in un rapporto imbarazzante rispetto a tutti i giovanotti. La piccina imparò a considerare cia­ scuno a seconda se scopriva e apprezzava la sua bellezza, mentre ciascuno di quei giovani a sua volta si illudeva di essere stato particolarmente notato dalla bella ragazza. In seguito Violande fece venire altre leggiadre giovani, in modo che si formassero liete brigate, dove sotto la sua guida non mancava mai una certa galanteria. Fu così che Küngolt, ancor prima di compiere i sedici anni, si vide radunato d’intorno tutto un gruppo di spiriti inquieti. Vi furono svariate feste, piccole e grandi, incidenti e piccole dispute, canti e suoni e, come suole avvenire, taluni ospiti indiscreti o sciocchi si resero sgraditi, ma furono tuttavia più degli altri tollerati. Di tutto questo Dietegen non si compiacque certo. Da principio stette a vedere con una certa timida melan­ conia, che non torna troppo di vantaggio agli adole­ scenti; ma quando la brigata ne sembrò più divertita che commossa e Küngolt medesima non mostrò che fred­ dezza, egli volle reagire tenendo goffamente un broncio ostinato. Con ciò ebbe ancor minore successo e andò a fi­ nire che un giorno gli parve d’accorgersi che Küngolt

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se ne stava sola in un gruppo di giovanotti dall’aria bef­ farda, intenta ad ascoltare con compiacenza le maldi­ cenze evidentemente rivolte contro di lui. S’allontanò e da quel momento evitò tacitamente ogni compagnia. Era entrato intanto nell’età in cui gli adole­ scenti più robusti si preparavano a divenir soldati. Sulle terre di quella riserva di caccia gravava da tempo l’ob­ bligo di tener pronte tre o quattro armature da guerriero e il guardaboschi si era sempre fatto dovere di fornire anche propri uomini. Si compiaceva di pensare che Dietegen, snello e slanciato come era, sarebbe stato di lì a poco adatto per una bella corazza nella quale egli aveva sperato di vedere un giorno il suo unico figlio. Dietegen si recava quindi durante le lunghe serate in­ vernali insieme ad altri garzoni nella scuola di scherma, dove imparava a servirsi delle armi corte secondo l’uso del luogo ; e di primavera e per tutta l’estate trascorse più di una domenica e di una giornata festiva in campo aperto o su una radura, esercitandosi con gli altri giovani alle rapide marce e alle file serrate, oppure a superare ampi fossati con le lunghe lance, rendendo in ogni modo ro­ busto il proprio corpo e sottoponendosi infine all’istru­ zione nelle armi da fuoco. Poiché per tutto questo la vita della casa si era mutata e poiché si sentiva particolarmente disturbato dall’affaccendarsi delle donne, pur non osservando di che cosa mai si occupassero, il guardaboschi da parte sua s’av­ vezzò a riprendere, molto più spesso di quanto solesse ai tempi in cui era in vita sua moglie, la via delle osterie dei suoi concittadini. Lontano dalle puerili stoltezze di casa sua subiva la più matura stoltezza degli uomini, e talvolta rientrava la sera con la testa pesante ma sempre ritta, ver­ so i suoi boschi, quando già suonava la campana di mezzanotte. Così le cose procedevano in direzioni diverse e così passò il tempo finché in una chiara giornata di San Gio­ vanni non cominciarono ad adempiersi svariati destini. Il guardaboschi scese in città per recarsi alla sua Corporazione, che celebrava il raduno principale con un grande

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banchetto annuale, e già si preparava a godersela sino a notte fatta. Dietegen si recò per tempo nella sala d’armi, con l’in­ tenzione di esercitarsi a tirare a suo piacimento per tutta quella lunga giornata estiva. Gli altri garzoni an­ darono per conto loro, l’uno a casa dei suoi, l’altro a ballare con un’amica, il terzo a un mercato a comprare la stoffa per un abito o un paio di scarpe nuove. Le donne rimasero quindi sole nella casa del guarda­ boschi, da una parte poco edificate del modo scortese con cui in quel giorno di festa tutti gli uomini se l’erano svignata senza pensare a come esse avrebbero passato il tempo, ma dall’altra guardando fuori nella tremula luce del sole, spiando il modo di procurare anche per sé un po’ di divertimento. Cominciarono coll’impastare torte e dolciumi, poi pre­ pararono ad ogni buon conto molto vino caldo drogato da offrire, come dicevano, agli uomini al loro ritorno la sera. Infine indossarono gli abiti della festa e si ornarono di fiori, mentre arrivavano altre fanciulle da esse chiamate per una festicciuola fra donne, ed erano tutte bene ac­ conciate, mentre anche in casa sino all’ultima servetta aveva un aspetto grazioso e contento. Quando calò la sera fu apparecchiata la tavola sotto i bei tigli che si ergevano davanti alla casa e tutto era immerso, città e vallata, nella luce d’oro del tramonto. Le donne sedettero intorno alla tavola, si diedero buon tempo e cominciarono ben presto a cantare con belle voci armoniose lunghe canzoni nostalgiche piene di dol­ cezze e di tristezze d’amore, come quella dei «due figli di re» o quella del «cavaliere con la donzella». Il canto riecheggiava lontano, invitante, nella campagna, e gli uccelli nascosti sui tigli o nel bosco vicino, dopo aver per un pochino ascoltato, finirono per cantare a gara. Ma presto s’aggiunse un terzo coro, echeggiarono cioè dalla montagna suoni di violini e di pifferi frammisti a voci maschili. Era un gruppo di giovani provenienti da Ruechenstein che sbucava in quel momento dal bosco infilando il sentiero che, attraversando la residenza fore-

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stale, conduceva alla valle. In capo al gruppo c’erano un paio di musicanti e a condurli tutti era stato il figlio del sindaco di Ruechenstein, un tipo piuttosto allegro, di­ verso dai suoi concittadini. Rientrando in famiglia dopo gli studi, aveva condotto con sé alcuni studenti scioperati, tra cui un paio di futuri sacerdoti e anche un giovane monaco nonché Hans Schafürli, lo scrivano di Rue­ chenstein, un bizzarro gobbetto che, munito di una lun­ ga spada, chiudeva il corteo, che era costretto per la strettezza del sentiero a procedere in fila indiana. Quand’essi però videro le belle donne canterine in­ terruppero la loro musica, come aspettando la fine della canzone da esse intonata. Ma intanto erano ammutolite anche le donne: erano sorprese e sorridevano in atte­ sa degli eventi. Solo Violande non parve sconcertata, ma subito si diresse verso il figlio del sindaco, che la sa­ lutò cortesemente, spiegandole come avessero pensato di fare una visita divertente nell’allegra città vicina per non trascorrere un San Giovanni troppo melanconico, e aggiunse che ivi li allettava però una sosta migliore, qualora almeno fosse loro concesso di offrire un ballo a quelle rispettabili donzelle. In meno di tre minuti la faccenda fu sistemata e tut­ ti ballavano sul gran prato dinanzi alla residenza fo­ restale; Küngolt col figlio del sindaco, Violande col mo­ naco, e le altre con gli studenti. Il più agile e appassio­ nato era tuttavia lo scrivano che, malgrado la sua gobba, faceva i salti più lunghi allargando le gambe, in modo che pareva gli si volessero spaccare fino al mento. Küngolt non si sentiva però felice, né sapeva che cosa le mancasse. Quando Violande le sussurrò di badare al figlio del sindaco per poter essere un giorno la moglie del sindaco di Ruechenstein, rimase fredda e indifferente, sinché scorse la danza impetuosa del gobbo che la fece scoppiare in una risata. Desiderò subito di ballare con lui e sembrò una scena da favola quand’essa, con la bella figura vestita di verde e il capo ornato di rose rosso scuro, passò come volando fra le braccia del grottesco scriva­ no, che celava la sua gobbetta in una giubba scarlatta.

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Ma di colpo mutò umore passando al monaco e da questo ad uno studente. Non era trascorsa mezz’ora che già aveva ballato con tutti i giovanotti presenti, così che tutti, stranamente eccitati, non staccavano gli occhi da lei, mentre le altre donne a poco a poco cercavano di con­ quistarsi un cavaliere. Affinché ciò accadesse, Violande invitò la brigata a cena sotto i tigli perché si riposasse e ri­ storasse, e dispose un giovanotto accanto a ogni ragazza, mettendo Küngolt vicino al figlio del sindaco. Questa peraltro era come torturata dalla smania di vedere tutti quei giovanotti ai suoi piedi. Gridò che vole­ va esser lei a mescere il vino e corse in casa per prenderne più larga provvista. Ivi giunta si introdusse in fretta nella camera di Violande e andò a rovistare nel suo cofano. Violande un giorno le aveva mostrato in segreto una fialetta, confidandole che era un filtro amoroso chiamato «Vienmidietro»: chiunque ne bevesse un sorso offertogli da una donna cadeva senza scampo in suo potere, co­ stretto a seguirla. Non c’era in quella fiala il pericoloso e forte veleno di Ippomane, preparato coi crini della fronte di un puledro primo nato, ma quella mistura era fatta con gli ossicini di una rana verde deposta in un formicaio e dalle formiche divorata e accuratamente spolpata. Co­ munque era forte abbastanza per far girare la testa a una mezza dozzina di uomini insubordinati. Lei aveva avuto in dono quella fialetta da una monaca, il cui amante, pri­ ma che ella potesse usarne, era morto improvvisamente di peste, inducendola a chiudersi per disperazione nel con­ vento. Violande non si era mai arrischiata né a valersi del filtro, né a disfarsene; perché ne poteva nascere chissà quale sventura. Küngolt prese dunque la fialetta e ne versò in fretta e di nascosto il contenuto in una brocca di vino, con la quale ritornò fuori all’aperto, col cuore in tumulto. Invitò tutti i giovani a vuotare i calici, dicendo di voler mesce­ re loro un nuovo vin dolce e seppe manovrare in ma­ niera che alla fine, dopo aver riempito i bicchieri degli uomini e avere versato ad ognuno un goccio supple­ mentare gettando uno sguardo dolce e scherzoso come

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un lampo di calore, non ne rimase neppure una goccia. In quelle occhiate imparzialmente distribuite stava ap­ punto il velenoso incantesimo che, unito al vino generoso, fece girare il capo ai giovanotti, i quali accecati e appas­ sionati si diedero tutti a fare la corte alla splendida ra­ gazza con quell’egoismo che sempre si rivolge subito là dove si presenta un bene desiderato da un altro o agogna­ to da tanti. Tutti trascurarono le altre donne, le quali, pallide di rabbia, tenevano gli sguardi bassi o cercavano di dissimulare il loro imbarazzo chiacchierando ad alta voce. Persino il monaco, che stava vezzeggiando una bella servetta bruna, la lasciò andare d’un tratto e Schafürli, lo scrivano gobbetto, con i suoi lunghi passi si pose dinanzi al figlio del sindaco che teneva Küngolt tenera­ mente per mano. Questa non dava la preferenza a nessuno: gelida in cuor suo verso tutti, seppe però tutti lusingarli peggio di una serpe e quando vide che c’erano cascati l’un dopo l’altro cercò invece di rabbonire le donne richiamandole accanto a lei. Si era fatto buio, le stelle scintillavano e la falce della luna spiccava sulla foresta, impallidendo però presto di fronte al bagliore di un grande fuoco di San Giovanni acceso su un’altura da giovani contadini. «Andiamo tutti a quel fuoco!» gridò Küngolt «la via è breve e attraversa piacevolmente il bosco ! Ma, co­ me ben si conviene, precedano le donne e vengano dopo i giovanotti». Così fu fatto e tutti si avviarono, facendo­ si luce con torce resinose, attraverso il bosco, fra lieti canti. Solo Violande rimase a custodire la casa e ad attendere il guardaboschi, poiché anch’essa pensava quel giorno di far buona caccia. Non passò molto tempo che quello giunse, assai eccitato e con la mente piuttosto annebbiata. Vedendo le tavole disposte sotto i tigli, si sedette e chie­ se giovialmente a Violande una buona bibita che gli conciliasse il sonno, al che essa s’affrettò ad andare a preparargliela. Prima però corse in camera sua a prendere il ben con­

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servato filtro «Vienmidietro», ma non lo trovò più. E neppure lo potè rinvenire là dove Küngolt distrattamente l’aveva poi gettato perché già raccolto dalla servetta che, lasciata in disparte dal monaco, s’era ritirata con gran rabbia in casa. Violande però non stette a pensarci molto. Fece il vin caldo ancor più dolce e drogato e mentre il cugino be­ veva gli si strinse ben vicino. Da essa emanava una tenera affettuosità : indossava inoltre una bella veste giallo chia­ ro a bordi rossi, che faceva spiccare il candore del collo. Aveva tolto la ghirlanda dai capelli, per non apparire infantile, e rialzato invece sulla fronte le sue belle trecce scure. — Cugina mia ! — disse il guardaboschi sogguardan­ dola oltre il bicchiere mentre lei gli stava vicinissi­ ma — siete proprio bella oggi ! Ella sorrise beata e lo fissò con occhi splendenti di te­ nerezza dicendogli: — Finalmente, ma così tardi vi piaccio? Se sapeste come vi guardavo già volentieri sin da bambina ! Quelle parole furono più efficaci per il buon uomo di un filtro d’amore: immagini strane, imprecisi ricordi di una bella ragazzina gli traversarono la mente, mentre quella bimba gli stava ora accanto con la sua durevole bellezza di donna in piena maturità, quasi giungendo a lui improvvisa da una remota lontananza. Il suo sangue generoso gli salì al cervello eccitato creandovi in gran furia svariate immagini. Violande gli apparve d’un tratto una creatura resa preziosa da molti dolori ed esperienze, con la quale si sarebbe serrato fra le braccia un notevole tratto di vita ricco di misteri e da cui, offrendole la pace e una casa, il donatore avrebbe tratto egli stesso un pre­ zioso tesoro. Le prese la mano, le accarezzò le gote dicendo : « Ma non siamo vecchi, mia cara cugina Violande ! Non vor­ reste diventare ancora mia moglie?», e poiché essa gli lasciò la sua mano, curvandosi ancor più verso di lui, sfavillante di vera felicità, egli staccò l’anello da sposa della sua prima moglie, che dopo la morte di lei aveva

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fissato a mo’ di ornamento al suo pugnale, e lo infilò nell’anulare di Violande. Essa premette il suo volto sul largo viso grigio-biondo e barbuto del cugino e i due s’abbracciarono e si baciarono teneramente sotto il fruscio dei tigli, mentre il brav’uomo era convinto di aver trovato la sua fortuna. Proprio in quel momento tornò a casa Dietegen con le sue armi. Aveva attraversato il prato, così che i due non ne sentirono i passi ed egli rimase estremamente colpito da quello spettacolo. Arrossendo confuso, si ri­ trasse cercando di non farsi notare e girò attorno alla casa per entrare da una porticina posteriore. Ma da quella parte gli giunsero dal bosco e grida e richiami come se qualcuno litigasse o fosse in pericolo. Senza esitare s’avviò in quella direzione e presto incontrò la compagnia, mos­ sasi con tanta letizia, ridotta in condizioni pietose. I gio­ vanotti, resi come pazzi dal vino e dalla reciproca gelo­ sia, mentre tornavano dai fuochi di San Giovanni e procedevano frammisti alle donne, erano venuti a lite e si erano assaliti con i pugnali, così che più d’uno perdeva sangue. Proprio nel momento in cui arrivò Dietegen, lo scrivano gobbo aveva steso a terra con un colpo di spada il giovane figlio del sindaco, che, impugnando anch’egli l’arma, giaceva tra il verde, e stava rendendo l’anima a Dio, mentre gli altri si erano presi a coppie per la gola, e invano le donne atterrite invocavano aiuto ad eccezione di Küngolt che, pallida come una morta, a bocca spalan­ cata per l’intensa curiosità, fissava in silenzio l’orribile spettacolo. «Küngolt, che succede?» le domandò Dietegen scorgendola; era la prima parola che le rivolgesse da lungo tempo. La fanciulla sussultò, ma lo guardò con sollievo. Egli balzò senza indugio tra i rissanti e con energici sforzi riuscì a staccare quegli invasati, mostrando loro il morto, al che essi di colpo lasciarono cadere le braccia e si diedero a guardare, passata l’ebbrezza, ora il cadavere, ora il feroce gobbetto che mandava occhiate tutt’attorno come folle. Nel frattempo erano sopraggiunti dei contadini e anche

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i garzoni forestali che senz’altro fecero prigionieri quelli di Ruechenstein e legarono Schafürli. Fu ben triste la mattina seguente. Il guardaboschi si trovò fidanzato con la maligna Violande, aveva un ter­ ribile mal di capo e doveva tenersi in casa il morto di Ruechenstein mentre gli altri erano chiusi nella torre. Già prima di mezzogiorno si presentò una commissione da Ruechenstein col vecchio sindaco in persona per con­ durre un’inchiesta sulla sciagura e sulle sue cause e do­ mandarne conto. Ma già dalla sua torre lo scrivano civico, ben sapendo che, quale assassino del figlio del sindaco, ci poteva ri­ mettere la testa, aveva elevato vivaci accuse contro le donne di Seldwyla, e in particolare contro Küngolt, da lui incolpata di stregoneria. La servetta abbandonata, infatti, era riuscita a consegnare con alcune parole al suo monaco, al quale aveva ormai perdonato, la fialetta so­ spetta e costui l’aveva passata allo scrivano. Con grande spavento dei Seldwylesi la faccenda prese in quello stesso giorno una brutta piega per la figlia del guardaboschi e per la sua casa. Ognuno, tanto a Seldwyla che a Ruechenstein, credeva all’efficacia dei filtri ma­ gici e i cittadini di Ruechenstein assunsero un atteggia­ mento tanto minaccioso, che neppure l’autorità e la po­ polarità del guardaboschi, il quale per di più si sentiva come intontito, potè impedire che Küngolt venisse ar­ restata. Essa poi, quasi fuor di senno per la paura, ammise la realtà del fatto, tanto che lo scrivano e i suoi compagni vennero scarcerati. Quelli di Ruechenstein pretesero che la strega colpevole di aver recato danno alla loro gente e procurato la morte di un cittadino venisse loro conse­ gnata per esser punita. Ciò però non fu concesso ed essi se ne andarono con la salma del figlio del sindaco. Quando però più tardi appresero che i Seldwylesi avevano con­ dannato la ragazza soltanto alla mite pena di un anno di carcere, si ridestò l’antica inimicizia rimasta sopita per qualche anno e tornò ad essere pericoloso per ogni seldwylese penetrare nei loro confini.

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La città di Seldwyla non manteneva, per i delitti che a suo modo di vedere non erano di troppa gravità e che voleva trattare con indulgenza, un apposito carcere, ma affidava i colpevoli, specie quando si trattava di donne o di minorenni, a privati, perché se ne servissero e li tenessero intanto in buona custodia. Per questo la povera Kiingolt doveva essere condotta in municipio e ivi messa pubblicamente all’incanto. Il guardaboschi, che aveva perduto ogni traccia d’alle­ gria, disse sospirando a Dietegen che era una ben dura prova per lui andare in municipio ad assistere la figlia che pur doveva avere qualcuno dei suoi vicino in quell’amara circostanza. Dietegen gli rispose: — Lo farò volentieri, se io vi basto ! Il guardaboschi gli strinse la mano dicendogli: — Fallo ed abbiti la mia gratitudine. Dietegen si recò dunque nella sala dove già erano con­ venuti i rappresentanti del Consiglio, alcuni privati che volevano partecipare all’incanto ed anche una piccola folla di curiosi. Con la lunga spada al fianco e il volto corrucciato, Dietegen aveva un aspetto molto virile e severo. Quando fu fatta entrare Kiingolt, smorta e afflitta, che doveva stare in piedi davanti al tavolo, Dietegen prese subito una sedia e ve la fece accomodare, mettendosi poi dietro di lei con una mano appoggiata alla spalliera. Essa lo aveva guardato con sorpresa e si volse ancora per man­ dargli un doloroso sorriso, ma il giovane si serbò impassi­ bile, come se neppure la vedesse. Il primo che fece un’offerta per prendersi in casa a servizio la prigioniera fu il pifferaio della città, un noto ubriacone mandato da sua moglie, la quale sperava con tal guadagno di migliorare le rovinose finanze della fa­ miglia, soprattutto calcolando che, palesemente o in se­ greto, la condannata avrebbe ricevuto soccorsi da casa, che si sarebbe potuto sottrarle o quanto meno dividere con lei. «Vuoi andare dal pifferaio?» domandò asciutto Die­ tegen alla ragazza e questa, dopo aver guardato il naso

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rosso e l’aspetto intontito del musicante, replicò di no, al che quello s’allontanò barcollando con una risata di­ cendo: «Poco importa!». Si presentò poi a chiederla un vecchio valigiaio e cap­ pellaio che pensava di farla cucire senza tregua e di ca­ varne così un buon guadagno. Aveva però delle piaghe aperte alle gambe che per tutta la giornata medicava con unguenti e cerotti e sulla testa gli spuntava per di più un’escrescenza grossa come un uovo, che già a Küngolt bambina aveva sempre ispirato paura quando tornando dalla scuola doveva passare dinanzi al suo piccolo labo­ ratorio. Quando Dietegen le chiese se volesse andare da questo, tornò a rifiutarsi e quello dovette ritirarsi bestem­ miando. Si fece avanti un cambiavalute in pessima fama sia come avarissimo usuraio che per la sua odiosa libidine. Ma appena ebbe messo i suoi occhi arrossati sulla bella ragazza e aperto la bocca storta per fare la sua offerta, Dietegen, guardandolo minaccioso, gli fece cenno con la mano di andarsene, senza neppure interpellare la fan­ ciulla atterrita. Seguirono alcuni bravi cittadini contro i quali non vi era nulla da ridire e questi vennero ammessi alla vera e propria asta. Quello che chiese meno per ospitarla e nu­ trirla fu il becchino del Duomo, un onest’uomo con una brava moglie e con anche a disposizione un locale che a lui pareva adatto e dove già erano stati ricoverati delin­ quenti di quel genere. Il Consiglio comunale finì per assegnare Küngolt a costui ed essa fu subito condotta nella sua casa, posta fra il cimitero e una viuzza laterale. Dietegen la accompagnò per vedere ove sarebbe stata alloggiata. La collocarono in una specie di atrio aperto che confinava direttamente col cimitero, da esso diviso soltanto da un cancello di ferro. Il becchino soleva rinchiudere i suoi prigionieri in quel locale aperto, nella buona stagione, mentre d’in­ verno se li portava senz’altro nel tinello, assicurandoli con una catenella di ferro a un piede della grande stufa. Quando però Küngolt fu nel suo carcere e si vide di-

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visa appena da un cancello dalle tombe di tanti morti e per di più vicinissima all’ossario pieno zeppo di ossa e di teschi, cominciò a tremare e invocò che non la lascias­ sero lì al venir della notte. Ma la moglie del becchino che stava appunto portandole un pagliericcio e una coperta e applicando una specie di tenda al cancello, le disse che doveva restarci e che quell’austero soggiorno era proprio adatto quale salutare penitenza dei suoi peccati. Dietegen la consolò dicendole di star tranquilla, che lui non aveva paura dei morti e degli spiriti e che sarebbe venuto a far la guardia lì al cancello ogni sera finché ella non si fosse avvezzata. Glielo disse però in modo da non farsi udire dalla vec­ chia e tornò poi a casa sua, dove trovò il povero guardabo­ schi pieno di tristezza, il quale aveva appunto stabilito con Violande di non celebrare le loro nozze se non dopo che Küngolt avesse scontato la sua pena e fosse in certo modo liquidata la triste faccenda. Violande si serbò ben docile, contenta di aver potuto evitare con tanta fortuna le conseguenze dello sciagurato incantesimo, benché in realtà ne fosse la vera responsabile. Nel severo interroga­ torio subito era riuscita a far accettare la sua affermazione di aver conservato quel filtro soltanto per evitare che ca­ desse in mani imprudenti, ed era stata quindi senz’altro liberata. Quando fu passato il crepuscolo e s’avvicinava la mez­ zanotte, Dietegen si pose non visto per strada, dopo aver preso la sua spada e una piccola bottiglia di vino, e scese in città, dove senz’altro scavalcò il muro del cimitero e s’avviò, passando senza paura fra le tombe, al pauroso carcere della povera Küngolt. Essa stava raggomitolata sul suo pagliericcio dietro la tenda, con l’orecchio teso ad ogni rumore, perché prima che venisse l’ora degli spi­ riti aveva già subito alcuni spaventi. Un gatto era passato nell’ossario facendo sbattere lievemente i resti degli sche­ letri. Poi il vento, movendo i cespugli sopra le tombe, ne aveva tratto lievi fruscii e aveva fatto girare il gallo sulla torretta del campanile con uno strano stridore che non si sentiva mai nel fragore del giorno.

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All’udire l’avvicinarsi dei passi, la fanciulla tornò a spaventarsi e sussultare, ma quando Dietegen, insinuando la mano oltre il cancello, smosse la tenda cosicché la luna piena illuminò l’atrio e la chiamò a bassa voce, ella fu subito in piedi e gli porse le mani attraverso le sbarre. — Dietegen ! — esclamò scoppiando in lagrime, le pri­ me lagrime che riuscisse a versare da quel giorno scia­ gurato che l’aveva immersa in una specie di intontimento paralizzante. Dietegen non le porse soltanto la mano ma anche la piccola bottiglia di vino e le disse: — Bevine un sorso, che ti farà bene. Essa bevve e accettò anche il buon pane della casa paterna portatole dall’amico. Riprese così animo e quan­ do s’accorse che il giovane non aveva voglia di discor­ rere con lei, si sdraiò in silenzio sul suo giaciglio, pian­ gendo sommessa sinché cadde in un placido sonno. Dietegen però con la sua rigidità giovanile e la sua ine­ sperienza la considerava ormai un essere corrotto, inca­ pace di fare il bene, e se vegliava per lei, seduto su un’an­ tica lapide appoggiata alla parete, lo faceva in ricordo della madre morta e perché sapeva di doverle egli stesso la vita. Küngolt dormì sino allo spuntar del giorno e al suo ride­ starsi vide che Dietegen se ne era già andato in silenzio. Egli ritornò allo stesso modo ogni notte a vegliare su di lei, giacché in base alle sue credenze egli riteneva che quel posto fosse realmente pericoloso per chi non avesse la coscienza tranquilla e fosse pieno di paura. Le portava ogni volta qualche ristoro e le domandava se avesse qualche desiderio, accontentandola in ogni cosa che gli sembrasse lecita. Veniva anche con la pioggia e il maltempo e non mancò una notte, e quando vi furono nottate che secondo le credenze popolari d’allora erano particolarmente malfamate riguardo ai morti e a quanto essi facevano, si presentava ancor più puntuale. Küngolt dal canto suo s’awezzò a tirare la tenda du­ rante il giorno per celarsi ai curiosi che venivano al cimi­ tero, secondo quanto affermava, ma in realtà per dormire :

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le piaceva infatti essere sveglia di notte e non staccare gli occhi dalla oscura figura del suo buon guardiano e me­ ditare su di lui e su se stessa, sul come tutto fosse accaduto, mentre egli la credeva placidamente addormentata. Appena egli giungeva e le era dato d’immergersi in sua presenza nei propri taciti pensieri, la ragazza si sentiva pervasa da un senso di nuova, inconscia beatitudine. Essa non intuiva la severità con cui Dietegen la giudicava e spe­ rava di riconquistare i diritti su di lui, che le si dimostrava così fedelmente devoto. Non così la pensava il padre, che la veniva a trovare ogni settimana ; quand’ella nominava ti­ midamente con qualche pretesto Dietegen, lasciando ben capire di pensare di nuovo a lui, il padre sospirava in cuor suo, giacché gli sarebbe bensì piaciuto che il figlio adottivo salvasse la semiperduta figlia del suo sangue, ma temeva che ben difficilmente il giovane avrebbe voluto unirsi a una donna sospettata, anzi già condannata come strega. Ma intanto un altro visitatore si presentò alla ragazza. Lo scrivano di Ruechenstein, il violento gobbetto Scha­ fürli, non riusciva a dimenticare la bella fanciulla, ne portava l’immagine nel suo sangue che fluiva impetuoso malgrado le troppe curve del suo corpo e la sentiva in sé come una strega che passa di notte solitaria su un fiume in una barca oscura. Si disse allora, temerario com’era, che invece di cer­ car salute e liberazione dai frati cappuccini, poteva ten­ tare di ottenerle dall’autrice medesima dell’incantesimo, e in una notte oscura superò la montagna e scese nel ci­ mitero dove la sapeva prigioniera. Non essendo ancora l’ora in cui soleva giungere Dietegen, ed essendo di­ verso il suono di quei passi, Küngolt si spaventò al sentirlo e andò a celarsi dietro la tenda. Ma Schafürli accese un lumicino che aveva portato con sé, scostò la tenda e illu­ minando il piccolo atrio riuscì a scoprirla. «Accostati, piccola strega ! » sussurrò appassionatamen­ te e a mezza voce «dammi le tue mani e la tua bocca perché tocca a te guarire il male che tu mi hai fatto!». Kiingolt lo riconobbe subito per la figura deforme, e il ricordo della sera sciagurata e la presenza di quell’indi­

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viduo la colmarono di tanto terrore che, senza poter dire parola, tremava come una foglia. Lo scrivano allora cominciò a scuotere il cancello e, accorgendosi che non era per nulla robusto, ma desti­ nato solo a prigionieri docili, si accinse a scardinarlo di forza. In quel momento però sopraggiunse Dietegen che, accorgendosi della scena, afferrò lo scrivano per le spalle. Questi lanciò un urlo tentando di afferrare il pugnale. Ma Dietegen gli teneva le mani prigioniere e in breve lo costrinse ad arrendersi. Si domandò se lo dovesse ar­ restare e denunciare o soltanto mandar via, ma, non co­ noscendo come stessero le cose e non volendo provocare complicazioni per la ragazza, preferì lasciar scappare il gobbo, proibendogli, se aveva cara la vita, di ritornar mai più in quel posto. Subito dopo però entrò nella casa del becchino e lo indusse a far rientrare la prigioniera, anche perché l’autunno era alle porte e le notti si face­ vano troppo fredde per quel soggiorno all’aperto. Quella stessa sera Küngolt fu incatenata alla stufa con la solita catenella dei prigionieri. La stufa era una sottile costruzione di maiolica verde, ove era rappresentata con nobile lavoro la storia della creazione dell’uomo e del peccato originale; ai quattro angoli figuravano i quattro grandi profeti su colonnine attorcigliate e sporgenti e l’in­ sieme costituiva un monumento non privo di grazia e di armonia, al quale ora Küngolt poteva tenersi appoggiata sedendo sulla panca. Era felice di quel luogo sicuro e della salvezza dovuta all’amico, ma tutto attribuiva alla sua fedele devozione per lei, benché in quella notte non le avesse neppure ri­ volto una parola e a cose finite se ne fosse andato senza congedo. Quando però la buona Küngolt fu così ben sistemata, sorse un nuovo ammiratore della sua bellezza nella per­ sona di un cappellano addetto a svariati uffici minori della chiesa e incaricato pure di assistere i malati e i prigionieri. Il pretonzolo, ora che la ragazza era in una stanza calda, la visitò di frequente per confortarla, per guarirla dalle sue tendenze agli incantesimi e ai filtri

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amorosi e per compiacersi in pari tempo del suo bell’a­ spetto e della sua indole gentile. Con l’inizio delle sue sof­ ferenze era infatti maturata in lei una nuova bellezza: era ormai una donna fatta, snella e pallida, con gli oc­ chi irradianti un fuoco dolce e soave, circonfuso da un’ombra di lutto. All’infuori della catena, era trattata come un membro della famiglia, di cui facevano anche parte alcuni bambini, e quando veniva il cappellano, gli offrivano un bicchiere di vino o di birra al quale probabil­ mente aveva provveduto il padre di Kiingolt. Quando il sacerdote aveva fatto le sue esortazioni e bevuto il suo bicchiere, rimaneva più a lungo evidentemente soltanto per contemplarsi ancora un pochino la peccatrice riconfor­ tata e carezzarle discretamente la manina. La fanciulla allora si abbandonava a una timida allegria, conside­ rando che splendido innamorato ella possedesse in Dietegen, al confronto di quel pretonzolo. Avvenne così che la fanciulla, con la sua modesta le­ tizia, dopo aver sognato durante il giorno un migliore avvenire, diventava la sera la beniamina dei suoi ospiti, che avvicinavano la tavola a lei e alla stufa. Anche nella notte di Capodanno, ormai sopraggiunta, le cose anda­ rono così : il prete si unì alla famiglia, così che il becchino, sua moglie coi bambini e il cappellano sedettero attorno alla tavola accanto a Kiingolt incatenata, ed erano in­ tenti appunto a giocare con le noci, e Kiingolt stava ri­ dendo di qualcosa che il prete aveva detto tenendole la mano, quando d’improvviso entrò Dietegen per portare alcuni doni di casa alla sua protetta, figlia del suo signore. Un inconscio desiderio del cuore, la sopita nostalgia di lei, gli avevano suggerito il proposito di trascorrere in quella casa un’ora con la prigioniera, perché essa, che per la prima volta nella sua giovane esistenza era lon­ tana da casa nella prima notte dell’anno, avesse vicino qualcuno dei suoi. Ma quando scorse la lieta scenetta e vide il prete ca­ rezzare la mano di Kiingolt ridente, fu còlto da un gelo improvviso che gli fermò quasi il sangue nelle vene e dopo aver consegnato alla ragazza le buone cose con poche

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parole, quale dono del padre, se ne partì senz’altro men­ tre dalla sua bocca uscivano le parole: «Quel che è fini­ to è finito ! ». Küngolt ebbe l’improvviso intuito di quel che significasse quell’istante e anche a lei raggelò il san­ gue. Ricadde impallidendo all’indietro, mentre gli altri si scostavano imbarazzati, e nella casa del becchino fu spenta la luce prima che venisse la prima ora dell’anno nuovo. Küngolt fu quasi dimenticata dai suoi, anche perché in quei giorni la Confederazione echeggiava sempre più di rumori guerreschi e si susseguivano gli eventi noti sotto il nome di guerra di Borgogna. Al sopravvenire della pri­ mavera, all’awicinarsi della giornata di Grandson1, an­ che le cittadine di Seldwyla e di Ruechenstein, come altre dei dintorni, scesero in campo con i loro stendardi e fu per il guardaboschi e per Dietegen un sollievo uscire dalla triste casa e respirare l’aspra e forte atmosfera di guerra. Procedevano a passo energico, con il loro stendardo, se anche più taciturni degli altri, e s’unirono insieme alle rimanenti schiere che si affrettavano a raggiungere il grosso dei confederati già impegnato nella lotta. L’ampio quadrato sembrava un fitto bosco di ferro e al centro sventolavano le bandiere dei singoli pae­ si e delle città. A migliaia si allineavano i combattenti, ciascuno un mondo in sé chiuso per la saldezza e l’intre­ pidezza, ma pur tutti insieme una povera folla di creature. Ivi stavano in attesa della loro ora lo spensierato e il gaudente accanto all’avaro e al preoccupato; il litigio­ so e il conciliante offrivano la propria forza con eguale calma; chi aveva il cuore oppresso, serbava il silenzio non meno del loquace e del gradasso; il povero e dere­ litto rimaneva calmo e orgoglioso accanto al ricco e potente. Schiere di vicini sempre pronte alle zuffe stavano pacificamente allineate, l’invidia e la perfidia reggevano la lancia e l’alabarda con pari fermezza che la generosità e la bonarietà; l’ingiusto come il giusto tendevano l’ocI. Nelle celebri battaglie di Grandson e di Murten, o Morat (3 marzo e 22 giugno 1476) gli Svizzeri sconfissero Carlo il Te­ merario, duca di Borgogna.

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chio soltanto al dovere più prossimo. Chi aveva preso congedo dal mondo e poteva sacrificare solo un residuo della sua forza senza lasciare rimpianti non valeva di più o di meno di un fiorente giovinetto, su cui si basavano le speranze di una madre e di tutto un avvenire. Chi era d’a­ nimo fosco tollerava senza protesta gli scherzi sommessi dei burloni e questi a loro volta subivano senza ridere lepedanterie del piccolo borghese che avevano al fianco. Accanto allo stendardo di Seldwyla spiccava quello di Ruechenstein, così che le schiere delle città vicine e ne­ miche venivano a toccarsi e il guardaboschi, posto a capo di una parte dei suoi concittadini e costituendone il pilastro, venne ad essere vicino allo scrivano di Rue­ chenstein, posto alla retroguardia di un gruppo dei suoi, ma nessuno di loro pareva ormai rammentare il passato. Dietegen uscì insieme ai tiratori e ai ragazzi dispersi fuor dal quadrato delle truppe, ed era già in mezzo allo spa­ ventoso tumulto, quando quelle si misero in moto al­ l’improvviso, entrando nella battaglia per mettere in fuga uno dei primi prìncipi della guerra, simile a un re favo­ loso, insieme al suo esercito radioso di splendore e di fasto. Nel tumulto della dura lotta il guardaboschi insieme ad alcuni suoi garzoni era stato staccato dal suo stendardo per opera della cavalleria borgognona e ora cercava di aprirsi un varco, ma riuscì soltanto a trovarsi solo in mezzo alla fanteria nemica. Egli si scavò tenacemente un vano dentro di essa, come un buon minatore, ma pro­ prio quando aveva praticato una porticina, per quell’a­ pertura si insinuò una palla tardiva e sviata di Carlo il Temerario, che gli lacerò l’ampio petto, così che in breve momento egli entrò nella pace dell’eterno riposo, non più oppresso da nulla. Quando Dietegen ritornò sano e ardito dalla lotta e dall’inseguimento dei borgognoni fuggiaschi e dopo breve inchiesta trovò morto il suo fedele padre ed amico, lo seppellì di sua mano insieme alla spada, fra le radici di una quercia possente posta non lontano dal campo di battaglia, al margine di un bosco.

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S’avviò poi di nuovo con l’esercito verso la propria città che, in riconoscimento del suo valore, lo insediò in­ tanto nella residenza forestale, perché ne assumesse la sorveglianza. Con la morte del guardaboschi si sciolse la famiglia. I suoi beni erano andati perduti negli ultimi anni per trascuratezza e Küngolt non aveva più nulla al mondo fuorché la sua persona e la protezione di Dietegen, il quale era a sua volta un poveretto. Essa rimaneva immobile accanto alla stufa, appog­ giando le guance a quelle rozze immagini che, ripeten­ dosi nei riquadri, rappresentavano in quattro o cinque scene la perdita del paradiso : la creazione di Adamo, la creazione di Èva, l’albero della conoscenza e la cacciata dal paradiso. Quando le doleva il volto per la pressione, si staccava e si metteva a guardare quelle primitive im­ magini, tornando a considerarle mentre le cadevano le lagrime, quando almeno ritrovava la forza di piangere. Anzi, ogni volta che ritornava al piccolo rettangolo rap­ presentante la cacciata dal paradiso, sentiva un bisogno di ridere, perché in esso, per disattenzione dell’artigiano, Adamo aveva sul ventre, invece di un ombelico incavato, una specie di bottoncino sporgente che si ripeteva ogni volta. Ma quando Küngolt stava per sorridere della ingenua immagine, l’angoscia tornava a serrarle il cuore e la gola, provocando per un istante una specie di lotta fisica tormentosa, sinché le si inumidivano gli occhi e il volto le tremava come a chi vuol starnutire e non ci riesce. Fini per evitare di guardare quell’immagine. Nel frattempo era venuta anche la battaglia di Murten e pressappoco nello stesso tempo venne a scadere il tem­ po della prigionia di Küngolt. Dietegen aveva disposto che provvisoriamente tornasse alla casa forestale e rima­ nesse con Violande, la quale s’era fatta modesta, me­ lanconica e piuttosto assennata, giacché il tardivo fidan­ zamento col cugino e la sua morte erano pur stati eventi tali da darle qualche fermezza interiore. Dietegen invece non venne ad abitare con loro, ma si trattenne in guerra sino alla fine di quelle campagne.

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Perché tuttavia anch’egli non esca da queste vicende senza macchia, diremo che le consuetudini di guerra, congiunte al tacito rammarico per la fanciulla perduta, lo avevano indotto a una certa sfrenatezza e impetuosi­ tà. Si fece amico di quella rozza schiera di giovani che, sotto il nome di Folle Vita, si disponevano a riscuotere di propria iniziativa il pagamento dei contributi di guerra imposti dal trattato di pace alla città di Ginevra e da questa sempre differito. Si era fatto confezionare abiti fastosi con la parte di bottino dei Borgognoni a lui toccato ; marciando al seguito della pazza bandiera, indossava una giubba di damasco rosa di Borgogna e la croce elvetica sul petto e sul dorso era intessuta d’argento con applica­ zione di perle. Intorno al cappello sporgeva un ampio ciuffo di piume ondeggianti di struzzo tolte ai cappelli dei cavalieri sparsi qua e là per gli accampamenti con­ quistati. Portava pugnale e spada appesi riccamente a una preziosa bandoliera, e oltre all’astuccio dell’esca una lun­ ga lancia alla quale la sua robusta figura slanciata come un abete s’appoggiava cullandosi, mentre di sotto la tesa del cappello lanciava occhiate minacciose per spaventare una ragazza o qualche codardo chiacchierone. Gli piace­ va ad esempio afferrare per le trecce una ragazza strillan­ te, guardarla bene in volto per un momento e lasciar poi libera la poverina atterrita o qualche volta anche ridente. In quel costume si era anche presentato per un mo­ mento nella casa forestale di Seldwyla prima di unirsi al corteo della Folle Vita e somigliava davvero a un ram­ pollo di antichissima e pura razza popolare, tanto erano audaci, sicuri, forti e pur agili i suoi atteggiamenti. Quando Küngolt, alla quale egli aveva rivolto passan­ do solo un freddo, fiero sorriso, l’aveva visto con quei modi cui s’era assuefatto in campo, n’era rimasta come abba­ gliata. Mentre Dietegen restava lontano, non fece altro che ruminare il passato e rivivere i giorni felici dell’in­ fanzia perduta. I suoi ricordi si fermavano quasi a ogni ora su quell’altura boscosa dove le donne di Seldwyla un giorno avevano vezzeggiato e ornato di fiori il povero fan­ ciullo nella sua camicia di condannato a morte, e lassù ella

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si recava appena poteva, guardando nostalgicamente le lontane regioni di sud-ovest, dove si diceva si fosse ac­ campata la minacciosa schiera degli invincibili gio­ vanotti. Ma in quella stessa zona montana attraversata dal confine di Ruechenstein soleva aggirarsi lo scrivano Schafiirli, che sempre continuava a cercare guarigione al suo male, o almeno vendetta, perché, malgrado la sup­ posta stregoneria di Küngolt, in Ruechenstein s’appunta­ va contro di lui, per l’uccisione del figlio del sindaco, un odio aperto e segreto che egli sperava di placare con la morte di Küngolt, che i Seldwylesi, secondo i vicini, ave­ vano lasciata impunita. Quando un giorno la poveretta se ne stava ignara seduta su una pietra di confine, ma in modo che i suoi piedi s’appoggiavano al territorio di Ruechenstein, Schafiirli balzò fuori all’improvviso dal bosco con uno sgherro civico, la catturò e la portò inca­ tenata nella sua città, dove fu subito istruito contro di lei un nuovo processo per la non espiata uccisione del figlio del sindaco. A Seldwyla, tanto più in quei momenti di disordine bellico, non c’era più nessuno disposto a occuparsi di lei, neppure se ciò avesse avuto probabilità di successo. Si disse quindi ben presto che ci avrebbe rimesso la vita. Fu allora Violande, un tempo tanto perfida, che, spinta da pietà e da rimorso, osò andare in cerca dell’unico soccorso che le pareva possibile. Si pose in viaggio, camminando notte e giorno in direzione d’occidente, in cerca delle bande della Folle Vita e di Dietegen. La fama delle im­ prese di quella schiera di temerari le fece presto trovare la giusta via e scoprì il ricercato mentre con aria indifferente giocava a dadi in una locanda. Gli diede notizia della nuova disgrazia toccata a Kün­ golt ed egli la ascoltò inaspettatamente attento ma dis­ se poi: — Qui non posso far nulla ! È una questione di diritto, e se i Seldwylesi non intraprendono nulla, io non troverei neppur dieci compagni disposti a seguirmi per liberare la ragazza!

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Ma Violande, che per le sue passate abitudini serbava memoria di tutte le possibili situazioni matrimoniali, re­ plicò : — Non c’è bisogno di violenza. Per quelli di Ruechenstein vige da tempo la legge che una donna condannata a morte può essere salvata da qualunque uomo e a questi consegnata, se egli la desidera in moglie ed è di­ sposto a celebrar subito le nozze con lei ! Dietegen fissò l’interlocutrice con aria strana e stupe­ fatta, non senza abbozzare un sorriso di scherno proprio militaresco. — Io dunque dovrei prendermi in moglie una specie di sgualdrina? — disse arricciandosi i baffetti nascenti e fingendosi esterrefatto, benché il volto tradisse commo­ zione. — Non chiamarla sgualdrina — disse Violande — per­ ché non lo è proprio ! Poi, scoppiando d’un tratto in lagrime, afferrò le mani di Dietegen e continuò: — Quel che ha fatto di male, non è che mia colpa, lasciamelo confessare ! Io volevo dividervi e mandar voi due fuori di casa per conquistarmi il padre ! Per questo ho spinto la ragazza a tutte le sue sciocchezze ! — Lei non avrebbe dovuto lasciarsi spingere, — pro­ testò Dietegen — i genitori erano brava gente, ma lei ha fatto cattiva riuscita ! — Ma io ti posso giurare sulla mia salute eterna — esclamò Violande — che tutto quanto la deturpava è passato, come distrutto dal fuoco; essa è buona e saggia e ti vuol bene, al punto che da un pezzo avrebbe cercato la morte se non rimanessi tu in questo mondo. Ricordati del resto di quanto tu le devi ! Saresti qui pieno di forza e di bellezza, se essa non ti avesse strappato dalla bara del boia? E non ricordi la madre di Küngolt e il suo ot­ timo padre, che t’hanno educato come un loro figliolo? Sei forse tu il solo giudice degli errori di una debole fan­ ciulla? Non ne hai commessi tu pure? Non hai anche tu in guerra ucciso qualcuno la cui morte non era necessa­ ria? Non hai incendiato capanne di poveri senza difesa?

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E se anche non hai fatto questo, hai sempre esercitato la misericordia, quando ne hai avuto occasione? Dietegen arrossì e disse: — Non voglio accettar doni né rimanere in debito verso nessuno. Se le cose stanno come voi dite quanto a quell’usanza a Ruechenstein, ci andrò e sposerò la ra­ gazza ! Che Dio aiuti me e lei se non saprà poi serbarsi sulla retta via ! Diede senz’altro alla povera donna esausta, che non avrebbe potuto tenergli dietro, un po’ di denaro per rifo­ cillarsi e prepararsi al ritorno. Egli partì immediata­ mente, prendendo le armi, e traversò rapido il paese, non sostando né trovando pace sinché non scorse da lon­ tano la fosca città di Ruechenstein. Là erano andati per le spicce e, dopo pochi giorni dalla cattura, Küngolt, rinchiusa intanto nella vecchia torre, era stata condannata a morte, e solo per riguardo al pa­ dre intemerato e caduto per la patria, in segno di parti­ colare clemenza, alla morte per decapitazione invece che sul rogo o sulla ruota o in qualche altra delle loro per­ verse maniere. Venne così accompagnata fuori dalla porta di città sulla piazza del patibolo, scalza e rivestita soltanto del camice dei condannati, con le spalle e il dorso coperti dalle lunghe chiome fluenti. Procedeva passo passo fra i suoi carnefici, inciampando talvolta, ma senza perdersi d’a­ nimo, perché era ormai rassegnata e aveva rinunciato a ogni ulteriore speranza di vita o di felicità. “Ecco che cosa può toccarci !” pensava tra sé con un pallido sorriso, e solo quando d’un tratto le tornò il ricordo di Dietegen, dai suoi occhi caddero dolci lagrime, perché pensò che egli le andava debitore della sua vita fiorente, e quel pen­ siero la confortò, tanto generoso e buono s’era fatto il suo cuore. Già era seduta sulla sedia, in certo modo contenta di potersi riposare del penoso cammino. Mandò per l’ultima volta un’occhiata al paesaggio e al velo azzurro del­ l’orizzonte, ma subito il carnefice venne a bendarle gli occhi, e si preparava a reciderle la ricca chioma che sbu­

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cava fuori dalla benda quando d’un tratto apparve da lontano Dietegen, lanciando alte grida e agitando l’a­ labarda e il cappello. Nello stesso tempo però, per im­ pedire comunque l’esecuzione, egli tolse di spalla il fu­ cile e tirò un colpo che passò sopra la testa del carnefice. I giudici, sorpresi e spaventati, si fermarono, e tutti diedero di piglio alle armi, mentre il giovane cavaliere avanzava a grandi balzi e saliva sull’impalcatura del patibolo, che quasi crollò per l’impeto del suo salto. Afferrò Küngolt per le spalle, poiché aveva le mani legate sul dorso, e dovette per un poco riprendere fiato prima di poter par­ lare. I cittadini di Ruechenstein, vedendolo solo e non se­ guito da una banda, aspettavano gli eventi, e quando egli potè finalmente formulare la sua domanda, si ritirarono in un canto a discutere la cosa. La loro smania di osservare inalterabilmente le usanze legali vigenti, nonché l’autorità di Dietegen per le sue im­ prese di guerra e per tutto il suo atteggiamento, fecero sì che la questione fosse risolta senza difficoltà, appena supe­ rata la meschina irritazione per il disturbo inatteso. Persi­ no lo scrivano, il quale non aveva rinunciato ad assolvere il suo ufficio anche in quella penosa circostanza e a per­ suadersi della fine di quella strega, si nascose il meglio che potè, per non richiamare su di sé l’attenzione di quel pericoloso guerriero di cui, malgrado il suo coraggio, aveva non poca paura. Lo stesso sacerdote che aveva poco prima pregato in­ sieme alla moritura, dovette procedere immediatamente alle nozze lì sul palco. Küngolt venne slegata e fatta riz­ zare sulle gambe vacillanti e le fu chiesto se volesse dar la sua mano e seguire come legittima consorte quest’uo­ mo venuto a chiederla in sposa. Essa alzò muta gli occhi su di lui, che era la prima cosa apparsale dopo che le fu tolta la benda, e le pareva di vederlo come in un sogno, però, per non sbagliare, anche in caso si trattasse di un sogno, ebbe la presenza di spirito, non riuscendo a spiccicar parola, di far cenno d’assenso per tre o quattro volte, e di ripeterlo subito dopo ancora un paio di volte, così che persino quei foschi magistrati

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ne rimasero commossi e sorressero la sua figurina tre­ mante, mentre veniva solennemente unita in matrimo­ nio con il giovane. Dopo questa funzione essa gli venne data anima e cor­ po, così com’era, senza riserve né diritti a risarcimenti, dietro versamento di una somma al prete per il certificato di nozze e dietro pagamento di dieci misure di vino al car­ nefice e ai suoi aiutanti, nonché, quale speciale dono di nozze, tante monete, quante fossero necessarie per com­ prare un nuovo farsetto al boia. Quand’ebbe pagato ogni cosa, Dietegen prese per mano la sua donna e lasciò con lei il luogo del supplizio. Doven­ do egli prendersela così com’era, cioè scalza e con indosso il solo camice dei condannati, mentre la stagione era an­ cora piuttosto fredda, essa si sentiva molto a disagio e non riusciva a tenere il passo col marito. Questi allora se la prese in braccio, ricacciò sulle spalle il gran cappello, ed essa subito gli circondò il collo con le braccia, appoggiò la propria testa alla sua e s’addormentò dopo pochi passi. Dietegen, che teneva nell’altra mano la lancia, s’awiò con buona andatura sul colle solitario e la sentì prima piangere sommessamente nel sonno, poi rallentare con dolce serenità il respiro. Quando le sue lagrime gli stil­ larono sulla fronte, gli parve di venir battezzato dalla bea­ titudine stessa, e quel ragazzone forte e rozzo ebbe egli pure le guance irrorate di lagrime. Era ormai sua quella vita che portava in braccio e la sorreggeva come se si trattasse del ricco mondo di Dio. Quando giunsero a quel punto del colle, dove egli stesso, fanciullo, s’era trovato nella sua camiciola di condannato in mezzo alle donne, e dove pochi giorni innanzi Küngolt era stata catturata, il sole di marzo s’era fatto abbastanza limpido e caldo da concedere una breve sosta. Dietegen sedette sulla pietra di confine e s’accomodò adagio il suo carico prezioso sulle ginocchia; il primo sguardo rivoltogli al risveglio e le prime esitanti parole da lei finalmente balbettate, gli confermarono che egli non solo aveva fe­ delmente assolto un antico dovere, ma ne aveva assunto uno nuovo, quello cioè di divenire buono e bravo in mo-

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do da rendersi degno sempre della felicità che ora gli riempiva l’animo. Il terreno tutt’attomo alla pietra di confine era già disseminato di pratelline e di altri fiori precoci, il cielo era tutto azzurro e non un suono, fuorché il canto dei fringuelli nei boschi, interrompeva il silenzio pomeri­ diano. Non dissero nulla, ma respirarono insieme la buona aria tiepida, quindi s’alzarono, e poiché la strada verso la casa forestale scendeva ormai lungo morbidi terreni mu­ schiosi nel bosco di faggi, proseguirono l’uno a fianco dell’altro. D’un tratto Küngolt cercò con la mano i suoi riccioli d’oro che credeva già recisi e, trovandoli intatti, si fermò e disse a Dietegen, guardandolo teneramente: — Non potrei avere anche una ghirlandetta da sposa? Il giovane si guardò attorno e vide un agrifoglio verde e lucente, ne tagliò rapido un lungo ramo dal cespuglio, lo intrecciò a ghirlanda e deponendoglielo delicatamente sul capo le disse: — È una ghirlanda da sposa piuttosto aspra, ma serve a difendersi, come sempre dovrà fare il nostro onore ! Chi l’offendesse con le parole o con l’azione dovrà sentirne la pena ! Poi la baciò forte una sola volta sotto la sua ghirlanda ed ella proseguì felice accanto a lui. Trovarono la residenza forestale vuota e abbandona­ ta, perché domestici e garzoni, a causa della presunta esecuzione, se n’erano andati in parte per melanconia e in parte per leggerezza e infedeltà, e quel giorno nessuno tornò a casa. Tanto più facile riuscì alla giovane donna presto tornata alla vita rivelarsi a ogni momento più te­ nera e lieta. Corse da un armadio all’altro, da una stanza all’altra e ben presto ricomparve indossando la preziosa veste di nozze di sua madre, di cui aveva parlato a colui che adesso era suo marito in quella notte lontana in cui avevano dormito insieme nel loro lettuccio da bimbi. Poi apparecchiò la tavola con tovaglie festive e gli servì il meglio che potè trovare in cibi e bevande.

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Se ne stettero così uno accanto all’altra in tranquilla solitudine, essa con la ghirlanda in capo, egli avendo deposto le armi, e dopo quel semplice pasto andarono a riposare. “Ecco che cosa può toccarci !” ripetè Küngolt per la seconda volta in quella giornata, ma con cuore sollevato e piano piano, mentre giaceva febee accanto al marito, giacché in lei era pur sempre rimasto un resto di birichineria. Dietegen divenne un uomo influente per meriti mili­ tari, non migliore di tanti altri di quel tempo, soggetto anzi agli stessi errori. Divenne capitano e combattè ora in favore e ora contro i signori stranieri, assoldò merce­ nari, cumulò preda e ricchezze e passò così di guerra in guerra come i primi del suo paese, acquistando autorità ed esercitando sovente un influsso notevole. Con sua mo­ glie invece visse in concordia ininterrotta e onorata e fondò con lei una numerosa famiglia che fiorisce ancor oggi in vari paesi, dove le vicende belliche condussero in passato i progenitori. Violande, da parte sua, poco dopo le nozze di Diete­ gen e di Küngolt, che le erano state di grande consola­ zione, era entrata in un vero monastero facendosi vera­ mente monaca e mandando di tanto in tanto torte e dol­ ciumi ai figli di Küngolt. Si compiaceva pure, quando il signor Dietegen, al colmo della sua importanza, soleva tenere banchetti presiedendoli con la sua lunga barba e la sua catena d’oro di cavaliere, di parteciparvi da monaca in visita, con un bel crocifisso d’oro sul petto, e scambiare con quei guerrieri pettegolezzi cortesi. Quale fosse l’aspetto esteriore di Küngolt al principio del sedicesimo secolo, è ancora attestato dal ritratto di un buon pittore che figura in una nota galleria e secon­ do l’iscrizione ritrae appunto lei. Vediamo una snel­ la e fine donna patrizia, i cui tratti rivelano una pro­ fonda serietà ravvivata, però, da una dolce e saggia le­ tizia. Anch’essa, come sua madre, la moglie del guardabo­ schi, morì ancor giovane di un’infreddatura, quando suo marito perse la vita in una delle spedizioni milanesi e

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trovò sepoltura nel camposanto di una chiesuola lombar­ da. Essa vi accorse subito con l’intenzione di erigergli un monumento funebre, ma in realtà per trascorrere sulla sua tomba, di nascosto, tutta una notte piovosa, così che una gran febbre se la portò via in due giorni, dandole riposo al fianco del suo Dietegen.

IL SORRISO PERDUTO CAPITOLO I

Sol tre braccia di bandiera, pochi uomini d’onore, vesti gaie e buona cera: non vuol altro questo cuore. Sorgo all’alba dal giaciglio della breve notte estiva e a bagnar m’appresto il ciglio della Patria alla sorgiva. Carri e barche inghirlandate vedo giunger da ogni lato, nelle aeree navate il salone è già affollato; e la coppa, premio al forte, sull’arengo argentea sta. Viva, o popol, la tua sorte, ché tu parli in libertà ! La canzon di bocca in bocca va ed echeggia in ogni seno. Se la gioia oggi trabocca, ahi, ben presto verrà meno. Ma il dovere è rinsaldato, è temprata ogni energia e quel grano han seminato che non è buttato via.

Oh, restate, quando fiera la nazion canta e gioisce, e la libera bandiera sale al ciel lieta e garrisce ! Nella Patria il buon umore non conosce mai peccato. Non sarò certo peggiore, se anche torno non mutato.1 I. Versione di Ervino Pocar.

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Ecco la canzone intonata dal portastendardo del coro di Seldwyla mentre in una meravigliosa mattina estiva si avviava alla festa dei cantori. Quei signori erano partiti la sera innanzi percorrendo in ferrovia la prima parte del viaggio, ma avevano poi deciso di proseguire a piedi nel fresco mattutino, visto che si dovevano ormai attra­ versare soltanto belle zone boscose. Già s’apriva dinanzi a loro il lago luccicante con la città tutta imbandierata sulla riva, quando i sessanta o settanta membri di varie età di quell’associazione scesero a gruppi staccati per una splendida foresta di faggi, fa­ cendo risuonare con grida di giubilo e con strofe di can­ zoni l’eco annidata dietro i grandi tronchi e rispondendo anche talvolta a qualche stendardo che li precedeva nella discesa. Soltanto l’alfiere d’avanguardia, un giovanotto dalla figura snella e dal volto bellissimo, cantò per intero la sua canzone con voce gioiosa e pur pacata di baritono. Cin­ geva una sciarpa larga e riccamente ricamata, portava un bel cappello a piume e teneva appoggiata alla spalla la magnifica e pesante bandiera di seta, a metà arroto­ lata, la cui punta dorata scintillava a tratti tra le ombre verdi, appena i raggi del sole mattutino si insinuavano tra il fogliame. Finito che ebbe il suo canto, si volse indietro sorridente, mostrando un volto radioso di una felicità che nessuno gli invidiava, perché il suo sorriso particolarmente gradevole gli cattivava tutte le simpatie al suo primo apparire. «Il nostro Jukundi» dissero fra loro quelli che lo se­ guivano «sarà certo il più bel portabandiera della fe­ sta». Egli infatti aveva il sereno e armonioso nome di Jukundus Meyenthal e da tutti veniva chiamato con gene­ rale tenerezza semplicemente Jukundi. Quella speranza si avverò, giacché quando i Seldwylesi, giunti sul posto, s’allinearono per la sfilata tra le lunghe schiere dei can­ tori, il suo aspetto suscitò grande compiacenza dovunque passasse. Per quelli che avevano già preso parte a parecchie feste, egli era già conosciuto nel modo più vantaggioso come

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una figura esemplare per una festa. Perennemente allegro e operoso dal primo all’ultimo istante, Jukundi rimaneva tuttavia la calma e la pacatezza in persona ; lo si vedeva sempre condividere ogni gioia altrui e ogni particolare evento, perseverante e servizievole, non mai rumoroso, né tanto meno ubriaco. Sapeva tollerare il pagliaccio ur­ lante al pari dell’ospite di cattivo umore che si abbandona ad eccessi e guasta la gioia, e riusciva con tatto e cortesia a liberare l’uno e l’altro da sgradevoli avventure appena la pazienza del pubblico minacciava di venir meno, salvan­ doli così da un mortificante naufragio. Riusciva persino con tacita abilità a portar fuori dalla folla un forsennato, senza badare ai suoi insulti, acquistandosi la sua grati­ tudine e la sua devozione dopo che era rinsavito. In tale attività del resto egli non era che un buon rap­ presentante di tutti i Seldwylesi quando partecipavano a una festa. Se di solito erano oziosi e sregolati, in tali occa­ sioni invece osservavano l’ordine, la diligenza e il buon contegno. Arrivavano e ripartivano gloriosamente, piccola schiera impeccabile per la durata dei festeggiamenti, com­ piacendosi in anticipo del libero spasso che si sarebbero poi concessi a casa, dopo così austeri sforzi. Allo stesso modo avevano egregiamente studiato il coro col quale speravano di conquistarsi un premio nel giorno delle gare, e risparmiavano le loro voci con grandi rinunce. Avevano scelto una composizione intito­ lata «Il risveglio della violetta», composta su un testo mediocre, ma talmente raffinata e difficile a eseguirsi, che già da mesi si discuteva in tutti i luoghi se mai i Seldwylesi troppo osando non si fossero esposti a un disastro. Quando però fu giunto il giorno delle gare e nell’im­ menso auditorio migliaia di ascoltatori si trovarono di fronte ad altrettante migliaia di cantori e il gruppetto dei Seldwylesi, giunta la sua ora, avanzò isolato con la sua bandiera fra quell’oceano di gente, essi seppero sor­ reggere senza tremare il canto non meno delicato che grave attraverso tutte le sue complesse armonie e varia­ zioni e lo fecero echeggiare con sì morbida purezza che

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parve di udire aprirsi sommessi gli azzurri boccioli delle violette e aleggiare la loro prima delicata fragranza. Dopo un breve assoluto silenzio scoppiò scrosciante e fragoroso l’applauso: gli alti giudici annuirono col capo visibilmente, guardandosi poi l’un l’altro, dando di piglio alle tabacchiere d’oro, doni di prìncipi e di popolazioni di paesi lontani, e offrendosi reciprocamente una presa, poiché fra essi vi erano alcuni dei primi maestri di cap­ pella. I Seldwylesi si ritirarono calmi e contegnosi, riuscendo a sottrarsi inavvertiti dallo spiegamento in ordine di bat­ taglia per andare a gustare una modesta refezione con Champagne in un giardino ombroso. Nessuno volle bere più dei suoi tre bicchieri e nessuno, quando rientrarono nell’auditorio, si era accorto della loro assenza. Con la stessa dignità si comportarono per tutta la durata della festa, sinché giunse l’ora della distribuzione dei premi. L’oro del sole pomeridiano inondava il gran padiglione affollato sino all’ultimo posto, tutto ornato di drappi rossi e verdi e di trofei di bandiere, che sembrava nuotare in quella solenne luminosità. Su un podio ele­ vato, dove scintillavano le coppe e i corni d’oro e d’ar­ gento destinati a premio, sedevano alcune giovinette prescelte per appuntare alle bandiere vincitrici le rispet­ tive corone. Per meglio dire, quelle giovinette fungevano da séguito alla più bella e prestante tra loro, alla bella Justine Glor von Schwanau, che con gran pena s’era lasciata indurre ad assumersi il compito di distribuire le corone. Aveva davvero l’aspetto di una musa ; nella chioma bruna e ric­ ciuta portava una fresca ghirlanda di rose e la veste bianca aveva una cintura rossa. Tutti gli occhi si fissarono su di lei quando si alzò reg­ gendo la prima ghirlanda, che poco innanzi, fra squilli di trombe e di tamburi, era stata assegnata ai Seldwylesi. In pari tempo si vide Jukundi prender posto di fronte a lei con il suo stendardo, ridendo con gioia serena, e dal volto della premiatrice irradiò come un riflesso lo stesso bel sorriso e fu chiaro che quei due esseri provenivano

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dalla stessa patria, di dove giungono quanti sanno sorride­ re a quel modo. Dato che ciascuno di loro era più o meno conscio di tale sua qualità e la ritrovava nell’altro, e che anche il popolo attorno si accorse con sorpresa di quel fenomeno, arrossirono ambedue, non senza fissarsi ripe­ tutamente mentre veniva appesa la corona. Un’ora più tardi l’ultimo e più rumoroso corteo per­ corse la città in festa, fra innumerevoli vessilli e ghirlande, affiancato dalla massa del popolo, mentre venivano por­ tati attorno gli stendardi premiati e le coppe conquistate. I due si rividero allora, mentre Justine guardava sfilare il corteo dal giardino dei suoi ospiti, e Jukundi nel passare agitò la sua bandiera; inoltre la sera accadde che, per una sorte particolarmente benigna, Jukundi al banchetto fi­ nale si trovò a sedere allo stesso tavolo di fronte alla bella, così che a mezzanotte erano ormai entrati in lieta e cor­ diale familiarità. S’incontrarono di nuovo il giorno seguente, ormai buo­ ni conoscenti, su un gran battello imbandierato che do­ veva portare i capi della festa e un certo numero di ospiti di riguardo e di amici forestieri a una gita sul lago. Un cielo tersissimo dominava le acque, le rive e le mon­ tagne, facendo aprire quelle sorgenti di una nobile letizia che fossero eventualmente ancora chiuse. Il battello sol­ cava le acque cristalline di un verde intenso, ora risuo­ nando dei concerti di buona musica, ora di cori e can­ zoni. Dai fiorenti paesetti lungo le due rive echeggiavano saluti e ondeggiavano bandiere, mentre agli ospiti si mo­ strava con orgoglio quella celebre regione con le sue ricche ville e borgate. Una bella corona di dame sedeva su un pontile elevato del battello, e fra queste Justine Glor, con un bell’abito alla moda ma pur semplice, reggendo il parasole, cosicché quando Jukundi le si accostò nel suo costume da alfiere per salutarla, rimase sorpreso e quasi intimidito dal suo aspetto mutato e forse ancora più elegante. Non scambiarono tuttavia che poche paro­ le, come suole accadere quando c’è ancora a disposizione una lunga giornata estiva. Allorché, poco dopo, Jukundi le tornò vicino, ella gli

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fece un cenno e gli disse che i suoi genitori avrebbero in­ vitato a passar la serata nei loro giardini di Schwanau, nella parte superiore del lago, tutta la comitiva, dato che il battello vi doveva approdare, ed espresse la speranza che egli pure sarebbe venuto. Questa notizia confiden­ ziale, a ben pochi ancora giunta, gli procurò subito al­ lusioni e congratulazioni da parte dei presenti, da cui egli si schermì modestamente, pur ascoltandole con piacere. In realtà fu presto noto che il battello si sarebbe fer­ mato la sera a Schwanau e che tutti erano invitati a prendere un ultimo rinfresco nella villa della famiglia Glor. Questa lo faceva in onore della figlia, per dimo­ strare che essa aveva una casa e non era certo obbligata a presenziare a banchetti tra forestieri, ma anzi in grado di offrirne ella medesima. Erano infatti gente un poco orgogliosa dei propri possedimenti, da loro stessi acqui­ stati. Per godere con pieno agio la promettente serata, fu­ rono rigidamente osservati i tempi delle soste negli altri punti d’approdo dove il battello era atteso, e la sonora e canora imbarcazione attraversò puntualissima il lago scin­ tillante, e, salutata da salve di cannone, approdò a Schwa­ nau, dove gli alti alberi del parco Glor si specchiavano nelle acque e le case splendevano dall’alto delle colline e dei terrazzi. La folla dei cantori si disperse sotto gli alberi e intanto Justine scomparve in casa ad aiutare i suoi, lasciando che il padre e i fratelli si occupassero di accogliere e di salutare i numerosi ospiti. Sotto le pergole e sulle verande erano stati disposti punti di riposo per le dame, con ricchi rin­ freschi, mentre su un prato da poco falciato, tra alberi di frutta, si stendevano lunghe tavole apparecchiate per gli uomini. Non passò però molto tempo e anche tutte le dame furono sul prato, attirate dai frizzi, dagli scherzi e dai giuochi dei giovanotti, facendo grande chiasso. Vi era molto da vedere e molto da ridere, perché il buon umore e l’abilità dei singoli escogitavano mille piccole graziose invenzioni e scenette, in cui anche il più ingenuo su­ scitava il più simpatico successo, fra la generale al­

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legria. Anche una capriola tentata all’improvviso trovò ammiratori, e persino l’infelice virtuoso che aveva voluto modulare tutto serio sul suo pettine una melodia senti­ mentale, finendo con una stonatura, si compiaceva delle omeriche risate che lo salutarono e non si toglieva più dal capo la ghirlanda di paglia che gli avevano imposto. Soltanto Jukundi fra tutto quel chiasso si sentiva un po’ isolato, non scorgendo per lungo tempo Justine, sulla quale credeva di aver già qualche diritto, almeno per quell’ultima giornata. Ebbe tuttavia una leggiadra sor­ presa, quando d’un tratto la fanciulla gli si accostò, senza che sapesse di dove fosse venuta, e lo presentò al padre e ai fratelli quale portastendardo della associazione vitto­ riosa. Gli uomini lo salutarono con cortesia e cordialità, dandogli il benvenuto, ma non senza quel tanto di freddo riserbo che, così ricchi proprietari, ritenevano dover man­ tenere di fronte a un seldwylese nullatenente o poco agia­ to, per il caso che questi si fosse illuso di rappresentare qualche cosa di più di un buon partecipante alla festa. Il bonario giovanotto lo avvertì immediatamente e ne rimase un poco imbarazzato; così anche Justine, la quale in compenso, appena i signori furono andati oltre, si ac­ compagnò a lui, proponendogli di mostrargli la tenuta. Designò due edifici eguali, sul tipo di ville di moder­ nissimo stile, seminascosti negli ombrosi boschetti accan­ to al lago, come le abitazioni dei due fratelli, che avevano fondato ciascuno una famiglia propria, senza staccarsi per questo da quella paterna. Risalì poi con lui sentieri e scalinate sino all’altura dove sorgeva, dominando le corone degli alberi sottostanti, la casa dei genitori nella quale viveva ella stessa, un edificio un poco più antiqua­ to, ma pur sempre vasto e signorile, attorniato da rustici e da scuderie. Più oltre si vedevano lunghi e alti edifici in­ dustriali con innumerevoli finestre, confinanti con lo stra­ done polveroso che passava da quella parte. Al di là di es­ so però, sul declivio della montagna, si stendevano ancora campi, vigneti, prati e frutteti, e al disopra di tutto questo Justine gli indicò la casa dei nonni, sede origina­ ria della famiglia, che splendeva nel sole declinante. Era

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un’ampia casa rurale di antica forma, con chiare e numerose finestre, mura bianche e ornamenti di legno variopinto al tetto e ai granai, con scalette aperte di pie­ tra dalle balaustrate di ferro battuto artisticamente. Là vivevano con i loro domestici il nonno e la nonna, agri­ coltori ottantenni che però ancora lavoravano e dirige­ vano ogni giorno e ogni ora, tenaci e austeri, dai costumi semplicissimi, sempre pronti a giudicare i giovani, a quel che Justine raccontò al suo compagno. «Non vogliamo salire un momento da loro a salutarli, poiché disdegna­ no di scendere dalla loro altura a guardare la nostra fe­ sta? Di lassù si gode una magnifica veduta ! » disse la fan­ ciulla. Ma Jukundi senti una specie di paura di quei vec­ chi e schermendosi ringraziò la sua guida, anche perché quei vasti possedimenti lo intimidivano piuttosto che al­ lietarlo. Tornarono così sui loro passi, mischiandosi agli ospiti sempre più allegri, finché ad oriente salì la luna piena, ammiccando al sole tramontante, mentre nell’aria e sul­ l’acqua il rosa s’accoppiava all’argento e presto si do­ vette risalire sul battello pronto alla partenza. Vi fu gran ressa, poiché ognuno voleva stringere la mano agli ospitali signori rimasti sulla riva, mentre l’e­ quipaggio incitava a far presto. Fu così che Jukundi Meyenthal fu distolto dal suo proposito di accomiatarsi dalla bella Justine e costretto a seguire la folla senza in­ contrarla. Padre e fratelli gli strinsero bensì la mano mormorando un frettoloso «felicissimo», ma l’uno lo chiamò signor Thalmeyer, l’altro signor Meienberg, il terzo addirittura Meierheim, e nessuno aggiunse: «Ar­ rivederci ! ». Quando il battello avanzò nella luce serale, egli non scorse più la fanciulla, immersa con le altre signore nel­ le ombre già fosche degli alberi.

A casa Jukundi viveva con la madre, di cui egli, suo unico figlio, era la giocondità e la grande speranza. Il padre era morto presto, sciupando così soltanto una metà del patrimonio portato in dote dalla moglie forestiera, e

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questa aveva potuto allevare il figlio con l’altra metà. Ne rimaneva ancora una parte, benché egli non avesse ancora preso un decisivo avvio né conseguito grandi guadagni. In compenso aveva ben poco consumato, ser­ bandosi discretamente docile verso la madre, dalla quale gli venivano la bellezza e la salute e che lo amava senza severità. Non si era ancora fissato in una precisa professione. Prima parve mostrare tendenze ad abilità tecniche e si impiegò per un certo tempo negli uffici di un ingegnere. Ma poi le sue simpatie si volsero al commercio, ed entrò in un’azienda che poco dopo fu malauguratamente liqui­ data senza però sue gravi perdite. In quel momento era propenso a dedicarsi alla vita militare e faceva gli studi per divenire ufficiale istruttore e di stato maggiore. Do­ veva rimanere la maggior parte dell’anno in servizio compensato, il che gli procurava un’esistenza comoda, la quale, col suo moderato tono di vita, non esigeva gran­ di aggiunte di denaro proprio. Quando dopo la festa le si presentò nella sua bella uniforme, a cavallo e con la spada al fianco, sua madre 10 contemplò con compiacimento, osservando però che 11 suo grazioso sorriso aveva acquistato una sfumatura di melanconia. Aveva l’aspetto di uno che ha incontrato lo struggimento o il desiderio. Essa ci ripensò e tentò anche alcune caute inchieste, e quando udì dell’avventura con la fanciulla assegnatrice dei premi, e seppe che gli altri di ciò lo punzecchiavano, le balenò un’idea, che la spinse subito a un tacito lavoro per creargli una solida e con­ veniente fortuna. Avendo dedotto più dal volto che dalle parche parole di Jukundi come i fatti corrispondessero alle sue ipotesi, ma come egli, modesto e con una chiara visione delle situazio­ ni, non mostrasse grande intraprendenza, preferì per il mo­ mento tacere. Con l’avanzarsi però dell’estate, annunziò, per la prima volta in vita sua, che alla sua età doveva pur cominciare a far qualcosa per la salute, e che intendeva frequentare per qualche settimana un bel luogo di cura, purché Jukundi consentisse a ricuperare più tardi quella

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spesa con risparmi comuni. Egli si dichiarò senz’altro disposto e la madre se ne partì contenta e in ottima sa­ lute, portando con sé le sue migliori toelette. Dispose perché suo figlio, quando da lei avvertito, an­ dasse a prenderla, facendo in modo di trattenersi con lei ancora per qualche giorno in quella villeggiatura. Poco dopo fece la sua comparsa nello splendido e ce­ lebre luogo di cura montana e sedette in grande eleganza e con piena disinvoltura al lato opposto della lunga ta­ vola, al cui capo stava la ricca e stimata signora Gertrud Glor von Schwanau con la bella figlia Justine. Essa aveva la stessa alta statura della madre di Jukundi, ma era molto più robusta, con lo sguardo saggio e un po’ severo, e faceva intendere volentieri di essere soprannominata non solo nella cerchia familiare, ma anche in tutto il co­ mune, e persino in una più ampia regione, una Stauffacherin, probabilmente per il suo nome di Gertrud, quello della virtuosa e saggia consorte nel celebre Guglielmo Teli schilleriano. Si rendeva però ben conto di quel che significasse un simile nome, indicante l’ideale di una donna svizzera intelligente ed energica, astro e ornamento della casa, conforto della patria. La signora Meyenthal apprese tutto questo dopo una mezza giornata di soggiorno, ma si tenne ritirata e tran­ quilla e soltanto verso la fine del secondo giorno, quan­ do per la signora Gertrud divenne insopportabile che una villeggiante nuova rimanesse a lei sconosciuta, la madre di Jukundi si lasciò trascinare a un breve e cor­ tese colloquio. Trovò però già nel corso di questo l’oc­ casione di afferrare la mano della solida signora e di dirle con tono cordialissimo, come sentisse il bisogno di espri­ merle la sua gioia per aver incontrato una tale autentica figura di Stauffacherin\ Scorgendola ci si aspettava pro­ prio di vederla uscire da una casa di Schwyz adorna di stemmi e di motti, pronta ad appoggiare la sua mano consolatrice sulla spalla del preoccupato consorte ! Mentre la signora Glor von Schwanau arrossiva di compiacenza, la signora Meyenthal fu quasi spaventata

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guardando, mentre discorreva, la bella figlia Justine, perché riconobbe il leggiadro sorriso identico a quello del figlio e soffuso della stessa ombra di sottile nostalgia. La signora Meyenthal rimase colpita da quel mirabile giuoco della natura, da quella innegabile manifestazione del destino, da quell’evidente dato di fatto, anche perché Justine, alla quale già il volto della madre dell’alfiere era parso noto e familiare, udendone il nome e la pro­ venienza, non dubitò un momento di chi si trattasse e la fissò contenta negli occhi con lo stesso sorriso, per un breve istante di spontaneo abbandono. Quando il sole calò, illuminò le tre alte figure di donna che, stranamente commosse dall’amore di se stesse o dal­ l’amore e dalla cura per altri, stavano l’una di fianco al­ l’altra sull’altura del monte e sembravano ondeggiare un poco turbate. La madre di Jukundi fu comunque la prima a ripren­ dersi e quella sera stessa scrisse al figlio di venirla a tro­ vare entro una settimana circa, per rientrare con lei dopo alcuni giorni di villeggiatura. Con le signore di Schwanau finse di non sapere nulla dell’incontro .alle gare di canto, mentre la signora Gertrud da parte sua a malape­ na se ne rammentava, e neppure aveva veduto il bell’al­ fiere quella sera, trattenuta quasi sempre in casa dalle sue cure di padrona. Soltanto Justine era imbarazzata e inquieta; non osava domandare notizie del figlio alla nuova conoscente, ma non le piaceva neppure credere che questi non avesse raccontato nulla a casa della festa e di lei medesima. La signora Meyenthal dal canto suo desiderava che i due giovani si rivedessero all’improvviso e si teneva quindi molto riservata, pur non trascurando occasioni per catti­ varsi con un accorto contegno le simpatie della vecchia Stauffacherin. Si poteva davvero chiamarla la vecchia Stauffacherin, in quanto la bella e buona Justine, in pieno ri­ goglio giovanile, aveva tutto quel che occorre per eserci­ tare la dignità di una Stauffacher e non le mancava che un consorte preoccupato per le sorti della patria. Che non ci fosse ancora un marito derivava dai sin­

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golari destini che lasciano spesso invecchiare ottime fan­ ciulle per l’apparente freddezza con la quale vien scam­ biata la loro nobile calma, o per la custodia gelosa pro­ digata dalle famiglie e soprattutto anche per il loro privi­ legio di saper ascoltare soltanto la voce del cuore. Alla fine però una bella sera calò sulla montagna e con essa arrivò Jukundi, e precisamente, perché prove­ niente da manovre e diretto ad altre esercitazioni, in uni­ forme, con un po’ di rosso e un po’ d’oro sulla giubba scura. Dopo essersi ristorato e intrattenuto a lungo con la mamma, s’avviò ignaro a passeggio con lei, che lo guidò là dove sapeva di incontrare le due signore Von Schwanau, oltre il bosco, a un promontorio roccioso e solitario, fornito però di sedili e di parapetti, alto sulla profonda valle già velata d’azzurro. La beatitudine improvvisa dei due giovani, che si rivelò sui loro volti all’insperato incontro, la somiglianza della loro espressione e il particolare ingenuo sorriso che l’accompagnò, superarono talmente l’immaginazione e l’attesa della madre Meyenthal, che essa non ebbe più da sostenere una parte e fu soltanto lieta di rimanere spet­ tatrice tranquilla e vigilante degli eventi. La signora Gertrud invece, molto stupita, non stac­ cava gli occhi dai due ragazzi, alternando i suoi sguardi dall’un volto all’altro. Alla fine però le lievi onde dell’im­ provvisa eccitazione generale si placarono e si avviò un gradevolissimo cicaleccio, durante il quale si levò la luna, illuminando i torrenti e gli stagni precedentemente na­ scosti nel cuor delle valli e facendoli brillare come astri d’oro. La signora Gertrud Glor provò una specie di voluttà, come se tornasse a rivivere la sua lontana felicità giova­ nile, e quando si avviarono verso l’albergo e i due giovani la precedettero discorrendo o tacendo insieme, essa prese sottobraccio mamma Meyenthal. Questa era a sua volta commossa e colpita dall’importanza del fatto, era inna­ morata ugualmente di ambedue i giovani, ma anche molto preoccupata di dove si sarebbe andati a finire. Durante il pranzo la diffusa felicità parve accrescersi,

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se possibile, come suole accadere quando una dolce spe­ ranza ravviva i partecipanti, incitandoli a esporre senza pericolo un segreto alla generale lètizia. La signora Gertrud Glor alzò il suo calice con Jukundi, molto compiaciuta del suo aspetto e del suo buon con­ tegno, e quando prima di coricarsi la figlia l’abbracciò versando alcuni lagrimoni nel suo collare di pizzo, quasi tributo risparmiato con fatica, non se ne mostrò stupita, ma l’accarezzò affettuosamente sulle guance. Appena però digerito con un primo sonno il goccio bevuto, il che accadde già a mezzanotte, perché era stato proprio un gocciolino, come ben si conveniva a una degna Stauffacherin, essa si svegliò preoccupata e per il resto della notte stette a ripensare al danno, mentre Justine, pure insonne, ben s’accorgeva che la madre era desta. Essa però si teneva immota, felice di non sciupar tempo dormendo e di poter pensare così senza posa alla sua gioia. Con l’avanzarsi dell’aurora diventava tuttavia sempre più chiara alla madre l’impossibilità che entrasse in fa­ miglia un marito di Seldwyla, di quel paese dove nessuno mai aveva fatto fortuna e nessuno possedeva un soldo. Si apprestò dunque preoccupata ma decisa ad affrontare il giorno, per soffocare il male sul nascere, male che le appariva tanto più grande se considerava le rigide idee degli uomini di casa sua a questo proposito. Venne ancor meglio confermata in quei propositi quan­ do verso l’alba un ospite ritardatario, evidentemente un po’ brillo, salì le scale, accompagnato da un fattorino dell’albergo davanti alle diverse porte, e a quella delle signore Glor inciampò nelle rispettive scarpe, scaglian­ dole, con una pedata, ben lontano. Le scarpe della mam­ ma scivolarono, l’una a pancia all’aria e l’altra a pancia in giù, per tutto il corridoio; gli stivaletti della figlia, per un colpo di striscio, precipitarono come due bar­ chette in gara verso la scala e poi giù per la medesima. — Ecco ! — esclamò dal di dentro la vigile madre — ecco il nostro seldwylese ! E si sentì come sollevata da quella pronta rivelazione. Justine era balzata a sedere nel suo letto e ascoltava

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con angosciosa tensione, ma, appena ebbe udito un paio di parole del rumoroso ospite, gridò a sua volta sollevata, anzi con colpevole gioia: — Ma non è il capitano! Questo è il nostro Rudolf, se la voce non m’inganna ! La madre si voltò sorpresa verso la figlia, dicendole quasi irosa: — Sei matta? Come vuoi che il nostro Rudolf arrivi qui a quest’ora? E da quando usa inciampare ubriaco per i corridoi di un albergo? Non è partito appunto da poco per le sue manovre? Ma si trattava proprio del figlio minore, del beniamino della signora Gertrud, che in quel momento andava a letto su quell’alta montagna. Egli era giunto frettoloso, a tarda notte, con una guida, stanco morto ed evidentemente con un gran cruccio. Indossava egli pure l’uniforme e veniva da una guarni­ gione, dove era stato sfidato a duello da un altro ufficiale da lui offeso. Siccome però s’intendeva più di contabi­ lità e di borsa che di duelli, aveva una moglie giovane con due bambini e si sentiva molto preoccupato, così aveva ottenuto una proroga ed era corso in fretta lassù per consultare la madre circa il modo di comportarsi. Nella sala da pranzo aveva incontrato Jukundi che, non avendo ancora sonno, trascorreva solo solo un’oretta di piacevole fantasticheria. Trovandosi ambedue sul comune sentiero delle armi, i due signori furono costretti a salutarsi e ad iniziare una conversazione, quando il tenente Glor si mise a tavola per una cena tardiva. Avendo recentemente saputo che il capitano Meyenthal godeva grande stima negli ambienti militari, Rudolf Glor fu lieto di rinnovare la conoscenza e si sentì subito attratto da fiducia verso di lui. Trascina­ tovi da alcuni bicchieri di vino bevuti un po’ in fretta per l’eccitazione, gli raccontò ben presto la sua faccenda e gli disse anche d’essere venuto a chiedere il parere della madre, che ben meritava il suo soprannome di Stauffacherin e aveva sempre un rimedio per tutto. Jukundi però gli consigliò di non parlarne con la ma­

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dre, se non voleva aggravare la cosa. Gli spiegò come, date le idee dominanti in questioni del genere, correva pericolo di squalificarsi come ufficiale se fosse corsa voce che affidava le sue questioni d’onore alla mamma e ne seguiva le direttive. Il signor Rudolf allora si immerse in nuova melan­ conia, giacché, molto ragionevolmente, non sapeva capa­ citarsi perché mai dovesse rischiar di abbandonare per sempre moglie e figlioli per simili stupidaggini. Jukundi gli chiese allora quale fosse stata la vera ori­ gine della disputa e come si fosse svolta. Rudolf giocava a carte con tre altri colleghi. Alla fine di un giro nel quale il suo compagno non aveva fatte le mosse desiderate da Rudolf, mentre si distribuivano le carte fu criticato lo svolgimento della partita, e precisamente con le coniugazioni al tempo presente. — Io gioco così — dissero — e tu a questo modo; allora lui deve metter fuori quella carta e non quest’altra e io l’assecondo e gioco così, dopo di che tu fai quella mossa ed è ben chiaro allora che noi vinciamo. — No, non è chiaro, — aveva replicato il compagno di Rudolf — prendo prima la briscola e gioco poi l’altra carta ! — E tu allora giochi come un asino ! — aveva escla­ mato Rudolf, al che tutti erano balzati in piedi, e il mat­ tino seguente era venuta la sfida in forma così solenne e sbrigativa che il bravo giovanotto non era riuscito nep­ pure a dare spiegazioni soddisfacenti. Quando Jukundi, che sorrideva del racconto, udì il nome dello sfidante, osservò: — Ah, quello ! Ha bisogno tutti gli anni di lanciare una sfida, per paura che il suo onore metta la muffa! Il suo onore però, signor tenente, esige che per questa vicenda lei non esponga la propria vita, ma dichiari sem­ plicemente all’avversario che egli non avrebbe affatto giocato come un asino, bensì in quel qualunque modo a lui più gradito ! Ella ne potrà comunque trarre l’insegna­ mento che quando s’indossa un’uniforme convien misu­ rare sempre il proprio linguaggio, anche nelle ore del di­

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vertimento. Bisogna però evitare assolutamente l’appa­ renza che la sua dichiarazione sia effetto di un colloquio con la mamma, se non vuole attirarsi conseguenze ben più gravi. Se le posso render servizio, sono disposto a far­ mi avanti come consigliere, scrivendo subito due righe a quel signore, per comunicargli che lei ha parlato con me e ha stesa una dichiarazione soddisfacente su mio consiglio. La lettera partirà domattina e la faccenda sarà risolta con soddisfazione generale, glielo posso senz’altro garantire ! Il giovane guerriero s’era sentito sollevato del gran peso, e per dimostrare la sua gratitudine e consolarsi in­ tanto della paura passata, aveva a forza fatto venire buon vino in abbondanza, trattenendo poi il soccorrevole amico fino all’alba. Questi era rimasto volentieri in sua compagnia, ascoltando le allegre chiacchiere di un gio­ vanotto che era fratello di Justine. Ma l’ardore del vino si spense senza danno nelle profondità del suo caldo affet­ to, ed egli s’era poi coricato ben saldo in gambe, mentre l’altro aveva cercato il suo giaciglio in modo tanto ru­ moroso. La situazione era dunque peggiorata per la Stauffacherin, che s’era illusa di trionfare col primo sole; non sol­ tanto era stato suo figlio a dar scandalo, ma in lui so­ praggiungeva un ottimo alleato dell’avversario. Justine era riuscita a chiamare attraverso la porta semiaperta una cameriera, e a farsi dire da lei che in realtà era arrivato il signor fratello e che aveva trascorso la notte in buona compagnia col signor capitano. Dopo­ diché la ragazza era tornata sotto le coperte e si era final­ mente addormentata felice. Jukundi pure non fu mattiniero e quanto a Rudolf non si riusciva a svegliarlo, così che la madre per poterlo interrogare dovette fare irruzione in camera sua. Consi­ derando la questione d’onore ormai risolta, egli si indusse a raccontare ogni cosa a sua madre e le spiegò come sol­ tanto il buon consiglio e l’aiuto del capitano di Seldwyla avessero eliminato le difficoltà e, si poteva ben dire, sal­ vato la sua vita. Egli infatti non poteva concepire di tirare una vera palla di pistola contro un collega vivo e sano,

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aspettandone da parte sua un’altra. Esaltò quindi con eccitata eloquenza la saggezza e l’energia del seldwylese, a tal punto che la madre, sconcertata e irritata, si ritirò in camera e senz’altro vi si rinchiuse. Essa era oltre a tutto gelosa della propria fama di energica eroina schilleriana, dei propri diritti materni, e s’infuriava sentendo che il suo consiglio avrebbe reso al figliolo un servizio peggiore di quello di un qualunque gio­ vane seldwylese. Si precipitò quindi ben presto fuori dal suo ritiro col proposito di dare una lavata di testa al non richiesto mentore e di far scoppiare con ciò un utile con­ flitto che ponesse fine all’amicizia. Ma scendendo incon­ trò l’intera brigata raccolta in lieta concordia sotto una pergola, ciascuno provvisto di un tardivo spuntino di propria invenzione e intento a far baratti coi compagni. Appena riveduta la giovane coppia bella e felice, dimen­ ticò i suoi duri propositi, anzi subito concorse a discutere e a fissare una bella gita per il pomeriggio. Essa, infatti, era una donna serena, come tutte le vere seguaci della saggia Gertrud, quando non gravano sul capo dei loro uomini nubi di tempesta che esse debbano dissipare. Quando poi nel corso della giornata interrogò Jukundi e questi le espose la faccenda del duello con parole cortesi e assennate, dovette rendersi conto che egli aveva ragione e che aveva reso un buon servizio al figlio, il che la riempì di un senso di fiduciosa gratitudine. Si accostò quindi quello stesso giorno anche alla ma­ dre del giovanotto, interpellandola con molti rigiri inda­ gatori a proposito dei due giovani. La signora Meyenthal afferrò senz’altro il filo di quel discorso e lo ravvolse svelta sulla sua spola, concedendo senz’altro all’avversario di conoscere perfettamente il malanno di Seldwyla. Ma tutto dipendeva dalle circo­ stanze. Anch’essa vi era venuta dal di fuori a nozze, era stata al tempo suo un buon partito e a prescindere dalla morte precoce del suo povero consorte, non aveva avuto poi da lagnarsi, così che riteneva suo figlio, grazie a Dio, di ottima indole, e preparato a una vita onorevole, del che anche la signora Glor era persuasa.

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Con ciò erano compiute le trattative segrete essenziali e iniziava il suo corso quanto rispondeva al desiderio di possenti voci naturali. Le difficoltà da aspettarsi da parte degli altri membri della famiglia di Schwanau vennero superate con calma e discrezione, e pochi mesi dopo fu annunciato il fidanzamento di Jukundi con Justine. Parve in generale un avvenimento cosi giusto e gen­ tile, che non si udirono malignità in proposito. I fidan­ zati non ricevettero neppure una lettera anonima di in­ sulto o di ammonimento, come suole accadere quando si suscita una grande invidia. Il più limpido cielo mat­ tutino rideva sul loro amore e le nozze stesse furono una festa soleggiata e armoniosa, tutta canti e bandiere, che per la massa del popolo accorso somigliò a un’antica e bella canzone. CAPITOLO II

La giovane coppia viveva nella casa paterna di Seldwyla. Questa era un edificio abbastanza grande, con sale e camere spaziose, costruito nel secolo precedente da un cittadino arricchito all’estero e venuto poi a far sfoggio dei suoi beni nella città nativa. Prima però che la casa fosse arredata e completata, egli, nei primi anni della rivoluzione e delle guerre, aveva riperduto l’in­ tero patrimonio, così che, invece di venire ad abitarla, era sparito per vedere se non potesse riacciuffare la for­ tuna là dove l’aveva incontrata una prima volta. La casa era in séguito passata di mano in mano, perché ogni volta che un seldwylese si credeva in possesso di mezzi sufficienti a una vita lussuosa, e ne aveva la voglia, comprava quell’edificio e lo abitava per un certo tempo, senza riuscir tuttavia a portarlo mai a fine, nell’interno. I Meyenthal lo possedevano ormai da più tempo che gli altri e nel corso degli anni si erano permessi qua una tappezzeria, là una rifinitura; prima delle nozze Jukundi aveva rinfrescato l’esterno e messo in ordine il giardino, così che quando Justine fece il suo ingresso con una co­

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spicua dote di tendaggi e di arredi d’ogni genere e li di­ stribuì bellamente nei fastosi ambienti, parve che la for­ tuna ben forgiata, o in questo caso ben cucita, venisse ad abitare quella casa durevolmente. L’autrice di quella fortuna, la madre Meyenthal, risiedeva contenta e or­ gogliosa nelle sue stanze, soddisfatta di vedere che la bella Justine rivelava un senso chiaro e solido della pro­ prietà e della sua conservazione, mentre Jukundi da parte sua non sembrava perdere anche nei riguardi della gio­ vane moglie la sua bonaria docilità. Sposandosi, egli, in base agli accordi, aveva rinun­ ciato alla carriera militare, per le continue assenze che tale professione gli avrebbe imposto. Al fine di assicurarsi tuttavia un reddito onorevole e un’attività regolare, aveva avviato un’azienda commerciale, basata sull’ab­ bondanza di legnami della città e della regione circo­ stante. Alle grandi foreste provenienti ancora dalla suddivisione territoriale alemanna s’erano più tardi aggiunte le regioni boscose del castello e del monastero presso le cui mura era venuta sorgendo la città. Questa aveva sino ad allora rispettato le sorgenti della propria agiatezza, conservandole anche per orgoglio ci­ vico, allo stesso modo che serbava accuratamente nella taverna comunale le ricche coppe antiche ed il vino vec­ chio. Ma per qualche fessura s’era insinuata la seduzione e la smania di guadagno, e già ormai la morte, non vista, passava per le grandiose foreste, si insinuava al margine dei boschi, battendo con le sue dita ischeletrite sui grandi tronchi lisci. Quando dunque intorno a quell’epoca si fece avanti Jukundi per fare acquisti di legname da co­ struzione e da ardere, la sua azienda fu subito florida; i Seldwylesi infatti preferirono la mediazione di un loro ben noto e onesto concittadino alle pressioni di quei mercanti forestieri che avevano per primi fatto entrare la disgrazia. Cominciarono allora ad abbattere le grandi foreste secolari, aprendo così il passaggio alla grandine sui vi­ gneti e sui campi. Ma quei boschi erano pur stati un giorno giovani e bassi, o anzi lo erano già stati ripetuta­

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mente, e avrebbero potuto invecchiare e crescere un’al­ tra volta. Quando però la scure raggiunse le boscaglie più giovani, quando si inventarono scopi sempre più belli per fare affluire il denaro, mentre i pendìi dei monti si facevano ogni giorno più brulli, Jukundi, che sin dalla giovinezza era stato sempre grande amico della foresta, cominciò a sentirsi raggelare. Faceva guadagni cospicui in quel commercio, ma sempre più se ne vergognava: gli sembrava di essere nemico e distruttore di quella verde e gioiosa bellezza ; perdette il buon umore e si con­ fidò con la moglie, quand’essa, vedendo divenire sempre più raro quel sereno sorriso che era stato gemello al suo, lo interrogò angosciata. Essa però riteneva che le cose, con o senza suo marito, avrebbero seguito il loro corso, probabilmente anzi peggiorando, e si preoccupava sol­ tanto di saperlo ricco ed indipendente per merito pro­ prio, onde poter essere orgogliosa di lui anche sotto que­ sto aspetto. Non confermò quindi il consorte nella sua ripugnanza, ma anzi lo incoraggiò a continuare ed egli seguì il suo consiglio. Lungo un pendio irregolare e prolungato, chiamato il «Wolfhartsgeeren», si tagliava un bosco di media al­ tezza. Da questo si ergeva da tempi immemorabili la grandiosa volta verde di una quercia millenaria chiamata appunto la quercia di Wolfhartsgeeren. In documenti antichi essa quale punto di riferimento aveva anche altri nomi, da cui poteva dedursi che le sue giovani fronde avevan conosciuto i venti mattutini dei popoli germanici. Dopo aver tagliato tutto il bosco che le stava attorno, volendosi riservare quell’albero possente ad una vendita speciale, la quercia spiccò come un monumento gran­ dioso, quale nessun principe della terra o nessun popolo con tutti i suoi tesori avrebbe mai potuto erigere. Il tronco misurava alla base ben dieci piedi di diametro, e i rami orizzontali, che da lontano si disegnavano sullo sfondo del cielo come arboscelli delicati, apparivano in­ vece, visti da vicino, tronchi robusti. Il bel monumento verde era visibile a miglia di distanza, e molti accorsero per ammirarlo da vicino.

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Quando si aspettò l’acquirente che avrebbe offerto il prezzo più alto, Jukundi ebbe pietà dell’albero e cercò di salvarlo. Fece notare che sarebbe stato conveniente per il comune lasciar sussistere simili testimonianze del passato come ornamento del paese, concedendo loro a spese del pubblico aria, rugiada, e quel po’ di terreno necessario. La somma relativamente piccola del suo ac­ quisto non poteva aver peso in confronto all’insostitui­ bile valore di simile adornamento. Ma non trovò ascolto: appunto la perfetta sanità del vecchio gigante gli doveva costar la vita, giacché dissero che era giunto il momento opportuno per ricavarne il reddito massimo, poiché ap­ pena il tronco si ammala il suo valore precipita. Jukundi si rivolse al governo, suggerendo la conservazione di sin­ goli alberi eccezionali, dovunque essi si trovassero, come un principio generale. Gli fu risposto che lo stato pos­ sedeva bensì foreste per milioni e poteva aumentarle a suo piacimento, ma non aveva un tallero a disposizione, né la minima facoltà di comperare un albero destinato ad essere abbattuto e posto su terreno comunale, per lasciarlo poi vivere. S’accorse che nessuno era accessibile alle sue idee e che egli ci faceva solo una cattiva figura come uomo d’af­ fari, esponendosi a essere segretamente deriso. Allora com­ però egli stesso la quercia e il pezzo di terreno sul quale essa sorgeva. Ripulì il sottobosco, mise una panca all’om­ bra dell’albero, di dove si godeva una bella vista, e ognuno lo lodò della sua iniziativa e venne ad ammirare. Ma da quel momento ognuno anche cercò di sfruttarlo e di ingannarlo, come fosse un gran signore verso il quale non occorre avere riguardi. Per ripugnanza ad abbattere continuamente i bei bo­ schi Jukundi trasformò gradatamente, ma quanto più presto gli fu possibile, la sua azienda, lasciando il com­ mercio del legname e dandosi invece ai tesori che ven­ gono dal seno della terra e sostituiscono il legno. Apprestò depositi di litantrace e di lignite, importò tubi di terra refrattaria e di ferro a sostituzione degli acquedotti di legno, nonché mattoni per costruzioni leggere che si so-

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levano fare in legno, cemento per vasche d’ogni sorta e indusse persino un ricco contadino a farsi fare una gran­ diosa botte da mosto in solido e fresco cemento. Dopo quel successo, sognava già di vedere in ogni cantina, al posto delle botti di doghe, tali recipienti, simili alle grandi anfore che gli antichi tenevano sotto terra per il vino, e calcolava il risparmio di buon legname di quercia. Comperò anche grandi quantità di rotaie ferroviarie fuori uso, che in cento casi sostituiscono una trave di legno. Naturalmente l’esportazione del legname continuò senza curarsi di lui verso le grandi città divoratrici, ma egli aveva la coscienza tranquilla, senza la cui tacita compagnia non si sentiva un commerciante felice. I nuovi affari non sarebbero rimasti infruttuosi, se non fosse in­ tervenuta insieme al mutamento commerciale una certa crisi, da quando si era assunto la protezione del grande albero e il contegno dei suoi colleghi aveva cominciato a mutarsi, rivelandogli il loro vero volto. Jukundi diceva sempre la verità e in cambio credeva anche a tutto quanto a lui era detto. Manifestava già da principio completamente la sua opinione e le sue in­ tenzioni, e accettava per vero quel che gli comunicava l’altro circa i suoi patti di acquisto o di vendita e circa la natura della merce, mentre l’altro comunque suppo­ neva che avrebbe pensato lui a indagare meglio e poi, non accadendo questo, arditamente si proponeva di in­ gannarlo. Non giovarono le numerose esperienze, né le esortazioni delle sue donne a non essere tanto credulo. Già la volta seguente si lasciava persuadere, non po­ tendo far altro o sembrandogli troppo spregevole e ripu­ gnante bisticciare e mercanteggiare. Si aggiunga che egli non era un finanziere molto abile, capace di manipolare credito e denaro, e si comprenderà perché, un bel giorno, i suoi mezzi furono esauriti e s’appressò la sua fine. Ac­ cadde all’improvviso, dato che egli non era ricorso a ri­ pieghi e non aveva trascinato una situazione fittizia. Meditò se dovesse confidarsi prima con la madre o con la moglie, o con ambedue a un tempo, confessando

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loro che l’agiatezza era finita, e che bisognava ricomin­ ciar da capo, non sapeva ancora come. Si decise per la moglie. Quando, solo con lei nel suo studio, cominciò a esporle col cuore pesante la sua triste situazione, essa gli si accostò, gli passò le mani sulla fronte corrugata e lo interruppe domandandogli se i suoi libri erano completi e in ordine. Alla sua pronta conferma, ella gli rivolse un sorriso che gli sollevò il cuore e gli disse che in tal caso conosceva già la situazione, perché, mossa dalla curiosità, poco tempo prima, durante una sua assenza, aveva stu­ diato gli affari suoi, o meglio di loro due. In realtà la donna, essendosi accorta che il marito le celava qualche preoccupazione, durante una tranquilla domenica in cui egli aveva dovuto partire, lasciandole al solito le chiavi sul suo tavolino da lavoro, si era rin­ chiusa nel suo studiolo a leggere i mastri e le carte, del che ben si intendeva. Tutto era chiaro e ordinato, con ogni cifra al suo posto. Vide che non avrebbe potuto re­ sistere ancora a lungo, ma che non c’era il pericolo di una soluzione disonorante, purché vi si passasse un frego definitivo per tempo. Conoscendo la lealtà di lui, era certa che la confessione non si sarebbe fatta molto aspettare, e nel frattempo aveva agito mettendo i genitori a parte della cosa. Già al tempo in cui avevano dato il consenso alle nozze, l’orgoglio di quei ricchi aveva fatto prevedere simile vicenda, e in segreto era stato deciso che gli sposi, qualora, come probabile, le cose non andassero bene a Seldwyla, si trasferissero a Schwanau. Justine non fu quindi troppo spaventata dalla sua scoperta e provò anzi una gioia segreta all’idea di introdurre nella casa paterna il suo ottimo e bello sposo, per circondarlo poi là di ogni cura e riguardo, come una fragile figurina di vetro. Quando però comunicò al marito quei piani e gli spiegò che bastava provvedere a una pacifica liquida­ zione degli affari a Seldwyla, per trasferirsi poi a Schwa­ nau, dove certo Jukundi avrebbe potuto rendersi utile, questi replicò impallidendo: — Ma allora sarebbe perduta la mia libertà e ogni

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rispetto per me stesso ! Preferisco andare a far lo spacca­ legna ! — Bene, ma ci dovrò essere anch’io ! — disse Justine — Ti aiuterò a segare, e quando saremo sotto la pioggia in una strada tirando insieme la sega, litigheremo e fa­ remo fermare la gente, come quei due che abbiamo vedu­ to in quella gran città durante il nostro viaggio di nozze ! Sedette e poi continuò: — Ti ricordi quale strana impressione ci fecero? Pio­ veva a dirotto, il legno era bagnato, anche la sega era bagnata, marito e moglie, fradici fino alle ossa, tiravano in qua e in là la sega, lanciandosi aspre parole e insulti ! E sai perché? Litigavano per la miseria, per la dispera­ zione, senza neppure più vergognarsi della gente che li ascoltava... — Taci, — esclamò Jukundi — come puoi interpre­ tare così le mie parole, mentre sai bene quel che voglio dire? — Ma in esse può anche celarsi tutto quel che ho detto 10 ! — replicò Justine. Poi aggiunse, girandogli un braccio attorno alle spalle: — Vieni, tutti ti vogliono bene e ti aiutano, tu sei un uomo'capace, se appena avrai sotto i piedi un terreno ragionevole ! Ma qui non è possibile per noi avere fortuna ! Jukundi interruppe il colloquio per ritrovare la calma, perché era molto confuso e turbato, non avendo consi­ derato le cose così disperate come le vedeva la moglie, tanto che si sentiva ora un poco offeso. Andò da sua ma­ dre, ma questa, appena sentì come stavano gli affari, cominciò a piangere. Le parve che tutto fosse perduto se 11 figlio non si teneva ben stretto alla moglie e alla sua famiglia, cosicché lo scongiurò di non voler rovinare la fortuna sua e dei suoi. La buona madre aveva dovuto troppo a lungo difen­ dersi dalla miseria e credeva di esserle sfuggita per sem­ pre col saggio matrimonio del figlio, e ora aveva paura di tornar povera più che di una spada affilata. Justine invece odiava e disprezzava la miseria come

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qualcosa di cattivo e di spregevole, a meno che si trat­ tasse di poveracci ai quali si doveva far del bene. Essa esercitava con ordine e zelo la beneficenza, recandosi nei tuguri e visitando i bisognosi. Quando però la povertà voleva penetrare nella cerchia più vicina del parentado e degli amici, ne provava un’aspra ripugnanza, come di fronte alla peste, e decisamente la fuggiva. Non servì quindi a nulla che Jukundi tornasse da lei per farle ca­ pire che avrebbe potuto tentare e sopportare per un poco un incerto destino al suo fianco, dato che comunque le rimaneva aperto il rifugio presso i genitori con la ricca eredità. No, non un giorno essa voleva vedere esposti il marito e se stessa al bisogno e all’umiliazione, e quando suo padre venne e cordialmente incoraggiò il genero, come a una cosa naturalissima, da regolare per il bene di tutti, quegli dovette arrendersi. I dipendenti di Jukundi vennero liquidati e congedati, la casa venduta, poiché la madre, che ne era comproprietaria, non volle rimaner sola a Seldwyla, e furono così regolati tutti gh impegni. A Jukundi non rimase neppure un tallero in tasca, il che gli causò una strana impressione. Justine si dedicò di buon animo e con molta energia ai preparativi del trasloco ed a fare i bagagli di ogni bene mobile; ora era a Schwanau per arredare la sua nuova dimora, ora tornava a Seldwyla per curare le ultime cose, sempre ben provvista di mezzi e dimenti­ cando completamente, nel suo vivace zelo, di chiedersi se mai Jukundi ridotto così senza fondi avesse bisogno di nulla. Egli si trovò nello stato d’animo di chi sia costretto a peregrinare in terra remota, fra persone straniere, di cui non comprenda il linguaggio : si guardò attorno, preoc­ cupato del come mettere insieme in qualche modo una piccola somma di sua proprietà. Era stata dimenticata la grande quercia che egli aveva voluto salvare e conser­ vare. Con un melanconico sorriso vendette il buon gi­ gante con il relativo terreno sul quale esso sorgeva, rica­ vandone alcune migliaia di franchi, che mise gelosamente in serbo.

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L’acquirente fece venire subito una dozzina di boscaioli che ne misero alla luce le radici, scavando tutt’attorno e lavorandoci per buoni otto giorni. Quando si fu al punto di abbattere l’albero, tutta Seldwyla accorse sulla collina per assistere alla caduta e migliaia di per­ sone si accamparono attorno, ben provviste di cibi e di bevande. Furono assicurate alla corona robuste corde e una quan­ tità di uomini vi si attaccarono, cominciando a tirare al ritmo dei comandi : ma la quercia appena vacillò lieve­ mente, così che si dovette ancora scavare e segare per delle ore fra le possenti radici. La folla intanto mangiava e beveva e se la spassava, non senza un sentimento di ansiosa attesa. Alla fine furono fatti allontanare di nuovo tutti, tor­ narono a tirare le corde e dopo un forte ondeggiamento di alcuni minuti, fra un silenzio veramente sepolcrale, la quercia si abbatté con i rami spezzati che mostravano il candore del legno. Dopo un primo grido generale, fu subito un brulichio di gente attorno al grandioso tronco. A centinaia s’arrampicarono su per il verde intrico della corona abbandonata nella polvere. Altri invece scesero nella scavatura delle radici, frugando entro la terra. Ma non trovarono altro che un pezzetto di vetro fuso dell’e­ poca romana, dalla lucentezza di madreperla, e una punta di freccia consumata dalla ruggine. Su una lontana collina, per la quale in quel momento passava appunto lentamente in carrozza Jukundi coi suoi, alcuni contadini intenti al lavoro gridarono a un tratto accennando all’orizzonte : «Guardate come oscilla la vecchia quercia di Wolfhartsgeeren ; c’è forse un tempo­ rale laggiù?». Essi infatti non potevano vedere gli uo­ mini intenti ad abbatterla. Anche Jukundi guardò e s’ac­ corse che d’un tratto tutto era sparito e non si scorgeva in quel punto che il cielo vuoto. Ebbe una stretta al cuore, come se fosse tutta colpa sua, e come se in lui rimordesse la coscienza dell’intero paese. I Seldwylesi quella sera furono più melanconici che

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allegri, avendo perduto a un tempo il grande albero e il buon Jukundi, All’inizio del suo soggiorno a Schwanau, Jukundi pas­ sò la maggior parte del tempo sulla collina presso i nonni, che in passato gli avevano quasi ispirato paura per la loro indole apparentemente brusca e scortese. Nel corso dei mesi era invece entrato in buoni rapporti con loro, ne era anzi diventato il beniamino, poiché spesso accade che simile gente di campagna, salda nella propria anti­ chissima sicurezza, si veda attorno con piacere qualcuno di ozioso e di ben diverso da loro, tale da suscitare allegria. Il giovanotto era per loro un individuo forestiero e ine­ sperto, ma molto gentile, destinato probabilmente a non aver fortuna, degno quindi di interesse e di compas­ sione. Così pensavano i due «matrimoniali», come veni­ vano ancora chiamati i vecchi dal popolo, in grazia del­ l’antico ufficio matrimoniale tenuto mezzo secolo prima dal nonno, una specie di tribunale per i buoni costumi e per le questioni fra coniugi. Non meno antiquato di quella carica era il taglio della cuffia bianca e del gran colletto candido, di cui si ornava la vecchia. Tutto risa­ liva ancora all’epoca in cui già Goethe, visitando questa regione, scrisse che essa dava un’idea attraente e ideale della più bella e sublime civiltà. Gli edifici rustici sono ben distanziati tra loro, inframmezzati da vigneti, da campi, orti e frutteti, e qui si può vedere coi propri oc­ chi quel che è il sogno degli economisti : il massimo grado di cultura insieme a una moderata agiatezza. Quelle condizioni erano rimaste immutate nel podere dei nonni, sino alla casa padronale, agli arredi di noce delle stanze e al vasellame negli armadi, mentre i nuovi tempi, coi loro mutati aspetti e le loro aumentate esi­ genze, si affermavano giù verso la riva. Jukundi godeva lassù l’aria pura e aiutava con tanto fervore i vecchi e i loro subordinati in tutti i lavori, che fu presto esperto in ogni cosa e divenne un vero funzionario presso i pa­ triarchi, del quale essi non potevano più privarsi. Justine si compiaceva della stima conquistata da suo

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marito presso i nonni; la sera saliva spesso contenta da lui per farsi riaccompagnare a casa, o anche si divertiva se, còlta da un temporale durante la falciatura, era co­ stretta a passarvi la notte. Svestiva allora il suo abito ele­ gante, si gettava sulle spalle uno dei grandi fazzoletti della nonna, annodandone le punte sul dorso, preparava la minestra di farina abbrustolita, friggeva una saporosa frittata o arrostiva una gustosa salsiccia che andava a rubare per cena, senza permesso, nello stanzino delle provviste. Quando poi, col volto lietamente arrossato, e con gentile espressione, versava a tavola il limpido vi­ nello dalla lucida caraffa di peltro, i vecchi le dicevano che sembrava proprio una vera figlia del paese dei tempi an­ tichi, ed essa si divertiva a fare una piccola mascherata, andando a prendere gli antichi vezzi di granato della nonna, le cuffiette della festa e le giacchette di seta, da lei portate sessant’anni prima nella sua fiorente giovinez­ za. La nipote le indossava con gioia di tutti; ma invece di guardarsi nello specchio, Justine guardava in volto col suo sorriso beato il buon Jukundi, intento a contempla­ re quella luminosa immagine risorta da tempi remoti. Anche la domenica egli soleva salire sulla collina, sentendosi là meglio a suo agio che nel chiasso monotono della società chiacchierona che si adunava nelle ville. Nei giorni festivi in casa dei nonni c’era sempre sulla tavola la Bibbia aperta, perché la vecchia potesse, du­ rante le lunghe ore di riposo, leggervi a suo agio quando gliene veniva il gusto, così come in simili giorni di sosta si lascia attorno un boccale di vino, un piatto di ciliegie o di altre golosità per eventuale ristoro. Quand’essa, stanca della lettura, deponeva sul libro il suo ramoscello di rosmarino e gli occhiali, Jukundi soleva sedersi e riprendere la lettura della Bibbia, dato che quel libro non gli era spesso sottomano, come avviene dove si è obbligati a leggere di continuo cose nuove più necessarie, o si ritiene di conoscere sufficientemente quelle antiche sin dal tempo della costrizione degli anni di scuola. Considerava allora gli sfondi tempestosi dell’An­ tico Testamento, con le sue figure appassionate, oppure

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scopriva l’amletica scena del Vangelo di San Giovanni, quando Gesù meditabondo traccia con un dito dei segni sul terreno, prima di dire che solo chi è senza peccato può scagliare la prima pietra contro la peccatrice, ma poi torna a scrivere, e quando alza gli occhi tutti gli accu­ satori sono spariti e gli sta di fronte, nel tempio di nuovo silenzioso, soltanto la donna. La nonna lo osservava con piacere, perché nella sua salda ortodossia era ben persuasa che la lettura della Bibbia giovasse senz’altro a ognuno. Justine, per attenua^ re il fatto the il marito non andava in chiesa, lo aveva descritto ai vecchi come un filosofo; per conto suo essa se­ guiva l’imprecisa religione allora in voga, prodigandovi molto zelo, per quanto vaghe fossero le sue concezioni, Una volta, mentre egli era intento a leggere, la veo chia gli si sedette confidenzialmente accanto; le alette ben pieghettate della cuffia sfiorarono la sua guancia ed essa gli accarezzò una mano dicendogli: «Ebbene, caro filosofo, io credo pur sempre che tu abbia in fondo un poco di timor di Dio ! ». Jukundi fu sorpreso da quell’osservazione e tornò a meditarvi. Sentì che avrebbe ben potuto rispondere, ma come confidare a quella vecchia quel che in fondo, se ben ci pensava, sua moglie stessa non gli aveva mai chie­ sto? E come avrebbe potuto interrogarlo su cose che essa ignorava? Justine possedeva un caldo sentimento reli-! gioso, ma circa le cose di Dio era troppo curiosa e indi-! screta e possedeva anche un eccessivo senso di sicurezza personale per poter avere quello che nel suo senso più puro si chiama timor di Dio. Che le cose col Signore Iddio non fossero ben chiare, l’aveva imparato dai più ricercati predicatori, alle cui conferenze soleva recarsi, ma per Gesù Cristo, per il più bello e perfetto fra gli uomini, come lo definivano quegli oratori, ella nutriva piuttosto un senso di fraterna reverenza o di accesa amicizia; avrebbe potuto ricamargli un bel cuscino da divano o delle splendide pantofole per dare degno riposo al suo capo o ai suoi piedi! Anzi, quando in viaggio aveva veduto il celebre quadro del Correggio che rappresenta

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con magico effetto il sembiante di Cristo sul sudario di Veronica, era stata còlta da profonda commozione. Im­ mersa nella contemplazione di quel volto sognante, irri­ gidito nella suprema sofferenza, aveva esalato un pro­ fondo sospiro, ma subito aveva poi sorriso al marito che le stava al fianco, cercandone la partecipazione. An­ cora adesso quell’istante costituiva uno dei suoi più cari ricordi, ma ciò non aveva nulla a che fare col timor di Dio. Quando però la vecchia nonna insistette per avere risposta, Jukundi disse pensoso : — Ritengo che quanto alla sostanza io abbia qualcosa di simile al timor di Dio, in quanto sono incapace di im­ pudenza di fronte al destino e alla vita. Non credo di poter pretendere che le cose vadano ovunque e senz’altro bene, temo piuttosto che qua e là finiscano male e spero che possano poi volgersi al meglio. Inoltre in tutto quello che io faccio o penso, anche senza che altri mi veda o lo sappia, ho sempre presente l’insieme del mondo, ho il senso che in realtà tutti sanno tutto e che non si può con­ tare sulla vera segretezza dei propri pensieri e delle pro­ prie azioni, né si possono a capriccio tacere le follie e gli errori. Questo è innato a una parte di noi, ad altri invece non lo è, anche prescindendo dalle dottrine religiose. Anzi, i più zelanti assertori di una fede, i fanatici, non posseggono di solito timor di Dio, altrimenti non vivreb­ bero né agirebbero come fanno. Non so di che natura sia questa coscienza di tutti per il tutto, ma credo si tratti di una grandiosa repubblica dell’universo, che vive secondo un’unica ed eterna legge, e nella quale alla fine ogni cosa diviene conoscenza comune. Le nostre scarse cognizioni odierne ci permettono di intuire meglio che mai tale possibilità, giacché mai è stata tanto evidente l’intima verità della parola che sta in questo libro: «Nella casa di mio Padre vi sono molte dimore!». — Amen! — disse la vecchia, che aveva ascoltato attenta — è pur sempre qualcosa e meglio di nulla quel che tu vai predicando. Leggi con cura la mia Bibbia e avrai alla fine un borgomastro per la tua repubblica ! — È ben possibile — replicò Jukundi ridendo — che

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di tanto in tanto ne venga eletto uno e che quindi il buon Dio sia una specie di re elettivo ! La vecchia rise pure di quell’idea, ed esclamò : — Un governatore universale molto stimato ! Come quelli di laggiù che hanno i loro baili ! — E così dicendo accennò per la finestra aperta alla montagna di fron­ te, dove nelle antiche repubbliche paesane i magistrati supremi avevano quel titolo. Ne rise sempre più, giacché, compiacendosi di pen­ sare continuamente nella sua tarda età al buon Dio e all’eternità, le era gradito anche quel giuoco innocente col nome del Signore, pur di averselo vicino. Mentre i due si divertivano e ridevano in quel collo­ quio religioso non precisamente ortodosso, Justine si af­ facciò fra i vasi di garofano che stavano alla finestra e il suo volto, dopo la salita della collina per andare a pren­ dere suo marito, ardeva a gara coi fiori. Il suo bel viso si fece quasi più fiammeggiante dei garofani rossi allorché la nonna gridò lietamente: — Vieni dentro svelta, figliuola ! Una novità ! Tuo ma­ rito ha proprio un pochino di vero timor di Dio; me lo ha confessato in questo momento ! La giovane donna fu còlta immediatamente da una strana gelosia, sentendo che la nonna conosceva meglio di lei, sua moglie, i pensieri di Jukundi, e replicò: — Probabilmente è per questo che non mi concede mai l’onore di accompagnarmi in chiesa ! — Sta’ zitta! — disse Jukundi — Non litigare! Non ci bisticciamo mica per l’acqua pura che ognuno di noi beve quando e quanto vuole! Justine, quando la sera scese al braccio di suo marito dall’altura percorrendo una strada più lunga del solito, riprese quelle parole e gli disse: — Noi non ci litighiamo per l’acqua pura, ma bisogna che badiamo a non bisticciarci neppure per il pane, né tra noi, né con altri ! — E gli raccontò che la sua famiglia e lei medesima desideravano che egli finalmente assu­ messe un posto fisso nella grande azienda industriale e commerciale della casa. Le occupazioni agricole nel po-

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dere dei nonni non si convenivano, alla fine, per lui, e non portavano ad alcun risultato, mentre giù tutti erano pronti a iniziarlo agli affari e a dividere onestamente con lui la fatica e il guadagno. Jukundi comprese perfettamente la recondita inten­ zione: non si voleva tollerare nessuno in famiglia che non fosse abile e disposto a diventar ricco, e poiché egli in fondo non poteva pretendere nulla di meglio, si adattò senz’altro, pur diffidando in segreto di se stesso. Disse dunque a Justine che avrebbe cominciato la mattina seguente, un lunedi, sforzandosi di meritarsi la sua paga settimanale. L’indomani venne infatti introdotto negli uffici e nelle officine della ditta, perché imparasse a conoscere l’uno dopo l’altro i vari rami dell’azienda sino ad averne pa­ dronanza. La ditta Glor esercitava da oltre trent’anni l’industria della seta, un’attività che si era notevolmente sviluppata col tempo. In cento casette campestri lungo i pendìi soleggiati, dietro finestrelle luminose, c’erano i telai delle ragazze e delle giovani donne del posto, che tesseva­ no con mano facile e assidua lucide stoffe, ponendo la base di una piccola agiatezza. Per tutte le strade si incontra­ vano figure robuste con i rotoli sulle spalle, avviate a consegnare il tessuto finito e a prendere la seta per il nuovo lavoro. In grandi ambienti vi erano inoltre le mac­ chine per la tessitura di stoffe più pesanti e fastose, e ad essa erano addetti degli operai. L’acquisto della seta grezza, la sua preparazione at­ traverso i diversi stadi, la sorveglianza e il controllo del lavoro, la vendita della merce accumulatasi, lo studio del traffico generale e il calcolo del momento opportuno per ogni trattativa commerciale, il vantaggioso impiego, in­ fine, delle somme incassate, tutto questo imponeva un’at­ tività rapida e incessante e una serie di complesse espe­ rienze. I rapporti con i mediatori che venivano a offrire i filati dei diversi continenti, quelli per l’esportazione dei tessuti in altre terre con gli agenti sempre preoccupati di arricchirsi a loro volta, esigevano grande abilità e rapida

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decisione. La concorrenza ogni giorno più aspra rendeva necessario un accurato impiego dei mezzi disponibili, e in pari tempo il più rigido controllo del lavoro preso in consegna quanto a bontà e purezza, mentre quelle stesse mani di lavoratori che conveniva così severamente sor­ vegliare, erano di continuo cercate e sottratte quando le iniziative prosperavano; se invece erano in ribasso, bi­ sognava mantenerle attive con sacrifici per giorni mi­ gliori. Occorreva inoltre seguire attentamente il mutarsi del gusto e delle richieste nelle più diverse parti del mondo, Qui si doveva fornire l’abito di seta elegante e di buona durata per le cittadine di paesi socialmente molto solidi; là si trattava invece di vistose stoffe a buon mercato per le donne degli avventurieri di California o d’Australia, che se ne ornavano durante brevi giorni di allegria, get­ tandole poi senza cura. A seconda della destinazione bi­ sognava pure usare l’arte delle grandi tintorie e combat­ tere con esse per ottenere i colori più belli e più resistenti, desiderati dall’occhio conoscitore delle brave massaie, oppure l’apparenza ingannevole per le bellezze di colore del remoto occidente americano. Jukundi si trovò di colpo immerso nella complessa azienda perché imparasse a nuotare, ma non superò troppo bene la prova. Da principio, quando si trattò di lavori piuttosto semplici, tutto procedette bene, data la sua attenzione e accuratezza. Ci si lagnò tuttavia ben presto della sua lentezza, essendo ormai passata per lui la duttilità e l’agilità della prima gioventù, e si disse che rimaneva sempre allo stesso punto. Per insegnargli a nuo­ tare a tutta forza, lo buttarono a capofitto nella corrente, ed egli si tenne a galla con forzato brio, o meglio con una certa dissimulata paura, che gli faceva perder la testa. Gli operai lo ingannavano sul peso della seta rice­ vuta, fornendo un tessuto troppo rado e leggero e raccon­ tandogli bugie per spiegarne la ragione. Altri riuscivano a strappargli chiacchierando alcuni segreti della ditta, per poi iniziare per proprio conto una dannosa concor­ renza. Ai mediatori e ai mercanti, malgrado i suoi seri

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propositi, credeva subito sulla parola, accettando le loro offerte quando gli altri appena avrebbero cominciato a prestare orecchio e a dar risposta. Per di più egli si fissò sempre meglio in questa sua inettitudine, anche oltre le necessità della sua indole; una specie di intontimento non naturale avvolgeva il suo animo e annebbiava i suoi pensieri appena erano in giuoco gli affari: insomma, prima che fosse trascorso un semestre, egli, al pari di un piccolo roditore nascosto, aveva causato alla ditta un notevole danno, sotto forma di una diminuzione dei guadagni, di cui si ricercò la causa. Quando Justine si accorse che gli estranei e gli impie­ gati della ditta già non ritenevano più suo marito una testa fina, ma anzi ne ridevano con compassione, pianse in segreto di dolore e di stizza e fu còlta dall’angoscia di doverlo essa stessa un giorno giudicare un pover’uomo limitato e sfortunato. I giudizi del padre e dei fratelli, quando la cosa fu tra loro segretamente discussa, non erano fatti per rianimare il suo coraggio e il suo orgoglio, e persino le parole confortanti della vecchia Stauffacherin, che una buona barca come la loro era bene in grado di sopportare senza fatica il peso di un passeggero non pagante, purché costumato, non bastarono a risol­ levarla. Se poi andava dalla madre di Jukundi a interrogarla e a lagnarsi, questa si univa alle sue lagrime, scongiu­ randola di aspettare, poiché Jukundi non era certo uno sciocco, e lo avrebbe un giorno dimostrato. Jukundi era completamente ignaro di quel che si sus­ surrava sul suo conto, ma si sentiva tuttavia a disagio. Es­ sendo ognuno convinto che le cose non potevano proce­ dere a lungo così e che sarebbe venuto un chiarimento, nessuno voleva essere il primo a parlargli e a dargli dolori; però si diffuse attorno a lui una specie di nebbiolina che sembrava velare gli occhi di chi lo circondava e abbassare il tono delle loro voci. Quando tuttavia un giorno in cui aveva comprato una partita di seta grezza a un prezzo buono dodici ore prima, ma già disceso nel frattempo, lo si pregò di rinun­

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ciare a quella parte di attività, e quando la stessa pre­ ghiera fu ripetuta pochi giorni dopo per un altro ramo d’affari, egli, sconcertato, interruppe ogni attività. Sol­ tanto vedendo che nessuno gli chiedeva la ragione del suo ozio arbitrario e che tutto procedeva come se nulla fosse, Jukundi finalmente si rese conto della sua vera si­ tuazione e del suo totale isolamento. Quello stesso giorno tale scoperta gli fu anche con­ fermata. Justine era invitata per quella sera alla parrocchia, dove il pastore intendeva fare una conferenza sulla attuale rinascita della Chiesa e sul suo rinnovamento per mezzo delle arti, un argomento che molto la interessava e che già in piccola misura la occupava. Jukundi da parte sua era indifferente e amava tenersi il più possibile lontano da quel sacerdote. Tuttavia, essendo una scura serata au­ tunnale, aveva promesso alla moglie di andarla a pren­ dere. Il pastore era in primissima linea fra i campioni di una riforma ecclesiastica, per la comunità religiosa dell’avveni­ re. Durante la sua giovinezza aveva predicato sempre con spiriti liberali, tanto che i greggi da lui dipendenti erano molto edificati, pur non vedendo chiaro su quale terre­ no si appoggiassero. La giovane generazione, sotto la protezione dei poteri secolari e seguendo l’esempio di guide provate, aveva conseguito sul pulpito una più libe­ ra visione del mondo insieme a una più ampia libertà di movimenti nella vita. L’indirizzo ortodosso s’era ridotto impercettibilmente a difendere soltanto la propria esi­ stenza, senza peraltro che ciò molto apparisse nella forma esteriore del culto. Dominavano ancora gli antichi canti, le antiche preghiere e gli antichi testi biblici, e soltanto in date occasioni le cose superumane venivano trattate umanamente; per il resto Cristo rimaneva Signore e Redentore e non si poteva discutere l’unità e la persona­ lità dell’ordinamento del mondo e neppure l’immorta­ lità dell’anima. La teologia era considerata ancora una scienza chiusa, anche dove i suoi rappresentanti da un

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pezzo tacitamente seguivano le opinioni più incerte, con­ siderando il buon Dio un brav’uomo e pensando con se­ greti sospiri alla fine eventuale della loro importanza. Si guardava intanto con disprezzo agli antichi illu­ ministi e razionalisti, i quali pure con il loro arido corag­ gio avevano preparato il tempo attuale, si sorrideva pre­ suntuosamente delle spiegazioni filistee dei miracoli, mentre per proprio conto si escludeva l’uno o l’altro mi­ racolo, facendolo accadere metà per via naturale e metà per via soprannaturale. Ma anche quest’epoca felice, in cui tutto si svolgeva con comodità e gloria di chiunque avesse doti d’elo­ quenza e non fosse privo d’audacia, si trasformò come ogni cosa a questo mondo. Appunto la crescente diffusione e potenza di un libero indirizzo favorì il piacere di una più salda unione e confi­ gurazione, nonché il desiderio di dominio, dal che derivò una più chiara proclamazione di quanto veramente si professava e si credeva. Ma quella era anche l’epoca in cui i fisici andavano facendo una serie di scoperte e di singolari esperienze e in cui prevaleva la tendenza a confondere il vedere con il comprendere, mentre, come è naturale, dal fram­ mento si traevano conclusioni per l’insieme, non però là dove sarebbe stato più necessario. Inoltre dei nuovi filosofi, i quali appendevano le loro formule da un chiodo all’altro, come fossero cappelli frusti, andavano diffondendo frasi maligne e temerarie, e c’era grande abbondanza di massime e di idee supina­ mente ripetute. I più tranquilli e modesti fra i sacerdoti pensavano che un grado più o meno forte di oscurità non avesse grande importanza, e si mantenevano quindi saggia­ mente pacifici nelle posizioni acquisite, lottando soltanto contro gli antichi avversari e oppressori. Altri invece non volevano a nessun prezzo aver Paria di essere in arre­ trato in alcun argomento, di non sapere tutto e non essere in cima a tutto. Questi si munirono di armi pesanti e andarono a issarsi sugli estremi rami dell’albero, di do­

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ve un giorno sarebbero precipitati con grande strepito. Il parroco di Schwanau s’era unito a questa schiera, non essendo anche per lui possibile vivere in contraddi­ zione con lo spirito e la cultura del tempo suo, quali al­ meno gli apparivano. Egli quindi predicava come si dovesse concedere alla scienza che non è più possibile ammettere un reggitore per­ sonale del mondo e una corrispondente teologia. Però là dove cessa la scienza, cominciano la fede e l’intuizione di quanto è inesplicato e indeterminato, ma che solo può soddisfare l’anima, e in tale soddisfacimento consiste appunto la religione, che deve venire più che mai curata, mentre la teologia, il sacerdozio e la chiesa non sono altro che il governo di tale campo. Il verbo divino è dunque immortale e sacro, e santo e consacrato è il suo governo. Oggi come sempre è eretto il tabernacolo in­ torno al quale debbono schierarsi quanti non vogliono perire per il vuoto disperato del loro cuore. Anzi, il mi­ sterioso contenuto del tabernacolo ha più che mai bi­ sogno di sacerdoti che consacrino e incensino, facendo da guide a un gregge smarrito. Nessuno deve spingersi dietro il tabernacolo, bensì ognuno rivolgersi con fiducia a chi lo custodisce. D’altra parte i sacerdoti non debbono più tenersi lontani da quanto è umano poiché essi meglio di ogni altro sanno comprendere, e debbono offrirsi ad aiutare e assistere ovunque, in modo che la salsiccia venga sempre tagliata dalla parte giusta. Essi però, in compenso, esigono che si ritenga santo il tabernacolo dell’Ignoto e che tutti siano attenti alla sua proclamazio­ ne e descrizione. A questo punto il pastore deplorò con toni commo­ venti la mancanza di veridicità sul pulpito, il non chia­ mare le cose col vero nome e il non dire al popolo pane al pane, come se esso non lo potesse sopportare; poi descrisse l’ipocrisia e la dissimulazione in modo così perfetto, che il suo pubblico esclamò entusiasta: «Come lo ha detto bene, con quanta verità e profondità ! ». Egli invitò poi l’adunanza a liberarsi da tutte le scorie, a consacrarsi al pensiero dell’immortalità, santificando

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ogni azione. Bisognava bensì concedere alla scienza che la sopravvivenza personale dell’anima è probabilmente un sogno del passato; se però uno nel frattempo vuole e deve ancora sperarla, questo non gli è vietatole del resto l’immortalità è già presente in ogni momento. Essa con­ siste negli incessanti effetti che seguono da un respiro all’altro e nei quali sta la garanzia della durata eterna. Dalle sue parole una vecchia rimasta zitella poteva de­ durre che noi continuiamo la nostra esistenza nei figli e nei nipoti, il povero di spirito si consolava con l’immor­ tale efficacia dei suoi pensieri e delle sue opere, il parsi­ monioso si compiaceva che non un atomo del suo corpo mortale andasse veramente perduto, ma rimanesse com­ preso nell’economia della natura in eterna trasmutazione di forme, contribuendo prodigalmente al sorgere di mille nuovi germi. L’uomo stanco e gravato infine poteva sperare in un definitivo riposo da tutte le sue pene. Il pastore tappezzò l’edificio del suo discorso nel modo più raffinato, con mille versetti e immagini tratte dai poeti di ogni tempo e di ogni popolo; pareva di essere nella stanzetta di un esattore delle imposte che maschera la povertà delle sue quattro pareti incollandovi figurine ritagliate, testate di lettere e vignette di ogni paese, e che tiene davanti alla finestra il frate-barometro con il cap­ puccio che s’alza e che si abbassa. Ma non si trattava soltanto di adornare a quel modo il tempio della parola, bensì anche di riedificare in modo conveniente ai tempi nuovi il tempio reale, di muratura. La chiesa di Schwanau era stata eretta circa due secoli prima della Riforma e si trovava nello stato disadorno in cui l’avevano lasciata gli iconoclasti e i loro rigidi suc­ cessori. Da secoli l’antico grigio edificio era rivestito all’esterno di edera e di vite selvatica, ma era imbiancato all’interno, e per le finestre non mai velate entrava indisturbata la luce del cielo. Non vi si vedeva alcuna opera d’arte, fuorché le pietre tombali murate di antiche fami­ glie; in quell’ambiente semplice, chiaro, ma pur vene­ rando dominava Sola, senza alcun aiuto per i sensi, la parola del predicatore. La comunità da tre secoli si era

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sentita forte abbastanza da disprezzare ogni abbellimento esterno rivolto ai sensi, per poter più fervidamente ado­ rare il monumento spirituale della storia della redenzione. Ora che anch’esso crollava all’aspro vento dell’epoca, conveniva cercare di nuovo un ornamento esteriore per abbellire il tabernacolo dell’Indeterminato. A questo scopo fu cattivata specialmente Justine, la quale, per compensare quanto possibile la tiepidezza reli­ giosa del marito, doppiamente si dedicava a quella sin­ golare attività di riforma, sia con propri doni generosi che dandosi energicamente a raccogliere i contributi altrui. Il candore luminoso delle pareti, incorniciato dal verde dell’estate e dai fiori che in esso si cullavano, aveva do­ vuto far posto a un’affrescatura variopinta in stile gotico e per di più eseguita da mano inesperta. Le volte del sof­ fitto vennero dipinte d’azzurro e disseminate di stelle d’oro. Furono poi raccolti fondi per le vetrate a colori e ben presto quelle arcate luminose si popolarono di mal­ certe figure di apostoli e di evangelisti, i quali, con le loro superfici troppo grandi e pallidamente colorate all’uso moderno, non irradiavano un intenso ardore, ma diffon­ devano soltanto una penombra malaticcia. Ci volle poi una tavola d’altare fornita di tutti gli ar­ redi e un relativo quadro, affinché riprendesse inavverti­ tamente la circolazione dell’arte figurativa come «eccitan­ te estetico», per arrivare un giorno immancabilmente alle statue miracolose sudanti sangue o lagrime, anzi addirit­ tura agli idoli, tanto per non lasciare senza oggetto le future riforme. Vennero infine messi al bando i calici per la Santa Cena di acero bianco, i candidi e semplici piatti del pane e le brocche di peltro per il vino, e a ogni solennità fa­ miliare le ricche case offrirono calici, piatti e boccali d’argento, questo soprattutto dietro iniziativa di Justine, il cui spirito d’orgogliosa agiatezza trovava piacere in quel fasto, senza comprendere che esso aiutava la nuova Chiesa a formarsi un vero e proprio tesoro, il quale avrebbe potuto tenacemente accrescersi di giorno in gior­ no, attirando anche campi e vigneti e le decime del

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lavoro di tutti, tanto più che un tabernacolo vuoto offre sempre più posto di uno già occupato. Erano ormai rappresentate tutte le arti, compresa la scultura con alcune figure di gesso dipinto, ma mancava la musica, che fu perciò presto chiamata. Non essendoci ancora i mezzi per acquistare un organo, un tale offrì un organetto strombettante; un coro misto studiò sen­ z’altro antiche messe cattoliche che, per aumentare la solennità e perché tanto nessuno ne capiva il testo, ven­ nero cantate in latino. Questo coro si suddivise in varie sezioni, furono formati e istruiti gruppi di bambini, e, col pretesto di una liturgia che ravvivasse il culto, solo a titolo di esperimento, si mise in scena una vera e propria operetta, dalla quale poteva poi svilupparsi la fastosa rap­ presentazione di un grande Mistero. Ma tutte quelle imprese sarebbero rimaste scipite sen­ za l’aggiunta di una salutare disciplina. Pur di riempire il tempio restaurato, il pastore non tollerò che qualcuno non ci volesse entrare. Si diede quindi all’attacco di tutti coloro i quali se ne tenevano fuori, presumendo di sapere già quel che. egli andava predicando. — Non i gesuiti e i miscredenti — proclamò ad alta voce dal pulpito — sono ora i nemici più pericolósi della Chiesa, bensì quei frigidi e indifferenti, i quali con vani­ tosa superbia, con triste ignoranza credono di poter fare a meno della nostra chiesa e della comunità religiosa e di disprezzare le nostre dottrine, perseguendo con frivola mondanità solo i beni terreni e i godimenti o gli interessi materiali. Perché, quando siamo raccolti nel nostro tem­ pio a elevarci al di sopra delle cose temporali, a cercare quel che è divino e imperituro, non vediamo tra noi l’uno o l’altro concittadino? Forse perché, dopo che noi con lot­ ta secolare liberammo la Chiesa dalla rigida corazza dei dogmi, quegli si illude che a lui non tocchi più di credere nulla, di nulla temere, di nulla sperare che non sia capace di esprimere egli stesso ben meglio di ogni prete? Egli non sa che ogni fede e ogni scienza delle cose divine passata e presente forma un sapere unico, complesso, grande e profondo, destinato a vivere e a essere gover­

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nato da coloro che per lungo studio lo comprendono. Egli non sa infine che nell’ora amara della sua morte invo­ cherà la nostra assistenza e invocherà il misterioso con­ forto del tabernacolo! Ma ora è pur sempre immerso nell’egoismo e nella presunzione. Sentendosi libero e senza inciampi per me­ rito nostro, rifiuta sconoscente di partecipare alla nostra alleanza contro le forze delle tenebre e della menzogna, di condurre insieme con noi la lotta dell’esistenza, di far della nostra gioia la sua, di proclamarsi cristiano ador­ nando con noi l’altare ! Egli se ne va solitario, questo tal dei tali, questo indifferente, questo orgoglioso. Certo egli ignora sino a qual punto ci appare triste e miserando in quella sua sicurezza che noi non possiamo né vogliamo togliergli, quantunque non sia che nostro dono ! Certo egli non sa quanto sia arido il sentiero da lui percorso, dove non echeggiano campane domenicali, non fioriscono Pasque e Risurrezioni, e non già voglio dire la Risurre­ zione della carne, bensì quella dello spirito, le Pasque eterne del cuore! Ma tale sarà la sua sorte! Nessuna benedizione lo accompagna, il suo animo si esaspera e serba rancore a noi, che oggi e sempre ci compiacciamo delle nostre conquiste e dell’opera del nostro Signore Gesù Cristo e possiamo godere l’Agnello Pasquale. Quan­ do un giorno fiumi e torrenti, sciolti dal gelo, si riverse­ ranno a valle e la nostra ultima barca, beata e giubilante, s’allontanerà carica sino a traboccare, egli dovrà starsene a guardarci triste dalla riva, escluso e condannato da se medesimo! Noi infatti non condanniamo e non maledi­ ciamo nessuno. No, noi lasciamo a ognuno la sua libertà, memori del motto in verità tragicamente ambiguo: «Di­ nanzi allo schiavo che infrange la sua catena, dinanzi al­ l’uomo libero non dovete tremare!». Non lasciarlo però sfuggire alle adamantine catene delle eterne leggi morali da te fondate, o amoroso Creatore e Signore, principio e fondamento della terra come dei flutti del mare, tu reggitore dell’eterna volta celeste ! Riconducilo alla protezione del tuo sacrario, che noi ti abbiamo eretto obbedendo alla legge che tu ci annun-

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ciasti per bocca di Mosè: «E tutti gli uomini industriosi che sono tra voi vengano e facciano tutto quello che il Signore ha comandato: Il Tabernacolo, la sua tenda, la sua coperta, i suoi anelli, le sue assi, i suoi chiodi, le sue colonne, i suoi piedistalli; l’Arca, e le sue stanghe; il Co­ perchio e la Cortina da tendere davanti; la Tavola e le sue stanghe, e tutti i suoi strumenti, e i candelabri e le sue lampade e l’olio per ardere e i pani della proposizione e l’Altare dei profumi, e le sue stanghe; l’Olio dell’Unzione, e il profumo degli aromati, e il Tappeto dell’entrata, per l’entrata del Tabernacolo; l’Altare degli olocausti e la sua grata di rame, e le sue sbarre e tutti i suoi stru­ menti; la Conca e il suo piede; le Cortine del Cor­ tile, le sue colonne e i suoi piedistalli, e il tappeto del­ l’entrata del Cortile; i piuoli del Tabernacolo, e i piuoli del Cortile e le lor corde; e i vestimenti del servigio, da fare il servigio nel Luogo santo; i vestimenti sa­ cri del Sacerdote Aaronne, e i vestimenti dei suoi fi­ gliuoli, per esercitare il sacerdozio ! ». Riconducilo nella tua dimora, perché egli preghi con noi: «Spirito d’amore, anima del mondo, paterno orecchio, non sordo ad alcuna voce dei mortali che ti lodano ! Una catena di preghiere di ringraziamento, un filo d’inni di lode sono tesi fra la nebbia dell’alba e il bagliore del tramonto. Una ca­ tena d’inni di lode, un filo di preghiere di ringrazia­ mento sono tesi fra la nebbia della sera e il bagliore dell’alba. Fa’ che anche quest’anima accesa dalle fiam­ me della preghiera per te illumini la sua intima vita». Fa’ che egli cerchi la terra imperitura con la nostal­ gia della vergine sacerdotessa alla quale Goethe fa dire:

« E sulla riva me ne sto lunghi giorni, anelando con l’a­ nima il suolo elleno ! ». cosicché egli un giorno ripeta col moribondo fiore del poeta : «O eterno cuore ardente del mondo, fa’ che in te mi distrugga! O cielo, stendi la tua tenda azzurra, mentre la mia cade qui avvizzita. Salve, o primavera, al tuo

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splendore ! Salve al tuo alito, vento mattutino ! M’addor­ mento senza pena per alzarmi senza speranza»,

e gli sia risposto:

« Modesto cuore, rinfràncati : a quanto fiorisce è desti­ nata una semente. Lascia che la bufera della morte disperda la polvere della tua vita ; da quella polvere an­ cora cento volte tu ti rinnoverai. Amen ! ». Quando egli concludeva con tanta sonorità e spesso con gli occhi umidi, commosso dalla sua filastrocca, accadeva spesso che sulla via del ritorno gli ascoltatori gli si affollassero intorno ringraziandolo e stringendogli la mano e che alle laute tavole domenicali le donne sen­ timentali lo esaltassero e gli uomini saggi ne facessero le lodi, dicendo che finalmente si poteva andare in chiesa ed essere buoni cristiani senza esporsi al sospetto d’esse­ re di mente angusta e in ritardo. Fra gli indifferenti e i tiepidi così aggrediti vi era anche Jukundi. Non che fosse ostile alla nuova Chiesa o desiderasse ostacolarla, ben conscio che tutte le cose di questo mondo devono fare il loro corso, ma, dato il suo ingenuo amore per la verità, gli riusciva impossibile par­ tecipare all’apparenza di una religiosità che, almeno a uomini avvezzi a pensare, suonava falsa, e, senza chiasso né vanteria, egli esercitava il diritto alla libertà per­ sonale. Così faceva tanto più ostinatamente, perché quel­ lo era ormai quasi l’unico campo in cui conservasse pie­ na indipendenza sia dalle preoccupazioni che dall’amore. Il pastore invece, che contava la signora Justine fra i migliori sostegni, visto che essa, tanto stimata, valeva quasi uno degli anziani, non vedeva di buon occhio che il marito, tenendosi in disparte, sembrasse disappro­ vare o mostrarsi superiore. Sentiva quella sua assenza come un tacito rimprovero a lui rivolto, come una critica silenziosa al suo agire e si era quindi incaponito contro , Jukundi, predicando al suo indirizzo. Giacché alcuni dei nuovi sacerdoti avevano ereditato dai vecchi anche que-

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sto difetto, di sfogare dal pulpito, dove avevano soli la parola e nessuno poteva replicare, le loro passioni per­ sonali, accusando e denunciando a capriccio. Quello pe­ rò non ne sapeva nulla, perché non badava molto ai di­ scorsi della gente, e non si interessava di interpretare oscure allusioni. Quando Jukundi a sera tarda giunse alla parrocchia per riaccompagnare, secondo la promessa, sua moglie a casa, il pastore aveva appena terminato il discorso tenuto ad alcuni amici intorno al reciproco ringiovanimento della Chiesa e delle arti belle. Jukundi dovette sedersi per qualche minuto con gli altri. — Se ella avesse voluto onorare il mio modesto lavoro del suo ascolto, — gli disse il parroco — avrebbe forse trovato un punto d’appoggio nel pensiero che è giunto ora il tempo in cui l’arte sa di dovere la sua esistenza alla religione e può ricompensare quella buona e ricca madre ridotta in tanta miseria! Ella troverebbe forse qualche compiacimento nell’idea di potere almeno un giorno sfogare il suo cuore nel canto insieme a noi, in un’opera musicale pregevole, anche pensando quel che meglio vorrà, e permettendoci di fare altrettanto ! Durante queste parole Justine fissava speranzosa suo marito. Fra i suoi più bei ricordi v’era quello di essersi prodotta insieme al marito, nel primo anno del loro matri­ monio, in una festa musicale. Eseguendo un grandioso oratorio biblico, ognuno di loro due si era sentito tanto vicino all’altro con la sua voce, che nelle pause si erano stretti la mano. E la sera Jukundi l’aveva presa tenera­ mente tra le braccia, confessandole che, nonostante tante esperienze, mai si era sentito felice come in quel giorno, in cui s’era confuso nell’onda armoniosa della musica e del canto, distinguendo in pari tempo la sua voce diletta. Quella sera però, già arrivato 11 di umore nero e non certo rasserenato dalla prepotenza del prete, gli rispose secco secco: — Io non sono della sua opinione, che la religione ab­ bia creato l’arte ; credo anzi che l’arte esista per se stessa da sempre e che sia essa ad aver trascinato la religione

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sul suo cammino portandola avanti per un buon tratto ! Il parroco si fece rosso in volto, non sopportando facil­ mente di essere contraddetto nell’àmbito del suo angusto distretto e rispose: — Non vogliamo discutere oltre ; ella sotto molti aspetti è un profano, altrimenti le sarebbe noto che noi teologi oggigiorno abbiamo associato alla nostra scienza teolo­ gica parecchie branche del sapere che prima non aveva­ no rapporti con essa e le cui concezioni evidentemente a lei, nella sua situazione, sono sconosciute ! Jukundi replicò piuttosto vivamente: — Può darsi che voi teologi sentiate questa esigenza; io non credo tuttavia che la vostra teologia riacquisti con ciò il carattere di una scienza viva, così come non potrebbero essere chiamati tali l’antico sapere della caba­ la, l’alchimia e l’astrologia ! Offeso nell’intimo da quelle parole, il pastore esclamò: — Il suo odio contro di noi la rende cieco e stolto ! Ma basta, noi siamo superiori a lei e ai suoi simili e sarete voi, col vostro presuntuoso accecamento, a rompervi la testa contro le nostre salde mura ! — Sempre tanto chiasso ! — disse Jukundi che nel frattempo aveva riconquistato la massima calma — Noi non andiamo a cozzare contro nessuna muraglia ! E non si tratta né di odio né di ira ! Si tratta semplicemente che noi non vogliamo ricominciare sempre da capo a isti­ tuire cattedre per materie che nessuno può insegnare agli altri, se è leale e sincero, e a distribuire questi uffici a quanti vi tendono le mani. Io personalmente per ora sono di questo avviso, pur augurandovi nel frattempo ogni be­ ne; prego però che mi lasciate del tutto in pace, per­ ché in questo argomento non tollero scherzi ! Aveva pronunciato le ultime parole con voce ferma, e quella voce lacerò il cuore di sua moglie che gli aveva in quel momento preso il braccio per avviarsi a casa. Essa nella nuova cultura religiosa, che le appariva tanto libe­ rale, equa e raffinata, aveva finito per trovare l’unico conforto contro le segrete pene che la turbavano, ed ec­ co che suo marito proclamava un’aperta ribellione. Na-

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turalmente lo riteneva, in confronto al pastore, ignorante e insufficiente, un povero disgraziato! Si trovava d’un tratto, in mezzo a una vita ecclesiastica illuminata e fa­ conda, di fronte alla sventura di un disaccordo di creden­ ze unita alle sue incipienti sventure domestiche. Appena giunta sulla strada, Justine si staccò dal brac­ cio del marito e proseguì al suo fianco barcollando e piangendo sommessa. Siccome pioveva e c’era vento, Jukundi pensò che volesse camminare più comoda da sola e non s’accorse del suo stato. Prima di giungere a casa essa si era esteriormente dominata, ma nell’intimo vi­ brava ancora di eccitazione e di sdegno. Jukundi, dimenticando presto l’incidente e preso da altre cure, cominciò a discutere con lei la loro situa­ zione, esponendole la sua idea che in quella casa non v’era posto per lui e che gli conveniva tentare di rendersi indipendente, cosa per cui era ancora in tempo. Ella avrebbe dovuto seguirlo nella capitale, dove non gli mancavano buone relazioni e amicizie. Se le fosse stato possibile per i primi tempi farsi dare un aiuto dai genitori, solo quel che essa soleva spendere per esempio per il culto ecclesiastico e per le altre sue occupazioni predilette, egli da parte sua non temeva l’avvenire. Accennò timidamente a quest’ultimo punto, perché era persuaso di non aver bisogno di nulla per se stesso, mentre si preoccupava della paura di Justine di fronte alla mancanza di mezzi. Ma appena fu giunto a quell’argomento, ella non sep­ pe più a lungo tacere; venne improvvisamente alla luce con tutta la sua asprezza, anche in lei, la rozza schiet­ tezza della famiglia popolana arricchita, da cui erano talvolta presi il padre e i fratelli. Gli gridò senza riguardi e senza riflessione che andasse dove gli garbava, che lei non l’avrebbe seguito, visto che non aveva saputo tro­ varsi bene in casa sua, dove nessuno aveva mancato di benevolenza per lui. Né a lei né ai suoi poteva venire in mente di fare ancora dei sacrifici per un’esistenza ormai perduta e di gettare soldi per un simile . . . Qui adoperò un epiteto che non le era forse mai uscito

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di bocca, e che, pur non essendo un vero insulto, nessun marito può tollerare da parte di sua moglie. Appena la parola le fu sfuggita, Justine impallidì e guardò a occhi sbarrati il marito, che già prima s’era fatto smorto e che in quel momento se ne uscì in si­ lenzio. Justine andò in cerca della propria mamma, ma que­ sta era in una delle case dei fratelli, così che dovette re­ carvisi lei pure per cercare consiglio e rifugio. Jukundi invece svegliò sua madre, che si era già corica­ ta stanca, le ordinò di vestirsi e di fare i bagagli strettamente necessari, andò quella notte stessa a prendere una carrozza da nolo e partì inavvertito con sua madre nella notte piovosa, fornito del poco denaro rimastogli dopo la vendita della sua vecchia quercia. Da quel momento dal volto dei due coniugi era spa­ rito quel sorriso grazioso e felice così totalmente come se non vi fosse mai stato. Nella carrozza buia, accanto alla madre già anziana, che, rassegnata e assonnata, era tornata ad addormen­ tarsi, Jukundi si vedeva dinanzi il volto di Justine come gli era apparso ridente il primo giorno. Ma il sorriso, si diceva amaramente, non è che l’arte di un muscolo con­ formato in un dato modo ; basta reciderlo con un piccolo taglio e tutto è finito per sempre ! All’alba, Justine, che neppure si era coricata, stava davanti allo specchio osservando le sue labbra pallide e dure; cercò di sorridere dolorosamente del dolce e triste sogno di una felicità perduta. Ma la sua bocca e le sue guance erano rigide come il marmo e le labbra da quel momento rimasero chiuse da mattina a sera, un giorno dopo l’altro. CAPITOLO III

Jukundi si era recato nella capitale, dove suo primo ufficio fu curare la madre ammalatasi di spavento e di dolore e infine seppellirla. Infatti essa non si ristabilì, perché non nutriva più in cuore alcuna speranza che il

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figlio facesse fortuna e che potesse perdurare ciò che lei non aveva ordito e tessuto. Ritornando dal cimitero, Jukundi incontrò un uffi­ ciale suo superiore, che ben lo conosceva, ma da lungo tempo non l’aveva incontrato. Questi gli domandò dei casi suoi, e quando li ebbe appresi, per quel tanto che erano comunicabili, disse a Jukundi che egli era proprio l’uomo che stava cercando per riempire una lacuna nella sua vasta azienda commerciale. Voleva appunto un uo­ mo tranquillo e di fiducia, che adempisse alle sue man­ sioni con precisa puntualità, senza guardare a destra o a sinistra, senza interrompere la vigilanza, e che soprat­ tutto non si desse a speculazioni personali. Jukundi si legò con lui, assumendo subito il posto asse­ gnatogli, e le cose procedettero bene fin dal primo mo­ mento. L’attività affidatagli era di natura tale da non costringerlo a ingannare o a mentire, e neppure a cre­ dere alle menzogne altrui. Non aveva bisogno di esage­ rare nelle pretese, di abbassare le offerte, di discutere i prezzi, di usare astuzie e di schermirsene. Quel tanto di conoscenza degli uomini che era necessario non gli man­ cava, anche perché, sparita la sua timidezza, gli si erano aperti gli occhi. Le sue giornate correvano serie e tranquille, ma non la minima gioia gli illuminava mai lo sguardo. Aveva perduto ogni contatto con Justine, aspettava invano da lei un cenno che indicasse il pentimento per l’offesa profe­ rita e il desiderio di ritrattarla, mentr’essa ne era impedita dai suoi, che trovavano meglio lasciare le cose momen­ taneamente al punto in cui erano, aspettando di vedere se la fortuna di Jukundi sarebbe stata durevole. Non avevano torto di chiamarla fortuna, giacché il trovar se stessi in giorni oscuri è per lo più questione di fortuna, più di quanto gli uomini di solito vogliano ammettere, e in questo caso tutto era dipeso in realtà dall’incontro ca­ suale con quell’estraneo esperto e accorto. La fredda e amara calma di Jukundi non durò a lun­ go. Egli, dimostrandosi sempre più adatto al suo ufficio, pervenne ben presto a un grado superiore, quasi senza

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che nessuno vi contribuisse, e ottenne così il ricco gua­ dagno e le fondate speranze di possesso che erano sem­ brate irraggiungibili; ma intanto si determinò nella vita pubblica un movimento nel quale egli venne appassiona­ tamente trascinato piuttosto dal suo stato d’animo esa­ cerbato che da vera simpatia. Nella repubblica elvetica erano passati quarant’anni dalle ultime trasformazioni politiche con cui il popolo aveva riconquistato diritti ormai perduti o ampliato di­ ritti esistenti ; nella moderna generazione si era maturata una volontà di tempi nuovi che gli esponenti delle condi­ zioni precedenti non conoscevano o non volevano ricono­ scere. Questi ritenevano ottimo e completo il mondo e lo stato così come essi erano, e rifiutavano con un no pervi­ cace ogni collaborazione a mutamenti decisivi, limitandosi a una ininterrotta attività nel graduale sviluppo di quan­ to già preesisteva ed era un tempo tanto pregiato. Con ta­ le opposizione essi s’acquistarono la fama di retrogradi, ad­ dirittura di nemici del progresso, e suscitarono antipatie sempre più vive. Siccome d’altra parte conducevano le co­ se pubbliche con oggettiva probità, dedicando ogni cura a cose tutt’altro che retrogade, era molto difficile trovare un punto di partenza per una grande azione. Se infatti il popolo non trova una spinta a fatti violenti, giungendo così anche in un solo giorno alla meta desiderata, occorre un inaudito eccitamento morale per conseguire tale fine per via legale, annullando una Costituzione liberamente impostasi e dei rappresentanti liberamente eletti e sosti­ tuendovi qualche cosa di nuovo. Tale spinta, che nelle rivolte violente sorge da alcune gocce di sangue fumante, si produce per una via diversa soltanto quando il popolo commette una prima ingiusti­ zia, lanciando una falsa accusa, per non fermarsi poi più, in grazia della verità per cui chi fa il male perseguita con odio crescente la sua vittima, sino al giorno in cui è tolta di mezzo la pietra dello scandalo ed è conquistata la nuova base legittima da esso desiderata. Non era però facile trovare un appiglio per una chiara accusa sufficiente a provocare il diffondersi di un moto

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violento. Ogni singola aspirazione insoddisfatta non co­ stituiva un problema di disonestà o di corruzione, bensì soltanto di discutibile opportunità. Siccome però un popolo o una repubblica, quando cercano a tutti i costi di attaccar briga coi loro capi e amministratori, non sono alla lunga imbarazzati circa un movente e sanno sempre escogitare nuovi mezzi, così alla fine si affrontò senz’altro quella gente, dicendo loro : «Le vostre facce non ci piacciono più!». Questo accadde con un moto diabolico e singolare, che celava in sé più orrori e persecuzioni di molte san­ guinose rivolte, benché a nessuno fosse torto un capello né dato uno schiaffo. Si cominciò dapprima rivolgendo lo scherno contro al­ cune personalità non cospicue per un motivo particola­ re, poi beffandone altre più importanti per loro qualità in parte ridicole e in parte sconvenienti, e comunque de­ formate. Si diffuse sempre più la smania della persecu­ zione satirica ; sorsero i virtuosi della beffa e della carica­ tura, e presto l’umorismo si trasformò in feroce calunnia, e questa invase le dimore designando le sue vittime e tra­ scinando in piazza l’intimità privata. Dopo che queste vittime furono ben manipolate entro una pasta di ridicolaggine, fatta di consuetudini e di di­ fetti fisici inventati o anche spesso soltanto di piccole goffaggini, si lanciarono all’improvviso contro quei di­ sgraziati accuse di colpe remote, di condotta vergogno­ sa, di bassezza nel pensiero e nell’azione, accuse tanto più impressionanti e insopportabili data la stima da essi sino a quel tempo goduta. Le denunce di precisi reati, tali da provocare un procedimento giuridico, fu­ rono bensì lasciate cadere con un sorriso alla prima vi­ vace reazione dei colpiti, ma rimase l’orrore verso quelle persone. Il caotico arbitrio durò anche per lo smarrimento dei perseguitati, mentre la paura e il disgusto generale creavano una vera impunità, tanto più che ogni processo si trasformava in una festa per i persecutori ed era salu­ tato con le più gravi minacce. Sbucarono frettolosi da tutte le fessure e i nascondigli i

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delegati a quella grande dieta della calunnia e della dif­ famazione. Persone che per l’aspetto fisionomico, per i costumi o l’agire sarebbero stati ottimi oggetti di scherno, venivano a mettersi in primissima fila e alzavano la voce, quali grandi signori della calunnia diffamatrice, mentre man mano che cresceva il chiasso feroce le vittime si fa­ cevano più silenziose e intimidite. Gli spettatori comin­ ciarono a diffondere un luogo comune fatale ai colpiti, dicendo che se anche soltanto la centesima parte delle accuse era vera, poteva bastare. Essi non pensavano che ciascuno di loro, se si fosse giudicato con giustìzia, por­ tava sulle sue spalle almeno quella centesima parte. Oltre ai personaggi noti e rispettati, di tanto in tanto in un cantuccio si annientava un ignoto, e pareva di sen­ tire il grido di una pollastrella strangolata sola di notte da una martora. Talvolta anche alcuni di quei gran si­ gnori fra le belve feroci s’aggredivano reciprocamente, ma si ripresentavano poi coi musi morsicati e sanguinanti alla Dieta generale, senza risentirne alcun danno. Si lec­ cavano il pelo arruffato e tornavano a chiedere sfaccia­ tamente la parola. Tutto il fenomeno era così nuovo e singolare, che lo storico non sapeva confrontarlo ad alcun altro nel pas­ sato, dove pure più di una volta s’era verificato un muta­ mento di governo o un ampliamento della libertà in seguito a una spinta non giusta o non vera. Uomini ridotti deformi e miserabili da quella perse­ cuzione in cui non s’era tuttavia versata una goccia di sangue né si era torto un capello, si videro abbandonati da vecchi amici, i quali ascoltavano incerti le loro di­ chiarazioni di innocenza, ma poi non ebbero miglior sorte per conto proprio. Altri, che avrebbero potuto pronunciare una parola coraggiosa e decisiva, tacevano per non essere insudi­ ciati da un’infame calunnia di fronte alla fidanzata o alla moglie; altri ancora tacevano per amore della pace e del candore dei loro figlioletti. V’era poi chi, conside­ rando che l’una o l’altra debolezza umana, cui aveva forse ceduto talvolta, avrebbe potuto essere punto di

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partenza per uno sciagurato attacco, si teneva ben tran­ quillo. E si teneva tranquillissimo anche qualche ine­ quivocabile delinquente, troppo notorio per potersi ac­ codare ai persecutori, intento a spiare chi volesse even­ tualmente attaccarlo. Quello veniva lasciato in pace, non soltanto perché temuto dai calunniatori come pericolosa canaglia, ma anche perché la singolare campagna, mal­ grado gli eccessi apparenti, manteneva una certa legge di economia, non cercando vittime che non si trovassero sul suo cammino. Né si può negare che permaneva pur sempre la sensa­ zione che si trattasse, in fondo, soltanto di una grande beffa un po’ grossolana. Mentre infatti la massa non esi­ tava a rappresentare il paese come corrotto, pervaso e do­ minato dall’immoralità, il vero strato sotterraneo dell’a­ biezione, che non manca in alcun paese, rimaneva indisturbato, quando non si metteva spontaneamente in luce per partecipare a quel gran parlamento e collaborare al saccheggio dell’odiata rispettabilità. L’attiva schiera dei bugiardi assomigliava alla pettegola del villaggio, la qua­ le trova in fondo naturalissimo che ognuno creda quel che gli accomoda, persuasa che ogni calunniato non le ser­ berà troppo rancore dei suoi scherzi. Ma Jukundi non possedeva tale senso umoristico. Nel­ lo stato d’animo in cui si trovava, era ancor più incline a credere ogni cosa, di quanto già ve lo spingesse la sua indole ingenua. Se nella vita degli affari s’era fatto più prudente, da questo movimento pubblico fu invece sor­ preso come un.' bambino : credette ogni vergogna riferi­ tagli come fosse Vangelo, stupito oltre misura che cose simili avvenissero in una repubblica. I suoi più stretti concittadini, i Seldwylesi, sin dall’i­ nizio avevano salutato quegli eventi come un’età dell’oro. Non ci poteva essere per loro spasso migliore che il de­ ridere e il denigrare tante facce lunghe, le quali si erano per tanto tempo data l’aria di essere superiori agli altri. Se anche non si distinsero nell’inventare orrori, furono però molto attivi nello scoprire aspetti ridicoli. Arriva­ vano di continuo nella capitale, a gruppi o a brigate, in

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cerca di novità, per prender parte al crescente movi­ mento. Jukundi era il più rappresentativo e ne divenne quindi il capo; se ne andava così in testa alla compagnia ridanciana dei Seldwylesi, tutto serio, triste e preoccu­ pato, ma anche pieno di sdegno e di spirito punitivo. Egli infatti non aveva ancora mai veduto il mondo sotto questa luce; gli pareva che ne fosse fuggita la pri­ mavera, lasciando un grigio e arido deserto di sabbia, al cui margine lontano e velato svaniva solitaria l’ombra di sua moglie. Quando nei circoli e nelle adunanze, ac­ canto a energici e ben noti agitatori, vedeva dei figuri sbucati da fosche spelonche, che con le loro mani sporche cercavano di annegare entro quel diluvio universale le loro disgrazie di anni e si sforzavano di trascinare in basso a tutti i costi come con degli attizzatoi le classi supe­ riori, ben s’accorgeva che non erano certo tutti stinchi di santo quelli che venivano a stringergli la mano. Tuttavia sentiva una profonda pietà per quei tipi, considerandoli vittime di un mondo nel quale egli pure aveva fatto le sue esperienze. Come Santa Eli­ sabetta dimostrava predilezione per i poveri e i ma­ lati più luridi, sino a coricarsi nel letto di un lebbroso, così anche Jukundi dimostrava una vera tenerezza per quei rognosi e frequentava giornalmente gente che in passato non avrebbe, come si suol dire, neppure preso con le molle. Continuava a farlo, mentre il moto popolare aveva già superato un primo impeto e la massa, diretta alle sue mete, lasciava fuggire quei miserabili fentasmi, preoc­ cupata solo dei propri nuovi diritti, così come dopo avere estratto colori smaglianti o fini profumi da luride mate­ rie o detriti, di questi ci si libera poi subito. Non s’accor­ geva quasi d’essere rimasto ormai con la sua schiera per­ duta fuor dalla gran via, e quando cominciò a rendersene conto, fu còlto da nuova pietà per i poveri profeti desti­ nati a essere nuovamente delusi. Non valse che alcuni Seldwylesi più furbi gli sussurrassero che ormai i diffa­ matori e i detrattori non erano più di moda, che si badava ormai agli interessi politici e statali, che non valeva la

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pena di esporsi, che c’era ora bisogno di nuovo di un governo solido con istituzioni e moralità, senza alleanze con canaglie bugiarde. Egli credette ai poveri e ai dere­ litti invece che a quei saggi consiglieri. Per dare pubblica testimonianza del suo coraggio e della sua protezione, invitò un giorno una buona schiera di quegli amici a un banchetto in una trattoria, trat­ tandoli con tanta abbondanza che furono tutti ben presto di ottimo umore. Gli facevano corona avvocatucci senza cause, piccoli impiegati licenziati per irregolarità, agenti malfidi, com­ mercianti disoccupati e bancarottieri, imbroglioni d’ogni genere, cantando e brindando come se fosse disceso il paradiso in terra. Quanto più quelli erano allegri, tanto più serio si faceva Jukundi; non il più pallido sorriso gli illuminava il volto; egli pensava ai tempi in cui era stato sereno e s’era ingenuamente goduto la vita, ma tutto era finito ! Quando il vino cominciò a sciogliere la lingua a quegli allegri compari, spegnendone ogni saggia prudenza, essi si diedero a discutere le loro vicen­ de e i torti subiti. Ma sorse qua e là la contraddizione dell’uno all’altro, la protesta di un terzo, l’intervento di un quarto, le precisazioni di un quinto, e ne derivò un gran chiasso di reciproche contumelie e accuse, che rivelò all’ascoltatore spregiudicato un tessuto piuttosto ampio e complesso di azioni meschine e poco gloriose, che quegli eccellenti bricconi reciprocamente si rinfacciavano. Lo facevano con tale raffinato incrociarsi e sovrapporsi di assalti, che, se si fosse voluto darne un’immagine visiva, come si fa per esempio con le figure sonore di Chladni, si sarebbe ottenuto un finissimo merletto di Bruxelles oppure una deliziosa filigrana genovese: tanto meravi­ gliose e varie sono le opere del Signore. Jukundi, spinto prima dall’affetto, poi dallo stupore, si sforzava di districare quella trama, ma il suo volto si fece sempre più serio, quanto più chiara e certa gli ap­ parve la sua inguaribile credulità. Siccome però il peri­ coloso dibattito diventava sempre più vivace e minac­ cioso, passando in più punti ai fatti, tanto che parecchie

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coppie già s’afferravano per il collo o per le barbe, pur rimanendo sedute a tavola, l’esperto trattore intervenne con un mezzo sicuro per placare la tempesta incipiente. Servì in gran fretta un’altra portata tenuta in serbo, un’insalata piuttosto rozza ma abbondante, composta di nervetti di bue, fagioli, patate, cipolle, aringhe e formag­ gio. Appena i contendenti scorsero quelle delizie, si paci­ ficarono e tornarono al più profondo silenzio, che non fu più interrotto fino all’esaurimento totale della vivanda. Seguì poi una solenne riconciliazione generale, come dopo una santa cena, e tutti deplorarono la follia di es­ sersi accaniti l’uno contro l’altro, mentre era tanto ne­ cessaria la concordia. Sarebbe stato ben meglio e ben più utile, dissero, pro­ cessare qualche altro nemico e oppressore del popolo, avviare un’allegra partita di caccia contro un tipo del genere. Ce n’erano ancora parecchi che andavano at­ torno ritti e sdegnosi, oppure che si tenevano al riparo, certi di essere risparmiati dalla bufera. Ma era giunta l’ora di trarli fuori, di rinnovare il terrore ! Fu stabilita in massima tale linea di condotta, e si passò poi subito alla designazione delle singole vittime, che dovevano essere private della felicità e dell’onore. Si scelsero alla svelta due o tre nomi di persone che ave­ vano avuto occasione di ostacolare l’uno o l’altro di quel­ la trista società e che ne erano per questo odiati. Quando però si volle stabilire il modo dell’attacco e definire le debolezze o le colpe da denunciare, l’assemblea non sep­ pe che pesci pigliare, sia perché non aveva più la fantasia abbastanza vivace, sia perché l’innato ingegno dei con­ sulenti aveva sofferto per la tarda ora notturna. Dopo che furono respinte alcune vane e imprecise proposte, uno finalmente esclamò: «Bisogna ricorrere alla donna dell’olio, non c’è altro modo!». Jukundi, fattosi più attento, domandò chi fosse la don­ na dell’olio e gli spiegarono che era una vecchia così chiamata in memoria della biblica vedova con l’inesau­ ribile orciolo dell’olio, perché era a sua volta inesauribile nel dar consigli e nel calunniare il prossimo. Quando si

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credeva che intorno a un individuo non ci fosse proprio più nulla da criticare e da rivelare, quella, che abitava in un lontano tugurio, sapeva invece spremere ancora una gocciolina di olio ben denso per lordare il disgraziato, ed era poi anche abilissima a diffondere una diceria in pochi giorni per tutto il paese. Jukundi volle assumere la missione di recarsi dalla vecchia, il che gli fu con piacere concesso. Cominciò col farsi ripetere chiaramente i nomi delle vittime destinate a cadere. Si trattava, a quanto sapeva, di brave persone che non avevano mai molto fatto parlare di sé, ed egli le annotò accuratamente nel suo taccuino. Ordinò poi altre bottiglie di vino buono per incitare la brigata a nuova eloquenza, e si lasciò andare con un sospiro sulla seggiola preparandosi a prestar loro ascolto. Ormai però quei signori erano stanchi di serio lavoro e inclini piuttosto a cantare, così che intonarono ad alta voce i primi versi di tutte le canzoni che conoscevano. La sala in cui si trovavano era ampia, ma molto bassa, piuttosto scura e stranamente adornata. Infatti l’oste per abbellirla aveva acquistato di seconda mano una vecchia tappezzeria da una casa di lusso. Essa rappresentava un grandioso paesaggio svizzero che correva ininterrotto lungo le quattro pareti, rappre­ sentando vedute di montagna, con vette nevose, grandi massicci, cascate e laghi. Siccome però il salone al quale era stata in origine destinata quell’opera era di una metà più alto del locale in cui l’avevano trasferita, s’era dovu­ to ricoprirne anche il soffitto, così che i grandi giganti alpini, la Jungfrau, il Mönch, l’Eiger e il Wetterhorn, lo Schreckarhorn e il Finsterarhorn, si piegavano a mez­ z’altezza e andavano a incontrarsi con le loro candi­ de vette nel mezzo del soffitto, dove però rimanevano un poco offuscati dal fumo e dalla fuliggine delle lam­ pade. Lungo la parete invece troneggiavano i verdi pen­ dìi, disseminati di mucche bianche e rosse, e più giù luc­ cicavano i laghi azzurri solcati da barche imbandierate, mentre sulle terrazze degli alberghi figuravano dame e si­ gnori a passeggio con marsine azzurre o giacche gialle e al­

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ti cilindri fuori moda. Vi erano pure schiere di soldati dai calzoni bianchi e dai bei berrettoni di pelo; in un’intera fila diritta di soldati, la piccola guancia rossa di sinistra era un tantino spostata o premuta dal listello, il che sem­ brava suscitare la disapprovazione del colonnello co­ mandante, dal gran cappello a lucerna e dal braccio teso ; infatti i dischetti rossi sbucanti in parte accanto alle guance vuote sembravano l’ombra della terra uscente dal disco della luna in un’eclissi. Lungo tutto il paesaggio girava tuttavia, all’altezza di un uomo seduto, la traccia scura e sudicia lasciatavi dai capelli unti di tutti i clienti che nel corso del tempo vi si erano appoggiati. D’un tratto un pallido individuo, designato nella com­ pagnia quale «l’idealista», scoprì la patria ridotta a tap­ pezzeria e ne approfittò subito per elevare un fervido brindisi alla dolce, cara, meravigliosa terra, che radu­ nava lì, proprio come una piccola patria, la brigata dei bravi confederati. E siccome anche quei poveri di spirito e di fortuna amavano la patria, egli ebbe grande eco e subito furono intonati tutti i noti inni nazionali. Soltanto pochi di pelle dura rimasero indifferenti, anzi, poiché proprio in quel momento stavano mangiando aringhe, ne scagliarono abilmente le spine verso i ghiacci eterni in­ combenti sui loro capi, facendovele restare appiccicate. Di questo gli altri li rimbrottarono, e l’oratore idealista rinfacciò ai colpevoli il loro basso animo, dichiarando che avevano scagliato in volto alla patria le loro proprie anime d’aringa, contaminando la purezza dei nevai. Ma quelli risposero con risate, così che riprese la chiassosa di­ sputa. Jukundi appoggiò le braccia alla tavola e vi posò poi la testa con un profondo sospiro. Ora in mezzo al tumulto si distingueva la vocetta in falsetto di un antico esattore comunale, il quale tentava invano di intonare la canzone che un giorno Jukundi aveva cantato traversando il bosco per recarsi alla festa corale. Finalmente gli vennero in mente le ultime parole e stridette con voce lacerante:

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Nella patria il buon umore non conosce mai peccato ! Non sarò pur io peggiore se anche torno non mutato. Allora si riaffacciò alla memoria di Jukundi la bella giornata felice in cui aveva per la prima volta veduto Justine, e dovette nascondere ancor meglio il suo volto, mentre a stento tratteneva lagrime amare.

Nel frattempo anche Justine ripensava con crescente nostalgia ai tempi in cui aveva incontrato Jukundi, e sarebbe volentieri andata a cercarlo scusandosi del suo torto, se non fosse stata di continuo trattenuta dalle cir­ costanze. Il primo ostacolo fu la sua partecipazione a quel moto popolare e i suoi rapporti con la mala compagnia, dato che tutta la sua famiglia e il cerchio delle sue ami­ cizie erano nell’altro campo, dove imperavano le più fosche idee sulla faccenda. Essa quindi, per svagare i pensieri e placare i suoi sentimenti, s’era data con crescente zelo alle attività per la chiesa e per il pastore, estendendo la sua azione anche a cose mondane. Divenne presidentessa di tutte le inizia­ tive possibili e consumò molte buone scarpe, che si fece fa­ re più solide che in passato, essendo sempre per strada, da una scuola all’altra, da una casa all’altra, da una se­ duta all’altra. In ogni cerimonia o trattativa, nelle confe­ renze o nelle solennità pubbliche, la si vedeva seduta nelle prime file, ma senza che avesse ritrovato la calma o che sul suo volto pallido fosse rispuntato il più lieve sorriso. L’inquietudine la ricondusse persino in un’associazione musicale che aveva da tempo abbandonato, dove can­ tava col volto serio e la voce bene intonata, senza però raggiungere la minima serenità. Il medico cominciò a preoccuparsi e disse che il tono melodico e tremulo della sua voce faceva temere l’inizio di una malattia di petto, così che erano consigliabili i maggiori riguardi. Tutti intuivano quel che le mancava, ma non potevano aiutarla, anche perché divennero d’un tratto essi stessi

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öl?

bisognosi d’aiuto. Scoppiò infatti allora, venendo da ol­ tre oceano, una delle più terribili crisi dell’intero mondo commerciale e scosse anche la casa Glor, che pur sem­ brava tanto salda, riuscendo quasi ad annientarla, e lasciandola in piedi per miracolo. Nel corso di poche settimane giunsero l’uno sull’altro i messaggi di sventura, togliendo il sonno a quegli orgogliosi mercanti, facendo del mattino un terrore e delle lunghe giornate una con­ tinua tortura. Grandi masse di merce erano ormai oltre oceano deprezzate, tutti i crediti risultavano inesigibili e il patrimonio accumulato svaniva di ora in ora, insie­ me ai titoli ad alto interesse in cui era collocato, tanto che alla fine non rimasero che i beni immobili e il capi­ tale iniziale costituito da antiche obbligazioni governa­ tive. Ma anche tutto questo bisognava sacrificarlo per far fronte agli impegni già contratti, dato il vasto giro d’affari, allo scoppiare della bufera. Gli uomini non facevano che far conti, discutere fra lo­ ro, pallidi e sommessi, notti e giorni interi, mentre l’ordi­ nata vita casalinga pareva essere paralizzata. I domestici lavoravano senza attendere ordini e preparavano i cibi, ma nessuno andava a tavola o sapeva che cosa mangiasse. Gli orologi si fermavano e venivano ricaricati solo dopo soste di molti giorni, e bisognava allora stabilire l’ora esat­ ta come al buio si accende un lucignolo da un altro per po­ terci vedere. Alcuni gattini che sino al giorno della sven­ tura erano stati passatempo e giuoco di giovani e di vec­ chi, sparirono di colpo, ritraendosi a piccoli salti in un cantuccio, e quando dopo parecchio tempo si ristabilì nella casa una certa calma, tutti furono stupiti che i gatti fos­ sero di colpo diventati tanto grossi. Quando si disse che, se si voleva salvare l’onore della ditta e pagare tutti i debiti, non sarebbe rimasto in pos­ sesso della famiglia neppure il valore di un tallero, e che tutti, ridotti in povertà, avrebbero dovuto ricominciar da capo, mamma Gertrud, la Stauffacherin, tremò in tutta la persona e fu costretta a sedersi. Justine invece, col cuore angosciato nel timore della miseria, pensò subito al come aiutarsi. Voleva andare nel

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mondo e in grazia delle sue cognizioni mantenere non soltanto se stessa, ma anche i genitori, e già abbozzava febbrilmente piani avventurosi. La madre però si riprese e dichiarò che essa avrebbe preteso una buona parte del patrimonio come bene do­ tale, per salvare la casa e renderne possibile la continua­ zione. Gli uomini trovassero una via di accomodamento coi creditori, secondo quanto era ormai diffusa consue­ tudine. Gli uomini scossero la testa rannuvolati e dissero che non potevano né volevano farlo: piuttosto preferivano emigrare, poveri, e lavorare in un altro paese notte e giorno per rifarsi una strada. Ma Gertrud aveva nel frattempo riacquistato energia ed eloquenza: insistette nel suo consiglio, dimostrando con molti esempi che tale prudente condotta avrebbe permesso di superare la bufera, salvare l’avvenire e più tardi anche di soddisfare ogni equo impegno. Tutto ciò costituiva ancora in certo modo un segreto della famiglia. I numerosi operai venivano come in pas­ sato a consegnare le loro stoffe, ricevevano le paghe e le nuove ordinazioni, giacché ogni misura decisiva era pro­ crastinata per la paura. Quanto più si prolungava quell’incertezza, tanto più gli uomini si staccavano dai loro propositi di rigida osservanza del dovere, che avreb­ be loro permesso, da veri uomini liberi, di non abbassare gli occhi di fronte a nessuno. La madre era già in pro­ cinto di riportar vittoria, nel saldo convincimento di agire a buon diritto, perché essa in realtà aveva beni do­ tali; ma a quel punto scesero dalla collina i due vec­ chi per opporsi a quell’intrigo e per sventarlo. Il vecchio, egli pure molto ligio alla ricchezza, colpito dalla sventura toccata ai figli, non era in grado di parlare e si sedet­ te tossicchiando su una sedia, lasciando la parola alla moglie. Questa depose sulla tavola un plico di titoli ingialliti, dicendo che loro, i nonni, portavano i loro risparmi pur di aiutare a salvare il buon nome; bisognava però pagare tutti i debiti e rinunciare a ogni pasticcio con i beni do­

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tali. Essa pronunciò parole così energiche ed eloquenti, che parve, con la sua candida cuffia, essere la vera antica donna di Stauffacher, mentre quella più giovane si rifu­ giava piangente presso la finestra. La vecchia le rimproverò simile debolezza, poi, ac­ corgendosi in quel momento che, nell’elegante salotto ove era accolta l’intera famiglia, il pianoforte e i tavolini erano velati di polvere, cominciò senz’altro a spolverarli col suo fazzoletto. La famiglia si decise a quella linea di condotta austera e dura contro se stessa, salvando così la pace e la rispet­ tabilità. I beni immobili vennero dati in pegno e il giro d’affari non fu interrotto; però intanto tutti i membri della famiglia erano poveri in canna e non uno aveva un franco da sciupare per una cosa superflua o per un ca­ priccio. Si chiusero così anche le presidenze e gli splendori nella chiesa o in società per Justine, che dovette tenersi in disparte, mortificata e silenziosa. Essa però, non sop­ portando una così assoluta mancanza di mezzi, si pro­ curò, secondo l’uso delle dame impoverite, lavori femmi­ nili di lusso per guadagnare almeno qualcosa per i suoi minuti piaceri. Non sapeva di togliere così il pane di bocca, per accontentare un capriccio, alla vedova di­ sperata, all’orfana abbandonata che cerca in egual modo di mantenersi. Man mano che crescevano le modeste somme guadagnate, aumentava anche il suo zelo al la­ voro, che essa assumeva con abile energia e in gran quan­ tità, obbligando chi le affidava la merce a dargliene sempre più sottraendola ad altri. L’occupazione continua le piaceva anche perché du­ rante il lavoro poteva o abbandonarsi ai suoi dolorosi pensieri, oppure distrarsi considerando le deboli speranze di una nuova fortuna. La madre era a parte del suo se­ greto; dapprima il suo orgoglio si era ribellato, ma quando trovò nel guadagno di Justine aiuto anche per se stessa, bastante a coprire talune spese che non osava proporre agli uomini preoccupati e indaffarati, si adattò facilmente alle idee della figlia.

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Però alla fine padre e fratelli se ne accorsero; si chie­ sero cioè dove andassero a finire i moltissimi lavori d’ago e di maglia che vedevano preparare senza sosta, e alla fine scoprirono il segreto. Essi però, pur imponendosi ogni rinuncia e avendo venduto carrozze, cavalli di lusso e ogni cosa, non intendevano passare per gente incapace di mantenere due donne, e trovarono sconveniente che que­ ste andassero in cerca di lavoro, mentre le operaie povere ne cercavano e ne trovavano nella loro stessa casa. La cosa fu quindi severamente proibita e a Justine si disse di chiedere il necessario per i suoi bisogni, come in passato, senza troppi riguardi, poiché sapeva di non essere in vendita a così buon mercato. Justine tuttavia con la sua mente turbata non riusciva a superare quella questione. Cadde sempre più in preda di quella smania morbosa di indipendenza, che pervade le donne della nostra epoca a cagione dell’incertezza in cui gli uomini lasciano il mondo. Essa si torturava meditando, e alla fine abbozzò il disegno di cercare impiego quale maestra. Se pensava alla capitale e ai suoi numerosi istituti di educa­ zione, si aggiungeva la tacita speranza di potervi più fa­ cilmente incontrare il marito che non nella casa paterna, dove lo si giudicava più severamente che mai, benché si sapesse che ormai le cose gli andavano bene. Appena presa quella decisione, non esitò ad attuar­ la, e si recò dal pastore per averne consiglio e aiuto. Solo avviandosi alla parrocchia le venne in mente con stupore che l’egregio ecclesiastico, abituale frequentatore della casa, dal giorno della loro sventura non vi era più comparso, e che nessuno ne aveva sentito la mancanza o aveva pensato di andare a confidarsi con lui per averne consolazione. Un senso freddo la pervase inoltre, considerando che essa stessa da mesi non aveva rimesso piede nella chiesa da lei adornata. Si fermò, cercando di interpretare quella strana circostanza, ma non le riuscì di farlo subito e ri­ prese frettolosa la sua via, quasi in cerca di un appoggio. Nel giardino della parrocchia incontrò la moglie del pa­ store, una donna modesta, che coglieva tranquillamente

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ÖS!

prezzemolo, e da essa seppe che il marito era appena tornato da una visita a un moribondo e si sentiva un po’ indisposto. Le disse però di salire egualmente, poiché certo la sua visita gli avrebbe fatto piacere. Justine s’awiò senz’altro verso il suo studio e, come era avvezza a fare, dopo avere energicamente bussato, entrò rapida. Il pastore sedeva pallido ed esausto nella sua poltrona, con la testa appoggiata alla mano. Quando si voltò e s’alzò in piedi, le parve che fosse dimagrito e sofferente. — Come ella vede — disse il sacerdote dopo averla salutata — neanch’io sono in buone condizioni, e questo le spiegherà perché non mi sia fatto vedere da tanto tempo. In realtà, e più di quanto ella immagini, soffro della stessa malattia di lei e dei suoi ! Quando Justine gli chiese con meraviglia di spiegarsi meglio, proseguì: — Ho voluto arricchire, e per questo, nelle relazioni strette coi suoi, in casa sua, ho ascoltato e osservato quali fossero i modi di mettere a frutto le somme patri­ moniali; ho notato le azioni da cui si aspettavano alti guadagni, e ho scimmiottato in segreto, col modesto patrimonio di mia moglie, le speculazioni che vedevo fare da altri. Ma quando intuii che la ditta Glor era scossa, compresi anche subito che io stesso avevo tutto perduto, dissipando e consumando l’eredità di mia mo­ glie e dei miei figli. Essa non ne è ancora informata, e io non posso confidarmi a nessuno, per non portare disonore al mio stato. Ma di fronte a lei, che mi appare qui così imprevedutamente, sento il bisogno di essere sincero! Justine era spaventata; la nuova perdita le dava pro­ fonda irritazione, così che rispose un poco di malumore: — Ma che cosa mai l’ha costretta a correr rischi con gli affari, mentre ella aveva una parrocchia e un buon reddito? — Le ho detto — replicò melanconicamente il pasto­ re — che non mi è lecito compromettere la mia veste confessando la mia viziosa stoltezza, mentre nell’intimo non appartengo più neppure al mio stato ecclesiastico: l’ho abbandonato e ho cercato di arricchire appunto

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per vivere indipendente. Dopo quella malaugurata se­ ra in cui avevo avuto una discussione con suo marito m’era rimasta una spina nel cuore che invano tentavo di togliermi coi ragionamenti o con lo sdegno. Vedevo Jukundi che, malgrado le sue sfortunate vicende, conti­ nuava impavido la sua via religiosa, e mi sentivo costret­ to a sottoporre ogni cosa a nuova indagine, il che pur­ troppo, considerando il mio cuore, non avevo da anni più fatto riguardo all’aspetto morale della questione. Giunsi alla conclusione che non vivevo più da uomo pio né da cristiano, e che non ero più un sacerdote ! Dovetti confessarmi che da anni, appena ero solo, non sentivo la minima spinta a ricordare il Crocifìsso, al cui nome si intitola la mia missione e dal quale veniva il mio nutrimento, e che il mio cuore, con tutti i miei sen­ si, era solo legato al mondo e alle sue gioie, se vuole anche alle sue pene e ai suoi doveri, ma senza che mai né di notte né di giorno mi sfiorasse il più lieve brivido di un fervore intimo e personale, il minimo timore di Colui che noi per mestiere proclamavamo nostro Signore e Salvatore. Anzi, se talvolta, senza esservi indotto dalla professione, ripensavo in solitudine alla persona di Cristo da me chiamata tanto sacra, lo facevo piuttosto con l’animo altezzoso di un protettore che si occupa di un povero diavolo e gli dice poi in confidenza: «Mio caro, tu mi dài molti grattacapi ! ». M’accorsi infine che senza avvedermene ero divenuto un parlatore e un ciarlone smanioso di applausi, che, se non possedevo la chiave d’oro di un vero Verbo divino tra­ scendente, non comprendevo più il segreto del mio pros­ simo e non potevo dominarne l’animo più di quanto lo sappia fare un fanciullo, anzi, che per la mezza verità e per l’ambiguità delle mie parole, mi trovavo a disagio persino di fronte a un bimbo. Cominciai a vergognarmi del superficiale successo che incontravo; inoltre il mio stesso lavoro mi impediva di ordinare i miei pensieri per l’intimità del cuore, per la mia pace personale, perché ciò era inconciliabile con la

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chiassosa violenza e con le esigenze del mio stato: per questo volli lasciarlo e spogliarmi di questa veste ormai sdruscita del riformatore. Ciò è ormai impossibile, almeno per il momento, poi­ ché, mentre volevo evadere per mezzo della ricchezza, mi sono invece privato persino dei mezzi atti a fondare un’esistenza relativamente sicura. Justine era come impietrita : venuta per chiedere con­ siglio e appoggio, vedeva crollare uno dei suoi sostegni, un contenuto della sua vita ; intuì come per un lampo im­ provviso la realtà di quei problemi e perché essa stessa nel­ la sua sventura non avesse mai cercato conforto nella sua chiesa sfarzosa. Si sentì pervadere il petto inquieto da un amaro tormento, ma non potè abbandonatisi, poiché un’ancor più profonda pietà era suscitata dalle parole del sacerdote che lagrimando le disse: — Oggi m’è toccata un’estrema esperienza : sono stato allontanato da un letto di morte ! Da molte ore lotta con la morte una tenace vecchietta, la quale spera ostinatamente di rivedere tutti i suoi figli, e specialmente il mag­ giore, morto in miseria. Mi reco da lei distratto e preoc­ cupato e, mentre mi preparo a pronunciare quelle pre­ ghiere dei moribondi di mia composizione, di carattere, come ella sa, leggermente panteistico, rispondo con pa­ role vacue e malsicure alle domande che quella mi ri­ volge circa la certezza della vita eterna, tanto che la moribonda mi volta le spalle, mentre i presenti, appog­ giati dal medico, mi prendono in disparte invitandomi a rinunciare alle mie funzioni di curatore d’anime. Il pastore narrò la vicenda con parole confuse, na­ scondendo alla fine il volto nel fazzoletto. Era profonda­ mente scosso, perché nessuno si sente dichiarare volen­ tieri incapace di esercitare secondo le regole dell’arte una professione, sia pure non amata. La scena diede a Justine l’impressione di veder crollare una montagna. Quel che le era sembrato avere l’eternità del granito precipitava e periva insieme alla saldezza intima del sacerdote, allo spettacolo della sua fuga dal tempio. Essa intuì bensì la forza grandiosa insita in quel

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processo non appariscente e ancora celato, che si sarebbe forse presto ripetuto qua e là, in cento altri punti, ma non ne comprese il significato generale, subendone soltanto la dolorosa oppressione. Partì confusa e smarrita, senza avere neppure esposto al pastore le pene personali che l’avevano condotta da lui, e senza aver tentato di calmarlo con parole di con­ forto. Solo quando fu per la strada, man mano che ripensava alle cose udite, riannodandole a precedenti parole o vicende, fu còlta da un gelo. Si rese conto di es­ sere ormai senza una Chiesa, e la sua anima femminile, per la forza dell’abitudine, si sentì smarrita come una povera ape dispersa che in una fredda notte autunnale vola su uno sconfinato oceano. Abbandonata dal marito, perduti i suoi beni, privata ora anche della comunità religiosa: tutto sembrava metterla vergognosamente al bando. La mancanza della Chiesa, per quanto esteriore fosse stata la sua pietà, le parve riassumere tutte le sue altre sciagure e, stranamente, credette senz’altro al pastore, che dichiarava vuoto il suo tabernacolo, mentre non ave­ va mai voluto accettare le idee del marito, solo perché egli non possedeva ai suoi occhi un’autorità spirituale. Procedette silenziosa verso casa; prese, per passare in qualche modo la prima ora, un lavoro a maglia, andando a sedersi presso la porta del giardino che dava direttamente sulla strada, quasi per dimostrare che c’era ancora e che non aveva bisogno di nascondersi. Non parlò però con nessuno, fissando pallida il lavoro, mentre con le lab­ bra contava meccanicamente le maglie. Scese la sera; nella calma luce del lago le barche si avviavano all’approdo e per la strada passavano operai, senza che mai Justine alzasse gli sguardi, sinché le si fermò di fronte, per riposare un poco e riprender lena, una donnetta vecchissima che procedeva a stento. Aveva in testa un cappellone di paglia gialla, indossava una gonna rossa e corta, reggeva sul dorso incurvato un sac­ chetto bianco e in mano un bastone, mostrando così di essere una pellegrina giunta da lontano e avviata al

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santuario posto a poche ore di cammino sulla montagna. Quando Justine s’accorse che la vecchietta non si reg­ geva quasi più, la fece accomodare al suo fianco sulla panca. — Mi siederò volentieri, se lo permettete, bella si­ gnora ! — disse la pellegrina, non indugiando a prender posto. Frugò poi subito nel sacco e ne trasse un tozzo di pane, cercando con lo sguardo una fontana che le offrisse un sorso d’acqua. Ma Justine andò a prenderle in casa un bicchiere di buon vino, che quella accettò con piacere. — Perché alla vostra età ve ne andate sola per la strada dura e faticosa, mentre tutti gli altri pellegrini viaggiano in ferrovia e sui battelli, in comoda compagnia? — le domandò Justine. — Oh, non ci sarebbe allora merito né sacrificio per me povera peccatrice! — rispose la pellegrina — Gli altri oggigiorno viaggiano piuttosto per divertimento e per curiosità, aggiungendo al più un’utile preghiera nel luogo delle grazie. Io invece mi reco con le mie vecchie gambe dalla beatissima Madre di Dio, e sono così con lei non soltanto di fronte al santo altare: essa mi accompagna per tutto il lungo cammino, a ogni passo, e mi sorregge quando mi sento cadere, come farebbe una buona figliola per la sua vecchia e debole mamma! Proprio adesso è stata lei a porgermi con la vostra mano bianca questo provvido ristoro ! Sapeste quanto è dolce e cara, quanto è bella, luminosa ! E quale potere ha la Madonna, quan­ ta saggezza ! Essa ha un consiglio per tutto, e tutto può ! Mentre così la esaltava, la vecchia non aveva deposto neppure per un momento il suo rosario. Justine la osser­ vava con curiosità maneggiare quelle palline, e volle sapere come si usava e si faceva scorrere la corona. La vecchia glielo mostrò subito, cingendo le sue mani con il povero rosario. Justine rimase per qualche momento pen­ sierosa così, a mani giunte, con gli sguardi perduti dietro i suoi pensieri, ma poi scosse lentamente il capo e restituì il rosario alla pellegrina, senza una parola. La donnetta non volle sostare più a lungo, preferendo continuare il cammino ancora un’ora, prima di cercare

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asilo; la ringraziò e promise di recitare una preghiera per la bella signora, lo volesse o no, e svanì a passi incerti nell’ombra della sera, serena e sicura, così come ci si ag­ gira a casa nella propria stanza. Justine s’appoggiò allo schienale seguendo con gli occhi la barcollante figurina rossa, finché non si perdette nelle nebbie azzurre del crepuscolo. «Cattolica!» esclamò dimentica di sé, e si immerse in affannosi pensieri indagatori, ma scosse ancora una volta il capo. Invano la sua smarrita anima femminile continuava a cercare: si coricò senza neppure mangiare e passò la notte insonne. Non poteva più dire ora di essere povera come un topo di chiesa, ma piuttosto come un topo sel­ vatico di campagna. Nell’angoscia si ricordò di una po­ vera famigliola di operai, una vedova con una figlia, che aveva fama di particolare religiosità e che pur nella con­ dizione più misera godeva perfetta contentezza e calma spirituale, tanto che il pastore medesimo, benché le due donne appartenessero, a quanto egli diceva, a una setta stolta e ignorante, aveva spiegato che esse potevano dare un’immagine dei cristiani primitivi. Le due donne ave­ vano vissuto in passato a Schwanau e la figlia era stata operaia nelle fabbriche dei Glor. Justine, spinta da una certa simpatia per quella gente, aveva involontariamente rinunciato più volte al suo proposito di convertirle e di guadagnarle alla sua Chiesa bene organizzata e ragio­ nevole ; più tardi madre e figlia avevano lasciato il paese stabilendosi vicino alla capitale. L’insonne Justine decise appunto di andare a cercarle per scrutare il segreto della loro pace e della loro fede e per dividere se possibile la lo­ ro beatitudine, e volle anzi attuare il suo proposito già l’indomani. CAPITOLO IV

La mattina seguente, che prometteva una bella giorna­ ta, Justine s’alzò presto e si preparò alla passeggiata; vole­ va infatti, benché fosse un cammino di circa tre ore, com-

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piere umilmente il pellegrinaggio a piedi, spintavi senza dubbio dalla vecchietta della vigilia e anche per abban­ donarsi, cosi, meglio ai propri pensieri. Calzò un paio delle sue solide scarpe da patronessa, che le tornarono molto comode, e si caricò di un cesto dove depose alcuni doni per le brave cristiane : una bottiglia di buona panna, un pane bianco fresco, un pacchettino di tabacco da fiuto per la madre, la quale, come ben sapeva, pur avendo ri­ nunciato al mondo, non disprezzava una presa quando poteva procurarsela, e infine un paio di calze nuove per la figliuola. Sollevò la veste e si pose in cammino, reg­ gendo però invece del bordone un parasole che, insieme all’ampio cappello di paglia, le offriva sufficiente riparo. Durante la strada ripensò a tutto quello che sapeva di quelle donne, compiacendosi sempre più del suo pro­ posito. La madre, Ursula, era venuta in quella regione come povera servetta e aveva vissuto sempre tranquillamente adempiendo ai suoi doveri. A quel tempo però, secondo quanto essa stessa raccontava, amava il mondo e, com­ mossa dalla sua bontà e dal suo candido cuore, prestò orecchio a un figlio di agiati contadini, unendosi a lui nel­ la miseria, come povere bestioline selvatiche. L’uomo in­ fatti era stato subito ripudiato e abbandonato dai suoi, che non gli diedero neppure un cesto vuoto. I due vissero me­ schinamente da braccianti in una capanna miserabile e remota, più abbandonati di tutti i Robinson naufragati su di un’isola. Con la loro ingenuità e sopportazione essi, in una regione ricca e cristiana, si attirarono la crudeltà umana, come la calamita attira il ferro. Parve che tutta la perversione altezzosa del paese si alleasse contro quei poverelli, in modo che l’uno impediva all’altro ogni soc­ corso e vi aggiungeva lo scherno, mentre nessuno, come accade nel mondo, ne poteva dare la ragione. La giovane donna però aveva ancora desideri mondani. Acchiappò un giorno un grosso gatto di contadini che passava per caso accanto alla sua capanna, lo scorticò e lo fece lessare per placare la sua tremenda fame, toglien­ dogli accuratamente il grasso per condire eventualmente

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un po’ di pancotto, se mai avesse conquistato pane o farina. Ma il misfatto venne scoperto e la multa impo­ stale assorbì la paga di tutto un mese del marito, che fi­ nalmente dopo lunghe ricerche aveva trovato lavoro co­ me manovale. Egli allora, cedendo ingenuamente al con­ siglio di altri, sciupò anche la paga successiva per una sbornia prima che gliela carpissero in altro modo, e rimase poi vittima di una frana, non essendosi messo in salvo con sufficiente prontezza. Con ciò finì l’epoca del peccato e del piacere mondano per la povera Ursula. Intorno a quell’epoca erano comparsi dei predicatori anonimi e poveri, che cercarono di far seguaci fra il po­ polino per una oscura setta e che battezzavano poi i con­ vertiti. Essi predicavano il puro cristianesimo primitivo, quale esso risulta, secondo la loro opinione di incólti, dalla Bibbia, interpretata leggendo letteralmente ogni parola e proprio nella versione tedesca di cui potevano disporre. Ma l’essenziale era l’obbligo di condurre in realtà e in verità una nuova e santa esistenza in ogni ora del giorno e in ogni luogo, era l’impegno dei cre­ denti a formare tra loro una salda lega dell’amore e della reciproca solidarietà al fine di prepararsi e di farsi forti per la grande ora vicina del promesso Giudizio univer­ sale. Questi predicatori raccolsero ben presto attorno a sé una comunità composta di oscure anime bisognose d’aiu­ to, d’ipocondriaci, di deboli presuntuosi che cercavano nel loro modesto stato una base su cui essere migliori del vicino, di cuori generosi spinti dall’amore, di infelici desiderosi di un conforto, vanamente altrove sperato. Taluni di questi, se fossero stati cattolici, si sarebbero rifugiati senz’altro in un convento, altri, se vi fossero stati portati dalle condizioni, si sarebbero fatti massoni, altri infine, se ricchi e cólti, avrebbero fondato qualche asso­ ciazione di pubblica utilità e beneficenza o avrebbero ade­ rito a società di cultura o di musica, pur di elevarsi sopra la povera esistenza volgare. La fervida e tacita setta li compensava di tutto questo: in essa trovavano non sol­ tanto la santità e la vita eterna, bensì anche bastevole di­

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strazione e divertimento nelle continue prediche pie, nel­ le dispute, nelle preghiere e nei canti. Non erano però per nulla stimati e amati, bensì de­ risi e perseguitati da ogni parte, dalla Chiesa, dai liberi pensatori, dagli ortodossi, dai credenti più raffinati, dalla plebe e dalle autorità. Specialmente in campagna i loro convegni venivano sciolti e disturbati, e quell’intolleranza che ben presto s’era annidata fra le loro file, fu poi non poco esercitata a loro danno. Nel paese in cui abitava la povera vedova, la setta aveva subito persecuzioni particolarmente gravi, tanto che non poteva più radunarsi in territorio comunale. Celebravano perciò i loro riti in un luogo remoto, fra le mura abbandonate di un castello diroccato soprannominato la «cucina del diavolo». Senza curare lo scherno derivante da quel nome, predicavano e cantavano con gran fervore fra quei cespugli e quelle erbacce selvagge. Una domenica sera Ursula udì dalla sua povera capan­ na diroccata, attraverso l’aria tranquilla, le pie canzoni, proprio di là dove si scorgevano sospese nel bosco le nuvolette dorate. Le parve un conforto dirigersi verso quella luce e quell’armonia ; prese in braccio la sua bam­ bina di due anni, la piccola Agathchen, e andò sino al luogo della segreta riunione, sedendosi modestamente su un masso nel fondo della «cucina del diavolo», con la bimba in grembo, e ascoltò molto attenta ogni parola ivi pronunciata. Si fecero avanti parecchi predicatori, i quali, oltre a occuparsi della dottrina redentrice, eser­ citavano ciascuno un lavoro manuale e maneggiavano anche la parola con grande semplicità. Essi non cono­ scevano neppure la distinzione teologica fra Pietro e Paolo e nessuno di loro sapeva bene chi fossero mai stati quei Romani i cui soldati avevano crocifisso il Reden­ tore. Da principio la povera vedova rimase celata nell’om­ bra di un arbusto di nocciòlo; ma il sole tramontando ravvolse la donna e la bimba nei suoi riflessi, talché alla fine la loro figura spiccò tutta dorata sullo sfondo verde, e colpì l’attenzione di colui che stava appunto

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predicando. Egli si interruppe vedendo la donna tacita e attenta e l’invitò ad alta voce ad avvicinarsi e a pren­ dere posto fra il gruppo dei credenti, per cui tutta la co­ munità si volse e notò l’estranea. Questa però non si mosse e rimase a sedere intimidita, sinché da una fila di cinque o sei lavandaie anziane se­ dute solennemente su un tronco piuttosto elevato, quasi fossero altrettanti vescovi, se ne alzò una e venne a pren­ dere per mano quella pecora smarrita insieme alla pic­ cina. In tal modo Ursula fu accolta tra la comunità e di­ venne insieme alla bimba uno dei suoi membri stimati, singolare e distinta da tutti gli altri, cosi come dallo stesso terreno crescono piante delle specie più disparate. Le lavandaie in un primo tempo la accolsero nella loro lega e le procurarono sufficiente lavoro, facendola di­ ventare una lavandaia del Signore che per quarant’anni faticò incessantemente giorno e notte sino a che le sue forze furono più che esauste. Durante quel periodo la co­ munità era riuscita a farsi tollerare e si era notevolmente sviluppata; tutti i suoi membri, sorretti dall’aiuto reci­ proco e dalla vita ordinata, si trovavano in condizioni quasi agiate; i predicatori si davano già più l’aria di pasto­ ri, sfoggiando una certa dottrina, e indossavano vesti mi­ gliori ; le riunioni avevano luogo in un locale di preghiera chiaro e simpatico e già si seguiva una piccola politica ecclesiastica di fronte alla Chiesa ufficiale e alle altre sètte che andavano diffondendosi. Ursula e la sua Agathchen rimanevano invece sempre le stesse, mantenendo la semplicità dei primi tempi e di­ ventando senza saperlo modelli di religiosità. La figlia era debole e malaticcia ; per molti anni lavorò nel setificio del­ la casa Glor, vivendo con la madre lavandaia. Finché eb­ bero ambedue lavoro, guadagnavano il loro fabbisogno, potevano aiutare i loro compagni di fede, soccorrendoli senza farsi pregare, e avevano ancora modesti mezzi per dimostrare la loro cordialità e gratitudine a chiunque facesse loro il minimo servigio o la minima cortesia. Co­ noscevano istintivamente l’arte di essere ricche pur nella

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povertà, ma soltanto per l’incessante lavoro e per la loro capacità di essere sempre contente. L’unica guerra che facessero fra loro consisteva nella gara reciproca a rifiu­ tare le cortesie e i benefici che esse rendevano a estranei, perché ognuna, quando doveva accettare qualcosa, se ne schermiva affermando che era inutile ed esagerata. Vivevano per il resto nella più profonda pace con tutti. Perdonavano ogni offesa sull’istante e non replicavano mai a una parola aspra con pari asprezza, attingendo dalla loro pietà un dominio di sé che si conquista di solito soltanto per nascita e per educazione. Allo stesso modo soffocavano senza sforzo l’indiscreta curiosità e lo spirito critico e tutti insomma i piccoli vizi sociali; erano tanto più benevole e tolleranti verso i miscredenti e i mondani, quanto più erano convinte che quei poveretti fossero pro­ fondamente infelici e anzi perduti. Accettavano l’ingiustizia senza compiacersene, ma an­ che senza combatterla. I fratelli del defunto marito, e padre, erano saliti a una condizione di rispettabile agia­ tezza, senza mai versare la piccola eredità dovuta alla bimba e a sua madre e senza neppure concederne i mi­ seri interessi. Quegli altezzosi parenti erano sempre in difficoltà finanziarie e non amavano privarsi neppure di piccole somme, ma per non confessarlo fingevano di non riconoscere i chiarissimi diritti della vedova. Sarebbe costato soltanto una parola alle due donne per costrin­ gerli a farlo e compromettere la loro pubblica rispetta­ bilità, ma non vi si lasciarono indurre neppure dai loro compagni di fede e rimasero per tutta la vita povere e pazienti creditrici di parenti superbi e ingiusti, così che in realtà esse potevano chiamarsi ricche e quelli poveri. Col passare degli anni erano però invecchiate; il la­ voro cominciò a diventare gravoso, a essere una quoti­ diana sofferenza, ma esse non vollero rinunciarvi. La figliola malaticcia faceva duplici e triplici sforzi per pro­ curare alla madre almeno il più indispensabile sollievo e rimanevano comunque serene e tranquille, consolando ancora gli altri e prodigando piccoli aiuti invece di in­ vocarne.

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Ma a quell’epoca la ditta Glor subì la sua grave crisi durante la quale però si continuò a dar lavoro ai nume­ rosi operai, oltre la necessità, anzi oltre le possibilità del­ l’azienda. Mentre molti di essi, piccoli possidenti di cam­ pagna che ben conoscevano la situazione, continuavano tranquillamente a cercare il loro guadagno nella fabbrica, e i più poveri continuavano a esigerlo come loro dovu­ to, la povera e debole Agathchen fu presa da scrupoli. Essa e sua madre si dissero che i padroni rovinati face­ vano un sacrificio per ogni stipendio che continuassero a pagare e, non volendo più accettare tale sacrificio, decisero, senza presunzione, per mera bontà, di sottrarsi a quel lavoro abbandonando il paese. Agathchen, ormai zitella anziana, aveva per vero dire anche il celato dise­ gno di sottrarre la madre alla sua clientela, il cui servizio era ormai troppo pesante, quando un grandioso bucato si iniziava alle tre del mattino per durare tre intere gior­ nate. Essa pensava di procurarsi un naspo per lavorare la seta a domicilio e assistere così in pari tempo tutto il giorno la madre a riposo lavorando per due. Trovarono nei dintorni della capitale quel che cerca­ vano in una casetta loro affittata da un setaiolo. Il minu­ scolo edificio si trovava in un frutteto fuori mano ed era costituito da due piccole camere, l’una verso il frutteto, e l’altra che dava sulla strada maestra. La prima era so­ leggiata e accogliente, tutta nel verde, poiché il prato con gli alberi giungeva sino alla finestra, l’altra invece era un locale scuro e sgradevole, il cui ingresso faceva anche da porta, sulla strada polverosa. Accanto alla porta vi era quale finestra soltanto una piccola apertura a inferriata. In quel tugurio viveva una vecchia brutta e scontenta, che avrebbe dovuto sloggiare, ma che vi fu lasciata ancora per intercessione delle pie donne. Esse abitavano la came­ ra più accogliente, ma l’avevano già una volta scambiata con quella buia, per cederla alla vecchia brontolona e li­ tigiosa, che però non c’era voluta restare, non potendo di là vedere e sorvegliare quel che accadeva per la strada. I due modelli di pazienza erano ritornati nella stanza

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chiara e la vecchia aveva ripreso il suo bugigattolo, di dove senza posa spiava e minacciava chi entrasse o uscis­ se, indagando e cercando di aizzare ognuno contro le due brave donne. Queste avevano infatti visite frequenti di amici e di gente desiderosa di una buona parola. Divi­ devano inoltre sempre con la vecchiaccia ogni piccolo dono o soccorso ricevuto con sincera gratitudine, ma quella valutava scortese la divisione e la rifiutava se ap­ pena non le sembrava abbastanza rapida e puntuale. Esse però non avevano per nulla paura di quel mostro e le vivevano accanto come gli eremiti stavano in com­ pagnia di una belva o di un diavolo terrificante. La vec­ chia era proprio quella Sibilla della calunnia, sopranno­ minata «la donna dell’olio», che Jukundi Meyenthal do­ veva visitare per indagare sul male che aveva scoperto in quella notte di allegria. Quando Justine ebbe chiesto ove fosse la casetta e vi si diresse, vide la donna dell’olio seduta davanti alla porta, intenta a ripulire brontolando una padella. Racconta la leggenda che quando Attila apparve coi suoi Unni, nelle vicinanze di Augusta viveva una strega messa al bando per la sua orrenda bruttezza, la quale, mentre l’immenso esercito s’apprestava a passare il fiume Lech, gli si fece incontro sola e nuda su un ronzino magro e sporco, gridando: «Vattene, Attila!» e che Attila spa­ ventato fece di colpo dietrofront con tutta la sua orda, prendendo un’altra direzione, così che la città salvata dalla strega le donò poi una nuova e bella camicia. Ma difficilmente questa strega si sarebbe meritata dalla pa­ tria una camicia. Anche Justine ebbe la tentazione di retrocedere e di fuggire vedendo davanti alla porta la donna dell’olio con la sua gran faccia quadrata e giallastra, nella quale si annidavano invidia, vendetta e perfidia sopra una va­ nità ormai morta, come degli zingari in una landa si accovacciano intorno a un fuoco spento. Il mostro assalì la bella Justine domandandole, men­ tre s’alzava in piedi, da chi volesse andare e che cosa cercasse in casa delle due donne; Justine però si fece

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animo e le passò davanti superando le tenebre per tro­ varsi d’un tratto in pieno sole, tra il fresco fogliame degli alberi, accanto alle due pie donne. «Come è bello qui!» esclamò deponendo il cesto e il cappello e mettendosi a sedere. Ursula e Agathchen, tutte stupite dalla grata sorpresa, manifestarono la gioia più cordiale. La madre piena di gotta non riusciva ad alzarsi dalla sua poltrona, ma Agathchen fermò subito la mezza dozzina di naspi che attorcigliavano rapidi al sole i fili di seta rossa. Il pallido volto di Agathchen, che pure non aveva avuto fine educazione, si irradiò di calma e nobile cordialità. Justine notò che anch’essa non si reggeva troppo bene sui piedi e Agathchen ammise sor­ ridendo che questi infatti cominciavano a dolerle e talvolta si gonfiavano un poco, ma tanto essa che la madre non ebbero una parola di lamento. Descrissero anzi con in­ genua allegria la strega brontolona all’ingresso, quando Justine si informò di quella paurosa apparizione, ag­ giungendo che bisognava aver pazienza con la povera creatura posseduta da spiriti maligni e certo molto in­ felice. Come furono poi stupite quando Justine trasse dal cesto i suoi modesti regali ! Le calze arrivavano benvenute ad Agathchen, la quale confessò di non trovare più tempo per lavorare a maglia, soprattutto da quando la vista non le reggeva la notte al lume del lucignolo. La madre da parte sua aveva già aperto il cartoccino di tabacco da fiuto riempiendone la sua piccola tabacchiera di corno con una compiacenza quasi troppo intensa. Era questo l’unico punto in cui la figlia tiranneggiava un poco la madre, non concedendole tutto il mondano piacere ne­ rastro che essa forse, ricadendo nei peccati di gioventù, sarebbe stata in grado di consumare. Questa volta però, vedendo la mamma aspirare lieta una presa fresca, sor­ rise grata a Justine. Agathchen riempì poi subito una scodella di panna, tagliò una fetta del profumato pan bianco e si dispose a portarla fuori alla povera vecchia. — Non andar subito ! — disse la madre sottovoce

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— per non sorprenderla se è a origliare alla porta ! Fai prima un po’ di chiasso pestando i piedi! — Ohimè, mi fanno troppo male, se cammino forte ! — replicò Agathchen ridendo dell’ingenuo inganno sugge­ ritole. Tossì invece prima di aprire la porta e intravvide infatti nella penombra del corridoio la figura informe della vecchia che sgusciava via più rapida di quanto ci si potesse da lei aspettare. Quando furono di nuovo tranquille, mamma e figliuola vollero sapere in qual modo la giovane padrona fosse giunta fin lì e da dove fosse venuta, non supponendo che avesse compiuto tutta quella strada soltanto per venire da loro. I raggi del sole, uniti alle ombre dei rami oscillanti, giocavano sul pavimento e sulle pareti della cameretta; davanti alle finestre aperte ronzavano le api, e una lucertolina verde si era arrampicata su dal prato ad occhieggiare curiosa lì dentro ; se ne aggiunse una seconda e ambedue parevano in attesa degli eventi imminenti. Justine vedeva ogni cosa e sentiva quella pace, ma non trovò subito il coraggio di rompere il silenzio, sinché fu presa dal pianto e, oppressa e turbata, si confidò alle donne, raccontando loro che aveva perso la fede e che era venuta a chiedere in che cosa consistesse la loro felicità e di dove attingessero la pace interiore. Sperava di in­ contrare qualcosa di nuovo, di ignorato e di potente, cui abbandonarsi senza altri tormenti. Ursula mise subito da parte la tabacchiera e Agathchen depose quel che aveva in mano. Ambedue si fissarono at­ territe e involontariamente giunsero le mani, e Justine si accorse che ciascuna per suo conto pregava in silenzio, Agathchen col volto rigato di lagrime, la madre con la calma compostezza della vecchiaia. Nessuna osava pro­ nunciar parola : erano estremamente commosse dal com­ pito che si presentava loro, di portare alla salvezza una persona istruita e brillante, ma la volontà divina era evi­ dente e indubitabile. Cominciò prima Ursula a pronunciare alcune parole, mentre Agathchen avvicinava a Justine uno sgabello e

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le si sedeva ai piedi, prendendole e accarezzandole le mani. Justine infatti àveva da tempo rappresentato il suo segreto amore, l’oggetto nobilissimo di ogni sua ammirazione. Nel frattempo la cosa prese la via cercata, le lingue si sciolsero e le due donne andarono poi a gara nell’esporre la grande verità a quella creatura del mondo, rubandosi la parola una all’altra e completandosi come due bambini che ripetano a un terzo la fiaba raccontata dalla nonna. Non vi era nulla di nuovo e di inaudito in quel che esponevano. Era l’antica storia, arida e aspra, del pec­ cato originale, della riconciliazione con Dio attraverso il sangue di suo Figlio, che sarebbe prossimamente venuto a giudicare i vivi e i morti, della resurrezione della carne e delle ossa, dell’inferno e del castigo eterno e della fede assoluta in tutte queste cose. Narravano tutto ciò quasi fosse qualcosa che nessuno tanto bene conosceva quanto loro e la loro comunità, non con la bella grazia umana insita in ogni loro atto e parola, bensì con aridità fretto­ losa, in modo monotono e incolore, quasi ripetessero una lezione imparata a memoria. In nessun punto le parole si fecero più morbide e miti, mai gli occhi più caldi e vivaci: trattarono persino la passione e la morte di Gesù come un argomento scolastico, non come qualcosa che toccasse l’animo e il sentimento. Il mondo di cui parlavano era vuoto e insussistente, mentre esse medesi­ me con la loro personalità vivevano in tutt’altra sfera. Per di più le due donne, imitando ingenuamente i predicatori, parlavano in forma incerta e sgradevole, e anche in tono imperativo nei continui riferimenti alla fede indispensabile. Justine s’accorse allora che le buone donne attingevano la loro intima pace da un’altra fonte e non da quella dottrina, né potevano quindi con essa donarla; o me­ glio che su quell’arido terreno esse avevano potuto pro­ sperare per la loro speciale natura, perché traevano il nutrimento dalla libera aria del cielo. Era venuta invano; il cuore le si strinse quasi volesse fermarsi, e fu costretta ad appoggiarsi al duro schienale della seggiola per ri­ prendere forza, mentre le sue predicatrici continuavano a

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parlare. Si riebbe a poco a poco, ma era ancora pallida come le pareti imbiancate della cameretta, e si chiese come potesse cavarsela e andar via senza offendere le due brave donne. D’un tratto dalla porta echeggiò uno strido, come quan­ do si schiaccia la coda di un gatto. Agathchen corse spa­ ventata ad aprire, così che il corridoio s’illuminò di colpo e si vide un uomo alto e snello che teneva la vecchia per la gola, spingendola verso la parete. La lasciò però subito andare vergognoso e imbarazzato, quando la luce appar­ ve, forse anche per disgusto, perché la vecchia, nella rab­ bia e nello spavento, gli aveva sputato sulla mano, che fu costretto a ripulire. Ma d’improvviso si udì un’esclama­ zione di gioia da parte di Justine, che aveva riconosciuto Jukundi Meyenthal. Questi si voltò verso di lei e di colpo i due sposi si gettarono l’uno fra le braccia dell’altro, te­ nendosi stretti a lungo. Studiarono poi attentamente le loro facce serie e tristi e s’avviarono alla fine verso la cameretta delle due donne illuminata dal sole. Mentre Justine riceveva l’istruzione religiosa, Jukundi era giunto al momento buono nella tana della strega. Essa dapprima aveva sorriso con gioia maligna, persuasa che quel bel giovanotto avesse un appuntamento segreto con la bella signora in casa delle due beghine, le quali avrebbero finalmente rivelato il loro debole, così che dall’avventura si sarebbe potuto ricavare un intero or­ ciolo d’olio di rosa. Quando però Jukundi trasse il suo elenco di galantuo­ mini da calunniare e le disse di che cosa si trattava, per incarico di chi veniva, e quando cominciò a chiedere in modo asciutto e sommario che cosa sapesse di ciascuno e che cosa si potesse fare per metterlo in fama di canaglia e farlo punire, replicò scontrosa: «Non lo conosco costui! Questi non mi hanno fatto nulla di male ! ». “Questa belva ha per lo meno ancora l’istinto di mordere soltanto chi viene ad aizzarla !” pensò Jukundi fra sé, e le chiese che cosa le avessero fatto alcune altre vittime precedenti.

