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Tuffarsi. Autobiografia di un'immagine
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Raffaele K. Salinari

TUFFARSI Autobiografia di un'Immagine

Con una prefazione di Marco Dotti

o Edizioni Punto Rosso

Raffaele K. Salinari

TUFFARSI Autobiografia di un'Immagine Prefazione di Marco Dotti

Edizioni Punto Rosso/ Carta Materiali Resistenti

Finito di stampare nell'ottobre 2010 presso Digital Print, Segrate, Milano EDIZIONI PUNTO ROSSO Via G. Pepe 14 - 20159 Milano Telefoni e fax 02/874324 e 02/875045 [email protected];www.puntorosso.it Redazione delle Edizioni Punto Rosso: Nunzia Augeri, Alessandra Balena, Eleonora Bonaccorsi, Laura Cantehno, Loris Caruso, Serena Daniele, Cinzia Galimberti, Dilva Giannelli, Roberto Mapelli, Francesca Moretti, Stefa-

no Nutini, Giorgio Riolo, Roberta Riolo, Nelly Rios Rios, Erica Rodari, Raffaele K. Salinari, Pietro Senigaglia, Domenico Scoglio, Franca Venesia. CARTA SOC. COOP. ARL Via dello Scalo S. Lorenzo 67 - 00185 Roma Centralino: 0645495659 [9 linee r.a.] - fax: 0645496323 [email protected]~ www.carta.or~ Redazione di Carta: Marco Calabria, Gianluca Carmosino, Sarah Di Nella, Enzo Mangini, Rosa Mordenti, Giuliano Santoro, Lorenzo Sansonetti, Antonella Tancredi, Matteo Micalella, Gabriele Savona. In copertina: La Tomba de/Tuffatore (particolare)

Collana "Materiali resistenti1' La collana "Materiali resistenti" nasce dall'esigenza di ripensare alla radice i concetti-soglia per un nuovo pensiero della liberazione possibile. Oltrepassando le parole guida del novecento, abbiamo voluto creare uno spazio di cultura e pratica politica segnato dalla rottura epistemologica con idee quali rivoluzione, democrazia, partecipazione, libertà, sviluppo, e ripensarle alla luce delle domande e delle esperienze che la costruzione di un "altro mondo possibile" ci pone. In questa collana "eretica" sono ospitati autori e testi di frontiera, che con le loro immagini speriamo contribuiscano ad illuminare un non-ancora che è già presente ed opera nella sensibilità e nelle urgenze del secolo. Direttore Editoriale della Collana: Raffaele K Salinari

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Indice Prefazione di Marco Dotti

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Incipit Imago: Confiteor

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Introduzione

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Tuffo Imaginalis

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Tuffo e ritualità

33

Il tuffo cosmogonico in Occidente ...

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... Ed in Oriente

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L'ultimo tuffo

97

Tuffo non tuffo

132

Alchemiche immersioni

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Tuffi metamorfici

163

Nel Grande Blu

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Tuffi attraverso lo specchio

182

Il tuffo taumaturgico: sophia-mania

192

Excipit Imago: autobiografia in una Immagine

198

Bibliografia e sitografia

199

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Al fltjfo dmtro di me; al s,10 fltjfarsi f11ori

Nota: per i z:ocaboli di origine semitica) greca e sanscrita riportati in questo testo si è scelto di utilizz.are una traslitterazione semplificata) secondo la resa grafica di uso più comune in italiano.

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Prefazione di Marco Dotti

Non escludere il terzo

StirJJe Gottes Farben trii11mt, Spiirt des WahJJsÙms safte Fliigel Georg Trakl, 111 dem Nachmittaggefliistert Ogni volta che, deliberatamente, si costringeva a pensare, Martin Eden vedeva «il pericolo disperato che incombeva su di lui». Eppure, protagonista dell'omonimo romanzo di Jack London, Martin Eden non indietreggiava. Se avesse avuto paura, scriveva infatti London, sarebbe tornato nostalgicamente indietro, diacronicamente verso una retro-polarità della vita. Ma Eden si trovava già altrove, in una temporalità diversa, non lineare, coincidente in gran parte con le forme di quella «Valle delle Ombre» dove il pericolo più grande consisteva nell'assenza apparente di qualsiasi pericolo e nel 11011 provare spavento alcuno. Neppure dinanzi al mysterùtm tremend11m. Proprio perché privo di spavento, Martin Eden «si immergeva più profondamente nell'ombra», lentamente, avvolto nel cuore nero delle acque del SJto oceano. Quello di Eden (11ome11 omen) fu dunque un tuffo sincronico dentro la vita. Eden, osserva Raffaele K. Salinari tra le pagine di questo profondo "scavo" che assume al tempo stesso le forme di una plo,igée immaginale, è inesorabilmente, vertiginosamente attratto dalla tenebra. Ma che cos'è, la tenebra? Co sa, il nero cui Eden aspira? Cosa (non "dove"), il confine mobile delle acque? L'ultimo atto di Martin Eden, marinaio diventato scrittore per amore di una donna., Ruth Morse, è l'abbandono (gelassenheit e gottheit, nel lessico di Eckhart, Bohme e Silesius), il tentativo di sciogliersi dell'ombra nella vastità (oceanica la direbbe William James) del mare, «per mai più ricomparire - scrive, appunto, Salinari - né rinascere in forma umana». Ma l'azione del marinaio di London è confortata, se 5

così si può dire, e smossa dai versi di The Garden of Proserpi11e di Algernon Clurles Swinburne, esplicita.mente richia.mato in più luoghi del romanzo: «From hope a.nd fear set free, / We tha.nk with brief tha.nksgiving / Whatever gods may be / That no life lives for ever; / That dead men rise up never; / That even the weariest river / Winds somewhere safe to sea>>. All'ossessione del ritorno, Martin Eden oppone la. gioia del non ritorno, del perdersi, dello sciogliersi, del confondersi ... that 110 lift lives Jor ever, certo, ma soprattutto affinché, perché ''i morti non risorga.no più". C'è una lettura ingenua, possibile ma ingenua, del romanzo di London: sarebbe dunque - il suo - un socialismo di denuncia, cartografia e cahier de doléa11ce sull'impossibilità di non volgere a,l nero, mru grigio i colori della felicità e del riscatto socirue Wa.more di Martin Eden per la borghese Ruth, la sua fa.me da, autodidatta., il suo tentativo di sruire la. china socirue attraverso la scrittura, mezzo borghese per eccellenza). Ma la. domanda. rimane, il nodo rima.ne insoluto: che cosa è il nero? Senza la. domanda, senza l'interrogazione radicrue, che invece si pone, il romanzo di London rimarrebbe confinato su un pia.no interrumente e integrrumente inscritto in un orizzonte borghese, in un'impossibilità di riscatto individurue, di contatto, di contratto, segnata dilla fiducia (disattesa) e dalla speranza (mai abbastanza vana) "che i morti ritornino". Ma i morti non ritorna.no mai, in ogni caso e qualunque condizione si ponga. Lo sca.ndruo della Resurrezione è la resurrezione stessa, non il "tuffo" immemoriale del Cristo. Accanto, ma non complementare alla lettura ingenua, c'è poi quella che aspira a un socialismo dell'impossibile, che non nega l'ombra, ma vi si immerge, l'attraversa. Non risorge, ma insorge. Su quest'altra riva magistrrumente ci conduce Salinari che, da parte sua, già ci aveva traghettato con rutri suoi lavori come (11ome11 ome11, anche qui) il Castello di Sabbia e, in altri termini, con altri termini, Il gioco del Mondo. Può farlo perché in fondo è di lui che ci parla, dei suoi salti, del suo tuffarsi, sui libri, nelle storie, nella vita come di chi abbia attraversato il nero con tanti - direbbe Nietzsche - esercizi di intossicazione volontaria. Come sottotitolo triadico, Il gioco del Mondo, nel mezzo dei più fa.miliari "Scissione" e "Ricongiungimento" recava appunto "Insurrezione". Tre11111111g- Verei11ig111ig, separazione e scissio6

ne scriveva G. H. Lessing, in vista di ricongiunzione degli opposti nel terzo mai escluso: comm1111io (la cui eco è percepibile fino alla marxiana gemeimveseJJ) o All-Geist (Novalis). È in questo tutto, in questo infinito attraversamento, in questa irrequieta insurrezione che si nasconde il senso profondo del percorso di Salinari, il suo, i suoi, direbbe Pavese, "dialoghi con Leucò". Nel cuore del mito. Lettore di London era anche Jacques Mayol, che considerava MarliJJ EdeJJ il suo livre de chevet. Yogi, non solo apneista esperto di tecniche di respirazione apprese in Oriente, dove era nato (precisamente a Saigon, il 1 aprile 1927). Mayol fu il primo uomo a scendere sotto i cento metri, nel 1976. Come ben ricorda Salinari, Mayol affermava di non poter morire nel "suo" elemento, l'acqua, dove aveva già abbandonato la sua anima immortale. Eppure anche lui, come Martin Eden, sceglie un elemento che non gli è meno affine. Se Eden, marinaio divenuto scrittore ha la.sciato la sua anima sulla carta, e getta il proprio corpo nel ma.re, Ma.yol, mistico divenuto apneista, lascia l'anima sul fondo, e il corpo lo consegna. allo spazio del respiro. Quando decise il "gran passo", abbandonando anche il corpo, si tolse la vita impiccandosi. Solo quel gesto, osserva Salinari, «era accetta.bile per il grande apneista.>>. Nei suo libri sullo yoga, Ma.yol afferma.va. che il non-respiro, come il respiro, può venire da sé. Ba.sta non forza.re, ba.sta non temere, ba.sta ascoltare il respiro più grande, il non-respiro più grande, quello del mondo. Né respiro, né non respiro, dunque, il gesto di soffocarsi, il 22 dicembre 2001, nei pressi dell'Isola. d'Elba, ma. la necessità. di assicurarsi un altro "non", il non-ritorno, un'apnea. totale, il nero, la condizione più temuta e, forse per questo, anche la più (intimamente) ricercata da.gli apneisti. Non il tentativo, dunque, di forza.re oltre il lecito i limiti dell'umano, morendo per un incidente sul percorso, ma immergersi in un altro ma.re, anche qui dove that 110 lift lives far ever. Riempiendo di dolcezza. anche l'istante di un tuffo infinito. Chi pareggia. l'eternità. al tempo e il tempo all'eternità. - scriveva. il ciabattino Ja.kob Bohme, così caro a Ka.rl Marx e a Raffaele K. Salinari - costui si libera da ogni contesa, senza fuggirla..

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Incipit Imago: Confiteor

Se il sogno

11011

è vero nemmeno il sogJ1atore lo è N. S. Momaday

Co,ifiteor: questo libro è una celebrazione, un «sacrificio». Da quando ho memoria di me non ho mai guardato uno specchio d'acqua senza provare l'irresistibile fascino di tuffarmi. Il tuffo è stato, è, e sempre per me sarà, la quintessenza stessa della gioia di vivere: la sua biografia è la mia. Ogni Immagine descritta in queste pagine l'ho Immaginata, ogni mito vissuto, ogni eroe interpretato, ogni divinità evocata, ogni rito officiato. Oh tu che leggi, fa' che questa confessione le assolva pienamente.

Autoritratto con Ninfe, 201 O

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Introduzione

Assiomi per In meJJte, JJ1drime11to per il corpo, estasi per l'n11ima E. Zolla

«Katapontismos»: la sommersione capitale; «ba.ptein»: il bagno purificatore nelle acque lustrali; «ordalia acquatica»: la separazione del colpevole dall'innocente nelle acque della giustizia; «sacrificio rituale»: il ricongiungimento dell'uomo a se stesso; «apnea»: il viaggio nel Grande Blu; ma anche balzo e piroetta, salto e acrobazia, trasmutazione e deposizione, immersione e riemersione, dissoluzione e coagulazione, gioco ed estasi, iniziazione e conoscenza, mantica e rammemor:azione, ascensione e caduta, sogno e reverie, attraversamento e ritorno, soglia e limite, specchio e riflesso, azione e meditazione, vita, morte e resurrezione ... in un'Immagine: il tuffo. Scorrono nel tempo le sue metafore; tornano ad essere evocate le divinità. che lo presiedono; si intrecciano i miti che lo accompagnano; le favole ne colgono l'essenza e ce la porgono; brillano i suoi riti nel folgorante «ora»: crogiolo psichico in cui, subitaneamente, si fondono tutte le fascinazioni. L'«ora» fascinoso è una delle manifestazioni di Kairos, dio dell'attraversamento: possiamo andare con lui incontro all' epopteia, la «visione» dei Misteri in Eleusi. Al culmine del rito misterico, dice Ermia Alessandrino, nell' e-poptein: «L'anima recupera la totalità. della sua essenza dalla frammentarietà. e dalla molteplicità. del sensibile». Epopte110 è il verbo che indica, contemporaneamente, la contemplazione sovra-razionale, il suo momento, e la certezza di questa conoscenza: una visio1Je cnirologica, nella quale si supera il frammentario ed il complesso, per cogliere ciò che è primo. Nelle raffigurazioni allegoriche dell'antica Grecia Kairos, il tempo «dell'azione umana possibile» e dell'opportunità., è contrapposto a Kronos, il tempo lineare della quantità.. Il dio ha un ciuffo di capelli sulla fronte, per poterlo «acciuffare», ma la nuca calva poiché, una volta passato, non torna. C'è ancora w10 splendido bassorilievo, ri9

salente al III secolo a.C.: Kairos vi è raffigurato come un giovane nudo, che corre rapido sui talari; ora si trova al Museo Municipale della città croata di Traù, l'antica Tragurium romana. L'artista greco Lisippo aveva scolpito una statua di Kairos che teneva presso il cortile della sua casa, nella città ellenica di Sikyon. Sul piedistallo dell'opera era inciso un epigramma di Posidippo: «E chi sei tu? Il Tempo che controlla tutte le cose. Perché ti mantieni sulla punta dei piedi? Io non corro mai. E perché hai un paio di ali sui tuoi piedi? Io volo con il vento. E perché hai un rasoio nella mano destra? Come segno per gli uomini che sono più pungente di qualsiasi bordo pungente. E perché hai dei capelli davanti al viso? Per colui che mi in con tra per prendermi per il ciuffo. E perché, in nome del cielo, hai la parte posteriore della testa calva? Perché nessuno che una volta ha corso sui miei piedi alati lo faccia ora, benché si auguri che accada, mi afferra da dietro. Perché l'artista ti ha foggiato? Per amor tuo, sconosciuto, e mi mise su nel portico come insegnamento».

Kairo~ disegno della statua di Lisippo da Si/rçyon, V secolo d C itrca 10

Subiamo un'epoca di coscienza infelice, nella quale avvertiamo confusamente la necessità di ridare senso alla nostra vita, di orientare la molteplicità dispersa dei nostri pensieri in una prospettiva cairologica: rinascere «nell'assentimento alla legge d'armonia che collega e unisce ogni cosa nell'Universo», come dice l'egizio Plotino. La necessità cli questa «metamorfosi degli dèi», ossia dei principi e dei simboli fondamentali, nasce dall'evidenza che siamo pericolosamente al limite degli equilibri vitali complessivi; solo una relazione nuova tra il Mondo «dentro» e quello «fuori» di noi può assicurare il continuo rinnovarsi della Vita. Rinnovare la Vita significa rinnovare la nostra «poetica quotidiana», seguire il fascino delle Immagini che ci parlano: in origine il latino Jascù1os,1m si riferiva proprio alla sfera della sensualità poetica, per esempio alla fragranza dei boccioli che si aprono mentre chiedono di essere fecondati, all'attrazione tra accomunanti esalazioni o risonanze. «Abbiamo spogliato ogni cosa del suo mistero e del suo carattere soprannaturale; non c'è più nulla di sacro [ ... ]. Quanto più si è sviluppata la conoscenza scientifica, tanto più il mondo si è disumanizzato. L'uomo si sente isolato nel cosmo, poiché non è più inserito nella naturn. avendo perduto la sua identità inconscia emotiva con i fenomeni naturali. Questi, a loro volta, hanno perduto le loro implicazioni simboliche [.. .]. Nessuna voce giunge più all'uomo da pietre, piante, o animali, né l'uomo si rivolge più ad essi sicuro di venir ascoltato. Il suo contatto con la natura è perduto, e con esso è venuta meno quella profonda energia emotiva che questo contatto simbolico sprigionava». (Cfr., Jung 1, pp. 76-77). Il «contatto emotivo», il ritorno del «sacro» nell'esistenza umana, avvengono attraverso le suggestioni di certe Immagini poetizzanti: simboli, miti, favole, riti che catturano e, allo stesso tempo, dinamizzano il nostro psichismo; che ne focalizzano lo sguardo sull'Invisibile. Così Bateson riassume questa incli11azione: «Ciò che noi crediamo di essere, dovrebbe essere compatibile con ciò che crediamo del mondo intorno a noi». E Lao-Tze sancisce: «Il Visibile non è che l'impronta dell'Invisibile». (Cfr., Bateson, p. 268). Come i poeti colgono il significato dei fenomeni procedendo dal11

la loro rappresentazione, così ogni Immagine cui sentiamo di appartenere, ogni Immagine assohtta, ci situa all'interno di quel «tempo estatico» in cui il Mondo si crea sotto i nostri occhi stupefatti, tornati infantili: fornisce la metafora verso ciò che, dice Pavese, «in origine ci ha svelato il Mondo». Ma, dice il poeta, «questa» esperienza, non ha definizione oggettiva, e perciò viene semplicemente denominata dall'uso astratto del pronome dimostrativo: «Felice chi entra sotto terra dopo aver visto q11elle cose: conosce la fine della vita, conosce anche il principio dato da Zeus». (Cfr., Pindaro, frammento 137). E 1'111110 a Demetra di Omero (vv. 476-482), svela l'essenza misterica dello «sguardo dell'anima»: «E Demetra a tutti mostrò i riti misterici [... ] i riti santi, che non si possono trasgredire né apprendere né proferire: difatti una attonita reverenza per gli dèi impedisce la voce. Felice colui - tra gli uomini viventi sulla terra - che ha visto q11elle cose-. chi invece non è stato iniziato ai sacri riti, chi non ha avuto questa sorte, non avrà mai un uguale destino, da morto, nelle umide tenebre marcescenti laggiù». Giorgio Colli, così commenta l'uso astratto del pronome dimostrativo in questo frammento pindarico: «Sembra difficile immaginare - certo i poeti esagerano - che la contemplazione dell'effige di una dèa faccia conoscere, a un gran numero di iniziati, il principio e la fine della vita. Eppure, allargando lo sguardo, non dovrebbe sfuggire che l'uso astratto del pronome dimostrativo, per indicare l'oggetto della conoscenza, è nello stile del grande misticismo speculativo basti pensare al linguaggio delle Upanishad - proprio perché la paradossalità grammaticale allude alla sconvolgente immediatezza di ciò che è lontanissimo dai sensi. E rimanendo in Grecia, nell'epoca della sapienza come in quella della filosofia, è facile verificare la frequenza con cui l'atto della conoscenza suprema è chiamato un vedere>>. (Cjr., Colli 1, I p. 28). E dunque l'intento di «allargare lo sguardo», ci regala la visione: «il principio e la fine della vita», simboleggiato nell'effige di una Dèa; l'arrivo dell'Intelletto alla sua molteplicità indivisa: chi apprende «chi è» saprà anche da dove viene. Del tutto analogamente, nella cosmologia orientale induista: 12

"Devi è l'energia primordiale, che progetta e produce l'evoluzione dell'universo. È chiamata vimarfa-fakti, dove vimarsa significa «deliberazione, ragionamento, piano» e fakti «energia» [.. .]. È la potenzialità e la misura materna del mondo. Considerata dal punto di vista dell'essenza divina che tutto contiene, essa è soltanto «Questo»; è invero il «Questo» primigenio che emerge dalla totalità indiscriminata latente. È la quintessenza del «Questo», il primo, puro oggetto di esperienza conosciuto alla suprema, divina Esperienza di Sé, dalla quale lei stessa è emersa. Ciò che l'uomo più tardi chiamerà «materia» [... ]. Di qui la dignità di ogni cosa peritura, su tutti i livelli: per questo la somma totale delle cose è adorata come Dèa Altissima, Madre ed Energia Vitale". (Cjr., Zimmer, p. 183 ~.). A questa divinità rinvia dunque anche la figura di Demetra, considerando la radice di entrambi i nomi che, nel ceppo linguistico indoeuropeo~ designano la divinità: Deva e il Dy011s indù, il Maz-Da persiano, il Diwts latino; tutti derivano dal termine sanscrito DIV «splendente». Ciò suggerisce che, in epoca arcaica, questa radice indicasse la «luminosità del divino», essendo il luminoso una determinate dell'esperienza mistica, alla quale potrebbe riferirsi anche il significato essenziale di Daimon: «luce una» (monos), luce individuale; ovvero la luce che guida l'iniziato. De-meter significa dw1que Madre luminosa (meter, mate~, ma anche Matrice; viene infatti raffigurata con w1a torcia in mano, vestita d'abiti scuri, gli stessi con i quali si era presentata ad Eleusi: si allude così alla duplice natura del velamento e del disvelamento. «Questo», dunque, è l'esperienza del ricongiw1gimento con la totalità del Mondo, l'insieme delle relazioni tra le cose che ci attraversano nella realtà del nostro tempo, del nostro esserci. Ed è in questo Weltinnenraum «spazio interiore del Mondo», che l'Immagine poetica ci fa entrare; dice Rilke: «Un solo spazio compenetra ogni essere: spazio interiore del Mondo. Uccelli taciti ci attraversano. Oh, io voglio crescere, guardo fuori ed iJJ me ecco cresce l'albero». Qui un certo sg11ardo diventa visio11e; la poesis di un'Immagine ricrea la relazione col Mondo: «ricrea il Mondo». Illuminante, è il caso di dirlo, la definizione che Benjamin dà dell'Immagine nei suoi di Parigi: «Non è che il passato getti la 13

sua luce sul presente o il presente sul passato, ma Immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulminea.mente con l'a.desso in una costellazione. In altre parole: Immagine è la dialettica. nell'immobilità. Poiché mentre la relazione del presente col passato è pura.mente tempora.le, quella tra ciò che è stato e l'a.desso è dialettica.: non dinatura temporale ma Immagina.le». (Cfr., Benja.min, p. 318). Il Mondo, allora, è identità e rivelazione; i gesti sono tutti egualmente sa.cri e tutti egualmente potenti, quando si riconoscono in «Questo»: «I figli del Mondo sono in contatto immediato con il divino, se sono in grado di considerare e tratta.re og11i cosa come parte integrante della sua mutevole sempiterna autorivelazione [... ]; concentrandosi su questa verità si dovrebbe infine riuscire a cogliere l'identità fondamenta.le della persona. individua.le con il Sé w1iversa.le». (Cjr., Zimmer, pp. 187-189). Senza di noi in «Questo» tempo e in «Questo» luogo il Mondo stesso non ha tempo e non ha luogo: «non ha luogo»; non si rigenera, e la nostra. singola. vita di conseguenza. «Questo», allora, è l'esperienza estatica. che ci restituisce senso; ci s1Jela: "L'«uscire fuori di sé», ossia l'«estasi» nel significato lettera.le della parola, libera un sovrappiù di conoscenza.. In altre parole l'estasi è [... ] lo strumento di una liberazione conoscitiva.". (Cjr., Colli 1, I p. 28). Per accedere alla conoscenza estatica è però necessario un «sacrificio alle chimere»: al debito persona.le che abbia.mo con l'Invisibile del Mondo, con la sua «tra.ma nascosta». «Ogni uomo nascendo nasce come un debito dovuto al Mondo», dice il Satapatha-Braha.mana (I, 7, 2, 1-6). Solo pagando il debito, rinasciamo: «L'uomo nasce solo in parte; è con il sacrificio che viene davvero messo al mondo». «Si dice: chi va.le di più? Chi sacrifica al Sé (atmaJ1)? Chi sacrifica agli dèi? Occorre rispondere: chi sacrifica al Sé. Chi sacrifica al Sé è colui che così sa». (Cjr., Lévi, p. 104 ~.). Per essere percorsi dal «Grande Brivido dell'estasi», come lo chiama Coomaraswa.my, bisogna dw1que pagare un pedaggio. Ed ognuno, allora, il suo specifico tributo dovrà immaginare, il suo peculiare gesto sacrifica.le dovrà officiare, poiché solo così le «chimere» sveleranno il senso del nostro unico ed insostituibile nodo nella tela co14

smica: ci porteranno oltre il velo della maya. Ma oramai sembra.no troppo abbacinati i nostri sguardi per illuminarsi alla tenue lucentezza dell'Invisibile; l'allucinato scorrere di figure insensate scherma incessantemente l'accesso alla luce essenziale delle cose; lo spazio nel quale viviamo si è trasformato in un immenso ed ininterrotto «spazio pubblicitario», nel quale tele\ visori ubiquitari, di ogni forma e dimensione, si arroga.no l'autorevolezza di mostrarci i soli sogni consentiti. Così pure è il tempo, ridotto alla «dittatura del presente»: un costante accumulo di spettacoli, in cui il nostro esserci viene relegato a quello di spettatori-consumatori di eventi, vetrificati nei «non luoghi» nei quali scorre immobile il nostro «non tempo». (Cfr., Augé 1, p. 27). Ottuso parrebbe anche l'udito: non coglie più l'armonia segreta delle cose, l'impercettibile che accorda la vita materiale all'immateriale del Mondo; anch'esso sembra oramai assordato dal clangore degli slogan: dov'è finito il silenzio? Eppure basta un'Immagine consapevolmente vissuta per restituire il debito ed immergerci nel fiume sacro della Vita, condurci alle sue sorgenti, ascoltare il silenzio che la ricrea: vivere il sogno di Vi~.qu e non solo l'illusione della sua maya. Ancora e sempre esisteranno «chimere»: Immagini che condensa.no in loro il Visibile e l'Invisibile, che ispira.no il «sacrificio» ed il suo premio, l'iniziazione ed il suo svelamento, la visione e la sua ebbrezza. Una «chimera», della quale tracciamo qui una sorta di autobiografia Immaginale, è certamente il tuffo; sia esso «katapontismos», o «battesimo», «ordalia acquatica» o semplice balzo: «Qualunque sia il modo in cui gli uomini si accosta.no a Me, in quello stesso modo io li accolgo» (Bhagavad-gita rv, 11). Quando ci si tuffa non si pensa ad altro, si è tutt'uno con ciò che ha suggerito il gesto. Tuffarsi è sempre la potente metafora che trasporta il tuffatore verso ciò che cerca o rifugge; lo conduce a ciò da cui proveniva e, necessariamente, essenzialmente, doveva tornare: «goccia di rugiada che scivola nel mare», dice Rumi. E Shams-i-Tabriz: «Entra nell'oceano, sì che la tua goccia divenga un mare»; gli fa ancora eco Rumi: «Quando il mio cuore vide il Mare dell'Amore, d'improvviso mi lasciò e vi si tuffò». (Cfr., Coomaraswamy, pp. 360-361). Questo tributo è reso attraverso miti, simboli, personaggi reali e 15

letterari, divinità, favole, tradizioni, riti e reveries, che scaturiscono come da un caleidoscopio: diversi e coerenti allo stesso tempo, sfaccettati e catrottici, generati da un cristallo prismatico in grado di contenere e proiettare tutte le tonalità possibili della vita e della morte; capace, nelle sue infinite variazioni, di rispondere forse a domande che la nostra vita mortificata non riesce più neanche a concepire. Il tuffo mette virtualmente noi, semplici tuffatori, dinanzi all'infinito mare del puro Essere: prima ci invita a scioglierci in esso, ad «annegare» nelle acque della Vita, per poi coagularci trasmutati, «battezzati» attraverso il nostro stesso gesto; una ricapitolazione cosmogonica che si esprime nella traiettoria tra la terra e l'acqua: la fonte del suo eterno fascino. «Perciò nel simbolismo dei miti, tuffarsi nell'acqua significa addentrarsi nel mistero della maya, andare alla ricerca del segreto ultimo della vita. Quando N ara.da, il discepolo umano, chiese che gli fosse insegnato questo segreto, il dio non svelò la risposta con alcuna formulazione o espressione verbale. Si limitò invece ad indicare l'acqua come elemento iniziatico». (Cfr., Zimmer, p. 40). E infatti, cosa incontra il tuffatore se non il suo Doppelgangn? Dal rispecchiamento acquoreo di Narciso che annega nel riflesso, sino ai protagonisti di film come Il sangm di 1111 poeta ed Orfeo di Coctea.u, passando per Alice attraverso il suo specchio che evapora «come una nebbiolina», ci chiede Ba.chela.rd: «Gli uomini avrebbero forse inventato gli specchi se la superficie di un'acqua tranquilla. non avesse reso così fedelmente la loro figura?». (Cfr., Bachela.rd 3, p. 17). Ofelia scende nello stagno facendosi abbracciare dall'elemento come in una deposizione; Martin Eden cerca la «luce nera)) nell'oceano; il salto di Saffo e quello del tuffatore nella tomba di Paestum, riassumono il loro ultimo atto poetico. E ancora, il «tuffo trattenuto» di Ulisse verso il canto fascinoso delle Sirene, sarà specula.re a quello metamorfico di Glauco e Cola.pesce che, invece, tra.sformeranno il loro corpo nel ma.re. Lontano nel tempo, inca.stonato come la Via Lattea nello spazio della cosmologia. indù, ci attende il «tuffo rovesciato» di Siva: archetipo di ogni permanenza rituale sotto una cascata. 16

Tuffo lmaginalis

Q11esta Immagi11azio11e 11011 costmisce dell'i"eale, ma sue/a il reale /Jascosto H. Corbin

Per il tuffatore che si specchia nel riflesso delle acque, il mistero nasce in quella presenza che lo ri-guarda.: egli sente che il Mondo è una proiezione di se stesso. Prima ancora di tuffarsi, immerge lo sguardo in quello delle acque: l'occhio ha qui un tocco delicato, mentre scorge l'Imma.gine. «La vera Immagine natura.le, quella che stupisce il ba.mbino e che incatena il sognatore, associa in effetti il riflesso e la profondità. In seno a.ll'acqua davvero riflettente noi scopria.mo un essere intimo e profondo». (Cfr., Bachelard 3, p. 18). «Per comprendere in modo adeguato il significato di questo simbolismo, occorre anzitutto rilevare che l'ordito rappresenta l'elemento immutabile e principia.le, mentre la tra.ma l'elemento variabile e contingente». (Cjr., Guénon, p. 100). Già proteso con il corpo verso il sa.lto, il tuffatore potrebbe a.llora Immaginarsi come parte di un «incrocio universa.le» tra il corpo vertica.le e la superficie orizzonta.le delle acque: il tuffo come Immagine paradigmatica dell'incontro tra macro e microcosmo, tra l'elemento creatore e la singola vita caratterizzata. Il nodo che il tuffo genera, tra la tra.ma del corpo e l'ordito della superficie acquatica, tesse a.llora, nella sua essenzia.lità microcosmica, la tela macrocosmica del Mondo. Un'Immagine come questa si comprende appieno solo con l'Imagi11atio vera: la facoltà che coglie il Mondo nella sua «rea.ltà in atto», il Mondo Immaginato nella sua totalità: «non solo l'assoluto e l'immutabile, ma anche il relativo ed il mutevole». (Cjr., Idel, p. 19). L'Imagù1atio vera è, cost anche una «facoltà agente», un Intelletto agente, quel 11011s poetikos di cui ci dice Aristotele nel terzo libro del De anima: si tratta di un'Immaginazione poetica che non serve asso17

lutamente ad «inventare» mondi; non è un esercizio che prod11ce erratica fantasticheria bens~ al contrario, oltre a rico11oscere il materiale poetico, le Immagini attraverso le quali possiamo cogliere la «realtà in atto» del Mondo, le rigenera. Teofrasto ci dice che per Parmenide l'anima e il 11ofìs sono la stessa cosa, e che quindi: «Nolìs non indica affatto la pura attività. raziocinante, ma altresì volontà, sentimento, l'anima umana intera». (Cfr., Colli 3, p. 64). La «realtà. in atto» del Mondo, colta ad esempio attraverso l'Imagi11atio vera dei «platonici di Oriente», corrisponde al «Mondo dell'Angelo»: si tratta di uno sg11ardo sulle cose che «personifica» tutte le manifestazioni della realtà trattandole come dei «chi è» e non semplicemente come dei «cosa è». Per questa forma di Intelletto agente, il Mondo è un immenso Angelo e tutte le cose, noi compresi, sono tratti del suo Volto. "In un libro, S11/ problema dell'anima, G. Th. Fechner U'autore di Na11na o L'a1Jima delle piante, 11.d.a.] racconta come un mattino di primavera, mentre una luce di trasfigurazione cingeva d'aureola la faccia della Terra, fu colpito non solo dall'idea estetica, ma dalla visione e da.Il'evidenza concreta che «la terra è un Angelo, un Angelo così sontuosamente reale, così simile ad un fiore!». Ma, aggiunge malinconicamente, un'esperienza come questa passa ai nostri giorni per Immaginaria[ ... ]. Ma questa esatta percezione presuppone il perfetto esercizio di quella facoltà. di cui Fechner precisamente lamenta la degradazione ed il rifiuto [... ]. Il fatto che la percezione dell'Angelo della Terra possa essere respinta nell'Immaginario come nell'irreale, significa e rivela che al con tra.rio questa maniera di percepire e di meditare la Terra è legata a una struttura psico-spirituale che dobbiamo riscoprire, per valorizzare i mezzi di conoscenza di cui essa dispone [... ] . Incontrare la Terra non come insieme di fatti fisici, ma nella persona del suo Angelo, questo è un accadimento essenzialmente psichico che non può «aver luogo» né nel mondo dei concetti astratti impersonali, né sul piano dei semplici dati sensibili. Bisogna che la Terra sia percepita non attraverso i sensi, ma attraverso un'Immagine primordiale, e poiché tale Immagine porta i tratti di una figura personale, essa si rivelerà. simboleggiante con la propria Immagine di se stessa che l'anima porta nel suo intimo fondo 18

