Tutela urbis. Il significato e la concezione della divinità tutelare cittadina nella religione romana
 9783515097857

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Giorgio Ferri Tutela urbis

POTSDAMER ALTERTUMSWISSENSCHAFTLICHE BEITRÄGE (PAwB)

Herausgegeben von Pedro Barcel6 (Potsdam), Peter Riemer (Saarbrücken), Jörg Rüpke (Erfurt) und John Scheid (Paris)

Band 32

Giorgio Ferri

Tutela urbis Il significato e la concezione della divinità tutelare cittadina nella religione romana

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Franz Steiner Verlag Stuttgart 2010

Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek: Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet iiber abrufbar. ISBN 978-3-515-09785-7 Jede Verwertung des Werkes auBerhalb der Grenzen des Urheberrechtsgesetzes ist unzulassig und strafbar. Dies gilt insbesondere fiir Obersetzung, Nachdruck, Mikroverfilmung oder vergleichbare Verfahren sowie fiir die Speicherung in Datenverarbeitungsanlagen. Gedruckt auf saurefreiem, alterungsbestandigem Papier.

© zoro Franz Steiner Verlag, Stuttgart

Druck: Bokor Offsetdruck, Bad Tolz Printed in Germany

Petra avo dilectissimo

Rut. Nam. De red. I 3-4: Quid /ongum toto Romam venerantibus aevo ? Nil umquam longum est, quod sine fine placet.

RINGRAZIAMENTI

Desidero in questa sede ringraziare - senza alcuna retorica - alcune persone, il cui contributo è stato determinante alla genesi, all'elaborazione, al completamento e alla pubblicazione del presente lavoro. In primis il Prof. Jorg Rilpke, ordinario di Vergleichende Religionswissenschaft presso l'Università di Erfurt, che ha molto gentilmente acconsentito ad acco­ gliermi per un anno in Germania e ad instaurare una collaborazione tra i nostri due paesi nella forma di un dottorato in co-tutela. Egli mi ha permesso così di con­ frontarmi con una tradizione di studi diversa da quella in cui mi sono formato : dal che è scaturito un mio grande arricchimento, certo dal lato della formazione scientifica, ma parallelamente - e non è un dato scontato - anche dal lato umano. Le sue osservazioni e i suo i consigli sono stati assai preziosi. Devo infine alla sua cortesia e alla sua certamente immeritata considerazione la pubblicazione in que­ sta sede prestigiosa. Per quanto riguarda l'Italia, i miei più sinceri ringraziamenti vanno alla Prof.ssa Anna Pasqualini (Antichità Romane) e al Prof. Mariano Malavolta (Storia Ro­ mana), miei referenti accademici presso l'Università di Roma ''Tor Vergata", l ' ateneo presso il quale ho avuto il piacere e il privilegio di svolgere il mio dotto­ rato di ricerca. Senza la loro enorme competenza, il loro sostegno e la loro dispo­ nibilità questo lavoro non avrebbe mai visto la luce. Un affettuoso debito è anche quello che porterò sempre al Prof. Enrico Montanari, ordinario di Storia delle religioni presso l'Università di Roma "La Sapienza". Egli mi propose, ormai qualche anno fa (nel 2004), di laurearmi con lui, dandomi per­ tanto la possibilità di effettuare la decisiva - per me - scoperta della disciplina da lui insegnata, che mi ha dischiuso nuove e stimolanti prospettive. Infine a lui devo la pubblicazione del lavoro che costituisce il completamento di quello che il let­ tore sta sfogliando ora (qui FERRI 20 1 0a). La sua eccellente padronanza di più ar­ gomenti ha costituito un apporto di insostuibile rilevanza per la mia formazione. Altri docenti e colleghi hanno reso possibile il compimento della mia ricerca, con il loro apporto - diretto o indiretto - sul piano accademico, scientifico e umano . Li menzionerò qui in ordine rigorosamente alfabetico (omettendone i titoli solo per evitarne la continua ripetizione) : Alfonso Archi, Corinne Bonnet, Enzo Caffarelli, Giovanni Casadio, Mario Chighine, Annette Hupfloher, Paolo Garofalo, Richard Gordon, Charles Guittard, Eugenio Lanzillotta, Attilio Mastrocinque, Giovanni Mennella, Diana Pilschel, Veit Rosenberger, Claudia Santi, Valerio Salvatore Se­ verino e Marco Toti.

PREFAZIONE

Volendo riferire il presente studio ad una determinata tradizione di studi accade­ mici, non si esiterà a collocarlo nell'alveo della cosiddetta "Scuo la di Roma" di Storia delle religioni. Tale "etichetta" tuttavia pone più problemi di quanti in re­ altà non ne risolva: il fatto stesso di mettere l'espressione tra virgo lette è già un segnale di quanto la pur generica denominazione di "scuola" sia di per sé troppo angusta per comprendervi le diverse e disparate prospettive degli studiosi ad essa appartenuti o che ad essa hanno improntato il proprio metodo. Caposcuola indiscusso 1 della Storia delle religioni in Italia fu Raffaele Pettaz­ zoni, che ne tenne la prima cattedra stabile presso l'Università di Roma "La Sa­ pienza" a partire dal 1 924. Pettazzoni fu studioso insigne a livello internazionale e molto attivo a tutti livelli, accademico, scientifico, coordinativo ed organizzativo : conferì dignità accademica alla disciplina in Italia, rivendicandone l'autonomia; redasse opere di notevole respiro e profondità (La religione nella Grecia antica fino ad Alessandro ( 1 92 1 ); Dio. Formazione e sviluppo del monoteismo nella sto­ ria delle religioni. Vol. 1: L 'essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi ( 1 922); La confessione dei peccati ( 1 929-1 936) e L 'onniscienza di Dio ( 1 955), solo per citarne alcune); fondò nel 1 925 la rivista dal titolo «Studi e Materiali di Storia delle Religioni»2 , e nel 1 954 il periodico «Numem> (entrambe ancora in attività); fu accademico dei Lincei e presidente deii ' IAHR (International Associa­ tion far the History of Religions)3 . Dopo Raffaele Pettazzoni la disciplina in Italia ha annoverato tra le sue fila studiosi di notevole caratura intellettuale, quali Angelo Brelich, Ernesto de Mar­ tino, Ugo Bianchi e Dario Sabbatucci, solo per fare alcuni nomi. Nonostante le rilevanti differenze tra i rispettivi metodi - emblematiche ad esempio quelle rin­ venibili tra Pettazzoni e de Martino4 - così come la diversità dei temi indagati, pur tuttavia è possibile individuare dei punti di riferimento comuni. Per dar conto in questa sede della metodologia propria alla "Scuola di Roma", il punto di vista più interessante ci sembra quello di Angelo Brelich (d'ora in poi B.), per più di un motivo . Anzitutto, in quanto successore di Raffaele Pettazzoni alla cattedra di Storia delle religioni dell' Università "La Sapienza" di Roma, nel 1 958, 5 egli si trovò di fronte all' arduo compito di prendere in mano il timone della disciplina in Italia: compito tanto più difficile in quanto l ' illustre predecessore

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Il primo insegnamento accademico in assoluto in Storia delle religioni Italia fu quello tenuto da B. Labanca a partire dal 1 886, trasformata però solo due anni dopo in insegnamento di Storia del Cristianesimo. La disciplina fu reintrodotta poi in Italia nel 1 9 1 2 da U. Pestalozza presso la Regia Accademia scientifico-letteraria di Milano. Dapprima libero docente, questi ebbe poi una cattedra stabile nel capoluogo lombardo a partire dal 1 935. Cfr. BIANCHI 1 970, 26; SINISCALCO 1 996. Sulla genesi e le vicende relative alla rivista, cfr. BRELICH 1 979f. Per una dettagliatissima biografia di Raffaele Pettazzoni si rimanda a quella redatta da Mario Gandini sul periodico «Strada Maestra)). Cfr. MONTANARI 2006; da ultimo cfr. SEVERIN O 2009. Egli era risultato primo davanti a E. de Martino e U. Bianchi. Il concorso portò all' istituzione di due nuove cattedre di Storia delle religioni, a Cagliari (de Martino) e a Messina (Bianchi).

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l' aveva più o meno istituita in Italia, e ne era stato fmo ad allora l'unico esponente di rilievo internazionale, detenendone peraltro, lo si è visto, la prima cattedra sta­ bile nelle università italiane. B. cercò di definire le premesse, la fisionomia, i con­ fini e i criteri metodologici propri alla Storia delle religioni, e ciò anèhe più di Pettazzoni, per cui il metodo era piuttosto implicito nella ricerca. 6 Tale sforzo era acuito anche dal personale travaglio dello studioso : egli, nato a Budapest da padre fiumano e madre ungherese, si era formato scientificamente in Ungheria con maestri quali Andnis Alfoldi e Karoly Kerényi, laureandosi con quest 'ultimo nel 1 937. 7 Necessariamente il suo metodo fu improntato a quello vi­ gente in terra magiara, essenzialmente quello di Kerényi. I l problema è che esso presentava delle differenze insanabili con il metodo cui si richiamava Pettazzoni: 8 tra le altre la presenza di categorie e concetti presupposti come universali, dunque a-storici, quali «solare», «lunare», 1 9 • In questo tentativo di Il

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BRELICH 1 956, 1 -30; BRELICH 1 958, 364-365, BRELICH 1 9 79a, 62-{i4. In realtà tale recen­ sione aveva in origine un ' intenzione di "apertura", piuttosto che di "rottura", come ha ben messo in evidenza SPINETO 2003 , 399 sgg. , in base alle lettere contenute nell'epistolario di Kerényi. BRELICH 2002; NANINI 2004, 6 sgg. BRELICH 2002, 1 4 1 . Cfr. BRELICH 1 960; BRELICH 2002. Circa la comparazione nei lavori di B., cfr. BRELICH 1 960, 63-1 1 9; LANCELLOTTI 2005 ; FERRI 20 1 0b. Si veda inoltre il numero monografico de­ dicato al tema, a cura di G. Filoramo e N. Spineto, del periodico «Storiografia» (6, 2002). BRELICH 1 960, 84; CFR. BRELICH 1 979c, 1 28. 8RELICH 1 966, 66. lbid., 4 sgg.; cfr. BRELICH 1 985, 202-203 ; SABBATUCCI 2000, 286. BRELICH 1 979e, 1 40 sgg. lbid., 1 56.