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Al sentire il nome delle vittime, essa ebbe una risata rauca e perfida, subito rammentandosi della parte note­ vole toccatale in quell’allegra caccia all’uomo. Non ri­ spose alla domanda precisa, ma cominciò con goffa fa­ condia a spiegare il suo procedimento nel creare e nel diffondere le maldicenze e le accuse. Bastava in un pri­ mo tempo una caratteristica in sé innocua, una situazio­ ne, una particolarità dell’interessato, un incidente, il coincidere di speciali circostanze, qualcosa di indubita­ bile che fornisse un nucleo di realtà all’invenzione suc­ cessiva. Non si trattava del resto di usare soltanto in­ venzioni; si poteva anche con vantaggio attribuire ad altri, in grazia di coincidenze esteriori effettive, le colpe commesse dagli uni, oppure accollare a quelli ciò che nell’intimo si ha voglia di commettere o si è forse già in parte commesso. Compensare in tal modo la frequente ingiustizia della sorte suscitava un piacere in certo modo divino, per esempio quando di due individui l’uno riu­ sciva relativamente simpatico mentre l’altro ispirava odio, ma il primo era un povero, maligno e mal riuscito gra­ dasso, e il secondo invece un insopportabile presuntuoso inattaccabile. Allora ci si trasformava in una specie di provvidenza se si riusciva a togliere i difetti e le colpe del­ l’amico buono per gravarli sulle spalle dell’avversario odioso e ostinato. Vi era davvero una grandiosa potenza nel­ lo spingere tutta una orgogliosa famiglia verso la vergogna e la sventura con una sola parolina insinuata: maggiore di quella dello stregone che suscita una tempesta e fa naufragare una nave sull’oceano. Così discorrendo la vecchia rivelò maggiore conoscenza del mondo e delle persone di quanto il suo orrendo aspetto e la sua misera condizione avrebbero fatto sup­ porre; ma tutte quelle cognizioni erano deformate e si fermavano alle superficie delle cose, soffocandole come una muffa. Assomigliava, malgrado la sua perfida astu­ zia, a un bambino che gioca inconsciamente col fuoco appiccando un incendio a una città intera. Dalle parole e dalle allusioni confuse si poteva con pena intuire che la vecchia rimproverava ai suoi genitori e ai

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suoi nonni di avere mandato in rovina la famiglia, espo­ nendo lei alla oscura miseria, che essa era stata un tempo moglie di un calzolaio, da lui vinta e scacciata dopo lunghi anni di contese, e che ora si manteneva alla meglio andando a vendere l’una o l’altra merce, il che le conce­ deva di girare per tutte le strade, di casa in casa, dedi­ candosi alle sue mene oscure. D’un tratto la strega si interruppe per chiedere che il visitatore ripetesse i nomi di coloro che dovevano venir calunniati, perché discorrendo le era tornata la voglia di agire e di assumere la parte di provvidenza. Jukundi le consegnò il foglietto, per vedere ancor me­ glio come procedesse in particolare, dopo che già in ge­ nerale si era potuto convincere della base su cui era stata eretta la grande campagna di persecuzione pubblica. Subito al primo nome di un bravo cittadino, la vecchia esclamò: — Ma certo quello lo conosco ! Come ho potuto di­ menticarlo? Questo è quel birbone che mi ha scacciato una volta di casa mentre parlavo nella sua cucina coi domestici! Ha avuto parecchie eredità successive e si è arricchito, mentre alcuni suoi parenti vivono in miseria ! Sarà certo un tipo svelto a carpire eredità, se si andrà a indagare la faccenda e a mettere abilmente in luce le connessioni. Alcune sue vecchie parenti da cui ereditò so­ no morte all’improvviso, che cosa dico? suo padre stesso è morto un paio d’anni or sono non molto vecchio né ma­ lato : un caso molto strano ! Jukundi a questo punto si atterrì delle conseguenze del suo intervento e strappò il foglio alla vecchia, gridando: — Taci, o brutta strega ! e bada bene di non ripetere una sola parola di tutte queste tue menzogne, altrimenti avrai a che fare con me ! — Con voi? — replicò il mostro fissandolo di colpo con gli occhi spalancati, poi sibilò — Chi siete voi? Che vuoi in fondo da me, o brutto cane? O maledetta spia? Vuoi forse corrompermi e valerti di me per le tue perfi­ die? Bada bene, ti daremo una buona lezione ! Ti cono­ scono già ! Ti conoscono già, briccone !

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Eccitato dalla ripugnante rabbia della strega e dal suo mostruoso aspetto, Jukundi, che si era già avviato ad andarsene, la afferrò, perdendo il dominio di sé, per il collo, provocando il suo urlo e insieme rincontro con Justine, tanto che alla fine non potè pentirsi di aver trasgredito la legge orientale secondo cui una donna non va colpita neppure con un fiore.

Ursula e sua figlia erano commosse e liete dell’incon­ tro avvenuto in casa loro tra i due sposi divisi; conside­ ravano questo un ulteriore segno della provvidenza di­ vina, pur ritenendo dubbio che l’istruzione religiosa ap­ pena iniziata potesse aver séguito, non fidandosi comple­ tamente del signor Meyenthal. Affidarono però il pro­ blema al Signore e intanto tacquero modestamente, e anzi Ursula riprese subito la sua tabacchiera. Jukundi e Justine non fecero molte parole, frettolosi di uscire insieme. Dopo brevi e necessarie spiegazioni sulla coincidenza dell’incontro, presero congedo dalle due buone cristiane ben conosciute anche da Jukundi, e promisero loro ulteriore appoggio. Passando per la tana della strega, non la videro più, perché doveva essersi na­ scosta, ma, giunti sulla strada, il suo volto apparve die­ tro l’inferriata della finestra, per scagliare orrendi im­ properi e minacce. Essi erano però tanto occupati di se stessi che non li sentirono neppure e procedettero a fian­ co con un nuovo senso di beatitudine ma con profonda serietà. Jukundi aveva lasciato a un’osteria vicina un cavallo sul quale aveva compiuto il lungo percorso, mentre Ju­ stine s’era data ritrovo con uno dei suoi fratelli all’im­ barcatoio di un paese vicino, per ritornare insieme a casa in battello. Stabilirono quindi di rivedersi il giorno se­ guente in casa dei nonni, sulla montagna di Scbwanau, dove Jukundi si sarebbe recato di buon mattino. Ivi avrebbero passato l’intera giornata spiegandosi recipro­ camente. Si separarono così, fissandosi teneramente negli occhi, ma sempre serbandosi molto seri. L’indomani era una domenica che si iniziò con la più

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bella mattinata di giugno. Justine si destò col sole, si ve­ stì e s’adornò come per una festa, acconciandosi anche i capelli, contro le sue recenti consuetudini, a riccioli fluenti, indossando una chiara e profumata veste estiva, e non dimenticando un fine vezzo attorno al collo. S’avviò cosi, non vista dalla famiglia ancora immersa nel sonno, verso la collina, col volto lievemente arrossato e a passo energico. La nonna rimase stupita del suo aspetto giova­ nile e grazioso, ma fu anche contenta, sembrandole che il destino volesse mutare. Costrinse la nipote, che non aveva ancora preso nulla, a bere con lei una tazza di caffè, ma Justine non sostò a lungo e si avviò per la strada di dove doveva giungere Jukundi. Procedeva nel silenzio dome­ nicale con impazienza lieta e angosciosa insieme. Tutta la terra era coperta di fiori, dagli alberi che cominciavano a sfiorire cadevano i petali appena si levava un venticello. Le campane cominciarono a suonare da vicino e da lon­ tano lungo l’ampia distesa del lago, dai paesetti biancheg­ gianti al sole ; le voci piene e profonde delle possenti cam­ pane si confondevano riempiendo l’aria di un infinito mare sonoro che pervase il cuore esagitato di Justine mi­ nacciando di trascinarlo nei suoi gorghi. Essa però non tornò sui suoi passi, ma corse, portata da quelle onde ar­ moniose, incontro all’uomo che in quel momento si avvi­ cinava a passi rapidi nello splendore del sole mattutino. Appena si videro, il sorriso da tanto tempo perduto riaccese i loro volti ed essi si abbracciarono e si bacia­ rono affettuosamente. Senza neppure badare dove andassero, s’avviarono per il sentiero del bosco, e tenendosi sotto braccio salirono alla più alta cima della montagna, mentre si raccontavano le reciproche vicende, tutto quanto avevano vissuto e pensato durante la separazione. Lo scampanio intanto andava gradatamente perdendosi nei boschi che si sten­ devano dietro di loro e quando svanì l’ultima nota essi si resero conto dell’improvviso profondo silenzio. Erano al limite di una vasta radura, che circondava un vivaio ben tenuto di alberelli. A mille e mille s’ergevano in file rego­ lari i minuscoli abeti bianchi e rossi, pini e larici, non

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più alti di tre o quattro pollici, che levavano verso l’alto le loro testoline verde chiaro, simili a un solenne raduno di innumerevoli asili infantili. Seguivano poi le file di al­ berelli di circa mezzo metro o di un metro, come vivaci scuole elementari, poi un esercito di faggi, di querce e di aceri adolescenti, e alle loro spalle il gruppo protet­ tore dei vecchi alberi da foresta che chiudevano l’assem­ blea. Il vivaio intero era tenuto con la grazia e l’ordine di un parco signorile, benché appartenesse soltanto a una cooperativa agricola; il solenne silenzio accresceva l’effetto suscitato da tanta amorosa cura destinata non alla propria vita, ma ai nipoti e pronipoti di un secolo futuro. All’ombra dei giovani aceri era stata posta una pan­ china, sulla quale sedettero Jukundi e Justine, godendo in silenzio quello spettacolo di calma rasserenante. — Vedi, — disse finalmente Jukundi afferrando le ma­ ni di Justine — appena ci siamo ritrovati, subito ci ac­ corgiamo che il mondo non è poi tanto cattivo come vorrebbe parere. Tutti quegli egoisti duri e frettolosi in realtà non si dan pena che per i loro figli e adempiono doveri di previdenza persino per le generazioni future a loro ignote! — Mi vuoi ancora un pochino bene? — replicò Ju­ stine, la quale in quel momento voleva pensare soltanto a se stessa. Jukundi guardò lontano e vide attraverso due corone d’abete un lembo di cielo azzurro con un edificio bianco appena distinguibile. — Puoi vedere quel punto bianco luccicante? — le disse — è un convento fondato sette secoli or sono da un cavaliere in memoria di sua moglie, quando essa gli morì. Egli medesimo vi entrò e non lo lasciò più. Tu mi sei cara quanto quella donna fu a lui, benché io non andrei in convento se ti perdessi. Ma il grande e brillante salone del mondo sarebbe per me soltanto il tempio della tua memoria, il tuo mausoleo. Permetti però di risolvere fra noi la piccola questione d’onore ancora sospesa. Per penitenza e per punizione devi ripetermi ancora una

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volta la brutale parola che ci ha separati, mia scorte­ se diletta, ma lo devi fare con bocca ridente, cosicché perda il suo triste significato ! Orsù dunque, che cosa di­ cesti? Le circondò intanto le spalle col suo braccio e le prese il mento con l’altra mano. Ma essa scosse la testa e serrò ben strette le labbra. Allora egli le diede un buffetto sulle guance, cercando di aprirle la bocca e ripetendo: — Svelta, parla, muovi la linguetta ! — finché essa con tenera grazia sussurrò quasi impercettibilmente la pa­ rola: — Pitocco ! — ed ebbe un bacio da Jukundi. Mentre si tenevano strettamente abbracciati in silenzio, Justine a un tratto riprese: — Jukundi, e che faremo ora della religione e della Chiesa? — Nulla ! — rispose lui, e dopo breve meditazione proseguì : — Se ciò che è eterno e infinito tace e si cela sempre a tal punto, perché non dovremmo saper noi tacere con serena pace per qualche tempo? Io sono stanco della petulanza e della volgarità di questi ministri inetti che non sanno nulla e che mi vogliono pur sempre far da guida. Quando le grandi figure sono uscite da una reli­ gione, crollano i loro templi e il resto è silenzio. Ma il si­ lenzio e la pace conquistati non sono la morte, bensì la vita che continua e illumina, al pari di questa mattina domenicale, e noi possiamo procedere con buona co­ scienza, attendendo le cose che verranno o che non ver­ ranno. Procediamo uniti e con buona coscienza; non la­ sciamoci dilaniare la testa, il cuore e la mente o l’animo da volgari e miserabili luoghi comuni; poiché dovremo pre­ sentarci come personalità inscindibili al giudizio che tut­ ti raggiunge ! Justine, durante questo suo discorso, fissava di conti­ nuo il marito con volto arrossato, sentendo che da un pezzo l’avrebbe potuto udir parlare con tanta sincerità, se in lui invece che nel sacerdote avesse posto la sua confidenza. Fossero sagge o stolte, le parole di Jukundi le piacquero

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oltre misura, a prova che ormai essa del tutto gli appar­ teneva. — Amen ! — disse Jukundi — ho paura che comincio anch’io a predicare ! — Non dire amen ! — esclamò Justine — continua a parlare ! Pensa che questo vivaio di alberelli sia la tua comunità e predicale come quei santi che predicarono alle pietre o ai pesci ! — No, il rito è finito ! Non senti il segnale? — rispose Jukundi ridendo, poiché in realtà in quel momento le campane di lontano annunciavano la fine del culto do­ menicale. S’alzarono e s’avviarono lentamente verso la casa dei nonni, alla quale giunsero a mezzodì. I vecchi avevano fatto salire da Schwanau l’intera famiglia per celebrare una bella festa di riconciliazione e preparato un pasto semplice e succulento, secondo l’uso campestre. Quando giunse la bella coppia rappacificata erano tutti riuniti. Regnò da principio una certa imbarazzata tensione, ma quando si vide che il sorriso perduto era tornato sui due volti, la luce dell’antica letizia si diffuse su tutta la casa. La Stauffacherin era radiosa come una stella e riprese il timone per guidare di nuovo la rotta della nave ormai riparata. Justine andò a vivere con suo marito in città, dove i suoi affari prosperarono ed egli perdette la sua eccessiva credulità ottimistica, senza peraltro diventare falso e in­ gannatore. Ebbero un figlio e una figlia, cui diedero il nome di Justus e di Jukunde, e che continuarono l’eredità della loro fiorente e sorridente bellezza. Andavano spesso a trovare le pie donne Ursula e Agathchen, non lasciandole mancare di nulla. La strega aveva mutato alloggio, non riuscendo a sopportare vicina quella perfetta innocenza. Il pastore, di cui Justine aveva sorpreso un’ora di de­ bolezza, si recava talvolta da loro e si confidava volentieri ai due coniugi. Continuò ancora per un certo tempo la sua ambigua danza sulla corda, ma fu felice quando,

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per mediazione di Jukundi, potè entrare in un’azienda commerciale nella quale si dimostrò ben più pratico e furbo di quanto avesse fatto Jukundi stesso a Seldwyla e a Schwanau, poiché a lui, al parroco, non la si dava fa­ cilmente a intendere.

SETTE LEGGENDE

PREFAZIONE

Avendo Ietto alcune leggende, parve all’autore di que­ sto libretto che nel complesso di tali saghe si manifestasse non solo l’arte della favola religiosa, ma anche a guar­ dar bene, la traccia di un’antica e più profana passione per il novellare. Ora, come un particolare di nubi, un profilo di mon­ tagne, un’incisione di un artista dimenticato spingono il pittore a riempire una cornice, così l’autore s’è sentito invogliato a ridar forma a quelle immagini frammenta­ rie e fluttuanti; certo è avvenuto che talora esse vol­ gano il viso verso un punto cardinale diverso da quello della loro posa tradizionale. Su questa vastissima materia ci si potrebbe diffondere con la massima ampiezza; ma il gioco innocente può, credo, acquistarsi il posticino a cui aspira, soltanto quan­ do sia moderato.

EUGENIA La donna non porti indosso abito d'uomo; l'uomo altresì non vesta roba di donna; perciocché chiunque fa cotali cose è in abbominio al Signore Iddio tuo. Deuteronomio, 22, 5.

Quando le donne trascurano l’ambizione alla bellezza, alla grazia e alla femminilità, per emergere in altri cam­ pi, va a finire che spesso camminano vestite di panni maschili. Questa smania di farla da uomo la troviamo già nelle pie leggende dei primi tempi cristiani, e più d’una santa di allora fu invasa dal desiderio di romperla con la tra­ dizione della propria famiglia e della società. Ne diede un esempio anche la gentile fanciulla romana Eugenia, seppure col risultato non insolito di dover ri­ correre, dopo essersi messa negli impicci con le sue prefe­ renze mascoline, alle risorse del proprio sesso per salvarsi. Era figlia d’un nobile romano che viveva con la fami­ glia ad Alessandria, città formicolante d’ogni sorta di filosofi e scienziati. Eugenia ebbe quindi un’educazione e un’istruzione accurata e, appena fu cresciuta un tan­ tino, frequentò come uno studente tutte le scuole dei filosofi, scoliasti e retori, accompagnata sempre da due graziosi giovinetti della sua età. Questi erano i figlioli di due liberti del padre, allevati per farle compagnia e prender parte a tutti gli studi di lei. Intanto si fece una bella ragazza che non se ne trovava un’altra eguale, e i suoi compagni, i quali - caso strano si chiamavano Hyacinthus tutti e due, diventarono anche loro due fiori di giovani ; e dovunque si mostrasse quella rosa gentile di Eugenia si vedevano bisbigliare anche i Hyacinthi, uno a destra, l’altro a sinistra, o tutti e due dietro di lei, mentre essa volgeva il capo verso di loro a disputare. Né s’erano visti compagni d’una sapientona meglio educati di loro: non erano mai di parere diverso da Eueenia. e la loro sanienza si fermava semnre due dita

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più giù della sua, in modo che lei aveva sempre ragione ed era sicura di non dire mai spropositi più gravi di quelli dei suoi camerati. Tutti i topi di biblioteca di Alessandria componevano elegie ed epigrammi per la sua bellezza degna delle Muse e i buoni Hyacinthi la seguivano recando le tavolette d’oro, sulle quali avevano dovuto scrivere quei versi con ogni cura. Di anno in anno Eugenia si faceva più bella e più sa·, piente, e già passeggiava per i labirinti della dottrina neoplatonica, allorché il giovane proconsole Aquilinus s’innamorò di lei e la chiese a suo padre. Questi però era tanto compreso di quella sua figliola che, malgrado la patria potestà romana, non osò farle alcuna proposta e rimise il pretendente alla volontà di lei ; e sì che Aquilinus gli sarebbe stato il genero più benvenuto. Ma anche Eugenia segretamente gli aveva messo gli occhi addosso già da parecchio tempo, poiché era l’uomo più bello e cavalleresco di Alessandria ed era considerato persona di spirito e di cuore. Tuttavia ella ricevette il console innamorato con cal­ ma dignitosa tra i suoi rotoli di pergamena, i due Hya­ cinthi dietro alla sedia. Il primo era vestito d’azzurro, l’altro aveva un abito color di rosa, mentre lei indossava una veste candida; un forestiero non avrebbe distinto se erano tre bei fanciulli o tre vergini fiorenti. Il vigoroso Aquilinus, avvolto in una toga semplice e seria, si presentò dunque davanti a quel tribunale, ma avrebbe preferito dare sfogo alla sua passione con tene­ rezza e intimità; vedendo però che Eugenia non licen­ ziava i due giovani, sedette davanti a lei e le fece la sua domanda con parole brevi e ferme, durando fatica a do­ minarsi, perché teneva fissi gli occhi su di lei e ne ammi­ rava la vaga leggiadria. Eugenia sorrise appena, senza arrossire, fino a tal se­ gno l’erudizione e la cultura avevano incatenato in lei i moti normali del cuore. Prese dunque un’aria seria e pensosa e rispose: — Il tuo desiderio, Aquilinus, di prendermi in moglie

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mi onora moltissimo, ma non deve trascinarmi a un’im­ prudenza; ché tale sarebbe se seguissimo il primo impulso senza conoscerci a vicenda. La prima condizione che dovrei porre al mio eventuale marito è che comprenda e rispetti la mia vita spirituale e le mie aspirazioni e vi prenda parte attiva. Tu sarai quindi il benvenuto, se vorrai frequentare la mia casa ed esercitarti, in gara con questi miei compagni, a sviscerare con me i massimi problemi. Allora non mancheremo di scoprire se siamo fatti l’una per l’altro, e dopo un certo periodo di attività spirituale in comune saremo in grado di conoscerci come si addice a esseri creati da Dio, desiderosi di vivere non nelle tenebre, ma nella luce. A questa solenne richiesta, Aquilinus, che si sentiva ri­ bollire dentro, replicò con orgoglio tranquillo : — Se io non ti conoscessi, non ti avrei chiesta in moglie, e quanto a me, mi conoscono la grande Roma e le pro­ vince. Se il tuo sapere non basta per capire fin d’ora chi sono; temo che non basterà neanche in avvenire. Né sono venuto per ritornare a scuola, ma per avere una compa­ gna nella vita; e a proposito di cotesti fanciulli, se tu mi concedi la tua mano, il mio primo desiderio sarebbe che tu li rimandassi ai loro genitori perché siano loro d’aiuto e giovamento. E ora ti prego di dirmi il tuo pensiero, non da scienziata, ma da donna in carne e ossa. Ora si che la bella filosofessa s’era fatta rossa come un garofano purpureo, e mentre il cuore le batteva forte disse: — Il mio pensiero è presto detto, perché capisco dalle tue parole che non mi ami, o Aquilinus ! Ma questo mi potrebbe essere indifferente, se non fosse indegno della figlia di un nobile romano stare ad ascoltare delle men­ zogne ! — Io non mento mai ! — disse Aquilinus con freddez­ za — Addio! Eugenia volse il capo senza rispondere al saluto, men­ tre Aquilinus usciva lentamente per tornarsene a casa. Essa cercò di rituffarsi nei libri come nulla fosse stato; ma lo scritto le si confondeva davanti agli occhi, sicché

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fece leggere i Hyacinthi, mentre i suoi pensieri ardenti d’ira vagavano altrove. Ché se fino a quel giorno il console le era sembrato l’unico pretendente che avrebbe accettato, se mai, per marito, ora le appariva come una pietra di scandalo e non riusciva a passarci sopra. Aquilinus d’altro canto sbrigava tranquillamente i suoi affari e sospirava in segreto per la propria stoltezza che non gli faceva dimenticare la bella pedante. Passarono quasi due anni, durante i quali Eugenia di­ ventò sempre più avvenente e si fece un fiore di bellezza, mentre i Hyacinthi erano ormai due giovanotti robusti cui cominciavano a spuntare i baffi. Benché da tutte le parti sorgessero delle critiche a quell’insolito rapporto e, invece degli epigrammi ammirativi, facessero capolino gli spunti satirici, Eugenia non sapeva decidersi a licen­ ziare quei suoi satelliti; o non era Aquilinus che glieli aveva voluti vietare? Ma egli andava per la sua strada e sembrava che non si curasse di lei; a sua volta però non guardava altre donne e già si udiva qualche voce di biasimo perché un funzionario par suo continuava a vivere da scapolo. Eugenia, ostinata com’era, si guardava tanto più dal mandar via i compagni indecorosi per non dargli un qualsiasi segno d’incoraggiamento; essa era anche affa­ scinata dall’idea di sfidare le comuni usanze e l’opinione pubblica rendendo conto soltanto a se stessa e conservan­ do la coscienza della propria purezza in condizioni che per tutte le altre sarebbero state pericolose e inaccettabili. Si può dire che stravaganze di questo genere fossero allora nell’aria. Eppure Eugenia non era contenta; i suoi dotti ser­ vitori dovevano sprofondarsi nella filosofia del cielo, della terra e dell’inferno, per essere interrotti all’improv­ viso coll’ordine di accompagnarla in campagna per ore e ore, senza che lei si degnasse di rivolger loro la parola. Una mattina volle recarsi a un suo podere; guidava il cocchio da sé ed era di ottimo umore; era infatti una limpida giornata primaverile e l’aria era pregna di pro-

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fumi. I Hyacinthi si godevano quell’allegria e così attra­ versarono uno dei sobborghi dove era concesso ai cristiani di tenere le loro funzioni. Era domenica e dalla chiesa di un convento di frati veniva un canto devoto; Eugenia fermò i cavalli per ascoltare ed afferrò le parole del sal­ modiarne: «Come la cerva agogna le fonti, così l’anima mia te, o Dio ! L’anima mia è assetata di Dio, dell’Iddio vivente». Al suono di quelle parole cantate da bocche umili e pie, la sua anima artificiosa finalmente si semplificò, il suo cuore ne fu colpito e parve capire ciò che voleva. Lentamente, senza far motto, essa proseguì verso il po­ dere. Là si vestì da uomo, fece cenno ai Hyacinthi e partì con loro senza farsi scorgere dalla servitù. Ritornò al con­ vento, bussò e presentò al superiore sé e i suoi compagni per giovani desiderosi di essere accolti nel convento al fine di ritirarsi dal mondo e dedicarsi alle cose eterne. Istruita com’era seppe rispondere così bene alle domande del superiore che questi, persuaso di aver a che fare con persone nobili e colte, li accolse tutti e tre facendo loro indossare l’abito religioso. Eugenia era un bel monaco, quasi angelico, e si chia­ mò frate Eugenius e i Hyacinthi, volere o no, si videro trasformati in frati anche loro, senza che nessuno avesse chiesto il loro consenso, tanto erano avvezzi a vivere secondo la volontà di quella donna. Ma non si trovarono male nella vita monastica, poiché le loro giornate erano molto più tranquille, limitandosi la loro vita, senza al­ cun obbligo di studiare, all’ubbidienza passiva. Frate Eugenius però non si concedeva riposo e diventò un monaco celebre, dal viso bianco come il marmo, dagli occhi ardenti, dal portamento d’arcangelo. Egli conver­ tiva molti pagani, curava i malati e i poveri, si sprofon­ dava nella Scrittura, predicava con voce d’oro squillan­ te, e, quando morì il superiore, fu eletto al suo posto, sicché la gentile Eugenia ebbe sotto di sé settanta buoni frati, grandi e piccoli. Dopo la sua inesplicabile scomparsa insieme ai com­ pagni, suo padre non riuscendo a trovarla aveva mandato

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a interrogare un oracolo, il quale annunciò che Eugenia era stata rapita dagli dèi e collocata tra le stelle. Infatti i sacerdoti approfittarono dell’avvenimento per ostentare ai cristiani un miracolo, mentre questi avevano ormai il pollo in pentola. Si giunse persino a mostrare in cielo una stella del firmamento con due piccoli satelliti, come la nuova costellazione ; gli Alessandrini per le strade e sui tetti delle case guardavano in alto, e più d’uno che l’a­ veva vista e ne ricordava la bellezza, se ne innamorò allora e stette a fissare con gli occhi umidi la stella che navigava tranquilla per la volta buia. Anche Aquilinus guardò lassù; ma scosse la testa, perché la faccenda non era abbastanza persuasiva. Tan­ to più fermamente invece ci credeva il padre della scom­ parsa, il quale si sentiva non poco lusingato e, coll’aiuto dei sacerdoti, ottenne si erigesse una statua a Eugenia e le si attribuissero onori divini. Aquilinus, dalla cui autori­ tà dipendeva la concessione, la diede a patto che si fa­ cesse l’immagine somigliantissima alla giovane rapita, il che non era difficile, perché esisteva una gran quantità di busti suoi e ritratti, sicché la statua marmorea fu col­ locata nel pronao del tempio di Minerva, dove gli dèi e gli uomini potevano ammirarla ; infatti, nonostante la somiglianza perfetta, era idealizzata nel capo, nel porta­ mento, nelle vesti. Quando giunse al convento quella novella, i settanta frati si adirarono profondamente, per la boria dei pagani, per la creazione di un nuovo idolo e per l’adorazione sfacciata di una donna mortale. Più di tutto tempesta­ vano contro la donna stessa, che appellavano vagabonda, ciarlatana e imbrogliona, e durante il pasto si sollevò un baccano fuori dell’ordinario. I Hyacinthi, che erano di-, ventati due pretonzoli bonaccioni e tenevano sepolto nel cuore il segreto del superiore, gli lanciarono un’occhiata espressiva, ma egli fece loro cenno di tacere e lasciò che gl’improperi e il tumulto gli si scatenassero addosso in espiazione dello spirito peccaminoso di quando era pa­ gano. Ma nella notte - poteva esserne passata la metà - Eu-

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genia si alzò dal suo giaciglio, prese un martello e uscì in silenzio dal chiostro per cercare l’immagine e abbatterla. Trovò facilmente il quartiere luccicante di marmi dove sorgevano i templi e i palazzi pubblici e dove lei aveva vissuto la sua giovinezza. Non c’era un’anima in quel mondo di pietra silenzioso; e mentre il frate donna saliva i gradini del tempio, la luna sorgeva sopra le om­ bre della città e versava il suo chiarore fra le colonne del pronao. Eugenia vide allora la propria figura bianca come la neve fresca, meravigliosamente leggiadra, con le vesti pieghettate tirate modestamente sulle spalle, che guardava sorridendo davanti a sé con l’espressione estatica. La cristiana si avvicinò con curiosità, alzando il mar­ tello; ma un brivido di dolcezza la scosse quando potè vedere in pieno la bella immagine ; abbassò il martello e stette ad ammirare il proprio passato. Una tristezza amara la prese, l’idea di essere stata respinta da un mondo più bello e di vagare, ombra sconsolata, in un deserto ; che se la statua era elevata a un’espressione idea­ le, essa rappresentava appunto perciò quell’intima es­ senza di Eugenia che la sua pedanteria aveva soltanto mascherato, né era vanità, ma un sentimento più nobile, quello che le fece riconoscere la parte migliore di sé nel magico chiarore della luna. Allora ebbe l’impressione di aver giocato una carta falsa, per dirla modernamente, poiché certo allora le carte non c’erano. A un tratto si udì il passo rapido di un uomo; Eugenia si nascose istintivamente nell’ombra d’una colonna e vide avanzare la figura maschia di Aquilinus. Lo vide arre­ starsi davanti alla statua, contemplarla a lungo, cingerle il collo con un braccio e baciare sommesso le labbra mar­ moree; avvolgersi poi nel suo mantello e allontanarsi len­ tamente, volgendosi più di una volta a riguardare l’im­ magine luminosa. Eugenia tremava così forte che se n’accorse, e accesa d’ira violenta andò di nuovo contro la statua col martello alzato per farla finita con quell’ap­ parizione vergognosa; ma invece di mandare in frantumi la bella testa, scoppiò in lacrime e baciò anche lei quelle

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labbra, dandosi quindi alla fuga, perché s’udirono sonare i passi della guardia notturna. Con grande angoscia ritornò alla sua cella e non riuscì a pigliar sonno tutta la notte, fino al levar del sole ; mentre poi perdeva il mat­ tutino, sognava un vortice di cose che non ci avevano niente a che vedere. I monaci rispettarono il sonno del superiore creden­ dolo conseguenza di veglie spirituali. Infine si videro costretti a svegliare Eugenia perché c’era un dovere par­ ticolare da compiere. Una nobile vedova, che affermava d’essere ammalata e bisognosa di assistenza cristiana, l’aveva mandata a chiamare chiedendo il consiglio e il conforto spirituale del superiore Eugenius, che ella ve­ nerava già da gran tempo. I monaci non volevano lasciar­ si sfuggire quella conquista che avrebbe accresciuto l’au­ torità della loro chiesa e svegliarono Eugenia. Ancora sconvolta e con le guance dolcemente rosate come non le s’eran viste da molto tempo, uscì, ma i suoi pensieri erano più tra i sogni mattutini e tra le colonne del tempio not­ turno che tra le cose presenti. Entrò in casa della pagana, e, introdotta nella sua stanza, vi fu lasciata sola con lei. Una bella donna di forse trent’anni giaceva su un lettuccio, ma non da malata e contrita, bensì ardente d’orgoglio e vitalità. Durò fatica ad apparire calma e compunta, finché invitò il sedicente monaco a prender posto accanto a lei; allora gli prese le mani candide, vi premette la fronte e le cosparse di baci. Eugenia, che, smarrita tra i suoi pensieri, non aveva posto mente all’aspetto empio della donna, e prendeva quel comportamento per umil­ tà e devozione, la lasciò fare, tanto che quella si sentì incoraggiata e le buttò le braccia al collo, credendo di abbracciare un bellissimo fraticello. Prima che se ne rendesse conto, questi si sentì stretto appassionatamen­ te, mentre sulla sua bocca scendeva una gragnuola di baci violenti. Tutta stordita Eugenia si destò finalmente dalla sua distrazione, ma ci voi ; del buono e del bello prima che le venisse fatto di sciogliersi da quell’abbraccio sel­ vaggio e di rizzarsi in piedi. Ed ecco che la lingua del demonio pagano cominciò

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a muoversi; con un turbine di parole quella diavolessa confessò al frate atterrito il suo amore e il suo desiderio e cercò di dimostrargli in tutti i modi che la sua bellezza e la sua giovinezza avevano il dovere di appagare quel deside­ rio e che il suo compito era soltanto quello. E intanto conti­ nuavano l’assalto e le tenere seduzioni, tanto che Euge­ nia non sapeva come difendersi ; ma infine ritrovò la sua energia, e, lanciando dagli occhi lampi di sdegno, diede a quel mostro una tale lavata di testa e gli rispose con tali maledizioni (soltanto un frate le sa trovare) che quel­ la, visto fallire il suo piano malvagio, si tramutò di colpo e corse al ripiego, che fu già adottato dalla moglie di Putifarre e poi da cento e mille altre. Balzò come una tigre su Eugenia, la strinse tra le braccia d’acciaio, la tirò a sé sul lettuccio levando alte strida, di maniera che le ancelle si precipitarono da ogni parte. «Aiuto! aiuto!» gridava «costui mi vuol fare violen­ za !» e in quella respinse Eugenia che rimase lì sbalordita, senza fiato, atterrita. Le donne accorse si misero a urlare anche più della padrona, a correre di qua e di là, a chiamare soccorsi maschili. Eugenia per lo spavento non seppe proferir parola, e fuggì da quella casa con vergogna e ribrezzo, inseguita dal gridio e dalle esecrazioni di quella gente infuriata. La vedova satanica non mancò di andare difilato, con un buon seguito, dal console Aquilinus e di accusare il frate dell’azione più abominevole, raccontando com’era entrato ipocritamente in casa sua, prima per cercar d’imporle la conversione, poi, fallito il tentativo, per tentare di rubarle l’onore con la violenza. Siccome il seguito confermava la verità di quella deposizione, Aquilinus indignato fece occupare a mano armata il convento e portare al suo cospetto il superiore con tutti i frati per giudicarli. «Son coteste le vostre opere, infami ipocriti?» disse loro con voce severa «Avete la cresta già tanto alta che, appena tollerati, offendete l’onore delle nostre donne e andate in giro come lupi affamati? Son queste le cose

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che v’ha insegnato e ordinato il vostro Maestro, che io onoro più di voi, o mentitori? Certo che no. Siete una banda di miserabili che vi ammantate d’un nome per tesser di nascosto le vostre arti malvagie! Difendetevi, se potete, contro l’accusa!». La vedova svergognata ripete il suo racconto menzo­ gnero, simulando sospiri e lacrime. Quand’ebbe finito e si fu riavvolta pudicamente nel suo velo, i monaci si guardarono l’un l’altro spaventati, guardarono il loro superiore, della cui virtù non dubitavano, e levarono le loro voci per allontanare da sé la falsa accusa. Ma non solo la servitù di quella bugiarda, bensì anche molti vicini e passanti, che avevano visto uscire dalla sua casa il superiore, confuso e vergognoso, e lo ritenevano quindi colpevole, fecero testimonianza a gran voce, sopraffa­ cendo con le loro grida la difesa dei frati. Questi fissavano ora gli occhi dubitosi sul superiore e i più anziani tra loro notavano con sospetto la sua aria giovanile. Dissero che, se era colpevole, non sarebbe sfug­ gito al giudizio di Dio, come per conto loro essi lo affida­ vano al giudice terreno ! Tutti gli occhi erano rivolti ad Eugenia che se ne stava abbandonata in mezzo all’assemblea. L’avevano trovata singhiozzante nella sua cella, quand’erano venuti ad arrestarla insieme con gli altri frati, e tutto il tempo era rimasta a occhi bassi col cappuccio tirato sulla fronte, in una situazione assai penosa: poiché, se manteneva il segreto della sua origine e del suo sesso, soggiaceva alla falsa testimonianza, e, se si dava a conoscere, la bufera contro il convento si sarebbe scatenata più violenta, perché un convento con una bella giovane per superiore doveva aspettarsi i sospetti più atroci e le beffe del mondo pagano già maldisposto. Tuttavia non avrebbe provato quei timori e quelle incertezze se il suo cuore, a giudizio di monaco, fosse stato puro; ma già dalla scorsa notte durava nel suo cuore un dissidio, e l’infausto in­ contro con la donna perfida l’aveva sconcertata più an­ cora, sicché non ebbe il coraggio di farsi avanti decisa e produrre un miracolo.

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Ma quando Aquilinus la invitò a parlare, ella si ricordò del suo affetto, e con piena fiducia in lui trovò un ripiego. Con voce piana e umile disse che non era colpevole e l’avrebbe dimostrato al console se le concedeva di par­ lare sola con lui. Il suono di quella voce commosse Aqui­ linus senza ch’egli sapesse perché, e le accordò di par­ largli a quattr’occhi. La fece condurre a casa sua e si tro­ vò solo con lei in una stanza. Eugenia alzò allora gli oc­ chi, sollevò il cappuccio e disse: — Io sono Eugenia, quella che tu desiderasti una volta in moglie. Egli la riconobbe subito e fu certo che fosse lei ; ma su­ bito si sentì ardere di rabbia e gelosia, perché la ritrovava d’un tratto come colei ch’era vissuta tutto quel tempo nascosta fra settanta monaci. Per questo si dominò e, guardandola con occhio indagatore, fece finta di non prestar fede alle sue parole, e disse: — Tu somigli infatti a quella stolta giovane. Ma que­ sto non mi riguarda; voglio sapere invece che cosa hai fatto con quella vedova. Eugenia raccontò il fatto angosciata e intimorita, e Aquilinus capì dal racconto tutta la falsità e cattiveria dell’accusa, ma rispose con apparente freddezza: — Se tu sei Eugenia, in che modo pretendi di esser diventata un frate? Con quali intenzioni? e come fu possibile? A queste parole lei arrossì e chinò gli occhi imbaraz­ zata : ma non le dispiaceva di trovarsi lì e di poter final­ mente parlare di sé e della sua vita con un buon cono­ scente; perciò non si fece pregare e raccontò franca­ mente tutto quanto era avvenuto dal momento della sua scomparsa ; salvo che non disse verbo dei due Hyacinthi. A lui quel racconto fece buona impressione, e di minuto in minuto gli riusciva più difficile nascondere il proprio compiacimento per aver ritrovato la bella Eugenia. Ma ancora si fece forza, desiderando sentire come s’era com­ portata sino alla fine, per esser sicuro di aver davanti a sé l’Eugenia di una volta, onesta e pura. Disse perciò:

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— Hai presentato bene la tua storia; ma a onta delle sue stranezze non ritengo la giovane, che dici di essere, capace di tali avventure troppo stravaganti; non foss’al­ tro, la vera Eugenia avrebbe preferito farsi monaca. Qual merito, quale salute può essere infatti, sia pure per la donna più colta e pia, un saio di frate, e la vita in mezzo a settanta monaci? Credo quindi ancora che tu non sia altro che uno sbarbatello simulatore ! Per di più quella Eugenia fu dichiarata divina e abitante fra le stelle, la sua immagine consacrata è nel tempio, e male t’incoglierà se vorrai persistere nelle tue affermazioni sa­ crileghe. — Quell’immagine, un tale l’ha baciata questa not­ te! — sussurrò Eugenia lanciando un’occhiata strana ad Aquilinus che la fissava come un essere dotato di chiaroveggenza ultraterrena — Come può lo stesso uomo torturare l’originale? Ma egli, lottando con la propria perplessità, finse di non udire e continuò, freddo e severo: — In breve, per l’onore di quei poveri frati cristiani che mi sembrano innocenti, non posso, non voglio credere che tu sia una donna. Prepàrati al giudizio, perché le tue parole non m’hanno soddisfatto. Eugenia allora gridò: — Che Dio mi aiuti ! — e lacerò il suo saio, lasciandosi cadere, disperata e vergognosa, pallida come una rosa bianca. Aquilinus la accolse fra le braccia, la strinse al cuore, avviluppandola nel suo mantello, mentre le sue lacrime cadevano sul bel capo di lei ; poiché egli aveva ca­ pito ch’era una donna onesta. La portò nella stanza atti­ gua, la depose cautamente su un ricco lettuccio e la coperse fino al mento di coltri purpuree. La baciò poi sulla bocca, tre, quattro volte, usci e chiuse bene la porta. Prese poi il saio ancora tepido che giaceva per terra, e, presentatosi alla folla in attesa, parlò così: «Si tratta di cose singolari. Voi monaci siete innocenti e potete rien­ trare nel vostro convento. Il vostro superiore era un de­ monio che voleva perdervi o sedurvi. Prendetevi la sua tonaca e appendetela da qualche parte per memoria;

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infatti, dopo aver mutato stranamente forma davanti ai miei occhi, si dileguò e scomparve senza lasciar traccia ! Cotesta donna invece, che si servì del demonio per man­ darvi in rovina, è sospetta di magia e sia messa quindi in prigione. Tornate dunque tutti alle vostre case e state di buon animo ! ». Tutti stupirono a udir quel discorso e guardarono con spavento la veste del demonio. La vedova impallidì e si coprì la faccia, segno evidente che non aveva la coscienza pulita. I buoni frati si rallegrarono della vittoria e se n’andarono riconoscenti con la tonaca vuota, senza so­ spettare quanta dolcezza avesse racchiuso. La vedova fu messa in prigione e Aquilinus chiamò il più fedele dei suoi servi, e andò con lui dai mercanti per comperare un mucchio di abiti femminili preziosissimi. Lo schiavo ave­ va l’incarico di portarli a casa di soppiatto, il più presto possibile. E il console entrò pian piano nella stanza di Eugenia, si sedette sulla sponda del letto e vide che dormiva sapo­ ritamente come chi si ristora dai passati guai. Gli venne da ridere di quella testa da frate coi capelli corti, neri, vellutati, e vi passò leggermente la mano. In quella Eugenia si destò e spalancò gli occhi. «Vuoi essere finalmente mia moglie?» le domandò Aquilinus dolcemente; ella non disse né sì né no, ma fu scossa da un brivido sotto le coperte di porpora, nelle quali era avvolta. Aquilinus le portò allora tutti gli abiti e gli orna­ menti che occorrevano a quei tempi a una donna ele­ gante per vestirsi da capo a piedi, e uscì. Quel giorno stesso, dopo il tramonto andò con lei e coll’unico schiavo fidato in una delle sue ville di cam­ pagna, che sorgeva solitaria e deliziosa all’ombra di alberi fitti. Nella villa i due si sposarono in perfetta solitudine, e se c’era voluto tanto tempo per unirsi, pure quel tempo non parve loro perduto; al contrario, provarono una profonda gratitudine per la felicità che s’erano serbati a vicenda. Aquilinus dedicava le giornate al suo ufficio,

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e si recava ogni sera coi cavalli più veloci da sua moglie. Salvo che in certe giomatacce di pioggia e tempesta pre­ feriva partire più presto e arrivare alla villa d’improvviso, per rallegrare Eugenia. Questa, senza star troppo a discutere, si dedicava all’a­ more e alla fedeltà coniugale con la stessa perseveranza con cui s’era data dianzi alla filosofia e all’ascesi cristiana. Ma quando i suoi capelli ebbero riacquistato la lunghezza dovuta, Aquilinus, inventando abilmente una favola, ri­ portò sua moglie ad Alessandria, la ricondusse dai suoi genitori stupefatti e festeggiò le nozze sontuosamente. Il padre fu alquanto stupefatto di ritrovare in sua figlia, invece d’una dea immortale e d’una costellazione celeste, una donna terrena innamorata, e vide con tristezza ri­ muovere l’immagine sacra dal tempio; ma - sia detto a sua lode - il piacere di riavere in carne e ossa la figliola, fattasi bella e amabile come non mai, ebbe il soprav­ vento. Aquilinus collocò la statua marmorea nella stanza più bella della sua casa, ma si guardò bene dal baciarla ancora, poiché ora aveva a portata di mano l’originale vivente. Quando Eugenia ebbe ben compreso la natura del ma­ trimonio, si accinse a convertire suo marito al cristiane­ simo, cui era rimasta fedele, e non si diede pace finché Aquilinus non ebbe professato in pubblico la medesima fede. La leggenda narra ancora che tutta la famiglia ritornò a Roma al tempo di Valeriane, nemico dei cristiani, e che durante le persecuzioni Eugenia diventò una celebre martire, dando prova della sua grande forza d’animo. La sua influenza su Aquilinus crebbe talmente che da Alessandria potè portarsi a Roma anche i due Hyacinthi, i quali si acquistarono anche essi la corona del martirio. Si dice che la sua intercessione valga particolarmente per le scolare pigre, rimaste indietro negli studi.

LA VERGINE E IL DEMONIO Amico, destati e vigila Il diavolo ti gira costantemente intorno, e se ti viene addosso, sei già bell'e spacciato,

Silesius, Il pellegrino serafico, vi, 206

C’era una volta un certo conte Gebizo1 che aveva una moglie di bellezza meravigliosa, un magnifico castello con intorno la città e tanti beni da essere reputato uno dei signori più ricchi e più felici del paese. E pareva che accettasse quel giudizio altrui con animo grato, poiché non solo offriva la sua splendida ospitalità, mentre la sua bella e buona donna riscaldava come un sole i cuori degli ospiti, ma esercitava anche ampiamente la carità cristiana. Fondava e dotava chiostri e ospedali, abbelliva chiese e cappelle e nelle grandi ricorrenze donava abiti, cibi e bevande a un grande numero di poveri, talvolta a delle centinaia ; anzi voleva che ogni giorno, perfino quasi ogni ora ci fosse nel cortile del suo castello qualche dozzina di poveri a banchettare e a benedirlo, altrimenti la sua casa, per bella che fosse, gli pareva deserta. Ma con una tale liberalità illimitata si finisce col dar fondo anche alle ricchezze più grandi, e cosi fu che il conte, per appagare quella sua gran voglia di beneficare gli altri, dovette ipotecare via via tutti i suoi possedi­ menti e, quanto più affondava nei debiti, tanto più molti­ plicava le donazioni e le feste dei poveri, per cattivarsi di nuovo, come diceva, il favore del cielo. Infine impo­ verì del tutto, il suo castello si spopolò e andò in rovina; ma egli continuò a scrivere, secondo l’antica abitudine, atti di donazione, stolti e vani, non ricevendone altro che beffe, e se gli veniva fatto di attirare di quando in quando al suo castello qualche mendico cencioso, questi gli gettaI. Nome d’invenzione dell’autore, dalla radice del verbo geben (dare), che suggerisce l’idea di una persona che ama donare, ge­ nerosa.

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va dietro la magra broda portatagli innanzi e se n’andava coprendolo di contumelie. Una cosa sola non era mutata, la bellezza di sua moglie Bertrade ; anzi, quanto più desolata era la casa, tanto più luminosa appariva quella bellezza. E più Gebizo diventava povero, tanto più crescevano la grazia, l’af­ fetto, la bontà di lei, di modo che tutte le benedizioni del cielo sembravano piovere su quella donna e mille uomini invidiavano il conte per il tesoro che gli era ri* masto. Ma egli non se n’accorgeva e, quanto più la dolce Bertrade si sforzava di allietarlo e raddolcirgli la sua mi­ seria, tanto più egli spregiava quel gioiello e si chiudeva in una melanconia tetra e ostinata, fuggendo il mondo. Venne un bel mattino di Pasqua, giorno in cui era solito veder arrivare al suo castello schiere gioconde di pellegrini, ed ebbe tanta vergogna della sua caduta ché non ardì neanche andare in chiesa, e almanaccava di* sperato come passare le belle feste piene di sole. La sua donna, con le lacrime agli occhi e la bocca sorridente^ lo pregò invano di non accorarsi e di venire in chiesa coti lei, fiducioso; egli si divincolò bruscamente e scappò a nascondersi nei boschi, finché fosse passata la Pasqua. Salendo, scendendo, di colle in colle, giunse in una selva antica, dove c’era un laghetto cinto da enormi abeti barbati che si specchiavano neri e in tutta la loro altezza in quell’acqua profonda, creando un quadro te­ tro e cupo. Il suolo intorno al laghetto era coperto di strani muschi sfrangiati che smorzavano ogni rumore di passi. Gebizo si mise a sedere e s’adirava contro Iddio per il suo destino sciagurato che non gli dava neanche tanto da togliersi la fame, dopo che egli aveva colmato di gioie migliaia di persone, e gli ricompensava le sue buone azio­ ni con lo scherno e l’ingratitudine del mondo. 1 A un tratto scorse in mezzo al lago una barca con un uomo di alta statura. Siccome il lago era piccolo e l’oc­ chio lo poteva abbracciare tutto, Gebizo non sapeva spiegarsi donde fosse venuto quel barcaiolo, non avendolo visto prima; fatto si è che era lì e con un solo colpo di

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remo fu davanti al cavaliere, prima che questi si fosse riavuto dallo stupore, e balzando a terra gli domandò perché mai facesse quella faccia così agra. Siccome lo sconosciuto, nonostante il bell’aspetto, aveva intorno alla bocca e negli occhi un’aria di profondo malcontento, risvegliò la fiducia di Gebizo, che vuotò liberamente il sacco del suo dispetto e della sua rabbia. — Tu sei uno stolto — replicò quell’altro — poiché possiedi un tesoro più grande di tutto quanto hai perduto. Se io avessi la tua donna che m’importerebbero le ric­ chezze, le chiese, i conventi, e tutti i mendicanti di que­ sto mondo? — Dammi coteste cose, e prendi pure la mia donna ! — disse Gebizo con una risata amara, e quegli di botto: — D’accordo: cerca sotto il guanciale di tua moglie, là troverai quel tanto che basti, per tutta la durata della tua vita, a costruire ogni giorno un convento, e a sfamare mille persone, dovessi campare cent’anni! In cambio portami qua la tua donna, senza fallo, la vigilia di Santa Valpurga ! A quelle parole gli guizzò dal buio degli occhi un lam­ po tale che ne scivolarono via due fiammelle rossastre sulle maniche del conte e di lì sui tronchi degli abeti e sul musco. Gebizo intese con chi aveva a che fare e accettò la proposta. Quegli diede di piglio ai remi e navigò fino in mezzo al lago, dove sprofondò nell’acqua con tutta la barca e con un fragore simile alla sghignaz­ zata di cento campane di bronzo. Gebizo, con la pelle d’oca, prese la via più breve e ri­ tornò al castello, andò a frugare nel letto di Bertrade e trovò sotto il guanciale un vecchio libercolo che non riuscì a leggere. Ma, nello sfogliarlo, ne uscivano zecchini l’uno dopo l’altro. Appena se n’accorse, scese col libro nella più profonda segreta d’una torre e sfogliò, durante le feste pasquali, un bel mucchio d’oro da quell’opera interessante. Poi si fece vedere di nuovo nel mondo, riscattò tutti i suoi possessi, chiamò numerosi operai perché gli riat­ tassero il castello facendolo più bello che mai, e si die­

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de a far del bene come un principe appena incoronato. Ma la sua opera più grande fu la fondazione di un’im­ mensa abbazia per cinquecento canonici, tra i più no­ bili e i più devoti, una vera città di santi e dottori, in mezzo alla quale intendeva farsi seppellire a suo tem­ po: previdenza che gli parve opportuna per la salvez­ za dell’anima. Non predispose invece il sepolcro per la moglie, perché, tanto, le aveva preparato un destino di­ verso. Alla vigilia di Santa Valpurga, verso mezzogiorno, fece sellare i cavalli e ordinò alla bella moglie di montare sul suo cavallo da caccia, perché dovevano fare molta strada. Le comandò altresì di non farsi accompagnare da nessuno scudiero o servitore. La poveretta fu presa da grande angoscia, e tremando tutta, mentì per la prima volta durante il suo matrimonio, dandosi malata e pre­ gando il marito di lasciarla a casa. Ma siccome poco prima aveva canterellato a mezza voce, Gebizo si stizzì per quella menzogna e credette di potersi imporre a maggior ragione. Ella dovette montare a cavallo, tutt’agghindata per giunta, e andò via col marito senza sapere dove. Erano circa a metà del viaggio, allorché arrivarono a una chiesetta che Bertrade aveva fatto costruire a suo tempo, di straforo, dedicandola alla Madonna. L’aveva fatta per amore di un vecchio artista che per i suoi modi scontrosi e poco gentili non otteneva lavoro da nessuno, tanto che anche Gebizo, cui tutti si dovevano presentare riverenti e ossequiosi, non lo poteva soffrire e lo lasciava a mani vuote nonostante le sue numerose iniziative. Ella aveva fatto costruire la chiesuola di nascosto e il maestro vilipeso le aveva dimostrato la sua riconoscenza scol­ pendo nelle ore libere una Madonna di grazia squisita e collocandola sull’altare. Ora Bertrade desiderò di entrare in quella chiesina per un momento a dirvi le sue orazioni, e Gebizo lasciò fare ; pensava infatti che poteva averne bisogno. Ella sce­ se dunque da cavallo, e, mentre suo marito l’aspettava fuori, entrò, si inginocchiò davanti all’altare e si racco­

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mandò alla Vergine Santissima. In quella fu vinta da un sonno profondo; la Vergine scese dall’altare, prese le sembianze e l’abito della dormiente, uscì franca e spedita e montò a cavallo continuando il viaggio a fianco del conte invece di Bertrade. Quel miserabile voleva ingannare ancora la sua donna, e quanto più si avvicinavano alla meta con tanto mag­ gior cortesia cercava di distrarla; parlava del più e del meno mentre la Vergine, fingendo di scuotere da sé ogni ansietà, gli rispondeva con garbo. In amichevoli conver­ sari giunsero verso sera nella boscaglia selvaggia in riva al lago, sopra il quale si libravano delle nuvole fulve; gli antichi abeti buttavano gemme purpuree, come fanno solo nelle primavere più doviziose; dal fitto un rosignolo spettrale mandava i suoi gorgheggi con tanta forza che parevano cembali e canne d’organo, e di tra gli abeti sbucò in groppa a un morello lo sconosciuto, vestito con sfarzo, un lungo spadone al fianco. Si avvicinò con molta grazia, pur lanciando rapidamen­ te a Gebizo un’occhiataccia talmente feroce, che questi si sentì accapponare la pelle ; del resto parve che nemme­ no i cavalli fiutassero sventura, poiché stettero tranquilli. Gebizo buttò tremando le redini della sua donna allo sconosciuto e diè di sprone fuggendo senza voltarsi a riguardarla. Quegli strinse le redini in pugno avidamente e via, come una bufera, tra gli abeti, mentre il velo e la veste della bella donna svolazzavano e schioccavano al vento, per monti e valli, sulle acque correnti, dove gli zoccoli dei cavalli toccavano appena la spuma delle onde. Incalzata dalla tempesta sibilante, una nube rosea e profumata rotolava davanti ai destrieri e luceva nel cre­ puscolo; e il rosignolo volava invisibile davanti ai due, po­ sandosi di quando in quando sopra un albero, e l’aria risuonava del suo canto. Infine i colli e gli alberi cessarono e i due si trovarono a cavalcare sopra una landa sconfinata dal cui mezzo veniva, come da lontano lontano, il canto del rosignolo, benché non ci fosse ombra d’albero o di ramo su cui potesse posarsi.

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A un tratto lo sconosciuto si fermò, balzò di sella e aiutò la donna a scendere con l’attitudine di perfetto cavaliere. Essa aveva appena toccato terra che intorno a loro sbocciò un roseto alto quanto un uomo, con una magnifica fontana e un sedile e, in alto, un cielo stel­ lato così luminoso che a quella luce si sarebbe potuto leggere. La fontana aveva una vasca rotonda in cui al­ cuni diavoli, a quel modo che oggi si fanno i quadri vi­ venti, formavano e rappresentavano un bianco gruppo marmoreo di belle ninfe seducenti. Queste versavano acqua scintillante dal cavo delle mani, e dove la pren­ dessero lo sapeva soltanto il loro maestro e signore; l’ac­ qua faceva una musica dolcissima perché ogni zampillo aveva un suono diverso e tutti insieme erano accordati come un’arpa. Era, per così dire, una fisarmonica ad acqua, nei cui accordi vibravano tutte le dolcezze della prima notte di maggio confondendosi con le forme deli­ ziose delle ninfe; il quadro vivente infatti non stava fermo, ma si moveva e mutava insensibilmente. Non senza commozione quello strano signore condusse la donna verso la panca pregandola di prendere posto, ma poi afferrò con tenerezza violenta la sua mano e disse con una voce da straziare i timpani: «Io sono l’eternamente solo che cadde dal cielo! Soltanto l’amore di una buona donna terrena nella notte di maggio mi fa dimenticare il Paradiso e mi dà la forza di sopportare l’eterna rovina. Unisciti a me e io ti renderò immortale, ti darò il potere di far del bene e di impedire il male a volontà !». E con viva passione si strinse al petto la bella donna che gli apriva le braccia sorridendo; ma in quel momento la Vergine prese il suo aspetto divino e strinse il Maligno, che ormai era prigioniero, violentemente tra le sue brac­ cia luminose. In un baleno scomparvero il giardino, la fontana, l’usignolo; i demoni che avevano composto l’ar­ tistico quadro vivente fuggirono, spiriti malvagi, con ge­ miti e guaiti, piantando in asso il loro padrone che senza un grido si dibatteva con forza titanica per svin­ colarsi dallo strazio di quella stretta.

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Ma la Vergine si batteva con valore e non lo lasciava, benché dovesse impegnare tutte le sue forze ; aveva nien­ temeno che l’intenzione di trascinare il Diavolo corbel­ lato davanti al Cielo e di legarlo agli stipiti esponendo la sua miseria alle beffe dei beati. Ma il Maligno cambiò tattica, stette fermo un mo­ mento e riprese la bellezza di una volta, di quand’era il più bello degli angeli; in questo modo raggiunse quasi la divina bellezza di Maria. Questa s’innalzava al mas­ simo grado; ma se la Madonna splendeva come Venere, la bella stella vespertina, quegli brillava come Lucifero, la stella mattutina, dimodoché si sparse sopra la landa buia uno splendore come se i cieli stessi fossero discesi. Quando la Vergine s’avvide d’essersi accinta a un’im­ presa troppo grave, ché le forze le cominciavano a man­ care, si accontentò di lasciare andare l’Inimico in cam­ bio della sua rinuncia alla moglie del conte, e le due bellezze, la celeste e l’infernale, si divisero con grande frastuono. La Vergine ritornò un po’ stanca alla sua chiesina; il Maligno invece, incapace di sopportare a lungo una metamorfosi e fiaccato e infranto in tutte le sue membra, si trascinò per terra orrendamente malme­ nato, scodinzolante, come l’angoscia fatta persona. Gli era andato ben male il pregustato idillio ! Intanto Gebizo, abbandonata la sua dolce compagna, era andato errando sul far della notte e, precipitato in­ sieme col cavallo in un baratro, si era spaccato la testa contro una roccia rimanendo morto sul colpo. Bertrade invece continuò a dormire finché sorse il sole del primo di maggio; allora si destò stupita del tempo trascorso. Recitò subito Ì’Ave Maria e appena uscita sana e salva dalla chiesetta trovò il suo cavallo come l’aveva lasciato. Non stette ad aspettare il marito, ma ritornò a casa allegra e contenta, poiché sentiva di essere scampata da qualche grave pericolo. Ben presto la salma del conte fu ritrovata e portata al castello. Bertrade lo fece tumulare con grandi onori e fece dire un’infinità di messe per lui. Ma tutto l’af­ fetto era scomparso in modo misterioso dal suo cuore,

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benché fosse ancora tenera e gentile come dianzi. La sua alta Patrona in Paradiso le cercò quindi un altr’uomo che più del defunto Gebizo fosse degno d’un affetto così bello, e ciò sta scritto nella leggenda seguente.

LA VERGINE AL TORNEO Maria chiamiamo un trono, un'arca ed un castello, e torre e pianta e casa, la fonte e la marina, giardino, stelle, luna, l’aurora e la collina: ma com’è tutto in lei? Non è di questo mondo. Silesius, II pellegrino serafico, iv, 42.

Gebizo aveva aggiunto ai precedenti tanti nuovi ter­ reni che Bertrade possedeva ormai una contea consi­ derevole; e tanto la sua ricchezza quanto la sua bel­ tà erano celebri in tutto l’impero. E siccome essa si dimostrava umile e cortese verso chiunque, la conquista di quella perla sembrava facile a tutti i gentiluomini, agli intraprendenti e ai timidi, agli arditi e ai peritosi, a grandi e piccoli; e chi l’aveva vista alcune volte si me­ ravigliava di non tenerla già per mano. Eppure era pas­ sato un anno e non era corsa ancora la voce che qualcuno nutrisse buone speranze. Anche l’imperatore sentì parlare di lei e, nel desiderio che un feudo così importante cadesse in buone mani, decise di far visita alla celebre vedova, e glielo annunciò con una lettera benigna e cortese. Affidò la lettera a Zendelwald, un giovane cavaliere che doveva passare di là. Bertrade lo accolse con ospitalità cordiale come tutti coloro che si presentavano nel suo castello; ed egli am­ mirò rispettosamente le sale magnifiche, le mura e i giardini, e per di più s’innamorò perdutamente della proprietaria. Ma non per questo si trattenne un’ora di più e, assolto il suo compito e vista ogni cosa, prese com­ miato dalla dama e spronò via, unico tra quanti c’erano stati che non pensasse di conquistarsi quel tesoro. Era anche pigro nelle parole e nei fatti. Quando il suo animo e il suo cuore si erano impadroniti di un’idea (e vi si buttavano dentro sempre con ardore), Zendelwald non sapeva risolversi a fare il primo passo verso la rea­ lizzazione perché la cosa gli sembrava conclusa non ap­ pena era chiara dentrq di lui. Quantunque conversasse volentieri quando non c’era nulla da ottenere, al mo­

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mento buono non gli usciva una parola che gli avrebbe potuto portar fortuna. La sua fantasia non precedeva però soltanto la sua lingua, ma anche la mano, tanto che, battendosi coi nemici, fu più volte lì lì per essere sconfìtto, perché esitava a menar l’ultimo colpo, vedendo in anticipo l’avversario ai suoi piedi. La sua tattica de­ stava quindi grande meraviglia in tutti i tornei, poiché dapprima non si moveva nemmeno, e alla fine vinceva, riscuotendosi solo quand’era alle strette. Ora Zendelwald, tutto immerso nel pensiero della bella Bertrade, se ne cavalcava verso il castello avito che sorgeva su un’altura in mezzo a un bosco. Egli non aveva altri sudditi che alcuni carbonai e spaccalegna, e sua madre aspettava ogni suo ritorno con amara impa­ zienza, per vedere se una buona volta portasse a casa la fortuna. E quanto Zendelwald era neghittoso, altrettanto era operosa e decisa la madre, senza che perciò gliene venisse molto vantaggio, perché a sua volta aveva esagerato fa­ cendo valer troppo quelle sue qualità e riducendole quin­ di a cosa vana. Da giovane aveva cercato di pigliar ma­ rito al più presto ed era andata con tanta fretta e solleci­ tudine a caccia di occasioni, che aveva fatto proprio la scelta peggiore, prendendo un individuo incauto e teme­ rario che diede fondo all’eredità, trovò la morte prema­ turamente e non le lasciò altro che una lunga vedovanza, la povertà e un figliolo incapace di muoversi per acchiap­ pare la buona ventura. La famiglia si nutriva soltanto del latte di alcune ca­ pre, di frutta silvestri e di selvaggina. La madre di Zen­ delwald era una perfetta cacciatrice e con la sua bale­ stra uccideva a volontà colombe selvatiche e pernici; pescava anche le trote nei torrenti, e dove il lastrico del castello mostrava qualche falla lo aggiustava da sé con calce e pietra. Era appunto ritornata a casa con una lepre uccisa e, mentre la stava appendendo alla finestra della cucina, guardò giù per la valle e vide il suo figliolo che cavalcava verso casa; allora calò il ponte con gioia, perché egli ritornava dopo molti mesi.

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Cominciò tosto a indagare se il figlio non avesse acciuf­ fato la fortuna pel codino o almeno per una piuma e se portasse buone notizie, e, quand’egli raccontò come al solito gli avvenimenti insignificanti dell’ultima campa­ gna, cominciò a scuotere il capo adirata; e allorché ac­ cennò all’ambasciata presso la bella e gentile Bertrade e ne magnificò la grazia e la bellezza, lo rimproverò aspra­ mente, dandogli del poltrone e del fannullone per la sua ingloriosa partenza. In seguito si accorse che Zendelwald non pensava ad altro che alla signora lontana, e allora diventò anche più impaziente perché egli, pur avendo in cuore una così nobile passione, non sapeva a che santo votarsi e l’amore gli era più d’impedimento che di sprone. Perciò non si può dire che egli passasse giorni lieti ; sua madre gli teneva il broncio e, un po’ per la rabbia un po’ per il desiderio di distrarsi, si mise a riparare il tetto caden­ te della torre, sicché Zendelwald stava in pena vedendola arrampicarsi lassù. Lei buttava giù ogni tanto le tegole rotte e poco mancò che non accoppasse un cavaliere fore­ stiero che stava appunto entrando a chiedere ospitalità per la notte. Costui però riuscì a destare la cortesia dell’aspra ca­ stellana, raccontando a cena molte belle cose, e tra que­ ste che l’imperatore era arrivato al castello della bella vedova, dove si passava di festa in festa, e la dolce signora era continuamente assediata dall’imperatore e dai suoi vassalli affinché scegliesse tra questi un marito. Essa però era ricorsa a uno stratagemma e aveva indetto un grande torneo promettendo la sua mano a chi avesse vinto tutti gli altri, nella fiducia che la sua protettrice, la Vergine divina, sarebbe intervenuta per guidare il braccio a chi era degno di lei. «Questa sarebbe un’impresa per voi;» concluse colui rivolgendosi a Zendelwald «un cavaliere bello e giovane come voi non dovrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di conquistarsi quel che c’è di meglio oggidì secondo i con­ cetti umani ; dicono pure che la signora nutra la speranza di incontrare in questo modo non so che fortuna ignorata, come a dire un eroe povero e valoroso da tenersi poi

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nella bambagia, mentre non nutre alcuna simpatia pei grandi conti e i pretendenti vanitosi». Quando il forestiero se ne fu andato, la madre disse: «Scommetterei che fu Bertrade stessa a mandare questo messaggio per metterti sulla buona strada, mio caro Zendelwald! Lo vedrebbe un cieco; che motivo avrebbe quel tizio, che s’è asciugato il nostro ultimo boccale di vino, di aggirarsi per questi boschi?». A queste parole il figlio scoppiò in una risata e conti­ nuò a ridere sempre più forte, un po’ per l’assurdità evidente delle, fantasie materne e un po’ perché, in fondo, quelle fantasie gli andavano a genio. Il solo pensiero che Bertrade potesse desiderare di averlo gli aumentava l’ila­ rità. Ma la madre, pensando che ridesse per farsi beffe di lei, si adirò ed esclamò: «Ascoltami dunque! Se non ubbidisci e non parti sui due piedi per conquistarti quella fortuna, avrai la mia maledizione. Non ritornare senza di lei perché non ti vorrei più vedere. E se tu osassi ritor­ nare, prenderei le mie armi e me n’andrei a cercarmi una tomba dove non mi dia noia la tua stoltezza!». Non c’era dunque da scegliere; per amor di pace, Zendelwald preparò sospirando le armi e se n’andò in nome di Dio verso il castello di Bertrade senza essere ben persuaso di arrivarci. Tuttavia si tenne per la via giusta, e quanto più si avvicinava alla meta tanto più prendeva forma in lui il pensiero che, in fondo, poteva anche mettersi seriamente in quell’impresa come qua­ lunque altro e, una volta liberatosi dai rivali, non era poi la morte tentare un balletto con la bella signora. E nella sua fantasia l’avventura si delineava e arrivava a termine felicemente, anzi mentre cavalcava tra la verzura estiva teneva dolci discorsi alla sua bella, dicendole le più belle trovate in modo che lei arrossiva e raggiava di gioia, beninteso nel suo pensiero. A un tratto, mentre stava immaginando una di quelle scene deliziose, vide splendere realmente sopra le monta­ gne azzurre le torri e i pinnacoli del castello nel sole mattutino, e scintillare da lontano le balaustrate dorate, e ne fu tanto sbigottito che tutti i suoi sogni dileguarono

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e non gli rimase altro che il suo cuore sgomento e irre­ soluto. Fermò il cavallo involontariamente e cercò, tentennone com’era, un rifugio. Vide allora una graziosa chiesina, quella stessa che Bertrade aveva eretto un giorno alla Madre di Dio e in cui aveva fatto quel tal sonno. Egli decise tosto - di entrarvi in pio raccoglimento, tanto più che era proprio il giorno del torneo. Il prete stava dicendo la messa cui assistevano sola­ mente due o tre poveri diavoli, che si sentirono non poco onorati per la presenza del cavaliere ; quando la funzione fu finita e il prete e il sagrestano furono usciti, Zendelwald si sentì tanto bene in quel luogo che pian piano si addor­ mentò, dimenticando il torneo e la bella, se pur non ebbe a sognarla. Di nuovo la Vergine Maria scese dal suo altare, prese le sue sembianze e la sua armatura, montò sul suo ca­ vallo, e si avviò in vece sua al castello, Brunilde ardita, a visiera calata. Dopo un po’ incontrò lungo la via un mucchio di cal­ cinacci grigi e di stipe secche. Al suo occhio attento la cosa sembrò sospetta ed essa notò che in quel mucchio sporgeva come la punta di una coda di serpente. Capì che era il diavolo che, ancora innamorato, si aggirava nei pressi del castello e al sopraggiungere della Vergine s’era nascosto rapidamente tra quelle macerie. Facendo finta di non accorgersi passò oltre, ma fece abilmente fare al cavallo un salto a lato, in modo che la sua zampa colpì quella coda sospetta. Il Maligno balzò via sibilando e non si fece più vedere. Messa di buon umore da quella piccola avventura, s’avviò serenamente al castello di Bertrade dove giunse quando erano rimasti i due campioni più forti per l’ul­ tima tenzone. Lenta e dimessa, proprio come Zendelwald, arrivò nel­ la piazza e parve indecisa se dovesse o meno entrare in lizza. «Ecco di nuovo il pigro Zendelwald» si udì mormo­ rare, e i due prodi cavalieri dissero: «Che vuole costui?

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Sbarazziamoci di lui prima di decidere tra noialtri!». Uno dei due era detto «Gallo il Rapido». Egli soleva caracollare come un turbine cercando di sbalordire l’av­ versario con mille trucchi e vincerlo coll’astuzia. Il pre­ sunto Zendelwald dovette combattere anzitutto con lui. Questi aveva un par di baffi neri come la pece, le cui pun­ te erano attorte e tanto rigide che ne pendevano due campanelline d’argento senza riuscire a piegarli col loro peso e, quando moveva la testa, esse tintinnavano. Se­ condo lui quello scampanellìo doveva essere lo spavento del nemico e il compiacimento della sua dama ! Quando egli moveva lo scudo, questo cangiava colore, e i cambia­ menti erano tanto rapidi che l’occhio ne restava abbaci­ nato. Per cimiero aveva sull’elmo un’enorme coda di gallo. L’altro cavaliere si chiamava «Topo l’Innumerevole» e ciò voleva dire che bisognava ritenerlo pari a un im­ menso esercito. A indicare la sua forza si era lasciato cre­ scere per sei pollici i peli che gli uscivano dalle narici e ne aveva fatto due treccine che gli scendevano sulla bocca, ornate in fondo da due fiocchetti rossi. Sopra l’armatura portava un ampio mantello che lo nascondeva quasi tutto insieme al cavallo ed era composto di mille pelliccette di topo. Sulla cresta dell’elmo si aprivano due ali di pipistrello, di sotto alle quali lanciava sguardi minac­ ciosi dagli occhi a mandorla. Quando fu dato il segnale della battaglia con Gallo il Rapido, questi andò contro la Vergine aggirandola con sempre maggior velocità, cercando di abbagliarla con lo scudo e vibrando mille colpi di lancia contro di lei. La Vergine non si mosse dal suo posto in mezzo alla lizza e parava i colpi con la lancia e lo scudo facendo girare il cavallo sulle zampe posteriori in modo da offrire sempre la faccia all’avversario. Visto ciò Gallo si allontanò a un tratto, si volse e si lanciò contro di lei con la lancia in resta per buttarla di sella. La Vergine lo aspettava im­ mobile; ma uomo e cavallo sembravano fusi nel bronzo, tanto erano saldi, e quel poveraccio, che non sapeva di combattere contro una potenza superiore, incontrando

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la lancia di lei, mentre la sua si spezzava contro quello scudo come un fuscello, volò di sella e giacque sul ter­ reno. La Vergine balzò tosto da cavallo, pose un ginoc­ chio sul petto di lui, che sotto quella pressione formidabile non poteva muoversi, e gli tagliò con un pugnale i due mu­ stacchi con le campanine d’argento, che infilò nella sua tracolla, mentre le fanfare annnunciavano la sua vittoria, o meglio quella di Zendelwald. Poi venne in ballo il cavaliere Topo l’Innumerevole. Egli mosse all’assalto con tanta violenza che il suo man­ tello svolazzò nell’aria come una nuvola grigia e minac­ ciosa. Ma la Vergine, che adesso sembrava cominciasse a prender gusto alla lotta, gli si parò contro con egual vio­ lenza, lo buttò di sella al primo urto e, poiché Topo si rialzò rapidamente, balzò da cavallo e sguainò la spada per combattere a piedi. I colpi che cominciarono a gran­ dinargli fitti sulla testa e sulle spalle lo stordirono tanto che sollevò il mantello con la sinistra per mettersi al ri­ paro e buttarlo al momento buono sulla testa dell’avver­ sario. Ma in quella la Vergine infilò con la punta della spada una cocca del mantello e vi inviluppò Topo l’In­ numerevole da capo a piedi, in modo che dopo un mo­ mento sembrò un’enorme vespa dentro una ragnatela e giacque a terra tremante. Allora la Vergine cominciò a tribbiarlo a furia di piattonate con tanta agilità che il mantello si scompose nei suoi elementi e le pelliccette di topo volarono all’ingiro oscurando l’aria e provocando le matte risate degli spettatori, mentre il cavaliere rivenne a galla e se n’andò zoppicando dopo che il vincitore gli ebbe reciso le treccioline infiocchettate. E cosi la Vergine che simulava Zendelwald rimase vincitrice sul campo. Allora alzò la visiera e salì verso la regina della festa, piegò un ginocchio e mise ai suoi piedi i trofei. Poi si al­ zò, rappresentando uno Zendelwald meno timido del so­ lito. Ma senza vincer troppo la sua modestia salutò Bertrade con uno sguardo di cui ben sapeva l’efficacia su un cuore femminile ; insomma seppe comportarsi da amante

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e da cavaliere tanto bene che Bertrade non ritirò la sua parola, ma diede ascolto all’invito dell’imperatore, che finalmente era lieto di veder potente un uomo così nobile e valoroso. Si svolse allora un grande corteo fino al parco dei tigli in cui era preparato il banchetto. Bertrade sedeva tra l’imperatore e il suo Zendelwald; ma fu opportuno mette­ re accanto al sovrano un’ospite vispa, poiché Zendelwald non lasciava tempo alla sua sposa di parlare con altri, tanto abilmente e teneramente la intratteneva. Si capiva che le diceva parole molto garbate perché lei sorrideva beata. In tutti fiorì la gioia più serena. In alto, sotto le volte fronzute, gli uccelli cantavano gareggiando con gli strumenti musicali, una farfalla si posò sull’aurea corona dell’imperatore e i calici di vino olezzavano, come per una benedizione speciale, di viole e resede. Ma soprattutto Bertrade si sentiva tanto felice che, te­ nendo Zendelwald per mano, pensava nel suo cuore alla divina protettrice e le diceva in silenzio una preghiera di commossa gratitudine. La Vergine Maria, che stava appunto al suo fianco, lesse quella preghiera nel suo cuore e fu tanto lieta della pia riconoscenza della sua protetta che abbracciò Ber­ trade teneramente e le diede sulla bocca un bacio che riempì, come ben si comprende, l’animo della dolce creatura di beatitudine celestiale ; poiché quando i celesti fanno i confetti, è certo che riescono dolci. L’imperatore e il suo seguito applaudirono allora il presunto Zendelwald e alzando i calici fecero un brin­ disi alla salute della bella coppia. Il vero Zendelwald si destò in quella dal suo sonno intempestivo e capì dal sole che il torneo doveva essere finito. Benché gli fosse ormai risparmiata ogni fatica, si sentì molto triste e infelice perché avrebbe pur sposato volentieri Bertrade. Per di più non poteva ritornare da sua madre, e quindi decise di fare il cavaliere errante scon­ solato, finché la morte lo liberasse dalla sua esistenza inutile. Senonché volle vedere ancora una volta la donna amata e imprimersi nella mente le sue sembianze affin-

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che gli fosse sempre presente qual bene aveva perduto. Arrivò dunque al castello. Mischiandosi tra la folla udì proclamare da tutti le lodi e la buona sorte di un certo povero cavaliere Zendelwald e, con un’amara curiosità di conoscere il fortunato omonimo, scese da cavallo e si fece strada tra la calca finché giunse al margine del parco in un punto elevato donde poteva dominare tutta la festa. Allora vide accanto alla corona sfavillante del re la faccia raggiante della donna amata e vicino a lei se stesso in carne ed ossa. Pallido di stupore e quasi esanime vide come il suo sosia abbracciava e baciava la sposa; allora avanzò inosservato tra i convitati soffermandosi dietro ai due col tormento di una strana gelosia. In quel mo­ mento la Vergine scomparve e Bertrade si volse spaven­ tata. Ma vedendo Zendelwald dietro a sé rise di gioia e disse: «Dove vuoi andare? Vieni e resta con me!». E presolo per mano se lo fece sedere accanto. Per sincerarsi che non era un sogno egli prese il calice che aveva davanti e lo vuotò d’un fiato. Il vino fece buo­ na prova e versò nelle sue vene nuova vita e fiducia; di buon umore si volse alla donna sorridente e la guardò negli occhi; questa allora riprese la conversazione in­ tima interrotta poco prima. Zendelwald non capiva in che mondo fosse quando Bertrade gli diceva parole ben note, alle quali egli rispondeva senza riflettere con altre parole che aveva già detto altrove; anzi dopo un po’ si accorse che il suo predecessore doveva aver avuto con lei lo stesso colloquio che egli si era immaginato fantasti­ cando durante il viaggio; a buon conto lo continuò per vedere come andava a finire. Ma non andò punto a finire, anzi quel giuoco fu sem­ pre più edificante poiché, tramontato il sole, si accesero le fiaccole e tutta la brigata si ritirò nella sala maggiore del castello per darsi alle danze. Quando l’imperatore ebbe fatto il primo giro con la sposa, Zendelwald la prese a braccio e danzò con lei tre o quattro volte intorno alla sala finché, rossa in viso, lei lo prese per mano e lo con­ dusse in una veranda inondata dal chiaro di luna. Lì si strinse al suo petto, gli accarezzò la barba bionda e lo

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ringraziò per la sua venuta e il suo affetto. Ma l’onesto Zendelwald voleva sapere se sognava o era desto e le domandò come stessero le cose a proposito del suo omo­ nimo. Ci volle del bello e del buono prima che lei capisse, ma, una parola dopo l’altra, egli le descrisse il suo viaggio, la sua sosta nella chiesetta e come si era addormentato e come aveva fatto tardi per il torneo. Allora Bertrade comprese che c’entrava la sua Patro­ na. Ora poteva considerare il buon cavaliere come un dono del cielo e fu tanto grata da stringersi al cuore quel regalo sicuro e ridargli in pieno il bacio che lei aveva ricevuto dal cielo. Ma da quel momento il cavaliere Zendelwald si liberò dalla sua pigrizia e indecisione di sognatore; parlava e agiva a tempo debito sia davanti a Bertrade che davanti al mondo e divenne un perfetto gentiluomo, tanto che l’imperatore non fu meno contento di lui che Bertrade. La madre di Zendelwald venne alle nozze a cavallo e tanto orgogliosamente come se per tutta la vita avesse nuotato nell’oro. Essa amministrava i beni e fino alla sua tarda età andò a caccia nelle ampie foreste, mentre Bertrade non mancò di farsi condurre una volta all’an­ no nel solitario castello avito di Zendelwald, dove se ne stava col suo amore nella torre grigia come sugli alberi i piccioni selvatici. Ma non dimenticarono mai di andare a pregare in quella chiesetta davanti alla Vergine, che se ne stava sull’altare santamente tranquilla come se non ne fosse mai discesa.

LA VERGINE E LA MONACA 0Λ, avessi io l’ale, come le colombe! io me ne volerei in cerca di pace. Salmi 55, 7.

C’era sulla vetta d’un monte un convento le cui mura dominavano il paese. Dentro c’erano molte dame, belle e non belle, che servivano il Signore e la Vergine Madre secondo una regola severa. La più bella delle monache si chiamava Beatrix ed era la sagrestana del monastero. Alta e slanciata, faceva il suo dovere con nobile portamento, si occupava del coro e dell’altare, lavorava in sagrestia e sonava le campane la mattina prima dell’aurora e la sera quando spuntava la stella di vespro. Ma ogni tanto guardava con gli occhi umidi il palpito lontano delle campagne azzurre, vedeva lampeggiare ar­ mi, udiva dai boschi il corno dei cacciatori e le grida degli uomini e il suo petto era gonfio di nostalgia del mondo. Non potendo reprimere più a lungo il suo desiderio si alzò in una notte di luna (era di giugno), calzò le sue scarpe più robuste e, pronta a partire, si fermò davanti all’altare: «Son già parecchi anni che ti servo fedel­ mente» disse alla Vergine Maria «ma ora prendi tu le chiavi perché io non posso sopportare più a lungo il fuoco che mi brucia nel cuore». Così facendo posò sul­ l’altare il mazzo delle chiavi e uscì dal convento. Scese dal monte solitario finché giunse in mezzo a un bosco di querce dove si fermò a un bivio, incerta sulla via da prendere ; sedette perciò su di una panca presso una fonte che per comodità dei viandanti si raccoglieva in una va­ sca. Rimase lì, bagnata di guazza, fino al levar del sole. Quando il sole sorse sopra le fronde degli alberi, i suoi primi raggi caddero su un magnifico cavaliere che se ne veniva tutto solo e armato per la strada del bosco. La monaca gli fissò gli occhi addosso con la massima atten­ zione senza che nulla le sfuggisse di quel virile aspetto; ma rimase tanto immobile che il cavaliere non l’avrebbe

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veduta, se il chioccolio della fontana non gli fosse giunto agli orecchi attirando il suo sguardo. Egli deviò tosto verso la fonte, scese da cavallo e lo abbeverò salutando rispettosamente la monaca. Era un crociato che se ne ritornava a casa solo soletto dopo lunga assenza, avendo perduto tutti i suoi compagni. Nonostante il suo rispetto non staccava però gli occhi dalla bellezza di Beatrix, la quale faceva altrettanto am­ mirando incantata il guerriero : era già un pezzo conside­ revole di quel mondo che lei aveva tanto desiderato in segreto. Ma a un tratto chinò gli occhi vergognandosi. In­ fine il cavaliere le domandò dove fosse diretta e se poteva esserle utile in qualche modo. Il suono di quelle parole la scosse; lo guardò di nuovo e, affascinata dai suoi occhi, confessò che era fuggita dal convento per vedere il mondo, che aveva paura e non sapeva a che santo votarsi. Il cavaliere, che non era sciocco, rise di tutto cuore e le propose di portarla su una buona strada se voleva affi­ darsi a lui : il suo castello era a una giornata di viaggio e, se non le dispiaceva, lei vi si poteva preparare e, dopo matura ponderazione, poteva lanciarsi di lì per le vie del mondo. Lei non rispose nulla, ma non oppose neanche resi­ stenza, quand’egli la mise in sella ; balzò a cavallo anche lui e, tenendo davanti a sé la monaca rossa in viso e tremante, trottò allegramente per boschi e campagne. Per qualche centinaio di passi essa si tenne ritta guar­ dando fisso dinanzi a sé e appoggiando una mano sul petto di lui. Ma ben presto il suo viso si trovò contro quel petto, tollerando i baci che il cavaliere vi stampava, e trecento passi più in là cominciò a ricambiarli con tanto ardore, come non avesse mai sonato la campana d’un convento. In tali condizioni non vedevano nulla del paese che attraversavano e la monaca, che aveva tanto desiderato di vedere il mondo, ora se ne stava a occhi chiusi limitandosi al territorio che un cavallo riu­ sciva a portare in groppa. Anche Wonnebold, il cavaliere, non pensava al ca­ stello dei suoi padri, finché non ne vide splendere da

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lontano le torri nella luce dell’alba. Ma nei dintorni re­ gnava un ampio silenzio e nel castello il silenzio era anco­ ra più profondo; non si vedeva neanche un lume acceso. Il padre e la madre di Wonnebold erano morti, tutta la servitù s’era allontanata, salvo il castellano, un vecchio tutto grinze, che dopo un gran bussare comparve final­ mente con una lanterna e fu quasi per morire dalla gioia vedendo il cavaliere nel vano del portone aperto a fatica. Il vecchio, malgrado gli anni e la solitudine, aveva man­ tenuto però l’interno del castello in condizioni abitabili e la stanza del cavaliere era sempre pronta, perché po­ tesse riposare, quando fosse ritornato dalle sue peregri­ nazioni. Beatrix dunque si giacque con lui e appagò il suo desiderio. Non pensavano affatto a dividersi l’uno dall’altra. Wonnebold apri le cassapanche di sua madre e Beatrix vestì quegli abiti ricchissimi e si adomò di quei gioielli; così vissero dapprima allegramente, se non che la donna era senza nome e senza diritti, poiché il suo amante la considerava come una proprietà; d’altronde, per il mo­ mento, essa non desiderava di meglio. Ma un giorno arrivò al castello, che nel frattempo si era ripopolato di servi, un barone forestiero col suo segui­ to, e in suo onore si fecero grandi feste. Infine i cavalieri si misero anche a giocare ai dadi e il padrone di casa ebbe tanta fortuna al giuoco, che, nell’ebbrezza della vittoria e nella certezza di vincere, rischiò la cosa che gli era più cara, cioè la bella Beatrix, così com’era, con tutti i gioielli preziosi che aveva indosso, contro un vecchio ca­ stello melanconico puntato sorridendo dall’avversario. Beatrix che aveva assistito al giuoco con piacere im­ pallidì, e a ragione, poiché i dadi piantarono in asso quel temerario e la diedero vinta al barone. Questi se ne partì senza indugio con la dolce vincita e col suo seguito. Beatrix fece appena in tempo a raccat­ tare quei dadi sciagurati e a nasconderli in seno, e seguì poi, piangendo a calde lacrime, il vincitore inesorabile. Dopo alcune ore il breve corteo giunse in un ameno boschetto di giovani faggi, dove scorreva un limpido ru­

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scello. Come una tenda di seta leggera si libravano in alto le tenere fronde sostenute dagli agili tronchi d’argento e coprivano il bel paesaggio estivo. Il barone decise di fer­ marsi lì con la sua preda. Fece passare avanti per un tratto la sua gente e si sdraiò sul verde luminoso con Beatrix, cercando di tirarla a sé con le sue carezze. Ma quella si alzò fieramente e, lanciandogli uno sguar­ do infocato, esclamò che egli aveva bensì guadagnato il suo corpo, ma non già quel cuore che non era giusto ba­ rattare con delle vecchie muraglie. Se era un uomo, mettesse in giuoco una cosa più degna. «Arrischiate, per esempio, la vostra vita; tiriamo i dadi, e se voi vincete, il mio cuore vi apparterrà per sempre, se invece vinco io, la vostra vita sarà nelle mie mani e io potrò di nuovo disporre di me stessa». Disse ciò con grande serietà, e fissandolo in un modo così strano, che ora il cuore di lui cominciò a battere ed egli la guardò sconcertato. Pareva che lei si facesse sempre più bella, allorché continuò con voce più som­ messa e con uno sguardo interrogativo: «Chi vorrà pos­ sedere una donna senza esserne riamato e senza che lei sia convinta del suo coraggio? Datemi la vostra spada, prendete i dadi e osate, perché ci possa unire, se mai, un amore leale». In quella gli porse i dadi d’avorio ancora tiepidi del suo seno. Confuso com’era, egli le consegnò la spada insieme con la cintura, tirò per primo e fece un­ dici punti. Beatrix prese i dadi, li scosse tra le mani cave e, levan­ do un sospiro segreto alla Madre di Dio, giocò e vinse con dodici punti. «Vi dono la vostra vita!» disse, fece un inchino al barone, raccolse i lembi della sua veste e, con la spada sotto il braccio, si allontanò rapidamente per dove erano venuti. Ma appena fu tanto lontana da non essere vista dal cavaliere sbalordito e distratto, non continuò per la sua via, ma girò astutamente nel faggete nascondendosi a cinquanta passi dal cavaliere, dietro i tronchi degli al­ beri, che a quella distanza erano abbastanza fitti per na­ sconderla alla meglio. Essa se ne stette immobile; sol­

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tanto un raggio di sole colpì una gemma che aveva al collo facendola brillare nel boschetto senza che lei se ne accorgesse. Il barone notò quel luccichio e vi fissò per un momento lo sguardo distratto. Ma non vi badò pen­ sando che fosse una goccia di rugiada sopra una foglia. Alfine si scosse e lanciò col suo corno da caccia uno squillo potente. I suoi accorsero, egli balzò in sella e si diede a rincorrere la fuggitiva. Dopo una buona ora, la comitiva ritornò lenta e scornata sotto i faggi, ma senza farvi sosta. Quando Beatrix capì che la strada era libera, corse verso casa senza risparmiare le sue fini scarpette. Intanto Wonnebold aveva passato una pessima gior­ nata, tormentato dall’ira e dal pentimento, e, poiché provava vergogna anche davanti alla donna perduta con tanta leggerezza, s’accorse che in fondo la stimava moltissimo e non avrebbe potuto vivere senza di lei. Quando se la vide dunque comparire dinanzi, le aprì le braccia senza dire neanche una parola di sorpresa, e lei vi si gettò senza un rimprovero, senza un lamento. Al­ l’udire il racconto del suo stratagemma egli rise di cuo­ re, facendosi poi pensoso per quella prova di fedeltà, perché il barone era uomo di bell’aspetto e piacente. Per evitare malanni futuri, egli fece della bella Beatrix la sua sposa legittima davanti ai suoi pari e ai sottoposti, e da allora in poi essa fu una dama che stava con le sue pari tanto alle cacce e alle feste, quanto nelle case dei sudditi e sui banchi della chiesa. Passarono gli anni e in dodici autunni ella diede al ma­ rito otto figli che vennero su come cerbiatti. Quando il maggiore ebbe diciotto anni, ella si alzò in una notte d’autunno senza che Wonnebold se n’av­ vedesse, ripose accuratamente tutti i suoi abiti mondani nelle stesse cassapanche donde erano stati tolti e le chiuse posando le chiavi accanto al marito dormiente. Poi s’av­ vicinò a piedi nudi al letto dei figlioli e li baciò uno dopo l’altro. Ritornò quindi al letto del marito, baciò anche lui e, tagliatisi i lunghi capelli, indossò di nuovo la to­ naca scura che aveva conservato, abbandonò di soppiatto il castello e partì, tra l’infuriar dei venti nella notte au-

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tunnale e il turbinare delle foglie cadenti, verso il con­ vento donde un giorno era fuggita. Senza posa sgranava il rosario e ripensava pregando alla vita che aveva go­ duto. Cammina e cammina, si ritrovò alla porta del conven­ to. Bussò e le venne ad aprire la portinaia invecchiata che la salutò chiamandola per nome, come se fosse uscita mezz’ora prima. Beatrix entrò in chiesa, s’inginocchiò davanti all’altare della Vergine, che cominciò a parlare dicendo: «Da un bel pezzo manchi, figlia mia! In tutto questo tempo ho fatto io da sagrestana; e ora sono lieta che tu sia qui a riprendere le chiavi». L’immagine si chinò verso di lei e le consegnò le chiavi, mentre Beatrix restava sbalordita per la gioia di quel miracolo. Riprese tosto il suo servizio e, quando la cam­ pana diede il segno del pranzo, si recò a tavola. Molte suore erano invecchiate, altre erano morte, alcune novizie erano arrivate e a capo della tavola c’era una nuova badessa; ma nessuno seppe che cosa fosse avvenuto di Beatrix che era al suo solito posto, poiché la Madonna l’aveva sostituita assumendone l’aspetto. Passati altri dieci anni, le monache preparavano una grande festa e stabilirono che ciascuna di loro presen­ tasse un dono alla Madre di Dio, il più bello possibile. Una ricamò un gonfalone prezioso, un’altra una tova­ glia d’altare, la terza una pianeta. Una compose un inno in latino, un’altra lo mise in musica, un’altra ancora scrisse e miniò un libro di preghiere. In mancanza di meglio, una cuci una camicia nuova per il bambino Gesù e la suora cuoca gli preparò un vassoio di frittelle. Sol­ tanto Beatrix non aveva preparato nulla, perché era stanca della vita e i suoi pensieri vagavano più nel pas­ sato che nel presente. Venne il giorno della festa, e siccome essa non aveva nulla da offrire, le altre monache ne furono meravigliate e la rimproverarono, sicché lei si tirò in disparte, quando in processione solenne si portarono tutte quelle belle cose sugli altari infiorati, mentre le campane suonavano e le nuvole d’incenso s’alzavano al cielo.

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Le suore cominciarono a cantare a suon di musica, allorché passò di lì un cavaliere canuto con otto giovani bellissimi e armati, tutti su nobili destrieri, seguiti da al­ trettanti scudieri a cavallo. Era Wonnebold che condu­ ceva i figli all’esercito. Udendo dalla chiesa la messa cantata, fece scendere da cavallo i figli ed entrò con loro per pregare davanti alla Vergine. Quando il vegliardo armato si inginocchiò coi giovani guerrieri, belli come angeli corazzati, tutti rimasero stupiti a quella vista e le monache, distratte, interruppero per un attimo la musica e il canto. Ma Beatrix riconobbe il marito e i figli, lanciò un grido, corse verso di loro e dandosi a conoscere rivelò il suo se­ greto e raccontò del grande miracolo che le era toccato. Allora tutti dovettero ammettere che in quel giorno essa aveva offerto alla Vergine il dono più bello; e il do­ no fu accettato, come si vide dalle otto corone di quercia che improvvisamente apparvero sul capo dei giovani, po­ satevi dalla mano invisibile della Regina dei Cieli.

FRA VITALIS, SANTO A MODO SUO Guardati dall'aver familiarità con una donna, ma piuttosto raccomanda al buon Dio tutte le donne pie. T. da Kempis, Imitazione di Cristo, 8, 2

Viveva in Alessandria d’Egitto, al principio dell’ottavo secolo, un monaco stravagante di nome Vitalis, che si era prefisso particolarmente di distogliere le donne per­ dute dalla vita del peccato e di riportarle alla virtù. Ma il suo metodo era tanto singolare, e l’amore, anzi la passione con cui perseguiva instancabilmente il suo scopo era mista a uno spirito di abnegazione e d’ipocrisia così strano che non era facile trovarne l’eguale. Su un elegante rotolo di pergamena registrava con cura tutte le cortigiane, e appena ne scopriva una nuova in città o nei dintorni notava tosto il suo nome e il suo alloggio, di modo che i figli dissoluti dei patrizi di Ales­ sandria non avrebbero trovato una guida migliore, se il diligente Vitalis avesse perseguito un fine meno santo. Ora accadeva bensì che il monaco cavasse loro di bocca in ameni conversari indicazioni e notizie, ma quegli sca­ pestrati a loro volta non riuscivano mai a saper nulla da lui. Vitalis teneva quell’elenco arrotolato in un astuccio d’argento sotto la tonaca e lo tirava fuori tutti i momenti per aggiungervi un nome nuovo o per contare quelli già notati o per vedere a quale delle traviate toccasse il turno. Andava allora in fretta dalla prescelta e le diceva, un po’ vergognoso: «Concedimi la notte di domani, non impegnarti con nessun altro ! ». Arrivato all’ora fissata nella casa di lei, la piantava e si metteva nell’angolo più lontano della camera; si buttava ginocchioni e pregava tutta la notte a voce alta e con fervore per la peccatrice. All’alba se ne andava vietandole energicamente di rive­ lare che cosa avesse fatto presso di lei. Così egli trascorse un buon tratto di tempo, procuran­

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dosi una pessima fama. Mentre, infatti, nelle camere chiuse e segrete delle sgualdrine riusciva a scuotere e commuovere qualche disgraziata con le sue prediche ar­ denti e con la fervida dolcezza delle preghiere, tanto da farle mutar vita, in pubblico invece pareva che tenesse a passare per vizioso e peccatore, per uno che, pur essendo frate, si desse alla vita gaia e facesse dell’abito religioso un simbolo di vergogna. Trovandosi per caso la sera quand’annottava in com­ pagnia di persone ammodo, esclamava per esempio: — Ma che sto a fare qui? Dimenticavo quasi che m’a­ spetta la bruna Doris, la mia piccola amica! Cospetto, bisogna che vada subito perché non mi tenga il broncio ! Se allora qualcuno lo rimproverava, gridava indi­ spettito : — Credete che io sia di sasso? Pensate forse che Dio non abbia fatto le donnette anche pei frati? Se qualcuno diceva: — Padre, buttate piuttosto la tonaca alle ortiche e pigliate moglie, per non dare scandalo! — rispondeva: — Si scandalizzi chi vuole, e dia, se crede, del capo nel muro ! Chi mi può giudicare? E diceva queste cose dandosi delle grandi arie e facendo l’ipocrita come chi difenda una causa ignobile con grandi paroioni e molta sfrontatezza. Se ne andava quindi a leticare coi rivali davanti alla porta delle ragazze; qualche volta erano anche botte, e allungò più d’un ceffone vedendosi investire al grido: «Fuori il frate! Un monaco vorrà prenderci il posto? Via di qua, testa rapata!». Ma era tanto ostinato e invadente che di solito restava padrone del campo e s’infilava in casa. Ritornando all’alba nella sua cella si buttava ai piedi della Madonna; per amor suo, per la sua gloria intra­ prendeva quelle avventure e si addossava il biasimo del mondo, e quando riusciva a ricondurre all’ovile una pe­ cora smarrita e a farla entrare in qualche chiostro santo, si sentiva felice e contento davanti alla Regina dei Cieli, più che se avesse convertito mille pagani. La sua gioia più

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grande era quel martirio di passare nel mondo per impuro e dissoluto, mentre la Signora purissima del Cielo ben sapeva che egli non aveva ancora mai toccato una donna e che sul suo capo oltraggiato rideva una ghirlandetta invi­ sibile di candide rose. Un giorno venne a sapere che una femmina partico­ larmente pericolosa seminava stragi con la sua bellezza straordinaria, perché un guerriero nobile e violento guardava la sua porta e abbatteva chiunque osasse venir a tenzone con lui. Vitalis si propose tosto di prendere d’assalto quell’inferno. Non notò neanche il nome della peccatrice nel suo registro, ma s’awiò difilato a quella casa di cattiva fama imbattendosi realmente nel soldato che montava la guardia, vestito di scarlatto e con un giavellotto in mano. — Fatti in là, fratonzolo ! — gridò quegli beffarda­ mente al pio Vitalis — Come osi strisciare davanti al covo del leone? Il cielo fa per te, ma il mondo è per noi ! — Il cielo e la terra e tutte le cose appartengono al Signore — esclamò Vitalis — e a chi lo serve in letizia. Vattene, villano rifatto, e lasciami passare dove mi pare e piace ! Il guerriero alzò adirato l’asta del giavellotto per pic­ chiare sulla testa il frate ; ma questi levò rapidamente di sotto alla veste un randello di pacifico ulivo, parò il colpo e ammaccò la fronte a quell’ammazzasette con tanta violenza da fargli quasi perdere i sensi; il monaco bel­ licoso gli tempestò poi tanti pugni sul grugno da inton­ tirlo e farlo scappare bestemmiando. Vitalis, rimasto vincitore, entrò in quella casa e incon­ trò su una scala angusta la femmina che, con un lume in mano, era accorsa al rumore e alle grida. Era di com­ plessione alta e vigorosa oltre il comune, con lineamenti belli ma insolenti, tra ondate selvagge di capelli rossicci, che svolazzavano come una criniera leonina. Guardò Vitalis con disprezzo e domandò: — Dove vai? — Vengo da te, tortorella mia, — rispose — non hai sentito mentovare Vitalis, il monaco tenero e gaio?

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Ma sbarrando la scala con le sue forme possenti, lei replicò bruscamente: — Hai denaro? Vitalis non se l’aspettava e disse: — I frati non hanno mai denaro con sé. — Allora vattene per la tua strada, se non vuoi che ti faccia buttar fuori coi tizzoni accesi ! Vitalis, sconcertato com’era, si grattò la testa, perché il caso era nuovo: fino allora nessuna delle convertite aveva parlato di mercede, e le non convertite s’erano limitate a colmarlo d’improperi per il tempo perduto. Ma ora non riusciva neanche a entrare in casa per co­ minciare la sua opera di pietà; eppure aveva una gran voglia di domare proprio quella rossa figlia di Satana, perché le figure belle e slanciate sogliono indurre i sensi ad attribuir loro un valore umano maggiore di quel che abbiano in realtà. Si cercò indosso imbarazzato finché si trovò in mano quel tale astuccio d’argento che era ornato da un’ametista d’un certo pregio. — Non ho altro che questo, — disse — lasciatemi en­ trare ! Lei prese l’astuccio, lo esaminò e disse a Vitalis che poteva entrare. Arrivati nella camera da letto, egli non si curò più di lei, ma, inginocchiatosi come al solito in un angolo, cominciò a pregare ad alta voce. L’etera, pensando che per pia consuetudine egli vo­ lesse iniziare con le preghiere anche le sue opere mon­ dane, cominciò a ridere sguaiatamente e si mise a se­ dere sul letto per osservar meglio quella scenetta che la divertiva assai. Ma, visto che si andava per le lunghe, cominciò ad annoiarsi; si denudò allora le spalle provo­ canti e avvicinatasi al buon Vitalis lo avvinghiò con le braccia bianche e si strinse al seno quel capo raso e chiericuto con tanta veemenza che a lui parve di soffo­ care e si mise a sbuffare come se fosse tra le fiamme del purgatorio. Ma ben presto cominciò a scalciare come un puledro alla fucina finché fu libero da quell’amplesso diabolico. Prese poi il cordiglio che aveva intorno alla vita e afferrò la donna per legarle le mani sulla schiena

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e starsene in pace. Dovette però lottare aspramente per raggiungere il suo intento; alla fine le legò anche i piedi e la issò con grande sforzo sul letto. Ritornò poscia nel suo angolino e continuò a pregare come nulla fosse stato. La leonessa incatenata si avvoltolò, si contorse, rab­ biosa e inquieta, cercando di liberarsi e lanciando male­ dizioni; e mentre il monaco seguitava a pregare, a pre­ dicare, a scongiurare, si calmò un pochino, anzi verso il mattino emise qualche sospiro, cui seguì il singhiozzo di un cuore che si sarebbe detto contrito. Per farla breve, quando il sole si levò, lei giaceva sciolta dai lacci ai piedi del frate come una Maddalena e gli bagnava di lacrime l’orlo della veste. Con fare dignitoso e sereno egli le ac­ carezzò i capelli e le promise di ritornare sul fare della notte per dirle in qual monastero le avrebbero assegnato una cella, affinché potesse far penitenza. Poi la lasciò, non senza averle raccomandato di non far trapelare nulla della sua conversione e di dire a chiunque glielo chiedesse che durante la notte egli s’era dato buon tempo presso di lei. Ma quale non fu il suo sbigottimento allorché, ritor­ nando all’ora convenuta, trovò la porta chiusa e quella femmina tutta in ghingheri alla finestra ! — Che vuoi tu, prete? — gli gridò, al che egli rispose stupefatto: — Che vuol dir ciò, pecorella mia? Lèvati cotesti fronzoli e fammi entrare che io ti prepari alla penitenza. — Vuoi venire da me, frataccio? — disse sorridendo e fingendo di non aver capito — Hai denaro con te o roba di valore? Vitalis la guardò a bocca spalancata; poi si mise a scuotere la porta disperatamente, ma era chiusa e rimase tale, e anche la donna si ritirò dalla finestra. Le risate e le imprecazioni dei passanti cacciarono il frate apparentemente corrotto e spudorato via dalla casa malfamata; ma egli non pensava ad altro che a rientrarvi per sconfiggere il Maligno che s’era impadronito di quella donna.

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Immerso in questi pensieri entrò in una chiesa dove, invece di pregare, studiò tra sé la maniera di farsi acco­ gliere da quella sciagurata. Il suo sguardo cadde sulla cassetta che conteneva le offerte dei benefattori, e, appe­ na la chiesa fu vuota, il frate colpì la cassetta con un pugno poderoso, ne versò il contenuto - un gruzzolo di monete d’argento - nella tonaca rialzata e fuggì più lesto d’un innamorato verso la casa della peccatrice. Arrivò mentre la porta si apriva per accogliere uno zerbinotto tutto agghindato; Vitalis lo acciuffò pei capelli profumati, lo buttò in strada ed entrando d’un balzo in vece sua gli sbatte l’uscio in faccia; così si ritrovò al co­ spetto della donna malvagia che lo guardò con tanto d’occhi, vedendolo entrare invece del bellimbusto che aspettava. Vitalis versò sulla tavola il denaro rubato e domandò : — Ti basta per questa notte? La donna contò le monete in silenzio e disse riponen­ dole: — Mi basta. I due si misurarono con lo sguardo. Mordendosi le labbra per non ridere ella lo guardò come ignara di tutto, mentre il frate le lanciava occhiate incerte e an­ gosciose non sapendo da che lato pigliarla. Ma quando lei cominciò a far dei gesti provocanti e a mettergli le mani nella bella barba lucida, la tempesta scoppiò; le diede una pacca sulla mano, la rovesciò sul letto che ne scricchiolò tutto, le afferrò le mani, le puntò un ginoc­ chio contro il petto e senza sentire il fascino delle bel­ lezze di lei tanto disse ed esortò che la pervicace cominciò a raddolcirsi. A poco a poco ella smise di dibattersi nella stretta e il suo viso bello e forte si rigò di molte lacrime ; il religioso zelante la lasciò e, ritto accanto al letto del peccato, guardava quella figura slanciata dalle membra stanche e abbandonate, affranta dal pentimento e singhiozzante per l’amarezza, con gli occhi pesti e pieni di stupore per il mutamento involontario. La tempesta della collera eloquente si mutò dentro di

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lui in tenerezza e compassione; dal suo cuore si levò un inno alla Patrona Celeste, poiché a gloria di lei aveva riportato la più difficile delle vittorie, e le sue parole passavano come un’aura primaverile di conforto e di pace sul ghiaccio infranto di quell’anima. Più lieto che se avesse gustato un piacere dolcissimo, uscì, ma non già per concedersi un’oretta di sonno sul suo duro giaciglio, bensì per pregare davanti all’altare della Vergine in favore di quella povera anima contrita finché sorgesse il giorno: infatti s’era proposto di non chiudere occhio prima di saper la pecorella al sicuro fra le mura di un chiostro. E quando il giorno fu ridesto, ritornò a quella casa, ma vide venirgli incontro per la via il barbaro guerriero che, mezzo ubriaco, dopo una notte di gozzoviglie, s’era messo in mente di riconquistare l’etera. Vitalis era più vicino di lui alla porta fatale e si slanciò per entrare; ma l’altro vibrò contro di lui il giavellotto che sfiorò la testa del monaco e si infisse nella porta. Prima che l’asta cessasse di oscillare, il frate la estrasse con forza e, voltatosi furibondo contro il soldato che ave­ va sguainato la spada, lo trafisse in un baleno; quegli cadde riverso, e in quel momento Vitalis fu sorpreso da un drappello di fanti che, tornando dalla ronda e avendo assistito al misfatto, lo legarono e lo condussero in pri­ gione. Con grande tristezza egli si volse a riguardare la ca­ setta dove non gli era dato di portare a compimento la sua opera pia: le guardie credevano che imprecasse alla sua cattiva stella che l’aveva distolto da un proposito ini­ quo e, finché non giunsero alle carceri, trattarono il frate incorreggibile a improperi e legnate. Là dovette passare molti giorni e fu interrogato dai giudici; e se anche restò impunito, avendo ucciso il sol­ dato per legittima difesa, portò impresso il marchio del­ l’assassinio e tutti furono del parere che bisognasse spo­ gliarlo finalmente della tonaca. Ma il vescovo Giovanni di Alessandria doveva aver subodorato la verità, oppure aveva un piano superiore : infatti non volle espellere dal­

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l’ordine il frate malfamato e ordinò che per il momento lo si lasciasse andare di nuovo per la sua strada singolare. La quale lo riportò senza indugio alla peccatrice pen­ tita: ma questa aveva ancora cambiato idea e non lo lasciò entrare, finché il povero Vitalis rattristato e sbi­ gottito non le ebbe recato un altro oggetto di valore rubato in qualche luogo. Lei si pentì e convertì per la terza volta e poi ancora per la quarta e la quinta, visto che quelle conversioni erano più che mai redditizie e dato che il suo spirito maligno ci trovava un gusto infer­ nale a corbellare il povero frate con quel tiremmolla. Fra Vitalis aveva proprio lo spirito di un martire, poi­ ché più lei lo canzonava più lui s’intestava, quasi che la sua salvezza dipendesse proprio dalla resipiscenza di quel­ la femmina. Era diventato un assassino, un sacrilego, un ladro ; ma si sarebbe fatto mozzare una mano piuttosto di rinunciare alla sua fama di gaudente e, benché il suo cuo­ re non reggesse quasi più a tanto peso, faceva di tutto per sostenere davanti al mondo con modi e discorsi frivoli la sua parte d’uomo malvagio. Si era specializzato in quel genere di martirio! E dimagrava e intristiva ed era ri­ dotto un’ombra senza perdere però il sorriso dalle labbra. Dirimpetto alla casa della tribolazione abitava un ricco mercante greco con un’unica figlia che si chiamava Jole, che era libera di fare quel che le garbava, tanto che non sa­ peva come passar le giornate. Suo padre, ritiratosi dagli af­ fari, studiava Platone, e quando era stanco componeva eleganti epigrammi sui cammei antichi della sua ricca col­ lezione. Jole invece, deposta la cetra, non sapeva come dare alimento al suo pensiero vivace e volgeva gli occhi al cielo e all’orizzonte in cerca di uno spiraglio di speranza. Così scoperse anche la tresca del frate famigerato e seppe la storia delle sue gesta. Dal suo nascondiglio lo spiava con orrore e riluttanza e non poteva fare a meno di compiangere quella bella figura d’uomo. Ma quando per tramite d’una schiava, ch’era amica d’una schiava della sgualdrina, venne a sapere come stavano realmente le cose, si meravigliò moltissimo e, ben lungi dall’ammirare quel martirio, si sentì accendere d’ira ritenendo che

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quella sorta di santità non facesse onore al gentil sesso. Stette un po’ lì a rimuginare la cosa e s’indispettì sempre più, mentre al dispetto si mescolava una certa inclina­ zione per quell’uomo. E se la Vergine Maria non aveva tanto senno da met­ tere quel disgraziato sopra una strada più onesta ci avrebbe pensato lei, rubandole il mestiere : non immagi­ nava di essere lo strumento inconsapevole della stessa Regina dei Cieli. Andò quindi subito da suo padre a la­ gnarsi amaramente per la vicinanza sconveniente della prostituta e lo scongiurò di farla sloggiare ad ogni costo. Il vecchio si recò tosto da colei e le offrì una certa som­ ma per la casetta a patto che ne uscisse sui due piedi e s’allontanasse da quel quartiere. Quella non chiedeva di meglio, e nella mattinata stessa scomparve da quei pa­ raggi, mentre il vecchio ripigliava il suo Platone senza curarsi più della faccenda. Jole intanto era in gran daffare per sgombrare quella casa da tutto quanto potesse rammentare la proprietaria precedente, e, quando l’ebbe fatta spazzare e pulire, vi bruciò tante droghe e profumi che il fumo odoroso usciva a ondate dalle finestre. Poi fece portare nella camera vuota soltanto un tappeto, un rosaio in fiore e una lucerna, e quando suo padre, che andava a letto col sole, si fu addormentato, si recò in quella casa con in capo una ghirlandetta di rose e se­ dette sola soletta sul tappeto, mentre due vecchi servi fidati custodivano l’ingresso. Questi misero in fuga alcuni nottambuli, ma appena scorsero Vitalis si nascosero e lo lasciarono passare indisturbato. Egli montò la scala con gran sospiri e con gran paura di ritrovarsi canzonato, ma sperando tuttavia nel pentimento sincero di quella creatura che gli impediva di pensare alla salvezza di tante altre. Ma come rimase quando trovò la camera della fulva leonessa spoglia di quei suoi ninnoli e fronzoli e in sua vece, seduta su un tappeto, una dolce fanciulla davanti a una piantina di rose ! — Dov’è la sciagurata che abitava qui? — esclamò

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guardando intorno con stupore e fermando gli occhi sul­ l’apparizione gentile che gii si spiegava dinanzi. — È andata nel deserto — rispose Jole senza alzare lo sguardo — a far penitenza vivendo da eremita. Stamani il pentimento l’afferrò abbattendola come un filo d’erba, perché si era ridestata in lei la coscienza. Invocava un certo prete Vitalis che l’assistesse. Ma il nuovo spirito che la esaltava non le diede tregua; e la stolta raccattò le sue robe, le vendette, diede il denaro ai poveri e senza por tempo in mezzo, tagliatisi i capelli, vestito il cilizio, s’awiò con un bordone in mano verso il deserto. — Sii lodato, o Signore, e lodata sia la tua Madre piena di grazie! — esclamò Vitalis giungendo le mani in devozione e sentendosi cadere un peso dal cuore. Ma intanto osservò meglio la fanciulla con la sua coroncina di rose e disse: — Perché hai detto : la stolta? E chi sei tu? Donde sei venuta e che intendi fare? Jole abbassò ancor più i suoi sguardi e, chinatasi verso terra, si sentì avvampare la faccia di rossore per la ver­ gogna che provava a dover dire a un uomo quanto s’era prefissa di dirgli. — Io sono — disse — un’orfana ripudiata senza padre né madre. Dei miei averi non mi sono rimasti che questo tappeto, la lucerna e il rosaio e con queste cose mi sono messa qua per fare la vita che quell’altra ha smesso. — Ah, corpo d’un ... ! — esclamò il monaco battendo le mani — Guarda un po’ com’è sollecito il demonio! E cotesta bestiola innocente lo dice così senza scomporsi, come se io non fossi Vitalis ! Sentiamo dunque, gattina mia, che cosa vuoi fare? Ripeti ! — Voglio darmi all’amore e servire gli uomini finché avrà vita questa rosa — disse indicando la pianta. Ma le parole le venivano a stento, e, mentre le pareva di spro­ fondare sotto terra dalla vergogna, la naturalezza del suo pudore persuadeva sempre più il frate di aver davanti a sé una bimba innocente che, ossessa dal demonio, stava per buttarsi a piè pari nell’abisso. Egli si accarezzò la barba contento di essere arrivato in tempo, e, per gustare

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più a lungo quel piacere, disse strascicando le parole in tono scherzoso: — E poi? E poi, colombella mia? — Poi voglio andare misera e disperata all’inferno dove c’è la bella Venere, o più tardi, se trovo un buon predicatore, in un convento a far penitenza. — Ma brava, di bene in meglio ! — esclamò Vitalis — È un progetto magnifico, non c’è che dire. E in quanto al predicatore, eccotelo qua, davanti ai tuoi occhiacci neri, tizzoncino d’inferno che non sei altro. Anche il chiostro è pronto, come una trappola tesa, ma ci si va prima di peccare, capito? Prima di peccare, anche se hai già fatto quel tuo proponimento carino che d’altronde ti sarà utile perché ne avrai per tutta la vita se vorrai liberarti dal rimorso. Altrimenti, piccola stréga che sei, saresti una ben buffa penitente ! E ora — concluse con serietà — lèvati coteste rose dai capelli e stammi un po’ a sentire. — No, — disse Jole arditamente — prima starò a sentire e poi vedrò se mi conviene togliermi le rose. Avendo superato la mia sensibilità femminile, le parole non bastano più a trattenermi dal conoscere il peccato, e senza peccato non c’è contrizione ; pensaci prima di af­ fannarti a parlare. Comunque, sono disposta ad ascol­ tarti. Vitalis cominciò allora la più bella predica che avesse mai fatta. La giovane lo ascoltava attenta e avvenente, e il suo aspetto influiva non poco sulla scelta delle parole senza che egli se n’avvedesse, poiché la leggiadria della persona da convertire gli faceva scaturire di per sé un’elo­ quenza più fiorita del solito. Ma siccome non c’era un briciolo di serietà in quella perversità simulata, il discorso del frate non poteva farle grande impressione. Un vago sorriso errava sulla sua bocca e quand’egli ebbe finito, e ansiosamente si terse il sudore dalla fronte, Jole gli disse : — Le tue parole m’hanno commosso soltanto a metà e non so decidermi a desistere dal mio disegno; troppa è la mia curiosità di sapere come si viva in mezzo al pia­ cere e al peccato.

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Vitalis rimase di sasso e non riusciva a spiccicare una parola. Era la prima volta che la sua arte oratoria lo lasciava in asso. Sospirando e riflettendo passeggiava in su e in giù per la stanza fermandosi a riguardare quella candidata all’inferno. La potenza del demonio si asso­ ciava in modo raccapricciante alla forza dell’innocenza, formando un baluardo inespugnabile. Ma tanto più ap­ passionatamente egli si sforzava di trionfare. — Non mi muovo di qui — disse — finché tu non ti ravveda, dovessi restarci tre giorni e tre notti ! — Ciò mi renderebbe ancor più ostinata — obiettò Jole — Tuttavia ci voglio pensare ancora e ti starò a sentire anche la notte ventura. L’alba non è lontana; va’ dunque per i fatti tuoi e io ti prometto che non farò nulla e resterò come sono, ma tu promettimi di non dir niente a nessuno e di venire qua soltanto a notte fatta. — E sia ! — disse Vitalis allontanandosi, mentre Jole infilava l’uscio della casa paterna. Dormì un po’ e aspettò la sera con impazienza, perché il frate, visto da vicino, le era piaciuto ancora più che a vederlo da lontano. Aveva notato il fuoco che gli ardeva negli occhi e il suo portamento deciso, nonostante l’abito religioso. Considerando inoltre il suo spirito di sacrificio e la sua perseveranza, non poteva non desiderare che quelle buone qualità si volgessero al suo bene e al suo piacere, nella forma di un marito innamorato e fedele. E il suo compito era di fare di un martire valoroso un marito anche migliore. La notte seguente fra Vitalis la ritrovò su quel tappeto e continuò con zelo indefesso gli sforzi per salvare la sua virtù. Egli stava sempre in piedi, salvo quando s’inginocchiava per pregare. Jole invece si sdraiò como­ damente sul-tappeto, incrociò le braccia sotto la testa e tenne gli occhi fissi sul monaco che predicava davanti a lei. Alcune volte chiuse le palpebre come presa dal sonno e Vitalis, tosto che se ne accorgeva, la urtava col piede per tenerla desta. Ma quel gesto burbero gli riusciva meno aspro di quel che avrebbe voluto: poiché, appena il piede si accostava all’agile fianco della fanciulla, mo­

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derava da sé il proprio peso e lo toccava lievemente, ma quanto bastava perché una strana sensazione invadesse il frate quant’era lungo, una sensazione che non aveva mai provato accanto a nessuna delle altre belle pec­ catrici. Verso il mattino Jole si appisolava sempre più di fre­ quente e Vitalis finì per gridare seccato: — Tu non mi ascolti più, figliola, non riesci a star desta, sei tutta pigrizia ! — Tutt’altro — disse lei aprendo gli occhi mentre un dolce sorriso le illuminava la faccia come se vi fosse appar­ sa l’aurora imminente — sono stata attenta e ho in odio adesso quel peccatacelo, tanto più odioso, perché tu, caro frate, lo disapprovi; nulla mi potrebbe piacere che dispiacesse a te ! — Davvero? — esclamò Vitalis con gioia — M’è dun­ que riuscita? Vieni, per maggior sicurezza, andiamo su­ bito al convento. Battiamo il ferro finché è caldo. — Non mi hai ben compresa, — replicò Jole, abbas­ sando gli occhi e facendosi di bragia — io sono inna­ morata di te e ti voglio bene. Vitalis sentì come un colpo al cuore, ma non faceva male. E rimase lì stordito con tanto d’occhi e a bocca aperta. Ma Jole continuò, facendosi ancor più rossa, con voce piana e dolce: — Ora bisogna che tu mi persuada ancora e allontani da me questo nuovo malanno, il che ti riuscirà certamente. Vitalis non disse verbo e fuggì a precipizio. Si diede a correre nella mattinata argentea e invece di recarsi al suo giaciglio andava riflettendo se dovesse abbandonare al suo destino quella giovane sospetta o tentare di levarle dal capo quell’ultimo grillo, che gli sembrava il più spi­ noso di tutti e non senza pericolo per lui. Ma all’idea del pericolo arrossì di rabbia e di vergogna; eppure poteva essere un laccio tesogli dal demonio e in questo caso era meglio di tutto prendere il largo a tempo. Ma doveva disertare e arrendersi a quello sciocco arzigogolo infer­ nale? E se quella povera creatura fosse in buona fede?

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Quattro parolacce picchiate sul sodo non la potevano forse guarire dalle sue ubbie sconvenienti? Insomma Vi­ talis non sapeva decidersi, tanto più che in fondo al cuore un’onda oscura faceva oscillare la navicella della sua ra­ gione. Trovandosi alle strette s’infilò in una chiesina dove po­ co tempo prima avevano sistemato un bel simulacro an­ tico della dea Giunone facendola passare, con un’aureola d’oro, per la Madonna, affinché non andasse disperso quel dono divino dell’arte plastica. Davanti a quella Maria marmorea Vitalis si gettò ginocchioni, le espose la sua ambascia e chiese un segno : se la sua Patrona ac­ cennava col capo egli avrebbe continuato la conversione, se invece lo scuoteva avrebbe desistito. Ma l’immagine non si mosse e lo lasciò nella più cru­ dele incertezza. Se non che, al passaggio delle nubi mat­ tutine, un chiarore rosato si diffuse sul marmo, e il bel viso parve sorridere, sia che si rivelasse l’antica dea pro­ tettrice del buon costume e della fedeltà coniugale, sia che la nuova ridesse della pena di quel suo adoratore : in fondo erano donne tutte e due e alle donne, si sa, vien da ridere quand’è in vista qualche intrigo amoroso. Ma Vitalis ne sapeva quanto prima; anzi la bellezza di quel sorriso lo confondeva sempre più e gli pareva che l’im­ magine prendesse addirittura le sembianze di Jole, quasi che arrossendo lo esortasse a levarle di mente il suo amore per lui. A quell’ora il padre di Jole passeggiava tra i cipressi del suo giardino; aveva acquistato dei cammei bellissimi ed era in piedi così per tempo appunto per ammirarli. Li guardava estasiato tenendoli contro luce nel sole che sorgeva. Su un’ametista scura era incisa la Luna che attra­ versava il cielo col suo cocchio, ignara che dietro a lei s’era accoccolato Amore, mentre alcuni amorini svolettavano intorno gridandole in greco: «C’è seduto qualcuno, dietro ! ». C’era un’onice magnifica che mostrava Miner­ va immersa nei suoi pensieri con in grembo Cupido che lustrava con una mano la corazza di lei per specchiarvisi. Sopra una sarda c’era infine Amore che scapriolava

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come una salamandra nella fiamma d’una vestale con grande spavento e confusione della custode del fuoco. Quelle scenette suggerirono al vecchio alcuni distici, e, mentre li stava componendo, eccoti Jole pallida e affa­ ticata dalla veglia. Egli la chiamò a sé preoccupato e stupito chiedendole la ragione della sua insonnia. Ma prima di stare a sentire la risposta le mostrò i suoi gioielli spiegandole il significato di ciascuno. Jole trasse un gran sospiro e rispose: — Ahimè ! se le supreme potenze, la Castità in persona, la Saggezza, la Fede non si possono guardare dall’amore, come potrò difendermi io, creatura piccina e insigni­ ficante? Il vecchio si meravigliò non poco a quelle parole : — Che ascolto? Ti avrebbe mai trafitta lo strale pos­ sente di Eros? — Mi ha trafitta sì, — rispose lei — e se non vengo subito in possesso dell’uomo che adoro, non mi resta che morire ! Benché il padre fosse solito ad accondiscendere in tutto, ora quella gran fretta gli parve esagerata e invitò la figlia a riflettere con calma e con saggezza. Ma la saggezza non le fece difetto ed ella perorò la causa tanto bene che il vecchio esclamò : — Dovrò dunque compiere il più triste dovere per un padre? Andare in cerca dell’eletto, prendere l’omino per mano e presentarlo a quanto di meglio possiedo pregan­ dolo che per favore ne prenda possesso? Ecco una donnet­ ta leggiadra, signor mio, prendi, non rifiutarla ! È vero che preferirei pigliarti a scapaccioni, ma la piccina vuol morire e bisogna che io sia cortese. Suvvia, non far complimenti, ti pare? Accetta il pasticcino che ti offro, è cotto appuntino, si scioglie in bocca ! — Ti risparmio tutto ciò — disse Jole — perché, se permetti, conto di indurlo a venire lui stesso a chiederti la mia mano. — E se fosse un poco di buono, un villanzone? — Allora sia scacciato con disonore ! Ma io ti dico che è un santo.

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sette leggende

— Va bene. Adesso lasciami con le Muse — disse il buon vecchio. Quella sera la notte non seguì il crepuscolo tanto rapi­ damente quanto Vitalis la piccola Jole nella ben nota casetta. Ma non v’era ancora mai entrato così. Con un gran batticuore cominciò a capire cosa voglia dire rive­ dere una creatura che abbia giocato una tale carta. Non era lo stesso Vitalis che era uscito di lì il mattino, quan­ tunque egli stesso se ne rendesse ben poco conto, poiché il povero missionario, il povero frate calunniato non ave­ va saputo neanche distinguere il sorriso d’una sgualdrina da quello d’una donna onesta. Salì tuttavia in buona fede e col proposito di levare da quella testolina tutti i pensieri disutili; aveva però come l’idea di doversi concedere dopo quell’opera, che cominciava a spossarlo, un po’ di riposo nella sua attività di martire. Ma era proprio detto che in quella casa stregata do­ vesse incappare sempre in qualche sorpresa. Questa volta trovò la stanza tutta ornata e fornita di ogni comodità. Un fine olezzo di fiori era nell’aria e dava all’ambiente come un tono di mondanità gentile; Jole se ne stava sopra un lettuccio candido (la coperta di seta non faceva neanche una piegolina fuori di posto), tutta agghindata con garbo, dolcemente melanconica come un angelo me­ ditabondo. Il suo seno ondeggiava violentemente sotto la bella veste come una tempesta in una tazza, e per quanto splendessero le sue belle braccia bianche incro­ ciate sul petto, quella grazia appariva tanto legittima e permessa che Vitalis si sentì morire in gola tutta la sua eloquenza. — Grande stupore è il tuo, o monaco gentile, — co­ minciò Jole — di trovar qui questo lusso e questi addobbi. Sappi che questo è il mio addio al mondo e il mio distacco da quei sentimenti che purtroppo devo nutrire per te. Ma bisogna che tu mi assista secondo le tue forze e nel modo che ho escogitato. Poiché se continui a parlarmi in cotesto abito, da uomo di religione, siamo sempre alle stesse. I modi frateschi non potranno persuadermi,

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perché io sono di questo mondo. Un frate non potrà mai guarirmi dall’amore, perché non lo conosce e ne parla non sapendo cosa sia. Se hai quindi ferme inten­ zioni di spianarmi le vie del cielo, entra in quella came­ retta: là troverai abiti secolari, indossali invece del tuo saio, e vestito da gentiluomo vieni a tavola con me. Così in abito mondano, aguzza il tuo ingegno ed esponi i tuoi argomenti per allontanarmi da te e avvicinarmi alla beatitudine divina. Vitalis non rispose nulla, ma stette un po’ sopra pen­ siero. Infine deliberò di finirla e di battere il diavolo mondano con le sue stesse armi, accettando la proposta capricciosa di Jole. Si recò veramente nella stanza attigua, dove due paggi lo aspettavano con abiti sontuosi di lino e porpora. Ap­ pena li ebbe indossati parve un palmo più alto e ritornò con nobile portamento da Jole, che se lo mangiava con gli occhi e batteva giocondamente le mani. Avvenne allora un vero miracolo e un curioso muta­ mento nel frate : si era appena seduto a fianco della donna leggiadra che i giorni passati gli svanirono dal cervello e il suo proponimento fu bell’e dimenticato. Senza dir motto accoglieva avidamente le parole di lei, che pren­ dendogli una mano gli raccontò la sua vera storia, dicen­ dogli chi fosse e dove abitasse e quanto avrebbe desiderato che egli abbandonasse quella sua vita stravagante e an­ dasse da suo padre a chiederla in sposa per diventare poi un marito esemplare e timorato di Dio. Disse anche altre bellissime cose, parlando con molta leggiadria di un amo­ re puro e felice, e conchiuse sospirando che vedeva pur­ troppo quanto fosse vano il suo desiderio e invitandolo a confutarla, ma non prima di avere preso lena con un po’ di cibo e bevanda. A un suo cenno i servi recarono le coppe e un canestro di frutta e biscotti. Jole versò a Vitalis, che se ne stava silenzioso, una coppa di vino, e gli porse da mangiare con tanta grazia che gli parve di essere in casa sua e gli ven­ nero in mente i bei tempi della sua infanzia quando la mamma lo imboccava teneramente. Mangiò e bevette e

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gli venne una gran voglia di riposarsi dopo i lunghi af­ fanni, e to’.. . il nostro Vitalis chinò il capo verso Jole e si addormentò subito appoggiato a lei, restando così fino al levar del sole. Quando si destò era solo. Silenzio. Balzò in piedi at­ territo per l’abito splendido che aveva indosso; si mise a correre su e giù per la casa rovistando da per tutto in cerca della sua tonaca; ma non ne trovò traccia finché scoperse in un cortiletto un mucchio di cenere e carboni con sopra mezza manica bruciacchiata, per cui argo­ mentò giustamente che la sua tonaca vi era stata arsa solennemente. Poi sporse la testa ora da una finestra ora dall’altra, ri­ traendosi tutte le volte che passava qualcuno. Infine si buttò sul lettuccio di seta sdraiandovisi così comodamente come se non avesse mai riposato su di un duro giaciglio. Ma s’alzò di scatto, si aggiustò la veste e fece per uscire. Dietro la porta stette ancora un momento in forse, poi la spalancò e uscì solenne e dignitoso. Nessuno lo riconobbe, tutti lo credettero un gran signore forestiero venuto a svagarsi ad Alessandria. Ma egli non guardò né a destra né a sinistra, altrimenti avrebbe scorto Jole sulla terrazza di casa sua. Se n’andò invece difilato al convento, dove tutti i monaci insieme col superiore avevano appunto deciso di espellerlo, per­ ché, essendo colma la misura dei suoi peccati, era di danno e di scandalo alla Chiesa. Quando poi lo videro arrivare in quest’arnese fastoso la loro indignazione traboccò: lo annaffiarono d’acqua da tutte le parti e lo scacciarono dal convento con scope e crocifissi, con mestoli e forconi. In altri tempi quel trattamento ingiurioso gli sarebbe parso un godimento e un trionfo del suo martirio. Anche questa volta rise dentro di sé, ma in un altro senso. Fece ancora una volta il giro delle mura cittadine mentre il vento gli gonfiava il manto rosso. Dalla Terra Santa spira­ va un magnifico vento sul mare scintillante, ma Vitalis si sentiva sempre più di questo mondo e senza avveder­ sene volse i passi verso le vie rumorose della città e verso la casa di Jole, dove si arrese al suo volere.

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Da allora in poi fu un gentiluomo perfetto e un otti­ mo marito. La Chiesa, saputo come stavano le cose, fu inconsolabile per la perdita di un tal santo e fece di tutto per riportare il fuggiasco nel suo grembo. Ma Jole lo tenne stretto, affermando che presso di lei era abba­ stanza al sicuro.

DOROTHEA E IL CANESTRO DI ROSE Ma separarsi così è ritrovarsi di più.

F. L. Blosius, Istruzione spirituale, cap. 12

Sulla riva del Ponto Eusino, non lungi dal fiume Halys, sorgeva nella luce della più bella mattinata di prima­ vera una villa romana. Dalle acque del Ponto il grecale portava un’amena frescura nei giardini e ne godevano i pagani e i cristiani clandestini altrettanto quanto le fron­ de tremolanti degli alberi. Sotto un loggiato in riva al mare, lontano dal mondo, c’era una giovane coppia, un bel giovane davanti alla più tenera fanciulla. Questa teneva alta una grande cop­ pa, di una pietra rossiccia translucida intagliata con arte, per farla vedere al giovane, e i raggi del mattino vi giocavano con garbo mentre il riflesso rosso sul viso della fanciulla dissimulava il suo rossore. Era Dorothea, la figlia d’un nobile che Fabricius, il governatore della Cappadocia, desiderava ardentemente in sposa. Siccome però era un ostinato persecutore dei cristiani, i genitori di Dorothea, che si sentivano attratti dalla nuova fede e facevano di tutto per approfondirla, cercarono di opporre resistenza alle pressioni del potente magistrato. Non che volessero coinvolgere i loro figlioli nelle lotte religiose o accaparrare i loro cuori alla fede; erano troppo nobili e liberali per farlo. Ma pensavano che, a chi tortura gli uomini per le loro credenze, non è bene affidargli il cuore. Dorothea non aveva bisogno di queste considerazioni perché aveva trovato un altro modo di difendersi dalle istanze del governatore, cioè l’affetto per il suo segretario Theophilus che ora stava appunto vicino a lei e guarda­ va nella coppa rossa. Theophilus era un uomo cólto e fine d’origine ellenica, che aveva superato mólte avversità e godeva la stima di tutti. Ma in seguito agli stenti della sua giovinezza aveva

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un carattere chiuso e diffidente e, accontentandosi di ciò che doveva a se stesso, non gli veniva fatto di credere che qualcuno gli volesse bene spontaneamente, senza altri fini. Dorothea gli era cara quanto la vita, ma già il fatto che l’uomo più influente della Cappadocia la voleva per moglie gli impediva di nutrire speranze, e a nessun patto avrebbe voluto rendersi ridicolo davanti a lui. Tuttavia Dorothea cercava di portare a realizzazione i propri desideri, e intanto di assicurarsi quanto più pote­ va la sua compagnia. E poiché egli appariva sempre calmo e impassibile, la passione di lei giungeva fino a inventare qualche astuzia e a scuoterlo con la gelosia fingendo di esser tutta presa di Fabricius. Ma Theophilus non capiva quella sorta di scherzi e, se li avesse capiti, era troppo orgoglioso per farsi vedere geloso ; tuttavia si lasciò trascinare un po’ alla volta, fino a tradirsi ogni tanto, ma poi vinceva il turbamento e chiudeva il suo cuore, sicché alla tenera innamorata non rimase altro che procedere con maggior risolutezza e tirare la rete al momento buono. Egli si trovava nella regione del Ponto per affari di stato e Dorothea che lo sapeva era partita da Cesarea coi genitori che si recavano laggiù in campagna per l’ini­ zio della primavera. E quella mattina aveva saputo atti­ rarlo nella loggia con uno stratagemma complicato, fa­ cendogli credere un po’ al caso un po’ alla sua amichevole intenzione, in maniera che la buona sorte e il pensiero gentile gli dessero insieme fiducia e serenità. Voleva mostrargli il vaso che un buono zio di Trebisonda le aveva mandato per la sua festa. Il viso di lei raggiava di gioia purissima, vedendo l’amato così vicino e solo con lei ed essendo in grado di mostrargli una cosa bella; e anche lui era molto lieto: il sole sorgeva final­ mente nel suo cuore, gli occhi gli brillarono, la bocca sorrise con fiducia. Ma gli antichi hanno dimenticato di mettere accanto a Eros la dea invidiosa che al momento decisivo, quando la felicità è a portata di mano, getta un velo sugli occhi degli amanti e distorce loro le parole in bocca. Mentre gli porgeva fiduciosamente quella coppa ed

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egli domandava chi gliel’avesse donata, non so che gio­ conda baldanza la indusse a celiare e a dire : «Fabricius ! » nella certezza che egli non avrebbe frainteso lo scherzo. Ma siccome non le riuscì di fondere col suo sorriso com­ mosso quel tono beffardo all’indirizzo dell’assente che avrebbe reso palese la burla, Theophilus credette ferma­ mente che quell’onestà gioia derivasse dal dono e dal donatore ; e vide che era caduto in una trappola, avendo valicato i limiti di un circolo già chiuso e non fatto per lui. Abbassò gli occhi umiliato e confuso, cominciò a tremare e lasciò cadere il gioiello che s’infranse al suolo. Nel primo spavento Dorothea non pensò affatto alla burla e poco a Theophilus, e si chinò addolorata a rac­ cattare i cocci esclamando: «Come sei maldestro!». E poiché non lo guardava in viso ella non vi notò il muta­ mento e non immaginò il malinteso. Quando si alzò e lo guardò, dominandosi, Theophilus s’era già calmato. Con un’occhiata cupa e indifferente le chiese perdono quasi con ironia e, promettendo di ri­ sarcire il danno recato, salutò e uscì dal giardino. Pallida e triste lei seguì con lo sguardo quella figura slanciata nella bianca toga attillata, dal capo ricciuto, un po’ chino su una spalla, come immerso in pensieri lontani. Le onde argentee del mare lambivano dolcemente i gradini di marmo, e nell’ampio silenzio Dorothea si vide alla fine dei suoi piccoli artifici. Si ritirò piangendo nella sua stanza per nascondervi i cocci del vaso. Per qualche mese non si videro più. Theophilus ritornò alla capitale e quando in autunno vi giunse anche Do­ rothea cercò di evitarla in tutti i modi, perché lo atter­ riva anche il pensiero di un possibile incontro. Così ter­ minò per loro ogni letizia. Allora, come suol accadere, ella cercò conforto nella fede dei suoi genitori e, appena essi se ne avvidero, la in­ coraggiarono e la introdussero nei riti e nelle loro pre­ ghiere. Ma le finte cortesie di Dorothea avevano fatto sciagu­ ratamente il loro effetto sul governatore, sicché questi

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rinnovò con maggior insistenza la sua domanda, per­ suaso di averne tutto il diritto. E quale non fu la sua sor­ presa quando Dorothea non lo degnò più neanche d’uno sguardo, facendogli capire che le era più odioso di tutte le sventure. Ma non per ciò quegli si ritrasse ; anzi diventò più importuno e cominciò a tormentarla per la sua nuova fede, unendo alle lusinghe anche qualche mal ce­ lata minaccia. Dorothea però professava la sua fede apertamente, senza paura, e non badava a lui più di quanto si badi a un’ombra invisibile. Tutte queste cose furono riferite a Theophilus, il quale seppe così che la fanciulla non viveva giorni lieti. Più di tutto lo sorprese la notizia che essa non voleva saperne del proconsole. Benché in fatto di religione fosse pagano o almeno indifferente, non si scandolezzò delle nuove cre­ denze della ragazza ma cercò di avvicinarla di nuovo per vedere e sentire come stava. Lei però, in qualsiasi occasione, parlava, adoperando le espressioni più tenere e desiose, di uno Sposo celeste che aveva trovato e la aspettava nella sua bellezza immortale per stringerla al petto luminoso e porgerle la rosa della vita eterna, e così via. Era un linguaggio che egli non capiva per niente; era offeso e adirato, e il suo cuore si gonfiava d’una strana gelosia dolorosa contro quel Dio ignoto che abbindolava la debole donna ; non sapeva infatti interpretare le parole commosse di Dorothea altro che alla maniera della mito­ logia antica. Ma l’esser geloso di un ente soprannaturale non feriva meno il suo orgoglio, e il suo cuore non provava più compassione per una donna che si gloriava di amici­ zie divine. Eppure era stato il suo amore insoddisfatto per lui a metterle sulle labbra quei discorsi, così come lui continuava a portare infìsso nel cuore il pungolo della passione. Le cose andarono lisce per un po’ finché Fabricius intervenne con la violenza. Col pretesto di nuove ordi­ nanze imperiali sulla persecuzione dei cristiani, fece im­ prigionare Dorothea e i suoi genitori, ma mise la figlia in

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un carcere separato facendola sottoporre a un interroga­ torio severo. S’awicinò anche lui con curiosità e la udì imprecar forte contro i vecchi dèi e proclamare unico Signore del mondo il Cristo cui s’era promessa sposa. A quelle parole anche il governatore sentì i morsi della gelosia. Decise di farla finita e ordinò di torturarla e, se si ostinasse, di ucciderla. Poi se n’andò. La misero so­ pra una graticola di ferro con sotto un po’ di carbone acceso in modo che il calore salisse lentamente. Ma ba­ stava per far male a quel corpo delicato. Lei si mise a gri­ dare torcendo le membra legate alla graticola e versando molte lacrime. Theophilus, che di solito non s’impicciava in quel genere di persecuzioni, venuto a conoscenza del fatto, era accorso inquieto e atterrito. Senza badare alla propria sicurezza si lanciò tra la calca curiosa e udendo i gemiti di Dorothea strappò di mano a un soldato la spada e fu d’un balzo accanto al suo letto di tortura. — Ti fa male, Dorothea? — domandò con un sorriso doloroso accingendosi a tagliare i legami. Ma, come sciol­ ta da ogni pena e pervasa a un tratto da una gioia im­ mensa, lei rispose: — Perché mi dovrebbe far male, Theophilus? Non giaccio forse sul letto di rose del mio Sposo amatissimo? Vedi, questo è il giorno delle mie nozze ! Sulle sue labbra errava come una celia graziosa mentre quegli occhi lo guardavano raggianti di felicità. Un nim­ bo di luce ultraterrena avvolgeva lei e il suo giaciglio, un silenzio solenne regnava intorno, tanto che Theophilus lasciò cadere la spada e si ritirò, umiliato e confuso, come quella mattina nel giardino in riva al mare. Il fuoco si rianimò, Dorothea gemette, invocò la morte. Le fu accordata e la condussero tosto al luogo del suppli­ zio per decapitarla. S’awiò con passo leggero seguita dal vocio spensierato del popolo. Lungo la via scorse Theophilus che le fissava gli occhi addosso. I loro sguardi si incontrarono, Doro­ thea si fermò un momento e gli disse con garbo : — O Theophilus, se tu sapessi come son belli e rigo­ gliosi i roseti del mio Signore, dove passeggero tra pochi

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istanti, e come son dolci i pomi che vi crescono, verresti anche tu. Theophilus rispose con un amaro sorriso: — Ebbene, senti, Dorothea : quando sarai là man­ dami un saggio di quei pomi e di quelle rose. Lei annuì e continuò per la sua strada. Theophilus la seguì con lo sguardo, finché il nuvolone di polvere sollevato dal corteo e dorato dal sole calante scomparve in lontananza e le strade furono deserte e si­ lenziose. Poi si tirò il mantello sul capo e andò a casa, e salì con le gambe che gli tremavano sulla terrazza donde si godeva la vista dei Monti Argei : sopra una delle prime alture sorgeva il ceppo. Egli vi distinse il formico­ lio della folla e tese le braccia verso l’altura. In quella gli parve di scorgere nello splendore del sole morente il lam­ po della scure e stramazzò con la faccia per terra. Infatti in quel momento cadeva la testa di Dorothea. Ma egli non rimase a lungo immobile, ché una luce vivida brillò nel crepuscolo insinuandosi abbagliante sot­ to le mani di Theophilus, sulle quali posava il suo viso, e versandosi nei suoi occhi chiusi come oro colato. Nello stesso tempo l’aria fu piena di profumo. Come invaso da una nuova vita ignorata il giovane si alzò: davanti a lui c’era un bellissimo fanciullo dai riccioli d’oro, dai pie­ dini nudi e lucenti, con un abitino cosparso di stelle, e teneva con le piccole mani luminose un canestro pieno di rose bellissime come non si erano mai viste, e, tra le rose, tre pomi paradisiaci. Con un sorriso infantile infinitamente candido e schiet­ to e non senza una certa arguzia il fanciullo disse: «Queste cose te le manda Dorothea», e porgendogli il canestro soggiunse: «Tienlo forte!» e disparve. Theophilus si trovò realmente fra le mani il canestro che non era scomparso; vide che i tre pomi avevano il segno d’un morso, come usava tra gli amanti nell’anti­ chità. Li mangiò lentamente sotto la volta fiammante del cielo stellato. Un immenso struggimento gli penetrò nelle vene come un fuoco delizioso e, stringendosi al petto il ca­ nestro sotto il mantello, scese dalla terrazza, attraversò la

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città di corsa, ed entrò nel palazzo del governatore che era a cena e cercava di farsi passar la rabbia che lo rodeva, stordendosi con mero vin di Coleo. Theophilus gli si parò davanti con gli occhi lustri e, senza mostrare il canestrino, gridò dinanzi a tutti : — Professo anch’io la fede di Dorothea che avete uc­ ciso dianzi; è la sola fede vera! — E segui dunque anche tu quella strega — rispose il governatore, e balzò in piedi ardendo di furore e di gelo­ sia. E in quell’ora stessa fu decapitato anche il segre­ tario. Così fu che Theophilus raggiunse quel giorno stesso la sua Dorothea, che l’accolse con lo sguardo tranquillo dei beati; come due colombe che, divise dall’uragano, si siano ritrovate e volteggino sopra il loro nido, così si li­ bravano quei due, tenendosi per mano, rapidamente e senza posa lungo la cerchia estrema del cielo, liberi da ogni peso e pur consci di sé. Poi si separarono per gioco e si perdettero nell’immensità, sapendo però l’una del­ l’altro il posto e i pensieri, e stringendo in un grande am­ plesso affettuoso tutte le creature e tutta l’esistenza. In seguito si cercarono ancora con brama novella, ma priva di dolore e d’impazienza; ritrovatisi si aggiravano uniti per il cielo o si fermavano felici di rimirarsi a vicenda o di contemplare l’universo infinito. Una volta però si tro­ varono, nel loro più soave abbandono, troppo vicini al palazzo di cristallo della Santissima Trinità e vi entra­ rono; lì svennero, addormentandosi come due gemelli sotto il cuore della mamma, e dormono probabilmente ancora, se nel frattempo non hanno potuto uscire di lì.

LA BREVE LEGGENDA DELLA DANZA Io ti riedificherò e tu sarai riedificata, o Vergine d’Israele; tu di nuovo andrai ornata in mezzo ai tuoi tamburi, e camminerai in mezzo al coro dei sonatori. Si rallegreranno allora nel­ la danza le vergini, e i giovani coi vecchi.

Geremia, 31, 4, 13

A

quanto racconta san Gregorio, Musa era la danza­ trice tra i santi. Figlia di buona gente, era una vergine graziosa devota alla Madre di Dio e dominata da una sola passione, cioè dalla smania invincibile di ballare, tanto che quando non pregava danzava immancabil­ mente. In tutti i modi. Musa danzava con le compagne, coi bimbi, coi giovanotti e anche sola ; danzava nella sua cameretta, in sala, in giardino, sui prati e persino all’al* tare s’accostava più danzando che camminando, e da­ vanti alla porta della chiesa sui lisci lastroni di marmo non si lasciava sfuggire l’occasione di provare un balletto. Anzi, un giorno che era sola in chiesa non seppe rinun­ ciare a far qualche figura di danza davanti all’altare e à danzare, per così dire, una preghiera alla Vergine Maria. Ed era tanto assorta che le parve di sognare quando vide un signore anziano, ma bello, che le veniva incontro dan­ zando e completando le sue figure in modo da combinare un ballo perfetto. Quel signore indossava un manto di porpora regale, aveva in capo una corona d’oro, e la sua barba nera lucente era soffusa della brina argentea del­ l’età come da un lontano chiarore di stelle. La musica scendeva dal coro dove c’era una mezza dozzina di an­ gioletti, che stavano in piedi o seduti sul parapetto spen­ zolando di fuori le gambette tonde, e sonavano i vari strumenti. E i piccini s’erano accomodati con molto senso; pratico, perché si facevano reggere lo spartito da altret­ tanti angioli di pietra che ornavano la balaustrata del coro; soltanto il più piccolo, un angioletto paffuto che sonava il piffero, aveva incrociato le gambine e riusciva; a reggere il foglio con le dita dei piedini rosei. E questi era anche il più attento; gli altri infatti ciondolavano le

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gambe, o stendevano ogni tanto le ali frusciando e fa­ cendone brillar le tinte simili al collo cangiante dei co­ lombi o si stuzzicavano a vicenda. Musa non trovò il tempo di meravigliarsi di tutto ciò, presa com’era dalla danza che durò parecchio; anche quel signore gaio ci si divertiva proprio come la ragazza, che credeva di sgambettare in lungo e in largo per il pa­ radiso. Cessata la musica la ragazza si fermò trafelata, e allora sì òhe cominciò ad aver paura e a guardare stu­ pita quel vecchio che non ansava né appariva accaldato : egli prese anche la parola e si diede a conoscere per David, antenato regale della Vergine Maria e suo messaggero. E le domandò se avesse voglia di godersi la beatitudine eterna in una continua danza gioiosa, una danza rispetto alla quale il ballo.che avevano terminato allora non era che un melanconico strascinamento. Lei rispose tosto che non desiderava di meglio. E re David di rimando: f — In tal caso non hai da far altro che rinunciare du­ rante la tua vita terrena a tutti i piaceri e a tutte le danze e dedicarti alla penitenza e agli esercizi spirituali senza incertezze o recidive. A sentire quella condizione la giovinetta restò perplessa e disse: — Dovrei dunque rinunciare alla danza in tutto e per tutto? Ma si balla poi davvero in paradiso? Tutte le cose hanno il loro tempo, e questo mondo terreno mi sembra buono e adatto per ballarci su : dunque il cielo dev’essere diverso, perché altrimenti la morte sarebbe una cosa superflua. Ma David le spiegò che commetteva un grave errore e le dimostrò con molti passi della Bibbia e col suo esem­ pio personale che il ballo era realmente una santa occu­ pazione dei beati. Ma ora bisognava decidersi rapida­ mente per il sì o per il no ; se voleva acquistarsi con la rinuncia temporanea la gioia perpetua, bene, se no egli passava oltre, perché in paradiso c’era ancora bisogno di alcune danzatrici. Musa era ancora indecisa tra il sì e il no e giocherellava

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animatamente con le punta delle dita sulla bocca: era troppo duro non ballare mai più in attesa d’una ricom­ pensa ignota. Allora David fece un cenno e la musica intonò alcune battute di una danza così infinitamente dolce e celestiale che Musa si sentì balzare il cuore nel petto e sussultare tutta dalla gioia; ma non le venne fatto di muovere un passo, perché il suo corpo era troppo greve e rigido per quella musica. Vinta dal desiderio porse la mano al re e fece la promessa secondo il suo volere. Questi disparve e gli angeli sonatori svolazzarono via, affollandosi frusciando a una finestra della chiesa, dopo aver picchiato, a mo’ di bimbi che ruzzano, con gli spar­ titi arrotolati sulle gote dei pazienti angeli di pietra. Musa andò a casa con passo modesto mentre la melo­ dia divina le ronzava nelle orecchie, si fece fare un cilizio e lo indossò invece degli abiti ornati. In fondo al giar­ dino dei suoi genitori, dove l’ombra degli alberi era più fitta, si costruì una cella con un lettuccio di muschi e visse santa e penitente, separata dai suoi congiunti. Passava tutto il suo tempo in orazione e spesso si flagellava; ma la sua penitenza più grave era di tener ferme e rigide le gambe. Bastava un suono, il gorgheggio d’un uccello o il frullo d’una foglia nell’aria per dare un fremito ai suoi piedi e farle venire la smania di ballare. Non riuscendo a liberarsi da quel fremito involontario che talvolta, prima che lei se n’avvedesse, l’induceva a fare un saltino, si fece legare i piedini con una catenella. I congiunti e gli amici erano meravigliati di quel muta­ mento, e nella felicità di possedere una tal santa custodi­ vano l’eremo sotto gli alberi come la luce dei loro occhi. Molti venivano a chiedere consigli e intercessioni. Spe­ cialmente portavano da lei le bambine un po’ male in gambe, perché s’era visto che al suo tocco prendevano un’andatura leggera e graziosa. Passarono tre anni di quella vita ritirata e, verso la fine del terzo, Musa s’era fatta affilata e diafana come una nuvoletta estiva. Giaceva sempre nel suo lettuccio di mu­ sco guardando il cielo con tanto desiderio che già le pa­

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reva di scorgere attraverso l’azzurro i sandali d’oro dei beati danzanti. In una cruda giornata d’autunno si sparse la voce che la santa era moribonda. S’era fatta levare lo scuro cilizio e indossare il più candido abito nuziale. A mani giunte, sorridendo, aspettava l’ora della morte. Il giardino era pieno di una folla devota, il vento mormorava e le foglie degli alberi piovevano da ogni parte. Ma a un tratto il murmure del vento si fece musica e inondò tutte le fronde, e quando i fedeli alzarono gli occhi, ecco che tutti i rami erano vestiti di verde novello, i mirti e i melograni fioriti olezzavano, il suolo si coprì di fiori e un chiarore rosato avvolse il tenero corpicino della morente. In quel momento essa esalò l’ultimo respiro, la cate­ nella che le stringeva i piedi si spezzò tinnendo, il cielo si spalancò raggiante d’infinito splendore e tutti vi pote­ rono guardare. E videro migliaia e migliaia di bei giovani e di splendide fanciulle che danzavano fin dove l’occhio poteva giungere. Su di una nube, al cui margine era un’orchestrina particolare di sei angioletti, un Re magni­ fico scese verso terra e accolse l’anima della beata Musa davanti agli occhi di tutto il popolo che gremiva il giar­ dino. E la si vide salire nel cielo aperto e perdersi dan­ zando nelle carole sonanti e luminose. C’era grande festa nel cielo ; e nelle grandi feste - san Gregorio Nisseno lo nega, ma il Nazianzeno lo conferma si usava invitare in paradiso anche le nove Muse perché dessero una mano, mentre di solito stavano all’inferno. Ricevevano un buon trattamento, ma, una volta sbri­ gato il loro lavoro, dovevano ritornarsene laggiù. Finite dunque le danze e le canzoni e tutte le cerimo­ nie, le schiere celesti si misero a tavola, mentre Musa ve­ niva fatta sedere alla mensa dove erano ospitate le nove Muse. Queste si stringevano l’una all’altra quasi spaurite e giravano intorno i loro occhioni neri o profondamente azzurri. Le serviva con le sue mani la solerte Marta, quella del Vangelo, che s’era messo il suo più bel grem­ biale da cucina e aveva sul mento bianco una graziosa macchiolina di fuliggine. Essa metteva loro dinanzi le

LA BREVE LEGGENDA DELLA DANZA

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cose più buone, ma solamente quando Musa e santa Ce­ cilia e altre donne esperte nelle arti vennero a salutare giocondamente le timide Pieridi, queste presero maggior confidenza. E in quel circolo femminile si svolse la più garbata e gaia conversazione. Musa sedeva accanto a Tersicore e Cecilia tra Polinnia ed Euterpe e tutte si tenevano per mano. Vennero anche i bimbetti della mu­ sica e si misero a far le moine alle belle donne per aver di quelle frutta lucenti che erano sulla mensa odorante d’ambrosia. Venne quindi il re David in persona re­ cando un calice d’oro, dal quale bevvero tutte sentendosi ardere in cuore una gioia purissima. Egli fece tutto com­ piaciuto il giro della tavola, e passando non mancò di ac­ carezzare il mento della gentile Erato. E, mentre alla tavola delle Muse regnava la massima letizia, si fece ve­ dere persino Nostra Signora in tutta la sua bellezza e bontà, sedendosi un po’ in loro compagnia e baciando sulla bocca l’austera Urania incoronata di stelle; anzi accomiatandosi le sussurrò che non si dava pace finché le Muse non avessero potuto rimanere per sempre in paradiso. Certo però non si arrivò a tanto. Per dar prova della loro buona volontà e dimostrarsi grate della bontà e delle cortesie godute, si trovarono tutte insieme in un angolo remoto dell’inferno a provare una laude, alla quale cer­ carono di dar la forma di quei corali che usavano in paradiso. Si divisero in due gruppi di quattro voci, mentre Urania faceva in certo modo da soprano, e combinarono una curiosa musica vocale. Alla prossima festa le Muse, invitate come al solito a sbrigare il loro servizio, appena credettero fosse giunto il momento buono, si misero in gruppo e intonarono la loro canzone prima sottovoce, poi sempre più forte. Ma in quell’ambiente il canto faceva un effetto cosi triste, era anzi tanto rude ed aspro e nello stesso tempo lamen­ toso e pieno di struggimento, che dapprima si fece un gran silenzio pauroso e poi tutti i presenti si sentirono stringere il cuore di mestizia terrena e di nostalgia e scoppiarono in lacrime.

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Un singhiozzo infinito si udì nei cieli; i patriarchi e i profeti accorsero sgomenti, mentre le Muse, sempre cre­ dendo di far bene, continuarono a cantare più forte e più melanconicamente, tanto che il paradiso intero coi pro­ feti, coi patriarchi e con tutti quanti avevano calpestato un giorno le zolle del mondo ne fu costernato. Infine giunse la Santissima Trinità per mettere ordine e ridurre al silenzio le Muse troppo zelanti con un tuono che rim­ bombò a lungo nei cieli. Ritornarono allora la calma e la tranquillità; ma le nove povere sorelle dovettero abbandonare il cielo per non mettervi piede mai più.

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Verso il milleottocentotrenta, quando Zurigo era an­ cora circondata da ampie fortificazioni, in una chiara mattina estiva si alzò dal suo giaciglio nel cuore della città stessa un giovinetto, il quale, ormai adolescente, era già chiamato signor Jacques dai domestici, mentre gli amici di casa gli davano provvisoriamente del voi, trovandolo troppo cresciuto per il tu e ancora troppo trascurabile per il lei. L’umore mattutino del signor Jacques non era ridente come il cielo ; egli aveva anzi trascorso una notte inquieta, piena di pensieri gravi e di dubbi sulla propria persona, e quell’inquietudine s’era accesa in lui per una frase letta la sera prima in chissà qual libro impertinente, secondo cui non esisterebbero oggigiorno uomini veramente origi­ nali, bensì soltanto tipi dozzinali, persone fatte al tornio, tutte ad un modo. Leggendo quella massima aveva in pari tempo scoperto che il senso di vaga eccitazione che da qualche tempo avvertiva a casa, a scuola o durante le sue passeggiate, altro non era che l’impulso inconscio ad essere o a diventare un originale, cioè a superare le teste tonde dei suoi bravi condiscepoli. Già nei suoi temi scolastici lo stile conciso e disadorno aveva cominciato a farsi più mosso e colorito ; già egli introduceva qua e là, ove gli pareva opportuno, un energico sic, così da essere soprannominato dai compagni «il Sicambro». Già usava modi di dire quali «benché possa sembrare», oppure «a mio modestissimo avviso», o anche «l’aurora di que­ sta nuova èra», o «detto fatto» ed altri consimili. Ad una composizioncina storica nella quale aveva rapidamen­ te elencato due dati di fatto decisamente contrastanti tra loro, appose persino la chiusa solenne : « Si vede che le cose non erano così semplici come potevano forse apparire ! ». Fra le sue carte aveva un quaderno rimasto sempre bianco, con la dicitura: Il nuovo Ovidio, nel quale egli si proponeva di redigere una nuova serie di metamorfosi, e cioè metamorfosi di ninfe e di creature umane nelle pian­ te dell’età moderna, ossia nelle colonne del commercio coloniale al quale la sua famiglia paterna si dedicava.

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Invece dell’antico alloro, del girasole, del narciso e del giunco, si sarebbe trattato della canna da zucchero, della pianta del pepe, di quella del cotone o del caffè e della liquerizia, il cui sugo nerastro in quella città si chiamava popolarmente «sterco d’orso». Egli si riprometteva le invenzioni più efficaci specialmente dai diversi legni colo­ ranti, dall’indaco, dal rosso dei tintori e così via, ed in complesso la sua trovata gli pareva molto attuale ed opportuna. È vero però che le invenzioni stesse non offrivano alcun appiglio da cui le potesse afferrare: somigliavan tutte a grandi vasi tondi, pesanti e senza manico, e per questa ra­ gione il famoso quaderno si serbava, all’infuori del titolo imponente, d’un candore immacolato. Ma il fatto medesi­ mo della sua esistenza, ed alcune altre manifestazioni in­ solite che non staremo ad enumerare qui, divennero ap­ punto ciò che egli scopriva ormai essere in sé un impulso di originalità, proprio nel momento in cui tale virtù veniva negata senz’altro a tutta la sua generazione. Il signor Jacques osservava la bella giornata timidamen­ te, quasi con tristezza, ma poi, obbedendo alla propria giovinezza, prese una decisione improvvisa, si munì del taccuino accortamente preparato ad accogliere dispara­ ti appunti e si dispose ad una passeggiata di tutto il gior­ no, per meditare sul progetto ideato e condurlo in porto. Salì su un alto bastione, il cosiddetto «Gatto», dove ora c’è il giardino botanico, dominando con lo sguardo tutta la città e rendendosi in quel modo superiore ai suoi concittadini. Tutti erano immersi nel lavoro e nelle cure quotidiane; soltanto un ragazzetto che aveva marinato la scuola gi­ ronzolava attorno a Jacques e pareva voler anche lui diventare un originale, anzi già forse lo superava in ge­ nialità; Jacques potè infatti osservare il piccino insinuarsi in una delle casematte ed aprire un ripostiglio ivi pre­ disposto per trarne giocattoli e viveri, disponendosi a divertirsi affatto solo, ma con gran passione. Tutto insomma era affaccendato, persino il lago lon­ tano era coperto di vele e di navigli da carico pei mercati ;

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disoccupati erano soltanto la candida catena delle Alpi ed il signor Jacques. Dato che su quel « Gatto» non gli si offriva alcuna note­ vole esperienza né un modo di distinguersi, ridiscese in cit­ tà ed uscì dalla porta vicina, perdendosi presto lungo le ri­ ve solitarie della Sihl, che come al solito passava spumeg­ giante attraverso ai boschi e attorno ai blocchi di pietra trascinati giù dalla montagna. Da cento anni questo an­ golo romantico e selvaggio proprio alle porte della città era stato visitato dalle teste geniali di Zurigo, da filosofi e da poeti con lo spadino e la parrucca; proprio lì i gio­ vani conti Stolberg, nel loro viaggio in Svizzera, aveva­ no fatto il bagno, genialmente nudi come Dio li ave­ va fatti, attirandosi le sassate dei pudichi indigeni. Le rocce erose dal fiume avevano già cento volte servito da domicilio alla Robinson a scolaretti che marinavano la scuola; erano misteriosamente anneriti dalle fiamme su cui erano state arrostite patate rubate o sciagurati pe­ sciolini cascati nelle mani dei Robinson. Il signor Jacques in persona aveva escogitato non poche di quelle imprese, ma, miglior commerciante di Robinson, le aveva ogni volta cedute, vale a dire la scelta del posto e i particolari dell’attuazione, per denaro sonante ad altri ragazzi, i quali a loro volta e non meno regolarmente in seguito a quella scelta e a quei piani s’eran visti assaliti dai conta­ dini come ladruncoli e picchiati di santa ragione. Il signor Jacques procedeva lungo la riva ricca di ricordi, tenendo in una mano il taccuino aperto e nell’al­ tra la matita, pronto a fissare le testimonianze della sua originalità che le acque spumeggianti gli avrebbero certo suggerito. Ma il fiume laborioso aveva ben altro da fare : doveva recare ai cittadini di Zurigo il buon legno di fag­ gio tratto dal bosco di cui, secondo la tradizione, nell’an­ tico tempo imperiale, i figli di Alberto d’Austria avevan loro fatto dono detraendolo dai beni di uno degli assas­ sini del padre, a compenso della loro condotta leale, ed anche il legno della foresta regalata all’Abbazia di Zurigo da Ludovico il Tedesco. A migliaia i docili tronchi scende­ vano dai boschi possenti, ricoprendo il fiume e navigando

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per ore, e la corrente gonfiata dalle piogge recenti, resa sudicia e giallastra dalla terra che portava con sé, spin­ geva tutto quel peso con forza impetuosa, pari ad un forte spaccalegna della brava città, ansioso di portare il legname entro le sue mura. Di fronte a quello spettacolo il signor Jacques avrebbe potuto elevarsi a pensieri fecondi, e, risalendo il corso dei tempi, affondare l’occhio nel grigio passato, considerare la persistenza delle umane cose, oppure avrebbe potuto cantare le lodi di quel bosco verdeggiante, solo superstite, affidato alla tenace energia borghese, di tutta la magni­ ficenza di cavalieri e di abbazie ormai sparite, serbatosi fresco come cinquecento o mille anni prima. Ma egli non potè perdersi in tali divagazioni, giacché subito si diede a contare quanto più rapidamente possi­ bile i tronchi entro un’approssimativa zona quadrata, a calcolare poi la superficie corrispondente all’incirca ad una catasta di ben misurato legno di faggio, a delimitare e numerare infine tali superfici conteggiando il valore del legname che gli passava sotto gli occhi, cosicché, dopo aver risalito per mezz’ora il fiume con l’orologio in mano e senza staccar gli sguardi dai tronchi, potè scrivere nel suo taccuino per qual somma approssimativa la città in­ troduceva legna da ardere nel corso di due giorni. Egli conosceva infatti esattamente i prezzi attuali del legname e, dimenticando la missione propostasi per quel giorno, si compiacque della sua abilità e diligenza. Si destò ad un tratto dai suoi calcoli là dove il paesag­ gio fluviale si ampliava ed entrò in una pianura circon­ data da colline e da monti, detta il pascolo comunale di Wollishofen, dove gli si offrì un nuovo spettacolo. Egli infatti in quella pianura scorse un gruppetto di signori quasi tutti attempati che si aggiravano energici ma composti, facendo tutti i preparativi per un notevole lancio di bombe. Erano i membri della benemerita an­ tica società delle guardie ed artiglieri, che si dedicavano a quelle belliche occupazioni per divertimento privato ed anche per utilità pubblica, e che celebravano in quel giorno il loro annuale sparo di mortai.

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Molte di tali armi infatti erano state messe là in posta­ zione e splendevano al sole; lì accanto sorgeva una grande tenda aperta sotto cui era una tavola carica di carte, di strumenti, di bottiglie e di bicchieri ed anche di un lucido recipiente di stagno per il tabacco, con accanto lunghe pipe di terracotta. Quasi ognuno dei signori aveva una pipa in mano ed in attesa della nuvola dell’esplosione soffiava nuvolette di fumo. Due o tre fra i più anziani portavano ancora il codino e parecchi altri i capelli in­ cipriati. Indossavano marsine azzurre o verdi, con pan­ ciotti e cravatte bianchi. Ripulirono con attenzione gli affusti delle armi e mi­ sero tutto bene a posto, poiché, come già si leggeva nel foglio della società del Capodanno 1697 dedicato «alla gioventù amante della virtù e dell’onore»: Tutto ciò che il mondo abbraccia ha bisogno di un fondamento. Poi finalmente cominciarono: I rapidissimi spari molesti agli avversari ! Ben presto nuvole di fumo si diffusero per la pianura, mentre le bombe con alta traiettoria spiccante sul cielo azzurro raggiungevano i bersagli ed i vecchi signori s’affaccendavano come diavoli in silenziosa allegria. Qui uno collocava la bomba nel mortaio, là un altro abbassa­ va l’arma e la metteva abilmente nella giusta direzione, un terzo accendeva la miccia e: Già il quarto un mortaio scoperchia ed accende: Vulcano ha sua prole che bene lo intende !

come si dice in un altro carme del Capodanno 1709. Malgrado la loro furia, gli occhi di questi discepoli di Vulcano splendevano in fondo di una antica religiosità, anche a prescindere dal fatto che fra loro lavorava pure un canonico del monastero, così che si poteva ricordare un altro frammento del loro carme artiglieristico, il quale dice: Se il Maligno i suoi tormenti giù ti scaglia in triste schiera,

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non fia mai che tema senti: è tuo schermo la preghiera ! La tua fede già discaccia del cannone la minaccia ! Il signor Jacques, che non aveva nulla da fare, ammi­ rava quel giuoco con modesta melanconia, tenendosi all’ombra di un albero, finché uno dei bombardieri, che era suo padrino, non lo riconobbe e lo chiamò a sé, dandogli da tenere la lunga pipa di terracotta mentre egli maneggiava il sacco della polvere. Anche gli altri signori notarono quella comodità e cosi il giovanotto in cerca d’originalità se ne stette fino a mezzogiorno, sem­ pre reggendo a braccia tese una o due pipe. Soltanto il canonico, che al posto della pipa fumava un lungo sigaro col bocchino, non se lo tolse di bocca, ma anzi con esso diede audacemente fuoco al suo mortaio. Per compenso della sua fatica, Jacques fu invitato al pranzo che coronò l’attività degli artiglieri e che li at­ tendeva su una vicina collinetta, all’ombra degli alberi. Se quegli arditi spiriti già si eran sentiti ringiovanire al­ l’odore della polvere, furono ancor più rasserenati dal cielo azzurro, dalle verdi foreste circostanti e dal vino dorato : dopo aver intonato tutti in coro una canzone di guerra, si cimentarono in un canto alterno al quale nes­ suno di loro ricusò il suo contributo. Vennero così in luce strofette piuttosto allegre, della cui esistenza il si­ gnor Jacques non aveva mai avuto idea. Egli se ne stava silenzioso in ascolto, guardando l’uno dopo l’altro i can­ tanti, ed il suo naso pallido e piuttosto sporgente si rigi­ rava intanto lentamente all’intorno, simile alla coda di un affusto di cannone, come osservò uno degli artiglieri. Quando però fu la sua volta, e quei signori insistettero perché anch’egli mettesse fuori i suoi versetti, non gli venne in mente proprio alcun argomento cantabile e di ciò rimase molto confuso e depresso. Ma quegli adepti del fuoco non ci badarono e inizia­ rono il canto alterno Ora scoppia il fragor delle bombe nel quale viene rivolta ad ognuno la domanda:

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Come chiami, o fratei, la tua bella? E alla bella si doveva alzare poi, appena pronuncia­ tone il nome, un brindisi. Gli uni rispondevano, rispar­ miando la dignità della consorte, col nome finto di un’amica di giovinezza, per esempio Doris, Phillis o Cloe. Altri nominavano Diana, Minerva, Venere o Constantia, Abundantia e simili. Queste però non erano dame, bensì mortai e cannoni prediletti che facevan bella mostra nell’arsenale.Tali nomi dei pezzi d’artiglieria venivano lanciati ogni volta al pari di cannonate, con voce terribilmente tonante, così che pareva quasi che batterie di pezzi da dodici libbre facessero fuoco l’una dopo l’altra. Quando venne anche qui la volta del signor Jacques, egli pensò di far finalmente bella figura e de­ signò quanto più forte potè la sua amata col nome di «Sapientia». Ma poiché la sua voce in quel tempo stava mutando, solo le prime sillabe della parola echeggia­ rono in tonalità bassa, mentre la fine usci in un acuto, il che, assieme al suo aspetto di profonda serietà, apparve tanto comico da far scoppiare tutti i signori in un’alle­ gra risata. Egli allora si fece ancor più taciturno e non osò per lungo tempo alzare lo sguardo. Il suo padrino che se ne accorse gli batté bonariamente sulla spalla, dicendogli: «Che cosa avete, mastro Jac­ ques? perché cosi taciturno?». Il giovinetto tacque ancora per un poco, imbarazzato, sinché alcuni sorsi di vino buono non gli sciolsero d’un tratto la lingua, inducendolo imprevedutamente a sfo­ gare l’animo suo. Espose al vecchio signore le sue pene. Per loro era facile ridere, egli invece era nato in un’epoca in cui non si poteva in nessun modo diventare un uomo originale, si era costretti a rimanere gente ordinaria, il che riusciva tanto più doloroso vedendo gli ultimi rima­ sugli di tempi migliori. Quei vecchi artiglieri con le loro teste incipriate e le loro pipe di terracotta erano i più bizzarri tipi del mondo, ed uno studentello d’oggigiorno si torturava inutilmente la testa per escogitare qualcosa

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che potesse sostenere il paragone. Lì stava appunto lo svantaggio deplorevole del secolo nel quale si era co­ stretti a vivere, e contro tale male non c’era rimedio ! Il vecchio sbirciava l’interlocutore senza aggiunger parola, ma i più vicini si scambiarono delle occhiate, borbottando ad alta voce contro un’epoca in cui degli sbarbatelli si prendevano licenza di fare osservazioni in­ solenti intorno ai vecchi, soprannominandoli tipi biz­ zarri e simili. Il poverino si sentì allora tanto più mortificato e inti­ midito, si fece di fiamma e girò attorno lo sguardo per vedere da che parte potesse svignarsela. Ma il signor pa­ drino lo prese sotto braccio e gli disse: «Venite, mastro Jakobus ! Voglio dedicarvi il resto di questa giornata se­ rena, visto che nessuno di noi due sarebbe oggi ormai più adatto al lavoro ! Faremo una passeggiata verso il castello Manegg e godremo intanto le bellezze del bosco». Procedettero così oltre l’ampio pascolo, passarono la Sihl, risalirono, attraversando bei boschi di giovani faggi, le alture di fronte e giunsero ad uno spiazzo ombreggia­ to da due grandiosi faggi dagli ampi rami, dove però il giovanile adoratore di Monna Sapientia incappò in una nuova avventura. Lo spiazzo era popolato e ravvivato da una schiera di scolarette che erano state condotte in gita fuori dalla città, per la tradizionale festa annuale cosiddetta dell’alle­ gria e che, sotto la sorveglianza di alcuni direttori e maestre, si dedicavano ai giuochi innocenti del girotondo e del rincorrersi. Erano vestite tutte di bianco o di rosa, alcune però, per aumentare lo spasso, indossavano co­ stumi multicolori da contadinelle o da pastorelle, vesti conservate in molte famiglie appunto per quegli scopi. Nell’insieme ciò costituiva uno spettacolo sereno e bril­ lante sullo sfondo verde ed ombroso, così che il signor pa­ drino sostò volentieri un momento ad allietarsi a quella vista gentile. Salutò i direttori a lui noti e scherzò con le damine travestite, chiedendo loro di dove venissero e che cosa facessero, se cercavano servizio sul posto o in­ tendevano continuare il viaggio, e così via.

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Ma subito tutta la schiera delle fanciulle arrivò di corsa e circondò il vecchio signore insieme al suo giovane protetto, il quale si trovò ancor più confuso che non fosse già stato nel corso della giornata. Dovunque volgesse lo sguardo, vedeva vicinissimi volti fiorenti e ridenti, che serbavano al limite dell’infanzia tutta la loro amabile fre­ schezza, e non avevano ancora veduto il regno della brut­ tezza che pure li attendeva. Questo visino, per esempio, dai begli occhi, dai denti un po’ grandi e sporgenti per eredità familiare, non supponeva che in meno di dieci anni sarebbe diventato una cosiddetta testa di morto; laggiù quel regolare e calmo viso d’angelo non sem­ brava davvero lasciar posto ai tratti di una cupidigia e di una ipocrisia ereditarie, che in breve tempo lo avreb­ bero solcato e devastato ; e chi poteva pensare di quel na­ setto un po’ schiacciato e roseo che esso fosse destinato a diventar sede e trono di insopportabile curiosità indi­ screta, e che gli occhietti stellanti si sarebbero mutati in fuochi fatui pieni di falsità? Chi avrebbe previsto di quella bocca da baci appena un po’ larga, che le labbra ora tanto graziose, stirate e deformate dal continuo fremito di piccole passioni, si sarebbero spostate ora verso l’o­ recchio destro ora verso quello sinistro, ricoprendo il lab­ bro inferiore col superiore o viceversa e che poi, tutt’e due riunite, si sarebbero allungate mettendosi a schia­ mazzare come un becco d’anatra? Ahimè, e quel nasetto laggiù con tendenza ad appuntini, che sembra ora an­ nunziare la sublime Beatrice di un Dante futuro, mentre è destinato a trasformarsi in un becco d’avvoltoio, che roderà giorno per giorno il fegato ad una povera vittima di marito rimanendo incolume dal tacito odio di lui? Ed ecco d’altra parte questa rosellina ridente con calma inno­ cenza e con tenera serenità, destinata a sfogliarsi prima del tempo fra mille crucci ed esperienze imprevedute, scolo­ rita dal dolore e troppo debole per opporsi sia pure col disprezzo ! Nulla di tutto questo poteva ancora prevedersi; il gruppo delle fanciulle si affollava simile ad una siepe viva di rose attorno all’alta figura del padrino e a quella

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un poco più bassa del signor Jakobus, già noto a quelle birichine, che spesso lo incontravano mentre andava a scuola con l’aspetto serio e pedante dello studentello, reggendo pesanti libroni sotto il braccio. Ora se lo po­ tevano curiosamente contemplare a loro agio e ben da vicino, e scrutavano intrepide il suo volto meditabondo, il suo atteggiamento imbarazzato, le mani e i piedi un po’ troppo lunghi, ridacchiando di continuo fra loro sino a metterlo un poco a disagio. Mentre il vecchio continua­ va a scherzare, accarezzando or l’una or l’altra delle testoline, esse si avvicinavano sempre più, spingendo bal­ danzosamente in prima linea questa o quella rimasta indietro. A questo modo capitò che d’un tratto una ra­ gazza alta e robusta, soprannominata da tutte il «ca­ valletto», spinse con tanta violenza una compagna delicatina verso il signor Jacques, che essa arrossendo e stril­ lando dovette puntargli le mani contro il petto per non cascargli addosso, mentr’egli, sorpreso e spaventato, cer­ cava a sua volta di tenersela lontana quasi fosse un im­ preveduto e grave malanno. Ed essa era invece il suo primo amore, da lui medesimo come tale scelto e fissato, la sua fiamma giovanile che senza bruciarlo illuminava tranquilla ogni suo passo, una signorinetta snella con sette o otto lunghi riccioli biondi ricadenti sul dorso, vestita di un abito candidis­ simo, con scarpine azzurre trattenute da nastri incrociati attorno alle caviglie. Quell’aspetto esteriore era opera e volontà della ma­ dre, la quale cercava in quel modo di suscitare nella bim­ ba, che sembrava trascurarlo, il senso della propria impor­ tanza, e ogni giorno con cura le arrotolava con le sue mani i lunghi riccioli e la acconciava in modo che si distin­ guesse dalle altre ragazzine, pur essendo una personcina del tutto comune. Proprio quella singolarità esteriore aveva indotto il giovane studente dai gusti ricercati, quando pensò di crearsi il suo primo amore, a gettare gli sguardi sulla fanciulla. Egli si limitava del resto a guardarla da lontano e a percorrere le stesse vie per le quali essa si recava in

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chiesa o a scuola, distogliendo però sempre il volto quan­ do le capitava vicino, così che in realtà i lineamenti del­ l’amata gli erano quasi ignoti, mentre aveva in testa un’immagine approssimativa di cui i riccioli pendenti e la veste erano parte preponderante. Anche il suo senti­ mento era per ora piuttosto debole e freddo, non accom­ pagnato da alcun battito di cuore. Il cuore non gli batté neppure adesso, mentre si vedeva così insperatamente vicina la sua diletta, ed era costretto a scostarla con forza, il che facendo distinse per la prima volta con chiarezza per un istante i tratti della fanciulla, e non senza un breve e rapido senso di stupore, giacché quei tratti non corrispondevano per niente all’idea che se n’era fatta. Essi erano inoltre un poco sconvolti dalla vergogna e dal dispetto per gli urtoni ricevuti. Malgrado queste cir­ costanze, apparentemente pericolose, si può già ora rac­ contare che il signor Jacques fu tanto pedante da rimaner fedele al suo amore giovanile, elaborandolo sempre più, per chieder più tardi la mano della fanciulla, sempre con la calma misurata di un buon pendolo, senza perdere il sonno e neppure, dormendo, sognare di lei. Per il momento la scena subì però una nuova svolta im­ provvisa: dalla fattoria vicina, il cui padrone conduceva una locanda, vennero portati grandi cesti pieni di dolci d’un bel bruno dorato, profumatissimi, una specialità di quel posto, da cui traevano il nome. Le ragazzine si voltaro­ no come uno sciame di colombe e corsero senza guardarsi indietro verso il luogo della allettante merenda, così che Jacques si trovò d’un tratto solo col suo padrino, costretto a continuar la passeggiata con lui. Ma il dolce profumo delle paste giunse al suo naso, e per di più egli per timi­ dezza non aveva mangiato abbastanza fra i discepoli di Vulcano ed avvertiva un forte appetito. Fu ferito quindi come da grande ingiustizia e gliene palpitò il cuore, voltandosi invano a contemplare quei cesti beati mentre il vecchio signore lo trascinava via. Dispetto e rammarico si fecero in lui così forti da inumidirgli gli occhi, che si asciugò di nascosto. Il padrino tuttavia se ne accorse e gli mandò un’altra occhiata di traverso crollando il capo;

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egli però riteneva che non fossero i dolci, bensì le sue preoccupazioni giovanili per l’originalità a tormentarlo ed a stringergli il cuore; accompagnò quindi in silenzio il melanconico adolescente su per il sentiero che ora si fa­ ceva ripido, sinché giunsero a quello spalto della monta­ gna, sul quale si distinguevano ancora le ultime rovine dell’antico castello Manegg. Ai piedi della muraglia sgorgava una piccola sorgente di fresca acqua montanina, ornata di un’iscrizione in me­ moria dell’antico proprietario del castello, il cavaliere ed amico dei cantori trovadorici, il signor Rüdiger Manesse. I due passeggeri si ristorarono alla fresca sorgente, e poi­ ché il discorso verteva su castelli e cavalieri, il giovinetto riprese animo e compì molto più calmo la salita alla rocca insieme al vecchio. Giunti lassù sedettero su una panca e si diedero ad osservare l’ampio panorama; sulle loro teste si ergevano agili conifere, mentre dal basso salivano tronchi centenari degli stessi alberi, stendendo sino ai loro piedi le belle corone dai robusti rami rosseggianti nella luce vespertina. A sud luccicava sul cielo senza nubi il monte Glärnisch, dominando valli verdi e boscose, mentre a nord-est, sul lago, si stendeva nel fulgore del sole l’antica città. «Voi dunque vorreste proprio essere un originale, mastro Jacques?» disse il padrino mentre ricacciava con una carezza i capelli dalla fronte accaldata del suo protetto. «Già, ma importante è soltanto sapere di che tipo ! Un originale di valore è soltanto chi merita di es­ sere imitato ! Ma degno di essere imitato è solo chi sa far bene quel che intraprende e chi produce sempre qualcosa di buono al proprio posto, anche se non è poi nulla di inaudito e di arcisingolare ! Ma questo è in fondo così poco frequente, anzi così raro, se si osserva bene, che la per­ sona la quale vi riesca assumerà poi sempre l’habitus di un indipendente e di un originale, e con ciò si manterrà nella memoria degli uomini, sia come stirpe che come individuo. Ecco per esempio questa famiglia, da tanto estinta, dei Manesse, che nel tempo della loro floridezza portavano

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a termine tutto quel che intraprendevano, e, senza farsi notare per modi strani, assolvevano esemplarmente la loro funzione, anche se non era la più alta. Noi qui ora ci troviamo sulle rovine del loro castello, laggiù in città possiamo vedere ancora l’alto tetto della loro torre caval­ leresca. Guarda! Deve essere tra la cattedrale di Nostra Signora e il Duomo ! Ci sono lì attorno, è vero, anche altri tetti aguzzi di antiche torri patrizie. Alla estremità sinistra la torre Glentner e subito sopra la Wellenberg, e più a destra la torre Grimmen, e lì vicino, come almeno sembra, la Escher, mentre sotto, dietro alla Wasserkirche, si erge la torre dei signori di Hottingen : ma dove si sta­ glia la sagoma dell’antica torre dei Manesse? Attento! Se col dito risali dalla casa Wettinger, posta sulla riva, superando la confusione dei tetti, arrivi proprio al cosid­ detto castello verde: tira allora una riga dritta a sinistra fino a quel grosso ed alto scheletro di torre: proprio lì abitò per un certo tempo una parte dei Manesse ! ». Il giovane teneva dietro con attenzione e non senza fatica al dito del vecchio; giacché entro i bastioni ed i portoni della città sorgevano ancora molte grigie torri delle antiche mura di cinta e delle antiche porte, fra le quali bisognava cercare le elevate dimore delle fami­ glie nobili. «Adesso» continuò il vecchio «quegli oscuri solai so­ no popolati da ragni e pipistrelli; il macellaio va a farvi asciugare le sue pelli, o un ciabattino solitario martella in una stanza là in alto! Ma una volta c’era allegria; là, e qui dove siamo ora noi, Rüdiger Manesse von Manegg raccolse uno dei più bei libri del mondo, i canti dei Minnesinger, dei cantori d’amore, il cosiddetto codice Manesse, che è ora a Parigi nella biblioteca del re. Quan­ do a suo tempo ci andrai, devi vedere quel libro : è legato in cuoio rosso e il nome indegno di Luigi XV gli è impresso sul dorso. Ma il nome del raccoglitore, del nostro Rüdi­ ger, è diffuso per tutto il mondo, appunto perché egli ha attuato con perseveranza un’impresa tanto ricca d’amore e di gioia e pur così modesta; il suo nome vive benché di recente un pedante abbia tentato di mettere in discus-

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sione il suo merito, un saputello, per il quale quell’ope­ ra dopo cinquecento anni è ancora fonte e strumento del suo lavoro quotidiano. Ma il formarsi di quel codice fece si che sorsero e fiori­ rono altri originali ; tutto accadde con serenità e spasso e negli anni di gioventù mi compiacqui di ripensarmi e rappresentarmi quella storia, tanto che posso raccontarla quasi come se l’avessi scritta, e così voglio ora narrarla a te. Avremo una bella notte di luna e prima di arrivare a casa avrò finito. Si tratta principalmente di mastro Hadlaub, che, secondo quanto presumo, ha scritto il libro, ha in parte dipinto le numerose illustrazioni ed è così facendo diventato egli stesso poeta per le consuetudini trovadoriche e per gli scherzi che con lui si permisero quei signori. Delle onorevoli storie d’amore è comunque giusto che tu ormai sappia qualcosa». A questo punto il vecchio diede un’altra occhiata fur­ besca al signor Jacques, pensando di confonderne un po­ co la rigida serietà. Mentre prendevano la via del ritor­ no, gli raccontò la seguente storia del come nacque il co­ dice Manesse di Parigi.

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sud della cittadina di Kaiserstuhl, nell’Aargau, sor­ gono i due castelli del Wasserstelz nero e del Wasserstelz bianco, il primo posto in mezzo al Reno, anzi, un po’ più vicino alla riva sinistra, ancora oggi abitato da gente varia che vorrebbe comprarlo, l’altro, già tutto in rovina, sulla riva destra. Al tempo di Rodolfo d’Asburgo, i due castelli erano invece abitati da due sorelle, ereditiere di un modesto feudo, che, una volta suddiviso, non aveva lasciato un gran patrimonio. Per questo la più anziana, Mechthildis, quella che dimorava nel Wasserstelz bianco, ma era tuttavia nera come la fuliggine, fosca e violenta, cercava senza posa di togliere l’eredità alla sorella mino­ re, Kunigunde del Wasserstelz nero, e di spingerla con mille intrighi a entrare in convento. Questa Kunigunde era di figura gentile e leggiadra, bianchissima di pelle e di Ìndole serena, e aveva migliori possibilità di nozze fortunate che non l’altra, tanto maligna. Ciò malgrado, essa non consentiva ad alcuna richiesta di matrimonio ed anzi se ne difendeva quasi con altret­ tanta cura come dagli astuti attacchi orditi dalla sorella in combutta con altra gente maligna. La bella Kunigunde alla fine si rinchiuse completamente nella sua fortezza sull’acqua, lambita tutto all’intorno dalle verdi e pro­ fonde onde del Reno. Sulla riva possedeva un mulino te­ nuto da un suo fedele e valoroso vassallo, il quale sorve­ gliava con i suoi uomini incipriati di farina l’approdo e l’ingresso al castello. Tutt’attorno del resto non regnava che il silenzio dei boschi e non s’udiva che lo scorrere del fiume ; se non che, una volta, qualcuno disse di aver udito giungere dalla finestra aperta del castello il pianto di un bambino ed un’altra volta un secondo affermò di averlo anch’egli sentito, e in pieno giorno. Ben presto corse per il paese la voce che la dama del Wasserstelz nero riceveva le visite di un potente cavaliere, il quale non era altri che il cancelliere dell’imperatore, Heinrich Klingenberg, da cui c’era da guardarsi. La bella era innamorata di lui,

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che, valido negromante, quando giungeva nella regione, traversava il Reno di notte a piedi asciutti per poterla visitare senza essere visto: egli scivolava su di una scala di corda lucente come l’oro, oppure, come altri opina­ vano, veniva portato da demoni su per il muro della torre fino alla finestra aperta della sua donna. Egli abitava allora nel vicino castello di Röteln, oppure nella cittadi­ na di Kaiserstuhl, che più tardi comperò, in qualità di vescovo di Costanza, da uno degli ultimi signori di Re­ gensberg. Fatto è che, dopo circa sette o otto anni, la damigella del Wasserstelz nero fece accompagnare a Zurigo una graziosissima fanciullina, e poco dopo entrò essa stessa volontariamente come monaca nell’abbazia di Zurigo. Trascorso un altro lasso di tempo, per l’intervento influen­ te dello stesso vescovo Heinrich, venne eletta badessa. Se questo passaggio alla vita monastica sia derivato dal pentimento, per far penitenza degli anni della pas­ sione, o se la nobile coppia amorosa abbia mirato, dato il proprio stato di alti prelati, a incontrarsi più spesso in libera società, godendo le gioie di un’affezione ormai più tranquilla, non lo possiamo più stabilire, però i costumi del tempo e gli eventi successivi confermerebbero piut­ tosto la seconda ipotesi. Nella nostra città di Zurigo v’era allora una società varia ed eletta. Oltre ai prelati ed ai loro dipendenti, vivevano in essa, già da parecchi secoli, antiche famiglie. Erano i discendenti di regi governatori con vecchi nomi e nomignoli germanici di una o due sillabe stranamente deformati e ridotti poi a enigmatici cognomi, serbando talvolta alcuni remotissimi suoni delle epoche della mi­ grazione dei popoli. Accorse verso Zurigo anche la pic­ cola nobiltà dei paesi circostanti, col nome delle sue re­ sidenze sui monti o nelle vallate; ed anche una serie di importanti signorotti della Germania meridionale fre­ quentava Zurigo e vi aveva acquistato diritto di cittadi­ nanza. Fra tutti questi regnava una libera socievolezza, non priva di grazia e, come un tempo in tali zone più ristrette si continuò ad usare in architettura lo stile roma-

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nico già abbandonato in regioni più ampie per quello gotico, così a Zurigo ci si compiaceva ancora di un tar­ divo amore per la poesia trovadorica quando la sua fioritura era già da un pezzo trascorsa. Ora però dobbiamo occuparci della piccola Fides, la figlioletta naturale della principesca badessa. Lo faremo nel modo migliore, passando dall’altra parte della città e salendo lo Zürichberg, dove subito incontreremo la bim­ betta a passeggio, tenuta per mano dal vecchio maestro Konrad von Mure, il valente direttore della scuola di canto della cattedrale. Quel buon vecchio ha accolto sotto le ali della sua amicizia la vivace ragazzina, educata per influente intervento del cancelliere nella casa del si­ gnor Rüdiger Manesse, e quel giorno, essendo ospite abi­ tuale della vicina dimora cavalleresca donde discende anche il suo superiore, l’abate Heinrich Manesse, vi si è recato a prendere la piccola amica per una passeggiata. Quanto più si saliva, tanto meno però gli riusciva di trattenere per mano la bimba vivacissima, e ciò a causa della crescente debolezza e difficoltà di respiro, per cui, del resto, quella eccellente persona non ebbe più molti anni da vivere. Lasciò quindi che la bimba corresse a suo piacimento, mentre egli con un bastone s’aiutava a risa­ lire gli ombrosi sentieri che conducevano al culmine della collina fra numerose fattorie disseminate sul pendio. Quand’ebbe raggiunto un punto da cui godere il pa­ norama, sostò per un poco, seduto su di un masso, com­ piacendosi a girare lo sguardo sull’ampio paesaggio, o meglio su quella adunata di paesaggi che si allineava con la stessa contraddizione della nostra Zurigo, della sua gente e della sua storia. La regione montuosa verso sud era di carattere prettamente elvetico, uno zig-zag inquieto e sconvolto, un mondo selvaggio tenuto insieme, in certo modo, soltanto dall’azzurro dell’aria estiva e dal bagliore delle nevi e del lago. Se invece il cantore vol­ geva lo sguardo a destra, verso occidente, scorgeva la tranquilla vallata della Limmat, per cui serpeggiava il fiume, mandando qua e là luccichii e perdendosi poi fra le morbide e flessuose linee dei colli. La valle, inqua-

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drata tra un possente albero di noce ed un paio di giovani frassini, così immersa nell’oro della luce vespertina, asso­ migliava per la sua armonica semplicità ad un quadro del gran lorenese che dipinse quattro secoli più tardi. Il vecchio signor Konrad, quando faceva le sue soste in quel punto, amava soprattutto guardare in quella dire­ zione, poiché la pace di tale spettacolo estasiava e cal­ mava il suo animo sempre agitato, malgrado l’età. Allorché si rimise in cammino e giunse in alto, sul dorso della montagna gli apparve un nuovo paesaggio. Verso nord e verso oriente, al di là dei boschi e dei pendìi, si stendeva una zona piana limitata all’estremo orizzonte da sottili catene di monti di un intenso azzurro. In primo piano invece si ergevano gruppi di querce maestose fra le cui fronde oscure scintillava il biancore delle nubi. Quel­ la regione avrebbe potuto trovarsi nello Spessart o nell’Odenwald, se non si guardava all’indietro.1 Qua e là fra gli alberi spiccava la dimora di uno di quei montanari che avevano portato le loro case sin lassù, spesso un discendente dei primigenii liberi coloni che continuava a reggere un podere con l’antica libertà. Uno di questi era senza dubbio il contadino Ruoff, ovvero Rudolf di Hadelaub,2 la cui casa sorgeva al margine di un bosco di quel nome. E il nome sembra indicare una contesa probabilmente avvenuta in quel bosco o per quel bosco ; fra le denominazioni locali di oggi non lo ritroviamo più, perché l’intero podere è stato assorbito da possedi­ menti più grandi ed anche la casa colonica è da tempo sparita. Però oggigiorno una frazione di foresta situata appena cinquecento passi più a nord serba ancora il no­ me di «Streitholz» (bosco della lite). Allora la casa co­ struita con sassi grossi e piccoli presi dal torrente e dai campi, munita di un basso tetto ad assicelle, era situata insieme alle stalle in legno proprio accanto ad uno dei burroni in cui va a gettarsi il torrente Wolfbach. I. Lo Spessart e l’Odenwald sono due regioni montuose e bosco­ se, che si trovano, rispettivamente, nella Germania centrale e nel­ la Germania sudoccidentale. 2. Hadelaub·. da «Hader» (lite) e «Laub» (fogliame) significa Bosco della contesa.

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Il signor Konrad si diresse a quella volta e chiamando la bimba andò in cerca del padrone. Questi, un uomo alto ed ossuto, si era appena alzato da un cavalletto sul quale nelle ore di ozio soleva preparare lunghi fusti di lancia. Il legno gli era fornito dagli agili frassini che crescevano in abbondanza lungo il torrente e sulle alture. Provava appunto la lunghezza e dirittura dell’asta che stava in­ tagliando, tenendola a filo di piombo davanti alla faccia e socchiudendo gli occhi. Accorgendosi dell’arrivo del reverendo, depose con calma il fusto sul mucchio di quelli già pronti e lucidi, per salutarlo. — Ruoff, tu meriti davvero il nome della tua casa ! — esclamò Konrad von Mure, andandogli incontro — dove c’è nel mondo lotta e battaglia, perché tu ti dia a fabbri­ care armi con tanto zelo? — Succede sempre qualche cosa, — replicò l’altro — ora qui ora là! Del resto bisogna che prepari i fusti quando ho tempo ed il legno è asciutto, così trovo poi un po’ di soldi! Benvenuto, signor Konrad, che buone nuove recate? — Tu sei sempre uno zurighese industrioso, siete tutti eguali e non ne avete mai abbastanza, tanto laggiù al lago, come quassù in montagna! — Sì, noi siamo come quei bracconieri d’alta monta­ gna: dobbiamo cercare d’arraffare qua e là un po’ di erba senza padrone; invece delle pareti rocciose qui ab­ biamo i muri di cinta delle chiese per arrampicarci! Quando uno spera di comperare con danaro duramente risparmiato un campicello o un praticello in buona posi­ zione, ecco che già a portarglielo via c’è in basso, in alto, dietro e davanti al monte una casa di Dio, e bisogna ancora considerare un grande onore se un povero diavolo è ammesso a far da testimonio! — Chiama la tua signora — disse il cantore ridendo — perché dia un po’ di latte alla piccina ! È accaldata ed ha sete. O piuttosto entriamo in casa per un momento, giacché voi gente di campagna non conoscete la gioia dei nobili di sedere a banchetto fra il trifoglio verde ed i fiori! — Il padrone scosse i trucioli dal suo robusto

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grembiule di cuoio aggrottando lievemente la fronte, giacché non gli piaceva che lo trattassero in certo modo da contadino in contrasto con le consuetudini signorili. Già il volto accuratamente rasato, incorniciato soltanto da una barbetta a corona, e i capelli corti mostravano che egli, quale libero possidente, sentiva di appartenere alla buona società e non intendeva venir confuso con un irsuto servo della gleba. Gli usi a quel riguardo, come in molti altri casi, erano mutati: i signori erano sbarbati, mentre i servi avevano lunghe chiome, e con lunghe barbe si potevano concepire soltanto gli apostoli ed i re. — Se è da nobili mangiare all’aperto, — disse — noi siamo nobilissimi, perché in estate pranziamo all’ombra, dietro la casa. Là potrà bere il suo latte la vostra damigel­ la, mentre voi prenderete un sorso del vecchio sidro stagio­ nato delle nostre pere selvatiche, che voi ben conoscete. — Quello rinfresca e non è senza aroma; — replicò il cantore — se una volta scendi da me con tua moglie al Duomo, vi offrirò in cambio un bicchiere di vino ita­ liano portatomi da un signore amante del bel canto. Si recarono quindi dietro la fattoria, dove effettiva­ mente stava un’antichissima tavola di pietra, sotto grandi alberi che salivano dal torrente impetuoso e diffondevano la loro ombrosa frescura. Tronchi accostati e ricoperti di ghiaia e di zolle verdi formavano un guado carreggiabile verso il bosco sull’altra sponda. La moglie di Rudolf, la signora Richenza, era affaccendata ad una fontana. Era meno alta di suo marito appena di un paio di pollici, così che solo ora, vedendo la coppia insieme, si notava la sua alta statura. Aveva i capelli ben tirati indietro sulla fronte e sulle tempie e raccolti sulla nuca in una forte treccia, come necessariamente li portano le donne che lavorano. Anche la veste era un poco più corta di quanto usasse per la classe dei liberi, e questo, unito alla rapidità dei suoi gesti, le dava un aspetto robusto, mitigato però da una tal qual gentilezza alemanna del suo chiaro volto. Richenza strinse cordialmente la mano al reverendo ed alla bambina e portò subito il latte ed il limpido si­ dro giallo insieme a buon pane di segale, mentre il ma­

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rito, entrato pure in casa, sceglieva lento e ponderato una salsiccia fra le provviste affumicate appese sopra il camino. Spettava a lui infatti giudicare come fossero da distribuirsi nell’impresa della vita i viveri più preziosi, in modo che le riserve bastassero e non si verificassero mai carestia, debiti ed impegni, i nemici sempre in agguato. La piccola compagnia non era da lungo tempo seduta alla tavola di pietra, quando dal bosco giunse il chiaro canto di un fanciullo, e presto comparve una piccola mandria di mucche che tornava dal pascolo ricondot­ ta a casa, passando per il ponte, dal bimbo decenne del colono. Vestito soltanto di una lunga tunica di lino azzurro, a piedi nudi, il volto e le spalle circonfusi da una massa dorata di capelli biondi, con in mano un lungo giunco, il fanciullo offriva insieme alle sue bestie un quadro grazioso ed inconsueto, illuminato per di più dalle luci del tramonto che si insinuavano attraverso il verde del fogliame. Gli occhi di Konrad seguirono con compiacenza quell’apparizione, sinché il bimbo, conti­ nuando a cantare spensierato e senza quasi voltarsi a guardarli, ebbe guidato le mucche nella stalla, tornando poi verso la tavola a prendere la sua cena. Porse la mano al vecchio signore senza che glielo suggerissero, ma poi ritrasse stupito la mano dietro il dorso e si diede ad os­ servare la piccola Fides che stava appunto per recare alla bocca la scodella del latte ed occhieggiava al di sopra di essa. La depose un istante per dire: «Che sciocco ra­ gazzo ! », ma subito la riprese, la vuotò e si ripulì le labbra. Quello abbassò gli occhi mortificato e volse il capo con la bocca tremante; un’apostrofe tanto scortese non gli era mai toccata nel breve corso di sua vita. Quando però Richenza attirò a sé il fanciullo per rabbonirlo e il cantore rimproverò alla bimba la sua scortesia, fu questa a pian­ gere e toccò ancora a Richenza intervenire per calmarla. «Guarda, Johannes,» disse al ragazzo «la ghirlandetta della signorina è quasi appassita ; scendi con lei al tor­ rente, dove ci sono tanti fiorellini azzurri e fanne una ghir­ landa fresca, ma tornate prima che sia troppo freddo». In verità la coroncina di fiori di cui si adornava la

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chioma sciolta della damigella non era più in ottime con­ dizioni, così che la proposta fu approvata anche dal can­ tore. I ragazzi, quasi rappacificati, scesero dallo stretto sentiero, là dove anche oggi il Wolfbach si insinua attra­ verso massi di pietra di tutti i colori, fra radici sommerse ed altri misteri, formando cascatelle e cento altri piccoli strani spettacoli. Giunsero ben presto ad un punto in cui la riva è per un tratto soleggiata e quasi sempre smaltata di fiori. Tutto era azzurro di nontiscordardimé, ma vi si inframmezzavano anche stelline bianche e campanule rosse, il che in quell’epoca tanto amante dei fiori costitui­ va una gioia non soltanto per gli occhi dei bimbi. La piccola Fides si diede subito al lavoro ed intrecciò rapida una ghirlanda per la quale Johannes, obbedendo alla sua scelta ed ai suoi ordini, giungeva appena in tem­ po a porgerle i fiori. Prese il fusto ed il filo della ghirlanda appassita, gettandone i fiori vizzi nel torrente. Dopo che si fu posta in capo il nuovo ornamento cominciò a guar­ darsi intorno e a saltellare sulle pietre sporgenti dall’ac­ qua corrente, finché si trovò su una dalla quale non sa­ peva più scendere senza entrare nell’acqua. Questo però non le conveniva per le belle scarpine e per l’abito: dopo una breve esitazione ordinò al ragazzo, che l’aveva seguita a salti e le stava ora accanto impacciato sulla pietra, di riportarla a riva. Egli scese subito nel torrente, prese in braccio la donnina in erba e con dura fatica, mentre essa gli si stringeva al collo, la portò all’asciutto, superando le pietre tonde ed aguzze. Nel frattempo, mastro Konrad von Mure si avvicinava allo scopo di quella sua gita. Da lungo tempo, vivendo in buona amicizia con la gente di Hadlaub, aveva notato la costituzione delicata e l’indole vivace e pronta ad ap­ prendere del piccolo Johannes, e desiderava prenderlo con sé, prima per farsene un discepolo ed un piccolo scri­ vano di cui sentiva la mancanza in lavori di vario tipo, poi anche per avviarlo a sorte migliore di quella che gli pareva lo attendesse lì, in cima ad una montagna. Co­ minciò quindi a parlare di come il ragazzo sapeva can­ tare, ritenendo, sia pure a frammenti, parole e melodie

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di molte opere musicali, senza che si sapesse come ci fosse riuscito. Poi formulò a poco a poco la sua propo­ sta, non incontrando però il consenso del padre. Questi anzi lo interruppe mentre era nel pieno della sua orazio­ ne, dicendogli: — Caro signore, non continuiamo l’argomento ! A que­ sto ragazzo hanno già dato, senza ch’io sappia bene co­ me, al posto di un onesto nome da cristiano, come si usa per tradizione qui sulla montagna e nelle terre intor­ no, quale Heinz, Kunz, Götz, Siz, Frick, Gyr, Ruoff, Ruegg, un nome alla moda, da prete: Johannes. Ma non voglio che le cose vadano oltre, quanto al diventare pre­ te! È il mio unico figliolo. Da tempo immemorabile i miei avi hanno tenuto queste terre: non voglio che per colpa mia le cose mutino e che non vi sia più uno della mia famiglia a reggere l’aratro, a far pascolare le bestie e a scendere da qui con lo scudo e la lancia se chiamato alle armi. — Be’, per quello che riguarda il nome da cristiano — replicò il vecchio sorridendo — vi hanno informato male. Mi avete citato come cristiani solo gli antichi e selvaggi nomi pagani, non esclusi il vostro ed il mio. Sapete come si scriveva in passato il vostro nome di Rudolf? Hruodwolf, lupus gloriosus, un lupo celebre, il capo dei lupi, il lupo dei lupi ! Bel cristianesimo ! Come suona invece santo il biblico nome di Johannes, sia esso il Battista o l’apostolo prediletto del Redentore o l’Evangelista ! In quel momento giunsero i due fanciulli; il cantore at­ tirò subito a sé il ragazzo, e gli prese le mani dicendogli : — Guardate, o capo di tutti i lupi, queste manine delicate sono forse adatte a guidare l’aratro e a portare la lancia? Non sono piuttosto quelle di un prete o di uno studioso? Di un pacifico erudito Johannes? Non osservate la saggezza della buona madre natura che da un popolo tanto vigoroso di quando in quando crea un tenero arbu­ sto, atto a diventare maestro o sacerdote, perché altri­ menti andreste a finire tutti, malgrado la vostra forza, nell’ignoranza e nel peccato? Non è poi detto che egli debba ad ogni costo diventare prete, a me basta che co-

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minci ad imparare qualche cosa senza perdere tempo ! — Vorresti andare a scuola dai signori del Duomo? — intervenne la madre, rivolgendosi al fanciullo che guar­ dava stupito tutti, l’uno dopo l’altro. — Vorresti scrivere dei bei libri ed imparare a dipin­ gere con l’oro ed i vari colori, a cantare canzoni e a suo­ nare il violino? — aggiunse il cantore — Belle canzoni di maggio, mottetti sapienti ed il canto di Michele: 0 héros invincibilis dux . . . Non cantavi cosi oggi? — Si, dico cosi: 0 Herr, 0 Vizibilidux! — rispose Johan­ nes con gran zelo, e Konrad gli domandò ridendo chi mai glielo avesse insegnato. — Frate Radpert del piccolo convento — replicò il bimbo soddisfatto. — È un monaco vecchissimo, un agostiniano che sta là dietro il querceto, ed una volta da soldato ha compiuto una spedizione in Terra Santa e racconta sempre al bambino che solevano cantare quella canzone al momento della battaglia. Questa osservazione fu della madre Richenza, mentre suo marito Rudolf disse al ragazzo: — Ebbene, che cosa preferiresti? Vuoi stare a scuola coi monaci e farti la tonsura, o preferisci rimanere qui all’aria aperta e diventare un giovanotto in gamba? Johannes comprese solo a metà il senso di quella discus­ sione, si guardò ancora attorno e alla fine suppose si trattasse di una scuola in cui vi sarebbero state delle damigelle simili a quella accompagnata lì dal signor cantore e, poiché questa gli piaceva, dichiarò senz’altro di voler andare a scuola. — Basta, — esclamò il padre con un tono piuttosto severo — non scherziamo oltre su un argomento simile ; Johannes, va’ in casa a prendere il corno per chiamare i garzoni e le donne! Il cantore s’accorse che per quel giorno non avrebbe ottenuto nulla, e poiché il sole stava per tramontare si congedò e prese la via del ritorno. Intanto giungevano frettolosi alla fattoria, con grandi grida e chiasso, un vecchio ed un giovane garzone, con i buoi e gli erpici,

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tutti impazienti, uomini ed animali. Vedendo che l’atten­ zione del padre era da essi assorbita, Johannes colse l’oc­ casione per fuggire di casa e inseguire giù per la china il cantore e la bambina. Era scalzo e non lo potevano udire. Appena il signor Konrad si fermava un momento per riposarsi e tirare il fiato, Johannes sostava pure, intimo­ rito, a una certa distanza, riprendendo la corsa appena quelli procedevano. Ad una di queste soste lo scoprì la pic­ cola Fides, voltandosi indietro, ma gli lanciò uno sguardo così altero e lontano, non avendo neppure l’aria di infor­ mare il vecchio signore del suo inseguimento, che egli se ne rimase indietro mortificato, seguendoli melanconicamente con gli occhi fin che disparvero nell’ombra della sera. Corse allora verso casa, atterrito in parte dalle conseguenze della sua disobbedienza ed in parte dal mi­ stero della notte incipiente, e là la mamma, che già lo andava cercando, l’accolse e lo fece entrare inavvertito, ponendolo poi a letto, mentre con affetto materno me­ ditava fra sé l’offerta del degno sacerdote. Quando dopo alcuni anni donò al consorte un secondo figlio maschio, straordinariamente grande e robusto, Ru­ dolf di Hadelaub mutò pensiero ed acconsentì al deside­ rio del mastro cantore della prepositura di Zurigo. Dopo circa otto anni incontriamo Johannes Hadlaub, come viene ormai chiamato, leggiadro adolescente dai riccioli biondi, instancabilmente immerso in lavori eru­ diti di ogni genere. Konrad von Mure lo aveva preso sotto la sua speciale protezione, insegnandogli a leggere e a scrivere con la stessa fretta con cui un guerriero ini­ zia il proprio ragazzo al cavalcare ed alla scherma. Insieme a quell’esercizio e per mezzo di esso doveva im­ parare la lingua tedesca e quella latina, giacché il mo­ naco non gli concedeva a tale scopo tutto il tempo che avevano i chierici ed i figli dei nobili nella scuola del convento. In conformità alle consuetudini e al genere del suo lavoro egli doveva rendersi subito il più possibile utile, il che, al suo posto, consisteva nel copiare con chiarezza e precisione. Per conto proprio doveva poi avvezzarsi con tacita attenzione a comprendere quasi a volo il con­

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tenuto dei confidenziali discorsi del vecchio. Col tempo avrebbe deciso che cosa fare, se gli sarebbe piaciuto di­ ventare un vero erudito e teologo. Per intanto, aveva non solo da trascrivere diligentemente note e testi per la musica della chiesa, bensì anche da copiare le opere in versi di Konrad, i suoi trattati mitologici, geografici, storici e scientifici, sinché il suo padrino Johannes Ma­ nesse, custode della prepositura di Zurigo, il figlio del signor Rüdiger, non scoprì la cosa e non s’accorse della svelta e graziosa calligrafìa del ragazzo. Egli quindi non esitò e gli fece copiare senz’altro tutti i canti d’amore e le poesie cavalleresche antiche e recenti che, secondo il suo gusto profano, riusciva ad acquistare. Konrad von Mure a sua volta badava che essi venissero trascritti con esattezza per la musica, correggendo eventuali errori, dal che il giovane Hadlaub, sempre pronto ad imparare, trasse nuove conoscenze ed abilità. L’ornamento dello scritto con pitture a più colori faceva già parte dell’arte degli scrivani dei conventi a quel tem­ po; ma il giovinetto non si fermò a questo, bensì cercò di cogliere dagli ingenui artisti del suo tempo, quali si incontravano per esempio nell’opera delle due cattedrali, la pratica sufficiente a dipingere a metà o per intero un foglio di pergamena. Il vecchio cantore e canonico von Mure era morto da parecchi anni, ma Johannes Hadlaub era rimasto ad­ detto alla scuola cantoria ed alla biblioteca del convento, senza però prepararsi allo stato ecclesiastico. Suo padre ne pareva contento, quantunque il secondo figlio cre­ scesse robusto e promettesse di eguagliarlo in statura e vigoria. Che Johannes diventasse un cittadino laico, pra­ tico di affari, non gli spiaceva, ed egli infatti cominciò ad essere utilizzato come scrivano da diversi signori per le loro trattative; fu specialmente Leuthold junior, barone di Regensberg, che, per riassestare la sua instabile situa­ zione, si valse continuamente dei suoi servigi. In seguito strinse più stretti rapporti col vecchio Ma­ nesse, il signor Rüdiger, quando il figlio di questi, il «sagrestano», un bel giorno lo invitò a prendere in fretta

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il violino ed a venire con lui alla dimora dei Manesse. Johannes, arrossendo di gioia, prese subito lo strumen­ to e risalì insieme al canonico la via della Chiesa, che si chiama ora via dei Romani. Il giovane dai riccioli d’oro, camminando con imponenza a fianco del monaco, salu­ tava cordialmente i suoi conoscenti che passavano per le strade affollate e da tutti era ricambiato con pari genti­ lezza, essendo egli invero di gradevole aspetto. Indossava un manto a pieghe che si divideva in larghe strisce obli­ que bianche ed azzurre, giungendogli quasi fino ai piedi, e portava un berretto purpureo, da cui scendeva sulla nuca e sulle spalle un drappo bianco. Arrivarono ben presto alla dimora dei signori Manesse : Johannes alzò eccitato lo sguardo all’edificio di pietra che si appoggiava allora alla torre ed era la casa d’abi­ tazione. Al secondo piano il muro era interrotto da un leggiadro colonnato ad archi a tutto sesto, dietro cui si trovava il salone, coperto dalle travature di quercia del tetto. Il pianterreno aveva un paio di finestre con archi analoghi ed inoltre un grande portone di ingresso che, attraverso un androne, portava sino al cortile ed alle di­ verse scale. Sotto il portale v’erano i gradini di pietra, dei quali le donne si servivano per salire a cavallo. Una di quelle scale a chiocciola di pietra i cui gradini ci appaiono, dove ancora si conservano, tanto alti e scomodi, condu­ ceva al salone superiore. Quando Johannes Hadlaub con la sua guida s’affac­ ciò a quella porta, perse di colpo tutta la sua baldanza; non aveva preveduto una così eletta società come quella che sedeva attorno ad una grande tavola, in ampie pol­ trone o su sgabelli ricoperti di cuscini. Vi era anzitutto il vescovo Heinrich di Costanza, bell’uomo, dagli occhi e dai capelli scuri, dai tratti au­ steri, ma pieni di spirito; con la destra inanellata tene­ va la mano della badessa di Zurigo, che gli sedeva ac­ canto in abbigliamento mondano, una figura tranquilla che si illuminava soltanto alla luce di quegli occhi. Al suo fianco, dall’altra parte, sedeva la moglie del cava­ liere, della famiglia altrettanto antica dei Wolfleipsch,

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cd accanto a lei era un’altra ospite dell’abbazia stessa, la signora Elisabeth di Wetzikon, parente del vescovo, che divenne più tardi la più notevole delle badesse, essa pure in abito non da religiosa. Accanto le stava il conte Friedrich Toggenburg, discendente del trovatore Kraft von Toggenburg, poi il signore di Trostberg, nipote del cantore di egual nome, poi il signor Jakob von Wart, e infine il signor Rüdiger, dai capelli grigi ma dal volto giovanile, con un mantello guarnito di pelliccia. Alcuni posti erano vuoti, poiché la giovane Fides s’era alzata e girava con altre due dame in fondo alla sala. Sulla tavola spiccavano fiori e frutta, dolci e coppe d’argento con vino del meridione, e in mezzo v’erano an­ che libretti in pergamena, fascicoli grandi e piccoli e lunghe strisce arrotolate dello stesso materiale, tutti co­ perti di rime fitte e senza fine, come armate di popoli migranti nelle invasioni barbariche. Il padrone di casa s’alzò per accogliere il figlio col suo compagno. — Ci hai condotto il giovane musico? — domandò — Benissimo, perché col favore di questi signori, abbia­ mo acquistato alcune cose nuove. Ci piacerebbe sen­ tirne cantare qualcuna, ma nessuno qui canta all’infuori del venerando principe Heinrich il quale, da che è vesco­ vo, non lo vuole più fare ! Il conte Friedrich ci ha portato alcuni canti di suo nonno che non possedevamo; l’amico Trostberg non meno di due dozzine di canzoni del suo degno antenato, ed il barone Jakobus von der Wartburg, indovina un po’ che cosa? Il libriccino scritto nella sua gioventù che ci ha nascosto per tanto tempo, diciotto composizioni; le ho già contate. Ma anche lui non vuole più cantare ! — Se non posso più cantare — replicò a questo punto il vescovo — ho in compenso fatto penitenza, portando i versi del nobile e valoroso duca di Breslavia, del mio bello e buon Heinrich ! Purtroppo reco insieme la notizia che quell’eccellente giovane si è imprevedutamente spen­ to nel fiore degli anni: una notizia che mi ha profonda­ mente addolorato!