[.. .]. Nel recuperare le intenzioni costitutive di questo universo dove la Terra è figurata, meditata, e incontrata nella persona del suo Angelo, si scopre che si tratta non tanto di rispondere a interrogativi concernenti delle essenze («che cosa è?»), quanto a interrogativi concernenti delle persone («chi è?» oppure «a chi corrisponde?») ad esempio chi è della Terra, chi so110 le Acque, le piante, le montagne, oppure a chi corrispondono?". (Cfr., Corbin, pp. 35-36). L'intento, l'intenzione agente dell'Imagi11atio vera, dell'Immaginale, costruisce così un'iJJcli11azio11e eversiva rispetto ad ogni forma di controllo sociale autoritario; dice Elémire Zolla a proposito: «D'altronde l'idea di Wl piano Immaginale della realtà avrebbe ostacolato il programma di controllo sociale autoritario integrale, al quale abbisogna un rigido e crudo dualismo e un sistema di divieti. Con l'Immaginale tertù,m dafltr. Tutta la storia cristiana soffrì per l'alternativa che San Paolo dà per scontata domandandosi se i suoi viaggi sciamanici al terzo cielo erano stati col corpo o fuori del corpo. La risposta congrua sarebbe stata che quei viaggi l'avevano condotto nell'Immaginale». (Cfr., Zolla 1, p. 70). Nell'Immaginale la forza psichica del tuffo viene ulteriormente amplificata dalla sua componente sonora; i quattro fonemi di «t-u-ffo», infatti, esprimono nel loro insieme una valenza poetizzante: i suoni rimandano direttamente ad un onomatopeismo Immaginale. Esiste infatti un'attività Immaginale dei nomi: un principio creatore suscitato da alcune parole la cui sonorità essenziale riesca a magnetizzare vaste zone di Immagini; sono parole che, non solo fanno sognare, ma sognano di essere nominate, come dice il poeta: «Mots q,1i revent q11'on /es 11omme». Per questa sua caratteristica possiamo dire che «tuffo» è un suono che sogna, e dunque fa sognare. Alcune «parole Immaginali», allora, sono paragonabili a conchiglie: «Come il bambino ascolta il rumore del mare in una conchiglia, così udendo certe parole il sognatore coglie i suoni del Mondo». (Cjr., Bachelard 1, pp. 42-56). Questi suoni, come quello del mare che scaturisce dalla conchiglia, sono potenti perché suoni nascenti: risuonano nell'Immaginale; l'anima ed il corpo ritrovano la propria radice originaria, comune al suono, tutt'uno con esso. Non è il rumore del mare che si ode nella 19

conchiglia: è quello del Mondo mentre nasce. Per cogliere la «realtà in atto» del Mondo, allora, bisogna Immaginarla, poiché chi Immagina il Mondo non è mai separato da esso. «Tuffarsi», allora: «Assomiglia a quei semi rinchiusi per migliaia di anni senz'aria nelle piramidi, che hanno mantenuto il loro potere di germinazione sino al giorno d'oggi», come dice Benjamin delle Immagini ÌJJestimabili. (Cfr., DidiHuberman 2, p. 7 5). «Tuffarsi» è anche Immagine che esprime peculiari caratteristiche ricombinatorie: evoca la co,!)1111ctio, l'unione della «coppia» formata da «tuffo» potenza maschile, e da «acqua» potenza femminile; descrive la dinamica eraclitea della concordanza degli opposti: giorno e notte, vita e morte, luna e sole ... tuffo ed acqua. «Ogni potenza è sessuata. Può anche risultare bisessuata, ma non è mai neutra, o per lo meno non lo resterà per lungo tempo». Nel caso del tuffo e dell'acqua, la «coppia» allude ad un vero e proprio mitologema cosmologico: l'unione dei principi complementari che si compenetrano, fondendosi sino all'Unità, per poi disgiungersi nuovamente. In questo modo la «coppia» evolve «dall'umano al divino» e viceversa; ci suggerisce l'Immagine delle tensioni che formano il Mondo: «L'Assoluto diviene differenziato in manifestazioni polarizzate e tramite queste le tensioni vitali del processo cosmico vengono poste in essere e mantenute». (Cfr., Zimmer, p. 75). Nominare questa «coppia» significa già evocare un mito, entrare nel suo Grande Tempo: «Come tutti oggi concordano nell'affermare, un mito racconta eventi che hanno avuto luogo ù1 priJJcipio, ovvero alle origi11i, in un istante primordiale e atemporale, in un arco di tmtpo sacro. Questo tempo mitico o sacro è qualitativamente diverso dal tempo profano, dalla durata continua e desacralizzata. Nel raccontare un mito si riattualizza in qualche modo il tempo sacro in cui si sono compiuti gli avvenimenti di cui si parla[ ... ]. Accontentiamoci di ricordare che un mito strappa l'uomo al tempo che gli è proprio, al suo tempo individuale [... ] e lo proietta nel Grande Tempo, in un istante paradossale che non può essere misurato in quanto non costituito da una durata. È come dire che il mito implica una rottura del tempo e del mondo circostante: realizza un'apertura verso il Grande Tempo, verso il tempo sacro». 20

L'Immagine del tuffo, la «coppia» con l'acqua, rimandano allora ai tanti miti dell'immersione nell'A11ima M1111di: la necessità del sacro tragitto per arriva.re «là dove tutti i desideri porta.vano». Qui «siamo di fronte al superamento del pittoresco. A questo punto l'Immaginazione non si accontenta. di un quadro: vuole un simbolo di destino», dice Ba.chela.rd. (Cjr., Elia.de 2, pp. 55-56). Oggi sembra che il nostro M1111d11s Imaginalis sia colonizzato da segni senza senso, come sogni-collage che si assemblano nella notte senza che se ne possa trarre alcuna visio11e-, in sintesi, possiamo dire che non Immaginiamo più sciama11icame11te. Un esempio di civiltà ispirata dai «sogni Immaginali», all'inizio del secolo scorso, furono i Sioux Dakota: essi trassero ispirazione politica. ed artistica. dal loro ca.po che, in Alce Nero parla, racconta. la storia della visione sciamanica. che guidava la consapevolezza. simbolica di un intero popolo. «Amico, ti racconterò la storia della mia vita; e se fosse soltanto la storia della mia vita credo che non la racconterei, perché che cosa è un uomo per dar importanza. ai suoi inverni, anche quando sono già così numero si da fargli piega.re il ca.po come una pesante nevicata.? Tanti altri uomini hanno vissuto e vivranno la stessa storia, per diventare erba sui colli. È la storia di tutta la Vita che è santa e buona da raccontare, e di noi bipedi che la condividiamo con i quadrupedi, e gli ala.ti, e tutte le cose verdi; perché sono tutti figli di una stessa madre ed il loro padre è un unico Spirito». Oggi le visioni sciamaniche tornano ad emergere dal Mm1d11s Imagi11alis nelle foreste profonde dell'Amazzonia., dove vivono le popolazioni indigene che nei secoli hanno preservato per tutta l'umanità le preziose riserve di biodiversità dalla deva.stazione; le loro Immagini alimentano i calami che nutrono i Diritti della Grande Madre. Non ba.sta dunque sogna.re perché questo diventi la fonte di una visione: "La psicanalisi parve riscattare i sogni, ma in realtà se ne servì per portare a termine fin nell'intimo della coscienza. l'opera di socializzazione spietata che è stata la regola del secolo [... ] per trarne consigli in vista dell'adattamento socia.le. Eppure, non nacque dalla Grecia il nostro mondo, dalla civiltà che eresse templi-clinica ai sogni, dove non si mirava soltanto a guarire le malattie, ma anche ad incubare rivelazioni? Disse Platone nella &p11bblica (IX, 1) che è di21

sgustoso il sogno banale Wunico a noi rimasto), luogo di follie e di delitti. Insegnava Zenone che la bontà si misura dalla purezza dei sogni [... ]. Filostrato racchiuse tutta la dottrina nella frase «la divinazione nel sogno è la parte più divina dell'uomo»". (Cfr., Zolla 1, pp. 25-26). Quello che serve è un «onirismo ecologico» che volesse sognare i «chi è?» delle cose; un sognare «mantico» per dare finalmente unarisposta consapevole all'inquietante domanda: «Chi è che ci confeziona i sogni?», evocata da Elémire Zolla nel suo L 'ama11te iJJvisibile. Nel frammento 75 Eraclito afferma chiaramente che: «I dormienti sono artefici e collaboratori di ciò che avviene nel Mondo», mentre nelle Upa11ishad si dice che quando si dorme si prende il materiale del Mondo e si costruisce con il proprio splendore. D'altronde: «Il Mondo dello stato di veglia ha, s~ certi vantaggi di concretezza e continuità, ma le sue possibilità sociali sono assai ristrette: vi incontriamo soltanto i nostri conoscenti, mentre nel Mondo dei sogni si possono avvicinare, sia pur di sfuggita, gli amici lontani, i morti, gli dèi; normalmente è l'unica esperienza che ci sottrae alla tirannide penosa e incomprensibile del tempo e dello spazio». (Cfr., Dodds, p. 149). Nei tempi arcaici anche la relazione tra «tuffo Immaginale» ed «onirismo mantico» era diretta: «Tanto sul piano mitico quanto sul piano storico, un procedimento divinatorio sembra godere di uno statuto privilegiato: si tratta dell'incubazione, [il dormire in un luogo sacro, 11.d.a.] il mezzo di divinazione più antico [ ... ]. La. consultazione si effettua alla maniera di una discesa all'Ade. Dopo qualche giorno di ritiro e di severe interdizioni alimentari, il consultante viene ammesso a compiere sacrifici [... ]. Quindi viene portato verso l'oracolo ma, prima di penetrarvi, beve presso due sorgenti l'una contigua all'altra.. L'acqua della prima fonte si chiama Lethe, la seconda M11emOfYIIe: ricompaiono le due potenze religiose che dominano il sistema di pensiero dei poeti ispirati. L'acqua della prima fonte fa dimenticare tutta la vita umana; quella della seconda permette al consultante di conservare nella memoria tutto ciò che ha visto ed inteso nell'altro mondo [... ].Dopo aver bevuto l'acqua di entrambe le fonti, penetra nell'oracolo, introducendo prima i piedi. Pausania narra 22

che il corpo è inghiottito come se un fiume lo trascinasse nei suoi vortici. Passato qualche tempo in stato di incoscienza viene tratto fuori e quindi fatto sedere sul trono della Memoria». (Cfr., Detienne 2, pp. 28-29). Come è possibile, ai nostri tempi, ripristinare un onirismo coerente? Elémire Zolla offre una strada, analoga a quella di Bachelard e di tanti altri «sognatori»: «Premessa dei sogni coerenti è un sistema di simboli; quando manchi, le figure fiottano a caso, come le parole se si fosse smarrito il nesso fra significati e fonemi. Quando non si frapponga una griglia di meditazioni fra gli istinti e il sistema del cosmo, fra sentimenti e verità, domina il caso». (Cfr., Zolla 1, pp. 25-26). Più che il caso, diremmo noi, è il potere bioliberista che ha colonizzato il simbolico personale e collettivo, e mortificato il nostro M1111d11s I1nagi11alis con la riduzione del Simbolo a Logo: facendoci perdere il contatto con la sacralità di ogni cosa, ha reso tutto e tutti semplicemente degli oggetti acquistabili. Continua Zolla: «Quando è disponibile una griglia di miti, le Immagini gravitano naturalmente verso il riquadro che spetta ad esse nel quadro totale, come le parole si ordinano fra loro quando è data per scontata una semantica [.. .]. Sono somiglianze, consonanze, che aiutano a tenere a mente il sistema dei nessi [... ]. Questo gioco di riscontri fra conoscenze, miti, sentimenti, potrebbe essere restaurato a due condizioni: a) che le nostre conoscenze odierne, le leggi di natura, si traducessero in narrazioni fantastiche, b) che queste narrazioni fossero coerenti con una metafisica rigorosa. Come racconti gratuiti i miti non servono a niente, soltanto come espressione di una metafisica diventano pienamente significativi». (Ibid.). Chiosa Dodds: «Il mito è il pensiero sognante di un popolo, come il sogno è il mito dell'individuo». È dunque alla «potenza Immaginale» che dobbiamo tornare; la nostra libertà si compendia, ad esempio, nell'affermazione: «La donna ha il privilegio di conoscere qualche verità per diretta rivelazione del grembo, replica fedele della Matrice cosmica.>>. Grandi scienziati contemporanei, a partire da Einstein per arrivare ad Heisemberg, hanno riconosciuto che le metafisiche orientali erano più appropriate a spiegare le relazioni che intes23

sono la Natura, poiché esse partono da una visione non duale, nella quale prima dell'Uno è pensato lo Zero: la Matrice della Vita. «Immaginale» allora, non significa futile gioco di fantasticherie in libertà, bensì la capacità di simboleggiare la necessità poetico-politica come un aJJdare oltre la realtà apparente dei fenomeni reificati; pensare il nesso tra tutte le cose al di là di ciò che siamo in grado di misurare con una «razionalità economica» che oggi si è trasformata in distruzione. Una mente intenta «Immagina il Cosmo»; questo è il suo «destino più naturale», dice giustamente Bachelard nella sua Poetica della reverie. (Cfr., Bachelard 1, p. 31). La reverie sul tuffo, il «tuffo Immaginale» dispiega, allora, quella che lo stesso Bachelard chiama l'«Immaginazione materiale» di ognuno di noi: tuffarsi evoca la poesia della materia tra terra, aria, acqua e fuoco. «Detto in altro modo, i quattro elementi materiali sono ognuno la base di un'Immaginazione che si può ben chiamare Immaginazione materiale, dal momento che questa Immaginazione oltrepassa in qualche modo la contemplazione delle forme e dei colori per pensare a delle ricchezze e a delle potenze nel cuore stesso delle cose, nel cuore stesso del Mondo». (Cfr., Bachelard 3, p. 22). E così, in perfetta risonanza con le proposte di Zolla per una nuova simbolica delle Immagini fondamentali, Bachelard propone la sua poetica dei quattro elementi: «Questi simboli universali, che congiungono le Immagini cosmiche ai sogni più radicati nell'inconscio umano, si chiariscono in una classificazione secondo i quattro elementi [.. .]. Si potrebbe pensare che i progressi del pensiero e dell'esperienza scientifica abbiano relegato al rango di semplice illusione, di metafora ingenua la produzione delle Immagini dei quattro elementi. Non è affatto vero ... Per essere partecipi degli spettacoli e delle forze del mondo, bisogna quindi tornare incessantemente alle Immagini primarie». (Ibid., pp. 12-13). E proprio l'Immagine del tuffatore unisce i quattro «rizomata» di Empedocle: staccandosi dal suolo, aleggia un momento nell'aria dopo aver preso in prestito la natura ignea, ascendente, del fuoco, per poi ricadere verso l'acqua; una breve calma e, dal silenzio, il suono concentrico delle onde. Se l'acqua rappresenta la «somma di tutte le virtualità», se da essa ed in essa tutte le forme di vita sono state 24

create e saranno dissolte, allora seguire le Immagini che ci derivano dall'unione fisica con essa può visualizzarci l'immersione nel fluire incessante della Vita: la percezione materiale, oltre che psichica, dell'eterno ciclo dionisiaco della nascita e della morte. Come abbiamo detto in altre riflessioni, il problema centrale della modernità occidentale è la mancanza del limite, a partire dal limite per antonomasia, il limite di tutti i limiti: la morte. Anche rinunciare ai propri sogni conduce alla mortificazione dell'anima: quando si abbandonano i sogni, è noto, si comincia ad aver bisogno di tutto; segreto ben noto al bioliberismo. L'umanità contemporanea, e l'Occidente in particolare che ne ha fatto un fondamento del «discorso del capitalista»:, come lo definiva Jaques Lacan, è priva di sogni ed ossessionata dalla rimozione della propria morte, come di ogni altro limite che, in qualche modo, ad essa rimandi; questi costituiscono ostacoli profondi alla 11isione e, conseguentemente, ai nostri percorsi di re-esiste11za. Benché la sua presenza sia una parte ineludibile e costitutiva della vita, essa viene, di fatto, continuamente negata, esternalizzata, spettacolarizzata o "amministrata" da specialisti laici o ecclesiali, facendo di questo enorme rimosso simbolico ed esistenziale l'alimento di una nevrosi consumistica che assume così, sempre più, le forme di una violenza contro t11tte le manifestazioni della Vita; una pulsione scientificamente "organizzata" dai dispositivi del modello di civilizzazione bioliberista, che si nutre dell'egoismo e della paura accumulati in secoli di mancato dialogo intimo con questo estremo della vita. (Cfr., Salinari 1, p. 58). L'Immaginazione materiale dell'acqua, l'immersione in essa, il tuffo, possono restituirci al dialogo con questa parte della vita, rinviarci ad una concretezza dell'acqua che scorre, che fluisce come il nostro stesso esistere, che sempre si rinnova e rinasce: come il corpo nel tuffo. La verità del «tuffo Immaginale» è semplicemente questa: non esiste un altro Mondo se non quello che abbiamo, ed in esso tutto si rinnova di continuo secondo un ordine naturale che ha prodotto e riprodotto la Vita nel corso di milioni di anni. Tutte le Tradizioni filosofiche, che sono in realtà una sola, tutte le loro cosmologie, ritua25

lità, miti e simboli, i nostri stessi gesti quotidiani quando ci trasmettono la presenza del nostro esserci, svelano questa semplice evidenza: noi apparteniamo al Mondo. Nell'istante che precede il tuffo si guardano sempre le acque come fossero la «prima materia»; l'acqua ondeggiante simboleggia i nostri stessi pensieri: sempre uguali nella sostanza e sempre cangianti nella forma; superficiali e profondi, tranquilli e burrascosi, trasparenti ed oscuri. Senza questo sg11ardo sul mare la «prima materia» non esiste, e nemmeno l'ebbrezza del tuffo. Attraverso il tuffo possiamo trovare la «prima materia» esattamente là dove essa archetipicamente e simbolicamente dimora: in quella dimensione acq11atica che fluisce tra il nostro «dentro» ed il nostro «fuori»; la stessa corrispondenza si tende tra macro e microcosmo, tra l'acqueo che abbiamo dentro, e quello che ci chiama da fuori. Per tornare al M1111d11S Imagi11alis, la fonte dove tutto è nato, dobbiamo tuffarci; per attraversare la soglia verso l'origine e la rigenerazione ci vuole il coraggio della vita nell'istante sospeso del tuffo. Quando ci facciamo «acciuffare» dalla nostra «acqua interna»: «Capiamo nel modo più simpatetico e più doloroso uno dei caratteri dell'eraclitismo. Vediamo che il mobilismo eracliteo, è una filosofia coJJcreta, una filosofia totale. Non ci si bagna due volte nello stesso fiume perché già l'essere umano, nel profondo, ha il destino dell'acqua che scorre. L'acqua è davvero l'elemento transeunte, la metamorfosi ontologica essenziale tra il fuoco e la terra. L'essere che si vota all'acqua è un essere preso dalla vertigine. Egli muore a ogni istante, senza fine qualcosa della sua sostanza sprofonda. La morte quotidiana non è la morte esuberante del fuoco, che trafigge il cielo con le sue frecce; la morte quotidiana è la morte dell'acqua». (Cjr., Bachelard 2, p. 12). E allora!> come nella Tragedia arcaica, rispecchiamento della vitamorte-rinascita di Dioniso, che consentiva al mondo antico di identificarsi con una visione ciclica dell'esistenza, ritroviamo la stessa sintonia attraverso l'«Immaginazione materiale» dell'acqua: lo «specchio di Dioniso» è il nostro rifletterci, la reverie in prossimità dello specchio acquatico apre il passaggio verso la «sostanza che sprofonda». 26

E, come Dioniso che si rispecchia crea il Mondo, cioè le molteplicità che, come lui, dovra.nno perire un giorno per rinascere, il tuffatore Immagina.le si rispecchia nell'Immagine materia.le dell'acqua e vede il Mondo, vede l'acqua come forma virtua.le del Mondo: «Infine il simbolo più arduo, più profondo, citato in un papiro orfico e ripresentato molti secoli dopo da fonti neoplatoniche: lo specchio [ ... ]. Guarda.ndosi a.Ilo specchio Dioniso, a.nziché se stesso, vi vede riflesso il mondo. Dunque questo mondo, gli uomini e le cose di questo mondo, non hanno una rea.ltà in sé, sono soltanto una visione del dio. Solo Dioniso esiste, in lui tutto si annulla: per questo l'uomo deve tornare a lui, immergersi nel divino passato». (Cjr., Colli 2, p. 34). Immergersi nel divino passato: immergersi nello specchio delle acque. Il tuffo è il gesto materia.le più consono a questo ritorno; il gesto ana.logico che compone la scissione tra uma.nità e Mondo attraverso il ricongiungimento di forme essenziali: il corpo del tuffatore nella virtua.lità generatrice delle acque. Ogni tuffo diventa così, per il 11011s poetikos, la ricapitolazione microcosmica del mito indù della creazione che l'Essere Supremo agisce ad ogni ricominciamento del Mondo: «Una quiete insondabile, sottile, copriva l'ocea.no. Vi~11u entrò nell'acqua e la agitò dolcemente. Si produssero delle onde. Mentre si susseguivano le une a.Ile a.ltre, tra di esse si formò un minuscolo avva.llamento: questo avva.llamento era lo spazio». (Cfr., Zimmer, p. 54). «Gli uomini Immaginano più di quanto pensa.no: hanno a.llora delle espressioni che oltrepassano il loro pensiero, che oltrepassano il pensiero»; Bachelard così ci ricorda che l'Immagine può essere compresa soltanto attraverso l'Immagine, cioè ammira.ndola, facendosene affascinare; «i sentimenti potrebbero corrispondere a.Ile conoscenze, Immagini mitiche condividibili, perché significative, potrebbero offrire un'intelaiatura a.Ila fantasia a.nche nei sogni», conclude Zolla. «Noi possiamo sapere tutto sul conto dei santi, dei savi, dei profeti [... ] e di tutte le Grandi Madri della Terra; ma se queste non sono altro per noi che mere figure di cui non abbiamo mai sperimentato il carattere numinoso, sarà come se parlassimo in sogno, senza cono27

scere il significato di ciò che diciamo. Le parole [... ] prenderanno vita e significato solo se cercheremo di afferrare la loro numinosità, cioè il loro rapporto specifico con l'individuo vivente. Solo allora cominceremo a capire [... ] il modo in cui esse sono in rapporto con noi». (Cfr., Jung, p. 80). Ad ognuno il suo Immaginale allora, ad ogni tuffatore l'ebbrezza di oltrepassare ciò che lo separa da «q11elle cosi!>> per ricongiungersi pericolosamente all'elemento della creazione originaria poiché, come dice Hesse: «Noi non nascondiamo il pericolo che corre l'anima dell'umanità, l'abisso cui è vicina. Ma neppure possiamo nascondere che crediamo alla sua immortalità». Per questo abbiamo detto che il tuffo è un potente oggetto di reverie, definita acutamente come «la presa di coscienza di un soggetto affascinato dalle Immagini poetiche». Bachelard sostiene, e noi con lui, che: «Nell'epoca delle grandi scoperte, un'Immagine poetica può rappresentare l'origine di un mondo, il germe di un universo Immaginato». (Cfr., Bachelard 1, p.

7). Fons et origo le acque, Jo11s et origo l'Immaginale; l'uomo è un essere Immaginante: come potrebbe pensare il Mondo se prima non lo Immaginasse? Se non diventasse esso stesso Mondo immergendosi sino a toccarne l'essenza? «L'Immaginazione è politica, ecco ciò di cui dobbiamo prendere atto. Viceversa, la politica non può esistere, in un momento o in un altro, senza la facoltà di Immaginare, come ha dimostrato Hannah Arendt partendo da premesse molto generali attinte dalla filosofia di Kant». (Cfr., Didi-Huberman 2!' pp. 38-39). È per questa nostra necessità psichica che il tuffo pone il tuffatore di fronte alle acque come condizione spirituale di ogni «uno» dinanzi all'«Altro»; i due si uniranno riproducendo così runici esistenziale che vive in ognuno di noi: la goccia si riversa nel Mare. «Se potrai dare un nome alla gocciolina nel grande mare, allora potrai distinguere la mia anima nella grande divinità», dice Angelus Silesius. Ed ancora, si risale e ci si tuffa: è una festa; per chi ha vissuto sul mare da bambino questo è il gesto del ritorno all'infanzia. Questa Immagine primordiale ci sommuove dal profondo, dispiega «una straordinaria potenza fantastica», come dice Pavese nei suoi ricordi; come quando eravamo bambini, e l'andare in questo modo 28

incontro al mare era l'essenza stessa delle lunghe estati dell'infanzia. Ogni tuffatore aspira così ad una visio11e, ad un'epifania di questo eterno ritorno della vita.. È l'originalità stessa del gesto, la sua unicità, che apre questa. porta: «I gesti che si compiono neff'esperienza visionaria di una epifania sono gesti autentici, non ripetitivi, diversamente da quelli del culto, il quale non possiede il carattere originale della visione [.. .]. "Così io appaio" dice il gesto». (Cjr., Kerényi 1, pp. 40-41). E cos~ per chi si tuffa in questa «acqua Immaginale», l'infanzia dura tutta la vita., ed inventa di continuo i ricordi delle vite che non sono mai state, ma che abbiamo sempre sognato. La reverie del tuffo ci immette in un tempo detemporalizzato: il tempo soggettivo dell'infanzia sognante. Alice attraversa lo specchio che si trasforma «in una nebbiolina sottile»: è la forma Immaginale della sua stessa infanzia. Anche da adulti, soli o nella moltitudine, fissando le acque, siamo in uno stato d'animo speciale, creatore, poetico appunto, che ci astrae dalla contingenza e riapre per noi il Grande Tempo: in che mare ci immergiamo, se non in quello della nostra infanzia? Chi siamo, quanti siamo, quante infanzie abbiamo vissuto nell'istante sospeso del tuffo? «Des e1ifancesj'eJJ ai font et tani, q11e je my perdrais e11 /es coJJtemplaJJt» - di infanzie ne ho tante e tante che mi perderei contemplandole - dice Alexandre Arnoux, e ancora: «!JJveJJte! Il 1t'est flte perdm 011 fond de fa mémorie>> - Inventa! Non c'è festa. perduta in fondo alla tua memoria - ci ricorda Robert Ganzo. Quanto dura un'Immagine? «I fotografi di genio sanno calcolare la durata delle loro istantanee, una d11rata di reuerie>>; e allora, ci si tuffa sempre e solo in se stessi e sempre e solo in se stessi si annega o si rinasce. Per questo il «tuffo Immaginale» lo troviamo tra i «clispositivi» degli amori soprannaturali, quelli che vedono il mortale unirsi in spirito con l' a,na11te invisibile. Questo «tuffo nello spirito» dell' amaJJte invisibile è una vera e propria immersione nel M111Jd11s Imagi11nlis. Ma chi è l'amaJJte iJJvisibile? È la Dama dell'amor cortese, che trasla l'anima dell'amante verso l'Assoluto; la Daiki11f della tradizione buddista, che apre le porte alla visione della Potenza divina; lo Spirito-g11ida degli sciamani siberiani, che concepisce con loro il «Sacro Tamburo» del 29

vaticinio; lo Zar dell'Africa orientale, che aiuta il medico-stregone nella diagnosi dei sogni; il ]i11JJ delle aree islamiche, che ispira i poeti e fa girare la spina dorsale dei Dervisci; NTore, che scende a fare l'amore con i pigmei Bambute nella foresta dell'Ituri; la Belle Dame saJJs mercì della cavalleria rinascimentale, che insuffla sogni cli morte e resurrezione; le Apsaras indiane, che si accoppiano con i santoni nelle acque sacre della tradizione vedica; InaJJna, poi Isthar di Babilonia, che possedeva i suoi sacerdoti nelle nozze ierogamiche; Kibele cacciatrice di cacciatori, pantera profumata «maestra nel modulare ogni richiamo ferino»; Egeria, amante invisibile di Numa di Roma; la Sheki110 della tradizione zoharica ebraica, allo stesso tempo vertice dell'Ente e sposa celeste di ciascun devoto; Cristo lo sposo mistico di Caterina cbi Siena; la Vergine sposa di san Bernardo; Mel11sù1a medioevale, investitrice di principi ... e via enumerando in forme e tradizioni. Ognuno di questi/ e amanti invisibili richiede un suo specifico tuffo rituale affinché l'anima del devoto «le si assimili». «Di ciascun sesso capaci e d'entrambi, tanto morbida e pura è la loro essenza, libera com'è da arti e giw1ture», tutte e tutti, indistintamente: «Agenti in quella forma che si scelgono, lata o densa, luminosa o buia, perseguono il fine assegnato». (Cfr., Milton, Paradiso Perd11to I, p. 219 ~-). Per gli adepti dell'amaJJte i11visibile il gesto preliminare d'ogni percorso mistico è un tuffo. «Nel Roseto della sottomissione N asruddin Tus1 teorizza le Uri come idee che appaiono nella nostra essenza allorché si sia mossi dal desiderio: quando si desidera prendere conoscenza degli archetipi intelligibili, si ravvisa un angelo nell'Immaginale». Per unirsi a loro sarà imprescindibile il tuffo. (Cfr., Zolla 1, p. 103). L'amante invisibile di Dante è Beatrice che nel Paradiso egli contempla sino alla totale assimilazione, «Le si assimila: si fa dentro di quale Lei è», tornando in possesso dell'Amore che gli era stato alienato. Dante dice chiaramente che da quel momento in poi l' a11ima sarà governata da Amore, identico a Beatrice-Venere-Stella del mattino «cui è sposato con ferma signoria per virtù d'Immaginazione»: «Ferma signoria significa che la Dama sarà tremenda, pietrificante, inflessibile contro ogni reazione automatica, puramente umana: nulla vorrà 30

tollerare che non sia alla sua altezza, che non risponda alla beatitudine, come dirà Beatrice a Dante alla fine del Pm;gatorio». (Ibid., p. 110). Dell'incontro sensuale con la Dama e dell'unione mistica con lei, entra a far parte il «tuffo Immaginale»: «Occorre notare q,1a11do Beatrice, ed in genere la Dama, appare. È il momento della cesura nell'anno cristiano, quando si apre un varco nella cerniera. dei giorni, il Venerdì Santo, allorché tutte le raffigurazioni sono velate e il Cristo è assente. Il giorno del massimo dolore per il cristiano è la grande giornata del fedele d'amore, il dì della liberazione, quando il suo spirito spera e la sua anima esulta e soltanto la sua parte corporale-fantastica trema di sgomento. Questo Venerdì Santo corrisponde, nella sequenza simbolica del P11rgatorio, al momento in cui Dante si abbevera nel Lete, il fiume dell'oblio ... Egli dimentica il Venerdì Santo per affissarsi tutto nell'idolo che ha installato in se stesso. Dopo aver bevuto del Lete, l'anima berrà nell'Eunoè o Buona Novella[ ... ]. N ell'equivalenze pasquali l'Eunoè corrisponde al Sabato Santo, che invece d'essere un giorno lieto, come per i cristiani, segna il momento di tristezza del fedele d'amore: Beatrice muore [... ] ma soltanto esteriormente; morendo all'esterno Beatrice affonda nell'interiorità del suo fedele, perché questo significa la sua ascesa al terzo cielo, di Venere». (Ibid.). Il «tuffo nell'Eunoè», così titola Gustave Dorè una delle sue celebri tavole, equivale all'immersione nella Fon tana degli Amanti in cui Sole e Luna si congiungono, «nella polla della ninfa Salmace dove ella si amalgamò ad Ermafrodito. Dante diventa dentro tal quale Beatrice, cioè androgino, essendo tale l'effetto delle acque». Il «tuffo Immaginale» di Dante nell'Eunoè, come quello di Ermafrodito nella polla della ninfa Salmace, ricompongono la scissione tra la parte maschile e quella femminile, come tra il Mondo «dentro» e quello «fuori». Analoga interpretazione verrà data del tuffo di Narciso che si ricomporrà come figura originariamente ermafrodita, trasmutando in fiore». (Ibid.). In questa occasione compare l'enigmatica e seducente figura di Matelda; il suo compito è immergere nelle acque del Lete, il fiume che cancellerà anche il ricordo del peccato, le anime che hanno com31

pletato la purificazione attraverso le cornici del Purgatorio, per poi condurle all'Eunoè. Matelda, «bella donna [... ] si volge con le piante strette a terra e intra sé, donna che balli», immergerà dunque Dante nel lago della «Buona Novella».