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esercitare un controllo su tutto ciò che apfcare incontrollabile si ricorre spesso alla personalizzazione e all' antropomorfismo 0 . Tali procedimenti favoriscono e con­ sentono all' uomo di entrare in relazione più facilmente con gli esseri sovrumani, ma anche di comprendere meglio il mondo circostante: «esprimere in forme umane tutto ciò che circonda l 'uomo e determina il suo destino, significa contem­ poraneamente due cose: il mondo, pur senza perdere nulla della sua sovrumana potenza e grandezza, appare più comprensibile, più trasparente, meno informe e mostruoso ; allo stesso tempo l'uomo, ritrovando le proprie forme nel mondo non­ umano, acquista non so lo un maggior senso di sicurezza e confidenza con la re­ altà, ma anche una maggiore dignità, poiché riconosce sé stesso come simile agli dèi che reggono l'universo»2 1 • Tutte queste considerazioni, riflesso del costante impegno di B. alla valuta­ zione del rapporto tra "religione" e "religioni", lo portano senz 'altro ad affermare che non esiste "la" religione: «è inaccettabile la posizione di co loro che conside­ rano le religioni storiche come semplici varianti "della religione", cioè, nei fatti come forme più o meno snaturate e deformate dell'unica vera religione determi­ nata dalla realtà oggettiva trascendente»22 • La religione «non è stata (e non è, dove esista e funzioni) - mai e in nessun luogo - un 'dato di fatto ' , né piovuto dal cielo per rivelazione né congenito alla natura umana né insito in una certa forma cultu­ rale, un dato di fatto di cui cambino solo, quasi secondariamente o casualmente, le forme superficiali, ma sempre e dovunque, come la cultura stessa, creazione con­ tinua» 23 . Anche le c. d. "religioni universalistiche" non possono essere comprese al di fuori di determinate configurazioni culturali. 2 4 Veniamo al primo pilastro dell' impostazione metodologica condivisa da B. Si è parlato di processi storici: essenziale importanza acquista dunque lo studio della storia che prescinda da qualsivoglia scivo lamento nell' arbitrario o nel metafisico. La Storia delle religioni non deve allontanarsi dall 'approccio storicistico : di qui le nette prese di posizione del B. nei confronti di quegli orientamenti che, secondo lo storicismo, deformerebbero la storia alla luce di schemi predefiniti o precon­ cetti e di quelli che, cosa ancor più grave, pretendono di basarsi su presupposti più o meno scopertamente fideistici o a priori astorici. B. nello specifico definisce lentamente un orientamento metodologico che de­ finisce storicista, nel corso di una costante polemica nei confronti di posizioni di metodo, rispetto alle quali distingue le proprie per opposizione e negazione, sta­ bilendo un nuovo orientamento sulla base di ciò che a suo avviso non si poteva più essere. Tra le posizioni verso cui il B. appuntò le sue critiche vi sono : evo lu­ zionismo, strutturalismo, monoteismo primordiale, fenomenologia religiosa, il

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Cfr. infra, cap. I l. BRELICH 2007, 59; cfr. SABBATUCCI 2000, 296: «gli dèi sono gli strumenti logici con cui una religione politeistica "pensa" la realtà)). lbid., 1 3 8. BRELICH 1 969, 9; cfr. LANTERNARI 1 997, 87: «per comprendere le radici di un fenomeno nelle sue componenti religiose non è possibile trascurare molti altri aspetti e problemi riferi­ bili alle componenti extra-religiose»; MASSENZIO 1 997, 520. BRELICH 1 979h, 242-244.

PRE FAZIONE

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concetto di homo religiosus, psico logismo, contro le quali applica spesso la cate­ goria critica cosiddetta dell' irrazionalismo. Z5 In opposizione a tutti questi orientamenti il B. ribadisce e sottolinea come l ' impostazione sottesa allo studio scientifico delle religioni debba essere rigoro­ samente storicistica. Il fatto di riconoscere qualcosa di immutato nell'umanità, anch'esso tuttavia «costituito storicamente in epoche estremamente remote», non deve far «recedere neanche di un passo dallo storicismo : l' indirizzo non dipende dalle teorie "ultime" che sono probabilmente piuttosto le sue proiezioni e che re­ stano ( . . . ) indimostrabili» 2 6 . In realtà non si è mai trovata una struttura unica che caratterizzi tutte e solo le religioni, ma se anche per assurdo la si trovasse, essa andrebbe comunque ricondotta esclusivamente alla storia. 2 7 Di qui la critica, a vo lte sottesa, a volte meno, anche a chi riteneva che lo sto­ ricismo costituisse solo «Un'opzione filosofica, cioè un preconcetto (leggi: non meno ingiustificato e scientificamente compromettente dei preconcetti fideisti­ ci)» 2 8 , per cui il B. ribatteva che, comunque, «al mestiere dello storico !"'opzione" storicista" è "più confacente di ogni altra: lo storico, in quanto tale, cerca, ed esclusivamente, le ragioni storiche, cioè umane, di ogni formazione culturale (e perciò anche religiosa) e abdicherebbe al suo mestiere nel momento stesso in cui ammettesse la sola possibilità di un intervento di fattori sovrumani nella storia o fondasse giudizi su valori "assoluti" prestabiliti da Dio o chi per lui» 2 9 . Volendo spingerei ancora più in là: «anche se noi riteniamo che una determi­ nata religione sia quella 'giusta' e le altre erronee, restiamo sempre davanti al compito storico di spiegare come in una civiltà si sia costituita o diffusa la 'giusta' religione, e come nelle altre ( . . . ) religioni 'false ' ; a questa questione storica non risponde - dal punto di vista scientifico - neppure la tesi della 'rivelazione' , per­ ché rimarrebbe sempre da chiedersi perché la rivelazione sia stata accolta da una parte dell'umanità e non da altre parti di essa»30 . Di conseguenza: «dal punto di vista storico è irrilevante se una credenza sia 'giusta' o 'sbagliata' »3 1 ; «anche lo storico credente, finché studia la storia delle 25 26 27 28 29

Per una più esauriente disamina degli argomenti prodotti dal B. contro questi orientamenti, cfr. FERRI 20 1 0a, appendice. BRELICH 1 979g, 2 1 2. BRELICH 1 966, 4; BRELICH 1 979h, 249; per le recenti riprese dell'orientamento fenomenolo­ gico, cfr. XELLA 2003, 232-239. Sulla peculiare «opzione» di E. de Martino, cfr. BIANCHI 1 970, 1 65- 1 66. BRELICH 1 979g, 207. Cfr. LANTERNARI 1 997, 78: fenomenologia e teologia operano «assu­ mendo i fatti religiosi nella loro astrazione, staccati dalla storia culturale, sociale, politica en­ tro cui sono calati»; DE MARTINO 1 953- 1 954, 2 1 : «la storia del sacro cede il luogo ad una più o meno dissimulata storia sacra»; DE MARTINO 1 957 : 90: «con ciò la storia delle religioni entra in un non compon ibile dissidio con la teologia, fondata invece sull'opposta persuasione che all' inizio del processo ierogenetico non sia l'uomo storico, ma Dio»; GASBARRO 1 988, 297: «ci possono essere in una cultura fenomen i etichettabi li dallo storico come metastorici ( . . ), ma una cosa è leggere questi fenomeni come manifestazioni-concretizzazioni di un noumeno ontologicamente o teologicamente presupposto come vero e reale, un 'altra è guar­ dare ad essi come ad invenzioni culturali completamente umane». BRELICH 1 966, 7. lbid. .

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religioni, deve sapere prescindere dalla propria fede, perché non appena introduce nell' interpretazione di un fatto religioso fattori sovrumani ( . . . ), egli rinuncia al mestiere dello storico, che è quello di cercare di rendere conto delle ragioni umane che hanno prodotto un fenomeno culturale, un evento, una situazione, ecc.»32 . La religione va studiata nella storia e solo in essa. In definitiva - schematiz­ zando - da una parte vi sono «co loro per i quali niente di essenziale è mai cam­ biato, può cambiare o deve cambiare il mondo; tutto è deciso sin da sempre», da quando, a seconda delle posizioni, Dio ha creato il mondo e l'uomo o comunque da quando quest'ultimo esiste; dall'altra parte «stiamo noi, stanno coloro per i quali la partita è aperta, per i quali c'è stata, c'è e ci sarà storia», per i quali «l'uomo di oggi non è proprio quello di sempre e nemmeno quello di una genera­ zione fa e per i quali il domani dell'uomo dipende anche da ciò che sta già fa­ cendo» 33 . I due campi vengono ad essere di conseguenza, secondo questo schematismo, uno «sia pur inconsciamente religioso o teologico e l'altro integralmente laico ; uno sostanzialmente conservatore ( . . . ) e l'altro impegnato nel presente e aperto al futuro»34 . E allora anche !' «opzione» diventa «storica»: «anche questa posizione genericamente umana mi appare inseparabile dalla posizione dello storico : prefe­ risco d 'aver "scelto" così, perché nello stesso poter scegliere trovo la giustifica­ zione della mia posizione: non tutto è determinato sin da sempre, se io posso an­ cora scegliere. La storia sta, appunto, in scelte»35 . Dunque perché storicismo? «Basta la semplice risposta: perché so lo lo storici­ smo risponde ai fatti obiettivù>3 6 • Ma allora quale storicismo? «Lo storicismo che no i contrapponiamo a ogni indirizzo antistorico, si fonda anzitutto sul fatto obiet­ tivo del continuo ( . . ) mutare delle culture e sul riconoscimento che esso dipende dalle forze creative delle società umane, che si esplicano nelle varie forme della conservazione e dell' innovazione. Questo storicismo prescinde da ogni presuppo­ sto metafisico ( . . . ) e si realizza nell' individuare i fattori che mettono in grado, di vo lta in vo lta, di procedere alla scelta di una soluzione culturale. Esso mira a comprendere la novità e la portata di ogni siffatta soluzione mediante il confronto .