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Trasse da sotto il suo manto un piccolo rotolo di can­ zoni, lo esaminò attentamente e proseguì : — Qui vi è una delle più graziose canzoni di quell’uo­ mo eletto : non potrebbe forse farcela sentire questo bravo giovane? Fece cenno a Johannes che si avvicinasse, gli diede da leggere la canzone e a mezza voce gli insegnò la melodia che quegli subito comprese; Johannes poi appoggiò al petto il violino a quattro corde e cantò la canzone, ac­ compagnandola con la melodia di una terza più bassa e solo armonizzandola alle due penultime note di ciascun verso. Era il canto: A te denunzio, o maggio, a te, delizia estiva, a te denunzio, o landa luminosa, a te denunzio, o bel trifoglio in fiore, a te, foresta ombrosa ed a te, sole, a te, Venere dea, l’aspra ferita che la mia donna inferse a questo cuore ! e via di seguito, mentre ciascuno dei giudici invocati promette la sua punizione, ma alla fine l’accusatore ritira l’accusa e preferisce morire piuttosto che simile sventura colpisca la bella. Il canto era sgorgato così armonioso dalla gola fresca del giovinetto lieto e innocente che tutti ne furono com­ mossi e turbati, tanto più che la notizia della prematu­ ra morte del poeta aveva già predisposto a tenerezza gli animi. Il vescovo, insieme a Johannes ed al signor Rüdiger, che si unì subito con zelo, corresse il testo, nel quale, attraverso il canto, si erano rivelate alcune ine­ sattezze nel novero delle sillabe. Allora balzò in piedi il cavaliere von Wart, prendendo dalla tavola il libriccino dei suoi versi ed esclamando: «Vorrei ascoltare dalla bocca di questo giovinetto an­ che una delle mie povere strofette, la prima che capita». Mostrò una canzone a Johannes, che suonò e cantò:

Bellezza vaga al par di mattutina stella è la donna mia, ch’io di buon grado ora voglio servire ed in eterno.

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Se pure me gioia e conforto nega, voglio che a lei fortuna e onore sian fidi compagni a una gioiosa meta. Ahimè che sua modestia, ahimè che sua bontade sono per me già morte ! Io di questo l’accuso. E questa sola è del mio triste cuor la pena ria !

Nel frattempo, il vescovo aveva scorso le poesie di Trost­ berg il vecchio, ed alzandosi di colpo tolse al giovane suonatore il violino e si diede a cantare, accompagnandosi impeccabilmente : Fiorir di rosa è il dolce riso della diletta mia. Come crear potè tale portento colui che a lei tanto splendore diede? Essa è la luce dell’anima mia e Dio non voglia che giammai tramonti.

«Perdonatemi, nobili amici» disse poi «se mi sono lasciato trascinare, ma è la prima ora serena che io godo da quando, povero e fedele cancelliere, ho seppellito nella tomba imperiale di Spira il mio signore, Rodolfo ! ». Così dicendo gettò uno sguardo lampeggiante alla ba­ dessa Kunigunde, che arrossì, e tutti espressero la loro af­ fettuosa partecipazione, pur sapendo ognuno che quel salu­ to del principe della Chiesa era stato rivolto alla principes­ sa badessa, da lui riveduta quel giorno dopo lungo distacco. Intanto Jakob von Wart aveva staccato dalla parete una piccola arpa alla quale egli era più avvezzo e, in­ fiammato dall’esempio del vescovo e dal buon vino, il non più giovane signore cantò la bell’alba1 che sta alla fine della raccolta di lui rimastaci, e regge al confronto con le migliori poesie analoghe dell’epoca degli Hohenstaufen. « Mi avete dato la più grande gioia ed il più grande onore!» disse il signor Rüdiger «sono proprio felice di possedere questo canto e le altre vostre composizioni ! ». I. alba·, genere di canzone d’amore trovadorica, sul tema del­ l’apparizione dell’alba.

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Chi potrebbe ora cantarci una poesia di Toggenburg, perché possiamo gustare qualche cosa di tutti?». Il conte Friedrich protestò che per parte sua non ci teneva in modo particolare alla produzione casalinga, ma che era piuttosto smanioso di udire dal giovane suona­ tore un paio di belle canzoni a tutti note. «Ebbene» disse il vescovo «allora ci canti qualche cosa del vecchio Vogelweide; quello lì supera tutti per armonia e per ingegno». Le melodie più note di Walther von der Volgelweide erano naturalmente familiari al giovinetto, che cantò subito la canzone di sei strofe: Or vedi meraviglia gaia di maggio ! Di laici e chierici brulica al sole festoso il borgo. Oh, grande è maggio ! Non porta forse scettro e corona? Nessuno è vecchio nel regno suo !

A questa seguì la canzone: Io sempre mi domando cosa mai una donna in me abbia veduto .. .

Il bel ragazzo continuò: Forse che non ha occhi? Io non son certo degli uomini il più bello nessun lo può negare . . . Guardatemi la testa se vi pare poco ben fatta . . .

serbando la più solenne serietà, mentre la compagnia scoppiava in un’allegra risata. Cantò da ultimo il notissimo canto: Sotto il tiglio sulla landa col suo festoso ritornello con così ingenuo candore da cattivarsi tutti, e il vescovo lo abbracciò e lo baciò. Il signor Johannes, il «sagrestano», si compiacque della

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buona accoglienza che aveva trovato il suo protetto, e solo allora lo presentò più esattamente: — È figliolo di buona famiglia; — aggiunse — suo pa­ dre nel ’78 fu con Rodolfo a Marchfeld1 ed è uno dei po­ chi zurighesi che ne abbian fatto ritorno. — Allora io lo riconoscerei certamente se lo vedessi, — interloquì il signor Heinrich von Klingenberg — perché io li ho visti tutti quando in quella lotta di popoli avan­ zarono tenaci insieme a quelli di Schwyz e di Uri, tanto che il re esaltò il loro valore. — È anche un conoscitore di antiche costumanze e sa sempre, pur senza saper leggere, quel che è giusto; — aggiunse il Manesse maggiore — più di una volta ho avuto occasione di constatarlo. Johannes Hadlaub intervenne modestamente nella conversazione, osservando che suo padre, da quando il figliolo era capace di scrivere, gli aveva spesso fatto fis­ sare per iscritto, nelle lunghe serate invernali, quanto ricordava degli antichi usi delle Corti tutto all’intorno e di cui non vi è notizia nei libri di diritto. Il cavaliere esclamò subito incuriosito: — Figlio mio ! Di tutto quello che tuo padre ti va det­ tando in tal modo, dovresti darmene copia, si capisce se egli lo vorrà permettere ! Io temo che egli sia fra coloro i quali ritengono che esser soli a sapere qualche cosa conferisca potere nella vita giuridica, o che persino nu­ trono la superstizione che tali nozioni siano da serbare come cosa soprannaturale e pericolosa. — Egli non fa cosi, — rispose Johannes — ritiene anzi ogni sapere bene comune, e considera un male che tutto sia scritto e conservato soltanto nelle chiese, come almeno accade qui. — Guarda, figlio mio, io ho molte cose che ti possono tornare di giovamento, mentre tu, a tua volta, puoi aiu­ tarmi ad aumentarle ! — continuò il cavaliere guidandolo verso un grande armadio aperto, ricavato nello spesso I. Nella piana di Marchfeld, in Austria, le truppe di Rodolfo d’Absburgo sconfissero quelle di Ottocaro II di Boemia nel 1278.

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muro della sala, di dove era stata tolta parte dei manoscrit­ ti giacenti sulla tavola, ma nel quale stavano ancora alli­ neati e sovrapposti moltissimi libri e rotoli di pergamena. Vi erano, oltre al Parzival, aXPErec, all’Iwein e al Povero Enrico, al Tristano, alla Gara alla Wartburg e ad altre opere poetiche, diversi volumi di natura descrittiva e storica, così come si redigevano e scrivevano a quel tempo ; ma si vedevano soprattutto copie di importanti testi e documenti giuridici, quali solo un personaggio influente e di alto rango era in grado di raccogliere. Il signor Rüdiger trasse un libro accuratamente ricoperto, e lo mo­ strò al giovane. Era il manoscritto dello Specchio Svevo. — Specialmente questo libro vorrei possedere, giac­ ché questa copia non appartiene a me, bensì ai signori del Duomo; — disse — se tu volessi di quando in quando venire qui, potresti copiarlo ed intanto lo leggeremo in­ sieme, giacché sarà un po’ difficile, essendo scritto in for­ ma antica e particolare. Quando avremo finito la copia vi metteremo pure il motto finale, che questo scrittore ha posto alla fine del diritto feudale e che pare anche a me sia ben formulato : «Nessuno è tanto ingiusto, che non riconosca l’ingiustizia quando si fa torto a lui. Perciò oc­ corrono saggi discorsi e buone arti per applicarle nel giure. Chi in ogni tempo parla secondo il diritto si crea non pochi nemici. A ciò l’uomo onesto deve di buon grado assoggettarsi per amor di Dio e per il suo onore e per la salvezza dell’anima sua. Il buon Dio ci consenta di amare in questo mondo il giusto e di indebolire l’ingiustizia a tal punto, da poterne trar godimento poi là, dove il corpo e l’anima si separano ! ». — Questa è proprio una bella sentenza — disse d’un tratto una voce giovanile di donna proprio alle spalle di Johannes. Questi si volse di colpo e si trovò di fronte ad una giovinetta sedicenne di rara e particolare bellezza e dalla figura insolitamente snella. La grazia dei suoi tratti era quasi velata, ma pure nel contempo illuminata, resa più intensa, dalla profonda serietà. Era Fides, che sino a quel momento si era tenuta in disparte dalla compagnia. Johannes non aveva riveduto la fanciulla per tutti

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quegli anni, pure serbandola nella memoria come suole fare la gioventù, e pur avendo pensato, quel giorno, di dover finalmente ritrovar senza dubbio la bimba di un tempo. Ma non essendo essa più una bimba, bensì una persona ed una figura del tutto diversa, egli, sorpreso dalla brillante società e preoccupato del suo canto, nep­ pure l’aveva veduta, ed anzi i suoi pensieri s’erano com­ pletamente allontanati da lei. Notando la sua sorpresa, Fides lo osservò più attenta­ mente e parve ripensasse dove mai lo poteva aver già veduto, finché le venne in mente che lo scolaro del defunto canonico che le stava di fronte non poteva esser altri che il ragazzo il quale un tempo l’aveva portata di peso oltre il torrente, seguendola poi giù per la montagna. Gli fece un lieve cenno sorridente, ma poi riprese a passeggiare con le compagne e da ultimo uscì dalla sala. — Ora però il nostro giovane cantore si è meritato un buon goccio ! — intervenne la padrona di casa — Acco­ modatevi un momento e ristoratevi, perché certamente vi sarete asciugato la gola cantando. Indicò a Johannes uno degli sgabelli vuoti ed egli vi si accomodò timido e silenzioso. Ma d’un tratto il signor Rüdiger, dopo essersi aggirato pensieroso su e giù per la stanza, si pose dietro il vescovo Heinrich e gli appoggiò la mano sulla spalla, così che gli altri interruppero i loro discorsi. — Sai, mio fido e vecchio amico, che idea mi è venuta proprio nel momento in cui stavo guardando quei libri? Da più di cento anni, pensavo, si canta d’amore in terra tedesca e si creano tanti motti saggi e audaci; questi canti passano di mano in mano e crescono di giorno in giorno, ma nessuno li sa e li conosce tutti e, quanto più fuggono gli anni, tanto più muoiono insieme agli uomini anche queste canzoni ! Più di un nobile poeta giace nel­ l’eterno riposo da sessanta, settant’anni e noi ne posse­ diamo ancora le opere, ma solo poche delle sue melodie; fra altri settant’anni che cosa sarà mai rimasto di quei motivi e del suo nome? Forse soltanto una leggenda, co­ me per Orfeo, se va bene !

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— Ti capisco, caro signore ed amico ! — replicò il vescovo prendendogli la mano — tu vorresti raccogliere in modo compiuto e salvare per quanto si può queste can­ zoni, ed io non posso che lodare sommamente tale propo­ sito ! Avete già fatto un buon inizio tu ed il tuo degno figliolo, del quale ho ripetutamente sentito dire che va a caccia di cose scritte in tutti i castelli e monasteri! Ma dobbiamo ora ampliare ed approfondire la cosa e met­ tervi un certo ordine ! — Comprendimi bene ! — replicò Manesse — Io in­ tendo compilare un solo grande libro nel quale sia ordi­ nato e radunato tutto quello che ognuno canta nel suo paese. Sì, lo vedo, — continuò con nobile eccitazione — già mi pare di averlo dinanzi questo libro di bellissimo aspetto, grande, prezioso e adornato, quanto, senza vo­ ler pronunciare blasfemia, il messale del Papa. — Così me lo immagino anch’io, — rispose Klingen­ berg — e sai perché? Perché io sono già al corrente di un primo avvio di quest’impresa. Nella biblioteca del nostro Duomo di Costanza vi è un libro in cui sono già raccolti venticinque poeti, pochi di essi forse al completo, però ordinati con competenza e accompagnati dai loro ritratti. Tu puoi iniziare un’opera più grande, più bella e più ricca, ma anzitutto ci converrà completare i nomi. A mio parere, invece che a venticinque, giungeremo ai cento nomi ! — Forse s’arriverà anche ai centocinquanta! — escla­ mò Johann Manesse, il canonico — Quanti qui siamo, dobbiamo cercare nelle nostre regioni, dal lago di Co­ stanza sino all’Üchtland ed ai monti del Bernese; e poi, si penserà al Danubio, alla Baviera, alla Franconia, alla Sassonia, al Reno, ai Paesi Bassi e alle Marche settentrio­ nali e orientali ! — Tanto più presto bisognerà incominciare — riprese il signor Rüdiger — e perciò chiediamo formalmente à voi, signor principe e vescovo di Costanza, se possiamo valerci a titolo di prestito, per confronto e studio, di quella raccolta di canti che ci è stata annunciata? — Con gioia vi è messa a disposizione l’opera, — rispose

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il vescovo con scherzosa serietà — qualora però la nostra eccellentissima e gentile principessa, la grande signora di San Felice e Santa Regula di Zurigo, voglia prestare malleveria per il ritorno intatto di quel tesoro ! — Essa lo vuole, — disse la badessa Kunigunde con un sorriso — purché però il compenso per quella merce lievissima che sono le canzoni, in caso vadano perdute o siano rubate, venga fissato, per un valore del pari lieve, per esempio in un cesto di rose o di fiori di campo, che sa­ rebbe da inviarsi a Costanza ogni anno, nel giorno del­ l’imperatore Enrico che è l’onomastico del principe mio superiore, e beninteso dietro impegno di ospitare conve­ nientemente il messaggero e la sua cavalcatura, nonché di rinviare ogni volta alla tributaria un paio di guanti nuovi ! — Una magnanimità veramente femminile, cui noi ci sottoporremo con piena umiltà! — esclamò il vescovo. Il signor Jakob von Wart si alzò a sua volta e levando la coppa esclamò: — Signori ! Non vorremo schernire le belle dame, a cui lode e gloria deve principalmente servire quest’opera ! Essa infatti, se ben attuata, non diverrà anzitutto il mo­ numento e l’attestato dell’omaggio che noi sempre abbia­ mo reso e rendiamo a questi buoni angeli, e ciò in misura quale mai al mondo fu udita, ma quale dovrà serbarsi finché batteranno cuori di uomini cavallereschi? — Bene, — intervenne Manesse — queste parole sono di buon auspicio per la nostra impresa e augurale è an­ che la presenza del signore che le ha pronunciate, auten­ tico cavaliere e cantore d’amore. Riempiamo le coppe, preghiamo le nobili dame di porgercele e brindiamo alla salute imperitura della fiorente anima femminile, alla salute del nostro amico Wart che oggi ci ha cantato la sua canzone e alla buona riuscita della nostra impresa ! Tutti si alzarono, le donne accostarono l’una dopo l’al­ tra le coppe alle loro labbra, offrendole poi ai cavalieri, che di buon animo le vuotarono. Manesse abbracciò e baciò il signore di Wart, che, lieto e commosso, come sogliono i vecchi, si compiaceva di questa tarda fioritura della sua arte, senza presagire

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che in meno di venti anni i suoi castelli sarebbero stati distrutti e la sua stirpe spazzata dalla terra. Quando dame e cavalieri ebbero ripreso posto, il ve­ scovo tornò a parlare: — Non dobbiamo indugiare oltre, ma metterci al più presto all’opera. A me sembra che il meglio sia assicu­ rarci subito una giovane forza per il nostro proposito, che è di lunga portata ed esige perseveranza, nominando cioè araldo e maresciallo della campagna quel nostro gio­ vinetto biancazzurro. Fra tre giorni rientrerò nella mia sede pastorale; allora egli dovrà togliersi quel bell’abito leggiadro, indossare una giubba da cavaliere e recarsi, se voi amico Rüdiger siete d’accordo, a prendere il libro dei canti a Costanza. Dico così perché intendo affidargli io stesso quest’opera ed insieme altre cose che dovrò ricer­ care, accompagnandole pure con alcune indicazioni. In­ fatti, da quando era in vita il re e nella confusione degli ultimi due anni, non ho più aperto e passato in rassegna le mie borse e i miei cofani che contengono ancora non poche cose. Quando avrò comunicato al ragazzo i miei pensieri su tutte queste cose, ed egli, come spero e ri­ tengo, li avrà ben compresi, potrà venire a spiegare ogni cosa a voi e a vostro figlio, il conservatore, per­ ché possiate ponderare e decidere. Che ve ne pare? — Eccellente mi pare tutto quello che voi dite, — re­ plicò Rüdiger — e se il giovinetto della montagna è d’accordo e non lo è meno suo padre, col quale potrò parlare io stesso, nel servirci, o meglio, nell’aiutarci in questa impresa, noi possiamo subito cominciare. Il me­ glio sarà che scriva egli stesso il libro, così abbiamo la speranza che venga redatto tutto dalla stessa mano, an­ che se noi, nel frattempo, dovessimo morire ! A Johannes pareva di sognare, tanto meravigliosi erano i pensieri che gli si affollavano in capo ; quando il conserva­ tore Johannes lo fissò interrogandolo, non seppe che inchi­ narsi felice e confuso e subito dopo, appena questi gli fece cenno che era per lui conveniente ritirarsi, s’affrettò ad andarsene col suo strumento sotto il braccio, dopo nuovi inchini a tutti i presenti.

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Sebbene fosse turbato e imbarazzato, ebbe però ab­ bastanza presenza di spirito da guardarsi intorno lungo il vestibolo, le scale e il cortile, per quanto gli fu possibile data la sua fretta; ma non scorse proprio nulla e non udì neppure la voce della giovane Fides, che pareva sparita nella stanza più remota di quella vastissima dimora ca­ valleresca. Dopo circa otto giorni cavalcò difatti sino a Costanza, e proprio su un ronzino che serviva ai canonici e specialmente al signor conservatore, il quale era di indole inquie­ ta e bisognava che facesse sempre le sue trottate. Il ve­ scovo accolseJohannes con immutata benevolenza e lo fece ospitare signorilmente. Appena espletati gli affari di go­ verno, fece venire il giovane nel suo studio e gli mostrò il libro dei canti (esso è ora a Stoccarda sotto il nome di codice Weingarten, perché per qualche tempo fu in pos­ sesso del monastero di Weingarten) ; gliene mostrò l’or­ dinamento e, accorgendosi che Johannes già conosceva la struttura dei diversi componimenti, motti, canzoni, eccetera, gli fece notare la necessità di tenere ben di­ stinte le singole poesie e di esaminarle attentamente. In pari tempo gli porse un pacco di manoscritti minori, che in parte contenevano lavori degli stessi poeti del li­ bro grande, ma che in quello mancavano, in parte in­ vece presentavano dei cantori che non figuravano nella raccolta. Mentre faceva passare con lui queste cose, gli mostrò una quantità di passi in cui il testo era stato cor­ rotto dagli scrivani, indicando come si dovessero corregge­ re gli errori secondo le leggi dell’arte e della lingua. Nelle scritture di sua proprietà privata si trovava già una quan­ tità di tali passi corretti di mano sua. Johannes Hadlaub ammirò in rispettoso silenzio il sapere e la perizia di quel grande signore e si sforzò di non perdere una sola parola di quei preziosi insegnamenti. Alla fine il vescovo gli diede ancora un elenco di poeti che non si trovavano né in quelle pergamene né, per quello che rammentava, fra i manoscritti di Zurigo, di cui però gli era noto che ave­ vano vissuto e poetato. Per alcuni nomi c’era ancora

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annotato dove con relativa certezza si dovessero rinve­ nire le loro canzoni, per altri si accennava a dove even­ tualmente si potesse trovare una traccia. «I signori di Zurigo» disse poi «amplieranno e chia­ riranno tutto questo. Lavora assiduamente e comincia presto a trascrivere. Scegli pergamena bella e grande, senza macchie né difetti; taglia subito da principio una buona quantità di fogli eguali e per ogni poeta che già abbiamo predisponi un fascicolo sufficiente, fagli una nitida rigatura, così che potrai cominciare ad un tempo in tutti i punti, e accanto ad ogni nome lascia vuoto lo spazio per le aggiunte future. Naturalmente ti converrà in certi casi misurare lo spazio a seconda delle circostanze. Per esempio per l’imperatore Enrico è difficile che si tro­ vino altri canti oltre agli otto qui conservati; ti basterà dunque preparare per lui un solo foglio». Il vescovo così dicendo gettò uno sguardo alle otto poesie che si conservano ancora nel codice e sostò sul­ l’ultima, leggendola ad alta voce:

Grazie o bel cavaliere ch’io ti giacqui vicino ! Dimori nel mio cuor sera e mattino. Tu allieti la mia mente e mi sei caro come gemma preziosa ch’è legata nell’oro.

«Con quanta bellezza fa esprimere ad una donna quel che essa prova ! L’uomo amato le sta nella mente e nel cuore, anzi nelle braccia, come la gemma entro l’oro ! ». Dopo queste parole il vescovo si immerse per qualche momento nei suoi pensieri, quasi pensasse a giorni lon­ tani, poi trasse dal dito un anello d’oro, lo infilò al dito di Johannes e gli disse accarezzandogli i capelli: « Prendilo quale segno che tu sei ora il giovane cancel­ liere della nostra buona compagnia. Ed ora parti e prendi con te anche queste lettere or ora redatte nella mia can-

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celleria. Ci risparmierai un corriere. E questa è per la badessa, per la signora Kunigunde; mi sarà caro se la porterai tu stesso, poiché non si tratta di cose d’affari ! ». L’ultima lettera l’aveva presa dal suo scrittoio e la sigillò in persona. Fra lui e la badessa non esisteva intimità di rapporti se non per via epistolare; di persona s’incontravano sem­ pre fuori casa, sempre con più o meno numerosi testi­ moni, in occasione di cerimonie pubbliche o di riunioni in società. La signora Kunigunde lo riceveva talvolta anche nell’abbazia, ma sempre nei saloni dove per lo più si trovava parecchia gente. Se anche in tali occasioni essi si permettevano un tono di serena disinvoltura, o ostentavano persino una certa tenerezza confidenziale, d’apparenza scherzosa, questo non era che un debole compenso alla rinuncia rigidamente impostasi, evitando assolutamente ogni incontro da soli, la prova più dura per chi ama e non sarebbe impedito da alcuna volontà estranea a vedersi. Non si trattava in realtà di pentimento per il passato ; essi non si erano pentiti perché si amavano, ma era stato il modo con cui la loro creatura aveva accolto la notizia della propria nascita e della propria posizione nel mondo a indurli a quella severità verso se stessi. L’origine di Fides era un segreto di Pulcinella, che non potè più esser taciuto alla fanciulla appena questa fu adolescente. Gliene avevano data la vaga intuizione quando ciò non poteva farle troppo effetto, perché la conoscenza del proprio stato venisse a formarsi in lei per così dire spontaneamente. Ma quando la giovinetta fu giunta a piena coscienza, essa non prese la cosa così alla leggera come sarebbe stato desiderabile. La bimba impetuosa ed impressionabile s’era fatta una creatura dai sentimenti orgogliosi e profondi, dall’indole av­ veduta e assennata, le cui simpatie si ispiravano an­ zitutto alla giustizia ed all’onore, in gran parte per l’esempio quotidiano del suo tutore, il vecchio signor Rüdiger. Dall’istante in cui le fu chiara la sua situazione nel

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mondo, non proferì un lamento né formulò una doman­ da ; ma la sua serenità sparì e gli onori che le si rendeva­ no, le elette costumanze alle quali partecipava non val­ sero a ridonarle quel che aveva perduto. Amava ed onorava i genitori, ma non apriva mai loro l’animo e sembrava non sperare nulla da loro. Solo una volta, proprio all’inizio, aveva manifestato desiderio di entrare subito nel monastero della madre per restarvi vita naturai durante. Questo non era parso opportuno, né del resto Kunigunde e Heinrich desideravano che la figlia si facesse monaca, giacché non rinunciavano alla speranza di poterne fondare la felicità nel mondo. Ma la natura della fanciulla si ripercosse sul lorp con­ tegno, ed essi si imposero non soltanto per le alte cari­ che che ricoprivano, ma anche per la figlia, quella com­ pleta rinuncia che, dati i costumi del tempo, nella loro classe sociale non sarebbe stata indispensabile. Le lettere che Johannes portò a Zurigo si riferivano all’acquisto, dalla famiglia ormai in decadenza dei Re­ gensberg, della città di Kaiserstuhl e della Rocca di Röteln, situata di fronte, sulla riva destra del Reno. Poi­ ché questi possedimenti erano legati all’eredità Wasser­ stelz per certi rapporti feudali, il vescovo, quale feuda­ tario parziale, veniva ad acquisire una influenza su di essi, ed egli si mise in grado di assicurare la successione a Fides, dispensandola dagli ostacoli che avrebbero po­ tuto essere sollevati a cagione della sua nascita irregolare. Si proponeva poi di coglier più tardi un’occasione per aumentarne i beni e per crearle così un’agiata posizione nel mondo. Al suo ritorno, Johannes Hadlaub adempì i vari in­ carichi e si recò anche al monastero, dove fu introdotto nell’appartamento privato della badessa. Trovò la «gran­ de signora di Zurigo » in un ricco salone, in compagnia di alcune dame; sedevano in semicerchio e insieme lavora­ vano ad un grande arazzo, avendo ai piedi cestini pieni di lana e di seta variopinta. Le pareti della stanza erano rivestite sino ad una certa altezza da analoghi arazzi rappresentanti un bosco verde ove si svolgeva la leggenda

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della fondazione del monastero: le figlie di Ludovico il Tedesco che inseguono il cervo, il re che le guarda dal ca­ stello sul monte Baldern e che costruisce poi la cattedra­ le, ed infine il trasferimento a quel santuario delle ossa dei santi martiri Felice e Regula da parte di vescovi e sovrani. Sullo sfondo, sotto gli alberi, si aggiravano nu­ merosi personaggi ed animali: Diana cacciava i cervi con le sue ninfe, Adone inseguiva il cinghiale, Venere pian­ geva il morto Adone, Sigfrido correva dietro l’orso e Hagen gli gettava contro la lancia: era in certo modo il tumulto del mondo in contrasto con le pacifiche scene del primo piano. Al di sopra degli arazzi la parete era affre­ scata .con badesse inginocchiate, di cui ciascuna aveva accanto il proprio stemma col cimiero ed i rispettivi or­ namenti. Il soffitto, e con esso le travi che lo reggevano, era decorato da ghirlande di fiori variegati su sfondo bianco e le finestrelle erano fatte con pezzetti di cristallo spesso e irregolare uniti a mosaico in diversi colori. Ancora maggior splendore di colori scintillava attraverso la porta aperta di una stanza attigua, dove erano l’inginocchia­ toio e l’altare privato della badessa, quest’ultimo con gemme dell’età carolingia. Johannes, sorpreso da tanta magnificenza, non sapeva quasi dove volgere gli occhi, e riuscì soltanto a fatica a riferire alla signora Kunigunde, che aveva levato gli oc­ chi, il saluto del vescovo, consegnandole la sua missiva. Non s’accorse neppure che Fides era nel gruppo delle dame, benché già da tempo avesse accolto nel suo cuore una piccola ed innocente adorazione per la fanciulla. Mentre egli se ne stava accanto a quelle dame facendo scorrere gli sguardi lungo le pareti, la badessa si trasse in disparte per leggere la lettera; sembrò tuttavia un poco sorpresa dal contenuto e scosse lievemente il capo. Il ve­ scovo Heinrich infatti le esponeva le sue preoccupazioni per l’indole melanconica della loro figlia Fides e le co­ municava, affinché volesse ponderarla a suo agio, un’idea in lui nata: se non si potesse, cioè, pur con tutta la riserva e la prudenza, dare alla figliola quale compagno di svaghi il candido e buon Johannes, in modo da rasserenarne

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l’animo triste richiamandolo alla vita. Una compagnia cosi gradevole e non pericolosa avrebbe risvegliato dai suoi sogni la fanciulla, facendole perdere la misantropia e inducendola a trascorrere meglio le sue giornate, sinché venisse il tempo di accasarla con vantaggio e fortuna. La badessa, trattenendo la lettera, s’aggirò quasi irri­ tata su e giù per la stanza ripetendo tra sé: “O Heinrich, regio cancelliere e dotto vescovo, quanto sei sciocco!”. Le altre donne nel frattempo avevano guardato con compiacenza il messaggero e l’una o l’altra lo aveva scherzosamente interrogato circa la sua provenienza e la sua missione; sinché una esclamò: «Guarda, tiene al dito un anello d’oro ed è ancora un ragazzo ! Che fortuna è mai questa ! ». Johannes spiegò con un certo orgoglio che era stato il signore di Costanza a fargli dono dell’anello. D’un tratto Fides alzò gli occhi dal lavoro e, quand’egli spiegò solen­ nemente di essere ormai il primo cancelliere di tutta la poesia trovadorica e che l’anello era il simbolo di quel suo ufficio, essa lasciò udire una limpida risatina, tornando però subito ad abbassare gli occhi sul lavoro e arrossendo. Non potè però fare a meno di sbirciarlo ancora un mo­ mento, proprio mentre il giovane cancelliere della poe­ sia d’amore la fissava ammutolito, giacché nel compia­ cimento per la propria carica, o nel suo intimidito im­ barazzo, l’aveva solo allora riconosciuta. Quando tutto il gruppo delle dame si unì alla risata, scherzando sul grazioso cancelliere d’amore eletto da un vescovo, Fides tornò ad abbassare ancor più il capo, come oppressa dal peso di nuovo rossore e dalla oscura sofferenza di tutta la sua vita. Le sfuggì una lagrima, un tacito disagio si diffuse nella stanza e la badessa Kunigunde, arrossendo ella pure, s’affrettò a congedare il giovane quando troppo tardi s’accorse della strana conversazione. Per Johannes Fides era sempre stata soltanto la dami­ gella von Wasserstelz, come si soleva chiamarla, senza che mai avesse saputo o pensato altro circa la sua na­ scita. Di tutta la scena egli comprese quindi soltanto di esserne stato la causa, e credette infine di aver provocato

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la tristezza della fanciulla per non averle prestato atten­ zione, il che non gli sembrava impossibile, data la sua nuova ed importante posizione.

L’impresa della raccolta dei canti venne avviata con gran zelo; l’elenco dei poeti era di giorno in giorno completato dai signori Manesse padre e figlio, che non risparmiavano nessuna fatica, mettendosi in rapporti ora­ li o epistolari con gente di ogni luogo, appena se ne of­ friva loro l’occasione. In pari tempo procedettero a procu­ rarsi i canti mancanti e Johannes Hadlaub fu mandato sovente in città, monasteri e castelli, per trarne delle co­ pie, quando non si potevano avere le pergamene ivi con­ servate. Venne pure iniziato un fascicolo per ciascuno dei poe­ ti già a disposizione, e si cominciò a trascrivervi le poe­ sie, in modo da poter poi raccogliere i singoli fascicoli riunendoli in un solo volume. Johannes rivelava non meno zelo che ingegno; tra­ scrisse lo Specchio Svevo per il signor Rüdiger, confron­ tandone il testo durante la copia con gli altri codici da quello raccolti e comunicandogli accuratamente tutti i mutamenti e le aggiunte perché decidesse; per il signor Leuthold von Regensberg scrisse delle lettere, e intanto si dedicava soprattutto alla grande raccolta. Quest’ultimo lavoro èra il suo prediletto e ad esso de­ dicava ogni ora libera. Il giovanile impulso all’imitazione, da cui era stato mosso dapprima, si trasformò inavvertita­ mente in un’azione cosciente: imparò a vedere e a sen­ tire veramente in quelle poesie la natura, la terra e l’aria, le stagioni e gli uomini, e nello stesso tempo quella che in un primo momento era stata una imitativa esal­ tazione della donna si trasformò per lui nell’incipiente passione. Nella casa patema aveva finalmente avuto notizia dell’origine e della situazione particolare di Fides, mentre per caso si parlava di simili cose. D’un tratto la taciturna ed orgogliosa damigella del Wasserstelz gli apparve co­ me circonfusa di una luce d’oro, perché non sembrava

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felice. S’accrebbe ancora ai suoi occhi per quel singolare destino la sua bellezza insolita e quasi misteriosa: essa divenne di colpo l’unico pensiero che gli riempisse il cuo­ re, gravandolo insieme d’una dolce sofferenza non pro­ pria dell’età sua giovanile anche in cose d’amore. Benché dovesse frequentare spesso la dimora del signor Rüdiger, non vedeva che molto raramente la signorina, e se anche ciò accadeva, essa appena gli volgeva lo sguar­ do e lo salutava con aria lontana e triste. A lui tuttavia sembrava di riconoscere tali sentimenti dalle poesie che ogni giorno e ogni ora leggeva o trascri­ veva, e gli pareva che fosse giusto così, benché probabil­ mente non trovasse la cosa divertente come quei cavalie­ ri erranti e quei trovadori. Quando venne l’autunno, la sua giovanile passione giunse a tal punto che essa stessa si creò una via d’uscita e Johannes un giorno, mentre passeggiava al mite sole della montagna, compose imprevedutamente la sua prima poesia d’amore, che co­ mincia: Come vorrei gioire ! Ma tutto è pena ormai, ben grave fu il mio ardire, non m’amerà giammai . .. Subito dopo però, sua unica cura fu di assolvere il proprio presunto dovere verso la fanciulla, facendole per­ venire in segreto quel frutto del cuore e dell’arte. Dopo averci ben pensato, trovò finalmente una via, allorché seppe che Fides si recava ogni mattina alla prima messa nella chiesa di Nostra Signora e sedeva nel coro accanto alla madre. In quella stagione all’ora della prima messa era ancor buio. Johannes trascrisse i suoi versi il meglio che potè su un bel foglio, lo ripiegò al pari di una lettera e vi assi­ curò un amo da pesca. Poi s’alzò per tempo dal suo gia­ ciglio sulla montagna, si ravvolse in un vecchissimo man­ tello da pellegrino, prese un cappello ed un bordone che da tempo immemorabile erano appesi dietro la porta, e s’awiò rapido giù per il pendio, fingendosi uno dei pelle­

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grini che non di rado accorrevano a venerare le reliquie dei santi martiri Felice e Regula. Le campane mattutine chiamavano a gara alla messa da tutte le sette o otto chiese conventuali della città, rompendo la fitta nebbia autunnale che gravava su di essa, illuminata dalla luna piena al tramonto al pari di un gran mare ondeggiante, da cui emergevano soltanto pochi alberi isolati. In cielo brillavano ancora le stelle. Johannes si immerse in quella nebbia col cuore in tu­ multo; egli credeva di portar con sé, con la sua dichiara­ zione d’amore, un altro cielo stellato e di andare incon­ tro ad un evento che a modo suo era unico al mondo. L’un dopo l’altro svanirono i tocchi delle campane ed egli s’affrettò quanto fu possibile ad entrare per la porta di città e giunse ansimante alla cattedrale, dove la messa era già incominciata e nella chiesa semibuia non assiste­ vano al rito, all’infuori delle monache e dei capitolari dell’abbazia, che ben poche persone. Johannes scorse su­ bito con l’acuto sguardo la figurina di Fides accanto alla seggiola della badessa; appena la messa fu sul finire, s’affrettò all’uscita e s’appostò accanto alla porta orien­ tale, per la quale Fides doveva uscire. Secondo la poesia in cui più tardi Hadlaub descrisse l’avventura, ed anche secondo l’immagine che egli mi­ niò per la raccolta, Fides era sola e sotto il mantello a cappuccio foderato di pelle di vaio ed il velo nero, che le avvolgevano il capo e la figura, portava a sua pro­ tezione soltanto un cagnolino bracco. La nobile figura avanzò a rapido passo sul ponte nella penombra della nebbia e del disco lunare dai riflessi rossastri, che stava appunto calando ad occidente. Il fosco pellegrino le tenne dietro con prudenza e stese la mano per appendere con l’amo la lettera al suo mantello. Essa ben s’accorse di essere seguita, ma af­ frettò soltanto il passo, senza volgersi a guardare. Il vi­ gile cagnolino abbaiò invece forte, sentendo che qual­ cuno toccava lievemente il mantello: la fanciulla fu co­ stretta a volgere lo sguardo e fissò bene in faccia l’inse­ guitore, che di colpo si fermò e si ritrasse poi timidamen-

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te, nella persuasione che il suo messaggio pendesse sicuro al mantello della bella. Fides, senza dire una parola, continuò la sua strada e si perdette per le viuzze ancora notturne, dove nel frat­ tempo già gli artigiani lavoravano alacri al lume delle lu­ cerne. Johannes invece risalì presto la montagna, dalla cui altura si vedeva appunto sorgere il sole e dove il pa­ dre Ruoff Hadlaub insieme ai suoi garzoni preparava i buoi per l’aratura. «È in fondo meglio» disse questi a sua moglie Richenza, vedendo il figlio giungere in costume da pelle­ grino «che quello diventi scrivano o prete, perché con le sue abitudini e fantasie strane, poco mi avrebbe gio­ vato qui per la terra ! ». Johannes da parte sua quella mattina non s’attentava a ritornare in città, ma d’altronde gli pareva di dover andarci per esporsi a tutti gli sviluppi lieti o spaventosi della sua impresa. La gran giornata passò in realtà senza che null’altro si verificasse. Ma neanche l’indomani ed il terzo giorno accadde nulla, e così passarono giornate, settimane e mesi, senza che Johannes riuscisse a sapere se Fides aveva trovato e letto la lettera, e tanto meno come l’avesse ac­ colta e che cosa ne pensasse. Essa si chiudeva in un grande riserbo ogniqualvolta egli giungeva alla torre dei Ma­ nesse, tanto che il suo occhio non la vide più per tutto l’inverno. Provava un senso strano, come di chi non ab­ bia un’eco, non senta rispondergli dal bosco quando vi lancia il suo grido. La stagione fredda e fosca durò quell’anno oltre mi­ sura, e Johannes finì, per così dire, con l’awezzarsi allo stato d’animo di un uomo, il quale non sappia se ha fatto qualcosa di bene o di male. Per il momento non compose una seconda canzone ; ma quando apparve final­ mente la primavera ed il sole riprese il suo dominio, an­ che l’animo suo si sgelò un poco ed ebbe improvvisamen­ te gran voglia di suonare e di cantare ad alta voce quella prima canzone che non aveva mai cantato. “Lo farò una volta sola” si disse “e dove nessuno mi possa udire !”.

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Una bella mattina di maggio prese cosi il suo violino, ben nascosto in un sacchetto, e usci di città, in cerca di un posticino solitario. Andò oltre la porta alta, passando per le terre di Stadelhofen, sinché giunse al torrente che scende al lago dalle alture di Hirsland. Lungo quel fiu­ miciattolo correva un tacito sentiero che, risalendo dietro il colle di Burgholz, portava passando, come in parte an­ cor oggi, all’ombra di alberi, tra mulini e piccole fucine, in una verde zona selvaggia, circondata da ripidi pen­ dìi. Ivi l’acqua scorreva cristallina intorno ad una piccola prateria coperta di fitti faggi, e tutti i fiori che posson mai comparire in un canto d’amore sbocciavano sotto quegli alberi e lungo quelle rive. Il fogliame era però troppo giovane e rado per offrire sufficiente riparo al cantore, il quale cercò un posto ancor più segreto nel folto del pendio. Un faggio che subito si scindeva in tre tronchi, offrendo fra essi un comodo se­ dile ben imbottito di muschio, gli parve infine adatto al suo proposito. S’accomodò fra i tronchi lisci, trasse il violino e cominciò con curiosità a suonare la melodia da lui inventata per il suo canto senza che l’avesse però mai udita: Come vorrei gioire ! Ma tutto è pena ormai, ben grave fu il mio ardire, non m’amerà giammai ! Perenne è il mio dolore, e come solo aiuto strappo dal suo rigore un gelido saluto !

Ripetè un poco più sicuro la prima strofa, e cantò poi anche le altre strofe con voce più distinta, se pure non troppo alta, e facendo molte pause. Cantò inoltre al­ cune vecchie canzoni a lui familiari, per ritornare d’un tratto con nuovo slancio alla sua piccola opera, ripeten­ dola baldanzoso da cima a fondo: egli prega l’amata di non creder troppo lieve il suo male, che può recare la morte, e di meditare invece attentamente se non le sia

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possibile, concedendo il suo dolce e puro favore, allon­ tanare da lui il peggio e recargli salvezza. La cosa gli parve ben riuscita e stette a meditare, te­ nendo il violino appoggiato alle ginocchia, che effetto avrebbe fatto poter cantare in persona alla sua bella quella canzone. Mentre così pensava, sentì risuonare dall’alto delle voci di donna, come se qualcuno avesse ascoltato il suo canto, e, alzando sorpreso gli occhi, vide che attraverso alle corone degli alberi spiccava una torre illuminata dal sole. Solo allora scoperse di trovarsi ai piedi del castello di Biberlin, sede antica di quella auto­ revole famiglia che si era poi trasferita in città. In mezzo alla torre sporgeva un piccolo balcone con la balaustrata di pietra, e ad esso s’appoggiavano delle donne, illuminate dal sole pomeridiano, e mandavano ri­ chiami ad altre amiche che dovevan trovarsi giù in giar­ dino o ancor più sotto nel bosco. Echeggiarono risa e canti, le figure sulla torre sparirono ed alla fine si radu­ narono tutte sulla penisoletta fiorita e circondata dal fiumicello. Pareva cercassero il cantore prima udito; ma, siccome Johannes era ammutolito e si teneva nascosto, non udivano nulla e cominciarono a giocare fra loro in mezzo agli agili tronchi, offrendo un leggiadro spettacolo al giovane che le spiava attraverso i cespugli. Cantarono in girotondo e battendo le mani tentarono una danza in cinque o sei. Ma non s’avviavano bene, e allora Johannes si immischiò pian piano nella faccen­ da col suo violino, ed intanto s’alzò e s’awicinò passo passo alla brigata, sempre suonando, sinché all’improv­ viso fu tra loro e le belle fuggirono tutte strillando cosic­ ché in meno di un minuto egli non ne vide più neanche una attorno a sé. Solo allora gli parve con suo spavento d’accorgersi che fra quelle damigelle ci fosse stata anche Fides, e fosse sparita come un’ombra. Credette però a un’illusione, quando tutto tornò in silenzio, mentre gli giungeva sol­ tanto tutt’attomo dal verde dei cespugli il rumore som­ messo di parole e di risa soffocate. Se avesse resistito con più coraggio avrebbe veduto che le dame tornavano ad

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avvicinarsi da tutte le direzioni. Ma lo colse un senso di timore: persuaso d’aver commesso un’improntitudine, mise sotto braccio lo strumento e a sua volta si tolse dai piedi, o meglio dai fiori. Fides era proprio nel numero di quelle fanciulle, ed al vederlo era corsa più lontana delle altre, ma precisamente infilando il sentiero che doveva percorrere Johan­ nes per rientrare in città. Solo dopo un buon tratto s’ac­ corse di allontanarsi dal castello dov’era in visita e ritor­ nò allora sui suoi passi, procedendo lenta, quando appun­ to si vide venire incontro Johannes. Il sentiero lungo il torrente era tanto stretto che non vi passavano due persone a fianco. Ma Johannes era così atterrito, che proseguiva con gli occhi fissi su quell’appa­ rizione. Vedeva distintamente, malgrado il turbamento, la sua figura, il suo volto e le sue vesti e continuava ad avvicinarsi. Essa indossava, sopra un lungo abito purpu­ reo, un mantello di seta azzurro, delicatamente orlato d’oro, lungo quasi quanto la veste e con grandi fenditure alle maniche, fluente, senza cintura o altri ornamenti, in ampie pieghe. Sotto un berretto piatto, a corona, di panno bianco, trattenuto attorno al mento da un’ampia e morbida sciarpa, i capelli scuri le scendevano ondulati, sciolti e lunghi sulle spalle e per il dorso. Alta di statura per la sua età, camminava con modestia ed insieme con alterigia, e rivolse gli occhi al suolo, dopo di aver gettato un rapido sguardo verso Johannes. Questi vedeva esatta­ mente ogni cosa, ma in uno stato di incoscienza, perché la fanciulla gli si avvicinava sempre più, circonfusa dalla luce dorata della sera che vibrava attraverso la verde pe­ nombra del sentiero, ed accompagnata dal canto e dal cinguettio quasi assordante di innumerevoli uccelletti na­ scosti tra le fronde all’intorno, senza che Johannes sem­ brasse rientrare in sé e salutare doverosamente quella giovane bellezza. Giuntole molto vicino riuscì appena a portarsi rapidamente sul lato del sentiero per lasciarla passare. In quel momento solenne abbassò gli occhi im­ pallidendo mortalmente e le ginocchia tremarono al tre­ pido giovanotto; non seppe pronunciare parola e Fides

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gli passò accanto senza salutarlo, come sta poi penosa­ mente descritto in una sua poesia. Egli non poteva invero accorgersi che i suoi lineamenti severi s’erano ravvivati un poco per un quasi lieto ros­ sore e che la bocca, sempre chiusa, si era aperta in un lieve sorriso, quando ella era passata, né che essa si era data a cercare le compagne, affrettando involontaria­ mente il passo. Mortificato e spaurito, quasi avesse sfug­ gito il diavolo, anche il giovane proseguì il cammino in gran fretta, tremando in tutte le sue membra. Comunque, dopo che ebbe ritrovato la calma, l’avven­ tura fu per lui un importante evento, proprio adatto a fargli riprendere le sue imprese di cantore amoroso. An­ che rincontro silenzioso con la donna amata su vie soli­ tarie era un avvenimento, una pietra miliare nel viaggio della vita, senza contare le altre graziose circostanze, come le donne intente al giuoco nella landa fiorita, e Jo­ hannes infatti non perdette tempo, ma anzi lo usò subito a trasformare l’avventura in una canzone a regola d’arte. A questa ne seguirono poi altre, che riuscirono, a seconda del favore del momento e della più o meno palese bene­ dizione del cielo, ora sentite ed originali, ora un pochino noiose o di imitazione inavvertita, ora appassionate ed ora pedanti. Quelle poesie che gli sembravano meglio riu­ scite o che erano sgorgate in un immediato impeto d’af­ fetto, seppe farle pervenire nei modi più vari, ma sempre segreti, nelle mani della signorina, pur non osando va­ lersi mai di un complice messaggero. Il tenace silenzio della dama non lo turbò, la cosa seguiva ormai il suo corso; egli volgeva il suo canto ad una bellezza crudele o severa, sperando esaudimento, ma doveva aspettare e sospirare come ogni altro cantore perché esso tardava così a lungo. Gli bastava che non gli giungesse alcun segno ed alcun divieto al suo procedere, e proprio su questo fondo gettò arditamente l’àncora della sua speranza. In ciò però si ingannava. Fides leggeva bensì tutte quel­ le «lettere» e le conservava accuratamente ; una simpatia per il gentile giovinetto la turbava sempre più chiara­

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mente; cominciava a sentirsi il cuore pervaso di tenero calore ogni volta che le perveniva una nuova poesia. Ma se da un lato essa non intendeva baloccarsi con lui nel consueto giuoco intellettuale, dall’altro non pensava affatto a rompere il suo austero proposito, abbandonan­ dosi ad una seduzione, come essa pensava, a lei vietata. A ciò si sentiva tanto più impegnata perché ben intuiva che anche Johannes, malgrado quel po’ di pedanteria scolastica inerente al suo atteggiamento, non giocava, ma le era seriamente devoto. Tali sentimenti testimonia­ vano non meno la serietà precocemente matura e assen­ nata della fanciulla che la vera benevolenza da lei nutrita per l’ardito giovinetto. Meditando tra sé il modo più conveniente per por fine alla faccenda, non le venne però l’idea di confidarsi alla madre o alla madre adottiva, ma si rivolse anzi senz’altro al vecchio cavalier Manesse; trovatolo solo gli consegnò il pacchetto delle poesie, pregandolo in forma concisa, ma con intensa serietà, di far sì che tali invii cessassero, richiamando il folle giovinetto alla via giusta. Ma in ciò Fides s’era ingannata e non aveva invocato il giusto aiuto. Invece di corrugare la fronte e di mostrar segno di mal­ contento, il signor Rüdiger manifestò sempre più alta compiacenza, man mano che svolgeva e leggeva quei fogli. Percorse le singole poesie una seconda volta, si assi­ curò di avere davanti a sé componimenti originali e non copie, e il demone di tutti i collezionisti ed amatori si impadronì di lui. «Costui non è un folle: è un nuovo poeta d’amore da te suscitato, figliola mia ! » disse allegramente a Fides, che ritta davanti a lui aspettava la sua risposta «Non bandiamo dal nostro giardino quest’usignolo ! Che cosa pensi mai? Sta’ tranquilla, in tutto questo non v’è nulla che non sia buono e gradevole ! Vogliamo anzi far sì che la navicella navighi senza pericolare sulle acque ! ». Il cavaliere cominciò ad insegnare a Fides il modo di restare impassibile, accettando gli omaggi del giovane

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leale senza per questo darsi prigioniera. Tale era il gen­ tile costume, che non faceva danno a nessuna delle parti ; badasse soltanto a non sottrarsi mai alla sua protezione e a non intraprendere nulla di cui non fossero informati i suoi amici e protettori. Badasse soprattutto a non per­ dere e sciupare nessuna delle missive poetiche che rice­ veva, e a consegnarle tutte fiduciosamente in custodia al signor Manesse. Fides non era per nulla soddisfatta ; ma quella giovane creatura si sentiva insicura di fronte al vecchio e degno cavaliere e consigliere, e se ne andò, così, più preoccu­ pata di quando era giunta. Fu per questo indotta a invocare pure in quella stessa giornata un consiglio femminile ; rivelò il segreto alla sua madre adottiva, alla brava consorte del cavaliere, prima fra quante la sorvegliavano e proteggevano, ed essa ac­ colse la storia con molta più preoccupazione, anzi con estrema serietà. Malgrado la pace coniugale, quella dama austera, in molte circostanze della vita esteriore, era spesso di pa­ rere diverso dal suo consorte e conduceva una perenne guerra segreta contro di lui, senza però far mai chiasso per rispetto alle buone maniere. Essa senza dubbio era un prototipo di quelle Zurighesi, che vengono così de­ scritte in un almanacco svizzero dell’anno 1784: «Ancora verso la fine del secolo scorso, le nostre donne erano dello stampo di quelle dei secoli passati. Esse sapevano per­ suadere i nostri antenati che il riserbo e le virtù casalin­ ghe superavano in ogni essere femminile molte altre e più brillanti doti; questa persuasione era generale e do­ minava a tal punto le nostre donne, che esse non si occu­ pavano d’altro che delle faccende di casa, provvedendovi con la più rigida sorveglianza ed estendendo il loro severo governo e il loro senso del risparmio a un punto tale che lo si riconosceva talvolta nelle gambe magre e nelle guance incavate dei loro mariti e figlioli. Una simile don­ na era sempre la prima in casa a saltare dal letto e l’ulti­ ma a coricarsi; non vi era inezia che sfuggisse al suo vigile occhio; dovunque stava alle calcagna delle dome­

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etiche, mentre marito e figli venivano tenuti a stecchetto quanto a vesti, cibi e bevande». Anche la signora di cui qui si discorre era di tale mentalità e la estendeva a tutte le faccende sociali e do­ mestiche, mentre il marito, assennato, nobile e giusto sotto ogni aspetto, proprio in tutte queste cose si mostrava liberale in modo a lei contrastante. Egli era bonario, ospitale, brillante, e sapeva dispettosamente condurre la guerra segreta ora con astute sorprese, ora con la calma cordiale di pochi detti o sguardi, in modo che si arrivava quasi sempre ad una sconfitta della moglie, la quale si ritirava silenziosa e talvolta ancora prima che lo scon­ tro s’avvicinasse. Quando però era decisa la sorte della giornata o dell’ora, tutto procedeva per il meglio, giacché la parte vinta era perfettamente istruita e preparata per questo caso. Accadeva così che in nessun luogo si vivesse con tanto agio e buona grazia come nella dimora dei Manesse, quando il padrone era a casa e vi radunava ospiti. Anche nella predetta faccenda, la moglie s’oppose subito all’opinione del consorte confidatale da Fides ed esclamò: «Ci mancherebbe proprio che si tenessero in casa nostra simili mascherate ! Noi viviamo in una città con la sua vita ed i suoi commerci, non in nobili castelli o in giardini incantati. Le vecchie favole le leggiamo nei libri, ma non le recitiamo fra di noi, giacché noi donne borghesi dobbiamo pensare alle erbe e alla verdura ed all’avena e al miglio per la servitù!». Lodò la figlia adottiva per il suo contegno e l’esortò a respingere con tutta severità l’ardito rimatore, tenen­ doselo ben lontano. Le promise pure di cercare di cat­ turare dovunque potesse le lettere e i foglietti e la esortò a riferirle sempre quando e dove gliene pervenissero dei nuovi. Ma nella stessa giornata venne a Zurigo il vescovo, che faceva una visita alla sua diocesi e si presentò alla casa dei Manesse per vedere la fanciulla. Si informò in­ tanto anche dei progressi della raccolta poetica ed ap­ prese così confidenzialmente dal signor Rüdiger quale

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poeta fosse sbocciato in Johannes Hadlaub e quale og­ getto avesse scelto per il suo amore. Il vescovo Heinrich udì tutto questo con grande pia­ cere; gli parve che fosse proprio quello che lui desiderava, e già nella sua fantasia immaginava la bella Fides ras­ serenata da quell’avventura, riconciliata col mondo e con le sue gioie, divenuta insomma una disinvolta ed allegra damina che non avrebbe mancato di conquistare un giorno un nobile signore, dopo che il bravo Johannes l’avesse trasformata coi suoi canti e messa brillantemente in luce. Anch’egli, al pari del saggio Rüdiger, credeva senz’altro che il giovinetto considerasse la vicenda uno di quegli «alti amori» in cui la dama è ritenuta infinita­ mente superiore e del tutto irraggiungibile. Gli sembrava superfluo nutrire dubbi e paure in proposito, dopo che tanti nobili, piccoli e grandi, da cento anni nelle loro poesie esaltavano quanto non era loro dato di raggiun­ gere, anzi neppure di nominare. Prese dunque occasione per trarre a sua volta in di­ sparte la figliola ed incoraggiarla confidenzialmente ad accettare senza paura quegli omaggi, non respingendo e tanto meno distruggendo i foglietti e le missive del buon ragazzo. Fides aveva così raccolto consigli disparati; per non riceverne ancora di più tacque e decise di seguire un po’ dell’uno e dell’altro. Mantenne la propria severità di fronte a Johannes, non parlò mai a lui, né rispose mai ai suoi messaggi. Li accettò, però, vedendoseli giun­ gere in modo sempre diverso, tanto che la signora Ma­ nesse invano spiava, sorpresa di non cogliere nulla. Fides a sua volta di tanto in tanto consegnava le poesie al cavaliere, che le raccoglieva con compiacenza e ac­ curatamente le serbava. Era proprio contro la consuetudine, ed avrebbe do­ vuto provare che tutto era un giuoco il fatto che le aspi­ razioni amorose di Hadlaub vennero divulgate e non si tacque neppure il nome del suo amore, tanto che il giuo­ co gentile si trasformò così in un divertimento per una più ampia cerchia. Tutti quelli che vi partecipavano in­ ducevano l’ingenuo cantore alla perseveranza; gli pro-

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mettevano una dolce ricompensa e intercedevano per lui presso la bella. Questa fu tormentata ora dall’uno ora dall’altro dei nobili ospiti perché desse l’incarico di sa­ lutare il suo poeta o concedesse di riferirgli che ella aveva addirittura chiesto di lui. Persino sua madre, la badessa, l’invitò spesso scherzosamente a mostrarsi più benigna verso il giovane, e quando finalmente questi fu indotto a venire in casa e messo poi all’improvviso in sua pre­ senza, Fides fu costretta a nascondersi sdegnosa, non vo­ lendo esporre né se medesima né lui a simile giuoco. Tuttavia la vicenda non procedeva tra risa e scherzi, ma anzi con un certo solenne e delicato compiacimento. Fides, malgrado tutto, fini per avvezzarsi a quegli stra­ ni rapporti e si fece poco alla volta più serena, pur non mutando il suo contegno di fronte a Johannes. Trascorse così qualche anno; ai folti riccioli biondi del giovinetto s’aggiungeva già una barbetta altrettanto bionda attorno alle guance ed al mento, se dobbiamo credere al suo ri­ tratto di quel tempo; Fides era divenuta una delle più belle e superbe figure di donna che si trovassero nella contrada, e Johannes non si stancava di cantarla in ogni stagione: primavera, estate, autunno, inverno. Tutti gli incanti della natura mutevole s’univano nei suoi canti alla nostalgia, al lamento, alla devozione amorosa e alla lode della donna amata. Egli s’era fatto sicuro della sua arte ed il signor Rüdiger possedeva ormai una cospicua raccolta di sue poesie. Ma anche la grande raccolta dei cantori d’amore era ormai giunta a tal punto da radunare quasi cento di essi, e per lo più al completo, ciascuno col suo proprio fasci­ colo di bella pergamena, quasi sempre accompagnato dal ritratto e dallo stemma. Un artista fiorentino che lavorava alle due cattedrali fu di aiuto allo scrivano, dal che alcune di quelle immagini traggono la loro espressiva semplicità e la nobiltà delle linee. A ritrovare gli stemmi di tutti quei nobili cantori aveva provveduto il vecchio Manesse, ed in particolare il vescovo Heinrich, uomo abile sotto ogni aspetto, che già come prevosto a Zurigo ai tempi di Konrad von Mure e più tardi come cancel-

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liere regio aveva acquisito grande esperienza in tale materia. In quel momento era sovrano tedesco il deforme Al­ berto, figlio di Rodolfo, prepotente e violento, e fu ap­ punto in occasione di un suo soggiorno a Zurigo che vi convennero in gran numero signori laici ed ecclesiastici, i quali, dopo la partenza dell’imperatore, si intratten­ nero nella città amica, di cui quasi tutti avevano la citta­ dinanza, facendosi più lieti appena lo spinoso reggitore della corona, a nessuno benigno, se ne fu andato. Aveva trattato a Zurigo una serie d’affari di stato, fra l’altro anche con il consiglio civico, ed in tale occasione Johan­ nes Hadlaub s’era fatto favorevolmente notare, senza saperlo, con un’inezia. Il cavaliere Rüdiger lo aveva preso con sé per averlo sempre a disposizione quale scri­ vano ed archivista. Allorché l’imperatore, di cattivo umo­ re, attraversò frettolosamente il numeroso seguito rac­ coltosi nella dimora del governatore e prese una dire­ zione inattesa, Johannes senza alcuna sua colpa si trovò sui suoi passi, tanto da scontrarsi con lui. Alberto lo apostrofò furioso: — Chi sei tu? — La pietra dello scandalo ! — replicò Johannes ri­ dendo, senza arrossire né impallidire. — Sei un ragazzo sfacciato, vattene ! — esclamò l’al­ tro, e gli voltò le spalle. L’impassibilità di Johannes era stata notata con com­ piacenza dai circostanti, che per lo più non amavano il sovrano, e in seguito si parlò dell’indole spensierata e coraggiosa del giovane e più d’uno fra quei personaggi importanti, che non sarebbero stati capaci di simile atto, gli batterono sorridendo la mano sulla spalla. Quando, come si disse, fu partito il sovrano, i rimasti pensarono di divertirsi ancora un poco. La badessa Ku­ nigunde e Walther, il barone di Eschenbach, che posse­ devano a occidente e a sud di Zurigo molte terre, invita­ rono una grande brigata a cacciare nelle loro foreste, si­ tuate al confine del monte Albis e nella valle della Sihl, che sono oggi proprietà civica di Zurigo. Il signor Ma-

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nesse invitò in quello stesso giorno i cacciatori a pran­ zare nel suo castello di Manegg, dove intendeva, per ab­ bellire la festa, mostrare la raccolta di canti sin dove era giunta, facendo cosi speciale onore a Johannes, in compenso a tanta sua fatica. La brava signora Manesse non era soddisfatta di tutto quel progetto; a prescindere dal ricco invito, la disturba­ vano quelle storie d’amore ed in particolare la commedia di Hadlaub, di cui diffidava. Malgrado la sua attenzione, durante la caccia ai messaggi di Hadlaub non aveva messo mano che su un’unica sua poesia, e per caso pro­ prio su quella in cui egli, seguendo la tradizione, espri­ meva il disprezzo per chi sorvegliava e spiava: «Siano maledetti con le loro lingue lunghe e la loro celata astu­ zia! Si guardano attorno di soppiatto come il gatto in caccia del topo; che il diavolo se li pigli e cavi loro gli occhi ! » si diceva in fondo a quella canzone. Benché le intenzioni non fossero tanto perfide, la si­ gnora sorvegliante in capo non era certo lusingata di simile componimento e cercò di mandare a vuoto il piano del consorte. Ma i suoi sforzi furono vani, ed anzi il pranzo al castello fu allestito in ogni particolare tanto più sfarzosamente quanto più essa l’avrebbe voluto sem­ plice. Pareva che il cavaliere avesse occhi per tutto e si intendesse di cucina quanto di amministrazione pubblica, di giurisprudenza, di poesia amorosa e di araldica. Una mattina soleggiata dell’inizio di settembre, la no­ bile brigata partì in grande letizia per i boschi dell’Albis. C’era il vescovo Heinrich von Klingenberg, la badessa con parecchie dame, tra le quali anche Fides, gli abati di Einsiedeln e di Petershausen, il conte Friedrich von Toggenburg, Lüthold von Regensberg, il signor Jakob von Wart col giovane figlio Rudolf, i nobili von Landen­ berg, von Tellinkon e von Trostberg. Il signor Walther von Eschenbach apriva il corteo a cavallo, coi servi ed i cani, e il signor Manesse col figlio, il canonico, e con Johannes Hadlaub lo chiudeva. Altri signori, prelati e da­ me, troppo pigri per la caccia, si sarebbero trovati poi al castello Manegg, dove la padrona di casa stava im-

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prowisando il pranzo che, come al solito, era andato trasformandosi da uno spuntino di formaggio e salsiccia in un banchetto principesco. Ma sarebbe stata l’ultima volta ! si riprometteva con quell’indistruttibile fiducia nel­ l’avvenire che è l’astro consolatore di tutta l’umanità. Quale debolezza ! potrebbe esclamare a questo punto più di una donna; ma quanto amabile invece quella pa­ drona sempre in lotta con la propria avarizia e sempre vinta, che non rompeva la pace domestica per il pro­ blema del sale e del pepe e non si mostrava inflessibile, pensando piuttosto che non era detta l’ultima parola e che sarebbe venuto anche per lei un tempo più propizio e dolce ! Ed è un peccato che noi ignoriamo il suo nome di battesimo, che avrebbe dovuto essere particolarmente armonioso. La caccia proseguiva rapida su per le boscaglie, si inseguiva un cervo, piuttosto per giungere in maniera movimentata ed allegra in cima della montagna che per conquistare una preda. Alla Schnabelburg, che domi­ nava dall’alto il paesaggio, Walther von Eschenbach salutò i suoi ospiti come padrone della rocca e successore degli antichissimi ed estinti baroni di Senableborc, poi­ ché sei secoli or sono c’erano già per quella gente tempi inconcepibilmente remoti. Da quel punto si dominavano al di qua e al di là della montagna, sin oltre la Reuss, i castelli ed i villaggi dei baroni di Eschenbach e quel gio­ vane, fiorente cavaliere si sentì veramente felice quando le dame ed i signori, affacciandosi a tutte le finestre della sala, ammirarono il paesaggio, lodando i suoi possedi­ menti. I laghi di Zurigo e di Zug parevano scintillare dal fondo delle grandi vallate soltanto quali specchi della sua felicità, ed il mondo alpino, allora ancor serrato nel suo argenteo silenzio, dalle vette di quello che sarebbe poi stato il Bernese sino al Säntis, pareva esistere solo per far da testimonio ad un presente di eterna beati­ tudine. Dopo una breve sosta tutti risalirono a cavallo per ripartire in volata sul dorso della estesa montagna. Ven-

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nero portati dei falchi poiché a quell’altezza c’era spazio libero, e le dame si compiacquero di far salire gli abili uccelli. Si distìngueva per gioiosità specialmente la gio­ vane consorte di Eschenbach, a lui da poco sposata, e con lei andava a gara la fidanzata del giovane Wart, ospite alla Schnabelburg, Gertrud von Balm, una gra­ ziosa vicina della Lenzburg. Simili a due gemelle nella loro gioia, con leggiadra baldanza, la sposina e la fidan­ zata galoppavano, con veli ondeggianti, precedendo tutti, lanciando i loro falchi in aria con grida di giubilo al ve­ dere i due uccelli piombare contro lo stesso airone, che si era alzato dal lago di Turi dirigendosi ad oriente, verso la valle della Glatt. Il paesaggio si stendeva nel­ l’azzurro, davanti alla brigata diretta verso il nord, oltre le regioni di Zurigo, Aargau e Thurgau sino alle alture di Svevia ed alle montagne del Giura, e da tutti i punti occhieggiavano le torri delle famiglie dominanti, le cap­ pelle e le chiese. Procedevano sulla cresta della monta­ gna come un corteo di divinità, con la gioia e l’orgoglio sui volti; dagli alti cappelli a punta dei cavalieri ondeg­ giavano al vento i nastri allora di moda, graziosamente annodati alle estremità, quasi a proclamare la libertà di quegli istanti privi di ogni preoccupazione. Soltanto la bella Fides cavalcava col volto austero, sul quale si me­ scolavano dolore ed orgoglio, senso di smarrimento e repressa voglia di vivere, misteriosi come le ombre della pianura dove viveva un popolo invisibile, padrone del­ l’avvenire. Finalmente il corteo di caccia rientrò nella foresta per raggiungere il castello Manegg, dove la padrona con le sue serventi aveva impeccabilmente portato a termine tutti gli odiati preparativi ed era pronta ad accogliere i caccia­ tori con cortese gentilezza, circondata dagli ospiti già giunti. Persino Johannes Hadlaub, che modestamente entrò ultimo, ottenne da lei uno sguardo benevolo, poi­ ché essa pensava che ormai, dopo che gli avevano por­ tato via tutte le sue poesie, quel giuoco avrebbe avuto fine. Quel giorno però gli toccò una parte non lieve, giac­ ché il vescovo Heinrich appena seduto a tavola chiese del

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«cancelliere d’amore» e non ebbe pace finché non lo vide seduto fra gli ospiti. Fides arrossì e si guardò attorno inquieta, anzi irritata: Johannes arrossì ancor più senza osare alzar gli occhi. Tuttavia venne osservato con benevo­ lenza e senza superbia, giacché egli, quale libero figlio del­ la montagna, apparteneva a quella borghesia, la cui pro­ tezione e buona volontà tornava utile a più di un nobile. Dopo il pasto, il padrone di casa condusse la compagnia in un salone che egli aveva recentemente costruito nel castello. Lungo le finestre e le pareti erano disposte delle sedie ove tutti presero posto ; in mezzo alla sala c’era una tavola su cui stavano allineati i libri dei poeti trascritti da Johannes; ciascun fascicolo era provvisoriamente po­ sto fra due sottili tavolette di legno legate con nastro di seta, e dove vi erano già miniature queste erano difese da un velo di seta rossa, azzurra o di altro colore. I libri furono presentati in modo che Johannes dovette andare a mostrarli l’un dopo l’altro, dopo aver pronunciato il nome del singolo poeta. Il signor Manesse in persona gli toglieva i fascicoli di mano per porgerli alle dame, ai prelati, ed ai cavalieri, così che ben presto i bei fogli bian­ chi di pergamena spiccavano all’intorno nella sala e le immagini tutte oro e colori splendevano da ogni canto, commovendo o rallegrando per il loro contenuto. Dopo l’imperatore Enrico VI, riprodotto, secondo la tradizione, da un’immagine antica, coi solenni para­ menti, veniva l’ultimo rampollo degli Hohenstaufen, Corradino, alla caccia col falco, un gentile fanciullo dalla corona d’oro, con la lunga veste verde e guanti da caccia bianchi, galoppante su di un leardo, pensato cioè nei suoi lieti giorni, prima che partisse alla conquista del trono avito e perdesse la giovane esistenza. Nei pochi canti che seguivano questa immagine cinguettava, an­ cora quasi bambino:

Non so ancora che siano dell’amore gli affanni: l’amor non mi perdona d’esser giovane d’anni.

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Anche la vignetta per i canti del re Venceslao di Boe­ mia era un’invenzione di Johannes; egli pure sedeva in pompa magna sul trono, circondato dagli alti funzionari di corte, con due trovatori ai piedi, tra cui un suonatore di viola in cui Hadlaub aveva ritratto se medesimo. Un conte palatino porgeva ad un cavaliere inginocchiato la bandoliera, e questo conte palatino, d’aspetto giovanile, aveva un viso tanto delicato e nobile da sembrar troppo grazioso per un uomo, sin che non si scoprì trattarsi, in realtà, del volto di Fides. La scoperta non avvenne subito, bensì solo quando alcune altre illustrazioni mostrarono lo stesso sembiante e si cominciò a domandarsi come mai quelle nobili figure sembrassero tanto note. Già il poeta seguente, il duca Heinrich von Breslau, armato e in ar­ cioni, fra il suo seguito, ad un torneo, mentre riceveva la corona dalle dame, mostrava gli stessi leggiadri linea­ menti, e del pari il margravio Heinrich von Meissen che va a caccia con quattro falchi, e così di seguito parecchi altri, mentre nessuna mai delle molte figure femminili rivelava i tratti di Fides. Lo scrivano e pittore innamorato con quell’accorgimen­ to aveva ottenuto due vantaggi : anzitutto aveva potuto ri­ produrre spesso le amate sembianze senza compromet­ terne la proprietaria, inoltre quegli eroi nuovi traevano un carattere misteriosamente ideale, che li staccava dalle molte figure secondarie, esse pure, quasi sempre, di aspet­ to delicato e giovanile. È infatti singolare come tutto questo mondo di immagini, analogamente alle opere arcaiche della più remota antichità, si riveli eternamente sereno e sorridente e come talvolta gli uomini, se non sono celati nelle ferree armature, si distinguano soltanto per i capelli più corti dalle figure femminili, una prova che la bellezza dovrebbe essere più bella della vita reale. Ma nelle illustrazioni del duca d’Anhalt e di Johann von Brabant, turbinose e violente scene di guerra rammenta­ vano l’epoca ferrea delle lotte : vi si scorgevano viluppi di cavalli che non erano certo il forte del volonteroso pittore; soltanto nelle braccia che brandivano energi­ camente le lance si rilevava una certa abilità, come pure

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nel modo corretto di tenere le briglie. Più pacifico si presentava il signor Otto von Brandenburg della Freccia, il quale siede alla scacchiera con la sua dama mentre ascolta la musica di quattro suonatori, due con la tromba, uno col tamburo ed uno con la cornamusa. A quei personaggi principeschi tenevano dietro subito i conti, i cavalieri ed i maestri borghesi dediti alla poesia ; e i primi ritratti erano dedicati ai cantori del paese. Il conte Kraft von Toggenburg, vestito d’un abito rosso cupo a belle pieghe, sale per una scala al verone della sua bella: la testa mostra una chioma splendida e ben acconciata e bellissimi lineamenti. La dama gli porge una ricca ghirlanda di fiori, intrecciata attorno ad un cerchio d’oro, mentre ha ella stessa sul capo una ghir­ landa di rose. Quando il fascicolo con questa immagi­ ne giunse tra le mani del conte Friedrich, egli la fece passare al vicino oscurandosi in volto, giacché quella scena d’amore gli rammentava il tempo in cui un fra­ tricidio aveva rattristato la nobile famiglia, cosi che non poteva certo compiacersi, né amava parlare di quella tragedia. Il signor Konrad von Altstetten della valle del Reno sedeva sotto un ampio cespuglio di rose con l’oggetto del suo amore, appoggiando la testa al suo grembo, con un falco sulla mano, mentre la donna si chinava su di lui e gli appoggiava la guancia alla guancia, stringendolo fra le sue braccia. A questa coppia seguiva Wernher von Teufen, che va egli pure alla caccia del falco con la sua dama, ma è ancora in arcioni e cavalca, mentre essa regge il falco ed egli si curva verso di lei, circondandole teneramente la spalla col braccio. Erano tutte, insomma, immagini veramente graziose. Infine però col nome di Jakob von Wart fu chiamato uno dei presenti. Johannes Hadlaub ebbe un arguto sor­ riso, perché gli aveva dedicato l’immagine più lusin­ ghiera. Il vecchio signore ita in un giardino alberato e tutto cosparso di fiori ed è immerso in una tinozza da ba­ gno, svestito, quindi, ma l’acqua è del tutto ricoperta di rose. Sul suo capo si intrecciano rami di tiglio dove can-

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tano degli uccelli ed intorno gli stanno quattro dami­ gelle intente a servirlo. Una gli pone una ghirlanda sulla testa grigia, ma ancora florida e sorridente, la seconda gli porge da bere in una coppa d’oro, la terza gli stropiccia o gli accarezza molto decorosamente spalle e braccia e questa ha in testa un prezioso copricapo alla moda, una re­ te di perle, mentre le altre hanno sui riccioli delle ghirlande di fiori. La quarta invece, vestita di bianco e con la testa velata, essendo certo una servente, sta in ginocchio davanti ad un fuoco su cui pende una caldaia e maneggia il mantice per tener sempre calda l’acqua per il bagno. — Ecco che arriva il compenso alla virtù ed alla pie­ tà — esclamò il signor Manesse porgendo il libro al vecchio signor von Wart, e quanti videro poi il quadretto gli augurarono fortuna con allegre risate, battendo le mani. — Ohimè ! avessi davvero avuto simile avventura ! — esclamò il vecchio, unendosi alle risa — A che mi giova questa immagine dipinta di felicità? È vero che il signor Ulrich von Liechtenstein narra di aver goduto gioia sif­ fatta durante i suoi viaggi amorosi ed anche il Parzival di Wolfram ci descrive questa usanza, ma io, purtroppo, non l’ho mai provata. — Vi farò preparare subito un bagno, se voi volete entrarvi, nobile signore — disse la signora Manesse, che ormai, passata la fatica, aveva ritrovato il suo buon umore. — Certo, fatelo subito, — replicò il cavaliere — sce­ glieremo senza indugio le quattro dame per accarez­ zarci il dorso ; come ci farà bene ! Mentre tutti sorridevano ancora dell’allegria del vec­ chio cavaliere, echeggiò, d’un tratto, un’argentina risata proveniente da Fides. Pareva che anch’essa, finalmente, si fosse ridestata all’allegria alla vista di uno strano mo­ stro alato che avanzava cavalcando in una delle imma­ gini; essa doveva ritrarre Hartmann von Westerspühl, il vassallo della Reichenau, che ha probabilmente com­ posto i poemi II Povero Enrico, Erec e Iwein. Forse era

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una delle prime vignette di Hadlaub, intrapresa sen­ za buona riflessione; non si vedeva infatti che un enorme e goffo elmo su un cavalluccio e, al di sopra, una mo­ struosa testa d’uccello. L’invisibile ometto era per di più celato dallo stemma dei Westerspühl con tre teste di gallo, e al di sopra di lui ondeggiava al vento il gonfalone con tre eguali galli, ma le sei teste, come il gallo maggiore che adorna l’elmo, erano e sono ancora tanto mal ritratti, che nessuno può riconoscere la natura dell’uccello ed anzi alcune sembrano teste di aquila. «Cos’è mai questo uccello cavaliere o questo cava­ liere d’uccelli?» esclamò Fides «Sembra una gallina sa­ lita in sella con sei pulcini ! ». Il quadretto girò di mano in mano a divertire la com­ pagnia, poiché Fides aveva dimenticato che l’autore po­ teva forse offendersi, ma il vecchio Wart osservò che quel bizzarro cavaliere era realmente il nonno del suo vicino von der Thur, il giovane signor Hans von Westerspühl, e che anche lui aveva ancora il titolo di vassallo della Rei­ chenau. « Quegli però ora ha nello stemma tre corni da caccia al posto delle teste di gallo» concluse. Nel frattempo Fides aveva già trovato nuovo ogget­ to al suo spirito critico nella raffigurazione della gara fra i cantori che andava allora circolando. In essa si vedevano, seduti in alto a far da giudici, in tutta la loro magnificenza, il langravio Hermann con la langravia Sophie, mentre sotto, seduti stretti su una panca, stavano i sette cantori. Al centro, Klingsohr di Ungheria con a fianco Heinrich von Ofterdingen, Walther von der Vo­ gelweide, Heinrich von Rissach, il virtuoso scrivano Biterolf, Reinmar il vecchio e Wolfram von Eschenbach. Era davvero molto comico vedere quei sette contendenti mossi dalla passione e pure costretti a star serrati su quella povera panchina, mentre lassù i principi se la godevano in tutta comodità e pace. «Ecco,» esclamò Fides «questo è proprio il giuoco che si fa a scuola e che si chiama “fare il cacio”, in cui quelli che siedono alle estremità del banco premo­ no verso il centro per spingere fuori quelli che si trova­

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no in mezzo, mentre quelli del mezzo si allargano a forza per far cadere dal banco quelli seduti alle due estre­ mità». Johannes Hadlaub non aveva mai sentito Fides parlare così a lungo, ed ecco che ciò accadeva soltanto per dispregiare e mettere in ridicolo il suo lavoro ben intenzionato. Cosi almeno gli parve, giacché non poteva sapere che altri si sarebbero invece compiaciuti di quegli scherzi, testimonianza di una incipiente gaiezza. Rimase quindi melanconico e confuso di fronte ai signori che ridevano e proclamò a bassa voce il nome di Gottfried von Strassburg porgendone il libro, e stava già per affer­ rare quello dedicato a Konrad von Würzburg, quando il signor Rüdiger Manesse si fece avanti con un altro fascicolo e proclamò ad alta voce, leggendone il fronte­ spizio: Maestro Johannes Hadlaub! Egli aveva in segreto ra­ dunato i canti di Johannes e li aveva trascritti di sua mano col gusto di un raccoglitore e di un protettore. Tutti si fecero attenti quando annunciò poi la comparsa di un nuovo poeta d’amore nella loro cerchia e comunicò che i degni prìncipi, il vescovo Heinrich e la badessa, col consenso del Consiglio di Zurigo, avevano deciso di ele­ vare al grado di maestro il benemerito personaggio; la virtuosa dama Fides von Wasserstelz era la prescelta ad imporgli la corona, dimostrandogli il meritato favore. Contemporaneamente, il vescovo, dando il braccio al­ la badessa Kunigunde, si diresse verso Fides per conse­ gnarle una ghirlanda di rose intrecciate attorno ad un cerchio d’argento. Fides però s’alzò con impeto, copren­ dosi di rossore e disponendosi a fuggire. Ma erano già in piedi dietro il suo seggio Eschenbach ed il giovane Walther, la di lui consorte e la fidanzata dell’altro, e le due coppie la trattennero al suo posto, ponendole la ghirlanda in mano. Frattanto Manesse e Toggenburg, seguiti dagli abati e 'dagli altri signori, guidavano Jo­ hannes, pallido e tremante, incontro a Fides. Il timido maestro, che pochi giorni avanti aveva saputo ridere in fàccia al trùce imperatore, pareva fosse condotto a morte ora che doveva inginocchiarsi ai piedi della sua pura, dolce, gentile ed amabile donna, di cui nei suoi canti

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aveva detto che avrebbe lottato con lei gettandola su un letto di fiori, se appena l’avesse avuta vicina ! Nulla era più bello a vedersi che la leggiadra Fides nel suo turbamento, trattenuta sul suo seggio dalle due fio­ renti coppie, ma anche nulla di più commovente, se qual­ cuno avesse potuto presagire il domani e sapere che en­ tro breve lasso di tempo quell’allegro Wart sarebbe stato messo alla ruota per l’assassinio del re Alberto e la leg­ giadra fidanzata, poi sua consorte, sarebbe giaciuta a terra per tre giorni e tre notti, immersa in preghiera da­ vanti alla ruota, sino al suo estremo respiro ; se si fosse sa­ puto che quel medesimo barone di Eschenbach avrebbe trascinato fuggiasco la vita per trentacinque anni, come garzone di pastori, per morire nascosto ed ignorato in una capanna, che tutta quella famiglia sarebbe stata an­ nientata, dispersi i secolari possedimenti e distrutti i castelli, che l’opera dei feroci vendicatori avrebbe fatto salire le fiamme al cielo e avrebbe intriso la terra di san­ gue. La nube di un nero destino librantesi su quel lumi­ noso quadro di vita celava il fulmine di un delitto incon­ sulto ed inaudito, sorto improvviso e imprevisto sotto la spinta di una iniqua violenza, e che avrebbe annientato insieme l’oppressore e il vindice. Il maestro Hadlaub venne accompagnato con spen­ sierata gaiezza di fronte a Fides e fu fatto inginocchiare, il che non gli tornò diffìcile, ché anzi sarebbe addirittura cascato indietro se i nobili signori non lo avessero trat­ tenuto e sorretto. Deviò lo sguardo atterrito quando Fi­ des, premuta dagli amici, gli pose sul capo la ghirlanda; ma allorché essa gli ebbe presa la mano mettendola nella propria e gli ebbe detto infine, da tutti incitata, mezzo ritrosa e mezzo sorridente: «Dio saluti il mio amico!» egli ebbe un guizzo come una bestiolina che sembra morta per la paura, ma che a poco a poco riprende vi­ ta e vivacità. Alzò lo sguardo su di lei e le serrò la mano con le sue due e la fissò in faccia, vicino come non mai. Vide allora per la prima volta ben distinto ciò che aveva tante volte descritto : la sua bocca, le piccole guance rosee, i suoi limpidi occhi, il candido collo, la sua fem-

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mirtea modestia e le mani più candide della neve. SI, tutto era cosi e mille volte ancor più bello, era tutto un miracolo ! In quel volto non vi erano rapporti topogra­ fici imprecisi, non v’erano spazi o linee o superfici inde­ terminate o superflue : e i tratti erano segnati nitidamente, se pur con grande dolcezza, come in una fusione perfetta, mentre tutto era illuminato dalla più originale e dolce personalità. La bellezza aveva una serietà interiore vera ed inconfondibile, benché in essa s’annidasse un tono di schietta birichineria, che sembrava attendere il mo­ mento per ridestarsi. Johannes, di tutto dimentico, mentre le sue braccia si appoggiavano al grembo di lei, la fissò così trasfigurato dalla beatitudine, che ineluttabilmente un alito di felicità si trasfuse nell’animo della fanciulla, facendole fiorire sul labbro un grazioso sorriso. Trascinati dallo spettacolo leggiadro e veramente commovente che la coppia offriva in quell’istante, tutti i circostanti manifestarono ad alta voce la loro gioia ed il loro plauso; per essi era raggiunto il culmine del giuoco gentile e godevano felici il loro piccolo capolavoro. Fides però fu strappata alla breve estasi dal mormorio plaudente : sussultò e tentò di sottrarre la propria mano da quella di Hadlaub. Ma questi non s’era ancora affatto destato e la tratteneva più salda, sinché Fides, estremamente eccitata e con le lagrime agli occhi, si chinò su di lui e gli morsicò forte la mano. Benché non gli facesse affatto male, come più tardi ebbe ad assicu­ rare, ciò valse però a ridargli coscienza. Abbandonò dol­ cemente la mano e Fides subito s’alzò per allontanarsi dal gruppo dei circostanti. Ma in quel momento le si fece incontro suo padre, il vescovo, con la preghiera di porgere un dono al bravo giovane, in memoria di quel giorno, quale lieve compenso dell’amore, come l’usanza suggeriva. Essa cercò nella borsa che le pendeva al fian­ co, dove teneva i guanti ed altre cosucce, ne trasse un agoraio d’avorio, un artistico lavoro greco, su cui erano intagliati due draghi in lotta coperti di squame: glielo gettò per essere finalmente libera.

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«Non essere così scortese!» ammonì la principessa madre, mentre raccoglieva da terra il piccolo oggetto e glielo rendeva «Porgilo con bei modi, così che egli possa trarne anche gioia ! ». Il monito fu appoggiato e ripetuto da tutti i presenti. Fides allora pose l’agoraio nella mano del giovane e fuggì poi in gran fretta dalla sala. Johannes teneva l’avorio così stretto in pugno, come se avesse conquistato un ossicino di San Pietro e si trasse in disparte, mentre la principessa osservava: «Mi stu­ pisce che glielo abbia donato, perché fu portato d’oltre­ mare da un antenato ed essa lo ha sempre portato con sé, fin da bambina». Se Johannes avesse voluto diventare sarto, ora sarebbe stato almeno in possesso di un agoraio ! Nessun altro van­ taggio o progresso gli sembrò tuttavia di aver ricavato dal­ la sua poesia dopo quella beata festa di caccia. Pareva che Fides fosse sparita dal mondo o che mai fosse vissuta. Non la vedeva in nessun luogo, né mai la sentiva nominare; persino quando egli poco dopo compose un lungo poe­ metto, un Leich,1 il signor Manesse non ne fece cenno, e precisamente perché non lo vide, giacché Fides non gli consegnò quel fascicoletto, né altri messaggi ricevuti da Johannes; né alcuno seppe che cosa ne facesse. Anche quando Hadlaub partì per terra straniera non gli giun­ se segno di vita, nessuno gli chiese se volesse congedarsi da lei. Si era trovato opportuno che egli conoscesse il mondo e gliene fu data occasione, affidandogli svariati incarichi. Anzitutto conveniva andare personalmente in cerca delle parti ancor mancanti della raccolta nei luoghi in cui si sperava di trovarle, e le lacune conducevano in genere verso l’oriente e lungo il corso del Danubio. Johannes era ormai da tempo pratico di tale faccenda e ben adatto a giovare a quell’impresa, che considerava anche propria. Aveva inoltre da seguire, presso la cancel­ leria regia, alcune pratiche che gli Zurighesi avevano in I. Leich·, componimento poetico-musicale coltivato dai Minne­ sanger, in molti casi analogo al lai provenzale.

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sospeso e da provvedere alle cose del vescovo Heinrich, il quale, in qualità di ex cancelliere del defunto Rodolfo, faceva talvolta da consigliere al figlio Alberto per av­ viarlo, sin dove gli fosse possibile, sulle orme felici del genitore saggio e filantropo. Il giovane sapeva assolvere simili incarichi con abilità e modestia, ed era capace di osservare, senza essere indiscreto, come stessero le cose. Il vescovo gli donò un cavallo, il signor Manesse una bella veste ed il padre lo munì di denaro, non volendo che Johannes dipendesse in tutto dai signori. Si ebbe an­ che buone lettere di raccomandazione di luogo in luogo, così che, attraversando dapprima la Svevia e la Baviera, fu dovunque bene accolto, sinché salì insieme al suo caval­ lino su di un battello del Danubio per scendere verso l’Austria. Dovunque, nelle città, nei castelli e nei mona­ steri, si dedicava con zelo a copiare e a raccogliere noti­ zie, così che ancor prima di giungere a Vienna aveva riunito circa duecento nuove strofe del solo Walther von der Vogelweide, o che almeno circolavano sotto il suo nome e non figuravano ancora nei manoscritti zurighesi. A Vienna si trattenne circa un anno ed ivi trovò so­ prattutto le vaste orme di Neithart von Reuenthal, la cui attività si era svolta circa settantanni prima alla Corte di Federico il Bellicoso. Lo struggimento che il suo amore non corrisposto gli metteva in cuore, nella solitu­ dine della lontananza, era talvolta stranamente mitigata dal contrasto con la musa paesana di Neithart, la poesia dei villici, delle robuste ragazze al ballo, dei bellimbusti di campagna. Il suo cruccioso sdegno lo fece cadere in quel tono pastorale, ed in uno dei primi canti composti a Vienna comparò la fatica degli inesauditi trovatori col duro lavoro dei carbonai nei boschi, costretti a rompere e dissodare la terra, oppure dei carrettieri, che si affannano senza posa al vento ed alla pioggia per trarre le ruote, bestemmiando, fuori dal fango dove sono andate a fic­ carsi; e disse che il cuore di tali amanti, presi dall’amore come in una tenaglia, sobbalza ininterrottamente nel pet­ to, come squittisce un maialetto chiuso dentro un sacco. Più tardi s’aggiunse in lui la nostalgia e rievocando la

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serena vita campestre sul colle paterno l’esaltò con nuovi accenti. Nei canti per la mietitura da lui composti, pro­ rompe d’un tratto: «Orsù, intrecciate i capelli e incoro­ nateli bene di ghirlande, robuste ragazze, è venuta la mietitura ! Ci sono gioie in abbondanza ed allegri giuo­ chi con i garzoni sulla paglia, al di qua e al di là del torrente, giuochi che tutti sanno senza averli imparati; se mai arrivasse adesso qui un’innamorata, certamente andrei con lei sul granaio e dimenticherei ogni affanno !». Ed anche con nuovi accenti cantò l’abbondanza del­ l’autunno, come se egli fosse un grande mangiatore: «Su, su ! attizzate bene il fuoco, fate che la padella trabocchi di grasso per intingervi il pane bianco! Salsicce, pro­ sciutto, cervello dolce, animelle, trippa e buon arrosto di porco, qua tutto, cosi che nella calda cucina splendano i volti ardenti degli scudieri e delle superbe fanciulle ! Poi venga vino nuovo in abbondanza e si riprenda con il collo, il petto, la testa e le zampe friggenti e bollenti ! Chi vuol darsi alla melanconia stia lungi da noi epuloni, pieni di gioia e di ogni cosa buona, ma chi vuole invece ingrassa­ re, venga qua : una buona mangiata ingrassa la servitù ! Padrone, riscalda ancor meglio la stanza, mandaci oche e polli ripieni e capponi lessati, fa’ abbattere piccioni e cacciare fagiani, per onorare l’autunno! Fa’ bollire la pentola e mettici molto sale, perché ci venga tanta sete e la testa s’infiammi come se le avessimo dato fuoco ! ». È vero che concludeva di solito tutta questa abbon­ danza con una delicata svolta in altra più fine direzione, deplorando cioè che l’imminente inverno avrebbe presto fatto male agli uccellini e celato la bellezza delle donne amate nei cappucci caldi, nelle pellicce e negli scialli, lasciando libera a malapena la punta del naso, così che i poveri innamorati dovevano con doppia impazienza at­ tendere la primavera, quando le loro belle si sarebbero di nuovo mostrate all’aperto. Però simili strofe di conge­ do sembravano appiccicate solo per convenienza all’ar­ rosto di porco, alla trippa di pecora ed alle salsicce, e non c’era da farsi illusione circa la crescente rozzezza della musa di Hadlaub.

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Per studiare con spirito accademico e da epigono il nuovo indirizzo artistico, Johannes frequentò, tanto in città che nei bei dintorni di Vienna, i divertimenti del popolo, non mancando dove vi fosse da suonare e da ballare e da bere. Un vecchissimo cantore, che percorre­ va la regione del Danubio ed abitava a Vienna nella stessa locanda, gli fece da guida. Questo vecchio suona­ tore aveva la strana dote di aver dimenticato compietamente il proprio luogo di origine e il proprio nome, a quanto affermava, dopo una caduta fatta più di cinquant’anni avanti, e neppure riusciva a tenere a mente il nuovo nome che gli avevano dato o che egli aveva ri­ chiesto. Lo ripeteva più volte per fissarselo nella memoria, ma, passato un brevissimo tempo, di nuovo lo aveva di­ menticato, ed egli citava soltanto il nome di chi glielo aveva conferito. Tutto conosceva, ma non il nome dei suoi genitori, del suo paese nativo, né la sua stessa sorte avanti la caduta. Era capace di leggere, ma non più di scrivere e possedeva una piccola borsa di cuoio piena di antichi e sdrusciti libriccini di poesie che dovevan risalire a molti anni prima; erano il suo solo possesso, oltre ad una piccola arpa, il cui legno, per il lunghissimo uso, era ridotto sottile come carta e che era in più punti ac­ comodata con striscioline di tela incollate. La sua veste era ormai consunta, senza colore, la lunga barba, un tempo argentea, cominciava qua e là ad ingiallire, la testa era completamente calva, ma di bellissima forma e lucente come una palla d’avorio: la si vedeva però di rado, perché egli la teneva ininterrottamente protetta da un ampio berretto di pelliccia sdruscita, alla cui ombra il vecchio pareva dimorare come sotto il tetto dell’obliata casa nativa; gli occhietti infossati scintillavano almeno così soddisfatti al riparo di quella tesa scura, come fine­ strelle sotto un tetto di paglia. Tuttavia da quella vecchia creatura echeggiava sonora una gran quantità di canzo­ ni, ed il minuscolo, decrepito strumento accompagnava il canto con sorprendente energia. Johannes Hadlaub non ne trasse però larga mèsse, giacché quasi tutte le canzoni ripetute dal vecchio erano

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canti popolari, sorti ancor prima della poesia artistica aulica, ed avevano avuto la loro fioritura nelle classi sociali più basse, senza possedere mai un nome d’autore. Anche nella forma si presentavano cosi antiquate e sem­ plici che Johannes non potè valersene per i suoi fini, e rinunciò a sfruttare il vecchio suonatore per la sua rac­ colta. Lo seguiva tuttavia con piacere quando si metteva in cammino e l’invitava ad accompagnarlo. Voleva bene a quello strano vecchio e questi a sua volta gli era devoto per i suoi modi bonari e composti, in contrasto con la rozzezza delle persone da cui doveva cercare il suo pane. Il decrepito cantore, infatti, aveva preso gusto solo molto tardi al guadagno, quando finalmente la miseria di tutta la vita aveva perduto ogni presa su di lui e si era data per tónta. Una volta, in un momento di spe­ ciale confidenza, aveva mostrato al giovane amico, nella massima segretezza, un sacchetto pieno d’oro e d’argento, che portava nascosto sotto la veste, e gli confessò di essere stato finalmente dimenticato dalla dea fortuna che lo aveva cosi a lungo perseguitato. Ora, da lei inavvertito, raccoglieva instancabile quanto abbondantemente gli toc­ cava, mantenendo il più gran segreto, affinché quella strega non si facesse di nuovo attenta. In realtà, ovunque egli cantasse e suonasse, gli pioveva un abbondante com­ penso per la sua tarda età. Alla domanda di Johannes, per chi mai mettesse in serbo con tanto zelo il denaro, replicò che avrebbe potuto ancora tornargli alla memoria il suo nome e il suo paese, ed allora sarebbe ritornato in patria ed avrebbe avuto qualche cosa per i suoi. Un giorno s’avviarono verso il campo di Tuln, dove si svolgeva una grande sagra, con fiera e divertimenti d’ogni genere. Vi era una grande confusione di soldati, con­ tadini, cittadini, donne e ragazze; in tutti gli angoli c’e­ rano musiche, giuochi e danze e si alzava il fumo dalle padelle e dalle pentole. Il vecchio pregò Johannes di la­ sciarlo solo fino a sera, perché colla sua bella veste avrebbe trattenuto la generosità degli astanti. Hadlaub quindi lo vide solo di tanto in tanto, per il resto del tempo non si stancò di unirsi al popolo, il che non avvenne senza

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pericolo. Molti contadini s’erano adornati, con bizzarra baldanza, di giubbe e di nastri variopinti, portando lun­ ghi baffi falsi, ed ai due lati del volto avevano appiccicato un lungo ricciolo di peli rossi o neri come la pece, scen­ denti fino alla cintola ; per lo più avevano al fianco gran­ di spadoni, pugnali ed altre armi, ma solo per bravata, a sfida dei soldati, se questi avessero voluto rubare le loro ragazze abbigliate in modo altrettanto variopinto. Tale ostentata rozzezza e litigiosità si sfogava però su chiun­ que appena li guardasse. Johannes s’accompagnò ad un gruppo di allegri stu­ denti, in cerca di buon vino. C’era un monastero che ne spillava di ottimo, e ben presto esso salì alla testa del giovane. L’eccitazione ridestò in lui l’antico cruccio amo­ roso ed insieme una baldanzosa gioia di vivere ad esso contrastante. Superò così, se possibile, i goliardi in spen­ sierato ardire ; girarono attorno cantando e si divertirono specialmente a guardare le belle cittadine, che, secondo la moda del posto, se ne andavano a spasso con dei cap­ pelli immensi, così che solo sbirciando sotto quei grandi copricapo si poteva godere la vista dei loro volti. É noto come egli abbia dedicato una sua canzoncina a questi cappelli da donna austriaci, augurando loro di finir tutti nel Danubio. Volarono molti motti scherzosi e amiche­ voli e ne venne a Johannes più d’uno sguardo gentile e gioviale, il che piacque oltre modo all’infedele, che sempre più sfacciatamente s’insinuò sotto i cappelli in cerca degli occhi cordialmente scintillanti. Ma alla fi­ ne cominciarono le liti : alcuni giovani artigiani si fecero incontro agli studenti ; il chiasso e la bellicosità crebbero : i soldati attaccarono i cittadini, i contadini i soldati, e al calar della sera la sagra s’era trasformata in battaglia ed il campo era pieno di polvere di grida e di sangue. Johannes aveva da un pezzo perduto i suoi compagni. I fumi del vino erano svaniti ed egli si sottrasse con le ve­ sti lacere e la faccia sanguinante alla confusione, la cui bavarica violenza gli riusciva inusitata e terribile. In quella confusione notturna si diede a cercare preoccu­ pato il vecchio cantore e lo trovò disteso sulla strada che

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conduce a Vienna, privo di sensi e con una vasta ferita alla testa. Gli avevano strappato le vesti di dosso e il bel cranio lucido era fratturato insieme alla piccola vecchia arpa con la quale aveva tentato di difendersi : lo avevano poi derubato, poiché la borsa col tesoro gli era stata ta­ gliata dalla cinghia. Johannes portò con grande pena e grande cura il po­ vero vecchio nella locanda, dove riprese conoscenza. Parve ripensasse ancora al nome perduto, ma scosse so­ spirando il capo e mormorò: «Non ci riesco più». Pregò poi Johannes di prendere e di conservare la sua cartella di cuoio con le poesie e, subito dopo, spirò. Il giorno seguente Johannes studiò più accuratamente quel mucchietto di pergamene: oggigiorno si paghereb­ bero per ognuno di quei fascicoletti o rotolini sbiaditi alme­ no cento fiorini del Reno, in moneta sonante; Johannes invece non sapeva che farsene, avendovi trovato un solo quaderno che recasse un nome. Era quella dozzina di brevi canzoni del poeta von Kürenberg, che noi cono­ sciamo nella loro forma arcaica, opere di un poeta vero e completo, di cui Hadlaub sentì l’immediatezza e la bellezza. Stupefatto, intuì in quei brevi esempi uno spiri­ to diverso da quello di cento altri cantori, dominante in una solitudine ignorata, ed il defunto cantastorie, che ave­ va ritenuto che soltanto quel nome, fosse degno di essere conservato, gli apparve da quel momento in una luce mi­ steriosa e veneranda. Tornò ad una maggiore serietà, ed essendo comunque giunto il suo tempo, raccolse quanto aveva acquistato è si pose in viaggio verso il paese nativo.

Procedendo per la sua strada, meditava, ora con letizia ed ora con melanconia, su quale potesse essere l’animo di Fides, e quale contegno avrebbe dovuto tenere verso di lei, senza però nutrire grandi speranze. Per il momento tuttavia provava la più intensa bramosia di rivederla an­ cora una volta, così come quando si è al buio si ha biso­ gno della luce del sole, anche se non si possiede un vigneto che l’attenda per maturare. Quando finalmente giunse al suo paese natale non

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trovò però le cose come le aveva lasciate. Il feudo, in seguito alle pratiche del vescovo, era passato a Fides, e questa dimorava, quale baronessa Wasserstelz, nel suo castello sul Reno, sola come un tempo vi era stata sua madre. Appena divenuta indipendente, essa infatti aveva voluto recarvisi e là trascorreva la maggior parte del suo tempo, resistendo ad ogni consiglio. La rocca a quel tempo era più grande di ora; invece del piccolo castello con la soprastruttura ottagonale e col giardinetto, essa comprendeva allora, con le sue forti mura e torrette, tutta la grande roccia emergente dal fiume. Oltre ad alcune serventi da lei prese nel suo piccolo dominio del villaggio di Fisibach, Fides aveva condotto nel castello anche alcuni uomini robusti che, insieme agli energici mugnai del castello, costituivano per lei una sufficiente protezione. Con la perfida parente Mechthildis del Wasserstelz bianco essa viveva del resto discretamente in pace. Persuasasi finalmente che l’eredità della sorella per lei era perduta, costei si limitava a definire la gio­ vane padrona del Wasserstelz nero una «buona lana» oppure la «bella gramigna», ma non sdegnava di far macinare il suo grano a quel mulino e di andare a ritirare la farina di persona, nella sua barchetta, perché Fides le offriva larga ospitalità. Poco dopo il ritorno di Hadlaub, convennero nella casa del signor Manesse alcuni ospiti, ai quali il soddi­ sfatto signor Rüdiger mostrò la mèsse poetica raccolta in viaggio dal giovane cantore. Fu discussa la qualità e l’autenticità dei singoli componimenti, e ne fu cantato per prova qualcuno per precisarne la melodia, al che Johannes in persona dovette cooperare. C’erano quasi tutti i soliti nobili signori, ma durante il trattenimento apparve qualcuno di nuovo per Johannes, che destò tutta la sua attenzione. Era il conte Wemher von Homberg e Rapperswyl, un giovane di circa vent’anni, di alta e maestosa figura, già per l’aspetto un perfetto cavaliere, dall’atteggiamento energico e pacato, dallo sguardo audace ed ardente, quel medesimo che, dopo la morte di Alberto, in ancor gio­

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vane età, era divenuto, regnando Enrico di Lussem­ burgo, balivo imperiale nei tre cantoni originari della Svizzera, e che fu più tardi supremo comandante in Ita­ lia e capo della Lega ghibellina in Lombardia, distin­ guendosi per le sue imprese di guerra. Quando si presen­ tava armato superava i sette piedi di statura, poiché al di sopra dell’elmo si piegavano i candidi colli del doppio cigno dei Wandelburg, con scintillanti anelli di rubini nei becchi e rubini negli occhi, mentre sullo stemma d’oro spiccavano le aquile di Homberg di zibellino nero. Dei suoi stemmi era disseminata la lunga giubba militare a pieghe e la spada gli scendeva sugli sproni come ad un giovane Sigfrido. Quando quel brillante cavaliere intervenne con sicu­ rezza nella conversazione e con poche parole si mostrò esperto di canto e di poesia, Johannes lo guardò sempre più stupito, sino che qualcuno gli sussurrò all’orecchio che il conte aveva già rivolto poesie a più di una dama, mentre correva voce che in quel momento cantasse la bella Fides von Wasserstelz. Johannes impallidì : quella novità, per naturale che fosse, gli riuscì troppo nuova ed egli ne rimase scombussolato. Quantunque egli amasse con speranze molto vaghe, o addirittura senza alcuna speranza, non era stato fino allora avvezzo a vedersi ac­ canto dei rivali, e quantunque l’apparire del primo non significasse ancora che egli senz’altro l’avrebbe condotta sposa, sentì improvvisa in sé quella scossa che sempre pro­ va un innamorato, trovandosi di fronte inaspettatamente l’estraneo, lo sconosciuto, l’odiato personaggio che, secon­ do lui, potrà tranquillamente metter fine al suo romanzo. Che poi il conte, appunto perché distinto cavaliere, non unisse a quell’omaggio da trovatore ciò che oggi si chiamerebbero le intenzioni serie, dato che secondo l’an­ tico costume non si chiedeva in sposa là dove si cantava d’amore, questo non appariva possibile a Johannes. E tanto più glielo perdoneremo, visto che più tardi egli ben osservò che gli amici, e prima di tutti i genitori di Fides, in quel caso giocavano una partita seria, cercando di procurare a Fides la sperata posizione per l’avvenire.

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Il giovane signore, da parte sua, era già informato circa la persona di Hadlaub, le sue condizioni e le sue imprese poetiche e lo osservò da capo a piedi, ridendo non senza cordialità. Ma tanto più studiava il bel poeta con gli occhi splendenti, tanto più severi e freddi si fecero i suoi lineamenti, e quando questi inavvertitamente gli si accostò lungo la scala, strinse quasi il pugno, con uno di quei gesti d’ira con cui più tardi soleva afferrare per la collottola i guelfi ben armati, mentre stavano in arcio­ ne, facendoli prigionieri insieme ai loro cavalli. Anche altri cavalieri, che prima s’eran mostrati bene­ voli verso Johannes, mutarono il loro atteggiamento, e più d’uno dei signorotti lo guardò con cipiglio minac­ cioso quando egli osò farsi avanti col gesto e con la parola. Soltanto il signor Rüdiger Manesse mantenne il suo tranquillo e sicuro favore, ed anche il vescovo Heinrich, quando Johannes ebbe a che fare con lui, si mostrò quasi più gioviale di prima e lo incoraggiò persino a non tra­ scurare la sua arte poetica ed a perfezionarsi anzi sempre più nel nobile servizio d’amore, fonte di ogni bell’attività. L’abile diplomatico pensava di accrescere accortamente il valore personale della figlia e di incitare intanto il conte esitante. Il povero Johannes, preso tra lo scompiglio della pas­ sione amorosa e le difficoltà del mondo, non trovò altra via d’uscita fuorché rivolgersi di nuovo alla causa dei suoi mali, seguire cioè il consiglio del vescovo. Mandò così alla sua dama alcuni messaggi, cioè delle canzoni d’a­ more, l’una dopo l’altra, invidiandogliele dal castello del signore di Regensberg, mentre era occupato presso di lui. Quel barone gli serbava ancora il suo favore ; egli era per molti aspetti dipendente dagli Zurighesi, e quale rampollo di dinasti ormai messo a riposo, il cui zio un tempo così potente era morto nel territorio della città di Zurigo e sotto la protezione di essa, conosceva la transitorietà di ogni grandezza. Inoltre riteneva che il giovane conte Wernher, la cui casa materna e paterna era ancora grande ed importante, mentre già andavano perdendosi le sue terre, difficilmente avrebbe pensato a

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sposare Fides di così modeste condizioni, essendo egli in­ vece ben deciso a sfruttare, quanto più vantaggiosamen­ te gli fosse possibile, la sua brillante persona. Gli faceva quindi un certo piacere appoggiare, per quel che poteva, nella persona del modesto maestro Hadlaub un rivale per il conte Wernher. Lo mise tuttavia in guar­ dia dalla prepotenza impetuosa di Wernher, geloso ed incline all’ira, e che, da quanto si era potuto osservare, negli ultimi tempi frequentava e faceva vigilare i din­ torni del castello; in ciò era appoggiato da altri nobili, che non tolleravano che un cantore e scrivano borghese insidiasse palesemente una baronessa.

Il sospetto che egli la volesse insidiare offese il candido Johannes; mentre però tornando dal castello di Regens­ berg soppesava i consigli ricevuti e meditava tutta la faccenda, ne nacque appunto in lui la smania di sfidare il sospetto e le minacce, di cercare ad ogni costo ancora una volta la vista dell’essere amato di cui da oltre un lungo anno era ormai privo. Mentre al crepuscolo entrava in città immerso in simili pensieri e passava accanto al mulino, gli si accostò un giovane garzone di mugnaio che in grande segretezza gli mise in mano una lettera ; egli riconobbe in quel ragaz­ zo uno della prepositura e si rammentò che quello se ne era partito poco tempo prima. Il ragazzo disse soltanto che re­ centemente si era trovato su di un mulino sul Reno, al di sotto di Kaiserstuhl, e che ivi gli era stata consegnata dalla mugnaia quella lettera, perché la recapitasse sicu­ ramente. Johannes tornò in fretta a casa col cuore in tumulto. Intuiva qualche cosa di sommamente singolare e buono, senza indovinare nella sua modestia la verità, giacché quello era precisamente un messaggio di Fides in per­ sona, in risposta alla sua ultima missiva. La lettera diceva :

« Il maestro che possiede l’agoraio e che invia instanca­ bilmente missive, può prendersi la responsabilità di quanto dice e, se lo crede, scusarsi di fronte a colei cui si

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rivolge. Nella notte prima dell’Invenzione della Santa Croce lo attenderà una barchetta al traghetto di Rheinsfelden. Ma anche sin là egli giunga non veduto e mostri al barcaiolo i due draghi, dovendo del resto aspettarsi di poterci lasciar la vita».

Il giorno della Invenzione della Santa Croce è, come si sa, il 3 maggio, e poiché si era già all’ultimo di aprile, Johannes non aveva più tempo da perdere, se voleva rischiare quel viaggio. Ma che viaggio e che rischio? Ciò era oscuro quanto il contenuto della missiva. An­ dava incontro ad un tradimento o a quella felicità che egli, malgrado la sua maestria nelle più svariate albe e serenate, non riusciva a concepire che come qualcosa di estremamente misterioso e favoloso? Non importa: mal­ grado i mille dubbi che gli assalivano il cuore si preparò ad un lungo e pericoloso viaggio; mise accuratamente in ordine le sue cose, disponendole ciascuna al posto giusto, perché fossero a tutti facilmente ritrovabili in caso di non ritorno, quasi dovesse por piede nell’Orco; cercò e provò poi le armi, ma vi rinunciò, prevalendo in lui una fiducia serena e considerando meglio affrontare l’avven­ tura disarmato. Preparò invece una veste pulita ed un mantello da viaggio e, il giorno stabilito, verso mezzogiorno, partì inosservato dal podere paterno, attraversò il bosco e le vie campestri sin verso le alture della valle inferiore del Töss, voltando poi a nord e proseguendo per i boschi, così da giungere alla sera nel punto in cui il Reno passa accanto alle paludi del Töss. Ivi si procurò un pescatore che al cader della notte gli fece scendere il Reno nella sua barca, passando sotto il ponte di Eglisau fino al punto dove la Glatt sbocca accanto alla rocca dei signori di Rheinsfelden e dove un nocchiero traghettava la gente al di là del fiume. Questi però era a letto, ed anche il piccolo castello appariva buio, fuorché un’unica fine­ strella. Johannes pagò il pescatore e finse di avviarsi verso l’interno del paese, in modo che quegli risalisse il fiume con la sua barca senza sospetto. Subito dopo però

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una barchetta che veniva dal basso approdò alla riva. Johannes si accostò e mostrò al barcaiolo, che era il mugnaio del Wasserstelz nero, l’agoraio d’avorio coi due draghi, dopo di che quello lo fece salire e lo condusse lungo il Reno. Le sponde boscose, a destra e a sinistra, erano silen­ ziose come una tomba. In cielo spiccava una luna piena che trasformava il Reno in un’ondeggiante strada d’ar­ gento; i remi del barcaiolo grondavano incessantemente scintille d’argento; il piccolo naviglio proseguì indistur­ bato a valle, passando per Kaiserstuhl e Röteln, dove la città e la rocca erano ancora illuminate e rumorose. Sul ponte v’erano ancora dei soldati che chiacchierando s’appoggiavano alla balaustrata. Navigarono ancora per un breve tratto, poi il castello della bella Fides gli apparve, illuminato dalla luna, im­ mediatamente fuori dalle rapide onde. Pareva che lassù ardessero molte luci: le finestre erano aperte nella notte di maggio e molte persone erano adunate. Il cuore di Hadlaub batteva sempre più forte, sin quasi a togliergli il respiro, quando il barcaiolo approdò dalla parte ester­ na rivolta alla sponda opposta, dove, scendendo da una porticina, una scaletta di pietra giungeva sino al­ l’acqua. Il bianco barcaiolo bussò lievemente alla porticina che si aprì senza rumore e si rinchiuse subito alle spalle di Johannes il quale, afferrato al buio dalla mano di una persona invisibile, fu guidato giù per una scala e spinto poi in una fosca cella, la cui porta venne chiusa con tri­ plice catenaccio. Il prigioniero avanzò a tastoni, finché urtò in un ta­ volaccio di legno, che pareva rivelare l’arredo di una prigione, poco ospitale da parte di una dama. Ma quando vi si sedette sopra si accorse che quel carcere era stato utilizzato in modo pacifico, giacché v’erano distese delle mele che dovette spingere da parte per farsi posto. Attraverso le mura del carcere sentiva il fruscio delle onde del Reno e da questo dedusse la profondità della cella in cui si trovava. Come un tempo il signor Walther

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von der Vogelweide, incrociò le gambe, vi appoggiò il gomito e posò il mento sulla mano, ma non seppe che pensare del fatto che poco prima navigava sul verde Reno nella bellissima notte di maggio, piena di dolci presagi, mentre ora sedeva fra le tenebre, e tuttavia in vici­ nanza dell’amata. Non provava un vero terrore e comin­ ciò, anzi, a mangiare mele, essendo da dodici ore di­ giuno. Su in alto, invece, nelle stanze luminose, vi era il principe vescovo di Costanza, il quale col suo seguito era ospite nel castello di Röteln e Kaiserstuhl ed aveva por­ tato con sé il conte von Homberg e Rapperswyl. Essi era­ no giunti inaspettati di sera e rimasero fin dopo la mez­ zanotte. Il vescovo si sforzava di rendere serena e gio­ viale la troppo seria padrona di casa, che però a tutto provvedeva; da circa un’ora appariva visibilmente sod­ disfatta, il che il principe ascrisse al modo perfettamente cavalleresco con cui il giovane conte le stava d’attorno. Se ci fosse stata la signora badessa e principessa, que­ sta avrebbe ripetuto: «Oh, quanto sei sciocco !», giacché ella infatti avrebbe certo notato con suo cruccio che il conte Wernher non si conteneva come chi cerca una mo­ glie, ma come uno che aspiri ad un omaggio segreto, dolce ed audace, e che si comporta quindi con tenera prudenza. Finalmente ambedue gli ospiti si congedarono e fu­ rono traghettati alla sponda opposta, dove li attende­ vano dei domestici con le fiaccole per accompagnarli a casa. Quando Fides dalla sua rocca vide che erano ben lon­ tani e che il paesaggio era ritornato silenzioso, scese con una servente giù nella torre dove stava Johannes ed aprì in persona la sua cella. Entro arrossendo, con la lampa­ da in mano, ed illuminò il prigioniero, per vedere se fosse proprio lui. — Vi hanno male accolto, Maestro Giovanni — gli disse poi con un sorriso mal dissimulato — ed io dovrò tenervi in custodia per altro tempo, sinché possa dedicarmi alla vostra faccenda, giacché sulla vostra via si presenta un

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pericolo. Voi avrete però almeno miglior alloggio, se vorrete seguire questa persona e promettermi di serbarvi là tranquillo sin quando io lo ritenga opportuno ! Johannes si era già alzato e le disse: — Io non ho paura e posso ben aspettare quel che accadrà. Sinché sono vicino a voi, son vivo. Ma Fides era già lontana. La servente lo accompagnò, facendogli salire molte scale di quella torre, sino ad una cameretta provvista di un letto, di tavolo e sedie ; gli recò cibi e bevande e, quando egli non ebbe più bisogno di nulla, chiuse dal di fuori la porta robusta, recandone la chiave alla sua signora, che andò a letto mettendola sotto il guanciale. Johannes, nelle poche ore prima del mattino, lottò con cento sogni che incessantemente si inseguivano, por­ tandolo sempre alla soglia del risveglio. Ma la stanchezza gli impedì di destarsi sinché non brillarono nella came­ retta i primi raggi del sole mattutino. Il castello si chia­ mava Wasserstelz nero perché per tutto il resto della giornata rimaneva nell’ombra delle ripide sponde. Jo­ hannes vide che la sua finestrella, rivolta ad oriente, dava sull’alto Reno ed era sottratta ad ogni osserva­ zione. Presto tornò la fantesca per sbrigare i servizi necessari ; mentre prestava la sua opera silenziosa ebbe agio di osservare attentamente il prigioniero. Anche Hadlaub la guardò fisso negli occhi, sforzandosi di accostarsi all’e­ nigma della sua condizione presente. Gli parve che essa fosse una persona avvezza alla docile obbedienza ed al­ l’ordine, ma anche ben tenuta, non malcontenta e di buoni costumi, il che, in base alle cognizioni del mondo da lui già acquisite, non faceva pensare ad una padrona di cattiva indole o a una casa ove accadessero eventi cru­ deli e inspiegabili. Gli parve quindi che la testa almeno fosse salva; ben più incerta gli sembrò la sorte del suo cuore, specialmente quando credette d’accorgersi che la servente, nell’uscire, reprimeva un risolino. Essa tornò a richiudere la porta e a dare la chiave alla signora, che se la pose in tasca ed accolse il conte col suo

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seguito, il quale era venuto a prenderla perché si recasse a Kaiserstuhl, ove il vescovo offriva un ricevimento al podestà ed ai nobili del luogo, nonché al castaido di Röteln e ad altri cavalieri dei dintorni. Vi partecipava anche la fosca zia Mechthildis, e quando nel pomeriggio il vescovo riprese il suo viaggio e tutta la brigata si di­ sperse, Fides sali in fretta con lei sulla barca per il Wasserstelz bianco, sfuggendo così il conte che l’avrebbe voluta a tutti i costi riaccompagnare a casa. Entrar nella barca della vecchia strega nera gli parve infatti troppo pericoloso, malgrado tutto il suo coraggio in terraferma. Per quella volta, dunque, se ne partì e Fides ridiscese soddisfatta il Reno, lasciandosi deporre ai piedi di quella stessa scaletta dove aveva approdato, la sera innanzi, Johannes. Mentre tirava energicamente la campana del­ la porticina cercò in tasca la chiave. Una bella bambina del mulino passava quasi tutta la giornata al castello: Fides la prese per mano mentre sa­ liva la torre per studiare la sorte del suo prigioniero ed eventualmente per liberarlo. Intanto che apriva la ca­ meretta ansimava, non già per la fatica delle scale, ma per l’emozione. Un bimbo che tenga chiuso in una sca­ toletta un ragno e ne sollevi un pochino il coperchio non è più ansioso e preoccupato di quanto fosse Fides in quel momento. Sedette su uno degli sgabelli e si pose la bimba in grembo, circondandola con le braccia; que­ sta sbirciava curiosa e gentile il non meno inquieto Johannes, che per ordine di Fides le si era seduto di fronte, lontano quanto gli era possibile, data l’angustia della stanza. Dopo avergli lanciato uno sguardo severo ed aver cercato per un po’ le parole che costituissero un’introdu­ zione non impegnativa, gli disse: — Voi mi avete fatta oggetto dei vostri omaggi poetici, dilettandovi ad un giuoco grazioso per il divertimento dei nobili signori e persino dei miei troppo deboli geni­ tori, senza neppure chiedermi se ciò mi facesse piacere o dolore ! Che cosa vi eravate immaginato con ciò?

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Johannes, che sino a quel momento non aveva fatto che tenerle gli occhi addosso, li abbassò arrossendo e cer­ cò di raccogliere i suoi pensieri. — Già, — disse alla fine — se me lo domando, io ho sempre pensato a quello che è detto nelle poesie, o me­ glio in quelle che sole vi riguardano, perché voi sapete bene che ve ne sono di due sorte: ve ne sono di quelle sentite e vissute, che non si potrebbe tralasciar di scri­ vere o scrivere altrimenti, e ve ne sono altre che si com­ pongono invece per esercizio, per il piacere di cantare e, in certo modo, anche per fame provvista! Voi sapete, per esempio, per la prima, che io non ho nessuna ragione per cantarvi delle albate, ma pure, nella mia follia, ne canto ! — Le so pressappoco, queste cose ! — replicò Fides — e ciò appunto mi porta all’argomento ! Se è sopportabile che si canti una dama, la quale non l’ha potuto impedire, bisognerebbe almeno in suo onore mantenere un tono di nobiltà, non mettere accanto a quella donna le ragazze sui pagliai e i piedi di porco lessato o i volgari balli con­ tadineschi. Non sapete quanto questo sia offensivo? — Vi prego di perdonarmi queste offese al decoro ; — ri­ spose Johannes, sinceramente addolorato — me ne sono già pentito, pur avendole commesse soltanto per il di­ spetto che veniva dal mio affetto disprezzato e dalla vostra severità! Ma io ne fui già abbastanza punito, quando a quei tempi ritrovai antiche canzoni che sin troppo mi fecero arrossire delle mie povere opere! — Come fu? — domandò Fides, e Johannes le riferì fedelmente la vicenda del vecchio musico e la scoperta delle poesie di von Kürenberg. — Vi voglio recitare una sola sua breve canzone — proseguì — che esprime tutto il desiderio e tutta la melanconia che sono in me in modo mille volte migliore e più bello dei miei canti, pur essendo una donna quella che parla ! Fides lo invitò sorridendo a recitarle la poesia che ora tutti conosciamo, ma che allora era dimenticata:

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Un bel falco ho allevato per più d’un anno intero; quando l’ebbi domato proprio come volevo

e le sue belle piume ebbi bene indorato, salì alto nel cielo, fuggendo poi lontano. D’allora vidi il falco maestoso librarsi, sulle piume dorate lo vidi poi cullarsi;

un bel nastro di seta pendeva dal suo piede: Dio congiunga gli amanti che si serbano fede. La bella signora del Wasserstelz nero, verso la fine di quella semplice canzone, aveva serrato più stretta la bambina che teneva in grembo e che si dimenava in­ quieta, baciandole le guancine, la bocca e la nuca, per nascondere gli occhi che le si erano riempiti di la­ grime. In quell’istante fu chiamata da una delle serventi che dalla porta le annunciò l’improvviso ritorno del conte Wernher, il quale stava davanti al mulino coi suoi ca­ valli, chiedendo di traghettare. Fides porse in fretta la bimba al suo prigioniero, perché la tenesse un momento, come gli disse, poi chiuse di nuovo la cameretta e, accom­ pagnata da due domestiche, si recò giù al portone del suo castello in faccia al mulino, dove il conte era giunto in barca e stava per balzare a riva. Egli aveva raggiunto il vescovo, diretto col suo seguito a Zurigo, in vicinanza del monte Läger, proprio mentre il signor Leuthold di Regensberg, tornando a casa, pas­ sava di lì ; questi dopo un breve saluto gli chiese distratta­

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mente se non si trovasse fra il seguito anche il giovane Hadlaub, poiché questi, da alcuni giorni, era scomparso e si pensava che fosse rimasto presso il vescovo. Subito il con­ te fu preso da sospetti gelosi e li comunicò anche al vesco­ vo, il quale cominciava a temere che il cantore finisse per diventare pericoloso e per intralciare i suoi piani. Con­ vennero dunque che il conte ritornasse a briglia sciolta e riconducesse Fides all’abbazia di Zurigo, sotto la sor­ veglianza della signora madre. Il conte era partito al galoppo con la sua gente ed ora, come si disse, si trovava nella barca oscillante, pronto a lasciarla, quando Fides alzò la mano, in cui teneva le note chiavi e gli fece cenno di fermarsi. Con un grazioso sorriso gli gridò che comunicasse dalla barca il suo desi­ derio o il suo incarico, poiché ella era in casa sola, e non poteva, senza offesa alle buone costumanze, concedere l’ingresso ad un cavaliere. Il conte però, un poco sven­ tatamente, invece di parlare tentò di salire sui gradini dell’approdo, ma intanto il mugnaio, che remava, ad un cenno di Fides volse la barca con un energico colpo, dirigendola verso l’altra sponda. In quell’istante apparve all’angolo della rocca un’altra imbarcazione in cui si trovava la zia Mechthildis, venuta per sapere che cosa accadesse, avendo veduto dall’alto del suo castello il sopraggiungere di cavalieri. La sua barca urtò tanto violentemente con quella del conte von Homberg, che stava virando, che questi, ritto a prora, precipitò nel Reno ed in pari tempo vi cadde la dama, strillando, e subi­ to si aggrappò con ambedue le braccia al cavaliere som­ merso. La coppia fu tratta dall’acqua non senza fatica con l’aiuto dei garzoni del mugnaio e dei barcaioli, senza che la strega si'staccasse dal cavaliere. Questi vide mortificato che razza di leggiadra sirena avesse pescato, se la staccò di dosso, e ancor grondante balzò a cavallo, sdegnando ogni soccorso e gridando: «Che il diavolo si prenda questi nidi sull’acqua coi loro uccelli bianchi e neri ! », e cavalcò in un sol tratto sino a Zurigo, benché fosse una strada di cinque ore. Egli non molestò più la bella Fides; la zia invece

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venne asciugata, riscaldata e curata al mulino e volle quella stessa notte ripassare il Reno. Nel frattempo Fides, dopo aver ben chiuso il portone d’ingresso, era risalita alla torre, dove stava Johannes con la bambina. La teneva sulle ginocchia e la baciava teneramente sulle guancine, sulla bocca, sulla nuca, pro­ prio come aveva fatto Fides. Essa sopraggiunse proprio in quel momento e lo scorse al riflesso di una grande dorata nube vespertina che spiccava ad oriente, sul Reno. Mentre cercava di prendergli la bimba, questa ridendo giocosamente si strinse sempre più a Johannes, e così lei dovette ben avvicinarsi per scioglierle le braccine dal suo collo ; la bimba le porse allora maliziosa la boccuccia per un bacio e durante questo giuoco i due grandi, dimentichi della bambina, si abbracciarono così stretti che quella, sentendosi soffocare, sgattaiolò via impaurita e si rifugiò in un cantuccio. Di là spalancò la bocca e scoppiò in un forte pianto, credendo che quelle due belle creature, co­ strettevi da chissà quale potenza ostile, si causassero il più gran dolore e si facessero del male. Ma non era affatto così, benché essi, durante i loro baci ineguali, ora brevi, ora lunghi, serbassero facce molto serie. Anzi d’un tratto si alzarono, camminarono un poco nell’angusta cameretta, per sedersi poi di nuovo su di una panchetta in una rientranza del muro, così che le loro teste spiccavano sullo sfondo dorato del cielo ve­ spertino, tanto vicine l’una all’altra che tra i due colli filtrava appena uno spiraglio d’oro. Solo ora Fides s’avvide della disperazione della pic­ cina. La chiamò perché tornasse nel suo grembo, e le asciugò gli occhi, lasciandola poi subito per abbracciare Johannes, e la bimba se ne stette libera sulle sue ginocchia, battendo lietamente le manine. Poi Fides appoggiò una mano sul cuore di lui e disse : — Qui voglio accogliere il mio vero feudo dalla mano di Dio, qui erigere la mia salda rocca e la mia patria, qui dentro abitare con onore ! — È già tutto tuo, e tutto ha salde fondamenta e mura, — gridò maestro Hadlaub — ma io starò sulla so-

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glia come una guardia armata e la proteggerò per te e per me sino alla morte. Fides ascoltò quelle parole con intensa attenzione; esse risuonarono con voce piena e sicura, come se venissero da un altro petto, come se davvero echeggiassero da co­ razza, scudo ed elmo, giù dai merli di una fortezza. Nel frattempo, senza rendersene conto, avevano comin­ ciato a vezzeggiare insieme la bambina e durante questo giuoco non esitarono più a lungo a decidere e a discutere le loro nozze. Fides si appoggiò all’indietro alla finestra aperta, un alito di vento le sollevò per un istante i lunghi capelli scuri, facendoli svolazzare nell’aria dall’altissima torre come una bandiera, quasi per dare l’annuncio che ivi una bella donna gioiva nella beatitudine. Mandarono messaggi in ogni direzione per preparare un vero fidanzamento, ma fecero in modo che gli amici non potessero capire di che si trattasse, ma dovessero anzi credere urgente la loro venuta al castello per allontanare un pericolo, o per portare-soccorso o largire consiglio. Vennero infatti da ogni parte al terzo giorno. Giunse la badessa Kunigunde in una pesante carrozza, con dame e cappellani, e si incontrò stupita col vescovo Heinrich il quale, un po’ indispettito, aveva rifatto il cammino da poco percorso. Vennero anche il signor Rüdiger Ma­ nesse e il signor Leuthold von Regensberg, poi il castaido di Röteln e il podestà di Kaiserstuhl, Heinrich von Rheinsfelden e il cavaliere della Torre di Eglisau, quali vicini e testimoni; giunse pure il padre di Johannes, il vecchio Hadlaub, accompagnato dal figlio minore, che era cresciuto come un querciolo, ed insieme a lui altri due uomini della montagna sopra Zurigo, con armi ed elmetti. La sala del castello era piena di ospiti, che tutti non com­ prendevano a qual fine fossero stati chiamati e si saluta­ vano e si interrogavano stupiti, senza che nessuno sapesse dar spiegazioni. Erano tutti in piedi lungo le pareti, solo il vescovo e la badessa erano accomodati su due sedie. Finalmente apparve nella sala Fides in una veste insolitamente ricca, guidata per mano da Johannes Hadlaub, ed annunziò

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con voce commossa, ma insieme ben decisa ed armoniosa, di volersi fidanzare con questo onesto uomo libero che da anni le era stato devoto con fedele amore, il che non poteva riuscire inatteso o discaro ai degni amici, non esclusi i più intimi, che tutti tanto benignamente avevano tali omaggi favorito. Essa aveva dato a Johannes l’anello nuziale della pro­ pria nonna, donatole un giorno dalla madre, riceven­ done in cambio quello del vescovo, da lui portato. Ora scambiarono solennemente gli anelli e i due nobili per­ sonaggi ecclesiastici si guardarono stupiti e addolorati. Quando poi la coppia si avvicinò per rendere loro onore • e per chiedere la benedizione, il vescovo Heinrich balzò in piedi per fare opposizione. Tacque però un istante, ben comprendendo di non avere il diritto di prendere la parola come padre, giacché Fides non portava e non poteva portare il suo nome. Parlò quindi quale principe e signore del feudo, ma pronunciò solo poche parole, giacché la badessa da parte sua gli andava sussurrando parole placanti, mentre dall’altra parte Rüdiger Ma­ nesse si avanzava per dire con voce indulgente : — Calmati, nobile signore e principe ! Il giovanotto nostro amico, in questo caso, può assumere il feudo ! Poiché il nostro giuoco ha preso una piega così seria, vogliamo accettare benignamente anche questo, quale segno del tempo, e compiacerci se, pure fra il perenne mutamento delle cose, l’amore fedele resiste e vince. Tuttavia fra gli altri cavalieri corse un brontolio di malcontento, poiché ad essi non garbava l’improvvisa avventura. Ma a quel punto il vecchio Ruoff Hadlayb si avanzò a lunghi passi, subito seguito dai suoi amici. — Neanche a me — esclamò — questa faccenda non è mai piaciuta, e non mi piacerebbe neppur ora, se non considerassi Fides una moglie pregevole e ormai perfetta, che merita ogni onore. Mio figlio non ha bisogno di ot­ tenere feudi da nessuno, perché proprio in questi giorni ho avviato per lui l’acquisto di una buona casa di pietra, posta accanto al mercato nuovo di Zurigo, dato che egli vuole proprio far la vita da cittadino. Egli dunque abiterà

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sotto la protezione della città, e però anche di là sarà par­ tecipe ai miei possedimenti sulla montagna ! — Io consiglio — interloquì a questo punto con una risata il signore di Regensberg — di lasciare agli uomini di Zurigo questo leggiadro uccello che non vuol più cantare le nostre canzoni; altrimenti costoro verranno a sequestrarci più di quanto egli valga. I vicini, ai quali s’era principalmente rivolto, si uni­ rono alle risa dichiarandosi soddisfatti, così il fidanza­ mento proseguì senza altri inciampi; anche il vescovo mutò animo d’un tratto, vedendo dagli occhi di Fides che essa rifioriva per vero amore, mentre a sua volta la badessa si compiaceva che la fanciulla e lei medesima si mettessero in pace. Fides preparò un esemplare banchetto e, quando gli ospiti partirono, Johannes, liberato dalla sua prigionia, si recò sino al giorno delle nozze a casa sua, insieme ai parenti ed agli amici di Zurigo. Si dette poi il caso che un cugino piuttosto anziano dei Wasserstelz, da tempo scomparso, ricomparisse reduce da lontane terre e si sposasse con la signora del Wasserstelz bianco, così che anche questa giunse in porto. I diritti feudali di ambo le parti vennero con utili accordi riuniti di nuovo nelle mani di questa coppia, mentre Fides si trasferì, come donna borghese, nell’ambiziosa città. Essa rimase sempre serena e saggia, e di tanto in tanto amava fare una rapida gita sulla montagna vicina, dove i suo­ ceri ancora a lungo si compiacquero di lei. Nessuno di quei signori che ne avevano visto gli inizi potè assistere al compimento del codice Manesse: il si­ gnor Rüdiger Manesse riposava già da tempo nella cap­ pella degli agostiniani a Zurigo ed i genitori di Fides nei mausolei delle loro due cattedrali, divisi dalla terra e dall’acqua. Anche il conte von Homberg chiuse la sua inquieta vita guerriera nell’anno 1320, combattendo da­ vanti a Genova. Hadlaub accolse nel suo libro i pochi canti che di lui rimanevano e gli dedicò un quadro di battaglia, poi, finalmente, chiuse la raccolta e scrisse sotto l’indice: «Quelli che hanno cantato sono cxxxvni».

IL PAZZO DI MANEGG Qualche tempo dopo la passeggiata compiuta dal si­ gnor Jacques col suo padrino, quest’ultimo volle sapere come stesse il giovane entusiasta dell’originalità e quali progressi avesse fatto in materia. In una bella giornata di settembre si recò quindi nella casa dei suoi amici per trovarvi il figlioccio ed invitarlo eventualmente a fare quattro passi fuori porta. Fu accolto con cortesia agro­ dolce, giacché, malgrado i suoi capelli bianchi e l’impo­ nente davantino di pizzo, aveva fama di essere uno di quei signori della fronda, i quali, freddi verso la Chiesa e critici nei confronti delle autorità statali, si guardano bensì dal partecipare realmente ad una qualsiasi attività pratica, ma vengono tuttavia accusati di opinioni radi­ cali, se non frivole, di quelle idee cioè dal cui influsso conviene anzitutto preservare la gioventù. Il vecchio signore non rinunciò per questo ad andare a raggiungere il figlioccio, che trovò all’ultimo piano della casa, nel suo quartiere estivo: una grande camera imbiancata i cui finestroni eran composti da innumerevo­ li dischetti di vetro. In quella stanza c’erano gli armadi più vetusti della casa, non quelli di lusso, in noce, che adomavano corridoi e anticamere dei piani inferiori, ma brutti armadi sgangherati di legno di abete, decorati di fiori e di uccelli. Dal soffitto pendevano ornamenti di­ susati: grandi sfere di vetro con appiccicate all’interno figurine ritagliate di dame in crinolina, di cacciatori, cervi e simili, e riempite poi di gesso, in modo da sem­ brare porcellane dipinte. Alle pareti facevan bella mo­ stra alcuni ritratti di famiglia banditi dalle sale perché di troppo scadente esecuzione. I loro volti sorridevano tutti solo per il motivo che i pittori dovevan foggiarne a quel modo gli angoli della bocca, con l’abituale e rigida curva. L’allegria non motivata di quella vecchia gente produceva quasi un’impressione penosa. Evidentemen­ te gli antenati e i buoni pittori non eran sempre stati contemporanei. V’erano poi anche strani quadretti di­

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pinti con colori resinosi direttamente a tergo di lastre di vetro ed infine alcune incisioni ingiallite riproducenti cerimonie pubbliche zurighesi e parate militari. Per un caso singolare fra queste si celava anche una comicetta dal vetro rotto da gran tempo, con il ritrat­ to inciso di Carlo I, e sopra stava scritto con inchiostro sbiadito : Al re Carlo d’Inghilterra fu il reame tolto in terra. Poiché il serto gli è vietato, pur la testa gli han tagliato.

L’autore di quei versetti non figurava però tra gli avi dal vacuo sorriso lì confinati in esilio; egli anzi, ritratto da un buon artista, viveva in tutt’altra città, nella pina­ coteca di un conoscitore. Era un uomo austero, indossan­ te il costume del Seicento, e le sue folte sopracciglia grigie e i lunghi mustacchi sembravano ondeggiare co­ me banderuole. Rimaneva memoria di lui non soltanto come di uno zelante antipapista, ma in genere come di un miscredente e ribelle, ripetutamente ammonito e mul­ tato; e poiché una segreta tradizione familiare affermava che sarebbe stato meglio se non fosse mai scoppiata una rivolta, mai fosse stato decapitato un re e mai neanche avvenuto lo scisma religioso, quel ritratto era spiaciuto a un pronipote che l’aveva venduto ad un ignoto cono­ scitore di buoni dipinti. Si sarebbe ben voluto allonta­ nare pure il quadretto coi versi irriverenti, ma correva la leggenda superstiziosa che ad ogni tentativo di far ciò si ripresentava di notte il fantasma del vecchio ribelle e riappendeva la cornicetta alla parete con terribili mar­ tellate: lo spavento aveva anzi còlto una volta una per­ sona di casa a tal punto che ne era morta. Al centro del pavimento di piastrelle rossastre c’era il tavolo a cui svolgeva la sua attività il signor Jacques, quando con la buona stagione si ritirava in quel locale non riscaldabile, in attesa di un proprio studio privato, che non gli poteva esser più a lungo negato. All’arrivo del padrino, egli sedeva appunto davanti ad una tavoletta

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da disegno su cui era fissato un gran foglio di pergamena. Su questo spiccava una figurazione a ghirlanda con stemmi cantonali, bandiere, armi, strumenti musicali, libri, papiri, mappamondi, civette di Minerva, fronde d’alloro e di quercia e cose simili, il tutto disegnato da una mano giovanile e inesperta. Specialmente due leoni eran di fattura troppo incerta, sembrava che si fossero irrigiditi, come si direbbe oggi, durante uno stadio in­ feriore di evoluzione e in piena lotta per l’esistenza, e avevano lo stesso stupido sorriso degli antenati alle pareti. Al centro stava appunto nascendo un’iscrizione a grandi lettere: «Sacrario zurighese», ed il signor Jacques era intento a stendere sulle lettere già tracciate l’oro che attingeva da una conchiglia. Ma quanto più denso ve lo applicava, tanto meno esso voleva scintillare. «Non sempre giova l’abbondare, carissimo, bensì il lucidare a modo ! » disse il padrino dopo averlo osser­ vato per un momento; poi prese una pallina d’agata che gli pendeva con altri ciondoli dalla catena dell’oro­ logio, e gli mostrò come valendosi di quella la dicitura dorata si faceva subito lucente. «Ma cosa vuol mai rappresentare questo pasticcio variopinto, e a che deve servire?» domandò al signor Jacques. Questi gli confidò che dal giorno di quella passeggiata aveva meditato sulla perdita del manoscritto Manesse ed aveva escogitato il modo di procurare un degno sur­ rogato alla sua città natale. Gli era venuta l’idea di prodigare la propria vita per raccogliere e per redigere un codice che non avesse uguali in altro luogo: quello era appunto il frontespizio da cui aveva cominciato il lavoro. Si proponeva di narrare in bei versi tutto quanto tornasse ad ornamento e ad onore della città e della re­ pubblica di Zurigo sin dal suo sorgere, illustrandolo con belle immagini, così che lo sviluppo da modesti inizi sino alla perfezione finale procedesse parallelamente al­ l’oggetto dell’opera stessa. Pensava di istituire un tesoro, un’insegna, un albo d’onore che confermasse l’antico mot­ to di Ottone di Frisinga: Nobile Turegum multarmi copia

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rerum! Quel motto era proprio il solo degno dell’elvetica Atene, dell’Atene sulla Limmat ! A quest’ultima espressione il padrino, che aveva pri­ ma sorriso, fece una smorfia come se avesse inghiottito un sorso di birra acida. «Hai già imparato anche tu questo sciocco modo di dire?» disse irritato «Potessi almeno non sentirlo più! Non capite che una vanità, la quale si gonfia a spese al­ trui, e in questo caso a spese di confederati che furono sempre non meno cólti ed intelligenti di noi, una tale va­ nità rimane pur sempre un vizio, sia essa rivolta alla propria persona o alla comunità cui s’appartiene? Indivi­ dualmente si fa sfoggio di una certa rigida e frigida mo­ destia, ed ognuno bada all’altro perché non si dia troppe arie, ma in compenso si celebrano orge di vanità collet­ tiva, tanto che ne grondano i musi, e non esiste immagine forte abbastanza per confermare l’eccellenza di tutti! Per questo si vedono girare attorno certi tipi debolucci, quasi rovinati dalla boria collettiva, proprio perché la loro personalità è insufficiente a reggere così inaudito peso ! Ma tutto ciò lo sperimenterai tu stesso, e forse vi parteciperai; per ora non perdiamo tempo, andiamo piut­ tosto insieme all’aperto, se non hai nulla in contrario!». Jacques aveva ascoltato con aria intimorita, non sapen­ do ben valutare le esagerazioni del vecchio brontolone; quel primo scontro con l’idea che anche un’illustrissima città natale, anzi forse una patria intera, potesse, al pari di una persona singola, offrire un lato debole, anzi per­ sino ridicolo, gli serrava il cuore, così che l’invito del padrino gli fu grata liberazione. Si trovaron d’accordo nel voler ripetere la visita alle rovine del castello Manegg e ben presto si misero in cammino. Dopo essersi ben ristorati nella fattoria ai piedi del ca­ stello con una merenda secondo gli usi locali, di cui an­ che i ricchi, per la loro vita semplice e parca, avevano ad ogni ora desiderio e possibilità, risalirono il colle. Sotto gli ampi ombrelli delle snelle conifere si misero un poco in libertà. Il padrino accese la sua pipa di schiu­ ma ed offrì un sigaro al signor Jacques, per insegnargli

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a fumare. In passato il padrino aveva aspirato alla mano di sua madre e, dacché la cosa era andata male, aveva sempre condotto contro di lei una piccola perfida guerra. Pur mostrando ogni interesse all’educazione ed ai pro­ gressi del rampollo, non sapeva mai rinunciare a far dei piccoli dispetti alla severa genitrice, fedele al proverbio : «Antico amore non fa ruggine». Così quel giorno gli dava una soddisfazione particolare riaccompagnare a casa Jacques allievo fumatore. Ma arrivava già in ritar­ do: Jacques sapeva ormai fumare, avendo appreso que­ st’arte subito dopo la festa dell’artiglieria, quando aveva dovuto reggere le pipe. Andavano dunque fumando e girellando in su e in giù per i terreni del castello, come se fossero stati in uno studio, e Jacques si teneva con dignità a fianco del vecchio padrino, interrogandolo sulle sorti ulteriori della stirpe dei Manesse e del castello Manegg.

— Sui suoi diversi rami — raccontò il vecchio — sono fiorite ancora per più di un secolo alte dignità ecclesia­ stiche e laiche, e meno illustri germogli. Uno solo tutta­ via s’è distinto quale pari per virtù all’amico della poe­ sia, cioè il suo pronipote Rüdiger, che fu per cinquant’an­ ni consigliere e capo del Governo di Zurigo. Anche que­ sti fu esemplare nell’azione e nella vita, saldo e sereno, senza però mai darsi atteggiamenti da uomo singolare. Dalla scuola e dalla storia delle nostre corporazioni tu ben sai che nel terzo decennio del quattordicesimo secolo anche a Zurigo lo Stato patrizio degli auctoctoni s’è tra­ sformato in un libero Stato borghese, secondo le condizio­ ni di quell’epoca, e che alcuni anni più tardi esso aderì alla giovane Lega dei Confederati, per trovarvi protezione contro le potenze straniere ostili. Durante questi trapassi, la famiglia dei Manesse, che da oltre un secolo aveva par­ tecipato al reggimento della cosa pubblica, tenne le parti della città e dei tempi nuovi, simpatizzando per i borghesi e per la libertà. Questo buon sangue si rivelò più che mai schietto nel giovane Rüdiger, che nell’ora del pericolo raggiunse così una originalità reale e classica.

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Anche la vicenda di Dätwil del Natale del 1351 ti è nota. Il primo borgomastro del nuovo regime, Rudolf Brun, mosse con la schiera dei combattenti zurighesi e senza altri aiuti ad affrontare le forze absburgo-austriache che avevano ripetutamente minacciato la città. Non le trova al posto atteso, ma verso sera si vede d’un tratto accerchiato in un fondo di valle dalle loro soldatesche in soprannumero, le quali hanno occupato tutte le alture. Ed ecco che il primo responsabile del nuovo stato di cose, il saggio, astuto ed energico capopopolo, il quale in nome del popolo ha accentrato ed esercitato ogni di­ gnità e potere, lui, sempre primo a parole, perde di colpo ogni coraggio e fugge dal campo di battaglia cercando riparo. Già una volta in un’ora decisiva, neH’imminenza del pericolo, mentre la congiura dei proscritti infuriava di notte per la città, aveva accettato il sacrificio della vita di un suo devoto, scambiando con lui il mantello. Ciò era stato considerato un evento fortunato e utile, ma ora per la seconda volta egli si mostra capace bensì di versare il sangue altrui, ma non disposto ad offrire il proprio. Il cader della notte trova il piccolo esercito smarrito e mi­ nacciato dal disastro, quand’ecco che si fa avanti Ma­ nesse, il luogotenente di Brun, calmo come se nulla fosse accaduto. Egli prospetta la fuga del capo come natura­ lissima e necessaria, come una misura prudenziale, e rac­ coglie poi, con voce tonante e con incitamenti entusia­ stici, tutti i cittadini per l’estrema difesa, resiste saldo e impassibile fra il fragore e l’urlio della battaglia che divampa e che si prolungherà poi nella notte nell’oscu­ rità, e alle prime luci dell’alba rientra vittorioso in città con bandiere e bottino, portando con sé le salme dei fra­ telli caduti. Quando il favore popolare torna a volgersi rapido al capo fuggiasco, e lo riaccompagna dal suo na­ scondiglio con il gonfalone della città, salutandolo con so­ lennità padre prudente, Manesse, senza batter ciglio, ca­ valca a lato dell’orgoglioso signore e conserva taciturno e tranquillo il suo ufficio in sottordine, giacché è convinto esser bene che un fondatore di libertà si conservi in onore presso il popolo, sinché almeno è ancor valido e capace.

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Questo Manesse mori in tarda età, se non m’inganno circa nel 1380, e con lui tramontò l’astro di quella di­ scendenza; i suoi figli vissero oscuri, poiché tutto è desti­ nato ad aver fine, e fu precisamente Ital, il minore, che perdette poi questo castello. Ital Manesse era al pari dei suoi avi uomo simpatico ed intelligente, ma gli mancavano pazienza e fiducia; pareva dovesse intuire ed affrettare il declino della sua stirpe. Non seppe resistere in alcuna attività. Da ogni occupazione lo faceva deviare una smania inquieta, e sgusciava penosamente di mano a tutti coloro che gli volevano bene, proprio quando credevano di tenerlo sal­ do. A quel modo le cose sue andaron di male in peggio; dovette disfarsi l’un dopo l’altro di possessi, poderi e ter­ reni, indebitandosi sempre più. Dato il suo inquieto modo di vivere, lo chiamavano tutti «il cavaliere Ital che non è mai a casa». Quando nel 1392 fu tenuto un gran torneo a Sciaffusa, al quale accorsero centinaia di prìncipi, di conti e di no­ bili, vi partecipò anche Ital, trovandovi una buona oc­ casione per portar lontano da casa il suo cuore esagitato. Data l’antichità della stirpe e la gloria del nome, venne a trovarsi in buona compagnia e si acquistò il favore di una ricca ereditiera del Cantone di Thurgau, la cui mano avrebbe potuto liberarlo da ogni difficoltà. Conscio della propria cattiva situazione, si mantenne timido e riservato verso la benigna bellezza della indipendentissima dami­ gella, che in compenso, per dargli tempo e modo di pen­ sarvi, riuscì con gentile presenza di spirito a fargli sapere durante una festa che di lì a non molto avrebbe fatto visita ad una cugina ritirata nell’abbazia di Zurigo. Pieno di speranza e di gioia, ma anche di nuova inquietudine, il cavaliere lasciò il torneo col suo servitore e andò va­ gando per settimane di luogo in luogo, per passare il tempo distraendosi con amici. Quando rientrò finalmente in patria, aspettandosi di veder comparire la bella dama, non la vide e apprese soltanto che essa aveva trascorso sette giorni a Zurigo, ma ne era poi ripartita. Visse ormai senza gioie, vedendo sempre più svanire il

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suo benessere. Passato circa un anno, al ritorno dell’e­ state, un bel giorno scese dal castello Manegg, dove vi­ veva in solitudine, per recarsi in città. Nei suoi dintorni incontrò dame a passeggio e con gran sorpresa scorse tra loro la signora di Thurgau. Questa non si attenne a fredde formalità, ma accolse il suo saluto con palese favore, non volendo perdere tempo in modo pericoloso. Ital Manesse le stava fisso in mente e per lui soltanto era ritornata a Zurigo, evitando invece altri aspiranti di ottima origine. Le amiche che l’accompagnavano, intuendo bene l’a­ nimo di lei e volendo aiutarla, costrinsero l’inquieto ca­ valiere a sostare e a passeggiare un’ora con loro e cerca­ rono anche con abilità di stabilire ulteriori accordi per impegnarlo ad una prossima visita. La bella impaziente interruppe però quelle trattative, dichiarando che in uno dei prossimi giorni intendeva recarsi in persona al ca­ stello del cavaliere, desiderosa di vederlo e fiduciosa che egli le avrebbe accordato ospitalità per un quarto d’ora. Naturalmente Ital Manesse accettò volentieri il compito di impegnarla a mantenere tanto benigna promessa, poi prese congedo dalle dame e si affrettò con gran letizia ver­ so la città, per andare a prendere nella casa paterna belle porcellane, tappeti ed altri arredi che ancora vi si trova­ vano e portarli al castello Manegg. Dedicò la giornata seguente ad adomare come meglio potè la sua rocca, aiutato dal vecchio servitore, l’unico rimastogli, che gli faceva ormai da maniscalco, da cop­ piere e da cuciniere. Questi apprestò le provviste ne­ cessarie ad ospitare degnamente la visita graziosa e si tenne pronto a infornare in gran fretta, al momento giu­ sto, qualche dolce, del che era anche capace. Il terzo giorno tutto era pronto ed in cielo splendeva un magnifico sole; il vecchio scese alla fattoria ai piedi della rocca, per assicurarsi che vi fossero eventualmente dei piccioni o un paio di galletti e per disporre anche che al primo cenno comparissero al castello una o due donne decorosamente vestite pronte a dargli aiuto. Ma all’improwiso corse indietro in gran fretta a raccontare che un cinghiale sbucato dalle grandi foreste era entrato

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a devastare i campi della fattoria. Subito il signor Ital prese armi e cani e ridiscese col servitore in cerca di selvaggina. Giunto al portone, prima di metter piede fuori, pensò per un attimo se non fosse meglio restare a casa, dato che la bella visita avrebbe potuto giungere proprio quel giorno. Ma gli parve improbabile che alla donna sembrasse conveniente mostrare impazienza ve­ nendo tanto presto; e se ne andò quindi senz’altro. I due appassionati cacciatori chiusero accuratamente il por­ tone, presero la chiave e risospinsero la selvaggina verso le foreste, tornando al calar della sera con una discreta preda, avendo aggiunto cioè ottimi arrosti alle loro prov­ viste. Ma purtroppo tutto era ormai superfluo, perché la nobile damigella era venuta proprio in quel giorno. Ac­ compagnata soltanto da una servente e da un garzone del convento, era rimasta davanti alla porta chiusa senza trovarvi accesso. Dopo aver lasciato che il suo uomo bat­ tesse e chiamasse invano e dopo aver sostato una mezz’o­ ra seduta su un sasso, si credette derisa e spregiata e ripre­ se la via del ritorno taciturna e mortificata, ma ben salda e decisa. Ora arrossendo violentemente, ora impalli­ dendo, non staccò lo sguardo dal sentiero che percorreva, e appena rientrata in città si apprestò alla partenza, che ebbe luogo quel giorno stesso. Essa era ormai dunque già perduta per il cavaliere «che non era mai a casa» quan­ do questi giunse al suo portone, ignaro che la dama l’avesse inutilmente aspettato. Inutilmente rimase a sua volta in attesa per parecchi giorni e non vedendo nessuno si ritenne a sua volta scher­ nito. Fece portar via quanto aveva preparato e lasciò che le cose andassero alla deriva. Durante i suoi irrequieti viaggi incontrò bensì una magra nobildonna dell’Aargau e se la sposò in gran furia. Con questo affrettò però soltanto il suo declino, e si vide presto costretto a vendere la casa di città nonché il pode­ re con il castello Manegg ad un ebreo, la cui vedova più tardi cedette il castello alle monache cistercensi di Seldenau, ovvero, come diciamo ora, Selnau. Verso il

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1409 il castello di quelle monache andò distrutto dal fuoco per colpa di un pazzo, che aveva perduto la ragione per la mania di voler essere e di voler rappresentare qualcosa di diverso da quel che era. Questo sciagurato passava per una specie di discen­ dente dei signori Manesse. Uno dei figli del cavalier Rüdiger, il raccoglitore di canzoni, che era pur stato canonico a Zurigo, aveva lasciato quattro creature, figlie illegittime, come dicono gli antichi documenti, di tre «donne notturne». Non staremo a descrivere qui di che donne si trattasse, poiché non ne verrebbe nulla di buono ; ma insomma da una di queste figlie illegittime nacque un figlio, e a questi la madre seppe procurare i benefizi ecclesiastici della Cappella di Sant’Egidio, posta ai piedi del castello Manegg e fondata dalla famiglia dei Manesse. Quel piccolo prete in solitudine cercò pure compagnie notturne, e continuò così l’ardente stirpe che per un buon secolo si fece qua rosolare dal sole, sempre legata al pen­ dio di questo colle. Essi avevan vaga coscienza del san­ gue che scorreva in parte nelle loro vene e ritornavano quindi di continuo ai luoghi dove avevano vissuto le loro oscure antenate. Un ultimo rampollo della stirpe fu dunque il pazzo di Manegg, chiamato anche Falätscher, Buz Falätscher, per­ ché viveva in una vecchia casupola di creta giù accanto al­ la Falätsche, la profonda spaccatura lasciata da una frana, che possiamo di qui scorgere nella sua nudità spaventosa. Dato che di tanto in tanto precipitano ancora lungo la ripida parete ciottoli, pietre e masse di sabbia, quella ca­ panna sarebbe stata una pericolosa dimora senza un incolto ammasso di cespugli alle sue spalle che veniva formando con l’abituro una specie di isoletta fra il pie­ trame. Buz Falätscher aveva un’aria non meno desolata della sua casa. Alto e scarno, indossava una tunica messa in­ sieme da lui stesso con pelli di lontra ; in estate vi aggiun­ geva un cappellino di vimini intrecciati ed in inverno un cappuccio fatto con la pelle di un vecchio cane lupo. Il suo volto non rivelava se fosse vecchio o giovane, ma

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in esso v’erano molte piccole zone in eterna vibrazione, come pozze d’acqua mosse dall’aria, e sempre pareva che in esse lottassero impudenza e melanconia, mentre gli occhi fissavano l’interlocutore con un balenio scrutatore, curiosi del successo che gli riusciva di suscitare. Infatti, fosse notte o giorno, avesse fame o fosse sazio, appena incontrava un essere umano, si metteva a fargli la predi­ ca, cercando di abbindolarlo in qualche modo, di co­ stringerlo a qualche credenza e di strappargli un con­ senso. Avrebbe dovuto avere da bambino la solita istruzione, ma aveva a malapena imparato a leggere e a scrivere e a distinguer poche parole latine, mancandogli vera intel­ ligenza, malgrado la sua parlantina. Girava il paese men­ dicando come un povero prete o un cappellano e tormen­ tando i contadini con la continua aifermazione che gli sarebbe toccato un giorno far da canonico in un grande monastero al pari dei suoi proavi, che era anzi destinato ad esser prelato, sino a quando di colpo decise di voler diventare uomo d’arme e capitano. Si trasformò allora in soldato ed accorse ad ogni rissa e dovunque partisse una piccola o grande schiera, sia nelle lotte intestine di quei tempi, sia contro la Savoia, sia nella prima guerra mila­ nese e così via. Sentiva un impulso indomabile a segna­ larsi, a cercare dovunque il pericolo portandosi nelle pri­ missime file ; quando però il pericolo gli stava proprio di fronte, involontariamente sempre se la svignava, per van­ tare però più tardi e con sguardi truci il coraggio dimo­ strato, il che era in fondo lecito, giacché in realtà egli s’era sentito coraggioso. Questo divertiva a tal punto i suoi baldi compagni d’arme, di solito insofferenti di ogni codardia, che essi si portavano volentieri con sé Buz a mo’ di buffone, mantenendolo generosamente. Lo obbli­ gavano però, quando la giornata era grave, a trattenersi nella retroguardia, malgrado la sua impazienza; e Buz ne deduceva la loro intenzione evidente di risparmiarlo per un più serio frangente. Un giorno però non resistette a quell’inazione. Si tro­ vava con truppe confederate in Lombardia, non lontano

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da un esercito di mercenari italiani. Correvano allora trattative fra i Visconti e gli Svizzeri, e per questo la lotta aveva subito una sosta : Buz approfittò di quel mo­ mento per mettersi finalmente in vista. Si fece avanti e sfidò un capo delle truppe italiane a singoiar tenzone, e lo fece con parole così audaci, che quello accettò la sfida. Siccome però l’italiano dal canto suo era pure un grasso e grosso fanfarone, gli Svizzeri, per prendersene giuoco, permisero che l’avventura avesse il suo svolgi­ mento. Le due parti stavano accampate di fronte. Il capo nemico, un Golia tutto in armi, avanzò con la gran lan­ cia, mettendosi in posa terrificante. Buz gli andò incon­ tro a passi decisi, armato dai suoi compagni di tutto punto, come fosse egli pure un capo, gravato da elmo, scudo, spada e lancia. Sbuffava eccitato, ma non esitava, e procedette rumoroso pel tintinnare dell’armatura fin che si trovò a due passi da quel leone minaccioso e ne potè vedere il bianco degli occhi. Si mise in positura marziale, abbassò la lancia fissando impaurito la faccia dell’avversario, ma appena quegli alzò a sua volta l’asta, Buz si rigirò perfettamente sul proprio osso sacro, come fa una porta sui cardini, e si diede a correre con la rapi­ dità di un ragno attraverso i campi, a grandi balzi, finché si sentì al riparo dietro le schiere dei suoi com­ patrioti. Lo spettacolo era tanto divertente che una fragorosa risata echeggiò da ambedue gli accampamenti e che i mercenari italiani, considerando la scena uno spettacolo loro gentilmente offerto, mandarono agli Svizzeri una botte di vino, al che questi risposero con l’invio di un maiale grasso. Dal divertimento provocato, Buz Falätscher comprese finalmente come stessero le cose circa le sue virtù mili­ tari: abbandonò di colpo il piccolo esercito e riprese, per le montagne, la via del suo paese. Mentre scendeva la valle della Reuss, le pareti roc­ ciose erano immerse nelle nuvole e pioveva in modo tanto fastidioso che l’acqua gli entrava per il collo e gli usciva dalle scarpe. Pianse allora amaramente, senten­

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dosi dovunque misconosciuto e maltrattato, e quanto più cresceva il diluvio, tanto più il povero guerriero ge­ meva e singhiozzava, finché fu raggiunto da una don­ netta che camminava coraggiosamente in calze rosse, tenendo appesa al braccio una cuffia bianca tutta gual­ cita e reggendo in bilico sul capo con grande abilità, senza aiutarsi con la mano, un fagotto di tutta la sua roba. Questa donnetta o ragazza, dopo essergli passata innanzi di qualche passo, si voltò e gli chiese chi fosse e perché mai piangesse a quel modo, pur avendo una lan­ cia tanto lunga per difendersi dai torti della vita. Lui rispose che era un poveruomo malvoluto da tutti ed al quale nessuno voleva prestar fede. La donnetta allora rispose impietosita che lei gli avreb­ be voluto bene e avrebbe creduto a tutto quel che gli piacesse. Era una povera creatura senza giudizio, la quale, come Buz era assetato di stima, così aveva gran smania di marito, e che appunto andava pellegrinando in cerca di un uomo. Buz intanto, non sembrandogli la donna affatto brutta, lasciò che le lagrime, per quel che era possibile in quell’aria umida, si prosciugassero, poi rivolse la sua faccia e i suoi pensieri alla mutata situazione. Si rese subito conto che soltanto chi è capo di una fa­ miglia può anche divenire capo di molte cose. Quanti, si disse, soltanto per il consiglio di una moglie saggia, son diventati membri del coro o persino borgomastri ! E benché io sia pur sempre più intelligente di ogni donna, questa ha l’aria furba, altrimenti non avrebbe ricono­ sciuto al primo sguardo chi io sia ! Continuarono così insieme il cammino e Buz, al posto del grado di capitano, portò a casa una brava mogliettina, o meglio la portò in quella capanna di creta di cui si è parlato, già mezzo rovinata. «Non è una bella fatto­ ria?» domandò alla donna con voce seria, ed essa assi­ curò che era la dimora più splendida, che avrebbe potuto desiderare. Cominciò senza indugio a riparare le pareti ed il tetto di paglia, ed a rendere la casetta più abitabile, giacché era robusta ed abile in molti lavori, cosi che per parecchi anni mantenne il marito. Questi infatti non fa-

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ceva altro che bighellonare, immischiandosi nelle fac­ cende altrui ed aizzando le persone l’una contro l’altra per darsi importanza, sino a che non lo scacciavano. Allora tornava a casa, pretendeva i suoi pasti, ed insieme le lodi per le sue imprese, da lui descritte ed esaltate senza tregua, e se poi la mogliettina non gli credeva del tutto e non lo lodava, la picchiava e la maltrattava terribil­ mente. La poverina buscava per ogni elogio ricusato ber­ noccoli e lividi, tanto che alla fine, se appena lo vedeva arrivare da lontano, usciva davanti alla capanna ed al­ zando spaventata le mani inneggiava alle sue imprese ancor prima di conoscerle. La buona donna continuò così alla peggio, finché la felicità di possedere un marito non fu superata dai dispiaceri che questi le procurava. Non avendo avuto da lui bambini che le facessero passare il tempo e le allie­ tassero il cuore, perdette la pazienza e cominciò a mo­ strarsi recalcitrante nelle sue lodi. Quando una sera Buz rientrò e concluse il racconto del suo lavoro giornaliero proclamando che non si sa­ rebbe dato pace sinché non fosse tornato nello stato dei suoi avi e proclamato cavaliere, essa imprudentemente borbottò : Calza e toglie gli stivali, ma quel bel divertimento nulla porta a compimento ! «Che cosa vorresti dire?» domandò il marito stupe­ fatto, guardandola con tanto d’occhi. «Oh,» replicò lei «mi è solo venuto in mente un ta­ le del mio paese, che chiamavano Strascicastivali : aveva fatto voto di cavalcare sino a Gerusalemme ed ogni mat­ tina calzava un paio di stivaloni, per toglierseli la sera, senza mai però allontanarsi da casa, e perché gli stivali non si consumassero da una parte sola e non perdessero la forma, li alternava ogni giorno. Ciò malgrado, quelli finirono e morì anche il cavallo senza che egli mai fosse andato a Gerusalemme!». L’uomo s’accorse allora che neppure sua moglie gli

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credeva e che anzi lo scherniva. Le si lanciò contro, stringendole tanto la gola, che quella si fece livida in volto e per un po’ di tempo rimase distesa a terra come morta. Più tardi però, mentre il marito dormiva, si ri­ prese, si vestì da viaggio, raccolse le sue poche robe ed abbandonò la capanna, non senza avergli prima pre­ parato la solita colazione. La povera donnetta s’allon­ tanò nella notte buia e sparì per sempre da quella re­ gione. Il mattino seguente Buz fu stupito di trovarsi solo in casa. Mangiò quel che c’era e per parecchi giorni aspettò il ritorno della moglie che era stata per lui una vera fata. Non vedendola riapparire, molto si addolorò e turbò; la fame lo spinse tuttavia a procurarsi da mangiare, il che fece istintivamente cercando nell’acqua e nelle terre in­ torno. Fece la posta ai tassi, acchiappò grossi topi di campagna nei prati e lontre nei torrenti, nonché sva­ riati uccelli nella boscaglia, acquistando grande perizia nel catturar tutti questi animali, non da vero cacciatore, ma come una bestia rapace, e delle pelli si servì per vestirsi. In questo modo la sua pazzia assunse una forma re­ golata, e quando un giorno scoprì che il castello Manegg, allora di proprietà delle monache, era del tutto disabi­ tato, andò a stabilirsi in quelle stanze abbandonate e si proclamò cavaliere Manesse di Manegg. Nessuno pen­ sò di disturbarlo, anzi per compassione gli fu dato qual­ che soccorso, che egli accettava con aria di degnazione. A poco a poco, mettendosi addosso sopra le sue pelli di lontra qualche pezzo di armatura arrugginita ed infi­ lando una penna di gallo nel cappelluccio di vimini, si attentò a scendere in città, dandosi le arie di cavaliere. I discorsi sconclusionati che teneva, e specialmente le strane smorfie di cui si dilettava, fecero di lui un grato divertimento nelle osterie di quella gente piuttosto gros­ solana: venne trattato con generosità e spesso messo in burla ferocemente, il che egli tutto subiva con la ben nota furberia dei folli. Purché lo riconoscessero cavaliere era soddisfatto, ma con segreta prudenza si guardava

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bene dallo scervellarsi circa la sincerità di quel ricono­ scimento. Persino i nobili che convenivano in una stanza alla lo­ canda del «Mastino» non sdegnavano di accogliere quel tipo bizzarro, ed i veri cavalieri finirono per abituarsi, con profondo senso dell’umorismo, ad aver compagno dei loro festini quel poveraccio dalle pelli di lontra, quasi a simbolo ed emblema della vanità di tutte le cose umane. In una di tali occasioni, era una festa autunnale, il signor Ital Manesse «che non era mai a casa» aveva portato con sé, del suo patrimonio ormai sfumato, la grande raccolta di canzoni amorose, di cui poco tempo prima e dopo lungo oblio si era tornato a discorrere. Quel libro risaliva ormai, almeno per i suoi inizi, a più di cent’anni avanti. Parecchi gruppi della brigata di giovani cavalieri si compiacquero di osservare le imma­ gini e la bella scrittura, per vero dire ancora chiara e de­ cifrabile soltanto ai più esperti ed anziani, mentre spe­ cialmente alcuni ospiti forestieri mostravano interesse e stupore nello scoprire in quei quadretti chiari e lucenti i loro stemmi e i ritratti dei loro antenati amatori del can­ to. Un giovane barone di Sax vi scoprì persino due suoi avi, il frate Eberhard ed il signore Heinrich von Sax e ne lesse con commozione le poesie, già da gran tempo sparite e dimenticate nella sua famiglia. Anche quel giorno era presente il pazzo di Manegg e, specialmente a tarda sera, serviva a divertire quei signori coi suoi discorsi. Fosse però la voce ammonitrice del passato o un senso di dolcezza emanante da quel libro, certo si è che gli scherzi rivolti quel giorno al pazzo si mantennero più bonari e discreti. Soltanto Ital Manesse che, com’era comprensibile, sentiva più profondamente di tutti l’avvicendarsi delle sorti terrene, si compiacque con una certa impetuosità di spingere il pazzo, suo successore nella rocca avita, a bere in abbondanza, senza rimanere indietro a sua volta. Quello però non pareva diventar più stolto per effetto del vino, mentre Ital andò a dor­ mire semiubriaco a tarda notte. La mattina seguente si recò per tempo alla sede della

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corporazione per riprendersi il libro dimenticatovi la sera, ma esso non fu più trovabile, malgrado ogni ricerca. Generale fu la deplorazione per il caso sfortunato, che Ital stesso accolse come un nuovo colpo della sua triste sorte. Non cadde sospetto su Buz Falätscher, il quale aveva carpito il codice portandoselo al castello, perché quel mentecatto era ritenuto troppo zotico per aspirare a quel tesoro letterario. Si tendeva piuttosto a supporre che qualcuno degli ospiti non avesse saputo resistere alla tentazione, dato che già a quei tempi esistevano i bi­ bliofili ladri. Ci si limitò quindi a vaghe ricerche. Nel frattempo Buz nella sua rocca disabitata covava per giornate intere quel libro che gli riusciva di leggere solo in parte; giunse a farsi una pallida idea di quel che conteneva e decise senz’altro di essere un antico cantore d’amore. Buttò giù in pessima scrittura, senza nesso né intelligenza, alcune pagine e vi aggiunse versetti di pro­ pria invenzione, versi dal tono tremendo che echeggia soltanto nelle menti ottenebrate e che nessuno potrebbe imitare. Quando girava per il paese, portava con sé quegli elaborati e, incontrando per i sentieri di un bosco o in una strada solitaria persone incólte, le affronta­ va con aria misteriosa e si accompagnava loro ostina­ tamente, cosicché gli prestavano orecchio e lo dichiara­ vano ottimo e dotto maestro cantore. Se qualcuno invece si mostrava renitente o peggio rideva, il pazzo gli faceva gli occhiacci e dava di piglio al lungo coltello di cui si serviva per infilzare le lontre nuotanti sott’acqua quando andava a caccia. Divenne a quel modo pericoloso persino ad un caccia­ tore ben armato che incontrò nel fitto del bosco, giacché la sua Ìndole appariva ormai mutata ed egli non indie­ treggiava più di fronte ad alcuna minaccia. Riuscì ad attirare nella sua rocca di Malaparte altre persone, po­ nendole in tali frangenti, che solo a stento si sottrassero a quelle mura e a quel pericolo. Teneva intanto accurata­ mente nascosto il codice rubato e non si lasciava più vedere in città. Il mercoledì delle Ceneri che seguì a quel festino au-

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tunnale, i cittadini erano adunati a banchetto in tutte le sedi delle loro corporazioni, per chiudere degnamente le gioie carnevalesche. Anche i cavalieri erano raccolti al «Mastino» coi loro amici, senza però il pazzo, del quale anzi notarono l’assenza. Si venne a discorrere delle sue ultime follie e violenze, e cadde allora il velo dagli occhi di quei signori, i quali si persuasero che il canzoniere sparito non potesse essere che su, al castello Manegg. Subito i più giovani della brigata, emozionati ed ecci­ tati dal vino, decisero di fare un’allegra spedizione contro il pazzo, dando assedio ed assalto al castello per ricon­ quistare il libro. Circa venti giovanotti si provvidero di torce e uscirono dalla città a suon di tamburi e di fischietti, come per un allegro corteo. Lungo la via si unirono a loro giovani di altre corporazioni, cosicché alla fine mar­ ciò nella notte al lume delle fiaccole una schiera di circa cinquanta uomini risoluti, in parte ancora mezzo ma­ scherati, che non dimenticarono di portar con sé, su di un carretto, una botte di vino, e di provvedersi larga­ mente di brocche e di calici. Era già passata la mezzanotte quando la baldanzosa compagnia giunse presso il castello. Rullio di tamburi e chiasso di canti destarono il pazzo, che scorse il bosco circostante tutto illuminato dalle torce. Si mise a correre di gran furia per il castello con un lumicino in mano, co­ me si potè osservare dal riflesso che rapidamente guiz­ zava da una finestra all’altra, ora in questa ora in quella sala, finché lo si scorse su, nella torre, mentre un gruppo di uomini era giunto al ponte d’ingresso e batteva vio­ lentemente al portone. Buz scese e s’affacciò ad una fendi­ tura della muraglia sovrastante. Colui che picchiava per entrare era ravvolto in una pelle di orso, o meglio indos­ sava il costume dell’orso che i macellai ogni anno usavano portare attorno in quella giornata. Il pazzo si ritrasse atterrito, credendo che l’inferno intero fosse venuto ad assalirlo. Dopo che lo ebbero invano invitato alla resa della fortezza e ad aprire il portone, questo fu sfondato per mezzo di una trave strappata alla balaustrata del ponte e l’orso entrò insieme ad alcuni compagni con

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variopinti berretti da giullari per scovare e catturare il folle assediato. Ma nello stesso tempo dall’altra parte del castello un imprudente lanciò la sua torcia facendole compiere un ampio arco al di sopra del fossato sin dentro una finestra, piuttosto per dimostrare la propria forza che per far danno. Sciaguratamente ebbe forza sufficiente a far ca­ dere la torcia nell’interno della stanza, dando fuoco al giaciglio di fieno ancor caldo del pazzo. Soffiava in quel risveglio di primavera un forte scirocco, così che ben pre­ sto il vecchio edificio cadente fu in fiamme, ed il povero pazzo s’aggirava urlando pietosamente, preso in mezzo tra le fiamme e l’orso. A questo punto il signore di Sax, che aveva partecipato all’impresa anzitutto per amore del libro, penetrò nel castello cercando di salvare il tesoro. Ad onta del pericolo inseguì il pazzo, quando già l’orso col pelo bruciacchiato si ritraeva insieme ai compagni: gli riuscì di afferrarlo e s’accorse che quello per fortuna aveva d’istinto portato con sé il libro e lo stringeva spa­ smodicamente. Con gran stento l’ardito ed abile giova­ notto trascinò fuor dalla rocca incendiata il pazzo insieme al libro, ma il poveretto era ormai già spirato per la paura o la debolezza. Distesero il morto sul muschio verde, sotto gli alberi : giaceva finalmente in pace, liberato dal tormento di voler essere quello che non era e si addormentava final­ mente con lui una vita falsa, trascinatasi nell’ombra per oltre cent’anni. I cavalieri, fattisi taciturni, bevvero il loro vino seduti in cerchio all’intorno, non però eccessivamente contriti, ed osservarono il crollo del castello, il quale mandava le sue ultime fiamme verso il cielo nel primo riflesso rosato che sorgeva ad oriente. Alcuni alberi vetusti, testimoni dei suoi giorni migliori, ardevano con la rocca, deponendo ai piedi della vicina che si consumava le loro corone in fiamme. II signore di Sax precedette nel ritorno la brigata, tenendo il libro ravvolto nel suo mantello, e trovò ancora al «Mastino» Ital Manesse, ultimo ospite, seduto dietro

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all’ultimo bicchiere, pallido e gelido come la luce del mattino che penetrava nella sala. «Eccoti il libro!» esclamò gioiosamente. Ital lo sfo­ gliò per qualche momento : era intatto. Poi lo chiuse e lo porse all’amico, dicendogli pacato: «Prendilo e conservalo nella tua salda fortezza di Forsteck; sarà là meglio custodito che in mano mia!». Cosi il libro venne nelle mani dei signori di Sax e rimase per due secoli a Forsteck. Allorché nel 1615 gli Zurighesi comperarono i possedimenti dei Sax, il volume era di nuovo sparito. Correva la leggenda che dallo scoglio sul quale si ergeva sul Reno la rocca di Forsteck sgorgassero in piena estate, quando c’era bel tempo, se di lì passavano dei viandanti, gradevoli suoni, quasi una musica di tante campanelle d’argento e di violini. Il popolo la diceva musica degli gnomi della montagna, il naturalista Scheuchzer al contrario la riteneva effetto della formazione di stalattiti nelle viscere dei monti. Noi sappiamo invece che erano gli spiritelli benigni del libro di canzoni a risuonare armoniosi, quasi per gratitudine, perché l’ultima signora di Hohensax si era indotta solo a malincuore e dopo lunga esitazione a lasciarsi strappar quel manoscritto dal principe Elettore del Palatinato e dai suoi dotti.

Quando il racconto della fine del castello di Manegg fu giunto a termine, anche il sole era sceso dietro la vicina parete montuosa, e benché il paesaggio lontano ne rimanesse ancora illuminato, il vecchio ed il giovane zurighese presero la via del ritorno. Il signor Jacques era però estremamente taciturno e pensieroso,, non chiedeva ulteriori delucidazioni e commenti, come aveva fatto la volta precedente, quando il padrino gli aveva narrato la storia di Hadlaub. S’era accorto dell’insistenza con cui il vecchio aveva sottolineato la malattia di voler essere quello che non si è, e gli stava sullo stomaco anche la faccenda della «Atene svizzera». Il suo protettore notò l’imbarazzo dei suoi pensieri, ma si guardò dal di­ sturbarlo.

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Giunto alla casa paterna, Jacques salì senz’altro nella sua stanza piena di cose bizzarre, dove si diede a consi­ derare nella penombra del crepuscolo il frontespizio del «Sacrario zurighese». Meditò sospirando se egli fosse proprio la persona adatta a condurre a buon fine così grande opera e, poiché questo gli sembrò sempre più dubbio, mentre l’infelice pazzo di Manegg gli aleggiava davanti agli occhi come un fantasma notturno, finì per prendere una tenaglietta e staccare con cura la perga­ mena dalla tavola. Così facendo rinunciò al lungimi­ rante progetto e si limitò a metterne la porta d’ingresso in una vecchia cornice e ad appenderla ad una parete accanto agli altri disegni. Il padrino, ritornando in seguito a visitare il giovane amico, s’accorse con compiacenza di quella rinuncia. Per compensarlo, gli donò una cartella con grandi inci­ sioni in rame riproducenti i grandiosi affreschi della Cap­ pella Sistina e delle Stanze del Vaticano. Voleva che avvezzasse l’occhio alla vera grandezza, al sublime, senza pensar subito a se stesso. Accorgendosi però che l’adole­ scente, pur non proponendosi altre imprese eccezionali inadeguate alla sua persona, era pur sempre assillato dalla smania di originalità, gli affidò un giorno un mano­ scritto da lui stesso redatto. «Mastro Jacques,» gli disse «voi avete un giorno de­ plorato la scomparsa di quei personaggi che si soglion de­ finire tipi originali. Questo rammarico è forse in parte le­ gittimo, in quanto le persone che noi nella vita quotidia­ na chiamiamo originali son rare davvero e lo sono anche sempre state. Se però alla loro particolare indole vanno unite capacità e gentilezza ed una certa intima arguzia proveniente dal cuore, esse esercitano sul loro ambiente contemporaneo, e spesso anche al di là di questo, un’effi­ cacia piena di luce e di calore, negata a tanti veri e propri uomini geniali, e in tal caso le loro esperienze tendono a diventare avventure ricche di forza o di gra­ zia. Una figura di questo genere, nel senso migliore, fu il nostro Salomon Landolt, che ormai è entrato nel­ l’eternità da oltre dieci anni. Uno dei nostri dilettanti

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di ingegno ha descritto la sua vita e le sue vicende in un ottimo libretto, dove però accenna appena alla condi­ zione di scapolo del defunto. Ciò mi ha indotto a redi­ gere un racconto integrativo, per far rivivere anche sotto questo aspetto l’uomo singolare. Eccoti il mio lavoretto, un manoscritto purtroppo tanto indecifrabile, che avrei il desiderio di vederlo messo in bella da una nitida calli­ grafìa. Prendilo, Jacques, e a tempo perso preparamene una bella copia ! ». Il signor Jacques prese il manoscritto dal padrino ed esegui infatti con gran cura e nitidezza una copia, la quale segue qui non meno fedelmente stampata.

IL PODESTÀ DI GREIFENSEE Il 13 luglio del 1783, giorno dell’imperatore Enrico che ancor oggi spicca in rosso nel calendario di Zurigo, molta gente di città e di campagna s’awiava in carroz­ za, a cavallo ed a piedi, verso il villaggio di Kloten, sulla strada di Sciaffusa. Sui dolci pendìi di quella re­ gione il colonnello Salomon Landolt, allora podestà del distretto di Greifensee, voleva infatti passare in rivista il corpo da lui fondato dei tiratori zurighesi, facendolo manovrare e mostrandolo ai signori del Consiglio di guerra. Diceva d’aver scelto la giornata dell’imperatore Enrico, perché la metà dei militi della rispettabile città di Zurigo aveva nome Enrico e soleva celebrare il popo­ lare onomastico bevendo ed oziando, così che una rivi­ sta militare non avrebbe certo fatto danno. Gli spettatori si compiacevano alla vista inusitata della nuova truppa, fino allora ignota, formata di giovani e vigorosi volontari in semplice uniforme verde, ammira­ vano i rapidi movimenti in ordine sparso, l’abile maneg­ gio dell’archibugio di mira sicura da parte dei singoli uo­ mini, e, soprattutto, i paterni rapporti che regnavano fra l’ideatore e capo di tutto l’insieme e i suoi lieti camerati. Ora si potevano vedere quei soldati disperdersi e sva­ nire lontani al margine del bosco, ora riapparire in un punto remoto, raccolti in una scura colonna ad un suo richiamo, mentre egli, sulla lucente cavalla saura, risali­ va rapido le colline, ora invece sfilare vicinissimi can­ tando allegre canzoni, per ricomparire subito dopo su un colle rivestito di pinete, sul cui sfondo verde non si distinguevano più. Tutto procedeva con tale rapidità e letizia, che un profano non si faceva un’idea del lavoro e della pena prodigati da quell’egregio uomo per appre­ stare alla patria il suo specialissimo dono. Quando alla fine fece avvicinare a passo di corsa al suono dei comi la schiera dei cacciatori, di circa cin­ quecento uomini, e ordinò poi all’improvviso di romper le file, mandandoli a casa in riposo e balzando egli stesso

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da cavallo, senza mostrar più stanchezza dei giovani, ogni bocca fu piena di lodi per lui. Alcuni ufficiali pre­ senti dei reggimenti svizzeri di Francia e d’Olanda discu­ tevano l’importanza futura della nuova arma, compia­ cendosi che la loro patria l’andasse creando indipendente­ mente e per sé. Fu ricordato anche con soddisfazione che persino Federico il Grande, una volta che Landolt assi­ steva alle manovre a Potsdam, aveva notato quell’uomo solitario instancabilmente in moto e l’aveva mandato a chiamare, tentando, in ripetuti colloqui, di guadagnarlo al suo esercito. Landolt conservava ancora una lettera autografa del grande sovrano e la teneva più cara di una missiva d’amore. Gli occhi di tutti si fissavano pieni di compiacenza sul podestà, mentre questi s’awicinava ai signori ed ai con­ cittadini, scuotendo cordialmente la mano a tutti gli amici. Indossava un abito verde scuro senza galloni, guanti chiari da equitazione, e alti stivali a risvolti bian­ chi. Gli pendeva dal fianco una robusta spada, il cappello era rialzato secondo la foggia dei berretti degli ufficiali. Il citato biografo lo descrive del resto come segue: «Chi lo avesse visto una volta sola, non lo poteva più dimenti­ care. L’alta fronte serena era convessa, il naso aquilino sporgeva con dolce curva dal volto ; le labbra sottili for­ mavano linee graziose, e agli angoli della bocca, dietro uno scherzoso sorriso appena avvertibile, si celava la satira infallibile, ma non mai di proposito offensiva. I luminosi occhi bruni si guardavano attorno franchi e sicuri, denotando lo spirito che li animava, si posavano con indescrivibile cordialità sugli oggetti gradevoli e, quando lo sdegno gli faceva serrare le forti sopracciglia, lampeggiavano penetranti, contro tutto quanto poteva offendere i delicati sentimenti di quell’uomo d’onore. Di media statura, il suo corpo era robusto e proporzio­ nato, il suo portamento militare». Aggiungeremo alla descrizione che gli scendeva sulla nuca una treccia piuttosto grossa e che in quel giorno dell’imperatore Enrico egli entrava nel suo quarantaduesimo anno.

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Gli occhi bruni trovarono imprevedutamente occasio­ ne di posarsi con indescrivibile cordialità su un oggetto gradevole, quando s’accostò ad una berlina color rosa per salutarne i passeggeri che gli tendevano le mani; vi era infatti, inaspettata, anche una bellissima dama da lui conosciuta un giorno, ma non più veduta da anni. Poteva avere circa trentacinque anni; gli occhi erano castani e ridenti, la bocca vermiglia, e i riccioli scuri scendevano sui merletti che lasciavano in parte libero il collo, arrampicandosi però anche in abbondanza sulla bella testolina, ricoperta da un elegante cappello di pa­ glia inclinato in avanti. Indossava una veste estiva a righe bianche e verdi e reggeva un parasole, che oggigiorno si crederebbe cinese o giapponese. Per tagliar corto a previsioni infondate, osserveremo subito che la signora era maritata da un pezzo e madre di parecchi figli, e che non poteva quindi trattarsi, fra lei e l’ufficiale dei caccia­ tori, che di storie da lungo passate. Per dirla in breve, essa era stata la prima fanciulla alla quale egli un giorno avesse fatto offerta del suo cuore ottenendone in cambio un grazioso rifiuto. Il suo nome deve rimaner celato, perché vivono ancora, fra cariche ed onori, tutti i suoi figlioli, e dobbiamo limitarci a designarla col nomignolo che Landolt le serbò nella memoria. Egli infatti pensando a lei la chiamava «cardellino». Ambedue arrossirono lievemente porgendosi la mano, e quando si trovarono al rinfresco con molta altra gente nella locanda del «Leone» a Kloten, e Landolt venne a sederle vicino, essa lo trattò con tanto calore, come se in passato l’innamorata fosse stata lei. Egli si senti pervadere da un senso di piacere come da anni non aveva provato e si intrattenne ottimamente col cosiddetto cardellino, che pareva rimasto immutabilmente giovane. Alla fine però la lunga giornata estiva volse alla fine e Landolt dovette disporsi al ritorno, giacché aveva circa tre ore di cammino per raggiungere Greifensee, il cui di­ stretto reggeva da due anni con la funzione di podestà. Mentre si accomiatava dalla compagnia, venne naturale un invito e l’intesa che l’amica d’un tempo sarebbe an-

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data a fargli una sorpresa un giorno, accompagnata dal marito e dai figlioli, al castello di Greifensee. Cavalcò verso casa meditabondo, accompagnato sol­ tanto da un servitore, passando per Dietlikon. Già sulle torbiere paludose scendeva l’ombra; a destra il crepuscolo rossastro si spegneva sul dorso dei monti, mentre a sini­ stra la luna calante saliva dietro le catene dell’Oberland zurighese; in quello stato d’animo e in quella situazione il podestà di solito si sentiva rivivere, si trasformava tutto in forza visiva, intento a spiare soltanto il silente operare della natura. Quel giorno però le stelle lucenti e le lievi voci vicine e remote lo pervasero d’un senso ancor più solenne del solito, quasi di commozione, e ripensando all’acco­ glienza che avrebbe offerto alla gentile autrice del lon­ tano rifiuto, lo colse improvvisamente il desiderio di non convocare nella sua dimora lei sola, ma tre o quattro altre belle creature con le quali egli era stato un tempo in analoghi rapporti. Insomma, mentre procedeva a ca­ vallo, nacque in lui una vera bramosia di vedere insieme adunate tutte le buone ed amabili donne alle quali aveva voluto bene e di trascorrere una giornata con loro. Bi­ sogna purtroppo aggiungere che quello scapolo ormai in­ durito non era stato un tempo inaccessibile, ma aveva anzi troppo poco resistito al fascino femminile. Nel suo elenco di soprannomi v’era un’amica che si chiamava Pulcinella ed un’altra capinera, una capitano ed una quarta merlo, il che, insieme al cardellino, faceva cin­ que. Alcune erano sposate, altre non ancora, ma tutte potevano essere invitate, giacché egli non si sentiva in colpa di fronte a nessuna, anzi, se non avesse dovuto reg­ gere le redini e il frustino, si sarebbe già fregato le mani di piacere, appena cominciò a immaginarsi come avreb­ be messo in rapporto reciproco le sue belle, e come esse si sarebbero comportate, ed insomma il delizioso spasso che 10 attendeva offrendo ospitalità a una così leggiadra fa­ miglia. La difficoltà consisteva nel mettere a parte del suo piano la governante, la signora Marianne, ottenendone 11 permesso e l’aiuto ; perché se essa non era consenziente

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e benevola in un affare tanto delicato, il graziosissimo progetto doveva crollare. Ma la signora Marianne era la più bizzarra donna del mondo, né se ne sarebbe scovata una seconda in cambio di un regno. Era figlia del civico stipettaio Kleissner di Hall nel Tirolo ed aveva subito con una schiera di fratelli la tirannia di una cattiva matrigna. Questa l’aveva fatta entrare novizia in un monastero; Marianne aveva una bella voce per il canto e parve adattarsi docilmente; ma quando avrebbe dovuto pronunciare i voti sollevò un’opposizione tanto impetuosa e tremenda che fu con­ gedata con sgomento. Dovette allora farsi strada da sola nel mondo e trovò lavoro come cuoca in una locanda a Friburgo nel Bresgau. Per la sua bella figura dovette subire la corte insistente e insidiosa degli ufficiali austriaci e degli studenti che frequentavano quel locale : essa però respinse tutti con energia, tranne un grazioso studente di buona famiglia di Donaueschingen, al quale donò il suo affetto. Un ufficiale ingelosito la perseguitò con ca­ lunnie che giunsero al suo orecchio. Essa allora, armata di un affilato coltello da cucina, entrò nella sala da pran­ zo dove erano radunati gli ufficiali ed affrontò il calun­ niatore e, quando questo tentò di liberarsi dall’energica assalitrice, si fece così impetuosa da costringerlo a trarre la spada per difendersi. Marianne disarmò l’ufficiale e gli gettò ai piedi la spada spezzata, per il che quegli fu poi espulso dal reggimento. In seguito l’ardita tirolese sposò il bello studente, contro il volere della famiglia, fuggendo con lui. Egli entrò a Königsberg in un reggi­ mento di cavalleria prussiano, al quale essa s’accodò come vivandiera, partecipando a parecchie campagne. Marianne si dimostrò immancabilmente attiva ed esperta tanto in campo che nelle guarnigioni, come cuoca e come pasticcera, e guadagnò denaro sufficiente per of­ frire al marito una comoda esistenza ed anche per metter da parte qualche risparmio. Ebbero ben nove figlioli, ed essa li amò sopra ogni cosa, con tutta la passione dell’indole sua, ma tutti le morirono l’uno dopo l’altro, e parve ogni volta che le si dovesse spezzare il cuore,

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che fu però più forte di ogni triste destino. Quando alla fine furono tramontate per lei bellezza e gioventù, l’ussaro suo marito si rammentò della propria classe so­ ciale superiore e cominciò a disprezzare la moglie, forse perché troppo bene aveva ricevuto dalle sue cure. Essa al­ lora col denaro risparmiato gli pagò il congedo dall’eser­ cito e lo lasciò andare a caccia di fortuna, mentre lei si volgeva sola verso il mezzogiorno, di dove era venuta, in cerca di una sistemazione. Accadde che a San Biagio, nella Foresta Nera, fu rac­ comandata al podestà di Greifensee, il quale era in cerca di una governante, e così era già da due anni al suo servi­ zio. Contava per lo meno quarantacinque anni ed assomi­ gliava piuttosto a un vecchio ussaro che ad una direttrice di casa. Bestemmiava come un sergente prussiano e, quan­ do qualcosa suscitava il suo malcontento, si scatenava tale violenta bufera che tutti fuggivano esterrefatti e soltanto l’allegro podestà rimaneva imperterrito a go­ dersi lo spettacolo. Essa però dirigeva la sua casa in modo impeccabile: comandava alla servitù e ai contadini con rigida severità, teneva i conti con perfetta onestà, rispar­ miava dovunque le fosse possibile, quando la generosità del padrone non l’ostacolava, ma d’altra parte appoggia­ va così volonterosamente ed abilmente le sue consuetu­ dini di ospitalità, che egli ben presto potè affidarle senza riserve tutta la propria azienda domestica. Accanto a tanta rozzezza faceva però spesso capolino la profondità dei suoi sentimenti, quando per esempio con la sua voce di contralto rimasta intatta cantava al podestà, che l’ascoltava attento, una vecchia ballata, op­ pure un’ancor più antica canzone d’amore o di caccia, e non era poco orgogliosa se il padrone, abile suonatore di corno, ne imparava rapidamente la melanconica me­ lodia per farla subito echeggiare dalla finestra del ca­ stello sul lago inargentato dalla luna. Quando una volta il bimbo decenne di un vicino fu preda di una malattia inguaribile e né le esortazioni del parroco, né quelle dei genitori riuscivano a liberarlo dal suo dolore e dalla paura della morte, poiché egli avrebbe

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tanto volentieri vissuto, Landolt sedette, tranquillamente fumando la pipa, accanto al suo letto e seppe parlar­ gli con parole così semplici ed efficaci del suo stato di­ sperato, della necessità di rassegnarsi e di soffrire per breve tempo, ma anche della dolce liberazione da parte della morte, della calma beata ed immutabile che era riserbata a lui, bravo e paziente fanciullo, dell’amore e della compassione che egli, pur essendogli estraneo, per lui nutriva, che il piccolo infermo da quel momento mutò sentimenti e sopportò le sue sofferenze con serena pa­ zienza, sino a quando non venne realmente la morte a liberarlo. Allora l’appassionata signora Marianne s’accostò al catafalco, si inginocchiò presso la bara, pregò fervida­ mente ed a lungo, raccomandando a quel piccolo an­ gelo tutti X suoi bambini morti perché intercedesse presso il Signore. Al podestà volle baciare la mano con venerazione, quasi fosse stato un gran vescovo, finché egli la ritrasse ridendo e protestando : « Che diavolo vi piglia, vecchia pazza?». Tale era dunque la governante del signor colonnello, e con essa bisognava che egli si accordasse, se voleva rac­ cogliere attorno al suo focolare le cinque antiche fiam­ me per vederle splendere insieme. Mentre entrava nel cortile del castello e scendeva da cavallo, la udì tempestare in cucina perché i cani ulula­ vano nella scuderia ed una serva aveva dimenticato di preparare loro la zuppa serale. “Non è un momento buo­ no!” pensò tra sé, lasciandosi cadere un po’ intimidito nella sua poltrona e preparandosi a cenare, mentre la governante, tra balenìi di bufera, gli riferiva le novità del giorno. Le versò un bicchiere del vino di Borgogna a lei caro, ma che beveva soltanto invitata dal padrone, benché detenesse le chiavi della cantina. Questo valse già a mitigare un poco la sua ira. Poi staccò dalla parete il corno e suonò verso il lago una delle melodie da lei predilette. — Signora Marianne ! — le disse poi — Non vorreste cantarmi quell’altra canzone che comincia così:

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Chi mai lassù le ha scorte, nel sole dei tramonti, al giunger della morte le cerca su pei monti ! Vergini amate, addio ! Qua sotto dormo anch’io! Subito essa cantò l’intero componimento con tutte le sue strofe, che passavano ai più svariati temi, ma espri­ mendo tutte un’eguale nostalgia di rivedere una certa persona. Essa stessa si sentì commossa da quella semplice musica e lo fu ancor più quando il podestà fece echeggia­ re nella notte le lunghe note del suo corno. — Signora Marianne, — riprese il podestà rientrando nella sala — dobbiamo prepararci a ricevere come si deve una piccola ma eletta compagnia ! — Che compagnia, signor podestà? Chi dovrà venire? — Verranno — replicò il padrone tossicchiando — il cardellino, il Pulcinella, la capinera, il capitano e il merlo ! La donna fece tanto d’occhi e chiese: — Ma che gente sono? Siederanno in poltrona o sta­ ranno appollaiati? Il podestà intanto era passato nell’altra camera a pren­ dere una pipa ed ora la stava accendendo. — Il cardellino — disse, mandando la prima boccata di fumo, — è una bella donnina ! — E l’altro? — Il Pulcinella? Anche quello è una donna, e a modo suo bella anche lei ! Così si arrivò fino al merlo. Siccome però la governan­ te non si mostrava soddisfatta di quelle spiegazioni laco­ niche, il signor podestà dovette decidersi a parlare diffu­ samente di cose che non gli erano mai uscite di bocca prima. — Per dirla in una parola — concluse — sono tutte mie fiamme di un tempo, che vorrei vedere qui riunite ! — Ma, per tutti i santissimi fulmini ! — proruppe ur­ lando la signora Marianne balzando in piedi con gli

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occhi sbarrati e precipitandosi addirittura contro la pa­ rete — Ma signor podestà ! Stimatissimo signor podestà ! Lei allora ha avuto così tanti amori? Oh, santissimo Sa­ cramento ! E nemmeno il diavolo lo avrebbe sospettato, e lei si è sempre dato l’aria di non poter sopportare le donne ! E lei ha imbrogliato tutte queste povere ragazze per poi piantarle? — Ma no, — replicò lui con un sorriso imbarazzato — sono state loro a non volermi ! — A non volerla? Neppure una? — Neppure una ! — Maledette canaglie ! Ma è ottima l’idea del si­ gnor podestà ! Vengano pure, vogliamo attirarcele qui e rimirarcele : sarà una strana brigata ! Le vogliamo met­ tere su nella torre, dove ci stanno i corvi, a farle patir la fame? Ci penserò io ad attaccar lite ! — Niente di tutto questo ! — replicò ridendo il po­ destà — Al contrario, dovrete sfoggiare tutta la vostra cortesia e buona accoglienza, perché voglio che sia per me una bella giornata, come se ci fosse veramente quel mese di maggio che notoriamente non esiste, e se fosse ad un tempo il primo e l’ultimo di quel mese ! Marianne comprese, dallo splendore dei suoi occhi, che voleva dire qualcosa di cordiale e di edificante : gli si avvicinò d’un balzo, gli afferrò la mano e la baciò, mentre mormorava piano, asciugandosi gli occhi: — Sì, io comprendo il signor podestà ! Dovrà essere una giornata, come se io riavessi all’improvviso con me tutti i miei bambini perduti, quegli angioletti beati ! Ormai rotto il ghiaccio, egli le fece conoscere a poco a poco, come si conveniva, i cinque oggetti e le espose le diverse vicende, e nel far ciò il narratore, e l’ascoltatrice passarono per diversi e contrastanti stati d’animo. Noi vogliamo riesporre qui ancora una volta quelle sto­ rie, ma bene per ordine, tornendole bene e adattan­ dole alla nostra comprensione.

IL CARDELLINO

Il nome era stato suggerito a Landolt dallo stemma fa­ miliare della sua bella, dove spiccava un cardellino, stemma dipinto in cima alla sua porta di casa. Simili uccellini canori figurano nello stemma di più di una fa­ miglia, cosi che potremo rivelare il nome di battesimo della giovinetta, che era Salome. Quando però la co­ nobbe Salomon, essa era ormai una bella e fiorente si­ gnorina. V’erano allora, oltre ai balivati ed alle podesterie pub­ bliche, molte antiche sedi di signori con castelli, ter­ reni e giurisdizioni, o anche senza di essi, che passavano di mano in mano come beni privati e venivano acquistati e ceduti da cittadini a seconda delle loro possibilità fi­ nanziarie. Questa sino alla rivoluzione era la forma pre­ dominante di impiego di denaro e di esercizio dell’agri­ coltura e dava modo anche ai non nobili di adornare con altisonanti titoli feudali la loro partecipazione ideale al governo aristocratico del paese. In grazia di quest’isti­ tuzione, metà della popolazione agiata nella buona stagio­ ne dimorava in qualità di ospitante o di ospitata in quelle residenze ufficiali e non ufficiali delle più belle regioni, e ci viveva come gli antichi dèi e semidei del tempo feu­ dale, ma senza le loro faide e le loro fatiche guerresche, nella più profonda pace. In una di queste località, Salomon Landolt, all’incirca nel suo venticinquesimo anno, s’incontrò con la giovane Salome. Ambedue erano lontanamente imparentati con la famiglia che li ospitava, ma per due parti opposte, cosicché, pur non potendosi considerare parenti, prova­ vano però un delicato senso di affinità. Essi furono inoltre oggetto di allegri commenti per l’assonanza del loro no­ me e si verificò più d’uno scherzo a loro non sgradito quando accadeva che ad una chiamata si voltassero su­ bito ambedue, per accorgersi poi, arrossendo, che si al­ ludeva all’altro. Ambedue ugualmente belli, vivaci ed entusiasti, parvero, ad amici benevoli, essere fatti l’un

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per l’altro, così che un’unione non sembrava senz’altró impossibile. È vero che Salomon non si trovava ancora in grado di fondare una casa propria, anzi la navicella della sua vita incrociava ancora indecisa davanti al porto, senza pe­ netrarvi né prendere il largo. Egli aveva a suo tempo fre­ quentato la scuola militare francese di Metz, per adde­ strarsi nell’ingegneria e nell’artiglieria, ma s’era poi de­ dicato piuttosto all’architettura civile, con la quale si proponeva di servire un giorno la città natale. Era andato a Parigi con la stessa intenzione, ma regolo e compasso e quell’eterno misurare e far computi s’eran rivelati trop­ po noiosi per il suo spirito libero e per il suo animo gio­ vanilmente impetuoso, ed egli s’era dedicato all’innata inclinazione a disegnare, abbozzare e dipingere, mentre, vedendo ed ascoltando direttamente, s’era conquistato molteplici cognizioni ed esperienze, specie quando pote­ va farlo dal dorso di un cavallo. Purtroppo però non era ritornato a casa ingegnere o architetto e ciò poco acco­ modava a suoi genitori, le cui evidenti preoccupazioni lo indussero ad assumere almeno un impiego nel Tribunale civico, per esser così qualificato ad entrare nel governo. Spensierato ma gentile e di buoni costumi, se ne viveva così, lasciando che serietà ed energia rimanessero in lui lievemente assopite. Va da sé che la gente commentava l’incerta situazio­ ne del giovane nei riguardi di un eventuale matrimonio, studiando da ogni lato la faccenda, ben più di quanto egli pensasse; come i contadini ad ogni inizio d’annata, quanto più è loro oscuro l’avvenire, tanto più rumorosa­ mente l’accompagnano di numerose massime paesane, allo stesso modo le madri di figlie da marito rumorosa­ mente discutevano l’innocente mattino della vita di Sa­ lomon. La graziosa Salome riuscì a sapere soltanto che non si poteva parlare ancora di speranze sicure e di progetti di nozze ma che d’altra parte era lecito avviare una rela­ zione anche abbastanza confidenziale. Essa era chiamata mademoiselle ed era stata educata alla francese, con la sola

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differenza di non esser cresciuta in un convento, bensì in una libera società protestante, così che non vedeva qualcosa di sconveniente in un tenue amoretto. Salomon si lasciò andare ad una simpatia che era pre­ sto sbocciata nel suo cuore aperto, senza peraltro com­ portarsi con insistenza indiscreta. Fu così che, quando l’uno dei due compariva nell’ospitale castello, l’altro non ne restava a lungo lontano, e la conseguenza fu soltanto il divertente gioco dell’indovinello per la gente, che si chiese: «Si sposano? non si sposano?». Ma un bel giorno parve che la decisione sbocciasse. Salomon, che già nella prima giovinezza s’era acqui­ sito svariate cognizioni d’agricoltura e le aveva con pas­ sione ampliate nei suoi viaggi, indusse il padrone del po­ dere a piantare alberi di ciliegio in un prato, su un pen­ dio soleggiato. Portò egli stesso le esili pianticine e si di­ spose a piantarle di propria mano. Vi era fra esse una qualità nuova di ciliegie bianche, che voleva disporre al­ ternandone le fila con quelle rosse, e poiché si trattava di cinquanta piantine, era un lavoro da esigere, intera, una di quelle brevi giornate primaverili. Salome non volle dal canto suo rinunciare a esser pre­ sente ed anche, se possibile, a dare una mano, poiché, come disse ridendo, avrebbe ben potuto sposare un agri­ coltore e le conveniva quindi imparare per tempo simili cose. Si recò dunque, la testa riparata da un cappello ad ampie tese, a quel prato piuttosto lontano e assistette al lavoro, facendo con zelo da aiutante. Salomon misurò le linee dritte per i filari, poi le distanze fra i singoli al­ berelli, mentre Salome l’aiutava a tendere le corde e a fissare i piuoli. Scavò le buche nella terra molle proprio come le voleva, e Salome tenne intanto ritti i teneri vir­ gulti, mentre egli tornava a riempir la buca, rassodando ben bene il terreno all’intorno. Poi Salome attinse l’ele­ mento vivificante con l’annaffiatoio da una botte che un garzone riempiva d’acqua andando e venendo, ed annaffiò le piantine con l’abbondanza ordinatale da Sa­ lomon. Verso mezzodì, quando l’ombra girò attorno agli al­

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berelli di nuova piantagione, i padroni del castello man­ darono per ischerzo alla coppia operosa uno spuntino campestre, come si usa fare per i contadini; ed essi lo trovarono gustosissimo, mangiandolo seduti sul verde prato, anzi Salome affermò di poter ormai bere qualche bicchiere di vino al pari di una villanella, dopo che aveva tanto faticato. Per il vino e per il moto all’aperto conti­ nuato fin verso sera le si accese il sangue, e finì per velare la luce della sua saggezza, che subì una temporanea eclisse, come il sole al passaggio della luna. Salomon continuò la sua opera con serietà e solerzia, compì il suo lavoro con abilità e precisione, serbandosi di umor sereno, confidenziale e divertente e mostrandosi tanto felice, senza per questo lasciarsi mai andare nel­ l’intera giornata ad uno sguardo o ad una parola indiscre­ ta, sicché forse la fanciulla fu pervasa dalla convinzione che sarebbe stato bello trascorrere insieme a quel com­ pagno, al pari di quella giornata, una vita intera. Una calda simpatia s’impadronì di lei, e quando l’ultima delle pianticine fu ben salda nel terreno e non vi fu più nulla da fare, esclamò con un lieve sospiro: «Così tutto finisce ! ». Salomon Landolt, colpito dal tono commosso di quelle sue parole, la guardò estasiato; ma per il riflesso del sole vespertino che le illuminava il bel volto, non potè capi­ re se arrossisse di quella luce o di tenerezza ; i suoi occhi tuttavia superavano quello splendore e i giovani, quasi senza volerlo, unirono le, quattro mani. Non accadde al­ tro, perché proprio in quel momento sopraggiunse un garzone a ritirare il rastrello, la zappa, l’annaffiatoio e gli altri attrezzi. Se ne andarono sotto mutati auspici attraverso i gra­ ziosi filari di ciliegi da loro piantati. Non potendosi guar­ dare ormai se non con occhi innamorati, i loro incontri in casa erano più rari e prudenti, e da ciò, ma ancor più da una certa contentezza che pareva eccitarli e calmarli ad un tempo, fu ben chiaro che doveva essere accaduto qualcosa di nuovo. Salomon non lasciò del resto passare molti giorni; le

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sussurrò una breve allusione, da lei benignamente ac­ colta, e trottò verso Zurigo, col proposito di render possi­ bile presso le due famiglie un fidanzamento. Sentì però anzitutto il bisogno di aprire il cuore alla sua diletta in una lettera e, mentre la scriveva, appena esposta la cosa più urgente, ebbe la bizzarra pensata di mettere alla prova la saldezza dell’affetto di lei, traccian­ dole un quadro strano e misterioso della sua origine e delle sue possibilità future. Quanto alla prima, essa era in verità, per il lato ma­ terno, piuttosto curiosa. Sua madre, Anna Margaretha, era figlia del generale di fanteria olandese Salomon Hirzel, signore di Wülflingen, il quale, coi suoi tre figli, riscuoteva una forte pensio­ ne dai Paesi Bassi e con quella conduceva la sua stramba, ben nota esistenza nella suddetta giurisdizione, non lonta­ no da Winterthur. Un lupo tenuto a catena all’ingresso, al posto di un cane da guardia, dava subito ululando e abbaiando vigile un’idea di quello strano ambiente. Do­ po la morte prematura della padrona di casa e date le assenze continue del padre, ognuno faceva quel che gli garbava, e tanto i figli che le tre figliole si educavano da soli, e naturalmente nel modo più indisciplinato possi­ bile. Solo quando c’era il vecchio generale si ristabiliva un certo ordine, in ciò almeno, che il tamburo suonava la mattina con puntualità la sveglia e la sera la ritirata. Per il resto non c’era regola. La figlia maggiore, la madre di Landolt, faceva da massaia, e questa mansione impo­ stale ebbe per effetto che essa riuscì la migliore e la più assennata della famiglia. Però andava anch’essa a caccia a cavallo con gli uomini, maneggiava la frusta e fischiava con le dita sino a rompere i tìmpani. Quei signori ave­ vano l’uso di far dipingere sulle pareti delle loro dimore, con aspetti umoristici, le loro consuetudini ed imprese. Vi era così in un padiglione anche un affresco in cui il vecchio generale passa al galoppo per la macchia con i tre figli e la figlia maggiore già sposata, mentre il piccolo Salomon Landolt cavalca a lato della bella madre, una vera famiglia di centauri.

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Quelle spedizioni a cavallo inseguivano talvolta un docile cervo addestrato a fuggire davanti ai cacciatori e ai cani per poi lasciarsi prendere all’ultimo; ma ciò non era in fondo che un esercizio equestre ; la vera caccia ve­ niva pure coltivata senza posa, alternandosi con ritrovi conviviali e con innumerevoli giuochi scherzosi che si estendevano persino all’esercizio della giurisdizione. Malgrado la vita disordinata e selvatica, la madre di Landolt si serbò, come si disse, saggia di mente, serena di carattere e di buoni costumi e fu più tardi una sicura e fedele amica dei suoi figlioli, mentre la sua casa pa­ terna andò in rovina. Morto nel 1755 il vecchio generale e quando Anna Margaretha dovette occuparsi della propria casa, i figli s’abbandonarono ad una vita sempre più sregolata. Le cacce degenerarono in risse coi padroni dei poderi limi­ trofi per questioni di bandite ed in maltrattamenti dei sudditi. Assalirono, mentre passava a cavallo per il loro bosco, un parroco che aveva predicato dal pulpito con­ tro di loro, lo costrinsero, inseguendolo a frustate, a traversar le acque del fiume Toss, risalendo per la campagna, finché crollò a terra col suo ronzino ed in­ vocò il perdono inginocchiato e tremante. Ed ai messi della giustizia, venuti a farsi sborsare la forte multa lo­ ro imposta per quell’impresa, prepararono un’imboscata di uomini travestiti che nel ritorno ritolsero loro il de­ naro. Alle assurde dissipazioni s’accompagnò la mania del giuoco, alla quale si dedicavano per intere settimane ininterrottamente. Spogliavano d’ogni bene quanti vi si lasciavano indurre e sedurre, ma poi concedevano la ri­ vincita sinché avevan perduto con quegli sciagurati più del doppio, per conservare il proprio onore di cavalieri. Tutto però ebbe una ben triste fine: l’uno dopo l’altro dovettero abbandonare il castello e l’ultimo fu costretto a cedere anche in rapida successione i diritti di signoria e i tributi, i boschi e le campagne, la casa e la fattoria, per poi fuggire. Uno dei fratelli decadde cosi miseramente da dover essere ricoverato in una casa di correzione stra-

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niera; il secondo visse solitario per qualche tempo in una capanna fra i boschi, ma poi, tormentato dai de­ biti e consumato dalle malattie, lasciò quel misero ri­ fugio per sparire misteriosamente lontano; il terzo cer­ cò salvezza arruolandosi mercenario, ma finì male egli pure. È vero che il loro naturale umorismo non abbandonò mai quei signori sino all’ultimo istante. Prima di sacri­ ficare il castello fecero dipingere sulle pareti dal loro rustico pittore tutte le scene del decadimento e le loro sciagurate imprese, sino a quell’ultimo giudizio da loro esercitato sul parroco. Dietro la stufa spiccavano tutti i titoli di investitura e i privilegi ceduti, mentre su una radura boschiva illuminata dalla luna volpi, lepri e tassi giocavano con le insegne della perduta signoria. Sopra la porta si fecero ritrarre essi stessi da tergo, mentre escono buoni ultimi, coi cappelli sotto il braccio, dai propri territori, passando dignitosamente oltre la pietra di confine. In basso sta scritta, alla rovescia, la parola « amen ! ». Mentre Salomon Landolt esponeva queste singolari avventure nella sua lettera a Salome, passava poi ad esprimere la melanconica preoccupazione che il sangue sciagurato e le sorti di quei tre zìi potessero rivivere in lui, dopo aver saltato soltanto per una benigna stella la sua nobile genitrice. Tanto più, ne deduceva, l’infausto astro avrebbe dovuto quasi naturalmente risorgere con lui. Era naturalmente suo fervido proposito lottare in piena coscienza contro tutto questo, però era costretto a confessarle d’aver già perduto al giuoco, durante i suoi viaggi, notevoli somme, pagate poi soltanto col segreto intervento della madre. Egli aveva pure tenuto cavalli con mezzi non suoi e all’insaputa del padre, per più di quel che comportasse il suo patrimonio e, quanto a de­ naro contante, era quasi certo che non l’avrebbe mai saputo maneggiar come si conviene al capo di un’azien­ da domestica bene ordinata. Persino le doti piuttosto al­ legre degli zii, la smania di cavalcare e cacciare, di scher­ zare e di divertirsi, si ripetevano in lui, sino al capriccio di

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sporcar le pareti, tanto che già da fanciullo s’era compia­ ciuto ad illustrare, con cento figure di guerrieri a carbone e a sanguigna, le pareti del castello Wellenberg, dove suo padre era stato podestà. Egli riteneva da uomo leale di non poter celare questi gravi timori alla molto amata mademoiselle Salome, di dover anzi darle occasione di maturamente riflettere l’im­ portante passo oltre la soglia di un avvenire ancor velato, sia che volesse affrontare con lui il tentativo, con l’aiuto della divina provvidenza, sia che volesse agire con giusta e lodevole prudenza e sottrarsi con piena libertà della sua degna persona ad un oscuro destino. Appena la lettera fu spedita, Salomon Landolt deplo­ rò d’averla scritta, giacché man mano che la compilava il suo contenuto si era fatto più grave e per così dire più attendibile di quanto avesse da prima pensato : in fondo le cose stavan proprio come le aveva esposte, benché egli andasse incontro all’avvenire di buon animo. Ma ormai era troppo tardi per un mutamento ed alla fine egli senti il bisogno di misurare dall’esito la vera simpatia di Salome. Questo non si fece aspettare. La fanciulla aveva subito confessato alla madre quel che era accaduto fra lei e Salomon; la novità era stata discussa col signor padre e le nozze dichiarate non desiderabili, anzi pericolose, date le incerte possibilità del simpatico ma anche incompreso giovanotto. Quando poi giunse la lettera, i genitori escla­ marono: «Ha ragione, più che ragione! Lode a lui per la sua leale schiettezza!». La buona Salome, per la quale un’esistenza tutta di preoccupazioni o di infelicità era inconcepibile, pianse per un giorno intero lagrime amare e scrisse poi all’im­ prudente scandagliatore del suo cuore una breve let­ terina: Era impossibile! era impossibile per molteplici ed importanti ragioni ! Egli non doveva dar seguito alla vicenda, ma conservarle però la sua amicizia, come ella gli avrebbe dedicato sempre la sua con cordialissima disposizione e fedeltà. Dopo poche settimane si fidanzò con un ricco signore,

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che per stato e per carattere non lasciava dubbi circa la sicurezza di un ben fondato avvenire. Landolt ne fu alquanto addolorato per una mezza giornata, ma poi scosse da sé il rammarico e si persuase anzi serenamente di essere sfuggito ad un pericolo.