Mate/da e Dante1 Gustaz:e Do~ 1868

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Tuffo e ritualità

Egli entrò 11elle acq11e coJJ la triplice scieJJzn. U1111ovo si svil11ppò. Lo carezz.ò dice11do: che si moltiplichi! Satapatha-Brahamana VI,1,1,10

Il t1tjfo rif11ale «Tutto ciò che è partecipa al sacrificio», dice il Satapatha-Brahamana (III, 6, 2, 26). Il rituale del tuffo vedico condensa questo pensiero radicale in un gesto dalle semplici evenienze ma che, "spiccato" dal piano della ritualità, assume una potenza Immaginale che apre possibilità visionarie vertiginose. Il tuffo è una delle forme primordiali della ritualità sacrificale induista, si inscrive cioè nel novero di quegli atti di rigenerazione che conducono là dove si trova la «realtà in atto» del Mondo. È questa l'idea di «tuffo sacrificale» nell'India vedica: un gesto semplice ed efficace per celebrare la nostra appartenenza all'insieme delle forme vitali, ai vari bios che, insieme al nostro, compongono la zoé. "La parola zoé aveva assunto questo «suono» in un periodo molto antico della storia della lingua greca: in essa «risuona.>> la vita di tutti gli esseri viventi [ ... ] . Il significato di zoé è quello di vita, senza ,t!teriori caratterizzazioni. Quando invece si dice bios, in esso «risuona.>> qualcosa di diverso. Diventano infatti visibili, per così dire, i contorni, i tratti specifici di una vita ben definita, le linee che distinguono un'esistenza da un'altra: qui «risuona.>> la vita caratterizz.nta [... ]. Una definizione greca di zoé è «tempo dell'essere», ma non nel senso di un tempo vuoto, in cui l'essere vivente, per così dire, entra e nel quale rimane fin che muore! Questo «tempo dell'essere» è da intendersi come un essere continuo, che viene racchiuso nel bios fintanto che questo dura - allora si chiama «zoé del bioS>> - oppure da cui il bios viene estratto come un frammento e assegnato a questo o a quello. 33

Il frammento estratto può allora chiamarsi «bios della zo6>. Plotino definì zoé il «tempo dell'anima», ossia il tempo in cui questa, nel corso delle sue ripetute rinascite, procede e trapassa da un bios all'altro [.. .]. La zoé non ammette l'esperienza della propria distruzione: essa viene sperimentata senza una fine, come vita infinita [... ]. La religione greca si comporta come sempre: essa mostra statue e Immagini nelle quali il segreto si approssima all'uomo. Elementi quotidiani [... ] risuonano l'uno accanto all'altro [... ] giungono come da lontano in un tempo puro - il tempo della festa - in un luogo puro: sulla scena di avvenimenti che non si svolgono nelle dimensioni dello spazio, bensì in una dimensione propria, una dimensione potenziata dall'uomo, nella quale si attendono e si cercano le apparizioni degli dèi". (Cfr., Kerényi 1, pp.19-21, 225). Il «tempo dell'anima» è, allora, il tempo nel quale il «sacrificio» viene officiato per verificare, rendere vero, l'assunto che «la zoé non ammette l'esperienza della propria distruzione». Le motivazioni e le dinamiche del «tuffo sacrificale» vedico hanno questo significato autentico ed originario: un gesto o un pensiero di riconoscimento per l'insieme e gli insiemi della Vita, una celebrazione della «zoé del bioS>> e del «bios della zo6>. Fechner, con la sua sensibilità naturalistica, declina l'antica idea platonica dell'A11ima M1111di proprio come insieme delle complementarietà a.nimiche tra esseri viventi: «Un'anima è per me non soltanto il riflesso che altri esseri ne ricevono, ma deve avere in sé pienezza e ricchezza di sensazioni e impulsi vitali. Non già la rende anima ciò che io dell;,anima della pianta ho in me, ma precisamente ciò che di essa in me non ho». (Cfr., Fechner, p. 21). La Vita, la zoé, ci ha creato come singole bios affinché fossimo parte della sua varietà, e dunque assicurassimo in questo modo «ciò che continua ad accadere», il suo eterno fluire, partecipando attivamente al fatto che «la zoé non ammette l'esperienza della propria distruzione»; è questa la verità che il «tuffo sacrificale» onora e restituisce con il gesto, come dice l'etimologia stessa di celeber. «Una celebrazione non sempre sta a significare salti di gioia o festival di canti e danze, ma può anzi implicare elementi più interiori e più pacati e reca in sé, comunque, invariabilmente, la consapevolez34

za che i nostri atti ha.nno un significato più profondo e più trascendente di quello che appare, a.nche se noi possiamo non essere in grado di tradurre questo significato in parole. La celebrazione trasmette un senso di solidarietà cosmica, di fratellanza uma.na, e spesso di un'associazione con il divino in virtù della qua.le tutte le nostre azioni vengono rese liturgiche, significative ed espressive, da.ndo voce a ciò che è ora, e crea.udo qua.nto sta per essere. Celebrare significa prendere consapevolezza dei ritmi della vita. e solennizzare il loro cadenzato ricorrere [... ].Ciò che si celebra è ciò che continua ad accadere, come la stessa parola celeber suggerisce. Non è necessario aderire ad una concezione ciclica o a spirale del tempo, ma bisogna avere una certa. coscienza ritmica che ci renda capaci di celebrare autenticamente, ossia di trascendere la routine della vita. quotidia.na, che ta.nto facilmente si riduce, se non è a.nimata da spirito di celebrazione, a una mediocrità deprimente e monotona [.. .]. La sola cosa in grado di soffocare il potere celebrativo dell'uomo è la superficia.lità le cui cause possono essere numerose, ma il cui rimedio efficace è uno solo: la contemplazione». (Cfr., Panikkar, pp. 38-39). Nel tuffo ritua.le vedico la contemplazione è essenzia.le: il soggetto contempla se stesso e le acque che lo riflettono, si ferma un breve momento in attesa di un segna.le da.I Mondo; una brezza sottile, un'increspatura dell'acqua, un brivido del corpo, il canto di incoraggiamento degli asta.nti: ognuno di questi segnali, interiori o esteriori, viene colto come rottura di un intenso momento contemplativo. Nella dottrina sacrifica.le vedica si condensa inoltre l'intimo rapporto tra il tuffo ritua.le e le «acque della creazione»; lo riprenderemo quando narreremo la storia di N arada. Le acque, più antiche di tutto il resto delle manifestazioni, sono dunque la linfa vita.le del Mondo, del Visibile e dell'Invisibile, di ciò che si vede con lo sguardo degli occhi e di ciò che si coglie solta.nto con lo «sguardo dell'a.nima»: nel «sacrificio» vedico del tuffo accosta.rsi alle acque con l'intento di immergersi nell'essenza stessa della Rea.ltà, nella Madre, consente l'apertura di questo «sguardo». L'intento del «tuffo sacrifica.le» vedico dunque, nulla ha a che vede35

re con qualcosa di doloroso o mortificante, bensì con un pe11siero agente del rico11oscime11to, un operatore che partecipa della rigenerazione continua e costante, «dando voce a ciò che è ora, e creando quanto sta per essere», poiché la «zoé del bioJ», l'Angelo del Mondo, se non è curato, non è celebrato nel suo splendore, deperisce e si mortifica sino alla completa consunzione. Il senso del sacro che il «tuffo sacrificale» vedico esprime, allora, non è altro che la consapevolezza dell'interconnessione Siti ge11eris che vive tra tutte le cose; se noi esistiamo come «vita caratterizzata», come bios, lo dobbiamo al congiunto di tutte le altre forme della Manifestazione Mondo: la zoé. Non è possibile vivere «un'esistenza che i e;iorni e le notti non esauriscono prima della morte», come dice il Satapatha-Brahamana (X, 4, 3, 1):, se non si riconoscono queste connessioni e non le si rinnova onorandole. Il «tuffo sacrificale» vedico è un gesto che riconosce il valore della retta intenzione (11ryyah), nel rigenerare questa forma globale di alterità. «L'uomo deve, prima di ogni altra cosa e costantemente, tendere a realizzare Punità in se stesso, in tutto ciò che lo costituisce, secondo tutte le modalità della sua manifestazione umana: unità nel pensiero, unità nell'azione, e pure, che è forse la cosa più difficile, unità tra pensiero e azione. È però importante osservare che, per quanto riguarda l'azione, ciò che conta essenzialmente è l'intenzione (nryyah), giacché è questo il solo elemento che dipenda interamente dall'uomo, senza che sia influenzato o modificato dalle contingenze esteriori come sono sempre i risultati dell'azione». (Cfr., Guénon, p. 70). Il tuffo come «sacrificio» rappresenta plasticamente nei Veda il riconoscimento delle relazioni tra il celebrante ed il processo che rigenera il Mondo; l'immersione nelle acque riassume, nel microcosmo di un gesto, il processo macrocosmico della creazione: percepiamo «il corpo come creato dall'anima». Il tuffo vedico è dunque un atto paradigmatico, cioè un gesto che riproduce di continuo il principio di generazione dell'inizio dei tempi: «Un sacrificio non soltanto riproduce esattamente il sacrificio iniziale rivelato da un dio, ab origi11e, all'inizio dei tempi, ma avuiene anche in quel medesimo momento mitico primordiale; in altri termini, ogni sacrificio ripete il sacrificio 36

iniziale e coincide con esso [.. .]. Per mezzo del paradosso del rito il tempo profano e la durata sono sospesi [... ] cioè qualsiasi ripetizione di un gesto archetipico sospende la durata, abolisce il tempo profano e partecipa del tempo mitico». (Cfr., Eliade 1, pp. 43-44). Questo è anche lo scopo del tuffo sciamanico, del «periglioso battesimo» di cui troviamo la descrizione nelle cronache caraibiche del secolo scorso: «Che cosa cercava lo sciamano col tuffo, con la sommersione battesimale perigliosa? Probabilmente una immedesimazione con le acque ... » dice Zolla. Riprenderemo questo tuffo nel capitolo dedicato al Grande Blu, all'apnea profonda, nella quale gli uomini e le donne che si tuffano sono gli sciamani contemporanei alla ricerca della «immedesimazione con le acque». Nel Satapatha-Brahamana (VI, 1, 2, 12-13) si descrive l'essenza del «tuffo sacrificale» come «ricomposizione» dell'unità. perduta dall'Essere supremo, Prajapati il «signore delle creature», nel suo «attraversamento» di tutte le cose: "Quando ebbe procreato tutti gli esseri e trapassato l'intera gamma della creazione, egli cadde a pezzi [.. .]. Quando fu caduto a pezzi il suo respiro si allontanò dal suo centro, e quando il suo respiro se ne fu andato, gli dèi lo abbandonarono. A questo punto egli disse ad Agni «rimettimi insieme ti prego»". L'inizio di questo passo è spesso citato dagli autori che vogliono evidenziare come, nella cosmologia vedica, tra le altre cose, si identifichi l'Essere supremo con la mente, cioè con la Coscienza nata dal non-Essere: «Al principio, invero, quest'universo era il nulla; il cielo non esisteva, né la terra, né l'atmosfera. Il non-Essere che solo era si fece mente, dicendo: Voglio essere! [... ] Dal non-Essere venne emessa la mente, la mente emise Prajapati, egli emise gli esseri». In altri passi l~Essere supremo viene emesso dalle acque, «riscaldate» da Brahma stesso, cioè dall'entità che «mantiene» l'Unità del Mondo. Ma il punto fondante, per il nostro piano di riflessione, è che «Prajapati è come la mente»; in altre parole si afferma l'Unità tra microcosmo umano e macrocosmo divino: i due piani si riflettono l'uno nell'altro specularmente, come il tuffatore si specchia nello sguardo delle acque. Questo concetto di Unità speculare tra l'umano ed il divino, lo troviamo anche nei neoplatonici come Plotino: nelle Em1eadi afferma che, senza lo «sguardo dell'anima» che guarda se 37

stessa, non esiste neanche la totalità che l'ha generata. ed in questo stesso sguardo si rispecchia. Un'Immagine che Angelus Silesius, nel suo Pellegrino Chembico, esprime magistralmente con questi versi: «Io so che, senza di me, Dio non può vivere un solo istante, se mi a1111iento egli deve, di miseria, morire». Anche noi, nella quotidianità. della nostra vita, come Prajapati, «attraversiamo» le cose, cioè il Mondo, rischiando di perdere, mano a mano che lo facciamo, il rapporto con il nostro respiro, quintessenza del nostro esserci. L'idea vedica che la divinità sia soltanto una proiezione macrocosmica del Sé umano in relazione con il Mondo, illumina di luce immanente questa particolare tipologia di «tuffo sacrificale» che diviene, cos~ un «dispositivo di restituzione» tra il celebrante e le cose che lo circondano, «rimettendolo insieme» nella sua relazione con il Mondo. "Chi abbia seguito questo ammaestramento rituale, perviene all'identica conclusione di cui parla l'egizio Plotino che [... ] nelle Em1eadi, affermava che ogni anima deve riflettere sul «fatto» di aver generato «tutti i viventi della terra, del mare e del cielo, il sole e gli astri dai moti stupendamente regolari: come i raggi solari avvampano una nube oscura, così egli si effonda nei cieli»". (Cjr., Zolla 3, p. 36). Questa riflessione di Plotino sul ruolo di «ogni anima» nell'opera della creazione, deve essere intesa come responsabilità: risposta all'impegno di partecipare in prima persona al mantenimento della Vita, alla sua manutenzione e cura. E dunque il «tuffo sacrificale» vedico è un atto di creazione e ricreazione, che riafferma la determinazione umana nel processo di rinascita perenne del Mondo: riconoscendo che l'umanità in generale, e quell'essere umano in particolare, hanno un debito nei confronti della Vita. In questo senso le parole con le quali Panikkar, in un suo commento ai Veda, definisce il «sacrificio», sono di una chiarezza cristallina: «La caratteristica di base di ycyim [sacriji.cio in sanscrito, 11.d.a.] sembra essere quella di un'azione che giunge dove intende giungere, che realmente e veramente offre qualcosa, che estende e amplia se stessa. In altre parole, il sacrificio sembra suggerire un'azione che ef38

fettivamente "crea", vale a dire, agisce, è efficiente e produce ciò che intende. O, ancora, il sacrificio è l'atto transitivo per eccellenza, l'atto che lega l'agire e il suo risultato in un unico e medesimo evento. Non è qualcosa che, una volta compiuto, rimane sospeso, per così dire, indipendente dall'azione, ma è un'azione che fa parte dell'agire stesso [ .. .]. All'origine di ogni essere c'è un sacrificio che lo ha prodotto. Il tessuto dell'universo è il sacrificio, che è l'atto per eccellenza, e che riproduce tutto ciò che è [... ] . Il sacrificio è ciò che mantiene in essere l'universo, ciò che dà vita e speranza alla vita [ ... ]. Compiere

il sacrificio non significa partecipare ad una buona azione o far del bene agli dèi, al genere umano, o a se stessi: significa vivere, "realizzare" la propria sopravvivenza e quella dell'intero universo. È l'atto per mezzo del quale l'universo stesso continua ad esistere [ ... ]. Da questa prospettiva di primato del sacrificio, l'intero mondo appare nuovo in ogni momento, e il suo cammino imprevedibile [ ... ].Non ci si può salvare se non tramite il sacrificio, poiché la salvezza non è raggiungibile se non per mezzo di una rottura, di un balzo sull'altra sponda [ ... ] . La cosmogonia è liturgia e la liturgia è cosmogonia>>. (Cfr., Panikkar, pp. 465-476). Quando Giordano Bruno, monaco ed alchimista, descrive le operazioni ispirate dalla «saggezza della Materia>>, pratica questa modalità «liturgica» di entrare in connessione con l'ordine Siti generis delle cose; per questo viene arso vivo dal potere che, invece, tende ad espropriare il singolo individuo dal gesto sacrificale che gli consente di comunicare direttamente con la Madre Materia. Vedremo che anche il processo alchemico nasce dall'incontro, tramite un tuffo, tra il corpo grezzo dei metalli e l'Acqua Regia; attraverso continue fasi di coagulazione e condensazione si purificano gli elementi attraverso cui si dispiega il procedere dell'Opera, sino all'Oro dei Filosofi: l'elemento totalmente purificato. Analogamente, in alcune sue forme rituali - il Neida11 o alchimia interiore taoista l'origine dell'Oro è nelle lunghe meditazioni che «sciolgono» l'Io del saggio, sino a «ricoagularlo» in ogni aspetto nella Natura. Ed infine, tornando all'India vedica, dobbiamo evidenziare la relazione tra liberazione e tuffo, cioè tra Oro spirituale e «sacrificio» 39

acquatico, incarnata dalla «divinità dei nodi e dell'acqua»: Vanllla. ccNella mitologia classica, Varl.l!!a è il dio delle acque. I Brahma.11a gli attribuiscono già tale funzione. «Varl.l!!a è nelle acque» [... ] . Ciò che entra nelle acque è assorbito in lui. «Quando il sole entra nelle acque, diventa Varl.l!!a>> [... ] . Il rapporto che unisce Varillla alle acque può essere espresso come un legame coniugale: «Le a.eque erano le spose di Va.rl.l!!a; Agni (il dio del fuoco JJ.d.a.) desiderò possederle e si unì a loro», ed è così che l'alchimia rituale spiega l'origine dell'Oro: [... ] il bagno è varuniano, serve a liberare Varmia ... Facendolo discendere nell'acqua, egli fa recitare al sacrificante: Omaggio a Varu11a! Il legame di Varu11a è abbattuto! E così lo libera da ogni legame". (Cfr., Lévi, pp. 174-175). Il rapporto allegorico e simbolico tra l'immersione nelle acque, elemento purificatore e dunque liberatore, la nascita dell'Oro dei Filosofi, cioè dell'elemento puro di ogni scoria, e lo scioglimento dei legami di Varl.l!!a che simboleggiano le catene dell'inconsapevolezza, è estremamente chiara, e rimanda al «tuffo rituale» come metafora dell'alchimia interiore; in altre parole alla trasmutazione della coscienza da obnubilata ed aggressiva, a purificata ed empatica nei confronti di tutte le altre forme della Manifestazione. «Poiché il sacrificio è la realtà unica e suprema, le acque possono rappresenta.me sia la sostanza che gli elementi [.. .]. La purezza del sacrificio risiede in loro [... ]. La prescrizione del bagno viene giustificata con le stesse ragioni e negli stessi termini. L'energia delle acque è così grande, che il bagno basta a conferire la dik,fti [iniziazione spirituale, 11.d.a.], ad operare la trasmutazione sovrannaturale del sacrificante». (Ibid., pp. 176-177). Il termine «sovrannaturale» va qui inteso in senso etimologicamente stretto, cioè non «al di sopra>> della natura, ma SJIÌ geJJeris, come essenza stessa del Mondo; quel «sovrannaturale» che comprende realtà Visibile e realtà Invisibile: la Realtà unificata oltre il velo della maya.

«La trasmutazione sovrannaturale del sacrificante» è dunque quella di chi ha. raggiunto l'Oro alchemico: per definizione un essere rinnovato. In questo «stato rinascente» si tende ad «estendere» il rinnovamento alla Natura tutta, come empatia e cura: «In effetti, il carat40

tere essenziale del sacrificio è la sua continuità: non si fa il sacrificio, lo si este11de come si tende la trama di una stoffa; sottile e quasi pronta a svanire non appena si smetta di sorvegliarla; la forza del sacrificio esige l'attenzione costante [... ]. Strettamente legato all'individuo e alle circo stanze, il sacrificio sopravvive a se stesso solo nei suoi risultati; considerato in sé muore interamente». (Ibid, p. 105). È chiara, in questo passaggio, la centralità dell'i11te11to: della retta intenzione combinata al gesto; questa è una forma di presenza a se stessi ed al Mondo, che «estende» la consapevolezza del soggetto: gli consente di portare gli effetti di questa «estensione» sul resto di ciò che lo circonda; di «portare ad effetto» l'i11te11to del gesto sacrificale verso la rigenerazione del Mondo «dentro» e «fuori» di lui. E infine, ci ricorda Panikkar: «Non ci si può salvare se non tramite il sacrificio, poiché la salvezza non è raggiungibile se non per mezzo di una rottura, di un balzo sull'altra sponda»; questo «balzo sull'altra sponda», che porta verso la salvezza, può essere facilmente ricompreso nel gesto del tuffo, un «balzo» verso la «sponda» profonda delle acque: la Realtà oltre la maya. Nell'India vedica, la percezione erronea o parziale della Realtà viene chiamata la maya di Vi~qu; il contatto con le acque sacrificali, il rito del tuffo, restituisce la visioJJe della Realtà oltre il suo velo. Il parallelismo tra il Mondo dell'Angelo che viene visto con lo «sguardo dell'anima», e lo svelamento vedico della maya di Vi~qu, è un esempio di dialettica Oriente-Occidente delle più luminose. Il «tuffo sacrificale» oltre la maya di Vi~qu è allora la metafora per ritornare a quella «origine che è la meta», come dice un verso di Karl I>. (Ibid, 196 B-C). Il «non fare né subire violenza>>, allora, non è solo la modalità con la quale Eros agisce e vuole essere agito, ma anche la modalità stessa di azione del tuffo, poiché neanche esso fa violenza nel ricongiungersi al principio creatore; Eros indica come tuffarsi: muovendosi come e con lui. Eros dunque è il daimo11 che descrive la modalità agente del principio acquatico ma, più importante ancora, suggerisce la modalità agente di chi lo cerca, di chi se 11e fa penetrare e dunque lo penetra, senza «fare né subire violenza>>. Questo «sentiero dell'acqua che scorre», potente metafora taoista che indica la capacità di superare ogni ostacolo rimanendo fluidi nella forma e nella sostanza, è l'attributo d'essenza che caratterizza anche le Ninfe, divinità elementari che soJJo l'acqua. «Colta nella sua prospettiva>>, dice Bachelard, «una materia è proprio il principio che può essere indifferente alle forme»: esattamente come Eros e la sua forma mutevole poiché egli è totalmente sostanza; ed infatti, continua Bachelard parlando dell'acqua: «Essa non è la semplice mancanza di attività formale, ma rimane se stessa a dispetto di tutte le de58

formazioni e le frammentazioni». Più avanti nella riflessione, a valorizzare la potenza del simbolo Eros come «forma senza forma» del principio acquatico stesso, egli ci ricorda che «una Immagine costa all'umanità. tanto lavoro quanto alla pianta un nuovo carattere», e che «molte Immagini prodotte non possono vivere perché sono meri giochi forma.li, perché non sono veramente adegua.te alla materia che devono adornare». (Cfr., Bachelard 2, pp. 8-9). E dunque, chi segue Eros «fluido nella forma», agisce come Eros e «non fa né subisce violenza.». L'Immagine di Eros che si «tuffa nell'anima.>> come nelle a.eque, la sua grazia, suggerisce che l'amore è al centro del Mondo, non solo come forza trasfiguratrice delle cose, ma come ricongiungimento che l'anima ricerca per «trovare se stessa.>>. E allora, il «tuffo di Eros», può diventare «il segno dell'esperienza noetica fondamentale dell'uomo», suggerisce Corbin. Plotino, nelle E,meadi, traccia in questo senso l'analogia più ardita e visionaria: quella tra Eros, Afrodite e l'anima. Ovvero tra l'amore, la bellezza e la psiche, unite da un principio fluido, da quello :x.1mo11 [çuvou], legame essenziale, che attraversa queste tre componenti della Vita, facendone un'Unità.: «E che il bene sia lassù, lo prova anche l'amore che è congenito all'anima.: perciò Eros è nuzirumente unito alle anime persino nelle pitture e nei miti. Poiché, essendo essa qualcosa di diverso dal dio e tuttavia derivante da lui, l'anima è necessariamente innamorata di lui e, finché è lassù colma dell'amore celeste, mentre quaggiù, è piena di amore volgare [... ].Ogni anima. dunque è un'Afrodite; ed a ciò intendono alludere la nascita di Afrodite e la nascita di Eros che le si accompagna.>>. (Cfr., Plotino, VI 9, 8-9). L'anima dunque si innamora del «tuffo di Eros», come dell'acqua che egli rappresenta e simboleggia con la sua «forma senza forma>> ed il comportamento che «non fa né subisce violenza.>>. Ecco che tuffarsi nelle acque è seguire il desiderio dell'anima di ricongiungersi a ciò che essa ama: «Forte di questa conoscenza della profondità. il lettore comprenderà. infine che l'acqua è anche un tipo di desti1Jo, non più soltanto il vano destino delle immagini fuggevoli, il vano destino di un sogno interminabile, ma un destino essenziale che trasforma incessantemente la sostanza. dell'essere». (Cfr., Bachelard 2, p. 12). Vedremo, parlando della mtiyti di Vi~11u, come questa riflessione di 59

Bachelard "risuoni" perfettamente con la visione Induista delle acque della creazione: la loro capacità di farsi desti110 per chi, immergendosi, vuole finalmente cercare l'origine dell'esistenza. Molto opportunamente., dunque, Bachelard ci ricorda «l'eraclitismo dell'acqua», l'acqua come forma del destino; e poiché Dioniso è il «dio che scorre», l'acqua è il suo analogo elementare. L'Immagine ci riporta così a quella ciclicità della vita nella Vita che rappresenta la garanzia del suo stesso fluire: il ciclo del bios nella zoé. Dioniso~ il «dio venturo», nascosto nell'ombra di ogni tuffatore è, allo stesso tempo, «il dio che muore» ed anche «l'archetipo della vita indistruttibile»; nella sua ciclica esistenza risiede la coniugazione essenziale degli opposti: la via dell'«essere e sapere di essere»: «Il mito di Dioniso esprimeva la realtà della zoé, la sua indistruttibilità che veniva spiritualmente percepita come un dato di fatto, e il suo particolare legame dialettico con la morte». (Cjr., Kerényi 1, pp. 19-21, 225). Il «dio che muore» ha con il tuffo un rapporto personale: fa parte del suo mito, ed è per questo che egli è «Signore dei tuffi». Si narra che sulla via del ritorno dalle Indie, episodio sul quale torneremo per illustrare le sue similitudini con Siva, il corteo del dio fu attaccato in Tracia da Licurgo, re degli Edoni, che costrinse Dioniso a tuffarsi «assalito da spavento nei flutti del mare, e Teti lo ricevette nel suo seno» per dargli protezione ed aiuto; la Nereide è la madre di Achille, corteggiata da Zeus ed infine sposa di Peleo; Licurgo, per il suo gesto, «si attirò la collera degli dèi» e fu punito dal Cronide con la cecità. (Cfr., Iliade VI, vv. 128-140). Qui alcuni autori hanno voluto vedere un antico sfondo iniziatico, in cui un uomo-lupo (Licurgo) insegue un giovinetto sino al tuffo nel mare. Anche Perseo scaglia il suo esercito contro Dioniso e contro le «donne del mare» che lo accompagnano; secondo un'altra tradizione: «Egli gettò il dio in fondo al lago di Lerna». Nel culto dionisiaco presso Argo: «Le donne invocano il dio e [... ] lo chiamano con le trombe perché risorga dalle acque» ed emerga così dal paese dei morti. Riprenderemo questo rito più avanti. (Cfr., Plutarco, 35 p. 96). Vedremo come per i greci il po11tos, l'alto mare, è anche la porta 60

dell'Ade dove, secondo alcune ritualità orfiche, il dio dimora per un periodo del suo ciclo. Il dio si tuffa anche nella Lymne Alkyonia, il lago Alcionio, in una catabasi alla ricerca della madre per riportarla sulla terra, come riferisce Pausania (II, 37, 5-6). Infine bisogna ricordare come il mitologema dionisiaco lo vuole divinità che viene dal mare. D'altra parte non solo Dioniso sfugge così ai suoi nemici; Tacito per esempio, riferisce dei popoli germani che nei loro canti folkloristici dicevano: «Gli eroi sono spesso dei campioni di nuoto e tuffi», mentre in un bassorilievo ritrovato durante gli scavi di Ninive viene raffigurato un gruppo di uomini che si getta nel fiume per sfuggire dalle frecce dei guerrieri schierati sulla riva. (Cfi;, Eliade 3, I p. 389). «Quello che era il punto essenziale, e che per migliaia di anni rimase il nucleo della religione dionisiaca, il fondamento della sua esistenza, dopo tali evidenti testimonianze non può più essere messo in dubbio [... ]. Lui, l'indistruttibile zoé, riusciva comunque a sfuggire: presso Teti, presso le Muse, o in qualsiasi altra maniera ciò si esprimesse in forma mitologica. Secondo la tradizione argiva, nel dimesso linguaggio di un commentatore di Omero, Perseo uccise Dioniso nella battaglia contro l'intruso, e lo gettò nel profondo lago di Lerna. Questa versione della scomparsa, che appariva come morte e tuttavia non era la fine, è completata dalla notizia dello storico Socrate di Argo [cui si riferisce anche Plutarco, 11.d.a.]: il dio, che presso gli Argivi era detto Diol!JSOS Bo11ge11és, il "figlio della vacca", veniva richiamato fuori dall'acqua dal suono delle trombe. Prima di risuonare, le salpi11ges erano nascoste nei thjrsoi, le lunghe verghe adorne di nastri portate dai devoti di Dioniso. In precedenza veniva gettato in acqua un ariete, come sacrificio al "Guardiano della porta" (Pylaochos). Le acque, che tra il colle calcareo di Lerna abitato sin da epoca neolitica e il mare sono alimentate da sorgenti inesauribili, vengono così contraddistinte come appartenenti al mondo sotterraneo. Il Guardiano è noto come l'Idra, il serpente acquatico di sesso femminile le cui teste vengono mozzate da Ercole. Dioniso scompariva temporaneamente nel mondo sotterraneo. Da quando il suo culto era giunto su questa costa, ciò accadeva qui di seguito alla cerimonia nella quale si sacrificava un torello. Il 61

luogo è la foce del fiume Inaco, uno dei punti di arrivo del dio identificabile nel Peloponneso [... ]. Quando il mito tebano ottiene un generale riconoscimento, persino la nascita di Dioniso da Semele venne trasferita qui, sotto la protezione delle Ninfe dell'Inaco; e la discesa e la risalita del dio attraverso le acque di Lerna vennero interpretate come un viaggio intrapreso per riportare indietro sua madre dal regno dei morti». (Cfr., Kerényi 1, pp. 175-176). Torneremo più avanti sulla «catabasi» dionisiaca; Dioniso deve quindi a questi tuffi vita, salvezza, iniziazione e rinascita; secondo il suo costume intimo, e con il suo stile naturalmente immediato, dionisiaco appunto, trasmette al suo tiaso questo culto. I suoi satiri, infatti, si tuffano in acqua imitando il kybistetere, come veniva definito da Omero il giocoliere che fa la ruota toccando il suolo con le mani e poi con i piedi: «Sileno, a sua volta, il gobbo Sileno, vagabondo, sfidando i satiri, e intrecciando i piedi e le mani, si precipita dall'alto, raggomitolandosi su se stesso, nel profondo della corrente»; «Il satiro, nei suoi balzi e nelle sue piroette, fa risuonare la te:rra sotto l'impeto dei suoi garretti, come un kybistetere>>. II nesso tra «saltimbanco», altro significato della parola xu(31çr1e, ed il «tuffarsi» è ancor più stretta se si pensa che un'altra accezione della stessa parola è «palombaro», cioè qualcuno che si immerge nell'acqua per lavorarci. (Cfr., De Agostino, p. 108). Questi frammenti, tratti dai canti X e XL delle Diollisiache di Nonno, ci dicono del tuffo come parte delle attività del tiaso del dio, che non disdegna il gesto acrobatico, quello nel quale la sua prorompente vitalità è resa in modo sfottente ed impudico, e però con abilità circense; acrobazia, danza, balzo, tuffo: sono manifestazioni dionisiache che conducono invariabilmente tutte all'estasi del sacro sparagmòs, Io smembramento del dio. Questo ci consente di aprire una breve digressione sulla storia del tuffo come disciplina sportiva; uno dei primi a trattare il tema fu Oronzio De Bernardi che, nel 1794, pubblicò a spese del Re di N apoli, un piccolo volume con diciotto illustrazioni, intitolato: L'Uomo galleggia1Jte, ossia l'arle ragioJJata del JJ11oto. Nel secolo dopo il tedesco Gutz Muths, partendo dal libro di De Bernardi, impostò un proprio metodo di insegnamento, divenendo così il divulgatore moderno del 62

tuffo come disciplina. Nel 1833, a seguito della seconda edizione del suo libro, Muths organizzò un concorso pubblico che comprendeva prove di tuffi, prove di partenze «a tuffo», e prove di nuoto. Nacque così la prima scuola di nuoto a Berlino sul fiume Sprea, che usava come trampolino il ponte Unterbaum. I primi tuffi si ispirano alle modalità. e alle tecniche degli Halloren, salinari del 1700 di Halle sul Sa.a.le, che iniziano a tuffarsi nel fiume per necessità. igienica alla fine del loro lavoro. Si arriva così al 1843, quando il maestro di ginnastica H. O. I. (Cfi:, Dodds, p. 121, p. 332). La Tragedia, le sue trame, il bambino, il tuffo che sprigiona gioia, sono tutt'uno con questo dionisismo liquido; lo sguardo del dio, che tutto attraversa e riverbera come in una trasparenza di simboli, ci invita a dissolverci per rinascere: «Il simbolismo delle Acque, dunque, implica sia la Morte che la rinascita: il contatto con l'acqua comporta sempre una rigenerazione poiché [... ]l'immersione rende fertile e moltiplica il potenziale di vitro>. (Cjr., Elia.de 2, p. 135). Il tuffo è legato al «dio della vita indistruttibile» anche perché esso è il padrone di tutta l'umidità; vedremo più avanti come, nella cosmologia induista, sarà il principio umido, acquatico, femminile, a generare il Mondo in unione con quello maschile, igneo: l'umidità calda, unione dei due principi, sarà l'essenza fondamentale della creazione. "Di fronte alla virilità del fuoco, la femminilità dell'acqua è irrimediabile: non può in alcun modo diventare virile. Uniti, questi due elementi creano ogni cosa. JJ. Bachofen, in molte pagine, ha dimostrato che tale unione non è effimera. È la condizione di una creazione continua. Quando l'Immaginazione sogna l'unione duratura fra fuoco e acqua, dà vita a un'Immagine materiale mista di grande potenza. Si tratta dell'Immagine dell'11midità calda. Per molte reveries cosmogoniche l'11midità calda è un principio fondamentale: animerebbe la terra inerte e provocherebbe la nascita delle forme viventi. In particolare, Bachofen dimostra come in molti testi Dioniso venga rappresentato come il padrone di questa umidità creatrice: . Se il Mondo è il sogno di Vi~11u, il suo «castello di sabbia», egli non può che presentarsi come eterno e mistico fanciullo, divertito dal suo ricreare il Mondo nella notte che intercorre tra un Cosmo ed un altro. Ed in effetto «il bambino si sente figlio del cosmo», per lui il Mondo diventa il complemento oggetto del verbo Immaginare. Ed è proprio a questa condizione connaturata, purtroppo per un tempo sempre più breve, all'infanzia, tra veglia e sogno lucido, che il dio Vi~11u cerca di riportare il saggio N arada e il re Indra: per svegliarli alla complessa Realtà del tutto. Il soggetto che deve vedere il Mondo per ciò che esso è in sé e per sé, nella sua essenza e nelle sue forme, nelle manifestazioni esteriori e nella coerenza dell'essenza condivisa, va prima «immerso» in uno stato infantile, in cui il sogno e la veglia. sono inestricabili, per poi battere le ma.ni, come fa un ipnotizzatore, e risvegliarlo alla lucida consapevolezza del sogno che trasmuta la. realtà, ed alla realtà che si connette con il sogno: «il girotondo senza fine della vita». Ora Vi~11u dorme ... ed un altro Cosmo si prepara a nascere dal suo sogno. «Come un ragno che si arrampica riassorbendo in sé la sua tela», così il dio ha consumato la trama del Cosmo ed ora riposa, solitario, sulla sostanza eterna delle acque, sul serpente Ananta, «Infmito»: la forma animale delle acque creatrici. «È su un oceano-serpente costituito dalla sua stessa sostanza immortale che l'Uomo Cosmico trascorre la. notte universale». Anche qui compare il Serpente, così come nel mito cosmologico pelagico, Ofione; ed anche nelle 83