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BRELICH 1 979h, 249-250; si vedano inoltre le riflessioni del B. all'indomani del famoso con­ gresso deii'IAHR del 1 960, tenutosi a Marburgo: BRELICH 1 979d (cfr. la posizione di Wer­ blowsky riferita in SCHIMMEL 1 960; SHARPE 1 986 2 , 276--2 78; per tutti gli sviluppi istituzio­ nali successi vi, STAUSBERG 2008). Cfr. PETIAZZONI 1 959, l 0: voler affiancare alla religione un altro valore oltre a quello culturale - quindi umano - assegnandole un "valore autonomo", porterebbe a voltare le spalle all'idea di svolgimento, che è invece «al centro del pensiero sto­ ricistico)); SABBATUCCI 2000, 1 28-1 29, «Fare storia delle religioni secondo l'insegnamento di Pettazzoni, significa accettare la sua problematica e il relativo metodo di ricerca, per cui sto­ ria religiosa e storia politica sono un tutt'uno: sono storia culturale)). BRELICH 1 979g, 209; cfr. tuttavia CASADIO 2005, 4046: «In stark opposition to phenomeno­ logy and any other irrationalist approach, Brelich stresses the omnipresence of history as a factor of total explanation, a concept that in his illusory persuasiveness is clearly conditioned by a positivist mentality>>. Sulla risoluzione senza residui nella storiografia, come linea meto­ dologica che unisce Brelich-de Martino-Sabbatucci si veda SEVERINO 2009, 1 29-1 30. BRELICH 1 979g, 209-2 1 0. lbid., 2 1 0. Jbid., 2 1 8.

PREFAZIONE

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con la situazione precedente e con altre soluzioni scelte in situazioni analoghe ( . . . ) da altre società: donde la sua dimensione comparativa da cui nessuna sto rio­ grafia può prescindere sotto pena di esaurirsi in mera cronaca locale»37 . Seconda componente essenziale del metodo storico-religioso è la compara­ zione. Come ebbe modo di affermare Pettazzoni: «la natura è il mondo della ne­ cessità; la storia è il mondo della libertà, e quindi della varietà, e quindi della comparabilità» 3 8 . I l metodo comparativo si esplica quindi immancabilmente nella storia: «La ri­ cerca del comparabile diventa anzitutto ricerca delle ragioni storiche cui la com­ parabilità è dovuta: ma po i, rendendosi sempre più lucidamente conto del fatto che comparabilità non significa mai identità, il comparativista si trova anche di fronte al compito di individuare le ragioni, ugualmente storiche, per cui le forma­ zioni comparabili non si riducono a questo loro aspetto, ma sono anche risultati di singo li, unici e irripetibili processi creativi, riso lutori di situazioni in ogni caso differenti» 39 . Tanta è l' importanza della comparazione per il B. da spingerlo ad af­ fermare che «fuori del comparativismo, la storia delle religioni non è nulla, non esiste»40 . Tale impostazione è nel B. cosciente e compiuta, come si è già avuto modo di notare poco sopra, a partire dalla sua opera Tre variazioni romane sul tema delle origini ( 1 955). Nella prefazione alla seconda edizione del vo lume ( 1 976), egli af­ ferma: «lo scopo stesso della comparazione - anziché l ' appiattimento e la genera­ lizzazione, - è precisamente l' individuazione di quanto in ogni formazione cultu­ rale è irripetibilmente specifico, ma che senza lo sfondo comparativo apparirebbe - oltre che inafferabile - privo di rilevanza storica»; inoltre essa «non deve ope­ rare illazioni sull'oggetto specifico della ricerca, presumendo che quanto esiste altrove, debba necessariamente esistere anche in esso»4 1 • La comparazione è il «filo di Arianna» della Storia delle religioni, a patto però che sia storica ( individuante) : «non, cioè, una comparazione orizzontale e sterile di fenomeni, bensì comparazione di processi storici; non comparazione in­ tenta a livellare e a ridurre, bensì a differenziare e a precisare, onde cogliere, oltre che le trame fondamentali comuni, le irripetibili soluzioni creative concrete»42 . In­ fatti «nella ricerca storica ( . . . ) non si ha bisogno di scoprire e tener presente ciò che ci è di comune tra diversi fenomeni ( . . . ), ma anche di osservare scrupo losa­ mente quanto, sullo sfondo di ciò che è comune tra di essi, distingue un fenomeno dall'altro»43 . Nel procedere alla comparazione e alla valutazione della specificità di una cultura, va sempre tenuta a mente la polarità tra conservazione e innovazione,

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lbid., 222. PETTAZZONI 1 959, I l . BRELICH 1 979f, 1 95. lbid., 1 96; sul metodo comparativo di B. cfr. in generale LANCELLOTTI 2005; FERRI 20 l Ob; per una storia degli studi, cfr. PETTAZZONI 1 959; RIES 1 996. BRELICH 20 1 03 , 32. BRELICH ! 979c, 1 29. BRELICH 1 969, 1 6 ; cfr. SABBATUCCI 2000, 1 00.

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«due aspetti del medesimo processo, perché nessuna religione, come nessuna ci­ viltà crea ex nihilo, mentre d'altra parte anche la 'pura' conservazione richiede sempre nuovo impegno nel continuo mutare delle condizioni»44 . Infatti «ogni pro­ dotto culturale, finché vive (ma neanche per la sua morte si può stabilire un istante preciso), è, in ogni momento della sua esistenza, contemporaneamente conserva­ zione e innovazione creativa»; ancora, «anche la conservazione può avere un aspetto creativo nello sforzo di salvare valori antichi in condizioni mutevo li, mentre anche l ' innovazione, oltre ad avere necessariamente la propria base nella tradizione, può anche consistere nel ripresentare questa in forme adeguate alle nuove condizioni - ciò che non esclude, ma integra so ltanto, l'aspetto inerte e va­ cuo della conservazione e quello originale e creativo dell' innovazione>>45 . Nell'esame degli elementi oggetto dei due processi, B. preferisce parlare di «riplasmazioni», piuttosto che di «relitti» o «sopravvivenze» (i survivals della vecchia antropologia evo luzionistica). Egli si serve del funzionalismo46 ma, colmandone la grave lacuna del disinteresse per il processo storico, preferisce sottolineare la funzione attiva che tali elementi rivestono in una data società: essi sarebbero cioè stati «riplasmati» per assolvere ad una nuova funzione, e anzi pro­ prio perché conservano un'utilità sono stati riadattati e trasmessi. Al criterio funzionalista di sopravvivenza, secondo il quale niente sopravvive che non trovi una funzione nuova, B. affianca quello della variazione d'importanza, per cui ciò che era prima fondamentale viene marginalizzato, ma non per un' incapacità intrinseca al madre Terra, e te, Giove, prendo a testimoni". Quando nomina la Terra, tocca la terra con le mani; quando nomina Giove, alza le mani al cielo; quando dice di impe­ gnarsi nel voto, si tocca il petto con le mani. Mi risulta che nei tempi antichi furono maledette le seguenti città: Stoniost, Fregelle, Gavi, Veio, Fidene, entro i confini d'Italia; inoltre Carta­ gine e Corinto, e molti altri eserciti e città nemiche in Gallia, in Spagna, in Africa, in Maure­ tania e in altre regioni, di cui parlano gli antichi annali. Di qui dunque ha origine la frase di

5.2. STORICITÀ DELL'EVOCA TIO

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Virgilio per questa evocazione e spostamento di divinità: "uscirono tutti, lasciati i templi e gli altari, gli dèi ... "; e per indicare che si trattava di numi tutelari, aggiunse: "su cui si reggeva questo impero". E per mostrare, oltre all 'evocazione, anche la forza della maledizione, in cui, come abbiamo detto, si invoca specialmente Giove, dice: " .. .l'aspro Giove ad Argo tutto l tra­ 36 sferì" [Aen. II, 326--3 27 ] .