IL PULCINELLA

Il nome dell’innamorata che egli tra sé chiamava Pul­ cinella può essere riferito senza abbreviazione, perché la famiglia è ormai estinta. Essa portava il nome di bat­ tesimo piuttosto antiquato di Figura, ed era una nipote del geniale consigliere Leu, membro del Consiglio della Riforma: si chiamava dunque Figura Leu. Era una crea­ tura elementare, i cui capelli dorati e crespi si adattavano solo con estremi sforzi alle acconciature di moda e facevan guerra quotidiana al parrucchiere di casa. Figura Leu viveva quasi soltanto delle danze e dei salti e degli infiniti scherzi di cui si compiaceva con o senza spettatori. Solo verso il tempo della luna nuova si faceva un po’ più taciturna; i suoi occhi, in cui s’annidava l’allegria, assomigliavano allora ad un’acqua azzurrastra, nella quale i pesciolini d’argento si tengono invisibili sul fondo, balzando alla superficie una volta soltanto, quando per esempio un moscerino sfiora troppo da vicino lo specchio dell’acqua. Di solito però il suo divertimento cominciava già la do­ menica mattina. A suo zio, quale membro del cosid­ detto Consiglio della Riforma, cioè di quell’autorità che vigilava sul miglioramento della religione e dei costumi, spettava il compito di concedere a coloro che intendessero lasciar la città nel corso della domenica il permesso di uscire, sotto forma di una marca da consegnarsi alle guardie delle porte. A tutti gli altri, severi regolamenti per la moralità vietavano di abbandonare la città nei giorni di rito ecclesiastico. Il degno signore, di idee aper­ te, era il primo a ridere in segreto di quella sua funzione, quand’essa non lo impacciava troppo, giacché in certe

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domeniche si presentavano fin cento persone a tentare sotto mille pretesti di spingersi all’aperto. Ancor più ci si divertiva madamigella Figura, la quale disponeva i postu­ lanti nell’ampia anticamera in gruppi distinti, a secon­ da delle motivazioni, per guidarli poi, a divisi per ca­ tegoria, nello studio del consigliere. Però le categorie non le formava in base ai motivi da loro addotti, bensì a quelli effettivi, che essa leggeva subito in volto alla gente. Riu­ niva per esempio infallibilmente i garzoni, gli appren­ disti e le domestiche che, smaniosi di recarsi ad una fiera o ad un ballo per la mietitura in una località lontana, adducevano di doversi recare da un medico forestiero per i loro padroni malati. Questi eran tutti muniti, come contrassegno, di un recipiente vuoto per medicine, un va­ setto da unguento, una scatola di pillole o addirittura una bottiglietta piena d’acqua e, per ordine dell’allegra giovinetta, dovevan tenere bene in mostra simili oggetti al momento in cui eran ricevuti. Veniva poi la schiera degli ometti modesti, che, fruendo dei loro privilegi civici, desideravano andare a pescare su una riva tranquilla ed avevano già in tasca le scatole piene di vermi per l’esca. Questi sfoggiavano svariati affari, come battesimi, riscos­ sioni di eredità, visita ad un capo di bestiame e così via. Seguivano tipi ambigui, noti per gli stravizi, che mira­ vano a raggiungere in qualche angolo remoto del paese una banda di giocatori o quanto meno una partita di birilli o una compagnia di beoni; venivano infine anche gli innamorati, che davvero aspiravano a lasciare le mura per cogliere fiorellini e guastare nei boschi coi loro tem­ perini la corteccia dei tronchi. Essa ordinava con perizia queste categorie e lo zio le trovava così ben suddivise, da poter poi sceglierne senza perder molto tempo quelli che a suo criterio intendeva lasciar uscire una volta tanto e respingere invece gli altri, perché non corresse fuori porta troppo numerosa folla. Salomon Landolt sentì parlare dell’allegra rivista te­ nuta ogni domenica mattina da Figura Leu. Gli venne voglia di tentare l’avventura e, benché egli come uffi­ ciale potesse senz’altro entrare ed uscire liberamente,

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una volta cavalcò sino alla casa Leu ed entrò poi, con tanto di sproni e di stivali, nell’atrio, dove in realtà era appena finito lo strano ordinamento degli aspiranti alla passeggiata. Figura se ne stava sulla scala, già pronta ad andare in chiesa nell’obbligatorio costume, cioè in veste nera, con in testa lo scialle monacale prescritto e col sottile collo marmoreo cinto, come era permesso, da una cate­ nina d’oro. Sorpreso della sua fine e snella figura, Landolt indugiò un attimo prima di salutare, poi la pregò con tutta cortesia e con un appena dissimulato sorriso di indicargli il posto ove mettersi. Essa gli fece un grazioso piccolo inchino, poi, avendo compreso dalla su a domanda l’intenzione burlesca, replicò : — Per quali affari vuol partire il signore? — Vorrei prendere una lepre per mia madre, perché ha ospiti questa sera e non ha arrosto ! — rispose Landolt ostentando disinvoltura. — Il signore voglia allora mettersi da quella parte — ri­ prese lei non meno seriamente, e gli indicò il gruppo degli innamorati, che egli subito riconobbe dall’aspetto timido e tenero di cui già aveva udito le descrizioni. Figura si in­ chinò ancora una volta mentr’egli un poco sorpreso si univa al gruppo, poi sparì lieve come un fantasma, pian­ tando tutti in asso, e si recò in chiesa. Dopo che se ne fu andata, Landolt uscì di nuovo pian piano dal vestibolo, risalì a cavallo e galoppò meditabondo sino alla porta più vicina, che gli fu premurosamente aperta. Almeno era fatta la conoscenza con quell’originale ra­ gazza, e questa sembrava pure accettarla; infatti ogni­ qualvolta incontrava Figura, ella riceveva benignamente il suo saluto, ed anzi talvolta era la prima a fargli un cen­ no allegro, senza badare all’etichetta. Una volta gli com­ parve dinanzi all’improvviso per la strada, come por­ tata dal vento, e gli disse: «Adesso so chi è l’acchiappalepri ! Addio, signor Landolt ! ». Quei modi riusciron particolarmente graditi alla sua indole schietta ed aperta, e Figura pervase il suo cuore, già un po’ beccato dal cardellino, di tenera simpatia.

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Per avvicinarla cercò di frequentare il fratello, il quale abitava pure presso lo zio, i due essendo orfani fin da bambini. Salomon aveva saputo che Martin Leu soleva prender parte ad un’associazione di uomini e di giovanotti che si intitolava «Società per la storia patria» e teneva le sue sedute in una casa al Mercato nuovo. Erano le teste più ardenti e le menti più ambiziose nella gioventù delle classi dominanti, che sotto questo titolo cercavano un avvenire migliore e la liberazione dal carcere oscuro dei cosiddetti due Stati, cioè del re­ gime ecclesiastico e di quello laico. Si discutevano i prin­ cìpi dell’Illuminismo, dell’educazione, della cultura e della dignità umana, e soprattutto il tema pericoloso del­ la libertà civile in conversazioni libere ed in conferenze; e lo si faceva tanto più appassionatamente, in quanto i signori padri badavano ad evitare ogni realizzazione ec­ cessiva. Era d’altra parte fuor di discussione la sovranità dell’antica città sul resto del paese: territori e sudditi era­ no stati acquisiti nel corso dei secoli con denaro sonante, e le pergamene dello stato non erano di un filo diverse dai contratti d’acquisto d’un privato. Indagare invece se il diritto legislativo, il diritto di mutare la costituzione, spettava all’intera cittadinanza o solo alle autorità, era un divertimento prediletto, an­ che perché bisognava goderne in segreto, essendoci il boia con la sua ben affilata penna sempre pronto a cor­ reggere. Quando la cittadinanza, designata dai signori come una delle più difficili, si sollevava d’un tratto, quel­ lo veniva rapidamente messo da parte finché fosse pas­ sata la bufera, ma poi lo si ritrovava ritto, come l’omino del barometro, e l’autorità tornava ad essere la stessa belva mistico-astratta eletta solamente da Dio. I giovani in lotta con tali idee avevano bisogno di uno spirito tanto più ardente ed insieme austero, dal quale al­ cuni furono anzi trascinati a un rigido puritanesimo. Come si picchia il sacco per mirare all’asino, così essi si scaglia­ vano contro il lusso e la smania di godimento, ma in un senso del tutto diverso dai regolamenti per la moralità. Non volevano la modestia del suddito cristiano, bensì la

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virtù del rigido repubblicano. Sorsero così ben presto due fazioni, l’una dei tolleranti spensierati, l’altra dei foschi asceti che li sorvegliavano e li rimproveravano. Già avevano espulso uno dei membri perché portava un orologio d’oro e non aveva voluto disfarsene, altri furono ammoniti e tenuti sotto osservazione per il loro modo di vivere troppo sfarzoso. Il mentore supremo era il signor professor Jakob Bodmer, già superato quale letterato e purificatore del gusto, ma quale politico e moralista uo­ mo di tanta saggezza e di così illuminati e liberali sensi, come pochi ce n’erano allora e nessuno ne esiste oggigior­ no. Egli sapeva bene di esser considerato dagli ortodossi e dai reggenti un seduttore della gioventù, ma era tenuto in troppa stima perché dovesse nutrir timori, mentre d’altra parte gli facevan da guardia d’onore i giovani del partito della rigida osservanza. Un giorno Salomon Landolt si fece introdurre in quel­ la società e ancor prima che cominciassero le discussioni fece la conoscenza del giovane Leu, che subito simpatizzò con lui. Dovettero però tenersi tranquilli perché quella sera stessa era intervenuto per una mezz’ora il professor Bodmer in persona, per leggere ai giovani un suo saggio di argomento etico e per assegnare loro un compito ana­ logo. Landolt non era molto attento, perché i suoi pen­ sieri andavano a passeggiare ben lontani. Guardava di tanto in tanto il fratello di Figura Leu, che sembrava an­ noiarsi ancor più di lui ed ambedue si sentirono sollevati quando la discussione vera e propria fu chiusa. Venne però allora il momento critico. Gli austeri rite­ nevano questione d’onore rimanere uniti in vicendevoli conversari almeno per una mezz’oretta, mentre i frivoli erano smaniosi di svignarsela per tempo e di godersela ancora un pochino in qualche locanda. La ritirata clan­ destina fu notata con occhiatacce di traverso, con di­ sprezzo o sdegno, a seconda del valore dei fuggiaschi. Dopo che parecchi furono spariti così alla chetichella, anche Martin Leu tirò per la manica il candido Landolt, invitandolo sottovoce a bere con lui un buon bicchiere. Landolt lo seguì tranquillamente, ma fu molto stupito

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quando d’un tratto il compagno attraversò diagonal­ mente la strada trascinandoselo dietro, risali a corsa la via delle Pietre, poi, attraversando l’angusto e labirin­ tico quartiere dei miserabili, s’avviò verso il vicoletto scuro del Leone e di qui passò all’altezza della Casa Rossa sino alla stradetta degli Asini, come un cervo in­ seguito traversa una radura del bosco, girò attorno al ma­ cello e, percorrendo il Ponte Basso e la piazza del Vino, seguì la via del Pane e quella della Chiave, all’Uomo Rosso tagliò la Strada delle Cicogne, percorse quella del Cammello e infine, raggiunta di nuovo la Limmat, voltò a destra ed entrò nel bel palazzo nuovo della Corpora­ zione dei vignaioli. Ansanti per la corsa e per le risa, i due giovanotti si fermarono, reggendosi alla balaustrata di ferro battuto che ancora oggi attira lo sguardo, quale superba traccia dell’antica arte dei fabbri. Leu informò il nuovo amico della situazione, spiegandogli come fosse stato necessario con quella corsa a zig-zag sottrarsi agli sguardi curiosi. Landolt, nemico di ogni genere di ipocrisia, molto si rallegrò di quel tiro, specialmente perché veniva dal fra­ tello di colei che tanto gli piaceva. Essi entrarono quindi lietamente nel salone centrale ben illuminato, alle cui pareti pendevano numerosi tricorni e spade degli avven­ tori già seduti lungo le grandi tavole. Salsiccette arrostite, pasticci di carne, vini moscati e di malvasia, ecco quel che stava gustando una metà della «Società per la storia patria» ivi ricongiunta. Così di­ chiaravano almeno le esatte indicazioni dell’informatore del gruppo catoniano, il quale senza farsi scorgere aveva seguito per tutte le straducole i due ultimi fuggiaschi ed ora, col cappello calcato sulla fronte, stava sulla porta non perdendo di vista neppure un piatto. E tutto questo prima della cena che li aspettava a casa e dopo avere ascol­ tato un discorso del gran padre Bodmer « Sulla necessità del dominio di sé quale lievito in un libero Stato bor­ ghese ! ». I giovani epicurei non si lasciarono per nulla distur­ bare; l’amicizia, vera virtù virile, celebrò anche qui i

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suoi trionfi, giacché Martin Leu strinse con Salomon Landolt un patto d’amicizia per tutta la vita, senza im­ maginare che quegli mirasse a sua sorella, e che fosse del resto uomo piuttosto sobrio, il quale poco si curava di simili piaceri per se stessi. Le conseguenze dello stravizio non si fecero molto at­ tendere. I più austeri, senza informarne Bodmer, si mi­ sero all’opera e non sdegnarono di ricorrere ad una de­ nuncia segreta presso quei poteri statali, di cui pur vole­ vano attenuare i rigori. La faccenda arrivò così alla su­ prema autorità per i costumi, al Consiglio della Riforma, quale argomento da trattarsi in via confidenziale. Fu ritenuto peraltro opportuno, essendo i peccatori rampolli di famiglie stimate ed anche giovanotti d’ingegno, chia­ marli ad un’ammonizione benignamente orale, così che a ciascuno dei membri del Consiglio furono assegnate in via riservata una o due persone per il riservato espleta­ mento della questione. Al signor Leu senior toccò, come era giusto, il nipote ed insieme il suo complice specifico Salomon. Quando questi ricevette un invito a pranzo del signor Consigliere per una domenica alle dodici in punto, era già stato in­ formato dal nipote di quanto lo aspettava. Percorse con viva impazienza le strade deserte, di dove il popolo si teneva lontano per rigida osservanza della festa, e vide che per le strade, le piazze ed i pontili silenziosi s’incro­ ciavano soltanto numerosi cesti ben pieni di pasticcini portati da servitori, simili a severi navigli olandesi da guerra. Salomon tenne dietro da lontano, con crescente eccitazione, ad una di quelle navi di cui conosceva il pi­ lota, giacché sperava di vedere Figura Leu, ma d’altra parte correva pericolo di prendersi una lavata di capo in sua presenza. — Al signore tocca una predica ! — esclamò la ragazza venendogli incontro in corridoio — Ma si consoli: ho trasgredito anch’io i regolamenti: guardi un po’ qui! — Gli si mise dinanzi con grazia ed egli vide che indossa­ va un abito di seta attillato, con dei bei merletti ed una collana con gemme luccicanti.

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— L’ho fatto — aggiunse — perché i signori non ab­ biano a sentirsi mortificati davanti a me quando verran­ no a tavola dopo il predicozzo. Arrivederci ! — Così di­ cendo sparì rapida come era comparsa. In realtà i famo­ si regolamenti vietavano alle donne tutto quanto Figura sfoggiava sulla sua snella persona. Salomon Landolt venne accompagnato prima nello studio del signor consigliere, dove trovò Martin Leu che gli strinse la mano ridendo. — Egregi signori ! — cominciò lo zio, dopo che i gio­ vanotti si furono rispettosamente accomodati di fronte a lui — Due sono i punti di vista, partendo dai quali vorrei sottoporvi la ben nota faccenda. In primo luogo non è sano inghiottir prima della cena e ad ora insolita cibi e bevande, specie se queste provengono dal meridione, av­ vezzando così il palato a frequenti ghiottonerie. Tanto più poi dovrebbero astenersi da tali leccornie giovani ufficiali, giacché esse rendono un uomo precocemente corpulento ed inadatto al servizio. In secondo luogo poi, se questo è necessario e se i signori hanno bisogno di uno spuntino, è a parer mio indegno di giovani cittadini ed ufficiali svignarsela alla chetichella e traversare a corsa cento straducole oscure. Senza parole di scusa, senza sotterfugi e senza pudori, i veri uomini fanno quello di cui credono poter assumere la responsabilità di fronte a se stessi ! Ma ora andiamo presto a tavola, altrimenti la minestra si raffredda ! Figura Leu accolse i tre nella sala da pranzo, rappresen­ tando con scherzosa solennità la parte della padrona di casa, poiché lo zio era vedovo. Questi osservò con stupore il luccichio dei suoi ornamenti, ed essa gli spiegò senz’al­ tro di voler offendere intenzionalmente la legge per non lasciare solo alla berlina il suo povero fratellino. Lo zio rise cordialmente di quella trovata, mentre Figura col­ mava il piatto di Salomon Landolt a tal punto che questi dovette protestare. — La predica è già tanto efficace? — gli disse lei con uno sguardo scherzoso. Anche in lui si destò allora il buon umore e diventò

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cosi allegro e divertente con mille trovate, che l’argentino riso di Figura echeggiò quasi ininterrotto, mentre a lei cosi intenta non rimase più tempo per escogitare altri scherzi. Solo il consigliere gli diede talvolta il cambio, rievocando dalla sua lunga esperienza farse bizzarre, spe­ cialmente casi caratteristici della vita d’ufficio e dell’at­ tività circoscritta ma pur sempre appassionante del clero. Vennero alla luce anche con comici esempi i profondi influssi delle brave massaie sul Consiglio e sulla Chiesa, e ben si capiva che il signor consigliere non trascurava di leggere il suo Voltaire. — Signor Landolt, — esclamò quasi appassionatamen­ te Figura — noi due non ci sposeremo mai, perché non ci tocchi simile vergogna! Datemene parola! — e così dicendo gli porse la mano, che Salomon subito afferrò e strinse. — Siamo d’accordo ! — replicò ridendo, ma non senza batticuore, poiché pensava il contrario, e vedeva nelle parole della bella fanciulla una specie di mascherato invito o incoraggiamento. Anche lo zio rise, ma diventò subito melanconico quando si fecero udire le campane della chiesa, col primo invito alla predica pomeridiana. — Ci siamo di nuovo coi regolamenti ! — esclamò. Era infatti proibito prolungare anche in famiglia il pranzo del mezzodì oltre l’ora della chiesa, mentre già senza che se ne avvedessero erano venute le due. Guardarono tutti immelanconiti la tavola ancor colma; Martin, il nipote, aprì svelto un’altra bottiglia, mentre il consigliere s’al­ lontanava per indossare la marsina per la chiesa, giacché il suo grado gl’imponeva di recarsi alla cattedrale. Ri­ comparve tosto in talare nero, col gran collare inamidato sotto il mento e il cappello a cono in testa. Voleva sol­ tanto vuotare il suo bicchierino, ma sentendo Landolt raccontare un nuovo e allegro tiro, sedette un momento e la conversazione riprese per interrompersi solo allorché allo scampanìo della chiesa seguì un improvviso silenzio. Il signor Leu, lo zio, disse sconcertato: — Ormai è troppo tardi ! Martin, versa ! Ce ne stare­ mo qui nascosti finché è passata l’ora !

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Figura Leu batté le mani esclamando allegra: — Ora siamo tutti peccatori e di qualità ! Facciamoci un brindisi! Quando alzò sorridente il bicchierino di cristallo col vino ambrato ed un raggio del sole pomeridiano fece bril­ lare per un attimo non solo il cristallo e gli anelli della mano, ma anche i capelli dorati, le tenere rose delle guance, la porpora della bocca e le gemme della collana, ella apparve come in un’aureola, simile ad un angelo del cielo che celebri un sacro rito. Persino il fratello spensierato fu colpito da quella vi­ sta edificante, e avrebbe voluto abbracciare la radiosa sorellina, se non avesse dovuto cosi distruggere la bella visione. Anche lo zio guardò la fanciulla con compiacen­ za e soffocò un nascente sospiro di preoccupazione per il suo destino. Quando fu trascorsa un’altra oretta e scese la sera, il consigliere propose ai due giovani di recarsi alla pas­ seggiata al campo di tiro, dove fra i due corsi d’acqua che lo circondano si stendono bei viali alberati. — A quest’ora — disse — vi passeggia il nobile Bod­ mer, circondato da amici e da scolari, e prodiga parole eccellenti che s’ascoltan con profitto. Accompagnandoci a lui, ristabiliremo la nostra buona reputazione ; nel frat­ tempo Figura potrà cercare le sue compagne della do­ menica, che sogliono aggirarsi negli stessi paraggi prima di mangiare le ciliegie candite che innocentemente si offrono l’una all’altra. Obbedendo a quel consiglio, gli uomini si recarono a quella passeggiata, dove gruppi diversi camminavano su e giù come masse serrate. Fra di essi v’era realmente Bodmer col suo seguito, che, ambulando, discuteva la differenza fra ideale e reale, fra la repubblica di Platone e una civica repubblica elvetica, e ciò facendo alludeva a tutti gli eventi possibili e designava con inequivocabili colpi di traverso molteplici stoltezze ed insufficienze. I signori Leu e Landolt, dopo i doverosi saluti e com­ plimenti, s’unirono al gruppo bodmeriano procedendo poi con esso. Salomon Landolt per la sua indole vivace,

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ed anche perché non pervaso da grande attenzione, li precedette presto di alcuni passi, mentre Bodmer passava al tema dell’educazione pubblica basata su determinati criteri statali. Ad un gruppo di giovani dame, che provenendo da un viale secondario stava attraversando quello principale, faceva da avanguardia con analoga impazienza Figura Leu ; Landolt fece un profondissimo inchino e tutti i cava­ lieri alle sue spalle sollevarono i tricomi ed eseguirono una riverenza facendo risalire a tergo gli spadini. Figura si inchinò con austerità inimitabile e con grande cerimo­ niosità e tutte le damigelle che la seguivano, circa venti compagne, imitarono il suo esempio. Mentre Bodmer stava criticando un manuale di Base­ dow, il corteo delle signorine gli venne di nuovo incontro, questa volta di fronte, e ne seguì un pari scambio di sa­ luti, che durò ancor di più, prima che fossero sfilate tutte. Passando all’utilità del teatro, argomento trattato da Bodmer non senza allusione ai propri tentativi dramma­ tici, fu interrotto dal medesimo cerimonioso incontro, così che non ci fu fine alle scappellate ed agli inchini, quasi con fastidio del degno vegliardo. Per vero dire la colpa risaliva in parte a Salomon Landolt, il quale, da buon cacciatore e soldato, sapeva non perdere d’occhio i movimenti delle forze nemiche e avviava i dotti signori, senza che essi se ne avvedessero, per quelle vie che dovevano condurre ai rinnovati in­ contri. Figura d’altra parte interveniva ogni volta così sicura e puntuale coi suoi sperticati inchini, che egli non poteva pentirsene. E quella giornata, quando fu tra­ scorsa, gli parve la più bella che mai avesse vissuta. L’allegra ragazza non gli usciva ormai più di mente, ma la calma serena da lui serbata un tempo con Salome, il cardellino, era ormai sparita, ed ogni volta che rima­ neva a lungo senza vederla, lo coglieva tristezza e timore di dover trascorrere la vita senza Figura Leu. Anch’essa sembrava cordialmente affezionata; gli facilitava i ten­ tativi di avvicinarla e lo trattava da buon camerata sem­ pre disposto agli scherzi ed accessibile ad ogni raggio di

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buon umore. Cento volte gli appoggiò una mano sulla spalla e gli mise perfino il braccio intorno al collo; ma appena egli tentava di prenderle confidenzialmente la mano, essa la ritraeva quasi di furia, e se appena osava una paroletta tenera o uno sguardo troppo eloquente, essa lo lasciava passare senza curarsene. Talvolta si per­ metteva perfino contro di lui accenni di scherno per cose di nessun conto, ed egli li tollerava in silenzio, non accor­ gendosi però nel suo imbarazzo che essa gli aveva in­ tanto lanciato un caldo sguardo pieno di simpatia. Lo zio ed il fratello notavano bensì quei singolari rap­ porti, ma non si inframmettevano, accettando i modi della ragazza come qualcosa di non modificabile e cono­ scendo d’altra parte l’indole assolutamente leale ed ono­ revole di Salomon. Un giorno tuttavia quei rapporti vennero a chiarirsi. Salomon Gessner, il poeta, al sopravvenir dell’estate ave­ va inaugurato la sua dimora di servizio nel bosco della Sihl, di cui gli era stata affidata la custodia e la dire­ zione dai suoi concittadini. Se egli abbia veramente esple­ tato di persona la sua funzione di guardia forestale non si può ormai più stabilire; certo si è che in quella dimora estiva poetò e dipinse e allegramente se la spassò con amici che spesso lo visitavano. Questo secondo Salomon che compare nelle nostre storie era allora nel fiore della sua vita e della sua fama già diffusa in tutti i paesi; accettava con la modestia e la bonarietà propria soltanto degli uomini veramente capaci quanto era meritato e giusto di tale gloria. Gli idilli di Gessner non sono lavori deboli e insignificanti, ma, nell’àmbito del proprio tem­ po, i cui limiti nessuno che non sia un eroe può trascen­ dere, essi sono piccole opere d’arte complete e di perfetto stile. Noi ora non ce ne curiamo quasi più, senza pen­ sare a quello che fra mezzo secolo si dirà di tutto quanto si scrive ora quotidianamente. Ad ogni modo l’atmosfera che circondava quest’uomo quando egli viveva nella sua casa fra i boschi, era vera­ mente poetica ed artistica, e la sua attività lieta e molte­ plice, unita alla sua schietta arguzia, suscitava sempre

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una beata serenità. Tanto le sue acqueforti come le inci­ sioni che Zingg e Kolbe trassero dai suoi quadri saranno tra cento anni merce ricercata dai collezionisti, mentre noi ora ce le svendiamo l’un l’altro per pochi soldi. Essendo interessato ad una fabbrica di porcellane, aveva cercato di essere tra i primi a dipingere con deli­ catezza quei recipienti, e dopo breve esercizio si era as­ sunto ed aveva felicemente portato a termine la decora­ zione di un bel servizio da tè. Il grazioso lavoro doveva essere inaugurato appunto quel giorno nel bosco della Sihl; amici ed amiche eran stati invitati alla piccola festa e la tavola era apparecchiata sotto i più begli aceri in riva al fiume, dietro cui saliva verso l’azzurro del cielo estivo, albero dopo albero, il verde pendio della monta­ gna boscosa. Sulla tovaglia candida e damascata si allineavano bricchi, tazze, piatti e scodelle, decorati da centinaia di vignette piccole e grandi, di cui ciascuna era un’inven­ zione, un idillio, un epigramma, ed il loro pregio stava in ciò, che ogni cosa, ninfe, satiri, pastori, fanciulli, fiori e paesaggi, era abbozzata con mano lieve e sicura, e che essi apparivan tutti al giusto posto, non lavoro di un pittore di fabbrica ma opera di vero artista. La tavola così adorna era disseminata di chiazze di sole filtranti attraverso le foglie dentate degli aceri e danzanti al ritmo sommesso del leggero venticello che muoveva i rami; pareva che quelle luci eseguissero un tenero e solenne minuetto. Il signor Gessner se ne stava già seduto, perso nella con­ templazione di quel giuoco leggiadro, quando giunse la prima carrozza con gli ospiti attesi. Vi sedeva il saggio Bodmer, il Cicerone zurighese, come soleva chiamarlo Sulzer, ed insieme il canonico Breitinger, che nei suoi giovani anni aveva combattuto con lui la guerra contro Gottsched.1 I due però non sedevano al posto d’onore, I. Lo scrittore Johann Christoph Gottsched (1700-1766), seguace di Wolff e dell’Aufklärung, promosse una riforma della poesia, dandole norme e regole fisse, per sottrarla alla secentesca Form­ losigkeit (assenza di forme). Dominò dal 1727 al 1740, ma contro

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perché avevano condotto con sé le loro rispettabili con­ sorti. Altre carrozze recarono altri amici ed eruditi che tutti parlavano un loro gergo straordinariamente gaio ed arguto, ravvivato da un miscuglio di preziosità letteraria e di semplicità elvetica, ovvero, se si vuole, di soddisfatto orgoglio borghese. Un’ultima carrozza era affollata di fanciulle, fra cui Figura Leu, ed accompagnata a cavallo da Martin Leu e da Salomon Landolt. Tutte quelle degne e belle persone si aggiravano poco dopo sotto gli alberi in grande letizia; le porcellane di­ pinte furono ammirate e lodate, ma non passò molto tempo che Salomon Gessner diede spettacolo insieme a Figura Leu, rappresentando la scenetta di uno sciocco pastore che viene istruito nella danza da una pastorella. Lo fece con tanta spontanea allegria che il buon umore divenne generale e la signora Gessner, la bella moglie nata Heidegger, durò fatica a indurre finalmente la com­ pagnia a prender posto per fare onore a quel che aveva preparato agli ospiti. La tranquilla conversazione che andò man mano av­ viandosi fu alimentata da uno di quegli entusiasti che non possono fare a meno di render pubblico ogni fatto personale. Questi aveva già scovato le vicende più recenti della biografia gessneriana, non forse senza il concorso dell’eccellente consorte. Erano giunte da Parigi parecchie lettere. Rousseau esprimeva lusinghieri giudizi su Gessner al signor Huber, suo traduttore, ed assicurava di non po­ tersi più staccare dalle opere gessneriane. Diderot desi­ derava persino far pubblicare in un unico volume alcuni suoi racconti ed i nuovissimi Idilli di Gessner. Che Rous­ seau si entusiasmasse per l’ideale stato di natura di quel mondo idillico non era in fondo straordinario; ma che proprio il grande realista ed enciclopedista aspirasse al piacere di presentarsi sotto braccio all’ingenuo poeta idilliaco, sembrava un completamento veramente essendi lui si levarono, fra gli altri, gli svizzeri Bodmer e Breitinger, accusandolo d’insensibilità artistica e di ridurre la poesia ad eser­ citazione tecnica.

II, PODESTÀ DI GREIFENSEE

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ziale alle sue lodi e diede occasione, con gran noia di Gessner, ad ampi commenti. Con ciò peraltro Bodmer, il Cicerone, perdette il suo equilibrio, e quel tanto di stoltezza umana, che si na­ sconde anche nel più saggio, prese il sopravvento e ven­ ne a galla, facendo sì che egli vantasse senza posa e senza riserbo il proprio valore poetico. Ricordò melanconicamente i tempi in cui aveva gareggiato in entusiastica ami­ cizia col giovane Wieland, egli, l’anziano già affermatosi, con quell’astro nascente, abbozzando molti poemi sacri: ma dove erano ormai finite quelle gioie sublimi? Appoggiato all’indietro su una poltrona, con le gambe magroline accavallate, pittorescamente ravvolto per la fresca aria del bosco in un leggero mantello grigio estivo, il vecchio s’abbandonava al ricordo melanconico di quel­ le tristi esperienze, quando, l’un dopo l’altro, i serafici giovinetti Klopstock e Wieland, da lui chiamati a Zu­ rigo, avevano così perfidamente deluso e tradito la sua amicizia paterna e la sua fraternità poetica, il primo unendosi ad una brigata di compagni bevitori e dimo­ strando di avere uno spaventoso concetto della vita, in­ vece di lavorare al Messia·, l’altro intento sempre più a stringer rapporti con donne d’ogni specie e finendo per diventare il più frivolo e scostumato rimatore che a suo parere fosse mai vissuto, tanto che Bodmer ebbe un gran daffare a combattere la vergogna e il dolore con una fiumana inesauribile di terrificanti esametri in veneran­ di poemi sui patriarchi. Venne così a parlare delle Prove di Abramo, del Ritorno di Giacobbe da Haran, della Noachide, del Diluvio e di tutti i monumenti della sua instancabile attività, recitandone numerosi passi. Fra l’uno e l’altro inseriva novità ammo­ nitrici provenienti dai suoi diffusissimi carteggi : che per esempio il Consiglio di Danzica aveva vietato ai giovani cittadini dilettanti di poesia di quella città l’uso dell’esa­ metro, quale veicolo di carattere rivoluzionario, scon­ veniente agli usi borghesi. Narrò pure con un sorriso malizioso, quale esempio caratteristico di amicizia moderna, la notizia confident

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ziale da lui trasmessa ad un amico parroco circa la pub­ blicazione di una satira ostile intitolata Bodmeriade e disse che l’amico s’era sdegnato che si osasse turbare in modo così perfido ed odioso il piacere suscitato dalle immortali opere bodmeriane; si augurava che nessun galantuomo leggesse mai tale robaccia; il prete curioso però aveva concluso domandando se non gli avrebbe potuto far avere per una giornata quella satira, giacché, superato il di­ spetto, la lettura delle sue degne poesie sarebbe senza dubbio stata doppiamente piacevole. I presenti sorrisero divertiti di quel parroco troppo cu­ rioso di cui subito indovinarono il nome. Bodmer intanto per l’agitazione lasciò cadere il mantello sino ai fianchi e si sporse in avanti, così da assomigliare ad un senatore ro­ mano, esclamando: «Ma in compenso egli perderà la menzione che gli avevo destinato per la futura ristampa della mia Noachide : non si è infatti dimostrato sufficiente­ mente degno di entrare nella posterità al mio fianco!». Spiegò poi a quali amici provati egli avesse già dedi­ cato passi di omaggio nelle sue diverse epopee, e a quali intendesse prodigare ancora simile favore, in opere mag­ giori o minori, con un numero più o meno grande di versi, a seconda dell’importanza del personaggio. Si guardò attorno con occhio scrutatore ed i presenti abbassarono gli sguardi, gli uni arrossendo, gli altri im­ pallidendo, ma tutti comunque in silenzio, perché il poeta sembrava passarli seriamente in rivista. A poco a poco il suo umore s’addolcì; tornò ad ap­ poggiarsi all’indietro, rievocando i giorni lontani e mor­ morò con dolcezza, alzando lo sguardo verso il verde pendio del monte: «Ah, dove è fuggita l’età dell’oro in cui il mio giovane Wieland redasse la prefazione ai nostri canti comuni, aggiungendovi le parole: “È da ascriversi specialmente alla nostra divina religione, se per il valore morale dei nostri poemi noi siamo qualcosa di più che degli Omeri”?». In quel momento, volgendo un poco lo sguardo, scorse una strana scena che lo fece balzare in piedi esclamando severamente :

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«Che cosa fa quella pazza?». Durante tutto quel tempo Salomon Landolt s’era ag­ girato su e giù sotto le piante, un poco in disparte, medi­ tando le proprie faccende sentimentali e chiedendosi se quella giornata non avrebbe potuto portare qualcosa di decisivo. Egli portava allora i capelli raccolti in una bella borsa, trattenuta da larghi nastri. Figura Leu era andata a prendere in casa uno specchietto da borsetta ed un altro specchio tondo a manico; era riuscita a fissare il primo, fingendo di accomodargli il nodo, alla borsa dei capelli, mentre Salomon continuava a passeggiare tranquilla­ mente. La ragazza, che egli non poteva udire per il mor­ bido terreno muschioso, lo seguiva con scherzosi passi di danza, eseguendo una specie di pantomima, chinandosi e rialzandosi leggera e leggiadra come una Grazia. Sfog­ giava una mimica divertentissima, si rimirava di conti­ nuo or nello specchietto pendente dalla nuca di Landolt ora in quello a mano, e girando nella danza lo specchio tondo e la propria persona in modo da potersi rimirare da tutte le parti ad un tempo. Nel vegliardo dalla mente ancor ben agile e acuta era sorto come un lampo il sospetto che quei giovani sfrontati rappresentassero l’immagine di un vanitoso autocompia­ cimento, quasi per interpretare i discorsi che egli stava tenendo. Tutti si volsero a guardare nella direzione indi­ cata dal suo indice ossuto e risero del quadretto grazioso, sinché finalmente anche Landolt se ne accorse, si voltò stupito, in tempo per cogliere Figura mentre gli toglieva rapidamente dal dorso lo specchietto. — Che cosa significa tutto ciò? — disse il vecchio pro­ fessore, che si era già ripreso, con voce dolce e tranquilla — Forse la gioventù vuol schernire la vecchiaia chiac­ chierona? Nessuno mai seppe a che cosa avesse in realtà mirato Figura; certo si è che parve molto imbarazzata e còlta da rimorso. Nella paura accennò a Landolt dicendo : — Ma non vede che voglio soltanto scherzare con que­ sto signore?

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Fu allora Salomon Landolt ad arrossire ed a impalli­ dire ritenendosi suo zimbello ; tutti i convenuti s’avvidero del carattere ambiguo di quella scena e si diffuse un gran silenzio ed un senso di disagio. Allora intervenne Salomon Gessner, che afferrò lo specchio esclamando: «Non si tratta affatto di uno scherno ! La signorina ha voluto rappresentare la verità al seguito della virtù, che certamente nessuno vorrà ne­ gare al nostro Landolt ! Tuttavia l’interprete ha commes­ so un errore, giacché la verità deve vivere per se sola e non dipendere dalla virtù o dal vizio in modo alcuno. Vediamo se non ci riesco meglio io ! ». Così dicendo s’impadronì del velo della signora a lui più vicina e se lo ravvolse attorno ai fianchi come se fosse classicamente nudo, e, sempre con lo specchio in mano, salì su un masso di pietra a modo di piedestallo, atteggiandosi in una posa contorta e con espressione sen­ timentale a caricatura di una statua della verità, tanto da fare ritornare il riso e l’allegria generale. Soltanto Salomon Landolt restò turbato e si allontanò solo per un sentiero appartato del bosco, volendo racco­ gliere i suoi pensieri e cavarsi da quella faccenda da uomo coraggioso. Aveva però fatto pochi passi quando già inaspettatamente Figura Leu gli si appese al braccio. «È permesso passeggiare un poco col signore?» gli sussurrò, e procedette leggera per un tratto accanto a lui, che continuava a tacere pur non staccandosi dal suo braccio. Quando furono giunti ad una certa altezza, dove nessun occhio li poteva sorprendere, la fanciulla si fermò e disse: «Bisogna che finalmente le parli, altri­ menti finisco male. Ma per prima cosa, eccole ...». Così dicendo gli gettò le braccia al collo e gli diede un bel bacio. Quand’egli però volle continuare, essa lo re­ spinse con energia. «Questo vuol dire» proseguì «che io le voglio be­ ne e che so che lei me ne vuole. Ma con ciò siamo al­ l’amen ed è beffe finita ! Amen ! Lei deve sapere che ho promesso a mia madre sul letto di morte, un istante pri­ ma che spirasse, di non sposarmi mai. E voglio e debbo

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mantenere la promessa ! La mamma era malata di mente, prima solo ipocondriaca, poi sempre più grave, e solo nella sua ultima ora la mente tornò lucida ed essa mi parlò. È un male di famiglia, ritorna di tempo in tempo ; in passato saltava regolarmente una generazione, ma poi sono state malate la nonna, la mamma, ed ora abbiam paura che tocchi anche a me ! ». Si lasciò cadere a terra, coperse il volto con le mani e scoppiò in amaro pianto. Landolt le s’inginocchiò accanto tutto scosso, tentò di prenderle le mani e di calmarla. Cercava le parole per esprimerle la sua gratitudine ed i suoi sentimenti, ma non riusciva a dire altro che: «Coraggio, lasci fare a noi! Ci mancherebbe altro! Non ci pensi» e cose simili. Ella invece ripetè con tremenda convinzione: «No, no! Già ora io son tanto allegra e pazzerella solo per tener lontana la melanconia che mi sta alle spalle come un fantasma, lo capisco bene!». A quei tempi nel nostro paese non vi erano ancora isti­ tuti per malati simili; i pazzi, quando non erano furiosi, venivano tollerati in famiglia e sopravvivevano poi a lungo nella memoria come sciagurati esseri demoniaci. La fanciulla piangente si rialzò però più presto di quan­ to lui avesse sperato; asciugò con cura il volto col biso­ gno istintivo di sottrarsi al dolore ed esclamò: «Basta per ora! Lei ormai lo sa! Lei dovrà sposare una creatura buona e bella e più savia di me! Zitto, taccia! Questo è il punto fermo!». Landolt non seppe al momento dire altro, rimase com­ mosso e sconvolto da quel minaccioso destino, ma sentì anche in sé una felicità sicura che non intendeva perdere. Passeggiarono ancora per un poco insieme, sinché dal bel volto di Figura furono sparite le tracce dell’eccita­ zione; i due rientrarono infine nel gruppo degli ospiti. Ivi era già avviata fra i più giovani una festicciola da ballo, poiché il signor Gessner aveva provveduto ad un paio di rustici musicanti. Quando ricomparve Figura, fu Bodmer in persona che

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la invitò a tentare un giro con lui, per dar prova della sua giovanile baldanza. Più tardi essa ballò con Landolt tutte le volte che potè senza dar troppo nell’occhio e gli sussurrò che quello doveva essere l’ultimo giorno della loro intimità, poiché essa non sapeva quando sarebbe stata chiamata nel paese ignoto ove vagano gli spiriti. Ritornando in città Salomon cavalcò a fianco della carrozza in cui era la fanciulla. La sua linguetta non stette ferma un momento; passando sotto il ciliegio ca­ rico di frutti il giovane colse svelto un ramoscello ricco di ciliege coralline e glielo gettò in grembo. «Mille grazie!» disse Figura, e conservò accurata­ mente per ben trent’anni il ramo con i frutti essiccati, giacché essa rimase in buona salute senza che il fosco de­ stino temuto le si presentasse. Fu tuttavia irremovibile nella sua decisione; anche il fratello Martin, dal quale Salomon si recò il giorno seguente per consigliarsi, con­ fermò quel che essa aveva detto e come in famiglia si considerasse certa la sventura alla quale sempre eran state esposte di preferenza le donne. Non avrebbe potuto desi­ derare un cognato migliore di Landolt, gli assicurò Mar­ tin, ma era costretto a pregarlo, per la calma e la pace della mente di lei rimasta sino ad allora abbastanza in equilibrio, di rinunciare ad ogni altro tentativo. Landolt non si rassegnò subito, sperò anzi in silenzio per parecchi anni, senza che però intervenisse un muta­ mento nella situazione. Si serbò di buon animo soltanto perché, ogni qualvolta a lunghi intervalli rivedeva Figura Leu, poteva leggere negli occhi di lei che era rimasto il suo amico più caro e diletto.

IL CAPITANO

Salomon visse ben sette anni senza curarsi più di donne, avendo in cuore soltanto Pulcinella, come egli soleva chia­ mare Figura Leu. Alla fine però ci fu un’altra storia. Viveva allora a Zurigo, reduce dal servizio militare prestato in Olanda, un certo capitano Gimmel, il quale

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aveva con sé una figliola, eredità della moglie morta che era olandese. Egli viveva di un piccolo patrimonio, nonché della sua pensione, in modo però da consumare quasi tutto per sé solo. Costui era un ubriacone litigioso, superbo soprattutto della propria arte di schermitore e, pur non essendo affat­ to giovane, s’imbrancava sempre con i giovanotti, cer­ cando chiasso e scandali. Una volta Landolt ebbe occa­ sione di avvicinarlo, e, irritato dalle sue vanterie, ne ac­ cettò la sfida e si recò con tutta la brigata nella casa di Gimmel, dove c’era una vera sala d’armi. Landolt si riprometteva di appioppare al vecchio litigioso, malgrado la sua corazza di cuoio, due buoni colpi nei fianchi, poiché era ottimo schermitore e già da ragazzo s’era esercitato nel castello di Wülflingen e più tardi alla scuola di guerra di Metz nonché a Parigi. Ben presto infatti la sala rintronò dei balzi e dei colpi dei due duellanti e del fragore delle armi, e Landolt incalzò con tanta energia il capitano, che questi cominciò ad ansimare. D’un tratto però Landolt lasciò cadere la spada per guardare come incantato la porta alla quale s’era affacciata reggendo un vassoio con bicchierini da liquore la figlia del capitano, la bella Wendelgard. Essa era davvero una meravigliosa apparizione. Abbi­ gliata più riccamente di quanto comportasse il suo stato, con l’alta persona frusciante di seta, faceva tuttavia di­ menticare quel lusso per la rara bellezza della figura. Volto, collo, mani, braccia, tutto aveva lo stesso perfetto candore di pelle, come fosse scolpito in marmo pario; vi si aggiungeva una chioma opulenta dai riflessi ros­ sastri, la cui seta era mille volte ondulata; gli occhi grandi, azzurro-scuro, ed anche la bocca parevano rive­ lare una serietà curiosa, anzi una lieve inquietudine, sia pure non di origine spirituale. Quando la splendida fanciulla si guardò attorno come cercando ove posare il vassoio, il capitano, lieto dell’in­ terruzione, le indicò lo sporto della finestra. I giovani presenti la salutarono con quella cortesia che è dovuta in ogni circostanza a tanta bellezza. Essa s’allontanò con

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un inchino e con un grazioso sorriso che mitigò l’austerità dei suoi tratti e lanciò anche un rapido e timido sguardo allo stupefatto Salomon, che essa vedeva per la prima volta in casa sua. Il padre offrì diversi fini liquori olan­ desi, facendo così dimenticare la prosecuzione della par­ tita d’armi. Landolt pure non pensava più a fare del male al ca­ pitano Gimmel, giacché questi s’era trasformato per lui di colpo in un mago possessore di fulgidi tesori, capace di largire dalle sue mani la felicità o la sventura. Si unì senza esitazione ad una gita in barca proposta da Gim­ mel ad una località celebre per i suoi vini e, per quanto non avvezzo ai modi scomposti di quel vecchio fanfarone, fu ora verso di lui la tolleranza e l’indulgenza in persona. Quando il cuore è colmo, trabocca la parola, e ad una novità s’aggiunge l’altra. Pur di sentire parlare comunque della bella Wendelgard, egli da allora si diede a buttar fuo­ ri quel nome con astuzia, ma sempre in modo asciut­ to ed ostentando indifferenza; e nello stesso tempo essa, prima ben poco conosciuta, cominciò a far parlare di sé per la leggerezza con la quale pareva avesse contratto una discreta quantità di debiti. Si verificò cioè il caso inaudito di una ragazza, una figlia di famiglia, giunta all’orlo di un vergognoso fallimento, giacché il padre, si diceva, ricusava il pagamento dei debiti contratti a sua insaputa, minacciava i creditori impazienti di atti di violenza e voleva ripudiare la figlia. La faccenda era a quanto pare cominciata così, che la fanciulla, lasciata dal padre priva del necessario, per provvedere ai bisogni della famiglia era ricorsa a pre­ stiti ed aveva usato poi sempre più spesso per se mede­ sima quel comodo espediente. Non erano rimasti senza influsso su di lei la sua inesperienza, la mancanza della madre ed una certa ingenuità spesso caratteristica di si­ mili figure eccezionali, senza contare che essa riteneva molto agiato il padre fanfarone. Comunque stessero le cose, la ragazza era ormai sulla bocca di tutti; le donne gridavano allo scandalo e pro­ clamavano vicino il Giudizio universale per l’apparire di

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simili fenomeni; gli uomini si accontentavano della fine dello Stato; le giovani sussurravano in segreto, abban­ donandosi alle più misteriose fantasie circa la sciagurata ; i giovanotti si permettevano scherzi sguaiati, ma si tene­ vano lontani con intimidita prudenza dalla casa del ca­ pitano, anzi dalla strada dove abitava; i commercianti danneggiati, infine, accorrevano ai tribunali per presen­ tare le loro denunce. Soltanto Salomon Landolt pensava con raddoppiata passione a quella bellezza immersa nel cruccio per i suoi debiti. Un’intensa pietà lo pervadeva d’invincibile desiderio, come se la peccatrice, invece che nel purgato­ rio della sua miseria, se ne stesse in un roseto fiorito chiuso da un cancello d’oro. Non resistette più a lungo all’impulso di vederla e di aiutarla, e, quando una sera scorse il capitano saldamente ancorato ad una tavola d’osteria, s’awiò con rapida decisione verso la casa di Wendelgard e diede un energico strappo di campana. Alla domestica che s’era affacciata alla finestra chieden­ do che cosa desiderasse, replicò asciuttamente di essere un funzionario del tribunale civico, incaricato di parlare con la signorina, e scelse questa strana presentazione per troncare ogni discorso inutile ed ogni curiosità d’altro genere. A quel modo però spaventò non poco la poverina, la quale infatti gli venne incontro pallidissima e si impor­ porò terribilmente appena lo riconobbe. Imbarazzata, con la voce tremante che tradiva la pau­ ra, lo invitò ad accomodarsi; essa era tanto inesperta e ab­ bandonata da non avere alcuna idea del mondo degli affa­ ri e da supporre anzi che la venissero a portare in prigione. Appena però Landolt ebbe preso posto, si scambia­ rono le parti, e fu lui a trovare a stento le parole per le sue dichiarazioni, giacché quella bella disgraziata gli parve più nobile e altolocata di un re di Francia, il quale do­ veva pur sempre chiamare gli Svizzeri suoi grands amis mentre comprava il loro sangue. Alla fine, con l’atteggia­ mento di un supplicante, le espose le ragioni che l’aveva­ no guidato da lei: il crescente piacere che provava guardandola fini per ispirargli coraggio sufficiente a spie­

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garle con calma come egli, quale membro del tribunale, avesse avuto notizie della spiacevole storia e fosse ora venuto per discutere con lei la situazione e trovare un modo di regolare gli affari. Volesse ella dunque infor­ marlo con piena fiducia circa la misura e la natura degli obblighi contratti. Wendelgard, traendo un gran sospiro di sollievo e dopo avergli gettato, come già al primo incontro, uno sguardo indagatore, corse a prendere una scatola ove aveva ripo­ sto tutti i conti, le sollecitazioni e le citazioni già perve­ nutile e che non aveva più osato guardare. Con un se­ condo sospiro, abbassando gli occhi mentre avvampava di vergogna, rovesciò sulla tavola tutte quelle carte, poi s’appoggiò allo schienale della sedia, coprendosi la faccia con la scatola vuota, dietro la quale cominciò a singhioz­ zare sommessamente volgendo il capo. Commosso ed insieme felice di poter fungere da con­ solatore, Salomon le tolse la scatola e le strinse con deli­ catezza le mani incoraggiandola a star di buon animo. Si diede poi a studiare le carte e, quando aveva bisogno di informazioni, le rivolgeva delle domande con tale bontà e ispirando tanta fiducia, che a lei era facile dargli risposta. Trasse alla fine il piccolo album dal quale mai si staccava, tutto colmo di rapidi schizzi di cavalli, di cani, d’alberi e di nuvole e in quella compagnia, su una pagina bianca, allineò i debiti della buona Wendelgard. Si trattava per lo più di begli abiti e di ornamenti, ma anche di alcuni graziosi mobiletti, né mancavano alcune leccornie, benché in misura modesta, cosi che la somma totale non raggiungeva neppure da lontano la cifra inau­ dita di cui si parlava in pubblico. Tuttavia si arrivava quasi ai mille fiorini di moneta zurighese, somma che la debitrice non era affatto in grado di procurarsi. Landolt però era ammaliato al punto che, riponendo nel taschino il libretto, l’elenco di debiti della bella ra­ gazza gli parve un possesso dolce, prezioso e incantevole più che l’inventario patrimoniale d’una ricca fidanzata. Tutto quanto figurava sulla nota gli piaceva: gli abiti, i merletti, i cappelli, le piume, i ventagli ed i guanti, e per­

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sino le ghiottonerie suscitavano in lui soltanto il desiderio di poterne un giorno rimpinzare l’affascinante bambinona. Quando prese congedo promettendo di dare presto no­ tizie di sé, la ragazza lo guardò un po’ incerta, non es­ sendo chiaro ciò che sarebbe seguito. Si era però già ras­ serenata e gli fece luce in persona, con un tratto di fidu­ ciosa riconoscenza, sino alla porta di casa, dove sussurrò un grazioso « Buona notte ! » che completò la conquista del giudice civico. Wendelgard risalì le scale lentamente e, forse per la prima volta, pensosa; s’addormentò anche, per la prima volta da parecchio tempo, in calma perfetta, tanto da non udire rientrare il rumoroso capitano. Landolt invece quella notte non dormì, meditando l’af­ fare sinché cantarono i galli in tutti i pollai della città. Salomon Landolt, che viveva ancora presso i genitori e da loro dipendeva, era in grado tutt’al più di mettere insieme una parte della somma necessaria a liberare Wendelgard, visto che il suo intervento doveva rimanere segreto, per non rendere ancor più diffìcile ogni futura relazione con quel fenomeno di spensieratezza. Egli pos­ sedeva però una nonna facoltosa di cui era il beniamino, già avvezza ad assisterlo nelle sue difficoltà finanziarie e che particolarmente si divertiva a farlo in segreto. Essa aveva l’originalità di protestare vivamente contro ogni matrimonio del nipote appena se ne faceva parola. A suo avviso il nipote, che essa ben conosceva, sarebbe stato sempre infelice e preoccupato, giacché lei conosceva pure le donne e sapeva anche troppo quel che valessero. Ac­ compagnava così ogni volta i suoi sussidi segreti col mo­ nito confidenziale di non pensare a nozze e, quand’egli ricorreva a lei nell’imbarazzo, bastava che cominciasse con qualche allusione del genere per essere certo di un pronto successo. Ancor quella volta ricorse alla sua bizzarra nonnina e le confidò con un sospiro ipocrita d’essere ormai co­ stretto ad uscire dalle strettezze e a raggiungere final­ mente una posizione indipendente accettando un buon partito che gli si offriva. La nonna tolse spaventata gli occhiali coi quali stava leggendo il suo libro dei conti e

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considerò lo sciagurato nipote come un pazzo in procinto di appiccare di propria mano il fuoco alla casa. — Ma lo sai che io ti diseredo se ti sposi? — esclamò sconvolta ella medesima da tal pensiero — Ci manche­ rebbe proprio che una pollastrella senza testa venisse in possesso di tutta la mia roba ! E tu? Come potresti soppor­ tare una moglie? Come tollerare, per esempio, una che ti dice bugie tutta la giornata? Oppure una che sparla del mondo intero, così che la tua tavola onorata diventa il centro della maldicenza, oppure una che mangia senza posa, dovunque si trova, e che fa rumore masticando? E che figura farai se avrai una moglie la quale rubacchia nelle botteghe o fa debiti come la Gimmel? Il nipote soffocò una risatina all’ultimo esempio, col quale la nonna lo colpiva così da vicino, e disse sforzando­ si di apparire serio: — Se le cose stanno proprio così con le povere don­ nette, tanto meno si potrà abbandonarle a se stesse; bisogna sposarle per salvare quel che ancora è salvabile ! Sempre più esasperata, la nemica del suo sesso gridò: — Smettila, mostro ! Che cos’è accaduto, di quanto hai bisogno? — Ho perduto mille fiorini al giuoco e me ne man­ cano seicento! La vecchia signora tornò ad inforcare gli occhiali, si tolse la gran cuffia per potersi grattare i capelli grigi e corti e s’avviò poi zoppicante verso uno scrittoio intar­ siato. Landolt con gran piacere vide dietro la ribalta rientrante le meraviglie ivi custodite, che già erano state la gioia della sua infanzia: una piccola sfera terrestre d’argento; un cavaliere su un cavalluccio d’avorio inta­ gliato indossante una vera armatura argentata e dorata che gli poteva essere tolta, con uno scudo ornato di una pietra preziosa e con le piume dell’elmo smaltate; inoltre, anch’esso finemente e artisticamente intagliato in avorio, un minuscolo scheletro alto quattro pollici, con una falce d’argento, detto la «piccola morte», ed al quale non mancava neppure un solo ossicino. La vecchia prese nella mano tremante quel grazioso

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scheletro e, facendone lievemente sbattere le sottili ossa d’avorio, aggiunse: — Guarda un po’, così si riducono uomini e donne quando il divertimento è finito ! Chi vorrà mai amare e sposarsi ! Anche Salomon prese in mano la «piccola morte» e si diede ad osservarla attento, còlto da un lieve brivido all’immaginare la bella persona di Wendelgard che si staccava a brandelli da una simile impalcatura. Mentre pensava alla rapida fuga del tempo ed alla sua inesora­ bilità, il cuore gli batté tanto forte che lo scheletrino tremò sempre più ed egli gettò uno sguardo cupido verso la mano della nonna, che stava togliendo da un gruzzolo sempre giacente in un cassetto un rotolo di bei luigi d’oro e gli diceva: — Eccoti i mille fiorini ! Ma ora non venirmi a seccare con i tuoi progetti di matrimonio ! Per prima cosa Landolt andò in cerca del capitano Gimmel, che trovò in un’osteria e prese in disparte. Gli spiegò di esser stato incaricato da persona che desiderava non essere nominata di regolare l’incresciosa faccenda della figlia; si pretendeva però che il capitano vi prov­ vedesse a proprio nome, per riguardo alla figliola, in modo che anche questa fosse ben persuasa che fosse stato il padre a pagare tutti i debiti. A quel patto Landolt avrebbe versato la somma come proveniente dal capi­ tano presso un ufficio curando che i creditori venissero poi liquidati con tutta discrezione. In tal modo al padre e al­ la signorina sarebbe stata risparmiata ogni altra seccatura. Il signor capitano squadrò il giovanotto con occhio stupefatto, parlò a tutta prima di ingerenze illecite e di rispetto dei suoi diritti e portò la mano alla spada; quando però Landolt gli spiegò che qualcuno s’interes­ sava molto alla signorina e al suo bene futuro, il quale avrebbe potuto dipendere da una pronta liquidazione della faccenda, quando insomma il capitano cominciò ad intuire la possibilità di collocar bene la figliola, rinfoderò la spada del suo onore e si dichiarò d’accordo con il proposto modus procedendo.

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Salomon Landolt condusse a termine la cosa con pru­ denza ed abilità cosicché i creditori vennero tutti pagati. Ciascuno credette che il capitano Gimmel fosse sceso a più miti consigli e Wendelgard medesima ne rimase per­ suasa. Di fronte a lei il padre si dava delle arie solenni, il che la riconfermò nell’idea che dovesse essere uomo ricco. Non fu quindi eccessivamente stupita o sconcertata, quando Salomon, suo incaricato d’affari, le si ripresentò una sera porgendole le fatture saldate di tutti i suoi debiti piccoli e grandi. Egli se ne compiacque di tutto cuore e fu lieto di ritrovarla di buon animo, mentre du­ rante la discussione sul numero e la natura dei debiti erano pur sorte in lui preoccupazioni, sempre però col solo risultato di accrescere la sua tenera pietà per la po­ vertà sprovveduta della fanciulla e di suscitare in lui l’intenso desiderio di prendere per sempre nella sua salda mano la sorte di lei. Wendelgard in quegli ultimi giorni, in attesa della sua visita, si era vestita ed adornata con maggiore cura del solito ed era molto lieta delle mi­ gliorate condizioni, soprattutto perché non appariva più umiliata nel bisogno davanti al suo salvatore, e, com’essa credeva, in grazia di mezzi propri. Lo ringraziò tuttavia dei suoi soccorrevoli sforzi con pa­ role ingenue e cordiali ; così dicendo gli tese la mano con­ fidenzialmente, e parve a lui tanto bella, che senz’altra esitazione le confessò la sua simpatia, spiegandole come questa soltanto lo avesse indotto a intervenire così indi­ scretamente nelle sue faccende. Andò anzi tant’oltre nel­ la sua illimitata sincerità, da assicurarle che ella col ri­ cambiarlo e col concedergli la mano gli avrebbe recato ben più grande aiuto, incoraggiandolo a dare finalmente una meta alla sua vita inquieta e sregolata e a fare per l’amore e per la bellezza quel che non si era mai indotto a compiere per se medesimo. Questa leale imprudenza od imprudente lealtà suscitò però la prudenza della bella ragazza. Durante i suoi di­ scorsi abbandonò la mano fra quelle dell’entusiastico Salomon e lo fissò con occhi benigni, che soavemente splendevano nella gioia d’essere tanto rapidamente ri­

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sorta dall’awilimento. Però, malgrado la dolcezza del­ l’ora, lei, di solito tanto spensierata, si preoccupò della vita irregolare di cui l’innamorato andava accusandosi e chiese un termine di sette giorni per decidere. Lo con­ gedò tuttavia molto benevolmente e quando fu di nuovo sola aveva il respiro rapido ed ansimante di un coni­ glietto. Nel frattempo il capitano aveva più a fondo meditato le misteriose allusioni di Landolt, scoprendo che sua figlia era ormai matura per la felicità e per essere offerta sul mercato. Non aveva certo l’intenzione di farsi carpire quella gemma da mano sconosciuta, ma voleva esser pre­ sente ad occhi aperti e soprattutto organizzare una con­ veniente messa in mostra. Per non perder tempo decise di recarsi con la figlia ai bagni di Baden, in quel momento molto affollati per le feste di Pentecoste. Le fece mettere nei bauli gli abiti più belli, che a Zurigo non poteva nem­ meno sfoggiare a cagione dei regolamenti sul lusso, poi si installarono insieme senza indugio nell’albergo Hin­ terhof di Baden, al pari degli altri pieno di forestieri. Con ciò ebbe anche fine la sorveglianza paterna di Gim­ mel, giacché egli subito cercò ed anche trovò sufficiente compagnia di vecchi soldati amici del vino ed abbandonò la figlia Wendelgard totalmente a se stessa. Per un caso fortunato, in quello stesso albergo allog­ giava Figura Leu, che accompagnava una signora an­ ziana venuta a curare i reumatismi. Essa era già ormai un pochino avanti negli anni e faceva ancor più che in passato il piacer suo. Quando conobbe la bella Wendel­ gard, resa celebre dai suoi debiti, e la vide imbarazzata nel suo isolamento, la attrasse nella sua cerchia e si fece un passatempo di studiare e conoscere quella strana e singolare creatura, in cui pareva si fosse impersonata la bellezza senza alcun altro attributo. Si guadagnò ben presto la fiducia della fanciulla, che non aveva mai gu­ stato il beneficio di simile compagnia, e venne così già il primo giorno ad apprendere la sua relazione con Sa­ lomon Landolf e la storia dei sette giorni d’attesa. Già l’indomani Figura si persuase che all’imprudente inna­

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morato non sarebbe potuta capitare disgrazia peggiore che la conquista di quella ragazza. Senza neppure saper­ ne il perché, aveva l’impressione che Wendelgard non possedesse un’anima. Altre volte invece pensava che, essendo essa una tela bianca, Salomon avrebbe potuto dipingervi qualcosa di discreto, che insomma le cose avrebbero potuto ancora finir bene. Turbata dalla sua stessa incertezza, decise all’improvviso di affidare la so­ luzione ad una specie di giudizio di Dio o di prova del fuoco, che le fu suggerita dall’insperato arrivo di suo fratello Martin. Questi era già da cinque anni capitano nel reggimento zurighese a Parigi ed era uomo esperto di tutte le arti, e anzitutto eccellente attore nei teatrini privati dell’alta società francese. Il capitano Gimmel e sua figlia non l’avevano mai prima veduto ed egli del resto sapeva rendersi irriconoscibile anche a coloro che lo avevano familiare. Figura basò il suo piano su questa circostanza e riuscì ad andare incontro segretamente al fratello, quando questi, giunto improvvisamente in pa­ tria per una visita, era sulla strada tra Zurigo e Baden. Lo informò rapidamente del suo disegno e subito lo gua­ dagnò ad esso, perché Martin non meno della sorel­ la s’interessava al bene del suo ottimo amico. Figura aveva molta fretta, essendo già trascorsi quattro dei sette giorni, ed essendo ben chiaro che Wendelgard non si sarebbe indotta ad un rifiuto. Martin Leu differì quindi il suo arrivo sino al calar della sera, mentre Figura lo precedette in fretta come se nulla fosse accaduto. Durante la notte egli fece i suoi pre­ parativi e il dì seguente si presentò come un forestiero sconosciuto, dandosi però grandi e misteriose arie. Ap­ pena si fu un poco orientato, avvicinò come per caso il capitano e, mentre beveva con lui una bottiglia, gli lasciò vincere subito un paio di talleri al giuoco, senza impe­ gnarsi oltre. Più tardi andò a passeggiare nei viali pub­ blici e lungo la riva del fiume, dopo che Figura con sottile astuzia ebbe diffuso la vaga notizia che lo straniero era un cavaliere francese con mezzo milione di franchi di rendita, il quale intendeva ad ogni costo sposare una

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svizzera protestante perché apparteneva egli stesso a quella confessione. Era già stato a Ginevra senza tro­ vare nulla, e ora voleva recarsi a Zurigo, ma inten­ deva guardarsi prima intorno a Baden, avendo saputo che in quel periodo vi conveniva un’eletta schiera di dame. Il capitano tornò in gran fretta e contro le sue abitu­ dini a casa, o meglio all’albergo, già prima di pranzo, a prendere la figliola, ordinandole di mettersi in fronzoli per la passeggiata. Le offrì persino il braccio e col suo naso lustro fece lo smargiasso ed il lezioso, così che le cen­ tinaia di villeggianti si dilettarono non meno alla sua ridicolaggine che alla bellezza di Wendelgard. L’incontro col ricco ugonotto provocò una scena so­ lenne, con grande scambio di complimenti e di presen­ tazioni. Martin Leu non ebbe bisogno di fingere stupore di fronte alla bellezza di Wendelgard, giacché lo provò davvero, ma subito anche si rese conto quanto fosse indi­ spensabile sottrarre l’amico Salomon a tale pericolo. Le offrì il braccio e fu lui, invece del padre, ad accompa­ gnarla a tavola, mentre Figura fingeva di guardare inti­ midita ed ammirata le scenette graziose che si svolgevano sotto i suoi occhi. Wendelgard non le parlò che un paio di minuti dopo pranzo, perché era in vista una gita a Schinznach, dove era radunata una non meno distinta società. Insomma, Martin già il primo giorno mandò avanti le cose così bene che Wendelgard a tarda sera corse da Figura Leu e le confidò ansante che stava per accadere qualcosa di grande, poiché l’ugonotto le aveva appena chiesto se non avrebbe preferito vivere in Francia invece che in Sviz­ zera. Le aveva pure domandato conversando quanti anni avesse ed un’ora prima aveva dichiarato che, se mai si fosse ammogliato, non avrebbe accettato un soldo dalla sposa. Suo padre le aveva già dato ordine di rispondere senz’altro con un sì, in caso di domanda. — Ma, cara ragazza, — osservò Figura — tutto que­ sto non vuole ancora dir molto ! Sii prudente ! Wendelgard continuò:

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— Mentre passeggiavamo insieme da un’ora soli so­ letti, mi ha baciato la mano sospirando. — E ti ha poi rivolto una domanda formale? — No, ma ha sospirato e m’ha baciato la mano. — Un baciamano francese ! Ma lo sai che cosa vale? Proprio un bel nulla. Ma lui è un austero protestante ! — Come si chiama? — Ancora non lo so, o almeno mi pare di non saperlo ancora, neppure ci ho badato. ·— Certamente ora le cose cambiano, — osservò medi­ tabonda Figura — ma che cosa sarà di Salomon Landolt? — Già, me lo domando anch’io, — replicò Wendelgard sospirando e passandosi sulla candida fronte le candide dita — ma pensa un po’ ! Mezzo milione di ren­ dita ! Allora sono finite tutte le preoccupazioni ! E Salo­ mon ha bisogno di una donna che lo aiuti ad affrontare la vita e a trovar la sua strada ! Come l’aiuterei io, che non capisco mai nulla? — Ma no, non è questo che lui vuol dire, sciocchina ! Egli crede che, una volta che ti abbia conquistata, comincerà per amor tuo a lavorare, ad agire ed a coman­ dare, mentre tu dovrai soltanto starlo a vedere senza muòverti; e sarà capace di farlo, te lo assicuro! — No, no ! La mia sventatezza gli sarebbe solo d’osta­ colo! Tornerò a far debiti o peggio, lo sento, se non di­ vento ricca, straordinariamente ricca! —■ Questo muta davvero la situazione, — replicò Fi­ gura ·— se non hai il desiderio di lasciarti correggere e modificare ! E Landolt è l’uomo che ci vuole per questo, credimelo ! Vedendo però che Wendelgard si immergeva in penoso imbarazzo, senza manifestare alcun sentimento per Salo­ mon, proseguì: — Bada ad ogni modo di non finire seduta fra due sedie. Se il francese domani ti chiede in sposa, devi po­ tergli rispondere liberamente. Posdomani è il settimo giorno e devi prepararti a vedere capitare qui Landolt per avere la tua decisione; ci potrebbero allora essere

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scenate e spiegazioni, e tu corri pericolo che l’uno e l’al­ tro ti voltino le spalle! — Dio mio ! È vero ! Ma che dovrei fare? Egli non è qui ed io non posso raggiungerlo ! — Scrivigli, ma oggi stesso ! Bisognerà mandare do­ mani per espresso a Zurigo, altrimenti dopodomani egli, per quel che lo conosco, piomba qui immancabilmente. — Farò così; dammi carta e penna! Si dispose a scrivere, ma, poiché non sapeva come co­ minciare, Figura Leu le dettò: «Dopo matura riflessio* ne, mi persuado di essere animata verso di lei soltanto da un sentimento di gratitudine, così che sarebbe menzogna se diversamente lo definissi. Siccome inoltre la volontà di mio padre mi addita un’altra via, la prego di accogliere e di rispettare la mia ferma decisione di obbedirgli, quale segno della fiducia e della rispettosa stima, che sempre nutrirà per lei la Sua devotissima, ecc. ecc.». — Punto fermo! — concluse Figura — Hai messo là firma? — Sì, però mi sembra che si dovrebbe aggiungere qual­ cosa; non mi pare vada bene a questo modo. — È proprio quel che ci vuole ! È lo stile conforme ad un rifiuto, in una situazione che non tollera spiega­ zioni; così tutto è troncato e gli intenditori capiscono subito dal suono di avere bussato ad una botte vuotai Quest’allusione, lievemente condita di gelosia, ilon fu compresa dal cuore bonario di Wendelgard. Essa pregò ancora Figura di provvedere al pronto invio della lette­ rina, perché non ci fossero sgradevoli incontri. Figura lo promise e, per essere ben certa, sul far del giorno affidò la missione a suo fratello, il quale immediatamente ga­ loppò sino a Zurigo, dove trovò Salomon Landolt che si preparava a partire l’indomani per Baden. Egli impallidì lievemente leggendo la letterina e tornò ad arrossire accorgendosi che ne conosceva il contenuto anche Martin Leu. Questi infatti gli fornì senza indugio il commento orale, narrandogli tutta l’avventura. Lo lasciò poi un’ora solo e al ritorno gli disse : — Salomon ! Mia sorella Figura ti fa salutare e ti fa

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dire che se tu desideri ancora la bella Gimmel, non hai che a dirlo a lei, cioè a mia sorella, perché tanto la ra­ gazza non la perdi. — Io non la voglio più e riconosco la mia pazzia, — disse Landolt — però è bella e cara e voi siete due bricconi ! Martin rimase senza travestimento a Zurigo, col che necessariamente sparì da Baden di colpo il ricco ugonot­ to, come se la terra l’avesse inghiottito. Il capitano e Wendelgard vi si trattennero ancora due settimane e poi rientrarono in città. Il capitano era più assetato e litigioso del solito, mentre la figlia, taciturna e depressa, si teneva nascosta. La storia però non finì così. Martin Leu, spinto dalla curiosità e dall’impertinenza, volle vedere un po’ più da vicino quella singolare bellezza. Lo fece con tutta pru­ denza, per non essere riconosciuto per il francese miste­ rioso di Baden, e si recò nella sala d’armi del capitano. Ma la ruota della fortuna mutò quando egli vide la po­ veretta nella sua modesta e melanconica bellezza e, poi­ ché il violento genitore morì all’improvviso di un colpo, egli s’innamorò così intensamente della derelitta da su­ perare ogni protesta, monito o ragione, e non si diede pace se non quando essa divenne sua moglie. Prima di sposarla aveva chiesto un’ultima volta a Sa­ lomon : — La vuoi o non la vuoi? — Ma l’amico aveva rispo­ sto senza esitare: — Io seguo il motto della Bibbia: «La vostra parola sia sì, sì, o no, no». Per mio conto, non torno indietro! Fra sé e sé aggiunse: “È vero che mi costa mille fiorini, ma grazie a Dio nessuno lo sa !”, poiché gli era ben noto che sua nonna, per spirito di giustizia, annotava accuratamente tutte le somme anticipate affinché potessero un giorno venir de­ dotte dalla sua quota di eredità nel confronto con i fratelli. Martin Leu visse ancora due anni a Parigi con sua moglie e diede poi le dimissioni. Al ritorno essa era dive­ nuta una signora ordinata ed esperta, che non faceva più debiti. Sapeva la storia di Baden ed aveva riconosciuto

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l’ugonotto ancor prima ch’egli lo immaginasse e venisse a raccontargliela. Quando però più tardi Figura Leu chiese a Salomon Landolt se le serbava rancore per il suo intervento e se non avrebbe preferito avere per sé la bella Wendelgard, che aveva fatto una discreta riuscita ed aveva forse finto da giovane di essere più sciocca di quello che fosse in realtà, egli le strinse la mano assicurandole: «No, va bene così ! ». A Wendelgard egli per far presto assegnò il nome di capitano.

LA CAPINERA E IL MERLO

L’adorazione esclusiva della bellezza ebbe, subito dopo il suo insuccesso, effetti così disastrosi su Landolt, che egli perdette completamente l’equilibrio e restò in balìa di ogni impressione. Come fanno le rondini in autunno prima di partire, così tutte le divinità amorose gli svo­ lazzavano rumorose d’intorno e in quello stesso anno in cui perdette Wendelgard gli toccarono due avventure le quali, come spesso accade per i gemelli, erano tanto pic­ coline da trovar posto in una fascia sola. Già da un paio d’anni Salomon, stando nella sua ca­ mera che era nella parte posteriore della casa, se il tem­ po era bello e l’aria mite, udiva ogni mattino da lontano, oltre i giardini, una delicata voce di fanciulla che can­ tava un salmo. La voce, ch’era stata prima quella di una bimba, si era poi rinvigorita, senza però mai raggiungere grande robustezza. Egli udiva tuttavia con piacere il canto regolare, che soleva ripetersi ogni giorno prima della colazione, ed aveva dato all’invisibile cantante il soprannome di capinera. Essa in realtà era la figlia del signor segretario dei Proseliti1 ed ex parroco Elias Thumeysen; il quale, in seguito ad una buona eredità, I. Il termine di Proseliti designava i cattolici e gli ebrei convertiti al protestantesimo, quello di Proscritti gli ugonotti e i valdesi pro­ fughi per motivi religiosi; Aspettanti erano i giovani pastori non ancora provvisti di parrocchia.

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s’era liberato del peso delle sue funzioni pastorali, ma si ren­ deva ancora utile assolvendo altri compiti, come il segre­ tariato dei Proseliti e dei Proscritti. Dalla prima di queste cariche, per desiderio della moglie, aveva assunto anche il titolo. Egli era inoltre segretario del Consiglio della Ri­ forma e presidente degli Aspettanti nel ministero zurighe­ se ; per suo spasso infine dipingeva quelle carte geografiche nelle quali ora vediamo il mondo alla rovescia, poiché l’o­ riente e l’occidente sono in alto e in basso ed il nord ed il sud a sinistra e a destra. La sua figlioletta, la capinera, più precisamente chia­ mata Barbara, si occupava di ben altre arti, nelle quali era affaccendata da mattina a sera. Il signor segretario dei Proseliti suo genitore preparava anche le immagini di tutti gli uccelli possibili: incollava le penne naturali, o anche soltanto piccoli frammenti di esse, sulla carta, dipingendo poi il becco e le zampe. Uno dei suoi capola­ vori del genere era una bella upupa in grandezza natu­ rale, dal ricco piumaggio. Barbara aveva sviluppato e nobilitato quest’arte, tra­ sferendo il procedimento all’umanità e confezionando una serie di ritratti a figura intera, in cui soltanto il volto e le mani eran dipinti, mentre tutto il rimanente era for­ mato da lembi di seta o di lana o di altra materia natu­ rale, abilmente ritagliati e messi insieme, né certamente gli uccelli di Aristofane potevano esser più intelligenti di quelli del signor segretario, giacché essi avevan gene­ rato una cosi bella stirpe di creature umane che popola­ vano la stanzetta da lavoro della piccola cantante. Vi figurava anzitutto il signor zio per parte materna, l’an­ tistite1 in carica, in abito talare di raso nero, con calze di seta ed un collare di finissima mussolina. La parrucca era stata combinata con immensa pena e con molta gra­ zia usando peli di un gattino bianco; con essa armoniz­ zavano perfettamente gli occhi azzurro chiaro nel volto di un roseo pallido; le scarpe eran ritagliate da pezzetti I. Antistite era, dai templi di Zwingli, il titolo del capo della Chiesa zurighese.

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di cuoio lucido con fibbie argentate di stagnola, il taglio del libro liturgico che teneva in mano era di carta dorata. Questo pontefice, appeso al posto d’onore sotto vetro e cornice, era circondato dalle immagini di molti signori e di molte dame di varia condizione ; la cosa più bella era una giovane dama in una veste di pizzo bianco ritaglia­ to a giorno con carta velina; teneva appoggiato sulla mano un pappagallo riprodotto a mosaico con le più piccole piume di un colibrì. Le sedeva di fronte un signore con le gambe accavallate, intento a suonare il flauto, con una marsina di raso bluastro ed un elegante collare di merletto : pareva che insegnasse il canto al pappagallo, poiché questo volgeva la testa verso di lui come in ascolto. I bottoni della sua veste erano fatti con pagliuzze luc­ cicanti color rosso. Sfilava poi a piedi tutta una schiera di aitanti uomini d’armi, le cui uniformi ricche di galloni, bottoni di me­ tallo, else di spada, guarnizioni di cuoio e piume ai cap­ pelli, facevan tutte testimonianza dello stesso infaticabile zelo ; qui perù Barbara Thumeysen aveva toccato i limiti dell’arte sua, giacché, quando volle passare ai grandi con­ dottieri a cavallo, riuscì bensì con le sue forbicine inglesi a ritagliare ed a comporre finimenti, selle e redini in materiale adatto, ma disegnare i cavalli superava le sue forze, giacché sino ad allora non s’era esercitata che in teste e in mani d’uomini, e già queste ultime le riuscivano appena alla meglio. Si trattava dunque di trovare un maestro o un collaboratore; s’informò e le fu detto che Salomon Landolt era in quel momento, a Zurigo, il mi­ gliore disegnatore di cavalli. Il signor segretario dei Proseliti venne quindi inaspet­ tatamente un giorno a rendere visita di cortesia al signor giudice civico nonché capitano dei cacciatori, esponendo­ gli in un elaborato discorso la preghiera di voler beni­ gnamente concedere a sua figlia insegnamento e consiglio sul come ben disporre un cavallo, così che l’animale ri­ sultasse dipinto sulla carta nella forma e nel colore na­ turale, con passo d’alta scuola, e potesse poi venire corno-

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damente sellato e bardato, pronto a ricevere un cavaliere in arcioni in posa corretta. Landolt si mostrò disposto a render quel servizio, an­ zitutto per mera cortesia, ma poi anche per la curiosità di vedere la capinera che ogni mattina cantava così amabilmente. Fu non poco stupito scorgendo il vario­ pinto mondo d’uccelli del signor segretario dei Proseliti e Proscritti, l’upupa e tutti i cardellini, i fringuelli dorati, le ghiandaie, i picchi e i pivieri, ma ancor più trovandosi di fronte all’antistite, ai maestri delle corporazioni, ai dodecarchi, alle consorti dei balivi, ai tenenti ed ai capi­ tani della signorina Barbara, nonché alla signorina stessa, che, di figura minuta ma proporzionata, pareva scolpita in avorio. Gli sembrò il capolavoro fra tutte le opere di quel modesto museo di uccelli e di uomini, e cominciò subito volentieri le sue lezioni. Le spiegò in primo luogo, valendosi di modelli adatti, l’anatomia del cavallo, e le insegnò poi a tracciarne con pochi tratti diritti le linee fondamentali ed i principali rapporti, prima di passare agli astrusi segreti formali di una testa di cavallo. L’inse­ gnamento si estese man mano al corpo intero dell’anima­ le, finché alla fine si poterono prendere i colori, passando alla pittura dei cavalli bianchi, rossi o neri. Quanto alle criniere ed alle code, Barbara se le riservava per confe­ zionarle con crini naturali. Questa gradevole relazione durò parecchie settimane, e sempre si rivelavano piccole imperfezioni o difetti che conveniva superare. Landolt s’abituò a trascorrer da lei un’ora o due ogni mattino ; gli preparavano un bicchiere di Malaga con tre panini dolci, e presto lo lasciarono anche solo con la scolara, giudicandolo il più mite e tranquillo dei maestri che mai fosse esistito. La capinera prese confidenza come un uccellino addomesticato e ben presto imparò a beccargli di mano la metà dei panini dolci e persino ad intingere il beccuccio nel suo calice di Malaga. Un giorno essa lo sorprese col suo ritratto pre­ paratogli in segreto, in uniforme da cacciatore, in arcioni sul suo bel cavallo pomellato ucraino. Era naturalmente soltanto la sua parte sinistra, con la spada, una gamba so­

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la ed un solo braccio, ma in compenso la ragazza aveva fatto la criniera e la coda del leardo con i propri capelli dal bel nero splendente, accuratamente tagliati ed incol­ lati, un sacrificio che, come del resto il ritratto intero, dimostrava quanto essa lo tenesse in conto. In realtà a lei pareva che i reciproci gusti e consuetu­ dini fossero così affini ed armonici da tener quasi per certa, in caso di unione, una felice convivenza, ed a questo pensava talvolta tra sé con tutta serietà arros­ sendo lievemente. Anche Salomon Landolt da parte sua credeva di non poter augurarsi nulla di meglio dopo tante tempeste che un approdo in quel calmo porticciuolo di pace ed un’esistenza tranquilla nel museo della leggiadra capinera. Anche nelle famiglie la crescente intimità dei due ar­ tisti dilettanti era veduta con benevolenza, poiché un’u­ nione si presentava vantaggiosa e desiderabile per am­ bedue. La cosa progredì al punto che si combinò una visita dei Thumeysen in casa Landolt, col pretesto diplo­ matico di permettere alla signorina Thumeysen di veder le pitture di Salomon, a lei ancor del tutto sconosciute. Benché egli possedesse una robusta e decisa vena arti­ stica, non aveva mai raggiunto il marchio dell’artista maturo e completo, perché la vita non gliene dava il tempo, ed anche perché nella sua modesta spensieratezza egli non lo pretendeva. Come dilettante giungeva, co­ munque, ad un livello eccezionale d’indipendenza, d’ori­ ginale inventiva e d’intuito personale e diretto della na­ tura. A ciò si univa una tecnica fresca e gagliarda, animata dalla fiamma d’un perenne con amore nel vero senso della parola. La sua «cappella pittorica», come la chiamava lui, offriva quindi alle pareti e sui cavalletti uno spettacolo eccezionalmente ricco e, per numerose che fossero le tele esposte, da tutte irradiava la stessa personalità ad un tempo audace e pacatamente armonica. L’alternarsi con­ tinuo di ombre e di luci, di echi e di silenzi in una natura intimamente serena si manifestava solo come i mutevoli accordi di una stessa sinfonia. I grigiori di un’alba in

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campagna, le ultime luci vespertine, le ombre dei boschi con le ragnatele illuminate dalla luna e grevi di rugiada sui cespugli di primo piano, la luna piena navigante serena nell’azzurro sullo specchio d’un lago, il sole au­ tunnale in lotta con le nebbie d’un canneto, un barba­ glio rossastro d’incendio dietro i tronchi al margine d’una foresta, un minuscolo villaggio dai comignoli fumanti in mezzo ad una landa grigioverde, un cielo tempestoso squarciato dai lampi, onde schiumanti sferzate dalla pioggia: tutto questo sembrava una realtà unica, vi­ brante però di un afflato di vita. Tutto anzi pareva il risultato di una visione, di un’esperienza propria, il frutto di peregrinazioni notturne e di galoppate senza sosta ad ogni ora del giorno, nella tempesta e nel vento. Il tutto era intimamente unito ad una stirpe di crea­ ture ora impetuose e bellicose, ora solitarie e vaganti, ora fugaci come le nubi rincorrentisi sul loro capo, ora prossime a morir dissanguate silenziosamente sul terreno. V’erano le pattuglie dei cavalieri della Guerra dei sette an­ ni, Chirghisi e Croati in fuga, Francesi all’assalto, ma poi anche tranquilli cacciatori, contadini, una coppia di buoi con l’aratro al ritorno, pastori su un pascolo autunnale, ed anche uccelli acquatici o di bosco fatti alzare a volo dalla guerra o dalla caccia, un capriolo brucante, una volpe in agguato, e tutte queste creature erano sempre nell’unico e giusto pezzetto di terra loro adatto. Spesso si riconosceva in un ometto grigio in ombra, in lotta fati­ cosa contro una pioggia dirotta, un personaggio ben no­ to, messo qui evidentemente ad inzupparsi simbolicamente per punizione di qualche suo peccato; oppure si scorgeva una donna dalla lingua malefica che, trasfor­ mata in strega notturna, si lavava i piedi in uno stagno paludoso, il quale lambiva una forca, o finalmente si scopriva il pittore in persona che cavalcava tranquilla­ mente lungo un’altura, incontro al tramonto, fumando in pace la sua pipetta. La visita venne preparata ed accolta con la massima cortesia ; dopo il caffè, Salomon accompagnò la signorina, vestita con gran cura e quasi da festa, nel suo studio,

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mentre il resto della compagnia non li seguiva di pro­ posito e andava invece a vedere il giardino ed il resto della casa all’interno e all’esterno. Salomon mostrò dun­ que ed illustrò alla fanciulla i quadri ed insieme anche una quantità di altri oggetti: arnesi da caccia, armi, scheletri d’animali da lui preparati e così via. Il manichi­ no, seduto in una poltrona con un costume rosso da us­ saro e in atto di osservare un quadro sul cavalletto, l’a­ veva spaventata già all’ingresso strappandole un debole grido; ma poi la fanciulla ammutolì senza più dare alcun segno di gioia e di consenso, e neppure di curiosità, giac­ ché tutto quel mondo era per lei estraneo ed incomprensibile. Salomon non vi badò; non se ne accorse neppure, perché non cercava lode o meraviglia; nel suo zelo di giungere alla meta, procedeva di quadro in quadro, mentre nel petto di Barbara, serrato nella stoffa chiara della veste, il respiro si faceva sempre più affannoso, come oppresso da una grande angoscia. Davanti ad un paesaggio fluviale in cui si scorgeva la lotta fra la prima luce dell’alba e il riflesso della luna tramontante, Landolt le raccontò come avesse dovuto alzarsi presto per cogliere quell’effetto, ma come anche non sarebbe mai riuscito a fissarlo senza l’aiuto dell’armonica a bocca. Le spiegò sorridendo l’efficacia della sua musica quando si tratta della fusione di delicate tonalità di colori ed afferrò il minuscolo strumento posto su una tavola carica di mille oggetti, lo portò alla bocca e gli strappò alcune note trepide, appena accennate, che ora quasi parevano svanire ed ora, alzandosi delicatamente, venivano a fondersi. — Ecco, — esclamò — questo è il grigio azzurro che sull’acqua trascolora in un rosso rame, mentre la stella mattutina splende ancora con inconsueta grandezza! Credo che oggi avremo pioggia su questo paesaggio ! Mentre si voltava a guardarla allegramente, s’accorse che in realtà la pioggia luccicava già negli occhi di Bar­ bara. Essa era pallidissima ed esclamò con disperazione: — No, no ! Noi non siam fatti per stare insieme, mai e poi mai !

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Egli le prese la mano spaventato e stupito, domandan­ do che cosa mai avesse. Ma la fanciulla gli sottrasse con impeto le mani e co­ minciò a spiegargli con parole confuse che lei non capiva nulla di tutta quella roba, che non arrivava, né mai sa­ rebbe arrivata, ad intenderla, che tutto le sembrava quasi ostile e spaventoso e che in tali condizioni non c’era da pensare ad un’esistenza armoniosa, giacché ciascuna delle parti era rivolta in una diversa direzione; Landolt del resto non poteva aver stima per i suoi lavori pacifici ed ingenui che sino ad allora l’avevano resa felice, tal quale come lei non era in grado di seguire neppur con un mi­ nimo di comprensione l’attività di lui. Landolt cominciò allora a comprendere il suo pensiero e la sua inquietudine, e le rispose, rincorandola dolce­ mente, che le sue pitture non erano che uno spasso, pro­ prio come quelle di lei, qualcosa di secondario, senza al­ cuna importanza. Ma le sue parole peggioravano solo la situazione e Barbara corse fuori dalla stanza eccitata, cercò i suoi genitori invocando in lagrime d’essere riac­ compagnata a casa. Fu circondata dai presenti confusi e desolati ; sopravvenne anche Landolt ed ella ripetè le sue strane dichiarazioni. Fu sempre più chiaro che essa attri­ buiva a quel che la tormentava un’importanza ben mag­ giore di quanto si sarebbe potuto supporre data l’inno­ cente modestia di una cosi giovane e tenera creatura, ma anche che l’incapacità di superare se stessa e di affron­ tare un elemento estraneo doveva in gran parte ascriversi ad una certa angustia mentale in cui era stata educata. A nulla giovarono le buone parole di Landolt e dei suoi genitori; i parenti della ragazza disperata, d’altra parte, sembravano condividerne Io spavento ed affret­ tarono la ritirata. Chiamarono una portantina e vi fic­ carono la figliola che subito abbassò la tenda dello sportello, e la piccola carovana se ne partì quanto più rapidamente fu possibile ai portatori, con viva irritazione e mortificazione della famiglia Landolt. L’indomani mattina, appena l’ora gli parve opportuna, Salomon si recò alla casa del segretario ad informarsi

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della salute di sua figlia e a vedere come si potesse rime­ diare. I genitori lo accolsero con molte scuse cortesi e gli spiegarono che l’animo tenero della figliola era stato spaventato non soltanto dall’intenso culto della natura e dalla selvaggia passione per lo schizzo dei suoi quadri, ma anche dal manichino, dagli scheletri d’animali e da tutte le altre bizzarrie, ed aggiunsero che essi pure eran costretti a riconoscere che simili evidenti capricci arti­ stici avrebbero minacciato la pace di una modesta casa borghese. Mentre tenevano tali discorsi che sempre più meravigliavano il buon Salomon, sopravvenne la figlia con gli occhi sciupati dal pianto, ma ormai calma; gli porse gentilmente la mano e gli disse con parole dolci ma risolute che avrebbe potuto diventare sua moglie sol­ tanto alla precisa condizione che ambo le parti rinun­ ciassero per sempre a far quadri e dessero il bando a tutte le cose estranee che si erano intromesse fra loro, facendo ciascuno il suo sacrificio di buon animo. Salomon Landolt esitò un istante, ma la sua presenza di spirito gli fece tosto comprendere che questo, pur sotto la veste d’ingenua limitatezza, era una forma di indiscre­ zione che non garantiva certo la futura pace domestica e rendeva troppo caro il sacrificio richiesto. Senza osare una parola di difesa per la sua «cappella pittorica» si congedò da quei signori, cominciando dall’upupa sino al signor antistite e a tutto il suo seguito.

Era da poco trascorso il consueto periodo di lutto che segue alla morte di una speranza, nonché l’ira della non­ na per quella «bella macchinazione» da lei alla fine scoperta, quando arrivò a volo il merlo, immediato se­ guace della precedente capinera. In un sobborgo, fra bei giardini, c’era una casa metà cittadina e metà campestre, in cui Landolt soleva venire di frequente, avendovi amici che molto lo apprezzavano. Come insegna di quella tenuta poteva servire il merlo che in primavera si posava ogni sera sulla cima più alta di un grande pino situato in un angolo del giardino, di lì allietando l’intera regione col suo canto armonioso.

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Col nome di quell’uccellino Ländolt, afferrando la carat­ teristica più vicina, chiamò la bella fanciulla Aglaja, che non è un nome cristiano, ma un’altra designazione da lui escogitata, perché riteneva erroneamente tal nome di una delle tre Grazie identico a quello della pianta Aglei, ovvero aquilegia vulgaris. Lo aveva indotto a tale er­ rore la vista graziosissima della pianticella d’aquilegia, le cui campanule ora azzurre ed ora violacee gli parevano ondeggiare e occhieggiare sugli alti steli con la stessa grazia dei riccioli biondo cenere intorno alla nuca di Aglaja, o merlo. Passando una sera della primavera precedente da­ vanti a quella casa, aveva sostato un momento per ascoltare il canto del merlo ed aveva scorto per la prima volta la bella creatura in piedi sotto l’albero. Era una figliola fatta ritornare dopo parecchi anni di soggiorno all’estero. I suoi occhi l’avevano veduta benissimo, ma essendo allora immerso nell’avventura wendelgardiana, aveva proseguito per la sua strada dopo una scappellata. Intanto era sopraggiunto l’autunno e un giorno che Salomon, passeggiando al tiepido sole lungo il margine d’un boschetto, aveva trovato una tardiva aquilegia in fiore, l’aveva còlta ed osservata, gli rivenne di colpo alla memoria la bella fanciulla sotto l’albero del merlo, alla quale non aveva mai più pensato. Quel misterioso ed immediato suggerimento del fiore parve al suo cuore provato ed ancora nostalgico una stella che salisse tarda ma limpidissima, un’ispirazione insomma non fallace e di natura sublime. Rivide chiaramente la snella person­ cina dal capo ricciuto, che ad occhi chini ascoltava il canto dell’uccellino per volgere poi i grandi occhi seri al suo saluto. La sera di quel giorno stesso tornò dopo lunga interru­ zione a far visita in quella casa e vi rimase quasi tre ore in buona conversazione colla famiglia. Aglaja sedeva in silenzio al tavolo, intenta a far la maglia, ma quando Salomon parlava lo studiava con aperta attenzione e, se poi un altro diceva qualcosa di notevole, di nuovo si volgeva a Landolt quasi per spiarne il giudizio. Egli si

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sentì molto soddisfatto, ed alla sua partenza la fanciulla gli porse la mano con decisione e gli scosse ripetutamente la sua, come ad un vecchio amico. Incontrandolo poco tempo dopo per strada, rispose al suo saluto con un lieve sorriso di gioia per l’insperato caso e non molto tempo do­ po inviò al nuovo amico persino una missiva, chieden­ dogli se non volesse assistere alla loro piccola vendem­ mia di quel giorno, che la sera sarebbe stata coronata da una modesta festicciola casalinga. Egli accettò di buon grado e all’ora indicatagli si recò, munito di fuochi artificiali, nella dimora quasi campestre, dove era ac­ corsa una folla allegra di giovani e di fanciulle. Si rese utile e simpatico presso quella vivace gioventù con i suoi razzi ed i suoi fuochi. Aglaja, che tutto disponeva e diri­ geva, l’assicurò ripetutamente della gioia che provava per la sua venuta e per quei fuochi e, quando poi ci si sedette per il consueto pranzo dei vignaioli e la padrona di casa, sua madre, dovette ritirarsi per un malessere im­ provviso, Aglaja lo fece sedere in fondo alla lunga tavola, ma proprio accanto a lei. Anche qui Salomon seppe rendersi utile trinciando con mano sicura un’oca e due lepri, del che Aglaja lo complimentò di nuovo lietamente. Essa lo fece come chi sia felice di poterlo fare, benché l’occasione venisse dalla circostanza che suo padre s’era scottato una mano e non poteva quindi trinciare. Quando fu placata la fame del­ l’allegra compagnia e prevalsero chiasso, canti, musiche e balli, Aglaja si abbandonò contenta sulla sedia, dicendo di voler riposare della lunga fatica del giorno e le fu fa­ cile trattenersi accanto il vicino. Conversarono scambian­ dosi semplici frasi, con grande interesse e tranquilla soddisfazione, non disturbati dalla chiassosa allegria au­ tunnale. Aglaja scrutava il volto di Salomon con viva cordialità e, quand’essa invece guardava dinanzi a sé meditabonda, era lui che tornava a contemplarne la leg­ giadra testolina e la bella persona. Insomma, in quelle ore essi divennero decisamente amici ed al congedo l’a­ mabile fanciulla pregò formalmente il giovanotto di ripe­ ter con frequenza le sue visite e di mantenere con lei rap­

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porti confidenziali, ai quali le sarebbe doluto rinunciare. In seguito trovò modo di mandargli continui messaggi, per chieder qualcosa o per mantenere una promessa che si era fatta carpire con abilità, e Salomon si diceva con cuore commosso che aveva finalmente bussato alla giu­ sta porta. “Eccone una” pensava “che sa quel che vuole e dirige il timone con aperta lealtà, senza far moine, verso la sua meta; se questa meta sia poi assennata o stolta, non sarò tanto pazzo da voler scrutare, visto che essa riguarda me medesimo. Badi ognuno ad ottenere quel che gli spetta!”. A questo modo s’immergeva sempre più in un sogno che gli appariva più dolce e leggiadro di tutti quelli pre­ cedenti, quasi una nuova vita, limpida e calma come il cielo azzurro. Diffidava però per istintiva prudenza dal turbare quella limpidezza e dall’affrettare le cose; go­ dette anzi per tutto l’inverno di quella mai provata calma nella passione, compiacendosene con crescente sicurezza ed intimità, anche perché Aglaja si mostrava d’umore piuttosto serio che allegro e s’abbandonava sovente a sognanti meditazioni, che interrompeva per alzare al­ l’improvviso gli occhi su di lui. “Bene,” pensava “lasciamo che il pesciolino si dibatta un pochino ! Questa razza ci ha già tormentati abbastanza !”. In primavera però parve che Aglaja volesse prender lei l’iniziativa. Manifestò inaspettatamente il desiderio di riprendere le trascurate corse a cavallo e avviò la cosa in modo che senza gran fatica Landolt fu prescelto come suo accompagnatore e maestro. Percorsero così insieme a cavallo le più belle strade della regione, lungo il lago e nei boschi della collina, mentre Aglaja dava prova di non aver assolutamente bisogno di ulteriori insegnamen­ ti. Tanto più confidenziali e svariate erano le loro con­ versazioni, in cui si confidavano tutto quanto li allietava o li irritava nella bellezza del mondo e nelle asperità della terra. Probabilmente qualcuna delle svariate vicende amo­ rose di Salomon doveva essere in parte trapelata; certo l’ultima avventura era arrivata al pubblico dal segre-

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tario dei Proseliti, forse perché la tragica fine della visita e la partenza solenne in portantina avevan reso neces­ saria una sufficiente spiegazione. A questo Landolt attribuì le parole di Aglaja, che un giorno, durante una sosta sotto i tigli già verdeggianti, mentre lasciavano che i cavalli riprendessero fiato, gli disse con voce sommessa, quasi compassionandolo: — Amico carissimo, lei è certamente già stato molto infelice ! Sorpreso dalla domanda improvvisa, replicò con un’oc­ chiata ridente: — Oh, non la va male ! Posso quasi dire, come lo shakespeariano amico Silence, che «sono stato un paio di volte allegro e un paio di volte malinconico nella mia vita!» — Intanto però disse a se stesso: “È arrivato il momento! Ora bisogna decidersi!”. Ma, forse perché gli parve che lo stare in arcioni poco si confacesse ad una dichiarazione amorosa con le sue inerenti circostanze, o forse perché lo trattenne un’estrema esitazione pruden­ ziale, mise i cavalli al trotto serrato, interrompendo il colloquio. Aglaja al congedo gli strinse la mano con inso­ lito calore e Salomon appena giunto a casa le scrisse in poche righe quanto le volesse bene. Essa gli rispose su­ bito che le sue care parole la commuovevano, la rallegra­ vano e la onoravano: volesse intanto andarla a prender l’indomani per una lunga passeggiata, alla quale avreb­ bero trovato un pretesto conveniente. Di buon mattino giunse un altro biglietto per fissare la forma ed il pre­ testo: coincidenza casuale di due visite nella stessa zo­ na, accompagnamento a piedi lungo sentieri, dato il bel tempo, e così via. Landolt si vestì con maggior cura del solito, quasi come un lacedemone che andasse in battaglia ; infilò per­ sino bottoni di granata nei polsini e prese in mano una canna sottile col pomo d’argento. Anche Aglaja si presentò al suo arrivo in perfetta ele­ ganza estiva : indossava una veste bianca stampata a vio­ lette e portava guanti lunghi di pelle finissima. Ma l’or­ namento migliore erano i suoi occhi, coi quali rivolse a

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Salomon, stringendogli la mano, uno sguardo luminoso. Impaziente come chi, trovandosi in un grave frangente, desidera compiere il passo decisivo, essa volle affrettare la partenza. Mentre guardava l’eletta personcina precederlo sullo stretto sentiero, Landolt lodò nel suo cuore la snella pian­ ta d’aquilegia dalle corolle pendule che l’aveva guidato per un così ameno cammino. Nella giovane faggeta che stavano attraversando frusciava un lieve venticello che sollevava i riccioli sulla nuca e sulle spalle di Aglaja. “I proverbi hanno però sempre ragione!” disse Salo­ mon tra sé: “Ride bene chi ride ultimo, e tutto è bene ciò che finisce bene !”. Proprio in quel momento Aglaja si volse e, poiché il sentiero si allargava, gli si pose al fianco. Tornò a tender­ gli la mano, un vago rossore le inondò il viso e gli disse con occhi raggianti, che si riempirono però di lagrime: — Io la ringrazio del suo nobile sentimento e della sua fiducia ! Lei avrà certo più fortuna che se fossi io la pre­ scelta a renderla felice ! Deve sapere che io sono presa da una passione beata e sciagurata ad un tempo, che un uomo da me adorato mi riama : sì, a lei posso dire di esse­ re amata ! E gli raccontò con parole appassionate e commosse la sua storia d’amore e di dolore svoltasi in Germania con un pastore evangelico. — Un prete ! — disse Landolt quasi senza voce, e pro­ prio in quel momento incespicò, malgrado il bastoncino dal pomo d’argento e malgrado sulla strada non ci fosse la più piccola pietra. — Oh, non dica così ! — supplicò la fanciulla — È un uomo meraviglioso ! Guardi, guardi la profondità di que­ sti occhi ! Così dicendo trasse dal seno un medaglione appeso ad un cordoncino ben nascosto e gli mostrò il ritratto. Era un giovane in veste nera, dai tratti regolari e con quegli occhi grandi e scuri coi quali molti pittori si com­ piacciono di rappresentare Gesù Nazareno. Si sarebbe potuto anche chiamarli occhi neri giunonici. Landolt

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mentre osservava il ritratto con sentimenti amari ma con sguardi impassibili, pensava: “Ha gli occhi di una giovenca !”. Dopo che la fanciulla se lo fu ricacciato nel candido seno, gli parve di udirlo ridacchiare sottovoce secondo il proverbio : « Ride bene chi ride ultimo ! ». La vicenda che Aglaja si diede a raccontargli era a un dipresso la seguente : Condotta ancora giovinetta da una famiglia di parenti nella città tedesca di X per compiervi la sua educazione, vi aveva conosciuto un giovane sacer­ dote che già era salito in gran fama per le sue doti di predicatore. Era rigidamente ortodosso, pur con un velo del fanatismo pietistico del suo tempo ; parlava della divi­ nità redentrice, degli inesauribili tesori d’amore e del­ la patria eterna con tanta intensità e persuasione, che tutto sembrava realizzato e garantito nella sua perso­ na, e questo, unitamente ai suoi occhi affascinanti, su­ scitò nella fanciulla inesperta l’inestinguibile brama di possedere quel cuore, brama resa più intensa dall’eccesso della fantasia, che tutto indorava e trasfigurava, facendone una passione ardente e soavemente dolorosa, la quale col passar degli anni crebbe invece di calmarsi. Tale passione, che naturalmente presto si tradisce, non poteva vivere in un essere di tanta bellezza senza incontrare deciso ri­ cambio. Tanto i parenti di Germania che i genitori non erano però inclini ad un’unione, per molteplici motivi, e quanto più diventava serio lo stato d’animo della bella Aglaja, tanto più aumentarono anche le difficoltà insorte contro i suoi desideri, sin che la fanciulla fu violentemen­ te allontanata e ricondotta a casa. La sua indole profonda la indusse tuttavia ad aggrap­ parsi ancor più alla sua passione: scambiò lettere con l’amato, esteriormente calma, ma nell’intimo pervasa dalla speranza non mai spenta, che riavvampò potentemente quando il giovane pastore, accompagnando un gran signore durante un viaggio in Svizzera, ebbe occa­ sione di vederla e fu persino accolto nella sua casa. Per quanto ormai la sua situazione ed il suo avvenire appa­ rissero assicurati, non mutarono i motivi di opposizione

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da parte dei genitori, che sempre avevan coltivato altre mire nei riguardi della figliola e che, con calma dol­ cezza e tenerezza, ma con non minore tenacia e perseve­ ranza, rimanevan fedeli ai loro piani. Le cose erano a questo punto quando Aglaja, sempre in cerca di alleati, prendendo la surriferita via traversa, invocò come amico ed alleato Salomon Landolt, che fu pronto a diventarlo. L’accompagnò fedelmente sino alla villa dove voleva recarsi, andando poi a prenderla verso sera, e, quando tornarono a casa, essa l’aveva del tutto guadagnato alla sua causa. Salomon amava ed ammirava il suo amore, di cui non aveva mai veduto un eguale, provò persino simpatia per il felice oggetto e ritenne doveroso onore da parte sua aiutare la bella Aglaja. Cominciò col parlare in via confidenziale con persone autorevoli, riuscendo a circuire i genitori con nuovi punti di vista e nuovi consigli; poi parlò egli medesimo ripe­ tutamente col padre e con la madre e, avanti che fosse trascorso un semestre, aveva appianato la via al punto che il signor pastore potè venire a prendersi la bella sposa. Essa dovette all’amico persino il titolo di «moglie di un consigliere del concistoro e predicatore di corte», giacché Landolt, per sistemarla bene, aveva messo in moto i più alti e i più dotti corrispondenti di Zurigo. Le serbò cordiale interessamento anche quando, quat­ tro o cinque anni più tardi, essa tornò in patria vedova e sola, poiché purtroppo la intensa luce degli sguardi di suo marito era anche stata effetto di una tendenza all’etisia, e di tale male era precocemente morto. L’aveva non meno consumato l’ardente ambizione, la smania incessante di prestigio, di promozioni e di redditi, né mai Aglaja do­ vette sentir tanto accanitamente far calcoli di decime, introiti e prebende come nei brevi anni del suo matrimo­ nio. Tanto più pacata e rassegnata pareva trascorrere ora i suoi giorni. Tali erano le cinque donne, le antiche amiche che il podestà di Greifensee sentiva il desiderio di raccogliere in

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casa sua. Due o tre vivevano a Zurigo, le altre non lon­ tano, e si trattava soltanto di allettarle a venire, in modo che nessuna sapesse delle altre, ma che tuttavia ciascuna ci venisse sola, convinta di incontrarvi persone amiche. Tutto questo Landolt discusse con la signora Marianne, prendendo le opportune disposizioni. Fissò l’ultimo gior­ no di maggio per la grande festa e distribuì gli inviti, che vennero tutti accettati senza sospetti, così che il piano sembrava dover riuscire ottimamente. Alle prime luci del 31 maggio Landolt salì sulla più alta vedetta della torre per studiare il tempo. Il cielo era tutt’attorno senza nubi, le stelle impallidivano mentre l’oriente cominciava a colorarsi di rosa. Innalzò allora sulla torretta la grande bandiera con il grifone rampante, e dietro la muraglia di cinta preparò due cannoncini per salutare con le loro salve l’arrivo delle sue belle. Per es­ ser tranquillo aveva disposto che ciascuna venisse accolta ed accompagnata al castello da una carrozza diversa. Tutta la servitù dovette vestirsi da festa: il personaggio più grazioso era la scimmietta Cocco, che, particolar­ mente ammaestrata per quella giornata, con addosso un costume da vecchierella, recava sull’ampio nastro della cuffia la scritta : « Io sono il tempo ! ». Entro la casa faceva da maggiordomo la signora Ma­ rianne in un ricco costume un po’ antiquato e di sfarzo cattolico-tirolese; le era stato dato come aiuto un bel fanciullo quattordicenne, che il podestà aveva apposita­ mente scelto e travestito da graziosa cameriera, desti­ nandolo al servizio delle dame. Verso le nove echeggiò la prima salva; si vide avan­ zare senza fretta tra gli alberi e le siepi una carrozza in cui sedeva Figura Leu. Quando la carrozza si fermò da­ vanti al portone, vi si arrampicò la scimmietta con un gran mazzo di rose profumate e glielo mise in mano con buffi gesti. Sciogliendo subito il rebus, Figura prese in grembo Cocco insieme alle rose ed esclamò, intanto che scendeva con gioiosa allegria e che il podestà, con lo spadi­ no al fianco ed il cappello in mano, le offriva il braccio sa­

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lutandola : « Ma che succede da lei, che significano la ban­ diera sul tetto, il cannone e il tempo che offre le rose?». Poiché Figura era del tutto innocente e la sua predi­ letta, egli la iniziò al segreto, confidandole che quel gior­ no si sarebbero incontrate lì tutte le cinque famose donne. Essa dapprima arrossì, ma dopo un momento di medita­ zione ebbe un arguto sorriso e disse : « Lei è un briccone ed un burlone ! Stia in guardia, perché noi la crocifiggere­ mo e metteremo arrosto la sua scimmia insieme alle sue rose, singe aux rosesi Non è vero Cocco, piccolo podestà?». L’aveva appena accompagnata in casa, dove ebbe su­ bito i servigi della signora Marianne e della servettapaggetto, quando riecheggiò una salva ed avanzarono due carrozze ad un tempo. Erano Wendelgarde e Salome, il capitano e il cardellino, che arrivavano e che già per via s’erano reciprocamente stupite, chiedendosi chi mai potesse esserci nella carrozza poco lontana. Queste due dame sapevano l’una dell’altra e dei loro passati rapporti con il podestà, si squadrarono rapidamente con occhi curiosi, ma vennero tosto distratte da Cocco, che arri­ vava saltellante con nuovi mazzi di rose, e da Landolt che, prendendo ambedue insieme sotto braccio, le guidò verso casa. Ivi la signora Marianne aveva appena finito il suo primo esame di Figura Leu, e, poiché la sapeva monda d’ogni colpa, si comportò con benigna umanità nei suoi riguardi, ma tanto più ardenti fiammeggiarono i suoi occhi all’ingresso di Wendelgarde e di Salome. Le narici del naso adunco e il labbro superiore velato da baffetti neri vibrarono violentemente all’appressarsi delle due belle donne che avevano un giorno rinnegato il podestà, e ci volle un’occhiata severa del padrone per tenere a freno la fida governante e costringerla ad un contegno sufficientemente cortese. Anche Aglaja, che sopraggiunse e venne accolta allo stesso modo delle precedenti, dovette subire un esame molto critico, non essendo ben stabilito se il suo modo di trattare il podestà per conquistarsi un alleato nella ne­ cessità era perdonabile od imperdonabile. La vecchia

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la lasciò tuttavia passare con un celato brontolio, consi­ derando che comunque Aglaja era stata capace di un grande amore e si era sposata seguendo la sua prima inclinazione. Degnò invece appena d’uno sguardo la capinera, il cui arrivo fu annunziato dagli ultimi colpi di cannone. Che doveva farsene di quel moscerino che aveva osato aspi­ rare al signor podestà, ma che poi ne aveva avuto paura? Il podestà s’accorse subito che la povera capinera, già quasi tremante e incapace di muoversi accanto a quelle imponenti matrone, era perduta di fronte alla vecchia vivandiera degli ussari, e l’affidò quindi con al­ cune paroline in disparte alla protezione particolare di Figura, che tosto s’occupò di lei. Cominciò a questo punto un grande scambio di saluti e di presentazioni; all’infuori di Figura Leu, le belle donne si guardavano di traverso, non sapendo che atteggiamento prendere, giacché tutte si conoscevan di vista o per sentito dire, oltre al parentado fra Wendelgard e Figura. Quest’ultima però, alleandosi al buon umore del podestà, diffuse subito un tono di serena allegria ; non si permise che su­ bentrasse un’inutile tensione, ma fu subito offerto un primo spuntino di tè, vin dolce e pasticcini. La signora Marianne provvedeva a mescere, la cameriera-paggio distribuiva tazze e bicchierini, mentre le dame osservavan tutto con curiosità, specialmente la giovane servente, che pareva loro sospetta. Studiarono poi le pareti e l’arreda­ mento della stanza e si squadrarono reciprocamente, mentre Landolt si rivolgeva ad ognuna con cortese con­ fidenza, considerandole e confrontandole con occhio sod­ disfatto, sin che alla fine esse si resero conto della loro situazione e compresero d’esser cadute in un agguato. Cominciarono ad arrossire e a sorridere, poi alla fine a ridere apertamente, senza però che venisse spiegata la ragione e l’ormai palese segreto; allora, imprevedutamente, il podestà spense quell’allegria, scusandosi con solenne serietà di dover dedicarsi per un’ora alle sue fun­ zioni e trattare in giudizio alcuni casi. Erano soltanto faccende non gravi e dispute matrimoniali, e pensava

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che, forse, le signore si sarebbero divertite ad assistere ai dibattiti. Accettarono con gratitudine l’invito ed egli le accompagnò quindi nella sala delle udienze, ove presero posto come fossero giurati, ai due lati del suo seggio, mentre il segretario sedeva al suo tavolino in faccia a loro. L’usciere introdusse quindi una coppia di contadini che viveva in gran discordia, senza che sino ad allora al podestà fosse riuscito di stabilire da qual parte stesse la colpa, dato che si coprivan reciprocamente di recrimi­ nazioni e di accuse e nessuno dei due esitava a ricambiar la cattiva moneta dell’avversario con spiccioli abbon­ danti. Poco tempo prima la moglie aveva scagliato ad­ dosso al marito una scodella di zuppa bollente, tanto che questi si presentava con la testa scottata, di dove già si staccavano i capelli a ciocche, del che egli faceva conti­ nuamente la prova, pentendosene poi al vedersi in mano nuovi ciuffetti. La donna però negava senz’altro il de­ litto e affermava che il marito, accecato dalla rabbia, aveva scambiato la scodella per il suo berretto di pelo e se lo era voluto ficcare sul capo. Il podestà, per trovare una via d’uscita, fece allontanare la donna e disse poi al marito: «Vedo bene, o Hans Jakob, che tu sei la vittima, che sei un povero Giobbe, mentre il torto e la perfidia stan dalla parte di tua moglie. La farò quindi portare domenica prossima sulla piazza del mercato e tu potrai farla girare nella berlina in presenza di tutta la comunità, sin che il tuo cuore sarà pago e lei sarà do­ mata ! ». Ma il contadino rimase atterrito da quella sen­ tenza, e pregò insistentemente il podestà di rinunciarvi. Benché sua moglie, disse, fosse perfida, era pur sempre sua moglie, e sarebbe stato sconveniente esporla in tal modo alla pubblica vergogna. Si permetteva di chiedere che tutto si limitasse ad un’energica reprimenda. Dopo di che il podestà fece uscire il vecchio e rientrare la mo­ glie e le disse: «Vostro marito, a quel che pare, è un buono a nulla che si è bruciato la testa da solo, per met­ ter voi in questo stato. La sua raffinata perfidia merita una degna punizione, che voi stessa potrete applicare. Domenica metteremo quel briccone nella berlina e voi

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girerete la gabbia in presenza di tutti fin che ne avrete pago il cuore !». La donna al sentir questo fece un salto di gioia, ringraziò il signor podestà della bella sentenza, e giurò che avrebbe girato la gabbia senza stancarsi sino a cavargli l’anima! « Ecco scoperto dove sta ficcato il diavolo ! » disse al­ lora il podestà con voce severa, e condannò la perfida donna a rimaner chiusa per tre giorni a pane ed acqua nella torre. La strega si guardò attorno rabbiosa e, ve­ dendo sedute a destra e a sinistra del giudice le dame con le rose che la osservavano intimidite, mostrò loro la lingua in ambo le direzioni prima di lasciarsi condur via. Si presentò poi una coppia mal ridotta, che non sa­ peva trovar pace senza capirne la ragione. La sorgente della disgrazia stava in ciò, che marito e moglie sin dal primo giorno non s’eran mai rivolti la parola con genti­ lezza, l’uno non tollerando che l’altra parlasse. E questo derivava a sua volta dalla mancanza di ogni grazia este­ riore nei due individui, la quale avrebbe provocato una tregua ed un punto di riconciliazione. Il marito era un sarto persuaso di possedere un profondo senso di giusti­ zia e ci andava pensando incessantemente durante il lavoro, quando altri sarti invece cantano una canzonetta o inventano uno stupido scherzo; la moglie si occupava esclusivamente del loro piccolo pezzo di terra e si pro­ poneva durante il lavoro di non cedere alla prossima sce­ nata ; e poiché erano ambedue dei buoni lavoratori, non trovavan tempo per litigare che a tavola. Ma non sape­ vano far buon uso neppure di quel tempo, perché subito al principio della disputa lanciavano acuti dardi che li oltrepassavano, finendo entro ignote zone paludose, dove non era possibile un regolare duello e dove la parola af­ fogava nella muta rabbia. Dato questo tenor di vita il cibo non faceva loro buon pro ed essi avevan la faccia della carestia e della miseria, benché, come si è detto, fossero poveri soltanto di gentilezza, ma in questo, certo, i più poveri tra i proletari. Il giorno avanti, l’ira del ma­ rito era giunta al sommo grado, tanto che era balzato in piedi e scappato via da tavola. Essendogli rimasta però

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impigliata la tovaglia lacera ad un bottone del panciotto, s’era tirato dietro la tovaglia ed insieme la zuppa d’avena, la terrina dei cavoli, i piatti e tutto il resto, gettando ogni cosa a terra. La moglie vide in ciò una violenza voluta, ed il sarto, con improvvisa saggia illuminazione, glielo lasciò credere, per rafforzare la sua autorità e di­ mostrare la sua energia. Ma la moglie non volle tollerare simili scenate e lo denunciò al podestà. Questi, dopo averli interrogati successivamente ed aver ascoltato le loro misere dispute senza bussola né timone, intuì la natura della faccenda e condannò la coppia a quattro settimane di prigione ed all’uso del «cucchiaio matrimoniale». Ad un suo cenno l’usciere staccò questo utensile dalla parete, dove stava appeso ad una catenina di ferro. Era un cucchiaio doppio, intaglia­ to finemente in legno di tiglio, con un manico solo e due incavature, fatte in modo che l’una era volta all’insù e l’altra all’ingiù. «Guardate,» disse il podestà «questo cucchiaio è tratto da un tiglio, dall’albero dell’amore, della pace e della giustizia. Mangiando, quando vi porgete il cuc­ chiaio (poiché non ve ne sarà dato un altro) pensate ad un bel tiglio verde tutto in fiore, sul quale cinguettano gli uccellini mentre gli passan sopra le nuvole del cielo, e sotto il quale siedono gli amanti, tengon giudizio i giu­ dici e si concludono trattati di pace ! ». L’ometto dovette prendere il cucchiaio, la donna gli tenne dietro coprendosi gli occhi col grembiule, e così la coppia pallida e miserella s’awiò triste al luogo di sua destinazione, di dove uscì dopo quattro settimane riconciliata e concorde, e persino con un lieve inizio di colorito sulle guance. Dopo di loro venne introdotto, proveniente dal car­ cere, un grasso donnone iracondo, che si guardò attorno brontolando con evidente malessere. Era la moglie di un funzionario subalterno, che aveva indotto il marito a ten­ tar di corrompere il podestà con un quarto di vitello, perché egli fosse loro benigno e lasciasse passare qualche magagna. Il signor Landolt aveva allogato nella torre

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la donna, che aveva portato in persona la carne offren­ dola con molte moine, e ce l’aveva lasciata sin che avesse mangiato tutto il suo quarto di vitello, appositamente cucinato per lei. Naturalmente lei s’era affrettata quanto possibile e non poteva dissimulare un certo malessere. Il podestà le dichiarò che la consumazione del quarto di vitello era la pena per il suo tentativo di corruzione, ma che l’aver indotto al male il proprio marito esigeva una multa di venticinque fiorini, mentre la debolezza del marito subiva pure la pena di altri venticinque fiorini, del che l’usciere doveva prender nota. La grassona abboz­ zò un goffo inchino e se ne andò arrancando e tenendosi il ventre con ambo le mani. Due sorelle di bell’aspetto erano accusate di dar la caccia ai mariti tranquilli ed ingenui, portando discordia e sventura nelle famiglie, e di lasciar per di più patir la fame alla propria vecchia madre malata. Chiamate in giudizio davanti al podestà, si presentarono in vesti seducenti, con i capelli acconciati in modo provocante e ornati di fiori e si fecero avanti sorridendo dolcemente e lanciando al podestà occhiate di fuoco. Questi, com­ prendendo le loro impudenti intenzioni, sbrigò presto l’interrogatorio ed ordinò poi di condurle fuor della sala, di tagliare loro i bei capelli, picchiarle con la verga e mandarle poi a filare sino a che avessero guadagnato a sufficienza per il mantenimento della madre. Si presentarono poi in veste di accusatori due seguaci di sètte religiose. Costoro avevan ricusato il giuramento dei cittadini al podestà e si erano rifiutati ostinatamente di adempiere ogni loro civico dovere, senza prestar ascolto ai ripetuti e benevoli ammonimenti, e ciò sempre in nome della loro fede e della loro intima missione. Ora venivano a denunciare dei poveretti che si erano introdotti nei loro boschi rifornendosi a piacimento di legna da ardere. — Chi siete? — disse il podestà — Io non vi conosco ! — Come è mai possibile? — esclamaron quelli dicendo i propri nomi — Già più volte ci avete citati a comparire e ci avete mandato i messi con ordini scritti o orali! — E tuttavia io non vi conosco ! — continuò Landolt

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impassibile — Poiché voi stessi ricordate di non aver rico­ nosciuto i vostri doveri di cittadini, io non posso ricono­ scere i vostri diritti : andate a cercarli dove li troverete ! Quelli se la svignarono mortificati e cercarono subito di ottener giustizia ottemperando ai loro doveri. Analogamente licenziò con le sue buone trovate altre parti contendenti ed altri denuncianti ; conciliò discordie e punì fannulloni, e fu degno, di nota il fatto che, ecce­ zion fatta per il funzionario desideroso di corrompere, non impose alcuna multa in denaro, né incassò uno scellino, mentre di solito i podestà eran costretti a valersi di quella parte della giurisdizione quale sorgente dei propri redditi e non di rado ne facevano abuso. Le sue sentenze avevano quindi buona fama in alto ed in basso; i suoi giudizi erano chiamati doppiamente salomonici, e la seduta di quel giorno, per il profumo di rose che riem­ piva la sala, fu definita a lungo dalla gente l’udienza delle rose del podestà Salomon. Egli fu però contento di aver sbrigato gli affari che, trattenuto dai preparativi per il solenne invito, era stato costretto a rimandare sino a quel giorno. Invitò le donne a passeggiare ancora un poco all’aperto, per respirare aria fresca prima del pranzo che avevano ben meritato, e quando esse infatti si trovarono sole in giardino lungo la riva del lago, si sentirono davvero sollevate, poiché il modo con cui quello scapolo aveva compreso e trattato problemi matrimoniali le aveva molto intimidite. Qual­ cuna fra di esse, che forse sino ad allora non l’aveva ritenuto molto intelligente, si chiedeva perplessa che tipo d’uomo fosse egli mai. Vennero però tutte distolte dai loro pensieri diffidenti quando videro avvicinarsi a balzi la scimmia Cocco, che avevan dimenticato di spogliare del suo incomodo costume. La cuffia era scivolata a co­ prirle il muso, senza che riuscisse a liberarsene, e le sot­ tane le legavano le gambe o le s’attaccavano alla coda, mentre faceva mille sforzi per toglierle. Le donne pietose svestirono la scimmietta da quegli impacci ed essa le intrattenne coi più graziosi scherzi e smorfie, tanto che ogni timore ed ogni melanconia fuggì dalle belle testoli-

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ne, e quando il podestà, seguito da due servitori, venne a chiamarle per il pranzo, le trovò immerse in liete risate. — Oh ! — esclamò — questo è un carillon che mi piace ! Quando le signore ridono in coro, sembra di udire il concerto campanaro d’una chiesetta di Santa Cecilia. Chi ha echeggiato così bene in tono di contralto? Lei, Wendelgard? E qual era la campanella a stormo, come se fosse scoppiato un incendio nel cuore? Lei, Aglaja? E chi fa echeggiare la voce di mezzo, la serena campana del vespro? Questa è sua, Salome ! E la campanella d’argento della preghiera tintinna nella sua purpurea torre cam­ panaria, o Barbara Thumeysen ! E quella che risuona nella dorata sera di festa, ben la conosciamo, è il mio Pulci­ nella, è Figura ! — Che sfacciato ! — esclamarono le altre quattro cam­ pane — chiamare una di noi Pulcinella! — Esse non sapevano infatti d’aver tutte un nomignolo, mentre sol­ tanto Figura Leu conosceva ed aveva approvato il suo. Il sottile e fragile strato di ghiaccio che serrava i cuori era ormai infranto. La stanza in cui era apparecchiata la tavola splendeva per il riflesso del cielo azzurro e del lago ancora più azzurro che vi entrava attraverso gli ampi finestroni, ma se l’occhio si perdeva fuori, subito trovava riposo nella fresca verzura primaverile oltre il lago. Sulla tavola rotonda al centro della sala occhieggiava una tenera primavera di fiori e di luci, poiché essa era arric­ chita di tutti i tesori che il podestà aveva potuto attin­ gere così dal giardino come dai suoi vetusti armadi. Sei seggiole ad alta spalliera circondavano la tavola, abbastanza distanziate perché ciascuna si potesse muo­ vere con agio e libertà, vedendo il vicino e intrattenendosi decorosamente con lui, a destra ed a sinistra: insomma, era un servizio perfetto, come si fosse trattato di una tavola rotonda per principi elettori, e ci mancava sol­ tanto la credenza particolare dietro ogni sedia. In com­ penso troneggiava solenne nello sfondo la grande cre­ denza del castello, col suo vasellame antico. Presso quel mobile, appoggiandosi con una mano e puntando l’altra sul fianco, si ergeva già, simile ad un

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gran maresciallo, la signora Marianne con una gonna scarlatta ed una giacchetta di velluto nero. Sopra il col­ laretto a pieghe scendeva sino al petto un grande croci­ fisso d’argento ed anche il collo abbronzato era nascosto da un’alta collana di filigrana. Sui capelli già grigi por­ tava un berretto di pelo di martora, il grembiule bianco scendente dalla cintura designava le sue funzioni. Ma sotto le sopracciglia nere mandava sguardi severi per la sala, come fosse la padrona. Però anche il rispetto da lei ispirato non valse a fugare l’allegria ormai stabilitasi e le cinque dame presero i posti loro indicati dal podestà con lieti sorrisi. Egli col­ locò alla sua destra Figura Leu, a sinistra Aglaja, dirim­ petto ebbe la più antica fra le sue fiamme, Salome, mentre sulle altre due sedie c’erano Wendelgard e la capinera. Egli le vedeva raccolte attorno alla sua tavola con un profondo sentimento di felicità e si sforzava di tener viva la conversazione con tutte, per poterle guardare, senza offendere le buone maniere, l’una dopo l’altra, comin­ ciando dal principio o dalla fine oppure a salti, come me­ glio gli piacesse. La signora Marianne distribuiva la minestra accanto alla credenza, il paggio travestito, l’astuto e ben adde­ strato figlio di un pastore delle vicinanze, distribuiva poi le scodelle. Assomigliava ad una giovane diciottenne ed abbassava timidamente gli occhi ogni volta che gli rivolgevan la parola, ma obbediva anche al minimo cenno di Marianne e appena finito un servizio si ritraeva silenzioso verso la porta. Se però il podestà chiamava la presunta cameriera e le dava un ordine con dolce confidenza, e quella lo eseguiva con zelo, le antiche fiamme torna­ vano a meravigliarsi di quell’ignota servente di cui non avevan mai sentito parlare e le scoccavano più di un’oc­ chiata. La conversazione però non ne soffriva, anzi si fece sempre più vivace ed allegra, e il noto scampanio echeggiava tanto rapido, armonioso e confuso che si sareb­ be detto dovesse far la sua entrata in città un pontefice. E come se ci fosse davvero un papa, vi fu un momento di silenzio, di cui approfittò Wendelgard per chiedere

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notizie sulla posizione e la grandezza di Greifensee, poi­ ché in segreto essa avrebbe desiderato conoscere la mi­ sura della fortuna che le sarebbe toccata come moglie del podestà. Le altre signore si stupirono che una concit­ tadina non sapesse quelle cose, ma Landolt le raccontò che la fortezza, la città e il castello di Greifensee, con i terreni ed i sudditi eran stati dati in pegno agli Zurighesi dall’ultimo conte di Toggenburg nel 1402 per seimila fiorini, e che non eran stati più riscattati, ma che la po­ desteria era fra le più minuscole e comprendeva soltanto ventuno località. Il castello e la cittadina attuali non eran del resto più quelli originali, distrutti, come è noto, dai confederati che facevan guerra a Zurigo nel 1444. Rievocando i tempi di quella lunga e amara lotta civile, il podestà si perdette a rievocare la fine dei sessantanove uomini che avevano difeso la rocca per quasi tutto il mese di maggio, contro le preponderanti forze degli asse­ diami. Date le tremende usanze delle lotte partigiane di sterminare i vinti per mezzo di processi, di agire cioè attraverso il terrore, ben sessanta di quegli uomini, dopo che si erano arresi, erano stati giustiziati sulla piazza, pri­ mo tra essi il loro capo fedele Wildhans von Landenberg. Ma indugiò soprattutto a illustrare i dibattiti delle comu­ nità in lotta allorché sul pascolo di Nänikon si decideva della vita e della morte di quei fedeli. Ricordò la difesa di uomini giusti che propugnarono impavidi una sen­ tenza di generosa mitezza, esaltando il senso del dovere di quei prigionieri, ma anche le concioni violente dei vendicativi che si opposero ai primi, intimidendoli con insinuazioni; rievocò insomma l’appassionato dialogo svoltosi in presenza delle vittime e conclusosi con la dura e cruenta condanna generale. Descrisse con efficacia la misteriosa crudeltà manifestatasi alla votazione, con tale maggioranza da rendere inutile il computo, l’immediato intervento del boia, che gli Svizzeri si portavan dietro nelle loro guerre come ora si porta il medico o il cappel­ lano, l’accorrere dei vecchi, delle donne e dei figli im­ ploranti misericordia, la rigida inesorabilità della mag­ gioranza e del loro capo Itel Reding. Poi le donne udì-

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rono con tacito orrore il procedimento delle esecuzioni. Il capitano degli Zurighesi, volendo precedere i suoi nel mortale trapasso con esempio virile, chiese di essere il primo a porre il capo sul ceppo, affinché nessuno potesse credere che egli sperasse in un mutamento di idee o in un evento imprevisto; il giustiziere sostò dapprima ad ogni testa, poi soltanto ogni dieci uomini, sempre aspet­ tando la grazia, anzi invocandola egli stesso, ma otte­ nendo sempre la risposta: «Taci ed esegui!», sin che sessanta innocenti giacquero nel loro sangue, gli ultimi decapitati a sera, al lume delle fiaccole. Solo un paio di ragazzi e di vecchi cadenti sfuggirono alla condanna piuttosto per disattenzione o per stanchezza del popolo giudicante che non per misericordia. Le buone signore trassero un sospiro di sollievo quando il racconto fu giunto al suo termine; avevano alla fine ascoltato trattenendo il respiro, perché il podestà aveva fatto una descrizione così vivace, che pareva loro di vedere, invece della tavola coperta di fiori e di cristalli e scintillante al sole primaverile, la prateria notturna con la schiera dei guerrieri spietati, illuminati dal rosso ri­ flesso delle fiaccole. — Era davvero una sinistra adunata un simile gruppo di combattenti, — disse il podestà — sia che esso deci­ desse l’attacco o emanasse una condanna a morte. Ma ora è tempo — proseguì con voce mutata — di lasciare siffatti argomenti e di tornare a noi! O belle dame del mio cuore ! Io vorrei invitarvi a costituire voi pure una piccola comunità, di carattere però pacifico, di tener concilio e pronunciar sentenza su un argomento che mi tocca da vicino e che io subito vi esporrò, se non mi rifiu­ terete il vostro benigno ascolto, che ha sede in tante ben formate orecchiette. Prima però converrà che il pubblico si ritiri, trattandosi di procedura segreta ! Fece un cenno alla governante ed al suo aiuto, e am­ bedue s’allontanarono, mentre egli alzava la voce rotta di tanto in tanto da una tossetta d’imbarazzo, e le dieci orecchiette candide eran tese in perfetto silenzio. — Elettissime, io vi ho accolto oggi con il rebus : « Il

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tempo porta rose!» che era certamente adatto, poiché il tempo mi ha tracciato davanti agli occhi un magico pentagramma di cinque bellissime teste, ove la linea del­ l’incantesimo va misteriosa da una testa all’altra, incro­ ciandosi e tornando in ogni punto su se stessa per allon­ tanare da me ogni sventura ! Sì, il tempo ed il destino mi son stati benigni! Se infatti la prima di voi mi avesse accettato, non avrei incontrato la seconda e, se la seconda mi avesse concesso la sua mano, mi sarebbe restata per sempre nascosta la terza, e così via, ed io non avrei la fortuna di possedere un quintuplice specchio del ricordo, non appannato dal­ l’alito dell’aspra realtà, e di abitare in una torre dell’ami­ cizia, le cui pietre quadrate sono state connesse dalle di­ vinità dell’amore ! È vero che il tempo mi ha recato le rose della rinuncia, ma come son belle e durature! Come vi vedo fiorire sotto i miei occhi con immutata giovinezza e bellezza ! Sembra davvero che nessuna voglia indietreg­ giare anche di un sol passo di fronte alle bufere della vita. Alziamo anzitutto i calici a questo fatto: possan vivere a lungo i vostri cuori e i vostri occhi, o Salome, o Figura, o Wendelgard, o Barbara, o Aglaja ! Esse si levarono insieme con le guance imporporate, e gli sorrisero dolcemente mentre urtavano il suo bic­ chiere; soltanto Figura gli sussurrò: — Dove volete andare a finire, burlone? — Zitta, Pulcinella ! — disse il podestà e quando eb­ bero ripreso i loro posti continuò — Ma la rinuncia non conosce sazietà; quando non trova più nulla cui rinun­ ciare finisce per rinunciare a se medesima. Questo sembre­ rebbe un brutto giuoco di parole, ma designa tuttavia la complessa situazione in cui io son venuto a pormi. Il fatto che ricopro alte cariche e dirigo una grande casa non mi permette più di rimaner scapolo senza danno: si insiste perché rinunci al mio celibato, per diventare^ alla testa di una signoria, quale giudice ed amministra­ tore, il modello d’un vero padre di famiglia, e mi si dicono mille belle cose del genere per convincermi e per spaventarmi. Insomma : non mi resta più altro che rinun­

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ciare ai mei taciti ricordi e cedere alla necessità. Se ora mi guardo attorno, non si potrà naturalmente parlare di amore e di inclinazione, ormai privilegio del penta­ gramma incantato, ma è la fredda luce della necessità e dell’utilità pubblica che deve illuminare le mie deci­ sioni. Son due le brave creature tra le quali oscilla la lan­ cetta della mia scelta, ed io ho destinato a voi la sentenza, care amiche ! Un consigliere ecclesiastico esperto di mon­ do mi ha detto che io avrei dovuto prendere o una vecchia con molta esperienza o una sposa giovanissima, non mai una in età di mezzo. Ambedue sarebbero trovate e quella che voi deciderete di destinarmi sarà irrevocabilmente mia ! La vecchia è la mia buona governante, che presie­ dette sinora impeccabilmente alla mia azienda domestica : è un poco aspra e rinsecchita, ma ammodo e virtuosa, ed è anche stata bella, sia pure in un remoto passato: per lei basta mutare il nome e tutto è a posto. L’altra è la giovane che ci ha serviti a tavola, una lontana parente di Marianne, che questa si era fatta venire per aiuto ; sem­ bra una ragazza docile e di buona indole, è povera, ma sana, schietta e sincera. Non aggiungerò altro, a questo proposito : voi mi comprenderete ! Ed ora meditate, con­ sigliatevi, scambiate i vostri pensieri, rendetemi questo servigio affettuoso e venite poi ad una pacifica votazio­ ne: deciderà la maggioranza se non raggiungerete l’u­ nanimità. Io ora me ne vado; eccovi un campanello di bronzo: quando avrete formulato la sentenza, sonatelo il più forte che potete ed io verrò ad accogliere dalle vo­ stre candide mani la mia sorte ! Dopo queste parole da lui pronunciate in tono inu­ sitatamente serio, abbandonò la stanza con tale fretta che nessuna delle signore ebbe tempo di interloquire. Se ne rimasero dunque stupite e silenziose sulle loro se­ die, simili a cinque consiglieri di Stato, a guardarsi in faccia. Eran tanto sorprese che nessuna ritrovava la pa­ rola, sin che Salome per prima si riprese esclamando: — Non può andar cosi ! Se il podestà vuol prender moglie, bisogna procurargli qualcosa che vada bene ! È ormai un uomo arrivato, e io saprò presto trovare chi gli

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si addice; ma non si può lasciargli commettere simile stramberia ! —’ Questo è anche il mio parere, — disse Aglaja me­ ditabonda — bisogna guadagnar tempo. . “Credo bene che finiresti per prendertelo tu stessa,” pensò Salome “ma non ci riuscirai, ne ho già una per lui!”. E ad alta voce disse: — Sì, anzitutto dobbiamo guadagnar tempo ! Suo* niamo e dichiariamogli che non prenderemo ora alcuna decisione e che dobbiam rimandare il consiglio. Già stendeva la mano verso il campanello, quando la più’ giovane, Barbara Thumeysen, la trattenne, escla* mando con vocetta piuttosto energica: — Mi oppongo ad una proroga: è giusto e conveniente che si sposi, ed io voto per la vecchia governante, giac­ ché sarebbe disdicevole che si prendesse ora in moglie una ragazzina! — Ma no! — disse Wendelgard — quella vecchia borbottona ! Io voto per la giovane ! Quella almeno è bellina e si lascerà educare come a lui piacerà, perché è anche modesta. E se è povera, gli sarà tanto più rico­ noscente! j Salome ed Aglaja replicarono irritate che per il mo* mento si trattava di sapere se si votava o si rimandava. Barbara ribattè ancor più stizzì ta. che lei votava per la decisione immediata e per la vecchia; se però si fossé venuti ad una proroga, si riservava di passare in rivista le rispettabili e non più giovani zitelle della città; vi era più di una meritevole figliola di decano da collocare, le cui virtù ed i cui princìpi sarebbero stati di giovamento al signor Landolt, ancor sempre un po’ troppo allegro e fantasioso. La discussione divenne confusa ed agitata; soltanto Figura Leu non aveva ancora aperto bocca. Era impai* lidita ed aveva il cuore così stretto da non poter parlare. Benché capisse di solito tutti gli scherzi e le trovate del podestà, quella volta, appunto perché lo amava, scam­ biò per cosa seria quest’ultima farsa : vedeva arrivare ciò che sempre aveva desiderato per lui e temuto per se me*

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desima. Però alla fine si dominò energicamente e do­ mandò la parola. — Amiche mie, — disse — credo che con una proroga non guadagneremmo nulla: ritengo anzi che egli sia già ben deciso, e per la giovane, e che desideri aver da noi la conferma soltanto per cavalleria e per amore di scherzo. Che sposi poi la signora Marianne, non lo crederò mai, e neppur lei mi ha l’aria di voler aderire a simile propo­ sito, perché la vecchia è troppo intelligente per farlo. Se però noi non vogliamo decider nulla, oppure, il che è la stessa cosa, se gli ricusiamo l’atteso e benevolo consenso, son certa da parte mia che domani riceveremo la parte­ cipazione del passo già deciso. La piccola assemblea si convinse della presumibile esattezza di tale opinione. Salome soggiunse allora: — Propongo dunque di passare ai voti; e che età ha adesso il podestà? Non lo sa nessuno? — Ha quasi quarantatré anni — rispose Figura. — Quarantatré ! — esclamò Salome — Bene, io voto per la giovane ! — Ed io per la vecchia ! — gridò la figlia del segre­ tario dei Proseliti, la tenera capinera che in questa fac­ cenda sembrava non meno inesorabile degli accusatori del cruento tribunale di Greifensee. — Ed io invece voto per la giovane ! — disse la bella Wendelgard, battendo lievemente la palma sulla tavola. — Io per la vecchia ! — aggiunse Aglaja con tono in­ certo, tenendo gli occhi fissi davanti a sé. — Ora abbiam due voti giovani e due voti vecchi; — esclamò Salome — sarai tu a decidere, Figura Leu! — Io son per la giovane ! — disse questa, e subito Salome afferrò il campanello scotendolo con energia. Passarono alcuni minuti prima che Landolt comparisse, e regnò un profondo silenzio, durante il quale sentimenti diversi turbavano le cinque donne. Figura riusciva a malapena a trattenere due grosse lagrime che le brilla­ vano sul ciglio, perché si era ormai avvezzata a pensare che Landolt sarebbe rimasto celibe, mentre ora sapeva che le sarebbe toccato sopportar da sola la solitudine:

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L’aiutò a dominarsi un’idea venuta improvvisamente a Wendelgard, la quale, rompendo il silenzio, propose che il podestà, prima di ascoltare il verdetto, dovesse baciare la vecchia: in quel modo avrebbe creduto la sentenza favorevole a Marianne e dalla sua faccia si sarebbe capito se aveva avuto la seria intenzione di sposarla. La propo­ sta fu accettata, malgrado l’opposizione di Figura, che voleva risparmiare al podestà una scena spiacevole. Ma in quel momento si spalancò la porta ed egli si fece avanti con solennità, tenendo al braccio la signora Marianne, che rivolgeva buffi inchini e complimenti in tutte le direzioni, quasi volesse cattivarsi l’amicizia ge­ nerale. Mandava intanto occhiate scherzose all’una e al­ l’altra delle belle giudicanti, che se ne rimasero intimi­ dite e con l’animo inquieto. Ma il podestà disse: — Prevedendo con certezza che le mie ausiliatrici mi avrebbero avviato verso il cammino della pacifica ra­ gionevolezza e dell’età matura, io introduco addirittura la prescelta, pronto a scambiare con lei gli anelli ! La signora Marianne ripetè a questo punto inchini in ogni direzione, e le signore divennero sempre più scon­ certate e preoccupate. Nessuna osò pronunciar parola, poiché persino Aglaja e Barbara, che pure avevan vo­ tato per lei, ne avevano ora paura. Soltanto Figura Leu, piena di rammarico per la profonda caduta dell’amico, disposto veramente a sposare un’incartapecorita vaga­ bonda che aveva avuto nove figli, si alzò e disse con voce involontariamente commossa : — Vi sbagliate, signor podestà ! Noi abbiam deciso che dobbiate sposare la giovane parente di questa brava don­ na, e speriamo che voi renderete onore al nostro avviso e non ci abbiate fatto un pesce d’aprile! — Temo proprio di avervelo fatto ! — disse il podestà con un sorriso, avvicinandosi alla tavola e suonando il campanello, mentre la signora Marianne scoppiava in una fragorosa risata quando il ragazzo che aveva sostenuto la parte di cameriera riapparve nei suoi abiti consueti e venne presentato alle dame quale figlio del signor pastore di Fellanden.

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— Essendomi vietata la vecchia, la quale del resto, a giudicare dalla sua risata, non se ne addolora, e poiché nel frattempo la giovane si è trasformata in un bel gio­ vanotto, suppongo che il meglio sarà per noi restare come siamo! Perdonatemi lo scherzo irriverente, ed accettate i miei ringraziamenti per la buona volontà dimostratami, non ritenendomi indegno di essere congiunto ancora alla gioventù e alla bellezza ! Ma come poteva essere di­ versamente, dove le giudicanti stesse troneggiano in eterna bellezza e gioventù? Strinse la mano a ciascuna e poi le baciò l’una dopo l’altra sulla bocca, senza che alcuna gliela ricusasse. Figura diede il segnale ad una moderata allegria, esclamando con gioia sincera: — Ecco che ce l’ha proprio fatta ! I cinque graziosi uccelletti s’alzarono a volo cinguet­ tando e andarono a posarsi nel porticciuolo del lago sotto il castello, dove le aspettava per una gita una im­ barcazione protetta da una pergola verde e tutta imban­ dierata. Remavano due giovani barcaioli ed il podestà sedeva al timone : poco lontano procedeva un’altra barca con un’orchestrina formata dal corpo dei cacciatori di Landolt. Le semplici melodie suonate sui corni da caccia s’alternavano con le canzoni delle dame, le quali si compiacevano con gioia pacata di sentirsi ammirate dal loro ospite al timone e ne dividevano la calma felicità. La musica ed il canto femminile facevano di tanto in tanto venire dai boschi del monte di Zurigo un’eco som­ messa e le vette candide delle Alpi di Glarona si spec­ chiavano nelle calme acque del lago. Quando l’avvicinarsi della sera cominciò a velare col suo tenue riflesso dorato tutto il paesaggio e l’azzurro si fece più cupo, il podestà tornò a volger la prua verso il castello, ed approdò men­ tre si spiegava una canzone, tanto che le signore saltarono a riva ancora cantando. Nel castello le attendevano quattro vivaci giovanotti che Landolt aveva invitati per la serata. Si tenne un piccolo ballo e Salomon stesso fece un giro con ciascuna delle sue fiamme e alla partenza diede ad ognuna uno

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di quei giovani per cavaliere, riserbando a Figura Leu il bravo ragazzo che aveva sostenuto la parte della cameriera. Durante il congedo fece riecheggiare il cannone e poco dopo, mentre cresceva l’oscurità, si ammainò la ban­ diera. — Ebbene, signora Marianne, — domandò alla go­ vernante quando essa gli portò il solito infuso sopori­ fero — le è piaciuto questo congresso dei miei antichi amori? — Per tutti i santi ! — esclamò lei — moltissimo mi è piaciuto! Non avrei mai pensato che una storia cosi buffa come cinque fiaschi potesse concludersi in modo tanto edificante e grazioso. Lei è davvero inimitabile! Ed ora avrà la pace in cuore, per quanto è possibile in terra, poiché la vera pace eterna vien soltanto là dove abitano i miei nove angioletti ! Così si svolse la notevole impresa. Più tardi il colon­ nello ottenne la podesteria di Eglisau sul Reno, ed ivi rimase sin che tutte le podesterie ebbero fine, quando nel 1798 crollarono insieme alla antica Confederazione an­ che i poteri feudali. Vide allora gli eserciti stranieri in­ vadere la patria, le belle valli e le alture della sua gio­ vinezza: Francesi, Austriaci e Russi. Pur non occupando più una carica pubblica, cooperò dovunque col consiglio e con l’azione, sempre instancabilmente a cavallone, pur nella sventura e nella stretta del tempo, il suo occhio vigile coglieva ogni mutamento delle innumerevoli figure che si succedevano come in un sogno febbrile. Persino fra il tuonare delle grandi battaglie di cui fu scena la sua piccola terra natale, non gli sfuggì alcun balenare di bivacco notturno, alcun cosacco o panduro all’agguato nelle nebbie dell’alba. Quando finalmente le onde burra­ scose si furon placate, egli, dipingendo, cacciando e caval­ cando mutò più volte luogo di soggiorno e morì nel 1818 nel castello di Andelfingen sulla Thur. Di quest’ultimo periodo un suo biografo racconta: «Nei caldi meriggi estivi rimaneva solo a riposare all’ombra dei platani, specialmente al tempo delle messi, quando tutta la re­

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gione ricca di grano brulicava di mietitori. Gli piaceva stare a guardarli dalla sua collina e, se lavorando canta­ vano, coglieva una foglia servendosene per accompagnare con un fischiettar sommesso le allegre melodie che sali­ vano dalla valle, e talvolta intanto s’addormentava, co­ me un mietitore stanco sul suo covone». Nel tardo autunno del suo settantasettesimo anno, do­ po che furon cadute le ultime foglie, vide avvicinarsi la fine. «Quel tiratore ha mirato bene!» disse additando la «piccola morte» d’avorio che aveva ereditato dalla nonna. Figura Leu, che s’era spenta ancor prima del finir del secolo, aveva avuto in prestito quella fine opera d’arte, che, come soleva dire, molto la divertiva. Dopo la sua morte egli se l’era ripresa, tenendola sullo scrittoio. La signora Marianne se n’era andata nel 1808, molto stanca del lavoro e dei doveri adempiuti, e la sua salma fu seguita da un grande corteo funebre, come si trattas­ se di un uomo di gran conto. Mentre trascriveva con gran cura la precedente storia del podestà di Greifensee, il signor Jacques aveva veduto svanire dal suo giovane cervello gli ultimi grilli e s’era chiaramente persuaso di quante complicazioni ci voles­ sero per mettere insieme alla meglio un vero originale. Disperando di conquistarsi tante e in parte così spiace­ voli avventure come cinque rifiuti consecutivi, rinunciò spontaneamente e definitivamente a diventare un ge­ nio originale, cosicché il signor padrino potè considerare espletato almeno il suo compito di educatore. Il signor Jacques non tradì per questo gli ideali; pur non aspirando a produrre qualcosa di suo, si preparò ad esser zelante protettore delle arti e delle scienze, nonché un fautore di giovani ingegni e un dirigente di artisti sov­ venzionati. Li sceglieva con l’occhialetto, il telescopio e il cavo della mano, con tutta prudenza, ne sorvegliava gli studi e la condotta morale, e la primissima sua esigenza, alla quale non credeva poter rinunciare, era la modestia. Dopo aver egli stesso rinunciato, si comportava tanto più severamente verso i giovani bisognosi di appoggio; ogni

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attestato da lui richiesto o da lui redatto doveva contenere la parolina « modestia », altrimenti era una causa perduta, giacché per lui esser modesti voleva già dire a metà saper scolpire, dipingere, suonare e cantare ! Organizzando istituti d’arte, scuole ed esposizioni e acquistando quadri e simili era alquanto rigido e la sua efficacia giungeva anche lontano, poiché aveva sempre nelle scuole d’arte straniere e nei centri di cultura qua un incisore, qua un pittore, là un musicista o un astronomo da lui dipendente, ai quali faceva pervenire gli oppor­ tuni sussidi da fondi pubblici o propri. Era per lui sor­ gente di massima soddisfazione intuire dallo stile episto­ lare dei giovani sorvegliati il loro grado di modestia o di presunzione, di immatura spavalderia o di mite per­ severanza, e punire ogni peccato con una diminuzione dei sussidi, con una proroga dell’invio, cioè con quattro settimane di fame, dominando a tal punto vento e tem­ pesta, sole ed ombra, che i discepoli dovevano impa­ rare qualcosa e, con vantaggio per la formazione del loro carattere, non viver troppo alla giornata. Soltanto una volta stava per esser buttato fuori dalle rotaie, quando cioè, dopo la dovuta maturazione di tutte le circostanze, si unì solennemente in matrimonio con la predestinata sposa, concludendo a quel modo l’opera d’arte della prima metà di sua vita. Dopo svariati e fruttuosi viaggi, si trovava, non più nel fiore della gioventù, alla testa della casa commerciale ereditata, che procedeva per dir così da sola. Il patrimo­ nio era sicuro, le presumibili eredità avvenire prenotate, come pure quelle che non potevano mancare alla sposa, così che, a giudizio mortale, sembrava ormai assicurata l’agiatezza a un discreto numero di probabili discenden­ ti: allora si procedette alla richiesta da tempo attesa, fu concluso il fidanzamento, furon preannunziate le nozze che si celebrarono non senza una previa cura di otto giorni di decotti depurativi e di ritiro in casa, e durante tal periodo ribollì, simile a sacro vaso rituale, il pentolino con le foglie di senna ed il solfato di soda. Il viaggio di nozze li portò al di là delle Alpi, nei

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campi dorati d’Esperia, ed ebbe come meta Roma eterna. Con un ampio cappello di paglia sul capo, vestito di tela greggia gialla, con il collo della camicia rovesciato e i lembi di un fazzoletto svolazzanti, egli condusse la novella spo« sa per i sette colli, che a lui erano arcinoti e familiari. Essa poi, ornata ancora di lunghi riccioli, vestiva o do­ veva vestire un abito candido con velo verde, poiché il signor Jacques s’era sostituito alla madre nello scegliere e dirigere da uomo di gusto il suo abbigliamento. Proprio a quel tempo viveva a Roma un giovane scul­ tore, di cui egli dirigeva da lontano la vita e lo studio. Tutte le relazioni e le suppliche del giovane eran re­ datte con la dovuta umile modestia, senza rivelare mai traccia di presunzione o di condotta sconveniente; la sua prima opera, un fauno assetato che solleva un otre, doveva appunto esser prossima al compimento. Per que­ sto una visita a quel protetto avrebbe costituito uno dei punti culminanti del soggiorno romano, e al signor Jac­ ques la spedizione sembrava rappresentare, in seno alle scene classiche, una testimonianza degna, se pure mode­ sta, della sua attività particolare, ricollegando la sua persona con il grande passato, ricompensando così nel modo più adatto la sua rinuncia, mentre egli calcava, al suo posto modesto ed in veste di mecenate, quel su­ blime scenario. Egli si aspettava uno studio modesto ma ordinato e solennemente silenzioso, ove un giovane dalle lunghe chiome stesse meditabondo di fronte al suo marmo. S’ad­ dentrò coraggiosamente, con la consorte sotto braccio, nel remoto quartiere lungo il Tevere, dove, come spiegò alla compagna, giungono i barconi carichi di blocchi di marmo di Carrara. Già vedeva con l’immaginazione il futuro Thorwaldsen o Canova, sorpreso dalla visita, in contenuta letizia, appoggiato con stupore all’impalca­ tura, accogliere con gesto di timidezza il suo invito a pranzo; giacché si era proposto di offrire una giornata di svago a quel bravo giovane, ben sapendo che egli vi­ veva parsimoniosamente, in obbedienza alle sue pre­ scrizioni. Certamente, benché avesse ricevuto di recente

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la sua borsa semestrale, non aveva quel mattino ancora fatto colazione, memore della regola inculcatagli, bastar cioè per un giovane povero vivente all’estero un pasto abbondante una volta al giorno, e preferibilmente la sera. Alla fine trovò la dimora. Il propileo era costituito da un confuso ammasso di muriccioli, di assiti, di vecchi ulivi e di viti, da cui pendeva ad asciugare una quantità di biancheria. Il quadro era molto pittoresco, ed il signor mecenate procedette di buon animo, anche perché l’edi­ ficio di sfondo, che pareva dovesse contenere lo studio, fa­ ceva un’impressione non meno poetica sul suo senso artisti­ co. Esso era infatti messo insieme con frammenti di anti­ chissimi edifici e sculture, con capitelli e cornicioni scolpiti, e tutti rivestiti di edera lussureggiante. Gli stipiti eran for­ mati da due colossali Atlanti barbuti, ficcati nel terreno sino all’ombelico, che reggevano sul dorso obliquamente una possente colonna. Per fortuna erano un poco sollevati in quella fatica dalla frescura di un pino non alto ma di ampia corona, che prolungava così la penombra dell’in­ terno oltre la porta. Man mano però che la coppia s’av­ vicinava a queste ombre, sempre più esse eran ravvivate da suoni distinti, canti, melodie, musica di violini e rim­ bombo di tamburi, dominati a lor volta da richiami e da grida isolate: pareva che nella pace appartata di quel verde recesso si celebrasse un invisibile baccanale di an­ tichi spiriti. Il signor Jacques stette per un poco stupe­ fatto in ascolto, ma quando il fantastico rumore crebbe, si decise finalmente ad entrare nel locale interno. Esso somigliava ad una grande e fresca lavanderia; ad una parete c’era il focolare con una grande caldaia, mentre tutt’intorno si vedevano botti, secchie e tinozze; alcune di esse reggevano delle assicelle e formavan così una lunga tavola coperta di una tovaglia bianca e disse­ minata di fiaschi dal lungo collo, fra cui si vedevan piatti coi resti di un pasto profumato d’olio fritto, con teste di pesce, foglie d’insalata e frittelle brune. Alla tavola sedevano parecchi gruppi di popolani in costume romano, le donne dal volto abbronzato, con fazzoletti bianchi in capo e grandi orecchini d’oro, gli

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uomini con anellini alle orecchie, giacche corte e cappelli a cono sulle teste nere e ricciute. Tutti cantavano e suo­ navano la chitarra o il mandolino mentre due graziose coppie, battendo il tamburello, eseguivano una danza. La più bella delle ragazze sedeva a capotavola accanto all’unico uomo biondo della compagnia ; essi si voltavano il dorso, e la donna, appoggiandosi a lui e con le gambe accavallate, cantava, e s’accompagnava con un tambu­ rello a sonaglietti, e lui invece giocava alla morra col suo vicino, "tacciando continuamente fuori le dita e ur­ lando i numeri con voce irosa. Questi appunto era lo scultore : non aveva però lunghi riccioli, ma anzi i capel­ li tagliati corti come una vecchia spazzola da scarpe; in compenso la barba era folta e ispida ed il volto co­ sì rubicondo che il signor Jacques a malapena lo rico­ nobbe. Per dirla in breve: lo scultore celebrava le sue nozze e la romana che gli sedeva accanto era la sposa. Come il marito era il solo biondo, così era anche il solo brillo della brigata. Mentre gli altri alla radiosa apparizione della coppia mecenatesca si eran fatti silenziosi, rima­ nendo ciascuno immobile al proprio posto, quello, semiu­ briaco, senza affatto tener conto delle circostanze, balzò in piedi e disse al suo protettore e signore che era som­ mamente benvenuto in quel fausto giorno, di cui gli dava intanto tardivo annuncio e chiarimento. Era riuscito a celebrare queste nozze segrete, questo matrimonio misto, proprio nella sede dell’intolleranza, con l’aiuto di un clero smanioso di propaganda addetto ad un’ambasciata protestante ed in relazione con società di nazioni diver­ se, che si occupavano di simili intrighi filantropici, non già in previsione di una legislazione più liberale, quale è propria ormai di tutti gli stati progrediti, ma per lega­ lizzare le conseguenze della immodestia di molta povera gente, là dove questa si determinava, o per subordinar­ la almeno esteriormente ai buoni costumi. Il signor Jacques almeno interpretò così la faccenda; era impallidito di rabbia ed investì il novello Pigmalione, dicendogli a mezza voce:

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— E questo bel festino di nozze, reso possibile da ipocriti e papisti senza coscienza, è naturalmente pagato dai sus­ sidi che vi ho spedito or non è molto? — Non proprio direttamente ! — disse lo sposo dopo una breve riflessione — Le cose stanno precisamente così: dati i tempi difficili, ho creduto far bene associandomi con la mia borsa di studio alla bella lavanderia di mia suocera, in certo modo come socio in accomandita, e l’affare si è dimostrato vantaggioso. Io fruisco di vitto ed alloggio presso un’attiva lavandaia, il che è molto meglio che vivere da studente con borsa, e risparmio l’affitto di un atelier privato, giacché l’ampia lavanderia mi offre spazio adatto per il mio lavoro, specialmente la domenica e nelle molte feste cattoliche e anche per quasi la metà della settimana. Basta che io apra quelle finestre lassù all’angolo del tetto, perché si riversi un mare di luce sui miei modelli ! — Dove sono questi modelli? Dov’è il fauno assetato che deve già sbocciare dal marmo? — gridò quasi bal­ bettando per l’ira il mecenate che si riteneva indegna­ mente burlato, e percorreva le pareti con sguardi infuo­ cati, non vedendoci altro che pochi pezzi di gesso anne­ riti dal fumo, piedi, mani e braccia della ben fatta fi­ danzata, anzi ormai consorte dell’allegro studente. Questi cominciò a sentirsi intimidito, non essendo per nulla preparato a funger da protagonista di una delle oggi tanto amate storielle di scultori, trovandosi anzi in quello stadio di assoluta inerzia al quale del resto neppur 10 stesso Thorwaldsen è del tutto sfuggito da giovane. Lanciò sguardi incerti verso un angolo oscuro e quando 11 signor Jacques tornò ad urlare: «Dov’è il fauno asse­ tato?» s’awiò a passi barcollanti in quella direzione, constatando con dolore la rapidità con cui mutano le co­ se di questo mondo, e come era stato allegro pochi minuti prima mentre gridava i suoi «cinque, due, sette, quat­ tro!». Ma non c’era rimedio, il signor Jacques gli stava inesorabile alle calcagna, sempre tenendo al braccio la dama bianca; la brigata lo seguì curiosa e ben presto una corona di beila gente si strinse attorno ad una

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misteriosa figura tutta avviluppata in cenci ed issata su un cavalletto. Il mistero non era del tutto accessibile, a cagione di un mucchio di patate e di altra verdura che gli giaceva ai piedi. Dopo che lo scultore ebbe aperta una finestra, la luce cadde su una figura di creta avviluppata in stracci ormai asciutti ed egli si aprì un varco fra le patate per liberarla dai paludamenti. Insieme ai panni, cadde an­ che l’orecchio caprino del fauno e si sbriciolò più d’un dito delle sue mani protese. Alla fine comparve il bravo uomo: il suo volto disperatamente assetato trovava una mirabile motivazione nel corpo secco, arido e screpo­ lato come un campo senza pioggia, che certamente da settimane non aveva goduto un’innaffiatura rinfrescante. Mancava inoltre l’otre, per cui il poveretto assumeva l’a­ spetto di uno degli adoranti rinvenuti nel Tevere e sem­ brava invocare il ristoro di qualcosa di liquido. Il tutto faceva lo stesso effetto di una miniera abbando­ nata da tempi immemorabili. Tutti osservavano stupefatti quell’incompletezza ina­ ridita; ma lo scultore a quella vista si sentì venir sete e si trasse in disparte, e quando l’irresoluto mecenate lo cercò con lo sguardo, per rivolgergli parecchie domande, lo scorse solo accanto alla tavola, che reggeva alto un fiasco, lasciando cadere con mira perfetta uno zampillo di vin rosso nella gola, senza farsi venire il singhiozzo e senza perderne neppure una goccia. Questo lo costrinse finalmente a ridere e gli fece anche sorgere il vago sospetto che si trattasse di un allegro aneddoto d’artisti, di una divertente esperienza naturale. Appena la brigata, un poco perplessa, si rese conto del suo migliorato umore, ritrovò l’allegria; i due nuovi ospi­ ti, marito e moglie, furon fatti immediatamente sedere a capotavola, al posto d’onore, vennero ripresi canti, mu­ siche e danze, ed il signor Jacques era tutt’occhi e orecchi per non perdere neppure un tratto del quadro e per trarre almeno il più completo profitto estetico da quella sua esperienza. Proprio mentre la sua attenzione era al colmo, inter-

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venne un fatto nuovo. La suocera del felice Pigmalione comparve reggendo in braccio un bimbo in fasce tutto fronzoli e tutti esclamarono : « Il bambino ! ». Era infatti il piccino prematrimoniale che era stato movente alle nozze e che ora lo scultore porse da ammirare con grande letizia alla coppia viaggiatrice, mentre la bella sposa abbassava vergognosa gli occhi. Sul volto del signor Jac­ ques s’addensarono le nubi di una più intensa collera, di un più cupo sdegno, ma già intanto la sua dolce e candida consorte aveva preso in braccio bimbo e cuscino e lo stava cullando teneramente, poiché era davvero un bel puttino ed essa già sentiva la brama di averne uno simile. Incoraggiato da tanta bontà e gentilezza, lo scultore sussidiato confessò che la povera creatura non era ancora battezzata e che in lui era sorto in quel momento il rispettoso desiderio di invitare ad essergli padrino l’esi­ mio suo protettore. Non era necessario che egli presen­ ziasse per questo al battesimo, che avrebbe avuto luogo di lì a poco, potendosi trovare un degno sostituto, purché si potesse iscrivere quale padrino il signore. Un tenero sguardo della moglie disarmò la sua cre­ scente ira : diede il suo assenso con un muto cenno, strap­ pò una pagina al suo libretto di appunti e vi ravvolse un ducato, ficcandolo poi tra le fasce multicolori del pic­ cino. Dopo di che fuggì con la moglie da quel covo del­ l’immodestia, come ebbe a designare la pittoresca la­ vanderia. E quando, giunto a casa, raccontò irritato al suo ormai vecchissimo padrino che a Roma era diventato padrino a sua volta, quello rise allegramente e gli augurò di trarre altrettante soddisfazioni dal suo figlioccio, quante a lui ne aveva procurate maestro Jacques in passato, e quante ancora gliene procacciava al presente.

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Il sarto Hediger di Zurigo era giunto all’età in cui un artigiano laborioso già comincia a concedersi dopo i pa­ sti un’oretta di riposo. In una bella giornata di marzo egli dunque non se ne stava nella sua vera e propria offici­ na, ma in quella spirituale, nella stanzetta che da anni s’era riservata. Era contento di poterci di nuovo stare, pur senza riscaldamento, giacché né le sue vecchie consuetu­ dini di artigiano, né i suoi redditi gli permettevano di riscaldare d’inverno una stanza soltanto per starvi a leg­ gere. E questo in tempi nei quali già altri sarti vanno a caccia o montano ogni giorno a cavallo, tanto si interse­ cano fra loro i vari gradi della civiltà! Mastro Hediger non aveva però da vergognarsi della sua ben rassettata stanzetta interna. Egli assomigliava piuttosto ad un allevatore americano che ad un sarto; una faccia energica ed intelligente, dalla folta barba a collana dominata da un possente cranio calvo, era china sul giornale «Il Repubblicano Svizzero» e ne leggeva con espressione critica l’articolo di fondo. Della stessa gazzetta s’allineavano almeno venticinque volumi in fo­ lio, tutti ben legati, in una piccola libreria di noce a vetri, ed essi non contenevano quasi nulla che Hediger in quel quarto di secolo non avesse veduto e vissuto. Nella libre­ ria v’era anche un «Rotteck»,1 una Storia della Svizzera di Johannes Müller ed un gruppo di opuscoli politici e simili; un atlante geografico, una cartella piena di cari­ cature e di libelli, documenti di giorni amari e appas­ sionati, stavano nello scomparto più basso. Le pareti dello stanzino erano adomate dai ritratti di Colombo, di Zwingli, di Hutten, di Washington e di Robespierre, poiché il valentuomo non scherzava e dava la sua postu­ ma approvazione anche al Terrore. Oltre a quegli eroi internazionali figuravano alle pareti alcuni campioni elI. Karl Wenzeslaus Rotteck (1775-1840), professore di storia a Friburgo, fu autore di opere storiche che esercitarono grande in­ fluenza perché animate da sentimenti liberali.

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vetici del progresso, con relativi manoscritti di massime edificanti e prolisse tanto da allungarsi in piccoli saggi. All’armadio dei libri s’appoggiava un fucile d’ordinanza ben tenuto e lucente, con la baionetta ed una cartuccera dove stavan sempre trenta cartucce a pallottola. Quello era il suo fucile da caccia, col quale però non cacciava lepri o fagiani, ma aristocratici e gesuiti, traditori della Costituzione e del popolo. Fino allora una stella benigna gli aveva risparmiato di versar sangue, per mancanza d’occasioni, però già più d’una volta aveva dato di piglio allo schioppo ed era corso in piazza; poiché era ancora il tempo delle piccole rivolte. Comunque il fucile doveva rimaner lì sempre pronto fra letto e libreria, giacché, come egli soleva dire, non v’è governo né vi sono batta­ glioni capaci di proteggere il diritto e la libertà, là dove il cittadino non sa uscire in persona davanti a casa sua per vedere quel che succede. Mentre il brav’uomo era immerso nel suo articolo, ora annuendo soddisfatto ed ora scotendo il capo, entrò il suo figlio minore, Karl, impiegato in un ufficio gover­ nativo. — Che cosa c’è? — domandò brusco, non amando d’esser disturbato nella sua stanzetta. Karl gli chiese, poco fi­ ducioso nel successo della preghiera, di poter avere a pre­ stito per quel pomeriggio il fucile e la cartuccera del pa­ dre, dovendo recarsi in piazza d’armi per le esercitazioni. — Non se ne parla, niente da fare ! — rispose subito Hediger. — Ma perché no? Non guasterò niente ! — assicurò il figlio, intimidito ma tenace, perché un fucile gli era indi­ spensabile se non voleva finire agli arresti. Ma il vec­ chio replicò ancor più brusco: — Niente da fare ! Debbo solo stupirmi della ostina­ zione dei miei signori figli, che son peraltro tanto poco ostinati in altri campi, così che non uno ha serbato la professione che gli ho fatto imparare a sua libera scelta ! Sai benissimo che i tuoi fratelli maggiori, appena dovet­ tero cominciare l’istruzione militare, l’uno dopo l’altro chiesero il fucile e che non uno l’ha ottenuto ! Ma ecco

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che tu arrivi egualmente quatto quatto a domandarlo. Hai il tuo buono stipendio, non devi provvedere a nes­ suno ... comperati la tua arma come si conviene ad un uomo d’onore ! Questo fucile non si muove di lì, a meno che non me ne serva io ! — Ma non si tratta che di poche volte ! Non starò a comprare un fucile di fanteria, quando più tardi dovrò passare ai tiratori scelti e dovrò avere un moschetto ! — Tiratori scelti ! Questa ci mancava ! Come mi vuoi spiegare la necessità che tu vada tra i tiratori, se non hai ancora sparato un colpo? Ai miei tempi uno doveva aver­ ne sciupata della polvere prima di potersi arruolare fra loro! Ma adesso si diventa tiratore a caso, e indossa la giubba verde certa gente che non sa colpire un gatto su un tetto, ma che in compenso fuma sigari e si dà arie da signore ! Son cose che non mi riguardano ! — Oh, — riprese il giovinetto quasi piagnucolando — datemelo almeno per una volta: domani me ne pro­ curerò un altro, ma oggi non ci arrivo più ! — Io non do la mia arma — riprese il sarto — a chi non sa maneggiarla; se tu sai togliere secondo le regole il meccanismo di questo fucile e lo sai scomporre, prendi­ lo pure, altrimenti resterà qui ! — Così dicendo trasse dal cassetto un cacciavite, lo porse al figlio e gli additò il fucile. Quello nella sua disperazione volle tentare e cominciò ad allentare le viti. Il padre stette a guardarlo con aria di scherno, ma poco dopo gli gridò: — Non far scivolare a quel modo il cacciavite, ché mi rovini tutto ! Allenta prima le viti a metà, l’una dopo l’al­ tra, poi del tutto e andrà meglio ! Ecco, così, finalmente ! Karl teneva ora in mano l’otturatore, ma non sapeva da che parte cominciare e lo posò con un sospiro sulla tavola, vedendosi già col pensiero in cella, agli arresti. Ma il vecchio Hediger, ormai interessato, prese l’ottu­ ratore per dare lezione al figliolo e si accinse a smontar­ lo mentre spiegava : — Vedi, — cominciò — prima di tutto si scarica la molla del percussore per mezzo di questo moschettone, così; poi viene la vite della molla della stanghetta, che si

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svita solo a metà, quindi si dà un colpo alla molla della stanghetta, in modo che questo dente esca dal foro; ora liberi completamente la vite. Ora la molla della stan­ ghetta, poi la vite della stanghetta e la stanghetta; ora la vite del castello della noce, ed ecco il castello ; quindi la vite della noce, il cane e infine la noce : eccola ! Dammi il grasso che è in quello stipetto ; voglio ingrassare un po’ le viti ! Aveva posto i singoli pezzi sul giornale e Karl lo ascoltava ed aiutava con gran zelo e gli porse la botti­ glietta del grasso, illudendosi che il tempo si fosse mu­ tato a suo favore. Ma quando il padre ebbe ben ripulito ed oliato i pezzi dell’otturatore, non li ricompose, ma li gettò alla rinfusa nel coperchio d’una scatoletta, dicendo : — Be’, questa sera lo rimetteremo insieme; adesso leg­ go il mio giornale ! Karl se ne andò, deluso e rabbioso, a raccontar la sua disgrazia alla madre. Egli nutriva gran rispetto per l’au­ torità pubblica, alla quale stava per sottomettersi come recluta. Da quando aveva finito gli studi, non aveva su­ bito punizioni, e neppure a scuola negli ultimi anni; ora invece la cosa sarebbe ricominciata, e a più alto li­ vello, solo perché aveva contato sul fucile del babbo. Sua madre gli disse: — In fondo tuo padre ha tutte le ragioni ! Voi quattro fate migliori guadagni di lui, e questo grazie all’educa­ zione che vi ha dato; ma non soltanto li consumate per voi soli sino all’ultimo centesimo, ma venite poi sempre a seccarlo per aver a prestito mille cose : la marsina nera, il cannocchiale, il compasso, il rasoio, il cappello, il fu­ cile e la sciabola... tutto quanto lui tiene tanto in ordine, voi glielo togliete per riportarglielo rovinato. Si direbbe che tutto l’anno state a pensare che cosa potreste ancora farvi prestare, mentre lui non vi chiede mai nulla, benché gli dobbiate la vita e tutto il resto. Ma per oggi vedrò di aiutarti ancora! Salì da mastro Hediger e gli disse: — Caro marito, ho dimenticato di dirti che Frymann il carpentiere ha fatto sapere che la compagnia dei sette

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oggi si riunisce e che c’è qualcosa da trattare, credo si tratti di politica ! — Davvero? — domandò Hediger gradevolmente in­ teressato, alzandosi e girando su e giù per la camera — mi stupisce però che Frymann non sia venuto in per­ sona per cominciare a consultarsi con me ! — Dopo po­ chi minuti si vestì svelto, prese il cappello e s’allontanò dicendo alla moglie: — Io me ne vado, voglio sapere che cosa c’è! Questa primavera del resto non ho fatto un passo all’aperto, ed oggi il tempo è così bello ! Addio, dunque ! — Ecco ! Per oggi non torna prima delle dieci di se­ ra! — disse ridendo la signora Hediger ed esortò Karl a prendere il fucile, badando però di riportarlo per tempo. — Come lo devo prendere? — brontolò il figliolo — Il babbo l’ha smontato ed io non sono capace di ri­ metterlo insieme. — Allora vengo io ! — esclamò la madre, dirigendosi col figlio verso la stanzetta. Rovesciò il coperchio, ove c’erano le parti del meccanismo, scelse le molle e le viti e si accinse a rimetterlo assieme con gran destrezza. — Ma dove diavolo avete imparato queste cose, mam­ ma? — domandò Karl sorpreso. — Le ho imparate — rispose lei — nella mia casa paterna. Il babbo e i miei sette fratelli mi avevano av­ vezzata a pulir loro tutte le armi dopo i tiri. Spesso lo feci piangendo, ma alla fine sapevo maneggiar quella roba meglio di un armaiolo. Non per nulla al villaggio mi chiamavano la fuciliera, ed io avevo quasi sempre le mani nere e la punta del naso sporca. I fratelli poi, a furia di tiri e di divertimenti, si mangiarono casa e terre, ed io povera ragazza potei chiamarmi fortunata che il sarto, tuo padre, mi sposasse. Durante il racconto l’abile donna aveva di fatto rico­ struito l’otturatore, tornandolo a fissare al calcio. Karl si affibbiò la lucida cartuccera, prese il fucile e s’awiò di corsa verso la piazza d’armi, dove giunse appena a tem­ po per non essere in ritardo. Dopo le sei riportò tutto a

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casa, riuscì a smontare da solo l’arma e ne rimise i pezzi in disordine nel coperchio di cartone. Dopo cena, quando s’era fatto buio, scese all’approdo, noleggiò una barchetta e costeggiò la riva sin che giunse davanti a quei punti della spiaggia usati in parte dai carpentieri e in parte dagli scalpellini. Era una serata meravigliosa: un venticello tepido increspava lievemente l’acqua, la luna piena ne illuminava le superfìci lontane e faceva scintillare le brevi onde più vicine, mentre in cielo spiccavano nitide le costellazioni; le montagne co­ perte di neve si specchiavano come ombre pallide nel la­ go e si poteva piuttosto intuirle che vederle; spariva invece nell’ombra ogni sciocchezza industriosa, ogni inquieta meschinità architettonica, assorbita in grandi masse tranquille dalla luce lunare: insomma il paesaggio era preparato a far da degno sfondo alla scena imminente. Karl Hediger remò rapido sino ad un gran cantiere ed ivi cantò un paio di volte a mezza voce il primo verso di una canzoncina, avviandosi poi lentamente verso il largo. Dalle tavole sulle quali era seduta s’alzò una fan­ ciulla snella, slegò una barchetta, vi entrò e remò poi, adagio, con poche deviazioni, nella scia del barcaiolo che cantava sommesso. Quando gli giunse a lato, i due giovani si salutarono e proseguirono senza soste, barca contro barca, nel liquido argento, sempre più al largo. Con vigoria giovanile tracciarono un grande cerchio con parecchie spirali che la ragazza accennava ed il giova­ notto assecondava premendo lievemente i suoi remi senza allontanarsi da lei, tanto che si capiva subito come la coppia fosse abituata a vogare insieme. Allorché furon giunti nella zona del silenzio e della solitudine, la fanciulla ritrasse i remi e si fermò. O meglio, depose soltanto uno dei remi e tenne l’altro quasi giocando sul bordo della barca, ma non fu senza intenzione, giacché quando Karl le si volle avvicinare, anzi volle arrembare la sua navi­ cella, ella seppe molto abilmente fermarlo col remo, dan­ dogli di tanto in tanto un piccolo colpo. Anche questa manovra non doveva esser nuova, poiché il giovane pre­ sto s’arrese, restando tranquillo nella sua imbarcazione.

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Cominciarono allora a chiacchierare e Karl disse: — Cara Hermine ! Adesso potrò rovesciare il prover­ bio e proclamare : invano desidero in vecchiaia quel che in gioventù avevo in abbondanza ! Quando io avevo dieci anni e tu sette, ci siam baciati mille volte, ma ora che ne ho venti, non mi concedi neppur la punta delle dita ! — Non voglio proprio più sentire simili impudenti menzogne ! — rispose la ragazza mezzo ridendo e mezzo in collera — son tutte invenzioni e frottole; io non ri­ cordo affatto intimità di quel genere ! — Purtroppo ! — esclamò Karl — Ma tanto più le rammento io ! E allora eri tu la seduttrice ! — Karl, vergognati ! — lo interruppe Hermine ; ma lui continuò inesorabile: — Ma si, ricorda per esempio quante volte, quando eravam stanchi di aiutare i bambini poveri a riempire di trucioli i loro cesti rotti, con perenne rabbia dei vostri operai, quante volte, dico, io dovetti fabbricare di nasco­ sto, con le tavole e i paletti, una capannuccia con il tetto e la porta e dentro anche una panchina ! E quando poi eravamo seduti sulla panchina con la porta chiusa, ed io posavo le mani in grembo, chi mi saltava al collo e mi dava tanti baci da non poterli contare? Mentre così diceva, quasi cascava in acqua: parlando aveva cercato di avvicinarsi di nuovo inavvertito e la ragazza diede all’improvviso un colpo tanto forte alla sua barchetta da fargli quasi far naufragio. Scoppiò in una sonora risata vedendo che s’era bagnato il braccio sinistro sino al gomito e che imprecava: — Aspetta pure ! Verrà il momento che me la pagherai ! — C’è tempo ! — replicò lei — non stia ad affrettarsi, caro signore ! —- Poi prosegui un poco più seria : — Il babbo ha saputo della nostra faccenda ed io non ho negato, per quel che è l’essenziale : ma lui non vuole assolutamente saperne : proibito anche pensarci ! Ecco a che punto siamo ! — E tu hai forse l’intenzione, come sembrerebbe, di sottometterti irrevocabilmente e docilmente al volere del genitore?

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— Io non farò per lo meno mai il contrario dei suoi desideri, né oserò entrare in ostilità con lui, perché tu sai bene che serba a lungo rancore ed è capace di profondo risentimento. Sai anche che, vedovo da cinque anni, non si è riammogliato per amor mio ; credo che di questo una figliola debba sempre tener conto ! E, visto che par­ liamo di noi, debbo anche dirti che, date tali circostanze, ritengo ■ sconveniente che ci si veda così spesso. È già abbastanza che una figlia disobbedisca interiormente, col cuore: fare quotidianamente, con atti esterni, ciò che i genitori vedrebbero di malocchio se lo sapessero, non è simpatico: per questo desidero che noi ci si incontri soli non più di una volta al mese, non come ora quasi ogni giorno, e vorrei che in genere si lasciasse passare un po’ di tempo sulle nostre faccende. — Passare un po’ di tempo ! Ma tu puoi e vuoi lasciar andare così le cose? — Perché no? Sono tanto importanti? Se è possibile che arriviamo ad unirci, è possibile anche che no ! E il mondo non cascherà, forse noi ci dimenticheremo, giac­ ché siamo ancora giovani; ad ogni modo non mi pare si debba farne gran caso ! La bella diciassettenne pronunciò questo discorso con apparente aridità e freddezza, mentre riafferrava i remi e s’avviava verso la riva ; Karl la seguì dappresso, preoc­ cupato e spaventato, ma anche irritato dalle parole di Hermine. Essa da un lato si compiaceva di sapere in affanno il ragazzaccio, ma dall’altro era anche preoccupa­ ta del loro colloquio e soprattutto del distacco di quattro settimane che si era imposto. Egli riuscì quindi alla fine a sorprenderla e ad accostare di colpo la propria barca alla sua. In un attimo tenne fra le braccia il suo busto snello e se la attirò sul petto, in modo che ambedue rimasero a mezzo sospesi sull’acqua profonda, mentre le due barche eran così inclinate che ogni movimento avrebbe potuto provocarne il rovescia­ mento. La fanciulla si sentì appunto per questo indifesa e dovette permettergli che premesse sette o otto baci impetuosi sulle sue labbra. Poi egli la raddrizzò insieme

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alla imbarcazione con mite fermezza; essa ricacciò i ca­ pelli dal volto, afferrò i remi, respirò affannosamente ed esclamò, irata e minacciosa, con le lagrime negli occhi: — Aspetta briccone, che ti tenga sotto la ciabatta ! Dio sa se non ti accorgerai di che cosa vuol dire aver moglie ! Dopo queste parole s’allontanò vogando, rapida e sen­ za voltarsi a guardarlo, in direzione della casa paterna. Karl invece, trionfante e felice, le gridò : — Buona notte signorina Hermine Frymann ! Me li son proprio gustati ! La signora Hediger non aveva però dato una falsa in­ formazione al consorte inducendolo ad uscire. La noti­ zia era stata soltanto da lei tenuta in serbo per buon uso e utilizzata al momento opportuno. Aveva luogo in real­ tà una riunione, quella della società dei sette uomini, ovvero dei sette duri o dei sette impavidi, o anche degli amici della libertà, come si compiacevano di chiamarsi volta a volta. Questo era semplicemente un gruppo di sette vecchi e fidi amici, tutti maestri artigiani, gran pa­ trioti, arrabbiati politicanti ed austeri tiranni domestici sul modello di mastro Hediger. Nati tutti ancora nel se­ colo precedente, avevano assistito, bambini, al tramonto del tempo antico e poi per molti anni alle tempeste e alle doglie per la nascita del nuovo, sinché verso il 1850 tornò il sereno e la Svizzera s’avviò di nuovo verso la concordia e la forza. Alcuni di loro provenivano dalle signorie, cioè dai territori un tempo soggetti ai Confede­ rati, e rammentavano ancora che, quali bimbi di con­ tadini, avevano dovuto inginocchiarsi per la strada al passaggio di una carrozza con i signori della Confedera­ zione accompagnati dall’usciere; altri erano invece in rapporti di parentela con qualche rivoluzionario im­ prigionato o giustiziato: erano insomma tutti pervasi da inestinguibile odio contro ogni aristocrazia, odio che do­ po il tramonto della medesima s’era trasformato in amaro scherno. Quando essa poi più tardi riapparve in veste democratica e in alleanza con i grandi locatori di potere, i preti, scatenando una lunga lotta, all’odio per l’aristo­ crazia si unì quello per le tonache; ed anzi il loro spirito

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polemico dovette volgersi non soltanto contro signori e sacerdoti, ma contro dei loro pari, contro intere masse so­ vreccitate, il che impose loro, ed in tarda età, un’inattesa e complessa prova di forza che seppero tuttavia superare con valore. I sette uomini erano tutt’altro che trascurabili; in ogni assemblea popolare o associazione contribuivano al for­ marsi di un saldo nucleo, erano instancabilmente all’ope­ ra, pronti notte e giorno ad assumersi, per il partito, in­ carichi che non potevano essere affidati a persone pagate, ma soltanto a fidatissimi. Spesso venivano consultati dai capipartito e onorati della massima confidenza, e quando si trattava di sacrifici i sette uomini erano i primi a dare il loro obolo. In cambio di tutto questo non chiedevano altra ricompensa che la vittoria della loro causa e l’ap­ provazione della loro coscienza; mai uno di loro si fece avanti o aspirò ad un privilegio o ad una carica, ma con­ sideravano massimo onore dare una rapida stretta di ma­ no ad un «celebre confederato», che però doveva essere di buona stoffa, «dalle reni provate», come solevan dire. I sette galantuomini da decenni si erano abituati l’uno all’altro, si chiamavano solo per nome e avevan finito per formare una società ben chiusa, senza altro regola­ mento fuorché quello che essi recavano in cuore. Si in­ contravano due volte la settimana, e precisamente, dato che nel piccolo gruppo v’erano due osti, alternatamente dall’uno o dall’altro di questi. Si trovavano a proprio agio e se la spassavano allegramente : se nelle grandi as­ semblee eran taciturni e seri, quando eran soli eran vispi e rumorosi; nessuno si prendeva soggezione, nessuno si faceva riguardi ; talvolta parlavan tutti assieme, tal altra ascoltavano reverenti uno di loro, a seconda dell’umore. Oggetto dei loro discorsi erano non soltanto la politica, ma anche le loro sorti domestiche. Se uno aveva crucci ed affanni, esponeva alla compagnia quel che lo agitava e la faccenda veniva discussa, e trovarvi rimedio diven­ tava cura comune; se uno poi si sentiva offeso da un al­ tro, portava la cosa davanti ai sette uomini, si teneva giudizio, e chi era riconosciuto in torto subiva un’ammo­

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nizione. Così facendo erano volta a volta molto appas­ sionati, o molto tranquilli e dignitosi, o anche ironici. Già due volte s’erano insinuati fra loro dei traditori, dei soggetti indegni, ma, scoperti, eran stati condannati ed espulsi con solenne procedimento, cioè eran stati di fatto energicamente presi a pugni dai bellicosi vecchietti. Se una grave disgrazia colpiva il partito cui erano devoti, ne eran commossi più che da una sventura domestica e si rifugiavano nella solitudine a versare amare lagrime. Il più facondo e il più agiato fra loro era Frymann, il carpentiere, un vero Creso con una casa ben fornita. Il meno abbiente era Hediger, il sarto, che però quanto a eloquenza veniva subito dopo Frymann. Aveva perdu­ to già da un pezzo i migliori clienti per eccesso di passio­ nalità politica, ciò malgrado era riuscito ad educare bene i suoi figli, ma non possedeva ormai più nulla. Gli altri cinque eran persone a posto, che ascoltavano più che non parlassero, quando si trattava di argomenti gravi, ma che in compenso in casa loro e con i vicini lasciavano udire tanto più pretenziosi discorsi. Quel giorno c’eran davvero trattative importanti, sulle quali Frymann e Hediger s’erano preventivamente con­ sultati. Il tempo dell’agitazione, della lotta e degli sforzi politici era finito per quei galantuomini e le loro lunghe esperienze sembravano definitivamente concluse con le posizioni raggiunte. Tutto è bene quel che finisce bene, potevan dire, ed essi si sentivano invero vittoriosi e sod­ disfatti. Volevano quindi concedersi, al loro tramonto politico, un piacere finale, cioè partecipare tutti e sette riuniti alle feste federali di tiro a segno che dovevano aver luogo la seguente estate ad Aarau, la prima adunata del genere dopo l’introduzione del nuovo Statuto federale del 1848. Eran quasi tutti già da tempo membri della Socie­ tà svizzera di tiro a segno e possedevano tutti, tranne Hediger che si accontentava del suo fucile di vecchio modello, una buona arma, colla quale anni prima s’eran dilettati al tiro. Avevano pure già partecipato singolar­ mente, qualche domenica, a feste simili, così che la cosa non aveva nulla di particolare. Ma alcuni eran stati

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còlti da un desiderio di pompa esteriore, e si trattava nientemeno che di presentarsi ad Aarau con una propria bandiera e di offrire anche un dono cospicuo. Dopo che la piccola brigata ebbe tracannato alcuni bicchieri e si fu così messa di buon umore, Frymann e Hediger misero fuori la proposta, la quale a tutta prima sorprese quegli uomini modesti, che per alcuni momenti rimasero indecisi ed esitanti. Non sembrava loro neces­ sario far tanto sfoggio e partire in corteo con un vessillo. Avevano però da un pezzo disimparato a ricusare il loro consenso ad un nuovo slancio o a un’ardita impresa; perciò non si opposero più a lungo quando gli oratori spiegarono che la bandiera doveva essere un simbolo e il corteo un trionfo della fedele amicizia, e che l’appari­ zione dei sette vecchi campioni con il vessillo dell’amici­ zia sarebbe certamente riuscito per tutti un grande spasso. Bastava preparare una bandierina di seta verde, con lo stemma elvetico ed una buona dicitura. Esaurito l’argomento della bandiera, venne quello del dono da offrire; il valore ne fu deciso abbastanza in fretta : avrebbe dovuto costare duecento franchi di vecchia moneta. Ma la scelta dell’oggetto provocò una discus­ sione prolungata e piuttosto complicata. Frymann aprì l’inchiesta invitando Kuser, l’argentiere, a dire il suo pa­ rere quale uomo di buon gusto. Kuser sorbì pacatamente un sorso, tossicchiò, ponderò e poi disse che aveva ap­ punto in bottega una bella coppa d’argento, che, se gli amici credevano, poteva proprio raccomandare e cedere al prezzo più ridotto. Seguì un silenzio generale, inter­ rotto soltanto da brevi osservazioni, come «Perché no?», oppure: «Ma sì!». Poi Hediger chiese se qualcuno vo­ leva presentare altra proposta, al che Syfrig, l’abilis­ simo fabbro, bevve pure un sorso, si fece animo e disse: — Se gli amici non hanno nulla in contrario, voglio dire anch’io il mio pensiero. Io ho forgiato un aratro molto ingegnoso tutto di ferro, che, come ben sapete, fu lodato all’esposizione agricola. Io sarei disposto a cedere per duecento franchi quell’oggetto di fine fattura, ben­ ché la somma non compensi neppure il lavoro; ma a me

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pare che questo strumento, simbolo dell’agricoltura, co­ stituirebbe un premio davvero popolare. Non voglio pe­ rò con questo aver detto nulla contro l’altra proposta! Nel frattempo anche Bürgi, l’astuto falegname, aveva considerato la questione e, mentre si era ristabilito il si­ lenzio e già l’argentiere faceva la faccia lunga, sorse a dire quanto segue: — Anche a me, cari amici, è venuta un’idea che forse riuscirebbe molto divertente. Parecchio tempo fa ho co­ struito, per ordinazione di una coppia di sposi forestieri, un letto matrimoniale a baldacchino di splendido noce ad intarsi; quei due venivano ogni giorno in bottega a misurarlo per il lungo e per il largo, tubando in presenza degli operai e dei garzoni, senza paura dei loro scherzi e delle loro allusioni. Ma quando avrebbero dovuto giun­ ger le nozze, baruffarono all’improvviso come cane e gatto, nessuno mai seppe perché, l’uno andò di qui e l’altra di là ed il mio letto mi rimase sul gobbo. Il suo prezzo da amici sarebbe di centottanta franchi, ma io son pronto a perderne ottanta e darvelo per cento. Noi vi aggiungiamo elastico e materassi e lo rizziamo poi nel salone dei premi con la dicitura: «Ad un confederato scapolo, per incoraggiamento!». Che ne dite? Allegre risate coronarono la proposta: soltanto l’ar­ gentiere e il fabbro ebbero un sorriso freddo e agrodolce ; ma subito s’alzò a parlare Pfister, l’oste, con la consueta schiettezza e la sua voce forte : — Se la cosa va così, che ognuno porta al mercato la sua merce, io avrei un’idea che vale più di tutte le propo­ ste precedenti. Serbo in cantina, ben conservata, una botte di vin rosso del ’34, cosiddetto «Sangue svizzero», com­ prato da me in persona a Basilea oltre dodici anni fa. Data la vostra sobrietà e discrezione, non ho mai osato spillarlo, però è un capitale morto di duecento franchi, il prezzo che mi è costato, dato che son giusti cento boccali. Io vi cedo il vino a prezzo d’acquisto e vi conteggio po­ chissimo la botticella, già contento di guadagnar spazio in cantina per una merce più corrente, e non son più io se con un regalo di questo genere non ci facciamo onore !

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Non era ancor finito questo discorso, durante il quale i tre altri proponenti già avevan borbottato, che Erismann, il secondo oste, prese la parola e disse: — Se le cose vanno così, non voglio stare indietro e dichiaro di avere quel che mi pare il meglio per i nostri scopi, e precisamente la mia giovane vaccherella da latte di pura razza dell’Oberland, che vorrei appunto ven­ dere, se mi si presentasse un buon acquirente. Appen­ dete al collo di quella splendida bestia una campana, legatele uno sgabello da mungitore fra le corna, adorna­ tela con dei fiori. .. — E mettetela sotto una campana di vetro nel salone dei premi ! — lo interruppe irritato Pfister, facendo scop­ piare uno di quei temporali che talvolta perturbavano le sedute dei sette ostinati, per dar luogo però sempre ad un sole anche più splendente. Tutti parlavano insieme, ciascuno difendendo la propria proposta, attaccando le proposte altrui ed accusandosi di sentimenti egoistici. Essi erano infatti avvezzi a dirsi in faccia quel che pensa­ vano, e dominavano le situazioni con aperta verità in­ vece che con ipocrisia dissimulatrice, come suol fare certa falsa educazione. Essendo scoppiato un fracasso infernale, Hediger fece tintinnare con grande energia il suo bicchiere e li apo­ strofò ad alta voce: — Amici ! Non eccitatevi, ma vediamo piuttosto di arrivare tranquillamente ad una meta ! Vengon dunque proposti: una coppa, un aratro, un letto matrimoniale con baldacchino già montato, una botte di vino ed una mucca. Permettetemi di considerare più dappresso le vo­ stre proposte. La tua coppa, caro Ruedi, vecchio fondo di bottega, la conosco benone, perché da anni sta dietro la tua vetrina e credo persino che sia stato il tuo lavoro per diventare mastro d’arte. Tuttavia la sua forma fuori moda non ci permette di sceglierla e di farla passare per un premio nuovo. Il tuo aratro, Chüeri Syfrig, non mi pare debba essere un’invenzione molto indovinata, altrimenti nel corso di tre anni lo avresti certo venduto; e noi vogliamo invece che il vincitore possa sinceramente

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compiacersi del premio che gli toccherà. Il tuo letto a baldacchino, Heinrich, è senz’altro una trovata nuova e divertente, che certo darebbe luogo a non pochi motti popolari. Ma per attuare convenientemente questo tuo progetto, bisognerebbe aggiungervi coperte e lenzuola molto fini, e con ciò si supererebbe di troppo la somma stabilita per sole sette teste. Il tuo «Sangue svizzero», Lienert Pfister, è buono, e diventerà ancor migliore se gli assegni un prezzo più basso, e lo spillerai per noi, da bersi nelle nostre ricorrenze solenni ! Della tua mucca non si può dir altro male, Felix Erismann, se non che quando la mungono rovescia sempre la secchia. Per que­ sto vuoi venderla, essendo davvero quello un vizio spia­ cevole. Ma pensa, sarebbe bello che un bravo contadino vincesse la bestia, la portasse felice a casa a sua moglie, quella la mungesse felice, per veder poi sparso a terra il buon latte spumante? Immaginati un po’ la rabbia, l’ir­ ritazione e la delusione della buona donna e l’imbarazzo del buon tiratore scelto quando la scena si ripetesse due o tre volte! Amici cari, non abbiatevela a male, ma la verità va detta: tutte le nostre proposte hanno il difetto comune di aver sconsideratamente e precipitosamente fatto oggetto di guadagno e di calcolo l’onore della pa­ tria. Se anche questo accade mille e mille volte da parte di grandi e di piccini, noi nel nostro gruppo sinora non l’abbiamo mai fatto e continuiamo dunque così! Tutti dunque versino il loro contributo, nella stessa misura, per il premio d’onore, senza alcuna altra finalità, e al­ lora sarà davvero un premio onorevole ! I cinque aspiranti ad un guadagno, che avevano ab­ bassato il capo mortificati, gridarono all’unisono.· — Ben detto ! Chäpper ha parlato bene ! — e lo invi­ tarono a far lui la sua proposta. Ma intervenne Frymann dicendo : — Quale premio, mi pare che la cosa più adatta sia pur sempre una coppa d’argento. Essa conserva il suo valore, non si sciupa e rimane nella famiglia un bel ricordo di giorni lieti e di valorosi uomini. Una casa ove si conservi un boccale d’argento non può mai andar del

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tutto in rovina, e chi può dire se talvolta non si riesce a salvare anche molte altre cose per amore di simile ricor­ do? E non si dà così occasione all’arte di portar varietà, con forme sempre nuove e leggiadre, nella massa dei re­ cipienti, esercitando la propria inventiva e recando un raggio di bellezza sin nella vallata più remota, mentre a poco a poco si accumula nel paese un vero tesoro di tali coppe d’onore, elette per forma e per metallo? E come è giusto che tale tesoro, sparso per tutto il paese, non possa venir adibito alla volgare utilità dell’uso quo­ tidiano, ma con le sue pure forme ci ponga di continuo sott’occhio qualcosa di superiore, cercando di eternare il pensiero della patria intera e il sole di giorni trascorsi idealmente! Via dunque le cianfrusaglie da fiera che cominciano ad accumularsi nei nostri saloni da premi, preda delle tarme e dell’uso più basso ! Rimaniamo fede­ li alle antiche e spettabili coppe ! In verità, se io vivessi in un’epoca in cui le sorti svizzere volgessero alla loro fine, non saprei escogitare alcuna più edificante cerimo­ nia finale che radunare coppe e boccali di tutte le cor­ porazioni, delle società e dei singoli cittadini, di qualun­ que forma e natura, a migliaia e migliaia, con tutto il loro splendore di tempi passati, per alzare l’ultimo brin­ disi alla patria morente ... — Ma taci, ospite malaugurato ! Che orrendi pensieri hai mai? — protestarono i duri ed impavidi rabbrivi­ dendo. Ma Frymann continuò: — Come all’uomo si conviene in piena virilità volger di tanto in tanto il pensiero alla morte, cosi egli dovreb­ be in ore di meditazione considerare la fine ineluttabile della sua patria, per amarne tanto più fervidamente il presente, giacché tutto su questa terra è perituro e sog­ getto a mutare. Non son forse perite nazioni ben più grandi della nostra? O vorreste trascinare un giorno re­ sistenza dell’ebreo errante, che non riesce a morire, ser­ vo di tutti i popoli nati da poco, lui che ha seppellito Egiziani, Greci e Romani? No! Un popolo conscio di dovere un giorno sparire utilizza tanto più intensamente i suoi giorni, vive tanto più a lungo e lascia dietro di sé

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gloriosa memoria ; poiché non si concederà tregua sinché non avrà portato in luce e fatto valere tutte le facoltà che in lui giacciono, proprio come un uomo instancabile che prima di morire dispone delle cose sue. Quando la missione di un popolo è assolta, non contano pochi giorni di più o di meno nella sua durata: già alle porte del tempo stanno in attesa altre realtà ! Così debbo con­ fessarvi che ogni anno in una notte insonne o durante passeggiate solitarie io m’abbandono a simili pensieri e cerco di immaginarmi qual sorta di popolo dominerà un giorno fra queste montagne. Ed ogni volta tomo poi al lavoro con raddoppiato zelo, quasi potessi con ciò af­ frettare il lavoro del mio paese, affinché quel popolo fu­ turo calchi un giorno con rispetto le nostre tombe! Ma lasciamo questi pensieri e torniamo al nostro allegro og­ getto ! Io direi di dare ordinazione al nostro mastro ar­ gentiere di una nuova coppa, dalla quale egli ci promet­ terà di non trar profitto alcuno, e di volerla anzi fornire quanto più pregevole possibile. Ci faremo disegnare da un artista uno schizzo che si stacchi un pochino dalle solite forme; ma, dati i mezzi limitati, egli dovrà badar piuttosto alle proporzioni, alla bella linea e all’eleganza dell’insieme che non a ricchi ornamenti, e mastro Kaiser ci darà un lavoro solido e ben eseguito ! La proposta fu accettata e la discussione chiusa. Ma Frymann riprese tosto la parola per dire: — Ora che abbiam sbrigato la questione generale, egre­ gi amici, permettetemi di esporre una faccenda parti­ colare e di denunciare una cosa, che voi contribuirete tutti, secondo la vecchia consuetudine, ad accomodare amichevolmente. Sapete che il nostro caro compagno Chäpper Hediger ha messo al mondo quattro bei pezzi di giovanotti, i quali con la loro fretta di sposarsi costi­ tuiscono il pericolo del paese. Tre di essi hanno anche già moglie e figli, benché il maggiore non abbia ancor com­ piuto i ventisette anni. Resta solo il minore, di appena vent’anni, e che cosa va a combinare? Perseguita la mia unica figliola e le fa girar la testa ! In tal modo i male­ detti demoni del matrimonio si sono insinuati nella cer­

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chia dell’intima amicizia e minacciano di perturbarla! Anche a prescindere dalla eccessiva giovinezza dei due ragazzi, confesso apertamente che tali nozze van contro i miei desideri e le mie intenzioni. Io ho un’azienda im­ portante e un cospicuo patrimonio; quando verrà il mo­ mento, cercherò quindi di avere un genero che sia uomo d’affari, che abbia un adeguato capitale e lo apporti alla ditta, continuando i grandi lavori edilizi da me proget­ tati, poiché ben sapete che ho comprato vasti lotti di terreno nella convinzione che Zurigo si amplierà note­ volmente. Tuo figlio invece è uno scrivano governativo, caro Chäpper, e non possiede altro che il suo modesto stipendio, e, se anche farà carriera, esso non aumenterà molto, e la sua situazione è determinata una volta per sem­ pre. Se resterà impiegato, non gli mancherà nulla, ma una moglie ricca non fa per lui; un impiegato ricco è un controsenso, uno che ruba il pan di bocca ad un altro: ma io d’altra parte non spreco il mio denaro per mante­ nere uno in ozio e neppure per fare esperimenti con un inesperto ! A ciò si aggiunga che contraddice al mio sen­ timento trasformare il mio antico e provato rapporto d’amicizia con Chäpper in una parentela. Come? Do­ vremmo impicciarci con i fastidi familiari e con una re­ ciproca dipendenza? No, compagni: rimaniamo ben stretti insieme sino alla morte, ma indipendenti, liberi e spensierati nelle nostre azioni, senza che c’entrino pa­ rentadi fra noi! Io ti invito dunque, caro Chäpper, a dichiarare qui in seno all’amicizia che mi appoggerai nelle mie intenzioni e ti opporrai ai propositi di tuo figlio ! Senza rancore: noi ci conosciamo tutti! — Ci conosciamo tutti, hai detto bene ! — ripetè He­ diger solennemente, dopo aver aspirato una buona presa di tabacco — Voi tutti sapete come sia stato disgraziato coi miei quattro figli, benché sian ragazzi svegli e labo­ riosi. Feci studiare loro tutto quello che avrei desiderato imparare io stesso. Ciascuno sapeva un po’ di lingue, scriveva buoni componimenti, faceva i conti a meraviglia e possedeva nel resto cognizioni sufficienti a non ricader mai più nella assoluta ignoranza. Sia ringraziato Iddio,

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mi dicevo, che oggigiorno siamo in grado di dare ai no­ stri figli una educazione da cittadini e che a loro non si potranno più dare a bere tante storie. Feci poi appren­ dere a ciascuno il mestiere che si era prescelto. Ma che cosa accadde? Appena ebbero in tasca il diploma di ar­ tigiano e si furon guardati un poco attorno, il martello sembrò loro pesante: si credettero troppo intelligenti per un lavoro manuale e cominciarono a correr dietro ai posti da tavolino. Sa il diavolo come ci riuscirono, fatto si è che andarono a ruba ! Insomma, pare che faccian buona prova. Uno è alla posta, due sono impiegati nelle società ferroviarie e il quarto sgobba in una cancelleria e dichiara di essere impiegato amministrativo. A me in fondo poco importa ! Chi non vuol esser maestro, rimanga dipendente, e abbia padroni per tutta la sua vita! Ma, dovendo maneggiar denaro, tutti i giovanotti furon co­ stretti a versar cauzioni; io non ho capitali, quindi siete stati voi, l’un dopo l’altro, a rendervi garanti per i miei ragazzi, con cifre che messe insieme arrivano ai quaran­ tamila franchi: per quello eran buoni i vecchi artigiani, gli amici del padre ! Ma come credete che mi senta io? Che figura farei di fronte a voi, se soltanto uno dei quat­ tro una volta commettesse una sciocchezza, una legge­ rezza, un’imprudenza? — Smettila ! — lo interruppero i vecchi — togliti di mente simili pazzie ! Se i ragazzi non fossero stati am­ modo, non avremmo fatto malleveria, credi pure ! — Lo so ! — rispose Hediger — ma l’anno è lungo, e quando è passato ne segue un altro. Vi assicuro che ogni­ qualvolta un figliolo entra in casa mia fumando un sigaro un po’ fine, prendo uno spavento e penso: “Non si darà al lusso e alla smania di piaceri?”. Se arriva una delle giovani mogli con un abito nuovo, temo che metta il marito in difficoltà spingendolo a spese eccessive e a debiti ; se vedo che uno parla per strada con una persona indebitata, dico fra me: “Non lo indurrà a far qualche imprudenza?”. Insomma, capite bene che mi sento già abbastanza umiliato e dipendente e son ben lungi dal volermi mettere in stato di schiavitù verso un ricco suo­

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cero di mio figlio, dal voler scambiare un vecchio amico con un padrone e protettore ! Perché mai del resto dovrei desideraré che quello sbruffone di ragazzo si senta ricco e sicuro e mi venga a girare sotto il naso con l’arroganza di un arrivato, lui che non ha alcuna esperienza? Do­ vrei collaborare a chiudergli la scuola della vita, in modo che diventi già nei suoi giovani anni un insensibile, un tanghero e un villanaccio, che non sa neppure come cre­ sce il grano, ma si attribuisce chissà quali meriti? No, no, sta’ tranquillo, amico ! Qua la mano ! Niente paren­ tado, niente matrimoni ! I due vecchi si strinsero la mano, mentre gli altri ride­ vano e Bürgi commentava: — Chi crederebbe mai che voi due, dopo aver detto in argomenti patriottici cose tanto sagge, ed averci data una così giusta lavata di capo, ora di colpo possiate metter fuori tante sciocchezze? Sia lodato Iddio! Cosi ho al­ meno la probabilità di vendere il mio letto matrimo­ niale, e propongo che noi se ne faccia dono alla giovane coppia per le nozze ! — Accettato ! — esclamarono gli altri quattro, e l’oste Pfister aggiunse: — Ed io esigo che si beva la mia botte di «Sangue svizzero» alla festa di nozze, alla quale tutti assisteremo ! — Ed io la pagherò, se faremo quella festa ! — gridò Frymann arrabbiato — Ma se tutto va in fumo, come so con certezza, pagherete voi la botte e la berremo durante le nostre sedute sino a vuotarla ! — La scommessa è accettata ! — fecero eco gli altri, ma Frymann e Hediger diedero pugni sulla tavola ri­ petendo : — Niente parentado ! Vogliam restare buoni amici in­ dipendenti e non diventar consuoceri ! Con tale dichiarazione finalmente si chiuse la memora­ bile seduta e gli amici della libertà si avviarono ritti ed intrepidi alle rispettive case.