cosmologie indiane il suo ruolo è ambivalente, ed allo stesso tempo irrinunciabile per mantenere gli equilibri tra le forze universali. La terza storia che proponiamo riguarda un saggio di nome Markuiqeya: figura dalla vita millenaria, egli vaga nel corpo stesso del dio dormiente; osserva la realtà che sta per nascere attorno a lui e se ne compia.ce. Ad un tratto, l'imprevisto: inavvertita.mente scivola fuori dalla bocca di Vi~f\U e precipita in un mare nero come la pece. Dopo il tuffo accidentale riemerge nell'oscurità terrificante; in quel deserto acqueo di silenzio, vede un fanciullo luminoso, un bambino simile a un dio, pacificamente addormentato sotto un fico. Poi, per effetto della mdyd, Markaf\qeya vede il solitario fanciullo che gioca felice, per nulla spaventato in mezzo al vasto oceano del nulla. Il santo è pieno di curiosità, ma i suoi occhi non riescono a. sopportare l'abbagliante splendore del bambino; così si mantiene a una. certa distanza ma, mentre lo osserva da lontano, il dio, nelle sembianze del fanciullo divino, lo chiama. dolcemente: «Benvenuto Marfillllq.eya! Non aver timore, figliolo, vieni qui». Il saggio sulle prime si offende per l'essere stato apostrofato con tanta familiarità da un bambino e gli chiede brusco di dichiarare la sua identità. Al che il piccolo risponde: «Figliolo sono il tuo genitore, tuo padre e tuo antenato, l'essere primevo che elargisce ogni vita. Perché non vieni da me? Conoscevo tuo padre, ottenne la mia grazia. Compiaciuto della sua perfetta esistenza gli concessi il dono della tua longevità. Tuo padre conosceva il segreto della sua esistenza, tu provieni da quel centro. Per questo ora hai il privilegio di contemplarmi disteso sulle acque cosmiche primordiali che tutto contengono, e mentre gioco come un fanciullo sotto l'albero». A queste parole i tratti di Marfillllq.eya si illuminano di gioia, capisce di essere al cospetto di Vi~f\U che crea il Mondo nel suo sogno di universo: «Fammi conoscere il segreto della tua miiyii, il segreto del tuo apparire ora come fanciullo che giace e che gioca sul mare infinito». Vi~f\U risponde: «Sono l'Uomo Cosmico Primordiale. Lui è le acque, lui è il primo essere; lui è l'origine dell'universo. Mi manifesto come la più sacra delle offerte, come Signore delle acque. Questo spettacolo, il miraggio del processo fenomenico dell'universo, è opera del mio aspetto creativo; allo stesso tempo però io sono il 84

gorgo, il vortice distruttivo che risucchia tutto quello che è stato ma.nife sta.to ». È evidente come, sia a Markaqqeya che a Narada, il tuffo nelle «acque della creazione», rivela «l'altra parte», «l'aspetto totalmente diverso», il «tota/iter a/item: in altre parole l'Invisibile che giace dentro le cose e le sostiene. Vi~11u insegna così, attraverso il tuffo, l'identità degli opposti, del Mondo manifesto e di quello non manifesto, presentando si ora come divinità adulta., ora come bambino giocoso sulla distesa infinita delle acque a.bissa.li: «il segreto della mtiyti è l'identità degli opposti». (Ibid., pp. 48-51). Appare chiaro, da queste storie tradizionali, come l'elemento acquatico ed il bambino siano immediata.mente collega.ti: l'immersione attraverso il tuffo, gesto infantile di un a.rchetipismo che, secondo la. felice intuizione di Bachela.rd, sprigiona. una. «inesauribile riserva. di entusiasmo», trova. nell'elemento acquatico quella. dimensione dello psichismo che si identifica. con il profondo, l'inconscio persona.le e collettivo; là dove operano in permanenza i grandi miti cosmologici e di rigenerazione. A questo proposito basti solo pensa.re, in a.lcw1e pratiche analitiche, all'analogia che intercorre tra. regressione allo stato dell'infanzia e l'elemento acquatico nel qua.le, sempre e comunque, si ridiventa. in qualche modo bambini. Per rima.nere nell'ambito delle nostre riflessioni, voglia.mo riporta.re l'attenzione sulla figura del «fanciullo divino»; in particolare sulla manifestazione in forma. infantile delle divinità che presiedono, nell'induismo, rispettiva.mente alla. creazione, manutenzione e distruzione del Mondo: Brahma, Vi~11u e Siva., per ricorda.re che, in tutte queste fasi, è la divinità bambina che si manifesta per annnncia.re l'inizio di w1 nuovo ciclo o momento di esso (½~a), e che la. sua relazione con l'immersione nell'acqua. è sempre strettissima.. Infine, sempre sulle relazioni che legano tuffo, bambino ed «a.eque della. creazione», riportiamo una. storia. che riferisce Pa.ra.mahansa Yogananda.: "In India. si è soliti narra.re una storia tradizionale di Brahma, Vi~11u e Siva.. Essi si vanta.vano tra. loro dell'enorme potere che avevano. A un tratto arrivò w1 bambino che chiese a. Brahma: «Che cosa. crei?», «Tutto», rispose Brahma grandiosa.mente. Il fanciullo domandò alle altre divinità qua.le fosse il loro lavoro. «Noi 85

conserviamo e distruggiamo tutto», essi risposero. Il giovane visitatore teneva in mano una pagliuzza grande quanto uno stuzzicadenti. Ponendola davanti a Brahma, domandò: «Puoi creare un fuscello di paglia come questo?». Dopo w1 prodigioso sforzo Brahma, con meraviglia, scoprì di non poterlo fare. Il bimbo si rivolse allora a Vi~qu e gli chiese di salvare quel fuscello, che lentamente cominciava a dissolversi sotto lo sguardo fermo del ragazzino. Gli sforzi del dio per tenerlo insieme rimasero infruttuosi. Infine, il piccolo straniero produsse una nuova pagliuzza e chiese a Siva di distruggerla. Ma, per quanto egli tentasse di farlo, la minuscola pagliuzza rimase intatta. Il bambino si rivolse allora nuovamente a Brahma: «Sei tu che mi hai creato?», domandò. Il dio pensò e ripensò, ma non riusciva a ricordare di avere mai creato questo sorprendente fanciullo. Improvvisamente il bambino svanì. I tre dèi si ridestarono dalla loro illusione e ricordarono che dietro i loro poteri c'era un Potere più grande". (Cjr., Yogananda, p. 22). Torna qui la saggezza profonda della vita materiale, il Potere della Vita al di là di ogni divinità che la comandi o la gestisca: la zoé «saggezza della Materia». Non a caso, nel periodo alessandrino, esisteva una forte identificazione tra la figura di Siva e quella di Dioniso; basti pensare che, nel mito di Arianna, Dioniso di ritorno dall'India, la raccoglie sull'isola di Nasso dove l'aveva abbandonata Teseo. Entrambi divinità particolari, entrambi protettori di un'umanità eccentrica e bestie feroci, entrambi muniti di un corteo "poco raccomandabile" di satiri, menadi, santoni ed altri invasati, entrambi tanto seduttivi quanto ambigui, essi simboleggiano l'esistenza stessa; legati sia alla distruzione sia alla rigenerazione che ne consegue. Siva e Dioniso sono, infatti, divinità mutanti, nel senso che nascono come personaggi semidivini e vengono poi "beatificati" dai loro seguiti popolari, e dunque "assunti" a divinità. Entrambi esprimono la saggezza che viene dall'azzannare la Vita in tutte le sue forme, come testimoniano sia l'animale preferito da Dioniso, la pantera profumata - «il solo animale fornito dalla natura di un odore gradevole che le permette allo stesso tempo di attirare e catturare le sue vittime» - sia quello di Siva, la tigre. (Cfr., Detienne 4, p. X). Il carro nuziale su cui Dioniso celebrò le nozze con Arianna era 86

trainato da sei pantere: gli erano state consacrate a motivo della loro bellezza ferina e del profumo che emanavano. Per tutto l'inverno erano rimaste vicino al loro dio poi, eccitate dalla primavera, erano partite per le montagne. Furono catturate nella Panfilia., dove gli aromi delle vigne le avevano attirate. Si stabilisce così la relazione mitologica tra la pantera e il vino: potevano infatti essere catturate proprio grazie alla bevanda dionisiaca per eccellenza; bastava spargerne in prossimità di un punto di abbevera.mento e le fiere, attirate dal profumo, si avvicinano, bevevano e, approfittando della loro ubriachezza, erano prese facilmente. Questa attrazione fata.le per gli aromi si ritrova, speculare, nello stile di caccia della pantera che, come abbia.mo visto, emana un profumo intenso al quale la loro preda non può resistere. Dioniso ha come animale-simbolo anche il toro, che lo rappresenta nella follia orgiastica con la quale punisce chi non accetta il suo rituale; in perfetto parallelismo Siva cavalca il toro N andi, simbolo della forza bruta per eccellenza ma anche della potenza riproduttiva più ricercata; dalla testa del dio indiano, inoltre, sprizza uno zampillo d'acqua, il sacro fiume Gange, che egli riceverà sulla testa in un «tuffo rovesciato». «Perché da Dioniso faccio cominciare il discorso sulla sapienza? Con Dioniso, invero, la vita appare come sapienza, pur restando vita fremente: ecco l'arcano. In Grecia un dio nasce da un-'occhiata esaltante sulla vita, su un pezzo di vita che si vuole fermare. E questo è già conoscenza [ ... ]. Nel contemplare Dioniso l'uomo non riesce a staccarsi da se stesso: Dioniso è un dio che muore. Nel crearlo l'uomo è stato trascinato a esprimere se stesso, tutto se stesso, e qualcosa ancora al di là di sé. Dioniso non è un uomo: è un animale e assieme un dio, così manifestando i punti terminali delle opposizioni che l'uomo porta in sé». (Cfr., Colli 1, I p. 15). Esattamente come nella definizione di Dioniso, Siva: «È la vitalità dalla quale ha origine con forza irrefrenabile il Fenomeno della Forma in Espansione [ ... ]neutro pregnante, è pienezza non maschile o femminile, buono o cattivo, ma maschile e femminile, buono e cattivo. Siva è la sua personificazione. Ogni lampo delle membra dello Yogin divino volteggiante, ogni freccia del suo arco, sono essenzial87

mente identici a quella sostanza divina di quiete e nposo eterni». (Cjr., Zimmer, p. 169). Significativo, anche per la nostra analisi, è che sia la divinità greca sia quella indiana, sono molto cari alle donne. Bachofen ha insistito nel descrivere Dioniso come il «dio delle donne», ambiguo persuasore e seduttore dell'animo femminile, «dai bei boccoli biondi e profumati», come lo descrive Euripide: l'esistenza dionisiaca, infatti, non esisterebbe senza le Baccanti, che ne interpretano il volere dopo essere entrate in estasi. Questo perché il Principio vitale, sia distruttore che ricreatore è, per Bachofen, essenzialmente combinazione di maschile e femminile. Siva, d'altra parte, ha in Parvati o Durga, la moglie e paredra inseparabile, con la quale agisce nel Mondo sia la salvezza sia la distruzione, attraverso la tama-g1111a: il potere delle tenebre, che viene scatenato da Durga chiudendo i suoi occhi sul Mondo, o da Kali divinità guerriera, altra sodale del dio. Dice Bachofen: «La forza magica con cui il signore fallico dell'esuberante vita naturale ha condotto su nuove strade il mondo delle donne si manifesta in fenomeni che trascendono i limiti della nostra esperienza, nonché quelli della nostra forza di Immaginazione; e tuttavia relegare questi fenomeni nel regno dell'invenzione poetica significherebbe una scarsa confidenza con le oscure profondità della natura umana, con la forza di una religione che appagava i bisogni sensuali e sovrasensibili, con l'eccitabilità del mondo sentimentale femminile, che tanto indissolubilmente combina l'immanente e il trascendente, e infine una totale incomprensione del grandissimo fascino della. lussureggiante natura meridionale. In tutti gli stadi del suo sviluppo il culto donisiaco ha mantenuto lo stesso carattere che aveva quando per la prima volta fece il suo ingresso nella storia. Con la sua sensualità e il significato che dà all'offerta dell'amore sessuale, intimamente connaturato alla condizione femminile, esso è entrato in un rapporto d'elezione con il mondo delle donne piegandolo in una direzione affatto nuova. In quel mondo ha trovato le sue più leali alleate, le sue serventi assidue, e sul suo entusiasmo ha fondato tutta la propria forza. Dioniso è il dio delle donne nel senso più pieno della parola>>. (Cfr., Kerényi 1, p. 134). Ed infine, entrambi hanno una spiccata caratteristica comune: 88

come bambini spesso agiscono; poiché è all'interno della «psiche preistorica>> infantile che vive il dio volubile e fermo, vendicativo e generoso, vitalmente appassionato e creativamente distruttivo che identifica Dioniso-Si.va. I due, proprio per queste caratteristiche molto "infantili", sono arrivati ad essere considerati divinità vere e proprie in epoche tardive, essendo caratterizzati da una vicinanza all'umano troppo stretta per poter coltivare il distacco tipico degli dèi; basti pensare che Dioniso è figlio di una mortale che a sua volta diverrà immortale: «Lei mortale [generò] un immortale; ma ora entrambi sono dèi»; forse proprio per questo egli è un dio che muore: un ossimoro divino! (Cfr., Esiodo, v. 943 p. 63). Il tuffo nell'acqua, allora, è un principio di conoscenza essenziale; attiva l'iniziazione che conduce a scoprire l'altra faccia della Realtà, completando il quadro di un Mondo che deve essere percepito in tutti i suoi aspetti per essere conosciuto e dunque rispettato. Rispetto, riguardo, hanno in comune questa radice della «retta visione», in cui l'avvicina.mento alla «trama nasco sta» induce ad una forma di simpatia per le altre manifestazioni del Mondo; la stessa simpatia istintiva che prova chi, con questo intento gioioso, si tuffa nelle «acque della creazione». L'elemento primigenio ci conduce immediatamente all'interno di uno stato di coscienza cosmica, nella quale le manifestazioni della Realtà assumono contorni diversi. L'Immagine di noi stessi che ci tuffiamo, diviene il simbolo del percorso iniziatico verso la consapevolezza dell'unione con il Mondo; l'immersione nell'elemento purificatore conduce all'unione con l'essenza del Cosmo. Non ci si purifica se non attraverso l'incontro con ciò che si vuole incontrare: se stessi; l'acqua «dentro» il corpo si purifica al contatto con l'acqua «fuori»; un processo alchemico nel quale l'operatore, il soggetto che cerca il ricongiungimento, si unisce alla materia operata, le acque, diventando tutt'uno con essa: finalmente con se stesso. E, come nella cosmogonia occidentale il serpente Ofione è il simbolo della forza primigenia che bisogna domare affinché il Cosmo si separi dal Caos ed il Mondo venga creato, così in Oriente il serpente, il 11tiga, rappresenta, allo stesso tempo, il principio conservatore e quello distruttore, intimamente legato all'acqua. 89

«I 11tiga sono geni superiori all'uomo. Abitano paradisi subacquei situati sul fondo di fiumi, laghi e mari [... ] sono custodi dell'energia vitale accumulata nelle acque della terra, nelle fonti, nei pozzi e negli stagni. Sono anche i guardiani delle ricchezze delle profondità marine [... ]. Le principesse-serpente, celebri per la loro intelligenza e il loro fascino, figurano tra le antenate di molte dinastie dell'India meridionale: una 11agini o un ntiga nell'albero genealogico danno lustro». (Cfr., Zimmer, p. 64). Come non notare qui, oltre il richiamo ad Ofione, almeno altri due parallelismi: il primo relativo al mito di Pitone:, sconfitto da Apollo che si impossessa così del luogo per fondarci il suo tempio pitico, e la leggenda medioevale di Melusina, la donna serpente che alcune dinastie, come i Lusingano, vollero effigiare all'origine della loro casata? «Nell'.ljìgenia in Ta11ride di Euripide vengono menzionate come signore dell'oracolo prima di Apollo le dee Gaia e Temi, madre e figlia. Vi si narra dell'uccisione del serpente [... ]. In Euripide esse difendono il loro privilegio, in quanto la Terra, la "Notturna", invia sogni oracolari, con cui il piccolo Apollo non può competere, finché non viene insediato da suo padre Zeus sul trono di Delfi. Ma Dioniso dal canto suo non è dimenticato. Il Parnaso, dove Leto porta da Delo il suo figlioletto tenendolo fra le braccia - così egli saetta il serpente - è già il monte delle feste bacchiche in onore di Dioniso. Il "trono" di Delfi era il tripode, un treppiedi con un paiolo, su cui sedeva la Pizia. Secondo una delle nostre fonti dotte fu però Dioniso colui che per primo di sua iniziativa. assunse il ruolo di Temi, datrice di oracoli [ ... ]. Dopo le prime due signore dell'ora.colo [ ... ] la fonte cita al terzo posto quale possessore del tripode non Apollo, bensì Pitone, l'essere a forma di serpente il cui nome è ricavato da una radice semitica., ma contemporaneamente anche Dioniso. Il nome greco del serpente era Delphi11e, e alla base di esso sta il mito, comune ai Greci ed agli Ittiti, della temporanea. vittoria del mostro a forma di serpente, che viene vinto solo quando il suo avversa.rio, smembrato e fatto prigioniero, recupera le sue membra [... ] . Questo a Delfi può riferirsi solo a Dioniso fatto a pezzi. Il vincitore definitivo e l'uccisore del serpente è Apollo, e uno dei suoi nomi, conservato nella. lette90

ratura mistica, era anche Dio,!Ysodotes, "coui il cui dono fu Dioniso"». (Cjr., Kerényi 1, pp. 202-203). Il serpente riveste un ruolo fondamentale nel culto di Dioniso: in un passo delle Dio11isiache di Nonno di Panopoli (XX, 293-362), si dice che fu questo animale a suggerirgli di assaggiare l'uva. «Attorno ad esso [tronco della vite, 11.d.a.] avvolgendo il sinuoso dorso un drago suggeva il nettare del frutto dolce stillante, e con ingorde fauci il liquore di Bacco succhiando versava il succo del grappolo divenuto vino e dalla gola aperta gocce purpuree gli arrossavano la barba [.. .]. E alla vista del grappolo pregno e rosseggiante rugiada, Bacco intese gli antichi oracoli della fatidica Rea». Secondo Eliano, nel suo La na!Jtra degli animali, le serpi nascono dal midollo osseo dei morti: si ripropone qui il binomio vita-morte che è la determinante della doppia natura del dio. Nei riti dionisiaci le Baccanti mettono a rischio la propria vita tramite la manipolazione di serpenti velenosi: «che leccavano le guance». (Cfr., Baccanti, v. 698). Dodds, dopo aver illustrato una lunga serie di culti analoghi, da quello di Sabazia ai minatori del Kentucky, passando attraverso il menadismo macedone ed il Vangelo di San Marco 16-18: «In nomine meo [... ] serpentes tollent [... ] et [...] non eis nocebit», riporta, seppur esitando, l'affermazione di Dieterich secondo il quale: «Il rito non può assolutamente significare altro che l'unione sessuale fra divinità ed iniziato». (Cfr., Dodds, p. 336). Kerényi invece si sofferma sulla manipolazione delle serpi vive citando Andromaca, medico personale di Nerone e specialista in veleni: «I serpenti velenosi - échid11ai, le vipere - destinati ad essere dilaniati nel culto di Dioniso, potevano essere catturati quasi senza pericolo al termine della primavera [... ]. Questa data corrisponde pressappoco al giorno in cui tuttora, nel villaggio abbruzzese di Cocullo, i serpari presenta.no a san Domenico vipere vive. Le serpi gravide, secondo Andromaca, dovevano essere risparmiate, la qual cosa concorda pure con un tratto fondamentale della religione dionisiaca: la conservazione dell'embrione. Le più antiche raffigurazioni delle Menadi mostrano chiaramente che i loro serpenti erano animali pericolosi [... ] . L'esempio di Cocullo dimostra che [questa tradizione, 11.d.a.] ha potuto tenersi viva con inaudita tenacia. Nella religione di 91

Dioniso questa familiarità aveva un suo significato particolare. Il serpente è un fenomeno della vita, in cui la vitalità stessa, connessa con il freddo, la lubricità, la mobilità, produce un effetto ambivalente. Presso i Minoici e presso i Greci le donne in atto di celebrare tenevano in mano un serpente. Noi abbiamo visto che esso poteva formare un contesto mitologico insieme a una vite ricca di grappoli». (Cfr., Kerényi 1, pp. 76-77). E ancora, secondo Zimmer: «In Mesopotamia i due serpenti erano considerati il simbolo del dio della guarigione, Ningishizida; in Grecia furono perciò attribuiti al dio della medicina, Asclepio [... ] . Come un fiume che si snoda sinuoso il serpente striscia sul terreno; vive sotto terra ed emerge dal suo buco come lo zampillo di una sorgente. È un'incarnazione delle acque della vita che escono dal corpo profondo della Madre Terra. La terra è la madre primordiale della vita; nutre della sua sostanza tutte le creature e poi di nuovo le divora [.. .]. D'altra parte il serpente è la forza della vita nella sfera della materia animata. Al serpente si attribuisce un'indomabile vitalità: ringiovanisce cambiando pelle [... ] . Così è connesso con Vi~11u, con gli eterni antagonismi». (Cfr., Zimmer, p. 74). E il serpente come simbolo dell'arte medica lo troviamo anche presso il santuario dedicato ad Eshmun o Echmoun, presso Sidone in Libano, uno dei più importanti nel Mediterraneo. La leggenda narrata da Photius (Bibliotheca Codex 242), dice come del giovane cacciatore Eshmun si fosse innamorata la dèa Astarte o Astronoe e come egli, forse per sfuggire al suo amore, forse per donarglielo per sempre, si fosse evirato. La dèa, che con il nome punico di Tanit veniva associata a Venere, lo fece rinascere sotto forma divina e con poteri taumaturgici, legati alla resurrezione. Il dio guaritore era venerato già nel VI secolo a.C., vale a dire due secoli prima della diffusione in Grecia del culto di Asclepio, che ripropone le stesse caratteristiche di quello fenicio. Un tempio simile si trova anche a Nora, in Sardegna, nel quale è stata rinvenuta la raffigurazione di un uomo dormiente, disteso, attorno al cui corpo è avvolto un serpente: un evidente rimando al rito dell'incubazione. Sul tema complesso dell'evirazione ricordiamo solo come il culto di Dioniso avesse questo gesto come centrale: «Circa lo smembra92

mento del dio [... ] che si trattasse di un toro, di un ariete, o di un altro animale di sesso maschile, la virilità amputata doveva fare ritorno alla Grande Madre, affinché il ciclo infinito delle nascite si perpetrasse». (Cfr., K.erényi 1, p. 257). Il serpente, dunque, è legato a Dioniso e all'acqua: nell'iconografia indiana classica questo animale ne è la zoomorfizzazione. Questa introduzione sulla natura acquorea e duplice del serpente, ci serve per proporre un episodio nel quale Vi~11u, nella sua incarnazione infantile, I~~11a, si tuffa in un lago infestato chi w1 serpente malvagio, per liberare il posto dalla sua presenza e, allo stesso tempo, restituire il serpente alla sua intima natura. Un episodio di «tuffo ordinatore» che ristabilisce l'equilibrio cosmico. «Vi~11u, in quanto incarnazione dell'Assoluto, non è intrinsecamente opposto al serpente, principio dell'acqua; tuttavia in episodi simbolici come questo il dio deve interferire con l'azione del serpente; il serpente deve essere tenuto sotto controllo perché mette in pericolo l'ulteriore evoluzione dell'universo: rappresenta sì la sostanza onnicomprendente di Vi~11u, ma a un livello primitivo di differenziazione. Operando al di là dei suoi limiti in uno stadio successivo del ciclo cosmico, minaccia di far ricadere il mondo nello stato informe e inconsapevole dei primordi». (Cfr., Zimmer, p. 77). Vedremo come I~~11a, il sacro bambino, deciderà di tuffarsi per stanare il serpente che minaccia l'evoluzione naturale del Mondo, e restituire così agli umani la possibilità evolutiva: il seguire la strada della consapevolezza; anche per «liberare» il serpente dal proprio stato, e riposizionarlo così all'interno del ciclo cosmico, sarà necessario fargli acquistare consapevolezza attraverso un gesto di imperio e di pietà. Questo episodio simboleggia dunque una modalità di tuffo molto particolare, che assomma, in un unico gesto, sia il principio liberatore sia quello ordinatore. Il dio ristabilisce con un tuffo l'equilibrio tra le forze che governano il Mondo; sceglierà questo gesto, e non altri, proprio per la sua plurivalenza simbolica: l;)atto ardito, la dinamica che crea un suono particolare, la possibilità di raggiungere le profondità; il racconto si trova nel Vi.f~Jll P11rdJJa (V, 7). "Capitò quindi che, ancora fanciullo, incontrasse e sconfiggesse un re-serpente di nome K.aliya che abitava le acque di un fiume vici93

no a casa sua. I~~qa e suo fratello Rama giocavano fra i recinti delle vacche e si occupavano dei vitelli; giocavano anche nel bosco, intrecciando serti di erbe e foglie e ghirlande di fiori di campo. Facevano tamburi di foglie e I~~qa suonava il flauto. Ridendo e facendo birichinate ruzzavano tra i grandi alberi a volte soli, a volte con una schiera di altri bambini. Fu mentre vagava da solo, intento a una piccola spedizione esplorativa, che I~~11a giunse in un punto del fiume dove l'acqua faceva dei mulinelli, bianca di schiuma. Vicino c'era la tana del re-serpente Kaliya, il cui ardente alito velenoso spandendosi attorno aveva bru-

ciato tutti gli alberi che si protendevano sul corso d'acqua. Anche gli uccelli che sorvolavano la terribile dimora si bruciavano e cadevano morti. I~~qa, l'avventuroso fanciullo di sette anni, giunse in quel luogo pericoloso e scrutò le sue profondità. «Qui abita il malvagio Kaliya» pensò, «la cui arma è il veleno. L'ho già sconfitto [una allusione all'imminente battaglia, 11.d.a.]. Se lo libero scomparirà nel vasto oceano. Per colpa sua tutta la terra da qui al mare è diventata impura. Nessuno, uomo o animale, può spegnere la sua sete in queste acque. Perciò sconfiggerò questo re dei serpenti e libererò gli abitanti del paese dal loro costante timore. Fu per renderli liberi e felici e per punire il male che scesi nel mondo. Bene, ora salirò su quell'albero dai vasti rami che si protendono in acqua e mi tufferò». Il fanciullo salì con energia sull'albero, e con un grande balzo si tuffò nell'acqua profonda. L'impatto scosse l'Abisso. Le acque fiammeggianti schizzarono alte sugli alberi della riva, incendiandoli [.. .]. Sfidato dall'insolito rumore, il serpente avanzò con gli occhi d'ira e i cappucci che si gonfiavano di veleno incandescente. K.aliya era attorniato da schiere di rossi guerrieri serpente. Regine e fanciulle serpente lo scortavano a centinaia. I corpi sinuosi, adorni di lucenti collane di perle spruzzarono I~~11a. Lo morsero con le bocche che sbavavano veleno e lo imprigionarono nelle loro spire". (Ibid., p. 81). La storia prosegue con l'arrivo dei mandriani che cercano disperatamente il bambino scomparso. Alla vista del piccolo,. imprigionato tra le spire dei serpenti, la madre adottiva di I~~11a, Yafoda:, che non conosce la natura divina del figlio, scoppia in lacrime, mentre tutti 94

gli altri membri del villaggio si dispera.no. Di fronte a tanto dolore il fratello del dio, Rama, lo implora di tornare in possesso delle sue facoltà divine e liberarsi dalla presa mortale. «Divino Signore degli Dèi, perché mostri questa fragilità umana? Sei l'ombelico dell'universo, il sostegno degli dèi, il creatore, distruttore e custode dei mondi. L'universo è il tuo corpo. Questi che sono stati tuoi parenti da quando siamo scesi tra gli uomini, i mandriani, sono travolti dalla disperazione. Abbi pietà di loro! Hai interpretato la parte del neonato e del fanciullo, mostra ora il tuo potere infinito: alzati e vinci il terribile demone». (Ibid, p. 82). Ecco che allora il dio si scioglie dalle spire, e comincia a schiacciare le teste del serpente che, sempre più debolmente, reagisce ai colpi terribili, sinché non sviene riconoscendo la vera natura del suo antagonista, e invocandone il perdono: «Ho solo agito secondo la mia natura. Poiché mi hai creato dotandomi di forza e veleno, mi sono comportato in questo modo. Se avessi agito altrimenti avrei violato le leggi che tu hai stabilito per ogni creatura secondo il suo genere; avrei sfidato l'ordine dell'universo e sarei stato perciò passibile di punizione: ma ora pur colpendomi mi hai benedetto con il dono più alto, il tocco della tua ma.no. La mia forza è annientata:, il mio veleno esaurito; ti imploro di risparmiarmi la vita e di ordinarmi cosa devo fare». (Ibid, p. 83). I~~11a emette dunque la sua sentenza regolatrice: «Dovrai abitare nelle sconfinate acque dell'oceano». Il male non può essere eliminato ma deve essere "diluito" nella vastità dell'oceano. Se fosse stato eliminato completamente, sarebbe venuto meno uno dei principi oppositivi che consentono il ciclo infinito dell'esistenza, e questa eventualità era evidentemente ben lungi dal volere dell'Essere Supremo che, col suo tuffo, ristabilisce il principio eracliteo del «tutto scorre» e dell'«equilibrio tra gli oppo st:i».

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K[.pJa ed il serpe11te Ktilrya, dipi11to tradizionale i11dia110 Un episodio mitologico che riprende lo stesso topos, e del quale ci narra Igino nelle Favole, è quello che si svolge presso le dolci fonti di Egina. Questa era in origine una delle dodici figlie di Asopo e della ninfa Metope; donna bellissima, di Egina si invaghì Zeus, unitosi a lei dopo averla rapita sotto forma di aquila, presso un;:,isola del Golfo di Saro che, da allora, porta lo stesso nome. Era, gelosa, avvelenò le acque dolci dell'isola immettendovi un serpente velenoso che deponeva le sue uova nei letti di fiume e nei laghi. Zeus allora intervenne a liberare gli abitanti dell'isola dal flagello.