Lo scrittore, per sua stessa ammissione, attinse al quinto libro delle Rerum recon­ ditarum di Sammonico Sereno, 37 a loro volta debitrici dell'opera di un certo Furio, verosimilmente Lucio Furio Filo, intimo amico di Scipione. 38 Questi fu forse an­ che uno degli auctores non specificati in cui Verrio Fiacco trovò le notizie sull'evocatio riportate da Plinio 39 ed utilizzate presumibilmente anche da Plu­ tarco40 e Sammonico. 4 1 Si è proposto anche il nome di Cornelio Labeone, esperto di Etrusca disciplina, vissuto nel III sec. d. C.42 Da questo o da altri testi molto probabilmente lo stesso Virgilio conobbe il rito dell 'evocatio. Infatti sia il commento di Servio, sia la trattazione più esau­ riente di Macrobio, hanno come punto di partenza il medesimo passo virgiliano (Aen. II 3 5 1 -352): Excessere omnes adytis arisque relictis l di, quibus imperium hoc steterat. 43 Il vate mantovano poteva aver certamente rinvenuto un episodio analogo in Omero,44 ma non è da escludere una conoscenza più diretta del rito alla luce degli eventi relativi all'assedio di Perugia del 40 a. C., in cui fu con tutta pro­ babilità evocata la divinità tutelare della città, !uno Perusina. 45 Di più, la cono­ scenza poteva essere di prima mano poiché responsabile dell' evocazione della dea fu Augusto in persona. Anche l'etrusco Mecenate poteva essere ben informato circa lo svolgimento dei fatti, la cui eco e la cui portata, già di per sé notevoli basti ricordare come mo lti (antichi e moderni) parlino in proposito di simbolo della fine del nomen Etruscum46 - potevano rivestire un particolare interesse per

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Macr. Sat. III 9, 1 - 1 5. Su Macrobio, cfr. CRACC O RUGGINI 1 979, 36, n. 9 1 ; PASCHOUD 1 993, 709; sulla cronologia, in rapporto anche alla figura di Servio, cfr. PELLIZZARI 2003, 5, 1 5 sgg. Su Sammonico Sereno, in particolare nell 'opera di Macrobio, cfr. RAWSON 1 973, 1 69. Cfr. supra, par. 4. 1 .3 . N. h. XXVI I I 1 8 ; cfr. KOVES-ZULAUF 1 972, 88. Q. R. 6 1 . RA WSON 1 973, 1 69. GU!TT ARO 1 998b, 64. Serv. Ad Aen. II 35 1 ; Macr. Sat. III 9, l e 1 4; cfr. ANSALDI 1 743, 4: Macrobii testimonio, nemo Marone nitide ac evidenter magis ad vetustissimum & occultissimum hoc sacrum re­ spexit. Ille siquidem Trojae obisidionem & incendium, in rEneae narratione Didoni facta, Romano more, describens, victos non modo memorat Deos captos Penates, verum & quum jam moenia armatus hostis haberet, sese in arma praecipitem ferrentem rEneam, extremam­ que ad ultionem Socios ita hortantem inducit: "Juvenes fortissima frustra Pectora, si vobis audentem extrema cupido Certa sequi quae sit rebus fortuna, videtis. Excessere omnes adytis arisque relictis Dii, quibus imperium hoc steterat ". Cfr. Serv. Ad Aen II 244: ( . . . ) Sane si peritiam Vergilii diligenter intendas, secundum disciplinam carminis Romani quo ex urbibus hostium deos ante evocare solebant hoc dixit; erant enim . . . Cfr. a d es. Om. II. XX I I 2 1 3 . SORDI 1 993. lbid., 1 9 1 - 1 92 .

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5 . GIUNONE CELESTE

Virgilio, orgoglioso della sua romanità ma ben consapevole allo stesso tempo delle origini etrusche della città nei pressi della quale era venuto al mondo. 47 Non sembra comunque giustificato nutrire eccessivi dubbi sulla storicità dell'evocatio verificatasi a Cartagine al termine della terza guerra punica, 48 così . da L atte, 50 Pfi1ster5 1 e come e' stato c.1atto tra g 1·1 a ltn. d a G eorg w·1ssowa,49 seguito 52 Gabba, i quali, sulla base della mancanza di tracce del culto di Giunone Celeste a Roma prima di Settimio Severo, ritengono la tradizione sull' evocatio una leg­ genda tarda. 53 Anzitutto, Scipione si dimostrò scupoloso osservatore delle tradizioni reli­ giose considerate come autenticamente romane, 54 avendo in questo campo degli illustri modelli: Lucio Emilio Paolo e Publio Cornelio Scipione, entrambi auguri, il secondo anche membro del collegio dei Salii. 55 Numerose cerimonie scandirono le varie fasi del conflitto : una delle più importanti fu la cosiddetta devotio ho­ stium, la consecratio della città alle divinità infere. 56 Nello specifico, anche se le uniche testimonianze della celebrazione di un'evocatio di fronte a Cartagine sono tarde, e manca una menzione in un testi­ mone oculare quale Polibio ( la sua narrazione ci è giunta in frammenti, ma è alla base del testo di Appiano), ben attestata è invece la celebrazione del rito che con­ sentiva di radere al suolo un centro urbano, e ciò era possibile solo se gli dèi lo avevano abbandonato, quasi sempre perché evocati. 57 5 . 2 .2. Analisi del carmen evocationis

Vi sono poi ragioni più propriamente linguistiche, legate alle caratteristiche del carmen evocationis, così come ci è stato tramandato da Macrobio. Per quanto sia stata avanzata la possibilità che esso possa costituire un nuovo assemblaggio da materiale preesistente, comunque antico, 58 sembra infatti ormai un dato acquisito quello relativo alla sua autenticità e arcaicità. 59 Carmen è qui inteso nel senso di «formula composta di certe parole ad un certo scopo»60 , spesso a carattere ritmico, 6 1 anche se il passo successivo alla sfera

47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61

Aen. X 1 98 sgg. ; cfr. Plin. N. h. III 1 30; PERRET 1 952, 7-8. Cfr. PICARD 1 954, 1 0 1 .

WISSOWA 1 9 1 2 2 , 3 74. LATTE 1 960, 1 25, n. 2 e 346, n. 4. PFISTER 1 966, 1 1 62. GABBA 1 990, 233, n. 1 33 . Motivi d i perplessità anche i n RAWSON 1 973, 1 69- 1 72. Cfr. RA WSON 1 973, 1 64- 1 66; BERTI 1 990, 7 1 -72. Cfr. Plut. Aem. 3, l sgg. ; Liv. XL 42, 1 3 ; XXXVI I 33, 7 ; Polyb. XXI 13, I O. Ma cfr. VERSNEL 1 976, 405. Su delle possibili eccezioni, cfr. infra. VERSN EL 1 976, 387. ENGELBRECHT 1 902; CATALANO 1 965, 25, n. 4 1 ; VERSNEL 1 976, 379 sgg. ; COARELLI 1 988a, 405-406; DUMÉZIL 200 1 2 , 369-3 70. Per tutti i significati, cfr. LTL s. v. Per vari esempi di carmina, cfr. APPEL 1 909, 8 sgg. HICKSON HAHN 2007, 236.

5 .2. S TORI C ITÀ DELL'EVOCA T/0

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del vaticinio, ma soprattutto del maleficio (excantatio) è assai breve. 62 Esso costi­ tuiva anzitutto la componente più importante del più complesso rituale dell'evocatio. Macrobio ne fornisce alcune definizioni: mos vetustissimus, Roma­ nus, arcanus, multis ignotus e annoverabile tra gli occultissima sacra. 63 Si fa riferimento dunque ad un rito ritenuto molto antico, con la componente di inde­ terminatezza che ciò comporta (arcanus), ma allo stesso tempo con una marcata componente «attiva» di segretezza per evitare che altri ne facessero un uso poten­ zialmente dannoso, principalmente ai danni della stessa Roma. 64 Esso è ritenuto inoltre come autenticamente romano. 65 Il carmen era quasi sicuramente custodito dai pontefici. Possiamo affermare ciò in primis per la menzione di una disciplina carminis Romani con il quale i Romani evocavano gli dèi dalle città nemiche. 66 Il termine disciplina ha qui il va­ lore di doctrina, scientia, sapientia, periti a, experientia; può averne anche uno più vincolante di leges civitatis. 67 Ci si riferisce dunque ai possessori di conoscenze tecniche specifiche in campo religioso, gli stessi che ai primordi della storia di Roma erano competenti anche in campo giuridico: 68 [ius civile] per multa saecula inter sacra caerimoniasque deorum immortalium abditum soli­ sque pontifìcibus notum. 69

La conferma arriva da Plinio, secondo il quale l'evocatio era un sacrum ancora ben conosciuto al suo tempo e custodito in pontificum disciplina. 70 Il riferimento ai pontefici è rafforzato pure dalla doppia menzione che fa Servio, subito dopo aver parlato dell' evoca/io, prima del ius pontifica/e (e di un rito analogo, l' exauguratio) 7 1 , poi della preghiera rivolta da loro a Giove Ottimo Massimo con la formula precauzionale sive qua alio nomine te appellari volueris. 72 L. Peppe riconosce nel carmen la lingua tipica di fine III sec. - prima metà del II sec. a. C. innanzitutto per la grande somiglianza con la preghiera pronunciata da Scipione l'Africano a Lilibeo nel 204 a. C. 73 Quanto a quest'ultima, la datazione è 62 63 64 65

66 67 68 69 70 71 72 73

FYNTIKOGLOU - VOUTIRAS 2005, ! 54; HICKSON HAHN 2007, 236. Sull 'excantatio cfr. BASANOFF 1 947, 34-3 7; ERNOUT 1 964; BAI STROCCHI 1 987, 25 1 -258; RIVES 1 995. Sat. III 9, 1 -2. Cfr. 0RESTANO 1 989, 3 1 -32. Cfr. MONTANARI I 994, I l ; infra, capp. 1 2- 1 5. Cfr. ANSALDI 1 743, 3 3 : Heinc statim videt quisque, vehementiori erui momento, numquam

usu habitam apud Orienta/es, Graecosque Tutelarium Numinum, hostilium in Oppugnationi­ bus Urbium evocationem. lbid., 34: verum ars eos [sci/. Deos] evocandi propriafoit Romano­ rum. S erv . Ad Aen. II 244. TLL s. v. Liv. I 20, 5; cfr. NORTH 1 990, 563; CR!Fò 2000 3 , 1 87 sgg. Val. Max. I I 5, 2. Plin. N. h. XXVI I I 1 8. Cfr. supra, par. 4. 1 .8 . S erv . Ad A en. I I 3 5 1 . Li v. XXIX 27, 2-4: «Divi divaeque», inquit, «qui maria terrasque colitis, vos precor quaeso­ que, uti, quae in meo imperio gesta sunt geruntur postque gerentur, ea mihi, populo plebique Romanae, sociis nominique Latino, qui populi Romani quique meam sectam, imperium auspi­ ciumque terra mari que secuntur, bene verruncentem eaque vos omnia bene iuve­ tis, bonis auctibus auxitis; salvos incolumesque victis perduellibus victores, spoliis decoratos,

1 00

5. GIUNONE CELESTE

stata effettuata sia sulla base di considerazioni linguistiche (ad es. l'uso del raro verruncare) sia di contenuto, come la presenza del sintagma populus plebesque, il cui unico precedente ricorre nei carmina Marciana. Egli propone quindi di datare il carmen devotionis all'avanzato III sec. e il carmen evocationis tra gli inizi del II sec. e il l 46 a. C., sia pure con i possibili ammodernamenti morfo logici. 5.2.2. 1 . Si deus si dea . . . Si deus s i dea est, cui populus civitasque Charthaginienis est in tutela, teque maxime, il/e qui urbis huius populique tutelam recepisti.