II giorno seguente, subito dopo il pranzo, appena si furono allontanati i lavoranti, Hediger comunicò a suo

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figlio e a sua moglie la solenne decisione presa il giorno precedente di non tollerare per l’avvenire alcuna rela­ zione fra Karl e la figlia di Frymann. La signora Hediger, la «fuciliera», fu còlta a queste parole da tale sma­ nia di ridere che l’ultimo sorso di vino che stava appunto bevendo le andò di traverso causandole una violenta tosse. — Che c’è mai da ridere? — domandò irritato il ma­ rito, e sua moglie gli rispose: — Mi vien da ridere pensando che il proverbio «A ciascuno il suo mestiere ! » converrebbe anche alla vostra società. Perché non restate nella politica, invece di intri­ garvi con le storie d’amore? — Tu ridi come una donna e parli anche da donna ! — replicò Hediger con molta serietà — ma è proprio nella famiglia che comincia la vera politica. Sicuro che siamo amici politici, ma per rimanerlo non vogliamo mettere a soqquadro le famiglie e introdurre il comuniSmo con la ricchezza di uno di noi. Io son povero e Frymann è ricco e così deve restare ; tanto più ci dà gioia la nostra eguaglianza interiore. Dovrei forse ora con un matrimo­ nio ficcare il naso in casa sua e nei suoi affari e far sor­ gere passioni e complicazioni? Dio me ne guardi ! — Che strani principi ! — ribatte la moglie — Bella amicizia, se un amico non dà la figlia ad un figlio dell’a­ mico ! E da quando in qua è comuniSmo portare il be­ nessere in una famiglia con un buon matrimonio? È forse politica riprovevole che un figlio fortunato riesca a conquistarsi una ragazza bella e ricca, che arrivi così ad essere agiato e stimato, ad aiutare i suoi vecchi genitori ed i suoi fratelli in modo che anch’essi abbian fortuna? Dove infatti è entrata una volta la buona sorte, facil­ mente si diffonde, e, senza che l’uno nulla ci rimetta, anche gli altri, all’ombra di quel destino, posson gettare i loro ami. Non che io aspiri ad una vita nel paese di Bengodi ! Ma ci sono molti casi in cui un uomo diventato ricco può venir consultato dignitosamente dai suoi pa­ renti poveri. Noi vecchi non ne avremo bisogno, ma po­ trebbe giungere il momento in cui l’uno o l’altro dei fra­ telli di Karl sentisse il desiderio di tentare una buona

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impresa, un mutamento di carriera, se qualcuno ne for­ nisse loro i mezzi. L’uno o l’altro poi avranno un figlio intelligente, in grado di salire, se gli si offrisse il modo di studiare. Uno potrebbe forse diventare un medico apprezzato, l’altro un avvocato stimato o un giudice, un terzo un ingegnere o un artista, e a questi, una volta anda­ ti così avanti, sarebbe poi facile fare un buon matrimo­ nio e fondare una famiglia stimata, numerosa e felice. E che cosa sarebbe più umano che l’aiuto di uno zio ricco, pronto ad aprire, senza danneggiarsi, le vie del mondo ai suoi svegli ma poveri parenti? Quante volte accade che, in grazia di un solo fortunato, anche tutti gli altri in una famiglia acchiappino un pezzetto di fortuna e mettan senno? E a tutto questo voi volete mettere il tappo, chiudendo subito la sorgente della felicità? Hediger rise irritato ed esclamò: — Castelli in aria ! Tu parli proprio come la contadina che aveva il vaso di latte in testa ! Ma io vedo un ben al­ tro quadro dell’arricchito fra parenti poveri! Egli non si lascia certo mancar nulla ed ha sempre mille idee e desideri che lo inducono a nuove spese. Quando invece vengon da lui i suoi genitori o fratelli, subito siede im­ bronciato e con aria d’importanza davanti al suo libro mastro, ficca la penna in bocca di traverso e sospira: «Ringraziate Iddio di non aver la noia ed il peso di amministrare simile patrimonio ! Preferirei sorvegliare un gregge di capre che un branco di debitori lenti e mali­ gni ! Mai che entrino incassi, tutti cercano di cavarsela e di svignarsela ! Non si ha pace né giorno né notte se non si vuol esser grossolanamente ingannati ! Se poi una volta si prende per la collottola un briccone, quello leva tali strida, che bisogna lasciarlo scappare in fretta per non passare per strozzino o per mostro ! Bisogna leggere tutte le gazzette ufficiali, tutti gli annunci dei giorni fissati per le udienze, i bandi e le inserzioni, per non lasciarsi sfug­ gire un ricorso e non dimenticare un termine ! E mai v’è denaro in cassa ! Se uno restituisce un prestito, va prima a mostrar sul tavolo di tutte le osterie il suo sacchetto di denaro, vantandosi del pagamento e, prima che quello

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sia uscito di casa, ne son già entrati tre a pretendere quella somma, ed uno persino senza pegno ! E non par­ liamo delle pretese del comune, delle istituzioni benefiche, delle imprese pubbliche, e delle sottoscrizioni d’ogni ge­ nere . . . impossibile ricusare, la posizione lo esige ; ma vi assicuro che spesso c’è da perderci la testa ! Quest’anno sono proprio in difficoltà: ho fatto abbellire il mio giar­ dino e ho costruito un balcone che mia moglie deside­ rava da un pezzo, ed ora piovono i conti ! A tenere un cavallo da sella, come mi ha ripetutamente consigliato il medico, non posso neppur pensare, perché sempre vengon di mezzo nuove spese. Vedete per esempio: mi son fatto costruire un nuovo piccolo torchio di fabbricazione moderna per pigiare la mia uva moscata che coltivo a spalliera ... ma che il diavolo mi pigli se lo potrò pagare quest’anno! Per fortuna che ho ancora credito!». Così parla e intimidisce, pur mischiandovi le sue crudeli van­ terie, i fratelli poveri ed il suo vecchio padre, tanto che essi tacciono i loro desideri e se ne vanno dopo avere am­ mirato il giardino e il balcone e il torchio di nuovo tipo. Se ne vanno da estranei a cercare un aiuto e preferiscon pagare alti interessi pur di non udir più tante chiacchiere. I suoi figli son vestiti con eleganza e con lusso, e cammi­ nano elastici per le strade; portano ai loro poveri cuginetti e cuginette dei piccoli regali e li invitano due volte l’anno a pranzo, il che è gran divertimento per i bambini ricchi; ma appena gli ospiti superano la timidezza e diventan rumorosi, si riempion loro le tasche di mele e li si rimandano a casa. E a casa essi raccontano quel che hanno veduto ed hanno mangiato e tutto è ragion di critica, perché la rabbia e l’invidia dominano le cognate povere, che tuttavia fan la corte alla parente ricca e ne lodano il lusso con grande eloquenza. Ma alla fine capita una disgrazia al padre o ai fratelli, ed allora il ricco è pur costretto, volente o nolente, per timor dei pettegolezzi, a intervenire. Lo fa anche senza lasciarsi troppo pregare, ma con ciò è per sempre rotto il vincolo dell’amore fra­ terno su un piano di parità. I fratelli ed i loro figli diven­ tano i servi e sudditi di un signore ; per anni e anni subi-

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scon prediche e rimbrotti, debbon vestirsi di sacco e man­ giar pane nero per riparare a una piccola parte di quel danno e i bambini vengono collocati in orfanotrofi o in scuole dei poveri, e appena son forti abbastanza debbon lavorare nella casa del ricco parente e sedere in fondo alla sua tavola, senza mai aprir bocca. — Ma che storie mi racconti ! — protestò la moglie — E tu vuoi proprio credere che tuo figlio sia un simile mascalzone? Ed è proprio detto che ai suoi fratelli tocchi una tale disgrazia per cui diventino suoi servi? A loro che sino ad oggi se la son sempre cavata bene? No dav­ vero, a onore del nostro sangue io penso che un matrimo­ nio ricco non ci farebbe impazzire a tal punto, ma che anzi sarebbero confermate le mie buone previsioni ! — Io non voglio asserire — replicò Hediger — che le cose si svolgerebbero esattamente così; però anche da noi si introdurrebbe l’ineguaglianza prima esteriore e poi interiore. Chi aspira alla ricchezza, tende a divenir di­ verso dai suoi simili.. . — Storie ! — lo interruppe la donna, mentre toglieva la tovaglia e la scuoteva fuor della finestra — forse che Frymann, il padrone di tutti i beni di cui stiam discu­ tendo, è diventato diverso da voi? Non siete ancora un cuore e un’anima sola e non siete sempre insieme? — Quella è un’altra faccenda ! — esclamò il marito — una cosa del tutto differente ! Lui non ha conquistato i suoi beni con l’astuzia e non li ha vinti alla lotteria, ma ha guadagnato con fatica, in quarant’anni, tallero su tallero. E poi noi due non siamo fratelli, non siamo legati, e così vogliamo anche restare per l’avvenire, qui sta il punto ! E per di più lui non è come tutti gli altri, è uno dei sette duri ed impavidi ! Ma non consideriamo sempre soltanto questi meschini rapporti privati ! Per for­ tuna non ci sono tra noi persone di inaudita ricchezza ed il benessere è abbastanza suddiviso; ma lascia che spuntino uomini forniti di molti milioni e pieni di ambi­ zioni politiche, e vedrai che pasticci combineranno ! C’è per esempio il noto re dei filatori, che ha già di fatto pa­ recchi milioni, e gli rimproverano di essere un cattivo

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cittadino ed uno spilorcio perché non si cura della cosa pubblica. Al contrario : è un buon cittadino che lascia in pace gli altri come sempre e pensa a se stesso e vive come tutti gli altri. Fa’ però che questo bel tipo sia un genio po­ litico avido di dominio, supponi che abbia un poco di cor­ tesia, di compiacenza per il lusso e per la pompa teatrale, fagli erigere palazzi e istituti di utilità pubblica, e vedrai poi che danni cagionerà alla vita sociale, come rovinerà il carattere del popolo ! Verrà tempo in cui nel nostro paese, al pari che negli altri, si accumuleranno grandi masse di denaro non conquistate attivamente col lavoro e col risparmio; allora bisognerà mostrare i denti al dia­ volo; allora si vedrà se la nostra bandiera è di tessuto e di colore resistente! Insomma, io non vedo perché uno dei miei figli debba aspirare a beni altrui senza aver fatto nulla per meritarseli. Questo è un imbroglio come un altro ! — È un imbroglio vecchio come il mondo — disse ri­ dendo la moglie — che due voglian sposarsi perché si piacciono ! E voi con tutte le vostre parole rigide e solenni non cambierete nulla ! Del resto nel giuoco lo sciocco sei tu solo, perché mastro Frymann cerca saggiamente di impedire che i tuoi figlioli diventino eguali ai suoi. I ragazzi però avranno pure la loro politica e l’attueranno, se la faccenda è seria, il che io non so davvero. — Facciano pure: questo è affar loro, — disse Hedi­ ger — affar mio rimane non favorirli e ricusare il mio consenso sino a che Karl è minorenne. Con tale dichiarazione diplomatica e con l’ultimo nu­ mero del «Repubblicano» si ritirò nel suo studiolo. La signora Hediger da parte sua avrebbe voluto raggiungere il figlio e soddisfare la propria curiosità, ma solo allora s’avvide che quello se l’era svignata, sembrandogli super­ flua tutta la discussione e specialmente vergognandosi di parlare delle sue faccende amorose coi genitori. Quella sera salì invece più presto in barca e vogò verso il luogo in cui era stato già tante sere. Cantò la sua can­ zonetta ben due volte e sino all’ultimo verso : ma nessuno si mostrò, così che, dopo aver inutilmente incrociato più

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di un’ora davanti al cantiere, tornò a casa pensoso e de­ presso, persuaso che la sua causa si mettesse male. La stessa sorte gli toccò per quattro o cinque sere di seguito, ed egli rinunciò a inseguire colei che giudicava infedele. Ricordava bensì il proposito di Hermine di volerlo vedere solo ogni quattro settimane, ma lo riteneva un primo passo verso il congedo definitivo, il che lo fece cadere in irosa melanconia. Fu quindi molto contento che comin­ ciasse il periodo delle esercitazioni di tiro per le reclute e si recò prima con un conoscente buon tiratore per pa­ recchi pomeriggi ad un bersaglio, allo scopo di adde­ strarsi un pochino e poter raggiungere, prima di arruolar­ si, quel numero di centri che si esigeva per l’ammissione ai tiratori. Suo padre osservava ironicamente i suoi sforzi e un giorno capitò inaspettatamente al bersaglio per far desistere a tempo il figliolo dalla sua stolta idea, qualora, come supponeva, fosse del tutto inabile. Arrivò per caso proprio nel momento in cui Karl, avendo già mancato una mezza dozzina di colpi, stava facendone invece una serie di buoni. — Non vorrai darmi ad intendere — gli disse stupito — che tu non hai mai sparato: certamente hai sciupato di nascosto non pochi franchi, è chiaro ! — Di nascosto infatti ho già sparato, ma senza spese. E lo sapete dove, padre? — Lo dicevo bene ! — Già da ragazzo son stato spesso a veder tirare e ho sempre ascoltato quel che vi si diceva e già da anni ne avevo gran smania, tanto da sognarne, e quand’ero a let­ to per ore e ore tenevo il fucile e sparavo centinaia di colpi bene aggiustati. — Benissimo ! Allora in avvenire saran consegnate a letto compagnie intere di tiratori scelti, con l’ordine di simili esercitazioni mentali: un metodo che risparmia polvere e scarpe ! — La cosa non è tanto ridicola come sembra; — inter­ loquì il tiratore esperto che insegnava a Karl — certo si è che di due tiratori egualmente dotati per la vista e la mano, diventerà maestro quello che è più avvezzo a

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pensare. Ci vuole un tatto innato anche per premere il grilletto, ed anche in questo vi sono, come in tutte le arti, cose singolari. Quanto più frequenti si facevano i centri di Karl tanto più il vecchio Hediger scoteva il capo ; il mondo gli sem­ brava sottosopra giacché egli per conto suo aveva otte­ nuto quel che sapeva ed era diventato quel che era solo con l’assiduità e lo sforzo; persino i suoi princìpi, che la gente solitamente era capace di imbottare con facilità e sveltezza come fossero aringhe, li aveva conquistati stu­ diando tenacemente nella sua cameretta. Non osò però fare alcuna opposizione e se ne andò, non senza l’intima soddisfazione di aver fra i suoi figli un patriottico tira­ tore scelto, e prima di giungere a casa era arrivato anche alla decisione di confezionargli una bella uniforme di panno fino. “Si capisce che la dovrà pagare!” disse a se stesso, ma avrebbe potuto già sapere che non riscoteva mai compensi dai suoi figli e che questi mai aspiravano a restituirgli qualcosa. Il che è molto sano per i genitori e li fa giungere a tarda età, perché possano vedere i loro rampolli sfruttati a loro volta allegramente dai nipoti, come succede di padre in figlio, lasciando tutti in salute e di buon appetito. Karl fu ficcato in caserma per parecchie settimane e si trasformò in un bel soldatino disinvolto che, per quanto fosse innamorato e nulla sapesse della sua bella, atten­ deva attento e sereno al servizio sin che durava il giorno : di notte poi le chiacchiere e gli scherzi dei compagni di camerata non gli lasciavano la possibilità di abbando­ narsi solitario ai suoi pensieri. C’era una dozzina di re­ clute dei diversi distretti che, appena spente le luci e sin verso la mezzanotte, facevano sfoggio e scambio delle loro arti e dei loro scherzi locali. Della città ve ne era, oltre a Karl, soltanto uno, da lui conosciuto solo indiret­ tamente. Era più anziano di alcuni anni e aveva già pre­ stato servizio come fuciliere. Legatore di libri di mestiere, non lavorava più da anni, vivendo invece degli aumen­ tati affìtti di vecchie case, che egli riusciva a comprare con grande abilità e senza capitali. Talvolta ne riven-

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deva una ad un allocco a prezzo esagerato, poi, se il cliente non stava ai termini, intascava la caparra e le somme già versate e riprendeva la casa, tornando ad al­ zare gli affitti. Era anche molto pronto nell’aggiungere con lievi modifiche costruttive ad un appartamento una cameretta o un ripostiglio, esigendo poi un notevole rin­ caro di pigione. Tali modifiche non erano escogitate per l’utile o la comodità, ma erano anzi arbitrarie e vane ; egli conosceva pure i peggiori operai, quelli pronti a fare il lavoro a minor prezzo e in pessimo modo e ne sapeva di­ sporre a suo capriccio. Quando non gli veniva in mente nulla di meglio, faceva imbiancare esteriormente una delle sue vecchie case e tornava a far salir gli affitti. In questo modo godeva un ottimo reddito annuo senza un’ora di lavoro effettivo. Le sue commissioni e i suoi ap­ puntamenti eran presto esauriti; soleva bighellonare, ol­ treché davanti alle sue case, davanti agli edifici altrui, dandosi arie da competente, immischiandosi di tutto e restando il più sciocco uomo del mondo. Per questo ap­ punto passava per un giovane agiato e intelligente, di rapida carriera, e non si lasciava mancar nulla. Gli sem­ brava troppo misero restare soldato di fanteria e aveva tentato di diventare ufficiale. Troppo pigro e ignorante, era stato respinto, ma ora con la sua tenace ostinazione era riuscito a insinuarsi fra i tiratori. Ivi cercava di ottenere la considerazione di tutti, però senza sforzi, in grazia solo del suo borsellino. Invitava continuamente a bere gli istruttori subalterni ed i camera­ ti, sperando con tal goffa generosità di procurarsi libertà e indulgenza. Ottenne però solamente di venir preso a gabbo, sia pur godendo una certa indulgenza, perché presto tutti rinunciarono a cavarne qualcosa di buono e lo iasciaron fare, purché non disturbasse gli altri. Una sola recluta strinse familiarità con lui, facendogli da or­ dinanza, pulendogli le armi e parlando in suo favore, e questi era un giovane figlio di contadini, ricco ma avaro, che moriva dalla voglia di bere e di mangiare appena poteva farlo a spese altrui. Questi credeva di meritarsi il paradiso se riusciva a portare a casa intatti i suoi talleri

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lucenti, potendo dire tuttavia di essersela spassata e di aver bevuto durante il servizio militare al pari di ogni vero tiratore; era del resto allegro e di buon carattere e divertiva il suo men ricco mecenate, cantandogli da­ vanti a una bottiglia, in modo molto strano, con la sua tenue voce in falsetto, le più note canzonette di campa­ gna; era insomma un tirchio di buon umore. A questo modo i due, Ruckstuhl il fannullone e Spörri il contadino avaro, vivevano in beata amicizia. Il primo aveva sem­ pre davanti carne e vino e faceva il comodo suo, l’altro non lo lasciava quasi mai, cantava e gli puliva gli stivali, e non disprezzava neppure i piccoli doni in denaro che quello gli faceva. Intanto gli altri se ne beffavano e stabilirono fra loro che Ruckstuhl non dovesse essere sopportato in nessuna compagnia. Questa decisione non valeva però per il suo famulo, il quale, per quanto strana la cosa possa apparire, era un ottimo tiratore; ora, nell’esercito, chiunque sap­ pia il fatto suo è il benvenuto, anche se poi è un filisteo o uno scapestrato. Karl era sempre il primo a prendersi giuoco di quella coppia; ma una sera gliene passò la voglia, udendo, nella camerata già immersa nel silenzio, Ruckstuhl che, av­ vinazzato, spiegava vanitosamente al proprio seguace che lui era un signore, e che fior di signore!, e che pen­ sava di sposare presto una donna ricca, e cioè la figlia del carpentiere Frymann, che non gli sarebbe certamente sfuggita, dopo tutto quello che aveva notato. La pace di Karl era finita. E il giorno appresso, non appena ebbe un’ora libera, andò a casa dei suoi genitori per spiare che cosa ci fosse di nuovo. Siccome non volle esser lui a cominciare a parlare della faccenda, così non riuscì a sapere nulla di Hermine finché, quando già egli era sul punto di andarsene, la mamma non gli porse i saluti della ragazza. — Dove l’avete vista? — domandò Karl col massimo sangue freddo possibile. — Oh, adesso viene tutti i giorni al mercato con la serva e impara a fare la spesa. Io devo insegnarle, quando

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c’incontriamo ; e allora andiamo insieme per tutto il mer­ cato e facciamo un gran ridere, perché lei è sempre allegra. — Ah, sì? — fece il padre — allora è per questo che qualche volta stai fuori tanto tempo? E anche ti metti a fare la mezzana, ora? È una cosa che sta bene, a una ma­ dre, fare in codesto modo come fai tu e andare intorno con persone che il figlio ha la proibizione di accostare? E portare anche i loro saluti? — Che persone proibite? Io la conosco fin da piccolina quella brava ragazza, l’ho tenuta in braccio e adesso non dovrei avere contatti con lei? E lei non dovrebbe sa­ lutare le persone di casa nostra? E una mamma non do­ vrebbe aiutare i suoi figlioli ad accasarsi? Secondo me è proprio la mamma la persona che ci vuole! Ma non parliamo affatto di cose simili: noi donne non andiamo poi tanto matte per voi omacci maleducati, e, se Hermi­ ne volesse darmi ascolto, non prenderebbe nessuno ! Karl non sentì il discorso sino alla fine, ma se ne andò per conto suo, soddisfatto di avere un saluto senza che si parlasse di novità sospette. Ma si domandò perplesso come mai Hermine fosse tanto allegra, mentre prima non aveva mai riso troppo. Interpretò però la cosa a suo favore, dicendosi ch’era lieta di incontrar sua madre. Decise quindi di tenersi tranquillo, confidando nella ra­ gazza e lasciando che tutto andasse per la sua via. Alcuni giorni dopo Hermine venne con il suo lavoro a maglia a far visita alla signora Hediger e regnò grande cordialità tra chiacchiere e risate, tanto che il sarto, intento nel suo laboratorio a tagliare una redingote di lusso, ne fu quasi disturbato e si chiese qual comare fosse mai venuta. Non ci badò molto, sin che udì alla fine sua moglie aprire l’armadio e far tintinnare le tazze azzurre da caffè. La «fuciliera» infatti preparò un caffè, il mi­ gliore che mai avesse preparato, poi prese una bella man­ ciata di foglie di salvia, le immerse in una pasta d’uovo e le fece poi friggere nel burro bollente, facendo i cosid­ detti sorcetti, perché i gambi delle foglie friggendo prendon l’aspetto di code di topo. Si gonfiarono meraviglio­

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samente, così da colmare il vassoio, ed il loro profumo commisto a quello del caffè salì sino al sarto. Quando poi udì la moglie pestar lo zucchero, divenne enorme­ mente impaziente che lo chiamassero a bere, ma non sa­ rebbe mai sceso un momento prima, essendo del nume­ ro dei duri e degli impavidi. Entrando nel salotto vide sua moglie e la graziosa persona proibita sedute in gran confidenza davanti alla caffettiera, e precisamente alla caffettiera a fiori azzurri, mentre sulla tavola c’erano non soltanto i sorcetti ma anche del burro e il vaso del miele a fiori azzurri, dove però non c’era miele d’api, ma solo uno sciroppo di ciliege, del colore pressappoco degli occhi di Hermine, e per colmo tutto questo accadeva un sa­ bato, nella giornata in cui tutte le massaie rispettabili scopano e lavano, lustrano e fregano e non cucinano buoni bocconi. Hediger considerò la scena con occhio critico e salutò con tono piuttosto austero, ma Hermine fu tanto dolce ed insieme tanto energica che egli ne rimase come inton­ tito e finì per andare in persona a prendere un « bicchie­ re di vino» in cantina, e proprio di quello della piccola botte. Hermine ricambiò la cortesia osservando che biso­ gnava metter da parte per Karl un piatto pieno di sorcetti, poiché in caserma non aveva certo da scialare. Prese il suo piatto e dal vassoio pescò per la coda, coi suoi ditini affusolati, i topini meglio riusciti, e ne prese tanti che la madre finì per gridare che erano abbastanza. Ma la fan­ ciulla si pose davanti il piatto, considerandolo di tanto in tanto con compiacenza, da questo prese ancora qual­ che sorcetto che mangiò dicendo che era ospite di Karl, e riparò coscienziosamente il furto ripescando nel vassoio. Alla fine la scena divenne troppo sospetta per il buon Hediger, che si grattò in testa e, benché avesse un lavoro urgente, infilò in fretta la giacca e corse dal padre della peccatrice. — Dobbiamo star bene attenti! — gli disse — Tua figlia è a casa mia, dalla mia vecchia, accolta con gran pompa, e si fan delle moine che non mi piacciono, e tu sai che le donne ne sanno più del diavolo.

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— Perché non hai mandato via quella stupidella? — disse Frymann irritato. — Mandarla via? Me ne guarderò bene, quella è una strega ! Vieni tu in persona a vedere ! — Sta bene, vengo subito con te e dirò alla ragazza come deve comportarsi! Ma, arrivati a casa, invece della signorina trovarono il tiratore, che aveva slacciato il panciotto verde e gu­ stava con tanto maggior piacere i dolci e il vino dopo che la madre fra altri discorsi gli aveva detto che Her­ mine quella sera sarebbe andata di nuovo a fare una remata sul lago, visto che c’era una così bella luna e che già da quattro settimane non era stata in barca. Karl si recò per tempo sul lago, tanto più che al suono della ritirata, che i trombettieri zurighesi nelle belle notti primaverili ed estive fanno echeggiare con celesti melo­ die, doveva rientrare in caserma. Non era ancora del tutto buio quando giunse davanti al cantiere, ma ahimè !, la barchetta del signor Frymann non si cullava come al solito sulle onde, ma stava capovolta su due cavalletti, a ben dieci passi dalla riva. Era uno scherzo oppure una mossa del padre? pensò, e stava per ripartire dolente e sdegnato, quando dai bo­ schi del monte di Zurigo fece capolino la dorata luna pie­ na e nello stesso tempo da dietro un salice in fiore tutto pieno di gattini gialli sbucò Hermine. — Non sapevo che stavano verniciando la nostra bar­ ca, — sussurrò — bisogna che salga nella tua: portati subito al largo ! — Con un lieve balzo fu da lui e sedette all’altro capo della barca, lunga appena sette piedi. Vogarono al largo, finché furono fuori dagli sguardi in­ discreti e Karl interpellò subito Hermine a proposito di Ruckstuhl, riferendone le parole e le imprese. — Lo so — rispose la fanciulla — che questo signore mi desidera in moglie e che mio padre non è alieno dal consentire; ne ha anzi già parlato. — Ma è così matto da volerti dare a un simile briccone buono a nulla? Dove vanno i suoi solenni princìpi? Hermine alzò le spalle e replicò :

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— Mio padre s’è messo in mente di costruire un buon numero di case e di specularvi : per questo gli piacerebbe avere un genero che lo aiutasse specialmente per quel che riguarda la speculazione e che, occupandosi dell’a­ zienda, sapesse di fare anche l’interesse proprio. Spera in una collaborazione gradevole, come l’avrebbe sognata con un figlio, e gli pare che questo messere sia il genio adatto. Non gli manca niente, dice, fuorché un’attiva vita d’affari per diventare perfetto nella pratica del mestiere. Del suo sciocco modo di vivere mio padre non sa nulla, perché lui non bada a quel che fa la gente e non frequenta che i suoi vecchi amici. Insomma, Ruckstuhl è invitato da noi a pranzo per domani che è domenica, allo scopo di rafforzare la conoscenza, e temo che quello si lancerà subito all’attacco. A quel che ho sentito, quan­ do vuol acchiappare una preda che gli preme sa essere servile ed impudente insieme! — Be’, penserai tu a rispondergli per le rime ! — disse Karl. — Certo che lo farò, ma sarebbe ancor meglio se non venisse affatto, piantando in asso mio padre ! — Sarebbe meglio senza dubbio, ma è un pio deside­ rio: si guarderà bene dal mancare. — Avrei escogitato un piano per vero dire alquanto singolare. Non potresti indurlo oggi o domattina a com­ metter qualche sciocchezza, in modo da esser messo in­ sieme a te agli arresti per ventiquattro o per quarantott’ore? — Sei molto carina a volermi mandare in cella per un paio di giorni, pur di risparmiarti un rifiuto ! Non potresti farlo a miglior mercato? — Perché la nostra coscienza non abbia troppo a sof­ frire, è necessario che tu divida le sue disgrazie ! Quan­ to al rifiuto, io non desidero affatto esser posta nella si­ tuazione di dover dire di no ad un simile individuo: è già sin troppo che vada parlando di me nelle caserme, Non voglio che arrivi più in là. — Hai ragione, tesoro mio ! Tuttavia cercherò di man­ dare solo in gattabuia quel briccone: già mi balena un

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buon piano. Ma non parliamone oltre : è già un peccato aver sciupato il tempo prezioso e la bella luna! Non ti fa pensare a niente? — A che cosa dovrei pensare? — Che non ci siam veduti da quattro settimane e che oggi difficilmente tornerai a riva senza esser baciata. — Sei tu che mi vorresti baciare? — Proprio io ! Ma non c’è fretta : io ti ho in mano troppo bene! Voglio godermi questo pensiero almeno qualche minuto, forse cinque, al massimo sei ! — Guarda, guarda ! Ecco la ricompensa per la mia fiducia ... e fai proprio sul serio? Non si potrebbe venire a patti? — Neppure se mi parlerai con voce angelica, niente da fare ! Ormai sei spacciata, cara ragazza ! — Le dirò una cosa, egregio signore. Se tu stasera mi sfiori soltanto con la punta d’un dito contro la mia volontà, fra noi è finita ed io non ti rivedrò più : te lo giuro in nome di Dio e del mio onore ! E non scherzo. Gli occhi le sfavillavano mentre così parlava. — La cosa avverrà certamente, — replicò Karl — sta’ tranquilla che presto vengo ! — Fa’ come vuoi — disse Hermine seccamente, e si chiuse nel silenzio. Tuttavia, sia che la ritenesse capace di mantener la parola, sia che egli stesso non desiderasse vederla rompere un giuramento, Karl se ne stette docile a sedere al suo posto, guardandola con gli occhi lampeg­ gianti, cercando di distinguere al lume di luna se non le guizzassero in un risolino di scherno gli angoli della bocca. — Bisognerà dunque che mi consoli col passato e mi compensi con i ricordi? — riprese dopo una breve pau­ sa — Chi penserebbe che quella boccuccia austeramente serrata già tanti anni or sono sapeva baciare ben dolce­ mente? — Ricominci con le tue spudorate invenzioni? Bada che non voglio ascoltar oltre le tue sciocchezze irritanti ! — Sta’ tranquilla ! Ma solo per questa volta rivolgia­ mo i nostri pensieri a quell’età dell’oro, e parliamo dell’ul­

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timo bacio che m’hai dato: io ne ricordo le circostanze come se fosse oggi, con tutta chiarezza, e son persuaso che le rammenti tu pure ! Io avevo già circa tredici anni, tu dieci all’incirca ed eran già passati alcuni anni senza scambi di baci, perché ci davamo già l’aria di grandi. Ma doveva esserci però ancora un piacevole finale; o fu piuttosto l’allodola mattiniera che annunciava l’alba? Era un bel lunedì di Pentecoste ... — No, era l’Ascensione ... — lo interruppe Hermine, ma si tacque senza quasi finir la parola. — Hai ragione, era una splendida festa dell’Ascen­ sione nel mese di maggio e noi ci eravamo avviati con un gruppo di giovani: noi eravamo i soli ragazzini; tu ti eri unita alle fanciulle già grandi ed io ai giovanotti e non ci degnavamo di giocare tra noi, e neppure di discorrere. Dopo lunghi giri ci accampammo nell’alta radura di un bosco e cominciammo un giuoco con pegni; la sera non era infatti lontana e la brigata non voleva tornare senza sbaciucchiarsi un pochino. Due furono condannati a ba­ ciarsi tenendo fiori in bocca, senza lasciarli cadere. Quando tanto la prima coppia che alcune venute dopo fallirono quel gioco d’abilità, tu mi venisti incontro d’un tratto con tutta disinvoltura, tenendo un mughetto in bocca, me ne ficcasti un altro fra le labbra e mi dicesti: «Proviamo!». Naturalmente i due fiorellini caddero a terra insieme agli altri, ma tu eri infervorata e mi desti ugualmente un bacino. Pareva che una bella farfalla leggera mi si fosse posata sulla bocca, ed io istintivamente feci per acchiapparla con due dita. Gli altri però credet­ tero che io volessi pulirmi le labbra e mi derisero. — Eccoci arrivati ! — disse Hermine saltando a terra e, rivolgendosi poi di nuovo gentilmente a Karl, aggiunse : — Visto che sei stato tranquillo e hai dato alle mie parole il peso che si meritavano, verrò in barca con te, se sarà necessario, anche prima che sian trascorse quattro settimane e te ne darò avviso con una letterina. Sarà il primo foglio scritto che ti affido. Così dicendo corse a casa. Karl invece remò svelto verso il porto, per non mancare alla ritirata dei bravi

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trombettieri che stavan lacerando la tepida aria della sera come con un rasoio seghettato. Già prima di arrivare s’incontrò con Ruckstuhl e Spòrri, che erano lievemente alticci; salutandoli giovial­ mente prese il primo sotto braccio e cominciò a farne le lodi dicendogli: — Che cosa ha mai combinato ancora di bello? Che tiri ha escogitato, briccone? Lei è proprio il tiratore più straordinario di tutto il cantone, anzi, della Svizzera intera ! — Per Bacco ! — esclamò Ruckstuhl, molto lusingato che un camerata all’infuori di Spòrri venisse a cercarlo e ad elogiarlo — Per Bacco ! Peccato dover già tornare a cuccia! Non potremmo vuotarne ancora in fretta una bottiglia di quel buono? — Silenzio ... ci possiamo pensare in camerata ! Fra i tiratori del resto è uso che almeno una volta durante il servizio si giochi un tiro agli ufficiali bevendo una notte intera in caserma. Noi da buone reclute vogliamo dar prova di esser degni deH’arma scelta ! — Sarebbe proprio un bello scherzo ! Pago io il vino, come è vero che mi chiamo Ruckstuhl ! Bisognerà però esser furbi, astuti come i serpenti, altrimenti siamo per­ duti. — Stia tranquillo che noi ci sappiamo fare ! Entreremo calmi calmi, senza dar per nulla nell’occhio ! Quando giunsero alla caserma, i compagni di camerata eran tutti nella cantina a bere un buon sorso per conci­ liarsi il sonno. Karl mise alcuni a parte del suo piano, quelli fecero correre la voce, cosi che ognuno si armò di un paio di bottiglie; poi le portaron fuori inosservati l’un dopo l’altro, andando a nasconderle sotto i letti. Quando batterono le dieci tutti in camerata si corica­ rono tranquillamente sin che venne l’ispezione a consta­ tare se i lumi erano spenti. Poi tutti tornarono ad alzarsi, appesero i cappotti alle finestre per celar la luce e riac­ cesero le lampade, tiraron fuori le bottiglie cominciando a bere allegramente, e a Ruckstuhl pareva di essere in paradiso, perché tutti brindavano alla sua salute pro-

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clamandolo un grand’uomo. Il desiderio ardente di esser tenuto in conto anche fra i soldati, senza però fare alcuno sforzo, lo rendeva infatti più sciocco di quel che fosse in realtà. Quando egli ed il suo satellite parvero brilli ab­ bastanza, si iniziarono alcuni giuochi da bevitori. Uno per esempio dovette, reggendosi a gambe all’aria, bere un ramaiolo di vino che un altro gli porgeva ; un secondo fu costretto a sedere su una sedia e a vuotar tre bicchieri prima che una palla di piombo pendente dal soffitto e fatta girare in circolo intorno al capo lo sfiorasse; un terzo ebbe un altro compito, e a tutti quelli che fallivan la prova furono imposte comiche penitenze. Ogni giuoco si svolgeva però nel massimo silenzio; chiunque alzasse la voce subiva pure una penitenza e tutti erano in cami­ cia, per potersi infilare svelti nel letto in caso di sorpresa. Quando s’avvicinò il momento in cui l’ufficiale d’ispe­ zione doveva passare per i corridoi, anche ai due amici fu imposto un giuoco d’abilità. Dovevan bere insieme due bicchieri colmi, porgendoseli l’un l’altro sulle lame delle spade e senza versarne una goccia. Con grande ostentazione sfoderarono le spade e incrociarono le lame con sopra i bicchieri, ma tremavano in modo che questi caddero senza che ne potessero sorbire una goccia. Ven­ nero condannati a far da sentinella alla porta per un quarto d’ora in «piccola uniforme», e tale impresa fu esaltata come la più audace che si fosse mai osata a me­ moria d’uomo in quella caserma. Affibbiaron loro direttamente sulla camicia lo zaino e la spada, poi dovettero met­ tere il chepl e infilare i calzettoni neri, ma non le scarpe, e così conciati, col fucile in mano, furono accompagnati ai due lati della porta. Appena si furon piantati lì, gli al­ tri tirarono il catenaccio, fecero sparir le tracce del festino, scopersero le finestre, spensero i lumi e si cacciarono nei loro letti, fingendo di dormire già da ore. Intanto le due sentinelle, alla luce della lanterna del corridoio, andavano in su e in giù, con lo schioppo in spalla, get­ tando attorno sguardi arditi. Spòrri, che a causa della sbornia gratuita era ai sette cieli, divenne temerario e intonò di colpo una canzone, il che fece affrettare il passo

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all’ufficiale di servizio, già avviato in quella direzione. Quando fu loro vicino, i due cercarono di sgattaiolare rapidi in camerata, ma la porta non si aprì e, prima che potessero far qualcosa per salvarsi, il nemico fu loro ad­ dosso. Allora nella loro testa avvenne una gran confu­ sione. Si misero sull’attenti presentando le armi e gri­ darono: «Chi va là?». — Per tutti i sacramenti, che cosa succede? Che cosa fate voi qui? — urlò l’ufficiale d’ispezione, senza otte­ nere risposta, perché i due ubriachi non seppero metter fuori una parola sensata. L’ufficiale aprì rapidamente la porta e guardò dentro la camerata; Karl, infatti, che stava ad orecchie tese, era a tempo balzato dal letto, aveva riaperto il catenaccio tornando poi subito sotto le coperte. Quando l’ufficiale vide tutto tranquillo e silen­ zioso e non udì che placido russare, gridò: «Uomini! Sveglia ! ». — Al diavolo ! — esclamò Karl — Andate una buo­ na volta a dormire, ubriaconi della malora! — Anche gli altri finsero di esser stati allora svegliati ed escla­ marono : — Ma quelle bestie non sono ancora a letto? Gettateli fuori, chiamate il tenente d’ispezione ! — Sono io d’ispezione ! — disse l’ufficiale — Uno di voi accenda, svelto ! — Così avvenne, e quando i due paz­ zi apparvero in piena luce, da tutte le brande s’alzò un coro di risate, come se tutta la truppa fosse straordina­ riamente sorpresa da quello spettacolo. Ruckstuhl e Spörri si unirono alle matte risate, marciarono per la camera tenendosi la pancia, perché le loro menti ottenebrate avevan già preso un’altra direzione. Ruckstuhl faceva sberleffi sotto il naso dell’ufficiale e Sporri gli mostrava la lingua. Quando lo schernito s’accorse che a quell’allegra coppia non si poteva fare intendere ragione, trasse la sua lavagnetta e vi segnò i due nomi. Per un caso malau­ gurato quell’ufficiale abitava in una delle case di Ruck­ stuhl e, benché la Pasqua fosse passata, non aveva an­ cora pagato l’affitto, sia che fosse un poco a corto di quattrini o che fosse impedito dal servizio. Insomma,

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il genio di Ruckstuhl s’afferrò d’un tratto a quell’argo­ mento ed egli si mise a borbottare ridacchiando e acco­ standosi male in gambe all’ufficiale: — Paghi, paghi prima . . . i suoi de ... r suoi debiti, signor tenente .. . prima di . . . di. . . metter dentro uno ! Ha ca . .. capito? — E Sporri rise ancora più sguaiato, traballando e rinculando, e dondolando la testa cante­ rellò in falsetto: — Pa . . . pa . . . pagare i debiti, signor tenente, que... questo è giusto, giustissimo ! — Quattro uomini si alzino, — disse il tenente calmo — conducano i due al corpo di guardia, li mettan subito dentro : fra tre giorni vedremo se hanno smaltito la sbor­ nia. Buttate loro sulle spalle il cappotto e date loro sul braccio i calzoni. Marsch! — I ca . . . ca . .. calzoni — urlò Ruckstuhl — ci vo­ gliono proprio ... Ne ca ... ne ca ... ca ... ne casche­ rà fuor qualcosa a scuoterli ! — Fuo . .. fuori qualcosa, signor tenente! — fece eco Spòrri, ed ambedue intanto sventolarono i calzoni fa­ cendo tintinnare i talleri nelle tasche. Passarono così ridendo e facendo chiasso, coi loro compagni che li scortavano, per i corridoi, e scesero le scale sparendo in una specie di cantina al pianterreno, dopo di che ritornò il silenzio. Il giorno seguente a mezzodì la tavola del signor Frymann era stata apparecchiata con insolito lusso. Her­ mine riempì le caraffe di cristallo con vino del 1846, dispose i bicchieri scintillanti accanto ai piatti, vi di­ spose sopra dei bei tovaglioli e affettò un pane fresco del fornaio della Gallina, dove si sfornava per antica tradizione una qualità di pagnotte che era la delizia di tutti i bambini e di tutte le comari di Zurigo. Mandò anche uno dei lavoranti, agghindato per la domenica, a comprare un pasticcio di maccheroni e una torta per il caffè, mentre su un tavolino, in disparte, disponeva le leccornie di fin di tavola, focaccine e paste, bocche di dama e pandoro. Frymann, piacevolmente animato dal­ l’aria della domenica, credette di poter dedurre dallo

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zelo di sua figlia che essa non intendeva opporsi seria­ mente ai suoi piani, e si disse soddisfatto: “Son tutte eguali ! Appena si presenta un’occasione accettabile e ben definita, subito si decidono ad afferrarla per il ciuffo !”. Secondo le vecchie usanze, il signor Ruckstuhl era invitato per mezzogiorno in punto. Quando alle dodici e un quarto non ci fu nessuno, Frymann disse: «Cominciamo noi: bisogna abituar per tempo il si­ gnorino all’ordine !». E quando non arrivò neppure do­ po la minestra, il maestro chiamò gli apprendisti e la domestica, che quel giorno avrebbero dovuto pranzare per conto loro e che anzi avevan già quasi finito, e disse : «Venite a mangiar con noi: non vorremo stare a guardare questa roba. Mettetevi con energia e fatele onore: chi tardi arriva male alloggia!». Quelli non se lo fecero dire due volte e furon di ottimo umore, mentre Hermine era la più vispa e si sentiva cre­ scer l’appetito man mano che il padre si imbronciava. “Sembra che sia un vero screanzato!” brontolò tra sé, ma la figlia lo udì e replicò: — Certamente non gli han dato libera uscita, non dobbiamo condannarlo troppo affrettatamente! — Ma che libera uscita ! Lo difendi già? Da quando in qua non ottiene libera uscita uno che ci tiene? Finì il pasto di pessimo umore e si recò subito, contro la sua abitudine, in un caffè, solo per non farsi trovare eventualmente in casa, se fosse poi venuto, dall’aspirante negligente. Verso le quattro, tuttavia, invece di recarsi dalla sua solita compagnia dei sette amici, tornò di nuovo a casa, spinto dalla curiosità di sentire se Ruckstuhl s’era fatto vivo. Attraversando il giardino scorse la signora Hediger insieme a Hermine, in un padiglione, essendo una calda giornata di primavera, intente a bere il caffè e a far onore al pandoro ed alle bocche di dama, con ma­ nifesto buon umore. Salutò la moglie del sarto e, benché la sua presenza lo irritasse, le chiese subito se non avesse notizie dalla caserma, se per caso i tiratori avessero dovuto fare una gita collettiva. — Non credo, — replicò la signora Hediger — sta-

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mane son stati in chiesa e più tardi Karl è venuto a pran­ zo; avevamo arrosto di montone e a quello Karl non manca mai! — Non ha detto nulla del signor Ruckstuhl e di dove è andato? — Del signor Ruckstuhl? Ma sì, è agli arresti di rigore perché ha preso una sbornia solenne e si è ribellato ai superiori: pare che sia stata una scena molto divertente. — Che il diavolo se lo pigli ! — disse Frymann, e uscì subito di casa. Mezz’ora dopo diceva a Hediger: — Adesso è tua moglie che sta in giardino con mia figlia e se la gode con lei perché mi è andato male un progetto di matrimonio! — Perché non la mandi via? Perché non le hai fatto una partaccia? — Come potrei farlo, se siamo vecchi amici? Vedi, queste maledette storie vengono a confondere già i nostri rapporti. Per questo teniam duro: niente matrimonio! — Niente parentado ! — confermò Hediger stringendo forte la mano all’amico.

Il luglio, e con esso la festa del tiro a segno per l’anno 1849, erano ormai imminenti: non mancavano che due settimane. I sette uomini tennero un’altra seduta: la cop­ pa e il vessillo eran pronti, erano stati presentati ed aveva­ no ottenuto l’approvazione di tutti. La bandiera spiccava ritta nella stanza ed alla sua ombra si svolse la più dif­ ficile discussione che mai avesse turbato i sette impavidi. Si giunse cioè all’improvviso alla scoperta che la ban­ diera esigeva anche un oratore, se si voleva con essa pre­ sentarsi, e la scelta di tale oratore fu l’argomento che minacciò di far naufragare il piccolo naviglio dai sette piloti. Tre volte fu prescelto ogni membro dell’equipag­ gio e tre volte ciascuno di essi, l’uno dopo l’altro, oppose un deciso rifiuto. Tutti erano furenti che nessuno volesse assoggettarsi all’obbligo ed ogni singolo era indignato che si imponesse proprio a lui quel peso e da lui si aspet­ tasse cosa tanto inaudita. Dove gli altri si fanno avanti con tanta impazienza se appena v’è occasione di spa-

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lançar la bocca e di farsi ascoltare, questi invece si ritrae­ vano intimiditi dall’eventualità di parlare in pubblico, ed ognuno si scusava con la propria incapacità e col non averlo mai fatto in vita, né volerlo mai tentare per il presente o per l’avvenire. Essi consideravano ancora l’oratoria un’arte veneranda, che esige non meno studio che talento, e nutrivano una stima incondizionata per i buoni oratori capaci di commuoverli, accettando per sacrosanto tutto quello che uno di essi diceva. Separavano nettamente tali oratori da se stessi e si attribuivano sol­ tanto il merito di ascoltare attentamente, di meditare coscienziosamente, di approvare o respingere, il che sem­ brava loro costituire già un compito sufficientemente degno. Quando si vide che per via di votazione non si arri­ vava ad avere chi parlasse, sorse un rumoroso tumulto, nel quale ciascuno cercò di convincer l’altro del suo dove­ re di sacrificarsi. Insistevano specialmente con Frymann e Hediger, i due più quotati. Ma questi si difendevano con energia, palleggiandosi il peso l’un l’altro, sin che Fry­ mann impose silenzio e disse: — Amici ! Abbiamo commesso una sventataggine ed ora dobbiam persuaderci che è meglio lasciare a casa la bandiera: decidiamoci dunque a far così e rechiamoci alla festa senza alcuna solennità. Grande costernazione seguì a quelle parole. — Hai ragione ! — disse Kuser l’argentiere. — Non ci rimane altro da fare — consentì Syfrig, il costruttore dell’aratro. Ma Bürgi protestò: — Impossibile ! Le nostre intenzioni son già conosciute e si sa che c’è la bandiera. Se rinunciamo, ne nascerà uno scandalo ! — Anche questo è vero, — confermò Erismann, l’o­ ste — ed i codini, i nostri antichi avversari, ne trarranno motivo di spasso con molta facilità. A quella prospettiva passò un brivido per le vecchie ossa dei sette impavidi e fu ripreso l’assalto contro i due membri più geniali, ma questi tornarono a schermirsi e alla fine minacciarono di ritirarsi.

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— Io sono soltanto un artigiano, un carpentiere, e mai mi esporrò al ridicolo — dichiarò Frymann, al che Hediger replicò: — E come dovrei farlo io, povero sarto? Renderei ridi­ coli tutti voi e mi danneggerei senza scopo. Propongo che venga delegato uno degli osti: quelli han più abitudine a trattare la gente ! Ma i due ricusarono violentemente e Pfister propose allora il falegname, che era un burlone. — Io un burlone? — urlò Biirgi — E vi par forse una burla apostrofare un presidente federale davanti a mi­ gliaia di persone? — Un sospiro generale fece eco a quelle parole, che richiamavano alla memoria di tutti la diffi­ coltà del compito. Si verificò allora un correr dentro e fuori, un confa­ bulare negli angoli, mentre Frymann e Hediger se ne stavano seduti al tavolo con le facce fosche, ben compren­ dendo che si sarebbe rinnovato l’assalto. Finalmente, riunitisi ancora tutti e sette, Biirgi si pose di fronte a Frymann e a Hediger e disse: — Sentite un po’ voi due, Chäpper e Daniel ! Avete entrambi così spesso parlato per noi con nostra piena soddisfazione, che ciascuno, se soltanto lo vuole, è anche in grado di tenere un breve discorso pubblico ! La società ha deciso che voi tiriate a sorte fra voi due, e con questo sia finita! Dovete obbedire alla maggioranza di cinque contro due! Un nuovo tumulto coronò quelle parole: i due apo­ strofati si guardarono in faccia e finirono per adattarsi docilmente al decreto, ciascuno sorretto dalla segreta speranza che l’amara sorte sarebbe toccata all’altro. Toc­ cò a Frymann, che per la prima volta lasciò la compa­ gnia degli amici della libertà col cuore greve, mentre Hediger si fregava le mani beato, tanto l’egoismo cancella ogni riguardo anche fra i vecchi amici. La gioiosa attesa della festa era già svanita per Fry­ mann e le sue giornate si fecero fosche. Ogni momento pensava al suo discorso, senza che il minimo pensiero volesse prender forma, perché andava a cercar lontano

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le idee, invece di cogliere quanto gli era prossimo e par­ lare come se si trovasse coi suoi soliti amici. Le parole che soleva pronunciare con loro gli parevano ciance vuote ed andava escogitando qualcosa di originale e di altiso­ nante, un vero manifesto politico, e questo non certo per vanità, bensì per aspro senso del dovere. Cominciò final­ mente a scarabocchiare un foglio di carta, non senza molte interruzioni, imprecazioni e sospiri. Riuscì con du­ ra fatica a scriver due pagine, benché si fosse proposto di limitarsi a poche righe, ma non sapeva trovar la fine, e le frasi contorte si impigliavano l’una nell’altra come ram­ picanti intrecciati e non permettevano al povero scrittore di liberarsi dai loro tenaci viluppi. Attendeva preoccupato al suo lavoro con il foglietto ripiegato nel taschino del panciotto e di tanto in tanto si metteva dietro una palizzata e lo rileggeva scotendo il capo. Alla fine si confidò con sua figlia e le lesse l’ab­ bozzo per osservarne l’effetto. Il discorso era un centone d’invettive contro i gesuiti e gli aristocratici, tutto lar­ dellato di espressioni come libertà, diritti dell’uomo, schia­ vitù, istupidimento, eccetera; era insomma una aspra e ampollosa dichiarazione di guerra, in cui non si parlava affatto dei sette vecchi e della loro piccola bandiera; per di più era confuso e goffo, mentre egli di solito sapeva esprimersi con ordine e precisione. Hermine disse che l’orazione era molto energica, ma che le sembrava un poco in ritardo, visto che gesuiti e aristocratici eran stati debellati da un pezzo, e a parer suo un discorso sereno ed allegro sarebbe andato meglio fra gente contenta e felice. Frymann rimase un poco scosso e, benché la passione in lui vecchio fosse ancora intensa, ammise, prendendosi il naso fra le dita: — Può darsi che tu abbia ragione, però non capisci del tutto come stanno le cose. In pubblico bisogna essere energici e tirar giù di grosso, come fan gli scenografi, la cui pittura veduta da vicino è tutta uno sgorbio. Però sarà forse possibile attenuare qualcosa. — Farai bene, — proseguì Hermine — anche perché

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ci sono troppi «adunque». Dammi un momento! Ecco: quasi una riga sì ed una no trovi un adunque ! — Ci si mette il diavolo, te lo dico ! — esclamò il padre strappandole il foglietto di mano e lacerandolo in cento pezzi — Basta ! — concluse — io non voglio far lo zim­ bello ! — Hermine però gli consigliò allora di non metter nulla per iscritto, di rimettersi alla fortuna e di raccoglie­ re i pensieri un’ora prima del corteo, per parlar poi sem­ plicemente e sinceramente, come se fosse stato a casa. — Sarà meglio far così — annuì il padre — e, se la va male, non avrò almeno avuto pretese stolte. Non potè tuttavia fare a meno di raccogliere i pensieri già ad ogni ora, e dal rigirarli senza riuscire a svilupparli mai : andava attorno preoccupato e distratto e Hermine 10 studiava con grande compiacenza. La settimana delle feste era arrivata d’un tratto e alla metà della medesima i sette amici partirono per Aarau già prima dell’alba su un omnibus privato a quat­ tro cavalli. La bandiera nuova sventolava sgargiante a cassetta: sulla seta verde scintillavano le parole «Amici­ zia nella Libertà ! » e tutti i vecchietti erano allegri e felici, ora seri ed ora scherzosi, mentre solo Frymann aveva un’aria abbattuta e sospetta. Hermine lo aveva preceduto ad Aarau ed abitava presso una famiglia amica, poiché suo padre soleva com­ pensarla della sua perfezione di massaia facendola parte­ cipare a tutti i suoi viaggi; e già più d’una volta quel roseo fior di giacinto aveva adomato il gaio gruppo dei sette vecchietti. Anche Karl era già ad Aarau: benché 11 suo tempo ed i suoi risparmi fossero già molto assorbiti dalla scuola militare, su invito di Hermine ci era andato a piedi e per strano caso aveva trovato alloggio proprio vicino a lei ; essi invero avevan da pensare ai fatti propri e non si poteva prevedere se la festa non avrebbe portato occasioni favorevoli. Karl si proponeva di tirare anche eventualmente al bersaglio: aveva con sé, in conformità ai suoi mezzi modesti, venticinque cartucce: voleva ten­ tar quelle, né più né meno. Seppe subito dell’arrivo dei sette impavidi e li seguì da

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lontano mentre essi, in gruppo serrato con la loro piccola bandiera, s’avviavano verso la piazza della festa. Era il giorno della settimana in cui era convenuta più folla: le strade brulicavano di gente vestita a festa, affluivano con e senza musica piccole e grandi società di tiratori, ma nessuna era così minuscola come quella dei sette. Questi dovevano aprirsi un varco tra la folla, marciando tuttavia a piccoli passi cadenzati, con le braccia tese e i pugni chiusi. Frymann davanti a tutti reggeva la ban­ diera con la faccia di uno che venga condotto al patibolo. Si guardava attorno di tanto in tanto, quasi in cerca di scampo; ma i suoi compagni, contenti di non esser nei suoi panni, lo incoraggiavano lanciandogli energiche apo­ strofi. Erano ormai vicini alla piazza della festa e già rintronava agli orecchi il crepitio dei tiri, mentre alta nell’aria, solitaria nel sole, ondeggiava la gran bandiera federale dei tiratori, e la sua seta ora si tendeva vibrando ai suoi quattro angoli, ora graziosamente scoppiettava sulla folla, ora s’afflosciava per un istante con falsa mo­ destia lungo l’asta : faceva insomma tutti i giuochi di cui si può dilettare una bandiera durante otto lunghi giorni di feste, ma la sua vista per il vessillifero del piccolo stendardo verde fu un colpo al cuore. Karl, indugiatosi un momento ad osservare il bell’ondeggiare della gran bandiera, aveva perso improvvi­ samente di vista il minuscolo corteo e, quando lo cercò con gli occhi, non gli riuscì di scoprirlo da nessuna parte, quasi la terra l’avesse ingoiato. Si avvicinò rapido all’in­ gresso del campo, di dove lo poteva veder tutto, ma nes­ suna bandieruola verde spuntava sulla folla. Tornò sui suoi passi e, per camminar più spedito, prese una strada parallela laterale. In essa c’era una piccola osteria, il cui proprietario aveva disposto davanti all’ingresso pochi ma­ gri abeti, alcune tavole e panche, e teso poi sul tutto una tenda, come fa un ragno che tesse la sua rete ben vicino ad un vaso di miele per coglier molte mosche. Karl, per mero caso, vide luccicare dietro i vetri appannati la punta do­ rata di una bandiera, entrò subito, e guarda un po’ che cosa gli apparve? I sette vecchi eran sparsi per la stan­

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zetta bassa, come abbattuti là da una tempesta, acca­ sciati su panche e su sedie, con le teste basse, e al centro Frymann con il vessillo in mano dichiarava: «Basta! Io non ce la faccio ! Io sono ormai vecchio e non voglio guadagnarmi per il resto della vita la fama di pazzo ed anche un soprannome ridicolo ! ». Così dicendo posò con energia la bandiera in un an­ golo. Non seguì risposta alcuna sin che non comparve il padrone ponendo davanti agli ospiti imprevisti un bot­ tiglione di vino che nessuno nella confusione aveva an­ cor pensato di ordinare. Allora Hediger ne versò un bicchiere, lo porse a Frymann e gli disse: — Vecchio amico! Fratello! Bevi un sorso e fatti co­ raggio ! Ma Frymann scosse il capo senza replicar motto. Se ne stavan tutti lì disperati come non erano mai stati: tutte le sommosse, le controrivoluzioni e le reazioni per cui eran passati eran stati giochetti in confronto a quella sconfitta proprio alla soglia del paradiso. — Allora pazienza, torniamocene a casa ! — mormorò Hediger, preoccupato che la sorte dovesse magari rivol­ gersi contro di lui. In quel momento Karl, che era ri­ masto fino allora dietro la porta, si fece avanti dicendo allegramente : — Signori ! Date a me la bandiera ! La porterò io e parlerò in nome vostro, a me non fa nessuna paura! Tutti alzarono gli sguardi stupiti e su tutti i volti raggiò una luce di speranza e di gioia; soltanto il vecchio Hediger chiese severamente: — Tu? Come mai capiti qui? E vorresti tu sbarbatello senza esperienza parlare per noi vecchi? Ma intorno s’alzarono voci: — Benissimo ! Avanti con coraggio ! Avanti il ragaz­ zo ! — E Frymann in persona gli consegnò la bandiera, perché gli era caduto dal cuore un peso enorme ed era felice di vedere i suoi vecchi amici salvati nel frangente al quale egli stesso li aveva condotti. S’avviarono con rinnovata gioia : Karl reggendo la bandiera li precedeva alto e imponente e l’oste seguiva con occhio mesto lo

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sparire del miraggio che l’aveva per un momento illuso. Soltanto Hediger era cupo e scoraggiato, nella certezza che il figlio avrebbe loro procurato una doppia mortifi­ cazione. Intanto avevano raggiunto il piazzale; erano appena sfilati i Grigionesi, un lungo corteo di uomini bru­ ni, ed i vecchietti li oltrepassarono battendo bene il passo sul ritmo della loro musica come prima quando avevano attraversato la folla. Dovettero per un poco segnare il passo, come si dice quando si accennano i movimenti della marcia senza procedere, perché tre tiratori fortu­ nati che avevan vinto delle coppe traversavano la loro via con trombe e seguito; ma tutto questo, insieme al­ l’ininterrotto crepitio dei colpi, non fece che accrescere la loro solenne ebbrezza: quando poi furono in vista al padiglione dei premi, scintillante di tutti i suoi tesori e incoronato dalla fitta ghirlanda di mille bandiere nei colori dei cantoni, delle città, dei paesi e delle comunità, scoprirono il capo con rispetto. All’ombra degli stendardi c’erano personaggi vestiti di nero: uno reggeva una cop­ pa d’argento colma, pronto a ricevere i sopravvenienti. Le sette teste canute nuotavano sulla oscura marea della folla come un banco di ghiaccio illuminato dal sole ; i loro scarsi capelli bianchi tremavano al venticello gen­ tile di levante e ondeggiavano nella stessa direzione della grande bandiera bianca e rossa su in alto. Eran notati da tutti per la loro età, e per il piccolo numero si sorrise non senza rispetto, e ognuno si fece attento quando il giovane portabandiera avanzò e tenne con disinvoltura e chiarezza il seguente discorso:

«Cari confederati! Siam qui, otto ometti ed una piccola bandiera, sette vecchietti ed un giovane alfiere ! Come vedete, ciascuno di noi porta il suo fucile, senza però aspirare ad essere un tiratore di merito; è vero che nessuno manca il bersaglio e che talvolta uno azzecca un centro, ma se anche uno ci arriva, potete star sicuri che non è frutto di assiduità. E se fosse per l’argento che riusciremo a portar via al vostro padiglione dei trofei, avremmo potuto tranquillamente restare a casa !

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Tuttavia, anche se non siamo il fiore dei tiratori, non abbiam saputo starcene imboscati. Siam venuti non per aver doni, ma per offrirne: una coppa modesta ed un cuore giubilante sin quasi all’immodestia ed una bandie­ rina nuova, che trema nella mia mano dalla smania di sventolare lassù sulla rocca di tutti i vostri stendardi. Ma il nostro piccolo vessillo lo riporteremo a casa, esso chiede soltanto di aver qui la sua consacrazione. Guar­ date quel che vi sta scritto a lettere d’oro: “Amicizia nella Libertà”. È per così dire l’amicizia personificata che noi conduciamo qui alla festa, è l’amicizia in nome della patria, l’amicizia per amore della libertà ! Fu essa a radunare or son trenta o quarant’anni queste sette teste pelate, che oggi qui splendono al sole, e che le ha tenute unite in tempi buoni e cattivi, attraverso tutte le tempe­ ste! È un’associazione che non ha nome, né presidente né statuto; i suoi membri non hanno né titoli né cariche, son tronchi ancora non segnati nella foresta della nazio­ ne, che ora per un momento s’affacciano sul margine del bosco, al sole della festa nazionale, per rientrarvi però subito, confondendosi al frusciarne mormorio di mille altre corone fronzute nella calda notte silvestre del po­ polo, dove pochi soltanto sanno darsi un nome, ma tutti son l’uno all’altro fidi e familiari. Guardateli questi vecchi peccatori! Nessuno certa­ mente è in odore di santità, ed è piuttosto raro che ne incontriate uno in chiesa. Di cose ecclesiastiche è meglio non parlare con loro ! Però, cari confederati, posso farvi una singolare confidenza, qui sotto il Ubero cielo: tutte le volte che la patria è in pericolo, essi comincian piano piano a credere in Dio ; prima ciascuno per sé, poi sempre più decisi, sin che l’uno lo confessa all’altro e che tutti insieme si dànno ad una strana teologia, il cui primo ed essenziale dogma insegna: aiutati che Dio t’aiuta! Anche nei giorni della gioia, come oggi, quando è rac­ colta una folla di popolo cui sorride un cielo molto az­ zurro, essi ripiombano in quei pensieri teologici e son convinti che il buon Dio esponga in cielo la bandiera della Svizzera e abbia fatto il bel tempo espressamente

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per noi ! Nell’ora del pericolo ed in quella della gioia sono d’un tratto d’accordo con le prime parole della no­ stra Costituzione federale: “In nome di Dio onnipos­ sente!”. E sono allora pervasi da così mite tolleranza, mentre pel solito son tanto scontrosi, che non stanno nep­ pure a chiedere se ci si voglia riferire al Dio degli eserciti cattolico o riformato ! Insomma, un bambino al quale sia stata regalata una piccola arca di Noè piena di bestioline d’ogni colore, maschi e femmine, non potrebbe aver maggior felicità di quella che attingono i nostri sette alla loro piccola patria piena di mille buone cose, dal vecchio luccio mu­ schioso sul fondo dei laghi sino all’uccello rapace che volteggia attorno alle vette nevose. Oh, quanta gente svariata s’affolla nel suo angusto spazio, molteplice nelle attività, nei costumi e nelle usanze, nelle vesti come nel linguaggio ! Quante teste fine e quanti tonti si vedono at­ torno, quante piante di lusso e quante erbacce prosperano allegramente alla rinfusa, e tutto è bello e buono, è splen­ dido ed è caro al nostro cuore, perché è nel nostro paese ! Allora, considerando e ponderando il valore delle cose terrene, diventano dei filosofi; ma non sanno andar oltre la realtà meravigliosa della patria. Nella loro giovinezza han fatto viaggi, han veduto le terre di molti sovrani, e senza superbia, anzi con rispetto per ogni paese ove tro­ vassero gente dabbene ; ma il loro motto rimase sempre : «Abbi stima per la patria di tutti, ma amore per la tua ! ». Ma come questa è costrutta con grazia e dovizia ! Più dappresso la si osserva, più ci appare riccamente intes­ suta, bella e resistente, un vero lavoro a mano di prima qualità ! Come è spassoso che non ci sia una sola monotona qualità di Svizzeri, ma che ci siano Zurighesi e Bernesi, gente di Unterwalden e di Neuchâtel, Grigionesi e Ba­ silesi ; anzi persino due qualità di Basilesi ! Che ci sia una storia di Appenzell ed una storia di Ginevra, giacché questa molteplicità nell’unità, che Dio voglia conservar­ cela, è la vera scuola dell’amicizia, e soltanto dove l’af­ finità politica diventa amicizia personale di un popolo

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intero si conquista il più alto bene. Giacché là dove non arriverebbe il civismo, giungerà l’amore per l’amico, ed ambedue insieme si fonderanno in una sola virtù ! Questi anziani han trascorso la loro vita lavorando e faticando; ora cominciano ad avvertire la caducità della carne che tormenta l’uno qui l’altro là. Tuttavia, quando viene l’estate, loro non vanno a far cure di bagni, ma alla festa. Il vino della sagra federale è la sorgente di giovinezza che ristora i loro cuori ; la vita estiva federale è l’aria che ringiovanisce i loro vecchi nervi, le ondate di popolo festante son la cura di bagni che rende elastiche le loro membra irrigidite. Vedrete tra poco queste teste canute immergersi in questo bagno! Porgeteci dunque, cari confederati, il brindisi d’onore! Evviva l’amicizia nella patria! Evviva l’amicizia nella libertà!». «Evviva! Bravo!» si udì tutt’all’intorno, e l’oratore ufficiale rispose all’allocuzione salutando la singolare ed eloquente apparizione dei vecchi.

«Sì,» concluse «possano le nostre feste non scadere mai e rimaner sempre una scuola di morale per i gio­ vani, la ricompensa di una coscienza pubblica pura do­ po gli adempiuti doveri civili e una fonte di giovinezza per i vecchi ! Possano restare una celebrazione di amici­ zia indissolubile e viva in tutto il paese, da cantone a cantone, da uomo a uomo ! Viva, o venerandi amici, la vostra associazione senza nome e senza statuti ! ». L’acclamazione fu ripetuta dagli astanti e la piccola bandiera fu issata fra gli applausi generali accanto alle altre sui pinnacoli del padiglione. Il gruppetto dei sette fece allora dietro-front, dirigendosi verso il grandioso lo­ cale di ristoro, per riprender forze con una buona colazio­ ne e, appena giuntivi, tutti diedero gran strette di mano al loro oratore gridando : « Ci hai proprio letto in Cuore ! Hediger, il tuo ragazzo è di legno buono, riuscirà bene, non aver paura ! Dritto quanto noi, ma meno stupido, noi siam dei vecchi asini ; resta ben saldo, coraggio, Karl ! » e cose simili. Frymann era addirittura sconcertato : il giovanotto ave­

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va detto precisamente quel che avrebbe dovuto venire in mente anche a lui, invece di andare a prendersela coi gesuiti. Diede anche lui la mano cordialmente a Karl, ringraziandolo d’averlo soccorso nel frangente. Alla fine il vecchio Hediger s’avvicinò al figlio, gli prese la mano e guardandolo fisso negli occhi gli disse: «Figliolo ! Tu hai rivelato un dono bello, ma peri« coloso! Coltivalo, educalo, con tenacia, con senso del dovere, con modestia! Non darlo mai in prestito a quel che è fittizio ed ingiusto, vano e vacuo; giacché esso po­ trebbe trasformarsi nella tua mano in una spada a doppio taglio che si volge contro te medesimo o contro il bene non meno che contro il male ! O potrebbe anche diven* tare una spatola da buffone. Guarda dunque ben dritto davanti a te, sii modesto e smanioso di imparare, ma saldo ed impavido ! Come oggi hai fatto onore a noi, così cerca sempre in avvenire di dar ragioni di compiacenza ai tuoi concittadini e alla tua patria; pensa a questo e ti salverai dalle false ambizioni! Persevera! Non credere di dover sempre parlare ; lasciati sfuggire molte occasioni e non parlar mai per amor di te stesso, ma soltanto per una causa degna ! Studia gli uomini non per vincerli in astuzia e sfruttarli, ma per ridestare in essi, ponendolo in movimento, quel che han di buono, e credimi: molti che ti ascoltano saranno sovente più intelligenti di te che stai parlando. Non cercare l’effetto con sofismi e con meschine arguzie, che colpiscono solo i superficiali ; al cuore del popolo arrivi soltanto con tutto il peso della verità. Non aspirar dunque al consenso dei rumorosi e degli inquieti, ma ispirati, sempre impavido, ai saldi, agli impassibili, e sempre coraggio!». Aveva appena concluso il suo discorso e lasciato la mano di Karl che subito l’afferrava Frymann per dirgli: «Allarga con armonia le tue cognizioni e arricchisci le tue basi, per non cader mai nelle parole vuote ! Dopo questo primo tentativo, lascia trascorrere un bel po’ di tempo senza pensare a nulla di simile. Se hai un pensiero felice, non parlare soltanto per faine sfoggio, ma invece mettilo in serbo: tornerà sempre l’occasióne in cui tu

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potrai farne uso più maturo e saggio. Se poi un altro ti previene con lo stesso pensiero, siine contento invece di arrabbiarti, perché è prova che tu hai avuto sentimenti e pensieri di valore generale. Educa la tua mente, sorve­ glia la tua natura e studia negli altri oratori la differenza fra un semplice fanfarone ed un uomo pieno di cuore e di schiettezza. Non star sempre in viaggio e non correre per tutte le strade, abituati piuttosto a comprender l’an­ dar del mondo dalla rocca della tua casa e nella cerchia di amici provati: allora al momento dell’azione dimo­ strerai maggior saggezza che i cani da caccia e i vaga­ bondi. Quando parli, non parlare né come un servo astu­ to né come un attore tragico, cerca di serbar semplice la tua buona indole e parla ispirato da essa. Non far moine, non metterti in posa, non guardarti attorno come un ge­ neralissimo, prima di cominciare, spiando l’assemblea ! Non dire che sei impreparato quando non è vero; per­ ché riconosceranno la tua canzone e se ne avvedranno subito! E dopo che hai parlato non guardarti attorno per mietere applausi, non mostrarti raggiante di orgo­ glio, ma torna tranquillo al tuo posto e presta orecchio attento all’oratore seguente. Tieni in serbo la villania come fosse oro, così che se una volta con giusto sdegno la tiri fuori, ciò sia un avvenimento e colpisca l’avversario come un fulmine imprevisto ! Se però pensi che un giorno vorrai collaborare col tuo oppositore, guàrdati bene dal dirgli nell’ira estremi insulti, affinché la gente non escla­ mi: “I bricconi si mordono ma poi s’accordano!”». Così parlò Frymann, e il povero Karl se ne stava lì, sorpreso e intontito da tutti quei discorsi, incerto se doves­ se ridere o insuperbirsi. Intanto Syfrig il fabbro esclamò : — Guarda un po’ questi due: per noi non volevano aprir bocca, ed ora parlan come libri stampati! — Proprio così — consentì Bürgi — ma in compenso noi abbiamo fatto un nuovo acquisto, il nostro tronco ha messo un nuovo e fresco pollone ! Propongo che il giova­ notto venga accolto fra noi vecchi e partecipi d’ora in poi alle nostre sedute ! — Così sia ! — gridaron tutti e tutti brindarono con

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Karl: questi vuotò un poco sventatamente il suo bic­ chiere pieno, il che però gli fu perdonato senza bronto­ lare dai vecchi, dato l’eccitamento dell’ora. Dopo essersi bastantemente rimessa dall’avventura con la colazione, la brigata si sciolse. Gli uni andarono a pro­ var qualche tiro, gli altri a visitare il padiglione dei doni o gli altri luoghi di ritrovo e Frymann si recò a prendere la sua figliuola e le signore di cui era ospite; per il mez­ zogiorno si diedero tutti ritrovo a quella stessa tavola che era piuttosto al centro del capannone e vicina alla tribuna degli oratori. Notarono il suo numero e se ne andarono di ottimo umore e senza più crucci. Alle dodici in punto parecchie migliaia di persone, che ogni giorno mutavano, sedevano lungo le tavole im­ bandite. Campagnoli e cittadini, uomini e donne, vecchi e giovani, dotti e ignoranti, tutti stavano insieme alle­ gramente, aspettando la minestra mentre stappavano le bottiglie e tagliavano il pane. Non vi era un volto mali­ gno, non si udivano strida o risate scomposte: regnava soltanto uniformemente diffuso e centuplicato il brusio di un’allegra festa di nozze, il fruscio delle placide onde di un mare sereno. Qui v’era una tavolata di tiratori, là una duplice fila fiorita di contadinelle, alla terza tavola un gruppo di cosiddetti vecchi goliardi, patriarchi di tut­ te le regioni del paese, che avevan finalmente superato l’esame, e alla quarta una piccola città arrivata al com­ pleto, maschi e femmine alla rinfusa ! Le schiere sedute a tavola non costituivano però che la metà dell’adunata; un corteo ininterrotto e non meno numeroso di spettatori si riversava per i passaggi e per ogni spazio libero, inghir­ landando, in continuo movimento, i banchettanti. Era­ no, ne sia lodato Iddio, le persone prudenti ed econome, che avevano fatto i propri conti e s’eran sfamate a mi­ glior mercato altrove, era quella metà della nazione che combina tutto più a buon prezzo e più parcamente, mentre gli altri si abbandonano tanto pericolosamente agli eccessi; vi erano inoltre i raffinati che diffidavan della cucina o trovavan troppo brutte le posate, e v’erano infine i bambini e i poveri spettatori involontari. Ma

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questi non facevano osservazioni cattive e quelli non mo­ stravano vesti lacere o sguardi invidiosi: anzi i prudenti si compiacevano degli imprudenti; lo schizzinoso, che trovava ridicoli i piatti colmi di piselli in luglio, andava attorno benigno quanto il poverello che dal loro profumo si sentiva stuzzicato. Qua e là si rivelava un caso di col­ pevole egoismo, quando per esempio un contadino mae­ stro d’avarizia riusciva a conquistare inavvertito un po­ sto libero ed a mangiare con gli altri senza aver pagato; ma, cosa ancor peggiore per occhi amanti dell’ordine, non ne nasceva neppure una disputa né un’espulsione rumorosa. Il direttore del gran banchetto stava davanti all’am­ pia porta delle cucine e, quando con una cornetta da càccia dava i segnali per il servizio delle diverse portate, sbucava una schiera di camerieri che si distribuiva con movimenti ben esercitati a destra, a sinistra e dritto nella sala. Uno di questi trovò la sua via sino alla tavola dove sedevano i sette impavidi insieme a Karl, Hermine e le relative amiche e parenti. I vecchi stavano in quel mo­ mento ascoltando con grande attenzione uno degli ora­ tori ufficiali che era salito sulla tribuna, preannunciato da un vigoroso rullo di tamburo. Eran lì seri e compunti, deposta la forchetta, rigidi e impettiti, con le sette teste rivolte al palco. Ma arrossirono come verginelle guar­ dandosi di sottecchi allorché l’oratore esordì riferendosi ad un passo del discorso di Karl e parlò della comparsa dei sette vecchi e ad essa riannodò e ispirò il suo discorso. Soltanto Karl, intento a scherzare gentilmente con le donne, non ascoltava, sin che il padre non gli diede una gomitata di disapprovazione. Quando l’oratore ebbe finito fra grandi applausi, i vecchi tornarono a guardarsi: avevano assistito insieme a molte assemblee, ma per la prima volta eran stati essi medesimi oggetto di un di­ scorso, e non osavano guardarsi attorno, tanto erano intimiditi, se pure pieni di beatitudine. Ma si sa come va il mondo: i vicini che li circondavano non li conosce­ vano e non sospettavano di aver simili profeti nel loro grembo, così che la loro modestia non ebbe modo di

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essere ferita. Tanto più soddisfatti si strinsero le mani l’un l’altro, dopo essersele ben fregate ognuno per suo conto, e i loro occhi dicevano : Sempre impavidi ! Questa è la dolce ricompensa alla virtù e alla perseverante bravura ! Kuser aggiunse poi ad alta voce : — Però questo diletto lo dobbiamo a mastro Karl ! Io son persuaso che alla fine gli assegneremo il letto a bal­ dacchino di Bürgi e gli dovremo anche metter dentro una certa bambola. Che ne dici tu, Daniel Frymann? — Ho paura anch’io — interloquì intanto Pfister — che debba comprarmi il mio «Sangue svizzero» e rassegnarsi a perder la scommessa. Ma Frymann d’un tratto corrugò la fronte e disse: — Non si compensa solo una buona lingua con una buona moglie ! In casa mia almeno ci vuol anche una buona mano ! Cerchiamo, amici, che lo scherzo non va­ da a cacciarsi in argomenti sconvenienti ! Karl e Hermine arrossirono e guardarono imbarazzati la folla. In quel momento echeggiò il cannone che indi­ cava la ripresa dei tiri e che era stato atteso da una lunga fila di tiratori, già pronti col fucile in mano. Subito cre­ pitarono infatti i colpi da tutte le direzioni; Karl s’alzò da tavola dicendo che voleva tentar la fortuna e s’avviò verso i bersagli. — Io voglio almeno stare a guardarlo, anche se non potrò averlo! — esclamò ridendo Hermine e gli tenne dietro, seguita dalle amiche. Avvenne però che le donne nella folla si perdettero di vista, così che alla fine Hermine restò sola con Karl e fece fedelmente con lui il giro di bersaglio in bersaglio. Egli cominciò ad una delle estremità del campo, dove non c’era folla, e fece senza troppo impegnarsi due o tre buoni colpi consecutivi. Volgendosi verso Hermine che gli stava alle spalle, disse ridendo: — Guarda come mi avvio bene ! Anch’essa rise, ma con gli occhi soltanto, mentre con la bocca diceva tutta seria: — Tu devi vincere una coppa !

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— Impossibile, — replicò Karl — per colpire venti­ cinque volte il bersaglio, dovrei tentare almeno cinquan­ ta colpi, mentre non ne ho con me che venticinque. — Oh, non manca qui certo la polvere o il piombo da comprare ! — Ma non intendo farlo, altrimenti la coppa mi di­ venta troppo costosa ! Lo so che molti sciupan più soldi di quel che valga il premio, ma non voglio esser tanto pazzo. — Sei davvero un uomo economo ed assennato, — commentò lei con un’intonazione di tenerezza — e que­ sto mi piace ! Ma va bene soltanto se con poco si raggiun­ gono gli stessi risultati di altri che vi dedicano vasti pre­ parativi e terribili sforzi! Sta’ dunque bene attento e cerca di riuscirci con venticinque pallottole ! Se fossi un tiratore io, la spunterei certamente ! — Ma è una cosa che non succede mai, sei matta ! — Si capisce che siete tiratori da strapazzo ! Ma co­ mincia una buona volta e prova ! Karl tirò un colpo e colse il bersaglio, e così una se­ conda volta. Tornò a guardare Hermine, la quale rideva ancor più con gli occhi e diceva ancor più severamente con la bocca: — Vedi? Si può! Continua! Egli continuava a fissarla, senza quasi poter staccare gli sguardi dal suo volto, perché mai aveva veduto i suoi occhi a quel modo: dentro la ridente dolcezza di quello sguardo ardeva qualcosa di aspro e di imperioso e due spiriti si rivelavano eloquenti nello splendore di esso: la volontà dominatrice e, insieme, la promessa della ricompensa; e dalla loro fusione sorgeva un essere nuovo e misterioso. «Obbediscimi: ho per te un dono maggiore che tu non supponga ! » dicevano gli occhi, e Karl vi si immerse, interrogando curioso, sin che si com­ presero bene pur tra il chiasso della festa. Dopo essersi saziato la vista di quella luce, si voltò di nuovo verso il bersaglio, mirò calmo e tornò a centrare. Allora comin­ ciò egli stesso a ritenere possibile la vittoria; però, ve­ dendo che cominciava a formarglisi folla attorno, s’allon-

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tanò, passando ad un altro bersaglio meno frequenta­ to e più tranquillo, e Hermine lo segui. Anche lì non sciupò neppure un colpo, e cominciò allora a trattare i suoi proiettili con prudenza, come fossero monete d’oro, ed ognuno, prima di sparire nella canna, era accompa­ gnato dagli sguardi di Hermine, lucenti ed avidi; Karl invece, prima di prender la mira, senza alcuna fretta o inquietudine, tornava ogni volta a guardare in faccia la bella fanciulla. Appena veniva notata la sua fortuna e cominciava a raccogliersi folla attorno, passava ad un altro bersaglio; non infilava neppure, come d’uso, i bi­ glietti ottenuti nel cappello, ma li consegnava da serbare alla sua accompagnatrice: essa teneva stretto il fascio di biglietti e un tiratore non ebbe mai custodia più bella. Accontentò davvero il desiderio di lei e collocò cosi bene tutti i suoi venticinque colpi, che neppure uno era an­ dato fuori del cerchio prescritto. Riscontrarono i biglietti e videro confermata la rara fortuna. — Ci sono riuscito una volta, ma non saprò mai più farlo in vita mia ! — disse Karl — e questo vuol dire che sei stata tu a farmi riuscire, coi tuoi occhi! Vorrei sol­ tanto sapere a che cosa intendi ancora arrivare! — Aspetta con pazienza ! — rispose lei, ridendo questa volta anche con la bocca. Karl le disse: — Ora va’ dai vecchi e di’ loro di venirmi a prendere nel salone dei doni, in modo che io abbia il mio accompa­ gnamento, altrimenti sarei solo . .. o vuoi sfilare tu al mio fianco? — Quasi quasi ne avrei voglia — disse la ragazza, ma intanto corse via in fretta. I vecchi erano immersi in discorsi lieti e profondi; il pubblico nel gran locale si era intanto quasi compietamente rinnovato, ma essi rimanevan fedeli alla loro ta­ vola e lasciavan che la vita fluisse loro attorno. Hermine s’avvicinò esclamando allegramente: — Dovete andare ad accompagnare Karl che ha vinto una coppa !

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— Come? Che dici? — gridarono in coro con grande giubilo — Davvero? — Proprio, — disse un conoscente sopravvenendo — e per di più ha vinto una coppa con venticinque colpi, il che non capita tutti i giorni ! Li ho osservati io quei due, come ci son riusciti insieme ! Frymann guardò stupefatto la figlia dicendo: — Hai forse tirato anche tu? Spero di no, perché le tiratrici scelte andranno bene come gruppo, ma non mi piacciono singolarmente ! — Sta’ pur tranquillo, — replicò Hermine — io non ho tirato, ma gli ho soltanto dato ordine di tirar bene. Hediger impallidì di meraviglia e di compiacenza, ap­ prendendo di avere un figlio eloquente e celebre nel ma­ neggio delle armi, che usciva con le sue imprese da una modesta dimora di sarto. Si fece umile e si disse che non gli avrebbe mai più fatto la predica. Intanto i vecchi si avviarono verso il padiglione dei premi, dove infatti in­ contrarono il giovane eroe che, già reggendo l’argenteo trofeo, li aspettava insieme ai trombettieri. Sfilarono così con lui al suono di un’allegra marcia, tornando nel ca­ pannone dove avevan mangiato, a «bagnare», come si suol dire, la coppa. Marciavano di nuovo a passetti ener­ gici e a pugni chiusi, guardandosi attorno con aria di trionfo. Arrivati al loro quartier generale, Karl riempì il gran calice: lo pose in mezzo alla tavola e disse: — Dedico questa coppa alla nostra compagnia, per­ ché rimanga sempre accanto alla sua bandiera ! — Accettato ! — fecero eco gli altri ; la coppa cominciò a fare il giro ed una nuova letizia ringiovanì i vecchietti che erano pur allegri sin dall’alba. Fra le travi innume­ revoli dell’immensa baracca entrava il sole al tramonto gettando la sua luce d’oro su migliaia di volti trasfigurati dalla gioia, mentre il fragore dell’orchestra riempiva tutto il locale. Hermine sedeva all’ombra delle ampie spalle di suo padre, tranquilla e silenziosa, come una innocentina. Ma il sole che sfiorava la coppa posta di­ nanzi a lei, facendone scintillare la doratura interna ed insieme il rosso del vino, mandava sul suo volto roseo

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alcuni riflessi d’oro che guizzavano insieme al vino quan­ do i vecchi nel calor del discorso menavan colpi sulla ta·? vola, e non si sapeva allora se fosse lei a sorridere o se soltanto quelle luci balenassero. Era tanto bella in quel momento che cominciò ad esser scoperta dai giovanotti circostanti. Gruppi di passaggio si soffermavano d’un tratto per guardarla meglio e si incrociavano le domande : «Di dove è? Chi è il padre? Chi la conosce?». «È di San Gallo, dicono che è di Turgau» rispondevano alcuni, e da un’altra parte si diceva invece: «No, a quella tavola son tutti Zurighesi». Dovunque essa volgeva gli occhi, su­ bito giovanotti allegri si levavano il cappello per rendere il dovuto omaggio alla sua grazia, ed essa rideva con mo­ destia, ma senza far la smorfiosa. Quando però un lungo corteo di giovani sfilò davanti alla tavola e tutti levarono il cappello, dovette abbassar gli occhi, e ancor più quando all’improvviso arrivò uno studente bernese, di bell’aspet­ to, col berretto in mano, e le disse con cortese schiettez­ za di esser mandato ambasciatore da trenta amici seduti alla quarta tavola, con l’incarico di dichiararle, suo padre permettendo, che lei era la più bella ragazza di tutto il padiglione. Insomma, tutti le facevan la corte e le vele dei vecchi amici tornarono a gonfiarsi al vento del nuovo trionfo, poiché la gloria di Hermine stava per oscurare quella di Karl. Ma a questi doveva toccare una nuova vittoria. Nel passaggio centrale sorse un certo scompiglio pro­ veniente da due pastori dell’Entlibuch che si facevan largo tra la folla. Eran due veri orsi, con in bocca pipette corte di legno, e portavano le giacche festive sotto le braccia robuste, avevan cappellucci di paglia sulle grosse teste e le camicie sul petto eran chiuse con fibbie d’ar­ gento. Il primo era un pezzo d’uomo di circa cinquant’an­ ni, piuttosto brillo e grossolano, che cercava infatti di ingaggiar prove di forza con tutti e a tutti porgeva le dita ad uncino, ammiccando or maliziosamente ora in aria di sfida. Suscitava quindi da ogni parte un poco di tumulto e di confusione, ma alle sue spalle procedeva l’altro, un tipo ancor più rozzo, di circa ottant’anni,

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con una gran chioma di ricciolini giallastri, il genitore del cinquantenne. Questi guidava il figlio senza lasciar cascar di bocca la pipetta, con mano ferrea, dicendogli di tempo in tempo : « Piccino, sta’ tranquillo ! Bimbo, fam­ mi il bravo!» e dandogli intanto le necessarie spinte e manate. Arrivò così a pilotarlo con mano esperta in quel mare tempestoso quando, appunto davanti alla tavola dei sette amici, lo incagliò un pericoloso ingorgo provo­ cato da una schiera di contadini che volevan sfidare quel litigioso e prenderlo in mezzo a loro. Preoccupato che il suo «piccino» gli combinasse qualche grosso guaio, il padre si guardò attorno in cerca di un rifugio e notò al­ lora il gruppo dei vecchi. “Fra queste teste bianche mi starà tranquillo !” mormorò fra sé, afferrò il figlio alle re­ ni con una mano e lo spinse attraverso alle panche, men­ tre agitando l’altra mano all’indietro si liberava dolce­ mente di chi irritato gli si stringeva addosso, giacché nel rapido passaggio più di uno era stato già pizzicato ener­ gicamente dal «piccino». — Permettete, cari signori, — disse il vecchissimo ai vecchietti — che sieda qui un momento e che dia un altro bicchiere di vino al ragazzo? Quello allora prende sonno ed è tranquillo come un agnellino! — Così di­ cendo s’incuneò senz’altro insieme al suo rampollo nella brigata e difatti il figlio cominciò a guardarsi attorno docile e rispettoso. Subito dopo però esclamò: — Vorrei bere in quella bella coppa d’argento! — Stammi tranquillo, altrimenti ti faccio sprofonda­ re tutto d’un pezzo dentro terra! — disse il vecchio; ma quando Hediger gli spinse accanto il calice colmo, ag­ giunse : — Bene ! Se i signori te lo permettono, bevi pure, ma non bermelo tutto! — Avete un ragazzo allegro, amico; — osservò Frymann — che età ha? — Il vecchio rispose: — Verso Capodanno dovrebbe aver su per giù cinquantadue anni, perlomeno strillava già in cuna nel 1798, quando vennero i Francesi a portarmi via le vacche e ad incendiarmi la capanna. Siccome però io a due di loro

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ho preso le teste e le ho sbattute l’una contro l’altra, ho poi dovuto scappare e intanto la moglie mi è morta di miseria. Per quello debbo allevare da solo il piccino. — Non gli avete dato una moglie che avrebbe potuto aiutarvi? — No, per adesso è ancora troppo maldestro e troppo violento ; non andrebbe : mette tutto a pezzi ! Nel frattempo quel discolo giovinetto aveva vuotato la coppa profumata senza lasciarvi una goccia e stava preparando la sua pipa ammiccando in giro soddisfatto e pacifico. Scoperse cosi Hermine e la irradiazione di bellezza femminile che essa emanava riaccese improv­ visamente nel suo cuore l’ambizione e la smania di far sfoggio di forza. Poiché intanto il suo sguardo si posò su Karl che gli sedeva di fronte, gli porse il dito medio ricurvo al di là della tavola, invitandolo alla gara. — Sta’ cheto, ragazzo ! Che diavolo ti piglia ancora? — gridò il vecchio rabbioso tentando di afferrarlo per il colletto ; ma Karl gli disse di lasciarlo pur fare e agganciò il suo dito medio in quello dell’orso, ed ognuno dei due cercò poi di trascinare dalla propria parte l’avversario. — Se tu fai male al signorino e gli sloghi il dito — ri­ prese il vecchio — ti do una tirata d’orecchie che te ne ricordi per tre settimane ! Le due mani rimasero per un bel poco sospese sul centro della tavola; presto però a Karl passò la voglia di ridere ed egli si fece di porpora in viso; alla fine tuttavia attrasse gradatamente il braccio e il torso dell’avversario dalla sua parte, col che la vittoria fu dichiarata. Il tanghero rimase a tutta prima attonito e mortifi­ cato, ma non per molto tempo, perché il vecchio, iroso della sconfitta, gli diede uno schiaffo. Il poveraccio allora lanciò un’occhiata di vergogna a Hermine e scoppiò a piangere e a gridar fra i singhiozzi: — E io adesso voglio una moglie ! — Vieni, vieni ! — disse il padre — è arrivata l’ora di andare a letto ! — E così dicendo lo prese sotto braccio e si allontanò con lui. Sparita la strana coppia regnò per un poco il silenzio

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tra i vecchi, poi tutti espressero il loro stupore sulle im­ prese ed i successi di Karl. — Vien tutto dalla ginnastica — disse lui con mode­ stia — che ci dà esercizio, vigoria e vantaggi in simili gare, e non v’è quasi nessuno che non possa arrivarvi, se non ha avuto la natura matrigna. — È proprio così — esclamò suo padre e, dopo aver un poco meditato, aggiunse entusiasta — per questo lo­ diamo in eterno i nuovi tempi che riprendono a educare l’uomo, facendone un uomo davvero, e imponendo non soltanto al rampollo aristocratico o al pastore della montagna, ma anche al figlio del sarto di esercitare le sue membra e di affinare il proprio corpo in modo che sappia muoversi ! — È proprio così ! — ripetè Frymann, che parve egli pure destarsi da una meditazione — e anche noi abbiam tutti collaborato a far sì che i tempi nuovi venissero. Ed oggi, per quel che riguarda le nostre vecchie teste, noi con la nostra piccola bandiera celebriamo la conclusione, il « Cessate il fuoco ! » e affidiamo la continuazione ai giovani. Di noi però non si è mai potuto dire che ci ostinassimo in errori o malintesi per caparbietà ! Al con­ trario, ci siamo sempre sforzati di rimanere aperti a quan­ to era ragionevole, vero e- bello ; col che faccio aperta e libera ritrattazione della mia sentenza nei riguardi dei ragazzi e ti invito, amico Chäpper, a fare altrettanto! Che cosa infatti di meglio potremmo istituire, piantare o fondare a memoria di questa giornata, che un vivo vir­ gulto spuntato proprio dal grembo della nostra amicizia, che una casa i cui figli serberanno e trasmetteranno i princìpi e la fede inconcussa dei sette impavidi? Coraggio dunque, Bürgi ci dia il suo letto a baldacchino e noi lo completeremo ! Io vi porrò la grazia e la purezza fem­ minile, tu la forza, la risolutezza e la destrezza, e così vadano avanti, poiché son giovani, reggendo il piccolo vessillo verde ! Esso rimanga a loro, che lo conserveranno quando noi saremo scomparsi ! Non fare dunque più opsizione, vecchio Hediger, e dammi la mano in segno di parentado !

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— Accettato ! — disse Hediger solennemente — ma a patto che tu non conceda al ragazzo mezzi per far scioc­ chezze o per sfoggiare aride vanterie ! Perché il diavolo gira sempre attorno cercando chi può inghiottire! — Accettato! — ripetè Frymann, e Hediger riprese: — Ti saluto allora parente, e che il «Sangue svizzero» sia spillato per le nozze ! A questo punto s’alzarono tutti e sette e fra grandi evviva le mani di Hermine e di Karl vennero congiunte. — Auguri ! Ecco un fidanzamento, così dev’essere ! — esclamarono alcuni seduti lì presso, e tosto sopraggiunse una folla di persone che, munite dei loro bicchieri, volevan brindare ai fidanzati. Anche la musica intervenne come l’avessero ordinata; ma Hermine, senza lasciare la mano di Karl, si sottrasse alla folla ed egli la guidò poi fuor dal padiglione, verso la grande piazza della festa già im­ mersa nel silenzio notturno. Girarono attorno alla torre imbandierata e, poiché non c’era nessuno vicino, si fer­ marono. Le bandiere ondeggiavano ancora vivaci e chiacchierine, ma i due giovani non riuscirono a distin­ guere tra esse il minuscolo vessillo dell’amicizia, rav­ volto e ben custodito fra le pieghe di una venerabile bandiera vicina. In alto però, al lume delle stelle, la bandiera della Confederazione scoppiettava, sempre so­ litaria, e si distingueva benissimo il fruscio della sua seta. Hermine mise le braccia al collo del fidanzato, lo baciò deliberatamente e gli disse con tenera commozione: — Ora però le cose da noi bisogna che vadan bene ! Ci sia concesso di vivere sin che saremo bravi ed attivi e non un giorno di più! — Spero allora di aver lunga vita, perché ho proprio dei buoni propositi ! — rispose Karl rendendole il bacio — ma come andrà il nostro regime? Vuoi davvero te­ nermi sotto la ciabatta? — Per quanto mi sarà possibile ! Si verrà però for­ mando anche tra noi una legge e uno statuto, e sarà un’ottima costituzione ! — Ed io garantirò lo statuto e chiedo intanto di essere padrino del primo figliolo! — disse d’un tratto una ro­

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busta voce di basso. Hermine alzò la testa afferrando la mano di Karl, questi si mosse verso la voce e vide una sentinella dei tiratori d’Aargau seminascosta dall’om­ bra di un pilastro. Il metallo dell’uniforme luccicava nell’oscurità. I due giovanotti si riconobbero: eran stati reclute insieme e quello d’Aargau era un aitante contadino. I due fidan­ zati sedettero sui gradini ai suoi piedi e prima di tornare alla loro brigata stettero a chiacchierare una mezz’ora con lui di varie cose.

URSULA

Quando si mutano le religioni è come quando si squar­ ciano i monti : fra i grandi serpenti incantati, fra i draghi dorati e gli spiritelli sotterranei delfanimo umano che salgono alla luce, balzan fuori anche vermi mostruosi e l’esercito dei ratti e dei topi. Cosi fu al tempo della prima Riforma anche nelle regioni nord-orientali della Sviz­ zera, e specialmente nella zona dell’Oberland zurighese, allorché tornò dalla guerra un uomo ivi residente, chia­ mato Hansli Gyr. Ai primi dell’anno 1523, infatti, ripassò le Alpi quel piccolo esercito zurighese che in singolari condizioni ave­ va difeso contro la Francia territori e sudditi del papato, mentre già nella sua patria si predicava il Vangelo. Questi Zurighesi avevano preso Parma, Piacenza ed altre città: dopo la morte di Leone X avevano custodito il Vaticano sino all’elezione di Adriano VI ed evitato inoltre l’urto con gli altri confederati svizzeri alleati coi Francesi, nel cui esercito combattevano. Quando, a lungo andare, s’accorsero che, malgrado il movimento scismatico, era­ no bensì accarezzati e lusingati dai romani, ma in pari tempo anche scherniti, senza mai poterne ottenere il danaro loro spettante, finirono, richiamati dal Consiglio, per risalire verso la patria, ed i loro capi giunsero a Zu­ rigo ancora in tempo per assistere, il 29 gennaio, alla prima disputa di religione tenuta in quel municipio e per unirsi al giudizio contro la Roma papale. Dovette essere uno strano spettacolo vedere questi uo­ mini avvezzi alle armi, ornati di catene d’oro e di piume, reduci da un lungo soggiorno nell’Italia cinquecentesca, partecipare al processo logico di dispute, votazioni e der cisioni basato esclusivamente sulla parola divina, alla purificazione insomma della fede, dei costumi e dello Stato, che si compiva in opposizione a tutto un mondo e che si diffuse solo incompletamente a causa degli errori che commise. Allorché quell’esercito, che non doveva superare le

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venticinque centurie, provenendo con tutte le salmerie dal lago Walen, giunse alla riva sinistra del lago di Zu­ rigo, dirimpetto alla città di Rapperswyl, Hansli Gyr, col permesso dei suoi capi, deviò verso il ponte della città, per raggiungere più presto sull’altra sponda il suo podere sul monte Bachtel. Il nome di Hansli (Giovannino) non indicava certo una figura minuscola; egli era anzi un uomo di alta statura, un robusto caporale, malgrado i suoi giovani anni, ma nel diminutivo si esprimevano le confidenziali simpatie per lui e la fama di uomo leale di cui godeva presso i compagni. Troviamo del resto so­ vente, negli elenchi militari o negli annuari, simili vez­ zeggiativi per nomi d’uomini d’armi da un pezzo de­ funti e del tutto sconosciuti, e ci dànno l’idea che essi siano stati migliori e prediletti fra gli altri, forse per l’in­ dole più semplice e bonaria, o per la serena impassibili­ tà e l’umore benevolo o per qualche altra buona dote. Hansli, col sacco di cuoio gettato sulle spalle, proce­ deva energicamente sul ponte di legno privo di balau­ strata e lungo circa cinquemila piedi, così che le assicelle ne risuonavano e la neve gelata scricchiolava. Ben vestito ed armato, non ostentava tuttavia la pompa sfacciata dei mercenari di quell’epoca : la sua veste nei colori bianco e azzurro del paese era di panno resistente e senza troppe cincischiature, ma anche oggi la persona più modesta non può impedire al suo sarto di accennare sul suo abito questa o quella moda. La corazza, l’elmo e l’alabarda erano però di buon lavoro milanese e la corazza risali­ va con fini scannellature a ventaglio dai fianchi snelli verso le ampie spalle robuste; un certo lusso rivelavano tuttavia i guanti lunghi di cuoio, senza i quali nessun soldato svizzero che tenesse alla propria persona si la­ sciava vedere, come possiamo leggere del resto anche in un canto di lanzichenecchi tedeschi: Quel che lo svizzero sciupa pei guanti, meglio in baldoria vogliamo scialare. Per il resto lo sfarzo di cui brillava la sua persona pro­ veniva dal riflesso scintillante del sole invernale sulla

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sua lucidissima armatura, tanto che, sin ch’egli fu sul ponte, giù nell’acqua lo accompagnò una duplice luce, sparendo soltanto quando egli fu entrato nell’ingresso oscuro del porto della cittadina di Rapperswyl. Avendo da percorrere ancora circa tre ore di cammino e non essendo inoltre sicuro di trovare da mangiare nella sua casa abbandonata, entrò in una taverna e si fe­ ce portare una pietanza calda ed una caraffa di vino. La stanza era affollata di barcaioli, di mercanti e di contadini, tutti buoni cattolici della regione di Schwyz, e, quantunque Hansli Gyr avesse già avuto notizia degli avvenimenti del suo paese, non si era immaginato la passione e l’eccitamento già profondi che si rivelavano ora nei discorsi di quella gente all’osteria. Udì stupito i già diffusi nomignoli e gli insulti contro gli Zurighesi, che in tempi simili costituiscono sempre la prima arma contro i rinnovatori da parte dell’irritata angustia men­ tale. Riconobbe fra gli avventori un vecchio mercenario e gli chiese il significato di quelle parole; quegli spiegò, biasimandoli, la provenienza e il senso degli epiteti, ma proruppe poi egli medesimo in aspro rimprovero: «I tuoi signori di Zurigo» esclamò «vogliono pren­ dersela coi preti, ma poi si fanno sopraffare dal nuovo stato di cose e predicano contro noi, poveri uomini d’ar­ mi, in modo che è proprio una vergogna ! Ci vorrebbero proibire di guadagnare la vita come possiamo e di meri­ tarci un soldo con tutto onore a prezzo di sangue o di staccare un dente a una corona d’oro. Dovremmo diven­ tare tutti degli ipocriti e stare bravi bravi attaccati alle sottane della mamma, ma noi non abbiamo salvato il paese e la libertà leggendo libri e facendo chiacchiere, bensì con buone lance e lunghe spade ! Continuino pure così; alla fine diventeranno degli abili maestrucoli ed avvocati, ma non sapranno certo vincere una lotta in campo aperto e neppure difendere le mura della città!». Hansli Gyr non si lasciò molto turbare da quel di­ scorso; benché giovane d’anni, era stanco della guerra ed aspirava soltanto alla pace ed al lavoro tranquillo. Gli parve anche che il vecchio soldato, ad osservarlo più da

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vicino, non avesse molta ragione di compiacersi del suo passato. Era infatti visibilmente esausto dalle fatiche e dalla vita disordinata, tormentato dalla gotta e precoce­ mente vecchio. Le macchie di sudore, di polvere e di ruggine sulla giubba di seta stinta non permettevano più di distinguerne il colore e i calzoni di gala a sbuffi che avrebbero dovuto accompagnarla eran da tempo scom­ parsi e sostituiti da un modesto indumento di pelle di capra. Fra la giubba e le brache sbucava ancora la cami­ cia, ma non era più ornamento e bandiera di baldanza, bensì un grigio e grossolano sacco di miseria. La testa era ricoperta soltanto da un berretto di velluto rosso sbiadito, portato un giorno sotto il gran cappello piu­ mato e calato ora invece sulle orecchie intirizzite, mentre invece della spada c’era una stampella. Accettò avida­ mente il boccale che Hansli fece riempire di vino ed av­ volse con cura in un lembo di stoffa un rimasuglio di pa­ ne e di formaggio. Tuttavia continuò a dire irato: «I tuoi signori si so­ no però dati la zappa sui piedi! La plebaglia li supe­ ra in pazzia, come la scimmia supera il buffone,e i con­ tadini non vogliono più stare sotto i padroni! Vattene pure sulla tua montagna, che brulica, come un cane pieno di pulci, di fanatici e di profeti, che predicano, ballano e fanno sconcezze per i boschi. E le donne sono più pazze degli uomini!». Il giovane guerriero si spaventò e si fece attento e chie­ se notizie più precise su tali avventure : al che il vecchio rispose narrando a modo suo quel che sapeva del movi­ mento anabattista, che si era diffuso specialmente nel di­ stretto di Grüningen e nella regione del Monte Bachtel. Concluse il racconto, ritornando alla sua mania, esor­ tando il giovane a non cacciarsi in quella confusione in patria, ed a partire invece entrando nell’esercito di re Francesco, dove c’era da pigliarsi una rivincita e da con­ quistare nuova fortuna. : Gli sguardi del vecchio scintillavan sotto le folte so­ pracciglia bianche: egli sognava in quel momento le truppe all’assalto, le bandiere al vento, i nemici abbattuti,

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le fattorie in fiamme, i quartieri lussuosi, le donne stra­ niere e la borsa gonfia d’argento. Al ridestarsi dai suoi bei sogni non si trovò più vicino il camerata, perché questi, spinto dalla curiosità e dalla preoccupazione, s’era lasciato alle spalle la città, avvian­ dosi a passi frettolosi verso il paese nativo. Ivi, negli ultimi anni, mentre egli era alle armi, erano morti il padre e la madre l’uno dopo l’altro, ma il suo poderetto, col terreno annesso, era stato curato da un colono che aveva la casa poco lontana, sullo stesso pendio della montagna. Non era tanto la preoccupazione per i suoi averi che gli faceva affrettare il passo, quanto la paura di non trovare le cose come le aveva lasciate. Anche in mezzo alla pompa ed alla magnificenza dell’Italia, pur vivendo tra le belle donne romane, aveva pensato sempre soltanto alla giovane Ursula, la figlia del vicino, con la quale era cresciuto da fanciullo. Quella personcina sem­ plice e tranquilla, senza apparenza, non bella né brutta, buona come il pane, fresca come l’acqua di sorgente, pura come l’aria della montagna, faceva impallidire ai suoi occhi ogni splendore prepotente e straniero e la con­ vivenza con lei gli appariva indispensabile quanto la terra natale, che ci guarda con gli occhi ingenui dei suoi fiorellini di prato. S’era congedato dall’adolescente con una mezza pro­ messa, ed ora cercava di rappresentarsi quale sarebbe sta­ to il suo aspetto, ma non poteva formarsi altra immagine che quella dell’acerba ragazzina. Tanto più aveva fretta di arrivare, turbato dai discorsi del vecchio soldato, e non si lasciò trattenere che molto brevemente dai conoscenti in­ contrati lungo il cammino. Gli parve tuttavia di accor­ gersi che le loro facce volessero dirgli: «Avrai di che stupirti arrivando a casa!» e che altri lo squadrassero come per scrutarne i sentimenti. Finalmente scorse la sua casa ergersi sulla cima fra due alti noci, che in estate l’om­ breggiavano e che in quel momento stendevano i grandi rami scuri e muschiati, al pari del tetto di paglia sotto­ stante, gocciando la neve scioltasi nella giornata. Non soltanto quelle stille cadenti, ma anche i piccoli vetri

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delle finestre, che egli si aspettava chiusi dietro le impo­ ste, luccicavano al sole occiduo, come lavati di fresco, dal tetto s’alzava un fumo ospitale, la porta s’aperse e ne uscì una figura femminile non ordinaria, vestita piutto­ sto come una cittadina che come una contadina di quel tempo. Una lunga veste scura, stretta sotto il petto, le ravvolgeva fino al collo la persona snella, lasciando usci­ re dalle spalle le maniche fittamente pieghettate di una camicia bianca. Una cuffietta semitrasparente copriva la fronte sin quasi ai grandi occhi oscuri e su di essa un fine drappo bianco girava più volte attorno alla nuca ed al mento, non lasciando scorgere affatto i capelli ed in­ corniciando completamente il volto. Hansli Gyr fino a quel momento aveva pensato soltanto ad Ursula, ma forse appunto per questo non la riconobbe subito quando quella fiorente figura femminile gli si fece incontro spalancando le braccia, e gli saltò al collo. Sol­ tanto allorché il morbido petto di lei si appoggiò sulla corazza insensibile, la riconobbe al taglio della bocca severa che essa gli porgeva da baciare e, solo quando l’eb­ be istintivamente stretta e baciata, si rese conto dell’inat­ tesa fortuna, che non aveva osato pensare tanto vicina. La trattenne confuso ed incerto fra le braccia, poi se ne staccò a poco a poco, credendo di troppo ardire, ma la strinse ancora una volta, più forte, sinché alla fine, sco­ standola decisamente ed osservandola, esclamò: — Ma sei proprio Ursula? E ti sei fatta tanto grande e bella? — Volesse Dio che io fossi bella, — replicò lei, con uno sguardo affettuoso — ne sarei tanto contenta per te ! Quanto ti ho aspettato! Ma sapevamo che oggi arriva­ vate, abbiamo veduto da lontano luccicare le vostre armi e avevamo persin creduto di udire il suono dei tamburi nell’aria tranquilla. Allora sono venuta qui, ho dato aria alla tua casa, l’ho riscaldata ed ho acceso il focolare. Le tue bestie sono nella nostra stalla, ma domani possiamo riportarle qui e allora tutto sarà a posto. Ma entra, dunque ! Condusse il giovane stupefatto in casa, l’aiutò a toglier­

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si l’armatura, gli portò dell’acqua calda perché dopo la lunga marcia faticosa potesse lavarsi i piedi e lo curò in ogni modo. Più tardi apparecchiò la tavola e vi dispose i cibi che aveva preparati. Poi gli sedette accanto sulla panca presso la finestra, come sogliono fare le giovani coppie, prima che sia sopravvenuta la numerosa servitù a dividere un poco il marito dalla moglie. Nessuno dei due aveva grande appetito, perché la gioia di rivedersi si univa ad una singolare eccitazione prove­ niente dagli inusitati atteggiamenti della donna. Hansli Gyr considerava la compagna della sua gioventù con crescente compiacenza, però anche con nuovo stupore e con una tal quale incertezza, e stava appunto chiedendole come mai portasse l’acconciatura, lo scialle e la cuffia di donna maritata, quand’essa gli additò con un tenero sor­ riso la brocca del vino, il pane bianco e la scatola delle droghe disposti su una mensola ed aggiunse, arrossendo, che lì stavan già pronti gli ingredienti per la zuppa di vino del mattino seguente. Era infatti allora usanza che quando un guerriero tornava dopo lunga assenza dal campo, la moglie, il mattino seguente la prima notte trascorsa sotto il suo tetto, gli preparasse, in segno di gioia, e quanto meglio sapeva, un vino caldo e drogato, con fette di pane abbrustolito. Egli disse allora, ancor più meravigliato ed incerto: — Ma noi non siamo ancora sposati, nulla è stato di­ scusso e preparato ! — Perché mi hai baciata allora, se non mi vuoi? — re­ plicò Ursula, e le sue guance si fecero d’un tratto pallide. — Chi dice che io non ti voglia? — protestò Hansli stringendosi accanto la giovane donna — se tu vuoi me, anch’io ti voglio, ma con questo non siamo che fidanzati, sempre che i tuoi ci diano il loro consenso ! — Ma non sai ancora che noi qui apparteniamo ai santi ed ai senza peccato della nuova fede, non più sotto­ posti ad alcuna autorità laica o ecclesiastica? In noi è lo Spirito di Dio, noi siamo il suo corpo, e noi non facciamo null’altro che la sua volontà ! Così dicono i nostri profeti, e tu dovrai entrare certamente nella nostra comunità,

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ed allora saremo marito e moglie in grazia dello Spirito Santo e della Sua volontà che regna in noi ! Ursula pronunciò questo discorso precipitosamente, ed ora fu Hansli ad impallidire un poco, mentre l’abbrac­ ciava più stretta e ne scrutava lo sguardo, giacché non l’aveva mai sentita parlare tanto in una volta. Mentre Ursula, cingendogli il collo, alzava gli occhi verso di lui, egli vide ardere in essi una dolce fiamma sensuale, ma in pari tempo anche la fiamma di quel fuoco fatuo che aveva arso la modestia di quell’anima e s’accorse che la fanciulla era presa dal morbo della follia, come un dolce grappolo è intaccato dalla ruggine. A malincuore e lentamente si sciolse da quell’abbrac­ cio, da quel petto che gli offriva così grato riposo, e cercò di staccarsi dolcemente dal collo le mani di lei che di con­ tinuo si intrecciavano, finché si liberò d’un balzo e le si pose ritto di fronte. — Le cose non possono andare così, — disse molto se­ riamente — voglio entrare nel matrimonio secondo la legge e le usanze, e possedere ben saldo quel che è mio ! Vieni, cara Ursel, ti riaccompagnerò a casa e parlerò coi tuoi, così andrà tutto in ordine e ci uniremo tanto più serenamente ! Dei tuoi santi e dei tuoi profeti non sento dir nulla di bene; non li conosco né penso di fare amici­ zia con loro ! Ursula non gli rispose, ma lasciò cadere le braccia inerti, guardando smarrita nel vuoto, sopraffatta dalla vergogna e dall’irritazione al pari di una donna che veda respinta la sua offerta, ed ora non sapeva che fare, al trovarsi di fronte il suo diletto quasi come un giudice. La sua facondia era d’un tratto sparita, senza che tor­ nasse l’antica placidità modesta, e per uno strano giuoco della vita accadeva che il guerriero, sbattuto da tante avventure, avesse però serbato il suo buon senso, mentre la sventura aveva raggiunto quella donna serena, lassù nell’appartata solitudine alpestre. Hansli cinse di nuovo la spada e porse la mano alla fanciulla ammutolita, poi, vedendo che non si muoveva, la fece alzare lentamente dicendole:

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— Vieni, Ursel, metteremo tutto subito a posto ! Essa si lasciò guidare passiva sino alla porta, ma poi s’aggrappò allo stipite, supplicando: — Oh ! lasciami qui, lasciami qui ! — Il giovane tut­ tavia la fece scostare ed allora essa lo precedette, di colpo risoluta, nell’oscurità, senza aspettarlo. Gli fu facile rag­ giungerla in pochi passi e così proseguirono in silenzio l’uno accanto all’altra, e ben presto videro spiccare sul cielo notturho i grandi aceri, presso i quali v’era la casa colonica di Enoch Schnurrenberg, il padre di Ursula. Questo cognome proviene da una località molto lon­ tana del Settentrione, chiamata Schnurrenberg, il che, al tempo della suddivisione delle terre, significava « Mon­ tagna dello Snurro», cioè del burlone, del pagliaccio. Benché padre Enoch difficilmente potesse essere un di­ scendente di quei vecchi giullari, era a suo modo un acre buffone, che si riteneva anche la testa più furba del paese, il che non voleva dir poco, perché in quella zona montana non mancavano certo le teste furbe e sveglie, fra le quali ad ogni occasione spuntavano anche profeti e fanatici, chiacchieroni e imbroglioni di ogni specie. Nella casa di Enoch proprio quella notte s’era rac­ colto un gruppo di simili profeti, sia pure di qualità inferiore, senza che vi fosse tra di essi alcuno di quei grandi predicatori che, apertamente o in segreto, per­ correvano il paese. Erano al contrario degli intermediari di vario genere, i quali fraintendevano anche nei par­ ticolari la pazzia generale, mescolandovi tradizioni mi­ stiche, e che, commossi dalle sofferenze del popolo, dif­ fondevano il crescente fermento e in esso sguazzavano. Quattro o cinque di quei visionari, generati e covati dal calore dell’epoca, tenevano un edificante convegno in casa dello Schnurrenberg. Perché però non godessero gratuitamente la luce e la stanza, l’astuto padre aveva messo loro dinanzi un mucchio di mele destinate all’es­ siccazione, e le faceva da loro tagliare a pezzi mentre essi si comunicavano le loro visioni e meditazioni. Quelli però, restii in fondo ad un lavoro assiduo e per di più ammoniti dalla moglie del loro ospite perché levassero me­

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glio i torsoli, se ne stavano immusoniti attorno alla tavola, senza che lo Spirito scendesse su di loro. Furono quindi gradevolmente sollevati quando Hansli Gyr entrò con passo tranquillo, si guardò attorno e si diresse con un saluto alla volta di padre Enoch, che gli sbarrò in volto le pupille stranamente luccicanti, quasi volesse trapas­ sarlo. Anche gli altri profeti, lasciando in pace le mele, fecero la stessa cosa, fissando per ogni verso con gli oc­ chietti oziosi, a seconda delle loro personali energie, qua­ le ammiccando e quale sfolgorando, il tranquillo soldato. Si consideravano tutti dei cosiddetti «scrutatori», e si abbandonavano al cattivo vezzo di tali occhiate insistenti, che rivelano sempre l’uomo stolto o presuntuoso e riesco­ no incomprensibili o odiose alle persone dabbene e leali, suscitando in esse l’impressione di chi sente un insetto immondo arrampicarglisi sul corpo. Mentre essi si comportavano come se il sopravvenuto fosse di vetro e lo potessero trapassare con lo sguardo, Hansli interruppe improvvisamente la sua breve traver­ sata della grande stanza per osservare a sua volta con stupore l’uno dopo l’altro quegli uomini. Pensò che erano forse i nuovi santi che gli avevano rovinato la sua bella, e per questo, appena finito di esaminare incuriosito l’ul­ timo, ripigliava da capo col primo, con occhi impassibili e pacati, senza mostrare alcuna fretta. Quelli comincia­ rono a sbattere le ciglia sempre più inquieti, non volendo mostrarsi da meno nell’arte dello scrutare, sinché tro­ varono la faccenda noiosa ed il padrone prese la parola per dire: — Che cosa vien qui a fare questo portatore di spa­ da e grande eroe di guerra? Con chi vuol combattere? — Ma io non sono che Gyr, — replicò Hansli — buona sera a padre Enoch e a tutta la compagnia ! Così dicendo, cercò con lo sguardo Ursula, che gli era sfuggita già davanti alla porta, scomparendo. Lì in casa tutti sapevano che essa era andata a ricevere il reduce ; si conosceva anche la loro antica simpatia e non si opponevano ostacoli ai loro piani; tuttavia il bizzarro genitore finse di non saper nulla, non chiese dove Hansli

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avesse lasciato la ragazza e gli indicò uno sgabello per sedersi, dicendo: — Guarda un po’, ecco il nostro vicino ed amico, ma quasi irriconoscibile, diventato ancor più grande, un ve­ ro Hans ormai ! Ma appena Hansli ebbe preso posto, l’altro riprese, con litigiosa impazienza contadinesca : — Che c’entrano ormai più la spada e la corazza? Non sapete ancora che è prossimo l’avvento del regno mille­ nario, e che i nostri soldati sono gli angeli del cielo, con spada rilucente e scudo di diamante? Ma voi venite dal papa e andate a Zurigo da quell’altro papa o papuccio, e cosa ne volete mai saper voi dello Spirito e del regno millenario, voi smargiassi e fanfaroni? Vi ritenete forse grandi ed importanti pei vostri tamburi e i vostri stendar­ di? Ahimè, che povera e caduca creatura acquosa è mai l’uomo ! Basta pungerlo un momento perché si svuoti tutto, e se prendi anche il più forte guerriero, che sembra scolpi­ to nel marmo, e gli fai cadere addosso un pezzo di roccia, grande come un cammello, ti par di vedere un povero ragno schiacciato, non ne resta in terra che una macchia umida e sporca. A quel tentativo scortese di umiliarlo, Hansli replicò con una risata bonaria: — E che cosa resta invece in terra, se quel cammello di sasso arriva addosso ad un santo o ad un profeta? Ma la replica non piacque per nulla ad Enoch, che invece di ribattere esclamò: — Dai loro frutti li riconoscerai ! Vuole forse l’uovo saperne più della gallina? E non hai ancora visto nes­ suno dei dotti preti e neppure sentito predicare il loro capitano, quel pazzo di Zwingli? — Sicuro che l’ho veduto e udito, — replicò Hansli — ma è passato molto tempo e poco ancora ne capivo. È stato otto anni fa, allorché, ragazzo sedicenne, sono corso con gli altri in Lombardia, ai tempi della disgrazia di Marignano, quando abbiamo perduto la battaglia. Allora Zwingli ci venne a predicare in campo; era un uomo simpatico e coraggioso, con gli occhi belli come

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quelli di un cervo : ricordo ancora che lo fissavo pieno di rispetto! Sicuro che lo voglio sentir predicare! Si dice infatti che egli si appoggi soltanto alla parola di Dio, come sta nella Scrittura ! — La Scrittura ! La Scrittura ! Che ne sai tu della Scrittura, e che ne sa quello stupido maestrucolo? — Queste ultime parole furono gridate all’improvviso con voce stridula da uno dei profeti presenti, un uomo piut­ tosto alto e magro, un certo Wirtz von Gossau, sopranno­ minato «il freddo» perché aveva sempre le mani umide e gelate. Indossava una stretta giubba grigia che pareva un sacco, era affatto imberbe e soltanto le sopracciglia rossicce si disegnavano come due piccoli archi a sesto acuto sulla fronte angusta. — Cos’è la Scrittura? — gridò — Una pelle, una canna vuota, se non ci soffia dentro lo Spirito Santo! È un gatto morto, se io non lo faccio correre immettendovi l’afflato di Dio ! È una canna d’organo muta, un violino senza voce, se io non ci suono ! Io sono la Rivelazione ed il Verbo, la Scrittura non è che il suono e l’alito che muo­ ve l’aria! Io l’accendo al pari di una lanterna per dar luce e la spengo quando mi pare ! Io me la infilo sulla testa come una cappa magica, faccio br . .. br ... scotendo la testa, ed ecco che subito sono ravvolto nel mi­ stero e da me parte un’ombra terribile, che vi fa tutti rab­ brividire ! Poi soffio dal naso ed ecco che la nebbia sva­ nisce, che il libro giace sulla tavola di Dio e le sue lettere risplendono come mille stelle, e a voi pare di assistere alla fondazione del regno celeste, ma poi lo prendo e lo getto in un canto, e non è più che un volume stampato, un mucchietto di carta straccia come tanti altri libri ! Tutti istintivamente mossero gli occhi verso l’angolo della stufa, come se davvero quello ci avesse scagliata una Bibbia. La padrona di casa mandò un grido di paura e di ammirazione per tanta energia e magnificenza. Anche Hansli Gyr guardò in quella direzione, stupito e spaven­ tato da quei modi inauditi, ma il freddo Wirtz continuò: — Sfoghi pure le sue arti da questo brulicame di let­ tere morte il tuo vanitoso maestro! Egli potrebbe con

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egual successo scavare la sabbia nel deserto : non ne sgor­ gherà mai una viva sorgente ! Ma ecco che io lo raccatto ed esso diventa una verga di Mosè, un aratro, uno scudo e una spada, una brocca ed una coppa, una botte e una vigna, una foresta verde ed il cane con cui io vado a cac­ cia, il mare profondo e la nave sulla quale io navigo ! 10 vi leggo la Scrittura ed intanto la scrivo, la penso, la parlo, l’apro, la richiudo, vi seggo sopra, l’appiccico alla coda del diavolo, facendolo poi scappare come un gatto a cui è appeso il campanello ! — «Giacché sono io colui che ha il Verbo», cosi dice 11 Signore, ed egli l’ha scritto, ed egli solo lo può leg­ gere e comprendere entro la sua dimora, la creatura ! Queste parole echeggiarono da una voce nuova ed ancora più impetuosa, benché fossero pronunciate più lente e distinte. Il soldato si volse a guardare il nuovo oratore e scorse una figura tozza, dagli occhi rotanti e dal grosso labbro inferiore sporgente in un volto oscuro. Que­ sti era chiamato dalla gente Schneck von Agasul, randagio ciabattino e maestro per professione di ricambio. Del suo labbro inferiore un prete suo nemico aveva detto che sem­ brava lo sgabello da riposo per il diavolo, dal quale l’an­ gelo caduto faceva penzolare le gambe pelose ogni volta che lo Schneck discorreva. Non aveva nulla di singolare nella persona, se non che sembrava amare i gioielli, por­ tando alle dita parecchi anelli dorati con pietruzze rosse e verdi. Si diceva che in tempi passati solesse portare scarpe tagliate e mostrar simili anelli falsi anche alle dita dei piedi. — Sono io, sono io, che ho il Verbo ! — gridò trapas­ sando con lo sguardo Hansli Gyr, che lo fissava curioso, ed eccitandosi sempre più, sinché d’un tratto parve cal­ marsi ed intonò un canto cui si unirono uomini e donne, ed anche la voce di Ursula si fece inaspettatamente udire :

In Giudea ben noto è Dio, suona il nome in Israello, a Salèm è la sua sede, e lo canta a Sion la rocca !

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Ivi ei spezza dardo e lancia scudo e spada in ogni lotta; i superbi fa crollare ed abbatte ogni soldato ! Egli insorge alla sua ora per sanare ogni tormento; a chi in terra è sventurato Zebaoth porge conforto ! Lode a lui, nostro Signore ! Dura ed aspra è la sua mano, dei sovrani spegne l’astro poi gl’insegue come un branco !

Il canto si spense più melanconico che minaccioso, piuttosto lamento che voce di vittoria, ma Schneck von Agasul balzò in piedi, gridando : — Voi certo credete che Dio stia in realtà su un carro di fuoco, oppure nella rocca di Sion, al di sopra delle nubi, con una lunga barba, la corona e lo scettro, e che venga a cacciarvi via il papa e i prìncipi, i signori ed i reucci borghe­ si di Zurigo, mentre voi ve ne state qui comodi a bocca aperta, perché vi caschino gli uccelli arrostiti ! E credete che egli porti alla cintura un calamaio e annoti tutti i vo­ stri nomi in un registro, ciascuno col suo credito ed i suoi desideri, coll’altezza e col peso della sua pancia, che egli possa concedere o sottrarre a seconda di ciò che esige il be­ ne, e che il buon uomo ne abbia tutte le dita sporche d’in­ chiostro? Vi sbagliate di grosso, poveri e ciechi pagani, che ado­ rate dei simulacri e non avvertite il Signore quando vi sta alle spalle! Egli è qui, è là, è in ogni luogo, Egli è nella polvere di questo pavimento e nel sale dell’acqua marina! Egli si scioglie come la neve del tetto e noi lo vediamo gocciolare! Splende nello sterco della strada, guizza coi pesciolini nelle profondità delle onde e scruta con occhi di nibbio librato nell’aria. Come potrebbe sembrar tanto buono il vino se non vi fosse dentro Lui, come ci sazierebbe il pane, se Egli non vi avesse dimora?

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Ma Egli è anche dentro di noi e, come noi possiamo ri­ mirarci soltanto se abbiamo uno specchio, così possiamo scorgere Lui che in noi abita solo nel volto del prossimo e del fratello : per questo bisogna che di continuo ci specchia­ mo l’un nell’altro, che scopriamo e riveliamo Colui che sin dal primo inizio è dentro di noi ! Come potremmo, in­ fatti, essere tanto santi, innocenti, intelligenti ed arguti, se non fossimo noi medesimi di natura divina, e come po­ trebbe Egli sussistere, se noi non gli offrissimo dimora? Perciò Egli dipende da noi, come noi da Lui, e dobbia­ mo domarlo se non fa bene, e ricoprirlo di preghiere e di parole ardite finché si mortifichi e si induca a rivelarcisi con i miracoli ed i segni, facendo il voler nostro ! Prese una mela dalla tavola, se la tenne di fronte e si mise a parlare quasi fosse viva: — Ebbene, o mio bel piccolo Dio: ti sei rifugiato qui, stai dentro a questa mela e credi che io non ti trovi? Ma io ti scaccerò di qui, come ima volta tu hai fatto uscire Adamo dal cespuglio, dopo che ebbe mangiato il pomo! In nome del Santo Sangue del Figlio dell’Uomo, vieni subito fuori! Guardate, fratelli e sorelle, come la mia mela comincia a risplendere dall’interno, come mi si gonfia in mano e diventa un mondo! Vedete che il picciolo cresce e si trasforma nel grande crocefisso che si erge sul Golgota ! Vedete gli omiciattoli che brulicano su quell’altura, le tombe che si schiudono, i morti che risor­ gono ! Egli è santo, è santo, è santo ! Chiamatelo ed esal­ tatelo, Egli ci ha redenti! — Santo ! Santo ! — fecero coro tutti gli altri, ad ecce­ zione del soldato, che fissava di continuo il profeta, finché questi, d’un tratto, gli scagliò il frutto contro la testa, gridandogli con mutato accento : — Eccoti la mela, mangiatela ! Ma Hansli, che era riuscito ad afferrarla in aria, la con­ siderò per un poco, poi la depose tranquillamente sulla tavola. — Non provartici una seconda volta, buffone ! — disse a Schneck, guardandolo impassibile, ed il profeta si di­ menò inquieto dietro la tavola, dove si sentiva sicuro a

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mezzo, e fece un paio di volte per rimettersi in piedi, senza ben sapere come comportarsi col soldato. Tutto questo era il malo arbitrio che da un millennio aveva imperato sugli altari e che, penetrato ora fra quella po­ vera gente, si manifestava in modo così sciagurato, rima­ nendo però subito incerto all’apparire di una resistenza. Vicino a quel santo inquieto ne sedeva uno più tran­ quillo: Jakob Rosenstil, soprannominato «il largo», che ora cercava di calmarlo. Era questi un uomo corpulento, dalla lunga barba, che era rimasto sempre seduto comodo e silenzioso, con le mani incrociate sul ventre. Egli col­ tivava una impassibilità spirituale, una calma, un’im­ mobilità dell’animo che annullava ogni dolore, e, senza mai commuoversi, si lasciava ricolmare dalle cose di­ vine e anche da tutte le altre buone cose. Per anni aveva peregrinato attraverso la Germania, s’era pure ricove­ rato in un convento per poi di nuovo uscirne; ora passava lentamente di capanna in capanna, perché la miseria lo costringeva a muoversi ed a cercare la compagnia di visionari più agili ed energici, al cui seguito ci fosse qual­ che cosa da mettere sotto i denti. — Non essere tanto impaziente, sii dolce invece ! — disse a Schneck von Agasul, premendogli la mano sulla spalla — Guarda quello là, è tranquillo, malgrado la sua spada ! Lasciagli il tempo necessario perché accolga in sé ed elabori il vero verbo di Dio e vedrai allora che bel santo potrà diventare! — Non voglio più tagliar mele ! — replicò Schneck con ira, respingendo con la mano quelle che gli stavano dinanzi. — Moglie, libera la tavola ! — esclamò il padrone di casa — vogliamo concederci una piccola gioia mondana e berci un goccio di vino ! Hai con te, Wirtz, le carte nuove? La tavola fu ripulita e Wirtz «il freddo» trasse dalla sua giubba grigia un mazzo di carte, deponendolo sulla tavola. Il vecchio Enoch portò una grande caraffa di vino che cominciò a mescere per buon denaro ai suoi ospiti, pur non possedendo la licenza, e la compagnia si diede per la maggior parte della notte a giocare in si-

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letizio con quelle strane carte, le cui figure rappresenta­ vano animali mostruosi, scimmie, gatti e demoni, in parte di aspetto osceno, senza che del resto fossero attentamente osservate dai giocatori. Solo verso il mattino smisero quella monotona occupa­ zione e si dispersero, tornando ai loro vari rifugi o alloggi. Hansli Gyr, che si rifiutò di giocare con quegli zotici compagni, e che non era ancor riuscito a scambiare una parola con le donne nel frattempo sparite, aveva già pri­ ma fatto ritorno alla sua casa solitaria, ed era andato a riposare scrollando il capo di cattivo umore.

Dormì tuttavia bene e profondamente sino al mattino alto, poiché il letto accuratamente rifatto, l’ampio talamo dei suoi defunti genitori, accolse ospitalmente la sua stan­ chezza. Appena desto dovette pensare alla mano fem­ minile che gli aveva preparato tanto bene quel giaciglio, e, nello scorgere la colazione a lui destinata, si domandò se non avesse agito stoltamente respingendo quella tenera felicità che gli era stata così vicina. Si preparò alla me­ glio la bevanda calda e drogata, e meditò poi tra sé, mentre la beveva, come aggiustare la faccenda ed otte­ nere in giusto modo quel che gli spettava. In quel momento s’aprì la porta ed entrò il vecchio Schnurrenberg con i guanti a manopola e la scure sotto il braccio, come chi, avviato a spaccar legna, volesse dire una parola di passaggio. Diede con i suoi occhi sfuggenti un rapido sguardo alla colazione, alla quale Hansli in­ tanto lo invitava, e non esitò ad accettare. — Metterò questo vino, questo pane e le droghe — co­ minciò poi lentamente — sul nostro conto, e precisamen­ te sul mio dare; poiché hai ripudiato e scacciato la ra­ gazza è ben giusto che le spese tocchino a te solo ! — Ma chi parla di cacciare o di disprezzare? Io la voglio più che mai, — replicò Hansli — ma sono stupito che voi, padre e madre, vogliate dare vostra figlia a quel modo, e mi meraviglio che vi circondiate di simili buf­ foni, che vi mettono tali cose in testa, come ho veduto ieri sera !

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— Questi poveri pazzi saranno i padroni tuoi e dei tuoi signori, giacché noi, il popolo, li faremo grandi, per diventare noi stessi grandi e potenti, secondo il decreto di Dio che sta per venire a noi ! Quanto alla figliola, ad Ursula, non vogliamo più sottometterci alle antiche usan­ ze pagane, ma darla secondo la divina libertà, e solo chi l’accetta con pari libertà potrà averla. Tu invece sei tornato come un pervicace ed altezzoso complice del passato, lo vediamo bene, e non contiamo più su di te ! Hansli Gyr guardava dinanzi a sé addolorato; egli era una di quelle indoli semplici che rimangono inconta­ minate dalle epidemie di follia senza fare alcuno sfor­ zo, cosi come vi è gente che pare attraversi senza peri­ colo ogni male contagioso senza esserne colpita. Capiva bene di non poter accostarsi al confuso disordine che gli si opponeva. Ma, mentre verso Ursula non sentiva ama­ rezza, ma solo tenera compassione, il contegno del padre lo riempiva di disagio e di antipatia. Lo aveva sempre conosciuto come uomo furbo e facondo, ritenendolo più saggio di quel che non fosse, non sapendo nel suo candore giudicare quei furbacchioni che, mossi da mali istinti, sono i primi a cadere preda di quelle storture che essi si illudono di dominare. Tanto più misterioso gli appariva lo strano morbo insinuatosi così fatalmente proprio nel luogo della sua culla e del suo sognato avvenire. Dopo breve meditazione si riprese e disse: — Andrò a Zurigo dove comunque devo presentar­ mi e dove ho qualche cosa da sbrigare. Mi guarderò at­ torno e cercherò di sapere il meglio possibile quel che accade in paese e quello che i superiori davvero voglio­ no e insegnano. Mi sarebbe caro se tu volessi nel frat­ tempo occuparti ancora delle mie cose; appena ritorno ti libererò di tutto senza che tu ne abbia danno ! Ma questa notizia non piacque affatto a Enoch Schnur­ renberg, che cioè il giovanotto andasse a chiedere con­ siglio nella città dai vecchi reggenti, invece di credere a lui. — Tu non ritornerai più; — disse con rapida decisio­ ne — per l’antica amicizia e per farti del bene io ti voglio

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facilitare la via della tua cosiddetta felicità, sinché lo Spirito di Dio non scenda su di te. Ascoltami bene: tutto quello che si chiama ora proprietà, cesserà appena giungerà il Regno millenario, e ciò può accadere da un giorno all’altro ! In primo luogo saranno abolite le deci­ me ed il censo, i diritti e le servitù e tutti gli ingiusti gra­ vami; poco dopo sarà requisita anche la terra e tolta anche l’ultima pietra di confine, e chi non ci starà, po­ trà pulirsi la bocca ed andarsene. Perché tu te ne possa andare subito senza perdere quello che hai, per compas­ sione rileverò il tuo poderetto a buon mercato e lo am­ ministrerò come mio finché durino le antiche condizioni. Ma, poiché parteciperò al nuovo Regno, io non soffrirò miseria e dovrò ugualmente cedere ad esso tutto quello che posseggo. Tu invece, a questo modo, puoi andartene dove ti piace, portandoti una buona sommetta per il viaggio ! Dopo un momento di simulata riflessione, Enoch enun­ ciò un minimo prezzo di acquisto sul quale avrebbe vo­ luto subito accordarsi con Hansli. — Altrettanto posseggo già coi risparmi sulla paga e con un poco di bottino — replicò Hansli traendo up sacchetto di cuoio di monete d’oro e mostrandole al vecchio, i cui occhi curiosi parvero scintillare più per cu­ pidigia terrena che per il regno di Dio. — Inoltre, — proseguì Hansli — il poderetto per ora mi sembra abbastanza solido. Potrebbe ben capitare che le decime e i censi venissero aboliti, non però la proprietà fondiaria, ed allora il podere acquisterebbe maggior va­ lore, ed io rimarrei ingannato, al che tu certo non hai pensato. Lasciamo le cose come sono, ed io ti ringrazio per le tue buone intenzioni. — Come vuoi, — disse Enoch, i cui pensieri erano stati ben interpretati da Hansli, che non era poi uno stupido — ma dovrai trovar altri che provvedano al podere, perché io non voglio occuparmene più ! Così dicendo, prese l’accetta e lasciò senz’altro la casa dove Hansli Gyr rimase solo soletto. Il contegno di Enoch lo addolorava non poco, perché ben comprendeva che

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voleva disfarsi di lui e tenerlo lontano. Dopo essere rima­ sto per un poco nella stanza silenziosa, che gli era apparsa il giorno avanti così calda ed ospitale ed era invece ora tanto fredda ed ostile, balzò d’un tratto in piedi per porsi in cammino. Invece di andare a prendere i vecchi abiti da contadino, rimase nell’armatura ed anzi la pulì e la riassettò accuratamente insieme alle armi. Infilò anche i guantoni color cuoio ad alti polsini, quasi volesse con ciò orgogliosamente isolarsi e distinguersi dal fuorviato paese nativo. Dopo che ebbe chiuso le imposte, dando dalla soglia un’occhiata alla casa buia, gli parve che l’inva­ lido di Rapperswyl avesse ragione, e che sarebbe stato meglio per lui ripartire, non fosse altro che per trovare una tomba su di un verde campo. Tuttavia prese la chiave e s’awiò verso la casa di Enoch, con l’intenzione di consegnarvela, quasi a prova che egli intendeva tornare e non rinunciare ad ogni spe­ ranza. Quando s’accostò alla casa, la madre di Ursula, tutta imbacuccata per il freddo, stava sulla porta aperta del granaio, intenta a sminuzzare il mangime per le bestie, dal che si comprendeva che il lavoro quotidiano proseguiva ancora come in passato. — Bisogna tagliare erbe e rape anche nel Regno mille­ nario? — domandò con tono di scherzo conciliante — Che Dio vi conceda una buona giornata ! Lavorate tanto anche con le dita gelate? — Dio ti rimeriti, Hansli, e conceda anche a te una buona giornata ! — replicò la donna — Bisognerà sempre far qualcosa, altrimenti sarebbe troppo noioso ! Dove sei avviato così, in armi? Volevo venire fra poco a prepararti un po’ di pranzo, perché non si può lasciarti in asso così d’un tratto ! Ma, a quanto pare, tu hai già l’intenzione di scappare! — Devo andare a Zurigo, dove congedano le truppe. Eccovi la mia chiave, se la volete custodire ancora. E ditemi un po’, che ne è di Ursula? Siete anche voi del parere che debba diventar moglie senza parroco né au­ torità? — Sì, sono anch’io di questo parere, perché tale è

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la volontà di Dio e quella di mio marito. Egli di queste cose se ne intende molto più di me, ed ha sempre imposto la sua volontà. Pensa di diventare lui stesso un capo nel­ l’epoca nuova; dice che una buona volta bisogna pure incominciare, e proprio con le cose a noi più prossime. Ha una testa fina, capisce tutto ed ha grandi qualità. Faresti quindi meglio a sottometterti, perché contro di lui non la spunterai mai. La povera Ursula questa notte non ha chiuso occhio, ora è là, seduta in tinello a filare; non vuoi vederla un momento? Egli acconsentì a vederla. Ursula al suo entrare si co­ perse di rossore; abbassò lo sguardo sul fuso, senza ac­ corgersi di arruffare intanto il filo. Non rispose al suo saluto e, anche quando egli le prese la mano, non alzò gli occhi, ma anzi volse il capo dall’altra parte. — Ieri non sono neppure riuscito a darti Γ anellino che t’avevo portato; — disse infilando un anello d’oro di fine lavoro, da lui comperato in Italia, a un dito della mano che le aveva afferrato — vuoi affidarti un’altra volta a me, e promettere di aspettare sin che tornerò? — Solo se tu rinunci al tuo mondo perduto e ti unisci a noi porterò l’anello, — disse alla fine Ursula, sempre senza guardare — del resto ti aspetterò sinché tu ti sarai abituato alle grandi cose! — Io non rinuncerò a nessun mondo e non mi unirò a nessuno, — esclamò Hansli — ma tu, in ogni caso, devi staccarti da quei profeti che ho veduto ieri sera, perché non mi piacciono affatto ! Ursula allora sfilò l’anello dal dito e lo lasciò rotolare a terra, alzandosi in piedi e passando, sempre senza guardare Hansli Gyr, dal tinello alla sua camera, dove si abbandonò ad un gran fiume di lagrime ardenti. Essa si inchinava alla follia ed allo sguardo tagliente di suo padre, che da un lato temeva quanto una spada e dall’altro venerava come un santo infallibile. Dove in­ fatti tali spiriti avrebbero potuto trovare seguito e fede, se non in primo luogo presso i loro familiari, ai quali con­ tinuavano a predicare la dottrina mettendo se stessi nella miglior luce?

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Hansli si trattenne ancora qualche minuto nella stanza, ma poi uscì senza raccogliere l’anello né voltarsi indie­ tro, e si pose in cammino con un profondo sospiro. Attra­ versando il villaggio più vicino, incontrò parecchia strana gente e strani sguardi, e si accorse che facevano capannel­ li, parlottando fra loro. Più oltre, però, man mano che avanzava, gli parve che l’aria si schiarisse: rivide il vec­ chio popolo a lui familiare, che, intento con savia sag­ gezza ai suoi traffici, andava serenamente per la sua stra­ da. Eppure anche lì non c’era più il mondo di prima; pareva che un lavorio mentale più intenso ed energico compenetrasse la limpida atmosfera, vivificando la gente. Senza rendersene ben ragione, il giovane ed energico viandante si sentì più lieto e soddisfatto. Trovò la soldatesca ancora accampata a Zurigo, ec­ citata e piena di contrasti; il rigido divieto di accettare ulteriori servizi militari o pensioni da stranieri colpiva duramente gli antichi mercenari ed i loro caporioni, im­ pedendo ogni nuova impresa, ed essi, sobillati dagli av­ versari segreti o aperti della Riforma, davan libero corso al loro malumore, mentre d’altra parte i fanatici profeti si mescolavano alle truppe cercando di cattivarsele. Hansli Gyr, dopo essersi dato d’attorno ed essersi pre­ sentato ai superiori, quando venne la sera si recò nel­ l’osteria dell’«Alsaziano», dove le autorità cittadine face­ vano distribuire da un proprio oste il vino d’Alsazia, e dove già si affollavano, seduti o in piedi, i sottufficiali ed i veterani delle milizie rimpatriate. Già all’ingresso, sul quale era dipinto lo stemma della città, e nell’atrio i soldati si erano radunati in gruppi e camminavano avanti e indietro, ritti e decisi, come gente che da anni non ha mai piegato la schiena e non ha mai più maneggia­ to la zappa e la scure. Hansli si aprì un varco e conquistò un ultimo posto nello stanzone affollatissimo che echeg­ giava di voci aspre ed eccitate, quanto lo permetteva il bassissimo soffitto. S’incrociavano motti e discorsi feroci, e le voci più acute e rimbombanti, che appartenevano agli uomini più alti e robusti, suonavano tanto più ta­ glienti e minacciose. Si discuteva ovunque se convenisse

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obbedire al divieto di arruolarsi o apertamente sfidarlo, oppure se si dovesse semplicemente lasciare il paese affi­ dando il resto all’avvenire e andandosene dove più piacesse. Guardandosi meglio attorno, Hansli scorse Wirtz von Gossau, «il freddo», seduto in un angolo fra un gruppo di soldati, addossato alla parete, con accanto un’altra strana figura di non combattente, un monaco o un papi­ sta incappucciato, a tutti sconosciuto, che però incitava a resistere e a conservare l’antica libertà di combattere. D’un tratto Wirtz inarcò le sopracciglia sino all’altezza del cappello e cominciò ad urlare che non dovevano prestar fede a quel tirapiedi del diavolo venuto da Roma, ma neppure ai reggenti ed ai consiglieri, bensì fare una gran catasta di tutte le lance in mezzo alla città e bruciarle solennemente, giacché stava per giungere la nuova Geru­ salemme con i suoi soldati, legioni di angeli dalle spade di fuoco, contro le quali nessun ferro terreno avrebbe mai vinto. Questo era ormai destinato soltanto a scavare con lieve fatica la docile terra, schiudendola alla più mite stagione. Ad ognuno inoltre sarebbe toccata una nuova moglie giovane e avrebbe potuto liberarsi in quell’occa­ sione della vecchia se l’aveva, poiché si stava riparando ad ogni male. Una gran risata interruppe il discorso di Wirtz, che aveva dapprima suscitato una certa attenzione; soltanto tre o quattro dei vecchi lanzichenecchi, che forse si preoccupavano del ritorno a casa, parvero meditare un poco quell’idea, finché ne compresero l’inverosimiglianza e non degnarono più il profeta di uno sguardo. Hansli Gyr però, pieno di stizza che quel buffone già incontrato gli tornasse sotto gli occhi ricordandogli la mala riuscita del suo incontro con Ursula, l’interruppe gridando ad al­ ta voce che non erano venuti 11 per perdere il tempo con quelle teste d’asino piovute su tutto il paese; avevano più serie questioni da risolvere e conveniva tenersi concordi. Quando lo ebbero salutato e gli chiesero come la pen­ sasse, rispose: — Cari fratelli, sono arrivato da poche ore ed ho però

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già saputo che i consiglieri ed i cittadini, i duecento e il popolo della campagna, nella maggioranza son d’accordo e detengono il potere come prima ! Perciò son d’opinione che non ci convenga e che non ci tomi utile suscitare contese o allontanarci dalla via dell’ordine. — Ecco un buon discorso di un giovane guerriero ! — disse accanto a lui una bella voce sonora, ed una mano gli si posò energica e calda sulla spalla. Si volse stupito, e riconobbe il Maestro Ulrich Zwingli, il quale era in compagnia di uno stimato presidente di corporazioni e di un giovane umanista: sbrigati gli affari di stato, aveva voluto recarsi in quel ritrovo per conoscere di persona quale fosse l’animo dei mercenari. — Se fra i soldati — proseguì Zwingli — ci sono cosi giuste idee, e se rimane un posticino per noi, berrei vo­ lentieri un bicchiere di quel vino d’Alsazia che farà pro­ fitto ad un ecclesiastico, il quale ama i soldati, non meno che a questi medesimi! I presenti si scostarono per fargli posto, in parte vo­ lonterosi e gentili, in parte a malincuore e brontolando; però quanto più a lungo l’occhio luminoso del riformatore si posava sull’adunata, tanto più rapidi essi si scostavano, cosi che ben prèsto vi fu posto sufficiente per i sopravve­ nuti, a spese però del monaco romano e di Wirtz «il fred­ do». Questi infatti, che soli non si erano mossi, vennero tanto stretti e compressi dalle due parti che non poteva­ no più muoversi fra quei pezzi di uomini grandi e grossi e dovevano sprecare fatica per tener lontano l’un dall’al­ tro i loro due volti nemici. Tanto più a suo agio Zwingli, che aveva allegramen­ te osservato e riconosciuto i due presi in trappola, potè intrattenersi coi soldati. Ben presto gli uomini d’arme prestarono orecchio con visibile piacere ai suoi discorsi, il cui chiaro dialetto di Toggenburg si distingueva grade­ volmente dal vocalismo degli Zurighesi, ora cupo e chiu­ so, ora troppo aperto, e difficile talvolta persino a chi ben lo possiede, sinché la fiumana della loquela, raffor­ zandosi, non riesce a vincere ogni ostacolo ed a prorom­ pere come un torrente montano che trascina pietre e

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detriti. La vivace lingua del Maestro Ulrich era anche il fiore di quello schietto e disinvolto figlio della monta­ gna, nato fra le grandi vette rocciose e nevose, balzato nella vita con agile forza, che sembrava serbare nello sguardo il luminoso riflesso della terra natale e sentire sulle guance il fresco alito dei monti. Non fu difficile a quell’uomo, che più tardi scrisse la singolare Istruzione per un capitano, persuadere i soldati che egli non era affatto nemico e spregiatore dei bravi combattenti, bensì loro amico e fratello. Essi ascoltarono con attenzione le sue parole quando diede l’idea di una più alta forma di popolo in armi, che non sciupa il suo sangue per denaro e per contese straniere, ma sa difen­ dere con le sue armi onorate l’indipendenza della patria, le leggi da essa create, i buoni costumi e la libertà di coscienza. Si fece in ultimo un gran silenzio, tanto che si potè udire d’un tratto la campana annunciante la chiusura di tutte le mescite e le osterie. Subito Zwingli s’alzò con i suoi accompagnatori per rientrare in casa, ponendo fine all’inusitata avventura. Anche i soldati, però, ai quali, in considerazione delle lunghe campagne di guerra e del loro particolare umore, nessuno osava imporre la par­ tenza, s’alzarono per la maggior parte spontaneamente. Alcuni accompagnarono il Maestro sino alla sua dimora parrocchiale, non lontana dal duomo, ed ivi giunti gli strinsero confidenzialmente la mano; fra questi vi era anche Hans Gyr, che con grande piacere gli era stato seduto ben vicino e, sin dove la discrezione l’aveva per­ messo, l’aveva ben fissato in faccia. Zwingli vegliò ancora buona parte della notte, scrivendo lettere in latino ai suoi dotti contemporanei e compagni di lotta, trattando degli eventi che stavano a cuore a lui come a loro. I mercenari nei giorni seguenti si sciolsero pacifica­ mente per il paese, tornando ciascuno alla propria casa. Soltanto Hansli Gyr, con un gruppo di gente fidata che non aveva alloggio, rimase in città per essere pronto ad ogni evento e prestare intanto molto servigi di fiducia. Egli assistette pure, alla fine del mese, alla prima grande

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disputa, in cui fu stabilita la supremazia dello Stato e l’indipendenza della comunità, ed il testo biblico ritenuto vero venne dichiarato base unica della fede. Frequentò anche zelantemente le prediche del riformatore e, secon­ do le possibilità della sua semplice intelligenza, fu testi­ monio di un vero lavoro di riforma, che ebbe ancora la buona fortuna di costruire in modo radicale. Sulla salda base della terra si ergevano i pilastri e i pinnacoli dell’opera, salendo all’altezza del mondo soprasensibile, sino ad immergersi come puro cristallo nell’etere cri­ stallino, senza però perdere le linee di contorno; né gli edificatori stavano quali artefici arbitrari, celati in una sagrestia spirituale o corporea, bensì in mezzo al tempio, essi pure soffrendo, sperando e confidando, vincendo o soccombendo, con lo sguardo fisso verso quell’altezza purificata, per quanto l’epoca lo permetteva, dalla neb­ bia del paganesimo sacerdotale. Ma la religione rimase quella antica e non si trasformò in una letteratura mito­ logica che, esposta in forma filosofica, può essere maneg­ giata con maggiore o minore abilità, al pari di qualsiasi strumento. Perciò i riformatori erano, insieme al loro popolo, ingenuamente pii e, malgrado la libertà dello spirito, concordi tra loro: fu così possibile anche al semplice soldato Hansli Gyr percorrere le nuove vie con occhio vigile e con piena coscienza. La Pentecoste del 1524 non fu una festa gradita per tutto il mondo dei quadri e delle immagini raccolti nelle chiese di campagna e di città: in seguito ad un’ulteriore disputa ed alla conseguente decisione del Consiglio, col consenso del popolo, fu strappato dagli altari, dalle pa­ reti, dai pilastri e dalle nicchie tutto quanto fosse dipinto, intagliato o scolpito, dorato o colorato, e venne distrutto, così che il lavoro artistico di molti secoli, per modesto che fosse in quel cantuccio della terra, dovette perire di fronte alla tranquilla logica della parola. Ma le vere reli­ gioni non sopportano surrogati : o muoiono con essi, op­ pure li distruggono, come la fiamma distrugge la polvere.

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Malgrado le esitazioni e i riguardi, scoppiò la bufera e, fra le grida di «via gli idoli» si cominciò a martellare, a strappare e graffiare, a imbiancare, spezzare ed in­ frangere, tanto che in breve lasso di tempo tutto il piccolo mondo di colori e di forme era sparito dalla luce del gior­ no, come l’appannatura del fiato dal vetro d’una finestra. Un anno più tardi, in una bella giornata autunnale, si ebbe la continuazione dello spettacolo, quando nella cattedrale di Zurigo venne sequestrato e preso in con­ segna da parte dello Stato il tesoro della Chiesa. I custodi ecclesiastici delle reliquie d’oro e d’argento non se ne se­ pararono tanto facilmente, ma cedettero solo al preciso ordine, quando i deputati del consiglio invasero la sagre­ stia. Hansli Gyr dovette fare la guardia e, mentre trat­ teneva la folla impaziente, stupì egli stesso di quelle an­ tiche cose preziose, portate attraverso le navate deserte alla luce del sole e consegnate per ora nell’edificio di fronte, nel Kaufhaus, che era un’antica e grigia torre nobiliare. Passarono per prime, oscillando, le immagini in ar­ gento dei patroni di Zurigo, i martiri Felix, Regula e Exuperantius, che ancor oggi, malgrado ogni riforma, figurano con la testa in mano sul sigillo civico zurighese. Seguiva poi una statua della Madonna, di puro oro, del peso di sessanta libbre, e quindi una serie di crocefis­ si d’oro e d’argento, di pesanti ostensori gotici, simili a piccole cattedrali, e tutto uno sciame di calici e di reci­ pienti d’oro, dalle forme bizantine antichissime a quelle gotiche fino a quelle più recenti per foggia e per stile, del Rinascimento. Incensieri e cose simili accompagnavano i cofani delle reliquie, e gli altri svariati reliquiari, i messali, il libro di preghiere d’oro di Carlo il Calvo e si­ mili cimeli disseminati di gemme e di perle; tutto du­ rante il breve passaggio scintillava all’ultima luce del sole, prima di sparire nelle cupe ombre della torre. A questo seguì uno spettacolo ancor più smagliante di colori, accompagnato da più di un allegro fruscio, quan­ do apparve la massa immensa dei paramenti da messa, degli stendardi, delle tovaglie d’altare, dei tappeti e delle

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stoffe colorate di ogni tipo, portati e sventolati lietamen­ te da scolaretti e da altri giovani. Questo corteo non en­ trò nella torre del Kaufhaus ma rifluì, simile ad una cate­ ratta di seta, di fili d’oro e d’argento, di lini e di candidi fini merletti, giù dalla scala del duomo verso lo Helmhaus in riva al fiume, un’aperta loggia dove si raccoglievano mercanti e rivenduglioli per i loro svariati commerci. Ivi si fece mercato di tutte le stoffe e tessuti, in parte di remotissima origine e di artistica fattura. Una folla di donne e di ragazze vanitose o leggere sbucò fuori dai vicoli in cui il tempo antico permaneva tenace, prima di sparire del tutto, e cominciò a mercanteggiare le stoffe lucenti. Non soltanto le donne andavano frugando fra quei mucchi di roba per trovarvi pezze adatte ad ornar la persona e da acquistare con pochi soldi, ma vi era anche qua e là un soldato incorreggibilmente vanitoso, che sceglieva un tappeto o un paramento, forse di tessi­ tura saracena, nell’intenzione di farsene tagliare una bel­ la giacca. Hansli Gyr guardava con stupore quello spettacolo disordinato e scorse persino Schneck von Agasul, il biz­ zarro profeta, intento a strappar dal mucchio un’anti­ chissima dalmatica, ricamata a leoni ed aquile, di seta rossa e gialla, che gli pareva adatta a trasformarsi in uniforme da ufficiale della nuova Gerusalemme. Hansli vide pure come quello, nella furia, gettava da parte un tappeto piuttosto lungo, di bella fattura; lo prese, lo distese e gli apparve un grazioso disegno. In un bosco, accennato da alcuni alberelli di sorbo su sfondo azzur­ rastro, un tordo seduto su un ramo cercava di beccare i mazzetti di bacche rosso sangue. Una volpe spiava cu­ pida l’uccellino innocente, senza accorgersi a sua volta che alle sue spalle un giovane cacciatore tendeva l’arco contro di lei, mentre già la Morte stava per afferrare alla nuca il cacciatore: ma da ultimo passava per il bosco il Salvatore, che prendeva la Morte per quel po’ di ciuffo che le pendeva ancora dietro al teschio. Poiché quel tappeto o arazzo non era utilizzabile per trasfor­ marsi in abito, nessuno ci badava, e Hansli Gyr, cui

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piacque, lo comprò e lo ripiegò con tutta cura. Vedendo il profeta, gli era ritornata improvvisa alla memoria la sua Ursula e si era destato intanto in lui il desiderio di regalarle quell’arazzo per la casa, che sperava pur sem­ pre di dividere un giorno con lei; eran già quasi tre anni da che era rimpatriato, senza però vivere nella terra nativa da cui lo teneva lontano la pazzia della gente. Proprio in quei giorni, in un pascolo di montagna di sua proprietà, doveva aver luogo un’adunata di quei fana­ tici, ora apertamente divenuti anabattisti. Ursula du­ rante l’estate aveva falciato il fieno, raccogliendolo con molta fatica in un mucchio, perché nessun altro se ne cu­ rava, ed essa, malgrado l’ottenebrazione dell’animo, in­ consciamente non poteva tralasciare di fare quanto gio­ vasse a Hansli. Suo padre invece, pur essendo il primo a trarne vantaggio, provava un maligno compiacimento a lasciar andare in rovina i beni di Hansli, ed inoltre lo di­ straevano spesso dal lavoro le discussioni e le pratiche del fanatismo. Già da un anno non trovava braccianti, per­ ché ognuno voleva essergli pari e gli rifiutava obbedienza. Ursula temeva che il gran mucchio, da lei preparato con tanta pena sul pascolo, venisse calpestato e distrutto dalla folla; andò quindi all’alba del giorno fissato, con la forca ed il rastrello, per cercare di salvare il fieno, senza parlare a nessuno del suo intento. Il pascolo era circon­ dato da tre parti dal bosco ed aperto dalla quarta, ma visibile soltanto da lontano: soltanto con cannocchiali si sarebbe potuto scorgere quello che vi accadeva, sempreché a quei tempi ce ne fossero stati. Mentre lavorava al sole mattutino nella solitudine dei monti, il suo volto pallido e triste si arrossò lievemente e si ravvivò di buon umore. Le nebbie autunnali copri­ vano le valli, ma lassù c’era caldo come in maggio o in giugno. Si tolse quindi, affannata, la cuffia e lo scialle e sbocciò fuori come una rosa fresca, mentre lavorava per Hansli Gyr, e alla mano le scintillava il suo anellino d’oro. Tutte le volte infatti che andava a letto, o che di giorno era sola, tornava ad infilarsi l’anello. Di tanto in tanto girava attorno gli occhi splendenti, ora verso l’o­

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rizzonte sfumato ove si allineavano, simili ad ombre az­ zurrastre, le vette alpine, ora verso i margini vicini dei boschi che la circondavano con le loro tinte dorate e pur­ puree, misteriosi, quasi ad ogni istante ne dovesse sbucar fuori il suo diletto. D’un tratto un ciuffo del fogliame rossastro parve di­ ventasse vivo e si avvicinasse; era Schneck von Agasul, che aveva trasformato la preziosa dalmatica in una spe­ cie di talare munito di maniche e se l’era infilata per pre­ sentarsi così al popolo in attesa, ed assumere un’alta carica. Portava in testa un vecchio cappello di velluto azzurro, di cui aveva rialzato la tesa, legandola con cordoni d’oro e deformandola totalmente; le sue dita erano cariche di gemme di vetro, che al sole d’ottobre mandavano deboli riflessi, come false parole. Con grata sorpresa scorse Ursula sola e affrettò il passo per raggiungerla, abbagliato dalle sue grazie incustodite. «Ti trovo al momento giusto, 0 figlioletta di Sionne!» esclamò «È tempo che ti si faccia onore e da un pezzo 10 ti ho prescelta perché tu segga al mio fianco sul seg­ gio del tribunale e giaccia accanto a me sul letto del­ l’eterna magnificenza ! Oggi è un gran giorno, e prima che 11 sole torni ad alzarsi dovranno compiersi molte cose ! ». Volle senz’altro attirarla a sé, ma la ragazza, strappata ai suoi dolci sogni, si difese dall’importuno con la forca e tanto energicamente che le punte s’impigliarono nel suo travestimento, e, quando il profeta tentò di liberarsi, il talare mal messo insieme andò a pezzi, lasciandolo nelle sue vesti povere e sporche. Sentendo in quel mentre av­ vicinarsi dei passi, raccolse imprecando i suoi cenci e si rifugiò nel bosco per coprirsi e racconciare alla meglio il suo manto di dominatore. Ursula, appoggiata alla propria arma, sospirando di sollievo e ancora spaventata, lo seguì con lo sguardo, quasi fosse un orrido fantasma venuto a destarla dal so­ gno, ma subito mandò un grido con ancor maggior spa­ vento al sentirsi afferrata da due braccia. Si voltò e vide il campione della pacatezza, Jakob Rosenstil, di solito assai calmo, ma in quel momento molto svelto nel cercare

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di cogliere un pochino di fortuna. Questi cercava di rag­ giungere con ambo le mani e con grande prontezza la ragazza che si difendeva, il che facendo assomigliava non poco ad un cane quando nuota; ma Ursula lo respinse senz’altro con una sola mano, mentre osservava con nuo­ vo stupore lo strano individuo, che non aveva mai rite­ nuto così pericoloso. — Hai ragione — disse lui ansimando — di non voler quello là che scappa ! È troppo aspro ed impetuoso per la tua indole dolce e mite, malgrado il forcone! Dividi con me la calma serena dell’animo, la pace sotto i palmizi; là avremo piena contentezza e sicuro riposo, sin che verrà il Signore e dirà: «Ecco, quei due non sono stati sciocchi, hanno già prima goduto il Paradiso ! ». — Vattene, non ti voglio, — gridò Ursula — cono­ sco già il mio angelo e il mio signore, che debbo aspet­ tare: è agile e bello, chiaro e pulito in volto, non brutto e sciatto come te! Puah, vattene presto, o sacco di ce­ nere ! Vattene e bada che vien gente ! In realtà già si avvicinavano alcuni gruppi di donne e di uomini, cominciando a radunarsi. In pari tempo so­ praggiunse il vecchio Enoch, gridando: «Scappate, scap­ pate ! Il balivo di Grüningen è avviato per di qui con le lance e le spade! Siamo traditi!». Tutti fuggirono come il vento nei boschi; il prato ri­ mase deserto e tranquillo e soltanto Ursula ritornò poi dall’angolo dove si era già prima ritirata inosservata per riprendere tranquilla il proprio lavoro, giacché non aveva messo al riparo che una metà del fieno. I suoi pen­ sieri, però, turbati dall’avventura e dalla calma succe­ dutavi, andavano lontano: senza quasi accorgersene se­ dette sul mucchio di fieno ridotto a mezzo, appoggiò la testa sulle mani e si immerse in profonda meditazione. Nel frattempo il balivo di Grüningen, che Enoch aveva visto da lontano ma che nulla sapeva dell’intenzione degli anabattisti e si recava tranquillamente a caccia col suo seguito, aveva preso un’altra strada sparendo da quei dintorni. Quello che aveva conferito al suo piccolo corteo l’aspetto di una spedizione ufficiale o militare,

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era stata la casuale avanguardia di Hansli Gyr. Secondo gli usi e le circostanze del tempo, questi andava sempre armato e in uniforme, anche per scopi pacifici come ora, in cerca di Ursula, con l’arazzo appena comprato. Ma quando, trovando le case deserte, s’era avviato verso la montagna in cerca dei loro abitatori, era potuto sem­ brare un’avanguardia in esplorazione. Mentre dunque gli anabattisti si acquattavano nel bo­ sco, egli arrivò al suo prato, percorrendolo lentamente dopo che per molti anni non vi aveva posto piede. “Così” pensava tra sé “si diventa stranieri nella propria terra e non se ne sa neppur bene il perché !”. “Ma chi si occupa ancora del fieno?” si disse poi os­ servando il mucchio e la figura su di esso seduta, con accanto il rastrello e la forca. S’accostò· senza rumore a quell’inattesa apparizione e si trovò così in tutta la sua altezza di fronte a Ursula che, ripiegata su se stessa, aveva finito per appisolarsi. Ritto in piedi contro il sole, la mise in ombra, così che un lieve brivido le scosse le spalle nude. Ma soltanto quando la chiamò per nome essa si svegliò del tutto e scorse la sua alta figura spicca­ re scura sull’orizzonte luminoso, mentre solo le spalle rilucevano di ferro. Per quanto egli fosse bello, tutta la sua magnificenza soldatesca impallidì di fronte alla ra­ diosa bellezza che pervase il volto della fanciulla quando d’un tratto lo riconobbe. Una bellezza accesasi, per così dire, in assenza del pensiero, come un raggio di sole che passi su un’acqua immota. La povera ragazza balzò in piedi tremante e porse sorridendo le mani all’uomo ; ma le ginocchia le si piegarono ed essa ricadde a sedere; si accorse però di avere il petto semiscoperto, lo riparò con le mani ed abbassò gli occhi, arrossendo. — Ursula, che fai qui? — disse Hans Gyr — vieni, dammi la mano e non stare a ricoprirti con tanta paura ! — Ma no, non sta bene ! — mormorò lei — io non sono così scostumata! Hansli vide il fazzoletto e lo scialle a terra, andò a prenderli e le si sedette vicino, aiutandola a rimetterseli; poi l’abbracciò e la baciò.

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— E cosa fai qui sul fieno? — tornò a domandare alla ragazza. Essa, appoggiando il capo sul braccio di Hans, alzò lo sguardo su di lui prima di rispondere. Poi parve ricor­ dare : i — Già, cosa volevo fare? Pensavo al vostro fieno, come è mio dovere, o bellissimo signor angelo Gabriele ! Non sapete di avere quassù un pascolo che non è dei peggiori? — Come mi chiami, Gabriele? — Signor Gabriele, sicuro, signore, signore, signore, vi dico, non soltanto Gabriele ! — E non conosci più Hansli Gyr? — Hansli? E dov’è mai? Ahimè, quello l’ho proprio dimenticato! Che tristezza il mondo! E gli ho voluto tanto bene, ma ormai non gli giova più, e neppure a me : ora sono la sposa di un angelico signore e di un barone celeste, e Hansli, poveretto, rimane a bocca asciutta ! Certo che mi fa compassione, se penso alla sua disgrazia ! Baciami dunque, o signor Gabriele, ma fa’ piano, che egli non possa udire ! Essa disse tutto questo con tanta grazia che Hansli non potè trattenersi dal baciarla di nuovo, e così dicendo la guardò negli occhi, studiandola profondamente. Non si rendeva affatto conto se essa scherzasse o vaneggiasse più che in passato. Non potè però scoprire in quegli occhi che una insondabile intensità d’amore, di melan­ conia, di gioia e di spensieratezza che non riusciva a di­ stricare. Purtuttavia gli parve di essere là solo con se stesso, senza una seconda persona vicina; eppure ella gli stava tiepida fra le braccia; giocherellando poi con la sua mano, riconobbe anche il proprio anello. — Chi ti ha dato l’anellino? — le domandò — Forse l’angelo Gabriele? — Che domanda sciocca mi fai, — replicò lei — me l’hai dato tu ! Ma cos’è quel rotolo che porti con te? — È una stoffa ricamata che ti ho portato per la tua casa; guarda che belle figure ci sono! Stese il tessuto come potè perché essa non lo lasciava libero, ma gli si stringeva addosso. La ragazza osservò

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l’arazzo senza muoversi, però con attenzione e compe­ tenza, dicendo poi meditabonda: — È una bellissima stoffa, come mai ne ho vedute : si capisce subito che è stata intessuta in cielo e che me l’hai portata come una lettera. Ci si può leggere tutto il cor­ so della vita: l’uno insegue l’altro ed alla fine arriva il Salvatore che vince la morte e ogni male. — Sarà una bellissima coperta per la culla di casa nostra! — Zitto ! taci, uccello selvatico dalle ali fruscianti, dal­ le penne sonore ! Quando sarà giunto il suo tempo, ve­ drai bene a che cosa è destinato questo drappo! Hans Gyr non resistette più a lungo a quel giuoco la cui dolcezza era mista per lui ad amaro fiele. Non riusciva a capire se i discorsi di Ursula facevan parte dei deliri comuni ai suoi compagni fanatici o se la sua anima era singolarmente e inguaribilmente malata. Balzò in piedi di colpo, la scosse facendo tintinnare l’armatura, e con le guance smorte le gridò : — Vieni, Ursula, scendiamo giù alle case ! Essa gli rispose intimidita ed umile : — Subito, o dilettissimo signor angelo Gabriele, io vi seguirò ! Posso tornare qui più tardi a finire il lavoro. — Lascia che l’erba secca voli dove vuole, come il no­ stro povero senno. Vieni ! Raccolse il rastrello e la forca, mentre essa piegava senza indugio il tappeto, se lo stringeva addosso e, si­ lenziosa e rapida, scendeva al suo fiancò per la monta­ gna. Di tanto in tanto lo guardava come intimorita, ma, poiché egli ricambiava lo sguardo con occhi pieni di dolore e di affetto, si fece animo e, mentre il paesaggio ed il cielo diventavano sempre più luminosi e sereni, ritornarono anche nella povera fanciulla la confidenza ed il senso di felicità. Essa cominciò a chiacchierare e a raccontare l’una e l’altra cosa, rispondendo a tono alle domande rivoltele da Hansli, suggerite dal cammino percorso. La sua casa chiusa e silenziosa, la prima che raggiun­ sero, somigliava alla dimora di trapassati: il terreno da­

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vanti alla porta era ricoperto di foglie secche, che nessuno toglieva; Hansli sostò con un profondo sospiro, e Ursula allora gli sussurrò all’orecchio: — Che cosa cerchi qui? Qui abita il mio innamorato d’un tempo ; andiamocene subito ! — Ma è in casa e sta lì al buio? — Sarà benissimo! Ha occhi azzurri, così chiari che può lavorare alla loro luce anche quando sono chiuse le imposte. Lo senti? Mi pare che stia martellando qualche cosa ! Oh, mi vengono i brividi ! — Vogliamo vedere se c’è? — disse Hansli, avvian­ dosi alla porta. Ursula lo precedette, andando ad ori­ gliare alla serratura e sussurrò: — Ora tutto è silenzio ! — Poi batté gentilmente con le nocche alla porta, chiamando un po’ timida e un po’ birichina — Hänslein? — Non c’è proprio ! — disse vivacemente, quando tut­ to rimase in silenzio e non s’udl che il gocciolio della fon­ tana che sotto gli alberi riversava incessantemente la sua acqua nella conca, ove era andato a sedere melanconicamente Hansli. Egli si sentiva come diviso in due parti ed era geloso di se stesso, non riuscendo con la sua mente semplice a seguire i meandri del pensiero di Ursula, ma intuendo una misteriosa sventura. In quel frangente ricordò il Vangelo e Dio onnipotente e misericordioso, che lo avrebbe potuto vedere ed ascoltare, e mormorò una taci­ ta preghiera per Ursula, facendola seguire dal Pater Noster. Subito si sentì sollevato, vedendo Ursula prendere il rastrello e spazzare energicamente il fogliame secco da­ vanti alla porta e da tutto lo spiazzo, riunendolo in un mucchio a parte. Così facendo sembrava proprio sana e ragionevole e, dopo aver finito, esclamò: — Ecco, ora se arriva camminerà comodo, quel bi­ richino, e non occorrerà cantargli: Hänslein arriva al trotto ! Ha sparato a una colomba, ma un arbusto di finocchio fa inciampare il suo cavallo!

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Ah, non è facile da sradicare un cosi vecchio amore ! — proseguì pensierosa, venendo a sedere accanto a Hansli — Anche l’infedeltà non è niente di bello, niente di buo­ no, si dica quel che si vuole . . . Ma pure io sto tanto bene così, mi sento leggera come un uccellino nell’aria, come la più Eeve piuma che quello ha perduto e che resta sospesa fra cielo e terra e non sa se debba salire o posarsi ! In quel momento caddero dall’albero alcune noci. — Andiamo ! — esclamò, e fuggì tanto in fretta che Hansli ebbe pena a raggiungerla. — È lui? L’hai veduto? — domandò la ragazza appena le fu vicino. — Chi? — Quello che abita là ! — Dimenticalo ora, sono qui io con te ! — Già, è vero, e non mi può far nulla! Hansli s’avviò con lei verso la casa di suo padre e vide stupito che anche lì regnava lo stesso abbandono come in casa sua. La madre stava sulla soglia, corrucciata, con lo sguardo cupo e selvatico, e pareva molto invec­ chiata. Stava tagliando delle carote con un coltello, ma aveva lasciato cadere le mani, nascondendovi piegata in avanti la testa grigia. — Mamma, guarda chi c’è ! Arriva lo splendore ! — le gridò Ursula con le guance arrossate — Apri, alzati, vo­ glio entrare e preparargli una dolce pappa di miglio! Quella vi piace, newero signor Gabriele? Pensate che, se volete stare con noi, bisogna che vi accontentiate ! — Si affrettò ad entrare e si mise in faccende. La vecchia aveva alzato lo sguardo stupita, e, ricono­ scendo il soldato, disse un po’ spaventata: — Mio marito non c’è, se vuoi forse fare i conti ; e poi ora è senza denaro ; dovrai avere pazienza: presto le cose andranno meglio ! — Non voglio denaro e posso aspettare ! — replicò Hansli — Ma avrei altri conti da fare e vorrei chiedervi che cosa avete fatto della vostra figliola Ursula! — Perché, cosa sai di lei? — L’ho incontrata su al pascolo e sono stato con lei

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quasi due ore : dice che io sono l’angelo Gabriele e parla come una pazza. Io non posso credere che si burli di me, non è indole sua ! — Queste sono cose che a te rimangono celate e che anche alla piccina riescono ancora oscure, ma essa ne ha il presagio e ne è tutta presa. Accadono molte cose e si verificherà il miracolo prima che tu te ne accorga! — Ma esse finiranno sciaguratamente, prima che voi ve ne accorgiate ! Temo che Enoch stia per portarvi tutti alla rovina, con le sue astruse idee ! — Al contrario, io conto solo su di lui e mi tengo e mi appoggio ben salda a lui e al suo spirito ! — disse la povera donna in un tono da cui ben si intuiva che voleva soffocare dubbi segreti a stento ricacciati quando era sola. Con inconscia prudenza non manifestò alcuna ostilità contro Hansli, né usò dure parole, né pensò di vietargli ulteriori rapporti con la ragazza, benché sapesse di fare con ciò cosa contraria alla volontà del marito. — Non posso far altro — disse Hansli, dopo qualche minuto di muta meditazione — che avere pazienza ed aspettare che il tempo sciolga questo groviglio. Ma è un peccato per questi begli anni, per la povera gioventù! Voi vecchi avreste potuto cavarvi il gusto delle pazzie durante la vostra primavera, se era proprio necessario; allora i giovani potrebbero adesso godere il loro tempo ! Solo Ursula era di buon umore; preparò da mangiare e venne poi a chiamare Hansli e la madre. — Mangiano anche gli angeli la pappa di miglio? — domandò il primo con melanconico sorriso, pur osser­ vandola con compiacenza mentre sfaccendava per lui. — Mangiano almeno le frittelle e la carne di vitello; — replicò Ursula allegramente — si sono messi a tavola in tre dal patriarca Abramo nel boschetto di Mamre e hanno dato fondo a tutto ! Egli si decise, col cuore serrato, a congedarsi anche per questa volta; si alzò all’improvviso e, salutando, si pose in cammino. Ursula lo accompagnò per un tratto, poi lo seguì con lo sguardo finché egli non scomparve dietro un rialzo dèi terreno; se ne tornò quindi a casa

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col volto sfiorito e pallido, quasi privato dell’anima. “Sono pur contenta che sia stato qui, per la ragazza !” pensava la madre “Almeno ha avuto un’ora buona e si sarà rimessa un poco !”. Quando però vide Ursula di ritorno, esclamò: « In nome di Gesù Cristo ! Che faccia hai ! Come sei ridotta ! ». Il vecchio Enoch rientrò solo verso sera, ma non di buon umore. Il movimento si era diffuso e assumeva vaste proporzioni ; però era passato dalla mano dei profetucoli di campagna in quelle dei capi più o meno conosciuti e dotti, i quali impedivano le più grossolane pazzie, perse­ guendo mete precise. Per quanto Enoch dovunque si facesse avanti con grida e scenate, non riusciva a portarsi in su, anzi continuava solo ad aumentare la confusione ed il pericolo, gli odii e le passioni. In tutti gli assembramenti e le manifestazioni minac­ ciose egli era uno dei primi: girava vestito di sacco, cospargendosi la testa di cenere, gridando : « Sionne ! Sionne ! Sionne ! ». Intanto teneva però gli occhi ben aperti, spiando quali cose avrebbe potuto desiderare ed appropriarsi dopo il ri­ volgimento generale. La massa dei fanatici, come è sem­ pre stato nell’indole di questo popolo, assomigliava invece ad un uomo esasperato da un accanito lavoro di zappa e di scure, dal troppo portare e trascinare, arrovellarsi e preoccuparsi, il quale, tutto ad un tratto, si ribella, si irrita della propria pena e della propria fatica, e getta l’arnese, per raccoglierlo però di nuovo appena sparito il fantasma ingannevole che l’ha allettato. Governo e maggioranza serbavano tuttavia autorità su tanta confusione; si ricorse di nuovo alla parola viva ed alla Bibbia: gli anabattisti vennero invitati ad una di­ sputa pubblica, dichiarati vinti e condannati, vale a dire, se persistevano nei loro errori, banditi, perseguitati e puniti nella vita e nella libertà. Enoch Schnurrenberg era fra quelli che non volevano assoggettarsi o che erano di continuo recidivi ; ora si dava alla fuga, nascondendosi nei distretti vicini, ora ritornava

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di nascosto, cercando di provocare nuove riunioni o di parteciparvi. Durante quei viaggi si appropriava di sem­ pre nuovi atteggiamenti ed istrionerie; sapeva, per esem­ pio, mangiare il fuoco, parlare con Dio attraverso il tetto, morire e risuscitare tutte le volte che gli piacesse, benché tali giuochi col passar degli anni gli diventassero sempre più disagevoli, specialmente quello del morire, nel quale gli toccava gettarsi violentemente a terra e ca­ dere in convulsioni. Un giorno, però, mentre in un bosco partecipava a cerimonie battesimali, venne catturato insieme alla mo­ glie e alla figlia, che egli sciaguratamente si trascinava dietro, e fu portato a Zurigo con tutto un gruppo di fana­ tici. Eran circa venti persone e furono prima alloggiate all’ospedale, poi portate sulla piazza davanti al munici­ pio ed infine allogate in un’alta torre lungo le mura orientali della città, che da allora ebbe il nome di « torre degli eretici», dove, giacendo sulla paglia e con cibi ridottissimi, avrebbero dovuto languire, sino a che non si decidessero all’abiura. Nel piccolo corteo figuravano an­ che Schneck von Agasul e il pacifico Rosenstil, che si era appiccicato una volta per sempre a quel gruppo, perché, con la sua impassibilità, evitava così di provvedere al proprio alloggio. Procedeva primo, in atteggiamento da dominatore, Enoch, e ultime venivano alcune donne. Ursula sorreggeva sua madre e portava un fagotto con poche vesti per lei e per sé, ravvolte nell’arazzo di Hansli Gyr. Si guardava attorno con occhi intimiditi ed ansiosi, ma quando il popolo, lungo la via, osservò il corteo con disapprovazione e dispregio, essa non osò più alzare lo sguardo, mentre gli uomini prepotentemente cantavano e gridavano: «Viva Gerusalemme! Viva Sionne!». Anche Hansli Gyr era per la strada a guardare ; il cuore gli batteva da far pietà, ma non si mosse. Così come sa­ peva vivere soltanto nella ragione, nell’ordine e nell’aria pura, così anche la rispettabilità civile gli era indispensa­ bile per respirare. Ora però che quei fanatici, per il mu­ tamento degli avvenimenti, si presentavano come delin­ quenti e condannati e sfilavano in buona parte disono-

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rati, i suoi pensieri si staccarono con lotta dolorosa dal suo affetto e da Ursula, ed egli la lasciò passare senza farsi vedere. I prigionieri giunsero alla torre e nel silenzio della notte cominciarono a fare un chiasso inaudito di grida e di canti, che talvolta degeneravano in urla ed in orrende maledizioni e imprecazioni, con parole di angoscia e dolo­ re, di tuoni e lampi, di morte e diavoli, di giudizio e di ro­ vina, ritornando poi d’un tratto ad un canto di vittoria. A questo Hansli non resistette più a lungo: decise di strappare Ursula dalla torre, se appena fosse possibile, ed aspettò alcuni giorni l’occasione. L’ingresso alla torre si trovava entro una rozza baracca di legno appoggiata ad essa, e non era sorvegliato, perché il capoguardiano, che se ne stava nella cameretta più alta sotto il tetto, toglieva dall’interno la chiave e la portava con sé, mentre gli anabattisti erano custoditi pressappoco al centro della torre. Non vi erano serrature particolari, giacché quell’e­ dificio in origine non era destinato a prigione. In una notte buia, Hansli prese gli strumenti necessari ed anche un lanternino e si recò sul posto. Apri con faci­ lità un paio di porte e sali per le ripide scale, dopo aver acceso il lume. Per caso i prigionieri giacevano a un piano che era chiuso soltanto da un cancelletto di legno. Quella notte gli anabattisti dormivano o almeno erano tranquilli. Uomini e donne giacevano alla rinfusa, pallidi e sudici; Hansli ne illuminò tutte le facce senza però trovare Ur­ sula. Alla fine la scorse staccata dagli altri in un angolo, buttata su un mucchio di paglia, sulla quale aveva di­ steso l’arazzo con la Morte e il Salvatore. Dormiva il sonno profondo di chi, dopo una lunga veglia, ha trovato un’ora di pace. Per evitare ogni rumore, egli non la chiamò, ma le sfiorò il mento, e, poiché essa non si de­ stava, le prese la mano, ove alla pallida luce della lanter­ na splendeva il suo anellino. Colpito da quella vista, esitò un attimo, domandandosi se non dovesse sfilarglielo dal dito e prenderselo, ma in quel momento Ursula aprì gli occhi stanchi e, dalla loro espressione indescrivibile, egli fu trattenuto da quel malo proposito.

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Ella, come immersa in un sogno, si alzò senz’altro in silenzio, raccolse il tappeto e, tenuta per la mano dal suo salvatore, lasciò quell’orribile luogo con il passo sicuro di ima sonnambula; ma davanti e dietro di loro striscia­ rono, taciti al pari di grigie larve notturne, gli altri pri­ gionieri ormai desti, che scesero insieme le lunghe scale, fuggendo. Scivolarono lungo le mura di cinta come un velo di nebbia portato dal vento notturno e uscirono dal­ la non lontana porta della Corona, che in tempo di pace era sempre aperta, scomparendo nella notte. Anche Ur­ sula era sfuggita di mano a Hansli Gyr, senza che egli sapesse come; essa riprese coscienza solo allo spuntar del giorno e fu comprensibile che i fuggiaschi, dietro le sue parole, credessero ad un miracolo e diffondessero per la campagna la novella che l’angelo del Signore li aveva guidati fuori dal carcere. Due o tre di loro furono di nuovo recidivi, vennero imprigionati e condannati a morte; Enoch Schnurrenberg pellegrinò coi suoi nella regione di San Gallo e ritornò più tardi al suo paese, dove si tenne tranquillo e fu lasciato in pace. Hansli Gyr, che era rimasto solo sulla soglia della pri­ gione vuota, aveva rinchiuso alla meglio le porte, spento la lanterna, e se n’era andato in silenzio. Lo sguardo a lui rivolto da Ursula nel destarsi, e proprio mentre egli stava chiedendo a se stesso se dovesse toglierle l’anello, aveva fatto tanta impressione su di lui che visse molte giornate di amaro rimorso. Poteva ben credere che Ursula gli fosse sfuggita di proposito, mentre egli aveva sperato di tenerla in città, affidandola a buone cure, però d’altra parte era tentato di attribuire la sparizione a forze male­ fiche, soprattutto considerando come anche la vecchia madre era riuscita a scappare con rapidità da strega. Il giovane in realtà non aveva e non poteva avere cogni­ zioni degli effetti di stati d’animo simili a quelli in cui si trovavano i fuggiaschi. Le notizie sulle azioni degli anabattisti nei luoghi do­ ve erano andati a rifugiarsi, e sulle loro orrende follie, erano tanto ripugnanti che Hansli perdette la speranza in una svolta felice degli eventi e approfittò di un’occa­

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sione offertasi per liberarsi del suo modesto podere sul monte Bachtel. Detratti i gravami, ne ebbe un modico guadagno, con il quale però rimase per così dire staccato dalla sua terra nativa.

Non vide e non seppe quindi nulla per molto tempo di quegli strani vicini e li dimenticò quasi in mezzo a tutti gli eventi di cui, pur nella sua modesta posizione, fu testi­ monio e zelante collaboratore. L’opera di Zwingli e dei suoi amici si era diffusa nel frattempo in tutta la Svizzera aperta, venendo a contatto con la Riforma tedesca; vi ave­ va aderito la potente Berna, recandovi un diverso tempe­ ramento ed un’altra concezione politica; si aggiunsero molteplici esponenti, contrasti ed esigenze nuove, così che venne a muoversi una notevole massa di uomini, ora spingendosi innanzi, ora più prudentemente trattenen­ dosi, mentre altre parti ondeggiavano e cercavano di far opera di mediazione. Tutto questo fluiva e premeva at­ torno al nocciolo saldo dei Cantoni cattolici, che immu­ tabili, astuti e decisi, resistevano come un’isola all’inon­ dazione, contando sulla loro forza antica e infiammati dalle potenze del passato predominanti in altri paesi. La navicella degli Zurighesi con Zwingli come pilota procedeva senza sosta su queste acque tempestose. Con perfetto candore, con piena fiducia nell’immediata e per­ sonale provvidenza di Dio, e con pari vigilanza e cogni­ zione delle cose e degli uomini, Zwingli lottava instanca­ bilmente contro la perfidia e la violenza del mondo av­ versario ; egli era l’anima del Consiglio pubblico e segre­ to, era maestro, predicatore, uomo di stato, diplomatico, e redigeva con la stessa penna trattati teologici, norme di costume, scritti politici e piani di guerra. La questione era infatti giunta ad una crisi bellica; il riformatore viveva nella sacra fede che bastasse co­ stringere questo mondo dell’opposizione ad ascoltare la parola di Dio, perché esso si arrendesse. Invece dei trat­ tati di diritto internazionale, teneva in mano soltanto il Vangelo, il che era insopportabile ai suoi avversari, né

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egli sapeva ehe un popolo può respingere un mutamento di religione o, di regime per lo stesso motivo per cui una donna respinge definitivamente un innamorato. Ora però governo e popolo sorreggevano incrollabil­ mente il Maestro, nel che l’armonia e il buon accordo erano anche frutto di continue relazioni ed inchieste presso i comuni. Anche a Hans Gyr, il quale poteva rappresentare un’incarnazione dello spirito popolare di quel tempo, tali cose erano ben chiare e, quando fu il momento di prendere le armi, lo si potè impiegare per un’utile attività. I due accampamenti nella prima guerra di Kappel stavano l’uno di fronte all’altro al di là dei monti di Albis, in modo però che i cattolici non erano sufficiente­ mente numerosi e preparati, mentre gli Zurighesi erano in vantaggio, tanto per potenza militare che per situa­ zione politica. I loro alleati erano in gran parte già con loro in campo, mentre il re Ferdinando d’Austria, col quale i cinque paesi cattolici avevano stretto alleanza, non pareva voler accorrere in loro aiuto. Dato che i cinque Cantoni in simili condizioni erano piuttosto sgomenti ed avevano con sé buon numero di mediatori e di arbitri, si venne a quella pace che doveva essere di breve durata, ma che privò gli Zurighesi e l’im­ presa da questi guidata del loro vantaggio. Il campo zu­ righese intanto, durante il periodo delle trattative, offri l’aspetto inusitato di un accampamento di guerra pro­ testante, quale più tardi si ripetè soltanto col re di Svezia, o con i puritani inglesi, ed in quel campo modello Hansli Gyr fu un vero, esemplare soldato. II tamburo chiamava ogni giorno alla predica e alla preghiera, tutti avevano da mangiare e da bere bene, ma non si tollerava ubriachezza né bestemmia o discorsi depravati. A nessuno era lecito far danno ad una pianta nei campi o strappare un palo da un recinto, ed era co­ mune a tutti un contegno cortese fra i soldati stessi e verso gli estranei, persino verso i nemici in campo. I giovani passavano il loro tempo cantando liete canzoni o dan­ dosi ad esercizi vantaggiosi al corpo, come lancio di pie­

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tre o salto in lunghezza. Tutte le donne di mala vita del paese venivano allontanate non appena comparissero. Hansli Gyr era uno dei più ferventi nell’osservare quel­ l’ordine. Per un giovane soldato (è vero che fra breve non sarebbe stato più tanto giovane) pregava forse troppo volentieri e a voce troppo alta, con un volto troppo so­ lenne, quasi stesse ad ascoltarsi soddisfatto, il che non succedeva ancora, ma avrebbe potuto verificarsi se le cose fossero continuate a lungo così. Comunque provava una certa compiacenza a parlare, mentre prima era sem­ pre stato di poche parole. Ma ciò proveniva dai tempi e dall’appassionata partecipazione dei singoli alle vicende comuni. Se appena scorgeva da lontano un soldato discorrere o scherzare con una contadinella, mandava subito una guardia a vedere che cosa succedesse, e se mai una don­ naccia dalle gonnelle corte si lasciava vedere, avrebbe voluto addirittura puntarle contro Mercurio e Venere, due cannoni zurighesi da campo, ed essa faceva bene a ritornare in fretta nei campi dei cattolici, di dove era venuta. Là, infatti, c’erano donne in abbondanza, giuo­ chi di carte e di dadi, benché fossero cari i cibi e le be­ vande. Dopo che i mediatori e gli arbitri presenti ebbero portato gli umori al punto da potersi trattare una pace, fu deciso che essa venisse proposta alle comunità schierate in campo : per primo fu l’esercito zurighese a disporsi in campo aperto in un ampio cerchio attorno ad un alto palco su cui era stato eretto il gonfalone, circondato dalle altre bandiere, secondo il motto: «Dov’è il gonfalone, ivi è Zurigo». Vi stavano accanto i capitani coi portabandiere, mentre i capisquadra eran sullo spiazzo libero insieme ai loro uomini e fra essi Hansli Gyr. Questi avevano l’incarico di ascoltare attentamente i discorsi, e Hansli infatti se ne stette lì serio e muto come una statua appena i trenta rappresentanti dell’esercito cattolico, in­ trodotti da un trombettiere, apparvero a cavallo e si fermarono davanti alla tribuna. Salirono primi gli arbitri, esortando alla pace, dopo di

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che i cattolici, fatti scendere da cavallo i propri oratori, li mandarono sulla tribuna ad esporre le loro proteste, dopo di che essi partirono ed i capi zurighesi, con alla testa Zwingli, si fecero avanti per discutere e consultarsi circa quanto avevano udito. Dopo due giorni i deputati della Riforma, una sessan­ tina d’uomini, si recarono a cavallo nel campo dei cin­ que Cantoni coi risultati di quel consulto. Ivi trovarono l’esercito radunato allo stesso modo e toccò agli Zuri­ ghesi sfoggiare la propria eloquenza di fronte ai cat­ tolici. Purtroppo in questo punto stavano male. Il riforma­ tore stesso, dato l’odio che regnava contro di lui, non avrebbe mai potuto presenziare ; i primi capitani d’altra parte non avevano mai simpatizzato per la Riforma ed erano troppo favorevoli alla pace, così che non si sperava grande efficacia dall’opera loro. Non c’era quindi altra scelta che far parlare un avvocato di professione ; il quale assolse il suo compito solo mediocremente di fronte al­ l’attento esercito cattolico dei Cantoni, già avvezzo a simili adunate. Regnava un’atmosfera di freddezza e di sottile inquie­ tudine durante tutta la scena, quando Hansli Gyr si fece a fianco di quei signori e prese la parola, parlando col proprio sentimento di popolano a quello dei suoi avversari, come meglio non avrebbe potuto deside­ rare il Maestro Zwingli. Con disinvoltura e chiarezza espose loro ciò che avevano in cuore i riformati e come si fossero messi per quella via, quel che ritenevano giu­ sto ed equo, e la loro fedeltà ai capi fino alla morte, senza che peraltro fossero contrari ad una giusta pace, che anzi aspiravano con gioia a ritornare insieme ai loro antichi confederati, appena questi ne offrissero la possi­ bilità con articoli di pace giusti e necessari. A lui tennero dietro senza esitare altri combattenti delle comunità zurighesi, difendendo con energici di­ scorsi la causa propria e dei propri signori. L’esercito cattolico da questo atteggiamento trasse il convincimento che la popolazione riformata fosse concorde e conoscesse

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bene la sua meta, tanto che, allorquando l’adunata si sciolse, tutti andarono a casa meditabondi per le cose udite. Gli arbitri, cittadini di Strasburgo, di Costanza, di Basilea, di Berna e così via, preoccupati di impedire la guerra e la scissione manifesta della Confederazione, si allogarono fra i due accampamenti nel villaggio di Steinhausen, dove ridussero o ampliarono gli articoli del pat­ to, che poi, presentati alle due parti dopo nuove con­ sultazioni e nuovi indugi, finirono per essere accolti. Nessuna delle due parti era veramente soddisfatta : co­ munque, qualche cosa di importante era stato raggiunto da parte dei protestanti, e cioè i cinque Cantoni rinun­ ciavano all’Unione Ferdinandea e consegnavano la let­ tera di alleanza. Il podestà di Glarona, che con le lagrime agli occhi aveva prima impedito i fatti d’arme e reso poi possibili le trattative, lacerò col suo pugnale la perga­ mena in faccia al popolo radunato, con quel compiaci­ mento che i pacieri ben intenzionati ma non lungimiranti provano in simili momenti. L’esercito dei cinque Cantoni ritornò scontento e de­ presso sulle sue montagne; gli Zurighesi tornarono nelle loro città quasi da vincitori, con le bandiere al vento e a suon di musica. L’interpretazione e l’applicazione del trattato di pace suscitarono ben presto nuove difficoltà e turbamenti di ogni genere, per quanto l’istrumento, sia pure nato sul campo di battaglia, fosse stato redatto con buoni intenti e con abilità dal punto di vista giuridico e federale. Quando infatti due epoche diverse vengono a confluire e sulle loro acque burrascose passa il vento delle passioni, pure ed impure, i giuristi sono ben deboli custodi degli argini. Quale sintomo di nuovo peggioramento, si mani­ festò la risorgente tendenza bellicosa dei cinque Cantoni a riprendere i legami con l’austriaco, e la sempre vigile volontà del fratello di Carlo V di scindere gli Svizzeri con i suoi astuti influssi, senza peraltro arrischiare nep­ pure un uomo. Simile perfidia determinò la cosiddetta guerra di Musso, per la quale Hansli Gyr tornò a com-

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battere. Il famigerato condottiero Giacomo Medici, crea­ to da Carlo V margravio e castellano di Musso, una for­ tezza sul lago di Como, invase la valle di Chiavenna e la Valtellina, appartenenti ai Grigioni, dopo aver già osato altre aggressioni del genere ed aver fatto assalire e rapire ambasciatori inviati dalla Confederazione a Milano. Il suo parente Marco Sittico di Hohenems pareva volesse accorrere in suo aiuto con forze austriache, e il piano riuscì in quanto almeno fu richiamata l’attenzione degli stessi evangelici su questo punto. Zurigo esortò Berna e gli altri ad aiutare i Grigioni e portò forze sufficienti sul posto, cacciò gli intrusi dal paese, ottenendo dal governo di Innsbruck scuse cortesi per lo spiacevole incidente ed affidando, d’accordo coi Grigioni, la prosecuzione della guerra contro il castellano di Musso al duca di Milano, cedendogli poi le terre conquistate appartenenti a quello. Circa duemila uomini rimasero all’assedio del castello, alla cui distruzione volevano provvedere gli Svizzeri stessi. Quelle truppe vennero poste al comando del signor Stephan Zeller di Zurigo, il quale indusse Hansli Gyr a rimanere con lui invece di rimpatriare con gli altri. Detto Stephan Zeller era un uomo zelante e pio, campione della Riforma, che intendeva introdurre fra quelle truppe il buon ordine del campo di Kappel, avendo con suo dolore dovuto constatare che nella pre­ sente campagna militare poco era rimasto di quella di­ sciplina cristiana, in parte perché vi partecipavano mol­ ti combattenti dell’antica osservanza, in parte perché si era fuor di patria e si trattava di battere un nemico straniero. Invece delle pie canzoncine redatte e musicate da Zwingli nel suo vecchio dialetto di Toggenburg, i lanzi cantavano «Su la sottana, Margheritina ! », oppure «Co­ raggio compagni, andiamocene ! » facendo seguire spesso alle parole i fatti, il che per nulla piaceva al degno capi­ tano. Questi volle tener presso di sé Hansli appunto quale appoggio e strumento contro l’imbarbarimento dei co­ stumi, quasi come soldato modello. Egli corrispose con grande zelo all’aspettativa di lui : cercava con immutabile serietà di mantenere l’ordine e la disciplina, dava esem­

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pio di Sobrietà e di buon costume ed aiutava il capitano, che giorno e notte in persona vigilava pattuglie e sen­ tinelle. Il tiranno assediato era ben fornito di armi e di gente e in un nido ben saldo; per quanto violentemente lo bombardassero gli Svizzeri, con l’aiuto di un loro ottimo cannoniere mandato alla città di Zurigo dal langravio Filippo d’Assia, esso ricambiava con abbondanza il fuoco ed occorreva molta prudenza per evitare i danni nelle posizioni aperte. Nel frattempo però i lanzichenecchi, aizzati da vecchi mercenari, si irritavano della disciplina troppo rigida lo­ ro imposta e giocavano ovunque, appena lo potevano, brutti tiri al capitano. Ben presto la situazione degenerò in veri atti ostili e in denunce che alcuni seppero far per­ venire a Zurigo, così che di là ne fu chiesta relazione, con nuova ira ed offesa da parte del capitano. Il malumore di molti fra quei cattivi soldati si rivolse naturalmente anche contro Hansli, fedele al suo capitano e chiamato dai soldati «il virtuoso sagrestano da campo» : dove gli potevano tendere una trappola, ci rinunciavano malvolentieri. Egli sopportava tali ingiustizie non senza una sfumatura di compiacente orgoglio, continuando so­ lennemente per la sua via, sempre più incorruttibile. In una bella giornata di settembre, mentre l’artiglie­ ria dava tregua, egli superò i confini del campo, passeg­ giando sotto il cielo paradisiaco che si stende sull’azzurro lago di Como. Giunse finalmente ad una casa dove un oste milanese, approfittando della guerra e della presen­ za di tanta soldatesca, s’era stabilito, per vendere, oltre al buon vino, articoli di genere vario ricercati da soldati in campo. Un paio di nipotine di bell’aspetto lo aiutavano negli affari e costituivano per i soldati milanesi e svizzeri un’attrattiva non meno forte del vino. Anche quel giorno dieci o dodici confederati baldan­ zosi sedevano e trincavano sotto un portico di pietra, a cui si giungeva per una lunga scalinata mezzo distrutta. — Guarda che arriva il sagrestano virtuoso ! — disse uno, vedendo passare in basso Hansli.

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— Chiamalo su ! — gridò un altro — lo vogliamo met­ tere in conserva! Subito il primo gridò a Hansli: — Caposquadra, qui ci sono dei buoni compagni e del buon vino, accettane un sorso ! Hansli Gyr pensò che forse unendosi a loro per un’oretta avrebbe potuto favorirne il tempestivo ritorno al campo, quindi salì nel regno dell’allegria e si accomodò fra i bevitori. Il vino scuro era così frizzante e buono da scaldare il suo cuore intirizzito e Hansli cedette ai brim disi dei compagni più di quanto gli giovasse, mentre la bellezza del tempo e l’allegria in apparenza innocente della brigata affermavano i loro diritti, scacciando dalla sua testa ogni triste pensiero. Solo le belle ragazze ser­ venti gli davano qualche sospetto, ma non le degnò di uno sguardo e si contenne come chi a certe cose è del tutto estraneo. Ma ecco che d’un tratto apparve, recando una brocca di vino da lui stesso offerta ai compagni, la donna più bella che avesse mai veduto, alta, fine, con le trecce scure e gli occhi ancor più scuri, riccamente vestita di seta verde, con il petto e le braccia ravvolte in mussola bian­ ca a pieghe. «Questa è la bella Freschina di Bergamo!» mormorarono i soldati (cioè una Francesca o Franceschina) ; ma Hansli non li udì, costretto a guardare la crea­ tura eccezionale, che si muoveva non certo sfacciatamen­ te, ma con sorridente sicurezza, e che senz’altro gli si sedette accanto appena egli trasse il borsellino ben gonfio solo per indugiare qualche momento con lei, giacché le parole gli vennero meno, malgrado il vino l’avesse già reso, senza che lui se ne accorgesse, di un insolito buo­ numore. Non poteva staccare lo sguardo dal volto di nobile forma, dall’agile figura, dall’ampio petto, dalla ro­ busta persona che sembrava destinata piuttosto ad un principe che a poveri lanzi : per quante belle donne aves­ se già veduto in Italia, non gliene era mai capitata sotto gli occhi una simile. Spesso ella si alzava e s’allontanava, ma per tornare sempre a lui, evitando, pur senza scortesia, ogni dime­

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stichezza coi soldati. L’austero Caposquadra non vide e non udì altro che quella bella donna, la quale chiacchie­ rava con lui con calma confidenza, fissandolo negli occhi non come farebbe una donna equivoca, ma una bella e buona amica, informandosi del suo paese, delle sue vi­ cende, dei suoi casi e dei suoi gusti. Scese la sera, venne la notte, le stelle scintillarono in cielo e sullo specchio del lago e Hansli non s’accorse che l’uno dopo l’altro i compagni se l’erano svignata, che era sparito persino l’oste coi suoi uomini, sinché la bella Freschina non gli disse con la sua voce armoniosa: «Qui fa ora troppo freddo, bisognerà entrare, se vo­ lete berne ancora un bicchiere ! ». Entrarono nella stanza attigua, anch’essa vuota e si­ lenziosa, debolmente illuminata da una lampada ap­ pesa al soffitto. Egli era ormai innamorato cotto, il cuore gli batteva con un’improvvisa pienezza di vita, ridestan­ dosi dopo lungo sonno e, poiché il vino bevuto in abbon­ danza gli aveva annebbiato la ragione, ma tuttavia si serbava un uomo onesto, quando essa, seria e silenziosa, fu tra le sue braccia, sorse in lui il progetto di portare con sé e di sposare quella meravigliosa creatura che gli pareva rappresentare la felicità e valere un gran tesoro, sempre, si capisce, se lei lo avesse voluto. Questo però non gli pareva affatto sicuro, ma d’altra parte meritava il tentativo di salvare l’anima di quel corpo mirabile, strappandola al papismo. Mentre agitava nella sua testa infiammata simili pen­ sieri, giocherellava con la candida mano della donna e le sfilò l’anello d’oro che portava al dito. S’accorse di colpo che esso assomigliava esattamente a quello da lui donato un giorno ad Ursula; doveva essere suo fratello gemello, lavorato dallo stesso orefice. Hansli sbiancò, giacché si presentò alla sua mente la pallida e cara immagine della povera Ursula e gettò un riflesso sul suo volto. — Che anello è mai? — domandò con voce soffocata. — È l’anello del mio innamorato, che mi sposerà ! — rispose tranquillamente la bella Freschina.

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— Dove sta e cosa fa? — Veramente è oste e fornaio, ma in questi ultimi anni è diventato un bandito, perché gli andava male. Ora è dovuto fuggire a Napoli, perché ha ammazzato un conte per incarico di un grande signore ed è stato sco­ perto. Appena avrò guadagnato i soldi sufficienti, lo rag­ giungerò, ed allora insieme apriremo in un paese meri­ dionale una locanda con forno. Fra poco andrò a Roma da una mia sorella che vive presso un cardinale. — E tu vuoi davvero tenerti legata ad un fidanzato che è un assassino ed un delinquente? — E perché no? Non è uno scellerato, ma un povero disgraziato che ha bisogno di qualcuno che l’aiuti; noi ci siamo promessi fin da bambini e non ci divideremo ! “Ecco che questa anima perduta serba fedeltà a un bandito e non lo lascia,” pensò tra sé Hansli “mentre tu, disgraziato, hai abbandonato l’anima innocente di Ur­ sula e la volevi ora tradire !”. Erano spariti i fumi del vino; la fronte gli si imperlò di sudore, si staccò da quella strana donna, sentendo ri­ brezzo di fronte a queirimpassibile miscela di tranquillo senso pratico, di basso opportunismo, di amore, di coe­ renza e d’impudenza che si rivelava in così nobile aspetto. — Buona notte ! — disse — fatemi luce un momento ! — Dove volete andare? — replicò lei stupita ma calma — passate per la cucina e raggiungerete la strada mi­ gliore. Egli però non l’ascoltava, passò per il portico da cui era venuto, cominciò a scendere al buio la scala perico­ losa, giacché la bella, invece di fargli lume, gli aveva sbattuto in silenzio la porta alle spalle. Ben presto fece uno scivolone sui gradini sbrecciati e precipitò in un fitto cespuglio d’alloro che per fortuna lo salvò da maggiori danni; ebbe però una certa pena a rimettersi in piedi e a raggiungere il suo quartiere. “È possibile? È possibile?” ripeteva tra sé, senza ren­ dersi conto nel suo turbamento se alludesse a se stesso o alla bella Freschina, giacché era bensì più alto e più saldo della bella donna, ma tuttavia era caduto.

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L’indomani mostrò un volto rabbuiato incontrando i compagni della vigilia che lo guardavano ammiccando e lo inseguivano con allusioni a mezza voce. — Avete ragione, eppure avete torto, — disse vol­ gendosi a loro — mi avete ad ogni modo fatto più bene che male! • — Ma era quello il nostro fine, signor caposquadra! — gridarono quelli con una risata — chi vi augurava qual­ che cosa di male? Oggi poi avete tempo per ripigliare e proseguire le vostre opere di virtù ! Un messaggio ed un incarico col quale fu inaspettata­ mente mandato a Zurigo dai suoi superiori non gli tor­ nò discaro, e si pose subito in cammino. In patria riprendeva la guerra interna e ci si avviava a quella soluzione che con l’infelice battaglia di Kappel tornò a sfavore di Zurigo, fermando la Riforma al pun­ to in cui era giunta. La città di Zurigo era in quel momento ben popolata di eruditi e di teologi, pervasa di uno spirito di saggezza e di superiorità; ognuno aveva in mano la Sacra Scrit­ tura ed i trattati, e la generale sapienza offendeva ed irritava non soltanto gli avversari cattolici, ma anche gli amici. La forte Berna, dove la saggezza politica laica pre­ valeva su quella ecclesiastica, trovava cosi sgradevole quel tono di pedantesca tutela, che, allorché Zurigo col suo zelo si mise in una situazione pericolosa per violente in­ frazioni giuridiche ed atti arbitrari, un reggente bernese fece comprendere a quello zurighese venuto a chiedere appoggio e intervento, che certo i seguaci di Zwingli avrebbero saputo cavarsela da soli, dato che erano tutti cosi saggi.

Enoch Schnurrenberg negli ultimi tempi era ritornato a casa con i suoi, dopo che nella regione limitrofa la fac­ cenda era stata spazzata via per le eccessive follie. Qui i fanatici erano da un pezzo ridotti al silenzio, le loro storie mezzo dimenticate, i capi o morti o banditi o imprigionati. Soltanto Enoch non si rassegnava del tutto alla calma;

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quanto meno gli badavano e l’osservavano, tanto meno lo lasciava la smania di dare spettacolo e di trovare un nuovo aspetto in cui attendere la giusta ora e il Regno Millenario, nel quale egli avrebbe dovuto diventare sen­ z’altro presidente o quanto meno esattore. Da ultimo soleva spiegare alla lettera e attuare il mot­ to: «Chi si farà piccolo come questo bimbo sarà il più grande nel regno dei cieli!». Così,un mattino del mese di ottobre del 1531, invece di accudire al lavoro, se ne stava, con il gruppetto rimastogli fedele e che in segreto lo seguiva, nel suo podere, intento a fare il bambino. Era ormai un vecchio curvo e macilento, con lunga barba bianca che gli scendeva fin quasi all’ombelico. Con le gambe nude e con indosso una vecchia sottana rossa, che voleva sembrare un gonnellino di bimba, stava ac­ coccolato in terra, intento a costruire con listelli di legno un carrettino che poi caricava di crusca, farfugliando con voce infantile: «Lo, lo, lo! Da, da, da!» il che, per l’asma, gli faceva fatica. Schneck von Agasul si era costruito con dei pali una specie di girello, nel quale ballonzolava con un succhione in bocca. Ogni tanto se lo toglieva gridando: «Schneck mi chiamo, sono una lu­ maca, ma raggiungo egualmente la velocità del Signore che cavalca col vento !». Wirtz von Gossau aveva legato una corda ai piedi di una stufa e le menava frustate con un frustino da bimbo, ora accoccolato a terra, ora seduto su di essa, come a cavallo. La parte migliore se l’era scelta Jakob Rosenstil che, seduto in un angolo su di un sacco di paglia, si fingeva un bimbo in culla, tentando di portare il pollice del piede destro alla bocca, il che però, data la sua corporatura, non gli riusciva. Alcune donne forestiere si trascinavano dietro per la stanza pigne legate a cordicelle, non avendo saputo trovare altri giuochi o avendo appreso quelli dai loro bambini. Di tanto in tanto tutti quei vecchietti formavano cer­ chio e ballavano il girotondo, cantando canzoncine pue­ rili, battendo le mani e saltellando. La vecchia moglie di Enoch se ne stava in cucina ac­ canto al focolare, tenendo in braccio un bambolotto fatto

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di stracci, e aveva fissato alla meglio sui suoi capelli grigi, in modo però che le cadeva storta sull’orecchio sinistro, la cuffietta azzurra con cui un giorno era stata battez­ zata sua figlia Ursula. Questo faceva un effetto terribile, data l’espressione di sconsolato dolore dominante sul suo volto rugoso, giacché essa cominciava a persuadersi che non avrebbe mai più goduto i vantaggi dell’ingegno di suo marito e che neppur lui avrebbe assistito alla pro­ pria vittoria. Preparava una pappa d’avena per tutta la compagnia. Ursula sedeva sola davanti alla casa, sotto gli aceri, le cui belle foglie puntute, dai colori autunnali, stendevano su di lei un cielo dorato intessuto di aria az­ zurra. Lei però non aveva un aspetto né luminoso né azzurro, ma era fosca e triste, vestita da capo a piedi di vecchi cenci grigi e bruni chissà dove raccolti; i piedi erano calzati di grosse scarpe da contadina e accanto a lei, sulla panca, vi era un fagottino ben legato ad un bastone; ella infatti da settimane andava dicendo che sarebbe partita con l’angelo Gabriele, appena questi fos­ se guarito. Credeva di tenere in braccio l’angelo Gabriele: una statuetta di legno di san Sebastiano, alta circa un piede e mezzo, che il padre un giorno aveva strappato da un altare nel saccheggio d’una cappella portando­ la a casa per giocarci. Ma Ursula l’aveva presa e na­ scosta, sembrandole che assomigliasse a Hansli Gyr, o meglio all’angelo dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. La statuetta conservava ancora i colori ed essa aveva tolto le frecce infitte nel corpo del santo e ne medicava ogni giorno le ferite dipinte in rosso, con bianche stri­ scioline di tela, e fasciava poi con grande amore il suo piccolo Gabriele, dopo aver ogni volta invano cercato di sciogliergli le manine legate sul dorso. Contemplava il suo sposo angelico solo quando si ri­ teneva indisturbata, e in quel momento appunto stava ravvolgendolo in fasce e pannolini, girando la figurina con grande sveltezza. Nella casa continuavano a giocare a modo loro. Di tanto in tanto uno teneva una breve predica in tono bambinesco; poi mangiavano quello che si erano in qual­

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che modo procurato, bisticciandosi come bambini per i bocconi migliori. Ursula invece venne a prendersi un po’ di cibo e si ritirò poi col suo tesoro fasciato. Quando scese la sera, Enoch però s’alzò d’improvviso e disse con la sua voce normale: «Per oggi basta, ragazzi! Ora vogliamo far festa e sta­ re ancora un poco insieme!». Immediatamente tutti si rizzarono in piedi con un senso di sollievo, più o meno svelti a seconda dell’età, stirarono le membra, si grattarono le gambe, e tornarono a disporsi attorno alla tavola, dove ripresero, proprio co­ me in passato, a giocare a carte con impassibile serietà. Avevan giocato seri seri una mezz’ora, sbattendo le carte sulla tavola, quando le porte si spalancarono e due uomini armati irruppero con tale impeto nella stanza, che i giocatori balzarono in piedi spaventati, credendo che la forza pubblica li assalisse. Era invece soltanto un vicino, l’acquirente del podere di Hansli, insieme a suo figlio. «Non sapete quello che capita nel mondo?» grida­ rono i due uomini «Aprite le finestre ! Il caposquadra Hansli Gyr passa a cavallo per i paesi come una furia e raduna gente. I cinque Cantoni sono insorti e premono ai confini ; bisogna andare tutti a Zurigo ; non sapete che c’è la leva in massa? Lasciate le vostre scempiaggini, prov­ vedete come potete alla casa e ai campi e chiunque ha forza sufficiente venga con noi ! Si tratta proprio per noi di vita o di morte !». Detto questo, corsero via, giù per la montagna. Gli altri, atterriti, uscirono dinanzi alla casa e udirono in­ fatti le campane a stormo e il rullio dei tamburi e scorsero i fuochi di segnalazione lontani, su tutte le alture. Osservarono ed ascoltarono attoniti, ma avevano per­ duto ormai ogni comprensione per l’importanza del mo­ mento; non che avessero voglia di ridere o di scherzare, perché tutto sembrava loro preoccupante e ne erano spa­ ventati, ma guardavano nell’oscurità della notte con aria ebete e smarrita. Ursula invece, dall’angolo accanto alla stufa ove stava

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sognando ad occhi aperti, alle parole del vicino aveva alzato la testa e, sentendo il nome di Hansli, aveva la­ sciato cadere di colpo la statuetta di legno, aveva affer­ rato il fagottino e il bastone e si era allontanata silenzio­ samente dalla casa. Per un poco stette scrutando ed ascol­ tando nella cupa notte, vide i fuochi e udì le campane a stormo, poi si avviò senz’altro in direzione della pia­ nura, dove erano scesi i due armati. Nel villaggio vicino scorse una piccola schiera di uomini che si era già radu­ nata; essi poi proseguirono, unendosi lungo il cammino ad altri, e così fu per tutta la notte, sinché gli accorsi raggiunsero la città, e sempre la bruna figura di Ursula tenne dietro, non vista, a quella schiera, riuscendo a pas­ sare indisturbata per la porta della città. Tutte le strade erano illuminate, si udivano grida, ordini e preparativi. L’avanguardia era già partita il po­ meriggio per Kappel; stava ora radunandosi il popolo sorpreso. Queste truppe vennero irreggimentate e con­ tate, poi si dette loro da mangiare e da bere; Ursula ri­ mase fra l’ondeggiare della folla e vide ben chiaramente Hansli Gyr che, al lume delle fiaccole, non più a cavallo, andava su e giù, perfettamente tranquillo, aiutando a metter ordine in quelle schiere. Per la prima volta tornò a riconoscerlo, come più tardi ricordò, nella sua vera per­ sonalità, ma si guardò tanto dal farsi vedere che dal per­ derlo di vista. Soltanto quando egli all’alba entrò in una casa, ella sedette non lontano su un paracarro, nascon­ dendosi il capo in uno scialle. Allorché verso mezzogiorno finalmente la schiera armata si mosse col gonfalone, Ur­ sula l’aveva già preceduta lungo la strada che conduce al monte Albis e continuò a seguirne la marcia, nasconden­ dosi al margine dei boschi. A mezza via fece una sosta e attraverso gli alberi scorse l’esercito incompleto e disordinato. Cavalieri, ar­ tiglieri e fanti erano confusi insieme, ma la profonda se­ rietà che li dominava ed il loro aspetto, bello ed insolito per Ursula, la rincoravano come un’aria pura. Fra gli uomini aitanti che cavalcavano accanto al gonfalone c’e­ ra Ulrich Zwingli in persona, ed il suo aspetto simpatico

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illuminò l’anima della donna che non cessava di guar­ darsi attorno. Sopra la lunga veste da erudito o da predi­ catore l’aitante uomo indossava una buona corazza d’ac­ ciaio, mentre la testa era protetta da un curioso elmetto rotondo a larghe tese, e alla spalla si appoggiava un’ala­ barda di ferro di media lunghezza, o meglio un’accetta leggera di bella forma, e dal fianco sinistro gli pendeva la spada. Malgrado tutte queste armi, il suo volto, dai linea­ menti ben marcati, serbava un’espressione melanconica e presaga, fervida e rassegnata; le labbra mormoravano lievemente una preghiera, con così evidente sincerità e intensità, che dal suo aspetto irradiò un raggio luminoso di salute e di conforto sino al petto tormentato della donna, la quale quasi non s’accorse di Hansli Gyr, che alla testa della sua truppa seguiva a poca distanza il grande riformatore. Essa non si mosse e riprese il cammino solo quando la schiera ebbe superato l’altura, incominciando a racco­ gliersi. La figura incolore di Ursula, che quasi non si distingueva dal terreno bruno, seguiva con ampi archi tutti i movimenti del piccolo esercito ancora in attesa del suo nucleo più forte, mentre le grandi masse alleate stavano accampate inerti ad occidente ed i fratelli nemici invece s’avvicinavano forti di ben ottomila uomini. Ella si trovò a sinistra delle posizioni zurighesi, davanti ad un bosco che avevano trascurato di occupare, e scorse ambedue gli eserciti, ma il duello delle artiglierie, già iniziatosi da tempo, la indusse a ritirarsi al riparo delle piante. Trovò un vecchio faggio le cui forti radici for­ mavano una rientranza e circondavano per di più una specie di grotta. Si insinuò in quel rifugio e credette di esser ben al sicuro. Aprì rapida il suo fagotto, essendo giunto il momento di riprendere forza, e ne trasse una bottiglietta di vino ed un po’ di carne secca con del pane; mangiò e bevve abbastanza di buon animo, perché respi­ rava l’aria dell’uomo che seguiva. Ma ad un tratto si udirono crepitìi e scoppi fra gli alberi e alle sue spalle; i pochi artiglieri di Uri, accortisi di quella posizione e della possibilità di accerchiare gli

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Zurighesi, avevano occupato il boschetto e da esso spara­ vano, per il che gli Zurighesi a loro volta vi diressero una parte delle loro artiglierie, e le cannonate andarono a finire negli alberi al di sopra di Ursula. Essa si teneva immobile e nessuno poteva scorgere in quel mucchietto grigio-bruno una povera vita umana. Poi tornò il silenzio attorno a lei; gli artiglieri avevano abbandonato il bosco per incitare all’assalto il grosso delle forze cattoliche ancora indeciso. Poco dopo la bu­ fera si avvicinò nuovamente alle spalle di Ursula: la massa violenta dei cinque Cantoni irruppe a migliaia fra piante e cespugli, passando oltre, come dice il croni­ sta, con tanto violento fragore e rimbombo, che ne tremò la terra e ne rintronò la foresta. Ursula si curvò giun­ gendo le mani, ma pareva che quell’inferno non volesse cessare: a destra e a sinistra la oltrepassavano sempre nuove schiere di uomini infuriati, ma essa ne scorgeva quasi soltanto i grossi piedi, sotto i quali erba e cespugli si trasformarono presto in una strada militare sconvolta e calpestata. Per fortuna il vecchio faggio, fra le cui radici essa si celava, costringeva la fiumana del violento eser­ cito a scindersi alle sue spalle; tanto più assordanti le echeggiavano alle orecchie i corni, le trombe, i tamburi, così che alla fine si lasciò cadere a terra semisvenuta sulla buona e sicura base dell’albero. Finalmente si ristabilì il silenzio attorno a lei. Erano ormai passati anche gli ultimi; l’intera truppa armata si trovava ora fra lei e lo schieramento dei riformati, il quale in quel momento stava compiendo un muta­ mento di fronte. Ursula udì l’aria lacerata dall’urlo dell’attacco. La vendetta per un’offesa religiosa supposta o realmente sof­ ferta si iniziò con un torrente di improperi e quel saluto terrificante venne ricambiato con insulti non meno aspri e feroci. Udì poi il cozzare violento delle armi, che non durò però a lungo, perché subito la battaglia prese per gli Zurighesi quello sciagurato andamento che stava scritto in cielo.

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Il sole si avviava al tramonto: fra i caduti sul campo vi erano quasi tutti i più insigni Zurighesi. Circa trenta membri del Consiglio, altrettanti sacerdoti riformati, spesso padre e figlio e fratello l’uno accanto all’altro, uomini di campagna e di città. Zwingli giaceva isolato sotto un albero. Egli non aveva inferto colpi : era rimasto soltanto coraggiosamente nelle file dei suoi, per accet­ tare quanto gli fosse destinato. Più volte, durante la fuga, era caduto, rialzandosi però sempre, sinché un colpo, attraversandogli l’elmo, lo aveva premuto sulla madre terra. Il sole calante gli illuminava il volto ancora energico e pacato; pareva quasi volergli attestare che aveva agito rettamente e assolto il suo compito da eroe. L’astro sola­ re si librò un ultimo istante al di sopra della terra, simi­ le alla grande ostia dorata di un Cenacolo universale e purificato, attirando verso il cielo l’occhio del caduto. Dal monte Righi sino al Pilato, e di là sin lontano, verso i monti del Giura nel crepuscolo, si stendeva una grigia distesa di nubi dal margine purpureo, simile ad una infinita dimora divina, e da essa si ergevano nel roseo riflesso lievi formazioni di nubi allineate, come un corteo di spiriti che indugiasse per un istante. Erano certo i beati i quali chiamavano l’eroe ad unirsi a loro, e non erano soltanto, com’egli aveva scritto un giorno a Francesco I, i santi dell’Antico e del Nuovo Testamento e della Chiesa Cristiana, bensì pure gli onesti pagani: Er­ cole, Teseo, Socrate, Aristide, Antigono, Numa, Camillo, i Catoni, gli Scipioni; c’era anche Pindaro con la splen­ dente cetra, al quale il moribondo aveva un giorno dedi­ cato una prefazione entusiasta. Anche l’uomo che Ursula aveva seguito nel suo presa­ go impulso giaceva immoto a circa cinquanta passi dal punto dove il degno gonfaloniere era morto dopo il sal­ vataggio del gonfalone. Hansli Gyr si era battuto da va­ loroso, continuando a respingere i primi attacchi. Al sopravvenire della confusione e della fuga, quando fu calato lo stendardo, egli, trascinato nel vortice, udì il richiamo a soccorrere quella insegna. Resistendo ad

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alcuni nemici incalzanti, s’aprì a colpi una via, ma fu costretto a cedere passo per passo, finché, non potendosi guardare alle spalle, cadde supino in quel fossato che era stato così fatale per la battaglia. Per la greve armatura la caduta era stata pesante, ed egli era rimasto privo di sensi, coi piedi in alto. Quando la notte fu scesa ed Ursula potè rendersi conto che la battaglia era ormai finita, uscì dal bosco. Vide il campo cosparso dai numerosi fuochi di bivacco dei vin­ citori e ne udì le grida di giubilo; comprese ben presto chi avesse vinto, ma non esitò un istante a proseguire la via, attraversando l’accampamento; nessuno badò a lei che passava come un fantasma, giacché alle schiere vit­ toriose si frammischiavano altre donne. Dovunque scor­ geva morti e feriti; si avvicinava, senza però trovare ciò che temeva, e tentò piena di speranze di uscire poco alla volta dalla massa dei cattolici per raggiungere i pochi residui degli Zurighesi. Senza farsi scorgere aveva sot­ tratto ad un fuoco di bivacco un tizzone ardente, e con esso cercava di illuminare impavida quello strano mondo notturno pieno di orgoglio, di giubilo, di sciagura e di terrore della morte. Già erano più intensi il silenzio e la tenebra quando giunse ad un ponticello che attraversava il fossato del mulino. Guardò per caso da un lato e vide un barbaglio della sua torcia riflesso da un’armatura giacente sul fondo. Senza indugiare tornò sui suoi passi e scese sino alla riva cespugliosa, dove sotto gli ontani giaceva un morto. Non era però Hansli, ma essa proce­ dette sul fondo del fossato ove fluiva poca acqua e trovò un altro uomo tacito per sempre, che non era però il suo. Ma il prossimo che incontrò era proprio lui. Lo riconobbe al primo sguardo. Immediatamente si diede a tirargli giù le gambe alzate dalla sponda del ruscello, sollevan­ dogli invece con gran fatica la testa, e solo dopo aver fatto questo gli si gettò addosso con l’orecchio sulla sua bocca. Respirava ancora, ma non dava altro segno di vita, e neppure si vedeva traccia di sangue su di lui né attorno a lui. Cercò ansiosamente, senza riuscirvi, di li­ berarlo dall’elmo e dalla corazza e così facendo mandò

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alti sospiri, specialmente quando le cascò nel ruscelletto, spegnendosi, la torcia. Apparvero intanto sull’alto del fossato due uomini con una fiaccola, che fecero luce, mentre l’uno esclamava: — Lì ce n’è uno che sta morendo — e l’altro replicò : — Proviamo a scendere, forse è dei nostri ! — Ma quan­ do furono arrivati, esclamarono insieme: — Meraviglia di Dio, ma questa è una bella coppia ! — Costui l’ho già visto ! — riprese il primo, dopo aver illuminato il volto del caduto. — Anch’io, ma non saprei dove — replicò l’altro sol­ dato, il quale, al pari del compagno, aveva un’aria mi­ te e umana. — Chi è questo caduto, chi sei tu, ombra notturna? — chiesero a Ursula. — Questi è il caposquadra Hänslein Gyr ed è un bravo uomo ! — rispose Ursula supplichevole — Abbiate com­ passione o signori, aiutatelo, perché è ancora in vita. — Come è vero Dio, è proprio Hansli ! Un vecchio e caro camerata ! Come passano gli anni ! — esclamarono i due stupiti — E chi sei tu, e come mai sei finita in questo fossato? — Io sono la sua vicina, la sua compagna d’infanzia, la sua fidanzata di un tempo, e l’ho seguito senza che lui 10 sapesse — replicò Ursula. — Ebbene, non si può lasciar perire un uomo al quale 11 buon Dio ha donato una persona tanto fedele ! Vieni qua, o fantasma, che ti aiuteremo ! I comandanti dei cattolici avevano emanato a suon di tromba l’ordine che non si dovessero più uccidere feriti o prigionieri, e non vi fu quindi difficoltà per i due came­ rati, che erano di Schwyz, a trascinare fuori dal fossato Hansli e a portarlo nel monastero di Kappel, già zeppo di feriti, il cui abate protestante giaceva pure morto sul campo di battaglia. Con l’aiuto di quei bravi uomini, Hansli trovò una piccola cella ed un buon letto e Ursula non si staccò dal suo fianco, ascoltandone ogni respiro. Solo al terzo gior­ no egli ritornò in sé; dopo otto potè lasciare il letto,

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e, non manifestandosi alcuna ferita interna, riacquistò piena conoscenza, e si ritrovò vicina, secondo i suoi desideri, Ursula, non meno miracolosamente guarita gra­ zie agli avvenimenti. Essa non seppe spiegare come fosse partita da casa, ma del resto i suoi pensieri ed il suo sguardo erano or­ mai perfettamente sicuri e limpidi. La felicità le fece ben presto ritornare le guance floride, poiché essa era come un terreno benedetto, che rinverdisce appena vi cade un raggio di sole e un po’ di rugiada. Passate le prime conseguenze della battaglia ed anche i nuovi perturbamenti guerreschi, Hansli Gyr prese in moglie Ursula, secondo le prescrizioni degli ordini vi­ genti, ai quali essa non si oppose più, e si stabilì nel po­ dere di lei, dove il vecchio Enoch era morto e la curva e rinsecchita sua moglie lo aveva docilmente seguito nella nuova Gerusalemme. Essa però, sia pure all’insaputa del marito, aveva ancora potuto godere la consolazione di veder sua figlia protetta e felice. Il caposquadra e la sua consorte vissero da degni mem­ bri di quel popolo che, dopo la battaglia, invece di cari­ care di rimproveri e di tormentare con malcontento i capi, li incoraggiò alla perseveranza e li assicurò del proprio spirito di sacrificio, non senza peraltro aggiungere il sin­ cero parere sull’una o sull’altra cosa che si sarebbe forse potuto far meglio. Hansli era nel numero della gente di campagna che alzava la propria voce con benevola sin­ cerità, ma che in pari tempo si prodigava con ferrea fe­ deltà per il bene comune. I suoi successori rimasero per circa due secoli in quel podere ben condotto che ebbe nome Gyrenhof. La buona coppia offriva un bicchiere di vino o di buon sidro ad ognuno dei piccoli profeti che ancora si presentasse al podere con qualche divertimento. Essi infatti si compiacevano ancora di cose bizzarre, ma non predicavano ormai più. Tuttavia, di tanto in tanto, attorno a quelle montagne, rispunta la loro stramberia.