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L'ultimo tuffo

Col desiderio che provo nelle ve11e, conosco il desiderante m11rm11re dell'acq11a A. C. Swinburne

Mettere fine alla propria esistenza con un atto definitivo, suicidarsi attraverso un tuffo ed il conseguente annegamento, non ha esempi nella mitologia. In coerenza con la capacità delle acque di preservare la natura intima del tuffatore, anche se questi si getta con l'intenzione di porre fine all'esistenza terrena, verrà trasformato in un'altra forma di esistenza. Vedremo come Saffo, Bitromarti, Leucotea, Narciso, saranno in realtà mutati in divinità marine o in fiori, o si disperderanno sciogliendosi in spuma all'interno di un Mediterraneo che, come giustamente dice Cesare Pavese nei suoi Dialoghi con Le11cò: «Vien da pensare che sia tutto intriso di sperma e di lacrime». Nel dialogo tra la ninfa Bitromarti e Saffo, quest'ultima si lagna della monotonia del mare e della sua non morte; Ninfa le risponde: «Tutto muore nel mare e rivive. Ora lo sai». Sì, chi vuole perire definitivamente non si tuffa ma, come Empedocle, sceglie un altro tipo di salto annientatore: nel fuoco. Ma non tutto è mitologia, nel tuffo. Il «katapontismos», ordalia acquatica, o vera e propria esecuzione capitale, veniva invece praticato nei tempi arcaici lungo le coste della Grecia. Alcune volte la vittima veniva gettata nel mare chiusa in un sacco, altre volte aveva la possibilità di salvarsi a nuoto, con l'obbligo di non tornare più. Il tuffo nelle acque della morte, il suo tragico tragitto, non importa quanto lungo o breve dal luogo del salto sino alle profondità delle «verdi tenebre», come definisce Baudelaire le luminosità segrete dell'agonia acquatica, lascia al protagonista il tempo per vivere ancora un momento: ricapitolare la sua vita nell'eleganza di un gesto estremo quanto spettacolare e, mercé questo, la possibilità di emendarsi agli occhi degli dèi e così rinascere ad una nuova vita. Anche questo aspetto è tipicamente dionisiaco, come ci fa notare Nietzsche quan97

do dice che «Dioniso è un principio estetico». Nella letteratura contemporanea, dove l'annegamento per mezzo di un tuffo è ben presente e annovera molti esempi, questa modalità del morire è spesso l'epilogo di un percorso di conoscenza; descrive la necessità del protagonista di mitizzare l'ultima Immagine di tutta una vita; coronare una ricerca che trova nel balzo in mare il suo immortale destino tragico. Certe volte la morte è nell'annegamento volontario, nell'approfondirsi dinamico del corpo nelle acque mortali; il tuffo suicida, come vedremo nel caso di Martin Eden, è un gesto attivo e continuativo: non un semplice tuffo governato dalla sua stessa dinamica, ma un atto che impegna strenuamente l'ultima volontà del morente a perseguire nelle profondità l'Immagine della sua stessa fine. Anche Josef Knecht, il Magister ù1di del Gioco delle perle di vetro, morirà così: consapevolmente dopo un tuffo nelle gelide acque del lago di Belpunt. Altre volte ci si tuffa, come Saffo, per seguire un fimtasma di follia amorosa, o eseguire un rito iniziatico, o sfuggire ad una vendetta da parte degli dèi, come nel caso di Ino e di suo figlio Melicerte che diverranno., dopo il tuffo suicidio-infanticidio, rispettivamente le divinità marine Leucotea e Palemone; alcune volte il tuffo suicida è una vera e propria autodeposizione acquatica, come nel caso di Ofelia, o un immergersi letale nella propria figura riflessa, come accade al bel Narciso. S a.ffo: Slticidio o rit11ale? La poetessa Saffo, dice una versione della sua leggenda, si lancia dal promontorio di Leucade per cercare, nell'ultimo tuffo, la morte a seguito di una pena d'amore. In altre versioni il suo salto è solo un atto iniziatico, dovuto all'appartenenza al culto di un'antica divinità, che ritroveremo lungo le sponde del Tevere, a Roma, molti secoli dopo, e che ancora sopravvive colà. Questa storia, che non possiamo far rientrare nei miti tradizionali - ed infatti R. Graves non la menziona nella sua opera - ne assume invece l'aura in quanto, come i suoi omologhi classici, diventa una metafora, una figura paradigmatica che illustra, attraverso la proposizione di un caso specifico, 98

nn'intera categoria: quella della rinascita attraverso il transito nelle «acque della morte». Saffo fissa nel gesto dell'ultimo tuffo la sua essenza poetica, la composizione estrema e finale, attraversando così la soglia dell'immortalità artistica. E così farà pure Orfeo, legato a Dioniso nei Misteri orfico-dionisiaci: dopo la morte eterna di Euridice, egli rifiuta il canto e la gioia offendendo le Menadi che lo uccidono e lo dilania.no, nutrendosi di parte del suo corpo per poi gettarne la testa nell'Erebo. La testa mozzata cade nel mare, come nn macabro contenitore di tutta la sua poesia non ancora espressa, per sempre congelata tra le acque dello Stige dalla morte dell'amata, e da qui navigherà sino all'isola di Lesbo, dove viene raccolta dalle Ninfe e sepolta nel santuario di Apollo, che alimenterà con i suoi versi orfici; il corpo viene seppellito dalle Muse ai piedi dell'Olimpo. La sua lira invece infissa nel cielo a formare la costellazione omonima. Un vero e proprio «katapontismos della testa», nello stesso mare che accoglie quello di Saffo. Se diamo credito alle classiche ricerche del Dodds, troviamo questo mitologema della «testa parlante» in diverse culture: «Finalmente, il suo io magico sopravvive nella testa, che canta e continua a dare oracoli per molti anni ancora dopo la sua morte. Questo fa pensare al Settentrione: tali teste ma.ntiche compaiono nella mitologia norvegese e nella tradizione irlandese». (Cfr., Dodds, p. 195). Qui di seguito riportiamo nn passo che descrive alcnni stucchi rinvenuti in occasione della scoperta di nn luogo cli culto presso Porta Maggiore a Roma. L'analisi è interessante perché cerca di legare, in maniera originale e articolata, l'ipotesi che il luogo fosse nn centro di cultura pitagorica, all'idea jnnghia.na di «individuazione», nella quale il soggetto deve percorrere il cammino verso la piena consapevolezza del Sé. Quello che a noi interessa qui, è l'analogia tra evoluzione personale e rinascita, insito nell'idea pitagorica del Mondo: il cammino dell'anima attraverso le varie reincarnazioni, riprodurrebbe in chiave macrocosmica il cammino della singola esistenza. In generale, possiamo dire che le tradizioni filosofiche arcaiche hanno in comnne questa convergenza tra micro e macrocosmo, ove i fenomeni che si sviluppa.no su scala cosmica sono la magnifica.zio99

ne di quelli interiori e viceversa: ciò può servire a chiarire il nostro «processo di individuazione», di conoscenza personale, attraverso l'analoga conoscenza del Mondo, del quale non siamo altro che un compendio. Fatte queste premesse, analizziamo lo stucco che ritrae il «salto di Saffo», l'ultimo tuffo della poetessa di Lesbo. L'episodio narra della pena d'amore di Saffo, respinta dal soggetto amato e, forse, suicida nel mare del promontorio di Leucade, luogo peraltro consacrato proprio al «ka.tapontismos». Lo stucco chiarisce comunque che Saffo, pur cercando la morte, non muore: viene per così dire "accompagnata" verso un'altra vita dagli dèi benevoli che, già prima del suo gesto definitivo, prevedono per lei un destino di rinascita.. Da questo punto di vista la relazione tra tuffo nelle acque e rigenerazione palingenetica, è chiarissima. "21 aprile 1917. Una voragine si apre sotto un bina.rio della linea. Roma-Napoli, nei pressi di Porta Maggiore, e viene scoperta una basilica sotterranea a tre navate, di cui la centrale termina in un'abside semicircolare. Gli esperti hanno modo di stabilire che i muri perimetrali ed i pilastri erano stati ottenuti scavando prima il terreno secondo le forme e profondità volute, e poi riempiendo gli scavi di malta e calce; il tempio era stato successivamente vuotato di tutta la terra attraverso un ampio foro adattato in ultimo a lucerna.io; il pavimento della parte centrale veniva così investito dalla luce che cadeva dall'alto. L'aspetto più sorprendente della basilica, o almeno quello che più colpisce il visitatore, sta nella presenza. di un gran numero di stucchi, perfettamente conservati, che riecheggiano alcuni temi fondamentali della mitologia greca. Il giornale Notizie S1tg!i scavi, nella prima comunicazione che della scoperta venne data al mondo scientifico, avanzò con molta prudenza l'ipotesi che il monumento fosse stato adibito al culto di qualche religione misterica. In seguito lo studioso belga Franz Cumont, notando che la caratteristica principale del tempio consisteva nel suo essere sotterraneo, si richiamò agli spelei mitriaci. Ma bisogna dire che la maggior parte della decorazione interna è in netta contraddizione con i riti connessi alla religione di Mitra: due soli elementi, il toro e i gemelli, potrebbero riallacciarsi a tale culto; però, come verrà chiarito, questi due stucchi si riferiscono a tutt'altra simbologia. 100

Nel 1923, infine, lo storico ed archeologo francese Carcopino dimostrava l'appartenenza della basilica ad una setta neopitagorica. Carcopino,. con una buona dose di fortuna, si era imbattuto in un passo poco conosciuto di Plinio il Vecchio, là dove si accenna ad una certa erba che aveva la proprietà di rendere affascinante all'altro sesso chiunque riusciva a trovarla nelle campagne: cosa che capitò a Faone, e la povera Saffo, innamoratasi perdutamente di lui senza esserne corrisposta, si uccise lanciandosi dal promontorio di Leucade. Ora, dice Plinio: «a ciò credevano non solo quelli che si interessavano di magia, ma anche i pitagorici». L'episodio di Saffo fa parte degli stucchi della basilica, ed occupa anzi una posizione predominante: tutta la parte superiore dell'abside semicircolare [... ]. In quest'abside appare una figura femminile sul ciglio di un promontorio. Sulla testa ha un velo gonfiato dalla brezza marina. Sembra che la fanciulla stia per tuffarsi nelle onde lievemente agitate del mare. Nella mano sinistra ha una cetra. Eros la spinge premendole col braccio le spalle. Nel mare un tritone stende un velo per riceverla, mentre un altro tritone suona la buccina. Su uno scoglio siede un giovane pensoso, con la guancia al palmo della mano. In alto si vede Apollo che impugna l'arco rituale. Lo stucco si riferisce all'ultimo episodio della vita di Saffo, così come è stato tramandato dalla leggenda: respinta da Faone per la sua bruttezza fisica, Saffo si uccide lanciandosi in mare dalla rupe di Leucade. Viene subito in mente una considerazione: suscita meraviglia il fatto che i pitagorici abbiano posto in risalto un episodio tanto in contrasto col loro ideale di vita; il pitagorismo, analogamente all'idealismo cristiano, interpreta la vita umana come un perfezionamento in vista dell'immortalità, per cui non è consentito all'uomo di accorciare la durata della prova e scrollarsi di dosso il fardello. L'episodio di Saffo può essere compreso soltanto se non lo si valuta come il dramma di una morte volontaria, ma come un rito di rigenerazione che Saffo affronta con grande fede: il salto nel mare è simbolo di rinnovamento, e in questo senso si ritrova in altri racconti mitologici [... ] . L'argomento meriterebbe una più approfondita indagine [... ].Ma è certo che il tuffo può essere spiegato solo come allegoria della liberazione dell'anima dal peso del corruttibile corpo, 101

per la sopravvivenza della purificata anima al di là della morte. È anche da riferire l'autorevole testimonianza di Carcopino: «Se noi guardiamo attentamente la Saffo della basilica, non possiamo scorgere nessuna agitazione nel suo atteggiamento; Saffo è l'esempio classico di una rigenerazione sacramentale e morale che trasforma gli iniziati»''. (Cfr., Carotenuto, p. 390 ~-)A questo punto, per completezza di informazione, dobbiamo dire che, secondo alcune interpretazioni letterali del passo di Plinio, Saffo si tuffa sì nel mare, ma non per suicidarsi; certamente non vi muore dato che, nel passo in oggetto, non lo si dice affatto. Esiste però un'interpretazione più "rituale" di questo tuffo che, alcune letture dello stesso Plinio, descrivono come decisamente iniziatico e non, invece, come inizialmente mosso da follia amorosa suicida. Zolla, ad esempio, lo inserisce tra questi: «Di indizi [sul tuffo iniziatico] è cosparsa l'antichità. Il tuffo iniziatico vi era celebrato, gli iniziati andav~o sotto il nome di pesci, non soltanto per il voto del silenzio che li legava. Come le cosmogonie parlavano di acque primordiali drule quali tutto era affiorato, nel grembo delle acque era naturale che si ritenessero celate le ragioni ultime delle cose. E noto che a Lesbo e in Etruria un clero amministrava il tuffo sacramentale. Plinio, nel passo sul salto di Saffo, informa che era usata un'erba allucinogena per infondere forza e colorito alle istruzioni preliminari del clero, che forse eseguiva una pantomima in cui un demone inseguiva il candidato e lo precipitava dall'alto di una rupe. Una barca aspettava di sotto». (Cfr., Zolla 1, p. 68). La lettura dello studioso J. Hubaux esalta specificamente il significato iniziatico del «salto di Saffo», e lo riposiziona ancora più profondamente all'interno della tradizione orfico-dionisiaca, collocandolo tra i riti costitutivi di una setta di baptne legati all'antica dèa Cotyto o Cotitto, originaria della Tracia, e che poi si sarebbe insediata a Roma lungo il Tevere, nelle bettole dei viaggiatori fluviali. Qui di seguito proponiamo alcuni versi dell'AppeJJdix· 11irgilin11a, e successivamente una loro interpretazione da parte del grecista G. Curcio nel 1905, che getta w1a luce interessante sul culto della dèa e sulla sua progressiva degenerazione, metafora di ogni mito e culto che progressivamente si perde e si incarna nelle forme più disparate, 102

spesso talmente lontane dall'originale da essere irriconoscibili, ma sempre vitali e capaci cli suscitare una certa attrazione. «NoJJ 111e vocabis p11lcra per Corytia adf eriatosJasci11os, 11ec deù1de te 111overe l11111bos ù1 rat11/a111 pre11sis videbo altarib11s Jlavo111q,1e prupter Thybri111 ole11tis 11a1tfic11111 vocare, 11bi adp11lsae rates, cae110 rete11tae sordido sta11t iJJ vadis, 111acraq11e h1ctaJJtes aq11a, neq,1e in a1lù1a111 et 1111cta cotnpitalia, dapesq11e d11ces sordidas, q1fib11s repleflts 1tf salivosis aq11is, obesa111 ad 11:x:orem redis, et aest11m1tes docte so/vis paJJtices os11sq11e la111bis saviis. N1111c laede, JJ1111c facesse, si q11idq11a111 va/es. Et 110111e11 adscribo f1111111: cinaede Licci>>. «Non mi attirerai, bellezza, nei riti cli Cotitto alle feste falliche; né ti vedrò roteare i fianchi aggrappato agli altari, e presso il biondo Tevere adescare i marinai che sanno di salsedine, quando le barche approdano e sono trattenute dal sordido fango, mentre stanno alla fonda nell'acqua bassa; né mi condurrai nei tuoi retrobottega, dove prepari sordide pozioni, delle quali pieno poi torni alla moglie obesa mentre sciogli sapientemente nell'estuario il ventre che ribolle e con baci lo lambisci. Ora offendimi, ora provocami, se ne sei capace. Ecco, scrivo il tuo nome oh cinedo Lucceio». (Cfr., Virgilio, Catalepton XI.II, 19-34). "È necessario ora che noi ci spieghiamo perché il poeta Virgilio pone accanto all'orgiastica festa cli Kotys e alle gesta del cinedo Lucceio, il Tevere, e persone in barca «olentes nauticum, ubi adpulsae rates» etc. In succinto, ciò che ci è dato sapere intorno al culto di Kotys, lo dobbiamo a Strabone che, parlando della diffusione dei culti orgiastici, ricorda questo della dèa Kotys, originariamente tracia, e quindi introdotta in Atene e in Corinto. Per giustificare ciò che egli afferma dell'origine tracia cli esso, cita un verso di Eschilo da cui si deduce che tale culto aveva luogo sulle alture dei monti. Trapiantato in Grecia, il culto di Kotys ebbe rito e significato alquanto diversi. Una prima trasformazione si riscontra nella festa cli Kotys celebrata in Sicilia, come la ricorda Plutarco: «Quivi si sospendevano ad un albero cibi e frutti, di cui il popolo quindi a gara s'impadroniva, donde il nome alla festa di Kotutìok». La dèa tracia dunque era identificata col genio della produttività, il quale veniva ugualmente rappresentato per mezzo cli rami sospesi e carichi cli frutta nelle feste cli Cybele in Asia Minore, e in Grecia. In Grecia la dèa Kotys rappresentò la forza riscaldatrice e genera103

trice della natura, come Cybele rappresentava col culto orgiastico la forza che genera e distrugge. E poiché la terra produce anche per azione della pioggia, così nel culto venne introdotta l'acqua. Ad esprimere la fecondità generativa umana bisognava pur rappresentare la donna, e perciò i sacerdoti della dèa si vestivano di abiti femminili. Questi sacerdoti si chiamavano Bdittai, il nome ritenne del rito la parte che riguardava l'acqua, adoperata, come pare dica il nome, per abluzione o per bagno. Erodoto, 4. 33. 5. 7, scrive che presso i Traci era venerata una sola divinità femminile, Artemis, la quale è stata identificata, come abbiamo esposto, con K.otys. Ma è certo altresì che un'altra dèa aveva culto presso di essi, simile a quello di K.otys, Bendis, ricordata da Strabone. Si risolve la questione considerando K.otys e Bendis appellativi della stessa divinità; significando il primo, divinità della caccia e della guerra, il secondo, la luce lunare illuminante la terra. Meno numerosi i latini: un luogo di Orazio, Ep. 17, 56: «Cotytia vulgata, sacrum liberi Cupidinis », da cui si ricava ben poco su quello di cui ci occupiamo; un ultimo di Giovenale, II, 91 sg.: «Talia secreta coluerunt orgia taeda Cecropiam soliti Baptae lassa.re Cotyto », in cui leggiamo che K.otys aveva culto in Atene, che i suoi sacerdoti chiamavansi Baptae, che compivano orge simili a quelle che romani depravati, sacerdoti della Bona dea, commettevano in Roma. Il luogo del nostro epodo è il più lungo, fra i latini., che faccia.no ricordo di quel culto: nei vv. 19-20 è indicato il carattere licenzioso della festa [feriatos=festos]; nei seguenti vv. 21-22 quelli di cinedo di chi vi prendesse parte; nei rimanenti 23-26 forse la parte del culto che riguardava il bagno. Prima cli tentare l'emendamento del v. 21, poniamo gli interrogativi e le probabili risposte che riguardano questi quattro versi. Che relazione ha il Tevere con le Cotytie celebrate in Roma? Nessuno scrittore c'informa del modo particolare con cui si compiva la funzione del bagno in quei misteri. Secondo verosimiglianza, in origine sarà stato un vero e proprio tuffo nell'acqua, e in seguito una semplice lustrazione, che il sacerdote massimo ordinava a coloro che alla celebrazione del rito prendevano parte. Il quale per ciò doveva svolgersi in un luogo presso cui vi fosse dell'acqua. Terminava con w1 104

banchetto o agape, cui seguiva. tra. i va.pori del vino, l'orgia.. Corinto fu per eccellenza. la sede del culto di Kotys in Grecia., ed in quella. città, secondo congetture, si sarà celebrato in uno dei tanti ridotti lungo le rive del ma.re, celebri nell'antichità per pia.ceri e godimenti di ogni specie che a.gli avventori fornivano. Di questi avventori la. parte migliore erano naviganti, come quelli che più assetati di pia.ceri si mostrano quando approda.no. Tra.piantato in Roma., tale culto pare si sia. celebrato in qualche luogo lungo il Tevere". (Cjr., Curcio, vol. 33, pp. 22-25). In origine Kotys era la. Dèa. Madre che troviamo nel mito olimpico della creazione come sposa di Urano. Graves ricorda le sue origini asiatiche identificandola. con Ur-a11a cioè la. dèa. orgiastica. della. piena. estate. Il viraggio patria.reale che in Grecia. subirono le mitologie ma.tria.rea.li dell'oriente, la. costrinse prima. a. dona.re il suo stesso nome ad Urano diventando sua. moglie, e poi lentamente ed inesorabilmente degrada.re verso la. «dèa. dell'impudenza.» - questo è infatti il titolo di Cotitto a. Roma. - i cui sacerdoti interpretavano una. sessualità decadente, che pratica.va. però ancora il tuffo iniziatico. Interessante nota.re, per inciso, come anche Dioniso fosse in origine sottoposto alla. dèa.-luna. Semele, sua. madre, chiamata. anche Tione o Cotitto, delle cui orge era, anzi, la. vittima. predestinata.. (Cjr., Gra.ves, p. 95). A chi avesse lo sg11ardo per farlo proponiamo le vestigia. dell'antico tuffo rituale di Cotitto nella. Roma. contemporanea; noi le abbiamo cerca.te, e trova.te, sui ponti del Tevere. (Video: il tJ1fo di capoda11110 JJel Tevere). Infine, un'ultima. citazione dal film di Pasolini: Accatto11e. La. sequenza. del tuffo dal Ponte degli Angeli è forse la. più emblematica. di tutto il film. Accattone viene ripreso sulla. spalletta. del ponte con tutta la. fila degli angeli alle spalle, poi un primo piano lo inquadra. mentre, prima. di tuffarsi, mormora tra. sé: «Da.mo soddisfazione a.r popolo!». La. battuta lo identifica. come "officiante" di un culto degenerato, dato il suo ruolo: Accattone è uno sfruttatore di prostitute, tragiche epigoni contemporanee, perché spesso schiave, della. dèa. Cotitto; è per loro che si tufferà. «Un attimo di raccoglimento, poi si fa lento, solenne, liturgico, il 105

segno della croce», dice la sceneggia.tura. originale, prima di tuffarsi a volo d'angelo, formando così egli stesso una croce: chiaro riferimento al Cristo Salvatore. Ma forse è nella scena successiva., quando Accattone si vanta della propria. impresa con gli amici Sceriffo e Peppe il folle, ricordando l'amico Barba.rane morto nella stessa impresa., che si evince l'origine rituale del gesto, il «potere tra.sfigurante del sacrificio», come dice Girarci quando descrive la trasformazione che esso opera sul soggetto tra.sfigurandolo da «reprobo», o pericoloso malfattore, a «salvatore divino». Sceriffo: «Tu che dici, chi se l'è preso, er Barbarone, Gesù Cristo o il Dia.volo?» Peppe il folle: «Se lo staranno a litigà! Certo era un bel soggetto!». La stessa figura del «volo d'angelo» la effettua.no ancora i tuffatori della Q11ebrada, il crepaccio, nei pressi della città messicana. di Acapulco, volando nell'acqua. da un'altezza. di una quarantina. di metri: un vero e proprio rito, governato dalle sue gestualità, iniziato negli anni trenta; analogo lo spettacolare tuffo dal ponte di Mostar. Gli epigoni di queste pratiche sono sicura.men te i tuffatori dalle dighe come quella di Rochemolles o, ancora, i demenziali praticanti del «balconing,> da.gli alberghi dotati di piscina. sottostante. Questa Immagine richiama. anche il doveroso omaggio che va tributato a.gli artisti circensi che si tuffa.no in una tinozza. da altissimi trapezi. Sulle sponde del Tevere sbarcherà anche Ino-Leucotea., madre adottiva. di Dioniso, tra.sformata. nella Mater Ma.tuta, la dèa. del mattino, o dell'aurora., salvatrice di Ulisse, che aveva un tempio nel Forum Boa.rium, proprio accanto al Porto di Roma. La sua festa era celebrata 1'11 giugno, il giorno dei Matrialin e a. questo culto era.no ammesse le donne sposa.te una sola volta, il cui ma.rito era ancora vivo, mentre le donne schiave ne era.no escluse sevenunente. Ovidio racconta che, al suo arrivo a Roma, Ino-Leucotea. aveva incontrato le Baccanti che celebra.va.no i riti dionisiaci, le quali, istiga.te da Era che ancora. non le aveva. perdonato di aver fatto da. nutrice a. Dioniso fanciullo, si era.no scaglia.te su di lei e sta.va.no per stra.zia.ria.. Alle sue grida. era però accorso Ercole, che si trova.va. proprio nelle vicinanze, e l'aveva. liberata.; affidata. a. Ca.rmenta., madre di 106

Evandro, questa le annuncia che a Roma le sarebbe stato tributato un culto insieme al figlio, onorato col nome di Portunno, dio dei porti. Ma la relazione tra il «dio venturo» ed il «salto di Saffo», oltre a tutto questo, è ancora più simbolica e profonda, e si installa alla base della dinamica stessa del tuffo. Abbiamo detto, in più passaggi, delle relazioni tra questa divinità ed il gesto di cui stiamo tracciando questa breve autobiografia per Immagini. In specifico, con riferimento all'episodio di Saffo, vogliamo riportare l'attenzione su due delle attribuzioni di Dioniso: quelle che lo vedono, prima come Sphaleotas «che fa vacillare», e poi come Sphaltes che «fa cadere». L'attribuzione è circostanziata, poiché il culto di questo aspetto del dio si lega proprio ai luoghi nei quali avvengono il «salto di Saffo» ed il culto di Cotitto. «Strano culto furtivamente segnalato da Pausania quando racconta la storia di una maschera trovata in mare aperto nelle reti di un pescatore di Lesbo». In questa storia narrata da Pausania, assistiamo, nelle immediate vicinanze storiche della guerra di Troia, alla presenza stessa del dio in uno di quegli episodi: nel duello tra Achille e Telefo, l'antenato degli Attalidi, che viene impigliato dal dio in una radice di vite, «fatto vacillare», ed infine «fatto cadere». Questo passaggio ci consente di seguire un'ulteriore trasformazione della dinamica dionisiaca che attribuisce al «dio del balzo» prima l'attributo di colui «che fa vacillare», infine la podestà di «far cadere», come racconta Licofrone nel suo poema Ale:xaJJdra (Cassandra). Ecco che la presenza cli Dioniso, con le sembianze della sua maschera nelle acque di Lesbo, e la progressiva «dinamizzazione» verso la divinità «che fa cadere», aggiunge un'altra faccia al complesso prisma di immagini che lo legano al tuffo. (Cfr., Detienne 1, p. 72). Tornando infine all'evoluzione del culto di Cotitto: esso ci ha permesso di aprire una parentesi fondamentale sull'origine femminile del tuffo rituale, e dunque sull'origine del battesimo come poi lo si praticherà nelle religioni rivelate, gesto che esula da questa nostra autobiografia Immaginale, ma soprattutto di mostrare il paradigmatico cammino che porta alla progressiva emarginazione-degenera107

zione di un gesto rituale. Questo esempio ci consente anche di ricostruire a ritroso certi rituali, e farli così rinascere nel mondo disgiunto di oggi.

Bitromarti: t11.ffo di Nùifa La ninfa Bitromarti è certamente alla ricerca del tuffo suicida: cerca di salvarsi nella morte dall'inseguimento del re Minosse, il committente del labirinto. Questa parte del mito è nota: l'uccisione del Minotauro da parte di Teseo con l'aiuto di Arianna, Arianide come la chiama giustamente Pavese, che le dà il nome originario, quello legato al ragno e dw1que al suo filo. Ma qui, come abbiamo accennato prima, è interessante notare come il mito, al di là delle versioni e delle interpretazioni che se ne possono dare, ha un emblematico punto di convergenza con la storia di Bitromarti: anche Teseo deve tuffarsi per ordine di Minosse al fine di sottoporsi ad un'ordalia acquatica. L'eroe supererà la prova, ottenendo così il riconoscimento che gli sarà fondamentale nelle sue imprese. Bitromarti dunque, Ninfa dei boschi, fugge Minosse e si getta da una rupe. Qui avviene la trasformazione: da Ninfa dei boschi diviene Ninfa marina, mutando elemento, ma non essenza; un esempio di «tuffo trasformatore», nel quale si rinasce in un nuovo corpo. E Pavese fa dire bene a Bitromarti questa capacità del tuffo di trasformare, il potere delle acque di accogliere il mutamento che è l'essenza stessa della Vita, la sua necessità più grande. Alla domanda di Saffo, anche lei trasformata in spuma, la Ninfa, essenza stessa della vita naturale, risponde con il limpido eraclitismo della materia. «Saffo: "Tu non eri mortale e sapevi che a niente si sfugge". Bitromarti: "Non ho fuggito i desideri Saffo. Quel che volevo ce l'ho. Prima ero ninfa delle rupi, ora del mare. Siamo fatte di questo. La nostra vita è foglie e tronco, polla d'acque, schiuma d'onda. Noi giochiamo a sfiorare le cose, non fuggiamo. Mutiamo. Questo è il nostro desiderio e destino. Nostro solo terrore è che un uomo ci possegga, ci fermi. Allora sarebbe la fine"». (Cfr., Pavese, pp. 47-48). Questo continuo trasmutarsi, il mutare forma assecondando la circostanza, è comune a tutte le divinità arcaiche e classiche. Trove108

remo questa modalità anche nella Sirena Lighea di Tornasi di Lampedusa, che così abbandona il suo giovane amante illa fine della torrida estate: «Il mare sotto di noi si ruppe, la prima ondata avanzò coronata di biancore. '½.ddio Sasà. Non dimenticherai·". Il cavillone si spezzò sullo scoglio, la Sirena si buttò nello zampillare iridato; non la vidi ricadere; sembrò che si disfacesse nella spuma.>>.

JJJ0-Le11cotea, Asteria: il t11ffo come salvezza Bitromarti condivide il destino del tuffo con il personaggio di Ino: Apollodoro mitografo ci parla di Ino che si lanciò in mare e divenne una divinità marina. Ino, figlia di Cadmo fondatore di Tebe e di Armonia, è la sorella di Semele; la loro nonna è Afrodite, madre di Armonia. Zeus amerà Semele e le darà Dioniso, che però verrà allevato segretamente da Ino e da suo marito Atamante, dopo la morte della madre ad opera di un tranello di Era. Per ulteriore punizione, la consorte di Zeus farà impazzire Ammante che ucciderà con un sasso il figlio maggiore Learco e cercherà di uccidere, credendo si trattasse di una coppia di leoni, la moglie ed il figlioletto. Ino illora, afferrato il piccolo Melicerte, fugge gettandosi dilla :rupe, ma non sarebbe scampata ille frecce del marito se il giovane Dioniso non ne avesse temporaneamente accecato lo sguardo. Nella versione del mito secondo Apollodoro (Biblioteca, 3, 4, 3) anche Ino impazzisce e getta il piccolo Melicerte in un pentolone bollente - la stessa fine che farà ad un certo punto Dioniso smembrato dai Titani e bollito -, poi si tufferà in acqua col cadavere. «Il delirio di Ino ha un valore culturale, che va molto oltre quello di un caso clinico o di una peripezia romanzesca: è il momento centrale del rito di passaggio che trasforma una donna mortale in una dèa. Tuffandosi nella follia, Ino si tuffa in un vuoto vertiginoso (rappresentato metaforicamente dalla sua precipitazione in mare) e ne riemerge rinnovata, come dèa delle profondità. È in questa forma che appare ad Odisseo, naufrago e disperato tra le onde del mare [... ]. Punizione ed insieme grazia divina, questa è la. follia sacra.>>. (Cfr., Guido rizzi, p. 40). Dante riporta il mito nella Commedia: "Nel tempo che Iunone era 109

crucciata per Semelè contra 'l sangue tebano, come mostrò w1a e altra fiata, Atamante divenne tanto insano, che veggendo la moglie con due figli andar carcata da ciascuna mano, gridò: «Tendiam le reti, sì ch'io pigli la leonessa e i leoncini al varco»; e poi distese i dispietati artigli, prendendo l'un ch'avea nome Learco, e rotolio e percosselo ad un sasso; e quella s'annegò con l'altro ca.reo". (Cfr., Dante, lliferno XXX 1-10). Ino dunque, si tufferà con «l'altro ca.reo», il suo figlioletto, e rischierà di annegare, come dice Dante; ma Zeus, riconoscente per la cura di Dioniso bambino, chiederà ad Afrodite di trasformarla in una divinità marina, Leucotea, la Dèa Bianca, mentre suo figlio diverrà il dio Palemone, inviato di Poseidone nell'istmo di Corinto a ca.vallo di un delfino: animale specialissimo per quello che concerne questa tipologia. di tuffi dato che, come vedremo, la sua apparizione certifica la salvezza. del passeggero. In seguito queste due divinità approderanno alle rive del Tevere a Roma, rispettiva.mente come Mater Ma.tuta e Portwlno. Il dio «della vita indistruttibile» si mostra anche qui «signore del tuffo», proteggendo Ino dalle frecce dell'insano ma.rito Atamante. (Cfr., Graves, p. 204). Ino-Leucotea. avrà anche un ruolo fondamentale nell'Odissea quando, nel Canto V (vv. 424-448), sorgerà dalle acque tempestose di Poseidone per offrire ad Ulisse una «fascia immortale» che gli consentirà di raggiungere l'isola dei Feaci: «Figlia di Cadmo, Ino chiamata, al tempo che vivea. tra i mortali: or nel mar gode divini onori, e Leuco tea si noma [... ] . Ma questa prendi; e la t'avvolgi al petto, fascia immortal, né temer morte o danno». Alcuni mitografi, come Apollonio Rodio, hanno voluto vedere nella sottile striscia di tessuto che alcuni naviganti portano legati al braccio o alla fronte, un omaggio a questa «fascia immortal», stoffa miracolosa. che scansa i pericoli del ma.re. In questo Canto dell'Odissea Ino appare all'eroe sotto forma di aith11ia, un uccello marino, forse la cornacchia di mare o il cormorano: «S'alzò dell'onda. fuor, qual mergo a volo». Nelle Cyra11idi si dice che essa si tuffa nelle acque per indica.re ai naviganti il pericolo, oppure vola da.van ti alla nave o va ad appollaiarsi su una roccia in segno di navigazione propizia. (Cfr., Detienne 3, p. 162). 110

Ino ha un ruolo anche in un altro tuffo, questa volta mortale, che vede come vittima Elle, figlia di Atamante e Nefele, prima moglie del sovrano di Orcomeno. Perseguitati dalla matrigna Ino, Elle e suo fratello Frisso fuggono dalla città a cavallo di un ariete dal vello d'oro, dono di Zeus. Durante il viaggio però, Elle cadde in mare all'altezza dello stretto che da allora porta il suo nome: FEllesponto. Il vello dell'ariete sarà poi l'ambita preda degli Argonauti. In uccello, una quaglia, dovette trasformarsi anche la tita.na Asteria per sfuggire così alle attenzioni di Zeus. Racconta Igino nelle sue Favole come, dopo la trasformazione, ella si gettasse in mare; qui si tramutò nell'isola di Ortigia (da oewç, "quaglia"), vagante nel grande mare. Fu lì che andò a partorire Leto, madre di Apollo e Artemide, quando Era gelosa impedì ad ogni luogo della terra di ospitare la partoriente. In seguito Apollo, riconoscente, ancorò al fondo del mare l'isola con quattro colonne e la ribattezzò Delo. Asteria è anche la madre di Ecate, legata anch'essa agli oracoli e molto tenuta in considerazione dallo stesso Zeus: «Lei pregna generò Ecate, quella che fra tutti Zeus Cronide onorò». (Cfr., Esiodo, vv. 410-415).