L' invoca/io costituisce un momento essenziale nel rapporto con la divinità, in cui l'orante ne pronuncia il nome per richiamame l' attenzione su quanto ci si accinge a chiederle. 74 In questo caso troviamo al posto del teonimo la formula precauzio­ nale si( ve) deus si(ve) dea. Essa sarà esaminata nel capitolo successivo in rapporto alla divinità ad essa più intimamente legata, il genius, così come ci si soffermerà sull' evidente riferimento a due divinità diverse, una invocata con si deus si dea, l'altra con ille. Basti qui accennare che, a mio parere, ci si rivolge da una parte al nume tute­ lare «presupposto» ed «immanente» del luogo, il genius foci, dall'altra alla divi­ nità «scelta» in un momento successivo per proteggere la città, in questo caso Ta­ nit-Juno Caelestis. 75 5 .2.2.2. Precor venerorque. . . Precor venerorque veniamque a vobis peto.

Subito dopo l' invoca/io, così come accade di consueto nel carmen, seguono uno o più verbi designanti la preghiera. 76 Il verbo precor trae la sua origine dal linguag­ gio giuridico; ancora in P lauto l'uso del verbo precari è limitato alla sfera profana e si riferisce alla sfera semantica del «domandare»77 • Tale considerazione urta solo apparentemente contro la presunta antichità del carmen evocationis: il «con­ tratto» con gli dèi ha carattere pienamente giuridico oltre che religioso - attra­ verso il rito e il culto si preserva la fides del rapporto uomini-dèi. Sembra quasi superfluo inoltre aggiungere che, in verità, la distinzione tra i due piani non ha

74 75 76 77

praeda onustos triumphantesque mecum domos reduces sistatis; inimicorum hostiumque ulci­ scendorum copiam faxitis; quaeque populus Carthaginiensis in civitatem nostram facere mo­ litus est, ea ut mihi populoque Romano in civitatem Carthaginiensium exempla edendi facul­ tatem detis». Il Peppe ipotizza poi, sempre sulla base di questo confronto, che si possa indivi­ duare una linea politica degli Scipioni volta da una parte a diminuire la forza della nozione di populus recependo ove possibile nelle formule termini alternativi (plebs) o politicamente meno forti (civitas), dall'altra a sottolineare l 'elemento individuale (me meosque, militibusque meis, etc.): cfr. PEPPE 1 990, 33 1 sgg. Cfr. GUITTARD 1 998b. Cfr. infra, par. 1 1 .2.5. Cfr. GUITTARD 1 980. In generale sulla preghiera, cfr. FLASCHE 1 990. SCHILLING 1 954, 54; cfr. FYNTIKOGLOU - VOUTIRAS 2005, 1 53-1 54.

5 .2. STORICITÀ DELL'EVOCA T/O

101

senso se applicata alla realtà romana, vista la loro compenetrazione in essa. Le cose cambieranno solo con l'avvento del Cristianesimo. 78 Le altre due componenti, venerar e veniamque a vobis peto, invece, più che a rapporti giuridici, si riferiscono ad un tipo di richiesta più vicina alla preghiera così come viene comunemente intesa, cioè un'elargizione ottenuta per condiscen­ denza divina, «gratuitamente» 79 , una supplica, una preghiera «pura»80 . Anzitutto, Schilling ne ha dimostrato un'evoluzione diametralmente opposta rispetto a quella di precari: fino all'epoca imperiale il verbo è riservato esclusi­ vamente agli dèi. 8 1 Nello specifico, venerari tradurrebbe l'appello alla divinità, il sollecitare il dio con una certa tecnica, mentre venia (*venus) costituirebbe la ri­ sposta del dio all'arante, la sollecitazione soddisfatta, l'oggetto ottenuto, 82 anche se appare ormai forse un po ' forzato assegnare ad entrambi un VES-ZULAUF 1 972, 89, del quale non si può condividere tuttavia il carattere «magico)) attribuito alla devotio: cfr. MONTANARI 1 993b, 20 1 . 1 85 Cfr. SCHWENN 1 920- 1 92 1 , 3 1 2; GUITTARD 1 989, 1 243; 8URKERT 2005, 273. 1 86 KOVES-ZULAUF 1 972, 89, n. 9 1 . 1 87 ROPKE 1 990, 1 64 (trad. mia).

6. GIUNONE CURITE

6. 1 . LA DIVINITÀ TUTELARE DI FALERII VETERES 6. 1 . 1 . La dimora della dea

Non vi è più alcun dubbio sul fatto che l' insediamento di Falerii Veteres vada identificato con l'odierna Civita Castellana, 1 anche se il nome con cui ci riferiamo all' abitato antico è in realtà una creazione degli studiosi moderni e non trova ri­ scontro nelle fonti antiche, in cui compaiono diversi toponimi; 2 Io stesso vale per Falerii Novi. Useremo dunque i nomi invalsi negli studi recenti solo per comodità, identificando la città antica ovviamente con Fa/eri i Veteres e la nuova con Falerii Novi. Il sito di Civita Castellana è posto su di uno sperone tufaceo che si innalza sulle valli del Treia e degli altri corsi d 'acqua che in esso confluiscono in quest 'area. L'aspetto geomorfo logico del colle è in linea con le caratteristiche to­ pografiche della maggior parte degli insediamenti sia del Bronzo medio e recente, sia e soprattutto del Bronzo finale relativi all'Etruria meridionale: oltre alla pre­ senza di acque perenni, quindi, collocazione su alture ben difese naturalmente e munite di difese artificiali nei punti potenzialmente più vulnerabili. 3 L ' imprendibilità della città è forse riflessa nell'etimo logia che fa derivare il topo­ nimo dafale, col significato di oppidum; 4 inoltre fa/a aveva anche il significato di «torre»5 . 6. 1 .2. L 'epiteto

Anche la protettrice di Falerii era (una) Giunone, 6 sul cui epiteto tuttavia non vi è accordo nelle fonti. Troviamo infatti: Curitis, Curritis, Quiritis e Curis. 7 Tale va­ rietà sembra riflettere la molteplicità delle funzioni attribuite dalle fonti alla dea, come è possibile d 'altronde constatare ogni qual volta si tratti di Giunone: divinità poliade, dunque, ma anche guerriera e con evidenti legami con la sfera femminile:

2 3 4

5 6 7

Cfr. in generale CORRETTI 1 987; MoscATI 1 990, anche e soprattutto per le vicende storiche dell ' insediamento urbano; da ultimo OPITZ 2009. Cfr. CORRETTI 1 987, 324, 33 1 sgg., anche sulla storia della ricerca archeologica. MOSCAT1 1 990, 1 4 1 - 1 42, 1 53- 1 54. Pau!. Fest. 8 1 L: Fa/eri oppidum a Fa/e dictum; Pau!. Fest. 78 L: Falae dictae ab altitudine, a fa/ado, quod apud Etruscos significar caelum, e poco più avanti, s. v. falarica: ex falis, id est ex locis exstructis. Cfr. Plut. Cam. 9, 2; I O, l ; BASANOFF 1 947, 97 sgg. Serv. Ad A en. IX 705 . CIL Xl 3 1 00; 3 1 25; 3 1 26. Solo BASANOFF 1 947, 1 06, ipotizza essere stata (anche) una Fa/es. Cfr. AUST 1 90 1 ; GIANN ELLI 1 942, 2 1 8-2 1 9, 226; EISENHUT 1 963 ; DURY-MOAYERS - RE­ NARO 1 98 1 , 1 6 1 - 1 65; CORRETII 1 987, 326.

1 14

6. GIUNONE CURITE

matronae Iunonis Curitis in tutela sunt. 8

Più varianti dell'epiclesi significano più etimo logie, proposte sia dagli antichi che dai moderni, ovvero : Cures, curis, currus, quirites e curia. 9 Radke, come Dumézil, 1 0 paragona !uno Curitis alla !uno Sospita Mater Re­ gina di Lanuvio, ma, dopo aver rilevato le possibili somiglianze esteriori l' iconografia le ritraeva entrambe armate di scudo e lancia 1 1 - ipotizza un 'affinità più profonda a livello semantico : considerato che i nomi terminanti in -tis si riferi­ scono spesso ad abstracta, e verificato il significato di «soccorso, aiuto» per l' epiteto Sispita, lo studioso tedesco fa derivare Curitis (*cursitis) da *cursire, *cursis, quindi currere, inteso come «aiutare, correre in aiuto», dunque con il me­ desimo significato riferibile alla dea di Lanuvio. 1 2 Vi è poi l' etimo logia riferibile alla città sabina di Cures, come si legge ad esempio in uno scolio a Persio (IV 26): Curibus: quod nomen loci est unde et !uno Curitis dicitur quia ibi vehementer colitur.