L’EPIGRAMMA

CAPITOLO PRIMO

Un naturalista scopre un procedimento e cavalca le terre per saggiarne la validità

Un venticinque anni or sono, quando le scienze fisiche, pur non essendo ancora nota la legge della selezione na­ turale, erano nuovamente in auge, il signor Reinhart spalancò un mattino i battenti delle finestre e lasciò en­ trare nel suo studio il fulgore del giorno che spuntava dietro i monti; e con l’oro del primo sole giunse una fresca brezzolina estiva che mosse con forza i pesanti tendoni e i capelli ombreggiati dell’uomo. La luce del giorno appena sorto illuminò lo studio di un dottor Faust, tradotto però in termini moderni, co­ modi e graziosi. Invece della pittoresca cappa del ca­ mino, degli enormi alambicchi e calderoni, c’erano sol­ tanto leggeri fornelli a spirito e fragili tubi di vetro, calici di porcellana e boccette con tappi smerigliati, pieni di liquidi e di polveri d’ogni sorta, di acidi, sali e cristalli. I tavoli erano coperti di carte geognostiche, di minerali e di modelli lignei di feldspato ; mucchi di annuari scien­ tifici in tutte le lingue ingombravano sedie e divani, e sulle mensole delle specchiere scintillavano strumenti di lucido ottone. Non v’erano mostri impagliati appesi al soffitto annerito dal fumo, però un ranocchio vivo era rannicchiato modestamente in un barattolo di vetro e aspettava la sua sorte; e mancava perfino il solito sche­ letro nell’angolo buio, ma in compenso una fila di te­ schi d’uomini e d’animali biancheggiava così allettante da sembrare piuttosto la chincaglieria di un bellimbusto che il lugubre armamentario di un antico sperimentatore. Invece di erbari polverosi si vedevano fini disegni di tes­ suti vegetali, invece di pergamene in folio, splendide edi­ zioni inglesi con rilegature di tela. Chi avesse sfogliato un libro o un quaderno si sarebbe trovato sott’occhio solo testi scientifici latini, colonne di numeri e logaritmi. Non uno di quei volumi trattava di argomenti morali o umanistici, ossia, come si sarebbe

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detto cent’anni fa, delie cose del cuore e del buon gusto. Dunque Reinhart stava per accingersi anche quel gior­ no a un lavoro quieto e sottile che lo occupava da setti­ mane. Nel centro della stanza v’era un apparecchio inge­ gnoso, che captava un raggio di sole e lo faceva passare attraverso un cristallo, permettendo di osservare come si comportava dentro di esso e possibilmente di scoprire l’in­ timo segreto di quelle trasparenti strutture. Già molti giorni Reinhart aveva trascorso davanti al congegno, a guardare nell’interno attraverso un tubo, col regolo cal­ colatore in mano, scrivendo poi cifre su cifre. Quando il sole fu salito di qualche spanna, richiuse la finestra sul vago mondo con tutto ciò che viveva e s’agi­ tava al di fuori, e lasciò entrare nella stanza oscurata un unico raggio di luce attraverso un forellino che aveva praticato nell’imposta. Appena quel raggio fu accura­ tamente teso sullo strumento di tortura, Reinhart volle intraprendere senza indugio la sua opera quotidiana; prese carta e matita e applicò l’occhio al tubo per con­ tinuare dal punto in cui era rimasto. Ma in quella sentì nell’occhio un dolore leggero e pun­ gente; lo soffregò con la punta del dito e guardò con l’al­ tro nel tubo, e anche quest’occhio doleva; giacché egli aveva già cominciato a rovinarsi la vista con lo sforzo diuturno, e particolarmente con il passaggio continuo dal cristallo luminoso all’oscurità nella quale annotava i suoi numeri. Lo capì ora e arretrò impensierito; se gli occhi gli si ammalavano, era finita per le ricerche sperimentali, e Reinhart sarebbe stato ridotto a riflettere e meditare su ciò che aveva visto fino a quel momento. Turbato andò a sedersi su una soffice poltrona, e poiché intorno a lui era buio, silenzio e solitudine, lo assalsero strani pensieri. Dopo avere trascorso in gioconda agitazione la mag­ gior parte della giovinezza e osservato l’umanità con attenzione sufficiente per convincersi della razionalità e della coerenza del mondo morale, notando come non cada mai una parola che non sia nel contempo causa ed effetto, anche se di poco rilievo come il dondolio d’un

UN NATURALISTA SCOPRE UN PROCEDIMENTO

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filo d’erba in un prato, l’investigazione della materia e del mondo sensibile era diventata il suo fine unico é universale. Da anni ormai aveva quasi dimenticato la vita degli uomini, e non ricordava più che una volta anch’egli era stato contento e adirato, stolto e prudente, gaio e triste. Adesso rideva soltanto quando fra le sue sostanze chimi­ che si svolgevano drammi e commedie, e intrighi inattesi ; s’irritava unicamente se commetteva un errore di cal­ colo, se sbagliava un esperimento o se rompeva un vetro ; si sentiva lieto e soddisfatto esclusivamente quando nel suo lavoro si godeva il grande spettacolo che sembra ri­ condurre l’infinita ricchezza dei fenomeni ad un’unità semplicissima, che pare dire: «in principio era l’energia», o qualcosa di simile. Le cose morali, soleva dire, svolazzano nell’aria come farfalle scolorite e sciupate; ma il filo che le tiene è saldamente legato ed esse non ci sfuggiranno, anche se dimostrano perennemente una grandissima voglia di ren­ dersi invisibili. Come s’è detto, adesso era in preda a sensazioni spia­ cevoli; preoccupato per la sua vista, immaginava tutte le cose che essa permette di godere, e fra di esse s’insinuò inavvertitamente la figura umana, non già nelle sue sin­ gole parti, ma come un tutto : quando è bella e gradevole a contemplarsi e pronuncia parole armoniose. Provò il bi­ sogno di udire Subito delle belle parole e di darvi risposta, e desiderò improvvisamente di uscire fuori a navigare sul ma­ re translucido della vita, guidando la sua navicella in deli­ ziose ricerche di libertà, lungo questa e quella rotta dove 10 attirassero oggetti leggiadri : ma non gli venne in mente 11 minimo appiglio, il più vago pretesto per riprendere l’u­ sanza dei contatti umani; si era isolato, incarcerato, tutto intorno a lui restava silenzioso e oscuro. A un tratto ebbe l’impressione intollerabile di soffocare, corse alla finestra e la spalancò nuovamente per avere luce e respiro. Poi salì nel solaio, dove aveva riposto in armadi una quan­ tità di libri abbandonati che trattavano di quelle cose umane che egli aveva mezzo dimenticate. Trasse fuori un

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volume, ne soffiò via la polvere, vi batté sopra con forza e disse: «Vieni, mio bravo Lessing! è vero, sei sulla bocca di tutte le lavandaie, ma senza ch’esse abbiano un bar­ lume della tua vera essenza, che è l’eterna gioventù e la destrezza in tutte le cose, la buona volontà incondizionata, verace, inaurata nel fuoco!». Era un volume delle opere di Lessing nell’edizione Lachmann, e precisamente quello dove sono raccolti gli epigrammi di Friedrich von Logau1; quando Reinhart l’aperse, gli cadde sott’occhio questo distico : Vuoi tu il candido giglio in rosa rossa mutare? Bacia una Galatea bianca : la vedrai sorridente avvampare.

Subito gettò via il libro, esclamando: «Grazie, o ec­ celso, che mi dài per bocca del poeta tanto più antico di te un eccellente consiglio ! Oh, lo sapevo che basta inter­ rogarti per ottenere una saggia risposta!». E ripreso il libro, dopo avere riletto ancora una volta il passo ad alta voce, soggiunse: «Che esperimento squi­ sito! Cosi semplice, profondo, chiaro e persuasivo, così delicatamente misurato e pesato ! Cosi, proprio, dev’es­ sere: sorridente avvampare! Bacia una Galatea bian­ ca : la vedrai sorridente avvampare ! ». Seguitava a mormorarlo tra sé mentre cercava vestiti da viaggio e chiamava il vecchio servitore perché lo aiutasse in fretta a preparare la valigia e gli procurasse una cavalcatura qualsiasi per parecchi giorni. Affidò al vecchio la custodia della casa, e un’ora dopo usciva a ca­ vallo dal portone, risoluto a non ritornare prima che gli fosse riuscita l’allettante esperienza. Aveva scritto l’amabile prescrizione su un foglietto, come una ricetta, e se l’era riposta nel portafogli.

I. Friedrich Freiherr von Logau (1604-1655): poeta tedesco, noto an­ che con lo pseudonimo di Solomon von Golaiv, autore di numero­ sissimi epigrammi, di contenuto satirico, religioso e morale.

CAPITOLO SECONDO

Dove Γesperimento riesce a metà

Dopo avere cavalcato, nel mattino rugiadoso, fra l’am­ miccare di falci al sole e le fresche mietitrici che allarga­ vano i manipoli sui prati, Reinhart giunse a un ponte lungo e largo, assai bello, che per l’ora mattutina era ancora deserto e si stendeva al sole come una sala vuota. In capo al ponte v’era la casetta del gabelliere, una gra­ ziosa costruzione di legno coperta di tralci fioriti, e ac­ canto alla casetta gorgogliava una chiara fontana, alla quale la figlia del gabelliere aveva appena finito di la­ varsi il viso, e ora si pettinava i capelli. Quando essa si accostò al cavaliere per riscuotere il pedaggio, questi vide che era una fanciulla pallida e bella, di figura slanciata, con un volto fine e allegro, e occhi arditi. I bruni capelli sciolti le coprivano le spalle e la schiena e, come la fac­ cia e le mani, erano ancora umidi di fresca acqua sor­ giva. — In verità, bimba mia! — disse Reinhart — siete la più bella gabelliera che io abbia mai visto, e non vi pa­ gherò il pedaggio se prima non discorrete un pochino con me! La bella rispose: — Vi siete alzato presto, signore, e già di primo mat­ tino siete di umore lieto. Ma se volete ancora ripetermi alcune volte che sono bella, volentieri discorrerò con voi finché vi piacerà, e vi risponderò sempre che siete il ca­ valiere più saggio che abbia mai incontrato ! — Lo torno a dire: chi ha costruito questo bel ponte e l’ha ornato di questa artistica casetta deve gioire di vedervi dinanzi una gabelliera come voi ! — Non è così, egli mi odia ! — Perché vi odia? — Perché a volte, quando di notte passa sul ponte con i suoi due morelli, lo faccio aspettare un poco prima di uscire ad alzare la barriera; specialmente se piove e fa freddo, egli s’infuria nel suo calesse scoperto.

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L’EPIGRAMMA

— E perché tardate a sollevare la barriera? — Perché non lo posso soffrire ! — To’, e perché non lo possiamo soffrire? — Perché è innamorato di me e tuttavia non mi guar­ da, sebbene siamo cresciuti insieme. Prima che fosse co­ struito il ponte, mio padre faceva il traghettatore in que­ sto luogo; l’architetto era figlio d’un pescatore laggiù, e stavamo sempre insieme sulla barca quando v’era gente da tragittare. Ora è diventato un grande architetto e fìn­ ge di non conoscermi ; ma si vergogna davanti a me che sono bella, perché ha sempre a fianco nella carrozza una moglie guercia e gibbosa. — E come mai l’uomo che sa concepire opere così belle ha una moglie tanto brutta? — Perché essa è la figlia di un consigliere il quale gli procurò l’incarico della costruzione del ponte che l’ha reso grande e famoso. Colui gli disse che, se non sposava sua figlia, non gli avrebbe procurato l’incarico. — E lui accettò? — Sì, senza pensarci due volte; da allora mi viene da ridere quando passa sul ponte, giacché fa una trista figura accanto alla sua gobbetta, mentre non ha in mente che agili pilastri e alti campanili. — E come sai che è innamorato di te? — Perché passa sempre di qui, anche a costo di allun­ gare la strada, e poi non mi guarda mai ! — Non avete un po’ di compassione per lui; o magari non ne siete anche voi innamorata? — In tal caso non vi avrei detto niente ! Chi prende in moglie una che non gli piace e poi vagheggia altre sulle quali non osa alzare gli occhi è un vigliacco da cui c’è poco da ricavare, non vi sembra? — Sicuro ! Tanto più che l’architetto sa assai bene ciò che è bello; infatti più contemplo e voi e il ponte, e più son costretto a proclamare che sono due belle cose ! Eppure egli si prese la brutta per poter costruire il ponte ! — Ma avrebbe ben potuto lasciar correre il ponte e prendere me; anche così avrebbe avuto qualcosa di bello, come voi dite !

DOVE L’ESPERIMENTO RIESCE A METÀ

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— Quest’è certo ! Ebbene, egli ha scelto per sé l’utile, e a voi rimane la vostra bellezza. Qui siete nel luogo adatto per voi; molti occhi vi possono ammirare e ralle­ grarsi di una tal vista ! — Anche a me ciò è ben caro ; è il mio maggior pia­ cere. Cent’anni vorrei restare davanti alla mia casetta e rimanere sempre giovane e bella ! I barcaioli mi salutano passando sotto il ponte, e chi vi passa sopra si torce il collo per girarsi a guardarmi. Io lo sento, anche se sono voltata, e di più non chiedo. Solo il signor architetto è l’unico che non mi guarda mai, eppure non vorrebbe fare altro ! Ma ora pagatemi una buona volta il pedaggio e andateveneper la vostra strada, v’ho detto abbastanza di me per le buo­ ne parole che m’avete rivolto! — Non ti pago il pedaggio, bella bambina, se tu non mi dài un bacio ! — Allora dovrei riscattare la mia gabella e pagar tri­ buto per la mia bellezza! — Certo che lo dovete, e come no? Non c’è onore senza onere ! — Andate con Dio, non se ne fa nulla. — Ma lo dovreste far volentieri, bellezza ! Su, con un po’ di cuore. — Pagate il pedaggio e andate ! — Neanch’io di solito lo richiedo; giacché non bacio certo la prima venuta ! Se tu lo farai con buona grazia, canterò le lodi della tua bellezza e ti glorificherò dovunque vada ; e devi sapere che andrò molto lontano ! — Non è necessario, le buone opere si lodano da sole ! — Ebbene, parlerò di voi anche se non mi baciate, o bella cattiva! Giacché siete troppo bella perché se ne possa tacere. Ecco il pedaggio ! E le pose in mano il denaro; allora ella mise il piede nella staffa, egli l’aiutò, ed ella balzò accanto a lui, gli cinse il collo con le braccia e lo baciò ridendo. Ma non di­ ventò rossa, benché il viso bianco offrisse al rossore il luogo più grazioso e più appropriato. Rideva ancora quando Reinhart aveva già traversato il ponte e si volse ancora una volta a guardarla.

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L’EPIGRAMMA

“Il primo esperimento” pensò il cavaliere “non è riu­ scito; mancava qualcuno degli elementi necessari. Ma se già il problema è bello e attraente, come dev’essere gra­ devole la soluzione!”.

CAPITOLO TERZO

Dove riesce l'altra metà

Dopo di che, egli cavalcò per varie contrade, finché venne mezzogiorno senza che gli si fosse offerta un’altra buona occasione. Ora però la fame lo ammonì ch’era tempo di sostare, e mentre stava per guidare il cavallo verso una locanda, gli venne in mente che il pastore del paese doveva essere una sua vecchia conoscenza, e si di­ resse verso il presbiterio. Il suo arrivo suscitò grande sor­ presa e gioia sincera, che tosto si disperse in cerca di piatti e scodelle, di boccali e bicchieri, di dolci e conserve per arricchire il pasto quotidiano. Prima comparve una flo­ rida figliola, di cui Reinhart con gli anni aveva dimen­ ticato l’esistenza; ma tosto ricordò la garbata ragazzetta ora trasformata in una fanciulla con le guance delicata­ mente soffuse di rosa, e col naso un tantino lungo che ad­ ditava la terra come un indice ammonitore, obbediente­ mente seguito dallo sguardo modesto. Ella salutò l’ospite senza alzare gli occhi, e subito tornò a scomparire in cucina. Il padre e la madre l’intrattennero esclusivamente sulle sorti della loro famiglia, e a questo proposito tradirono uno strano amore dell’ordine; giacché avevano raggrup­ pato e disposto con estrema esattezza tutte le loro piccole vicende ed esperienze, dividendo le piacevoli dalle spia­ cevoli, e ponendo ciascuna nella giusta luce e in chiara dipendenza l’una dall’altra. Il padrone di casa sanzionò poi il tutto e lo mise nella luce migliore lasciando inten­ dere che la sua maestria professionale nella fiducia in Dio gli era tornata ben utile per la guida di un così magni­ fico pellegrinaggio terreno. La moglie lo sosteneva con zelo, chiudendo tanto le lamentele quanto i compiaci­ menti con l’elogio del marito, senza dimenticare di ren­ dere grazie a Dio, che in quella piccola famiglia pacifica­ mente agitata pareva voler conservare uno speciale ca­ polavoro della propria potestà in terra, preciso, traspa­ rente e netto come vetro in ogni sua parte, e dove non po­

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L’EPIGRAMMA

teva insinuarsi nemmeno un piccolo sentimento oscuro. A quei discorsi ben s’addicevano le numerose campane di vetro che proteggevano dalla polvere i ricordi di famiglia, e così pure le cornicette racchiudenti silhouettes, auguri, massime, versetti, epitaffi, ghirlande e paesaggi fatti di capelli, il tutto appeso con simmetria alle pareti e co­ perto di vetri tersissimi. Nelle vetrine brillavano tazze di porcellana con cifre, bicchieri sfaccettati con iscrizioni, fiori di cera e libri da messa con fermagli dorati. Anche la figlia del pastore, quando ritornò tutta ador­ na, pareva uscire da una vetrina odorosa di spezie. Porta­ va un abito di seta celeste, ben teso sul seno rotondo, verso il quale inclinava quel caro, serio nasetto. Aveva anche sciolto dalla crocchia due boccoli d’oro e s’era legato alla vita un grembiule da cucina candido come la neve; e posò uno sformato sul tavolo con tanto riguardo come se stesse maneggiando il globo terrestre. Inoltre odorava piacevolmente di una certa torta che aveva appena sfornato. I genitori però furono con lei così solenni e compassati che ella arrossì di frequente e colse presto l’occasione per andarsene. Si diede da fare in cortile, dov’era legato il cavallo di Reinhart, e piena di sollecitudine diede da man­ giare all’animale. Gli spinse sotto il muso un tavolo da giardino e vi mise su il suo cestino da lavoro pieno di tozzi di pane casalingo, mezzi panini e biscotti, con l’aggiunta di un bel pugno d’insalata; lì accanto mise un annaffia­ toio verde pieno d’acqua, accarezzò il cavallo con mano timida e gli fece mille moine. Poi andò nella sua came­ retta, a registrare nel suo diario gli avvenimenti insperati; e scrisse pure, svelta svelta, una lettera. Intanto anche Reinhart scese in cortile per preparare il cavallo. Questo aveva il muso conficcato nell’annaffia­ toio, e all’annaffiatoio s’era attaccato il paniere, e dei due oggetti l’animale cercava innervosito di liberarsi, ma non ci riusciva. Reinhart rise così forte che la damigella udì e s’affacciò alla finestra. Visto l’accaduto venne giù subito, si fece coraggio e quasi tremando pregò Reinhart di non raccontare né ai genitori né ad alcun altro un incidente

DOVE RIESCE L’ALTRA METÀ

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che l’avrebbe per lungo tempo esposta ai commenti e al ridicolo. Egli la tranquillizzò gentilmente come meglio poteva, e la fanciulla fuggì come una cerbiatta con pa­ niere e secchiello per andarli a nascondere. Ma ricom­ parve tosto dietro un cespuglio di lilla ed era evidente che una grossa richiesta le pesava sul cuore. Reinhart la raggiunse dietro il cespuglio; ella trasse di tasca una let­ tera ben sigillata, con un magnifico indirizzo, e gliela porse con la preghiera mormorata a fior di labbro di voler consegnare immancabilmente la lettera, che conteneva un saluto e un incarico importante, a una sua amica che abi­ tava poco lontano. In modo altrettanto sommesso e significativo Reinhart le comunicò che per via di un sacro voto doveva irremissi­ bilmente baciarla. Ella fece per fuggire; ma Reinhart la tenne salda e le bisbigliò che se faceva resistenza lui avrebbe narrato in giro la storia dell’annaffiatoio, e al­ lora tutti si sarebbero divertiti alle sue spalle. Tutta tre­ mante la fanciulla restò dov’era e quando egli l’abbracciò s’alzò persino sulla punta dei piedi e lo baciò ad occhi chiusi, col viso inondato di rossore ma senza l’accenno di un sorriso, anzi così grave e raccolta come se facesse la co­ munione. Reinhart pensò che era troppo spaventata e la trattenne per un po’ fra le braccia, baciandola una se­ conda volta. Ma seria come prima essa gli rese il bacio, arrossendo ancor più; poi corse via come un fulmine. Quando Reinhart rientrò in casa, il pastore gli venne incontro ridente e gli mostrò il proprio diario, dove la visita era già annotata con edificanti parole, e la moglie del pastore disse : «Anch’io le ho dedicato qualche riga nel mio giornale, caro Reinhart, per serbare viva memoria del nostro incontro ! ». Egli si congedò nel modo più cordiale dai genitori, senza che la figlia si facesse più vedere. “Un altro tentativo fallito!” egli pensò dopo aver lasciato il presbiterio; “ma l’impresa diventa sempre più seducente quanto più appare difficile!”.

CAPITOLO QUARTO

Dove si evita una sconfitta

Poiché il cavallo doveva ancora aver fame, Reinhart smontò di nuovo di sella a poca distanza dal villaggio, davanti a una locanda solitaria che sorgeva al limitare di una grande foresta e portava per insegna un corno da caccia dorato. Sotto il portico ombroso della locanda era seduta a cucire una dorma maestosa. Non era meno bella della figlia del pastore e della figlia del gabelliere, ma assai più solida. Indossava un abito nero a piegoline finissime, or­ lato di rosso, e le maniche ampie della camicetta erano di un bianco abbagliante con larghe liste ricamate che le coprivano i polsi. Nelle trecce scintillava un ornamento d’argento, di forma intermedia tra un cucchiaio e una freccia. La donna salutò il viaggiatore con un sorriso e gli chiese in che cosa poteva servirlo. — Vorrei un sacchetto d’avena per il cavallo, — egli disse — e poiché questo mi pare un soggiorno fresco e gradevole, anche un bicchiere di vino per me, se volete usarmi una cortesia! — Avete ragione, — disse ella — qui si sta bene, v’è pace e aria buona. Sicché godetevela e accomodatevi. Mentre la donna andava a prendere il vino e ritornava con una limpida bottiglia, Reinhart ammirò le sue belle forme e l’andatura salda ; e quando ella setacciò con ener­ gia una misura di avena e la sparse davanti al cavallo sen­ za perdere la grazia, si disse: “Com’è popolato il mondo di belle creature, e nessuna che sia uguale all’altra!”. La bella sedette al suo tavolo e riprese in mano il lavoro. — A quel che vedo — disse Reinhart — siete sola in casa. — Tutta sola; — rispose piena di cortesia mostrando una fila di denti candidi — la nostra gente è tutta nei prati a falciare il fieno.

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— C’è molto fieno quest’anno? Ed è buono? — Così così. Se la primavera non fosse stata tanto asciutta ve ne sarebbe di più; bisogna prendere le cose come sono, non può sempre andar bene! — Così è ! La bella primavera ha giovato ad altri rac­ colti ; per esempio agli alberi da frutta, che hanno potuto fiorire ottimamente. — E l’hanno fatto davvero, senza risparmio 1 — Dunque vi sarà molta frutta quest’autunno? — Speriamo, se il tempo non diventa troppo brutto. — Tornando al fieno, quanto vale adesso? — Sinora, prima che la nuova fienagione sia terminata, il prezzo è rimasto alto, perché l’anno passato non fu ri­ munerativo; credo che la settimana scorsa costasse an­ cora più di un tallero. Ma ora dovrà calare. — Lo vendete il vostro fieno, o lo tenete per voi, o dovete acquistarne dell’altro, poiché tenete locanda? — Per la locanda non occorre fieno, ma quasi unica­ mente avena ; per il nostro bestiame però il fieno ci vuole, e allora si va a seconda delle annate ; un anno ci basta giu­ sto giusto, un altro ne dobbiamo comprare, il terzo ne avanza un po’ da portare al mercato; dipende da tante cose, e specialmente dalla riuscita degli altri prodotti. — Lo immagino ! Lo immagino ! E dunque otto giorni fa si pagava ancora un tallero per mezzo quintale? — Caro signore, la smetta di tormentarsi — disse la bella ridendo — e mi dica pure senza tante ambagi le frasi scherzose che ha sulla punta della lingua. Sono ca­ pace di sostenere una celia e mi so difendere ! — Che intende dire? — Eh, glielo leggo negli occhi che preferirebbe parlar d’altro che di fieno, e vorrebbe farmi la corte mentre il cavallo si sazia ! Poiché io rappresento qui la parte della locandiera solitaria, non continuiamo a tacere le belle co­ se che si dicono in tali circostanze, e lasciamo che il mon­ do segua il suo corso ! Incominci, signore ! E sia arguto e intraprendente, io farò la svenevole e la ritrosa! — Comincio subito, ma lei mi ha còlto di sorpresa ! — Avanti, sentiamo !

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— Ebbene ... oh Dio, è stato così inatteso che non so più dir nulla! — È un po’ poco ! Vuole che giochiamo al mondo alla rovescia, e che sia io a corteggiarla e a farle complimenti mentre lei fa lo smorfioso? Ma sì ! In verità lei è il più bel­ l’uomo che da molto tempo sia passato da queste parti a piedi, in carrozza o a cavallo ! — Crede forse che mi dispiaccia sentirmelo dire dalla sua bocca? — No, non ho questo timore. Quando poc’anzi l’ho visto arrivare, mi son detta: “Dio sia lodato, ecco final­ mente un uomo di bell’aspetto che non ha l’aria di curar­ sene troppo. Costui cavalca ardito per il mondo e certo non porta in tasca uno specchietto come fanno i signori di città, che appena gli si volta la schiena cavan fuori lo specchio e si contemplano di nascosto”. Però, mentre mi serviva quella chiacchierata sul fieno facendo gli occhi come il gatto quando gira intorno alla polenta calda, ho pensato: “Ma questo è del tipo del maestro di scuola!”. — Ora esce dalla sua parte e mi dice delle scortesie ! — Aspetti, andrà subito meglio. Lei ha il piglio del­ l’uomo di polso, e si è lieti di prenderla così com’è, giac­ ché noi poveretti dobbiamo contentarci tutta la vita delle apparenze, e non ci è consentito andare a cercare il noc­ ciolo. Così io considero anche lei come una bella apparenza che passa di qui e beve il suo gotto; e ben volentieri ap­ profitto dello scherzo per dirle con tutta serietà che lei mi piace molto. Perché così mi aggrada. — Che io le piaccia? — No, di poterglielo dire ! — Ma lei è il demonio in gonnella ! Uno spirito forte con i capelli lunghi? — Lei non credeva di trovare anche qui delle lingue affilate? — Eh, poco fa quando setacciava l’avena ho capito che lei è una dama gagliarda e nello stesso tempo graziosa ! Il suo modo di esprimersi però non lo so combinare con le vesti campagnole, che d’altronde le stanno d’incanto! — Be’, forse non ho sempre portato abiti di questa sor-

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ta ... e forse sì ! Ognuno ha la sua storia, ma io non co­ glierò l’occasione per snocciolarle la mia. Invece m’ag­ grada di dirle che lei mi piace senza rivelarle chi sono né perché glielo dico, e senza che lei ne tragga vantaggio. Così prosegua il suo cammino e s’accontenti d’essere stato per me una sembianza, com’io rimarrò una sembianza per lei. Tali rudezze miste a rare lusinghe la dama le aveva pronunciate in modo per nulla spiacevole, anzi con molta grazia e un sorriso costante delle labbra rosse, sicché Reinhart alla fine non potè trattenersi dal proporre: — Vorrei che ora Ella restasse in argomento e che le piacesse attestarmi anche con un bacio la sua lusinghiera benevolenza ! — Chi sa? — disse lei — considerato che sarei io a ba­ ciare lei di mia volontà, e non lei me, potrei forse risol­ vermi, affinché lei in ringraziamento per la gradevole conversazione se ne vada via coperto dell’ignominia di esser stato baciato come una ragazzetta ! — M’infligga quest’ignominia ! — Vuole star fermo? -Vedrà! La donna fece un gesto come per avvicinarglisi; ma in quell’istante un’ombra fredda passò sul viso di lui, gli occhi lampeggiarono incerti fra il desiderio e la collera, in­ torno alla bocca guizzò un sorriso un po’ ironico, così che ella con confusione quasi impercettibile sviò verso il ca­ vallo il movimento appena abbozzato, e s’accinse ad ab­ beverarlo. Reinhart le corse dietro esclamando che ormai non poteva più permetterle di servire il suo cavallo. Ma lei non si lasciò smuovere e disse che non l’avrebbe fatto se non avesse voluto, e che il signore se ne stesse tranquillo. Era però un po’ impacciata perché le cose s’erano messe in modo che lei ora doveva aspettare finché Rein­ hart le offrisse di nuovo l’occasione di baciarlo, epperò si sentiva offesa se ciò non accadeva. Anch’egli ne aveva ima grandissima voglia ; ma mentre la guardava compia­ ciuto, temette che ella ridesse sì, ma senza diventare rossa, e poiché quell’esperienza l’aveva già compiuta, da ricer­

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catore coscienzioso non la voleva ripetere; meglio segui­ tare a inseguire il suo scopo. Questo gli pareva ormai così attraente che sentiva già in certo modo il dovere di non più tentare esperimenti inutili e rendersi degno fin d’ora del dolce successo. Quindi, per uscirne in buona maniera, finse di sentire per la signora un altissimo rispetto, e di essere stato còlto dal timore di dispiacerle spingendo troppo oltre lo scher­ zo. In quell’atteggiamento pagò la consumazione, s’in­ chinò cortesemente alla locandiera ed essa fece altrettan­ to, senza che accadesse più nulla. La donna prese la cosa con buona grazia e congedò amabilmente il cavaliere. “In questo corno da caccia non ci voglio soffiare;” pen­ sò egli fra sé mentre passava davanti all’insegna dorata “forse l’incarico che mi diede la figlia del pastore mi porterà sulla buona strada, così come il bene porta sem­ pre al meglio. Cerchiamo dunque il sentierino malizioso che conduce alla villa o al castello dove dimora l’amica sconosciuta”.

CAPITOLO QUINTO

Il signor Reinhart comincia a intuire la portata della sua intrapresa

Trovò presto il sentiero; ma era davvero un sentiero birbone; perché appena entratovi si perse in una rete di viottoli per il trasporto della legna e di letti di ruscelli prosciugati, qua in salita e là in discesa, ora nel buio fitto degli abeti ora nel folto dei cespugli. Giunse sempre più in alto, e alla fine s’accorse d’errare sul versante setten­ trionale della vasta montagna. Per ore si aprì la strada nella foresta selvaggia e spesso fu costretto a condurre il cavallo per la briglia. “Ciò che mi sboccerà in questa selva selvaggia” pensò di malumore “sarà piuttosto un cardo spinoso che una bianca Galatea!”. Ma inaspettatamente il groviglio si sciolse in un cam­ mino certo, tracciato ad arte, che conduceva verso il fianco occidentale del monte. Era sempre una strada at­ traverso il bosco, ma ben spianata e tenuta sgombra dai rami ; continuava a salire e scendere, ora più larga ora più stretta; qui permetteva allo sguardo di spaziare lon­ tano, là conduceva attraverso tenebrosi corridoi di faggi. Il disegno del parco diventava però sempre più chiaro, e tradiva una mano raffinata ed esperta; ma poiché egli non sapeva dov’era e non riusciva ad avere una vista sull’insieme, temeva di doversi presentare come un in­ truso e un devastatore. Il cavallo guastava spietatamente con gli zoccoli il suolo rastrellato, calpestava l’erba e i fiori ben curati del sottobosco e distruggeva i gradini di muschio che portavano su piccole colline. Reinhart, men­ tre era impaziente di sfuggire a quel chimerico imbroglio, ne temeva allo stesso tempo la fine e malediceva l’ora che l’aveva messo in un simile frangente. D’improvviso tronchi e fronde si diradarono, il viottolo sboccò bruscamente in un giardino fiorito che solo una leggera cancellata dorata separava dallo spiazzo davanti

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alla casa. Egli avrebbe voluto varcare d’un balzo il giar­ dino e il cancello, ma giacché non era possibile andò avan­ ti protervo col coraggio della disperazione, senza scendere di sella, e seguì fra le aiuole i sentieri tortuosi, di cui il cavallo sollevava allegramente la rena bianca. Alla fine giunse presso l’ariosa cancellata del giardino e trattenendo il cavallo incominciò a osservare i luoghi, senza curarsi d’essere sorpreso in sì barbaro atteggia­ mento, poiché nascondersi non appariva possibile. Si tro­ vava in una grande terrazza sulle pendici del monte, dove sorgeva una bella casa ; davanti alla casa c’era un vasto spiazzo quadrato, che balaustri di pietra proteggevano dal ripido declivio. Nel riquadro crescevano alcuni platani enormi, che vi allargavano sopra l’ombra dei nobili rami. Sotto i platani e dalla balaustrata si vedeva un largo fiume serpeggiare in un paesaggio vasto, inondato dal fulgore del sole cadente. Gli altri due lati erano delimitati da tappeti di fiori, presso uno dei quali sostava l’impaccia­ tissimo Reinhart. Solo allora s’accorse con stizza che sul davanti della balaustrata due maestose rampe salivano alla corte. Sotto gli alberi poi egli scorse una fontana di candido marmo che s’ergeva nel mezzo dello spiazzo come un mo­ numento quadrato e da ciascuno dei quattro lati riversava i suoi zampilli in una vasca piatta, pur essa quadrata, so­ stenuta da delfini. Parte sull’orlo di una delle vasche, parte sull’acqua limpida che copriva il marmo per non più di un palmo d’altezza, giaceva e galleggiava un gran mucchio di rose che una figura femminea era tranquilla­ mente intenta a ripulire e ordinare; era una dama snella vestita di un bianco abito estivo, col viso ombreggiato da un gran cappello di paglia. Il sole al tramonto sfiorava ancora lo spiazzo con la fontana e la figura serena, su cui i platani con le loro masse di fogliame d’un verde iridato stendevano un chia­ roscuro trasparente eppure intenso. Più inconsueta era quella vista, che sembrava piut­ tosto l’invenzione ideale di un esteta ozioso che un qua­ dro di vita reale, e più il prigioniero Reinhart, che stava

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sul suo cavallo attonito come una statua, si sentiva sgo­ mento; finché l’animale, fiutando un comodo asilo, non diede repentinamente un nitrito. La dama snella sussultò, si guardò tutt’intorno, e scoperse infine il confuso cavaliere dietro le grate auree della cancellata. Egli non si mosse, ed ella dopo averlo guardato per qualche istante piena di meraviglia, s’affrettò verso di lui per rendersi conto se sognava ö era desta. Quando vide che tutto era assolu­ tamente reale, aprì con gesto riluttante il cancello e gli volse uno sguardo interrogativo, che diceva: «Non sa­ rebbe tempo di far uscire le quattro zampe di quel cavallo dal mio povero giardino maltrattato?». Nell’attesa si ri­ tirò rapida presso la sua fontana, prese una manciata di rose e si apprestò ad affrontare i prossimi eventi. Finalmente Reinhart smontò di sella e, traendosi die­ tro umilmente la sua cavalcatura d’affitto, con un bel­ l’inchino porse alla deliziosa apparizione, contemplan­ dola senza parlare, la lettera che la figlia del pastore gli aveva affidato. Ma non era la lettera, era invece il foglietto sul quale aveva trascritto l’epigramma:

Vuoi tu il candido giglio in rosa rossa mutare? Bacia una Galatea bianca : la vedrai sorridente avvampare. La lettera con il portafogli gli era rimasta in mano, ed egli scopri il proprio errore quando la dama aveva già preso e letto il foglio. Tenendolo fra le mani ella guardò con occhi sgranati il turbato e arrossente Reinhart, e non si capiva se il fre­ mito che le torceva le labbra fosse di riso o di collera. Mu­ ta restituì il foglio e prese la lettera che il cavaliere le tendeva in cambio balbettando parole di scusa. Quando vide il grosso sigillo, un’aria di letizia le si diffuse sul volto, che ora da vicino appariva la sede di tutte le cose belle. Saettò Reinhart con gli occhi neri e intelligenti, poi, dopo aver letto rapidamente il messaggio, rise e disse con ac­ cento vivace e malizioso: «Confesso, signore, che questo è per me un avveni­ mento dei più bizzarri ! Uno sconosciuto a cavallo cade

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dal cielo e s’impiglia come un tordo nella fragile cancel­ lata del mio giardino, scompigliando le aiuole e i sentieri ! Mi porta uno scritto munito del sigillo ufficiale di un re­ verendo ecclesiastico, con tanto di Bibbia, calice e croce, e nel quale la mia amica che abita nella vallata, la figlia del pastore, mi scongiura con le espressioni più fervide di non dimenticare d’inviarle anche quest’anno i semi di ra­ vanelli ! Se lei è in grado di difendersi e di spiegare la sua misteriosa provenienza, sarà il benvenuto in questa di­ mora montana, e io che le parlo, poiché mio zio, malato di gotta, è confinato in camera sua, discuterò insieme a lei con serietà e saggezza i prossimi sviluppi del suo strano pellegrinaggio!». Non soltanto il raggio del sole all’occaso, ma anche una chiara luce interiore illuminava la graziosa dama in tal modo che lo stupefatto Reinhart ricuperò la sua sicu­ rezza. Ma mentre pensava tra sé che o lì o in nessun altro luogo avrebbe desiderato sperimentare il consiglio del vecchio Logau, e solo ora ne intendeva il significato pro­ fondo, si rese anche conto a quali lunghi preliminari e gravi difficoltà sarebbe stato legato il tentativo.

CAPITOLO SESTO

Dove si pone un quesito

Egli s’inchinò nuovamente con profondo rispetto e disse: — Non sono meno stupito di lei per la mia sorte, ma­ damigella ! senonché io mi trovo, poco galantemente, in vantaggio, cioè sorpreso nel modo più piacevole, mentre finora non ho arrecato in casa sua che danni e malanni. In viaggio da stamattina presto per compiere delle os­ servazioni naturalistiche, ho trascorso la giornata a por­ tare da una dama a un’altra dama una lettera che, com’ella mi dice, contiene un’urgente richiesta di sementi di ravanelli ; mi sono smarrito sulla montagna, ho devastato giardini per poi trovarmi prigioniero là dove dovevo an­ dare liberamente! Quale maestro ha progettato questo parco così bello e spiritoso? — Io stessa l’ho ideato e fatto eseguire; non sono che le fantasie di una fanciulla ! — Allora plaudo al suo buon gusto ! Ma poiché ella tende reti tanto ingegnose, deve prendersela con se stessa se questa volta ha acciuffato un uccellacelo che non s’a­ spettava ! — Eh, accettiamo quel che Dio ci manda ! D’altronde mi rallegro che il disegno del mio parco serva a qualche cosa; perché se lei non vi si fosse smarrito sarebbe giunto molto prima e probabilmente già ripartito; ma giacché è tardi, e la prossima locanda parecchio distante, ho il piacere di offrirle ospitalità. La mia amica la racco­ manda alle mie attenzioni e la descrive come un viaggia­ tore molto ragguardevole e assennato, che ha fatto con i suoi genitori i discorsi più edificanti ! — Ciò mi stupisce ! Ho preso la parola non più di due o tre volte, e per pochi minuti. — Allora il poco che ha detto dev’essere stato tanto più ammirevole, e io spero modestamente di ricavarne altret­ tanto piacere. — Oh signorina mia, furono al contrario tali sciocchez­ ze quelle che dissi, specialmente alla sua amica, che certo

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non avrebbe più scritto una così gentile presentazione se non l’avesse già fatto prima ! — Sicché pare che con lei bisogna fare tutto alla ro­ vescia ! Se voglio ottenere il mio scopo di trattenerla qui dovrò dunque fare il contrario e cacciarla di casa per es­ sere sicura che lei vi ritorni dall’altra parte ! — No, bellissima damigella, con il suo aiuto io vorrei invece tentare di ridiventare padrone degli avvenimenti. Mi dica dove devo andare e io marcerò diritto al luogo che lei mi assegna e vi rimarrò attaccato come una mi­ gnatta ! — Lo farò. Ma allora sia coraggioso e non si lasci svia­ re né a sinistra né a destra, e se non si sentirà sicuro resti seduto su una seggiola finché non la faccio chiamare ! Per nessun motivo s’allontani di casa, e se le dovesse tuttavia accadere qualcosa di strampalato o di spaventevole, mi chiami subito in suo aiuto ! Se invece tutto si svolge felice­ mente e lei si mantiene à galla, ci rivedremo presto. Con queste parole salutò l’ospite e s’affrettò verso casa con il suo cesto di rose a chiamare gente. Comparve poco dopo un vecchio servitore canuto, che, visto il cavallo, fece venire uno stalliere dalla fattoria posta alquanto più indietro rispetto alla casa. Poi vennero due ragazze in pittoreschi abiti paesani, come quello che portava l’ostes­ sa del «Corno da caccia», e lo condussero in casa. Nella camera a lui assegnata Reinhart si mise in ordine e aspettò un poco, finché ritornò una delle ragazze con una gran coppa di rose, mandata dai padroni di casa per rendere più ridente la sua dimora, e l’altra seguì subito dopo con una bella caraffa di cristallo a metà piena di un rosso vino meridionale, un bicchiere e alcuni biscotti, il tutto su un vassoio di peltro dalla forma antiquata. Colpito alla vista del gruppo, e imbaldanzito dai nu­ merosi gradevoli eventi della giornata, Reinhart impedì alle ragazze di deporre i doni sul tavolo e con solennità le condusse davanti a un grande specchio che rivestiva dal pavimento al soffitto il pilastro tra le due finestre. Là le collocò con le spalle rivolte allo specchio e le fan­ ciulle lasciarono fare, non comprendendo le sue inten-

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zioni. Egli ammirò con diletto la scena; ora vedeva quat­ tro figure invece di due, poiché lo specchio rifletteva la nuca e il dorso delle belle portatrici. Per trattenerle chie­ se loro il nome della padrona, sebbene lo conoscesse già, ed entrambe dissero: «Si chiama Lucia!». Tosto però capirono la malizia, deposero le offerte sul tavolo e cor­ sero via rosse in volto ; fuori diedero libero corso alle loro risate birichine che squillarono allegramente sotto le volte dei corridoi. Ma quasi subito i loro visetti ricomparvero a un’altra porta della camera, e una delle due notificò con parole assai contegnose, come se non avesse appena finito di ridere forte, che il signore poteva andare in giro tran­ quillamente per le altre stanze, se non sapeva che fare: vi avrebbe trovato libri e altri passatempi. Poi sparirono lasciando semiaperto un battente della porta. Reinhart lo aperse del tutto ed entrò nella stanza atti­ gua, che però non conteneva nulla tranne il mobilio usuale; aperse quindi un’altra porta, anche quella sol­ tanto accostata, e trovò una sala spaziosa, che doveva essere una specie di studio-museo di madamigella Lucia. Una libreria con sportelli di vetro conteneva una con­ siderevole biblioteca, che però dimostrava all’aspetto di essere stata raccolta in tempi più remoti. Molti quadri tappezzavano le pareti, altri erano sparsi sul pavimento per poter essere più comodamente osservati. Per lo più si trattava di paesaggi ben concepiti e ben dipinti, ma v’era anche qualche bel ritratto ; non erano però opere di maestri famosi, ma di pittori il cui astro non rifulge per ampi spazi, o è già stato dimenticato. Sovente si trovano nelle vecchie case simili acquisti di generazioni passate; capifamiglia amanti dell’arte che protessero talenti locali o riportarono dai loro viaggi qualche dipinto apprez­ zabile, degno di lode, del cui autore non s’udì mai notizia. Poiché, come molti muoiono giovani, molti rimangono per tutta la vita ignorati e innominati no­ nostante l’applicazione e l’ingegno. Tanto più notevo­ le quindi appariva la cultura della signorina che senza nomi gloriosi sapeva apprezzare quelle opere ignote e le raccoglieva così appassionatamente. “Costei, a quanto

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pare, sa tenersi alla sostanza”, pensò Reinhart osser­ vando che tutte le raffigurazioni o per il soggetto o per la fattura erano adatte a soddisfare il gusto d’uno spirito ele­ vato. Alcune grandi incisioni da Poussin e da Claude Lorrain sovrastavano una scrivania, in semplici cornici di legno; sulla scrivania v’era un mucchio di ottime acque­ forti di noti maestri olandesi, accanto a un mucchio di libri che Reinhart non esitò a sfogliare. Non uno trattava argomenti inutili, buoni solo a far bella figura, e non v’era neanche traccia di quei soliti libri per signore; in compenso alcune opere importanti di epoche diverse, non però quelle di cui è disseminata la strada del lettore convenzionale ; vicino a nobili capolavori anche rispetta­ bili frivolezze e semplici relazioni di fatti, ai quali mada­ migella Lucia portava interesse come segno d’un’anima libera e generosa. Ma quello che più di tutto gli fece meraviglia, fu una piccola collezione di volumi speciali, schierata a por­ tata di mano su una scansia al di sopra del tavolo, e messa insieme dalla proprietaria stessa; infatti in ogni libro era segnato sul frontespizio il suo nome e la data dell’acquisto. I volumi contenevano esclusivamente autobiografie e carteggi di persone di grande eccellenza ed esperienza. Quantunque la fila di libri colmasse soltanto il ripiano corrispondente alla lunghezza della scrivania, compren­ deva però molti secoli e, sempre, soltanto la parola diretta dei maestri di vita o dei discepoli del dolore. Dalle pagine di sant’Agostino fino a Goethe e a Rousseau non man­ cava nessuno degli essenziali libri di confessioni, e accanto al selvaggio, borioso Benvenuto Cellini se ne stava mo­ destamente il pio libriccino giovanile di Jung-Stilling.1 A braccetto frusciavano e scoppiettavano Madame de Sévigné e Plinio il giovane, dietro venivano insieme i due poveri caprai svizzeri Thomas Platter e Ulrich Bracker2 (il “Pover’uomo di Toggenburg”) ; passava con tintinnio I. Johann Heinrich Jung-Stilling (1740-1817) : scrittore tedesco, noto soprattutto per la sua autobiografia. 2. Thomas Platter (1499-1527) : scrittore ed educatore svizzero la cui autobiografia, redatta in dialetto alemanno, è un importante documento per la storia della

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d’armi il ferreo Götz, Dante avanzava col passo silente di un’ombra reggendo in mano il volume della Vita nuova. Ma nelle note del teologo luterano Johannes Valentin Andrea bruciava e infuriava la Guerra dei Trent’anni. Le miserie e i dolori, l’alta sapienza e la fiducia in Dio, insieme con lo zelo dell’oppositore lo avevano a tal punto plasmato e perfezionato che giunto infine alle massime cariche ecclesiastiche egli condusse una vita degna d’es­ sere descritta solo in latino. La sua casa fu frequentata da duchi, conti e principesse; egli accrebbe e adornò la già ricca dimora, nonostante la perfidia con cui un’ammini­ strazione ostile tentò sempre di ridurre i suoi introiti. Fece acquisto di due orologi preziosi «costruiti dall’artista Habrecht» e di uno splendido boccale d’argento che l’im­ peratore Massimiliano II aveva donato al suo avo paterno in segno del suo favore, e che l’inclemenza dei tempi aveva rubato alla famiglia. Ma l’agiatezza permise all’eminente prelato di riacquistare quel segno della benevolenza im­ periale. Quando venne a morte, raccomandò la sua anima a Dio in presenza di sette religiosi sapientissimi e saldi nella fede. Poco tempo prima aveva concluso l’ultima parte della sua autobiografia con queste parole: «Ciò che io d’altronde soffersi per colpa di quelle volpi ma­ ligne, progenie di vipere, che furono i miei sleali compa­ gni, sarà narrato nel diario dell’anno prossimo, se Dio lo vorrà». Pare che Dio non l’abbia voluto. Quella frase spassosa doveva essere piaciuta alla pro­ prietaria del libro, perché vi aveva dipinto a lato un grazioso nontiscordardimé. Da tutti i volumi sporge­ vano striscioime di carta, e dimostravano che erano letti e riletti coscienziosamente. Su un altro tavolo erano i progetti del parco dove Reinhart s’era smarrito, e altri da poco incominciati. Quei progetti non erano schizzati modestamente su piccoli lembi di carta, ma disegnati con mano ferma su grandi fogli spessi, e da tutto quel che vedeva Reinhart cultura; Ulrich Bricker (1735-1797) soprannominatosi il Pover’uomo di Toggenburg: povero pastore, fu arruolato nell’esercito prussia­ no, da cui poi disertò; è celebre per la sua autobiografia.

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fu indotto a involontaria ammirazione e sorpresa. Ancor più dovette stupire quando scoperse nella nicchia d’una finestra un tavolino più piccolo, coperto anch’esso di libri e di scritti, e più precisamente di grammatiche, vocabo­ lari e quaderni diligentemente riempiti di vocaboli e tentativi di traduzioni in diverse lingue. Tra queste non soltanto il tedesco e il francese antico, ma anche l’olande­ se, il portoghese e lo spagnolo, roba che Reinhart capiva solo in piccola parte e imperfettamente: e la cosa gli parve tanto più strana poiché in quella opulenta solitudi­ ne non poteva trattarsi della diligenza di una intellettua­ le pedante. Mentre se ne stava in mezzo alla sala, quasi geloso di quegli studi fuor del comune e tuttavia in fondo senza pretese, incerto sull’atteggiamento da prendere, entrò Lucia e si scusò di averlo lasciato solo per tanto tempo. Disse che aveva avvertito della sua presenza lo zio in­ disposto, il quale era spiacente di non poterlo ricevere per il momento, ma sperava di rimediare in seguito alla mancanza. Rivedendo la fresca e bella apparizione, a Reinhart salì suo malgrado alle labbra la domanda che gli muoveva l’animo a una viva curiosità, ed egli esclamò senza riflettere, guardandosi intorno : « Perché si occupa di simili cose?». La domanda non sembrava del tutto immotivata, anche se non gli fruttò alcuna risposta. La bella signorina lo guardò facendo gli occhioni e arrossì visibilmente, dopo di che lo invitò con cortesia un po’ più severa ad accom­ pagnarla. Reinhart obbedì, non senza confusione, e anche lui con un certo rossore sul volto.

CAPITOLO SETTIMO

Di una vergine folle

Ora infatti, mentre camminava tenendola al braccio, sentiva che la sua domanda non voleva dir altro che: «Bellissima, non hai di meglio da fare?». O ancor più chiaramente: «Quali sono le tue esperienze di vita?». Perciò la coppia dei due che erano sconosciuti l’uno al­ l’altro procedette con uguale perplessità verso la sala da pranzo, e ognuno desiderava di essere mille miglia lon­ tano, ben consapevole di essersi messo incautamente scherzando in una posizione critica. Ma l’impaccio si sciolse quando entrarono nella sala già illuminata dove le due fantesche erano intente a mettere in tavola la cena. Reinhart e Lucia presero posto e le ragazze dopo averli serviti sedettero esse pure al de­ sco, si riempirono il piatto di cibo e mangiarono con ap­ petito e con garbo. — Vede, — disse Lucia all’ospite — noi viviamo qui una vita patriarcale, e spero che lei non si sentirà offeso dalla presenza delle mie brave ancelle. — Al contrario, — replicò Reinhart — esse contri­ buiscono ad accelerare la mia cura ! — Quale cura? — chiese Lucia, ed egli rispose: — La cura della mia vista. Per il troppo lavoro mi sono stancato gli occhi, e in un buon vecchio libro di me­ dicina ho letto: gli occhi malati si rafforzano e si risa­ nano ammirando leggiadre figure di donne, e anche vuotando una borsa di denaro e contemplando lucenti monete d’oro nuove di zecca. Quest’ultimo rimedio non credo sia molto efficace per me; il primo invece mi sem­ bra seriamente raccomandabile; perché già gli occhi non mi dolgono quasi più, mentre stamattina mi andava assai male! Reinhart pronunciò queste parole con molta gravità e con la stessa innocenza con la quale il vecchio libro di medicina impartiva il consiglio. Perciò, sebbene egli non se lo proponesse affatto, la frase suonò come un’adulazio­

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ne, e tanto efficace che le donne non pensarono nemmeno a rispondere con ironia. La signorina Lucia rimase di nuovo sconcertata e non sapeva come giudicare il suo strano ospite, e le servette lo occhieggiavano di nascosto, come una gradita distrazione nella loro vita quasi mo­ nastica. In verità egli era così poco portato all’adulazione volgare, che già rimpiangeva le sue parole, e per atte­ nuarle e distorglieme l’attenzione aggiunse che aveva trascorso una giornata felice e già goduto altri spettacoli di bellezza. Così narrò anche della bella ostessa del «Corno da caccia» e chiese qual era la storia di quella bizzarra creatura. Poi però, con l’imprudente sincerità che fin dal suo arrivo alla villa l’aveva messo in pericolo, raccontò tutto l’andamento e il carattere del suo pellegrinaggio, la sco­ perta del saggio epigramma, l’incontro con la guardiana del ponte e quello con la signorina del presbiterio, non­ ché, alla fine, la conversazione con la locandiera. In pre­ senza della sua ospite egli si sentiva infatti spinto come per magia alla sincerità, e anche se avesse commesso le peggiori diavolerie, la confessione delle medesime gli sa­ rebbe balzata da sola alle labbra. Eppure, anche se quell’influsso non poteva che fare onore a Lucia, pareva che questa non ne fosse affatto compiaciuta. Ricordando il foglietto che Reinhart le ave­ va consegnato a tutta prima invece della lettera, ella av­ vampò graziosamente di collera e disse con un sorriso ambiguo : — Dunque lei si propone di continuare in questa casa le sue eleganti avventure, ed è venuto qui unicamente con sì lusinghiera intenzione? Dopo di che si mise a passeggiare concitatamente su e giù per la sala, mentre le due ragazze, come indignate caudatarie della sua ira, s’alzavano in piedi anch’esse e dardeggiavano l’infelice ospite troppo sincero con oc­ chiate sarcastiche. Reinhart non mancò di levarsi da tavola a sua volta e dopo aver assistito per un poco, costematissimo, alla passeggiata della damigella, disse: — Signorina, se me lo comanda lascerò senza indugio

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questa casa, coi più sentiti ringraziamenti per il breve ma memorabile soggiorno, e riprenderò il mio cammino ! Senza arrestarsi, la bella rispose : — È notte, e nelle vicinanze non può trovare un al­ loggio confacente; ma così come stanno le cose non è possibile che lei rimanga fra noi, lo dico senza alcun ran­ core ! Del resto il viaggio notturno non può che allettare il suo spirito intraprendente, e le darò un accompagnatore munito di lanterna. Non gli restava altro che prendere congedo; andò umil­ mente incontro alla dama, ma, mentre era in procinto di inchinarsi con rispetto, mutò idea, si raddrizzò e disse gentilmente : — Ho riflettuto e ritengo che sia meglio per lei e per me se non mi lascio scacciare così ignominiosamente dalla sua casa. Infatti, mentre rimanendo conservo la mia di­ gnità, le do l’occasione di affermare nel modo più splen­ dido la sua gloria femminile. Giacché anche se fosse vero che io macchinassi uno scherzo disdicevole quantunque innocente, la punizione sarebbe davvero troppo severa se dovessi andarmene, pur in tutta amicizia, umile come uno scolaretto e senza aver lontanamente tentato quell’esperi­ mento indiscreto ! Ma sia lungi da me ogni pensiero irri­ verente! E da lei pure, mia gentile ospite, la sospetta apparenza di volersi proteggere con palese violenza e con una brusca espulsione contro un avventuriero ben poco pericoloso! Così dicendo le porse il braccio e la ricondusse al suo posto, che ella riprese in silenzio. Sedettero nuovamente di fronte; poi la signorina gli tese la mano al di sopra del tavolo e disse: — Ha ragione lei, facciamo dunque la pace ! E in se­ gno di riconciliazione le racconterò la storia della locandiera del bosco. Ma prima, come prova delle sue oneste intenzioni, mi dia quel famigerato versetto che porta con sé. E voi, ragazze, prendete i vostri filatoi e filate la vo­ stra benedizione serale ! Le fantesche andarono a prendere due leggeri filatoi e sedettero a lavorare; Reinhart trasse fuori l’epigramma

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e lo diede a Lucia; questa mostrò il foglio alle ragazze e disse : — Guardate un po’ quali sciocchezze si reca in tasca un autorevole scienziato ! — E fra gli scrosci di risa delle ragazze accostò il povero foglietto a una delle candele, lo bruciò e ne soffiò in aria la cenere. Poi, mentre il dolce ron­ zio delle ruote accarezzava l’orecchio di Reinhart come un accompagnamento nuovo eppur familiare, incominciò il suo racconto.

— La bella ostessa del «Corno da caccia» — ella disse — è davvero una figura bizzarra. Fin da bambina si di­ stinse tanto per la bellezza e la salute quanto per una sua particolare intelligenza, prontezza di lingua o di spirito, o come la si vuol chiamare; e più cresceva, più splendida­ mente parevano svilupparsi le sue doti interiori ed este­ riori. Quanto alla bellezza, anzi, non «pareva», ma era realmente cosi; giacché per graziosa che ella si possa de­ finire ancor oggi, quelli che l’hanno vista prima dicono che è soltanto un’ombra di ciò che era qualche anno fa. La bellezza interiore invece, o la supposta saggezza della fanciulla, si dimostrò soltanto un’apparenza ingannevole ; è vero che ha ancor sempre la lingua più lesta che si possa immaginare, ma dietro non v’è che buio e stoltezza. Non soltanto i genitori - tavernieri e contadini rozzi e indif­ ferenti - non la sollecitarono mai a imparare qualcosa, ad arricchire la sua anima, ma lei stessa non ne provò mai il minimo impulso, e rimase così ignorante anche delle cose essenziali, che scrive con grande fatica e dicono che la lettura stessa le sia abbastanza difficile. Ma anche per ciò che riguarda l’intelligenza naturale, la com­ prensione di ciò che è più importante e più valido nella vita umana, era così manchevole, che rimase un’oca per­ fetta, immersa spiritualmente in tenebre profonde, men­ tre la sua agilità di lingua applicata a cose ridicole e pue­ rili le conservava tuttavia la fama di creatura intelligente e astuta. Si sosteneva però soltanto in compagnia nume­ rosa, dove la gente andava e veniva, e dove non occorreva reggere a lungo ; appena era sola con una persona un po’

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perspicace, la gloria non durava nemmeno un’ora e la ragazza si trovava in secca. In tal caso dichiarava che quella persona era noiosa e sempliciotta e che non c’era da cavarne nulla. Ma quando si trovava a tu per tu con gente del suo stampo, a furia di stupidaggini nascevano i più insulsi punzecchiamenti e litigi. Tuttavia lei si considerava un portento, e aspirava a grandi cose, fra le quali, ben s’intende, l’accalappiamento di un giovane signore che fosse illustre e magnifico. Ma poiché, come ho detto, era forte soltanto in un gruppo numeroso, non era mai riuscita a isolare una singola relazione e ad avvolgerla sul suo arcolaio. Quando i miei nonni erano ancora in vita, venivano qui molti giovanotti, che si divertivano a più non posso e ren­ devano pericolosa la regione. I giovani signori si diletta­ vano particolarmente di riunirsi all’osteria del bosco con i proprietari e gli ospiti delle ville dei dintorni, per battute di caccia e scorribande ; sostavano là giorni e notti e face­ vano la corte alla bella figlia dell’oste. Costei sapeva destreggiarsi a meraviglia in mezzo a loro, e i suoi geni­ tori erano fuori di sé per l’ammirazione. Sovente veniva da noi un giovane cittadino, che era un bel ragazzo ma non valeva nulla e, a parte un po’ d’istru­ zione e le buone maniere, era quasi tanto sciocco quanto la fanciulla del «Corno da caccia». Ricco, scapestrato e viziato, dava tanto più baldanzosamente il tono a ogni sorta di pazzie in quanto il suo cervello era interamente vuoto di buoni pensieri; ed era nell’osteria del bosco sempre il primo e l’ultimo. Ne faceva addirittura una questione d’onore, e se non era stato lui ad architettare un tiro, o se nelle riunioni non sosteneva la parte principale, si chiudeva nel silenzio e fingeva di non vedere e di non sentire nulla invece di ridere con gli altri. Si dava specialmente da fare con Salome, la stringeva di un assedio con­ tinuo, andava dicendo che lei lo amava, e che lui medi­ tava di chiederla in isposa, il che naturalmente era inteso come uno scherzo. La ragazza lo contraddiceva di con­ tinuo con motteggi pungenti, più grossolani che estrosi, assicurava di non poterlo soffrire ; e invece era ansiosa di

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legarlo a sé, e non dubitava di riuscirvi: non sapeva au­ gurarsi un partito più splendido. Ma per molto tempo non fece progressi, perché mastro Drogo (era lo strano nome che gli avevano dato i genitori) recitava solo la com­ media, e così faceva lei pure, non sapendo che altro intra­ prendere, finché la sua stessa follia la spinse improvvisa­ mente a un passo disperato. Nel giardino dietro la locanda c’era una pergola folta, circondata per di più da cespugli. Fu là che una sera, quando già le stelle splendevano in cielo, Drogo attirò la brigata maliziosa fingendo di seguire furtivamente la Sa­ lome e di avere con lei un convegno segreto. Egli era per­ suaso che se ne fosse andata a dormire imbronciata per­ ché si erano punzecchiati tutta la sera, e fece le cose così bene che la compagnia cadde nell’inganno e credette sul serio che egli volesse scivolare inosservato dentro la per­ gola. Si scambiarono cenni d’intesa e gli sgattaiolarono dietro, quatti come lui che li precedeva, e quando Drogo s’infilò sotto la pergola buia circondarono pian piano il verde riparo per spiare la coppia e per sorprenderla; giacché i loro procedimenti non erano troppo delicati. Quando il giovane Drogo fu al suo posto e s’accorse che gli spioni s’erano schierati secondo il suo desiderio, in­ cominciò a prendersi gioco di loro e a provocarne l’invi­ dia imitando i confidenziali sussurri di due innamorati che s’incontrano di nascosto ; ripetè parecchie volte som­ messamente il nome di lei, e poi il proprio alterando la voce; s’udirono le paroline più dolci, i sospiri, e final­ mente il rumore di un bacio, seguito da un secondo e poi da parecchi, che si persero infine in una vera pioggia di baci, interrotta da espressioni di tenerezza, mentre gli ascoltatori un po’ si davano gomitate, un po’ soffocavano dalle risa, e poi si rimettevano all’agguato come sparvieri. Ora, il buon signor Drogo con la sua farsa non era affatto solo sotto la pergola ; e chi c’era con lui se non la Salome, acquattata in un angolo? Essa infatti, invece di andare a letto, s’era rifugiata lì a desolarsi un po’ perché la balorda incertezza della sua sorte incominciava ad an­ gustiarla, e stava anzi piangendo silenziosamente all’ar­

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rivo del buontempone. Sulle prime non riuscì a capire chi era e rimase immobile nel suo cantuccio per non tradirsi. Però, quando incominciò la commedia, essa riconobbe il suo antagonista, e udì gli altri avvicinarsi pian piano; in breve, poiché si trattava di uno scherzo indegno, colse subito il senso di tutta la scena, mentre non avrebbe mai saputo indovinare qualcosa di serio, e di colpo le balenò l’idea di catturare il motteggiatore nella sua rete, questa volta o mai più ! Mentre lui era occupatissimo a baciar l’aria con molta arte, come se baciasse le labbra rosse di Salome, si sentì improvvisamente cinto da due braccia, e i suoi baci in­ contrarono quelli di una bocca viva e vera. S’arrestò spa­ ventato e fece per fuggir via ; ma Salome lo tenne stretto, 10 soffocò di baci e disse forte: «Ecco, tesoro, quanti baci ti do ora, tanti i fulmini che ti debbon colpire se tu non mi resti fedele!». In quel momento la brigata che li spiava si scatenò, le luci tenute pronte furono accese di colpo e così venne illu­ minata la pergola, e scoperta e circondata la coppia fra grandi scrosci di risa e sonori rallegramenti. Ma soprag­ giunsero anche i genitori della ragazza e un fratello dal fiero cipiglio, appena tornato dalla lunga ferma militare, garzoni, braccianti e clienti dell’osteria. Questi avevano un’aria per nulla rassicurante; la coppia in testa a tutti fu accompagnata in casa, dove i genitori pretesero una spie­ gazione. Salome piangeva di nuovo ed era molto ango­ sciata; Drogo volle togliersi d’impiccio e cercò di svignar­ sela, ma gli amici gli sbarrarono la strada e un po’ per malignità, un po’ per invidia non gli permisero di sottrarsi al destino; lo esortarono a dichiararsi, non meno seria­ mente dei genitori di Salome, mentre questa, come’Jdomata, se ne stava lì mesta e soave, e il giovane sentiva ancora il fresco ardore delle sue carezze. Così si fidanzò solennemente con lei e le promise le nozze davanti a tutti i testimoni. Non gli fu difficile ottenere il consenso dei suoi, che ave­ vano sempre fatto tutto quel che il ragazzo voleva, e così 11 matrimonio male assortito, ma in fondo tale solo in ap­

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parenza, fu ufficialmente deciso. Ma, cielo ! sarebbe stato dieci volte meglio se invece il matrimonio fosse stato ma­ le assortito in sostanza, e i due sposi non si fossero cosi perfettamente pareggiati nella stoltezza ! La sposa venne rivestita alla moda e sei mesi prima del matrimonio fu condotta in città, per imparare le cosiddette maniere raf­ finate e il governo di una casa di alta classe. Ma così venne a navigare su un oceano dove le sfuggì di mano il timone della sua navicella. Una famiglia amica dei suoi futuri suoceri l’accolse per cortesia presso di sé. Era gente che conduceva una vita piena di tranquillità e di decoro, e che non sprecava molte parole; i discorsi imprudenti e sconsiderati non erano graditi in casa loro; al contrario, tutto quel che si diceva doveva apparire solido e ben fon­ dato; ma sotto sotto i giudizi aspri fioccavano abbastan­ za fitti. Da principio Salome cercò di far del suo meglio; ma siccome la sua intelligenza era assolutamente immo­ bile, non ebbe successo. I suoi gesti e maniere, che nella locanda non stavano male, erano troppo larghi e bruschi nelle case di città, e i suoi motti di spirito apparvero a un tratto goffi e scipiti. La poveretta s’arrabattava, secondo la sua abitudine voleva parlare continuamente, ma non sapeva serbare il tono giusto, ora era fin troppo umile e gentile, ora alzava la cresta e non la cedeva a nessuno, in breve si scavò da sola il terreno sotto i piedi, sinché le persone distinte che l’avevano guardata di traverso fin dal primo giorno non incominciarono a chiamarla «il cammello», nome che si diffuse rapidamente, soprattutto nelle case dove c’erano ragazze che avevano mirato al suo sposo. Giacché anche se Drogo non era un luminare, come partito costituiva un’ambita occasione che con dispetto avevano visto sottrarre ai loro calcoli per opera di quella contadina. La società femminile non mancò di ostentare il disprezzo in cui era tenuta la poveretta, e si fece premura di far giungere l’onorifico appellativo al­ l’orecchio del fidanzato, per il quale prese a dimostrare una pietà delicata e ipocrita, come se egli, il più prezioso gioiello del mondo, fosse deplorevolmente caduto nelle mani di un’indegna. Anche gli uomini che in campagna

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non avevano disdegnato di vagheggiare e di corteggiare la ragazza, adesso avevano paura di compromettersi e la piantarono vergognosamente in asso. Così andò a finire che il fidanzato, quando la fidan­ zata non era presente, si considerava un povero infelice che aveva rovinato per leggerezza il proprio avvenire, e non la finiva di compiangere se stesso ; ma appena lei compa­ riva, la sua bellezza scacciava tali pensieri, perché Drogo con la sua testa vuota viveva solo alla giornata. Salome, da parte sua, che si vedeva da ogni parte venduta e tra­ dita e non presagiva nulla di buono, cercava d’attaccarsi tanto più paurosamente all’essenziale, cioè al fidanzato, e di legarlo a sé raddoppiando le tenerezze; giacché non aveva più altra moneta da spendere, e, appena cessavano di sbaciucchiarsi, la conversazione taceva fra quei due che una volta si punzecchiavano così gagliardamente. Salome non sospettava neppure che fossero in questio­ ne la natura del suo spirito, la sua intelligenza ; imputava la sfortuna che la perseguitava alla propria origine con­ tadina, al malvolere della gente di città. Perciò si chiuse nella sua presunzione, pensò che quando si sarebbe ma­ ritata avrebbe ricominciato a giocar le sue carte, e nel frattempo non si spiccicava dall’amato per essere sicura del suo attaccamento. Un bel pomeriggio erano seduti su un divano o sofà di damasco : Salome vestita d’un abito di seta rossa che ave­ va comprato lei stessa, con pesanti bracciali d’oro donati dallo sposo e trine autentiche che provenivano dalla fu­ tura suocera ; Drogo azzimato come un arbitro della mo­ da. Così si tenevano abbracciati e offrivano, in apparenza, un perfetto spettacolo d’amore terreno; perché giovani, belli e ben vestiti com’erano, e per di più fidanzati ai quali arrideva una lunga vita spensierata, chiusi in una bella sala tranquilla a godersi l’ozio più dilettevole, che cosa poteva mancare loro per credersi in paradiso? Dopo lo scambio di carezze s’erano dolcemente addormentati, ed ora si svegliarono pian piano, l’uno dopo l’altra; il fi­ danzato sbadigliò un poco, con misura, tenendosi la ma­ no davanti alla bocca; la fidanzata invece, vedendo lui,

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fu irresistibilmente attratta a imitarlo e spalancò la bocca al massimo come usava fare in campagna quando non c’era nessuno ; e accompagnò l’enorme sbadiglio con quel sospiro o gemito da giudizio universale, sciagurato e irri­ guardoso, col quale certa gente, con le migliori intenzioni del mondo, riesce a sconvolgere i nervi più saldi e a ro­ vinare gli umori più lieti.

Non deve stupirsi — s’interruppe Lucia — se io co­ nosco con tanta esattezza tutti i particolari: ho sentito raccontare la storia a sazietà dai due interessati; e sembra, del resto, che queirinfelice duetto di sbadigli abbia muta­ to la piega delle cose, come un’involontaria, fatale con­ fessione. Almeno, tutti e due insistono stranamente su questo punto. Il fidanzato a un tratto s’infastidì ed esclamò: «Oh Santo Gielo! è tutto quello che mi sai dire?». Salome voleva baciarlo; ma egli la fermò e disse: «No, lasciami stare, e dimmi piuttosto qualcosa di carino!». La fidanzata respinta si coperse di rossore, ma disse in fretta: «Se lanci un appello nel bosco, l’eco ti rimanda il suono ! Dimmi tu qualcosa di amabile, io ti risponderò !». «Oh, i cammelli non parlano !» replicò Drogo con un sospiro, senza pensarci. Lei divenne pallida, s’appoggiò allo schienale e domandò: «Chi è il cammello, tesoro?». «Amor mio,» diss’egli «tutta la città ti chiama così!»« «E anche tu mi giudichi tale?» chiese Salome, ed egli rispose cercando di attirarla a sé: «Certo, il più grazio­ so di tutti i cammelli!». Fu allora che Salome si sentì trafitta dallo strale più aguzzo che la potesse colpire; infatti l’intelligenza che credeva di possedere era il suo massimo vanto, il suo pal­ ladio, la sua dote più eminente. Ma fu un bene per lei, perché ne ricavò la forza di ribellarsi e di farla finita; così si salvò dalla rovina e riparò alle sue debolezze. Senza più pronunziare una parola si strappò dall’ab­ braccio, sciolse i bracciali dai polsi, le trine dal collo, li gettò ai piedi del barbaro fidanzato e abbandonò a pre-

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cipizio la casa, sputando sulla soglia come usano i conta­ dini; e cosi com’era, senza cappello e senza guanti, corse fuori della città. Solo quando fu in aperta campagna ruppe in lacrime, e continuò la sua strada fra pianti e singhiozzi, asciugandosi gli occhi al bellissimo abito di seta (non aveva con sé neppure un fazzoletto), per campi e foreste, finché arrivò a notte fonda alla casa paterna, più simile a una zingara che a una fidanzata fuggiasca. Ai genitori costernati non diede risposta, e andò a rinserrarsi in camera sua. Vi rimase parecchi giorni, e quando ne uscì indossava di nuovo le antiche vesti paesane. Che cosa fece dell’abito di seta rossa non si seppe mai. Qualcuno disse che l’aveva bruciato, altri che l’aveva seppellito, altri ancora che l’aveva venduto a un rigattiere. Dopo un certo periodo la famiglia cittadina presso la quale aveva abitato le mandò la sua roba senza notizie o domande; altro tempo trascorse, né mai il fidanzato o altri si informarono di lei. I genitori volevano fare causa a Drogo, ma ella s’oppose con sdegno, e così il fidanza­ mento della bella Salome svanì nel nulla e la ragazza è ancora lì come lei l’ha vista, da un lato più savia e mi­ gliore di prima, dall’altro ancora più folle. Il suo nuovo capriccio è di disprezzare gli uomini e prendersi gioco di essi, o almeno così crede, mentre invece preferisce la loro compagnia a ogni altra cosa. Ma non credo che s’invi­ schierà mai in un altro fidanzamento.

CAPITOLO OTTAVO

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Quando Lucia tacque, Reinhart non seppe subito che cosa dire, poiché una certa perplessità Io tenne per un poco pensieroso e sospeso. Da principio l’eloquenza pre­ cisa e un po’ aspra della signorina nel descrivere le debo­ lezze di una creatura della sua età e del suo sesso lo aveva stupito e gli aveva fatto temere una natura critica e poco femminile. Ma ricordando i libri da lei prediletti, veduti poco prima, credette di riconoscere in quell’esposizione piuttosto l’abitudine di giudicare i fatti con libertà, di comprendere i destini e di chiamare le cose col loro no­ me. Se poi rifletteva alla solitudine della narratrice, lo riprendeva il caldo e incuriosito interesse che lo aveva già istigato a una domanda inopportuna. In seguito però, quando Lucia raccontò di quegli imprudenti baci e carezze in tono gaio e superiore e con un’ombra di scherno, si sentì propenso a interpretare ciò come un’allusione e un rimprovero alla sciocca impresa per la quale s’era messo in cammino. Per ripararsi da quell’attacco passò al con­ traddittorio e a una specie di difesa della sventurata Sa­ lome, incominciando così: — L’orgogliosa rassegnazione alla quale la fanciulla è giunta così inaspettatamente mi sembra dimostrare che anche le buone qualità esistenti soltanto nell’immagina­ zione, quando vengono offese o messe in dubbio, produco­ no gli stessi effetti delle virtù reali, cosicché la follia, ad esempio, se viene attaccata la sua presunta saggezza, nel dolore di tale offesa può veramente divenire riservata e prudente. Del resto è un peccato che la povera bella Salome non abbia preso marito ! — È caduta fra due seggiole — replicò Lucia — per­ ché con i signori non è riuscita, e con i contadini non vuo­ le abbassarsi ; eppure avrebbe ancora potuto render felice un uomo della sua condizione, che con facoltà mentali della stessa forza e preso da un duro lavoro quotidiano

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non si sarebbe reso conto della sua irragionevolezza e l’avrebbe forse considerata un raro gioiello. — Certamente — disse Reinhart — doveva pur esserci per lei un uomo capace di apprezzarla anche con i suoi difetti ; tuttavia l’uguaglianza di ceto e d’intelligenza non mi sembra così assolutamente necessaria. Credo piuttosto che una creatura di quel genere starebbe bene accanto a un uomo veramente superiore e comprensivo, e anzi che un tal uomo, avendone agio, potrebbe ricavare molta gioia a legare al palo con pazienza e abilità il tralcio di una vite così bella, e a farlo crescer diritto. — Nobile giardiniere ! — esclamò Lucia — ma dun­ que lei rinuncia più volentieri all’intelligenza che alla bellezza? — La bellezza? — disse lui — Non è la parola giusta, non quella che qui ci occorre. Nell’argomento in que­ stione, la cosa prima e principale è il reciproco grandissi­ mo diletto, cioè che l’aspetto dell’uno piaccia all’altra in modo straordinario. Se il fenomeno accade, si possono smuovere le montagne, e ogni rapporto diventa possibile. — Questa scoperta — replicò Lucia — non è cattiva, però non è del tutto nuova, e mi sembra voler poi dire all’incirca che nel contrarre un matrimonio non è male es­ sere un po’ innamorati! La canzonatura aizzò di nuovo Reinhart alla polemica, cosicché egli riprese: — La sua supposizione è più giusta di quanto lei sem­ bra credere, eppure non giunge fino al fondo del mio pensiero. Per innamorarsi basta sovente l’effetto unilate­ rale della fantasia, un’illusione qualsiasi, e v’è stata per­ sino gente che s’è innamorata senza aver mai visto l’og­ getto del proprio amore. Ciò che io intendo, invece, si deve vedere direttamente, e non dev’essere abbellito dal­ l’immaginazione, bensì deve superarla a ogni incontro. Anche se la persona amata si vede per anni, ogni giorno e ogni ora, deve apparire nuova tutte le volte; in breve, il volto è l’insegna della creatura sia fisica sia spirituale; non può ingannare alla lunga, finirà per piacere sempre e terrà insieme la coppia, sia pure fra tempeste e pericoli.

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— Non so che farci — obiettò Lucia — ma mi sembra che continuiamo a girare intorno allo stesso punto ! . —Ebbene, balziamo fuori dal cerchio e consideriamo la cosa da un altro lato. Non vi furono in ogni tempo don­ ne assennate, graziose e anche esigenti che si legarono per libera scelta a un uomo, il quale di tutte le qualità pareva possedere solo le opposte; e non vissero queste donne in pace e tenerezza coi loro mariti, tanto da farsene un’au­ reola davanti al mondo? E con ragione ! Perché anche se un tratto ignoto agli altri suscitò la loro simpatia e nutrì il loro affetto, questa si deve chiamare una forza e non una debolezza ! Ora io non posso ammettere che gli uo­ mini debbano stare più in basso delle donne. Al contrario, sostengo : proprio un uomo intelligente e veramente cólto può sposare una donna e volerle bene senza guardare di dove essa viene e com’è; il campo della sua scelta com­ prende tutti i ceti e tutti i modi di vivere, tutti i temperamenti e tutte le disposizioni; solo una cosa egli non può trascurare senza commettere errore: l’aspetto gli deve piacere ora e sempre. In tal caso tutto è nelle sue mani ed egli potrà fare di lei ciò che vuole! — A quanto pare lei continua a non dire nulla di straor­ dinario, — ribatte Lucia — però incomincio ad accor­ germi che si tratta di una certa obiettività d’intenditore ; l’aspetto che piace diventa il punto di partenza del­ l’acquirente che va al mercato delle schiave ed esamina le possibilità di raffinamento della merce, non è così? — Un granellino di questa maligna interpretazione potrebbe coincidere con la verità; e quale danno può derivarne all’una o all’altra parte, se la felicità auspicata promette una durata tanto più lunga? — La durata del visetto giovane e liscio, che il signor conoscitore s’è scelto con tanta cautela? — Non mi fraintenda il problema, mia crudele signora e ospite ! Di cautela non si può mai parlare in simili fac­ cende. — In verità non lo credo neanch’io, tanto più se lei, come c’è da aspettarsi, s’andrà a scegliere una sguattera in cucina.

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t— Quello che m’è destinato non lo so ancora: aspetto umilmente la mia sorte. Ma ho visto il caso in cui un gio­ vane stimato e molto istruito tolse per davvero una serva dal focolare e visse felice con lei finché non ne fece una dama pari suo, e solo allora avvenne la catastrofe. — Ma il fatto non testimonia appunto contro le sue concezioni orientali? — Parrebbe, in realtà, ma non fu cosi ; tralasciando l’orribile nome di cui ella gratifica la mia innocente filo­ sofia. — E la sua storia è un segreto, oppure la si potrebbe udire? — Come meglio posso, la estrarrò volentieri dai miei ricordi, con tutte le circostanze che mi sono ancora pre­ senti; ma la devo pregare di giudicare con fiduciosa in­ dulgenza le eventuali integrazioni, insite nei fatti stessi quando vengono riferiti. Siccome le due ancelle avevano fermato le ruote e fissavano curiose i loro quattro occhietti sul narratore, Lucia disse loro: — Continuate a filare, ragazze, affinché il signore, sol­ lecitato e accompagnato dal ronzio, non perda il filo del suo racconto. Anche lavorando potrete cogliere e tenere a mente l’insegnamento che ne risulterà, e imparare a evi­ tare il pericolo quando i terribili cacciatori di donne ten­ dono le loro reti fin nelle cucine. Mentre le ruote ricominciavano a ronzare, Reinhart prese a narrare quanto segue:

— Viveva a Boston una famiglia di origine tedesca, i cui avi erano emigrati nell’America settentrionale più di cent’anni prima. I discendenti costituivano una casata che godeva di una stima, che a pochi è dato conservare nel perenne susseguirsi delle migrazioni; e anche la dimora in senso stretto, l’abitazione e le suppellettili, avevano già un carattere di anticà tradizione, per quanta se ne può formare nel breve corso di un secolo. La lingua tedesca non si spense mai fra i componenti della famiglia ; in par­ ticolare uno dei figli minori, Erwin Altenauer, era così

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fervidamente attaccato a tutti i retaggi spirituali di cui poteva impossessarsi, che non resistette al desiderio di co­ noscere la patria d’origine, e ciò al tempo in cui s’andava già avvicinando al trentesimo anno di età. Decise dunque di recarsi per un lungo soggiorno nel vecchio mondo e in Germania; ma poiché con un certo amor proprio voleva presentarsi in qualità ben definita e in ogni caso come americano, si adoperò a Washington per ottenere il posto di primo segretario d’ambasciata in una delle maggiori capitali tedesche. Vi giunse con non poche aspettazioni, bramoso soprattutto di avvicinare il bel sesso degli Stati confederati germanici ; giacché se noi uomini tedeschi ci siamo conquistati con zelo una fama di superiore integrità, abbiamo conferito anche alle no­ stre donne la fama di una straordinaria profondità d’ani­ mo e di ricchezza e finezza di cuore, cose che brillano di lontano e destano nostalgici desideri come i tesori della saga dei Nibelunghi. Attratto dallo splendore di quest’Oro del Reno, Erwin era anche stato scherzosamente esortato dai suoi parenti a riportarsi al di qua dell’oceano una moglie tedesca veramente assennata ed esemplare. Si sentì presto perfettamente a casa sua, come se il padre fosse stato uno studente di Jena; ma ciò accadeva soltanto in compagnia maschile, e appena la società era costituita da membri dei due sessi la faccenda s’incagliava. Sia che - come vi sono anche nei vigneti più belli dei posti all’ombra dove i grappoli non maturano dolci co­ me al sole - egli fosse capitato in una contrada sfavo­ revole, sia che il difetto stesse in lui (un’ignoranza forse del mestiere del vignaiuolo), fatto sta che egli non si sen­ tiva animato a districare il groviglio delle usanze. Erwin, come gli altri membri dell’ambasciata, era di costumi semplici, chiaro e preciso nelle parole e senza giri di frasi. Essi rappresentavano ancora il vecchio autentico tipo americano e andavano dritti per la loro strada senza cu­ rarsi delle cento piccole imboscate e intenzioni nascoste, anzi senza neppure accorgersene ; per essi il sì era sì e il no era no, e non ripetevano mai una cosa due volte. Ora, Erwin era stupefatto di vedersi improvvisamente

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voltare le spalle da questa o quella dama, quando a una domanda o affermazione di lei egli aveva risposto un semplice sì o no, secondo il proprio schietto parere; ancor meno riusciva a spiegarsi perché un’altra troncava dopo due minuti il dialogo che aveva intavolato lei stessa, ap­ pena lui con una onesta obiezione aveva portato il di­ scorso su un terreno più saldo ; incomprensibile gli appa­ riva una terza che aveva insistito per conoscerlo, poi gli aveva rivolto qualche domanda sul clima del suo paese e senza aspettare la risposta s’era voltata a parlare con un altro. Tale albagia non era in fondo che l’ammanto di un’interiore mancanza di libertà, come pure il riserbo con cui erano trattati lui e i suoi colleghi dovunque andassero, mentre a volte scoprivano per caso d’essere oggetto, in loro assenza, di studi e analisi approfondite. Se in quei giardini fioriva ogni tanto una pianta d’apparenza più gentile e disinvolta, anche essa era sorvegliata e si guar­ dava timorosa dal traboccare fuor della siepe. Perciò Erwin rinunciò a navigare in un oceano di fron­ zoli dal quale emergeva così scarsa personalità femminile, e per riposarsi delle fatiche sostenute si diede a fare lunghe escursioni. A volte si recava in qualcuna delle graziose cit­ tadine universitarie, per conoscere i più celebri scienziati e seguire qualche buon corso di studi ; altre volte visitava luo­ ghi dove venivano praticate le arti, ed educava la mente e l’anima a contatto con la festosa natura degli artisti. In tutti quei viaggi era trasferito in un mondo borghese no­ bilitato, che coltivando i beni migliori della vita gioiva di tale vita con non simulata serietà. Lì la conoscenza e la capacità venivano esercitate con onore e diligenza, e le donne ardevano di vero entusiasmo per ciò che rite­ nevano buono e bello, ogni fanciulla si dedicava alle sue tendenze preferite e costruiva all’ideale un suo piccolo santuario privato ; e ben lontane dal rifiutare un colloquio sincero non si stancavano di udir parlare di tutto ciò che è buono e giusto. L’alternarsi delle stagioni offriva poi una varietà di feste gioconde la cui semplicità era vivi­ ficata dall’antico incanto della poesia. Le belle vallate, le montagne, le foreste offrivano un’ospitalità che era go-

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duta con gioia e gratitudine, e le donne si movevano tutto il giorno all’aria aperta, con buon umore; il profu­ mo dei boschi aveva dato loro benessere fin dai tempi delle avole e bisavole, e perfino la più modesta non si pe­ ritava d’intrecciare una verde ghirlanda e di porsela in capo. Tutto ciò piacque infinitamente di più al nostro bravo Erwin. “Questa vita” egli pensò “è assai più vicina all’idea che m’ero fatto in America; non è possibile che queste creature gaie e assennate siano di dentro vili e filistee”. Un paio di volte fu anche sul punto di contrarre un legame, come si dice comunemente. Ma ahimè ! Anche qui ap­ parve inopinatamente una specie di rovescio della meda­ glia. Per particolare sventura, ovunque egli capitava v’era una tale pubblicità e sorveglianza generale in quel campo, che era impossibile anche soltanto comunicarsi i primi sen­ timenti e scambiarsi le prime occhiate senza che tutti lo sapessero; non parliamo poi di giungere a una dichia­ razione che potesse rimanere per qualche tempo il dolce segreto di una coppia d’innamorati. Sembrava che si po­ tesse amare e corteggiare solo in mezzo a un gran pub­ blico, ed essere incoraggiati a ciò proprio dalla folla de­ gli spettatori. Appena un giovane aveva scambiato qual­ che parola di più con la stessa ragazza, si prendeva atto della relazione e la si spingeva di forza verso un fidanza­ mento ufficiale. Ma un simile sistema era per Erwin come un veleno. Quel che secondo il suo sentimento doveva essere l’intesa segreta di due cuori, era dato in pasto fin da principio alla compartecipazione generale, e i diritti dell’anima, le prime estasi dell’aurea primavera d’amore, andavano perduti. Così egli era intimorito e trattenuto fin dal primo capitolo dei suoi romanzi, e non gliene re­ stava nulla, se non l’irritazione di qualche pettegolezzo. Ciò dimostra, è vero, che non aveva provato alcuna vera passione; altrimenti non si sarebbe lasciato spaventare dalle debolezze di cui sono sovente affetti i bravi borghesi. Tuttavia l’irritazione rimase, e scacciando dalla mente ogni altro pensiero egli si rivolse esclusivamente alla com­ pagnia degli uomini, ridotti a starsene fra loro.

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In quel periodo, circa dodici anni or sono, incontrai Erwin Altenauer nella mia città di allora, se così si può chiamare la sede dell’università dove mio padre, chia­ mato a insegnare, aveva comprato una casa e s’era spo­ sato con la figlia del banchiere locale. Io avevo appena vent’anni, sebbene fossi già studente da due anni, e sia nella casa patema sia altrove mi accadde sovente di gustare la compagnia del giovane tedesco-americano. Era un uomo solido, non piccolo, dalla testa bionda, e portava soltanto cappelli nuovi ma come se fossero vecchi. Voleva pas­ sare nella nostra città solo un paio di mesi in estate, specialmente per seguire un corso di storia antica tenuto da uno storico famoso, e studiare i documenti sotto la sua guida. In una casa signorile, abitata allora da due sole fami­ glie, aveva preso in affitto presso una di esse alcune stanze dove non mancava di ricevere ogni tanto, al modo degli scapoli, i suoi conoscenti ; altrimenti amava trascor­ rere le serate in liete riunioni con giovani intelligenti di diverse nazionalità, dove s’incontravano anche giovani borghesi di buona famiglia, che era facile distinguere dai goliardi, anche se non sdegnavano affatto di mescolarsi con loro. In quella sua casa, che aveva vasti scaloni e corridoi, l’aveva colpito da un certo tempo, nell’andare e venire, una domestica di così splendida statura e movenze che il suo abituccio povero ma pulito sembrava il manto di una reginetta delle fiabe. Sia che portasse sul capo una brocca d’acqua o un paniere di legna, sempre le membra e l’an­ datura rivelavano la stessa agile forza, la stessa serena bellezza; il tutto poi era dominato e armonizzato da un viso la cui tranquilla regolarità era nobilitata da un’espres­ sione di sommessa inconscia melanconia, qualcosa di leg­ gero e di puro come l’ombra di un limpido cristallo. Er­ win non incontrava sovente la bella persona, ma, quando essa passava con gli occhi modestamente rivolti a terra, l’apparizione gli restava in mente per ore e ore senza che lui se ne rendesse particolarmente conto. Un giorno però, ch’ella era inginocchiata a lavare i gradini della scala, ed

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egli stava appunto per scendere, la ragazza si alzò e s’ap­ poggiò alla balaustrata per lasciarlo passare; e lui non potè impedirsi di augurarle il buongiorno e di scusarsi fuggevolmente, senza sostare. Ma in quel momento ella alzò gli occhi, tanto grandi e belli, e un mezzo sorriso così soave aleggiò meravigliato sulle sue labbra serie, che l’im­ magine della povera fantesca non uscì più dai suoi pen­ sieri; però solo come quando uno conosce qualcosa di buono a cui i pensieri ritornano sempre sereni, appena non sono distratti o occupati. Null’altro accadde e niente mutò, se non ch’egli le chiese alla prima occasione il suo nome, che era Regine. Dopo una bella domenica passata all’aperto, Erwin ritornava verso il suo alloggio a notte tarda, camminando adagio e godendo con piacere l’aria estiva. Qua e là gruppi di studenti sciamavano cantando per le strade ri­ schiarate dalla luna piena; davanti alla casa, quando egli vi giunse, v’era tutta una truppa di quei perdigiorno e circondava una donna sola che si serrava contro il muro. Posso descrivere la scena perché mi trovavo lì anch’io. Era Regine che stava sul terzo o quarto gradino della sca­ linata esterna, e, addossata alla porta di casa, guardava muta la schiera esilarata e schiamazzante. Aveva avuto dai padroni il permesso di visitare i genitori nel paese natio distante parecchie ore; al ritorno però aveva per­ duto un mezzo di trasporto e le era toccato di farsi la strada a piedi ch’era già notte. Ma i signori erano in gita e ancora non erano tornati, e poiché Regine non aveva la chiave di casa e nessuno all’interno pareva sentire il campanello che lei aveva tirato più volte, si trovava chiu­ sa fuori e non le restava che aspettare l’arrivo di altri inquilini. La sua bella figura aveva dato nell’occhio a quei giovani scioperati, che non mancarono di circondarla e di rivolgerle complimenti più o meno fini. L’uno la chiamava amore, l’altro tesoruccio, questo Margheritina, quell’altro Mariù; poi le fecero una serenata a mezza voce, e non so quali altre bambinate; ma quando uno corse su per arrischiare una carezza, lei respinse l’attacco con un movimento tranquillo del braccio libero: perché con

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l’altra mano stringeva il picchiotto della porta, da lei stessa lucidato. Vedendo l’uno dopo l’altro inciampare a ritroso sui gradini, tutta la brigata rideva con fragore, senza che l’assediata ne provasse il minimo divertimento; anzi a un certo punto scese anche lei e cercò di riparare altrove. Ma gli studenti gridarono: «La leonessa vuol sfuggirci ! Non lasciatela passare ! ». E si strinsero ancor più intorno a lei. In quel momento Erwin, che aveva osservato con stu­ pore la scena, si fece largo fra la piccola folla, prese per mano la ragazza tremante e la condusse in casa, dopo aver aperto la porta con un rapido giro di chiave e poi richiuso con altrettanta rapidità. Tutto ciò era accaduto così in fretta che i nottambuli rimasero con un palmo di naso e non poterono fare altro che andarsene per i fatti loro. Nel vestibolo, dove di notte le lampade erano sempre pronte, Erwin accese il suo lume e divise la fiammella con la ragazza, che respirava di sollievo, felice di essere al sicuro e di potersene andare in cucina ad aspettare i si­ gnori, com’era suo dovere. E, ben comprensibilmente, s’incrinò la ritrosia che l’aveva sorretta sinora ed ella permise che Erwin, più timido che intraprendente, le ac­ carezzasse la mano e la guancia, ma per un attimo solo; giacché anche se il suo vestito della domenica era quasi altrettanto misero quanto quello di tutti i giorni, di stoffa di poco prezzo e di fattura meschina, tuttavia i lineamen­ ti e l’espressione del viso vietavano un gesto irrispettoso a chiunque non facesse parte di un gruppo di studenti av­ vinazzati; e sì che il volto di Regine era l’immagine stessa dell’umiltà. Da quella sera la quieta apparizione occupò ancor più sovente i pensieri di Erwin, e invece di servir loro sol­ tanto da luogo di riposo, li attrasse anche quando avreb­ bero dovuto indugiare su altri argomenti. Lo sentì po­ chi giorni dopo, vedendole accanto, ai piedi della scala, un altissimo capor; e di cavalleria, che, le mani puntate sul pesante spadone, parlava con Regine, mentre ella s’appoggiava al piedistallo della balaustrata. Erwin, passando, osservò che il viso di lei era leggermente arros­

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sato, e ne dedusse che i due erano legati da un sentimento amoroso. Ma questo turbò a tal segno la sua pace che mezz’ora dopo usci di nuovo, sebbene nell’atrio non ci fos­ se più nessuno, e passò tutto il giorno in continua agita­ zione. Inutilmente si ripeteva che doveva rallegrarsi di vedere l’ottima fanciulla in teneri rapporti con un uomo così prestante, e anche posato, per quel poco che ne aveva potuto vedere. Il fatto che nella città non v’era guarni­ gione, e dunque il militare doveva esser venuto di fuori, faceva apparire ancora più certa l’esistenza di un serio legame sentimentale. Ma egli invece si sentiva sempre più triste. Invano si chiese se poteva esservi un avvenire mi­ gliore per la ragazza, se l’avrebbe impalmata lui stesso: non sapeva rispondere. Alla luce di un’inclinazione amo­ rosa, ch’egli immaginava profonda e intensa, proprio nel tono di certe canzoni popolari tedesche, la fanciulla gli apparve circonfusa di un alone romantico che rendeva ancora più buia la crescente tristezza della sua esclusione. Infatti l’uomo passa indifferente davanti al cancello aper­ to di un giardino paradisiaco, e diventa melanconico solo quando il cancello è chiuso. La sera abbandonò la compagnia più prèsto del solito e s’affrettò verso casa. Davanti alla porta che immetteva nelle sue stanze raggiunse inopinatamente Regine, che saliva al suo stanzino sotto i tetti. Essa portava insieme alla lampada un foglio di carta da lettere. Questo le era caduto per terra e s’era leggermente sciupato e impol­ verato, ed ella stava osservando il danno, ma vi aggiunse tosto una macchia d’olio della lucernetta di cucina che le era concessa dai padroni. «C’è qualcosa che la angustia, mia buona Regine?» domandò Erwin mentre apriva la porta. «Oh mio Dio !» disse lei «Dovevo scrivere una lettera e ho chiesto un foglio di carta, e adesso l’ho già rovinato, ancor prima di arrivare di sopra!». «Venga con me, gliene darò un altro !» replicò Erwin, ed ella entrò da lui con piena fiducia, ma si fermò mode­ stamente sull’uscio, mentre egli preparava un pacchetto della sua carta più bella «Ha anche penna e calamaio?».

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«Un po’ d’inchiostro ce l’ho in una boccetta, però mezzo secco, e anche una penna di ferro col pennino che gratta» rispose lei. «Allora eccole una di queste penne, e si prenda anche un po’ d’inchiostro, o meglio porti via tutta la bottiglia, me la renderà poi. Ha un tavolino per scrivere?». «Eh no, purtroppo, solo il cassettone!». «Allora scriva su questo tavolo. Io non la disturberò, non stia in soggezione! O se preferisce scrivere sul leg­ gio, è di statura abbastanza alta per usarlo». Accese intanto una lampada che diffondeva molta luce, poi si rivolse di nuovo alla muta Regine che aveva ora, come al mattino, le guance soffuse di rossore, e le chiese : «Mi dica, Regine, il bel dragone che ho visto oggi con lei è certamente il suo innamorato. Devo farle i miei sinceri rallegramenti ! ». Queste parole egli le pronunciò con voce diversa, un po’ malsicura, come se le rivolgesse a una da­ ma del gran mondo. Il rossore di Regine divenne più intenso e si rispec­ chiò nel volto di lui, che nonostante i suoi ventotto o ven­ tinove anni si colorò lievemente. Ma gli occhi della ra­ gazza scintillarono di un’innocente malizia mentre ri­ spondeva: «Era mio fratello!». Però dimenticò di dire se aveva o no un innamorato. Del resto Erwin non chiese altro, anzi fu così contento che si trattasse d’un fratello, che la sua allegria si manifestò in modo chiarissimo e al­ leggerì il cuore anche alla giovane. Prima d’awedersene ella si trovò davanti al leggio intenta a scrivere la sua lettera. Scrisse poi senza fermarsi a riflettere tutta una pagina in belle righe diritte, e piegò il foglio senza rileg­ gerlo. Durò quindi poco per Erwin il piacere di osservarla con agio dal sofà dov’era seduto. Le diede una busta, e standole vicino vide che essa scriveva in caratteri regolari e puliti l’indirizzo della propria madre. «Vuole suggellarla subito?» chiese lui, ed ella rispose di sì con riconoscenza. Erwin le porse una coppa di agata, con dentro un anel­ lo a sigillo e parecchi stampigli con stemmi finemente in­ cisi, cifre e gemme antiche, e l’invitò a sceglierne uno.

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Molti anni dopo, quando il futuro era ormai passato, egli ricordava ancora con melanconia la delicatezza della giovane donna ignara, che non osava servirsi dei suggelli preziosi e propose di andare a prendere un bottone di stagno che serbava a quello scopo. Disse che v’era impres­ sa una piccola stella. «Allora posso servirla anch’io!» esclamò Erwin, e trasse di tasca la sua matita d’oro; l’estremità superiore era formata d’una piccola piastra con una stella e si poteva adoperare per sigillare una let­ tera. Regine accettò contenta. Il giovane scaldò la cera­ lacca scarlatta e l’applicò sulla lettera; Regine vi pre­ mette sopra la stella e quando la difficile impresa fu com­ piuta diede un piccolo respiro di sollievo e guardò Erwin con un franco sorriso. Con la lettera in mano, adesso avrebbe potuto ragionevolmente andar via; ma il giova­ notto seppe trattenerla con una domanda alla quale ne seguì una seconda e una terza, e così Regine rimase dov’era per un’ora buona a chiacchierare con lui, ch’era appoggiato al suo tavolo di lavoro. Erwin la interrogò sul suo paese e sui suoi, ed ella rispose senza riserve, anzi raccontò spontaneamente certi particolari, giacché nes­ suno ancora, da quando essa si guadagnava il pane in ca­ sa d’estranei, s’era informato con tanto interesse delle cose sue. Era figlia di poveri contadini, costretti a lavo­ rare a giornata una parte dell’anno. Non solo gli otto fi­ gli, maschi e femmine, ma anche i genitori erano tutti alti e ben fatti, una razza la cui inalterata bellezza risaliva ad antichissime origini. Non era così però, per l’indole, la versatilità, la resistenza morale, la disposizione alla feli­ cità di quella famiglia di così bella corporatura. Nel la­ voro e nel commercio non sapevano fermarsi e manovrare a tempo, preparare e assicurare il guadagno, e invece di evitare con calma le calamità se le lasciavano capitare addosso e poi le guardavano in faccia costernati. Il padre era rimasto storpiato nell’abbattere un albero, la madre era piena di parole amare e di progetti inutili; due figli fa­ cevano il servizio militare, il terzo aiutava in campagna e le cinque femmine vivevano disperse, facendo le do­ mestiche, con destini differenti che non erano tutti lieti o

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scevri di preoccupazioni per loro e per la famiglia. Questo all’incirca fu il quadro che Erwin ricavò dalle parole della fantesca, quasi un’immagine di passata grandezza, di una stirpe abbandonata dalia buona stella, che nel corso dei secoli aveva perduto e riconquistato la libertà almeno tre volte, ma che alla fine non sapeva più che farsene perché le sofferenze della lotta avevano distrutto la sua forza di resistenza. O forse si poteva paragonare a una nobile progenie decaduta, che non sa adattarsi al modo di vivere dei tempi nuovi? Da tutte quelle infor­ mazioni slegate egli concluse anche che Regine, sebbene la più giovane, era anche la migliore : in un certo modo il quieto sostegno della famiglia, senza pretese per sé, colei alla quale tutti si rivolgevano e che andava così poveramente vestita perché dava ai suoi tutto quel che poteva mettere insieme, mentre le altre sorelle badavano soltanto a ornarsi del loro meglio. Anche quel giorno era stato richiesto di nuovo il suo aiuto. Da poco tempo aveva mandato ai suoi quasi tutto il suo salario di tre mesi, perché una delle sorelle era tor­ nata a casa in brutte condizioni. Adesso il padre era as­ sillato da un debito non molto grosso ma urgente, e aveva fatto scrivere dalla madre al dragone perché cercasse lui stesso di racimolare denaro, oppure andasse a chieder soccorso a Regine. Naturalmente il soldato non aveva po­ tuto far nulla, gli era già abbastanza difficile integrare il suo soldo con piccoli prestiti. Perciò era venuto dalla so­ rella, sicché questa, oltre al cruccio di non potere in quel momento accontentare la richiesta, ebbe anche il rim­ pianto per le inutili spese di viaggio del fratello. Aveva quindi scritto alla madre che era assolutamente necessario ottenere una proroga di qualche settimana; non poteva subito chiedere altro denaro ai suoi padroni. Fin dal mattino, perciò, aveva deciso di rinunciare all’audace progetto di farsi fare quell’autunno un vestito di lana, da portare nei mesi freddi, come fanno tutte le ragazze pre­ videnti. Quando Erwin per la prima volta la udì parlare così a lungo, fu piacevolmente colpito dalla morbida mobilità

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della sua voce; infatti il discorso confidenziale, quanto più facilmente fluiva, tanto più prendeva un suono me­ lodioso, che forse nessuno in casa aveva mai udito, e che era in perfetta armonia con la bella figura. Ma ancor più lo commosse il pensiero che era assai facile rimediare ai guai della buona creatura; però per non spaventarla subito o metterla in sospetto tralasciò per il momento ogni offerta di aiuto e s’accontentò di qualche parola di con­ forto : le cose non sono sempre così gravi come sembrano, si troverà una via d’uscita, badi soltanto a conservarsi così buona e brava, eccetera. Il viso contristato di Regine si rischiarò a poco a poco, tanto l’insolito incoraggiamento era gradito alla sua anima solitaria, e certo dieci volte più benefico che se egli avesse subito tirato fuori la borsa e chiesto quanto le occorreva. L’incontro non si concluse tuttavia senza difficoltà; poiché quando la giovane, avvedendosi con sgomento dell’ora volata via, volle allontanarsi e aperse la porta, s’udì dalla scala un cicaleccio di voci femminili. Erano le altre serve di casa che andavano a dormire, e non parve consigliabile che Regine uscisse proprio in quel momento dalla camera dell’inquilino forestiero. Spaventata ella richiuse la porta e guardò il signor Altenauer sbiancan­ dosi un po’ in faccia, pressappoco come in una sera pri­ maverile il cielo è solcato da lievi baleni, ed Erwin senza parole ascoltò con lei il dileguare delle voci. In quel mo­ mento si guardarono e si accorsero di essere soli e di avere un segreto, sia pure innocente. Quando tacque ogni ru­ more, Erwin aprì piano piano e fece uscire l’alta e bella fanciulla con la sua lucernetta. Ella gli accennò un saluto guardandolo con occhi intelligenti e dolci, un po’ melan­ conici come sempre; c’era nel suo sguardo qualcosa di nuovo, di cui lei stessa era inconsapevole; ma la fiam­ mella della lampada avvampò chiara e intrepida nel ri­ scontro d’aria che soffiava sullo scalone, perché le ragazze passate poco prima avevano probabilmente lasciato aperto l’uscio delle soffitte. Non trascorsero molti giorni prima che Erwin riuscis­ se ad attirare di nuovo nelle sue stanze la fantesca con la

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sua lampadetta, e presto si stabilì l’abitudine che Regine ogni sera entrasse da lui per mezz’ora o un’ora, a volte prima che salissero le altre domestiche, e altre volte dopo; forse la clandestinità, il segreto condiviso, erano la mag­ giore attrattiva, che dava alla buona amicizia dei due giovani e alla gioia di stare insieme il carattere di un idillio. Regine poi aveva tanta fiducia nell’uomo sempre discreto e padrone di sé, che abbandonò ogni timore e si diede senza riserve al piacere di godere le brevi ore di una vita migliore. Essa era, se è lecito dirlo, abbastanza donna per essere cosciente del proprio aspetto leggiadro ; ma con tanto maggiore letizia accoglieva l’omaggio che un uomo costumato rendeva alla sua bellezza senza che lei fosse costretta a difendersi come una gatta spaventata. Quanto a Erwin, le tributava onore e rispetto, perché già coltivava il pensiero di prendersela in sposa toglien­ dola dall’oscurità e dal bisogno. Così vivevano in una pura aura umana, tanto felici quanto possono solo esserlo due creature di pari condi­ zione avvolte nel silenzio, nel segreto e nella solitudine. Regine godeva soltanto il presente, senza speranza per il futuro, Erwin era anche commosso dai lieti presagi di ciò che ancora gli era serbato. Quando, una sera, egli colse l’occasione per indurla a pensare solo ai genitori e all’aiu­ to da loro desiderato, e la costrinse a scrivere accludendo la somma necessaria, che per lui era un’inezia, ella obbedì con una segreta tenerezza nel cuore, non per interesse, ma perché il beneficio veniva da lui e non da un altro. Questa volta egli lesse la lettera, e vide che le frasi erano brevi e scarne, come usa scrivere la gente del popolo; ma non trovò un solo errore d’ortografia o di grammatica, e nemmeno contro il buon senso e lo stile. «Ma lei scrive come un attuario !» esclamò mentre un raggio di gioia gli rischiarava gli occhi. «Oh, abbiamo avuto un bravo maestro!» disse lei, lieta della sua lode «ma questo è niente, ho una sorella che scrive in un batter d’occhio lunghe lettere piene di sciocchezze ma senza il minimo sbaglio; magari facesse così bene nel resto ! » concluse con un sospiro. Erwin seppe

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più tardi che la sorella passava da un amore all’altro e non teneva la sua bellezza sotto il moggio. Anzi una volta era già tornata a casa con un bambino. Questa volta Regine s’era seduta per scrivere, cosa che nella stanza di Erwin non aveva mai fatto. Prese in mano un giornale americano che era sul tavolino e si provò a leggere. «Quello è inglese,» disse Erwin «lo vuole im­ parare? Poi potrà venire in America con me e sposare un uomo ricco ! ». Ella arrossì intensamente: «Impararlo mi piacerebbe» disse poi «e forse andrei anche in America, una volta o l’altra, se qui si starà troppo male». Erwin pronunziò qualche vocabolo; la fanciulla rise, ma si sforzò di cogliere quei suoni strani, e la sera stessa riuscì a ripetere esattamente una serie di parole e a impa­ rare l’alfabeto inglese. Allora egli le offrì di darle ogni sera una lezione in piena regola. Essa vi si applicò con diligenza non inferiore alla bravura; dopo due settimane appena, Erwin si rese conto che quella notevolissima ra­ gazza ignara di sé era in grado di imparare qualunque cosa senza perdere per un attimo la sua tranquilla umiltà. Chiuse di colpo il libro che leggevano insieme, le prese la mano e disse: « Cara Regine, non posso aspettare più a lungo. Vuole esser mia moglie e venire in America con me?». La fanciulla sussultò, impallidì e lo fissò come una morta. «Ora è finita,» disse poi, sorreggendosi il capo con le mani «ed ero così felice!». « Ma perché? Che cosa significa, cara bambina? Forse non ti piaccio, o vi è qualche ostacolo, qualche impedi­ mento?» esclamò Erwin, e involontariamente la cinse col braccio come per aiutarla e sorreggerla. Ma lei lo respin­ se risoluta e dolente, e si mise a piangere. Sia che la sua conoscenza del mondo, attinta a fonti volgari e torbide, le dicesse che era venuto il momento in cui l’uomo amato promette il matrimonio con cattive intenzioni, senza so­ gnarsi di mantenere la promessa; sia che stimasse suo dovere resistere a una proposta seria, non giudicandosi

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adatta a sposare un distinto signore; o sia infine che le condizioni della sua famiglia, forse peggiori di quanto ave­ va rivelato finora, la trattenessero dal legare a sé un uomo che viveva tranquillo e felice: essa comunque appariva smarrita, e scuoteva soltanto la testa. «Credevo che tu avessi un po’ d’affetto per me !» disse Erwin mortificato e stupito. «Ho fatto male,» esclamò lei singhiozzando «volevo per una volta avere un po’ di gioia e starmene qualche ora in pace con una persona che mi è tanto cara ! Non chiedevo di più. Adesso è finita, e me ne devo andare per sempre ! ». Si alzò di scatto, accese la lucerna e senza lasciarsi trattenere corse fuori e salì le scale così a precipizio che la fiammella si spense ed ella scomparve nel buio. Il giorno dopo, quando Erwin cercò d’incontrarla, era sparita an­ che dalla casa. Con una prudente indagine, egli venne a sapere che era partita alì’improwiso per il suo paese, e, poiché dopo parecchi giorni non era ancora tornata, prese una carrozza e l’andò a cercare. La trovò nella misera casa dei suoi, immersa in una profonda tristezza. Gli adulti, uomini e donne, lo guardarono a bocca aperta, come se fosse un turco ; ma egli si dichiarò subito e chiese Regine in sposa. E per dimostrare che faceva sul serio, volle sapere qual era la condizione della famiglia, e pro­ mise di soccorrerla senza indugio. Dopo aver capito le sue intenzioni ed essersi un poco ripresi dallo stupore, tutti s’affrettarono a spiegargli le loro faccende, sicché il vecchio dovette mandar fuori le donne, tranne Regine, perché facevano una gran confusione. Anche il figlio, ac­ canto al vecchio mutilato, si comportò assennatamente, e non sembrava una persona senza speranza. Risultò che il piccolo podere era gravato di ipoteche; per libe­ rarlo occorreva una somma che Erwin considerò trascu­ rabile; si trattava di affarucci di poco conto. Se egli dava loro per di più un capitaletto eguale o anche inferiore, la famiglia dei giganti avrebbe acquistato un insperato, mo­ desto benessere, e poteva sempre contare su altri aiuti da parte di Erwin. Questi promise inoltre di adoperarsi affin-

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ché i due figli sotto le armi, il cui congedo era imminente, trovassero un buon collocamento, in attesa che egli potesse meglio provvedere a essi; e quanto alle figlie, non s’immischiò nei loro affari, ma le raccomandò fra sé e sé alla divina provvidenza. Insomma tutto fu calcolato per il meglio, nell’àmbito delle possibilità umane. Regine assisteva in silenzio, e non parlò neanche quando Erwin l’aiutò a salire in carrozza e se la portò via fra le benedi­ zioni dei genitori. Solo quando i cavalli galoppavano già sullo stradone ella gli gettò le braccia al collo, e dopo tutte le pene sofferte godette della gioia che Erwin dimostrava per averla conquistata. Egli però non volle tornare nella nostra città, si fece portare alla stazione più vicina, e salì in treno con la fanciulla. Conosceva, in una delle città tedesche dove già era vissuto, una signora degna e intelligente, vedova di uno scienziato, costretta dalla necessità a dar vitto e al­ loggio a estranei. Anch’egli aveva abitato in casa sua. Si confidò con l’ottima donna, e decise di lasciare Regine per sei mesi presso di lei, affinché imparasse a vestir bene e le si sbiancassero le mani sciupate dal lavoro. Poi si se­ parò, a malincuore, dalla fidanzata, che pareva vivesse in un sogno, e ritornò nella nostra piccola città universi­ taria per terminare gli studi iniziati ; e così il tempo tra­ scorse finché, dopo meno di sette mesi, la bella e buona Regine si trovò seduta accanto a Erwin in una carrozza da viaggio, come sua legittima consorte.

Appena mandata felicemente in viaggio di nozze l’an­ tica fantesca, Reinhart s’arrestò un momento, e solo al­ lora s’accorse che non si sentiva più il ronzare dei filatoi; le due ancelle difatti, ascoltando le liete vicende di Regine, s’erano dimenticate di filare, e con gli occhi fissi sul narra­ tore tenevano il pollice e l’indice sospesi in aria senza far scorrere il filo. Forse l’una si stava figurando il bell’abito da viaggio della fortunata ragazza, l’altra ammirava col pensiero l’orologio d’oro appeso senza dubbio a una lunga catena. Quella pensava al meraviglioso momento in cui fosse capitato anche a lei di assumere la propria

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servitù, e si vedeva seduta su un sofà, occupata a scegliere fra un gran numero di aspiranti servette. Questa invece si riprometteva, trovandosi al posto di Regine, di acquistare subito sei paia di stivaletti, di materiale e cuoio finissimi, e con un brivido delizioso immaginava il giovane calzo­ laio scapolo venuto in casa a misurarle gli stivaletti, spe­ cialmente quel certo paio; e gli tendeva graziosamente il piede, pronta a donargli anche la mano appena quello sciocco si fosse deciso a chiederla. Ma no, com’era possi­ bile? Sarebbe stata già maritata, e allora come poteva sposare il giovane calzolaio? Eh già, lei non è Regine impalmata dal ricco americano, bensì la Bärbchen, po­ vera e zitella. Non è ricca e non può ordinare gli stiva­ letti ... insomma, è tutta impigliata nel filo delle sue fantasie, mentre Ännchen, la sua compagna, ha già as­ sunto tre cuoche e ne ha già licenziate due. Lucia disse allora: — Se siete stanche, figliole, mettete via i filatoi e andate a dormire. La straordinaria Regine s’è ormai messa a posto e probabilmente non le tocca levarsi di buon’ora come voi. Le graziose cameriere, svegliate dai loro sogni, s’alza­ rono subito e portarono via obbedienti i loro filatoi. Rivolta a Reinhart, Lucia riprese: — Non volevo che le buone ragazze udissero la fine o il rovescio della sua storia; giacché, da quanto posso supporre, ora lei darà addosso alla cultura, che avrà la col­ pa della catastrofe preannunziata, e io non desidero che le mie ancelle vengano aizzate contro la condizione della donna cólta. — Stavo proprio riflettendo — ribattè Reinhart con un sorriso — che agisco irragionevolmente e seppellisco i miei propri princìpi in materia, se termino il mio racconto e ne traggo le conclusioni. Forse lei dirà che non era la cultura giusta quella che cagionò il naufragio. La cosa migliore sarà che io le risparmi l’epilogo! — No, continui, è sempre istruttivo sapere che cosa i signori uomini ritengono auspicabile ed edificante per il nostro sesso; ho paura che non sia molto più profondo

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dell’ideale vagheggiato dalle nostre scrittrici di romanzi quando descrivono la figura dell’eroe o del primo amo­ roso, e per cui si fanno tanto spesso ridere dietro. — Lei dimentica che la mia storia non l’ho inventata io; non faccio che riferire una vicenda umana, la quale personalmente non mi tocca da vicino. — E allora s’attenga tanto più fedelmente alla verità, affinché possiamo poi esaminare il caso e discuterlo a fondo! — disse Lucia, e Reinhart riprese a narrare:

— Erwin Altenauer aveva celebrato le nozze così in se­ greto, che nella nostra città nessuno venne a saperlo; per­ fino gli antichi padroni di Regine e gli altri inquilini della casa non sospettarono nulla, e si credette che egli avesse terminato il soggiorno fra noi e fosse partito, come tanti altri forestieri. Circa un anno e mezzo dopo, io andai a vivere nella capitale, dove aveva sede l’ambasciata ame­ ricana. Mi servivo degli istituti locali per continuare i miei studi alquanto arbitrari e disordinati; d’altronde mi consideravo già superiore agli studenti comuni e frequen­ tavo solo gente di qualche anno maggiore di me. Ed ecco un giorno rispuntare il signor Erwin. Lo in­ contrai non so dove ed egli mi invitò a fargli visita. Aveva una casa ben arredata, addirittura splendente di buon gusto, e viveva in una pace silenziosa e profonda. Con mia sorpresa fui presentato alla consorte, una dama molto elegantemente vestita, e di magnifico aspetto. La ricca capigliatura era acconciata alla moda, la mano non troppo piccola ma ben modellata era bianchissima e adorna di antichi anelli di vario colore, monili di famiglia donati dai parenti di Boston. Avevo incontrato Regine una volta sola, quella notte in cui era assediata dagli stu­ denti sulla porta di casa; non l’avevo quasi veduta in faccia, né mai avrei potuto supporre di trovarmi davanti la povera serva, tanto più che il piccolo incidente m’era interamente uscito dalla memoria. Un’ombra d’impaccio nei movimenti, che era comparsa solo quando aveva in­ cominciato a vestirsi da signora, stava già scomparendo e sembrava più che altro il segno di una natura singolare.

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La giovane donna parlava inglese abbastanza correntemente, e anche un po’ di francese, quest’ultima lingua, anzi, meglio delle altre signore americane dell’amba­ sciata. Quando senti di dove venivo, gettò una rapida occhiata al marito, come per chiedergli in che modo do­ vesse comportarsi; ma lui non batté ciglio, e aneli’essa allora rimase impassibile. Erwin non si vergognava af­ fatto delle origini di sua moglie, ma voleva soltanto te­ nerle celate finché lei non fosse giunta a una perfetta sicu­ rezza e disinvoltura, così da potersi difendere contro le umiliazioni. Siccome però egli non poteva reprimere il bisogno di aprire l’animo con qualcuno, e anche per togliere al se­ greto ogni carattere sospetto, ben presto mi scelse per con­ fidente, e io rimasi non poco meravigliato di scoprire nel­ la singolare moglie del diplomatico la povera fantesca che a poco a poco riviveva nel mio ricordo mentre teneva si­ lenziosamente a distanza gli assalitori. Anche la signora ne fu contenta, perché ora aveva un’altra persona, oltre il marito, con la quale parlare di sé senza ritegno. Appresi anche lo strano metodo seguito sin qui da Erwin per integrare l’educazione della consorte. Innanzi­ tutto l’aveva portata a Londra, perché teneva special­ mente all’apprendimento dell’inglese. E per impedirle di compiere anche il più piccolo lavoro domestico, abita­ rono, come più tardi a Parigi, sempre in albergo ; ma an­ che lì egli doveva stare attento e impedire che riordinasse le stanze da sé o rifacesse i letti, o addirittura andasse dal­ le cameriere e dai cuochi a offrire il suo aiuto. Gli costò parimenti una certa fatica avvezzarla a trattare con mag­ gior riserbo i servi e gli inferiori, in modo che essa, senza offendere la dignità umana, imparasse a evitare l’ecces­ siva familiarità per potere un giorno più facilmente co­ mandare. Questo punto fu superato da entrambi non senza tribolazioni, perché, mentre Regine dimenticava sovente, e stentava a capire perché non le era lecito par­ lare coi suoi eguali di quello che li rallegrava o li afflig­ geva, Erwin pensava continuamente al tono compassato che s’usava in casa sua, e al posto che Regine era chiamata

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a occuparvi. Il rimpatrio imminente dominava tutti i suoi pensieri; in Regine egli sperava di portare oltre oceano una gloriosa immagine di femminilità germanica, che doveva piacere a tutti, e che un miracoloso destino aveva reso ancor più ideale. Se per tale buon successo voleva dir grazie non soltanto a un incontro fortunato, ma anche alla propria mano formatrice e amorosa, gli stava tanto più a cuore che anche nelle piccole cose l’ope­ ra riuscisse perfetta, e il proprio trionfo non fosse guastato nemmeno dal più trascurabile inconveniente. Si può dire, anzi, che, con tutto lo spirito di umanità e di libertà che lo animava, egli si mostrava tanto più gretto e timo­ roso nei particolari quanto più si sentiva sicuro nelle cose importanti ed essenziali. Un indubitabile frutto della propria abilità educativa egli lo colse inaspettatamente in tutt’altro campo. Du­ rante il loro soggiorno in Inghilterra teneva quivi con­ certi con immenso successo un famoso coro maschile ve­ nuto dalla Germania. Erwin, che non trascurava alcuna occasione di offrire alla moglie uno svago formativo, condusse Regine nella grande sala dove erano radunate migliaia di ascoltatori. Ella quasi non osava muoversi, seduta in mezzo alla folla di gente ricca e adorna, e non afferrò molto delle singole canzoni. Ma a un bel mo­ mento i novanta o cento cantori intonarono come un sol uomo, con meravigliosa chiarezza ed espressione, il motivo di un’antica canzone popolare tedesca, di cui Regine riconobbe ogni parola e ogni nota perché l’aveva cantata anche lei da ragazzetta e solo gli anni di servitù e le dif­ ficoltà della vita gliel’avevano fatta dimenticare. Ascol­ tando sospesa guardava il gruppo di uomini nerovestiti che emergeva come una scogliera oscura dal mare silen­ zioso e sfolgorante dell’uditorio, e quello che udiva era e restava la canzone della sua adolescenza, melanconica come la canzone stessa. L’applauso scrosciante che se­ guì l’ultima nota la svegliò da un raccoglimento simile al sogno, e solo allora ella guardò sorpresa il marito, come chiedendogli una spiegazione. Egli le indicò il testo del programma che Regine teneva in mano senza averlo

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guardato fino allora, e, davvero, la canzone era 11 stam­ pata parola per parola. Mentre tornavano all’albergo ella incominciò a can­ tarla nell’oscurità della carrozza e, quando Erwin, lieto di quell’impulso gentile, le prese la mano, ella domandò come mai una semplice canzone di poveri contadini ve­ niva cantata così lontano dalla patria ed era applaudita da un pubblico tanto elegante. Ancora più soddisfatto di quella domanda egli rispose che la ragione del feno­ meno era la stessa per cui anche lei, figlia del popolo, gli piaceva tanto ed aveva conquistato il suo amore. Poi le spiegò alla svelta i punti essenziali della questione; ma il giorno dopo andò in cerca di un libraio tedesco che, gli avevano detto, comprava e vendeva anche opere antiche, e 11 trovò la nota raccolta intitolata Des Knaben Wunderhorn.1 Le insegnò a cercare la canzoncina nei vo­ lumi ben rilegati, ed ella la trovò e la lesse con un certo orgoglio fra le centinaia di canzoni simili e ancora più belle. Lesse anche quelle e non posò il libro prima di aver­ lo finito, ritornando a certe canzoni anche due o tre volte. Cosi accadde questo fatto bizzarro, che un’ignorante fi­ glia del popolo leggesse con attenzione e godimento una grossa raccolta di canzoni in un’epoca nella quale neppure le persone cólte son capaci di tanto. Poiché era innamora­ ta senti come mai prima il bell’ardore della passione, qual era espresso in quei canti, e ne godette con tutta la beatitudine di chi riposa sicuro fra braccia amorose. Erwin colse il momento buono e andò a prendere le li­ riche giovanili di Goethe. Prima le mostrò quelle che il poeta aveva raccolto dalla viva voce del popolo e rican­ tato a suo modo; poi lesse con lei una dopo l’altra quelle che erano uscite dal suo sangue, e raccontò alla donna, a lui teneramente stretta, le storie relative. Come sul ponte aereo d’un arcobaleno ella passò dal Wunderhorn al boschetto luminoso di verdi aceri primaverili, e anzi non passò molto tempo che ella si fece la sua lettura da sé, I. Des Knaben Wunderhom·. titolo della celebre raccolta dei canti popolari tedeschi pubblicata da Achim von Amim e Clemens Brentano fra il 1806 e il 1808.

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e il libro rimase sempre sul suo tavolo, come se lei fosse una dama del passato, raffinata e ricca di ricordi ; eppure viveva tutto quel che leggeva con il sangue caldo della giovinezza, ed Erwin le baciava sugli occhi e sulla bocca i segni nascenti di uno spirito nuovo. Non è possibile annotare ogni sentiero e ogni ponticello sul quale Altenauer conduceva verso la conoscenza la soave sua donna, non come un precettore, ma come un at­ tento e grato scopritore di tante piccole, fortunate com­ binazioni. A Parigi, dove la condusse in seguito, si tratta­ va soprattutto d’imparare con gli occhi, e giacché egli stesso vedeva molte cose per la prima volta, apprese in­ sieme con lei e le spiegò con tutto l’agio ciò che man ma­ no scopriva. Ella assorbiva avidamente da lui ogni novità, e la serbava con cura, come una giovinetta i fiori dell’in­ namorato. E le piccole cose che questa giovinetta avreb­ be dovuto imparare a scuola, per esempio capire una carta geografica, e così via, venivano da sé, casualmente, senza perdita di tempo. Per il momento, però, non era possibile stabilire un’ordinata connessione fra le varie materie; e talvolta Erwin si preoccupava perché Regine era pronta, sì, a udire qualunque ammaestramento dalla sua bocca, ma non voleva mai imparare da sola. Non riusciva a studiare per conto suo neanche poche pagine di storia o di filosofia, e i libri di quel genere li lasciava ben presto cadere. Tuttavia, dal momento che le cose finora erano andate a gonfie vele, egli sperava di giun­ gere ai risultati essenziali finché vivevano ancora in Germania, e, diventando nella sua felicità sempre più de­ sideroso di compiere splendidamente la propria opera educativa, accampò pretese molto più audaci di quanto aveva osato prima. Fu a quel punto che incontrai la strana coppia e quando ne seppi l’innocente segreto presi il più vivo interesse al suo destino e alla sua riuscita. La giovane sposa, nonostante gli straordinari eventi della sua vita e la fortuna che le aveva arriso, era la modestia in persona, semplice, amabile e in pari tempo schietta come un cucciolo. Come un fulmine a ciel sereno giunse da Boston una

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notizia in seguito alla quale Erwin, senza perdere un giorno, dovette partire per l’America, essendo necessaria la sua presenza per definire certi affari da cui dipendeva l’avvenire di tutta la famiglia. Si accinse subito al viag­ gio, ma dopo qualche esitazione stabili che Regine do­ veva rimanere in Germania per i due mesi della sua as­ senza. Erano appena incominciate le bufere autunnali, e già aveva avuto notizia di disastri accaduti in mare e di navi affondate. Per nulla al mondo avrebbe esposto la vita e la salute di sua moglie ai pericoli di una traversata ; invano ella gli cadde ai piedi e pianse come una bambina scongiurandolo di portarla con sé, di non lasciarla sola; appena egli contemplava il viso e la figura di lei, rabbri­ vidiva immaginando la bella creatura fra gli orrori di un naufragio, e, per quanto gli fosse amara la temporanea separazione, preferiva subirla che lasciar correre un ri­ schio evidente alla creatura diletta. «Vedi, bimba mia,» le disse accarezzandole dolce­ mente la gota «fa parte della vita imparare ad accettare una dura necessità e a nutrirsi di speranza. Ci accadrà molte altre volte, e dunque facciamoci coraggio e affron­ tiamo la prima prova ! ». Lo confortava, nascostamente, il pensiero di poter dare l’ultimo tocco alla sua opera prima di portare a casa la sposa; la vanità umana spesso si mescola ai pensieri più nobili e conferisce loro un’ostinazione che altrimenti non avrebbero. Erwin partì dunque senza indugio per imbarcarsi sul primo vapore diretto in America, e se ne andò tanto più tranquillo in quanto era persuaso di lasciare la moglie fra buoni conoscenti, in una casa provvista di domestici bravi ed esperti. Giunse in patria sano e salvo ; ma gli affari non si districarono così in fretta com’egli aveva sperato, e pas­ sarono tre quarti dell’anno prima che potesse ritornare in Europa. Durante quel periodo Regine aveva però go­ duto più che bastevole compagnia. C’erano innanzitutto tre signore, che il marito le aveva permesso di frequentare perché godevano fama di bella e vasta cultura; infatti dovunque vi fosse qualcosa da vedere o da sentire esse si

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trovavano in prima fila; e onoravano e proteggevano chiunque facesse parlare di sé. Solo più tardi venni a sa­ pere che in certi circoli le chiamavano, già allora, le tre Parche, perché finivano per tagliare il filo della vita a tutto ciò che si prendevano a cuore. Erano sempre in mezzo al rumore, al movimento, all’agitazione; tutt’e tre avevano mariti indifferenti e autonomi che non si cura­ vano di loro. Sebbene le tre signore non fossero più molto giovani, s’abbracciavano a ogni incontro con tra­ volgente entusiasmo, si baciavano appassionatamente e si chiamavano l’un l’altra «bimba cara» e «angelo mio»; avevano anche inventato per sé graziosi nomignoli, e una si chiamava la Gazzella di Velluto, l’altra Cappuccetto Rosso, la terza la Piccola Ape; la prima perché aveva lo sguardo vellutato dell’animale in questione, la seconda perche aveva sostenuto quella parte in un quadro vivente, l’ultima perché non poteva vedere un fiore di giardino o’ di serra senza toccarlo o farselo dare. Nonostante quelle innocenti romanticherie, v’erano persone maligne se­ condo le quali le tre Parche parlavano fra loro un lin­ guaggio volpino e demoniaco, un po’ come i vecchi stu­ denti, soprattutto da quando a dimostrare la loro intel­ ligenza avevano accolto nel loro consorzio una giovane pittrice che era già stata di tutte le scuole. Anzi si doveva dire un giovane pittore, perché scalciava come un asino se la si chiamava pittrice. L’armonioso suffisso col quale la nostra lingua tedesca definisce la donna in ogni classe, professione e condizione di vita, conferendo al concetto un suo afflato e un suo splendore poetico, le era odioso come il veleno, e avrebbe voluto distruggere le due lettere esecrate.1 Se invece si anteponeva al nome della sua pro­ fessione gli articoli maschili «il» e «un», lei se ne beava come di una musica. Portava sempre un cappelluccio di feltro spelacchiato e faceva applicare su tutti i vestiti due grandi tasche dove affondava le mani come un monello di strada. Tale specie di pervertimento mi ricorda sempre i. Molti sostantivi maschili tedeschi formano il femminile con 1 aggiunta del suffisso «in». Per esempio il femminile di «Maler» (pittore) e «Malerin» (pittrice).

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la leggenda medioevale dell’imperatore Nerone. Le pazzie veramente compiute da costui non sembrando abbastanza scellerate, per aggiungere il tratto più esecrabile che si po­ tesse immaginare la leggenda inventò la storia della sua smania di cambiare sesso. Nerone s’era fitto in capo di restare gravido e partorire un bimbo, e sotto pena di morte aveva comandato a settantadue medici di fargli conseguire lo scopo. Costoro non trovarono altro espe­ diente che prescrivere al mostro una pozione magica. E poiché il diavolo non può creare nulla di reale, ma sol­ tanto vuoti inganni, Nerone era, sì, diventato gravido con sua grande gioia, però aveva partorito dalla bocca nient’altro che un grosso rospo. Anche della bestiola era rimasto soddisfatto, e pieno di vanità esigeva d’esser chia­ mato «Domina» e «Madre». Poi fece preparare un gran­ de attendamento per celebrare nei tripudi la nascita. La nutrice, vestita di seta verde ricamata d’uccelli d’oro, venne messa col piccolo in grembo su una carrozza d’ar­ gento che cento re di lontani paesi furono costretti a se­ guire, oltre a innumerevoli dignitari, sacerdoti e guerrieri. E così il corteo aveva incominciato a snodarsi verso l’ac­ campamento, fra echeggiare di trombe, flauti e tamburi. Ma, mentre la carrozza attraversava un ponte gettato su acque limacciose, il rospo fiutò la bella palude e saltò giù dal grembo della nutrice, scomparendo per sempre. In tal modo la leggenda intendeva marchiare d’infamia l’imperatore Nerone, e alla favoletta seguiva immedia­ tamente la rovina del tiranno. In realtà la mania di appropriarsi gli attributi dell’altro sesso ha sempre qualcosa di neroniano; voglia il cielo che ogni volta il rospo scompaia nella palude ! La pittrice possedeva più abiti maschili che femminili; e, se i primi non li poteva portare di giorno, tanto più spesso li indossava per gironzolare di notte, e si diceva che ora la Gazzella, ora Cappuccetto Rosso, ora la Piccola Ape, a dispetto della crescente corpulenza, si compri­ messero a volte in simile abbigliamento per compiere scorribande notturne e come uomini liberi mescolarsi col popolo e accontentare la loro insaziabile curiosità.

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Un giorno Erwin aveva condotto la moglie in una sala pubblica, dove un giovane scienziato teneva una serie di interessanti conferenze, nella speranza che ella potesse raccogliere qualche briciolo di saggezza e che le porte della cultura scientifica le si schiudessero un tantino di più, almeno tanto da gettarvi uno sguardo. Entrati nella sala non trovarono un posto tra il pubblico più modesto e furono costretti ad avanzare verso la cattedra, dove siedono sempre quelle stesse persone che amano mostrarsi ih prima fila. Lì infatti brillavano e si sbracciavano pro­ prio sotto gli occhi dell’oratore le tre vanesie, che però si strinsero premurose e amabili per far posto fra loro alla bella forestiera, ed Erwin, lieto di aver ben collocato Regine, si ritirò nel vano di una finestra. Già da molto tempo le tre Parche avevano adocchiato la dama miste­ riosa e profittarono dell’occasione per far conoscenza, anzi amicizia con lei, giacché uno dei modi in cui s’esprimeva la loro vanagloria era di entusiasmarsi per donne belle o in altro modo interessanti, e circondarle davanti a tutti dei loro omaggi senza invidia. Dal suo posto Erwin ve­ deva con soddisfazione la moglie in così buona compa­ gnia, e, quando andò a riprendersela dopo la conferenza, accettò riconoscente l’invito delle signore per un pros­ simo incontro. Quando, poco tempo dopo, fu decisa la sua partenza, egli considerò, come ho già detto, un caso fortunato che Regine avesse fatto conoscenze così stimo­ lanti nel campo della cultura, e la esortò a coltivarle con zelo : ella ubbidì con ingenua fiducia, sebbene tutta quella loquacità e agitazione, e quel modo di vivere, l’avessero messa, almeno in principio, alquanto a disagio. Intanto l’avevo perduta di vista, o almeno non mi ero più incontrato con lei. Secondo la promessa fatta a Erwin ero andato due o tre volte a trovarla, per offrirle i miei servizi in caso di bisogno. Fin dalla prima visita incontrai là due delle tre vanesie; dovetti starle a sentire mentre cercavano di affidare a Regine un banco di vendita nel prossimo bazar di beneficenza e già discutevano sull’abito da farle indossare. Ma per quella volta non riuscirono a vincere la sua modestia. In seguito non la trovai più in

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casa. L’anziana cameriera si lamentò che le signore ve­ nivano a portarla via sempre più spesso, eppure bisognava in certo qual modo rallegrarsi di ogni distrazione, perché quando era sola la signora invocava il ritorno del marito e piangeva come se l’avesse perduto. Un giorno capitai per caso in una cosiddetta esposi­ zione permanente di quadri. Che cosa vedo appena en­ trato? Il ritratto a mezzo busto di Regine, di grandezza maggiore del naturale, in atteggiamento fantasioso, con chiome attorte da una grossa fila di perle e acconciate in modo teatrale, la nuca scoperta e un gran manto di ermellino e velluto rosso, cioè pelle di gatto e peluche da mobili; il tutto dipinto con apparente arditezza, come la ottengono spesso o almeno la simulano certi imbratta­ tele, a prezzo d’infinita fatica, facendo e disfacendo con pavida mano. Naturalmente lo «Studio di figura» era opera della pittrice, e le Parche a furia di chiacchiere avevano indotto Regine a posare per lei nel suo studio. Non posso dire se sapessero già che l’artista avrebbe esposto e venduto il quadro; Regine a ogni modo non lo sapeva, come mi assicurò la cameriera quando andai per parlarle e trovai solo quest’ultima. Avevo saputo, infatti, che il ritratto era stato acquistato da un mercante per essere inviato in America. La storia non mi piacque affatto, e rimasi in dubbio se scrivere a Erwin Altenauer oppure no. Il fatto era che le tre vanesie nonostante il loro bizzarro contegno avevano fama di signore per bene, e probabilmente lo erano; e menavano gran casa. Il marito della Gazzella era commerciante all’ingrosso di alcool combustibile, quello di Cappuccetto Rosso era consigliere della corte di giustizia e aveva ben quattordici scrivani sotto di lui, e il consorte della Piccola Ape sopraintendeva alle qua­ ranta scuole femminili della regione, per di più pubbli­ cava una gigantesca crestomazia poliglotta ; tutto ciò era garanzia di onorabilità, mentre io non ero che uno stu­ dente sconosciuto e inesperto. Sicché non vidi più la buona Regine, se non ogni tanto in un palco di teatro con le sue protettrici, che raggiavano

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di piacere quando per mezzo della bella amica potevano attirar su di loro l’attenzione di tutto un pubblico. Rice­ vevano anche parecchie visite maschili. La prima volta Regine mi parve triste e abbattuta ; la seconda, però, sem­ brava che cominciasse a sciogliersi, a dimostrare una cre­ scente serenità e sicurezza di contegno. Forse, pensai, è proprio quello che Erwin desidera, e le tre oche non com­ bineranno alla fine niente di male. Un’ultima volta, prima del ritorno di Erwin, parlai in confidenza con sua moglie e anzi la vidi per tutta una gior­ nata. Era venuto il mese di giugno con la più splendida temperatura estiva. Un giorno ella mi pregò con una gra­ ziosa letterina di andarla a trovare, e quando giunsi mi informò che le sue amiche con i loro amici avevano combi­ nato una lunga gita in campagna, da farsi con la carrozza. Ora, la cosa non le piaceva troppo, e desiderava almeno che vi partecipasse un buon conoscente e amico di suo marito e della sua casa, perché con alcuni della compa­ gnia era poco in confidenza, né le erano particolarmente graditi. Le sembrava di agire come sarebbe piaciuto ad Altenauer, poiché sapeva che egli mi stimava molto, ec­ cetera, eccetera. Perciò aveva annunziato senz’altro che io sarei stato il suo accompagnatore e ora mi pregava, se volevo usarle la cortesia, di ordinare una carrozza e di andare a prenderla all’ora fissata per recarci insieme al luogo di riunione. In parte però avevano contrariato il suo desiderio eleggendomi a cavaliere della giovane pit­ trice, al che mi consideravano straordinariamente adat­ to; ma lei, Regine, sperava che ogni tanto mi sarei libe­ rato per chiacchierare un momentino con lei. Io accettai con gioia, risoluto a togliermi immediata­ mente dai piedi quella pittrice da strapazzo e a starmene con la signora Altenauer. Quando passai a prenderla, mi sentii molto orgoglioso di sedere in carrozza al suo fianco; aveva un abito d’estate chiaro e vaporoso, ed era accon­ ciata semplicemente ma irreprensibilmente in ogni par­ ticolare. Non stava rincantucciata nell’angolo della vet­ tura, bensì sedeva diritta in atteggiamento pieno di gra­ zia reggendo il parasole, mentre la pittrice che più tardi

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ci appiopparono si arrovesciò subito indietro accavallando le gambe. Anche le altre signore, quando giungemmo al luogo del raduno, portavano allegri vestiti estivi, bianchi o colorati; e gli uomini pure, con l’aiuto della moda, s’erano dati l’aspetto più pastorale ch’era possibile. Solo la pittrice sembrava una cornacchia; aveva messo un vestito sconsolatamente scuro, meschino e sciatto, nel­ l’irritante intenzione di respingere da sé la grazia femmi­ nile e la gioia della primavera. Invece del solito feltro, però, portava un copricapo di paglia, ma tinto di nero, in stridente contrasto con i bei cappelli di paglia di Fi­ renze che adornavano le altre signore. Non si vedeva né un ricciolo né un’onda; i capelli tagliati circondavano le orecchie e la nuca come una ghirlanda di porri. Saranno tempi ben melanconici, se accadrà mai che con le vesti chiare e i boccoli leggeri di donne e fanciulle la letizia primaverile scompaia dal mondo ! La compagnia mi accolse cortesemente, ma, poiché nel­ la mia carrozza c’era più posto del necessario, ci appiop­ parono, come ho già detto, la pittrice, informandomi che era affidata alle mie cure. Quando partimmo e le car­ rozze rotolarono sulle strade campestri, il pittore senza indugio tirò fuori di tasca un pezzo di pane e due mele e cominciò a rosicchiare; perché, ci disse, non aveva ancora fatto colazione, e la mattina mangiava sempre pane e frutta, cioè il cibo che costava meno. Non lo faceva per povertà ma per avarizia ; infatti era molto abile nel guadagnar denaro, e da quando i soldi affluivano non si curava più di studiare. Ma per concludere affari s’in­ sinuava dappertutto con molta sfacciataggine, e tornava a pretendere il riguardo dovuto al suo sesso. Quel pasto di mele crude, durante il quale essa sputava tranquilla­ mente torsoli e semi fuori della carrozza, m’irritò a tal punto che risolsi di levarmela al più presto di torno. Co­ minciai un discorso sulle pittrici in generale e su qualche bizzarra figura in particolare, e lodai segnatamente coloro che accanto alla fama nell’esercizio delle belle arti ave­ vano anche saputo procacciarsi la gloria imperitura di rappresentare un’ideale immagine femminile, sia nella

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sorte lieta sia in quella tragica. Alla fine descrissi la deli­ ziosa impressione che mi aveva procurato l’autoritratto di Angelika Kauffmann, quel viso fiorente con i bei ric­ cioli folti cinti da una ghirlanda d’edera, il corpo avvolto in una veste bianca, e compii entusiasticamente la figura mettendola all’armonica di vetro, gli occhi rivolti al cielo, e raggruppandole intorno il fiore della nobiltà romana, intenta a ascoltare i suoni patetici.1 «Quelli sono tempi passati»* m’interruppe la pittrice «adesso noi artisti abbiamo altro da fare che percuotere vetri e civettare con ghirlande d’edera in testa!». «Lo vedo bene,» dissi io con un sospiro «ma erano tempi più belli!». Appena la carrozza fece la prima sosta, quel mostro snaturato (per adoperare un bel termine maschile) saltò giù e si mescolò agli altri gitanti senza più degnarmi di un’occhiata. Ma la faccenda non era per nulla risolta. Proprio mentre Regine si rallegrava di esser stata liberata della pittrice, per la quale aveva un’irresistibile avversio­ ne, arrivarono le Parche e le presentarono il cavaliere che le avevano destinato, un giovanotto dell’ambasciata bra­ siliana, con un lungo tìtolo di conte fatto di una filza di parolette; egli stesso era lungo e sottile come un’antica lancia da cavaliere, nero come la pece e pallido, con un bellissimo naso diritto e occhi di fuoco. Era l’ultima pas­ sione delle tre Parche e, poiché aveva chiesto di essere presentato alla bella Regine, esse s’erano affrettate a por­ tarlo lì, nella speranza di potersi pavoneggiare insieme a due esemplari così interessanti. Come padrone della carrozza dovetti naturalmente ce­ dere all’ospite il posto accanto alla mia dama, che ormai diventò la sua. Del resto egli si comportò con la massima proprietà, perfino troppo seriamente a mio parere, perché se ne potevano dedurre intenzioni audaci e lungimiranti. Regine, per conto suo, era silenziosa; rispondeva però I. Angelika Kauffmann (1741-1807) : pittrice svizzera; visse a lungo a Londra, poi si stabilì a Roma, dove il suo salotto fu frequen­ tato dai più noti personaggi dell’epoca, fra cui anche Goethe, a. In italiano nel testo.

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ai suoi discorsi con. tranquillità e correttezza, e poiché il brasiliano non sapeva affatto il tedesco, e non meglio di lei l’inglese e il francese, la conversazione rimase per forza entro limiti modesti. La meta della passeggiata era la fattoria annessa a un castello principesco, dove si fa­ ceva un’ottima cucina per i gitanti cittadini, e i prati, i viali, i boschetti del giardino contiguo erano a disposi­ zione della clientela. Dopo la colazione, che facemmo tutti insieme, la brigata si sciolse per il resto della mat­ tina, sciamando qua e là e disperdendosi nei meravigliosi giardini. Ma Regine non mi permise di muovermi dal suo fianco ; trovava sempre modo di chiamarmi e di tenermi occupato, e poiché era manifesta la sua volontà che non il brasiliano ma io dovessi essere il suo cavalier servente, il conte si tirò un poco indietro con la maggior buona grazia del mondo, senza dare nell’occhio; si unì ad altri gruppi che incontrava, ogni tanto ritornava per scam­ biare qualche parola garbata, poi s’allontanava di nuovo come se gli premesse di trovarsi anche altrove. D’al­ tronde ebbe il suo bel da fare ; ad esempio gli toccò rab­ bonire un giardiniere che gridava perché la Piccola Ape aveva già còlto senza complimenti in una serra due o tre splendidi fiori, sebbene l’aria fosse carica di profumi, e il suolo splendente di colori. Improvvisamente Regine mi afferrò il braccio e con pas­ so rapido mi condusse in disparte, finché giungemmo su viottoli ombrosi e più solitari. Lì ella mi aperse tutto il suo cuore : aveva atteso con impazienza quel giorno per poter parlare di Erwin fino a saziarsene. Le altre signore, disse, non accennavano mai ai loro mariti, e anche di Er­ win non s’occupavano se non per fare ogni sorta di do­ mande e soddisfare la loro curiosità intorno a cose di cui non avrebbero dovuto impicciarsi. Sicché lei preferiva tacere. Con me invece, suo buon amico e compatriota, voleva sfogare tutto quello che aveva nell’anima. Co­ minciò dunque a parlare di lui, mi disse che anelava al suo prossimo ritorno, e quanto era buono e caro, anche nelle lettere che le scriveva; descrisse le sue peculiarità, di cui non sapeva se fossero comuni anche ad altri signori

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ricchi e istruiti, ma che ella non avrebbe cambiato per tutto l’oro del mondo ; e volle sapere se io conoscevo bene Erwin, anche prima che loro due s’incontrassero. Non credevo che allora egli fosse più felice di adesso? e mille altre cose. A forza di parlare si agitò tanto che affrettò il passo, e quasi correva, come se lo cercasse e sperasse di trovarlo, e così giungemmo senza avvedercene a uno spiazzo assolato che aveva al centro una fontana. Nel mezzo c’era una vasca piatta, dorata, dalla quale l’acqua si riversava su un gran mazzo di fiori freschi, così dolce e regolare e silenziosa che i bei fiori sembravano posti sotto una campana di vetro quietamente fluente, accarezzata dai raggi di sole. Regine non aveva mai visto quei giochi d’acqua. «Quant’è bello!» esclamò arrestando il passo; «come si può mai produrre quest’illusione?». Meccanicamente si sedette su una panca di fronte al gentile miracolo, e lo contemplò assorta. Un sorriso beato le scherzava sul labbro, così lieve come l’acqua sui fiori, e si vedeva bene che la viva campana di cristallo che pro­ teggeva così fedelmente le rose aveva riportato i suoi pen­ sieri al marito lontano. Mentre le stavo accanto e la os­ servavo pieno di simpatia senza che ella badasse a me, mi sentivo profondamente commosso. Non avrei mai creduto che vi potesse essere una gioia così pura come quella di ammirare l’amore di una donna gentile per un altro uomo e augurarle la più piena felicità. Ma impercettibilmente m’avvidi che la serena con­ templazione si trasformava pian piano, per dar luogo a una melanconia sempre più cupa. Le labbra rimanevano dischiuse, com’erano state nel sorriso, ma l’espressione era afflitta. Il capo s’abbassò un poco, come in profonda me­ ditazione, e alla fine grosse lacrime le caddero dagli occhi. Perplesso la svegliai da quello stato permettendomi di toccarle leggermente la spalla e di chiedere quali tristi pensieri le passavano per la mente. Ella trasalì spaventata, cercò di riprendersi, e dalle poche parole che balbettò compresi che prima l’aveva còlta la nostalgia del marito e poi il dubbio sulla saldezza e la durata della sua felicità. Mi sforzai di toglierla con qualche parola scherzosa e

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incoraggiante dalla sua strana mestizia. Infatti ella ridi­ venne naturale e tranquilla e quando, ripreso il cammino, incontrammo il brasiliano che ci cercava per accompa­ gnarci alle mense già apparecchiate sotto gli alberi, trattò amichevolmente anche lui. Trascinata dal conte­ gno premuroso e modesto del bel cavaliere, parve desi­ derosa di riparare alla durezza di prima e accettò il suo braccio per il breve tratto che dovemmo percorrere fino al luogo dove si pranzava, anzi gradì la sua compagnia e i suoi servigi a tavola, favore del quale egli si valse con irre­ prensibile discrezione. Regine non volle invece prendere parte ai giochi, ai salti, alle corse, a tutti i divertimenti ru­ morosi che ebbero inizio dopo mangiato, e di nuovo mi sequestrò apertamente, il che, con tutta l’amicizia e la simpatia che sentivo per lei, cominciava però a umiliarmi un poco, giacché mi pareva d’essere il giovane cugino insignificante che un’altera fanciulla si porta dietro come schermo. Alla merenda, che fu servita più tardi tra la rin­ novata allegria, ella partecipò e offrì con le sue mani caf­ fè e torte al solito sudamericano. Quando poi venne l’ora della partenza fui costretto a invitare di nuovo il signore nella nostra carrozza, tanto più che fra gli altri gruppi erano sorte varie tensioni. Specialmente le vanesie erano imbronciate tutte e tre, per quale motivo non saprei di preciso; udii soltanto uno dei signori osservare a mezza voce che quella era la conclusione inevitabile di tutte le gite organizzate da loro. Ad ogni modo m’era sembrato di no­ tare più di una volta, nel corso della giornata, una certa agitazione e scontentezza che venava l’allegria, così come un soffio di vento trema e stormisce tra le foglie appassite, oppure come dice la canzone della brigata di uomini e donne che naviga in gondola sulle acque tranquille: Il cuore batte inquieto e greve L’occhio non guarda là dove deve! e la sola Regine, fra tutti, appariva serena. Del sole calante, che così bene vedevamo dalla car­ rozza, e del suo lento crepuscolo che fa lieti e loquaci i fanciulli e le donne del popolo, ella godette intensamente ;

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chiacchierava fitto, e disse in un’ora più che non avesse detto in tutto il giorno; solo quando fu buio e le stelle si accesero a una a una, divenne silenziosa e finì col tacere del tutto. Il conte mi bisbigliò in francese che forse Madame s’era addormentata; ma lei esclamò allegra: «No, no, che non dormo!». E quando ci fermammo infine davanti a casa sua, dopo che la compagnia si era sciolta senza molti convenevoli, e la consegnammo al gruppetto dei suoi do­ mestici che l’aspettavano nell’androne coi lumi, ella strinse a entrambi cordialmente la mano, con l’aria di avere ripreso fiducia nella vita e nel mondo. Il brasiliano e io eravamo non meno soddisfatti, da gente assennata e perbene che si porta seco una buona impressione, e decidemmo di sostare insieme in un’osteria famosa per godere ancora di un buon bicchiere e di un buon sigaro. Bevemmo alla salute della bella signora con espressioni d’elogio ; il conte era un conoscitore tranquillo e corretto, e io l’imitai magnificamente, dopo di che cam­ biammo argomento e ci demmo alla contemplazione della spensierata vita notturna. Ma il sudamericano, poco abi­ tuato al vino, non faceva molto onore alla bottiglia; io do­ vetti fare la parte più grossa, e così, terminato il sigaro, ci separammo che non erano ancora le dieci. Il conte dagli occhi neri se ne andò a casa; io invece, lo confesso a disdoro dei miei anni giovanili, mi affrettai verso una bir­ reria dalla volta bassa e fumosa dove giovani tedeschi che avevano finito l’università si svezzavano con lentezza e prudenza dal bruno latte degli studenti. Il giorno dopo mi parve opportuno fare una visita alla signora Regine. Quando sonai alla sua porta mi aprì l’anziana cameriera o governante, o come si voglia chia­ mare colei che adempiva ai due uffici. Ella mi osservò con un viso serio che mi stupì e mi mise a disagio, e al tempo stesso sembrava divorata dalla curiosità. Mi scrutò dalla testa ai piedi e dai piedi alla testa e alzò gli occhi anche più in alto come se cercasse qualcosa lassù nel­ l’aria. Senza rendersene conto crollò il capo, ma inghiot­ tì le parole che stava per dirmi e m’indicò seccamente la

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stanza dove stava la signora. Lì il mio stupore crebbe, anzi divenne spavento. In pieno contrasto con l’aspetto fiorente che le avevo veduto il giorno prima, ella sedeva alla finestra come annichilita, e a stento riuscì ad alzarsi quando entrai; ricadde poi subito sulla seggiola. Il suo volto era livido, sciupato dalla veglia e spaventato, quasi atterrito ; gli occhi guardavano incerti e spauriti, ed ella trovò appena la voce per rispondere al mio saluto. An­ sioso e quasi altrettanto afono le chiesi come stava. «Veramente non molto bene» rispose con un sorriso stanco e sforzato che veniva da un’autentica disperazione. Ma non cercò di aggiungere una parola di spiegazione, e dopo una breve conversazione disordinata, durante la quale ella sorvegliò timorosamente sé e me, mi accomiatai e ritornai a casa nella più strana disposizione d’animo che si potesse immaginare. Mi sentivo infatti sconcertato e a disagio, senza potermi spiegare perché preferivo stare solo. Ma non avevo ancora passato un’ora sui libri, che udii bussare alla porta, e la governante di casa Altenauer entrò, posò accanto alla porta la cesta della spesa e, chie­ dendo brevemente licenza, si sedette su una seggiola poco lontana, contro il muro. «Lei è ancora molto giovane,» prese a dire «ma co­ nosce i miei signori da molto tempo, e so che il padrone la stima. Perciò non ho potuto trattenermi, e vengo a con­ fidarmi con lei, nella speranza che possa darmi consiglio per risolvere il dubbio che mi opprime». Sempre più stupefatto e turbato le chiesi di che cosa mai si trattava. Dopo aver ripreso fiato, ancora esitante e circospetta, ella disse: «Ieri sera, mentre ero nella mia camera, che è fuori dell’appartamento, su un altro pianerottolo, e ram­ mendavo un grembiule, saranno state le dieci passate, udii suonare piano piano all’uscio di casa, così che la cam­ pana rintoccò una sola volta. Tesi l’orecchio; poi udii girare la chiave dall’interno e aprirsi la porta, ma nello stesso tempo intesi un grido, o un’esclamazione, mezzo soffocato. Allora uscii dalla mia stanza per vedere cosa succedeva a così tarda ora. Ma in quel momento un ri-

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flesso di luce sparì, la porta fu chiusa e la chiave girata due volte. Mi avvicinai ancora per ascoltare, poiché ero un po’ impensierita. Sentii solo un leggero scalpicciare di passi, un’altra porta che si chiudeva nell’alloggio, poi più nulla. Finii col pensare che doveva essere la cuoca o la cameriera più giovane, con qualche ambasciata o ri­ chiesta. Ritornai dunque in camera mia e poco dopo mi coricai. Prima dell’alba mi svegliò il breve latrato di un grosso cane che i signori del piano di sopra tengono in an­ ticamera. Udii di nuovo una porta che s’apriva ; vivamente inquieta mi alzai in fretta, dischiusi un po’ il mio uscio e guardai fuori. Un uomo alto, più alto di lei, signor Reinhart, andava verso la scala con passo pesante, ben­ ché cercasse di camminare in punta di piedi. Non potei vederlo chiaramente, era solo un’ombra gigantesca, per­ ché la mia signora che, mi parve, tremava tutta, lo pre­ cedeva con una piccola lampada e copriva la luce con la mano, in modo che non un raggio ne cadesse all’indietro. Così scesero, il portone venne aperto e richiuso, la signora risalì, davanti alla sua porta sostò un attimo e fece un profondo sospiro; poi scomparve, e ritornò il silenzio. Poco dopo i campanili suonarono le due. La signora, per quel che ne vidi, era in abito da notte. Naturalmente non riuscii più a prender sonno. Il lam­ padario del nostro scalone viene spento alle dieci in punto, e il portone chiuso; quell’individuo dev’essersi in­ sinuato dentro prima delle dieci, oppure possedeva una chiave di casa. Quando suonai alla porta, verso le cinque, la signora mi aprì, secondo l’ordine introdotto durante l’assenza del padrone; giacché quando c’è lui non si gira la chiave daìl’interno, in modo che al mattino io possa aprire da me senza bisogno di suonare. La signora si ri­ tirò subito in camera sua come uno spettro. Nelle stanze rischiarate dal sole notai poco disordine. Solo nella sala da pranzo la credenza era aperta ; una caraffa, nella quale da settimane una mezza bottiglia di vino siciliano rima­ neva quasi intatta, era vuota, il cestello del pane era stato interamente vuotato e così pure un piatto di biscotti. Sul tavolo vidi l’anello umido lasciato da un bicchiere

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troppo pieno, sul pavimento qualche briciola. Il tappeto davanti al sofà era stato spostato da piedi irrequieti, mac­ chiato da scarpe infangate. Quando la signora comparve, più tardi, era un’altra, come ha visto lei stesso. Non disse una parola, e finora io non ho chiesto nulla, e non so che cosa debbo fare. So che un estraneo è penetrato in casa stanotte e che se n’è anda­ to via di nascosto. Non posso svelare il segreto, e neppure esser complice e manutengola di un delitto contro quel­ l’ottimo uomo che è il mio padrone ! D’altra parte come rovinare così senz’altro quella povera e bella creatura? Che cosa ne pensa lei, signor Reinhart, che cosa mi con­ siglia di fare?». Ero come agghiacciato. Dolore e indignazione per Erwin Altenauer, ma nel contempo profonda pietà per la donna, se era veramente colpevole, mi assalirono quando mi fui un po’ ripreso. Pensavo involontariamente al bra­ siliano e domandai alla costernata governante com’era vestito lo sconosciuto, se da gran signore o da uomo co­ mune. Ma lei ripetè che non aveva visto nulla, se non un gran cappello floscio con la falda calata sul viso. Tacqui per un po’, rimuginando, mentre la buona creatura gemeva ripetutamente, e dalla sua angoscia compresi quant’era affezionata alla povera signora, ades­ so tanto infelice. Ciò rafforzò la mia partecipazione. Fi­ nalmente dissi: «Noi dobbiamo comportarci, secondo me, come se in una casa di persone civili fosse stato visto un fantasma, o ricorressero storie di misteri e di spiriti. Gli avvenimenti paurosi, le apparizioni, i rumori non si pos­ sono mettere in dubbio, perché persone giudiziose e obiet­ tive ne sono state testimoni e ne fanno fede. Ma siccome non esiste una spiegazione naturale, un’interpretazione del mistero, non rimane altro da fare che attenersi ai pre­ cetti della ragione, e confidare che presto o tardi la sempli­ ce verità venga a galla, e tutti rimangano soddisfatti. Così anche noi dobbiamo lasciar trascorrere qualche giorno sull’inesplicabile avvenimento, nella convinzione, o almeno nella speranza che l’onestà della signora abbia a rifulgere indiscutibilmente come una legge di natura».

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La buona donna, che doveva credere più ai fantasmi che alle leggi di natura, non parve sollevata dalle mie pa­ role; tuttavia giurò dietro mia richiesta di serbare il se­ greto con chiunque, scrupolosamente, e di aspettare in silenzio le prossime mosse della signora. Per conto mio non ero affatto tranquillo. Mi tornava sempre in mente il lungo brasiliano, come una pugnala­ ta. V’era stato ieri un rapido accordo, come conclusio­ ne di una prolungata resistenza e di una sottile opera di seduzione? E se il seduttore è per davvero penetra­ to in casa, ciò significa inevitabilmente che ha vinto? Ma da quando i bei signorini che s’accingono a simili avventure bevono bottiglie di vino dolce, da quando un raffinato Don Giovanni divora un intero cestello di pane? E perché no, se ha fame? lui più d’un altro ! Insomma non mi raccapezzavo. Dopo pranzo pensai di cercare il nero conte in un caffè all’aperto, frequentato da giovani della sua classe sociale. Mi ripromettevo di osser­ vare, almeno, ciò che poteva rivelarmi il suo viso. Ma poi abbandonai il progetto; mi ripugnava, e poi che co­ sa c’entravo io? Invece lo incontrai per caso mentre pas­ seggiava con altri signori. Mi salutò tranquillo, sereno e disinvolto come m’aveva lasciato il giorno prima. Quanto a Regine, per il momento non osai andarla a cercare. “Sono cose di cui non t’intendi, non è il fatto tuo !” mi dicevo. Qualche giorno dopo andai a teatro e vidi Regine nel palchetto delle tre Parche, e dietro di lei v’era il conte. Le Parche sfolgoravano per la gioia di ve­ der tutti gli occhi rivolti verso di loro. Il conte sedeva tranquillo e conversava cortesemente con le signore ; Re­ gine era pallida e indubbiamente aveva più l’aria di essere stata trascinata per forza che di esser venuta di volontà propria. Si dava la Maria Stuarda di Schiller. Verso la fine della tragedia io dal mio angolo buio osservai il palco col binocolo, mentre tutti gli spettatori guardavano so­ spesi la scena in cui Leicester assiste alla decapitazione di Maria, che si svolge dietro le quinte. L’attore era uno stupido zerbinotto vestito di raso bianco che recitava in modo stentato e ridicolo, e per questo avevo smesso di

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guardarlo. Ma Regine, che fino allora — l’avevo ben vi­ sto - aveva seguito l’azione con estrema fatica, ora fis­ sava il palcoscenico con vera angoscia, e quando l’attore annunziò l’avvenuta esecuzione con una specie di goffa capriola, ella sussultò così atterrita che il conte dovette sostenerla per un momento. Probabilmente fui il solo ad accorgermene. Giunse finalmente la notizia che Erwin aveva intra­ preso il viaggio di ritorno. Racconterò il resto in parte così come si svolse per lui, in parte come egli me lo rac­ contò più tardi. Gli affari l’avevano condotto infine a New York, ove doveva imbarcarsi. Là egli era entrato nel negozio di un mercante di oggetti d’arte, che teneva an­ che raffinati prodotti dell’artigianato americano; Erwin cercava qualcosa che potesse piacere a Regine. Mentre esaminava i gingilli esposti su un tavolo, il suo sguardo fu attirato da un quadro sgargiante appeso a una parete fra altri dipinti, che recavano tutti l’indicazione «nuova scuola tedesca». Gli parve subito che ritraesse sua moglie. L’artista non aveva saputo coglierne l’anima e la perso­ nalità, e il bizzarro camuffamento rendeva ancor più pro­ blematica la somiglianza; poteva trattarsi di un tipo di donna in generale, di uno scherzo del caso. Ma Regine gli aveva scritto di aver posato per un’artista piena di ta­ lento; qui il cognome della pittrice stava scritto a grandi lettere sul quadro, anche se il nome era abbreviato e po­ teva indicare sia un uomo sia una donna ; la città e l’anno però concidevano. Nonostante la rapidissima impressione di piacere che la vista inattesa gli aveva procurato, egli ri­ senti subito dopo un senso di disgusto. Non solo che il ri­ tratto di sua moglie fosse lì esposto in vendita, ma anche l’abbigliamento teatrale e il titolo «Studio di figura», come si fosse trattato di una modella a pagamento, in breve, tutta la faccenda gli causò una vieppiù crescente irritazione. Ma bene o male inghiottì la collera, e trattò l’acquisto del quadro sforzandosi di apparire indifferente e di non lasciar capire quanto gli stesse a cuore l’originale. Fece poi imballare il suo acquisto e lo mandò a Boston prima d’imbarcarsi, non senza aver formato il propo­

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sito di scoprire chi aveva colpa di quella mancanza di decoro. Egli infatti non l’attribuiva a Regine, sebbene si fosse chiesto con un piccolo sospiro se quell’importante problema di tatto e di cultura (o comunque avesse espres­ so il proprio pensiero) si sarebbe potuto risolvere prima che egli, com’era sempre più imminente, rimpatriasse con la moglie. Dunque, egli giunse una bella mattina di luglio. Aveva viaggiato tutta la notte per arrivare prima. Quando entrò nel portone vide la servitù radunata in cortile intorno al lattaio, e si rallegrò di poter cogliere Regine di sorpresa. L’appartamento era aperto e silenzioso, ed egli attraversò le stanze senza far rumore. Nella sala da ricevimento trovò con sorpresa una grande novità: una riproduzione in gesso della Venere di Milo, alta più di tre piedi e issata su un piedistallo; era un regalo delle tre Parche per l’ono­ mastico di Regine : ciascuna di esse possedeva una ripro­ duzione uguale. Se ne facevano venire da Parigi a doz­ zine, poiché nel culto di quella seria immagine di bellezza s’era insinuata una strana ipocrisia: l’ammirazione per l’opera d’arte copriva intenzioni lascive, e parecchie si­ gnore ponendola sui loro altari domestici intendevano celebrare sfacciatamente la propria bellezza. Erwin contemplò per qualche istante la nobile figura, che d’altronde con l’arido biancore del gesso distruggeva nella sala l’armonia dei colori. Ma una sorpresa maggiore lo attendeva quando un attimo dopo apri la camera da letto e vide un’apparizione assai simile, però colorata e pulsante di vita. Nudo lo splendido torso, con un damasco di seta gialla drappeggiato intorno ai fianchi e cadente sino a terra in ricche masse di pieghe, Regine stava da­ vanti allo specchio e con un’espressione melanconica s’ap­ puntava i capelli che sembravano appena lavati. «Quale spettacolo!» egli mi disse più tardi. Certo però meno greco che veneziano, per dirla con un luogo comune. Ma anche quali abitudini ! Come può venire in mente a un’anima semplice di specchiare in tal modo la propria bellezza e scimmiottare la Venere di là in salotto? Chi glielo ha insegnato? Di dove viene quella grossa pezza di

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damasco? La sua educazione è già tanto progredita che ella fa acquisti così sontuosi, come quel drappo di seta, so­ lo per metterselo intorno ai fianchi il mattino durante un bagno d’aria? E quelle arti le ha imparate ed eserci­ tate per lui solo? Questi pensieri semicoscienti s’inseguivano nella sua mente come grigi grovigli di ombre; ma subito dilegua­ rono quand’egli vide nello specchio l’espressione mesta del volto; e chiamò immediatamente la moglie per nome, per scacciare la sua tristezza : ebbe subito quest’impulso amo­ roso. Adesso ella giaceva felice nelle sue braccia, e tutto andò bene nelle prime due ore, anche il piccolo interroga­ torio sullo strano travestimento in cui l’aveva sorpresa. Arrossendo e con occhi incupiti ella raccontò che non l’avevano lasciata in pace finché non aveva posato a scopo di studio per la famigerata pittrice ; avevano detto che era un dovere, un caso di coscienza, che non v’era nulla di male e la cosa sarebbe rimasta tra loro, cioè fra le amiche, una delle quali era presente durante l’ora di posa. E al­ lora, poiché avevano tanto elogiato la sua figura, e il damasco era ormai comprato e pagato, lei s’era detto che il primo ad aver diritto di vederla così, se si trattava ve­ ramente di qualcosa di bello, era suo marito, e perciò da un paio di giorni cercava di abituarsi a drappeggiare e appuntare la stoffa senza l’aiuto della pittrice. Del resto se ne era fatto soltanto un quadretto. «E dov’è?» aveva chiesto il marito arrossendo a sua volta. Regine rispose imbarazzata che la pittrice se l’era portato via. Tanto era una donna, e poi una delle tre amiche voleva comprarlo per ricordo. Allora Erwin ri­ conobbe l’inesperienza e l’innocenza della buona Regine, o almeno se ne persuase, però risolse di visitare quelle donne bizzarre e di procurarsi il dipinto. Il primo giorno rimase in casa; prima che si facesse sera, Regine aveva avuto più di un accesso d’angoscia e di melanconia, però si era sempre dominata, o forse la presenza del marito le ridava un po’ di serenità. Insomma, Erwin sentì che non era più quella di prima, che doveva essere accaduto qual­ cosa. Trascorse la notte senza il riposo sperato, mentre la

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moglie dormiva; ma egli si chiedeva se ella aveva ritro­ vato il sonno per la prima volta o se aveva dormito sempre. Due giorni dopo il suo arrivo andò all’ambasciata per affari di cui era stato incaricato a Washington, da trattare in colloqui diretti. Fra l’altro v’erano certe questioni di diritto marittimo, per le quali occorreva conferire con i diplomatici brasiliani, prima di procedere con gli Stati europei ; del resto non si era a uno stadio decisivo, né la questione era molto importante. Erwin riferì al suo am­ basciatore per ciò che riguardava la Germania. L’amba­ sciatore aveva mal di denti e lo pregò di andare lui stesso dai Brasiliani e di svolgere i negoziati a nome suo. Erwin vi si recò, ma non trovò che un segretario. L’am­ basciatore del Brasile era a Karlsbad, disse il segretario; però l’addetto, il conte Tal dei Tali, aveva preso l’in­ cartamento e lo stava studiando; certamente era in grado di dare e ricevere schiarimenti, e di prendere temporanee disposizioni. Per non perdere altro tempo, Erwin si recò subito dal conte, che era appunto il nostro uomo. I due diplomatici non si erano mai visti, perché il brasiliano era stato nominato a quel posto durante l’assenza di Er­ win. Il sudamericano salutò disinvolto il collega del nord, disse che aveva avuto il piacere di conoscere la sua con­ sorte e ne chiese notizie. Poi incominciò il colloquio d’af­ fari che durò circa mezz’ora. Erwin non era quello che si chiama genericamente un geloso; perciò la conoscenza del conte con sua moglie non lo impensierì, malgrado l’aria romantica e gli occhi ardenti ; durante il colloquio aveva dimenticato i suoi problemi domestici, e alla fine si mosse tranquillamente a lato del conte, che lo accom­ pagnava. Ma di nuovo, come a New York, lo folgorò un quadro che prima non aveva visto. Presso la porta della stanza, alla quale aveva fino allora voltato le spalle, c’era un tavolino, e su quello, appoggiato al muro, un piccolo dipinto a olio in una larga cornice intagliata. Era la mo­ glie di Erwin, così com’egli l’aveva veduta entrando in camera da letto al suo ritorno. L’artista però aveva preso la precauzione di rendere il volto irriconoscibile, cioè di sostituirlo con quello di un’altra modella; ma Erwin ri-

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conobbe a prima vista la stoffa di seta e tutta la figura. Per giunta la diabolica pittrice le aveva intrecciato le mani sulla nuca, così come Erwin l’aveva vista quando si acconciava i capelli. S’avvicinò d’un passo al tavolino e fissò il quadretto, che gli appariva e scompariva davanti agli occhi in una nebbia, come, per così dire, Afrodite emergente dal va­ pore e dalla spuma del mare. Non osava distogliere lo sguardo né posarlo sul conte, eppure si sentiva come chi sta per affogare. Ma per fortuna le idee s’inseguivano, come suole accadere in simili casi, l’una scacciando l’al­ tra. V’era sempre una possibilità che il conte ignorasse chi raffigurava il dipinto; perché dunque tradire inop­ portunamente se stesso e la moglie? Se era necessario poteva sempre ritornare e uccidere davanti al quadro il nemico del suo onore. Ma prima non doveva essere giu­ dicata la donna, e forse condannata? Infatti appariva sempre più indubbia qualche orribile concatenazione di eventi; come poteva spiegarsi, se no, la tristezza che pe­ sava sulla casa? Ma intanto che cosa si ottiene con una condanna; e chi è il giudice? Io, che ho lasciato sola per quasi un anno una creatura giovane e sprovveduta? Così era passato forse un minuto, uno degli innume­ revoli in apparenza, eppure così pochi, che abbiamo da vivere. D’improvviso egli si riprese con sforzo, gettò un’oc­ chiata al conte e disse senza batter ciglio: «Un bel qua·* dretto quello che ha lì, conte!». «L’ho comprato nello studio d’un pittore;» rispose l’altro «m’ha garantito che è dipinto dal vero!». Si strinsero la mano con la cordialità prescritta fra di­ plomatici, ed Erwin se ne andò per la sua strada. Ma non ritornò a casa, né si mise in cerca delle Parche o della pittrice, come aveva pensato prima, e neppure venne da me o da altri, bensì corse per un’ora sulla soleggiata strada maestra, dalla porta della città alla prima pietra miliare e viceversa. Voleva prendere una decisione e poi non sco­ starsene più di uno iota; nessun estraneo doveva saperne nulla né dare un parere. Nell’afa del mezzogiorno, nella polvere della strada,

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sotto le nuvole del cielo, nell’incontro con stanchi vian­ danti, con lente bestie da soma, con contadini che s’af­ frettavano verso casa, egli si traeva a fianco, invisibile, la povera Regine, facendole il processo, per così dire, alla vista di tutti. Gli pareva che ella gli si trascinasse accanto cercando le risposte alle sue domande; e l’amarezza che egli portava nel cuore era avvolta, ma non raddolcita, dal­ la pietà. Quando ritornò alla porta della città, la sua risoluzione, se non addirittura il verdetto, era presa. Voleva risolvere non soltanto l’episodio ma tutta la storia, condurre la donna al di là del mare e lasciare che il tempo apportasse la spiegazione del disastro avvenuto. Anche con Regine intendeva tacere, e aspettare che trovasse da sé la forza di parlare liberamente ; il resto si sarebbe visto poi. Intanto la tacita separazione che v’era ormai fra di loro doveva esserle ben chiara, ed ella non poteva non sentire che il giudizio era soltanto rinviato. Con tale risoluzione tornò a casa, dove non trovò Re­ gine. Dopo che Erwin era uscito, essa aveva compreso la scabrosità e l’inammissibilità di quel che aveva fatto; sguardi e parole di Erwin l’avevano duramente colpita, illuminando improvvisamente le intuizioni della sua co­ scienza. Incalzata dal terrore era corsa innanzitutto dalla pittrice, per farsi dare il quadro. Costei cercò scuse, pro­ mise di mandarlo, di portarlo lei stessa, e infine, premuta dalle disperate preghiere, disse che il dipinto doveva es­ sere da una delle tre signore (cioè le Parche), ad ogni modo ben collocato e in mani sicure. Regine si precipitò dalla cosiddetta Piccola Ape, dalla Gazzella, da Cappuc­ cetto Rosso; dapprima nessuna sembrava saper nulla del dipinto, sorridevano meravigliate, e poi si misero tutte in sciocco subbuglio, insistendo per accompagnare subito l’infelice a caccia del suo ritratto. Senza aver nulla ottenuto, ma prostrata sotto una dop­ pia oppressione, Regine tornò a casa e trovò il marito a colloquio con un agente, al quale impartiva l’ordine - co­ me Regine, sebbene estenuata, capì a poco a poco — di vendere tutto l’arredamento, d’imballare e spedire gli

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oggetti personali e da portar via. Quando l’agente se ne fu andato, Erwin disse a Regine, che sedeva pallida e muta in un angolo: «Giungi a buon punto per pagare e licenziare la servitù; è un compito più adatto alla pa­ drona di casa. Devi sapere che partiamo stasera e fra due giorni saremo in mare; andiamo dai miei genitori». Non le disse una parola di più, ed ella non osò fiatare. Egli la udì soltanto emettere un profondo respiro, come se l’idea di attraversare l’oceano le desse sollievo. Lo stesso giorno, dunque, vennero fatti i bagagli, pagati i conti, e presi tutti i provvedimenti necessari per una improvvisa partenza. Erwin passò ancora una mezz’ora all’ambasciata, ma non s’accomiatò da nessuno. Di tutto ciò ebbi la prima notizia dalla governante licenziata, la quale venne da me qualche giorno dopo a scaricarsi la coscienza confessandomi come nel trambusto dell’ultimo pomeriggio aveva profittato di un momento di sosta per confidare in poche parole a Erwin che una notte v’era stata la visita di uno sconosciuto e che da allora era entrata in casa la disperazione. Aveva aggiunto di non sapere di chi e di che cosa si fosse trattato, ma di ritener suo dovere informarlo, affinché egli nel suo corruccio non vedesse né troppo né troppo poco. Erwin l’aveva allora guardata con occhi cupi e, sebbene lei avesse notato quanto era ri­ masto scosso da quella comunicazione, aveva detto di essere già a conoscenza di tutto; si trattava d’un segreto che la pregava di non divulgare, ma l’uomo l’aveva mandato lui stesso. Subito dopo il breve colloquio aveva scambiato con Re­ gine le poche parole necessarie, nello stesso tono gentile e tranquillo di prima; e abbandonando la casa per l’ultima volta aveva offerto il braccio alla donna fittamente ve­ lata. E adesso lei, la governante, non sapeva se aveva fatto bene o se aveva peggiorato la sventura. Le chiesi se s’era mai lasciato sfuggire qualcosa con i domestici, gli abitanti della casa, o altri. Ella mi assicurò di non aver mai fiatato e promise ancora una volta di se­ guitare a tacere ; sono convinto che ha mantenuto la pro­ messa. Intanto la rassicurai sull’accaduto. Se nella miste-

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riosa visita v’era qualcosa di male, opinai, non si poteva guastare gran che ; se invece era una cosa innocente, l’o­ scuro episodio si sarebbe un giorno o l’altro chiarito. Stentavo a credere che la faccenda fosse proprio vera. La repentina partenza non aveva fatto molto rumore, perché il ritorno di Erwin era a conoscenza di pochi, e le Parche, caso strano, si mantennero tranquille. Qualche giorno dopo passai con una specie di nostalgia per la strada dove avevano abitato gli Altenauer e mi fermai a guar­ dare la casa. Stava uscendo dal portone un carretto basso a quattro ruote, e sopra c’era la Venere di Milo che oscil­ lava un po’, benché fosse legata con le funi. Un facchino la teneva ritta con grandi risate e gridò «via!» mentre l’altro tirava il carretto. La seguii a lungo con lo sguardo e pensai: “Ecco com’è quando la bellezza capita fra la plebaglia!”. Mi sembrava che fosse Regine quella che vedevo andarsene così fra risate e scossoni. Tre anni dopo, quando Regine era già morta da lungo tempo, incontrai di nuovo nella stessa città Erwin Alte­ nauer, ora incaricato d’affari dell’ambasciata ameri­ cana. Aveva scelto appositamente quella sede per ono­ rare con la sua presenza la memoria della morta; e da lui appresi la fine della storia; egli amava infatti parlarne con me perché ne conoscevo l’inizio. Già il viaggio in mare verso occidente doveva essersi svolto in una particolare condizione d’infelicità. Due ani­ me divise, eppure legate nell’intimo, prigioniere per set­ timane in uno spazio ristretto, la vita silenziosa, monosil­ labica - senza intenzione di ferire - le cento reciproche attenzioni usate con gli occhi bassi, l’errare di quegli oc­ chi sulla superficie sterminata, lungo l’orizzonte evane­ scente dell’oceano, nelle solitudini del cielo, forse per trovare un comune punto d’equilibrio che non potevano cercare vicino, tutto doveva contribuire a rendere il viaggio simile a quello di due ombre perdute sulle acque degli inferi, come descrivono le fantasie di antichi poeti. Anche la convivenza forzata con una folla d’estranei im­ pediva naturalmente il risolversi del doloroso processo; ma ad ogni modo Regine non disse mai motto; si sarebbe

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detto che temesse qualche orribile crollo e ogni parola che potesse provocarlo. Così come sorvegliava la sua lingua ella ricacciava anche paurosamente ogni sorriso che per antica abitudine volesse fiorirle sul labbro quando, in­ sperato, lo sguardo di Erwin incontrava il suo. Egli vede­ va il fremito della bocca, che tosto si ricomponeva in una melanconica quiete, ed era sicuro che in tal modo ella voleva respingere anche il più lieve sospetto di civetteria; cioè, non tanto voleva quanto doveva. Straordinaria contraddizione quella conoscenza della natura di lei, quella fiducia, e l’oscura maledizione del fato ! Ma Erwin temeva con altrettanta angoscia il princi­ pio della fine; secondo l’antico detto, poteva compren­ dere e perdonare, ma non poteva cancellare, e lo sapeva. Figurarsi poi l’ingresso nella casa paterna di Boston ! Non la gioia vittoriosa dell’approvazione, della lode, ma un afflitto, dissimulato riserbo, una riguardosa cautela, e alla fine un gran silenzio in tutta la casa, come conse­ guenza di una finzione mezzo vera: un improvviso dis­ sidio, un umore malato della giovane donna. Solo alla madre Erwin confidò una parte della verità, una versione che fosse non troppo dura, non troppo crudele per Regine e abbastanza sopportabile per la madre. La vista della giovane nuora le aveva procurato a tutta prima alta soddisfazione, e tutto il suo comportamento una doloro­ sa pietà ma anche la più profonda angustia, sicché ella fu subito d’accordo per un trattamento di prudente sollecitudine, e cercò di dare lei stessa l’esempio, rivolgen­ dosi all’esclusa con una dolcezza grave, come si fa con persone malate e sconvolte. Tutti i familiari, gli impiegati, i domestici della casa adottarono spontaneamente lo stes­ so tono ; Regine in mezzo alla schiera dei nuovi parenti e dipendenti si trovò sola, ma non fece domande né la­ gnanze. Ben presto visse nelle stanze appartate di un’ala laterale come una prigioniera volontaria, mentre Erwin intraprese subito un viaggio di tre settimane, perché la separazione desse meno nell’occhio. Ma dovunque an­ dasse sentiva il peso della sciagurata situazione in cui era incappato con Regine, la nostalgia di lei e dei giorni lon-

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tard, e insieme l’orrore dell’abisso ehe aveva troppo mo­ tivo di intuire e temere. E più riconosceva di averla ine­ vitabilmente perduta, più l’infelice alla quale aveva de­ dicato tutto il suo amore e le sue premure gli appariva unica e insostituibile. Alla fine il desiderio di rivederla prevalse, tanto che il diciottesimo giorno della sua assenza egli prese la via del ritorno nell’intento di arrivare a una risoluzione, e di vedere ancora una volta la donna, anche a rischio di perderla subito e per sempre. Durante la sua assenza, la madre aveva visitato tutti i giorni la solitaria Regine, trascorrendo da lei un’oretta con un lavoro, o portandole qualcosa da fare, e aveva conver­ sato con lei benevolmente, sostenendo, s’intende, quasi tut­ to il peso della conversazione. Però aveva evitato con scru­ polo d’incalzare con interrogatori e domande la giovane donna, che nonostante la taciturna melanconia dimostra­ va umiltà e gratitudine, giacché un’anima nobile dà segno della sua bontà anche quando lo spirito è turbato. Un giorno, quando Erwin era già in viaggio per tornare, la madre trovò Regine intenta a scrivere con ardore. La cosa destò la sua attenzione e non le piacque affatto; c’erano già molti fogli scritti, e Regine li radunò tranquilla senza timore e senza tentare di nasconderli. La madre, del resto, aveva già notato che ella non celava mai nulla e teneva la sua stanza sempre in perfetto ordine e aperta a chiunque. Tormentato da un’angosciosa impazienza Erwin tornò con un treno della notte e alle sei del mattino giunse a casa. In gran fretta si recò nella sua camera per ripulirsi e cambiarsi d’abito. Ma appena la madre seppe del suo arrivo andò da lui e gli riferì di Regine. Visibilmente in­ tenerita, dopo avergli detto che in quel periodo il conte­ gno della nuora le aveva fatto una tale impressione che, se tutto ciò era inganno, costei avrebbe dovuto essere una commediante e un’ipocrita consumata, raccontò che quella notte, o meglio poco prima dell’alba, aveva fatto una scoperta strana e commovente. Disturbata dall’inson­ nia, s’era alzata ed era andata, a tastoni nel buio, fino al salottino posto di fronte all’ala dove abitava Regine. Là, su un tavolino, doveva essere rimasta una boccetta di es-

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senza rinfrescante, che da tempo non aveva più usato. Mentre la cercava, aveva notato al di là del cortile un fioco barlume di luce, quando tutto il resto invece era ancora immerso nel riposo notturno. Guardando meglio, aveva capito che la luce veniva dalla finestra di Regine, e tosto l’aveva veduta in ginocchio davanti a una seggiola, con le mani giunte. Sulla seggiola c’era un libriccino, evi­ dentemente un libro di preghiere, illuminato dalla lam­ pada posata accanto. Il volto della donna non si poteva vedere, era reclinato sul petto, e così ella era rimasta immobile un quarto d’ora, poi un secondo e forse anche un terzo. La madre aveva contemplato a lungo la scena; due o tre volte Re­ gine aveva voltato la pagina, ma poi era tornata indietro, infine aveva dimenticato di sfogliare il libro e pregato a lungo da sola o pensato chi sa quali gravi pensieri ; sem­ brava che avesse letto un’unica orazione, o quel che altro fosse, ad ogni modo sempre la stessa cosa. Era una vi­ sione da far fremere di pietà, quella povera creatura ab­ bandonata, nel silenzio notturno. Alla fine la madre, pre­ sa dal freddo, non s’era sentita di restare più a lungo, e pensando che Regine era lì tranquilla col suo libro di preghiere era tornata a letto, però senza potersi riaddor­ mentare. «Oh figlio mio!» ella esclamò con occhi traboc­ canti di lacrime «sarebbe una grande fortuna se questa creatura si potesse ancora salvare! Non ho mai visto nulla di più bello su questa terra ! Perché siamo dunque cristiani, se disprezziamo la parola del Signore la prima volta che si rivolge a noi?». Turbato, in lotta con se stesso, Erwin, che ne sapeva più della madre, esclamò: «Oh mamma, Nostro Signor Gesù Cristo ha salvato l’adultera dalla morte e dalla pu­ nizione; ma non ha detto che vivrebbe con lei, se Egli fosse Erwin Altenauer!». Tosto però, in contraddizione con le sue parole, abban­ donò la madre e così com’era, in abito da viaggio, anne­ rito dalla fuliggine del treno, corse alle stanze di Regine e bussò dolcemente. Nessuna risposta; allora egli aperse la porta ed entrò. La camera era vuota; egli si guardò at-

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torno col cuore in tumulto. Sul cassettone c’era il vecchio libro delle canzoni a lui ben noto, con le poesie popolari e una piccola raccolta di preghiere per la chiesa e la casa. Era chiuso e messo ordinatamente al suo posto. Il letto di Regine era in un’alcova le cui tende pesanti erano semiscostate. Egli s’awicinò e vide che era vuoto; solo una delle fini camicie ricamate del corredo che lui stesso aveva comprato alla moglie giaceva sulle coperte, usata, ma ben ripiegata; sgomento e sempre più perplesso egli si voltò, si guardò intorno, per vedere se non gli si trovasse dietro le spalle; ma la stanza era deserta come prima. Ritornando presso il letto toccò una delle tende e urtò contro qualcosa di solido al di là di essa, come se una persona vi stesse nascosta dietro. Ratto volle tirare la spessa stoffa di lana, ma non potè, perché gli anelli che avrebbero dovuto scorrere sulla stanga erano come impediti. Alzando la tenda per quel poco che poteva, entrò sotto l’alcova e trovò il cadavere di Regine, impic­ cato. S’era avvolta al collo uno dei solidi cordoni di seta terminati da un fiocco. Nello stesso attimo in cui scorse il bel corpo appeso, Erwin tirò fuori il coltello che portava sempre in viaggio, balzò sul letto e tagliò il cordone; un attimo dopo era seduto sul giaciglio con la bella creatura fra le braccia, appesantita dalla morte, poi subito volle metterla in una posizione migliore e la depose delicata­ mente sul letto. Ma era fredda e senza vita, mentre egli smarrito, fuori di sé, la fissava con occhi sbarrati. Lo riportò alla conoscenza, colpendogli lo sguardo, l’insolito abbigliamento della morta. Regine aveva indossato l’ul­ timo abituccio domenicale di quando era serva, una ve­ ste di brutto colore bruno con un disegno scolorito. Erwin sapeva che ella aveva sempre portato seco una cassettina con qualcuno dei suoi vecchi indumenti, e gli era piaciuto quel tratto che ora raddoppiava il suo dolore. Finalmente pensò a un tentativo di salvataggio; slacciò il misero ve­ stito che, come usava allora per le ragazze del popolo, era abbottonato sul petto. Sotto il vestito c’era una rozza camicia di quand’era fanciulla, e fra la camicia e il seno una lettera alquanto spessa indirizzata a Erwin. Egli ba-

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ciò in fretta la busta, la posò sul letto e si provò a soffregare il seno di Regine, poi si rialzò, la sollevò come se fosse stata una bambola leggera e se la strinse al cuore gemendo e sorreggendole il capo; tornò infine a deporla e si precipitò fuori in cerca d’aiuto. Accorsero tutti i fami­ liari, e un medico arrivò quasi subito ; ma la povera Regine rimase senza vita, e il medico non potè far altro se non riscontrare la morte, che dopo una breve felicità ave­ va rapito la melanconica giovane tedesca. Finalmente Erwin rimase solo accanto alla salma, e lesse la lettera. Il luogo in cui avrebbe trovato la lettera doveva dimo­ strare che ella lo amava fin nella morte. Cosi cominciava lo scritto. Altre frasi analoghe Erwin non me le volle ripe­ tere perché, com’egli si espresse, erano un sacro segreto d’amore coniugale. Come Regine avesse potuto trovare simili accenti era un mistero della natura eterna, dove ogni cosa nasce innumerevoli volte eppure esiste una vol­ ta sola. Seguiva quindi la rivelazione di ciò che l’aveva op­ pressa e le aveva rovinato la vita, senza che ella stessa avesse immaginato a qual punto. Era davvero triste e abbastanza semplice l’arcano di quella visita notturna, che ella non supponeva neppure fosse mai stata vista. Le condizioni della sua famiglia erano andate via via peggio­ rando e l’avevano costretta a intervenire e soccorrere più di una volta. La povera Regine, ormai più attaccata al marito che ai genitori e ai fratelli, se n’era profonda­ mente accorata. Specialmente uno dei fratelli, dopo aver fatto il soldato, non era riuscito a trovare un lavoro sta­ bile ; cupo e scontento mutava continuamente luogo e me­ stiere, persuaso che dappertutto gli facessero dei torti, come poi infatti accadde : giacché la gente che maltratta se stessa finisce per essere maltrattata dagli altri, per una specie di impulso all’imitazione. Così da un buon posto di macchinista delle ferrovie, che gli avevano procurato all’inizio, era precipitato giù giù fino a diventare aiu­ tante o piuttosto garzone di un mercante di cavalli, il quale se ne giovava perché era stato in cavalleria, ma nondimeno lo trattava male. Mentre attraversavano un

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bosco, conducendo un branco di cavalli, avevano avuto un litigio violento; il padrone gli aveva menato una scudisciata sul viso, e lui senza esitazione aveva risposto stendendolo morto, poi su uno dei cavalli s’era dato alla fuga. A qualche miglio dal luogo dell’assassinio aveva ven­ duto il cavallo e col ricavato s’era messo a girovagare per il paese senza trovare una via d’uscita. Il mercante era stato derubato del suo denaro da un secondo malfattore, rimasto sconosciuto, ma anche questa colpa, naturalmen­ te, era stata messa sul conto dell’uccisore, il quale era quindi imputato di omicidio con rapina; così almeno egli aveva dichiarato, e non si discostava dalla sua versione. Questo fratello dunque, e nessun altro, era l’uomo che quella tal notte aveva cercato asilo e aiuto presso Regine dopo essersi nascosto qua e là, viaggiando solo quando era buio, mezzo affamato e sempre braccato dagli sbirri. Era già arrivato in un porto di mare e con il rimanente della vendita del cavallo aveva comprato un posto su un vapore, ma all’ultimo momento era stato di nuovo co­ stretto alla fuga da altri ordini di cattura, ed era ritornato nell’interno del paese. Spinto dall’estrema necessità s’era aggirato intorno all’abitazione della sorella ed era riu­ scito a penetrarvi ; Regine gli aveva dato denaro e qual­ che indumento del marito perché egli potesse di nuovo ten­ tare la traversata. Ma da allora non aveva più avuto pace; perché era ormai posseduta dall’idea fissa che come so­ rella di un ladro e assassino aveva coinvolto il marito in una condizione vergognosa, rendendolo partecipe della abiezione di una famiglia corrotta. La tormentava inoltre il cruccio per i suoi e anche per il disgraziato fratello. Ma come dovette crescere la pena segreta, quando in una gazzetta, comprata più per i domestici che per lei, ave­ va trovato la tremenda notizia che l’omicida era stato finalmente arrestato ! Nessuno in città, all’infuori di me, conosceva il suo cognome, e quindi la cosa passò inosser­ vata. Io poi non leggevo mai fatti di tal genere, e così restai anch’io nell’ignoranza. Il prigioniero non fece motto del­ la visita alla sorella, mentre avrebbe potuto avvalersene per giustificare la somma di cui era in possesso: nobile

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tratto di uno che era caduto tanto in basso! Così ella visse per settimane in sconsolata afflizione, finché un giorno lesse che il colpevole era stato giustiziato, e piombò nei più profondi abissi della disperazione. Come avrebbe potuto Erwin vivere ormai con la sorella di un assassino che aveva subito la pena capitale? Si era aggrappata al­ l’unico pensiero di cui era capace, come chi annega s’ag­ grappa a un filo d’erba : tacere, tacere per sempre ! Dopo di ciò, la sua fiducia in sé era stata ancora scossa dall’episodio con la pittrice. Regine non sapeva neppure che il quadretto fosse finito nelle mani di un uomo, del brasiliano, ma s’accusava di aver posato per l’artista come di una colpa grave. Ne aveva tratto la convinzione di non possedere la sicurezza e la conoscenza della vita che erano necessarie a salvaguardare l’onore e la fiducia. Certo la misera doveva aver creduto che la storia del quadro fosse bastata da sola a distruggere la fiducia di Erwin; se avesse potuto immaginare che la visita del fratello era stata vista e come il marito l’aveva interpre­ tata, a ogni costo ella si sarebbe purificata dal sospetto, e tutto sarebbe andato diversamente. Ma il destino aveva voluto che i due sposi, ciascuno col suo segreto che in­ tendeva nascondere per delicatezza e riguardo, si pas­ sassero per così dire accanto e non imboccassero quindi quella che sarebbe stata l’unica via di salvezza. Per tor­ nare alla lettera, Regine chiudeva con la preghiera di sep­ pellirla nell’abito con cui aveva servito da povera fan­ tesca. E se Erwin voleva aver la bontà di ripiegare la veste in cui ella gli era più piaciuta ai tempi felici e met­ tergliela sotto il capo dentro alla bara, allora ella vi avrebbe riposato sopra in pace e riconoscenza. Dopo le esequie, la prima cosa che egli fece fu di prov­ vedere nuovamente alla sciagurata famiglia. Seppe in tale occasione che realmente il fratello morto sul patibolo non aveva depredato il padrone dopo averlo ucciso; il vero colpevole, arrestato per altri delitti, aveva sponta­ neamente confessato anche quello. Finora Erwin Altenauer non ha voluto riprendere moglie. Quando Reinhart tacque, per un poco Lucia rimase in

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silenzio, poi disse pensierosa: «Potrei obiettare che la sua storia è più una questione di destino che di cultura, ma voglio ammettere che una brutta sottospecie di quest’ultima abbia influito sulla sorte della povera Regine attra­ verso le tre Parche, come lei ha chiamato le rappresen­ tanti di quella degenerazione. Ad ogni modo appare certo che il bravo signor Altenauer non era in grado di dare alla formazione della sua sposa l’impalcatura che ci voleva. Se il suo amore non fosse stato offuscato dalla vanità mondana, avrebbe subito portato Regine in Ame­ rica e affidato l’opera educativa alla propria madre; al­ lora il risultato sarebbe stato diverso! Ma è l’ora di so­ spendere la nostra memorabile riunione; mi permetta quindi di ritirarmi, sebbene io tema di vedere in sogno la bella creatura appesa al cordone di seta come una eroi­ na mitica; perché nonostante la sua incapacità a difen­ dersi v’è qualcosa di eroico nella figura di Regine. Il signore ed arbitro aveva saputo davvero scegliersela di buona razza ! ». Augurò all’ospite la buona notte e gli mandò poco dopo l’annoso servitore che Reinhart aveva visto all’ar­ rivo. Il buon vecchio lo condusse alla sua camera da letto, e gli disse che il padrone sperava di poter desinare l’in­ domani con lui, giacché da certi segni pareva che l’at­ tacco di gotta accennasse a passare. Reinhart si coricò con sentimenti stranamente turbati nella casa ignota, sotto lo stesso tetto con la più deliziosa donna del mondo. Come vi sono persone il cui fisico, se si viene per caso a contatto, si manifesta subito saldo e simpatico attraverso i vestiti, così ve ne sono altre il cui spirito attraverso l’involucro della voce suona immedia­ tamente familiare e fraterno; e se addirittura tutt’edue le condizioni s’adempiono, una buona amicizia è già ben avviata. A ciò si deve aggiungere che Reinhart quel gior­ no aveva parlato di cose umane, come sono le vicende d’amore, più che non avesse fatto in anni e anni di vita.

CAPITOLO ΝΟΝΌ

La povera baronessa

Si era addormentato presto e profondamente ; ma il nuo­ vo contenuto, l’accresciuto tesoro dei suoi pensieri lo sve­ gliò prima dell’alba, come se una persona ritta accanto a lui gli avesse toccato gentilmente la spalla. Ci mise un po’ di tempo a raccapezzarsi dov’era, e solo contemplando con attenzione il rettangolo della finestra rischiarato dalle prime luci del mattino ricordò gli avvenimenti del giorno prima. L’animo gli si colmò di un piacere quasi solenne, e mentre si crogiolava in quel sentimento tornò ad asso­ pirsi e si svegliò soltanto quando il bel paesaggio che gli si stendeva davanti era già in pieno sole, e il fiume luc­ cicava lontano. Nelle chiome dei platani gli uccelli da­ vano concerto, uno stormo di quei piccoli musicanti svo­ lazzava e si posava sulle vasche marmoree della fontana, presso cui era apparecchiata la tavola per la colazione. «Lux, Lucetta mia, dove sei?» udì chiamare da una voce vecchia ma ancora robusta, e vide subito spuntare di dietro l’angolo della casa colui che doveva essere lo zio, appoggiato su una gruccia e sostenuto da un servitore. Il richiamo era rivolto, s’intende, a Lucia, il cui nome egli aveva abbreviato in quel modo. Aveva l’aspetto di un ex ufficiale, poiché portava lunghi mustacchi grigi, una giubba di taglio militare, e un nastrino scolorito all’oc­ chiello. Comparve poi nel fresco scenario mattutino an­ che la damigella, sicché Reinhart s’affrettò a prepararsi e a scendere in giardino, dove trovò i padroni di casa già seduti a tavola, accanto alla fontana con le sue sonanti acque cristalline. Prontamente impedì al vecchio signore di alzarsi mentre Lucia faceva le presentazioni. Lo zio lo fissò attentamente, con la schiettezza dei sol­ dati o degli originali, e dichiarò poi, senza fretta, che il suo nome gli era ben noto ; si trattava soltanto di sapere se egli era figlio di un certo professore di X.; poiché, se ricordava bene, un suo amico di gioventù era andato a stabilirsi colà, diventandovi un famoso azzeccagarbugli.

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Reinhart confermò sorridendo la sua supposizione, e Lucia osservò che la coincidenza era assai piacevole, ed ella si lusingava di avervi contribuito in parte. Lo zio intanto continuava a studiare la fisionomia del giovane ospite e a scavare sempre più nei ricordi, mentre la sua faccia prendeva un’espressione tra l’agro e il dolce, pas­ sando da un sorriso un po’ ironico a un’affettuosa se­ rietà, finché fu rischiarata da uno schietto scoppio di risa. Afferrò la mano del giovane Reinhart, la strinse energi­ camente, e gli chiese: — I suoi genitori non le hanno mai parlato di me? Reinhart ci pensò su e scosse la testa, ma poi disse, dopo un altro momento di riflessione: — Sì, se, com’è probabile, lei è stato tenente prima di diventare il signor colonnello. Ricordo vagamente che quand’ero bambino i miei genitori, ora il babbo ora la mamma, ma più spesso quest’ultima, accennavano a un tenente, e cioè dicevano scherzando: «Questo il tenente non l’avrebbe mai fatto», oppure: «Che cosa ne direbbe il tenente?» e cosi via. Poi l’abitudine, se era tale, si perse, e io avevo dimenticato la cosa. — Vede, è proprio così ! — esclamò il colonnello — E il tenente ero io. Nei suoi piacevoli lineamenti ho ritro­ vato quelli dei suoi ottimi genitori, tanto del signor padre quanto della signora madre; e mi si apre il cuore, come quando la diletta Lux spunta sul ristretto orizzonte di questo povero vecchio, di cui è l’aurora quotidiana ! Sia il benvenuto fra noi, e ci tenga compagnia per qualche giorno almeno, o, meglio ancora, finisca il suo viaggio e poi ritorni per fermarsi più a lungo! Sa giocare a scacchi? — Purtroppo no, non conosco alcun gioco. — Oh che peccato, e perché mai? — esclamò il vecchio. — Perché non sono abbastanza intelligente ! — rispo­ se Reinhart, che in realtà non possedeva né il potere di concentrazione né la preveggenza necessari per certi giochi difficili. Lucia senza volerlo gli gettò un’occhiata di gratitudine, lieta di trovare un compagno in quella incapacità.

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Già, — disse il vecchio signore — finché si è gio­ vani non si conosce la noia e non s’ha bisogno di giochi per passare il tempo. Così è anche per questa giovane dama. Più tardi imparerà a giocare anche lei, poiché spero che diventerà una graziosa vecchia zitella, resterà sempre con me e poi sulla mia tomba coltiverà e innesterà piamente le rose del ricordo. — È molto probabile, — disse la nipote — specialmente se verranno in voga opinioni sul matrimonio come quelle che ho dovuto udire dalla bocca del signor Ludwig Reinhart ! Figurati, zio, che ieri ci siamo raccontati fino a mezzanotte storie di matrimoni infelici ! Gli uomini cólti oggi sposano soltanto cameriere, contadine e simili, e noi ragazze istruite dovremmo, per render la pariglia, mari­ tarci con servitori e cocchieri; c’è da esitare non poco, ti sembra? Mi dica, signor Reinhart, non ha un altro ma­ trimonio bizzarro da raccontare? — Certo che l’ho ; — ripose Reinhart — una storia magnifica, un matrimonio per pura pietà. — Oh cielo ! — esclamò Lucia — che bella cosa ! Vuoi sentirla anche tu, caro zio? — Giacché voi due pigroni non sapete giocare e volete soltanto chiacchierare, non mi rimane che sentire queste storie strabilianti ! La tavola fu sparecchiata. Lucia si fece portare un ce­ stino da lavoro e Reinhart cercò il modo di cominciare il suo racconto. — Vedete, — disse — i personaggi di cui vi voglio nar­ rare navigano oggi in piena felicità, e per non disturbarli è necessario mascherare la loro identità in modo da ren­ derli irriconoscibili. La cosa migliore sarà quindi raccon­ tare la storia così come un novelliere ricercato mette in scena il suo raccontino. In tal modo potrò sforzarmi di fare progressi nella mia arte di narratore, che m’è caduta sul capo come una tegola; non si sa mai, potrebbe riuscire utile. Dunque comincerei all’incirca così: — Brandolf, un giovane giurista, saliva di corsa la scala di una casa dove abitava una famiglia amica, ed essendo

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assorto nei suoi pensieri, per poco non travolse una crea­ tura di sesso femminile che stava seduta sui gradini a lucidare coltelli. Gli parve che una delle lame l’avesse colpito al tallone; guardò giù e vide sotto di sé la faccia rossa di collera di una donna ancora giovane, per quel po’ che se ne poteva scorgere sotto lo scialletto andato di sghimbescio, che egli prese per una dorma di servizio. Rabbiosa, anzi furente, colei riabbassò il capo sul suo lavoro, e Brandolf, spiacevolmente colpito, entrò nella casa dei suoi amici. Lì esaminò il tacco del suo stivale e trovò che nel cuoio lucente v’era infatti un piccolo taglio. «Sciagurati che siamo, noi esseri umani!» esclamò «parliamo tutti i giorni di amore e di carità, e tutti i gior­ ni offendiamo un nostro simile, per strade, viottoli e scale ! Senza volerlo, s’intende; ma devo pur confessare a me stesso che, se su quei gradini avessi visto una dama vestita di raso, certo sarei stato meno sbadato ! Onore a quell’u­ mile persona che ha saputo difendersi e almeno m’ha piantato nel tacco il suo aculeo vendicatore, e buon per me che non era un tallone d’Achille ! ». Raccontò il piccolo incidente. Tutti esclamarono : «È la baronessa!» e il padrone di casa disse: «Caro Brandolf, questa volta le sue sottigliezze umanitarie non hanno assolutamente còlto nel segno ! La signora sulla scala è un’autentica baronessa, che per pura cattiveria, per osta­ colare il passaggio e per avarizia, invece di usare il suo ap­ partamento, insudicia la scala comune sbrigandovi delle faccende domestiche, e intanto per aristocratica alba­ gia non saluta, né degna di uno sguardo noi altri bor­ ghesi ! ». Stupito di quello strano chiarimento, Brandolf volle saperne di più. La baronessa era venuta a stabilirsi nella casa da poche settimane; occupava l’altra metà, più pic­ cola, del piano, aveva subito inchiodato alla porta una targa col suo nome altisonante, però appeso nello stesso tempo alla finestra un cartellino con l’offerta di una ca­ mera mobiliata. C’erano già stati alcuni forestieri, ma nessuno aveva resistito più di due giorni, tutti erano fug­ giti dopo aver pagato un conto esorbitante. Chi cadeva

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nella trappola di quella locazione non poteva fumare in camera sua, né sedersi sul sontuoso divano, né cammi­ nare facendo rumore; doveva togliersi gli stivali per non sciupare il tappeto; non gli era permesso mostrarsi alla finestra in veste da camera o, peggio ancora, in maniche di camicia, per non offendere il decoro della casa patrizia, e per di più veniva a trovarsi come un povero prigioniero, perché la baronessa non teneva servitù, faceva tutto da sé, e quindi rifiutava di prestare ogni servizio che non fosse compreso nello stretto limite dei suoi doveri. Al mattino cambiava l’acqua nella bottiglia e alla sera riem­ piva la brocca del lavabo, ma poi non avrebbe più por­ tato un bicchier d’acqua, neppure se il pigionale fosse stato in punto di morte. Tutto ciò era accompagnato da parole brusche, o per lo più da mutismo assoluto. Non si conosceva la sua condizione né la sua provenienza; ella non frequentava nessuno, e quando i lavori domestici la portavano al pozzo, in cortile, fra servitori e fantesche, s’aggirava muta in mezzo a loro come uno spirito maligno. Insomma, tutti erano d’accordo a giudicarla un vero diavolo, una strega, che sfogava a modo suo un carattere misantropico e brigantesco, e in particolare aveva conce­ pito il progetto di ottenere col suo contegno un continuo cambiamento di locatari, per presentar loro una quan­ tità di conti piccoli ma esosi, e incassare un sovrappiù di pigione quando i disgraziati andavano via prima del tempo. E questo sistema, se veramente l’aveva ideato, non era poco redditizio, perché la casa era situata in una bella strada di molto traffico, che attirava forestieri di­ stinti e benestanti, i quali viceversa erano poi ben lieti di liberarsi e di lasciare il posto ad altri. Al termine di quella descrizione, intessuta di molti al­ tri curiosi particolari, Brandolf concepì, più che sdegno e disprezzo, una segreta pietà per la malefica baronessa, e quando gli amici scherzando gli chiesero se non voleva diventare loro casigliano e stabilirsi presso la stramba vicina, rispose seriamente: «Perché no? Si tratterebbe infine di prendere la signora per il collo, secondo i suoi stessi metodi, e di rimetterle la testa a posto ! ».