La Tomba del t11.ffatore: t11.ffo oltre la vita Non tutti i tuffi appartengono al mito; come quello di Saffo, che viene narrato nella basilica pitagorica, esiste un'altra raffigurazione classica del salto verso la morte, anzi, del salto di un morto. Ci riferiamo alla «Tomba del tuffatore», pregevole opera databile circa cinquecento anni prima dell'era cristiana, ed unica della pittura tombale della Magna Grecia, nella quale un giovane uomo, raffigurato nel suo immobile volo, sembra tuffarsi da una colonna verso uno strano lago convesso ed increspato di piccole onde. Il senso di sospensione che il tuffo ispira non è solo legata alla natura per così dire tecnica della raffigurazione, ma condensa l'essenza profonda del gesto, in cui il trapasso dalla vita alla morte trasmette l'immobilità cosmica nella quale avvengono le «grandi trasformazioni»: «Ci si chiede, allora, cosa sia successo e cosa continui a succedere in quei luoghi. L'unica risposta possibile è che non vi sia successo nulla. Così si annunciano le grandi trasformazioni. L'uni111

verso non si muove per un soffio. Della notizia che invece vi sarebbe successo qualcosa e che qualcosa continuerebbe a succedervi hanno vissuto, da sempre, preti e maghi», dice Ernst ]unger dopo una sua visita alla necropoli.

La Tomba de/Tuffatore) Tarquinia) 500 a. C circa Le interpretazioni simboliche rimandano tutte al fatto che il tuffatore appare, più che spiccare il salto dalla colonna, oltrepassarla. Si esclude ovviamente un errore artistico nella prospettiva, data la pregevolezza dell'opera, e dunque si aprono alcune interessanti questioni circa il simbolismo del salto, che sembra originarsi da un altro luogo, la vita, per travalicare le colonne che potrebbero, in questo caso, essere assimilate alle p11lai, le mitiche colonne che Ercole pose alla fine del mondo conosciuto, e dunque transitare il tuffatore verso il non conoscibile: la morte. Ed infatti, anche le altre scene degli affreschi che ricoprono le pareti della tomba, mostrano gesti conviviali che rappresentano la simbologia greca del trapasso secondo le convenzioni e le esperienze esemplificate nelle pratiche simposiali: l'abbandono al vino, all'eros, all'arte, sia essa musica, canto o poesia. Ma il legame tra simposio e tuffo, tra mare e vino, è certamente evidente quando pensiamo come entrambi facciano attraversare un'esperienza di radicale diversità dalla quotidianità; lo abbiamo già notato descrivendo l'anfora 112

del Pittore di Priamo. Anche la forma dell'acqua nella quale si tuffa il giovane è quella di un mare lontano, di un po11tos ondoso e di colore incerto, verso il quale alberi scheletrici inclinano: come se anche la vita vegetale volesse indicare al giovane il percorso del destino. Po11tos designa, per la Grecia classica, al contrario di tholos.sa o pélogos, l'alto mare, l'ignoto del largo, lo spazio marino nel quale non si vedono le coste, e che sembra confondersi, nelle notti senza luna né stelle, con il cielo scuro; il termine descrive anche il fondo marino, nel senso di un incommensurabile baratro. Per questo pontos era una delle denominazioni del mondo infero, del Tartaro, con il quale confinava attraverso comwlÌ «radici», poiché in entrambi nessuna direzione è stabilita e possibile e un'incudine di bronzo può cadere «per un intero anno» senza arrivare mai da nessuna parte: «Voragine immensa, né in tutto il corso di un intero anno uno giungerebbe a terra, se prima. si trovasse dentro alle porte, ma qua e là lo trascinerebbe tempesta sopra tempesta dolorosa». (Cjr., Esiodo, vv. 740-745). Carotenuto così commenta: "Mi sembra utile a questo punto ricordare una recente scoperta archeologica di Mario Napoli: la «Tomba del tuffatore», rinvenuta a Paestum il 3 giugno 1968. Una pregevole e plastica pittura, raffigurante un giovane teso nel tuffo, adorna la quinta lastra di questa tomba. Tra le varie interpretazioni proposte, la più convincente appare quella che si richiama ai riti di purificazione connessi alla conquista dell'immortalità". E dunque qui ritroviamo i «riti di purificazione connessi alla conquista dell'immortalità», come nell'idea sacrificale induista, dove l'immortalità è la fine dell'eterno ciclo delle reincarnazioni terrestri. Ma questa lastra affrescata, oltre alle componenti della scena - il mare, il tuffo, le colonne, le piante - ci schiude altri significati simbolici, legati all'espressione serena, quasi trasognata, del tuffatore; un lieve sorriso aleggia sul viso composto. Ed anche un altro tuffatore esprime la stessa tensione simbolica tra il tuffo e la morte; è dipinto in maniera realistica mentre fende l'acqua perpendicolarmente: lo vediamo all'interno della cosiddetta «Tomba della caccia e della pescro> di Tarquinia, risalente allo stesso periodo, a testimonianza dello scambio tra cultura etrusca e magnogreca tra le due sponde del fiume Sele. In questa tomba il tuffatore 113

sorride in maniera enigmatica, mentre si getta a capofitto verso un mare popolato da una moltitudine di manifestazioni vitali. Questi particolari sorrisi «dionisiaci» compaiono in un periodo determinato e sono riferibili all'ineffabilità del passaggio tra la vita e la morte, in particolare alla credenza che esso sia il transito verso una «vita nuova»: «Ed ora addentriamoci in quel sorriso strano che fa la sua comparsa intorno al 590 a.C. per dileguarsi nella gravità classica verso il 480. Una fioritura ed un declino enigmatici e misteriosi. Un centinaio di anni al massimo, nei quali l'ebbrezza del vivere sembra precedere la serenità dell'esistere di Fidia, prima delle dolcezze sensuali di Prassitele e delle tarde imitazioni della romanità trionfante». (Cfr., De Bartillat, p. 41 {&g,). In questa riflessione storico-estetica, contenuta nella sua monografia sul sorriso, l'autore ha il pregio di indicarci ill primis il periodo temporale nel quale quel particolare sorriso «enigmatico e misterioso» assume il suo significato simbolico preciso. Il momento figurativo è proprio quello al quale appartengono le due tombe e, soprattutto, corrisponde al periodo aureo del culto di Dioniso, il dio per il quale «l'ebbrezza del vivere sembra precedere la serenità dell'esistere». «Da dove viene quel sorriso? Dai colori di Creta, dalle sue donne avvenenti e da quell'acrobata in volo che prelude già alle pitture funamboliche di Chagall e Matisse, o dalle ferocità addolcite d'oriente, le sfingi dai volti divertiti? O, ancora, dalle gravità dell'oltretomba dell'Egitto da cui la Grecia ha attinto i segreti per fabbricare le sue statue dell'aldiquà? [ ... ] Il sorriso della serenità dell'oltretomba era però forse già fiorito nello sguardo allucinato dello scriba dell'Antico Egitto, e soprattutto nello strano regno di Akhena.ton, sovrano del Nuovo Regno [... ]. Impossibile non notare [... ] che l'apparizione del sorriso è contemporanea alla lenta e progressiva scoperta dell'equilibrio del corpo [... ]. Questo stile arcaico raggiunge, sotto la tirannia di Pisistrato, e più in particolare fra il 525 e il 480, la sua fase di maturità tanto nell'Ella.de quanto nell'Italia meridionale, nel momento in cui si erigono i templi di Paestum e di Afania a Egina, e il santuario di Apollo a Delfi [... ] . Nel 500 a.C., anno in cui Eschilo partecipa al concorso per la tragedia, inizia a diffondersi uno spirito 114

nuovo, lo spirito della gravità classica destinato a paralizzare il sorriso». (Ibid.). E allora, il sorriso dionisiaco, così sensuale ed ambiguo come quello della Gioconda, espressione dell'età di massimo splendore per il dio «della vita indistruttibile», signore dell'andatura eretta come della vacillante, nasce proprio dalla sua tonalità infera, dal suo transito nella parte oscura della vita. Anche il richiamo alle «feracità addolcite d'oriente» rimandano al sorriso del «dio venturo» mentre cavalca la sua inseparabile pantera profumata. La nascita della tragedia classica corrisponde infatti anche alla nascita dell'Occidente come distacco dell'umanità dal sorriso di Dioniso; da una visione «ciclica» dell'esistenza, si passa ad abbracciarne una «lineare», che condurrà dalla «gravità classica» inevitabilmente alla decadenza attuale: con la scomparsa di quel sorriso, tramonta anche l'ebbrezza di vivere. Dioniso è un «dio che muore», ma è questo che gli permette di essere il dio della rinascita: «Egli non può invero risparmiare a nessuno l'ingresso nel regno sotterraneo, ma promette il ritorno, come lo concede a Core. Abita il confine tra la luce e le tenebre, è un dio bianco e nero [... ] una luce nelle tenebre della morte [... ].La felicità con cui la sua traboccante pienezza naturale benedice la vita sensuale viene liberata per sempre del segreto pensiero demoniaco di una disperata notte della morte». (Cfr., Bachofen, p. 188). Il sorriso del tuffatore di Paestum, come quello di Tarquinia, lo ritroveremo anche sulle statue che ornano il sarcofago etrusco di Cerveteri sul quale: «La coppia di sposi sorride. La morte> divenuta l'ultimo atto d'amore e di convivialità, non fa che inseguire il grande piacere di vivere».

Narciso: t11.ffo del rico11gi111igime11to Narciso era figlio dell'azzurra ninfa Lirfope, che un giorno il dio del fiume Cefiso aveva avvolto nella sua liquida presenza e violata. Lirfope, che significa «dagli occhi sfacciati», aveva trasmesso la caratteristica del suo sguardo al figlio, il quale lo usò per innamorarsi della sua stessa figura riflessa nell'acqua. 115

Eppure il veggente Tiresia aveva detto a Lidope, la prima persona che lo avesse mai consultato: «Narciso vivrà sino a tarda. età, purché non conosca mai se stesso»; curioso capovolgimento "speculare" del motto delfico. Quando Narciso raggiunse il sedicesimo anno di età, si era già lasciato alle spalle amanti di ambo i sessi, perché caparbiamente geloso della propria bellezza. Un giorno, mentre era a caccia di cervi, la ninfa Eco furtivamente lo seguì nei boschi, desiderosa di rivolgergli la parola ma incapace di parlare per prima perché costretta a ripetere sempre le ultime parole di ciò che le veniva detto: era stata punita da Era perché la distraeva con dei lunghi racconti mentre le altre ninfe, amanti di Zeus, si nascondevano. Alla fine Eco si mostrò e corse ad abbracciare Narciso che, però, la allontanò immediatamente ed in malo modo. Eco, con il cuore a pezzi, trascorse il resto della sua vita in valli solitarie, consumandosi finché di lei rimase solo la voce. Nemesi, la dèa della vendetta, in altre versioni Artemide, decise di punirlo anche per la morte di Aminio: il giovane si era ucciso con la spada datagli da Narciso dopo averlo respinto. E cos~ mentre Narciso è nel bosco, la dèa lo fa imbattere in una pozza profonda presso cui egli si accosta per bere. Non appena vede, per la prima volta nella vita, la sua figura riflessa, si innamora perdutamente del giovane che stava fissando. Solo dopo qualche istante capisce che la figura è lui stesso e, comprendendo che non avrebbe mai potuto ottenere quell'amore, si lascia morire gettandosi nell'acqua; altre versioni parlano di suicidio con la spada: si compiva così la profezia di Tiresia. Si narra che Narciso, quando attraversò lo Stige, si affacciò sulle acque del fiume, sperando ancora di vedere il suo amato riflesso. Narciso, narrato da Ovidio nelle sue Metomoifosi per via del fiore che porta il suo nome, ha diverse determinanti chiaramente acquoree, a partire dalla sua stessa genesi: egli nasce da una Ninfa acquatica e da una divinità fluviale; è chiaro che il destino del rispecchiamento acquoreo che lo trascina nel lago, è w1 ritorno alla sua essenza. Prima di tuffarsi in se stesso, Narciso si guarda più volte con gli occhi «sfacciati» che ha ereditato da sua madre: cerca il contatto visi116

vo con il suo Doppio mettendo in essere la caratteristica acquorea dello sguardo. C'è da chiedersi se il bel ragazzo si sarebbe visto senza quegli occhi; e se così fosse, che sg11ardo dovremmo avere noi per tuffarci in noi stessi? È evidente che il mito, nella sua tragicità., apre la porta ad unariflessione sullo «sguardo acquoreo» che ci attraversa tutti, come fa ogni mito nella sua universalità.. In altre parole, forse dobbiamo acquisire lo sguardo «sfacciato» che Narciso ha ereditato dalla sua fascino sa madre per poterci rispecchiare nella nostra essenza acquatica.

A questo punto dovremmo dire che Narciso non si innamora della sua Immagine, o non semplicemente almeno, ma della sua stessa acqua riflessa nell'Immagine; in altre parole del suo riflesso Immaginale: «E ancora più profondo è il significato della storia di Narciso, che non potendo afferrare la figura dolce e tormentosa che vedeva nella fonte, vi cadde dentro e annegò. Ma quella stessa Immagine noi la vediamo in tutti i fiumi e negli oceani. È l'inafferrabile fantasma della vita, ed è questa la chiave di tutto». Così dice Ismaele, la voce narrante di Moby Dick. E «l'inafferrabile fantasma della vita>> che attraversa tutto, cancella le tracce superficiali dei passaggi e dei drammi, lo troveremo evocato nel tuffo del capitano Achab, alla fine della sua caccia alla Balena. Torna in Narciso l'«Immaginazione materiale» di Bachelard che ci ricorda come, normalmente, le Immagini riflesse nell'acqua non abbiano permanenza, né tantomeno spessore. Esse dunque, continua Bachelard, «non stregano un sognatore qualunque». Per farsi affascinare dall'Immagine riflessa nell'acqua, bisogna tuffarcisi dentro, «impegnarsi più a fondo; perché la nostra Immaginazione sogni, in maniera più diretta, gli atti creativi. Allora la forza poetica, che era insensibile in una poesia dei riflessi, appare all'improvviso; l'acqua diventa più pesante, più scura, più profonda, si materializza>>. Come non vedere in questa reverie l'episodio stesso di Narciso, che il mito dipinge bellissimo ed innamorato della sua figura certo, ma facendoci a volte scordare che la sua non è una bellezza umana, essendo figlio di due divinità.? Narciso, allora, «non è un sognatore qualunque»: i suoi occhi non sono solo «sfacciati», ma fatti della 117

stessa sostanza dell'acqua; ecco che il suo sguardo lo porta ad una reverie acquorea di «materializzazione» del personaggio che vede nel lago. "Dopo aver immerso le mani e umettato le labbra in un bacino incontrato in sogno, Novalis viene preso da un «desiderio irrefrenabile di bagnarsi». Nessuna visione lo invita. È la sosta11za stessa che egli ha toccato con le mani e con le labbra che lo chiama a sé. Lo chiama materialmente; in virtù, così sembra, di w1a partecipazione magica. Il sognatore si spoglia e si tuffa nel bacino. Solo allora giungono le Immagini, escono dalla materia, nascono come da un germe, da una realtà sensuale primitiva, da un'ebbrezza che non sa ancora proiettare se stessa". (Cjr., Bachelard 2, p. 143). Come quella di Novalis, la sensibilità di Narciso non è comune; ed è per questo che la trasposizione in chiave semplicemente nevrotica del mito è, a dir poco, parziale, e non spiega tutta la sua ampiezza e potenza Immaginale ma, soprattutto, non ci serve per «diventare Narciso»: assumere la capacità di «materializzare-maternizzare» l'acqua che è in noi e farne un riflesso del nostro rapporto con la sostanza-Nfadre. «Le vostre sorgenti non sono affatto sorgenti. L'elemento stesso! La materia prima! È la madre dico, di cui ho bisogno!» esclama Claudel nelle Grandi Odi. E dunque, se leggiamo il mito da questo punto di vista, forse potremmo parlare più di «complesso di Edipo» che di «narcisismo». Il «sogno di Narciso», il ricongiungimento con l'acqua-Madre, è ripreso anche da Ippocrate nel suo Trattato SJtlle malattie: nella sezione dedicata ai sogni come sintomo di patologia, dice che tuffarsi in acqua, sia essa mare, fiume o lago, rappresenta il chiaro segnale di un «corpo febbricitante che ha bisogno di tornare alla temperatura giusta». (Cfr., Littré, Ippocrate upere complete, vol. VI, p. 658). Questa «febbre», ha sia un'origine organica che psichica, edipica appunto, come riporta circa questa diagnosi su base onirica il Dodds: «Tuttavia gli antichi scrittori ricordano anche quelli che chiameremmo sogni edipici travestiti, ad esempio il sogno di tuffarsi nell'acqua». (Cfr., Dodds, p. 106). E ancora, se diamo credito ad ulteriori versioni del mito, arriviamo ad un'interpretazione decisamente alchemica del tuffo nell'Im118

magine, che ci viene proposta da un Narciso androgino, come il Rebis dei Filosofi: «Un essere divino dunque, che forse originariamente era androgino, se si riflette su una variante del mito riferita da Pausania. Na.rkisos avrebbe avuto una sorella gemella, Na.rkissa, sua compagna di caccia, cui rassomigliava in modo sorprendente. Alla morte prematura della fanciulla il fratello, che l'amava molto, provò un gran dolore. Un giorno, specchiandosi per caso in una fonte, credette dapprima di vederla; e anche quando si accorse che rifletteva in realtà. la propria, continuò a specchiarvisi per consolarsi. Questa storia, commenta Pausania, avrebbe ispirato il mito di Narciso; ma la sua era già un'interpretazione tarda, razionalistica, che non riusciva a cogliere nell'esistenza di una coppia gemellare il fondo androgino di quell'essere primordiale che nelle religioni storiche politeistiche si era diviso in un maschio ed una femmina>>. (Cfr., Cattabiani, p. 149). Come nota giustamente Bachelard, se Narciso fosse stato solo un «narcisista>>, si sarebbe innamorato della sua figura riflessa in uno specchio ... Lo dice bene questo verso di Mallarmé: «Oh specchio, fredda acqua della noia nel tuo riquadro gelato ... ». "Nel preambolo illustrato del suo L'erre11r de Narcisse, Louis Lavelle sottolinea la naturale profondità. del riflesso acquatico, il senso di infinito del sogno che tale riflesso suggerisce: «Se ci si immagina Narciso di fronte allo specchio, la resistenza del vetro e del metallo oppone una barriera alle sue imprese. Contro di esso batte la fronte e i pugni; girandogli attorno non trova nulla. Lo specchio tiene prigioniero dentro di sé un retroterra che gli sfugge, nel quale vede se stesso senza riuscire a catturarsi e vede altresì che è separato da lui da una falsa distanza, che egli è in grado di ridurre ma mai di superare. Al contrario, la fonte è per lui un cammino aperto ... ». Lo specchio della fonte è pertanto l'occasione per una Immagi11azione aperta [.. .]. Percepiamo qui uno degli elementi del sogno 11at11rale, il bisogno che ha il sogno di inscriversi profondamente nella natura. Non si sogna profondamente con degli oggetti. Per sognare profondamente bisogna sognare con della ,naterid'. (Cjr., Bachelard 2, p. 32). «Sognare con della materia>> dunque, per sogJJare la materia: sognare il sogno di Vi~11u, Immaginare il Mondo come parte di noi e noi come parte del Mondo. Forse a questa particolarità. dell'Immagina119

zione poetica si riferisce Shakespeare quando, nella Tempesta (atto IV), fa dire al mago Prospero: «Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni». E dunque, nel tuffo verso la propria Immagine, Narciso, il «sognatore della materia acqua», non rincorre solo un impossibile «narcisistico» amore per se stesso, ma w1 vero desiderio di ricongiungimento col Mondo attraverso l'essenza acquorea della sua stessa natura. Ed in questo ricongiungimento, operato dal tuffo, la sua solitudine invero sdoppiata si ricompone poiché, nella stessa Immagine, convivono sia la sorella gemella, sia la ninfa Eco, riflesso aereo di quello acquatico. Eco e Narkissa sono oramai riflessi del riflesso, gioco di specchi in cui Narciso vede, capovolta, la profezia di Tiresia; intuisce la storia della sua prossima sorte: «Narciso si reca dunque alla sorgente segreta, in fondo al bosco. Soltanto là si sente 11af11ralvm1te sdoppiato; tende le braccia, immerge le mani verso l'Immagine, parla alla propria voce. Eco non è una ninfa lontana: vive sul fondo della sorgente. Eco è incessantemente con Narciso. È lui, ha la sua voce ed il suo viso». (lbid.). E infine: Narciso non ama solo la propria figura, ma la sua stessa bellezza, nella quale egli vede riflessa quella del Mondo: "Narciso non dice più: «Mi amo così come sono» ma, «Sono così come mi amo». Esisto con effervescenza, perché mi amo con fervore. Voglio apparire, dovrò pertanto aumentare la mia apparenza. In questo modo la vita si illustra; la vita si copre di Immagini. La vita cresce; trasforma l'essere; la vita si tinge di bianco, la vita fiorisce [... ] . La vita reale si comporta meglio se le si consentono giuste evasioni nell'irrealtà [... ]. Meditando sulla propria Immagine, Narciso medita sul proprio avvenire; il narcisismo determina allora una specie di catrottoma11zia 11af11rale [... ]. Nell'idromanzia sembra dunque che venga attribuita una doppia vista all'acqua tranquilla, perché essa ci rivela la copia di noi stessi". (lbid.). Siamo dw1que di fronte ad un'interpretazione dello sguardo acquoreo di Narciso che potrebbe essere quello di ognuno di noi davanti ad w10 specchio d'acqua cheta e riflettente; una reverie sulla nostra bellezza come parte della bellezza del Mondo: della capacità di partecipare alla bellezza del Mondo con la nostra stessa bellezza. 120

E non è forse questo che, per un attimo, ci attraversa la mente prima dell'istante dionisiaco del salto? Non siamo forse tutti Narciso mentre ci contempliamo nell'acqua che ci aspetta? Quell'acqua che Paul Claudel definisce «lo sguardo della terra, il suo apparato per guardare il tempo»? Il poeta, infatti, ci chiede «di accostarci quanto più possibile a queste acque che abbiamo delegato alla contemplazione di ciò che esiste». Di fronte a queste acque narcisistiche, sembra proprio che «l'occhio proietti della luce, che rischiari da solo le proprie Immagini», conclude Bachelard. Ed allora, in fondo, Narciso è solo un essere che cerca la propria origine, la propria acqua, e che della propria origine essenziale si innamora; come tutti possiamo fare di fronte ad uno specchio di acque riflettenti. Lo sguardo acquoreo che anima dall'interno la visione della materia essenziale, il «richiamo» al quale Narciso risponde col tuffo, non ha forse lo stesso fascino per ognuno? La Madre Ninfa ed il Padre Fiume, non sono forse i Genitori Invisibili di noi tutti? L'occhio dello stagno segreto nel bosco, presso il quale la ninfa Eco viveva, è il nostro stesso occhio contemplativo delle bellezze del Mondo, di noi stessi come Mondo nel Mondo. Cosa rimanda Eco se non il nome segreto delle cose mentre lo sussurriamo nel silenzioso istante che precede il salto? Forse per questo Narciso non è l'unico bel giovane che muore attratto irresistibilmente dal fondo di uno stagno; altri seguono sino all'estremo limite della vita il richiamo delle Ninfe acquatiche. Due di essi, in particolare, Ila e Bormos, entrambi bellissimi ed amati, faranno proprio questa fine, tuffandosi al richiamo delle divinità elementari che, prima degli dèi, popolavano e governavano la vita degli uomm1. Il primo è Ila, scudiero ed amante di Ercole. Il semidio ha rotto un remo durante l'avventura degli Argonauti e dunque parte alla ricerca di un legno che possa fornirgliene uno nuovo: sceglie un enorme abete e lo sradica, poi torna al campo. Guardandosi intorno non vede il suo amato Ila; gli dicono che si è allontanato un paio di ore prima per prendere l'acqua alla fonte di Page. Ercole si inoltra nella foresta ma incontra un compagno, Polifemo, che gli dice: «Ahimè udii Ila invocare aiuto, e corsi là donde ve121

niva la sua voce. Ma quando giunsi alla fonte Pegea non vidi traccia di lotta con animali feroci o altri nemici. Vi era soltanto l'anfora per l'acqua che giaceva al margine della fonte». Ercole è sconvolto: il giovane era stato il suo amante sin dalla morte del padre del ragazzo, Teodamante, re dei Driopi. Ercole e Polifemo continuano le ricerche del ragazzo per tutta la notte, ma invano: la ninfa Driopa e le sue sorelle, che si erano innamorate del ragazzo, lo avevano indotto a seguirle nella loro acqua sotterranea. Stessa fine fa Bormo, figlio di Upio, un giovane mietitore bellissimo anch'egli. Un giorno, mentre cercava acqua per gli altri mietitori, fu attratto dalle Ninfe in un pozzo e scomparve. I contadini della Bitinia celebrano ogni anno la sua scomparsa al tempo del raccolto con lamenti e musica di flauti. (Cfr., Graves, pp. 545-546). Così anche la loro bellezza si è sciolta nell'acqua, specchio delle Ninfe.

Ofelia: la deposiziolle acq1tatica Il tuffo di Ofelia risponde all'Immagine dell'elemento acquoreo che impregna il destino; avvolge il corpo e lo depone nel sarcofago: è l'acqua necrica. Il suo non è il tuffo mortale, come nell'intenzione di Saffo; è piuttosto una «deposizione acquatica» o, per meglio dire, un'autodeposizione: Ofelia si lascia abbracciare dall'acqua della morte e si affida alla sostanza per rimanervi, per permanere, attraverso queste bende liquide, nel Mondo dei Morti egizio, nel quale Osiride offre quest'acqua all'anima del defunto. Qui riappare il pensiero eracliteo che, nel frammento 68 dice: «È morte per le anime diventare acqua». Abbiamo parlato di «deposizione acquatica>> perché, nell'Immagine di Ofelia che si abbandona all'acqua, che si lascia scivolare nella morte acquatica, c'è un richiamo a questo elemento come abbraccio materno: non grembo, ma accoglienza ultima, sudario liquido che circonda amorevolmente il corpo sofferente per gli strali della vita. Ofelia muore per stare in pace, per essere accolta da una natura benigna che la farà riposare in eterno. Co sì come il corpo martoriato del Salvatore viene accolto dalla 122

Madre e deposto dopo essere stato lavato e mondate dal sangue rappreso le ferite, così Ofelia si lascia ripulire dei suoi dolori dall'acqua, lentamente, mentre si abbandona ad essa. Si è adornata di fiori speciali, il loro significato simbolico è ben noto al suo perduto amore Amleto; le vesti pesanti si impregneranno, e l'acqua necrica la trascinerà. giù, verso il fondo, per poi farla risalire, maestosamente, come una ninfea nel suo sarcofago. «Gertrude: "Una disgrazia incalza alle calcagna un'altra, tanto presto si succedono Laerte, tua sorella s'è annegata". Laerte: '. Nel Mazdeismo il «battesimo nelle piscine di Persepoli» serve per incontrare «qui ed ora» la propria Daena, lo spirito guida di ogni essere umano: '~la domanda dell'anima stupefatta, che chiede «ma chi sei?» alla fanciulla che avanza all'ingresso del Ponte Chinvat e la cui bellezza risplende più di ogni altra bellezza mai intravista nel mondo terrestre, essa risponde: «Sono la tua propria Daena» - ciò che vuol dire: io sono Ìll perso/la la fede che hai professato e quella che te l'ha ispirata, quella per cui hai garantito e quella che ti ha guidato, quella che ti ha riconfortato e quella che ora ti giudica, poiché io sono in persona l'Immagine voluta infine da te stesso [... ].Non è nel potere di un essere umano distruggere la propria idea celeste, ma è in suo potere tradirla, separarsene, non avere di fronte a sé, all'ingresso del Ponte Chinvat, che la caricatura abominevole e demoniaca del suo io abbandonato a se stesso". (Cfr., Corbin, pp. 66-67). Chinvat è il nome che porta oglli ponte: ogni passaggio necessario e pericoloso. Il ponte-polltos è una metafora che ci trasporta al di là della nostra isola, per comunicare con l'arcipelago delle altre manifestazioni. Il battesimo, l'immersione in queste acque che abbracciano e, allo stesso tempo, separano le isole, è il gesto simbolico del ricongiungimento attraverso l'elemento che unisce mentre distingue. Il «ponte Chinvat» si attraversa solo se si sa nuotare nel pollfos-mare sul 157

quale esso è arditamente e pericolosamente sospeso. ( Cfr., Cacciari, p.14~.)11 battesimo allora è: «Una cerimonia di purificazione mercé acqua che, eseguita a dovere, consente di vedere l'aquila della Maestà nel caso di un monarca, o la tortora della sapienza nel caso d'un profeta, essendo fine del battesimo la rivelazione dello spirito custode qui ed ora, altrimenti presente solo in punto di morte. Al perverso sembrerà una strega, al giusto una vergine di luce». (Cfr., Zolla 2, p. 148). L'alchimista cerca dunque la produzione dell'Oro dei Filosofi come metafora fisica della sua trasmutazione in individuo consapevole dello spirito guida che lo condurrà all'incontro con gli altri «chi è» della Manifestazione. L'alchimia, scienza tradizionale antica e segreta, resta, in questo senso, una modalità operativa completa e complessa, che attraverso i secoli ha sempre tenuto a bada chi voleva semplicemente trasformare i vili metalli in oro, sviandoli con le formule velate di quel linguaggio iniziatico che solo l'adepto, arrivato ad un grado superiore di evoluzione spirituale, può comprendere. Il «profano», colui che «resta al di fuori dal tempio», cioè dalla conoscenza iniziatica, non riesce a percorrere la strada del testo alchemico, dei suoi rimandi, delle sue apparenti contraddizioni ed aporie, del suo velare mettendo in bella evidenza. In questa Arte, come abbiamo detto, il tuffo, il battesimo, l'immersione dei metalli, rappresenta, nel microcosmo dell'Athanor, del crogiuolo alchemico, lo stesso processo di purificazione che deve subire la psiche dell'adepto per ricongiw1gersi allo Spirito. Troviamo, dw1que, diverse menzioni del «tuffo nell'Oro» nei libri di alchimia operativa. Impossibile dare conto di tutte; ci limitiamo qui ad alcune brevi citazioni tratte dalle illustrazioni delle tavole di Alchimia e Mistica di A. Roob. "I metalli, raffigurati come bambini, vengono «spinti attraverso Saturno». Una volta concluso il processo digestivo [... ] vengono risputati fuori, ravvivati e purificati in un bagno di distillato mercuriale". '½llorché questo Saturno viene battezzato con la sua stessa acqua, il corvo nero fugge". "Le energie creatrici incarnate dal cigno giacciono come paralizzate nelle tenebrose «acque egizie del materialismo»". "Il re caduto in mare strilla a pieni polmoni: a chi mi aiuterà darò una grande ricompensa". "I filosofi sono soliti dire che nel 158

nostro mare devono esserci due pesci". "Della col!}1111ctio si dice: qui l'anima si tuffa verso il basso". (Cfr., Roob, pp. 194-198-214-358-455).