Ciò ha portato tra l'altro il Basanoff ad ipotizzare che la dea, non appartenente al pantheon locale, sia stata ivi importata e la sua unicità in territorio sabino abbia fatto sì che assumesse l'epiclesi di Curitis. 13 Il culto sarebbe poi stato importato di lì anche a Falerii. Tuttavia, questa ipotesi presuppone una «sabinità» originaria della città da non dare invece per scontata. Già in antico infatti vi erano posizioni discordanti circa l' appartenenza etnica dei Falisci: oltre alla supposta provenienza da Argo, su cui torneremo, essi sono detti anche duo Etruriae populi ( insieme ai Capenati) 14 , quasi certamente per gli stretti vincoli con Veio, 1 5 oppure entità et­ nica a sé stante. 1 6 La posizione attuale rileva gli indubbi caratteri di originalità della civiltà falisca, inserendoli tuttavia in un contesto di influenze esterne so­ prattutto etrusche. 1 7 Varrone riporta l'etimo logia a curis, la parola sabina usata per designare l' hasta, la lancia; 1 8 anche in Pesto Curis appare con frequenza come l'appellativo riferito alla dea: Iunoni, quae Curis appellata est. 1 9

8 9 IO Il 12 13 14 15 16 17 18 19

Pau!. Fest. 55 L. Fonti e bibliografia in DURY-MOAYERS - RENARD 1 98 1 , 1 62- 1 65 . DUMÉZIL 1 954, 1 1 7. Sul > 1 992, 1 1 27); ut furem istum si ancilla, si puer, si puella extinguas . . . («AE» 1 988, 837). 98 Plin. N. h. XXVIII l O. 99 lbid. I l : Praeterea alia suni verba inpetritis, alia depulsoriis, alia commendationis, videmu­ sque certis precationibus obsecrasse summos magistratus et, ne quod verborum praetereatur aut praeposterum dicatur, de scripto praeire aliquem rursusque alium custodem dari qui adtendat, alium vero praeponi qui favere linguis iubeat, tibicinem canere, ne quid aliud exaudiatur, utraque mem inisigni, quotiens ipsae dirae obstrepentes nocuerint quotiensve precatio erraverit; sic repente extis adimi capita ve! corda aut geminari victima stante. 1 00 Cfr. Varr. De l. L. VII 8.

95 96 97

1 78

I l . IL GENIUS E LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA

Nell'augurium salutis del 5 agosto addirittura si chiede al dio il permesso di chie­ dere ! 1 0 1 I n questo contesto, l'espressione sive deus sive dea assume una rilevanza del tutto particolare per la funzione che si trova a ricoprire: essa costituisce infatti la prima parte della preghiera, l' invocazione, momento essenziale e delicatissimo, in cui si provvede a catturare l'attenzione della divinità. 1 02 In una religione politei­ stica c'è bisogno di stabilire con la massima esattezza l' identità dell'essere divino cui ci si rivolge, tanto più che, in molte di esse, gli dèi non possedevano il dono dell' ubiquità. 1 03 A Roma si cerca di specificare con precisione la sequenza degli dèi invocati - un esempio molto noto sono le lunghe liste degli indigitamenta 1 04 o Sondergotter 1 05 o di procedere in modo «inclusivo», come avviene per espres­ sioni quali . . . ceterisve diibus, 1 06 ceterisque diis deabusquae 1 07 o di deaeque 8 omnes, 1 0 in modo da comprendere le divinità possibilmente trascurate, quelle nemiche 1 09 o addirittura possibili divinità sconosciute. In questo senso, in Grecia . esisteva anc he un agnostos th eos. 1 1 0 Anche la formula sive deus sive dea agisce in questa direzione, «includendo» le possibili alternative circa il nome e il genere dell' essere divino invocato : tali alternative sono funzionali però alla sollecitazione di una sola divinità, nel senso di una «disgiunzione», non dunque di una «enumerazione» o di una «accumula­ zione» 1 1 1 . È poco probabile che ci si riferisse ad una divinità androgina, 1 1 2 vista la pre­ senza pressoché nulla di questa tipologia di esseri sovrumani nella religione ro-

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1 0 1 C. Dio XXX V II 2 1 , l sgg. ; cfr. SABBATUCCI 1 988, 256. VERSNEL 1 98 1 , 5, riporta una singo­ lare preghiera dei Corciresi a Zeus e Dione, in cui viene chiesto loro quali dèi o eroi debbano pregare per stabilire la concordia! 1 02 Cfr. A PPEL 1 909, 75 sgg. ; BRELICH 1 966, 4 1 ; GUITTARD 1 980, 395, n. l; GUITTARD 1 998a. 1 03 FUSTEL DE COULANGES 1 923 28 , 1 7 1 - 1 72 ; GUITTARD 1 998a, 71 sgg. Un fenomeno analogo è riscontrabile nella religione ittita, per cui cfr. FERRI 2008; FERRI 20 l Oa, cap. Il. l 04 In generale PERFIGLI 2004. l 05 USENER 1 9292 , 73 sgg. l 06 C/L VI 3099 1 /LS 3597. 1 07 Cfr. ad es. C/L III 8237; 1 42 l i . 1 08 Serv. Ad Georg. I I O; I 2 1 ; Ad A en. VIII 1 03 ; Liv. I 32, 9; cfr. VERSNEL 1 98 1 , 1 3- 1 4; CA­ DOTTE 2002-2003. Vale la pena di menzionare anche un misterioso Pater deorum omnium (cfr. ROPKE 2005, l, 32) probabilmente prodotto del fenomeno «inclusivo» opposto a quello di nominare tutti gli dèi e le dee, vale a dire la teocrasia: cfr. BRELICH 2007, 78. 1 09 Liv. I 32, 6; VIII 9. I l O NORDEN 2002, 26 1 sgg. ritiene in modo troppo netto che dalla concezione greca sia derivata la romana. Secondo ALVAR 1 985, 269, la formulazione stessa delle due espressioni mette­ rebbe in evidenza la distanza enorme tra la «capacità d'astrazione concettuale» dei Greci e quella dei Romani. Sull 'agnostos theos, cfr. PASCAL 1 894; JESSEN 1 903; BIRT 1 9 1 3 ; WEINRICH 1 9 1 5 ; BIKERMAN 1 937- 1 938; TURCAN 1 987; VAN DER HORST 1 989; HENRICHS 1 994; NORDEN 2002. 1 1 1 GUITTARD 2002, 5 3 : «Le recours à sive . . . sive marque la volonté d' identifier la divinité à laquelle on s'adresse, d'attirer son attention: ce n ' est pas un ensemble, une globalité, mais un individu qui est sollicité». 1 1 2 BRELICH 1 949a; cfr. PETTAZZONI 1 949; GUITTARD 2002, 4 1 sgg. =

1 1 .2. LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA

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mana. 1 1 3 Da escludere anche, per i motivi visti poc'anzi, che si indagasse su una possibile presenza di una divinità nel senso di «se c'è un dio o una dea»: il Ro­ mano sa per certo che c'è una divinità in ogni luogo nonostante questo sia spesso l' unico dato sicuro di cui è in possesso. 1 1 4 Quando invece si poteva essere abbastanza certi circa l' identità del dio invo­ cato, o si possedevano quantomeno delle indicazioni più o meno chiare in merito, si poteva scegliere lo stesso di mantenere il sive deus sive dea, rimanendo dunque al riparo da imprecisioni o errori. In questa eventualità, la «scelta» o l' «ipotesi» circa la divin ità invocata era fornita da altri elementi. Anzitutto il tipo di animale sacrificato : «attraverso il dono si definisce il destinatario» 1 1 5 • Gli atti degli Arvali ne costituiscono un magnifico esempio : vi sono elencati minuziosamente il tipo, il genere e il numero delle vittima che competono ad una certa divinità. Nelle tre iscrizioni relative ai rituali di questa confraternita conside­ rate sopra, la formula sive deo sive deae è applicata evidentemente a diversi esseri divini : nella prima è ripetuta due volte, ma solo la seconda viene specificato che ad essa compete la tutela del luogo e del bosco sacro : in cuius tutela hic lucus lo­ cusque est. Nella terza alla divinità sive deo sive deae non vengono offerte, come alle altre, oves II, bensì verbeces II: l'officiante ha in mente una figura differente da quelle intese nella prima iscrizione, forse un dio, dato che i montoni erano sa­ crificati alle divinità maschili. 1 1 6 Durante la seconda guerra punica il genius publi­ cus riceverà per ordine dei Libri Sibillini cinque hostiae maiores. 1 1 7 Al genio di Nerone si sacrificò un toro. 1 1 8 Nel rito del lucum conlucare il genius foci riceve un porco, mentre abbiamo visto che il genio personale molto raramente riceve dei sa­ crifici di tipo cruento. Questo per dire che, per quanto riguarda la categoria dei genii, vista la tipo lo­ gia disparata del tipo di offerte ad essi destinate, potremmo al massimo parlare di «indicazione» del campo d'azione e dell'effetto desiderato, probabilmente per de­ rivazione e analogia con le divinità personali maggiormente caratterizzate: «tale incertezza [sci/. sul genere di Pales] non fa meraviglia: la religione romana, demitizzata e demitizzante, prestava più attenzione al campo d'azione divino che non al sesso delle divi­ l l9 nità» .