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Ma, vedendo che la padrona di casa non era incline a continuare su quel tono scherzoso, tacque; e tornò a ri­ muginare il pensiero per conto suo quando si ritrovò fuori e vide che il cartellino col «si loca» era di nuovo esposto alla finestra, Brandolf non capiva come ci si potesse sentire impac­ ciati e battere in ritirata di fronte a gente maligna, in­ giusta o un po’ pazza. Per quanto in fondo bonario e pacifico, aveva sempre una vera smania di litigare con i cattivi e i bisbetici e convincerli della loro follia. Quando udiva parlare di un torto sofferto, s’arrabbiava ancor più con quelli che lo subivano che con i colpevoli, perché ce­ dendo eternamente ai loro capricci non si traggono mai si­ mili disgraziati dal loro accecamento. Solo non lottava mai contro l’aperta violenza, perché essa si stigmatizza da sé, non ha bisogno di altra dimostrazione per essere condan­ nata all’eterna miseria e a distruggersi da sé sola. Egli aveva una profonda sensibilità per le condizioni umane, e confidava talmente in quel tanto d’umanità che v’è in ciascun uomo, da presumersi capace di far riscaturire in ogni malvagio quella polla originaria, o almeno di por­ tare il peccatore alla coscienza che la sua cattiveria era svelata e ormai esposta alla forza dello scherno. Tuttavia, sia che i birboni subodorassero da lontano la sua vitto­ riosa sicurezza, sia che il destino terreno raramente ci permette d’ottenere ciò che più desideriamo, Brandolf non riusciva mai ad attaccare contese abbastanza ben motivate, e, dove fioriva una vita squisitamente cattiva, egli arrivava sempre troppo tardi per spezzarne il fiore. Perciò passò davanti alla porta della baronessa come davanti a un paradiso precluso, dove si struggeva di pe­ netrare per combattere il drago. In settembre, quando i suoi amici con bambini e do­ mestici, con valigie e bauli furono accomodati nelle car­ rozze per intraprendere un viaggio in Italia, dove dove­ vano passare l’inverno, e il pesante veicolo si mise final­ mente in moto fra i sospiri della padrona di casa o, in questo caso, della capo convoglio, Brandolf, che aveva chiuso gli sportelli, non aveva più niente da fare in quei

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paraggi, e quindi avrebbe potuto tornarsene a casa sua. Invece tornò di sopra, suonò all’uscio della baronessa e chiese di vedere le sue stanze. Ella lo riconobbe come l’uomo che l’aveva urtata sulla scala e come il quotidiano visitatore dei vicini di casa. Diffidente e con occhi sgra­ nati lo fissò senza aprir bocca, e teneva la porta come se fosse lì lì per sbattergliela sul naso; ma non osò tanto, e con parole arcigne gli disse d’entrare. Sempre con brusca correttezza gli mostrò le camere; erano arredate con signorilità e decoro, e Brandolf dopo un esame superficiale, fatto più che altro per l’apparenza, disse che le prendeva e che sarebbe venuto a occuparle il giorno dopo. Senza il minimo segno di piacere la baro­ nessa s’inchinò lievemente ; del resto egli riuscì a vederla ben poco, perché un gran scialle, simile a un cappuccio, le avviluppava le spalle e il capo; indossava poi una spe­ cie di palandrana grigia che poteva essere tanto un cap­ potto quanto una veste da camera. Brandolf si affrettò a comunicare il cambiamento ai suoi presenti locatari, i quali ne furono molto spiacenti, perché non avevano mai avuto un inquilino così buono e gentile; e, poiché erano anch’essi persone molto per bene, la decisione di Brandolf appariva doppiamente incom­ prensibile. Non seppero spiegarsela altrimenti se non col fatto che il giovane studioso, essendo scapolo e ricco, aveva i suoi ghiribizzi e nessun cruccio, ed era padrone di darsi, se voleva, la zappa sui piedi. Solo quando Brandolf ebbe trasportato le sue cose nella nuova residenza e vi si fu stabilito, osservò meglio l’ar­ redamento davvero insolito per camere d’affitto. V’erano solo tre stanze che davano sulla strada ; ma sembrava che contenessero le masserizie di un’intera famiglia e tutti i mobili erano fatti di legni e di stoffe di pregio. Il pavi­ mento era coperto di tappeti d’ogni colore, qua e là in strato doppio; dappertutto v’erano stipi, scrivanie, arma­ di, tavolini da gioco, specchiere, soffici divani e sedie im­ bottite a profusione; splendidi cortinaggi rivestivano le finestre, e sulle pareti s’affollava ogni specie di dipinti a olio, acqueforti, incisioni e pastelli, come se tutti i qua­

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dri di una grande casa vi fossero esposti per esser venduti all’asta. Se lo spazio nelle stanze pur abbastanza vaste risultava ridotto, la cosa era ancora aggravata da parec­ chi scaffali ad angolo i cui ripiani traballanti sostenevano una miriade di porcellane dipinte e dorate, di sottilissimi vetri che tremavano come foglie di betulle a ogni passo pesante. Su tutti quei fragili oggetti era dipinto o inciso il medesimo stemma, che si vedeva sulla targa della porta sopra il nome della baronessa Hedwig von Lohausen. Più tardi, quando andò a dormire, Brandolf notò che la corona baronale era ugualmente ricamata sulla tela del sontuoso letto, che sembrava uno dei due pezzi principali di un antico fornimento di sposa. Pur con quell’eccesso di suppellettili le stanze erano tenute in ordine perfetto, senza un granello di polvere, e Brandolf si chiese se il lo­ catario, anche pagando profumatamente, non era posto 11 a guardia di quelle meraviglie, e se magari non gli avrebbero messo in mano stracci e piumini per spolve­ rare. Giacché, se qualcun altro faceva quel lavoro, questo qualcuno doveva trattenersi nelle stanze per tutta la gior­ nata. Bisogna però dire subito che non accadeva né l’una né l’altra cosa ; tutto veniva fatto in assenza dell’inquilino come da uno spirito invisibile, e neanche i ninnoli di vetro e di porcellana sembravano mai spostati e mai tocchi, eppure non si vedeva traccia di polvere né di ap­ pannatura. Brandolf era dunque in attesa di cominciare la sua guerra umanitaria contro le cattive azioni e abitudini della baronessa. Ma la sua antica sfortuna si manifestò anche questa volta; il nemico si teneva appiattato, forse so­ spettando la forza del nuovo avversario. Brandolf non poteva stanarlo col fumo del tabacco, perché non fumava, e quando, allo scopo preciso di stuzzicare la baronessa, portò a casa e accese una pipetta come quelle che usano i muratori mentre lavorano, con pessimo tabacco, dopo tre o quattro boccate dovette buttarla dalla finestra, tan­ to si sentì male. D’insudiciare tappeti e cuscini non se la sentiva perché non c’era avvezzo; così per il momento non gli restava altro da fare che spalancare le finestre

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e provocare una corrente d’aria. Indossò quindi una giacca di flanella, si pose in capo una berretta di seta ne­ ra, e si mise alla finestra facendosi il più largo possibile. Infatti non passò molto tempo che la baronessa von Lo­ hausen si affacciò alla porta aperta e alzando la voce per sovrastare il fracasso della strada chiamò il suo pigio­ nale ; quando questi si volse, ella additò un grosso tafano che svolazzava per la stanza. C’era una stalla nelle vi­ cinanze, osservò in tono asciutto. Subito egli si tolse la berretta dal capo, cacciò via il tafano e chiuse la finestra. Poi si rimise la berretta, ma la tolse di nuovo perché la dama era ancora nella stanza e lo contemplava non con sdegno ma con un’ombra di approvazione per il suo abbi­ gliamento, almeno così gli parve. Anzi, su quel poco che si poteva scorgere del viso grave e macilento guizzò un lievissimo sorriso, che scomparve subito, e del resto anche la signora si ritirò. A tutta prima Brandolf non seppe escogitare altro; s’awolse nella sua bella vestaglia, ripose giacca e ber­ retto, e s’accomodò su un divano. Mentre era lì seduto vide il nastro del campanello, fatto di perle verdi e oro, e lo tirò con forza. Come l’omino del barometro la ba­ ronessa comparve sull’uscio, sempre incappucciata e ve­ stita da ombra. Brandolf disse che desiderava mandare un messaggio al suo sarto, che abitava abbastanza di­ stante. La baronessa arrossì ; le toccava andare lei stessa, perché non aveva nessuno. C’era molta urgenza o si po­ teva aspettare il pomeriggio? chiese dopo un minuto di riflessione. Brandolf disse che sì, c’era urgenza, bisognava attaccare un bottone alla giubba che intendeva indossare quel giorno. Ella lo guardò di sghembo e stava per sbattere la porta, ma poi si voltò e chiese se non poteva attaccare il bottone lei stessa. «Certamente, se volesse essere così gentile;» rispose Brandolf «è ancora appeso per un filo; ma come potrei pretendere tanto?». «È sempre meno che farmi correre fino a mezz’ora di qui» ella rispose, e andò a prendere un vecchio cestino da lavoro, con dentro un agoraio e qualche gomitoletto di filo. Brandolf portò la giubba e l’aristocratica locatrice

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cuci il bottone coi ditini affusolati. Per far quel lavoro aveva dovuto mettersi un poco più in luce, e Brandolf vide per la prima volta più chiaramente una parte del suo viso, il mento fine e rotondo, la bocca piccola ma severa e ben fatta, e il naso un tantino appuntito ; ma gli occhi abbassati sul lavoro si perdevano nell’ombra dello scialle. Tutto ciò che rimaneva visibile era d’un candore quasi trasparente e ricordava il ritratto di monaca d’un vecchio quadro tedesco, al quale era servita da modella una don­ na abbastanza vissuta ma provata dal dolore. Ma non gli rimase molto tempo per le sue considera­ zioni : in un batter d’occhi la signora aveva finito e scom­ parve di nuovo. Per il primo giorno Brandolf non poteva far altro, e anzi passarono parecchie settimane senza che gli si of­ frisse altra occasione d’intervenire. Dovette quindi rasse­ gnarsi ad aspettare, osservare e cercare d’indovinare il mistero; giacché un mistero c’era, senza dubbio, benché la signora fosse famosa per la sua malvagità. Prima di tutto lo colpì il fatto che la parte dell’alloggio dov’essa abitava era sempre chiusa e inaccessibile ; del resto consi­ steva soltanto di una cucina, una stanza piccola con una sola finestra, e un bugigattolo. Là doveva passare il gior­ no e la notte sola come un cane, perché tranne il garzone del fornaio non si sentiva mai venire nessuno. Un’unica volta Brandolf riuscì a gettare un’occhiata nella cucina, che sembrava provvista di tutto il necessario; ma non v’era segno che vi si accendesse il fuoco e vi si cucinasse. Non si sentiva mai brontolare una pentola, né scoppiet­ tare la legna, né tritare carne o verdure, né il canto di salsicce rosolate, o anche soltanto di frittelle sfrigolanti nel burro caldo. Di che cosa si nutriva la baronessa? Il pigionante curioso cominciava a veder chiaro: Pro­ babilmente di nulla ! Soffrirà la fame . . . perché cercare altrove la causa della sua scontrosità? È in miseria, la povera baronessa, e sola al mondo, chi sa per quale de­ stino ! In casa egli non prendeva che il caffè e latte al mattino, con un paio di panini freschi, ma per lo più ne lasciava uno

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intatto. Un giorno gli parve di notare ehe Hedwig von Lohausen, venuta a prendere il vassoio, guardasse con avidità non vigilata se era avanzato un panino; poi corse via di gran furia. Gli occhi le si erano illuminati come stelle. Brandolf dovette mettersi alla finestra per padro­ neggiare i suoi pensieri. “Che cos’è la creatura umana,” egli si diceva “che cosa sono l’uomo e la donna ! Con oc­ chi ardenti devono guatare il cibo, come le belve della foresta !”. Uno sguardo simile non l’aveva mai visto. Ma tuttavia com’erano belli quegli occhi scintillanti ! Continuò le sue osservazioni con una certa crudeltà: una volta si mise in tasca il panino rimasto e se lo portò via ; un altro giorno lasciò mezzo panino e la terza volta tutti e due, e sempre gli parve di coglierne l’effetto nello sbattere delle palpebre, nell’andatura più lenta o più rapida, sicché finì per convincersi che la povera donna non doveva quasi mangiare altro che gli avanzi della sua colazione, qualche tazzina di latte e un mezzo o un intero panino. Ora le cose apparivano diverse : doveva cercare di ali­ mentare suo malgrado, perciò pian piano e con cautela, la gatta selvatica, come la chiamavano per la sua intrat­ tabilità. Disse che non aveva più voglia d’uscire per la seconda colazione e ordinò tutti i giorni un pasto mat­ tutino in piena regola, con uova, prosciutto, burro e molti panini. E ne lasciava intatta la maggior parte, nella speranza che il povero topolino affamato ne rosicchiasse un pochino. Ciò dovette succedere per alcuni giorni ; ma poi ella fiutò la manovra, diventò diffidente e una mat­ tina gli disse che doveva ordinar meno roba o disporre in qualche modo degli avanzi; e alla fine non prese più neanche i panini rimasti. Perciò Brandolf restò di nuovo lì senza sapere che pesci pigliare. Un giorno, rientrando da una passeggiata, la trovò nell’androne con un’erbivendola che aveva sul carrettino una magnifica pianta di garofani, ancora coperta di fiori scarlatti nonostante la stagione avanzata. La baronessa prese il vaso tra le mani e affondò la faccia nei fiori, còlta

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evidentemente da un grande nostalgico desiderio di si­ mili cose; chiese timidamente il prezzo, scosse il capo, rimise a posto la pianta e corse via. Brandolf acquistò subito il vaso, sperando di raggiungerla per la scala e di offrirglielo; ma lei era già sparita nella sua tana, ed egli portò i garofani in camera e li mise presso la finestra su un tavolino, che con una poltrona formava il suo an­ golo di lettura. Per non sciupare il tavolino ebbe cura di mettere sotto il vaso un volume in quarto. Più tardi uscì di nuovo per andare a pranzo e poiché pioveva si infilò ai piedi le galosce. Perciò il suo passo era silenzioso, quando tornò dopo alcune ore ed entrò nella stanza. Fermo sulla soglia vide la signora seduta davanti alla pianta, col piumino in mano. Stanca, s’era appoggiata all’indietro e s’era addormentata, le mani che reggevano il piumino abbandonate in grembo. Pian piano egli chiu­ se la porta, andò a sedersi sul sofà e di lì, incrociate le braccia, osservò con attenzione la donna immersa nel son­ no. Non si poteva dire che fosse un vero cordoglio, quello che le si vedeva nel volto; pareva piuttosto l’assenza d’ogni gioia di vivere e d’ogni speranza, il rimpianto di pas­ sati splendori. Sulle ciglia abbassate c’erano due lacrime, ma senza commozione, come due perle incurantemente perdute. Tanto più s’intenerì Brandolf a quella vista; più guar­ dava, e più gli si serrava il cuore; si struggeva di poter chiamare sua quell’ignota sventura, come se si fosse trat­ tato del più bel ramo di melo fiorito o d’un altro prezioso gioiello. Era sempre stato un po’ matto, e pare che lo sia ancora, se si può chiamar pazzia ciò che non tutti fanno. D’improvviso la dormiente fu scossa come da un sogno sgradevole o pauroso, e si destò. Confusa si guardò in­ torno e, quando vide l’uomo che la guardava con espres­ sione di simpatia, si riscosse e in tono più mite del con­ sueto lo pregò di scusarla. Fece anzi di più, e aggiunse a mo’ di spiegazione che i garofani erano i suoi fiori prediletti, e non aveva potuto resistere al desiderio di riposare un momento vicino alla bella pianta, ma di­ sgraziatamente la stanchezza l’aveva vinta. Un tempo

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aveva coltivato centinaia di piante simili, l’una più bella dell’altra, e di tutti i colori. «Posso offrirle questa, baronessa?» chiese Brandolf, che si era subito alzato in piedi «l’ho comprata qui sotto, vedendo che lei l’aveva in mano e la guardava con pia­ cere». Ma la schiarita era già passata. Coperta di rossore ella scosse la testa. «Di là c’è troppo poca luce,» disse «qui starà molto meglio!». Come se rimpiangesse d’aver par­ lato tanto salutò brevemente, uscì e nei giorni seguenti non si lasciò quasi vedere. Un bel giorno portò il conto del primo mese, scritto su un lembo di carta grigia. Con intenzione egli non lo guardò ; augurandosi che fosse molto alto pagò l’ammon­ tare, ma esso non superava affatto la spesa che egli era solito mettere in preventivo. Mentre lui contava il denaro, la strana padrona di casa gli stava davanti, almeno così gli parve, in atteggiamento più timoroso che arrogante, come in attesa della solita disdetta. Ma, sempre più riso­ luto a rischiarare le tenebre del mistero, egli la lasciò usci­ re senza manifestare la minima intenzione di cambiar ca­ sa. Curioso di riscontrare le sue abilità calcolatone studiò subito il conto e non lo trovò aggravato nemmeno di un centesimo; anzi, tutte le volte che a colazione aveva mangiato un panino solo, il secondo non era segnato. Di tutta la faccenda egli non capiva più nulla, tanto più che uscendo verso sera udì per la prima volta provenire dalla cucina un leggero scoppiettio come di legna accesa e l’odore di un’appetitosa minestra, che avrebbe avuto una strana voglia di condividere. Dunque la baronessa si con­ cedeva finalmente di mangiare qualcosa di caldo. “Sta a vedere” pensò “che lo fa soltanto una volta al mese, quan­ do le viene pagato il conto, proprio come gli operai vanno all’osteria quando riscuotono la paga!”. E infatti il giorno dopo non si ebbe più segno di pranzi succulenti. A metà del mese d’ottobre vi fu un colloquio quasi al­ trettanto lungo quanto quello dei garofani. La baronessa gli fece osservare che l’inverno era alle porte e che occor­

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reva combustibile per le stufe; desiderava ordinare legna, e quanta? E gli parve di capire che lei aspettava con una certa ansia la risposta per poterne dedurre se si sarebbe fermato fino alla primavera. Egli suggerì una quantità bastante ad accendere le stufe di tutta la casa e mantenere un bel fuoco in cucina sino alla fine di maggio. Nel tempo stesso le diede un biglietto di banca pregandola di prov­ vedere a tutto, all’acquisto e allo spezzettamento della legna; ella prese il biglietto e sbrigò la faccenda con cura e competenza. Infatti passarono appena otto giorni, che incominciò a nevicare, e allora l’ospite solitaria fu costret­ ta a mostrarsi più spesso, perché era lei che accendeva le tre stufe del suo pigionale, e aveva un bel da fare a por­ tare legna e badare al fuoco. Spesso aveva le mani nere e il viso fuligginoso e sembrava proprio una cenerentola. Ma se Brandolf aveva sperato che ella non facesse la sciocca e ne approfittasse per riscaldare anche dalla sua parte, s’era ingannato; perché, tal quale come d’estate, non s’accorse che di là ardesse mai il più piccolo fuoco. Ep­ pure il freddo era aumentato, e ormai era divenuto stabi­ le; quando la baronessa aveva terminato di sfaccendare doveva ritirarsi nella sua camera fredda, e solo Dio sape­ va che cosa facesse là dentro. Del resto diventava sempre più pallida, più angolosa e più stanca, e gli sembrava che ogni giorno trascinasse le ceste di legna con maggior fatica, così che lui, da uomo premuroso e galante, ne era sinceramente accorato. Però ogni tentativo di farla par­ lare per poter proporre un aiuto era risolutamente re­ spinto, come se ella volesse di proposito rovinarsi la salute. Ma Brandolf era altrettanto cocciuto e spiava l’occasione propizia, che non poteva mancare. Tuttavia la cosa andava un po’ troppo per le lunghe, date le circostanze. Suo padre, vedovo, era un gran pro­ prietario di terre e un uomo molto ricco; e non vedeva l’ora che l’unico figlio andasse a vivere con lui e assu­ messe l’amministrazione dei beni. D’altra parte il figlio possedeva uno spiccato talento giuridico e ottime racco­ mandazioni, sicché veniva urgentemente spinto e solle­ citato a entrare al servizio dello Stato. Infatti era venuto

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nella capitale per considerare le proposte da vicino e pren­ dere una risoluzione temporanea, se non definitiva. Lavorava tutti i giorni per qualche ora al ministero come volontario; ed essendo d’altronde un ricco e difficile figlio di mamma non s’era mai affrettato a far la sua scel­ ta. Da qualche tempo però gli facevano di nuovo pre­ mura, perché avevano messo gli occhi su di lui per una funzione da esercitarsi in una regione lontana. Egli non intendeva rinunziare a concludere la sua avventura casa­ linga, il padre dal canto suo insisteva perché fosse esaudito il proprio desiderio, e così una mattina Brandolf indugiò a letto più a lungo del solito meditando sulla strada da prendere. Finalmente giunse alla conclusione che poteva a buon diritto servirsi delle sue nozioni giuridiche e delle sue conoscenze d’ufficio per indagare con la massima di­ screzione sul passato e sul presente della derelitta baro­ nessa, e procurarle secondo il risultato e le circostanze una posizione migliore oppure togliersela dalla testa e di­ menticare un’impresa fallita. Formato tale proposito si vestì e si preparò a consu­ mare la prima colazione per poter subito uscire. Ma nono­ stante l’ora avanzata, il vassoio del caffè e latte non era al solito posto; le camere erano fredde e nelle stufe non ardeva il fuoco. Stupito aprì la porta e tese l’orecchio; non si vedeva e non si udiva nulla di nulla. Tirò il famoso cordone del campanello, ma nell’appartamento continuò a regnare un silenzio di morte. Percorse il corridoio in preda all’inquietudine e giunto alla porta della cucina bussò, prima piano e poi più forte, senza provocare un segno di vita; aprì la porta, attraversò la cucina deserta fino all’altro uscio che doveva mettere nella camera della baronessa. Anche lì bussò discretamente, e ascoltò, e in­ fine udì un respiro affannoso interrotto da gemiti. Allora si decise ed entrò nella stanza buia, le cui pareti spoglie erano umide per il freddo, fino a stillare; la finestra che guardava in cortile era velata da una semplice tenda bianca e dal ricamo fitto dei fiori di ghiaccio. Su un misero giaciglio fatto di un sacco di paglia, un lenzuolo grossolano e una coperta pietosamente sottile giaceva la

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baronessa. La figura fine e minuta si disegnava sotto la coltre; la testa posava su un piccolo cuscino e capelli ca­ stani erano sparsi in ciocche umide e scarmigliate intorno al pallido volto; gli occhi spalancati fissavano il soffitto. Aveva addosso una giacchettina di flanella ; le braccia e le mani, abbandonate sulla coperta, erano scosse dal freddo e dalla febbre a un tempo, e anche il resto del corpo tre­ mava visibilmente. Brandolf, atterrito, si avvicinò al letto e chiamò l’ammalata; ella volse gli occhi ma non parve riconoscerlo, però con debole voce implorò che le si desse da bere. Egli tornò precipitosamente in cucina, trovò dell’acqua e ne riempì un bicchiere. Per portarglielo alla bocca dovette sostenerle il capo mentre lei gli si aggrap­ pava con tutte e due le mani. Poi lasciò ricadere la testa, guardò per un attimo l’estraneo e chiuse gli occhi. «Non mi riconosce? Come si sente?» disse Brandolf, e cercò sul polso bianco e sottile i battiti del cuore, che avevano il ritmo d’un furioso galoppo. Poiché la baro­ nessa non rispondeva né apriva gli occhi, egli corse giù dalla portinaia, che abitava al piano terreno, e le ingiunse di stare presso la malata mentre lui andava in cerca di un medico. Si mise subito in cammino; conosceva il celebre primario di un ospedale e lo cercò nel luogo dove svolge­ va il suo lavoro mattutino. II medico terminò in tutta fretta quello che aveva ancora da fare e, fatto salire l’ami­ co nella propria carrozza, partì senza perdere tempo alla volta della sua casa. «Ti sei scelto una bella locatrice;» disse scherzando «se muore, avrai da pagare le cure, le esequie e la pietra tombale, e per giunta dovrai fare trasloco!». «No, no!» esclamò Brandolf «non voglio che muoia! Mi sono preso a cuore questa sventurata e il suo segreto, e ora mi sento come una debole donna che ha un bam­ bino ammalato!». Per tutta la strada raccontò al medico la strana vita della baronessa. Quegli scuoteva il capo sempre più stu­ pito. «Lohausen!» disse poi «Se mi ricordassi dove ho già sentito questo nome ! non importa, vediamo che cosa si può fare».

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«Ma che maledetto buco!» esclamò entrando nello stambugio buio, umido e freddo dove giaceva la baro­ nessa. Ella era ormai senza conoscenza e la portinaia disse che dopo la partenza di Brandolf non s’era mai mossa. Fatta una breve visita, il medico dichiarò che si trattava del manifestarsi di una malattia da un pezzo latente, e che l’inferma era in pericolo di vita. «Prima di tutto bisogna toglierla di qui» disse «e metterla in un vero letto, in luogo arioso. Nelle mie corsie possiamo trovarle un posto; però le camere a un letto in questo momento sono tutte occupate». «Non è possibile esporre questa timida creatura al momento in cui ritornerà in sé in un luogo sconosciuto, fra visi estranei;» obiettò Brandolf, che non voleva la­ sciarsi portar via il prezioso oggetto della sua compas­ sione «e inoltre» soggiunse «siamo davanti a una miseria nascosta e vereconda, e dobbiamo stare attenti a non pro­ curarle emozioni. Io posso fare a meno della mia ultima stanza; la mettiamo là con un’infermiera fidata e chiu­ diamo la porta dalla mia parte, così non ci sarà disturbo né per l’uno né per l’altra. Se avessimo un letto, però ! ». «Ho guardato nella camera accanto» informò la por­ tinaia «e ho visto che ci sono tutti i pezzi di un bellissimo letto. Sa il cielo perché questa bizzarra signora dorma su un giaciglio da condannato a morte, quando ha di là tutto quel che ci vuole!». «Glielo dirò io, signora portinaia!» replicò Brandolf «Vuole tenere in serbo il letto buono per potere alloggiare, in caso di bisogno, due pigionali. Da quanto ho potuto ve­ dere, dev’essersi avvezzata a cominciare con le privazioni sempre da se stessa, forse non per bontà ma perché lo ritiene necessario. Perché quella piccola, sottile figurina di donna che giace lì sotto le coperte è di una diabolica inesorabilità verso sé e verso gli altri». Il medico intervenne: «Dunque vado subito a cercare un’infermiera esperta, che conosco, e te la mando qui». E se ne andò nella sua carrozza, dopo avere aggiunto che avrebbe dato istruzioni e ordini direttamente all’in­ fermiera. Anche la portinaia dovette ritirarsi per tornare

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alle proprie faccende e Brandolf rimase solo al letto di dolore della baronessa, finché arrivò l’infermiera con le sue cose, accompagnata dalla portinaia. Prima di tutto fu preparata la stanza e montato il letto, quindi si passò al trasporto dell’ammalata. Poiché le due donne non sapevano come fare, Brandolf prese senz’altro in braccio la cenerentola avvolta in una coperta e la portò di là con la stessa cura che se fosse stata la fragile coppa chia­ mata «La fortuna di Edenhall»,1 poi venne via lasciando le donne alle loro incombenze. Le rifornì entrambe del denaro necessario e raccomandò loro le cure più sollecite. Per se stesso si procurò una domestica, che veniva al mattino e si fermava tutto il giorno, cosicché ora c’era vita nella cucina di solito tanto silenziosa. La malata rimase fuor di conoscenza per più di due settimane, e il medico diceva che doveva esserci nel fra­ gile corpo una natura molto robusta perché la guarigione fosse possibile. Eppure fu così: la febbre scese, e un bel giorno Hedwig von Lohausen si guardò intorno muta e tranquilla. Vide la bella stanza con le sue suppellettili, 1’infermiera premurosa e il dottore grassoccio che le stava accanto con viso e parole piene di gentilezza; ma non chiese spiegazioni e s’abbandonò a quella pace silenziosa, come se temesse di venirne strappata. Solo il terzo o quar­ to giorno incominciò a domandare che cosa le era acca­ duto e chi s’era preso cura di lei. Quando seppe che era stato il suo locatario tacque di nuovo e rimase a lungo so­ pra pensiero ; ma il suo orgoglio sembrava spezzato e la no­ tizia, piuttosto che inquietarla, parve animarla un poco. Quando udì che la malattia s’era vòlta al meglio, Brandolf fu molto contento e sentì qualcosa che era come il piacere d’un bimbo quando in casa è giunto un ospite caro e v’è da aspettarsi ogni sorta di avvenimenti curiosi e gradevoli. “Come ci vuol poco” pensò fra di sé “per pro­ curarsi un’immensa soddisfazione e quante belle possi­ bilità sono lì a portata di mano, pur di saperle vedere !”. Intanto s’era propalata la notizia della malattia e delle I. Allusione ad una ballata di Uhland.

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premure che egli aveva per la sua nobile locataria, e nei circoli che frequentava non gli risparmiarono i commenti, di cui egli non s’ebbe a male per nulla. Scherzava egli stesso sul fatto che s’era stabilito in quella casa per do­ mare un drago e invece gli era toccata la parte di be­ nefattore di una creatura povera e inferma. Attraverso le chiacchiere venne fuori qualche scarsa notizia sui pre­ cedenti della sua protetta. Figlia di un defunto barone von Lohausen che aveva la residenza nello Stato vicino, era stata sposata con un certo capitano von Schwendtner, ma dopo tre anni di matrimonio infelice aveva ottenuto il divorzio, e il detto Schwendtner era poi sparito in cattive circostanze. Brandolf provò subito una strana gelosia per 10 sconosciuto, e un rabbioso desiderio di punirlo, senza pensare che alla fine poteva toccargli di curare anche lui, se riusciva a scovarlo. Dopo un’altra settimana la baronessa era sulla via della guarigione, purché nulla venisse a turbare il normale de­ corso. Brandolf era molto impaziente di rivedere la crea­ tura che aveva salvato, e fece chiedere dall’infermiera se la signora baronessa lo voleva ricevere. Intendeva infatti contribuire al consolidamento della sua salute anche con le attenzioni cortesi e compensarla di quanto aveva dovuto soffrire quando imbacuccata da cenerentola era stata co­ stretta ai più umili servizi. Insomma, finché dipendeva da lui, ella doveva essere circondata da bontà e gentilezza. Quando gli fu risposto che la baronessa attendeva la sua visita egli indossò un abito da passeggio, infilò i guanti e si presentò nella stanza vicina. Fu un poco sorpreso di vederla nel suo letto ben pre­ parato, e quasi non l’avrebbe riconosciuta abbigliata com’era di una candida veste e con il pallido viso trasfi­ gurato nella cornice dei capelli disposti con arte. Mentre egli prendeva posto sulla seggiola che l’infermiera aveva avvicinato al letto, ella alzò su di lui i grandi occhi gravi. 11 suo sguardo posava attento e pensoso sulla faccia di Brandolf e lo esaminava con curiosità mentre egli le chie­ deva come si sentiva ed esprimeva la propria contentezza per la sua guarigione.

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«Il suo amico, il buon dottore» ella disse piano «pen­ sa che mi sia ristabilita del tutto». «Anzi ne è convinto, e io pure, perché egli se ne intende » dichiarò Brandolf, ed ella continuò: «Lei non ha avuto fortuna in questa casa! Invece di essere servito e curato come si deve ha dovuto far curare e servire la sua locataria, che non la concerne in nulla!». «Al contrario, non avrei potuto essere più fortunato !» rispose Brandolf con gioia schietta «Però ella deve far­ mi il favore di continuare pazientemente a lasciarsi cu­ rare, senza opporre resistenza. Me lo promette, vero?». Le porse la mano con spigliata cordialità ed ella vi pose sopra la sua, esangue e immateriale, senz’altro peso che quello della debolezza. E intanto si formò sulla bocca seria un sorriso insolito, infinitamente commovente, come in un bimbo che impara quell’arte per la prima volta ; e sembrò volersi trasformare in un guizzo di pianto. Brandolf divorò il piccolo fugace spettacolo con occhi bra­ mosi; ma ricordando di non dover troppo stancare e agi­ tare la malata le strinse dolcemente la mano e si congedò. Ma fuggì anche per sé, perché gli urgeva di correre al­ l’aperto e di fischiettare una canzoncina di gioia, che in­ cominciò già mentre si metteva il cappello e il pastrano per andare a pranzo. Salutò allegramente i compagni di mensa e li sedusse a un allegro simposio ordinando una bottiglia di profumato vino del Reno. Uno dopo l’altro seguirono il suo esempio; ne nacque una notevole gaiezza, senza che nessuno sapesse qual era il motivo. Infine fu in­ terrogato Brandolf, come promotore. «Eh!» diss’egli «la mia gatta ha fatto i piccoli e oggi mentre ne tenevo uno fra le mani gli si sono aperti im­ provvisamente gli occhietti e con lui ho visto il mondo per la prima volta». I commensali crollarono la testa ridendo di quell’as­ surdità ; invece Brandolf cominciò da quel giorno a essere molto più perspicace; infatti quando andò pieno di fer­ vore al suo ufficio, dove doveva esaminare l’incartamento di un alto funzionario di giustizia residente in provincia, lavorò con spirito così alacre e lucido che ne venne fuori

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un ottimo giudizio critico, in seguito al quale il cattivo impiegato ebbe dei rimproveri, delle sanzioni, e fini per essere trasferito. Tutto per via del micino di cui Brandolf diceva d’aver festeggiato il primo sguardo sul mondo. Il giorno dopo ripetè la sua visita e portò alla baronessa alcune rose appena sbocciate, di delicato colore, che aveva scelto lui stesso nella serra d’un giardiniere. Ella le tenne nella mano che posava sulla coperta. Mai aveva ricevuto simili cortesie, né mai, probabilmente, le aveva pretese. Era quindi come una prima esperienza nella sua nuova vita, e per i palpiti del cuore non ancora tornato in forze un leggero incarnato simile a quello delle rose si sparse sulle pallide guance; e insieme con quel riflesso rosato un sorriso schietto, forse anch’esso il primo di quel genere su quella bocca. Ricordava quasi il testo di un vecchio epigramma, che dice : Vuoi tu il candido giglio in rosa rossa mutare? Bacia una Gala tea bianca : la vedrai sorridendo avvampare.

D’un bacio però non era il momento di discorrere. Brandolf ora le provvedeva ogni giorno qualche godi­ mento per gli occhi o per la bocca, per quel che il medico permetteva, e la convalescente accettava tutto, dicendosi che tanto era cosa transitoria. Dopo un’altra settimana l’infermiera lo informò che la baronessa s’era alzata dal letto e che l’avrebbe trovata seduta in poltrona. Così era infatti. Ella portava un vecchio modesto vestito di taf­ fettà e un merletto nero sul capo ; tuttavia si vedeva che desiderava fare onore all’ospite. Lo guardò con dolcezza grave, quando egli entrò augurandole ogni bene e si se­ dette al suo cenno. «Quel giorno che le tagliai il tacco con un coltello» ella disse «non pensavo che le sarei mai stata seduta di fronte come oggi!». «Io benedico quel taglio; perché fu la causa della no­ stra buona amicizia, e senza di esso non sarei divenuto suo ospite; infatti lo divenni col proposito di punirla». «Lei mi ha confusa con la sua bontà» ella disse triste­ mente «e mi ha certo salvato la vita, ma s’è anche in­ tromesso in questa vita salvata, e ora io la devo mutare.

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Vedo che non potrò più vivere indipendente come finora, e tenterò di trovarmi un posto di governante di casa, o qualcosa di simile. L’infermiera e la portinaia mi hanno fatto, come potevano, una nota delle spese; e per pagare i debiti e mettere insieme il necessario per il prossimo fu­ turo penso di vendere, appena sarò perfettamente rista­ bilita, l’arredamento della mia casa, l’ultima cosa che mi rimane. Devo dunque darle la disdetta e la prego di non aversene a male. Ma lei certo capirà, perché è il primo uomo buono che io abbia mai incontrato, e mi addolora doverla perdere così presto ! ». «È una perdita che non le riuscirà tanto facile» escla­ mò Brandolf prendendole la mano e tenendola stretta «perché le sue risoluzioni s’accordano perfettamente col progetto che io avevo fatto per lei. Credeva forse che l’avrei lasciata andare così, tutta sola verso l’ignoto?». «Oh Dio!» disse lei e incominciò a piangere «non sono abituata alle parole buone, mi spezzano il cuore ! ». «No, no, anzi glielo faranno guarire !» replicò lui, e se­ guitò «Dunque ascolti. Mio padre è vedovo e vive nelle sue terre, mentre io devo restare lontano ancora per un po’ di tempo. La nostra vecchia direttrice di casa è morta sei mesi fa, e mio padre anela di affidare di nuovo la no­ stra dimora al governo femminile. Dunque vada da lui, appena sarà ben guarita, e si renda utile finché le piace e finché si troverà qualcosa di meglio. Che lei ci sarà d’aiu­ to prezioso non ne dubito; perché il regime di ferree pri­ vazioni che lei s’era imposto qui secondo me era soltanto la forma morbosa di un senso originariamente sano del governo domestico, e so che lei darà volentieri ai suoi sottoposti tutto ciò che spetta loro, quando ci sarà l’abbon­ danza. Non ho ragione?». La mano della convalescente tremava lieve nella sua mentre ella diceva piano: «Fa bene sentirsi descrivere così, e grazie a Dio non posso dire che non sia vero!». Lo guardava intanto con occhi così colmi d’affettuosa riconoscenza, che a Brandolf si allargò il petto davanti al nuovo grazioso fenomeno. «Allora siamo d’accordo che lei verrà da noi?» egli

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chiese impaziente, ed ella rispose: «Non trovo la forza di rifiutare, ma prima deve sapere chi sono e donde vengo ! ». «Non c’è fretta, ne parleremo domani» esclamò Brandolf con premuroso riguardo, e s’alzò risoluto, quan­ tunque spiacente di lasciarle la mano, vedendo che ella era commossa, stanca e di nuovo agitata. Ma il giorno dopo la trovò relativamente meglio. Ella s’alzò dalla poltrona e gli andò incontro di qualche passo. Brandolf però la fece subito sedere. «Ho dormito tranquilla tutta la notte,» disse Hedwig «ed è Strano, ma anche nel sonno sentivo il bene che lei mi ha fatto come se fossi cosciente». «Brava, sono contento di lei!» disse Brandolf con la soddisfazione di un giardiniere che vede una stenta pian­ ticella di mirto riprendere forze e metter fuori freschi ger­ mogli verdolini. Infatti stava osservando con meraviglia di quale aggraziata espressione fosse capace quel volto in stato di contentezza e di tranquillità. Prese uno specchio che era lì vicino e lo porse alla signora dicendo: «Guardi un po’ qui ! ». «Che cosa?» diss’ella leggermente spaventata guar­ dando nello specchio ma non scoprendo nulla. «Intendevo soltanto, guardi com’è bella!». « Io? Non sono mai stata una bellezza, e lo sono ancor meno ora, appena sfuggita alla tomba ! ». «No, una bellezza no, ma qualcosa di meglio!». La bandierina rossa del suo sangue svolazzava già un po’ più gagliarda sulle guance pallide. Ma lei non osò chiedergli che cosa voleva dire, e gli tolse in silenzio lo specchio di mano; eppure abbassò gli occhi, domandan­ dosi piena di curiosità che cosa poteva essere meglio di una bellezza e tuttavia visibile nello specchio. Brandolf indovinò la perplessità sotto le palpebre calate; capì che di nuovo le era stato detto qualcosa d’insolito, e poiché non sembrava che le facesse male lasciò che l’assapo­ rasse per un poco in silenzio, finché alzò gli occhi ella stessa. Un angelo passò nella stanza, come si suol dire. Per trarsi d’impaccio la baronessa prese la parola: «Sono

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così calma, ora, che credo di poterle senza danno raccon­ tare la mia storia; non è lunga. Lei vede in me la discendente di un casato che da cent’anni sussiste solo consumando i beni che gli pro­ vengono dalle donne, senza altro lavoro o guadagno, finché il filo è venuto a mancare. Ogni donna entrata per matrimonio nella famiglia vide sperperare la sua dote, e sempre ne veniva un’altra e riempiva la brocca vuota. 10 conobbi ancora mia nonna, al cui patrimonio il nonno diede fondo tranquillamente, intanto che il figlio cresceva e giungeva all’età di prender moglie. Spinta dall’istinto di conservazione la nonna gli procurò una ricca ereditiera, alla quale doveva toccare nel corso del tempo più di un patrimonio, sicché secondo le previsioni umane sarebbe finalmente dovuto avanzare qualcosa. Ma essa morì in ancor giovane età, dopo aver messo al mondo due maschi, e poiché era già manifesto che sarebbero stati anche quelli due fannulloni, la nonna non ebbe pace finché non riuscì a conquistare per il figlio - mio padre - una seconda ere­ ditiera, che mi diede i natali. Ma la nonna, prima di mo­ rire, dovette ancor maledire la sua previdenza, con la quale aveva procurato la sventura a due giovani donne. Mio padre dilapidò il denaro in continui viaggi, per­ ché non gli piaceva restare a casa. Con gli anni fu preso da un’altra pazzia: s’attaccò a donne false e cattive, alle quali dava tutto il denaro e i valori che poteva racimolare. Perfino granaglie e vino, legname e torba sottraeva alla tenuta per darli a esse, e quelle arraffavano a più non posso. I figli lo disprezzavano, ma lo imitavano e sac­ cheggiavano la casa come meglio potevano per i loro minuti piaceri. Nessuno potè mai costringerli a impa­ rare qualcosa, e giunti all’età del servizio militare schiva­ rono anche quello benché fossero sani e robusti. Il padre 11 odiava e spiava le eredità che spettavano ancora a loro da parte materna, ansioso di averle in mano almeno per qualche anno, come tutore naturale. Ma essi diventa­ rono maggiorenni prima che le eredità cominciassero a fioccare fitte, l’una dopo l’altra; allora essi raccolsero le loro ricchezze e se ne andarono per il mondo a fare i loro

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comodi, senza lasciarsi dietro un soldo. Erano appiccicati l’uno all’altro come mignatte, con la solidarietà dei bir­ boni, e probabilmente è ancora sempre così, se vivono ancora; giacché non si sa dove siano. Mio padre s’ammalò e morì, e la mamma rimase sola con me nell’ormai spoglia residenza avita dei Lohausen, che ella desiderava non aver mai veduto. Da anni cer­ cava di salvare il salvabile, e ora lottò come un soldato contro la rovina. Da lei imparai a vivere quasi di nulla, e a risparmiare ancora sul nulla. Abitavamo con pochi fa­ migli nella casa già ipotecata. Dal mattino alla sera la mamma perseguiva il suo scopo; il patrimonio che aveva portato in dote era sfumato, ma ella doveva ancora ere­ ditare, e solo quella speranza la sosteneva. Sventurata­ mente non visse abbastanza a lungo ; in una giornata d’au­ tunno umida e fredda, mentre stava nei campi a sorvegliare il raccolto della frutta, si buscò una malattia che la rapì in pochi giorni. Adesso ero sola, ma non lo rimasi a lungo. L’ultima eredità che giunse nella casa sciagurata spettava a me; ammontava a più di duecentomila talleri. E subito ri­ comparvero i fratelli, apparentemente in buona posi­ zione, sebbene sempre dediti ai loro rozzi piaceri. Por­ tarono con sé un certo capitano von Schwendtner, uomo posato e di bell’aspetto, che pareva esercitare su di loro un influsso benefico e tenerli a freno quando oltrepassa­ vano i limiti. Era sempre pronto col consiglio e con l’ope­ ra, e pieno di discrete attenzioni, senza offendere i diritti dei padroni di casa. I servi erano contenti di sentire parlare un uomo esperto, giacché essi ormai non erano dei più scelti e sapevano far poco. Tuttavia c’era qualcosa che non mi persuadeva, e io mi sentivo angosciata e oppressa. E forse solo perché avevo paura e mi sentivo derelitta fui vittima della corte che il capitano mi fa­ ceva; profondamente cieca, senza un sentimento più te­ nero, che non conoscevo, sposai quell’uomo, e fu allora che incominciarono le mie sofferenze. Perché era stata tutta una commedia ordita dai tre. Il mio patrimonio mi fu abilmente tolto di mano, non

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saprei dire come, col pretesto di depositarlo al sicuro in una banca della capitale. I fratelli scomparvero di nuovo dopo aver probabilmente riscosso il prezzo della vendita di un’anima ed essersi riserbati di seguitare a spartirsi la preda. Passai tre anni fra i maltrattamenti e le umiliazio­ ni. Non vidi più i miei fratelli. Mio marito era sovente, anzi quasi sempre, lontano, finché un giorno arrivò con tutta una compagnia di uomini mezzo ubriachi, a ca­ vallo e in carrozza, e mi ordinò di provvedere a loro nel modo più ospitale. Io feci tutto quel che potevo, mentre gli uomini si divertivano a tirare con le pistole. Avevo nella culla un bambino ammalato, e andai a vederlo per un attimo; dopo aver pianto a lungo s’era un poco assopito. Giunse Schwendtner con la pistola in pugno e pretese che io mostrassi alla compagnia “il suo ragazzo”. Gli feci osservare che il povero piccino dormiva, ma lui gridò: “Adesso t’insegno come si fa a svegliare il figlio d’un soldato!” e sparò un colpo così rasente al visetto, che la palla andò a infiggersi nel muro vicino. Il bimbo si spaventò orribilmente e cadde in convulsioni mortali; morì infatti dopo tre giorni. Quella sera il malvagio mi ob­ bligò a sedermi a tavola con gli altri. Per amor di pace obbedii, ma subito egli m’insultò davanti alla sua banda con parole infami, che solo uno scellerato può usare verso sua moglie. Mi alzai e ritornai barcollando presso il mio bambino agonizzante. Nel frattempo, la masnada se ne andò com’era ve­ nuta. Poco dopo, come dissi, il bimbo morì; lo seppellii chetamente, senza avvertire quell’individuo, e poi ab­ bandonai il castello in rovina, di cui purtroppo m’è ri­ masto il nome. Dalla vendita dei gioielli di mia madre ricavai i mezzi per assumere un avvocato che mi liberò da mio marito e mi ottenne il divorzio, ma alla fine non riebbi del mio nemmeno un tallero. Tutto era sparito, sebbene difficilmente potesse essere stato consumato in così pochi anni. Non molto tempo appresso Schwendtner fu espulso dall’esercito per un’altra azione abietta, e pare che per un po’ abbia frequentato coi miei fratelli bettole e bische, finché vennero tutti e tre incarcerati. Il podere di

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Lohausen fu venduto e io non conservai che l’arreda­ mento di casa, grazie al quale, come lei sa, ho cercato di andare avanti affittando stanze, però con poca fortuna. Son due anni che passo da un appartamento all’altro, in questa città dove nessuno mi può soffrire, sempre incalza­ ta dalla paura di non riuscire a mettere insieme di che pagare la pigione. Così, alla luce del giorno, è stato com­ piuto il colpo di mano per cui una debole donna ha do­ vuto quasi morire di fame mentre tre uomini grandi e grossi si mangiavano, chissà dove, il legittimo patrimonio di lei. Certamente ne hanno messo una parte al sicuro, come sogliono i ladri che sanno nascondere bene il bot­ tino e poi vanno tranquillamente a riprenderselo quando escono dalla galera». Non solo perché aveva terminato il racconto, ma anche perché Brandolf dava segni d’agitazione e i suoi occhi lan­ ciavano fiamme, ella cessò di parlare. Ma prima che la baronessa si fosse ben resa conto della sua eccitazione, egli aveva già padroneggiato la collera che ribolliva in lui e inghiottito con sforzo il furore che lo agitava contro i tre malfattori, affinché la convalescente non ne fosse turbata, dopo che aveva raccontato la sua pietosa vicenda con la stessa serenità con cui si riferisce un sogno tormentoso dal quale ci si è infine svegliati. « Ormai è passato e non tornerà più ! » disse Brandolf in tono rasserenante, e le prese la mano che accarezzò con dolcezza; cominciava ormai a trattarla come un og­ getto ben meritato, o un bene a lui affidato, del quale si sentiva responsabile e che quindi non perdeva d’occhio. Così la nuova vita trascorse placida e cheta, finché, nel marzo solatio, il medico dichiarò che la baronessa era ri­ sanata e in condizione d’intraprendere il viaggio senza pericolo alcuno. Furono vendute tutte le suppellettili, e in primo luogo i vetri e le porcellane con gli innumerevoli stemmi ; la si­ gnora conservò soltanto le cose che potevano ricordarle la madre, il resto desiderava cancellarlo, se era possibile, dalla memoria. Fece anche rimodernare il suo modesto guardaroba,

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cercò, pregata da Brandolf, una brava cameriera di cui a casa v’era bisogno, e in compagnia di questa partì final­ mente, seguita dai saluti e omaggi del suo protettore, per la provincia dove viveva il vecchio Brandolf e dove tutto era pronto per riceverla. Brandolf invece si recò in un’altra parte del paese, avendo accettato l’incarico di occupare per qualche mese un posto di fiducia, e di riorganizzare un ufficio molto trascurato. L’intenzione dei superiori era di provare le sue forze e di prepararlo ad altre funzioni; ma egli si ri­ serbava di ritornare libero una volta eseguito il suo la­ voro. Non passarono molte settimane e giunsero lettere del vecchio signore che traboccavano di elogi per la baronessa Hedwig e per il nuovo ordine che regnava in casa. Pareva che ella avesse a disposizione una schiera di folletti tanto le cose filavano lisce sotto la sua direzione, davvero bene­ detta era l’opera delle sue mani, e commovente vedere la sua gioia silenziosa per la sicurezza e l’abbondanza in cui poteva lavorare e governare nel modo migliore. Dal mattino alla sera era in moto, lietamente ma tranquilla­ mente, solo ogni tanto si concedeva con grazia un’ora di sosta, quasi più per non farsi notare e dare respiro agli al­ tri che per riposare ella stessa. Anche la cameriera aveva ottime maniere, e la cucina era squisita : in breve, il signor padre si trovava come in paradiso e gli sembrava di rin­ giovanire. Quasi quasi avrebbe commesso la pazzia di riprender moglie per non perdere quell’eccellente pa­ drona di casa. Infine arrivò una lettera in cui il signor Brandolf scri­ veva di aver riflettuto a lungo sul progetto di matrimonio, e trovato che toccava al figlio di metterlo in esecuzione. Perché, anche se la signora von Lohausen era piena di amorevoli premure per il padre, il cuore l’aveva dato evidentemente al figlio; il giovane Brandolf, non v’era dubbio, l’aveva ammaliata. Hedwig non parlava mai di lui; ma se si pronunziava il suo nome arrossiva lieve­ mente, come una fanciulla, alla quale del resto somigliava nella figura snella e nella vita sottile. Perciò il padre de­

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siderava che Brandolf si decidesse ad arrischiare il salto; non poteva augurarsi per parte sua una nuora migliore. Brandolf rispose che era contento. Come sua protetta, Hedwig gli era diventata cara come una figlia; ma si sen­ tiva di amarla anche come sua mogliettina e l’avrebbe legata con un filo di seta alla caviglia sottile per non la­ sciarsela scappare mai più. Però doveva essere il babbo a chiedere per Brandolf la mano di Hedwig, e incassare, se mai, l’eventuale rifiuto. A volta di corriere il vecchio annunziò che aveva fatto la domanda e ottenuto un si immediato. Era successo sul sentiero dell’orto, da lei così magnificamente rimesso in ordine. Hedwig era così onesta e sincera che non aveva potuto farsi pregare nemmeno per un momento, ma gli aveva subito teso tutte e due le mani tremando, con un’espressione straordinariamente devota e patetica sul viso affilato. Già, già, la piccola strega non era soltanto utile ma anche molto graziosa, eccetera, eccetera. Dopo di che Brandolf cominciò a inviare all’eletta pic­ cole lettere e grossi regali. Anch’essa rispondeva breve­ mente; ma ogni parola riluceva dei sentimenti che vi erano contenuti. Il giorno del fidanzamento fu stabilito per il mese di maggio, e vennero diramati inviti a parenti e amici. Come direttrice della casa, Hedwig aveva il do­ vere e la gioia di fare i preparativi, e la sposa era lei stessa. All’arrivo di Brandolf gli era andata incontro da sola, com’era stato inteso fra loro. Egli era sceso dalla carrozza e s’erano avviati insieme per un sentiero tra i prati, soli­ tario e fiorito, a metà del quale egli l’aveva stretta a sé ed ella gli aveva gettato le braccia al collo, sotto i penduli rami dei meli in fiore. Sull’argomento non v’è altro da dire, se non che anche quella volta venne almeno pa­ reggiato uno di quei lunghissimi conti sull’attivo e sul passivo della vita che i nostri moderni Shylock si fanno tanta premura di compilare e presentare al Cielo. Poiché Brandolf era occupato fino all’autunno con la sua missione speciale e non intendeva restare in servizio dopo le nozze, venne scelto per il rito il tempo della vendemmia, in modo da celebrarlo insieme con una sagra

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della natura e farne in un certo senso una festa simbolica per la sposa massaia che aveva sofferto tante privazioni e tanti dolori. E non era il caso di pensare a un viaggio di nozze : la vita coniugale doveva fin da principio con­ fondersi con il fervore di lavoro e il tumulto dionisiaco dell’autunno. Al tempo della mietitura Brandolf tornò a casa per qualche giorno ; dopo avere conosciuto la sposa nel crudo inverno, essersi fidanzato con lei in primavera, voleva vederla nel fulgore dell’estate, prima che l’autunno re­ casse il coronamento. Ormai Hedwig era forte ed ener­ gica, ma sempre riflessiva e silenziosa, e la schietta gioia d’amore che fioriva in lei era moderata e attutita dalla stessa mano invisibile che frenava l’esuberanza delle spi­ ghe d’oro radunate sui campi in mille covoni. Fra due vaste distese di frumento biondo cresceva una striscia di antiche querce, la cui ombra interrompeva la luce abbagliante dei campi e delle nuvole estive; per di più un limpido rivo scorreva sotto quell’ombra. Era il luogo pre­ scelto da Hedwig per il ristoro dei mietitori, e pranza­ rono lì tutti insieme ; anche il vecchio signore aveva vo­ luto venire. E quantunque la presenza della baronessa fosse gradevolmente sentita da tutti, era tuttavia come s’ella non ci fosse. Terminato il pranzo restò sola nella boscaglia rada di dove tra i tronchi si poteva sorvegliare tutta la campagna. S’era preso l’incarico d’intrecciare le ghirlande per la festa della mietitura, e Brandolf le tenne compagnia. Nel semplicissimo abitino d’estate, con una sottile catena d’oro al collo ella sembrava una libera figlia dell’aria, lieta di godere l’attimo fuggente e ignara del passato e del futuro. «Sei mai già stata così come in questo momento?» chiese confidenzialmente Brandolf mentre la guardava lavorare. «No!» ella rispose «io non ho di questi ricordi! Tut­ to per me è nuovo, e perciò allegro e divertente. Mi sembra addirittura di avere appena cominciato a vi­ vere». Nel viaggio di ritorno al luogo della sua transitoria atti­

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vità, Brandolf fu sorpreso dal cattivo tempo e quindi costretto a ripararsi più sovente del solito nelle locande lungo la strada. Così, quando aveva già percorso molte miglia, capitò in una stazione di posta la cui ampia sala era affollata di viaggiatori d’ogni specie. Fra gli altri v’erano tre tipi allampanati e inselvatichiti, con barbe incólte e vesti logore, che portavano strumenti musicali assai malconci. Brandolf osservò che al sopraggiungere di nuovi avventori i tre venivano cacciati da un tavolo all’altro coi loro bicchierini d’acquavite, e alla fine ven­ nero addirittura espulsi dalla sala. Brontolando ma senza opporre resistenza andarono fuori, in cortile, si ripararono sotto il tetto sporgente d’una legnaia e, probabilmente per vendicarsi, presero in mano i loro strumenti. Ne venne fuori una musica così atroce che il pubblico nella mescita si mise a protestare imprecando e li fece smettere. Un mer­ cante di buon cuore raccolse qualche spicciolo per i po­ veracci e portò loro il piccolo modesto ricavato, dopo di che essi cessarono il fastidioso fracasso e restarono acco­ vacciati in un angolo ad aspettare che spiovesse. Brandolf chiese a uno dei garzoni chi erano quei miserabili musi­ canti. Il ragazzo rispose che erano gente di dubbia fama e piuttosto malvista. I due meno alti eran chiamati quelli di Lohausen, e il più lungo il cattivo Schwendtner. Si sussurrava che fossero tre gentiluomini di campagna, un tempo molto ricchi, e poi finiti in prigione. In realtà Hedwig sbagliava credendo che il patrimonio di cui era stata derubata esistesse ancora, almeno in parte, e che i tre bricconi se lo stessero godendo. Certo ne ave­ vano avuto l’intenzione e per fare fruttare il denaro s’erano rivolti a maneggioni di borsa; ma erano capitati male e in meno di sei settimane ci avevano rimesso anche le pen­ ne. Furibondi vollero vendicarsi, rifare fortuna con un grosso imbroglio di cambiali e poi scomparire. Ma non riuscirono a farla franca; scoperti, dovettero indossare la casacca a righe e restare un anno in carcere. Quando vennero fuori erano poveri in canna; anche i loro begli abiti e le vestaglie di seta erano stati messi all’asta, e dovettero accontentarsi dei modesti indumenti forniti

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dalla carità pubblica. Così non poterono più risalire al­ l’onorifico grado di giocatori di professione e, poiché non misero la testa a partito, divennero vagabondi di strada. Caduti così in basso, men che mai poterono fare a meno gli uni degli altri. Quando si separavano nella speranza di cavarsela meglio, dopo un paio di settimane erano di nuovo insieme; solo un arresto occasionale poteva divi­ derli. Negli anni giovanili il lungo capitano Schwendtner aveva imparato a strimpellare il violino, e sapeva più o meno tendere una corda e suonarvi sopra. I due di Lohau­ sen da ragazzi avevano preso qualche lezione di corno e di clarinetto, ma s’erano presto stancati. Nella sfortuna quelle antiche velleità si dimostrarono utili e fornirono loro il pretesto di formare una lega durevole per correre il paese in cerca di pane e d’avventure. Ora Brandolf, seduto a una finestra della locanda, guardava attraverso la pioggia scorrente sui vetri i tre grigi messeri, e non poteva aver dubbi sulla loro identità. Sgomento e paura per la sua sposa furono il primo effetto di quella vista sgradevole. Ella non immaginava che il loro squallido destino passasse così vicino a lei. Poi Bran­ dolf fu assalito da una collera potente, ed ebbe voglia di prendere la frusta del suo cocchiere, andar fuori e darne un fracco a quei malviventi. Ma quanto più li guardava, tanto più si ammansiva il suo impulso violento, e si tra­ mutò alla fine in una allegra soddisfazione nel riscontrare quanto si trovavano a mal partito. Il perfido Schwendtner non cessava di asciugarsi gli occhi arrossati e armeggiava intorno alle scarpe rotte, cercando di infilarvi un pez­ zetto di scorza di betulla che aveva trovato presso la le­ gnaia, mentre i Lohausen tiravano fuori dal sacco qual­ che crosta di pane e la rosicchiavano; poi raccolsero nel fango un mozzicone di sigaro, lo pulirono e ne trassero a turno qualche boccata; giacché la loro solidarietà di furfanti era inalterabile. Dopo circa mezz’ora, mentre la pioggia continuava a scrosciare, era maturato nei pensieri di Brandolf un pro­ getto di vendetta, e contemporaneamente di liberazione, più scherzoso che feroce, per il quale occorreva invitare

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in un certo modo il terzetto alle nozze. E si accinse subito a tradurlo in realtà. Aveva con sé un fedele e ingegnoso domestico della casa patema, che si chiamava Jochel; erano cresciuti insieme e negli anni passati avevano combinato più d’un tiro birbone. Si confidò dunque con Jochel e gli insegnò co­ me doveva osservare i tre musicanti e seguirne i passi, per poi avvicinarli opportunamente travestito e attirarli nelle vicinanze di casa Brandolf con la promessa di un buon guadagno e di qualche giorno di vita beata. Si trattava infatti di averli sottomano nel giorno della festa per le nozze e per la vendemmia, senza che sospettassero di nulla. L’astuzia del buon Jochel riuscì perfettamente, co­ sicché al tempo stabilito egli li condusse sul posto, cioè in prossimità non pericolosa, impazienti di godersela un po’ e con un’acquolina in bocca che egli alimentava ogni tanto con una brocca di mosto, alternata a bicchierini d’acquavite. Intanto i tre s’esercitavano volonterosa­ mente nei loro spaventosi concerti, ben convinti di dover sostenere una parte importante presso qualche imbecille di proprietario, e i suoni diabolici giungevano sinistri dal boschetto dove Jochel li aveva nascosti. La vendemmia era già incominciata da alcuni giorni e stava per finire. Oltre i molti contadini del podere erano venuti numerosi aiutanti, allegri giovanotti e ragazze, cuochi e cuoche, camerieri e altri domestici presi a prestito da case signorili in città, e anche una parte degli invitati alle nozze era già arrivata, mentre si aspettava ancora una buona or­ chestra da ballo. Così venne il gran giorno, accompagnato dal più mite e aurato sole d’ottobre, che traeva dal terreno un velo di nebbia dopo l’altro e poi Io disperdeva finché tutta la campagna con alberi e colline risplendette adorna di caldi colori, e le lontananze all’intorno simboleggiavano col loro misterioso azzurro un promettente avvenire di felicità. Nella casa padronale furono celebrate al mattino le nozze, mentre una musica gentile fluiva dalle finestre aperte. Poi seguì il pranzo degli sposi e degli amici, e in-

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tanto i vendemmiatori e la gente del contado banchet­ tavano all’aperto e ballavano già al suono di una ga­ gliarda orchestrina villereccia. Verso sera poi, quando il sole sempre più dolcemente cominciava a declinare, si svolse il grande corteo dei vendemmiatori, al quale i tre farabutti erano chiamati a prender parte. Era, questa cerimonia, piuttosto semplice, cioè i vendemmiatori e i pigiatori, camuffati in tutti i modi possibili, facendo fracasso sui loro arnesi e preceduti dalla loro musica, dovevano sfilare davanti ai signori, i quali assistevano da un podio eretto all’ingresso del parco, con un tempietto inghirlandato d’edera nel centro, che incorniciava la spo­ sa e lo sposo. Il corteo si snodò abbastanza pittoresco sotto i grandi alberi, e Brandolf aveva provveduto affinché ogni sorta di panni colorati, dozzine di tirsi, tamburelli a sonagli, maschere di satiri e specialmente una quantità di graziosi travestimenti per bambini, raffiguranti la fioritura delle viti, portassero varietà e colore nella sfilata. La parte principale doveva rappresentare la gioia di una buona annata vinicola; il finale invece era riservato al disprezzo dovuto in tutte le circostanze a un’annata cattiva. I tre diavoli che ne avevano colpa: quello dell’acidità, quello dell’insipidità e quello della corruttibilità, dovevano pro­ cedere tirati a strattoni per la coda e con la loro musica infernale esprimere la velenosità e la schifezza di un vino ignobile. La parte era riservata appunto ai nostri tre malfattori. Per rimuovere ogni diffidenza, gli si era chiaramente spiegato quel che dovevano rappresentare. Sapevano an­ che che si celebrava un matrimonio; ma Jochel aveva storpiato con tanta disinvoltura il nome della sposa, al quale d’altronde non s’interessarono affatto, che quelli non sospettarono fino all’ultimo la loro vera posizione. Tuttavia il sangue e la tradizione patrizia ispirarono loro un moto di rivolta mentre venivano camuffati e imbri­ gliati. Furono avvolti in pelli caprine chiazzate di grigio e di nero, tinti di fuliggine in faccia, e forniti di lunghe corna sul capo. Code di vacca vennero loro saldamente

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legate in fondo alla schiena, e le tre code unite insieme e attaccate a una lunga fune ; questa era tenuta a destra e a sinistra da venti robusti giovanotti vestiti da bottai, con corone di pampini in testa, che la tiravano per trascinare in trionfo i tre diavoli lungo il percorso, facendoli cam­ minare all’indietro. Come s’è detto, i tre compari da principio si mostrarono riluttanti; ma il compenso di cin­ que talleri promesso a ciascuno vinse ogni resistenza. Così vennero avanti, inciampando e saltellando a ri­ troso, senza mai un attimo di sosta; alle loro spalle udi­ vano la musica che precedeva il corteo, canti, grida d’esultanza e i tamburelli di vignaioli e baccanti, ma non potevano vedere dove andavano; sentivano gli schia­ mazzi e le risa della folla schierata lungo la strada, e finalmente videro le prime file degli invitati alle nozze, che battevano le mani e gridavano evviva. Con gocce di sudore sulla fronte fuligginosa il capitano von Schwendtner grattava miserevolmente il violino e i due Lohausen soffiavano nelle trombe rotte, finché si trovarono d’im­ provviso davanti al tempietto d’edera dove stava la sposa, incantevole fra i veli fluttuanti, nello splendore del sole al tramonto che faceva brillare le gemme di cui era ador­ na. Jochel, che guidava i giovanotti alla fune, ordinò dì mollarla un poco, affinché i cornuti potessero sostare. Tutti e tre riconobbero immediatamente la sorella e la ex moglie ; ma credettero di sognare. Lasciarono cadere gli strumenti e come mentecatti guardarono il palco di dove ella faceva loro cenni e sorrisi: giacché non sapeva chi fossero, e credeva che anche quei figuri si sforzassero di renderle onore con i loro scherzi sguaiati. Brandolf in­ tanto batteva forte le mani gridando: «Bravi, bravi quei tre ! ». Come in sogno coloro si toccarono le corna, poi le code che avevano dietro, dove si sentivano legati; poi guardarono di nuovo la magica apparizione della moglie, della sorella tradita; ma la cattiva coscienza non permise loro di aprir bocca e, prima che potessero raccogliere le idee, Jochel fece di nuovo tirare la corda, e dovettero ri­ prendere, incespicando, la processione. Il corteo girò in­ torno alla casa, e fu salutato dalla banda cittadina scliie

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rata sul terrazzo posteriore. Poi sboccò nel parco, e passò ancora una volta davanti ai signori. Di nuovo i tre scelle­ rati dovettero sostare alquanto dinanzi alla sposa, prima di proseguire balzelloni, e sempre più forti e assordanti diventarono il giubilo e il frastuono. Ma Brandolf fece un cenno e per la terza volta si ripetè la scena. I poveri diavoli capirono di dover sfilare nuovamente, e cercarono a forza di scappare. Quantunque profondamente dege­ nerati, si ribellavano con l’orgoglio dei tempi lontani all’inganno e allo scherno di cui erano vittime. Ma la forza inesorabile della fune li tenne fermi, e stettero per la terza volta al cospetto della sposa, e per la terza volta la guardarono, con occhi sgranati, digrignando i denti, stringendo i pugni e imprecando. Allora Brandolf gettò loro tre luigi d’oro, ciascuno avvolto in un pezzo di carta, e i tre li ghermirono ratti come tre scimmie alle quali si gettano noci. Ormai propendevano a credere di non esser stati riconosciuti. Brandolf intanto fece un segno, Jochel tirò la corda e la visione spettrale finalmente sparì. Ma i tre non vennero ancora lasciati liberi, né riuniti al popolo che ritornava al ballo e al banchetto; Jochel li condusse invece coi venti bottai in una lontana osteria, dove il gruppo dei demoni sarebbe stato rifocillato a parte. Questa volta però i tre andarono avanti sonando, e i bottai li seguirono reggendo la corda. Intanto era scesa l’oscurità e, quando la stra­ na compagnia arrivò alla taverna, si vide laggiù do­ ve si teneva la festa salire verso il cielo un fuoco d’ar­ tificio stupendo. I diavoli vennero finalmente sciolti, ma rimasero sempre in mezzo ai gagliardi giovanotti, e Jochel non li perdeva d’occhio, sicché non poterono scambiare fra loro neanche una parola. Dimenticarono l’interno turbamento ristorandosi coi cibi e con le bevande che vennero serviti a profusione, finché qualcuno aprì la finestra e additò la casa padronale, che sfolgorava tutta di luce, mentre una bellissima musica da ballo giungeva chiara ma attutita attraverso la cheta aura notturna. Sopra la casa brillavano le più fulgide stelle, della qual cosa i diavoli non si commossero affatto; giacché

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se fossero stati capaci di simili sentimenti non si sarebbero trovati dov’erano. Solo il suono morbido e raffinato dei violini li colpì al cuore, perché ricordava loro tempi mi­ gliori e li costringeva a immaginare la moglie e la sorella che in quel momento si librava leggera nel vortice delle danze. Per annegare il cordoglio si abbandonarono avida­ mente alle libagioni, che Jochel fornì loro senza risparmio. Quando gli parvero abbastanza ubriachi incominciò a stuzzicarli, a provocarne la collera, gli altri lo imitarono e li tirarono per le code e quelli immediatamente comin­ ciarono a menar le mani, sicché ne nacque una bella zuffa. Subito comparvero due gendarmi che stavano aspet­ tando il momento d’intervenire, e nel giro di un quarto d’ora i tre vagabondi, ben legati, erano su un carro che li depositò due ore dopo, nel cuor della notte, davanti alla torre carceraria della capitale. Ma non ebbero un cattivo trattamento. Anzi, al mattino furono chiamati e si chiese loro se accettavano di emigrare nel Nuovo Mondo, sotto sorveglianza della polizia e sufficientemente riforniti di vestiario, biancheria, denaro e documenti ; tre giorni do­ po infatti partirono per un porto di mare accompagnati da un agente che portava denaro e passaporti, e che li lasciò solo al momento in cui la nave levava le ancore. Hedwig fu informata di tutto ciò che era avvenuto solo il giorno in cui, con un bel maschietto di un anno sulle ginocchia, espresse il timore che il bambino potesse una volta o l’altra imbattersi nei suoi sciagurati zii o addirit­ tura fare la conoscenza del perfido Schwendtner. Allora il marito le raccontò la dura beffa che si era permesso con quei signori. Ella sussultò spaventata, stringendo a sé il figlioletto come per proteggerlo contro ignoti pericoli; ma Brandolf la rassicurò e la consolò insieme con la no­ tizia che secondo informazioni ricevute i tre compari, dopo l’arrivo in America, come trasformati, si erano subito di­ visi. Tale risoluzione, anzi, aveva avuto un effetto straor­ dinario; presi nel turbine della vita americana ciascuno dei tre era riuscito a mantenersi a galla per approdare poi

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a UÎîa r?Va SÌCUra’ dove s’era stabilito. Uno era un tran­ quillo birraio nei dintorni di New York, l’altro aveva una scuola privata nel Texas, il terzo faceva il predicatore benTa SCtta reli8icsa» e tutti e tre campavano

Il padre di Brandolf visse fino a ottantun anno e diceva di doverlo soltanto alla gioia che la salute e la serenità della nuora diffondevano tutt’intorno. Così varia il rac­ colto secondo la natura del terreno dove un’anima viene trapiantata.

CAPITOLO DECIMO

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— Il suo signor Brandolf è il modello di un nobile e benintenzionato conoscitore di donne ! — disse Lucia quando Reinhart nel suo racconto ebbe portato la baro­ nessa decaduta alla felicità e al matrimonio — ma è ben certo che scegliendosi la sposa non sia stato un poco il trastullo del fato, o che alla fin fine sia stato scelto egli stesso mentre credeva di scegliere? — In che modo? — domandò Reinhart. — È solo un’idea ! — rispose Lucia — È sicuro d’avere descritto e reso bene tutte le circostanze, senza omettere nulla che facesse sospettare un modesto intervento, una piccola manovra della buona baronessa von Lohausen? — Conosce le persone, oppure ha già udito la storia? — Io? Per nulla affatto ! È la prima volta che, ne sento parlare. — Ebbene, se non conosce altra fonte, deve attenersi alla mia redazione, che ho elaborato secondo sapere e co­ scienza. Io riaffermo che non si può scoprire fra le righe la minima traccia di astuzia e di civetteria, e la prego, illu­ strissima signorina, di non volervi mettere nulla di quel che io non intendevo mettervi ! — E io chiedo mille volte perdono all’illustrissimo si­ gnore se è stata offensiva la mia supposizione che alla povera signora Hedwig potesse essere concesso un resto di volontà propria in fatto di matrimonio ! — Oh, inclemente signorina, perché questo sdegno? Io mi limitavo a difendere una figura femminile alla quale l’abbandono e lo smarrimento non fanno che conferire grazia, e servire d’ornamento al sesso! — Naturalmente ! Così l’intendo anch’io ! — disse Lu­ cia con un’allegra risata che mosse graziosamente i suoi riccioli — una mite agnelletta di più sul mercato ! Que­ sta volta poi si tratta anche dell’utilità di una brava mas­ saia, e bisogna confessare che lei ha esaltato il tema, quasi come in un racconto di fate !

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— Via, cara Lux, — esclamò il colonnello — non es­ sere così litigiosa ! Grazie a Dio non hai bisogno di scal­ darti per queste cose, giacché hai deciso di non maritarti e di allietare invece la mia vecchiaia ! In tale speranza, voglio tuttavia darti man forte. La nostra libertà di scelta e la nostra prosopopea, amico caro, non ci portano lon­ tano, e non è davvero il caso di vantarsene troppo. Io, almeno, ho l’onore di presentarmi a lei come un vecchio scapolo che molti anni fa fu oggetto delle meditazioni elet­ tive di una donna, e quando credette che gli bastasse al­ lungar la mano subì una così ignominiosa sconfitta che gli passò per sempre la voglia di sposarsi. Se la volete sen­ tire, vi racconterò l’avventura, così come posso; mi sor­ ride e mi diverte narrare il fatto per la prima volta a qualcuno avanti di morire; o meglio di redigerlo, chiac­ chierando, come s’è espresso il nostro amico Reinhart. I giovani, ben s’intende, manifestarono una curiosità che infatti provavano, e pregarono lo zio di procedere su­ bito alla narrazione. II colonnello gettò ancora a Reinhart un’occhiata at­ tenta e indagatrice, poi fissò pensoso il pavimento e fa­ cendosi scorrere fra le dita i morbidi baffi d’argento in­ cominciò il suo discorso. — Si fa presto a diventar vecchi, — egli disse — così presto che guardando indietro alla strada percorsa si può soltanto ricordare qualche episodio isolato, e non certo indugiare con pentite considerazioni sulle sciocchezze commesse. Queste infatti, nello scorcio della prospettiva, sembrano poste così fitte una dietro l’altra come le pietre miliari che il cavaliere della leggenda scambiò per le la­ pidi di un cimitero, passandovi accanto a precipizio sul suo cavallo fatato. V’è tuttavia una specie di errori, falli o mancanze in apparenza innocui e insignificanti, che per le loro conseguenze ci rimangono dieci volte più pro­ fondamente impressi dei più gravi peccati di omissione o di opere, e mentre questi ultimi nel nostro spirito li abbiamo già da tempo deplorati e scontati, siamo sempre còlti da rimorso e rovello quando i primi ci rivivono nella

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memoria. Si rinvia la visita a un malato, ed esso muore senza averci detto l’ultima parola di cui avevamo biso­ gno. Con un buon amico ci siamo sempre dimostrati servizievoli e pronti al sacrificio; ma poi gli neghiamo un piccolo favore sul quale contava; giudichiamo in­ gratitudine l’allontanamento che ne risulta, e abbando­ niamo vigliaccamente l’uomo alla sua cattiva sorte, per poi rimproverarcelo tutta la vita. Invece di restarcene al tavolo di lavoro, come c’eravamo proposti, una mattina ci precipitiamo fuori di casa, rimaniamo via tutto il giorno e perdiamo una visita decisiva che non si ripeterà più. Amiamo la verità, e la nascondiamo per stupido or­ goglio o anche per un accesso di scoraggiamento l’unica volta che per noi era necessario dirla. Contro il nostro gusto e la nostra volontà ci mostriamo un giorno pubbli­ camente a passeggio con gente di cattiva fama, e siamo visti da una persona cara che ci toglie il suo favore ; e altre simili calamità. S’è già parlato della città universitaria della Germania Occidentale dove lei nacque, signor Reinhart. Là vissi anch’io da studente, quando regnava ancora Napoleone I e le donne portavano la cintura all’altezza delle ascelle. Avrei dovuto studiare legge, ma non vi dedicavo molto tempo, perché ero uno dei capo­ rioni fra gli studenti beoni e attaccabrighe, e avevo da combinare ogni altra sorta di birbonate. Addolorato per le sventure politiche della patria, cercavo sollievo in po­ sizioni estreme e violente, in una vita disperata ed eroica, che alternava una romanticheria cattolicheggiante alle più gelide elucubrazioni mentali. Un po’ ero un mistico illuminista, un po’ un libero pensatore credente, il tutto, beninteso, senza coltivare le cognizioni che allora si col­ legavano a tali tendenze. Di nulla m’intendevo a fondo se non di esercizi fisici, di tirar di scherma, di cavalcare e di bere, quest’ultimo vizio in modo non eccessivo ma bastante a intenerirmi talvolta e rendermi più sensibile alle sofferenze morali dell’epoca. Avevo quindi bisogno d’un amico che senza presunzione né ironia aprisse il cuore alle mie confidenze e mi desse il desiderato con­ forto di ragionamenti obiettivi e assennati.

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Lo trovai in uno studente al quale avevamo dato l’an­ tico soprannome tedesco di Mannelin,1 che gli lasceremo per ora. In un seminario giuridico mi avevano assegnato il posto accanto a lui e m’ero sentito attratto forse proprio perché pareva il mio contrario, sotto ogni riguardo. Sem­ pre tranquillo, piuttosto laborioso, non era tuttavia un guastafeste, e quantunque non tirasse di scherma, non an­ dasse a cavallo e non bevesse molto, partecipava a quasi tutte le riunioni, considerava il mondo già da giovane fat­ to, con atteggiamento fine e cólto, ed era benvisto da tutti. Più stretta conoscenza facemmo nell’istituto bancario dove io ero stato presentato e dove anch’egli riscuoteva le sue rimesse. Ogni domenica il banchiere invitava a pran­ zo qualche studente, e lì c’incontrammo una volta e con­ versammo così bene che dopo facemmo insieme una lunga passeggiata e anche in seguito ci vedemmo spesso. Presto diventò per me una necessità interrompere sempre più sovente i divertimenti e le esercitazioni d’ar­ mi per andare in cerca del tranquillo compagno, che disponeva sempre di un’ora o più, perché aveva già fatto qualcosa prima e contava di lavorare di nuovo dopo, se era necessario, sia che fosse giorno sia che fosse notte. Egli sopportava con molta tolleranza la mia predile­ zione per l’inesplicabile e il soprannaturale, che io tiravo fuori e invocavo in ogni circostanza, e difendeva senza infervorarsi il suo modo di vedere, quello della ragione, come uno che conosce la propria superiorità ma non vuol farla sentire. Sotto la guida del padre era divenuto un kantiano molto ferrato, e su quel punto non si poteva tenergli testa. Cosa abbastanza assurda, io me ne ralle­ gravo, ed ero orgoglioso delle sue opinioni e del suo sapere mentre li combattevo con discorsi fantastici. Ero come chi attraversa una foresta pericolosa e si vanta di non aver paura, ma in segreto fa assegnamento sul buon fucile che un compagno porta con sé. Qualche volta mi sembrava, in verità, di servire a Mannelin per uno studio silenzioso e forse divertente: negli atenei vi sono I Mannelin: ometto, in senso scherzosamente ammirativo.

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sempre certi pedanti che per il denaro speso dai loro genitori credono di dover fare tesor di tutto e s’immagi­ nano sul serio di poter insegnare a se stessi la conoscenza della natura umana per un adeguato numero di mone­ tine da dieci. Le monetine da dieci le spendono cioè in alcune bottiglie di vino o di birra, che è necessario ar­ rischiare, e poi le mettono in conto ai genitori nella ru­ brica: «Spese generali per la conoscenza del mondo». Mannelin però non era uno di quei pedanti. In me gli piaceva veramente il suo contrapposto e l’individuo in­ nocuo che ero in fondo; e se impiegava una piccola ma­ lizia, era l’arte con la quale, senza condividerle, si ri­ creava al racconto delle mie molte ricreazioni. Quando in casa del banchiere si accorsero della no­ stra amicizia, c’invitarono sempre insieme, e presto di­ ventammo frequentatori abituali la cui comparsa, attesa o inattesa, era sempre gradita. La diversità dei nostri caratteri procurava anche agli altri un certo divertimento, e più di tutti sembrava ritrarne piacere l’unica figlia, Hildeburg. Senza approvare risolutamente il modo di pensare dell’uno o dell’altro, ci aizzava sempre alla di­ scussione, e se non c’era un ospite di particolare riguardo che avesse diritto alla compagnia della padroncina di casa, ella sedeva immancabilmente a tavola fra noi due, o almeno nelle immediate vicinanze. Quando ciò diede lo spunto a commenti burleschi, dichiarò esplicitamente che eravamo i suoi cari e fedeli servitori, nominò me suo maresciallo e Mannelin suo cancelliere, e altri simili scherzi. Una ricca ereditiera molto ricercata e intelli­ gente, o, secondo il gergo degli studenti, una ragazza svelta, un tipo in gamba, com’era lei, non s’esponeva per tali libertà a nessuna cattiva interpretazione. Ciò non impediva che fossimo entrambi innamorati di lei e che lo sapessimo l’uno dell’altro. Però non soltanto rimanemmo in pace e buon accordo, ma la comune ammi­ razione contribuì anzi a consolidare la nostra amicizia e ad animare piacevolmente i nostri rapporti, poiché ad ogni modo per anni noi non potevamo pensare a pren­ dere impegni seri, e d’altronde Hildeburg ci trattava con

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così perfetta imparzialità che nessuno dei due veniva in­ coraggiato o disdegnato di fronte all’altro. Che cosa pen­ sasse Mannelin nel suo intimo, in verità non lo so; per conto mio non posso negare che segretamente mi rite­ nevo predestinato, giacché la bella era bruna come me, e Mannelin invece apparteneva al tipo biondo. Le soprac­ ciglia diritte di Hildeburg erano scure e vellutate come i neri zibellini araldici degli antichi blasoni, e sopra la fronte declinava la notte ricciuta di una testa alla Tito. Be’, non voglio propinarvi una descrizione, ma debbo aggiungere che nei giorni di festa due stelline di brillanti scintillavano come lucciole in quella selva notturna. E tuttavia lo sguardo attirato dal luccichio scivolava subito giù verso il caldo splendore degli occhi neri che per lo più lo accoglievano benignamente. Ma vatti a fidare! Un incendio più vasto divampò proprio allora: di­ strusse la città di Mosca e bruciò a Napoleone le suole degli stivali. Fra la gioventù studiosa corse subito la pa­ rola d’ordine: «all’armi!». Per me era disponibile un posto in un reggimento dei dragoni imperiali; Mannelin voleva arruolarsi modestamente nella fanteria prussiana, ed entrambi ci preparammo alla partenza. Ma prima pranzammo ancora una volta in casa del banchiere e fummo trattati con la più affettuosa amicizia. La gravità del momento non impedì che sotto il sole della speranza fiorissero anche la giocondità e la celia, e così, mentre si beveva alla salute dei giovani guerrieri partenti, la Hil­ deburg venne un poco burlata e le chiesero chi perdeva, di noi due, con maggior dispiacere. «Davvero non lo so neppur io!» ella esclamò «In principio preferivo il cancelliere; ma da quando lo sca­ pestrato maresciallo, per opera di Mannelin, è divenuto così costumato e amabile, vedo partire anche lui con ram­ marico ! E tuttavia non è giusto che l’altro, l’autore della trasformazione, debba rimetterci. Che il cielo dunque mi assista!». Nascondeva nel modo più garbato la melanconia del­ l’addio sotto la maschera di una buffa perplessità, e alla fine prese un dolce in forma di cuore, lo spezzò e ne diede

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metà a ciascuno. Io intinsi la mia nel bicchiere di vino e la divorai subito in segno della mia fame d’amore; Man­ nelin invece serbò in mano la sua, giocherellando, finché riuscì ad intascarla non visto. Levata la mensa si fece una passeggiata in giardino, per quanto lo permettevano i sentieri nella stagione in­ vernale; erano infatti i primi mesi dell’anno 1813. Non so come accadde, ma noi due con la fanciulla ci allon­ tanammo ben presto dagli altri invitati e procedemmo tenendola in mezzo. Ora ci sentivamo più seri e al tempo stesso più appassionati di prima, mentre acquistavamo più chiara coscienza della nostra profonda inclinazione per la bella creatura; solo l’incertezza del futuro, la probabile durata e i pericoli della guerra imminente, o piuttosto già incominciata, impedivano che si offuscasse la serena amicizia che ci aveva uniti finora. Hildeburg dovette capire dal nostro silenzio e dal no­ stro respiro affannoso che eravamo commossi, e anch’essa divenne sensibilmente più agitata. Quando ci trovammo all’improvviso davanti a un padiglione ella spinse la por­ ta, entrò e aprì le finestre che erano rimaste chiuse tutto l’inverno, mentre ci lanciava una rapida occhiata. La se­ guimmo nel salottino, ed ella si volse verso di noi. «Mi trovo veramente nella condizione più triste che mai sia toccata a una fanciulla ; perché vi amo entrambi e non posso sciogliervi l’uno dall’altro. Tu, maresciallo, hai inghiottito la metà del mio cuore: è una follia, ma m’incanta; e tu, cancelliere, hai conservato l’altra metà, anche questo è assurdo, ma è un sentimento di fedeltà e mi rende felice. Non sarò mai moglie se non d’uno di voi ; ma allora bisognerebbe che cadesse uno dei due ! Se cadete entrambi, o entrambi ritornate, rimarrò zi­ tella, vittima di un fatale inesorabile gioco della natura, di un fenomeno irrazionale che devo celare al mondo per non coprirmi di vergogna ! Ma poiché non voglio e non posso immaginare morto nessuno di voi, vi dico addio per sempre, miei cari fratelli!». Dopo queste parole ci gettò le braccia al collo e ci baciò forte sulla bocca, prima me e poi Mannelin, e di nuovo

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Mannelin e ancora me per ultimo. Noi stemmo lì come caduti dal cielo, incapaci di muovere un dito. La nostra posizione era veramente maledetta, e mai, né in pace né in guerra, mi ritrovai in un così dannato imbroglio. Giacché se una fanciulla onesta può, com’era accaduto or ora, baciare in un impeto di passione due uomini l’uno dopo l’altro, costoro invece, se amano la donna, non saranno mai capaci di agguantarla in comune e renderle il bacio. Del resto non avemmo tempo di riflet­ tere perché ella fuggì via, passando ci pose la mano sulla bocca ed esclamò : « Il vostro onore v’impegna a tacere ! ». Non era possibile fermarci più a lungo; prendemmo congedo, e Hildeburg, come tutti gli altri, ci strinse la mano senza nascondere le lacrime. Ce ne andammo di­ visi tra felicità e infelicità, e dopo aver presto rinunziato ai sorrisi sforzati non pronunciammo più una parola per un’ora almeno, pur rimanendo insieme. Non potevamo sentirci molto su di morale; perché un conte von Glei­ chen, con due mogli, poteva essere tuttavia un buon ca­ valiere e crociato; ma due bravi compagni che sono oggetto della comune tenerezza di una fanciulla debbono pur sentirsi un po’ troppo bipartiti, un po’ troppo dimez­ zati, e non è da tutti essere fratelli siamesi. Tuttavia la strana confessione di Hildeburg e il suo appassionato ab­ braccio ci avevano imprigionato il cuore e la mente, e seguitavamo ad amare non meno di prima lo snello e leg­ giadro fenomeno di natura, tanto più che esso era in posi­ zione ancor più tragica della nostra, se le cose stavano dav­ vero come diceva. Quel senso di tragedia ci aiutò a superare il reciproco impaccio. Quando giungemmo al luogo di riunione, dove un centinaio di giovani che il giorno dopo sarebbero an­ dati sotto le armi volevano ancora passare una serata in­ sieme, il nostro spirito toccò le vette del più fervido e inebriante patriottismo e ardore guerresco. Sedevamo vi­ cini nella calca serrata; e quando verso mezzanotte si levarono i bicchieri al grido tonante di «Morte o li­ bertà ! » Mannelin avvicinò il suo al mio bicchiere e disse : «Se deve accadere che uno di noi resti ucciso e che l’altro

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ottenga la donna, ebbene, alla sua salute ! Che egli viva a lungo e che sia felice ! ». Non meno patetico, brindai anch’io facendo tintinna­ re i cristalli, ed esclamai : «E pace al morto ! ». Così ci separammo da valorosi amici e poche ore dopo partimmo in direzioni diverse, senza aver preso accordi per l’avvenire. Come le fortune della guerra, volevamo abbandonare al destino anche la nostra bizzarra storia d’amore. Mannelin ebbe miglior sorte della mia; mentre io do­ vetti indugiare sotto le titubanti bandiere austriache, il biondo flemmatico si scagliava già col suo moschetto di battaglia in battaglia; solo sui campi di Lipsia io entrai nel ballo, e respirammo lo stesso odore di polvere, ma senza incontrarci né sapere nulla l’uno dell’altro. Non posso ora descrivere tutto il corso della poderosa campagna. Neanche a Parigi ritrovai l’amico, sebbene vi avessimo fatto il nostro ingresso quasi allo stesso tempo. Già promosso tenente, egli era stato gravemente ferito, si può dire sul selciato della città; e quando ne cercai le tracce era ricoverato, irraggiungibile, in un lontano ospe­ dale da campo. Quando continuai le ricerche, mi disse­ ro perfino che doveva essere già morto, e allora mi ripu­ gnò accertarmi della sua morte, per non lasciare prevale­ re in me il nudo egoismo nei luoghi sacri della lotta e della vittoria. Infatti, da quando erano cessati i conflitti e sven­ tolavano le palme della pace, il pensiero di quell’amore stregato aveva ripreso forza, e io volli di proposito re­ stare nell’ignoranza del destino di Mannelin per non esser tentato di presentarmi subito in veste di creditore davanti alla bella fanciulla, alla cui promessa di sposare il superstite credevo fermamente. Nel mese di maggio dell’anno 1814, mentre la lunga vallata del Reno fioriva come un solo cespuglio di lilla, il nostro reggimento attraversò il fiume, diretto verso orien­ te; ma ricevette l’ordine di arrestarsi nella regione renana per aspettare gli eventi; e infatti più tardi fummo man­ dati in Lombardia. 11 mio squadrone sostò per l’appunto nella nostra buona vecchia città universitaria. Con «piali

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pensieri vidi collocare i cavalli nella scuderia e nel ma­ neggio dove lo studente aveva così spesso caracollato ! E quando occupai il mio quartiere nella locanda dove venti mesi prima avevo vuotato tante bottiglie, l’oste e la ser­ vitù si meravigliarono molto della mia gravità soldatesca. Ma anch’io ebbi la mia sorpresa quando, avendo chie­ sto informazioni, seppi che la famiglia del banchiere non si trovava in città, bensì in una villa distante un miglio all’incirca. Un emigrante francese, che aveva comprato quella villa vent’anni prima, l’aveva messa in vendita ap­ pena in Francia era stato rovesciato l’ordine delle cose; e il banchiere aveva còlto l’occasione di un acquisto cosìfacile e a buon mercato, come capita in tempo di guerra e di rivolgimenti a chi dispone di denaro liquido. Perciò non mi fu possibile presentarmi il giorno stesso dell’arrivo, ma il mattino seguente partii tanto più di buon’ora a cavallo, accompagnato dal mio palafreniere. Cadeva una pioggia leggera, perciò alzai il bavero del bianco mantello da cavaliere e mi calai un po’ più sugli occhi il berretto con la visiera, mentre cavalcavo per un lungo viale verso il vecchio edificio a mo’ di castello, che sembrava abbastanza malconcio. Dovettero credermi uno dei soliti ufficiali con biglietto d’alloggio, tanto più che la cavalleria austriaca era già apparsa nei dintorni. Perciò un solo domestico uscì sulla porta ad accoglier­ mi e mi chiese che cosa desideravo. Invece di rispondergli saltai giù da cavallo, diedi la briglia all’attendente ed entrai nel vestibolo della casa, una sala solenne, adesso un po’ deteriorata. Solo quando gli diedi il mantello il servo mi riconobbe nonostante l’aspetto diverso che la guerra mi aveva dato, e con lieta sorpresa m’introdusse in un salone dove il padrone e la padrona di casa legge­ vano i giornali. Anch’essi non mi riconobbero subito, ma appena ciò avvenne, s’alzarono con viva gioia e mi die­ dero il benvenuto. «Che cosa dirà Hildeburg» esclama­ rono «quando saprà che il maresciallo è tornato? E dov’è il cancelliere? Non ne sa nulla? Quante volte abbiamo parlato dei nostri due amici ! ». Prima che potessi rispondere entrò Hildeburg, l’unica

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che, stando alla finestra, mi aveva subito riconosciuto ap­ pena, lasciato lo stradone, ero svoltato nel viale. Non dimenticherò mai la visione che mi venne incon­ tro. Come un panno lavato era bianco il suo volto, gli occhi atterriti e trasognati e sulla bocca tuttavia un sor­ riso di saluto che veniva dal cuore; pallida angoscia e gioioso rossore che s’alternarono per qualche minuto; non v’era dubbio, ella riteneva morto il povero Mannelin e pensava che io fossi venuto per far valere il mio diritto ! Per fortuna i genitori erano avvezzi agli umori più strani, se no avrebbero dovuto capire la sua vera disposi­ zione d’animo, specialmente quando fui costretto a dire tutto quel che sapevo di Mannelin, poco cioè, e abba­ stanza inquietante. Il padre osservò che c’era da sperare che fosse vivo, altrimenti l’uno o l’altro dei giovani vo­ lontari tornati alle aule nelle ultime settimane avrebbero portato la notizia precisa della sua morte. Anche negli elenchi dei caduti, ch’egli aveva guardato abbastanza attentamente, non aveva visto il suo nome come non aveva visto il mio. Ma Hildeburg, un quarto d’ora dopo, accompagnan­ domi attraverso una fuga di stanze per mostrarmi la casa che doveva essere restaurata e ammobiliata a nuovo, s’ar­ restò di colpo e disse in tono di sommesso lamento: «È vero, è fin troppo vero ! Il mio caro, intelligente Mannelin è sepolto in Francia sotto l’erba verde; gli hanno sparato nel petto, hanno spento i suoi fedeli occhi azzurri ! E tu, maresciallo, sei venuto apposta per dirmelo ! ». Mi guardava intanto con occhi profondi, fiammeggian­ ti, che potevano ardere tanto di odio quanto d’amore. Perché sulle labbra esangui non v’era adesso che amaro dolore. Non osai ricambiare il «tu» che m’aveva rivolto: era cosi imperioso, quasi come quando il padrone parla col servo o l’ufficiale col soldato. «No, signorina Hildeburg!» dissi facendo un passo indietro, ma con timido rispetto, perché appariva così strana, quasi come invasata «Io non so nulla, e spero ch’egli sia vivo!». «Al diavolo, che non lo speri affatto!» gridò lei con

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occhi che gettavano lampi, e ruppe in una risata stridula, mentre la coscienza mi rimordeva. Poiché in quel mo­ mento mi sembrò di non aver fatto abbastanza per cono­ scere il destino di Mannelin e al tempo stesso mi sentivo lacerare da una gelosia infocata verso l’assente che era pianto con tanta passione. Evidentemente Hildeburg lo amava più di me, anzi ormai non amava che lui. In quel­ l’angoscia trassi involontariamente un profondo sospiro, e allora Hildeburg mi prese la mano e disse con voce di­ versa: «Venga, e non parliamone più, per ora!». Placata ritornò con me nella sala, dove venne servito un rinfresco, e quando verso sera ritornai in città mi porse la mano cordialmente e disse che sperava di vedermi spes­ so, finché il reggimento restava nella regione. Poiché il tempo era per lo più buono, trovai pretesto quasi ogni giorno per ripetere la cavalcata e, se non mi facevo vedere, Hildebürg mi chiedeva subito, il giorno dopo: «Perché non è venuto ieri?». Sembrava di nuovo portarmi affetto, e un giorno mi avvolgeva in una tenera occhiata, un altro giorno mi sfiorava con una breve carezza, insomma mi beava con i piccoli segni per cui un innamorato s’abitua al pensiero di una futura vita in comune. Ma poi restava chiusa in sé per intere giornate, e indugiava visibilmente lontana coi suoi cupi pensieri. La mia condizione quindi era sospesa fra la luce e le tenebre, tanto che io desideravo con impazienza una soluzione. In fin dei conti non s’ad­ diceva molto a un giovane dragone, che viveva da un pez­ zo con la spada in mano e che era passato attraverso laghi di sangue, languire per una donna non più grossa di una conocchia, anche se altrettanto ben tornita. In un bel pomeriggio, mentre cavalcavo verso la villa, e nel lungo viale di olmi, preso da improvviso malumore, avevo spinto senza accorgermene il cavallo a un galoppo impetuoso, mi si affrettò incontro una coppia giuliva: Hildeburg che teneva per mano un ufficiale prussiano di fanteria, oppure il mio amico Mannelin che conduceva per mano la signorina Hildeburg : nella sorpresa non po­ tei accertare quale dei due conducesse l’altro. Il mio pri­ mo sentimento fu di gioia per l’insperato ritorno, il se­

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condo di soddisfazione per il ristabilimento delle rela­ zioni di prima fra noi tre, che, almeno per il momento, fugavano i dubbi tormentosi. Anche Hildeburg provava qualcosa di simile, perché esclamò : «Adesso va tutto bene, eccoci di nuovo riuniti ! ». Mannelin poi era manifestamente felice della condi­ zione in cui ci aveva trovati, perché, sapendo di essere stato dato erroneamente per morto, aveva avuto paura di arrivare troppo tardi. La ferita che l’aveva colpito non era insanabile, e ormai era discretamente rimarginata ; gli avevano dato però una licenza di sei mesi perché potesse guarire del tutto. Già rifornito di libri, era in viaggio per un luogo dove si facevano cure termali, e s’era concesso una breve sosta nella nostra città universitaria. Solo quella mattina, in casa del banchiere, aveva saputo che anch’io ero nel paese. Il servizio di guerra aveva molto migliorato l’aspetto di Mannelin. Senza essere proprio marziale, aveva ora un portamento più saldo. La peluria bionda e leggera sulle guance e sul labbro aveva ora, per la gravità che i casi e gli eventi gli avevano impresso sugli occhi e intorno alla bocca, un risalto maggiore di prima; e le esperienze militari di cui s’era arricchito si combinavano splendidamente con il suo spirito scientifico'. Ma sebbene avesse partecipato a importantissimi fatti di guerra e affrontato più battaglie e più pericoli di me, non ne parlava mai e, se non lo si fosse attirato senza suo vo­ lere nei discorsi del giorno, si sarebbe potuto credere che non avesse mai messo il naso fuori del suo studio. Questo modo di fare conferiva all’amabile taciturno una nuova aureola, e fu utile anche a me; un giorno in­ fatti, dopo avere animatamente parlato di bòtte e spara­ torie, nel silenzio che seguì mi accorsi d’improvviso come dovevo essere sembrato vanesio di fronte a lui; cercai, umiliato, di correggermi e di tanto in tanto riuscivo a essere più modesto. Ma poi, essendo rimasto soldato di professione, dovetti di nuovo abituarmi a urlare. Così passammo ancora una serie di giornate piacevoli e serene, finché giunse, previsto ma indesiderato, l’ordine di partenza per il mio reggimento; anzi bisognava met-

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tersi in marcia dopo soli sei giorni. Da quell’istante il con­ tegno di Hildeburg mutò. Ora inquieta e distratta, ora chiusa in sé e oppressa da meditazioni angosciose, cam­ biava a ogni istante d’umore e, come se lo sapesse anche troppo, sfuggiva per lo più la compagnia, la quale diven­ tava sempre più numerosa, man mano che il giardino invitava a più gradevoli soggiorni all’aperto. Riflettendo al nuovo strano comportamento della fanciulla, mi sen­ tivo portato a interpretarlo a mio favore e a credere che forse il turno di brillare ed essere rimpianto come assente o addirittura perduto toccava adesso alla mia riverita persona. Mi chiesi come mi conveniva agire : lasciare con dignità che le cose si svolgessero secondo l’accordo e sgom­ brare fiduciosamente il campo al rivale, oppure sfruttare il vantaggio e con il peso della nuova situazione dare all’ago della bilancia un colpo leggero ma improvviso? Hildeburg stessa parve venirmi incontro ; indusse i ge­ nitori a offrirmi un pranzo d’addio, e nell’invitarmi mi chiese di passare la notte alla villa. Anche se l’arreda­ mento era manchevole ci sarebbe stato un letto per me, ella disse, e dei fantasmi certo non mi sarei dato pensiero. Si diceva infatti che nell’ala più antica della casa vi fosse qualcosa di misterioso. Infatti la servitù aveva sentito i racconti di un vec­ chio giardiniere e li aveva integrati con osservazioni che credeva di aver fatto per conto proprio. Durante il pran­ zo, ricco e animato, il discorso cadde anche su quell’ar­ gomento. La vecchia signora si lamentò di voci inquietan­ ti che non potevano avere un fondamento ragionevole; e il banchiere era dell’opinione che l’aria e la luce e gli in­ tonachi freschi dei lavori in programma avrebbero scac­ ciato gli spettri. Io invece fui punto dal capriccio di di­ fendere nuovamente le manifestazioni occulte e i segreti dell’aldilà, e recitai la parte del grave guerriero che sui campi di battaglia notturni e nell’alternativa fra la vita e la morte ha imparato a non farsi più gioco dell’inespli­ cabile. Mannelin, che fino allora non aveva trovato il discorso degno del suo interessamento, mi guardò meravigliato e

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ridendo di cuore mi chiese se volevo entrare in comunica­ zione con gli spiriti. Irritato, risposi recisamente di si, che avrei reputato una fortuna poter scorgere già in questo un pezzetto dell’altro mondo; nel contempo affermai però, non senza protervia, di voler guardare le cose in faccia e scoprir quel che c’era sotto, se si presentavano diverse. «E di che cosa si tratta precisamente nel nostro caso?» chiesi per concludere le mie vanterie. «A quanto pare, di uno spirito folletto chiamato la vecchia Kratt» disse Hildeburg, un po’ intimidita dal mio discorso, come temendo che in fondo potesse esserci qual­ cosa di vero. Ottant’anni prima la tenuta apparteneva ai baroni Kratt, e ciò era documentato; ma altro non risul­ tava, se non che solo di rado e in determinate notti «ci si sentiva». Poiché la madre di Hildeburg cominciava a fare un viso spaventato, e soprattutto indispettito per la macchia che ne veniva al suo possedimento, e l’amico Mannelin si mo­ strava di nuovo indifferente al discorso, lo lasciammo ca­ dere e non ci ritornammo più. Io avevo portato con me due camerati, allegri danubiani che assaporavano con gusto la bella vita in circoli privati dopo i lunghi pati­ menti, e il resto della giornata passò molto allegramente. A sera, quando anche gli altri invitati andarono via, e i due austriaci fecero chiamare la carrozza nella quale eravamo venuti tutti e tre, mi chiesi per un momento se non era meglio tornare in città con loro, giacché ero molto occupato per la prossima partenza e volevo fare i miei preparativi a puntino. Bastava prendere sciabola ed elmo e congedarsi in fretta, fino al giorno seguente. Ma Hildeburg era con noi sulla gradinata e disse tranquilla : « Credevo che domattina avrebbe fatto ancora colazione con noi in giardino ; ma non voglio trattenerla, se non è possibile. Ad ogni modo la sua camera è già preparata». Naturalmente rimasi; i due austriaci baciarono la mano alla signorina, balzarono in carrozza e partirono come sparati da un cannone, mentre io e Hildeburg ritorna­ vamo in casa seguendo il domestico che portava la lam­ pada; io con un gran batticuore per la dolce decisione che

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mi credevo in diritto di sperare. Ma Hildeburg si ritirò presto e io finii la serata bevendo in compagnia di Mannelin e del padre di Hildeburg parecchi bicchieri di un punch molto forte che le signore avevano fatto preparare. Poi chiacchierai ancora un quarto d’ora con Mannelin in camera sua, e finalmente seguii parecchio assonnato il servitore che mi accompagnò alla stanza dov’era pronto il mio letto. Avevo dimenticato quasi tutti i discorsi in­ quietanti di qualche ora prima, e volsi appena un’oc­ chiata distratta alla camera dove mi trovavo. Mi parve molto ampia ma bassa, pareti e soffitto rivestiti di tavole e listelli di legno. Qua e là lungo i muri un vecchio seg­ giolone imbottito, e in un angolo un antico letto a bal­ dacchino con tende scure ai quattro lati. Vicino al letto c’era un tavolo con la bottiglia dell’acqua, e il servo vi depose sopra il doppiere prima di ritirarsi ; non si vedeva altro, tranne un’antica scrivania con alzata nell’angolo diagonalmente opposto al letto. Accanto alla scrivania una delle finestre lasciava entrare un fioco chiarore di luna, e ne scorsi ancora il pallido riflesso sulla vernice opaca dei vecchi mobili. Quando posai l’orologio sul ta­ volo vidi che erano le undici e mezzo. Ciò mi ricondusse alla mente la storia dei fantasmi; ma poiché in quel momento preferivo il sonno alle avventure, mi affidai senza pensieri al buon senso di Mannelin, spensi le candele e senza svestirmi del tutto mi coricai nel letto, che era eccellente. Dopo tre minuti dormivo sodo ; credo che non rivolsi neanche più un pensiero all’amata Hildeburg, ma non lo posso garantire. La mia leggerezza quella volta mi mandò a finir male. Avevo dormito forse mezz’ora quando fui svegliato da un colpo o tonfo terribile, che doveva venire dal centro della camera. Spalancai gli occhi, e un po’ stordito da­ gli spiriti bruscamente riscossi del liquore bevuto, dal sonno e dalla sorpresa cercai di capire che cosa potessi aver udito. Pensai che un oggetto pesante fosse precipitato fuori o dentro la stanza, oppure che nella casa malandata si fosse rotto qualcosa, di sopra o di sotto. Prevalse, però, l’impressione che il colpo fosse avvenuto vicino. Guardai

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e ascoltai, ma non s’udiva e non si vedeva nulla, solo quel sinistro raggio di luna sulla scrivania scura. A un tratto qualcosa fruscia e gratta dietro i pannelli di legno, proprio vicino al mio letto. Mi giro di botto, con gli occhi sbar­ rati : lo scherzo va un po’ troppo oltre ! E mentre cerco di vedere, una corrente d’aria gelida mi colpisce in faccia, le tende del letto svolazzano in qua e in là, e improvvi­ samente la coperta mi viene strappata di dosso. « Poffarbacco ! » esclamo costernato, e mi alzo a se­ dere, ormai perfettamente sveglio «Ci sono davvero gli spiriti». Calai le gambe dal letto e vi rimasi seduto; di più non potevo fare, perché l’ignoto, pur manifestandosi in modo scherzoso, mi paralizzava le membra. Appunto il carattere burlesco mi spaventava, col suo umorismo in­ fernale. All’improvviso le tende s’agitano di nuovo, il soffio gelato mi percuote il lato sinistro del viso e la nuca. E mentre sono scosso da brividi odo dietro di me, come attraverso la parete, uno strascicare di passi, una voce sottile e tremula di donna geme qualcosa d’incomprensibile, io tendo l’orecchio con nuova paura ed ecco a un passo da me sta una grigia figura femminile, curva, e con una incolore mantiglia di velo in capo. Dev’essere sbu­ cata fuori dalla parete, dietro il mio letto. Si ferma solo un attimo a prender fiato; perché boccheggia come una vecchia asmatica che sia andata a lungo su e giù per scale e corridoi. Poi si trascina ciabattando dall’altra parte della stanza e si ferma davanti alla scrivania. Con mano cadaverica tasta il vecchio mobile, pare che cerchi la ser­ ratura; vedo agitarsi le dita ossute, divaricate. SI, tira fuori un mazzo di piccole chiavi, ne sceglie una, la infila nella serratura e apre la ribalta. Subito toglie con piglio sicuro uno dei molti cassettini dell’interno, guarda nell’a­ pertura vuota, v’introduce la mano. Sento girare un’al­ tra chiave, e la figura estrae un secondo cassettino se­ greto, dal quale prende ratta un pacchetto, lo slega e spie­ ga una carta che ne contiene un’altra e spiega anche quella. Tutto questo lo scorgo nella mezza luce lunare, che entra dalla finestra. E poi vedo chiaramente la vec­ chia aprire un altro cassetto e trarne qualcosa che dev’es­

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sere un raschietto per cancellare; perché ella si curva più ancora sul foglio spiegato, che è un grande in sesto, e leg­ ge, legge, dopo aver inforcato gli occhiali, un autentico stringinaso ! Adesso il fantasma punta il dito su un passo e incomincia a cancellare. Sebbene mi volti la schiena, ri­ conosco ogni movimento. Il lavoro la fa ansimare più forte, in respiri affannosi che sembrano grattare e incal­ zarsi nella sua gola come spiriti maligni; soffia via ciò che ha raschiato, tossisce come un vecchio notaro tisico, passa il dito sul punto cancellato e ricomincia a raschiare. Finalmente il lavoro sembra compiuto; una risata breve, roca, abietta, «hi, hi, hi», mi entra nel midollo delle os­ sa, e senza potermi muovere, penso tuttavia: “Qui in tempi remoti è stato falsificato un contratto, calpestato un diritto di nascita, carpita un’eredità, distrutta la fe­ licità di una vita !”. Il raschietto viene rimesso nel posto dov’è stato preso, con la storica naturalezza di quelle diaboliche appari­ zioni, la carta o documento accuratamente piegato, rifat­ to il pacco, i cassetti richiusi l’uno dopo l’altro, ab­ bassata la ribalta e serrata con la chiave. Improvvisa­ mente la figura si volta e strascicando i piedi arriva dove io seggo immobile, si ferma davanti a me e mi guarda. Mai dimenticherò quell’infame volto di strega, anche se la luna lo sfiorava soltanto di scorcio, e la maggior parte era in ombra. Naso, mento, bocca, era tutto un ghigno, quasi impresso in una cera molle da maschera mortuaria, pieno di sarcasmo e di rancore, come la fiamma cupa degli occhi, che pure non si distinguevano bene. M’ero trovato sotto il fuoco a mitraglia dei combattimenti, ma era uno zefiro primaverile in confronto al raccapriccio che mi correva per le ossa. Che cosa avevo da spartire con quella maledetta creatura alla quale non avevo fatto nulla? Dove andava a finire la ragione in questo mondo, se un ragazzo onesto e coraggioso doveva star lì senza for­ za e senza difesa davanti a quel mostro incorporeo e al minimo gesto perdere forse per lo spavento la salute e la vita? Tali confusi pensieri mi balenavano alla mente mentre lo spettro mi guardava; sentivo che i capelli mi

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stavano ritti sul capo, il respiro mi mancava, e, come op­ presso da un incubo potei solo gridare: «La vecchia Kratt !» prima di perdere per un momento la vista e la coscienza. Un minuto dopo la strega era sparita. Natural­ mente, per coronare la sinistra visione, l’orologio di un campanile lontano batté la prima ora dopo mezzanotte. Svanita l’eco di quel rintocco benefico osai finalmente muovermi e volli accendere la luce. Il doppiere era lì, ma non trovai l’acciarino; non mi rimase che rimettermi a letto, e nel far cosi ritrovai la coperta che era caduta a terra. Me la rimisi sopra e, appena ritrovatomi in posi­ zione orizzontale, e visto che non accadeva più nulla di sospetto, mi addormentai per svegliarmi quand’era ormai giorno fatto. Solo allora feci qualche ricerca. La porta, l’unica che metteva nella camera, era ancora chiu­ sa dall’interno, e per di più era tirato il chiavistello di foggia antiquata posto al disopra della serratura. Di giorno la scrivania sembrava un mobile assolutamente innocuo. Sulla ribalta un intarsio di legni variopinti rap­ presentava un paesaggio. Da un lago emergeva un’isola con un castello, e sull’acqua due signori in barca con lun­ ghe parrucche e pìccoli tricomi sparavano alle anitre. In primo piano c’erano i ruderi di un tempietto, e un terzo signore con un bastone che passeggiava meditabondo; il tutto era idillico e innocente al massimo grado, ma quello che mi stupì più di ogni altra cosa fu la chiave tranquilla­ mente infilata nella serratura, mentre io avevo udito be­ nissimo il tintinnio del mazzo, e lo spettro che girava la chiave e poi la ritirava. Sollevai la ribalta ed esaminai i cassetti l’uno dopo l’altro, ma erano tutti vuoti, non c’erano raschietti né nulla. Anche il cassetto segreto era munito della sua chiave, ed era vuoto pur esso; eppure io avevo visto il plico e i documenti. Non mi restavano più da esplorare che le vicinanze del letto. La testiera era scostata di una buona spanna dal muro, così che fra la tenda e la parete qualcuno che non fosse troppo grasso poteva sforzarsi di passare. Ma quan­ do ebbi spostato con fatica la pesante lettiera trovai gli stessi pannelli che rivestivano dappertutto le pareti e

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anche il soffitto. Neppure del tonfo che m’aveva svegliato potei scoprire la causa. Tanto più profondamente permaneva in me l’impressione di ciò che avevo veduto; la parte comica e repellente della visione impallidiva davanti al pensiero dell’irrequie­ tezza senza fine d’una sostanza psichica la quale, quando la villa fosse già stata da un pezzo cancellata dalla faccia della terra, avrebbe continuato a ricostruirla con l’antica stanza e con la scrivania dov’eran riposte le carte delit­ tuose, e ci sarebbero sempre state le chiavi e il raschietto, sebbene ormai distrutti dalla ruggine. Meditai a lungo su quella terribile esistenza e sopravvivenza unicamente immaginaria, la cui reale natura sarebbe divenuta un giorno a ognuno di noi spaventosamente chiara, e poiché in tutta la guerra la morte m’era stata per così dire a fianco, meditai anche su me stesso, sulla mia spensie­ ratezza e sugli errori che potevo aver commesso. Solo ora, che non avevo più scelta, calò su di me l’ombra cupa del soprannaturale e dell’altra vita, e sentii come il biso­ gno di una guida spirituale, mentre cingevo la sciabola e scendevo in cerca della compagnia, riunita sotto una pergola a far colazione. Stavano parlando appunto del tonfo notturno che si era udito in tutta la casa, e poiché io m’avvicinai con aria aggrondata e sulle prime non aprii bocca, crebbero la sor­ presa e la perplessità. Richiesto se non avevo sentito anch’io, risposi di sì senza aggiungere altro, giacché non volevo spaventare la famiglia e preferivo lasciare al tempo c ai fantasmi stessi di rendere note ai padroni le strane cose che avvenivano nella loro casa. Solo mentre pas­ seggiavo ancora un po’ su e giù con Hildeburg e Mannelin prima di andar via, ed ella mi chiese: «Che cos’ha? Perché è così serio e taciturno?» risposi mio malgrado: « Che cosa vuole che abbia? Ho visto la vecchia Kratt ! ». «E le ha parlato?». Lo disse con una risata schietta, come quando si in­ terpreta una frase come uno scherzo. Però mi osservava con profonda attenzione. Tanto più che Mannelin mi

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guardava stupito e io non mi sentivo disposto a discutere con lui. Il cocchiere era pronto a condurmi in città, e io mi congedai con la promessa di ritornare l’indomani per l’ultima volta ; partii col cuore niente affatto leggero. La visita del fantasma, la separazione dalla deliziosa fan­ ciulla, l’incertezza del futuro, e anche il fatto che Man­ nelin restava solo con Hildeburg, tutto contribuiva a rendere cupi i miei pensieri. E ora terminerò il racconto nel suo ordine cronologico. Dopo la mia partenza Hildeburg e Mannelin continua­ rono la passeggiata in giardino, e solo allora l’amico espresse la sua inquietudine mista a contrarietà per lo stato della mia salute fisica e mentale, giacché gli ero par­ so tormentato non soltanto da angoscia ma da autentiche allucinazioni. Sarebbe stato un peccato se avessi conti­ nuato o addirittura progredito in quella condizione mor­ bosa ed egli si chiedeva se non dovesse spingermi a chie­ dere una licenza e ad accompagnarlo a passare le acque. Probabilmente le vicende di guerra non avevano giovato al mio carattere instabile, e altre considerazioni analoghe. Hildeburg gli chiese, pensosa, se era così sicuro che fosse soltanto illusione quello che io affermavo di aver veduto. Da parte sua ella temeva, pur contro ogni ragio­ nevolezza, che certe cose fossero possibili, e nel caso pre­ sente era preoccupata soprattutto per i genitori, come pure per gli altri parenti e per gii amici, ai quali il vivere in un edificio con quella cattiva fama non avrebbe più procurato alcun piacere. In tali circostanze, non pareva neanche più consigliabile intraprendere i restauri pro­ gettati, eccetera, eccetera. Mannelin guardò allora l’interlocutrice con aria tanto allarmata quanto affettuosa. Era addolorato che fosse capace di credere a simili as­ surdità. Ella gli lesse la pena negli occhi e forse lo rin­ graziò con lo sguardo; ma insistè nel suo dubbio e disse dopo aver riflettuto: «Devo almeno sapere se ad altri può toccare nella vecchia stanza un’eguale avventura, o se è solo il nostro amico che ha delle allucinazioni. Dirò a Johann di pas­ sarvi una notte».

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«Il vecchio Johann» disse Mannelin «vedrà natural­ mente tutti gli spiriti possibili e immaginabili ! Se vuole un ragguaglio sicuro, faccia preparare la camera per me. Mi sottoporrò in nome di Dio a questa bizzarra espe­ rienza, se davvero deve succedere qualche cosa». «Lei?» esclamò Hildeburg «No, non glielo permet­ to. Le voglio troppo bene. Se nella faccenda vi fosse qual­ cosa di vero, l’impressione su di lei potrebbe essere ancora più forte che sul nostro amico, e nuocerle gravemente ! ». Mannelin però non cedette, e verso le undici, quando tutti andarono a dormire, si fece accompagnare alla ca­ mera dove io avevo passato l’ultima notte. «Non vuole tenersi almeno la daga e le pistole?» chiese il servitore che aveva trasportato il necessario dall’altra stanza, e che era informato dell’esperimento. «No!» rispose Mannelin «contro gli spiriti le armi non servirebbero a niente, e se qualche persona viva si permette uno scherzo non è il caso di spargere sangue ! ». Basta, il mio Mannelin si trovò infine, come me, nella lugubre stanza. Andò in giro illuminandone ogni angolo, mise il chiavistello alla porta e si coricò mezzo vestito, dopo avere avvicinato il tavolino al letto. Poi lesse per un’ora o più, finché al campanile scoccò la mezzanotte. Allora chiuse il libro e stette ancora un po’ in ascolto, con gli occhi aperti. Ma tutto rimaneva cheto, ed egli comin­ ciava ad annoiarsi : spense la luce, si mise su un fianco e si addormentò. Dormiva da pochi minuti quando vi fu, non un tonfo come la notte prima, ma un picchiare fitto alla parete dietro il suo capo e una voce di vecchia disse chiaramente: «Ehi, ehi!», la corrente d’aria fredda lo investi, le tende volarono, la coltre gli fu strappata. E mentre Mannelin almanaccava, restando però coricato e tranquillo come se non gli fosse accaduto niente, ecco già in mezzo alla camera la vecchia Kratt, che arrancava verso la finestra, dove stava la scrivania e la luna brillava come ieri. Adesso egli era abbastanza stupito, e il cuore gli batteva notevolmente, perché ignorava il carattere e la portata dell’avventura. Ma come il cacciatore che sor­ preso da un animale prepara subito il fucile, Mannelin

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ordinò rapidamente i suoi pensieri in una piccola fila, come se fossero agenti di polizia, e si mise alla loro testa. Senza muoversi seguì attentamente con gli occhi l’appa­ rizione e la vide tastare la scrivania e aprire la ribalta, in breve fare tutto ciò che avevo veduto io. Mentre la strega cancellava lo scritto, Mannelin si alzò piano piano, le andò accanto, scalzo, senza far rumore, e si fermò alle sue spalle. L’orribile donnetta gobba grattava, cancellava, ansimava, tossiva, soffiava via la polvere, insomma si dava da fare più del diavolo, e Mannelin in silenzio guar­ dava al di sopra delle sue spalle, finché la vecchia ebbe finito e ruppe nella sua roca, beffarda risata. Allora egli disse improvvisamente: «Ebbene, Nonnina, che cosa combiniamo?». Come un serpente la strega si rivoltò e gli stette di fronte, di tutta la testa più alta di prima. Lo fissò con quel suo spaventevole volto; ma già egli le aveva messo la ma­ no sulla spalla e di colpo la prese alla cintola, per averla in suo potere e tirarle via la mantiglia. Sentì un corpo serpentino, ma molto caldo di vita, e poiché ella si torceva nelle sue braccia e avvicinava quel suo mostruoso volto cadaverico, egli afferrò impavido il naso che riluceva al chiaro di luna, e gli rimase in mano una maschera di cera mentre il visetto fine di Hildeburg lo guardava sorridendo. Ahimè, egli la baciò subito parecchie volte e in parecchi punti, finalmente si concentrò sulla bocca, la quale aveva appena mormorato un ruvido: «Caro ragazzo!». Infine sedettero su un seggiolone, vale a dire Mannelin vi si sedette, e Hildeburg sulle sue ginocchia. Non voglio in­ dagare se non sarebbe stato più corretto tirare avanti un altro sedile; la bizzarria dell’avventura e la quiete not­ turna possono servire di scusa; intendo solamente aggra­ vare il fatto del mio supplizio : tutto ciò sarebbe stato mio se la notte prima avessi posseduto il semplice buon senso di quel maledetto posapiano. Perché annidata fra le sue braccia Hildeburg gli spiegò i propri maneggi. Da quan­ do le eravamo di nuovo ambedue vicini, ella non sop­ portava più la sua condizione, né voleva ritornare senz’al­ tro alla rinunzia di prima, e, poiché aveva riconosciuto

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nel suo disgraziato amore simultaneo una malattia inde­ gna, era risoluta a guarirne con una scelta forzata. L’idea dell’attuazione le era venuta improvvisa dalle chiacchiere intorno ai fantasmi. A quello di noi che avrebbe dimo­ strato maggior coraggio davanti all’apparizione inten­ deva arrendersi, e lasciar libero l’altro; poiché d’averci conquistati entrambi era ben sicura. Ormai l’imbroglio s’era risolto come noi tutti non po­ tevamo desiderare meglio. Io, il dragone, avevo mancato, nel momento giusto, del divino raziocinio, Mannelin gli era rimasto fedele senza titubare, e perciò ella offriva a lui il cuore e la mano ; lasciatemi dire di nuovo eccetera eccetera per abbreviare, anche dopo tanti anni, l’insop­ portabile tormento. Nella notte stessa s’accordarono di fidanzarsi segretamente finché non giungesse per Man­ nelin il momento di chiederla in sposa ai genitori. Queste belle novità mi vennero solennemente spiegate il giorno dopo durante la mia ultima visita, in una riu­ nione riservata di noi tre. Con un presentimento nel cuore avevo scelto il cavallo più veloce, così potei, al ritorno, galopparmene via come il vento. Ma prima dovetti rifare con la coppia tutta la via percorsa da Hildeburg in veste di spettro. Non starò a descrivere minuziosamente con quanta astuzia aveva architettato il tiro, come aveva semplicemente provocato il tonfo rovesciando con una leva un vecchio armadio sgangherato che stava in soffitta proprio al di sopra della camera da letto, e dopo non ave­ va più potuto tirarlo su, motivo per cui la seconda notte la detonazione non c’era stata; come aveva scoperto in uno stanzino nascosto la bocca d’una antica stufa che dava nella famosa camera, ed era coperta da un pannello spostabile, sicché il fantasma aveva potuto entrare di lì e scivolare dietro le tende del baldacchino; come aveva strappato via la coperta per mezzo di un cappio na­ scosto fra le pieghe dei cortinaggi; come aveva provo­ cato il soffio gelido spalancando nello stanzino della stufa una finestra a nord, e lasciando aperto nella camera da letto il battente superiore d’una finestra a ovest, cosicché nel momento in cui la bocca della stufa era rimasta sco-

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perta s’era formata una corrente d’aria; come aveva stu­ diato la sua parte con ragguardevole fantasia e in un limi­ tatissimo spazio di tempo: tutto ciò ella ci spiegò punto per punto, così da non lasciarci il minimo dubbio; e du­ rante quella Via Crucis, a ogni stazione seguitò ad ammo­ nirmi di non essere mai più così credulone. E intanto s’at­ taccava familiarmente al mio braccio, per cui non mi ri­ mase altra via che prendere un’aria da perfetto somaro e cercare di far buon viso a cattivo gioco. Per giunta la cosa più triste che ci sia al mondo, cioè il caso, aveva impresso su tutto ciò il suo suggello. Volendo procedere nel modo più imparziale, la buona fanciulla aveva tirato a sorte quale dei due innamorati dovesse sottoporre per primo alla prova; giacché, ella disse, molte circostanze fortuite potevano influire sul risultato; il tempo, il chiaro di luna, le condizioni fisiche e psichiche potevano motivare una diversa capacità di giudizio, co­ me infatti era accaduto che io quella sera avessi alzato il gomito più di quanto non avesse fatto Mannelin la sera dopo per mancanza di compagnia, giacché io non c’ero. Dunque proprio come nelle corse di cavalli, dove si mi­ surano e si tengono nel conto dovuto i minimi particolari ! Che la vittoria del mio rivale, nonostante l’irrepren­ sibile procedimento tecnico, corrispondesse ai voti se­ greti di Hildeburg, fu per me indubbio fin da allora. Di colpo infatti apparve liberata da ogni peso, e visse con cuore leggero e indiviso, il cuore di chi ha quanto desidera.

— Questa è la storia di come Hildeburg si scelse il marito, e della mia sconfitta — concluse il colonnello, e ri­ volgendosi subito a Reinhart disse: — Sa come si chiamava, in realtà? Perché Hildeburg era il nome che le davamo Mannelin e io quando parla­ vamo di lei in sua assenza. Il suo vero nome era Else Moorland, maritata poi al professor Reinhart, e quindi deve trattarsi della sua signora madre. È ancora viva? E come sta? I giovani provano sempre un certo impaccio a sentir parlare delle storie d’amore che hanno preceduto il ma-

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trimonio dei loro genitori. Essi pongono così in alto chi li ha generati, che non hanno piacere d’immaginarli erranti per gli stessi sentieri umani dove essi stanno vagando. Anche Reinhart si sentiva a disagio ed era tutto rosso in volto, giacché la disposizione d’animo in cui si trovava da due giorni pareva rivoltarsi contro lui stesso. Un paio di volte durante il racconto del vecchio signore gli era sem­ brato che si trattasse di una cosa nota o intuita; ma l’im­ pressione era svanita, come accade sovente di non osser­ vare o di non riconoscere le cose che ci toccano più da vi­ cino. Alla strana scoperta si mescolò un ancor più strano moto di egoismo, quando pensò al pericolo scansato per un filo che la mamma fosse toccata a un altro e non a suo padre; e allora che cosa sarebbe stato di lui, del figlio? E che cosa era adesso, se non il frutto della scelta più che arbitraria d’una fanciulla petulante? Be’, grazie a Dio almeno erano suo padre e sua madre! Avrebbe potuto andar peggio ! Ma come peggio, testa di cavolo? Se andava diverso, lui non sarebbe esistito ! Quei pensieri gli sfilarono in mente in rapida succes­ sione, finché alzò il capo e vide Lucia comodamente seduta nella sua poltrona da giardino, con le braccia in­ crociate, e gli occhi ridenti posati su di lui. Tutto il suo viso era sereno come il cielo quando è interamente sgombro di nuvole. — Si consoli col Vangelo, — ella lo esortò — là dove dice: «Non voi avete scelto me, bensì io ho scelto voi !». — Mille grazie per il consiglio ! — rispose Reinhart, trascinato al sorriso dal sole che ella aveva negli occhi — io capisco e apprezzo la soddisfazione che le procura il rac­ conto del signor colonnello ! Certo non mi sarei mai aspet­ tato d’essere battuto nella persona del mio proprio padre ! — Che ingrato ! Sia orgoglioso di un padre che ha vin­ to il mio ottimo zio! Dev’essere un uomo meraviglioso! Sono davvero un po’ innamorata di lui solo a sentirne parlare! È ancora così bello e biondo? — E ormai grigio da un pezzo, però gli dona ! — E la mamma? — intervenne il colonnello — È già grigia anche lei o è ancora bruna e agile come allora?

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— Ha ancora i capelli scuri, ed è agile ma solo di spi­ rito ; non credo che le sarebbe possibile adesso sgattaiolare attraverso la bocca della stufa, e passare fra il letto e la parete ! — Mi piacerebbe rivederla, e anche il buon Mannelin; — disse lo zio di Lucia con voce commossa — mi sento rappacificato ormai, e dolce come uno zuccherino ! — E vorrà porgere i miei omaggi a sua madre quando le scrive? — disse la signorina con una graziosa riverenza — oppure non le farà il racconto del suo viaggio e delle sue avventure? — Non tacerò nulla, se non altro perché debbo fare del mio meglio per allettare il signor colonnello e forse anche la nipote a visitare i miei genitori. — Lo faccia pure! Un giorno o l’altro sentirà si­ curamente dire che la cosa è avvenuta, non è vero, caro zio? — Appena sarò di nuovo saldo sulle gambe — esclamò il colonnello — faremo il viaggio da tanto tempo stabilito e visiteremo i vecchi amici passando per la loro città. — Ora che ci penso, — disse Reinhart — la nostra villa ricostruita da più di trent’anni deve esser sorta al posto del vecchio edificio comprato dai nonni Moorland ! Cosi potrà fare anche lei il fantasma quando ci verrà, signorina Lucia ! — Se m’innamoro di due uomini contemporanea­ mente, mi trarrò anch’io d’impaccio in quel modo! — rispose ella in tono evasivo, e subito Reinhart rimpianse le sue parole incaute; quando un’anima sensibile per­ corre in stato di sonnambulismo il sentiero di un nuovo destino, non è lecito spaventarla con goffi suggerimenti. La splendente letizia del viso di Lucia era in parte spen­ ta quando la piccola riunione si sciolse. Reinhart parlò della propria partenza, sia per riguardo, sia in un accesso di depressione, e chiese licenza di ritirarsi per i necessari preparativi. Ma il vecchio signore s’oppose. — Deve fermarsi un’altra giornata almeno ! — esclamò — non mi bastano le due o tre ore che ho passato con lei, e del futuro parleremo in seguito. Il piacere insperato di

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rituffarmi nella mia giovinezza non me lo lascio sciupare tanto facilmente! — Il signor Reinhart non potrà partire così all’im­ provviso — intervenne Lucia — perché il suo cavallo sta­ mattina è stato portato al pascolo con i nostri ed è lassù che salta e se la gode. Sicché oggi non si può andare né a cavallo né in carrozza, a meno di mandare l’ordine tas­ sativo di far rientrare il bestiame. — Niente da fare ! — ribattè il colonnello — quella po­ vera bestia ha pure il diritto di passare una buona gior­ nata. Adesso me ne andrò in camera per un’oretta, e vedrò se sono arrivati i miei giornali. Vuole che gliene mandi un paio, signor figlio di Hildeburg? — I giornali non sono adatti per i suoi occhi affaticati; — disse Lucia — se vuole leggere, prenda piuttosto qual­ che vecchio libro stampato a grossi caratteri, lei sa già do­ ve, e rimanga là al fresco, oppure se lo porti fuori in giar­ dino. Io purtroppo devo dare un’occhiata alle faccende di casa! La sollecitudine di Lucia per la sua vista, della quale egli aveva quasi dimenticato le condizioni precarie, gli fece così piacere che s’arrese senza resistere, e quando si separarono si recò nella biblioteca di lei. Prese in uno scaffale il primo libro che gli capitò in mano, senza guar­ darlo, e, pensando che non era conveniente fermarsi lì, se ne andò nel bosco a labirinto donde era venuto. Là cadde in un abbattimento sempre più profondo, che si sfogò al­ fine in un gran sospiro : “Oh fossi rimasto fra i miei quattro muri!”. Non soltanto l’aver appreso le straordinarie im­ prese giovanili di sua madre, e l’esistenza di un rivale di suo padre, ma anche l’impressione che Lucia gli aveva fatto, e che cresceva sempre più, turbavano e rabbuiavano l’animo suo. Erano cose veramente diaboliche ! La minac­ ciata perdita della sua preziosa libertà, della sua indipendenza, quasi gli spezzava il cuore. Si vede bene, egli pensava, quanto preme alle donne avere sempre il soprav­ vento ! Molto meglio scegliersi tranquillamente una don­ nina mite, silenziosa, arrendevole, che non ci privi della ragione. Ma certo queste per lo più arrossiscono quando

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sono baciate, però non ridono ! Per ridere ci vuole sempre un po’ di spirito; le bestie non ridono! Così trascorse il tempo, e quando ritornò in casa trovò per soprammercato la famiglia del pastore venuta a con­ templare di nuovo il fenomeno della sua apparizione e a osservare gli effetti da lui prodotti sotto i grandi platani della villa montana. La figlia del pastore, vestita di seta azzurra, diventò di fuoco quando Reinhart le diede la mano, e Lucia, alla quale egli aveva raccontato la storia, lo guardò con vivace malizia, che però negli occhi di lei era benevola e graziosa come in altri occhi l’affetto più caldo. Con quella visita, la giornata passò in trambusto ininterrotto e in fitte chiacchiere; gli ospiti non tollera­ vano che si lasciasse cadere un minuto il discorso 0 ci si abbandonasse a un attimo di distrazione. Ma, poiché il colonnello, con la scusa della sua indisposizione, scom­ parve abbastanza presto, e Lucia rapì più volte l’amica per mostrarle le sue piantagioni, Reinhart finì per rimaner solo a tener testa ai genitori, e quando, verso sera, la fa­ miglia fu partita nella sua carrozza, sembrò che si fosse fermata la ruota di un mulino. — Ammiro la pazienza con la quale ha ascoltato e dato risposta a quella brava gente — disse Lucia quando ri­ masero soli. — Avevo davvero l’aria così rassegnata? — chiese Reinhart con stupore ; non si sentiva la coscienza a posto, perché dentro di sé non aveva fatto altro che mandare a quel paese tutta l’ottima famiglia. — L’apparenza era perfetta ! Mi creda, si è sempre un po’ migliori di quanto non si voglia ammettere. In com­ penso le offrirò una buona tazza di tè e vedrà di nuovo le mie cameriere al filatoio. Vino non gliene do più; perché a tavola, nella sua irritazione segreta, ne ha già bevuto più di quel che sia bene per i suoi occhi. — Allora s’è accorta che ero arrabbiato? — S’intende ! Tanto più lodevole il dominio di sé e la pazienza che si è imposta ! Dopo il tè, quando fu buio, le fantesche presero i loro filatoi e filarono per un’oretta. Il ronzio delle ruote e il

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dialogo sciolto e tranquillo, che ogni tanto lasciavano spegnere come per scherzo e riprendevano poi agevol­ mente, calmarono gli spiriti agitati nel petto di Reinhart, sicché alla fine egli si occupava nel modo più casalingo della lampada che bruciava male, e chiacchierava sereno mentre Lucia lo guardava contenta. Quando tutti andarono a letto egli si congedò di buon umore e forse per sbaglio portò con sé il libro che aveva preso nello studio di Lucia e che non aveva ancora aperto. Solo in camera lo sfogliò e vide che era una storia di viaggi e conquiste del diciassettesimo secolo. Il libro doveva esser stato a suo tempo letto e riletto, poiché aveva avuto bi­ sogno di una seconda rilegatura. Molti fogli infatti erano rimasti appiccicati insieme dalla coloritura variopinta, e quando Reinhart ne staccò due, c’era in mezzo un fo­ glio ingiallito, coperto di una scrittura sbiadita. In un mattino di giugno dell’anno 1732 una dama aveva scritto a un’altra in lingua francese: «Cara Amica! Legga il grazioso racconto che ho qui segnato. Buon gior­ no ! La sua fedele amica J. Ore 9 del mattino». Il legatore non doveva essersi accorto della letterina e l’aveva rilegata insieme col resto; da allora nessuno probabilmente l’ave­ va più veduta. Mezza pagina del testo era segnata di rosso, e il colore s’era impresso sulla pagina di fronte, così che Reinhart non capì subito di quale brano si trattasse. Tuttavia era curioso di apprendere che cosa avesse po­ tuto colpire la dama, in quel mattino di giugno di cen­ toventi anni prima, tanto da farle inviare il libro all’a­ mica. Lesse perciò ambedue le pagine e trovò un aned­ doto matrimoniale veramente curioso, senza dubbio quel­ lo che aveva interessato le due signore. La storiella piacque anche a Reinhart, e, poiché non aveva ancora sonno, egli vi lavorò e vi ricamò sopra, con l’idea di raccontarla se gli si presentava di nuovo l’occasione. Gli sembrava in­ fatti magnificamente adatta alla difesa contro la presun­ zione dell’egualitario sesso femminile.

CAPITOLO UNDICESIMO

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Come se avesse conosciuto l’intenzione e i preparativi di Reinhart, la mattina dopo Lucia, quando furono seduti tutti e tre sotto i platani accanto alla fontana, disse : — Oggi purtroppo dovremo passare il tempo senza nar­ rarci storie, a meno che lo zio non abbia in riserva un’altra Hildeburg, o il signor Ludwig Reinhart qualche altro caso di matrimonio che ebbe origine su per le scale. — Dio mi guardi — rise e protestò insieme lo zio — da un secondo smacco di quella specie. Ne ho avuto abba­ stanza una volta per tutte! — Quanto a me, — incominciò Reinhart — non cono­ sco un terzo amore nato per le scale, ma in compenso conosco un caso nel quale un uomo di grande fama e distinzione raccolse la futura moglie letteralmente da terra, e visse con lei felice e contento! — Magnifico ! — esclamò Lucia sorridendo allegra, non tanto per malizia, quanto per curiosità e piacere di sentire il nuovo racconto — Alla fine — aggiunse — giun­ gerà alla storia di san Francesco d’Assisi e delle sue nozze con la povertà! Oppure lei è una specie di predicatore ambulante che gira il mondo per esortare al matrimonio con ragazze indigenti? Su, incominci! — Sono pronto ! — disse Reinhart, si schiarì la voce e incominciò :

— La mia storia narra di un eroe marinaro e uomo di Stato, il portoghese Don Salvador Correa de Sa Bena­ vides, che in giovine età aveva già compiuto tali gesta da attirarsi l’odio degli invidiosi, mentre la gioventù è soli­ tamente immune da tale malanno. Gli uomini già adulti infatti devono essere ben tristi messeri, se sono capaci d’invidiare i giovani o le donne per i loro buoni successi. Al giovane stesso poi quel peccato è per lo più ancora sco­ nosciuto, o almeno prende l’aspetto più nobile di una fruttuosa emulazione.

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In uno di quei periodi d’invidiósa persecuzione Don Correa depose il bastone del comando, ancora rivestito di verdi fronde, e rimise la spada nel fodero ; e per appro­ fittare in qualche modo del suo ozio forzato pensò per la prima volta alle gioie d’amore e fu del parere che, doven­ do arrivarci una volta o l’altra, era meglio cercare subito la compagna della sua vita, prima che ritornassero i giorni del lavoro e della lotta. Così sarebbe stata una cosa fatta. Ma la consapevolezza del proprio valore, forse anche per l’offesa sofferta, e la speranza di trovare una sposa molto fedele e molto sottomessa, lo spinsero a fare le sue ricerche sotto le spoglie di un uomo ignoto e abbastanza povero, così che nascondendo il proprio nome, ceto e pa­ trimonio, egli potesse conquistare la donna grazie, per così dire, alla propria persona nuda e cruda. Accompa­ gnato da un solo valletto, s’imbarcò dunque in tutta se­ gretezza a Rio de Janeiro, dov’era stato governatore, e parti per Lisbona. Lì giunto, abitò inosservato una stanza remota del proprio palazzo, e usciva solo varia­ mente camuffato per recarsi nei teatri, nelle chiese e alle pubbliche passeggiate, dove si potevano vedere le belle dame della capitale e della provincia. Per molto tempo non ne incontrò nessuna che attraesse particolarmente i suoi sguardi, finché una sera, a non so quale spettacolo, vide una giovine donna che lo colpì per bellezza e con­ tegno. Non si poteva dirla né alta né bassa, ed era tutta vestita di nero da capo a piedi, tolta la candida gorgiera inamidata che presentava come su un vassoio non sol­ tanto il viso severo e ben formato col mento d’una bian­ chezza di fiore, ma anche i folti ammassi di boccoli ai due lati del capo. Un paio di volte, quando la signora si mosse, le sfolgorò sul petto la luce rosso cupa di un rubino ; il seno attestava una corporatura sana e normale, e così pure la regolarità delle mani e dei piedi. La dama occupava una poltrona in prima fila ; alla sua destra e alla sua sinistra sedevano su seggiolini a tre gambe uno scudiero e un religioso, dietro la poltrona stava ritto un paggio, e infine c’era anche una damigella di compagnia accoccolata su uno sgabello. Tutte queste

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persone stavano rigide e silenziose come statue, e non osavano scambiare una parola fra di loro né con la pa­ drona, a meno che questa non facesse un lievissimo cenno. Il più singolare era lo scudiero che tenendo sulle ginoc­ chia l’alto cappello a punta sedeva impettito e terribil­ mente serio. Benché il suo cranio vasto e grigio fosse scar­ samente fornito di capelli, i lunghi fili d’argento bastavano a formare in mezzo alla fronte una specie di conchiglia saldamente arrotolata che nessuna bufera avrebbe potuto sciogliere, nonché a rivestire le guance di due ben petti­ nate fedine, che ogni sera dovevano venir avvolte con cura e puntate dietro le orecchie. In compenso i baffetti incurvati all’insù erano autentici e induriti dalla ceretta. L’aspetto poteva esser definito stravagante ; ma Don Cor­ rea sapeva per esperienza che simili buffe pedanterie ne­ gli impiegati, nei dipendenti e nei servi denotano per lo più senso dell’ordine e puntuale adempimento dei propri doveri; giacché, per accomodarsi tutti i giorni il capo ca­ nuto con simile ricercatezza, un povero diavolo che non ha servitù propria deve alzarsi presto e abituarsi a una vita metodica; e tutte le sue occupazioni ne traggono vantaggio. Del resto correva voce che il giustacuore attil­ lato dello scudiero fosse stato tagliato in un vecchio stra­ scico di moerro della signora. Quanto al religioso, non aveva per nulla l’aspetto di un confessore viziato o dispotico, ma piuttosto di un pic­ colo maggiordomo intimorito e comandato a bacchetta; e mentre con occhi semibassi percepiva le mondanità dello spettacolo, teneva in grembo con mani malsicure il cap­ pello appiattito, come se fosse una terrina piena d’acqua. Del piccolo paggio sbucava dietro la spalliera del seggio­ lone solo la faccetta bianca ed aguzza, nonché la manica scarlatta della giubba; e solo quando la damigella si alzò in piedi si potè vedere che anche lei portava una veste co­ lor rosso vivo, un’acconciatura rossa in capo e una collana di coralli. Sembrava dunque che alla signora piacessero soltanto il nero e il rosso. Mentre ella assisteva immobile e mezzo annoiata allo spettacolo, e raramente qualcosa le strappava un sorriso,

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ogni tanto un cavaliere, solo o con altri, cercando posto le passava accanto e la salutava cortesemente o magari scambiava qualche parola con lei, tenendo il cappello in mano. Ella però non guardava nessuno mentre s’awicinava né lo seguiva con lo sguardo quando s’allontanava, ma salutava con uno squisito cenno del capo e una va­ ghissima mossa delle labbra, che sedusse misteriosamente Don Salvador, anche se la bocca ritornava subito seria, anzi addirittura severa. Nascosto fra la folla dei bassi borghesi egli chiese ad alcuni vicini il nome dell’illustre signora; ma nessuno gli seppe dare informazioni, perché probabilmente si trat­ tava d’una forestiera. Di minuto in minuto maggiormente preso dalla bella e strana visione, e risoluto a sapere chi era, Don Correa non ebbe altra scelta che aspettare la fine e vedere dove sarebbe andata la dama con il suo se­ guito. Si appostò quindi subito vicino all’uscita dei si­ gnori e attese paziente finché la sconosciuta apparve, nel lento corteo in cui si muoveva la «grandezza» per salire sulle carrozze, sui cavalli e sui muli in attesa. Per la forestiera erano pronti tre muli magnificamente bardati. Sul primo montò ella stessa aiutata dallo scu­ diero, sul secondo lo scudiero con dietro il paggio, sul terzo il giovane prete con dietro la damigella che gli si teneva strettamente aggrappata, così che vedendo ridere la gente il pretino arrossì di vergogna. Precedeva un lacchè con una torcia a vento, poi venivano i tre muli l’uno dopo l’altro, e a qualche distanza Don Correa for­ mava la retroguardia. La piccola processione s’inoltrò per vie e piazze finché svoltò nel cortile dell’albergo «Nave del re» dove scendevano soltanto viaggiatori ricchi o d’alto ceto. Quando la forestiera con la sua gente fu smon­ tata e scomparsa su per le scale che portavano ai piani superiori, Don Correa entrò in una sala terrena affollata di mercanti e di gente di mare d’ogni parte del mondo. In un angolo presso il banco di mescita si fece servire una pic­ cola cena e avviò con la sorvegliante che stava alla cas­ sa e riscuoteva il denaro un dialogo intermittente, cer­ cando di ottenerne la confidenza, che infatti non si fece

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aspettare; giacché Don Salvador aveva qualcosa nella faccia e nei modi che piaceva senza indugio alle donne, quantunque egli fino allora si fosse poco giovato di tale vantaggio. Seppe quindi tutto ciò che desiderava sapere: che la bella sconosciuta era una giovane vedova e si chiamava Donna Fehiza Mayor de Cercai. Possedeva nel Portogal­ lo sudoccidentale una piccola città e grandi ricchezze, e abitava quasi sempre in un solitario castello rupestre a picco sul mare; lì viveva così ritirata che null’altro di lei si poteva riferire, e se non fosse venuta una volta all’anno nella capitale per curare i suoi interessi e concedere qual­ che svago ai dipendenti, si sarebbe ignorata perfino la sua esistenza. A Lisbona faceva poche visite e nei suoi posse­ dimenti non aveva mai invitato nessuno. Del resto era di una devozione esemplare e la mattina non mancava mai alla Santa Messa; perciò non poteva essere che perfida ca­ lunnia se qua e là si bucinava che fosse una strega e la sua servitù un manipolo di spiriti maligni. Quando Don Correa fu informato a sufficienza, lasciò l’albergo, per esser pronto tanto più presto il giorno dopo. Si trasformò in un marinaio mauritano, quasi negro, e assediò la «Nave del re» finché il piccolo gruppo uscì e si mise in sella. Nello stesso ordine del giorno prima, un mulo che sfiorava col muso la coda dell’altro, il corteo della dama partì per la Cattedrale e Correa lo segui. Ve­ dendo che presso il portale non c’era nessuno per badare ai muli si fece avanti e s’offerse di rendere il servizio, che lo scudiero infatti gli affidò. Il giovane guerriero era, come s’addiceva alla sua nascita e al suo secolo, un buon cattolico; perciò gli piacque molto che la signora de Cercai conducesse tutta la sua servitù ad ascoltare la messa e partecipare alle benedizioni della fede; in tali circostanze la taccia di stregoneria invece di spaventarlo accrebbe la sua inclinazione. Terminata la messa, potè osservare meglio la dama, e tanto più indisturbato in quanto ella non posò lo sguardo su di lui né sugli altri presenti. Vista da vicino e alla luce del giorno gli sembrò ancor più bella e perfetta della sera prima. Nella premura

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non ebbe neanche la presenza di spirito di accettare con un’acconcia espressione di povero diavolo riconoscente la piccola mancia che il paggio gli porgeva. Tutto si svolse di nuovo con tanta quiete e solennità, che certo l’autorità della bella signora doveva aver imposto il più pacifico e ordinato governo domestico, il più decente costume di vita. Per ultima salì la damigella, simile a un bastone di ceralacca rossa; e il marinaio negro che la sollevò pre­ murosamente dietro la schiena del sacerdote, guardando partire quel corteo un po’ grottesco, attribuì le strane abi­ tudini all’isolamento in cui la gentildonna viveva. Finché la dama rimase a Lisbona, egli continuò a gi­ rarle intorno in sempre nuovi travestimenti, ma il sog­ giorno non durò più a lungo. Ogni volta che la vedeva, si rafforzava nella decisione di prendere in sposa lei o nessun’altra. Perciò, appena ella fu partita, riprese il pro­ prio aspetto, però sotto le spoglie di un gentiluomo pove­ ro e oscuro. Scovò un logoro mantello bruno e un cap­ pello di feltro altrettanto frusto, cinse una spada con l’el­ sa arrugginita e la lama che usciva di un pollice dal fo­ dero privo da un pezzo del puntale di metallo. Così con­ ciato lasciò prima dell’alba il suo palazzo e la città di Lisbona e con pochi servi s’imbarcò su una sua navicella che teneva sempre apparecchiata; costeggiando la riva discese verso il sud finché giunse nella regione abitata dalla signora de Cercai. II paese del quale ella portava il nome era situato die­ tro i monti della costa, ma il castello sorgeva su una sco­ gliera ripida sovrastante il mare. Don Correa incrociò sul mare aperto finché si fu accertato che Donna Feniza era ritornata, e parecchie volte passò tanto vicino a riva da poter studiare col suo sguardo acuto la posizione e la co­ struzione del castello. Poi si portò di nuovo al largo e aspettò un vento forte o addirittura un fortunale, e quan­ do esso giunse navigò sul mare in burrasca a vele spiegate, le ammainò poi come temendo un naufragio, e dopo aver lasciato che il battello fosse sballottato a lungo dalle onde si fece buttare, con la sua spada e il mantello arrotolato, sulla scogliera, così aspra che faticò non poco a uscire

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dai frangenti e a toccare terra. Ai suoi marinai aveva dato l’ordine rigoroso di tornare al largo e veleggiare verso casa appena si fossero assicurati che egli era giunto a riva. Essi obbedirono e con audacia non minore all’a­ bilità seppero raddrizzare la nave già prossima al nau­ fragio, e da terra già giudicata perduta, per tornare in alto mare e ben presto scomparire alla vista. Don Salvador Correa s’arrampicò sulla scogliera e co­ minciò a salire un ripido sentiero a gradini che mezzo nascosto fra rocce e cespugli conduceva verso l’alto. Fatti dieci o dodici scalini, gli venne incontro un ragazzo, nel quale riconobbe il paggio della bella castellana. Di lassù avevano assistito alla lotta della nave contro la tempesta, ma non avevano potuto vedere quel che era accaduto più presso a terra, perciò la signora aveva mandato il paggio in perlustrazione. Don Correa gli chiese come si chiama­ va il paese e a chi apparteneva, e gli spiegò in poche parole che aveva fatto naufragio ed era senza asilo, al che il fanciullo gli disse di aspettare, mentre egli correva su e ritornava con gli ordini della signora. Intanto condusse il forestiero in una grotta naturale che s’addentrava nella roccia per un piccolo tratto e conteneva una panca scavata nel sasso; la caverna era anche munita di un cancello. Poiché il sole erompeva già fra le nuvole lacerate, men­ tre il mare seguitava a infuriare rombando, Don Correa appese al cancello la sua cappa sgocciolante per farla asciugare, e si sedette sulla panca, giacché era sfinito dall’avventura tal quale come se il naufragio fosse stato involontario. Osservò allora con un sorriso i molti fori fatti dalle tarme nel mantello scuro: adesso, col sole dietro, brillavano come un cielo stellato. Tre di quei buchi erano così bene allineati che riproducevano magnificamente la cintura d’Orione, altri erano disposti come la costel­ lazione di Cassiopea, due si fronteggiavano come le stelle della Bilancia, e una quantità di singoli forellini avrebbe­ ro potuto essere variamente denominati da un esperto secondo la posizione e la distanza reciproca. Ma poiché alcuni erano ancora chiusi da gocce d’acqua simili a piccole sfere di vetro, splendevano rossastri o azzurrini

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sotto i raggi del sole, e Don Correa, conoscitore di stelle e astrologo, osservò attentamente il fenomeno come un significativo gioco della sorte. Tosto mise insieme una costellazione nella quale il pianeta Venere pareva sfol­ gorare come una promessa di felicità. Era così sprofondato in quella contemplazione e in pensieri attinenti, da non udire i passi leggeri che si avvi­ cinavano, e fu quindi altamente stupito quando il man­ tello venne spinto da una parte e invece del pianeta Venere apparve l’intera figura di Donna Feniza Mayor de Cercai, col piccolo paggio alle spalle. Correa si alzò subito e col comportamento più caval­ leresco chiese perdono se non poteva togliersi il cappello perché il mare gliel’aveva portato via. Ma ancor più do­ vette stupire quando la dama che a Lisbona s’era mostra­ ta così ritrosa e taciturna lo guardò con grandi occhi e vi­ sibile compiacimento e con voce ferma e armoniosa gli chiese chi era e di dove veniva. Di nuovo incantato della sua bellezza, fu appena ca­ pace di raccontare con un po’ di coerenza la storiella che aveva preparato; un povero gentiluomo perseguitato dalla sorte avversa che, costretto a cercar fortuna in lontani paesi, era miseramente naufragato su quelle sponde. Ma di tanto migliore fu l’impressione che riuscì a produrre. La dama si sedette sulla panca di pietra, e quando nel corso della conversazione si fu accertata che il forestiero era un giovane di buon casato e di modi raffinati, pieno di spirito e di risolutezza, lo invitò cortesemente a pren­ dere posto e a riposarsi accanto a lei, e terminò offrendo­ gli l’aiuto e l’asilo desiderato nel suo castello. Anche un copricapo si poteva trovare, ella aggiunse, mentre già lo precedeva su per il sentiero; il cavaliere seguiva col suo mantello, e il paggio scalava i gradini per ultimo. Qualche giorno dopo il fortunato gentiluomo portava non soltanto un cappello nuovo, ma diversi altri eleganti capi di vestiario che la dama gli aveva donato; però era ancora avvolto nel vecchio mantello pieno di stelle, quan­ do scese con lei l’erto sentiero per andare a passeggio sulla riva deserta. Ma il sole era così caldo che la bellissima

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coppia cercò tosto un riparo, ed entrò nella grotta. Te­ nendosi per mano sedettero sulla panca di pietra e, quan­ do il sole scendendo all’orizzonte penetrò anche lì dentro, appesero per scherzo la cappa al cancello e osservarono le costellazioni prodotte dalle tarme. «Mai le stelle della povertà illuminarono una felicità più bella!» sussurrò Correa e circondò col braccio la flessuosa figura di Feniza. Ella indicò col dito un foro più grosso, che anzi pareva un piccolo strappo. «Qui v’è addirittura fra le stelle una falce lunare: il pastore fra le pecore, come dicono i poeti ! ». «Non è opera delle tarme, si tratta di una vecchia scia­ bolata ! » rispose Correa. Ella volle conoscere il fatto, ed egli le raccontò come da giovane studente aveva dovuto difendere la propria vita, una notte che, passandogli accanto, aveva gridato «chiudi quel becco!» a un tale che faceva la serenata sotto il balcone d’una bella. Allora ne sapeva poco dell’amore, e quei miagolii stonati a tutti gli angoli delle strade lo infastidivano assai. Solo il man­ tello, tenuto innanzi con il braccio sinistro, aveva potuto attutire la stoccata del furibondo strimpellatore di chi­ tarra. Tuttavia il sangue era sgorgato abbastanza copioso. Feniza Mayor gli chiese se adesso aveva imparato ad amare veramente, e lo baciò prima che potesse rispondere. Così trascorse un giorno dopo l’altro, finché la riser­ vata e orgogliosa signora de Cercai fu tutta travolta e perduta nella passione, e Don Correa non trovava più né il tempo né i pensieri per meravigliarsi del prodigio, poiché anche lui era ardentemente innamorato; in bre­ ve, non sarebbe stato facile dire quale dei due avesse più rapidamente sedotto e trasformato l’altro. Poiché non v’erano ostacoli, naturalmente si fidanzarono e prepara­ rono le nozze che dovevano farsi molto presto, Donna Feniza non lo interrogò quasi sulle sue origini, e rimase contenta della favoletta che egli le aveva imbandito ri­ servandosi di rivelarle un giorno la sua vera identità. E così Don Salvador s’abbandonò senza scrupoli al piacere d’essere vestito, nutrito, alloggiato e vezzeggiato dall’a­ more di lei, poiché tutto ciò lo rinsaldava nella convin­

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zione di dovere tanto favore unicamente a se stesso. Gli sponsali furono celebrati nel palazzo della piccola città di Cercai, al di là delle montagne. Il corteo nuziale che si snodava a cavallo su per i monti risplendeva da lontano e annunziava che la bella Feniza Mayor prende­ va marito per la seconda volta; ma in verità nessuno era lieto, tranne la sposa e lo sposo. Quest’ultimo non s’accor­ geva di nulla, e solo gioiva degli splendori con i quali avrebbe un giorno stupefatto la sposa, quando sarebbe ritornato il tempo della fortuna e della potenza. Però nell’antica chiesa, concluso il rito, lo sorprese uno strano spettacolo. Al sepolcro del primo marito di Donna Fe­ niza, eretto contro una colonna, era appoggiata la secca e giallastra damigella, nell’abito rosso della festa, e fissava sul gagliardo Don Correa il cupo sguardo fiammeggiante. La gente la sospettava di aver fatto morire nel sonno quel primo marito vecchio e brutto dal quale provenivano in massima parte le ricchezze di Feniza, e di aver commesso altri misfatti per ordine della bella padrona. Ma Correa, che non ne sapeva nulla, dimenticò rapidamente quello sguardo sinistro. Per circa sei mesi vissero come sull’isola di Calipso, finché il bisogno d’azione si risvegliò in Salvador Correa e non gli permise più di limitarsi a sognare fra agi e mol­ lezze. Aveva già ricevuto segreti cenni che il governo de­ siderava valersi di lui e a dispetto dei suoi nemici confe­ rirgli maggiore autorità, per cui gli parve giunta l’ora di recarsi a Lisbona e di rioccupare il suo posto. Ma la mo­ glie non doveva ancora sapere nulla, e solo a cose fatte sarebbe entrata con lui nel suo palazzo. Egli si limitò quindi ad annunziarle che doveva mettersi in viaggio per affari importanti, e benché ella fosse divenuta rossa in fac­ cia come il fuoco non vi pose attenzione, le accarezzò le guance accese e andò nelle scuderie a scegliere i cavalli per sé e per un palafreniere. Accorse il vecchio scudiero e chiese in che cosa lo poteva servire, e quando Don Correa indicò i due cavalli da sellare, si tolse ossequiosamente il berretto di cuoio, fece un inchino rigido ma profondo e disse con cortesia che i cavalli appartenevano alla padro­

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na e che sarebbe andato subito a chiedere il suo consenso. Si raddrizzò poi dall’inchino, al che Don Correa, dopo averlo acutamente fissato, gli menò un ceffone e lo buttò fuori della stalla, non tanto per violenza quanto per un’in­ nata politica matrimoniale che in quel primo incidente gli venne spontanea, anche se in tal campo egli aveva ben poca esperienza. Ordinò quindi a un garzone, con voce dura e sguardo severo, di sellare i cavalli e di prepararsi alla partenza ; poi ritornò nella sala, con stivali e speroni e con indosso il vecchio mantello. Quando entrò, la castellana era pallida come un cada­ vere e fuori di sé, totalmente impreparata a fare o a dire qualcosa. Accanto a lei stavano lo scudiero, che cercava di coprire con la mano la spettinata conchiglia in cima al cranio, e la damigella di compagnia. Correa, che aveva sempre l’animo ben disposto e l’umore sereno e schietto, salutò la consorte con un abbraccio e per incidenza l’in­ formò di aver cacciato via lo scudiero che aveva rifiutato di obbedirgli ; e giacché c’era intendeva licenziare anche la damigella rossovestita, che gli era antipatica. Al suo ritorno desiderava non trovarli più né l’uno né l’altro, e avrebbe pensato lui a procurare persone dabbene e di suo gradimento. Nessuno si mosse o pronunziò una parola. Mentre scen­ deva le scale vide il paggio rincantucciato in un angolo con faccia ostile. «Va’ su dalla tua padrona» gridò Don Salvador «e dille che ho scacciato anche te ! Se ti trovo ancora qui quando torno, ti butto dalla finestra!». Il paggio, come un grosso ragno, scappò di corsa su per i gradini. Sul portone attendevano i cavalli sellati e il palafre­ niere vestito da viaggio. Ma costui aveva un fare cosi ti­ tubante e stizzoso, che il padrone s’accorse subito della svogliatezza con la quale anche questo servo eseguiva i suoi ordini. Infatti non aveva ancora fatto cento passi sul fianco della montagna che un fischio acuto risonò dalla finestra della torre ; il palafreniere si fermò per un attimo, poi voltò la cavalcatura e ripartì a briglia sciolta verso il castello.

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“Dunque siamo a questo punto?” si domandò Don Correa osservando la fuga dello stalliere; ma invece d’inseguirlo seguitò la sua strada, preferendo arrangiarsi da solo che affidarsi a servitori di quella sorta. Del resto l’in­ cidente, più che irritarlo, lo fece ridere, e quasi gli parve più stuzzicante avere una mogliettina salata e pepata invece di una tutta miele. A Lisbona ogni cosa si svolse secondo i suoi desideri. Fu nominato vice ammiraglio e, poiché adesso aveva una carica pubblica, ciascuno faceva a gara nel professarglisi amico. Tosto egli cominciò i preparativi per un’immedia­ ta partenza, giacché il governo lo mandava in Brasile con tre grosse navi da guerra e gli affidava provvisoriamente gli affari di laggiù. * Ordinò che la nave ammiraglia fosse arredata in modo degno d’accogliere una gran dama, suppellettili portate dal suo palazzo la fornirono d’ogni pompa e d’ogni co­ modità. Acquistò anche un’infinità di doni preziosi, che intendeva offrire alla sposa quando sarebbe salita sulla nave, per compensarla a dovizia di tutto ciò che aveva avuto da lei. Voleva portare la squadra fino all’altezza di Cercai, e là mettersi all’àncora e condurre a bordo Feniza ; solo allora ella doveva apprendere chi era l’uomo che aveva sposato. In una notte senza luna, un’ora circa dopo il tramonto, le tre grandi navi s’avvicinarono a terra e si fermarono a giusta distanza dal castello, di cui l’ammiraglio poteva riconoscere la posizione non soltanto dalle forme oscure della montagna, ma anche dalle finestre illuminate della sala nella torre maggiore. Per rendere più perfetta la sor­ presa, egli ordinò che si lasciassero accese sul ponte solo le lanterne indispensabili, e anche quelle le fece velare dal lato verso terra. Tanto più sontuoso e splendente era l’in­ terno della nave ammiraglia e particolarmente il quadrato di poppa, che sembrava un salone principesco. La mensa era apparecchiata con seta scarlatta al di sotto, e sopra candido damasco di lino; carica di pesante vasellame d’argento e di candelabri dalle molte braccia alternati a vasi dorati pieni di fiori esotici e olezzanti, si vedeva

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che era destinata a rendere qualche altissima manifesta­ zione d’omaggio. Davanti a ogni coperto un seggiolone dall’alto schienale stemmato attendeva un ospite illustre; lungo le pareti rivestite di ricche tappezzerie una società numerosa s’intratteneva in discorsi sommessi, e fra i gruppi circolavano abili servitori in belle livree, mentre in una stanza più piccola due cameriere attendevano la padrona. Non soltanto tutti gli ufficiali delle tre navi da guerra, ma anche un buon numero di alti funzionari dello Stato con mogli e figlie partecipanti al viaggio co­ stituivano la scelta compagnia che attendeva incuriosita la soluzione del mistero. Alle nove e mezzo Don Correa scese in un’imbarca­ zione e si fece condurre a riva, dopo avere ordinato che a mezzanotte precisa, cioè al momento del suo ritorno, tutti i ponti s’illuminassero, si lanciassero i razzi, e i can­ noni sparassero dalle fiancate. S’era avvolto nella vecchia cappa bruna e aveva in capo un semplice cappello di fel­ tro. Sbarcato a terra, disse ai rematori di aspettarlo senza far rumore, e sali il sentiero fra le rocce, che seppe trovare anche nell’oscurità. Il portone del castello era chiuso; ma attraverso le feritoie egli vide muoversi una luce, e con l’impugnatura della spada picchiò due volte al battente. Con una lanterna in mano, il palafreniere infedele aperse il portone e sgranò in faccia al veniente due occhi spaven­ tati come se avesse visto il diavolo. «Va’ avanti e fammi luce!» disse seccamente Don Correa senza guardarlo una seconda volta. Questa volta il servo obbedì al comando; ma corse su così in fretta che Don Salvador rimase indietro a brancolare nel buio. Arrivato di sopra, il palafreniere spalancò una porta e con la gola stretta gridò nella sala illuminata: «È arri­ vato il signore!». «Chi è arrivato?» chiese Donna Feniza che era seduta a tavola e pranzava. «Quello che distribuisce schiaffi e che ci ha scacciato o sta per scacciarci ! ». « O sciocco ! » esclamò la dama, splendente in tutta la sua bellezza; e diede in una breve risata scorgendo l’am-

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miraglio che compariva dietro il servo, lo prendeva per le spalle e lo spingeva da parte. Don Correa guardava la scena con vero sgomento, se si può adoperare tale parola per un uomo come lui e non sostituirla piuttosto con l’espressione «estremo stupore». Al tavolo rotondo, dove sedendole di fronte aveva pas­ sato tante ore belle, c’erano oltre alla castellana lo scu­ diero, la damigella, il giovane confessore, e accanto a Feniza uno sconosciuto, un pezzo d’uomo d’aspetto sol­ datesco, con larghe spalle e una lunga cicatrice sul naso e su mezza faccia, che tagliava in due anche i baffi, cosi che un ciuffo di peli restava al di là del solco paonazzo. Quello sfregio però non pareva spiacere affatto alla bella padrona di casa; difatti nel momento in cui s’era affac­ ciato alla soglia Don Salvador aveva còlto in un lampo, insieme a tutto il resto, lo sguardo che ella, mentre rideva, aveva scoccato al vicino. Tuttavia nella sua mente turbata i primi pensieri non si volsero a tali sospetti ma alla splendida accolta a bordo della nave ammiraglia. Come fare a sgombrare la casa senza perder tempo e senza ricorrere alla violenza; e in­ durre Feniza a mettersi in gala, o almeno a ornarsi un poco, e ad accompagnarlo, pur continuando a celarle il segreto? Nonostante la cattiva impressione che gli aveva fatto la scena, egli infatti non dubitava ancora di ripren­ dere la colomba ribelle e di addomesticarla di nuovo; e il modo migliore era la splendida sorpresa che le aveva preparato con tanta fatica e con tanta cura. Da quei pensieri, durante i quali egli non aveva nem­ meno osservato che Feniza non accennava affatto ad al­ zarsi e a farglisi incontro, lo svegliò di colpo la voce di lei che in mezzo a un silenzio mortale diceva : « Ma guarda ! È proprio mio marito ! Lui in persona ! Nobile signore, avete così presto consumato nei vostri va­ gabondaggi il denaro e gli abiti di cui vi ho fornito, che tornate a presentarvi davanti a me con quel mantello tarlato da mendicante?». Egli pesò per un attimo quelle parole, che non gli par­ vero né belle né amabili. Volgendo lo sguardo sulla pie-

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cola tavolata rispose, più che altro per trarsi d’impaccio, in tono asciutto e non molto cordiale: «Vorrei sapere piuttosto, cara padrona di casa, come mai trovo ancora qui la gente che ho mandato via, com­ preso quel merlo che sta dietro la tua seggiola? Non ti ha detto che l’avevo scacciato? E chi è il signore comoda­ mente seduto alla mia tavola senza che io l’abbia mai visto né conosciuto?». I servi guardavano la signora, mezzo ironici mezzo spaventati ; il forestiero gettò un’occhiata alla sua sciabola che pendeva nel vano della finestra da un’alta cintura di cuoio giallo con grosse fibbie d’ottone. Ma Feniza in tono mordace e sprezzante replicò : «Questa tavola, per quel che so io, è la mia tavola, e vi siede chi è invitato da me. Invece di litigare, occupate il posto che è ancora libero e rifocillatevi, se avete fame. Ma comportatevi come si addice a un ospite tolle­ rato». La prima eco di questo discorso fu lo scoppio di risa degli astanti. Perfino il paggio dal naso aguzzo fece sen­ tire una risata penetrante, come accade quando i ra­ gazzetti s’intromettono nei discorsi degli adulti e ne co­ prono la voce. Ma subito dopo vi fu un rumore molto più forte. Don Salvador cambiando colore s’era avvicinato alla tavola; la prese per il bordo e dicendo : «Ah sì? io sarei un ospite tollerato?» la rovesciò con tutto quel che c’era sopra, sto­ viglie, brocche, bicchieri e candelabri, e ciò con tanta vio­ lenza che anche i commensali con le loro seggiole precipi­ tarono a terra, tranne la castellana. Costei, spaventata dal viso stravolto del marito e dal suo avvicinarsi, s’era alzata a precipizio e rifugiata in un angolo, di dove guar­ dava sgomenta e curiosa. II primo a rimettersi in piedi in mezzo a tanta rovina fu il forestiero, e quando fu ritto e si gettò su Correa con la spada sguainata questi vide che aveva da fare con un uomo straordinariamente alto e forte. Ma non perse tempo ; benché più sottile e più delicato dell’altro, afferrò un pesante seggiolone di quercia, lo vibrò sul capo del gi­

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gante e gli spezzò non solo l’arma ma anche la spalla de­ stra, così radicalmente che quello rimase di colpo paraliz­ zato e per il dolore perse quasi i sensi e ogni forza di resi­ stenza. Da quel gaglioffo che era fuggì dalla sala, e il resto della compagnia lo seguì, man mano che si rialzavano tra i cocci. Svanirono come ombre cinesi ; alle spalle di Don Correa la damigella fece ancora un segno alla padrona, che rispose con un quasi impercettibile cenno del capo. Solo il paggio era ancora lì e mise fuori il naso di dietro la schiena di Feniza. Correa fece un passo, prese il ragazzo per i riccioli e come un leprotto lo gettò appresso agli altri fuori della porta che chiuse a doppia mandata. Poi, appoggiandosi sulla spada snudata, si piantò da­ vanti alla donna che stava lì con ginocchia termanti e mani protese, e dopo averla guardata severamente per un certo tempo disse: «Ma che razza di femmina sei?». «E che uomo sei tu?» domandò essa a sua volta, ango­ sciata, seguitando a tremare. « Io? Sono Salvador Correa, ammiraglio e governatore di Rio! Mi obbedirai adesso?». A una menzogna così madornale la donna s’illuse di aver riacquistato moralmente il sopravvento. Poiché in­ fatti credeva soltanto in se stessa, nelle sue ricchezze e nell’autorità della Chiesa, e in nessun’altra cosa al mondo, giudicava impossibile che quell’uomo da lei considerato per tanto tempo come un trastullo potesse davvero essere un gran personaggio. Ruppe in una risata cattiva, esclamando : «Ora vedo che fanfarone sei! Un poveraccio raccolto per carità e il grande, ricco, famoso Don Correa ! ». «Poiché mi confronti soltanto con me stesso e il para­ gone fa da contrappeso alla tua malignità, posso passarvi sopra ! ». Con quelle parole — pronunziate con una calma im­ posta dall’estrema necessità, poiché il tempo fuggiva inar­ restabile ed egli nel suo sconvolgimento pensava solo allo scandalo e alla sua dignità in pericolo se ritornava sulla nave a mani vuote come uno sciocco - con quelle

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parole dunque egli prese la donna per il braccio e la con­ dusse a una finestra che guardava sull’oceano. «Là sono all’àncora le mie navi;» egli disse «fra mez­ z’ora saremo a bordo, dove ci attendono dame e gentiluo­ mini in gran numero, e ti saluteranno mia sposa. Domat­ tina ritorneremo qui per fare i bagagli e stabilire un’am­ ministrazione provvisoria, poiché tu mi accompagnerai in Brasile. Ora affrettati a indossare un abito da ceri­ monia, e se indugi metterò fine ai tuoi indegni capricci trafiggendo con questo ferro la tua gola bianca!». E vibrò in alto la lunga lama. Distogliendo gli occhi dal mare, dove non aveva potuto scorgere che un pallido luc­ cichio, ella fissò la spada splendente. D’improvviso gli gettò le braccia al collo e gli coperse la bocca dei baci più ardenti che gli avesse mai dato. «Perché non dovrei obbedirti, ora che so quanto mi ami?» gli sussurrò con teneri accenti «tutto è passato, e verrò con te sino ai confini del mondo. Ma non posso ve­ stirmi da sola, e la cameriera me l’hai cacciata via, dunque toccherà a te d’aiutarmi ! ». Con un dolce sorriso lo prese per mano ed egli la seguì nella sua camera senza opporre resistenza, sperando di salvare almeno il suo onore da­ vanti agli occhi del mondo. Ma poiché la minaccia aveva agito così fulmineamente, tenne in mano la spada sguai­ nata. Ella incominciò allora a sciupare il tempo prezioso, cercando con finta irresolutezza un abito di gala e chie­ dendo consiglio a lui con graziose ciarle, poi si fece slac­ ciare la veste che portava, andò a prendere mille cianfru­ saglie, e intanto si dava da fare con moine e carezze, finché l’orologio alla parete battè un quarto alla mez­ zanotte. «Se non sei subito pronta» disse Correa «ti porto giù a forza, così come ti trovi». «Vado solo a prendere la collana più bella» esclamò lei «e il rubino che sta così bene sul vestito nero. E le mie gorgiere bianche oggi le aveva in mano la mia damigella. Torno fra un attimo». E scivolò fuori prima che Correa risolvesse se doveva o

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no lasciarla andare. Di fuori ella chiuse la porta senza far rumore e reggendo la lampada corse per le altre stanze, finché al piano di sotto trovò i suoi compagni che si spia­ vano attorno, stretti l’uno all’altro. «Appiccate il fuoco! Appiccate il fuoco!» sibilò rauca «è un pirata, ha una nave sul mare ! Bruciate tutto, non ve ne pentirete ! Su, presto ! La libertà e la vita valgono più di una vecchia torre ! ». Come una furia li precedette e avvicinò la lampada a un mucchio di sterpi su una scala di legno, mentre gli altri davano fuoco a una montagna di paglia che tappava lo scalone principale. Poi in cucina incendiarono un gros­ so cumulo di materiale combustibile e le fiamme si pro­ pagarono al pavimento di legno; quei demoni si disper­ sero quindi al piano terreno, nelle scuderie, nei granai, nelle legnaie, in cortile, mettendo fuoco dappertutto, e si raccolsero infine davanti al portone del castello, che ser­ rarono dall’esterno, portandosi via la chiave. I cavalli erano già fuori, essi vi salirono sopra, anche l’uomo con la spalla spezzata fu issato in sella; la dama di compagnia teneva in grembo uno scrigno con denaro, gioielli e docu­ menti, e così tutto il gruppo, una decina di persone, senza emettere un suono partì verso le montagne e scomparve nell’oscurità. In quel momento tuonarono i cannoni delle navi da guerra e il monte ne rimbombò, e quando gli scellerati si guardarono dietro atterriti videro sull’oceano i bastimenti illuminati a giorno, le girandole di fuochi artificiali che sfavillavano in cielo, mentre una fanfara di trombe risonava fra il rullar dei tamburi. «Quello non è un pirata, è un gran capitano o addirit­ tura un ammiraglio!» gemette l’uomo con la spalla rotta battendo i denti per la febbre. «Via! Via! È il diavolo in persona!» gridò Donna Feniza ricominciando anch’essa a tremare; e la cavalcata degli assassini incendiari fuggì, senza più voltarsi, al di là dei monti. Ma l’ammiraglio non era perduto. Poiché la donna do­ po qualche minuto non era ancora tornata, volle andare a vedere, e trovando tutte le porte chiuse dal di fuori scoprì

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il tradimento. Sfondata che n’ebbe una, vide· tutti gli ac­ cessi pieni di fuoco divampante che non era più possibile attraversare, e finalmente ritrovò la tranquilla e chiara ponderatezza dell’uomo d’azione; invece di cercare in basso l’uscita, che era sbarrata dall’incendio, salì fino all’ultimo ripiano della torre maggiore, dove già si tro­ vava. Là v’era una campana in un vano del muro, e la fune pendeva all’esterno fin giù nel cortile, dove usavano tirarla. Don Correa aveva provvisto lui stesso una fune nuova, che non era spessa ma abbastanza forte per un’im­ presa temeraria, purché la cima, annodata alla campana stessa, fosse bene assicurata. Egli dunque salì cautamente, con una lampada in mano che per poco non fu spenta dalle ondate di fumo e di calore che provenivano dal basso. Sull’ultima rampa della torre tagliò una corda che serviva da appoggiatoio, e con quella legò la fune così fortemente da potere arrischiare la discesa. Gli fu utile anche la vecchia cappa stellata, che attorcigliò intorno alle mani prima di scivolar giù dall’alta torre. Giunto nel cortile, dovette attraversare di corsa i vari edifici in fiamme per giungere a un’uscita alla quale gli incendiari non avevano pensato. Salito sull’imbarcazione e occupato il suo posto, diede l’ordine d’immediata partenza, e quando furono abba­ stanza lontani dalla riva vide il castello avvolto in fiamme purpuree, mentre dalle navi rombavano i cannoni e tutto sfolgorava di luci. Non si era mai trovato in una posizione più strana, così fra due fuochi, e con un amaro sorriso ne assaporò l’ironia e l’ammaestramento : cioè, che in fac­ cende di matrimonio non bisogna intraprendere, neanche con le migliori intenzioni, nulla d’artificioso, bensì la­ sciare che tutto Si svolga secondo il decorso normale. Il senso di liberazione da un futuro ignoto e disono­ revole e dall’immediato pericolo di vita gli rischiarò tuttavia alquanto l’umore cupo, cosicché salito sulla nave ammiraglia potè far sedere a tavola la splendida accolta e rivolgerle con padronanza di sé alcune parole. Disse che aveva creduto di poter presentare ai nobili signori una consorte leale e una buona compagna di viaggio ; ma la

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volontà imperscrutabile della Provvidenza aveva decre­ tato che divampasse un rogo d’iniquità e di rovina, e ap­ parisse necessario un processo che avrebbe svelato agli amici il triste segreto. Infatti, al termine del pranzo e ancor prima dell’alba, si tenne un consiglio di guerra che ordinò la cattura e la istruzione di un processo contro i criminali incendiari. La circostanza che il delitto fosse stato compiuto al cospetto di una squadra navale, e che l’ammiraglio per poco non ne fosse rimasto vittima conferiva al consiglio di guerra il diritto di giudicare. Subito Don Correa fece sbarcare ven­ ti cavalieri e quaranta fanti, che marciarono su Cercai, secondo le sue indicazioni; poiché egli supponeva, e con ragione, che i malfattori si fossero rifugiati là. Difatti erano nel palazzo di Feniza Mayor, immersi in un sonno profondo, quando i soldati vi giunsero dopo lo spuntar del sole; furono svegliati, incatenati e condotti in preda al terrore sul luogo dei loro misfatti; nella città di Cercai furono anche reclutati parecchi scrivani. Faceva già parte della spedizione un giudice istruttore, che diresse sul po­ sto le indagini e condusse gli interrogatòri. Poi i prigio­ nieri furono trasportati sulla nave ammiraglia, davanti al tribunale che sedeva sotto una tenda, e accanto c’era l’ammiraglio con la sciarpa del comando e l’ordine del Toson d’Oro. Al suo cospetto dovette comparire la signora de Cercai in mezzo ai suoi complici ; aveva il viso disfatto e fissava ora lui, ora i giudici, ora gli ufficiali e soldati che facevano corona. Quanto era stata solidale finora la strana combriccola, e fedeli i servi alla padrona, tanto adesso erano tutti disu­ niti e anzi ostili ; l’uno accusava l’altro, uno contro tutti e tutti contro uno. Risultò che la damigella aveva strango­ lato nel sonno il primo marito di Feniza, per desiderio di questa, dopo averne preso il posto nel talamo. Poi l’assassina, della quale la signora de Cercai era ormai divenuta mancipia, aveva fatto venire suo fratello, lo sfregiato, che campava la vita facendo ora il soldato di ventura ora il bandito. A costui s’era attaccata la dama, finché egli, poco prima della comparsa di Don Correa,

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s’era stancato di lei e se n’era andato con una forte somma di denaro, per conquistarsi, come egli diceva, un grado elevato mediante le fortune della guerra. Durante l’as­ senza di Correa era ritornato e la signora, nei suoi incom­ prensibili atteggiamenti morali e mentali, lo aveva accol­ to e accettato col solo pensiero di mandar via Correa per mezzo suo, o di eliminarlo. Piena di un odio implacabile, proprio il giorno prima del suo ritorno s’era consigliata sul da farsi con la sua congrega, e avevano deciso, se non c’era altro modo per sottomettere Don Correa, di chiu­ derlo nel castello e di dar fuoco a tutto. Appena cacciati dalla sala, la damigella, lo scudiero e i servi avevano pre­ parato l’incendio ; perché tutti quelli di casa odiavano co­ me la peste il supposto mendicante e intruso : un altro cat­ tivo frutto della trovata di Don Salvador per sposarsi felicemente, e che per poco non gli era costato la vita. Tutto ciò non rischiarava meglio dei fatti stessi il ca­ rattere e l’anima di Feniza. Il paragone con la bella pelle morbida di un’agile tigre o con la superficie cheta e azzurra di un’acqua profonda che sotto pullula di vermi schifosi non avrebbe condotto a nulla. La sua indole in­ somma non era diversa dal suo destino. Se le fosse stato possibile credere nell’ultima ora alle parole dell’uomo col quale non aveva pur esitato a legarsi, senza dubbio lo avrebbe seguito e si sarebbe salvata. Ma per una volta sola; perché in seguito non sarebbe riuscita a reprimere l’egoismo, la prepotenza, l’amore per il vizio e l’arte consumata dell’ipocrisia che formavano per lei l’essenza della vita. Ora però era ancor più spezzata che non l’omero del suo complice e drudo. Don Correa, durante la propria deposizione, non la guardò; e tuttavia egli le apparve, sul suo scranno, come un giudice infernale. Il mento bianco e grazioso che posava con tanta distinzione sulla gorgiera, adesso tremava livido e floscio, mentre gli occhi atterriti erano fissi sulla bocca dell’ammiraglio, e i denti di perla quasi si sentivano sbattere. Tutto ciò faceva sof­ frire Don Salvador forse non meno di lei. Infatti era ella più biasimevole, per non aver riconosciuto in lui il vero

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uomo, di lui che non aveva scoperto in lei la belva? Quando, dopo brevi consultazioni, tutti gli accusati furono dichiarati colpevoli e condannati a morte, egli fece compire il giudizio da un paio di canonici che era­ no a bordo e sciogliere solennemente il suo matrimonio con l’adultera. La validità di quest’ultimo decreto era ormai incontestabile, perché subito dopo Feniza Mayor de Cercai fu condotta a terra con i suoi complici e impic­ cata alle mura annerite della torre, dopo di che l’ammi­ raglio fece levare le ancore e si rimise in viaggio verso occidente. Solo dieci anni più tardi riprese moglie, in modo altrettanto insolito ma più fortunato. Fu allora che l’ammiraglio Correa con una grande flot­ ta partì dal Brasile per la costa occidentale dell’Africa, con l’incarico di ritogliere quei possedimenti agli Olandesi, che vi si erano stabiliti nel periodo di decadenza del Porto­ gallo. Egli apparve inaspettatamente davanti a San Paolo di Loanda, assediò e conquistò quello e altri capisaldi, e costrinse dappertutto gli Olandesi alla resa e alla ritirata, così che in due mesi restituì alle sue bandiere e alla sua patria le regioni di Benguela e di Loanda, insomma la costa sudoccidentale dell’Africa, e coprì il suo nome di nuova gloria. Inoltre sottomise una ventina di reucci negri, ma poi fu costretto a fermarsi, e per una maggior sicurezza ed espansione del dominio portoghese piuttosto che riprendere le armi sceke la via delle trattative. Nei territori dell’interno, infatti, s’allargava il regno sconosciuto del cosiddetto re dell’Angola la cui forza ef­ fettiva non era facile calcolare, tanto più che egli si teneva a misteriosa distanza e si circondava d’un nimbo di terrore e potenza, il quale poteva ugualmente fondarsi sulla realtà come su un astuto calcolo, illusione o vanteria. Correa si fortificò quindi in un luogo adatto, e da un’ambasceria di capi prigionieri fece invitare il sovrano negro ritenuto terribile a presentarsi a lui per riconoscere il proprio obbligo di tributo e la supremazia portoghese su tutto il regno dell’Angola; e in segno di buona volontà gli ingiunse di portare, tanto per cominciare, una certa quantità di polvere d’oro e d’avorio. Al re dell’Angola

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quel messaggio giunse poco gradito, e con strana saggezza politica egli risolse la questione facendo ammazzare gli sfortunati ambasciatori appena gli ebbero riferito l’ordine di Correa, affinché non potessero mai più ripetere un si­ mile oltraggio. Per contro inviò subito all’accampamento portoghese un messaggio proprio, con grandi zanne d’ele­ fante e un sacchetto di polvere d’oro, e fece presentare quegli oggetti come un dono generoso e amichevole, an­ nunziando in pari tempo l’arrivo della sua regale sorella, fornita di pieni poteri per i negoziati necessari. Il tremendo tiranno e leone del deserto seguiva la po­ litica di certi timidi borghesucci europei, che mandano sempre la moglie dove occorre coraggio e intelligente elo­ quenza; ma poiché possedeva un centinaio di mogli, di cui egli stesso non aveva paura, dovette ricorrere alla so­ rella, che era scaltra e politicona e già una volta, si diceva, aveva tentato di far deporre e giustiziare il re suo fratello. Don Correa non sapeva che i suoi ambasciatori fossero stati trucidati; perciò prese il gesto del re negro per un segno di mezza obbedienza e di prossima sottomissione; ma quando seppe dai suoi spioni che Annachinga, la prin­ cipessa d’Angola, si avvicinava con un seguito che pareva piuttosto un esercito, schierò le sue truppe in un ordine che poteva servire tanto per una battaglia quanto per una parata d’onore. E infatti si vide arrivare un formicolio di orde nere, nugoli che si allargavano sempre di più e partorivano un frastuono ora sordo ora lacerante di voci umane, grida animalesche e strumenti di guerra. I Portoghesi pensarono bene di ricambiare il saluto sca­ ricando le loro artiglierie pesanti, il cui metallo riluceva sotto il sole africano; allora il nero esercito, spaventato dal rombo riecheggiato dalle montagne, s’arrestò dal primo all’ultimo uomo e si conformò agli ordini dei ca­ valieri accorsi. Questi disposero che solo la principessa avanzasse col suo seguito personale, e che il grosso rima­ nesse dov’era. Così uscì fuori dalla massa un corteo più piccolo, che era ancor sempre abbastanza considerevole nella sua pompa barbarica, e serbava tutti i segni della •rozza inciviltà di quei popoli primitivi.

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Precedeva, come dono del re, un branco di animali selvaggi, elefanti, giraffe, leoni, tigri e simili, condotti a catena da uomini che con l’alta statura e l’aspetto su­ perbo dovevano testimoniare la forza e la superiorità del loro popolo. Venivano poi una dozzina di vassalli perso­ nali di Annachinga, montati su buoi dai finimenti colo­ rati, ciascuno accompagnato da un guerriero che gli por­ tava lo scudo o la lancia, probabilmente un vassallo mi­ nore, poiché anche questi camminavano agili come abeti, ed elastici come persone che hanno ancora altri inferiori sotto di sé. Su un carro di forma goffa e greve, tirato da buoi e coperto di tappeti apparve finalmente la princi­ pessa, vestita di stoffe preziose ed evidentemente molto antiche, collo e braccia adorni da un gran peso di cerchi e catene. Sedeva sul suo seggio secondo il costume occi­ dentale, ostentando una fredda impassibilità che avrebbe potuto servire di modello a molte grandi signore dei paesi civili. Al suo carro ne seguivano altri due con dame di corte e schiave, e dopo di questi veniva a piedi una guar­ dia del corpo, con buone armi centenarie d’acciaio, ala­ barde e spadoni, certamente foggiati in Europa. Chiu­ devano il corteo una dozzina di portatori di feticci, con ne­ gromanti di corte e maghi della pioggia, i cui gesti e salti evocatori e minacciosi divertirono assai i soldati porto­ ghesi. Gli stregoni neri rivolsero le loro maledizioni par­ ticolarmente contro un gruppo di gesuiti venuti a vedere lo spettacolo, poiché li consideravano i loro principali ne­ mici e rivali; ma i gesuiti li osservarono con la curiosità scientifica di uomini civili, imparando tranquilli da quei folli pagani quel che c’era da imparare. Dentro l’accampamento la principessa fu accolta da più forti clamori di tamburi e di trombe, e invitata a scen­ dere dal carro. Ufficiali ben vestiti, ma non di grado su­ periore, la condussero sotto una lunga tenda di elegante struttura, divisa in varie parti da tappezzerie. Nella prima erano radunati dignitari e ufficiali superiori che scam­ biarono con la principessa le necessarie credenziali e i discorsi preliminari finché ella non apprese con meraviglia che il capo supremo non si trovava 11 ma nel comparti­

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mento più interno dove avrebbe ricevuto lei sola, cioè in presenza, s’intende, delle sue donne e degli interpreti. Poiché ormai era in ballo, andò avanti in silenzio, ma impaziente e sdegnata, e finalmente si trovò, sempre più sbalordita, davanti all’ammiraglio, che sedeva, solo, su un trono elevato, con un unico paggio accanto. Egli in­ dossava la scintillante corazza di gala, sovrastata da una finissima gorgiera di pizzo e da grosse catene di ordini cavallereschi, e in capo portava un cappello piumato con cordoni d’oro e fibbia di diamanti. La sala era rivestita, soffitto e pareti, di tappezzerie di seta, e il suolo era coperto di tappeti ; ma eccettuato il trono non si vedeva alcun altro sedile, se non un cuscino rosso posato in terra a una certa distanza dal soglio di Don Correa. Due signori che l’avevano introdotta e poi le si erano posti al fianco le indicarono muti il cuscino quando Annachinga si guardò intorno in cerca di un seggio. Ella si volse, non scorse null’altro che il gruppetto delle sue donne e con un cenno ne chiamò una. Costei s’inginoc­ chiò immediatamente dietro il cuscino, puntò le braccia sul terreno e così nell’atteggiamento d’una sfinge egizia formò una specie di seggiola. Su di essa si accomodò dignitosamente la principessa, coi piedi sul cuscino da­ vanti a lei, e attese, sempre silenziosa e altera, gli avve­ nimenti. «L’uomo chiamato re dell’Angola» pronunciò infine l’ammiraglio «ha fatto bene ad ascoltare i miei amba­ sciatori e a rispettare la volontà del mio paese e del mio sovrano, anche se avrei preferito che si fosse presentato lui stesso!». Dopo che i due interpreti ebbero comunicato quel di­ scorso prima l’uno all’altro e quindi alla principessa, questa ripose: «Tu sbagli, signore, e non sei sulla strada giusta, giac­ ché i tuoi ambasciatori non furono ascoltati bensì ster­ minati appena apersero bocca!». Quando anche quelle parole furono tradotte e Don Correa ne intese il senso tacque per qualche minuto, fis­ sando la nera principessa con occhi che mandavano lampi.

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Poi fece chiedere perché erano stati uccisi gli ambasciatori e quale risultato si aspettassero i suoi da quell’azione. «Furono uccisi» ella rispose «perché erano sudditi e servitori del re e ciononostante proferirono parole in­ degne al suo cospetto. Col loro sangue fu lavato il suo onore, e a te non ne venne alcun danno, poiché ora puoi esporre ciò che da noi desideri». «Io non desidero, bensì comando, ed esigo soddisfa­ zione !» disse l’ammiraglio in tono severo «Modera dun­ que il tuo linguaggio se non vuoi che ti faccia legare e condurre via ! ». Ma Annachinga, senza mostrarsi impressionata da quella minaccia, senza un tremito delle palpebre o delle labbra, rispose: «Dovresti pensare ai sessanta o settanta bianchi che sono nelle nostre mani. Di essi, più di metà appartengono al tuo paese ! ». Sembrava dunque confermata la diceria che un buon numero d’Europei fossero prigionieri nell’Angola; del resto, dei mercanti olandesi e portoghesi erano scomparsi da anni, e anche negli ultimi tempi alcuni soldati che si erano smarriti dovevano essere stati catturati. Sebbene la dama negra probabilmente esagerasse, qualcosa di vero doveva esserci e Don Correa rifletté per un attimo alla sua posizione scabrosa e alla risposta che gli conveniva dare. Ma la principessa, da diplomatica consumata, non lasciò durare o crescere l’imbarazzo e proseguì senza in­ dugio, tornando alla questione principale: «Noi non sappiamo quale vantaggio ti riprometta, trattandoci come sudditi e considerandoci schiavi prima di aver provato la nostra forza, tentato un attacco, e tan­ to meno averci sottomessi. E anche se tu ci avessi vera­ mente sconfitti i vantaggi sarebbero minori di quelli che ti potrebbero offrire i rapporti amichevoli. Se tu concludi con noi un trattato di amicizia, che io ho il pieno potere di proporti, otterrai un solido baluardo e un aiuto potente contro tutti gli altri avversari pronti ad assalirti ; e invece di essere rivolti contro di te, i nostri archi innumerevoli scatteranno contro i tuoi nemici e ti apriranno la strada.

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In luogo di un tributo estorto, un commercio libero e re­ golare assicurerà al tuo paese maggior guadagno di quan­ to potrebbe mai portare uno sfruttamento per noi igno­ minioso. Questo ti prego di ponderare, prima di ricorrere alle armi ; poiché ciò che tu chiedi non l’avrai senza una dura lotta!». Se Don Correa aveva già capito da quella parata so­ lenne di avere a che fare con una certa potenza che era rischioso disprezzare, adesso dovette riconoscere che co­ stei sapeva anche quel che voleva ed era capace di discu­ tere con argomenti ragionevoli. Con pronta risoluzione mutò dunque il suo disegno e disse : «Poiché ci vengono fatte proposte chiare e precise che dimostrano un leale spirito di conciliazione, vedo motivi sufficienti di considerare l’offerta. Sono pronto a libere trattative in condizione di parità, riservandomi se­ condo le circostanze la decisione finale. E ora puoi sce­ gliere se vuoi accettare l’ospitalità fra di noi o se preferisci ritirarti nel tuo campo in attesa di un secondo colloquio». La principessa dichiarò di attenersi alla seconda alter­ nativa e s’alzò dal suo seggio con la superba dignità con la quale vi si era assisa. Allo stesso tempo s’alzò anche l’ammiraglio per trattarla da pari, come aveva promesso, e accompagnarla cortesemente alla porta. Mentre proce­ devano così verso l’uscita, Don Correa s’accorse che la schiava inginocchiata era rimasta immobile e fece osser­ vare sorridendo alla principessa che aveva dimenticato di portarsi via il suo sedile vivente. «Non seggo mai due volte sulla stessa seggiola ! » rispo­ se Annachinga senza voltarsi indietro «Rimanga pure nella casa dove me ne sono servita. Ti faccio dono di quella schiava ! ». Anche se non era che magniloquenza, quella frase gli diede di nuovo da pensare, e non senza soldatesca galan­ teria egli accompagnò la principessa all’uscita del campo. Quando poi ritornò nella grande tenda per riflettere in solitudine sul da farsi, Don Correa trovò con una certa sorpresa che la giovane donna era sempre là immobile sulle ginocchia e sui gomiti.

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S’avvicinò, fece un giro intorno alla bella scultura, giacché la fanciulla, o quel che altro fosse, somigliava più a una statua che a un essere umano, e la considerò con meraviglia e anche con perplessità, non sapendo che cosa farne. Era vestita di cotone bianco che le scendeva dalle spalle ai piedi, e di sotto le ascelle fin verso i fianchi rav­ volgevano nastri dello stesso colore. Solo le spalle e le braccia di un bruno chiaro erano scoperte, e avevano forme di perfetta bellezza e armonia. Sebbene neri come l’ebano i capelli non erano lanosi come quelli dei negri, bensì fluivano in larghe, morbide onde da una specie di panierino a corona, fatto di rami di salice, che era pun­ tato sul capo. La faccia Don Correa non la poteva vedere perché era rivolta a terra e velata dai capelli sciolti. Quantunque egli fosse indifferente e anzi duro con gli schiavi e con la gente di colore, come tutti gli uomini di pelle bianca, si chinò alquanto e disse con voce compas­ sionevole : « Fino a quando vuoi restar lì? Su, alzati ! ». La povera donna indovinò il significato di quell’or­ dine e si tirò su; ma la posizione innaturale le aveva irri­ gidito le membra e impedito il respiro, sicché alzandosi barcollò e non riuscì a stare in piedi, e Don Correa do­ vette porgerle la mano e sorreggerla per un momento affinché non cadesse a terra. Finalmente ella gli stette davanti, con gli occhi bassi per la vergogna, e un’onda di rossore le coprì visibilmente le guance brune. Del resto il volto aveva nobili tratti, ricordando il taglio di visi femminili dell’Antico Egitto o di altri antichis­ simi popoli scomparsi. Colpito dalla grazia aristocrati­ ca di tutta la figura egli le mise la mano sotto il pic­ colo mento e glielo sollevò con garbo, finché lei dovette piegare indietro la testa e guardarlo con i grandi occhi a mandorla. Allora egli scoprì in quegli occhi scuri come sulla bocca purpurea il dolore e il rimprovero muto della natura che soffre, la quale sempre commuove il cuore umano, mentre i suoi trionfanti terrori non lo possono soggiogare. L’uomo che da dieci anni passava accanto alle donne più belle e più splendide senza vederle, insen­ sibile ai loro sguardi, fu ora percosso repentinamente

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come da un incantesimo o da una rivelazione; nemmeno per un istante seppe resistere al desiderio di prendere fra le braccia la silenziosa, strana creatura e baciarla dolce­ mente sulle due guance. Cosi la consacrava con delica­ tezza sua proprietà, e giurò a se stesso di non abbando­ narla mai più; perché a dispetto della cattiva esperienza fatta, ora credeva, come ispirato, che questa donna non l’avrebbe deluso. Immediatamente risolse di dare alla schiava idolatra la libertà religiosa e umana e la coscienza di sé; a questo scopo chiamò il suo paggio e fece condurre subito la fan­ ciulla a Loanda, nella casa di uno dei suoi ufficiali che viveva con la famiglia. Un carro di vettovaglie che tor­ nava indietro vuoto, sotto la guida di un anziano soldato, servì per il non lungo viaggio. Quando i colloqui con la sorella del re dell’Angola ebbero condotto a buoni risultati, ed ella fu ripartita con il suo seguito, Don Correa si recò subito a San Paolo di Loanda. Trovò la schiava in buona custodia nella fami­ glia dell’ufficiale, e già vestita alla foggia cristiana, i ca­ pelli neri modestamente intrecciati e appuntati come usa­ vano le fanciulle portoghesi. A prima vista gli parve che con la semplice corona di salice e la bianca veste attillata avesse perduto una parte del suo fascino misterioso, e quasi rimpianse la metamorfosi, ma presto s’avvide che l’innocente primordiale umiltà del suo volto, unita al nobile portamento che le era naturale, trionfavano di ogni vestito che potesse esserle imposto. Durante i col­ loqui con Annachinga le aveva chiesto una volta, casual­ mente, così come per cortesia si chiede al donatore qual­ che particolarità sull’oggetto donato, di quale razza fosse la schiava e di dove l’aveva avuta. Per precauzione aveva usato il tono col quale un giovane del bel mondo s’informa del vitto d’un uccello raro che gli è stato regalato, se occor­ ra nutrirlo di vermi o di grani e così via. Annachinga gli disse che la ragazza veniva dai paesi del levante, forse da una nazione che era stata distrutta; e che per via di conquiste e di commerci aveva traversato tutta l’Africa con la madre fino alle coste d’Occidente. Alla principessa

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era stata venduta quando aveva dieci anni, ora poteva averne diciassette; sapeva tessere stoffe bianche e colo­ rate, ma per tutto il resto era rozza e ignorante, essendo sempre rimasta in mano alle donne. Il meglio per Don Correa era di donarla alla propria consorte o sovrana; ad ogni modo, ella apparteneva a una razza che si an­ dava facendo rara. Se invece voleva tenerla per sé, oc­ correva domarla con la frusta ogni volta che si mostrava indocile. Ancora non le era stato apportato nessuno degli abbellimenti di moda ; non le avevano spezzato i denti pre­ scritti, né tatuato le guance, né infilato un anello nel naso; ormai però aveva l’età giusta per farlo. Gentilmente ma con noncuranza, come voleva la futili­ tà dell’argomento, Don Correa ringraziò Annachinga per i disinteressati consigli, e riportò il discorso sui più im­ portanti affari di stato. Ora, a Loanda, trovò le informazioni della principessa confermate dalle domande che erano state rivolte nel frat­ tempo alla schiava. Essa ricordava vagamente di aver visto, piccolissima, case di pietra lungo l’acqua, poi c’era stato molto frastuono e molto fumo, e in braccio alla madre o tenuta per mano aveva percorso infiniti paesi, finché la principessa dell’Angola aveva comprato la ma­ dre e la figlia. Più tardi s’era resa conto di altro: che la principessa aveva trattato duramente sua madre, e che questa era morta anzi tempo. Oltre a ciò non sapeva nul­ la, se non che il suo nome era Zambo. L’atto successivo dell’ammiraglio fu di farla battezza­ re, e per l’occasione preparò una piccola festa, senza però rivelarne il motivo. La chiesa fu decorata di fiori e di rami di palma, sotto il pretesto di celebrare quella prima vit­ toria sul regno ancora da conquistare, e l’altare maggiore sfolgorava di luci. Una dozzina di gesuiti cantarono e suonarono come mille usignoli durante la messa solenne, e il tredicesimo fece la predica, nella quale sostenne l’edi­ ficante ipotesi che Zambo fosse l’ultima discendente della saggia regina di Saba, e finalmente avesse ottenuto la sa­ lute dell’anima che la sua memorabile progenitrice dell’AnticoTestamento aveva cercato invano presso i Giudei.

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Don Correa stesso era il padrino, e la più distinta si­ gnora di Loanda era la madrina; la cerimonia fu com­ piuta e Zambo fu battezzata col nome di Maria. Ella ac­ cettò ogni cosa con mite sommissione, senza battere ciglio; solo dopo il rito, quando fu condotta all’altare per pre­ sentarsi ancora particolarmente davanti alla grande pa­ trona e renderle omaggio, ella levò timidamente gli occhi verso l’immagine lignea di Maria, che dopo la cacciata degli Olandesi eretici era stata restituita al primitivo splendore, la corona dorata di fresco, la faccia coperta di una vernice spessa che brillava come uno specchio; anzi la guancia sinistra rifletteva davvero il nasetto di Gesù Bambino che vi poggiava contro. Ma poiché la guancia era tondeggiante, il naso di Gesù appariva così grosso che Zambo-Maria credette di vedere un uomo den­ tro la trasparente Madonna, un uomo col naso che spor­ geva fuori, e non avendo mai visto, d’altronde, una scul­ tura come quella, la prese per una magia vivente e fu còlta da una tremenda paura. Si mise a tremare come una foglia e cercò di fuggire. Ma la calca era tale che non le era possibile fenderla; allora si rifugiò a lato di Don Correa, nel quale vedeva il suo protettore, e additò con la mano la donna lucente e dorata che conteneva uno spi­ rito più grande di lei. Tutti si pigiarono per vedere e sentire che cosa succedeva alla nuova cristiana, e cerca­ rono di ripetersi l’un l’altro ciò che ella diceva. A un tratto risonò la voce alta di un prete che gridava : «Al miracolo ! Al miracolo ! È accaduto un prodigio ! Il Signore è rientrato nella sua dimora terrena, nel suo pa­ diglione estivo, nella sua villa amena ! Egli vuole vedere la prima pagana che ha ricevuto da noi il battesimo!». Tutti fissarono la figura sull’altare, indicata da Zambo, e fra la folla ora l’uno ora l’altro incominciò a esclamare : «Vedo anch’io! Vedo anch’io!» senza che nessuno sa­ pesse che cosa insomma c’era da vedere. I Gesuiti, imme­ diatamente decisi a ghermire la buona occasione, soffo­ carono ogni altro esame con un potente Te Deum, che essi intonarono e al quale il popolo fece coro. Poi presero la neofita e con croce e vessilli la portarono in processione

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nella chiesa e fuori della chiesa, agitando gl’incensieri e recitando le loro litanie. Accorse sempre più gente e in un momento ella fu strappata al suo protettore e scomparve ; la trascinarono infatti per strade e strade, e in parecchie case per elevare le anime con la vista di una miracolata. Finalmente Don Correa si mise a cercarla e la tirò fuori da una fittissima ressa di gente che ella guardava con visibile angoscia e paura, giacché non capiva affatto che cosa stesse accadendo e incominciava a temere che l’avrebbero sacrificata a quella piccola donna luccicante, vale a dire ammazzata; nel regno nero infatti aveva visto portare in giro allo .stesso modo le persone destinate a es­ sere immolate. Perciò s’aggrappò al braccio di Don Sal­ vador, appena quegli la raggiunse e la prese per mano. I Gesuiti però non erano disposti a rinunziare tanto facil­ mente alla loro conquista, e sostenevano che Zambo-Maria doveva essere consacrata al cielo e rimanere sotto la sal­ vaguardia della Chiesa. Il potente ammiraglio rispose che ci avrebbe pensato lui; per il momento la ragazza era ancora sua proprietà e sua figlioccia, e adesso doveva as­ sistere al banchetto del battesimo e ricevere alcuni regali. La folla tuttavia protestava e non voleva privarsi del mi­ racolo, e ci volle l’autorità e la risolutezza di Correa per liberare l’atterrita fanciulla. La fece andare avanti, ac­ compagnata dal suo paggio, e la seguì con parecchi dei suoi soldati. Così giunsero a una piccola casa di campa­ gna che egli abitava a Loanda; la madrina, sottrattasi fin dal principio alla calca, era già lì con i suoi accompa­ gnatori, e la non numerosa compagnia prese posto alla tavola pronta dopo che le donne presenti ebbero riasset­ tato le vesti scomposte della festeggiata. Zambo sedeva fra la madrina e la signora che aveva avuto fino allora cura di lei. Portava un velo bianco e una corona di mirto intrecciata con rose rosse, per cui il viso bruno e il collo adorno di una collanina d’oro risaltavano con un effetto straordinariamente grazioso. Don Correa, che le stava di fronte, doveva fare uno sfor­ zo per non guardarla troppo sovente, in presenza non soltanto delle signore, ma anche del sacerdote che l’aveva

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battezzata. Quantunque la bruna Maria fosse già, fino a un certo punto, abituata alle mense occidentali, non riu­ scì a mangiare; perché l’avvicendarsi di tante impres­ sioni in così poco tempo le opprimeva il cuore. Si era convinta di non correre più alcun pericolo e sentiva, pur non comprendendo una parola, che parlavano affettuosa­ mente di lei; tuttavia la nuova posizione, l’ambiente, l’av­ venire le parevano così ignoti ed estranei, che l’inquietu­ dine della sua anima pareva piuttosto aumentare che di­ minuire. Solo quando Don Correa con le sue mani riem­ pì un piatto di bei frutti e di dolci portoghesi, e glielo porse, ella si mise a rosicchiare docile e rispettosa, e mangiò tutto tranquillamente. «Guardate» dissero le si­ gnore «come è sottomessa con il suo buon protettore! Davvero Sua Signoria l’ha conquistata». Intanto si faceva sera, e levate le mense la compagnia si trattenne ancora per un poco all’aperto, godendo la benefica aura notturna che spirava balsamica e rinfre­ scante sul mare e sulla terra. Fra i discorsi degli invitati che passeggiavano su e giù occupandosi d’altro, Zambo (o Maria) rimase inosservata, come succede dopo che una persona ha riscosso la sua modesta parte d’attenzione. Ella se ne rimase in disparte sotto un gruppo di alti palmizi, appoggiata a un tronco, e guardava immota verso occi­ dente, dove la falce della luna calante scintillava sul mare, così luminosa che le palme gettavano ombra. L’estremo margine del grande astro argenteo rifletteva ancora la lontana luce del sole come un sottile anello rutilante, mentre la vista acuta di Zambo scorgeva già i disegni sfumanti verso l’interno, meno illuminati ma a lei ben familiari. L’occhio tuttavia era sempre riattratto dall’orlo corrusco. Era l’ultima eco di un culto probabilmente tramontato da millenni, che ancora sopravviveva nella fanciulla come un vago ricordo dell’antica patria o della madre morta ; forse, senza saperlo, ella si volgeva ancora una volta verso la spenta Selene prima di seguire la dea dorata al cui altare s’era accostata quel giorno; comunque fosse, ella tese le braccia verso la luna, come per implo­ rare soccorso.

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In quel momento qualcuno le prese dolcemente la ma­ no; era Don Correa, che si era avvicinato guardingo e le pose quella stessa mano sulle labbra, in segno che doveva tacere. Poi le infilò al dito un anello splendente e la baciò rapido sulla bocca, dopo di che scivolò via non visto, com’era venuto. Poco più tardi il piccolo gruppo si se­ parò, e Zambo tornò a casa con la sua protettrice. Il giorno dopo l’ammiraglio fece spiegare le vele a due navi non indispensabili al servizio locale e le inviò con dispacci l’una in Brasile, l’altra in Portogallo. Sulla prima aveva già fatto imbarcare all’alba Zambo con un’ancella e l’aveva raccomandata caldamente al capitano. La so­ rella della madre di Don Correa, morta da gran tem­ po, viveva a Rio de Janeiro, dov’era badessa di un con­ vento di domenicane. A questa zia don Salvador affidò la ragazza con una lettera d’accompagnamento in cui pregava l’autorevole religiosa di accogliere la catecumena nel suo monastero, d’insegnarle il costume cristiano e le buone regole di vita, preparandola però a ritornare nel mondo; il tutto con assicurazioni di profonda gratitudine e speranza di contraccambiare. La partenza delle navi era già nota da prima ; ma l’im­ barco di Zambo avvenne in modo rapido e improvviso, sicché quando i Gesuiti vollero continuare le loro specu­ lazioni sulla miracolata e innanzitutto metterla al sicuro, le navi erano già fuori vista; e la futura meta di pellegri­ naggio sulla costa occidentale del continente si tramutò in un castello in aria e tale è rimasta finora. Zambo-Maria era la meno informata di tutti sul pro­ prio destino. Quando l’ammiraglio, dati gli ultimi ordini, lasciò la nave, non si trattenne con lei, nel prendere com­ miato, più che coh altre persone secondarie; strinse nel­ la sua, per un attimo, la sottile e bruna mano di lei di­ cendo alla sua brava figlioccia, in modo che ciascuno po­ tesse udire, qualche comune parola d’incoraggiamento, poi si voltò e non si guardò più indietro. La figlia della natura, però, ne aveva già capito abbastanza da tenere accuratamente per sé tanto le discrete carezze che aveva ricevuto da lui quanto il dono dell’anello, anche se imparò

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presto a scambiare qualche parola in portoghese con le donne a bordo. Intanto anche i negoziati col regno d’Angola vennero a conclusione e la principessa, come già detto, ripartì con la sua gente. La scaltrezza e lo scilinguagnolo della di­ plomatica mora non poterono impedire che suo fratello fosse considerato vassallo della corona portoghese, e in­ fine Don Correa fu nominato reggente dell’Angola. Resse poi il paese per parecchi anni. Al termine del primo anno però si recò a Rio de Ja­ neiro per riprendersi il gioiello colà conservato e conclu­ dere le nozze. In premio delle sue gesta il sovrano porto­ ghese fra altri riconoscimenti aveva aggiunto come sup­ porti al suo blasone due re negri con la corona d’oro. Queste figure egli le dedicò alla futura sposa e le fece im­ primere dappertutto su suppellettili, ornamenti e tappez­ zerie fatti eseguire nelle fabbriche europee. Ancora sul bastimento, mentre stava per entrare nella rada di Rio, immaginò un quadro che voleva far dipingere dove Zambo-Maria riceveva il battesimo nelle vesti della Regina di Saba e due re mori reggevano il fonte battesimale. Ma quando giunse al convento delle domenicane e in parla­ torio chiese alla zia badessa della giovane donna, la mo­ naca gli rispose, dopo averlo salutato con asciutte parole, che pochi giorni prima la ragazza negra era fuggita e non se n’era più saputo nulla. Don Correa impallidì e rimase come percosso dal ful­ mine. Il suo primo pensiero non fu di maledire la fuggia­ sca bensì la propria follia. “Perché non hai tenuto con te la povera creatura e non l’hai sposata così com’era?” pensò “Adesso per lei sarà la rovina!”. Chiese alla badessa se non sospettava il motivo che poteva averla indotta alla fuga, e dove immaginava che si fosse rivolta. Ma quella negò tutto e disse che l’ammiraglio, se s’interessava alla donna, aveva più poteri e più mezzi di lei per farne ricerca. Don Correa andò alla sua casa di Rio, che aveva divisato di preparare per le nozze. Vi trovò parecchie casse già arrivate; ma invece di aprirle mandò gente in tutte le direzioni a cercare tracce della

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scomparsa, e si diede da fare anche lui, pieno di pietà per la sconsigliatezza della povera Zambo. Il capriccio amoroso che l’aveva colto a prima vista dopo così lunga interruzione era diventato nel frattempo una fervida te­ nerezza, un profondo bisogno di dedicarsi a quell’anima fuori del tumulto mondano, e mentre la cercava inutil­ mente si chiese se con i suoi preparativi esteriori e lus­ suosi non aveva peccato contro la semplicità di quella creatura innocente e per un giusto castigo l’aveva perduta. Ricordò con dolore, se questa parola s’addice a un così grande signore e guerriero, la pomposa accoglienza che aveva preparato molti anni prima alla perfida femmina di Cercai, e il triste epilogo di quegli splendidi festeggia­ menti. Spinto dall’ansia di saperne di più sulla vita e l’a­ nimo di Zambo nel monastero, vi ritornò a precipizio, interrogò la superiora con insistenza e addirittura con una certa veemenza che sembrava eccedere l’importanza del fatto, e anche il ceto e la dignità dell’uomo. La vec­ chia dama con la croce d’oro sul petto, attentamente sog­ guardandolo di sotto le palpebre gonfie, con molta tran­ quillità fece gli elogi della negra, com’essa si ostinava a chiamare Maria benché evidentemente non fosse affatto tale. Riferì che aveva imparato a esprimersi abbastanza bene in portoghese, che era silenziosa e ubbidiente, e che le piaceva dedicarsi ai lavori femminili. «Quali lavori?» chiese Don Correa, il quale sapeva che le dame di quell’istituto lavoravano altrettanto poco di quelle di fuori. Temette quindi che la ragazza fosse stata adibita a basse incombenze, se non a fatiche da schiava, e magari fosse fuggita per quello. Ma la madre superiora, schivando una risposta, continuò a dire un gran bene della fanciulla scomparsa, e don Correa ascoltandola divenne sempre più amareggiato e più triste. La vecchia terminò con le parole: «Item, non l’avremmo mai cre­ duta così ingrata da fuggire via ! ». Con la mente a soqquadro egli ritornò a casa per rac­ cogliersi e riflettere. Questa volta, infatti, lui che non esi­ tava mai nel risolversi e agire, di fronte al mistero si sen­ tiva perplesso e indeciso. Il servizio non gli consentiva di

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trattenersi a Rio per molto tempo ; ma se lasciava la città e il paese, perdeva ogni speranza di ritrovare Zambo, e l’uomo abituato a conquistare popoli e terre non sarebbe più stato in grado di attuare il suo innocente e modesto progetto di matrimonio. Era appena rientrato in casa rivolgendo fra sé quelle cupe meditazioni, e stava gettando spada e guanti sul tavolo del suo studio, quando entrò di corsa Luis, il suo paggio, un ragazzo di quattordici anni, così sveglio e fe­ dele che il padrone si fidava di lui più che di tutti gli altri servi, e inoltre gli era sinceramente affezionato per la sua natura amabilissima. Luis dunque gli riferì che, mentre bighellonava per la strada, gli aveva fatto cenno la moglie del vicino, un vecchio armatore francese, la quale era ri­ tenuta in segreto una protestante, e dietro la porta di casa gli aveva bisbigliato di dire al suo padrone che ella cono­ sceva il luogo dove Sua Eccellenza poteva trovare quel che cercava; venisse dunque un momento, appena era buio, sulla veranda dietro la casa di lei. Don Correa non se lo fece ripetere due volte, e apprese dall’arzilla vec­ chietta - dopo averle promesso protezione e segreto - che Zambo da non molto tempo era stata portata in un con­ vento di Cadice su un bastimento dell’armatore suo ma­ rito, diretto a Marsiglia. La signora sapeva anche che si voleva fare della fanciulla una specie di martire e di taumaturga, ma che essa aveva ricusato di farsi dipingere piaghe sanguinose sulle mani e sulla fronte allo scopo di essere spacciata per una santa che sudava sangue; la vecchia era persino informata che le avevano strappato dal dito una specie di anello di fidanzamento. Una parte di questi fatti li aveva uditi da una fiamminga che faceva la panettiera in convento e ogni tanto veniva a trovarla. Don Correa riconobbe subito l’autenticità delle infor­ mazioni e ringraziò la signora pregandola a sua volta di mantenere il segreto. Nonostante la sua fede cattolica un muto furore lo divorava contro i Gesuiti, che evidente­ mente fin dall’Africa avevano macchinato insidie dietro le sue spalle, e non meno sdegnato era contro l’ipocrita badessa sua zia. Costei, non senza ragione, sospettava

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che il nipote avesse di nuovo in mente un bizzarro pro­ getto di matrimonio, e aveva tanto maggior motivo di opporvisi in quanto era già interessata a un connubio più glorioso per lui, e spiava solo il momento di pro­ porglielo. L’ammiraglio e reggente o viceré dell’Angola quella notte stessa si preparò un pretesto per estendere il suo viag­ gio all’Europa e riferire personalmente alla corte di Lisbona sulle condizioni e l’avvenire della regione afri­ cana, e il giorno dopo salpò con due navi verso oriente senza informare nessuno della sua rotta. Con grande im­ pazienza vedeva passare i giorni e le settimane, sebbene veleggiasse con vento e tempo propizi, e quando potè finalmente avvicinarsi al golfo di Cadice trovò la baia e il porto chiusi da vascelli di guardia perché la peste re­ gnava nella città. La nuova fatalità accrebbe al massimo grado il suo abbattimento e la sua ansia per la povera Zambo, ma per fortuna anche la sua circospezione. Poiché la responsa­ bilità che pesava su di lui e la sicura inutilità d’ogni mossa gli vietavano di esporre la sua persona in terra di Spagna, risolse di terminare innanzitutto il viaggio a Lisbona e di mandare in perlustrazione solo il ragazzo Luis. Confidò a lui, che conosceva Zambo e ne era conosciuto, l’intero segreto, gli fece indossare gli abiti stracciati di un piccolo pescatore, lo fornì abbondantemente di denaro e a notte fonda lo sbarcò sul promontorio di San Pietro, a sud della baia. Con la temerità e l’entusiasmo di un adolescente romantico, e lieto della libertà, l’intelligente ragazzo s’al­ lontanò verso il retroterra, mentre Don Correa dirigeva il timone verso il Capo San Vincenzo per giungere al più presto a Lisbona. Di là contava poi di procedere nelle ricerche, con o senza notizie di Luis. Non era passato neanche un giorno, e Luis già girel­ lava per Cadice con una cassettina piena di carabattole indiane, offrendole in vendita qua e là; ma dappertutto lo mandavano via, questi col corruccio di chi aveva in ca­ sa malati di peste o già addirittura dei morti, quelli con le risa e le blasfeme della plebaglia rimasta sana che can-

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tando ballando e trincando affollava le bettole e le piazze. Ma Luis non si scoraggiava e continuò a percorrere la città in tutte le direzioni, finché trovò un monastero fem­ minile appartenente all’ordine domenicano. Era un cu­ mulo di vecchi edifici e di alte muraglie, forato qua e là da strette finestre saracene. Naturalmente l’ingresso gli era vietato, come a ogni altro uomo ; solo in chiesa potè entrare, e vide che le funzioni religiose erano celebrate alla bell’e meglio, e che l’interno del convento era sotto­ sopra come il resto della città. Nella locanda dove alloggiava, comprò dalla figlia di un contadino morto improvvisamente un asinelio, e da un rigattiere un vestito da donna e uno scialle stracciato; poi caricò sull’asino una bella cesta di arance fresche e camuf­ fato da povera contadinella salì sull’animale e cavalcò tranquillo verso il monastero. Grazie al travestimento riuscì a penetrare in un cortile di cui avevano aperto la porta per fare entrare un medico; e siccome dentro re­ gnavano confusione e smarrimento perché la superiora era stata colpita proprio allora dalla pestilenza, la falsa venditrice d’arance potè spingere il suo asinelio fino a un giardino ove alcune monache s’aggiravano spaven­ tate. Cominciò allora a offrire la sua merce, facendo un gran fracasso e strillando come una vera ragazza di cam­ pagna, cosicché molte suore accorsero e circondarono l’asino col suo carico. Prima una e poi altre comprarono qualche arancia^ che lo scaltro ragazzo dava quasi per nulla con la scusa dei tempi brutti e infausti, e il basso prezzo allettava le buone donne a profittare dell’occa­ sione e concedersi un piccolo ristoro. Alcune si scelsero fra le sfere dorate, soppesandole e annusandole, una pic­ cola provvista, e intanto Luis si guardava intorno furti­ vamente, se non scorgesse Zambo da qualche parte. E la fortuna gli fu benigna. Da una finestra posta abbastanza in alto due visi di donna guardavano giù dietro una grata di legno, e una delle due, ancora senza velo e in abito se­ colare, non era altri che la bruna Zambo. Appena Luis l’ebbe riconosciuta, spinse l’asino, senza parere, finché la bestiola grigia si trovò sotto la finestra ;

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e allora incominciò a gridare con tutto il fiato che aveva in gola: «Comprate, reverende madri! Comprate arance fresche per la sete ! Sono salutari, lo dicono i medici, e a buon mercato! Per un mezzo baiocco ve ne posso dare tre pezzi ! Comprate, signore mie, e gustatele, così dimen­ ticherete il pericolo ! L’ultimo provvedimento è che nes­ suna nave proveniente di fuori può entrare nel porto di Cadice. Prendete le arance, sono regalate, reverende ma­ dri ! Ieri il viceré dell’Angola, il magnifico e glorioso Don Salvador Correa, l’eroico conquistatore di tante fortezze, ha dovuto ritirarsi dalle nostre acque senza poter scen­ dere a terra. Ho visto i suoi vascelli; dicono che sia ri­ partito per Lisbona e che vi si tratterrà per qualche tem­ po. Pare che sia un gran bell’uomo, splendido e fiero; ma i signori come lui sono sovente i più affabili, con quelli che vanno loro a genio ! Compratemi le arance, ch’io possa tornarmene a casa!». Tutto questo l’ardito ragazzo lo gridava il più chiara­ mente possibile, alzando il viso in modo che Zambo do­ veva per forza vederlo e sentirlo. Quando egli ebbe sca­ gliato in aria il nome di Don Correa, ella si fece attenta e non staccò più gli occhi da lui, finché d’improvviso lo ri­ conobbe e un raggio di gioia le illuminò lo sguardo. Ma in quel momento sopraggiunse una lunga priora, o maestra del coro, o qualcosa di simile, e disse: «Perché fa tanto fracasso quella contadinotta? Come mai è entrata nel giardino, e cos’ha da chiacchierare d’un viceré?». E avvicinatasi ancora di più tese la mano secca dalla quale pendeva un rosario verso il braccio del paggio travestito, il quale però sveltamente seppe fare in modo che l’asino si mettesse a scalciare, il corbello cadesse a terra e le aran­ ce rotolassero da ogni parte. Mentre alcune suore corre­ vano a raccogliere i frutti e altre inseguivano l’asino che seguitava a sparare calci, Luis si tirò su le sottane, scappò fuori dal convento e a lunghi passi di corsa se la svignò per le viuzze adiacenti. Arrivato alla locanda senza farsi scorgere, mutò d’abito, pagò il locandiere, dopo aver finto di mercanteggiare, con le monetine ricavate dalla vendita delle arance, uscì subito dalla città e camminò finché

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giunse a un’altra città di mare dove potè imbarcarsi per Lisbona. Felice come se avesse preso nella rete il più bell’uccelli­ no del mondo portò al suo padrone la notizia del ritro­ vamento di Zambo-Maria, e la sua faccia raggiante ri­ schiarò subito il viso cupo del signore. Don Correa si sentì sollevato d’una parte dei suoi crucci. Non v’era dubbio che le monache dovevano restituirgli ciò che era sua proprietà indiscutibile ; ma perché non vi potesse es­ sere un altro rapimento occorreva sorprenderle con un ordine dell’autorità che non lasciasse tempo per nuovi sotterfugi. Correa non avrebbe avuto difficoltà a ottenere quell’ordine; però non era possibile averlo immediata­ mente, e intanto Zambo poteva dieci volte cader vittima della peste. D’altra parte era probabile che il terrore del morbo mortale impedisse a preti e monache di tosare il capo alla derelitta fanciulla, costringerla a prendere il velo e insomma porre in opera tutto l’imbroglio ideato, giacché prima di tutto avevano da pensare a se stessi. In breve, tali considerazioni contraddittorie risvegliarono i tormenti in tutta la loro gravità, e Don Correa si sarebbe dato dei pugni in testa per la rabbia di non aver preso in moglie Maria il giorno stesso del battesimo ed essersela sempre tenuta accanto. Tuttavia s’affrettò a fare i passi necessari presso le massime autorità spagnole per remis­ sione di un ordine chiaro e preciso, e il suo governo lo so­ stenne debitamente. Ma passava una settimana dopo l’altra, e il decreto non usciva ; e intanto, pur con tutta la considerazione di cui egli godeva, s’avviava a termine anche il tempo che gli era concesso rimanere in Europa. Una sera passeggiava pensieroso nel suo studio e si chiedeva se era degno di lui pigliarsi tanta pena per una donna e sopportare tante contrarietà; e addirittura se il desiderio e il disegno di prepararsi un quieto e morbido nido di riposo nella vita familiare fosse giustificabile da­ vanti a una volontà superiore. Il paggio Luis sedeva a un tavolo nel centro della sala, chino su una grande mappa marina e mezzo addormentato; l’ammiraglio infatti gli dava personalmente lezioni di arte nautica, e lo interroga­

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va sovente, come aveva fatto anche quella sera prima che il pensiero dominante da cui era oppresso lo distraesse e gli facesse dimenticare l’allievo. I ceri del candelabro d’argento che illuminava i rozzi tracciati della carta nau­ tica erano già consunti a metà e l’orologio sul caminetto segnava le dieci e mezzo. “Ormai ho trentasei anni” egli ragionava tra sé “e dovrei saggiamente spegnere la face di Eros! Chi ha da guerreggiare e da comandare, deve mantenere il cuore sgombro e il sangue tranquillo. M’occorre una governante per la casa, si sa ; ma forse sarebbe meglio piegarsi al vo­ lere della signora zia e prendere in moglie una donna indifferente che faccia bella figura e non ci metta il sangue sossopra! E forse anche per la povera Zambo non sarebbe preferibile essere al riparo dalle tempeste della vita e diventare una pia monacella?”. A quel punto il silenzio notturno fu rotto da un timido segno della campana di casa, che pendeva nel vasto atrio terreno del palazzo. Si udì un solo rintocco, seguito da una debole eco che fu troncata a mezzo e si spense. Don Correa non vi badò e continuò il suo andirivieni. Ma poiché nulla gli sfuggiva di quanto accadeva, dopo un paio di minuti si rese conto che il portone non era stato aperto e tutto rimaneva silenzioso, e dunque il guardaportone doveva essere addormentato o assente. Rimase per qual­ che attimo fermo ad ascoltare, poi s’avvicinò al ragazzo addormentato, lo svegliò, e gli disse: «Qualcuno ha so­ nato al portone : va’ giù e di’ al portiere che guardi chi è». Il paggio balzò in piedi e stava per correr via, quando il padrone aggiunse: «Prendi il candelabro e torna su­ bito, intanto resterò al buio». Però gli parve che l’assenza durasse un po’ a lungo; udì dopo poco tempo aprirsi e richiudersi il pesante bat­ tente, ma passarono minuti prima che si riudissero i passi di Luis, ed egli dischiuse impaziente la porta della stanza per rivedere la luce di cui aveva dovuto privarsi, e dire al ragazzo di far presto. Tenendo alto il candelabro con la sinistra, così che il suo bel visetto era illuminato in pieno, Luis conduceva per mano Zambo, o Maria, la quale era

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coperta di polvere dalla testa ai piedi e lo seguiva vacil­ lando per la stanchezza. «Eccola, è venuta da sé!» esclamò il ragazzo con gioia trionfante per la meravigliosa avventura. Zambo in­ vece, per lo sfinimento e la commozione, cadde davanti al­ l’ammiraglio e gli cinse i piedi con le braccia, mentre dagli occhi sollevati verso di lui sgorgavano grosse la­ crime. Lietamente sorpreso egli per la seconda volta l’aiu­ tò a rialzarsi da terra, e la sua veste da camera di velluto scuro diventò bianca di polvere. Come il padre del figliuol prodigo corse egli stesso a svegliare le fantesche di casa per affidare e raccomandare a tutte le cure necessarie la visitatrice notturna. Solo più tardi si fece spiegare dal paggio dove aveva tro­ vato la fanciulla. Luis raccontò con fervore beato che sen­ za svegliare il guardaportone egli aveva aperto solo lo sportello dello spioncino e guardato fuori. C’era una figura femminile che stentava a reggersi in piedi, e rivol­ gendo la luce su di lei attraverso l’inferriata egli aveva riconosciuta la buona Zambo. Allora aveva tolto il chia­ vistello e spalancato il battente e, subito presa per mano la donna tremante, l’aveva fatta entrare, con gioia immen­ sa; perché ella l’aveva riconosciuto e subito era apparsa ravvivata. Non avevano scambiato neanche una parola, mentre egli rinchiudeva il portone e raccoglieva il cande­ labro da terra dove l’aveva deposto; e anche guidandola su per le scale s’era soltanto voltato un paio di volte a sor­ riderle, come per darle il benvenuto in nome di Sua Signoria. Don Correa compensò immediatamente il pag­ gio con un sorriso di benevola contentezza, e gli rialzò dalla fronte i folti lunghi capelli, che nella commozione e nella premura l’avevano invasa. Rimase ancora con lui finché vennero a dirgli che la forestiera aveva avuto tutti i ristori necessari, era stata messa a letto ed era già spro­ fondata nel sonno. Poi andò a dormire anche Don Sal­ vador, mentre il paggio folleggiava ancora nelle cuci­ ne, e alle donne che gli stavano attorno a bocca aperta e tenendosi i fianchi faceva dell’avventura le relazioni più buffonesche.