Il tuffo del Re alchemica; Atalanta Fugiens, Michael Maier; 1618

Nelle diverse fasi dell'Opera dunque, il tuffo è centrale. Il contatto tra il corpo del metallo da purificare e l'Acqua Regia, è la metafora operativa del «tuffo catartico» e rigeneratore, propria di ogni lustrazione rituale; da quelle dei Misteri orfico-dionisiaci alla guarigione del cieco dalla nascita operata da Gesù nella piscina. di Siloe: "Poi gli disse: «Va.i, lavati nella piscina di Siloe» (che significa: 'Mandato'); egli dunque vi andò, si lavò e ritornò che ci vedeva". (Cfr., Giovanni 9,1-41). E il «tuffo nell'Oro» come forma di «rigenerazione del vegliardo», altra figura. cara a quella parte della simbologia ermetica che tratta dell'Elisir di lunga vita, viene ancora regolarmente praticato da un 159

personaggio di Wa.lt Disney noto a molti: Paperon de' Paperoni. L'arzillo vegliardo, infatti, si tuffa costantemente nelle Site monete d'oro, riacquistando con questa pratica antichissima il vigore fisico e psichico. Walt Disney era notoriamente un cultore delle arti tradizionali, massone dichiarato che, tra l'altro, si è fatto ibernare al momento della morte, come una mummia moderna avvolta da nuvole di gas criogeno, in attesa del risveglio dal «sonno senza sogni». Disney ha riversato questa sua simbologia in molte delle figure a cartoni animati, basti pensare alla «bella addormentata», o ai «sette nani»: chiari epigoni dei Telchini di Rodi, divinità nane e grandi artefici, come Efesto. In specifico Paperone si inserisce, ovviamente in maniera caricatura.le, proprio nella configurazione mitica della rigenerazione attraverso il contatto col metallo simbolo della purezza spirituale. Il tuffo di Paperone ci dice molto su queste forme odierne di degenerazione e, al contempo, di residualità permanente di antichi miti; il vecchio capita.lista, infatti, ne ha completamente sconvolto l'essenza originaria: la purificazione del corpo e dell'anima; ma ne ha invece mantenuto il significato loghizzato, ridotto cioè a mero gesto di potere e dominio: il tuffo nelle monete d'oro. Abbiamo analizzato altrove questo processo che porta, nel mondo governato dal pensiero bioliberista, alla degenerazione del Simbolo in Logo. Qui vogliamo solo ribadire che permane comunque, all'interno di questi gesti loghizzati, una carica di re-esistenza che possiamo ancora cogliere, se li guardiamo con lo «sguardo dell'anima». (Cfr., Salinari 3, p. 25). In questo caso l'antecedente mitologico è certamente quello legato alla storia di re Mida. Il sovrano di Macedonia era figlio della Grande Dèa Ida e di un satiro di cui però non si conosce il nome. Questa ascendenza gioca un ruolo centra.le nella storia di Mida che ospita nella sua reggia il Satiro Sileno, amico di Dioniso. Il Satiro si è perso, addormentandosi ubriaco nella foresta, mentre il tiaso del dio marciava dalla Tracia verso la Beozia. Viene raccolto dai giardinieri del sovrano che lo inghirlandano e lo portano al cospetto del re, al qua.le racconta splendide storie su di un continente che giace al di là del fiume Oceano, 160

popolato da Giganti ed al quale sbarra. il passo un immenso gorgo. Mida ascolta deliziato il Sileno e lo accoglie alla sua corte per diversi giorni, sinché Dioniso, preoccupato per l'assenza dell'amico, non lo manda a cercare. Grato al re per l'ospitalità concessa al Satiro, il dio esaudisce il desiderio di Mida: «Vorrei che tutto ciò che tocco divenisse oro». Il seguito è noto: Mida rischia di morire di fame e di sete, e chiede dunque a Dioniso di essere liberato dal potere; il dio lo immerge in un fiume e lo guarisce dalla «febbre dell'oro». (Cfr., Gra.ves, p. 254). N elio specifico del tuffo di Paperone, il mito si è rovesciato nel suo contra.rio: egli si tuffa nell'oro continuando così a produrne; vale la pena ricordare, tra l'altro, che nessun altro può tuffarsi in quell'oro senza farsi male. Ma, contemporaneamente, per ristabilire l'equilibrio tra. gli opposti, vediamo come diverse forze agiscano per contrapporsi al vecchiardo spilorcio. In prima battuta, ovviamente, i Bassotti, che rappresentano le forze brute, ancora. involute psichicamente, che vogliono solamente appropriarsi dell'oro materiale per farne lo stesso uso reificato. Ma c'è un'altra. figura., ben più importante, di chiara. ispirazione alchemica: Amelia «la fattucchiera. che ammalia», attivamente assistita da Gennarino, il suo corpo nero (simbolo alchemico della putrefazione, 11igredo). Amelia vuole, non l'oro materiale di Paperone, come la Banda. Bassotti, ma. la. fonte del suo potere: il primo deci110, guadagnato nella. giovinezza. e considerato, a. ragione, come la. scaturigine stessa. della. sua. fortuna. Il primo decù10, la. «Numero Uno», è la. sua. Pietra. Filosofale, quella da. cui ogni altro oro è nato. Amelia. lo vuole fondere nelle viscere del Vesuvio per ricava.me quella. che gli alchimisti chiama.no la. «polvere di proiezione», cioè una. sostanza. in grado di tra.sforma.re il vile metallo in oro. La. polvere di proiezione viene citata. da. Spinoza. (1632-1677) in un suo scritto, nel quale egli testimonia. di aver assistito a. questa trasformazione, come riporta. Helmut Gebelein nel suo I11iziazjoJJe all'Alchimia. (Cfr., p. 30). E dunque Amelia., figura. mediterranea. di donna. dagli occhi e ca.pelli scuri, luciferina. e sensuale nelle sue mise sempre nere ed i tacchi a. spillo, dalle fattezze e dal temperamento diametralmente opposti a quelli nordici di Fa.perone, mira. a.d impadronirsi del decù10 per rista.161

bilire un equilibrio tra potere temporale del capitale e potere spirituale di antiche divinità decadute, in questo caso identificate geograficamente con il golfo di Napoli, l'antica terra delle Sirene che, come abbiamo visto, svelavano al navigante la verità del passato e del futuro. Circe che svela a Ulisse il segreto per udire il canto delle Sirene, il «tuffo trattenuto», non è altro che una delle progenitrici di Amelia che, con il suo «ammaliare», vorrebbe condurre Paperone a dargli il deci110 fatato. Ma il vecchio non è sensibile a questo tipo di fascino, la metis di Amelia non riesce a sconfiggere quella di Paperone, e la «Numero Uno» viene sempre "salvata". Resta così nella sua teca di vetro, nella. sua ampolla, a beneficio della fortuna materiale di Paperone, che non ha nessuna intenzione di condividerla con le antiche divinità mediterranee; esattamente come il Nord ricco e opulento, non ha nessuna intenzione di condividere con il Sud impoverito le sue ricchezze. Questo «tuffo nell'Oro» di Paperone dunque, ci dice molto dei processi degenerativi in cui i vecchi riti ed i miti tradizionali sono caduti, ma 9.tlche della loro inveterata e tenace sopravvivenza e della loro sempre drammatica validità. Amelia vuole ciò che in qualche modo è suo, poiché il primo deci110 di Paperone altro non è che il frutto di una serie di circostanze delle quali il giovane capitalista ha saputo certo approfittare, ma che sono state create sfruttando ricchezze sottratte ad altre genti. E così, come Empedocle si tuffa nell'Etna per ricongiungersi agli elementi sottili dei quali il suo corpo è composto, Amelia «la fattucchiera che ammalia» è, come noi, alla ricerca del Verb11m Dimiss,1m, di quella Parola Perduta che deve essere ritrovata affinché il Vesuvio torni a distillare l'«Oro di Napoli».

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Tuffi metamorfici

Nel s,10 aspetto tal dentro mi fai, q11al si fé Gln11co nelg11star de l'erba che 'Ifé coJJsorlo in mar de li altri dèi Dante

Gl011co: il Vecchio dell'ordalia acq11atica In alcuni ca.si il tuffo è l'agente di una trasformazione metamorfica.: dell'uomo in uomo-pesce. È così nel ca.so di Glauco Antedonio, figlio di Antedone o Poseidone, o semplicemente marina.io della città di Antidone in Beozia, e di Cola.pesce, Nicola-pesce. In entrambi questi casi - uno narrato tra i miti classici, l'altro appartenente a quelli popolari - le favole, i personaggi diventano metà uomini e metà pesci_, dopo il processo di trasformazione che li vede tuffarsi in acqua per completare l'effetto metamorfico iniziato sulla terra. A differenza degli altri miti, come quello di Ino-Leucotea e di suo figlio Palemone che si trasformano totalmente in divinità marine, Glauco e Cola.pesce "confermano", mercé il gesto del tuffo, proprio quella loro natura peculiare. Entrambi, infatti, con modalità loro proprie, tornano ad affacciarsi regolarmente alla superficie delle onde, o a passare del tempo sulla terra, per poi rituffarsi in acqua, come veri e propri delfini semiumani. Nel loro caso il tuffo è l'operatore della trasformazione o, per meglio dire, il suo catalizzatore, essendo il processo iniziato, per Glauco, con l'ingestione di un'erba - Dante dirà che lo rende simile a.gli dèi - e per Cola.pesce da un'invocazione scriteriata della madre «che era un po' strega.>>. Glauco Antedonio un giorno notò la virtù curativa di una certa erba: un pesce morto posato su quell'erba era tornato in vita. L'erba era stata piantata da Kronos nell'età dell'oro: Glauco assaggiò l'erba e sentì l'impulso di gettarsi in mare; divenuto immortale «fissò» nell'elemento acquatico la sua trasformazione. 163

«Ei dunque non credea ch'entro quell'acque ragion avesser le crudeli Parche, e lieto già da l'una a l'altra. sponda, passando l'avo lusinghiero, e l'onda, o ne seguisse il corso, o pur col nuoto obliquo la fendesse, alto il sostenta; e s'a ritroso va, non lo ritarda, ma lo seconda, e seco torna indietro. Non più placido il mar bagna co' flutti dell'Antedonio Glauco il ventre e i fianchi». (Publio Papinio Stazio, La Tebaide, IX vv. 485-490). Glauco diviene sì immortale, ma continua ad invecchiare, segno che le due cose non sono immediata.mente la stessa. E come vecchio canuto e sta.neo si innamora. di Scilla, che però lo respinge perché decrepito. Anche lei sarà vittima di un tuffo metamorfico operato da Circe: Glauco chiede a.Ila maga un filtro per far innamora.re di lui la bella Scilla; Circe cerca di convincerlo a stare con lei. Quando il dio la respinge, la maga si vendica di Scilla tra.sformandola in un mostro che si getterà in mare. Simile sorte, invecchiare in eterno, toccherà a Titono, giova.ne morta.le del qua.le si innamorerà Aurora. La figlia di Iperione e Teia era stata punita da Afrodite, che l'aveva sorpresa nel talamo con Ares, con la condanna a legarsi solo con giovani mortali. Per questo la dèa del mattino chiede a Zeus per il suo giova.ne a.mante l'immortalità, ma dimentica l'eterna giovinezza. Titono invecchierà irrimediabilmente, sinché Aurora non sarà costretta a rinchiuderlo nel suo palazzo, abbandonandolo al suo destino. Pausania (9, 22, 7) dice che in Antidone si poteva visitare il «salto di Glauco», cioè il luogo dal qua.le il marinaio aveva spiccato il tuffo. Per Zolla il trasmutare di Glauco è null'altro che una modalità per riassumere la propria intima natura, una forma di «riassimilazione» finale di ciò che ci è stato alienato: «La finale riassimilazione di ciò che è stato alienato Ua nostra natura universale, JJ.d.a.] è descritta da Dante nel Canto I del Paradiso. Egli contempla Beatrice fino a che Le si assimila: si fa dentro qua.le Lei è, al modo stesso di Glauco, il giova.ne adepto greco che osò il tuffo iniziatico e nel mare diventò pari agli dèi, trasumanando: riassorbendo in sé ciò che da sé aveva alienato, attuando ciò che prima era stato latente e potenzia.le». (Cjr., Zolla 1, p. 109). Il tuffo di Glauco attiva le potenzialità latenti nell'erba, riportando 164

il soggetto alla sua natura acquorea: lo completa. Per altre interpretazioni, Glauco riceve, mercé la pianta divina ed il tuffo rituale, lo «stato di grazia)) che, nelle filosofie mistiche, è lo stadio finale dell'uomo rinnovato. Qui si evidenzia la correlazione tra pianta dell'immortalità e tuffo. Come abbiamo visto il tuffo è un gesto di rinnovamento, di continua rinascita. Nel mito di Glauco esso diventa addirittura l'operatore dell'immortalità, dell'entrata nel regno in cui «non credea ch'entro quell'acque ragion avesser le crudeli Parche». Le fonti mitologiche sono anche concordi nel collegare il salto in mare e questo particolare tipo di immortalità, con l'acquisizione di capacità profetiche molto apprezzate dai naviganti. Glauco, inoltre, amministra. una sorta di «giustizia acquatica», legata all'ordalia, una prova divina che abbiamo incontrato anche nel tuffo di Teseo per ordine di Minosse: «Ma gli dèi del tipo di Nereo, Proteo o Glauco, abitano nel seno degli elementi marini e quindi amministrano una giustizia originale. Per consultare Glauco si monta su una barca e quando il dio profetizza, sorge dalle onde. In effetti queste divinità patrocinano una giustizia del mare, una giustizia di carattere ordalico, che appartiene al più remoto passato delle civiltà mediterranee». (Cfr., Detienne 2, p. 20 {gg-)Le ordalie acquatiche, nella Grecia classica ed arcaica, venivano spesso amministrate attraverso il tuffo in mare da grandi altezze: il «katapontismos»; chi sopravviveva, anche perché raccolto da.i delfini «salvatori dell'innocenza», era senza colpa. Ancora oggi, in occasione della «festa della luce», cioè il primo giorno nel quale anche un occhio non esercitato coglie l'allungamento delle giornate invernali dopo il solstizio, nella Grecia cristiana si celebra un rito che racchiude, sotto la sovrastruttura religiosa, questa antica ordalia. Il ruolo dei delfini «salvatori dell'innocenza» nel «katapontismos», lo troviamo anche nella leggendaria morte di Esiodo, il poeta della Teogo11ia: un oracolo avrebbe predetto all'aedo di tenersi lontano dal «bel bosco di Zeus N emeio», perché lì avrebbe trovato la morte. Avendo riferito il vaticinio a Nemea nel Peloponneso, Esiodo si diresse verso Enoe, nella Locride. Lì fu accusato di aver sedotto la figlia del suo ospite e per questo forse ucciso da.i fratelli della ragazza, presso una località chiamata Nemea. Il suo corpo gettato in mare 165

sarebbe poi stato raccolto dai delfini e portato presso il golfo di Corinto dove approdò durante una festività chiamata Ariadnea, e lì tumulato con onori divini. In molte isole dell'Egeo, la sera del 6 gennaio, una processione di barche si allontana dal porto e, giunta al largo, il pope benedice il mare con una croce che poi getta nelle acque. Immediatamente, in un'atmosfera d'eccitazione dionisiaca, i giovani pescatori si tuffano, con qualunque tempo e temperatura, per recuperare la croce sul fondo scuro. Chi la trova sarà considerato fortunato per la prossima stagione di pesca. Questo tuffo collettivo avviene anche dalle rive, dove le donne ed i bambini attendono il ritorno dei pescatori per festeggiare sino all'alba. L'ordalia acquatica è una forma di giustizia che la Grecia arcaica eredita dalla Mesopotamia, nella quale però il rito veniva amministrato nel fiume; il passaggio geografico sposta il luogo dell'ordalia nel mare. A Sumer, incise su documenti con caratteri cuneiformi, sono chiarrunente riportate le procedure ordaliche a partire dal III millennio: un messaggio indirizzato dal giovane sovrano Carchemish al padre Zimrilim prova che sull'alto Eufrate si amministravano ordalie fluviali simili a quelle descritte nel codice di Hammurabi. In particolare sono descritte le modalità di esecuzione ed i casi di applicazione: in caso di rivendicazione di una terra, veniva ad esempio formata una squadra di due donne e due uomini che si tuffavano nel fiume; chi sopravviveva e toccava l'altra riva era il proprietario. La giustizia in questo caso promana dal dio-fiume. Lo spostamento delFordalia in territorio greco, attraverso l'influenza degli ittiti sugli archeo-micenei a partire dal XIV secolo, muove i rituali verso il mare. Anche tra Teseo e Minosse, sovrano talassocratico che amministrava la giustizia acquatica (Tucidide, Storie I, IV), il conflitto viene risolto da un'ordalia marina: quando Teseo arrivò a Creta, dovette dimostrare di essere figlio di Poseidone; Minosse buttò in mare un anello e gli chiese di ripescarlo: «Senza esitare Teseo si tuffò allora nel mare; un branco di delfini lo scortò fino al palazzo delle Nereidi, dove Teti gli regalò una corona ingioiellata, dono nuziale di Afrodite che più tardi cinse il capo di Arianna; altri dicono che Anfitrite, la 166

dèa del mare, gli consegnò la corona e ordinò alle Nereidi di nuotare tutt'attorno per trovare l'anello. In ogni caso Teseo emerse dal fondo del mare reggendo sia l'anello che la corona», dice Carotenuto. Teseo, uccisore del Minotauro, verrà punito dell'abbandono di Arianna con un "reale" tuffo suicida: la morte del re suo padre Egeo che, vedendolo arrivare ancora con le vele nere, si getterà da una rupe dando il nome all'omonimo mare. «Come il fiume per i sumeri, così il mare per i greci è una forma dell'aldilà; per farne ritorno è necessario l'assenso degli dèi. Una di queste prove del mare mostra ancora più nettamente i tratti dell'ordalia per immersione. Nel IV libro delle Storie, Erodoto narra l'episodio di Phronime, la vergine saggia, calunniata dalla matrigna e consegnata dal padre ad un mercante di nome Themison, il Giustiziere. Giunti in alto mare, l'uomo lega la fanciulla a una corda, la lancia nelle onde e la ripesca viva: il mare ha reso il suo verdetto». (Cjr., Detienne 2, p. 22). Un particolare tipo di ordalia unisce, in un unico complesso mitologico, l'erba dell'immortalità e l'ordalia con l'acqua. Apollodoro ci narra della lotta di Zeus con i Giganti: il sovrano degli dèi deve consolidare il suo potere sconfiggendoli, ma la loro madre Gea cerca di dare ai figli l'immortalità che li renderà invincibili. Zeus riesce comunque a giocare Gea sottraendo ai Giganti l'erba dell'immortalità, la stessa che invece mangeranno gli Olimpici per restare al potere per sempre. Insieme all'ambrosia, che li rende giovani, essi avranno dunque i due pharmako11 necessari allo scopo. In Esiodo, agli effetti di questi due pharmakoi, si oppone l'acqua dello Stige, che viene per questo usata dagli dèi come forma di ordalia: gli Olimpici, in caso di contesa, inviano Iride «messaggera dai piedi veloci» ad attingerla in uno dei rami periferici del fiume Oceano che circonda la terra, e nei quali questa acqua primordiale si genera, per portarla ai contendenti in una brocca d'oro. Essi la versano sulla terra e ne bevono un sorso: il colpevole cade per terra e resta avvinto nel sonno per un anno intero, senza poter dunque accostare alle labbra i divini nutrimenti. (Cfr., Esiodo, v. 780 ~-)·

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Il Roma11zo di Alessa11dro: scacco al re Un simile mitologema, quello dell'erba o della fonte dell'eterna giovinezza, lo ritroviamo anche nel Poema di Gilgamesh e nel Roma11zo di Alessa11dro, una raccolta di racconti leggendari sulla vita di Alessandro Magno, costituitasi ad Alessandria d'Egitto a partire dal secolo successivo alla sua morte. Nel testo, in particolare in alcune versioni greche dello pseudo-Callistene, si narra sia della fonte della giovinezza sia dell'erba. Questo episodio è presente anche nella versione siriaca, ebraica e latina del racconto, nonché in tutte quelle medioevali. Nella versione diffusa in ambito islamico, compagno e guida di Alessandro, Iskandar in dicitura arabo-persiana, è al-Hiqr, Xezr in persiano, che significa «il verdeggiante». Sarà lui ad indicare al sovrano l'ubicazione della Fonte nel Paese delle Tenebre, al quale si arriva dopo aver attraversato un fitto bosco. Il colore verde è attributo dionisiaco per eccellenza: il dio «dai verdi frutti» veniva chiamato in Attica. Lo stesso colore indica, nell'iconografia dell'Opus Magnum, l'inizio del procedimento alchemico, e dunque la rinascita dell'adepto; il bosco simboleggia le difficoltà della conoscenza e la possibilità di perdersi nel cammino iniziatico. Il conquistatore, infatti, si perderà nella «selva oscura» mentre la sua guida, il protagonista «esoterico» di questo episodio del R.omaJJzo, trovata la fonte vi si tufferà, divenendo così immortale, con grande scorno di Alessandro che deve invece rinunciare ai suoi sogni di onnipotenza. Interessante notare come, in alcune versioni più vecchie dello pseudo-Callistene greco, la Fonte viene scoperta per caso: osservando un pesce che si rianima a contatto di un'erba alimentata dalla preziosa acqua, come nel caso di Glauco. Troviamo lo stesso duplice ritrovamento anche in un'omelia siriaca attribuita a Iacopo di Sarug. (Cjr., Casari, p. 225 ~.).

Gilgamesh: 1111 t1tjfo di troppo Il tema del tuffo alla ricerca della pianta dell'eterna giovinezza irrompe nella lettera.tura con il Poema di Gilgamesh, come motivo cen168

trale che giustifica le avventure dell'eroe ed il senso finale del poema. Nella tavoletta VII, infatti, muore il suo amico Enkidu e l'eroe, al comprendere che quello sarà anche il suo destino, decide di intraprendere la ricerca della pianta meravigliosa. Dopo diverse avventure, con la protezione del dio Samas e grazie alle informazioni della maga Siduri, un'equivalente della Circe di Ulisse, Gilgamesh riesce ad attraversare il Mare della Morte, ed arrivare dinanzi a Utnapishtim, unico sopra.vivente del Diluvio ed anche unico uomo immortale, grazie al dono del dio Enlil. Nella tavoletta XI Utnapishtim, finalmente, rivela l'esistenza della pianta e come ottenerla: immergendosi nelle profondità marine, che sono il regno del dio Enki, il signore delle acque. E così farà l'eroe, attaccando si pesi ai piedi e tuffandosi nelle acque profonde, dove lo attende la pianta. Ma la sua esultanza per il successo sarà di breve durata: un serpente, attirato dal profumo della pianta, approfittando di un altro tuffo di Gilgamesh, la mangerà mutando pelle. «Utnapishtim così parlò a Gilgamesh: "Gilgamesh, tu sei venuto stanco e abbattuto, cosa posso darti da portare con te al tuo paese? Ti voglio rivelare, o Gilgamesh, una cosa nascosta, il segreto degli dèi ti voglio manifestare. Vi è una pianta, le cui radici sono simili a un rovo, le cui spine, come quelle di una rosa, pungeranno le tue mani; se raggiungerai tale pianta con le tue mani troverai la vita". Appena Gilgamesh udì ciò, egli aprì un foro, si legò ai piedi grandi pietre, e si immerse nell'Apsu, la dimora di Enki; egli prese la pianta sebbene questa pungesse le sue mani, slegò quindi le grandi pietre che aveva ai piedi, e così il mare lo fece risalire fino alla sponda. Gilgamesh parlò a lui, ad Urshanabi il battelliere: "Urshanabi, questa pianta è la pianta della frenesia; grazie ad essa Puomo ottiene la vita. Voglio portarla ad Uru~ e voglio darla da mangiare ai vecchi e così provare la pianta. Il suo nome sarà: un uomo vecchio si trasforma in uomo nella sua piena virilità. Anch'io voglio mangiare la pianta e così ritornerò giovane". Dopo venti leghe essi fecero uno spuntino; dopo trenta leghe essi si fermarono per la notte; Gilgamesh vide un pozzo le cui acque erano fresche, si tuffò in esse e si lavò; ma un serpente annusò la 169

fragranza. della pianta, si avvicinò silenziosa.mente e prese la pianta; nel momento in cui esso la toccò, perse la sua vecchia. pelle. Gilgamesh quel giorno sedette e pianse, le lacrime scorrevano sulle sue guance. Egli allora parlò ad Urshana.bi il battelliere: "O Ursha.na.bi, per che cosa si sono affatica.te le mie braccia.? Per quale scopo è scorso il sangue nelle mie vene? Non sono stato capa.ce di ottenere alcunché di buono per me stesso!"». (Il poema di Gilgamesh, tavoletta XI, vv. 258-301). Qui, come si vede, il mitologema. viene, per così dire, delocalizza.to direttamente in fondo al ma.re; in altre parole non è il tuffo che completa la trasformazione, ma è il necessario gesto per ottenere la pianta che giace negli a.bissi. Da nota.re che è un altro tuffo, quello del la.va.ero, che toglierà a Gilgamesh la pianta, distraendolo mentre il serpente la mangia: ciò che dà, toglie. La ricerca. della pianta posta in fondo al ma.re e che richiede un tuffo, un'immersione profonda, per ottenerla., è legata. all'Immagine del tesoro della conoscenza. che giace negli a.bissi, accessibile solo al tuffatore coraggioso e virtuoso. La ritroveremo nella fra.se di Ma.yol sull'incontro con le Sirene, fonti di conoscenza., e potremmo trovarla. in diversi altri esempi. Questa Immagine archetipica. è magnificamente condensata in un passo del Libro delle projo1Jdità iJJteriori del poeta Jalal-ud-Dm Rum.I, fondatore dell'Ordine dei Dervisci rotanti, una delle più importanti scuole del misticismo islamico: «Se fosse possibile ottenere la conoscenza. semplicemente apprendendo quel che ha.n detto altri uomini, non sarebbe necessario dedicarsi a tante opere e a tanti sforzi, e nessuno si preoccuperebbe tanto né si sacrificherebbe in questa ricerca.. Un uomo arriva in riva al ma.re e non vede che a.equa salata, pescecani e pesci. Domanda.: "Dov'è questa perla di cui si parla? Probabilmente non esiste nessuna. perla". Com'è possibile ottenere la perla semplicemente contemplando il ma.re? Nemmeno se dovesse svuotare centomila. volte il ma.re con una coppa troverebbe ma.i la perla. Ci vuole un tuffatore per trova.re la perla, e non un nuotatore qualsia.si! Egli deve essere insieme agile e fortunato. Se cerchi perle, sii un tuffatore; devi a.vere molta Virtù (ho11ar); devi mettere la tua corda nelle mani dell'Amico e così pure la tua vita, e senza respirare 170

gettarti a capofitto». La Virtù come condizione per ottenere la «Gloria» la troviamo in un altro tuffo trasmutante che però, proprio per la malvagità del protagonista, è destinato a fallire: «Kay Khusraw, l'Amleto ira.nico, fu perseguitato da uno zio assassino, fondò un'Età dell'Oro e poi si allontanò malinconicamente verso il Grande Aldilà. Afrasiyab, lo zio malvagio, durante i suoi disperati tentativi di impadronirsi della sacra legittimità, la «Gloria», si era trasformato in una creatura delle acque profonde e si era tuffato nel magico Lago Vourukasa in cerca di essa. Per tre volte si tuffò, ma ogni volta «la Gloria sfuggì, questa Gloria se ne andò»; a ogni tentativo la Gloria sfuggiva attraverso uno sbocco che immetteva in un fiume che scorreva verso l'Aldilà. Il primo di questi sbocchi si chiamava Haosravah, l'originale nome in avestico di Kay Khusraw». (Cfr., de Sa.ntilla.na, p. 241).

Colapesce: il fltjfo a11archico Diversa ancora è la storia di Cola.pesce: il bambino-pesce che si trasforma progressivamente con il suo continuo stare nel mare. In questa leggenda popolare siciliana è la madre che, esasperata dalle continue permanenze del figlio nell'acqua, invoca su di lui la trasformazione: «Cola, Cola! Se tanto ti piace il mare, nel mare devi restare ed un pesce devi diventare! E si allontanò, tutta corrucciata, nel suo vestito nero. I ragazzini rimasero per un momento silenziosi, ma quando la madre di Cola fu abbastanza lontana uno di loro disse: "Cola.pesce!" e gli altri ripeterono ridendo: "Cola.pesce!, Cola.pesce!:>}». Dopo qualche anno, transita per lo stretto la nave del Re di Messina, che è scappato vigliaccamente dalla città terremotata insieme alla sua corte. I marinai della nave, passando per il braccio di mare, si raccontano di Cola.pesce, e la storia arriva sino alle orecchie incredule del sovra.no. Alle sue perplessità sull'esistenza di un essere metà uomo metà pesce, gli viene narrata la leggenda che racconta.no i pescatori: «Dice che era un ragazzino come tutti gli altri, ma gli piaceva starsene a mare dalla mattina alla sera. Un giorno la madre, che era un po' strega, gli aveva gridato: «Pesce devi diventare!» E, pia.no piano, Cola cominciò a sentirsi un pesce ... A furia di nuotare le mani 171

ed i piedi gli erano diventati più larghi, quasi fossero delle pinne, e tra le dita gli spuntava una leggera membrana; la sua pelle era tutta coperta di sale e di scaglie. . . La sera, quando le acque del mare diventavano buie, lui approdava su qualche spiaggetta ... a volte dormiva sdraiato sull'acqua. Incontrava spesso banchi di delfmi, era bravissimo a cavalcarli». Qui vale la pena richiamare il ruolo mitologico giocato dai delfmi, animali posti sotto il segno di Dioniso e delle ordalie marine. Come abbiamo ricordato, se chi vi si sottoponeva veniva aiutato dai delfmi, «sa11ve11rs de l'ùmoceJJce>>, era senza colpa: come Cola. Colapesce, infatti, sfugge alle richieste truffaldine del sovrano, che lo vuole ingaggiare per prendere in giro il suo popolo facendo credere che è fuggito dalla città per esplorare gli abissi sotto l'isola e trovare così la soluzione defmitiva ai sismi. Con l'aiuto di una vecchia e saggia tartaruga, Cola.pesce nuota nelle profondità, lontano dagli uomini e dai Re; oramai è totalmente immerso nello sconfmato elemento acquatico. Colapesce continua dunque a trasformarsi lentamente, nella misura in cui si inabissa nel mondo marino; i pesci e le altre creature gli fanno da scuola, gli mostrano il loro mondo che diviene, poco a poco, anche il suo. La trasformazione defmitiva, irreversibile, avverrà quando, dopo l'incontro con il Re infido e crudele, Colapesce capisce la sua estraneità essenziale al mondo degli uomini e decide di seguire la tartaruga nella libertà senza confini del Grande Blu. Questa storia, che abbiamo ripreso nella versione cli Raffaele La Capria, narra la storia della libertà e della saggezza che sono legate alla vita naturale, all'immersione in un mondo fatto di :relazioni semplici e dirette dove un ragazzino, ingenuo ma coraggioso e intimamente libero come Cola, può trovare il suo ambiente naturale; può, come dice Zolla, «riassimilarsi» a ciò da cui è stato alienato.

Africo e Mensola: le acq11e iJJnamorate Boccaccio, nel suo Nùifale FiesolaJJo, narra dell'incontro tra un mortale ed una Ninfa e della loro rispettiva trasformazione in acque, attraverso due immersioni trasmutatrici. Il protagonista maschile è 172

nn giovanetto di nome Africo che si innamora di nna ninfa del seguito di Diana, Mensola: «Qui tien Diana consiglio alla. fonte; Africo vede innamorarsi d'una di quelle Ninfe che poi sale il monte». (17). La Ninfa è bella e giovane, come il suo spasimante: «Avea la Ninfa forse quindici anni: biondi com'oro e grandi i suoi capelli, e di candido lin portava i panni». (30). Africo capisce che senza l'aiuto divino non potrà avvicinare nna Ninfa al seguito della. terribile Diana, che pretende dalle sue adepte la verginità assoluta e nessun contatto con gli uomini. Tanto è però il suo desiderio amoroso, che Venere lo visita in sogno e gli promette aiuto, avvertendolo però del sacrificio cui il suo amore condurrà: «E i' ti prometto di darti il mio aiuto, al qual ninno può far mai resistenza». (46). Africo dnnque, dimentico del presagio di Venere, ne segue i consigli, e si accoppia con la Ninfa nelle acque di nn laghetto. Mensola resta incinta e si nasconde alla vista dell'amato e di Diana; Africo, credendola perduta, si suicida: «E detto questo, Mensola chiamando, il ferro tutto nel petto si mise, il qual, al cor tostamente passando del giovinetto, con doglia l'uccise; per che, morto nell'acqua allor cascando, l'anima da quel corpo si divise, e l'acqua che correa per la gran fossa, del sangue tinta, venne tutta rossa». (361). Il corpo:, allora, viene trasformato da Venere nel fiume che porta il suo nome: anche se l'amore per la Ninfa gli è stato fatale, la sua forma immortale sarà l'acqua. Mensola farà la stessa fine, trasformata in acqua. mentre entra nel fiume per sfuggire alla vendetta di Diana: «La sventurata era già a mezzo l'acque, quand'ella i piè venir men si sentia, e quivi, sì come a Diana piacque, Mensola in acqua allor si convertia; e sempre poi in quel fiume si giacque il nome suo, ed ancor tuttavia per lei quel fiume è Mensola chiamato». (413). E cos~ come aveva promesso Venere, i due amanti sono riconginnti per sempre nelle acque dell'Arno, nel quale si tuffa.no i loro rispettivi fiumi ...