Riconsideriamo a questo proposito il racconto di Gellio circa la divinità dei terre­ moti: l'unica cosa su cui ci si può pronunciare con certezza è che essa ha causato la scossa. I pontefici potrebbero in teoria «identificare» Tellus, come fece il con1 1 3 Sulle divinità androgine, cfr. BERTHOLET 1 934; BRELICH ! 949a; ZANDEE 1 988; BRISSON 1 997; TOMMASI MORESCHINI 1 998; TOMMASI MORESCHINI 2000; GUITTARD 2002, 41 sgg.; AUGÉ 2002, 1 49 sgg. 1 1 4 DUMÉZIL 1 989, 52-55. 1 1 5 ROPKE 2004, 1 67; cfr. GUITTARD 2002, 32; ROPKE 2007b, 82 sgg. 1 1 6 Viceversa le pecore erano destinate alle dee: lavi verbeces II altilaneos (C/L V I 2099; I 24); Iunoni deae Diae oves II (ibid. II l ); Virginibus divis oves II; Famulis divis verbeces duos; Laribus verbeces duos (ibid. II 2); Matri Larum oves duas (ibid. II 3). 1 1 7 Liv. XXI 62. 1 1 8 ROPKE 2004, 1 68. 1 1 9 SABBATUCCI 1 988, 1 30.

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I l . IL GENIUS E LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA

sole Sempronio nel 268 a. C., votandole un tempio per placarla dopo aver avver­ tito una scossa di terremoto durante una battaglia contro i Piceni, 1 20 o Ceres, come avvenne a seguito di un altro terrae motus in Sabina nel 1 74 a. C. 1 2 1 Tuttavia questi episodi sembrano costituire l'eccezione piuttosto che la regola, poiché, come afferma Ammiano Marcellino, ancora nel IV secolo d. C. i fisici di­ sputavano senza successo sulle cause precise del fenomeno, da essi ignorate. Per questo, né nei libri liturgici né nei testi dei pontefici si trovava alcunché di preciso sulla divinità che causava i terremoti: così facendo si mirava ad evitare di fissare i riti espiatori in onore di un dio anziché di un altro, essendo oscura l' identità di chi fra loro fosse il responsabile delle scosse. 1 22 La speculazione antica aveva portato al massimo a classificare i terremoti in quattro tipologie: motus terrae brasmatiae, climatiae, chasmatiae, mycematiae. 1 23 Ora, più cause moltiplicate per quattro tipi generano mo lte possibilità di scelta: i pontefici invece «scelgono» consapevolmente di non pronunciarsi, evi­ tando il rischio di turbare gravemente la pax deorum in caso di errore, poiché per quell' evento naturale si erano decretate delle feriae. 1 24 Sarebbe interessante cono­ scere quali vittime vennero offerte alla divinità si deus si dea, ma Gellio non lo specifica, o già la sua fonte, Varrone, ignorava tale informazione. Il genius, proprio per l'antichità della sua concezione, aveva dei contorni sfu­ mati e indefmiti: «quando un romano diceva genius foci aveva esaurito tutto ciò che poteva enunciare del per­ sonaggio soprannaturale rivelatosi indirettamente, mediante un fenomeno singolare, in un luogo determinato, e si rassegnava a codesta scarsità>> 1 25 .

Lo stesso accadeva per figure simili quali ad esempio i Penati: già Varrone mo­ strava di ignorare l'essenza, il nome e il numero degli dèi che Enea portò con se da Ilio. 1 26 Schilling ritiene che prima della divinità personale Venus vi sia stato un *venus neutro, impersonale:

1 20 Fior. Epit. I 14, 2. 1 2 1 Liv. XLI 28, 2. Più chiara la situazione in Grecia, in cui si può riferire quasi a sempre Posei­ done, in quanto Enesidaone o Enosigeo (scuotitore della terra), l 'influenza sui terremoti e sulle mareggiate: cfr. ad es. l ' Inn o omerico dedicato al dio. 1 22 Amm. Mare. XVII 7, 9- 1 0: Adesse tempus existimo pauca dicere, quae de terrae pulsibus coniectura veteres conlegerunt. Ad ipsius enim veritatis arcana non modo haec nostra vulga­ ris inscitia, sed ne sempitema quidem lucubrationibus longis nondum exhausta physicorum iurgia penetrarunt. Unde et in ritualibus et pontificiis oblemperanlibus sacerdoliis cavelur, ne a/io dea pro a/io nominato, cum, qui eorum lerram conculial sii in abslruso, piacula com­ mittantur 1 23 lbid. 1 3 sgg. 1 24 Anche nel rapportarsi a culti stranieri i Romani erano molto attenti a non suscitare le ire di un dio sconosciuto. Esempio probante il celebre affare dei Bacchanalia in cui si distinse accura­ tamente tra dato sociale, da reprimere, e dato religioso, da regolamentare: cfr. PETTAZZONI 1 966b; SORDI 1 985, 1 50 sgg.; MONTAN ARI 1 988, 1 1 9 sgg. 1 25 DUMÉZIL 200 1 2 , 50. 1 26 Macr. Sal. III 4, 7; Varr ap. Amob. A dv. Nal. III 40; cfr. RADKE 1 98 1 b, 344 sgg.

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1 1 .2. LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA

«L'idée d ' une divinité indistincte, quasi impersonelle, était ( . ) familière à l 'esprit . romam» 1 2 7 . .

Secondo Varrone anticamente i Romani non avevano né statue né templi, ma ado­ ravano gli dèi all 'aperto, nei boschi sacri: [sci/. regnante Numa] nondum tamen aut simulacris aut templis res divina apud Romanos 1 constabat. 2 8

Dobbiamo cercare di uscire dalla gabbia concettuale del po liteismo greco quale modello per le religioni dell'antichità: anch'esso, in cui è riscontrabile l' esempio più compiuto di distinzione e personalizzazione delle diverse figure di­ vine, è il risultato di un lungo processo nel quale in piena età storica convivono istanze diverse, che sarebbe errato ed improprio etichettare semplicisticamente come «primitive». Se da una parte dunque la prima menzione letteraria esplicita di una statua è molto antica, risalente ad Omero e riferibile all'Atena di I lio, 1 29 pure molti dèi an­ cora in età storica erano concepiti o rappresentati in forma di alberi, pietre, betili, piramidi o colonne 1 30 - celeberrima la pietra nera di Pessinunte, ido lo aniconico di Cibele. Emblematico in quest'ottica, quasi punto d' incontro delle varie tendenze, il simulacro visto da Pausania ad Amyk/ai, vicino Sparta: una colonna con piedi, mani e volto ! 1 3 1 A maggior ragione una religione tendenzialmente demitizzante, altamente conservatrice e incentrata sul rito come quella romana, 1 3 2 poteva non sentire l'esigenza, almeno inizialmente, di rappresentare la divinità in forma umana, pur concependola come tale. 133 In età storica sarà l' influenza della statuaria greca a condurre alla rappresentazione anche di numina in origine non caratterizzati in senso antropomorfo, 1 34 ma rimane sempre quantomeno la possibilità da parte ro­ mana di adorare gli dèi anche senza dover necessariamente conferire loro una fi­ gura. 1 3 5 S i veda l'affermazione del V ersnel a proposito di questa differenza fonda­ mentale della religione romana rispetto alla greca:

1 27 SCHILLING 1 954, 60. 1 28 1 28 An t. rer. div. I 1 8, 38; cfr. Varr. ap. Aug . De civ. Dei IV 3 1 : [sci/. Varro J dicit etiam anti­ quos Romanos plus annos centum et septuaginta deos sine simulacro coluisse . . . qui primi simulacra deorum populis posuerunt, eos civitatibus suis et metum dempsisse et errorem ad­ didisse, prudenter existimans deos facile posse in simulacrorum stoliditate contemni. Cfr . CANCIK 1 985-1 986, 256 sgg. ; ROPKE 2007b, l 07- 1 1 8. 1 29 Il. VI 92; 273; 303 . 1 30 Cfr. FUNKE 1 98 1 , 670; METZLER 1 985-1 986; FERRI 1 990. 1 3 1 Paus. Il 9, 6. Tertulliano (Nat. I 1 2, 3 ) paragona lo xoanon della Pallas ateniese alla croce. Sull'argomento, cfr. in generale METZLER 1 985-1 986; FERRI 1 990. 1 32 BRELICH 1 966, 225-228; SABBATUCCI 1 975, 1 7 sgg. ; FUNKE 1 98 1 , 675-676; MONTANARI 1 986. 1 33 DUMÉZIL 200 1 2 , 33 sgg. ; cfr. AUGÉ 2002, 1 03 sgg. Nella speculazione posteriore, tuttavia, già le divinità portate da Enea con sé, i Penati, erano intese come rappresentate in forma antro­ pomorfa. 1 34 FUNKE 1 98 1 , 755-756. 1 35 KUNCKEL 1 974, I l .

1 82

I l . IL GENIUS E LA FORMULA SIVE DEUS S/VE DEA «The gods of the early Romans, unlike those of the early Greeks, were never actually visualised and individualised. Deprived of individuai personality their identity was primarily defined by their function ; the rarely possessed ' shapes' either in a plastic or in a psychological sense» 136 .