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La mattina dopo Zambo si era così ben ristabilita in salute che potè mostrarsi al padrone di casa e raccontargli il suo straordinario viaggio. La peste, che del resto oltre a Cadice s’era estesa a un’altra sola città, aveva colpito in rapida successione due o tre suore e ucciso la madre su­ periora, per cui il convento era caduto in preda a tale smarrimento e confusione che per alcuni giorni non si erano osservate le regole né dell’ordine né della casa, le porte s’aprivano e richiudevano e ognuno faceva quel che voleva. L’africana fu dunque irresistibilmente attratta a cercare la libertà per ritrovare l’amata schiavitù pres­ so il suo legittimo padrone. Aveva capito perfetta­ mente le grida del paggio travestito, e le aveva inter­ pretate come un invito a raggiungere il suo signore. Per­ ciò una sera, trovata una porta aperta, abbandonò sem­ plicemente il monastero e camminò tutta la notte girando intorno alla baia di Cadice e puntando verso settentrione, finché era giunta a Siviglia. Aveva ancora un po’ di de­ naro nascosto indosso, che le fu assai utile ma finì abba­ stanza presto, perché molti disonesti avvedendosi della sua ignoranza e inesperienza la ingannarono e la deruba­ rono. Quando rimase senza niente, mendicò per l’amor di Dio quel poco che bastasse a saziarle la fame. Partita da Siviglia, aveva incominciato a chiedere dove era la città di Lisbona ed era sempre andata avanti nella dire­ zione che le indicavano man mano, attraverso pianure e fiumane e rivi, per molti giorni e molte settimane, perché i frequenti sbagli avevano raddoppiato la lunghezza del cammino. Nonostante la fatica una stella benigna aveva guidato i suoi passi, e Don Correa lo capì facilmente con­ siderando con rinnovata compiacenza la sua grazia inno­ cente e i suoi lineamenti severi. Finalmente ella giunse, all’ora del tramonto, nei pressi della capitale portoghese; ma prima che si fosse accertata di essere proprio a Lisbona era già calata la notte; ella chiese dov’era la casa dell’ammiraglio ed ebbe la buona ispirazione di dire che faceva parte della sua servitù. Una pattuglia la con­ segnò all’altra senza recarle offesa, quantunque ai soldati di ronda il caso apparisse insolito. Così la condussero di

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rione in rione e finalmente l’affidarono a un vecchio guar­ diano notturno che la portò fino al palazzo dell’ammira­ glio dopo essersi convinto della verità di quanto affer­ mava. Tirasse quella campana, le disse indicandole quella maniglia di ferro; e poi la lasciò lì. S’intende che il racconto non le fluì così facilmente dalle labbra; le fu tirato fuori a forza di domande; tuttavia Don Correa fu felice di sentire Zambo parlare per la prima volta correntemente nella sua lingua, e di percepire non soltanto nelle parole di lei, ma anche nei lineamenti del viso bruno animati dal racconto, la luce di una bella intelligenza, simile alla luce dell’aurora che promette una bella giornata. Certo quei lineamenti erano più animati del solito dalla gioia di fare udire per la prima volta al suo protettore il linguaggio imparato, come da tanto tempo sperava e sognava. «Dov’è l’anello che ti avevo dato?» egli chiese pren­ dendole la mano e fingendo di cercarlo. «Perdona, signore, me l’hanno portato via!» rispose ella chinando il capo. Don Salvador andò verso un grande armadio e ne tolse un luccicante scrigno d’acciaio intarsiato d’argento, che aperse. Frugò tra i gioielli e le gemme che lo riempivano, finché trovò un anello da donna, lo alzò per un attimo verso la luce come se riflettesse un’ultima volta al passo che era ancora libero di compiere o di tralasciare, a sua scelta. Dodici anni avanti, quando era partito per con­ quistare la prima moglie, nella fretta aveva dimenticato di portar seco l’anello nuziale di sua madre, come s’era prefisso. Per un momento gli si presentarono alla mente quegli oscuri eventi con i loro orribili inganni ; ma il fatto che l’anello non profanato fosse ancora in sua mano nel­ l’istante decisivo gli parve un segno favorevole, e lo infilò nel dito di Zambo al posto dell’altro. Il rito nuziale, che egli volle far celebrare senza indu­ gio, nonostante la relativa semplicità destò un interesse enorme, benché non indiscreto come accadrebbe oggidì. Perfino il re e la regina mandarono rappresentanti con i loro auguri, e la riunione fu splendida anche se non

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troppo numerosa. Certo la sposa era degna d’esser veduta. Zambo indossava un abito di pesante seta bianca, con sottili strisce di galloni d’oro. La larga gorgiera di pizzo, il velo trapunto d’argento e i fili di perle intrecciati ai ca­ pelli, la croce di diamanti poggiata sulla parte scoperta del petto facevano risaltare la sua pelle scura, o piuttosto bruno chiara, come un colorito naturale, anzi l’unico possibile, e il portamento innato del corpo snello era così regale che Don Correa, quando un sapiente prelato che era fra gli invitati gli offrì di costruire un albero genealo­ gico che riconducesse la sua origine alla regina di Saba, gli indicò con orgoglio l’incedere della sposa dicendo che non ve n’era bisogno. Il fascino esotico della bella figura era ancora au­ mentato dall’uiniltà naturale che l’avvolgeva tutta e dal luccichio sognante degli occhi, i quali tradivano che ella non conosceva bene la propria sorte, giacché le mo­ nache non l’avevano in alcun modo preparata alle cose mondane. Don Correa se ne avvide soltanto sulla bella nave am­ miraglia che subito dopo le nozze lo riportava in Africa con la sposa. Donna Maria Correa seguitava a compor­ tarsi come la sua schiava, pronta ad adattarsi a muta­ menti di condizione ma sempre destinata a servire. Sulle prime gli dispiacque che l’anno passato nei conventi e fra gente di chiesa fosse stato sotto quell’aspetto inte­ ramente perduto, ma poi si fece lui stesso suo maestro, per quanto s’accordava con la sua natura marinara. Molto presto le ore che passava solo in cabina con la consorte a impartirle i suoi insegnamenti divennero quelle della più consolante soddisfazione. Infatti - mentre la rendeva consapevole a poco a poco della sua libertà di corpo e d’anima, le illustrava l’onore e i diritti di una moglie cristiana, e le faceva intendere il dovere della vo­ lontà e della responsabilità personale, e come tutto que­ sto aveva da essere tenuto assieme e trasfigurato dall’amo­ re - dovette davvero godere infinitamente nel vedere di giorno in giorno la comprensione della giovine donna farsi più chiara e accendersi in lei la luce della coscienza

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umana. Ella udiva inoltre parole finora sconosciute, e ri­ petendole e appropriandosene il significato arricchiva nel senso più alto il suo nuovo linguaggio. Un giorno, mentre la squadra si stava avvicinando alla meta del viaggio, Don Correa sali con la consorte sul ponte più alto e la condusse nel padiglione sospeso che stava sopra il centro della nave. Le tende li proteggevano dai raggi del sole e dalla vista dell’equipaggio. Guardaro­ no in silenzio l’immenso oceano le cui onde regolari e lu­ centi s’incalzavano mormorando in mille legioni e tran­ quillamente spingevano avanti il vascello. «Anche il mare ha un’anima ed è libero?» domandò la giovane donna. «No !» rispose Don Correa «il mare obbedisce soltanto al creatore e ai venti, che sono il suo respiro. Ma dimmi, Maria, se tu avessi già conosciuto la libertà, mi avresti egualmente concesso la tua mano?». «È troppo tardi per chiederlo,» replicò ella sorridendo, non senza finezza «adesso sono tua e come il mare non posso essere diversa!». Ma poiché vide che la risposta non lo soddisfaceva e non corrispondeva alla sua speranza, lo guardò seria, di­ ritto negli occhi, e con gesto libero e sicuro gli porse la mano destra.

CAPITOLO DODICESIMO

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— Bravissimo ! — disse Lucia — terremo bene a mente che l’umiltà può tornar molto utile e che chi s’abbassa verrà innalzato ! Ma durante il suo racconto mi è venuta alla memoria una piccola gemma delle mie letture che tratta anch’essa di una persona di colore, di una selvag­ gia. Forse abbiamo ancora tempo di narrare la nostra storiella, mentre passeggiamo un poco per il bosco? — Mi sembra di essere capitato in mezzo a una specie di duello ; — osservò lo zio — il signor Reinhart ha riporta­ to più vicino alla terra e alla posizione che secondo lui gli compete il gentil sesso di cui tu fai parte. Senza dubbio tu vuoi parare il colpo e risollevarti con le tue sole forze dal terreno sul quale la bruna africana è stata prostrata due volte. Incomincia dunque, cara Lux, e bada di non restare sconfìtta ! Ma se devo ascoltare anch’io, ti prego di non lasciare questo luogo, giacché come sai non posso ancora camminare molto. — Perdona, caro zio, — disse Lux — se nel fervore della lotta l’avevo dimenticato! S’intende che faremo come desideri. Io volevo soltanto prevenire l’impazienza del nostro ospite, che mi pare un po’ agitato e forse cam­ bierebbe volentieri posto! — Non si preoccupi ! — rispose Reinhart — come po­ trei non essere inquieto vedendo puntata contro di me un’arma di cui non conosco ancora né l’efficacia né la carica? Dunque incominci, da brava, e non sia troppo crudele ! Lucia scherzosamente si schiarì la voce e disse: — Incominciare ! Non avevo pensato che occorresse incominciare. Perché devo affannarmi a soffiare su qual­ cosa che non mi brucia? Preferisco entrar subito in mé­ dias res. — Al tempo in cui Maria Antonietta era andata sposa al Delfino di Francia c’era in Turenna un giovane buono

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bello che non aveva ancora messo le penne e mai aveva torto un capello a nessuno. Si chiamava Thibaut de Vallormes ed era portabandiera nella compagnia d’un reggimento di fanti che non saprei meglio designare per­ ché il nome nel libro non era indicato. Nonostante la sua condizione di soldato era, come già dissi, ancora quasi bambino, e quando non era in servizio se ne restava sem­ pre fra zie, madrine e altre degne matrone a frugare nelle loro cassettine di nastri, fra le loro chincaglierie e cofanetti dipinti, oppure si faceva raccontare storie da quelle buone signore, mentre divorava torte di crema, biancomangiare e focaccine dolci. Ma anche per il giovinetto innocente scoccò l’ora del destino, in cui le cose mutarono ed egli incominciò a diventare un individuo adulto e un uomo pericoloso. Per le cerimonie delle nozze regali si scelse nell’esercito un buon numero di adolescenti di bell’aspetto che fu­ rono mandati a Parigi a fare da paggi, e anche il giovane e grazioso Thibaut ebbe tale fortuna. Alla fine dei festeg­ giamenti tutti i paggi furono radunati in una sala del pa­ lazzo di Versailles, dove banchettarono e ricevettero doni prima di ritornare ai luoghi di provenienza. Dopo che un ciambellano ebbe distribuito a ciascuno il suo pacchet­ tino, venne loro comunicato inaspettatamente che la Del­ fina desiderava ancora vedere i giovani gentiluomini. Dovettero dunque sfilare nella sala dove ella si trovava con alcune dame di corte; le furono presentati a uno a uno, e oltre a benigne parole di ringraziamento per il servizio prestato ella porse loro con le proprie mani un regalo che un gentiluomo di corte le consegnava. Così Thibaut ricevette un bell’orologio d’oro, ma senza na­ stro o catena, con il commento che le breloques doveva con­ quistarsele da solo, col tempo. Rosso di piacere Thibaut osservò l’orologio mentre con gli altri ragazzi tornava a Parigi in un grosso carrozzone a cavalli, e tutti si mostravano l’un l’altro i regali. Sulla calotta era inciso, in una cornice di rocaille, un piccolo porto di mare, col sole che si levava sullo sfondo e allar­ gava da ogni parte i suoi raggi fini e regolari. L’interno

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del coperchio invece, in una variopinta pittura a smalto, mostrava una minuscola Anfìtrite che nel suo carro tirato da cavalli marini solcava le onde verdi cinta da un velo rosato, e nel cielo azzurro navigava una nuvoletta bianca. In primo piano c’erano ancora tritoni e nereidi. Quando tutte le meraviglie furono sufficientemente ammirate, e commentate le cortesi parole della futura regina, anche Thibaut ripete ciò che ella gli aveva detto, e soggiunse: «Vorrei proprio sapere che cosa intendeva Sua Altezza Reale con quella frase che le breloques me le dovrò conquistare da me ! ». « Oh ! » esclamò un portastendardo della cavalleria « ma è chiarissimo, vuol dire che le breloques dovranno essere i ricordi di dame alle quali lei avrà rubato il cuore! E più ne metterà assieme meglio sarà ! ». « Io non credo che fosse quello il pensiero di Madame la Dauphine,» obiettò timidamente un altro giovane «forse intendeva dire piuttosto che Monsieur de Vallor­ mes poteva farsi regalare i ciondoli necessari dalla mam­ ma, dalle signore zie e dalle numerose cugine, perché non toccava a Sua Altezza Reale occuparsi di cercare e mettere insieme tanti piccoli oggetti». «Ma che idea!» protestò l’alfiere «sarebbero ciondoli ben noiosi ! Devono essere trofei conquistati ! Tutti i gentiluomini ne portano!». Thibaut propendeva per quest’ultima interpretazione, e tornato nella sua città di Tours si diede subito a cer­ car l’occasione di incominciare le sue terribili rapine. Fuggì i salottini delle vecchie zie e spiò attentamente le ragazze che portavano qualcosa di luccicante al collo, alle dita o alle orecchie. Ma poiché non si intendeva ancora del fatto principale, cioè della conquista dei cuori, e dopo qualche sciocco frascheggiamento voleva subito afferrare quegli oggetti, ogni volta si prendeva dei colpi sulle mani, e non ne ricavava nulla per il suo orologio. Nei giorni festivi di Pasqua si recò a Beaugency sulla Loira, presso certi parenti, e lì parve delinearsi un inizio promettente per le sue imprese. V’era cioè in visita una bellissima ragazza della vicina Orléans, la quale aveva

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già un ventidue anni, e quindi, oltre a essere alta di per se stessa, portava la testa un palmo più in su dell’appena diciassettenne Thibaut. Ma sebbene il giovane alfiere do­ vesse alzarsi in punta di piedi per guardarla negli occhi, si risolse tuttavia a farle la corte, tanto più dopo averle vi­ sto al collo un cuore di corallo rosso che aveva straordi­ nariamente attirato la sua attenzione. Era grosso all’incirca quanto un ducato olandese, e si poteva aprire. Dentro c’era un piccolo ragno verde, composto con molta arte di un piccolo smeraldo, occhietti di brillanti e lunghe zampe d’oro fino. Il ragno si moveva e tremolava con­ tinuamente con le sue otto zampine, perché era assicurato ad ima piccola spirale invisibile, e le articolazioni erano lavorate con estrema delicatezza. Alla bella Guillemette il cuoricino era stato donato dal promesso sposo; infatti ella aveva scambiato promessa di matrimonio con un uf­ ficiale superiore, il quale era di presidio nei possedimenti francesi in America e aveva rinviato le nozze fin dopo il suo ritorno. Quando le aveva donato il ciondolo, prima di partire, disse come per scherzo che voleva vedere se avrebbe avuto cura di serbare intero il piccolo ragno irre­ quieto; a condizione, s’intende, di portare sempre al collo il gioiello e non già di riporlo al sicuro. Forse voleva con questo esprimere la speranza che mentre egli era lontano la fidanzata si tenesse ben imperturbata e tran­ quilla, e che insieme al cuore di corallo anche il cuore di lei rimanesse fuor di pericolo. Quando il giovane Thibaut prese a farle la corte, Guil­ lemette commise l’errore d’accettare per un po’ le sue pre­ mure come un piccolo svago, che anche per la giovinezza di lui le sembrò innocuo. Lasciò che egli le portasse i guan­ ti e il ventaglio, giocò e rise con lui come se fosse ancora una bambina, e se Thibaut non veniva spontaneamente era lei a chiamarlo e attirarlo. Ogni volta che gli era pos­ sibile egli si precipitava a Beaugency, dove lei si fermò a lungo, e le correva dietro per sale e giardini. Ma un gior­ no, quando le cadde improvvisamente ai piedi e le cinse le ginocchia, ecco che lei si schermì ridendo ed egli dovette rendersi conto d’essere più lontano che mai dalla meta

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di conquistare il suo cuore. Con giovanile frivolezza con­ cepì allora il disegno di rubarle almeno il cuore di coral­ lo, e lo portò a compimento. In un pomeriggio estivo Guillemette s’era chiusa in una stanza fresca per fare un pisolino, ma disgraziatamente non aveva badato alla finestra aperta. Da quella finestra Thibaut scorse la si­ gnorina addormentata su una poltrona, ed entrò leggero come un gatto. Il cuore le stava al collo appeso a un na­ strino di velluto, ed egli riuscì a scioglierlo e a metterselo in tasca, nonché a svignarsela di nuovo dalla finestra senza svegliare Guillemette e senza esser visto da nessuno. Il ragno verde ebbe un bel saltare e tremolare nella sua capsula oscura, non potè giovare né a sé né alla bella ad­ dormentata ; dovette andare col ladro e portarsi via la feli­ cità della povera Guillemette. Quando ella si destò e poco dopo scoperse la perdita, cercò il cuore dappertutto e non trovandolo si sgomentò e si domandò angosciata do­ ve poteva averlo smarrito. Chiese anche a Thibaut se non l’aveva trovato, e quand’egli rispose di no, le parve di capire che invece ne sapeva qualcosa. Lo pregò calda­ mente di dirglielo; egli negò ridendo, ed ella lo guardò dubitosa e fu presa da una grande paura perché le pa­ reva di scorgere un ammiccare nei suoi occhi. Alla fine gli si buttò ai piedi e lo scongiurò di restituirle il gioiello o di dirle dov’era; e più che mai Thibaut considerò il suo furto come un bottino glorioso vedendo la fanciulla così disperata e prossima al pianto. Come per esercitarsi nei falsi giuramenti l’ipocrita protestò alto e forte la propria innocenza, ma fu svelto ad andarsene e non si fece mai più vedere. Quando il fidanzato ritornò dalle colonie, l’anno dopo, e non vedendo il ciondolo ne chiese notizia, la promessa sposa disse veracemente che l’aveva perduto o gliel’avevano rubato, non sapeva come ; ma parlò con tanto impaccio, con tanto spavento, che il fidanzato non potè fare a meno di concepire sospetti. E poiché chiedeva insistentemente in quali circostanze avesse potuto per­ dere un simile pegno d’amore, ella diede una risposta infelice, nella quale il dolore era nascosto dietro l’orgoglio offeso. Il fidanzamento si ruppe; il fidanzato sposò un’al-

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tra fanciulla, e Guillemette rimase lì povera e derelitta. Thibaut, che intanto era stato promosso tenente, appese il cuore alla catena dell’orologio, e si guardò subito attorno in cerca di un ciondolo da accompagnare a quello. Così incontrò un giorno la piccola Denise, la figlioletta del defunto notaio Jacob Martin, che era appena uscita da un collegio religioso e viveva ora con la madre. Fu sorpreso di vedere la ragazza così carina e cresciuta, con le scarpette rosse e i tacchi alti. Sul petto portava un cuo­ ricino molto semplice di cristallo di rocca, legato d’oro ; anche questo si poteva aprire, ma dentro non c’era nulla, era perfettamente trasparente. Tuttavia, mentre s’era fermato a guardare la ragazza che correva via rossa come un papavero, risolse subito di conquistare il suo modesto ornamento. Passava tutti i giorni sotto le finestre di De­ nise, le mandava poesie d’amore che copiava dai volumi di versi di Monsieur Dorât, della marchesa d’Antremont o del marchese de Pezai e altri poeti del tempo, e che la­ sciava senza firma. Riuscì con quelle manovre a far girare la testa alla giovane Denise e in pari tempo a sua madre, cosicché ottenne libero accesso in casa loro ed era accolto con gioia schietta quando si presentava con un mazzolino di fiori o un ventaglio di carta da poco prezzo, sul quale erano stampati due fili d’erba e un garofano. L’onesto figliolo d’un mercante che era stato amico del defunto notaio dovette ritirarsi davanti al signor de Val­ lonnés per il quale la piccola Denise perse prima il suo cuore naturale e poi quello di cristallo. Ma appena le ebbe tolto dal collo, col tenero consenso di lei, il piccolo ciondolo e se lo fu attaccato all’orologio, la piantò in asso e non ritornò più. Sebbene molto agiata, la madre durò non poca fatica a ripescar col tempo il giovane commerciante, che fece poi della Denise così fiorente e briosa una borghesuccia depressa, una insipida mine­ strina riscaldata. Passò un periodo abbastanza lungo prima che Thibaut ritrovasse una traccia, che poi perse di nuovo, come può accadere anche al cacciatore più provetto, e una dome­ nica pomeriggio in cui non sapeva che cosa fare, dopo aver

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contemplato a sazietà le sue breloques, gli venne in mente di fare una visita ad Angelica, la più giovane delle sue zie, che non aveva ancora cinquant’anni ed era una sman­ cerosa zitella. Poiché la trovò seduta alla scrivania, si mise a rovistare come una volta nei cassettini e nei cofanetti a lui già ben noti. Trovò una scatolina che non aveva mai visto e quando l’aprì c’era dentro, su un bioccolo di bambagia, un cuore latteo d’opale, che, sciolto dal nastro chi sa da quanto tempo, dormiva sonni solitari. Alla luce del giorno il cuore brillò in un delicato gioco di colori co­ me il riflesso di una giovinezza passata. «Che bel gioiello !» esclamò Thibaut «non me lo vuo­ le regalare?». «Che cosa ti viene in mente, caro nipote?» esclamò la zia stupita togliendogli il cuore di mano e contem­ plandolo con occhi lucenti «e poi, che cosa ne faresti? Lo regaleresti a un’altra donna!». «Oh no!» rispose Thibaut «lo attaccherei alla catena dell’orologio e ricorderei continuamente la mia cara zia Angelica !». «Eppure non te lo posso dare,» replicò la donna con voce raddolcita «è il mio ricordo più caro, me lo ha dato il diletto fidanzato della mia gioventù!». Alle sue richieste insistenti ella raccontò al nipote con molte parole l’annosa vicenda d’amore con un meravi­ glioso giovane gentiluomo che l’aveva amata in circo­ stanze avverse con rara fedeltà e devozione, s’era battuto per lei, e nel fiore degli anni era caduto da eroe nella gloriosa battaglia di Fontenay, più di trent’anni prima. La descrizione di tutte le premure, della virile bellezza, della giovanile prestanza dell’amato perduto cinse la narratrice in un tale alone di nostalgie e di ricordi che, nonostante i capelli grigi sfuggenti di sotto la cuffia pie­ ghettata (era in négligé) e ricadenti sulle spalle e sul collo, una nuova giovinezza parve animarle il viso e colorarlo di rosa. Pieno d’entusiasmo Thibaut cadde in ginocchio come se fosse lui stesso l’innamorato perduto ed esclamò con le mani sul cuore: «Le giuro, carissima zia, che io l’avrei

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amata altrettanto se la mia gioventù avesse coinciso con la sua ! Anzi, l’amo anche adesso, come soltanto un’anima giovane può amare un’anima altrettanto giovane! Oh, la prego, mi regali il suo bel cuoricino, io lo conserverò e me lo terrò caro, così non sarà più solo ! ». Era davvero così stoltamente in estasi, che non sapeva più se desiderava il piccolo gioiello o il cuore innamorato della donna; la zia Angelica d’altronde nella sua roman­ ticheria confuse il momento presente con il passato e il giovane ginocchioni davanti a lei con l’amato da tanti anni scomparso. In un dolce oblio gettò le braccia intorno al collo del bel bricconcello e gli impresse parecchi baci sulle labbra, e il ragazzaccio non si vergognò di fare lo stesso alla degna ma dimentica signora, come se ella fosse ancora ventenne. Ella si riscosse piena di sgomento dalla dolce illusione che pure non sapeva rimpiangere; si liberò in fretta dalle sue braccia e, mentre lo guardava ancora una volta con occhi umidi, gli mise in mano tre­ mando il cuore d’opale e lo pregò di lasciarla subito sola. Poi si stese a mani giunte sulla poltrona per riaversi dalla straordinaria avventura. Quando Thibaut ebbe agganciato all’orologio il nuovo trofeo, la catena con tre cuori gli sembrò abbastanza ar­ ricchita da poterla finalmente mettere in mostra ; e giunse in buon punto il suo trasferimento alla guarnigione di Parigi, giacché solo quella città era il teatro adatto alle sue future gesta. Non gli mancarono d’altronde imprese felici e protezioni, per cui ottenne presto la promozione a capitano e il comando di una compagnia. Ma quanto più nobili erano le dame sulle quali riportava vittoria, e più preziosi i gioielli da appendere alla catena, tanto più lo assaliva il dubbio se era proprio lui che abbandonava le belle o se le belle abbandonavano lui. Ad ogni modo la sua raccolta di ciondoli tintinnava e brillava come si deve, ed egli era considerato il più pericoloso conquista­ tore dell’esercito, quando nella cerchia dei commilitoni raccontava le storie dei singoli gingilli e accarezzava le pietre e le perle di cui erano ornati. E andava a letto con le breloques, e con le breloques si alzava.

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Alla fine la sua gloria gli venne a noia, tanto più che non rimaneva un posticino per nuovi bottini d’amore sul suo panciotto. Ma poiché lo si poteva ben chiamare un beniamino della fortuna, giunto a quel punto gli si aprì una nuova strada di vita e di successo, che egli si sentì invogliato a prendere, da uomo ormai sperimentato e accorto. Proprio allóra l’entusiasmo della Francia per la guerra di liberazione dei Nordamericani era giunto al culmine, e dopo che molti Francesi avevano combattuto come volontari per la fondazione della grande repubblica, il marchese di Lafayette, come tutti sanno, aveva ottenuto l’invio di un vero esercito ausiliario. Il capitano Thibaut de Vallormes partì con la spedizione e si trovò fra i sei­ mila uomini che il conte di Rochambeau portò di là dell’Oceano e che nel giugno del 1780 toccarono terra nel Rhode Island. Thibaut era un soldato non privo di zelo e di valore, e così le vicende della difficile guerra, le avan­ zate e le ritirate lo condussero ora in prima linea, ora in altri punti pericolosi. Il fresco afflato del Nuovo Mondo, il potente soffio di libertà che ne emanava, il continuo impegno del servizio fra mille insidie resero a poco a poco l’ufficiale molto più serio e posato; anche nell’àmbito della sua persona limitata, il trapasso dal gioco a ciò che viene dopo fu ben visibile. Quando la sua divisione giunse a un largo fiume sulla cui opposta riva era accampata una grossa tribù d’indiani, egli con gli altri Francesi arse d’en­ tusiasmo nel trovarsi davanti alla vera natura, alla libera umanità; ciascuno di loro infatti portava in cuore la sua porzioncina di Jean-Jacques Rousseau. Si trattava di entrare in rapporto con gli Indiani, ottenerne con le buo­ ne maniere l’amicizia o almeno la neutralità, e a questo scopo si attendevano i comandanti supremi, mentre an­ che fra gli Indiani, sull’altra sponda, si radunavano a tener consiglio molti grandi capi. Ma i militari francesi erano impazienti di soddisfare la curiosità e l’attrazione per l’ideale stato di natura; già prima dell’incontro ufficiale chiamarono di qua i miti pellirosse o si fecero traghettare da loro, e ciascuno cercò

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nel suo bagaglio oggetti da donare o da scambiare con le loro rarità. Thibaut fu tra i primi a traversare il fiume, e non una sola volta, ma due o tre al giorno, e presto si tro­ vò fra i wigwam come a casa sua. Difatto, una delle fan­ ciulle indiane lo attirava irresistibilmente, così da fargli dimenticare tutto il suo passato vittorioso per seguire come un novellino i passi di una selvaggia. Non posso arrischiarmi a tentare una descrizione della meravigliosa creatura, e devo lasciar liberi questi signori di figurarsi secondo i propri gusti quanto di più bello si potesse immaginare allora a proposito di una figlia au­ toctona dell’America, tanto per corporatura e colorito quanto per abbigliamento e fronzoli. Un’alta acconcia­ tura di penne sarà inevitabile, e consiglierei un abito va­ riopinto da Papagena ; ma, come ho detto, non me ne vo­ glio immischiare, e aggiungerò soltanto che si chiamava nella sua lingua Quonesci, vale a dire libellula. Fatto sta che era maestra nel frullargli ora davanti come una libellula, ora rendersi invisibile; prima scagliar­ gli un’occhiata invitante, poi sfuggirlo fredda e ritrosa; ma Thibaut non si stancava di mostrarsi sollecito e pa­ ziente, e di seguirla almeno con occhi languidi quando non c’era verso di andarle vicino. Quanto gli era stato indifferente in Francia il sesso gentile, tanto s’innamorò adesso della rossa figlia della natura, e meditava persino il proposito di farne la sua legittima consorte. Come sa­ rebbe rimasta di stucco tutta la Parigi filosofeggiante, egli pensava, di vederlo tornare a braccetto di quel pro­ totipo di naturalezza e primitività, e fare il suo ingresso con lei nei salotti della capitale. La sua costanza parve davvero addomesticare poco per volta la graziosa libellula e indurla a una mezza fami­ liarità; i signori colleghi, che finora avevano sorriso del fatto che il suo potere sui cuori femminili non pareva estendersi fino allo Hudson e al Delaware, ricomincia­ rono ad ammirarlo, e a lodarlo di non essersi dato per vinto, da vero francese; in breve aveva già ottenuto fra il lusco e il brusco più di un breve appuntamento con biz­ zarri dialoghi di gesti e di parole rotte, durante i quali

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nessuno dei due capiva l’altro né riusciva a esprimere quel che voleva. Solo una cosa parve a Thibaut di notare, cioè che Quonesci era mossa da un tenero pensiero, che la occupava tutta e che le faceva sovente rivolgere gli oc­ chi neri su di lui, in angosciosa o dubbiosa speranza. Finalmente le autorità furono tutte radunate sulle due sponde del fiume e i negoziati per il momento ben con­ clusi ; i capi indiani erano stati ricevuti con ogni riguardo nell’attendamento francese, e non rimaneva che la visita ufficiale dei signori francesi ai selvaggi, desiderosi anch’essi di sfoggiare le loro magnificenze. La sera prima venne ancora un gran barcone di donne che prima della parten­ za dei Francesi volevano rifilar loro tutto il vendibile, come frutti, ornamenti selvaggi, conchiglie, cuoio rica­ mato e cosi via. Ne nacque a un tratto una vivace scena di mercato, e i Francesi profittarono facilmente dell’oc­ casione per corteggiare le donne, secondo la loro abitudine inveterata. Ma Thibaut seppe allettare nella sua tenda di capitano la bella Quonesci o libellula, che aveva da vendere un panierino di fragole, e lì la strinse d’assedio con raddoppiata insistenza giacché il tempo stringeva. Focoso e impaziente cercò di farle capire che voleva por­ tarsela in Europa, e perciò trattare onestamente e seria­ mente con i genitori di lei, per la sua felicità e il suo bene. Che ella capisse gran che è da mettere in dubbio; certo, invece, che ella seppe esprimersi più chiaramente del so­ lito. Mentre con le piccole mani rossicce gli accarezzava il mento e le guance, indicò i ciondoli del suo orologio, che desiderava in dono e che da molto tempo le occupa­ vano la mente. Intanto ripeteva in inglese: «Domani! domani ! ». E con gesti graziosi e ingenui spiegava che al­ l’indomani sarebbe stato esaudito ogni desiderio, con si­ cura soddisfazione di tutti. Il nostro buon Thibaut rimase allibito nel sentirsi chie­ dere in dono così esplicitamente le sue breloques e rifletté per un poco, con faccia melanconica; tanta impudenza 10 sorprendeva; e poteva spiegarsela soltanto pensando che la creatura primitiva non capiva né il significato né 11 valore di ciò che pretendeva. Ma quando la ragazza

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chinò il capo tutta triste, portandosi una mano al cuore, e anche con altri segni diede a vedere che aveva ardente­ mente sperato di essere accontentata, egli interpretò i segni a proprio favore e cambiò idea. “In fondo,” pensò “è giusto che io deponga questi ricordi ai piedi di colei alla quale voglio legarmi per la vita. Anzi, è un bellissimo simbolo sacrificare i trofei di un mondo superato e deca­ dente alla personificazione della giovane natura che deve dare origine a un mondo nuovo. E alla fin fine la brava fanciulla mi restituirà fedelmente il tesoro che per tanto tempo ha ballonzolato sul mio gilè, e sarà spassoso quan­ do la figlia della foresta vergine farà scintillare a volta a volta i gioielli sotto gli occhi delle dame parigine !”. Con pronta risoluzione sganciò l’anello che univa il pendente all’orologio e lo consegnò a Quonesci in tutto il suo splendore. La libellula accolse il tesoro con una gioia infantile che aumentò ancora, se possibile, il rossore della sua pelle, sovraccaricò il donatore con le manifestazioni della più deliziosa riconoscenza, poi fuggi via lesta ripe­ tendo ancora con occhi raggianti: «Domani ! domani !». Thibaut invece aveva la sensazione che gli avessero ta­ gliato il bel codino che cadeva maestosamente sul dorso della sua giubba scarlatta, e la notte fece un sogno ango­ scioso. Sognò che apriva il cuore di corallo della bella Guillemette, e il ragno verde sgusciava fuori e gli mordeva il naso, facendolo gonfiare come una barbabietola. Al mattino però, quando vide il giorno limpido e lumi­ noso sorgere sull’ampio paesaggio fluviale, il suo umore migliorò e con cuore lieto egli salì su una barca della flottiglia sempre pronta al traghetto, pensando che final­ mente andava incontro al vero amore e alla felicità. I pellirosse erano raccolti in vasto cerchio intorno a un fuoco sul quale arrostivano cervi e altra selvaggina e bol­ livano pesci del fiume. Donne e ragazze facevano le cuo­ che e recavano ogni sorta di leccornie. Gli uomini assiste­ vano gravi, seduti all’intorno, in prima fila i capi, tutti in gran gala con gli ornamenti più belli. Per i signori francesi avevano lasciato libero uno spazio d’onore, che quelli occuparono godendo dell’originale spettacolo; e

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incominciò un pranzo che a dire il vero fu gustato più dagli Indiani che dagli Europei, anche se a questi ultimi fu offerto e servito dalle donne stesse. Solo Thibaut era pienamente soddisfatto: perché la bella Quonesci l’ave­ va subito scovato e aveva servito lui solo; e docilmente gli rimase accanto, quand’egli la trattenne, facendo segni scherzosi alle sorelle, come per dire: «Convoi non ci tor­ no più ! ». Familiarmente e non senza grazia gli sedeva ai piedi, e Thibaut, accarezzando lieve e indolente la rossa schiena vellutata, come forse s’esprimerebbero lor signori, immaginava di essere Cristoforo Colombo, al quale il continente scoperto si prostra sotto forma di una tenera donna. Il banchetto ebbe termine, lo spazio intorno al fuoco fu sgomberato e il cerchio allargato; dopo di che sfilò un corteo di giovani guerrieri che in onore della potenza amica dovevano eseguire una danza di guerra. Urla ed esclamazioni dei vecchi e dei capi salutarono la schiera che era guidata dal più alto e più robusto dei giovani, un pezzo d’uomo forte come una quercia. Se prima ho modestamente rinunciato a descrivere la leggiadra libellula, mi riservavo però di ritrarre tanto più minutamente il giovane guerriero, nel limite delle mie deboli forze ; perché qui entrano in funzione l’occhio e il giudizio femminile. Figuratevi dunque un complesso di membra gigantesche, splendidamente sviluppate, del più intenso rosso ramato, dipinto dalla testa ai piedi di strisce azzurre e gialle, con raffigurate su ogni lato del petto due mani colossali con le dita allargate, e avrete appena un assaggio di quel che segue. Perché la faccia era un mondo pittorico per se stesso, metà della fronte, delle palpebre, del naso e della mandibola fino all’orecchio colorata di cinabro, e l’altra metà di turchino, e nel mezzo una quantità di lineette tatuate in tutte le tinte. I padiglioni degli orecchi erano rivestiti di fiocchi di perle, i capelli lunghi, neri come la pece, erano fittamente intrecciati a fili di piccole conchiglie, bacche, dischetti di metallo e altre cose simili, e sopra era infilato un elmo di penne di struzzo bianche ; un coltello da scotennatore con una ca­

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pigliatura bionda era piantato in quel caos a mo’ di spil­ lone, per non parlare di altre chincaglierie più difficili da distìnguere. Ma su tutto quanto torreggiava una gran cresta di imponenti penne d’avvoltoio, bianche e nere, che scendeva giù, lungo la spina dorsale, come l’ala di un drago, ed era fatta delle più lunghe penne maestre. C’era poi la cintura wampum riccamente ricamata, le scarpe e i mocassini pure ricamati, sicché bisognava ammettere che nel giovanotto era adunato un tesoro di bellezza e di forza virile. Ma soltanto lo sguardo ardente e terribile inte­ grava il quadro, e quando il valoroso, che si chiamava Orso Tonante, incominciò scalpitando la danza e con un canto spaventoso vibrò alta sul capo l’ascia dipinta di rosso, mentre appoggiava l’altro pugno sul fianco snello, gli ospiti europei si sentirono quasi crepitare i capelli in­ cipriati, non trovando di proprio gusto specialmente il coltello da scotennatore. Ma Quonesci, la libellula, accovacciata ai piedi di Thibaut, trasse un profondo sospiro e poi lanciò un lace­ rante grido di giubilo ; scosse il braccio dell’ufficiale e con occhi di fuoco gli additò il ballerino, pronunciando come in estasi parole indiane che Thibaut non capiva, finché un americano che gli stava vicino disse: «Questa fem­ mina seguita a strillare che è il suo fidanzato, il suo inna­ morato, e che si sposeranno oggi stesso!». Agghiacciato dallo stupore Thibaut guardò il danza­ tore la cui faccia tremenda pareva lampeggiare in tutti i colori dell’arcobaleno, sicché sconvolto com’era non riu­ scì a distinguere nulla. L’Orso Tonante veniva sempre più vicino con la sua banda; finché alcuni ufficiali fra risate omeriche esclamarono tutti insieme: «Parbleu! Ma quello s’è appeso al naso le breloques di Monsieur de Vallormes ! ». Thibaut dovette riconoscere costernato la verità di quell’osservazione: erano proprio lì, i suoi ciondoli. Il selvaggio danzava ora a poca distanza da lui e sotto il na­ so dipinto di rosso e di blu con l’osso segnato da una riga bianca ed arcuata ballonzolavano di qua e di là, lucci­ cando, il cuore di corallo dell’abbandonata Guillemette,

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il cuore di cristallo della piccola Denise, il cuore d’opale della zia Angelica, e tutti gli altri oggetti, le croci, i meda­ glioni, gli anelli in una gran confusione gettavano barba­ gli e frustavano il naso dell’eroe. Questi danzò per un poco senza cambiar posto, quieto come l’aria prima della burrasca, saltellando appena ora su un piede ora sull’altro; a un tratto gettò un rugghio terribile, da vero orso, afferrò Quonesci per le braccia, se la gettò in spalla come una cerbiatta ammazzata, e seguito dai suoi compagni che roteavano le scuri e dalle acclamazioni della rossa tribù, si precipitò fuori del cerchio. Il signor de Vallonnés non vide mai più né l’indiana né i trofei delle sue conquiste.

CAPITOLO TREDICESIMO

Dove l'epigramma riceve conferma

-Mi sembra di vedere laggiù il falegname che ho fatto chiamare; chiedo licenza a questi signori, devo andare a parlargli — disse Lucia appena finito il racconto, s’inchi­ nò e s’allontanò leggera, trattenendo il sorriso. Reinhart la seguì con lo sguardo, poi si rivolse al colonnello. — Com’è in collera la sua deliziosa nipote — egli disse — con le mie povere protette, per scagliarmi dardi così satirici ! Quasi quasi va al di là del bersaglio ! — Evvia, — replicò ridendo lo zio — in fondo non fa che difendere la propria pelle, che del resto è fine e deli­ cata. E non s’accorge, signor Reinhart, che sarebbe meno lusinghiero per lei se Lux si mostrasse indifferente alla sua passione per le creature ignoranti e sprovvedute, alle quali essa ha la fortuna o il merito di non appartenere? Sia che Reinhart come scienziato mancasse di pratica, sia che come uomo giovane fosse ancora cieco e ignaro, certo è che non aveva considerato la cosa da quel lato, e alle parole del vecchio arrossì notevolmente per il calore interno che gli provocarono. — Così accade; — disse nascondendo l’agitazione — quando si parla sempre per immagini e allegorie si finisce per non intendere più la realtà e si diventa scortesi. Ep­ pure io non pensavo affatto né alla signorina né a me stesso, allo stesso modo che non si pensa mai di agire come si predica. È ora che io mi rimetta in viaggio, altri­ menti con le mie chiacchiere mi aggroviglio in sciocchezze e contraddizioni come un fringuello nella rete. — Va bene, parta pure, — rispose il vecchio signore — ma ritorni presto ! Venga sovente la domenica, e invece di quel vecchio ippopotamo prenda un giovine cocchiere con due buoni trottatori, così viaggerà più in fretta e avrà meno da preoccuparsi delle intemperie. Mi fa piacere che la Lux abbia di tanto in tanto un compagno giovane e allegro come lei; essa è libera, gaia e indipendente e

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non commette sciocchezze. Quanto a me, da buon senti­ mentale godo di ritrovare per merito suo, caro Reinhart, alla sera della vita gli amici della giovinezza, e gioisco al pensiero di presentare mia nipote alla signora Else Moorland, sua madre, affinché veda che anche noi qui non siamo teste di rapa. Dopo ch’ebbero conversato ancora un po’ - Reinhart con impaziente batticuore - il giovane andò in casa a pre­ parare la sua sacca da viaggio, e in scuderia per far sel­ lare il cavallo che lassù al pascolo s’era riempito ben bene la pancia. Aveva tanta premura perché credeva di affret­ tare così il tempo e il destino, qualunque cosa gli potes­ sero recare. — Vorrà bene mangiare con noi prima di partire ! — disse Lucia, delusa, quand’egli tornò sotto i platani e la trovò là. — Non è possibile; — rispose Reinhart — se voglio ar­ rivare a casa entro oggi, devo partire prima di pranzo ! — Ma come, il suo viaggio è già finito? L’aveva ap­ pena incominciato ! Non vuol mica riprendere subito quel lavoro che le stanca gli occhi? — Certo no, madamigella, intendo risparmiare più che mai la mia vista, poiché la famosa cura mi ha tan­ to giovato che sarebbe ingratitudine rimetterla in pe­ ricolo. — Naturalmente tornerà a far sosta in tutte le ben note stazioni dove s’è fermato venendo? — Allora non farei molta strada ! No, penso di pren­ dere invece l’altra via, la più breve, che passa per il ponte di Althäusern. Lucia parve soddisfatta di quel dialogo insignificante ; si congedò cordialmente dal cavaliere-scienziato, ed egli iniziò il viaggio di ritorno serio come un esploratore del­ l’Africa, mentre s’era messo in cammino così lietamente qualche giorno prima. Quella sera in realtà s’addormentò assai sereno, dopo avere assistito a una riunione di amici dove, come anonimo partecipante, aveva lasciato con­ fluire nella gaiezza generale il pensiero di Lucia. Ma il mattino dopo si sentì solo e si rese conto di essere preso.

DOVE L’EPIGRAMMA RICEVE CONFERMA

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Le cose peggiorarono: ignote pene cominciarono ad agitarsi nel suo cuore, cosicché dovette riprendere in esa­ me, con riluttanza, la natura di questo muscolo, e non ricavandone nulla gli toccò abituarsi a dimenticare le perturbazioni nel lavoro accanito per non cadere in un deplorevole stato di sogno e fantasticheria. Tuttavia non ripetè per il momento la visita alla villa alpestre, affinché la separazione gli permettesse di scrutare la serietà dei suoi sentimenti e di venire in chiaro del proprio stato. Scrisse soltanto qualche lettera senza indiscrete allusioni e rice­ vette risposte dello stesso tenore. Tanto maggior piacere gli recò una missiva di sua madre, la quale gli scrisse, nel cor­ so dell’estate, che il colonnello e la nipote erano andati a trovarli in occasione d’un viaggio, e ch’era stata una piacevole rievocazione e una bella giornata; inoltre ave­ vano combinato di restituire la visita nell’autunno. Lu­ cia, ella diceva, era una personcina seria e intelligente con il temperamento di una bimba, e papà Reinhart, solito a inviare alla gente soltanto laconici bigliettini, le scrive­ va già lettere più lunghe di quelle che mai avesse rice­ vuto lei, mamma Else, perfino nei primi tempi. Ma glielo concedeva volontieri e già si rallegrava di leggere le mis­ sive del marito a Lucia quando sarebbero andati a trovare gli amici. In settembre giunse una letterina di Lucia; ella scri­ veva : « I suoi genitori sono qui da noi. Non vuol venire anche Lei? Ci dispiacerebbe non potere far godere ai cari ospiti la compagnia del figlio, e restar li derelitti dopo esserci vantati della sua amicizia ! Ma lasci a casa l’ip­ popotamo e porti con sé un baule! Lo zio maresciallo vuole bere a fratellanza con lei e scambiare il tu, cosa che purtroppo, essendo donna, mi è vietata!1». Quantunque Reinhart, che aveva improvvisato così particolareggiate storie di donne e d’amore, fosse incline a interpretare le ultime parole come primo accenno a un I. Nei paesi di lingua tedesca, prima di darsi del tu si usa bere con le braccia intrecciate {Bruderschaft trinken·, bere alla fraterni­ tà). Una volta le donne non lo facevano.

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rifiuto, nel caso che egli avesse fatto una richiesta, riempì una valigia di tutti gli indumenti che più gli donavano, e partì. Trovò la compagnia radunata sotto il platano e di ottimo umore; Else Moorland, senza scapito della sua dignità matronale, vestiva come Lucia un abito bianco come la neve, poiché splendeva un caldo sole estivo, e i capelli neri erano liberi e senza cuffia. Il colonnello aveva lasciato in casa la gruccia e portava speroni agli stivali. Reinhart padre sembrava un libero docente di trentacinque anni che dovesse ancora produrre e ottenere tutto ciò che aveva già prodotto e ottenuto, e Lucia era silen­ ziosa e modesta come una ragazzina, nonostante i suoi venticinque o ventisei anni ; insomma nessuno voleva ap­ parire vecchio o in procinto di diventarlo, perché tutti erano felici e contenti ; solo Lucia e Reinhart sembrava­ no a vicenda più taciturni o più pensosi, secondo che l’uno o l’altra vedeva sopra di sé un cielo rannuvolato. Così passarono alcuni giorni in grande festevolezza. Final­ mente si parlò di fare una visita al noto presbiterio, il cui titolare era stato compagno di studi di Reinhart padre, donde la conoscenza col figlio. — Ci va volentieri? — chiese Lucia preoccupata al giovane Reinhart, desiderando che ogni giornata trascor­ resse per lui lieta e gradevole e ricordando che la famiglia del pastore lo annoiava un poco. — Per esser sincero — replicò lui — non ho una gran voglia di passare là tutto un giorno. — E allora rimani qui ; — consigliò la madre — tanto la visita interessa piuttosto noi vecchi; se il maresciallo ci accompagna, la carrozza sarà già piena: vuole portarci nel suo leggero calessino da caccia, o come diavolo si chiama, quel mangiapiombo ! Sta’ buono, maresciallo ! — aggiunse rivolta al colonnello che ritto alle spalle le tirava la cocca d’un nastro come protesta per l’epiteto. — E tu che cosa fai, Lux? — chiese egli alla nipote. — Io? Io devo badare alla casa, come tutte le povere massaie, e provvedere per la cena! — Va bene, allora provvedi anche a un beveraggio se­ condo le regole. Perché dobbiamo bere alla fratellanza

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con questo giovane scansafastidi, che ci si possa dare del tu una buona volta. E anche tu ci puoi stare. I due giovani arrossirono come cresimandi davanti al sacramento. Nessuno avrebbe creduto che già mesi in­ nanzi si fossero raccontati ogni sorta di cose. Quando i vecchi se ne furono andati, e calò a un tratto un grande silenzio, i giovani rimasero lì imbarazzati, e ancora esitanti a turbare l’equilibrio di quel momento, finché Reinhart trovò una via d’uscita chiedendo un li­ bro a Lucia. Ella lo invitò a scegliersi da sé quel che gli occorreva. Così tornarono lentamente in casa, salirono le scale e penetrarono nel modesto museo dove la signo­ rina trascorreva i suoi anni. L’aria entrava liberamente dalla finestra aperta mentre l’oro opaco del sole di set­ tembre, filtrato dalla seta verde delle tende, riempiva la stanza di una mite luce crepuscolare. — Che cosa desidera leggere? — chiese Lucia. — Mi vuol dare uno dei suoi libri autobiografici? — propose Reinhart — Ho osservato che ha scritto in mar­ gine qualche osservazione e mi piacerebbe seguirne le tracce e cogliere i suoi buoni pensieri. Forse, se mi è per­ messo, scoprirò addirittura il mistero che l’attira in quelle confessioni. — Il mistero è molto semplice, — ribattè Lucia — ep­ pure è veramente un mistero. Io cerco di capire il lin­ guaggio degli uomini quando parlano di sé; ma sovente mi sembra di camminare in un bosco e di sentire il cin­ guettio degli uccelli senza conoscerne la lingua. Si direbbe a volte che ciascuno parli diversamente da come pensa, o almeno non riesca bene a esprimerlo, e che così voglia il suo destino. Ciò che l’uno manifesta con sonoro cinguet­ tare, l’altro lo nasconde accuratamente, e viceversa. Que­ sto confessa tutti e sette i peccati mortali, ma tace di avere quattro dita alla mano sinistra. Quello elenca e descrive servendosi di due specchi tutti i nèi e le voglie della sua schiena; ma è muto come una tomba sul fatto che la sua coscienza è oppressa perché ha reso una volta una falsa testimonianza, sia per debolezza di carattere sia per parti­ gianeria. Ora, se li metto tutti a confronto nella loro sin­

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cerità che essi considerano cristallina, mi domando : esi­ ste davvero una vita umana in cui non vi sia nulla da nascondere, cioè in tutte le circostanze e in tutti i periodi? C’è una persona interamente sincera, ed è possibile che ci sia? — Molte persone sono del tutto veritiere, — disse Reinhart — però non in una sola volta, bensì a frammenti, a poco a poco ; e la natura stessa, perfino la Sacra Scrittu­ ra, non procedono diversamente ! — Quello che mi consola — seguitò Lucia — è che si nasconde più il bene che il male. Quasi tutti, se ne aves­ sero l’occasione e la disposizione, ci metterebbero in ta­ vola il peggio di sé che sapessero raccontare ; ma molti muoiono senza aver mai accennato con una sillaba alle belle e buone azioni che hanno compiuto. Costoro parla­ no tuttavia il linguaggio più amabile; è come se violette, primule e pratoline fiorissero tra le loro righe, senza che quegli scrittori e scrittrici, nella loro modestia, lo sappiano e lo vogliano. Reinhart s’era seduto sulla seggiola che stava davanti alla scrivania, ed ella era appoggiata negligentemente al tavolo. Intanto egli tirò giù un volume dallo scaffale delle biografie e mentre lo sfogliava ne cadde una strana imma­ gine o segnalibro. La figura era ricamata sulla carta con seta non ritorta e ago finissimo, in modo da risultare egua­ le su tutte e due le facce. Su un verde terreno c’era un minuscolo abete e un piccolo arbusto con due rose rosse ; allineato fra i due cresceva dallo stesso suolo un cuore dal quale sventolava un nastro azzurro tagliato a metà, e l’altro lembo era attaccato a un secondo cuore il quale, provvisto di ali, s’era evidentemente sciolto dal primo ed emettendo una fiammata d’oro volava in su, certo verso il cielo. A tutta prima Reinhart guardò quell’immagine di­ strattamente, poi con maggiore attenzione, giacché men­ tre stava per riporla nel libro ne aveva còlto il sog­ getto. — Che cos’è questa storiellina di cuori? — egli chiese — sembra che qui si sguazzi nella passione ! L’uno è in-

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fisso nel terreno come una barbabietola, mentre l’altro si libra verso il cielo, alato e sputando fuoco ! Lucia prese in mano l’ingenuo quadretto, l’osservò e disse: — Dunque era finita lì questa sciocchezzuola? Da anni gira dentro i miei libri, e non m’era mai più capitata sott’occhio. Del resto è un lavoro che feci io stessa quand’ero in un convento di monache. Reinhart guardò l’interlocutrice con un certo stupore, ed ella spiegò arrossendo: — Deve sapere che io sono cattolica ! — Non v’è motivo d’arrossire ! — opinò Reinhart, più divertito che turbato dalla differenza di religione. Lucia capì la sua larghezza di vedute, ma diventò ancora più rossa e abbassando gli occhi suo malgrado disse : — Ma non sono nata cattolica, lo sono diventata ! La cosa era certo diversa. Un cambiamento di reli­ gione era accaduto in quella vita apparentemente tran­ quilla. “Che cosa può significare?” egli si chiese subito interiormente, e guardò la fanciulla non lontana da lui con la stessa meraviglia di chi guarda un abisso che s’è aperto improvvisamente. Anzi la sua faccia aveva preso un’espressione alquanto preoccupata ; vi si rispecchiavano la compassione t la sollecitudine di un’anima non certo indifferente a ciò che era avvenuto a sua insaputa, come se non lo riguardasse. Alzando gli occhi ad un tratto, Lucia disse con un sor­ riso melanconico: — Vede, ecco qui una di quelle storie che non si sa se confessare o tacere. Pochissimi ne sono informati, e anche mio zio la ignora, sebbene sia cattolico anche lui. — Ma a me — ribattè Reinhart — ha già rivelato trop­ po per non confidarmi il resto. — In fondo non è che una fanciullaggine, e le dirò tutto; — rispose Lucia — anzi mi è caro che lei lo sap­ pia, perché non le accada di ferire inconsapevolmente una buona amica quale io mi considero, o di cagionarmi quanto meno piccole contrarietà. Mio padre era protestante, come tutti in questa re-

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gione, la mamma invece cattolica. Ma egli aveva tanta autorità su di essa da indurla senza difficoltà ad assistere alle funzioni protestanti e da lasciare che io fossi battez­ zata e allevata in quel culto. Sembravamo dunque, e tutti lo credevano, una pura famiglia protestante. Non già che mio padre fosse un luterano ardente; ma il suo prin­ cipio era che, pervenuti alla religione riformata, non sia più lecito guardare indietro, e chi si faceva cattolico s’at­ tirava il suo sdegno e il suo disprezzo. In tutto il resto era tollerante e pacifico, e infatti non impedì mai alla mamma di frequentare la sua migliore amica, una tranquilla reli­ giosa, e di andarla a visitare una o due volte all’anno nel suo monastero. Quando vivevano i miei genitori, abita­ vamo in quella città sul fiume di cui nelle giornate lim­ pide si possono scorgere di qui le torri. La terrazza a giar­ dino s’affacciava sull’acqua e ai piedi di una scaletta di pietra un leggero battello si dondolava alla catena, ed era usato per gite sulla placida corrente. Quasi tutti gli abi­ tanti della casa erano capaci di dirigere a valle la barca, e quando si faceva un viaggio più lungo si tornava in su con un vaporetto, e la piccola imbarcazione veniva ri­ morchiata. Un miglio e mezzo circa più a valle della nostra città sorgeva sulla riva opposta, dove la popolazione è cattoli­ ca, il convento di cui ho detto, in un idillico paesaggio flu­ viale, e attorniato soltanto dai suoi frutteti, prati e campi. Le visite di mia madre coincidevano con una delle liete festività religiose della bella stagione, ad esempio il Corpus Domini, giorno in cui le suore si concedevano una certa allegria, qualche semplice svago, e allora la mamma dava maggior risalto alla festa facendosi portare in barca sul luminoso fiume azzurro e conducendomi con sé, fin dalla mia più tenera infanzia. In quelle occasioni mi faceva in­ dossare graziosi abitini chiari, perché le buone sorelle soli­ tarie e vestite di nero potessero giocare con me come con una bambola viva, e godeva di vedermi passare di mano in mano, di grembo in grembo. Quando diventai un po’ più grande mi comportavo invece con la serietà e la tranquillità di una monachina, ed ero orgogliosa di non

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allontanarmi dalle sue amiche quando stavano affacciate alla finestra della cella in confidenziali conversazioni e ri­ cordi, o quando passeggiavano nei campi e nei giardini fioriti. Alla mensa festiva però dovevo sedere accanto alla madre priora, che ogni tanto mi accarezzava benevol­ mente e non mi lasciava mai andar via senza regalarmi un cestino di dolci con bei fiocchi di seta, o una crocetta d’argento, o una medaglia della Madonna. Quando ri­ tornavamo a casa, il povero babbo ci paragonava burle­ scamente agli Indiani aztechi che ancor oggi in certe stagioni navigano sui grandi fiumi dell’interno per recarsi in luoghi misteriosi e sacrificare agli antichi dèi. Ahimè, nonostante quelle gioie conventuali ero già una piccola pagana, e ciò per il poco senno degli adulti. Fre­ quentava la nostra casa un giovane di bell’aspetto che, appena mi vedeva, mi prendeva sulle ginocchia, mi ba­ ciava e mi chiamava la sua sposina. Quando ebbi com­ piuto i quattro o cinque anni, non ne volevo più sapere; puntavo i piedi, mi dibattevo e fuggivo. Ma lui ogni volta mi riacciuffava, e così il gioco continuò finché io ebbi otto o dieci anni. Facevo sempre la selvaggia e la ritrosa, ma a poco a poco cominciai a sentirmi scontenta e addirittura infelice se egli dimenticava di chiamarmi la sua fidanzata o la sua mogliettina, e di assicurare che mi avrebbe certamente sposata. Ormai però lo vedevo di rado, per­ ché si tratteneva lontano per lunghi periodi; e quando ricompariva, aveva sempre mutato figura : ora giungeva in veste di studente sbarazzino, poi da militare in splen­ dida uniforme, o ancora da uomo mondano di ritorno da lunghi viaggi, e tutto ciò ai miei occhi infantili gli con­ feriva un fascino misterioso. Finalmente scomparve per lunghissimo tempo, e io a poco a poco lo dimenticai. Adesso avevo dodici anni, e la mamma ci aveva lasciati per sempre. Un’istitutrice sba­ data e alcuni insegnanti privati provvedevano alla mia educazione, mentre il babbo coltivava varie passioni di­ lettantesche e spesso era in viaggio. In quel periodo lessi il Wallenstein di Schiller e mi innamorai di colpo di Max Piccolomini, la cui morte mi recò certamente tanto do-

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lore quanto alla buona Thekla. Di notte lo sognavo, e di giorno egli riempiva tutto il mio mondo, anche se non riuscivo a veder chiaramente la sua figura, il suo volto. In mezzo alla brughiera, poco fuori della città, c’era un monticello di terra ombreggiato da due o tre sambuchi. Io lo chiamai la tomba di Piccolomini e vi piantai di nascosto delle pervinche, che avevo portato dai boschi nel mio vascolo per erborizzare. Vi passavo spesso ore soli­ tarie, lasciando tranquillamente che lo spirito di Thekla condividesse la mia punto spiacevole melanconia. Ma una volta, mentre cercavo con particolare fervore d’imma­ ginare l’aspetto del giovane amante e guerriero, vidi da­ vanti a me i lineamenti di Leodegar, lo sposo per burla dei miei anni infantili. Subito divenni infedele al morto bi­ centenario, e il mio lutto silenzioso per lui si trasformò in altrettanto silenziosa nostalgia per il vivo, né dubitai del suo ritorno ; giacché mi resi conto che era Leodegar quello che il mio cuore aveva sempre continuato ad amare. Una profonda serietà mi dominò da allora in tutto ciò che facevo, negli studi e nel lavoro, poiché ogni cosa riconducevo a lui e alla sua approvazione, e posso ben dire che quell’essere strano e grave mi fu in quel tempo padre e madre, guida e maestro, o almeno ne tenne il luogo per una buona parte. Ed io celai scrupolosamente la molla segreta della mia virtù giovanile; mai vi feci allusione, nemmeno con una parola, non una volta nominai quel nome, come se egli non esistesse al mondo. Ma se si parlava di Leodegar ascoltavo sospesa e non mi muovevo finché non cambia­ vano argomento. Un giorno lo sentii definire fantastico, violento, autoritario e vanaglorioso, insieme con l’ammis­ sione che era uomo di molte doti. Ma un po’ non cono­ scendo bene il senso di quelle parole, un po’ per partito preso, interpretai «fantastico» come ricco di fantasia, «violento» come energico, «autoritario» come dotato di autorità e «vanaglorioso» come amante della gloria, tutte qualità assai lodevoli. La sua immagine divenne sempre più bella e più ideale nel mio cuore ; con ansioso fervore mi sforzavo di migliorare e di non mostrarmi del tutto in­

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degna di lui, e se commettevo errori non avevo pace finché non mi sembrava di averli espiati con il penti­ mento e le buone azioni. Così giunsi al compimento del mio quindicesimo anno di vita, che cadde all’inizio dell’estate, mentre mio padre si trovava in viaggio, assente per mesi. Proprio allora Leodegar fece ritorno in patria, ma solo per un paio di setti­ mane, durante le quali venne qualche volta a casa nostra, dove io vivevo solitaria sotto la custodia di una governante di casa e della mia istitutrice. La prima apparteneva a una setta religiosa con dottrine e usanze molto caratte­ ristiche, e passava tutto il tempo che aveva libero a fre­ quentare congregazioni e leggere trattati. Mio padre la lasciava fare, anzi la incoraggiava, per divertirsi a fare su di lei certi suoi studi di psicologia religiosa, e la brava donna naturalmente non s’accorgeva che ogni suo di­ scorso veniva analizzato e suddiviso nelle varie voci di una tavola sinottica. L’istitutrice invece passava le gior­ nate a ordinare e arricchire una raccolta di coleotteri. Era in corrispondenza con scienziati e collezionisti e spe­ diva continuamente scatolette di qua e di là. Durante le passeggiate era abilissima nello scovare insetti dai loro nascondigli, e aveva venduto quasi fino all’esaurimento della merce una rara varietà scoperta in un boschetto della nostra regione. Non ricordo più il nome di quella specie ormai quasi estinta. Il più addolorato era un mae­ stro che aveva rivelato il luogo all’intraprendente mercan­ tessa, e ora si sentiva corresponsabile di un brigantaggio scientifico, com’egli diceva. La signorina si chiamava Hansa. Essa amava e ammirava sopra ogni cosa il nome Hans e perciò senza badare alla logica l’aveva adornato di una a e se l’era appropriato. In tali circostanze e con tali guardiane, io facevo quel che volevo, vale a dire che nessuno mi sorvegliava. Ma quando seppi dell’arrivo di Leodegar, fu come se di colpo a quell’indipendenza s’aggiungessero due o tre anni d’età. Lo aspettai con cuore tremante e tuttavia, vergognosa e solenne, lo accolsi nell’atteggiamento di una signorina fatta.

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«Perbacco !» esclamò sbalordito quando mi vide «qua non posso più parlare della mia sposina; questa fra po­ co è una sposa grande!». Io lo guardai quasi con spavento, e i suoi lineamenti regolari ma marcati, i ricci neri ricadenti sulla fronte, i grandi occhi che mandavano fiamme fredde, tutto mi rimase poi a lungo davanti come un ritratto dipinto; al­ lora però mi sgomentò e m’abbagliò quel personaggio ar­ rivato alla sua piena espressione, e il timore servì sol­ tanto a spingere all’estremo la mia fanciullaggine. Tut­ tavia mi padroneggiai ; dopo una breve conversazione, con la massima naturalezza invitai a pranzo per un certo giorno l’amico del mio cuore. La governante e non meno l’istitutrice, benché abitualmente distratte, si stu­ pirono dei miei ordini, e il mio contegno le sconcertò tanto che non fecero opposizione né difficoltà mentre io aggiungevo alla lista del pranzo sempre nuove portate che gli sapevo gradite. Apparecchiai io stessa la tavola di buon mattino, con il vasellame migliore che la mamma adoperava solo in rare occasioni; con nuova meraviglia la signora Lise, la go­ vernante, dovette tirar fuori anche l’argenteria. Quando la tavola fu pronta e splendente in tutta la sua magni­ ficenza, indossai il mio vestito più bello e non mancai di adomarmi con i piccoli tesori concessi alla mia giovi­ nezza. Anche la signorina Hansa, pregata da me, s’ab­ bigliò con gran pompa; mise una veste di seta nera frusciante, prodotto del suo commercio d’insetti, e vi ap­ puntò sopra un grosso scarabeo egiziano che mio padre le aveva donato. Era intagliato in una pietra preziosa, le­ gato in oro e montato a spilla. Fin lì tutto era andato bene e secondo la mia volontà. Ma poi le cose mutarono. Quando sedemmo a tavola noi tre, e incominciammo a servirci sotto la direzione della signora Lise, mi vidi improvvisamente respinta alla mia vera età e alla mia esistenza puerile. Non trovavo niente da dire e troneggiavo muta e rigida nel mio splendore, mentre l’istitutrice conduceva la conversazione e Leodegar aveva il suo bel da fare a risponderle. Quando egli

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fece un commento sullo scarabeo, ed essa si tolse la spilla e gliela diede in mano per lasciargliela meglio osservare, credetti che il cuore mi si spezzasse ; piena di gelosia af­ ferrai una bottiglia, tanto per far qualcosa anch’io, e nel mio turbamento riempii il bicchiere dell’ospite fino a farlo traboccare, sicché il vino rosso macchiò la tovaglia. La signorina Hansa non mi fece grazia di una piccola os­ servazione molto corretta; più esplicita fu la governante, che dimenticando la sua spirituale placidità si precipitò con un tovagliolo bianco a coprire il disastro e mi scoccò un’occhiata di rimprovero. Le lacrime mi punsero gli occhi; non sapevo dove guardare, ma poi di sottecchi get­ tai uno sguardo a Leodegar che mi ammiccò ridendo affettuosamente, e ripetè il solito scherzo. «Ehi, piccola Lucia,» disse «se rimani così maldestra non ci potremo sposare ! ». Le due donne più anziane forse non giudicavano ormai più opportuna la frase burlesca che già conoscevano, e infatti sorrisero alquanto acidamente. Io invece arrossii, e tuttavia mi sentii più tranquilla, perché la parola in­ sperata rafforzava la mia antica fede infantile nella serietà e sincerità del pretendente. Finito il pranzo e dopo aver preso il caffè, il convitato propose di fare una passeggiata in campagna. Disse che sarebbe ripartito all’indomani e che non credeva di tor­ nare molto presto. Udii la notizia con terribile angoscia; non potevo im­ maginare una sventura più grande di una nuova impre­ vista separazione. Ma mezz’ora dopo ero ancora dieci volte più disperata. Stavamo attraversando un piccolo parco inselvatichito, i cui sentieri stretti e sdrucciolevoli si perdevano su una collina nella foresta comunale. Leo­ degar aveva offerto il braccio all’istitutrice, la quale non lo lasciava più, e io ero obbligata a seguire la coppia come un cagnolino. I due non se ne accorgevano nean­ che, e io nella mia quindicenne inettitudine mi sentii così desolata che mi misi a piangere e dovetti tapparmi la bocca col fazzoletto per soffocare i gemiti e i singhiozzi. Quel contegno stonava col mio vestito alla moda, che

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avevo voluto il più somigliante possibile a quelli delle signore. A un tratto vi fu una nuova svolta degli avvenimenti. La signorina Hansa tirò fuori di tasca la boccetta d’al­ cool che si portava sempre dietro, e balzò in mezzo agli alberi, dove si vedevano muovere su una corteccia mu­ scosa le lunghe antenne di un coleottero. Subito dopo il povero abitante dei boschi precipitò nell’inferno della boc­ cetta e tremò orribilmente prima di rimanere immobile. Io non lo vidi, ma conoscevo a sazietà lo spettacolo. La signorina ci gridò di andare pure avanti, lei doveva esplo­ rare meglio il luogo e ci avrebbe raggiunti. Allora Leodegar si volse verso di me e s’avvide del mio stato di sconforto, che a me pareva altrettanto orri­ bile quanto la posizione dell’insetto moribondo. Sor­ preso afferrò la mia mano, se la mise sotto il braccio e mi sostenne come prima aveva guidato i passi dell’istitu­ trice, dicendo: «Che cosa c’è? Perché questo pianto? Una fidanzata, una sposina che piange, ma che cosa vuol dire?». Anche se era un discorso da bambini, il consueto ap­ pellativo mi consolò, come pure il posto a fianco dell’uo­ mo, il cui braccio mi faceva più paura che piacere. Non risposi nulla, m’asciugai le lacrime e spianai il volto. Dopo un centinaio di passi giungemmo al margine del boschetto e uscimmo nella brughiera, dove trovammo subito la tom­ ba di Piccolomini. Le pervinche piantate da me in sette anni avevano fittamente rivestito la montagnola; i sam­ buchi, cresciuti e allargati, erano coperti di bianchi om­ brelli di fiori, e qualcuno a cui il luogo piaceva aveva fatto mettere sotto gli alberi una panchina di legno. « Riposiamoci qui e aspettiamo la signorina ; » disse Leo­ degar «che cos’è questo posticino tranquillo, che non avevo mai visto?». «Credo che sia una tomba» risposi distratta e agitata, ma m’interruppi subito. Mi pareva di avere almeno trent’anni e di ripensare a lontani sogni di giovinezza. Ben­ ché solo l’ombra di una fantasia poetica fosse 11 sepolta, mi sentivo come sgomenta dalla rivalità dei due uomini;

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poiché il vivo appariva tanto bello e forte come una volta m’immaginavo il morto. Le fronde dei sambuchi mormo­ ravano parole inquietanti al mio orecchio. E un giorno avevo sentito la mia istitutrice affermare in mezzo a un gruppo di signore che gli uomini detestano sentir raccon­ tare dalle donne amate le loro precedenti storie d’amore. Nonostante la mia tendenza alla sincerità, era un motivo sufficiente per restare muta come un pesce quando Leode­ gar chiese chi v’era sepolto. Tremavo leggermente per l’affanno. Egli se ne accorse, mi prese fraternamente fra le braccia, m’accarezzò le guance e chiese che cos’era suc­ cesso e perché avevo pianto. Allora ruppi di nuovo in lacrime; sentivo un bisogno struggente di confidenza, d’amicizia e d’amore, di un soggiorno più gradito; e tutta quella nostalgia, senza ch’io potessi impedirlo, si sfogò nella strana invocazione : «Cugino Leodegar! Quando mi sposerai?». Egli tacque per qualche istante, come in cerca di una risposta. Poi mi sollevò il mento con due dita, per vedermi in faccia, e la sua era china verso di me con occhi affettuo­ si, mentre la bocca sorrìdeva stranamente. Alla fine disse: «Mia buona fanciulla, quando sarai cattolica si celebre­ ranno le nozze!». «Ma anche la mia mamma non era protestante» diss’io «e il babbo l’ha sposata lo stesso». «Su questo punto tuo padre e io la pensiamo diversamente ! » replicò lui pensieroso, mentre m’attirava a sé più teneramente ed era in procinto d’imprimermi un bacio sulla fronte. In quel momento udimmo fra gli alberi i passi e la voce dell’istitutrice, e Leodegar involontaria­ mente mi lasciò andare. Da quella stramba che ero, me ne rallegrai, perché al bacio tutto il mio essere si ribellava. Però ciò diede all’avventura come la vedevo io la consa­ crazione del mistero; sapevo ormai che la gente non doveva apprendere nulla dell’accaduto e lo considerai tanto più fiduciosamente un fidanzamento segreto. La passeggiata continuò su strade più larghe; però dopo qualche minuto Leodegar rise a mezza voce per conto suo, ma solo un attimo, come se gli fosse venuto in mente

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qualcosa di buffo. Non avvenne nient’altro di memora­ bile. Egli ci riaccompagnò fino alla porta di casa e prese commiato, poiché ripartiva al mattino presto. Mi strinse la mano con affettuosa serietà, e mi esortò a rimanere così cara e buona e a studiare di lena. Io lo seguii con gli occhi finché la sua alta figura svanì nella penombra della sera. Poi entrai in casa, mentre la signorina Hansa era già di sopra a esaminare la sua preda. Andai a letto presto per poter piangere indisturbata e riflettere alla svolta importante della mia vita, alle parole di Leodegar. Pian piano però mi addormentai, ma mi de­ stai poco dopo la 'mezzanotte. Allora mi levai dal letto, mi vestii da viaggio, riempii un cestino delle cose più ne­ cessarie, e infine scrissi una lettera alle mie guardiane, avvertendole che mi era venuto un gran desiderio di ve­ dere la monaca amica della mamma e che me ne andavo al convento dove sarei rimasta fino al ritorno del babbo. Punto e basta. Presi poi il mio candeliere e la cesta da viaggio o meglio da mercato, e con passi silenziosi scesi a pianter­ reno, apersi la porta di dietro che metteva in giardino, e salii in barca posando la cesta sul fondo. Poi sciolsi l’im­ barcazione, infilai negli scalmi i remi che ero andata a prendere, e mi diressi verso il centro della corrente che brillava nel mite chiaro di luna; perché l’astro splendeva alto nel cielo, e la notte di giugno era bellissima. Dalle rive giungeva a tratti il canto di un usignuolo, e mai l’a­ zione sconsiderata di una ragazzetta acerba si svolse in simili condizioni. Mi bastava muovere ogni tanto il remo per mantener diritta la navicella; ma il viaggio era abba­ stanza pericoloso, poiché dovevo passare sotto due ponti e potevo sbattere contro un pilone se non infilavo bene l’arcata. Trasognata e temeraria viaggiai tuttavia senza inci­ denti e alle prime luci dell’alba entrai nella piccola inse­ natura dove i battelli da pesca del mulinaro del con­ vento si dondolavano sotto gli alti salici. Suonava in quel momento la campanella della messa, nel coro le monache cantavano il mattutino, mentre fuori

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fringuelli, merli e altri uccelli salutavano il giorno e pareva che l’aria fosse viva. Ma anche i cani accorsero abbaiando, perché io accostai con fracasso, urtando i battelli e impigliandomi con la mia catena. Fortunata­ mente arrivò un servo del monastero che mi riconobbe e ammansì i cani. Legò la barca e portò la mia cesta alla porta del convento. Pallida per la frescura del mattino e per la veglia notturna tirai la campana, ma dovetti aspettare a lungo che la suora portinaia mi aprisse e mi lasciasse entrare dopo un breve interrogatorio. Mi disse di sedermi su una panca nell’atrio e, non meno stupita del servo per la mia comparsa, andò in cerca di sorella Klara che usciva per l’appunto dalla cappella. La buona zia Klara, come io chiamavo l’amica della mamma, s’ac­ cingeva dopo l’Ora Prima a tornare in cella per il solito sonnellino ; e arrivò, tutta affannata nel vedermi, a chie­ dermi che cos’era successo, perché e in qual modo ero venuta, e via discorrendo. Innanzitutto però mi condusse nella sua stanzetta, e non senza commozione apprese che mi sentivo sola e che desideravo restare per qualche giorno con lei. All’udire del mio audace viaggio sul fiume si fece il segno della croce. «Povera bimba !» esclamò «ma nes­ suno veglia su di te?». Subito prese nell’armadietto a muro una bottiglia di profumato rosolio fatto in convento e mi costrinse a bere un bicchierino di quel liquor i corroborante, e a mangiare un biscotto. Dopo di che non ebbe pace finché non mi ste­ si sul suo letto e m’addormentai, mentre ella col suo libro di preghiere si sedeva su un panchettino ad aspettare l’aurora. Quando suonò la campana della prima refezione venne a svegliarmi, perché intanto aveva parlato con la madre priora, la quale aveva dato ordine di tenermi lì tranquilla finché la faccenda non si fosse chiarita. Feci quindi cola­ zione con le suore, che erano quasi tutte le stesse di una volta. Subito dopo fu annunziato l’arrivo del nostro do­ mestico, che la signorina Hansa e la signora Lise, scoperta la mia fuga e tenuto consiglio, m’avevano mandato dietro su un vaporetto. Il fedele servitore, quello che è ancora

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con noi, conosceva sorella Klara e la sua amicizia con la povera mamma; perciò quando mi vide dietro la grata del parlatorio in compagnia della religiosa, e sentì che tutto era andato bene e che mi trovavo in buone mani, si con­ gedò e dopo avere accettato lo spuntino che gli offrivano riportò via remando gagliardamente contro corrente la barca di cui m’ero servita per venire. Così rimasi in convento, insieme col proposito che andavo volgendo in mente. Verso sera sorella Klara mi portò a passeggiare nei campi, come faceva una volta in­ sieme alla mamma, e con dolce insistenza mi fece dire il motivo della mia visita inaspettata. Io manifestai senza esitazione il mio desiderio di ab­ bracciare con il suo aiuto e sotto il patrocinio di quel monastero la religione cattolica. Per la.seconda volta suor Klara sussultò e scosse il capo. Ma avvezza all’abnegazione e all’obbedienza non osò rispondere da sé alla mia richiesta; andò immediata­ mente dalla superiora e le comunicò l’importante notizia. La madre priora scosse anch’ella la testa, e poi si recò alla prepositura, che sorgeva di fronte al monastero, per informare della cosa il signor prevosto. Ma questi era andato a passeggiare col breviario sul suo sentiero predi­ letto lungo il fiume, e per non perder tempo l’impensierita badessa gli rancheggiò dietro finché lo trovò. Il prevosto non crollò affatto il capo, anzi si mise subito a considerare seriamente la cosa, e finì per risolvere che io restassi per qualche giorno sotto esame e osservazione mentre egli andava a prendere consiglio dal suo abate. Quanto a me rimasi salda nel mio proposito; in alto loco ragionarono che io ero l’unica erede, presumibil­ mente, di un bel patrimonio, figlia d’una cattolica che, sottratta dal coniuge eretico alla vera fede, era morta senza i conforti della religione, e che la mia aspirazione era evidentemente un decreto della Provvidenza i cui frut­ ti possibili per il monastero e per la Chiesa non si po­ tevano negligere prendendoli alla leggera. Secondo le leggi del paese, quando fossi diventata di un anno più vecchia avrei acquistato il diritto di convertirmi

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liberamente, anche contro la volontà di mio padre. Il problema era dunque: lasciar passare questo anno pro­ curando di non perdermi d’occhio, ma con il pericolo che io recedessi dalla mia determinazione, oppure acconten­ tarmi subito a patto ch’io mantenessi segreto il passo com­ piuto fino al giorno della mia maggiore età confessionale? E ci si poteva fidare della mia promessa? Tuttavia fu scelta la seconda soluzione. Per il caso di una scoperta prematura si pensava di richiamare l’attenzione sull’ab­ bandono e sulla mancanza di guida in cui ero lasciata, condizione che agli antichi correligionari della madre aveva imposto l’elementare dovere di prendere la figlia sotto la loro protezione. Così infatti venni trattata. Per due mesi il signor pre­ vosto in persona m’impartì l’istruzione religiosa, poi, nella cappella del monastero, ricevetti il battesimo. Due Minori conventuali della lontana Casa Madre a cui ap­ parteneva il prevosto, e due sorelle, l’una delle quali era suor Klara, mi furono padrini e madrine. Poi vennero stesi e firmati i documenti necessari, e il prevosto provvi­ soriamente li conservò nel suo archivio. Il nome Lucia mi fu lasciato. Non sarebbe facile per me descrivere la mia disposizione d’animo durante l’addottrinamento e la cerimonia. Ad ogni modo la coscienza mi rimordeva, e sentivo ben chiaro di agir male verso mio padre. Inoltre avevo in cuore un freddo agghiacciante, e anche ciò mi opprimeva ; solò il pensiero di essere ormai unita indisso­ lubilmente con Leodegar, e di aver rimosso tutti gli osta­ coli alla mia felicità scioglieva il gelo Iella mia anima e restituiva un po’ di vita al mio sangue. La gente scambia­ va tutto ciò per commozione religiosa; solo sorella Klara, che partecipava con interesse più profondo, non era né tranquilla né persuasa del mio contegno, e un pomerig­ gio che mi trovavo sola nella sua cella provò di nuovo a indagare con parole guardinghe sulla natura e sul gene­ re del motivo fondamentale che mi spingeva. All’amica materna non potei nasconderlo a lungo, e nel giro d’un quarto d’ora ella conobbe il mio infelice romanzetto puerile.

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Mi guardò con grandi occhi spauriti, poi coprendosi di un cupo rossore li riabbassò sul lavoro, e poco dopo vi cadde sopra una lacrima lucente. Pensai che la pia, si­ lenziosa donna si vergognasse per me, poiché io non mi vergognavo; al colmo della desolazione m’inginocchiai ai suoi piedi e le piansi in grembo. Ma era piuttosto il ri­ cordo dell’antico dolore che l’aveva condotta nel chio­ stro, quello che ora l’angosciava. Mi rialzò dolcemente e mi disse: «Non parliamone più ! Taci e dimentica, o se no Iddio e i suoi santi ti possano aiutare ! ». Naturalmente ne riparlammo, anni dopo, poiché ella vive ancora. In quei giorni che rimasi ancora presso di lei, per distrarmi m’insegnò a ricamare quadretti come quello che vede qui, che era di sua invenzione. Dovrebbe rap­ presentare l’amore sacro e l’amore profano, certo espresso con minore arte che nel famoso quadro del Tiziano. Io compresi il muto ammonimento e con la seta rossa rica­ mai sul cartoncino i due cuori; ma parteggiavo per quello rimasto sull’erba fra l’abete e il rosaio. Per portare al col­ mo le contraddizioni del mio stato, non sospirai neanche una volta, giacché i bambini piangono, si, ma non sanno ancora sospirare. Eppure non tardai ad aver motivi d’inquietudine e d’angoscia. Il vaporetto che faceva servizio regolare sul fiume attraccò un giorno alla banchina del convento; ac­ canto a suor Klara io guardavo curiosa dalla finestra della cella; ma invece di una religiosa dell’ordine o di un prelato in giro d’ispezione o di un commerciante laico, vidi scendere a terra mio padre. Col suo apparire un nuo­ vo peso mi cadde sul cuore, e la coscienza inquieta si trasformò in uno sgomento che non conoscevo ancora. Egli era tornato dal suo viaggio improvvisamente e prima del previsto, e quando seppe che da mesi vivevo in con­ vento lo prese una collera profonda per il mio arbitrio e per la negligenza della governante e dell’istitutrice. Le licenziò sui due piedi, ed entrambe dovettero lasciare da un’ora all’altra la casa. Verso le buone suore perdette la tolleranza di prima, nello sdegnato timore che potessero

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avermi attirata e trattenuta in convento con cattive in­ tenzioni. Appena arrivato mi fece chiamare, non sprecò parole, e m’ingiunse soltanto di raccogliere la mia roba per tornare a casa con lui. L’invito di pranzare alla pre­ positura lo rifiutò seccamente. Sulla via del ritorno mi chiese se avevano tentato d’indurmi alla conversione; secondo verità e tuttavia ambiguamente risposi di no; giacché per la promessa data, ma anche per paura del­ l’umore tanto mutato del babbo, non osai confessare ciò che era accaduto. Così imparai di colpo a sospirare, poi­ ché avevo da tener celato, se non un delitto, però un passo illegale, grave e di gran conseguenza. Quando entrai nella casa patema e non vidi più le due donne scacciate per causa mia, sospirai di nuovo profondamente e capii per la prima volta quanto poteva essere amara la vita. Ma non ebbi molto tempo per chiedere notizie delle scomparse. Mio padre aveva visitato in Turingia un isti­ tuto di educazione o di perfezionamento per ragazze già grandicelle. Esso era organizzato con spirito nettamente protestante, a uso di una certa classe sociale. E poiché il babbo era sempre incline a esperimenti religiosi, che compiva sugli altri come i naturalisti sulle rane, pensò che fosse il modo migliore per espellere il cattolicesimo da me respirato nel monastero. Perciò mi portò in quel collegio senza altri indugi, e mi collocò lì per due anni. Ma la severa ortodossia luterana che egli teneva per sicura non andava poi molto lontano. Si trattava piut­ tosto della volontà di evitare per mezzo di un corpo inse­ gnante serio e adeguatamente addestrato certe ingerenze indebite, certe pratiche e stoltezze indelicate e incongrue, che maestri dei due sessi mal sorvegliati, con una prepa­ razione scarsa o unilaterale, talvolta oggidì si permettono. Il vero scopo si poteva addirittura definire spiccatamente mondano. Curando un’educazione migliore della media s’intendeva preservare le allieve dall’immodestia, dalla saccenteria, dall’affettazione e dal malgarbo, per non ro­ vinar loro a priori l’avvenire e il destino, bensì conservarle semplici di cuore per più mature esperienze, e sane d’in­ telligenza per formarsi nel mondo stesso le proprie opi­

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nioni e i propri giudizi. In questo senso lo spirito cristiano che vi dominava poteva essere paragonato unicamente a un vaso di vetro trasparente che tratteneva la polvere e lasciava passare la luce, ed esso stesso era esposto a rot­ ture. Nulla è perfetto in questo mondo. Del resto ebbi una quantità di compagne beneducate, di buona indole, tutti cuori lieti e innocenti, fra le quali la scelta delle amiche più intime sarebbe stata difficile se non l’avessero determinata impressioni esteriori del tutto indifferenti. Succedeva persino che certe coppie d’amiche, alle quali veniva chiesto scherzosamente che cosa le at­ tirasse l’una verso l’altra, rispondevano ridendo che non 10 sapevano e che erano pronte a cambiare, se qualcun’altra era disposta. Fu poi una fortuna per me che quasi tutte le convittrici avessero madri di mente elevata e cólta, e che io potessi goderne l’affettuosa amicizia quando ero invitata per le vacanze in casa di qualche condiscepola, ora in una grande città ora in campagna. Quei soggiorni nel seno di famiglie sane e numerose, in ambiente armo­ nioso e lieto, integrarono nel modo più benefico i miei anni di scuola, e tutto sarebbe stato buono e bello senza 11 segreto che mi pesava sulla coscienza. Infatti via via che diventavo più adulta riconoscevo più chiaramente che non mi potevo scoprire, se in quelle cerehie tranquille, dove nulla si faceva con precipitazione o arbitrio, non volevo apparire come una creatura peri­ colosa e stravagante. Quel dover sempre tacere lo stesso segreto, cioè d’esser cattolica e come lo ero diventata, mi separava dal mondo piccolo e grande in cui vivevo. Ma nella stessa misura nella quale il segreto chiuso in me cresceva di peso, esso mi diventava anche più caro. Non ebbi mai notizie di Leodegar, e non sapevo dove vi­ vesse. Né mio padre né suor Klara, coi quali ero in corri­ spondenza, lo nominarono una sola volta. Ma io ero fer­ mamente convinta che un giorno, quando fosse venuto il tempo, egli sarebbe tornato e avrebbe liberato me e il mio segreto. Quanto più la sua presenza fisica s’allonta­ nava nel mio ricordo, tanto più egli risplendeva nell’ani­ ma mia, come una stella. Il secondo anno volgeva al ter-

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mine ; ero molto cresciuta, e assorta nel mio segreto e nei miei pensieri potevo talvolta somigliare a una persona seria e adulta. Alla fine stavo soltanto con le compagne più vecchie, che s’avvicinavano ai vent’anni, ma non osavo partecipare alle confidenze che le grandi si scam­ biavano, e in silenzio mi struggevo di tornare a casa. Sem­ pre più salda era in me la fede che Leodegar non avrebbe tardato a venire. Quella speranza era anche per me un’amara necessità: che cosa mai avrei dovuto fare della mia conversione senza colui per il quale unicamente l’avevo intrapresa? Mio padre era in Italia e mi scrisse che sarebbe venuto a prendermi in autunno; e poiché riceveva ottimi rapporti sul mio conto, m’avrebbe condotta per premio nel paese dell’arte classica, dove intendeva ritornare per trascor­ rervi l’inverno e la primavera. Là le ultime idee mona­ stiche, se ancora ne avevo, sarebbero certamente svanite. «A proposito,» finiva la lettera «ho incontrato a Roma, proprio per caso, nostro cugino Leodegar. È en­ trato nell’ordine dei redentoristi e va attorno in tonaca nera con un buffo cappello e la corona del rosario. Dicono che voglia fare carriera e diventare cardinale ; e ci credo, perché fece una faccia molto scaltra quando gliene parlai. In un certo modo era sempre il solito Leodegar, eppure v’era in lui qualcosa di nuovo, come se i suoi occhi di­ cessero : Caro mio, se tu fossi dei nostri, guai a non vene­ rarmi ! ». La notizia era purtroppo autentica. Quasi lo stesso giorno, a tavola, il capo dell’istituto leggendo il giornale mi disse : « Qui si parla di un giovane redentorista tedesco che s’è acquistato gran fama a Roma con le sue prediche. È del suo paese, signorina Lucia, e ha anche lo stesso co­ gnome. Lo conosce? Lei però non è cattolica !». Con voce spenta dichiarai di non saperne nulla, e mi versai da bere sforzandomi di apparire indifferente. Il mio povero babbo non venne più a prendermi. Nei caldi mesi dell’estate, viaggiando senza prudenza, si bu­ scò certe febbri di cui non guarì. Orfana ormai di entrambi i genitori, ritornai nella mia

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vuota dimora. Poiché avevo ancora bisogno di un tutore per amministrare i miei beni, offersi l’incarico a uno zio, fratello di mia madre, che stava per farsi collocare a ri­ poso e m’aveva annunziato la sua visita. Egli s’assunse con fedele sollecitudine l’affettuosa missione. Da allora vivia­ mo insieme e sette anni fa comprammo questo podere e venimmo ad abitarlo. Avevo cercato assiduamente la signorina Hansa e la governante per riparare al torto che avevano subito. Ma non potei soddisfare questo mio de­ siderio. L’istitutrice aveva sposato un fornitore di natu­ ralisti ed era partita con lui per l’America del Sud. Gli teneva i conti e s’occupava in particolare dell’acquisto di insetti. La signora Lise dirigeva le cucine di un grande ospedale e non aveva più bisogno di me. Della mia precoce e insensata infatuazione e del suo oggetto guarii rapidamente; fu come se mi cadessero le bende dagli occhi. Ma con quella scappata m’ero tagliata per sempre la strada della vita, della giovinezza, della fe­ licità o di quel che si considera tale. Non potevo annullare la mia conversione, se non volevo essere considerata una bizzarra volubile che cambia e ricambia di religione. Nel frattempo imparai a consolarmi con l’idea che la mia sto­ ria mi aveva preservata da altre disgrazie, disavventure e diavolerie che senza quell’esperienza avrei potuto subire o cagionare più tardi. Vi sono pur malattie che s’inoculano ai bambini perché poi ne rimangano immuni ! Ma ora lei mi promette il segreto, newero? E non ponga la mia sto­ ria fra gli esempi che magari le verrà voglia di raccontare garbatamente altrove, come ha fatto qui da noi ! — In quanto a questo può stare tranquilla; — rispose Reinhart — quasi mi ritengo indegno io stesso della sua cosi amichevole confidenza. Ma il confronto con la vacci­ nazione dei bambini non glielo posso ammettere. Ciò che lei ha provato è molto diverso dalla sconveniente avi­ dità d’amore dei bambini viziati, e colpisce soltanto poche creature elette la cui nobile, innata generosità di cuore precorre il tempo con inconsapevole, innocente impazien­ za. La candida fede infantile nelle parole spensierata­ mente scherzose del signor cardinale, da lei così a lungo

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serbata, fa parte di questa generosità, come l’ala di una colomba è connessa con l’altra ala ; e con ali simili vola­ no gli angeli in mezzo agli uomini. Un tale esempio di bontà mi fa considerare con vergogna quanto la mia vita sia stata finora vuota, indifferente, e con quale sventatez­ za io mi sia presentato anche al suo cospetto ! — Finalmente diviene per davvero gentile con noi don­ ne; — disse Lucia — le sono grata per il giudizio bene­ volo. Respirò leggermente e soggiunse: — Vede, ora mi sento interamente liberata da quel ma­ laugurato segreto. Gom’è difficile trovare un confessore come si desidera !... Ma lei non voleva leggere? — Ora non più, — rispose Reinhart — come potrei? Mi piacerebbe invece andare fuori all’aperto per tutto il giorno, e dimenticare ogni cruccio ; vale a dire, vuol veni­ re con me? — Ha ben ragione ! — rise Lucia amabilmente — per­ ché non concederci una buona giornata? L’abbiamo in noi, non è vero? — Che cosa? — Quel po’ di follia infantile con le ali di colomba, anche se siamo più grandi e adulti ! Senta, andiamo per i boschi fino ad Althäusern sul fiume ; là potremo fare una discreta colazione alla «Locanda della Posta», e osservare i viaggiatori e i postiglioni. Anzi, mi viene in mente che devo passare dal calzolaio, a vedere se mi ha fatto le scar­ pe per camminare nei boschi e nei campi quest’autunno, e se mi calzano bene. Sa, il maestro calzolaio è fidanzato con la nostra Bärbchen, perciò bisogna proteggerlo e fargli onore. Tirò una delle tende verdi e gridò fuori: — Bärbchen, hai qualche ambasciata? Andiamo a pas­ seggio e passeremo da colui che ti fa le scarpe e la corte ! La donzella chiamata giunse di corsa, chiese prima se la prossima domenica poteva uscire, e ottenuto il permesso pregò di informare il fidanzato e dirgli di restare in casa ad attenderla. Gli avrebbe anche portato le calze nuove per l’inverno.

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— Ecco, ora abbiamo anche un mandato da adempie­ re, — esclamò Lucia — non ci presentiamo mica male come messaggeri d’amore ! Si misero in cammino bene equipaggiati e osservarono con attenzione tutte le cose che li colpivano : un cervo vo­ lante ai piedi di un albero, che macinava di lena e aveva già tirato fuori un bel mucchietto di segatura ; un rovere che teneva fra le braccia nodose un’agile betulla: le fronde mescolate delle loro chiome sussurravano e fre­ mevano insieme, e con la stessa tenerezza il tronco liscio della betulla si stringeva a quello più scabro del rovere. In un limpido rivo che scorreva lungo il fianco boscoso del monte nuotava una bella e grossa biscia, e non lontano dai due viandanti si gettò sulla terra asciutta: un gam­ bero robusto le stava attaccato al collo, certo per divorar­ la. Reinhart afferrò la biscia con mano pronta e la sollevò. — Mi regga la povera bestia, — disse a Lucia — che io possa staccare il persecutore ! Tenga forte con tutte e due le mani, non è velenosa ! Lucia lo guardò un po’ sgomenta: ma credette alle sue parole e resse saldamente la biscia che non si dibatte­ va troppo. Reinhart strinse il gambero fino a fargli aprire le chele e lo ributtò nel ruscello. La biscia sanguinava un poco e guardava tranquilla la bella signorina; questa a sua volta fissava con visibile commozione gli occhi vicini del misterioso abitatore dei boschi. Vincendo del tutto il suo timore, Lucia posò dolcemente il rettile sul terreno e lo lasciò strisciar via tranquillo. — Che bel disegno ! — esclamò seguendolo con lo sguardo finché scomparve fra le felci — e come sono con­ tenta d’aver imparato a tener fra le mani quest’opera del Creatore ! La piccola avventura salvatrice è davvero edi­ ficante ! — Sì, — replicò Reinhart — dà gioia, nell’universale guerra di distruzione, poter proteggere per un istante un singolo individuo, secondo il nostro potere e il nostro capriccio, mentre però divoriamo avidamente anche noi la nostra parte. Ma guardi, la bestiola sembra volerci dimostrare la sua riconoscenza e farci da scorta !

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Additò un lato del sentiero, dove la biscia era riap­ parsa e strisciando loro a fianco, ora visibile, ora sotto i ce­ spugli, accompagnò per un tratto la coppia. Alla fine si fermò, si levò su diritta e volse pianamente di qua e di là la testolina piatta. Lucia guardava senza parola, ma col petto ansante, e solo quando la persero di vista esclamò : — Oh, vorrei sognare quella bella biscia, se dovessi attraversare dei giorni tristi ! Certo quel sogno mi ren­ derebbe felice. Senza affrettarsi, giunsero in paese a mezzogiorno, en­ trarono nella «Locanda della Posta» e si fecero portare la minestra e le altre semplici vivande locali. Come modesti viaggiatori o ambulanti, che debbono badare a quel che fanno, a ogni piatto s’informarono prima del prezzo, e si presero altri spassi dello stesso genere. Poi si ricordarono del calzolaio e andarono a cercarlo. Trovarono la casetta, un po’ discosta, sotto un noce, e la parete esposta al sole era coperta da una fila di peri, ma solo in parte; dall’altra c’era una pianta di vite, e così tutto il muro era rivestito di pere mature e di grappoli che stavano diventando az­ zurri. — Mica male ! — dissero — la Bärbchen s’è scelto un nido molto gradevole! Ma ciò che piacque loro ancora di più, fu il canto di una bella voce virile che sgorgava dalla finestra aperta in uno stranissimo ritmo. Poiché dalla parte opposta v’era un’altra finestra, l’interno della stanza era rischiarato e visibile, ed essi rimasero per un po’ fermi sotto l’albero a guardare dentro. Il giovane artigiano, che lavorava an­ cora da solo, stava preparando una buona scorta di spago impeciato. A un gancio sopra la finestra opposta aveva attaccato i lunghi fili di canapa che s’irraggiavano per tutta la camera, e camminava su e giù con un pezzo di pe­ ce in una mano e un pezzo di cuoio nell’altra, spalmando lo spago, lisciandolo o attorcigliandolo energicamente sul ginocchio in posizione acrobatica per renderlo resistente ; e intanto cantava. Era, niente di meno, la nota canzone giovanile di Goethe Su un nastro dipinto, che in quei tempi

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si trovava ancora in vecchi libriccini stampati su carta sugante, a uso di garzoni e lavoranti di bottega, invece delle Marsigliesi e degli inni operai che usano adesso ; il giovanotto l’aveva imparata quando faceva il ciabattino ambulante. La cantava su un’antica melodia piena di sentimento, con fiorettature di gusto popolaresco, la quale doveva naturalmente adattarsi al ritmo dei suoi andiri­ vieni, e quindi veniva ora rallentata ora precipitata secon­ do i movimenti del lavoro. Per di più egli cantava in un dialetto corrotto che rendeva ancor più bizzarra l’ese­ cuzione. Ma l’anima indistruttibile della poesia e la fre­ sca voce, la quiete pomeridiana e il cuore innamorato dell’artigiano che lavorava soletto conseguivano il con­ trario di un risultato ridicolo. Quando, camminando a passi leggeri, incominciò: Fior di rosa, foglioline ... ine-ine sopra un nastro vaporoso spargon Dei primaverili -ili -ili giovani e di cuor pietoso,

e al «pietoso» fu trattenuto da un nodo dello spago, do­ vette quindi prolungare la parola di tutta una nota e alla fine addirittura ripeterla, lo schietto inconsapevole can­ dore con cui lo fece fu più commovente che buffo. La strofa ma tu, Zefiro benigno, recalo alla mia diletta che specchiandosi si miri lieta amabile e perfetta,

riuscì senza intoppi, e così pure la seguente: veda sé, rosa tra rose, fresca come il vago fior, e uno sguardo, o vita mia ! mi ripaghi del mio amor.

Solo l’ultima nota gli parve sbagliata, perciò la cor­ resse:

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E uno sguardo, o vita mia ! mi rimpaghi del mio amor.

Reinhart e Lucia si guardarono involontariamente. Il cantore nella casetta sembrava cantare anche per loro, anche se con una pronuncia spaventosa. Quanta pace e quanta sincera fiducia o speranza nella vita pulsavano nell’onda di quel canto ! Alla finestra di fronte c’era una gabbietta di canarini ornata di fronde verdi. Ed ecco l’ultima strofa: Senta ciò che il mio cuor sente . . . ente -ente; la sua man mi porgerà, ed il nastro che ci lega. . . ega -ega nulla mai spezzar potrà !

Poiché lo spago non era tutto impeciato egli ricantò la strofa parecchie volte, con accenti sempre più limpidi e belli, volgendo la schiena ai due che l’ascoltavano di fuori; nella certezza della prossima felicità ripetè con particolare espressione la sua man mi porgerà e poi, al culmine del sentimento, spiegò alta la voce sulle note rallentate:

ed il nastro che ci lega nulla mai spezzar potrà ! I canarini si erano uniti al canto con un cinguettio sempre più sonoro, sicché vi fu nella stanza un vero tu­ multo, per cui, travolti, Lucia e Reinhart si baciarono. Lu­ cia aveva gli occhi pieni di lacrime eppure rideva mentre un sentimento da troppo tempo disprezzato e represso le imporporava il viso, e Reinhart vide chiaramente quel bel fuoco spargersi sulla pelle bianca. Ormai non potevano più entrare nella casetta; non visti, com’erano venuti, si allontanarono e solo mentre camminavano di nuovo lungo i sentieri del bosco Lucia si fermò e disse: — Oh Dio, adesso abbiamo davvero sperimentato quel­

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la sua malvagia ricetta del vecchio Logau! Perché so che mi è venuto da sorridere, e spero anche di essere di­ ventata rossa. Mi sento ancora ardere il viso! — Certo che sei diventata rossa, diletta Lux, — rispose Reinhart — come un’aurora d’estate ! Ma io non pen­ savo davvero a quell’epigramma, eppure s’è avverato! E ora mi vuoi dare la tua mano? Così fu che verso sera, quando i vecchi tornarono a ca­ sa, Lucia dava già del tu a Reinhart, prima dello zio. Tutti furono contenti del fidanzamento, e Lucia era tanto contenta del calzolaio, che il giorno dopo volle mandare Bärbchen in persona a portargli il messaggio dimenticato. In seguito Reinhart, come lo zio, chiamò sempre «Lux» la sua bella sposa, e il tempo in cui non la conosceva an­ cora era da lui definito — continuando il gioco di parole ante lucem, prima dell’alba.

DUE STORIE D’ALMANACCO

DUE DIVERSI CAMPIONI DELLA LIBERTÀ RACCONTO

Si dice che la leonessa, quando i maschi combattono per lei, assista tranquillamente alla lotta per poi andare con quello che riesce vincitore. Non so se tale particolarità sia da attribuirsi al leone o piuttosto alla bestia che è in lui; fatto sta che anche nella razza umana ne sono af­ fette a volte molte donne, e ciò nei più diversi paesi, nel nord come nel sud, dalla servetta in cucina alla pa­ drona in sala. Vale a dire che, quando un esercito nemico vittorioso, un popolo straniero ha occupato un paese, e i maschi indigeni sono o in fuga o dispersi o soggiogati, non passa molto che le ragazze vanno per le strade a braccetto con gli invasori, e sotto i portoni e a tutte le fontane c’è un civettare e un armeggiare che fa pietà. Eppure tale spettacolo si osserva solo quando gli uomini non si sono difesi a dovere, quando insomma non si è verificata la giusta resistenza. Allorché nella primavera del 1798 la cinquecentenaria Confederazione Elvetica cadde per la colpevole legge­ rezza dei vecchi governanti, per lo sconsiderato ritardo con cui si fecero le concessioni, per l’ignoranza e l’irragionevolezza dei rivoluzionari e la loro innata mancanza di fierezza nazionale, infine per l’insolente irruzione di un cosiddetto esercito di liberazione francese - irruzione resa possibile solo da tutto il resto - l’umor leonino si tra­ sferì anche in molte donne svizzere. Non certo nei luoghi in cui l’antico senso dell’onore aveva affrontato una lotta disperata; lì di donne e fanciulle uccise ce ne furono in numero sufficiente a testimoniare di un’immutabile fe­ deltà ai loro uomini e all’onore del paese; ma dove gli uomini, invece di aiutarsi da sé, avevano chiamato i Francesi, e li stavano a guardare pieni di servile ammira­ zione; oppure dove li odiavano bensì, ma insieme li te­ mevano, là le donne si lasciarono volentieri corteggiare da loro. Per amaro che fosse lo spettacolo, era però com­ prensibile là dove gli uomini, accusando i cacciati oligar-

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chi, incolpavano se stessi di ignoranza e di goffaggine politica e salutavano e onoravano come maestra di libertà la nuova grande nazione francese, che pure stava allora dilettantescamente rovinando la sua stessa repubblica. È triste quando i figli rimproverano ai genitori l’edu­ cazione manchevole e l’incuria. È ancor più triste quando i governanti mandati a spasso si sentono amaramente schernire dai figli della patria indignati: «Gi avete te­ nuti nell’ignoranza e nella rozzezza, eppure vi abbiamo vinti». Ma quelli che così si dichiarano ignoranti e rozzi non diventano per ciò più grandi agli occhi delle donne. D’altronde è una cattiva scusa, quella che si adduce della propria incapacità, per giustificarsi di avere chiamato lo straniero; perché chi non sa aiutarsi da sé non merita appunto ancora d’esser libero. Anche la signorina Babette Zulauf, una fanciulla non più giovanissima, abitante in un’antica cittadina della Svizzera tedesca che qui non vogliamo nominare, un bel giorno di primavera dell’anno 1798 si sentì presa da quell’umore leonino; nel pomeriggio doveva infatti ar­ rivare un battaglione di una mezza brigata francese che chiamavano la legione nera o la legione terribile. La cit­ tadina era vissuta per secoli sotto la sovranità di due Can­ toni confederati, ma non senza una sua propria anti­ chissima Costituzione e certe sue libertà, sancite dagli imperatori tedeschi e anche dai diversi signori che l’ave­ vano posseduta prima della conquista effettuata in co­ mune dai due Cantoni. Per parte sua la città, mentre era essa stessa soggetta, aveva come suoi sudditi due cospicui villaggi; ma solo sopra uno di essi esercitava l’alta giurisdi­ zione, mentre la bassa apparteneva a un lontano con­ vento di suore, al quale l’aveva pignorata un tempo per pochi soldi, dimenticandosi poi di riscattarla, un nobile ormai cacciato da un pezzo. L’alta giurisdizione sull’altro villaggio la possedeva la popolazione di una valle, suddita a sua volta, che, avendolo conquistato un tempo, dopo averlo posseduto per cent’anni l’aveva di nuovo ceduto, a esclusione di quel resto di signoria per cui non si trovava più un «detentore regolare». Del resto le comunità dei

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due villaggi si amministravano da sé in base ad antiche franchigie zeppe di disposizioni caratteristiche e fanta­ siose, di cui i contadini interpretavano a meraviglia la nascosta saggezza e la cui veste simbolica trattavano con ogni cura. Inoltre nemmeno quei villaggi erano del tutto senza privilegi, perché riscuotevano insieme alcuni diritti da una solitaria masseria, carpiti anticamente a una fa­ miglia di giovanniti in difficoltà. Gli abitanti della mas­ seria infine erano a loro volta uomini liberi e appartene­ vano a una comunità democratica che stava sul piede di parità con i Cantoni sovrani e con alcuni di essi reggeva qualche piccolo territorio soggetto. Così il diritto e la libertà degli uomini si erano cristal­ lizzati come un fiore di ghiaccio sul vetro gelido di una finestra, fiore che l’antica ma ancor affilata spada che si chiamava «amichevole controllo confederale» protegge­ va come un prezioso gioiello. Ma a un tratto la spada si spezzò, e il fiore di ghiaccio si strusse all’alito caldo che soffiava ancora dal cratere già semicrollato della rivolu­ zione francese. Allora i confederati diedero la libertà alla cittadina, la cittadina la diede ai villaggi, i villaggi alla masseria, e i contadini di questa votarono nella loro as­ semblea per l’emancipazione da tutte le sovranità. Così eran tutti liberi, ma in paese non c’era altro pa­ drone che i Francesi, i quali stavano in quel momento en­ trando attraverso l’antica porta della cittadina in file spezzate, che però appena dentro si ricomposero in tutta la loro larghezza, affinché l’elastico passo ritmato, l’on­ deggiante ballonzolare e il moto cadenzato delle spalle dei granatieri non mancassero di produrre tutto il loro effet­ to. E infatti gli abitanti, con le donne e i bambini, spalan­ carono la bocca per l’ammirazione in modo tale che den­ tro le fauci di ognuno avrebbe potuto marciare in file ordinate l’intero battaglione. Con gli enormi cappelli ben inclinati sull’occhio destro, lo sparato bianco, le svolaz­ zanti falde azzurre delle divise e il fucile in braccio, i granatieri, e dietro di loro i fucilieri e i cacciatori, attra­ verso le bocche spalancate dei cittadini della Nuova Elvezia entrarono danzando nei loro cuori.

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Il più bello dei cacciatori e ultimo della schiera, Pietro Diimanet di Parigi, marciò diritto in cuore a Babette Zu­ lauf, davanti alla quale era venuto a fermarsi. Snello e fles­ sibile come una serpe bruna, non faceva che voltarsi e don­ dolarsi nella sua divisa azzurro-cupo, le cui falde appun­ tite gli battevano sui calcagni. Sotto l’elmo di pelle nera dalla strana forma a cupola e guarnito d’una spazzola, i suoi occhi scuri lampeggiavano inquieti guardandosi in­ torno ora ridenti ora minacciosi, mentre altrettanto pronti e irrequieti tremavano e brillavano gli orecchini d’oro che gli spuntavano di sotto i capelli unti e incipriati con cu­ ra. Sulla schiena portava, negligentemente penzolante, il sacco di pelle di capra a chiazze bianche e nere, e sul sacco stava una girandola di carta che, quando tirava un po’ di vento o quando l’uomo era in marcia, metteva in moto un monaco e una suora che eseguivano una danza sconveniente. L’oggettino sporgeva obliquo dal sacco ed era il contrassegno del soldato Diimanet. Infatti, uscendo sempre incolume e allegramente girevole dagli scontri, esso proclamava l’abilità, la sicurezza e la grazia batta­ gliera di chi lo portava. Dovesse nelle scaramucce salire o scendere il monte, o slanciarsi in un impetuoso assalto, tenendosi ben dritto egli sapeva sempre portare in salvo il giochetto attraverso il parapiglia. Solo quando lo guastava la pioggia se ne fabbricava un altro alla tappa seguente. Così aveva già avuto un Luigi XVI e una Maria An­ tonietta, i quali al girare del bindolo s’inchinavano l’uno di fronte all’altra togliendosi e rimettendosi la testa; poi un calzolaio seduto che bastonava col tirante il Delfino e intanto metteva dentro e fuori la lingua. Ma ancor più notevole della girandola sempre in moto era la faccia del guerriero, che malgrado la giovinezza appariva sol­ cata e sbiancata dalle fatiche, dalle passioni, dal liberti­ naggio e dalla patriottica avidità di gloria, e poi nuova­ mente brunita dal sole delle campagne di guerra. Ancor ragazzetto era corso a Parigi dietro quel dissoluto sangui­ nario di Marat e ne aveva condiviso tutte le atrocità: dalla sua bocca, ove brillavano denti di una bianchezza

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accecante, non ci si accorgeva certo, specialmente quando sorrideva con grazia, che in quei terribili giorni di set­ tembre egli aveva letteralmente vuotato un bicchiere col­ mo di sangue umano. Solo intorno agli occhi, a onta del­ l’impudenza che vi regnava, guizzavano a volte titubanza « paura, quando le orrende scene di assassinio gli si risve­ gliavano nella memoria. Ma di solito la coscienza di ap­ partenere a una grande nazione, e di andare portando sulla baionetta la libertà che fondava le repubbliche, inon­ dava di allegria il suo volto espressivo. Quel volto dunque rimirò la giovane Babette con me­ raviglia e batticuore, come chi vede per la prima volta il mare. Fino allora essa aveva visto solo facce semplici, non complicate, e del pane casalingo e della sua patria era, per amor di libertà (diceva), malcontenta. Suo padre era un esperto laccatore di metalli, che con polso instancabile e mignolo proteso in aria dipingeva templi greci su vassoi da tè, cinque colonne con quattro tocchi. Di li aveva tratto anche, e trasmesso alla figlia, l’aspirazione all’alto, ed era adesso il portavoce della li­ bertà nella cittadina. Siccome la prima preoccupazione era stata per il tricolore (perché tintori, laccatori e fabbri­ canti di passamanerie erano i Licurghi e i Soloni delle nuo­ ve repubbliche che la Francia seminava come ravanelli), il cittadino Zulauf nuotava nel suo elemento, vedendo l’arte sua tornare in patriottismo. Dipingeva innumerevoli coccarde di latta in verde, rosso e oro, i colori scelti per l’Elvezia, e andava a negoziarle per l’indivisibile repub­ blica contro pagamento in contanti o garanzia sufficiente. Tutti i davanzali della sua casetta erano occupati da coc­ carde dipinte e laccate di fresco messe in fila ad asciugare. Anche il cappellone di latta sull’albero della libertà ave­ va laccato, insieme alle tre piume che vi spiccavano, ri­ tagliate anche quelle nella latta. L’albero infatti era già allestito da mesi, dacché l’ultima dieta di Aarau, rinno­ vato invano l’antico giuramento confederale, si era sciolta. Avrebbe dovuto tenersi allora attorno all’albero una danza di festeggiamento; ma proprio mentre il rap­ presentante francese, che dirigeva la festa, prendendo

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per mano il cittadino Zulauf e sua figlia, cominciava a formare la fila, s’era abbattuta sulla cittadina un’ingrata raffica di vento con un turbine fitto di neve, e in quello stesso momento dalla porta della città era entrato a pre­ cipizio un lungo cavaliere dal mantello rosso e dallo sguardo ironico e truce, il battistrada di Schwyz, che ca­ valcava innanzi all’antiquata carrozza della legazione. Poi passò al trotto, con dietro la sua carrozza, uno dal lungo mantello giallo e nero, il messo di Uri ; e da ultimo, in bianco e rosso, quello di Unterwalden. Erano gli am­ basciatori dei tre più antichi Cantoni, che cupi e risoluti s’affrettavano a tornare fra i loro concittadini e guardava­ no dalle carrozze con fredda alterigia. In breve il corteo scomparve come un sogno per l’altra porta, ma quei cit­ tadini tanto vogliosi di ballare, prendendo a pretesto il ne­ vischio, si dileguarono egualmente, mentre l’avito rispetto per i severi signori confederati insinuava loro in corpo un improvviso spavento. Così l’albero della libertà era rimasto da inaugurare si­ no a quel giorno, quando l’arrivo dei liberatori, dei nuovi Franchi, aveva offerto la più bella occasione per rifarsi. Perciò Babette, ripudiato l’antico costume paesano che s’indossa di solito in quella cittadina, s’era vestita per la prima volta alla francese in onore dei liberatori : portava una veste bianca trasparente che le lasciava tutto il collo libero, e una sciarpa rossa, oltre alle scarpe rosse che pa­ revano quasi sandali, assicurate da nastri rossi incrociantisi sui piedi. La chioma era sciolta in riccioli crespi che le scendevano sulla fronte e sulle spalle, e poiché aveva un bel viso e in esso due occhi piuttosto espressivi, appa­ riva pressoché simile a una Musa. Certo non immaginava, ferma così al sole sulla porta di casa, che dalla stradetta sul retro un vecchio contadino la stava guardando per il vestibolo scuro e, vedendone attraverso la veste in contro­ luce tutti i contorni del corpo, s’affrettò a uscire di città scuotendo il capo scandalizzato per andare a narrare nei villaggi, tra accuse e maledizioni, l’abominio pagano che s’era riversato sul paese. Ma Babette teneva in mano un antiquato canestrello ornato di fiocchi di nastro stinto

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risalente all’età pastorale, ed esso era pieno di biglietti d’acquartieramento legati con nastri a tre colori in fasci­ coli, uno per compagnia. Così aveva escogitato con suo padre : dopo aver tenuto a nome della città liberata il di­ scorso di benvenuto ai Francesi, egli avrebbe presentato sua figlia, e lei avrebbe di propria mano distribuito ai soldati, o almeno ai furieri, i foglietti dell’ospitalità. Così il cittadino tenne il suo infiammato discorso in piedi sull’orlo della fontana, spesso accennando a un Winkelried1 marmoreo che di cima alla sua colonna guar­ dava sulla folla con gli occhi senza sguardo. Ma non se ne capì nulla, perché i soldati ciarlavano e scherzavano senza badarci. Solo il comandante stava a sentire con tranquilla superbia come si esaltava il suo esercito vittorioso e a lui umilmente si prometteva di voler ridiventare, grazie a così buon esempio e così alto ammaestramento, valorosi e amanti della libertà, tanto che i discendenti di Winkel­ ried e di Teli sarebbero forse in breve arrivati a superare i loro gloriosi predecessori. Così dicendo il cittadino Zulauf saltò giù dalla vasca, e lo seguì con gran fracasso la lunga guaina d’ottone della sciabola, mentre il ciuffo di piume tricolori gli tremava sul maestoso cappello rotondo; egli infatti aveva indosso un costume suppergiù da senatore, benché non sedesse ancora in Consiglio. Tirandosi fin sul mento il cravattone e continuando a tenere stretta al fianco la sciabola, egli andò a prendere la sua figliola, le porse il braccio e la condusse anzitutto davanti al comandante, mentre al cenno del più vicino ufficiale il soldato Diimanet le si accodava come compagnia d’onore. Quando con un altro discorsino Babette fu presentata al sorridente comandante come genio dell’ospitalità, tutta rossa d’entusiasmo essa percorse al braccio di suo padre quelle file di uomini abbronzati (fra cui si trovavano parecchi delinquenti ed ex detenuti) che la guardavano sfacciatamente, e porse I. Arnold Winkelried: eroe dell’indipendenza svizzera, morto nella battaglia di Sempach (1386), con cui fu abbattuto il predominio absburgico in Svizzera.

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loro i graziosi fascetti del suo canestrello. Dietro le veniva tranquillo Pietro Dümanet col fucile in braccio, e sul suo dorso, poiché tirava un’arietta fresca, il monaco danzava allegramente con la sua monaca, tanto che il battaglione e la popolazione sbalordita scoppiarono insieme in un’al­ legra risata. Ma Babette non s’accorse di niente; perché tutta la sua attenzione si concentrava su un pensiero: quale francese scegliere da prendersi in casa? In precedenza aveva vagheggiato uno o due cavallereschi ufficiali, del che però suo padre non volle nemmeno sentir parlare, intendendo piuttosto assegnare tutti gli ufficiali, insieme a un bel po’ di truppa, a certi aristocratici, e riservare per sé un semplice soldato. Perciò lei teneva ben distinto e nascosto in mano il biglietto di suo padre per porgerlo a quel guerriero che le fosse piaciuto di più. Appena aveva scorto lo strambo Pietro, l’aspetto demo­ niaco di lui aveva determinato la sua scelta, e, giunta in fondo alla fila di soldati, là donde era partita, cercò irresoluta con gli occhi il bel francese senza trovarlo. Si volse di qua e di là, ed eccolo lì subito dietro a lei, con lo sguardo fisso sulla sua bella figurina, e, un po’ per scher­ zo e un po’ per galanteria, le presentò l’arma allorché lei, guardando timidamente a terra, gli offrì l’ospitale tal­ loncino. «C’«Z ça Dümanet! Vive la citoyenne!» esclamarono i soldati frammezzo a nuove risate; e mentre l’intera squadra si scioglieva lasciandosi condurre agli acquartie­ ramenti dai bambini e dai curiosi, Babette si avviò dan­ zando beata a casa sua al braccio del suo nuovo cavaliere, seguita dal papà che si tergeva dalla fronte il sudore della fatica e, tenendo il cappello in mano, spazzava intanto il terreno col suo elvetico ciuffo di piume. Chiudeva il pic­ colo corteo il buon segretario dell’orfanotrofio, Beni Schädelein, il quale da cinque anni era fidanzato di Babette senza che lei si fosse mai decisa a sposarlo o a lasciarlo li­ bero. Egli poteva ormai registrare il proprio stato di de­ relitto, strisciando furtivo lungo le pareti di quella stanza a lui ben nota senza che alcuno si curasse di lui. Ora infatti si doveva innanzitutto sfamare, dissetare,

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custodire e curare l’uomo di Francia: tutto ciò che la voce pubblica indicava come da lui preferito fu affannosa­ mente cercato e apprestato. Lo si fece, contenti di averlo saputo in anticipo, con tanto maggior zelo e malizia, in quanto non erano richiesti piatti costosi: una piccola omelette saporita, un’insalatina, una chicchera di caffè, un bicchierino di kirsch: roba facile da mettere insieme e che figurava più del suo valore, se era presentata in vasel­ lame lindo. Nondimeno il soldato si unì premuroso e cor­ diale ai preparativi, chiedendo se non sarebbero venuti a proposito anche un pezzetto di carne ben stufata e un bicchierotto di vino; e, quando vi fu aggiunto anche quello, invitò gli ospiti a tavola da amico e li intrattenne magni­ ficamente sino a che fu l’ora di celebrare il ballo intorno all’albero della libertà. I clangori della musica, il rinnovato accorrere in strada annunciavano la grande ora; sicché, quando Dümanet s’affacciò alla finestra con la sua ospite, si vedevano già una dozzina di soldati incamminarsi verso la piazza, ciascuno con due ragazze a braccetto. Quelle signorine, sorprese dall’abbigliamento di Babette, avevano cercato in fretta e furia di imitarlo : una portava con l’antico co­ stume paesano un cappello francese, un’altra recava al braccio un vecchio pompadour, una terza aveva sulle spal­ le una mantiglia sbiadita, tanto che pareva imminente una sfilata carnevalesca. Alcuni altri soldati giungevano per mano a cittadini entusiastici con un’espressione piena di tedio: quella danza insulsa l’avevano già eseguita ab­ bastanza spesso per ordine dei superiori. Di ufficiali nem­ meno l’ombra, ché avevano cominciato già sui campi di battaglia la danza per il bastone di maresciallo, e l’arida pertica col cappello di latta, una volta innalzata a signi­ ficare la resa, la mandavano al diavolo. Ma Pietro Dümanet, che arrivava giusto con Babette, ci stava ancora con tutta l’anima, e si riteneva sul serio un campione dell’unica e vera libertà dei popoli, perché il sangue, che aveva contribuito a versare a Parigi nei gior­ ni di settembre, la notte disturbava la sua pace e gli opprimeva la coscienza, costringendolo, se non voleva

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aborrire se stesso (il che non era da lui), a rimaner fedele al suo passato. Il ballo ebbe dunque inizio: tutti quanti si presero per mano, formarono un cerchio intorno al­ l’albero e in quella guisa girarono in tondo un po’ in un senso e un po’ nell’altro, donne, soldati, uomini e ragazzi, ogni donna tra due Francesi; anche il segretario dell’or­ fanotrofio, che avrebbe voluto afferrare la mano di Ba­ bette, fu gentilmente respinto e infilato tra due bambini, sopra i quali emergeva indispettito con la sua lunga figura nella zimarra grigia. II cittadino Zulauf impennacchiato ballava tra l’ambizioso e rivoluzionario diacono e la guar­ dia notturna. Soltanto i Francesi sapevano fare qualche salto e qual­ che passo aggraziato; gli indigeni invece, uomini e donne, si limitavano a gettare i piedi all’indietro come puledri al pascolo, sì da mostrare tutta la suola delle scarpe, e intanto ciondolavano le falde delle divise, le borsette, i co­ dini, e la guaina della sciabola che Zulauf non abbando­ nava un istante, come tanti matti, mentre si cantava la Carmagnola e il Ça ira. Ma solo i soldati cantavano in modo comprensibile, perché gli Svizzeri, sinché non co­ glievano una parola dai liberatori, vociavano in suoni inarticolati. Alla fine tutti si abbracciarono a vicenda e si scambiarono il bacio della fraternità; ma stranamente i bravi borghesi non fecero che baciarsi tra loro, senza riuscir mai a impadronirsi né di un francese né di una concittadina. Schadelein,il derelitto segretario, baciò tutto triste i suoi due ragazzini e s’appartò con loro per com­ prargli un dolcino, giacché erano poveri fanciulli di strada. Intanto che si solennizzava in tal modo la nuova li­ bertà, il comandante e alcuni ufficiali si erano introdotti nel municipio e nell’antica torre del castello che sovra­ stava le case del mercato. Dopo che gli undici cannoni della città furono sequestrati e pronti da portare via, i suddetti signori si trasformarono, a onta della loro igno­ ranza, in abilissimi archeologi : fecero man bassa in quei vecchi edifici di tutti gli oggetti in cui subodorarono un qualche pregio o significato ragguardevole, e li imballa-

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rono in robuste casse da spedire in fretta a Parigi. Pur non sapendo leggere né il tedesco moderno né l’antico, seppero subito trovare le pergamene che recavan scritti gli antichi privilegi e gli ordinamenti della città, insieme a vetusti documenti legali ; e così pure una grossa « Crona­ ca» plurisecolare e una cassa piena di titoli d’acquisto e di donazione in latino, che per ogni evenienza fecero partire col resto. Un modesto bastone tarlato venne im­ mantinente riconosciuto per una mazza da giudice, che da otto secoli si conservava nella torre insieme alla sua compagna, una spada comitale tedesca. Alcune dozzine di antichi gladi da combattimento, di corazze e di ala­ barde furono dichiarate buona preda e sono ancor oggi appese al Musée d'artillerie di Parigi; mentre invece è dubbio dove siano finiti gli argentei boccali d’onore del­ la città, il cui pregevole lavoro artistico venne a colpo d’occhio apprezzato da quegli indaffarati messeri. Quando fu avvolto l’antico vessillo del Comune che s’era visto sventolare in tutte le battaglie dei confederati, all’ultimo portabandiera della città, ch’era presente, vennero le lacrime agli occhi ; tuttavia egli si contenne e non ne tradì il pregio con alcun movimento. A notte fonda tornò furtivo alla cassa, col pericolo che la vicina sentinella francese gli sparasse addosso, ne tirò fuori pian piano lo stendardo, con fatica e circospezione, e lo strap­ pò via dall’asta, che poi rimise sotto le altre armi, le quali per fortuna non furono più smosse. Così nel bel mezzo della confusione e dello smarrimento quel logoro panno animò dell’antico senso d’onore colui che per ultimo l’aveva portato. In fondo non era che anticaglia, quella che i Francesi imballavano e spedivano via, e non tutto può durare in eterno. Come uno a volte elimina per proprio comodo una farragine di vecchie carte che gli dà fastidio, così non è una gran disgrazia per una comunità se qua o là il fuo­ co distrugge un archivio polveroso : luce e spazio sono in fondo essenziali per un sano movimento. C’è però diffe­ renza tra il liberarsi da sé di una barba troppo lunga e il sentirsela strappare da un altro con perfida violenza.

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Poco tempo dopo il battaglione se ne ripartì, tranne la compagnia a cui Pietro Diimanet apparteneva. Egli fami­ liarizzò con quella città, che aiutò a governare alla brava. Poiché nel suo battaglione era un politico, un esperto agi­ tatore e un gran parlatore, dai commissari parigini veniva spesso utilizzato come uomo di punta e attivista quando gli asserviti compagni di libertà si facevano perplessi e difficili a causa della miseria dilagante e del predominio delle sciabole straniere; e tanto migliori servizi egli ren­ deva, in quanto credeva sinceramente alla missione della Francia, e per la repubblica francese aveva impegnato fin da principio la sua esistenza ed era pronto a impe­ gnarla ancora. Con lo stesso entusiasmo l’arrischiava per le repubbliche che con la sua baionetta aveva contribuito a trapiantare altrove sul modello romano-gallico. Per­ seguiva tutti i restii con impeto selvaggio. Non mirava al grado e alla distinzione, voleva restare un semplice soldato della repubblica; nel che certo non l’ostacolavano, trovandolo anzi tanto più utile così. Esperto e versato com’era nella storia della rivoluzione, almeno finché si svolgeva nelle strade, egli era maestro e guida all’esor­ diente senatore Zulauf, che da scolaro attento e devoto si esercitava a recitare tutta una serie di frasi e locuzioni terribili, del cui suono si pavoneggiava, facendo tintin­ nare la sciabola. In compenso il francese divenne allievo di Babette, che gli dovette spiegare la fondazione della Lega svizzera e la storia dei suoi eroi; infatti i nomi dell’antica Roma ch’egli aveva udito alla Convenzione a Parigi (Bruto maggiore e minore, i Gracchi, Regolo, Cincinnato e altri) in Svizzera, per poter ammaestrare e aizzare gli uomini del contado e della città, andavano sostituiti con la ter­ minologia libertaria locale. Babette gli narrò dunque dei balivi tiranni, dei tre del Gnidi,1 di Teli, di WinkelI. Griitli (o Rütli) : località svizzera sul lago dei Quattro Canto­ ni, dove, secondo la tradizione, i rappresentanti di Niedwalden, Schwyz e Uri strinsero la prima alleanza (1291), che viene con­ siderata l’atto costitutivo della Confederazione Svizzera.

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ried e delle grandi battaglie per la libertà, così come si riflettevano nella sua testolina. Quest’immagine riflessa fu a sua volta emendata da varie obiezioni e ammaestra­ menti di Diimanet, sì che dal pastoral-romantico cervel­ lino di lei e dalla fantasia politica del francese nacque una serie di bizzarri campioni, avvolti di sciarpe e di piume, che avevano figure prestanti di pastori e vistose teste di masnadieri. Quelle ore di lezione parvero all’en­ tusiasta borghesuccia il culmine della vita tanto arden­ temente desiderata, e la godette con la beata soddisfa­ zione di poter unire, come si conviene a donna libera, il debole per l’avvenenza maschile all’amore di libertà e alla «vena politica». Quando Diimanet sosteneva, con gli occhi pieni di cupo ardore e la voce tremante d’in­ dignazione, che il germe del successivo asservimento de­ gli Svizzeri già aveva covato nel fatto eh’essi non ave­ vano ucciso i balivi espulsi con tutta la loro consorteria, essa levava gli occhi con stupita ammirazione su quel bello e interessante tipo di fanatico. Ma la sua felicità non era senza moti di passioni al­ terne ; se infatti subito dopo il diabolico guerriero si faceva dare una vecchia cortina da letto a scacchi rossi e, com’e­ ra consuetudine di quegli abili soldati, in un batter d’oc­ chio se ne tagliava e cuciva un paio di ampie brache per l’uso quotidiano, lei ne provava come un’improvvisa doccia fredda, credendo di scoprire in lui un volgare sarto, un millantatore; tanto che ebbe appena il coraggio di bandire per qualche giorno dalla sua presenza il segretario Schädelein che aveva osato ridacchiare di nascosto. In­ fatti per cacciarlo definitivamente non aveva ancora tro­ vato il momento opportuno, tanto più che il francese lo trattava sempre con amicizia e senza gelosia; e anche in ciò Babette scopriva un segno di grandezza morale, og­ getto per lei d’intima riconoscenza. E appena Diimanet si metteva a descrivere con veridicità inconfondibile per esempio la presa della Bastiglia, cui a sedici anni aveva preso parte, o quando le mostrava le tracce delle pallot­ tole sulle armi, sui vestiti o sulle braccia, ch’erano per di più ricoperte di tatuaggi di pugnali, di berretti giacobini,

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di cuori trafitti e simili simboli... allora, mentre posava il dito tremante sulle cicatrici o su quegli strani segni, per Babette le nebbie del dubbio si dissolvevano e il sole tor­ nava a brillare in tutto il suo splendore. Quando infine Dümanet si fece da lei punteggiare sul braccio anche una mela trapassata dalla freccia, e le graffiò in cambio sul suo, bianco e grazioso, un berretto frigio, spalmando poi ambedue i capolavori di polvere di cartuccia, allora nessuna usanza inconsueta ebbe più alcun potere di scuotere quel vincolo politico, e l’onesto Schädelein venne esortato a far tesoro di tutte quelle lezioni per poter an­ che lui imparare qualcosa e formarsi il carattere. Avvicinandosi l’autunno, il romanzetto politico in casa Zulauf ebbe momentanea fine perché la compagnia, e con lei Pietro Dümanet, dovette ritornare in campo: gli ultimi resti dei montanari che non volevano abban­ donare l’antica libertà e i tradizionali diritti svizzeri, anda­ vano soggiogati e costretti a giurare fedeltà alla costi­ tuzione unitaria romano-gallica, fatta a Parigi da stran­ golatori politicanti e imposta con la forza agli Elvetici. Là dove delle comunità democratiche erano vissute feli­ cemente secondo l’antichissima legge da loro stesse fog­ giata, la popolazione, aborrendo dal dominio di scribac­ chini stranieri e despoti repubblicani di nuovo conio, sbarrava loro la strada come a un contagio nauseante. Come in un sogno disperato prodotto da un incubo, di contrada in contrada cercavano di accorrere l’uno in aiu­ to dell’altro; ma, una valle dopo l’altra, vennero irretiti con l’astuzia, con la persuasione, con la minaccia di ca­ stighi e di miseria, sinché non fu prestato l’odioso giura­ mento, qui con triste rassegnazione e faticosamente pon­ derata acquiescenza, là con risa disperate, tra ironiche beffe e storture, al che diede occasione soprattutto il fatto che il nome di Dio era escluso dalla formula del giura­ mento; giacché i despoti, mentre adattavano alle nuove circostanze l’antica formula, con vile pseudofilosofia ne avevano cancellato il richiamo che ne costituiva la parte essenziale, cioè l’appello a una onnisciente Provvidenza, cosicché il popolo doveva solo gridare: «Noi lo giu-

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riamo !», senza aggiungere: «In fe’ di Dio!». Ma il po­ polo, meglio conoscendo e sentendo forma e contenuto di quella venerabile disposizione, si senti mortificato e offeso da quella stupida via di mezzo. Per niente o solo in parte convinto, esso, per allontanare il fuoco dalle sue case, cedette al consiglio e alle insistenze dei più pratici notabili, e alla forza delle armi straniere. Solo la verde e ombrosa Nidwalden sul profondo lago dei Quattro Cantoni tenne duro sino alla fine, da sola, abbandonata anche dalla gemella Obwalden. Quella piccola comunità di neppur diecimila anime non potè né volle credere di dover abbandonare la propria indipen­ denza, vecchia di mezzo millennio, senza un estremo in­ condizionato sacrificio, e cadere in mano altrui senza esser stata prima gettata a terra nel senso letterale della parola. Disdegnando ogni cautela, ogni motivo ragionevole per la materiale sopravvivenza, si pose sul terreno originario della pura e grande passione, non per un’idea passeggera, bensì per l’eredità dei padri, per l’umana dignità del singolo, da uomo a uomo. Tre motivi soprattutto ven­ gono accampati da quanti condannano quella sollevazio­ ne di duemila uomini atti alle armi contro non solo il resto della Svizzera, ma anche la «grande nazione» che aveva appena sconfìtto l’Europa : primo, la speranza nell’aiuto austriaco; secondo, l’influsso dei preti e il loro fanatismo religioso ; terzo, la totale assenza di prospettive della som­ mossa. Ma per quanto riguarda il primo punto, condan­ nabile non è colui che vuole tirarsi in casa il secondo stra­ niero, bensì colui che vi ha chiamato il primo. Riguardo al secondo motivo, i Francesi promotori della nuova co­ stituzione avevano davvero chiuso le chiese e cacciato i preti, motivo sufficiente, a voler essere imparziali, per temere qualcosa di simile in avvenire. Quel piccolo po­ polo nella sua disperata decisione univa tutto, l’esistenza spirituale e la terrena, ambedue per esso questione d’ono­ re. Il più bell’esempio di quel sentimento sono le fanciulle di Nidwalden, che scelsero le armi e la morte per salvare tutt’insieme : religione, patria, libertà e onore verginale. Di fronte a tale intima risolutezza non contano i pochi

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parroci fanatici, né il solito modo di esprimersi dei cat­ tolici ; l’alto clero tentava piuttosto di metter pace, e i pre­ ti, che erano di origine popolana, col dissolversi dell’ordinamento statale, sostituivano la classe dirigente. Quan­ to infine all’assenza di prospettive, ciò che contraddistin­ gue la passione più alta, e ne è un diritto, è proprio che si combatta per essa come si farebbe per la più sicura delle garanzie. Gli abitanti di Nidwalden con la loro impresa salvarono il puro fuoco di Vesta, conservandolo a migliore fortuna per tutti gli Svizzeri. Quando Pietro Dümanet indossò l’equipaggiamento da campo e imbracciò il fucile per marciare contro quel po­ polo che assolutamente non voleva saperne di accettare la felicità ch’egli aveva portato, non parlava in modo tenero di quella gente, di cui in casa del cittadino Zulauf non aveva certo udito nulla di buono. Ma lo confortava la coscienza di recare ancora una volta, a rischio della propria pace e della propria vita, la libertà e il diritto fin nelle più remote valli e nei più angusti recessi dell’età gotica. Si ripropose di trattare quei poveri illusi in modo sostenuto e severo ma anche umano e persuasivo. Se però avesse fatto ritorno da quell’ultima battaglia, avrebbe considerato assolto il suo dovere di cittadino del mondo in quanto combattente ; ormai provava nostalgia di pace e di attività borghese, tanto che, nelle sue parole d’addio, lasciò trasparire il desiderio di stabilirsi, fondandovi una nuova patria (giacché a Parigi non aveva più nessuno che gli fosse caro), in quella patriottica cittadina della repubblica elvetica affiliata. In realtà sua madre era caduta al Campo di Marte davanti ai cannoni della Guar­ dia Nazionale, e suo padre, un fanatico copriletti, sullo scalone delle «Tuileries», sotto il fuoco del plotone di Svizzeri che le presidiavano. Dacché si trovava in Sviz­ zera, un tratto di magnanimità conciliante lo faceva di tali circostanze parlare poco e senza desiderio di ven­ detta ; ma esse, unite al ricordo delle proprie folli imprese sanguinarie, gli rendevano davvero ripugnante il ritorno a Parigi. Doveva essersi già accordato con Babette per un legame durevole, perché questa si fece rossa come un po-

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inodoro all’allusione di lui, e subì in silenzio affettuoso il bacio della fraternità repubblicana ch’egli diede a lei co­ me a suo padre; versò anzi calde lagrime quand’egli, infine, al suono del tamburo partì, senza mulino a vento sullo zaino, giacché pareva diventato un po’ più serio. Tuttavia essa si contenne, e propose al segretario di con­ durla per un pezzo di strada a fianco dei soldati; era la prima volta che Beni Schädelein tornava a impadronirsi del braccio della sua fidanzata, ragion per cui felice e con­ tento marciò per un bel tratto con Babette a suon di tamburo. In aperta campagna Dümanet uscì dalla fila per affian­ carsi ancora una volta agli amici. Ma quando domandò al segretario se non avesse voglia di marciare anche lui contro quelli di Nidwalden e combattere per la libertà, Schädelein replicò con grande ardire che, dovendo bat­ tersi, si sarebbe battuto piuttosto contro i Francesi; e, dopo questo fiero discorso, fece, sempre a passo di marcia, un’improvvisa voltata insieme alla sua bella, e, fattosi per una volta coraggioso, la tenne ben stretta per co­ stringerla a marciare con lui. Il soldato lo fissò con di­ sprezzo, poi tornò in fila, animato di curiosità per ciò che lo aspettava sulla montagna che vedeva emergere davanti a sé, argentea e scintillante, da un’azzurra foschia. Era giunto sulla riva del lago dei Quattro Cantoni. Dalla sua superficie sorgevano nel profumato splendore d’autunno i monti di Unterwalden, silenti come un gior­ no di festa, eppur pieni allora di ribellione e di preparativi per l’ultima lotta. Due o tre volte soltanto il vento portò un suono in un crescendo sinistro : era il Landhelmi, l’antico corno di guerra di quelli di Nidwalden che chiamava a raccolta l’antica vigoria e il senso d’onore patrio, e che stava salutando un piccolo reparto di uomini di Schwyz giunti a marce forzate da Brunnen. Come quel paesino di poche migliaia di anime, sessan­ tanni prima della scoperta napoleonica del plebiscito circa la forma di governo, diviso e abbandonato dal resto del mondo e dalla sua patria più grande, abbia combat­ tuto la sua battaglia per l’autodeterminazione ; come,

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contro i sedicimila Francesi del generale Schauenburg, abbia appostato i suoi duemila combattenti in gruppi commoventemente piccoli intorno alle sue fortificazioni che piede nemico non aveva mai calpestato ; con quanta parsimonia, ben conoscendo la propria povertà come la propria ricchezza, abbia distribuito i suoi uomini, ripar­ tizione che seppe mantenere anche in una serie di eroici combattimenti isolati ; come infine le sue belle donne ab­ biano sofferto in piena coscienza la loro parte di lotta e di dolori: tutto questo ce lo racconta la storia. Qui si vuol solo seguire il destino che, in quella batta­ glia a senso doppio per la libertà, aspettava il libertario Diimanet sui pendìi rocciosi del monte Bürgen che in­ nalza per primo i suoi boschi dal lago profondo. Alta sul Bürgen c’era una casetta di legno rossastro, priva di ornamenti, ma di graziose, anzi nobili propor­ zioni sul suo zoccolo bianco al par della neve, coi vetri lucidi delle finestrelle tonde che guardavano quieti e ri­ denti giù nella valle. Vi risiedeva allora, da soli tre giorni, Aloisi Allweger con sua moglie, la bella Klara, sposata nell’affanno della sommossa dopo ben nove anni di amore e di attesa, per quanto lui ne avesse appena ventisette e lei ventiquattro. Nove anni prima, in giorni d’autunno come quelli, a una festa alpigiana l’ardito giovanotto aveva recitato la parte del cosiddetto «uomo selvatico», facendo salti, tutto avvolto in ramoscelli d’abete, con una donna sel­ vatica al par di lui, e con lei dialogando in antichi versetti in rima, occasionalmente arricchiti d’improvvisazioni, nei quali si rinfacciavano a vicenda i vizi e le debolezze d’am­ bo i sessi. Ora, sia che l’antagonista, la donna selvatica, o meglio il compagno che la rappresentava, fosse di tem­ peramento più calmo, sia che non avesse abbastanza vo­ glia di avvilire il proprio sesso, fatto sta che nella grosso­ lana contesa ebbe piena vittoria l’uomo selvatico, il quale, con sommo diletto dei robusti alpigiani che stavano pia­ cevolmente a sentire, fumando, sotto l’insegna del loro san Wendelin, diffamò le donne orribilmente; brutalità stranamente in contrasto col suo volto ingenuo e coi chiari

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occhi celesti che trasparivano piuttosto infantili di sotto la frasca di abete. Tratto dagli applausi degli uomini a un’imprevista bal­ danza, anziché attenersi alla sua donna selvatica, egli finì col volgersi a quelle circostanti, e nella sua inesperien­ za le gratificò d’ogni sorta di altre scherzose accuse, finché all’improvviso venne a trovarsi davanti a una fan­ ciulla di quindici anni, che scuoteva con gesto minaccioso l’acconciatura intrecciata di nastri bianchi e rossi e tra­ fitta da un ricco spillone d’argento. Lì c’era infatti, adi­ rata e stupefatta di tanta ingiustizia, la giovane Klara von Bürgen, che involontariamente alzava la mano a ripa­ ro dal giovane malfattore, e insieme lo fissava con i gran­ di occhi umidi e spalancati, tanto che l’uomo selvatico, subito dimenticando il suo ruolo, guardò la ragazza pieno di timore e di mansuetudine, mogio mogio, senza saper più a che santo votarsi. Cercò di perdersi in mezzo agli spettatori, ma, respinto da ogni parte fra grandi risate, dovette tenersi in mezzo al cerchio, inseguito dalla mali­ ziosa donna selvatica che, alfine rianimata, quanto più egli perdeva la testa tanto più duramente gliela lavava. Al colmo della confusione, egli non poteva fare a meno di cercare di tanto in tanto con gli occhi la ragazzetta, e la bella seguitava a sua volta a guardarlo, sempre adirata, ma con una profonda soddisfazione, che infine parve mutarsi in una specie di pietà, quando con un mezzo sorriso si volse e se ne andò. Dopo d’allora Aloisi Allweger seppe evidentemente rintracciare l’indignata fanciulla e presentarlesi meglio, perché cominciò da quel giorno un’attesa fedele di nove anni, durante i quali Klara, che era un’orfana affidata alla protezione di un vecchio montanaro suo cugino, ben­ ché ambita da molti, visse in fiduciosa attesa nel suo poderetto sul Bürgen, mentre Aloisi, che, non essendo nativo del posto, era considerato, secondo la severa legge di quelli di Nidwalden, rigidamente conservatori, solo un re­ sidente e un povero diavolo, tentava di guadagnarsi un piccolo possedimento lavorando indefesso sui monti in mezzo a mille pericoli.

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Proprio nei giorni in cui avevano inizio i fatti narrati Klara divenne maggiorenne, e il gruzzoletto del suo inna­ morato bastò per metter su modestamente famiglia. Men­ tre echeggiavano le campane a stormo, essi vennero uniti in matrimonio da un prete in armi, in mezzo al fragore dei tamburi e dei corni; gli invitati portavano schiop­ pi e fucili, ma non spararono un colpo, volendo rispar­ miare la polvere per l’imminente battaglia. Il corteo, composto di soli uomini, giunto davanti alla casa di Kla­ ra, ormai residenza di Allweger, s’affrettò a ridiscendere il monte ; anche lo sposo entrò in casa sua come il soldato che non sa se potrà trascorrere un’altra notte nello stesso rifugio. I colpi di giubilo sparati in onore della coppia furono le granate e le palle ardenti che i Francesi co­ minciavano a lanciare come per prova d’oltre il lago e che venivano a morire ai piedi delle rocce. Finalmente sorse il 9 settembre, il giorno della fine. Era domenica. Klara destò il suo uomo ancora sonnecchiante e, poiché egli voleva correre a valle in abito da lavoro, gli disse invece di ornarsi a festa per il viaggio che forse sarebbe stato l’ultimo. Gli legò lei le giarrettiere ricamate a vivi colori intorno alle lunghe calze bianche che ricoprivano gli esigui calzoni giungenti appena ai fianchi snelli, gli annodò sul petto il fazzoletto scarlatto e gli recò una bianchissima camicia da pastore, l’indumento preferito di quella gente, che lo porta persino in chiesa, e che lei, la figlia dei monti, gli aveva confezionato a fatica ma con cura e garbo. Gli pettinò la lunga chioma che gli scendeva liscia sulla nuca, e davanti, sulla fronte, dov’era tagliata corta e di sbieco, gliela corresse, fra allegri scherzi, con le forbici, allungandosi tutta, benché non fosse di sta­ tura piccola, per arrivare all’altezza del compagno che a nessun costo voleva piegarsi. Poi indossò anche lei l’abito migliore e mise tutti i suoi gioielli paesani, per vivere e per patire quel giorno decisivo vestita a festa. Come pe­ culio per il viaggio gli contò inoltre, sollecita, le lucenti pallottole appena fuse e gli riempì il corno di polvere. Avanzarono così davanti alla loro capanna, belli co­ me la natura circostante, in cui proprio allora nel crepu-

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scolo mattutino il Rigi e il Pilatus riverberavano il primo oro. Andarono per mano sinché lo permisero il tempo e la strada, sereni come tutti quelli che incontravano e che facevano la stessa via, perché il dado era tratto e in tutto il territorio le campane chiamavano al combattimento. Ma quando tuonarono i primi colpi di cannone, vicini, sopra al lago, lontani, di là dal monte, si separarono in fretta. Aloisi s’awiò spedito giù per il ripido pendio verso Kehrsiten, dove gli era assegnato un posto sulla riva del lago. Klara restò a mangiarselo con gli occhi, sinché non vide scomparire sotto di sé tra le cime degli alberi le piume e i nastri ondeggianti del suo cappello di paglia; poi tese l’orecchio al tumulto che si levava dal basso e tornò a precipizio in casa, piangendo forte, per fare la guardia al focolare. Che il nemico potesse raggiungere le alture allora non si pensava. Scendendo a valle Aloisi si fece serio, e a tratti sospi­ rava; ecco che dopo tanti secoli l’occhio del nemico pe­ netrava infine nel nido di quella gente che tanti uomini aveva inviato su lontani campi di battaglia, là dove essi nulla avevano daffare; ecco che la tirannide mascherata da libertà bussava con mano di ferro alla porta di roccia di quel popolo di pastori, che si era a sua volta conquistato dei sudditi e aveva loro imposto a «libera maggioranza» dei podestà che vendevano la giustizia per denaro. È vero che Aloisi scendeva in campo innocente: né aveva militato in guerre straniere, né dato mai nell’as­ semblea il suo voto a un governatore ingiusto; neppure era un grande politico, che in quel momento si sareb­ be dato a pensieri oziosi; era piuttosto un sentimento generale di umana colpevolezza a sorprendere in quel giorno fatale chiunque si trovasse a tu per tu con se stesso, e il più innocente e coscienzioso forse più degli altri. I colpevoli impenitenti di quegli antichi peccati nazionali se ne sentivano meno di tutti responsabili davanti al tribu­ nale delle nazioni, e narcotizzavano come sempre la loro coscienza coi soliti miti. Dicevano per esempio che la Re­ gina del Cielo fosse passata in una stella sopra Unter­ walden, fortificandola contro ogni sopraffazione nemica.

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Su tutti i campi di battaglia, in Svizzera, in Italia e altrove, dove gli abitanti di Nidwalden avevano mandato per secoli i loro guerrieri, fino a quel momento essi non avevano ancor perso mille uomini, e quasi tutti i caduti erano stati noti a uno a uno e registrati negli annali del Comune. Quel mattino ne persero il numero maggiore, e si compì il migliaio; ma i Francesi caduti furono due­ mila, più della totalità dei combattenti di Unterwalden. Verso mezzogiorno la battaglia era finita. I montanari si aprivano il varco a forza, e i Francesi, furibondi per quella resistenza, cominciarono come al solito ad assassi­ nare donne, vecchi, malati e bambini, riempiendo quella verde terra ombrosa di cenere e di macerie, visibili ancora dopo sei anni. La trincea di Kehrsiten, dove Aloisi, solo con pochi al­ tri, si difendeva virilmente, fu attaccata infine dal lago e dalla terra. I difensori si ritirarono passo passo sul Bür­ gen, colpendo con le loro pallottole i Francesi che monta­ vano all’assalto o facendo rotolar loro addosso grosse ra­ dici e frammenti di roccia. Allweger rimase tra gli ultimi ad azzuffarsi ora con l’uno ora con l’altro dei nemici, poi fu respinto nei boschi lì a fianco, separato dai suoi. Anche da altre parti c’erano dei Francesi che salivano il monte cacciando avanti a sé donne e bambini, sinché non incap­ pavano in avversari isolati, i cui colpi mortali tornavano a raddoppiare la loro furia. Aloisi aveva esaurito le pal­ lottole e fracassato lo schioppo, di cui in mano non aveva più che la canna, mentre sanguinava da parecchie ferite. Sprofondò stremato in un cespuglio, ma subito si risollevò sentendo l’aria piena di invocazioni di aiuto e cercò la via per raggiungere la sua donna e la sua casa, e morirle vicino o insieme. Presto riconobbe il sentiero che ve lo doveva condurre, e lungo quello avanzò barcollando e appoggiandosi alla canna dello schioppo. Ed ecco arrivare di corsa a un crocicchio un francese, solo, il quale altri non era che il nostro Pietro Dümanet, quasi ebbro, e acconciato più bizzarramente che mai. Era arrivato in quella terra pieno di buone intenzioni, disposto a guidarne coi dovuti modi i caparbi e ignoranti

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abitatori verso la libertà. Ma ben presto, quando si vide respinto con migliaia di compagni da pochi uomini e solo a prezzo di gravi perdite potè avanzare di nuovo, quando dovettero in sei o sette cedere dinanzi a uno solo, quando vide tutte in fila sulle loro falci insanguinate le venti fan­ ciulle di Winkelried, morte, gli diede di volta il cervello : cominciò a correre in preda allo smarrimento per monti e per valli, fino a perdersi e a finire sul monte Bürgen. Aveva il copricapo guarnito dagli spilloni d’argento rapiti alle chiome delle donne di Nidwalden, lo zaino ornato di trecce recise, con i loro nastri rossi o bianchi, e intorno al collo una quantità di collane d’argento a sbalzo. Con un salto si precipitò sul barcollante Aloisi, gli puntò la baionetta sul cuore e lo dichiarò suo prigioniero, ordinandogli d’indicargli la via per salire il monte. Gli diede anche da portare un sacchetto alquanto greve, che aveva appeso all’elsa della sciabola. Aloisi obbedì pazientemente e, quando il francese gli ebbe preso e gettato via la canna dello schioppo, procedette innanzi a lui; capiva infatti che sarebbe stato il modo migliore per raggiungere la propria casa contemporaneamente al ne­ mico. Fece perciò ogni sforzo per stargli davanti, mentre Dümanet di tempo in tempo lo pungolava col calcio. In una gola che si apriva in mezzo a magnifici faggi s’imbatte­ rono in un francese morto. Con una bestemmia Dümanet spinse la sua guida oltre il cadavere, quando, non lontano di lì, attraverso il verde dei faggi che gli ultimi raggi del sole indoravano, videro brillare qualcosa di purpureo. Adagiata sul verde velluto del musco che ricopriva tutto il sentiero, nella luce del sole al tramonto giaceva, col volto sbiancato, la moglie di Allweger. La gonna rossa, le calze rosse ne disegnavano la figura snella; il corpetto dal ricco ricamo a fiori di seta era lacero e trapunto di colpi di baionetta come un giardinetto di rose che è stato bene arato. Ma su di esso pendevano ancora le collane e i fermagli fitti di pietre azzurre e rosse, la chioma era ancor bene intrecciata e come appena stretta nel nodo, e la trapassava ancora lo spillone, nei cui grani di vetro parimenti si rifletteva il sole al tramonto ; segno che non

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era stata depredata, e che s’era probabilmente difesa con­ tro parecchi, tra cui il morto rinvenuto poco prima. Aloisi riconobbe sua moglie nel momento stesso in cui la vide giacere al limite del bosco, a picco sul lago che balu­ ginava laggiù, in faccia alle silenziose montagne. Egli tremò fin nel midollo, però, senza dar segno d’aver visto la salma, volle procedere barcollando. Ma il francese gridò: «Alt!». Aveva scoperto un genere di trofeo che non possedeva ancora : le scarpe domenicali di Klara, che, piuttosto fini nel resto, eran fornite, secondo l’uso di al­ lora, di alti tacchi di ferro, i cosiddetti tötzeli. Le tolse su­ bito alla morta e le diede in fretta da tenere al povero Aloisi per prenderle anche il resto dei vezzi. Ma appena Aloisi Allweger ebbe in mano le care scarpe lo inondò un ultimo resto di forza. D’un tratto prese il francese per il colletto e lo percosse sul capo con le scarpe dal tacco di ferro, con tanto vigore da farlo crollare di colpo, poi lo spinse immediatamente oltre il dirupo, di modo che quello, e insieme a lui tutte le sue cianfrusaglie, cadde come dall’alto di una torre nel lago profondo, do­ ve affondò senza un suono. Subito dopo Aloisi cadde sve­ nuto sul corpo della moglie ; fu ritrovato il giorno successi­ vo, e creduto morto, quando con l’arrivo di Schauenburg tornò a regnare un po’ d’umanità. Tuttavia egli scampò, e dopo molteplici vicende visse ancora lunghi anni triste e chiuso in sé. Quando, qualche tempo dopo questi avvenimenti, bat­ telli ornati a festa portarono da Lucerna i consiglieri elve­ tici insieme ai consigliatori francesi, loro padroni, a fe­ steggiare sul vecchio Rütli il giorno della libertà, in uno di essi sedeva anche Babette Zulauf (il cui padre intanto era divenuto senatore) a fianco del segretario Schädelein col quale si era nuovamente legata, dacché Pietro Dümanet non aveva più fatto ritorno. Era splendidamente ac­ conciata, e, commossa dalla bellezza della natura e dalla magnificenza della festa, strinse la mano al compagno proprio nel punto in cui dormiva sul fondo Pietro, mentre un sottocommissario francese le appuntava sorridendo un mazzolino di rododendri sul petto.

IL GIORNO DELLE ELEZIONI UNA STORIA CONFEDERALE

Una bella prima domenica di maggio l’ottantenne giu­ dice conciliatore Berghansli sedeva, lungo e svelto com’era ancora, a tavolino in una stanza tranquilla e studiava una carta. Aveva già fatto un bel po’ di strada sui suoi alti prati alpini, teneva perciò in mano un pezzo di pane e ci beveva su un bicchiere del suo buon vino, ch’era po­ sato e fresco come lui. Si era mantenuto così snello e vi­ vace perché non gli accadeva certo, come agli odierni speculatori e crapuloni,-'di non trovar mai vino abba­ stanza dolce e fervido, né piacere troppo costoso, né giorno sufficientemente movimentato. Ciò che il vecchio Berghansli leggeva era il proclama con cui il governo scongiurava gli elettori indifferenti af­ finché, usufruendo del diritto civile, assolvessero il loro dovere di cittadini e partecipassero alle nuove elezioni, da cui doveva uscire un’altra volta un Gran Consiglio ed essere nominato un governo nuovo; e ciò al pomeriggio di quella stessa domenica. Egli leggeva sempre tutte quel­ le notifiche da capo a fondo, attentissimo e critico: dov’erano troppo sentimentali, pompose o affettate, stor­ ceva la bocca; ma se eran troppo asciutte, troppo uffi­ ciose, rigide e scipite, ugualmente se ne inquietava, e arguiva che non c’era da stupirsi se dalla vita pubblica sparivano ogni calore e ogni luce. In breve, era diffi­ cile da contentare. Perché quelle cose Berghansli le sentiva con tanta so­ lennità come se vi parlasse la coscienza stessa del paese, e perciò non gli pareva indifferente quale linguaggio essa tenesse. Quel giorno tuttavia non sembrava malcon­ tento; e quando arrivarono entrando per la finestra tre artigianelli pellegrini, cioè una farfalla bianca nuova nuova, un vago fiore di melo e una foglia rinsecchita del­ l’anno scorso, e si posarono tutti e tre sul proclama, egli ne fu quasi commosso. Quei messaggeri di vita e di morte gli ricordarono l’eterno mutare e passare delle cose ter­

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rene. Provò meraviglia al pensiero che, in tutto quel trasmutarsi, la repubblica emanante il proclama sussi­ stesse già da tanto tempo, quasi cinquecent’anni, con i suoi duecento consiglieri; e considerando che anche quei cinquecent’anni, dovessero pure raddoppiarsi, non erano che un attimo in confronto all’eternità, si propose di an­ dare anche quel giorno, forse per l’ultima volta, alle urne, contribuendo per quanto stava in lui a far fruttare il sud­ detto attimo e compiendo comunque il suo dovere. Il vecchio Berghansli aveva in casa tre nipoti, nati da un suo figlio defunto, bei ragazzi vigorosi che accudivano con diligenza al suo abbastanza grande podere, ed erano inoltre sempre pronti a ogni sorta di imprese utili e inu­ tili; solo che non si lasciavano mai condurre alle riunioni comunali e distrettuali e trovavano sempre altro da fare quando ce n’era in aria qualcuna. Ma quel giorno il ve­ gliardo voleva, prima di morire, prenderli per il colletto e condurveli a forza. Come un vecchio falco aguzzò quindi gli occhi fuori dalla finestra sui suoi terreni e giù nella valle per scoprirvi i ragazzi, quand’essi entrarono nella stanza alle sue spalle ed esclamarono: — Nonno ! Andiamo via tutti, e a mezzogiorno non veniamo a pranzo! — Ah, sì? — disse il vecchio — Tanto zelo per andare a votare? Mi vorrete pur prendere insieme, e partendo alle dodici arriveremo ancora in tempo! Ma alla parola votare scossero tutti e tre il capo, come tre asini cui si offra una salsiccia arrosto quando pre­ ferirebbero mangiare del fieno. — A Thorlikon si gioca ai birilli una pecora, — disse Heiri, il più vecchio — e io ho promesso d’esserci; c’è una gara importante tra quelli di Thorlikon e quelli di Narrlikon.1 — Io voglio andare alla fiera di Bublikon e dare un’occhiatina a una ragazza di cui mi hanno parlato. È conI. «Thor» e «Narr» significano pressappoco «matto» e «pazzo»; donde l’effetto comico dell’accostamento, impossibile a rendere in italiano. Lo stesso dicasi per Bublikon, da «Bube», bamboccio, ragazzo.

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venuto, no, che debbo sposarmi — disse Jakobli, il se­ condo. — E io — aggiunse Peterli, il più giovane — voglio un po’ vedere se trovo l’oste del Cervo a Bücheliberg per comprare la sua carabina. Se ne starà pure a casa, oggi che ci sono le elezioni. — Bene, bene ! — disse il vecchio — Vedo che avete tutti da fare, come la sposa il mattino delle nozze ! Ma sentitemi ancora un momento, prima di andarvene per i fatti vostri. Così dicendo, andò a prendere dall’armadietto a muro, in cui conservava le sue carte, un fascetto di stampe in­ giallite, legato in croce con una vecchia cordicella bianca e azzurra e pieno di orecchie e di spiegazzature. Erano tutte le costituzioni cui il vecchio aveva giurato obbe­ dienza dal 1798 in poi, in un certo senso le edizioni originali, così com’eran state successivamente distribuite, fresche fresche, al popolo. Mentre le scomponeva, gli sembrarono come tante foglie secche dell’albero della vita, ed egli ricordò quasi con un sospiro la sua lontana giovinezza tempestosa, il popolo straniero che aveva visto sulla sua terra, le aberrazioni in preda a cui erano caduti i suoi stessi connazionali; ma anche i giorni lieti della pacificazione pur sempre seguita agli eccessi, e la nuova vita succeduta pur sempre alla morte. — Guardate, — disse, mettendo da parte la costitu­ zione della Repubblica Elvetica — quest’è la prima co­ stituzione cui ho giurato obbedienza; ma è a Parigi che l’hanno fatta e non ci ha portato fortuna. Quelli che l’han­ no imbastita non sapevano che cosa fossero gli Svizzeri; e se l’avessero indovinato, noi non saremmo più stati Svizzeri. Ma andiamo avanti. Ce n’è anche oggi abba­ stanza, di gente che porta sempre un rododendro in bocca e non ha mai capito che cosa siano veramente il diritto sviz­ zero e la libertà svizzera. Credono che, quando non abbia­ no sopra di sé un re, per gli Svizzeri tutto sia a posto, men­ tre questo non è che il lato più grossolano della faccenda. Ecco quella del 1802, il cosiddetto atto di media­ zione. Era già un’opera migliore, la più ragguardevole

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che abbiamo avuto sino all’epoca più recente. L’ha fatta e ce l’ha data il Bonaparte; perciò è stato sempre fonte di amarezza per un antico popolo libero e guerriero il fatto che un imperatore e un militare straniero abbia dovuto dargli la legge eh’esso da sé non sapeva più esprimere. Ecco quella del 1814, ed ecco la costituzione con­ federale del 1815; è roba di signori, e precisamente di piccoli signori, che fan sempre più fatica dei grossi a vedere oltre la punta del loro naso. Segue quella dell’an­ no 1831, quella che propriamente cercavo. È la prima che sia pianta del nostro ceppo, e per questo ha resistito per ormai quasi trent’anni. Ma non crediate che sia, o sia stata, un’opera arditissima e perfetta, perché ha avuto invece un inizio assai modesto. Guardate quello che ho cancellato con la matita: qui la città di Zurigo aveva ancora il diritto di inserire settantun membri nel Gran Consiglio senz’altro fondamento che quello della sua an­ tica signoria. Dopo aver mantenuto per sette anni quella modesta forma d’indipendenza, nel 1837 abbiamo final­ mente osato uscir del tutto dal nostro guscio ed estendere il diritto di voto a tutte le persone oneste. Ma che suc­ cede ora? A votare va un cittadino su dieci, come se tutti gli altri fossero dei falliti o dei pregiudicati, e così quest’u­ no su dieci fa la legge per tutti; e ciò significa assogget­ tarsi volontariamente a una tirannide. Con tutto ciò voi, quando ne avete in corpo un bicchiere, continuate sempre a cantare, con la voce in falsetto oggi di moda, le più belle canzoni sulla libertà ! Non avete mai osservato come nell’uomo indifferente, il quale di null’altro al mondo si cura che di ciò che riguarda la sua pancia, quella mancanza di interesse conduca sempre al disprezzo di sé? Infatti, per scusare, come crede, i suoi vizi, egli finisce per dire: «Niente conta, e neppur io non conto nulla ! ». Allo stesso modo l’inerzia passiva di un popolo termina sempre col disprezzo delle proprie istituzioni e con la perdita della libertà. Lasciate che per soli cinquant’anni decidano del vostro destino quei pochi ometti di­ ligenti che non sono troppo pigri per correre in municipio, e vedrete ch’essi vi prepareranno una costituzione tale da

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esonerarvi dalla dura fatica di vivere, voi, polentine, che recalcitrate ad andarvi come se in chiesa volessero tagliarvi il naso !’ — Ohibò ! — disse Heiri — prima dovranno fare i con­ ti con noi ! Ma finché sono contento di come vanno le co­ se, non vedo perché io debba sempre correre a ogni fischio del vicario; se un giorno non mi garbassero più, allora ci andrei, eccome ! — Ah sì? Credi? — ribattè il vecchio — È certo un modo un po’ speciale di mostrare la propria soddisfazione, nascondersi e starsene zitti come topi spaventati. Come possono i dirigenti capire che ti accontentano? E non de­ vi forse, quando sei contento di qualche cosa, darti da fare perché essa duri e si basi sopra solide fondamenta? Ma le più solide fondamenta di un regime sono l’attiva partecipazione del popolo ! A un consigliere che sia stato eletto da una chiesa piena di cittadini batte in petto ben altro cuore che a uno voluto da poche dozzine di indivi­ dui. Per costoro egli non ha alcun vero rispetto, è irritato per la loro scarsità, anziché esser loro riconoscente. Tu coltivi pure il tuo campo in ogni epoca dell’anno, sia grande o piccola la speranza di raccolto, affinché non sia colpa tua se esso dovesse fallire ! E sei troppo pigro per dare il tuo contributo, una volta ogni quattro anni, a col­ tivare il terreno della patria, affinché non manchi un hu­ mus vigoroso se qualcosa vuol crescere? Rifiuti di recarti in chiesa per un’ora perché vuoi giocare ai birilli una pe­ cora? Non credi che debbano finire col perdere ogni nerbo, i consiglieri che da simili cuorcontenti non tanto sono eletti quanto son lasciati eleggere? Tu ari e semini il tuo campo senza sapere cosa rac­ coglierai, eppure non ti dà fastidio il farlo; qui invece, dove sai che cosa raccogli, dove hai nelle mani il tuo destino, ti pèriti di seminare, e credi che il raccolto ven­ ga lo stesso. Ma finirà col non crescere più, o almeno non quel che ti piace. I. Fino al secolo scorso, in Svizzera le elezioni e varie adunate pubbliche si svolgevano nelle chiese.

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Sarebbe tutto giusto, — disse Heiri — se dipendesse da me solo e se fosse il singolo a fare le elezioni ! Il vecchio Berghansli alzò le spalle e ribattè: — Questo è il solito discorso dei pari tuoi, ed è una falsa modestia, sorella gemella della tua non genuina acquiescenza. Quando il nemico arriva, quando il fuoco prorompe, quando l’acqua straripa, ciascuno accorre sen­ za essere chiamato, e nessuno dice che non dipende dal sin­ golo. È mancanza di intelligenza, affermare che non è la stessa cosa il tranquillo esercizio dei doveri di cittadino, come nel caso delle votazioni. Al contrario, con l’a­ stenersi ogni singolo contribuisce, benché in maniera lenta e impercettibile, alla graduale disgregazione della comunità; e in ogni caso non vorrei essere io sempre quello che non importa che ci sia, dal quale non dipen­ de nulla ! E tu che ne dici, mastro Peterli, tu vuoi comprare una carabina? Sembra già meglio che giocare ai birilli una pecora. Ma è proprio questa la tua scusa, oppure hai anche tu un motivo più elevato, o più profondo, come il tuo bravo fratello pacioccone? — Senza dubbio, — rispose, un po’ caparbio e aggron­ dato, il minore — potrei comprare la carabina un altro giorno, benché io non gironzoli volentieri lungo la setti­ mana. Ma voglio ammettere che a me le elezioni non in­ teressano molto! — E perché? — domandò il vecchio. — Perché — disse Peterli — io non la penso come mio fratello, al contrario sono malcontento perché tutto viene tirato con una cordicella, come la culla legata alla coda della mucca dalla furba contadina perché il bimbo s’ad­ dormenti mentre lei pianta i fagioli! — Ebbene, — esclamò il vecchio — allora vacci, casca­ morto, e taglia la cordicella ! — E come devo tagliarla? — Va’ alle elezioni, grida: «Ohi ! Ehi !». Fa’ baccano e di’: «Qui si è sbagliato, là pure, quello non mi piace, questi ha fatto (oppure non ha fatto) questo e quello, vogliamo eleggere quello e quell’altro ! ». Tieni duro per

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il tuo candidato, e se non passa ti rassegni fino alla pros­ sima volta, e hai fatto il tuo dovere. — Proprio questo è il guaio, — disse Peterli — non conosco nessuno per cui votare. Non c’è nessuno in vista, nulla succede che attiri l’attenzione su qualcuno, non emerge neanche una faccia nuova . . . — La Camera del Consiglio — lo interruppe severo il vecchio — non è un negozio di sartoria dove occorra esporre merce sempre nuova; le facce nuove dimostrano talvolta di essere pure e semplici facce, sulle quali non riesce mai a far presa la veneranda muffa del tempo e dell’esperienza. Se non conosci nessuno cui tu possa dare il tuo voto . . . ma come vuoi giungere a conoscere qual­ cuno, se diserti tutti i pubblici dibattiti, sia nelle faccende del Comune, che in quelle del Cantone, che in quelle della Confederazione? Solo lì puoi effettivamente vedere come si comportano questo e quello; e saresti un tipo davvero incontentabile, se col passare del tempo qualcuno non ti facesse pensare: vorrei vedere in Consiglio piuttosto lui che un altro. Perché dovrai pure finire con lo scegliere uno dei disponibili, se vuoi essere rappresentato ! Non vorrai attendere finché non sorga proprio nel tuo collegio elettorale il profeta che ti sei rimuginato tu nella tua mente! Hai ragione in questo, che vorresti conoscere il meglio possibile quello per cui devi votare ; ma a tal fine è necessario possedere un po’ di conoscenza degli uomini, e saper anche render conto a se stessi di ciò che è impor­ tante. Tu frequenti i corsi di addestramento al tiro; tanto più allora bada a che il consigliere cui dài il tuo voto sia anche lui un bravo tiratore, capace, dal posto cui lo eleggono, di sparare a qualsiasi distanza e senza laboriosi preparativi ; cioè ch’egli porti in mano libera e franca la propria coscienza come tu la tua carabina, e sappia usarla di fronte agli avvenimenti ; in breve, ch’egli stesso carichi il suo colpo e lo spari, saldo nella sua coscienza d’uomo, e non dietro il paravento della cosiddetta coscienza col­ lettiva, dove tutti si nascondono uno dietro l’altro e si devono far coraggio a vicenda con discorsi terribili.

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Osserva se egli ha un’opinione sulle cose, sia pur semplice e dimessa, prima d’aver letto il giornale, o se ce l’ha sempre e solo dopo. Osserva anche s’egli in tutte le occasioni ha una sua idea già bell’e pronta prima di avere ascoltato gli altri; e se va in Consiglio col proposito di non stare a sentire nulla e di non lasciarsi per nessun motivo influenzare; perché allora al suo posto si potrebbe mettere altrettanto bene un fantoccio di legno. A colui che non vedi mai solo, che non ha mai un’o­ ra libera per sé, per vivere e per pensare, perché trascorre ogni momento d’ozio dietro le carte, non dare il tuo voto, a meno che non sia un uomo molto intelligente; perché ce n’è di quelli che per nulla al mondo saprebbero mai stare soli un momento e devono sempre fare qualcosa. A colui che in ogni occasione dà fiato a tutte le sue trombe, e nel Gran Consiglio spregia e ridicolizza gli av­ versari per poi stringere loro la mano ridendo, non dare il tuo voto a nessun costo, perché nelle faccende impor­ tanti un tipo simile non combinerà mai niente ! Non votare per uno che ti gira intorno come fa il gatto con la pappa bollente, o che ti guarda come se vo­ lesse mangiarti se non gli dài il tuo voto; e neanche per uno che possa temerti dopo che tu l’abbia scelto ! A chi mentisce, foss’anche per la buona causa, non dare mai il tuo voto, e infine non darlo nemmeno a chi adultera il vino o distilla l’alcool dalle patate ! — Bene, — disse Peterli — allora non mi resta che mettermi subito in cammino per poter fare tutte queste osservazioni prima delle due. — Veramente per oggi non potrai più vedere molto, — replicò il nonno — ma tanto più necessario è che tu in­ cominci ad assistere sin da oggi all’adunanza. Già il mo­ do con cui parlano i candidati eminenti, con tono più o meno aperto, e il modo con cui atteggiano il loro viso, ti faranno un’impressione favorevole o sfavorevole, che potrai completare in seguito in altre riunioni e faccende. Se per esempio ne vedrai uno che se ne sta al suo posto con tranquillo raccoglimento ed espone ciò che ha da dire

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senza esitazioni e con sicurezza ma con occhi benevoli, ti piacerà forse più di un altro che corre di continuo da que­ sto a quello mostrandosi indaffarato, spia l’adunanza con avidi occhi di falco e pare come consunto da un maligno fuoco interno; per quanto non sia detto che costui non possa essere un uomo d’onore, magari ambizioso, e colui un patrono astuto e scaltrito. Ma la tua istintiva preferenza per il primo sarà probabilmente giusta, giacché in un consigliere il dominio di sé è una virtù primaria e non manca mai di buoni frutti. E tu che ne pensi, mastro Jakob? Mi sembra che tu abbia, per astenerti, il motivo più serio, volendo cercar moglie. Ma non si potrebbe forse dire che ne avresti mag­ gior diritto se assolvessi prima il tuo dovere di cittadino? Perché, se diventerai padre di famiglia, sarai doppia­ mente legato alla cosa pubblica, che consiste unicamente nel complesso delle famiglie del paese, di cui difende la stabilità. — Ebbene, — disse l’aspirante marito — credo che una moglie potrei trovarmela anche domani o dopo­ domani. Ma, per dirla apertamente, ho anche un altro motivo per non preoccuparmi troppo delle elezioni quan­ do ho di meglio da fare. — E sarebbe? — Oh, — proseguì il giovane Jakob — mi hanno detto, e mi sembra giusto, che il nostro Cantone col suo Gran Consiglio non significa più molto, che tutto ora tende a unificarsi, e i Cantoni a risolversi in un tutto, e il piccolo a dissolversi nel grande; e devo confessare che non mi dà nessun piacere mettermi a trebbiare della semplice paglia ! — Ah sì? — esclamò il vecchio scattando quasi con violenza — sei anche tu della cricca? Che vuoi dire con la tua Svizzera senza i suoi vecchi e nuovi Cantoni? Un piatto divorato, una botte vuota, sarebbe, un alveare senza favo e gettato via ! Un giardino mutato in un campo d’avena su cui pascolano i cavalli, sarebbe! No, è pur bella la rossa giacca svizzera con le armi confederali, ma è politicamente un sudicione chi non ci porta sotto la lin­ da camicia tessuta in casa di una rispettabile vita civile;

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è imponente, la rossa veste d’onore dell’Elvezia con la croce sul petto ; ma venerabili soprattutto, e testimoni di onesta provenienza, le ventidue camiciole bianche come neve che ha nella cassapanca, quella zurighese con uno scudetto bianco e azzurro sul cuore. Senza confedera­ zione non ci sono confederati, senza Cantoni non c’è Con­ federazione, senza gara di grandezza e bontà non ci sono Cantoni: ecco la chiave di volta della nostra terra. Ma che il nostro Cantone in tale gara gloriosamente vinca dipende dal Gran Consiglio che oggi dob­ biamo eleggere. Fra i Cantoni il nostro ha da essere un modello nell’assolvere il dovere confederale, come nell’amministrare e perfezionar se stesso deve conservare la frut­ tuosa varietà della nostra terra svizzera ; e speriamo venga presto il tempo in cui i Cantoni, risollevandosi dal primo stordimento che li ha sorpresi con l’allegro trambusto dell’ordine nuovo, facciano uso del loro diritto di mozione e rivaleggino tra loro in vivace movimento confederale. E adesso, partenza tutti insieme, chi è buon confe­ derato è un buono zurighese ! Nessuno senza l’altro, non si accetta la metà !

I tre elettori restii non osarono sottrarsi oltre al vecchio e volonterosamente discesero il monte con lui. II bel giorno di maggio e l’animo ardito del vegliardo risvegliarono anche i loro cuori zurighesi, e avvenne che lungo il cammino essi, al modo di tutti i neofiti, s’accen­ dessero di tanto zelo, che stabilirono di inventare, per quel Comune da cui fossero venuti in proporzione meno uo­ mini, un appropriato nomignolo da appioppargli per i successivi quattro anni, sinché non gliene subentrasse un altro. Il risultato finale delle votazioni in quel distretto fu come una mercanzia di media qualità, alla buona e tipica dei tempi tranquilli, nonostante alcuni mutamenti avve­ nuti in seguito al naturale «congedo» di qualche consi­ gliere. In tempi simili ricresce sempre un’erba buona, che non manca di vigoreggiare e di venire a fioritura. Venne eletto un cosiddetto arrampicatore, uno cioè

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in cui il popolo non incapperebbe spontaneamente, che non scorgerebbe nemmeno, s’egli a ogni nuova elezione non s’allungasse ogni volta sulle punte dei piedi e non le­ vasse le mani strillando e implorando come i bambini sotto l’albero carico di ciliegie. Gli elettori, dopo averlo per decenni dapprima neppur notato, poi considerato con un po’ di stupore, finiscono col prestargli attenzione e pro­ vano a dargli, sorridendo, il posto agognato. Perché col suo eterno concorrere egli è divenuto un compare scaltri­ to, che si è creato intorno una atmosfera di attività ap­ parentemente sostanziale. Un milione di progettucci e di proposte, ha fatto, che rimette in giro a ogni nuova elezione. Ha escogitato un canaletto per mettere in moto il macinino del Comune, ha scoperto come ottenere una capra con cinque tette, e tant’altre mai cose di questo genere, che non portano a nulla, è vero, ma ch’egli ha discusso in cento adunanze e convegni e fatto artificio­ samente attaccare sui giornali per poterle poi difendere. Egli regola i finti attacchi contro di sé come un maestro e la propaganda come un artista. Siccome ha un solo principio, che suona: «chi non è per me è contro di me», è sempre amico o nemico di ognu­ no a seconda delle circostanze; atteggiamento ch’egli sa poi sempre far passare per una direttiva di partito, ben­ ché politicamente sia vuoto come una noce fessa. Un simile arrampicatore fu dunque scelto; perché il popolo talora vuole avere anche di questi tipi ; esso prov­ vede sempre alla varietà e alla completezza delle figure sulla sua scacchiera. Fu pure eletto, anche lui tardi, un vecchio che da trent’anni, contro il partito di volta in volta dominante, si autodefiniva la «giovane scuola», benché sul cranio sti­ pato di vecchi pregiudizi non avesse più un capello. Que­ sti fu eletto perché combinava ogni sorta di guai e di follie tra i minorenni e gli adolescenti, e aveva segretamente promesso di chiudere ormai l’età scolastica per entrare in quella della maturità virile, per cui si trovava allora negli anni migliori. Fu eletto anche un cosiddetto pubblico benefattore

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precoce, cioè uno che aveva appartenuto fin da prima dei vent’anni alle associazioni benefiche del Comune, del Distretto, del Cantone e della Confederazione, e che ora, dopo altri vent’anni, aveva acquisito attraverso le sue molteplici opere e missioni un considerevole patrimonio di nozioni e di esperienze, ed era su ogni argomento un utile oratore, che ben conveniva al paese. Elessero inoltre un tipo silenzioso che aveva improvvi­ samente ereditato un milione, perché, pensando di salas­ sarlo a dovere con tasse e regali, volevano metterlo di buonumore. Egli aveva già donato una nuova pompa, una vetrata per la chiesa, un organo, tre tamburi per i cadetti e una bandiera, e ancor di più aveva dovuto pro­ mettere. Infine un tipo ancor più silenzioso, un uomo politico navigatissimo, venne scelto a capeggiare l’intera nidiata, che egli con poche parole doveva tenere in ordine e adi­ bire all’utile dell’onorevole elettorato. Terminate le operazioni di voto, i tre fratelli sedevano insieme in una stanzetta sul retro dell’osteria ad accertare in base alle informazioni raccolte quale fosse il Comune peggio rappresentato per affibbiargli il suddetto nomi­ gnolo e diffonderlo tra la gente. Quanto a loro, la man­ canza di esperienza li aveva condotti chissà perché a un eccesso di precipitazione nel votare, e la punta aguzza e storta della matita che avevano in comune, animata da un suo proprio folletto elettorale, si era mossa quasi contro la volontà degli scriventi. Ciascuno nascon­ deva agli altri due l’assenza in lui di ogni, legittima con­ tentezza per il voto dato e l’impressione d’essere stato minchionato. Forse proprio per l’inquietudine che ne provavano, il loro zelo ora era assai grande, mentre sedevano solenne­ mente a consiglio. Avvenne che i peggio rappresentati risultassero i citta­ dini di Nebenheim, di cui si era fatto vivo soltanto un vecchio contadino semisordo. Dopo che i tre inventori di nomi ebbero covato un pezzo senza frutto, Jakob, quello che cercava moglie, e ora era il più rabbioso, ma­

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nifestò l’opinioneche «Nebenheimer» potesse diventare di per sé un buon nomignolo per quanti hanno in ogni occa­ sione il vizio di venire a sproposito1 ; che a dir vero il nome stesso del vecchio, Ehegäumer2, unico comparso, darebbe anche una definizione ironica per quanti trascurano così la difesa dei loro diritti; che infine proprio l’attribuire a tutti i cittadini pigri l’appellattivo degli abitanti di Ne­ benheim sarebbe il più sentito e il più scoraggiante dei castighi, visto che in futuro ogni località certo si guarde­ rebbe dall’esporre il proprio nome onorato a un simile pericolo. I due assistenti di Jakob, addirittura sfiniti dalle in­ numerevoli discussioni di quella giornata, si dichiararono d’accordo con la sua proposta e lo incaricarono anche di proclamare in pubblico «nella maniera che a lui paresse più opportuna» il nomignolo scelto; dopodiché si re­ carono difilato in mezzo ai giovani. Intanto papà Berghansli sedeva sotto una pergola da­ vanti all’osteria, accanto alla finestra aperta della stan­ zetta in cui i suoi nipoti tenevano consiglio, lontano dal frastuono della folla, e guardava la campagna in fiore. Mentre così ammiccava nel sole tenendo in bocca un rametto giovane, rossastro, di pruno, scorse il vecchio di Nebenheim che avanzava dignitosamente, reggendo in mano come uno statista la tuba nera di paglia laccata, con a fianco una snella figura di ragazza. Il modo con cui essa regolava la naturale prestezza, e accanto al vecchio di lenta andatura elasticamente frenava i passi spiccantisi con straordinario slancio, costituiva uno spettacolo gra­ ziosissimo, quasi solenne. Berghansli alzandosi fece cenno alla coppia, che tosto s’awicinò alla pergola, mentre la ragazza circospetta lan­ ciava sul posto una svelta occhiata coi seri occhi bruni. Siccome del vecchio di Nebenheim si diceva volesse ri­ tirarsi presso una figlia sposata, e desiderasse perciò siste­ mare la presente fanciulla, figlia di un’altra figlia defunta, I. Giuoco di parole intraducibile. 2. Altro giuoco di parole in­ traducibile.

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che sino allora era vissuta presso di lui, e siccome era non meno noto che il Berghansli spingeva uno dei suoi nipoti, e precisamente Jakob, a un onesto matrimonio, per poter ancora, prima di andarsene, vedere continuata la sua di­ scendenza, ecco che quest’incontro aveva tutta l’aria di una cosa combinata. Lo fosse o no, accadde ora che Jakob, venuto a comu­ nicare al nonno la decisione finale riguardo al nomignolo e alla sua diffusione, girò l’angolo proprio mentre giunge­ vano il vecchio di Nebenheim con la fanciulla, che come un sindaco portava la catena d’oro delle sue antenate sopra i pizzi e i ricami dell’abito da festa, e reggeva in mano un verde stelo aguzzo di segale come uno scettro severo. Jakob tenne così a lungo aperta la bocca da cui avrebbe voluto far risuonare il suo comunicato politico, che la fo­ restiera ebbe tutto il tempo di rimettersi dal suo rossore e di assumere quel contegno che in tali cosiddetti primi incontri appare più vantaggioso, e che non guasta né compromette nulla. Era davvero un incontro combinato, come trapelava sempre meglio. Jakob aveva voluto cercarsi una moglie in un posto che al vecchio non garbava, e questi a sua insaputa aveva preordinato la cosa per il giorno delle ele­ zioni. — Vedi, — egli disse scherzando — oggi volevi vedere delle ragazze, ed ecco che insperatamente ti si mostra la più bella di tutte ! — È davvero bella! — rispose imparziale Jakob, che continuava a stupirsi di non avere fatto prima quella scoperta. Ma la fanciulla dondolava il suo stelo di segale facen­ done scorrere innocentemente le reste tra le dita. La vi­ cenda per quel giorno si concluse in modo che, quando la piccola compagnia ebbe preso un rinfresco, Berghansli e suo nipote accompagnarono verso casa per un buon trat­ to il vecchio di Nebenheim con la sua nipotina. Sulla via del ritorno Berghansli, ridacchiando non vi­ sto alla luce delle stelle, disse: — Che ne è stato del soprannome per quelli di Neben-

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heim che vi siete rinchiusi a escogitare? Hai poi risolto la faccenda? Il giovanotto sbalordito rispose: — Diamine, avevo completamente scordato quella dia­ voleria ! Ma .. . ora abbiamo fatto amicizia con quelle brave persone; credo che mi spiacerebbe per la ragazza; e poi, suo nonno è stato in fondo l’unico a venire ! — Per me va bene, — disse il vecchio più seriamente — se la ragazza ti piace e potete mettervi d’accordo. Ma se la faccenda del soprannome non fosse stata una sciocchez­ za, giacché son cose che non servono a nulla, ti direi che dev’essere la prima e l’ultima volta che a causa di una femmina muti o trascuri un’azione politica ! Vedi, mastro Jakob, così succede quando si passa dal freddo al caldo. Mantenersi uguale e sempre ponderato, ecco quello che fa l’uomo!

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NOTIZIE SULL’AUTORE Gottfried Keller nasce a Zurigo il 19 luglio 1819. Il padre, Hans Rudolf, originario di Glattfelden (villaggio nei dintorni di Zurigo) è di famiglia contadina e di professione tornitore. La madre, Eli­ sabeth Scheuchzer, di quattro anni maggiore del marito, è figlia di un medico condotto. L’acquisto di una casa obbliga il padre a un lavoro più intenso che nuoce alla sua salute : a soli trentatré anni, affetto da tubercolosi, egli cessa di vivere lasciando in precarie condizioni finanziarie la moglie, il piccolo Gottfried, di cinque anni, e una bambina, Regula, di due. Keller trascorre l’infanzia entro le mura della nuova casa e sotto la rigorosa vigilanza della madre. I suoi inizi scolastici non sono brillanti; terminata l’Armenschule (la scuola elementare pubblica), frequenta, dal 1831 al 1833, una scuola privata, il Landknabeninstitut, dove apprende le ma­ terie letterarie, poi alla sezione industriale della scuola cantonale, dove frequenta assiduamente i corsi, con speciale predilezione per gli studi linguistici e letterari. Alla scuola però avviene una sorta di ammutinamento in cui gli allievi del corso superiore coinvolgo­ no il giovane Keller, il quale ne fa più degli altri le spese. Egli viene espulso e, sconfortato, si rinchiude in casa o trascorre giorna­ te intere a vagabondare per la città. Poco tempo dopo si rifugia a Glattfelden, presso lo zio, dove incomincia ad interessarsi al di­ segno e a copiare oggetti dal vero. Fin dal 1832, ispirato dalle letture dei romantici, aveva provato a scrivere drammi e disqui­ sizioni filosofico-religiose; ora preferisce disegnare e dipingere, e vi si mette con impegno. La madre, dapprima riluttante, finisce con l’assecondare l’inclinazione del figlio. Superate le difficoltà finanziarie, gli viene trovato un maestro, Peter Steiger. La scelta si rivela infelice perché il pittore si limita a costringerlo a umilianti lavori di copiatura. Un secondo maestro, Rudolf Meyer, lo indiriz­ zerà più tardi sia al vero studio della pittura, sia all’amore per i classici letterari, tra cui Ariosto e Tasso. Ma i risultati non sod­ disfano Keller. «Se tra due anni non riesco, mando l’arte al diavolo e divento calzolaio», egli scrive nel suo diario il ig luglio 1837; ma esattamente due anni dopo scriveva: «Compio oggi i vent’anni, ma non sono ancora niente e sono fermo sempre allo stesso punto, mentre altri miei coetanei hanno già preso una loro strada». Decide allora di cambiare città. Lo attira particolarmente Mo-

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naco, con la sua Accademia di Belle Arti. Mancano i mezzi, ma lo zio si muove a compassione: il 26 aprile 1840 egli si può mettere in viaggio. Sebbene non regolarmente iscritto per la mancanza di un titolo di studio, egli frequenta l’Accademia, ma ciò lo lascia del tutto insoddisfatto. In compenso stringe salde amicizie, entra a fare parte di gruppi studenteschi, è nominato redattore prima della «Wochenzeitung» poi della «Kneipzeitung», organi della gioventù goliardica. Ma dopo poco più di due anni, deluso e in grande miseria, Keller abbandona Monaco. Il suo ritorno a Zurigo segna il passaggio dalla pittura alla poesia. L’ii luglio 1843 annota nel diario: «Provo un vivissimo desiderio di scrivere versi. Perché non dovrei tentare e vedere che cosa c’è di positivo?». È preso da grande ammirazione per Jean Paul e sotto il fascino dello Hesperus compone sonetti. Nel febbraio 1844, su «Die Freie Schweiz», appare il suo primo sag­ gio poetico. Egli alterna giornate produttive con periodi d’indolen­ za; decide di comporre «un piccolo romanzo veramente triste, per narrare le dolorose vicende di un giovane artista, che deve infine miseramente soccombere insieme con la madre», e intanto si de­ stano i suoi primi interessi politici («Qualche cosa si agita e fer­ menta in me come in un vulcano. Voglio anch’io precipitarmi nel­ la lotta per l’assoluta indipendenza e libertà di pensiero e di reli­ gione. Sento però che il passato si stacca sanguinante dal mio cuore»). Ritornando in Svizzera, Keller piomba infatti in piena agita­ zione politica. A poco a poco Zurigo è diventata il centro di rac­ colta dei liberali tedeschi che in patria subiscono persecuzioni e limitazioni della libertà: è il clima infuocato che prelude alla ri­ voluzione del 1848. Keller entra in contatto con alcuni di loro: August Adolf Folien, ricco mecenate, Wilhelm Schulz, Julius Frobel, fondatore del «Literarische Comptoir» (dove vengono pubblicate le opere vietate in Germania), e più tardi Ferdinand Freiligrath. Egli aderisce infine al partito liberale. Intanto anche la situazione politica svizzera è diventata grave. Le lotte tra li­ berali e conservatori hanno portato a una scissione della Confe­ derazione e al costituirsi di una vera e propria federazione separa­ tista (Sonderbund') conservatrice. I liberali ne esigono lo scioglimen­ to e organizzano spedizioni armate di volontari, alla più impegna­ tiva delle quali, quella su Lucerna, partecipa anche Keller. Alla

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fine viene decisa una massiccia azione annata che, nel novem­ bre 1847, porta alla sconfitta del Sonderbund e a un nuovo ordina­ mento costituzionale. Keller continua l’attività poetica: nel 1846 sono pubblicati, a cura del Folien, i suoi Canti di un autodidatta; il suo diario intanto si era trasformato in Libro dei sogni. In casa Freiligrath egli incon­ tra una giovane ospite, Marie Melos, che gli ispira una grande passione, tuttavia non corrisposta. Stringe nuove amicizie, con il musicista Wilhelm Baumgartner, l’incisore Johannes Ruff, il ma­ gistrato Eduard Dosseckel. Per un breve periodo di tempo si trasferisce in casa di Schulz per confortarlo della morte della moglie; e là incontra Luise Rieter, di cui s’innamora ardentemen­ te. Ma è di nuovo respinto. «Io avevo inconsciamente raccolto tutti i miei pensieri, i miei desideri, le mie aspirazioni nelle sem­ bianze di Luise, avevo costretto e compresso tutto il mio essere nella sua incantevole figura ; quando mi sfuggì, credetti di perdere ogni mio bene, tutto me stesso. Chiunque sia ferito si rifugia pres­ so i propri simili; così ora preferisco frequentare gli uomini, non per chiacchierare con loro o per lamentarmi, ma per temprarmi nella loro asprezza e al loro contatto ritrovare me stesso», scrive in una lettera subito dopo la rottura. Gli viene concessa una borsa di studio perché frequenti una università straniera. Keller sceglie Heidelberg e lascia Zurigo nell’estate del 1848. Dovrebbe seguire le lezioni di storia, invece frequenta i corsi di Hermann Hettner (di cui sarà amico per tutta la vita) su Spinoza, l’estetica e la letteratura, quelli di Jacob Henle sull’antropologia e l’anatomia, e un corso libero (dal di­ cembre 1848 al marzo 1849) di Ludwig Feuerbach. Se la poesia liberale tedesca del ’40, la narrativa svizzera, specialmente quella di Jeremias Gotthelf, le opere giovanili di Friedrich Hebbel, hanno avuto molta influenza sul giovane Keller, la filosofia e la grande personalità di Feuerbach sono per lui di importanza umana e mo­ rale decisiva. « Il mondo è ora diventato per me infinitamente più bello e più significativo e la vita più intensa e preziosa; la morte, più seria e grave, m’invita doppiamente a compiere la mia opera, a purifi­ care e soddisfare la mia coscienza, poiché non ho più la speranza di poter riguadagnare il tempo perduto in un angolo qualsiasi del mondo», scrive nel diario. In quei mesi del 1848 partecipa attiva­

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mente ai movimenti rivoluzionari e frequenta con particolare as­ siduità il consigliere Christian Kapp, infiammandosi d’amore per sua figlia Johanna a cui fa leggere il Libro dei sogni, ma la ragazza, turbata da quella passione, gli confessa di essere già innamorata di Feuerbach. Ottenuta una nuova borsa di studio, Keller parte per Berlino dove trascorrerà il periodo più importante della sua attività crea­ tiva. Con un lento lavoro quasi d’orchestrazione, incominciando con dei tentativi drammatici e ispirandosi al teatro popolare più che alla tragedia classica, egli riesce infine a trovare il proprio stile. A Berlino saranno ideate e portate a compimento quasi tutte le sue raccolte di novelle. Nonostante viva abbastanza appartato, egli fre­ quenta alcuni circoli d’intellettuali, conosce il grande critico let­ terario Vamhagen von Ense, viene presentato all’editore Franz Duncker e si innamora della cognata di lui, Betty Tendering, con cui s’incontra dall’inverno del 1854 al maggio 1855. Ma la loro relazione finisce col procurare a Keller, ancora una volta, atroci tormenti: «La mia fede e ortodossia circa le donne si è capovolta. Non ammetto ormai altro che le loro qualità di madri, e di ciò non hanno neppure merito, dal momento che se ne incarica ma­ dre natura». Ma il suo lavoro progredisce: «Vivo in un isolamen­ to assoluto, muto, sobrio come una tartaruga; “un po’ d’acqua”, “il menu”, “non ho più candele”, sono quasi le uniche parole che per settimane intere io pronunzi. Mi limito a riflessioni interiori e rido sotto i baffi pensando a quanto i miei protettori mi credano sciocco. Sarà un risveglio tremendo per costoro quando le mie ope­ re nefande vedranno la luce ! Intanto Enrico il Verde è sotto i tor­ chi!». Finalmente, negli ultimi giorni del 1855, Keller rientra in patria, carico di manoscritti e con tre libri pubblicati : Nuove poesie e la satira II farmacista di Chamounix nel 1851, il romanzo autobio­ grafico Enrico il Verde nel 1855. Zurigo, nuovamente prospera sotto la spinta di un notevole progresso economico e dominata dalla presenza di studiosi come Jacob Burckhardt e Friedrich Theodor Vischer, da ospiti come Richard Wagner e Paul Heyse, offre finalmente a Keller la pos­ sibilità di una esistenza concentrata, attiva, ricca di incontri e sempre nuovi contatti. La pubblicazione della prima parte di La gente di Seldwyla aumenta ancora quella notorietà che Keller aveva conquistato con Enrico il Verde. Gli vengono offerti alcuni

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impieghi che rifiuta, finché, resasi vacante l’elevata carica di Staatschreiber (segretario cantonale), egli viene prescelto a ricoprirla dalle autorità cittadine. Nel 1864 muore la madre. Due anni dopo conosce Luise Scheidegger, ventitreenne, e si fidanza con lei; ma in un momento di estremo sconforto Luise si annega, lasciando Keller senza pace. Gli anni trascorrono poi senza grandi avveni­ menti: pubblici festeggiamenti e la laurea honoris causa nel 1869, una gita rievocativa a Monaco nell’autunno del 187a, un breve soggiorno sulle montagne di Salisburgo nel 1873, un viaggio a Vienna nel 1874. All’età di cinquantasette anni egli lascia l’impie­ go e si trasferisce in un nuovo alloggio dove riprende a scrivere. Dopo il 1856 aveva dato alla stampa solo le Sette leggende (nel 1872) e la seconda parte di La gente di Selduyla (nel 1874). A queste opere faranno seguito le Novelle zurighesi nel 1877, una nuova edizione quasi completamente riscritta di Enrico il Verde nel 1880, L’epigramma nel 1881 e, nel 1886, il romanzo Marlin Salander che dà un quadro complessivo della trasformazione della società svizzera durante la rivoluzione industriale, seguita attra­ verso la triste storia di una famiglia. Nella nuova abitazione solo pochi intimi vengono ricevuti: lo scrittore Conrad Ferdinand Meyer, il pittore Arnold Böklin e il Vischer. Egli mantiene invece importanti relazioni epistolari con Paul Heyse e Theodor Storm (con quest’ultimo, fino alla pubblicazione del Martin Salander, poiché, in seguito, il legame tra loro si rompe a causa dell’acco­ glienza poco favorevole che Storm fa al romanzo). Trascorre mol­ te ore nella birreria «Zur Meise», che considera quasi una seconda casa e dove è attratto dall’ambiente e dalla compagnia dei fre­ quentatori abituali. Nel 1888 muore la sorella Regula, con cui egli è sempre vissuto per tutti quegli anni. Dopo avere curata l'edizione completa delle sue opere, che offre l’occasione, nel 1889, a celebrazioni entusiastiche, egli incomincia a soffrire di febbri influenzali che gli fanno perdere le forze fino a ridurlo a pura vita vegetativa. Muore il 15 luglio 1890, pochi giorni prima del suo settantunesimo compleanno.

NOTIZIE SUI TESTI La gente di Seldwyla L’idea di comporre una serie di novelle, unite da un tenue ma persistente filo conduttore, nacque in Keller nel 1851, durante il soggiorno a Berlino. Solo più tardi, nel 1853, dopo avere iniziato il romanzo Enrico il Verde e impostato e realizzato alcune novelle isolate, egli intrawide la possibilità di dare loro una fisionomia unitaria e tracciò uno schema, al quale, grosso modo, corrispose la struttura di La gente di Seldwyla. Il grande successo in Germania di raccolte di storie contadine (soprattutto ad opera di Berthold Auerbach) lo frenò molto e lo spinse ad ancor maggiore riflessione. In una lettera al critico Hermann Hettner del giugno 1854 egli parla del compito ingrato che si è assunto e delle immense diffi­ coltà incontrate per dare alle sue novelle un fondo unitario. Nel gennaio del 1855, però, fissa un titolo: La gente di Seldwyla. Il primo volume, di cinque novelle, pronto nel luglio del 1855, uscì nel gennaio dell’anno dopo, quando Keller era già definitiva­ mente rientrato in patria. Il libro fu accolto in modo discorde, trovò un pubblico perplesso e incerto, presso il quale non si impose subito ; la critica, tuttavia, cominciò a dedicargli sempre maggiore attenzione. Il secondo volume, con le rimanenti cinque novelle, vide la luce a grande distanza di tempo dal primo, nel 1874. Si componeva di tre novelle scritte a Berlino e di due, Dietegen e II sorriso perduto, terminate di scrivere pochi mesi prima della com­ parsa del libro. Questa volta sia il pubblico che la critica furono interamente conquistati. La ristampa immediatamente succes­ siva delle due parti (quella del 1856 e quella del 1874) fu accolta con unanime favore e rappresentò forse il più clamoroso successo di Keller.

Sette leggende

Anch’esse concepite fin dal 1851 e scritte a Berlino negli anni immediatamente successivi, dovevano figurare, alternate ad altre novelle di argomento profano, in una raccolta dal titolo La Gala­ tea. Le storie non erano completamente inventate; Keller aveva trovato i soggetti nelle Legenden di Ludwig Theobul Kosegarten pubblicate nel 1816, ma come egli stesso disse in una lette­ ra: «Ripresi i racconti con le parole sante e sdolcinate del vez­

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zoso Kosegarten e ne feci delle storie erotico-mondane, dove la Vergine Maria è la patrona di coloro che hanno voglia di mari­ tarsi». La Galatea però non venne mai data alle stampe. Solo al­ cuni anni dopo, nel 1860, in una lettera di risposta a pressanti domande circa le sue prossime opere, Keller lasciò scorgere la possibilità di rinunciare all’insieme delle novelle e di pubblicare le leggende separatamente. A questo scopo compì una lentissima revisione del testo e negli ultimi mesi del 1871 consegnò il mano­ scritto all’editore. Le Sette leggende uscirono all’inizio del 1872, mentre il materiale sacrificato, completamente rielaborato, entrò più tardi nella raccolta L’Epigramma. Il libro ottenne immediatamente un vasto consenso di pubblico e fu accolto anche dai critici con molto calore, in particolare dallo scrittore svizzero Conrad Ferdinand Meyer e da Eduard Mörike in Germania. Erano trascorsi sedici anni circa dalla pubblicazione dell’ultimo libro di Keller, e l’attesa era indubbiamente grande. A un solo mese di distanza il volume fu tradotto in francese, e in pochi anni se ne fecero parecchie ristampe. Novelle zurighesi

Keller ebbe la prima vaga idea di un ciclo di novelle ambienta­ te a Zurigo durante la febbrile attività berlinese, nel 1853, ma tale progetto rimase inattuato. Tuttavia egli non lo abbandonò: scriveva infatti nel i860 a Berthold Auerbach di avere in mente la composizione di una serie di novelle che, al contrario di La gente di Selduiyla, presentassero una maggiore concretezza di fatti e di riferimenti storici. E in quell’anno, appunto, scrisse La bandiera dei sette impavidi che pubblicò in una rivista nel 1861. Una dozzina d’anni più tardi, trovandosi, con la rinuncia alla carica statale, ad avere maggiore libertà di tempo, egli riprese il vecchio progetto, e finalmente, dietro le pressioni sempre più insistenti di Julius Rodenberg, editore della «Deutsche Rundschau», si decise a ulti­ mare il libro, che chiamò Novelle zurighesi, e a farlo stampare nel 1878. Benché le singole novelle fossero scritte a molti anni di distanza l’una dall’altra, Keller seppe imprimere loro un carat­ tere veramente unitario grazie all’assoluta padronanza di ogni argomento, alla minuziosa e profonda conoscenza dell’ambiente e delle fonti storiche. Fu appunto il criterio dell’aderenza storica che permise a Keller di vincere alcune esitazioni nella inclusione nel libro delle singole novelle {Ursula, ad esempio, doveva iniziai-

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mente figurare nel secondo volume di La gente di Seldwyla) e lo in­ dusse a ordinarle, nel volume, secondo l’epoca in cui le storie si svolgono. Stranamente Keller giudicò sempre con poco favore le cinque novelle. I maggiori critici e scrittori del tempo ebbero, invece, parole di grandissima lode per il libro, in cui ravvisavano soprat­ tutto elementi atti a influire beneficamente sul gusto del pubblico. Conrad Ferdinand Meyer, grande maestro nel genere storico, pur biasimando una certa unilateralità in quel loro persistere e insi­ stere sulla rassegnazione e sull’essere sempre se stessi, ne segnalò l’enorme importanza, mentre Theodor Storm divenne da allora uno dei massimi sostenitori dell’arte di Keller.

L'epigramma Anche la stesura del ciclo di novelle L’epigramma fu irta di osta­ coli. Fin dal 1851, all’inizio del suo soggiorno berlinese, Keller aveva l’idea di scrivere una serie di storie d’amore concepite come un tutto organico, insieme a brevi storie d’argomento religioso. Nel 1855, scrivendone all’editore Duncker, definisce le novelle «gaie, trasparenti e incapsulate in una narrazione a cornice», annuncia che i primi sette capitoli sono pronti e accenna al possibile titolo di Galatea. Senonché l’editore non ricevette mai queste novelle, avendo Keller interrotto il lavoro, quasi sicuramente a causa della rottura della relazione con Betty Tendering. Soltanto una gene­ razione più tardi, nel 1881, le novelle, definitivamente separate dalle storie religiose (già pubblicate con il titolo di Sette leggende e completamente rielaborate) vennero a formare L’epigramma. Fin dal suo apparire nella «Deutsche Rundschau» tra il maggio 1881 eil gennaio 1882, L’epigramma riportò un cosi autentico e clamo­ roso successo che, in poche settimane, se ne fecero ben tre edizioni.

Due storie d’almanacco

Intorno al i860 Gottfried Keller incominciò a scrivere alcuni racconti brevi che pubblicò negli anni successivi, con La bandiera dei sette impavidi (una delle Novelle zurighesi), nel «Volkskalender» («Almanacco popolare») edito in Germania e diretto dallo scrit­ tore Berthold Auerbach. Due diversi campioni della libertà e 11 giorno delle elezioni videro così la luce nel corso del 1866. Keller non raccolse questi piccoli testi nelle Opere complete, ordinate poco pri­ ma della morte, forse ritenendoli poco impegnativi, o perché,

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nelle sue intenzioni, erano primi abbozzi di novelle più impor­ tanti. Tuttavia le due «storie» qui tradotte, per la loro compiu­ tezza e originalità, sono solitamente incluse nelle edizioni moderne delle opere dello scrittore svizzero.

La fortuna di

kellbr

Già in vita Gottfried Keller godette di eccezionale celebrità, e forse mai vi fu in Svizzera un autore meglio accolto di lui. Nep­ pure scrittori della statura di Jeremias Gotthelf e di Conrad Fer­ dinand Meyer, che del resto ebbe spesso parole di grande lode per Keller, uguagliarono la sua fama. I maggiori studiosi di lettera­ tura, Hermann Hettner e Wilhelm Scherer tra gli altri, i più grandi scrittori tedeschi del tempo, Paul Heyse, Berthold Auer­ bach, Eduard Mörike, Theodor Storm, furono suoi amici, ebbero con lui importanti rapporti epistolari e spesso recensirono i suoi libri. Perfino Nietzsche lo ebbe in grande considerazione. Prima ancora del suo affermarsi, all’apparire del primo volume di La gente di Seldwyla, ecco con quanto entusiasmo scrisse di lui Otto Ludwig: «Il Keller possiede un meraviglioso dominio dei colori. Quei colori ardenti li ebbero solo Giorgione c Tiziano! È ro­ manticismo il suo, al quale il temperamento svizzero conferisce la corposità che manca al romanticismo tedesco e che potremmo chiamare verità poetica». Né il successo diminuì dopo la sua morte : i suoi libri continuarono ad avere uno sterminato numero di lettori. Solo nel primo Novecento vi fu un certo indebolimento d’interesse. Non mancarono comunque corsi universitari, mono­ grafie e studi, di Fernand Baldensperger e soprattutto di Albert Kösel, mentre una certa notorietà riscosse una biografia, forse trop­ po entusiastica, di Ricarda Huch. Fu invece Hugo von Hofmann­ sthal a scrivere nel 1907 uno splendido piccolo saggio, in cui quat­ tro amici si intrattengono su Keller e «il suo mondo singolare, mezzo piccolo borghese e mezzo fantastico». Hofmannsthal disse di ammirare soprattutto, in lui, la «forza che dà a tutto, anche al­ l’elemento più insipido, più misto, ancora una forma, in grazia della quale per un momento vive e brilla» e rilevò che non appena ci si immerge nella lettura «si ridesta il senso per incredibili pas­ saggi, dal ridicolo al commovente, dall’insolente, insulso, al do­ loroso», aggiungendo poi che «nessuno ha dipinto come lui l’im­

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paccio in tutti i suoi toni, anche quelli ultravioletti, che di solito non si arriva a vedere». Intorno al 1920 l’opera di Keller ricomin­ ciò ad attrarre l’attenzione del grande pubblico e godette nuova­ mente di una grande fama. Carl Spitteler, in una conferenza data poi alle stampe e molto diffusa, definì l’arte di Keller «l’apogeo della letteratura svizzera» e il particolare umorismo delle novelle «il grande mezzo della sua prosa per elevarsi a stile», mentre disse dell’intera opera che veniva a essere «la soluzione della tensione tra animo poetico e visione realistica». Più tardi, nel 1927, il desiderio di misurare e approfondire l’arte di Keller fece scrivere a Walter Benjamin un articolo sulla rivista «Literarische Welt», in cui si mettevano in luce le più nascoste qualità dell’autore sviz­ zero e i meccanismi creativi più misteriosi di «quel maestro alla cui scuola tutti devono passare per lasciarsi avvolgere da una fiam­ ma che custodisce un segreto: quello della vita». Finché il mas­ simo riconoscimento dell’universalismo di Keller si ebbe nel 1936 con un lungo saggio di Georg Lukàcs (ripubblicato poi, nel 1953, nel volume Deutsche Realisten des XIX Jahrhunderts) in cui l’autore svizze­ ro venne definito «uno dei massimi scrittori epici del XIX secolo» e in cui, affermando che era ormai «venuto il momento di con­ siderare da questo punto di vista la carriera di Keller e di assegnar­ gli il giusto posto tra le reali grandezze della letteratura mondiale», si concludeva che «Keller è grande perché nelle condizioni del suo tempo, sfavorevoli dal punto di vista politico sociale e artistico, ha creato nonostante tutto un’arte cosi alta, un’arte non ristret­ tamente provinciale». In Italia il merito di far conoscere le opere di Keller va in modo particolare a due dei nostri più noti germanisti, il compianto Lio­ nello Vincenti e Lavinia Mazzucchetti. Del primo ricordiamo l’edizione di Enrico il Verde, pubblicata presso Einaudi (Torino, 1944), mentre a cura di Lavinia Mazzucchetti è l’edizione, pub­ blicata presso Hoepli (Racconti, Milano, 1947), dei due gruppi fon­ damentali delle novelle (La gente di Seldwyla e Novelle zurighesi), le cui versioni sono state riprodotte nella presente edizione. Degna di nota è pure la scelta dalle novelle a cura di Ervino Pocar (Sette leggende e altre novelle, pubblicata presso la U.T.E.T., Torino, 1931, e più volte ristampata) e quella, dalle opere, di Ferruccio Amo­ roso, pubblicata presso Garzanti, Milano, 1944, nella collana «Il fiore delle varie letterature».

BIBLIOGRAFIA

Edizioni

delle opere

Gesammelte Werke, Zürich, 1889 (io voll.), a cura dell’autore. Sämtliche Werke, Bern und Leipzig, 1926-1948 (22 voll.), a cura di Jonas Fränkel e Karl Helbling. Werke und ausgewählte Briefe, Hanser Verlag, München, 1958 (3 voll.). Werke, Birkhäuser Verlag, Basel, 1959 (8 voll.), a cura di Gustav Steiner.

Biografia

fondamentale

Emil Ermatinger, Gottfried Kellers Leben, Stuttgart (ultima ed. »950)·

Studi

generali più importanti

Albert Köster, Gottfried Keller. Sieben Vorlesungen, Leipzig, 1900. Max Hochdorf, £am geistigen Bilde Gottfried Kellers, Zürich, 1919. Thomas Roffler, Gottfried Keller, Leipzig, 1931. Georg Lukàcs, Deutsche Realisten des XIX Jahrhunderts, Berlin, 1953 (trad, italiana Realisti tedeschi del XIXsecolo, Milano, 1963).

Alfred Zach, Gottfried Keller im Spiegel seiner Ze'l> Zürich, 1952. Alcuni studi particolari Max Kriesi, Gottfried Keller als Politiker, Leipzig, 1918. P. Schaffner, Gottfried Keller als Maler, Stuttgart, 1929. Kurt Ehrlich, Gottfried Keller und das Recht, Zürich, 1945. Contributi italiani Matilde Accolti-Egg, Gottfried Keller, Roma, 1931. Ferruccio Amoroso, Introduzione a Keller, Milano, 1944. Nello Saito, Interpretazione del Keller, Roma, 1956.

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