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Nel Grande Blu

A sea cha11ge into somethùig rich a11d stra,ige. What potio11s have I dm11k of Syre11 tears? W Shakespeare

«Il candidato digiuno era tramortito dalle danze, dalle bevute di succo di tabacco e caduto così in delirio, visitava gli spiriti dell'acqua tentando di ascoltarne e carpirne i canti. Voleva rivivere la vicenda del protosciama.no caribe, il quale così attentamente tese l'orecchio ai fruscii e chioccolii e gorgheggi delle acque, che non resistette a quei richiami: dovette tuffarsi. Stette senza respirare sott'acqua finché ebbe strappato alle Ninfe le loro canzoni. Per comprendere questa attrazione delle acque occorre ambientarsi nella men te sciamanica che si allena ad operare secondo una logica simmetrica ed entro una cosmologia rovesciata: capovolge quindi le sequele empiriche e le fa scorrere all'inverso, dall'effetto alla causa, sinché vede il corpo come creato dall'anima, l'incarnazione come frutto dell'idea pura, la corda vibrante come creatura della musica che ne sorge. Tutti i processi della natura appaiono allora come effetti del canto che se ne leva, lo stormire della chioma di w1 albero è ciò che plasmò i sali della terra in tessuti vegetali e li fece crescere secondo i ritmi di quella specie botanica. La musica della rotazione nell'orbita assegnata è l'anima che crea il corpo concreto di un astro. Un uomo si sentirà innanzitutto come un intreccio di pulsazioni, come melodia poliritmica [... ]. Ascolta le acque vive e sorgive, lo sciama.no, perché tutto è acqua che scorre [... ]. Così lo sciama.no si pone sotto una cascata e vi resta sinché non abbia imparato a distinguere nitidamente nel fragore una triplice corda, la fusione d'un murmure, d'w1 ruggito scrosciante [... ].Cade quindi in deliquio e si fa possedere dallo spirito di un giaguaro. Come un giaguaro attraversa un mare in fiamme, raggiunge un fiume e si tuffa. Sott'acqua se174

duce le ninfe, emergendo capace ormai di cogliere l'ordito e la trama musicali della realtà [... ].Viene il momento in cui quel metronomico vorticare diventa un risucchio verso l'alto, nell'imbuto dei cieli, nel mondo alla rovescia dove lo aspetta Lei, la Signora delle acque». (Cfr., Zolla 1, p. 66 ~.). «Sai cosa bisogna fare per vivere nel mondo delle sirene? Devi scendere in fondo al mare, molto lontano, così lontano che il blu non esiste più, laddove il cielo non è che un ricordo. E quando sei là, nel silenzio, ti fermi, e se decidi che vuoi morire per loro e restare per l'eternità, allora le sirene vengono verso di te, a giudica.re l'amore che gli offri. Se è sincero, se è puro, allora ti accoglieranno per sempre». (Video: Il Grande B/Jt, ]aq11es Mayo~. Anche Lighea, la sirena che vivrà un'indimenticabile storia d'amore con il protagonista dell'omonimo racconto di Tornasi di Lampedusa., lo invita a riposarsi nel suo regno: «Tu sei bello e giovane; dovresti seguirmi a.desso nel ma.re e scamperesti ai dolori, alla. vecchiaia.; verresti nella mia. dimora, sotto gli altissimi monti di acque immote e oscure, dove tutto è silenziosa. quiete tanto connaturata. che chi la. possiede non la. avverte neppure. Io ti ho amato e, ricordalo, quando sarai stanco, quando non ne potrai proprio più, non avrai che da. sporgerti sul mare e chiamarmi. Io sarò sempre 1~ perché sono ovunque, e la. tua. sete di sonno sarà saziata)). E così farà il giovane uomo, divenuto oramai vecchio: si tufferà da. una. nave e raggiungerà il suo unico amore. Si accontenterà invece solo del ringraziamento della. sua. amante marina., il giovin signore cinese de La Sire11a di Jun'ichiro Taniza.ki che, dopo le suppliche rivoltegli dall'essere proteiforme, ora donna sensuale ora. serpentello guizzante, ingabbiata. in un freddo a.equa.rio, si deciderà a. lasciarla. libera nelle calde a.eque che condurranno la Sirena. verso il suo amato Mediterraneo. «Come suggeritogli da.Ila. Sirena. [... ] la.sciato il porto di Singapore, mentre la. nave taglia.va. l'equatore si avvicinò al bordo della. tolda. deserta rischia.rata dal chiarore della. luna.. In gran segreto tirò fuori un barattolo di vetro in cui era. rinchiuso il serpentello di ma.re e lo prese con la. punta. delle dita. Questi si avvolse due o tre volte attorno al polso del giovane quasi dispiaciuto di andarsene, ma. subito dopo se 175

ne staccò. Scivolando in mare, lasciò un solco sulle calme increspature dorate che spezzavano i raggi lunari. Ondeggiò facendo balenare le sottili squame, poi la sua ombra sparì tra i flutti. Dopo qualche minuto, all'orizzonte del mare immenso e sconfinato, una creatura si agitò con un tonfo, spruzzando gocce d'argento come un pesce volante sulla superficie dove l'acqua aveva più riflessi ed era più abbagliante. Un attimo: il giovin signore fece appena in tempo a volgere il capo. Sorpreso da un'apparizione magica e luminosa come se la luna fosse caduta in mare, ecco che la Sirena già. si immergeva a metà. nelle onde spumeggianti. Le mani rivolte verso l'alto emise wi'esclamazione e si inabissò in un vortice». Nella fisiologia umana trattenere consapevolmente e per lungo tempo il respiro, è quanto di più lontano dalla quotidianità. fisiologica si possa immaginare; ma, ancora più potente, invincibile, è la forza che ci spinge a tornare a respirare: nessuno, in nessun modo, può suicidarsi trattenendo il respiro; nemmeno i più potenti degli yogin c1 nescono. Eppure, per conoscere l'essenza del Pra11a, il soffio vitale presente nell'aria che respiriamo e che circola come elemento sottile, come Quintessenza, all'interno di tutte le cose, il respiro deve essere regolato anche trattenendolo per lungo tempo. Un possibile strumento di questa pratica meditativa, è la sostituzione di un ossigeno aereo con uno che non si può respirare: quello disciolto nell'acqua. L'apnea profonda, quella che porta l'uomo nel Grande Blu, è allora molto più di una semplice disciplina sportiva: è la versione contemporanea della ricerca dell'«amante invisibile», del suo abbraccio nell'Oceano. La morte sorveglia dappresso queste pratiche; sa bene che ogni immersione può trasformarsi nell'ultimo tuffo, esito di un incontro con le forme che vivono nelle acque profonde o negli stagni impregnati dalla luce della luna piena: le Sirene, le Naia.di, Melusma. Ulisse, l'eroe astuto e desideroso di conoscenza, che eseguirà. su consiglio di Circe il «tuffo trattenuto», ascolterà. così la versione «emersa.>> del segreto delle Sirene, poiché evita di seguirle nel loro regno; altri invece accetteranno la sfida e si immergeranno per essere baciati da loro. 176

L'anossia controllata, diaframma sottile e sempre fragile che separa dall'annegamento o dalla sincope, diventa allora l'atto consapevole di una ricerca nella quale l'incontro con l'Immagine fatale non può avvenire che in presenza della morte, condizione finale dell'assoluto. Jacques Mayol, il primo a scendere sotto i 100 metri, sosteneva di non poter morire nel suo elemento, l'acqua, dove aveva già lasciato la sua anima immortale. Quando ha deciso di lasciare il suo corpo, si è tolto la vita impicca.ndosi: solo quel gesto era accettabile per il grande apneista, proprio come per Empedocle, mistico per il quale l'acqua era l'elemento dell'Amore, la fine non poteva che essere tra le fiamme dell'Etna. Mayol ha sempre cercato di superare i limiti imposti dallo stato umano alla. frequentazione del Grande Blu; l'uomo che si sentiva più affine ai delfini che agli altri mammiferi della sua razza - la radice defph richiama infatti la presenza dell'utero - ha coltivato il respiro come un fiore splendente che illumina la mente al momento dell'immersione verso le profondità abissali. Ogni apneista conosce questa sensazione di pienezza, di beatitudine, che potrebbe però mutarsi rapidamente in panico, lasciando il posto ad una «fame di aria» che non può essere soddisfatta. Nelle lunghe apnee, quelle che toccano gli otto minuti, quando ciò che sostiene non è solo l'aria nei polmoni, ma il vero e proprio Pra11a, l'energia vitale dell'aria che sciama lungo il corpo per sostenere la mente, è l'anima che respira; tutta la vita è ridotta e concentrata verso un punto invisibile che si rispecchia nel colore assoluto ed inesprimibile delle acque. Immerso in un acquoreo Ya11tra, l'apneista profondo cerca il bù1d11, la «goccia»:, il punto da cui emana, e nel quale ritorna, tutta la Realtà; il Grande Centro in cui si annulla.no serenamente le polarità e si apre il sipario della maya, oltre il quale il tuffatore trova, seppure per un solo momento, «la verità, la realtà esoterica della natura sia dell'universo sia del suo stesso essere». Lo YaJJtra è un disegno, talvolta un'Immagine mentale, nella quale il Sé viene identificato con i suoi contenuti, che lenta.mente cambiano seguendo la meditazione del soggetto. «Possiamo dire dunque 177

che lo Ya11tra è uno strumento che serve a controllare le forze psichiche concentrandole su un motivo geometrico». La sua etimologia deriva da,lla rndice sanscrita. yam- che significa «piegare, sottomettere, controllare_, in rutre parole ottenere il controllo dell'energia insita in un elemento o in un essere». Al centro dello Ya11tra si trova il bù1d11. Il bù1d11, la «goccia», è «fa prima goccia che cresce e si sviluppa, si espande e si tra.muta, nel segno tangibile della nostra coscienza dell'universo». Il silenzio del mare abissrue, il cuore che pulsa immerso nella materia stessa della creazione, il fragile equilibrio tra ossigeno ed anidride carbonica, sono gli elementi di una meditazione tra le più profonde: legano con un filo sottile la vita materiale all'immateriale dell'apneista. (Cjr., Zimmer, pp. 129-133). «Da O a 100 metri e poi ancora più giù, a precipizio negli abissi: le pulsazioni rallentano, il corpo svanisce, ogni sensazione galleggia dentro nuove forme. Resta, soltanto l'anima. Un lungo tuffo nell'anima che sembra assorbire l'universo. Ogni volta risalire è una scelta: sono io che torno a riappropriarmi della mia dimensione umana, metro dopo metro, per venire di nuovo alla luce. Spesso mi chiedono che cosa c'è da vedere laggiù. Forse l'unica risposta, possibile è che non si scende in apnea per vedere, ma per guardarsi dentro: negli abissi cerco il mio io. È un'esperienza mistica, ai confini col divino. Sono immensa.mente solo con me stesso, ma è come se mi portassi dentro tutta l'essenza dell'umanità. È il mio essere umano che supera il limite, che si cerca fondendosi col mare, che si immerge in se stesso e si ritrova», dice l'apneista. profondo Umberto Pelizzari. Una meditazione in assenza di gravità, senza quel peso che è: «Il peccato originrue; la redenzione arriverà quando torneremo all'oceano», sostiene Jaques Cousteau. Gli abissi acquatici «risuonano», nel nostro inconscio, come sedi dell'insondabile mistero della Vita: «L'acqua profonda ha ben presto un'rutra tonruità psicologica: essa è, senz'rutro, la prima Immagine della profondità pericolosa, la grande e semplice Immagine dell'abisso. Indubbiamente la terra possiede crepe e scogliere, ma tali abissi ci sembra di poterli esplorare, misurare; gli abissi della terra hanno una geometria, gli abissi dell'acqua sono più diretti e più semplici: offrono immediata.men te l'insondabile. 178

L'acqua è allora un mistero e una vertigine: attira e spaventa».

(Cjr., Bachelard 3, p. 18). L'uomo che si immerge non sfida solo la profondità, la pressione dell'acqua, l'anossia, la paura della morte, l'abisso: l'apneista «vuole diventare il mare, sciogliersi in esso», cercare un luogo efficace per la sua meditazione assoluta nell'elemento creatore, nell'«eterna discesa» come la chiama Mayol, dove il sottile diaframma che lo separa dall'ignoto diventa tanto trasparente da far intravedere, per un momento glorioso, l'essenza di cui è fatta quella splendida avventura che è la vita. «Se l'Immaginazione non si arresta, il sognatore arriverà a vedere la misteriosa, pericolosa ondina». Certe figure mitologiche, certe «chimere», non si manifestano che in questi casi estremi; chi le cerca sa che, per incontrarle, deve arrivare sino in fondo alla loro strada. Enzo Maiorca, altro grande apneista, l'uomo che per primo infranse il muro dei 50 metri, diceva: «Il primo respiro che fai quando riemergi dal fondo del mare è come il primo respiro che hai fatto quando esci dal ventre di tua madre». Il tuffo nel profondo, dunque, ha una duplice natura: è un'immersione nell'essenza stessa della Madre Materia, ed una rinascita nella forma determinata del nostro bìos. Nulla come questo respiro, che ridona la dimensione umana, ha il potere di rammentarci la nostra origine, ed il debito che abbiamo con chi ci ha messi al mondo: non solo la persona ma il Principio. Questo è possibile solo se proviamo rispetto per le acque nelle quali ci immergiamo, se abbiamo la volontà e l'umiltà di dive11tare mare: «È così che devi concepire il tuo avvicinamento al mare; il mare non è un territorio ostile, da conquistare, un confine da varcare. Il mare è un elemento amico», consiglia Mayol a Umberto Pelizza.ri, il primo uomo a scendere sotto il limite dei 150 metri. Il «diventare mare», lo sciogliersi nel Grande Blu, è l'ambizione di tutti i tuffatori del profondo. Un vecchio pescatore delle Maldive istruisce Pelizzari: «Ricordati che si può andare sotf'acqua in due modi. Così dicendo tira fuori un pezzo di corallo e lo getta in acqua; poi da una noce di cocco fa colare in acqua il liquido biancastro. Vedi, continua., corallo e succo adesso sono insieme nell'acqua; però 179

il corallo resta corallo, mentre il latte di cocco è mare: quando vai sott'acqua non devi fare come il corallo, ma come il latte di cocco. Quando ti immergi in mare ogni componente del tuo corpo deve diventare tutt'uno con l'acqua». (Cfr., Pelizzari, p. 40). Mammiferi, come noi, grandi apneisti e tuffatori, sono i delfini. Animali mitologici, accompagnano l'uomo nel mare dall'inizio dei tempi. «I delfini non hanno dimenticato che sono stati uomini e nella loro anima ne custodiscono il ricordo», diceva nel suo trattato sulla pesca Oppiano di Anazarbo. Dai delfini possiamo imparare a guardare il mondo dei mammiferi da un'altra prospettiva: quella di chi ha imparato a vivere in equilibrio con un ambiente complementare. Il delfino deve respirare aria, eppure il suo adattamento al mare è perfetto: si tuffa per immergersi e scende in apnea, poi riemerge e respira, esattamente come gli altri mammiferi. Le grandi balene possono immergersi sino a mille metri. La complementarietà. tra uomini e mammiferi acquatici è totale e, come in ogni gioco di polarità, la nostra fisiologia ha molto da imparare da quella dei delfini: «La vita che è nata dal mare, non ha potuto fare il suo cammino sulla terra se non nel momento in cui le forze dell'evoluzione sono finalmente riuscite a creare un organismo capace di portare con sé un lembo di oceano». Noi siamo quella evoluzione, noi portiamo dentro di noi il mare; e cos~ quando ci immergiamo nel suo profondo, restituiamo noi stessi a noi stessi. Anche nna particolare categoria di artisti pratica il tuffo con conseguente apnea: il grande Houdini, per citare solo il più famoso tra questi, si tuffava spesso. Restano leggendarie le sue immersioni nei fiumi, ammanettato ed incatenato, o chiuso in casse assicurate da lucchetti multipli o, ancora, l'immersione nella famosa vasca colma d'acqua, detta «water torture cell», completamente inchiavardata, le caviglie imprigionate, nella quale egli restava in apnea per più di tre minuti prima di stupire il pubblico con la fuoriuscita. Mio nonno, che aveva assistito ad nna di queste prove, ricordava una sentenza di Houdini: «La capacità. di governare il respiro, e l'arte dell'evasione, mi permetteranno un giorno di tornare dall'aldilà».

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H oudini si tuffa incatenato, 1900 circa

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Tuffi attraverso lo specchio

Fi11giamo di poterci e11trate, Fmfnì. FiJJgiamo che lo specchio sia morbido come 1111 velo e che si possa attraversare. Tò, adesso sta diventando come 11110 specie di nebbia... Entrarci è la cosa pi1Ì facile del mondo. Alice

Il vetro è un «fluido ad alta densità»; la sua naturn. essenziale è dunque quella di un liquido. Anche il nostro tempo è un fluido, come lo specchio che ci riflette: guardandoci allo specchio vediamo il flusso del tempo che passa; e questo non sarebbe possibile se lo specchio non fluisse lui stesso. Lo specchio è eracliteo e dionisiaco; eracliteo perché in esso si riflette il tutto che scorre: non ci si può specchiare due volte nello stesso specchio poiché la figura che ci rimanda è sempre diversa; dionisiaco, poiché riflette l'eterno ciclo della nascita, dell'evoluzione e della morte. Dioniso~ abbiamo visto nel frammento orfico, «crea il Mondo guardandosi allo specchio». Questo è possibile poiché il riflesso del dio esprime il suo principio liquido, acquoreo; in altri termini, perché Dioniso crea il mondo attraverso la determinante essenziale dello specchio: l'Immagine del Mondo non sarebbe se essa non fluisse, come il tempo, come la Vita stessa, come Dioniso. La natura dello specchio è fisicamente discontinua: esso non è omogeneo in tutte le sue parti; questo significa che le linee di rottura, o di attraversamento, di uno specchio, sono sempre diverse, specifiche, strettamente correlate a chi lo attraversa o frantuma. Non c'è un solo modo di frantumare o attraversare lo specchio: ad ognuno il suo poros, il suo passaggio attraverso la densa fluidità del riflesso. E questo, come vedremo, si collega strettamente alla natura dell'attraversatore o del frantumatore: il poros dell'attraversamento o della rottura, trasmuta non solo la forma o la densità dello specchio, la sua composizione fisica, ma anche quella dell'attraversa182

tore; come in un processo alchemico, la materia operata influenza l'operatore e viceversa. Questo significa che ogni attraversamento porta in un universo differente, a seconda dell'i11te11to di chi lo compie. A volte è solo l'anima che entra nello specchio; il corpo rimane nella rima tra i due mondi; ed è questo sdoppiamento, il temporaneo distacco, che consente, eventualmente, di tornare indietro. In altre occasioni è l'essere tutto, anima e corpo, che attraversa: allora è anche il corpo materiale che deve mutare la sua natura. Ciò che si trova dall'altra parte, è sempre ammirato: «stupore infantile»; questo spiega il naturale onirismo dell'attraversamento, del «tuffo nello specchio»: l'anima incontra se stessa; il mondo degli specchi è il suo Doppio. Se il corpo segue l'anima non si torna indietro: si rimane dall'altra parte senza accorgersene; come se fosse semplicemente vivere dentro una realtà. speculare della quale non ricordiamo più il senso originario. Quante volte abbiamo attraversato uno specchio e non lo ricordiamo? Da dove siamo partiti, dov'è finita la nostra persona originaria? Lo specchio che si attraversa, nel quale ci si tuffa per ritrovarsi dall'altra parte o, semplicemente, ritrovarsi, non è allora lo specchio che si "riflette" nel verso di Mallarmé: «Oh specchio, fredda acqua della noia nel tuo riquadro gelato ... ». La soglia speculare dell'attraversamento identifica piuttosto lo SpeC11h1m mqj11s di Vincent de Beauvais, morto nel 1264 che, nell'omonima enciclopedica opera, dispone il Mondo come in un teatro catrottico in cui tutto si specchia nel proprio riflesso; come dio si specchia nell'uomo, secondo la famosa frase di Maestro Eckart: «L'occhio con cui io vedo Dio è il medesimo occhio con cui Dio vede me; il mio occhio e quello di Dio sono lo stesso occhio, lo stesso vedere e riconoscere e amare». Nei versi del mistico medioevale troviamo tutte le componenti Immaginali dello SpeC11h1m mqj11s, quello che attraverseranno Alice, Lord Patchougue, Orfeo ed il Poeta di Cocteau. Vincent de Beauvais indicava con questo termine la perfetta visio11e, esatta e completa, identificata dalla parola «speculum», specchio appunto. E allora questo specchio non solo si lascia attraversare, ma si fa attraversare, affascina mutando, al contempo, la propria natura e 183

quella dell'attraversatore; così come lo sguardo del dio di Maestro Eckart muta il suo stesso vedere e, contemporaneamente, il vedere di chi lo guarda. Lo SpeC11!11m, dunque, è il rispecchiameJJto, la forma della riflessione che, partendo dal sé, apre al Mondo: apre il Mondo. E questo specchio muta consistenza a seconda di chi lo attraversa, mutando al contempo le percezioni dell'attraversatore. Potremmo ipotizzare che, se il Poeta di Cocteau avesse attraversato lo specchio sul caminetto di Alice, avrebbe assunto la prospettiva della bambina, e viceversa. Lo specchio che si fa attraversare muta la sua struttura proprio perché trasmuta quella del corpo che lo attraversa. E non potrebbe essere che così, data la natura acquorea di questo attraversamento, di questo «tuffo speculare» incontro al proprio Doppio: «Lo specchio è anche simbolo di conoscenza, perché guardandomi allo specchio io mi riconosco. E lo è pure in un senso più raffinato, perché tutto il conoscere è portare il Mondo dentro uno specchio, ridurlo ad un riflesso che io possiedo. E ora ecco la folgorazione dell'Immagine orfica: Dioniso si guarda allo specchio e vede il Mondo! Il tema dell'inganno e della conoscenza sono congiunti, ma solo così vengono risolti. Il dio è attratto dallo specchio, da questo giocattolo dove si mostrano Immagini sconosciute e variopinte [... ]. Specchiarsi, manifestarsi, esprimersi: nient'altro è il conoscere». (Cjr., Colli 1, I pp. 42-43). Anche il tempo del «tuffo nello specchio» è tutt'uno con il gesto dell'attraversamento: in q,1esto istante preciso, in questo kairos, ci si ritrova di fronte a q11esto SpeC11'11m. Il passaggio, allora, non potrebbe avvenire che in «questo» preciso momento; dove il tempo cairologico diventa il passaggio e la soglia, come lo specchio stesso che «ora» trasmuta la sua natura e quella del Sito tuffatore: si fa attraversare. L'acqua dello Stige, mortale a chi ci cadeva dentro, era ritenuta per un solo giorno all'anno quella che invece donava l'immortalità. a chi vi si immergeva ... Lo specchio di Alice evapora «come una nebbiolina», come la fantasia delle conturbanti Ninfe; quello di Lord Patchougue, invece, va in pezzi ma ferisce solo simbolicamente il 184

suo attraversatore. Per il Poeta si trasforma in un'acqua mercuriale, mentre Orfeo viene accompagnato attraverso uno specchio che si liquefa al tocco dei guanti: ad ognuno il suo specchio, ad ognuno il suo tuffo. Il «tuffo nello specchio» di Alice è: «Alice stava sulla mensola del caminetto mentre diceva cost sebbene non sapesse spiegarsi come fosse arrivata lassù. E certo il cristallo cominciava a svanire, come una nebbia lucente. L'istante dopo Alice attraversava lo specchio e saltava agilmente nella stanza di dietro. La prima cosa che fece fu di guardare se ci fosse il fuoco nel caminetto, e fu tanto contenta di ve-

dere che ce n'era uno vero, pieno di fiamme vive, come quello che aveva lasciato nel salotto». (Video: Alice attraverso lo specchio). Anche per Topolino l'attraversamento sarà fonte di meraviglia e divertimento: dopo aver letto il racconto di Alice, si addormenta ed il suo Ka, il suo Corpo di Sogno come lo definivano gli antichi egizi, attraversa lo specchio ritrovandosi in un mondo di oggetti parlanti con i quali, ad un certo punto, ballerà il tip-tap come Fred Asta.ire. (Video: TopoliJJo attraverso lo specchio). L'onirismo legato all'attraversamento dello specchio è connaturato dunque all'essenza stessa del Ka, che è fatto di due cose: «Da una parte, lo stato di sogno, che prosegue dopo che lo stato di veglia è svanito nella morte; dall'altra, della riflessione, del rapporto con se stessa della vita di veglia, che si estrapola dalla nostra vita fisica e acquista una indipendenza ideale». (Cfr., Fallot, p. 39). Ma lo specchio può essere attraversato anche come decide di fare Lord Patchougue nel racconto del dandy dadaista Jacques Rigaut: «È seduto a un tavolino, concentrato su un gioco di pazienza. Esiste? È fra due carte, poi è nel passaggio da una carta a un'altra: è in quell'istante a cui è ridotto l'universo - nove di cuori su dieci di fiori - ... Fatto. Lord Patchogue risolleva il capo, l'universo si rianima. Le comparse, da un lato all'altro della stanza, fanno un gran baccano. Sul muro di fronte, in una grande specchiera, Lord Patchogue scorge la sua figura: ''Vi riconosco. Non vi ho scambiato né per uno struzzo né per un riverbero, né per il mio amico Charles. Siete la figura di Lord Patchouge, se non addirittura Lord Patchouge in per185

sona. Ah! Chi di noi due ha fatto la pnma mossa? Chi segue l'altro?". Lord Patchouge si è alzato. In piedi si esamina davanti allo specchio: cinque sensi non bastano ai suoi vicini occasionali; ancora una volta perderanno lo spettacolo, totalmente impreparati come sono a percepire la prossimità di un mistero o pensare alla morte. Lord Patchouge e la sua figura si fanno lentamente incontro l'una all'altra. Si studiano in silenzio, si fermano, s'inchinano. Da quale vertigine è stato colto Lord Patchouge. Fu breve, facile e magico: Lord Patchouge si è lanciato a testa bassa. Lo specchio all'urto, al trapasso, vola in pezzi, ma in quanto a lui eccolo dall'altra parte. Sono tutti in piedi. Il meraviglioso non è raro, l'incredulità è più forte dei miracoli. I miracoli fanno fatica a reclutare testimoni, tanto è esiguo il numero di coloro disposti a dare la propria. adesione al soprannaturale. Lord Patchouge per primo non era poi così sicuro di aver compiuto il grande passo. Nessuno fra quanti gli si raccoglievano intorno si accorse della stupefacente sparizione dell'amico. Lo circondavano come fosse stato ancora presente, mostravano di riconoscerlo, di sentire la sua voce. Subentrò tuttavia un certo disagio. Come mai Lord Patchouge non si era ferito più gravemente? Quel sottile, unico taglio di traverso sulla fronte non era sufficiente: non è cosa di tutti i giorni che uno attraversi impunemente uno specchio; si sarebbero sentiti tutti alquanto più sollevati se avessero avuto un gran numero di ferite da contare con tanto di perdita di sangue. Non c'era che una persona, la stessa che avrebbe officiato per il resto della serata, a sospettare il carattere fatale del sottile filo rosso che scalfiva la fronte del Lord. Un miracolo non viene mai da solo; sa qual è il suo dovere e perciò si fa accompagna.re da manifestazioni collaterali straordinarie. Per quanto inconsciamente i compagni di Lord Patchouge, anche se oggi ne sorridono, non mancarono di comportarsi in modo singolare. Perché Simon si mise a radunare, pezzo per pezzo, lo specchio in frantumi che poi disponeva mano a mano su un grande vassoio da tè? Perché, a operazione ultimata, con una. gravità che denunciava 186

già più sensibilmente il viso di Lord Patchouge che il suo, portò il suo lavoro!! sorta di incastonatura di cristalli e di aghi!! nella camera di Muriel, già sdraiata e a piedi nudi e lo collocò sopra il letto? Com'è che Muriel cominciò a pestare le schegge - ed era più di una danza, un sacrificio - e soprattutto come mai, nonostante la violenza, quando ritrasse i piedi questi non riportavano la minima scalfittura? Sola a sanguinare era la fronte di Lord Patchouge. Douglas uscì per andare a vomitare. Il resto pregava. All'indomani due operai vennero a sostituire lo specchio. Una volta terminato il lavoro, Lord Patchouge era scomparso». Il «tuffo nello specchio», anche quando si riemerge dalle sue profondità, non lascia mai intatti; in verità, anche se può sembrare altrimenti, non si torna mai nello stesso Mondo. L'onirismo del tuffo attraverso lo specchio, il suo potere trasmutante, è ancora più accentuato ed esplicito in Cocteau. Un pittore dipinge un volto sulla tela appena abbozzata. Improvvisamente la bocca del disegno si mette a parlare. Inorridito il pittore cerca di farla tacere, ma essa continua. Ossessionato dalle parole della bocca, egli la strappa dalla tela e la pone su una statua che, anch'essa, comincia a parlare. Dice insistentemente al pittore di attraversare uno specchio, se vuole conoscere la sua poetica. La statua: «Ti resta una via d'uscita. Entrare nello specchio e passare di là». Il poeta: «Non si entra negli specchi». La statua: «Prova, prova sempre». Dapprima esitante, il pittore tasta la consistenza vitrea poi, seguendo le suggestioni della statua, sale su una sedia e, ad un tratto, si tuffa nello specchio divenuto improvvisamente liquido, ritrovandosi in un mondo onirico dal quale riemergerà, riattraversando lo specchio, con la verità della sua poetica: distrugge la statua che lo aveva ispirato. (Video: Le sang d1111 poète, il t11.ffo 11ello specchio). «Con Le sa11g d1111 poète ho provato a girare la poesia come i fratelli Williamson hanno girato il fondo del mare. Si trattava di sprofondare in me stesso, nella mia notte, la campana subacquea ch'essi calavano giù nel mare a grande profondità. Bisognava sorprendere lo 187

stato poetico di cui molti negano l'esistenza ... Naturalmente è molto difficile avvicinare la poesia. . . non vi nascondo che ho adoperato dei trucchi per rendere la poesia vedibile e udibile. Eccone alcuni: voi vedrete prima il personaggio del Poeta tuffarsi in uno specchio e poi navigare in un mondo che né io né voi conosciamo, ma che io Immagino. Questo specchio lo porta in un corridoio e il suo modo di camminare è quello dei sogni: non è né il nuoto né il volo, ma qualche cosa di differente che non rassomiglia a nulla. Rendere questo effetto non era facile. Il rallentato è troppo ordinario. Ho dunque fatto inchiodare la scena per terra facendo girare con la macchina verticale. Il personaggio si trascina invece di camminare e, in proiezione, voi vedete un uomo che cammina in una maniera molto faticosa e strana e il cui movimento muscolare non corrisponde allo sforzo della sua passeggiata». Q. Cocteau, c01ifere11za al Teatro Vte11x - Colombier prima della proiezio11e delfilm, 1932). Ed infine, lo stesso Cocteau, torna sull'attraversamento dello specchio in Oifeo: prima opera teatrale e poi film. Inizio del film, voce fuori campo di Cocteau: «La leggenda di Orfeo è ben conosciuta. Nella mitologia greca, Orfeo era un cantore della Tracia. Il suo canto affascinava anche gli animali ma lo distraeva dalla moglie Euridice. La Morte gliela tolse. Lui discese agli Inferi ed usò il suo canto per ottenere di ricondurre Euridice nel mondo dei vivi. A condizione di non guardarla. Ma lui la guardò e venne fatto a pezzi dalle Baccanti. Dove si svolge la nostra storia, ed in quale epoca? È privilegio della leggenda essere senza tempo. Fate come volete. Interpretate come volete ...». Parigi, anni cinquanta: durante una rissa al Café des Poètes, luogo di raduno di artisti e scrittori, il celebre poeta Orfeo assiste ad un incidente nel corso del quale il giovane poeta Cégeste muore, investito da due motociclisti. La Principessa, come viene chiamata dai suoi servitori, in compagnia della quale Cégeste era arrivato, fa mettere il corpo sulla sua Rolls Royce guidata da Heurtebise e vi fa salire anche Orfeo. Giungono così ad una casa abbandonata, dove li aspettano i due motociclisti che hanno ucciso Cégeste; Orfeo capisce che sono agli 188

ordini della Principessa. La Principessa rianima Cégeste e quando lei gli chiede: «Sai chi sono io?», egli risponde: «Si, la mia Morte», giurandole che le obbedirà in tutto. Entrambi subito dopo scompaiono attraversando uno specchio, sotto lo sguardo di Orfeo che non riesce a seguirli e sviene. Quando l'indomani Orfeo rinviene, si ritrova in un deserto. La casa non c'è più. Ad attenderlo trova però la Rolls Royce che, guidata da Heurtebise, lo riporta a casa. La moglie di Orfeo, Euridice, è incinta; nonostante Orfeo sia tornato è molto preoccupata per il suo stra.no comportamento. Orfeo infatti è nervoso, insolitamente scortese, e trascorre il suo tempo all'interno della Rolls intento a captare sulle onde corte strani messaggi cifrati. Euridice, nonostante Heurtebise cerchi di dissuaderla, decide di uscire per andare a cercare la sua amica Aglaonice e viene, a sua volta, investita dai due motociclisti; nel testo teatrale essi si chiama.no Azraele e Raffaele. La Principessa penetra nuovamente nella stanza attraverso lo specchio e:, questa volta, lo fa attraversare ad Euridice, portandola con sé nel regno dei morti. Heurtebise l'accusa di avere agito senza esserne stata autorizzata, perché si è innamorata di Orfeo. Aiuta poi lo stesso Orfeo ad attraversare lo specchio perché egli possa recarsi nell'aldilà. a testimoniare dinanzi al tribunale dei morti. Gli fa indossare dei guanti dimenticati dalla Principessa e gli dice: «Adesso voi attraverserete lo specchio come fosse acqua, provate». Allo sguardo attonito di Orfeo, continua: «Vi rivelo il segreto dei segreti: gli specchi sono le porte attraverso le quali la morte viene e và.. Del resto, guardatevi tutta la vita in uno specchio e vedrete la morte lavorare come api in un alveare di vetro». D'altra parte, non dice forse Sofocle, riferendosi alle anime: «Ronza lo sciame dei morti»? (Video: Oifeo, attraverso lo specchio). I giudici condanneranno la Principessa ed autorizzeranno Orfeo a riportare Euridice tra i viventi, a condizione però che egli non la guardi mai più. Non è facile seguire questa regola nella vita quotidiana della coppia; sino a quando Euridice incrocia incidentalmente lo sguardo di Orfeo nello specchietto retrovisore della macchina e viene così ricacciata nel regno dei morti. 189

Un gruppo di artisti, le Baccanti, fa in quel mentre irruzione a casa di Orfeo accusandolo di essersi appropriato delle opere di Cégeste. Orfeo viene mortalmente ferito e si ritrova anch'egli tra i morti assieme ad Euridice. La Principessa-Morte però, per riscattarsi, si mette d'accordo con Heurtebise e li rimanda tra i vivi: «Davanti al Poeta, la. Morte deve sacrificarsi». Orfeo, tornato a casa, ritrova la sua Euridice. Entrambi sono convinti che sia stato solo un incubo. Nell'originale opera teatrale, degli anni venti, Heurtebise è un vetraio che svela ad Orfeo il segreto del tuffo nello specchio: «Gli specchi, sapete, hanno un po' a che fare con il vetro. È il nostro mestiere». E, perché non vi siano dubbi sulle intenzioni dell'autore, il testo teatrale a questo punto recita: «Orfeo, con le mani in avanti, inguantate di rosso, s'annega nello specchio». Alla fine della tragedia, Orfeo ringrazia con una preghiera Dio e riconosce in Heurtebise il suo angelo custode. (Cfi:, AA.VV. Orfeo, pp. 63-110). La storia narra che Heurtebise apparve a Cocteau in un ascensore, dove gli svelò il suo nome, identico a quello del fabbricante dell'elevatore. L'angelo gli dice di essere, al medesimo tempo, il suo ispiratore, un messaggero di morte e l'Immagine celeste del suo amante Raymond Radiguet, morto prematuramente; Cocteau, in uno stato di ebbrezza che dura una settimana, scrive il poema L 'aJJge He11rtebise. L'amico e sodale artistico Man Ray '