È dunque certamente vero che «la sessualità delle divinità non è separabile dalla loro rappresentazione plastica», 137 ma, per quanto riguarda la situazione ro­ mana, specialmente in età arcaica, vi doveva essere più di un'esitazione a rappre­ sentare essere divini dal contorno indefmito e inafferrabile quali potevano essere i genii: certo era facile assegnare un genere al genius del pater o a quello di Giove, 1 3 8 ma come procedere nei confronti di un genius foci? Ino ltre, diversa­ mente da quanto accadeva in Grecia, non si davano solitamente epifanie della di­ vinità: quando questa intendeva comunicare la propria volontà lo faceva in altro modo, tramite segni ordinari e istituzionalizzati (il volo degli uccelli, l'osservazione dei fulmini, etc.) o più straordinari ed episodici (prodigi, fenomeni «panici», etc.), per cui non ci si aspettava di poterla vedere "di persona" 139 • La figura del genius rimane indefinita, anche se da un certo punto in poi si comincerà a rappresentare questo tipo di esseri sovrumani. Ad essi tuttavia non si conferirà mai un nome proprio : in origine il genio più antico, quello individuale, non lo richiedeva poiché riceveva la sua differenziazione e la sua caratterizzazione dall'essere il «genio di». Anche il genius foci risentirà di questo processo : il fatto di essere la divinità di «quel» preciso luogo era l'unico dato conosciuto e allo stesso tempo minimo, necessario e sufficiente per stabilire un rapporto con essa, e per questo verosimilmente non svilupperà mai dei contorni netti e una personalità 1 40 inconfondibile. Non si può escludere inoltre che la categoria dei genii in qualche modo fosse funzionale a collocare e raccogliere tutte le divinità di cui sfuggiva del tutto o quasi l' essenza, e questo potrebbe spiegare l'estensione della denominazione a così tante realtà diverse. Lo stesso accadde per un'altra tipologia di esseri divini «incerti», assurti col tempo a «categoria», i Penati, tra cui i Romani, da un certo punto in poi, compresero tutti gli dèi, maschili e femminili, onorati nella casa per una qualche ragione: penates suni omnes dei qui domi coluntur,

141

tanto che, come è noto, ogni padrone di casa era libero d i scegliere l e divinità che . 1 42 pre fcenva qua l"1 d"z penates. Questo tipo di esseri sovrumani ben rappresentava quel quid che rimaneva inesplicabile ai Romani nell'approccio con il divino, tratto questo quasi certa1 36 VERSNEL 1 98 1 , 1 6; cfr. SABBATUCCI 1 988, 1 1 3- 1 1 6. 1 37 ROPKE 2007b, 58. 138 Sui genii delle divinità, cfr. OTTO 1 9 1 0, 1 1 57; CESANO 1 922, 465-466; 479-48 1 ; DIETRICH FABIAN 1 984, I I I ; per la situazione in Etruria, COLONNA 1 980, 1 62, 1 68- 1 69. 1 39 Cfr. MUSSIES 1 988; FYNTIKOGLOU - VOUTIRAS 2005, 1 5 8. 1 40 Cfr. CESANO 1 922, 463 ; BRELICH 2007, 1 0 1 . 1 4 1 Serv. AdAen. II 5 1 4. 1 42 DUMÉZIL 200 1 2 , 3 1 2.

1 1 .2. LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA

1 83

mente ereditato dagli Etruschi, nel cui pantheon possiamo trovare degli dèi invo­ luti (inesplicabili) e opertanei (segreti) 1 43 . Se dunque il viatico per la piena realizzazione di una divinità «personale» è il progressivo indebolimento dei vin­ coli caratterizzanti con il «luogo» o la «funzione» specifici, 1 44 possiamo dire che, per quanto riguarda il genius, ciò si verifica in misura molto limitata o per nulla. Tirando le fila di quanto si è detto, la formula sive deus sive dea ben mostra la prudenza e lo scrupolo con cui i Romani si accostavano al divino ed evitavano di pronunciarsi sull' identità di un essere sovrumano quando le informazioni in loro possesso erano insufficienti e, per la loro stessa incompletezza, potenzialmente compromettenti o dannose. Un apporto decisivo al suo sviluppo fu apportato vero­ similmente dalla nozione di genius !aci, 1 45 i contorni del quale rimarranno indefi­ niti: in questo caso il dubbio sussisteva sull'essenza stessa della divinità, non solo sul suo nome o, eventualmente, sulle sue epiclesi. 1 4 6 S i poteva cercare di restrin­ gere il margine di incertezza attraverso la scelta dell' animale da sacrificare, scelta indicativa probabilmente del campo d'azione in cui la divinità avrebbe dovuto esercitare il suo potere: «Greek gods ' l ive' , Roman gods 'work' , i.e. function, sometimes for a very short time, in 1 47 their own domain, but never step outside it)) .

Abbiamo visto tuttavia la grande varietà di offerte che questa categoria di esseri divini ricevette in diverse occasioni. Ulteriori specificazioni potevano darsi tra­ mite l'orientamento dell'orante: un bosco, una città, etc. 148 S i tentava così di «avvicinarsi» il più possibile alla fisionomia dell'essere divino, se si conoscevano almeno alcuni dati che lo riguardavano, o ali' effetto che da esso ci si aspettava, o entrambi. Ciò è ben riscontrabile nell' invocazione del carmen evocationis, alla quale è opportuno ora rivo lgersi. 1 1 .2.5. La formula nel carmen evocationis: a quale divinità ci si riferisce?

Giova anzitutto riportarla per intero: Si deus, si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela, teque maxime, il/e qui urbis huius populique tutelam recepisti, precor venerorque veniamque a vobis peto, ut vos populum civitatemque Carthaginiensem deseratis, /oca tempia sacra urbemque relinquatis, absque his abeatis, eique populo civitati metum formidinem oblivionem iniciatis, proditique Romam ad me meosque veniatis, nostraque vobis tempia sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique populo Romano militibusque meis pror., itii sitis, ut sciamus intellegamusque. Si 49 itafeceritis, voveo vobis tempia ludosquefacturum.

1 43 1 44 1 45 1 46

TORELLI 1 986, 1 62. GLADIGOW 1 993, 33 . GUITTARD 2002, 25. GUITTARD 2002, 54, ritiene invece che il dubbio non sussistesse «sur la nature d'un dieu, mais sur son nom exact et la série de ses attributions qui s'expriment à travers ses épiclèses)). 1 47 VERSNEL 1 98 1 , 1 6. 1 48 GUITTARD 1 998a, 76. 1 49 Macr. Sat. III 9, 7-8.

1 84

I l . IL GENIUS E LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA

La questione principale da porsi riguarda l' identità delle due divinità cui il carmen è rivo lto. Non vi sono infatti dubbi in proposito : si passa da un essere divino si deus si dea cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela ad un altro che ri­ cevette !'urbis huius populique tutelam, soprattutto per effetto del teque maxime, che mette in risalto la figura del secondo. Inoltre, dopo l' invocazione, ci si rivolge loro con l' insistita ripetizione della seconda persona del pronome vos (a vobis, vobis); di conseguenza, tutti i verbi sono al plurale : deseratis, relinquatis, abeatis, iniciatis, veniatis, sitis. Due divinità: si può subito escludere perciò l' ipotesi avanzata da Georges Dumézil, secondo cui il carmen fosse rivolto a tutti gli dèi della città, inglobati nell'espressione sive deus sive dea. 1 50 Se questa fosse stata l' intenzione, ci sa­ remmo dovuti aspettare un' invocazione del tipo dii deaeque omnes teque ma­ xime, o il/e ceterive dii, o simili. Quanto alle altre ipotesi, Le Gal! ritiene di identificare la seconda divinità con Baal, sia per le numerose attenzioni ricevute dal suo omologo romano, Satumo, durante la seconda guerra punica, sia per il genere maschile del pronome dimo­ strativo il/e. 1 5 1 Guittard pensa allo stesso modo a Baal Hammon e ritiene che l' insieme delle due invocazioni non possa essere indirizzato ad altri che alla cop­ pia Tanit-Baa/. 1 52 Il Berti ipotizza un coinvolgimento di Melqart/Eracle sulla base del fatto che Scipione Emiliano dedicò un tempio al dio nel Foro Boario nel 1 42 a. c. l 53 A nostro parere, si avvicina forse di più al vero la posizione di J. Alvar, il quale dopo aver criticato la posizione di Le Gal!, rileva che si ha a che fare con due divinità, per cui: 0 0 0

0 0 0

«dans le premier cas elle [sci/. l 'invocazione] ferait réference à des etres abstraits ou généraux, tandis que dans la deuxième il serait question d'éléments concrets)}.

Si distinguerebbe dunque tra il protettore generale dello stato cartaginese e la di­ vinità tutelare particolare della città, come sarebbe accaduto a Roma con Juppiter Optimus Maximus e il genius urbis Romae sive mas sive femina. 1 54 Rilevare il passaggio dal «generale» al «p artico !are» 1 5 5 ci sembra di per sé un 'osservazione condivisibile, in primis per l' impiego della locuzione teque ma-

! 50 DUMÉZIL 200 1 2 , 53, n. 9; cfr. LE GALL 1 976, 52 1 -522; BERTI 1 990, 74. Da escludere anche che ci si rivolgesse ad una sola divinità: cfr. ENGELBRECHT 1 902, 482--484. 1 5 1 L E GALL 1 976, 522; medesima l'opinione di FERRON - SAUMAGNE 1 967- 1 968, 96, che, in base al testo di un 'iscrizione rinvenuta a Cartagine, suppongono pure una consecratio al dio del suolo di Cartagine o di un terreno di essa da parte dello stesso Scipione Emiliano o di un corpo sacerdotale. Baal ha tuttavia caratteristiche di divinità «nazionale)} e «uranica)} più che «poliade)}: cfr. XELLA 1 994, 1 68- 1 69. 1 52 GUITTARD 2002, 33-35. 1 53 BERTI 1 990, 73; cfr. supra, par. 5.3. 1 . ! 54 ALVAR 1 985, 256; contra GUITTARD 2002, 34, n . 56. 1 55 Cfr. PEPPE 1 990, 329, n. 77.

1 1 .2. LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA

1 85

xime. L'avverbio infatti, !ungi dall'essere un'epiclesV 56 ha il significato di «e tu soprattutto» 1 57 • Probabilmente però bisogna invertire l'ordine: l'elemento «generale» è costi­ tuito dal genius, il > 39, 1 968, 1 33-1 62.

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